Via Toledo , i Quartieri Spagnoli e Piazza Dante

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Via Toledo è una delle arterie principali di Napoli ed è lunga circa 1,2 km. Il percorso inizia da Piazza Dante e termina in Piazza Trieste e Trento, nella sequenza della strada si diramano altre arterie di notevole importanza, piazze, chiese e palazzi nobiliari. La via è una delle tappe dello shopping napoletano e della vita culturale fin dal XVI secolo. Storia[modifica | modifica sorgente] Fu voluta dal viceré Pedro Álvarez de Toledo nel 1536 su progetto degli architetti regi Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa. La strada correva lungo la vecchia cinta muraria occidentale di epoca aragonese che per le ampliazioni difensive proprio di don Pedro fu resa obsoleta e quindi eliminata. Nel corso dei secoli la sua fama è stata accresciuta tramite i viaggi del Grand Tour e di alcune citazioni nelle canzoni napoletane. Tra gli anni trenta e la metà del XX secolo, una zona a oriente della via è stata devastata dagli sventramenti per il "risanamento" del Rione Carità (l'attuale zona dei Guantai Nuovi-via Cervantes) e la successiva costruzione (al posto degli antichi palazzi) di edifici di volumetria eccezionale rispetto alla struttura viaria, ben rappresentativi della speculazione edilizia avvenuta nel periodo dell'amministrazione laurina. Dal 18 ottobre del 1870 al 1980 la strada si è chiamata Via Roma in onore della neocapitale del Regno d'Italia. Fu il Sindaco Paolo Emilio Imbriani a deliberarlo, decisione impopolare che suscitò numerose reazioni contrarie, a cominciare da quella dello storico Bartolommeo Capasso che, nonostante fosse dichiaratamente a favore dell’unità d’Italia, definì la scelta «una denominazione che non ha guari, disconoscendosi la storia si è voluta in altro mutare».

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Guida turistica Napoli

Transcript of Via Toledo , i Quartieri Spagnoli e Piazza Dante

Via Toledo è una delle arterie principali di Napoli ed è lunga circa 1,2 km.

Il percorso inizia da Piazza Dante e termina in Piazza Trieste e Trento, nella sequenza della strada si diramano altre arterie di notevole importanza, piazze, chiese e palazzi nobiliari. La via è una delle tappe dello shopping napoletano e della vita culturale fin dal XVI secolo.

Storia[modifica | modifica sorgente]

Fu voluta dal viceré Pedro Álvarez de Toledo nel 1536 su progetto degli architetti regi Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa. La strada correva lungo la vecchia cinta muraria occidentale di epoca aragonese che per le ampliazioni difensive proprio di don Pedro fu resa obsoleta e quindi eliminata.

Nel corso dei secoli la sua fama è stata accresciuta tramite i viaggi del Grand Tour e di alcune citazioni nelle canzoni napoletane.

Tra gli anni trenta e la metà del XX secolo, una zona a oriente della via è stata devastata dagli sventramenti per il "risanamento" del Rione Carità (l'attuale zona dei Guantai Nuovi-via Cervantes) e la successiva costruzione (al posto degli antichi palazzi) di edifici di volumetria eccezionale rispetto alla struttura viaria, ben rappresentativi della speculazione edilizia avvenuta nel periodo dell'amministrazione laurina.

Dal 18 ottobre del 1870 al 1980 la strada si è chiamata Via Roma in onore della neocapitale del Regno d'Italia. Fu il Sindaco Paolo Emilio Imbriani a deliberarlo, decisione impopolare che suscitò numerose reazioni contrarie, a cominciare da quella dello storico Bartolommeo Capasso che, nonostante fosse dichiaratamente a favore dell’unità d’Italia, definì la scelta «una denominazione che non ha guari, disconoscendosi la storia si è voluta in altro mutare».

Palazzo Berio è un elegante edificio ubicato nella centrale via Toledo, a Napoli, nel quartiere San Ferdinando.

È situato al numero civico 256 e prende il nome dal marchese Francesco Berio di Salsa, librettista d'opera lirica[1] e poeta, che della magione fu proprietario nel XIX secolo.

Storia ed architettura[modifica | modifica sorgente]

Fu eretto nel XVI secolo su progetto di Giulio Romano, pupillo di Raffaello Sanzio, e su commissione del conte di Mola, Simone Vaaz, finanziere di origini portoghesi, al tempo presidente della Regia Camera della Sommaria. Fu poi ricostruito nella seconda metà del XVIII secolo da Carlo Vanvitelli su disegni di Luigi Vanvitelli e su commissione della famiglia dei Tomacelli.

È abbellito nel cortile da una fontana con testa di cervo. In tempi antichi conteneva un salone per le feste a pianta circolare da circa 1.000 posti ed un teatro da 1.600 posti[2] sulla cui struttura si ritiene sia stato realizzato il Teatro Augusteo ad opera di Pier Luigi Nervi.

Nel 1772 il duca Perrelli di Monasterace lo vendette al genovese Giovan Domenico Berio di Salza[3].

A cavallo fra il Settecento ed il primo Ottocento il palazzo era rinomato per la sua biblioteca e le numerose opere d'arte contenute[4].

Dopo il 1820, anno della morte del marchese Berio, fu frazionato in più parti in ragione della successione.

Nel 1922 parte del palazzo venne demolita per lasciar posto alla realizzazione della piazzetta Augusteo, contemporaneamente alla costruzione della Funicolare Centrale.

La chiesa di Sant'Anna di Palazzo (in origine chiesa del Rosario di Palazzo e più propriamente chiesa di Sant'Anna di Palazzo in Rosario di Palazzo) è una chiesa monumentale di Napoli e si erge in vico Rosario di Palazzo, nel centro storico della città, nel quartiere San Ferdinando.

Cenni storici[modifica | modifica sorgente]

Con la vittoria di Lepanto, a Napoli, sorsero molte chiese intitolate alla Madonna del Rosario, ritenuta propiziatrice di quel successo. Nel 1572, Michele Lauro offrì ai Padri Domenicani un terreno per la costruzione di una chiesa. In quel periodo, la zona era ricca di aree verdi; sorgeva a poca distanza dalle mura, ma ben presto si popolò con palazzi e luoghi di culto; sicché, già a metà del XVII secolo, il convento e la chiesa si ritrovarono in una zona densamente abitata.

In questa chiesa fu battezzato il pittore Luca Giordano; inoltre la rivoluzionaria partenopea Eleonora Pimentel Fonseca nel febbraio del 1778 vi celebrò il suo matrimonio e, qualche tempo dopo, vi seppellì il suo unico figlio Francesco, morto quand'era ancora in fasce.

La denominazione Sant'Anna di Palazzo venne attribuita da una regia disposizione del 1819 che trasferiva provvisoriamente la sede parrocchiale (con relativo titolo) dalla chiesa di Sant'Anna di Palazzo, che sorgeva nell'omonimo largo, alla chiesa del Rosario, dal momento che la prima minacciava di crollare e perciò ne fu stabilita la demolizione.

Nel 1824 un'altra regia disposizione revocò la demolizione, affidando la chiesa ad una confraternita affinché la restaurasse. D'ora in poi si indicò l'originale chiesa di Sant'Anna di Palazzo come Sant'Anna vecchia, mentre quella del Rosario di Palazzo fu chiamata appunto Sant'Anna di Palazzo. La demolizione di Sant'Anna vecchia arrivò nel 1958 a causa dei pesanti danni subiti dai bombardamenti. Molti dei suoi arredi e delle sue opere d'arte furono trasferiti nel Rosario di Palazzo.

Opere[modifica | modifica sorgente]

Le decorazioni in stucco sono del XVII secolo; furono tanti i rimaneggiamenti del XVIII secolo e ad uno di essi è riconducibile l'altare maggiore, creato da Domenico Antonio Vaccaro nel 1729. Alle sue spalle, nel fondale dell'abside, sorge un maestoso organo a canne. La sagrestia, di gusto rococò, risale al 1739 e fu opera di Michelangelo Porzio; il campanile e la sagrestia formano uno scenografico fondale nella piazzetta Rosario di Palazzo, dove è situato l'ingresso secondario alla chiesa. La cupola, un tempo colorata da stupende maioliche, domina le case della zona. Il portale è del XVI secolo e porta inciso il nome e lo stemma della famiglia del fondatore.

La chiesa di Santa Brigida è un luogo di culto cattolico che si erge nel centro storico di Napoli, in via Santa Brigida.

Storia[modifica | modifica sorgente]

L'origine della chiesa risale al 1609, quando un borghese, Giovanni Antonio Bianco, decise di aprire nella sua abitazione una cappella dedicata a Santa Brigida; a fianco vi realizzò anche un conservatorio per vedove. Questi lavori furono svolti all'insaputa della curia di Napoli e pertanto vennero subito bloccati; le

strutture vennero vendute alla pia Giovanna Guevara e, con la licenza arcivescovile e con le sovvenzioni della pia donna, la struttura poté aprire nel 1610. Infine passò ai padri Lucchesi, che tra il 1637 e il 1640 espansero la chiesa e il convento, che attualmente è parte di Palazzo Barbaja.

Nella realizzazione della nuova chiesa, che rimpiazzò la preesistente cappella del palazzo, furono rispettate le condizioni imposte dalle autorità spagnole, dietro sollecito del castellano del Maschio Angioino, che riteneva un ostacolo al tiro delle cannoniere una cupola di maestose dimensioni; per questo motivo fu innalzata una cupola alta solo nove metri.

I Lucchesi rimasero fino alla prima espulsione avvenuta nel decennio francese; reinseriti dai Borbone di Napoli nella medesima struttura (ma modificata, poiché parte delle originali strutture furono inglobate in altre opere civili), subirono un'ulteriore espulsione da parte dei Savoia nel 1862.

La parrocchia è retta dall'Ordine della Madre di Dio. La chiesa è sede dell'Ordine Militare del SS. Salvatore e di S. Brigida di Svezia

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

Esterno[modifica | modifica sorgente]

La modesta facciata è composta da due registri: il primo ionico, dove s'apre il semplice portale con una lapide che lo sormonta, mentre nella trabeazione si legge un'iscrizione greca; il secondo ordine è caratterizzato dalla presenza del finestrone.

Interno[modifica | modifica sorgente]

L'interno, a croce latina con cappelle, presenta cicli pittorici (Gloria di Santa Brigida, San Nicola, Il Giudizio e La Passione) di Luca Giordano, che ivi fu sepolto; i dipinti di Luca furono completati da Giuseppe Simonelli. Altre opere sono di Massimo Stanzione e di Paolo De Matteis. La chiesa, per la ricchezza di opere pittoriche realizzate da grandi pittori, costituisce una sorta di pinacoteca.

La cupola alta nove metri, compreso il tamburo, presenta sull'intradosso una fuga prospettica di notevole valore realizzata da Luca Giordano, che fa apparire la cupola più slanciata del reale; all'esterno la calotta è sormontata da un maestoso lanternino elicodiale, aperto alla base da piccole finestre ovali.

Notevole è anche la cappella della Madonna Addolorata, dove vi è la statua ritenuta miracolosa; essa viene addobbata il primo giugno ed il quindici di settembre di ogni anno.

Il palazzo Zevallos (o palazzo Colonna di Stigliano) è un palazzo monumentale di Napoli ubicato nel quartiere San Ferdinando.

Il palazzo ospita l'omonima galleria museale in cui sono visitabili alcuni ambienti dello storico edificio, alcuni dipinti di autori napoletani, una tela di Gaspar van Wittel e l'ultimo Caravaggio, il Martirio di sant'Orsola (1610).

Storia[modifica | modifica sorgente]

Il palazzo fu eretto tra il 1637 e 1639 da Cosimo Fanzago su volontà della famiglia fiamminga degli Zevallos che vollero per loro un palazzo nobiliare su via Toledo, vedendo difficile la possibilità di costruirne sui vicini quanto iperaffollati quartieri Spagnoli. All'interno dell'edificio, tuttavia, non appena oltrepassato il portone d'ingresso, è visibile sulla destra lo stemma nobiliare della famiglia Colonna con una breve incisione su marmo a loro dedicata. Lo stemma è uguale a quello posto sopra al portone principale, lasciando così pensare che queste due parti sono state solo successivamente aggiunte.

Il primo proprietario del palazzo, fu appunto Giovanni Zevallos che ne acquisì la proprietà nel 1639 dopo la fine dei lavori. Dopo la sua morte, il palazzo passò prima al figlio e poi dopo, nel 1653, fu ceduto definitivamente ai Vandeneynden. La figlia Giovanna, sposato il principe di Sonnino, mutò la proprietà attribuendola così nel 1688 alla famiglia Colonna di Stigliano. Durante tutto il XVII secolo, il palazzo vide importanti restauri e modifiche sia degli ambienti interni che della facciata principale. Spicca rispetto al primo palazzo dei Zevallos il fastoso portale d'ingresso con gli stemmi nobiliari eseguiti dal Fanzago.

Altra commissione importante fu quella affidata a Luca Giordano che eseguì nel palazzo un ciclo di affreschi per abbellire gli ambienti interni.

Durante la prima metà del XIX secolo, a causa di alcuni dissidi interni alla famiglia Colonna di Stigliano, il palazzo viene smembrato, frazionato in più parti e ceduto in fitto ad inquilini diversi che non avevano alcun legame con la famiglia nobile. Le decorazioni di Giordano si persero in questo contesto[1] e con esse anche tutto il prestigio dell'edificio su tutta via Toledo che, nel frattempo, vide accrescere notevolmente il numero di edifici nobiliari che abbellivano quella che era divenuta oramai la strada più importante della città.

Diversi furono gli acquirenti che si impossessarono di una porzione del palazzo. Al banchiere Carlo Forquet andò il primo piano nobile; al cavaliere Ottavio Piccolellis andarono due ambienti del piano ammezzato; le restanti parti invece, furono messe in vendita solo dopo alcuni anni. Il palazzo in questo periodo vide ancora una volta mutare prepotentemente la sua architettura, grazie agli interventi neoclassici di Guglielmo Turi.

La fetta più importante del palazzo, oggi visitabile al pubblico, fu acquisita dai Forquet, i quali vollero per il loro nuovo appartamento un importante ciclo di decorazioni e di stucchi per abbellire lo scalone principale e le sale del primo piano.

Alla fine del XIX secolo, la "quota" dei Forquet fu acquistata dalla Banca Commerciale Italiana e le restanti parti furono prelevate non prima del 1920. In questa data, l'edificio ritornò ad essere, dopo quasi un secolo, un unico palazzo.

L'appartamento storico e la galleria[modifica | modifica sorgente]

Il palazzo è visitabile come appartamento nobiliare, disponendo anche di una galleria che offre la possibilità di ammirare l'ultimo dipinto di Caravaggio, il Martirio di sant'Orsola (1610) ed una serie di vedute paesaggistiche di Gaspare Vanvitelli e Anton Sminck van Pitloo.

Subito dopo l'ingresso al palazzo, vi è il salone centrale, in cui si trova l'area della banca aperta al pubblico. La sala è in stile eclettico, ricavato da un precedente cortile; sulle sue pareti sono posti alcuni dipinti murali di Ezechiele Guardascione. La copertura avviene tramite un lucernario vetrato decorato, mentre lo scalone d'onore monumentale, posto a destra, porta al piano superiore ed è decorato con grandi lampade e stucchi dorati.

Nel piano nobile vi sono decorazioni di stampo neoclassico di Giuseppe Cammarano e Gennaro Maldarelli e le tele della galleria del palazzo Zevallos.

Gli ambienti dell'appartamento nobiliare sono: la sala degli amorini, la sala degli stucchi (dove è conservato il dipinto del Merisi), la sala pompeiana (dedicata a spazi multimediali) e la sala degli uccelli (in cui sono esposte le restanti tele).

Il Palazzo Monaco di Lapio, a Napoli, è ubicato nella centrale via Toledo.

Fu eretto nel XVIII secolo su commissione del principe Monaco in chiave tardobarocca; nel 1920 fu acquistato dal barone Rinaldo Monaco di Lapio e nel 1963, in seguito ad un terremoto, fu restaurato con una diversa disposizione dei marmi e dei busti.

L'edificio si presenta con una sontuosa facciata a stucco che crea timpani arcuati, nei quali sono inseriti i busti. Di notevole impatto nella facciata è il balcone centrale del piano nobile che occupa lo spazio di tre vani, mentre nei piani sovrastanti sono presenti balconi più piccoli.

Nell'androne del palazzo sono presenti statue di antica fattura ritrovate nel 1680 che ornano fontane; nel cortile invece è presente una scala scenografica a tre archi che fu restaurata nel 1963. L'interno non è affrescato, ma possiede busti antichi nel cortile al primo piano.

Il Palazzo Lieto sorge in via Toledo, a Napoli, nel quartiere Montecalvario.

Fu costruito nel XVIII secolo su commissione di Gaetano Lieto, duca di Polignano; nel 1794 il figlio decise di affidare i lavori di restauro e di rimaneggiamento all'architetto romano Pompeo Schiantarelli. Lo Schiatarelli intervenne principalmente nella facciata dove la composizione architettonica confluisce nel semplice portale in marmo circondato da un arco in bugne tra due lesene di ordine dorico; la facciata è impostata su un basamento in piperno sul quale s'innalza il resto in laterizi.

Nel cortile, sullo sfondo, si apre una scala aperta, più austera rispetto a quelle barocche e caratterizzata da archi ribassati e da una struttura architravata che si orienta verso il cortile

I quartieri spagnoli sono parte storica della città di Napoli costituiti a loro volta dai quartieri di Montecalvario ed Avvocata.

Storia[modifica | modifica sorgente]

I quartieri sorgono intorno al XVI secolo al fine di accogliere le guarnigioni militari spagnole destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana, oppure come dimora temporanea per coloro che passavano da Napoli in direzioni di altri luoghi di conflitto.

Fin dall'epoca della nascita, i quartieri divennero un luogo malfamato dove prostituzione e criminalità la facevano da padrone, a causa soprattutto della continua ricerca di "divertimento" da parte dei soldati spagnoli. Nonostante l'emanazione da parte del viceré di Napoli, don Pedro de Toledo, di alcune apposite leggi tese a debellare il fenomeno, il quartiere rimase nel tempo sempre un'area di grandi difficoltà sociali della città partenopea.

La chiesa di Santa Maria della Mercede a Montecalvario (nota anche come chiesa di Montecalvario) è una delle chiese monumentali di Napoli, situata in largo Montecalvario.

Storia[modifica | modifica sorgente]

Il tempio venne fondato nel 1560 grazie alla nobile napoletana Ilaria D'Apuzzo, la quale, in seguito, ne fece dono ai frati osservanti di San Francesco. Inoltre la chiesa è ben visibile dalla Veduta di Lafréry che evidenzia l'edificio con la cupola. Negli anni ottanta del Cinquecento venne fondata la congrega dell'Immacolata Concezione. Agli inizi del XVII secolo la chiesa fu ampliata, venendo preceduta da una scalinata monumentale e da un portico a cinque arcate; nel 1677 venne realizzato un intervento decorativo ad opera di Gennaro Schiavo che diede all'interno un tocco barocco.

Nel 1808 fu abolito il convento e trasformato in caserma. Lo spazio antistante fu riservato a mercato di commestibili con un progetto di Stefano Gasse. L'intervento distrusse la scalinata, che fu sostituita con un'anonima scala circondata dalle botteghe del Gasse. La sistemazione fu conclusa soltanto nel 1816. Dopo dieci anni i Francescani ritornarono al convento e restaurarono la chiesa; altri restauri furono effettuati nel 1858. Nella pianta dello Schiavoni si nota l'insula occupata da altri edifici.

Nel 1928, al posto del collegio della Concezione, fu innalzato un edificio scolastico, ma il complesso fu lievemente danneggiato dal terremoto del 1980 e nel 1990 fu nuovamente restaurato.

Nel 1980 è stata rinvenuta, sotto i marmi dell'altare maggiore, la predella con la processione con il sangue di San Gennaro.

L'interno[modifica | modifica sorgente]

L'interno, a navata unica con cappelle laterali e cupola, possiede l'altare maggiore della bottega del Fanzago e due acquasantiere realizzate dalla stessa bottega. Di notevole fattura sono le epigrafi, i sepolcri e le sculture custodite nelle cappelle.

Nella prima cappella sulla sinistra vi è una pregevole tavola cinquecentesca rappresentante la Madonna del Rosario col Giudizio Universale di Michele Cuira; le rimanenti cappelle custodiscono tavole dello stesso periodo: una Deposizione di un seguace di Giovan Bernardo Lama; il Trittico con la Madonna Annunciata tra i Santi Andrea e Veronica, proveniente dalla scuola di Andrea Sabatini.

Altre opere sono di Leonardo Castellani, di Giacomo da Cosenza, della scuola del Beinaschi.

La struttura ha subito anche diverse alterazioni fra il XIX secolo e il XX secolo come due finestre murate sul fianco sinistro. L'aggiunta di corpi di fabbrica e le sopraelevazioni hanno alterato i volumi originali del complesso.

La chiesa di Santa Maria della Concezione a Montecalvario è un luogo di culto ubicato nel centro storico di Napoli. È uno degli esempi più interessanti dell'architettura napoletana del Settecento.

Storia[modifica | modifica sorgente]

La fondazione di un primo piccolo luogo di culto risale al 1579, mentre tra il 1586 e il 1589 fu costruito un monastero e il collegio della Concezione.

Tra il 1718 eil 1725 fu incaricato Domenico Antonio Vaccaro, con la collaborazione degli ingegneri Giuseppe Lucchese Prezzolini e Filippo Marinelli, di riedificare la chiesa. La decorazione risale al 1724.

Nel 1889 il complesso fu chiuso temporaneamente a causa di dissesti statici; sul finire del XIX secolo passò nelle mani dei Collegi Riuniti e dal 1916 fu concessa in enfiteusi perpetua all'arciconfraternita del Santissimo Corpo di Cristo, mentre il collegio e il giardino furono affidati al Comune di Napoli. Nel 1928 fu demolito il collegio ed edificata una scuola elementare.

Nel 1960, nel giardino fu realizzato un edificio destinato all'Opera Nazionale Maternità ed Infanzia; diciotto anni dopo furono eseguiti nuovi restauri ad opera dell'architetto Loreto Colombo[1], ma nel 1980 fu danneggiata dal sisma e i lavori di restauro furono proseguiti fino al 1987.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

L'interno si presenta con una pianta a croce greca allungata e inscritta in un ottagono (notevoli sono i disegni delle volte che assumono forme diverse) con tre altari e cappelle, mentre la navata è coperta da una cupola decorata da stucchi, opera di Giuseppe Cristiano.

L'altare maggiore è del Vaccaro. Ai lati ci sono gli stemmi della famiglia Mercurio con le insegne della torre e del caduceo; su è posta, in un'ellisse di bardiglio, la statua secentesca dell'Immacolata. Nelle sei cappelle ci sono dipinti del Vaccaro, Tommaso Martini e Nicola Maria Rossi. Del Vaccaro è anche il pavimento in maiolica.

Il Palazzo Buono è un palazzo monumentale di Napoli ubicato in via Toledo, nel quartiere Montecalvario.

Storia ed architettura[modifica | modifica sorgente]

Il palazzo fu eretto nel XVII secolo su progetto di Bartolomeo Picchiatti e su commissione dei De Curtis. Successivamente divenne sede del banco del Monte dei Poveri Vergognosi, e nel decennio francese cambiò destinazione d'uso diventando il Tribunale di commercio.

Dopo il decennio francese il palazzo venne acquistato dalla famiglia Buono, che nel 1826 affidò al Genovese la ristrutturazione dell'edificio, compiuta in chiave neoclassica. Quindi il palazzo venne acquistato da La Rinascente e tra il 1916 ed il 1917 fu adattato al nuovo uso dall'ingegnere Gioacchino Luigi Mellucci.[senza fonte]

La facciata del palazzo è improntata in stile eclettico con partizione del prospetto in tre ordini: dorico, ionico e corinzio. Nell'interno sono visibili i pilastri in calcestruzzo armato e sono installate scale mobili negli anni cinquanta.

Nel 2008 La Rinascente chiude e Palazzo Buono resta chiuso per tre anni; dal 2011 ospita un negozio della catena di abbigliamento svedese H&M.

Il Palazzo Cavalcanti è un palazzo monumentale di Napoli ubicato in via Toledo.

Storia ed architettura[modifica | modifica sorgente]

Il palazzo venne eretto nel Settecento su commissione del marchese Angelo Cavalcanti che diede l'incarico a Mario Gioffredo. Nell'Ottocento venne sopraelevato di un ulteriore piano e, dal 1945 al 1980, divenne casa di riposo.

Nel 1981 fu annesso alla proprietà comunale e fu oggetto di un restauro conservativo progettato da un noto studio di architettura napoletano (Vulcanica architettura). Oggi il piano nobile dell'edificio è adibito a sede dell'Istituto Italiano di Scienze Umane.

L'opera è in stile neoclassico e si eleva su cinque piani originari e corte all'interno.

La facciata è scandita da lesene composite in ordine gigante che inquadrano le colonne di finestre del primo e secondo piano. Quelle del primo piano hanno una decorazione con timpano arcuato e finestra centrale posta in una nicchia decorata a stucco; inoltre è presente una lunga balconata che corre per tutta la lunghezza della facciata. Le finestre del secondo piano hanno una decorazione più semplice. Di notevole bellezza è il portale decorato con colonne doriche poggiate su un basamento in piperno.

La scala del cortile che corre lungo la facciata del cortile è articolata su tre lati coperti da volte ribassate; la rampa centrale è impostata su tre ballatoi di riposo e due rampe più piccole.

Nell'interno ci sono decorazioni in stile neoclassico.

La chiesa di Santa Maria della Carità (detta La Giorgia) è un monumentale luogo di culto di Napoli, ubicato in piazza Carità.

Storia[modifica | modifica sorgente]

La chiesa venne fondata nel XVI secolo anche se gli storici discordano sull'esatto anno di fondazione, che secondo varie teorie sarebbe il 1540 o dopo la peste del 1550.

Nel 1627 fu affidata ai Pii Operai Catechisti Rurali che abbandonarono l'edificio nel 1633, quando morì il loro fondatore Carlo Carafa e quindi passò ad una congrega di Nobili.

Nel 1694 la sede parrocchiale fu trasferita nella chiesa di San Liborio per dividere le funzioni della vita monastica da quelle secolari.

Nel decennio francese (primi anni del XIX secolo) la chiesa fu soppressa e il conservatorio adibito ad altro uso. La chiesa fu riaperta nel 1823 assumendo il soprannome di la Giorgia in quanto in essa si trasferì la congrega del Rosario che era stata fondata nel XVII secolo da un appartenente alla famiglia dei De Giorgio. La chiesa fu ricostruita secondo il gusto ottocentesco e perse i molti affreschi che la adornavano, eseguiti da Andrea Malinconico, Pietro Arena e Santolo Cirillo. Non si trovò più un quadro sull'altare centrale raffigurante la Sacra Famiglia di Giulio Romano donato da papa Paolo III, probabilmente scomparso durante il periodo di chiusura del tempio.

La chiesa riaccolse la sede parrocchiale quando la chiesa di San Liborio fu chiusa ed ebbe il suo titolo parrocchiale. Negli anni sessanta del Novecento un incendio distrusse parte del patrimonio artistico ed in particolare alcuni quadri.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

La chiesa ha una facciata semplice con un coronamento nel quale è inserito un bassorilievo. L'interno a navata unica possiede due altari per lato; nell'interno, di notevole importanza storica, sono le epigrafi che testimoniano le visite di papa Pio IX avvenute tra il 1848 e il 1850; sono inoltre conservate due tele di artista ignoto del XIX secolo e un crocifisso.

A destra della facciata della chiesa si erge il palazzo del conservatorio della Carità. Verso la fine del XIX secolo questo fu trasformato in albergo (l'hotel Universo) e ricevette una ristrutturazione della facciata in stile neoclassico. Dopo la seconda guerra mondiale, negli anni cinquanta, l'hotel perse l'aspetto neoclassico in favore di un anonimo stile tipico del dopoguerra.

L'albergo è stato in funzione fino alla sua chiusura. Oggi l'immobile è di proprietà della Regione Campania.

Il palazzo Trabucco è un edificio monumentale di Napoli, ubicato in via San Liborio.

Storia e descrizione[modifica | modifica sorgente]

Adiacente al palazzo Mastelloni, il palazzo fu costruito da Nicola Tagliacozzi Canale che realizzò uno straordinario esempio di architettura civile settecentesca a Napoli. La struttura del fabbricato s'innalza su cinque piani con magnifica decorazione del barocco locale che sotto certi aspetti precorre il rococò. La composizione della facciata è imperniata sul portale in piperno che ha realizzato Antonio Saggese: la rosta del portale è stata sostituita con quella originale a riccioli e foglie.

Come in tutti i palazzi di Napoli la struttura è impostata sullo schema portale-vestibolo-cortile, dove sullo sfondo, in prospettiva, si eleva una scala: questa è aperta ed impostata in tre sequenze di archi con aperture sfalsate che coincidono con le rampe. I quattro pilastri della scala sono decorati da lesene con capitelli in stucco che s'ispirano al fogliame, mentre le tre aperture maggiori hanno una sporgenza in piperno che funge da balcone.

Sotto le aperture centrali ci sono cartigli in stucco utilizzati come decorazioni.

Il palazzo Mastellone (o Mastelloni) è un monumentale palazzo situato a Napoli, in piazza Carità

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Il palazzo, di cui abbiamo testimonianza già nel 1566 nella mappa Lafrery, era inizialmente proprietà di più persone, tra le quali i Mastellone, principi di Salza Irpina, che si attestano nel palazzo a partire dal 1687 nella figura di Pietro Paolo Mastellone. Nel 1732 l'edificio fu danneggiato da un terremoto; nello stesso anno i Mastellone acquistarono tutto il palazzo e decisero di ristrutturarlo interamente in stile rococò affidando i lavori a Nicola Tagliacozzi Canale.

La fama del palazzo è dovuta al fatto dell'arresto, nel 1799, di Luisa Sanfelice, la quale abitava nel palazzo assieme al marito Andrea e che fu successivamente giustiziata.

L'impronta del Canale si nota nell'impostazione della scala nel cortile e delle decorazioni della facciata, primo su tutti il portale.

La chiesa di San Nicola alla Carità è un luogo di culto cattolico di Napoli ubicato su via Toledo, in posizione pressoché centrale tra piazza Carità e piazza Dante.

La chiesta fu affrescata dai maggiori pittori del Settecento napoletano: Francesco Solimena, Francesco De Mura e Paolo De Matteis.

Storia[modifica | modifica sorgente]

Fu fondata nel 1647, grazie a una donazione di circa 6000 ducati ai padri Pii Operai da un nobile dell'epoca, come ricompensa per la loro opera assistenziale.

La costruzione della chiesa, realizzata su un progetto di Onofrio Antonio Gisolfi, si interruppe a causa della peste che colpì la città nel 1656, per essere poi conclusa nel 1682 da Cosimo Fanzago anche grazie ai contributi del Cardinale Diego Innico Caracciolo di Martina.

Nel Settecento la facciata venne rifatta da Salvatore Gandolfo, seguendo un progetto di modernizzazione di Francesco Solimena; durante i dieci anni di presenza francese, l'espulsione dell'ordine portò la chiesa ad ospitare il Corpo del Genio; nel 1843 la struttura venne restaurata da Gugliemo Turi.

Nella chiesa furono sepolti il pittore napoletano Bernardo Cavallino e il venerabile padre Antonio Torres che, nell'ordine dei Pii Operai, operò a Napoli distinguendosi per la generosità ed il servizio dati ai malati colpiti dalla peste del 1656.[1]

Ogni anno, durante il periodo natalizio, si possono osservare storici presepi napoletani appartenenti alla chiesa in un ambiente sottostante l'edificio.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

L'interno è a croce latina con tre navate e cappelle laterali. La navata centrale è caratterizzata da una serie di affreschi a ciclo di Francesco Solimena raffiguranti la Vita di san Nicola, Virtù ed apostoli del 1696; sempre di questo artista troviamo nei lunettoni la predica di san Paolo e di San Giovanni Battista del 1697.

Spettacolare è il grande dipinto sull'entrata, San Nicola che allontana i demoni dall'albero (1712), mentre dietro l'altare maggiore trova alloggio la Morte di san Nicola (1707), ambedue di Paolo De Matteis. La zona absidale è caratterizzata inoltre da un altare maggiore in marmi policromi e commessi del 1743 eseguito da Antonio Troccola su disegno di Mario Gioffredo.

La cupola conserva invece tracce di affreschi del De Mura.

Transetto[modifica | modifica sorgente]

Un ciclo di affreschi di Alessio D'Elia caratterizza la volta; sul lato sinistro la tela d'altare è opera del Solimena, databile 1684, e raffigura la Vergine tra i santi Pietro e Paolo. Il dipinto Visitazione di Maria santissima a santa Elisabetta sulla porta della sagrestia invece è del De Mura, così come l'Adorazione dei pastori posta invece sul lato destro del transetto.

Navata sinistra[modifica | modifica sorgente]

I cappella

Vi sono collocate tre opere di Paolo De Maio: una pala d'altare raffigurante le Nozze della Vergine con san Giuseppe, una tela che rappresenta San Carlo Borromeo ed un'altra Sant'Andrea d'Avellino.

II cappella

Essendo stata edificata nel 1646, risulta questa la cappella più antica della chiesa. Sono ivi esposte opere dedicate a san Nicola di Bari: una pala d'altare seicentesca ritraente San Nicola di Bari, vescovo di Mira, un ciclo di affreschi di Nicola Maria Rossi raffigurante l'Eterno Padre, tre tele sui Miracoli di San Nicola di Francesco De Mura ed ancora del Rossi, ed infine cicli di affreschi sulla cupoletta sempre del De Mura datati 1729.

III cappella

Dedicata all'angelo custode, raffigurato nella pala d'altare di Giovan Battista Lama (allievo di Luca Giordano), la cappella ospita due tele di Pietro Bardellino: San Francesco di Paola e Sant'Apollonia.

Navata destra[modifica | modifica sorgente]

I cappella

Sulla pala d'altare vi è una Trinità di Nicola Maria Rossi, mentre sulle pareti laterali vi sono due tele di Giacinto Diano (allievo del De Mura) raffiguranti la Partenza e l'Arrivo di Tobia. Sono inoltre ospitate in questa cappella il busto seicentesco di Carlo Carafa e la maschera mortuaria in cera risalente al giorno della sua morte.

II cappella

La cappella è detta "del Crocefisso" per via del crocefisso ligneo di fine Seicento, opera di Nicola Fumo, ivi conservato. Sulle pareti laterali due tele di Leonardo Pozzolano (allievo di Francesco Solimena) raffiguranti Santa Maria Maddalena e San Giovanni Evangelista.

III cappella

La cappella, in origine dedicata a san Michele, fu dedicata nel 1773 a san Liborio. Proprio a quest'ultimo santo è dedicata la pala d'altare di Francesco De Mura. Sempre dello stesso autore, le altre due tele laterali su San Michele Arcangelo e l'Arcangelo Raffaele.

Il Palazzo Carafa di Maddaloni è uno dei principali edifici di Napoli in stile barocco; è ubicato in via Maddaloni.

Il palazzo, al 2011, sta ricevendo importanti restauri sia interni che esterni per donargli l'antico splendore.

Storia[modifica | modifica sorgente]

L'edificio fu eretto nel 1580 dal duca Cesare D'Avalos, marchese di Aragona, che ottenne in censuo un terreno di proprietà del duca Camillo Pignatelli di Monteleone denominato Biancomangiare. In un atto di vendita di un terreno datato 8 gennaio 1582 vennero evidenziati i confini del giardino del convento degli Olivetani della vicina chiesa di Sant'Anna dei Lombardi e il palazzo. Nell'aprile del medesimo anno, con lo stato avanzato dei lavori, il marchese ottenne in enfiteusi dai monaci di Monteoliveto una parte di un loro terreno chiamato Carogioiello estendendo la proprietà, che attualmente ha come limite via Tommaso Senise, anticamente detta proprio via Carogioiello. Nel 1585 fu acquisito un ulteriore pezzo dall'Arciconfraternita dei Pellegrini definendo i confini attuali del palazzo. Nella prima metà del XVII secolo fu venduto al bachiere fiammingo Gaspare Roomer.

Loggetta della terrazza superiore

In cambio della sua villa di Barra al Roomer, l'11 febbraio 1656 fu acquistato ad un'asta pubblica da Diomede V Carafa, conte di Cerreto Sannita e duca di Maddaloni, che affidò i lavori di ristrutturazione e di abbellimento all'architetto Cosimo Fanzago.

Tali lavori, che si protassero sin oltre il 1710, videro impegnati anche il marmoraro e piperniere Pietro Sanbarberio alla realizzazione del portale e i pittori Micco Spadaro e Giacomo del Po. Gli interventi del progetto fanziaghiano comprendono:

realizzazione del porticato antistante l'ingresso;

ampliamento della scala principale che assume la struttura attuale;

ampliamento del secondo piano ed elavazione del terzo con opere strutturali notevoli come il rinforzo delle fondamenta ad oltre 17 metri di profondità;

realizzazione del portale;

ampliamento della Sala Maddaloni e del loggiato in marmo;

trasformazione delle finestre in balconi;

copertura delle preesistenti strutture con intonaci e stucchi;

collegamento idrico con l'acquedotto della Bolla.

Tra il 1766 e il 1770 furono intrapresi nuovi lavori di ridecorazione ed altri ambienti furono affrescati da Fedele Fischetti.

Il palazzo appartenne ai Carafa di Maddaloni fino al 21 novembre 1806, quando Diomede Marzio Paceco Carafa, sovraccarico di debiti, fu costretto a vendere la proprietà. L'immobile venne diviso in quattro proprietari, oltre al principe Francesco Saverio Carafa di Columbrano che ottenne la sala Maddaloni. I proprietari erano:

il principe Monaco di Araniello;

il conte Garzilli che vi realizzò la scala d'accesso al suo appartamento;

la duchessa Caetani di Miranda;

il Cavalier Del Prato.

Nell'XIX secolo furono effettuati ulteriori lavori di trasformazione con la realizzazione della scala sussidiaria del conte Garzilli, la costruzione di un passetto coperto al terzo piano e il nuovo collegamento idrico con l'acquedotto del Carmignano.

Nel palazzo, come testimonia una lapide nell'angolo tra via Maddaloni e via Toledo, ebbe sede la Suprema Corte di Giustizia, di cui Raffaele Conforti era uno degli illustri membri. Sempre una lapide testimonia che per un breve periodo visse nel palazzo Luigi Miraglia ed ancora un'altra ricorda che visse e morì Leopoldo Rodinò.

Nel 1939, con la nuova legge che protegge il patrimonio Architettonico e Culturale Nazionale, fu vincolato. Durante la seconda guerra mondiale fu gravemente danneggiato con due bombe che colpirono il lato su via Senise e il cortile, ma le parti crollate furono ricostruite senza alcuna osservazione alle regole del restauro. Il terremoto del 1980 creò ulteriori danni.

Il palazzo, dal giugno 1982, come altre strutture di gran valore storico ed artistico presenti in città, è oggetto di un lento restauro conservativo, che dura da 25 anni.[1] Un caso analogo, ricordiamo che si è verificato nella non lontana chiesa dei Girolamini; essa, aperta solo di recente, è stata chiusa, per interventi di ristrutturazione, nel 1980: tuttavia il restauro della volta dorata non risulta ancora completato. Nel 2010 sono state avviate le operazioni di restauro del palazzo.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

Interni

Il palazzo occupa un intero isolato posto tra due vie di notevole importanza, via Toledo e via Sant'Anna dei Lombardi, con due vicoletti che collegano le due arterie principali: via Tommaso Senise e via Maddaloni. La struttura presenta una planimetria irregolare, dovuta alle successive compravendite dei terreni e delle aggiunte realizzate in corso d'opera.

La facciata principale prospetta su via Maddaloni, è caratterizzata da un fastoso portale in marmo e piperno. Questo è costituito da un arco d'ingresso a tutto sesto che ospita una rosta lignea del Seicento; ai lati del portale di ergono coppie di paraste tuscaniche, sovrapposte in bugne alternate che poggiano su basamenti rigonfiati e sovrapposti, che a metà altezza sono interrotte da una fascia che si ricongiunge alle imposte dell'arco d'ingresso. Le paraste, ai lati, sono accompagnate da volute che terminano in fastigi ed inoltre sono sormontate dalla trabeazione interrotta dall'apparato scultoreo in cartigli e da una edicola tonda cava. La macchina scenografiaca è conclusa da un timpano aperto che lambisce il balcone del piano nobile.

Resti di una fontana

L'androne è caratterizzato dalla notevole altezza che comprende anche il piano ammezzato; la volta è affrescata. Il cortile, di pianta rettangolare, presenta sulla destra la rampa di scale a due luci, amaramente deturpata dalla gabbia dell'ascensore; sul fondo c'è il porticato secentesco che ha perso, parzialmente, l'apparato decorativo in stucco mostrando gli interventi eseguiti con il calcestruzzo sugli stipiti delle finestre. Al piano nobile è presente un loggiato-serliana in marmo di ordine tuscanico concluso dalla balaustra del terrazzo superiore. Su via Senise si apre un corridoio con arcate che attualmente risulta chiuso da superfetazioni varie.

Gli interni sono caratterizzati da ampie sale che attualmente risultano frazionate per la creazione di appartamenti. Le diverse sale sono affrescate da alcuni dei più importanti pittori della scena barocca e rococò, quali Fedele Fischetti, Giacomo del Po e Micco Spadaro. Nell'androne ci sono i resti di una fontanella in marmo.

La chiesa di Santa Maria ad Ogni Bene dei Sette Dolori si erge a Napoli, in una zona in cui c'è una singolare veduta di Spaccanapoli; infatti, questa particolare posizione veniva chiamata del "belvedere".

Storia e architettura[modifica | modifica sorgente]

L'origine dell'edificio risale al 1411, quando venne eretta una cappella rurale extra moenia dedicata a Santa Maria ad Ogni Bene. Nel 1516 venne costruito il convento ad opera dei frati Serviti e alla fine del secolo, nel 1583, venne ampliato e parzialmente ricostruito ad opera del confratello architetto Giovanni Vincenzo Casali (Firenze, 1539 – Coimbra, 21 dicembre 1593); nel medesimo anno fu istituita la Congrega del Crocifisso e successivamente, nella chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori, venne fondata una parrocchia che divenne, dopo l'abbandono dei frati Serviti, la casa dei Pii Operai.

I Pii Operai occuparono il convento per trentatré anni, fino a quando, nel 1630, venne fondata la chiesa di Santa Maria Ognibene ad opera del nobile Francesco Magnocavallo; contemporaneamente i Serviti ritornano alla casa originaria.

Un ulteriore ampliamento risale al 1640 su disegno dell'ingegnere Giovanni Cola Cocco; altre trasformazioni si registrano nel primo trentennio del XVIII secolo con i lavori della sagrestia (1703), l'esecuzione della cappella della duchessa di Maddaloni con marmi policrimi e stucchi (1706) ed infine l'intervento del 1731-1735, quando la chiesa fu ristrutturata in chiave barocca da Nicola Tagliacozzi Canale. Al 1735 risalgono la scala esterna, eseguita dal piperniere Antonio Saggese, e la cappella di Sant'Alberto, con altare di Antonio Basso e statue di Domenico Antonio Vaccaro.

Nel 1732 Giovan Battista Pergolesi divenne mastro della cappella e nel 1752 fu messo in opera il pavimento in maiolica.

Nel XIX secolo il convento fu soppresso ed i frati serviti espulsi; con il ripristino della parrocchia, nel 1849 la chiesa fu dichiarata basilica da papa Pio IX.

Dagli ultimi decenni del XX secolo il convento ospita abitazioni civili e mostra i danni del sisma del 1980. Inoltre, il complesso presenta alterazioni dovute all'aggiunta di volumi recenti. Infatti risultano murate due finestre della navata poste a destra; invece, il convento presenta un chiostro formato da tre arcate per lato, a due ordini, che risulta frazionato e danneggiato.

La chiesa[modifica | modifica sorgente]

La chiesa presenta una semplice facciata a due ordini preceduta da una scala in piperno e dal portale risalente alla fine del XVI secolo. L'interno è ad aula con presbiterio e cupola; le cappelle laterali, quattro per lato, presentano il profilo degli archi molto inusuale in stucco, così come nella volta.

Di discreta qualità è l'altare maggiore del XVIII secolo, con pregevole portella del ciborio; ai lati sono poste due rampe che raggiungono il simulacro della Vergine. I dipinti sono di Carlo Malinconico, Paolo De Matteis, Giacomo del Po, Nicola Maria Rossi, Domenico Vaccaro, Silvestro Buono e Francesco Saverio Altamura. Nella sagrestia sono conservati resti di affreschi e un lavabo marmoreo con rivestimento maiolicato attribuito ad Igazio Giustiniani.

Dal 1678 la chiesa è custode della salma di Cosimo Fanzago, anche se restano dubbi sulla reale presenza del corpo dell'artista

Il Complesso della Santissima Trinità delle Monache è uno dei più vasti complessi abbaziali di Napoli: esso comprende anche la monumentale chiesa della Santissima Trinità delle Monache. È locato nel centro antico della città.

La struttura fu costruita nel quartiere di Montecalvario e confina con la Certosa di San Martino, il Castel Sant'Elmo e il Complesso di Santa Lucia Vergine al Monte. La fondazione della struttura si deve alla nobildonna Vittoria de Silvia (XVII secolo). Ha assunto vari ruoli, da quelli religiosi a quelli pubblici e, prima dell'Unità d'Italia, sotto Giuseppe Bonaparte, assunse anche la funzione di ospedale militare.

Il complesso, attualmente, è un insieme eterogeo caratterizzato da edifici di valore architettonico e storico; non sono mancate le costruzioni recenti, che hanno danneggiato, e, in alcuni casi, alterato l'impianto. L'intera struttura ha una superficie complessiva di circa 25.000 m² (la superficie utile di 9.000 m2, più altri 16.000 m2 distribuiti in aree verdi e cortili).

Nella parte bassa dell'edificio, si trova la chiesa della Santissima Trinità delle Monache.

Cenni storici[modifica | modifica sorgente]

Tutt'oggi, lungo la via Trinità delle Monache, vi è il grande edificio che ospitò l'Ospedale militare, risalente al 1536. Venne eretto per volere di Donna Vittoria de Silvia, dopo che riuscì ad avere il permesso di fondazione da papa Clemente VIII; l'edificio, prima di essere usato a scopi militari, fu adibito a convento. La struttura religiosa era circondata da vasti giardini; piacque molto alle famiglie aristocratiche dell'epoca.

L'inizio della costruzione del complesso risale al 1607, con la trasformazione in monastero del Palazzo Sanfelice su progetto dell'architetto Francesco Grimaldi. Seguendo il progetto del Grimaldi, cinque anni dopo furono eretti i dormitori ad opera dei mastri murari ferraresi Giovanni Giacomo De Marino e Giovanni Laurenzio; dopo nove anni di lavori il cantiere passò alla direzione di Giovan Giacomo Di Conforto e nel 1617 furono terminati buona parte delle strutture del convento, mentre la chiesa, eretta su progetto del Grimaldi, venne terminata nel 1620. Nel 1623 il cantiere passò a Cosimo Fanzago, che realizzò le trasformazioni degli esterni e la scala; inoltre vennero costruiti il vestibolo e il portale d'ingresso incassato nell'arco a tutto sesto, e nel 1629 fu completata anche la cupola.

Nel 1808 il complesso venne soppresso ed adibito ad ospedale militare, fino al 1992, quando i militari lasciarono il monastero. Tuttavia, a causa della scarsa manutenzione, nel 1897 si registrano i crolli della volta e della cupola, elementi che vennero sostituiti con una modesta copertura a falde. Tra il XIX e il XX secolo i corpi di fabbrica furono alterati con l'aggiunta di nuovi volumi.

Oggi la chiesa e l'omonimo complesso sono interessati da una vasta opera di riqualificazione.

La chiesa[modifica | modifica sorgente]

L'esterno[modifica | modifica sorgente]

L'esterno è caratterizzato dalla semplice facciata in piperno che contrasta con il marmo bianco del portale. L'accesso è servito da una scala curvilinea ideata da Cosimo Fanzago, che divenne il modello di una serie di analoghe realizzazioni per altri edifici cittadini (alcuni esempi sono andati distrutti per l'allargamento di nuove strade come per la chiesa di Santa Teresa a Chiaia); di ottima fattura è la balaustra, smembrata di recente.

Una raffigurazione del Baratta del 1629 mostra l'ingresso al complesso postro nelle mura conventuali, protetto, a pochi metri, dalla porta delle mura vicerali; invece, un rilievo topografico dell'ingegnere Onofrio Tango, datato 1646, raffigura la chiesa che dà accesso direttamente sulla strada, con un vestibolo, che si sviluppa lungo l'asse longitudinale, che funge da raccordo tra il tempio e l'ingresso. Da ciò si osserva anche la semplicità della facciata, che non presenta un ordine superiore.

L'interno[modifica | modifica sorgente]

L'interno, a croce greca, rappresenta una variazione barocca sul tema della pianta centrale. Ai lati della navata si aprono quattro cappelle angolari, mentre i transetti sono speculari.

Sono conservate opere di Battistello Caracciolo (Immacolata con i Santi Francesco e Antonio), dello Spagnoletto, di Giovanni Luigi Rodrigo e Fabrizio Santafede, mentre gli affreschi sono attribuiti a Giovanni Bernardino Siciliano. Le sculture e gli ornamenti furono realizzati sotto la direzione di Cosimo Fanzago; tra questi spiccano alcune porte, il pulpito e il pavimento. Tra gli scultori attivi sotto la direzione di Fanzago giova ricordare lo scalpellino Andrea Lazzari e Vitale Finelli con Domenico Agliani in qualità di marmorari (di questi ultimi è la cappella maggiore presso l'abside).

Alcune di queste opere sono state portate in altri musei o complessi cittadini. Come per esempio la Sacra famiglia e Santi (1623-1625) del Ribera, oggi presso il palazzo reale di Napoli.

Il Chiostro della Trinità delle Monache è un chiostro monumentale di Napoli situato in via Trintà delle Monache.

Costruito nella prima metà del Seicento su disegno di Francesco Grimaldi e per volontà di Vittoria de Silva, fu abitato dall'ordine fino alla prima soppressione. Nel 1806 fu adibito a Ospedale militare, mentre la chiesa fu chiusa al culto.

L'interno, di notevoli dimensioni, ha solo un lato porticato da venttotto arcate, mentre i tre lati non sono circondati da alcuna struttura e quindi è possibile godere del maestoso belvedere. Esso poteva contenere un piccolo lago artificiale, una fontana e un rigoglioso giardino.

La basilica dello Spirito Santo è una basilica di Napoli sita in piazza Sette Settembre, una delle piazze che si trovano lungo il tracciato di via Toledo e un tempo definita per la chiesa "largo dello Spirito Santo", su cui affaccia anche palazzo Doria d'Angri.

Storia[modifica | modifica sorgente]

Nel 1562 fu edificata una piccola chiesa e due conservatori, presso il palazzo del duca di Monteleone, dalle congreghe dei Bianchi (Real Compagnia ed Arciconfraternita dei Bianchi dello Spirito Santo) e dei Verdi, così chiamate per via degli abiti indossati. Tra il 1572 e il 1576 furono eseguiti lavori di ampliamento sotto la direzione di Cafaro Pignaloso e Giovanni Vincenzo Della Monica; i lavori durarono fino al primo quarto del XVII secolo sotto la direzione di Simone Moccia, autore del portale.

Nel 1748, Nicola Tagliacozzi Canale disegnò la sacrestia e nel 1754 Luigi Vanvitelli scelse, fra quattro progetti, quello di Mario Gioffredo che venne iniziato solo nel 1758. Il progetto di Gioffredo mirava alla conservazione del portale in facciata del primo Seicento e delle cappelle laterali del Cinquecento, mentre rinnovava l'invaso centrale, con la costruzione di una cupola più alta in grado di illuminare la navata. I lavori vennero ultimati nel 1775 e l'edificio venne rilevato, insieme ai conservatori e al convento, nella Mappa del Duca di Noja; il raffronto della cartografia con quella del secolo successivo mette in evidenzia un'area non completamente edificata, come invece risulta nella pianta dello Schiavoni, dove si notano nuovi fabbricati attorno al convento.

Nel 1929 furono condotti i restauri riguardanti la chiesa. Nel dopoguerra il conservatorio omonimo fu demolito parzialmente e rifatto da Marcello Canino, alterando il rapporto tra preesistenze e nuove edificazioni. Nel 1990 furono condotti restauri sia nella chiesa che nei locali annessi a seguito del sisma del 1980.

È stata donata alla comunità del Rinnovamento carismatico cattolico, chiamata Comunità Gesù Risorto.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

La facciata è sobria ed imponente; la domina una delle più eleganti cupole della città.

L'interno della chiesa è formato da un'unica vasta navata, con cupola e tribuna. Alla destra e alla sinistra dell'ingresso, sono da ammirare i due monumenti funebri di Ambrogio Salvio e di Paolo Spinelli (opere scultoree di Michelangelo Naccherino). Ulteriori opere di Naccherino sono locate anche nella quarta cappella.

Il tempio è inoltre arricchito da dipinti di Francesco De Mura (abside) e Fedele Fischetti (altare del transetto destro), da citare anche i pregevoli dipinti di Fabrizio Santafede.

Il Palazzo Doria d'Angri è un palazzo di Napoli situato in piazza Sette Settembre (già largo dello Spirito Santo), lungo via Toledo.

Cenni storici[modifica | modifica sorgente]

Fu eretto su commissione di Marcantonio Doria su precedenti abitazioni cinquecentesche acquistate dal principe nel 1749 una e nel 1755 l'altra. Nel 1760 venne demolito il complesso più grande preesistente, ma in quell'anno il Doria morì e l'idea di realizzare il palazzo di famiglia passò al figlio Giovanni Carlo che incaricò del progetto l'ormai anziano Luigi Vanvitelli.

Dopo la morte del Vanvitelli i progetti passarono a Ferdinando Fuga, a Mario Gioffredo e infine s Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi, che aggiunse ulteriori modifiche.

Nel 1778 i lavori si fermarono poiché una parte del fabbricato in costruzione usciva lievemente dal lotto originario: ciò causò una lite con il marchese Polce che aveva un terreno in fitto in quel punto, ma il Doria

ottenne quel suolo per il completamento del prospetto del palazzo e per apporvi le quattro colonne del portale.

Durante la costruzione si ebbe l'idea di realizzare anche un portale laterale che dava su via Toledo, ma i lavori si fermarono alla sola progettazione da parte dell'ingegnere Gaetano Buonocore. Di fatto un secondo ingresso fu posto invece nella facciata posteriore dell'edificio, di fronte al monumentale palazzo Carafa di Maddaloni.

Nel 1860 il palazzo divenne famoso perché il 7 settembre Giuseppe Garibaldi annunciò dal balcone del medesimo edificio l'annessione del Regno delle Due Sicilie a quello d'Italia (da qui il nome della piazza in cui è sito il palazzo). Il dipinto che riprende la scena dell'ingresso del generale italiano in città, l'Ingresso di Garibaldi a Napoli, è esposto presso il museo Civico di Castel Nuovo di Napoli.

Il complesso fu parzialmente danneggiato durante la seconda guerra mondiale, soprattutto nella parte superiore della facciata, perdendo così sei delle otto sculture che abbellivano l'edificio. Le decorazioni delle sale interne, invece, si sono in gran parte salvate.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

Il palazzo ha una pianta trapezoidale, con la facciata rivolta verso il largo; la facciata è in marmo bianco ed è scandita dalla presenza del portale affiancato da colonne tuscaniche che sorregono, insieme a dei possenti mensoloni, l'aggettante balcone.

Il piano superiore è scandito dalla presenza di semicolonne e lesene ioniche che inquadrano tre finestre con cornici marmoree; la balaustra, che oggi risulta danneggiata, ospitava sei statue e lo stemma dei Doria (oggi rimangono solo due statue a destra e un pezzo di ghirlanda dello stemma). Inoltre sono presenti anche le modeste facciate laterali che dispongono su entrambi i lati di finestre con timpani alternati.

La facciata posteriore, che fronteggia il palazzo Carafa di Maddaloni, ha un portale modesto che fu chiuso, poco dopo la sua costruzione, a causa della diatriba tra i Carafa e i Doria sul passaggio dei carri.

I cortili interni sono due: uno di forma esagonale, simile concettualmente a quello ottagonale di palazzo Serra di Cassano, ma più stretto ed elevato nella forma; l'altro cortile invece è di forma rettangolare. Questi due spazi aperti sono collegati tra loro da un passaggio con volte, mentre collegano a loro volta i due rispettivi ingressi tramite androni. L'intera prospettiva risulta essere a mo' di "cannocchiale ottico", tecnica architettonica tipica del Vanvitelli, riscontrabile anche in altre sue opere come per esempio nei giardini della reggia di Caserta.[1]

Gran parte dell'interno è impreziosito con decorazioni vanvitelliane, affreschi e tele di Fedele Fischetti, con la collaborazione di Alessandro Fischetti e Costantino Desiderio, al quale è attribuita l'Aurora posta nel boudoir, ospitante anche le cariatidi in stucco che furono realizzate dallo scultore Angelo Viva. Gli ambienti settecenteschi integri sono il gabinetto degli specchi, la cui camera da letto ospita tre dipinti di Francesco Solimena, e la galleria ellittica.[1]

Infine, ulteriori interventi furono fatti da Antonio Francesconi, adattando gli ambienti all'uso abitativo.

Nell'insieme, il palazzo si presenta con uno stile collocabile tra il tardobarocco ed il neoclassico.[1]

La chiesa di Santa Maria Materdomini è una delle chiese monumentali di Napoli; è ubicata a margine della piazzetta Fabrizio Pignatelli.

Venne fondata nel 1573 dal cavaliere gerosolimitano Fabrizio Pignatelli, Balì di Sant'Eufemia e fratello del secondo duca di Monteleone. La chiesa venne costruita lo stesso anno in cui fu eretta la vicina struttura ospedaliera dei "Pellegrini" e, alla morte del fondatore, la cappella venne ceduta all'Arciconfraternita della Santissima Trinità, che già gestiva il nosocomio.

Il disegno della facciata è attribuibile all'architetto Giovanni Francesco Di Palma. Sul portale d'ingresso, originariamente, era collocata una statua della Madonna con Bambino di Francesco Laurana (XV secolo), attualmente disposta sull'altare maggiore.

L'interno, composto da un'unica navata, è stato sottoposto a rimaneggiamenti rilevanti durante il XIX secolo. Nella chiesa è collocato il Monumento funebre di Fabrizio Pignatelli, commissionato nel 1590 a Michelangelo Naccherino e completato nel 1609. Sulla sinistra è presente un dipinto del 1721, raffigurante la Vergine con i Pellegrini e la Carità, mentre sul lato opposto è esposta una tela di Nicola Malinconico (la Vergine e i Santi Gennaro e Francesco di Paola). Nel tempio è ospitato anche il Monumento funebre di Maria Luisa Colonna di Stigliano, ottocentesca di Francesco Liberti.

La chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini è una chiesa di Napoli, ubicata in via Portamedina, nel centro storico della città

Cenni storici[modifica | modifica sorgente]

L'edificio di culto e l'omonimo ospedale sono stati fondati dal cavaliere gerosolimitano Fabrizio Pignatelli di Monteleone nel XVI secolo; in seguito, il complesso, venne affidato alla Confraternita della Santissima Trinità.

L'ospedale ivi annesso, la cui struttura fu disegnata da Carlo Vanvitelli, fu ampliato nel 1769 e con l'occasione fu realizzato anche l'ampliamento della chiesa, che assunse così l'aspetto che mostra ancora oggi.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

La facciata è caratterizzata dalle pregevoli statue in stucco di Angelo Viva, raffiguranti San Filippo Neri e San Gennaro e riproduce quella originale di epoca cinquecentesca.

L'architettura del tempio è alquanto singolare; la pianta è formata da due ottagoni uniti da un rettangolo, con il primo ottagono che assume la funzione di navata ed il secondo che funge da oratorio, mentre il rettangolo è il presbiterio.

Anche sull'altare maggiore vi sono opere in stucco del Viva, con ai due lati altrettanti dipinti di Paolo De Matteis, entrambi raffiguranti San Giuseppe con il Bambino, mentre altri dipinti sono attribuiti a pittori della scuola di Giuseppe Bonito.

Vero e proprio vanto della chiesa è l'elegante coro del 1754, opera progettata da Giovanni Antonio Medrano con una ricchissima decorazione, anch'essa in stucco.

Da citare è anche il dipinto che alloggia sul primo altare a sinistra, opera di Onofrio Palumbo che raffigura San Gennaro che allontana i fulmini da Napoli. Infine sono interessanti le lignee del seicento conservate nell'Oratorio. Il complesso, infatti, oltre alla chiesa principale in questione, ricordiamo che possiede anche altre due chiese, il già citato oratorio della Congregazione della Trinità dei Pellegrini ed una cappella con altare maggiore in marmi policromi.

Nella chiesa è inoltre presente un busto del consigliere Ferrante Maddalena, primo consigliere del re, che è ivi sepolto.

La chiesa di Santa Maria di Montesanto e l'annesso monastero vennero costruiti a Napoli da una comunitàdi Carmelitani siciliani originari di Montesanto.

La costruzione venne affidata all'architetto Pietro De Marino, ma i lavori vennero completati da Dionisio Lazzari, a cui si deve la cupola (1680). Gli stucchi della facciata, ricreati nel XIX secolo, sono di Angelo Viva e raffigurano la Madonna del Carmelo.

L'interno ha una pianta a croce latina, a navata unica con otto cappelle laterali. Sugli altari delle prime cappelle a sinistra e a destra sono collocate due tele di Paolo De Matteis, datate 1693, con San Michele Arcangelo e il Miracolo di Sant'Antonio. Nel braccio sinistro del transetto vi è il Crocifisso tra la Madonna e San Giovanni, un gruppo ligneo settecentesco di Nicola Fumo. La terza cappella a sinistra, dedicata a Santa Cecilia, fu affidata per lungo tempo alle cure dei Maestri di Musica della Real Cappella Palatina.

All'interno è sepolto il musicista palermitano Alessandro Scarlatti, morto nel 1725.

Sull'altare vi è un pregevole dipinto di Giuseppe Simonelli raffigurante Santa Cecilia.

Il Palazzo Spinelli di Tarsia è uno dei palazzi monumentali di Napoli, ubicato in piazzetta Tarsia.

Il palazzo fu eretto, anche se solo parzialmente, su commissione di Ferdinando Vincenzo Spinelli, principe di Tarsia: la costruzione prevedeva il rifacimento di un precedente fabbricato, documentato da Carlo Celano, e il progetto fu affidato a uno dei più noti architetti napoletani del Settecento, Domenico Antonio Vaccaro.

L'edificio, in origine, occupava una vasta zona alle spalle della chiesa di San Domenico Soriano.

Nella struttura, secondo un disegno assonometrico redatto dallo stesso Vaccaro, si nota un fastoso ingresso che dà accesso a due scenografiche rampe a tenaglia per le carrozze con al centro una scalinata, dopo le quali ci si trovava davanti al primo corpo di fabbrica, che racchiude tre archi a sesto ribassato. Da questo si passa all'ampio cortile rettangolare, dove prospetta il maestoso palazzo elevato, a due piani con pianterreno.

La grande area verde del palazzo intendeva rifarsi ai giardini pensili di Babilonia, ma essa è oggi quasi del tutto scomparsa. L'intera struttura, dall'Unità d'Italia a oggi, non è mai stata al centro di un accurato piano di restauro e di salvaguardia, teso alla sua rivalorizzazione.

Il mercato di commestibili[modifica | modifica sorgente]

Con l'estinzione della nobile famiglia degli Spinelli, sul terreno del giardino del palazzo fu stabilito un mercato di commestibili. Realizzato tra il 1841 e il 1845 dall'architetto Ludovico Villani[1], su commissione di Giuliano de Fazio che fece realizzare un fabbricato che affaccia su salita Tarsia, il mercato aveva l'ingresso minore su via Tarsia.

Ma l'idea del mercato non ebbe successo e i mercanti rifiutarono i nuovi spazi che furono destinati così a diversi impieghi: prima nel 1853 l'esposizione delle Manifatture del Regno, poi dal 1856 il Reale Istituto d'Incoraggiamento di Napoli (in maniera definitiva, infatti aveva avuto a disposizione l'edificio già dal 1851). Poi ha accolto il cineteatro Bracco, dedicato al commediografo Roberto Bracco, ospitato ancora oggi, mentre il palazzo fu destinato a condominio privato.

La chiesa di Sant'Antonio a Tarsia è una chiesa monumentale di Napoli; si erge nell'omonima piazzetta.

La struttura venne edificata nel 1550 sul terreno donato da Evangelista Perrone al capitolo di San Giovanni in Laterano affinché venisse eretta una primitiva chiesa dedicata a Santissima Maria del Soccorso. In seguito, il suolo dove fu eratta questa chiesa venne concesso ai padri francescani, i quali, nel 1559 vi eressero un nuovo convento e di conseguenza un nuovo tempio; quest'ultimo era dedicato allo Spirito Santo. La chiesa ben presto venne soprannomita come "Spiritosantiello" poiché, nelle sue vicinanze si ergeva già una basilica sotto questo nome.

L'immagine sacra di Sant'Antonio di Padova, posta all'interno, indusse al popolo ad attribuirle la denominazione odierna.

La chiesa ha subito rilevanti rimaneggiamenti nella prima metà del XVIII secolo. Gli stucchi sulla facciata sono di Angelo Viva; la pregevole statua marmorea di Sant'Antonio è stata creata da Francesco Pagano. Il pavimento maiolicato del 1739 è opera di Donato Massa, mentre nella sacrestia sono conservate ulteriori opere: La Sacra Famiglia di Andrea Vaccaro e La Pentecoste di Andrea Miglionico.

La chiesa di San Michele Arcangelo o San Michele a Port'Alba è una delle quattro chiese monumentali che si affacciano su piazza Dante a Napoli.

Storia[modifica | modifica sorgente]

La chiesa, in origine, era chiamata Santa Maria della Provvidenza. La sua costruzione è databile circa 1620, ma fu rifatta nella prima metà del XVIII secolo da Domenico Antonio Vaccaro e espansa da Giuseppe Astarita; l'interno dell'edificio rappresenta uno dei maggiori capolavori dell'artista del primo Settecento.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

Di notevole interesse è la facciata in stile rococò a due ordini: al primo due coppie di lesene composite e al secondo due coppie di paraste con rigonfiamento alla base che incorniciano un diaframma polilobato, su di esso è posto un balconcino.

L'interno, a pianta allungata, conserva dipinti di Giuseppe Marullo (San Michele) e dello stesso Vaccaro (Sant'Irene e Sant'Emidio). La volta presenta affreschi ottocenteschi di Lucio Stabile.

Nella sagrestia settecentesca sono conservati, oltre agli arredi dell'epoca, anche un lavabo marmoreo datato 1758, opera di Gaspare Lamberti con la supervisione di Nicola Tagliacozzi Canale; l'altare lavorato dal Canale, del 1768; due inginocchiatoi in radica di noce opera di Nunzia Tancredi che presentano incastonati due ovali in marmo raffiguranti l'Adorazione dei pastori e l'Adorazione dei magi, risalenti al 1772.

La chiesa è stata riaperta nei primi di ottobre del 2010.

Piazza Dante è una delle più importanti piazze di Napoli ed è sita nel centro storico cittadino.

Costituisce l'inizio di via Toledo e, tramite l'accesso a Port'Alba sul lato nord della piazza, la stessa confluisce lungo il Decumano Maggiore.

Storia e descrizione[modifica | modifica sorgente]

In origine era detta Largo del Mercatello, poiché vi si teneva, fin dal 1588, uno dei due mercati della città, differenziandosi con il diminutivo mercatello da quello più grande ed antico di piazza del Mercato.

Piazza Dante negli anni cinquanta; all'epoca, la piazza era ancora aperta al traffico ed era capolinea di numerose linee d'autobus

Fino alla metà dell'Ottocento sorgevano a nord l'edificio delle fosse del grano e a sud le cisterne dell'olio, per secoli i principali magazzini di derrate della città; inoltre vi gravitano uffici, ospedali, istituzioni culturali e rinomatissimi bar.

Ulteriore importanza fu l'apertura "ufficiale" di port'Alba nel 1625, ufficiale perché la popolazione aveva creato nella muraglia un pertuso abusivo per facilitare le comunicazioni con i borghi, in modo particolare con quello dell'Avvocata che si stava rapidamente ingrandendo.

La piazza assunse l'attuale struttura nella seconda metà del Settecento, con l'intervento dell'architetto Luigi Vanvitelli; il "Foro Carolino" commissionatogli doveva costituire un monumento celebrativo del sovrano Carlo III di Borbone. I lavori durarono dal 1757 al 1765, e il risultato fu un grande emiciclo, tangente le mura aragonesi, che visto orizzontalmente inglobava Port'Alba a ovest, e affiancò la chiesa di San Michele ad est.

Il monumento a Dante

L'edificio, con le due caratteristiche ali ricurve, vede in alto la presenza di ventisei statue rappresentanti le virtù di Carlo (tre sono di Giuseppe Sanmartino, le altre di scultori carraresi), e al centro una nicchia che avrebbe dovuto ospitare una statua equestre del sovrano (che non fu mai realizzata), oltre a un torrino d'orologio, di epoca successiva.

Dal 1843 la nicchia centrale costituisce l'ingresso al convitto dei gesuiti, divenuto nel 1861 Convitto nazionale Vittorio Emanuele II, ospitato nei locali dell'antico convento di San Sebastiano e di cui sono ancora visibili i due chiostri (la cupola della chiesa è crollata nel maggio 1941); il più piccolo e antico è rara testimonianza della Napoli tra età romanica e gotica, il maggiore conserva la strutture cinquecentesche.

Al centro della piazza si erge una grande statua di Dante Alighieri, opera di Tito Angelini inaugurata il 13 luglio 1871 (data dalla quale la piazza è intitolata al sommo poeta) e collocata su un basamento disegnato dall'ingegner Gherardo Rega. Oggi ai suoi lati, più defilate, ci sono le vetrate delle uscite della linea 1 della metropolitana. La piazza è stata ridisegnata e riarredata proprio in occasione dei lavori per la metropolitana, conclusi nel 2002. L'intero emiciclo è divenuto così area pedonale.

Ancora, presso la piazza sono presenti quattro monumentali chiese: in senso antiorario da nord quella dell'Immacolata degli Operatori Sanitari, di Santa Maria di Caravaggio, di San Domenico Soriano e di San Michele a Port'Alba.

Sul lato opposto all'emiciclo sono situati oltre alle chiese di Santa Maria di Caravaggio e San Domenico Soriano anche i rispettivi ex-conventi: il primo divenne sede dell'istituto per ipovedenti fondato da Domenico Martuscelli (ricordato con un suo busto scolpito nel 1922 da Luigi De Luca e collocato nei giardinetti della piazza) per poi diventare sede della Seconda Municipalità di Napoli. Il secondo convento è oggi sede degli uffici anagrafici del Comune.

Tra i due ingressi è situato il palazzo Ruffo di Bagnara con annessa cappella privata mentre sul lato sinistro di Port'Alba il palazzo Rinuccini. Poco distante dalla piazza al numero civico 7 di vico Luperano, la villa Conigliera, quest'ultima fatta edificare durante l'epoca aragonese.

Nel settembre 2011, la piazza è stata completamente inibita al traffico privato per scoraggiare l'uso dell'automobile in città, unitamente ad un tratto di via Duomo, e ambedue le strade sono divenute corsie preferenziali ad uso esclusivo dei mezzi pubblici.

Port'Alba è un'antica porta della città di Napoli, ubicata sul lato sinistro dell'emiciclo di piazza Dante (luogo anticamente detto largo Mercatello).

Cenni storici[modifica | modifica sorgente]

Port'Alba prende il nome da Don Antonio Álvarez de Toledo, duca d'Alba e discendente di Don Pedro de Toledo, viceré spagnolo che la fece erigere nel 1625.

La porta fu aperta nell'antica murazione angioina, in sostituzione di un torrione e per agevolare il passaggio della popolazione che aveva praticato per comodità di passaggio da una zona all'altra della città, un'apertura posticcia nel muro.

Fu l'architetto Pompeo Lauria a ricevere la commissione dal Duca d'Alba per la costruzione dell'opera e decise di aprire un passaggio nel torrione che fu chiamato appunto Port'Alba (sebbene ben diverso dalla porta attuale) e fu decorato con tre stemmi: uno di Filippo III, uno della città di Napoli e uno del Viceré.

Nel 1656 il pittore Mattia Preti decorò la porta con alcuni affreschi, con raffigurazioni della Vergine con San Gennaro e San Gaetano e la scena dei moribondi appestati, mentre la collocazione della statua di San Gaetano, proveniente dalla demolita Porta dello Spirito Santo, è del 1781.

Nei pressi di Port'Alba, si sono consumati, nei secoli, diversi fatti di cronaca. Qui, il 26 marzo 1668, fu assassinato Cesare d'Aquino (nato nel 1615), principe di Pietrelcina.

I lavori di rifacimento e di ampliamento che resero la porta così come appare attualmente, furono eseguiti nel 1797 e l'iscrizione che vi fu collocata che menzionava Ferdinando IV di Borbone, fu demolita durante i fatti della Repubblica Napoletana del 1799.

La chiesa di San Domenico Soriano è una delle chiese monumentali di Napoli ubicata in piazza Dante.

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Cenni storici[modifica | modifica sorgente]

Il tempio e l'annesso convento furono eretti grazie a un donativo fatto al domenicano Tommaso Vesti da Sara Ruffo di Mesurica, la nobildonna che lo riscattò dai Turchi. Con quei fondi i Padri Domenicani calabresi acquistarono la chiesetta di Santa Maria della Salute, eretta nel 1587.

Per i rimaneggiamenti della chiesa del 1619 è molto probabile un intervento diretto da parte di Fra' Giuseppe Nuvolo. La costruzione del monastero cominciò tra 1673 ed il 1685 su progetto invece di Bonaventura Presti, a cui seguirono poi Giuseppe Caracciolo e Francesco Antonio Picchiatti. Durante il XVIII secolo venne attuato un ulteriore ampliamento grazie a Nicola Tagliacozzi Canale.

Il monastero non ebbe vita lunga e subì numerosi rimaneggiamenti sia esterni che interni, cambiando spesso destinazione d'uso. L'intero complesso finì per essere utilizzato come caserma fino al 1850. La chiesa è oggi visitabile e aperta al pubblico, il monastero ed i locali del chiostro ospitano invece alcuni uffici del comune di Napoli, II municipalità.

Descrizione[modifica | modifica sorgente]

Nel 1600, l'interno, composto da tre navate e cappelle laterali, ha ricevuto un ricco e raffinato arredo barocco su progetto di Cosimo Fanzago, che per la stessa eseguì anche l'altare maggiore. Tuttavia la chiesa fu interessata nei secoli successivi da diversi lavori integrativi. Seppure la facciata principale su piazza Dante rimane pressoché quella originaria, con pietre laviche vesuviane e con le sculture dei santi Tommaso d’Aquino (a destra) e Domenico di Guzman (a sinistra), negli interni, invece, ai lavori barocchi per lo più del Fanzago, seguirono altre decorazioni in stucco e marmo sette-ottocentesche, medesima datazione questa per tutti i cicli di affreschi della volta e delle cappelle.

Nella prima cappella sulla sinistra si trova la tomba di Alessio Falcone, decorata da opere di Giuseppe Sanmartino su disegno di Ferdinando Fuga del 1758. Nella terza cappella a sinistra è di Giacinto Diano la Vergine che presenta l'immagine miracolosa di San Domenico Soriano. Sul transetto a sinistra è collocata una tela di Luca Giordano raffigurante la Madonna del Rosario (1690); in quello di destra invece un'altra Madonna del Rosario è attribuita ad Onofrio Palumbo, mentre di Giacomo Farelli datati 1703 sono le tele dell'Annunciazione a Maria, la Visitazione dell'Angelo, la Natività, la Caduta sotto la Croce, l'Incoronazione di Spine, la Flagellazione e la Presentazione al Tempio. La volta è affrescata da Salvatore Cozzolino e Vincenzo Galloppi con le Storie di santi Francescani e Domenicani (1882), lavori questi che rimpiazzarono precedenti cicli di Mattia Preti del 1664 sulla Gloria di San Domenico di Guzman, poi andate perduti.

Altre pitture e sculture seicentesche della chiesa hanno attribuzione ignota di scuola comunque napoletana; alcuni affreschi ottocenteschi sono invece attribuiti a Bernardino Castelli, altri di mano certa sono invece di Luigi Fabron e Luigi Scorrano.

Nella chiesa trovò sepoltura il Beato Nunzio Sulprizio, le cui reliquie sono conservate nella cappella dell'Arciconfraternita della Madonna del Rosario, a destra del transetto.

Il Chiostro di San Domenico Soriano è un chiostro monumentale di Napoli ubicato in piazza Dante; l'accesso al chiostro è sia dalla piazza, tramite due imponenti portali, o dal portale situato in vico Pontecorvo.

Il chiostro fu realizzato ad opere del domenicano Fra' Tommaso Vesti che giunse in città dalla Calabria intorno agli inizi del XVII secolo. Nel 1606 ottenne una bolla dando così inizio alla realizzazione della chiesa e al chiostro.

Nella seconda metà del secolo i domenicani incaricarono all'architetto bolognese Bonaventura Presti di progettare il nuovo chiostro e di ampliare il luogo sacro. Il Presti elaborò differenti disegni, nei quali il luogo di clausura assumeva una notevole importanza, poiché veniva a rappresentare l'ambiente in cui si dovevano svolgere tutte le più importanti azioni della vita conventuale. L'architetto ipotizzò anche lo sfruttamento totale del suolo su cui si stava costruendo il monastero. Tra le proposte i monaci scelsero la soluzione che precedeva la realizzazione di un chiostro con cinque arcate per nove, sorrette da altrettanti pilastri in piperno, con al centro un pozzo simile a quello di San Gregorio, e con accesso attiguo alla facciata della chiesa.

Secondo il progetto del Presti, una scala posta sul fondo del lungo porticato avrebbe condotto ai piani superiori, dove erano collocate le celle dei monaci che si aprivano in parte sul chiostro e in parte sulla piazza, mentre le botteghe sarebbero state ricavate nei lati più lunghi e date in fitto ai privati. I frati si opposero a tal scelta e l'architetto fu costretto ad apportare modifiche che delimitarono in modo netto lo spazio laico destinato ai privati e quello sacro destinato ai religiosi. I Domenicani, giudicato troppo esteso quest'ultimo disegno, decisero di asoltare il parere di alcuni esperti tra cui Francesco Antonio Picchiatti, che completò il progetto dopo l'estromissione di Bonaventura Presti. Il Picchiatti si limitò a porre in opera e a controllare le direttive degli stessi religiosi che in molte occasioni si ispirarono al progetto del precedente, tanto che ancora oggi, malgrado le modifiche apportate in epoche successive, è possibile riconoscere l'impianto originario nel portale d'ingresso adiacente alla chiesa e nei pilastri del chiostro.

Tra il 1673 e il 1685 la costruzione del complesso era quasi terminata. Rimaneva incompleto il chiostro, di cui fu eretta solo un'ala, terminata nel XVIII secolo su progetto di Nicola Tagliacozzi Canale, il quale ridusse lo spazio da pianta rettagolare come era previsto nel Seicento a pianta quadrata con cinque arcate per sei. Nella seconda metà del XVIII secolo il chiostro poté definirsi terminato.

Nel 1808 l'originaria funzione del chiostro fu soppressa; nel 1850 venne adibito a caserma militare, poi a guardia di pubblica sicurezza ed infine ad ufficio comunale. In seguito a queste destinazioni furono apportate modifiche che distrussero il manufatto, la cui struttura può tuttavia essere ancor oggi percepita dietro gli elementi in metallo e vetro che attualmente ospitano gli archivi anagrafici del comune.

Il palazzo Ruffo di Bagnara è un antico palazzo di Napoli situato in piazza Dante.

Costruito nel XVII secolo, nella seconda metà del secolo fu acquistato dal duca di Bagnara Francesco Ruffo, valoroso guerriero e capitano dell'Armata Navale Gerolosomitana; egli diede l'incarico a Carlo Fontana facendolo ristrutturare con il bottino ricavato da uno scontro con i pirati arabi. Nella prima metà dell'Ottocento il palazzo fu restaurato da Vincenzo Salomone su commissione dell'ultimo duca di Bagnara. Il palazzo possiede una cappella, sulla sinistra della facciata.

Nel medesimo secolo qui visse il letterato Basilio Puoti, conosciuto nella letteratura italiana come un eminente purista.

La chiesa di Santa Maria di Caravaggio di Napoli, ubicata in piazza Dante, fu costruita nel 1627 grazie alle donazioni di Felice Pignella.

Il tempio venne consacrato alla Natività di Maria, ed in seguito dedicato a Santa Maria di Caravaggio, un paesino della provincia bergamasca dove, nel 1432, vi era stata un'apparizione della Vergine.

Il convento fu trasformato in una scuola, affidata dapprima ai Padri Scolopi e poi ai Barnabiti, nel 1873 passò all'Istituto "Principe di Napoli" di Domenico Martuscelli (ricordato da un busto nei giardinetti poco distanti) per giovani non vedenti.

La chiesa è composta da un'unica navata ed ha una forma ellittica. Sull'altare maggiore vi è il dipinto di Gaetano Gigante raffigurante la Nascita di Maria. Nelle tre cappelle di destra troviamo: dipinti di San Giuseppe eseguiti da Francesco Solimena; la Madonna della Provvidenza del XVIII secolo e la Deposizione dalla Croce di Domenico Antonio Vaccaro.

Invece, nelle tre cappelle di sinistra sono conservati: il dipinto di Sant'Antonio Zaccaria, opera di Luigi Scorrano; la tomba di Beato Bianchi; una statua della Madonna Addolorata; infine il dipinto dell'Apparizione della Vergine alla contadina del paese di Caravaggio.

Il Palazzo Muscèttola di Leporano (storpiato in Luperano) o villa Conigliera è un palazzo monumentale di Napoli ubicato in vicolo Luperano, nella nota zona detta il Cavone.

L'edificio è appartenuto ai principi di Leporano. Nel XV secolo il palazzo venne fatto edificare da Alfonso II di Napoli come casino di caccia ai numerosi conigli che popolavano l'area e la residenza si estendeva fino alla Strada dell'Infrascata (attuale via Salvator Rosa); il progetto fu redatto da Giuliano da Maiano che realizzò, secondo gli scritti di Giovanni Battista Chiarini, un edificio difettoso, cioè senz'aria e senza giochi d'acqua (per via delle cattive condizioni della zona).

Come già detto il palazzo passò, alla morte di Alfonso, ai principi di Leporano che rimaneggiarono l'edificio lasciando il cortile in piperno e una conchiglia incavata che ospitava lo stemma dei Muscèttola, poi rimosso agli inizi del XX secolo.

Di notevole è rimasto solo il cortile in piperno ad arcate; questo venne successivamente chiuso per far posto a botteghe, ma dell'antica struttura del cortile si possono notare le nicchie che probabilmente ospitavano busti e decorazioni pregiate.

l Museo Archivio Laboratorio per le Arti contemporanee Hermann Nitsch rappresenta un’unicità nell’ambito dei sistemi Museali della Regione Campania; uno spazio di documentazione e approfondimento delle tematiche filosofiche, poetiche e visive sviluppate dal grande artista austriaco Hermann Nitsch in oltre trent’anni di attività. Spazio multifunzionale dove le opere, i relitti delle azioni del OM Theater che contraddistinse dagli anni Sessanta l’avventura dell’Azionismo Viennese, i percorsi tra odori e colori, le escursioni nell’astronomia e nella botanica prendono vita in un percorso aperto alle sperimentazioni. Il Museo Hermann Nitsch ha sede nel centro storico di Napoli in vico Lungo Pontecorvo 29/d nel complesso immobiliare di primo Novecento denominato “Stazione Bellini”, per la sua funzione di ex centrale elettrica dell’allora Teatro Bellini. Seguendo con coerenza la vocazione di Museo per le idee, luogo dinamico di studio, di riflessione e di ricerca, l’Istituzione svolge le diverse e molteplici attività e funzioni secondo quattro direttrici: la documentazione, la formazione, la produzione e la diffusione delle esperienze.

 vico lungo Pontecorvo, 29d

COMPLESSO MUSEALE DELL'AUGUSTISSIMA ARCICONFRATERNITA DEI PELLEGRINI

Il museo comprende una chiesa cinquecentesca, una chiesa del Settecento (Medrano e Carlo Vanvitelli) magnifica per la singolare pianta a due ottagoni collegati da rettangoli; la Terrasanta (opera dell’architetto Giovanni Antonio Medrano); gli ambienti destinati alla vita dell’Arciconfraternita: Salone del Mandato, Sale della Vestizione. Dappertutto pregevolissime opere d’arte pittoriche (dal XV al XIX sec.): Bernardino Campi, Andrea Vaccaro, Francesco Fracanzano, Onofrio Palumbo e Didier Barra, Giacomo Farelli, Francesco De Mura, Giuseppe Bonito, Giacinto Diano); scultoree: in bronzo l’espressiva statua del fondatore Fabrizio Pignatelli inginocchiato, di Michelangelo Naccherino; in marmo una Madonna col Bambino di Francesco Laurana; in stucco lo scenografico gruppo della Trinità di Angelo Viva); lignee: statue policrome della Passione di autori napoletani del XV sec.; coro in radica di noce e cupola con motivi in oro zecchino disegnati dall’architetto Astarita; preziosi arredi e oggetti liturgici. Importantissimo l’archivio storico con 1245 volumi e registri e preziose pergamene in numero di 328. I confratelli indossano un saio di colore rosso (dal Cinquecento a tutt’oggi) simbolo della carità che ricorda il sangue di Cristo versato per la redenzione dell’umanità.

Via Portamedina alla Pignasecca, 41

La chiesa della SS. Trinità

Eseguita da Carlo Vanvitelli, tra il 1792 e il 1796. Il corpo mantiene le dimensioni originali della chiesa cinquecentesca per quanto riguarda la lunghezza, a cambiare sono quelle in larghezza.

Per il suo sviluppo in orizzontale si abbattono alcune strutture e si utilizza parte del giardino, concesso alla confraternita dalla famiglia Pignatelli.

La nuova chiesa viene costruita a frammenti, domina un lavoro di recupero di elementi validi e riutilizzabili nella nuova costruzione; ma al contempo il nuovo disegno stravolge gli spazzi contenuti del vecchio organismo, nonostante il perimetro è di poco più grande nel suo sviluppo in orizzontale.

La nuova concezione vanvitelliana nella costruzione si adopera per creare una separata duplice lettura delle aree. La pianta della navata è ottagonale, con tre altari per ogni lato, lo spazio sacro e quello dei fedeli si mescola. La nuova posizione e la differente visuale, in cui viene posto il fedele, oltre ad essere conseguenza di rottura dei classici limiti prestabiliti, contraddittoriamente accentua il distacco con il divino: ogni punto delimitante la chiesa diventa l’invalicabile luogo sacro, l’eletto spazio. Gli occhi di Dio e la sua croce sono ovunque, dalla parte bassa, al centro, come sull’altare, che continua ad essere il punto focale, nonostante la diramazione dell’attenzione. La luce e la preghiera investono ogni angolo superando la classica disposizione che pur restando tale, regna in modo e ad uso ambiguo, di vita propria, una chiesa nella chiesa.

Tanti luoghi deputati sottolineano il tracciato in modo avvolgente, abbracciano il fedele nell’atto dell’avvicinarsi a Dio, ma diversi piani disegnano ed evidenziano il divino dall’uomo.

Gli altari sono posti su un base che stacca il loro livello dal pavimento di tutto l’ambiente. La chiesa è di gusto neoclassico, coperta da una grande cupola, molti degli elementi come alcune strutture sono di recupero. I marmi, parte della pavimentazione, l’oro dei vecchi decori, come alcuni oggetti, tra cui la balaustra, le porte, sono preziose eredità, il presbiterio è uno degli spazzi riadattati. A pianta rettangolare, si affaccia nella navata mediante una scala in marmo; il suo livello è superiore a quello della chiesa, il dislivello più che voluto, è inevitabile conseguenza dell’assemblaggio fatto in un secondo momento. La sua

struttura viene spesso giustificata, da letture poco attente, come scelta progettuale, attribuendo la differente altezza esclusivamente alla diversa funzionalità della zona, che destinata ad ospitare l’altare, domina su tutti gli altri elementi. Gli spazi laterali sono scanditi da otto colonne che rivestono gli originali pilastri della costruzione, elementi di supporto e di rinforzo oltre che decorativi, a sostegno della copertura: una finta volta a botte. Il presbiterio termina con un arco, la curva copre una scultura di Angelo Viva della S.S. Trinità.

La chiesa di S.Maria di Materdomini

La costruzione della chiesa fuori la Porta Reale fu portata a termine nel 1574 in stile classico di modeste dimensioni ad una sola navata.

La facciata di Mater Domini costruita in piperno era semplice e ben definita nello spazio. La statua della Vergine (Madonna con Bambino – F.Laurana – 1472/73) era posta all’ingresso a tutela dei pellegrini, oggi trasferita all’interno e posta sul ciborio dell’altare maggiore.

Alla semplicità della facciata faceva contrasto la ricca decorazione interna e gli arredi. Adiacente ad essa si pose mano all’edificazione dell’ospedale così che il Pignatelli nel suo testamento poteva dettare: “Io ho fatto per mia devozione una chiesa intitolata alla Madre di Dio seu hospitale de peregrini cossi nominata dalla Santità di Papa Gregorio tertio decimo per due Scritture l’una Graziosa l’altra Rigorosa”. Il proposito di costruire un complesso chiesa-ospedale, si inseriva nella tradizione cristiana dei grandi pellegrinaggi.

Il consenso ottenuto dal Pignatelli ad usare i beni della religione Gerosolimitana per la fondazione dell’ospedale manifestava non solo un’approvazione giuridica della sua opera ma anche un’adesione spirituale che trovava sostegno nella Chiesa di Roma.

All’interno troviamo l’elegante sepolcro marmoreo di F.Pignatelli con la statua bronzea (M.Naccherino – 1590, su commissione dei confratelli Decio Caracciolo e Alfonso Galeotta).

I due stemmi marmorei, originariamente collocati in facciata riportano le insegne di Papa Gregorio XIII e della monarchia spagnola sul finire del XV secolo. L’Oratorio dell’Arciconfraternita, considerato già importante “fabbrica religiosa” nel 1599, ebbe il titolo di chiesa nel 1704.

La Terra Santa ed il culto dei morti

(da “I Pellegrini” di L. de’Santi)

La solidarietà del sodalizio verso i confratelli defunti si manifestava in due modi: con la pietosa opera della loro sepoltura e con le celebrazioni di Messe e recite di preghiere in loro suffragio.

Le sepolture avvenivano, finché le leggi non lo vietarono, nella chiesa della confraternita. Per tale scopo, in quella che fu costruita nel 1578 era stata realizzata una “terrasanta” sotto il presbiterio, a livello quindi del cortile dell’ospedale. In seguito ne fu ricavata, nel 1657, un’altra per i confratelli ed i loro congiunti ed anche per i benefattori, sotto la navata […].

Con i successivi ampliamenti della chiesa la terrasanta fu trasferita, nel 1754, in parte sotto il nuovo coro ed in parte sotto quello originario e che fu poi inglobato nel presbiterio della chiesa attuale. Costituiva quindi quell’ipogeo che con la costruzione della cappella nel cimitero di Poggioreale fu abbandonato e che solo da pochi è stato riportato nella sua decorosa forma.

La sepoltura nella terrasanta del sodalizio avveniva a seguito di richiesta fatta dal confratello, in vita o, dopo la morte, dai suoi familiari ed era preceduta da un funerale che si svolgeva nella chiesa ed al quale intervenivano i Primi Ufficiali ed i confratelli, in sacco rosso, accorsi numerosi all’invito loro rivolto dal Primicerio.

A questa partecipazione si dava molta importanza, per l’affetto da manifestarsi al confratello morto. Le Regole anzi raccomandavano a quei confratelli che non fossero potuti intervenire di supplire alla loro assenza con la recita di preghiere per l’estinto ed anche con il guadagnarsi un’indulgenza, comunicandosi in quelle chiese che la concedevano, da applicare alla sua anima.

Per i confratelli poveri le spese funerarie e di sepoltura erano sostenute dal sodalizio, secondo le disposizioni dei Primi Ufficiali.

Per i confratelli che, per disposizioni loro o dei familiari, venivano sepolti in altre chiese, le onoranze funebri erano limitate e consistevano nella partecipazione alle loro esequie di una rappresentanza di confratelli in sacco rosso e con il gonfalone, i quali seguivano il feretro fino alla porta della chiesa prescelta, dinanzi alla quale però si arrestavano, per tornare poi subito indietro. I suffragi, per tutti i confratelli defunti, consistevano nella celebrazione, nella chiesa della confraternita e nell’anno della loro morte, di una Messa solenne e di venti piane. Ma per quelli che si erano dimostrati assidui alle funzioni le Messe piane erano cento. Se poi il confratello fosse morto mentre si trovava ad essere Primo Ufficiale venivano aggiunte cinquanta Messe piane, da celebrarsi all’altare privilegiato.

Questo si faceva, spiegando le Regole, quale segno di riconoscenza della confraternita verso chi l’aveva servit