Viaggio in Ghana, Togo e Benin - Gocce per l' Africa€¦ · Viaggio in Ghana, Togo e Benin 31...

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1 Viaggio in Ghana, Togo e Benin 31 ottobre - 16 novembre 2015 Daniela Rosa Premessa Alla vigilia della partenza, per aiutarmi a ricordare, mi sono procurata un quadernetto su cui annotare nomi, situazioni, pensieri, insomma tutto ciò che avrei visto e vissuto nel corso del viaggio. Data la mia inabilità con macchine fotografiche, prediligo penna e quaderno, da cui traggo poi notizie e informazioni per le mie note di viaggio come ho fatto anche in questo caso. Siamo in cinque ad imbarcarci per questo viaggio: Rosanna, Angela, io (Daniela) e le nostre “guide” Rosaria e Marco, ottimi organizzatori del viaggio. Gabriella ci raggiungerà poi. Non è un viaggio turistico perché la sua ragione principale è monitorare nel Togo la realizzazione di alcuni progetti finanziati da Gocce per l’Africa, una onlus bergamasca presieduta da Attilia Pagani e animata dai coniugi Rosaria Onida e Marco Roncelli; e nel Benin visitare la Maison de la joie, una casa-famiglia che ospita bambini orfani e adolescenti in difficoltà. Desideriamo inoltre visitare i luoghi del cosiddetto “olocausto africano” (black olocaust), dove si è consumata la grande tragedia della tratta degli schiavi, anche col beneplacito di qualche papa visto che si trattava di pagani o comunque di persone considerate nemiche della vera fede. Nel golfo di Guinea, conosciuto un tempo come Costa d’Oro, sono rimaste fortezze e castelli usati come prigioni per gli schiavi in attesa di essere imbarcati verso le Americhe, oggi trasformati in musei affinché ‘non si dimentichi’ (e loro non hanno dimenticato). A questi motivi principali si è poi aggiunto il desiderio di visitare, sempre nell’ottica di un viaggio solidale e rispettoso delle culture, altri posti che ci aiutassero a decifrare qualcosa dell’attuale condizione di questi paesi. Su internet basta cliccare il nome dei luoghi che abbiamo visitato per trovare miriadi di immagini, filmati, storie, dati, eventi, che danno l’illusione di conoscere tutto ciò che li riguarda, ma la realtà è sempre molto più complessa, perché fluida e in continua trasformazione. Quanto ai pochissimi giorni spesi in questi paesi, essi non ci permettono di certo di esprimere giudizi approfonditi su questi stati africani: quante volte durante il viaggio abbiamo ribadito che di quel paese vedevamo solo una piccola parte, e la vedevamo in una piccola porzione di tempo, e quindi non era proprio il caso di sputare sentenze, vero Rosaria? Questo racconto di viaggio non ha perciò alcun altra pretesa se non quella di condividere sensazioni, impressioni, riflessioni e pensieri con alcuni amici; anzi le mie sensazioni e pensieri, probabilmente diverse almeno in parte da quelle degli altri compagni di viaggio, perché soggettive, costruite e condizionate dalla visione del mondo che ciascuno di noi ha elaborato, e che lo porta a selezionare e interpretare ciò che vede in base a questa visione. Qualche dato Considerati tutti insieme, Ghana, Togo e Benin occupano un territorio grande un quinto più dell'Italia ed hanno una popolazione pari alla metà di quella italiana (dati del 2010). Il Ghana fu sotto dominio inglese dalla fine '800; il Togo dominio tedesco dal 1884; poi, dopo la prima guerra mondiale, due terzi del territorio passarono ai francesi e un terzo fu annesso al Ghana; Il Benin fu sotto dominio francese dall'inizio '800 e poi annesso all'Africa Occidentale Francese. Il primo dei tre paesi ad ottenere l'indipendenza fu il Ghana nel 1957; Togo e Benin la conquistarono nel 1960. In questi territori si svilupparono due fra i più importanti regni africani: quello Ashanti nel Ghana, che riuscì a resistere a lungo agli inglesi, e quello del Dahomey (Danxomé) nel Benin soppresso

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Viaggio in Ghana, Togo e Benin 31 ottobre - 16 novembre 2015

Daniela Rosa

Premessa

Alla vigilia della partenza, per aiutarmi a ricordare, mi sono procurata un quadernetto su cui annotare nomi, situazioni, pensieri, insomma tutto ciò che avrei visto e vissuto nel corso del viaggio. Data la mia inabilità con macchine fotografiche, prediligo penna e quaderno, da cui traggo poi notizie e informazioni per le mie note di viaggio come ho fatto anche in questo caso. Siamo in cinque ad imbarcarci per questo viaggio: Rosanna, Angela, io (Daniela) e le nostre “guide” Rosaria e Marco, ottimi organizzatori del viaggio. Gabriella ci raggiungerà poi. Non è un viaggio turistico perché la sua ragione principale è monitorare nel Togo la realizzazione di alcuni progetti finanziati da Gocce per l’Africa, una onlus bergamasca presieduta da Attilia Pagani e animata dai coniugi Rosaria Onida e Marco Roncelli; e nel Benin visitare la Maison de la joie, una casa-famiglia che ospita bambini orfani e adolescenti in difficoltà. Desideriamo inoltre visitare i luoghi del cosiddetto “olocausto africano” (black olocaust), dove si è consumata la grande tragedia della tratta degli schiavi, anche col beneplacito di qualche papa visto che si trattava di pagani o comunque di persone considerate nemiche della vera fede. Nel golfo di Guinea, conosciuto un tempo come Costa d’Oro, sono rimaste fortezze e castelli usati come prigioni per gli schiavi in attesa di essere imbarcati verso le Americhe, oggi trasformati in musei affinché ‘non si dimentichi’ (e loro non hanno dimenticato). A questi motivi principali si è poi aggiunto il desiderio di visitare, sempre nell’ottica di un viaggio solidale e rispettoso delle culture, altri posti che ci aiutassero a decifrare qualcosa dell’attuale condizione di questi paesi. Su internet basta cliccare il nome dei luoghi che abbiamo visitato per trovare miriadi di immagini, filmati, storie, dati, eventi, che danno l’illusione di conoscere tutto ciò che li riguarda, ma la realtà è sempre molto più complessa, perché fluida e in continua trasformazione. Quanto ai pochissimi giorni spesi in questi paesi, essi non ci permettono di certo di esprimere giudizi approfonditi su questi stati africani: quante volte durante il viaggio abbiamo ribadito che di quel paese vedevamo solo una piccola parte, e la vedevamo in una piccola porzione di tempo, e quindi non era proprio il caso di sputare sentenze, vero Rosaria? Questo racconto di viaggio non ha perciò alcun altra pretesa se non quella di condividere sensazioni, impressioni, riflessioni e pensieri con alcuni amici; anzi le mie sensazioni e pensieri, probabilmente diverse almeno in parte da quelle degli altri compagni di viaggio, perché soggettive, costruite e condizionate dalla visione del mondo che ciascuno di noi ha elaborato, e che lo porta a selezionare e interpretare ciò che vede in base a questa visione.

Qualche dato Considerati tutti insieme, Ghana, Togo e Benin occupano un territorio grande un quinto più dell'Italia ed hanno una popolazione pari alla metà di quella italiana (dati del 2010). Il Ghana fu sotto dominio inglese dalla fine '800; il Togo dominio tedesco dal 1884; poi, dopo la prima guerra mondiale, due terzi del territorio passarono ai francesi e un terzo fu annesso al Ghana; Il Benin fu sotto dominio francese dall'inizio '800 e poi annesso all'Africa Occidentale Francese. Il primo dei tre paesi ad ottenere l'indipendenza fu il Ghana nel 1957; Togo e Benin la conquistarono nel 1960. In questi territori si svilupparono due fra i più importanti regni africani: quello Ashanti nel Ghana, che riuscì a resistere a lungo agli inglesi, e quello del Dahomey (Danxomé) nel Benin soppresso

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dall’arrivo dei francesi. Una storia li accomuna, quella della tratta degli schiavi, durata quasi quattro secoli, e abolita ufficialmente solo nel 1870. Nel nostro viaggio abbiamo percorso il sud dei tre paesi, la fascia costiera e un centinaio di chilometri verso l’interno, un territorio omogeneo geograficamente, la zona più verde, fatta di boscaglia e foreste, territorio di pescatori e agricoltori. L’ISU (Indice di Sviluppo Umano) del 2014 (riguardante il 2013) su 187 paesi colloca il Ghana nell’ISU medio, al 138° posto; stanno invece nel quartile più basso il Benin, 165° e il Togo, 166°.

Il viaggio

GHANA

31 ottobre L’aereo scende verso il Kotoka International airport di Accra (2,9 milioni di abitanti), la capitale del Ghana, e dall’oblò noto le lingue di terra rossa delle strade non asfaltate che tagliano il verde intenso della vegetazione. Ayéna (ci sarà modo di parlare di lui più avanti) e Augustin, (entrambi togolesi) ci aspettano col loro pulmino che ci scorrazzerà per molti chilometri fra Ghana e Togo. Siamo privilegiati ad avere un mezzo tutto per noi, così non dobbiamo ricorrere ai taxi collettivi, i tro-tro, pulmini sempre stipati, che sono la forma di trasporto pubblico più comune ad Accra. 1 novembre La città ci accoglie sotto la pioggia, pensiamo allora di fare un giro frettoloso nella città e andiamo a vedere prima la grande Piazza dell’Indipendenza con al centro l’arco su cui campeggia la scritta Freedom and Justice e poi il Kwane Nkruma memorial che si trova all’interno di un grande parco dedicato al fautore dell’indipendenza e primo presidente del Ghana. La grandeur di queste opere fatte sul modello occidentale vorrebbe essere espressione della modernità, ma appaiono avulse dal contesto, e lo stato di semi abbandono in cui sono lasciate le rende anche un po’ tristi. Dopo una breve sosta all’Art Center dove Mohamed Gungu (lo si può vedere esibirsi su you tube) cerca senza successo di insegnarmi a suonare le asalato - e riesce anche a vendermele -, e dopo esserci dissetati bevendo il liquido biancastro direttamente da un cocco decapitato, ci rifugiamo al Museo Nazionale ideato dall’archeologo Arnold Walter Lawrence (fratello di Lawrence d’Arabia) e inaugurato il 5 marzo 1957, anno dell'indipendenza del Ghana. All’ingresso campeggia la foto del presidente John Dramani Mahama. Il museo è collocato su due piani, la parte inferiore etnica, la superiore archeologica. La collezione comprende reperti eterogenei delle diverse popolazioni del paese e di differenti epoche: tessuti kente espressione della cultura ashanti, dai bellissimi disegni e colori, ognuno con un suo preciso significato simbolico che allude a passioni, sentimenti, eventi; bambole akwaba del popolo akan, dalla grande testa piatta e rotonda, un lungo collo e un corpo stilizzato con piccoli seni sporgenti: le donne incinte le portavano sulla schiena per favorire la nascita di un bel bambino e poi le collocavano sugli altari famigliari; strumenti musicali (corno, xilofono, strumenti a corde e gli immancabili tamburi sessuati con attributi maschili e femminili); conchiglie un tempo usate come monete; e poi feticci, frecce, scudisci, sgabelli, pettini, un bel corno d’avorio ... Ci sono anche oggetti provenienti da altri paesi africani acquisiti attraverso lo scambio: maschere rituali Senufo della Costa d’Avorio, belle teste di bronzo dalla Nigeria, sculture dalla Repubblica Democratica del Congo e altro ancora. Uno spazio del museo è dedicato al ricordo della tratta degli schiavi ed espone catene, ceppi, cisterne dove gli infelici venivano lavati. Nel museo è esposto anche l’imponente ed elaborato trono in legno intagliato del governatore del Ghana e del suo primo presidente. Dal soffitto in più punti sgocciola l’acqua della recente pioggia.

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Sappiamo che in Ghana c’è una curiosa usanza, quella di farsi costruire da abili artigiani bare artistiche personalizzate la cui foggia ricordi il mestiere del defunto, una sua caratteristica o passione particolare. Ci rechiamo in una di queste botteghe che espone bare coloratissime e stravaganti a forma di camion, di bottiglia, di coccodrillo, di ananas, di aereo, di pesce ecc, (si deve pagare qualche euro per poterle fotografare). Il prodotto, molto costoso, segno prestigioso di ricchezza, è spesso ordinato con molto anticipo dal futuro utente. Dopo il rumore e la polvere del traffico cittadino il giardino botanico a nord di Accra ci accoglie come un’oasi di pace. Un lungo viale di palme altissime ci conduce nel parco dove ammiriamo boschetti di bambù e alberi imponenti di cui purtroppo non conosciamo il nome, fatta eccezione per quei pochi presenti anche in Europa, come l’inquietante fico strangolatore, e per quelli, altrettanto pochi, di cui è ancora leggibile il cartello indicatore, come il kapok (ceiba pentandra) dal tronco superbamente sostenuto alla base da radici vistose, larghe e alte anche più di due metri, che fanno da magnifico piedestallo a questo albero che può svettare fino ad un’altezza di sessanta metri. Altri alberi bellissimi, con frutti a noi sconosciuti, rimangono nell’anonimato, con mia grande frustrazione. 2 novembre Lasciamo Accra per dirigerci verso ovest: la meta sono i castelli e le fortezze costruite da vari colonizzatori europei. Superiamo villaggi poveri e polverosi; poi, fuori dagli abitati, la vegetazione intensa e disordinata riprende spazio. Lasciamo la strada principale e deviamo verso Apam per vedere il castello. È situato su un promontorio e per raggiungerlo passiamo presso alcune abitazioni, e qui vivo il mio primo shock: la condizione del luogo mi pare spaventosa, galline, pecore e molte piccole caprette nere e bianche razzolano fra i mucchi di immondizia e nello spazio fra le capanne, dove donne accovacciate stanno cucinando; su grandi piatti di alluminio sono disposti pesci (a seccare? già abbrustoliti?) tutti coperti di mosche; vari bimbi saltellano lì attorno, c'è infatti una scuola fatiscente nei pressi. Entriamo nel piccolo forte di pietre annerite costruito dai danesi alla fine del XVII secolo e utilizzato come prigione per schiavi maschi e femmine; nel 1868 passò agli inglesi. Mi appare cupo, triste; dovrebbe ora essere adibito a rest house, ma non si vede nessun guardiano attorno e chi avrà mai il coraggio di dormire in quelle quattro stanze assolutamente disadorne, polverose, prive di elettricità suppongo, usando magari l'acqua del pozzo che si trova nel cortile? Dai bastioni è però bella la vista sulla baia affollata di pescherecci colorati. Scendiamo verso il villaggio affollatissimo di gente vociante e allegra che si dirige verso la riva, sembra un giorno di festa, ma è sempre così, ci dicono, quando arrivano le barche cariche di pesce da vendere al mercato. A poco a poco si attenua il senso di squallore precedente; si può vedere quel luogo anche in un’ottica diversa. Riprendiamo il viaggio. La strada affianca la grande spiaggia dorata dove palme altissime e snelle scuotono verso le onde il ciuffo spettinato. File di pescatori stanno tirando le reti gettate al largo dalle piroghe: la coordinazione dello sforzo è scandita da un ritmo preciso, si tira, si fa un battito di mani, si tira di nuovo ... un altro gruppo di pescatori più in là fa invece una specie di danza fra uno sforzo e l’altro. Ci fermiamo a filmare quello spettacolo. Arrivati a Cape Coast ci dirigiamo verso il porto. Forse perché la luce del tramonto sfuma i contorni della realtà, o perché non riesco a decodificare il senso di ciò che vedo (chi sono e che fanno quegli uomini sdraiati in un locale di cui non riesco a comprendere l’uso? e che disposizione hanno verso di noi questi altri, che ci osservano e parlano lingue sconosciute?) mi sento inquieta, ma gli amici si mescolano tranquilli fra la gente e si dirigono verso la spiaggia, attratti dalla vista di piroghe in lavorazione, intagliate in massicci tronchi, un magnifico lavoro artigianale; un po’ più in là in controluce, simili a neri bronzi di Riace, dei pescatori si stanno facendo la doccia; qualcuno ci dà la voce e ci allontaniamo, anche perché ci preoccupa una striscia nerissima nel cielo dove serpeggiano fulmini; dopo poco infatti si

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scatena il temporale. Ottobre e novembre sono qui i mesi delle piccole piogge. Il breve tratto di strada in salita che porta al nostro albergo non è asfaltato come tutte le strade secondarie, ha buche e solchi profondi incisi dalla pioggia e il pulmino salendo si inclina pericolosamente. 3 novembre Il quarto giorno del nostro viaggio è dedicato alla visita del parco di Kakum, per ammirare una foresta pluviale. Una guida ci conduce lungo i sentieri e ci illustra la vegetazione1. Si cammina su ponti di corda sospesi (e ondeggianti, non bisogna soffrire di vertigini; qualcuno chiede: ma ondeggiano di più se ci sono molte o poche persone? Le risposte sono divergenti). Ammiriamo dall'alto le folte fronde e tutte le possibili sfumature di verde, ma di fauna esotica nemmeno l'ombra. Non dico coccodrilli ed elefanti, che sappiamo presenti in altri parchi del paese, ma almeno una scimmia, qualche uccello tropicale. Niente! Devo accontentarmi di simpatici gechi dalle sfumature azzurre, gialle o rosa, di miti farfalle di varie dimensioni, fogge e colori, e di uno splendido enorme scorpione minaccioso, di un nero lucido e cupissimo, con le sue tenaglie e la coda mortifera ben alzata in difesa. Si ritorna a Cape Coast per visitare l’imponente castello. All’origine era un forte costruito dagli svedesi nel 1653, ma dal 1665 saldamente in mano agli inglesi che lo trasformarono in castello e sede del Governatorato. Fra XVII e XVIII secolo vi fu una considerevole espansione del commercio dell’oro e degli schiavi, e la moneta aurea inglese venne chiamata ghinea proprio perché fatta con l’oro estratto in questo territorio; vi compariva un piccolo elefante, simbolo della Royal African Company che gestiva il commercio degli schiavi. Gli ampi sotterranei del forte potevano ospitare fino ad un migliaio di prigionieri, e si calcola che attorno al XVIII secolo venissero esportati 70.000 schiavi ogni anno. Abolita la schiavitù, continuò l’esportazione di oro, avorio, pepe, caffè, in cambio di metalli, cotone, rum, tabacco, fucili e munizioni. Nel castello è stato ora allestito un museo sulla storia della schiavitù e una lapide ricorda quella tragedia. Durante la cena Ayéna ci chiede: “Quale messaggio voi anziani avete da lasciare a noi giovani?” L’illusione giovanilista non mi fa gradire molto questa consultazione di noi “vecchi”, ma la domanda mi emoziona, è un momento importante di messa a nudo del nostro incontro. Noi “vecchi” europei che risposte sappiamo dare ad Ayéna, giovane uomo africano, pensante e intelligente, dall’alto della nostra secolare civiltà? Lui ci consulta, e ci pesa; che cosa abbiamo accumulato dentro di noi grazie a tutte le immense opportunità che abbiamo avuto nella nostra vita? Mi sento spiazzata e non riesco a rispondere, e non solo perché non parlo francese. Per fortuna Rosaria soccorre, e col suo francese fluente dà una risposta intelligente e concreta: “Il messaggio che posso lasciare ai giovani sta nell’atteggiamento che ha caratterizzato la mia vita sia privata che sociale, ossia ho sempre cercato di fare al meglio tutto ciò che ho fatto, come madre, come moglie, come insegnante, nel mondo della cooperazione internazionale e nell’impegno a diffondere una cultura della solidarietà e della pace, mossa da un rilevante senso del dovere e della giustizia”. La cena si conclude con succulenti ananas, che tutti gustiamo con piacere, ma mi auguro che questo confronto continui e si approfondisca. 4 novembre La mattina seguente mi sveglio presto e nella piacevole frescura del mattino faccio una passeggiata nella zona attorno all’albergo: frotte di bimbi con la divisa e lo zainetto in spalla

1 Questi alcuni nomi di alberi che sono riuscita ad annotare,tutti ben illustrati nella rete: celtis africana, nesogordonia papaverifera (danta), Musanga cechopioides, antiaris toxcaria (kyenkyen, considerata la pianta più velenosa del mondo), asoma parkia bicolor, piptadeniastrum africanum (dahmoa), petersia africana (essia) ecc.

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sciamano verso un vecchio edificio d'epoca coloniale che ora ospita una scuola; (la cittadina conserva vari edifici del genere, interessanti anche se piuttosto mal conservati). C'è una grande moschea non lontano, e da lì giungono non le consuete cantilene del muezzin, ma canti e musica; anche la religione musulmana si adegua allo spirito africano. Alcune donne già cucinano nello spazio sterrato sul retro delle case-baracche di lamiera, picchiando nel mortaio con enormi pestelli, riempiendo grandi padelle con verdure, manioca o riso, girando lunghi bastoni in pentoloni fumanti; altre donne si preparano col loro piatto di alluminio ammaccato sulla testa per andare al mercato. La città è priva di fogne e lungo le strade scorrono canali pieni di immondizia, qua e là malamente coperti da assi. Incrocio in un vicolo un ragazzino albino, mi colpisce la sua pelle bianco latte. Su un muro si legge un invito a non urinare lì, ma ogni volta che passiamo ci capita di vedere trasgressori. Riprendiamo il viaggio ancora verso ovest, per visitare il castello più famoso, il più antico della costa, quello di Elmina (in internet si trovano numerosissime informazioni, immagini e video) costruito dai portoghesi nel 1482, passato agli olandesi nel 1637 e infine agli inglesi nel 1872. Qui approdò anche Colombo in uno dei suoi viaggi di esplorazione. I portoghesi lo costruirono su uno stretto promontorio ben protetto da un lato dall’Oceano Atlantico e dall’altro da una laguna creata dal fiume Benya, e riuscirono a mantenere per un certo tempo il monopolio del commercio dell’oro. Il crollo del valore dell’oro ghanese, di qualità inferiore a quello messicano, e l’indebolimento economico del Portogallo portarono alla conquista olandese. Il commercio degli schiavi importati dal Benin (sede del regno Danxomé, che catturava uomini e donne da vendere come schiavi agli europei) fiorì sotto entrambi gli occupanti. Dapprima gli schiavi venivano usati per trasportare verso l'interno dell'Africa centrale le merci importate (soprattutto stoffe e metalli), poi nel XVII secolo inizia quel commercio triangolare che porterà milioni di schiavi verso le piantagioni e le miniere del Nuovo Mondo. E così le numerose fortezze e castelli della Costa d'Oro si trasformano in prigioni. Anche il castello di Elmina, considerato il più bello e possente della costa di Guinea, dalle alte mura a prova di cannone, autosufficiente grazie a canalizzazioni e a un sistema di raccolta dell'acqua piovana, dotato di grandi magazzini per il deposito delle merci e delle scorte, diviene prigione per gli schiavi. Durante la visita, oltre a una mostra che ricostruisce la storia della schiavitù, vediamo i lugubri stanzoni quasi privi di luce e di aria dove venivano stipati gli schiavi prima di farli passare dalla Porta del Non Ritorno che portava gli infelici direttamente sulle navi grazie a un canale appositamente scavato dai portoghesi. Vediamo anche la cella dei condannati a morte, ora rifugio di innumerevoli pipistrelli: attaccati ai muri bianchi sembrano strane decorazioni. Il castello ospitava anche schiave, che subivano un doppio abuso: venivano fatte uscire in un cortile su cui si affacciava l'appartamento del governatore che poteva così scegliere per sé le più belle. Dal castello si gode la vista sul porto, affollato di barche e di persone, e sul vicino forte San Jago, costruito dagli olandesi su un promontorio a difesa del castello e come residenza dei numerosi soldati e ufficiali di stanza a Elmina. C'è un grande ponte in costruzione: vediamo scritte in cinese. Non pervasiva, ma sicuramente visibile la presenza della Cina anche in queste regioni, come in molta parte dell’Africa. 5 novembre Partenza per il Togo. Lungo il tragitto ci fermiamo per una rapida visita alla Winneba University of Education, un grande campus universitario con residenze per gli studenti, sicuramente uno dei segni della crescita del Ghana; altri campus di facoltà scientifiche e tecniche si trovano in altre località del paese, che è anche sede di un centro di eccellenza in ICT (Information and Communication Technology), il Ghana-India Kofi Annan. Inizia una disputa fra Rosaria e Marco proprio su questo: Rosaria è convinta, in base alle letture che ha fatto, più valide delle impressioni

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estemporanee che possiamo avere noi, che il Ghana è in crescita, ed enfatizza ciò che stiamo vedendo; Marco è scettico, e per tutto il viaggio ci sarà il tormentone: è meglio il Ghana o il Togo? o magari il Mali, o il Benin ... Alla periferia di Accra e nella zona attorno all'aeroporto, edifici moderni, alberghi, banche, sono per Rosaria un'ulteriore conferma che è un paese in crescita2. C'è speranza per l'Africa? Io sono ancora sotto l’effetto delle prime impressioni negative; segni di sviluppo del Ghana sicuramente ci sono, la strada da fare mi pare comunque ancora davvero tanta. Tra sobbalzi e scossoni attraversiamo un ponte gettato sull’ampio letto del Volta, percorriamo i circa 350 km che ci separano dal caotico e affollato confine del Togo e arriviamo nella capitale Lomé. Sull'oceano una lunga fila di navi è in attesa di entrare nel porto. Quello di Lomé è infatti il più importante della costa e lì arrivano le merci dirette in tutta l'area.

TOGO

6 novembre Iniziamo la nostra visita a Lomé (675.000 abitanti) dalle ampie strade polverose, recandoci al mercato dei feticci, usati nella religione vudù, qui ancora molto diffusa, cedendo così a questa curiosità "esotica": è un mercato chiuso e si paga qualcosa per entrare, un po' di più se si vuole anche fotografare. L'impressione è alquanto repellente: nei banchetti sono stipati crani di scimmie, gatti, pipistrelli, camaleonti, pesci, ecc. ecc., pelli di serpenti, pellicce di ricci, uccelli, e poi ossa varie, corni, sostanze minerali, foglie e radici, tutti ingredienti utilizzati per fare feticci, ognuno diverso a seconda dello scopo (sempre gli stessi in realtà, per ogni tempo e luogo: protezione da malattie, acquisizione di ricchezze, propiziazione amorosa, o magari soddisfazione di una vendetta). L'odore che circola è piuttosto nauseante. Nel cortile c'è uno spazio riservato ai riti vudù. Dopo averci illustrato i differenti rimedi, la guida ci porta sotto una tenda e ci mette in mano amuleti vari (gris gris), pietruzze, conchiglie, piccoli manufatti, dopo di che (senza grande convinzione, mi pare) fa gesti misteriosi e pronuncia invocazioni incomprensibili a chissà quali divinità o demoni, alla fine dovremmo acquistarli ... a me rifilano per pochi spiccioli un seme di mogano contro l'insonnia (io in realtà dormo benissimo; il seme comunque è molto bello) e un portafortuna di plastica decorato con due conchiglie. Non mancano di mostrarci non ricordo bene cosa - un legnetto? - che polverizzato avrebbe un effetto molto migliore del viagra. Non vediamo l'ora di allontanarci da questo luogo, che tuttavia non è solo turistico ma frequentato dai locali che qui vengono per trovare rimedi ai loro guai. In giro per Lomé, dove circolano moltissime moto strombazzanti, ci fermiamo per una visita al mercato dell'artigianato, dove sono esposte sculture in legno e in pietra, belle ciotole levigate dal caldo colore ambrato, batik vivacissimi. Siamo gli unici bianchi e anche gli unici visitatori, come ci capiterà spesso nel corso del viaggio. Ci dicono che il turismo è calato moltissimo perché l'Africa fa paura, per l'ebola, le guerre, il terrorismo fondamentalista, l’insicurezza delle città, soprattutto di notte e spesso non si fa distinzione fra paese e paese. Andiamo poi a respirare aria più fresca sul lungomare decorato dalle palme fruscianti; sulla riva, abbandonate su un fianco, vecchie barche di pescatori; ci rilassiamo sull'ampia spiaggia lambita dalle onde spumeggianti come champagne fuoriuscito dalla verde bottiglia dell'oceano, mentre il vento asciuga piacevolmente i nostri corpi accaldati. Una musica ci avvolge ... ci dimentichiamo delle tristezze dell'Africa. Riprendiamo il cammino per visitare il Museo d’arte africana che ammassa, in un piccolo spazio, molti manufatti di pregevole fattura, espressione artistica di varie etnie dell’Africa centrale. Sono

2 Qualche dato sul Ghana: crescita attesa del PIL 5%; inflazione 17%; principali esportazioni: petrolio, oro, cacao, legname, tonno, bauxite, alluminio, diamanti; l’Italia è il sesto partner commerciale; utenti internet 20%; linee telefoniche fisse 1%; telefoni cellulari 118 ogni cento abitanti.

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in mostra sgabelli, letti, armadi e porte (questi ultimi dei Dogon), colonne intagliate; serpenti, coccodrilli, ippopotami, grandi uccelli stilizzati scolpiti nei profumati legni della foresta (come sarebbe bello saperli distinguere ed elencare) e poi armoniose teste nigeriane, una donna-leopardo dai seni appuntiti, guerrieri, maternità, re e regine; e ancora: scatole, collane, oggetti funerari, spade tuareg, enormi tamburi yoruba e igbo, maschere, passaporti (di fatto un pezzo di osso o legno), uno scettro, un maestoso trono ashanti con sgabello per salirvi, qualche vaso, ed anche uno scheletro (in legno, naturalmente). Il museo è stato interamente comprato da un cinese. In serata arriva Gabriella e così il nostro gruppo è ora al completo. C'è una simpatica usanza: a ogni nuovo arrivato in Togo (in questo caso Rosanna ed io) Ayéna fa dono di un abito: scelta la stoffa, scelto il modello, prese le misure, una sarta lo confeziona nel giro di poche ore, e così potremo recarci nei villaggi a visitare i progetti tutte vestite alla togolese. Il 7 novembre è ancora dedicato a tour. Appena fuori città la vegetazione si fa lussureggiante, gli alberi possenti; fra le erbe rigogliose si ergono le rosse guglie piramidali dei formicai, qualcuno alto più di due metri. La meta è Kpalimè, nella regione Plateaux, zona nota per la produzione di agrumi, le piantagioni di caffè e cacao e per il clima più fresco. Accompagnati da una guida che si presenta col soprannome di Cobra, facciamo un percorso botanico verso il monte Kloto e un piccolo assaggio della foret classée (ossia protetta) di Missahohé. All’inizio del sentiero ci vengono mostrate delle teche con farfalle dai colori sgargianti e un insetto-stecco, vivo, ma senza le ali, che gli spuntano da adulto. Poi incominciano i nostri incontri vegetali: la mimosa pudica, una pianticella sensitiva che, toccata, chiude a una a una le sue foglioline e letteralmente sviene, un trucco ingegnoso per non essere mangiata dalle capre che ne sono golose; un ibiscus sabdariffa, il cui fiore viene utilizzato per fare il karkadè; un altro bel fiore la cui foggia è indicata dall’esplicito nome di clitoria; una palma raphia, dalle grandi foglie, con le quali si possono costruire cesti e borse, per un certo tempo di moda anche da noi; la pianta del caffè, dai fiori bianchi e profumati; la myristica fragrans da cui deriva la noce moscata; il cacao col suo caratteristico frutto che sembra una palla da baseball che spunta direttamente dal tronco; la liana del pepe; la spathodea campanulata, una bignoniacea dal fiore rosso fiammante; la jatropha curcas, i cui semi oleosi vengono usati come biocarburante e che ha proprietà antiemorragiche e cicatrizzanti; l’iroko (Chlorophora Excelsa), un magnifico albero che può raggiungere i 50 metri di altezza; il teck (tectona grandis) originario dell’Asia, ora molto diffuso nella zona, le cui foglie lasciano un succo rosso usato come pittura naturale; un arbusto della famiglia dello zenzero, ma di cui non so il nome, la cui grande foglia verde, macchiata di rosso e di bianco, sembra la tavolozza di un pittore; e poi ci vengono mostrate cortecce, radici, erbe contro il mal di denti, di gola, contro i dolori reumatici, con proprietà antibiotiche ... vegetali che gocciolano liquidi gialli e neri usati per colorare i magnifici batik africani ... la natura è davvero uno scrigno delle meraviglie. Nella zona si pratica una policoltura di manghi (furono importati nel periodo coloniale), avocado (a novembre è pronto per essere raccolto), banani, ananas, guaiava (di origine brasiliana), papaya, e poi l’immancabile manioca, presente ovunque. Il cielo è andato oscurandosi e arriva uno scroscio molto forte; ci rifugiamo sotto una struttura che ci protegge e lì facciamo il nostro solito picnic a base di formaggini Tigre, tonno, banane, arance; tutti disdegnano, credo per motivi puramente ideologici, le mie comodissime scatolette Simmenthal: leggere, piccolo formato, niente olio. Gabriella distribuisce pezzetti di zenzero e liquirizia. Alla fine si riparte lungo sentieri ormai infangati. Il nostro Augustin, il cui lieve sorriso ricorda le sculture nigeriane viste ieri al museo, è bravissimo a guadare buche allagate e scivolosi pendii senza impantanarsi. Poi a piedi sotto la pioggia, e poco protetti dagli alberi sgocciolanti,

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percorriamo un sentiero che porta verso una cascata che scende dal Plateaux, una striscia bianca spumeggiante che precipita dalla roccia fra l’intricata vegetazione e muore in una vasca d'acqua. L'ultima volta che Rosaria è arrivata fin qui si è fatta un bel bagno rinfrescante facendosi un idromassaggio naturale, oggi però siamo già bagnati abbastanza. Ritorniamo, sempre sotto una pioggia sottile, al grazioso albergo Chez Fanny dove ci asciughiamo e ristoriamo. Rosanna ha un attacco di febbre. 8 novembre Mont Agou, che fa parte della catena dell’Atacorà che a partire dal Ghana attraversa il Togo e raggiunge il Benin, è il più alto del Togo, circa mille metri d'altitudine. Per raggiungerlo percorriamo un sentiero così stretto che il nostro pulmino è lambito ai fianchi dalle alte erbe. Qualche occhio colorato in mezzo all'esuberanza del verde, voli sghembi di farfalline multicolori, kapok, mango, baobab si susseguono, ogni tanto appare una spettacolare palma a ventaglio, messa lì per fare aria a qualche immaginario re assiso sul trono. Sulla cima del monte bella vista sul Ghana e il suo confine. La prossima meta è il Lac du Lomé, o Lac Togo, un lago costiero separato da una stretta striscia di terra dal Golfo di Guinea, di fatto una laguna fra Lomé e Aneho; la sua massima profondità è di 2,70 metri. Ad Agbodrafo prendiamo una piroga per attraversarlo, il barcaiolo la spinge servendosi di un lungo bastone. Appena tocchiamo la sponda opposta, dove si trova il villaggio di Togoville, con rapidità fulminea, tanto che non riusciamo nemmeno a reagire, ognuno di noi è letteralmente sollevato da robusti giovanotti che ci depositano sulla spiaggia senza farci bagnare i piedi (segue richiesta di una mancia). Attraversiamo il paese percorrendo una strada sterrata che sale a gradini fra poverissime case; solita immondizia, fogne a cielo aperto e animali razzolanti. È domenica, bambini a piedi nudi, infarinati di polvere rosata, saltellano in giro, molte donne stanno sedute presso la porta della loro baracca e ci guardano, mi pare di cogliere una certa diffidenza, quasi una sottile ostilità, ma forse è solo il mio disagio. Difficile capire che tipo di vita si possa fare lì, in quelle condizioni. Tuttavia Togoville è un villaggio animato, moltissima gente attraversa il piccolo lago per fare un pellegrinaggio a una chiesa dedicata a vari martiri africani, ed è anche un posto storico, perché c’è la Maison Royale, dove nel 1884 il sovrano locale Mlapa III firmò con l’esploratore tedesco Gustav Nachtigal un trattato che era di fatto un atto di sottomissione alla Germania. C'è una simpatica diatriba fra Rosaria e Marco: quest'ultimo sponsorizza la visita (con molta ironia, però) Rosaria dice che proprio non merita, si tratta solo di una stanzetta dove c’è un misero trono (anzi, una sedia) e qualche foto del grande evento. Alla fine si decide di saltare lo storico edificio e ritornare alla spiaggia. Attorno alla chiesa spuntano vari mototaxi, Angela ed io ne approfittiamo (visto anche il caldo soffocante) e ci facciamo portare a zig zag fra buche e anfratti fino alla spiaggia. Riattraversiamo poi il lago con una piroga tutta per noi, mentre una lunga fila di locali deve attendere pazientemente. Ah questi yovò, questi colonialisti di bianchi! Allora diamo ospitalità anche a qualche turista locale. Il viaggio riprende sul nostro pulmino, la strada corre lungo la riva dell'oceano con le sue palme e la sua spiaggia dorata, così affascinante se la si guarda da lontano. Ma quando ad Aneho raggiungiamo il nostro albergo che si trova proprio sulla spiaggia, la troviamo piena di rifiuti e di plastica. Una miriade di granchi del colore della sabbia, una vera e propria colonia, appena ci avviciniamo si rintana bucherellando la sabbia, e si vedono buchi di tutte le misure. La cittadina si trova alla confluenza del fiume Mono nella laguna, e là dove il fiume incontra l’oceano, le lingue di sabbia e il gioco delle acque dal diverso colore creano un effetto incantevole.

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Nel cuore del nostro viaggio: la visita ai progetti Quelli in corso … 9, 10 e 11 novembre Oggi finalmente inizia la visita ai progetti realizzati da Gocce per l'Africa, l'onlus a cui hanno dato vita Rosaria e Marco. Questi progetti si trovano nella zona della prefettura di Vo, situata nella regione marittima, abitata da oltre duecentomila persone; il capoluogo è la città di Vogan. Ci accompagna sempre Ayéna, responsabile dell’UMESPE, (Universe Maillots Esperance).

A Lonlongno Gocce per l’Africa ha costruito un magazzino per conservare il mais e il riso prodotto sia per l’autoconsumo sia per la vendita del surplus al prezzo migliore. Destinataria è una cooperativa religiosa cristiana legata ad un predicatore locale: il gruppo vive assieme, lavora assieme, ospita vedove. Hanno preparato per noi sotto una tenda poltrone e sedie (probabilmente prese a prestito per l’occasione) e al nostro arrivo ci festeggiano scatenandosi in balli e canti festosi, inserendo come ritornello un Buon arrivato! E addirittura stendono a terra a mo’ di tappeti i loro scialli su cui cerchiamo di non camminare; tutto ciò naturalmente ci commuove. Il portavoce del gruppo legge poi il discorso che ha preparato in francese, ringrazia per quanto fatto finora, fa un resoconto della situazione e illustra i nuovi desiderata, ossia un motocoltivatore da usare sul terreno di recente affittato e una battitrice per separare i chicchi di riso dalla spiga, operazione ora compiuta manualmente dalle donne. A un certo momento si scatena un temporale furioso, le tende sotto cui siamo riparati cominciano a gocciolare abbondantemente e dobbiamo quindi rifugiarci nel magazzino. Le donne della cooperativa, che hanno avuto l’idea di usare questo luogo anche per produrre sapone, ci danno una dimostrazione del loro lavoro: in un pentolone aggiungono all’olio di palma, che è l’ingrediente principale, profumi, essenze, manioca, argilla, soda caustica, lievito, silicati e mescolano il tutto con un grande bastone; suddividono poi l’impasto e lo modellano a forma di palla: appena asciugato sarà pronto per essere venduto. Qualche guadagno sta arrivando anche da questo lavoro. Le donne hanno preparato da mangiare per noi e ci offrono del riso e delle bibite che condividiamo con gioia.

Il secondo progetto che visitiamo è il Centro di salute Dzrékpo-Hagou. Questo è il progetto più ambizioso che Gocce per l’Africa ha finora realizzato in Togo, grazie anche al considerevole aiuto economico di Gabriella; già da tempo è pienamente funzionante ed è divenuto un importante punto di riferimento sanitario non solo per donne in gravidanza e partorienti, ma in generale per gli abitanti della zona. Il progetto è in espansione perché è in via di completamento la costruzione di un piccolo edificio per l’abitazione dell’infermiere capo e ne è previsto un secondo per la levatrice e l’aiuto levatrice, che svolge anche la mansione di gerente della farmacia. Fornire questi alloggi è cruciale perché consente la presenza costante di personale che può intervenire tempestivamente in caso di emergenza. Si tenga conto che il personale specializzato preferisce vivere nelle città, e fornirgli un alloggio perché risieda nel villaggio costituisce un grosso vantaggio per la popolazione. Gocce per l’Africa si è anche impegnata per il 2016 a dotare la struttura di un piccolo laboratorio (con microscopio, reagenti ecc.) per effettuare una diagnosi precoce della malaria, malattia endemica in quel paese.

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Il centro di salute è privo di energia elettrica. Inutile sottolineare come ciò limiti l’efficienza e l’efficacia del centro stesso. Per questo motivo Gocce per l’Africa sta facendo valutare i costi di un eventuale allacciamento ad un villaggio distante circa 5/600 metri, dopo di che deciderà se è in grado di sostenere economicamente questo ulteriore, importante progetto.

A Katsikopé Gocce per l’Africa ha costruito una scuola elementare, collocata in un ampio spazio alberato. Numerose madri degli allievi si sono preparate per accoglierci e stanno sedute in fila di fronte a noi. Prendono la parola il direttore della scuola, un maestro, e il capo del villaggio, ringraziano, esprimono le loro aspettative. Anche le madri prendono la parola per ringraziare. Grandi applausi sottolineano la partecipazione emotiva dei presenti. La richiesta che rivolgono è quella di ristrutturare una vecchia aula in terra cruda e col tetto di paglia. Rosaria interviene dicendo che noi donne presenti siamo tutte ex insegnanti e capiamo l’importanza della scuola e dell’educazione per la crescita di un paese, e quindi incoraggiamo le famiglie e i ragazzi a proseguire nell’impegno scolastico. Gocce per l’Africa ha fornito di recente anche banchi nuovi e materiale librario. Visitiamo le classi, molto numerose, di almeno cinquanta ragazzi/e ciascuna.

Sulla strada per Kpomé, dove si trova un quarto progetto, ci appaiono baobab giganteschi così possenti, così splendidi, che Rosanna fa fermare in continuazione il pulmino per fotografarli, per appropriarsi della bellezza che vede e per portarne con sé il ricordo. Siamo diretti alla cooperativa agricola Dékawwo che produce, su terreni in affitto, mais e farina di manioca; è formata da una ventina di adulti e da molti minori che vivono in una comunità basata su una comune fede religiosa e accolgono vedove e orfani dando loro vitto, alloggio e istruzione. La riunione avviene sotto una tenda rappezzata e una tettoia di foglie di banano in un ampio cortile abbellito da una grande palma; caprette razzolano e belano fra le nostre gambe. Sono presenti adulti (la tesoriera è una donna) e anche molti bambini, e veniamo accolti da canti e suoni di tamburi. Uno dei responsabili fornisce i dati sulla produzione e sul guadagno realizzato nel corso dell’anno. Mentre cala il buio e una lampadina a basso consumo illumina la riunione, enumerano le loro richieste: un magazzino/stalla per conservare la produzione e mettere al sicuro le capre di notte (infatti hanno subìto un pesante furto); una sgranatrice per le pannocchie di mais, necessaria poiché fanno due raccolti all’anno ed essendo il lavoro manuale troppo lento, parte del prodotto viene rovinato da insetti, topi e umidità; chiedono infine l’attrezzatura per produrre la farina di manioca, perché i costi del noleggio delle macchine incidono molto sugli utili. Gocce per l’Africa non ha per ora il denaro per il magazzino, ma ha inviato soldi per aiutare ad acquistare del terreno dove poterlo costruire; c’è invece l’impegno a contribuire alla realizzazione delle altre due richieste. L’incontro si conclude con musica, canti e balli.

…. e i progetti già conclusi Marco e Rosaria desiderano monitorare anche i progetti ormai conclusi per verificare il loro buon funzionamento o l’insorgenza di altri eventuali bisogni.

• A Momé Hagou Marco e Ayéna controllano le condizioni del magazzino e della macchina per la decorticazione del riso donata da Gocce per l’Africa. Marco fa notare che non tutte le norme di sicurezza sono rispettate e invita a provvedere. Il villaggio appare bellissimo pur

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nella sua povertà, immerso nel verde brillante della vegetazione, circondato dalle mura d'argilla rossa e da magnifici palmeti. È importante aiutare i contadini a ricavare dal lavoro agricolo il necessario per vivere, solo in questo modo riusciranno a rimanere sulla loro terra e a preservarne la bellezza.

• Un secondo magazzino, anch’esso con una macchina per la decorticazione del riso, si trova a Kovéto-Animabio. Sono presenti tredici persone, fra cui due donne, rappresentanti UMESPE e il capo del villaggio che si distingue perché indossa un copricapo bianco. Altre donne si aggiungeranno successivamente, sono magre, sciupate, sembrano più vecchie di quel che sono in realtà. Alla riunione assistono anche galline e pulcini che ci razzolano attorno. La persona incaricata a relazionare dice che il raccolto è stato scarso per la scarsità delle piogge, ed hanno dovuto ricorrere a prestiti statali per l'acquisto di concime, sementi ecc. Pensano che il problema potrebbe essere risolto acquistando pompe per prelevare acqua e irrigare i campi. Marco è piuttosto scettico riguardo ai costi/benefici di questa soluzione, e quindi, prima di decidere se accettare la richiesta, chiede che venga fatto un progetto più preciso. Ayéna interviene con un discorso di incoraggiamento a superare questo difficile momento e infonde fiducia in un futuro migliore.

• A Dzrékpo c’è un grande complesso scolastico con duemila studenti del College (corrispondente alla nostra scuola media) e del Liceo. Nello spazioso cortile alberato Gocce per l'Africa ha costruito delle latrine, di cui andiamo a controllare le condizioni in cui sono tenute. Inutile sottolineare l’importanza di questi monitoraggi affinché i progetti continuino ad essere funzionanti.

• A Katiohé si va a vedere la situazione dei pozzi. Tutto funziona regolarmente. Sotto un bell'albero ombroso ci offrono polenta, pollo, birra e banane.

Abbiamo visitato anche la scuola materna di Atchandomé. Questo progetto è stato finanziato da Oikos Progetti di sviluppo ma è Marco che di fatto ha seguito la sua realizzazione. Veniamo accolti da una decina di notabili e dal capo del villaggio, che indossa una specie di corona. Un responsabile pronuncia il discorso di ringraziamento, fa il punto sulla situazione ed avanza, a nome del gruppo, la richiesta della costruzione di un’altra ala della scuola materna. Prende la parola anche il capo villaggio, che a sua volta ringrazia. Aquelo, grazie. Si esprime nella sua lingua, l’ewe, non so se perché non conosce il francese o perché vuole essere compreso dagli uomini del villaggio presenti. Ayéna traduce per noi. Visitiamo le aule e osserviamo sulle lavagne i disegni della lezioncina di oggi: forme geometriche, colori, animali. Poi i bimbi, che hanno dai 3 ai 5 anni e indossano un grembiulino a quadretti rosso e bianco, si esibiscono per noi cantando una canzoncina e delle filastrocche. Ne sono presenti 77. Durante la visita a questi progetti sono rimasta molto colpita sia dalla grande dignità e serietà dei destinatari, giovani uomini e donne che lottano contro notevoli difficoltà, sia dalla modalità con cui Rosaria e Marco lavorano, prestando ascolto ai bisogni delle persone, analizzando con loro problemi e difficoltà, valutando costi e benefici delle realizzazioni richieste, e nel contempo sottolineando l’importanza dell’educazione, della valorizzazione del lavoro agricolo, del risparmio per evenienze future; tutto ciò mi è sembrato un importante esercizio di democrazia, un momento altamente educativo di responsabilizzazione e di crescita per le persone coinvolte. La grande competenza di Marco, la sua capacità di valutare i progetti sia sotto l’aspetto tecnico che economico, è stato sicuramente un fattore cruciale per la loro riuscita. Sono anche stata favorevolmente impressionata da Ayéna, il partner togolese di Gocce per l’Africa, che ha il compito fondamentale di coordinare e di monitorare in loco la realizzazione dei progetti. La sua

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provata onestà, la stima da cui è circondato dagli abitanti dei villaggi, la sua capacità di infondere fiducia alla popolazione hanno contribuito certamente al successo di queste iniziative. Ayéna ci propone di fare una visita di cortesia al prefetto di Vogan, nel cui territorio sono stati realizzati i progetti; ci accoglie con cordialità e formula ringraziamenti. Le scuole realizzate da Gocce per l’Africa sono pubbliche; inutile costruire una scuola se poi non ci sono insegnanti, un centro di salute se non ci sono infermieri, è quindi necessaria la collaborazione con le istituzioni perché i progetti realizzati funzionino; anche questo compito diplomatico è affidato ad Ayéna. Riprendiamo la via del ritorno al nostro albergo. Ad Akumapé c’è un cimitero, simile ai tanti che abbiamo intravisto ai bordi dei villaggi; questo è piuttosto grande e ci fermiamo. Nessuna recinzione se non la vegetazione che cresce spontaneamente ai margini. Camminiamo fra lastre affondate nella terra cedevole, fra disordinate tombe rettangolari; qualche croce pencolante, pilastrini di mattoni sbeccati, una fossa piastrellata d’azzurro. Nessun fiore sulle tombe nude; nessuna foto; nessuno sotto quel sole cocente. Un nome graffiato nel cemento: Kolita fils de Togovi age 40 ans mama ...

BENIN L'11 novembre attraversiamo il confine col Benin che è a pochissima distanza da Aneho. Veniamo accolti da poliziotti dal faccione tondo, dal collo taurino, il corpo massiccio, la voce sotterranea così tipica delle persone di colore. Qui non solo gli uomini ma anche le donne sono monumentali, in tutte e tre le dimensioni, mi verrebbe da dire; i loro abiti coloratissimi stringono il seno prosperoso, fasciano la schiena ben ritta, sottolineano la vita stretta e il sedere alto e tondo. In questa striscia di confine c’è una grande confusione di gente, di venditori, di grida, di odori, di aria irrespirabile ... Salutiamo con un po’ di dispiacere Augustin perché è arrivato Aliou, beninese del nord, che ci accompagnerà col suo pulmino, privo ahimè di aria condizionata. Un rosario coi 99 grani, che ricordano i 99 nomi di Allah, avvolge la cloche. La prima meta è la Maison de la joie a Ouidah, a qualche decina di chilometri dal confine. La maison è una casa-famiglia che ospita bambini orfani o abbandonati e adolescenti in difficoltà. I proprietari sono una coppia mista, un italiano e una beninese, che per ragioni di lavoro hanno dovuto tornare in Italia, a Faenza dove vivono, ed hanno pensato di utilizzare in questo modo quell’edificio rimasto vuoto. Un progetto di adozione a distanza e un’attività di raccolta di aiuti fra amici, consente di mantenere i ragazzi affidati alle cure di Zinath, che oltre a essere la cuoca funge da madre per tutti quei ragazzini; c’è poi un giovane amministratore e un direttore. I ragazzini vanno a scuola, ma collaborano anche attivamente all’andamento della casa. Alcune stanze sono disponibili per chi voglia rimanere per un’attività di volontariato o per un’esperienza di turismo solidale e responsabile. Angela, che lo scorso anno ha trascorso qui tre mesi, viene accolta festosamente dai bambini che la circondano e abbracciano. Si cena a lume di candela per la mancanza di corrente; si chiacchiera sulla terrazza; il cielo di questa notte priva di luce artificiale è un brillio vangoghiano di stelle. Si parla come al solito di Africa, ognuno porta racconti di precedenti esperienze, dei diversi paesi visitati, si confronta l’allora e l’oggi, i peggioramenti, i miglioramenti; ritorna il tormentone del confronto Ghana-Togo, Togo-Benin, si commentano i progetti, si condividono riflessioni, ci si sconforta sulla situazione, si cerca quel qualcosa di buono che si è visto ... ci si divide fra afrottimisti e afropessimisti. Nelle stanze della Maison senza elettricità la pala sul soffitto è ferma, l’antizanzare infilato nella spina è inutile. Sdraiata nel mio letto, dove per fortuna soccorre la zanzariera, ripenso alle esperienze vissute in questi giorni e decido di sostenere il progetto di Kpomé: la bimba che la sera

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precedente mi ha abbracciato, che ha appoggiato timidamente al mio seno la sua testolina dai ricci fitti che io ho accarezzato e premuto contro di me, che non mi ha abbandonato finché non sono salita sul pulmino, mi ha impresso uno speciale solco di tenerezza. Mi addormento con la sua immagine. 12 novembre Ouidah è stato uno dei porti più importanti per la tratta degli schiavi. Lo ricorda la via degli schiavi, lunga quattro chilometri, al cui termine si erge la Porta del Non Ritorno, un segno forte che fa sentire l’angoscia di quelle donne e di quegli uomini imbarcati a forza verso quell’immenso misterioso oceano vuoto che l'arco ora spalanca davanti ai nostri occhi. All’inizio della via degli schiavi c’è una piazza dove quegli esseri umani, strappati con violenza dalla loro terra, privati della loro identità, marchiati a fuoco, incatenati, venivano venduti all’asta, e c’è un grande albero, chiamato l’albero dell’oblio: prima di incamminarsi verso il loro destino gli infelici gli giravano attorno e da quel momento dovevano dimenticare la loro vita passata e la loro terra. Siamo i soli turisti su questo grande spiazzo, su questa grande spiaggia che protende davanti a noi il nulla dell’oceano deserto. Dobbiamo aspettare Rosanna che Angela ha accompagnato all’ospedale per un controllo; nell’attesa entriamo in una bottega di artigianato per fare qualche acquisto; chiediamo aiuto a Rosaria per trattare sul prezzo (io e Gabriella siamo del tutto inabili in questo). Nel pomeriggio alla maison rimaniamo ancora in attesa delle nostre compagne; al suo rientro Rosanna ci annuncia che purtroppo non potrà continuare il viaggio con noi perché deve sottoporsi a flebo al chinino e stare a riposo; non ha perso però il suo sorriso, né la vitalità e la carica positiva che l’ha finora caratterizzata; Angela decide generosamente di rimanere con lei. Un po’ tristi, noi quattro rimasti, decidiamo comunque di fare un giro per Ouidah. Questa cittadina è il centro storico del vudù, la religione praticata dalla maggioranza della popolazione del Benin e nel mese di gennaio vi si celebra con particolare partecipazione la sua festività nazionale. Manca il tempo per visitare i luoghi sacri legati a questa religione, come il Tempio dei pitoni e la Foresta sacra, divenuti però ormai, ci dice Rosaria, luoghi puramente turistici; e poiché non ci fanno entrare, neppure per dare un’occhiata, al museo situato nella fortezza portoghese di Sao Joao Batista, nonostante manchi più di mezz’ora alla chiusura, decidiamo, dopo aver attraversato la città e le sue miserie, di farci portare da Aliou sul lungomare. Mentre caracolliamo nel nostro nuovo mezzo di trasporto, provo una grande tristezza guardando le capanne dei pescatori annerite dal tempo; i fumi grigi che si levano dalla spazzatura bruciacchiata; le persone attorno che mi sembrano particolarmente decrepite e lacere; e mi danno disgusto quei piccoli maiali neri che razzolano intorno. Sul lungomare palmato, alle spalle dell’Arco del Ritorno eretto per accogliere i discendenti degli schiavi tornati qui per ritrovare le loro radici e per dare una qualche forma di riparazione alla violenza subita dai loro avi, tramonta un sole dolce e rosato a confortare un po' questo luogo infelice. Il 13 novembre lasciamo Ouidah. Ciò che osserviamo lungo le strade del Benin è molto simile a ciò che abbiamo visto nei precedenti paesi; qui tuttavia le auto mi sembrano molto più mal ridotte, il traffico di camion più intenso, i motorini che fanno slalom fra il traffico caotico ancora più pazzi (solo il guidatore porta il casco; chi siede dietro, spesso una donna, non corre rischi?). Polvere, strombazzamenti, fumo nero dai tubi di scappamento ... poi magari all'improvviso un bel rondò con aiuole piene di fiori, e l'edificio dell'Università d'Abomey Calavi; e i cartelloni che pubblicizzano prestigiosi college, e il bell’edificio modernista di una banca ... un'Africa che è un inferno, ma ogni tanto ha qualche oasi di paradiso.

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Già visto in Togo ma ancor più clamoroso qui nel Benin: lungo la strada miriadi di venditori abusivi espongono sui loro banchetti taniche, bottiglioni, bottiglie, e persino bottigliette di solo mezzo litro piene di benzina di contrabbando proveniente dalla Nigeria. Moto e auto si fermano a dissetare i loro motori con quel liquido rossastro e il tutto avviene alla luce del sole, nessuno evidentemente ha interesse a reprimere questo mercato illecito e pericoloso. Senza passare per l’infernale traffico di Cotonou, raggiungiamo Abomey Calavi, sulle rive del lago-laguna di Nokuè per raggiungere in barca Ganvier. L'acqua del lago, alimentata dal fiume Ouémé, è per sei mesi salata e per sei mesi dolce, perché nel periodo delle piogge l'acqua dolce spinge indietro quella salata; cambia anche la sua profondità, di un metro e mezzo nel periodo salato, di tre metri in quello dolce; ospita sardine, carpe, tilapie, cernie, gamberetti. Questa laguna è scura, le sue acque nere; erbe acquatiche appena colorate da fiori viola pallido creano qua e là sulla sua superficie strani prati galleggianti. Qualche airone biancheggia su quest'acqua livida, ma ancora una volta mi stupisce l'assenza di quella fauna colorata che stava nel mio immaginario africano. Ganvier (37.000 abitanti) si definisce con molto ottimismo la Venezia africana; è un villaggio lacustre di capanne/palafitte di bambù e dai tetti di paglia, appoggiate su tronchi di tek infilati per due metri di profondità. Venne fondata nel 1717 dalla tribù dei Tofinou che si rifugiarono qui per sfuggire ai cacciatori di schiavi del Dahomey i quali, a causa di un tabù religioso, non si avvicinavano all’acqua. Un tempo il lago era popolato da coccodrilli, e la leggenda dice che furono proprio questi animali a salvare i fuggitivi trasportandoli sulla loro groppa, e per questo sono considerati sacri. Ora per fortuna i coccodrilli sono spariti. La cittadina ha tutto ciò che serve per poterci vivere: per il rifornimento d'acqua è stato costruito un pozzo profondissimo dotato di una pompa a motore; c'è il mulino, il centro di salute, gli alberghi, isole artificiali di pietra su cui sono state costruite le scuole e il municipio; vediamo una chiesa tutta dipinta d'azzurro e una moschea; la maggioranza del paese è però vudù. Il mercato si svolge sulle barche; l’attività principale è la pesca. Riusciamo a scattare poche fotografie perché la gente del posto non gradisce. Riprendiamo il viaggio. Mi annoto qualche nome di villaggio ... Sehouè, Zagbodomey ... la strada è letteralmente infernale perché in località Allada finisce l'asfalto e si viaggia fra nuvole di polvere rossa: ai lati della strada le palme, la tapioca, i tek sono tutti psichedelicamente rossi. Mi viene da pensare che la civiltà è una strada asfaltata. Molte macchine e camion in panne ostruiscono la carreggiata. Incurante di tutto questo caos, il mercato continua, gruppi di donne vendono olio di palma in bottiglie di plastica riciclata, dovunque razzolano allegramente polli spelacchiati. Finalmente arriviamo a Bohicon all'albergo dei "samaritani" gestito da una piccola e dinamica suora desiderosa di venire in Europa e per questo colleziona i nostri indirizzi. Durante la cena il grande schermo televisivo trasmette necrologi e commemorazioni funebri con sottofondo di musica funeraria, pare sia una delle trasmissioni più seguite. 14 novembre, aboxwisun in lingua fon, che significa "mese in cui il sorgo muore"3 Oggi la meta è Abomey capitale del regno fon del Danxomè (che i colonialisti francesi chiamavano Dahomey), perché desideriamo conoscere qualcosa dei trecento anni di vita e dei dodici re di quello che fu uno dei regni più importanti dell’Africa. Il suo mitico fondatore fu Agasu, nato dall’incontro fra una principessa e uno spirito che aveva preso la forma di una pantera maschio; seguirono lotte fratricide per la successione finché a metà del XVII secolo il re Hwegbadja fondò la

3 I nomi dei mesi fanno riferimento all’agricoltura o a un’attività specifica, o a un fenomeno meteorologico: mese in cui si semina il miglio (aprile); mese della sarchiatura (maggio), mese della siccità (gennaio) ecc.

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città di Abomey che rimase sede del regno fino alla fine del XIX secolo. Ogni re costruiva la sua dimora, talora accostandola a quella del re precedente, e oggi rimangono dieci palazzi reali, non tutti però visitabili. Un grande fossato del perimetro di dieci chilometri, mura alte quasi cinque metri con sette porte racchiudevano i palazzi e i quartieri abitati dai principi, dai discendenti, dagli artigiani di corte, dalla guardia reale, dagli schiavi ecc. Lo spazio era suddiviso in un cortile esterno, uno interno dove il re teneva consiglio, e uno privato, raggiungibile con un percorso tortuoso per rendere difficile l’accesso all’abitazione del re. Gli edifici erano costruiti con terra petrosa mescolata a paglia, fibre di noce di palma, scarti di manufatti d’argilla, conchiglie, ed erano decorati con bassorilievi; il tetto era di paglia. La lingua ufficiale del regno era il fon, ancora oggi la più parlata in un'area fra Benin, Togo e Nigeria. Questo regno bellicoso collaborò attivamente alla tratta degli schiavi; la guerra serviva infatti oltre che ad espandersi, a catturare nemici, venduti poi agli europei. Visitiamo il palazzo del re Glelé (1858-1889) passando attraverso le mura color amaranto. E' stato trasformato in un museo che illustra l'evoluzione del regno; la sua organizzazione sociale; la vita militare; la vita quotidiana. Nella prima stanza sono esposti vari asen, (assin), aste di ferro con la cima a forma di cono capovolto decorato con motivi vegetali, animali, e altri elementi simbolici che alludono alla personalità di un antenato defunto. Piantate nella terra fungono da piccoli altari votivi, da punto d’incontro fra i vivi e i morti a cui si portano offerte sacrificali. Ci fa da guida nel percorso una bella e spigliata ragazza, che ci dirà di essere una principessa. Ci capiterà di incontrare un altro beninese (sposato con un'italiana) anche lui addirittura quattro volte principe. Beh, veniamo a sapere che i re del Dahomey avevano quattromila mogli, sorvegliate da quattrocento eunuchi, e molte migliaia di figli, e quindi era abbastanza facile essere discendenti di re! I figli ereditavano le mogli del padre ed era consentito il matrimonio fra fratelli e sorelle. Nelle varie vetrine del museo sono conservati oggetti di pregevole fattura: sculture in legno coperto d’ottone raffiguranti una pantera, un'aquila con un altro uccello nel becco, che simboleggiano i vari re; mazze, lance, una enorme spada per indicare la direzione nella battaglia, un grande tessuto con la raffigurazione delle amazzoni, guardia sceltissima del re, note per la loro ferocia (pare infatti che addentassero il nemico alla gola). Ci viene mostrato un grande trono di legno lavorato: le quattro gambe appoggiano su altrettanti teschi umani. Tanto per rimanere in tema: in una vetrina è in mostra il teschio di un nemico decorato con la coda del suo cavallo per farne uno scacciamosche più macabro che bizzarro. Sono poi esposti oggetti vari ed eterogenei, gioielli, bastoni, una portantina, un ombrellone girevole per rinfrescare il re, e anche qui "passaporti" (tavolette di legno); armi francesi, regali del re del Portogallo e dell'Inghilterra, foto storiche. Un elemento davvero pregevole sono i bassorilievi che decorano i muri esterni e i pilastri del palazzo, fatti con terra di termitai (elastica e impermeabile) impastata con olio di palma, trattati col caolino e poi colorati. Alcuni sono rappresentazioni simboliche dei “nomi forti” dei re rivelati attraverso la divinazione e che ne prefigurano il destino; altri rappresentano scene di guerra o sono omaggi agli antenati. Entro le mura vi sono altre costruzioni oltre al palazzo reale; un tempio ospita lo spirito del re (di lui si diceva non che era morto, ma che "era entrato nella notte"); un altro edificio dal tetto conico spioventissimo, è la tomba, ma solo simbolica, del re (che è sepolto altrove) mentre è la tomba vera delle spose che hanno voluto (o dovuto?) morire con lui per continuare a servirlo; nel caso di Glelé furono ben quarantuno; i suoi muri, ci dice la nostra bella guida, con compiacimento perché certa di impressionarci, sono impastati con sangue di schiavi e di animali, e con acqua di fiume. Fra i re di cui ci racconta la storia c’è Ghézo (1818-1858) che, quando l’abolizione della schiavitù gli tolse i maggiori introiti, trovò un'altra risorsa economica promuovendo un’intensa piantagione di palme da olio importate dal Brasile e dando così l’avvio a un'agricoltura da rendita.

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Agolì Agbo (1894-1900) fu l’ultimo re, che però regnò sotto la tutela francese e venne alla fine esiliato nel Gabon. Questo palazzo-museo ha una particolarità per noi impensabile: gli oggetti esposti vengono ancora usati durante le cerimonie e dati in prestito ai discendenti della famiglia reale. Il palazzo, che era considerato un luogo sacro, un punto di convergenza fra forze spirituali e naturali, mantiene ancora questo alone, e lì si svolgono tuttora riti vudù, e viene portato del cibo sulla tomba del re. Terminata l'immersione nella storia di questo regno africano, fatta di lotte fratricide, usurpazioni, violenze, feroce certo, ma non dissimile da altri da noi meno lontani, ci dirigiamo verso il sito archeologico di Agongointo. Nel 1998 durante i lavori di costruzione di una strada è stato scoperto un villaggio sotterraneo molto particolare risalente al tempo di Agajà (1711-1741), quinto re di Abomey, che aveva messo in atto una particolare strategia di guerra facendo scavare nella pietra laterizia una fortezza sotterranea, del tutto invisibile dall'esterno, nella quale si nascondevano i soldati che così potevano prendere alle spalle i nemici che assalivano il villaggio. Ci caliamo in uno di questi buchi e raggiungiamo una specie di grande caverna fatta di tante stanze illuminate con lucerne all’olio di palma; c’è la cisterna per la raccolta dell’acqua, un ripostiglio per la conservazione del cibo, ed anche un ingegnoso pertugio scavato nella roccia per veicolare la voce e comunicare a distanza (sistema presente anche nei nostri castelli medioevali); quello era il rifugio di una famiglia che riteneva il colore rosso sgradito alla divinità, ecco perché all’ingresso del museo c’è il divieto a entrare con vestiti di quel colore. Nel bosco sovrastante questo sito archeologico si trova un centenario ficus strangolatore che stringe nelle sue spire e avvolge con le sue potenti radici aeree un baobab vecchio di almeno trecento anni; chissà chi dei due soccomberà per primo. Presso questi giganteschi alberi avvinghiati si svolgono riti vudù, perché lì dimora Dan, la divinità dalla forma di serpente, simbolo della continuità della vita dopo la morte. Il viaggio riprende ... immagini rapidamente fuggenti al di là del finestrino, ormai consuete e così simili nei tre paesi: nomi di villaggi su cartelli arrugginiti, insegne di negozi dipinte sui muri sgretolati ... salon de haute couture con le più fantasiose proposte di acconciature, bar Le secrete de la joie, un misterioso jardin des aromes sacrés ... ; improbabili monumenti in legno e terracotta per abbellire i villaggi; bimbi nudi nella polvere; uomini che scavano, (neri e lucidi ricordano corpi di schiavi); … una donna con la biacca sul viso, un’anziana a seno nudo … qui una cooperazione giapponese, là un’altra saudita, latrine finanziate dall’Unicef ... ; davanti ai nostri occhi scorrono caserme, scuole, chiese, depositi di cemento, case dai tetti di lamiera verniciati di brillanti blu, verde, o rosso; qualche tomba semicoperta dalla vegetazione; piccole estensioni di mais alternate a manioca, coltivazioni di tek, manghi pesanti di frutti, mimose ancora fiorite ... e poi, lungo ogni strada, sempre, donne, bimbi, uomini che camminano, camminano, ai piedi gli infradito … In serata, percorsi circa centosessanta chilometri, si arriva alla capitale ufficiale del Benin, Porto Novo (223.168 abitanti) che i portoghesi fondarono come base per la tratta degli schiavi. Dormiamo nel Centro Songhai creato nel 1985 da Nzamujo, un frate domenicano di origine nigeriana che ha messo in pratica la filosofia di uno sviluppo sostenibile sfruttando una circolazione virtuosa fra i vegetali (piantagioni varie) che forniscono cibo agli animali, e allevamenti e piscicoltura che ritornano al vegetale sotto forma di concime. Fondamentale è il riciclaggio delle materie prime e degli scarti attraverso una rigorosa raccolta differenziata delle materie organiche. L'acqua delle vasche dei pesci, purificata grazie al "giacinto d'acqua", viene riciclata per l'irrigazione dei campi. Nei periodi di secca gli impianti di piscicoltura vengono trasformati in campi per la coltivazione di soia e cotone. Un ricercatore del centro ha scoperto che le foglie e i semi di neem (azadirachta indica, albero molto diffuso nella regione e dalle proprietà portentose, tanto

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da essere chiamato “la farmacia del villaggio”), possono essere usati come antiparassitari, sicuramente meno efficaci di un pesticida chimico, ma capaci di allontanare i parassiti dalle piante per due settimane senza contaminare l'ambiente. Come energia si sfrutta il metano prodotto dalla fermentazione dei rifiuti vegetali e degli escrementi animali. Inoltre vengono recuperate e messe in funzione molte macchine agricole obsolete per l'Europa e gli Stati Uniti, ma qui estremamente utili. Nel centro vivono e studiano gratuitamente per diciotto mesi trenta allievi scelti semestralmente che sono poi in grado di aprire una fattoria ecologicamente autosufficiente. Il centro è dotato di un negozio in cui è possibile acquistare ciò che viene prodotto all’interno; di un albergo con piscina; di una chiesa, e di altre strutture ricettive. Interessante questa dichiarazione fatta da padre Nzamujo a un giornalista: "In occidente l'agricoltura biologica è quasi un passatempo per ecologisti snob. Qui invece è l'unica via possibile. Come può un contadino africano comprare assiduamente sementi e pesticidi dall'Occidente... [In Occidente] il cerchio più grande è l'economia, il secondo cerchio rappresenta l'uomo e il più piccolo la natura, l'ultima preoccupazione. Tutto nel mondo occidentale è subordinato all'economia, anche l'essere umano. Il modello di Songhai è opposto: il cerchio più grande è la natura, che contiene tutto e a cui tutto è subordinato, poi viene l'uomo e solo per ultima l'economia. Solo così lo sviluppo può essere veramente duraturo e sostenibile". Passeggiamo piacevolmente fra le piantagioni di palme, papaia, aranci, augurando che il modello Songhai possa sopravvivere e diffondersi. C’è speranza per l’Africa. 15 novembre Oggi, domenica, andiamo a visitare il Museo etnografico di Porto Novo situato in una bella palazzina coloniale a due piani. Raccoglie molte maschere cerimoniali fatte per la festività del gelede che si svolge ogni anno dopo i raccolti per celebrare la madre primordiale e il ruolo della donna nello sviluppo della società, eco di un antico ordine matriarcale. Anche gli uomini nell’occasione indossano copricapi da donna e si travestono da donna. Due delle maschere esposte rappresentano adepti dell’orisha4 Obatala creatore degli uomini secondo la mitologia dei Nago Yoruba; sono poi rappresentati due gemelli: un tempo il parto gemellare era considerato un evento infausto, ora vi è stata una rielaborazione più positiva, sebbene non sia venuto meno un certo timore; quando i gemelli muoiono si dice che sono ritornati nella foresta, da cui si crede siano venuti; vengono scolpite delle statuette che li rappresentano e che la madre si porta addosso prendendosene cura come se fossero figli veri. Le maschere gelede sono anche ironiche o satiriche, vogliono divertire ed educare, così c’è la maschera della buona coabitazione e quella della vita comunitaria rispettosa della differenza; quella di una donna nuda e di un uomo dall’enorme pene che hanno lo scopo di denigrare le donne leggere e gli uomini infedeli. Le vetrine del museo illustrano i riti che scandiscono le varie fasi della vita: la nascita (cinture di protezione del nascituro, piante medicinali); l’iniziazione all’età adulta (flagelli); la circoncisione; il fidanzamento; il matrimonio (la dote consisteva di stoffe, conchiglie, noci di cola, ecc.; c’è anche il lenzuolo che viene esposto per testimoniare la verginità della sposa); la morte (strumenti di divinazione per individuarne la causa, un tamburo col quale si comunica l’evento, una barella per il trasporto dei morti, un telo per avvolgerli, asen da tenere in casa in loro memoria ecc.). Anche

4 Gli orisha non sono divinità ma spiriti che trasmettono agli uomini l’energia che è in tutte le cose viventi. Sono di fatto archetipi antropologici. Ogni orisha possiede una sua personalità e gli è associato uno specifico fenomeno naturale o un colore; si impossessa del credente e si serve di lui per comunicare con i mortali. Ogni essere umano possiede uno spirito protettore che lo cura, lo consola, gli dà consigli. Nella contaminazione avvenuta col cristianesimo in Brasile, gli orisha sono stati associati a santi cattolici.

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l’arte divinatoria è illustrata fra l’altro da strumenti di consultazione dell’oracolo. Ci sono poi manichini vari usati durante le feste che si svolgono in occasione del ritorno in Benin degli afrobrasiliani. In tutti i musei abbiamo avuto come guide giovani istruiti, consapevoli della importanza di difendere e curare il patrimonio storico e culturale del loro paese. Questa è stata per me una bella sorpresa, di un’Africa che non ti aspetti. Decidiamo di visitare anche il Museo da Silva di arte e cultura afrobrasiliana inaugurato nel 1998 in un bell’edificio coloniale di fine ottocento. È una casa-museo a due piani, in cui il ricco proprietario espone un’ingente quantità dei più eterogenei e anche costosi oggetti che la famiglia ha collezionato: grammofoni, radio, fonografi, macchine fotografiche, strumenti musicali, corni d’avorio lavorato, teste di animali, feticci, cappelli di paglia, orologi ecc.; c’è anche un tavolo che – così dice una didascalia - un discendente di schiavi acquistò dalla famiglia di Napoleone Bonaparte, ripristinatore della schiavitù abolita durante la Rivoluzione francese. La collezione comprende anche biciclette, moto, carrozze; in un garage, oltre ad altre lussuose automobili, c’è perfino una Rolls Royce, la prima entrata in Benin. Ci sono poi esemplari delle prime macchine tipografiche e perfino carri di carnevale. Foto, ritagli di giornali e materiale vario illustrano la cultura afrobrasiliana come il candomblé, nome dato al vudù nella sua versione brasiliana. Il riferimento alla tratta degli schiavi compare sia su scritte all’ingresso del museo sia su pitture murali. Il ragazzo che ci fa da guida ci dice di essere di religione vudù, e gli facciamo qualche domanda al riguardo: crede nella reincarnazione, nei morti che ritornano (revenant) e nella divinazione che permette di entrare in contatto col mondo degli spiriti. Gabriella gli chiede se vengono ancora fatti sacrifici; sì certo, risponde, ma aggiunge con enfasi: pas humaine! Confortati da questa precisazione lasciamo il museo. Ci restano ancora poche ore prima della partenza per l’Italia e decidiamo, come nostra ultima meta, di andare a vedere una chiesa del XIX secolo, (poi trasformata in moschea). La facciata policroma, in puro stile coloniale brasiliano, mal conservata nonostante sia monumento Unesco, è affascinante, come spesso ci appaiono le cose dalle forme e colori inconsueti. Purtroppo non possiamo visitarla perché è chiusa. Proprio accanto stanno costruendo una moderna (e brutta) megamoschea, e per questo Rosaria pensa che questa straordinaria ex chiesa, simbolo di una fusione così trasversale di culture, sia purtroppo destinata a crollare. Il quartiere in cui ci troviamo è fra i peggiori visti nel corso del viaggio, per la condizione delle case, per i bambini laceri e scalzi nella sporcizia e nella polvere, per le donne dal volto triste e rassegnato. Chiedo a Marco di accompagnarmi lungo una stradicciola perché voglio girare un po’ attorno, ma dopo poco decido di tornare indietro: è troppo il disagio che provo, la mia curiosità mi sembra davvero fuori posto. Ritorniamo al nostro pulmino e, attraversando la città, notiamo alcuni uomini e donne vestite con lunghi camicioni bianchi, alcune di loro scalze. Appartengono all’Eglise du christianisme céleste, una delle innumerevoli sette religiose africane. Vengo anche a sapere che in questi paesi ci sono piccoli gruppi di religione baha’i. Rimango stupefatta: cercando in internet scopro che questa religione ha avuto un suo peculiare sviluppo in Africa ed ha preso molto piede in Ciad e Kenya dove è la terza principale religione. Perso ogni riferimento alla sua origine iraniana e sciita, ha un orientamento di tipo pratico e organizzativo più che di speculazione teologica, predica l’unità del genere umano, la pace e l’uguaglianza. Percorriamo le poche decine di chilometri che ci separano da Cotonou (761.900 abitanti) la capitale economica del Benin e sede del governo. Ci accoglie con edifici moderni, ambasciate, tribunale, la SOBEBRA Société Béninoise de Brasseries, moschee, superfetazioni di case

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pretenziose, ma non possiamo fermarci a visitarla. La meta è ormai l’aeroporto dove ci ricongiungiamo con Rosanna, sorridente e ristabilita. Salutiamo Marco che deve completare con Ayéna alcuni lavori burocratici e Angela che ritorna dai suoi bimbi alla Maison. Durante il volo guardo dall’oblò i pochi grappoli di luce fioca laggiù, nel grande buio dell’Africa. Quando sotto di noi compare una lastra arancione, brillante come zucchero caramellato, sappiamo che stiamo sorvolando l’Europa. Si sono spente le stelle che sopra l’Africa splendevano come diamanti regali.

Ghana, Togo, Benin: tre paesi simili?

La mancanza di servizi essenziali per la maggior parte delle persone come la distribuzione dell’acqua potabile e dell’energia elettrica, la mancanza di fogne, la raccolta del tutto insufficiente dell’immondizia, la conseguente carenza di igiene che provoca la diffusione di malattie, mi sono sembrati problemi comuni a tutti e tre i paesi, seppure in gradi lievemente diversi. Inoltre mi è parso evidente il contrasto fra la più dignitosa situazione, pur nella povertà, dei villaggi, rispetto al degrado delle città, cresciute in modo veloce e disordinato sia per la crescita demografica rapida, sia per l’immigrazione dalla campagna. Non è il caso qui di entrare nelle cause, ben note, di tutto ciò. Al di là delle differenze linguistiche e storiche, ho trovato anche altri elementi di tipo culturale e sociale comuni a tutti e tre i paesi visitati, che tratteggio brevemente, senza nessuna pretesa di esaustività. Religione La religione in questi paesi occupa ancora un posto centrale5; quella musulmana è minoritaria ma in crescita, ed è diffusa soprattutto nel nord dei tre paesi; quella cristiana, prevalente nel sud, è maggioritaria ma suddivisa in moltissime chiese; il vudù è ancora molto praticato, sebbene nel corso del tempo si sia verificato un forte sincretismo col cristianesimo perché i missionari permisero la contaminazione per ottenere conversioni, e gli afrobrasiliani riportarono nei loro luoghi d'origine la cultura vudù mescolata ad elementi del cattolicesimo. La presenza delle varie chiese balza agli occhi: lungo le strade sono numerosissimi i cartelli pubblicitari che le reclamizzano: neoapostolici, avventisti e neoavventisti, pentecostali e neopentecostali, presbiteriani, battisti, metodisti, evangelici e una miriade d’altre congregazioni come la Winner's chaple e la Miracle bible church - i nomi sono molto significativi - fondate da qualche intraprendente predicatore che promette miracoli, guarigioni, successi. Un cartellone reclamizza una Wonderful Jesus conference e un altro addirittura il ritorno di Gesù: coming soon...! Campeggia spesso il richiamo a Geremia 29,11 “Io infatti conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza”. E di speranza l’Africa ha davvero molto bisogno.

Infinite sono in Africa le schiere di mullah e di marabut islamici, di ministri di centinaia di sette e fazioni cristiane, nonché di sacerdoti di dei e di culti africani. Malgrado una certa concorrenza, la tolleranza in questo ambito è sorprendente e il riconoscimento del popolo unanime.6

5 Nel Ghana: 70% cristiani, suddivisi in numerosissime chiese; 15% musulmani, il resto religioni autoctone, che però permangono in vari modi anche nelle religioni importate. Togo: cristiani 29%, musulmani20%, religioni tradizionali 51%. Il vudù è presente un po' ovunque, ma diffuso soprattutto nel sud est. Benin: 43% cristiani, 25% musulmani, 17% vudù. 6 Ryszard Kapuscinski, Ebano, Feltrinelli, 1998, p.225.

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Così scriveva Ryszard Kapuscinski nel 1998. La pervasività di una religiosità non sustanziata di sottigliezze teologiche ma impastata dei problemi del quotidiano, è rivelata anche dai motti che compaiono accanto all’insegna di quasi ogni bottega: Blood of Jesus (un venditore di bevande), The Lord is my shepard (un bar), God is over all, Christ in you, God rules (un internet cafè), I thank God, o, più amichevolmente, Thank you God, e ancora: Dieu est capable, Dieu est grand (un coiffeur), A Dieu merci, La grace de Dieu (un negozio di generi alimentari), La gloire de Dieu; c’è anche la classica scritta in latino: Soli Deo gloria. Una specie di talismano, che però segnala il bisogno di legame continuo con l’invisibile. Maternità africana Le donne stanno emergendo in Africa, sono presenti nei parlamenti di vari stati africani. Anche noi abbiamo notato la presenza delle donne in molti ruoli sociali, e l’abbiamo colto come un segno molto positivo per questi paesi. Tuttavia il ruolo materno delle donne ci è parso ancora centrale. Non c’è giovane donna che non sia incinta, o non abbia un bimbo sulla schiena, o non sia circondata da piccolini. In Africa la donna continua a essere soprattutto madre. L’esuberanza e la rotondità delle forme corporee femminili rimanda alla maternità più che alla seduzione, e quest’ultima, se è presente, non cancella il richiamo alla funzione materna e procreativa. I bimbi sapientemente legati sulla schiena fanno un tutt’uno con la madre, come se ancora fossero nell’utero; il foulard tiene ben strette le gambine attorno ai fianchi materni e lascia liberi solo i due bei piedini nudi, mentre le braccine si aggrappano al corpo della mamma e gli occhi curiosi non si lasciano sfuggire nulla di ciò che avviene attorno. Non sempre ci sono i pannoloni, e la mamma pazientemente sopporta che il bimbo la inondi con la sua calda pipì. Colpisce la pazienza di queste madri africane, il loro contatto corporeo così amorevole coi loro bimbi. Alla Maison de la joie ho ammirato Zinath, la cuoca della casa, madre di nove figli, non tutti dello stesso padre, mentre lavava il suo ultimo piccolo: lo teneva per metà nella tinozza e per metà appoggiato alle sue gambe, lo insaponava, lo sciacquava versando acqua da una ciotola, e alla fine spalmava con vigore tutto il suo corpo con una crema. Che piacere essere lì, manipolato dalle mani sicure e sapienti della mamma, quanta gioia in quel massaggio mattutino. Così cresce felice un bimbo. E come sono belli, e forse felici, i bambini africani: quando in casa di Ayéna è comparso davanti a noi un bimbetto nudo, perfetto come un putto raffaellesco, e si è fermato in mezzo alla stanza scrutandoci, perplesso dalla nostra inattesa presenza, anche noi siamo ammutoliti; nella mia mente quell’immagine è rimasta come un’icona mitica: un bimbo nudo, simbolo di ciò che solo davvero conta nella vita, è il dono che ancora l’Africa può darci. Il mercato In tutti e tre i paesi l’aspetto economico più visibile e pervasivo è quello del mercato. Non solo i grandi mercati delle città negli spazi a questo dedicati, sempre affollati da migliaia di persone, ma anche lungo le strade fuori città. Per chilometri e chilometri, dietro banchetti di legno, sotto tettoie di lamiera, dentro baracche, si vende la più diversa mercanzia, esposta ai bordi polverosi della strada, accatastata o impilata in bell’ordine: generi alimentari, vestiario, stoffe, legna, ceste, scarpe, pentole, pneumatici, gomme di bicicletta avvolte in nastri multicolori che le fanno sembrare ghirlande natalizie, colonnine di cemento dai fantasiosi capitelli (un elemento molto usato nell’edilizia), cataste di materassi, letti, armadi, specchi, porte, divani (col venditore sdraiato sopra a riposare) e perfino bare, dalle luccicanti rifiniture. E poi c’è l’interminabile mercato itinerante: quando il pulmino rallenta e va a zig zag per scansare le buche, ai finestrini si affollano subito donne e ragazzini con sulla testa in straordinario equilibrio, e solo talvolta appoggiati su un cercine, grandi piatti di latta o catini con piramidi di arance verdi,

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prismi di pani, cilindri di manioca, arabeschi di verdure, torri di bottiglie d’acqua, oltre che dei più diversi generi di merce. In tutti e tre i paesi la corrente elettrica è mancata varie volte, per un tempo più o meno lungo. Allora le strade della città sprofondano nel buio, il mercato però continua fino a tardi al banchetto illuminato da un lumino ad olio, da una candela, o da qualche marchingegno più moderno come una pila o una lampada che funziona grazie a un generatore. Le domande che vengono alla mente sono molte: il commercio come anima delle relazioni fra le persone? E poi commercio di che cosa? Molta di questa mercanzia non alimentare viene certamente importata. Mentre lo sviluppo europeo è passato dall’agricoltura alla manifattura e poi al commercio, in questi paesi si passa dall’agricoltura direttamente al commercio, saltando la fase della fabbricazione di prodotti e manufatti. Sarà sostenibile questo tipo di sviluppo? La pubblicità Un altro elemento che colpisce sono i numerosi cartelloni che pubblicizzano prodotti di bellezza (creme, trucchi, profumi o altro). Usano immagini di donne che, pur con tratti africani, hanno la pelle molto chiara o addirittura bianca, come se promettessero che i prodotti reclamizzati "sbiancano". Qualcuno infatti ha White come nome commerciale. L’imitazione del modello fisico della donna occidentale lo si coglie anche vedendo numerose donne che hanno i capelli (o in qualche caso parrucche) tirati e lisciati, ed anche decolorati. Anche l’immagine maschile nella pubblicità ha un aspetto occidentale: giacca e cravatta, sebbene in Togo e Benin l’abito maschile più diffuso sia una blusa e pantaloni della stessa stoffa, dai colori vivacissimi (qualcuno un po’ su d’età ricorderà che era diventato di moda da noi il pigiama palazzo, un completo simile, ma per le donne, e con il pantalone a zampa d’elefante). Gli alberghi In Africa c’è tutto quello che c’è in Europa, solo che o funziona male perché non si fa manutenzione o non funziona del tutto perché non ci sono i ricambi per aggiustarlo. In tutti gli alberghi nei quali abbiamo dormito c’era l’aria condizionata o il ventilatore, ma se salta la corrente il condizionatore non funziona, o, nel caso ci sia corrente, capita che non funzioni il telecomando. A parte qualche disagio del genere abbiamo però quasi sempre dormito quasi rinfrescati e asciugati. Per quanto riguarda altri confort non è il caso di fare piagnistei: serve davvero acqua calda con la temperatura oltre i trenta gradi? È un grosso disagio l’asse del water rotto? La doccia che si stacca dal tubo flessibile? Il rubinetto del lavandino da cui scende un filo impercettibile d’acqua o la perde sul pavimento? La luce che salta mentre sei sotto la doccia e ti lascia nel buio pesto? E se una mattina l’acqua dal rubinetto proprio non scende, beh, per una volta non ti lavi la faccia! Trovare qualche scarafaggio stecchito dopo la spruzzata di insetticida lo si mette in conto già in partenza. Io e Rosanna ci siamo portate il sacco lenzuolo, e lì prudentemente ci avvolgiamo, salvo poi scalciar via tutto quando il sudore ci imperla. Il cibo La tradizione culinaria mi è sembrata molto simile nei tre paesi. Nel nostro caso le restrizioni alimentari per motivi igienici o per scelte individuali, hanno ridotto la varietà, comunque limitata: riso (bianco, fritto, o con verdure), cous-cous, fagioli, pesce, pollo, arance, vari tipi di banane, ananas, manghi. Io per i primi giorni mi sono limitata prudentemente a bollenti zuppe di verdure, poi mi sono lasciata un po’ più andare. Le offerte più “esotiche”: banane plantain fritte o secche tipo patatine; manioca sotto forma di puré (fufu) o grattugiata e cotta al vapore (attieké); salsa di arachidi; gombo (Abelmoschus esculentus una malvacea dal fiore color panna) simile a uno zucchino filaccioso; salse piccantissime di cui non sono riuscita ad individuare la composizione.

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Abbiamo anche masticato pezzi di canna da zucchero da bastoni scorticati per l’occasione, e bevuto thè di foglie di kinkiliba. C’era anche vino di palma, ma ci siamo comportati da quasi astemi, tranne Marco e Rosanna buoni assaggiatori di birre locali.

Un’ultima a riflessione Nonostante tutti gli strumenti di conoscenza che abbiamo a disposizione, gli stereotipi hanno una persistenza e una lunga durata che impedisce di cogliere i profondi e rapidi movimenti storici. Nell’immaginario di molti l'Africa (e per Africa intendo quella centro-meridionale, la cosiddetta Africa “nera”) è ancora un paese senza storia, senza cultura; nel caso migliore un luogo incontaminato e ancora vergine, nel caso peggiore popolato da etnie tribali e da bambini affamati col viso coperto di mosche. Questi stereotipi continuano ad essere veicolati da agenzie turistiche e da agenzie caritatevoli. Ora, in nessun luogo del mondo, e neppure in Africa, è rimasto qualcosa che non sia stato profondamente modificato dai colonialismi vecchi e nuovi, da migrazioni di popoli, da contaminazioni di culture e colture, dai contatti secolari con gli altri continenti. Il processo di globalizzazione e modernizzazione è entrato ormai largamente anche in Africa. La strada che il continente deve fare sulla via dello sviluppo economico (nell’indice ISU troviamo quasi tutti i paesi africani subsahariani in coda alla classifica), è ancora molta, così come quella dell’emancipazione politica e culturale, per diventare consapevole di sé e contribuire, coi suoi valori, allo sviluppo dell’umanità, e proprio a questo processo stanno dando vita molti intellettuali africani7. Certo, c’è ancora un’Africa oscura, anche nei paesi che abbiamo visitato: denunce di riduzione in schiavitù di bambini di strada di Cotonou e Porto Novo (rapiti o comprati per venderli come schiavi in Nigeria), voci di traffico d’organi; discriminazione e violenza nei confronti degli albini; mutilazione genitale femminile, una pratica tutt’altro che sconfitta. Difficile verificare l'entità di piaghe così terribili, che si spera stiano diventando sempre più marginali. E poi c’è l’Africa dei dittatori, dei signori della guerra, del traffico d’armi, dei bambini soldato, dei fondamentalismi religiosi, e anche l’Africa dei milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà (ossia con meno di un dollaro e mezzo al giorno). E ancora: c’è un’Africa che conserva la sua cultura e le sue tradizioni, con i suoi riti e miti; l’Africa del vudù, dei capi villaggio e addirittura dei discendenti di re (nel Ghana e nel Benin, che pure sono repubbliche presidenziali, i re continuano ad essere oggetto di rispetto e di credenze nei loro poteri superiori); l’Africa della poligamia anche al di fuori dell’islam, consentita in molti paesi africani (c’è un movimento di donne che lotta contro). Ma c’è anche un’Africa “che non ti aspetti”8, l’Africa del successo, delle idee nuove, un Africa in cammino. Allora: dobbiamo aiutare l’Africa a “modernizzarsi”, (a diventare come noi), oppure dobbiamo aiutarla a custodire la sua cultura e la sua identità? Qualcuno sogna un’Africa che segua un modello di sviluppo alternativo a quello occidentale e che conservi i suoi valori di attaccamento alla terra e alla fede religiosa; di senso comunitario, di solidarietà, di harambee,9 Forse l’Africa la sua strada la deve cercare e sperimentare da sé e ciò che noi possiamo fare è solo mettere a sua disposizione le nostre conoscenze, e allo stesso tempo vigilare affinché l’Occidente e l’Oriente non allunghino i loro appetiti, non impongano i loro modelli culturali, le loro ideologie, le loro mode.

7 Si veda ad esempio: Ngugi Wa Thiong’o, Decolonizzare la mente, Jaca Book, 2015. 8 Eyoum Nganguè, Capo di Buona Speranza. L’Africa che non ti aspetti. Nel libro si porta fra l’altro l’esempio di Nollywood, l’industria cinematografica nigeriana che è ormai la terza a livello mondiale dopo quella statunitense e quella indiana, e del pepe Penja, un prodotto d’eccellenza che il Camerun esporta nel mondo. 9 In swahili indica la collaborazione di tutti per un obbiettivo comune. Questo termine venne usato anche da Jomo Kenyatta durante la lotta per l’indipendenza del Kenya.

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Forse la speranza ci può venire dall’Africa. ********

Qualcosa ancora sui progetti Può darsi che qualche lettore/lettrice di queste mie note di viaggio non sia del tutto convinta che i progetti di cui ho parlato siano davvero utili ad innescare dei processi (a mo’ di reazione chimica) di sviluppo umano, sociale ed economico: certo non bastano, occorrono anche grandi progetti relativi a infrastrutture, ecc.., ma – dopo aver visto quelli realizzati e in corso di realizzazione, finanziati e soprattutto curati da Rosaria e Marco per Gocce per l’Africa – mi sono convinta che servono, sono utili, incidono sul percorso di crescita delle persone, perché quantomeno ampliano le loro possibilità di scelta. Sono, sì, delle gocce rispetto agli enormi bisogni e alle necessità, ma sono davvero efficaci perché “partecipati” dalla comunità dei riceventi, e “costruiti” con loro; perché costituiscono dei tasselli che vanno a riempire gli spazi vuoti di un mosaico; perché sono progetti scelti prestando attenzione anche alle molteplici ricadute laterali, alle interazioni con diversi altri aspetti, in altri termini (per usare un linguaggio moderno) perché sono progetti “sostenibili”. La Onlus “Gocce per l’Africa” si finanzia con donazioni private e con l’organizzazione di cene di solidarietà. Un aiuto significativo è venuto recentemente anche dalla Chiesa Valdese che attinge dagli introiti dell’8 per mille. Segnalo che è possibile contribuire alla realizzazione dei progetti:

col 5 per 1000 (il codice fiscale da utilizzare è: 95183740166)

oppure facendo un bonifico bancario - il codice IBAN è il seguente: IT81F07601

11100000007956786

oppure con un bollettino postale da farsi sul c/c 7956786

Mi permetto di segnalarvi Gocce per l’Africa Onlus perché a mio giudizio merita un aiuto; inoltre è una Onlus locale, ed è facile avere notizie dirette contattando e incontrando personalmente i responsabili; c’è trasparenza, c’è documentazione, c’è un continuo monitoraggio e, soprattutto, ciò che fa, va davvero a buon fine. Per ulteriori informazioni si può consultare il sito http://www.gocceperlafrica.it Per avere informazioni sulla Maison de la joie si può consultare il sito: http://www.maisondelajoie.com dove viene indicato anche come effettuare eventuali donazioni. E per finire ringrazio le mie carissime compagne di viaggio per avermi fatto partecipe delle loro idee, emozioni e pensieri, e per aver letto e commentato questo racconto del nostro viaggio. Bergamo, gennaio 2016