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Matricola n. 0000692898
ALMA MATER STUDIORUMUNIVERSITA' DI BOLOGNA
SCUOLA DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA
MAFIA RURALE: il “terreno” come simbolodi potere per le Mafie di oggi
Tesi di laurea in MAFIE E ANTIMAFIA
Relatore Presentata da
Prof. ssa Stefania Pellegrini Lisa Olivieri
Sessione IIAnno Accademico 2017/2018
Ai legami più profondi,che mi danno la capacità di guardare oltre.
Indice
Introduzione……………………………………………………………………….....1
I La Mafia rurale
1. Le radici della mafia rurale nella mafia del latifondo: la presenza della malavita
nelle campagne siciliane
dell’ottocento………………………………………….5
1.1 Segue: la società agraria del secondo dopoguerra……………..……………..…
13
2. Agromafie di oggi: connotati principali e tipico modus operandi………………
20
3. Mafia e caporalato…………………………………………………………...…
30
4. Confronti e parallelismi con l’odierna mafia
dell’economia…………………...40
5. La mafia dei terreni si fa imprenditrice: connubio tra clan e zona grigia per le
truffe ai fondi
pubblici………………………………………………………….49
II Un’analisi dei reati tipici: l’escalation criminale nei campi e la soggezione di
allevatori e agricoltori
1. Dalla minaccia all’estorsione e al cavallo di
ritorno…………………………….57
1.1 Operazione Pietranera………………………………………………………….73
2. Furti di mezzi agricoli, danneggiamenti a campi e colture e pascolo abusivo….75
3. I reati di abigeato e macellazione clandestina: gli alti rischi di un fenomeno in
espansione……………………………………………………………………..98
III Mafia dei pascoli: le vicende del Parco dei Nebrodi invaso dai clan
1. Le origini della Mafia sui Nebrodi………………………………………….104
2. Giuseppe Antoci diventa emblema di rivoluzione e legalità: il Protocollo
Antoci……………………………………………………………………….111
3. La squadra dei poliziotti “vegetariani”: la lotta alla criminalità organizzata e lo
obiettivo di tutelare la salute dei
consumatori………………………………..123
4. L’adozione del marchio “Nebrodi Sicily” contro la mafia nel
piatto………...128
5. Recenti episodi sul territorio nebroideo: macchie d’ombra o solo un’amara
sconfitta?........................................................................................................132
IV Un contrasto efficace alla Mafia rurale
1. Il Codice Antimafia e la revoca delle concessioni dei terreni demaniali…..136
2. Documentazione antimafia e misure di prevenzione patrimoniali: una perfetta
combinazione……………………………………………………………….140
Conclusioni………………………………………………………………………...164
Bibliografia………………………………………………………………………...169
Introduzione
Il progetto che si intende realizzare propone il disegno di un percorso che raggiunga,
nella sua destinazione finale, l’obiettivo di far comprendere al lettore cosa debba
intendersi in concreto con la nozione di Mafia rurale. Il titolo scelto per il nostro
lavoro si presenta particolarmente evocativo, ma al tempo stesso ancora in gran parte
sconosciuto tra gli attori della società odierna. Parlare di Mafia rurale implica una
prima breve riflessione riguardo il significato dei termini scelti; l’aggettivo che qui
viene aggiunto al sostantivo Mafia, consente una delimitazione nei confini della
materia trattata, circoscrivendo l’analisi a quelle organizzazioni criminali che
scelgono la rus, e dunque letteralmente la campagna o più in generale un contesto
agro-pastorale, quale ambiente ideale per coltivare i propri affari. Lo strumento
d’eccellenza, adottato dalle realtà criminali nella conduzione delle proprie attività
quotidiane, diventa dunque il terreno, strictu sensu inteso quale spazio fisico
necessario per la coltivazione di esseri animali e vegetali e per lo sviluppo di un
insieme di prodotti destinati ad immettersi nella filiera agroalimentare. Proprio questa
lunga catena incontra il suo punto d’origine nel terreno, di conseguenza assume
rilevanza la comprensione delle grandi potenzialità che esso nasconde, diretto a
facilitare l’agire delle associazioni mafiose sia verso il fine di generare profitti sia
verso le mire espansionistiche che giustificano un solido potere. Il nostro intento si
auspica di chiarire la duplice funzione rivestita dal suolo, da un lato esso rappresenta
la base fondamentale dove le mafie scelgono di manifestare, con un eccesso di
protagonismo ed altrettanti episodi ricchi di egocentrismo, il proprio potere; in tal
senso il fondo si traduce in una metafora di simbolismo esasperato che impegna le
mafie ad esigere dalla comunità locale onori, riconoscimenti e doveri. Da una visuale
complementare, invece, il terreno si trasforma nello scenario ad hoc ove gestire
lucrosi affari. Le tappe da incontrare lungo l’iter qui costruito, illustreranno le ragioni
1
primarie che ci hanno spinto a concentrarci su una mafia particolare, quale è quella
rurale. L’attenzione sulle infiltrazioni del potere mafioso in un terreno considerato
“fertile”, vuole convertire una convinzione errata o quanto meno grossolana: la terra
non è di certo espressione di un’economia retrograda e avulsa dalle logiche del
profitto, anzi essa è divenuta oggetto di numerosi incentivi allo sviluppo rurale
provenienti dagli ambienti istituzionali, gli stessi che hanno reso lecito trasformare la
fase produttiva del settore agroalimentare in nuove occasioni di guadagno. L’abilità
delle consorterie mafiose si ravvisa nella perspicacia mostrata nell’aggredire il mondo
agro-pastorale, in progressiva crescita sotto un profilo imprenditoriale e sempre più
oggetto di premurosa attenzione da parte di istituzioni europee impegnate a
trasformarlo in un’energia di traino. E’ doveroso puntualizzare che la presenza della
mafia rurale sarà ravvisabile nelle zone prevalentemente abitate da aziende agricole,
agriturismi per attività connessa, piccoli e medi allevamenti; questi infatti diverranno
i fattori di maggiore influenza economica, spingendo automaticamente le cosche ad
assorbire il controllo delle dette attività e così rafforzare il potere di gestione
esercitato su di esse. In ogni caso si osservi quanto il numero dei crimini
agroalimentari, commessi nel panorama nazionale ed internazionale, sia
notevolmente cresciuto e di conseguenza si appresti ad occupare ampi spazi di
riflessione fra gli utenti più scrupolosi. Non si ritiene una mera coincidenza la
Fondazione- Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema
agroalimentare, promossa da Coldiretti ed operativa dal 2014 al fine di contrastare
qualsiasi tipo di intervento doloso o fraudolento che possa minacciare il valore della
“qualità”. La cultura della legalità deve diffondersi anche all’interno di un mercato
di nicchia e stimata eccellenza che fa del Made in Italy la sua chiave di volta. Alla
luce di ciò, uno dei principali compiti dell’Osservatorio prevede la redazione di
rapporti, fondati su dati reali, volti a denunciare l’insieme dei crimini agroalimentari
scoperti in Italia. Tra questi meritano di essere annoverati quei reati perfezionati nella
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prima fase della filiera agroalimentare, individuata nel complesso di attività dirette
alla gestione di aziende agricole, alla cura dei terreni e più spesso allo sfruttamento
degli stessi, sia per ottenere prodotti non trasformati ed immediatamente immessi sul
mercato, sia al fine di percepire aiuti economici che andranno ad integrare il reddito
agricolo per la sola circostanza di vantare il possesso su un terreno destinato alla
coltura di esseri animali o vegetali.
In accoglimento di tali premesse, il nostro elaborato sposa un criterio logico ed
assume una struttura articolata in quattro capitoli che, intrecciando prospettive
teoriche ad altre più concrete, riesce a supportare il lettore verso la comprensione del
fenomeno in ogni sua peculiarità. Il primo capitolo opera da scenario introduttivo
ponendo in evidenza i connotati specifici che contraddistinguono le cosche rurali
nonché il tipico modus operandi da esse adottato. L’analisi prospettata si ispira a dati
concreti utili a dimostrare la presenza della mafia rurale in territori storicamente
infiltrati, quali le Province siciliane. A guisa di naturale conseguenza, si inserisce un
raffronto tra la criminalità vigente e le prime logiche mafiose nate proprio sul
latifondo siciliano. Quest’ultimo si rivela un mezzo tanto arcaico quanto sempre
nuovo, incuriosendo chi legge a cogliere analogie ed eventuali differenze del modus
operandi criminale tra le campagne ottocentesche, i poderi di oggi e il mondo
affaristico dell’alta finanza. Segue, in linea logica, un secondo capitolo dedicato ad
un’analisi strettamente giuridica dei reati commessi sui campi con maggiore
frequenza. L’osservazione dei numeri statistici esige una descrizione in astratto delle
tipiche forme vessatorie più diffuse nelle prassi concrete. Attraverso la prospettiva
penalistica si prende effettiva consapevolezza della portata negativa del fenomeno,
sollevando una serie di interrogativi dubbi riguardo i numerosi rischi e timori
minacciati da una criminalità rurale in espansione. Ad un approccio teorico deve
obbligatoriamente aggiungersi la presentazione di una vicenda fin troppo reale che,
iniziata da lontano a colpi di lupara, continua oggi a riempire con evidente brutalità le
3
pagine di cronaca. Le catene montuose del Parco regionale siciliano, meglio noto
come Parco dei Nebrodi, si trasformano in un teatro che cambia aspetto al mutare
delle scene: da bosco pericoloso dove si tramano attentati a territorio insidioso per
scoprire il malaffare, da veicolo innovativo per tutelare la qualità della salute a
nemico opprimente per gli amici della legalità. Il quadro così descritto, ricco di
completezza narrativa e altrettanta ingiustizia, viene affrontato dall’ ultimo quarto
capitolo volto a proporre alcune strategie risolutive; le problematiche emerse
chiedono l’intervento di misure di contrasto che possano dirsi efficaci garantendo il
miglior utilizzo degli strumenti in auge. Una particolare attenzione viene dedicata ai
peculiari profili della documentazione antimafia. I disegni repressivi da attuare non
potranno però limitarsi ad una sfera esclusivamente giuridica, mostrandosi necessario
un approccio di natura sociale che lasci intraprendere una lotta definibile prima facie
etica e morale.
In ultimo, con l’augurio di riuscire negli intenti preannunciati ed assolvere tutti gli
obiettivi inseguiti, procediamo ad un esame più dettagliato che, aprendosi con la
denuncia del malaffare, si chiude con una alea di coraggio e una nota di speranza abili
a diffondere giustizia.
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I La Mafia rurale.
1. Le radici della mafia rurale nella mafia del latifondo: la presenza della malavita nelle campagne siciliane dell’Ottocento. 1.1. Segue: la società agraria del secondo dopoguerra. 2. Agromafie di oggi: connotati principali e tipico modus operandi. 3. Mafia e Caporalato. 4. Confronti e parallelismi con l’odierna mafia dell’economia. 5. La mafia dei terreni si fa imprenditrice: connubio tra clan e zona grigia per le truffe ai fondi pubblici.
1. Le radici della mafia rurale nella mafia del latifondo: la presenza della malavita nelle campagne siciliane dell’Ottocento.
L’osservazione del panorama attuale offre un quadro eterogeneo e complesso che
descrive la mafia dei terreni nelle sue molteplici articolazioni. La comprensione di
queste realtà non potrà dirsi immediata qualora le si creda espressione della società
moderna. Pensare al fenomeno mafioso come ad un evento che irrompe
improvvisamente nelle nostre vite, è sicuramente errato. Le mafie moderne non posso
permettersi di arrogarsi il primato dell’indipendenza, perché la forza e le
caratteristiche del potere si collocano in un’altra epoca. Individuare, attraverso un
excursus storico, le origini della mafia ed il suo punto genetico, infonde nel lettore la
capacità di conoscere, per poi riconoscere, un potere criminale in continua
rinnovazione. La forza della mafia sta nella sua capacità di resistere al mutamento di
eventi e strutture istituzionali, adeguandosi a fattori umani e sociali sempre nuovi. La
virtus camaleontica le dona un aspetto rigenerato e le consente di celarsi dietro ogni
nuova opportunità emergente. In tutta questa sua costante evoluzione,
l’organizzazione malavitosa non dimentica mai quelle “qualità” singolari che la
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contraddistinguono fin dalla nascita. La storia della realtà siciliana post-unitaria si
inserisce, a questo punto, secondo un criterio di pertinenza, e si presta ad illustrare
tutti i fenomeni economici, sociali e più in generale politici, che ne sono parte. Il fine
è quello di riavvolgere il lungo filo di Arianna e retrocedere verso il punto d’origine
dove cogliere le assonanze fra la mafia dei terreni di oggi e le delinquenze
sistematiche nelle campagne ottocentesche. Non vi è alcun dubbio che il periodo di
nascita della mafia sia da collocarsi nella seconda metà dell’800, contestualmente al
sorgere di una nuova Italia. Senza nulla togliere a tale interpretazione comune, è
comunque innegabile rintracciare nella storia della Sicilia preunitaria, piccoli e sparsi
segni premonitori che hanno concorso a formarla. La vicenda siciliana racconta un
alternarsi di dominazioni straniere che tentarono di tenere sotto scacco l’isola. Ogni
centro di potere si rivelò distante ed incapace di soggiogare con incisività la
popolazione locale. D’altro canto la lontananza dei poteri ufficiali, almeno a Palermo
e nella Sicilia occidentale, invece di generare un rafforzamento ed un’autonomia
degli organismi amministrativi locali, provocò l’effetto contrario di legittimare il
potere privato dei singoli o dei gruppi. Chi acquisì potere? I proprietari dei grandi
latifondi incontrarono il clima ideale per assurgere ad una posizione di dominio verso
contadini e mezzadri. La situazione economica mostrava le sue crepe: un aumento di
popolazione senza terra e un eccesso di manodopera senza sbocco. Su questa, i baroni
ricoperti di privilegi iniziarono a fare la cresta, attuando una politica vessatoria contro
i più poveri. I grandi possidenti non si limitarono ad obbligare al lavoro e alla
consegna dei relativi prodotti, ma si spinsero a pretendere prestazioni personali,
condizionando la vita di ogni bracciante.
La spavalderia dei ricchi feudatari, tuttavia, si accontentava di un prestigio formale e,
rinunciando a pretese speculative, inaugurò una prassi assenteista che li trasferì
direttamente nei prestigiosi palazzi delle città. Le campagne non vennero
abbandonate, ma lo scettro del potere consegnato agli affittuari. I gabellotti ottennero
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l’amministrazione delle campagne in cambio di un canone d’affitto immediatamente
corrisposto. Il pagamento avveniva in anticipo e consentiva il passaggio ai gabellotti
dei diritti vantati dai proprietari. La loro posizione si estendeva su due fronti: da un
lato spodestavano i baroni dal trono, violando con sempre maggiore frequenza
l’obbligo di corresponsione dei canoni; dall’altro traevano profitto dallo sfruttamento
dei contadini. Alla prassi di rendersi assenti dai feudi, i proprietari ne aggiunsero
un’altra ancora più antica. L’abitudine di circondarsi di “bravi” armati, e dunque di
un vero e proprio esercito personale per smorzare le pretese dei contadini, dimostrava
la considerazione degli stessi alla stregua di una minaccia contro la persona ed i suoi
beni1. Un presunto male che individui coraggiosi e spregiudicati si preoccuparono di
abbattere. La struttura della società feudale ergeva su immensi campi sorvegliati a
colpi di sopraffazioni, angherie e soprusi perpetrati da bravi, poi chiamati campieri,
spavaldamente organizzati in forme militari e capeggiati da soprastanti. Il timore di
ingiuste punizioni portava spesso i coltivatori a prevenire la commissione di violenze
pagando ai campieri veri tributi, anche in natura, e riconoscendo loro diritti non
dovuti. Si andava già creando il substrato culturale idoneo per l’insorgere della tassa
mafiosa per eccellenza, qual è il pizzo. Se le premesse per iniziare a parlare in senso
stretto di Mafia erano già tangibili, il successo della rivoluzione liberale e la
realizzazione dell’Unità d’Italia si fecero habitat naturale per la concreta
stabilizzazione di un comportamento mafioso. Il 7 giugno 1860 Palermo diventa città
italiana; l’isola viene annessa al resto della Nazione decretando la fine del Regno
borbonico. Il disegno di integrazione rivendicato da Giuseppe Garibaldi a capo
dell’esercito dei Mille, presentava già delle falle proprio nella sua condivisione. I dati
reali raccontano di un’escalation di congiure, rapine ed omicidi senza freni che il
nuovo governo sabaudo tentò di assopire. La generica sensazione di malumore,
diffusa su tutto il territorio, si respirava in tutti gli strati della società; dal ceto 1 Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della Mafia in Sicilia, Relazione conclusiva, DOC. XXIII N.2, Sez. Prima, Le origini remote, pp.92-94.
7
dirigente a quelli più bassi si lamentava la nostalgia dei Borboni. L’annessione venne
intesa come una un’imposizione coartata, non voluta ma subita. Il senso di
insofferenza portava all’inaccettazione di qualunque provvedimento adottato dai
nuovi governi centrali. Fra tutti il nuovo regime di tassazione, diretto a tassare anche i
redditi da lavoro oltre alla rendita fondiaria, appariva più svantaggioso del
precedente. Lo Stato liberale non riuscì ad imporre la sua struttura organizzativa con
la forza e l’incisività necessarie, così come non riuscì a farsi strada nelle coscienze
popolari. All’idea di una preminenza dell’ordinamento formale dello Stato, si
preferivano le norme vigenti in taluni rapporti di gruppo con la famiglia, gli amici o i
clienti. Accanto alla giustizia statale se ne affiancava un’altra più certa, al potere
legale si contrapponeva quello extralegale, favorito dai vuoti lasciati dallo Stato ed in
costante ricerca di legittimazione sociale. Si dirà che “il popolo è venuto a tacita
convenzione con i rei”2, sottolineando l’accettazione popolare di un potere violento
che si nutre delle carenze del potere statale per agire al posto e al di fuori di esso. Il
substrato culturale è pronto per parlare ufficialmente di mafia, coniando un termine
che servirà a distinguere i connotati peculiari di alcuni gruppi di delinquenti rispetto
alla delinquenza comune. Inoltrandoci in un viaggio lessicale, la prima volta che la
parola mafia venne pubblicamente riferita a un’associazione di delinquenti fu nel
dramma popolare di Giuseppe Rizzotto, rappresentato a Palermo nel 18623.
Privilegiando un’ottica modernissima, l’opera teatrale racconta di un gruppo di
detenuti nelle carceri palermitane e del prestigio da loro millantato all’interno. La sola
appartenenza ad un’associazione per delinquere con specifici ruoli, gerarchie e regole
sacrali, comportava uno speciale rispetto da parte dei compagni di prigione. Negli
anni successivi alla rappresentazione del Rizzotto, e quindi all’indomani dell’Unità
d’Italia, l’impiego del vocabolo servì solamente a designare quei fenomeni
2 Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della Mafia in Sicilia, Relazione conclusiva, DOC. XXIII N.2, Sez. Seconda, p.96.3 Vedi supra, op.cit., p.97.
8
caratteristici di delinquenza, o più genericamente di devianza sociale, che andavano
emergendo e che, nei tempi successivi, avrebbero assunto contorni più netti.
Preso atto dello scenario sociale entro cui ci si muove, è bene procedere alla rassegna
delle singole attività delinquenziali. Dunque, i vecchi bravi persistevano nelle
campagne siciliane sotto la veste di campieri o guardiani. Lo Stato italiano non
riusciva a proteggere efficacemente i beni dei ceti possidenti né la loro persona,
costringendo questi ultimi ad assoldare uomini spregiudicati capaci di tenere a bada,
ed eventualmente punire severamente, ladri e banditi. Uomini che andavano
assumendo la qualifica di “mafiosi”. l servizi da loro offerti presentano forti analogie
con quelli praticati oggi dai clan, a rimostranza dell’impossibilità di dimenticare le
origini anche dinnanzi ad un eccesso solo formale di modernità. Duplice la natura dei
servizi: protettiva e mediatica. La protezione garantita dai mafiosi ai vili baroni,
chiesta o imposta che fosse, si serviva dello strumento della violenza per incutere
timore nei ladruncoli, così da scoraggiarli da qualunque iniziativa dannosa per i beni
dei proprietari. Talvolta l’uso smisurato della violenza restava in extrema ratio,
bastando il prestigio dei campieri a raggiungere l’obiettivo prestabilito. La seconda
attività si esprimeva in una funzione di mediazione in tutte le controversie che
potessero giustificare l’intervento di un intermediario. In primis fra ladri e
danneggiati: il derubato si rivolgeva a notabili mafiosi che, con altissime probabilità
di successo, avrebbero rintracciato il colpevole, permesso il recupero della refurtiva
ed il ristoro dei danni subiti. Su un altro piano e nei centri più agiati, il mediatore si
incaricava di recuperare le somme dovute presso i debitori a lui indicati.
In definitiva, i mafiosi svolgevano un ruolo cardine nell’economia agricola siciliana
dell’ottocento, promuovendone la regolamentazione grazie all’infiltrazione nella
totalità dei rapporti giuridici tra i grandi proprietari ed i contadini. Ogni aspetto del
rapporto subì condizionamenti: dalle transazioni relative all’acquisto dei fondi, al loro
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affitto, allo smercio e alla ripartizione dei prodotti4. E’ attraverso questo modus
operandi minuzioso che i mafiosi accrebbero prestigio e potere, palesandosi arbitri
dei conflitti economici e sociali. Se in apparenza sembravano dipendenti dei
proprietari, in sostanza si atteggiavano da padroni. Iniziarono a taglieggiare i baroni,
imponendo loro canoni d’affitto non sempre remunerativi, i prodotti del suolo
venivano in parte sottratti illecitamente, e i grandi feudi estorti lentamente. Il
comando sul popolo contadino era di fatto concentrato nelle mani dei campieri.
Sarebbe lecito domandarsi le ragioni che non hanno spinto i veri ricchi a ribellarsi ad
un gruppo di assoldati ormai fuori controllo. Il loro potere decadeva infatti sotto i duri
colpi di pretese egemoni, suscitando come unica reazione l’accettazione passiva.
L’assenza di una risposta attiva è di facile intuizione. I latifondisti non avrebbero mai
potuto rinunciare all’ausilio costante che i mafiosi apportavano ai privilegi del ceto
alto. L’assetto economico e sociale esistente veniva difeso senza esitazione di fronte
ad ogni rivendicazione o tendenza rivoluzionaria. La situazione di disagio in cui
versavano i braccianti, relegati al lavoro dei campi “da suli a suli”, li spingeva verso
forme di aggregazione che sfoceranno presto nei Fasci siciliani. Il movimento dei
lavoratori operò intensamente tra il 1892 e il 1894 per rivendicare una maggiore
giustizia sociale per il popolo agricolo. L’iniquità dei patti agrari e la diffusa
metameria siciliana, con una ripartizione dei prodotti totalmente sbilanciata a favore
dei proprietari, sottraevano diritti a quei lavoratori che sperarono nell’unità per
cambiare le carte in gioco.
L’obiettivo del movimento consisteva nella formazione di grandi consorzi d’appalto
tra i contadini, i quali avrebbero giocato un ruolo cardine nella contrattazione di più
eque condizioni d’affitto. La controparte così raggruppatasi in un consorzio, avrebbe
potuto strappare consensi per clausole contrattuali più flessibili. Nasceva in tal modo
il primo movimento antimafia della storia, represso dall’azione congiunta delle 4 Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della Mafia in Sicilia, Relazione conclusiva, DOC. XXIII N.2, Sez. Seconda, Le attività mafiose, pp.100-102.
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autorità governative e dei gruppi mafiosi. Il 1894 ne segnò il fatale destino: la
proclamazione dello stato d’assedio e lo scioglimento nel sangue della neo
organizzazione. Si sparava sul mucchio, così qualcuno racconterà, seminando vittime
innocenti. Non solo la morte, ma agli esponenti più in vista della classe contadina fu
inflitta la grave pena dell’ergastolo. La contropartita per gli autori degli eccidi,
invece, fu una sicura impunità.
L’elenco delle attività delinquenziali sovra-esposte merita, per renderci ancor più
precisi, un completamento in semplici passaggi che spieghi i connotati personalistici
dei mafiosi. La breve riflessione antropologica vuole riaffermare la concezione post
unitaria del fenomeno mafioso come un modello comportamentale, prima ancora che
un’organizzazione. Il mafioso equivale ad un tipo che agisce secondo moduli
operativi identici, proviene dalla medesima area di origine e si conforma a precisi
standard comportamentali. Come agisce in concreto? Il primo obiettivo vedrà la
monopolizzazione della propria posizione, imponendo le sue funzioni di mediatore e
protettore in certi tipi di rapporti sociali. Creare un monopolio significa in realtà
perseguire due macro fini che si pongono a monte: il potere ed il profitto. La punta di
diamante per quest’impresa mafiosa resterà sempre la violenza. Risorsa
indispensabile sia per affermare il potere sul territorio, segnando un’ascesa sociale,
sia per rendere più redditizie le normali fonti di guadagno quali sono le attività
illecite5. Il delinquente si servirà della violenza per crearsi spazio fra i concorrenti e di
conseguenza aumentare i propri profitti. Tre le specie di reato preferite dalle cosche:
omicidio, rapina, estorsione. La soppressione fisica di un avversario o di colui che si
era sottratto alle regole del sistema subculturale dominante, era il mezzo a cui il
mafioso ricorreva per esercitare le funzioni proprie del suo ruolo; la rapina e
l’estorsione servivano, dal canto loro, ad assicurare i mezzi di arricchimento. Accanto
a questi, si può citare un altro reato molto frequente nelle campagne dell’interno
5 Vedi supra op.cit., p.103.
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siciliano, l’abigeato. La sua realizzazione oltre ad incrementare direttamente il
mercato delle macellazioni clandestine, assolveva le finalità di vendetta o di ricatto.
Dinnanzi a furti di animali, si barattava un adeguato corrispettivo per vederseli
tornare indietro.
Esaminato il suo modus operandi, poniamoci un altro interrogativo: da dove proviene
il mafioso? Il racconto dello storico Pasquale Villari6 parla dei ceti inferiori, ed in
particolare della classe contadina, quali luoghi di provenienza. In ogni caso non tutti
riuscirono a fare carriera ed inserirsi nelle alte sfere, ma molti di loro non si
avvicinarono mai alle posizioni di vertice, fermandosi a quella pletora di gregari
definita bassa mafia. Un esercito di manovalanza, dunque, manovrato dagli ordini dei
capi per soddisfare ogni loro minimo capriccio. I più fortunati, al contrario, puntarono
in alto specializzandosi nella cura di questioni d’onore, di lavoro e di denaro.
Queste appena descritte le regole di una società ottocentesca, questo panorama il
seme dal quale la mafia cresce. Affrontare la problematica in termini di semplice
delinquenza, slegandola dal contesto sociale dell’isola, condurrà all’incapacità di
risolverla. Il governo unitario infatti fallì nei molteplici tentativi di ripristinare
l’ordine pubblico perchè affrontò con gran ritardo il tema mafioso. Nonostante la
costituzione di alcune Commissioni d’inchiesta attivate per studiare le condizioni di
vita delle popolazioni meridionali e portare alla luce le ragioni del malessere diffuso,
i governi centrali non riuscirono a mostrarsi dirigenti capaci.
Il 1875 segnò un piccolo passo avanti grazie ai risultati delle inchieste condotte da
due studiosi toscani, su iniziativa privata: Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino.
Entrambi, rivoluzionando le credenze dei poteri ufficiali, svelarono la connessione
profonda tra la mafia, l’economia e la società siciliana7. L’inefficienza del ceto medio
e l’estrema miseria delle classi contadine rappresentavano le radici per la criminalità.
Furono inutili le numerose operazioni di polizia scatenate dal Governo. Massicce 6 P. Villari, Le lettere meridionali, Successori Le Monnier, Firenze,1878, pp.32-35.7 Cfr. L. Franchetti, Sidney Sonnino, La Sicilia nel 1876, Vallecchi, Firenze, 1925.
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repressioni, accerchiamenti notturni dei comuni, perquisizioni di case sospette,
ammonizioni e confini, non potevano avere lo stesso peso di riforme organiche
auspicabili per rinnovare l’intero territorio. L’incomprensione delle domande non
permetteva di scrivere le giuste risposte. E’ per queste ragioni che la mafia non diede
segni di debolezza, ma anzi riprese con vigore le proprie attività. Testimonianza di
ciò giunse dalle parole del deputato Abele Damiano, autore della relazione conclusiva
dell’inchiesta disposta con legge del 15 marzo 1877 sulle condizioni della classe
agricola in Italia: “le associazioni di malfattori, il malandrinaggio, la mafia,
quantunque molto scemate non sono spente del tutto; anzi, anche quando una di
queste forme di malessere sociale accenni ad essere scomparsa, ricomparisse alla
volte inaspettatamente e mostra con ciò che la sicurezza pubblica lascia colà a
desiderare.”8
1.1. Segue: la società agraria del secondo dopoguerra.
La digressione storica in cui ci siamo inoltrati sente l’opportunità di scegliere ed
analizzare un periodo storico successivo, quale è il secondo dopoguerra, al fine di
regalare al lettore una prospettiva completa, utile e contigua rispetto alla tematica
introdotta. Trattare della società agricola siciliana del dopoguerra, vuol dire
descrivere un fenomeno privo di novità. Al momento dello sbarco degli alleati le
strutture socio-economiche dell’isola, in particolare delle zone occidentali,
ricalcavano in gran parte quelle della società feudale sovra-descritta. Le tangibili
condizioni di miseria e povertà denunciate dalle popolazioni contadine erano da
ricondurre a due principali ordini di ragioni. In primis la ricchezza dell’isola veniva
ostacolata dalle proprietà instaurate sui terreni; a tal proposito, basti ricordare alcune
8 A.Damiani, Relazione del Commissario Abele Damiani , deputato al Parlamento, sulla prima circoscrizione, Italia: Giunta per l’ inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Forzani e c., Roma, 1885.
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stime per comprendere quanto la scarsa produttività delle zone agrarie e l’assenza di
fonti di ricchezza alternative, abbiano portato alla conservazione di quel determinato
impianto sociale. Il 29.7% delle zone agrarie era occupato da zone montuose adibite a
colture povere e all’attività di pastorizia; le zone di collina raggiungevano il 55,9%,
mentre quelle di pianura, ubicate nelle province di Trapani, Agrigento e Siracusa,
superavano di poco il 14%. Anche in queste zone le colture prevalenti prevedevano
cereali o foraggio. Solo le esigue superfici rese propizie da campagne irrigue,
potevano vantare colture più fiorenti, fatte di agrumeti, oliveti e mandorleti. Dunque
un panorama già di per sé scarsamente redditizio, accanto al quale si stagliava una
struttura latifondistica ben consolidata. Nel 1946 il latifondo in Sicilia aveva
un’estensione pari al 27,3% dell’intera proprietà fondiaria isolana, percentuale di gran
lunga superiore rispetto alla media nazionale del 17.7%9. Le stime riportate mostrano
l’incapacità degli eventi intervenuti nel tempo e dell’operato del Prefetto Mori, nel
periodo fascista, di promuovere nuove trasformazioni culturali ed evoluzioni
economiche. Il latifondo divenne sinonimo di colture estensive, fondi malcoltivati e
trascurati, nessun investimento fondiario, precarietà dei rapporti di manodopera e
redditi esigui. In concreto, superfici molto estese venivano concesse in affitto a terzi,
provocando il disinteresse dei veri proprietari per una cura meticolosa dei terreni ed
un equo sfruttamento degli stessi. Nel periodo post bellico si assisteva ancora ad un
dissociazionismo tra proprietà e impresa. I proprietari preferivano ripararsi all’ombra
delle città, lasciando agricoltori-imprenditori esposti alla luce del sole. Diversamente
da alcune zone orientali dell’isola, dove le terre venivano fittate a coltivatori diretti
assicurandosi redditi abbastanza elevati, le zone occidentali alimentavano con vigore
un’organizzazione guidata dai gabellotti. Il fitto dei fondi era destinato a terzi
intermediari pronti ad attivare un’amministrazione scellerata: gli appezzamenti in
gabella erano divisi in lotti e subaffittati ai contadini a condizioni prettamente 9 Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della Mafia in Sicilia, Relazione conclusiva, DOC. XXIII n.2, Cap.II, Sez. I, La società agricola siciliana, Roma, 4 febbraio 1976, p. 136.
14
vessatorie. In alternativa, si poneva indispensabile l’impiego strumentale di aspiranti
braccianti per la lavorazione dei lotti. Il sistema appena enunciato consente di
individuare il nocciolo duro dell’impasse da sciogliere. Il potere della mafia si fonda
sulla mancata coincidenza tra la figura del proprietario e del coltivatore. Pasquale
Villari, sposando un’opinione largamente condivisa tra gli studiosi, accuserà i
contratti agrari di aver fornito lo strumento necessario al rafforzamento del potere.
Scriverà: “Quando i contratti agrari assicurassero al contadino, con una maggiore
indipendenza, un’equa retribuzione e lo ponessero in relazione amichevole col
proprietario il guadagno della mafia e con esso la sua potenza e la sua ragione di
essere sarebbero distrutti”10. Il fine della classe intermedia dei gabellotti e i loro
accoliti (soprastanti, campieri, in genere guardie campestri) invece non mutava, ed
anzi proseguiva nell’operazione di accrescere il loro potere di fatto verso i proprietari
concedenti. Questi ultimi prestavano il loro fianco, rinunciando a quote di potere
sostanziale sulle proprietà ed accontentandosi di un ossequio formale e di una
costante protezione dalle masse contadine spesso in rivolta. La garanzia
dell’inviolabilità dei ruoli e la visione conservatrice della nobiltà, la portavano ad
accettare condizioni contrattuali non remunerative imposte dai gabellotti. E’ da
questo modus operandi che la mafia trae linfa vitale. A completare il quadro
descrittivo, si aggiunge un ulteriore tassello legato al citato mondo della pastorizia. E’
evidente la destinazione d’uso delle zone più interne e avare dell’isola, quelle
montagnose, all’ attività di pascolo. Le ampie estensioni dell’entroterra non erano
altrimenti sfruttabili, tuttavia la stessa organizzazione dell’armentizia facilitava
l’infiltrazione mafiosa. Il pascolo implicava lo stato brado degli animali e il loro
vagare fra diversi fondi. E’ proprio questa precondizione a costituire il fulcro per la
nascente mafia dei pascoli, contraddistinta da tre principali figure11. In primo piano il
10 P.Villari, Le lettere meridionali, Successori Le Monnier, Firenze,1878, p. 33.11 Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della Mafia in Sicilia, Relazione conclusiva, DOC. XXIII n.2, Cap.II, Sez. I, La società agricola siciliana, Roma, 4 febbraio 1976, p. 138.
15
capraio, proprietario di qualche decina di capi, vive di stenti per seguire e badare al
suo bestiame; segue il grande allevatore, possiede migliaia di animali, tra cui capi
grandi e piccoli, vive in città, ma organizza secondo rigore e gerarchia i suoi uomini,
ponendo sulle loro teste il comando del campiere. In ultimo si incontra la società dei
pastori, stretta in frequenti legami di parentela. Il modus vivendi di tutte le tipologie
dei pastori li costringeva a lunghe peregrinazioni, abituandoli a restare distanti da
case e famiglie per seguire le mandrie. L’atmosfera irrequieta era solita esporli a
pericoli quotidiani intrinseci alle attività svolte. Dal pascolo scaturivano spesso
episodi di sconfinamento del bestiame nei fondi altrui, causati anche dalla scarsità
delle risorse floristiche. Il momento successivo si riempiva di azioni intimidatorie
rivolte ai proprietari terrieri e finalizzate all’estorsione del consenso al pascolo
abusivo, oppure di ritorsioni attuate da tutti coloro che avevano subito
danneggiamenti. Dunque, ci si trova dinnanzi ad un esercito di pastori naturalmente
spinti a farsi mafiosi, uno sfondo a tinte fosche che svela una sanguinosa ferocia
senza precedenti, come narrano le indagini espletate sulle origini mafiose nel Parco
dei Nebrodi, e di cui diremo nel capitolo terzo12. In questi luoghi, predisposti
all’esercizio della violenza, e precisamente nel triangolo Mistretta-Tusa-Pettineo, si
verificarono catene di omicidi senza autori né punizioni. I delitti sono tutti ispirati a
causali inverosimili, la necessità di sfruttare un campo senza risorse, la rappresaglia
per il furto di un animale, la vendetta per un motivo senza significato; moventi
apparentemente non comprensibili se non si volge lo sguardo alle tristi condizioni che
imprigionavano le popolazioni locali del tempo. Le caratteristiche morfologiche del
territorio e la conduzione di vite solitarie hanno permesso di agire senza essere
osservati e di cercare nascondigli sicuri per lunghe latitanze. Oltre ai “vantaggi”
appena citati, è lecito invocare altri due fattori che giocarono un ruolo determinante
per l’acquisto di una reale posizione di dominio (mafioso). Anzitutto non si può
1212 Cfr. G.Messina, Le origini della mafia sui Nebrodi, Armando Siciliano Editore, Messina, 1995.
16
essere immemori dell’accettazione ambientale delle condotte malavitose. Le
popolazioni contadine dell’epoca leggevano le funzioni di intermediazione
parassitaria secondo la logica della normalità ed inevitabilità. Una ribellione alle leggi
mafiose avrebbe comportato una punizione certa. Ed il contadino non avrebbe avuto
la giusta forza per correre il rischio di vedersi incendiare le messi, tagliati gli alberi o
i garretti di un animale, o addirittura di porre in pericolo la propria vita. Era più
semplice accettare le infiltrazioni mafiose nella regolazione dei rapporti di fitto o
acquisto dei terreni e nelle regole di ripartizione dei prodotti. A fortiori, diveniva più
sicuro versare la tangente d’obbligo senza esitazione, oppure obbedire alle
imposizioni di manodopera che ogni giorno incombevano13. Il consenso sociale era
così visibile, ma non l’unico: forme di sostegno alla supremazia mafiosa provenivano
parimenti dal mondo politico. Il timore per la futura approvazione di una riforma
fondiaria in grado di dividere i grandi feudi in piccoli pezzi, pesava sulla classe dei
proprietari e sulle forze politiche che ne rappresentavano gli interessi. Di qui l’azione
congiunta di apparati istituzionali e poteri criminali diretta a frenare le lotte contadine
ed inibire l’assegnazione delle terre. Non devono sconvolgere, per la forte attualità
vantata, gli intrecci che la mafia ricercava costantemente con gli apparati pubblici.
Appropriarsi direttamente di posti di potere o creare connivenze indirette, permetteva
un migliore controllo del territorio ed assicurava l’inerzia delle istituzioni verso le
tanto attese riforme organiche e di struttura. La traduzione concreta delle collusioni
politiche ci viene offerta da un personaggio, Michele Navarra, capomafia assoluto
sulle campagne di Corleone nella metà del secolo scorso. Navarra comprese
l’importanza di sostenere gli schieramenti politici di volta in volta più in voga, con
l’unico fine di rinsaldare il suo potere locale. Esponente della piccola borghesia, di
cui i latifondisti non avrebbero potuto fare a meno per la cura dei loro interessi, il
Navarra fece della rispettabilità sociale il suo ideale di vita. L’astrazione sociale di 1313 Commissione Parlamentare, Relazione conclusiva, Cap.II, Sez. I, Le funzioni della mafia di campagna. I personaggi, Roma, 4 febbraio 1976, p. 139.
17
provenienza agevolò la sua scalata verso incarichi formali degni di riconoscimento.
Basti pensare alla positio di egemonia che raggiunse fra il 1949 ed il 1950 sulle
contrade corleonesi, grazie alle quale regnava un’assoluta tranquillità, lontana dall’
attività delittuosa scatenatasi negli anni precedenti. Doveroso ricordare l’incarico di
presidente della federazione coltivatori diretti, il ruolo di fiduciario del consorzio
agrario di Corleone, il riconoscimento, alla vigilia della morte, dell’Ordine al merito
della Repubblica sulla base di informazioni fornite dalla Polizia14. Ivi si testimoniava
la buona condotta dell’onesto cittadino Michele Navarra, gettando nell’oblio le
molteplici nefandezze di cui in vita si era macchiato. Egli riuscì a comporre una vera
e propria organizzazione criminale in cui arruolò i peggiori delinquenti della zona, tra
cui Luciano Leggio, suo luogotenente e futuro capostipite dei Corleonesi di Riina. Le
attività promosse dalla cosca si indirizzavano alla protezione di beni e persone e al
controllo dell’assunzione della manodopera, sia tramite canali leciti sia attraverso
forme delittuose, in special modo l’estorsione e la violenza privata. Il 1944 conta 11
omicidi, 22 rapine ed estorsioni, 278 furti, 120 danneggiamenti15, a testimonianza
dell’influenza incontrastata esercita dalla cosca, dello spietato ricorso alla forza per
compiere soprusi e poi costringere all’omertà.
Di fatto le mafie inaugurarono un’azione programmata di violenze, spesso spinta fino
alle conseguenze più estreme. Si è già accennata la preoccupazione per
l’approvazione concreta di una riforma agraria disegnata in difesa delle masse
contadine.
La sete di giustizia sociale da parte di quest’ultime, sfociò in una serie di interventi
che andarono dall’occupazione delle terre incolte alle rivendicazioni in materia di
imponibile di manodopera e di riparto mezzadrile. Il fervore del popolo e il sogno di
un mondo fatto di diritti, fu incarnato a pieno da validi esponenti del movimento
14 Commissione Parlamentare, Relazione conclusiva, Cap.II, Sez. I, Le funzioni della mafia di campagna. I personaggi (b)Michele Navarra, Roma, 4 febbraio 1976, p. 145.15 Vedi supra op.cit., p.144.
18
sindacale, uomini di ispirazione cattolica e socialista, convinti promotori di un
necessario miglioramento del tenore di vita delle classi lavoratrici. Per di più,
l’istituto del sindacato si prestava a divenire una casa sicura per la tutela dei più
deboli. Tali vicende interne al problema agrario aprirono le porte ad una lunga catena
di omicidi che videro in politici e sindacalisti le vittime prescelte. Alcuni nomi si
legano alla strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947, quando le raffiche di
mitra, sparate sulle folla intenta a festeggiare la festa dei lavoratori ed al contempo la
vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni regionali, colpirono Vito Allotta,
Margherita Cresceri, Vincenzo la Fata, Filippo Lascari, Giovanni Grifò e molti altri.
Un altro nome valga fra tutti come emblema di una Sicilia incapace di amministrare
la giustizia e far rispettare le leggi dello Stato; un’isola governata da un potere
illegale che il 10 marzo 1948 assassinò Placido Rizzotto, segretario della Camera del
lavoro di Corleone. Resti umani vennero ritrovati in una foiba della zona circa venti
mesi dopo. Non sorprende osservare il malgoverno della vicenda: il testimone
oculare, Giuseppe Letizia, appena dodicenne, morì in ospedale dopo un’iniezione
praticata dal noto medico e mafioso Michele Navarra. La lunga istruttoria si concluse
per gli indiziati, tra cui Luciano Leggio, con un’assoluzione per insufficienza di prove
decretata dalla Corte d’Assise di Palermo con sentenza del 30 dicembre 1952. La
Cassazione rese poi definitiva la decisione16.
Avviandoci alle dovute conclusioni, il paragrafo in oggetto avrebbe potuto essere
esposto coniugando i verbi al tempo presente, senza correre il rischio di sembrare
anacronistico. Le analogie fra la mafia agraria delle origini e quella odierna sono
infatti tangibili, e portano ad interrogarci sulle ragioni della sua sopravvivenza
nonostante il superamento della struttura latifondistica. Il settore agricolo si conferma
una pietra miliare per gli interessi della criminalità organizzata; i metodi di
infiltrazione nella gestione di imprese agricole non accennano mutamenti. La forza 16 Commissione Parlamentare, Relazione conclusiva, Cap.II, Sez. II, Gli omicidi di sindacalisti e uomini politici. Gli altri delitti, Roma, 4 febbraio 1976, pp. 154-155.
19
intimidatrice resta il mezzo tipico per accrescere il potere sul territorio e accumulare
sempre nuove risorse. Il profitto viene rincorso sfruttando nuove strade, dall’indebita
percezione di contributi pubblici all’agricoltura, all’intermediazione illecita che vede
il caporale sostituirsi al vecchio campiere. Il dominio viene imposto, conservato, e in
ultimo incrementato mediante la ricerca di connivenze nel settore pubblico, utili alla
riuscita di programmate truffe aggravate ai danni dello Stato. L’agricoltura diviene
meta lecita per il reimpiego dei proventi delittuosi e al tempo stesso strumento
eccellente per perpetrare i peggiori crimini. Il potere illegale continua ad essere
accettato in tutte quelle zone tuttora isolate, lontane dall’innovazione, scarsamente
inclini allo sviluppo sociale. L’omertà è ancora prevalente rispetto alla possibilità di
far rispettare i diritti individuali e collettivi. La forma mentis di alcune realtà
meridionali è chiusa, non avanza ma regredisce perché abbandonata a se stessa. La
prassi ormai diffusa non svela le alternative di vita esistenti e sostanzialmente
realizzabili. Lo status culturale impedisce la conoscenza della legalità. Lo Stato
formale ed i suoi poteri legittimi non si preoccupano di un potere ad esso alternativo,
e perciò da combattere.
2. Agromafie di oggi: connotati principali e tipico modus operandi.
Una cifra esatta, un dato numerico certo, costituirà il punto di partenza per la nostra
analisi: 26689 i terreni individuati, solo nel 2016, dalla Guardia di Finanza nella
disponibilità di soggetti appartenenti alla criminalità organizzata17. Un dato
apprezzabile che mette in luce l’attualità di un elemento tradizionale qual é il
“terreno”. La terra madre e generosa di quei prodotti agricoli destinati ad immettersi
in una lunga filiera agroalimentare prima di giungere sulle tavole del consumatore.
Ed è proprio questo lungo percorso ad aprire le porte ai poteri criminali, in specie alle
17 Eurispes, Agromafie. 5 Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia, Minerva Edizioni, Roma, 2017, p. 17.
20
organizzazioni di stampo mafioso, permettendo loro di annidarsi ed imporre il proprio
ordine.
A tal proposito, ai fini di una maggiore comprensione, occorre prendere in esame la
nozione di Agromafie: “è il termine con cui comunemente vengono qualificate quelle
organizzazioni criminali, non solo di stampo mafioso, che operano nel settore
agricolo-pastorale e in generale in quello enogastronomico, realizzando
adulterazioni, sofisticazioni, contraffazioni di false etichettature e di marchi di
tutela”18.
Si coglie l’affermazione di una mafia potente che sceglie la filiera agroalimentare per
la capillarità espressa da tutte le sue articolazioni. Si intende discutere di
organizzazioni che si fanno silenziosamente impresa, e dopo aver gestito
l’organizzazione del lavoro nei campi e la produzione dei beni, scelgono di spingersi
oltre. Il controllo monopolistico del trasporto su gomma, l’imposizione dei prezzi di
vendita, la gestione dei mercati ortofrutticoli, l’attenzione verso la grande
distribuzione e la collocazione coartata, sugli scaffali di molti supermercati, di
prodotti scelti dai gruppi criminosi. Tutto questo genera dei costi, quelli
dell’illegalità, che gravano sulla comunità dei consumatori producendo elevati prezzi
d’acquisto e numerosi rischi per la salute, ormai compromessa dalle truffe alla
qualità. Se l’intera filiera produttiva costituisce l’habitat naturale per le Agromafie,
nonostante alcuni cenni per cui si rinvia ai paragrafi successivi, questa discussione
non si prefigge di inoltrarsi in un iter così complesso e sovra-descritto, ma vuole
soffermare l’attenzione su un singolo anello della filiera che si pone a monte. Il punto
d’origine senza il quale non ci sarebbe né imprenditoria né profitto. Il motore che da
sempre spinge le mafie verso un fine ontologicamente preordinato: il potere. Quelle
terre che i clan afferrano con violenza per confermare il loro dominio ed in un
momento successivo dipanare i propri affari. C’è una mafia rurale ancora attiva, che
18 Wikimafia, Libera Enciclopedia sulle mafie.
21
spaventa e si fa strada nei contesti più permeabili, aree rurali dove le condizioni
socio-economiche facilitano il suo insediamento. In tal senso si esprime chiaramente
la Direzione nazionale antimafia: “Proprio la matrice storica che caratterizza le mafie
fa si che queste difficilmente si distacchino dalle terre dove nascono, tendono invece
ad assumerne la potestà e a tramandare al loro interno rapporti e conoscenze. Dagli
anni 60’ del secolo scorso gli investimenti mafiosi hanno cominciato, dall’agricoltura,
ad essere indirizzati anche verso altri settori economici, primo tra tutti quello
dell’edilizia, ma proprio il mondo agricolo rimane centrale per mafie radicate sul
territorio. In agricoltura gli interessi parassitari della mafia si manifestano in delitti
per così dire classici come le estorsioni e l’imposizione di determinate forniture alle
imprese agricole, tuttavia non si può omettere che spesso questi si spingono oltre,
fino al tentativo di espropriare l’impresa stessa.
Oggi l’attività criminale si manifesta in particolare attraverso due canali: quello
relativo alla produzione di beni e quello legato alla distribuzione degli stessi sul
mercato nazionale ed internazionale” 19. Ed è proprio la prima fase, quella della
produzione di beni, a richiedere concentrazione, perché presume un intervento diretto
delle mafie sui fondi al fine di poter preservare le proprietà terriere, ampliare il
controllo sociale sul territorio e infiltrarsi nella gestione di aziende agricole. Un
potere che implica presenza, ed in questi casi l’ombra ingombrante dei clan risulta
tangibile. E’ un’organizzazione che regna nei campi avvalendosi di un sistema
feudale nei mezzi. Usuale la messa in atto del reato tipico di estorsione. Il ricorso alla
violenza e alla persuasività delle minacce evidenzia quanto strategie rudimentali e
spietate restino ancora in cima alle preferenze. La forza intimidatrice del vincolo
associativo rende lecito procurarsi un ingiusto profitto a danno di agricoltori e
allevatori che sempre più chiedono aiuto. Seppur si parte da un’infiltrazione indiretta
nei fondi capace di imporre forniture, manodopera e servizi, quali le guardianie, non 19 D.n.a., Relazione annuale, Parte I -11. Le attività svolte in ordine alle «materie di interesse»: Infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore agricolo, Dicembre 2012, p.399.
22
deve stupire quando le pretese si allargano e le mire si allungano verso una gestione
diretta che sfocia, spesso e volentieri, in un’appropriazione indebita di appezzamenti
e aziende. E cosa accade se la invadente criminalità incontra resistenze in una
controparte umile, ma ostinata e testarda?
A quel punto sarebbe notevole auspicarsi una ritirata, ma le vessazioni non
cesseranno. Inizia la violenza più nuda, una serie di furti e danneggiamenti volti a
mettere in ginocchio i veri proprietari, usurpandoli del lavoro e dei guadagni. Dalla
Lombardia, passando per Puglia e Calabria e giungendo in Sicilia, i reati perpetrati
nelle campagne si ripetono. L’imprenditoria leale e corretta subisce un’illegalità
diretta ad ottenere la cessione della proprietà terriera colpendo le infrastrutture di
servizio all’attività agricola e sottraendo produzioni agricole e agroalimentari. Si
registra un numero di reati contro il patrimonio in netto aumento, quali il furto di
mezzi agricoli, l’abigeato, il furto di prodotti agricoli, racket, usura, danneggiamento,
e ancora pascolo abusivo ed estorsione. La conduzione aziendale è costantemente
sotto minaccia, depredata, svuotata di mezzi e beni, ostacolata nella quotidianità delle
attività imprenditoriali. I costi sono alti e l’alone di solitudine che avvolge le vittime
non è così esiguo. A mancare è un associazionismo fra i più deboli, quell’empatia in
grado di scalfire una mafia resiliente. Ed in quanto tale, essa non molla.
Non stupisce il quadro dipinto dai giornali locali insediati nella provincia di Catania.
Si racconta di un provvedimento di confisca disposto dal Tribunale di Catania e volto
a colpire il patrimonio economico del boss mafioso Francesco Rosta per un valore
complessivo di 700 mila euro. Nel mirino l’azienda agricola Bovini dell’Etna S.a.s. e
tre immobili. Il Rosta avrebbe gestito negli anni le terre di Randazzo “tramite pratiche
ormai consolidate e ben note fra la gente del luogo” 20. Si è imposto su distese aree
rurali dettando le leggi della prepotenza, resa tra l’altro evidente da importanti segni
lasciati sul territorio. Molti i beni di imprenditori e privati oggetto di danneggiamenti 20 E.Intrisano, Terre nella morsa della mafia. Randazzo e il potere dei Rosta, in www.catania.livesicilia.it, 6 Gennaio 2018.
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da parte di ignoti, tanti gli incendi dolosi o i vandalismi su vigneti e fondi agricoli. Il
settore vitivinicolo risulta fra i più colpiti poichè sottrae spazio a quelle aree adibite a
pascolo per beneficiare di imponenti finanziamenti europei. E di certo non ci si
meraviglia, quando restando nella stessa provincia catanese ma spostandosi ad
Adrano, così come raggiungendo Catanzaro, si sente parlare di “guardiania.” Non
siamo spettatori di un cortometraggio ottocentesco, ma conoscitori di una cronaca
spigolosa. La guardiania simboleggia uno dei più antichi metodi estorsivi attuati dalle
associazioni criminali. Nasce sul latifondo, ma oggi opera con modalità parzialmente
nuove rivolgendosi ai piccoli proprietari terrieri. Esprime una prestazione di servizio,
quale la vigilanza sui terreni, offerta dal guardiano in cambio del pagamento di un
corrispettivo. Il rapporto di scambio include la merce più preziosa presente nelle
casse della mafia: la protezione. Già nel 1992 Gambetta, nel suo lavoro, definiva la
mafia “un’industria che produce, promuove e vende protezione privata” 21. La
disponibilità di quest’ultima presuppone l’esistenza di un duplice fattore: un
penetrante controllo del territorio ed il monopolio della violenza. L’offerta di
protezione avanzata dalla mafia non risponde ad una reale domanda formulata dal
coltivatore /proprietario, ma assume la veste di un’imposizione. Il guardiano si avvale
della forza intrinseca alla minaccia per sancire un servizio di vigilanza solo fittizio.
La tutela dovrebbe consentire ai vessati la giusta serenità nella conduzione
dell’attività produttiva. Si promette loro l’immunità da furti, danneggiamenti, razzie,
atti intimidatori, da violenze materiali, e più in generale da quell’insieme di reati che
gli stessi promittenti attuano in fase preventiva, come segni di avvertimento, quando
il campo deve essere sgombrato da eventuali e inammissibili responsi negativi. La
cronaca locale di Adrano e dintorni ci fornisce degli esempi concreti del modo in cui,
in linea di massima, tale sistema funzioni; dal momento in cui un agricoltore acquista
un fondo nella contrada d’interesse, assecondando la prassi ed il dettame di regole
21 D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, 1992.
24
consuetudinarie, viene ex sponte portato a corrispondere una somma in denaro al
guardiano di zona. Personaggio ben noto per le sue strette relazioni o appartenenza ad
un’associazione di stampo mafioso, egli tende a creare una situazione di vigilanza
monopolistica che esclude qualsiasi altro ente/società disposto ad offrire servizi
similari. Laddove l’ultimo arrivato non conosca le abitudini economiche e le regole
tradizionali impiantate nella contrada, ne viene messo a conoscenza senza esitazione,
tramite la perpetrazione di furti o meno gravi reati a suo danno. Di lì l’assuefazione
del nuovo imprenditore ad un circuito dominato dalla seguente ideologia: dover
accettare un gioco in cui il più debole non solo partirà in svantaggio, ma si
accontenterà addirittura di perdere i propri diritti in favore del più forte.
L’osservazione di un panorama circostante viziato da prepotenza e leggi di natura che
elogiano il più forte, comporta a sua volta una perdita di fiducia, da parte degli
imprenditori, nelle relazioni con il potere pubblico. Quest’ultimo dimentica di
intervenire a smantellare un gioco che dura da troppo tempo, in tal modo ostacolando
la crescita delle singole imprese e maturando alti costi per la società in termini di
sviluppo socio economico. E’ pur vero che le autorità non vengono chiamate in ballo
a causa di una ritrosia a denunciare, a volte per timore, altre per l’incapacità di
riconoscere un fenomeno estorsivo nascosto dietro il “si è sempre fatto così.”
Quanto appena descritto viene riconfermato in un’operazione risalente al 2013
denominata “Night watchman” ed esecutiva di un'ordinanza di custodia cautelare,
emessa dal GIP presso il Tribunale di Catania su richiesta della Procura Distrettuale
Antimafia di Catania, volta a trarre in arresto quattro soggetti tutti di Vittoria, quali
Avola Massimiliano, Rotante Enzo, Rotante Gianluca, Guastella Francesco, uomini
riconducibili al clan Piscopo (storicamente legato alla famiglia gelese di Cosa
Nostra). L’agire degli stessi si serviva di una società denominata “La Custode”,
accusata nell’inchiesta di aver protratto quattordici casi di accertata estorsione nelle
campagne ragusane, senza tralasciare gli altri 150-200 presunti. L’ O.C.C. si esprime
25
a chiare lettere: “ Il modus operandi è risultato, dunque, il seguente: Avola
Massimiliano dopo aver contattato le aziende (ai danni delle quali è stato spesso
strategicamente perpetrato qualche furto, per indurre i titolari ad un servizio di
vigilanza), forte della sua conclamata appartenenza al clan (ben nota ai compaesani),
impone servizi di guardiania, presentati sotto la veste di altra tipologia di servizi,
quali attività di manutenzione, accensione e spegnimento degli impianti di irrigazione
in ore diurne e notturne (dato che l’Avola, per i suoi precedenti penali, non può
svolgere l’attività di guardiania), con richiesta di versamento mensile di somme di
denaro. Le vittime, pur nell’impossibilità economica di assicurare il pagamento, si
trovano costrette ad ottemperare comunque, consapevoli che il mancato versamento
di quanto imposto determinerebbe l’immediata reazione degli indagati, e
l’esposizione a rischio dell’incolumità personale e dell’azienda” 22.
Avendo ormai proceduto ad un’esposizione teorica di un modus operandi che sa di
arcaico, sembra doveroso chiudere il cerchio con un’osservazione concreta delle aree
più deboli e svantaggiate assumendo come base di riferimento le puntuali relazioni
della Direzione investigativa antimafia. I resoconti si propongono di scaglionare il
territorio siciliano soffermandosi attentamente su ciascuna Provincia. Il nostro
compito sarà diretto a cogliere gli aspetti qui d’interesse, concentrando la narrazione
sulle infiltrazioni criminali nel comparto agroalimentare, relative all’ultimo triennio.
E’ proprio la relazione del secondo semestre 2016, ad annoverare l’estorsione fra le
prime fonti illecite di finanziamento nella Provincia di Caltanissetta. Gli atti estorsivi
si concentrano in prevalenza nel settore agricolo, affiancato da quello industriale ed
artigianale, dove regnano “forme di coartazione, tra cui l’imposizione di forniture, di
manodopera e di servizi, come le guardianie”23. Tra l’altro, quest’ultime hanno
22 D. Arcidiacono, M. Avola, R. Palidda, Mafia, estorsioni e regolazione dell'economia nell'altra Sicilia, Franco Angeli, Roma, 2016, pp.69ss.2323 D.i.a., Relazione semestrale al Parlamento, Criminalità organizzata siciliana, 2 semestre 2016, p.39.
26
costituito l’oggetto di un’operazione cosiddetta “Guardian”, messa a punto dalla
Polizia di Stato e dall’Arma dei Carabinieri, per dare esecutività ad un ‘ordinanza di
custodia cautelare24 emessa dal GIP del Tribunale di Catania nel novembre 2016. Tale
ordinanza contestava i reati ex artt. 416bis, 81, 628 e 629 c.p. e colpiva 7 soggetti
appartenenti allo storico clan Madonia, famiglia inquadrabile nell’area di Niscemi. I
risultati delle indagini palesavano “un sistema di guardiania imposto ai titolari di
aziende agricole, site nei territori di Acate (RG) e Niscemi (Cl), costretti ad assumere
appartenenti al clan con le mansioni di guardiani” 25. Medesime dinamiche si ripetono
spostandosi verso la zona nebroidea, la quale ospita al suo interno il Parco Regionale
dei Nebrodi comprensivo di 24 comuni legati alle tre province di Catania, Messina,
ed Enna, ma di questo a lungo diremo nel capitolo III. I Nebrodi si fanno testimoni
della primazia del reato di estorsione al fine di ottenere un’ingerenza massiccia
nell’agricoltura. Le tradizionali vessazioni vengono sovente estrinsecate in un
contesto agropastorale che condiziona il modus agendi delle cosche e gli interessi
perseguiti dai sodalizi. A fini esplicativi si ricorda l’operazione Fratelli di sangue e in
appunto lo stralcio del provvedimento di esecuzione dell’ O.C.C.26 emessa dal
Tribunale di Caltanissetta nei confronti di 4 soggetti appartenenti al clan Nicosia
operante in Villarosa (EN). I destinatari della misura cautelare sono ritenuti
responsabili di essersi avvalsi della forza intimidatrice del vincolo associativo per
commettere “delitti di ogni genere, tra cui in particolare: omicidi, usura, traffico di
sostanze stupefacenti, nonché per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o
comunque, il controllo di attività economiche quali la gestione di negozi a Villarosa
2424 O.C.C.C. nr. 4987/14 R.G.N.R. e nr. 8299/14 R.G. GIP emessa dal GIP del Tribunale di Catania il 25 novembre 2016, per i reati ex artt. 416 bis, artt. 81, 629 e 628 c.p.25 D.i.a., Relazione semestrale al Parlamento, Criminalità organizzata siciliana, 2 semestre 2016, p.40.26 O.C.C.C. n. 1623/2016 R.G.N.R. e n. 1941/2016 R.G. Gip, emessa il 17 febbraio 2017 dal Tribunale di Caltanissetta.25
26
27
ed il controllo esclusivo dei terreni adibiti a pascolo ed all’agricoltura, nonché per
realizzare illeciti vantaggi di vario genere e per procurare voti in occasione di
consultazioni elettorali”.27
Segue l’analisi della Provincia di Catania ove le mire mafiose verso i patrimoni
immobiliari rurali si auspicano l’acquisizione dei fondi pubblici stanziati per lo
sviluppo di attività agricole e zootecniche28. Accaparrarsi quanti più terreni possibili
vuol dire lucrare su di essi grazie ai benefici concessi in ambito statale, da parte della
Agea, ma figli dei più ampi finanziamenti europei percepibili a titolo PAC. (vedi par
5, cap.I). L’indole truffaldina delle cosche, tuttavia, non si accontenta della indebita
percezione di denaro pubblico, ma incrementa il suo giro d’affari ricorrendo a fittizie
dichiarazioni di impiego di braccianti prodromiche all’estorsione di contributi
economici non dovuti. Significativa l’operazione “Podere mafioso”29 che ha visto la
Guardia di Finanza smantellare un’organizzazione criminale, coinvolgente anche
ragionieri, periti commerciali ed un dipendente dell’Ente previdenziale, colpevole di
aver simulato l’assunzione di circa 500 braccianti agricoli, frodando così oltre 1
milione di euro di indennità di disoccupazione.
Le investigazioni della Dia proseguono nella prima relazione semestrale del 2017,
descrivendo l’attività di organizzazioni vicine sia a cosa nostra sia alla stidda gelese
ed insediate nella Provincia ragusana. Qui l’interesse per il fondo e le attività primarie
su esso svolte, viene sostituito da un interesse maggiormente strutturato ed attento
alla fase di trasporto e distribuzione dei prodotti agroalimentari. Il polo ortofrutticolo
di Vittoria diventa lo scenario all’interno del quale seminare la violenza, diversi gli
incendi dolosi culminati in un gravissimo episodio datato 18 febbraio 2017. I danni
agli autoarticolati di imprese locali di autotrasporti e le ustioni a carico di un autista
2727 D.i.a., Relazione semestrale al Parlamento, Criminalità organizzata siciliana, 1 semestre 2017, p.89.28 D.i.a., Relazione semestrale al Parlamento, Criminalità organizzata siciliana, 1 semestre 2017, p.94.29 OCCC. n.16690/2014 RGNR e n. 868/2017 RGGIP emessa dal Tribunale di Catania.
28
che vi riposava all’interno, costrinsero il Prefetto di Ragusa ad indire un Comitato
Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica30. Seppur impegnati in un anello più
avanzato della filiera agroalimentare, i criminali non esitano a rivendicare un dominio
monopolistico e la loro forza bruta. La Guardia di Finanza nell’operazione “Truck
express”31 arresta due soggetti, vicini a stidda e cosa nostra e relazionati con la
camorra, perché obbligavano gli autotrasportatori a sborsare una somma di denaro per
sentirsi autorizzati a caricare e scaricare le merci nel mercato di Vittoria. In ultimo un
riferimento spetta alla Provincia di Messina, ed in particolare a quell’area dove si
estende il comprensorio dei Nebrodi ed interagiscono le famiglie dei batanesi e dei
tortoriciani. Emblematici della illegalità profusa i sequestri milionari su beni
posseduti da soggetti appartenenti ad associazioni di stampo mafioso, le quali oltre a
vantare un patrimonio sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati, incrementano il
loro capitale usurpando i contributi firmati Agea e destinati allo sviluppo rurale.
Finanziamenti indebiti che proprio la Prefettura di Messina, come si dirà, ha troncato
ab origine estendendo l’ambito di operatività della certificazione antimafia: ostacolo
da eludere per un potere mafioso sempre più affaristico32.
Ergo, la fotografia scattata in un meridione tormentato dalle mafie non porta nulla di
nuovo sotto la luce del sole, ma aggiunge un retrogusto amaro alla salda
consapevolezza di un mondo criminale che non conosce onore e che insegue, senza
scrupolo alcuno, la logica del profitto in qualunque settore economico sia in grado di
generarlo. E non è importante se si tratti di agricoltura o alta finanza, l’odore del
denaro spinge sempre a mettersi in gioco.
3030 D.i.a., Relazione semestrale al Parlamento, Criminalità organizzata siciliana, 1 semestre 2017, p.100.31 O.C.C. n. 9529/15 RG GIP, eseguita, il 27 febbraio 2017, in Vittoria (RG), dalla Guardia di Finanza di Catania, a carico di due soggetti ritenuti responsabili di estorsione aggravata.3132 D.i.a., Relazione semestrale al Parlamento, Criminalità organizzata siciliana, 1 semestre 2017, p.103.32
29
3. Mafia e caporalato.
L’interconnessione tra mafia ed agricoltura risente di una matrice storica culturale la
cui influenza sfocia nel seguente paradosso: nell’era in cui l’evoluzione tecnologica
non ha pazienza di attendere, i campi domandano una manodopera senza
avanguardia. Bassi costi e massimi profitti, manodopera elementare e zero
riconoscimenti. Le agromafie generano dei costi in termini di salute e benessere
collettivo. La qualità dei prodotti che giungono sulle nostre tavole non può desumersi
dalla mera bontà, ma merita uno sguardo più approfondito verso i processi produttivi
sottesi: ove manchi trasparenza, legalità, rispetto dei diritti umani dei soggetti attivi
impiegati nei campi, è inammissibile discutere ancora di Qualità e Ricercatezza,
basterebbe etichettare il fenomeno in termini di “Diseconomia”. Il pregio del sistema
produttivo agroalimentare si riduce drasticamente a causa della violazione della
Dignità umana. Un concetto questo poliedrico, nato all’interno del dibattito filosofico
e con il tempo codificatosi in una dimensione giuridica poiché bisognoso di una tutela
efficace sul piano interno ed internazionale. La dignità umana viene trasfusa, secondo
un riferimento di ordine generale, nel Titolo I della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea, adottata a Nizza nel 2000. Cinque il numero degli articoli
dedicati ad un valore assoluto, per ciò solo tutelato a chiare lettere e con i dovuti spazi
nel panorama internazionale. Muovendosi dal generale al particolare, l’articolo 1 si
preoccupa di sancire l’inviolabilità della dignità umana e per connessione il suo
rispetto e tutela. In successione i restanti articoli declinano il “gran valore” nelle sue
estrinsecazioni concrete, promuovendo il diritto alla vita, l’integrità della persona, e
riconfermando una massima di grande pregnanza per le tematiche da noi trattate,
quale la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato: ART.5 “1. Nessuno può
30
essere tenuto in condizione di schiavitù o di servitù. 2. Nessuno può essere costretto a
compiere un lavoro forzato o obbligatorio. 3. E’ proibita la tratta degli esseri umani.”
L’accezione valoriale e assoluta della Dignità la fa assurgere al grado di Principio,
che anche il nostro dettato costituzionale, seppur privo di una definizione testuale
specifica del Valore in oggetto, mostra di accettare. La Costituzione italiana del 1948
non offre una netta definizione del concetto di Dignità, ma da esso è innervata nei
tessuti più profondi, leggendo il combinato disposto degli artt. 2 e 3 Cost. come base
giustificatrice nonchè referente costituzionale per gli organi giudicanti della Corte
Costituzionale. La giurisprudenza della Consulta espone infatti almeno due diverse
prospettive tramite le quali rintracciare significati latu sensu giuridici della Dignità.
La prima prospettiva adotta un’ottica soggettivistica concependo la Dignità quale
valore primario e background etico per il chiaro riconoscimento del principio
personalista. Quest’ultimo ispira il nostro patto costituzionale ponendo al centro della
tutela la persona umana di per sé ed in quanto tale. «gli esseri razionali stanno tutti
sotto la legge secondo cui ognuno di essi deve trattare se stesso e ogni altro mai
semplicemente come mezzo, bensì sempre insieme come fine in sé» (Kant). La
Dignitas vieta in modo assoluto qualsiasi strumentalizzazione dell’uomo, in quanto
fine in se stesso. Traduzione implicita ma concreta di tale accezione è rappresentata
dall’art 2 della Costituzione: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità…” La seconda prospettiva, invece, scavalca l’individuo per esaltare un
significato sociale del concetto di dignità. L’essere umano, infatti, esprime la sua
personalità nella società in cui vive, crea relazioni che dovrebbero tutte ispirarsi ad un
ideale di uguaglianza e ad un’ottica di pari diritti. L’art 3 Cost. contiene una nozione
costruita su contenuti giuridici positivi, evidenziando l’eguaglianza, prima formale e
poi sostanziale, che la dignità di ogni cittadino impone di raggiungere in tutti gli
ambiti ed i rapporti della società. In questa direzione la Dignità si traduce in principio
31
costituzionale e centro propulsore per la costruzione di un Welfare State. Non è
casuale il richiamo agli articoli 41 e 36 Costituzione; il passaggio da uno Stato
liberale allo Stato sociale, impone che la libera iniziativa economica privata, tutelata
ex art 41 Cost., incontri un limite proprio nella dignità umana. E ancora, l’art 36 nel
sancire il diritto dei lavoratori ad una retribuzione adeguata, chiede che essa sia in
ogni caso sufficiente ad assicurare a lui e la sua famiglia, un’esistenza libera e
dignitosa33.
Al termine di questa brevissima trattazione, che di certo non si arroga la presunzione
di fornire delucidazioni costituzionaliste sul tema, emerge lo spessore di un principio
e valore che le mafie non conoscono e spesso violano nelle proprie attività. Si osservi
quanto la fase iniziale di lavorazione e coltura del terreno abbisogni di manodopera,
preferibilmente a basso costo, immediatamente reperibile e senza alcuna pretesa. E
chi si preoccupa di reclutare la forza lavoro necessaria e senza la quale non si
otterrebbe il prodotto illegale? La risposta agli interrogativi introduce un nuovo nome
ed una vecchia figura: il caporale. Il nuovo testo dell’art 603 bis c.p., introdotto dalla
legge n.199/2016 e rubricato “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, si
appresta a riconoscere il caporale in colui che “recluta manodopera allo scopo di
destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello
stato di bisogno dei lavoratori”34. Il primo step, nell’intera filiera agroalimentare, si
estrinseca nell’organizzazione del lavoro sul campo. Diviene presupposto
33 M.Bellocci, P.Passaglia, La Dignità dell’uomo quale principio costituzionale, Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti Costituzionali italiana, spagnola e portoghese, cap.1 Considerazioni preliminari di metodo, Roma, Palazzo della Consulta, 30 settembre- 1 ottobre 2007.34 Cfr. Art.630bis c.p.: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
32
imprescindibile la ricerca, il reclutamento ed il conseguente impiego, presso le
aziende, di lavoratori facilmente disposti a piegarsi verso la terra, accettare fatiche
disumane, azzerare la propria dignità in cambio di salari minimi, rinunciare a
qualsivoglia garanzia in termini di salute, igiene e sicurezza, rincasare in alloggi
degradanti e dimenticare break o riposi settimanali. Soggetto attivo è dunque un
intermediario, spesso di origine straniera, che si pone il compito di selezionare i
“giusti” lavoratori da assumere per conto di un datore di lavoro, anch’egli spesso
compiacente. A tal fine, al posto di ricorrere a procedure legali e contratti regolari, è
preferibile adottare semplificazioni approfittando della condizione di inferiorità fisica,
psichica o di una situazione di necessità dell’altro contraente (lavoratore/ice) per
stipulare un accordo o creare una situazione di fatto in cui la persona presti la propria
opera in uno stato di soggezione continuativa (cioè di limitazione della propria libertà
di autodeterminazione) , costretta a prestazioni che ne comportano lo sfruttamento. E’
per questa strada che il fenomeno del caporalato si intreccia costantemente con il
lavoro nero e irregolare. Quest’ultimo viene così definito dalla Comunicazione della
Commissione Europea sul Lavoro non Dichiarato del 1998: “ The concept of
undeclared work is taken to mean any paid activities that are lawful as regards their
nature but not declared to public authorities, taking into account differences in the
regulatory system of Member States.”35 All’interno di questo frame spicca la
categoria del lavoro nero: violazione delle norme contrattuali, totale assenza di tutele
dal punto di vista amministrativo, previdenziale e assicurativo, che genera
conseguentemente una condizione di debolezza, ricattabilità, emarginazione e
subordinazione del lavoratore. Lo status di lavoratore irregolare si traduce in
un’elusione completa del sistema di diritti predisposto. Violazione che si trascina con
sé micro e macro rischi: in primis la riduzione del lavoratore in condizioni
schiavistiche o paraschiavistiche, un’inadeguata valutazione dei rischi per la salute e 35 Eurispes e Coldiretti, 5 Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia, Minerva Edizioni, Roma, 2017, p.111.
33
l’eventuale dramma delle morti bianche.36 In secondo luogo si andranno a produrre
dei costi gravanti sull’ intera collettività, quelli che Nando Dalla Chiesa denomina
“costi dell’illegalità”, derivanti dai mancati introiti legati alla fiscalità diretta e
indiretta e ai contributi previdenziali che lo Stato perde. Un ultimo deficit si
manifesterà sul libero gioco della concorrenza di mercato, laddove alla logica
paritaria si andrà sostituire la concorrenza sleale e la posizione di vantaggio di quegli
imprenditori furbescamente capaci di abbattere i costi violando le norme in materia di
assunzioni e sicurezza, nonché provocando un incremento della tassazione a carico di
imprenditori onesti che, in ossequio al dettame legislativo, continuano a versare
ingenti somme di denaro per la vita, la salute, e la garanzia di diritti inviolabili che
ogni lavoratore dipendente esige con onore37. Il cuore del problema si svela quando
lavoratori assetati di denaro, in continua lotta per la sopravvivenza ed affamati di
lavoro, si dimenticano di avere diritti e si dichiarano pronti a calpestarli, anzi quasi
onorando il caporale e il padrone che offrono loro un’occupazione. La mafia, nella
mente poco lucida delle vittime, assume le sembianze della Salvezza, colei che getta
un àncora di speranza giungendo a supplire i vuoti lasciati dallo Stato assente. Si
comprende a pieno per quali ragioni la mafia supplente si dirige verso i nuovi
migranti, intrecciando il fenomeno del caporalato con quello della tratta
internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Il passaggio dalla condizione di
irregolare risulta per il migrante una fase naturale e attraversabile.
Il settore agricolo, in specie, chiede manodopera non specializzata disposta ad aprirsi
alle cinque P: attività precarie, poco pagate, pesanti, pericolose e penalizzate
socialmente. Gli immigrati vengono usualmente impiegati in arboricoltura,
orticoltura, negli allevamenti e nel taglio di boschi. Prassi vuole che essi diventino la
forza lavoro per coprire quei fabbisogni che altrimenti resterebbero scoperti.
36 Eurispes, 5 Rapporto, pp.109-114.37 N.Dalla Chiesa, L’impresa mafiosa. Tra capitalismo violento e controllo sociale, Cavallotti University Press, Milano, 2012, pp.114-118.
34
Sembra riprodursi un flashback nelle nostre menti e ricondurci alle realtà sociali
spadroneggianti nel Sud Italia post unitario, dove i campieri si “appropriavano” dei
braccianti poveri e disgraziati, in cerca di pane e qualche giustizia in più. La
fotografia delle campagne attuali non è poi così lontana; valgano fra tutti alcuni
esempi tratti dal territorio siciliano ormai assodata crocevia per gli immigrati.
Proviamo con la forza dell’immaginazione a descrivere l’andamento di una giornata
tipica: al primo mattino le piazze principali si riempiono di lavoratori stranieri di ogni
età, la maggior parte marocchini, che vengono caricati su furgoncini e trasportati sul
campo di concentramento. Raccoglieranno arance per 9 ore continue riempiendo circa
60/70 cassette di 20 chili. A fine giornata si troveranno in mano 30 euro,
immediatamente ne restituiranno circa 5 per il comodo trasporto della mattina.
Stremati dalla fatica, non troveranno un caldo alloggio ad ospitarli, ma al più uno
scomodo casolare scovato per caso. In extremis ci sarà a terra un telone di nylon sul
quale distendersi ed in alto una tenda sotto cui ripararsi. Tutto questo accade in
provincia di Catania. Ancora più grave la situazione denunciata nel CARA (Centro di
accoglienza per i richiedenti asilo) di Mineo, dove i lavoratori reclutati ai cancelli del
Centro, svendono se stessi per miseri stipendi dai 12 ai 15 euro, perché già graziati di
vitto e alloggio. Scendiamo più a fondo muovendoci verso il ragusano, ed in
particolare sul territorio di Vittoria; qui ci si imbatte in operaie agricole rumene. Il
lavoro nelle serre dura circa 14 ore al giorno, la paga si aggira attorno ai 20 euro,
l’alloggio, per cui è necessario pagare anche l’affitto, coincide spesso con la sede
lavorativa. Lo sfruttamento delle donne è in tali ambienti duplice, giacchè le
condizioni abitative fanno propendere per situazioni di promiscuità ed indecenti
ricatti sessuali. Lo scenario si palesa raccapricciante e impaziente di essere
denunciato a gran voce, tuttavia, per ragioni di completezza espositiva, si ritiene
35
doveroso ricordare anche l’ultima formulazione della legislazione in materia e le
connesse misure di contrasto al fenomeno criminoso in oggetto38.
Ci si propone di tratteggiare le caratteristiche essenziali del nuovo testo dell’art
603bis c.p. così come modificato dalla legge n.199/2016, concedendoci, pur
sposandone il telos, qualche perplessità circa l’efficacia della legge in sede
applicativa. Il previgente testo dell’art 603-bis incappava nell’errore di far
corrispondere l’intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro al fenomeno del
caporalato tout-court, dimenticandosi la complessità di una realtà sottesa più ampia e
articolata. L’introduzione di una allora “nuova” figura delittuosa ad opera del dl
138/2011, assecondava le pretese di una campagna nazionale sensibile ai diritti umani
e sociali e severa nell’intenzione di perseguire i beceri caporali con sanzioni penali e
non soltanto amministrative. Difatti il vecchio art 603bis c.p. recitava: "Salvo che il
fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un'attività organizzata di
intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l'attività lavorativa
caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione,
approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la
reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun
lavoratore reclutato.” Una lettura attenta e critica permette, già prima facie, di
cogliere nella Riforma del 2016 uno adeguato strumento che, attraverso modifiche
lessicali e contenuti aggiuntivi, potenzia il perseguimento del reato. Innanzitutto, allo
stato attuale, la punibilità colpisce non più solo il soggetto attivo intermediario
impegnato nel reclutamento della manodopera, ma viene estesa anche nei confronti di
chi utilizza, assume o impiega manodopera, con l’ausilio o meno dell’attività di
intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed
approfittando del loro stato di bisogno. Prima di procedere alla puntualizzazione di
due concetti di fondo, quali la “condizione di sfruttamento” e lo “stato di bisogno”, si
38 Eurispes, 5 Rapporto, pp.115-118.
36
ritiene opportuno notare: 1. la scomparsa del requisito dell’organizzazione
dell’attività illecita, la quale implicava, per essere probata, un’attività investigativa
della Polizia Giudiziaria alquanto lunga e scrupolosa; 2. l’eliminazione del modus
agendi violento, minatorio o intimidatorio dagli elementi costituitivi della condotta ed
il suo trapasso a mera circostanza aggravante. Le illecite condotte indirizzate allo
sfruttamento lavorativo ed all’approfittamento dell’altrui stato di bisogno, basteranno
per integrare gli estremi del reato.
La conditio di sfruttamento sarà desumibile da specifici indici:39
1)la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai
contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più
rappresentative a livello nazionale o comunque, sproporzionate rispetto alla quantità e
qualità del lavoro prestato:
2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di
riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi
di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a
situazioni alloggiative degradanti.
Per l’enunciazione dello “stato di bisogno” ci si appella alla giurisprudenza, e più
precisamente alla pronuncia della Corte di Cassazione-II sezione penale nella
sentenza n. 18778/2014, “uno stato di necessità tendenzialmente irreversibile, non
tale da annientare in assoluto qualunque libertà di scelta, ma comunque
comportando un impellente assillo, compromette fortemente la libertà contrattuale
del soggetto”. Sotto questo aspetto è intuitivo quanto lo status di bisogno non possa
esprimere il discrimen per la punibilità. Tale pre-condizione è infatti facilmente 39 Cfr. Art. 603bis c.p. co.III, così come modificato dalla legge n.199/2016, in vigore dal 4 novembre 2016.
37
riscontrabile in quel bacino di utenti cui i soggettivi attivi si rivolgono. La maggior
parte di occupanti, comunitari o extracomunitari, si palesano soggetti con basso ed
intermittente reddito tanto da poter essere impiegati in qualunque modello
occupazionale legale, senza scadere nello sfruttamento. Sarà proprio quest’ultimo,
invece, ad assommarsi alla naturale condizione di soggezione della vittima ed a
generare, di conseguenza, la doverosa sanzione nella duplice veste di reclusione e
multa ex art 603 bis c.p.
Se la nuova disciplina di contrasto ha riscosso inizialmente un unanime consenso nel
settore agricolo, ben presto l’imprenditoria leale e legale si è fatta portatrice di
preoccupazioni e timori dovuti ad ambiguità e carenze del testo normativo. Gli stessi
indici di sfruttamento, seppure impossibilitati a fondare ex se un giudizio di
colpevolezza, costituiscono indici sintomatici, o più banalmente spie, utili ad
orientare le attività di indagine e i compiti ricostruttivi svolti dagli organi ispettivi.
Quel che manca, infatti, è la dovuta distinzione tra reati gravi o gravissimi e
violazioni, anche solo meramente formali, della legislazione sul lavoro e della
contrattazione collettiva, aprendo la porta a una totale discrezionalità di valutazione
del reato da parte di chi è deputato ad applicare la legge. Il rischio concreto è che
datori di lavoro negligenti finiscano sul banco degli imputati al pari di spietati
caporali, fin quando il giudice non valuterà attentamente gli elementi probatori a sua
disposizione. Gli indici suddetti non potendo fondare da soli la decisione del giudice,
andrebbero corroborati da ulteriori dati probatori circa la condizione di sfruttamento e
l’approfittamento dello stato di bisogno, al fine di poter adottare una inequivoca
sentenza di condanna. In ogni caso le imprese che abbiano commesso piccole
irregolarità, ma tacciate di caporalato, si trasformeranno per mesi o anni in imputate e
saranno costrette a sopportare il peso di una gogna mediatica che, spesso immemore
dell’eventualità di un’assoluzione, estromette repentinamente quelle stesse imprese
38
dal mercato40. Ergo, fin qui emerge in modo chiaro la ratio della critica avanzata da
una parte dell’imprenditoria: la portata della norma non consente, in sede applicativa,
di individuare un confine netto tra chi oggi lavora e produce in condizioni di
sostanziale legalità e chi opera in condizioni di illegalità del lavoro. Se questa è la
preoccupazione degli imprenditori regolari, diversa e più greve si annuncerà quella
degli imprenditori disonesti. L’art 603bis.2 prevede una misura di sicurezza, quale è
la confisca obbligatoria: “in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta
delle parti ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale per i delitti previsti
dall'articolo 603-bis, è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o
furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o
il profitto (…)” Merita riconoscimento l’effetto deterrente di una misura post
delictum in grado di colpire al cuore la ricchezza criminale. Il quadro tratteggiato non
vuole negare, tout court, l’essenzialità di una legge indirizzata a perseguire e
scardinare il fenomeno del caporalato, ma induce a riflettere circa la possibilità di
accompagnare al piano giuridico un concreto programma sociale. La proposta di chi
scrive immagina di suscitare una reazione nelle coscienze individuali affinché, dopo
aver appresso dell’esistenza di un traffico criminale tanto esteso quanto spesso
relegato nell’ombra mediatica, inizino a diffondere, a partire dalle proprie aziende,
quel rispetto verso l’essere umano pronto a tradursi in osservanza dei contratti
collettivi, della legislazione sociale e della normativa sulla sicurezza. Anzi,
diverrebbe importante progettare un sistema premiale fatto di agevolazioni,
semplificazioni burocratiche ed amministrative, da destinare a chi agisce nella
legalità. In più, ci si auspica di poter smuovere la coscienza collettiva e spingerla
verso la scelta di prodotti di consumo di qualità. L’eccellenza del Made in Italy o del
prodotto biologico non può consentire il ricorso ad una manodopera senza diritti.
Sostenere un percorso di qualità vuol dire essere attenti anche alla salute dei
40 Eurispes, 5 Rapporto, pp.124-129.
39
lavoratori che si muovono dietro le quinte. In ultimo, non si può fare a meno di
elogiare alcune best practises sviluppate sul territorio nazionale e dirette a far
assumere consapevolezza dei propri diritti ai lavoratori vittime. Coloro che si trovano
in una posizione di inferiorità psichica, sociale ed economica, abbisognano di una
pluralità di fiancheggiatori che impartisca loro conoscenza, informazioni ed
istruzione. Perseverare in uno stato di ignoranza significa porre il seme per
l’involuzione ed il sottosviluppo. Impartire conoscenza vuol dire trasmettere la
capacità di rifiutare l’offerta di clausole retributive, lavorative ed alloggiative
inumane e degradanti. Si consideri che spesso la forza lavoro, impiegata in maniera
illegale nel settore agricolo, è costituita da braccianti giunti in Italia dai flussi
dell’immigrazione clandestina. Soggetti privi di tutela disposti ad accettare in fretta le
proposte di lavoro del caporale, seppur intrise di pericolosità.
Nel carnefice si intravede un amico, che procurando il lavoro soddisfa l’esigenza
primaria di sopravvivere. Il risultato è l’instaurazione di una forma di solidarietà tra
carnefice e vittima, la quale, indossando i panni dell’omertà, blocca le attività
investigative mostrandosi riottosa nel denunciare le violenze subite.
4. Confronti e parallelismi con l’odierna mafia dell’economia.
Fino a metà del Novecento il latifondo rappresenta l’elemento distintivo di una
società mafiosa presto pronta a distaccarsi dal terreno e a concentrarsi su nuovi settori
economici emergenti. Il boom edilizio degli anni ’50 e ’60 diviene l’appiglio per una
prima grande trasformazione della vecchia mafia. Il panorama post bellico esigeva,
infatti, interventi strutturali volti a ricostruire gran parte dei palazzoni cittadini
abbattuti dalle bombe. Un enorme flusso di denaro era previsto per risollevare la
realtà urbanistica siciliana e promuovere la ricostruzione di case e strutture in grado
di ospitare intere masse di sfollati in cerca di lavoro, futuro e migliorie. Il fiuto di una
40
nuova opportunità spinge le mafie ad infiltrarsi nel fiorente settore dell’edilizia e dei
lavori pubblici.
La mafia del latifondo, violenta e selvaggia, che taglieggiava i contadini anche in
cambio di semplici contropartite in natura, si sveste per indossare i panni
dell’imprenditoria. Si attua, secondo tali passaggi, una metamorfosi che conduce
all’industrializzazione41: le enormi somme di denaro percepibili spingono i mafiosi ad
attivare forme di impresa locale, mostrando tutte le carte in regola per intercettare
appalti o imporre subappalti. Il nocciolo di questo primo mutamento si coglie
nell’”abbandono” di un’attività puramente parassitaria, quale era la richiesta del pizzo
sul terreno, e nell’ assunzione di un ruolo ad alta operatività. Il fine consiste
nell’accaparrarsi una posizione chiave all’interno della globale imprenditoria, in
modo da garantirsi una partecipazione diretta e personale nella gestione degli affari
edili.
La tipica attività estorsiva, a lungo perpetrata, non viene accantonata, ma cessa di
essere quella primaria. Essa deve ridimensionarsi per lasciare spazio ad
un’associazione mafiosa che ormai agisce a tre livelli: su un primo anello, più ampio,
si incontrano le insinuose connivenze con il mondo politico, garanti di un accesso
mafioso nel sistema degli appalti. Sono accordi ben pagati che stabiliscono
l’affidamento della realizzazione di opere pubbliche direttamente in capo ad
esponenti dell’illegalità; su un secondo anello, si pongono invece le infiltrazioni sua
sponte della malavita al livello di subappalto; in ultimo, su un terzo livello, si
incontrano rappresentanti della bassa mafia, la cosiddetta manovalanza, che in
ossequio agli ordini dei boss, provvedono a sgomberare il campo da vicende sgradite,
interrompendo l’esecuzione di lavori in atto oppure impedendone a monte l’avvio. In
questo momento la mafia inaugura una nuova stagione orientata alla logica del
profitto. L’onore viene ad identificarsi con la ricchezza. Se in un tempo passato
41 E. Venafro, L’impresa del crimine. Il crimine nell’impresa, Giappichelli, Torino, 2012, p.110.
41
l’uomo d’onore conquistava il suo potere a colpi di violenze e sopraffazioni, ora è la
ricchezza ad esprimere il valore di uomo potente42. I beni posseduti diventano l’unità
di misura del successo. Il controllo del territorio non può più bastare, ma ad esso va
aggiunta l’accumulazione di un capitale illecito. E proprio questo processo di
accumulazione della ricchezza, svela i tratti di un’organizzazione che sta cambiando
pelle negli orientamenti economici pur continuando ad atteggiarsi quale fenomeno
sociale di potere. Per cogliere i dettagli di questo passaggio, è necessario compiere un
salto in avanti e trasferirsi negli anni ottanta, quando le riflessioni che stiamo ora
affrontando si sono tradotte in realtà legislativa. Il deputato Pio La Torre aveva colto,
con brillante intuizione, la necessità si colpire i possidenti mafiosi proprio nei loro
beni. Al mafioso venne addossato l’onere della prova circa la lecita provenienza dei
suoi beni. Sottrarre i tesori accumulati con grandi rischi e negare la possibilità di
trasmetterli agli eredi, avrebbe significato minare l’onore e la potenza di grandi
capimafia. La proposta dell’onorevole Pio La Torre, sostenuta dall’allora Ministro di
Grazia e Giustizia Virginio Rognoni, confluisce nella legge n. 646/1982 introducendo
il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso all’articolo 416bis del codice
penale italiano. La Torre osserva la propensione mafiosa a perseguire una ricchezza
mobiliare in veloce riproduzione e allargamento. Dall’abigeato si mira al
narcotraffico, aprendosi la strada verso traffici internazionali oltreoceano. La novità
risiede tutta in questa specie di capitalismo criminale43.
Il testo dell’art 416bis c.p. si presenta con una formulazione chiara ed al tempo stesso
di sostanza sotto il profilo contenutistico; raggruppa al suo interno entrambe le facce
della medaglia: sia la storia della vecchia mafia sia il suo aspetto più innovativo44.
L’associazione per delinquere può definirsi di stampo mafioso ogniqualvolta,
chiunque ne è partecipe, si avvale della forza di intimidazione promanante dal vincolo 42 Venafro, L’impresa del crimine, p.110.43 N.Dalla Chiesa, L’impresa mafiosa. Tra capitalismo violento e controllo sociale, Cavallotti University Press, Milano, 2012, p.40.44 Vedi supra, op.cit, pp.40-41.
42
associativo e genera, secondo un rapporto di causa ad effetto, quella condizione di
assoggettamento ed omertà utile al perseguimento concreto del fine criminoso.
L’associazione mafiosa può perseguire una molteplicità di fini; non solo la finalità
per eccellenza, qual è la commissione di delitti, ma anche l’acquisizione in modo
diretto o indiretto del controllo o della gestione di attività economiche e ancora, più in
generale, la realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
Dietro l’ipotesi delittuosa si nasconde la Storia della mafia, il controllo violento del
territorio e le forme di mediazione e protezione che ivi si svolgono. Accanto a questa,
sorge il riferimento esplicito ai profitti e vantaggi ingiusti. L’elemento inedito della
ricchezza aggiunge un nuovo obiettivo a quello più antico costituito dalla ricerca del
potere. Il primo passo di un’organizzazione criminale, anche la più potente, sarà
chiedere al popolo di legittimare il suo potere. Ogni mafia che voglia sopravvivere ed
evolversi cercherà riconoscimento e consenso sociale in un bacino di massa popolare
che dimostri di accettarla45. L’astrazione del consenso si ottiene mediante l’adozione
di un linguaggio simbolico e valoriale in grado di strumentalizzare il significato
tradizionale dei temi diffusi tra la comunità, “non c’è mafioso se attorno a lui non c’è
una comunità di sostegno che riconosce il suo linguaggio, il suo comportamento i
suoi gesti, i suoi atti, e non li legge solo come delinquenziali, o come parte di un
sistema criminale.46”. Oltre al consenso, le mafie esigono riconoscimento; più
precisamente è necessario che la società si arrenda a pratiche ormai usuali,
omettendone la denuncia ed anzi dando quel riconoscimento all’apparato normativo
mafioso e all’autorevolezza dell’istituzione che si pone a monte. Ergo, la
legittimazione del potere diviene il presupposto per un controllo penetrante del
territorio, sia in senso fisico sia in uno sociale più ampio; la complessa rete di
relazioni, che si genera sopra di esso, viene difatti intercettata e corrotta nella sua
45 S. Pellegrini, L’impresa grigia. Le infiltrazioni mafiose nell’economia legale, Ediesse, Roma, 2018, pp. 27ss.46 I. Sales, Storia dell’Italia mafiosa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, p. 207.
43
duplice direzione, verso gli alti centri di potere o i più bassi strati della società. A
questo punto, la ricerca mafiosa del potere non viene annientata, ma semplicemente
integrata. Si prende atto di un passaggio che interessa l’evoluzione del caratteriale di
imprenditorialità, da elemento strumentale a fattore organico dell’agire mafioso; una
prima fase dominata da attività cosiddette predatorie, riconducibili alle funzioni di
mediazione e protezione svolte per assistere il mercato, viene seguita da una seconda
fase detta di accumulazione. Le ingenti somme di liquidità, ricavate dai reati
tradizionali, chiedono di essere mobilizzate e meglio valorizzate attraverso nuovi
progetti e investimenti. Le consistenti spese pubbliche affrontate per la ricostruzione
edilizia hanno rappresentato la giusta opportunità per finanziare la nascita
dell’impresa mafiosa47. Le prime forme imprenditoriali, gestite in modo diretto da
esponenti criminali, si servivano del prestigio già conquistato per guadagnarsi rispetto
all’interno del mercato, trasponendo la dose di violenza esistente nei metodi di
produzione dell’impresa48. Ancora oggi, nonostante i gruppi criminali abbiamo
mutato il proprio assetto organizzativo ed abbiano raggiunto un grado di
imprenditorialità più complesso tramite una vera e propria mimetizzazione del
capitale illecito, non perdono quel carattere violento che persiste sullo sfondo in
funzione regolatrice dei conflitti. La gestione delle imprese avviene in modo sempre
più mediato, promuovendo un sistema di co-partecipazione nelle imprese legali per
l’appunto diretto a mimetizzare il capitale illecito oscurandolo tra quello lecito.
Tuttavia, a prescindere dalle molteplici forme che l’agire imprenditoriale può
assumere, è possibile affermare che la modernissima mafia, proiettata verso il settore
terziario e qualunque altro investimento remunerativo, persegue un duplice fine
combinando insieme profitto e potere. Essi si pongono in un rapporto di reciproca
funzionalità: l’uno servirà per accrescere e consolidare l’altro e viceversa. Il controllo
47 S. Pellegrini, op. cit., pp. 63ss.48 P. Arlacchi, la mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, il Mulino, Bologna, 1983, p.109.
44
di un territorio e di tutte le attività insediate su di esso, rappresenta il prius logico per
la produzione di altra ricchezza; quest’ultima, di conseguenza, fungerà da movente
essenziale per il riconoscimento di un maggior potere. In conclusione, pur
accondiscendente a sempre nuovi adattamenti e metamorfosi, la mafia resta a
difendere la vera natura costitutiva dell’associazione, identificandosi in un’impresa
del delitto. Essa nasce e si presenta tuttora nella veste di entità posta al di fuori e
contro lo Stato, in lotta continua per la contesa di una posizione monopolistica
nell’esercizio della violenza, e conscia di una giurisdizione propria da porre in
alternativa a quella statale49.
Partendo dall’accettazione di questa premessa si giunge a due qualificazioni di fondo
coniate per l’impresa mafiosa. La prima vuole introdurre il concetto di impresa-stato,
leggendo così l’impresa nel senso di braccio operativo di una più ampia associazione,
quella mafiosa, abituata a reputare se stessa una forma alternativa di Stato. Tale ottica
coglie il senso di appartenenza vantato dall’impresa mafiosa nei confronti della sua
associazione-Stato, con la quale appunto instaura un rapporto di filiazione, di identità
di codici e di obbligazioni morali, di compenetrazione di condotte, e perfino di
coincidenza di persone50. La seconda qualificazione privilegia invece la funzione di
agente di trasformazione sociale connaturata all’impresa mafiosa. Nel momento in cui
opera su un determinato territorio, vi traferisce i suoi metodi apportando
modificazioni al contesto sociale e imponendo brutalmente le sue leggi attraverso i
delitti. Agendo in qualità di impresa-stato non potrà dunque fare a meno di incidere
sull’organizzazione della società circostante51.
L’imprenditoria sana subisce una distorsione ogniqualvolta l’attività di produzione di
beni e servizi, secondo l’efficiente combinazione di mezzi, risorse e strutture, avviene
mediante l’ausilio di due risorse per così dire speciali. La violenza ed un capitale di 49 N.Dalla Chiesa, L’impresa mafiosa, p.41.50 R.Catanzaro, L’impresa mafiosa. Appunti su un concetto problematico, in Alessandra Dino (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso, Mimesis, Milano-Udine, 2009.51 Dalla Chiesa, op.cit., p.42.
45
provenienza illecita si atteggiano a vero know-how dell’imprenditore mafioso.
Nessuna strategia di marketing, zero tecnologie all’avanguardia, la posizione di
dominio si raggiunge con risorse più elementari. Nel tracciare una classificazione a
grandi linee, il carattere di mafiosità per un’impresa sarà intuibile dalla presenza di
almeno uno dei due “vantaggi” citati. Il mafioso non si preoccuperà di discernere due
diverse strategie da seguire dinnanzi ad attività illecite o altre lecite, bensì conterà
sempre sulle fonti di ricchezza illegale a sua disposizione, sull’impiego di un metodo
mafioso violento, oppure su entrambi. In merito al capitale illecito, esso rappresenta
la fonte di energia essenziale per intraprendere o proseguire la conduzione di attività
lecite, regalando all’impresa deviata un valore aggiunto per la quotidiana
competizione di mercato; la riserva di liquidità generata dalle primarie attività
predatorie viene in tal modo reimpiegata al fine di produrre nuove utilità. La faccia
della legalità risulta indispensabile per un’opera di “pulizia” del denaro sporco. Essa
non solo consente di oscurare agli occhi dello Stato la tracciabilità di tale ricchezza,
ma parimenti offre lo strumento per moltiplicarla, scegliendo i settori e le aree
territoriali di migliore avanguardia. Di qui, la crescita della legittimazione economica,
politica e sociale di un’associazione mafiosa che, facendosi impresa per perseguire il
profitto, triplica il suo potere. Intraprendere un alto numero di attività economiche
lecite su un dato territorio, vuol dire insidiare i tessuti sociali più profondi, istituire un
univoco controllo, estorcere quanto più consenso dalla popolazione che lo vive.
Occorre ora soffermarci anche sul punto del metodo violento. Al fine di comprendere
il modus agendi dell’imprenditore, è necessario considerare la “violenza” quale
fattore produttivo. Essa esprime un metodo di produzione, entrando classicamente
nella sequela di condotte e procedure atte sia a ottenere il prodotto finale sia a
collocarlo sul mercato. Il prodotto risulterà più competitivo rispetto ad altri grazie
all’impiego di quella risorsa speciale; essa ha permesso sia di ridurre i costi in fase
produttiva strictu sensu, sia di garantire l’appetibilità di tali prodotti sul mercato per
46
la stessa capacità violenta di assicurarli. (si pensi all’offerta di protezione esercita nei
locali notturni). Inoltre, assodato il tipo di impiego appena detto, la violenza potrebbe
essere impiegata dai mafiosi per allargare i mercati di sbocco o per creare nuove fonti
di approvvigionamento delle risorse52. Nel primo caso, si guardi all’imposizione di
propri prodotti alimentari a catene commerciali o di ristorazione; nel secondo caso si
consideri, in un momento anteriore, la coartazione di produttori agricoli, in aree non
ancora inserite in determinati circuiti commerciali, per acquisire i loro beni in modo
esclusivo. Un ulteriore utilizzo della violenza può identificarsi con le bombe lanciate
sul campo del trasporto su gomma, per sgomberarlo dai concorrenti che, a loro volta,
aspirano a promuovere un analogo servizio in favore dei vari poli ortofrutticoli. I
gesti intimidatori operano in qualità di sistema protezionistico di mercato, costruendo
perciò barriere utili a scoraggiare la concorrenza o addirittura azzerarla53. In sintesi,
l’indole violenta è l’emblema dell’esportazione di un medesimo metodo in qualunque
settore economico oggetto di strumentalizzazione criminale. Accogliendo
quest’ultima prospettiva, non si incontra un cospicuo divario tra il modo d’agire della
mafia del latifondo e delle cosche odierne. A fortiori se si ribadisce un punto fermo
già da noi sostenuto con convinzione: esiste un fine gerarchicamente preordinato al
profitto, ed esso non può essere altro che il potere. La mafia è in primis
organizzazione orientata a trasformarsi in potenza.
Privata del controllo delle sue aree, seppur di esigue dimensioni, l’impresa-stato non
riuscirà a concludere affari miliardari produttori di ingenti flussi di denaro. In assenza
di potere, dunque, non può esistere profitto. Già Raimondo Catanzaro, nella sua opera
del 1988 “L’impresa come delitto”, si prefiggeva di evidenziare, seguendo una
ricostruzione storica, quanto la mafia nascesse in termini di impresa sociale, prima
ancora di assumere le sembianze di impresa mafiosa vera e propria. Quando il
campiere amministrava il vecchio latifondo per conto del nobile assenteista, già 52 N.Dalla Chiesa, L’impresa mafiosa, pp.86-89.53 S. Pellegrini, op.cit., p.67. Vedi anche P.Arlacchi, op. cit., p.102.
47
incarnava la figura di imprenditore, poiché “si avvaleva di un complesso di mezzi
organizzati extralegali per mettere a profitto quelle condizioni di privilegio ottenute
dall’esercizio di ingiustizie e brutalità sulle masse contadine”54. Mafia è sinonimo di
impresa del delitto, indirizzata sia all’accumulazione economica sia alla gestione del
consenso.
Trasponendo queste riflessioni nel panorama attuale, emerge un fenomeno
caratterizzato dall’elemento della continuità. La mafia rurale, che oggi si inserisce nel
settore dell’agricoltura, presenta evidenti affinità sia con l’operare mafioso
ottocentesco, sia con le imprese criminali che si insinuano nei settori finanziari e
commerciali di maggior attrazione, il turismo, la ristorazione, gli appalti, lo
smaltimento dei rifiuti, le energie rinnovabili. Una tesi a sostegno delle analogie
esistenti è già esposta nei diversi studi portati avanti da Nando Dalla Chiesa e,
proprio attraverso le sue parole, si coglie un dato essenziale e non trascurabile:
“L’economia mafiosa legale non è, per i mafiosi, un mondo nuovo e diverso in cui si
mettano da parte le vecchie abitudini. Non trova conferma cioè l’idea che il mafioso
che ricicla in alberghi o in cliniche o in grande imprese viva una sia pur astuta
palingenesi purificatrice. Che, preso dal nuovo ruolo e dal presunto colletto bianco,
reciti il suo “Addio alle armi”. Una quota (variabile) di violenza continua a fungere
per lui da risorsa fisiologica e decisiva per svolgere efficacemente il proprio ruolo,
anche di imprenditore legale. E viene amministrata saggiamente, sempre facendo
intendere che le bombe possono esplodere e le armi possono sparare…55”. Dalla
Chiesa ci mostra come le mafie aderiscano alla filosofia contadina del non buttare via
niente. Ogni occasione di lucro non deve essere trascurata, che si tratti della
costruzione di una grande opera pubblica o della rotonda di un piccolo paese. In un
secondo momento, una volta conquistato il campo d’interesse, sarà opportuno trarre 54 R. Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Liviana, Padova, 1988, p.45.55 CROSS, Secondo Rapporto trimestrale sulle aree settentrionali, per la Presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso, Università degli Studi di Milano, 2015, p. 180ss.
48
da esso qualunque vantaggio configurabile, non solo in termini economici ma anche
relazionali, giudiziari, politici, reputazionali. La costante ricerca di vantaggi di
sistema attribuisce al fenomeno mafioso la caratteristica di sistema di potere in
continua espansione. Si coglie qui l’essenza del messaggio che il confronto proposto
ha voluto trasmettere.
Il progetto criminoso operante sui terreni si articola in due fasi: la prima azione
presuppone un’infiltrazione diretta o indiretta nella gestione di aziende agricole,
quelle susseguenti, una volta instaurato il saldo controllo, saranno poi funzionali ad
estrapolare il maggior guadagno auspicabile. Riemerge ancora una volta la duplicità
dei fini, potere e profitto, congiuntamente perseguiti in quanto essenziali. La strada
percorsa avrà come sbocco primario l’ottenimento fraudolento delle erogazioni
pubbliche previste per il settore di cui si sta trattando. E’ a tal proposito che il breve
paragrafo che segue, si incentrerà sul tema dei finanziamenti europei per il sostegno
all’agricoltura, focalizzandosi sulle usuali truffe che quotidianamente vengono
perpetrate ai danni dello Stato e della classe di agricoltori più onesti.
5. La mafia dei terreni si fa imprenditrice: connubio tra clan e zona grigia per le truffe ai fondi pubblici.
La trattazione delle misure di sostegno all’agricoltura non può concedersi il lusso di
svincolarsi rispetto a quella ampia politica agricola comune (PAC) che, in sede
europea, fissa la cornice da osservare per l’erogazione concreta di fondi pubblici da
destinarsi alle produzioni agricole, al settore rurale e ai soggetti ivi impiegati. Il
Trattato istitutivo della CEE, firmato a Roma nel 1957, sanciva nel Titolo II dedicato
all’agricoltura, e precisamente all’articolo 3856, l’esigenza di adottare una Politica
comune in grado di disciplinare, secondo regole omogenee per tutti gli Stati membri,
56 Vedi articolo 38 del Trattato istitutivo della CEE, disponibile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:11957E/TXT&from=IT
49
quei prodotti agricoli inseriti ormai nel vecchio mercato comune europeo. L’attuale
formulazione dell’articolo 38 TFUE57, risalente alla firma del Trattato di Lisbona nel
2009, si preoccupa di ribadire che “L’Unione definisce e attua una politica comune
dell’agricoltura (…)”. Dalla lettura delle disposizioni citate emerge, prima facie, uno
dei due pilastri costitutivi della PAC, avente ad oggetto il mercato. Essa si
caratterizza, infatti, per la contestuale previsione di una politica di mercato e di un
programma di interventi strutturali, raggruppati nel secondo pilastro e oggi studiati
per la promozione del cosiddetto sviluppo rurale. Le due macro aree di intervento
verranno finanziate rispettivamente dalle risorse contenute in due diversi fondi: il
Fondo europeo agricolo di Garanzia (FEAGA), a copertura del primo pilastro e fin
dalle origini complessivamente più ricco, ed il Fondo europeo agricolo per lo
sviluppo rurale (FEASR), solitamente meno cospicuo. Nonostante la competenza
concorrente, e non esclusiva, dell’Unione in materia agricoltura, l’osservazione
pratica della realtà ha dimostrato un accentramento di potere nelle mani delle
istituzioni europee per l’attuazione della politica di mercato perseguita dal primo
pilastro. Ciò a discapito degli Stati membri, ai quali viene generalmente lasciato un
ridottissimo spazio di azione. Fin dal 1962 la disciplina di mercato dei prodotti
agricoli era contenuta all’interno di una pluralità di OCM, create per categorie o
singoli prodotti e dotate di una struttura organizzativa di tipo europeo. Oggi invece le
tante OCM sono sostituite da un’unica OCM. Introdotta dal Regolamento (CE)
n.1234/2007, incorpora in esso tutte le norme della politica di mercato, rendendosi
validamente applicabile a 21 comparti agricoli58. Essa dunque si pone a valle di
un’opera di semplificazione e razionalizzazione della PAC. L’obiettivo di fondo non
è quello di apportare mutamenti sostanziali, ma di offrire un quadro giuridico unitario
riempito da regole comuni inerenti il mercato interno e da disposizioni relative agli 57 Cfr. Articolo 38 TFUE, disponibile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:12012E/TXT&from=IT 58 Vedi OCM unica, in pagina web Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, Politiche europee, Politica agricola comune.
50
scambi commerciali con i Paesi terzi. Se il primo pilastro ha da sempre privilegiato
una struttura fortemente europeizzata, il secondo ha al contrario lasciato agli Stati
membri alcuni margini di discrezionalità. Il disegno stilato per incentivare lo sviluppo
rurale viene infatti attuato con l’ausilio degli Stati membri, e con politiche nazionali e
regionali orientate verso il fine ultimo di crescita e innovazione. In tale cornice si
inseriscono le ultime riforme della PAC, studiate in vista di una razionalizzazione
degli interventi di finanziamento, hanno apportato una seria rivoluzione ai metodi di
assegnazione degli aiuti. Già a partire dalla Riforma Fischler del 2003, il regime dei
pagamenti diretti, quale forma di sostegno diretto al reddito degli agricoltori, aveva
subito un cambiamento di rotta prevedendo un sistema slegato rispetto ai tipi di
prodotti coltivati. Si parla in tal senso di disaccoppiamento degli aiuti59. A questa
novità se ne aggiunge un’altra che, in veste di condizione di ammissibilità per
l’ottenimento dei benefici, esige dai richiedenti il rispetto di un insieme di misure di
tutela ambientale.
Sulla base delle caratteristiche descritte, la riforma della PAC 2014-2020 investe tre
macro aree di intervento, riorganizzando i settori dei pagamenti diretti, del mercato
interno ed infine dello sviluppo rurale. Per il primo campo di applicazione, l’Italia
fissa cinque tipologie di pagamenti corrisposti grazie al massimale nazionale fissato
per ogni Stato membro in sede europea. Il 58% delle risorse è riservato ai pagamenti
di base: gli agricoltori otterranno i diritti all’aiuto mediante una domanda unica,
purchè soddisfino i requisiti per essere considerati agricoltori in attività previsti dai
vigenti decreti ministeriali. Seguono i pagamenti per le pratiche agricole benefiche
per il clima e l’ambiente “greening”, alle quale sono destinate il 30% delle risorse, i
pagamenti per i giovani agricoltori (1%); i pagamenti accoppiati (11%); ed infine i
pagamenti per i piccoli agricoltori60.
59 Cfr. Agriregionieuropa.univpm.it, Servizi, Glossario PAC. 60 Consulta Pagamenti diretti, in pagina web Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, Politiche europee, Politica agricola comune.
51
Gli agricoltori che aspirino a diventare beneficiari di tali misure di sostegno,
dovranno presentare una domanda unica annuale all’Organismo pagatore
territorialmente competente. Ogniqualvolta una Regione ne sia priva, al suo posto
agirà direttamente l’Agea (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura). Essa si presenta
nel duplice aspetto di Organismo di Coordinamento e di Organismo pagatore italiano.
Nello svolgimento della prima funzione si farà vigilante e controllore degli
Organismi pagatori territoriali, mentre nella seconda si appresterà a determinare gli
importi da pagare ai richiedenti, e sostanzialmente impartirà istruzioni per
l’elargizione delle somme di denaro agli istituti “cassieri”61. Le funzioni illustrate
chiariscono il ruolo cardine giocato dall’Agea per il trionfo delle infiltrazioni
criminose. Le associazioni mafiose non tentennano dinnanzi alla possibilità di
architettare truffe milionarie pur di accedere indebitamente ai finanziamenti europei.
Il comparto agricolo e zootecnico rappresenta lo sbocco naturale di progetti
truffaldini ideati per guadagnare denaro sporco, eludendo così le leggi dell’onestà
imprenditoriale. Le cospicue frodi ai fondi dell’Unione avvengono perlopiù tramite
condotte standardizzate e colpiscono maggiormente quel package di aiuti, diretto ad
integrare il reddito e facilmente aggredibile perché attribuito sulla base degli ettari di
superficie coltivati purchè se ne dimostri la disponibilità. Le pratiche in uso vedono il
verificarsi di interposizioni fittizie o la creazione di società ad hoc per l’elusione dei
controlli antimafia sempre più fitti. Il ricorso ai noti “uomini di paglia”, e cioè
prestanome dalla faccia e le tasche pulite, così come la nascita di società cartiere,
serviranno ad oscurare la reale proprietà delle superfici terriere. Laddove invece
questa manchi, è solita un’abusiva acquisizione del terreno all’insaputa dei legittimi
proprietari oppure, in maniera evidente, servendosi di atti intimidatori e incendiari
che costringeranno loro a cedere il possesso. Naturale conseguenza di tali due ipotesi
sarà l’utilizzo di false attestazioni sull’effettivo possesso dei beni e sulla loro reale 61 Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura https://www.agea.gov.it/portal/page/portal/AGEAPageGroup/HomeAGEA/ChiSiamo
52
destinazione d’uso62. Dichiarare il falso è certamente prodromico a frodare quanto più
denaro possibile. Non si può comunque omettere di precisare, che l’efficace riuscita
di tali truffe da capogiro sia assicurata da accordi silenziosi conclusi tra la mafia,
professionisti, pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio. Le prestazioni della
cosiddetta “zona grigia”, si traducono nell’astensione dai dovuti doveri di vigilanza e
controllo durante il proprio ufficio e nella classica funzione relazionale informativa.
Si ricordi quanto l’instaurazione di rapporti clientelari sia essenziale per l’agire
mafioso. Ricevere informazioni riservate in merito a funzionari di pubblici uffici
corruttibili e acquisire suggerimenti sui percorsi più agevoli da seguire, è senza
dubbio un punto di vantaggio per l’illecito accesso ai fondi. Si coglie a pieno la vera
forza dei legami laschi, inserita in quella tela senza il ragno di cui parlava Rocco
Sciarrone. La strategia criminale atta a coinvolgere figure esterne all’associazione,
ma in possesso delle giuste competenze tecniche, si presenta ideale per sfruttare e far
fruttare le risorse primitive della malavita. Qui si inserisce la consapevolezza già
espressa da Nando Dalla Chiesa in un chiaro aforisma: “La forza della mafia sta fuori
dalla mafia”.
Talvolta, inoltre, le truffe hanno successo per un atteggiamento non doloso, ma
colposo, degli organismi privati ai quali l’AGEA delega i compiti di istruttoria dei
fascicoli aziendali. I centri di assistenza agricola, conosciuti sotto l’acronimo CAA,
operano da intermediari tra i titolari delle aziende, dai quali ricevono l’incarico, e
l’AGEA. A questi spetta predisporre, validare e inviare agli Organismi pagatori le
istanze di erogazione degli incentivi. Secondo alcuni, sarebbero addirittura i CAA il
vero buco nero, quando nei controlli della documentazione relativa alla proprietà dei
terreni operano secondo superficialità e negligenza, non sussistendo a loro capo un
reale obbligo di vigilanza circa la veridicità della stessa. Il rischio è il rilascio di
un’attestazione di regolarità conseguente ad un mancato accertamento, ma
62 Cfr. C.Troiano, Rapporto zoomafia 2016 LAV, Roma, 2016, p. 41.
53
autorizzativa alla percezione dei contributi. Altre volte la funzione dei CAA si
macchia dell’elemento di colpevolezza doloso. Emblema di un esempio concreto
l’indagine portata avanti dalla Guardia di Finanza di Acireale nei confronti di tre
imprenditori agricoli, residenti nel catanese, e tre operatori dei Centri di Assistenza
Agricola, accusati di aver agito in concorso nella condotta di truffa aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche, punita ex art 640bis del codice penale. Gli
indagati, destinatari di un provvedimento di sequestro preventivo dal valore di
230mila euro emesso dal giudice per le indagini preliminari, erano accusati di aver
presentato falsi titoli di possesso dei terreni, quali contratti di comodato d’uso o
d’affitto, mentre i reali proprietari ne erano completamente ignari. Da un’analisi più
approfondita era inoltre emerso che alcuni dei fondi terrieri, oggetto delle domande,
appartenevano al demanio della Regione Sicilia. Gli operatori dei CAA, invece,
rispondevano per aver predisposto ed inoltrato le richieste corredate da falsa
documentazione, avendo tenuto nascosto il fascicolo63.
In questo modo, l’ingegnoso sistema della criminalità produce le sue vittime,
colpendo non solo imprenditori privati, bensì istituzioni preposte alla custodia dei
terreni demaniali. In merito alla tematica delle concessioni demaniali si deve
ricordare un’innovazione di recente conio che permette oggi di effettuare controlli più
serrati.
Il riferimento corre al Protocollo di Legalità, che oltre a portare il nome di Giuseppe
Antoci, è ormai confluito nel Codice Antimafia. Il contenuto di questo documento,
simbolo di un’ àncora di legalità gettata nel comparto agricolo, verrà analizzato nel
dettaglio nel Capitolo III. In questo momento della trattazione ci limitiamo a citare la
“Operazione Nebros”64, prima applicazione del Protocollo, al fine di evidenziare la
63 Redazione, Acireale truffa da 230 mila euro per fondi agricoli. Falsi contratti su persone morte o terreni pubblici, in Meridionenews, Edizione Catania, 28 luglio 2017. 6464 Vedi anche D.i.a, Relazione 1º semestre 2017, Provincia di Catania: “Il 14 febbraio 2017 in provincia di Catania, nell’ambito dell’operazione “Nebrodi” condotta dall’Arma dei Carabinieri anche nelle province di Messina e Ragusa, è stato eseguito il decreto di fermo di indiziato di delitto p.p. n.
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premura delle cosche mafiose nel perseguire profitti anche sui fondi di proprietà del
demanio. L’attività investigativa preliminare è stata promossa dal Comando
Provinciale di Enna e si è indirizzata alla verifica della legittimità delle richieste di
accesso agli aiuti promosse da tutti i titolari delle aziende agricole dislocate su tre
Comuni, Troina, Cerami e Cesarò, ricadenti all’interno del Parco dei Nebrodi
siciliano. L’interesse delle cosche viene di solito accresciuto dalla previsione di più
alti punteggi, attribuibili ad eventuali beneficiari che operino nelle zone montane di
per sé sfavorite. Le indagini sono sfociate nella denuncia, da parte delle Fiamme
Gialle di Nicosia, di due imprenditori agricoli e titolari di aziende operanti
nell’allevamento del bestiame. I due, con fare mendace, avrebbero attestato, nei
relativi fascicoli aziendali, la disponibilità di terreni demaniali di proprietà
dell’Azienda Speciale Silvo Pastorale di Troina. La concessione dei fondi era
giustificata sulla base di contratti d’affitto stipulati anteriormente con l’Ente.
L’obiettivo ultimo di questi era espresso sostanzialmente dalla lecita possibilità di
accaparrarsi fondi pubblici in erogazione. È necessario puntualizzare, però, che i due
imprenditori erano già destinatari di apposita informazione interdittiva antimafia, la
quale, alla luce delle regole inserite nel Protocollo, sanciva la perdita del diritto
dell’uso in concessione delle aree demaniali, previa comunicazione della avvenuta
rescissione da parte dell’Ente concedente, in tal caso L’Azienda Speciale Silvo
Pastorale di Troina. Esito inequivocabile dell’applicazione delle leggi coincideva con
l’impossibilità di accedere, da un punto di vista giuridico, ai finanziamenti europei
così stanziati. Le denunce alla Procura della Repubblica di Patti imputavano, ai
probabili responsabili, il reato di falso in atto pubblico quale presupposto per
7162/2016 emesso dalla DDA di Catania il 13 febbraio 2017, nei confronti di 9 persone affiliate alla famiglia SANTAPAOLA-ERCOLANO ed operanti anche nei territori catanesi di Bronte, Maniace e Randazzo i quali, al fine di accedere ai contributi per l’agricoltura erogati dall’Unione Europea, avevano cercato di accaparrarsi, mediante l’utilizzo della forza intimidatrice tipica del metodo mafioso, con aggressioni nei confronti degli allevatori, la gestione di estesi appezzamenti agricoli appartenenti a privati cittadini”.
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l’indebito conseguimento, e dunque la truffa, di sovvenzioni europee65. L’operazione
Nebros dimostra quanto le regole ideate dal Protocollo siano un primo passo avanti
per smantellare un sistema che opprime l’agricoltura da lunghi anni. Le ritrosie a
denunciare, sia da parte di contadini vessati, che vengono letteralmente cacciati via
dalla propria terra, sia da parte di molti funzionari, che ricoprendo il loro ufficio
fiutano i meccanismi truffaldini, consentono ugualmente di assumere contezza di un
fenomeno radicato da tempo. E’ quanto emerge nel viaggio d’inchiesta durato cinque
lunghi anni tra le campagne della Sicilia e guidato da due giovani giornalisti,
Alessandro Di Nunzio e Diego Gandolfo. Nonostante la grande evocatività racchiusa
nel titolo “Fondi rubati all’agricoltura”66, colpiscono ancor di più alcuni passaggi
simbolici utili a denunciare il complesso giro d’affari che può ruotare attorno ad un
elemento semplice, ma essenziale, qual è il terreno.
Si racconta del boss Salvatore Seminara, presunto capo di Cosa Nostra per la
Provincia di Enna, quando, approfittando dell’assenza della richiesta di esibire una
certificazione antimafia al di sotto di predeterminate soglie, avrebbe rubato circa
700mila euro di contributi, appoggiandosi alla complicità della moglie e
distribuendoli su un arco temporale di dodici anni.
A fortiori, si resta increduli quando i fondi dell’Unione hanno finanziato attività
completamente estranee al mondo dell’agricoltura. In contrada Mimiami, in Provincia
di Caltanissetta, sorgeva l’azienda agricola di Paolo Farinella, frutto del riciclaggio
dei proventi illegalmente acquisiti negli appalti. Siamo di fronte a trecento ettari
finanziati dall’Ue con più di 1 milione di euro. Si fa fatica a credere che qui trascorse
parte della sua latitanza il boss Bernardo Provenzano, e sconvolge sapere che grazie
ai benefici europei la zona venne trasformata in una “riserva di caccia” per gli
esponenti più in vista di Cosa Nostra. E’ lo stesso collaboratore di giustizia, Angelo
65 Redazione, Azienda Silvo Pastorale Troina. Truffa all’ Ag.E.A. per 280 mila euro. Gdf denuncia due imprenditori agricoli, www.vivienna.it, 31 gennaio 2017.66 Inchiesta A. Di Nunzio, D.Gandolfo, Fondi rubati all’agricoltura, 2015.
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Siino, a definire questo latifondo “un luogo di delizie”. In questo quadretto bucolico
il denaro europeo divenne lo strumento eccellente per reinvestire cospicui capitali nel
mondo dell’edilizia, ponendo così fuori gioco il resto della concorrenza.
II Un’analisi dei reati tipici: l’escalation criminale nei campi e la soggezione di allevatori e agricoltori.
1.Dalla minaccia all’estorsione al cavallo di ritorno. 1.1. Operazione Pietranera. 2. Furti di mezzi agricoli, danneggiamenti a campi e colture e pascolo abusivo. 3. I reati di abigeato e macellazione clandestina: gli alti rischi di un fenomeno in espansione.
1. Dalla minaccia all’estorsione al cavallo di ritorno.
Il progetto realizzato nel primo capitolo, volto a sospingere il lettore verso uno
sguardo d’insieme critico e consapevole, abbisogna di essere integrato da una
prospettiva rigorosamente giuridica. Ivi si inserisce il secondo capitolo, promuovendo
un’analisi specifica dei singoli reati usualmente commessi dalle organizzazioni
criminali. La narrazione si svolgerà enucleando fattispecie di reato tipiche sussumibili
nella più ampia categoria dei delitti contro il patrimonio, collocati all’interno del
codice penale, e precisamente nel titolo XIII del libro secondo. La struttura
sistematica del codice penale italiano, prevede una prima ripartizione indirizzata a
suddividere il titolo anzidetto in due principali capi: i delitti commessi mediante
violenza alle cose o alle persone, contenuti nel Capo I, e i delitti compiuti mediante
frode, rappresentanti il Capo II. La partizione così delineata, non avulsa da critiche di
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parte della dottrina, consente di tenere distinte le modalità di realizzazione della
fattispecie, classificando le condotte penalmente rilevanti in base alle modalità
proprie di estrinsecarsi. L’accettazione del criterio di suddivisione tradizionale, non
esclude tuttavia la possibilità di accennare a teorie più innovative utili per introdurre
la trattazione del primo reato oggetto di nostra discussione, quale è l’estorsione.
Quest’ultima rientrerebbe infatti in quella categoria dei “reati in contratto”,
distinguibili dai meri “reati contratto”. Nei primi viene valorizzato il modus agendi
del soggetto passivo nel procedimento di formazione del contratto o nella fase
esecutiva dello stesso67, attribuendo ad esso una rilevanza penale. Si parla, a tal
proposito, di cooperazione artificiosa della vittima, poiché la sua condotta, di solito
esplicitata mediante un atto di disposizione patrimoniale, contribuisce di fatto alla
produzione del pregiudizio inflitto al proprio patrimonio. Il risultato negativo che si
verifica, legittima la sanzione penale prevista nei confronti del soggetto attivo del
reato. Egli è sottoposto a punibilità proprio in virtù dell’atteggiamento assunto nella
fase cruciale di formazione della volontà. La manifestazione di quest’ultima, da parte
del contraente “più debole”, ha subito un condizionamento che permetterà di
imputare in capo al reo una responsabilità di natura penale. Diversamente da tali
ipotesi, la categoria dei “reati contratto” coinvolge una persona offesa priva di
iniziativa, e al contrario limitatasi a subire l’evento dannoso. Risulta evidente
l’inserimento del reato eccellente di estorsione, giacché perpetrato dalle cosche
mafiose senza tregua nei tempi, all’interno del primo gruppo. Il dettato dell’art 629
del codice penale si prefigge di punire la condotta di “Chiunque, mediante violenza o
minaccia, costringendo taluno a fare od omettere qualche cosa, procura a sé o ad
altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Il testo letterale costituirà il punto di
partenza per soddisfare il nostro proposito di analizzare il significato dei termini,
cercando di cogliere le connessioni esistenti, siano esse esplicite o implicite, con
67 R.Garofoli, Manuale di diritto penale, Parte Speciale, Tomo 3, Nel Diritto Editore, Roma, 2013.
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l’agire dei sodalizi mafiosi. E’ premura ribadire l’appartenenza del reato in oggetto al
plesso dei delitti contro il patrimonio. Esso viene appunto leso da quell’atto di
disposizione patrimoniale posto in essere dalla vittima dietro violenta sollecitudine
del reo. La condotta attiva, tradotta in un facere della vittima, oltre a
sfociare in un danno patrimoniale, presuppone a monte una coartazione della volontà
dell’offeso, e cioè una limitazione della libertà di autodeterminazione che, seppur non
assoluta, induce a compiere un atto che altrimenti non si sarebbe realizzato. Tale
riflessione coglie a pieno la natura plurioffensiva del reato estorsivo, sia verso il
patrimonio sia contro la libertà di autodeterminazione. La duplicità dell’oggetto di
tutela viene confermata da un orientamento giurisprudenziale espresso dalle sezioni
penali della Corte di Cassazione: “L'oggetto della tutela giuridica nel reato di
estorsione è duplice, in quanto la norma incriminatrice persegue sia l'interesse alla
inviolabilità del patrimonio, sia la libertà di autodeterminazione, in quanto l'evento
finale proviene dalla stessa vittima ed è il risultato di una situazione di costrizione
determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente. In particolare, il
potere di autodeterminazione della vittima non è del tutto annullato, ma è limitato in
maniera considerevole per essere posto il soggetto passivo nell'alternativa di far
conseguire all'agente il vantaggio ingiusto perseguito o di subire il pregiudizio
conseguente all'azione di quest'ultimo”68. Si noti come soggetto attivo della
fattispecie possa essere chiunque, senza necessità di peculiari qualifiche, mentre il
soggetto passivo dovrà essere titolare del potere giuridico di disporre dei beni o dei
diritti. Ciò non toglie che la condotta incriminata possa dirigersi verso un soggetto
terzo, che a sua volta influenzerà e convoglierà gli interessi voluti sul reale titolare dei
beni69. Al fine di integrare gli estremi di reato risulta però imprescindibile
ottemperare allo schema causale disegnato dalla fattispecie; trattandosi di un reato a
68 Cass. pen. Sez. II, 23 aprile 2008, n.19711, Mass. Red. 2008. 69 Garofoli, cit., 2013. 69
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evento naturalistico si presuppone un collegamento eziologico tra l’elemento della
vis, di necessaria presenza, ed il metus indotto nel destinatario. Si dovrà perciò
instaurare un rapporto di causa-effetto, in primis con la condizione psicologica della
vittima e, di conseguenza, con il suo comportamento attivo o omissivo. Il metus
generato riveste al contempo la funzione di nesso causale e di primo evento
naturalistico causato dalla condotta del reo. La visibile consequenzialità richiesta fra
la violenza o minaccia e i duplici eventi dannosi, quali l’ingiusto profitto e l’altrui
danno, giustifica l’elaborazione dottrinale della “descrizione per nota interna”,
giacché il verificarsi dell’evento non potrà avvenire sulla base di un qualunque
schema causale, ma richiede ossequio a quel peculiare iter causale previsto dalla
norma. Non volendo ora impegnarsi in un’analisi accurata delle nozioni di violenza e
minaccia, stante la loro pregnanza all’interno della fattispecie, ci limitiamo a cogliere
i profili pertinenti tra le modalità espressive della vis e il reato di estorsione. A tal
proposito, la giurisprudenza esclude la configurabilità del reato di violenza privata ex
articolo 610 del codice penale, ogniqualvolta essa sia assorbita da altre ipotesi
delittuose, che coinvolgendola le fanno assumere il carattere di sussidiarietà. Avviene
quando l’estorsione prende il sopravvento, contemplando profili di specialità. Se
infatti la res comune si identifica “nell’uso della violenza e della minaccia per
costringere il soggetto passivo ad un comportamento commissivo od omissivo”, il
discrimen fra i due reati va rintracciato nell’ “elemento materiale, qualificato
nell'estorsione dall'ingiustizia del profitto con l'altrui danno, e nell'elemento
psicologico, caratterizzato nell'estorsione dalla consapevolezza di usare violenza e/o
minaccia, dirette a costringere il soggetto passivo a fare od omettere qualcosa, al
fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto70”. Dopo un breve accenno ai
70 App. Catanzaro, Sez I, 7 ottobre 2008, in http://www.studiolegale.leggiditalia.it. A conferma di tale orientamento cfr. Cass. pen. Sez. V, 20 gennaio 2016, n. 8639, in CED Cassazione, rv. 266079: “Integra il reato di estorsione, e non già quello di violenza privata, la condotta consistita nel costringere, mediante violenza o minaccia, un imprenditore ad effettuare un'assunzione non necessaria, sussistendo sia il requisito dell'ingiusto profitto, conseguito dalla persona assunta e
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tratti distintivi emersi rispetto al reato di violenza privata, si intende focalizzarsi sullo
strumento in maggior uso nella prassi estorsiva, qual è la minaccia. La condotta
minatoria esprime la prospettazione di un male futuro, idonea ad incidere
concretamente sulla voluntas del minacciato. Si tratta di un rischio serio incombente
sulla vittima e la cui verificazione dipenderà sostanzialmente dal mero volere del
minacciante. A nulla rileva l’ingiustizia del male prospettato, purché il mezzo
costrittivo sia idoneo a comprimere la libertà morale del destinatario in vista del fine
ultimo dell’ingiusto profitto con altrui danno. Oggetto della minaccia può consistere
in un bene patrimoniale o non patrimoniale (quale l’onore, la reputazione), purché
mostri una determinata rilevanza giuridica. In genere, la prospettazione di un male
inerente ai rapporti sociali, quale la rottura di un’amicizia, non vale ad integrare il
delitto in questione71. Si consideri valida la seguente puntualizzazione riguardo i modi
e le forme di manifestazione della minaccia; la giurisprudenza chiarisce
l’ammissibilità di una pluralità nonché eterogeneità di forme, purché sufficientemente
idonee a produrre un metus in grado di coartare la libertà del referente. Così, la Corte
di Cassazione: “come noto, la minaccia può assumere forme molteplici (e non
necessariamente violente), in quanto può essere esplicita o larvata, determinata o
indiretta, e può rappresentarsi anche come mera esortazione o consiglio. Dal
momento che quel che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è il
proposito perseguito dal soggetto agente, volto a conseguire un ingiusto profitto, e la
coartazione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo72”. In sintesi, al
di là della ponderazione delle forme e dei metodi esternati scelti, spetta all’interprete
cogliere la presenza degli elementi materiali della condotta previsti dall’articolo 629 e
decidere se, anche dietro atteggiamenti usuali o quotidiani, si possa celare il volto di
connesso ad un'azione intimidatoria, sia quello del danno per la vittima, costretta a versare la relativa retribuzione.”.7171 Garofoli, cit., 2013. Contra vedi Cassazione, sez. II. 12 luglio 2007, n. 35484, in Riv. pen., 2008.72 Cassazione, sez. II, 23 aprile 2008, n. 19711, in Guida al diritto 2008, n.25,92.
61
una pura estorsione. La difficoltà risiede nel saper cogliere con destrezza, e subito
dopo riconoscere, le vessazioni in essere senza lasciarsi ingannare dall’abitudinarietà
sottesa a molte pratiche malavitose. La valutazione riguardo l’idoneità nonché
l’efficacia del timore procurato, viene fondata su alcuni parametri di riferimento
come le circostanze concrete, la personalità dell’agente, le condizioni soggettive
dell’offeso e le condizioni ambientali in cui esso opera73. Proprio il contesto spaziale
di riferimento, nella specie quando condizionato da “forti” connotati culturali e
politici, ha spinto parte della giurisprudenza a coniare il concetto di “estorsione
ambientale”. Il presunto clima di intimidazione, diffuso su alcune zone del territorio
italiano, basterebbe ad accertare l’esistenza di condotte estorsive. La tesi appena
esposta ha trovato avvallo in una recente sentenza della Corte Suprema incentrata su
un reato di tentata estorsione aggravata ex D.L. n. 152/1991, articolo 7; con la
presente, la Corte ha riconosciuto, dietro un’apparente e legale richiesta di
informazioni, la carica estorsiva della stessa. I colpevoli avrebbero infatti mantenuto
una condotta intrisa di forza intimidatrice, congrua a far sorgere in capo ai presenti il
timore per un futuro danno. La nozione di “estorsione ambientale” può ritenersi
valida a prescindere dalla conoscenza, da parte della vittima, dell’identità
dell’estorsore e del clan di appartenenza. Sufficienti saranno le modalità espressive
dell’azione, ogniqualvolta essa sia avanzata in un territorio posto sotto l’egida di
agguerriti e noti clan mafiosi74. Nonostante il tenore della sentenza citata, non sono
mancate tesi della dottrina alquanto critiche e assolutamente contrarie. La sanzione
prevista dall’articolo 629 interviene a reprimere condotte di violenza e minaccia
comprovate, giuridicamente accertabili sulla scia dei principi di legalità e tipicità,
sarebbe pertanto impensabile potersene avvalere in ipotesi di mera presunzione circa
l’immaginabile condotta dell’agente75. Di qui, la negazione di un’estorsione
73 Cass., sez. II, 16 giugno 2004, n. 37526, in CED 229727. 74 Cass. Pen., sez. II, 13 aprile 2017, n. 22976, in CED rv. 270175.75 Garofoli, cit., 2013.
62
desumibile dall’ambiente circostante nel quale e attraverso cui si agisce. Delineate le
linee essenziali della vis comportamentale del reo, è importante ribadire la stretta
connessione richiesta tra questa e la produzione del duplice evento dannoso. Quale
evento intermedio si pone la coazione psicologica dell’offeso, o meglio quella
limitazione della libertà di autodeterminazione, non in termini assoluti, bensì relativi.
La costrizione altrui postula comunque un residuo margine di autonomia grazie al
quale il soggetto passivo potrà effettivamente compiere l’atto di disposizione
patrimoniale. Atto che, in ossequio alla lettera dell’articolo esaminato, potrà tradursi
sia in una condotta commissiva che omissiva. Si preferisce aderire all’ammissibilità
di un ampio novero di condotte, dal dare o facere in senso stretto, al non facere, fino
al più semplice pati. Il confine sarà segnato dalla capacità dei singoli atti di incidere
negativamente sul patrimonio personale. Il concetto di patrimonio necessita di brevi
chiarimenti volti ad illustrare almeno quattro concezioni esistenti sul tema. I vari
significati, assunti dalla nozione di patrimonio, riusciranno pertanto ad agevolare la
comprensione delle molteplici accezioni figuranti negli ulteriori reati oggetto
d’analisi. Una prima concezione, d’ispirazione civilista, assume connotati
rigorosamente giuridici, leggendo il patrimonio come somma di diritti soggettivi
patrimoniali riconosciuti in capo ad un determinato titolare. La violazione di un
diritto esprime di per sé il disvalore, non rilevando il valore economico del bene
oggetto materiale del reato, né l’effettivo riscontro di un danno patrimoniale. Il
rischio è che rimangano prive di tutela penale quelle situazioni di fatto, non
sussumibili nello schema formale del diritto soggettivo, che pur essendo tali
meriterebbero protezione. Accanto a questa concezione giuridica, ne emerge un’altra
definita economica76. Il patrimonio è l’insieme di beni economicamente valutabili,
appartenenti ad un soggetto sulla base di una situazione di diritto o di un rapporto
meramente fattuale. Potrà configurarsi un danno solo ove sia stato leso un bene
76 F. Antolisei, Manuale di diritto speciale, Parte speciale, I, Milano, 2008, 279 ss.
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avente valore di mercato. L’interpretazione estensiva promossa da tale accezione di
patrimonio comporta conseguenze giuridiche inaccettabili, ovvero il riconoscimento
di tutela anche nei confronti di beni economicamente rilevanti che siano entrati
illecitamente nella sfera di disponibilità del soggetto, instaurando con lui un rapporto
di fatto. Si pensi al bene che originariamente rubato dal ladro, potrebbe ricevere tutela
se nuovamente rubato da terzi77. Al vulnus proprio della teoria economica pone
rimedio un’altra concezione di sintesi, denominata economico-giuridica. Essa
intravede nel patrimonio il “complesso dei rapporti giuridici (tali per essere
riconducibili al diritto soggettivo o perché espressamente riconosciuti, o anche solo
perchè non disapprovati dall’ordinamento) economicamente valutabili che fanno
capo ad una persona78”. Seguendo questa ricostruzione si riescono ad inglobare
nell’area penalmente tutelata tutti i rapporti giuridici, escludendo per natura le
relazioni illecite, che mostrino un contenuto economico. La delimitazione così
effettuata trascura di contemplare però i legami di natura affettiva, che in virtù di una
diversa teoria, cosiddetta giuridico-funzionale-personalistica, assumono un ruolo di
estrema centralità. A partire dai principi portanti del dettato costituzionale, si
valorizza il primato della persona; il patrimonio si appresta ad indicare la totalità dei
beni e dei rapporti tesi, in funzione strumentale, alla autorealizzazione ed allo
sviluppo umano. Essendo valorizzata la funzione strumentale del patrimonio, si
legittima la punibilità di tutte le aggressioni in grado di alterarla, ricomprendendo
quelle che abbiano per oggetto cose di solo valore affettivo79. Tornando ora al reato
principe dell’estorsione, si nota come il concetto di patrimonio venga qualificato
dall’espressione “qualche cosa”, idonea ad accogliere un’interpretazione piuttosto
ampia, slegata dalle cose materiali e diretta verso ogni elemento attivo del patrimonio
(si tratti di rapporti giuridici o aspettative di diritto vantate su taluni beni). Elementi
77 F. Mantovani, Diritto penale, Parte speciale, Delitti contro il patrimonio, II, Padova, 2009, 18.78 Carmona, Tutela penale del patrimonio individuale e collettivo, Bologna, 1966, 66. 79 R.Garofoli, cit., 2013.
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necessari del reato saranno dunque rappresentati dall’ingiusto profitto e dall’altrui
danno. Eventi autonomi fra loro, il cui verificarsi pur non implicando una
connessione reciproca risulterà necessario. Secondo un’opinione pacifica anche il
danno dovrà consistere in un’effettiva diminuzione di natura economica sul
patrimonio della persona offesa80. All’opposto, invece, per la giurisprudenza e
dottrina dominanti, l’ingiusto profitto per sé o per altri potrà tradursi in qualsiasi
utilità, anche di natura non patrimoniale, diretta o indiretta, immediata o temporanea.
Così, a conferma di tale orientamento si esprime la Cassazione: “in particolare non è
esatto quanto assume la difesa del C. G., secondo cui non ricorrerebbe l'elemento
costitutivo dell'ingiustizia del profitto e non sarebbe neppure ravvisabile un nesso
causale diretto tra violenza e vantaggio patrimoniale dei terzi, in materia questa
stessa Sezione, in una fattispecie in cui la condotta intimidatrice risultava funzionale
ad un vantaggio patrimoniale, seppure indiretto, dei soggetti agenti (sentenza 17
novembre 2005, n. 29563), ha affermato il principio che nel delitto di estorsione,
l'elemento dell'ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo
economico, che l'autore intenda conseguire e che non si collega ad un diritto o è
perseguito con uno strumento antigiuridico (come nel caso di minacce, percosse o
lesioni) o ancora con uno strumento legale, ma avente uno scopo tipico diverso81”. Il
profitto viene inoltre delimitato dall’aggettivo “ingiusto”. Il significato da attribuirvi
coniuga precisazioni di vario stampo: ogniqualvolta il nostro ordinamento riconosca
in via diretta (in termini di pretesa da far valere in giudizio) o indiretta (nel senso di
legittimare il diritto di ritenere quanto spontaneamente adempiuto) quel dato profitto,
esso non potrà mostrarsi quale ingiusto, ma anzi dovrà considerarsi ammissibile.
Donando completezza a questa tesi interpretativa, ai fini della configurabilità del
delitto di estorsione, il carattere dell’ingiustizia dovrà desumersi da una attenta
comparazione tra i mezzi utilizzati e i vantaggi presi di mira. Laddove la coartazione 80 Garofoli, cit., p.75.81 Cass., sez. II, 31 marzo 2008, n. 16658, in CED 239780.
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sia realizzata tramite mezzi illeciti e antigiuridici, non vi è dubbio circa la illegittimità
dei fini perseguiti, e di conseguenza sull’integrazione piena del reato estorsivo.
Diversamente, ove i mezzi siano secundum iurem, occorre verificare se i mezzi in uso
inseguano i fini tipici prestabiliti dalla legge oppure no. In quest’ultimo caso è chiara
la rilevanza penale della condotta in essere82. Imprescindibile la consapevolezza,
nonché la volontà, che la propria azione procuri un ingiusto vantaggio con altrui
danno. L’elemento soggettivo si presenta infatti come un dolo generico83, poiché gli
eventi anzidetti appaiono elementi costitutivi del reato, oggetto di rappresentazione
nella mente del soggetto agente. E’ necessario, in via preventiva, acquisire la
consapevolezza di versare in una condizione contra ius e di volervi permanere. La
pacifica accettazione delle premesse enunciate, dovrebbe far coincidere il momento
consumativo del reato con la verificazione dell’ultimo dei due eventi, ove essi non
siano simultanei. Per salvaguardare la natura di reato di danno, si avrà consumazione
allorquando sia stato aggredito il patrimonio con relativa diminuzione della sua
funzione strumentale. La struttura della fattispecie delittuosa consente di ammettere la
punibilità del tentativo nella duplice sfaccettatura di tentativo incompiuto o compiuto.
Nella prima ipotesi, l’azione criminosa non sarà completamente posta in essere;
mentre nella seconda, esaurita integralmente l’azione, mancherà la realizzazione degli
effetti dannosi. A tal proposito, appare appropriato rimembrare una precisazione
emersa in una recente sentenza della Corte Suprema in merito alla possibile
configurabilità dell’istituto della desistenza volontaria: “nei reati di danno a forma
libera la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è
configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo
causale capace di produrre l'evento, rispetto ai quali può, al più, operare la
diminuente per il cd. recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che
82 F. Antolisei, Manuale di diritto speciale, Parte speciale, Milano, 1999, 401 ss. In merito vedi anche Cass. 16658/2008 riv 239780; Cass. 43769/2013 Rv. 257303; Cass. 29563/2005 Rv. 234963. 83 Cfr. Cassazione pen., sez. II, 4 febbraio 2010, n. 4828, in http://www.studiolegale.leggiditalia.it.
66
valga a scongiurare l'evento. Ne consegue che, nel caso di esecuzione
monosoggettiva del reato, in tanto può sussistere la desistenza, in quanto l'agente
abbandoni l'azione criminosa prima che questa sia completamente realizzata": Cass.
39293/2008 Rv. 24134084”. Nella medesima sentenza, la Corte continua provvedendo
a ribadire i presupposti necessari per dirsi esistente una tentata estorsione: “Quindi, la
minaccia profferita dal S. alla Di Masi, deve ritenersi atto idoneo ai sensi del
combinato disposto degli artt. 56- 629 cod. pen. proprio alla stregua di quella
giurisprudenza che il ricorrente ha copiosamente invocato, in quanto l'accertamento
dell'idoneità e della direzione non equivoca degli atti del tentativo deve essere svolto
sulla base di un giudizio "ex ante" che tenga conto delle intrinseche connotazioni
dell'atto stesso, e, quindi, della concreta situazione ambientale in cui l'atto è stato
posto in essere, nonchè della connotazione storica del fatto, delle sue effettive
implicazioni con riferimento alla posizione dell'agente e del destinatario della
condotta e del suo significato alla luce delle consuetudini locali, restando, quindi,
priva di rilievo la capacità di resistenza dimostrata, dopo la formulazione della
minaccia, dalla vittima: Cass. 34242/2009 Rv. 244915; Cass. 197/2011 Rv. 251493;
Cass. 12568/2013 Rv. 255538”. Il confine tra tentativo e consumazione, nonché la
soglia di punibilità, sembrano così ben delineati, pur non mancando filoni
giurisprudenziali dai toni polemici e dissenzienti. Si è ritenuta punibile, a titolo di
consumazione e non di mero tentativo, la consegna materiale della cosa dal soggetto
passivo all’estorsore, in modo che questi ne abbia acquisito il possesso, anche qualora
sia stato predisposto un servizio di polizia per sorprendere l’agente in fase esecutiva
ed esso abbia provveduto all’arresto in un tempo immediatamente successivo
all’avvenuta consegna della cosa. Pur rendendo possibile il ripristino della situazione
quo ante e dunque la restituzione del bene estorto all’avente diritto, secondo questa
interpretazione minoritaria, si dovrebbe parlare di estorsione consumata e non solo
84 Cass., sez. II, 8 maggio 2015, n.24551, in CED, rv. 264226.
67
tentata. Al fine di non fuoriuscire dall’ipotesi di tentativo, il servizio di polizia
dovrebbe essere in grado di giocare d’anticipo intervenendo ancor prima della
consegna del bene, e dunque dell’immissione dello stesso nella materiale
disponibilità del ricevente85. La critica movibile all’ approccio sovra-esposto, palesa il
rischio di anticipare eccessivamente la soglia di punibilità, spostando la
consumazione del reato ad un momento anteriore rispetto all’effettiva lesione
patrimoniale. L’ulteriore rischio condurrebbe ad accettare il dolo specifico quale
elemento soggettivo, al posto di un più corretto dolo generico già enunciato. Il
semplice impossessamento del bene o del denaro in via precaria, non permette difatti
di vantare una disponibilità effettiva nel tempo e nello spazio, rendendo impossibile
qualunque nocumento. Il quadro giuridico descritto pretende di essere arricchito da
un’analisi specifica inerente le circostanze aggravanti applicabili al reato estorsivo. Il
D.l. n. 152/1991 convertito in legge 203/1991, contempla all’articolo 7 la
commissione del fatto “avvalendosi delle condizioni contemplate dall’articolo 416
c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa”. L’esistenza di
tale aggravante ed il relativo aumento della pena, non esigono una condotta minatoria
diversa e speciale rispetto all’elemento costitutivo della violenza/minaccia già
previsto dall’ ipotesi base ex articolo 629 c.p. Nessun quid pluris deve manifestarsi,
ma basterà constatare ed apprendere la carica intimidatoria intrinseca alla vis del reo.
L’aggravante contenuta all’ articolo 7 permette di cogliere il punto d’origine della
capacità persuasiva manifestata dalle minacce, promuovendo una puntuale analisi
delle modalità espressive. La persuasione scaturisce dalla forza intimidatrice tipica
del vincolo associativo e di per sé sempre idonea a diffondere un clima di
assoggettamento ed omertà. La presente aggravante è oggi sostituita dall’articolo
416bis.1 del codice penale ad opera dell’intervenuto decreto legislativo n.21/2018.
Dalla data di entrata in vigore del decreto in questione si è assistito all’attuazione del
85 Cass. Pen., sez. II, 30 novembre 2012, n. 49380, in Praticanti diritto, 2013.
68
principio di delega della riserva di codice nella materia penale. Secondo questo è
doveroso provvedere al riordino della materia penale garantendo una
razionalizzazione del settore ed una maggiore conoscibilità della normativa penale in
vigore. L’eccessiva e caotica produzione legislativa di settore esige un freno, e perciò
legittima l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da
disposizioni di legge in vigore. Questa premessa conduce così all’abrogazione
dell’articolo 7 della legge n. 203/1991 e alla sua seguente sostituzione con il nuovo
articolo 416bis 1 del codice penale, rubricato “Circostanze aggravanti ed attenuanti
per reati connessi ad attività mafiose86”. Volgendo lo sguardo al profilo
contenutistico è d’immediata percezione la perfetta sovrapponibilità delle due
formulazioni, disposte per colpire le frequenti attività dei cd. fiancheggiatori. Di
conseguenza varranno le medesime considerazioni già riferibili alla previgente
aggravante. Sul punto non sono mancate puntualizzazioni di recente conio, in
accoglimento di un’interpretazione estensiva circa l’ambito applicativo
dell’aggravante stessa. La sua sussistenza si è riscontrata in tutti quei territori in cui vi
è radicata un’organizzazione mafiosa storica: “Il collegio ritiene la configurabilità
dell'aggravante prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, conv. in L. 12 luglio
1991, n. 203, ovvero l'avvalersi delle condizioni previste dall' art. 416 bis c.p. si
determina avendo riguardo ai profili costitutivi dell'azione tipica del consorzio
mafioso, consistenti nell'impiego della forza di intimidazione del vincolo associativo
e nella condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, con la conseguenza
che gli ulteriori aspetti presi in considerazione dall'art. 416 bis c.p. non assumono
valore qualificante (Cass. sez. 6 n. 1783 del 29/10/14, dep. 2015, Rv 262093).
86 Il testo dell’art. 416bis 1 così recita: “Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà.”Cfr con l’art.7 l. 203/1991: “Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà.” 87 Cass. pen. Sez. II, 30-03-2017, n. 19245, in CED, rv. 269938.
69
L'espressione del metodo mafioso in territori dove alligna da decenni una mafia
storica, come nel caso della 'ndrangheta regine può essere riconosciuto anche
attraverso riferimenti "contratti", se non impliciti, al potere criminale
dell'associazione, noto ai consociati (Cass. sez. 2 n. 32 del 30/11/2016, dep. 2017, rv
268759)”87. I giudici di legittimità si mostrano decisi concludendo per l’applicazione
dell’aggravante del metodo mafioso di fronte a riferimenti, anche impliciti o contratti,
accennati dal soggetto agente verso il potere criminale di un’associazione
storicamente radicata su quel dato territorio. Proprio l’infiltrazione risalente nel
tempo rende ben conoscibile alla collettività il potere del gruppo richiamato88. Il mero
accenno è in grado di suscitare timore nella psiche delle vittime per eventuali danni
che loro potrebbero subire. Il metus generato non è altro che il fisiologico prodotto
della forza di intimidazione, promanante dal vincolo associativo, che permette di
coartare i presenti. Trarre vantaggio dal “metodo mafioso” vuol dire avvalersi delle
utilità connesse alle condizioni richiamate dall’articolo 416bis, quali la forza di
intimidazione e la condizione di assoggettamento ed omertà. Quest’ultima è tale da
confinare le vittime in uno stato di subordinazione, convincendole dell’impossibilità
di esercitare una difesa contro la prevaricazione e quel clima di reticenza diffuso a
causa della forza intimidatoria appartenente al sodalizio89. In conclusione, è notevole
quanto gli orientamenti giurisprudenziali sul punto abbiano fatto notevoli passi
87
8888 L.Rovini, La Cassazione sulla configurabilità dell’aggravante del “metodo mafioso” nei luoghi dove è radicata un’associazione mafiosa storica, in Riv. Diritto Penale contemporaneo, 21 maggio 2018. 89 De Robbio, La cd.” aggravante mafiosa” circostanza prevista dall’art. 7 del d.lgs. n. 152/1991, in Giur. merito, 2013, fasc. 7-8, p. 1617.8990 Vedi Cass., Pen., Sez. VI, 6 luglio 2007, n. 26326, secondo cui “Ai fini della configurabilità, nella condotta criminosa, della circostanza aggravante prevista dall'art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 (aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo), non basta il mero collegamento dei soggetti accusati con contesti di criminalità organizzata o la loro "caratura mafiosa", occorrendo, invece, l'effettivo utilizzo del metodo mafioso nell'occasione delittuosa”.
70
avanti, segnando il superamento di posizioni giurisprudenziali avverse. L’attuale
corrente è pacifica nel ritenere contestabile l’aggravante predetta senza aver probato
un tangibile ed effettivo ricorso a violenze e prevaricazione mafiosa90. Esse saranno
desumibili da condotte anche implicite, quali un generico riferimento a gruppi
criminali consolidati e conosciuti sul territorio in cui si opera. La formulazione
dell’aggravante ex art 416bis.1 ha inoltre suscitato qualche problematica sotto il
profilo dei principi di tassatività e determinatezza, apparendone carente. A risolvere
questa lacuna è intervenuta una pronuncia della Suprema Corte nel tentativo di
chiarire quando una condotta risulti “oggettivamente idonea ad esercitare una
coartazione psicologica sulle persone, avente i caratteri propri dell’intimidazione
derivante dall’organizzazione criminale91”. Alla Corte si riconosce il pregio di aver
raccolto, in un catalogo compiuto, i diversi parametri oggettivi elaborati dalla
giurisprudenza precedente al fine di valutare il carattere mafioso del comportamento
del reo. Gli indicatori prescelti attengono al contenuto delle minacce, alle modalità
della condotta del soggetto agente e al contesto ambientale in cui le azioni negative
proliferano. Tra i molteplici elementi spiccano le qualità soggettive del reo, nella
specie l’atteggiamento e la gestualità dell’agente durante la consumazione del reato,
oppure il coinvolgimento di questi in un procedimento per fatti di criminalità
organizzata; la sua vicinanza ad ambienti criminali ed in particolare i rapporti con
esponenti della consorteria criminale. Segue il rilievo che la vittima sia a conoscenza
della vicinanza dell’agente a clan mafiosi locali, o ne abbia anche solo il
“sentore”92. A conclusione dello schema subentra la considerazione attribuita ad ogni
altro elemento dotato di efficienza causale tale da evocare l’esistenza di un sodalizio, 90
9191 Vedi Cass. Pen., sez. VI, 1 marzo 2017, n. 14249, in https://www.penalecontemporaneo.it. 92 Cass., Sez. VI, sent. 23 marzo 2017, n. 14249, in Riv. Diritto penale contemporaneo, 19 settembre 2017, con nota di L. Ninni, Aggravante del metodo mafioso: la Suprema Corte propone una sintesi degli elementi probatori rilevanti per l'integrazione della circostanza di cui all'art. 7 d.l.152/1991, fasc. 9/2017, p. 165 ss.92
71
atto di per sè a conferire maggiore incisività al contributo esternato. Le conclusioni
raggiunte da tutte le riflessioni esposte sono la conferma di una contestualizzazione
ambientale imprescindibile. Le caratteristiche socio-culturali del territorio circostante
aprono la strada alla mafia silente che, al pari di una sostanza liquida, infiltra i tessuti
più profondi della società pronunciando poche parole o addirittura adottando una
semplice gestualità. Le aggravanti applicabili al reato base dell’estorsione non si
esauriscono nella disposizione appena esaminata, ma per il tema qui d’interesse
occorre richiamare il comma secondo dell’articolo 629 c.p. Il legislatore si è
preoccupato di innalzare i limiti edittali della pena dinnanzi alla circostanza della
partecipazione del soggetto agente ad un ‘associazione di stampo mafioso93. E’
pacifico ritenere applicabile la circostanza descritta all’art. 628 c.p. comma III n.3, a
prescindere da un accertamento in via definitiva riguardo l’appartenenza del de cuius
ad un clan mafioso, mostrandosi sufficiente a tal fine l’accertamento avvenuto nel
contesto di un provvedimento di merito94. La giurisprudenza è inoltre giunta a
ribadire la compatibilità fra l’art. 416bis.1 e l’art. 629 comma II, cogliendo il tratto
distintivo nei presupposti applicativi delle suddette circostanze speciali. Mentre la
prima obbliga ad un’analisi in concreto che dimostri le modalità di tipo mafioso
seguite nella attuazione delle condotte violente; la seconda non chiede un
accertamento analogo, considerando solamente se la violenza e le minacce
provengano da un soggetto appartenente ad un’associazione ex articolo 416bis95.
Entrambe le circostanze saranno dunque compatibili con i singoli reati fine, quale
potrebbe certamente essere quello estorsivo. La trattazione della fattispecie estorsiva
fin qui delineata ha messo in luce l’eterogeneità delle forme esteriori di
93 Articolo 629 c.p. comma II: “La pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 5000 a euro 15000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente.” Vedi anche articolo 628 cp comma III n.3: “se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’articolo 416bis”.94 Cass., sez. II, 4 maggio 2016, n. 33775, rv. 267850. 95 Vedi Cass., sez. I, 18 ottobre 2007, n.43633, rv. 238419.
72
manifestazione della condotta, consentendoci di annoverare in aggiunta, nell’alveo
delle modalità delittuose, un ulteriore istituto ben diffuso nella pratica malavitosa. Si
definisce “cavallo di ritorno” l’attività intrapresa successivamente alla realizzazione
di un furto, direttamente dal reo o per il tramite di un suo intermediario, volta ad
estorcere una somma di denaro alla vittima in cambio del recupero dei beni ad essa
sottratti. Ogniqualvolta l’attività prodromica alla restituzione della refurtiva sia
condotta da un intermediario, la condotta potrebbe qualificarsi in termini di concorso
di persone nel reato di estorsione, sulla base del combinato disposto degli articoli 110
e 629 c.penale. Il contributo apportato dal mediatore, di solito individuabile in un
uomo di fiducia vicino all’estorsore primario, sarà passibile di sanzione qualora
ricorrano i dovuti presupposti, così: “l'intermediario fra gli estorsori e la vittima,
anche se per incarico di quest'ultima, non risponde del concorso nel reato solo se
agisce nell'esclusivo interesse della persona offesa e per motivi di solidarietà umana,
dovendosi altrimenti ritenere che la sua opera contribuisce alla pressione morale e
alla coazione psicologica nei confronti della vittima e quindi conferisce un apporto
causativo all'evento delittuoso96”. Quel che viene a rilevare sarà la porzione di
causalità apportata al reato fine dal ruolo rivestito dal soggetto terzo. Egli avrà subito
una sanzione a causa dell’idoneità mostrata dalla propria condotta nel far conseguire
al reo l’ingiusto profitto derivato dall’altrui danno.
1.1 Operazione Pietranera.
La costante presenza di delinquenza sul campo è esemplificata da un’operazione
cardine conclusa nel Novembre 2017 dalla Procura Distrettuale Antimafia in stretta
collaborazione con la squadra mobile di Catanzaro. Le attività investigative in essere
hanno smantellato e portato alla luce un sistema di guardianie ventennali imposte a
due imprenditori agricoli operanti nel Comune di Badolato. L’impianto accusatorio si 96 Cass., sez. II, 3 luglio 2008, n. 26837, in CED Cass. 2008, rv. 240701.
73
regge sulla contestazione del reato di estorsione aggravata dal metodo mafioso, che
ha visto destinatari di lunghe vessazioni, estorsioni e donazioni coatte, una nota
famiglia di latifondisti, conosciuti sotto il nomignolo di “baroni”. L’operazione
Pietranera, avvalendosi di intercettazioni telefoniche ed ambientali, svela la realtà di
profonde insinuazioni all’interno delle aziende celate dietro un servizio di fittizia
custodia. Il boss 74enne, Vincenzo Gallelli, imponeva difatti la sua figura richiedendo
in cambio contropartite adeguate: accanto alla cessione diretta di terreni, si prevedeva
l’affidamento in gestione degli stessi avendo cura di fissare, in anticipo, le modalità
di sfruttamento. I fondi potevano divenire oggetto delle sole attività concordate con il
capocosca, restando esclusa qualsiasi destinazione d’uso non previamente decisa.
Usuale la costrizione dei proprietari a concederli, con il fine del pascolo ed erbaggio a
familiari, nipoti e pronipoti del boss, violando in tal modo il principio del libero
sfruttamento commerciale del terreno97. La condizione di omertà e assoggettamento
che avvolgeva le vittime, non solo ritardava le denunce necessarie ad un intervento
risolutivo delle forze di polizie, ma parimenti veniva confusa con quella “tranquillità
ambientale” promessa dalla mafia. Questa era garantita sotto costante minaccia di
gravissimi episodi di sangue eventualmente verificabili, e di frequente ricordata da
strane avvisaglie, quali incendi, danneggiamenti e ogni altro atto idoneo a distruggere
la produzione. L’esito dell’operazione ha colpito bene sette indagati con
l’emanazione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal GIP del
Tribunale di Catanzaro e confermata per tre di loro, il boss Vincenzo Gallelli e i
pronipoti Giuseppe Caporale e Antonio Gallelli, dal Tribunale della libertà; per gli
altri quattro si è prevista l’attenuante dei domiciliari o l’immediata scarcerazione.
Nell’ambito dell’operazione in questione, il super visore procuratore capo Nicola
Gratteri non ha mancato di intervenire e convogliare l’attenzione sugli interessi di
lucro inseguiti dall’odierna mafia rurale. Gratteri si esprime chiaramente segnando 97 Di Cz1 redazione2, “Operazione Pietranera, il boss del clan Gallelli resta in carcere”, da Quotidiano.net, del 8 gennaio 2018.
74
quel fil rouge dominante in tutto il nostro elaborato, egli racconta come l’’ndrangheta,
a partire dall’Ottocento quand’era ancora “picciotteria”, si sia sempre nutrita in modo
parassitario del latifondo. Soprattutto negli ultimi anni il business mafioso investe il
mondo agricolo poichè fortemente attratto dai contributi pubblici erogati nel settore98.
Si torna sul punto nodale che si vuole chiarire, c’è una mafia attiva che servendosi
delle condotte delittuose meno innovative riesce comunque ad innovarsi,
individuando le giuste scelte politiche e truffando le pratiche amministrative ideate
per renderle concrete. I nuovi affari, dunque, si rendono efficienti grazie alle vecchie
strategie mafiose.
2. Furti di mezzi agricoli, danneggiamenti a campi e colture e pascolo abusivo.
L’ escalation criminale nei campi si esprime in un drammatico crescendo di danni alla
proprietà fondiaria, alle infrastrutture a servizio dell’attività agricola, nonchè al
complesso di produzioni e raccolti presenti sul terreno. La criminalità organizzata
agisce senza scrupoli colpendo un’imprenditoria sana che sopravvive a stenti.
Quotidianamente si rilevano furti di mezzi agricoli, fra i più colpiti i trattori,
sottrazioni di interi carichi di olio, frutta o depositi di vino, furti di intere mandrie,
danni strutturali, smantellamenti delle aziende, asportazione di tubi di rame da
collocare su un mercato illegale. Le aree destinate ad un’attività agro-pastorale
risultano sempre più esposte a fenomeni delinquenziali deleteri, capaci di piegare e
spezzare le aziende, a fortiori se di piccole o medie dimensioni. La malavita entra in
gioco, disperdendo pillole di criminalità, ogniqualvolta ci sia bisogno di sbaragliare la
concorrenza, impoverire l’imprenditoria legale che sottrae risorse a quella illegale,
mettere a tacere gli imprenditori più ostinati, soggiogare i proprietari meno
accondiscendenti. Infine, si adopera quando risulta necessario infliggere una certa
98 L’altro corriere tv, Op. Pietranera, scacco al clan Gallelli, intervista a Nicola Gratteri, www.youtube.com, 7 dicembre 2017.
75
poena; ciò accade quando le vittime violano le leggi mafiose, rompendo gli schemi
organizzativi e decisionali imposti loro. A quel punto, gli impositori intervengono a
ripristinare l’ordine, chiarendo le conseguenze negative che devono seguire ad ogni
condotta non concessa e dunque sanzionabile. Si noti quanto il furto di un mezzo
indispensabile per il lavoro quotidiano dell’azienda (potrebbe trattarsi di un trattore
dal valore di 30/40mila euro), possa arrecare un danno talvolta insanabile, a causa del
quale l’imprenditore non riuscirà più a risollevarsi. Le organizzazioni criminali
tediano quei territori isolati e troppo lontani dagli affollati centri urbani, che
continuamente domandano protezione. Ivi si auspica un ritorno dei presidi delle forze
di polizia a salvaguardia dei terreni ombrosi e abbandonati, privi di ordine e controlli.
Nelle campagne i sistemi di videosorveglianza andrebbero incentivati, finanziando sia
l’installazione di gps anche sui mezzi agricoli, sia la realizzazione di impianti
d’allarme direttamente collegati con le stazioni di Polizia99. Si dovrebbe far arrivare la
tecnologia anche in aree che fisiologicamente non la cercano; il fine è quello di
trasmettere un maggior senso di protezione nei singoli imprenditori onesti,
motivandoli a denunciare anche gli episodi meno allarmanti di cui sono vittime.
Purtroppo però, i dati reali mostrano numerose lacune causate proprio dalle omesse
denunce. Tale deficit si incontra in maniera evidente in uno dei reati di più frequente
verificazione: il furto. La fattispecie viene disciplinata dall’articolo 624 del codice
penale100 e si inserisce nella più ampia categoria dei delitti contro il patrimonio
commessi mediante violenza alle cose. Nonostante la diffusione del reato, non risulta
ancora pacifica l’opinione dottrinale in merito al bene giuridico tutelato dalla norma. 99 Eurispes e Coldiretti, 5º Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia, Minerva, Roma, 2017, p. 135ss. 100 Il testo dell’art. 624 c.p. recita: “Chiunque s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516.Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico.Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanze di cui agli articoli 61, numero 7), e 625.”
76
Si trovano ad opporsi due principali orientamenti: il primo, si concentra sul concetto
di “detenzione” richiamato dal dato letterale della norma; la disponibilità materiale
della cosa sarebbe suscettibile di tutela dinnanzi alla sottrazione di quest’ultima in
danno al detentore, in tal modo viene segnata la rilevanza penale di ogni condotta
diretta a turbare la relazione di fatto esistente tra il soggetto e la cosa. Secondo questa
linea interpretativa, la punibilità prescinde sia dall’esistenza di un titolo giuridico sia
dalla liceità o meno del possesso vantato sulla cosa. La seconda teoria offre al
contrario tutela alle sole situazioni giuridiche, pur privilegiando la proprietà talvolta
si considerano i diritti reali o addirittura quelli reali di godimento. Il filone dominante
focalizza l’attenzione sul concetto di altruità, che implica inevitabilmente un rimando
alla proprietà. Si esclude la possibilità che il reato venga compiuto dal soggetto che
abbia il diritto di godere, in modo pieno ed esclusivo, della propria rem. Non risulta
dunque ammissibile il furtum rei propriae. In sostanza il diritto tutelato per
eccellenza sarebbe la proprietà, e solo ove possibile in seconda istanza, verrà a
rilevare anche il possesso. La disputa in merito alla chiara individuazione del bene
tutelato, trascina con sé legittimi dubbi sull’elencazione dei soggetti attivi, passivi,
nonché dei danneggiati dal reato101. Ai fini della realizzazione del reato è essenziale
che il bene si riveli “altrui” rispetto al soggetto agente. Dall’ottica del soggetto
passivo valgano le precisazioni poc’anzi esposte. Le pronunce giurisprudenziali
hanno costantemente fatto riferimento al ruolo di detentore del bene, configurando
l’ipotesi di furto di fronte alla persona offesa che abbia subito un reale
spossessamento. Nulla vieta che il danno si completi a carico del proprietario, ma non
si esclude la commissione a svantaggio del possessore; in quest’ultimo caso il
possessore si innalzerà a persona offesa, relegando il proprietario a mero danneggiato
(egli avrà diritto a costituirsi parte civile nel processo penale). Abdicando a favore
della scia giurisprudenziale volta ad esaltare la situazione di “detenzione” del bene,
101 R. Garofoli, cit., p. 16ss.
77
sposando il dato letterale, si noti la concezione di essa da preferire, e cioè nel senso di
dare rilievo alla disponibilità materiale sulla cosa. Il soggetto deve trovarsi nella
condizione concreta di poter esercitare un potere materiale ed autonomo sulla cosa
qualora lo desideri; ciò sia se la detenzione implica un contatto fisico diretto con il
bene, sia se il rapporto si realizza a distanza, conservando la possibilità di
“disposizione” senza che alcuno ostacolo possa vietarla. E’ da aggiungere che per
quella dottrina sostenitrice di un metodo interpretativo sperimentale, la nozione di
detenzione deve essere letta in combinato disposto con la condotta di sottrazione
realizzata dall’agente. Si avrà detenzione e non possesso quando, nonostante
l’esistenza di una relazione materiale con la cosa, è necessario prevedere comunque
un momento sottrattivo per farla propria. Il possesso ingloba una determinata sfera di
autonomia nella disponibilità dei beni, la stessa che viene esclusa dalla condizione di
presupposto valida per la commissione del reato di furto: “Non può infatti ravvisarsi
solo l'appropriazione indebita, bensì il fatto va qualificato a titolo di furto, nel caso
in cui un soggetto operante quale dipendente di una società di trasporti sottragga la
merce a lui affidatagli, difettando in capo a tale soggetto il potere di autonoma
disposizione della cosa che qualifica la fattispecie appropriativa. In questo senso si è
già espressa questa Corte, affermando appunto che il dipendente di una ditta di
trasporti che sottragga la merce a lui affidata commette il reato di furto e non già
quello di appropriazione indebita, atteso che le operazioni materiali di cui è
incaricato (trasporto, deposito, conservazione e consegna) non gli conferiscono
quell'effettivo potere di autonoma disponibilità dei beni affidatigli, che è invece
presupposto necessario della fattispecie di cui all’art 646 c.p.102”. L’applicabilità
dell’articolo 624 c.p. non può tuttavia risultare chiara senza una puntuale
delimitazione dei concetti di sottrazione e impossessamento quali condotte tipiche
della fattispecie. La norma richiede che l’agente sottragga la cosa mobile altrui a chi
102 Cassazione, sez. IV, 20 febbraio 2013, n.10638, in http://studiolegale.leggiditalia.it.
78
la detiene e se ne impossessi. Ergo, è necessario soffermarsi su due elementi cardine
costitutivi della condotta al fine di cogliere anche il contesto spazio-temporale ove
essi si esprimono. La condotta sottrattiva determina un reale spossessamento a
svantaggio del detentore, provocando una perdita del potere materiale fino a quel
momento esercitabile sulla cosa. Dall’ottica del soggetto passivo, essa si identifica
con una perdita di possesso, poiché fuoriuscendo il bene dalla sua sfera di vigilanza si
impedisce quel controllo fisico o virtuale legittimante la libera instaurazione di un
contatto diretto con la cosa103. Diversamente, dal punto di vista del soggetto attivo, la
sottrazione non rappresenta altro che la precondizione necessaria per un eventuale
impossessamento. Quest’ultimo da intendersi come tipicamente diretto al
“conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed
effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell'agente104”. Le due condotte tipiche
descritte potranno sovrapporsi esaurendosi in un medesimo istante, oppure potranno,
in senso logico e cronologico, distinguersi in due fasi. Le Sezioni Unite nella recente
pronuncia n. 52117/2014 hanno posto a base del ragionamento la distinzione
concettuale prospettata, procedendo ad individuare nel momento
dell’impossessamento il perfezionamento del reato. Il disvalore tipico del delitto
viene rammentato nell’instaurazione di un nuovo potere di fatto sulla cosa tale da
escludere il dominio, e qualsiasi altro intervento, del precedente detentore ormai
privato di libera autonomia. Nell’acquisizione di una piena disponibilità materiale
sulla cosa si ravvisa il momento consumativo del reato. Esso potrà verificarsi
contestualmente alla condotta sottrattiva, immediatamente dopo, oppure in un
momento differito (si pensi al caso della refurtiva che venga prima sottratta e
recuperata dal ladro trascorso un certo lasso di tempo). La compiutezza del reato, e
dunque la netta individuazione del momento consumativo, hanno da sempre suscitato 103 F. Mantovani, voce Furto, in Digesto disc. pen., vol. V, 1991.104 Cfr. E. Mazzantini, Furto nei supermercati e sottrazione “sorvegliata”: la parola (chiara) delle Sezioni Unite, in Dir. Pen. e Processo 2015, 4, 428, nota a sentenza Cass. Pen., sez.Unite, 17 aprile 2014, n. 52117.
79
perplessità e divergenze tra i giuristi, comportando l’elaborazione di almeno quattro
criteri idonei a fissarne l’esatta collocazione temporale. Un primo criterio
dell’amotio, seguito perlopiù sotto la vigenza del Codice Rocco, identifica il
perfezionamento del furto nel mero spostamento della cosa sottratta dal luogo di
origine. A questo si aggiungono altri tre criteri quali la concretatio, che ritiene
sufficiente il porre la mano sulla cosa altrui, l’ablatio e l’illatio. Il secondo citato si
denota come il più seguito e prevede lo spostamento della cosa in un posto idoneo ad
escludere un plausibile intervento diretto dell’ex detentore. Elemento indispensabile
sarà l’instaurazione di un nuovo potere fattuale che allontani l’oggetto della refurtiva
dalla sfera di custodia del soggetto passivo. Non rilevano, ai fini della configurabilità
del reato, le seguenti circostanze:
1. il contesto spaziale in cui la cosa viene trasferita;
2. la durata dell’impossessamento, purchè il tempo trascorso, anche se breve, abbia
consentito l’attuazione di nuovo possesso.
Infine, per completezza, si cita il terzo criterio dell’illatio, volto a prevedere lo
spostamento della cosa sottratta in un luogo già prestabilito dal soggetto agente105. A
guardar bene nessuno dei criteri enunciati si mostra adottabile in assoluto, poiché tutti
rimandano alla individuazione del momento consumativo del reato attraverso un
criterio spazio-temporale. All’opposto, focalizzando l’attenzione sulla portata
letterale dell’articolo 624 c.p., si dovrebbe avvallare un criterio di stampo
personale106; la norma descrive infatti la condotta della sottrazione non prevedendo
uno spostamento dell’oggetto discusso verso un luogo diverso, ma limitandosi a
precisare il destinatario delle condotte tipiche: entrambe le condotte di sottrazione ed
impossessamento devono colpire il soggetto che detiene. Si tratta di un’aggressione
personale che non esclude la possibilità di consumare il reato in loco, senza recarsi in
105 Garofoli, cit., p.39.106 Mantovani, cit.,1991.
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un’area distante rispetto all’avvenuta sottrazione. Quel che andrà a rilevare sarà la
tangibilità della condotta di impossessamento nonchè la consapevolezza di un nuovo
potere fattuale instaurato sulla cosa sottratta. L’accoglimento della tesi volta a
discernere in due fasi la sottrazione e l’impossessamento consente altresì di
configurare l’ipotesi di tentativo. Si avrà furto tentato qualora si sia realizzata la mera
sottrazione, nel caso si siano compiuti atti idonei e diretti a compiere quest’ultima o
comunque volti a portare il bene al di fuori della sfera di vigilanza del detentore. Non
potendosi ancora ravvisare il momento consumativo, le ipotesi suddette verranno
punite tramite l’applicazione dell’articolo 56 c.p. A tal proposito recenti decisioni
hanno preso in considerazione l’intervento delle forze di polizia relativamente al
perfezionamento o meno del delitto. Si conclude per furto consumato e non tentato
quando le forze dell’ordine, pur osservando la situazione concreta, proprio per le
caratteristiche della stessa, non siano potute intervenire anticipatamente per impedire
il compimento del reato, ma abbiano agito di fatto solo in un momento posteriore
rispetto all’impossessamento107.
L’esame incentrato sulle condotte tipiche esige di essere completato tramite la
descrizione dell’oggetto materiale sul quale ricade l’aggressione. La fattispecie parla
di “cosa mobile altrui”. Innanzitutto assume pregnanza la nozione di cosa,
strettamente connessa con il concetto di patrimonio. Tutta la categoria dei delitti
contro il patrimonio assimila l’oggetto del reato, qual è la cosa, ad una porzione del
mondo esteriore che assurga la fisicità a requisito imprescindibile. Interpretare la
nozione di cosa in relazione ad un concetto di patrimonio funzionalmente inteso,
implica il raggruppamento, all’interno di essa, di una molteplicità di oggetti, o meglio
di “ogni entità fisica del mondo esteriore, diversa dall'uomo e dal cadavere, avente
la capacità strumentale di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale, e
perciò di formare oggetto di diritti patrimoniali108”. Il reato di furto prevede 107 Cass. pen., sez. v, 23 settembre 2008, n. 40697, in CED 241746.108 Mantovani, cit., 1991.
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un’aggressione unilaterale ad una cosa mobile, ovvero ad una cosa che si possa
materialmente trasferire dal patrimonio altrui al proprio, ed in definitiva sottrarre.
L’accezione di cosa mobile adottata dall’art 624 c.p. si mostra più ristretta rispetto
alla nozione civilistica di beni intesa agli articoli 812ss c.c., in quanto non comprende
alcun bene immateriale né alcun diritto; non si ammettono perciò né furti spirituali né
furti di aspettative o diritti. D’altro canto la nozione penale suddetta appare più ampia
di quella civile poiché determina il concetto di mobilità in funzione della circolazione
materiale e della sottraibilità di fatto della cosa; vi rientrerà anche il complesso di
cose immobili mobilizzate, originariamente immobili ma rese mobili grazie
all’intervento dell’agente che le abbia distaccate dal complesso immobiliare cui
aderiscono o le abbia trasformate prima di procedere alla sottrazione109. Si noti
l’integrazione del furto dinnanzi a beni immobili, quali i materiali di un edificio, gli
alberi, le messi, i frutti, considerati tali quando incorporati naturalmente o
artificialmente al suolo ai sensi dell’articolo 812 c.c., e suscettibili di divenire
refurtiva se mobilizzati. Analogo discorso vale per le pertinenze ex articolo 818 c.c.,
identificabili nel complesso di cose destinate in modo durevole al servizio o
ornamento di un’altra cosa che possa dirsi principale. In ogni caso la condotta
sottrattiva deve indirizzarsi su un bene in grado di vantare un certo valore di scambio.
Seppur in passato non sono mancate oscillazioni, la giurisprudenza oggi richiede un
valore economico per l’oggetto materiale, anzi amplia la tesi sostenuta chiarendo
come del bene debba considerarsi non solo la sua semplice consistenza materiale, ma
anche la sua normale destinazione d’uso, equipollente al profitto illecito che ne trae il
reo110. Sposando l’opinione di una condotta criminosa idonea ad apportare una
deminutio patrimoniale nella lesione di una cosa economicamente valutabile, si
respinge quella accezione di patrimonio, ampia e funzionale, diretta ad offrire tutela
anche alle cose dal solo valore affettivo. Il rischio sarebbe quello di ingiungere una 109 Mantovani, cit., 1991. 110 Cfr. Cass. pen., sez. V, 25 settembre 1998, n.11235, in Giust. Pen., 2000, II, 56.
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sanzione penale secondo criteri soggettivi e non oggettivi, impedendo di tracciare in
modo netto l’oggetto della condotta penale. Il timore di ampliare in modo
incontrollato l’ambito di rilevanza penale della condotta va affrontato anche su un
ulteriore fronte, puntualizzando il significato del requisito di “altruità”. In prima facie
l’aggettivo altrui svolge una funzione prettamente negativa, escludendo la punibilità
di aggressioni rivolte ad una re nullius, omnium o propria, indicando così la necessità
che la condotta criminosa provochi un danno a carico di un soggetto diverso da colui
che agisce. Al fine di riempire di contenuto positivo l’aggettivo in esame, è
necessario focalizzarsi sul parametro di naturale capacità offensiva dei diversi tipi di
condotta, segnando il complesso di interessi ai quali la condotta arreca un’offesa
necessaria; tali interessi tendono a crescere qualora sulla medesima cosa insistano o
possano esistere una pluralità di relazioni riconducibili ad una molteplicità di soggetti
passivi. In questo modo viene ad ampliarsi la sfera di tutela delle situazioni
plausibilmente esistenti sulla cosa mobile. L’allargamento appena detto presuppone
l’accettazione, nella fattispecie del furto, della coesistenza di una pluralità di oggetti
giuridici e soggetti passivi meritevoli di attenzione: la diatriba in merito non deve
risolversi in termini di alternativa, ma di coesistenza, evitando qualunque
polarizzazione dell’oggetto giuridico verso la proprietà o il possesso. Il regime di
coesistenza consente di collocare fra i soggetti passivi sia il proprietario sia colui che
abbia una diversa relazione con la cosa. Ora, si deve porre l’interrogativo circa la
natura delle relazioni meritevoli di tutela, osservando se tra esse si possano
annoverare necessariamente quelle giuridiche o anche di mero fatto. Secondo una
prima limitazione di ordine generale, effettuata in ossequio al principio di non
contraddizione dell’ordinamento giuridico, appare evidente limitare la tutela alle
situazioni giuridiche lasciando fuori le relazioni di fatto conseguite attraverso la
commissione di altri reati offensivi del patrimonio. Tipico caso il ladro che, dopo
aver raggiunto una detenzione illecita della refurtiva, diventi vittima di un altro furto
83
ad opera di un terzo. Accertato il riferimento del requisito dell’altruità esclusivamente
alle situazioni di diritto, emerge un altro interrogativo inerente le tipologie di
relazioni, lecitamente conseguite, effettivamente salvaguardabili. Riconducendo
un’attenta analisi fondata sul criterio di naturale offensività delle condotte, si nota che
nel reato di furto, trattandosi di una perdita totale o parziale della cosa, possono
essere minati solo i poteri fondamentali esercitabili sulla stessa. Ergo, oggetto di
tutela sarà sia il diritto di proprietà sia il diritto di godimento (reale o personale)
quando i poteri si presentano disgiunti tra il nudo proprietario e il titolare del diritto in
essere. Ora, occorrono ancora due riflessioni: il raffronto sistematico degli articoli
624 e 625 c.p. con gli articoli 627 e 334-388 c.p. chiarisce la negazione dell’ipotesi di
furtum rei propriae, giacchè punibile con una pena più severa (ex art. 624) rispetto
alla pena prevista dalle fattispecie di sottrazione di cose comuni (cioè solo in parte
proprie) e di sottrazione, da parte del proprietario, di cose sottoposte a sequestro o
pignoramento. Non sembrano invece sussistere delimitazioni legislative volte ad
escludere dal novero dei soggetti attivi il titolare del diritto di godimento,
ammettendosi di conseguenza la eventuale commissione del furto ai danni del
proprietario111.
Approdando alle conclusioni, si avrà reato di furto ogniqualvolta il reo agisce nella
consapevolezza del carattere di altruità della cosa, mostrando la volontà di portare a
termine il disegno criminoso chiaramente rappresentato nella sua mente. La
fattispecie viene dunque qualificata non solo dal dolo generico, ma addirittura da un
dolo specifico che, espresso nel perseguimento del profitto, si atteggia a mo’ di
requisito ulteriore che denota la condotta. Si tiene a precisare che la formula
legislativa non chiarisce il contenuto della nozione di profitto, tuttavia la
giurisprudenza ha preferito aderire ad una concezione ampia del termine che
oltrepassa il significato meramente economico. Si intende per profitto un vantaggio
111 Mantovani, cit.,1991.
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non solo di tipo economico, ma idoneo ad arrecare altra utilità ove il fatto sia
commesso a scopo di dispetto, vendetta, rappresaglia; resta esclusa la rilevanza
penale della condotta attuata ioci causa112. L’approdo giurisprudenziale rappresenta
l’asse portante sulla base del quale comprendere le ragioni sottese ai quotidiani furti
che oggi si verificano nel mondo agricolo. Non si tratta più di ladri di polli, ma di
veri criminali che avanzano per distruggere in modo diretto le attività rurali. I crimini
più usuali vedono il furto di attrezzature agricole di evidente valore economico, di
frutti e prodotti destinati alla vendita e al conseguente ricavo, del carburante
indispensabile per tutte le fasi di lavorazione, di materiali, quali fili chilometrici di
rame, solitamente impiegati per portare energia elettrica. I danni generati, come è
possibile cogliere, non sono limitati ad un aspetto economico, ma anzi acquisiscono
sembianze psicologiche e morali. Gli imprenditori agricoli si troveranno difatti
ostacolati nel loro lavoro, privati di mezzi e risorse necessari per la propria
sopravvivenza, decurtati dell’onesto guadagno funzionale al benessere delle loro
famiglie. I furti e le perdite subite, creano un alone di sconforto morale dal quale
difficilmente si ricava il desiderio di nuovi investimenti. Le mafie scelgono l’arma
del furto per orientare gli utili sperati verso due principali obiettivi: in primo luogo, il
reato in oggetto servirà, in chiave strumentale, per ottenere riconoscimento, e dunque
assoggettamento, da parte degli agricoltori che in un primo momento hanno rifiutato
le offerte protezionistiche mafiose; l’auspicio è che questi segnali di avvertimento
possano essere colti dalle vittime ed arrecare vantaggi ai rei. In secondo luogo, il
furto verrà utilizzato alla stregua di un mezzo punitivo; equivale cioè alla sanzione
che chi ha violato le dominanti leggi mafiose deve pagare.
In questo modo si esaurisce l’analisi del reato, rammentando infine la capacità del
furto di concorrere insieme ad altre ipotesi delittuose di nostro interesse. E’ appunto il
caso del reato estorsivo esternato successivamente alla piena realizzazione del furto:
112 Vedi Cass. 25 giugno 1991, in Cass. pen., 1992, 3039.
85
la refurtiva tornerà al soggetto passivo al momento del pagamento della somma di
denaro corrisposta dietro minaccia e vessazioni. Si andranno a verificare gli elementi
costitutivi di entrambe le fattispecie delittuose, compiendosi così un concorso di reati
ex articoli 624 e 629 del codice penale.
Altra fattispecie meritevole della nostra osservazione viene descritta dall’articolo 635
c.p. e si sostanzia nel reato di “danneggiamento”, rivolto spesso agli stessi beni
immobili, i fondi quali base di partenza essenziale per l’intera attività produttiva,
oppure verso le materie prime frutto dei terreni. La fattispecie delittuosa ha subito una
modificazione ad opera del D.Lgs. 15.1.2016, n. 7 (recante «Disposizioni in materia
di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili); tale
pacchetto d’intervento ha avuto l’obiettivo di depenalizzare il reato di
danneggiamento semplice, degradandolo ad illecito civile. I fatti descritti dal comma I
della disposizione previgente sono divenuti illeciti civili punibili con una sanzione di
natura pecuniaria. L’originario comma II prevedeva invece ipotesi aggravate
attualmente trasmigrate nelle condotte tipiche della fattispecie base. La pena
applicabile rimane la medesima stilata per le vecchie circostanze aggravate, e cioè da
sei mesi a tre anni di reclusione113. L’interesse perseguito dalla norma vuole offrire
adeguata tutela al complesso di cose mobili ed immobili, consentendo che esse
restino integre e sempre idonee a perseguire lo scopo impresso loro dal soggetto
113 Il nuovo testo dell’art. 635 cp recita: “Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia ovvero in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico o del delitto previsto dall'articolo 331, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Alla stessa pena soggiace chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili le seguenti cose altrui:1. edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all'esercizio di un culto o cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o immobili compresi nel perimetro dei centri storici, ovvero immobili i cui lavori di costruzione, di ristrutturazione, di recupero o di risanamento sono in corso o risultano ultimati o altre delle cose indicate nel numero 7) dell'articolo 625; 2. opere destinate all'irrigazione; 3. piantate di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o boschi, selve o foreste, ovvero vivai forestali destinati al rimboschimento; 4. attrezzature e impianti sportivi al fine di impedire o interrompere lo svolgimento di manifestazioni sportive…”.
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titolare del potere. Viene a garantirsi la libera disposizione delle cose appartenenti al
patrimonio, a prescindere dal loro valore economico e dall’effettivo danno fisico
provocato dalle condotte attive; è sufficiente, per divenire oggetto di rimprovero, che
quest’ultime producano un’inservibilità delle cose aggredite. L’individuazione
dell’interesse meritevole di tutela incide sul novero dei soggetti attivi e passivi della
fattispecie. Dal lato del soggetto agente, il dato letterale sposa la dizione ampia di
“chiunque”, lasciando aperti dubbi interpretativi sulla possibilità di identificarvi
anche il reale proprietario qualora il bene sia dato in godimento ad altri. Le tesi
giurisprudenziali riscontrabili oscillano tra orientamenti prettamente restrittivi ed altri
più miti; dalla assoluta negazione della punibilità del proprietario che danneggi una
cosa propria, alla parziale ammissibilità della stessa nelle ipotesi di regime di
comproprietà, nelle circostanze di presenza di diritti reali sul bene, o addirittura nel
caso sussista un diritto che, date le circostanze concrete, dimostri l’appartenenza della
cosa e venga considerato preminente rispetto ad altri diritti contestualmente vantati da
terzi sul medesimo bene114. Dall’ottica del soggetto passivo, è bene richiamare le
considerazioni precedentemente svolte sulle accezioni dell’altruità, sostenendo la
corrente maggioritaria che ammette, fra tali soggetti, sia il proprietario sia il titolare
del diritto di godimento sulla cosa. Distinzione da tenere presente rispetto al reato di
furto è la qualifica rivestita dal proprietario della res, che sarà considerato soggetto
passivo vero e proprio, e non danneggiato, anche in presenza di un diritto di
godimento altrui poiché egli ha interim conservato l’interesse alla integralità e
funzionalità della cosa. Le condotte criminose si estrinsecano nella distruzione,
dispersione, deterioramento e nella inservibilità, totale o parziale, di cose mobili o
immobili altrui. Pur apparendo un reato a forma vincolata, le condotte elencate vanno
trattate alla stregua di eventi dannosi, ammettendo la configurazione del reato
attraverso qualunque azione in grado di produrre quei danni. Le condotte, quindi
114114 Garofoli, cit., p.120ss.
87
espresse in forma libera, potranno apparire commissive ma anche omissive, secondo
quella clausola di equivalenza ex art 40 c.p. per cui non impedire un evento che si ha
l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Ogni singolo evento dannoso
presenta profili specifici nella propria forma esteriore; in primis la distruzione, vuol
dire annientamento della funzione strumentale intrinseca alla cosa e per tale motivo
volta a soddisfare le esigenze dell’avente diritto. (A titolo di esempio concreto si
pensi alle condotte di rottura comprensive dei verbi tagliare, spezzare, squarciare,
frantumare…). La seconda condotta di dispersione implica la fuoriuscita della res
dalla disponibilità del titolare; il riferimento corre alle cose mobili o mobilizzate, rese
dal reo irrecuperabili o recuperabili con gravi difficoltà. Segue il terzo evento di
deterioramento, laddove la gravità dell’azione non abbia ancora raggiunto la soglia
della distruzione o della dispersione, ma abbia comportato una modifica materiale e
funzionale del bene tale da intaccarne il valore e l’utilizzabilità. La condotta di
deterioramento si renderà evidente soltanto “quando la cosa che ne è oggetto è
ridotta in uno stato tale da rendere necessaria una non agevole attività di
ripristino115”. Ultima condotta è espressa dall’ inservibilità, diretta ad alterare la
normale funzione del bene rendendolo inutilizzabile, in tutto o in parte, per un lasso
di tempo apprezzabile. Qui il bene si è reso inservibile rispetto allo scopo primario
prestabilito dal titolare. In sintesi, in materia di condotte incriminate, è pacifico
ritenere la configurabilità del reato dinnanzi ad un intervento di modifica strutturale o
funzionale della cosa, nell’ipotesi di deterioramento di certa consistenza, oppure nel
caso di mutamento di destinazione116. Si precisa l’attitudine del danneggiamento a
procurare un danno funzionale, oltrechè materiale117. Saranno questi eventi a segnare
la punibilità delle condotte attuate. Giova inoltre puntualizzare come sia sufficiente
l’adozione di una delle condotte, secondo un criterio di alternatività, ai fini del
115 Cass. pen., sez. II, 22 febbraio 2012, n. 20930, in CED Cassazione 2012, rv 252823.116 Cass. pen., sez. V, 31 maggio 2007, n. 33049, in Massima redazionale 2008. 117 Cass. pen., sez II, 31 gennaio 2005, n. 4229, in Riv. Pen., 2006,100.
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perfezionamento del delitto. L’eventuale coesistenza di più condotte non integra un
concorso di reati, ma comporta l’applicazione della unica fattispecie di base ex art.
635. Le condotte, comunque poste in essere, devono porsi in una stretta relazione
causale con la produzione del danno. Non è tassativamente richiesta la patrimonialità
del danno, essendo sufficiente verificare una diminuzione strumentale del patrimonio
causata dalla perdita di un bene utile a soddisfare bisogni materiali e spirituali del
soggetto passivo. Il legislatore non si preoccupa di precisare, ai fini della punibilità, la
consistenza del danno né la necessità del requisito dell’ingiustizia. Un’ implicita
interpretazione fa propendere per l’ammissibilità della caratteristica dell’ingiustizia,
mentre porta ad escludere il primo requisito citato. Sarà considerato anche il danno
lieve, purchè la condotta sia idonea a produrlo secondo le modalità sopra analizzate.
Le aggressioni unilaterali ricadono sulle cose mobili o immobili altrui, non
comprensive dell’insieme di cose immateriali o dei diritti. E’ pacifico ritenere che
l’elemento soggettivo della fattispecie sia il dolo generico, non esigendosi affatto un
dolo specifico118. Il reo mostrerà la coscienza e volontà di danneggiare, deteriorare,
deturpare, rendere inservibili le cose mobili o immobili, a nulla rilevando il fine
ulteriore e specifico di nuocere. Non acquisisce alcun valore l’animus agendi, sia esso
lucrandi, ludendi, o talvolta favendi. Integra gli estremi di danneggiamento anche
l’elemento psicologico connotato da dolo eventuale o indiretto. Il dolo non si dirà
diretto, ma eventuale quando l’agente, pur perseguendo uno scopo diverso rispetto al
danno descritto nell’art. 625, si rappresenta la concreta possibilità di provocarlo quale
conseguenza della sua azione e di fatto ne accetta il rischio. In ultimo, si è già
osservato il passaggio delle circostanze aggravanti descritte dal testo previgente tra
gli elementi costitutivi della fattispecie di danneggiamento comune, co. I e II art. 635
c.p. Valgano talune precisazioni nell’ipotesi di violenza alla persona o minaccia: le
modalità violente devono esprimersi in modo contestuale rispetto al danneggiamento,
118 In tal senso Cass. pen., sez. VI, 18 settembre 2012, n. 35898, CED Cass 2012, rv 253350.
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in quanto strumentali al raggiungimento del fine tipico di danneggiare. Nel caso in
cui tali strumenti venissero esternati in fasi temporali distinte si avrebbe un concorso
di reati tra il danneggiamento e la violenza privata o la minaccia. L’analisi dei punti
salienti del delitto di danneggiamento impone, per questioni di pertinenza con la
tematica oggetto dell’intero lavoro, un raffronto con una fattispecie peculiare inserita
nel titolo XVIII del cpv dedicato ai delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il
commercio. La disposizione di cui all’articolo 508 c.p.119 introduce al primo comma
l’ipotesi di “arbitraria invasione e occupazione di aziende agricole e industriali”, alla
quale segue l’ipotesi di “sabotaggio” prevista dal comma secondo. Occorre
soffermare l’attenzione sul sabotaggio inteso quale forma qualificata ed aggravata del
comune danneggiamento disciplinato all’articolo 635. Gli elementi di specialità
contraddistinguono il sabotaggio sotto il profilo dell’oggetto materiale e
dell’elemento soggettivo tipico. La recente applicabilità del reato discusso, perlopiù
nella declinazione di sabotaggio proprio, ha permesso di astrarre la fattispecie dal
contesto originario in cui veniva collocata. Pur nascendo in un contesto storico
sopraffatto da impetuose lotte tra capitale e lavoro, manifestate attraverso serrate,
occupazioni e scioperi, si prende oggi atto della plausibilità di estenderne l’ambito
applicativo verso contesti aziendali vendicativo-ritorsivi, pur turbativi della libertà del
lavoro, ma avulsi da un retroterra di conflitti socio-sindacali. Nonostante l’oblio
pluridecennale in cui era confinato l’articolo 508, una recente sentenza del Tribunale
di Siena ne ha consentito la reviviscenza riconoscendo integrati gli estremi del reato
di sabotaggio proprio (comma II); tale pronuncia non solo ha segnato un
cambiamento di rotta per quel che concerne lo spazio applicativo, ma ha altresì
119 Cfr art. 508 c.p.: “Chiunque, col solo scopo di impedire o turbare il normale svolgimento del lavoro, invade od occupa l'altrui azienda agricola o industriale, ovvero dispone di altrui macchine, scorte, apparecchi o strumenti destinati alla produzione agricola o industriale, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa non inferiore a euro 103.Soggiace alla reclusione da sei mesi a quattro anni e alla multa non inferiore a euro 516, qualora il fatto non costituisca un più grave reato, chi danneggia gli edifici adibiti ad azienda agricola o industriale, ovvero un'altra delle cose indicate nella disposizione precedente.”
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ribadito i tratti qualificanti e distintivi della fattispecie rispetto ad altri crimini
affini120. Il sabotaggio contempla una condotta di danneggiamento, dispersione,
distruzione, deterioramento o inservibilità, diretta a beni specifici precisamente
enunciati dalla norma: gli edifici adibiti ad azienda agricola o industriale, ovvero le
macchine, le scorte, gli apparecchi o i mezzi destinati alla produzione agricola o
industriale121. L’interesse meritevole di tutela non esige la lesione dell’economia
nazionale, ma ai fini della punibilità si richiede esclusivamente il danno arrecato alla
singola azienda. Il punto nevralgico della fattispecie si individua però
nell’orientamento teleologico delle condotte di danneggiamento. Il parallelismo con
l’art. 635 fa emergere l’elemento soggettivo del dolo specifico, caratterizzante la
fattispecie ex art. 508 e del tutto assente nella prima citata. Il movente dell’azione si
traduce nello scopo di impedire o turbare il normale svolgimento del lavoro. E’
inoltre importante rilevare che l’esclusività di tale dolo specifico non impedisce il
concorso di altri scopi, purchè non escludano e si aggiungano sempre al fine
primario, di per sé ineliminabile.
Nel prosieguo dell’ analisi giuridica, all’interno del titolo dedicato ai delitti contro il
patrimonio si inserisce la fattispecie disciplinata dall’articolo 636 c.p.122, volto ad
introdurre almeno tre condotte suscettibili di rilevanza penale. La norma viene ad
articolarsi in due distinti commi, seguiti al terzo comma da un’ipotesi aggravata 120120 Tribunale Penale di Siena, sezione Gip, 28 novembre 2013. 121A. Natalini, Giurisprudenza sotto obiettivo, Un inedito caso di sabotaggio liberatorio: il raid vandalico del Brunello risuscita un delitto caduto nell’oblio (art. 508, co. 2, c.p.), in Archivio penale 2014, n.3.121
122 Articolo 636 c.p.: “Chiunque introduce o abbandona animali in gregge o in mandria nel fondo altrui è punito con la multa da euro 10 a euro 103. Se l'introduzione o l'abbandono di animali, anche non raccolti in gregge o in mandria, avviene per farli pascolare nel fondo altrui, la pena è della reclusione fino a un anno o della multa da euro 20 a euro 206. Qualora il pascolo avvenga, ovvero dall'introduzione o dall'abbandono degli animali il fondo sia stato danneggiato, il colpevole è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 51 a euro 516. Il delitto è punibile a querela della persona offesa”.
91
qualora si concretizzi un reale danno. Le condotte descritte prevedono la punibilità
dinnanzi all’ introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui e al pascolo
abusivo. Prima di procedere ad un esame specifico delle condotte tipiche, sembra
opportuno chiarire la collocazione sistematica della norma, muovendo
dall’osservazione dell’oggetto specifico di tutela. L’inserimento del reato in oggetto
nella categoria dei delitti contro il patrimonio commessi mediante violenza alle cose,
enuncia la priorità assunta dai concetti di “violenza” e “patrimonio” all’interno della
fattispecie. Si profila l’esistenza di un’aggressione al patrimonio immobiliare, quale è
il fondo, commessa tramite un reato di turbativa123. Oltre a rilevare la funzione
strettamente patrimoniale che viene accolta del fondo, si accentuano le modalità di
realizzazione attraverso la turbativa. E’ infatti necessario vietare anche la semplice
azione di molestia del pacifico godimento del bene immobile, a causa della quale
viene limitata la signoria sottesa ad uno dei poteri esercitati sulla cosa. Si vedrà in
seguito se questi ultimi debbano tradursi in mero diritto di proprietà o possano
legittimarsi altre situazioni di potere. Se un reato viene caratterizzato dall’oggetto
giuridico tutelato, sorge a fortiori il bisogno di individuarlo. La percezione che si
avverte è idonea ad affiancare all’interesse dell’inviolabilità del patrimonio
individuale, un’ ulteriore esigenza di tutela ispirata al patrimonio agricolo e forestale.
La norma, secondo dottrina tradizionale, presenta una presunzione di pericolo atta ad
impedire concreti danni a piante e colture; il pericolo in sé non andrebbe ad operare
quale elemento costitutivo del fatto, bensì come ratio dell’incriminazione stessa124.
Ora, le condotte criminose contemplate sono le seguenti: la prima parte della norma
rintraccia un pericolo di danneggiamento nel fatto di introdurre o abbandonare
animali in gregge o in mandria sul fondo altrui. L’introduzione si traduce in una
condotta commissiva e volontaria di colui che abbia introdotto il bestiame, a
123123 F. Mantovani, Introduzione di animali nel fondo altrui e pascolo abusivo, in Dig. Pen., 1993.124 L. Mazza, Pascolo abusivo e introduzione di animali nel fondo altrui, in Enc. Dir., XXXII, 1982.
92
prescindere dal fine ultimo raffiguratosi nella mente del reo; la condotta di abbandono
presume invece che gli animali siano stati portati sul fondo legittimamente, vi ci siano
immessi da soli e senza volontà del custode, oppure siano stati lasciati incustoditi
vicino a fondi propri o altrui ed in momento successivo siano lì penetrati. In tali
ipotesi è comunque necessario che il reo abbia assunto la detta condotta omissiva con
l’unico obiettivo di raggiungere il fine che la norma vorrebbe vietare. Il comma
secondo prevede l’ipotesi di introduzione o abbandono nel fondo altrui di animali,
anche non raccolti in gregge o in mandria, con lo scopo di farveli pascolare. In questa
seconda parte, l’azione assume connotati speciali a partire dall’animus richiesto in
capo al reo. Egli dovrà mostrare l’intento di sfruttare illecitamente il pascolo. Non
importa in tal caso se l’animale sarà soltanto uno o sia presente una pluralità
raggruppata, l’essenziale è attestare la concreta possibilità, considerato il numero e la
specie di animali, che si verifichi un danno apprezzabile al fondo o alle cose in esso
contenute. Il pascolo di cui si tratta è qualificato dall’aggettivo abusivo, a dimostrare
che ai fini della configurabilità del reato dovrà mancare il consenso scriminante del
soggetto idoneo a prestarlo. La portata di tali disposizioni diviene apprezzabile
mediante la precisazione di taluni concetti cardine. Anzitutto il requisito dell’altruità
del fondo si riferisce non solo al diritto di proprietà in assoluto, ma a qualunque status
giuridico che attribuisca ad un soggetto diverso dal proprietario un interesse legittimo
all’integrità e disponibilità del terreno. Si dice altrui il bene immobile che si trovi in
godimento di altri. Da questa prospettiva, il soggettivo passivo del reato si identifica
in colui che possa vantare un potere di godimento sul fondo, sia egli alternativamente
il proprietario oppure il titolare di un diritto reale o personale125. Una pronuncia di
legittimità non ha escluso la commissione del reato da parte del proprietario e a
svantaggio del possessore. Le affermazioni esposte in sentenza appaiono
inequivocabili: “l'art. 636 c.p., tutela non solo il diritto di proprietà ma anche il
125 Mantovani, cit.
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possesso, così che il reato può ben essere commesso dal proprietario in danno del
possessore. E', quindi, irrilevante - ad escludere il reato previsto dall'art. 636 c.p. -
che il fondo in cui si commette il pascolo abusivo sia condotto da un affittuario
anzichè dal proprietario, giacche la norma citata è posta a tutela non soltanto del
diritto di proprietà ma anche del possesso. (Sez. 2, Sentenza n. 766 del 25/03/1970
Ud. - dep. 29/03/1971 - Rv. 117349; Sez. 2, Sentenza n. 8754 del 07/05/1981 Ud. -
dep. 10/10/1981 - Rv. 150446; Sez. 2, Sentenza n. 7991 del 14/04/1975 Ud. - dep.
18/07/1975 - Rv. 130592)126”. Soggetto attivo del reato potrà allora essere chiunque,
non necessariamente dovrà vestire i panni del proprietario o custode degli animali, ma
anche un terzo potrà calarsi nel ruolo attivo incorrendo nella sanzione penale. Occorre
altresì elencare le tipologie di fondo richiamate; esso non si limita a quello rustico,
costituito da prati, boschi, campi, a prescindere dal vincolo di destinazione e dal
livello di coltivazione intrapreso, ma si spinge fino a quello urbano. Ne fanno inoltre
parte i fondi acquitrinosi, paludosi, vallivi, ove su di essi crescano prodotti agricoli
spontanei o coltivati. Valgano a questo punto minute precisazioni valide in caso di
pratica applicabilità della norma: l’integrazione del delitto non avviene qualora
sussista un reale diritto di pascolo ed il numero degli animali accertati sia superiore a
quelli consentiti; ciò poiché si ritiene accoglibile la tesi del pascolo continuativo.
Invero, tale eventualità non esclude la rilevanza penale della condotta ove il numero
eccessivo degli animali sia concretamente idoneo ad arrecare un danno al fondo
unicamente mediante la circostanza del pascolo127. L’art 636 richiama espressamente
il concetto di animali, mezzo specifico per la concretizzazione del fatto criminoso.
Essi assumono un significato più ampio rispetto alla nozione di “bestiame”, e ciò
emerge da mancanti riferimenti legislativi idonei a restringerne la portata
terminologica. Così, anche animali diversi dal bestiame potranno provocare una
molestia, purchè assolvano i requisiti e vincoli dettati dalla legge. Il primo comma 126 Cass. pen., sez. II, 31 marzo 2009, n. 17509.127 Mazza, cit.
94
pretende che essi siano riuniti in gregge o mandria, tuttavia si deve optare per
restituire a questi ultimi termini un assunto diverso da quello strettamente tecnico-
giuridico di “unità funzionali o di valore”, valorizzando il ruolo degli animali quale
mezzo di offesa patrimoniale128. A rilevare sarà la capacità offensiva dei
“raggruppamenti”, di qualunque genere di bestiame, venutisi a creare, siano essi
grandi o esigui, omogenei o meno, di scarso valore o altamente qualificabili. Segue
la seconda tipologia di condotte previste dal comma secondo, in tal caso la riunione
in gregge o mandria non risulta indispensabile, anzi è sufficiente che gli animali
abbiano e conservino la loro attitudine a pascolare. Si può ora trasferire l’attenzione
sull’elemento psicologico richiesto dalla fattispecie delittuosa; non vi è alcun dubbio
sull’intento doloso, restando la sanzione penale impossibilitata a reprime l’agire
colposo, anche ove si profili una colpa con previsione. La norma contempa la
previsione di un dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di introdurre o
abbandonare animali su un fondo altrui, senza prefigurarsi il fine del pascolo, e con la
piena consapevolezza di porre in essere una condotta illegittima. L’offensività della
condotta non potrà rilevare quando il reo cade in errore, credendo il fondo proprio a
seguito di un’inesatta interpretazione della nozione di altruità, così come spiegata
all’interno delle leggi civili. L’errore caduto su un elemento normativo della
fattispecie astratta, esclude il dolo. Nell’eventualità opposta che la genericità del dolo
venga sostituita dall’intento specifico del reo di far pascolare gli animali su un fondo
altrui, si verserà nella seconda ipotesi di pascolo abusivo, il quale difatti esige una
peculiare declinazione dell’elemento psicologico. A conferma di quanto detto si
richiami una pronuncia della Corte di Cassazione: “Ad integrare l'elemento
soggettivo del delitto previsto dall'art. 636 cod. pen. (introduzione o abbandono di
animali nel fondo altrui e pascolo abusivo) è sufficiente il dolo generico nell'ipotesi
prevista dal primo comma, è necessario quello specifico nell'ipotesi di pascolo
128 Mantovani, cit.
95
abusivo, prevista dal secondo comma, non potendosi prescindere dalla
consapevolezza dell'illegittimità della condotta che è esclusa quando il pascolo
avviene con la coscienza, in capo all'agente, di esercitare un diritto. (Annulla senza
rinvio, App. Messina, 18 novembre 2005)129”. Appare chiaro che al fine di integrare
lo scopo di pascolo è imprescindibile che si tratti di animali erbivori, granivori o
onnivori, che possiedano l’attitudine ad arrecare un danno attraverso la condotta
oggettiva di pascolare. Il principio di tassatività esclude inoltre che la norma possa
indirizzarsi verso finalità analoghe, quali l’abbeveramento, non citato esplicitamente
e quindi escluso dall’ambito applicativo del comma secondo. Infine, il dolo non è
tangibile se il soggetto attivo si è erroneamente convinto di aver ricevuto il consenso
dell’avente diritto, e quindi crede di agire nel caso concreto secondo l’operatività di
una scriminante130. Procedendo nella disamina dell’articolo, viene in evidenza
l’ultimo comma dell’articolo 636 c.p., diretto ad introdurre due circostanze
aggravanti speciali, le quali non limitano l’operatività di quelle comuni. La prima
prevede il pascolo effettivamente avvenuto, esso supera la soglia del penalmente
rilevante ogniqualvolta sia sottratta una quantità giuridicamente apprezzabile di
prodotti all’avente diritto; mentre la seconda circostanza si verifica a seguito di
concreto danneggiamento derivato dall’introduzione o abbandono di animali sul
fondo. Entrambe le aggravanti trovano applicazione al di là della coscienza e volontà
del reo, caratterizzandosi per effettività ed immediata operatività dinnanzi
all’accertamento di un nesso causale. Il danneggiamento espresso dalla seconda
aggravante fa riferimento a tutte le condizioni intrinseche o estrinseche del terreno e
delle opere che vi insistono. Include perciò il danno apportato a piante, prodotti
vegetanti sul fondo, fuorchè esso possa considerarsi minimo e frutto del mero
calpestio tollerabile dal titolare del potere di godimento. Il “peso” degli animali deve
sfociare in un deterioramento del fondo o dei prodotti, o almeno in una sua 129 Cass. pen., sez. II, 3 ottobre 2006, n. 35746, in CED Cass. 2006, rv. 234777. 130 Cfr. Cass, 2 marzo 1962, in Cass. pen. Mass.,62,898.
96
inservibilità temporanea131. L’opinione maggioritaria tra gli studiosi ritiene che nel
terzo comma si riscontri una fattispecie circostanziata rispetto ai due reati tipizzati nei
commi precedenti, e non anche un autonomo reato aggravato dall’evento132. In tal
senso l’ultima ipotesi descritta dalla fattispecie assume le vesti di un reato di danno
che andrà a perfezionarsi con l’accadimento dell’evento dannoso, sia esso
rispettivamente il pascolo o il danneggiamento. Al contrario, le due condotte tipiche
inserite nei commi che precedono si atteggiano a reati di pericolo, intendendo
quest’ultimo nel senso di elemento sufficiente a segnare la consumazione del reato. Il
fatto di introdurre o abbandonare gli animali garantisce il perfezionamento del reato
nel momento e nel luogo in cui esso si è verificato. Avvallando tale tesi, si deve
concludere per l’inammissibilità del tentativo, trattandosi già di per sé di fattispecie di
pericolo, per cui non sarebbe opportuno anticipare la soglia della punibilità in un
momento ancora anteriore rispetto a quello individuato dal legislatore133. In ultimo,
merita talune puntualizzazioni la tematica incentrata sulle relazioni sussistenti tra il
reato di pascolo abusivo e i terreni gravati da usi civici. I terreni appartenenti al
comune, a terzi o alla stessa collettività possono essere utilizzati, al fine di trarne
utilità, da parte dei singoli componenti di una collettività nella veste di uti cives. Il
godimento di un diritto di uso civico legittima il relativo fruitore a godere del fondo
oggetto di ius pascendi, fermo restando l’obbligo di quest’ultimo di ubbidire al
complesso di doveri e oneri che lo stato di cives comporta. Per tali ragioni risponderà,
a titolo di reato, il beneficiario di un diritto di uso civico ogniqualvolta oltrepassi
illecitamente i limiti entro i quali avrebbe dovuto restare, esercitando quel diritto su
cose che, per qualità e quantità, non gli spettavano134. Orbene, sia per affinità di
materia sia per la pertinenza del tema con le vicende del Parco dei Nebrodi, di cui
131 Mazza, cit.132 Garofoli, cit., p.148.133 Vedi Mantovani, cit., per tesi opposta: configurabilità del tentativo in quanto si tratta di reati di danno e non di pericolo. 134 Cfr. Cass. 8 marzo 1961, in Giust. pen., 1962, II, 375.
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diremo nel capitolo successivo, conviene accennare alla concessione dei terreni
demaniali destinati al pascolo da parte della pubblica amministrazione. La più
comunemente nota “fida pascolo” esclude il delitto di pascolo abusivo, e ciò anche
quando il titolare della concessione sia convinto di esercitare un diritto a causa di un’
inesatta interpretazione delle norme esistenti in materia. Inoltre, dinnanzi ad un
regime di pascolo, il proprietario di uno dei fondi sfruttati è legittimato a porre fine al
suo consenso, avvalendosi della facoltà di sbarro. Egli potrà esternare la sua volontà
negativa recitando e coltivando il proprio terreno, imponendo così ai proprietari
limitrofi di non autorizzare gli animali al pascolo; in caso di violazione, può
intervenire la tutela apprestata dall’articolo 636 del nostro codice penale. L’analisi
sviluppata è prodromica alla comprensione del punto nevralgico della nostra tesi,
impiegato ad illustrare le modalità d’azione di una mafia rurale sempre viva. Si pensi
alle condotte di pascolo abusivo o danneggiamento, dimostrative di un modo
selvaggio di condurre la pastorizia135. Siamo di fronte alla prova implicita della forza
intimidatrice promanante da quel vincolo associativo di stampo mafioso. Il pascolo
delle vacche sacre simboleggia l’antico potere delle cosche su un certo territorio.
Mandrie leggendarie, apparentemente senza proprietari, in cerca di suoli e frutti da
distruggere. In realtà esse incarnano l’autorità di chi, di fatto, gestisce il controllo di
ogni angolo territoriale. Le manifestazioni esteriori della condotta raffigurano lo
spirito di sopraffazione e la seguente condizione di omertà e assoggettamento che
ogni Mafia porta con sé.
3. I reati di abigeato e macellazione clandestina: gli alti rischi di un fenomeno in espansione.
La tutela del patrimonio zootecnico, dell’economia agricola ed in senso ampio
dell’azienda agricola, viene perseguita attraverso la previsione di una circostanza
135 Cfr Cass. pen., sez VI, 16 luglio 2004, n. 31461, CED Cass 2004, rv 230019.
98
aggravante qualificante il furto all’articolo 625 comma ottavo. La circostanza ivi
delineata segnala l’ipotesi di abigeato, un reato di origine romana che il termine latino
ab agere, letteralmente spingere innanzi, chiarisce nelle modalità esecutive. Si tratta
di furto di bestiame originariamente punito ed arginato mediante un complesso di
leggi speciali di carattere preventivo. Agli inizi dello scorso secolo, infatti, il
fenomeno in questione ricorreva con frequenza tediando le aree più isolate e distanti
dai centri urbani. Il territorio meridionale mostrava le maggiori fragilità, richiedendo
per naturale conseguenza interventi più incisivi e utili a garantire la vigilanza dello
stesso bestiame. Il pacchetto di legislazione speciale è oggi affiancato da una
disposizione contenuta nel codice penale vigente, nella specie all’articolo 625. E’
prevista la ricorrenza dell’ipotesi aggravata di furto di bestiame se il fatto, realizzato
con la condotta tipica di cui all’art 624 c.p., sia commesso avverso tre o più capi di
bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini anche
non raccolti in mandria. La pena stabilita è della reclusione da 2 a 6 anni e della
multa da 627 a 1500 euro. E’ utile fin da subito precisare la possibilità che tale
aggravante concorra con altre circostanze di cui all’articolo 61, ovvero con altre
circostanze racchiuse in altri numeri della stessa norma. Essa mostra inoltre una
natura oggettiva passibile di estendersi ai correi. La disposizione distingue due
modalità realizzative della condotta, rendendosi in proposito irrilevante il luogo in cui
l'animale si trovi al momento della commissione del reato (aperta campagna, luogo
chiuso, recinto di tavole, da muratura, da reti, stalla); neppure è richiesto che il
bestiame sia custodito da pastori o da cani o, viceversa, sia affidato al pubblico
rispetto136. Ora, l’elemento caratterizzante la prima declinazione della condotta si
identifica nel bestiame, o meglio in almeno tre o più capi, raccolto in gregge o in
mandria. La nozione di bestiame ammette capi sia di piccola che di grossa taglia,
purchè diversi da bovini e equini, in grado di raggrupparsi in gregge o mandria. Qui
136 G. Pecorella, Furto, in Dir. pen., XVIII, 1969.
99
la condotta offensiva indica il suo disvalore nella lesione di un aggregato, un
universitas facti soggetta ad accrescimento per le nascite e a diminuzione per le morti,
pertanto meritevole di tutela137. Precisando in via preventiva l’etimologia delle
nozioni di gregge e mandria, si fa rientrare nel primo la riunione numerosa di pecore,
capre o entrambe le specie, mentre nella seconda il raggruppamento di animali della
stessa specie, esclusi gli ovini. Limitando la riflessione alla dizione letterale della
norma, essa omette di precisare il numero minimo sufficiente e necessario per
formare il detto gregge o mandria; l’indicazione di almeno tre capi di bestiame, quali
oggetto del furto, fa presumere l’appartenenza degli stessi a gruppi più ampi e
numerosi. In realtà un’interpretazione letterale potrebbe condurre ad una conclusione
opposta rispetto a quella appena enunciata: visto che la norma sottintende che i tre o
più capi di bestiame siano raccolti in mandria o in gregge, potrebbe essere
esclusivamente quello il numero necessario per dar vita ai due concetti cardine. Al di
là delle opinioni divergenti, il silenzio legislativo dovrebbe rimettere la soluzione del
problema, in ossequio alle caratteristiche palesate da ciascun caso concreto,
all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità. La
seconda azione penalmente rilevante si incentra invece sul furto di bovini ed equini,
anche non raccolti in gregge o mandria, ed anche laddove si profili la sottrazione di
un singolo esemplare. A tal proposito, l’utilizzo del plurale nei sostantivi bovini e
equini ha creato qualche perplessità di semplice risoluzione; il legislatore ha preferito
tale modus espressivo per riferirsi al genere degli animali scelti, alla loro classe
zoologica, e non anche al dato numerico. Il disvalore del fatto emerge contemplando
l’aspetto qualitativo della specie di animali che, pur singolarmente presi, riescono a
ledere l’economia agricola privando essa sia di fattori produttivi sia di strumenti di
lavoro138. In ultimo, in ottemperanza al principio del ne bis in idem sostanziale, è
doveroso scegliere un criterio di differenziazione utile a discernere l’ipotesi aggravata 137 C. Peluso, Abigeato, in Dig. Pen., 1987. 138 Pecorella, cit.
100
in esame dal reato descritto all’articolo 638 rubricato Uccisione o danneggiamento di
animali altrui. Il furto di bestiame potrà essere compiuto sia mediante la classica
abduzione della cosa, sia procedendo all’uccisione dell’animale prima del relativo
trasferimento e della seguente utilizzazione per garantirsi un profitto. Qualora il fine
ultimo del reo sia l’impossessamento nonché il raggiungimento di un profitto ingiusto
si cadrà nell’ipotesi di furto aggravato, a prescindere dalla effettiva uccisione eseguita
a monte; ove invece all’uccisione non segua l’impossessamento, considerato un
connotato primario per il furto, si ravviserà un mero danneggiamento sanzionabile ex
articolo 638139.
Il fenomeno dell’abigeato, spesso sottovalutato, rappresenta oggi un vero business per
la criminalità organizzata. Solo nell’anno 2015 in Sicilia si attestano ipotesi di furto o
smarrimento per oltre 12 mila animali, includendo tale percentuale false denunce
utilizzate per celare fenomeni di macellazione clandestina aventi ad oggetto capi
malati e nonostante tutto immessi nel mercato del consumo. Il malaffare nel mondo
dell’allevamento è sintetizzabile in un titolo tanto evocativo quanto ampio, si parla di
“Cupola del bestiame.” Questa locuzione nasce nell’ambito di un’operazione che
svelava l’infiltrazione di organizzazioni criminali in giri di macellazione clandestina
basati su animali affetti da patologie. L’ambito d’origine ha poi subito allargamenti,
acquisendo un’interpretazione più ampia e diretta ad indicare l’insieme di pratiche
illegali nel settore di vendita e macellazione, il plesso di maltrattamenti accertati, le
truffe e le sofisticazioni alimentari di prodotti derivanti da animali140. Nel circuito
delle macellazioni abusive possono confluire animali allevati in modo legale, altri
posseduti illegalmente, quelli con manifeste patologie o comunque inadatti al
consumo umano. Nonostante varie tipologie di gestione a cui la macellazione è
riconducibile, la forma più pericolosa risulta essere quella organizzata, controllata
139 Peluso, cit. 140 C. Troiano, Rapporto Zoomafia 2016 LAV, Roma, 2016, p.55ss.
101
cioè da sodalizi criminali interessati a perseguire il profitto in assoluta noncuranza
della salute dei consumatori. Spesso le attività delinquenziali considerate vengono
svolte in strutture non autorizzate né riconosciute, ma ciò non toglie che parimenti
possano svolgersi in macelli autorizzati e obiettivamente a norma, approfittando della
tela di connivenze intrecciate con i controllori, i responsabili degli edifici, nonché in
primis con veterinari collusi ad hoc. I traffici illegali legati al mondo della zootecnia
hanno mostrato un’alta frequenza svelata dalle molteplici operazioni portate avanti da
una squadra di poliziotti speciali, operativi sul territorio del Parco dei Nebrodi e di
cui si dirà approfonditamente nel capitolo successivo. Prestando attenzione ad una
prospettiva rigorosamente giuridica, è d’obbligo annoverare le disposizioni
sanzionatorie espressione del noto “Pacchetto igiene” attuato anche nel nostro
territorio. Il legislatore italiano ha adottato il decreto legislativo 6 novembre 2017, n.
193 con il fine di recepire la direttiva 2004/41/CE relativa ai “controlli in materia di
sicurezza alimentare e applicazione dei regolamenti comunitari nel medesimo
settore." A fianco a questa direttiva vengono in rilievo taluni regolamenti che,
insieme ad essa, formano il cosiddetto pacchetto igiene: rispettivamente Regolamento
CE n. 852/2004 sull'igiene dei prodotti alimentari, reg. CE n. 853/2004 che stabilisce
norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale, Reg. CE n.
854/2004 che stabilisce norme specifiche per l'organizzazione dei controlli ufficiali
sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano, e Reg. CE n. 882/2004
riguardante i controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in
materia di mangimi e alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali.
La normativa vigente persegue l’obiettivo primario di salvaguardare la sicurezza
alimentare sotto il peculiare profilo igienico-sanitario. Si vuole trasmettere l’idea di
food safety, diversa e qualitativamente rilevante rispetto a quella di food security
indirizzata ad una tutela delle scorte necessarie in senso quantitativo. Il concetto di
food safety poggia sul valore cardine della qualità, esaltando la garanzia di un
102
prodotto, nel caso di specie carne di origine animale, destinato al consumo e pertanto
definibile sicuro per la salute umana141. In osservanza delle linee guida appena
esposte, il d.lgs. n. 193/2007 ha rinnovato l’apparato sanzionatorio da applicare, non
citando nello specifico le disposizioni oggetto di violazione bensì descrivendo le
condotte sussumibili nella fattispecie penale astratta. Per la tematica di nostro
interesse si prenda in esame l’articolo 6 della fattispecie ed in particolare il comma
primo, poiché introduttivo di una sanzione penale diversamente dai commi successivi
disciplinanti sanzioni di natura amministrativa. Il comma I è così declinato:
“Chiunque, nei limiti di applicabilità del regolamento (CE) n. 853/2004, effettua
attività di macellazione di animali, di produzione e preparazione di carni in luoghi
diversi dagli stabilimenti o dai locali a tale fine riconosciuti ai sensi del citato
regolamento ovvero la effettua quando il riconoscimento e' sospeso o revocato e'
punito con l'arresto da sei mesi ad un anno o con l'ammenda fino a euro 150.000, in
relazione alla gravità dell'attività posta in essere.” Come è evidente, assumono
valore le fasi di macellazione, produzione e preparazione di carni, le quali, se svolte
contrariamente al dettato della legge, verranno sanzionate tenendo conto del
parametro della gravità dell’azione. L’autorità giudiziaria sarà dunque legittimata a
determinare l’entità della sanzione sulla base delle eterogenee circostanze concrete; le
ipotesi più gravi spesso aggiungono al reato di macellazione clandestina altri reati in
concorso, meritevoli perciò di ricevere interventi repressivi più incisivi142.
141 L. Costato e S.Rizzioli, Sicurezza alimentare, in Dig. civ., 2010. 142 G. Monaco, M. Ferri, Le nuove sanzioni previste dal d.lgs.193/2007, in Sicurezza alimentare, https://euroservizimpresa.com/wp-content/uploads/2017/07/res509176_D.Lvo193-2007-appunti.pdf., p.77ss.
103
III Mafia dei Pascoli: le vicende del Parco dei Nebrodi
invaso dai clan.
1. Le origini della Mafia sui Nebrodi. 2. Giuseppe Antoci diventa emblema di rivoluzione e legalità: il Protocollo Antoci. 3. La squadra dei poliziotti “vegetariani”: la lotta alla criminalità organizzata e l’obiettivo di tutelare la salute dei consumatori. 4. L’adozione del marchio “Nebrodi Sicily” contro la mafia nel piatto. 5. Recenti episodi sul territorio nebroideo: macchie d’ombra o solo un’amara sconfitta?
1. Le origini della Mafia sui Nebrodi.
Le osservazioni esposte nei capitoli precedenti si mostrano utili e preordinate ai fatti
che ci proponiamo di raccontare in questo capitolo. La scelta è ricaduta su un
territorio ispido e al tempo stesso fragile, relegato nell’ombra, dominato da catene
montuose, comprensivo di 24 comuni ed esteso per circa 70 chilometri tra monti e
rocce. Oggetto di discussione è il Parco dei Nebrodi, parco regionale siciliano,
scenario di vicende criminose destinate a divenire emblema concreto del modus
operandi tipico della mafia rurale. Il territorio esprime al meglio la tesi da noi
sostenuta, elevando il patrimonio agricolo e zootecnico a puro simbolismo che salva
le apparenze. La prima funzione svolta dalle mafie su territori tanto sconosciuti
quanto ambiti, si traduce nell’esercizio di un potere illimitato, che prima si impone e
poi cerca guadagno. Un territorio, quello nebroideo, sommerso dall’illegalità,
104
governato dalle leggi delle pratiche mafiose, capace di confinare la legalità ai margini
di un lontano miraggio che, solo in tempi recenti, ha provato ad invertire la direzione
della rotta. Gli episodi oggi osservabili all’interno del Parco non possono definirsi
assi portanti di innovazione, ma anzi affondano le proprie radici in disegni criminosi
passati ed ancora oggi avvolti nel mistero dei delitti perfetti. Tra il 1956 e il 1967 si
dipanano i dieci anni più bui della storia di quei posti; i centri di Mistretta, Pettineo,
Tusa e Castel di Lucio diedero vita al soprannominato “triangolo della morte”,
tormentato da una lunga catena di delitti, precisamente tredici omicidi senza autori né
pene, commissionati dai più forti. In quegli anni, la mafia strumentalizzò la morte per
imporre le proprie leggi sulla pastorizia, sui pascoli e sulla popolazione locale.
Nessuna ombra di progresso sociale si affacciava su quei monti. In perfetta sequenza,
killer assoldati e dall’infallibile mira colpivano le vittime prescelte; nessuna traccia
restava visibile, si spariva come fantasmi tra rocce sinuose che sanno accogliere il
latitante. Le esigue forze dell’ordine presenti si impegnavano caparbiamente nel
tentativo disperato di attribuire un volto e un nome agli autori dei reati; ogni indagine
sfociava in prove labili, inconsistenti, difficili da supportare e inidonee a fondare
un’accusa. Non appena si intraprendevano talune indagini, giungeva la notizia di un
nuovo assassinio. Era una catena senza tregua, un circolo vizioso avvallato dalla
legge dell’omertà incombente sul popolo Tacere significava vivere più a lungo,
accettare un potere mafioso e l’intrinseca forza intimidatrice che, diffusa
nell’ambiente, condizionava la società. La presa di coscienza dell’esistenza di
un’organizzazione mafiosa nel triangolo della morte avvenne dopo dieci lunghi anni e
tredici omicidi, l’ultimo dei quali trovò la sua vittima nell’assessore socialista di
Tusa, Carmelo Battaglia. Il sottosegretario Leone Amadei, incaricato di portare le
condoglianze del partito, oltre a quelle personali, ai familiari dell’ucciso, fu il primo
intervistato a parlare di espansione e presenza mafiosa sul territorio messinese e nella
specie nebroideo. Il caso Battaglia scosse l’opinione pubblica divenendo un fatto
105
sociale capace di attirare le attenzioni di istituzioni fino a quel momento assenti. La
lunga catena di omicidi registrati nel “triangolo della morte” aveva tenuto ben
distante la luce dei riflettori governativi. Gli ingenti sforzi delle poche forze
dell’ordine impegnate su un territorio travagliato ed omertoso, non ebbero mai
supporti istituzionali né minimi né tantomeno di spessore. Il parlamento fu tirato in
ballo dall’onorevole comunista Pancrazio de Pasquale, il quale supplicò la
Commissione Antimafia di intervenire. La risposta del ministro Taviani precisò il
raggio d’azione della lotta alla mafia: “un impegno non solo del governo e delle forze
dell’ordine, ma dello Stato: un impegno d’onore della collettività nazionale.”
Nell’intervento si fece il nome del commendatore Russo quale papabile responsabile
dell’omicidio Battaglia; ex vicesindaco di Sant’Agata Militello, imparentato con un
influente deputato regionale democristiano, egli aveva avuto passati contrasti con i
dirigenti della cooperativa, e ciò proprio a causa della sua forte volontà di utilizzare i
terreni della stessa per far pascolare le mandrie. Il ministro elaborò anche un piano di
azione volto a moltiplicare uomini, mezzi e potenziare la sicurezza nelle zone più
calde, tuttavia tale progetto rimase solo su carta. Il delitto Battaglia servì solo a
certificare formalmente l’esistenza della mafia sui Nebrodi. Le reazioni più
immediate estesero la legislazione antimafia anche nella provincia del Messinese,
seguirono arresti ed interrogatori rientranti nelle politiche di rassicurazione, ma non
di sicurezza, che in quanto tali ben presto deludono. Ed infatti così fu. Ucciso all’alba
del 24 marzo 1966, le dinamiche dell’omicidio Battaglia riconfermavano i colpi di
lupara già esplosi negli omicidi precedenti. Uomo politico nelle vesti di assessore
comunale di Tusa tra le fila dei socialisti nonché socio della cooperativa “Risveglio
alesino”, fu ucciso mentre si recava col mulo sul fondo Foieri; ivi svolgeva un duro
lavoro da armentista dedito al pascolo del bestiame. Il primo round di interrogatori
coinvolse compagni di partito, soci della cooperativa e terzi legati in qualche modo
alle vicende del fondo; il fine era segnare un momento di svolta, rivoluzionare un
106
territorio, quello del triangolo della morte, avvolto da sangue e misteri. Tra le
montagne delle Madonie e la catena dei Nebrodi, tra boschi, pascoli e vecchi feudi,
una mafia dei pascoli si muoveva libera ed impunita. Coltivava quotidianamente una
cornice ad essa incline promuovendo abigeati, sconfinamenti di mandrie e imponendo
“sovrastanti” presuntuosi. Il movente del delitto Battaglia non può prescindere dalla
sua attività latu sensu politica, caratterizzata da una lotta ostinata in difesa della
legalità, da battaglie in difesa dei diritti di umili contadini non accettate da una mafia
vecchia, abituata ad esercitare soprusi ed imporre voleri e doveri. L’obiettivo di
smantellare il sistema latifondiario, la spinta verso la lottizzazione dei terreni e la loro
assegnazione ai richiedenti, costituirono i punti salienti dell’attivismo. La forte
personalità di Carmelo Battaglia si rapportava con un contesto sociale prettamente
rurale, vissuto da piccoli contadini ed allevatori bisognosi di un pezzo di terra per
vivere. Il terreno non poteva costituire unicamente il luogo ove dimostrare antichi
privilegi, ma doveva diventare uno strumento di crescita e rinascita. Lo sviluppo di
quell’area sarebbe dipeso dal duro lavoro di associazioni di contadini convinti ad
esigere più diritti per poter costruire il bene comune. Tali cooperative ebbero, nei
primi tempi, un tragitto tortuoso ed in salita. Le vicende furono introdotte da un
decreto del 1945 di concessione dei terreni incolti, il quale portò contadini e piccoli
allevatori a riunirsi in cooperative, tra cui Risveglio alesino a Tusa e San Placido a
Castel di Lucio. Inizialmente i colpi di fucile sparati dai gabellotti non permisero
l’affermazione di questi nuovi gruppi deboli e troppo innovativi. Sulla spinta della
legge sulla piccola proprietà terriera, le due cooperative si guadagnarono la gestione
di 270 ettari del fondo Foieri per “gentile” concessione della baronessa Lipari,
proprietaria del fondo. In data 4 ottobre 1965 il possesso del fondo divenne formale.
Tuttavia, risulta imprescindibile puntualizzare la situazione fattuale dell’epoca e
ricordare il nome di Giuseppe Russo quale affittuario del feudo fino al 31 luglio
1966, come da previsione contrattuale, e di Biagio Amato, suo sovrastante. Il Russo,
107
ex vicesindaco democristiano di Sant’Agata Militello, pur avendo richiesto la
rescissione un anno prima, non esitò a formulare altre proposte ai nuovi gestori del
fondo, aventi ad oggetto la concessione di aree adibite a pascolo. Gli vennero
eccezionalmente concesse trenta salme. I primi scontri non conobbero lunghe attese.
Duecentotrenta capi di bestiame sconfinarono nel feudo. Pronta la reazione di
Battaglia e gli altri soci; si dichiarò intolleranza per altri sconfinamenti e continua
vigilanza sul terreno fino al sopraggiungere dei pastori/proprietari delle mandrie
abusive. Il sopraggiungere di questi ultimi non conobbe diplomazia; furono esplosi
colpi di fucile in aria che costrinsero i soci della cooperativa alla ritirata. Un segnale
inequivocabile: il fondo aveva da sempre costituito punto di transito per le mandrie e
le regole del passato non possono cambiarsi. Seguirono incontri tra Battaglia, il
commendatore Russo, Amata ed altri pastori, ma le conclusioni si tradussero in
minacce e richieste presuntuose di avere in uso altro terreno. I toni si inasprivano così
come le violente minacce aumentavano. Da un lato contadini schierati in difesa di
fabbisogni primari: una terra per vivere, produrre e crescere; dall’altro un tribunale
mafioso che non sa indietreggiare. Questo lo scenario presupposto dell’omicidio
Battaglia. E’ lecito però chiedersi quali furono i postumi. Per la prima volta
magistrati ed inquirenti instaurarono una stretta collaborazione, spinti dal forte
desiderio di far luce sul tredicesimo omicidio. L’obiettivo era affermare giustizia
dove troppo a lungo oscurata, diffondere sicurezza tra la gente spaurita, raccomandare
coraggio per sostituirlo alla omertosa paura, e ancora dare voce al silenzio che i
violenti comprano con gli abusi. I primi fermati furono quattro: Giovanni Ardizzone
(socio della cooperativa ed amico della vittima), Giovanni Franco (dipendente del
Battaglia), Domenico Castagna (socio della cooperativa Risveglio alesino), Biagio
Amata (ex sovrastante del feudo “Foieri” per conto del commentatore Russo). La
reticenza fu sospettata per ognuno di loro. I più vicini alla vittima avrebbero potuto
essere depositari di confidenze o notizie utili al prosieguo delle indagini, mentre
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Amata avrebbe potuto essere accusato per gli aspri scontri, anche pubblici, avuti con
il Battaglia a causa dell’esiguo spazio a lui concesso per il pascolo. Gli interrogatori
dei quattro fermati, come consueto, non aprirono alcuna strada né svelarono elementi
utili alla risoluzione del caso. Qualcuno fra dirigenti politici e capi delle cooperative
accennò a parlare, ma il passo verso la smentita fu breve. Nessuno cedeva, ma
neanche gli inquirenti sembravano accettare un’amara sconfitta da aggiungere alle
precedenti. Al contempo, anche le rappresentanze politiche si calavano nella parte,
incoraggiando l’intervento degli enti nazionali, regionali e della Commissione
Antimafia, con il fine di far prendere loro coscienza della cruda realtà e di
conseguenza sollecitare l’adozione di un piano repressivo efficace per la lotta alla
mafia. Queste le parole risonanti in una delle commemorazioni: “Eccidi, abigeati,
delitti, tentati omicidi: la mafia non finisce ai confini della provincia di Palermo…
Alle spalle abbiamo le montagne e una zona abbandonata, c’è anche Mistretta nel cui
territorio spariscono intere mandrie senza che mai se ne possa recuperare un solo
capo, anche cercando dall’alto con gli elicotteri. Anche i boschi sono alleati degli
abigei e della mafia: li proteggono.” Seguiva la declamazione di inviti disposti per
spezzare la catena dell’omertà e distribuire coraggio alla gente. Le belle parole si
moltiplicavano ma i misteri continuavano a non rivelarsi. Continui interrogatori si
sommavano a molteplici sopralluoghi, le perizie studiavano le armi dei fermati,
mentre il termine del fermo correva verso la scadenza ed i risultati sposavano risposte
mute. Le predizioni si avverarono: Amata, Ardizzone, Franco e Castagna tornarono in
libertà perché nessun indizio risultava sufficiente a supportare un’accusa per omicidio
premeditato. Stavolta, però, gli investigatori non si fermarono.
L’ultimo fermato portava il nome di Giuseppe Miceli,45 anni, pastore e socio della
cooperativa “Risveglio alesino”. Con stupore gli indizi a suo carico permisero di
formulare un’accusa. Elementi indiziari racchiudevano le ragioni di scontro con il
Battaglia: 1. l’atteggiamento accondiscendente ed aperto verso le figure del
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commendatore Russo e del suo sovrastante Amata per la cessione di parte del feudo.
2. un litigio privato per lo sconfinamento di mandrie del Miceli nell’appezzamento
gestito dal Battaglia. 3. L’episodio più significativo: la cessione, da parte del pastore,
del lotto di terreno assegnatogli all’interno del feudo Foieri proprio a Giuseppe Russo
e Biagio Amata, considerando che esso confinava con quella parte di terra già
concessa ai due dalla stessa cooperativa. Il Battaglia criticò duramente questa
operazione etichettandola come “ingiusta e svantaggiosa” per tutti gli altri soci, che
avrebbero potuto ricevere il “lotto” in questione al posto di chi non ne aveva un reale
bisogno. La difesa contestò le accuse fornendo un alibi, più che mai classico, ma
tuttavia efficace e difatti non smentito. Miceli fu presto rimesso in libertà quando
l’Autorità giudiziaria ritenne insufficienti gli elementi di colpevolezza raccolti a suo
carico. Gli ultimi tentativi espletati videro l’arrivo sul territorio del dirigente della
Criminalpol, Angelo Mangano, per mettere a nudo le ombre esistenti. Dopo le prime
indagini Mangano denunciò, alla Procura della Repubblica di Mistretta, Giuseppe
Russo e Biagio Amata quali mandanti dell’omicidio Battaglia, Giuseppe Miceli quale
esecutore materiale del delitto, e in aggiunta Carmelo Mastrandrea, Francesco Di
Maggio e Antonia Scira poichè avrebbero agito in concorso. In ultimo Giovanni
Franco fu accusato di favoreggiamento. Seguì la decisione del giudice istruttore
presso il Tribunale di Mistretta di prosciogliere il Miceli e la Scira con formula
dubitativa, il Franco con formula piena, e di richiedere l’archiviazione del
procedimento per tutti gli altri. Interessante ricordare che nel frattempo Antonia
Scira, moglie della prima vittima della mafia dei Nebrodi, Rosario Patti, fu la prima
donna ad essere mandata al soggiorno obbligato. Tali prime decisioni, non accettate
dalla Procura generale della Repubblica, vennero impugnate, ma il Miceli, la Scira e
gli altri, per evitare un nuovo arresto, presentarono ricorso per Cassazione. Il
processo si incappò in lungaggini giudiziarie decurtate da ogni plausibile speranza di
identificare l’assassino del sindacalista Battaglia. Nella ultima tornata investigativa,
110
nuove ipotesi riaffermarono lo scenario mafioso ormai svelato: la sentenza di morte
per Carmelo Battaglia era stata adottata in un summit tenutosi all’interno di
un’abitazione privata non molto distante dal luogo del delitto. Pur trattandosi di
ipotesi dubbie e senza riscontri, lasciavano immaginare che la dimora ospitante
potesse essere proprio quella di Antonia Scira143. Anche il tredicesimo delitto nel
triangolo della morte si guadagnava in questo modo l’impunità. Il caso Battaglia
sembrò innescare una reazione ed un’esigenza di azione tra gli organi politici, nella
specie in quella Commissione Antimafia nata nel dicembre 1962. I dodici delitti
precedenti si erano tradotti in indifferenza ed inazione. Lo spargimento di sangue e la
catena di abigeati e soprusi tra terre e boschi lontani, non aveva provocato alcun
turbamento negli organi governativi. La Provincia di Messina esulava dal mirino
focale delle istituzioni. La Commissione d’inchiesta iniziò ad intervenire con ritardo,
in un clima fortemente emergenziale, trascorsi tre anni dal tredicesimo delitto
impunito. Il passo lento e traballante si calava in un contesto sociale in preda alla
rassegnazione: le attività delinquenziali appartenevano alla quotidianità, indossando
le vesti di un male cronico, endemico ed incurabile. Il piano d’azione della
Commissione sfociò in un fallimento. Dinnanzi al reiterarsi di crimini firmati Mafia,
inquirenti e magistrati non riuscivano a scalfire, vincolati dal principio di certezza
della prova, l’ambiente mafioso in cui andava intercalata la personalità dell’imputato.
La mafia rifiutava di andare sotto giudizio e non c’era modo alcuno di scardinare
l’impasse. Eppure, un nodo tanto stretto pretendeva un intervento dirimente promosso
dalle sfere più alte: non poteva bastava l’impegno sul campo delle forze dell’ordine,
ma per sconfiggere la mafia serviva combattere i centri di potere occulti, quelli che
dall’alto, da centri sicuri e lontani dai sospetti, dominano l’intero mondo della
criminalità organizzata. Nessuna possibilità di affondare la spada nel cuore del
problema, totale impossibilità di scovare il tallone d’Achille senza la consapevolezza
143 G. Messina, Le origini della mafia sui Nebrodi, Armando Siciliano Editore, Messina, 1995.
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d’animo che esiste un male economico, sociale e culturale necessariamente da
debellare.
2. Giuseppe Antoci diventa emblema di rivoluzione e legalità: il Protocollo Antoci.
La lunga sequela di misfatti avvenuti sul territorio nebroideo sembra ripetersi, a
distanza di anni, in un’altra ondata di mattanze impunite. Dal 1989 al 2016 la scia di
sangue che macchia le aree di interesse non esclude numerosi casi di lupara bianca
già noti all’interno della comunità. I comuni di Cesarò, San Fratello, Caronia,
Capizzi, Tortorici, Troina, riconducibili alle province di Enna e Messina, disegnano il
retroscena sociale e culturale entro il quale si è mosso l’ex Presidente del Parco dei
Nebrodi, Giuseppe Antoci. Uomo di alta moralità e ostinazione, costretto a realizzare
un ingente sforzo per frenare l’immensa “pozza” di illegalità dominante e dilagante
sui centri posti sotto il suo controllo. La guerra condotta dalla Mafia nei confronti di
Beppe Antoci, sfociata nel gravissimo agguato del 18 maggio 2016, non può
pretendere di essere compresa in assenza di una raffigurazione della situazione
esistente all’epoca dei fatti. Il clima, che i residenti dei Comuni appartenenti al Parco
dei Nebrodi respiravano, odorava di violenza e timore. Potrebbe infatti suscitare
incredulità il resoconto dei molteplici episodi susseguitisi e troppo spesso
abbandonati al mistero, senza speranza alcuna di giungere a soluzione dei casi
concreti. E’ il 1989 quando a Caronia il titolare di una ditta di trasporti, Matteo
Blandi, cade sotto i colpi di lupara e di una calibro nove, l’11 novembre 1991 quando
l’allevatore Mauro Benedetto viene ucciso a San Fratello. Segue il tragico maggio
1992 che vede l’ex sindaco di Cesarò, Calogero Palmiro Calaciura, trucidato a soli 45
anni da un calibro dodici; un’altra vittima racconta il dramma, Giuseppe Savoca,
ventitrè anni muore carbonizzato senza pietà. Nello stesso anno, il cadavere di un
allevatore viene rinvenuto a Caronia. Ed ancora ci si imbatte nei corpi senza vita di
112
braccianti, imprenditori e guardiacaccia, su ognuno di loro evidenti i colpi fatali di
fucile o pistola. In ordine temporale si giunge al 7 luglio 2014, quando in contrada
Pulcino, a Cesarò, l’allevatore 54enne Giuseppe Conti Taguali, viene colpito e ucciso
da un fucile calibro dodici; non sembrano casualità le relazioni di parentela esistenti
tra la vittima e una potente famiglia attiva sul territorio, e di cui meglio si dirà144.
Nonostante l’attività investigativa non abbia mai fatto luce sui cruenti fatti, è lecito
ipotizzare un chiaro collegamento tra tali delitti e gli affari portati avanti dalla mafia
dei terreni. In particolar modo il riferimento corre al business dei terreni in loro affitto
o gestione, preordinati al conseguimento di ingenti benefici economici.
L’appartenenza delle vittime al settore agro-zootecnico svela l’effettiva rilevanza
degli affari rurali, legittimanti omicidi e altri reati a costo di monopolizzare, o
perlomeno ampliare, quel giro d’affari dai connotati peculiari. Basti, per riportare un
esempio concreto, citare le dinamiche sottese alla concessione dei terreni in affitto.
Nel corso del 2015 il concedente esigeva un canone pari a cento euro per ettaro di
superficie, somma alquanto esigua se confrontata con i contributi, a sostegno della
produzione attivata, percepiti dal concessionario sui medesimi ettari, attestati circa sui
500 euro. Si delinea immediatamente una differenza di guadagno e vantaggi,
sbilanciati a favore del concessionario affittuario ed evidentemente gravosi sul
concedente. Di qui, l’interesse mafioso di appropriarsi, all’insaputa dei legittimi
proprietari, di particelle catastali oppure di spazi lecitamente coltivati dai proprietari,
ma strappati loro attraverso il potere illecito. La Mafia invade il Parco dei Nebrodi
spartendosi a tavolino il controllo delle aree interne. Torna ad assumere vigore la
riflessione incentrata sull’essenzialità di un potere possente esercitato sulle terre
meno all’avanguardia e più retrograde, ma pur sempre capaci di conferire fama,
rispetto, capitale, stima e fiorenti ricchezze derivate dalle truffe ai fondi europei
destinati al mondo agricolo. Queste le premesse per dirigere uno sguardo più 144 L.A. Iapichino, Nebrodi, mafia dei pascoli: la mattanza impunita, da www.antimafiaduemila.com, 26 ottobre 2016.
113
approfondito verso le famiglie malavitose effettivamente presenti e perciò influenti
sullo sviluppo socio-economico dei Nebrodi.
La mafia tortoriciana (Tortici risulta uno dei Comuni oggetto di analisi) conta fra i
suoi esponenti il clan dei Galati-Giordano e dei Bontempo-Schiavo. Le attività
d’indagine hanno inoltre attestato l’esistenza di un accordo fra il clan dei Bontempo-
Schiavo e i Batanesi; i primi, consapevoli dei danni arrecati loro da un’ondata di
arresti e per questo timorosi di perdere potere, hanno preferito delegare il controllo
del territorio ai Bontempo in cambio della metà dei proventi illeciti perlopiù
provenienti dal delitto di estorsione145. Nella provincia di Enna si è accertata la
presenza di un’organizzazione mafiosa con modi operativi ricollegabili a Cosa nostra.
Peculiare l’analisi strutturale che denotava il Comune di Troina: la collocazione dei
territori in luoghi distanti dai centri urbani e più vicini a Paesi sotto forte influenza
mafiosa, ha inevitabilmente inaugurato la prassi del dominio mafioso degli spazi, pur
quando annoverabili fra la res publica. Il comune di Troina disponeva di 4200 ettari
di bosco, la gestione dei quali veniva demandata a potenti allevatori, non per scelta
ma per imposta autocandidatura. Essi si spingevano fino a dettare le condizioni
contrattuali, economiche nonché i termini di durata inseriti nei contratti, frutto di
coartazione certa e non di libera volontà dei contraenti. Già a partire dal 1963, il
Comune ha provveduto ad istituire un’Azienda speciale silvo pastorale impegnata
nella conservazione, miglioramento e valorizzazione del proprio patrimonio
comunale, come anzi precisato corrispondente a circa 4200 ha. Qualora si ponga
attenzione agli atti emanati dal consiglio di amministrazione e dal direttore tecnico
dell’Azienda nel biennio 2012-2013, sarà di facile intuizione avvertire un sodalizio
criminoso attivo ed interessato non solo alla diretta gestione del patrimonio boschivo,
mediante il condizionamento dei contratti d’affitto stipulati dall’Azienda con terzi,
ma anche all’instaurazione di salde connivenze con figure politiche esponenti del 145 Redazione, Nebrodi: Lumia (Pd), presenta interrogazione con tutti i nomi dei boss…, da www.laspia.it, 18 maggio 2016.
114
consiglio comunale. Durante le tornate elettorali, si concedeva l’appoggio a politici
rappresentanti diretti o comunque fedeli sostenitori delle cosche della malavita rurale.
Parimenti, si cercava di infiltrare l’organigramma della Azienda speciale;
emblematico il supporto offerto a Giuseppe Militello, aspirante al ruolo di direttore
tecnico in occasione dell’emanazione del relativo bando. Grazie alla produzione di
una serie di false attestazioni, il Militello sarebbe riuscito a ricoprire la funzione
ambita ricordandosi, in tale ambito sia di assecondare gli interessi particolaristici e le
logiche deviate richieste dalle famiglie mafiose sia di obliare, al tempo stesso, il
perseguimento del “bene” dell’ente gestionale. Le plurime personalità
accondiscendenti, inserite in diversi livelli politico-amministrativi, hanno permesso
alle cosche di perpetrare consistenti truffe ai danni dell’Agea lucrando sui contributi
elargiti. Il dominio sul patrimonio boschivo comunale, costituisce allora il punto
nevralgico e di partenza per accumulare profitti. A tal fine, reati estorsivi, furti e
danneggiamenti rappresentano il mezzo d’eccellenza per conquistare la supremazia e
scoraggiare la concorrenza nella gestione dei terreni. Valga fra tutti questo dato reale:
un contratto d’affitto stipulato tra la famiglia Conti Taguali (Batanesi di Tortorici) e
l’azienda per un’estensione pari a 1200 ettari146. Un cambiamento di rotta è stato
impresso al territorio troinese con l’ascesa al ruolo di sindaco del giovane Fabio
Venezia, il quale si è dedicato con arduo impegno al ripristino della legalità. Una
delle sue prime azioni si è tradotta nello smantellamento del vecchio consiglio
d’amministrazione dell’azienda e nel contestuale licenziamento del dirigente
Militello, tra l’altro incompatibile con il compito rivestito poiché destinatario di un
decreto di rinvio a giudizio. Gli interventi successivi sono riusciti ad accendere i
riflettori sul bagaglio di atti illegittimi adottati dall’ente e a troncare quel giro di
favoritismi predisposti per gli affittuari più temuti. Il sindaco Venezia ha provveduto
a valorizzare le procedure di evidenza pubblica nell’affidamento della gestione dei 146 Vedi G. Lumia, Atto di sindacato ispettivo, n. 4-05828, Legislatura 17, in www. senato.it , 18 maggio 2016, seduta n.628.
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terreni di proprietà comunale, razionalizzando ulteriormente anche l’importo dei
canoni d’affitto, considerati eccessivamente esigui di fronte ai contributi pubblici
percepibili sui medesimi ettari di superficie. I risultati finali delle indagini intraprese
mostrano l’innegabile presenza della mafia nel Parco regionale siciliano. La
consapevolezza di essa non può sfociare in tolleranza e pacifica convivenza, ma anzi
deve rappresentare il tassello iniziale per la promozione di un’azione antimafia
orientata alla prevenzione e repressione dei fenomeni criminosi. Un movimento che
deve partire però dalle istituzioni locali che governano i centri più piccoli e che
invece ancora oggi optano per un negazionismo privo di giustificazioni. Un esempio
evocativo riporta il nome di Filadelfio Favazzo, allevatore pluripregiudicato operante
nella località di San Fratello e imputato del reato ex articolo 416bis nell’operazione
“Montagna147”. Egli rappresenta un riferimento per le famiglie mafiose di Cesarò,
capeggiate dai Pruiti, Conti Taguali, Foti Belligambi, e per tutte le altre cosche
tortoriciane omaggianti i Giordano Galati, i Bontempo Scavo, Batanesi e Foraci148. La
recrudescenza del fenomeno mafioso emerge tuttavia dall’osservazione di episodi
abituali e obiettivamente vessatori nei confronti dei piccoli imprenditori locali, così:
“da decenni le aziende agricole di proprietà dei cittadini di San Fratello, operanti
nel territorio del comune, ma anche nei comuni vicini di Cesarò, Maniaci, Capizzi e
Caronia, sono letteralmente in ginocchio, in quanto vengono rubati animali e mezzi
agricoli e sottoposti al micidiale rito estorsivo del "cavallo di ritorno". Molti
allevatori onesti sono stati costretti ad abbandonare i propri pascoli e a svendere i
terreni, tanti altri sono stati minacciati con teste di animali sgozzati, altri ancora
sono stati raggiunti da colpi di fucile dietro i loro cancelli e molti di questi sono
147 Nell’ambito di questa operazione datata 2007, il Gip del Tribunale di Messina, su richiesta della Dda locale, ha emesso una serie di provvedimenti cautelari volti a colpire gli esponenti delle famiglie mafiose di Mistretta e Tortorici, i quali avrebbero monopolizzato il settore degli appalti pubblici nella fascia tirrenica, creando un cartello di imprenditori organici o contigui a Cosa Nostra. 148 G. Lumia, Atto di Sindacato Ispettivo, n. 4-05962, legislatura 17, in senato.it, 21 giugno 2016, seduta n. 641.
116
ancora costretti a dormire, per proteggere le loro aziende, in campagna, rischiando
la propria vita in situazioni estreme, spesso senza corrente e senza i più elementari
servizi igienici; negli ultimi decenni, a San Fratello, sono ben tre gli imprenditori
morti uccisi a fucilate. Sono diversi i cittadini Sanfratellani che hanno scoperto che i
terreni di loro proprietà venivano utilizzati da terzi "mafiosi" per truffare le risorse
pubbliche della Comunità europea, chiedendo contributi ed affitti falsi149”. Il volto
violento della prima mafia dei pascoli ha incontrato un’evoluzione nella fitta rete di
connivenze e colletti bianchi disegnata per truffare furbescamente i fondi Pac.
Un’avanzata mafiosa a piede libero in grado di compromettere il potenziale sviluppo
del polmone verde siciliano. Una violenza dilagante che l’ex Presidente del Parco dei
Nebrodi, fin dall’immissione nell’incarico, ha cercato di reprimere. L’attivismo di
Antoci, ispirato da alti valori di moralità e legalità, ha voluto restituire sostegno,
anche in senso strettamente economico, a giovani talentuosi che ambiscono
all’imprenditoria legale per mantenere in vita il proprio territorio. L’acmè del suo
operato si è tradotto nell’adozione di un protocollo pilota, il Protocollo Antoci, per il
quale il Presidente ha dovuto rischiare la vita. Le ragioni dell’agguato subìto vanno
infatti ricercate nel contenuto di questo documento rivoluzionario firmato dalla
Prefettura di Messina insieme alla Regione Sicilia, l’Ente Parco dei Nebrodi, L’Ente
per lo Sviluppo Agricolo e i Comuni aderenti al Parco. Il Prefetto della Provincia di
Messina, Stefano Trotta, ha prestato il suo consenso ad un cambiamento di rotta
richiesto con insistenza dalla situazione emergenziale, siglando il 18 maggio 2015 il
noto Protocollo di legalità. L’individuazione delle parti contraenti muove dalla
considerazione della titolarità dei terreni che si estendono sull’intera area dei
Nebrodi, alternativamente di proprietà dell’Ente Parco, della Regione Sicilia, dei
Comuni aderenti al Parco o dell’Ente per lo Sviluppo Agricolo. Nell’ottica più ampia
tesa a garantire il libero gioco della concorrenza nonché l’esercizio dell’imprenditoria
149 Lumia, vedi supra.
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onesta, si promuove vigilanza e tutela del settore agro-silvo-pastorale, introducendo
maggiore trasparenza e coordinamento amministrativo con il fine di evitare qualsiasi
tentativo di infiltrazione mafiosa. Il patto di legalità racchiude l’impegno a porre in
essere ogni utile azione pr garantire la correttezza, la trasparenza, l’efficienza e
l’efficacia dell’azione amministrativa, in modo da prevenire possibili fenomeni di
infiltrazioni della criminalità organizzata nell’ambito della gestione diretta ed
indiretta, secondo le modalità di legge e regolamento vigenti, del patrimonio
immobiliare delle Amministrazioni firmatarie150. La disposizione successiva obbliga i
concessionari, al fine della concessione dei beni a loro favore, all’assunzione di
specifici obblighi formali, pena il non rilascio del provvedimento e/o la successiva
revoca. Essi si articolano in due principali doveri:
1. non concedere a terzi la titolarità o l’utilizzo totale e parziale del bene concesso;
2. denunciare immediatamente all’Autorità Giudiziaria o a quella di Polizia
Giudiziaria ogni illecita richiesta di denaro o altra utilità ovvero offerta di
protezione o estorsione di qualsiasi natura che venga avanzata nei propri confronti o
di familiari. I proposti ivi enunciati verranno concretamente perseguiti mediante
l’impegno dei firmatari, prima di ogni e qualsiasi attività preliminare alla definitiva
concessione di beni ricadenti nel territorio del Parco, a chiedere al Prefetto di
verificare la sussistenza o meno di una delle cause di decadenza di cui all’art 67, del
d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché la
sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa a norma dell’art. 91 del
medesimo decreto legislativo. Trascorsi i termini si procederà previa sottoscrizione
del richiedente di atto sostitutivo di notorietà attestante i requisiti previsti dalla legge
antimafia151. Ergo, i soggetti concessionari non potranno identificarsi nelle persone
150 Protocollo di legalità, art.1, http://www.parcodeinebrodi.it/files/AMMINISTRAZIONE_TRASPARENTE/altri_contenuti/Protocollo_di_legalita.pdf151 Protocollo di legalità, art. 3.
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alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di
prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II, ovvero quelle misure di prevenzione
personali applicate dall’Autorità Giudiziaria. Inoltre, nell’ipotesi di concessione di
terreni agricoli demaniali, prima di procedere alla relativa autorizzazione, i soggetti
firmatari dovranno acquisire l’informazione antimafia a prescindere dal valore
complessivo del terreno richiesto. L’informazione antimafia è parte integrante della
documentazione antimafia, la quale ingloba a sua volta anche la comunicazione
antimafia. Il primo documento svolge la funzione di certificare, previa consultazione
di una banca dati nazionale unica da parte dei soggetti competenti al rilascio152, “la
sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui
all'articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 91, comma 6,
l’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa
tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate153”.
Apprestandoci a trarre le opportune conclusioni, il cuore pulsante del Protocollo
pilota si traduce nella capacità di smantellare un sistema ben consolidato nella prassi,
che vedeva i noti boss del territorio assoluti protagonisti. Essi godevano indisturbati
dell’affitto pluriennale di terreni demaniali, concessi sotto l’egida del Parco, esibendo
mere autocertificazioni redatte falsamente ad hoc per ogni richiesta mafiosa. I
concessionari venivano così legalmente autorizzati a truffare l’Agea, accaparrandosi
152 Cfr art.97 d.lgs. 159/2011: Consultazione della banca dati nazionale unica: Ai fini del rilascio della documentazione antimafia, la banca dati nazionale unica può essere consultata, secondo le modalità di cui al regolamento previsto dall'articolo 99, da: a) i soggetti indicati dall'articolo 83, commi 1 e 2, del presente decreto; b) le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; c) gli ordini professionali; c-bis) l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, per le finalità di cui all'articolo 6-bis del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.153 Cfr. art. 84 d.lgs. 159/2011: Definizioni: 1. La documentazione antimafia è costituita dalla comunicazione antimafia e dall'informazione antimafia. 2. La comunicazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67. 3. L'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 91, comma 6, nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4.
119
risorse pubbliche essenziali per sostenere le proprie attività imprenditoriali, che
obiettivamente sarebbero solo da inserire in una black list. La riuscita delle operazioni
veniva spesso garantita dal criterio di differenziazione, cioè suddividendo le terre in
appezzamenti più piccoli, mai oltrepassanti il limite di 150.000mila euro, gestiti da
aziende diverse per non destare sospetti. A regalare concretezza a tale meccanismo
truffaldino interveniva la normativa previgente, strutturata nel senso di esigere la
detta informazione antimafia solo nelle ipotesi di concessioni aventi ad oggetto
terreni demaniali dal valore complessivo di oltre 150.000. Soglia limite annullata
dalla portata innovativa del Patto, che si appresta a disciplinare la relativa
documentazione antimafia a prescindere da ogni valore numerico stimabile.
L’obiettivo ultimo è quello di donare fertilità alla legalità economica e sociale,
riportando in auge principi morali dimenticati dalle comunità che abitano i territori
dei Nebrodi. La forza del Protocollo di legalità rinvigorisce la mole di intenti già
perseguiti con l’introduzione dell’articolo 416bis all’interno del Codice Antimafia.
L’esigenza di colpire l’accumulo di ricchezze e i patrimoni delle cosche è condivisa a
pieno dai firmatari dell’accordo, ostinati nell’assicurare repressioni efficienti. La
criminalità ambientale e agroalimentare è divenuta il simbolo della mafia delle
montagne, obbligando le istituzioni locali e gli organi di polizia a mettere in pratica le
linee guida dell’intesa. Prima conseguenza rilevante è stata la firma del prefetto
Stefano Trotta di un’interdittiva antimafia, a fortiori confermata successivamente dal
Tar, avverso quindici titolari di aziende agricole considerate emanazione diretta delle
cosche o comunque ad essa strettamente connesse. Cognomi eccellenti spiccano nel
provvedimento del prefetto: Foti- Belligambi, Pruiti, Triscari, esponenti delle mafie
di Cesarò e Bronte ai quali direttamente o indirettamente vanno ricondotte le aziende
individuate nell’interdittiva154. Le operazioni di vigilanza, inaugurate dalla data di
adozione del Protocollo ed eseguite grazie alla collaborazione degli organi di polizia, 154 A. Ziniti, Affari, omicidi, pizzo e attentati ecco la potente mafia di Tortorici, La Repubblica, 19 maggio 2016.
120
hanno portato alla distruzione di ingenti imperi mafiosi; l’interdittiva antimafia
disposta dalla Prefettura di Catania ha colpito un’azienda agricola attiva nel territorio
di Cesarò e firmata Conti Taguali srl. Il business degli allevamenti apriva la strada
verso il pacchetto di contributi pubblici previsti per le zone adibite a pascolo. La
società destinataria del provvedimento avrebbe tenuto le redini del potere su un’area
di estensione pari a 1300 ettari di proprietà del Comune di Troina. L’azienda,
amministrata dal 64enne Giuseppe Conti Taguali, sarebbe suscettibile di infiltrazioni
mafiose e perciò costretta a subire la revoca delle concessioni ottenute prima
dell’adozione formale del Protocollo Antoci. L’indice di infiltrazione mafiosa è in
realtà deducibile di per sé analizzando la figura del Taguali, personaggio di spessore
in molteplici circuiti criminosi. Occorre ricordare i legami di parentela indici di
mafiosità: il reo è fratello di Sebastiano, che a sua volta ha due cognati, Rosario
Bontempo Scavo e Carmelo Bontempo Scavo, entrambi condannati con sentenza alla
pena dell’ergastolo per omicidio e 416 bis. Emblematico citare i restanti membri della
società oggetto di biasimo, tra i quali figurano: “la moglie di Giuseppe Conti
Taguali, Carmela Pruiti, originaria come il marito di Tortorici, il figlio Signorino
Conti Taguali, che “risulta essere arrestato nel 2008 per aver fatto parte di
un’associazione per delinquere di tipo mafioso, riconducibile a Cosa Nostra
palermitana, operante nella fascia tirrenica della provincia di Messina finalizzata
alla commissione di una indeterminata serie di delitti contro il patrimonio, nonché
all’acquisizione in modo diretto e indiretto alla gestione e al controllo di attività
economiche imprenditoriali, ed anche il fratello di Signorino, Gaetano Conti
Taguali, condannato a tre anni per estorsione e porto d’armi, nonché gli altri fratelli
che hanno avuto problemi con la giustizia per reati di vario tipo155”. Nel caso di
specie l’interdittiva antimafia ha trovato applicazione in un rapporto contrattuale già
in essere, dimostrando in tal modo l’applicabilità della normativa in via retroattiva 155155 F. Alascia, I dettagli dell’interdittiva antimafia alla società Conti Taguali. Le parole di Antoci e Zanna, www.98zero.com, 19 ottobre 2017.
121
ogniqualvolta la relazione contrattuale non possa dirsi rispettosa dei più rigidi
requisiti attualmente in vigore156”. Gli irrimediabili danni causati dall’ assidua attività
di vigilanza e dai conseguenti provvedimenti di revoca delle concessioni dei terreni
demaniali, sempre dominati dai potentati del luogo, svela il movente dell’agguato
subito dall’ex presidente del Parco nella notte del 18 maggio 2016. L’auto blindata,
sulla quale viaggiava Beppe Antoci, è costretta a fermarsi lungo la Provinciale che
collega Cesarò a San Fratello poiché bloccata da alcuni massi dislocati sulla strada.
Non appena ferma, l’auto viene colpita da pallettoni rivolti in modo inequivoco verso
lo sportello posteriore dove Antoci è seduto. Gli uomini della scorta si mostrano
pronti a rispondere al fuoco ed a offrire tutela ad un uomo già solo. Fortunatamente, il
sopraggiungere di un’altra auto con a bordo il vice questore aggiunto del
commissariato di Sant’Agata Militello, Daniele Manganaro, ed un altro agente, si
rivela risolutiva. Gli attentatori sono obbligati alla fuga, disperdendosi nelle buie
campagne circostanti. Il fato e la prontezza degli uomini di polizia hanno salvato la
vita all’uomo simbolo della legalità, già condannato a morte dal tribunale mafioso.
L’attentato si pone a valle di altri episodi intimidatori sopportati da Antoci; nel
dicembre 2014 due lettere minatorie arrivavano negli uffici del Parco, annunciando
una cruda minaccia: “Finirai scannato tu e Crocetta”. Segue, nel luglio successivo, il
rinvenimento di una molotov in alcune aree estese tra Piano Cicogna e Cesarò. La
scritta, stavolta più mite, invitava ad andarsene via coloro che avrebbero avuto pieno
diritto di restare. E ancora, due buste piene di dieci proiettili calibro nove sono
intercettate nell’ufficio postale di Palermo, segnano come destinatari Giuseppe
Antoci e Daniele Manganaro157. Dopo un anno dall’attentato la DDA di Messina,
competente per le indagini, ha emesso 14 avvisi di garanzia eseguiti dalla Squadra
156156 A conferma vedi Consiglio di Stato, sez. III, 20 luglio 2016, n. 3300: “il contenuto dell’interdittiva vale a precludere la nascita di un rapporto contrattuale tra la stazione appaltante e i soggetti coinvolti dall’informativa o, ancora, a paralizzare le sorti di un rapporto già sorto tra le parti. 157 G. Pipitone, Giuseppe Antoci, dietro l’agguato la mafia dei pascoli che dal furto di bestiame ora vuole mettere le mani sui fondi europei, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2016.
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mobile avverso esponenti delle agguerrite cosche di Cesarò e Tortorici; tra gli
indagati spiccano cognomi chiacchierati, Pruiti, Turi Catania, a dimostrazione del
nesso causale esistente tra l’operato del Presidente e i danni economici gravati sui
lucrosi affari delle vecchie mafie. Le indagini si muovono lungo il capo
d’imputazione di tentato omicidio aggravato. L’insieme di questi gravi accadimenti
non è riuscita ad ostacolare il successo ottenuto dal Protocollo di legalità che,
estendendosi a maglie larghe, è stato infatti recepito interamente dal Codice
Antimafia. Gli approfondimenti in materia verranno messi a punto nel prossimo
capitolo.
3. La squadra dei poliziotti “vegetariani”: la lotta alla criminalità organizzata e l’obiettivo di tutelare la salute dei consumatori.
La “terza mafia” invade il Parco dei Nebrodi mostrandosi attenta ad occupare ogni
spazio libero e suscettibile di essere inquinato. Il business dei finanziamenti europei
si aggiunge ma non sostituisce affari arcaici quanto sicuri, pascoli abusivi,
allevamenti illegali, abigeato, macellazione clandestina. La mafia dei pascoli viene
considerata una delle organizzazioni criminali più antiche e spietate, abile a coniugare
la gestione del terreno con una lunga filiera aperta ai settori produttivi, distributivi e
commerciali. Il controllo di quanti più spazi rurali possibili non vale soltanto a
provare la potente forza mafiosa, ma rende lecito creare appositi nascondigli per
occultare gli animali rubati, ricavare falsi laboratori per le macellazioni clandestine ed
infine ottenere materie prime compromesse, quali la carne, da immettere nei mercati
nazionali ed internazionali accettando così un elevato rischio per la salute dei
consumatori. Le carni inserite nei circuiti di vendita eludono infatti i dovuti controlli,
dimenticano di rispettare le norme igienico-sanitarie, provengono spesso da capi di
bestiame malati, abbattuti e comunque destinati al consumo per evitare di perdere i
123
relativi guadagni. Il territorio nebroideo si fa teatro di numerosi episodi concreti
analoghi, per modalità di estrinsecazione, alle ipotesi astratte appena dette. Il
malaffare degli allevamenti trova riscontro nelle denunce delle Autorità pronte a
segnalare l’esistenza di un sistema collusivo in auge tra gli allevatori e il servizio
veterinario. I risultati della Commissione d’inchiesta, promossa dall’ex Presidente
della Regione Sicilia Rosario Crocetta, riportavano plurime infiltrazioni mafiose nella
filiera delle carni, additando il servizio veterinario per aver indossato la maschera
della complicità macchiandosi di condotte omissive, eludendo i dovuti controlli
all’apertura delle aziende di macellazione, bypassando la verifica anagrafica degli
animali, dimenticando gli accertamenti essenziali per provvedere alla macellazione
secondo i canoni della legalità e per ottenere i contributi europei senza incorrere in
reati truffaldini. Si prenda atto che solo nella Provincia di Messina e nel periodo
intercorso tra il 2015 e il 2016 sono scomparsi quasi 30mila ovini e seimila bovini,
capi perlopiù rubati o smarriti, talora perfino inscenando una finzione. Frequenti le
macellazioni di animali rubati o a volte malati; altrettanto usuali i certificati di medici
veterinari attestanti come malati animali sani, al fine di frodare i contributi riservati
alla zootecnia158. Ancora, false attestazioni di capi esistenti ed in realtà mai nati.
Dietro queste pratiche abusive si pone sempre l’obiettivo di lucro, in particolare
consistente in truffe aggravate per l’indebita percezione delle risorse fruibili per ogni
capo di bestiame allevato a pascolo. Pur muovendosi in un clima omertoso
percepibile al tatto, la mafia dei pascoli ha incontrato opposizione in una squadra di
poliziotti, soprannominati “vegetariani”, che hanno apportato valore aggiunto ad un
lavoro di coraggiosa legalità iniziato da Beppe Antoci. In provincia di Messina,
precisamente nel Commissariato di Ps di Sant’Agata Militello, è nata una squadra
investigativa speciale coordinata dal vice questore Daniele Manganaro. La
promozione di una task force operativa, composta da dieci poliziotti competenti e
158 C. Troiano, , La cupola del bestiame, in Rapporto Zoomafia 2016 LAV, Roma, 2016.
124
virtuosi, si è tradotta in controlli a tappeto su ogni angolo del Parco, alla ricerca di
animali malati oppure rubati, chiusi in macelli clandestini e abbattuti brutalmente al
di fuori di ogni regola sanitaria. La squadra ad hoc indossa stivali alti e abbigliamento
montano, sale di notte fino a 1800 metri quando i movimenti sono più agevoli e
accende la luce sui reati sospettati. L’efficienza delle operazioni investigative è da
attribuire alle sofisticate competenze possedute dagli agenti, alcuni impegnati a
trattare con gli animali già nel nucleo familiare, altri grandi conoscitori delle
montagne su cui corrono i loro piedi, altri ancora esperti nel campo dei medicinali
comunemente usati per l’adulterazione delle carni. Le brillanti operazioni hanno
comportato il sequestro di circa venti macelli clandestini in aggiunta alle decine di
denunce, a carico degli allevatori, per i maltrattamenti efferati. Di notevole scalpore
anche il traffico di farmaci illegali emerso dalle indagini; flaconi provenienti dall’Est
europeo venivano venduti clandestinamente a pochi euro in sostituzione di un altro
farmaco legale evidentemente più costoso. Ivomec è il nome di un farmaco
antiparassitario indispensabile negli allevamenti di bovini e suini. Il suo elevato
costo, pari a circa 480 euro per ogni confezione da mezzo litro, ha portato alla
creazione di un mercato illegale che vede venditori ambulanti disposti a distribuire,
agli allevatori del messinese, una versione contraffatta per soli ottanta euro. La sigla
Evomec lascia percepire la diversità dei principi attivi propri dei due farmaci,
chiarendo il divieto di utilizzabilità in Italia di un medicinale, prodotto in Romania, in
grado di causare alterazioni genetiche. Seppur impiegato in prima linea contro i
parassiti degli animali, non si esclude infatti che applicazioni mal praticate possano
ripercuotersi sulla qualità delle carni, rendendole addirittura cancerogene per i
consumatori. Un ulteriore problema inquietante parla di focolai di brucellosi e
tubercolosi, registrando solo in quest’area il 55 % di allevamenti positivi159. La scelta
consapevole dei poliziotti speciali di divenire “vegetariani” si comprende a pieno, 159 Eurispes e Coldiretti, 5° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia, Minerva, Bologna, 2017, p. 146ss.
125
immaginando gli abusivismi di volta in volta incontrati in ogni singola operazione.
Loro hanno avuto il modo di conoscere e respirare l’alone di alti rischi che grava
sulla salute umana, continuamente esposta a potenziali danni irreparabili.
L’operazione “Gamma Interferon” ha rappresentato uno dei principali punti di svolta
nella repressione della criminalità dei pascoli, accertando le responsabilità di tutti i
soggetti coinvolti nell’infiltrazione della filiera produttiva di carni destinate al
consumo umano. Le indagini avviate nel novembre 2015 si sono concluse, sotto
l’egida della Procura di Patti, nel dicembre 2016 portando all’accertamento delle
responsabilità penali riconosciute in capo ad ogni soggetto che abbia contribuito ad
alimentare l’illegalità garantendosi utilità e profitti. La polizia del Commissariato di
Sant’Agata Militello ha eseguito 33 misure cautelari (rispettivamente 2 in carcere, 9
ai domiciliari, 19 tra obblighi e divieti di dimora e tre sospensioni) e notificato 50
avvisi di garanzia, firmati dal Gip presso il Tribunale di Patti, Andrea La Spada, su
richiesta del Sostituto Procuratore Francesca Bonanzinga. I soggetti indagati hanno
contributo in vario modo, suddividendosi compiti e funzioni indispensabili per la
completa riuscita del disegno criminoso; taluni hanno provveduto al reperimento
della materia prima, perlopiù mediante furti, caccia di frodo e trappole disseminate
all’interno del Parco, altri hanno eseguito la macellazione clandestina saltando i
controlli prescritti ed eludendo in toto le norme igienico-sanitarie, altri ancora hanno
concorso alla commercializzazione delle carni insalubri sistemandole nei punti
vendita. Le investigazioni hanno scovato due gruppi criminali facenti capo a famiglie
mafiose operanti nelle aree di Tortorici e Cesarò, l’uno guidato da Biagio Salvatore
Borgia, l’altro capeggiato da Nicolino Gioitta. Nel mirino delle accuse sono finiti
allevatori locali, un gruppo di macellai e rivenditori, nonché medici veterinari in
servizio presso l’Asp di Sant’Agata Militello160. Le connivenze raggiunte con i
professionisti del settore hanno rappresentato la lesione dell’etica sociale, 160 M.C. Pizzino, I dettagli dell’operazione “Gamma Interferon”, in www. anni60news.com , 4 dicembre 2016.
126
comportando gravi rischi per la salute e conferendo alle carni il vulnus della
cancerogenicità. Al di là di ogni coscienza scrupolosa, vi è stata l’elusione dei
prescritti controlli di farmaco-sorveglianza e farmaco-vigilanza, con particolare
riguardo alla ricettazione medica e agli specifici tempi di sospensione da rispettare
dopo la somministrazione effettuata. La vendita di trattamenti farmacologici avveniva
senza ricette, visite cliniche e conseguenti controlli di farmaco- sorveglianza. A tal
proposito, è opportuno precisare che l’organismo animale necessita di un determinato
lasso di tempo utile a metabolizzare il farmaco e ad impedire la trasmissione di
residui pericolosi nelle carni e nei relativi prodotti derivati161. Allo stesso tempo,
l’adozione di tali condotte ha permesso di celare il giro di farmaci illegali, prima
descritto, provenienti dall’Est europeo e perlopiù rintracciato nelle aziende dei
Borgia. In via complementare, merita considerazione un’ulteriore condotta imputabile
all’Asp, che dimentica di certificare i casi di brucellosi bovina e bufalina, di
tubercolosi e leucosi bovina e enzotica. Gli infedeli veterinari sono chiamati a
rispondere per gli esami preventivi non ufficiali eseguiti presso laboratori privati e
finalizzati ad individuare i capi infetti così da escluderli dai futuri controlli ufficiali,
nonché per la totale falsificazione degli esami di tubercolosi bovina oppure per quella
inerente allo stato sanitario delle aziende amiche. Le vantaggiose connivenze
permettevano di attribuire alle aziende agricole lo status di ufficialmente indenne,
riconoscendo loro il diritto di accedere, in perfetta legalità, all’affitto dei terreni
pubblici e ai finanziamenti Agea su di essi percepibili. La sfrontatezza dei veterinari
si coglie dunque nell’alterazione e falsificazione dello stato sanitario delle aziende
zootecniche, che vede la mancata denuncia della presenza di capi infetti e la
sofisticata correzione degli esiti diagnostici per la tubercolosi. Le condotte
fraudolente dei professionisti vengono inoltre confermate dalle analisi statistiche dei
161 L.A. Iapichino, Nebrodi. Operazione Gamma Interferon: carni cancerogene a tavola?, in www.antimafiaduemila.com, 17 dicembre 2016.
127
focolai infettivi162, riportate nell’ambito dell’operazione Gamma Interferon e
concentrate sulla provincia di Messina e sul Comune di Caronia, territori esposti ad
altissimi rischi. Le indagini mostrano un brusco calo della percentuale di animali
infetti nel 2014 rispetto all’anno precedente, sintomo di un’omessa denuncia delle
critiche realtà riscontrate. Segue la crescita di un nuovo picco tra aprile e settembre
2015, proprio in corrispondenza dell’intensa attività di controllo effettuata sugli
allevamenti da parte degli organi di polizia giudiziaria. Evidente conseguenza di tali
condotte è stata sicuramente la diffusione della malattia, spesso in seguito alla
transumanza, negli allevamenti prima negativi del circondario e oltre, rendendo di
fatto inefficaci i piani nazionali e regionali di eradicazione delle malattie infettive. La
fase di monitoraggio, che consiste nell’esecuzione dei test diagnostici e relativa
registrazione dei dati sanitari da parte dei veterinari della Asl, costituisce difatti
un’attività nevralgica per la predisposizione dei piani di eradicazione e sorveglianza.
Mentre quest’ultimo prevede un sistema attivo di analisi e informazioni, finalizzato
alla ricerca attiva dell’agente eziologico e alla conseguente previsione di strategie di
intervento, l’eradicazione si pone come ultimo obiettivo mirando all’eliminazione
totale dell’agente patogeno dalla popolazione animale interessata. In sintesi,
l’elusione dei piani di risanamento avviene da parte degli stessi veterinari che
avrebbero dovuto effettuarli e che, al contrario, avvallano il reato di truffa aggravata
ai danni dello Stato. Inoltre, nel timore di potenziali controlli di polizia e nella
consapevolezza dell’esistenza di capi malati, molti professionisti suggeriscono agli
allevatori la denuncia per smarrimento dei medesimi animali. Denunce chiaramente
fittizie utili a celare la reale destinazione sulle tavole dei macelli clandestini e presto
su quelle dei cittadini.
L’ipotesi di trasmissione di malattie dai capi infetti al consumatore si paventa
inquietante ed inaccettabile, ed è per questo che la legge chiede espressamente 162 Le indagini statistiche si basano sull’elaborazione dei dati contenuti nella Banca Dati Nazionale SINAM e pone a confronto i risultati ottenuti nel triennio 2013-2015.
128
l’abbattimento dei capi pericolosi e il divieto assoluto di immettere nella filiera
agroalimentare sia la materia prima della carne sia qualunque altro prodotto derivato
dall’animale.
4. L’adozione del marchio “Nebrodi Sicily” contro la mafia nel
piatto.
L’infiltrazione delle mafie in ogni singolo anello della filiera agroalimentare,
compromette inevitabilmente la qualità dei prodotti finali che giungono sulle tavole
dei consumatori. Parlare oggi del principio di sicurezza alimentare, vuol dire garantire
tutela ad un valore di rilievo costituzionale, qual è la salute dei cittadini. Non solo sul
piano interno ma ancor di più a livello europeo, il legislatore si è preoccupato di
ricostruire la fiducia dei consumatori dopo taluni episodi che, avendo riguardato la
salubrità degli alimenti in circolazione, avevano destato ingenti preoccupazioni. I casi
della “mucca pazza” e dei “polli alla diossina” avevano difatti spinto la Commissione
europea a redigere dapprima il Libro verde e successivamente il Libro Bianco per
affrontare le problematiche inerenti il concetto di food safety. Il progetto di fondo
prevedeva la creazione di un insieme di norme trasparenti e coerenti idonee a
disciplinare la sicurezza alimentare; la creazione di un sistema di rintracciabilità del
prodotto “dai campi alla tavola”, un assiduo monitoraggio sulla catena alimentare, un
meccanismo di allarme pronto ad attivarsi in caso di bisogno, una disciplina più
attenta ai novel foods, non corrispondenti a quelli tradizionali, la revisione delle
norme in materia di additivi e sostanze aromatizzanti, il perfezionamento del sistema
di etichettatura, l’istituzione di un’ Autorità europea per la sicurezza alimentare
responsabile nel campo della valutazione dei rischi. L’insieme di questi propositi ha
costituito il retroscena sulla base del quale il Parlamento europeo ed il Consiglio
hanno adottato il regolamento n. 178/2002, fissando principi e requisiti generali della
129
legislazione alimentare, nonché precisando le opportune procedure da seguire nel
campo della sicurezza alimentare163. L’ambito di applicazione viene definito con
riferimento alla nozione di impresa alimentare164, pertanto comprensiva della stessa
impresa agricola che produce sia alimenti non trasformati e di per sé idonei al
consumo, sia materie prime dalle quali ricavarne di nuovi. Il presente regolamento
rappresenta la base per l’intera legislazione successiva e si preoccupa di monitorare
l’utilizzo di nuovi strumenti tecnici ideati per il potenziamento delle capacità
produttive. Il rischio si concreta nei residui che tali sostanze, concimi chimici o
medicinali per animali, possono lasciare nei prodotti e nei terreni. Di qui, il timore
per le conseguenze negative e dannose che potrebbero insorgere nei destinatari finali.
In un’ottica di prevenzione, uno dei più recenti interventi in sede europea è consistito
nella pubblicazione di tre regolamenti, rispettivamente n. 852/ 853/ 854 in vigore dal
2004. Il primo introduce la disciplina sull’igiene dei prodotti alimentari, sostituendo
la direttiva 93/43 sull’HACCP; il secondo contiene una disciplina più specifica
rivolta agli alimenti di origine animale; infine il terzo prevede i controlli ufficiali da
effettuare sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano. Essi
rappresentano il cuore pulsante del cosiddetto “pacchetto igiene”, a dimostrare quanto
la crescente attenzione sia focalizzata sugli standards qualitativi che ogni prodotto
dovrebbe rispettare.
Sulla scia di queste considerazioni, si osservi la pertinenza delle azioni promosse
dall’Ente Parco dei Nebrodi, orientate verso il rispetto di un valore tanto pregnante
quanto fragile, quale è quello della salute. Al fine di offrire un’adeguata tutela, l’Ente
163 L. Costato- L. Russo, Corso di diritto agrario italiano e dell’Unione Europea, quarta edizione, Giuffrè, Milano, 2015, pp. 296ss.164 Il campo di applicazione del reg. n. 178/2002 è descritto dall’art.4: “Il presente capo si applica a tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione degli alimenti e anche dei mangimi prodotti per gli animali destinati alla produzione alimentare o ad essi somministrati.” Si richiama anche la definizione di “impresa alimentare”, art.3 n.3, “ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti.”
130
Parco, già promotore dell’Associazione “Strade dei sapori dei Nebrodi”, si è fatto
carico di migliorare la qualità dei servizi offerti installando un sistema di
riconoscibilità e accreditamento a favore di quelle imprese che vogliano adottare
condotte responsabili in tema di sostenibilità ambientale e sociale. In tal senso si è
affermato il marchio Nebrodi Sicily165, quale segno distintivo di proprietà dell’Ente
Parco e da esso regolarmente concesso per l’uso ai soggetti in possesso dei legittimi
requisiti. L’adozione del marchio simboleggia una politica ambientale rispettosa del
territorio dei Nebrodi orientata verso il sostegno di una produzione di qualità portata
avanti per tutelare un ambiente tormentato, ma avido di protezione e trasparenza. La
concessione del marchio vuole promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio, dare
riconoscimento ai produttori o prestatori di servizi che apportano miglioramenti
all’ambiente, rendere visibili agli occhi dei fruitori gli specifici effetti positivi
generati, diffondere l’ottica di un benessere collettivo che può godere di un’area
territoriale più salubre. Potenziali beneficiari saranno le organizzazioni operanti
principalmente nei settori agricoli, enogastronomici, turistici ed agrituristici, ai quali
si affiancano le attività industriali, commerciali, artigianali, delle pubbliche
amministrazioni, purchè si mostrino attente all’impatto ambientale e previdenti nella
valutazione dei rischi. I soggetti richiedenti l’utilizzazione dovranno seguire un iter
procedurale al fine di accedere al percorso di qualità; esso prevede la presentazione di
una domanda da parte dell’organizzazione, corredata da una nutrita documentazione
formulata nell’osservanza del disciplinare tecnico. Le verifiche ispettive sono
eseguite da una Commissione tecnica ad hoc, incaricata inoltre di collaborare con i
richiedenti nell’elaborazione di un Progetto d’Azione studiato per raggruppare gli
obiettivi futuri. All’esito della fase istruttoria, qualora questa si concluda in positivo,
verrà rilasciata la concessione d’uso del marchio. Il diritto di uso è però sempre
subordinato alla stipula di una specifica convenzione, idonea a fungere da contratto di 165 Il regolamento per la concessione dell’uso del marchio “Nebrodi Sicily” è stato adottato dall’Ente Parco dei Nebrodi con deliberazione del Comitato esecutivo n.15 del 23 febbraio 2016.
131
utilizzazione166. In via preventiva è comunque necessaria una dichiarazione
d’impegno, da parte dei potenziali beneficiari, di aderire al metodo di produzione
biologica attenendosi allo standard prescritto nel disciplinare tecnico e perciò garante
della certificazione di un prodotto di qualità. Nella convenzione emergono taluni
impegni ascritti in capo al beneficiario, in quanto il diritto di etichettare il proprio
prodotto o servizio quale “Nebrodi Sicily” comporta di conseguenza la responsabilità
di un uso corretto. Risulta indispensabile l’impegno dei destinatari a conseguire un
progressivo miglioramento della qualità ambientale del prodotto o del servizio, a
non intraprendere attività contrarie alle finalità del Parco o lesive del suo
patrimonio e dei suoi valori; e ancora, è doveroso l’impegno formale a collaborare
con l’Ente Parco al fine di concretizzare gli obiettivi istituzionali. Inoltre, tutti gli
eventuali disciplinari di settore elaborati dall’ Ente principe dovranno essere seguiti e
rispettati, insieme all’accettazione di ogni verifica ispettiva che esso intenda
operare167. In ultimo occorre chiarire come il mancato ossequio alle previsioni del
regolamento, nonché al complesso della normativa cui si rinvia, determina la
decadenza del diritto d’uso ipso facto ed immediatamente.
In sintesi, il Nebrodi Sicily è il simbolo di un percorso all’insegna della qualità dei
processi produttivi. Garantire sicurezza è sinonimo di legalità, rispetto ambientale,
libera concorrenza, onestà imprenditoriale, certificazione alimentare, sviluppo
territoriale, promozione di aziende verdi, vantaggio per tutti coloro che preferiscono
spendere di più per sostenere lo sviluppo economico delle aree protette e garantirsi
così la scelta del miglior cibo da portarsi a tavola.
166 Vedi Regolamento per la concessione per l’uso del marchio del Parco dei Nebrodi, art. 9, in http://www.parcodeinebrodi.it/files/SCRIMIZZI_LUIGI/NEBRODI_SICILY/DELIBERAc_C_E_15_NEBRODI_SICILY.pdf. 167 Cfr. articolo 13, Convenzione, Regolamento per la concessione per l’uso del marchio del Parco dei Nebrodi, in parcodeinebrodi.it.
132
5. Recenti episodi sul territorio nebroideo: macchie d’ombra o solo un’amara sconfitta?
La descrizione di una lotta intitolata all’antimafia e sostenuta da una pluralità di
strumenti efficaci, dal Protocollo al marchio Nebrodi Sicily, ha subito una battuta
d’arresto in ragione di taluni episodi spia che hanno dato prova della continua
prepotenza esercitata dalla mafia sulla legalità. In molti hanno parlato di una mafia
che brinda dentro e fuori le carceri di fronte alla scelta regionale, nel febbraio 2018,
di sollevare dall’incarico l’ex Presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci,
quasi a voler festeggiare una vittoria tanto bramata quanto effettivamente poco attesa.
Il sistema dello spoils system non ha risparmiato neppure la funzione di presidenza
del Parco, comportando l’uscita di scena di un eroe della legalità, inequivocabile
nemico per la criminalità organizzata, vittima di un attentato casualmente non fatale,
coraggioso padre di famiglia più amaramente colpito dalle scelte istituzionali che
dalle vendette della malavita. Egli si è esposto al rischio più estremo mettendo a
repentaglio la propria vita pur di svolgere diligentemente gli incarichi a lui affidati.
Nessun accenno a ripensamenti, ma una massima ostinazione ha accompagnato il suo
operato nei cinque anni in sella, interrotti comunque prima della data ufficiale di
scadenza prevista dopo altri sei mesi. Commentare la gravità della scelta del neo
Presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci, attraverso un estratto delle parole
pronunciate dallo stesso Antoci, aiuterà a comprendere la delusione degli ambienti
più leali nonché il loro sentimento di isolamento: “…Dalla politica, da un pezzo
importante dello Stato che è la Regione siciliana, arriva un segnale ben preciso e
devastante. Io sono ancora più in pericolo ogni volta che esco dalla mia casa
blindata. Per me e la mia famiglia è un momento difficile, ma continuo il mio
impegno nelle scuole e tra la gente per la legalità. Perché certo non svolgevo il mio
incarico per i 700 euro mensili di indennità…Io oggi brindo per il compleanno di
una delle mie tre figlie. Gli altri stanno brindando per ben altro.” Le parole, decise e
133
schiette, continuano assumendo un tono speranzoso verso un futuro di crescita che
non cancelli i risultati già raggiunti, ma ne insegua di nuovi e di maggior spessore:
“Sono stati anni intensi, a tratti difficili, ma pieni di amore e passione…l’amore per
l’ambiente, per il territorio, per uno sviluppo sostenibile che si percepiva già
dall’inizio potesse ripartire. Sono stati anni di risultati. Ho assunto la Presidenza del
Parco dopo dieci anni di commissariamenti, trovandolo depotenziato, mortificato e
considerato, nonostante il valore dei suoi dipendenti e dei suoi dirigenti, un
carrozzone. E siamo partiti, insieme ai sindaci, insieme a tutti coloro che hanno
voluto dare una mano, a poco a poco verso una strada di crescita, di dignità e di
rispetto delle regole…Mi accingo a lasciare il mio incarico con la consapevolezza di
consegnare al mio successore un Parco sano contabilmente, nuovo nell’immagine e
stracolmo di turismo che negli ultimi anni ne ha invertito una tendenza che invece
era al ribasso168”. La rimozione di Antoci dalla guida del Parco non ha rappresentato
un unicum, ma altri misfatti si sono consumati sul territorio dei Nebrodi, accrescendo
in tal modo il senso di sconfitta nell’animo di ogni combattente e tra la parte più sana
della comunità. Due tragici eventi hanno segnato il tempo, attestando la morte di due
poliziotti capisaldi della “squadra vegeteriana” che ha messo a nudo e bonificato
l’estesa area di nostro interesse. Si è già preso atto delle molteplici investigazioni
portate avanti dalla squadra speciale con l’obiettivo di mettere in ginocchio il
malaffare legato ai crimini ambientali e agroalimentari e di riflesso difendere la salute
umana. Due giovani agenti hanno perso la vita, probabilmente per cause naturali e del
tutto accidentali, forse per ipotizzabili contaminazioni incontrare nello sporco lavoro
svolto. Non esiste alcuna certezza circa l’esistenza di elementi connessi fra i due
episodi, nessun riscontro scientifico relativo ad un eventuale nesso causale che leghi
la massa di contaminanti, scovati durante le operazioni investigative, e le
conseguenze negative riconosciute sulla salute dei poliziotti. L’unica reale 168 P. Borrometi, Lo stavano ammazzando e noi lo isoliamo? Non mandate a casa Giuseppe Antoci, www.laspia.it, 13 febbraio 2018.
134
consapevolezza si esprime nella perdita di due agenti capaci di fare la differenza,
Rino Todaro, 46 anni e sovrintendente capo, e Tiziano Granata, assistente capo di 40
anni, entrambi impiegati nel Commissariato di Sant’Agata Militello diretto dal
vicequestore aggiunto Daniele Manganaro. Granata, nonostante l’insospettabile età, è
stato trovato nella sua casa di Brolo stroncato da un infarto giunto a seguito di un
attacco influenzale scatenatosi nei giorni precedenti; Todaro invece, viene ricoverato
nell’ospedale di Messina con immediata diagnosi di leucemia169. Seppur con
rammarico, è doveroso ricordare i particolari meriti che li hanno contraddistinti; l’uno
chimico e attivo ambientalista, in qualità di dirigente locale, regionale e nazionale, ha
per anni collaborato nelle attività dell’Osservatorio ambiente e legalità dimostrando
notevoli competenze sul fronte delle frodi agroalimentari e dei traffici illegali dei
rifiuti, l’altro eccezionalmente coraggioso e amante della strada, ha sempre esibito
un’accurata conoscenza dei meandri, anche quelli più nascosti, dell’ambiente in cui
agiva.
I fatti oggettivi narrati, accanto ai legittimi sospetti suscitati, servano ad attirare
l’attenzione dell’opinione pubblica su una dirompente catena di illegalità che chiede
interventi immediati e nuovi venti di giustizia. E’ necessario che il mondo dei social
media, in ossequio al diritto di informare e al corrispettivo diritto ad essere informati,
lascino il pubblico inoltrarsi nelle crude verità che tormentano la Sicilia. Ci si chiede
se gli eventi riportati siano da considerare solamente delle macchie d’ombra su un
territorio dove qualche eroe ha contribuito negli ultimi anni a portare luce, o se invece
rappresentino una reale e amara sconfitta per la legalità già conquistata. Se così fosse,
sarebbe opportuno cercare figure nuove, paladini della giustizia che sappiano
rinnovare ancora una volta i sistemi inquinati, mettendo in gioco se stessi e la propria
vita a patto però di ricevere supporto dall’alto.
169 A. Ribaudo, La morte sospetta dei “poliziotti vegetariani” che indagavano sulle agromafie, in www.corriere.it, 5 marzo 2018.
135
IV Un contrasto efficace alla mafia rurale.
1.Il Codice Antimafia e la revoca delle concessioni dei terreni demaniali. 2. Documentazione antimafia e misure di prevenzione patrimoniali: una perfetta combinazione.
1. Il Codice Antimafia e la revoca delle concessioni dei terreni demaniali.
Con quest’ultimo capitolo ci proponiamo di chiudere il cerchio illustrando gli
strumenti che, secondo un criterio di efficienza, risultano validi per condurre una lotta
non solo giuridica, ma in primis sociale, al fenomeno mafioso. Bonificare un
territorio dalle infiltrazioni del crimine vuol dire renderlo avulso da logiche
imprenditoriali scorrette, tracciare ed eliminare dal circuito economico il denaro
sporco, abbattere le discrasie presenti ad ogni trampolino di partenza, abbracciare un
criterio di eguaglianza sostanziale che sostenga gli operatori più deboli e consenta
loro di sfidarsi sul mercato a pari armi, far girare l’economia assicurando promozione
del territorio e sviluppo turistico, incentivare l’abbraccio della legalità mediante
laboratori e gesti concreti che sappiano insegnare l’iter migliore per intraprendere
affari sani, garanti di qualità e senza dubbio remunerativi. Il primo strumento
136
meritevole di considerazione è rappresentato dal Codice Antimafia, introdotto con
decreto legislativo n.159 del 2011 e più volte modificato al fine di renderlo adeguato
alle continue evoluzioni che la Mafia promuove grazie al suo potere camaleontico. La
recente consapevolezza del largo bacino di profitti guadagnati dalla criminalità rurale
che sfrutta i terreni, ha suggerito l’introduzione, nella normativa nazionale, di regole
precise che arginassero le problematiche adottando un’ottica preventiva. La
comprensione di quanto appena detto esige l’analisi delle disposizioni vigenti nonché
qualche accenno alla ratio che vi è sottintesa. L’ambizioso progetto di Beppe Antoci,
reso noto nel Protocollo di Legalità, non si è limitato ad un campo di applicazione
circoscritto, ma ha anzi ampliato i propri orizzonti riuscendo in ultimo a divenire
legge nazionale. La riproduzione del contenuto del Protocollo all’interno del Codice
antimafia ha simboleggiato una presa di coscienza dei rischi prospettati dalla mafia
dei terreni, introducendo perciò una serie di controlli preventivi diretti ad eliminare le
infiltrazioni mafiose. Con legge numero 161 del 17 ottobre 2017 recante “Modifiche
al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159170, al codice penale e alle norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni.
Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate”, si
sono apportate modifiche al Codice antimafia, in particolare al Capo IV e agli articoli
25 e seguenti si rinvengono gli aggiornamenti da considerare per il nostro ambito
d’interesse. Una prima modifica di rilievo si incontra all’articolo 83 del d.lgs.
n.159/2011, laddove il comma 3bis171 precisa in modo innovativo la richiesta della
documentazione antimafia da parte delle pubbliche amministrazioni dinnanzi a terreni
agricoli e zootecnici che usufruiscono di fondi europei. La disposizione, in seguito
170 La legge 17 ottobre 2017 n.161 è stata pubblicata su Gazzetta ufficiale n.258 del 4 novembre 2017, ed è in vigore dal 19 novembre 2017. 171 L’articolo 25 della legge n.161/2017 recante “Disposizioni in materia di acquisizione della documentazione antimafia per i terreni agricoli e zootecnici che usufruiscono di fondi europei” ha modificato l'articolo 83 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 introducendo il comma 3bis.
137
oggetto di integrazioni, recitava: “la documentazione di cui al comma 1 è sempre
prevista nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli e zootecnici demaniali che
ricadono nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a
prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a
qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei”. In parallelo, la legge
n.161/2017 ha provveduto a modificare l’articolo 91 del Codice antimafia,
riprecisando l’ambito applicativo della informazione antimafia nel comma 1bis: “
L’informazione antimafia è sempre richiesta nelle ipotesi di concessione dei terreni
agricoli demaniali che ricadono nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla
politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i
terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei172”. Il
campo di applicazione dell’intera documentazione è stato nuovamente ridefinito
mediante l’aggiunta di una precisazione di valore, meglio considerabile in termini di
esenzione generica. Entrambe le disposizioni contenute negli articoli 83 e 91 del
Codice antimafia hanno subito una manovra di contenimento, individuata nella
previsione di una soglia numerica al di sotto della quale la pubblica amministrazione
non è in dovere di richiedere la relativa documentazione antimafia. Il riferimento
corre a tutti i terreni agricoli, a qualsiasi titolo acquisiti, che usufruiscono dei fondi
europei per un importo inferiore a 5000 euro173. Dunque, alla luce della normativa
così vigente174, questo valore rappresenta il discrimen idoneo a far sorgere l’obbligo 172 Il comma 1-bis è stato introdotto dalla legge n.161 del 17 ottobre 2017, all’articolo 28 recante “Acquisizione dell’informazione antimafia per i terreni agricoli che usufruiscono di fondi europei”.173 Con legge n.172 del 4 novembre 2017 si è convertito il decreto legge n. 148/2017 introducendo allo articolo 19-terdecies talune modifiche al decreto legislativo n. 159 del 2011 in materia di documentazione antimafia. Al codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 83, comma 3-bis, dopo le parole: "fondi europei" sono aggiunte le seguenti: "per un importo superiore a 5.000 euro"; b) all'articolo 91, comma 1-bis, dopo le parole: "fondi europei" sono aggiunte le seguenti: "per un importo superiore a 5.000 euro". 174 D.lgs. n.159/2011 articolo 83 in vigore, “Ambito di applicazione della documentazione antimafia, comma 3-bis: “La documentazione di cui al comma 1 è sempre prevista nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli e zootecnici demaniali che ricadono nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli,
138
di adeguata verifica in capo ai soggetti destinatari delle domande di pagamento. Ora,
se per i terreni agricoli che usufruiscono dei fondi europei, vale a dire tutti quelli che
percepiscono aiuti catalogabili nel quadro dei finanziamenti PAC, occorre
l’individuazione dell’importo con riferimento al valore complessivo della domanda di
sostegno, questo ulteriore controllo non è previsto invece per la concessione di terreni
demaniali. Nella prima ipotesi infatti si andrà a valutare la tipologia di aiuti
demandata: qualora si rientri nel pilastro dedicato allo Sviluppo rurale conseguito con
costanti impegni pluriennali, sarà opportuno avere riguardo al valore della singola
domanda di pagamento esclusivamente in presenza di misure connesse alle superfici
ed agli animali; viceversa, ove tali misure siano slegate rispetto ad animali e superfici,
sarà sufficiente considerare l’intero importo concesso175.
Per quanto concerne la seconda ipotesi relativa alla concessione dei terreni demaniali,
si attesta l’assenza di una qualsiasi soglia di esenzione; l’ente pubblico concedente
sarà perciò obbligato ad eseguire le verifiche antimafia per ogni fondo demaniale
partecipe del regime di sostegno siglato PAC.
In tal caso, la portata innovativa delle disposizioni vigenti raggiunge l’estensione
massima, non restringendo in alcun modo il progetto iniziale promosso già dal
Protocollo di legalità. La coincidenza è perfetta e riflette l’onere di dimostrare il
possesso di requisiti rigidi e specifici, studiati per arginare le infiltrazioni mafiose nel
settore agro-pastorale e le conseguenti truffe che esse promuovono ai danni dello
Stato. Le autocertificazioni per presentarsi quali soggetti idonei non hanno più alcun
a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei per un importo superiore a 5.000 euro”. Articolo 91 vigente, “Informazione antimafia”, comma 1-bis: “L'informazione antimafia è sempre richiesta nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli demaniali che ricadono nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei per un importo superiore a 5.000 euro”. 175 Vedi Agenzia per le erogazioni in agricoltura, Protocollo n. 4435, in agea.gov.it, 22 gennaio 2018.
139
valore, essendo sostituite da accertamenti prefettizi176, e dunque terzi, finalizzati ad
attestare con obiettività la lealtà degli imprenditori in cerca di aiuti.
2. Documentazione antimafia e misure di prevenzione patrimoniali:
una perfetta combinazione.
Nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, la documentazione antimafia
rappresenta lo strumento di prevenzione amministrativa di maggiore spicco. Pur
condividendo le ragioni teleologiche con le misure di prevenzione giurisdizionali,
essa richiede presupposti applicativi meno rigorosi, idonei ad anticipare la soglia
d’intervento al punto di ostacolare qualsiasi tentativo di ingerenza mafiosa
prospettabile. Sul tema si osserva una consolidata giurisprudenza: “L’interdittiva 176176 Premesso che la documentazione antimafia è costituita dalla comunicazione antimafia e dall’informazione antimafia, si richiamano le disposizioni che ne individuano i soggetti competenti al rilascio: Art. 87, Competenza al rilascio della comunicazione antimafia: “1. La comunicazione antimafia è acquisita mediante consultazione della banca dati nazionale unica da parte dei soggetti di cui all'articolo 97, comma 1, debitamente autorizzati, salvo i casi di cui all'articolo 88, commi 2, 3 e 3-bis. 2. Nei casi di cui all'articolo 88, commi 2, 3 e 3-bis, la comunicazione antimafia è rilasciata: a) dal prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale ovvero dal prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato per le società di cui all'articolo 2508 del codice civile; b) dal prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede per le società costituite all'estero, prive di una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato.Art. 90, Competenza al rilascio dell'informazione antimafia: “1. L'informazione antimafia è conseguita mediante consultazione della banca dati nazionale unica da parte dei soggetti di cui all'articolo 97, comma 1, debitamente autorizzati, salvo i casi di cui all'articolo 92, commi 2 e 3. 2. Nei casi di cui all'articolo 92, commi 2 e 3, l'informazione antimafia è rilasciata: a) dal prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale ovvero dal prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato per le società di cui all'articolo 2508 del codice civile; b) dal prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede per le società costituite all'estero, prive di una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato”.Art. 97, Consultazione della banca dati nazionale unica: “1. Ai fini del rilascio della documentazione antimafia, la banca dati nazionale unica può essere consultata, secondo le modalità di cui al regolamento previsto dall'articolo 99, da: a) i soggetti indicati dall'articolo 83, commi 1 e 2, del presente decreto; b) le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; c) gli ordini professionali; c-bis) l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, per le finalità di cui all'articolo 6-bis del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.
140
prefettizia mira all’obiettivo di mantenere un atteggiamento intransigente contro
rischi di infiltrazione mafiosa, ed in quanto misura di massima anticipazione
dell’azione di prevenzione non richiede che sia dimostrata la intervenuta
infiltrazione, essendo sufficiente la sussistenza di un quadro indiziario dal quale sia
deducibile il tentativo di ingerenza177”. In ogni caso in sede applicativa, onde evitare
un eccesso di discrezionalità del potere amministrativo, è necessario procedere con
cautela ed individuare idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici
e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con la criminalità organizzata178.
Nelle affermazioni giurisprudenziali si ravvisa un’apertura verso l’accoglimento di
parametri non predeterminati a livello normativo, a patto che si neghi la rilevanza di
semplici sospetti o congetture prive di riscontro fattuale. L’essenza di tali pronunce
vuole porre un freno alla discrezionalità del potere amministrativo, auspicando la
dovuta prudenza nell’agire ed impedendo così la trasformazione del potere in mero
arbitrio. L’interdittiva in oggetto non potrà dunque sfuggire né al sindacato
giurisdizionale né al principio di legalità, ma anzi sarà tenuta a garantire certezza del
diritto nel rispetto dei principi costituzionali della presunzione di innocenza e della
libertà di iniziativa economica privata179. In qualità di strumento di prevenzione
amministrativa esige una disciplina legislativa a monte che descriva i profili generali
e quelli più specifici. Il Codice Antimafia dedica l’intero libro II180 alla
documentazione antimafia e, dopo una sintetica presentazione del proprio oggetto, si
sofferma sull’ambito applicativo della documentazione, descritto all’articolo 83. La
presente disposizione delimita il campo con riferimento, da un lato, ai soggetti sui
quali grava l’obbligo di acquisire la detta documentazione, dall’altro lato, alla
177 Tar Campania, Napoli, sez. I, 6 gennaio 2014, n. 858.178 Tar Puglia, Bari, sez II, 17 febbraio 2014, n. 245. 179 M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, Riv. Dir. Amministrativo, 2016, 3.180 Cfr. d.lgs. 159/2011. Il libro II “Nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia” si apre con disposizioni di carattere generale al capo I. L’art. 82 descrive in breve l’oggetto del libro II.
141
tipologia dei rapporti che tale acquisizione richiedono. Sotto il primo profilo si
indicano le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, anche costituiti in stazioni
uniche appaltanti, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico, le
società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché i
concessionari di lavori o di servizi pubblici. Il riferimento oltrepassa le pubbliche
amministrazioni in senso stretto, includendo sia soggetti formalmente privati ma a
partecipazione pubblica, sia soggetti privati in rilevante posizione strumentale rispetto
alla sfera pubblica. L’obbligo delle richieste affiora in via preventiva dinnanzi
all’ipotesi di stipulazione, approvazione o autorizzazione di contratti e subcontratti
relativi a lavori, servizi e forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i
provvedimenti indicati nell'articolo 67181. Il tema di nostro interesse, nonché
l’obiettivo di dimostrare l’efficacia della documentazione antimafia nell’ostacolare le
infiltrazioni mafiose sui terreni, esige l’analisi dell’articolo 67 c.a.m. per porre in
evidenza due principali punti: il comma I alla lettera b vieta le concessioni di beni
demaniali allorchè richieste per l’esercizio di attività imprenditoriali; segue la lettera
g per escludere contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello
stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti
pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali. Tale
negazionismo si qualifica come effetto delle misure di prevenzione personali
applicate dall’autorità giudiziaria, ogniqualvolta il destinatario sia colto da un
provvedimento di natura definitiva. In ordine, segue il comma II utile a chiarire le
conseguenze generate dall’applicazione definitiva della misura, si avrà difatti la
decadenza di diritto dalle concessioni ed erogazioni suddette, oltre che il divieto di
concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture182.
181 Cfr. testo articolo 67 d.lgs. 159/2011, comma I. 182 Art. 67 d.lgs 159/2011, co. II: “Il provvedimento definitivo di applicazione della misura di prevenzione determina la decadenza di diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni di cui al comma 1, nonché il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti,
142
Se il campo di applicazione della documentazione antimafia viene in primis descritto
in positivo, seconda una regola generale, a questa si aggiunge un elenco che introduce
una serie di esenzioni informate sia a criteri obiettivi che subbiettivi. Tra queste si
consideri l’ipotesi di esercizio di attività agricole o professionali, non organizzate in
forma di impresa, ogniqualvolta a loro favore siano stipulati o approvati contratti, o
concesse altre erogazioni183. In tale eventualità la pubblica amministrazione, in senso
lato, non sarà tenuta a svolgere alcuna verifica di accertamento dei requisiti antimafia.
Accanto a questa esenzione, viaggia una precisazione legislativa idonea a chiarire il
rapporto tra documentazione antimafia e terreni prevalentemente destinati
all’agricoltura; si tratta di una decisione innovativa introdotta al comma 3bis e già
illustrata nel paragrafo precedente. L’obbligo di esibire la documentazione in oggetto
viene con forza ribadito per tutti quei terreni agricoli e zootecnici, acquisiti tramite
concessione demaniale o a qualsiasi altro titolo, che intendono partecipare al
pacchetto di finanziamenti europei esistente. Si puntualizza l’irrilevanza di qualsiasi
soglia di valore ove si tratti di patrimonio demaniale e, viceversa, l’operatività di una
soglia pari a cinquemila euro per i restanti terreni agricoli a qualunque titolo
acquisiti184. Proseguendo nella sequenza normativa, la disciplina generale, prima di
occuparsi dei profili specifici, si preoccupa di definire il contenuto della
documentazione antimafia individuando le due principali componenti rispettivamente
nella comunicazione e nell’informazione antimafia. I caratteri distintivi fra le due
specie sono da rintracciarsi nel campo di applicazione e nei presupposti185. In ordine compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera. Le licenze, le autorizzazioni e le concessioni sono ritirate e le iscrizioni sono cancellate ed è disposta la decadenza delle attestazioni a cura degli organi competenti”.
183 Vedi testo dell’articolo 83, Codice Antimafia, co.III. 184 Il co. 3bis, da ultimo modificato dalla l. 4 dicembre 2017, n.272, recita: “La documentazione di cui al comma 1 è sempre prevista nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli e zootecnici demaniali che ricadono nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei per un importo superiore a 5.000 euro”. 185 M. Mazzamuto, cit., 2016, pp. 29ss.
143
al primo, la disciplina del Codice Antimafia esplicita esclusivamente l’elenco delle
fattispecie ricadenti sotto il regime dell’informazione, obbligando a ricavare l’ambito
di applicazione della comunicazione sottraendo il campo dell’informazione a quello
generale riferito alla documentazione tout court. In merito ai presupposti, invece,
questi vengono precisati con chiarezza per entrambe; se la comunicazione antimafia
consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di
sospensione o di divieto di cui all'articolo 67, l’informazione antimafia prevede, in
aggiunta alla verifica appena detta, l'attestazione della sussistenza o meno di
eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli
indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4, fatto salvo quanto
previsto dall'articolo 91, comma 6. In seguito all’accertamento del tentativo di
ingerenza mafiosa, desunto da indizi e dati obiettivi, sarà adottata un’informazione
antimafia interdittiva; la stessa norma di cui all’articolo 84 propone un catalogo di
circostanze idonee ad indirizzare il modus operandi dei controllori, rammentando il
provvedimento di applicazione di una delle misure di prevenzione, nonché la mera
proposta, fra le situazioni sintomatiche di un tentativo di infiltrazione criminale186. A
186 Il co.4, art.84, d.lgs.159/2011 prevede: “Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva di cui al comma 3 sono desunte: a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353, 353-bis, 603-bis, 629, 640-bis, 644, 648-bis, 648-ter del codice penale, dei delitti di cui all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all'articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione; c) salvo che ricorra l'esimente di cui all'articolo 4 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall'omessa denuncia all'autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell'articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell'articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l'applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi previste; d) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell'interno ai sensi del decreto-legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, ovvero di quelli di cui all'articolo 93 del presente decreto; e) dagli accertamenti da effettuarsi in altra provincia a cura dei prefetti competenti su richiesta del prefetto procedente ai sensi della lettera d); f) dalle sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella
144
ben guardare, volgendo uno sguardo attento alla disciplina legislativa, lo studio della
mafia dei terreni induce a soffermarci sui profili peculiari dedicati allo strumento
dell’informazione antimafia. Il d.lgs. 159/2011 precisa le precondizioni per cui i
soggetti indicati all’articolo 83 commi 1 e 2187, già prima esaminati, dovranno
richiedere la seguente tipologia di documentazione, nella specie in un momento
anteriore alla stipulazione, approvazione o autorizzazione di contratti e subcontratti,
ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nell'articolo 67, il cui
valore sia superiore a 150.000 euro per le concessioni di acque pubbliche o di beni
demaniali per lo svolgimento di attività imprenditoriali, ovvero per la concessione di
contributi, finanziamenti e agevolazioni su mutuo o altre erogazioni dello stesso tipo
per lo svolgimento di attività imprenditoriali188. Con il fine di integrare tale
previsione, tuttavia, la recente legge di modifica n. 172/2017 ha ribadito
un’innovazione già preannunciata in sede di disciplina generale: si esige la richiesta
di informazione antimafia in tutte le ipotesi di concessione di terreni agricoli
demaniali che ricadono nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica
agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni
agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei per un
importo superiore a 5.000 euro189. La norma, inoltre, si preoccupa di eventuali
elusioni concrete procedendo a vietare, a pena di nullità, il frazionamento dei
contratti, delle concessioni o delle erogazioni. Accertate dunque le condizioni per
l’agire, si dovrà procedere al rilascio della discussa informazione avvalendosi di uno
strumento indispensabile quale è la Banca dati nazionale unica. In vigore dal Gennaio
titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti coinvolti nonché le qualità professionali dei subentranti, denotino l'intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia”. 187187 Il co. II si riferisce alla figura dei “contraenti generali”. 188188 Cfr. Art. 91 “Informativa antimafia”, co.I. 189189 Vedi art. 91, C.a.m, co. 1-bis.
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2016, essa contiene le comunicazioni e le informazioni antimafia, liberatorie e
interdittive, dando vita ad un’importante opera di semplificazione. La Banca dati
viene di frequente consultata da parte dei soggetti competenti al rilascio della
documentazione; ai soggetti di cui all’articolo 83 commi 1 e 2, più volte ricordati, si
aggiungono le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, gli ordini
professionali, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture, per le finalità di cui all'articolo 6-bis del codice di cui al decreto legislativo
12 aprile 2006, n. 163. Questa regola generale contempla una deroga e in casi
circoscritti affida il potere di rilascio alla figura prefettizia190. L’esigenza di seguire un
percorso diverso e speciale sorge ogniqualvolta il rilascio dell’informazione non
possa avvenire immediatamente dopo la consultazione della banca dati unica; tale
eventualità si palesa quando, durante il procedimento di consultazione, emerge la
sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67 o
di un tentativo di infiltrazione mafiosa i quali, se da un lato impediscono il
riconoscimento di un’informazione di natura liberatoria, dall’altro lato chiedono un
intervento del prefetto per svolgere verifiche più approfondite. All’esito degli
opportuni accertamenti, egli rilascia l'informazione antimafia interdittiva entro trenta
giorni dalla data della consultazione. Ancora, un termine più lungo è ammesso
dinnanzi ad indagini di particolare complessità, quando il prefetto, dopo averne dato
comunicazione senza ritardo all'amministrazione interessata, fornisce le informazioni
acquisite nei successivi quarantacinque giorni. I poteri prefettizi e le medesime
190 Per l’individuazione del prefetto competente vedi d.lgs.159/2011, art.90, co. 2: “a) dal prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale ovvero dal prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato per le società di cui all'articolo 2508 del codice civile; b) dal prefetto della provincia in cui i soggetti richiedenti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, hanno sede per le società costituite all'estero, prive di una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato”.
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modalità di consultazione verranno seguiti anche per tutti i soggetti che non risultino
censiti191.
Giunti a questo punto della trattazione, l’individuazione dei pilastri portanti della
disciplina promuove la disamina degli effetti che i provvedimenti rilasciati dal
prefetto, nello specifico l’informazione antimafia, provocano in concreto. Un
contrasto efficace alla mafia che inquina il settore agro-pastorale trova attuazione
ogniqualvolta il prefetto fornisce, agli organismi di diritto pubblico gravati
dall’obbligo di richiedere la nota documentazione, l’informazione interdittiva,
limitando l’esercizio delle loro funzioni e obbligandoli alla tenuta di alcune condotte
omissive: non potranno dunque stipulare, approvare o autorizzare i contratti o
subcontratti, né tantomeno autorizzare, rilasciare o comunque consentire le
concessioni e le erogazioni. In via correttiva, i soliti soggetti individuati all’articolo
83 commi 1 e 2, secondo un’azione a posteriori, qualora il prefetto oltrepassi i termini
previsti, ovvero nei casi in cui, per ragioni di urgenza, i presupposti applicativi del
provvedimento siano stati accertati in un tempo successivo alla stipula dei contratti, si
vedranno costretti a revocare le autorizzazioni e le concessioni oppure a recedere dai
contratti192. La valenza pratica di tali provvedimenti prefettizi può apprezzarsi, a
maggior ragione, mostrando quanto i relativi effetti dirompenti si producano anche
solo in presenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa così desunti. Volgendo alle
conclusioni, la documentazione antimafia assume un ruolo chiave divenendo il mezzo
eccellente per ostacolare l’escalation dei gruppi criminosi nelle aree rurali; qui, i
191 Consulta c.a.m., testo art. 92, co. 2. Per ragioni di completezza espositiva si riporta il co. 3: “Decorso il termine di cui al comma 2, primo periodo, ovvero, nei casi di urgenza, immediatamente, i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, procedono anche in assenza dell'informazione antimafia. I contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all'articolo 67 sono corrisposti sotto condizione risolutiva e i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite.”192 In questa ultima ipotesi è fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite.
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controlli preventivi funzioneranno da barriere per negare la concessione di terreni
demaniali a personaggi in odor di mafia, ogni accertamento prefettizio comporterà la
revoca dei beni già concessi e il conseguente blocco dei contributi europei su di essi
percepiti. La lotta alle mafie rurali parte dalla privazione del bene originario, qual è il
terreno, continua poi grazie alla mancata attribuzione, in capo alle cosche, di ingenti
flussi di denaro che, sotto la veste di finanziamenti per lo sviluppo delle attività
agricole e zootecniche, alimentano le pericolose imprese mafiose generando i
cosiddetti costi dell’illegalità.
Il codice delle leggi antimafia, tuttavia, non si limita a disciplinare gli strumenti di
prevenzione amministrativa, ma anzi sposa in toto una logica preventiva
soffermandosi, a maggior ragione, su due strumenti di prevenzione patrimoniali per
eccellenza, quali il sequestro e la confisca. La disciplina di dette misure è contenuta
all’interno del decreto legislativo n.159/2011 e rispettivamente negli articoli 20 e
24193, così come da ultimo modificati ad opera della legge 17 ottobre 2017, n.161. Pur
193193 Si riporta il testo delle previsioni vigenti, così come modificate dall’intervenuta legge 17 ottobre 2017 n. 161: Art. 20, Sequestro: “1. Il tribunale, anche d'ufficio, con decreto motivato, ordina il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è stata presentata la proposta risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, ovvero dispone le misure di cui ordina il sequestro dei relativi beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2555 e seguenti del codice civile, anche al fine di consentire gli adempimenti previsti dall'articolo 104 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. In ogni caso il sequestro avente ad oggetto partecipazioni sociali totalitarie si estende di diritto a tutti i beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2555 e seguenti del codice civile. Nel decreto di sequestro avente ad oggetto partecipazioni sociali il tribunale indica in modo specifico i conti correnti e i beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2555 e seguenti del codice civile ai quali si estende il sequestro. 2. Prima di ordinare il sequestro o disporre le misure di cui agli articoli 34 e 34-bis e di fissare l'udienza, il tribunale restituisce gli atti all'organo proponente quando ritiene che le indagini non siano complete e indica gli ulteriori accertamenti patrimoniali indispensabili per valutare la sussistenza dei presupposti di cui al comma 1 per l'applicazione del sequestro o delle misure di cui agli articoli 34 e 34-bis. 3. Il sequestro è revocato dal tribunale quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l'indiziato non poteva disporre direttamente o indirettamente o in ogni altro caso in cui è respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale. Il tribunale ordina le trascrizioni e
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considerate misure di contrasto di ampia applicabilità verso l’eterogeneo mondo della
criminalità organizzata, sembra opportuno ripercorrere i tratti salienti della disciplina
al fine di mostrarne l’efficacia repressiva anche in ordine ai reati più comuni per la
mafia dei terreni. Il vero punto di forza delle misure di prevenzione patrimoniali
risiede nel riconoscimento del profitto, inteso come uno dei fini principali perseguito
dalle consorterie mafiose. L’arricchimento economico si pone alla base della strategia
mafiosa disposta a reinvestire, e poi moltiplicare, il capitale proveniente dai circuiti
le annotazioni consequenziali nei pubblici registri, nei libri sociali e nel registro delle imprese. 4. L'eventuale revoca del provvedimento non preclude l'utilizzazione ai fini fiscali degli elementi acquisiti nel corso degli accertamenti svolti ai sensi dell'articolo 19. 5. Il decreto di sequestro e il provvedimento di revoca, anche parziale, del sequestro sono comunicati, anche in via telematica, all'Agenzia di cui all'articolo 110 subito dopo la loro esecuzione.”Art. 24, Confisca: “1. Il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. In ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale. Se il tribunale non dispone la confisca, può applicare anche d'ufficio le misure di cui agli articoli 34 e 34-bis ove ricorrano i presupposti ivi previsti. 1-bis. Il tribunale, quando dispone la confisca di partecipazioni sociali totalitarie, ordina la confisca anche dei relativi beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2555 e seguenti del codice civile. Nel decreto di confisca avente ad oggetto partecipazioni sociali il tribunale indica in modo specifico i conti correnti e i beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2555 e seguenti del codice civile ai quali si estende la confisca. 2. Il provvedimento di sequestro perde efficacia se il tribunale non deposita il decreto che pronuncia la confisca entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell'amministratore giudiziario. Nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti, il termine di cui al primo periodo può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per sei mesi. Ai fini del computo dei termini suddetti, si tiene conto delle cause di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, previste dal codice di procedura penale, in quanto compatibili; il termine resta sospeso per un tempo non superiore a novanta giorni ove sia necessario procedere all'espletamento di accertamenti peritali sui beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente. Il termine resta altresì sospeso per il tempo necessario per la decisione definitiva sull'istanza di ricusazione presentata dal difensore e per il tempo decorrente dalla morte del proposto, intervenuta durante il procedimento, fino all'identificazione e alla citazione dei soggetti previsti dall'articolo 18, comma 2, nonché durante la pendenza dei termini previsti dai commi 10-sexies, 10-septies e 10-octies dell'articolo 7. 2-bis. Con il provvedimento di revoca o di annullamento definitivi del decreto di confisca è ordinata la cancellazione di tutte le trascrizioni e le annotazioni. 3. Il sequestro e la confisca possono essere adottati, su richiesta dei soggetti di cui all'articolo 17, commi 1 e 2, quando ne ricorrano le condizioni, anche dopo l'applicazione di una misura di prevenzione personale. Sulla richiesta
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illegali. Intraprendere una pluralità di attività criminali, basti solo pensare ai traffici
illeciti di portata internazionale, genera un cumulo di risorse finanziarie a loro volta
investite sia in ulteriori affari criminosi sia in circuiti perfettamente legali194.
L’attrazione delle cosche verso un’economia dalla faccia pulita e società
insospettabili, si rivela con sempre maggiore frequenza. E’ quanto avviene anche nel
mondo della mafia rurale, quando il guadagno di attività parassitarie, ad esempio
l’estorsione, unito al denaro indebitamente percepito mediante progetti truffaldini ben
strutturati, costituisce il motore per l’avvio o il rinnovamento di aziende agricole dai
bilanci sporchi. L’economia legale rappresenta la meta ultima del denaro e al tempo
stesso il trampolino di lancio per produrre altra ricchezza. Valga la seguente
considerazione, investire su una azienda agricola apparentemente legale, offre la
possibilità di guadagnare altro denaro mettendo in atto le note truffe ai fondi PAC ed
ottenendo risorse mai utilizzate per il fine previsto. Proseguendo su questa scia, si
notino inoltre i particolari vantaggi ingiustamente acquisiti; un’azienda ad
infiltrazione mafiosa avrà a completa disposizione un’ingente liquidità, promanante
sia dalle attività illegali, curate dalle cosche in un tempo precedente e contestuale
all’attività agricola, sia dai fondi pubblici indirizzati al sostegno dello sviluppo rurale.
Tali considerazioni lasciano già intendere gli inevitabili danni provocati agli
imprenditori agricoli onesti, in generale sintetizzabili nel concetto di “svantaggio”.
L’accrescimento della potenza economica di un’organizzazione criminale produce un
aumento di intensità del controllo esercitato sugli ambienti economici e finanziari
circostanti. La costruzione di un patrimonio consistente autorizza a consolidare il
controllo su un pezzo di territorio e a renderlo effettivo tramite l’intreccio di fitte
relazioni con le sfere politico-istituzionali. Gli strumenti di aggressione al patrimonio
provvede lo stesso tribunale che ha disposto la misura di prevenzione personale, con le forme previste per il relativo procedimento e rispettando le disposizioni del presente titolo”.194194 S. Pellegrini, L’aggressione dei patrimoni mafiosi e il riutilizzo dei beni confiscati, Aracne editrice, Roma, dicembre 2015.
150
mafioso si fanno portatori di un’idea moderna, aperta a riconoscere l’importanza
reclamata dai beni. Più precisamente, essi si preoccupano di colpire la funzionalità
polivalente del patrimonio, diretta al mantenimento delle strutture associative, alla
sopravvivenza in senso stretto degli affiliati, spesso quando detenuti, e dei loro
familiari, all’approvvigionamento di armi, stupefacenti o qualsiasi altro mezzo da
impiegare nei traffici illeciti e, senza dubbio, all’investimento in settori economici
legali195. Recidere il nesso che lega il bene al malvivente consente di ostacolare il
raggiungimento degli obiettivi appena enunciati. Così, colpire il regno che ogni
dinastia mafiosa cerca di costruirsi, significa infliggere un duro colpo a quei
personaggi che hanno voluto ricompensare le proprie fatiche ponendo se stessi in
posizione di supremazia. La carta vincente per troncare il legame sussistente con le
risorse disponibili, si esprime nelle misure di prevenzione patrimoniali, nella specie
nel sequestro e confisca di prevenzione disciplinati dal Codice antimafia. Esse si
rendono applicabili in modo disgiunto e indipendente rispetto alle misure di natura
personale che incidono sulla libertà del soggetto destinatario. Oggetto delle misure di
prevenzione sarà dunque la ricchezza accumulata, aggredita in una fase anteriore, o
comunque al di fuori, rispetto al processo di accertamento della responsabilità penale
dell’imputato. L’intervento di misure preventive giustifica un’azione ante o praeter
delictum ogniqualvolta sufficienti elementi di fatto autorizzino la formulazione di un
giudizio di pericolosità sociale. In tal senso il bene oggetto del provvedimento,
adottato nel rispetto di un procedimento di prevenzione, viene prima reso
giuridicamente indisponibile da parte del titolare del bene, e successivamente ablato
in via definitiva. Già la legge n. 646/1982, cosiddetta Legge Rognoni-La Torre196,
aveva colto l’esigenza di una repressione anticipata che non attendesse
l’accertamento di responsabilità penale racchiuso in una sentenza di condanna, ma 195 S. Pellegrini, op.cit., p. 20 ss.196 Con tale legge si erano introdotte le misure di prevenzione patrimoniali, quali il sequestro e la confisca, all’interno della L. n. 575/1965, “Disposizioni contro la mafia”, pubblicata in G.U. 5 giugno 1965, n.138.
151
anzi procedesse a rintracciare i requisiti soggettivi ed oggettivi validi per espropriare
un patrimonio e consegnarlo allo Stato. Ancora oggi, le disposizioni normative
chiedono la sussistenza di presupposti applicativi verificati da parte dell’Autorità
giudiziaria, in particolare dal Tribunale sezione misure di prevenzione. Secondo una
valutazione dei criteri oggettivi si prospettano due alternative: l’una ritiene necessario
che il soggetto, verso cui è stata presentata la proposta di sequestro o contro il quale
si vuole applicare l’istituto della confisca, possa effettivamente disporre, in modo
diretto o indiretto, a qualsiasi titolo e purchè sia accertata una relazione di fatto
assimilabile ai poteri riconosciuti al titolare giuridico dal diritto privato, di beni il cui
valore risulti sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività svolta; l’altra
esige di poter ritenere, sulla base di sufficienti indizi, che gli stessi siano frutto di
attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Accanto a tali parametri oggettivi se
ne impongono altri di natura soggettiva, interamente fondati sulle categorie di
pericolosità sociale, sia essa semplice o qualificata. La valutazione di esistenti
elementi di fatto deve dimostrare, nell’ipotesi di pericolosità semplice, che il
soggetto de quo sia abitualmente dedito alla commissione di delitti o viva
abitualmente del profitto di attività delittuose; altrimenti, nell’altra eventualità di
pericolosità qualificata, il soggetto deve apparire indiziato di uno dei reati
specificamente descritti dall’articolo 4 del Codice antimafia197, tra i quali spicca il
197 L’art.4 d.lgs. 159/2011 individua i soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali, che risultano i medesimi rispetto a quelle patrimoniali: “1. I provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all'articolo 416-bis c.p.; b) ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale ovvero del delitto di cui all'articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, o del delitto di cui all'articolo 418 del codice penale; c) ai soggetti di cui all'articolo 1; d) agli indiziati di uno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-quater, del codice di procedura penale e a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I del titolo VI del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice, nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un'organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all'articolo 270-sexies del codice penale; e) a coloro che abbiano fatto
152
delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex articolo
640bis c.p., evidentemente indicato per colpire la mafia rurale. Si accolgano talune
precisazioni in riferimento al requisito della sproporzione, proponendo una tesi meno
garantista secondo la quale non c’è necessità di un nesso che leghi gli acquisti
patrimoniali alla commissione del reato, purchè essi non siano collocabili in un tempo
tanto anteriore da rendersi perciò estranei all’attività illecita. In ogni caso si precisa
come il requisito della sproporzione deve sussistere in riferimento alla somma dei
singoli beni e non anche al patrimonio complessivamente stimato; ne consegue un
inevitabile raffronto tra il reddito, l’attività svolta al momento degli acquisti ed il
valore dei beni ognivolta acquisiti198. L’incongruità ora descritta non rappresenta un
unicum delle misure preventive, ma anzi accomuna queste ad altre tipologie di
confisca, talvolta confuse per omonimia, ma disciplinate da strumenti diversi e
riferimenti normativi autonomi. Un evidente esempio è ravvisabile nell’istituto della
confisca allargata o detta appunto “per sproporzione”199, la cui disciplina è confluita
nel codice penale all’articolo 240bis e presenta casi particolari di confisca eseguibili parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645, e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; f) a coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell'articolo 1 della legge n. 645 del 1952, in particolare con l'esaltazione o la pratica della violenza; g) fuori dei casi indicati nelle lettere d), e) ed f), siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato alla lettera d); h) agli istigatori, ai mandanti e ai finanziatori dei reati indicati nelle lettere precedenti. È finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati; i) alle persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all'articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, nonché alle persone che, per il loro comportamento, debba ritenersi, anche sulla base della partecipazione in più occasioni alle medesime manifestazioni, ovvero della reiterata applicazione nei loro confronti del divieto previsto dallo stesso articolo, che sono dediti alla commissione di reati che mettono in pericolo l'ordine e la sicurezza pubblica, ovvero l'incolumità delle persone in occasione o a causa dello svolgimento di manifestazioni sportive; i-bis) ai soggetti indiziati del delitto di cui all'articolo 640-bis o del delitto di cui all'articolo 416 del codice penale, finalizzato alla commissione di taluno dei delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis del medesimo codice; i-ter) ai soggetti indiziati del delitto di cui all'articolo 612-bis del codice penale”.198 Pellegrini, op.cit., p. 61ss.
153
per taluno dei reati ivi espressamente richiamati. Per quanto ci interessa, nell’ipotesi
di condanna o patteggiamento per il delitto di associazione a delinquere di tipo
mafioso, verrà sempre disposta la confisca di denaro, beni o altra utilità di cui il reo
non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o
giuridica, risulti essere titolare o averne la disponibilità a qualsiasi titolo in valore
sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta. Dunque si noti
l’elemento distintivo ravvisabile nell’intervenuta condanna a seguito di un processo
penale progressivamente dipanatosi nel contraddittorio tra le parti e nel rispetto delle
garanzie di difesa offerte da una iter giurisdizionalizzato. L’istituto della confisca
allargata presuppone l’accertamento della responsabilità penale oltre ogni ragionevole
dubbio, avvalendosi di prove in grado di addebitare all’imputato la fattispecie astratta 199 La disciplina dell’istituto della “confisca allargata”, introdotta dall’articolo 12sexies della legge n. 356/1992, è oggi confluita nell’articolo 240bis del Codice penale, così come modificato ad opera del d.lgs. 21/2018, “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell'articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103.” Il testo dell’art. 6 del decreto di modifica recitava: “1. Dopo l'articolo 240 del codice penale, approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, è inserito il seguente: «Art. 240-bis (Confisca in casi particolari): “Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis, 325, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 453, 454, 455, 460, 461, 517-ter e 517 quater, nonché dagli articoli 452-quater, 452-octies, primo comma, 493-ter, 512-bis, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 603-bis, 629, 644, 648, esclusa la fattispecie di cui al secondo comma, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1, dall'articolo 2635 del codice civile, o per taluno dei delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine costituzionale, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. In ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale, salvo che l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge. La confisca ai sensi delle disposizioni che precedono e' ordinata in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta per i reati di cui agli articoli 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies quando le condotte ivi descritte riguardano tre o più sistemi. Nei casi previsti dal primo comma, quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui allo stesso comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità di legittima provenienza per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona”.
154
di reato formulata nel capo d’imputazione; questa struttura consente di annoverare la
confisca allargata fra le misure di sicurezza applicabili post delictum e non anche in
via anticipata. Secondo una logica opposta, il sequestro e la confisca di prevenzione
rappresentano l’esito di un procedimento di prevenzione instaurato sulla valutazione
di elementi sintomatici della pericolosità del soggetto; questi andranno a sorreggere
una prognosi di ragionevole probabilità di commissione dei reati, giustificando di
conseguenza le risposte immediate dell’ordinamento. La fragilità indiziaria, espressa
dalle misure di prevenzione, non le ha rese esenti da svariate critiche in particolare
provenienti dall’area dottrinale. Si sono avanzate eccezioni di costituzionalità visto il
contrasto con le disposizioni di cui agli articoli 41 e 42 Cost., l’uno volto a tutelare
l’iniziativa economica privata, l’altro il diritto alla proprietà privata. La limitazione di
tali diritti è stata giustificata dalla Corte Costituzionale all’insegna del principio di
utilità generale e delle esigenze di sicurezza. Altri dubbi di compatibilità sono stati
sollevati avverso la Cedu, ma ognuno risolto positivamente nei termini così
sintetizzabili: “La Corte constata che la confisca controversa ha sicuramente
costituito un’ingerenza nel godimento del diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro
beni. La Corte osserva inoltre che, anche se la misura in questione ha comportato
una privazione di proprietà, quest’ultima rientra in una normativa sull’uso dei beni
ai sensi del secondo comma dell’articolo 1 del Protocollo n° 1, che lascia agli Stati il
diritto di adottare «quelle leggi che giudicano necessarie per disciplinare l’uso dei
beni in relazione all’interesse generale” (vedi Arcuri e tre altri c. Italia (dec.), no
52024/99, 5 luglio 2001; Riela e altri c. Italia (dec.), no 52439/99, 4 settembre
2001). (..) “Inoltre, la Corte constata che la confisca controversa mira ad impedire
un uso illecito e pericoloso per la società di beni la cui provenienza lecita non è stata
dimostrata. Essa ritiene quindi che l’ingerenza che ne segue miri a raggiungere uno
scopo che corrisponde all’interesse generale (Arcuri ed altri tre c. Italia succitata;
Riela ed altri c. Italia succitata; Raimondo c. Italia del 22 febbraio 1994, serie A no
155
281-A, p. 17, § 30). Tra l’altro, la Corte osserva che il fenomeno della criminalità
organizzata ha raggiunto, in Italia, dimensioni davvero preoccupanti. I guadagni
smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite
danno loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto
nello Stato. Quindi, i mezzi adottati per combattere questo potere economico, ed in
particolare la confisca controversa, possono risultare indispensabili per poter
efficacemente combattere tali associazioni (vedi Arcuri ed altri tre c. Italia,
succitata)”200.
In un’ottica ampia di res comune, l’aggressione del patrimonio illecito non può da
sola assolvere l’obiettivo di legalità nonché il senso di responsabilità etica e sociale
da trasmettere e riconoscere alle comunità che vivono quei territori. La legge
109/1996201 ha scelto di opporre una risposta forte allo strapotere criminale,
diffondendo un messaggio di crescita culturale, sviluppo economico e sociale di una
collettività che, dopo aver sopportato gravi costi, reclama un riscatto sociale. La
destinazione dei beni confiscati verso finalità di riutilizzo sociale si definisce una
forma di riscatto civile delle società contro il potere mafioso202. Il punto cardine di
tale normativa risiede nella trasmissione di un’educazione sociale, attenta a
sensibilizzare il consumatore al nuovo messaggio etico che accompagna l’intera
filiera produttiva e distributiva di prodotti ottenuti sui beni confiscati. E’ su questi,
che per reazione sorgerà una un’impresa definita “anti-mafiosa”, perché promotrice di
un’attività produttiva sana e di una destinazione finale vincolata al concetto di bene
comune e non allo scopo di lucro. Si tratta di un’impresa impegnata a lottare contro
200 Vedi sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 5 gennaio 2010 - Ricorso n. 4514/07 - Bongiorno e altri c. Italia.201 La legge 109/1996 recante “Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati” è il frutto di un’iniziativa popolare promossa dall’associazione Libera e finalizzata alla presentazione di una proposta di legge, formulata in prima persona dal magistrato Giuseppe di Lello. L’approvazione giunse il 7 marzo 1996. 202 A. Sampino, Lavoro per i giovani nei beni confiscati alla mafia. Intervista a Umberto Di Maggio, www.giornaledisicilia.it, 2013.
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l’economia deviata, che indossa le vesti non soltanto delle cooperative a cui vengono
assegnati i beni controversi, ma più in generale del complessivo mondo no profit
concretamente alla ricerca della legalità. Non è sempre facile incontrare giovani
cooperative che, dopo essersi riunite, chiedono l’assegnazione di beni sui quali la
mafia vorrebbe continuare ad esercitare il proprio dominio. Spesso i gesti di
intimidazione non mostrano cedimenti neppure a seguito di un’ablazione definitiva
della res, e così apportano danni di tipo materiale che costringono le aspiranti
cooperative a dotarsi di un maggiore coraggio per intraprendere una gestione più
razionale ed efficiente di ogni bene confiscato e ormai sottratto al mondo criminale.
Al momento di definizione della stabilità del vincolo, l’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità
organizzata assume il potere e guida la fase di destinazione dei beni. L’opzione della
vendita è divenuta del tutto residuale e percorribile in extrema ratio203 laddove la
strada della destinazione dei beni a fini istituzionali o sociali risulti impercorribile.
Per le tematiche che qui rilevano ci si limita a focalizzare l’attenzione maggiormente
sui percorsi segnati dai beni immobili e/o aziendali204; i primi, essendo ormai 203 La vendita dei beni confiscati è realizzabile solo ed esclusivamente se tutti i tentativi di destinazione dei beni a fini istituzionali o sociali hanno esito negativo. La fase di liquidazione avviene secondo criteri di alta prudenza onde evitare che i beni posti all’asta possano essere riacquistati dalle consorterie mafiose soprattutto avvalendosi di interposizioni societarie o intestazioni fittizie. 204 Il potere di destinazione dei beni confiscati viene esercitato in ossequio ai criteri dettati dal d.lgs. 159/2011, Art. 48, Destinazione dei beni e delle somme: “(…) 3. I beni immobili sono: a) mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile e, ove idonei, anche per altri usi governativi o pubblici connessi allo svolgimento delle attività istituzionali di amministrazioni statali, agenzie fiscali, università statali, enti pubblici e istituzioni culturali di rilevante interesse, salvo che si debba procedere alla vendita degli stessi finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso; b) mantenuti nel patrimonio dello Stato e, previa autorizzazione del Presidente del Consiglio dei ministri, utilizzati dall'Agenzia per finalità economiche; c) trasferiti per finalità istituzionali o sociali ovvero economiche, con vincolo di reimpiego dei proventi per finalità sociali, in via prioritaria, al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, ovvero al patrimonio della provincia o della regione. Gli enti territoriali provvedono a formare un apposito elenco dei beni confiscati ad essi trasferiti, che viene periodicamente aggiornato con cadenza mensile. L'elenco, reso pubblico nel sito internet istituzionale dell'ente, deve contenere i dati concernenti la consistenza, la destinazione e l'utilizzazione dei beni nonché, in caso di assegnazione a terzi, i dati identificativi del concessionario e gli estremi, l'oggetto e la durata dell'atto di concessione. La mancata pubblicazione comporta responsabilità dirigenziale ai sensi dell'articolo 46 del decreto
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appartenenti al patrimonio dello Stato, potranno ivi essere mantenuti impiegandoli a
fini di giustizia, ordine pubblico e protezione civile, oppure in alternativa, ed è qui
che le file del nostro discorso riscoprono una cucitura, essere devoluti a finalità
istituzionali, sociali oppure economiche. In quest’ultima eventualità il Codice
antimafia coglie pienamente nel segno, esprimendo con chiarezza il vincolo di
reimpiego dei futuri proventi esclusivamente per raggiungere finalità di tipo sociale;
in questo passaggio si rintraccia l’essenza della normativa, diretta a ricompensare la
legislativo 14 marzo 2013, n. 33. Gli enti territoriali, anche consorziandosi o attraverso associazioni, possono amministrare direttamente il bene o, sulla base di apposita convenzione, assegnarlo in concessione, a titolo gratuito e nel rispetto dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità e parità di trattamento, a comunità, anche giovanili, ad enti, ad associazioni maggiormente rappresentative degli enti locali, ad organizzazioni di volontariato di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, a cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti di cui al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché alle associazioni di protezione ambientale riconosciute ai sensi dell'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, e successive modificazioni, ad altre tipologie di cooperative purché a mutualità prevalente, fermo restando il requisito della mancanza dello scopo di lucro, e agli operatori dell'agricoltura sociale riconosciuti ai sensi delle disposizioni vigenti nonché agli Enti parco nazionali e regionali. La convenzione disciplina la durata, l'uso del bene, le modalità di controllo sulla sua utilizzazione, le cause di risoluzione del rapporto e le modalità del rinnovo. I beni non assegnati a seguito di procedure di evidenza pubblica possono essere utilizzati dagli enti territoriali per finalità di lucro e i relativi proventi devono essere reimpiegati esclusivamente per finalità sociali. Se entro un anno l'ente territoriale non ha provveduto all'assegnazione o all'utilizzazione del bene, l'Agenzia dispone la revoca del trasferimento ovvero la nomina di un commissario con poteri sostitutivi. Alla scadenza di sei mesi il sindaco invia al Direttore dell'Agenzia una relazione sullo stato della procedura. La destinazione, l'assegnazione e l'utilizzazione dei beni, nonché il reimpiego per finalità sociali dei proventi derivanti dall'utilizzazione per finalità economiche, sono soggetti a pubblicità nei siti internet dell'Agenzia e dell'ente utilizzatore o assegnatario, ai sensi del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33. L'Agenzia revoca la destinazione del bene qualora l'ente destinatario ovvero il soggetto assegnatario non trasmettano i dati nel termine richiesto; c-bis) assegnati, a titolo gratuito, direttamente dall'Agenzia agli enti o alle associazioni indicati alla lettera c), in deroga a quanto previsto dall'articolo 2 della legge 23 dicembre 2009, n. 191, sulla base di apposita convenzione nel rispetto dei princìpi di trasparenza, adeguata pubblicità e parità di trattamento, ove risulti evidente la loro destinazione sociale secondo criteri stabiliti dal Consiglio direttivo dell'Agenzia; d) trasferiti al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, se confiscati per il reato di cui all'articolo 74 del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Il comune può amministrare direttamente il bene oppure, preferibilmente, assegnarlo in concessione, anche a titolo gratuito, secondo i criteri di cui all'articolo 129 del medesimo testo unico, ad associazioni, comunità o enti per il recupero di tossicodipendenti operanti nel territorio ove è sito l'immobile. Se entro un anno l'ente territoriale non ha provveduto alla destinazione del bene, l'Agenzia dispone la revoca del trasferimento ovvero la nomina di un
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comunità redistribuendo utili non soltanto economici. Questa destinazione più
generosa presuppone il passaggio dei beni nel patrimonio dell’Ente locale, in via
prioritaria nel bagaglio economico del Comune ove l’immobile è sito, in secondo
ordine in quello della Provincia o della Regione. In ogni caso l’avvenuto passaggio
provoca un trasferimento di potere in capo all’Ente, propedeutico per l’eventuale
futura assegnazione del bene stesso. La reale efficacia della procedura risiede nella
capacità degli Enti destinatari di trarre quanti più benefici possibili dalla crescita del
commissario con poteri sostitutivi. 4. I proventi derivanti dall'utilizzo dei beni di cui al comma 3, lettera b), affluiscono, al netto delle spese di conservazione ed amministrazione, al Fondo unico giustizia, per essere versati all'apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato e riassegnati allo stato di previsione del Ministero dell'interno al fine di assicurare il potenziamento dell'Agenzia. 5. I beni di cui al comma 3, di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalità di pubblico interesse ivi contemplate, sono destinati con provvedimento dell'Agenzia alla vendita, osservate, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura civile. L'avviso di vendita è pubblicato nel sito internet dell'Agenzia, e dell'avvenuta pubblicazione viene data altresì notizia nei siti internet dell'Agenzia del demanio e della prefettura-ufficio territoriale del Governo della provincia interessata. La vendita è effettuata per un corrispettivo non inferiore a quello determinato dalla stima formulata ai sensi dell'articolo 47. Qualora, entro novanta giorni dalla data di pubblicazione dell'avviso di vendita, non pervengano all'Agenzia proposte di acquisto per il corrispettivo indicato al terzo periodo, il prezzo minimo della vendita non può, comunque, essere determinato in misura inferiore all'80 per cento del valore della suddetta stima. Fatto salvo il disposto dei commi 6 e 7 del presente articolo, la vendita è effettuata agli enti pubblici aventi tra le altre finalità istituzionali anche quella dell'investimento nel settore immobiliare, alle associazioni di categoria che assicurano maggiori garanzie e utilità per il perseguimento dell'interesse pubblico e alle fondazioni bancarie. I beni immobili acquistati non possono essere alienati, nemmeno parzialmente, per cinque anni dalla data di trascrizione del contratto di vendita e quelli diversi dai fabbricati sono assoggettati alla stessa disciplina prevista per questi ultimi dall'articolo 12 del decreto-legge 21 marzo 1978, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 maggio 1978, n. 191. L'Agenzia richiede al prefetto della provincia interessata un parere obbligatorio, da esprimere sentito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, e ogni informazione utile affinché i beni non siano acquistati, anche per interposta persona, dai soggetti ai quali furono confiscati, da soggetti altrimenti riconducibili alla criminalità organizzata ovvero utilizzando proventi di natura illecita. 6. Il personale delle Forze armate e il personale delle Forze di polizia possono costituire cooperative edilizie alle quali è riconosciuto il diritto di opzione prioritaria sull'acquisto dei beni destinati alla vendita di cui al comma 5. 7. Gli enti territoriali possono esercitare la prelazione all'acquisto dei beni di cui al comma 5. Con regolamento adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, sono disciplinati i termini, le modalità e le ulteriori disposizioni occorrenti per l'attuazione del presente comma. Nelle more dell'adozione del predetto regolamento è comunque possibile procedere alla vendita dei beni. 7-bis. Nell'ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente, i beni mobili di terzi rinvenuti in immobili confiscati, qualora non vengano ritirati dal proprietario nel termine di trenta giorni dalla notificazione dell'invito al ritiro da parte dell'Agenzia, sono alienati a cura della stessa Agenzia anche a mezzo
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proprio bilancio, progettando attività che possano dar vita a nuovi posti di lavoro e ad
un’ampia gamma di servizi a disposizione della comunità205. A seguito di una serie di
incombenze formali, tra cui la creazione di un apposito elenco206 che individui i beni
ad essi trasferiti, i rispettivi Enti beneficiari potranno gestire ex se l’amministrazione
del bene, eventualmente unendosi in forme di consorzio con altri Enti, oppure
stipulare una convenzione con terzi ai quali viene affidato il bene in concessione e a
titolo gratuito. L’assegnazione deve avvenire nei confronti dei soggetti idonei
qualificati dalla norma e nel rispetto dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità
e parità di trattamento. Non volendo incorrere in una pedissequa ripetizione
dell’elenco delle singole associazioni e/o cooperative richiamate dal dettame
legislativo, per le quali ad esso si rimanda, si rilevi la citazione dei cosiddetti
operatori dell’agricoltura sociale quali plausibili concessionari. L’agricoltura sociale
esprime un’idea di multifunzionalità congegnata per intrecciare e rafforzare la rete dei
servizi sociali presente nelle aree rurali207. Gli obiettivi prefissati consentono di
intervenire a tutela delle fasce più deboli della società, soggetti con disabilità fisiche e
psichiche o con problemi di tossico-dipendenza, giovani in difficoltà, tutti coloro che
hanno bisogno di un ausilio che apra la strada per un inserimento sociale ed
ambientale, prima ancora che lavorativo. Gli operatori del settore vengono delineati
dalle norme vigenti ed identificati negli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135
dell'istituto vendite giudiziarie, previa delibera del Consiglio direttivo, mediante pubblicazione per quindici giorni consecutivi del relativo avviso di vendita nel proprio sito internet. Ai fini della destinazione dei proventi derivanti dalla vendita dei beni mobili, si applicano le disposizioni di cui al comma 9. Non si procede alla vendita dei beni che, entro dieci giorni dalla diffusione nel sito informatico, siano richiesti dalle amministrazioni statali o dagli enti territoriali come individuati dal presente articolo. In tale caso, l'Agenzia provvede alla loro assegnazione a titolo gratuito ed alla consegna all'amministrazione richiedente, mediante sottoscrizione di apposito verbale. Al secondo esperimento negativo della procedura di vendita, l'Agenzia può procedere all'assegnazione dei beni a titolo gratuito ai soggetti previsti dal comma 3, lettera c), o in via residuale alla loro distruzione (…)”.205205 S.Pellegrini, op.cit., p. 77 ss.206 Vedi supra art. 48 d.lgs. 159/2011.207 Vedi Agricoltura sociale in www.arsial.it.
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del codice civile, in forma singola o associata, e nelle cooperative sociali di cui alla
legge 8 novembre 1991, n. 381, qualora il fatturato derivante dall'esercizio delle
attività agricole svolte sia prevalente, più precisamente sia superiore al 30 per cento,
su quello complessivo208. Quanto espressamente chiarito chiude lo spazio di
riflessione dedicato ai beni immobili, il quale merita comunque un’integrazione
diretta a precisare il trattamento riservato alla destinazione dei beni aziendali. Essi,
seguendo un modello opposto rispetto ai beni immobili, non trasmigrano nel
patrimonio degli Enti territoriali, ma anzi si conservano all’interno del patrimonio
statale acquisendo una determinata destinazione scelta dall’Agenzia. La prima
opzione considerata prevede l’affitto dei beni nell’ottica di salvaguardare qualsiasi
prospettiva di continuazione o ripresa dell’attività produttiva esistente. Le rispettive
concessioni possono avvenire a titolo oneroso, ove si tratti di società, imprese
pubbliche o private, oppure a titolo gratuito e senza oneri a carico dello Stato,
adottando l’istituto del comodato a vantaggio di cooperative create e gestite dai
lavoratori delle imprese confiscate. La particolare attenzione verso il mantenimento
dei livelli occupazionali consente di privilegiare la parte concessionaria che si adoperi
in tal senso. Talvolta, le cooperative di lavoratori già dipendenti si organizza per
offrirsi una garanzia occupazionale, si assume la diretta gestione dell’azienda e
insegna così la possibilità di sostituire il lavoro regolare ai costi dell’illegalità209.
Segue la seconda opzione, essa individua un’ulteriore strada percorribile nella vendita
delle aziende dinnanzi ad una maggiore utilità riconosciuta per l’interesse pubblico o
nell’ipotesi in cui il corrispettivo costituisca la fonte di risarcimento per le vittime dei
reati mafiosi. In ultimo, una terza opzione residuale coincide con la liquidazione dei
beni, anche in tali casi si esige il riscontro di una maggiore utilità in vista
208 Cfr. Art. 2, Definizioni, Legge 18 agosto 2015, n. 141, Disposizioni in materia di agricoltura sociale, pubblicata in Gazzetta ufficiale 8 settembre 2015, n.208. 209 S.Pellegrini, op. cit., p.74.
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dell’interesse pubblico o la finalità di risarcire le vittime “qualificate”210. A
conclusione della disamina relativa alla fase di destinazione dei beni confiscati,
merita un approfondimento l’approvazione di un recente strumento coniato per
migliorare la gestione di terreni e aziende agricole confiscati. I dati più aggiornati
riferiscono elevate cifre numeriche consistenti in terreni attualmente affidati gestione
dell’Agenzia. Il modello operativo intrapreso è il frutto di un protocollo d’intesa
firmato tra il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali (Mipaaf),
210 Cfr d.lgs. 159/2011, art.48 “Destinazione dei beni e delle somme”, comma 8, 8bis, 8ter: “8. I beni aziendali sono mantenuti al patrimonio dello Stato e destinati, con provvedimento dell'Agenzia che ne disciplina le modalità operative: a) all'affitto, quando vi siano fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività produttiva, a titolo oneroso, a società e ad imprese pubbliche o private, ovvero in comodato, senza oneri a carico dello Stato, a cooperative di lavoratori dipendenti dell'impresa confiscata. Nella scelta dell'affittuario o del comodatario sono privilegiate le soluzioni che garantiscono il mantenimento dei livelli occupazionali. I beni non possono essere destinati all'affitto e al comodato alle cooperative di lavoratori dipendenti dell'impresa confiscata se taluno dei relativi soci è parente, coniuge, affine o convivente con il destinatario della confisca, ovvero nel caso in cui nei suoi confronti sia stato adottato taluno dei provvedimenti indicati nell'articolo 15, commi 1 e 2, della legge 19 marzo 1990, n. 55; b) alla vendita, per un corrispettivo non inferiore a quello determinato dalla stima eseguita dall'Agenzia, a soggetti che ne abbiano fatto richiesta, qualora vi sia una maggiore utilità per l'interesse pubblico o qualora la vendita medesima sia finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso. Nel caso di vendita disposta alla scadenza del contratto di affitto dei beni, l'affittuario può esercitare il diritto di prelazione entro trenta giorni dalla comunicazione della vendita del bene da parte dell'Agenzia; c) alla liquidazione, qualora vi sia una maggiore utilità per l'interesse pubblico o qualora la liquidazione medesima sia finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso, con le medesime modalità di cui alla lettera b). 8-bis. I beni aziendali di cui al comma 8, ove si tratti di immobili facenti capo a società immobiliari, possono essere altresì trasferiti, per le finalità istituzionali o sociali di cui al comma 3, lettere c) e d), in via prioritaria al patrimonio del comune ove il bene è sito, ovvero al patrimonio della provincia o della regione, qualora tale destinazione non pregiudichi la prosecuzione dell'attività d'impresa o i diritti dei creditori dell'impresa stessa. Con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con i Ministri dell'interno e della giustizia, sono determinate le modalità attuative della disposizione di cui al precedente periodo in modo da assicurare un utilizzo efficiente dei suddetti beni senza pregiudizio per le finalità cui sono destinati i relativi proventi e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Il trasferimento di cui al primo periodo è disposto, conformemente al decreto di cui al secondo periodo, con apposita delibera dell'Agenzia. 8-ter. Le aziende sono mantenute al patrimonio dello Stato e destinate, senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, con provvedimento dell'Agenzia che ne disciplina le modalità operative, al trasferimento per finalità istituzionali agli enti o alle associazioni individuati, quali assegnatari in concessione, dal comma 3, lettera c), con le modalità ivi previste, qualora si ravvisi un prevalente interesse pubblico, anche con riferimento all'opportunità della prosecuzione dell'attività da parte dei soggetti indicati”. Vedi anche comma 9 per quanto concerne la destinazione dei proventi derivanti dall’affitto, dalla vendita o dalla liquidazione dei beni: “9. I proventi derivanti dall'affitto, dalla vendita o dalla
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l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) e l’Agenzia Nazionale per
l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità
organizzata (ANBSC). Il percorso intrapreso intende supportare la realizzazione di
una rete attiva che faciliti la chiara delineazione del patrimonio fondiario oggetto di
misure di prevenzione, avvallando lo scambio di dati ed informazioni fra i soggetti
che ne dispongono. Nello specifico le azioni descritte all’interno del Protocollo
prediligono l’esigenza di aggiornamento dei database dell’Agea alla luce dei
provvedimenti di confisca adottati; l’interesse principale si sostanzia nell’intenzione
di escludere la concreta possibilità di errore che si verifica a fronte dell’elargizione di
contributi non dovuti, ciò accade quando i terreni oggetto di aiuti sono ormai già
definitivamente ablati e perciò non dovrebbero più essere suscettibili di partecipare ai
meccanismi di finanziamento europeo. Inoltre, la recente intesa vuole sostenere
l’ANBSC arricchendo le conoscenze in possesso proprio in funzione della
programmazione della destinazione dei beni. Gli approfondimenti interessano le
specifiche caratteristiche dei terreni confiscati e le colture ad essi associate.
All’Agenzia viene oltremodo garantito l’accesso al fascicolo delle aziende confiscate
affinchè la gestione delle imprese agricole possa dirsi efficiente. In ultimo stadio, la
fase di destinazione dei beni accoglie un indirizzamento, prevedendo la
pubblicizzazione e divulgazione dei dati specifici dei terreni con l’obiettivo di
sollecitare le richieste di destinazione provenienti dai singoli aventi diritto, nonché
dagli enti territoriali più volte richiamati211.
Il complesso discorso affrontato ci induce ad esporre talune considerazioni finali
dirottando la riflessione sulle qualità dei destinatari finali e in pratica dei gestori di
liquidazione dei beni di cui al comma 8 affluiscono, al netto delle spese sostenute, al Fondo unico giustizia per essere versati all'apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato e riassegnati per le finalità previste dall'articolo 2, comma 7, del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito dalla legge 13 novembre 2008, n. 181”.211 Comunicato stampa, Mipaaf: firmato Protocollo d’intesa Ministero-Agea-Anbsc per gestire e valorizzare al meglio i terreni e le aziende agricole confiscate, www.regioni.it, 31/01/2018.
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beni ricchi di notevole potenziale; si osservi quanto la fascia dei giovani, insieme a
coloro che operano nei progetti di agricoltura sociale, rappresentino l’anello di
congiunzione verso il risanamento economico e sociale. Affidare la gestione di terreni
e aziende agricole ai più giovani, costantemente in cerca di crescita, formazione,
riscatto ed onestà, rappresenta la miglior strada per la tutela dell’imprenditoria sana e
della complessiva ricchezza naturale che il territorio possiede. Educare i giovani alla
valorizzazione del proprio territorio nel rispetto dell’ambiente circostante equivale a
garantire la qualità della società in cui si vive. La scommessa è quella di mettersi in
gioco, scardinare le vecchie prassi inique, migliorarsi, apportare cambiamenti,
infondere all’esterno un messaggio carico di speranza e legalità che, partendo dal
singolo modo di pensare, possa tradursi in modo di agire nell’economia.
Conclusioni
Il lungo iter percorso ha raggiunto così la sua meta avendo illustrato il fenomeno
della mafia rurale nei micro e macro aspetti interessati. Gli interrogativi posti ab
origine, nel paragrafo introduttivo, sono stati affrontati e discussi nel dettaglio
all’interno dei quattro capitoli presentati. L’obiettivo ultimo è far emergere quel filo
nascosto che, in funzione di trait d’union, crea un intreccio tra le diverse articolazioni
del nostro lavoro. Il legame di cui si discute sposa la seguente tesi principale: è
essenziale assumere consapevolezza riguardo l’esistenza di una Mafia rurale ancora
attiva, di stabile presenza sulle campagne italiane e immediatamente abile a
trasformare il terreno in scenario ad hoc per la commissione di qualsiasi reato possa
perfezionarsi attraverso o al di sopra di esso. Lo sfruttamento del terreno, attraverso
furbesca arguzia e mezzi violenti costruiti da minacce e intimidazioni, ha consentito
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ai gruppi mafiosi di assumere con forza le redini del potere. La loro invasione, nei
confronti di ogni azienda agricola attiva sugli spazi controllati, rende palese la sete di
conquista dettata dal perseguimento dell’esigenza primaria del potere. La continua
ricerca di fama e onori, infatti, fa scattare un meccanismo complementare che spinge
verso la creazione del clima di assoggettamento necessario per soffocare le libertà
della gente comune.
In quanto appena detto, si colgono evidenti affinità di metodo e pensiero con la mafia
più antica, quella che nasce sul latifondo e lì opera con brutale ferocia dando vita ad
un primo modello di gerarchie. I mezzi feudali, ancora oggi in uso, vengono però
colmati da tecniche più innovative che le la mafia dei poderi ruba pedissequamente
alle associazioni criminali già imprenditrici nell’alta finanza. Il denominatore comune
si ravvisa nella facoltà d’ingegno attivata al fine di accumulare quante più ricchezze
possibili; ci troviamo di fronte ad associazioni del malaffare infiltrate a fondo nei
tessuti sociali ed economici ed attente a generare un fondamentale network di
relazioni appartenente al capitale sociale mafioso. La rete di accordi e legami
collusivi, intrecciati con i giusti professionisti, produce un’ingente accumulazione
economica non dovuta, ma a sua volta indispensabile per il rafforzamento del potere
già instaurato in loco. Le truffe da capogiro perpetrate a discapito dei finanziamenti
europei, classificati sotto il regime della PAC, mostrano le ragioni di un rinvigorito
interesse nei confronti del mondo agricolo e al contempo identificano, numeri alla
mano, il miglior affare oggi sul campo. Lungo questa prospettiva, ci siamo
immedesimati nelle ipotesi di reato potenzialmente configurabili ed abbiamo scelto di
suggerire le misure di contrasto considerate più efficaci. Gli strumenti proposti vanno
ricercati in prima istanza nell’area giuridica: si prevede dunque la rigida applicazione
delle norme in vigore, dal più tradizionale Codice penale ad una legge speciale
comunemente nota quale Codice antimafia. Quest’ultimo ricopre una posizione
speciale poiché contiene al suo interno la disciplina di due strumenti di estrema utilità
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per colpire la Mafia rurale. Da un lato, il richiamo corre al Patto di legalità che,
meglio conosciuto sotto il nome del suo promotore Beppe Antoci, dopo una prima
applicazione localizzata si è esteso all’intero spazio nazionale; una particolare
attenzione merita di essere dedicata ai profili innovativi che la documentazione
antimafia ha portato sul campo della mafia rurale. Dall’altro lato, occorre citare le
misure di prevenzione patrimoniali introdotte in vista di una legittima aggressione ai
beni illecitamente posseduti.
A seguito di un’analisi giuridica si vorrebbero però promuovere, in via parallela,
alcuni espedienti d’impronta etica-culturale. Le soluzioni suggerite si esprimono
attraverso il giornalismo d’inchiesta, gli appelli speranzosi delle vittime e le voci
fuori campo di alcuni imprenditori coraggiosi. Ergo, se le misure giuridiche descritte
rappresentano strumenti indispensabili per attivare strategie repressive del fenomeno
mafioso, queste non potranno dirsi sufficienti finchè al loro fianco non si rintraccino
misure di natura sociale.
La rivoluzione di un territorio, la sua liberazione dall’illegalità, può avvenire soltanto
ove si raggiunga condivisione di ideali, principi morali e valori etici tra la collettività
che vi insiste. Il modus operandi delle mafie deve essere prima riconosciuto e poi
eliminato grazie alla consapevolezza dell’esistenza di un comportamento mafioso. Ed
è soprattutto a quella parte di società, ufficialmente non appartenente ad
un’associazione criminale, che si chiede di abbracciare una mentalità legale,
svincolata da secolari usi vessatori e dotata della caparbietà essenziale per non
accettare patti corruttivi. Aprirsi al cambiamento implica piccoli gesti quotidiani volti
a dimostrare ossequio alle regole previste dall’ordinamento e non imposte dal potere
criminale. Il primo passo verso il mondo dell’antimafia si traduce nell’attività di
denuncia. Di fronte a qualunque richiesta illegittima o pretesa inaccettabile, i relativi
destinatari hanno l’obbligo morale di denunciare i fatti alle Autorità competenti; è
questa l’unica strada per tutelare se stessi e salvaguardare la restante collettività
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potenzialmente esposta a futuri soprusi dei gruppi malavitosi. Un’attività di denuncia
individuale facilmente ricollegabile ad un’attività di segnalazione di più ampio
respiro. L’arte di raccontare è ben conosciuta da giornalisti ricchi d’intraprendenza,
ostinati a ritagliarsi il tempo per comprendere, indagare e far luce sugli episodi più in
dubbio e spesso frutto di condotte disapprovate. La capacità di fermarsi ad analizzare
la realtà e poi narrare senza timore gli aspetti negativi emersi, prende il nome di
giornalismo d’inchiesta. Numerose figure esponenti del campo giornalistico, di cui
molte oggi note, spingono la loro curiosità verso gli affari mafiosi correndo il rischio
di vedersi sottrarre la propria libertà, colpita da gravi minacce ed intimidazioni.
Sarebbe superficiale elogiare il coraggioso lavoro quotidiano che questi giornalisti
svolgono, ma sembra doveroso ricordare lo strabiliante potere che le penne di questi
uomini nascondono. Inevitabilmente, la costante esposizione ad alti rischi costringe
molti di loro a vivere sotto tutela di una scorta, uomini appartenenti alle forze
dell’ordine e al momento opportuno disposti a schierarsi in difesa della vita altrui.
Questo modo di vivere, compresso dalle tante rinunce alle più piccole libertà, seppur
naturalmente spinge il pubblico ad un senso di pietà, non deve in alcun modo far sì
che il mondo dell’antimafia possa divenire un mezzo per conquistare fama, successo,
ottenere meriti e riconoscimenti per il solo fatto di aver indossato la veste di
“professionista dell’antimafia”, così come Sciascia criticava da tempo. “I giornalisti
antimafia non esistono: si fa antimafia interpretando il mestiere con serietà e
passione. Io non voglio fare il giornalista “resistente”, quello che lotta da solo
contro tutti fino a venire ammazzato; voglio essere un giornalista “residente”, che
vive e analizza il proprio territorio, dialogando con chi lo abita”, questa
l’autodefinizione più emblematica dichiarata dal giornalista trapanese Giacomo di
Girolamo212. In ogni caso, il coraggio è con certezza il miglior pregio che
contraddistingue questi uomini. Una qualità che ci si auspica possa trasmettersi ad
212 P. Frosina, La mafia cambia, il buon giornalismo no, in www.magzine.it, 15 gennaio 2018.
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ogni singolo cittadino ogniqualvolta sia vittima o venga a conoscenza di un’ipotesi di
reato. Diffondere la verità rappresenta il migliore strumento per cambiare la
quotidianità. In particolar modo nel campo dell’imprenditoria, l’onestà diventa spesso
un punto di debolezza, lasciando spazio al clima di omertà che deve oscurare le trame
illecite.
Nel settore agro-pastorale sono pochi coloro che preferiscono resistere, lottando
contro il rischio di venire strumentalizzati e conquistati dalle cosche che sorvegliano
quel territorio. La cronaca riporta il caso di Magda Scalisi, giovane imprenditrice di
36 anni che ha deciso di tornare ad occuparsi delle “sue montagne”. A partire dal
2016, quando il Parco dei Nebrodi era sotto l’egida di Beppe Antoci, la Scalisi ha
assunto la gestione del Rifugio del Parco, situato a 13 chilometri da San Fratello,
grazie alla vittoria di un bando ad evidenza pubblica. Il progetto originario prevedeva
l’elaborazione di un percorso innovativo che potesse rilanciare il turismo e potenziare
l’economia; il Rifugio difatti, grazie alla sua duplice destinazione verso la
ristorazione e la ricezione alberghiera, avrebbe potuto aggiungersi ai molti punti di
forza già riconosciuti al Parco dopo l’approvazione del Protocollo di legalità. La
nuova immagine, ispirata dall’ideale della trasparenza, è stata presto messa a
repentaglio dalle frequenti intimidazioni e mascherate estorsioni sopraggiunte in via
diretta all’imprenditrice. La giovane donna viene accusata di aver portato educazione
giuridica in un’area dominata dall’”analfabetizzazione fiscale”; basti pensare che ella
è stata la prima a richiedere le dovute fatture ai fornitori. Si sono succeduti una serie
di piccoli e medi attentati all’immobile e alla sua persona, con lo scopo di incutere
timore e costringere all’abbandono della gestione conseguita. Altrettanto numerose le
imposizioni di forniture e prezzi che l’imprenditrice si è trovata a rifiutare: non di
rado, un noto gruppo di clienti si auto-considerava ospite a tavola, regalandosi il
pranzo consumato o applicandosi autoritativamente sconti “fai da te”. L’ambizione di
Magda viene ingiustamente stravolta da potentati che non accettano poteri altrui
168
ufficialmente legittimati. Le mafie riconoscono un solo potere, il loro, e non
permetterebbero ad una “donna sola” di impoverire i loro guadagni. Magda Scalisi
non è altro che un “corpo estraneo” in un terreno che lei vorrebbe soltanto continuare
a far vivere. La speranza è che le istituzioni e l’intera società facciano sentire la loro
solidarietà, non con parole fugaci ma attraverso gesti concreti che aiutino quelle
montagne a crescere una volta per tutte.
D’altronde non può esistere Terra dove non si onori la dignità dei suoi abitanti, il
sacrificio dei tanti lavoratori, l’onestà imprenditoriale di chi vuole crescere,
l’ambizione testarda dei molti che vogliono sentirsi liberi. Non c’è giustificazione
alcuna per un circuito criminale che inquina l’ambiente, lede il benessere psico-fisico
della comunità, ostacola notevolmente lo sviluppo di un terreno potenzialmente
fertile. Le Mafie distruggono i luoghi più belli, noi dobbiamo imparare a farli
crescere.
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Un ringraziamento sincero,
alla Professoressa Stefania Pellegrini, per la capacità di trasmetterci le tante Passioni che ogni giorno scrupolosamente coltiva;
a Marina, per i confronti, mai uguali, che hanno lasciato crescere i miei orizzonti. Grazie per avermi trasmesso l’ideale di Donna che vorrei diventare;
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a Rita e Francesca, per la giusta dose di leggerezza a mitigare le lunghe giornate di studio. Grazie per i sorrisi che mi hanno fatto dimenticare le fatiche, per l’euforia racchiusa in ogni nostra bella serata;
a Jenny, la voce che sa calmarmi, il porto che accoglie le mie debolezze. Il prezioso coraggio che mi ha spinta oltre, la sincerità che accompagna ogni consiglio, la critica più trasparente, l’affetto senza filtri. Grazie per la pazienza infinita che ha risposto a mille domande, per le parole profonde che ne hanno trovate molte altre. Grazie per la libertà di essere me stessa quando ogni giorno ci sei;
ad Emma, l’àncora di Salvezza in un viaggio a mare aperto. Il legame che ogni giorno mi sorprende, l’ingrediente segreto che mi ha accompagnata verso la meta. Grazie per le emozioni nascoste dietro le infinite ore di studio, per i nostri angoli di Felicita che nessun altro sa. Un enorme grazie per aver sopportato le mie lunghe introduzioni a qualsiasi argomento, le convinzioni testarde su un concetto sbagliato, le assidue ripetizioni per farmi sentire più sicura. Grazie per aver diviso in due le corse in bici nelle mattine già stanche, l’insostituibile caffè prima di ogni inizio, le mezzore rubate dai pranzi fugaci, i discorsi sognanti nelle camminate al tramonto. Grazie per gli istanti di ordinaria follia, le musiche di sottofondo, le risate a cuore aperto prima di addormentarci. Grazie per avermi insegnato a mettermi in gioco, perché dietro ad una sfida si nascondono i nostri risultati. Grazie per esserci stata quando gli altri erano altrove; sei stata la mano da stringere negli attimi di sconforto, la forza che ancora cerco quando so di non averne più, il valore aggiunto alle più belle giornate di sole. Sei tutta la Bellezza che ti auguro di incontrare;
a Lucia, per aver colmato le attese nei periodi più difficili. Per avermi confortata lasciandomi ascoltare le parole di una vecchia canzone, per avermi fatto amare il Friuli, le sue montagne così simili alle mie, il sapore del Verduzzo abbinato al cioccolato fondente, il Frico di zia Irma, l’odore di un’enoteca, l’inconfondibile polenta della Nonna. Grazie per le migliori chiacchiere sotto le coperte, per il calore delle tisane bollenti a riscaldare gli animi della sera, per essere stata la tenacia di una Donna che non si abbatte mai. Grazie perché mi hai dimostrato che seguire il proprio istinto porta sempre grandi soddisfazioni;
a Giulia, il medico che adoro perché non conosce frontiere. A Te, che rappresenti l’ambizione testarda di raggiungere i propri obiettivi. Grazie per tutte le volte in cui ci abbiamo creduto insieme, grazie perché i tuoi successi mi hanno spinta a non
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mollare mai la presa. Grazie per avermi svelato che, oltre un personaggio, esistono meravigliose persone.
ai miei Nonni, che sono la parte migliore di me;
ai miei Genitori, eterna dimora dove costruire se stessi. Grazie perché senza di voi non avrei raggiunto il traguardo presente e non potrei mai guardare al futuro;
a Luca, approdo e partenza nel curioso viaggio della Vita. Grazie perché sei il principio di energia essenziale che tutti vorrebbero al proprio fianco.
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