Venga Il Tuo Regno, di Rousas J. Rushdoony

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VENGA IL TUO REGNO UN COMMENTARIO SU DANIELE E APOCALISSE DI ROUSAS JOHN RUSHDOONY Venga il Tuo Regno 1

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VENGA IL TUO REGNO

UN COMMENTARIO SU

DANIELE E APOCALISSE

DI ROUSAS JOHN RUSHDOONY

Venga il Tuo Regno 1

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Introduzione

Edizione 2001

Lungo gli anni ho avuto il sentimento che Apocalisse sia il libro più difficile dell’intera Bibbia sul quale scrivere, ed in qualche modo, il più facile. I suoi dettagli lasciano spesso perplessi, perfino sconcertati, eppure, il suo significato principale è chiaro. Benché alcuni contesteranno anche questo, è un libro che riguarda la vittoria. “Questa è la vittoria che ha vinto il mondo. La nostra fede” (1Giovanni 5:4) Questo è il motivo per cui conoscere Apocalisse è così importante. Alcuni crederanno che io mi sbagli su molte cose riguardo a Apocalisse, ma su questo sono sicuro: Ci assicura della nostra vittoria e la celebra.

Apocalisse è stata spesso ignorata da uomini più abili di me perché troppo difficile, ma sono stati profondamente in errore. Genesi 3 ci dice della Caduta dell’uomo nel peccato e nella morte. Apocalisse ci da la vittoria sul peccato e sulla morte dell’uomo in Cristo. Come si può negligere Apocalisse? Possiamo errare nella nostra interpretazione di molti dettagli, ma se sottolineiamo la nota di vittoria, siamo nel giusto più di molti uomini capaci. La vittoria, ampia e totale, nel tempo e nell’eternità, presentata da Giovanni in Apocalisse è troppo importante per tralasciarla.

Apocalisse è piena di testi difficili, ma ancor più è piena dell’assicurazione di vittoria. Io credo di essere completamente nel giusto nella mia accettazione di questa risuonante nota di vittoria. La mia vita e la mia opera si posano su questa fede. Questa vittoria è celebrata in Daniele e altrove, nell’intera Bibbia. Non ci è stato dato un Messia che è un perdente. I testi escatologici acclarano che l’essenziale buona novella dell’intera Bibbia è la vittoria, vittoria totale.

Qualcuno dice che la rinascita del post-millennialismo abbia le sue radici in Venga il Tuo Regno. Dall’essere, come mi è stato detto, un punto di vista passato ed ora morto, il post-millennialismo è ora una forza sociale crescente. Tra le altre cose, ha fatto avanzare la scuola Cristiana ed il movimento della scuola domestica.

Perciò, io sono felice di aver scritto quest’opera, è ho fiducia che continuerà a ri-vitalizzare l’azione Cristiana.

Rousas John RushdoonyDicembre 7, 2000

Vallecito, CA

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Prima ParteDaniele

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DANIELE 1L’OFFENSIVITA’ DI DANIELE

Il libro di Daniele, che comincia molto innocentemente con un capitolo riguardante la dieta di quattro giovani, è ciò nonostante uno dei libri più esplosivi di tutta la storia umana poiché assume in ogni punto una filosofia della storia che è anatema per l’uomo autonomo. Non solo questo concetto della storia è assunto come articolo di fede, ma è affermato nei fatti stessi, nei piccoli dettagli della storia come manifestato da un Dio Sovrano il Cui eterno decreto segna la caduta del passero e conta il numero dei capelli dell’uomo. (Mt. 10: 29-30). Affermare questa fede retrospettivamente è una cosa, affermarla prospettivamente un’altra. In Daniele è affermata in prospettiva e verificata dal corso degli uomini e di imperi, ammesso che Daniele sia da prendere così come si presenta.

Ma, è comunemente affermato che Daniele sia essenzialmente un falso, e da datarsi non dal sesto secolo prima di Cristo, dai giorni dall’Impero Caldeo e della potenza Medo-Persiana, ma dal periodo dei Maccabei: 168-165 a.C.. Le pretese basi per tale affermazione sono nella critica testuale, la presupposizione è una filosofia della storia radicalmente opposta a Daniele. Nei termini di questa presupposizione, Daniele è un libro completamente impossibile ed offensivo; non può essere vero, perché la sua veracità richiederebbe un rovesciamento di ogni visione (worldview) e filosofia della storia accettata dall’uomo moderno. Di conseguenza è un’opera crassa e cruda, troppo sfacciata nel suo sopranaturalismo per poter essere accettabile in qualche senso.

L’offensività di Daniele, comunque, è l’offensività di tutte le Scritture, poiché qui sono concentrati elementi basilari della fede Biblica in termini netti e convincenti che non consentono una lettura “poetica” ma richiedono, con aspra insistenza, una sottomissione intollerabile all’uomo autonomo. Quest’offesa può essere riassunta in quattro punti, ciascuno dei quali implica credenze di larga portata.

Prima di tutto, Daniele è un’offesa perché manifesta in termini inevitabili il concetto biblico di Dio: Dio il Signore, il sovrano, non-creato, ontologico Signore YHWH, Colui che è, accanto al quale non c’è nessun altro. Questo Dio deve essere chiaramente distinto dal dio dei critici testuali, che non sono atei, nel fatto che affermano di avere fede in un dio, ma credono in un dio che è essenzialmente Valore, oppure egli stesso un essere tra esseri, un anziano cittadino dell’universo. Il dio

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Valore è l’epitome del bene, del vero, e del bello, l’essenza di tutte le virtù che l’uomo apprezza. Questo dio Valore trova espressione nell’uomo e attraverso l’uomo, cosicché, nella famosa frase omiletica si recita: “Dio non ha mani da poter usare se non le mie”. Questo, nei termini di Daniele è un concetto blasfemo, poiché Dio il Signore è autosufficiente e completamente indipendente dalla sua creazione, non avendo in alcun modo bisogno delle sue creature per agire o per manifestare Se stesso. Nei termini di questo concetto di Dio come valore e del corollario di questa credenza: Dio non ha mani da poter usare se non le mie, né la creazione né la redenzione possono essere spiegati in termini Biblici. La storia Biblica, le piaghe d’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, i miracoli di Daniele, la nascita verginale e la resurrezione, tutti questi e gli altri, quando mantenuti, sono svuotati del significato Biblico e subordinati ad un nuovo tipo di storicità nella quale l’esistenza e la consapevolezza dell’uomo sono supreme, e le attività di Dio sono nascoste e offuscate. Il limitato dio dell’essere è di nuovo marcatamente diverso dal Dio delle Scritture. Poiché egli è solamente un aspetto dell’universo, per quanto ne sia un aspetto superiore, non può controllare ciò di cui egli stesso è un prodotto. Il suo potere è perciò limitato, nascosto e vago, e la sua “Apocalisse” non meno incerta. Solamente un Dio auto-sufficiente, sovrano e onnipotente può dare una Apocalisse di Se piena e sufficiente. Nell’uomo, potenzialità e realtà non sono mai uguali e, di conseguenza, l’uomo non può mai pienamente rivelare se stesso, perché non può né conoscere se stesso perfettamente, né controllare in modo assoluto le sue attualità presenti e future. Ma, poiché il Dio sovrano delle Scritture non ha in se stesso elementi inconsci, è autosufficiente e onnipotente, e perché, conoscendo Se stesso perfettamente, Egli può conoscere tutte le sue attività presenti e future pienamente e perfettamente, la Sua Apocalisse è inevitabilmente piena e sufficiente e non può che essere tale. Egli è incomprensibile e inesauribile ma mai nascosto o inconscio in alcun modo. Poiché Dio non è mai nascosto a Se stesso, la Sua Apocalisse è inevitabilmente aperta e libera dalla prospettiva di sorprese future e nascoste. Perciò, ne consegue inevitabilmente che, se il Dio di Daniele è il vero Dio, la Sua Apocalisse sarà sia infallibile sia chiara, e Daniele è stato con la stessa inevitabilità un terreno di prova e campo di battaglia di quella fede. Se la Apocalisse è nascosta nella Bibbia, allora anche Dio è nascosto nell’universo. Se nuove rivelazioni di nuovi aspetti della verità o di nuove verità fossero possibili, sarebbe perché un Dio mutevole e parzialmente inconscio (o inconsapevole) è incapace di una Apocalisse completa. La Scrittura infallibile e inerrante è la sola parola possibile da un Dio onnipotente e sovrano, e la dottrina della parola infallibile è il corollario inevitabile della dottrina dell’onnipotenza di Dio. La natura di Daniele ci costringe a fare questa associazione, e perciò questo Libro è importante per le sue evidenti implicazioni come per il suo contenuto immediato.

Questa dottrina di Dio è offensiva per l’uomo poiché l’uomo, con la sua antropocentricità rovescerebbe il ruolo di Dio e usurperebbe il Suo trono. In questi termini l’uomo diventerebbe conoscibile e Dio non conoscibile, l’uomo si presenterebbe rivelato e Dio diverrebbe nascosto. Ma le Scritture affermano il contrario: “ Il cuore dell'uomo programma la sua via, ma l'Eterno dirige i suoi passi.”

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(Pr. 16:9). “I passi dell'uomo sono dall'Eterno; come può quindi l'uomo conoscere la propria via?” (Pr. 20. 24) Se il decreto sovrano è di Dio e non dell’uomo ne consegue che l’uomo non può comprendere le sue stesse proprie vie. Per prima cosa la determinazione ultima non è sua e al massimo egli è solo parzialmente consapevole della sua propria natura. In secondo luogo, mancando sia la pienezza della consapevolezza epistemologica che la maturazione storica, egli stesso non è ancora completo. Terzo, ciò significa che non solo buona parte della sua vita è ancora inconscia, ma, più di questo, deve ancora nascere nel suo inconscio perché è ancora futura almeno a quel grado di manifestazione. Di conseguenza, le psicologie, psichiatrie e teologie che ascoltano l’antica sirena: “conosci te stesso”, ricercano una manifesta impossibilità. Quale che sia la misura di auto-conoscenza che l’uomo possa avere, la può avere solo nei termini dell’interpretazione che Dio pone su di lui come creatura, ribelle o redenta. Poiché la causalità primaria della sua vita rimane in Dio, nessuna vera interpretazione o comprensione della sua vita è possibile separatamente da Dio. Dio, dall’altra parte, essendo onnisciente e onnipotente, è conoscibile, non avendo una natura nascosta né nessuna tensione sub-conscia, ma non è esaustivamente conoscibile dall’uomo, perché conoscere esaustivamente Dio richiederebbe che l’uomo avesse una mente uguale a quella di Dio, ma Egli può essere ed è conosciuto veramente e coerentemente attraverso la Sua auto-Apocalisse. La nostra conoscenza di Dio è analogica della conoscenza divina. Benché la conoscenza di Dio da parte dell’uomo non possa essere esaustiva o comprensiva, cioè totale, in virtù della creazione ad immagine di Dio è vera conoscenza, mentre la conoscenza esaustiva, totale si trova solo in Dio. Dio conosce se stesso completamente perché “l’essere di Dio ha la stessa estensione della Sua auto-consapevolezza” 1. L’essere di Dio e la sua conoscenza di Se sono identiche, mentre per l’uomo non esiste tale identità tra l’essere e la sua conoscenza analitica, né può esistere, poiché tutta la sua conoscenza è sintetica e dipende da riferimenti a cose altre da se stesso. Perciò, la sostituzione della psicologia per la teologia e la psicologia della religione per la filosofia della religione, è un’indicazione del rovesciamento radicale dei ruoli di Dio e dell’uomo. Coinvolge una ricerca di una sapienza impossibile ed inesistente nei termini di un’autonomia dell’uomo che è mitologica e irrazionale. Il Dio di Daniele è il Signore sovrano che infrange le illusioni di autonomia dell’uomo e umilia la sua affermazione di conoscenza. I sogni perciò, hanno una parte importante in Daniele; l’uomo è tormentato dal fantasma del futuro e dell’ignoto e reso conscio, contro la sua volontà, della temerarietà della sua ribellione e della pazzia delle proprie affermazioni.

Secondo, Daniele è offensivo perché presenta profezia predittiva nella sua forma più chiara, non poetica, schietta e non confondibile. Scritto secondo la sua stessa dichiarazione nel sesto secolo A. C. da Daniele, traccia il corso dell’impero per secoli in avanti, presenta la venuta di Cristo e la costituzione della chiesa, e fa tutto ciò con la specifica e singolare confidenza che questa non solo è la Apocalisse di Dio, ma anche la manifestazione della normale e continua attività di governo di Dio sull’uomo e sulle nazioni. E questa è una pietra d’inciampo, uno scandalo. L’uomo e 1 Cornelius Van Til “The Defense of the Faith”; Philadelphia: Presbyterian and Reformed, 1955, p. 52.

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le nazioni vogliono credere nella loro autonomia, nella loro indipendenza da Dio, preferiscono considerarsi artefici del proprio destino, come fautori e formatori, creatori, non creature. Ma contro tutto questo, Daniele afferma enfaticamente che Dio è il solo agente indipendente della storia, sia creatore che governatore del tempo e dell’eternità. Dio, che determina ogni cosa, e in Cui viviamo, ci muoviamo e siamo , (At. 17:28), determina ciascun nostro oggi e domani e conosce e determina la storia perché conosce e determina Se stesso. Come Dio non ha in se stesso potenzialità inesplorate, né qualsivoglia sub-conscio, conosce se stesso e governa Se stesso in modo assoluto, così la storia, Sua creazione, non ha potenzialità inesplorate al suo interno né elementi inconsci che possano svilupparsi separatamente dall’eterno decreto di Dio. Le nazioni sono un nulla danti a lui, ed Egli muove uomini e nazioni ed imperi per i propri fini, non per i loro. Egli usa tutta la storia e non è mai usato da essa, la piega, la modella, la forma nei termini del Suo scopo eterno e nessuno può fermare la Sua mano. Ma gli uomini cercano un Dio che possano usare, non un Dio che usa loro e da questo nasce l’offensività di Daniele. Profezie predittive così specifiche rendono inevitabile la subordinazione del tempo al decreto eterno.

Terzo, Daniele è offensivo a motivo dei suoi miracoli, miracoli la cui natura implica certe cose riguardo a Dio e alla storia. Nell’antichità era comune la fede che la verità di una religione fosse manifesta nel successo che avrebbe portato all’uomo. Il pragmatismo antico considerava la religione strumentale all’uomo. La verità di una religione dipendeva dai suoi risultati. Se gli dei d’Egitto davano successo all’Egitto essi erano fin lì veri. Se Babilonia guadagnava la precedenza, allora anche i suoi dei guadagnavano la precedenza. Daniele 1:2 indica che Nabukadnetsar, nel portare gli utensili del tempio da Gerusalemme alla casa del suo dio, espresse con ciò la preminenza della sua fede a la necessaria posizione di subalternità e servizio della fede di Giuda alla sua fede. Alla base di questa pratica c’è un orientamento centrato sull’uomo: Dio deve essere giudicato nei termini della sua usabilità, di ciò che può fare per l’uomo, e in quale misura lo fa prosperare, una fede comune alla chiesa come al mondo sfortunatamente. Questo pragmatismo e antropo-centrismo si fonda ancora una volta sulla premessa dell’autonomia dell’uomo. Se l’uomo è da se stesso la verità o realtà finale, e la sua esistenza è la premessa basilare della sua fede, allora, Dio e la religione non possono avere un carattere indipendente o una verità ma possono avere solamente un significato relazionale; non sono sostantivi ma aggettivi e perciò, come col modernismo, una fede mutevole è una necessità nei termini delle mutevoli condizioni e necessità dell’uomo. La rigidità della fede Biblica diventa prova di un falso razionalismo e dell’evidenza di irreligiosità, e la fede Biblica viene disprezzata, derisa e perseguitata. I miracoli di Daniele sono un affronto alla religione pragmatica e centrata sull’uomo, e giustamente, perché questi miracoli sono una dichiarazione di guerra contro ogni simile fede che viene ridotta all’assurdità proprio mentre signoreggia su uomini di fede. Questi miracoli trascendono anche la fede della chiesa e rivelano la sovranità di Dio nella Sua salvezza, il Suo potere verso i deboli, e il Suo disprezzo dei potenti di questo mondo.

Infine, quarto, Daniele è offensivo perché assume e afferma la totale provvidenza ed il totale governo di Dio, il Quale governa, domina e revoca in ogni

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evento della storia fino al più piccolo dettaglio. Gli uomini preferiscono l’anarchia del caso che permette loro di essere dio sul loro piccolo angolo di caos, alla sovranità di Dio e alla Sua totale predestinazione di tutte le cose. Un Dio che può metterci, piangenti, presso i fiumi di Babilonia, o, giovane e solo, prigioniero sotto istruzione nel palazzo di Nabukadnetsar, è un Dio che ovviamente governa e usa l’uomo e non è mai governato ed usato da esso. Questo non è ciò che l’uomo ha sempre cercato nella religione, alla quale egli si è rivolto per potere, guarigione, buona fortuna, in breve per una polizza assicurativa di responsabilità civile generale. Dio, in contraccambio per certe gentilezze dall’uomo, dovrebbe perciò essere posto in debito verso l’uomo e soggetto a chiamate d’emergenza, un Dio messo in reperibilità. Ma Daniele ed i suoi amici, per quanto innalzati nell’impero, sono sempre gli strumenti di Nabukadnesar, o dell’uomo, e al di la e al di sopra di ciò, strumenti di Dio. Tale Dio costituisce nei fatti una magra assicurazione all’uomo in cerca della propria esaltazione, ma costituisce la sola sicurezza e gioia per un uomo che sappia di essere una creatura.

Quattro tali uomini, uomini molto giovani, furono scelti da Babilonia dalla Giudea appena conquistata e portati al palazzo del re per un corso di studi triennale, a studiare lingue, astronomia, astrologia, matematica, storia naturale, agricoltura, architettura e scienze politiche. L’antico sogno della globalizzazione caratterizzò Babele, l’Assiria e la Caldea, e nazioni furono spezzate, popolazioni mescolate per rompere i legami nazionali, e giovani uomini di nazioni conquistate venivano preparati a diventare alti funzionari per aiutare a mantenere la lealtà del loro popolo e per dare un carattere internazionale e cosmopolita all’impero. Questa diversità di leadership e lo scambio delle popolazioni avrebbe portato ad una società in “melting pot” dove avrebbe preso radice il concetto di mondo unificato (mondializzazione).

In accordo con ciò, mentre erano in un senso prigionieri, vivevano nel lusso, mangiando una porzione del pranzo giornaliero del re. Secondo 1 Re 4: 22-23 La provvista di viveri di Salomone per ogni giorno consisteva in trenta cori di fior di farina e sessanta cori di farina ordinaria, dieci buoi ingrassati, venti buoi da pascolo e cento ovini senza contare i cervi, le gazzelle, i caprioli e il pollame ingrassato. (1 core = circa 350 Kg.) Possiamo sicuramente presumere che le provvigioni di Nabukadnesar saranno state allo stesso modo lussuosamente abbondanti. Certamente tali lussi erano calcolati per indebolire vecchie lealtà già tagliate dal tempo e dalla distanza, e per favorire nuove alleanze. Nei termini di questa opulenza YHWH e Giuda potevano entrambi divenire remoti e primitivi.

Ma Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con i cibi squisiti del re e con il vino che egli stesso beveva; e chiese al capo degli eunuchi di concedergli di non contaminarsi. (1:8) Daniele era sicuramente il capo di questi quattro giovani senza difetto (v.4) ( che chiaramente quindi non erano essi stessi eunuchi benché altri di stirpe reale fossero stati fatti eunuchi [Isa. 39: 7]), giovani uomini probabilmente di quindici, sedici anni al tempo della loro deportazione. La loro richiesta non implicava ascetismo ma due principi chiari e quadrati. Primo, mangiare era a quel tempo un sacramento di comunione non solo con uomini ma anche con le loro divinità. In tale difficile situazione, il tipo di accomodamento, di facilitazione, permessa a Naaman nella casa di Rimmon (2Re 5: 18-19) non era possibile per i

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quattro giovani che se non avessero cominciato con una presa di posizione di principio non avrebbero potuto continuare in essa. La presa di posizione fu fatta diplomaticamente, con tutte le intenzioni di favorire il loro servizio a Nabukadnesar per mezzo della loro maggiore lealtà a Dio. Secondo, se non riuscivano a prendere posizione su questioni semplici, come avrebbe la loro fede resistito alla prova delle pesanti responsabilità che sarebbero venute più avanti? La santità Biblica non è mai nei termini di principi astratti, o nei termini di ritiro dal mondo, ma nei termini di affrontare i problemi e le lotte di questa vita vittoriosamente. Di conseguenza, il loro scopo era una preparazione nei termini delle necessità e delle lotte vere e reali. Nessun santo Biblico ha mai ricercato la santità in se e per se, essa fu un prodotto della sua fede ed un aspetto della sua forza. Il suo scopo non è la santità per se ma la gloria di Dio e il suo proprio godimento della vita sotto Dio, perciò mai una fuga dal mondo, ma una preparazione per i problemi e le responsabilità nel mondo.

Il sostentamento richiesto al posto della carne e del vino del re furono legumi ed acqua, cose generalmente non offerte in sacrificio o consacrate sugli altari di Babilonia prima dell’uso normale. Fino al tempo in cui non avrebbero comandato sul proprio cibo, preferirono una dieta ristretta, in nessun modo normale per gli Ebrei, e Dio li fece prosperare in essa.

Quando arrivò il tempo dell’esame, “su ogni argomento che richiedeva sapienza e intendimento e intorno ai quali il re li interrogasse, li trovò dieci volte superiori a tutti i maghi e astrologi che erano in tutto il suo regno” (1:20).

Giuda era rotto, Gerusalemme spogliata, e i suoi giovani migliori fatti servi della potenza di Babilonia. Ma quella stessa parola che richiede fedeltà ed obbedienza dai servitori (Col. 3: 22-25), dice anche chiaramente che essendo stati comprati a prezzo da Cristo (1 Cor.6:20), non possono mai diventare servi dell’uomo in senso abbietto, ma, nella loro obbedienza devono deliberatamente farlo “come al Signore e non per gli uomini” (Col. 3:23). Tale servizio è possibile solamente se il Dio che si serve è Colui per il Cui decreto i re regnano, il passero cade, e i padroni esercitano la loro autorità. Nei termini della Sua sovrana volontà, Egli sarà servito, volontariamente o contro volontà, da ogni creatura, cosicché uomini di fede possono servire un Nabukadnesar nella certezza che la gloria sarà di Dio. Questi quattro giovani uomini di Giuda agivano in questa fede e con questa certezza.

In questo modo le questioni sono chiaramente focalizzate. Babilonia, echeggiando l’antico sogno di Babele di un mondo, di un paradiso senza Dio, un’unità cosmica fondata su un principio altro dal Creatore, aveva in Nabukadnesar un brillante ed orgoglioso promotore di quella fede, un uomo dedicato a quell’unità e a quell’ordine che gli statisti hanno ricercato fin da quando Caino costruì la città di Enoch (Gn.4:17). Torkild Jacobsen ha descritto il concetto Mesopotamico primitivo:

Il fatto che l’universo Mesopotamico fosse concepito come uno stato, che gli dei che possedevano e governavano le varie città-stato erano legati insieme in una unità superiore, l’assemblea degli dei, che possedeva organi esecutivi per esercitare pressione esternamente quanto per applicare la legge e l’ordine internamente, ebbe vaste conseguenze per la storia Mesopotamica e per il

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modo in cui gli eventi storici vennero giudicati ed interpretati. Esso irrobustì fortemente le tendenze verso l’unificazione politica del paese comandando perfino i mezzi più violenti a quel fine. Infatti, ogni conquistatore, se aveva successo, era riconosciuto come un agente di Enlil. Provvide pure, anche in tempi in cui l’unità nazionale era debole e le molte città-stato erano, per ogni scopo pratico, unità indipendenti, un retroterra in cui la legge internazionale poteva operare.1

Questo retroterra, diede un principio di continuità e di terreno comune alle relazioni umane, una sottostruttura comune a tutti gli uomini, ovunque. Come apparirà più avanti, c’era coinvolto molto di più nel concetto di continuità, un principio di unità che rese possibile non solo l’unità politica e religiosa senza disgregazioni dei componenti, ma che rendeva anche tutti gli uomini costituendi una comune divinità se solamente si fossero adoperati con successo. Contro tutto questo, la fede di Daniele e dei suoi amici fu una forza aliena e disgregatrice, una rottura violenta della società umana. Un Dio come il Signore di Daniele, Adonai, era un Creatore troppo geloso, un Marito-Pattuale troppo esclusivo, e troppo alieno e discontinuo con l’universo dell’uomo per poter essere altro che un intruso offensivo all’uomo babilonese. La questione fu perciò chiaramente visibile

Il concetto di continuità significava crescita e sviluppo (evoluzione?) in dio come nell’uomo, mentre il Dio di Daniele è discontinuo con la sua creazione e al di la di crescita essendo Egli stesso l’onnisciente e onnipotente creatore di tutte le cose e di ogni crescita. Poiché Dio è assoluto nel suo essere, la sua parola e la sua opera inevitabilmente partecipano di quell’assoluta auto-consapevolezza che rende impossibile che abbia qualcosa di nascosto. Perciò, l’infallibilità della Sua parola e la predestinazione di tutte le cose sono necessarie conseguenze del suo essere, ne può alcun aspetto del suo essere e della Sua Apocalisse venire limitato senza che questa limitazione sia estesa pure agli altri aspetti. Una parola nascosta significa elementi nascosti in Dio, un decreto limitato di nuovo introdurrebbe il nascosto nell’essere di Dio. Contro tutte queste divisioni, il libro di Daniele è un muro, e per i suoi critici, un’inalterabile offesa.

1 H. e H. A. Frankfort, John A. Wilson, and Torkild Jacobsen: “Before Philosophy. The Intellectual Adventure of Ancient Man” ; Penguin books, 1949, p. 210

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DANIELE 2IL TERRORE DEI SOGNI

Mentre non ci sono attività inconsce e potenzialità nascoste in Dio, l’uomo è da esse fortemente governato, e i sogni sono un ricordo persistente di questo fatto. I sogni sono la costante resuscitazione di un passato morto ed impotente:

Sleep, kinsman thou to death and tranceAnd madness thou hast forged at lastA night-long Present of the Past.1 Sonno, parente tu di morte e tranceE di pazzia infine hai tu forgiatoUn Presente notte-lungo del passato.

Con questo ricordare la fragilità dell’uomo e la mancanza di libertà assoluta e di possibilità di determinare la propria vita, i sogni parlano anche di morte, trance e pazzia all’uomo orgoglioso. Anche la gioia che un uomo gode nei sogni è illusoria, come un proverbio comune alle varie culture dice: “dopo aver sognato di nozze arriva un funerale”. L' irrealtà del potere dell’uomo rivelata dai sogni getta ombre sulla realtà del suo autogoverno da sveglio, cosicché nel cuore dell’uomo di tutte le culture si soleva anche la questione del risveglio: “Dormo? Sogno?…Sono le cose ciò che sembrano?” Prospero, nella Tempesta di Shakespeare, esprime il cinismo che riguarda la vita rassomigliandola al sogno a motivo della sua inconsistenza:

We are such stuffAs dreams are made on, and our little lifeIs rounded with a sleep.Noi siam quel materialeDi cui son fatti i sogni, e la nostra piccola vitaÈ circondata da un sonno

Sicuramente, dovunque l’uomo aspiri d’essere come Dio, e di affermare una libertà assoluta, i sogni sono un terrore nel richiamare alla memoria la creaturalità, la colpevolezza, e la condanna. Il terrore dei sogni, perciò, è il terrore della mortalità, della colpa, e la disperazione della mutabilità.

1 Tennyson, In Memoriam, canto 71

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Nabukadnetsar, sia consciamente sia inconsciamente, era venuto faccia a faccia con questo terrore. Prima di dormire, egli era stato profondamente preoccupato riguardo al futuro (2:29). Il suo grande impero, costruito sul principio della continuità e sul sogno della mondializzazione, avrebbe potuto un giorno incontrare quella radicale discontinuità di morte e distruzione che aveva sovrastato precedenti torri di Babele. Tali angosciosi fatti hanno spesso portato l’uomo, dagli antichi a Nietzsche fino al presente, ad un concetto ciclico della storia, all’orrore privo di significato dell’eterna ricorrenza. Dormendo dopo tali infelici meditazioni, Nabukadnetsar fu soggetto ad un sogno da Dio in risposta alla sua pressante preoccupazione riguardo ciò che deve avvenire da quel momento in poi; (2:29), ma la sua reazione era stata di terrore (2:1).

La sua reazione da sveglio era stata di odio verso l’impotenza dei professionisti religiosi e scientifici del suo tempo e un desiderio di mettere a nudo la loro futilità. Avendo conosciuto il terrore di ciò che non si vede o non si conosce, e comprendendo vividamente come l’uomo nella sua più orgogliosa conoscenza potesse solamente pattinare sul ghiaccio sottile del visibile o del conosciuto, il suo stimolo, il suo forte desiderio fu per la distruzione di massa. Era paragonabile al risentimento del malato verso il sano, del morente verso il vivente. Avendo visto il lavoro di tutta la sua vita ridotto in essenza a un nulla, egli cercò selvaggiamente la riduzione di tutta la conoscenza dell’uomo alla stessa morte e allo stesso caos. La sua richiesta, che i suoi saggi interpretassero il sogno senza conoscerlo, non era basato sul fatto che egli l’avesse dimenticato ma sul fatto che deliberatamente voleva tenerlo nascosto.

Essi risposero una seconda volta e dissero: «Racconti il re il sogno ai suoi servi e noi ne daremo l'interpretazione». Il re allora rispose e disse: «Mi rendo chiaramente conto che voi intendete guadagnare tempo, perché vedete che la mia decisione è presa; se non mi fate conoscere il sogno, c'è un'unica sentenza per voi; vi siete messi d'accordo per dire davanti a me parole bugiarde e perverse, nella speranza che i tempi mutino. Perciò raccontatemi il sogno e io saprò che siete in grado di darmene anche l'interpretazione»1.

Questi uomini eruditi, messi di fronte ad un decreto di morte, furono sia consciamente sia inconsciamente evasivi. La loro evasività consapevole era un tentativo di guadagnare tempo fino a che il re avesse cambiato umore, e con ciò salvate le loro vite. La loro evasività inconsapevole era la volontà di non affrontare le implicazioni del terrore dei sogni. Il sogno poteva essere spiegato senza conoscenza dei particolari; tutte le speranze dell’uomo di essere autonomo, il suo rifiuto dell’eterno decreto di Dio, la sua insistenza sulla non conoscibilità di Dio e sulla conoscibilità dell’uomo, venivano ridotti al nulla e al terrore da qualsiasi sogno. Nei sogni l’uomo testimonia inconsciamente del peso della sua colpa riguardante il passato, della sua impotenza nel presente, e della sua ignoranza e paura del futuro. Quando i saggi di tempi più recenti, a cominciare con Freud, iniziarono, quantunque in modo fallace, a rivolgersi ai sogni e all’inconscio in una ricerca più sistematica, fu

1 H.C. Leupold: “Exposition of Daniel” Columbus, Ohio: Wartburgh, 1949, p. 90. Daniele 2: 7-9

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l’inizio dell’auto-consapevolezza epistemologica dell’uomo, ed il lavoro di Freud è stato spesso rifiutato per questa ragione oltre che per i suoi errori. L’uomo dimentica i suoi sogni e dimentica il significato dei sogni per poter sfuggire all’auto-consapevolezza epistemologica. Il suo tentativo di fare i conti, di venire a termini col fatto dell’esistenza del suo essere inconscio è stato subdolo: i sogni, e il preteso governo di stelle e pianeti (come nell’astrologia, il riconoscimento dell’uomo di un controllo esterno) sono parte di un continuum, cosicché la consapevolezza dell’uomo è condivisa con un cosmo il cui determinismo1 è pure condiviso dall’uomo, cosicché un’essenza e una divinità comune, ed una comune lotta caratterizzano l’insieme dell’essere. Il fatto della creaturalità viene così ovviato ed evitato. Sogni e stelle sono pure utilizzati per evadere la responsabilità, in modo che l’uomo, nella sua ambivalenza, afferma da un lato, la totale autonomia e responsabilità come dio, e dall’altro lato, nega la sua umanità responsabile e ogni imputabilità nel nome del caso e di un condizionamento totale.

Nabukadnetsar, spinto da un desiderio di mettere a nudo la pretenziosità della conoscenza autonoma dell’uomo, forzò la questione in termini che richiedevano la resa dall’uomo, o il riconoscimento dell’onnipotenza del terrore e della morte. Avendo conosciuto la futilità, non avrebbe tollerato speranza né conoscenza. Avendo annusato la morte, odiava la vita.

Il decreto di esecuzione fu trasmesso, e lasciato ad Ariok da compiersi. Il decreto includeva tutti i membri del collegio reale, inclusi quelli non immediatamente consultati, come Daniele ed i suoi amici, che erano ignoranti delle sue cause (2:13ss). Era in essenza un decreto contro la conoscenza ed un attacco ad ogni sapere perché futilità. Se Nabukadnetsar era condannato alla mutabilità ed alla insignificanza, e Babilonia insieme a lui, allora ai suoi filosofi e ai suoi saggi meno di chiunque altro sarebbe stato permesso il lusso dell’auto-inganno.

È importante comprendere questo umore, perché è sempre più il temperamento dell’uomo moderno. Warner, nel suo “the Urge to Mass Destruction” ha descritto questo senso d’impotenza e di sconfitta, e il suo bisogno di distruggere, come un impulso “ad organizzare la distruzione di massa”, a “desiderare una fossa comune per tutti” e a trovare “vittoria nella sconfitta” e nella distruzione totale.2 Il Nichilismo ed il bagno di sangue sono la vendetta sulla vita dell’uomo sconfitto ed il suo mezzo di trionfo, e questo, almeno in parte fu il sentimento di Nabukadnetsar, come è quello di tutti gli uomini empi, potenzialmente, o nei fatti, in gradi diversi. Un uomo che non ha motivo di vivere ha una ragione per odiare la vita, ed un uomo senza speranza detesta ogni speranza come fosse un brutto male. Non è sufficiente condannare questo cinismo, bisogna dargli una risposta.

Daniele ed i suoi amici, sentenziati a morte senza che avessero commesso offesa, immediatamente implorarono Dio in preghiera, e Daniele ricevette la sua risposta in una visione notturna. Il significato fu compreso immediatamente da Daniele : “Sia benedetto il nome di Dio per sempre, eternamente, perché a lui

1 Dottrina filosofica secondo la quale tutti i fenomeni dell’universo sono il risultato necessario di condizioni antecedenti o concomitanti [n.d.T.]2 Samuel J. Warner: “The Urge to Mass Destruction”; New York<<. Greene and Stratton, 1957, p. 152, 99.

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appartengono la sapienza e la forza. Egli muta i tempi e le stagioni, depone i re e li innalza, dà la sapienza ai savi e la conoscenza a quelli che hanno intendimento. Egli rivela le cose profonde e segrete, conosce ciò che è nelle tenebre, e la luce dimora con lui.” (Dan. 2:20-22)

…il corso della storia risiede nelle mani di Dio. Questi periodi critici che avvengono nel reame del tempo (i tempi e le stagioni) sono determinati da Dio…Non è solo in cielo che dobbiamo cercare le evidenze della potenza di Dio, ma anche sulla terra dove la sua potenza è dimostrata giornalmente nel controllo di tutte le cose…Dio ha la sovrana determinazione di tutti i cambiamenti politici. In questa espressione, dice Montgomery, risiede una sfida al fatalismo della religione astrale Babilonese, una caratteristica che nella sua influenza è sopravvissuta a lungo nel mondo Greco-Romano.1

Qui c’è un’affermazione netta del decreto eterno: l’oscurità esiste, e il reame della creazione è molto carico del peso della potenzialità e dell’ignoto, ma saggezza e luce abitano con Dio, che è nella sua totalità interamente onnisciente ed auto-consapevole ed inevitabilmente agisce con uno scopo e nei termini di un decreto eterno. Ogni mutabilità è nei termini di questo obbiettivo, e i cambiamenti e i tempi delle stagioni di conseguenza non sono mai futili ma sempre pieni di proposito. Inoltre, il tempo presente non è meramente concime per il tempo futuro, ma il tempo stesso rivela Dio ed il suo decreto eterno, che è sempre reso manifesto ai saggi e intelligenti, quelli che sono del Signore e le cui vite sono governate dalla Sua parola. Il cinismo di Nabukadnetsar è dunque senza scuse perché fine a se stesso, benché passo necessario verso la sua disillusione delle interpretazioni filosofiche dell’uomo autonomo. La preghiera di ringraziamento di Daniele (2:23) è il suo gioire nella grazia sovrana di Dio. Il fondamento di questa Apocalisse non è qualche merito da parte di Daniele ma la grazia di Dio libera e predestinante.

Daniele, portato davanti a Nabukadnetsar, enfatizza l’impotenza dell’uomo contro il decreto eterno (2:27), ponendo tutto il potere e la gloria in Dio, che solo è la fonte di ogni determinazione, interpretazione e potenza. Daniele negò qualsiasi merito da parte sua. Dio lo aveva usato come strumento per portare a Nabukadnetsar auto-consapevolezza epistemologica (2:28 Dio fa conoscere!), cosicché egli può considerarsi e conoscere se stesso in relazione a Dio.

Daniele disse che il sogno di Nabukadnesar fu di una immagine grande e terrificante la cui (1) testa era d’oro fino, (2) il suo petto e le sue braccia d’argento, (3) il suo ventre e le sue cosce di bronzo, e (4) le sue gambe di ferro i suoi piedi in parte di ferro in parte d’argilla, chiaramente un quadro di deterioramento. Una pietra fu “tagliata senza mani” e, non per mano d’uomo “colpì l’immagine ai suoi piedi” distruggendola così radicalmente che i frammenti furono “come la pula sulle aie d'estate; il vento li portò via e di essi non si trovò più alcuna traccia. Ma la pietra che aveva colpito l'immagine diventò un grande monte, che riempì tutta la terra.”(2:31-35)1 Edward j. Joung: “The Prophecy of Daniel”; Grand rapids: Eerdmans, 1949, p. 67.

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Daniele ne diede dunque l’interpretazione:

1) C’è un decreto sovrano, emanato da un Dio sovrano per il cui ordine unicamente Nabukadnetsar regna. Niente può essere compreso se non a partire da questa presupposizione.

2) La testa d’oro è Nabukadnesar e il suo impero, che rappresenta in forma particolare e potente il sogno imperiale e cosmico dell’uomo autonomo.

3) Seguirà un secondo impero, che darà corpo allo stesso sogno, ma con minore capacità. Susseguentemente questa potenza è vista da Daniele come l’Impero di Medo-Persia.

4) Il terzo, di bronzo, rivelato più avanti essere l’impero di Alessandro Magno e gli stati stabiliti dai suoi successori.

5) Poi assume il comando la quarta potenza, più tardi identificata con Roma che rappresenta il culminare dell’antico sogno dell’impero come ricostruzione del sogno dell’uomo di un paradiso senza Dio. I suoi componenti però non hanno coesività e, come ferro e creta non si amalgamano.

6) Ai giorni di questo quarto impero, una Quinta Monarchia, di origine sovrannaturale, distruggerà l’antico sogno e lo sostituirà con un vero impero che conquisterà la terra e “sussisterà in eterno” (2:36-45).

Nabukadnesar, confrontato col terrore dei sogni, di essere governato e conquistato dell’inconscio cosmico, la rivolta e la signoria dell’ignoto o sconosciuto, dell’universale nascosto, e del sonno che sopraffa i brevi stati da sveglio dell’uomo, riceveva ora una risposta altra dal caso o dal fatalismo come chiave della storia. La questione, in ultima analisi è tra il caso e il decreto eterno, ma l’uomo l’ha immaginato anche coinvolgere un’altra e illogica alternativa. Le alternative dunque diventano:

1) Il regno e la causa ultima del caso. Affermazioni e significato diventano impossibili, come pure legge, conoscenza, scienza e la vita stessa. Nessuna cultura ha mai affrontato le implicazioni della causa ultima del caso senza collassare.

2) Determinismo cieco e materialista o fatalismo. Il fortuito concorso di atomi ha in qualche modo e illogicamente portato ad un cieca ed inanimata legge che è irrilevante alla consapevolezza, che manca di qualsiasi significato, e che conduce solo alla miseria dell’eterna ricorrenza. I filosofi orientali e Nietzsche hanno allo stesso modo trovato questo essere terreno di disperazione e di negazione del mondo e della vita, per quanto possano come nel caso di Nietzsche, aver lottato contro di esso. La religione astrale Babilonese sosteneva una forma di fatalismo, e Nabukadnesar era sotto la sua maligna influenza.

3) Il decreto eterno o la totale predestinazione. La contingenza delle cause seconde viene stabilita, e vengono date alla storia e alla vita dell’uomo sotto Dio responsabilità, significato e direzione. Senza il decreto eterno il

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significato non è possibile e regna solo la bruta sequenza dei fatti, senza possibilità di interpretazione.

Questo salvataggio della storia portò gioia a Nabukadnesar e promozione a Daniele e ai suoi tre amici (2:46-49). Inoltre, portò all’adorazione da parte di Nabukadnetsar di Daniele quale rappresentante del “Dio degli dei” e “Signore dei re”, il Dio il cui eterno decreto sostiene tutta la creazione (2:47).

Nabukadnesar, comunque, fallì di comprendere il pieno significato della visione. Era un salvataggio della storia, ma in quali termini, a quale fine?

La ricerca del salvatore del mondo e il ritorno al paradiso è comune agli obbiettivi imperiali dell’antichità. La secolarizzazione degli studi della storia, ha condotto alla castrazione della stessa e dell’asportazione di tutti gli obbiettivi religiosi in favore di una proiezione sugli imperi dell’antichità di obbiettivi puramente politico-economici o di altri obbiettivi moderni. Cristo e i Cesari di Ethelbert Stauffer è una importante dichiarazione del contrario riguardo al sogno messianico di Roma.

L’obbiettivo era magnificente, voluto con potere, passione, intensità: paradiso riguadagnato. Dalla città di Caino, Enoch alla torre di Babele, e avanti a Roma imperiale fino al presente, l’uomo ha cercato di cancellare il peso della colpa e della miseria umana, di unire l’umanità in un solo mondo, e di ristabilire il paradiso all’uomo. Il deprezzamento del passato come primitivo ha portato ad oscurare le incredibili approssimazioni di ordine, ricchezze illimitate, pace e prosperità in vari imperi dell’antichità, tutte condizioni viste come paradisiache, ma queste ed altre furono solo approssimazioni, mai la realtà.

La Quinta Monarchia ha successo dove fallirono tutti i falsi predecessori messianici, talché qualsiasi concetto cristiano della storia che sia disfattista o che ponga la vittoria nell’altro mondo rimane sotto la condanna di Daniele. Il mondo non è meramente una valle in cui salvare l’anima, né culminerà nel triste storico trionfo dell’Anticristo come vorrebbero le interpretazioni a-millennariste e pre-millennariste. La Quinta Monarchia ha successo, non solo nel distruggere i suoi rivali, ma anche nel compiere ciò che essi, con le loro false premesse cercarono di fare. Gli Imperi a quel tempo, i modernisti oggi, e gli stati di questa epoca, sono a questo riguardo tutti più saggi della chiesa, nel fatto che non negano significato o trionfo alla storia, ma lo ricercano zelantemente, benché su false premesse e nei termini dell’uomo autonomo. C’è, comunque, una differenza tra l’obbiettivo di questi quattro imperi e il proposito Biblico. Non è il paradiso in terra in se e per se ad essere l’obbiettivo della storia come la Bibbia lo descrive, ma piuttosto la restaurazione della comunione con Dio, di cui un paradiso in terra, come descritto da Isaia e dall’Apocalisse, è un effetto secondario. L’uomo è acutamente conscio della perdita del paradiso, ma non consapevole della rottura della comunione con Dio. Questa comunione ed il nuovo ordinamento mondiale fu dipinto da Isaia come conseguenza dell’espiazione. Inoltre, non è un ritorno all’Eden, né una nuova creazione del Giardino, ma Paradiso nei termini di comunità con Dio e l’uomo, nella Nuova Gerusalemme. Il romanticismo

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dell’isolamento e dell’auto-esaltazione viene rimpiazzato con la comunione in comunità. Questo richiede un lungo procedimento di maturazione storica, che comincia con la chiamata di Abrahamo, che in visione vide quella città e gioì (Eb.11:8-16; Gv. 8:56) e che culmina col ritorno di Cristo, il fine escatologico della storia, quando il procedimento è completato. Allora la zizzania sarà pienamente zizzania e il grano pienamente grano. L’auto-consapevolezza epistemologica, la conoscenza di se stesso come creatura da parte dell’uomo, e la sua conoscenza analogica di Dio, effettuerà la piena restaurazione degli uomini pii, proprio come la piena implicazione della Caduta sommergerà i reprobi o coloro che hanno rotto il patto. Essendo state sviluppate le implicazioni della storia, il tempo non sarà più.

I quattro imperi sono dipinti come un uomo, uomo caduto e pseudo-messianico. Incontriamo questa immagine dovunque l’uomo e lo stato assumono il controllo messianico della storia, dovunque echeggi il grido di Amleto. “Time is out of joint, O cursed spite, that ever I was born to set it right”. “Il tempo è slogato, maledetto dispetto che io sia nato per rimetterlo a posto”. Per quanto nobile possa risuonare questo grido, è l’essenza dell’orgoglio e della pazzia. Nessuno di noi è chiamato a mettere a posto il mondo o il nostro tempo, ma piuttosto a far fronte alle nostre responsabilità sotto Dio. La responsabilità e il lavoro a portata di mano è nostro, la questione è nelle mani di Dio. La storia ci da la perpetua crisi e la sconfitta di quella presunzione, da Babele alle Nazioni Unite ed oltre. Nessun uomo e nessuno stato può prendere il ruolo di Atlante senza incorrere nel giudizio, perché siamo chiamati ad essere uomini e non Dio, e tentare di più non è nobiltà ma pazza presunzione. Amleto, una volta accolta l’illusione di essere il dio di giudizio e di restituzione, rese inevitabile la sua tragedia, e la sua vita fu un’esplosione del bene come del male nei termini di un male più radicale di quell’omicidio che condannò. L’immagine di Nabukadnetsar è l’uomo caduto che con tutto il suo orgoglio tentò di promulgare il proprio eterno decreto e di impadronirsi delle redini della storia per se. Questo sogno è perciò una condanna dell’uomo e degli stati sposati a questa speranza.

È anche una grande offesa ai Giudei, e offre un indizio importante del perché questo libro fu negletto nell’antichità e susseguentemente. Daniele dice chiaramente che Dio by-passò il Suo popolo scelto in favore di quattro grandi monarchie che dovevano elaborare le implicazioni della storia antica, e poi avrebbe introdotto una Quinta Monarchia che non viene in nessun modo identificata con Israele. Il Dio che innalzò l’Assiria: “La verga della mia ira” (Isa. 10:5), e Nabukadnetsar, nelle cui mani fu data tutta la terra e al quale Dio parlò come aveva anticamente parlato ai Re D’Israele e di Giuda, il Dio che chiamò Ciro il Suo unto, chiaramente non era il Dio esclusivo d’Israele, né uno che limitava i suoi eterni propositi al popolo da Lui scelto. La priorità del decreto eterno sulla chiamata storica di Israele è troppo manifesto, troppo apertamente presente e presunto da non aver bisogno di una dichiarazione. Questa priorità del decreto eterno sulla storia e il suo statuto di fondamento di tutta la storia, su Israele e sulla chiesa, fu un’offesa ad Israele come oggi è offensivo alla chiesa. Ma la priorità del decreto eterno sopra ogni tempo, su Israele come sopra

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Babilonia, e la presunzione dell’Israele esteriore o apparente e della chiesa non è un’offesa minore dell’orgoglio di Babele e di Roma. L’uomo autonomo (in salvezza l’Arminiano N.d. T.) ha sempre piedi d’argilla.

Così, Dio l’onnipotente regna, non un Dio ai bordi del campo che semplicemente premia i determinatori della storia, ma Dio il Signore, che ordina ogni cosa e per la cui volontà solamente regnano i re, imperi cadono, e nei termini della cui volontà sola la storia ha scopo, significato, direzione. E la storia è il procedimento di Dio col quale l’inconscio nella creazione è portato a consapevolezza, l’implicito fatto esplicito, e la zizzania ed il grano maturano, finché sarà adempiuta la visione di Gioele:

Mettete mano alla falce perché la messe è matura. Venite, scendete, perché il torchio è pieno, i tini traboccano, poiché grande è la loro malvagità». Gioele 3:13

In quel giorno avverrà che i monti stilleranno mosto, il latte scorrerà dai colli e l'acqua scorrerà in tutti i ruscelli di Giuda. Dalla casa dell'Eterno sgorgherà una fonte, che irrigherà la valle di Scittim. Gioele 3:18

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DANIELE 3LA CONTINUAZIONE DI DIO

L’uomo può accettare conclusioni logiche senza trarre da esse logiche deduzioni, e Nabukadnetsar poteva accettare il salvataggio della storia per mezzo del decreto eterno di Dio senza trarne conclusioni bibliche. Per lui, il contesto del sogno ed il salvataggio della storia era il redivivo concetto babilonese di continuità. A questa trionfante anche se erronea conclusione, egli diede testimonianza erigendo nella pianura di Dura “un'immagine d'oro, alta sessanta cubiti, e larga sei cubiti,” (Dan. 3:1). Quest’immagine era indiscutibilmente un eco e un dare corpo al suo sogno, presentando non solo la gloria di Babilonia, ma anche la sua personale maestà, gloria e dominio come grande testa d’oro. Secondo il sogno, come Nabukadnetsar lo intese, la Quinta Monarchia sarebbe stata preceduta da quattro grandi imperi dei quali egli ere la testa, ed al quale “il Dio del cielo ha dato il regno, la potenza, la forza e la gloria”(2:37). Che Dio desse ad un uomo la gloria, agli uomini dell’antichità che erano fuori dalla fede Ebraica, significava una cosa sola: la condivisione della Sua divinità e del Suo regno con l’uomo. Significava per loro la partecipazione nella vita e nel regno di Dio, e faceva di loro e del loro ordinamento una continuazione di Dio ed una manifesta incarnazione di Lui. Così, Nabukadnetsar poteva agire nella confidenza, basata nella sua interpretazione delle parole di Daniele nei termini delle semantiche della continuità, che Dio gli aveva dato certe cose:

1) Benché il grande regno appartenesse al futuro, il presente regno di Nabukadnetsar ne era il precursore.

2) Nei termini di ogni precursore, Nabukadnetsar aveva la preminenza ed era “la testa d’oro”.

3) Dio aveva dato il mondo a Nabukadnetsar, il Suo vice-reggente, e aveva fatto di lui la potenza e la presenza di Dio alla sua epoca.

4) La storia era perciò nella mani di Nabukadnetsar e derivava il suo significato da lui.

5) Come potere e volontà di Dio per la sua epoca, Nabukadnesar non poteva essere resistito senza resistere a Dio.

Un duro, aspro elemento di verità sta sotto a queste presupposizioni, per quanto fallaci possano essere. Mentre la gloria che Dio da all’uomo come uomo è gloria di creatura, Egli stesso mai condividendo la Sua gloria con l’uomo, pure rimaneva il fatto che Dio aveva dato il mondo nelle mani di Nabukadnetsar. È egualmente certo che nel ventesimo secolo Dio abbia in svariati tempi dato potere e dominio a uomini quali Hitler, Mussolini, Chamberlain, Stalin, Daladier, de Gaulle, Roosevelt, Mao, Kennedy, Nasser, Nehru ed altri mentre lasciava i suoi santi senza aiuto ed

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apparentemente impotenti davanti a queste potenze da Lui ordinate. Non senza ragione, mentre contemplavano queste cose, i santi in Babilonia diedero voce alla loro sofferenza:

Là, presso i fiumi di Babilonia, sedevamo e piangevamo, ricordandoci di Sion;sui salici di quella terra avevamo appese le nostre cetre.Là, quelli che ci avevano condotti in cattività ci chiedevano le parole di un canto, sì, quelli che ci opprimevano chiedevano canti di gioia, dicendo: «Cantateci un canto di Sion».Come avremmo potuto cantare i canti dell'Eterno in un paese straniero? (Sl. 137:1-4)

Questa è infelicemente la nostra vocazione costante ora, cantare canti del Signore in un paese straniero, in un mondo dato nelle mani ai figli di Babilonia.

Nel mezzo di tutto ciò arriva il comando “è ordinato che, vi prostriate per adorare l'immagine d'oro che il re Nabukadnetsar ha fatto erigere;” (3:5)

La pena per chi non adora era “una fornace di fuoco ardente” un modo di eseguire la pena capitale comune agli Assiri e ai Caldei e prevalente in Persia fino al 1662. In quell’anno ad Isfahan, durante una grande carestia, le fornaci furono tenute accese per un mese per intimorire qualsiasi mercante di cereali trovato colpevole di frodare i poveri o di violare il controllo governativo dei prezzi.

Probabilmente Daniele era assente in questa occasione, o troppo forte per poter attaccare il suo rifiuto di adeguarsi. Il potere di Daniele fu attaccato nelle persone dei suoi tre amici arrestati per l’accusa di “certi Caldei” (3:8) che erano risentiti di questa preminenza Giudaica negli affari di Babilonia.

Nabukadnetsar fu “adirato e furibondo” di questa insolenza, a questo rifiuto di accettare l’inevitabile testimonianza del loro stesso canale di Apocalisse dall’ordine soprannaturale della cose. Nondimeno, secondo il suo punto di vista, questo monarca fu equanime con questi tre ribelli, dando loro un’altra opportunità di essere obbedienti e di ritornare alle loro case e alla loro posizione. Come potevano osare rifiutare, domandò, poiché “qual è quel Dio che potrà liberarvi dalle mie mani?”(3:15) Qui c’è l’essenza della fede dell’Imperatore. Nei termini di questo concetto di continuità, Nabukadnetsar era in continuità con Dio e l’incarnazione della sua potenza e della sua gloria. Resistere lui significava resistere Dio, non nel senso Paolino, ma come la continuità nei cui soli termini l’uomo poteva prosperare, e separati dalla quale nessuna mediazione poteva propriamente esistere. Il ruolo sacerdotale del re Caldeo, come grande mediatore, era stato rinforzato dal sogno, e fino a che Nabukadnetsar avesse tenuto il potere egli sarebbe stato la mano, la testa, il potere e la mente di Dio per i suoi giorni. By-passarlo nell’adorazione significava disprezzare entrambi Dio e la gloria incarnata di Dio; altre e periferiche adorazioni di potenze minori erano permissibili solo quando l’immagine e la gloria di Nabukadnetsar fossero state per prima riconosciute. Il politeismo era perciò permesso come parte della politica di tolleranza religiosa, purché alla religione di stato fosse

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prima stato dato il dovuto, a tutti gli altri dei appartenevano solo gli avanzi. L’umanesimo dell’uomo moderno, la sua professione di autonomia, e le religioni dello statalismo sono tutti egualmente tolleranti delle altre fedi e sono politeisti, a condizione che siano prima riconosciute le loro richieste, e al Dio Trino vengano elemosinati solo gli avanzi della devozione dell’uomo. Questi ordinamenti, centrati sull’uomo, avanzano verso di lui e stingendogli il collo, dichiarano in effetti: “Qual è il Dio che ti libererà dalle mie mani?” Già! Quale Dio infatti soccorrerà il suo popolo da questo mondo politeista, dal potere dello statalismo, dello scientismo, e dai credi antropocentrici? Il dio di Nabukadnetsar era una potenza ben presente, manifesta attraverso il processo naturale della storia e nell’ordinamento sociale, e per mezzo di esso. Mentre era un dio inevitabilmente in crescita e cambiamento, come è il dio dei teologi esistenzialisti, era comunque la potenza e gloria sempre presente e impossibile da resistere. Poteva essere trasceso ma non resistito. E perciò la sua adorazione era obbligatoria.

La risposta di questi tre ribelli contro il politeismo della continuità fu nitido “il nostro Dio, che serviamo, è in grado di liberarci” Non importava che lo facesse, né avevano essi questa sicurezza riguardo al responso divino alla loro presa di posizione. Indipendentemente delle conseguenze “Sappi o re, che non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo l'immagine d'oro che tu hai fatto erigere” (3:17-18). Notate la sfida alla fede di Nabukadnetsar. Senza dubbio questi tre uomini avevano pregato per una liberazione, ma sentirono che era imperativo fare chiarezza sulla natura trascendentale e libera di Dio e sulla Sua radicale discontinuità con la Sua creazione e con i Suoi santi. Essi negarono la continuità di Dio sia con Nabukadnetsar sia con essi stessi: Dio non era obbligato a salvarli, ed era precisamente questo Dio libero che essi adoravano e nessun altro. Una fede così “futile” senz’altro sembrò una radicale perversità e un tradimento a Nabukadnetsar e fece questi uomini, come fu anche per i Cristiani di Roma, anarchici della peggior specie, nemici di ogni legge e ordine. I Cristiani dell’Impero Romano pregavano per l’imperatore ed obbedientemente gli davano il dovuto; i filosofi e gli scrittori adoravano al santuario imperiale e poi cinicamente deridevano ciò che avevano adorato. Ciò nonostante erano i Cristiani ad essere perseguitati, poiché la loro religione della discontinuità era radicalmente sovversiva dell’intera filosofia dell’Impero. Così fu con gli amici di Daniele.

Come conseguenza di questa resistenza, i tre uomini furono gettati nella fornace, una fornace alimentata a tal calore che uccise gli uomini che gettarono i tre nel fuoco (3:22). I tre “caddero legati in mezzo alla fornace di fuoco ardente” (3:23). Immediatamente dopo furono visti camminare nel fuoco, incolumi e slegati, con presente un quarto uomo che, secondo Nabukadnetsar era “simile a un Figlio di Dio”(3:25). Quel monarca allora chiamò fuori i tre testimoni della fede, “servi del Dio Altissimo” (3:26), perché solamente quella superiorità di associazione, egli era certo, avrebbe potuto salvarli. Uscirono illesi, senza un capello bruciato, perfino senza l’odore di fumo su di essi (3:27).

Nabukadnetsar, reso più conscio della trascendenza di Dio, ma senza ancora perdere il suo orientamento Caldeo, immediatamente lodò Dio e riconobbe la sua esclusività riguardo all’adorazione (3:28). Più importante ancora, egli riconobbe un

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elemento di discontinuità: Dio aveva, con un atto sovrano di revoca “Ha cambiato l’ordine del re” (3:28) La storia non era dunque un singolo processo: Dio aveva un popolo la cui integrità ed il cui esclusivismo di culto non poteva essere sfidato senza pericolo. Perciò, un decreto reale proibì qualsiasi mal-rappresentazione di Dio pena la morte e la totale dissoluzione della famiglia dell’offensore, “perché non c'è nessun altro dio che possa salvare a questo modo” (3:29). I tre uomini furono promossi e fatti prosperare “nella provincia di Babilonia” (3:30). La potenza di Dio, manifestata nei suoi santi fu in questo modo strettamente associata con la potenza di Dio come era creduta manifesta nel trono e nell’impero.

La decisione, dalla prospettiva del mondo, fu fatale a Nabukadnetsar, e il mondo preferisce dubitare la storicità dell’intero incidente e perciò sfuggire alla sua sfida. Se vero, l’incidente rivela una larga crepa nel muro dell’uomo e delle sue difese. La storia non è nelle mani dell’uomo, e il governo, il peso del comando non è sulle spalle dell’uomo. Il decreto eterno divenne per Nabukadnetsar non una polizza d’assicurazione, ma un decreto di abdicazione, se solo lo avesse saputo. Con questo Dio non è possibile il compromesso, e i sogni dell’uomo sono messi da parte come ribellione e futilità: “Perché tumultuano le nazioni e i popoli immaginano una cosa vana?” tutti i loro consigliarsi contro il Signore e contro il Suo Unto, tutte le loro speranze di sfuggire dalle corde e dai legami del Suo decreto, sono derisi da Dio: “Colui che siede nei cieli riderà, il Signore si farà beffe di loro.” Dio dichiara a Suo figlio riguardo alle potenze mondiali:

“Tu le spezzerai con una verga di ferro, le frantumerai come un vaso d'argilla. Perciò, Servite l'Eterno con timore e gioite con tremore.Sottomettetevi al Figlio, perché non si adiri e non periate per via” (Dal Salmo 2)

La vera prospettiva, così, non era un vasto quadro della continuità del mondo come processo con Dio, con una discontinuità ed una immediatezza apparente in alcuni grandi santi, ma una totale discontinuità e un radicale ed esclusivo governo di tutta la creazione da parte di Dio il Creatore. Lungi dall’essere parte del processo dell’essere, Dio, l’Essere non creato è il creatore e il governatore dell’intero corso degli esseri creati e Lui stesso al di là di qualsiasi cambiamento, processo, crescita o deterioramento. Tale Dio non concede ricorso ma solo resa e adorazione oppure morte.

Ma il compromesso, ora come allora, è la vana speranza e la via percorsa dall’uomo. La chiesa, lo stato e la scuola affermano di essere un’incarnazione di Dio e del Suo Unto, una continuazione dell’incarnazione ed un vero sacerdozio. L’uso di paramenti sacri nelle chiese, l’uso di vesti clericali da parte di giuristi e da scolastici testimonia di questo concetto di sacerdozio e di mediazione quale saggezza, potenza e gloria, visibili, di Dio. Ma, secondo le Scritture, Gesù Cristo solamente è l’incarnazione di Dio, e Lui solo il Messia, e solamente in Lui, quali membri del Suo corpo, i credenti hanno un sacerdozio, un sacerdozio tenuto in comune da tutti i credenti in virtù del loro statuto di membri in Cristo e non tenuto nei termini di qual

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che sia priorità d’ufficio e di santificazione. Nei termini di tutto ciò, una similare insistenza del concetto e dichiarazione di continuità in questa e in tutte le altre aree di auto-esaltazione dell’uomo devono essere resistite nel nome e nella potenza di Dio.

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DANIELE 4

IL CENTRO RITUALE DELLA TERRA

La torre di Babele fu un’affermazione del concetto di continuità e un tentativo, attraverso l’unificazione statale della società e di un programma di auto-giustificazione, di raggiungere il cielo, di rafforzare la continuità con le potenze celesti partecipando nell’opera di redenzione del mondo. Non è la “malvagità” del “peccato e della carne” che caratterizzò la Torre di Babele e la proseguente città di Babilonia, la grande “madre delle meretrici” (Riv. 17:5); ma il suo statuto come giustizia rivale e rivale concetto di unità e di redenzione.

Con la loro architettura, i Ziggurat babilonesi, scale verso il cielo, affermavano il concetto di continuità. In tutte le fedi in tali torri, pietra dopo pietra, passo dopo passo, piano dopo piano, grado dopo grado, l’uomo arriva al cielo e fa del regno dell’uomo l’obbiettivo e la realtà della storia.

Il “Concetto di Centro” era strettamente in relazione a questo sogno. Il quadrato ed il cubo, antichi simboli di perfezione, di completezza e di piena comunione, divennero simboli vitali della vera città dell’uomo: Babilonia la Grande. Akhenaton costruì una città secondo un progetto quadrato, e, secondo Erodoto, anche Babilonia era un quadrato. Lo stesso concetto compare anche negli scritti di alcuni pensatori Greci.1 Il Centro, il Trono e il Santuario erano in relazione ed erano basilarmente lo stesso concetto, nel fatto che il concetto di continuità identificava dei, stato e l’uomo e li considerava esistenti in una società celebrata in un punto focale rituale. Sia Gerusalemme sia Gherizim erano considerate da alcuni Giudei e da alcuni Samaritani in simili termini (Gv.4:20), cosicché il concetto pagano di un centro rituale sembra si potesse trovare anche in Israele, non solo ai giorni di Geremia ma anche al tempo di Cristo.2 Contro tutto questo, il Nuovo Testamento affermò enfaticamente, come fece pure il Vecchio (Sal. 87 ecc.), che il vero centro non è nell’uomo, né nel suo regno o città, ma in Cristo e nella sua Nuova Gerusalemme, una città costruita “quattroquadrati”, un cubo perfetto, col “trono di Dio e dell’Agnello” (Riv. 22:1) quale sorgente di ogni cosa. Riservando il trono a “Dio e all’Agnello”, piuttosto che all’Agnello come tale, la Trinità ontologica è posta al centro focale, e non Dio solamente come rivelato e messo in relazione con la creazione. Come Alfa e Omega, questo Cristo è visto anche come al di la della creazione e discontinuo con essa, mentre è incarnato senza confusione di nature.

1 Platone, Protagora, 344; Aristotele, Retorica iii,11,2.2 Vedi V. Burch: “Anthropology and the Apocalipse2; London,Macmillan, 1939, p. 202

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Questo concetto del vero centro era stato presentato nel disegno del tabernacolo. Il Santissimo era un cubo. L’accampamento d’Israele, l’assemblea della Chiesa di Dio era un quadrato, come illustra chiaramente Numeri 2, col tabernacolo o trono di Dio al centro. Questa forma, data per mezzo di una Apocalisse sul monte (Es. 25:9,40; Nm.8:4; Ez. 43:10; Eb. 8:5), era disegnata per presentare e affermare il vero e trascendente centro, trono e santuario, e attaccare con ciò tutti i concetti puramente immanentisti.

Il concetto Babilonese di continuità era chiaramente presentato nella forma dell’investitura del re Caldeo, che consisteva in essenza nel “prendere la mano del dio”, un rituale osservato da tempo immemorabile e seguito anche dagli Assiri a Ninive, e dai suoi conquistatori, ad es. Sennacherib, Esaraddon, e Assurbanipal in Babilonia. Ciro, nel conquistare Babilonia, divenne re agli occhi dei Babilonesi solo dopo “aver preso la mano del dio” ad Esagila.1 Con questo rituale, l’impero, nella persona del re, assumeva amicizia, collegamento con gli dei sulle basi di una vita comune.

Un ulteriore simbolo presentava la natura della continuità in forma animata, l’albero o “palo” come centro rituale della terra. Questo albero sacro o colonna sostiene il cielo ed è l’albero della vita, il legame tra cielo e terra. Poiché un albero è una cosa vivente, quest’albero della vita presenta perciò un legame in crescita, un concetto in chiara ostilità con l’albero protetto della Apocalisse Biblica (Gn. 3:24). Ancora, il concetto di re pastore affermava l’autorità divina ed il potere del monarca, il quale, come guardiano del suo popolo, controllava il loro destino, che era inseparabile dalla loro vita come soggetti (sudditi) dello stato. Contro tutto questo, YHWH, Dio il Padre e Gesù Cristo, Dio il Figlio, sono dichiarati essere il Buon Pastore (Sal.23; Gv. 10:11; 1 Pt. 2:25), e la Sapienza o Logos, Cristo è il vero albero della vita (Gn.2:9; 3:22; Pr.3:18; 11:30; Ez. 47:7, 12; Riv. 2:7; 22:2,14) Per Nabukadnetsar, comunque, era naturale ed inevitabile, nei termini del concetto di continuità, sognare di se stesso come l’albero della vita per la sua generazione.

Ma per quanto “naturale” questo concetto potesse essere per Nabukadnetsar quale monarca Caldeo, egli era anche una creatura di Dio, e nei termini di questo fatto, la sua fede era “innaturale” ed un peccato. Il condizionamento culturale è reale, ma basilare alla condizione di ogni uomo è il fatto della sua creaturalità e della sua creazione ad immagine di Dio. Questa realtà primaria e determinativa non può essere obliterata dalle condizioni della storia o dalla tirannia di uomini e filosofie. Perciò, in ogni epoca, gli uomini sono inescusabili perché hanno volontariamente scambiato la verità di Dio con una menzogna (Rm.1:25) e si sono sottomessi alla menzogna comune e democratica preferendola alla impopolare parola di Dio.

In tali circostanze, Dio frequentemente usa le stampelle dell’uomo per testimoniare contro di lui svergognandolo con le sue stesse stampelle. Secondo Diodoro, i Caldei spiegavano i sogni quali portenti, interpretandoli nei termini di regole dure e fisse come simboli Freudiani, e li ritroviamo spesso registrati come articoli importanti dello stato.

1 G. R. Tabouis: “Nebuchadnezzar”; London: Routledge, 1931, p. 69

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Il sogno di Nabukadnetsar, come Daniele osservò con turbamento “è per quelli che ti odiano” cioè “piacerà ai tuoi nemici” (4:19)1. Nabukadnetsar aveva visto se stesso come “un albero in mezzo alla terra” cioè il centro rituale e albero della vita, “e la cui altezza era grande” (4:10). L’albero era “cibo per tutti” (4:12), sostegno e nutrimento per la sua generazione, cosicché Nabukadnetsar rappresentava il principio di vita per il suo tempo, l’albero di Dio, in cui erano manifesti il potere e la presenza di Dio. Il sogno, comunque, mostrò “un guardiano, un santo” (4:13) discendere dal cielo e pronunciare un decreto divino di abbattimento contro l’albero, con solo un ceppo da lasciarsi come origine di nuova crescita. Un cuore di bestia avrebbe sostituito quello umano, cioè il re sarebbe stato un animale, fino a che “passino su di lui sette tempi”. (4:16), fino a che la pienezza del decreto fosse stabilita. La dichiarazione a Nabukadnetsar fu ancor più esplicita: “La cosa è decretata dai guardiani e la sentenza viene dalla parola dei santi perché i viventi sappiano che l'Altissimo domina sul regno degli uomini, egli lo dà a chi vuole e vi innalza l'infimo degli uomini" (4:17).

Questo sogno fu visto da Nabukadnetsar nel suo contesto culturale, ma il colpo fu capitale. Daniele chiarì anche la fonte del decreto, non “dei guardiani” ma “dell’Altissimo” (4:24), una sentenza di umiliazione a meno che Nabukadnetsar non avesse “posto fine” ai suoi “peccati e…iniquità, usando misericordia verso i poveri”(4:27).

Non c’è motivo di dubitare che, nei dodici mesi (4:29) prima che passasse la sentenza, Nabukadnetsar abbia provato a fare proprio questo. L’unico supposto ritratto di lui che abbiamo, un cammeo ora nel Museo di Berlino, indica una fisionomia onesta e sensibile. Nei termini dei suoi concetti Caldei, egli cercò d’essere quel re giusto che aveva sempre cercato di essere, ed ora ancor di più. L’ iscrizione Grotefend indica la sua auto-valutazione: “Nabukadnetsar, il re giusto, il pastore fedele, che dirige l’umanità, che governa sui sudditi di Bel, Shamash e Marduk, l’arbiter, il possessore della sapienza, che si prende cura della vita, il sublime, l’instancabile, il mantenitore di Esagila ed Ezida, il figlio di Nabopolasser, re di Babilonia, io sono”. Nabukadnetsar poi scrisse della sua reverenza per il suo creatore, Marduk, la ricchezza dei suoi sacrifici, l’unificazione di “numerosi popoli” sotto Babilonia. “Sotto la sua continua protezione io ho radunato insieme tutta l’umanità nel benessere, e ho quivi immagazzinato grandi mucchi di frumento in quantità incalcolabili”.2 Nabukadnetsar considerava se stesso il “pastore fedele”, nell’iscrizione Winckler “il pastore legittimo”3 il divino re il cui amore per il dio-creatore era iniziato alla nascita. Egli aveva avuto successo nell’estendere il grande regno dei sogni di dio e dell’uomo portando numerosi popoli all’unità dentro ad un impero comune, impero dedicato alla giustizia e alla pace. Nella Iscrizione di Borsippa, c’è una sincera richiesta all’ “eterno figlio, messaggero esaltato”, Nabu:

Proclama tu la lunghezza dei miei giorni, scrivi tu la mia progenie!1 L’A. sembra preferire questa traduzione tratta da Leupold: “Commentario a Daniele”. 2 Robert Francis Harper: “Assirian and Babilonian Literature” traduzioni selezionate; New York: Appleton, 1904, p. 147-1503 Ibid., p. 143

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Alla presenza di Marduk, il re del cielo e della terra,il padre, mio generatore, guarda con favore sulle mie opere.Ordina ch’io riceva favore!Possa Nabukadnetsar,Il re, il restauratore, esser reso per sempre stabile sulla tua bocca!1

In un’altra iscrizione Nabukadnetsar pregò:

In verità rispondimiCon giudizi e con sogni!2

Con la sua reale dipendenza da Daniele, Nabukadnetsar diede prova dell’intensità del suo desiderio di essere giusto, ma il suo concetto di ciò era completamente in termini Caldei. La struttura a gradini dei ziggurat, con ogni piano che recedeva successivamente, dava da una certa distanza l’apparenza di una scala gigantesca che raggiungeva il cielo, un simbolo appropriato di questa religione di continuità e della sua fede nell’unione tra cielo e terra. L’umiltà di Nabukadnetsar era reale, ma non era centrata in Dio, essendo posta nel contesto di uno che aveva preso la mano del dio per il suo popolo in solenne umiltà e orgoglio nella sua funzione di centro, trono, albero, pastore, colonna e gloria. In questa prospettiva, Dio era coinvolto nella dialettica della storia e non al di la di essa, il punto di coinvolgimento era Nabukadnetsar ed il suo impero.

Di conseguenza, Nabukadnetsar, nei termini della sua fede, parlò onestamente e con qualche solenne umiltà insieme ad orgoglio, nell’affermare: “Non è questa la grande Babilonia, che io ho costruito come residenza reale con la forza della mia potenza e per la gloria della mia maestà?” (4:30). Queste parole non devono essere interpretate come mero, vanaglorioso vantarsi, ma piuttosto come il felice e orgoglioso compendio di un uomo che gioisce nella sua opera e nella sua giustizia, affermando che il suo ordinamento è nei fatti l’adempimento del regno ed il reale centro rituale della terra, il punto focale umano della gloria divina. La dichiarazione è perciò un’affermazione della sua soddisfazione che la minaccia del sogno fosse stata bloccata, che il sogno, senza dubbio registrato negli archivi di stato come lo erano gli altri sogni, fosse stato fermato dalla giustizia umana del re e del suo ordinamento. Era la consumata espressione di giustizia autonoma, l’accentuazione di quella vera fede che Dio stava sfidando.

Fu in questo modo, precisamente nel momento in cui Nabukadnetsar credette che il regno fosse sicuramente stabilito, che arrivò la sentenza “il tuo regno ti è tolto” (4:31). Inoltre, dovunque l’uomo cerca di diventare più che uomo, diventa meno che uomo. Qualsiasi suo tentativo di essere come Dio ha per risultato una riduzione della sua umanità e una ritirata nell’irrazionalità e nell’irresponsabilità. In Nabukadnetsar, il preteso albero della vita, questa metamorfosi si manifestò con ciò che è stato

1 Robert Francis Harper: Op. Cit. p. 150-1522 Ibid., p. 156s.

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definito licantropia o più propriamente zooantropia, una malattia in cui l’uomo, odiando Dio e perciò anche se stesso come creato ad immagine di Dio, cerca di colpire Dio cercando di obliterare ogni traccia della sua propria umanità e dell’immagine divina in se stesso. Ci sono alcune evidenze che Nabukadnetsar fu completamente assente dal potere per quattro anni.1

Il proposito dell’umiliazione di Nabukadnetsar era stato “finché tu riconosca che l'Altissimo domina sul regno degli uomini e lo dà a chi vuole” (4:25). C’è buona ragione per credere che l’esperienza di Nabukadnetsar sia culminata nella sua rigenerazione. Benché la sua proclamazione sia in parte espressa in termini politeisti, è significativo che tale riferimento compaia nella sua descrizione del suo pensiero prima della sua guarigione. Certamente il documento è rimarchevole se paragonato ad altri documenti dell’antichità nella sua umiltà e confessione di peccato. La dichiarazione asserisce tre cose: 1) l’assoluta sovranità e discontinuità di Dio con l’uomo (4:34-35,37); 2) l’intera proclamazione è una dichiarazione di pentimento e 3) è una confessione di peccato. Molto meno viene richiesto a molti moderni “convertiti” ed esitare riguardo all’integrità di fede di Nabukadnetsar sembra ingiustificato. Inoltre, come il periodo posteriore di Giobbe fu benedetto più del precedente (Gb. 42:10-13), così Nabukadnetsar fu rafforzato nel suo regno “e la grandezza mi fu enormemente accresciuta” (4:36).

Il significato dell’intera attitudine di Nabukadnetsar è stata ignorata ma non è di poca importanza. Anche concedendo ai dubbiosi che il monarca non sia mai divenuto un vero adoratore, pure rimane il fatto che il suo segno di preferenza per Daniele ed i suoi associati, e per la loro fede, diede agli Ebrei una posizione privilegiata in quell’impero. Questo fu sufficiente per creare un sentimento anti-ebraico tra i Caldei sia allora (3:89) che più tardi (6:4) sotto Dario. La posizione degli Ebrei fu dunque di sicurezza, privilegio e prosperità, cosicché la loro cattività divenne non una maledizione ma una protezione. Erano sotto un re la cui attitudine verso Dio, anche con un minimo di interpretazione, se paragonata con quella dei re di Giuda, era migliore e se, come Young abilmente argomenta, la sua fede era ora genuina, la loro situazione era marcatamente migliore. Così, anche nell’asprezza della cattività, la grazia, protezione e benedizione di Dio fu apertamente manifestata.

1 Tabouis: Op. Cit., p. 341.

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DANIELE 5LA BILANCIA DELLA GIUSTIZIA

La fede di Nabukadnetsar fu efficace nella sua vita ma non nei termini della storia Babilonese. Dopo la morte di quel monarca, Babilonia passò attraverso una successione di deboli mani finché Nabonide, genero di Nabukadnetsar pervenne al trono. Suo figlio, Belshatsar, nipote di Nabukadnetsar, fu fatto vice-reggente per rafforzare la sua posizione, e per dargli indipendenza nell’estendere l’impero. La campagna di Nabonide in Arabia portò alla costituzione di una nuova capitale a Tema, sulle strade del mondo antico, per controllare i percorsi del commercio che portavano al Mar Rosso, il Golfo Indiano, all’Egitto, India e a tutto il mondo di quei tempi. Tema, a metà strada tra Damasco e Mecca, è ancora un importante centro di scambi dell’interno dell’Arabia, ma sotto Nabonide la città raggiunse la propria gloria come “la capitale dell’impero Neo-Babilonese, perché il re viveva lì in un palazzo che eguagliava quello di Babilonia”1 L’importanza di Tema però, era comunque condizionale dal continuato potere di Babilonia stessa, poiché Nabonide era in terra straniera e capace di far progredire il potere imperiale solo per quanto la casa madre poteva sostenerlo. Il regno di Nabonide segnò così un ulteriore sviluppo del potere imperiale come anche il suo termine.

L’ascesa dei Medi e dei Persiani, all’inizio una nuvola non più grande di una mano d’uomo, si sviluppò in una forte tempesta mano a mano che queste potenze raggiunsero Babilonia. La sicurezza dei Babilonesi, comunque, era fondata sulla loro capacità di sostenere, come essi credevano, un assedio di settant’anni, con i Medi ed i Persiani che si sarebbero probabilmente distrutti nel tempo per la loro distanza da casa ed i problemi causati dal prolungarsi dell’attesa del vettovagliamento. Perciò Belshatsar si sentì libero di procedere con la festività religiosa.

Alla grande festa del nuovo anno, solo il re sommo sacerdote, Nabonide, poteva presiedere, ma nelle altre festività, Belshatsar, come vice reggente, poteva officiare. L’occasione fu marcata da un grande banchetto con molto vino, con Belshatsar stesso che presiedette il pranzo davanti a mille dei suoi nobili (5:1). Questa stravaganza di splendore e celebrazioni era comune nell’antichità come testimoniano i 15000 che più tardi, secondo Ateneo, pranzeranno giornalmente al tavolo del monarca Persiano e al quale Ester 1:3-5 testimonia. Ma la motivazione religiosa era centrale e basilare all’esuberante osservanza. A conferma di quella motivazione religiosa, Belshatsar, un uomo devoto, espresse la condanna ufficiale di

1 Raymond Philip Dougherty: “Nabonidus and Belshazzar, A Study of the Closing Events of the Neo-Babylonian Empire; New haven. Yale, 1929, p. 146. Lo studio di Dougherty da eccellenti evidenze dell’affidabilità storica di Daniele confermando l’esistenza e la posizione di Belshazzar. Vedi anche Edwin Yamauchi: “Grece and Babylon”, Grand rapids. Backer Book House, 1967, p. 70s, 89ss.

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Babilonia riguardo ai sogni di Nabukadnetsar registrati come interpretati dall’Ebreo, Daniele. I vasi sacri, portati via dal tempio di Gerusalemme, furono portati in modo “che il re e i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine” (5:3) bevvero in essi. Questo fu un atto di deliberato sacrilegio, e anche una dichiarazione di fede. La fede Babilonese era 1) una fede nella salvezza per opere, una fede che implica inevitabilmente che, 2) poiché l’uomo salva se stesso, egli controlla il suo destino, e il futuro è perciò nelle sue mani. Chiaramente Belshatsar fece quest’ultima deduzione. La sua pretesa ignoranza di Daniele viene corretta da Daniele stesso “benché tu sapessi tutto questo” (5:22), cioè del sogno e dell’esperienza di Nabukadnetsar, del giudizio di Dio, e del ruolo centrale di Daniele in tutta questa ben conosciuta sequenza di eventi. Belshatsar, sicuro della vittoria sui Medi e Persiani, espresse con questo sacrilegio il suo disprezzo per YHWH e la propria abilità di utilizzarLo. Egli non era legato dai sogni o dalla loro interpretazione profetica di Daniele, ma solo dalla sua volontà e forza. Questo monarca, quale devoto sacerdote-re, dando ripetutamente evidenza della propria fede,1 asserì la propria indipendenza da questo Dio discontinuo che prepotentemente rifiutava la mano dell’uomo o le sue opere, questo Dio che agiva in disprezzo della gloria umana. Si può forse dire che in quel momento la religione Babilonese fu chiaramente ed acutamente focalizzata nell’atto sacerdotale di Belshatsar. Mentre bevevano vino dai vasi del tempio “lodarono gli dèi” (5:4).“In quello stesso momento”, apparve la mano di un uomo che scrisse sul muro in una scrittura sconosciuta, riempiendo tutti di terrore, il sacerdote-re in particolare. I suoi consiglieri non furono capaci di decifrare lo scritto nonostante le allettanti offerte. La regina madre2 sollecitò che si prendesse in considerazione Daniele, forse parlando come se Daniele fosse sconosciuto a Belshatsar in modo da confondere, velare la vergogna di aver bisogno di un uomo il cui Dio e le cui interpretazioni profetiche erano state solo un’ora prima apertamente disprezzate e sfidate.

Belshatsar dunque mandò a cercare Daniele, offrendogli la terza carica nel regno (dopo Nabonide e se stesso) per l’interpretazione dello scritto. Il suo approccio a Daniele cominciò in parte così: “Sei tu Daniele, uno degli esuli di Giuda, che il re mio padre condusse dalla Giudea?” (5:13). Ciò che la regina madre aveva detto riguardo a Daniele concerneva la sua eminenza sotto Nabukadnetsar, non le origini di Daniele. Belshatsar scelse di ignorare questo fatto, dando ogni evidenza che egli conosceva perfettamente chi fosse Daniele, e per ridurre Daniele al silenzio per quanto concernesse il predicare a lui. Egli in effetti disse a Daniele; “Tu sei un Giudeo, portato qui prigioniero anni fa. Qualsiasi eminenza tu abbia guadagnato è eminenza Babilonese presa in prestito. Sii consapevole del tuo posto. Cosa può offrire a me o dirmi il tuo Dio, quando non può fare nulla per il suo popolo?” L’offerta di fare di lui la “terza carica del regno” (5:16) era un’offerta di restituzione dell’eminenza già posseduta sotto Nabukadnetsar, e dalla quale, probabilmente per motivi religiosi, era stato rimosso.

1 Ibid., p. 87-922 Young: “Commentary on Daniel” ad. loc.

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La risposta di Daniele fu impavida e incisiva: “Tieniti pure i tuoi doni e da' a un altro le tue ricompense; tuttavia io leggerò la scritta al re” (5:17). Daniele poi ricordò al monarca la sovranità di Dio, che “diede” a Nabukadnetsar tutto ciò che aveva posseduto, e poi “lo depose dal suo trono regale” per un periodo a motivo del suo orgoglio (5:18-20). L’orgoglio è qui chiaramente un aspetto della religione della continuità e ne è la premessa. Belshatsar, sapendo tutto questo, aveva proceduto deliberatamente in un percorso di disprezzo per Dio, un disprezzo manifestato nell’uso dei vasi del tempio, innalzando se stesso, cioè ponendosi al di sopra e in indipendenza dal “Dio, nella cui mano è il tuo soffio vitale e a cui appartengono tutte le tue vie” (5:21-23).

La scritta sul muro veniva da questo Dio, ed il suo significato era chiaro e diretto: MENE, MENE, TEKEL, UPHARSIN, o, come Young lo rende: MENE, MENE. TEKEL, UPERES.1

Il quadro qui è quello della bilancia della Giustizia, quella divinità dell’antichità, che compare implicitamente o esplicitamente in una religione dopo l’altra, in Egitto, Babilonia, Persia, Grecia, Cina e Roma. La bilancia della giustizia compare anche nella chiesa di Roma, a San Michele Arcangelo, uno dei cui compiti nella vita a venire si afferma sia quello di pesare le anime dei morti sulla bilancia della giustizia. Pere la Chaise, confessore Gesuita di Luigi XIV, lo sollecitò a revocare l’Editto di Nantes come mezzo per spostare favorevolmente la bilancia dell’Arcangelo Michele. In ogni religione fondata sulle opere, dovunque abbia il più pallido appiglio il concetto di auto-salvazione, compare il concetto della bilancia. È l’epitome, il simbolo più caratteristico dell’auto-giustificazione, dell’orgoglio religioso e dell’indipendenza da Dio, un concetto di merito che guadagna per l’uomo l’assoluzione da Dio e dalle Sue richieste.

Ora, in conformità al suo proprio credo, Belshatsar viene pesato e condannato dal Dio sovrano. Si può permettere che un uomo abbassi la propria legge morale quanto bassa lo voglia, ed egli la violerà e distruggerà lo stesso. Lasciatelo ridurre la giustizia alla nuda sincerità, ed egli sarà inevitabilmente un’ipocrita. L’uomo non può giustificare se stesso neanche nei termini di qualsiasi legge egli stesso crei, poiché, essendo un trasgressore del patto, uno che ha rotto l’alleanza con Dio, non può evitare di essere un trasgressore del patto con se stesso essendo una creatura fatta ad immagine di Dio. Perciò, la sua vita è una di radicale alienazione non solo da Dio e dalla Sua parola, ma anche da se stesso, e da qualsiasi legge od ordinamento egli stesso crei.

MENE, MENE: “Dio ha fatto il conto del tuo regno e vi ha posto fine” (5:26).

TEKEL: “Sei stato pesato sulla bilancia, e sei stato trovato mancante”. (5:27).

PERES: “Il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani” (5:28). Nella parola PERES (diviso) c’è un’allusione a PARAS (la parola che viene tradotta

1 Young: Commentary., ad loc.

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persiano), che sembrerebbe indicare che i Persiani erano la potenza dominante nel dividere, o dissolvere Babilonia.2

In quanto questione di dignità religiosa e regale, Belshatsar mantenne la sua parola ed esaltò Daniele a terza carica dell’Impero (5:29). La stessa notte, Babilonia cadde e Belshatsar fu ucciso. Ciro aveva deviato le acque dell’Eufrate ed era entrato nella città, secondo la propria dichiarazione, senza incontrare ostilità o battaglia. Dario il Medo, all’età di sessantadue anni, divenne re di Babilonia.

Per il credente, la bilancia della giustizia è un concetto impotente. Vivo in Cristo, egli è libero dal potere del peccato e della morte; vivendo per grazia, non è sotto la sentenza della legge. La croce di Cristo è la Carta della libertà. La radicale alienazione dell’uomo da Dio, dall’uomo e da se stesso è distrutta, e la libertà comincia a diventare l’ordinamento della sua vita, la libertà della creature, libertà di essere un uomo sotto Dio e vice reggente della creazione. Ma fino a quando l’uomo, in religione, politica o qualsiasi altra area di vita cerca di essere dio, non può essere uomo o godere la libertà, la gloria o la franchezza dell’uomo la creatura. Egli inevitabilmente gravita intorno ad un concetto di legge quale fondamento dell’ordine, in contrasto al fondamento biblico di vita in Cristo, e la legge è sempre una sentenza di morte. Ogni legge egli crei, per quanto minima, lo rivela come trasgressore del Patto e odiatore delle legge, e ogni sua bilancia, per quanto falsificata, lo pesa lo stesso un uomo condannato. La legge della sua vita diventa perciò la morte, mentre la legge del credente è la vita e la natura di Cristo e una gloriosa libertà. La legge della morte, mentre opera nell’uomo, richiede a gran voce il giudizio e la tomba, e gli uomini invocano e creano il loro proprio giudizio, modellano il proprio inferno, e rifiutano di permettere alle loro culture e alla loro storia di essere altro che una vendemmia d’ira e un triste racconto di auto-punizione. Confrontati col destino da essi stessi invocato, i Belshatsar della storia ritornano al loro vino e aspettano la morte.

2 Young: Commentary, p. 127.

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DANIELE 6REGNO, GIUSTIZIA E MONOTEISMO

L’esperienza, eminenza e integrità di Daniele fu riconosciuta da Dario il Medo, che primo di tutti lo fece presidente sui 120 principi che governavano il suo regno.1

Questo generò non poca gelosia. Come ha osservato Joseph Parker riferendosi a questo passo: “ogni primato deve essere pagato”. Se quel primato è uno fedele e giusto quanto quello di Daniele, dovrà essere pagato doppio. Le richieste livellanti del male sono per una democrazia dell’essere, una democrazia cosmica nella quale tutte le distinzioni sono nullificate in favore di una genericità che sfuoca identità, responsabilità e significato. Gli uomini malvagi cercano di rendere tutto malvagio; gli uomini che sono un fallimento domandano un fallimento universale. E gli uomini che non sono capaci o non vogliono sollevarsi al di sopra della loro condizione cercano selvaggiamente di livellare ogni eminenza in una comune democrazia di mediocrità e di sconfitta. La democrazia è il grande amore dei falliti e dei codardi della vita, ed include un odio per le differenze, perché la libertà è inseparabile dalle differenze, dalle distinzioni, dai discernimenti e dalle sagge discriminazioni. Ma la libertà è un nemico per quelli che odiano la responsabilità, e di conseguenza deve essere distrutta quale principio aristocratico per lasciare il posto per la “liberta” della democrazia totale, che è la fine di ogni significato, discriminazione, divisione, sia buona che cattiva, nel nome di questa virtù superiore, l’unità mistica e l’assorbimento dentro la massa dell’umanità caduta e corrotta. “Ogni primato deve essere pagato”, o con la guerra totale contro un mondo ostile, o con una radicale concessione e sottomissione a quel mondo. Religiosamente e politicamente Daniele rifiutò di cedere in alcuna misura.

Il suo punto di vulnerabilità, conclusero i suoi nemici politici, era la sua fede religiosa. Perciò, Dario fu persuaso ad emanare un interdetto “in base al quale chiunque durante trenta giorni rivolgerà una richiesta a qualsiasi dio o uomo all'infuori di te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni” (6:7). Questo decreto, una volta promulgato, non poteva essere rovesciato “in conformità alla legge dei Medi e dei Persiani, che è irrevocabile” (6:8).

Parecchie credenze politico-religiose molto importanti vengono qui focalizzate, tutte considerazioni di permanente rilevanza ed importanza.

1) Il regno sacerdotale del monarca è qui manifesto in un concetto altamente sviluppato. Il sacerdote-re era il mediatore tra Dio e l’uomo, e l’anello di congiunzione tra cielo e terra, una Torre di Babele vivente e il punto di continuità tra i due mondi.

1 Riguardo all’identità di Dario, si veda John C. Whitcomb, Jr.: “Darius the Mede”; Philadelphia: Presbyterian and Reformed Publishing Co., 1959; si veda pure Yamauchi: op. cit., p. 89.

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2) Di conseguenza, la buona vita era possibile solo nei termini di quell’ordine manifesto in e attraverso quel sacro anello, senza il quale non poteva esistere nessun vero ordine. Fare una petizione, attraverso il re quale mediatore, pregare nel suo nome come i Cristiani ora pregano “nel nome di Gesù” era così il dare testimonianza della pietra angolare della società e del fatto fondamentale della vita.

3) La legge fondamentale di ogni essere era espressa in e per mezzo del mediatore-re, nei suoi interdetti ufficiali o nelle sue dichiarazioni ex cathedra. Queste leggi erano sicuramente nei termini di situazioni storiche concrete ma erano ciò nonostante leggi fondamentali relative alla storia e perciò inalterabili.

4) Il sacerdote-re era quindi il punto focale di cielo e terra e la voce della legge, e legge incarnata, eppure allo stesso tempo, in un senso veramente reale, sotto legge, legato dalle proprie stesse dichiarazioni e impossibilitato a rovesciarle, come sia Daniele 6:14 sia Ester 1:19 e 8:8 testificano.

A questa posizione dei monarchi Medo-Persiani, la storia secolare da ampia conferma. Diodoro Siculo riportò l’inabilità di Dario III a revocare la sua affrettata condanna a morte di Charidemos. Quinto Curzio scrisse “I persiani adoravano i loro re tra gli dei”.1 Plutarco registrò un simile rapporto nel suo Temistocle, citando Artabano a Temistocle che cercava udienza con Serse:

O straniero, le leggi degli uomini sono diverse, e una cosa è onorevole per un uomo e un’altra per un altro, ma è onorevole per tutti onorare ed osservare le proprie leggi. È l’abitudine dei Greci, ci viene detto, onorare, sopra tutte le cose, libertà ed uguaglianza, ma tra le nostre molte eccellenti leggi, noi reputiamo questa la più eccellente, onorare il re e onorarlo quale immagine del grande preservatore dell’universo, se dunque, acconsenti alle nostre leggi, e ti prostri davanti al re e lo adori, tu puoi sia vederlo sia parlargli, ma se tu pensi in un altro modo, devi fare uso di altri che intercedano per te, perché non è qui costume nazionale che il re dia udienza ad alcuno che non cada a terra davanti a lui.

Tale concetto non era in alcun modo limitato ai Persiani. I Greci deificarono le loro città-stato e considerarono la polis in se stessa quale sito della divinità, talché la loro “democrazia” era una democrazia delle divinità. Questo concetto di vero ordine e di divina mediazione è l’inevitabile concomitanza di ogni teoria sociale, incluse quelle che negano il soprannaturale, o che perfino negano il concetto di verità in favore del relativismo o del pragmatismo. Per la democrazia la voce del popolo è la voce di Dio, vox populi, vox dei; per il Marxismo la dittatura del proletariato è storia giunta al centro incarnato, ed il pragmatismo, con tutte le sue dichiarazioni d’essere 1 Si veda Toung, Keil e Delitzsch, H.C. Leupold, Commentari, ad. loc.

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un pensiero anti-metafisico, è basato su una serie di supposizioni a priori che riguardano la natura ed il destino dell’uomo che sono sconcertanti atti di fede. Non esiste teoria sociale che non abbia la propria “voce della legge” il proprio grande mediatore ed anello tra processo e realtà, tra tempo ed eternità, tra la storia e l’ordine finale del tempo, tra Dio e l’uomo. Chiese, governi, scuole e filosofie tutte profferiscono anelli, mediatori, e voci di legge, e, sia che ammettano la realtà di Dio oppure no, cercano di rendere temporale l’eternità e con ciò dare significato, scopo, e direzione al tempo e alla storia. Ciascuno promette all’altro tolleranza, concesso che la propria primaria dichiarazione di Verità sia riconosciuta. Adora Dio, ma prima inchinati allo stato quale vero, reale ordinamento dell’uomo. La religione, l’esperienza privata e la cultura possono essere tollerate purché sia prima ammesso il primato dell’ordinamento democratico. Ciascuna filosofia, chiesa od ordinamento politico insiste su questo punto: “Io sono la porta. Il vero ordine non è ottenibile senza di me”. Contro tutto questo Cristo parlò come il solo vero mediatore, il legame tra cielo e terra nella sua incarnazione, ma una unione senza confusione delle due nature, talché Dio rimane Dio e l’uomo rimane uomo. Nel dichiararSi l’unica vera porta, Gesù dichiarò che tutti quelli che cercavano di entrare nel regno, nell’adempimento dell’uomo e della storia, da qualsiasi altra porta altra da Lui erano ladri e briganti che ricercavano la morte dell’uomo e la distruzione di ogni ordine. (Gv. 10). Dio e l’uomo devono essere uniti se l’uomo e la storia hanno da essere salvati ed compiuti, ma senza confusione, perché quella tentazione alla confusione è la tentazione satanica “sarete come Dio” (Gn.3:5). Questa confusione significa la distruzione della storia e dell’uomo, significa il tentativo di rendere eterno il tempo e il processo, e negare il fatto della creazione e la necessità di crescita, sviluppo e maturazione. Significa la fine del tempo, e la fine del significato del tempo. I costruttori culturali di piramidi di ogni generazione cercano di arrestare il processo e la decomposizione e di rendere eterni i loro ordini reali o sognati, ma invano, perché la confusione (tra il Divino e l’umano) è impossibile, e il tentativo viene confuso dalla confusione di Dio (Gn.11:1-9). In Cristo, i due ordini, tempo ed eternità, Dio e l’uomo, vengono uniti, incarnati, ma senza confusione, cosicché è possibile la redenzione della storia, è effettuata la salvezza dell’uomo, e preservata l’integrità del tempo. Il Concilio di Calcedonia, riconoscendo questo fatto, diede alla storia Occidentale il suo fondamento per la libertà, la libertà di funzionare come processo nel tempo e non tutti i tentativi medievali e moderni di arrestare il tempo hanno avuto successo nel negare quella vittoria. Calcedonia (451 D.C.) dichiarò in parte che questo “uno e lo stesso Cristo” è:

Figlio, Signore, Unigenito, riconosciuto IN DUE NATURE, SENZA CONFUSIONE, SENZA CAMBIAMENTO, SENZA DIVISIONE, SENZA SEPARAZIONE: la distinzione delle nature non essendo in alcun modo annullata dall’unione ma anzi, la caratteristica di ciascuna natura essendo preservata e unita per formare una persona e una sussistenza, non come divise, separate in due persone, ma uno e lo stesso Figlio e unigenito Dio la Parola,

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Signore Gesù Cristo; proprio come i profeti fin dall’inizio parlarono di lui e nostro Signore stesso ci ha insegnato, e i credi dei Padri ci hanno consegnato.

Gli stratagemmi con i quali l’uomo ha cercato di raggiungere quella falsa unione di cielo e terra non sono solo istituzionali ma anche esperienziali, come testimoniano l’ascetismo e il misticismo. Così uno studioso del passato nell’analizzare San Massimo Confessore, ha scritto. “La deificazione è il sommo adempimento della capacità di Dio della natura umana…deificazione e salvezza sono la stessa cosa”.1

Che sia nell’esperienza, o nella persona, o nell’ ufficio, o nell’istituzione, l’obbiettivo è il legame tra il tempo e l’eternità, la rappresentazione o manifestazione dell’ “immagine del grande preservatore dell’universo” in modo che l’uomo possa sfuggire dal tempo, o che la storia possa essere arrestata da quell’ordine manifestato.

Daniele, comunque, rifiutò di farsi dominare dalla legge di Dario dentro al timore o al compromesso. Infatti, la sua reazione al decreto, che egli riconobbe essere mirato a lui, fu la preghiera: “Quando Daniele seppe che il documento era stato firmato, entrò in casa sua. Quindi nella sua camera superiore, con le sue finestre aperte verso Gerusalemme, tre volte al giorno si inginocchiava, pregava e rendeva grazie al suo Dio, come era solito fare prima” (6:10). Daniele non era mediatore in Babilonia, ma in Gerusalemme in rovine, nel tempio tipologico, in quell’altare in cui Cristo ed il Suo sacrificio erano stati presentati ritualmente. L’impossibilità del tempio di Gerusalemme di essere nei fatti la casa di Dio, cioè di contenerlo, era stato dichiarato da Salomone alla sua dedicazione, al cui tempo anche il significato tipologico fu alluso nell’indicazione che Israeliti e stranieri entrambi avrebbero pregato “rivolti a questo tempio” (1Re 8).2

Apparentemente i nemici di Daniele avevano nella sua casa almeno un informatore da permettere loro di assicurare il suo arresto e la sua dichiarazione di colpevolezza, perché questa pratica privata fu conclusivamente provata in un udienza pubblica alla presenza di Dario e per la costernazione di quel monarca. Dario fu ora costretto dalla propria legge a sentenziare a morte il suo associato più fidato e primo presidente. Il suo dolore ed agonia sono evidenti, e la sua posizione, tragica. Quale voce della legge, non poteva negare se stesso senza cessare di essere quel legame tra cielo e terra. Il suo ufficio e potere richiedevano, indulgesse pure in qualsiasi altro vizio, questa irremovibile lealtà alla legge. Così la legge di Dario disse morte a Daniele, mentre il suo amore disse vita, e i due non potevano essere uniti. In ogni struttura di pensiero non Biblica, questo conflitto compare in qualche forma, l’irriconciliabile, inavvicinabile golfo tra legge e amore. Fate che trionfi la legge, e la sua asprezza la trasformerà infine in un freddo schema di giustizia organizzata. Fate trionfare l’amore sulla legge, e nuovamente l’ingiustizia terrà banco perché l’anti-nomismo infetterà ogni baluardo d’ordine. La tensione tra la legge e l’amore è perciò una tensione continua che lavora alla dissoluzione di una civiltà dopo l’altra ed è oggi 1 Polycarp Sherwood, Traduzione con introduzione: “St. Maximus the Confessor: The ascetic Life, the Four centuries on Charity”, Ancient Christian Writers, Vol. 21, London: Longmans, Green, 1955, p. 71.2 Riguardo a questa pratica si veda Robert Dick Wilson: “Studies in the Book of Daniel” Seconda serie; New York: Revell, 1938, p. 241ss.

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basilare a molta della tensione contemporanea, quando gli impulsi umanitari cercano di passare sopra alle richieste della giustizia rigorosa e ai dettami della sua legge. La tensione non è in alcun modo limitata all’ordinamento politico ma è endemica alla famiglia, società, scuola, e ogni altro ordinamento.

Solo nella Apocalisse Biblica viene risolta la tensione tra legge e amore, con enormi implicazioni sociali e storiche, nella persona e l’opera di Gesù Cristo. Con la Sua perfetta giustizia e la Sua vicaria espiazione, le più rigorose richieste della legge e della giustizia furono pienamente conseguite ed adempiute, e gli statuti di Dio osservati fino ad ogni apice e iota, ma pure, in uno e lo stesso momento, l’amore di Dio per la salvezza fu manifestato in Cristo e per mezzo di Cristo. La croce è così il simbolo d’unità della legge e dell’amore in Gesù Cristo e la completa domanda e la piena integrità di entrambi. La radicale ingiustizia di ogni ordinamento separatamente da Cristo è così vinta da questa sintesi, e la realizzazione storica di un ordinamento fondato su questa unità, non ancora realizzato, viene resa possibile. I tentativi dell’uomo di creare un ordine equo e vivibile separatamente dall’espiazione sono stati condannati al radicale collasso, come testimonia il tentativo di Giulio Cesare di soppiantare la legge fallimentare con la sua clementia senza grazia.1 L’amore o il perdono che non sia capace di rigenerare l’uomo diventano solo una licenza e un sussidio del male, e la legge è essa stessa ugualmente incapace di qualsiasi ruolo creativo e di funzioni rigeneranti.

Dario, preso da questa tensione, poté solamente gridare: “Daniele, servo del Dio vivente, il tuo Dio, …ha potuto…?”. (6:20). E Daniele, dal profondo della fossa dei leoni poté dichiarare che Dio aveva quella notte chiusa la bocca dei leoni e lo aveva liberato senza alcuna ferita. Il re, colmo di gioia, ristabilì Daniele nella sua posizione, e sentenziò i suoi avversari e le loro famiglie (un ingiustizia proibita in Dt 24:16; 2Re 14:6) a quella stessa morte che avevano progettato per Daniele.

Il decreto di Dario (6:25-29) mentre ha scopo commemorativo, e di auto- raccomandazione in riferimento a questo Dio Vivente di Daniele, riconosce la Sua onnipotenza e sovranità chiaramente e schiettamente. Ma, mancando così com’è di una relazione personale con quel Dio, e senza alcun senso dell’uomo quale peccatore, non è una confessione di fede ma un riconoscimento di potenza. Questo è quanto poteva credere Dario, e onorando Daniele ulteriormente e attaccandolo più strettamente al suo trono, come fece anche Ciro (6:28), Dario cercò di rafforzare il proprio trono quale legame vivente tra cielo e terra. Il politeismo non era stato necessariamente vinto, infatti, la molteplicità dell’uomo, le sue culture le sue potenze era vista come controparte della molteplicità dell’ordine soprannaturale. L’unificazione dell’un ordine, quello dell’uomo, sotto un grande sacerdote-re, significava anche la coalescenza dell’ordine soprannaturale in e attraverso quell’uno e lo stesso anello divino-umano, il grande sacerdote-re. Di conseguenza, mentre i grandi imperi dell’antichità si svilupparono e si espansero, furono caratterizzati da un doppio accento, primo, una sintesi culturale ed un amalgamarsi, e, secondo, un sincretismo religioso, quando i vari dei e le varie fedi venivano focalizzate nel e per

1 Si veda Ethelbert Stauffer: “Christ and the Caesars”; Philadelphia: Westminster, 1955, p. 42-53.

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mezzo del rituale legame tra cielo e terra. Il monoteismo fu perciò uno sviluppo dell’impero, e un aspetto del suo concetto di unità.

Il monoteismo è, storicamente ed essenzialmente, un parente stretto del politeismo e un aspetto della stessa filosofia basilare. A prima vista questa sembra una radicale contraddizione, in quanto politeismo significa, come la parola stessa indica, una credenza in molti dei, e il monoteismo una credenza in uno solo. Ma il politeismo non è solo una credenza in molti dei, ma anche ed essenzialmente che dio è molti, cioè che egli è vario nelle sue forme e apparenze, spesso in contraddizione una con l’altra, cosicché egli è uno in essere benché illimitato nella diversità della sua natura come lo è la natura. Così politeismo e henoteismo sono anelli vicini storicamente. Nell’henoteismo, molti dei sono riconosciuti, e ciascuno è, per il momento adorato come la concentrazione di tutti gli attributi della divinità. Di conseguenza, troviamo, insieme al politeismo, un’ identificazione henoteista, talché Astarte e Chemosh sono collegati strettamente o identificati, benché radicalmente differenti, Giove e Zeus sono facilmente congiungibili e l’intero panteon degli dei può essere visto come diversi aspetti di quella diversità dell’essere. In periodi di stati in competitività o in guerra, l’aspetto politeistico era eminente, mentre l’imperialismo enfatizzava l’henoteismo e il monoteismo. È anche importante notare che il monoteismo filosofico e religioso moderno, riconoscendo la “verità” in o di tutte le religioni è fortemente henoteistico e lontano solo un passo dal politeismo.

Roma passò dal politeismo al monoteismo e all’henoteismo quando si sviluppò da repubblica ad impero. La sua politica religiosa la faceva capace di utilizzare pienamente ogni fede locale, mentre la onorava, la collegava all’Impero e all’imperatore. Così, alcune delle città più estranee furono anche le più devote aderenti al culto dell’imperatore senza staccarsi dal loro culto locale, come testimoniano Smirne e Pergamo. L’unità dell’Impero andava mano nella mano con l’henoteismo e il monoteismo, e questi due portarono direttamente alla fondazione del concetto centrale Romano, la legge. Basilare a questo sviluppo fu il concetto Romano di legge naturale, che era ius gentium, la legge degli stranieri o le legge delle nazioni, l’analogo giuridico del religioso henoteismo. Leggi straniere furono assorbite da Roma, come furono assorbiti culti stranieri, nel monoteismo dello stato. Ma l’henoteismo giuridico e il monoteismo erano alieni alla fede biblica quanto l’henoteismo religioso. La Bibbia non è né henoteistica né monoteistica, ma piuttosto trinitaria e teista, e il suo concetto soprannaturale di legge invalida sia la legge civile Romana sia la legge delle nazioni. L’opposizione Romana al Cristianesimo fu perciò basata su una perspicacia maggiore di quanto non lo sia l’opera di molti apologeti cristiani. La stessa tensione esiste oggi. Una fede che pone il politeismo Africano, il panteismo di Spinoza, il monoteismo unitariano, e l’henoteismo modificato di Toynbee tutti su un uguale livello come errori è un’offesa cardinale all’uomo imperiale, il cui impero deve essere onni-inclusivo ed il cui concetto di verità e potere è spesso strettamente legato con l’estensione geografica e con l’inclusivismo politico-religioso. Henotesismo e monoteismo, quali aspetti di una sola fede, sono nella natura dell’Impero come l’uomo lo sviluppa, e un aspetto dell’essere dello stato.

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Nei termini di ciò, l’Impero Romano poteva tollerare una diversità di fedi finché la loro unità in essenza poteva essere riconosciuta, e finché il culto dell’imperatore quale punto focale ed il ponte tra cielo e terra fosse mantenuto. Il Cristianesimo, la fede Biblica, fu perciò doppiamente offensiva perché: primo, proclamava un altro esclusivo mediatore, Gesù Cristo; e, secondo, sembrò peculiarmente e ostilmente politeista in paragone al deismo che sottostava a tutto il politeismo pagano. I credenti e i pensatori Greci e Romani non erano grossolani politeisti ma sofisticati deisti. Il Dio Trino era un’offesa permanente perché la Sua autosufficienza era così patente, così manifesta: Egli provvedeva il Suo mediatore o anello, ed il Suo proprio Spirito, contro le mediazioni dell’uomo, le sue aspirazioni, la sua ascesa. La Trinità ontologica, Egli stesso il principio fondamentale di unità e di molteplicità, creatore, redentore e sostenitore, troncava alla base l’autonomia dell’uomo ed i suoi sforzi religiosi e rendeva tutta la magnificenza dell’Impero vana nel suo sforzo di portare compimento all’uomo e alla società e di creare l’ordinamento ultimo (primario, definitivo). Di conseguenza, l’Arianesimo, il subordinazionismo, il monofisismo, il Nestorianesimo e altre eresie, ed occasionalmente anche il Giudaismo (come nel regno Khazar), divennero gli inutili rifugi dell’uomo dalla mostruosa potenza del Dio trino nella sua piena-sfericità e co-eguaglianza di potenza, potenza che distruggeva e distrusse le dichiarazioni dell’Impero e della religione di essere l’anello, il legame divino-umano. Il regno ed il sacerdozio di Cristo troncarono alla base re e sacerdoti umani e la definitività del Suo ufficio di profeta significò la fine della religione quale agente creativo ed indipendente; a tutti ora veniva richiesto di essere o ministeriali (di servizio) oppure criminali. Progressivamente, perciò, mano a mano che la questione veniva focalizzata, il patronato della vera cristianità divenne sempre meno possibile per lo stato. La facilità con cui Dario pagò tributo a Dio diventa sempre meno praticabile a uomini il cui mediatore e dio sia lo stato. A questo riguardo, la Russia Sovietica manifestava un grado più alto di auto-consapevolezza epistemologica di quegli stati che sono ancora capaci di pagare un ipocrita tributo a Dio mentre in realtà gli fanno la guerra. Questa ipocrisia non fu presente in Dario, perché la tensione fondamentale non era ancora focalizzata. La tensione della nostra epoca testimonia della sua esistenza ed è perciò il precursore della sua soluzione.

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DANIELE 7IL CORSO DEL DOMINIO

La seconda metà di Daniele è dedicata alla profezia predittiva estesa e specifica, e perciò, l’offensività del libro viene focalizzata ancor più acutamente. L’uomo, desiderando mantenere il controllo sulla storia in maniera assoluta, è radicalmente intollerante di un Dio che sia più che idea o l’ideale. Poiché i fatti della storia devono essere puramente il dominio dell’attività dell’uomo, la Trinità ontologica è un’offesa in virtù della Sua creazione e governo della storia. Inoltre, l’attuale nella storia deve essere soggetto prima solo all’interpretazione dell’uomo autonomo, mentre il Dio della Scritture riserva a Se stesso non solo la creazione ma anche l’ultima e vera interpretazione della storia. L’uomo naturale perciò, non tollererà un Dio che governa la storia, ma avrà solo un dio governato dalla storia e dal processo ed egli stesso un loro prodotto. Ogni descrizione biblica di Dio è perciò un’offesa permanente, una presentazione di un Dio crudo alla quale bisogna ridare forma affinché sia conformata alla ristrettezza della mente dell’uomo e assoggettata alla sua radicale richiesta per la propria ultimità,1 ed autonomia. Di conseguenza, la profezia predittiva viene esclusa su un fondamento a priori; è giudicata essere religiosamente e storicamente offensiva, come sicuramente è all’uomo che pretende d’essere autonomo, e viene soppiantata da un’immagine della storia che è nudi fatti, bruta fattualità, un caos dal quale l’uomo e il processo cosmico che trova il punto focale nell’uomo portano ordine, luce, significato. Ne risulta la conversione della storia in mito, mentre Daniele ci da un salvataggio della storia dalle interpretazioni dell’uomo il costruttore di miti.

Di passaggio, bisogna notare quanto assurda sia la nozione di una data Maccabea per Daniele. Non solo il libro presuppone e richiede la conoscenza degli eventi di un contemporaneo e non solo rivela la sua datazione precedente a livello testuale, ma è inoltre un libro che è impossibile sia stato scritto da un Giudeo Maccabeo, anzi da qualsiasi Giudeo eccetto uno agli ordini di Dio. E perfino in questo caso Daniele fu profondamente addolorato dalla visione (7:15-28), che chiaramente dichiarò il sorpasso, la messa da parte permanente di Israele come nazione. L’intenso nazionalismo dei Giudei era manifesto in Zorobabele, Esdra e Nehemia, e al tempo dei Maccabei questo nazionalismo era troppo inclusivo, intenso ed esclusivo per poter tollerare un libro che dichiarò che il Consiglio di Dio decise di by-passare Israele.2 Fu brevemente usato nell’epoca Maccabea per un punto d’interesse e poi relegato allo sfondo.

La data di questa visione è “Nel primo anno di Belshatsar re di Babilonia” (7:1). Ritrae la storia come un grande mare squassato dai “quattro venti del cielo”

1 (la richiesta di essere egli stesso il principio ultimo delle cose. N.d.T.)2 Wilson, op. cit., p. 28

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(7:2), un’immagine ripetuta in Apocalisse 17:15 Poi mi disse: “Le acque che hai visto, dove siede la meretrice, sono popoli, moltitudini, nazioni e lingue.” La storia è dunque un mare scuro e turbolento, scuro a se stesso, e mosso dal di fuori mentre ha la vita ed il suo movimento al suo interno, un’entità, ma in nessun modo un’entità autosufficiente ed auto determinativa. Mentre all’uomo il mare della storia appare scuro e nascosto nelle sue profondità, dal trono di Dio appare come un mare di vetro simile a cristallo (Riv. 4:6), non ci sono nella storia angoli bui per Dio che dal suo trono determina tutte le cose che accadono e vede la fine dal principio.

Dal profondo del mare salirono quattro grandi bestie, che tipizzavano i quattro imperi. Bestie da preda sono tradizionalmente state simboli dello stato, intendendo tipizzare il potere nazionale e la sua capacità di divorare e distruggere. …

L’identificazione dei quattro imperi è stata più o meno uniforme, e i dissensi sono stati basati sul tentativo di forzare un’interpretazione dentro al testo. “La prima era simile a un leone ed aveva ali di aquila. Io guardavo, finché le furono strappate le ali; poi fu sollevata da terra, fu fatta stare ritta sui due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d'uomo” (7:4). Così l’impero babilonese viene dipinto come controllato, tenuto a freno nel corso del suo dominio imperiale, da una forza umanizzante esercitata dall’esterno, dalla stessa sorgente di tutti i governi della storia, Dio Stesso. Ciò si riferisce all’umiliazione di Nabukadnetsar, dopo il quale la forza espansiva Babilonese non si riprese più, nonostante gli sforzi di Nabonide in quella direzione.

“Ed ecco un'altra bestia, la seconda, simile ad un orso; si alzava su di un lato [o alzava un dominio] e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: "Levati, mangia molta carne” (7:5). Questo comando di distruggere proviene da Dio, che solleva l’impero come vendicatore e nei termini dei Suoi scopi finali. Qui è descritto l’Impero Medo-Persiano, col maggior dominio dei Persiani, e una vasta conquista quali Babilonia, Lidia ed Egitto (le “tre costole” secondo interpreti molto antichi e anche di contemporanei), furono dati a questa enorme e dormiente potenza.

“Dopo questo, io guardavo, ed eccone un'altra simile a un leopardo, che aveva quattro ali di uccello sul suo dorso; la bestia aveva quattro teste e le fu dato il dominio” (7:6). Il rapido ergersi a potenza dell’impero Macedone di Alessandro Magno è appropriatamente dipinto nell’alato leopardo o pantera. “Il simbolismo indica sia la rapidità con cui furono fatte le sue conquiste sia l’estensione del territorio che prese. Aveva quattro teste, e così viene evidenziata la nature mondiale o ecumenica del regno. Il dominio viene dato a questa bestia da Dio e così impariamo di questa bestia, come delle prime due, che anch’essa è nelle mani della provvidenza di Dio che tutto controlla”.1 Le quattro teste non si riferiscono ai quattro successori di Alessandro, i suoi generali ma, ‘rappresentando i quattro angoli della terra simbolizzano l’ecumenicità del regno ’.2 Il sogno imperiale del regno dell’uomo, un paradiso mondiale senza Dio, è quindi il punto focale dell’espansione e della conquista, e rappresenta il desiderio dell’uomo di impadronirsi della gloria di Dio e di

1 Edward Young: “The Messianic Prophecies of Daniel”; Delft, Olanda, 1954, p. 30.2 Young: Commentario, ad. loc.

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realizzarla nella storia. Per comprendere più chiaramente l’impulso di questi imperi, prendiamo nota del commento riassuntivo che ne fa F.W. Buckler:

Il monarca Orientale, il Grande Re, rappresenta personalmente Dio in terra. Il suo volto è il volto di Dio. Egli è l’ombra di Dio sulla terra, e quando è seduto sul suo trono, è riconosciuto come la soglia della munificenza di Dio. Tutto questo in virtù del suo possesso della divina Gloria del re, che non può “essere presa con la forza” ma è il dono di Dio, al quale deve essere ascritta altrimenti se ne dipartirà. In modo da rendere apparente la Gloria, o la Grazia, la traduzione alternativa, agli occhi dei non iniziati, il re porta una lunga barba, fa uso abbondante di cosmetici, indossa abiti magnifici e siede sotto una corona risplendente, sospesa per apparire come indossata, su un trono tempestato di pietre preziose. Egli è in questo modo la Apocalisse della Gloria se possiede la Gloria o la Grazia…

Ma per quanto divino nella sua persona, in virtù della divina epifania inerente la sua regalità. Egli è umano nelle sue limitazione in virtù del suo essere un figlio dell’uomo….Poiché il re Orientale rappresenta molto di più di un tiranno arbitrario. Egli sta per un sistema di governo di cui è l’incarnazione, incorporando nel suo corpo, per mezzo di certi atti simbolici, le persone di quelli che prendono parte al suo regno. Essi sono considerati come facenti parte del suo corpo, membra corporis regis, e nel loro distretto o sfera d’attività essi sono il re stesso, non i servi del re, ma “amici” o membra del re, proprio come l’occhio è l’uomo nella funzione della vista, e l’orecchio in quello dell’udito. 1

Le manifestazioni istituzionali di questa concezione di regalità erano, come ha evidenziato Buckler, quattro: 1) le vesti d’onore, 2) il giuramento simbolico d’alleanza, 3) comuni assemblee e pranzi comuni quali legami di lealtà e fonti di termini e simboli di lealtà e, 4) la terminologia della burocrazia e la natura della carica per mezzo delle quali gli ufficiali del re sono le sue membra organiche piuttosto che servi.

Questa evidenza rivela la somiglianza molto marcata del sogno imperiale col regno di Dio, così che Babele corre parallela a Gerusalemme punto dopo punto. Questo significato viene comunemente mancato: Babilonia viene assunta essere immorale, e la vera Gerusalemme morale, la prima malvagia, la seconda giusta in termini moralistici. Ma il contrasto è radicalmente diverso: è tra auto-giustizia e giustizia, tra moralismo e rigenerazione quali metodi di salvezza conflittuali… Il regno di Dio è l’obbiettivo, ma Babilonia s’impadronirebbe della Gloria di Dio e farebbe del regno un dominio e possedimento dell’uomo, mentre la vera Gerusalemme nell’apice della visione di Giovanni è vista “che scendeva dal cielo da presso Dio” (Riv.21:2), ed è tutta dalla grazia. Il rischio di condannare gli imperi della visione di Daniele, e i presenti pretendenti del regno, sul terreno del

1 F.W. Buckler: “The Ephiphany of the Cross”; Cambridge, England: Heffer, 1938, p. 4s., 99.

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moralismo, è la necessità di ripetere i loro errori, poiché il moralismo è proprio il terreno e lo spirito delle pretese dell’uomo al regno, alla potenza e alla gloria.

Questi regni imperiali appaiono e scompaiono, e un quarto sorge con un più duraturo impatto sulla storia:

“Dopo questo, io guardavo nelle visioni notturne, ed ecco una quarta bestia spaventevole, terribile e straordinariamente forte, essa aveva grandi denti di ferro; divorava, stritolava e calpestava il resto con i piedi, era diversa da tutte le bestie precedenti e aveva dieci corna.

Stavo osservando le corna, quand'ecco in mezzo ad esse spuntò un altro piccolo corno, davanti al quale tre delle prime corna furono divelte; ed ecco in quel corno c'erano degli occhi simili a occhi di uomo e una bocca che proferiva grandi cose” (Dan. 7:7-8).

Questa quarta bestia non ha controparte nel mondo della natura, cioè non ha carattere suo proprio. In Daniele 2:40-43 questo quarto impero è similmente ritratto, come una mistura tenuta insieme con la forza ma non avente innato (o spontaneo) il potere di legare. Il carattere messianico di questo quarto o Romano Impero non era meno prominente di quello dei suoi predecessori, come Christ and the Caesars di Stauffer rende chiaro. Il suo potere imperiale era più sincretista di quello dei suoi predecessori nel fatto che meno potere innato serviva come punto di amalgama. Il suo concetto di unità era meno organico e più giuridico, e da ciò, benché più debole, era un concetto più duraturo e più facilmente trasmissibile ad altre culture. La pax Romana o pace Romana era basata sulla legge Romana. Questa legge Romana fu ben riassunta nel suo spirito da Cicerone in De Legibus, nel quale egli echeggia il temperamento fondamentale della sua eredità, nell’affermazione: “La sicurezza del popolo sarà la legge più elevata”. È da questo principio che vennero in seguito le “dieci corna”, cioè la pienezza dell’impulso e del potere nazionale (essendo il corno un antico simbolo di potenza e dominio). L’obbiettivo del potere divenne la fondazione dell’unità sotto la legge, legge non in un senso astratto e remoto, ma legge in senso umanistico, nei termini del benessere umano e dei diritti dell’uomo. Le rivoluzioni dell’uomo Occidentale, ed ora sempre di più, le rivoluzioni e le aspirazioni di Asia, Africa e del mondo intero, sono nei termini di questo concetto antropocentrico: “la sicurezza del popolo sarà la legge più elevata”. I diritti dell’uomo, il benessere umano, libertà, fraternità ed uguaglianza, tutte queste cose e di più sono il prodotto di questo, il principio ultimo del moralismo: salvezza ed il regno dell’uomo per mezzo della legge. Su Roma e su i suoi eredi in tutto il mondo, “le dieci corna”, è caduto il mantello degli Scribi e dei Farisei! “Dieci” come numero della pienezza indica la totalità della devozione statista dell’uomo a questo sogno. (I numeri sette e dieci, come numeri terminali nei loro rispettivi sistemi numerici, e il numero quattro, rappresentativo delle quattro direzioni, sono usati ripetutamente per tipizzare totalità e pienezza). Un altro corno o potenza si leva, sradicando tutte le altre

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in ogni direzione (le tre corna, o punti della bussola), esercitando il dominio con dichiarazioni e pretese molto audaci “una bocca che proferiva grandi cose”. Proprio come gli altri rappresentano imperi e domini, anche quest’ultimo rappresenta un potere simile, affermando un unico dominio mondiale sotto la sovrana unità della legge. Non è una persona più di quanto non lo siano i suoi predecessori, e, come essi, è l’epitome della pretesa moralistica di salvezza per mezzo della legge. Poiché questa è profezia politica, il riferimento perciò non è all’area ecclesiastica alla quale appartiene l’Anticristo, e perciò non è l’Anticristo.

Il concetto di salvezza per mezzo della legge trovò una particolare espressione nel concetto e nella fondazione delle Nazioni Unite, e la sua speranza è abilmente riassunta da uno studio intitolato Pace Mondiale per Mezzo della Legge Mondiale, di Grenville Clark e Louis B. Sohn.1 Può la pace mondiale essere creata per legge, più di quanto l’omicidio possa essere prevenuto per legge? Non è lo scopo della legge punire un assassinio piuttosto che prevenirlo? Può la legge cambiare il cuore o la mente di qualsiasi uomo? Al massimo, la legge, per timore, può costituire un deterrente, non può esercitare un ruolo creativo. Aspettarsi che le leggi delle Nazioni Unite convertano in qualche modo nazioni omicide in nazioni amiche è moralismo del tipo più maligno, ed è un moralismo calcolato per assicurare il trionfo del male, che il moralismo farà, come sempre.

Il concetto organico di società, da un lato cerca di effettuare la salvezza con l’esperienza mistica dell’assorbimento nel gruppo. L’incorporamento nel corpo politico, l’ attuale grande dio in terra, è esso stesso salvezza. Così, durante i primi anni del Nazismo, che fu infatti una breve rivisitazione del concetto organico, un agitatore nazista disse ad una platea di paesani esagitati: “Noi non vogliamo il prezzo del pane diminuito, noi non vogliamo prezzo del pane aumentato, noi non vogliamo prezzo del pane inalterato, noi vogliamo il prezzo NazionalSocialista del pane”. 2 Qui c’è una ricerca di significato in una fuga dal significato.

Il concetto organico assolve l’individuo dalla libertà e dalla responsabilità, dove invece il concetto legalista dell’uomo e della società pone sull’uomo un peso di radicale individualismo che è più di quanto possa sopportare, e che infine lo distrugge e lo porta ad una fuga dalla libertà. Nessuno dei due è capace di effettuare alcun cambiamento nell’uomo o di aggiungere al suo essere. Il Cristianesimo Biblico, per il suo concetto federale dell’uomo, vede due umanità, una in Adamo, un’altra in Cristo. Il suo concetto dell’uomo è perciò federale e pattuale e il suo concetto della società è organico, ma con insieme un’insistenza sulla responsabilità individuale a Dio il Giudice. Ogni uomo è caricato della propria responsabilità per la propria vita e per il proprio destino, ma, come membro di Cristo e del popolo dell’Alleanza, egli non è mai solo e un vivere realmente pio è un vivere responsabile e sociale, sia individualmente sia organicamente, con la sua piena legge nella Parola rivelata di Dio, le Scritture, e la sua reale società organica, il Corpo di Cristo. Ma fondamentale a tutto questo è la rigenerazione, per la quale l’uomo è risparmiato dall’orrore

1 Pubblicato da Harvard università Press, seconda edizione, 1960. Sohn è un membro della facoltà della Harvard Law School.2 Peter F. Drucker: “The End of Economic Man”, New York: John Day, 1939, p. 13s.

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organico di Adamo e dall’irresponsabile individualità del trasgressore dell’Alleanza, è fatto una nuova creatura in Cristo, e da qui in poi è capace di vivere sia sotto la legge sia nella società, perché Cristo, la viva Parola e giustizia di Dio, è ora l’uomo nuovo in lui e la legge è scritta sulle tavole del suo cuore, ed egli è membro di quella grande, organica, nuova creazione il cui architetto e costruttore è Dio. Perciò, all’uomo è richiesto di portare la propria responsabilità davanti a Dio, ma non ci si aspetta che esista in isolamento e senza legami naturali e sociali.

La scena del giudizio celeste ci rende consci della sovranità di Dio in tutto questo corso del dominio. Dio l’Onnipotente regna, e il giudizio “si tenne” (7:10), o letteralmente “il giudizio sedette”.1 Dal trono procede il giudizio contro “il piccolo corno” (piccolo in vero potere, benché potente in pretese), ed è consumato. “ma con la distruzione del piccolo corno, la potenza della quarta bestia scompare interamente”.2 La Caduta di Babilonia è completa, il sogno della salvezza per mezzo della legge è pienamente e definitivamente nella storia, poiché il trionfo di Cristo non è per l’eternità solamente ma in virtù della sua resurrezione è manifestato nella storia, attraverso la storia e culmina nella storia, ed è perciò sia storico sia escatologico, Le altre bestie (7:12), cioè le altre forme di presunzione messianica di politica e stato, rimangono a malapena vive dopo la loro disgiunzione da Roma, ma anch’esse sono ora distrutte pienamente e completamente.

Ora il vero regno diviene manifesto, “ed ecco sulle nubi del cielo venire uno simile a un Figlio dell'uomo” (7:13). Questo titolo, Figlio dell’uomo, nello stesso senso di Daniele, fu applicato a Se stesso da Gesù. Usato in diversi contesti, l’idea dominante è quella della sovranità. Il Figlio dell’uomo governa con autorità divina… “Figlio dell’uomo” è un titolo che indica la divinità piuttosto che l’umanità….il Figlio dell’uomo è strettamente associato con un popolo. È una figura societaria…la connessione tra il Figlio dell’uomo e i santi dell’Altissimo è stretta”.3 “Le nubi del cielo” si riferiscono alla gloria di Dio ogni qualvolta si manifesta (Es. 19:9, 33:9; 34:5; 40:34 ecc.), sia in Apocalisse, come nel Monte della Trasfigurazione o durante l’ascensione, sia in giudizio, come in Isaia 19:1. Il giudizio finale è dunque una tale manifestazione tra molte. Il Messia è Egli stesso la manifestazione della gloria di Dio, ed era chiamato dai Giudei o il Nuvoloso o il Figlio delle Nubi. Non solo Gesù reclamò questo titolo, ma reclamò anche il dominio che ne conseguiva, parafrasando Daniele 7:14 in Matteo 28:18-20, dando il grande mandato in virtù del suo dominio come predetto da Daniele. Questo dominio, datogli al tempo del quarto impero (Dan.2:34s.) raggiunge potere mondiale quando le ultime manifestazioni del falso sogno sono pienamente distrutte e cadono in rovina, ridotte all’impotenza.

Il dolore di Daniele all’ovvio accantonamento di Israele rese necessaria ulteriore profezia (7:15:28), e “la verità di tutto questo” (7:16) gli viene comunicata. Il regno del Messia non è per un millennio ma è per l’eternità (7:18). Il “piccolo corno” prevale contro “i santi” (7:21) finché Dio interviene nella storia per dare dominio ai santi, i membri del vero regno di Dio. Il quarto impero era maggiore in

1 Young: Commentario, ad. loc.2 Young: Commentario, ad. loc.3 Leon Morris. “The Lord from Heaven” Grand rapids; Eerdmans, 1958, p. 28.

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potenza e influenza, ma non di tipo diverso: ‘l’intero punto del capitolo è di dimostrare che c’è un solo regno veramente universale, e che gli altri potevano essere chiamati tali solo di nome’.1

‘Il piccolo corno ’ “proferirà parole contro l'Altissimo, perseguiterà i santi dell'Altissimo con l'intento di sterminarli e penserà di mutare i tempi e la legge; i santi saranno dati nelle sue mani per un tempo, dei tempi e la metà di un tempo.”(7:25) L’opposizione del regno umano al regno di Dio sarà progressivamente più vocale. La “divisività” di Dio, e la Sua discriminazione in salvati e persi, è offensiva al desiderio dell’uomo che “la sicurezza del popolo sarà la legge più elevata”. Perciò Dewey chiamò la Cristianità una fede aliena perché dedicata ad una fondamentale discriminazione e separazione, ad una “aristocrazia spirituale”: “Io non posso comprendere come sarà possibile qualsiasi realizzazione dell’ideale democratico come moralmente vitale e spiritualmente ideale nelle vicende umane senza l’abbandono del concetto di basilare divisione a cui la cristianità è dedicata”.2

La salvezza attraverso la legge culmina così in anti-legge quale principio di democrazia e di sicurezza del popolo!. Ogni uomo il proprio dio, ed ogni uomo preservato dalla possibilità di essere messo in discussione, dalla insicurezza e dalle conseguenze: questo è il regno compiuto! Il tentativo di “mutare i tempi e la legge” è così il tentativo del principio di legge dell’uomo di liberare l’uomo dalla legge, di fare dell’anti-nomismo legge e di liberare l’uomo dal processo e dalla storia. Dewey, nel cercare di obliterare le “divisioni basilari” dalla vita, sta cercando di evitare e di negare il processo e la storia e di sfuggire dal tempo e dal giudizio. Questo è l’ideale politico del regno dell’uomo, afferma l’uomo, solo per distruggerlo. Afferma la storia al di sopra dell’eternità, solo per sfuggire al tempo e cercare di eternizzarlo. Deifica il processo per poterlo immobilizzare. La sua legge in questo modo è anti-legge, e la sua vita, morte. Si rivolge al processo prima per sfuggire a Dio, e poi tenta, per mezzo degli stessi poteri dell’uomo di trasformare il processo in una eternità senza Dio.

Il “tempo, dei tempi e la metà di un tempo” è un periodo della storia indeterminato ma limitato. Essendo “tempi” plurale, la portata e la lunghezza a cui si riferisce è definitivamente al di la della nostra conoscenza. C’è come una volontà di evitare una datazione definita, ma un’affermazione specifica del fissato limite del potere del “piccolo corno”. La metà di un tempo marcherà l’improvviso collasso all’avvicinarsi dell’apparente vittoria. “Il piccolo corno”, privo della pompa imperiale dei suoi predecessori, ma sopravanzatili in presunzione, sarà succeduto dal regno di Dio, il cui potere ininterrotto continuerà attraverso il tempo dentro all’eternità.

I settant’anni di cattività erano vicini alla fine quando Daniele vide la visione. Per suo dolore, invece della restaurazione della teocrazia in Israele, egli vide un lungo potere imperiale, succeduto dal regno messianico molto chiaramente dissociato da Israele. Non è meno dissociato dalla presunzione e dai sogni ecclesiastici. Questa è una profezia politica. Il regno di Dio non è descritto come un regno politico, ma la sua incontestabile sovranità nella sfera politica come in ogni altra sfera è affermata

1 Young. Commentario, ad loc. 7: 23.2 John Dewey: “A Common Faith”; New haven: Yale University Press, 1934, p. 84.

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completamente. Separare perciò quel regno dagli aspetti economico, politico ed e pedagogico dell’ordinamento mondiale, e dal confronto con le presunzioni messianiche di queste e di altre attività dell’uomo, è un fare violenza al regno e non comprenderlo. Mentre il regno non è di questo mondo, nel fatto che è primariamente ed originalmente un ordinamento eterno, il suo trionfo in e su questo mondo è presentato nella resurrezione, un evento storico, e sarà sviluppato nei termini dell’interezza della storia.

DANIELE 8LE PROSPETTIVE DELLA STORIA

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“Nel terzo anno di regno del re Belshatsar” (8:1) pervenne a Daniele un’altra visione, una che concerneva il secondo ed il terzo impero. La visione era perciò precedente al tempo degli eventi di Daniele 5.

La località della visione è Shushan, o Susa, la capitale principale dell’Impero Persiano nei suoi giorni di potere. Daniele 8:2 e 8:16 rende chiaro che l’intera visione, dai giorni del potere Medo-Persiano fino ad Antiochio Epifane, è da Susa, un fatto che colpisce, perché il centro della scena, per quanto concerne l’azione, è solo brevemente Susa. La prospettiva perciò è Susa, perché la fede e la filosofia di quella fortezza e sede dell’impero rimase la prospettiva dei suoi successori finché Roma non apparve sulla scena.

Il concetto organico di regalità e la sua affermazione della continuità del popolo col re, e del re col divino, è quindi il principio dominante della visione, poiché questo concetto fu più chiaramente focalizzato nell’Impero Medo-Persiano e dominò gli imperi seguenti, influenzando anche Roma ad un grado notevole. Ad ogni modo, in Roma a dispetto delle influenze Orientali molto marcate, il principio legalista, giuridico, trionfò come fattore residente nella susseguente storia occidentale ed ora mondiale, benché non senza conflitti, nel fatto che entrambi i concetti (unità organica e unità nella legge) furono trasmessi a Roma e per mezzo di Roma.

Il disprezzo Greco per i Persiani fu dichiarato da Plutarco nei suoi commenti nel suo Vita di Artaserse II: “Il re Persiano ed il suo impero erano potenti certamente in oro, lusso e donne, ma era altrimenti un mero spettacolo di vana ostentazione”. Molto di questo disprezzo è basato sull’invidia, e i Greci non erano preoccupati solamente con le conquiste ad Oriente, ma anche col potere nei termini di quell’ Eldorado d’Oriente. Così, Alessandro e i suoi quattro successori assunsero il concetto di regalità Medo-Persiano ad un grado notevole. Plutarco citò un esempio incisivo degli estremi a cui il concetto Persiano di regalità fu spinto. Artaserse II sposò la propria figlia Atossa, dichiarando ‘ella essere la sua legittima sposa, calpestando tutti i principi e le leggi con cui i Greci si ritengono legati, e considerando se stesso come divinamente istituito quale legge ai Persiani, ed il supremo arbitro del bene e del male’. Questi stessi fini, il calpestare il bene ed il male da parte dell’uomo il Legislatore, e la deificazione dell’uomo, furono anche gli obbiettivi ultimi del legalismo Romano, ma il concetto Persiano lo ricercò nell’unità organica della società nel dio-re, gli eredi Romani nei diritti giuridici dell’uomo individuale, per il cui bene esiste la legge, il governo e la società.

Daniele vide l’Impero Medo-Persiano come un montone, “le due corna erano alte ma un corno era più alto dell'altro, anche se il più alto era spuntato per ultimo” (8:3). Secondo Keil: “in Bundehesch lo spirito guardiano del regno Persiano appare sotto le forme di un montone con piedi ben torniti e corna appuntite, e, secondo Amm.Marcell. XIX.1, il re Persiano, quando stava a capo del suo esercito, portava,

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invece del diadema, la testa di un montone”. Daniele vide espandersi considerevolmente la potenza di questo impero in ogni direzione eccetto a Est “così fece quel che volle e diventò grande” (8:4). “Quel che volle”, ha sottolineato Young, significa “fece esattamente come volle, indicando potere dispotico, arbitrario”.1

Ad ogni modo, sorge un capro, Alessandro Magno, il quale, osserva Young: “Divenne conosciuto come ‘egli delle due corna ’, poiché egli si faceva rappresentare con due corna per provare che era figlio di Ammon testa di montone, dio della Libia.2

Ammon o Amon, di Egitto e Libia, identificati anche con Giove e Zeus dagli scrittori classici, veniva rappresentato o con la figura seduta di un uomo con la testa di montone, o un montone intero blu; in suo onore gli abitanti di Tebessa (Tunisia) si astenevano dalla sua carne. Il suo nome compare su monumenti Egizi come Amn o Amn-re (Amon il sole). L’Amon di Tebe aveva semplicemente forme umane, ed era chiamato “il re degli dei” ed era virtualmente identificato in un culto col sole, in un altro con l’Egizio Pan. Il giudizio viene pronunciato su di lui in Geremia 46:25. “Ecco io punirò la [amon]moltitudine di No”.

Il capro era un’antica divinità, o simbolo di divinità, come indica Levitico 17:7, essendo i “demoni” [sai’yr = capro, demone] che gli Israeliti adorarono nel deserto. Il culto al capro esisteva in Egitto, era presente nell’adorazione di Pan (Dio Greco dei pastori inventore del flauto di Pan) ed era un simbolo riconosciuto della nazione Macedone. Monete di Archelao, re dei Macedoni (413 A.C.), rappresentano sul rovescio un capro, e, molto più tardi, la conquista della Persia da Alessandro è rappresentata su di una gemma con una incisione di “due teste unite all’occipite, l’una di montone, l’altra di un capro unicorno”.3 Così, Alessandro fu il grande corno e fondatore dell’Impero Macedone, ed il trasmettitore della vita e della base razionale dell’Impero Persiano, col suo assorbimento di quella fede dentro alla propria struttura. Il presuntuoso e arrogante potere di Alessandro è descritto in 8:8 “Il capro diventò molto grande;” ovvero potente e di successo ai propri stessi occhi. La rabbia dei Greci pure (8:7) era notevole, e il desiderio di rovesciare la Persia era pari al desiderio di raddrizzare la storia. Comunque, nel mezzo della sua potenza, Alessandro “si spezzò” [meglio sarebbe “fu rotto”], morì a trentatre anni, e l’impero fu diviso fra quattro notabili “quattro corna cospicue” (8:8), i quattro generali, essendo un quinto, Antigono stato sconfitto precedentemente ad Isso, nel 301 A.C, cosicché, vent’anni dopo la morte di Alessandro nel 323 A.C. il regno cadde ai quattro generali. Lisimaco prese Tracia e Bitinia e possibilmente tutta l’Asia Minore. Cassandro guadagnò la Macedonia e la Grecia. Tolomeo prese Egitto e territori contigui e Seleuco prese Siria, Babilonia e le nazioni Orientali fino all’India.

Dalla potenza Siriana, alcune generazioni più tardi, dall’esiguità, dall’assenza d’importanza a grande potere ed esaltazione “uscì un piccolo corno, che diventò molto grande” (8:9).4 Costui fu Antiochio IV, Theos, Epifanes, Niceforus, come egli chiamò se stesso, che regnò dal 175 al 164 A.C.. Antiochio cominciò la sua vita come ostaggio di Roma, non riponeva la sua fede in alcun dio eccetto il dio Romano della 1 Young: Commentario, ad. loc.2 Ibid.3 John M’Clintock e James Strong “Cyclopedia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature” III, p. 899s.4 Young: Traduzione e comm. a 8:9.

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guerra, e le fortezze furono i suoi veri templi. La sua politica riguardo ai Giudei sembrò incoerente alla luce dei suoi metodi di procedere usualmente liberali, ma sgorgò da un passionale desiderio di portare alla consumazione il proprio concetto di stato, l’unione di popolo e re quale unità divina ed organica, il re stesso essendo la manifestazione di questa divinità nella propria persona, il punto focale del processo storico e divino. Non sorprende che Gerusalemme e “il paese Glorioso”, o meglio “il desiderio” com’era chiamata Canaan (Ez. 20:6; Ger 3:19 Dan.11:16,41) abbia catturato la sua attenzione, nel fatto che la fede di quel paese era un’offesa radicale per ogni aspetto della sua filosofia. I Giudei erano nel processo di diventare Ellenisti nei termini dell’Ellenismo Siriano, e sarebbero potuti divenire radicalmente sincretizzati, se Antiochio non avesse sostenuto e protetto flagrante corruzione e omicidio da parte dei sacerdoti Ellenisti. Antiochio Epifane, chiamato anche giocando col suo nome, Epimanes: il Demente, cercò di spegnere ogni traccia della fede biblica (8:10-11), ordinando l’adozione della religione Greca, consacrando, nel Dicembre 168 A.C. il tempio di YHWH a Gerusalemme al Zeus dell’Olimpo, ergendo la sua statua e sacrificando in suo onore un maiale. Queste azioni precipitarono la rivolta Maccabea.

V.12 E un esercito gli fu dato insieme al continuo in trasgressione e gettò a terra la verità, fece e prosperò. Nel dare questa traduzione, sto semplicemente presentando ciò che il testo sembra dire…In questo modo, un esercito (cioè molti degli Israeliti), a motivo della trasgressione (Cioè apostasia da Dio), sarà dato (arreso in trasgressione) insieme con (allo stesso tempo) il sacrificio continuo.Inoltre, il corno gettò la verità (la verità oggettiva, manifestata nell’adorazione di Dio) a terra, e prosperò nelle sue azioni. Cf. 1Macc. 1:43-52, 56,60 per l’adempimento storico.1

La durata di questo gettare a terra è 2300 giorni (8:14), dopo cui il santuario è purificato. Keil ha giustamente interpretato questo tempo, un po’meno di sei anni, a significare non del tutto il pieno giudizio di Dio su Israele, che cadde nella pienezza nel 66-70 D.C. per la loro culminata apostasia. L’apostasia e la punizione sotto Antiochio sono descritte come giungere vicino alla fine dei tempi, cioè dell’era dell’Antico Testamento (8:17). Sarà una manifestazione dell’ “indignazione” di Dio (8:19) per l’apostasia d’Israele. I Trasgressori di 8:23 sono i Giudei apostati e compromessi. Antiochio è fatto sorgere da Dio per punire Israele ed è anche da Dio fatto cadere (8:24-25), “infranto senza mano”, senza l’intervento umano.

Questa visione, con la sua ulteriore dichiarazione che Israele è messo da parte da Dio, ebbe l’orrore aggiunto dell’apostasia d’Israele, con la sua indicazione di una apostasia culminante verso la fine, e di conseguenza lasciò Daniele profondamente addolorato e fisicamente malato (8:26-27).

1 E.J. Young, Comm. ad. Loc. Per l’estensione dell’apostasia Giudaica si veda Josef Kastain. “History and Destiny of the Jews” New York, garden City Publishing Co., 1936, p. 94-102.

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Qual’è la relazione tra questo “piccolo corno” dell’era del Vecchio Testamento con quello dell’era del Nuovo Testamento, come viene descritto in 7:8, 24-26? La comparazione dell’uno o dell’altro, entrambi figure politiche, con l’Anticristo, figura religiosa ed ecclesiastica, è, come abbiamo visto incorretta. Il “piccolo corno” del Vecchio Testamento, Antiochio Epifane, compare come un germoglio dei tre grandi imperi, Babilonia, Medo-Persia e Macedonia, e del loro concetto organico di regno (o regalità), di cielo o paradiso in terra per mezzo di questo concetto di continuità che unisce cielo e terra. Il “piccolo corno” dell’era del Nuovo Testamento viene similmente dopo la pienezza dello sviluppo del concetto Romano di regno dell’uomo e rappresenta la sua idea di pace mondiale per mezzo della legge, e continuità con le potenze ultime della creazione per mezzo dell’inserimento dentro al loro potentato per mezzo di legalità e legge. Quindi, questa prima è vista da Shushan, dal picco del concetto Orientale di compimento dell’uomo, ed il secondo, dalla prospettiva di Roma, la quarta monarchia, vista come potenza emanata dal quarto Impero. Ciascuno è un prodotto finito. Ciascuno spinge o forza la questione (il proprio concetto di salvezza) alle sue implicazioni ultime, ed entrambi sono distrutti da Dio, e, con il secondo, la distruzione è fatta l’inizio della potenza matura e aperta del regno di Dio.

DANIELE 9CONFUSIONE NELLE FACCE

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Daniele 9 registra una preghiera e la risposta a quella preghiera. Daniele, “Nell'anno primo di Dario, figlio di Assuero, della stirpe dei Medi, che fu costituito re sul regno dei Caldei” (9:1), era in fervente preghiera a risultato dei suoi studi di Geremia, in particolare di Geremia 25:11 e del capitolo 29 (9:2), ed anche di Deuteronomio come i versetti 11-15 indicano chiaramente. I settant’anni di cattività predetti erano virtualmente terminati e pertanto la liberazione era vicina, cosicché, nei termini della restaurazione promessa, Daniele avrebbe potuto gioire. Invece, egli confessa la sua paura ed il suo dolore per il suo popolo, riconoscendo (vss. 1-19) che “tutto Israele” entrambi i regni di Nord e Sud, meritavano la loro prigionia, ma, nonostante la cattività, non avevano imparato nulla. Mancando di vera fede, per la maggior parte di loro l’avversità non aveva prodotto guarigione o esperienza redentiva, non aveva operato alcun pentimento talché, Daniele temette che il loro solo meritato destino sarebbe stato di punizione e di ulteriore cattività. Le indicazioni sono, infatti, che il Fariseismo fu un prodotto della cattività stessa. Il peccato di Giuda fu in modo predominante il sincretismo, un persistente tentativo di unire fedi nella convinzione dell’esistenza di un cuore o nocciolo religioso comune in tutte le religioni. La forma più comune di sincretismo era ed è il moralismo, e, prima della caduta di Gerusalemme una delle primitive e flagranti pratiche di sincretismo con i culti della fertilità avevano lasciato il posto al culto del tempio e al moralismo. Durante la cattività, il contrasto tra la moralità Ebraica e i costumi pagani era sprofondato in un isolazionismo ed un orgoglioso moralismo, quest’ultimo ovviamente un moralismo sincretista, ed il fariseismo ne fu il risultato. Il giudizio e la caduta di Gerusalemme era già unico nella storia (9:2) quale esempio della retribuzione di Dio ad un popolo privilegiato. Vedendo il loro ulteriore disprezzo per Dio, Daniele era timoroso del loro immediato futuro e, come uno del residuo fedele, pregò ferventemente per grazia (9:18). Quale vero credente e nemico del moralismo, Daniele sapeva che la sua giustizia non era in lui o da lui stesso ma interamente per grazia: “O Signore, a te appartiene la giustizia, ma a noi la confusione della faccia” (o delle facce) (9:7).

L’espressione “confusione delle facce” è significativa, è la confessione di un uomo di Dio, e il principio della sua potenza. Il moralismo non è caratterizzato da alcun simile riconoscimento, ma piuttosto da una confidenza di facce, un sentirsi giusti in se stessi che suppone che la storia sia controllata dalla moralità e da opere di moralità. In questo modo, si presume che l’amore sia capace di rigenerare e di controllare uomini, nazioni e la storia. Libertà, fraternità ed uguaglianza, il moralismo della Rivoluzione Francese e dell’ umanesimo, e delle politiche e rivolte che ne susseguirono, sono ancora una volta esempi della confidenza farisaica che la storia sia soggetta al dominio dell’uomo per mezzo delle opere della moralità Il Comunismo e la Democrazia sono ulteriori istanze di questo stesso moralismo

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nell’area politica, proprio come il Tomismo e l’Arminianesimo ne forniscono l’esempio nelle chiese. Virtualmente tutte le chiese oggi sono monumenti al moralismo, ma il monumento più grande è lo stato moderno. Fichte, dando lezione a Berlino nel 1804-1805, espresse la tesi del moralismo statale: “Uno Stato che cerchi costantemente di aumentare la sua forza interiore, è perciò forzato a desiderare la graduale abolizione di tutti i Privilegi, e lo stabilimento di Equi (Uguali) Diritti per tutti gli uomini, in ordine che, lo Stato stesso possa entrare in possesso del suo vero Diritto: di applicare l’intera eccedenza di potere di tutti i suoi Cittadini senza eccezioni, per l’avanzamento dei propri scopi.” 1 Fichte credeva che solo così, l’obbiettivo grande e giusto (giustificato) dell’umanità potesse essere compiuto e il vero ordinamento dell’uomo venire introdotto. Perciò, ogni potere sia dato allo Stato moralista.

Ma la giustizia appartiene a Dio, e a noi, confusione delle facce, poiché l’uomo è per natura peccatore, un trasgressore dell’alleanza, e, come uomo redento, cammina solo per fede e per grazia di Dio. La storia non è nelle sue mani, né può egli vedere un passo avanti. A lui appartiene la confusione delle facce. La responsabilità è sua, ma la responsabilità non è il potere di eseguire i decreti eterni, ma piuttosto la responsabilità, il dovere di rendere conto a Lui il cui decreto sovrano sta a fondamento di tutta la creazione. Solo quando l’uomo sa di essere uomo, una creatura sotto Dio, può egli entrare in questo dominio come vice-re sotto Dio. Solo quando fonda le sue parole sulla parola di Dio, può parlare con verità e sicurezza.

Daniele, pregando nei termini di questa confidenza nelle certe misericordie di Dio (9:9), ricevette da Dio risposta per mezzo di Gabriele (9:21-27), che egli aveva visto precedentemente in una visione (8:16). La dichiarazione di Gabriele si riferisce alla preghiera di Daniele per Israele, la cui fine era già stata indicata, e il cui corso prima di quella fine viene incidentalmente trattato ora. Il riferimento primario è Messianico. Di conseguenza, come ha sottolineato Hengstenberg: “L’annuncio è essenzialmente di carattere incoraggiante. Questo è vero in un certo senso anche di quella porzione di esso che tratta della distruzione della città e del tempio…I giudizi setaccianti di Dio sono una benedizione per la chiesa…Daniele non aveva pregato per i duri di collo e per gli empi, ma per coloro i quali di tutto cuore si univano a lui nella confessione penitenziale dei loro peccati”2

Gabriele parlò di “settanta settimane” (9:24) o più accuratamente “settanta sette” per Israele e Gerusalemme, un espressione ancora una volta indicativa della pienezza di un tempo specifico. Lo scopo della Apocalisse non è un calendario di eventi, ma avvertimenti, come pure speranza in termini del Messia. Prima della fine di quel periodo, sei cose saranno compiute, come ha evidenziato Young:

Negative Positive1. Metter fine alla trasgressione 1. Introdurre giustizia eterna2. Mettere fine al peccato 2. Sigillare visione e profeta

1 William Smith, traduttore: The Popular Works of Johann Gottlieb Fiche, vol II, Lezione XIV: “Sviluppo dello Stato nell’Europa Moderna”; London , Trubner, 1889, p.236.2 E.W. Hengstenberg:Christology of the Old Testament,vol III, p.86; Grand Rapids, Kregel, 1956.

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3. Coprire l’iniquità 3. ungere un santissimo 1

“Mettere fine alla trasgressione” o apostasia e ribellione, fu l’opera di Cristo, il Quale, “mise fine alla trasgressione con un’azione che Egli fece, esattamente la Sua morte espiatoria. Questo è il solo possibile significato delle parole.” 2 “Mettere fine al peccato” si riferisce nuovamente all’espiazione, togliere il peccato dalla vista. “Fare riconciliazione per l’iniquità” significa propiziazione per il sangue espiatorio del Messia, che è il soggetto della profezia. In questo modo, i “settanta sette” saranno quel periodo in cui Dio prepara la via e poi compie l’opera di espiazione. “Giustizia eterna” sarà introdotta dal Messia, la giustizia di Dio per la salvezza ed un regno senza fine. “Visione e profeta” saranno sigillati o terminati, la Apocalisse Neo Testamentaria di Cristo riassumerà e concluderà le Scritture. L’unzione del Santissimo cioè del Messia Gesù, si riferisce alla piena assunzione del Suo potere e posizione con la Sua ascensione e la caduta di Gerusalemme a conferma della Sua parola e profezia.

I “settanta sette” sono divisi in tre periodi (9:25-27). I primi due periodi sono chiaramente datati dal permesso di ricostruire Gerusalemme fino al “Messia il Principe”, e i primi ‘sette sette’ coprono il tempo dall’emissione del permesso al completamento dell’opera di Esdra e Nehemia, e il secondo, ‘sessantadue sette’ ha riferimento al lungo periodo intertestamentario dalla ricostruzione di Gerusalemme al Messia.

Il terzo ed ultimo periodo, un singolo sette, coprirà la vita e l’opera del Messia:

1. Il Messia sarà messo a morte.2. il popolo di un principe (della quarta monarchia) entrerà in Israele a

distruggere città e santuario, in una guerra che sarà come un “diluvio” e la sua fine sarà “desolazione”. Questo si riferisce alla guerra del 66-70 D.C. e a Tito Vespasiano.

3. Il Messia confermerà o causerà il prevalere di “un patto con molti”, e quest’azione sarà la fine del tempio col suo “sacrificio ed oblazione” sia religiosamente sia giuridicamente, cosicché il tempio sarà anche consegnato alla profanazione e alla distruzione. “È il Tempio stesso, che è qui menzionato come un’abominazione. Una volta che il vero sacrificio del Calvario fosse stato offerto, il Tempio non sarebbe più stato il Tempio di Dio ma un luogo abominevole”3

Con questa distruzione, il giudizio è pronunciato non solo sul moralismo della storia istituzionalizzato nel culto del tempio, ma anche nella funzione legittima del Tempio che cercò di perpetuarsi quale unico veicolo di Apocalisse. L’esclusività della Apocalisse non può essere arrogata dagli strumenti storici dentro ad un’arroganza ed orgoglio, nei quali il vaso ascrive a se stesso il potere del vasaio.

1 Young: Commentario, p. 1972 Young: Commentario, ad loc.3 Young: The Messianic Prophecy of Daniel,p.74

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Dio, sempre geloso del Suo onore, non permetterà alla storia di eternizzare 4se stessa. La storia della chiesa, dello stato, delle università, dell’arte e della società è stata una concupiscenza per l’eternità che conduce alla radicale confusione delle facce della desolazione e del giudizio, mentre solo la confusione delle facce della creaturalità ed il pentimento conduce alla vita della “misericordia e perdono” (9:9) nei cui termini solamente, l’uomo può rimanere in piedi ed il tempo avere significato e diventare esso stesso terreno di gioia e di vittoria.

DANIELE 10LA STORIA COME LITURGIA

4 (la storia proviene dall’eternità e vi termina, non la produce ne la diventa, N.d.T.)

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La visione finale di Daniele è datata “nel terzo anno di Ciro re di Persia” e collocata presso il fiume Tigri (o Hiddekel) il ventiquattresimo giorno del primo mese, dopo tre settimane di digiuno con pane azzimo (10:1-4). Il digiuno di Daniele incluse la Pasqua e la Festa degli Azzimi, ed il ricordo della grande liberazione dalla cattività dell’ Egitto gli ricordò la cattività di Babilonia e la recente liberazione. Come il primo evento fu seguito da ingratitudine, sembrava così anche ora col secondo, come notizie da Gerusalemme sembravano indicare. Daniele perciò, come Mosè prima di lui, fu in fervente preghiera per il suo popolo.

La visione ebbe come scopo un avvertimento simile a quello Mosaico del Deuternomio 26-32, una dichiarazione della giustizia di Dio e del Suo proposito.

Centrale in questa visione è la figura del grande sacerdote-re (10:4-8) una descrizione echeggiata in Ezechiele 1:26-28 e Apocalisse 1:13-15, entrambe le quali sono aiuto ulteriore nell’identificazione di questa figura sacerdotale e regale con Dio il Figlio. In Apocalisse, dove la visione è stata registrata con maggiori dettagli, vediamo Dio il Figlio nel santuario, circondato dai candelabri, che dichiara il significato ed il corso della storia. Tutte e tre le visioni concordano su tre punti:

1. Questa è una persona regale e divina.2. Egli è un sacerdote3. La sua liturgia, o opera pubblica, è la storia.

Il significato letterale di “liturgia” nell’originale Greco è lavoro pubblico ed il lavoro pubblico di Dio il Figlio è la storia. Essendo tutte le cose state create da Lui, ed avendo il decreto eterno predestinato tutte le cose al loro corso pre-ordinato e determinato, Dio il Figlio, con la Sua personale apparizione ed incarnazione in quella storia che Egli controlla, afferma e dimostra la Sua signoria con la Sua opera pubblica, la Sua liturgia. Il cuore di questa liturgia è sicuramente la morte espiatoria sulla croce e la Sua resurrezione, ma inseparabile da essa è la trama e l’ordito della storia, di cui ogni filo è la Sua opera pubblica e manifestazione e proclamazione del Suo ruolo sovrano quale sacerdote-re. Il sacerdote-re ora come profeta dichiara la natura della Sua liturgia .

La degradazione della parola liturgia ad un rito ecclesiastico non deve oscurare il contesto teologico della parola. Per il credente, la sua liturgia è la sua vita quotidiana e il suo corpo è il suo strumento liturgico (Romani 12); per Cristo il Re, tutta la creazione, e la storia in particolare, è la Sua liturgia e l’area della sua aperta dichiarazione di dominio. Perciò, la profezia, e specificamente la profezia predittiva, è un inimitabile concomitanza della dottrina biblica del sacerdozio di Gesù Cristo. Un sacerdote che sia creatore e Signore su tutte le cose, ed il cui ruolo liturgico implica il Suo entrare nella storia, non solo reclamerà apertamente il controllo sopra

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ogni sfaccettatura ed ogni più piccolo dettaglio di quella storia, ma anche affermerà il Suo controllo progettando, mappando e dichiarando il percorso totale.

Una tale dichiarazione incontrerà l’opposizione di una creazione caduta e ribelle. Le potenze spirituali cadute della creazione sfideranno quel piano e quel controllo. La loro sfida, manifestata nel “principe” spirituale (non un re terreno) di Persia, è citata dal grande sacerdote-re (10:9-14). In questa lotta col principe di Persia, l’angelo Michele, “uno dei primi (principali) principi” e principe o spirito guardiano d’Israele, venne in Suo aiuto. Mentre il sovrano ed assoluto controllo della storia ha origine nel Dio trino, la Trinità ontologica, pure, il ruolo liturgico o storico dell’uomo è reale tanto quanto il lavoro pubblico di Cristo. Così, mentre ogni passo dell’uomo è predestinato e gli stessi capelli del suo capo sono numerati, il suo ruolo è reale e non meno serio e storico della morte espiatoria e resurrezione di Gesù Cristo. Quando la storia viene arresa al diavolo la liturgia viene ceduta alla chiesa. A motivo della totalità del piano di Dio (10:14; Atti 15:18; Rm. 9, ecc) c’è una totalità di liturgia: ogni aspetto della storia è un lavoro pubblico del grande sacerdote-re e comprensibile solo nei termini di Lui, ed ogni granello di sabbia nella creazione, e la totalità di tutte le cose, può essere compreso solo in Lui e per mezzo di Lui dal Quale tutte le cose furono create. Il vero principio di interpretazione si trova quindi solamente nel Dio sovrano.

Inoltre, Dio il Figlio parla profeticamente da sacerdote-re a Daniele secoli prima della Sua incarnazione, come infatti fa nell’intero Vecchio Testamento e in tutta la creazione. Il significato di questo fatto non deve essere eluso od oscurato, perché farlo significa togliere il fondamento a qualsiasi filosofia cristiana della storia che sia valida. Il ruolo profetico di Gesù Cristo e la Sua opera pubblica, la Sua liturgia, non dipendono dalla Sua incarnazione, come vorrebbe la neo-ortodossia, ma sono il fondamento e la condizione della Sua incarnazione. L’essere di Dio non può perciò esaurirsi nella Sua relazione con la creazione, o, nei termini della neo-ortodossia, essere perpetuamente nascosto perché mai profeticamente vocale ma sempre equivoco. L’antropocentricità della storiografia neo-ortodossa riduce Dio alla dimensione dell’uomo e di conseguenza arrende il tempo al caso e l’uomo ai demoni. Ma, molto tempo prima dell’incarnazione, Dio il Figlio, parlò profeticamente di quelle cose decretate dal consiglio della Trinità ontologica, ed il Suo parlare fu antecedente la Sua epifania e non condizionale ad essa. In questo modo il ruolo di Dio è creativo e determinativo, il ruolo dell’uomo è interpretativo e analogico. La realtà del ruolo dell’uomo è la realtà della creaturalità; quelli che vedono l’unico ruolo possibile dell’uomo come autonomo e sovrano, si ribelleranno invariabilmente contro la predestinazione come “distruttiva” dell’uomo, e nei fatti lo è dell’uomo autonomo, di colui che vorrebbe essere come Dio. Ma per l’uomo, la creatura, ricreato da Cristo ad immagine di Dio, c’è un ruolo glorioso nella liturgia o lavoro pubblico nella storia come vice-re di Dio, chiamato ad esercitare il dominio nel Suo nome su tutta la creazione. Secondo le Scritture della Verità” non c’è “nessuno” che prenda posizione col Signore nella sua guerra per mantenere e sviluppare i Suoi propositi eccetto “Michele il vostro principe”, cioè Michele il guardiano (difensore 12:1) del popolo scelto da Dio, e con lui quelle persone scelte. Gli scelti di Dio oggi

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sono i veri credenti, il suo popolo è la vera chiesa, il cui totale combattimento è la sua gloriosa condivisione nella liturgia della storia di Cristo.

Secondo Apocalisse 12:7: “E vi fu guerra in cielo: Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone; anche il dragone e i suoi angeli combatterono”; solo la vera chiesa combatte effettivamente, solo la vera chiesa viene alle prese con le reali ed ultime questioni della storia, ed essa sola conosce il suo nemico, la sua forza ed il suo obbiettivo.

DANIELE 11LEGALISMO E ORGANISMO (CORPO SOCIALE)

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Con la sola esclusione dei nomi degli uomini e talvolta degli imperi, l’esattezza di Daniele 11: 2-35, nella sua descrizione della storia dalla Monarchia Persiana ad Antiochio Epifane è concessa da ogni studioso, ma con una differenza. Per gli esponenti dell’alta critica, il passaggio è fondamento cardinale per la loro tarda datazione di Daniele, e per la loro affermazione che un Maccabeo, familiare con la storia coinvolta, scrisse il libro come strumento per incoraggiare i Giudei perseguitati del proprio tempo. Per lo studioso Cristiano ortodosso, questo passo è un’altra istanza di profezia predittiva e provenne dalla mano di Daniele.

Secondo Daniele, chi parla è Cristo, il Quale sostenne Michele, e perciò il Suo popolo scelto, durante i giorni sopra menzionati (11:1), ed Egli, Dio il Figlio, fu strumentale nel rovesciamento di Babilonia da parte di Medo-Persia quale mezzo di avanzamento dei suoi propositi redentivi per il Suo popolo.

Dio il Figlio parlò quindi nei termini della Sua promessa (10:14) di far conoscere i problemi del popolo scelto, cioè la vera chiesa, nel “tempo futuro”, nell’era Messianica (11:2). Primo, la chiesa Giudaica viene preparata per la sua prova, e la sua esperienza fatta basilare alla prospettiva del futuro. In addizione al monarca corrente, tre re si sarebbero susseguiti sul trono di Persia, e poi un quarto “diventerà molto più ricco di tutti gli altri; quando sarà diventato forte per le sue ricchezze, solleverà tutti contro il regno di Javan”(Grecia) (11:2b). Ciro era re a quel tempo, i tre successori furono Cambise, Smerdis e Dario Histappe, ed il quarto Serse. Questi tentò l’invasione della Grecia quando il potere Persiano fu all’apice. La potenza Imperiale Greca pervenne all’attenzione in Alessandro Magno (11:3-4) del quale vengono predetti la potenza, la morte prematura, e la quadruplice divisione del suo impero “ma non fra i suoi discendenti”,.

Il periodo successivo (11:5-20) è la lotta tra Tolomeo e Seleuco ed i loro successori, per la Palestina. l’Egitto, “il Sud” divenne potente sotto Tolomeo Soter, 322-305 A.C., e Seleuco, fatto fuggire quando Antigono gli prese Babilonia, guadagnò il sostegno di Tolomeo e recuperò Babilonia nel 312 A.C., incamerando un regno che si estendeva dalla Frigia all’Indo. (11:5). Alcuni anni dopo, furono formate delle alleanze tra questi due regni, col matrimonio della figlia di Tolomeo Filadelfo Berenice ad Antiochio II, Theos, che mise da parte la propria moglie Laodicea per sposare lei. Quando, due anni dopo, Tolomeo Filadelfo morì, Antiochio II abbandonò Berenice e rifece regina Laodicea, la quale, piena di desiderio di vendetta, contraccambiò assassinando prima suo marito e poi Berenice, col risultato del fallimento dell’alleanza come profetizzato (11:6).

Il fratello di Berenice, Tolomeo Euergetes, il terzo Tolomeo in Egitto, invase allora “il Nord”, mettendo a morte Laodicea (11:7) e ritornando con molto bottino (11:8). Due anni dopo, Seleuco Callinicus riguadagnò il poter “al Nord”, marciò

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contro Tolomeo, ma fu sconfitto malamente, c. 240 A.C. (11:9). I suoi figli, Seleuco Cerunus e Centiochio il Grande, riportarono il potere nel reame e lo estesero attraverso la Palestina fino a Gaza (11:10). Tolomeo Filopator allora attaccò i Seleucidi, o Siriani, e li sconfisse in modo schiacciante a Rafia ma “non sarà più forte”, mancando del carattere necessario per utilizzare la vittoria (11:11-12). Una delle inevitabili prove della vittoria è la capacità d’usarla.

Antiochio ritornò alla guerra tredici anni dopo, dopo la morte di Tolomeo Filopator, in lega con Filippo di Macedonia e ribelli in Egitto, ed anche “trasgressori” in Giudea che si erano allineati con la Siria nella speranza di stabilire il loro sogno o visione Messianica col rovesciamento dell’Egitto. (11:13-14). Antiochio sconfisse l’Egitto a Sidone (11:15), solo per cadere vittima del suo stesso orgoglio, ma non senza una totale vittoria sui suoi nemici ed un dominio sicuro in Palestina (11:16). Antiochio sposò la propria figlia Cleopatra al giovane Tolomeo nella speranza di controllare quel trono, ma essa appoggiò il marito contro il proprio padre (11:17). Poi Antiochio conquistò alcune isole del Mediterraneo, con non poco vituperio verso Roma, solo per essere sconfitto da Lucio Scipio Asiatico, con il vituperio che gli ricadde addosso. (11:18). Ne risultò l’eclissarsi di Antiochio (11:19), che fu seguito da Seleuco Filopator, il quale tentò, attraverso Eliodoro, il primo ministro, di impadronirsi del tesoro del tempio in Gerusalemme, solo per fallire e Seleuco stesso presto perì (11:20).

La sezione successiva (11:21-35) tratta chiaramente di Antiochio Epifane, che prese un potere non suo di diritto, “uomo spregevole” che prenderà “il regno con intrighi (chalaqlaqquah, adulazioni)” (11:21). Con l’inganno e la falsa pace, Antiochio Epifane arginò le potenze dei suoi nemici, svuotando con i suoi mezzi le straripanti forze aliena (11:22-24). Ne seguì la prima campagna d’Egitto, con la vittoria per Antiochio, che si sentì allora sicuro abbastanza per cominciare i suoi piani per abbattere la separazione religiosa e l’indipendenza della Giudea. (11:25-28). Viene menzionata anche un’altra campagna d’Egitto (11:29), che avverrà “al tempo stabilito” nei termini degli scopi di Dio. Viene quindi descritta la persecuzione dei Giudei per la loro indipendenza religiosa (11:30-35); che procede da, e viene dopo il fallimento di Antiochio di catturare l’Egitto, dovuto all’intervento di Roma (le navi Romane vennero da Chittim o Cipro). Il tempio fu occupato, il sacrificio continuo terminato, e il suo idolo collocato all’interno. I Giudei apostati o ellenizzati furono in lega con Antiochio, “ma il popolo di quelli che conoscono il loro DIO mostrerà fermezza e agirà”. Ai fedeli verrà accresciuto l’intendimento e daranno conoscenza ad altri, ma ciò non ostante i fedeli incontreranno tragedie in quei giorni. Quando prendono posizione e prosperano molti ipocriti si uniranno a loro. L’intero processo, comunque, avverrà nei termini di una purificazione e raffinamento da parte di Dio, per far avanzare l’intendimento e la maturazione storica.

La sezione conclusiva di Daniele 11, i versetti 36-39, 40-45, sono i punti di radicale divergenza tra i commentatori. I critici modernisti, mentre argomentano contro qualsiasi frattura nella narrativa, nondimeno riconoscono una rottura di qualche tipo. Così, H.T. Andrews nel Peake’s Commentary on the Bible vide una rottura a 11:40, dove “la storia finisce ed inizia la profezia”, un opinione sostenuta

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anche da Driver. La ragione di questa opinione è l’espressione in 11:40 “E al tempo della fine” presa a riferimento di qualche era futura. Eppure, nonostante questa frase, il resto del passaggio continua in perfetta continuità col precedente! Inoltre, anche quelli che avrebbero 11:36-39 riferirsi ad Antiochio Epifane trovano difficile interpretarlo nello stesso senso di compimento di 11:2-35, dove, senza problemi, gli eventi collimano con la storia, dove invece in 11:36-39, il parallelo stretto diventa forzato. In questo modo alcune cose diventano apparenti:

1. L’intera natura del capitolo richiede continuità, a 11:30 non meno di 11:36. Benché 11:35 marchi una chiusura “questo avverrà al tempo stabilito”, 11:36 inizia con una nota di continuità, e 11:40 allo stesso modo, col suo ritornare al “re del Sud”, costringe a qualche tipo di continuità.

2. Allo stesso tempo, sia 11:36 sia 11:40 segnano nuovi sviluppi ed in questo modo hanno un elemento di discontinuità, accresciuto dalla loro natura più generale, notabile specialmente in 11:36-39.

3. Ci sono dei precedenti, in tutte le profezie bibliche, più brevemente e potentemente in Matteo 24, dove specifici incidenti prima della caduta di Gerusalemme sono seguiti da una descrizione molto generale del tempo di lì in poi e della fine dei tempi, per predizioni specifiche seguite da altre più generiche, per la descrizione di eventi, e poi di condizioni.

4. Antiochio Epifane non è, in 11:21-35 individualmente chiamato un “re” ( né poteva cf. vs. 21), solo una volta, collettivamente (11:27 “il cuore di questi due re”) ma viene chiamato semplicemente “un uomo spregevole” e poi sempre “egli”. In questo modo si evita di dargli dignità, mentre 11: 36-39 si riferisce a “il re”.

Keil, in accordo con i più nel riferire 11: 36-45 all’Anticristo, rimarcò: “Essenzialmente il riferimento della sezione 11:36-45 all’Anticristo è corretta ma la supposizione di un cambio di soggetto nella rappresentazione profetica non è stabilita”. Keil così tenne per un tipo profetico di continuità e di sviluppo. “nella contemplazione profetica c’è compresa nell’immagine di un re ciò che è stato storicamente adempiuto ai suoi inizi da Antiochio Epifane, ma troverà il suo completo compimento solamente per mezzo dell’Anticristo al tempo della fine”1

Questa è un’osservazione molto percettiva, benché inaccurata nel suo riferimento all’Anticristo. Come abbiamo visto, Daniele dà profezia politica, mentre l’Anticristo è un concetto religioso. E mentre è vero che la politica ha carattere messianico, è comunque ancora chiaramente politica, attività civile, in nessun modo ecclesiastica. Perciò il riferimento non può essere all’Anticristo, perché questa sarebbe una rottura radicale con l’intero contenuto della profezia di Daniele. Calvino, come sempre un commentatore percettivo, applicò queste sezioni all’Impero Romano. “Con la parola ‘re’ non penso sia indicata una singola persona, ma un impero, qualunque sia il suo governo, sia con un senato, o per mezzo di consoli, e per proconsoli”. Tale uso era già stabilito in Daniele. Inoltre, i

1 C.F. Keil, Commentary, ad loc.

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quattro imperi erano stati profetizzati come levarsi e cadere in relazione alla venuta del Re messia.

Lo mettiamo giù tutto in una volta; l’angelo non profetizzò di Antiochio, o di qualsiasi singolo monarca, ma di un nuovo impero, significando quello Romano. Abbiamo sottomano la ragione per cui l’angelo passò direttamente da Antiochio ai Romani. Dio desiderò sostenere lo spirito dei pii, affinché non fossero sopraffatti dal numero e dal peso dei massacri che attendevano loro e la chiesa intera anche fino all’avvento di Cristo. Non è sufficiente predire gli eventi sotto la tirannia di Antiochio; poiché, dopo il suo tempo, la religione Giudaica fu sempre più danneggiata, non solo da nemici stranieri, ma dal loro stesso sacerdozio. Nulla rimase incontaminato, poiché la loro avarizia ed ambizione era arrivata a tale picco, che essi calpestarono tutta la gloria di Dio, e la legge stessa. I fedeli avevano bisogno di essere fortificati contro tali numerose tentazioni, fino a che Cristo venne, e poi Dio rinnovò la condizione della sua Chiesa. Perciò, il tempo che interveniva tra i Maccabei e la manifestazione di Cristo, non doveva essere omesso. Ora è abbastanza chiaro il motivo per cui l’angelo passò subito da Antiochio ai Romani.1

Possiamo aggiungere, a conferma di tutto ciò, che “il re” o regno di 11:36 continuerà almeno finché (e, dopo quello, la sua storia non è per il momento d’interesse) “finché l’indignazione sia completata” (cf. 8:19), cioè l’intera ira di Dio per l’apostasia sia sfogata su Israele. Questo chiaramente si riferisce agli eventi del 66-70 D.C., ed allora sia l’apostasia manifestata sotto Antiochio Epifane avrà avuto il culmine, sia l’ira di Dio o la Sua indignazione sarà stata pienamente rivelata. L’ira di Dio contro Israele non può dirsi di essere culminata o terminata sotto Antiochio Epifane, e di qui, 11:36 si riferisce ad un altro “re” o regno: Roma. Inoltre, ciò che ci viene dato qui è, per usare un’espressione di Calvino (Lezione LXIII.) “una serie perpetua” con la quale la vera chiesa viene preparata per tutti gli aspetti di quella quarta monarchia e la sua fede: salvezza per legge o legislazione, che marcherà la storia durante molta dell’era Cristiana quanto i secoli conclusivi dell’era del Vecchio Testamento.

Secondo 11:37, questa nuova minaccia sarà segnata da tre caratteristiche:

1. L’agnosticismo o l’ateismo saranno il comune atteggiamento religioso. La religione verrà usata piuttosto che creduta. Le società organiche erano inevitabilmente religiose e con tendenze panteistiche; le società legaliste nate da Roma sono inevitabilmente, nel loro sviluppo aliene od ostili alla religione, avendo un approccio alla vita razionalista e legalista, e nel loro splendore dando il primato all’etica sulla metafisica. Questo tipo di agnosticismo ed ateismo formali, mentre erano apparenti in Grecia dopo la sua caduta, fiorirono

1 Giovanni Calvino: Commentaries on Daniel, Lezione LXII, Daniele 11:36

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meglio in Roma e nella società moderna, che nel suo orientamento è legalista come Roma

2.”Il desiderio delle donne” sarà rinnegato. Il significato di ciò è che costituisce un desiderio di trascendere o di rinunciare alla creaturalità. Alessandro Magno, che, mentre aveva inclinazioni verso vizi vari, cercò in tutti i modi di evitare le donne, lo fece sul fondamento della loro indicazione di umanità. Secondo Plutarco “Egli era solito dire che il dormire e l’atto del generare specialmente lo rendevano sensibile di essere mortale, tanto da dire che stanchezza e piacere procedevano dalla stessa fragilità ed imbecillità della natura umana”. L’iscrizione sul sepolcro di Ciro commosse Alessandro profondamente, “riempiendolo con i pensieri dell’incertezza e della mutevolezza delle faccende umane” cioè l’orrore di essere umano. L’uomo oggi è pieno dello stesso orrore, e per mezzo della scienza cerca di sfuggire alla creaturalità, e con la politica cerca di creare un ordinamento eterno. Questo orrore dell’umanità, sviluppato nell’antichità, è venuto a focalizzarsi meglio ed è pervenuto al potere formale negli stati post-Romani, nei quali l’uomo legalista spera con legislazione e laboratorio di entrare nel regno degli dei. Nell’antichità l’obbiettivo era l’apatia, essere senza passioni e quindi divino. L’obbiettivo nella vita moderna ha svariato tra il romanticismo Ellenico, con frenesia ed entusiasmo come possessioni divine, e un razionalismo e scientismo freddo, senza passione, legalista, astrazione, come via dell’uomo alla divinità, con quest’ultimo infine padrone del campo in virtù del suo controllo sulla scienza. Nella Rivoluzione Russa, che segnò il trionfo del socialismo scientifico e del materialismo, vari capi adottarono nomi nuovi per esprimere la loro divina apatia, per es. Stalin o “acciaio”, Molotov “martello”.

3. “Si magnificherà al di sopra di ogni dio” L’umanesimo, lo scientismo, il modernismo, la democrazia, questi ed altri sviluppi dell’uomo legalista costituiscono i suoi modi di auto-affermarsi e di auto-magnificarsi. Il concetto Romano di legge è la radice di questa affermazione e la sua premessa basilare. È la dichiarazione di autonomia dell’uomo.

Questo dunque, era la nuova minaccia che si erse nella forma di Roma, nella sua prima formulazione, dopo che calò la minaccia di Antiochio Epifane. Antiochio aveva i suoi seguaci in Israele (11:32), e ai giorni di Cristo, fatta eccezione per un residuo che sarà interamente separato dal vecchio Israele, tutti erano in apostasia. La linea di divisione tra Roma e Giudea era tale solo umanamente: entrambe erano sposate ad un concetto di salvezza radicalmente legalista. Non fu un incidente della storia, ma la certa Apocalisse della sua relazione, che l’organizzazione che meglio perpetua la dottrina farisaica chiami se stessa Chiesa Cattolica Romana, sostenendo, come i farisei, la salvezza per opere, opere di supererogazione (fare di più di quello che è richiesto), i meriti dei santi (o con i Giudei, di Abrahamo), ecc.

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Daniele 11:38-39 parla quindi della devozione di questo nuovo impero, al “dio delle fortezze” e alla conquista ed espansione imperialista, ricompensando quelli che stanno con il dio di questo programma. Disprezzare Dio significa inevitabilmente disprezzare l’uomo. Disprezzando la loro creaturalità, i figli di Roma disprezzano anche tutte le altre creature e ricercano l’auto-magnificazione attraverso la distruzione umana. C’è sempre qualche Cartagine che deve essere distrutta perché qualche Roma sia libera di porsi sotto la propria qualità di schiavitù. Lo stato imperiale moderno insiste sulla neutralità verso Dio, ma il neutralismo riguardo lo stato imperiale ed i suoi obbiettivi è intollerabile, un affronto alla maestà dello stato divino. Gli Stati Uniti, un tempo grande campione internazionale di neutralismo, confronta oggi (1970)l’Unione Sovietica come suo grande nemico.1 Nessun stato può evitare di fare di se la grande pietra di paragone della verità e del carattere se si allontana dalla primazia di Dio e della Sua parola e legge. Il dio della forza diventa il solo dio e la legge ultima, che sia espresso nei termini del concetto del potere della maggioranza e del governo democratico, o apertamente dichiarato nell’uso della “forza” o “armamento bellico” quali basi della legge. È una potenza immanente e coercitiva che viene deificata; è la sopraffazione di gruppi minoritari e dei diritti e della legge nel nome di un potere più forte al presente, la maggioranza dei branditori di pistola.

In Daniele 11:40-45, abbiamo un ulteriore sviluppo della prospettiva profetica sulla storia. Alcune cose appaiono chiaramente:

1. “Al tempo della fine,” il re del Sud, l’Egitto, attaccherà la potenza del quarto impero, ed anche il re del Nord, Siria lo farà, con il Nord trionfante nell’impero.

2. Egli trionferà anche sul paese glorioso (la Delizia) (la chiesa, o popolo scelto di Dio) e lo assorbirà.

3. Quelli relativi, connessi, contigui ad Israele, Edom, Moab e Ammon, saranno risparmiati.

4. Questa rinnovata potenza conquisterà anche l’Egitto.5. Di là partirà per vincere e sopraffare ogni ribellione ed opposizione.6. Il suo quartier generale sarà posto a metà strada tra il mare e il monte, cioè il

tempio.

Questo passaggio è chiaramente simbolico, come pure il precedente. Sostenere un compimento letterale nei termini di Siria, Egitto ed Israele richiede anche la ricostruzione di Edom, Moab, ed Ammon, stati e popoli morti da lungo tempo. Che cosa dunque significa il passaggio?

1. Nell’era del vangelo, l’era Cristiana, ripetutamente chiamata la “fine” o “ultimi tempi” nel Nuovo Testamento, non solo lo stato legalista, col suo concetto di salvezza per legge, sarà il potere dominante in lungo e in largo, ma vedrà anche una recrudescenza dello stato organico, che si spingerà contro e penetrerà in

1 Si veda Felix Morley: Freedom and Federalism, Chicago: Regnery, 1959, p. 87-115.

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esso, senza distruggere o rovesciare lo stato legalista. Le forme apertamente malvagie, Egitto, il paese di schiavitù e tipico di essa, non trionferà, ma avrà successo la forma Ellenica come quella della Siria.

2. Questo trionfo si farà notare specialmente nei termini della chiesa, nella quale un concetto organico dell’uomo, lo stato e la chiesa causeranno l’inciampare di molti mano a mano che il concetto invade e corrompe la chiesa. Al posto del più vecchio razionalismo legalista, il concetto Ellenico della grande catena dell’essere sarà il concetto più basilare in entrambi i regni. La schiavitù della chiesa non sarà quello ovvio di prigionia in Egitto, ma la signoria Ellenica su di essa con l’apparenza di libertà.

3. I vicini della chiesa, quelli nella chiesa ma non della chiesa, sfuggiranno, poiché la corruzione della chiesa non reca loro alcun danno.

4. Il male ovvio, dichiarato, come quello dell’Egitto, lascerà il posto al male sofisticato e apparentemente buono della Siria, cioè il suo desiderio per l’unità religiosa e sociale, il suo affermare l’apoteosi dell’uomo, il suo concetto organico dell’uomo e della società quale si trova nel contesto non delle Scritture, ma della grande catena dell’essere. Il rovesciamento dell’Egitto è il trionfo del moralismo.

5. Il male trionfa, perciò, come bene apparente. L’auto-giustificazione e l’adorazione dell’uomo diventano virtù e vengono promosse contro tutti i mali anti-sociali e tutte le fedi metafisiche.

6. Questa posizione significa pure un radicale sincretismo, cosicché l’ordine del giorno non diventa né la guerra aperta di Antiochio Epifane nel suo tentativo di assorbire Israele dentro la Siria, né l’integrale persecuzione di Roma. Diventa piuttosto il sincretismo. Il mare è il mondo (Riv. 17:15, ecc.), ed “il glorioso monte santo” un tipo frequente della vera chiesa. In questo modo, il male nel suo sviluppo diventa sempre più ovviamente auto-giustificazione e sincretismo, diventa un tentativo di avere la potenza di Dio e la forma di Divinità in radicale disprezzo al loro riguardo.(II Tim.3:1-5)

All’inizio di questa visione, fu detto chiaramente che essa era per “gli ultimi giorni” e “per molti giorni” (10:14)1. Così, mentre tratta del tempo da Daniele ad Antiochio, il punto focale è chiaramente l’era cristiana. L’espressione “ultimi tempi (posteriori)” è applicata dal Nuovo Testamento al tempo tra il primo ed il secondo avvento (1 Tim.4:1). “ultimi giorni” è anche frequentemente usato (Atti 2:17; 2Tim. 3:1;Eb.1:2; 2Pt.3:3 ecc), anche “ultimi tempi” (1Pt. 1:20), e Giovanni ci dice due volte in un solo verso che “è l’ultima ora” (1Gv. 2:18; cf. Giuda. 18). La monotonia della storia di Daniele 11: 2-35 è la monotonia della ciclicità orientale. La nota di progresso nel male viene introdotta da Roma, col suo concetto legalista di salvezza per mezzo della legge civile, e poi dal risveglio del concetto bastardo Ellenico-Orientale di unità organica, che invade la chiesa dal mondo civile e crea un prevalere della propria fede sincretista. Lo stato organico non è stato privo dei suoi trionfi nell’area politica. L’Heghelianesimo lo ha sicuramente fatto avanzare nel mondo

1 (Quei Giorni Diodati; Molti giorni K.J.)

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moderno, e la sua influenza sul Marxismo è marcata, benché il motivo legalista sia definitivamente predominante nel pensiero Marxista. Il periodo Hitleriano fu sicuramente un revival dello stato organico, e così il Fascismo. Ma la vittoria più netta nell’arena politica appartiene al legalismo Romano. È nell’area della chiesa che il concetto organico ha trionfato, ed il pensiero esistenzialista e quello neo-ortodosso sono ovvie evidenze di questa vittoria. La distinzione Creatore-creatura è basilare al concetto Cristiano del corpo di Cristo e dell’esserne membro. L’unione del credente con Cristo non è un condividere la Sua divinità, ma la Sua perfetta umanità. È Cristo come ultimo Adamo, l’uomo nuovo che è l’origine della nuova umanità, a cui il credente è unito. La distinzione viene elusa nell’ecclesiologia eretica, e l’uomo fatto partecipe della divinità di Cristo. Il trionfo di Antiochio Epifane e dell’ “abominazione della desolazione”, il simbolo della continuità dell’uomo col divino, è la chiesa moderna. Lo stato sul quale regnò Antiochio Epifane fu un incontro tra il divino e l’umano, con egli stesso il punto focale di quell’incontro, e la necessità dell’unità organica rese imperativa la persecuzione di quei Giudei separatisti che rifiutavano le vere premesse della società Siriana. Oggi la chiesa modernista sostiene un concetto organico di se stessa in termini Ellenici-Orientali, ed è una chiesa alla ricerca di quello stato divino-umano attraverso il quale verrà l’ordinamento redentivo. Il revival o risveglio “del Nord” della società divina-umana, e l’ “abominazione della desolazione”, mentre comincia come filosofia politica, ha avuto successo essenzialmente nel reame della chiesa ed è divenuta il fondamento dell’ecclesiologia moderna. Può parlare il linguaggio del “corpo di Cristo” ma il suo significato ha un intento radicalmente diverso. Il suo quartier generale è perciò precisamente tra il mondo e la chiesa. Proprio come lo stato organico e lo stato legalista lottarono per il popolo del Vecchio Testamento e la loro terra, col trionfo imperiale del legalismo, così i due lotteranno per la Chiesa Cristiana, col trionfo che andrà prima al legalismo, e poi, ma non definitivamente all’organicismo (o teoria del corpo sociale).

Bisogna prender nota di un ulteriore punto. La prima porzione di Daniele 11 e l’ultima (v.36ss.) entrambe hanno quale punto focale Gerusalemme. Gerusalemme è descritta come l’obbiettivo di Siria ed Egitto, ed è l’obbiettivo anche del nuovo regno degli ultimi giorni. Gerusalemme rappresenta qui il popolo di Dio, i santi di Dio. All’inizio, l’ostilità non è manifestata consciamente ma, con l’aumentare della consapevolezza epistemologica, come con Antiochio Epifane, diventa aperta e diretta. Il popolo di Dio rappresenta una potenza aliena, e perciò il regno dell’uomo gli fa guerra. Ma il governo è sulle spalle di Cristo (Isa. 9:6), ed Egli prevarrà, ed il Suo popolo con Lui.

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DANIELE 12LA CERTEZZA DELLA VITTORIA

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La vasta prospettiva di Daniele, profezia storica e politica con tutto il tempo in visuale, non opera, comunque, a detrimento della prospettiva personale. Il dolore privato di Daniele alla messa da parte di Israele come nazione, e la creazione di un Israele non razziale a divenire popolo di Dio, è sempre davanti agli occhi. Viene focalizzato in modo specialmente acuto in 12:1.

L’ultima profezia cominciò (10:14) col destino e caduta d’Israele in prospettiva, e con l’interesse e la relazione di Daniele in queste cose. Ancora, con riferimento a “quel tempo” la visione continua. La citazione di Gesù di 12:1 (Matt. 24:21-22) con riferimento alla caduta di Gerusalemme (Matt. 24:21-22 è comunque da alcuni interpretato in altro modo) è qui significativa. La caduta di Gerusalemme e la pubblica reiezione dell’Israele fisico quale popolo scelto, significò anche la liberazione del vero popolo di Dio, la chiesa in Cristo, gli eletti, dalla schiavitù ad Israele e Gerusalemme, i quali erano aspetti “della grande città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il nostro Signore è stato crocifisso” (Riv. 11:8). In accordo con ciò Daniele viene identificato con gli eletti e deve ricercare la propria identità al loro interno “In quel tempo il tuo popolo sarà salvato, tutti quelli che saranno trovati scritti nel libro” (12:1). Questo nuovo popolo di Dio non sarà confuso col rimanente del tempo di Daniele, è una moltitudine, infine la schiacciante maggioranza, cosicché questa descrizione (12:2), presentando la salvezza e indicando avanti alla resurrezione generale, può parlare degli eletti di Dio come dei “molti” e dei reprobi come degli “alcuni”. Quelli che sono savi, o che insegnano agli eletti durante il periodo dell’oppressione degli eletti avranno un premio ed una responsabilità più grande nel regno eterno (12:3).

Alla profezia di Daniele fu data la posizione e dignità delle Scritture, e fu dichiarata essere valida attraverso il tempo come mezzo di vera conoscenza per gli uomini. La ricerca della conoscenza, onesta ma vana nel fatto che Dio viene aggirato, caratterizzerà la storia umana. Come Young traduce: “Molti andranno avanti e indietro (vanamente Gb 1:7) affinché aumenti la conoscenza” (12:4).1

La conclusione di Daniele, 12:5-13, introduce essa stessa, come Deane e Young hanno entrambi notato, un nuovo simbolo, “il fiume” dei versi 5, 6, e 7, una parola che originariamente indica un riferimento al Nilo, benché il fiume attuale sia il Tigri o Hiddekel.2 Il doppio riferimento da evidenza della generalità del riferimento: ogni cattività degli eletti, sia a Egitto, a Babilonia o agli stati organici o legalisti, sarà nella sua interezza nelle mani dell’onnipotente, e sarà da Lui utilizzata per i Suoi gloriosi propositi. Dio è da ambo i lati del fiume con i Suoi angeli, e controlla ogni aspetto di ogni passo della storia (Rm. 8: 28) cosicché nessuna cattività può terminare altro che nella gloria di Dio e nella distruzione dei loro carcerieri. Proprio come Dio aveva miracolosamente liberato Israele dall’Egitto, e stava per usare l’impero

1 Commentario, ad. loc.2 H. Deane, in Ellicott: Commentary on the Whole Bible, vol. V; Grand Rapids: Zondervan, p. 400, e Young: Commentario, ad loc.

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Babilonese alla Sua gloria, così in ogni epoca l’ira ed i tesori degli uomini vengono fatti servire Lui.

L’obbiettivo in tutti questi eventi è il trionfo dei santi, che ha da rivelarsi col collasso del “piccolo corno”, alla fine “di un tempo, dei tempi e una metà” (12: 7; cf. 7: 25). Con quel collasso la società Cristiana trionferà in ogni reame, allora per la sofferenza “sarà la fine”, quella sofferenza che è infatti causa di “meraviglie” (o cose difficili da capire), poiché sembrano indicare incapacità di arrecarsi aiuto da parte del popolo di Dio, ed il fallimento di Dio nel liberare. (12: 6-7).

Questa risposta non soddisfece Daniele, che “non comprese” e di conseguenza chiese: “Mio signore, quale sarà la fine di queste cose?”. La risposta è acuta: lascia perdere, non proseguire, poiché qui la cosa va al di la del tuo tempo e del tuo interesse, ma sarà capita da quelli che ne hanno bisogno, che hanno sapienza, e che sono redenti e maturi nel Signore (12: 8-10). Per quanto la sofferenza possa sembrare dominare la prospettiva del mondo, pure è ben lontana dall’essere il quadro totale. I quotidiani registrano incendi, assassinii e rapine, tutti in realtà lontani dal descrivere gli eventi del giorno, costituiti nella maggior parte da adorazione, lavoro, riposo, gioco, ma l’anormalità domina la scena. Allo stesso modo, la tribolazione degli eletti sembra dominare la prospettiva, mentre essa è ben lontana dall’esserne rappresentativa. La persecuzione sotto Antiochio Epifane è paragonata a 1290 giorni, cioè, un po’ di più della metà di sette anni, o della pienezza dei tempi, cosicché di questi giorni sinistri, che non sono senza la loro importante rivitalizzazione della fede, si può dire rappresentino il fatto che la sofferenza della vera chiesa, con ogni aspetto di essa, sarà un elemento della storia circoscritto e limitato. Coloro che aspettano attraverso queste prove e ottengono le loro vittorie in Cristo troveranno la benedizione dei 1335 giorni, 45 giorni in più del periodo precedente. La somma di 1290 e di 1335 arriva a più di sette anni e le due cifre non sono intese come rappresentazioni proporzionate del tempo e della storia. Il primo rappresenta persecuzione; il secondo benedizione di tipo cospicuo. Anche la storia ha le sue epoche di stagnazione, sviluppo, brancolamento ecc., e la descrizione di questi due periodi come “giorni” indica la loro natura limitata nei termini del tutto, ma nondimeno, per la loro relazione a sette anni, la lori importanza nei termini del significato del tutto. Sofferenze o prove, e il compimento hanno entrambi un ruolo decisivo nella vita e nella storia dell’uomo. La parola culminante è di trionfo nella storia, nei 1335 giorni (Dan. 12:11-12)

La parola conclusive a Daniele è: “Ma tu va' pure alla tua fine;” o, come Young l’ha interpretata: “Continua come sei fino alla fine della vita”1 e riposati, “ti rialzerai per ricevere la tua parte di eredità alla fine dei giorni”, cioè, ricevere la tua eredità eterna nel Signore (12:13).

Daniele è profezia politica, ed è profezia fiduciosa, che dichiara la vittoria certa del regno di Dio (da non confondersi o limitarsi alla chiesa istituzionalizzata, del quale è una manifestazione), nella storia.Se la vittoria di Cristo deve essere solo escatologica, e solo nei termini di un ordinamento eterno, allora Daniele è un mostruoso pezzo di irrilevanza. Il meschino 1 Commentario, ad. loc.

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‘complesso della tribolazione’ di una chiesa soddisfatta e autocompiaciuta, circondata dalla comodità e dal lusso, è certamente un fatto sorprendente, un fatto sicuramente indicativo di un desiderio masochista di auto-espiazione per mezzo della sofferenza. Ma l’interezza delle Scritture proclama la certezza della vittoria di Dio nel tempo e nell’eternità. Non ci può essere ritirata dalla vittoria senza una corrispondente ritirata da Cristo. Il Grande Mandato, col suo comando sicuro di fare discepoli di ogni nazione (Mt. 28:19), non fu un’iperbole o una vana espressione di ansiosa speranza, ma la certa promessa di Colui che poté dire “Ogni autorità mi è stata data in cielo e in terra” (Mt.28:18), “Andate dunque” (Mt. 28:19). Tristemente, dal giorno del Calvario, la chiesa si è troppo spesso occupata ad imbalsamare Cristo, mentre i Suoi nemici , un po’ più realisticamente, hanno inutilmente cercato di guardarsi dal Suo potere. È tempo di proclamare la potenza della Sua resurrezione.

La resurrezione viene menzionata in Daniele 12:2 quale chiave musicale dell’era del vangelo, cioè degli ultimi giorni. Il “giorno” o tempo di resurrezione cominciò con la resurrezione di Gesù Cristo, perciò i Cristiani vivono nell’era della resurrezione. L’era ha le sue tribolazioni, le sue battaglie fino alla morte, ma la sua essenza per il Cristiano è vittoria a vita. A motivo della resurrezione di Gesù Cristo non può essere altrimenti.

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PARTE DUE________________________________________________________________________________________________________________________

APOCALISSE

Apocalisse 1 L’Esodo Maggiore

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Il concetto biblico della storia, com’è dichiarato da Apocalisse, fu dato quale risposta specifica al grido agonizzante di una chiesa sofferente, fu dato, inoltre, attraverso un uomo in sofferenza, l’Apostolo Giovanni, un prigioniero a Patos a conseguenza della persecuzione Romana dei Cristiani. Essendo vicini agli eventi della vita terrena di Cristo, i cristiani conoscevano la potenza stupefacente e miracolosa della Sua prima venuta. Il Suo trionfo sulla morte, e le opere miracolose fatte nel Suo nome per mezzo degli Apostoli, e conoscevano altrettanto la certezza del Suo ritorno in pieno trionfo e vittoria. Questa conoscenza accentuava la loro presente impotenza: perseguitati, oppressi, i miracoli terminati, “Per amor tuo siamo tutto il giorno messi a morte; siamo stati reputati come pecore da macello” (Sal. 44:22; Rom. 8:36). Le due grandi domande nella mente e nel cuore della chiesa erano. Perché queste cose? E, per quanto tempo Signore, per quanto ancora? Il grido da “sotto l’altare” (6:9) da parte di quelli che erano stati redenti dall’espiazione di Cristo era netto: “Fino a quando aspetti, o Signore, che sei il Santo e il Verace, a fare giustizia del nostro sangue sopra coloro che abitano sulla terra?” (6:10). Apocalisse, il cui vero autore è identificato essere Cristo (1:1), è la risposta a questa domanda della chiesa di ogni epoca.1

Apocalisse descrive il mondo come un mare turbolento, senza riposo, sempre in movimento, non il proprio padrone ma movimentato dai venti dal cielo, un area senza fondamenta, sicurezza o stabilità. I santi sentono l’impatto del mondo e della sua febbre, sono sbattuti dalle sue tempeste, sentono la febbre della sua irrequietezza, della sua impotenza, della sua concupiscenza per il potere e la sicurezza, e la sua mutabilità di contorni indefiniti. Si sentono sospinti, abbandonati all’uragano di un mare selvaggio e senza riposo, e si interrogano riguardo al ruolo di Dio in tutto questo.

Il saluto (1:1-6) identifica Cristo e l’Apostolo Giovanni, dichiara l’eterno potere di Dio alla chiesa angosciata, l’energia potente e penetrante dello Spirito Santo e della sua presenza dimorante, e la Signoria Redentrice di Gesù Cristo, il quale distruggerà i suoi nemici. Mentre si rivolge a sette chiese specifiche (1:4), sette, quale simbolo di completezza, indica che queste sette chiese rappresentano la chiesa di ogni epoca, proprio come i “sette Spiriti” significano lo Spirito Santo nella totalità del suo essere e della sua attività. Gesù Cristo è “il testimone fedele, il primogenito dai morti e il Principe (o governatore) dei re della terra”(1:5), il profeta, il sommo sacerdote datore di vita, e il vero re della creazione. Egli ha fatto il suo popolo “un regno e sacerdoti a Dio suo padre” (1:6), un’ importante dichiarazione. Riguardo al Cristo, Salmo 89:29 dichiarò: “Renderò pure la sua progenie [il figlio di Davide, il Messia] eterna e il suo trono come i giorni dei cieli”. Questo era un trionfo che si sarebbe rivelato nella storia, e allo stesso modo il sacerdozio e la regalità dei credenti si

1 Riguardo alla frase: “che devono accadere rapidamente”, 1:1 Alford osservò: “Questa espressione non deve essere forzata a significare che gli eventi della profezia dell’Apocalisse dovessero avvenire a breve poiché abbiamo una chiave del suo significato in Luca 18:8(vecchia Diodati), dove nostro Signore dice:”E Iddio non vendicherà egli i suoi eletti, i quali giorno e notte gridano a lui; benché sia lento ad adirarsi per loro? Certo, io vi dico, che tosto li vendicherà”, dove è evidentemente implicato un lungo ritardo…siamo indirizzati allo stesso senso del tosto come in Luca 18, sopra, e cioè, al rapidamente di Dio, benché egli sembri tardare”. Henry Alford, The New Testament for English Readers (Chicago, Moody Press), 1781.

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riferiscono tanto alla storia quanto all’eternità. Negare il trionfo di Cristo nel tempo è un erodere la validità della resurrezione e delle sue implicazioni per la storia; è un ridurre il cristianesimo ad una setta trascendentale e di fare di una ritirata dalla vita l’essenza della fede.

Questo Cristo viene continuamente nelle nubi del giudizio sopra la storia (1:7). Egli identifica se stesso come Dio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine” dice il Signore “che era, che è e che ha da venire, l’Onnipotente”(1:8, cf 1:4; 4:8; 11:17). Secondo Plutarco, (Isis e Osiris, 9) l’iscrizione nel tempio di Isis o Minerva a Sais dice: “io sono tutto ciò che sia mai venuto in esistenza, e ciò che è, e che sarà, e nessun uomo ha sollevato il mio velo”.

L’iscrizione pagana identifica Dio con l’universo, facendo di Lui non un sempre-esistente ma un sempre-in-divenire dal quale la personalità è esclusa: la descrizione cristiana è del Dio personale, eterno, autorivelante, che era, che è e che viene. Ci saremmo aspettati che dopo “è” e “era” ci sarebbe stato “sarà” ma non c’è “sarà” con un Dio eterno. Con lui tutto è, talché viene usata la parola “viene”, suggerendo la sua costante manifestazione nella storia, e la venuta finale in giudizio.1

Martin Rist ha richiamato l’attenzione ad altri paralleli. Pausania, in Descrizione della Grecia (X. 12.5) menziona “un canto di colombe a Dodona: Zeus era, Zeus è, e Zeus sarà”. Il Bundahish Persiano (1:3) dichiarò: “Ormazd e la regione, la religione e il tempo di Ormazd furono, sono e saranno sempre”. 2 La dichiarazione che concerne Ormazd è in contrasto con quella che concerne Aharman, il quale:”è colui che non sarà” talchè si riferisce alla continuità d’esistenza piuttosto che ad una autosufficienza assoluta e senza cambiamenti. “Entrambi gli spiriti sono limitati a se stessi”. 3

L’iscrizione di Isis e i suoi paralleli danno per assunto una continua (crescente) potenzialità in Dio, dunque l’altare al dio sconosciuto (Atti 17:23), vale a dire al dio non conoscibile, è l’altare più adeguato a tutte le fedi in un dio di continuità che è per sempre continuo con l’universo e perciò nascosto per sempre perché mai capace di una piena auto-consapevolezza.. Il dio dell’iscrizione di Isis, come il dio di Karl Barth, è un dio con un futuro, a causa delle sue potenzialità inesplorate. Il Dio delle Scritture non ha futuro, ma solo un eterno presente perché, quale Creatore totalmente onnipotente e totalmente auto-consapevole, ogni cosa è sotto il Suo controllo sovrano e interamente inclusa nel suo decreto eterno. Perciò Egli vive in un eterno presente mentre la vita futura è il ruolo della creatura, e dei falsi dei. L’eterno Ora di Dio è basilare anche al Suo decreto eterno: la totale auto-conoscenza e la totale sovranità portano inevitabilmente al decreto sovrano: “A Dio sono note da sempre tutte le opere sue” (Atti 15:18).

Degli dei pagani, quali dei espressione del concetto di continuità, non ci si può fidare. Infatti, a parte la vera fede biblica, di nessun potere divino ci si potrà mai 1 W. Boyd Carpenter, Comm. su 1:8, in Ellicott, Commentary on the Whole Bible2 Martin Rist, in Interpreter’s Bible, XII (New York: Abingdon, 1957), p.368f.3 Vedi Palhavi Texts, translated by E.W. West, Part I, Vol. 5 of Sacred Books of the East. Part I edited by Max Muller; (Oxford: Clarendon Press, 1880), 4s.

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fidare, ma si possono solamente placare, o tacitatare, o ci si deve sottomettere ciecamente. Essendo pieni di potenzialità, tali dei non sono mai affidabili, e mancano spesso perfino di un carattere accertabile. Alcuni assumono il duplice ruolo del diavolo e di dio entrambi. L’amore o la fiducia in Dio non sono possibili se non nella predestinazione nel suo senso biblico. Nel paganesimo, la natura imprevedibile degli dei si rifletteva anche nell’imprevedibile carattere degli uomini, nell’incapacità di vedere un che di assoluto come fondamentale alla divinità o alla sottostruttura della fede e della vita umana. I poemi epici e la storie dell’antichità sono perciò racconti che enfatizzano la situazione al di sopra del carattere, e se il carattere viene presentato lo è contro lo sfondo di un fato truce ed ironico, che è dimentico della natura dell’uomo, cosicché il carattere è visto come futile contro la situazione. Questo concetto di continuità in Cina ha condotto al relativismo radicale e completamente umanistico del Confucianesimo, dietro il quale sta una dottrina metafisica, la continuità, la quale capovolge tutti i criteri nei termini del valore ultimo della cambiamento. Il Taoismo è la continuità logicamente sviluppata e formulata. Cristo, comunque, quale Dio Vero da Dio Vero, è l’Alfa e l’Omega, il dalla A alla Zeta di ogni verità e potere, onni-inclusivo nel suo totale controllo della storia. Se la storia è in questo modo nelle mani di Cristo, il suo scopo è la vittoria, non la resa del tempo a satana riservando l’eternità a Dio. L’affermazione, perciò, di un prominente fondamentalista Americano nel 1953, il quale attaccava ogni tentativo di riforma sociale nel nome del pre-millennarismo: “Non si lucidano gli ottoni in una nave che sta affondando” è paganesimo matricolato e radicalmente in contrasto con le Scritture. Apocalisse comincia con una promessa di benedizione a tutti quelli che “ascoltano…leggono…serbano le cose che sono scritte nel libro” (1:3), e “questa profezia” non è una promessa di sconfitta ma una dichiarazione di sovranità, di signoria e di vittoria di Cristo nella storia.

In 1:9-20, Giovanni descrive la sua visione di Cristo in gloria, una visione profetica, che dipinge Cristo come Signore, che possiede “le chiavi della morte e dell’inferno” (1:18), con le chiavi che stanno a significare il controllo totale, e descrive Cristo nella Sua gloria più splendente del sole e della luna e fonte di ogni luce e potenza (1:16). Egli compare in vesti di potere giudiziario e regale. La cintura non è sui lombi come fosse pronto all’azione e al lavoro (Luca 12:35), ma è portata come uno che riposa dal lavoro nel “riposo della sovranità” (Carpenter Commentario 1:13). Cristo viene visto come presente nel mondo nella chiesa, nel mezzo dei sette candelabri d’oro (1:12, 20), vivo e presente nella storia quanto nell’eternità. Cristo è nascosto ora dal mondo, ma ciò nonostante è presente non solo quale Re della creazione sul suo trono. Ma anche quale vera chiesa ed il suo capo. Lo scopo di questa visione è quello di dare conforto e assicurazione di vittoria alla chiesa, non di confermare le loro paure o le minacce del nemico. Leggere Apocalisse in modo altro che quello del trionfo del regno di Dio nel tempo e nell’eternità è un negare la vera essenza del suo significato.

Un parallelo familiare tra Genesi e Apocalisse è istruttivo a questo punto per sottolineare il tono radicalmente storico del libro. È Apocalisse nel senso vero, Apocalisse e il suo interesse è, come afferma il primo versetto, un interesse

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immediato e storico. Ai santi assediati non viene detto di un alt alla storia, né di un rapimento fuori da essa, ma della venuta del Cristo Sovrano e della Sua Nuova Gerusalemme dentro la storia. Il parallelo dunque è istruttivo:

GenesiParadiso perdutoCreazione del cielo e della terraL’entrata della maledizione: il peccato, la tristezza, la sofferenza e la morte.L’albero della vita protetto.Quattro fiumi bagnano il giardinoLa comunione distruttaIl lavoro maledettoL’uomo in disarmonia con la natura

ApocalisseParadiso riguadagnatoNuovi cieli e nuova terraNon ci sono più la maledizione, il peccatoLa tristezza, il dolore, la morte.L’albero della vita restituitoUn puro fiume d’acqua della vitaLa comunione restituitaIl lavoro benedettoL’uomo in pace con la natura

Questo parallelismo è, naturalmente, deliberato e profetico. Proprio come il Figlio di Dio venne e, con la Sua incarnazione fece della storia luogo di vittoria, così, per la sua continua opera, la storia vedrà le ulteriori implicazioni della sua regalità. Cristo, in quanto il perfetto uomo, non pose fine alla storia adempiendo ogni giustizia, ma piuttosto la aprì agli “ultimi giorni”, la grande era del regno di Dio. La sua resurrezione non fu una resa al diavolo della storia e del mondo materiale, ma una dichiarazione della sua signoria sulla creazione e la promessa che, quale primo frutto tra quelli che dormono, c’è la sua vittoria all’interno della storia. Con la sua nascita verginale, la sua perfetta obbedienza alla legge, e la sua resurrezione, Egli divenne l’ultimo Adamo, l’origine della nuova umanità, e perciò l’adempimento del tempo e della storia, non il mezzo di fuga da essi Il pensiero Pre-millennarista e quello A-millennarista abbracciano implicitamente un latente dualismo.

Ancora, Apocalisse, col suo estensivo echeggiare l’Esodo, non solo nelle piaghe sull’Egitto, il Nome di Dio, la liberazione dall’Egitto ed il rovesciamento di nemici nella cura miracolosa e possente nel deserto, ma anche in molti dettagli di passaggio, invita ad un paragone con l’Esodo. Secondo Luca 9:31, Mosè ed Elia, sul monte della trasfigurazione, parlarono a Gesù “del Suo decesso che doveva compiere a Gerusalemme”, la parola decesso o dipartita traduce exodous dal testo Greco. La morte di Gesù era così il vero esodo del popolo di Dio dalla schiavitù alla libertà, dal peccato e la morte alla giustizia e alla vita in Lui. Ebrei 9:15-23 rende chiaro che “la morte del testatore”, Gesù Cristo rese legge il testamento ed aprì l’eredità promessa e mostrata in ombre nell’Antico Patto per il popolo del Nuovo. Perciò le benedizioni materiali e spirituali promesse nell’antico Patto cominciarono ad entrare in piena applicazione per mezzo della morte di Gesù Cristo.

Esodo 3:14 è echeggiato in Apocalisse 1:4 e 8. Il nome di Dio, IO SONO COLUI CHE SONO, è basilare alla dichiarazione: “Io sono l’Alfa e L’Omega dice il Signore che è, che era e che viene, l’Onnipotente”. Di nuovo, Apocalisse 1:6

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echeggia Esodo 19:6, la promessa di Dio che il Suo popolo sarebbe stato “un regno di sacerdoti, e una nazione santa”, viene ora adempiuto nella vera chiesa e ancor più largamente nel regno di Dio. Questo ricordare l’adempimento è una promessa di cose ancor maggiori a venire in breve. Il Sabato, comandato in Esodo quale giorno di commemorazione della redenzione dall’Egitto e dunque quale giorno di adorazione, è ora adempiuto in Cristo, il vero Redentore, cosicché l’adorazione ora è nel giorno della resurrezione “il giorno del Signore” (Riv 1:10-13,20). La sua apparizione è di fuoco consumante, ed Egli è, come in Egitto, foriero di piaghe sui nemici di Dio e del suo popolo. I candelabri d’oro si vedono per la prima volta in Esodo 25:37, e si fa allusione alle piaghe in Apocalisse 1:7.

C’è un ulteriore echeggiare sia di Esodo sia di Matteo nelle beatitudini di Apocalisse. La Legge fu data per la prima volta in Esodo, Gesù Cristo, in qualità del vero datore della legge, deliberatamente pronunciò l’adempimento di quella legge in Se Stesso nel Sermone sul Monte, essendo la legge ora, per coloro che sono in Lui, non una maledizione, ma la promessa e fondamento di vita, una trasformazione che comincia con le beatitudini (Mt. 5:1-12). Per dichiarare enfaticamente questa promessa di vita, e le condizioni del suo adempimento, sette (il numero della pienezza) beatitudini vengono pronunciate sui fedeli, mentre la maledizione della legge (Deut.28:15-68) viene scatenata contro gli empi quando le sette coppe d’ira vengono riversate sulla terra (Riv. 16:1). Le sette beatitudini di Apocalisse sono:

3 Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e serbano le cose che vi sono scritte, perché il tempo è vicino.

14:13 Poi udii dal cielo una voce che mi diceva: «Scrivi: Beati i morti che d'ora in avanti muoiono nel Signore; sí, dice lo Spirito, affinché si riposino dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono».

16:15 «Ecco, io vengo come un ladro; beato chi veglia e custodisce le sue vesti per non andare nudo e non lasciar cosí vedere la sua vergogna».

19:9 Quindi mi disse: «Scrivi: Beati coloro che sono invitati alla cena delle nozze dell'Agnello». Mi disse ancora: «Queste sono le veraci parole di Dio».

20:6 Beato e santo è colui che ha parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potestà la seconda morte, ma essi saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui mille anni.

22:7 Ecco, io vengo presto; beato chi custodisce le parole della profezia di questo libro».

22:14 Beati coloro che adempiono i suoi comandamenti per avere diritto all'albero della vita, e per entrare per le porte nella città.

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Queste beatitudini dichiarano che tutte le promesse della legge e le beatitudini e le maledizioni della legge, sono comprese nel loro senso più pieno nei termini degli scopi di Cristo nella storia e attraverso la storia. A questo scopo Apocalisse da certezza ai santi che:

1. Dio vede le loro lacrime, 7:17; 21:4.2. Le loro preghiere vengono ascoltate e usate per governare il mondo, 8:3-4.3. La loro morte o sofferenza conduce alla gloria, 14:13; 20:4.4. la loro vittoria finale è sicura, 15:2.5. Il loro sangue sarà vendicato, 6:9.6. il loro Cristo vive e regna per sempre ed è vittorioso nel tempo e

nell’eternità, 5:7-8; 21; 22.

Viene inoltre dichiarato in molti versetti, come vedremo, che:

1. il tempo è vicino.2. Gesù Cristo è il dominatore dei re della terra.3. Egli è l’Alfa e l’Omega.4. Egli tiene la chiesa e i credenti nelle sue mani.5. Dio, il Dio Trino è sovrano.6. Cristo è l’eterno Dio il Figlio.7. L’essenza della chiesa è la sua fede in Cristo; essa è il vero Israele di Dio,

include i santi delle epoche del vecchio e del Nuovo Testamento.8. Il mondo non è una scampagnata ma un campo di battaglia, uno comunque

di certa vittoria.9. Nel mezzo di tutto il combattimento, la chiesa canterà “nuovi cantici” al

Signore, “un termine del Vecchio Testamento per inni di ringraziamento resi espressamente per misericordie inaspettate” (Thomas Scott).

Tutto ciò è inevitabile, perché Gesù Cristo è, come asserisce Apocalisse 1

1. il fedele testimone (o martire).2. Il primogenito dai morti.3. Il re di tutta la terra.

La terra è del Signore ed è il terreno della sua vittoria. La questione del combattimento del regno non sarà una fuga dalla storia quanto non lo fu l’incarnazione e l’espiazione. Dio il Figlio non è entrato nella storia per arrenderla. È venuto a redimere i suoi eletti, affermare i suoi diritti di Re, rendere manifeste le implicazioni della Sua vittoria, e poi per ricreare tutte le cose nei termini del suo volere sovrano.

Gesù venne, inoltre, come maggiore e vero Mosè, e in un senso duplice, adempì quel ruolo. Primo, presentò Se Stesso deliberatamente quale vero datore della legge nel Sermone sul Monte (Matteo5-7), parlando da una montagna, dichiarando la

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vera natura e la portata della legge, e affermando Se Stesso quale origine della legge: “Avete udito che fu detto agli antichi…ma io vi dico”. Secondo, Egli fu il vero e maggiore Mosè nella Sua capacità come redentore, liberando il popolo di Dio dalla schiavitù del peccato e conducendolo nella terra promessa, l’adempiuto regno di Dio. In quanto tale, dunque, la Sua espiazione segnò l’inizio dell’Esodo maggiore.

La proclamazione di quell’esodo, e la chiamata ad esso, furono fatte formalmente alle due miracolose moltiplicazioni dei pani. Come Giovanni ci ha chiaramente riportato, Gesù proclamò Se Stesso il Mosè che diede pane dal cielo che era di potere maggiore della manna. “Io sono il pane della vita. I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. Questo è il pane che discende dal cielo affinché uno ne mangi e non muoia, Io sono il pane vivente che è disceso dal Cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; or il pane che darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo”(Giovanni 6: 48:51). Il vecchio Israele, comunque, era come Stefano dichiarò, sempre “di collo duro e incirconciso di cuore e di orecchi” (Atti 7:51), cercando costantemente di ritornare all’Egitto, o fisicamente, come all’inizio, o spiritualmente (Ez. 20:23). La ribellione del deserto fu pienamente compiuta ai tempi di Cristo. I ribelli che dissero contro Mosè: “Scegliamo un capo e torniamo in Egitto!” (Nm. 14:4), ovviamente preferivano la schiavitù alla libertà. Essi perciò non avevano alcun amore per il datore della legge o per la Sua legge, il cui preambolo dichiarava: “Io sono l'Eterno, il tuo DIO, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitú”(Dt. 5:6). La casa di schiavitù era per essi sicurezza. La dichiarazione di Israele, nella persona del proprio sommo sacerdote: “Noi non abbiamo altro re che Cesare” (Giovanni 19:15) fu un’aperta ammissione dell’altro capo, qualsiasi altro capo eccetto il Messia di Dio, e un ritorno alla casa di schiavitù. 1

Il vero esodo venne in Cristo, e la ribellione essenziale fu contro di Lui. Cristo, nel ruolo di uomo rappresentativo, ruppe i legami della schiavitù e della legge, e compì il vero esodo (Osea 11:1: Matteo 2:14-15), talché la vera chiamata fuori dall’Egitto, di cui Israele fu solamente tipo e ombra, venne con Gesù.

Egli appare, perciò, al centro del campo, il nuovo Israele di Dio, in mezzo ai candelabri ovvero della chiesa. La sua somiglianza è come di fuoco bruciante e consumante per i nemici, ma come colonna di fuoco protettiva per il popolo di Dio. Egli è il loro vero santuario e la loro forza.

Quando Egli comincia il grande esodo nelle promesse di Dio, anch’egli all’inizio ha a che fare con una moltitudine mescolata, con alieni nel campo, con uomini il cui cuore brama la schiavitù, e di qui il Suo Manifesto, le lettere alle sette chiese, la sua chiamata alla vittoria. Al popolo di Dio era stata assicurata la terra promessa sotto Mosè, ma non senza combattimento. La chiamata perciò, è alla guerra aperta, con l’assicurazione del trionfo, e a colui che vince, una “corona della vita” (2:10). Coloro che si trovano in mezzo al combattimento non devono mai perdere di vista due fatti centrali riguardanti il loro statuto:1) Tutte le promesse della legge e dei Profeti, tutte le promesse di vita come è creata da Dio, sono rese disponibili dall’espiazione. “La morte del Testatore” (Eb 9:15-23) rese disponibile l’eredità al popolo di Dio. La legge del Patto, violata da Israele alla 1 K. Schilder, Christ on Trial, (Grand Rapids, EErdmans, 1950). Pp 221-236 tradotto da Henry Zylstra.

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sua inaugurazione, poteva essere riportata in vigore solo dalla morte del testatore, Gesù Cristo, quale uomo rappresentante federale il quale non solo pagò la pena per l’offesa del popolo del Patto, ma rese anche perfetta obbedienza alla legge. Proprio come quella morte era stata presentata nella tipologia del sacrificio, quale ombra della realtà, così tutte le promesse materiali e spirituali adempiute del Vecchio Testamento erano ombre e tipi delle promesse rese disponibili per i membri del Nuovo Patto. Vengono quindi emessi degli avvertimenti al popolo di Dio (Riv 2-3) di non deviare dal Patto e dalle sue promesse come fece l’Israele di una volta.

2) Questo pellegrinaggio verso la promessa è il maggiore e vero esodo del popolo di Dio, il quale viene così chiamato ad entrare e possedere la terra. Essi non devono indugiare, come fece il vecchio Israele, in timori ai confini e con ciò morire condannati nel deserto. La “corona della vita” attende quelli che vincono.

Apocalisse 2:1-7 Falsa santità

Apocalisse nella sua interezza è una lettera aperta e “la Apocalisse di Gesù Cristo” (1:1), il quale dichiara: “Io, Gesú, ho mandato il mio angelo per testimoniarvi

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queste cose nelle chiese” (22:16). Non c’è dunque da meravigliarsi che Giovanni, quale scriba (1:4) abbia parlato, come ha notato Ramsay, “col tono dell’assoluta autorità. Egli spinge questo tono all’estremo, molto al di la perfino di quello degli altri apostoli, Paolo e Pietro, nello scrivere alle chiese dell’Asia”. 1 Gesù Cristo parla alla chiesa del tempo di Giovanni e di tutti i tempi con autorità assoluta e in modo definitivo.

Apocalisse 2 e 3 sono perciò lettere dentro una lettera, delle parentesi, affermazioni particolari a certi tipi di chiese di tutti i tempi, mentre il resto del libro è indirizzato apertamente a tutte le chiese. La forma dell’indirizzo è particolarmente rivelante: “All’angelo della chiesa di Efeso, scrivi…” Il commento di Ramsay riguardo sia all’ “angelo” che alla “stella” sono particolarmente pertinenti:

È fondamentalmente la stessa idea di un piano più alto e uno più basso di esistenza che viene espresso nel simbolismo dell’Angelo e delle Stelle in cielo, il quale corrisponde alla Chiesa e ai Candelabri sulla terra. Il candelabro, che rappresenta la chiesa, è un simbolo naturale e ovvio. La Chiesa è Divina: è il regno di Dio tra gli uomini, in essa risplende la luce che illumina le tenebre del mondo.

Perciò la stella e l’angelo, di cui la stella è il simbolo, sono gli stati intermedi tra Cristo e la Sua chiesa col suo candelabro che risplende nel mondo. Questo simbolismo fu preso in prestito da san Giovanni dalle forme di espressione tradizionali nelle teorie riguardanti la natura Divina e la sua relazione col mondo.

Nuovamente, osserviamo che, nel linguaggio religioso simbolico del primo secolo, una stella denotava l’essere celeste corrispondente ed un essere divino, o una creazione divina o un essere locato sulla terra. Così, nel linguaggio dei poeti Romani, la figura divina dell’Imperatore sulla terra ha una stella in cielo che gli corrisponde e che è la sua controparte celeste. Così l’intera famiglia imperiale si diceva avesse la sua stella o che fosse una stella…

La stella, perciò, è ovviamente l’oggetto celeste che corrisponde al candelabro che risplende sulla terra benché superiore ad esso in carattere e purezza, l’equazione dunque è: il candelabro sulla terra sta alla stella in cielo, come la chiesa sulla terra sta all’Angelo. Questa è la relazione chiaramente indicata. L’Angelo è l’essere corrispondente su un altro e più alto piano d’esistenza, ma più puro in essenza, più strettamente associato con la natura Divina di quanto possa essere la chiesa individuale sulla terra.2

1 W.M. Ramsay, The Letters to the Seven Churches of Asia And Their Place in the Plan of the Apocalipse New York: Doran, 1904; p. 79s.2 Ibid, p 67-69.

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L’ovvio difetto di questo commento perspicace è il suo Platonismo, mentre qui ed altrove le Scritture sono marcatamente ostili al Platonismo e alle sue idee. Il pensiero Biblico è tipologico, mai astratto come nel Platonismo. Inoltre, la tipologia vede la realtà spesso come manifesta nella storia, non in un universo astratto e trascendentale. Così, la tipologia nelle Scritture è di tre tipi:

1. In una forma c’è una triplice divisione: ombra – immagine - corpo. Così, in Ebrei 10:1, la legge del Vecchio Testamento “avendo solo l'ombra dei beni futuri e non l’ immagine stessa delle cose”(V.D.), la quale, immagine, compare con Cristo, il corpo della legge è nel Dio Trino. Similmente, in Ebrei 8:5, il sacerdozio del Vecchio Testamento fu un ombra e il “tanto più eccellente ministerio” nel “vero tabernacolo” “nei cieli” (Eb. 8:1-2,6) è il corpo. In questo senso la tipologia vede l’ombra nel Vecchio testamento, l’ immagine nel Nuovo, e la sostanza o corpo in Dio.

2. Poi, c’è tipo e antitipo, dove l’antitipo è ciò che il tipo prefigura. In questo senso il tipo dell’Antico Testamento è una figura o parabola della realtà che compare nel Nuovo Testamento (Eb. 9:8-9)

3. L’enfasi principale, comunque, può cadere nel fatto dell’Antico Testamento. Così Melchisedek è il modello o realtà, Cristo la copia, “secondo l’ordine di Melchisedek” (6:20). Ad ogni modo, questa stessa immagine diviene alterata quando leggiamo che Melchisedek fu “fatto simile al figlio di Dio” (7:3), col Figlio che diventa il tipo, e Melchisedek l’ antitipo.

I tipi, inoltre, possono prefigurare e predire. In questo modo, mentre la realtà fa parte del reame degli universali astratti nel Platonismo, la fede biblica, mantenendo sempre la priorità della Trinità ontologica con il decreto sovrano ed eterno, col quale l’ordine temporale è predestinato e subordinato all’eternità, ciò nonostante fa dell’ordine temporale un dominio della realtà per mezzo della tipologia. La realtà viene vista come fatti passati, presenti e futuri ed è sia temporale che eterna, dove invece per il Platonismo la realtà non è mai temporale, non avendo passato, ne presente, ne futuro, e, nella sua eternità è sia impersonale sia astratta. La grande certezza data al credente che “tutte le cose cooperano al bene” (Rom 8:28) è possibile solamente nei termini del duplice fatto che c’è un decreto eterno o assoluta predestinazione, e che “tutte le cose” hanno una realtà, nel fatto che ne il tempo ne nessun era o porzione del tempo è escluso dalla presenza e manifestazione della realtà ed è in integra relazione con la realtà. “L’angelo della chiesa di Efeso” in questo modo non è un universale astratto o “un essere corrispondente su un piano diverso e più alto, ma più puro in essenza, più strettamente associato con la natura Divina di quanto la chiesa individuale sulla terra possa essere”. L’angelo è la chiesa in ombra – immagine – corpo, è tipo e antitipo insieme, come modello e copia, è una chiesa totalmente afferrata nella “sua mano destra” (2:1), ed ancora non totalmente in Lui. Alla realtà (della chiesa) è attribuita la sua piena posizione in Cristo, e la realtà è allo stesso tempo attribuita al suo stato presente di servizio e di imperfezione. È la chiesa il cui passato, presente, futuro e stato eterno sono strettamente interconnessi,

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tutti possedendo realtà e allo stesso tempo espressione di ombre e di tipi l’uno dell’altro. Questa è la chiesa nella pienezza della sua vita e della sua realtà.

In questo modo, la vita del credente nel regno non è l’annullamento del passato ma il suo adempimento. Il regno è “i tempi della restaurazione di tutte le cose” (Atti 3:21) e il tempo della loro rigenerazione. (Matt. 19:28). Il disprezzo per la storia quindi non è ne santo ne sostenibile. Il pensiero non biblico è sempre culminato in un cinismo riguardo la storia, vedendola nei termini del caso cieco o del determinismo, e di ricorrenze senza significato, cercando di unire Dio e l’uomo in una grande catena dell’essere, ha distrutto il vero fondamento del significato. Ogni essere diventa uno, ugualmente divino e ugualmente privo di significato, l’uno e il molteplice pure sono senza significato nel fatto che l’uomo si perde, o in un mare di particolari, o alla deriva in un non differenziato oceano dell’essere. La dottrina biblica della Trinità ontologica, come ha dimostrato Van Til,1 cinge (Undergirds) l’eguale valore ultimo, realtà e unità dell’uno e del molteplice, la dottrina della creazione, con la sua distinzione Creatore – creatura, ci fornisce il principio interpretativo, nel fatto che il Creatore è anche la fonte del significato, essendo tutti i fatti, fatti creati da Dio. La tipologia è un aspetto essenziale di questa interpretazione poiché in essa viene affermata la correlazione tra il temporale e l’eterno, ma senza confusione. Il matrimonio, per esempio possiede di più della propria natura fisica e temporale ed è tipico della relazione di Cristo e la Sua chiesa, proprio come la paternità umana è un’immagine dell’eterna relazione della Trinità ontologica tra Padre e Figlio.2

Inoltre, la redenzione implica, non il semplice ingresso dell’anima dell’uomo dentro al regno, ma l’ingresso nella pienezza di vita, cosicché l’ordine redento è il vero ordine, quell’ordine nei cui termini solamente la vita ha significato. Vita, famiglia, società, legge, governo e altre sfere di attività umana non hanno esistenza indipendente da Dio e senza di Lui non possono esistere a lungo senza collassare e morire. Perciò la vita redenta è anche l’ingresso nell’opportunità di avere pienezza di vita in ogni sfera, e le sfere vengono ora viste come aspetti veri del regno di Dio. Perciò Paolo, nel riformulare il quinto comandamento, utilizza un termine nuovo per “onorare”: “Onora tuo padre e tua madre” (Ef.6:2) dove “onorare” significa, nel Greco, “pagare un prezzo e poi pagare onore” e si riferisce quindi al prezzo di sangue. Questa affermazione è al popolo del patto e dichiara che le stesse sfere e strutture della vita nel regno sono date–da–Dio e parte dell’ordine redento. L’espiazione di Cristo non solo portò la vita al popolo di Dio, ma anche le pattali condizioni della vita, cosicché famiglia società, scuola, stato ed ogni sfera deve essere reclamata dal credente come propriamente il suo reame in Cristo. Vero “onorare” i genitori, e qualsiasi altro aspetto del patto, è vedere il loro statuto nei termini della parola di Dio e comprendere il loro ruolo come sfaccettatura della pienezza di vita nel regno.

Questo rende chiaro un punto enfatizzato da Ramsay ma negletto da molti commentatori, riguardante la relazione della chiesa con Efeso.1 Vedi Cornelius Van Til, The difense of Faith, 1955. A Christian Theory of Knowledge, 1954, Christian Apologetics, 1953, etc, Presbyterian end Reformed Publishing Co.2 Vedi R. J. Rushdoony Intellectual Schizophrenia, Philadelphia, Presbyterian and Reformed Publishing Co, 1961, pp.21-37.

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Egli (Giovanni), assume sempre che la chiesa è, in un senso, la città. La Chiesa locale non vive separatamente dalla località e dalla popolazione, in mezzo alla quale ha una dimora meramente temporale. La chiesa è tutto ciò che è reale nella città. Il resto della città ha fallito la realizzazione di se stessa, della propria vera identità, e si è fermata nel proprio sviluppo. Similmente, la Chiesa locale a sua volta non è giunta al suo perfetto sviluppo: l’ “angelo” è la vera, la realtà, l’idea (in senso Platonico) della chiesa. Così, in quel caratteristico simbolismo la città sta alla sua Chiesa nella stessa relazione in cui la Chiesa sta al suo angelo.1

Ancora una volta la prospettiva di Ramsay è Platonismo e chiaramente errata, ma la sua percezione della relazione della città alla chiesa è chiaramente sulla strada giusta. Come Ramsay ed altri hanno notato, Apocalisse ci da il conflitto frontale di due grandi imperi invisibili, Babilonia la Grande e la Nuova Gerusalemme. Questo conflitto si manifestò visibilmente tra Roma e la chiesa. Roma cercò costantemente di eliminare la Cristianità, o almeno di ridurla allo stato di un culto Romano dedicato a provvedere cemento sociale. Roma non poteva rimanere Roma e tollerare la Cristianità, un rivale molto più mortale di Cartagine per la sua struttura basilare. Due imperi molto reali erano chiaramente in conflitto. Efeso era una caposaldo centrale di quell’impero in Asia, e la chiesa di Efeso non di minore importanza quale centro visibile dell’impero di Cristo. Nessuna delle due era un’ombra nel senso Platonico. I due sono imperi rivali, ma Roma è dedicata all’odio di Dio che comporta morte (Pr. 8:36), mentre la chiesa è una tribù del Signore, in esodo dal mondo di quell’impero alla terra della promessa e dell’adempimento. L’Efeso di Roma è il Canaanita che deve essere spossessato, mentre la chiesa di Efeso è la vera Canaan di Dio. Questa conquista avverrà “a poco a poco”: “L'Eterno, il tuo DIO, scaccerà a poco a poco queste nazioni davanti a te; tu non riuscirai a distruggerle subito, perché altrimenti le fiere della campagna diventerebbero troppo numerose per te” (Dt. 7:22); L’ordinamento sociale richiede il procedimento lento, ma deve essere continuo. La chiesa non può diventare fredda nel suo amore e nel suo servizio (Riv. 2:4-5). Non sorprende, perciò, che il linguaggio delle lettere sia “preso dall’uso militare”: “a colui che vince” (2:7).2 Due imperi sono in guerra e ciascuno reclama il titolo delle stesse città e delle stesse terre.

“Queste cose dice colui che tiene le sette stelle nella sua destra e che cammina in mezzo ai sette candelabri d'oro” (2:1). Le sette stelle e i sette candelabri d’oro si riferiscono entrambi alle “sette chiese” cioè alla chiesa nella sua interezza. Il commento di William Barclay in riferimento al verbo “tiene” è centrato:

In questa frase viene usato Kratein, non col genitivo usuale, ma col molto più inusuale accusativo. Il significato è che Gesù Cristo tiene la totalità della chiesa nella sua mano. Non è una chiesa qualsiasi ad appartenere

1 Ibid, p. 412 Vedi Martin Rist, op. cit.. p. 382

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esclusivamente a Gesù Cristo, nessuna singola chiesa è la chiesa di Gesù Cristo. Egli tiene tutte le chiese nella Sua mano, poiché tutte le chiese sono sue e tutte gli appartengono.

Inoltre, egli cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro. Ciò equivale a dire che la presenza del Cristo risorto è in ogni chiesa. La sua presenza e la sua potenza non sono confinate ad una singola chiesa; egli è lì nel mezzo di loro tutte.1

“L’attribuzione della dignità divina”, come Stauffer ha osservato, caratterizza Apocalisse 2:1 nel suo riferirsi a Gesù.2

“Io conosco le tue opere, e la tua fatica e la tua costanza e che non puoi sopportare i malvagi, e hai messo alla prova coloro che si dicono apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi” (2:2). Barclay ha richiamato l’attenzione sul primo “e” di questa frase, un “expexgetic e” che “spiega ciò che viene prima”, cosicché, come la traduce il Barclay, la clausola dice: “conosco le tue opere, con ciò voglio dire la tua fatica e la tua costanza”. Fatica è kopos, la “fatica che rende esausti”, e costanza è hupomone, “fermezza trionfante”.3 La pazienza della chiesa di Efeso, comunque, non si riferisce agli eretici, che furono abilmente messi alla prova ed esclusi, si riferisce alla loro stessa prova sotto persecuzione, mentre l’Impero Romano cercava di distruggere questo bastione dell’Impero di Cristo (2:3). Questa persecuzione aveva indebolito il loro amore (2:4), nel fatto che i credenti si stancarono delle afflizioni e persero speranza. Servire Cristo era divenuto solo combattimento, e le dimensioni importanti e necessarie della speranza e del premio (Eb. 11:6) si spegnevano e sembravano remote. Ma fede, speranza e amore sono facce diverse di uno stesso fatto, e l’uomo non può rimanere a lungo nella vera fede senza speranza e amore (1 Cor. 13:13). La perdita della speranza e dell’amore sotto il fuoco nemico significò un corrispondente declino della fede. Una chiesa senza una viva speranza è una chiesa che sarà presto sradicata da Gesù Cristo (2:5), e una chiesa che rigetta la storia quale dimensione della fede, della speranza e dell’amore è allo stesso modo sotto giudizio. L’avvertimento a Efeso è perciò un avvertimento di grande gravità: o ti muovi nella piena confidenza della fede, speranza e amore, confidando in me quale fondamento di vittoria, o ti muovi nei termini di morte e rimozione. Nondimeno, un po’ del loro “primo amore” rimane nel loro odio delle “opere dei Nicolaiti, che odio anch’io” (2:6). Questa affermazione qualifica quella precedente “Ma io ho questo contro di te, che hai lasciato il tuo primo amore” (2:4). Non si può amare Dio senza odiare tutto ciò che Egli odia e tutto ciò che gli si oppone. Chi non può odiare non può neppure amare ed è incapace sia di agire che di sperare. “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: a chi vince io darò da mangiare dell'albero della vita, che è in mezzo al paradiso di Dio” (2:7). Quel paradiso che fu la condizione di vita dell’uomo prima della caduta sarà in senso

1 William Barclay, Letters to the Seven Churches,New York: Abingdon, 1957. p. 192 Ethelbert Stauffer, NewTestament Theology,New York, Macmillan, 1956; 2483 Barclay, Op. Cit., p. 19s.

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nuovo e compiuto la sua eredità in Cristo. L’albero della vita sarà di nuovo la scaturigine della sua vita e l’essenza della sua natura redenta. L’albero della vita è Gesù Cristo, che si proclamò essere “pan di vita” che da la vita eterna (Giovanni 6:47ss), e di essere la fonte dell’ “acqua viva”, “fonte d’acqua che zampilla in vita eterna” (Giovanni 4:10,14). Cristo è dunque il fondamento e la condizione del paradiso. Non ci può essere evasione dalla guerra tra imperi nella speranza di trovare riposo e ristoro ai margini o nel campo nemico: il riposo esiste solo in Lui, e nella vittoria, combattendo la guerra tra gli imperi, nel Suo nome.

Efeso, intitolata la “Suprema Metropoli dell’Asia” e città di grande importanza commerciale e amministrativa (sede di una corte d’assise), era anche una città di grande importanza religiosa in quanto località del Tempio di Diana. Il fondale del suo fiume–canale richiedeva lavoro continuo per essere liberato dal limo. Proprio come la chiesa di Efeso era un “tipo”, così la città di Efeso possedeva un significato che la caratterizzava (tipizzava) nella propria vita e nella propria fede.

Nessuna chiesa poteva esistere in tale centro senza o compromettere o combattere: più era la vicinanza al centro e più era vicino il centro del conflitto. Proprio per questo Paolo aveva dato in Efeso molto tempo e molti sforzi, come pure aveva fatto Giovanni. Qui, al centro, bisogna affrontare il combattimento.

Inoltre, la vittoria era assicurata se la chiesa avesse mantenuto la propria posizione in Cristo. La religione del mondo era ben rappresentata nei sacerdoti di Diana, chiamati Megabyzi, eunuchi. Efeso, nelle sue monete, chiamava se stessa la neokoros o schiavo delle pulizie del Tempio di Diana. Qui c’era un sacerdozio dell’escapismo, una fuga dal mondo, un sacerdozio di uomini castrati che Dio dichiara inadeguati al Suo servizio. Solo l’uomo intero, che affronta tutte le responsabilità della vita, è chiamato al servizio di Dio il Signore. Il tempio di Diana possedeva anche il diritto d’asilo, cosicché Efeso era piena di criminali che ne avevano fatto il proprio rifugio. Il diritto di santuario o asilo nelle Scritture è limitato ai casi di omicidio involontario, per proteggere l’uomo dalla vendetta. Le lettere Efesine vendute al tempio erano amuleti magici da indossarsi da parte di credenti. In ogni suo aspetto, il culto di Diana rappresentava l’escapismo, una fuga dalla realtà, e la giustificazione del male nel nome della misericordia. Era dedicato alla morte e alle vie della morte, e la sua santità era solo castrazione. Ogni fede che abbia un disprezzo per la storia alla fine costringerà il proprio clero a diventare, fisicamente o psichicamente, eunuchi come misura della loro santità. Questa eresia si è infiltrata nella chiesa capillarmente.

Ma la chiamata alla chiesa è di cingersi per un agire continuato, di mantenere la posizione, combattere, amare e odiare da uomini. L’uomo non può rifiutarsi di essere uomo, non può cercare la fuga nell’eunuchismo e diventare niente di più di un’abominazione per Dio; né può cercare di essere di più di un uomo, di innalzarsi fino al cielo e di essere come Dio. Questi tentativi gemelli dell’uomo apostata, eunuchismo o divinizzazione, hanno come risultato solo e sempre la morte. L’albero della vita è solo per coloro che, da uomini, vincono in battaglia, coloro che entrano e possiedono la terra sotto Dio. L’uomo è chiamato attraverso il combattimento alla vittoria.

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Apocalisse 2:8-17La Funzione dello Stato

Le città e le chiese di Apocalisse 2 e 3 sono allo stesso modo tipiche nel loro significato e devono essere comprese solamente nella loro piena portata, non come istituzioni limitate e ristrette, e le lettere di Apocalisse devono essere comprese nella stessa maniera.

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Smirne, una città portuale, era sessanta chilometri a Nord di Efeso. Una città particolarmente bella, si gloriava di essere la “Gloria dell’Asia”. Le sue strade diritte e larghe includevano la famosa “Strada d’Oro”. Smina diceva d’essere la città natale di Omero. Città libera e sede d’Assise, Smirne era importante per Roma quanto Roma era importante per Smirne. Di conseguenza era uno dei grandi centri del culto di Cesare, il quale, ai tempi di Domiziano, divenne obbligatorio in tutto l’Impero, con l’emissione di un certificato annuale di conferma dell’avvenuta adorazione richiesto a tutte le persone.

In Smina, il culto di Cesare fu adattato quale coronamento e fulcro della vita e della religione locale. L’adattamento era l’essenza della religione statale in ogni luogo. La divinità patrona della città di Smirne era una variante locale di Cybele, la grande Divinità Madre dei Frigi, e tra i Romani, la Grande Madre degli Dei, Grande madre dell’Ida (magna Deum Mater, Mater Deum magna Idaea). Questo culto fu uno dei grandi nemici della cristianità e per lungo tempo suo rivale. Cybele era la madre universale degli uomini e degli dei, ed era strettamente collegata con la natura, l’abbandono orgiastico, e monti boscosi. I suoi sacerdoti erano eunuchi chiamati Galloi; vestivano femminile e portavano i capelli lunghi. Attis (o Adonis) era il figlio e amante di Cybele, il suo ciclo di morte e rinascita veniva ritualmente osservato quali inverno e primavera, la morte della fruttificazione e la rigenerazione della vita delle piante da Madre Terra. Cybele era dunque la grande divinità Asiatica della fertilità. I suini erano associati con lei nei primitivi culti in Grecia e Anatolia, e la carne di maiale non era mangiata dalla gente di Pessino. Il culto entrò in Roma nel 204 a.C. ed era accreditato con l’aver aiutato Roma a sconfiggere Annibale. Fu solo molto più tardi, sotto Claudio, che il culto, in particolare la sua adorazione dell’albero sacro, fu ufficialmente pienamente incorporato nelle religioni riconosciute da Roma.

I sacerdoti umani di Cybele arrendevano la loro mascolinità alla divinità, principio della fertilità della natura, per poter ricevere in ritorno per l’umanità la fertilità della natura. Questo era, ovviamente, un’affermazione del principio di continuità: la natura era in se stessa sterile finché impregnata dal grande lavoro e dal sacrificio dell’uomo e resa fertile. Il Giorno del Sangue, il 24 marzo, sembra fosse una commemorazione annuale e, forse, da parte dei novizi, l’iniziazione in questo sacrificio. Il 25 marzo veniva celebrata la rinascita della natura, il Festival della Gioia (Hilaria), ove prevaleva universalmente la licenziosità, tutti gli uomini liberi di fare e agire come loro piacesse. Ci fu molto presto un tentativo di fondere questa osservanza con la Pasqua, che era chiamata da alcuni la Domenica della Gioia.1 Il sommo sacerdote di Cybele, sia a Pessino che a Roma era chiamato Attis.2 Il nome Attis indicava, non solo il dio Attis (o Adonis), ma anche ad Atys, uno dei primi re della Lidia, cosicché Attis non era solo il rappresentante dell’uomo che, con la sua morte liberava la fertilità della natura, ma anche il rappresentante del re, cosicché il punto focale del concatenamento tra la divinità e l’umanità poteva di nuovo essere stato il re sacerdote. L’Asia era l’area principale e più forte di questa fede, benché Roma si sia data estensivamente a questo culto.

1 J. Bingham, Works, vii. (Oxford, 1855), 317s.2 Sir James gorge Frazer, edited by Theodore H. Gaster,The New Golden Bogh; New York: Criterion, 1959; p.315

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Questa divinità-madre aveva una strettissima affinità con lo statismo ed era nei fatti largamente l’espressione religiosa della fede nella politica. L’uomo, attraverso la sua attività politica, estrae da una sterile, ma potenzialmente grande natura, tutta la fruizione del potere statale e realizza lo sviluppo della vita ed il benessere dell’uomo. Benché lo sforzo ed il sacrificio siano molto reali, i risultati per l’uomo sono incalcolabili: il Giorno del Sangue conduce alla Festa della Gioia. L’evirazione (smascolinizzazione) dell’uomo è la salvezza sociale dello stato. Inoltre, lo stato poi tende a diventare la grande madre-divinità della cittadinanza, Attis. In Smina, nel 196 a.C., fu eretto un tempio a Dea Roma la dea di Roma, e fu la prima città a farlo, gloriandosi allora e da allora di essere la città che sia serviva Roma sia riceveva della sua generosità, orgogliosa del proprio ruolo di Attis per la Cybele di Roma. Smirne, come città era stata morta ed era stata riportata in vita, e, sotto Roma, “ebbe una carriera di prosperità quasi ininterrotta”.1 Smirne era perciò politicamente e religiosamente strettamente alleata con Roma, ed era nei fatti e nello spirito un centro del culto dell’imperatore.

Cristo, parlando a questa chiesa e città, cominciò: “E all'angelo della chiesa in Smirne scrivi: queste cose dice il primo e l'ultimo, che morì e tornò in vita” (2:8). L’auto- identificazione di Cristo è un assalto diretto contro Smirna. Quale “primo e ultimo”, cioè la totalità di ogni sovranità, decreto e divinità, ogni partecipazione alla divinità da parte di altri uomini e dei viene immediatamente eliminata, e negati sia la fede in Cybele sia il culto dell’imperatore. Inoltre, la vantata resurrezione di Smirne come città, e il mitologico risveglio della vita e della fertilità celebrato nel rituale Cybele-Attis, furono ugualmente relegati al disprezzo e messi al bando dalla storia dall’affermazione enfatica che era Lui “che fu morto e tornò in vita nuovamente” (che è la traduzione da preferirsi secondo molti); “fu morto” è pieno di forza, significa “divenne morto” o “divenne un cadavere”. La storia qui viene bruscamente posta contro il mito, come avviene in tutta la Scrittura.

Ma se il Signore comanda la storia, perché allora Smirne prosperava e la chiesa impoveriva? “Io conosco le tue opere, la tua tribolazione, la tua povertà (tuttavia tu sei ricco)” (2:9) Tribolazione è letteralmente pressione, e la povertà è destituzione, cosicché la difficoltà della chiesa è apertamente riconosciuta da Cristo; ciò nonostante sono ricchi poiché stanno in piedi con Cristo e in sicuro comando della storia, contrariamente a Smirna in fuga dalla storia e dalla realtà. La fede nello statalismo di Smirna rappresentava un cosmico “monismo”, una conversione della natura e dello stato entrambi in una madre generosa (munifica) che toglieva o cercava di togliere ai suoi figlioli ogni cosa spiacevole, mentre Dio Padre abbandonava i Suoi Figli in Cristo alla dura realtà della maturazione. La loro era ricchezza di vita, mentre Smirna aveva solo morte con i fiori.

“Conosco la calunnia di coloro che si dicono Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana” (2:9). In un capolavoro di fantasia, Rist caratterizza questa affermazione come “antisemitismo”.2 Effettivamente, i Giudei di Smirna non solo ostacolavano la chiesa, ma anche utilizzarono il culto dell’imperatore per condurre i

1 Ramsay, op. cit., 3832 Rist, op. cit.,383.

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cristiani al processo e alla morte. Molto tempo dopo, nel 160 d.C. i Giudei ebbero parte attiva nel martirio di Policarpo di Smirna, portando perfino combustibili per bruciarlo, benché fosse il loro giorno di Sabato. Questo fu un orrore particolare per i Giudei credenti, i quali, come Paolo, desideravano ardentemente la salvezza del vecchio Israele. (Rom 10:1), poiché i legami di sangue erano molto forti. Contro tutto questo il Signore dichiarò la dura realtà: i “Giudei” non sono più i veri Giudei o Israele di Dio, ma una sinagoga o assemblea di Satana, l’avversario di Dio. Devono essere considerati storicamente, non sentimentalmente o idealmente. I membri di questa sinagoga, anziché essere in alcun tipo di relazione con Dio, erano in aperta bestemmia contro di Lui attraverso i Suoi santi e perciò, veramente, “la sinagoga di satana”. I Giudei Cristiani di Smirna dovevano perciò vedere i loro parenti nella carne, non in termini razziali ma nella prospettiva religiosa.

“Non temere ciò che dovrai soffrire ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in prigione per mettervi alla prova, e avrete una tribolazione per dieci giorni Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita” (Riv. 2:10). Di fronte alla vita facile dei non credenti di Smirna, Gesù promette la certezza della sofferenza. È una perversione ed un immorale svilimento della Cristianità che alcuni predicano, promettendo ogni tipo di felicità in cambio del pensiero positivo, o affermando che Cristo rapirà i suoi santi togliendoli dalla tribolazione. I pii che dichiarino: “Grazie Dio sono salvato e tutti i miei problemi sono spariti” potrebbero benissimo non essere salvati, e certamente non sono onesti. Cristo promette tribolazioni, fatiche e prove al Suo popolo. Sono i morti a non avere problemi, o i viventi morti, come la gente di Smirna e di Efeso, aderenti ad una fede che sostiene che la castrazione è santità, la sminuizione della vita essere vita, e l’assenza di vizi essere virtù. La salvezza nella religione Romana ed Ellenica era una salvezza automatica (deux ex machina), un rapimento miracoloso o una liberazione dall’avversità dentro ad una situazione felice e lussureggiante. La salvezza Biblica, come sottolinea l’incarnazione, è nel contesto della vita è non è una liberazione dai problemi e dai conflitti, ma la promessa di forza per combattere e per vincere. La promessa da parte di Gesù che avremo tribolazione è perciò più di una dichiarazione di onestà singolare: è una Apocalisse della stessa natura della fede biblica com’è dichiarata o ricevuta per esegesi attraverso l’incarnazione e la resurrezione di Cristo, con la totalità della Sua vita. La richiesta di una salvezza automatica (deux ex machina) da parte di cristiani è dunque un radicale errore ed un’offesa.

La “corona di Smirna” era una frase familiare che indicava la collina chiamata Pagos, con i suoi grandiosi edifici pubblici, e la frase suggeriva ancora una corona d’edera o una ghirlanda floreale, spesso indossata da adoratori di bacco e di altre divinità in occasioni rituali.1 Contro tutta questa esposizione imponente, Cristo offre la vera corona, “una corona di vita”, nelle tribolazioni e attraverso le tribolazioni, non isolata da esse. “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: chi vince non sarà certamente colpito dalla seconda morte” (2:11) La chiamata a soffrire, perciò, non è per amore della sofferenza o in disprezzo della vita: nessuna falsa santificazione viene profferta, e neppure l’ ascetismo. La guerra aperta tra i due regni 1 Ramsay, op. cit., 256,258

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o imperi implica la tribolazione, e quella tribolazione e combattimento sono un passo essenziale verso la vittoria.

La chiesa di Smirna rimaneva in una posizione di non compromesso, nonostante fosse stremata dall’ostilità dei parenti Giudaici. La chiesa di Pergamo, comunque, nonostante alcuni marcati aspetti di forza, non era senza compromesso.

Pergamo, a Nord Est di Efeso, era una capitale, storicamente la più grande dell’Asia Minore. La sua famosa biblioteca conteneva 200.000 libri, e la parola “pergamena” proviene da he pergamene charta, la carta di Pergamo. Religiosamente era dedicata all’adorazione dell’Imperatore, e anch’essa prese il titolo di neokoros, gli spazzini del tempio di Cesare. Era anche devota in maniera prominente al culto di Dionisio, il dio-toro, e ad Asclepio, il dio della guarigione, il cui simbolo era il serpente.

Dionisio o Bacco è meglio conosciuto come la personificazione dell’estasi e dell’ubriachezza. Secondo una delle forme del mito, Dionisio o Zagreus fu ucciso dai Titani mentre occupava il trono di Zeus, e un rituale annuale di rivitalizzazione era parte di quella fede. Egli era la divinità della vegetazione e appariva anche in forme animali (toro o capro), doppiamente connesso con ciò con l’agricoltura e la fertilità. Però, Dionisio non era meramente fertilità nello stesso senso di Cybele, ma era l’estasi della fertilità e la relativa eccitazione.

Asclepio, conosciuto come Asclepios Soter, Asclegio il salvatore, era un dio di guarigione e il suo emblema era il serpente, spesso il serpente intrecciato. Nel suo tempio vagavano liberamente bisce addomesticate e si credeva che i malati, lasciati li per la notte, fossero guariti dal tocco di queste bisce.

In questo modo, il culto di Dionisio offriva salvezza attraverso l’evasione dentro all’estasi, dentro la religione esperienziale, e il culto di Asclepio offriva un culto di guarigione, mentre il culto dell’imperatore offriva all’uomo il suo anello della catena dentro all’ordinamento divino per mezzo dello stato. La legge e la pace Romana erano pietre fondamentali di quell’ordinamento divino, e i Cesari la manifestazione visibile di quell’ordinamento e direzione. Valeriano, che pervenne al potere nel 253, proclamò la natura di quella direzione in una moneta in cui dichiarava di essere il “restauratore della terra” ed il suo co-imperatore e figlio Gallieno iscrisse in un’altra moneta ubique Pax, “Pace in terra”.1 L’autorità Romana aveva dunque quale propria direzione, scopo e obbiettivo questo ordinamento divino-umano, il cui fondamento era la legge. La funzione fondamentale della religione era attualizzata dallo stato, e le funzioni religiose subordinate erano attualizzate dai culti. Contro questa legge e autorità la parola o legge di Cristo il Re dichiarò la propria autorità. “E all'angelo della chiesa in Pergamo scrivi: queste cose dice colui che ha la spada affilata a due tagli” (Riv 2:12). Dovunque qualsiasi stato assuma quale proprio obbiettivo “la vita buona”, la propria funzione anziché quella della semplice amministrazione della giustizia divenga un ordinamento messianico, deve necessariamente dichiarare guerra al regno di Dio e a sua volta essere oggetto degli attacchi da parte dei cristiani, e questo è vero oggi altrettanto di quanto lo sia stato al tempo di Roma. Non possono esserci concessioni: Cristo chiama tale stato “il trono di 1 Ethelbert Stauffer, Christ and the Caesars; Phiuladelphia: Westminster, 1955; p. 238-240

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satana” (2:13). Oggi, come allora, molta della chiesa abita “proprio lì dov’è il trono di satana”. Lo stato moderno si assume, col consenso delle chiese false e compromesse, il ruolo della salvezza e della religione, e lascia le consolazioni e i doveri periferici della religione alle chiese.

Nel complesso, comunque, la chiesa di Pergamo era stata fedele. Si era mossa in una sfida diretta contro l’impero: “abiti” (Katokein) implica lo stabilimento di una dimora fissa e permanente. La chiesa stava reclamando i regni di questo mondo per Cristo e stava testimoniando fedelmente perfino fino alla morte, come nel caso di Antipa (2:13). Il conflitto era inevitabile a partire dal fatto che “satana abita” Katocrei nello stesso luogo, reclamando il regno per Cesare. Ma la spada non è nella mano di Roma ma in quella del Signore, la cui stessa parola (2:16) detiene maggiore autorità e potere di tutta la potenza di Roma. Se non vorranno combattere per il Signore dovranno combattere contro di Lui. La spada che Egli porta, inoltre, è la daga romana a due tagli, non un’arma Orientale. La daga era l’emblema dell’autorità Romana. Questa autorità Cristo reclamò come propria e sfidò Roma su territorio Romano. Ma, bisogna notare che Cristo si muove per prima contro la chiesa e gli uomini negligenti. C’erano alcuni che compromettevano in Pergamo, seguaci di Balaam e i Nicolaiti. Balaam (Num. 24-25,31) fece cadere Israele attraverso Balak nell’idolatria e nella fornicazione, nella corruzione come mezzo per vincere la fede piuttosto che con un assalto diretto. Questi uomini, in effetti, stavano raggiungendo la stessa cosa, cercando di far mescolare la chiesa e il mondo, di ammorbidire l’offesa della croce, e di far causa comune con Roma nella ricerca religiosa dell’uomo. Il loro peccato primario era spirituale, e le conseguenze apparenti nel reame della moralità. Ma gli uomini non possono dedicare Cristo al compromesso, per quanto possano dedicare istituzioni al compromettere, e il risultato della loro compromissione non è pace ma guerra con Cristo stesso (2:16).

Una doppia promessa (2:17) viene data a chi vince:

1. “la manna nascosta”, un sostegno soprannaturale, la provvigione e la liberazione caratterizzeranno la loro vita quotidiana. La loro resistenza e il loro successo sarà nascosto al mondo per quanto riguarda la sua causa ma non i suoi effetti.

2. “Una pietruzza bianca, e sulla pietruzza sta scritto un nuovo nome che nessuno conosce, se non colui che lo riceve”. La pietruzza bianca ha una varietà di significati nell’impero Generalmente era un cubo o un rettangolo di pietra o di avorio. Era simbolo di vittoria, o anche di assoluzione,e ancora anche un biglietto gratuito per cibo o divertimento. Questi ed altri significati sono tutti suggeribili in questo contesto. Anche il nome nuovo era compreso nell’impero come riferimento all’imperatore e al suo titolo nell’assunzione del potere. Con Antipa, che fu chiamato da Cristo “il mio fedele martire”, Gesù cristo gli diede nientemeno che il proprio titolo. In Apocalisse 1:5 Gesù Cristo stesso è chiamato il fedele “martus”, e questo è proprio il titolo che Egli diede ad Antipa.1 Così, il nome imperiale di

1 Barclay, op. cit.,p.50

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Cristo è dato al credente trionfante ed è un simbolo di vittoria e pegno (gettone) d’ingresso nel vero reame dell’uomo, il regno di Dio.

Sarebbe bene notare che queste lettere sono delle chiamate alla battaglia, non solo nella loro terminologia tecnica militare, ma anche nella loro diretta dichiarazione di odio e guerra sia verso il nemico sia verso chi compromette. Davide poteva dichiarare: “Benedetto sia l'Eterno, la mia rocca, che ammaestra le mie mani alla guerra e le mie dita alla battaglia”(Sal. 144:1; Cf. Sal. 18:34). Guerra e conflitto in qualsiasi senso sono sia un prodotto del mondo decaduto sia una sua necessità. La capacità di combattere viene persa dove sia perso il significato, dove il male divenga semplicemente l’altra faccia della realtà, o venga relativizzato. Come ha osservato Robert Rendall: “Perché ripudiare il male se esso è parte della realtà ultima?”1 Roma, con la propria fede, si era ritirata da quel conflitto basilare ed era capace solo di opporsi a coloro che disturbavano la sua morte ordinata, con suggerimenti di vita. Se il male il principio ultimo delle cose quanto la giustizia, allora la morte è il principio ultimo quanto la vita, e possibilmente più basilare, poiché più prevalente. Lo stoicismo avrebbe presto affermato questo regno della morte, e il suicidio sarebbe presto divenuto quasi una virtù. La lotta basilare della chiesa, perciò, doveva essere con se stessa. Le lettere furono scritte con in mente questo. Oggi, come allora, bene e male, vita e morte, tutte le cose sono infatti ugualmente ultimative per l’uomo, il quale rimane quindi sempre più snervato da ogni accenno di guerra. Contro cosa può guerreggiare, e dov’è il suo nemico? La prospettiva moderna post-Darwiniana è sempre più incapace di fare guerra alcuna eccetto la guerra totale contro tutte le cose. O tutto viene condonato, o tutte le cose vengono selvaggiamente disprezzate e pestate sotto i piedi. Il risultato in entrambi i casi è la morte. La lotta basilare della chiesa è di nuovo con se stessa, e contro il compromesso.

Quando gli uomini eguagliano il bene e il male, sperano con Adamo di aprire una maggiore libertà all’uomo, e di rendere la vita più ricca nella sue possibilità e nelle sue attualità. Ma la relativizzazione è una spada a due tagli, anziché diventare più ricca con il rovesciamento della legge morale, la vita ne viene degradata allo stesso livello della morte e niente di più. Nietzsche comprese le conseguenze della sua vantata libertà e crollò sotto il suo peso. Dewey non potè spiegare perché, avendo relativizzato tutte le cose, la democrazia avrebbe dovuto avere un valore speciale, o perché la libertà e la dignità dell’uomo dovessero avere valore. L’anarchia dei valori conduce solamente ad un frenetico odio verso ogni realtà e alla guerra contro di essa, poiché la realtà è divenuta l’epitome delle tenebre col suo assorbimento livellante di tutti i significati. In questa triste equalizzazione, la teologia della chiesa moderna ha avuto una non piccola parte.

Il progressivo scetticismo religioso dell’Impero Romano non ridusse la sua natura religiosa ma piuttosto l’intensificò. L’uomo insiste sempre e cerca salvezza, se non da Dio, allora dallo stato, o da qualche altra agenzia che egli divinizza. La secolarizzazione della vita contemporanea è caratterizzata dalla crescita dello stato come ordinamento messianico. La frenesia dei risvegli e delle esperienze religiose 1 Robert Rendall, History, prophecy and God, London Paternoster, 1954, p.47.

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hanno lasciato il posto al fervore politico e alla rivoluzione. L’ingenuo fervore dei movimenti religiosi di molti studenti di una volta è stato succeduto dalla passione per il radicalismo politico, una passione in senso religioso, in quanto la sostituzione, l’espiazione vicaria, e le stimmate intellettuali sono caratteristiche dello studente dedicato, le cui capacità di agire positivamente con capacità e sistematicità sono tanto piccole quanto sono grandi le sue necessita di drammatizzarle. La salvezza è sicuramente all’ordine del giorno, e lo stato è il nuovo dio e mostruosa creatura dell’uomo secolare autonomo.

Apocalisse 2:18-3:6Morte e continuità

Tiatira, una città molto antica, era una città garitta o sentinella per Pergamo e un importante centro commerciale. La sua locazione era scadente da una prospettiva militare ma importante dal punto di vista commerciale. La sua religione rifletteva il suo carattere cosmopolita, nel fatto che era completamente sincretista. Il significato tipologico di Tiatira è facilmente visibile nella sua vita economica: “si conoscono più associazioni di commercio in Tiatira che in qualsiasi altra città Asiatica”.1Questo, il fattore più importante nella vita di Tiatira, era più di un fattore economico: aveva un significato religioso. Certamente, la vita delle associazioni implicava sia adorazione, 1 Ramsay, op. cit., p. 324

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e banchetti comuni alle riunioni nei templi sia frequenti ubriachezze e immoralità sessuali. Sarebbe un errore, comunque, vedere il conflitto nei termini del moralismo L’influsso Greco era sufficientemente forte in Tiatira da colorare le associazioni, e le associazioni Greche spesso avevano regole molto rigorose contro i comportamenti disordinati, si dedicavano all’assistenza caritatevole di membri bisognosi, provvedevano per funerali, governavano se stesse, versavano contributi fissati per il fondo comune, e si riunivano e festeggiavano a intervalli regolari. La corruzione esisteva nelle associazioni commerciali allora come esistono nelle associazioni sindacali oggi, ma non era una caratteristica particolare che non fosse presente anche nel resto della società. Le associazioni non erano perciò particolarmente malvagie nei termini della società in generale, anzi si poteva dire molto della loro utilità e dei vantaggi che portavano. Può essere ulteriormente aggiunto che le associazioni commerciali di Tiatira potrebbero benissimo essere state moralmente superiori a quelle di altri posti, poiché apparvero sufficientemente accettabili alla chiesa da condurre al compromesso. Il peccato dei Nicolaiti di Tiatira era così definitivamente non di immoralità sessuale o di declino morale. Gli appunti fatti da Ramsay sono qui particolarmente illuminanti:

Sembra perciò essere al di la di ogni dubbio che, i Nicolaiti di Tiatira, con la loro profetessa quale loro capo, erano ancora membri attivi e infaticabili della chiesa, “pieni di buone opere”, e rispettati dall’intera congregazione per il loro carattere generale e per il loro stile di vita. Il sentimento che il resto della congregazione riserbava loro è attestato nella lettera “tu permetti a quella donna Iezabel, che si dice profetessa, di insegnare”. È evidente che la signora che viene qui così rudemente citata era regolarmente accettata in Tiatira quale insegnante regolare, e come profetessa e conduttrice della chiesa. Non c’era alcuna seria, generale, attiva opposizione contro di lei; e proprio qui risiedeva l’errore dell’intera congregazione; essa si era fermamente confermata nell’approvazione della congregazione, e, come abbiamo visto, era così rispettata a motivo della propria vita liberale, zelante ed energetica con cui si era guadagnata la stima generale. Essa era evidentemente una signora attiva e manageriale sullo stile di Lidia, la mercante di Tiatira, capo di una casa a Filippi; ed è una coincidenza interessante che le due uniche donne di Tiatira menzionate nel Nuovo testamento si somiglino così tanto nel carattere.1

Il peccato della chiesa era dunque strettamente collegato con le sue virtù. Le “opere” o virtù della chiesa sono chiaramente descritte “Il tuo amore, la tua fede, il tuo servizio e la tua costanza, e so che le tue ultime opere sono piú numerose delle prime” (2:19). Qual’era dunque il loro peccato? Il nome “Iezabel” è una chiara indicazione della sua natura. Sicuramente a regina Jezebel non si può associare alcuna immoralità sessuale; piuttosto ella si dedicò al progresso di un marito indeciso e alla gloria del suo regno. Perfino la morte di Naboth (1Re 21:7-13) fu intrapresa al posto di suo marito. Il suo odio per Elia e i suoi aderenti era basato sulla premessa 1 Ibid, 336.

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che essi erano un ostacolo al benessere nazionale e una influenza divisiva. Il culto di Baal fu un deliberato espediente politico e religioso, inteso a dare un fondamento comune con gli stati confinanti quale premessa di una comune alleanza contro potenze aliene. In questa confederazione la leadership sarebbe stata assunta da Israele quale popolo superiore. Un’ alleanza senza compromessi con Jehovah sarebbe stata distruttiva di ogni ordinamento sociale, mentre un culto di Jehovah compromissorio aveva la sua collocazione nel regno, come testimoniano i 400 falsi profeti raccolti da Achab in risposta alla richiesta di Giosafat di avere un profeta di Jehovah (1Re 22:1-8). Jezebel proveniva da fuori la chiesa, e per questo era meno accettabile; la Iezabel di Tiatira proveniva dall’interno della chiesa, con tutti i crismi della santità, posizione ed onore. L’obbiettivo, comunque, rimaneva lo stesso: Il fondamento comune quale principio basilare. La premessa era semplicemente questa: sia i cristiani che i non credenti stanno operando insieme verso lo stesso obbiettivo, il bene supremo e in esso il compimento dell’uomo. Anche se i cristiani hanno qualche superiorità, fondamentalmente è la stessa cosa in tutto il mondo. Non c’è un obbiettivo specificamente ed esclusivamente cristiano, non c’è una filosofia della storia cristiana, né un concetto di scienza o della società. La differenza tra il cristiano e il non credente è una differenza di grado, non di tipo, e lo stesso è vero delle loro filosofie. Benché non dichiarata così sfrontatamente questa era la premessa in Tiatira, era sicuramente la premessa di molti pensatori cristiani nella chiesa primitiva e attraverso i secoli. Qualcuno dei primi pensatori era così convinto del fondamento comune, che furono usate categorie Greche, e Cristo fu presentato come loro adempimento. Platone e Aristotele divennero la pietra angolare della filosofia cristiana sulla premessa profondamente radicata del fondamento comune, il credere che le differenze non possono essere di tipo ma solo di grado. A Tiatira la premessa si manifestava primariamente nelle azioni pratiche piuttosto che nel pensiero teoretico, ma non era meno reale. Queste associazioni artigiane, società professionali e consociate commerciali erano interessate al bene della società, con il benessere e l’adempimento dell’uomo. Nonostante le loro debolezze e i loro peccati (e chi ne è senza?), nei loro scopi erano nobili e morali. Poteva il cristiano isolarsi da loro senza incolparsi di provincialismo e senza disprezzare anche la Apocalisse generale di Dio? La cooperazione doveva perciò divenire il principio dell’azione, una cooperazione moralmente circospetta, ma nondimeno cooperazione. La posizione rispettabile della “Jezebel” di Tiatira indica la dignità e la moralità della sua partecipazione.

La lettera a Tiatira echeggia la decisione del Concilio di Gerusalemme (Atti 15). Lo scopo di quel concilio fu di non porre il giogo del legalismo Giudaico e del separatismo Giudaico sui credenti (Atti 15:5-11), ma di insistere sulla separazione necessaria (Atti 15:28-29). Molto più tardi, in Romani 15 e 1 Corinzi 10:15ss, è evidente che Paolo non considerava la dichiarazione che riguarda le carni offerte agli idoli riferite a carni mangiate a casa, poiché non viene fatta proibizione. Il concilio di Gerusalemme pose termine al vecchio separatismo Giudaico in favore di un separatismo comune Cristiano dei credenti Giudei e Gentili, col quale come un sol corpo erano separati dal mondo.

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Tiatira era colpevole di violare questa separazione e di cercare fondamento comune; questa era “fornicazione” e “adulterio” da parte della chiesa, la sposa, contro Cristo, lo sposo (2:21-22), e, a meno che “Jezabel” e i suoi seguaci non si fossero pentiti, la loro speranza di un fondamento comune sarebbe divenuto il “letto” delle loro afflizioni (2:22) e della loro morte (2:23). Non tutti sostenevano questa dottrina (2:24). Quelli che la sostenevano, parlavano di conoscere “le profondità di Satana” (2:25). Questo veniva detto molto chiaramente come oggetto d’orgoglio e non di vergogna, da “Jezebel” e da altri che avevano tutti una buona reputazione morale. Non si riferisce dunque a rilassatezze morali o a pratiche sessuali. È un principio spirituale e filosofico, un’affermazione religiosa. Se si ratifica un fondamento comune, si fonda sulla premessa del principio della continuità della realtà, cosicché Dio, l’uomo e Satana sono aspetti comuni e continui della realtà. In questi termini, una professione religiosa che affermasse una conoscenza delle “profondità di satana” affermerà anche la possibilità di conoscere le cose profonde di Dio sulla base della continuità. In questo modo, la professione religiosa del primo implica la professione del secondo quale obbiettivo di ogni essere. Questo concetto di fondamento comune, comunque, conduce a un comune letto di disastro e morte per i suoi aderenti. (È possibile che l’espressione, “conoscere le profondità di Satana” sia riferita ad un antinomismo gnostico, peccare che la grazia abbondi, ma il testo non sembra indicare due eresie a Tiatira, ma piuttosto una, e cioè il compromesso del fondamento comune.)

Conoscere “le profondità di Satana” o le cose profonde di satana significava anche una concentrazione sul potere del male, studiare congiure, forze sataniche, come se esse rappresentassero il vero potere dell’universo al posto di Dio. Per questa prospettiva, satana è il potere e Dio presente, e il Dio di Gesù Cristo è remoto.

Apollo Tyrimnaios, il dio sole, era adorato a Tiatira. La demarcazione tra la divinità e l’umanità di Apollo era vaga. Egli era un dio, ma la sua tomba era a Delfi. La sua immagine nella grotta sacra a Ilo vicino a Magnesia dava agli uomini una forza sovraumana e li rendeva sacri possessori di potere divino. Helios Tyrimnaios Pythios Apollos era l’unione di diversi concetti della divinità e un unione dei diversi elementi della popolazione nella città. Questa forma del nome della divinità di Tiatira è una potente affermazione del principio di continuità. Apollo, il dio sole, che muove guerra contro Python, assorbe in se stesso, o si rivela essere, ad uno e lo stesso tempo quello stesso Python. Egli è in questo modo dio e demone, bene e male, notte e giorno, tutte queste cose a loro volta in (continua) connessione logica con la realtà. Nel mito Apollo-Python: “Il vincitore è la replica del suo oppositore”1 Così, in questo modo di vedere, Satana e Dio sono repliche l’uno dell’altro, e tutte le possibilità e una continua potenzialità esiste in ogni forma di esistenza. Il risultato è un interminabile procedimento senza significato, nel fatto che tutte le possibilità sono egualmente il principio ultimo, bene e male, vita e morte ugualmente validi e ugualmente nulle.

Contro questo concetto della divinità infinitamente mescolato e perpetuamente grigio, Cristo ha rivelato Se stesso sia come assoluto sia come luce. Egli è quella luce

1 Joseph Fontenrose, Python: A Study of Delphic Mith and Its Origins, Berkeley, University of California Press, 1959, p.470.

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che è un fuoco consumante per i nemici di Dio ma anche la colonna di fuoco che protegge e vendica il suo popolo (2:18). Egli è “il Figlio di Dio”, la cui sovranità sulle nazioni è così assoluta che nessuno governa senza di Lui (2:18,26) Questo Cristo richiede la rottura radicale del Suo popolo col compromesso del fondamento comune e della continuità: “non vi impongo alcun altro peso” (2:24). A quelli che resisteranno nei termini di questa fede e “vince” ritenendo “fino alla fine le opere mie”, Egli promette due cose:1. A chi vince e ritiene fino alla fine le opere mie, darò potestà sulle nazioni; ed egli le governerà con uno scettro di ferro ed esse saranno frantumate come vasi d'argilla, come anch'io ho ricevuto autorità dal Padre mio (2:26-27). La promessa di Salmo 2:8-9 viene così adempiuta non solo in Cristo e per mezzo di Lui ma anche attraverso il Suo popolo. Questa era una sfida frontale contro Roma, che manteneva il potere mondiale. L’Apollo Pythio era anche chiamato Propator quale divino antenato della città, e collegava l’imperatore Romano alla città come fondamento della vita e della prosperità di Tiatira. La guerra tra i due imperi sembrava disperatamente impari. Roma governava il mondo, il regno di Cristo non possedeva neanche un singolo edificio fino al terzo secolo, eppure Cristo vinse. Lasciate che gli uomini leggano la storia come vogliono, Dio non solo la governa, ma ha anche sempre e in tutti i luoghi manifestato il Suo dominio secondo la Sua parola, a questo testifica ogni realtà dei fatti.2. “E darò a lui la stella del mattino” (2:28). “La stella del mattino era il simbolo del dominio del mondo”,1 e Cristo identificò se stesso con “la lucente stella del mattino” (Riv. 22:16). Potere sulle nazioni significa dominio mondiale, e questo dominio mondiale è inseparabile dal Grande Re Gesù Cristo.

Questa realtà, comunque, può essere riconosciuta solo dai viventi, dai rigenerati in Cristo. Perciò. “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (2:29).

La lettera a Sardi è seconda in asprezza solo a quella di Laodicea.La storia di Sardi è antica. Un tempo capitale della Lidia, il suo nome richiama

echi di re Creso e di ricchezze inenarrabili. Era uno dei grandi centri di scambi commerciali del mondo ed anche una grande fortezza naturale. Il sinistro avvertimento “sii vigilante” (3:2) echeggia un fatto ironico nella storia di Sardi. La sua apparentemente imprendibile fortezza ere caduta ripetutamente a motivo di una senso di sicurezza spaventosamente eccessivo. Poiché Sardi poteva essere così facilmente difesa, e attaccata solamente con una grande e impossibile differenza di mezzi, gli abitanti di Sardi erano negligenti. Ma nessun nemico annunciò mai il suo arrivo: improvvisi attacchi presero la confidente Sardi di sorpresa più di una volta. Ramsay la chiamò perciò la “città fallimentare”. Proprio come Sardi era negligente nella sua guardia, anche la chiesa era a proprio agio col mondo. Gesù avvertì la chiesa che, proprio come il nemico aveva preso la città inaspettatamente, come un ladro nella notte, così egli avrebbe fatto venire su di loro il suo giudizio, inaspettatamente e li avrebbe derubati della loro falsa sicurezza.1 Rist. op. cit. ,p.390.

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La ricca e facile vita di Sardi faceva della noncuranza un tipo di religione naturale. Lo stesso fiume Pactolus che attraversa la città, trascinava dell’oro secondo Erodoto. Religiosamente la città era devota al culto di Cybele o Mater Demeter, e Cybele era la madre del popolo di Sardi, guaritrice e restitutrice di vita ai morti. L’assistenza di Tiberio nel restauro di Sardi dopo il terremoto del 17 d.C. attaccò quella città più fermamente al culto dell’imperatore. Sardi, un tempo potenza militare, perse la propria dignità col proprio impero, pur rimanendo un ricco centro di scambi commerciali, divenne non solo una città secondaria, ma anche identificata con l’effeminatezza e la vita facile. Erodoto li caratterizza quali “Lidii dai piedi fiacchi che son solo capaci di suonare la chithara, menare la chitarra e vendere al dettaglio.” Barclay ha perciò descritto Sardi come la città “della pace della morte” e “la chiesa della morte vivente”.1

“E all'angelo, della chiesa in Sardi scrivi: queste cose dice colui che ha i sette Spiriti di Dio e le sette stelle. Io conosco le tue opere; tu hai la reputazione di vivere, ma sei morto” (3:1). In Apocalisse 1:16, 20, Cristo tiene le sette stelle o chiese nella Sua mano; ora Egli ha le chiese nello stesso preciso senso in cui ha lo Spirito Santo. Proprio come Egli possiede lo Spirito Santo in tutto il suo potere e attività, così Egli ha la chiesa intera, e perciò ne è distinto e allo stesso tempo inseparabile. L’uomo perciò non può possedere la vera chiesa o alienarla da Cristo, più di quanto lo Spirito Santo non possa essere alienato dal Figlio. Nessuna chiesa, perciò può vantare il diritto di portare il nome di Cristo e della Sua chiesa senza dover rendere conto a Lui della propria trascuratezza.

La reputazione della chiesa di Sardi era buona. Aveva un nome o una reputazione e aveva l’apparenza della vita, mentre in realtà era per la maggior parte morta. La sua fede era chiaramente una forma di Fariseismo.2 La chiesa di Sardi viene richiamata a vegliare, o a svegliarsi: “rafferma il resto delle cose che stanno per morire”. Mentre le sue opere sembravano buone esteriormente, non erano accettabili, o mature davanti a Dio(3:2). Dovevano “ricordare” la fede che avevano ricevuto, in contrasto col loro presente Fariseismo e apparenza di vita, e “ravvedersi”. Mancando questo, il Signore sarebbe stato, non il loro capo ma il loro nemico, il quale, proprio come i nemici di Sardi avevano preso la città di sorpresa, avrebbe tolto dalla chiesa la sua vita e i suoi privilegi.

Le persone che sono fedeli e “non hanno contaminato le loro vesti; esse cammineranno con me in vesti bianche, perché ne sono degne”(3:4). Il riferimento al vestiario è duplice. Primo, i vestiti potevano essere contaminanti, secondo la legge Mosaica, per diverse ragioni, se ammuffiti da funghi o malattie (Lev. 13:47) se fatti di materiali diversi e perciò in violazione della legge della discontinuità e del principio della separazione (Lev. 19:19) Dt. 22:11), o se appropriati all’altro sesso (Dt. 22:5). Quelli che non avevano contaminato le proprie vesti avevano perciò evitato la contaminazione del peccato, fondamento comune e continuità, e perversioni da travestiti, nei termini della loro giustizia in Cristo. Secondo, camminare ora in bianco con Cristo (Eccl. 9:8; Zacc. 3:3; Giuda 23) significava camminare in purezza,

1 Barclay,Op. cit., p. 68, 73.2 Carpenter in Ellicott, op. cit.,p. 546

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festività e vittoria, in tutti i tre aspetti essendo partecipi della trionfante umanità di Cristo.

Tali vincitori saranno tenuti nel “libro della vita”, il registro della cittadinanza del regno (Es. 32:32; Sal. 69:28; 139:16; Dan 12:1; Mal 3:16); essi rimarranno per sempre cittadini di vita e del Suo impero, che egli confesserà “davanti al Padre mio e davanti agli angeli” (3:5; cf. Matt 10:32; Mc. 8:38; Lc. 12.8; Gv 2:23; 2 Tim. 2:12). Il linguaggio è militare; i vestiti sono le divise della vittoria, senza combattimento niente vittoria. La chiesa che insegue la forma piuttosto che la potenza di vita è in piena ritirata dalla vita e da Cristo.

Apocalisse 3:7-22Fede o sintesi

Filadelfia fu fondata da Attalo II (159-138 a.C.), chiamato Philadelphus a motivo della “verità e lealtà ai suoi Eumenes”, “come città missionaria…fondata per promuovere una certa unità di spirito, costumi, e lealtà nel reame, l’apostolo dell’Ellenismo ad una terra Orientale. Fu un insegnate di successo. Prima del 19 a.C. la lingua dei Lidii aveva cessato di essere parlata in Lidia, e il Greco era la sola lingua del paese”.1 La città era anche la porta verso Est e verso un area ricca d’agricoltura. Mentre l’orientamento Asiatico fu rimpiazzato da quello Ellenico, c’era religiosamente una fusione di culture. Dionisio era la divinità maggiore e Filadelfia era un centro enologico tra le altre cose, ma le forme e i termini Greco-Romani erano uniti con le fedi Anatoliche. Sardi esercitò lo stesso potere unificante in Lidia, Filadelfia ebbe la responsabilità di Ellenizzare i Frigi che resistettero i tentativi nelle 1 Ramsay, op.cit., 391s.

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zone rurali. La resistenza non fu integrale, ma meramente la persistenza del linguaggio Frigio ed era nel contesto del governo Romano.

Filadelfia, come Sardi e Laodicea, fu ridotta in rovine dal terremoto del 17 a.C. e ricostruita da Tiberio, a motivo di cui, col permesso dell’Impero, il suo nome per gratitudine fu cambiato in Neocesarea. Ramsay ha citato quatto caratteristiche di Filadelfia che sono pertinenti con la lettera: “primo era la città missionaria; in secondo luogo, i suoi abitanti vivevano in costante paura di un disastro, ‘l’ora della prova’; terzo, molta gente era andata ad abitare fuori città; quarto prese un nuovo nome dal dio Imperiale”.1 Il secondo e il terzo punto si riferiscono ai tempi di molte scosse di terremoto, durante i quali la gente viveva fuori le mura per timore del crollo degli edifici.

Ramsay definì Laodicea “la città del compromesso”; questo appellativo non era meno vero per Filadelfia. Il concetto di continuità che sta alla base di ogni pensiero non cristiano, faceva del compromesso, nella la sua stessa natura, una virtù, nel fatto che provvedeva un ponte tra uomo e uomo e tra cultura e cultura. Le città più costiere erano inevitabilmente cosmopolite e perciò videro una fusione di culture conseguire a tale situazione. Filadelfia e Laodicea, più entro terra e più vicine a popolazioni di culture aliene, rappresentavano nel loro contesto non tanto il carattere cosmopolita o la continuità quanto la sintesi culturale.

Filadelfia, come città “dell’amore fraterno” aveva avuto successo nel coltivare la fratellanza tra il proprio territorio e i padroni imperiali. La fratellanza di Filadelfia era pragmatica e relativista. La città era città missionaria nel fatto che la sua funzione era di determinare una sintesi culturale pragmatica e la sua eminenza dipendeva dal successo nello svolgere questo dovere. Per la chiesa, predicare la separazione nei termini della fede, separazione nei termini della verità ad una città fondata sulla premessa della fratellanza e sulla sintesi sulla base del pragmatismo, significò che la chiesa isolò se stessa ed era di “poca forza” davanti ad una cultura radicalmente aliena. In una città dedicata alla sintesi nulla sembrava più impotente e futile di un enfasi sull’antitesi della fede. Ciononostante Cristo parlò di una porta aperta e di un grande futuro per questa chiesa fedele.

Laodicea, sul fiume Licus era la porta verso la Frigia ed era l’incrocio di tre strade, dalla costa del mare, dal Nord Ovest e dal Nord Est. Era una città opulenta, centro bancario, aveva un’ importante industria manifatturiera nel campo del vestiario, ed era famosa per la sua scuola di medicina e per la sua polvere per le malattie degli occhi venduta ovunque. Era anche un centro del culto dell’Imperatore e ricevette il Governatorato del Tempio sotto Commodo, nel 180-191 d.C.. L’interesse di Paolo per la chiesa di Laodicea è riflessa in Colossesi 2:1; 4:13, 15-16.

Laodicea, fondata nel 250 a.C. da Antiochio II e così battezzata dal nome di sua moglie era stata, come Sardi e Filadelfia, ridotta ad un cumulo di rovine dal terremoto del 17 d.C. e restaurata con l’aiuto di Tiberio. Rasa al suolo di nuovo dal terremoto del 60 d.C., Laodicea rifiutò gli aiuti, essendo ora troppo ricca per averne bisogno e troppo indipendente per riceverli. C’era perciò molto di raccomandabile nella Laodicea non credente, e allo stesso modo Filadelfia rappresentava la pacifica e 1 Ibid, p.398

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cooperativa sintesi di filoni culturali conflittuali. La grande tentazione della chiesa in entrambe le località era di operare nei termini della congenialità allo spirito locale di sintesi culturale. A Filadelfia, questa tentazione fu fedelmente resistita, col risultato che la chiesa fece apparentemente un piccolo impatto sugli uomini e sulla loro cultura e di conseguenza aveva “poca forza” (3:8). In Laodicea, invece, la chiesa era avanzata dentro la vita della città nei termini di questa strategia, e perciò si sentiva “ricca, mi sono arricchita e non ho bisogno di nulla” (3:17). La chiesa di Filadelfia era scoraggiata dalla sua apparente mancanza di progresso, mentre la chiesa di Laodicea aveva piena confidenza del proprio destino e della propria importanza in quella città. Il parallelo con la situazione della chiesa moderna è molto marcato, nel fatto che la stragrande maggioranza delle chiese, incluse molte apparentemente pretese conservatrici, hanno o filosoficamente o culturalmente o in entrambi, effettuato una sintesi col mondo come mezzo verso il potere. La resistenza a questo movimento è un esile linea di protesta, da Giovanni Calvino ad Abraham Kuyper e a Cornelius Van Til e altri dei figli spirituali di Abraham Kuyper.

A Filadelfia, Gesù il Messia scrisse, identificandosi così “Queste cose dice il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di Davide, che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre” (3:7). Questa triplice identificazione è in diretta relazione con la situazione a Filadelfia e lo scoraggiamento della chiesa. Primo, Gesù è “il Santo”, e il cui comando più volte ripetuto nell’antichità per mezzo di Mosè “Siate santi, perché io, l'Eterno, il vostro DIO, sono santo” (Lev 19:2). Questo era il comando di una separazione culturale e di una dedicazione radicali, il comando che l’uomo e la società siano fondati esclusivamente sulla santa parola e Apocalisse di Dio. Secondo, Gesù è “il Verace”, e la verità biblica essendo sia assoluta sia personale perché Dio che è verità è tre persone, un Dio, il carattere assoluto della verità non può ne essere compromesso in alcuna sintesi culturale ne de-personalizzato e reso astratto da una filosofia impersonale. Terzo, Gesù è “colui che ha la chiave” di Dio e il potere assoluto che ne consegue. Il riferimento è ad Isaia 22:22; ad Eliakim, il fedele maggiordomo di Ezechia, era stata data la chiave del palazzo reale, cosicché l’ammissione alla presenza del re era possibile solamente attraverso di lui. Similmente, solo Gesù è la chiave e la porta (Gv 10:9), la sola via a Dio “se uno entra per mezzo di me sarà salvato; entrerà, uscirà e troverà pascolo”. Poiché questa pienezza di vita, apparentemente ricercata da tutte le culture non è ottenibile eccetto attraverso Gesù Cristo, queste parole sono un pro-memoria alla chiesa che nessun altro tentativo, per quanto apparentemente prospero, può avere altra fine che la morte.

Di conseguenza: “Ti ho posto davanti una porta aperta che nessuno può chiudere” (3:8). Questa porta aperta non è una via di fuga ma la via del compimento e dell’opportunità di vincere in Lui e per mezzo di Lui. Perciò, non il compromesso, ma è necessario un movimento in avanti, uno sviluppo delle presupposizioni della fede biblica. Non la sintesi, ma un radicale ripensamento di tutta la vita nei termini della parola di Dio è imperativo. Le “opere” di Filadelfia non erano estese, benché secondo Dio; la chiesa di Filadelfia “ha custodito la mia parola, non ha rinnegato il mio nome” (3:8). Questo è l’inizio della fedeltà, deve essere perseguito lo sviluppo delle implicazioni della parola e del nome di Dio per l’interezza della vita. Muoversi

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nei termini di questa fede significa vittoria e potenza. “La sinagoga di satana”, i Giudei il cui pensiero apparentemente rappresentava ostilità alla sintesi ma rappresentava realmente solo moralismo e orgoglio, anziché trionfare sulla chiesa sarebbero “venuti a prostrarsi ai tuoi piedi, e riconosceranno che io ti ho amato” (3:9). Questo sarebbe stato l’adempimento di Isaia 49:23 e 60:14. Avendo custodito “la parola della mia costanza”, sarebbero stati custoditi durante la prova universale a venire, una prova paragonabile nel reame culturale ai terremoti che avevano scosso la città, ma su basi mondiali (3:10). Continua perciò a spingere in avanti nella corsa, muovendo nei termini della fede, in modo che nessun altro possa cogliere quella corona della vittoria che appartiene giustamente a te (3:11). Coloro i quali a Filadelfia erano fedeli servitori della cultura dello stato vedevano i loro nomi iscritti nelle colonne di qualche tempio, per sacerdoti che si erano distinti, era stata aggiunta una colonna per dimostrare che essi erano il sostegno dell’edificio. Quelli che vincono a Filadelfia saranno fatti colonna nel tempio, casa o regno di Dio; riceveranno un nome nuovo, il segno di appartenenza, un sigillo o marchio che li dichiarava essere proprietà di Dio. Essi saranno anche identificati da una nuova cittadinanza. “il nome della città del mio Dio, la Nuova Gerusalemme”, paradiso restituito. Riceveranno anche il “nuovo nome di Cristo”; quali membri della Sua umanità glorificata, condivideranno il nome ovvero la natura di questo uomo da paradiso, l’ultimo Adamo dal cielo (3:12).

A quelli di Laodicea, che credevano di avere successo nella loro relazione con le culture circostanti, anziché lode ed incoraggiamento c’è uno schietto rimprovero da Cristo. Di nuovo c’è una identificazione trina. Primo, Egli è “l’Amen” (3:14) o verità di Dio, “il Dio dell’Amen” o verità (Isa 65:16). Secondo, Egli è “il testimone fedele e verace” o martire. Terzo, Egli è “il principio della creazione di Dio”, principio (arche) qui significa origine.1 Cristo non condivide la propria posizione con nessuno. Lui e solo Lui è la verità, la via, e la sorgente e il creatore della vita. Non ci può perciò essere fondamento comune tra Cristo e il mondo eccetto che sulla premessa del Suo statuto quale creatore, redentore, e signore assoluto, la sola fonte e principio di interpretazione nella Sua Parola e per mezzo di essa. Gli uomini stanno su un fondamento comune come peccatori in ribellione contro il loro Creatore o come uomini salvati dalla grazia sovrana e ora membri della Sua nuova umanità. Cercare un fondamento comune su qualsiasi altra base è un cercare sia una mediazione separata da Cristo, sia un Dio in antitesi con Lui.

Di conseguenza, la chiesa di Laodicea, anziché essere coronata dal successo come credeva, non era ne calda (al punto di bollitura, zestos) ne fredda, ma solo repulsivamente tiepida, buona solo da essere sputata o vomitata fuori (3:15-16). L’indipendenza e la ricchezza di Laodicea potevano essere caratteristiche lodevoli nelle relazioni tra uomo e uomo, ma non erano la base per una relazione con Dio, che deve essere avvicinato dal povero in spirito, da quelli che sentono il loro bisogno spirituale o nudità (Godspeed), che fanno cordoglio sui loro peccati, e hanno fame e sete di giustizia (3:17). La vera ricchezza sta nel processo di affinamento di Dio, un procedimento del bruciare a castigare, o un’educazione che distrugge le scorie. Non 1 Barclay, op. cit., p.97.

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c’è oro puro senza il fuoco di affinamento, ne vera ricchezza spirituale e saggezza senza la fornace delle afflizioni e delle prove. Significa mettersi delle “vesti bianche” la giustizia di Cristo quale nostra legge e potere sovrano anziché la sintesi col mondo. Significa che la vera vista non proviene dalla scienza umana ma dalla radicale accettazione di Gesù Cristo e della Sua parola quali premesse e presupposizioni di ogni pensiero, scienza inclusa (3:18). Quelli che Cristo ama, egli castiga, cioè porta a loro il ravvedimento.1 “Riprendere” è paideuo educazione e disciplina. La chiesa a Laodicea aveva cercato di evitare la Sua via in favore di un sentiero “più semplice” e viene ora richiamata ad essere zelante e ravvedersi (3:19).

Le parole conclusive a Laodicea, e a tutte le chiese, è diretta ai loro membri individualmente: “chiunque” (3:20). A quelli che odono la Sua “voce”, quelli che sono sottoposti alla Sua parola, le Scritture, piuttosto che ad esperienze mistiche, espedienti umani, e sintesi, verrà aperto il tavolo della cena e della completa comunione (ibid). Questi regneranno con Cristo, il quale, nella Sua umanità “ha vinto” e perciò “si è posto a sedere col Padre sul suo trono” (3:21). Il credente non è mai chiamato all’imitazione della divinità di Cristo, ma piuttosto alla partecipazione nell’umanità di Cristo e nella conseguente vittoria. È una radicale sovversione della fede biblica quando le due nature vengono confuse e con questo il fine dell’uomo diventa la propria deificazione. All’uomo non viene mai chiesto di essere più che uomo, ed egli non può essere mai ne più ne meno che un uomo. Uomo fu creato e sarà sempre o uomo in ribellione e apostasia o uomo in Cristo e nella Sua grazia. Le filosofie che assumono che l’uomo sia, sia stato, o possa essere meno che uomo, assumono anche che l’uomo possa essere più che uomo. La caduta dell’uomo fu basata su questa presupposizione, ed ogni tesi similare è un’esemplificazione della caduta.

Gesù dovette vincere, e solo così avrebbe potuto regnare. I suoi sono salvati dalla sua opera di espiazione ma non risparmiati dalla vita con ciò, e vita significa, in questo mondo decaduto, lotte e afflizioni. L’arruolamento nell’esercito di Cristo non significa liberazione dalla battaglia ma liberazione dalla sconfitta. C’è ora una necessità di ingaggiare battaglia, di vincere e solo così di regnare. La condizione della vittoria è sempre la battaglia. La concupiscenza moderna in religione e in tutta la vita per una vittoria senza combattimento è solo escapismo del tipo più brutto. La salvezza non è mai una liberazione dal conflitto ma la certezza della potenza e della vittoria nel conflitto. Di conseguenza, la salvezza, rovesciando la sconfitta, intensifica la lotta e fa rivivere l’antico stato di guerra dovunque accada.

“Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese”. Queste parole compaiono in ciascuna delle sette lettere. Si riferiscono, non all’orecchio fisico, ma al cuore (Ger. 6:10: Gv. 12: 37-40), il quale solo ascolta, e ascolta solo quando rigenerato. Così, pur essendo un ammonimento ai reprobi, queste lettere sono ascoltate veramente solo dai rigenerati.

1 W. Boyd Carpenter, op. cit., p. 550; vedi anche Giovanni 16:8.

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Apocalisse 4Il Trono del Governo

La lettera a Filadelfia (3:7-13) parlò di Cristo come la Porta, e Cristo promise “una porta aperta”. La lettera a Laodicea (3:14-22) concludeva con una chiamata ad aprire la porta a Cristo il Re e salvatore. Poi Giovanni scrisse: “Dopo queste cose, io vidi, ed ecco, una porta aperta nel cielo, e la prima voce che avevo udito parlare con me come una tromba disse: «Sali quassù e ti mostrerò le cose che devono avvenire dopo queste” (4:1). Questa “prima voce” è la stessa sentita dal principio (1:10ss.), proprio Gesù Cristo, che ora dichiara che “le cose che devono avvenire dopo queste” verranno rivelate alla chiesa per mezzo di Giovanni. In questo modo, Cristo, la Porta a Dio, la via, la verità e la vita, è inoltre necessariamente la porta aperta ad una conoscenza del futuro, poiché Egli è la chiave di tutta la storia. I dettagli della storia furono spesso stati dichiarati dai profeti, il corso della storia, il suo obbiettivo e significato viene ora dichiarato da Gesù Cristo. Il cristiano non ha il diritto di essere sorpreso dalla storia, egli la comanda in Cristo, e perciò ne conosce la natura e il

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destino. Dopo aver rivelato la vera natura della chiesa storica (Riv 2-3), Gesù Cristo ora rivela la natura della storia dalla posizione del Trono. Lo scopo di questa Apocalisse non è la soddisfazione della curiosità umana ma la preparazione della sua chiesa alla battaglia e alla vittoria. Egli non permetterà al suo popolo il lusso del compromesso con la loro stessa natura, col mondo o con la disperazione. Compromettere con la disperazione è ancora compromettere, per quanto possa definire se stessa l’afflizione della fede. Lo scopo della Apocalisse è di lasciare la chiesa senza scuse, e di dare al credente forza e gioia nella sua resistenza.

Giovanni, quando gli fu aperto in visione, vide, prima di tutto “un trono”. Il fattore centrale del cielo non è la beatitudine angelica ma l’assoluta autorità di Dio sul cielo e sulla terra simboleggiata dal Trono. Dio sul Trono governa in modo assoluto l’intera creazione. Questo fatto è sottolineato attraverso tutta Apocalisse. “Egli è rappresentato sul suo Trono in ogni capitolo escluso il 15, dove è nel tempio e 2, 9 e 10 dove non c’è occasione per menzionare il trono”.1

“E colui che sedeva era nell'aspetto simile a una pietra di diaspro e di sardio; e intorno al trono c'era un arcobaleno che rassomigliava a uno smeraldo” (4:3). Il diaspro è probabilmente il nostro diamante, e il sardio una pietra di colore rosso sanguigno,2 L’intero universo è visto in una vampata di luce che scaturisce dal Trono. Ma Dio stesso rimane nascosto in quella luce. La conoscenza di Dio rimane eternamente inesauribile per l’uomo, anche in cielo, cosicché la sua stessa Apocalisse sottolinea la sua inesauribilità e la sua incomprensibilità Egli è la fonte della vita, nella Sua luce solamente vediamo la luce (Sal. 36:9) cosicché la vera comprensione di qualsiasi cosa è impossibile senza l’esplicita o implicita presupposizione di Dio il Creatore. Egli è il sole, alla cui luce vediamo ogni cosa, ma non possiamo mai guardare direttamente e immediatamente il sole. Egli non è l’oggetto della conoscenza, ma la necessaria presupposizione a ogni conoscenza. Conosciamo Dio veramente ma non in modo esaustivo. In ogni caso, più chiara è quella comprensione, più sarà chiara la conoscenza della Sua incomprensibilità. La mente della creatura non può comprendere la mente del Creatore, dire di possedere quella comprensione (di capire pienamente) è dire di possedere una mente uguale a quella di Dio, e cioè un pari statuto di autonomia e di divinità, o di affermare la partecipazione in quella divinità.

Ma, benché Dio rimanga eternamente inesauribile e nascosto lo stesso nascondersi è una gloriosa Apocalisse di se stesso, perché egli è nascosto alla vista dalla gloria del Suo Essere come da gemme e da un arcobaleno di luce proveniente da un verde smeraldo. Questo arcobaleno non solo esprime la Sua gloria, ma è anche un perpetuo ricordo all’uomo del patto di pace di Dio, il suo patto con cui promette di trattenere la sua ira dall’uomo sulla terra (Gen 9:13-16). L’arcobaleno che nasconde Dio, allo stesso tempo Lo rivela essere il Dio di grazia, il Dio che sceglie chi vuole e dalla sua misericordia li sostiene attraverso il tempo e l’eternità. Inoltre, il verde

1 Rist, op. cit., p. 401.2 R.C.H.Lensky, Interpretation of Saint John’s Revelation (Columbus, Ohio. Wartburg, 1943), p. 171. Harry Buis, The Book of Revelation,(Philadelphia, Presbyterian and reformed, 1960, p.27.

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arcobaleno è promessa di primavera, una dichiarazione che il destino del suo popolo, il popolo dell’arca della salvezza, è il paradiso restaurato.

In riferimento a 4:4-8a il commento di Bowman è interessante:

I ventiquattro troni per gli anziani erano posti secondo il modello del sinedrio a semicerchio intorno al trono. Questi anziani rappresentano la Chiesa che siede in governo o giudizio sugli uomini e la storia (Luca 22:30; Riv. 3:21). Il fenomeno fisico che procede dal trono esprime il potere di Dio e la Sua Maestà (Es. 19:16ss). Le sette lampade ardenti qui stanno per lo Spirito di Dio, com’era per il candelabro a sette braccia del tabernacolo (Zac. 4:2ss) Il mare è la conca-lavabo di quest’ultimo (Es.30:17ss) un simbolo di quella purezza senza la quale l’uomo non può avvicinarsi a Dio. Le quattro creature rappresentano tutta la creazione e i loro occhi l’intima conoscenza di Dio di tutte le sue opere. (Ez. 1:5ss).1

“Anziano” è un termine del Nuovo testamento per il ministerio di Dio e qui tipifica il popolo messianico di entrambe le dispensazioni, quella vecchia e quella nuova, la pienezza del popolo di Dio lo glorifica e regna con Lui. Gli anziani “sono vestiti di candide vesti”, nella giustizia di Cristo. Gli “esseri viventi” (Ez. 1:5) sono chiamati in Ezechiele 10 cherubini. I lampi che procedevano dal trono sono la giustizia e il giudizio di dio, mentre illumina le tenebre della storia, puliscono l’aria, e portano nuova e fresca potenza alla terra.

Il “mare” di cristallo è un punto in cui le opinioni differiscono. Alcuni, con Bowman, fanno riferimento a 1Re 7:23, al lavabo usato per la purificazione cerimoniale e chiamato “mare di metallo fuso”. Altri fanno riferimento a Isaia 57:20: “ma gli empi sono come il mare agitato”, o, in senso più generale al mondo o creazione. In Apocalisse 13:1, la bestia sale dal mare, ovvero dalla creazione; la nuova creazione significa che la vecchia passa via: “e il mare non c’era più” (21:1). Dall’altro lato, il mare viene associato col “mare di metallo fuso”, il lavabo, in 15:2 “un mare di vetro misto a fuoco”. Inoltre, il lavabo stesso rimanda al mondo, alla creazione e alla futilità del cosmo. Il “mare” nel pensiero Mesopotamico (apsu) è un termine usato sia per il catino dell’acqua santa del tempio sia per le riserve d’acqua dolce sotterranee, fonte di vita e di fertilità. Questo è il mare cosmico, e, nel suo stare davanti al Trono, rappresenta la creazione sotto l’assoluta autorità ed il governo del Creatore. È anche il necessario corollario dell’altare. La salvezza è attraverso il sacrificio dell’espiazione, attraverso Gesù Cristo, ma il lavacro cerimoniale al mare è indicativo della presupposizione della rigenerazione, il riconoscimento della creaturalità e la rinuncia alla tentazione di Satana e al peccato originale dell’uomo, il suo desiderio di essere come Dio (Gen 3:5). Nella salvezza, quelli che una volta avrebbero voluto essere dei, accettano gioiosamente il loro statuto di creature, quali uomini in e sotto il perfetto Adamo, Gesù Cristo, cosicché la rigenerazione implica il battesimo dentro l’umanità, la nuova umanità di Gesù, “l’ultimo Adamo” (1Cor. 15:45), e la rinuncia al proprio piano di salvezza apostata, l’auto deificazione. Il 1 John Wick Bowman, The Drama of the Book of Revelation, Philadelphia, Westminster, 1955, p.43.

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battesimo è perciò la morte del vecchio Adamo, e il nostro morire al vecchio uomo e alla sua umanità. Il battesimo è inoltre il nostro battesimo nell’ umanità del nuovo Adamo, è battesimo dentro a Cristo, il vero e perfetto uomo, vero uomo di vero uomo.

Il mare perciò è il cosmo, visto dall’uomo apostata come il proprio oceano di potenzialità, ma visto da Dio e dal popolo di Dio come il Suo dominio, a lui assolutamente trasparente, per quanto oscuro e potenziale per l’uomo. In questa filosofia della creazione ispirata, ci viene mostrato l’intero universo governato dal Trono di Dio. La creazione non è centrata sull’uomo o sulla natura; è centrata su Dio. L’universo intero è visto come una fiammata di luce che parte dal trono, ed è immediatamente chiaro che non ci sono angoli oscuri nell’universo di Dio. Ciò significa che non ci sono bruti fatti nella creazione. Ogni fatto è un fatto creato ed ha esistenza e significato solo nei termini della volontà creativa e dello scopo del Dio Trino. Con questa prospettiva, nessun fatto deve renderci disperati, perché tutti i fatti sono fatti–dati–da–Dio e devono essere interpretati, non in se stessi, ma in Dio solo. Romani 8 è una dichiarazione di questa stessa fede, come lo sono certamente tutte le Scritture.

I cherubini “pieni di occhi” dipingono la creazione, per usare una frase di Torrance: “oltre (al di sopra del) il caos” così determinatamente conosciuta nella loro santità al Signore, che essi vedono, non caos, ma il glorioso scopo del Re della creazione.

Anziché un oscuro e ferreo destino vediamo una creazione simbolicamente piena di occhi perché gli uomini non vedono più attraverso un vetro, oscuramente ma adorano il Creatore e vedono la Sua gloria, vedendoLo come sono visti. Gli occhi dell’Uno sul trono sono sempre stati e sono sempre sull’opera delle sue mani. Qui non c’è cieca fatalità, ma un Creatore onni-vedente sul Trono, e il Trono è sopra e intorno e in mezzo alla creazione.1

Inoltre, come hanno indicato Beasley-Murray: “L’inno dei cherubini implica che la certezza del futuro trionfo di Dio è radicato nella Sua stessa natura, il Signore, che è santo e onnipotente, deve venire”.2 I cherubini, con la loro varia natura, riassumono la creazione uomo incluso e la tipificano. Questa creazione, che geme ed è in travaglio sotto la caduta, guarda alla gloriosa redenzione in Cristo per il suo adempimento (Rom. 8:18-23). L’intera creazione, essendo stata creata da Dio per il proprio piacere (4:11) trova la propria salute, piacere ed essere solo nel glorificare e servire Dio. La sua libertà è nella creaturale sottomissione, e le sua gloria è inseparabile dal suo destino in Cristo.

In questo modo la chiesa ed il cristiano trovano la propria identità e adempiono la propria natura in sottomissione (gettando davanti al trono le loro corone) e

1 Thomas F. Torrance, The Apocalipse Today,Grand Rapids, EErdmans, 1959, p.322 G.R. Beasley-Murray, “Revelation” in F Davidson, A.M.Stibbs, E.F. Kevan The New Bible Commentary, Grand Rapids Eerdmans, 1953, p.1177.

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ascrivendo ogni gloria, onore e potenza al Dio trino, il quale come Creatore è il solo degno di prendere la preminenza nella creazione (4:11). L’uomo conosce solamente se che conosce in sottomissione a Dio, nel pensare i pensieri di Dio dopo (secondo) di Lui. Ancora, l’uomo regna ed esercita il dominio solo in sottomissione al Creatore Redentore, senza il quale non c’è ne vita, ne potenza, ne autorità. Tutta la creazione è governata dal Trono, e l’uomo può avere conoscenza e dominio solo nei termini del Trono. La creazione e la sua storia sono come un mare di vetro dal Trono, non perché appaia liscio o non agitato, perché tale concetto è alieno alla visione, ma perché è assolutamente trasparente, totalmente sottoposto e totalmente incluso nel decreto eterno. La provvidenza di Dio nella storia sembra all’uomo oscura e incomprensibilmente complessa, misteriosa, e quasi senza forma. Ma dal Trono tutta la storia è cristallina; il governo provvidenziale e l’autorità di Dio scaturiscono dal Trono in un cerchio ininterrotto di dominio e di luce. Non ci sono angoli bui, crudi fatti, nella provvidenza di Dio.

In questi termini, perciò, l’aspettativa che la storia culminerà nel trionfo dell’Anticristo, non solo è una dualista resa del mondo materiale a Satana, ma anche una diretta offesa contro l’annunciata potenza e supremazia di Dio nella storia e nella creazione e attraverso e sopra di esse. Le interpretazioni Premillennariste e Amillennialiste sono macchiate con lo sfondo dell’eresia manichea, con la sua resa della materia alle tenebre. Un’eresia ulteriore annuvola le interpretazioni Premillennariste delle Scritture: l’esaltazione del razzismo fino a farlo diventare principio divino. Ogni tentativo di riportare il Giudeo dentro le profezie come Giudeo è dare alla razza e alle opere (poiché la discendenza razziale è opera umana) priorità sulla grazia e sull’opera di Cristo e non è niente di più e niente di meno che paganesimo. È significativo che il premillennarismo sia quasi invariabilmente associato con l’Arminianesimo. Vale a dire che l’introduzione della razza nella prospettiva profetica è parte integrante dell’introduzione delle opere nell’ordine della salvezza. Dopo tutto, questa è l’essenza del fariseismo che crocifisse Cristo e che si mascherò e ancora lo fa, da epitome della santità. Non può esserci compromesso con questa perversa eresia.

Questa, dunque, è una visione implicita con la vittoria perché esplicita nella sua visione della totale sovranità. La cornice di riferimento rivela ulteriormente questo fatto. Secondo Burch: “l’Apocalisse fu ispirata da, e concepita all’interno del contesto della Festa delle Capanne (o Tabernacoli)” e riflette anche la Festa di Pentecoste. Il lezionario della sinagoga per la Festa dei Tabernacoli era Zaccaria 14, che ci da una visione della trasformata e Nuova Gerusalemme: “non c’è notte lì” vista essenzialmente in Apocalisse 4 e più lungamente dichiarata più avanti. La lezione per Pentecoste era Ezechiele 1, pure usato in Apocalisse 4 (Ez. 1:4-10, 26, 28; Cf. Ez. 10:1,12-15,20-22).1

La festa dei tabernacoli era una festività del raccolto che commemorava il soggiorno di Israele nel deserto, e un “tipo” della raccolta dei gentili nel Regno di Dio. Per Giudei e Gentili entrambi era una festa di rimembranza, che richiamava il

1 V. Burch,Anthropology and the Apocalipse, An Interpretation of” the Book of revelation”in relation to the Archaeology, Folklore, and religious Literature and Ritual of the Near East, London, Macmillan, 1939, p.18-20.

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loro girovagare nel peccato nel deserto e la loro gloriosa entrata nel regno, la terra promessa. La Pentecoste celebrava il fatto che Dio aveva dato la legge a Mosè. La Pentecoste cristiana celebra la scrittura della legge nelle tavole del nostro cuore per il dimorare dello Spirito Santo. Sono tutte feste gloriose e sono giustamente echeggiate in questo capitolo.

Apocalisse 5Testamento ed Esecutore

Al centro della dottrina biblica della storia stanno due importanti fattori, entrambi manifestati nelle loro reciproca relazione in Apocalisse 5; il primo è il libro, o rotolo, il secondo, Gesù Cristo, il leone della Tribù di Giuda, l’Agnello di Dio. Gesù è l’Agnello di Dio rispettivamente al Suo ruolo sacrificale, non è una descrizione della Sua natura, come vorrebbe il sentimentale Arminianesimo, col suo Gesù “mite e mansueto” come un agnello. Nella Sua natura, Gesù è il Leone della Tribù di Giuda, il governatore autoritativo e sicuro di Se.

Il libro, o rotolo è “sigillato con sette sigilli”. Questo indica immediatamente la natura del libro. Il problema centrale, comunque, non è tanto il contenuto del libro, benché questo dovrà essere rivelato dalla sua apertura, ma chi sia capace di aprirlo. Il libro viene allungato alla chiesa: i ventiquattro anziani, da Dio, dalla Sua mano destra. È il Suo dono per loro. La mano destra è la mano dell’azione, potenza e benedizione: tutto questo viene offerto alla chiesa. Il libro è scritto dappertutto

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completamente “dentro e fuori” (5:1) senza spazio per aggiunte: la provvidenza di Dio ed il Suo decreto sono chiaramente totali.

I sette sigilli sul libro o rotolo indicava immediatamente alla chiesa che questo documento era un testamento. “Quando un testatore moriva il testamento veniva presentato, e, quando possibile, aperto alla presenza dei sette testimoni che l’avevano sigillato, venivano tolti i sigilli, letto ad alta voce e reso esecutivo”. 1 Questo testamento o eredità che Dio offre alla chiesa è la promessa del regno. L’uomo aveva un tempo distrutto il regno che Dio gli aveva dato: la ribellione e apostasia di Adamo l’avevano fatto uscire dal paradiso e aveva fatto entrare nel mondo il peccato e la morte. La promessa di Dio di un Redentore che avrebbe distrutto il potere dell’avversario e riportato l’uomo al paradiso era stata data ad Adamo ed Eva, fu il nocciolo dell’alleanza con Abrahamo, fu adempiuto nella venuta di Gesù Cristo, e sarà manifestato in tutta la sua pienezza nel Suo glorioso ritorno. Ma nella chiesa primitiva, nella sofferenza in cui erano quei santi, neanche pienamente consapevoli delle implicazioni dell’opera di Cristo, come rivela la lettera agli Ebrei, il regno e la gloria erano remoti, vivevano sotto il potere e l’autorità di Roma e nessun altro regno sembrava valere. Così, ai santi del Vecchio e del Nuovo Testamento è spesso sembrato che, benché Dio in effetti offrisse il regno, questo fosse remoto e inottenibile. Non c’era uomo che potesse restituire il paradiso, non c’era uomo che fosse capace di rendere esecutivo il Testamento e di dare all’uomo la sua eredità: “Ma nessuno, né in cielo né sulla terra né sotto terra, poteva aprire il libro e guardarlo” (5:3). La promessa di Dio e il suo scopo provvidenziale venivano estesi all’uomo; il regno gli era dato per testamento, ma nessun uomo era capace di impadronirsi dell’eredità, e nessuno era qualificato come esecutore del testamento.

Nessun uomo era qualificato ad aprire il libro, perché tutti gli uomini hanno peccato e sono privi della gloria di Dio. Nessuno ha guadagnato il regno, nessuno ha osservato i comandamenti; nessuno è capace di salvare se stesso o di purificare se stesso. Nessuno può farsi giusto da solo. Così, la chiesa di entrambi i Testamenti sente la propria radicale incapacità mentre sta sulla soglia del regno, e sta di fronte alle promesse di Dio e alla grande e designata eredità: il regno di Dio.

Dio offre il regno: l’uomo deve riceverlo, ma nessun uomo è qualificato per riceverlo. Giovanni sente la frustrazione dei secoli e piange. Le promesse di vita, la speranza del regno, la potenzialità e la speranza del corpo, la brama dell’anima, verso quale fine muovono se non verso la tomba? L’uomo cerca il proprio regno, e la sua fine è il peccato e la morte. Egli cerca di creare il proprio decreto e il proprio destino, e questi si rivelano essere solamente inferno e morte. Dio offre il Suo regno all’uomo che perisce, ma come può l’uomo riceverlo?

A questo punto, il “familiare-redentore” si fa avanti. La famiglia non è centrale solamente per la legge, per la fede e per la tipologia della Bibbia, ma entra nella sua dottrina della redenzione . Apocalisse ci da l’adempimento della legge dell’Antico Testamento del familiare-redentore, i cui testi fondamentali sono Levitico 25, Ruth, e Geremia 32:1-15. La responsabilità verso i propri consanguinei e parenti era basilare alla società. Rompere il pane con un altro uomo, o mangiare il suo sale, significava 1 T. Zahn ,Introduction to the New Testament, Vol. 3, p.393s.

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essere incorporato nella sua vita, il suo corpo o famiglia. Ogni pasto era sacramentale. Il ruolo femminile di fornaia sottolineava la sua importanza nel patto familiare, il ruolo maschile quale ospitante, il quale solo poteva estendere la protezione della famiglia ad un altro, o la negava al trasgressore, enfatizzava il suo ruolo di capo nella comunità della famiglia.

Redimere, nel suo significato basilare, significa, riacquistare, ricomprare, “ e si riferisce sempre a proprietà che è uscita dalle mani del proprietario originale, sia per vendita, in pegno, o in prestito e che egli riacquista sotto le leggi che governano questi casi. Solo il proprietario originale, o qualcuno che agisce per lui, ha il diritto di redimere una proprietà impegnata”.1

C’erano alcuni obblighi che spettavano al familiare-redentore:

1. Doveva essere il familiare più prossimo di colui che redimeva.2. Doveva pagare tutti gli oneri accessori e soddisfare ogni richiesta legale.3. La redenzione di un’eredità poteva richiedere il matrimonio.4. Doveva vendicare il torto che il familiare avesse subito.

Un familiare-redentore doveva redimere un’eredità persa (Le. 25:24-28). Un familiare-redentore doveva riscattare il familiare dalla servitù (Le. 25:47-54). Un familiare-redentore doveva vendicare la morte del proprio familiare (Nm.35:12,19).

Adamo aveva perso la sua eredità, e venduto la sua razza alla schiavitù del peccato. Gesù prese su di se carne e sangue, diventando così il parente più stretto di Giudei e Gentili, pagò il prezzo e riscattò i prigionieri. A tempo determinato farà vendetta su satana, il grande nemico del Suo popolo. (Riv. 20:1-3) 2

In questo modo Gesù entra nella storia come il nostro parente più stretto per redimerci dal potere del peccato e della morte e per restituirci il paradiso, il regno di Dio. La nostra salvezza non è meramente negativa, ma positiva, non solamente dal peccato e dalla morte, ma dentro alla giustizia, santità, conoscenza e dominio nel Suo regno eterno, ricreandoci a Sua immagine e ristabilendoci nella nostra chiamata quali re, sacerdoti e profeti di Dio l’Onnipotente. Questo è lo scopo di Dio dichiarato dall’inizio, fatto conoscere all’uomo per la Apocalisse della sua parola. Come Dio disse ad Abrahamo, che chiamò nei termini del familiare-redentore e dell’umanità redenta: “Celerò io ad Abrahamo quello che sto per fare poiché Abrahamo deve diventare una nazione grande e potente e in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra?” (Gen. 18:17-18).

Gesù Cristo, il nostro parente più stretto, ci redime con la sua opera espiatoria sulla croce. Il mediatore è così investito con l’ufficio di Re sull’universo (Riv.5:7-14).3 È visto come l’uomo-Dio, il Leone della tribù di Giuda, ed erede del trono di

1 M.M.B. ,Revelation , Vol. I., Pittsbourgh: Silver Publishimg Co., n.d., p.622 Ibid. ,p. 62s.3 Si veda W. Hendriksen, More Than Conquerors, Grand rapids

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Davide. La Sua famiglia e il suo lignaggio sono veramente umani. Ma Egli non è solo il compimento di Davide e di Giuda, il suo culmine e Ramo, ma anche “la radice di Davide” (5:5), la Radice e il Ramo della casa di Davide, il suo divino creatore e sorgente, e il suo figlio umano ed erede. Egli è l’Agnello di Dio, il sacrificio espiatorio, e l’agnello pasquale adempiuto, ma come agnello con sette corna, la totalità dell’onnipotenza e del potere, e con sette occhi, onnisciente, con tutte le epoche a portata della sua vista e nel possesso della pienezza dello Spirito di Dio nel suo controllo “di tutta la terra” (5:6).

Gesù dichiarò di essere il familiare-redentore, dichiarando che le Scritture (Isa. 61:1-2) si adempivano in Lui, ma la gente di Nazareth, coscienti della povertà della Sua famiglia, disprezzarono la sua dichiarazione, nonostante la qualità delle Sue parole fosse convincente (Luca 4:16-21) Annunciandosi quale familiare-redentore, proclamò che quel grande giubileo di libertà sarebbe venuto solamente per mezzo della Sua persona e della Sua opera.

Cristo Gesù conseguì il Suo potere come re dell’universo e dell’eterno regno di Dio attraverso la Sua vittoria sul Calvario, ed ora, quale parente più prossimo dell’uomo “Egli venne e prese il libro dalla mano destra di Colui che sedeva sul trono” (5:7). Cristo è la chiave della storia e la porta del regno. Lui solamente apre il regno all’uomo e rivela il significato di tutta la storia.

Quando l’onnipotente e onnisciente Agnello, il Dio-uomo, prende il libro e si assume la responsabilità quale esecutore testamentario dell’asse patrimoniale e quale familiare-redentore dell’uomo, cielo e terra e tutta la creazione risuonano con la gioia di tutti gli esseri creati a questo primo atto di restituzione e compimento. Tre poderosi inni vengono cantati a Sua lode, come ci si aspetterebbe, poiché tutta la creazione trova il proprio compimento solo in Cristo.

1. Il primo inno dai quattro viventi e dai ventiquattro anziani. La chiesa, tipizzata negli anziani, è la chiesa di tutti i tempi, non quelli in cielo, ma quelli in terra, i quali offrono “turiboli d’oro pieni di profumi” o incenso, le preghiere dei santi (Sl. 141:2) adempiendo in questo modo alla loro chiamata quali sacerdoti in Cristo. Cantano un “cantico nuovo”, cioè un cantico di gratitudine per una nuova, inattesa e immeritata benedizione. Il loro è un inno di gioia per la redenzione, una redenzione universale che chiama gli eletti da ogni “tribù, lingua, popolo e nazione” per essere “fatti a Dio re e sacerdoti e regneranno sulla terra” La Luzzi Riveduta dice: “Ne hai fatto per il nostro Dio un regno e de’ sacerdoti, e regneranno sulla terra”(5:8-10). La chiesa regna oggi in Cristo perché Egli governa e revoca in tutte le cose per la sua totale provvidenza e fa in modo che perfino l’ira degli uomini gli da gloria (Sl. 76:1).

2. Nel secondo inno (5:11-12), l’esercito celeste canta le lodi dell’Agnello e il Suo essere degno, poiché “fu ucciso, di ricevere potenza”. Il Figlio di Dio morì perché noi potessimo vivere, e noi a nostra volta dobbiamo morire perché Egli possa vivere in noi. L’intera creazione trova la propria vera vita e compimento in Lui, cosicché non è solo l’uomo, ma altrettanto l’esercito del cielo a gioire nella venuta del grande esecutore e nella restituzione dell’eredità perduta.

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3. Il terzo inno (5:13-14) è il coro poderoso di tutte le creature di Dio in cielo, terra e mare. Che lodano l’Agnello “nei secoli dei secoli”. Paolo in Romani 8:20-22 ci da uno scorcio dalla lode universale a Dio, come pure in Filippesi 2:10s. Questa gioia è inevitabile “che la creazione stessa venga essa pure liberata dalla servitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Infatti noi sappiamo che fino ad ora tutto il mondo creato geme insieme ed è in travaglio” (Rom.8:21-22). Dinanzi a questa grande redenzione, ci si può solamente aspettare, ed è inevitabile “che nel nome di Gesú si pieghi ogni ginocchio delle creature (o cose) celesti, terrestri e sotterranee, e ogni lingua confessi che Gesú Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre (Fil 2:10-11).

Apocalisse 6L’Esecutore e il Patrimonio o Eredità

Abbiamo visto che il rotolo sigillato era un testamento che dichiarava l’eredità dei santi. Questo testamento fu rilasciato all’uomo da Cristo per mezzo della sua morte espiatoria e fu aperto all’uomo da Cristo con la Sua resurrezione.

Talvolta, comunque, il proprietario di un’eredità o di una proprietà persa, rifiuta di lasciare la proprietà o di restituire la persona ridotta in servitù. Alla stessa maniera, le potenze delle tenebre rifiutano di arrendere il mondo a Cristo il Re o di restituire i credenti a Dio. Insistono nel cercare di mantenere il titolo su entrambi. La Città dell’Uomo enfaticamente rifiuta le richieste legali della Città di Dio e rifiuta di essere spossessata.

L’azione deve essere intrapresa, perciò, al fine di eliminare le potenze delle tenebre dai possedimenti di Dio. Gesù Cristo quale vero uomo è anche vero erede, e i suoi santi sono eredi in Lui e per mezzo di Lui.

Questa azione di spossesso del nemico viene intrapresa dal familiare-redentore. Il libro di Apocalisse ci da la natura di questa azione, sia per quanto incide sul mondo sia per quel che incide sul cristiano. Parte dell’azione è diretta contro il cristiano

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stesso, perché ogni credente, in virtù del vecchio Adamo in lui, si attacca, in una certa misura, alla sua schiavitù e non vuole assumere la piena statura del proprio statuto di uomo e della libertà in Cristo. Così, l’azione è diretta sia contro le potenze delle tenebre sia contro il cristiano nella sua partecipazione a quella vecchia umanità.

Nei capitoli seguenti abbiamo tre visioni: sigilli, trombe e turiboli o coppe. Ciascuna visione ha sette parti, perché ogni visione è data da Dio e completa. Ogni sette è suddiviso in sei e uno, con l’uno che è finale, il sei che è presente in tutta la storia. È quindi appariscente che le visioni sono in un certo senso ripetitive, nel fatto che coprono lo stesso terreno, ma queste visioni sono anche nuove, nel senso che gettano nuova luce sullo stesso soggetto.

Cristo è l’esecutore dell’assetto familiare, il regno di Dio che Egli ha restituito all’uomo con la sua opera e per la sua grazia. Quale esecutore Cristo deve spossessare i falsi eredi, i quali, sotto l’influenza di satana, si sono presi la terra in sfida a Dio e che dichiarano che il regno è dell’uomo e non di Dio.

Il pieno significato di questa settupla azione non può essere compresa senza riferirsi alla prima e grande liberazione del suo popolo da parte di Dio, la liberazione di Israele dall’Egitto. Per effettuare questa liberazione, dieci piaghe contro l’Egitto furono proclamate da Dio. Le prime tre piaghe colpirono egualmente sia l’Egitto sia Israele o Goscen entrambi. Le sei che seguirono colpirono solo l’Egitto, benché attraverso questo processo l’odio dell’Egitto verso Israele si sia solamente intensificato. La decima piaga fu diretta contro tutti, d’Egitto o d’Israele, che non fossero sotto il sangue dell’agnello pasquale, il tipo di Cristo. Questa decima piaga significò che Israele insieme all’Egitto era sotto condanna di morte per i propri peccati, ma che Dio nella sua misericordia estese la sua grazia e il suo perdono a tutti quelli che avrebbero trovato rifugio nel sostituto scelto da Dio, nel sacrificio espiatorio di Dio.

I sette sigilli, trombe e coppe di Apocalisse sono le piaghe di Dio sull’ “Egitto”, sul regno dell’uomo che rivendica la terra come eredità di proprio “diritto”. I falsi eredi perseguitano e cercano di uccidere i veri eredi. Proprio lo stesso fatto dell’eredità fa del cristiano il bersaglio dell’odio e dell’ostilità del mondo. Una ricca eredità, presa illegalmente, non viene facilmente restituita. Le parole espresse riguardo al Cristo vengono ancora espresse riguardo al suo popolo: “Questo è l’erede, venite, uccidiamolo, e prendiamoci la sua eredità” (Mt. 21:38).

Contro questi malvagi Cristo intraprende l’azione per spossessarli e per dare il Suo regno al Suo popolo:

Alla fine dei giudizi dei sigilli Giovanni vede 12000 di Israele e una grande moltitudine che uomo non può numerare di tra i Gentili. Il familiare-redentore ha redento il Suo popolo.

Alla fine dei giudizi delle trombe, grandi voci in cielo dicono “ I regni della terra sono divenuti il regno del Signore e del Suo Cristo”. Il familiare-redentore prende possesso della sua eredità.

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Alla fine delle coppe o giudizi dei turiboli, il matrimonio dell’Agnello. Il familiare redentore prende moglie.

Dopo che il Signore ritorna in gloria, satana viene gettato nell’abisso. Il familiare-redentore vendica il suo popolo.1

La natura dello spossesso e l’azione dello spossessare, viene indicata in parte nei seguenti versetti:

V.1. Quando Cristo aprì il testamento, le quattro creature viventi gridarono con voce di tuono: Venite e vedete. Salmo 47:4 dichiarò del Signore, che “Egli sceglierà per noi la nostra eredità”. Non solo la nostra eredità è scelta per noi ma anche l’azione di riprendere la nostra eredità è opera di Cristo.V.2. Quattro cavalieri emergono dal rotolo sigillato, dal testamento di Dio, e cavalcano attraverso il teatro della storia. Il primo, incoronato, che uscì fuori vincitore e per vincere è Gesù Cristo, come esplicita Apocalisse 19:11. Cristo, quale esecutore avanza in giudizio sui falsi eredi. Tutti quattro i cavalli avanzano simultaneamente, ma cristo viene citato per primo perché tutti gli altri fatti della storia sono soggetti a Lui e servono la Sua causa. Non ci sono crudi fatti nella storia, nessun evento accade senza Cristo o indipendentemente da Lui. Tutti gli eventi accadono come parte del piano eterno e devono essere interpretati in termini di Cristo. Ciò è ancor più certamente vero del fatto del giudizio. Così, Cristo è il primo cavaliere, perché tutto quello che segue, dal secondo al settimo sigillo, può essere compreso solamente nei termini di Lui. Il Suo scopo e la Sua direzione governano assolutamente. Gli altri a cavallo e i sigilli rimanenti non sono prima ma dopo di Lui mentre si muove attraverso la storia quale esecutore della volontà o testamento, per distruggere il nemico e per scacciare la schiavitù dal suo popolo ad un tempo schiavo. Cristo non solo sfratta il nemico ma prepara anche il Suo popolo per la libertà.

Vss. 2-4. il secondo cavaliere segue immediatamente e rappresenta la guerra. Cristo non porta la pace ma una spada. Egli è il principio (norma) del conflitto perpetuo ad un mondo che ricerca una pace non rigenerata e priva di principio. Egli è in questo modo una spada e una guerra al mondo intorno a noi, e anche al mondo nemico come esiste pure all’interno del vero credente, il quale troppo spesso spera di trarre un profitto sia da Cristo che dal mondo. Gli uomini non possono trovare pace in Cristo finché non accettano la necessità della guerra col mondo decaduto, e Cristo come norma di questa guerra. È parte del suo scuotere le cose che sono cosicché possano rimanere solamente quelle che non si possono scuotere. Nelle parole di Mosè: “Tu fai ritornare l'uomo in polvere e dici: «Ritornate, o figli degli uomini»” Sl. 90:3).

Vss. 5-6. Il terzo cavaliere rappresenta la difficoltà economica: “Una chenice di frumento per un denaro” significa che un giorno di paga (nei termini dei salari di allora) è a malapena sufficiente per comperare il necessario per sfamare una persona. 1 M.M.B.,op. cit.,p.68s.

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“Non danneggiare ne l’olio ne il vino” è stato interpretato in vari modi. Qualcuno lo riferisce ad un editto Romano che proibiva di fare vino in quelle zone a quel tempo, a motivo di condizioni di quasi carestia, sulla premessa che la terra produttiva dovesse essere fatta fruttare le necessità basilari. Altri lo riferiscono ad un editto disegnato per proteggere i viticoltori Italiani comandando che metà dei vigneti asiatici fossero sradicati. In entrambi i casi si tratta di ingerenza statale nell’agricoltura. “Una chenice di frumento per un denaro” si riferisce chiaramente all’inflazione; la seconda frase si riferisce al controllo, e inflazione e controllo sono misure gemelle che sono basilari nella difficoltà economica. Un problema che si poneva ai cristiani nella chiesa, e di nuovo una questione di coscienza, era l’adesione alle gilde o unioni di lavoratori. Diventare membri richiedeva non solo la resa della libertà ma anche della fede religiosa. La difficoltà economica colpisce il mondo intero quindi tocca anche i cristiani. Ai non rigenerati la difficoltà economica viene in derisione dei loro sogni di un paradiso in terra, le loro utopie senza Dio. Al popolo di Dio, che è preavvisato da Apocalisse, l’economia è solo economia, ma è anche un segno del giudizio sui suoi oppressori.

Vss. 7-8 Il quarto cavaliere è la Morte con Ades, il posto dei morti che cavalca al suo seguito come suo scudiero. Al seguito della Morte viene la guerra, fame, morte mediante le fiere della campagna, e desolazione attraverso la guerra. Tutti quattro i cavalieri cavalcano senza sosta in avanti, lanciati verso l’obbiettivo del loro guerreggiare, lo spossesso dei falsi eredi.

Vss. 9-11. Il quinto sigillo viene ora aperto. Giovanni ode i martiri per la fede gridare a Dio “Fino a quando aspetti, o Signore assoluto, che sei il Santo e il Verace, a fare giustizia del nostro sangue sopra coloro che abitano sulla terra?”1. La parola qui tradotta “Signore” è la stessa che in Italiano si tradurrebbe “despota” che deriva dal Greco originale. Dio è il solo vero e genuino despota: i santi gridano contro la flagrante sfida degli uomini al suo assoluto potere e autorità. Gli viene risposto “che si riposino ancora per un po’ di tempo” fino a che la pienezza della sofferenza e della morte fosse compiuta sul popolo del Signore. Furono loro date delle vesti bianche, cioè furono rivestiti con la giustizia e con la persona di Cristo. Questo, per il momento, è tutto. I santi sono giustificati, e sono nel processo di essere santificati. Ma la pienezza dell’eredità deve attendere il tempo di Dio. I santi sono raffigurati “sotto l’altare”. L’immagine è tratta dal servizio sacrificale del tempio (Es. 40:29); il sangue delle vittime o degli animali sacrificali essendo raccolto dai sacerdoti viene versato ai piedi dell’altare. Ogni sofferenza dei cristiani, poiché essi sono in Cristo, è connessa con la sofferenza espiatoria e la morte di Cristo. Le sofferenze e le morti espiatorie dei cristiani non hanno significato in se stesse. Paolo parlò di se stesso come “versato” cioè del suo sangue come un’offerta, in 2 Timoteo 4:6. Il significato è che il nostro faticare non è invano nel Signore (1 Cor.15:58).

1 Lenski,op. cit. p.231s.

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Vss.12-17. Il sesto sigillo ci da un grande scuotimento (piuttosto che un terremoto), tale che tutto il cielo e la terra sono scossi. Questo significa il continuo scuotimento di Dio delle cose che sono, cosicché rimangono le cose che non possono essere scosse (Eb. 12:27). I quattro cavalieri sono aspetti di questo scuotimento. Gli uomini reagiscono allo scuotimento di Dio in ogni epoca con la stessa fuga e lo stesso nascondersi. Proprio come Adamo si nascose da Dio quando udì la Sua voce, così gli uomini stanno costantemente scappando da Dio e cercando di trovare nascondigli quaggiù dal Suo giudizio.

I sette sigilli ci mostrano Cristo quale esecutore dell’eredità dei santi, fare dei passi per restituire il paradiso e per preparare l’ uomo per la sua libertà sotto Dio. Il regno di cui Cristo si sta re-impossessando è il Suo stesso regno, ed Egli si muove contro di esso con potere e sovranità assoluti. Il processo di recupero è uno molto difficile per il popolo di Dio. Come aveva detto San Paolo alla chiesa tempo prima: “attraverso molte afflizioni dobbiamo entrare nel regno di Dio” (Atti 14:22).

L’espressione “ira dell’Agnello” (6:16), è significativa poiché rappresenta un apparente paradosso. Ci si aspetterebbe un riferimento all’ira del Leone della Tribù di Giuda. Ma l’ira dell’Agnello è mostrata nella prima Pasqua in Egitto, quando il sangue dell’agnello salvò quelli sotto di esso, mentre quelli che lo rifiutarono sentirono la sua ira e la distruzione dei primogeniti. Questo aspetto dell’espiazione è spesso trascurato. La pasqua fu il giudizio sull’Egitto; la croce fu il giudizio di Satana e dei reprobi di questo mondo quanto fu l’espiazione dei peccati degli eletti di Dio, e rilasciò il grande scuotimento delle nazioni, cominciando con la caduta di Gerusalemme. L’espiazione include restituzione e riparazione secondo la legge biblica. Fineas, nel solo atto di espiazione umano e volontario, cioè non prescritto da Dio, nelle Scritture, effettuò un’espiazione per il suo popolo con la sua esecuzione di giustizia (Nm.25). Gli fu di conseguenza imputato come giustizia e fatto tipico dell’eterno sacerdozio di Cristo (Nm. 25:10-13; Sl.106:28-31). L’espiazione di Cristo coinvolge perciò la distruzione del regno dell’uomo e la piena istituzione del regno di Dio. Restituzione e riparazione sono basilari all’espiazione. Queste, restituzione e riparazione, saranno entrambe messe in atto sia nel tempo che nell’eternità.

Per citare la Pasqua ancora una volta, questo grande atto di espiazione fu pure accompagnato dalla restituzione. Su ordine di Mosè, gli Israeliti chiesero agli Egiziani oro, argento e vestiario a ricompensa del loro lavoro, e “spogliarono” gli Egiziani. (L’intento fu di assicurare una giusta retribuzione, Esodo 12:32-36). L’espiazione della Pasqua fu dunque seguita dalla restituzione, e finalmente, al loro rientro in Canaan, fu seguita dalla riparazione o restituzione al paese, l’eredità di Israele.

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Apocalisse 7Gli Eredi

Il grido del mondo: “chi può resistere?” (6:17), è un insistere che nessuno può resistere nei termini di Dio pretesi ingiusti. Dio incrimina il mondo per la sua ribellione e processa un mondo che tenta di impossessarsi del regno di Dio nei propri termini, e il mondo risponde con una contro-incriminazione, un’accusa di ingiustizia contro Dio. L’esclamazione “chi può resistere?” visto che non è un grido di pentimento, implica una risoluzione, che i cristiani non possono essere capaci di rimanere in piedi. Il mondo vuole giustificazione, e vuole giustificare se stesso nei confronti di Dio dichiarando che il piano di salvezza di Dio e la Sua legge sono mostruosi e impossibili. Se i cristiani non possono resistere, allora la giustificazione di Dio è resa nulla e vuota. Perciò la giustificazione viene ricercata nell’abbassare i santi, proprio come satana cercò di abbassare la posizione di Giosuè davanti a Dio citando i peccati d’Israele (Zc. 3). Indi, ogni tentativo viene fatto per abbassare il credente e ridurlo ad un livello più basso dell’uomo apostata, che a quel punto può giustificare se stesso in paragone ai santi. Ma proprio come Giosuè resistette per la grazia di Dio, così i santi resistono nella grazia di Dio.

Gli eredi, i santi di Dio, hanno una eredità in Cristo che non può essere riposseduta senza un devastante scuotimento e distruzione di tutte le cose, e questo

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scuotimento lascerà scosso perfino il credente. Davanti alla totalità della giustizia di Dio i re, i grandi, i ricchi, i capitani, uomini valorosi, ed ogni servo e ogni libero si nascondono terrorizzati gridando: “chi può resistere?” Questa paura trova un’eco anche nel cuore del credente, e perciò alla chiesa afflitta, perseguitata viene data una risposta potente.

Nel mezzo del giudizio interviene un’altra visione. I venti del giudizio sono stati liberati sulla terra; ora Giovanni vede i venti trattenuti e al vento non è permesso soffiare, finché il Signore non abbia sigillato i suoi (7:1-2) Così, nel mezzo della bufera e del vento, c’è pace dove il Signore raccoglie i suoi eletti, e il giudizio non può iniziare finche gli eletti non saranno suggellati.

La parola “sigillo” ha un significato importante nella Bibbia. Un sigillo:

1. protegge dalle manomissioni. La tomba di Gesù fu sigillata protetta dalle guardie (Matteo 27:66; Riv. 5:1).

2. Marchia la proprietà. È un marchio (Cantico dei Cantici 8:6).3. Certifica la genuinità del carattere (Ester 3:12).

Il sigillo perciò significa che al credente è data l’assicurazione della salvezza ed egli è eternamente sicuro in Gesù Cristo. È protetto dalle manomissioni e marchiato come proprietà di Cristo, un vero credente. San Paolo parla anche del sigillo del Dio vivente che sostiene due dichiarazioni: “Il Signore conosce quelli che sono suoi”, e: “Si ritragga dall'iniquità chiunque nomina il nome di Cristo” (2 Tim.2:19). Il sigillo di Dio afferma perciò la grazia della sua elezione e la nostra giustificazione, e richiede a noi santità di vita e santificazione.

La risposta alla domanda: “chi può resistere” è drastica: i sigillati di Dio. I suoi santi sono capaci di rimanere in piedi perché la loro forza e la loro sicurezza non si trovano in se stessi ma nel Signore. Ma se i santi hanno la sicurezza, perché dunque sono esposti all’ira del mondo, ai dardi infuocati del diavolo, alle tentazioni del mondo, alla carne (cioè alla natura umana), e al diavolo? Perché l’odio dell’Egitto cade sui santi di Dio? La risposta è che il concetto di sicurezza di Dio è diverso da quello dell’uomo. Il concetto del male dell’uomo troppo spesso gravita intorno alla paura della sconfitta, la tribolazione e la sofferenza. Per il Signore, il vero male è il peccato e il compromesso col peccato, come rendono chiaro tutte le Scritture. Dio rende il suo popolo eternamente sicuro dalla distruzione del peccato, e protegge il suo popolo dall’essere vinto dal peccato. E molto spesso i mezzi per giungere a questa sicurezza implicano la sconfitta, la tribolazione e la sofferenza.

Apocalisse 7 ci da un quadro della chiesa sigillata nella sua vittoria finale. In Apocalisse 21 ci viene mostrata Gerusalemme, raffigurata simbolicamente come un cubo perfetto, il simbolo della perfezione. Gerusalemme ha dodici porte, dodici fondamenti, le mura sono 144 cubiti in altezza e la popolazione è di 144000. Che questa sia una figura simbolica 7:9 rende chiaro. Le dodici tribù d’Israele ci danno un tipo della chiesa intera. Dan, la prima tribù ad introdurre l’idolatria, è lasciata decadere, e Levi, non avendo più nessuna funzione sacerdotale prende il suo posto

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nel registro tribale. Efraim, avendo utilizzato la propria eminenza per apostatare sotto Geroboamo, è rimpiazzata dal proprio padre Giuseppe.

Questo Israele è il vero Israele di Dio, la vera chiesa. Come Romani 2:29 lo dice: “Giudeo è colui che lo è interiormente, e la circoncisione è quella del cuore”. Questo è “l’Israele di Dio” (Gal.6:16), la vera chiesa, il corpo di Cristo, che è “seme d’Abrahamo” e i cui membri sono “eredi secondo la promessa” (Gal. 3:29), cioè sono il vero Israele di Dio.

Il sigillo dei santi richiama il sangue protettivo sugli stipiti delle case d’Israele in Egitto. Proprio come le piaghe della morte, devastando l’Egitto, lasciarono indenni coloro che erano sigillati col sangue dell’agnello pasquale (Es. 12), così il sigillo col sangue dell’Agnello ora preserva il vero e scelto popolo di Dio. Le tribù sono nominate per indicare che il vero Israele ora esiste nella chiesa. Il sigillo degli eletti non li rapisce dalla tribolazione più di quanto il marchio sugli eletti nella Gerusalemme condannata li abbia risparmiati dagli orrori dell’assedio (Ez.9).

In 7:9 vediamo i santi con rami di palma, che cantano inni di gioia, c’è un eco e un richiamo alla Festa dei Tabernacoli. I paralleli tra Esodo e Apocalisse sono molti. Gesù è sia il vero Mosè (il cantico di Mosè viene citato in Riv.15.2ss), e il maggiore Giosuè. Egli è il liberatore del popolo di Dio. Simeone, nel tempio aveva dichiarato che i suoi occhi avevano visto la salvezza di Dio, avendo visto il salvatore in fasce (Lc.2:30; cf. Isa. 52:10), perché egli era uno di quelli che stavano aspettando la redenzione di Gerusalemme (Lc. 2:38), cioè la sua liberazione dalla cattività dall’Egitto spirituale. L’uccisione dei neonati da parte di Faraone ha il parallelo nell’ordine omicida di Erode (Es.1:16, 2:15, 4:19; Mt. 2:16). L’infante Cristo viene chiamato il vero Israele chiamato fuori dall’Egitto (Mt.2:14s, cf Es. 4:22; Os. 11:1). I quarant’anni di prove nel deserto da parte d’Israele e il suo fallimento, è messo fianco a fianco con i quaranta giorni di tentazione di Cristo nel deserto, terminati con la vittoria, Gesù resistette citando Mosè. Gesù mandò dodici discepoli a diventare il nuovo Israele di Dio, i nuovi capi di una nuova nazione o popolo. Gesù pure mandò settanta (Lc.10:1), proprio come Mosè riunì settanta ai quali Dio diede lo Spirito (Nm.11:16ss.). Ci vengono dati dei paralleli alla conquista di Canaan e la distruzione delle sue città dal fuoco del giudizio (Mt. 10:15, 11:20ss.;Mt.24; Lc10:12s, Dt.9:1ss). La vecchia Gerusalemme ora ha il ruolo di Canaan e deve essere distrutta (Mt.24). Il mondo intero è la nuova Canaan, da essere giudicato e conquistato: “Andate dunque in tutto il mondo…” Sia Esodo che Apocalisse concludono col Tabernacolo, il primo col tipo, il secondo con la realtà.

In Apocalisse 7, i santi che gioiscono vengono indicati a Giovanni come quelli che sono stati giustificati dal sangue dell’Agnello; sono stati sigillati da Dio. Questo significa che la loro salvezza non è per opere ma nel Signore (7:13-17). Vengono visti nella loro vittoria finale, e in quella visione la loro presente vittoria è manifestata. Non hanno più ne fame ne sete, ne il sole e il caldo del deserto li opprime più. Sono liberati da queste afflizioni, non meramente perché il deserto è dietro di loro, ma positivamente, perché l’Agnello di Dio li nutre, da loro da bere e Dio stesso asciuga ogni lacrima dai loro occhi (Isa. 49:10; 29:8). La loro vittoria non è perciò un sollievo negativo ma una presenza positiva, Gesù Cristo.

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La parola qui tradotta vittoria da alcuni1 e salvezza da altri (7:10) è soteria. La salvezza significa vittoria, e qualsiasi dottrina della salvezza che ometta il fatto della vittoria non è cristiana.

Apocalisse 8L’Eredità dei Falsi Eredi

Prima che una eredità possa essere ricevuta (o passare di mano), un testamento verace ed approvato deve uscire, e una volontà o testamento contestato non è un fatto non comune nella storia legale. La stessa controversia è essenziale alla storia religiosa: quale “Parola” o testamento costituisce la vera volontà di Dio riguardo all’eredità dell’uomo? La prima contestazione di questo testamento venne in Eden, quando Satana dichiarò: “Ha Dio veramente detto?” (Gen. 3:1) Secondo il tentatore, Dio, come un testatore sciocco e maldestro, aveva bisogno di correzione, e questo Satana si offerse di fare. La sua versione dei termini del testamento del regno costituivano la vera luce, la vera giustizia, la vera eredità per l’uomo. Così, nella tentazione nel deserto, Satana cercò di indirizzare Cristo verso quel “vero” regno, al suo ruolo di esecutore del “vero” testamento riveduto (corretto) da Satana. Non solo le false religioni ma anche le eresie all’interno della chiesa sono tentativi di rivedere la natura di quel testamento e di “correggere” la stupidità di Dio nei termini della moderna saggezza, o nei termini della consapevolezza dell’uomo autonomo di essere dio in se stesso. Inoltre, la “correzione” di quel testamento viene pure intrapresa sub-consciamente dai pretesi difensori delle Scritture quando trascurano il Vecchio Testamento, o sottovalutano o by-passano segmenti delle Scritture, o semplicemente relegano qualche dottrina, come la predestinazione, ad un limbo di negligenza o di 1 G.B. Caird, The revelation of Saint John The Divine,New York, Harper and Bros. 1966. p.99s.

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indecisione. Ne consegue, che uno dei maggiori problemi della storia è la filosofia della storia revisionista sostenuta dall’uomo autonomo, il tentativo di alterare l’eredità nei termini della propria autonoma consapevolezza e dei propri dettami. Ciò costituisce frode e falsificazione e come tale deve essere impugnato. Così, il Familiare-Redentore, il grande esecutore del regno, non solo deve redimere i suoi familiari e scacciare il nemico che impedisce loro di possedere il regno, ma deve anche stabilire il vero testamento nella sua autorità e nella sua verità.

I falsi eredi operano in due direzioni. Primo, dichiarano di avere il vero testamento e perciò il legale diritto o titolo alla terra, e, secondo, dichiarano di essere la vera chiesa di Dio. L’invasione della chiesa da parte di falsi eredi è quindi un continuo problema, poiché essi cercano di impadronirsi del regno da ogni direzione.

Perciò è essenziale per la chiesa comprendere la natura della situazione e pregare per il giudizio sui nemici e contro tutti i suoi tentativi di revisionismo.

Prima dell’eredità viene lo spossesso dei falsi eredi ed il loro giudizio. Quindi, Cristo ora apre il settimo sigillo (8:1) sul testamento che da all’uomo la sua eredità perduta.. Mentre fa questo, il silenzio riempie il cielo. Tutto il cielo è in silenzio mentre le preghiere dei santi, le loro petizioni per il regno vengono ricevute. Ad un lato stanno in piedi sette angeli con sette trombe. Nel Vecchio Testamento, le trombe suonavano per chiamare a riunirsi, per partenze, e per la guerra. Qui sono trombe di guerra, trombe di giudizio contro il mondo. Dio attende, nel suo giudizio, in parte forse con pazienza verso i peccatori (Ez.33:11), ma essenzialmente per permettere alle petizioni dei santi di salire prima di agire.

Nel silenzio, un angelo si avvicinò all’altare dell’incenso, l’altare d’oro, l’altare dell’intercessione, per offrire “le preghiere di tutti i santi” (8:3). Le preghiere immediatamente ascendono a Dio, e poi discendono sulla terra come sentenza. Alla chiesa viene dunque data una vivida immagine del potere della preghiera, ed anche della necessità di pregare per il giudizio e per giustizia. La chiesa è troppo spesso negligente in questo aspetto centrale dell’intercessione. Le sue preghiere sono pietiste e umaniste, poco interessate alla giustizia di Dio e indebitamente interessate con l’escapismo piuttosto che con la battaglia.

Torrance ha osservato che “la vera causa dei turbamenti del mondo sono le preghiere dei santi ed il fuoco di Dio!”1 Ma non è sufficiente parlare di questo testo come di un esempio della “potenza della preghiera”. Ancor di più rende chiaro che la vera chiesa deve pregare tanto per giudizio quanto per salvezza. Fino a quel momento, c’è “silenzio in cielo”. Il giudizio e la salvezza vanno mano nella mano, e il grido, la richiesta dei santi per la liberazione (6:10) deve essere anche un grido per la vendetta.

Allora quattro trombe vengono suonate da quattro angeli. Il giudizio comincia a discendere come fuoco sulla terra. Questi quattro giudizi echeggiano i giudizi sull’Egitto:

1ª tromba: la vegetazione:2ª tromba: il mare;

1 Thomas F. Torrance: The Apocalypse Today (Grand rapids, EErdmans, 1962)p.60.

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3ª tromba: terra e acque, e4ª tromba: sole, luna, stelle (tenebre).

Questo mondo viene fatto somigliare all’Egitto, che indurisce il proprio cuore contro l’Onnipotente e che rifiuta di rilasciare i Suoi santi dalla servitù. L’ira e il giudizio di Dio perciò discendono sul mondo per distruggere il mondo e per liberare i santi per il loro esodo verso la terra promessa. Come notò il Caird:

Giovanni fa somigliare i disastri dei suoi tempi alle piaghe d’Egitto. Questa è la prima dichiarazione di un tema tipologico che egli svilupperà in grande dettaglio nei capitoli seguenti. Come gli altri scrittori del Nuovo Testamento egli crede che la chiesa è il Nuovo Israele (i. 6) e la sua redenzione è il nuovo Esodo (xv. 2-3).1

Gioele 2:30 dichiarò che questi segni o meraviglie avrebbero seguito il giorno di Pentecoste e preceduto la seconda venuta, il grande scuotimento, le convulsioni di cielo e terra, cioè delle natura e delle nazioni, avrebbe lasciato il mondo in perpetua crisi ed in continua distruzione. Il mare diventa sangue, un fenomeno naturale che è avvenuto in aree terremotate, e un segno che ci ricorda la piaga dell’Egitto. Le sorgenti ed i fiumi sono colpiti e le fonti di salute, gioia, prosperità a di vita sono prosciugate. La stella Assenzio cade, contaminando le acque. A Mara, durante il soggiorno dell’Esodo, un albero (o legno) gettato nelle acque amare le addolcì, un segno di grazia. Ora le acque diventano avvelenate, un segno di giudizio. Le quattro trombe ci danno una immagine della progressiva disintegrazione della Città dell’Uomo, nella sua opposizione alla Città di Dio, ed il crescente terrore dell’uomo.

Secondo Barnes: “UNA STELLA è un emblema naturale di un principe, di un governante, di uno distinto dal rango o dal talento. Vedi Numeri 24:17 e Isaia14:12. Una stella che cade dal cielo sarebbe il simbolo naturale di uno che ha lasciato una posizione più alta o di uno il cui carattere e percorso sarebbero come quelli di una meteora che scheggia attraverso il cielo.2 Il sole, la luna e le stelle tipizzano le potenze di questa terra. Quando le Scritture parlano della loro caduta e delle tenebre, dichiara che le potenze che sono vengono scosse o distrutte dal giudizio di Dio. L’associazione di corpi celesti con potenze terrene è antica. In Genesi troviamo potenze superiori tipizzate in questo modo, e, quando Giuseppe sognò che corpi celesti si sarebbero inchinati a lui, suo padre e i suoi fratelli riconobbero che questo significava che avrebbero dovuto umiliarsi davanti a Giuseppe (Gen. 37:9-11).

Questo procedimento del giudizio è duro e amaro. Ogni giudizio porta con se grandi ostacoli e distruzione di vite e cuori straziati. La chiesa primitiva si preparò per la caduta di Gerusalemme, ma non fu facile vedere i loro parenti e gli amici cadere nel sangue. I Cristiani dell’Impero soffrirono brutalmente sotto Roma, ma piansero quando Roma cadde, e l’ingresso dei barbari a volte provocò anche il loro

1 Caird, op. cit., p. 115. La restrizione di Caird di questa azione ai giorni di Giovanni, naturalmente non è l’opinione di questo scrittore.2 Barnes su 8:10, citato da J.P. Lange, Revelation, Grand Rapids, Zondervan, p.208

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cordoglio. Come Ellicott indicò: “Nessuna grande istituzione, o nazionalità o principio malvagio viene rovesciato senza qualche svantaggio corrispondente. La montagna cadente trascina il male nella sua caduta, il mare diventa sangue, le navi distrutte”.1 Il cristiano è nel mondo, e troppo spesso in qualche misura anche del mondo, cosicché il giudizio ha effetti anche su di lui. Ma, per la Città dell’Uomo, questi giudizi portano rovina, e infine dannazione. Per il popolo di Dio, lo scopo di questi giudizi viene espresso chiaramente in Romani 8:28, e cioè, tutte le cose sono fatte dal Signore cooperare al bene, e il loro risultato finale è la vittoria e nessuna separazione da Cristo. Questi giudizi separano i santi dal mondo in modo che i santi non possano essere separati da Cristo. Gli eredi sono fatti pronti per ereditare. Il viaggio dell’Esodo ha per proprio scopo la liberazione, e il purgare i rimasugli di schiavitù dagli ex schiavi.

Fondamentale alla comprensione di questo capitolo è il riconoscimento del significato della parola “un terzo” che viene citato dodici volte come “distrutto”. Questo ha riferimento alla legge sull’eredità. Come ha sottolineato Laetsch, in riferimento a Zaccaria 13:8s. “Due parti, letteralmente due bocconi, porzioni, il diritto del primogenito che ereditava una porzione doppia di qualsiasi altro figlio (Dt. 21:17; 2 Re 2:9)”.2 Qui, in Apocalisse, le due parti sono i primogeniti di Dio, cioè quelli che sono generati in Cristo, che hanno le promesse e la primogenitura come ebbe Giacobbe. Essi sono gli eredi del regno. Il resto, la terza parte, sono i non rigenerati e sono dati alla distruzione, pronunciata su di loro dodici volte, cosicché il falso Israele, il falso popolo scelto, viene chiaramente connotato, tra le altre cose. Così, per i profani, per gli Esaù, la maledizione, già su di loro, viene intensificata. Questo significa la benedizione parallela dei primogeniti, cioè la loro ancor più chiara benedizione in faccia a tutto il mondo. Il frumento è rivelato essere frumento.

Il mondo crede che può ereditare il regno nei propri termini. La sua eredità si dimostra essere giudizio e morte, una disintegrazione di tutte le sue speranze in ogni area della propria vita. L’Esecutore rende un giudizio contro i falsi eredi: spossesso e morte.

1 C.J. Ellicott,Commentary, Vol. VIII, 573.2 Theo Laetsch,The Minor Prophets,Saint Louis, Concordia, 1956, p. 492.

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Apocalisse 9Le Piaghe Contro Babilonia

Quando l’esecutore comincia i Suoi giudizi contro i falsi eredi, contro l’Egitto spirituale e la Babilonia che tiene in cattività il popolo di Dio, il responso dei falsi eredi è un contrattacco contro i veri credenti. Ma, come illumina Apocalisse 9, anche questi attacchi sono all’interno della provvidenza di Dio e parte del suo giudizio del mondo. Così, lo stesso tentativo del mondo di distruggere la vera chiesa diventa un elemento nella distruzione della Città dell’Uomo.

In Apocalisse 9, abbiamo la quinta tromba e primo guaio, e la sesta tromba e secondo guaio. In 9:1-11, la quinta tromba e primo guaio ci viene dato un resoconto di una stella o potenza caduta dal cielo. Una grande potenza o autorità, o un governante caduto dall’autorità, è umiliato eppure gli viene data la chiave del “pozzo dell’abisso”. Questa potenza caduta, satana, rilascia delle piaghe contro l’ordine di Dio per mezzo della propria autorità ora perversa. Lo scopo della sua azione è di corrompere gli eredi e di distruggerli. Una piaga di locuste copre la terra per cinque mesi, la usuale durata della vita di una piaga di locuste, indicando così che il giudizio coprirà la durata di una vita, forse di una generazione. Questa piaga non può essere interpretata nei termini fisici di una piaga di locuste, ne di un disastro riguardante la fornitura di cibo. Le “locuste” non hanno potere di distruggere o far del male a piante o erba o alberi. Non possono uccidere persone. Le locuste liberate da Satana colpiscono solamente “gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte” (9:4). Questi uomini, i falsi eredi, vengono tormentati tutta la loro vita, cosicché “cercheranno la morte, ma non la troveranno, desidereranno di morire, ma la morte

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fuggirà da loro(v.6) Il male realizzato da queste “locuste” è nel reame dello spirito umano. Le “locuste” escono dal fumo del pozzo, il quale oscura il sole e inquina l’aria, cioè, annuvola le autorità umane e avvelena la vita della società.

Questa piaga echeggia sia l’ottava piaga dell’Egitto (Es.10:4-15) e Gioele 1:2-11 e 2:2-11, ma differisce nel fatto che non solo i pii sono risparmiati ma anche la vita vegetale. In altre parole, il mondo, l’eredità del cristiano, non viene distrutto.

Normalmente, una piaga di locuste spoglia la terra lussureggiante di verde di ogni cosa che cresca e rende una ricca valle sterile e desolata. La festa diventa fame. Quando satana libera il peccato sulla terra, sperando con questo di frustrare la sottomissione dell’uomo al regno di Dio, anziché affliggere gli eredi, affligge solo i propri seguaci. Proprio come le locuste distruggono la terra, e i fumi sulfurei oscurano il sole e avvelenano l’aria, così il peccato, e le influenze demoniche riducono al nulla le ricche promesse di vita e oscurano la luce della vita. I peccatori, frustrati proprio da quelle stesse cose che portano così tante promesse, trovano le speranze della vita diventare desolazione. Al posto della voglia di vivere, una suicida volontà di morte comincia a governare la loro vita.

In 9:1-11 abbiamo un’eco di Luca 10:19. Gesù vide Satana cadere come folgore dal cielo e dichiarò “Ecco, io vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni, e su tutta la potenza del nemico, e nulla potrà farvi del male”. Questa non è una promessa di liberazione dai pericoli, dal dolore o dalla morte, ma è chiaramente una promessa di vittoria su satana e sul peccato. Gesù aveva dichiarato chiaramente i problemi della fede “Ora il fratello consegnerà a morte il fratello e il padre il figlio; e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi avrà perseverato fino alla fine, sarà salvato”(Matteo 10:21s). La promessa è chiaramente una di vittoria sul peccato e di preservazione dal suo potere. In pericolo, nudità e spada, ci viene detto che saremo più che vincitori.

In 9:12-21 abbiamo la sesta tromba, il secondo guaio. Qui ci viene data una simbolica collocazione geografica. Un grande esercito di cavalieri, di duecento milioni, si versa attraverso il fiume Eufrate. Essi cavalcano così da Babilonia e dall’Assiria verso la terra promessa. Questo è chiaramente un esercito mondiale, una potenza mondiale, che avanza ostilmente verso il regno di Dio, determinata a distruggere gli eredi e consolidare così il proprio diritto sull’eredità. Il loro scopo è la distruzione degli eredi, ma invece è “la terza parte degli uomini” (cioè i falsi eredi vs.15) ad essere uccisa. I cavalli uccidono i falsi eredi, le armi della rivoluzione sociale scatenate dalla Città dell’Uomo sono distruttive del proprio benessere ed esistenza. I sopravvissuti di questo giudizio non si pentono, continuano nella loro idolatria (v.20). Il giudizio di Cristo qui non è correttivo ma è piuttosto vendicativo e vindice.

Un fatto molto ovvio compare in questo capitolo. Il fiume Eufrate formava il “limite ideale” della terra promessa (Gen.15:18). Al di la dell’Eufrate c’erano i grandi nemici del popolo di Dio, Assiria e Babilonia. Il fiume era una grande barriera naturale, una difesa ed un punto di separazione. Quando suona la sesta tromba, la barriera scompare. Una caratteristica della storia cristiana compare in questo modo. C’è un progressivo disintegrarsi della linea fisica di divisione tra la chiesa e il mondo

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e tra il regno di Dio ed il regno dell’uomo. Il mondo ha sempre cercato di distruggere i confini tra il popolo di Dio e se stesso, il mondo reclama il diritto totale alla terra e nega i reclami degli eredi di Cristo. Con il compromesso, la concessione, e l’invasione il mondo cerca di ridurre il regno di Dio ad una provincia conquistata. Qui, per permesso di Dio, vediamo che al mondo viene permesso di fare così, e lo vediamo come parte del giudizio di Dio sul mondo. I mali scatenati dal regno dell’uomo diventano più potenti degli uomini che li hanno scatenati. Vengono messe in movimento forze che distruggeranno i loro creatori. Non i cavalieri, ma i cavalli diventano il terrore. I mali iniziati dai falsi eredi trovano il bersaglio più vulnerabile proprio nei falsi eredi stessi. Quando la Città dell’Uomo cerca di distruggere la Città di Dio, distrugge invece se stessa. Il popolo di Dio ha un santuario (rifugio) in Cristo, ma i cittadini di Babilonia non hanno rifugio. Il tentativo della Città dell’Uomo di distruggere la Città di Dio diventa il giudizio di Dio sulla Città dell’Uomo e conduce alla volontà suicida del mondo e alla propria distruzione. In tutto questo, il vero regno, come Israele in Egitto, rimane protetto e sicuro proprio nelle mani del nemico.

Alcune note su qualcuno dei simboli di questo capitolo sono necessarie. Il re dell’abisso (v.11) è chiamato in Ebraico “Abbadon” e in Greco “Apollion” che significa Perdizione. L’effetto basilare della Perdizione è sull’esercito della Perdizione, cioè, il suo potere ordinato da Dio non può estendersi al di fuori del proprio dominio (o influenza).

Riguardo a Babilonia Ellicott ha notato:

Le due città, babilonia e Gerusalemme sono i tipi dei due complessi di idee radicalmente diversi, due concetti della vita totalmente antagonisti, e il significato e l’importanza mistica del fiume Eufrate deve essere determinato dalla sua relazione con queste due città.

…se Babilonia è mistica e Gerusalemme è mistica, è difficile immaginare perché non lo dovrebbe essere anche l’Eufrate.

Lo scioglimento di quei quattro angeli, dunque, sembra indicare che le questioni in ballo siano divenute maggiormente distinte; che il conflitto che era stato combattuto in forme velate comincia ad assumere proporzioni più grandi ed è combattuto su questioni più chiare. Queste questioni sono state in qualche modo confuse. Lo spirito del mondo si è di soppiatto introdotto nella Chiesa, e contro lo spirito del mondo, dovunque si trovi, il suono della tromba dichiara guerra.1

1 Ellicott,op. cit., vol. VIII, p.578s.

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Apocalisse 10Pace e Giudizio

La dimorante gloria di Dio, Gesù Cristo, la colonna e la nuvola del viaggio nel deserto di Israele, appare ora parzialmente velato da nubi e dal fuoco. Mentre allora aveva dimorato col Suo piccolo gregge nel deserto, ora, in virtù dell’estensione mondiale della chiesa, Egli copre terra e mare e adombra il mondo intero. L’arcobaleno sul suo capo lo rivela essere il principio della pace e il fondamento dell’Alleanza di Dio con Noè. Nel dominare il mondo intero con le sue dichiarazioni e promesse pattali, Egli alza la tensione nel mondo e rende il peccato sempre più volontario, più manifestamente arbitrario, mentre la Sua signoria viene sempre più asserita e resa manifesta.

Il principio della pace è allo stesso tempo il principio della rottura della pace, e quindi il principio del giudizio. La pace Romana significava il potere ed il giudizio Romani. Pace significa il prevalere di un ordine e della tranquillità di quell’ordine. Gesù Cristo, così, è non solo il principe di pace, ma anche il Signore del giudizio. I due sono inseparabili. Per poter eliminare il giudizio l’uomo deve necessariamente eliminare la pace. Odiare il giudizio è odiare la pace, significa la creazione dello stato perpetuo di guerra quale condizione dell’uomo. I cosiddetti amanti della pace i quali guerreggiano contro la legge e l’ordine Cristiano cercano non la pace ma perpetua rivoluzione. Il giudizio esiste solamente come mantenimento dell’ordine. Il Giudizio Finale, il giudizio totale e assoluto introduce la pace assoluta. Per eliminare il giudizio è necessario eliminare ogni forma di ordine. Perciò, mentre gli uomini, religiosamente, socialmente e giuridicamente esorcizzano e cercano di eliminare l’inferno ed il giudizio, essi ottengono, non la tranquillità e la pace che professano di

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desiderare, ma proprio quella stessa discesa all’inferno che cercano di evitare, poiché l’inferno è l’assenza e la negazione di qualsiasi principio di legge ed è il caos della totale affermazione di volere e di essere. Nella perfezione di Dio, tale totale affermazione è una inevitabile e necessaria conseguenza del Suo essere. Dio, quale assoluta santità, giustizia e verità, nella totale affermazione della Sua volontà e del Suo essere, procede (agisce) nei termini di ciò che Egli è, santità giustizia e verità. Ma per l’uomo affermare la sua volontà ed il suo essere quali ordine totale e assoluto è affermare l’inferno. Il continuo tentativo dell’uomo di esorcizzare e di abolire il giudizio e l’inferno, è dunque parte integrante della sua dichiarazione di essere come Dio. È la dichiarazione dell’uomo di essere il proprio universo e la propria legge. Poiché l’uomo è una creatura e sotto la legge, non egli stesso legge, e perché l’uomo può peccare ed ha peccato contro Dio, l’inferno è una realtà. Se non ci fosse l’inferno non ci sarebbe l’uomo. Una creazione senza l’inferno è una impossibilità e una contraddizione. I tentativi dunque di abolire l’inferno ammontano anche tentativi di abolire l’uomo, di creare un ordine ideale nel quale gli uomini non sono niente altro che pedine degli scacchi da essere mossi da un gruppo di auto-designati dei, all’uomo è negato il privilegio di essere uomo, questo è riservato alle nuove divinità dell’essere.

L’arcobaleno significa il patto di grazia. Cristo appare alla chiesa nella persona di Giovanni, ma il suo messaggio è per il mondo intero. Egli dichiara (v.2) il Proprio titolo sul mondo intero piantando un piede infuocato sul mare e un altro sulla terra mentre torreggia nel cielo. Egli proclama la pienezza del giudizio, i sette tuoni. Giovanni si affretta a scrivere queste cose, desiderando la fine e la piena liberazione dei santi. È la fine della storia che Giovanni brama, la grande conclusione (consumazione). Egli viene trattenuto dalla sua fretta “non scrivere”. Ma, affinché Giovanni non divenga impaziente ai tempi di Dio, gli viene detto “che non vi sarebbe più alcun ritardo, ma nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce, quando egli suonerà la tromba, si compirà il mistero di Dio, secondo quanto Egli ha annunziato ai suoi servi, i profeti” (vss.6-7). “Che non vi sarebbe più tempo” (Diodati) significa “non vi sarebbe più alcun ritardo”(Nuova Diodati). L’uomo vede Dio come ritardare: Dio assicura l’uomo che il tempo del ritardare è passato nella dispensazione Cristiana.

A Giovanni viene quindi dato un piccolo libro, e gli viene anche chiesto di mangiarlo. Questo è un simbolo profetico familiare che significa masterizzare le richieste di Dio nei nostri confronti, digerire il significato della Sua parola, fare del Suo scopo talmente parte della nostra vita da essere come il cibo assimilato e divenuto esso stesso vita. A prima vista, la chiamata dell’evangelista Giovanni sembra essere una chiamata gloriosa e felice, ma gli viene fatto comprendere che essa implica non solo il dolce ma anche l’amaro, persecuzioni e sofferenze. Tutto ciò era già stato sperimentato da Giovanni, ed egli lo vede ora come la provvidenza di Dio ed il prezzo necessario della sua vocazione. Solo coloro i quali fanno della volontà di Dio parte integrante della loro vita possono conoscere sia la dolcezza che l’amarezza dell’obbedienza. Ci sono entrambe, e a Giovanni non viene permessa alcuna illusione riguardo alla sua vocazione. L’eredità è in via di restaurazione, la terra promessa

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viene reclamata per i santi, ma non senza pretese su di noi. Solo quando Giovanni accetta entrambi l’amarezza e la dolcezza della sua chiamata può veramente essere commissionato con potere. “Tu devi profetizzare ancora intorno a molti popoli, nazioni, lingue e re”(vs. 11). Questo è l’ordine che viene dato a Giovanni come rappresentante di tutta la chiesa. La nostra potenza come cristiani è nel mangiare il piccolo libro, nell’accettare la nostra chiamata sia nella sua amarezza sia nella sua dolcezza.

Come Torrance l’ha abilmente espresso:

Sicuramente c’è qui una domanda che dobbiamo chiedere a noi stessi. Se non c’è assenzio, siamo veramente in contatto con la Parola di Dio? Se il nostro messaggio non turba e qualche volta perfino tormenta, non possiamo domandarci se abbiamo mai veramente mangiato la Parola di Dio? Questo capitolo ci dice molto chiaramente che non possiamo partecipare alla Parola di Dio in questo mondo senza amarezza. Perché la Chiesa di Gesù Cristo oggi si confà così bene con l’ambiente intorno a se? Perché i cristiani vivono vite così confortevoli e perfino indisturbate in questo mondo malvagio e tumultuoso? Sicuramente è perché non siamo coerenti con la Parola di Dio.1

1 Thomas F. Torrance,The Apocalipse Today, Grand rapids; EErdmans, 1959;p.70.

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Apocalisse 11Il Regno Militante

Questo capitolo conclude la prima metà del Libro della Apocalisse. Ci da un quadro riassuntivo della chiesa e del regno di Dio attraverso tutta l’era Cristiana, ed è un quadro nei termini della visione del piccolo libro.

In 11:1-3 vediamo la sicurezza della chiesa nel mezzo della battaglia, e la sicurezza è la sicurezza della vittoria. Vediamo il tempio a Gerusalemme, un tipo della chiesa, misurato, insieme con gli adoratori, per protezione in un periodo di prove e di vesti di sacco, cioè di lutto per le morti e le perdite in battaglia. Misurare è recintare e separare. La misurazione è di tre cose:

1. Il tempio stesso viene misurato, e il cortile dei gentili viene lasciato da misurare o dato ai gentili da calpestare per quarantadue mesi. Così, la vera chiesa è misurata o messa da parte dalla protezione di Dio, e i membri non credenti vengono dati alla distruzione.2. L’altare dell’incenso viene misurato. L’altare dell’incenso rappresentava la preghiera d’intercessione. Così, l’intero dominio della preghiera d’intercessione viene messo da parte. Il suo posto nella provvidenza di Dio è così significativo che la sicurezza della vera chiesa implica l’intercessione.3. Poi gli adoratori vengono misurati essi stessi. Non possiamo limitare la misura e l’estensione della nostra obbedienza e del nostro servizio: Dio stesso ne stabilisce la misura. La misura della vita dell’uomo è l’opera di Dio.

La preservazione della chiesa attraverso l’era Cristiana fino alla fine, è vista come una salvezza non “da” prove e sofferenze ma piuttosto “nel mezzo della”

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tribolazione.1 La salvezza pagana è deux ex machina,(automatica), l’eroe viene strappato fuori dai guai dagli dei e posto in una situazione di lusso. Così, nell’Iliade, quando Menelao e Paride combatterono davanti alle mura di Troia, la dea “Afrodite strappò Paride, molto facilmente come una dea può fare, e lo nascose in fitte tenebre, e lo pose giù nella sua camera fragrante di profumo”. L’adultero Paride viene così salvato dall’ira del marito, Menelao, e poi Elena gli viene portata e Paride dichiara: ‘“Io ti ho carpito dall’amabile Liconia e ho navigato con te sulle mia navi di mare, e nell’isola di Kranae ho avuto rapporto con te nel tuo letto in amore, come ti amo ora e un dolce desiderio si impadronisce di me ’ Così dicendo prese la via del letto e la donna lo seguì”.2 In tutte le religioni non cristiane, la salvezza ha questo carattere: è essenzialmente escapista. È un’evasione dalla vita e dalla responsabilità, una fuga dalla conseguenza. Ogni indebolimento della dottrina biblica della salvezza, da un credere nella restaurazione alla responsabilità sotto Dio a una dottrina di fuga dalla responsabilità, è paganesimo e una perversione delle Scritture.

In 11:1-4, ci viene dato un resoconto dei due testimoni. Originariamente i due testimoni erano Mosè ed Elia, la legge e i profeti, che tipizzavano il Vecchio Testamento nella sua pienezza e testimonianza. Le piaghe sull’Egitto sotto Mosè, e la grande siccità sotto Elia, rende chiara l’identificazione. A loro è data potenza per quarantadue mesi, 1260 giorni, Essi sono pure i “candelabri” di Dio. La loro identificazione come due testimoni richiama Deuteronomio 17, e al fatto che nella legge biblica solo due testimoni danno validità alla prosecuzione. Qui essi tipizzano il regno di Dio nella sua pienezza, la Gerusalemme che viene dal cielo. Questa Gerusalemme celeste, il regno di Dio, viene posta in contrasto con quella Gerusalemme “dove anche il nostro Signore è stato crocefisso”, la quale “spiritualmente è chiamata Sodoma ed Egitto”(v.8) cioè la Città dell’uomo o Regno dell’Uomo. La Città dell’Uomo dunque raccoglie in se tutti quelli che si oppongono alla Città di Dio, e la storica Gerusalemme dei giorni di Cristo viene chiaramente identificata come parte della Città dell’Uomo. La Gerusalemme celeste, tipizzata dai suoi due testimoni, sembra piccola al confronto, ma come Mosè ed Elia nell’antichità, il popolo di Dio, attraverso la preghiera di intercessione e la provvidenza di Dio hanno il “potere di chiudere il cielo, perché non cada alcuna pioggia nei giorni della loro profezia, essi hanno pure potestà sulle acque, per convertirle in sangue e per percuotere la terra con qualunque piaga, ogni volta che vorranno” (v.6). E benché la Città dell’Uomo si creda vittoriosa sulla Città di Dio, cosicché uccide i santi e lascia i loro corpi senza sepoltura, il supremo oltraggio per l’uomo, pure il Signore fa rivivere il Suo popolo con tale grande potenza e allo stesso tempo porta sulla Città dell’Uomo tali giudizi che gli uomini (v.13) pur senza credere, dicono che queste cose sono al di sopra dell’uomo e devono provenire da Dio.

Mosè ed Elia, la legge e i profeti, rappresentano il regno di Dio nelle forme dello stato e della chiesa, o, più generalmente il ministerio della giustizia ed il ministerio della grazia. Separatamente da questi ministeri, il mondo affronta solo il

1 Bowman, Drama of the Book of Revelation, p.712 Omero, Iliade

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caos ed il giudizio: distruggendo gli ordinamenti dati-da-Dio, porta distruzione su se stesso.

In 11:14-19, abbiamo la settima tromba e il terzo guaio. Questa è una proclamazione della fine, e allo stesso tempo pure una Apocalisse del principio. Ci mostra il trionfo del regno di Cristo, e allo stesso tempo ci rivela ciò che governa in potenza dalla prima venuta fino alla fine della storia. In questo modo è una Apocalisse della prima venuta attraverso una Apocalisse della fine. I regni di questo mondo sono divenuti i regni del nostro Signore e del Suo Cristo, alla prima venuta, e il Suo essere Re viene apertamente rivelato e la sua pienezza manifestata alla seconda venuta. Ma la distruzione all’interno della storia delle forze della Città dell’uomo è in ogni sua occasione un’ apertura della fine e una Apocalisse del Suo essere Re. Quando Cristo fu crocifisso, il velo del tempio fu stracciato in due, perché ora il vecchio tempio era finito, e un nuovo tempio, il Corpo di Cristo, era stato rivelato. Apocalisse 11:9 ora ci mostra il tempio di Dio aperto in cielo, la roccaforte e rifugio dei santi è rivelata, e i loro nomi manifestati, mentre uragano e giudizio travolgono il mondo. Si vede l’arca dell’Alleanza, contenente le tavole della legge, la verga di Aronne, e la manna. Queste sono le fonti del coraggio e della forza dei santi: essi sono stati alimentati dal vero tempio, il corpo di Cristo. Viene rivelato il propiziatorio, da dove provengono il rinnovamento per i santi ed eterna grazia. Quando fu data la legge sul Sinai, voci, tuoni, terremoto e tempesta circondarono il monte. Il giudizio fu proclamato contro tutti quelli che non avrebbero osservato la legge. Solo coloro i quali trovano Cristo attraverso il sacrificio del sostituto resisteranno. “Ora, l’abitazione di Dio è un santuario aperto alla fede; è un Sinai rannuvolato e coronato di lampi per l’infedeltà”1 La fine è una Apocalisse del principio, e un toglierne il velo e un compimento.

Così, ci viene dato un quadro riassuntivo della storia del mondo, dalla prima alla seconda venuta. È governato da Cristo il Re, e mostra:

1. Un misurare della chiesa, cosicché i reali confini del popolo di Dio sono progressivamente manifestati.2. I veri santi, i veri eredi del regno, testimonieranno con potenza durante il periodo dei falsi eredi, quando la salvezza per mezzo della politica sarà prevalente. Contro l’umanesimo della Città dell’uomo, la Città di Dio proclama la signoria e la regalità di Cristo.3. La Città dell’Uomo guerreggerà contro i veri testimoni e li “ucciderà” Crederà di essere trionfante e si congratulerà della propria vittoria.4. I testimoni si rialzeranno in potenza, e il giudizio sopraffarà i malvagi mentre il popolo di Dio trionferà apertamente ed ascenderà al potere attraverso la loro eredità5. Il regno mondiale di Cristo prevarrà e ci sarà un ordine cristiano su tutta la terra.

Una nota è d’uopo riguardo ai numeri di Apocalisse 11. Il primo è in 11:2: quarantadue mesi per il calpestare del cortile e della città santa. Questo è metà di sette anni, cioè della totalità o pienezza del tempo. I 1260 giorni di 11:3, il tempo del 1 Ellicott, op. cit.,VIII., p. 590.

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potere dei due testimoni, è la stessa lunghezza di tempo, quarantadue mesi o metà di sette anni. Il tempo della “morte” dei due testimoni è di tre giorni e mezzo, di nuovo metà di sette, ma indicativo di un periodo molto più breve, cioè 1260 giorni contro i tre giorni e mezzo. Il periodo di potere è perciò molto più lungo del periodo della “morte” (11:9). Il numero degli uccisi (11:13) è di settemila, il numero della pienezza, e sta ad indicare che l’opposizione ai due testimoni crolla ed è distrutta. Lo scopo del numero è simbolico. Non ci viene dato un grafico o una tabella del tempo. Ci viene data la sicurezza della vittoria e una descrizione del corso generale dalla battaglia.

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Apocalisse 12Cristo Contro Satana

Apocalisse 12 segna l’inizio della terza sezione del Libro di Apocalisse. In un senso, copre lo stesso terreno dei capitoli da 4 a 11, ma con una differenza. Il conflitto viene ora mostrato dal punto di vista di Dio Stesso, non meramente una lotta da parte dei santi contro il mondo, ne come lo spossesso da parte dell’esecutore, Gesù Cristo, dei falsi eredi del regno. La battaglia è tra Cristo e Satana, e il conflitto tra i veri eredi e i falsi eredi è un aspetto di questa, più grande, battaglia. Questa è perciò la sezione maggiore del libro; qui vediamo la dimensione, la portata e la direzione della storia Cristiana più chiaramente.

Senza questo punto di vista la prospettiva potrebbe facilmente essere pervertita. È la tentazione degli uomini, cristiani inclusi, moralizzare il cristianesimo, vedere la lotta come tra il bene ed il male, tra amore e odio, tra gente buona e gente malvagia. Tutte le altre religioni sono moralistiche: esse riducono la religione alla dimensione dell’uomo e delle sue preoccupazioni morali centrate sull’uomo. Il cristianesimo è ostile alla religione moralistica, e questa sezione di Apocalisse è designata a rendere impossibile un’interpretazione moralistica del Cristianesimo. È molto facile per gli uomini sentirsi buoni e santi; essere giusti in se stessi è una parte basilare del peccato originale. È facile “essere religiosi” approvando l’amore, l’onestà, la fedeltà e le altre virtù: non c’è un uomo sulla terra che non creda in queste cose in qualche senso e che non le desideri per se e per gli altri. Le religioni non cristiane rendono facile all’uomo essere morale. Se nel suo cuore l’uomo alloggia dell’odio, lo farà sicuramente con buone ragioni “morali”. Se l’uomo non è onesto, è perché ha buone ragioni per non esserlo. Se manca di fedeltà, è perché questa sarà la cosa giusta per lui da fare in quelle circostanze, perché la fedeltà sarebbe stata “stupida” o “immorale” considerando la natura di sua moglie, i bisogni del momento, le necessità della situazione. Tutti gli uomini sono favorevoli alla moralità, la questione è: la moralità

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di chi? La moralità dell’etica situazionale non è la moralità delle Bibbia, né si possono eguagliare le etiche Bibliche con quelle di alcun altra religione. Tutti gli uomini sono per una moralità di qualche tipo. Così, quando MRA (moral re armament o Buchmanismo) cercò di organizzare il mondo prima della Seconda Guerra Mondiale in favore della moralità, si guadagnò il sostegno di tali diverse persone quali Franklin Delano Rooswelt, l’Ammiraglio Tojo e la Gerarchia Nazista. Ognuno di loro fino all’ultimo favorivano il moralismo. Il moralismo è una religione di auto-inganno auto-giustizia (in cui si crede di essere giusti in se stessi). Gli uomini che predicano troppo l’amore e la virtù sono uomini pericolosi dalla prospettiva della Bibbia, nel fatto che proclamano una moralità che non è fondata nell’assoluta legge di Dio, ne motivata dall’uomo nuovo in Cristo Gesù. Ogni religione moralistica e ogni predicazione e insegnamento moralistici incoraggiano l’ipocrisia. La predicazione cristiana la distrugge. Sarebbe stato facile, per i sofferenti cristiani del tempo di Giovanni trovare rifugio nel moralismo e trovarvi il conforto contro la malvagità di Roma. La loro moralità sembrava ovviamente molto superiore alla moralità Romana. Ma il fondamento della forza cristiana non è nella moralità ma in Gesù Cristo, e la vera moralità del cristiano è nell’operare la propria salvezza.1

Apocalisse 12 rivela che la battaglia è tra Cristo e Satana: il potere governante perciò non è dell’uomo, e dunque il moralismo è fuori questione.

Ci viene data un’immagine di una donna vestita col sole, chiaramente una figura cosmica. Essa è la Vera Chiesa di Dio in ogni età, cosmica nel suo governo e perciò nella sua portata, poiché Cristo è il capo della Chiesa. La chiesa è descritta in simboli che denotano la sovranità sotto Dio, con immagini derivate dal sogno di Giuseppe (sole, luna, stelle, Gen. 37:9). Attraverso il vero popolo di Dio Cristo originariamente venne nel mondo, e attraverso di essi Egli continua a venire al mondo. Veramente, mentre questo incidente riflette anche l’evento storico, la natività di Gesù Cristo, rivela ancor di più l’evento continuo, dalla prima alla seconda venuta: la presentazione di Cristo al mondo. W. Boyd Carpenter descrisse questo fatto molto abilmente:

C’è un angoscia della Chiesa che Cristo ha posto su di lei. È la legge della sua vita che ella debba presentare (o far nascere) Cristo al mondo; non è semplicemente che dovrà affrontare dolore, ma che non può operare liberazione senza conoscere sofferenza. Questo sentì l’Apostolo: l’amore di Cristo li costringeva, guai a loro se non avessero predicato l’Evangelo; questa necessità era posta su di loro; parlarono di se stessi come in travaglio sui loro figli finché Cristo fosse formato in loro.(Gal.4:8). Questo dunque è il quadro. La chiesa che adempie il proprio destino anche nel dolore. L’opera era di far nascere Cristo agli uomini, e di non essere mai soddisfatti finché Cristo non fosse formato in loro, cioè, finché lo Spirito di Cristo fosse ricevuto, amato e obbedito, e gli uomini trasformati alla stessa immagine, come per lo Spirito del

1 (Fil.2:12; 1:27-2:14; Mt 6:24; Mt 20:28; Ger. 2:20;2 Cr. 12:8; Es. 9:1;L. 1:74; Lc.16:13; 1Tess. 1:9; Eb. 9:14; Gs.22:5-6; Rom. 7:6; Eb. 12:28; Riv. 22:3; N.d.T.)

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Signore. Ma ci sarebbe stata opposizione. Il nemico è in guardia per distruggere la somiglianza di Cristo dovunque si presentasse.1

Il dragone (12:2,9,13) è chiaramente identificato con Satana, il calunniatore, e il suo punto d’origine, il cielo. Nel Vecchio Testamento egli viene usato a volte per rappresentare l’Egitto (Isa. 51:9; Ez. 29:3) dal quale Israele era uscito per poter diventare il popolo di Dio, cioè abbandonando il principio dell’autonomia per l’obbedienza al Dio del Patto. Lo scopo inesorabile di Satana è la distruzione di Cristo e della Sua Chiesa. Contro questa persecuzione, il popolo di Dio trova rifugio (vs.6) in “un luogo preparato da Dio” per 1260 giorni, o quarantadue mesi. Questo stesso periodo viene descritto al verso 14 come “Un tempo, dei tempi e la metà di un tempo”, cioè tre anni e mezzo, di nuovo quarantadue mesi. Satana è ripieno d’ira perché sa che contro lo sfondo dell’eternità il suo tempo è molto breve. La “guerra in cielo” descritta nei versi da 7 a10 e la cacciata di satana segnalano la grande vittoria compiuta da Cristo nel Suo sacrificio sul Calvario. Il diritto di Satana sull’uomo peccatore fu stracciato dal sacrificio sostitutivo (vicario)di Cristo. Gli eletti sono liberati dal potere di Satana. I santi hanno vinto Satana “per mezzo del sangue dell’Agnello e per mezzo della parola della loro testimonianza” (vs.11).

Il dragone insegue il popolo di Dio e cerca di distruggerlo. Non riuscendo a distruggere Cristo, Satana cerca di distruggere il popolo di Cristo “Allora il serpente gettò dalla sua bocca, dietro alla donna, dell'acqua come un fiume, per farla portare via dal fiume” (vs. 15). Le inondazionia che provengono dalla sua bocca sono ogni tipo di falsa dottrina e di insegnamento, ogni inondazione (delusione) di religione e di scienza con cui l’uomo cerca di infiltrare e distruggere la vera Chiesa di Cristo. Ma il verso 16 rivela che tali tentativi sono frustrati: la terra, vale a dire il mondo senza Cristo, accoglie con tale fervore queste delusioni che le inondazioni di falsità del dragone sopraffanno solo il suo popolo, mentre la vera Chiesa è liberata in sicurezza da Dio. Come l’ha espresso C. H. Little.

Alla terra e agli abitanti terreni il fiume di delusione vomitato dalla sua bocca dal diavolo era così benvenuto che fu immediatamente assorbito, mentre la chiesa sulle sue potenti ali d’aquila vola via così velocemente che queste acque non la raggiungono. Questo vomito di delusioni è continuo e non limitato ad alcun tempo o evento particolare nella storia della Chiesa.2

Ancora una volta è chiaro che noi non possiamo forzare la cronologia dentro a Apocalisse: non abbiamo una sequenza di eventi prima e dopo, ma una descrizione di eventi o stati di guerra che caratterizzano l’era cristiana.

Il dragone è descritto avere sette teste e dieci corna e sette corone sul suo capo (v.3). Nella visione di Daniele, le sette teste erano divise tra le quattro bestie, mentre qui, alla loro sorgente, sono viste in una totale concentrazione del male. I quattro

1 W. Boyd Carpenter, in Ellicott, op .cit., VIII, 591.a N.d.T. L’autore qui gioca sulla possibilità nella sua lingua di far risalire “delusion” Delusione a “deluge” diluvio. 2 C.H. Little, Explanation of the Book of Revelation, St Louis Concordia, 1950; p.127s.

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imperi di Daniele rappresentavano la potenza qui vista un tutta la sua nudità, e in tutte le sue pretese, poiché i numeri sette e dieci sono simboli di pienezza e di totalità, e Satana, nell’asserire pienezza e totalità, sta sfidando il titolo di Dio alla stessa cosa. Nel trascinare “la terza parte” delle stelle del cielo nel tentativo di distruggere la Chiesa e il suo Redentore, Satana usa le potenze di questo mondo, le stelle, nel tentativo di sopraffare e di distruggere il vero popolo di Dio, e la chiesa viene nutrita a motivo di questa opposizione (s.14), e così egli cerca di “far guerra col resto della progenie di lei, che custodisce i comandamenti di Dio ed ha la testimonianza di Gesú Cristo” (vs. 17). La vera chiesa non viene distrutta dagli sforzi di Satana. La falsa chiesa può venire catturata e fatta strumento delle pretese dell’uomo autonomo, ma la vera Chiesa, il residuo di Dio, benché sia l’obbiettivo della guerra, non può essere distrutta.

Nel verso 5, Cristo è descritto come colui che viene a governare le nazioni con una verga di ferro. Buis nota:

Governa significa letteralmente “pasce”. Le parole provengono tal quali dal Salmo 2 che è evidentemente Messianico: “Tu sei mio figlio oggi io ti ho generato. Chiedimi, e io ti darò le nazioni come tua eredità e le estremità della terra per tua possessione. Tu le spezzerai con una verga di ferro (vss 7-9).1

1 Harry Buis, The Book of Revelation, Philadelphia, Presbyterian and Reformed Publishing Co., 1960; p.69.

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Apocalisse 13Anti-Cristianesimo in Chiesa e Stato

La direzione della storia è duplice nella sua manifestazione storica. L’uomo apostata avanza verso lo stabilimento di un ordine sociale radicalmente umanista nel quale Dio è abolito e l’uomo è la propria legge e i proprio legislatore. L’uomo apostata opera per creare un paradiso sulla terra senza Dio, legge o moralità. La moralità dell’umanesimo è che l’uomo è la propria legge, e che non c’è nessuna legge morale che provenga da fuori e da sopra l’uomo che possa governare l’uomo. L’uomo rigenerato, invece, opera per ristabilire l’ordinamento-legge di Dio tra gli uomini, di stabilire chiesa, stato e società nei termini della Parola di Dio, e di manifestare il regno di Dio in ogni suo significato. La storia è perciò in tensione tra queste due forze conflittuali, ma la tensione è più che la naturale tensione storica. C’è anche la tensione che l’uomo apostata ineludibilmente sente in virtù della sua ribellione contro il suo sovrano, il Dio trino. C’è la tensione dell’autoconsapevolezza epistemologica, mano a mano che l’uomo giunge a conoscere se stesso e le proprie implicazioni più pienamente. E c’è anche la tensione del fallimento, quando l’uomo apostata scopre che ogni suo sforzo viene frustrato e gli produce invece disorientamento e vergogna.

In Apocalisse 13, la natura dell’opposizione a Cristo e alla Sua Chiesa, e a Cristo ed al Suo ordinamento legale, ci viene dato con maggiore chiarezza. Una bestia sale dal mare, vale a dire dal mondo non credente, con sette teste e dieci corna, le cui corna, piuttosto che le teste, sono coronate, e con sulle teste nomi di bestemmia. Il fatto che le corna siano coronate, piuttosto che le teste, significa che in questo mondo, il potere è la fonte dell’autorità e sovranità, e l’uomo da la propria obbedienza non alla leadership legittima, ma al potere come tale. Potenza e forza sono adorati e obbediti in ogni implicazione. I nomi di bestemmia indicano che i governi umani si arrogano l’autorità e la sovranità che invece appartiene

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propriamente a Dio. Questo è vero non solo di re e dittatori ma anche delle democrazie, con la loro dottrina blasfema: vox populi vox Dei, la voce del popolo è la voce di Dio. Le maggioranze vengono così eguagliate alla giustizia, e appellarsi al di sopra del governo e delle sue corti di giustizia è reso nullo e vuoto: “dio” ha parlato solo attraverso la sua voce approvata, il governo!

La bestia, simbolo del governo umano e dell’impero, di stati e culture anti-cristiane in generale, rappresentava l’Impero Romano dei giorni di San Giovanni, e tutti gli altri ordinamenti anti-cristiani. La bestia rappresenta la totalità di tutti tali imperi nell’antichità e tutti quelli a venire. Le sue sette teste e dieci corna enfatizzano la totalità. In questa immagine è concentrata l’opposizione a Dio dell’uomo apostata. Questa opposizione, più diffusa nell’antichità, diventa più auto-consapevole e più concentrata col progredire della storia. Bowman dichiarò chiaramente il significato di questa figura simbolica, la bestia, scrivendo:

…questa Bestia, il messia del Dragone, rappresenta la cultura del mondo secolare in generale…Che il Dragone abbia dato la sua autorità alla Bestia significa che la cultura del mondo è divenuta il messia di Satana ed è dedicata ad esprimere il suo (di Satana) governo nelle faccende degli uomini, di qui l’adorazione di entrambe le figure. 1

Questo mondo è chiaramente il messia di Satana. Per l’umanesimo l’uomo è il solo salvatore dell’uomo. L’umanista perciò si delizia nel centralizzare il potere nelle mani del governo umano, perché questa è la sua speranza. Le presunzioni della cultura apostata sono la sua gloria e la sua speranza. L’umanista sostiene l’illimitatezza delle possibilità della cultura umana e la sovranità del governo dell’uomo, e dichiara orgogliosamente: “chi è simile alla bestia, e chi può combattere con lei?” (vs.4). Alla bestia viene dato potere da Dio di proferire cose grandi e molte bestemmie per quarantadue mesi (vs.5), attraverso tutto il tempo a lei concesso. Potere le viene dato, inoltre, non solo di attaccare i santi “e di vincerli; e le fu dato autorità sopra ogni tribù, lingua e nazione”, ma anche di attaccare Dio con bestemmie e con insulti (vss.6-7) C’è quindi un’apparente, esteriore vittoria dell’umanesimo sul cristianesimo.

Ma la realtà della situazione viene dischiusa nei versi 8-10. Quelli che non sono stati salvati dall’ “Agnello che è stato ucciso fin dalla fondazione del mondo” adorano la bestia, cercano salvezza nella cultura umana per mezzo dell’azione statalista, e fanno della vera e propria fonte della loro dannazione la loro speranza di salvezza. Ma ai santi sofferenti giunge questa parola: “Se uno ha orecchi, ascolti. Se uno conduce in cattività, andrà in cattività; se uno uccide con la spada, deve essere ucciso con la spada. Qui è la costanza e la fede dei santi. La corte assoluta e finale dell’Onnipotente rende un pieno e giusto giudizio alle presunzioni della cultura umana e alle opere dell’uomo apostata. Non possono sfuggire: pagheranno fino all’ultimo centesimo.

1 J.W.Bowman, Drama of the Book of Revelatio, p.85.

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San Giovanni, al verso 3, parla di una delle teste della prima bestia, ferita a morte, eppure il colpo mortale guarire, cosicché “tutto il mondo si meravigliò della bestia”. Riassumendo le posizioni di Sir William Milligan, Hengstenberg, e Lenski, Albertus Pieters indicò che:

Poiché la bestia è il simbolo del potere anti-cristiano, la venuta del Redentore nel mondo fu il suo colpo mortale; eppure sembrava continuare. Il colpo mortale è guarito. Ai giorni di San Giovanni era evidente che il bruto non era per niente morto, e questa guarigione della ferita era, senza dubbio, una prova dolorosa per lui e per i suoi amici.1

La sezione successiva, versi 11-18 ha a che vedere con la seconda bestia, che questa volta saliva dalla terra. Per comprendere il suo significato, dobbiamo renderci conto che i simboli Biblici sono fluidi, non stereotipati; alcuni sostengono che il significato dei simboli non varia mai. Certamente non è così.. Per esempio, Satana è paragonato ad un leone (1pt.5:8), e Gesù Cristo è anche paragonato ad un leone (Riv.5:5). “Colomba” significa “stupida” in Osea 7:11, ma il significato è “inoffensiva” in Matteo 10:16. “Terra” in Apocalisse 12:16 sta per il mondo non credente perché è messa in contrasto con la donna, cioè la vera Chiesa. Ma in Apocalisse 13, la terra è utilizzata in contrasto col mare; così, il mare è il simbolo del mondo non credente, e la terra qui rappresenta la chiesa non credente. Le due bestie sono perciò lo stato apostata e la chiesa apostata. La seconda bestia è la falsa religione la quale serve la cultura umana e il cui messia è la cultura umana piuttosto che Gesù Cristo. È la falsa religione il cui regno è di questo mondo, la cui salvezza è secolare e sociale. Appare al mondo come un agnello(v. 11), come una Chiesa Cristiana, ma la sua voce è la voce del dragone, di Satana. Esercita la propria autorità (v.12) per uno scopo, subordinare l’uomo alla cultura umana, allo stato, all’umanesimo, e per dirigere le speranze dell’uomo da Cristo alla società, dalla salvezza attraverso l’espiazione di Gesù Cristo alla salvezza attraverso l’azione sociale. Per la seconda bestia, il regno di Dio è questo mondo in tutte le sue speranze e presunzioni umane: è il mondo di Adamo in rivolta, che tenta di costruire una torre di Babele in opposizione a Dio, un singolo ordinamento mondiale (New World Order? N.d.T.) senza Dio. E questa bestia esce dalla chiesa ed è la chiesa apostata.

La seconda bestia, questa falsa religione, la cristianità che è moralista e senza Cristo, seduce la gente con grandi prodigi ed una tremenda dimostrazione di potere (vv.13-14). Sembra possedere la potenza di Elia di “far scendere dal cielo fuoco sulla terra in presenza degli uomini”, cioè di far scendere il giudizio su quelli cui si oppone, ma il suo potere non è soprannaturale; non è derivato da Dio ma dalla bestia, dal potere statalista e dalla cultura umana, e il suo obbiettivo non è la gloria di Dio e la sovranità di Dio, ma che gli abitanti della terra facessero “ Un’immagine alla bestia che aveva ricevuto la ferita della spada ed era ritornata in vita” (v.14) Ciò si riferisce all’adorazione della prima bestia, la cultura umana, lo stato. Il nuovo dio della falsa chiesa è lo stato, col quale è in sodalizio. La falsa bestia, il falso cristianesimo, 1 Alberus Pieters,Studies in the Revelation of St. John (Grand Rapids,Eerrdmans, 1950), p.220.

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considera nemico tutto il vero cristianesimo e cerca di forzare tutti gli uomini a conformarsi ad una dottrina centrata sull’uomo, ad una fede centrata sull’ideale di Adamo, l’auto-deificazione dell’uomo. Questo insediamento sul trono dell’Adamo decaduto, comunque, non viene ricercato come una consapevole ribellione contro Dio; maschera se stesso come vera pietà (religione) e vera fede; è ora una religione altamente moralista nel fatto che crede nell’opera e nella legge dell’uomo.

Coloro i quali rifiutano di partecipare all’adorazione dell’uomo, quelli che rifiutano di arrendersi alla compiacente soddisfazione dell’uomo con l’uomo e con la società dell’uomo vengono sempre più marchiati come alieni. A tutti quelli che non hanno il marchio della bestia, tutti quelli che non si arrendono all’ordinamento sociale umanista viene rifiutato il permesso di comperare e di vendere, cioè sono oggetto di ostracismo sociale, politico ed economico. Ogni tipo di pressione, sottile o diretta viene impiegata per costringere il vero credente a conformarsi con la Città dell’Uomo ed il credo di Caino. Riguardo al marchio della bestia, ci viene dato di capire che è lo stesso del suo nome o numero (13:17). Al verso 18 ci viene detto che questo è il “numero d’uomo” o più letteralmente “un numero umano”. Il numero è 666. Tentativi sono stati fatti per dimostrare che il numero stesse per Nerone ma questo si può fare solo leggendo Nerone Cesare e compitandolo male. Ogni generazione ha visto tentativi di dare una lettura al numero altrettanto fantasiosi.1 Ma Apocalisse ci da una risposta molto semplice: 666 è il numero dell’uomo, il numero umano, innalzato al suo massimo grado. Sette è il simbolo della totalità, della pienezza divina; sei il numero umano. L’uomo fu creato il sesto giorno. Il numero 666 rappresenta l’essenza delle presunzioni messianiche quanto la loro futilità. Al suo massimo è costantemente meno della totalità o sovranità divina. Ne il 6 ne il 66 ne il 666 possono mai diventare 7 o 77 o 777 in se stessi. L’uomo è una creatura e rimane sempre una creatura: i suoi sogni messianici riguardo a se stesso non possono mai cambiare il fatto della sua creaturalità o distogliere da se stesso il giudizio divino che la sua ribellione ed il suo peccato incontrano. Nel verso 14, la fede di questa bestia, di questo falso cristianesimo, è chiaramente rivelato. Per tutto il suo moralismo, crede basilarmente nella “giustizia del potere” o legge della forzaa ed esalta la cultura umana perché esalta l’uomo. L’auto-esaltazione, sentirsi d’essere giusti in se stessi, e la cieca adorazione del potere sono il retroterra di tutte le dottrine moralistiche. L’umanesimo diventa progressivamente una nuda depravazione, l’uomo confermato nel suo pervertimento. Il moralismo si rivela sempre basilarmente come immoralismo.

1 Vedi ad esempio: Oswald J. Smith ; Is the Antichrist at Hand? What of Mussolini? New York. Christian Alliance Pubblishing Co; 1927, Settima edizione, p.24s “Mussolini può non essere l’Imperatore (la bestia) egli stesso, ma se non lo è, egli è certamente una rimarchevole anticipazione di quell’uno che la Bibbia dice che regnerà”. Altri furono ancor più pronti ad identificare Mussolini come la Bestia, ed in ogni generazione tale stupidaggine è stata posta in evidenza.a N.d.T. L’autore utilizza un modo di dire anglosassone in rima: “Might is right!”

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Apocalisse 14Lo Spossesso

Abbiamo visto la dimensione dell’attacco satanico al regno di Dio, la natura della questione spirituale in campo, la blasfema estensione del potere del male, e la sofferenza dei santi. Ma è questo tutto ciò che il popolo di Dio fa nella storia: soffrire? Come ha notato Carpenter:

I suggellati da Dio hanno sofferto: ma hanno fatto qualcosa di più che soffrire? La loro è stata solo una resistenza passiva al male? Non hanno brandito armi contro questo avversario, e non hanno usato una contro-influenza per il bene? Il capitolo davanti a noi risponderà.1

Tragicamente la chiesa ha troppo spesso sentito che il proprio unico ruolo è quello di soffrire e di attendere. Troppo spesso il ruolo del cristiano, secondo la chiesa, è stato definito come passivo, la chiesa ha permesso al mondo di agire, mentre essa ha passivamente sofferto, “attendendo” Dio. L’influenza dell’ascetismo e del Pietismo è stata di ritirare la chiesa dal mondo. Ma tale “attendere” Dio e tale sofferenza passiva non sono marchi di santità; possono essere descritti solo come peccato. La chiesa non è meramente una vittima nella lotta nel mondo: deve essere anche un esercito attivo ed aggressivo.

La riduzione del regno di Dio ad un reame spirituale è un effetti un rinnegamento del regno, le cui richieste sono totali. Arrende il mondo al nemico e si ritira nella sconfitta come se fosse vittoria. Non sorprende che credi alieni abbiano allora il sopravvento. Reinhold Niebuhr, egli stesso un rappresentante dei credi più nuovi, osservò all’inizio della sua carriera quanto fosse divenuto irrilevante il ruolo della chiesa:

1 W.Boyd Carpenter, in Ellicott,Commentary,V, p.601.

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La chiesa è il servizio della Croce Rossa in tempo di guerra. Trattiene la vita dal degenerare in una totale disumanità, ma non altera materialmente il fatto della lotta stessa. La Croce Rossa ne vince la guerra, ne l’abolisce.2

Niebuhr ha colto bene il punto, benché il suo concetto del ruolo della chiesa sia errato. L’opera della chiesa, che non deve essere identificata col regno di Dio, ma semplicemente una parte del regno, è di proclamare l’intero consiglio di Dio, amministrare i sacramenti, e di stabilire la disciplina all’interno della propria cornice di lavoro. La chiesa deve istruire i propri membri riguardo ad ogni aspetto della responsabilità cristiana, in ogni sfera di legge e di vita. Ma Niebuhr è nel giusto quando paragona il ruolo della chiesa pietista a quello della Croce Rossa. Tale concetto della chiesa visualizza il suo ruolo come quello del grande neutrale sulla scena umana: questa è una paurosa perversione del ruolo della chiesa, e opera sotto un’illusione. La Chiesa è nell’esercito di Cristo, e non c’è neutralità in questo stato di guerra tra Cristo e Satana. Questa guerra è in atto in ogni sfera della vita. Parlando umanamente la chiesa è il maggior contendente, sul campo di battaglia mondiale, e non può ritirarsi ai bordi senza concedere la sconfitta ed effettuare la propria esecuzione. E Cristo non permetterà mai che la sua chiesa faccia questo senza infliggerle un pauroso giudizio.

Il concetto di neutralità è un concetto inaccettabile in ogni sfera, e certamente mai così poco appropriato come quando sostenuto dalla chiesa. La chiesa non è un’organizzazione politica, ma deve istruire gli uomini sui fondamentali di una politica secondo Dio. Non è un’agenzia di welfare, ma deve insegnare agli uomini il significato della compassione secondo Dio. Se la chiesa confina i propri insegnamenti alle questioni spirituali, dovrà ignorare la maggior parte delle Scritture, le quali parlano delle condizioni dell’uomo in ogni area di vita. La fede cristiana o è rilevante per tutta la vita o non sarà rilevante a nulla di essa: le pretese di Dio o sono totali, o Egli non è Dio. Chiedere al cristianesimo di rimanere nel proprio territorio è chiedergli stare nel tutto della vita. La religione come la Bibbia la concepisce e la dichiara non ha un dominio separato dal resto della vita. È lo scopo generale e il significato di tutta la vita in ogni sua sfera. Il cristianesimo non è una religione escapista. Tutte le altre religioni sono essenzialmente escapiste nella loro prospettiva, ed abbiamo la paganizzazione della chiesa quando la sua fede viene ridotta ad escapismo. I pagani vengono alla religione non per meglio affrontare i problemi della vita, ma per sfuggirli, per evadere dalla lotta. Il compito della chiesa deve essere quello di sfidare ogni sfera di vita nel nome del Dio sovrano e del Signore Gesù Cristo. Il Grande Mandato richiede che tutte le nazioni siano fatte discepoli e che ogni sfera di vita sia portata sotto il dominio di Cristo il Re: tutti i popoli e le nazioni devono essere fatte udire Cristo il Profeta, e trovano la propria redenzione ed intercessione in Cristo il sacerdote. Qualsiasi cosa meno che questo è una deformazione del Vangelo.

Vs. 1-5. Ci viene dato, prima di tutto, un quadro del vero regno sotto l’autorità del “l’Agnello” (non “un Agnello, come nella King James), proprio Gesù Cristo. Il 2 Reinhold Niebuhr; Leaves from the Notebook of Tamed Cynic (Chicago: Willet, Clark, & Colby, 1929);p.113.

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popolo di Dio è sempre trionfante, e il loro cantico, il loro inno di vittoria non può essere imparato dal mondo Il mondo non può comprendere il trionfo che la chiesa sperimenta sempre. Per il mondo, tutte le cose non cooperano al bene (Rom 8:28), e perciò il “nuovo cantico” della chiesa (un inni di ringraziamento), è per il mondo incredibile e impossibile.

I membri di Cristo sono descritti come “vergini” che “non si erano contaminati” nel senso di 2 Corinzi 11:2 “vi ho fidanzati a uno sposo, per presentarvi a Cristo come una casta vergine”. (La parola vergine in Greco è di forma maschile anche quando usata in riferimento ad entrambi i sessi). La frase non è riferita al celibato sacerdotale: il riferimento è molto chiaramente alla chiesa intera, e i 144.000 è identico con “grande folla che nessuno era capace di numerare” di “ogni razza” dipinta in 7:9.

Questa verginità è chiaramente caratterizzata nel consistere di quattro cose. (1) purezza, (2) obbedienza implicita, (3) separazione, e (4) completa sincerità. La descrizione si conclude dichiarando che essi sono “irreprensibili” davanti a Dio. Le “donne” o prostitute che li contaminerebbero sono le nazioni, presto descritte come Babilonia, che porta fuori strada uomini e nazioni col suo sogno di un paradiso umano senza da Dio. In questo modo, la verginità della vera chiesa consiste nella sua fedeltà ad una fede centrata in Dio contro le seduzioni di teologie centrate nell’uomo, e la verginità del regno è la sua resistenza al concetto di un paradiso umanistico separatamente da Dio.

Versi 6-20. ora, per mezzo della figura dei sette angeli (1:20), viene annunciato il pieno compito dei credenti. Il popolo di Dio non può essere meramente spettatore o soffrire passivamente. Il loro compito è una missione redentiva, un compito profetico, un dovere di governo, che corrisponda alla triplice funzione di Cristo come sacerdote, profeta e re.

I. Versi 6-7, il primo angelo proclama il vangelo eterno. Questo è il primo e principale compito del popolo di Dio, dichiarare la grazia di Dio per la salvezza per mezzo di Gesù Cristo. “Il suono si è sparso su tutte le nazioni”. Secondo Carpenter: “L’intero ciclo della predicazione del vangelo è inclusa nella visione”.1 Qui è descritta non solo la responsabilità della chiesa, ma anche il suo lavoro storicamente come pure le sue funzioni in ogni epoca, dal principio alla fine. La chiesa ha il dovere di far conoscere ad ogni creatura questo vangelo.

II. Verso 8. Il secondo angelo proclama la condanna della città-mondo, la capitale della potenza del mondo: Babilonia. Che cosa incarna Babilonia? Babilonia ha un significato chiave nella tipologia delle Scritture. Rappresenta tutti i tentativi dell’uomo, a partire dalla Torre di Babele, di erigere un paradiso mondiale senza Dio, di stabilire l’unità umana sul principio della rivolta contro Dio da parte degli uomini che cercano di essere come Dio. Babilonia è il tentativo dell’uomo di dare a se stesso tutto ciò che Dio ha progettato di dare ai redenti, ma nel processo rinnegare Dio e revocare la Sua sovranità. L’uomo dichiara: “Io sono il padrone del mio destino: ho il possesso della mia anima (I am the master of my soul)”. In questo modo, il programma di Babilonia scimmiotta il programma di Dio: persegue la buona vita, 1 Carpenter in Ellicott,op. cit.,VIII, p.602.

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pace, unità, e il compimento delle potenzialità dell’uomo, ma tutto questo senza Dio. Perciò Babilonia viene costantemente umiliata e gettata nella confusione da Dio, costantemente dispersa nel suo tentativo di raccogliere. Babilonia è condannata per sempre, ed in ogni generazione la vera chiesa deve proclamare con enfaticamente: “Babilonia è caduta, è caduta!”

Babilonia è con noi in ogni epoca. Il peccato delle nazioni è quello senza eccezioni: “tutte le nazioni bevono il vino dell’ira delle sua fornicazione” Proprio come la vera chiesa è costituita da coloro che non si sono contaminati con donne, cioè con le nazioni, così le nazioni sono precisamente quelle che diventano prostitute, che diventano parte di Babilonia, che commettono fornicazione in Babilonia e che bevono del vino dalla sua coppa. Così Babilonia deve essere vista non solo come sul Tamigi, sulla Senna, sul Reno, sul Volga, sul Bosforo e sul Nilo, ( e sul Tevere) ma anche sul Potomac.a tutte le nazioni bevono del suo vino e a meno che non vengano portate al pentimento, periranno con lei (Cf. Sl.11:6; 75:8; Isa. 51:17; Ger. 25:15).

Perciò la vera chiesa di ogni epoca ha una missione verso lo stato, proclamare la caduta di Babilonia, dichiarare allo stato che il governo civile può durare solo sotto Dio ed in obbedienza alla Sua Parola, che ogni tentativo del governo civile di diventare come dio, il provveditore della grazia e del paradiso è dannato e condannato. La bonifica, la pulizia del governo civile e la sua incriminazione per mezzo della Parola deve essere il compito della chiesa in ogni età.

III. Versi 9-12. Il terzo angelo dichiara il terzo compito della chiesa, cioè: avvertire gli uomini in ogni era che non devono cadere vittime delle attrazioni di Babilonia, al sogno dello stato mondiale, la speranza umanistica del paradiso anche quando sia impacchettato dagli ornamenti (cerimoniale) e le decorazioni della religione. Ricevere il marchio della bestia significa che uno ripone le proprie speranze in questo mondo e nelle potenze di questo mondo piuttosto che nel Dio Onnipotente, significa accettare i controlli dello stato come salvezza piuttosto che come schiavitù. L’avvertimento agli uomini è una chiara affermazione che gli uomini sono responsabili e saranno giudicati di conseguenza da Dio. Gli uomini in ogni epoca cercano di evadere la responsabilità: essi compromettono costantemente insistendo che il compromesso è la sola possibile via. Contro tutto questo, la vera chiesa deve insistere sulla piena responsabilità e non permettere a nessun uomo di evadere o ignorare questo peccato o il fatto del proprio compromesso. Chi prende il marchio della bestia “non avrà requie ne giorno ne notte”.

IV. Verso 12. Qui abbiamo una potente beatitudine: La chiesa acquisisce la propria costanza (pazienza), non nella passiva sopportazione, ma nell’adempimento del suo mandato come dichiarato in questo capitolo: proclamando il vangelo, dichiarando la caduta di Babilonia, e indicando agli uomini le loro responsabilità. La pazienza (costanza) è il frutto della fedeltà. La traduzione del Moffat dice: “questo è ciò che mostra la pazienza dei santi- quelli che osservano i comandamenti di Dio e la fede di Gesù”.

Il quarto angelo perciò proclama il conforto della fede. Il riferimento della nostra fede è in definitiva all’eternità, e il vangelo proclama la gioia e la vittoria che è a N.d.T. Potomac, fiume del Maryland che bagna Washington D.C..

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nostra in Cristo. Abbiamo vita eterna col Signore e riceviamo un premio per la nostra fedeltà. La chiesa pecca non solo quando limita il vangelo all’eternità, ma anche parlando troppo poco del cielo.

V. Versi 14-16. Qui viene ricordato alla chiesa che il giudizio non è riservato solamente alla fine dei tempi, ma che è un fatto sempre presente in ogni età, che Cristo (v.14) separa sta costantemente raccogliendo una messe e separando il loglio e il frumento. Perciò il fatto del giudizio deve essere costantemente proclamato. Gli uomini devono o incontrare Cristo quale loro Salvatore o incontrarlo quale loro Giudice. Far passare questo fatto in sordina e predicare “pace”, “dolcezza e luce”, e dispensare musica sdolcinata è il marchio di una chiesa peccatrice ed apostata.

VI. Versi 17-20. (cf. Isa. 5:2) Il calpestare del “tino” era simbolo di vendetta, ed è chiaramente dipinto in questo modo “il gran tino dell’ira di Dio”. I torchi scavati nella terra stavano generalmente fuori della città e, proprio allo stesso modo, quelli che rifiutano di trovare santuario nella Città di Dio sono gettati nel “tino” della vendetta di Dio. Gesù andò, una volta, fuori le porte della Gerusalemme terrena, condannato a morte dalla Città dell’Uomo. Ora, le nazioni condannate vanno fuori dalle porte delle vera Gerusalemme, per essere distrutti nel tino delle vendette di Dio. La terra è del Signore: gli empi saranno gettati fuori e distrutti. Perciò, la chiesa deve dichiarare che Dio è un Dio di vendetta: che ogni peccato è un affronto direttamente contro Dio, una negazione di Dio, e un tentativo di soppiantare Dio. L’uomo stesso non può prendersi il compito della vendetta: appartiene a Dio, il quale, nella sua assoluta giustizia la porta a compimento. La vendetta di Dio sui peccati non espiati e non perdonati deve essere proclamata. E la vendetta di Dio deve essere eseguita attraverso i canali da Dio ordinati per la sua esecuzione, nella chiesa, nello stato, nella casa, nella scuola e in tutta la vita, e sarà pure eseguita da Dio nel suo provvidenziale governo della storia.

L’ultimo angelo dipinto è l’angelo del fuoco che esce o si alza dall’altare (v.18) sotto il quale i santi uccisi avevano gridato: “fino a quando aspetterai o Signore?”. La preghiera dei santi è stata ascoltata: il fuoco viene gettato sulla terra nella forma di giudizio. Così la chiesa viene indirizzata alla propria responsabilità di pregare. Essere senza preghiera è peccare. Alla chiesa viene richiesto di pregare incessantemente riguardo ad ogni aspetto del proprio mandato. Così la chiesa non può essere passiva, ne può accontentarsi meramente di soffrire. Il suo compito è di stabilire la supremazia di Cristo in ogni dominio quale Sacerdote, Profeta e Re.

Il verso 20 parla di 1600 stadi coperti dal sangue della vendetta. Questo è un simbolo per la pienezza del giudizio, cioè esteso a tutto il mondo, e a tutto il tempo nella storia. Niente che sia senza espiazione e senza perdono sfugge alla vendetta di Dio. La distanza di 1600 stadi, 4x4x100; i quattro angoli della terra moltiplicati per se stessi e poi moltiplicati per la pienezza di 10 e cioè 100, esso stesso simbolo di pienezza. Perciò il mondo nella sua interezza è coperto dalla vendetta di Dio dovunque non sia coperto col sangue propiziatorio di Cristo.

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Apocalisse 15Il Cantico di Mosè

Come notato precedentemente, il Libro di Apocalisse echeggia il contesto della Festa dei Tabernacoli e la Festa di Pentecoste. La Festa dei tabernacoli era una festività del raccolto che celebrava il soggiorno d’Israele nel deserto e il suo ingresso nella Terra Promessa. Era una celebrazione per Israeliti e Gentili, un tipo della raccolta di ogni nazione del regno di Dio, nel ricordare a tutti che erano pellegrini e stranieri sulla terra. Il viaggio dell’uomo nel deserto è il suo combattimento da un mondo caduto dentro al regno di Dio ristabilito. La destinazione e la cittadinanza dell’uomo è il regno di Dio in cielo e sulla terra. Attraverso tutta Apocalisse, è annunciata la raccolta, come il giudizio su coloro che oppongono l’entrata dei santi nella Terra Promessa.

La Pentecoste celebrava che Dio aveva dato la legge a Mosè, e la pentecoste cristiana celebra la scrittura della legge sulle tavole del nostro cuore per la dimora dello Spirito Santo. La prima pentecoste al Sinai fu annunciata da trombe, lo scuotimento della terra, lampi e uragano, quando il Signore e il suo esercito si avvicinarono alla terra peccatrice. Attraverso tutta Apocalisse, vediamo le stesse trombe suonare il giudizio, lo scuotimento della terra, l’uragano e i tuoni, mentre Dio di avvicina all’uomo e nulla rimane tra l’uomo e Dio eccetto il giudizio della legge.

Apocalisse 15 ci da due visioni. Ancora una volta, queste due visioni non devono essere comprese cronologicamente, ma come vere per tutto il tempo tra la prima e la seconda venuta, in ogni tempo.

I. Versi 2-4. La visione del mare di “vetro” o meglio trasparente, con i santi in piedi sulla riva di quel mare che cantano “il cantico di Mosè servo di Dio, e il cantico dell’Agnello”. Il cantico di Mosè fu composto e cantato quando Israele fu liberato dall’Egitto, portato attraverso il Mar Rosso, e poi privilegiato di testimoniare lo spettacolo dei suoi nemici ricoperti dalle acque richiusesi del Mar Rosso. Davanti ad Israele si stendeva il viaggio nel deserto prima di poter entrare nella Terra Promessa. Davanti a loro c’erano pure i nemici che sfidavano il loro passaggio. Ma la grande realtà era la liberazione dalle catene, dalla schiavitù, e l’equipaggiamento con la gloriosa libertà dei figli di Dio. Essi erano ora una nazione santa, e un real sacerdozio

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in Dio, la cui presenza marciava con loro e che fece la propria tenda regale al centro del campo. Ogni riga di questo cantico echeggia i Salmi ed i Profeti. La liberazione prefigurata nell’Esodo, nel ritorno dalla cattività in Babilonia, in ogni liberazione di Israele, tutte queste molto di più fu adempiuto sul Calvario nella grande liberazione che Cristo ha compiuto per la Sua Chiesa nel rovesciare i legami del peccato e della morte. Questo è il gioioso cantico dei redenti di ogni epoca, e la gioiosa anticipazione di piena e finale vittoria: “tutte le nazioni verranno e adoreranno davanti a te, perché i tuoi giudizi sono stati manifestati”. Cristo è Re delle nazioni. Questa è l’aspettativa (prospettiva) cristiana e deve essere il programma d’azione dei Cristiani: la sovranità di Cristo su tutte le cose e su tutte le nazioni. Il cantico di liberazione, ai giorni di Mosè e al giorno d’oggi, è il Cantico dell’Agnello.

Il mare è stato altrove visto come oscuro e agitato, che vomita la bestia e infuria contro la Chiesa. Ora, visto di nuovo dal trono di Dio, lo vediamo trasparente, limpido come cristallo. Ancora una volta questo testimonia il glorioso fatto che non ci sono angoli bui nell’universo di Dio, non ci sono bruti fatti nella creazione. Ogni fatto è un fatto creato ed ha significato solo alla luce dello scopo creativo di Dio. Perciò, nessun fatto è un ostacolo per i santi, perché tutti i fatti sono fatti dati da Dio e devono essere interpretati nei termini della gloria di Dio e della nostra gloria in Lui. Noi perciò sappiamo che tutte le cose infatti effettivamente operano insieme per il bene di quelli che amano Dio, a quelli che sono chiamati secondo il Suo proponimento. (Rom.8:28).

Il Verso 1 parla di “un altro segno”, così chiamato a motivo dei due “segni” che l’hanno preceduto (Riv 12:1-3). Il primo segno era la donna, o la vera Chiesa di Dio, e il secondo, il dragone, o Satana e le sue due bestie. Il terzo segno è una visione della pienezza del giudizio nelle mani dei messaggeri di Dio e la visione del mare trasparente, il cosmo come completamente trasparente e sottoposto al Dio trino. Il mare è misto col fuoco, o giudizio.

II. Versi 5-8. La seconda visione è del tabernacolo in cielo. Il vero santuario è svelato o aperto. Questa apertura del santuario fu compiuta dall’incarnazione, espiazione e resurrezione: “Il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, è quel che l’ha fatto conoscere”(Gv. 1:18). La Luce, la Gloria della Presenza risplende sul mondo intero, rendendo trasparente il mare o mondo e mettendo a nudo i peccati delle nazioni. Sette angeli, che rappresentano la pienezza del giudizio, avanzano dal tempio con “sette coppe piene dell’ira di Dio”. Questi angeli sono “vestiti di lino puro e risplendente e cinti intorno al petto di cinture d’oro”. Questa descrizione suggerisce quella di Cristo stesso (1:13) Gli angeli sono vestiti di regale autorità poiché rappresentano Cristo il Re, infliggono giustizia su coloro che si ribellano contro la Sua autorità e sovranità, ma adempiono anche al Suo ufficio sacerdotale. L’intercessione con Dio il Padre risulta in giudizio di Dio sulla storia.

Non si entra nel tempio senza il giudizio. Il giudizio è sempre un aspetto necessario della salvezza. Aspettarsi che Dio bypassi il giudizio e istituisca una salvezza priva di esso è pensare in termini pagani.

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Apocalisse 16Il Grande Scuotimento

Apocalisse ci da un contrasto tra due donne e due città, la Donna Raggiante e la Donna Scarlatta, la Gerusalemme che è di sopra e la Gerusalemme che è sotto, la Città di Dio e la Città dell’Uomo. Tra queste due forze c’è uno stato di guerra incessante.

L’ira di Dio viene versata sulla Donna Scarlatta, la Gerusalemme di sotto, chiamata anche Babilonia la Grande, che rappresenta l’orgoglio e la presunzione di tutte le nazioni che pretendono di rappresentare il vero regno e il vero paradiso. Nei ranghi di Babilonia troviamo quelle chiese che servono il dragone, le quali hanno il sentimento che il regno sia il risultato degli sforzi dell’uomo e sia raggiungibile per mezzo dell’azione sociale piuttosto che per mezzo della rigenerazione, i quali identificano il regno di Dio con un ordinamento sociale umano o predicono, come fece Richard Rothe: “nel futuro la Chiesa si dissolverà nello Stato”.1 Per tali uomini paradiso significa la sovranità dell’uomo. Per i santi significa la sovranità di Dio e la soggezione ad essa dell’uomo e il suo compimento (pienezza) in essa.

Il continuo giudizio sui tentativi del mondo di creare il paradiso ci viene dato nella visione delle sette coppe del giudizio. Questo capitolo, come quelli che lo succedono, suggerisce echi di Ezechiele 14, il giudizio su Tiro. Suggerisce anche Isaia 14, in cui il re di Babilonia, chiamato Lucifero, viene dipinto nel suo orgoglio demonico, che si esalta contro Dio, credendo che la storia si adempia nelle sue opere piuttosto che nelle finalità e nell’opera di Dio. Per i cittadini della Gerusalemme terrena, di Babilonia la Grande, la storia conduce al compimento dell’uomo. Israele concepì il regno di Dio come un regno Giudaico, come l’esaltazione dei Giudei. L’orgoglio nazionalista dei Giudei portò alla crocifissione di Gesù Cristo perché Egli venne ad inaugurare il regno di Dio piuttosto che il regno d’Israele. Secondo la Talmud: “Ciascun Israelita vale davanti a Dio più di tutta la gente che è stata e che sarà”.2 Per i Giudei, il peggior figlio di Abrahamo era migliore del miglior Gentile. Israele al tempo di Cristo era una parte di Babilonia la Grande; di qui la sua opposizione ed il suo odio verso il regno di Dio. E la loro scusante, dopo la

1 Adolph Keller, Religion and Revolution; New York, Revell, 1934, p.36.2 Powell, The Trial of Jesus Christ, p.24

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testimonianza di Cristo e della Parola completata, la Bibbia, e la testimonianza della storia, è anche minore di quella di Israele.

Due paradisi vengono offerti all’uomo: uno da Babilonia la Grande e uno da Dio. Babilonia cerca costantemente di distruggere il paradiso di Dio, ma Dio distrugge invece il paradiso degli uomini.

Queste sette coppe sono simili alle sette trombe di Apocalisse 8 e 9. Come queste, sono il documento di spossesso e l’azione contro il mondo. Il rotolo sigillato, con i suoi sette sigilli, è l’eredità dell’uomo, resa disponibile da Gesù Cristo. L’eredità è vittoria sul peccato e sulla morte, e la restaurazione dell’eredità perduta dell’uomo, il paradiso. Ma i figli di Adamo, della linea di Caino, cercano di stabilire un’eredità contraffatta, un’unità non benedetta, nelle loro torri di Babele. Nel nome di Babilonia reclamano il mondo di Dio. Il giudizio delle trombe e delle coppe di Dio è il documento di sfratto.

Il Cantico di Mosè, il cantico della salvezza, in Apocalisse precede le piaghe e i giudizi. La salvezza separa gli uomini, e il giudizio che segue è salvezza in atto, per produrre restaurazione e restituzione.1. La prima coppa, 16:2. Questa piaga richiama la sesta delle piaghe Egiziane, la piaga delle ulceri (Es. 9:8-12; Dt. 28:27). L’Egitto fu un tipo delle potenze del mondo, e le piaghe devono essere comprese anche qui tipicamente. Ulceri spirituali e mentali distruggono la pace e l’auto- compiacimento degli adoratori della potenza del mondo, gli adepti del paradiso senza Dio. Non c’è ripose, dice il mio Dio, per gli empi(Isa. 57:21).2. La seconda coppa, 16:3. Cf. la prima piaga Egiziana (Es. 7:17s.) e la seconda tromba (Riv. 8:8). Qui viene dipinta come più estesa e come totale. Come il Nilo è la fonte naturale della prosperità e della forza dell’Egitto e il sangue della vita della nazione economicamente, proprio per questo il giudizio di Dio sul Nilo fu il colpo mortale alla nazione. La loro prosperità divenne il loro danno; la loro forza, la loro distruzione. Così Dio usa gli stessi vantaggi e forze delle nazioni per distruggerle. Ogni vantaggio delle nazioni deve essere usato per la gloria di Dio o servirà alla dannazione delle nazioni.3. La terza coppa, 16:4-7. Questa suggerisce la terza piaga Egiziana, e la terza tromba (Riv. 8:10-11). L’altare concorre in questo giudizio, cf. 6:10; 14:15-18. “I fiumi e le sorgenti alimentano il mare; essi sono le potenze ed influenze che vanno a formare il grande sentimento popolare, queste sono colpite dalla stessa corruzione. I rivi della vita diventano putridi, i freschi e chiari doni di Dio vengono contaminati, quando l’oceano del pensiero pubblico è malato”.1

4. La quarta coppa. 16:8-9. Cf. la quarta tromba, 8:12. Il sole, la sorgente di luce e di vita e di ogni benedizione, diventa invece un potere distruttivo e inaridente, maledizione anziché benedizione. “Le cose piene di benefici sono trasformate in potenze di sofferenza per quelli che seguono il male”.2

5. La quinta coppa, 16:10-11. Cf. Esodo 10:21 e la quarta tromba, 8:12. tenebre ricoprono l’impero mondiale anticristiano ed il trono. Il trono viene ora attaccato.

1 W. Boyd Carpenter, in Ellicott. Op.cit. VIII, p.607.2 Ibid.

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Prima, gli individui o cittadini di Babilonia sono colpiti con angosce mentali ed emotive. Poi i vantaggi di Babilonia diventano svantaggi. La corruzione o contaminazione si sparge su ogni aspetto di Babilonia, e le cose di benedizione diventano strumenti di maledizioni. La coerenza e l’organizzazione di questa grande Babilonia sono minate dall’interno dai giudizi di Dio. Lo stesso centro d’autorità di babilonia ne è ora affetto. “Il regno che si gloriava di essere pieno di luce diventa oscurato”.1 6. La sesta coppa, 16:12-16. Cf. la sesta tromba, 9:13s. L’Eufrate rappresenta il confine tra la Terra Promessa, il popolo di Dio, e i loro grandi nemici. La distruzione dei confini è lo scopo e l’obbiettivo di Babilonia, l’obliterazione di tutti i principi (criteri o norme) e delle protezioni del regno di Dio contro il regno dell’uomo. La barriera è storicamente il grande impedimento alla guerra. Finché la barriera viene rispettata, la pace rimane. Ma Babilonia cerca costantemente di distruggere la barriera, di cancellare la linea di divisione, di obliterare il regno di Cristo ed il suo popolo. Quando la barriera è cancellata nella mente comune, e tutte le fedi sono come una, allora Babilonia marcia dentro il regno di Dio per possederlo me suo proprio. Le due forze si incontrano ad Armageddon, o Meghiddo, un simbolo di ogni battaglia in cui il Signore libera il Suo popolo, proprio come liberò Barak e Gedeone a Meghiddo. In entrambe le situazioni il popolo del Signore era, umanamente parlando, impotente e sicuro della sconfitta, ma il Signore rivelò la propria potenza per la sconfitta del nemico. I “re del levante” entrarono sull’Eufrate prosciugato per distruggere Babilonia stessa (17:17) e per fare guerra all’Agnello (11:14). In questo modo le forze di satana distruggono il regno di satana. La conquista della Babilonia storica col prosciugamento dell’Eufrate viene anche echeggiata qui. Il prosciugamento dell’Eufrate (forza o) accelera la questione, e l’accelerazione della questione distrugge Babilonia, non il regno di Dio. L’obliterazione della legge e dell’ordine di Dio distrugge lo stato umanista, non il popolo di Dio. Sarebbe bene notare che Armagheddon significa le montagne di Meghiddo. Ma non ci sono montagne a Meghiddo, solo le pianure di Meghiddo. C’è una deliberata distruzione della visione di un qualsiasi riferimento letterale al luogo, il riferimento è al significato di eventi passati.7. La settima coppa, 16:17-21. Il terremoto (cf Eb. 12:26-29) è lo scuotimento delle nazioni, cosicché possa rimanere solo ciò che non può essere scosso. È la pienezza di tutti i giudizi precedenti. È la continua distruzione da parte di Dio di conseguire sicurezza e durata separatamente da Dio. Il regno del male cerca di concentrarsi contro il regno di Dio, ma Dio distrugge la sua stessa coerenza, cosicché cade in “tre pezzi” e si distrugge da se. La sola unità che veramente tiene insieme il regno dell’uomo é nell’odio verso Dio e verso il Suo regno. Ogni cittadino di Babilonia è governato dalla propria natura, dal vecchio Adamo in lui, e cerca di essere il proprio Dio e la propria legge. Si unisce solo nel suo odio verso Dio, e questo non riesce a tenerlo unito a lungo. Alla fine, il suo odio esprime se stesso contro i suoi stessi alleati. La distruzione è una piena devastazione del suo regno. “Ogni isola fuggì”. Il terremoto mette alla prova ogni posto e lascia intatto solo il 1 Ibid.

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regno di Dio (Dan. 2:44; 6:26; Eb. 12:28). Ciò che il terremoto non distrugge lo distrugge la grande tempesta. La tempesta è di una potenza inimmaginabile ogni chicco di grandine tra i trenta e i cinquanta chili, e il risultato è la polverizzazione di Babilonia. Questo richiama ancora le piaghe egiziane, ed anche la sconfitta dei nemici d’Israele a Beth-horon (Gs. 10:1-10), quando il Signore “scagliò su di loro dal cielo delle grosse pietre”.

I regni di questo mondo passano via, con tutte le loro presunzioni e affermazioni, nel grande scuotimento che governa la storia, ma il regno del nostro Signore Gesù Cristo cresce in potenza e dimostra la propria piena e totale sovranità su tutte le nazioni e popoli e lingue e tribù. Quale Re dell’universo, Cristo comanda le stelle stesse nei loro corsi nella guerra contro Sisera, e contro i Sisera di ogni generazione, e il firmamento proclama la Sua Gloria e la Sua Maestà.

Armagheddon è un simbolo della vittoria di Dio, un promemoria che la battaglia e la vittoria sono del Signore. A Meghiddo, Giosia peccò andando alla guerra: non doveva essere lì perché il Signore aveva reso chiaro che Egli avrebbe liberato. La vittoria di Geosafat è la vittoria dei santi.

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Apocalisse 17La Meretrice di Babilonia

Poiché Apocalisse ci un’immagina così vivida dello stato centrato sull’uomo, stato che è in rivolta contro Dio, è importante per noi comprendere per mezzo di un contrasto la dottrina biblica del regno di Dio e del suo governo, in modo che possiamo sia riconoscere Babilonia in mezzo a noi, sia lavorare per il vero regno.

Prima della caduta, l’uomo fu creato da Dio per vivere in paradiso, in comunità, e per realizzare in quelle condizioni il regno di Dio, il perfetto governo. Eden fu così il luogo (l’ambiente) del regno di Dio sulla terra. La funzione del governo in quella società originale era, primo, esercitare il dominio sotto Dio e nel nome di Dio. Come ha dichiarato il Salmista (8:6) “Lo hai fatto regnare sulle opere delle tue mani e hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi!” Questo dominio fu perso dal primo Adamo col suo peccato; avendo perduto il dominio su se stesso, lo perse anche sulla creazione. Come conseguenza, anziché esercitare il dominio, l’uomo caduto sviluppa le implicazioni della caduta. La morte e la devastazione del peccato nell’anima dell’uomo, queste l’uomo sviluppa nel mondo intorno a se. L’uomo decaduto è un distruttore, egli porta, non dominio ma distruzione sul mondo intorno a se. Il dominio sopra la terra destinato all’uomo è posseduto dall’ultimo Adamo, Gesù Cristo, come rendono chiaro 1 Corinzi 15:22 ed Efesini 1:22, a motivo della Sua perfetta obbedienza ed opera, fatte “rappresentativamente”, come capo federale della nuova umanità e ricreatore del paradiso. Il comando di esercitare il dominio significava estendere l’autorità ministeriale dell’uomo su ogni area o aspetto della vita: nelle scienze, arte, musica, agricoltura e tutte le altre cose. Questo era il mandato culturale dell’uomo, la creazione di una cultura e di una civiltà nei termini della sovranità di Dio, riconosciuta dall’uomo ed esercitata sotto la giurisdizione di Dio.

Secondo, l’uomo fu creato ad immagine di Dio, in conoscenza, giustizia, santità e dominio (Catechismo Minore di Westminster D. 10; Gen 1:27-28; Ef. 4:24; Col. 3:10). L’uomo ha perciò l’obbligo di sviluppare le implicazioni dell’immagine di Dio in se, nel suo significato per la sua vita personale, la sua vita come membro di una famiglia e di una società, e nella sua relazione col mondo della natura. Ha una chiamata alla conoscenza, a conoscere il mondo nei termini di Dio e degli scopi creativi di Dio; ne consegue che in ogni area egli deve estendere i confini della conoscenza sotto Dio. Ha una chiamata alla giustizia, a conoscere la legge di Dio e di

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applicarla in tutte le sfere. L’uomo è chiamato a santità, di separare se stesso e le sue attività a Dio e alla Sua gloria.

Terzo, l’uomo fu creato con la dichiarazione che non era bene per lui vivere solo, e il matrimonio e la famiglia furono stabiliti divinamente in Eden. La funzione primaria del matrimonio e della famiglia non sono perciò i figli, poich’essi sono una benedizione aggiunta piuttosto che lo scopo del matrimonio, ma amicizia, comunità e comunione. Sviluppare la vita in comunità e comunione, con la famiglia quale istituzione basilare, era quindi parte del compito dato all’uomo di stabilire il regno di Dio, il governo perfetto.

Quarto, all’uomo fu richiesto di vivere in obbedienza a Dio e di riconoscere la Sua assoluta sovranità anche quando la ragione del comandamento non fosse chiara all’uomo. Ad Adamo ed Eva fu negato l’albero della conoscenza del bene e del male (Gen. 2:17), e, benché fossero stati messi in guardia dal mangiarne con una dichiarazione delle conseguenze di tale decisione, il pieno significato della violazione e dell’azione erano al di la della loro comprensione. Ciò che rientrava nelle loro capacità di comprendere era che significava o credere Dio, camminare in fede ed in obbedienza, o dubitare Dio e stabilire la propria norma di ciò che costituisca il bene ed il male. La fede fu dunque loro richiesta nel regno di Dio. Ad Adamo ed Eva fu richiesto di camminare per fede piuttosto che per visione, cioè per attuale sperimentazione, con un opera che avesse messo alla prova il comandamento di Dio. L’essenza della fede e dell’ adorazione sono obbedienza e sottomissione, e questo fu chiesto all’uomo di rendere a Dio in paradiso.

Il riferimento basilare del governo come fu stabilito in paradiso fu perciò a Dio, non all’uomo o allo stato. Il governo implicava l’autogoverno dell’uomo, ma fondamentale a quell’autogoverno era l’atto di fede, mantenere (osservare) il patto con Dio.

Ma, anziché camminare per fede, l’uomo si rivoltò contro Dio e si sottomise alla tentazione di essere come Dio e di conoscere da se stesso, vale a dire di determinare da se stesso ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male (Gen.3:5). Il risultato fu la caduta dell’uomo e l’introduzione del peccato e della morte. L’uomo e le sue istituzioni sono perciò dominate dal peccato, e nessun singolo ordine di vita può oggi dire di essere il sito, l’ambiente o ambito del regno di Dio sulla terra. Piuttosto, il mandato culturale dell’uomo è affidato alle varie sfere di vita e riservato ad esse, e il fattore basilare del proposito di Dio per la scena umana è una frammentazione di poteri.

Il regno di Dio deve ora essere raggiunto attraverso Gesù Cristo e la sua realizzazione è riservata a Lui. Il regno viene avvicinato o approssimato dall’uomo quando serve Cristo fedelmente nelle varie sfere di vita: chiesa, stato, scuola, vocazione, famiglia e ogni altra cosa.

Lo stato ha il dovere di servire Dio, di essere cristiano, di essere parte del regno di Dio, oppure sarà da Lui giudicato. Romani 13 dichiara che lo stato è ministro, ministro di giustizia e di ordine sociale. La chiesa è ministro di grazia, la parola e i sacramenti, e la disciplina della casa della fede. Poiché Dio, fin dalla caduta e drammaticamente a Babele ha disperso l’uomo nel suo tentativo di centralizzare

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poteri e autorità, di ordinare la società in modo totale, ogni area di vita è strettamente limitata nella sua portata (o estensione) dalla parola di Dio. Lo stato, quale governo civile è strettamente limitato nel fatto che, primo è sotto Dio e deve amministrare la giustizia in fedeltà alla Sua parola. Secondo, lo stato non può assumere come proprie quelle aree che sono propriamente le sfere della casa, scuola, chiesa, arte, economia o qualsiasi altra cosa. Terzo, lo stato non può limitare la libertà individuale di sviluppare la commissione divina per l’uomo quale portatore dell’immagine di Dio. Quarto, l’autorità dello stato è sempre ministeriale, o delegata da Dio, mai creativa o indipendente. Quando lo stato diventa messianico nelle sue affermazioni e cerca di introdurre il paradiso, lo fa dichiarandosi dio e facendo di se stesso la fonte della legge e dell’autorità. Babilonia cerca di creare il paradiso senza Dio evitando l’intera questione del peccato e della rivolta contro Dio da parte dell’uomo. È il tentativo dell’uomo di essere Dio e di crearsi il proprio nuovo mondo.

Tornando ora a Apocalisse 17, Babilonia non rappresenta lo stesso governo, ma l’ideale e il sogno degli stati umanisti, la concupiscenza umana per un paradiso senza Dio o in disprezzo di Dio. I governi civili di questo mondo, nel loro carattere anticristiano, sono dipinti come la bestia, ed è sulla bestia che la donna, la meretrice di Babilonia, cavalca (v.3), cioè: ella dipende dalla bestia. È il governo civile che porta questo sogno e gli da forza e sostegno. A sua volta, Babilonia, la grande meretrice, tiene i governi con le sue fornicazioni e la sua coppa d’ ubriachezza. Apocalisse identifica la meretrice con l’antica Babilonia, con Roma (la città dei sette colli), con Gerusalemme, con Tiro (echeggiando Ezechiele), e con ogni nazione ed impero nei loro sogni di dominio al di fuori di Dio e di auto-realizzazione senza Dio. Il nome Babilonia, comunque, è specialmente appropriato. Babilonia fu la grande città di Nabukadnetsar, che esaltò se stesso. I profeti videro Babilonia in tutto il suo potere, perversione e apparente onnipotenza, come “la gloria dei regni…che sedeva come una signora data ai piaceri, e che si compiaceva che essa non avrebbe mai conosciuto sofferenza…il martello della terra intera, la coppa d’oro che ubriacava tutte le nazioni…una coppa d’oro in mano al Signore”. Fu a Babilonia che Giuda fu prigioniero per settant’anni, e fu Babilonia che apparentemente distrusse il regno di Dio distruggendo Gerusalemme e riducendo la terra promessa a luogo selvatico a malapena abitato. Babilonia è un simbolo calzante, avendo le sue radici nell’antico sogno di Nimrod, di Caino, e di Babele, rappresentando un paradiso contraffatto e un tentativo do stabilire un unico ordinamento mondiale senza Dio.

Babilonia presenta effettivamente un ideale di unità, pace e fratellanza che imita il regno di Dio, perciò tenta gli uomini ed è appropriatamente chiamata una meretrice. La sua tentazione è la tentazione chiave, poiché dichiara che l’uomo è il proprio dio è che può creare il proprio paradiso, perciò Babilonia è chiamata la grande meretrice, e la madre delle prostitute e delle abominazioni della terra. Essa distrugge il lavoro della chiesa troppo spesso ed è “ebbra del sangue dei santi.”

Lo scopo dei capitoli 17 e 18 è di mostrarci “il giudizio della grande meretrice che siede sopra molte acque”. In 17:15 abbiamo un’interpretazione di queste acque: il mondo dell’uomo. “Le acque che hai visto, dove siede la meretrice, sono popoli, moltitudini, nazioni e lingue”. La bestia e la meretrice traggono il loro potere dal

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popolo o dalla concupiscenza del popolo per un paradiso senza Dio in cui la gioia più grande è essere liberati dalla legge di Dio. Dovunque la gente cerchi di “trovare Dio” scavalcando il fatto del peccato dell’uomo, sta cercando di evadere la giustizia di Dio, la Sua legge e stanno alimentando la bestia e la meretrice.

L’attenzione viene poi spostata sulla bestia. La bestia “era, e non è”. La bestia fu distrutta dalla venuta di Cristo, che le inflisse un colpo mortale. Fu dimostrato che il regno dell’Uomo era futile, e Cristo introdusse il regno di Dio. La crocifissione e la resurrezione inflissero il colpo mortale. Ma la bestia continua ancora. A Giovanni viene detto che “salirà dall’abisso e andrà in perdizione”. In altre parole: la bestia torna al potere per mezzo delle forze dell’inferno, ma verrà distrutta definitivamente.

La bestia ha sette teste, ci sono sette colline su cui è seduta la donna, e Roma, e tutti gli stati e gli imperi sono qui tipizzati. Le sette teste sono la pienezza di tutti gli stati anticristiani. Sono chiamati anche sette re: “cinque sono caduti, uno è sul trono”. Dunque l’era del Vecchio Testamento vide la distruzione di cinque delle sette potenze. Non è necessario identificare questi sette regni. Sette è il numero della pienezza, e i sette tipizzano tutti i governi anticristiani della storia. La sesta è, cioè ora, ai giorni di Giovanni; questa fu Roma in parte, ma incluse anche non solo le province dell’impero, Giudea inclusa, ma anche tutti gli imperi del tempo al di la delle frontiere di Roma. La settima potenza doveva ancora venire: questi dovevano essere tutti gli stati anticristiani dopo il tempo di Roma, e la settima testa è ritratta con dieci corna, di nuovo un simbolo di totalità; ma queste dieci corna non sono ancora diventati re (v.12). La loro epoca era al di la del tempo di Giovanni. La bestia feroce (v.11) è in un senso l’ottavo, eppure è uno dei sette, come una realtà continuata e lo stesso ideale; il regno dell’Uomo ha quasi un’esistenza separata da qualsiasi stato attuale, ma è comunque uno con essi. Ad ogni modo, di tutti loro è detto che “hanno un agire comune e daranno la loro potenza ed autorità alla bestia” (v.13). Ma l’Agnello li vincerà “perché Egli è il Re dei re e il Signor dei signori” (v.14).

La meretrice siede sopra le acque, cioè i popoli, ma il suo luogo di residenza è il deserto (luogo selvatico v.3). Il deserto rappresenta il mondo dopo la Caduta. Adamo fu posto in Paradiso, ma col suo peccato ha trasformato il mondo in un deserto. Cristo, il secondo Adamo, fu tentato nel deserto, ma, con la sua vittoria, cominciò la restaurazione del paradiso e, alla conclusione delle sue tentazioni “era con le fiere” (Mc. 1:13) proprio come Adamo in Paradiso. Questo fu un anticipo del fatto che per la sua vita e morte vittoriose, Gesù Cristo restaurò l’uomo al paradiso. La restaurazione è presente e futura: l’immagine di Dio nell’uomo è restaurata, ma la santificazione dell’uomo non è completa. L’opera di restaurazione è cominciata, ma sarà pienamente completata solo alla fine del mondo. Ma ogni passo di quella restaurazione è glorioso, è l’estensione della restaurazione in questa era non deve essere sottostimata o sminuita. Proprio come il primo Adamo distrusse il paradiso col suo peccato, il secondo Adamo distrugge il paradiso contraffatto con la sua Giustizia.

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Apocalisse 18La Caduta di Babilonia

Il grandioso progetto dell’uomo è di creare un paradiso senza Dio, un mondo perfetto nei termini della totale auto-affermazione. A questo scopo, sono tese le politiche dell’uomo, e a questo fine egli tende ogni sforzo. Le conseguenze di questo grandioso progetto sono descritte in Apocalisse 18.

Questo capitolo echeggia il Vecchio testamento quando proclamava la condanna sulle nazioni. I profeti videro le nazioni in guerra, non semplicemente contro Israele o Giuda, le quali entrambe ricevettero la giusta ricompensa per i propri peccati, ma contro il Signore degli Eserciti. Dio aveva elevato le nazioni quale Suo flagello e strumento, ma essi fecero dell’auto-deificazione e dell’auto-glorificazione il loro fine. Questo, il loro orgoglio, fu la scaturigine della loro corruzione, la loro dichiarazione di indipendenza da Dio e dall’uomo, la loro perversa dissolutezza (immoralità) con la vita umana e col mondo, e la loro cocciuta cecità di fronte al giudizio. Apocalisse 18 echeggia e riassume l’intero giudizio profetico di Dio sul sogno delle nazioni. È il giudizio divino sul resuscitato sogno di Babele, un mondo senza Dio, il paradiso contraffatto di Caino e di Nimrod. Vi risuonano le profezie di Isaia contro Babilonia (Cap. 13, 21, 47), quanto quelle di Geremia (cap. 50-51), e v’è riflesso anche il giudizio di Ezechiele su Tiro (Cap. 26-27).

Il primo passo in questo giudizio è lo smascheramento, annunciato nel verso 1. Secondo il Lord: “L’Angelo del verso 1 simboleggia un corpo di persone che con luce irresistibile sveleranno il carattere apostata di Babilonia”.1 L’angelo o messaggero rappresenta la saggezza data in maniera divina, di mostrare la perversità, la futilità e la condanna di Babilonia. Sotto la luce delle Scritture, Babilonia è mostrata senza valore e corrotta. Prima della sua caduta, viene dato il proclama: “E' caduta, è caduta Babilonia la grande, ed è diventata una dimora di demoni, un covo di ogni spirito immondo, un covo di ogni uccello immondo ed abominevole” (v.2). Proprio come i profeti in anticipo annunciarono la caduta dell’impero di Babilonia, e Dio in fedeltà alla propria parola lo fece accadere esattamente come aveva dichiarato, così al cristiano è richiesto di testimoniare nello stesso spirito. Babilonia, il sogno di un paradiso senza Dio, sicurezza dalla culla alla tomba per mezzo dell’ agire umano, è

1 Citato da John Peter Lange: Commentary on the Holy Scriptures, Revelation; Grand Rapids, Zondervan, ristampa della traduzione originale del 1871, p. 124

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condannata e finita. La chiamata a separarsi è parte dell’annuncio (v.4). Gli uomini devono separarsi da questo sogno di Babilonia, e da qualsiasi cosa ad esso connesso, se non vogliono condividere la sua condanna.

I peccati di babilonia (v. 5) sono descritti come un’enorme montagna, un’altra torre di Babele che raggiunge il cielo nella loro presunzione e audacia. Non sono stati dimenticati da Dio, ma “Dio si è ricordato delle sue iniquità” ed ha atteso, poiché è la pazienza del Signore ad essere la nostra salvezza (2Pt.3:8-15). La pazienza di Dio estende al peccatore un’opportunità di pentimento, e al redento un’opportunità per operare il significato della propria salvezza. Ma, infine, il giudizio arriva: poiché i peccati di Babilonia erano doppi, la sua punizione sarà, con severa giustizia, doppia.

Babilonia aveva confidato nella propria onnipotenza e nella propria capacità di perdurare (v. 7). Ora, il giudizio scende su di lei: Le sue piaghe sono quadruplicate, come se i guai per lei provenissero da ogni angolo: la morte, per la sua derisione della possibilità di rimanere vedova, cordoglio, per la sua sfrenata baldoria, fame, per la sua abbondanza; e fuoco, la punizione per le sue fornicazioni”.1 Essa fu un nemico per l’umanità nel sedurre le nazioni, i re e i mercanti ad una falsa valutazione della propria funzione, della propria natura, del proprio destino. Ora perisce, totalmente, proprio come una grossa macina (del tipo fatto girare da animali da tiro) scompare, quando gettata nel mare. (v.21).

Il risultato della sua caduta fa fare cordoglio ai mercanti e agli importatori, e ai viaggiatori (vss. 11-17), in altre parole, il mondo del commercio e degli affari. Vengono perduti i mercati di:

1. tesori (oro, argento ecc)2. il vestiario di lusso3. articoli lussuosi per la casa4. aromi e profumi5. articoli alimentari6. mezzi di trasporto7. il traffico o mercato di persone umane.

Il significato di ciò è molto chiaro. Il crollo del sogno di Babilonia, di un paradiso umano senza Dio, viene precipitato da una grande delusione o collasso nel campo dell’economia. La situazione può essere descritta come un caos economico: proprio gli stessi mezzi che dovrebbero condurre al paradiso umano precipitano il crollo della speranza. Tutti i normali canali di scambio crollano e si frantumano bloccando tutto.

Abbiamo visto precedentemente che le nazioni e le potenze che distruggono Babilonia sono proprio quelle stesse che piangono su di lei, essendo suoi seguaci. Questo è un aspetto significativo della natura del peccato. Quando Oscar Wilde scrisse che “Ogni uomo uccide le cose che ama”, descrisse vigorosamente, non il cristiano, ma il peccatore che avanza incessantemente lungo il corso della propria perversità. Come ha commentato Lensky sulla caduta di Babilonia: “non c’è razionalità nell’irrazionalità dell’anti-cristianesimo, meno di tutto quando sono le sue 1 Boyd Carpenter in Ellicott, op. cit. ,VIII, p 615.

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stesse seduzioni a causarne la fine prima del completamento. L’amante di una prostituta la strangola e poi piange come uno sciocco”.1 Oggi vediamo lo stato distruggere le fondamenta dello stato, il commercio distruggere le fondamenta del commercio, il lavoro distruggere la natura e la struttura del lavoro, e l’agricoltura distruggere la terra stessa che la nutre. Nella loro avidità creano condizioni destinate il loro collasso. Questo porta all’eliminazione proprio di quella cosa che desiderano, alla morte di quella Babilonia che cercano di creare, allo scalzare le fondamenta di quella torre di Babele che cercano di costruire. “I frutti che la tua anima tanto desiderava si sono allontanati da te, e tutte le cose ricche e splendide si sono allontanate da te e tu non le troverai mai più” (v. 14).

Davanti a tutto questo, ai santi di Dio viene presentato un chiaro dovere: gioire. Deve essere loro presentato, perché sarà loro tentazione condividere nel lamento della loro generazione e piangere la giusta ricompensa del peccato. Ma il chiaro comandamento è (v.20): “Rallegrati su di essa, o cielo, e voi santi apostoli e profeti perché Dio, giudicandola, vi ha fatto giustizia”. Qualsiasi altra cosa possa essere detta riguardo al crollo della speranza umana, questo deve essere ricordato (v.24): le implicazioni del sogno hanno significato morte, in ogni epoca, per il popolo del Signore. Questo paradiso senza Dio non è responsabile solo della morte dei profeti e dei santi ma di “tutti coloro che sono stati uccisi sulla terra”, vale a dire che la guerra, la tirannia e l’orrore di tutte le epoche sono state dovute alla ribellione dell’uomo contro Dio, al suo desiderio di essere il proprio dio, e del suo tentativo di ridare forma al cielo e alla terra secondo la foggia della sua natura di peccatore. Come disse Giacomo, le guerre nascono dalla natura dell’uomo, come tutti i conflitti umani (Gc. 4:1 ss.). E la natura dell’uomo il peccatore è di essere il proprio dio e di creare il proprio paradiso in sfida a ( o disprezzo di) Dio. Da questa forte passione fluisce il sangue dei santi e “di tutti coloro che sono stati uccisi sulla terra”.

Rist ha richiamato l’attenzione sul fatto che il verso 21 è “ovviamente modellato secondo la forma simbolica dell’atto riportato nell’oracolo contro Babilonia” preso da Geremia 50-51. Geremia, dopo aver profetizzato contro Babilonia, mandò Seraia, che stava per andare a Babilonia, con un rotolo della profezia, da leggersi al suo arrivo e poi, zavorrato con una pietra, da gettarsi nel fiume Eufrate. “Mentre sta affondando nel fiume egli dovrà profetizzare che Babilonia stessa affonderà in modo simile come risultato del giudizio di Dio e non si rialzerà mai più (Ger. 51.59-64)”.2

Proprio come Babilonia fu dichiarata terminata nella storia, destinata a svanite totalmente, così Babilonia la Grande è destinata a svanire e divenire niente di più che un orribile ricordo.

Il giudizio su Babilonia descritto in questo capitolo riflette diversi eventi storici passati e futuri:

1. La Torre di Babele, e la sua caduta, sono chiaramente echeggiati.

1 R.C.Lensky, Interpetation of St. John’s Revelation, p.5222 Martin Rist, Interpreters Bible, Vol. 12, p. 503 s.

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2. La Babilonia del Vecchio Testamento, la sua ascesa e la sua caduta vengono ovviamente in mente.

3. L’Impero Romano ed altri imperi e stati del tempo di S. Giovanni sono richiamati.

4. Futuri tentativi dell’uomo di costruire un ordinamento anti-cristiano vengono condannati in anticipo.

5. Il grandioso tentativo finale di costruire tale ordinamento culmina in un finale disastro di dimensioni mondiali.

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Apocalisse 18:4La Chiamata a Separarsi

Poiché la questione della separazione è o negletta o marcata eccessivamente è importante fermarsi un attimo su questo argomento. È quindi opportuna una breve analisi sommaria dei passi chiave del Nuovo Testamento.

Primo, Apocalisse 18:4 richiede una separazione da Babilonia, dal sogno di un ordine mondiale senza da Dio. Questa è chiaramente un richiamo alla separazione politica: richiede che il credente divorzi dal liberalismo e dal socialismo, e, in ultima analisi richiede un ordinamento politico Cristiano. Questo ammonta a un partito Cristiano come mezzo verso uno stato Cristiano. Poiché il sogno delle politiche non Cristiane è di creare un ordine politico dapprima funzionante ed infine perfetto senza Dio, e poiché il Cristiano deve sostenere che tale ordine è futile e destinato al giudizio, la separazione e l’azione Cristiana sono necessarie.

Secondo, in 2 Giovanni 10-11, è richiesta la separazione ecclesiale. Una vera chiesa non può ricevere falsi insegnanti o falsi ministri senza divenire partecipe delle loro “opere malvagie”. Visto che i culti o servizi di chiesa, nell’era del Nuovo Testamento e anche dopo erano tenuti in case, la proibizione di ricevere capi religiosi apostati significava non accoglierli o come oratori, o capi, o come ospiti, visto che l’ospitalità era allora provveduta dai credenti. Questo non proibiva ai veri ministri di Cristo di parlare nelle sinagoghe, come evidenzia chiaramente il libro degli Atti, proibiva di ricevere falsi insegnamenti.

La separazione ecclesiastica ha quale sua implicazione necessaria il taglio dell’associazione religiosa con eretici. San Paolo dichiarò: “guardatevi da quelli che fomentano le divisioni e gli scandali contro la dottrina che avete appreso, e ritiratevi da loro” (Rom 16:17). Paolo scrisse pure a Tito “evita l'uomo settario, dopo una prima e una seconda ammonizione” (Tito 3:10). Ancor più bruscamente, Paolo dichiarò “sia maledetto” che predica un altro evangelo (Gal. 1:8-9). Gesù Cristo stesso parlò ancor più decisamente riguardo ai falsi capi religiosi chiamando i Farisei “figli della Genna” (Mt. 23:15), “ipocriti” (Mt. 23:13, 15, 23, 25, 27,29), “stolti e ciechi…pieni di rapina e d’intemperanza…serpenti…razza di vipere…guide cieche…figli di quelli che uccisero i profeti” (Mt. 23: 19, 24-25, 31, 33), e molto di più. L’atteggiamento di Gesù non fu quello dell’ “evangelismo cooperante” o dell’amore indiscriminato.1

1 Vedi Gary G. Cohen, Biblical Separation Defended, Philadelphia, Presbyterian and Reformed Publishing Co. 1966.

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L’intero significato della chiesa è reso nullo se la chiesa diviene essa stessa un’area di compromesso e di coesistenza con l’incredulità, l’eresia e l’ipocrisia. La chiesa è chiamata ad essere una congregazione santa, cioè separata, un popolo tenuto separato nei termini della fede. Senza separazione la chiesa non è una chiesa.

Terzo, il Vecchio Testamento proibiva i matrimoni misti. La chiesa ora affrontava una situazione diversa da quella affrontata dal popolo del patto. In Israele, un credente non poteva sposare un non credente. Ma ora, le congregazioni includevano uomini e donne che erano stati convertiti dopo il matrimonio e i loro compagni erano rimasti non convertiti. La questione sollevata allora fu semplicemente questa: questi matrimoni dovevano essere dichiarati nulli e non validi, o il credente coinvolto doveva essere soggetto a scomunica, come furono i giudei che si erano ingaggiati in matrimoni misti ai tempi di Neemia? (Ne. 13:23ss.). La risposta di San Paolo fu che, essendo il caso diverso, tali matrimoni dovevano essere mantenuti. Ma se il compagno non credente se ne fosse andato o avesse rotto il matrimonio, allora il credente sarebbe stato libero. A quel punto il matrimonio sarebbe stato nullo (1 Cor. 7:10ss).

Quarto, la grande dichiarazione generale riguardante la separazione è 2 Corinzi 6:14-18: “non vi mettete sotto un giogo diverso ( o diseguale)…” La parola Greca tradotta “mettersi sotto un giogo diverso” è eterozugeo, essere sotto il giogo con qualcuno di tipo diverso, mettersi sotto un giogo ineguale o diverso, avere comunione con qualcuno che non è uguale.

Diverse cose sono evidenti in questo passo, che è di riferimento generale, cosicché si applica primo al matrimonio, agli affari, all’educazione, all’adorazione e a tutte le cose. Un giogo diseguale in qualsiasi area è perciò contrario alla volontà generale di Dio per lo scopo del suo popolo. Per il credente, stare sotto il giogo con un non credente in qualsiasi ufficio o posizione è un giogo diseguale. La questione è questa: è la relazione un giogo? Secondo, è un giogo, una sottomissione volontaria o unione che coinvolge una contraddizione di fede. Terzo, l’unione sotto un giogo diseguale previene la separazione o santità ed è perciò proibita. Quarto, l’unione sotto un giogo diseguale implica l’eguaglianza della credenza e della miscredenza, assume che non ci sia differenza tra il credente ed il non-credente, e questo non ci è permesso fare. Quinto, il giogo è paragonabile al matrimonio. È una unione stretta e vincolante.

Un quinto passo è importante anche in relazione alla separazione: 1 Corinzi 5.9-10, che proibì l’associazione congeniale (affine) o religiosa con peccatori, ma rende inoltre chiaro che le relazioni d’affari generiche e corrette non sono incluse “perché altrimenti dovreste uscire dal mondo”. In tali relazioni non è implicato il giogo o la sottomissione.

Oltre le semplici parole delle Scritture c’è la libertà Cristiana, cosicché sono possibile pratiche diverse. Ma nessuno può fare del proprio concetto di separazione una legge di Dio. La chiamata a separarsi è reale e specifica. Gonfiare il suo significato è chiaramente sbagliato quanto negarlo.

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Apocalisse 19I Due Banchetti

In Apocalisse 19, viene richiamata la situazione di due capitoli precedenti per poterci rivelare ora la pienezza del loro significato. Verso 11 mette pienamente a fuoco Apocalisse 4:1 e 6:2. Vediamo nuovamente “il cielo aperto”, cioè, la creazione e tutti i suoi eventi e realtà visti dalla prospettiva del Dio trino e delle Sue finalità. Di nuovo vediamo il Signore che cavalca “un cavallo bianco…giudica e guerreggia con giustizia” . Ẻ il Familiare Redentore, che avanza per redimere i suoi e spossessare il nemico che trattiene l’eredità perduta dell’uomo. Per spossessare il nemico, il Signore manda il Suo settuplo giudizio, che include persecuzione religiosa, difficoltà economica e morte. Questi giudizi sia separano il credente da un’inclinazione troppo pronta a fare causa comune con il mondo, sia allo stesso tempo distruggono il falso sogno di Babilonia. Quando gli uomini incontrano il fatto ricorrente della difficoltà economica, della corruzione nelle alte sfere, e della delusione e delle morte nella storia, stanno incontrando il giudizio del Signore su Babilonia: è la Sua guerra contro il falso paradiso e le sue presunzioni. L’uomo decaduto è scacciato dal Giardino dell’Eden, e la spada fiammeggiante impedisce l’accesso all’albero della vita per prevenire che l’uomo nel suo peccato trovi pace e sicurezza separatamente da Dio.

Questa battaglia è dipinta nel principio e attraverso tutto il libro, ed è dipinta di nuovo per noi ora. La tribolazione dei santi è un fatto vecchio di secoli e ricorrente; la battaglia di Armagheddon pure è una lotta attraverso i secoli designata a distruggere il sogno di Babilonia, che culmina, alla fine nella distruzione totale di quel sogno. Cristo viene ora rivelato più chiaramente come RE DEI RE, SIGNOR DEI SIGNORI. Quale sovrano assoluto di tutta la creazione Egli è qui rivelato in tutta la Sua autorità universale e in tutto il Suo potere irresistibile. Ma, più che la battaglia, Armagheddon segnala la vittoria del Signore, la sconfitta del sogno di Babilonia.

In 19:1-10. i santi cantano il grande coro dell’Alleluia, gioendo nella vittoria del Signore. Questa è la gioia loro richiesta in 18:20. Echeggia l’Allel Ebraico, Salmi 113-118, che cominciava con “Lodate il Signore” o “Alleluia” e proclamava la salvezza di Dio per il Suo popolo. Una beatitudine (v.9) è proclamata per coloro che sono invitati alla cena delle nozze dell’Agnello.

Poi Dio si rivela come Colui che proclama due banchetti, uno, per il Suo stesso popolo, il banchetto di nozze dell’Agnello, e l’altro, il banchetto dell’ira per gli operatori d’iniquità. L’obbiettivo della storia è comunione e comunità. L’uomo apostata, il trasgressore dell’alleanza sogna una comunione nei suoi termini, tutti gli uomini il proprio dio, che determinano per se stessi il bene ed il male e che creano un mondo felice e perfetto nei termini della loro autonomia da Dio. Lo scopo, dichiarato

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a Babele è di costruire una “città”, cioè una comunità, di stabilire una comunione nei termini di una causa e di una fede comuni. Ora è rivelato il risultato di quel sogno: è disintegrato sotto l’ira di Dio. Diventa il tavolo degli avvoltoi.

L’obbiettivo dell’uomo che osserva l’Alleanza è comunione sotto Dio e comunione nel familiare Redentore, il rappresentante federale e mantenitore dell’Alleanza per la nuova umanità, l’ultimo Adamo, Gesù Cristo. Lo scopo originale era ed è di nuovo la città, la comunità, e il Giardino d’Eden fu inteso essere ed era in origine una città, una comunità, nel fatto che la comunione fondamentale, con Dio, era il fondamento della comunione dell’uomo con la sua compagna, il suo “aiuto convenevole” e con la natura.

Ora, in Apocalisse, la Chiesa, o sposa di Cristo, è vestita della giustizia di Cristo, e il banchetto è il simbolo dell’amicizia restaurata tra Dio e l’uomo. Mangiare sale con un uomo, vale a dire sedersi al tavolo con lui, è un antichissimo simbolo di fratellanza e di comunione. Dio camminò con l’uomo in paradiso, ed ebbe comunione con lui. Questa comunione fu spezzata dal peccato dell’uomo ed è ora restaurata dalla grazia di Dio. Tutti i credenti entrano in questa comunione alla rigenerazione, ne partecipano in misura crescente nel partecipare nella vera comunione Cristiana all’interno della famiglia della Chiesa, crescono in essa nello stabilire una società Cristiana, ed entrano nella sua pienezza alla resurrezione generale.

Il banchetto dei figli di Babilonia è la festa degli avvoltoi sul campo di battaglia. Tipizza la rovina totale della società e della comunione umana, la sua devastazione in guerra e morte. Le conseguenze della ribellione dell’uomo contro Dio e del suo tentativo di creare il proprio paradiso finisce in guerra e morte, e la festa degli avvoltoi. La scena è dipinta con parole che echeggiano Ezechiele 39:4, 17-20. Questo banchetto degli avvoltoi è storia vecchia nella storia, ed è nuova ogni giorno. Le guerre dell’uomo per rendere il mondo sicuro nella democrazia finiscono col creare un funerale per la pace e la libertà. I tentativi dell’uomo di creare un ordine sociale giusto e pacifico risultano nei mali sociali più flagranti, in guerre sociali, e provvede più carname per le feste degli avvoltoi. Il risultato è che infine il sogno di Babilonia è distrutto dallo stesso tentativo di realizzarlo.

Non solo è distrutto il sogno di Babilonia, la meretrice di Babilonia eliminata, ma anche la bestia ed il falso profeta sono sconfitti (cioè le due bestie, i governi civili nel loro tentativo di compiere il sogno di Babilonia, e le false religioni, sia quelle che pretendono di essere cristiane che quelle pagane, le quali cercano di dare sostegno alla bestia e a Babilonia). Le pretese e presunzioni messianiche degli stati sono distrutte, e le fedi che sostengono queste presunzioni sono distrutte con essi.

Questa distruzione è dipinta con termini che richiamano il rovesciamento di Sodoma e Gomorra. Proprio come Dio cancellò dalla faccia della terra le città della pianura, con tutta la loro vantata cultura e disprezzo della legge di Dio, così Dio distruggerà la bestia ed il falso profeta. I vanti dell’uomo, la forza, l’orgoglio, la bellezza, tutti i suoi sistemi di potere e d’autorità, sono spazzati via da Dio e consumati col fuoco. Il vecchio Adamo nell’uomo viene svergognato in tutte le sue presunzioni e speranze, ed ognuno dei suoi tentativi di dare forma alla sua natura per mezzo del governo civile o della religione viene definitivamente eliminato ed infine

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completamente distrutto. Che questo implichi tremende convulsioni della storia è chiaramente indicato. La benedizione (Riv. 22.18ss.) che il libro di Apocalisse pronuncia è per coloro che accettano questa totalità dello scopo e della parola di Dio, senza aggiungere o togliere nulla.

In questa visione vengono utilizzati tre simboli per la comunione. Primo, c’è il simbolo della città. Per l’uomo moderno la città rappresenta poco la comunione, ma il concetto antico della città è di una comunione, una comunione stabilita su di una fede comune. Nella città antica, la cittadinanza si fondava sulla religione, sulla comunione in fede. Dalla prospettiva Biblica, si può dire che la prima città fu nel giardino d’Eden. Adamo ed Eva furono creati per vivere in comunità, l’essenza della quale era comunione con Dio e comunità sotto Dio. Caino e Nimrod, come pure i costruttori della Torre di Babele, si sforzarono per stabilire un altro concetto della città: comunione nell’uomo, senza Dio. Il concetto umanistico della città, la Città dell’Uomo, ha prodotto costantemente un aumento d’anarchia e di atomizzazione. La sua conquista più importante è stata l’ostilità verso la Città di Dio, e la distruzione del popolo di Dio. Ma il destino della Città dell’Uomo è la festa degli avvoltoi.

Il secondo simbolo è il matrimonio. La cena delle nozze di Cristo e la Chiesa tipizza pienezza di comunione e comunità. Il fondamento di questa comunità è il sacrificio propiziatorio e la perfetta obbedienza alla legge di Cristo quale capo federale dell’uomo. Il matrimonio rappresenta, come un simbolo, la consumazione (scopo finale) dell’amore e l’inizio della vita in comunità.

Il terzo simbolo è la “cena”, mangiare o banchettare. Combinare un matrimonio con una cena eleva il senso di gioia in comunità. Mangiare insieme è un simbolo antico, com’è stato notato, di fratellanza e di comunione, e, nel contesto della vera Città, la Gerusalemme dal cielo, nell’occasione del grande matrimonio rappresenta comunione, pace, e comunità al loro massimo grado.

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Apocalisse 20Resurrezione

Quando nostro Signore cominciò il Suo ministerio, Israele stava aspettando che iniziasse il millennio. Secondo le aspettative Giudaiche, una grande era messianica sarebbe stata introdotta con l’anno 5000 e sarebbe durata 1000 anni. Questa sarebbe stata un’era di supremazia Giudaica e di potenza soprannaturale e di abbondanza. Secondo l’Apocalisse di Baruc:

La terra produrrà frutto, uno produrrà 10.000, nella vite ci saranno mille tralci, in ogni tralcio mille grappoli, in ogni grappolo mille acini, e ogni acino darà un core (150 litri) di vino.

Secondo il libro di Enoch:

in quei giorni la terra sarà arata in giustizia… e saranno piantate vigne. Le vigne cha saranno piantate da quel momento in poi daranno vino in abbondanza, e di tutto il seme che sarà piantato da quel tempo in poi ogni misura darà 10.000.1

I mille anni derivavano da uno schema per il quale ogni giorno della creazione era come 1000 anni agli occhi del Signore. Secondo gli studiosi Giudaici di quel tempo, erano passati 5000 anni e il millennio stava per cominciare. Poiché i primi 1000 anni erano cominciati con l’anno 1, e continuavano fino all’anno 999, il secondo 1000 era stato da 1000 a 1999 e così via, cos’ l’anno 5000 segnava l’inizio del sesto millennio, paragonabile al sesto giorno della creazione. Il millennio, in questa cornice di pensiero era l’era dell’uomo, e il concetto era umanistico fino al midollo.

A motivo di questa attesa, c’erano molti falsi messia pronti ad approfittare della febbrile aspettativa. Di qui pure la forte eccitazione quando Giovanni Battista iniziò il suo ministerio, ed il tremendo entusiasmo popolare per Gesù. Nostro Signore non fece alcun pubblico ed esplicito riferimento alla propria regalità messianica proprio per evitare conclusioni sbagliate da parte della popolazione. Egli spese molto tempo a ridefinire il significato del regno di Dio, non nei termini della speranza millenarista dei Giudei, ma nei termini del Suo Vangelo e del suo adempimento delle profezie del Vecchio Testamento. Rifiutò la corona offertagli dopo la prima miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci. In tutti i modi, Egli rigettò la speranza messianica millenarista in favore della fede Biblica, di cui Egli era il compimento.

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Ogni pensiero millenarista di oggi è una rivisitazione, un revival delle speranze Giudaiche, che non è mai stato accettato dalla chiesa o approvato da alcuna delle grandi confessioni e credi della chiesa. Nella chiesa primitiva, qualche pensiero millenarista era presente come risultato delle influenze Giudaizzanti. Con la Riforma, tutti quei chierici Protestanti che andarono dai rabbini per imparare l’Ebraico, furono ammaestrati nel millennio nel corso dei loro studi, e per un certo periodo questo filone di pensiero fiorì. La sua rivitalizzazione moderna è dovuta a Darby e a Scofield. Le loro annotazioni Bibliche si spingono fino ad affermare che l’opera principale di Gesù fu di stabilire il regno Giudaico, e, avendo fallito, l’espiazione sulla croce divenne il miglior piano di salvezza secondario (o alternativo).1 Alla fine, secondo Scofield, il piano Giudaico sarà restaurato al suo primo posto, col tempio ed il sacrificio ristabiliti. Questo sistema è una negazione pratica della fede Cristiana, una rivitalizzazione del fariseismo che crocifisse Gesù, e un’offesa al Salvatore che venne, non per stabilire un regno Giudaico, ma quale Agnello ucciso fin dalla fondazione del mondo, venuto a dare la sua vita in riscatto per molti. I Giudei continuarono, perfino dopo la caduta di Gerusalemme, a sperare nel loro millennio. Giuseppe Flavio ci da una storia della nazione Giudaica per 5000 anni, con ciò echeggiando questa speranza.

Solo in un senso, i Giudei avevano ragione. Il tempo era alle porte “Ora, dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesú venne in Galilea predicando l'evangelo del regno di Dio e dicendo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino. Ravvedetevi e credete all'evangelo»” (Mc. 1:14-15). Quel regno fu stabilito e venne attraverso la morte e la resurrezione del nostro Signore, con la quale il potere di satana fu spezzato, e il regno di Dio fu introdotto con potenza sul peccato e sulla morte, e la sua chiesa fu fondata cosicché le porte dell’inferno non possono prevalere su di essa. Gesù disse chiaramente “In verità, in verità vi dico, vi sono alcuni qui presenti che non gusteranno la morte, senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (Mc. 9:1. Mt. 16:28, Lc. 9:27). Poiché i discepoli persistettero nel credere alla speranza Giudaica, non poterono associare questa venuta del regno con la crocifissione, e furono sconcertati sia dalle sue parole che dal corso degli eventi. Ma, o Gesù era disperatamente in errore, poiché tutti i suoi discepoli sono morti e la speranza Giudaica non si è ancora realizzata, o il regno non è ciò che gli uomini dicono sia, ma piuttosto esattamente ciò che nostro Signore proclamò: il Suo regno, stabilito con la Sua vittoria sul peccato e sulla morte e con quella vittoria estesa per grazia a tutti quelli che per fede vengono a Lui. Qualsiasi altra speranza del regno è il sogno di Babilonia. Furono il peccato e la morte ad invadere il regno all’inizio, e furono il peccato e la morte che Cristo distrusse con la sua opera per poter ristabilire il suo regno nella sua potenza e nella sua giustizia.

Il libro di Apocalisse presenta l’era del regno, non come una chimera millenaria, ma come un periodo di lotta, nel quale la chiesa di Cristo marcia contro il nemico vittoriosamente, col suo Redentore che spossessa le potenze delle tenebre per poter recuperare e re-impossessarsi dell’eredità perduta: la creazione nel suo stato

1 Per una critica dell’interpretazione di Scofield, vedi O.T. Allis: Prophecy and the Church, Philadelphia, Presbyterian and Reformed Publishing Co.

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originale. I due aspetti di questa restaurazione devono essere distinti. Primo, la ri-possessione, che Cristo vittoriosamente stabilisce nell’era del vangelo o del regno per mezzo della sua chiesa; questo è il vero millennio, il vero regno di Cristo e dei suoi santi, quando essi conducono uomini e nazioni sotto il dominio di Cristo. Secondo, la ri-creazione, con la quale il cielo e terra riappropriati, col falso profeta, la bestia, e il dragone (o Satana) distrutti e gettati nell’inferno, vengono fatti nuovi, per poter diventare l’eterno cielo e terra che è la dimora del Signore e del Suo popolo per tutta l’eternità. Il potere del peccato fu spezzato sulla croce, e la morte fu vinta con la resurrezione. Questa vittoria si manifesta attraverso tutta l’era del vangelo, e la sua pienezza sarà manifestata nel regno eterno di Dio, la nuova creazione. La nuova creazione è sia l’atto finale, sia il procedimento prima di quell’atto. La nuova creazione inizia con la prima resurrezione, cioè con la salvezza di ciascun peccatore, e continua con la sua santificazione. La nuova creazione implica il rendere ogni pensiero, reame di vita, nazione, arte, prigionieri di Cristo, e significa la restituzione della sovranità a Colui che ne ha diritto, il Signore Gesù Cristo. Culminerà nel grande atto, la creazione di nuovi cielo e terra.

Così, Apocalisse 20 è in un senso un riepilogo dell’intero libro. Nei versi 1-6 è proclamato che Satana è stato legato. I riferimenti Scritturali dicono che ciò è avvenuto nell’espiazione e resurrezione: Gen. 3:15; Isaia 53:12; Luca 10:18; Giovanni 12:31; Giovanni 16:11, Colossesi 2:15, Ebrei 2:14, vedi anche Luca 11:20-22, I° Giovanni 3:8. Lo scopo della venuta di nostro Signore fu per distruggere le opere del diavolo e per recuperare l’eredità perduta dell’uomo, salvarlo dal potere del peccato e della morte, e di ricrearlo ad immagine di Dio. In Luca 11:20-22, Gesù, rispondendo all’accusa di essere in lega con Satana, rispose che, invece: “il regno di Dio è giunto fino a voi” (11:20), perché l’ “uomo forte” Satana, che aveva governato da Adamo in poi, era ora gettato fuori da “uno più forte” che non solo lo ha vinto, ma anche “gli toglie l’armatura nella quale confidava e ne divide le sue spoglie”. Egli dichiarò inoltre. “Ora è il giudizio di questo mondo ora sarà cacciato fuori il principe di questo mondo” (Gv. 12:31). Paolo disse che Cristo: “Avendo spogliato i principati e le potestà ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di esse” (Col 2:15). L’aver cacciato Satana ed averlo legato è stata l’opera della prima venuta di nostro Signore, e Satana è ora legato, nel fatto che “non può più sedurre le nazioni”. Il vangelo opera con potenza in tutto il mondo, finché il suo mandato è adempiuto: “dopo i quali dovrà essere sciolto per poco tempo”. In questa era del vangelo, il tempo della prima resurrezione,1 le anime dei fedeli stanno regnando con Cristo. La prima resurrezione significa la nostra salvezza con tutti ciò che implica. Significa la nostra resurrezione dalla vecchia umanità di Adamo, l’umanità perduta e morta degli uomini in rivolta contro Dio e sotto la condanna di morte eterna. Questa resurrezione è descritta in tutte le Scritture come una vera rinascita, come un alzarsi dai morti (Gv. 3:1ss; Rom. 6:1ss; Ef. 2:1ss). È la nostra salvezza qui e ora, e anche oltre la tomba e per tutta l’eternità. La Nuova Gerusalemme, la nuova creazione, è la nostra casa dal tempo della nostra rigenerazione, e quella nuova creazione ebbe inizio con la resurrezione di Cristo. Cristo è la primizia (il primo frutto) di quelli che dormono e il 1 Vedi J. Marcellus Kik, Revelation Twenty,; Philadelphia: Presbyterian and Reformed Publishing Co., 1955, p.3ss.

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grande Redentore del cielo e della terra. “Egli deve regnare finché abbia posto tutti i suoi nemici sotto ai suoi piedi” (1 Cor. 15:25) Quel regno è caratterizzato dal rimpossesso di Cristo della creazione affinché possa essere totalmente ricreata. Ebrei 12:22-23 dice chiaramente ai credenti che qui e ora “voi vi siete accostati alla città di Sion e alla città del Dio vivente che è la Gerusalemme celeste”. Noi non abbiamo ancora visto la pienezza di questa nuova comunità dell’umanità rinnovata ma quando entriamo in Cristo, siamo sulla soglia di quella città e di essa cittadini. In breve, il regno è venuto e deve venire.

Nei versi 7-10 vediamo il rilascio di satana, affinché possa essere distrutto in tutto ciò che presume essere. Ciò significa che l’era del vangelo vede il falso profeta e la bestia distrutti nel loro sogno babilonico nell’esplicita rivolta di Satana contro il regno di Cristo. La zizzania ed il frumento diventano ciascuno manifesti, poiché il tempo della messe si sta avvicinando. C’è un’autoconsapevolezza epistemologica nel male mentre fa l’ultima sortita contro il Signore attaccando la Sua Chiesa. Questo attacco è mondiale. Alcuni vedono una sconfitta dei santi ed una vittoria per satana nei tempi della fine, ma tale interpretazione è possibile solo importando altri passi Biblici dentro a questo testo (tutti con riferimento dubbio, visto che possono essere fatti riferire più intelligentemente alla guerra Giudaica o “la grande Tribolazione”). Ci viene detto solo di un tentativo, e il tentativo viene ora descritto come tentativo di Satana. Non vengono più usati altri nomi per lui: egli è identificato troppo chiaramente. Gog e Magog, cioè principe e popolo, si uniscono in odio per Dio aperto e dichiarato. Non è più mascherato da cristianesimo, non offre più il paradiso in terra, non offre più nessun pretesto. Nel suo assalto finale è apertamente satanico ed è semplicemente un nudo odio per Dio. Fallisce, e Dio distrugge per sempre il potere di Satana.

Nei versi 11-16, vediamo proclamato il giudizio. Il verso 11 echeggia Salmo 114, che mostra la creazione fuggire davanti all’ira e al giudizio di Dio quando Egli liberò Israele dall’Egitto. Qui vediamo la stessa immagine:

Questa è ovviamente un’immagine del giudizio di Dio sulla Sua prima creazione e a tutto ciò che le appartiene. Il tutto sta condannato ai suoi occhi e agli occhi della chiesa di Cristo che ora vede tutta la creazione e la storia come Egli la vede. Giudizio sulla creazione sulla storia deve esserci prima affinché possa esserci posto per una nuova creazione e una nuova storia, quelli della dimora eterna di Dio.1

L’eco di Salmo 114 è significativo: il Salmo 114 è il primo canto nell’Allel usato nella festa dei tabernacoli, una festività santa che tipizza la raccolta di tutti i popoli nel regno di Dio. L’intero procedere del giudizio nella storia e attraverso la storia, e il giudizio finale, ha questo scopo, e di fronte a tutte le sue difficoltà a volte per i santi, il loro grido deve essere. “Lode all’Eterno!”.

1 John Wick Bowman, Drama of the Book of Revelation, 143

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Il giudizio culmina con la distruzione del primo nemico dell’uomo, la morte (1 Cor. 15:26, 55), e nella seconda resurrezione, cioè la resurrezione dei corpi e la nostra ricompensa eterna. Siamo salvati per fede e siamo ricompensati secondo le nostre opere, e questa ricompensa la riceviamo sia qui e ora nel nostro cammino Cristiano, sia nella sua pienezza alla resurrezione.

In questo capitolo compare un punto molto importante. In Ezechiele 39, Gog è completamente distrutto prima dell’era del regno. In Apocalisse, Gog è distrutto dopo i 1000 anni. O il regno di Ezechiele non è lo stesso dei 1000 anni, o nessuno dei due racconti ci da una cronologia, ma piuttosto dottrina. E questo solleva una questione molto pertinente: per troppe persone, lo scopo di una qualsiasi lettura di Apocalisse è per permettere loro di camminare per visione. Essi richiedono una tabella di marcia che dica loro cosa aspettarsi e come camminare a piena vista. Ma la vocazione del cristiano è di camminare per fede, e lo scopo di Apocalisse è di rafforzarci contro il nemico, prepararci alla battaglia, e di camminare in fede che il nostro Signore trionferà, e che la grande opera che ha cominciato, Egli la compirà. Come libro per la visione, Apocalisse diventa una frustrazione, come libro per la fede, diviene una gioia ed un conforto.

Apocalisse 21:1-8

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La Nuova Creazione

Secondo Ebrei 12:22-29: “Noi SIAMO accostati … alla…Gerusalemme Celeste”. La Nuova Gerusalemme è una realtà presente quanto una realizzazione futura. M.S. Terry sintetizzò questa questione appropriatamente, scrivendo nel 1890:

La Nuova Gerusalemme, quindi, è la raffigurazione apocalittica della Chiesa del Nuovo Testamento e del Regno di Dio. Il suo simbolismo esibisce la natura celeste della comunione e amicizia di Dio ed il Suo popolo, nella quale si entra qui per fede, ma che ci apre ad un indicibile pienezza di gloria per i secoli dei secoli.1

La creazione di nuovi cieli e nuova terra cominciò con la resurrezione, con Cristo il primo frutto della nuova umanità e della nuova creazione. La nuova creazione implica la “scuotimento” e la ri-creazione del vecchio mondo. Il Primo “scuotimento” avvenne al Sinai, quando la santità di Dio nella Sua legge fu morte per il peccato e la ribellione del mondo. Il secondo e ultimo “scuotimento” cominciò con la resurrezione: “ancora una volta Io scuoterò non solo la terra ma anche il cielo” (Eb. 12:26). Il commentatore Puritano, John Owen, scrivendo su Ebrei 12: 25-27, disse:

Sono qui intesi i cieli del culto Mosaico, e la chiesa-stato Giudaica, con la terra del loro stato politico che le apparteneva.2*

Di nuovo, Roderick Campbell ha indicato chiaramente:

Il fare nuove tutte le cose si riferisce alla rigenerazione spirituale e morale, alla redenzione nel tempo, alla “resurrezione di tutte le cose” al “tempo della riforma”, alla formazione di una “nuova creazione” alla fattura e completamento di “nuovi cieli e nuova terra”, in altre parole alla restituzione resa necessaria dall’ingresso del peccato e dalla caduta dell’uomo (Cf. 2 Cor. 5:17; Col. 1:20).

Nota attentamente la frase “tutte le cose” che viene ripetuta non meno di sei volte in Colossesi 1.15-20. Nota particolarmente i versi 19-20 “perchè è

1 Milton S. Terry, Biblical Hermeneutics, New York: Eaton & Mains, 1980, p. 382.2 John Owen. An Exposition of Hebrews, Vol IV (Evansville, Indiana: Sovereign Grace Publishers, 1960), p. 366.* N.d. T. Il senso dell’intero capitolo di Owen è che Cristo ha inaugurato un nuovo regno religioso e politico dopo aver scosso quello giudaico che era fatto di cose scuotibili, es. arca, cherubini, tempio ecc, sostituendoli con le cose reali che non possono essere scosse. Riguardo al paganesimo e in un senso più generale Cristo ha scosso: rimossi per sostituirli, cielo, cioè l’oggetto delle fede, il luogo verso cui si guarda, e la terra, il luogo ove la fede viene messa in pratica politicamente.

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piaciuto al Padre di far abitare in lui tutta la pienezza, e, avendo fatta la pace per mezzo del sangue della sua croce, di riconciliare a sé, per mezzo di lui, tutte le cose, tanto quelle che sono sulla terra come quelle che sono nei cieli”. Bisognerebbe notare anche che il “tutte le cose” di 2 Corinzi 5:17 si riferisce principalmente se non esclusivamente, alla realtà oggettiva, a cose esterne al credente, come ora gli sembrano. In entrambi i passi la trasformazione di “tutte le cose” si riferisce a fatti esterni piuttosto che ad esperienze soggettive.1

Campbell dice inoltre:

La Nuova Terra è il lato inferiore o verso l’uomo del nuovo universo che è venuto in esistenza come risultato dell’opera di redenzione compiuta da Cristo quando fu sulla Croce. Egli disse: “è compiuto”, e poi rese lo spirito (Gv. 19:30). La Nuova Terra significa gli effetti redentivi sulla terra di cui si parla nel Nuovo Testamento come “la rigenerazione”(Ti. 3:5), il “tempo del cambiamento” (Nella vecchia Diodati “tempo della riforma” (Eb. 9:10) e “la restaurazione di tutte le cose” (Atti 3:21). In contrasto con questa Nuova Terra e opposta ad essa sta il mondo che ancora giace nel maligno (Gal. 1:4; cf. Gv. 5:4).

La parola “cielo” nelle Scritture (come per esempio “il cielo domina” Dan 4:26) non significa necessariamente i cieli fisici o astrali, ma piuttosto il Divino governo del mondo e dell’uomo. “Terra” non significa necessariamente il pianeta materiale su cui viviamo o qualsiasi parte di esso come città o compagna. La Nuova Terra non significa (come alcuni pensano) il nostro presente pianeta purificato dai suoi mali morali e spirituali. Non significa che questo mondo fisico presente verrà purificato così da diventare un luogo adeguato in cui i santi dimoreranno quando Cristo ritorna, o dopo che sarà suonata l’ultima tromba. La Nuova Terra significa qualcosa totalmente nuovo, qualcosa che venne in esistenza con l’inaugurazione dell’epoca in cui noi ora viviamo. Significa qualcosa che può essere visto solo per fede.2

Il commento di Calvino su Ebrei 2:5 aiuta a chiarire questo punto:

Per rendere la cosa più chiara, supponiamo due mondi: il primo, il vecchio, corrotto dal peccato di Adamo; l’altro, posteriore nel tempo, come rinnovato da Cristo…è quindi ora evidente che qui il mondo a venire non è quello che speriamo dopo la resurrezione, ma quello che cominciò all’inizio del regno di Cristo, ma che avrà senza dubbio il suo pieno compimento nella nostra redenzione finale.3

1 Roderick Campbell: Israel and the New Covenant, Philadelphia, Presbyterian and Reformed Publishing Co., 1954 p. 108.2 Ibid, p. 113 s.3 Giovanni Calvino: Commentaries on the Epistle to the Hebrew; Traduzione di John Owen. Grand Rapids: Eerdmans, 1949. p.58.

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Ciò definisce chiaramente la questione: non c’è regno per noi, se non siamo nel regno ora, non c’è una nuova creazione a cui guardare innanzi nell’eternità, se siamo fuori da quella nuova creazione ora. Il regno c’è, e deve venire; i nuovi cieli e nuova terra ci sono e devono venire. La pienezza è alla fine dei tempi, ma è qui oggi nella realtà. Ciò significa che i Cristiani stanno negligendo la loro eredità e mancano di far uso del loro potere in Cristo: vivono nei termini di vittoria domani anziché vittoria oggi, in termini di gioia domani anziché gioia oggi. Come possiamo godere il cielo se non possiamo godere la terra? Come possiamo gioire nell’ordinamento eterno al di la del tempo quando non possiamo gioire nella nuova creazione oggi? Apocalisse fu scritta a cristiani sofferenti e turbati, e anche a cristiani compiaciuti e soddisfatti di se, i quali attendevano la venuta del regno e sentivano che i problemi del mondo rappresentavano un ostacolo a Cristo e al Suo regno. Ma Apocalisse rende chiaro che il regno è ora, e che, non è evadendo il conflitto, la responsabilità e la sofferenza, ma assumendole, che i cristiani e la chiesa guadagnano la loro eredità. Sia il compromesso col mondo che la fuga da esso assumono che Cristo sia impotente e che il Suo regno sia nel futuro e non abbia vero potere oggi.

La buona notizia viene annunciata: “il mare non c’è più”. Il mare è il mondo, il mondo apostata e non credente. Le nazioni si impongono quale vero regno, come il vero bene comune dell’uomo, in opposizione al regno di Dio. Esse reclamano il dominio, il controllo ed il potere. Ma Dio dichiara: “il mare non è più”. Le nazioni, Egli disse ad Isaia, sono come nulla davanti a Lui (Isa. 40:15 ss.). Ora, la nuova creazione essendo stata stabilita e l’opera di espiazione di Cristo essendo stata apertamente presentata, il Signore si muove contro le nazioni. Non ci sarà più mare, e la buona notizia viene annunciata in anticipo. I regni di questo mondo diventeranno i regni del nostro Signore e del Suo Cristo. Le nazioni apostate saranno spezzate, e sarà preparata la via per i servi del Signore.

Nei versi 1-8, abbiamo i nuovi cieli e la nuova terra descritti nel loro eterno splendore e nelle loro realtà presente, e messi in contrasto con la morte eterna del mondo di Babilonia. Nel verso 1, come abbiamo notato, abbiamo la grande dichiarazione. “Il mare non era più”. Il mare rabbioso e turbolento, dal quale provenne la bestia, e che (tipizza) raffigura le nazioni che si stabiliscono quali vero regno, il vero bene comune dell’uomo, in opposizione al regno di Dio, dalla prospettiva dell’ordinamento eterno, non c’è più. Per mezzo di Isaia, Dio dichiarò enfaticamente che il Suo giudizio era sopra le nazioni. Inoltre, con la venuta di Emmanuele, il Figlio di Dio nato dalla vergine, la sovranità delle nazioni fu rivelata essere meno di niente, totalmente inesistente, e la sovranità del Signore fu pienamente rivelata. (nell’impero di Domiziano si moriva ancora, ma in quello di Cristo no. N.d.T.). Il cristiano di oggi, come ai giorni di Giovanni, si fa troppo spesso sommergere dalla furia del mare, e ha la sensazione che Dio sia remoto, ma il Signore dichiara, per mezzo di Giovanni: “Il mare non è più”. “I pagani tumultuano” (Sl. 2), ma tutto il loro complottare contro il dominio del Signore è ridotto a nulla dalla venuta di Gesù Cristo, il quale procede a “spezzarle con il bastone di ferro” (Sl. 2:9). Ciò a cui stiamo assistendo non è il trionfo

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delle nazioni ma la loro frantumazione, e noi dobbiamo “servire il Signore con timore e gioire con tremore” (Sl.2:11) mentre vediamo queste cose.

Il tabernacolo della presenza di Dio è descritto sia nella sua pienezza, quale gloria dell’ordinamento eterno, e sia quale realtà della vita della vera chiesa. La morte e le tristezze della vita sono abolite dalla resurrezione di Cristo, e noi entriamo in quella vittoria qui ed ora, e nella sua pienezza alla resurrezione dei morti. Non col compromesso, non sedendosi ai margini e separati dal conflitto, ma combattendo per vincere e diventando assetati riceviamo la nostra eredità e berremo dell’acqua della vita (21:6-7). E il Signore è l’inizio e la fine, l’Alfa e l’Omega di tutte le cose, inclusa la nostra vita cristiana, la nostra fame e la nostra sete, il nostro lottare e il nostro vincere. Perciò, “Baciate il Figlio, perché non si adiri e non periate per via, perché la sua ira può accendersi in un momento. Beati tutti coloro che si rifugiano in lui” (Sl. 2:12).

La parola “nuovo” viene usata ripetutamente per descrivere questa creazione. Due diverse parole Greche vengono tradotte “nuovo” nel nostro testo Italiano, “neos”, che riguarda il tempo, e “kainos” che riguarda la qualità.1 La parola “kainos” fu utilizzata per descrivere la tomba di Gesù (Mt. 27:60; Gv. 19:41), e anche gli “otri” per il vino nuovo, indicando, in entrambe le istanze non che la tomba o gli otri erano appena fatti, ma piuttosto non ancora usati ovvero fresca per la tomba e freschi ed elastici per gli otri. Questa stessa parola: “kainos” viene usata qui e attraverso tutto il Libro di Apocalisse.

Apocalisse 21:9-22:5La Nuova Gerusalemme

1 W. Boyd Carpenter, in Ellicott, op. cit.,VIII, 627.

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In Apocalisse 21:9-22:5 abbiamo un’immagine simbolica della Sposa di Cristo, la Nuova Gerusalemme, il regno nella sua pienezza nell’eternità, ed anche un’immagine per il popolo di Dio di ciò che essi sono in Cristo oggi e di ciò che sono chiamati ad essere nel mondo. Come abbiamo visto, Terry fece notare che la Nuova Gerusalemme, la vera chiesa ed il vero regno: “esibisce la natura celeste della comunione e amicizia di Dio e del Suo popolo, nella quale si entra qui ed ora per fede ma che sfocia in un indescrivibile pienezza di gloria attraverso l’eternità”1.

La Nuova Gerusalemme è perciò descritta con termini che devono essere utilizzati come parametro riguardo alla chiesa e allo stato, riguardo al popolo di Dio in ciascuna delle loro istituzioni e vocazioni. La descrizione utilizza un linguaggio simbolico di grande importanza:

1. Come una Sposa. Una sposa è fedele, amorevole, pura, obbediente, raggiante di gioia, e sicura del proprio amore. Così sarà la chiesa nell’eternità, e tale deve essere oggi. La gioia nuziale nel possedere e essere posseduta deve essere la gioia Cristiana.

2. Avendo la gloria di Dio. La gloria, che ad un tempo dimorava nel Santissimo nel tabernacolo e nel tempio, è ora nel corpo collettivo della chiesa, nel credente individuale nella sua obbedienza allo Spirito Santo che abita in lui, e in ogni aspetto del regno nella misura in cui ciascuna sfaccettatura rivela la gloria di Dio e lo serve. “Lo scopo principale dell’uomo è di glorificare Dio e di goderlo per sempre”.2

3. Misurata. In questo contesto significa fatta, tagliata fuori, proprio come un falegname misura le tavole e le taglia della misura necessaria. In ogni epoca, Dio sta misurando fuori il suo popolo attraverso il procedimento storico. Il simbolismo della forma in questo contesto presenta come scopo finale il cubo perfetto. Il cubo è un antico simbolo di perfezione, ma la perfezione non è nostra, ma di Cristo, non è ottenuta in questa vita, ma nella vita a venire. Però il processo di santificazione è lo sforzarsi di ottenere questo obbiettivo per mezzo dello Spirito Santo che opera in noi. La dimensione del Santissimo costituiva un cubo perfetto.

4. Porte aperte, v.25. Non c’è notte nel regno. Le porte sono aperte, proprio come il regno di Cristo è sempre aperto ai peccatori. Un inno dichiara: “Chiunque lo voglia può venire”, e questa espressione viene utilizzata per giustificare opinioni eretiche riguardanti il libero arbitrio, ma le Scritture non proclamano il libero arbitrio ma piuttosto la libera grazia. Ogni testo delle Scritture da cui deriva questa frase è posto nel contesto della grazia non dell’arbitrio.

1 Terry, op. cit.., p. 382.2 Vedi Catechismo Breve di Westminster, domanda uno.

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Atti 2:21, Romani 10:13. “Chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato”

Romani 10:11 “Chiunque crede in Lui non sarà svergognato”.

1 Giovanni 5:1 “Chiunque crede che Gesú è il Cristo, è nato da Dio; e chiunque ama colui che lo ha generato, ama anche chi è stato generato da lui”.

Insieme a questo grande fatto c’è la dichiarazione che nel regno di Dio non c’è notte. Zaccaria 14.7 fece questa profezia riguardante il regno: “verso sera vi sarà luce” Questa è un’affermazione della stessa grande realtà proclamata in Romani 8:23. Il cristiano, perfino dentro alle peggiori prove e alle tenebre, possiede la sicurezza che tutte le cose sono nelle mani di Dio, il quale fa ogni cosa bene, e fa cooperare tutte le cose al bene di quelli che lo amano, i quali sono chiamati secondo il Suo proponimento. Perciò il cristiano sa che anche la notte sarà luce intorno a lui.

5. Le pietre delle fondamenta. Le pietre sono quelle incastonate nella piastra d’oro che il Somme Sacerdote indossava quando entrava il Santissimo; esse rappresentavano le dodici tribù d’Israele, il popolo di Dio, ed erano chiamate “le scelte”. Queste pietre, significativamente, sono le stesse che sono usate nel paganesimo per rappresentare i segni dello Zodiaco, ma vengono qui date esattamente nell’ordine rovesciato. Così, anziché rappresentare il corso del sole, dall’alba al tramonto, un simbolo appropriato alla prospettiva del paganesimo, esse presentano un quadro della vita in Cristo, dalle tenebre, la Caduta, all’alba eterna, la Nuova Gerusalemme. Il cristiano è lo “scelto” di Dio e cammina fermamente dentro la luce mentre cresce in Cristo ed entra nella sua eredità. Queste pietre delle fondamenta rappresentano così ancora una volta la radicalmente diversa filosofia della storia contenuta nella Bibbia. Per il pensiero pagano, la storia è ciclica, si innalza e cade perché è condannata alla decadenze e alla morte, ad un’eterna ricorrenza. Per la fede biblica, la storia rovescia la forma naturale, perché non è la “natura” a governare l’uomo, ma Dio. Il destino dell’uomo cristiano non è la morte ma invece la rigenerazione e la resurrezione. Le filosofie non cristiane sono inevitabilmente pessimiste a lungo termine, perché l’uomo ha solamente un destino oscuro nella morte. Per il cristiano, la storia avanza verso la conquista finale del peccato e della morte. Il corso della storia perciò non è dall’alba all’oscurità, ma dall’oscurità all’alba. Ma un’altra supposizione diventa manifesta. Poiché c’è il giudizio, lo zodiaco è un simbolo calzante per mondo non cristiano. Il suo corso è chiaramente un corso in declino, di progresso verso le tenebre e la morte. È caratteristico di molti apologisti di varie forme di statalismo affermare che i crescenti “problemi” del mondo necessitano di un freno alle antiche libertà,

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frontiere e libertà ad un tempo comuni per l’uomo vengono ora dichiarate finite per sempre. Si dice che il mondo sia nella sua maturità, e le libertà giovanili non sono più possibili, cosicché l’uomo dovrà adeguarsi ad un’esistenza inferiore. Nessun cristiano può sostenere tale opinione: le pietre delle fondamenta affermano il contrario.

6. Niente tempio. Il Signore è ora il Tempio. Tempio significa letteralmente “casa di Dio” e i templi pagani erano case di dei. Così Salomone, nel dedicare il tempio, riconobbe nella sua preghiera che nessuna casa fatta con mani poteva contenere Dio, e che nessuna abitazione umana poteva fargli da dimora (2 Cr.6:18). L’assenza di un tempio significa qui il prevalere del vero Tempio, Gesù Cristo. L’obbiettivo della storia, contrariamente a Scofield, non è un ritorno ai riti Giudaici, ma un movimento in avanti nei termini dell’accettazione da parte del mondo del vero Tempio, Gesù Cristo. Il credere da parte di Scofield che il tempio Giudaico sarebbe stato ricostruito e il sacrificio di animali restaurato1 fu un diniego di Cristo, nonostante la sua affermazione che il rinnovamento dei sacrifici sarebbe stato solamente un memoriale. Perche la storia dovrebbe vedere l’esaltazione di un’ombra quando la realtà è venuta? Perché Dio dovrebbe ristabilire quel tempio che Egli ha così totalmente disonorato e distrutto decretandone la fine per sempre, quando il vero Tempio è venuto? Non c’è progressione nella prospettiva di Scofield, né è biblica2.

7. Le nazioni”porteranno in lei la loro gloria e l’onore” (vss.24-26). Quando anche l’ira degli uomini rende gloria a Dio, e quando le ricchezze delle nazioni ribelli, secondo Aggeo (2:6-9), il loro oro e il loro argento, tutto finisce nel tesoro e nel regno del Signore, quanto maggiormente il Signore per la Sua grazia utilizza il servizio dei suoi santi e delle nazioni pie. Non c’è spreco nel piano di Dio: tutto ciò che il mondo fa serve solamente la gloria di Dio e lo loda. Il nostro lavoro, dunque, non è invano nel Signore.

8. Le mura. Mura vengono erette per tener fuori i nemici (v.27), per tener fuori il male ed il peccato. Qui le mura (cf. vs. 18) sono paragonate al diaspro, che è usato in 4:3 per descrivere Dio, la Sua purezza e la sua chiarezza. Così, Dio è raffigurato come il muro intorno a noi, intorno al suo popolo, come difesa sicura. Questo era stato profetizzato in Zaccaria 2:5 “Poiché io”, dice l'Eterno, “sarò per lei un muro di fuoco tutt'intorno e sarò la sua gloria in mezzo a lei”. Il Signore è la nostra forza e il nostro rifugio, un muro di fuoco tutto intorno a noi.

9. Il giardino è ora nella città. Il Paradiso è restituito, ma in comunità. Troviamo di nuovo l’albero della vita e il fiume dell’acqua della vita, dati gratuitamente a tutti. Qui troviamo pure un gioioso servizio, ma ora senza la prospettiva di cadere. L’ “albero” della vita è letteralmente il “legno”, o la trave della vita, un termine usato nelle Scritture per designare la croce. La croce di Cristo è l’albero della vita per l’umanità, la fonte della vita eterna e della giustizia, ed è

1 Vedi La Bibbia con i Riferimenti di Scofield, nota ad Ezechiele 43;19.2 Krauss, Dispenastionalism in America, si noti che la prospettiva di Scofield è di una storia ciclica.

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per “la guarigione delle nazioni”. “Giardino” è una parola che evoca la bellezza e la libertà della natura, la città significa vita in comunità. Ma il concetto di città, in mano all’incredulità, anziché significare comunità, ha finito col significare guerra e isolamento, insicurezza e terrore. I vantaggi di entrambe, la vera città e il vero giardino sono uniti nell’obbiettivo cristiano per la società.

10.“E porteranno il Suo nome sulla fronte”(22:4). Cristo risplende attraverso i suoi santi. Questa è la chiesa ed il regno, nell’eternità e nel tempo, essere il popolo di Dio, nei quali Cristo e le Sua giustizia vengono rivelati. Perciò, il quadro della Nuova Gerusalemme si fonda su una realtà, Cristo e le Sua croce. Con la sua opera di espiazione, l’umanità è ricreata, e la Nuova Gerusalemme comincia a regnare. La pienezza ci sta davanti, ma il regno è una realtà presente e la realtà basilare. Vivere e pregare perciò nei termini della sovranità di Babilonia è un peccato. Troppi cristiani pregano nei termini delle possibilità umane anziché di quelle divine, e con ciò limitano Dio nella loro immaginazione.

Rimane ancora un fatto significativo che concerne questa descrizione della Nuova Gerusalemme. L’antica città di Babilonia in molti modi scimmiottava non solo il regno di Dio ma anche gli stessi simboli del regno. Babilonia era costruita quadrata, affermando con ciò finalità e perfezione. Babilonia possedeva i suoi giardini pensili che ricreavano il giardino entro le proprie mura, e Babilonia pure era una città e una terra con molte acque.

Due altri simboli in questo passo meritano speciale attenzione. Primo, c’è il fiume dell’acqua della vita. Giovanni 7:39 dichiara che quando Cristo parlò di fiumi d’acqua viva, si riferiva allo Spirito di Dio “Or egli disse questo dello Spirito, che avrebbero ricevuto coloro che avrebbero creduto in lui”. Nel tempo e nell’eternità, lo Spirito di vita è lo Spirito in tutti coloro che vivono per fede. In questa visione del fiume che scorre attraverso la città e la nutre, ci viene detto che il credente è il canale attraverso cui lo Spirito alimenterà le nazioni. “C'è un fiume i cui rivi rallegrano la città di DIO, il luogo santo dove dimora l'Altissimo” (Sal. 46:4).

Secondo, l’albero è particolarmente ricco di significato. Viene mostrato in perpetua fioritura e pieno di frutti simultaneamente. Questo significa che in Cristo la potenzialità e la realtà sono uno. Quando il credente cresce nella grazia, le sue potenzialità diventano realtà, e l’auto-realizzazione cresce. Nell’eternità la potenzialità e la realtà del credente sono uguali. La pienezza dell’auto-realizzazione è perciò ottenuta in Cristo e solo in Cristo.

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Apocalisse 22:6-26La Stella del Mattino

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In Apocalisse 22:6-21 Giovanni, ricevuta la Apocalisse, incontra nuovamente Gesù il Quale compare come il vero autore e la fonte della Apocalisse. L’angelo che da la visione al comando del Signore allontana da se l’adorazione e la indirizza verso il Signore. Viene affermata la totale santità del libro e ne viene proibita la manomissione. C’è una preghiera di chiusura al Signore e una benedizione per chi legge la profezia. Il libro echeggia auto-consapevolmente il Vecchio Testamento. Rist ha osservato:

È stato notato precedentemente che non solo Giovanni vuole che il suo libro sia considerato una profezia divinamente rivelata, ma che lo vorrebbe altresì posto alla pari coi libri del Vecchio Testamento (cf. 1:3). Pertanto, la prima e l’ultima beatitudine sono pronunciate su coloro che lo considerano tale e che sono guidati dai suoi insegnamenti (1:3; 22:7). Se invece, in antitesi ad esse, qualcuno prende alla leggera la profezia e aggiunge ad essa qualsiasi cosa, Dio stesso lo priverà della sua parte dal libro della vita dalla santa città. 1

In un senso molto reale Apocalisse conclude la Scritture. Parla deliberatamente come parola finale. Mosè, in Deuteronomio 4:2 dichiarò: “Non aggiungerete nulla a quanto vi comando e non toglierete nulla…” Altre parole sarebbero state aggiunte da altri, ma la Apocalisse sarebbe una parola non mutevole. Ora, con la conclusione delle Scritture, aggiungere o togliere le “parole” del libro è proibito; non possono più essere aggiunte parole. Il consapevole parallelo e la sua diversità sono troppo ovvi per essere accidentali. L’ultima parola della parola che non cambia è stata data.

Gesù, nel parlare, pone Se Stesso al di sopra e al di la delle aspettative umane riguardanti il regno Davidico. “Io sono la radice e la progenie di Davide”. Questa è un’affermazione sia della Sua divinità che della Sua umanità. Nuovamente, come in 2:28, Gesù dice di essere “la Stella del Mattino”, questa volta con enfasi “la lucente stella del mattino”. Come ha notato il Rist, un significato importante di questo simbolo era il fatto che “fosse il simbolo del dominio mondiale”2 Cristo ricorda al Suo popolo il fatto del Suo dominio sul mondo.

L’albero della vita viene dichiarato inaccessibile (21:27; 22:15) ai peccatori, come alla Caduta dell’uomo. I santi di Dio ne hanno l’accesso. Gli appellativi per i peccatori (22:15) sono più che letterali. Un omicida che si penta può essere ricevuto nel regno, come avvenne per il ladrone sulla croce. Il riferimento agli omicidi va al di la del criminale. Qui sono intesi i figli di Caino, i quali nei loro omicidi alzano le loro mani primariamente contro Dio, e che vivono la vita perpetuamente in guerra contro di Lui. Qui sono i figli di Babilonia, omicidi per natura.

Ma ancor più significativo è il primo e principale appellativo per peccatori. “cani”. I cani, in Oriente non erano animali domestici ma spazzini che girovagavano

1 Rist, op. cit., p. 440.2 Ibid. p. 390.

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per città e campagne divorando carogne e rifiuti (1Re 14:11, 16:4, 21:19; 22:38; 2Re 9:10, 36; Sal. 59:6; Ger. 15:3). Nemici feroci e maligni sono chiamati “cani” in Salmo 22:16, 20. I cani erano animali impuri ed erano normalmente tenuti fuori casa e fuori città. Ma l’uso significativo dell’appellativo “cani” è, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, il suo uso religioso, la sua applicazione simbolica. In Deuteronomio 23:18 è un termine applicato ai maschi prostituti che erano importanti nei culti pagani in Canaan. In Filippesi 3:2 Paolo applica questo stesso termine “cani” ai Giudaizzanti nella chiesa. Solo comprendendo, primo il disprezzo orientale per il cane e secondo, che nelle Scritture è utilizzato per designare i prostituti maschi, omosessuali, possiamo apprezzare come Paolo chiamò i Giudaizzanti. Questo stesso significato è applicato qui. La salvezza non è per mezzo della giustizia o della bontà dell’uomo, non è per mezzo di un sistema di vita legalista, ma è attraverso la libera grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo. Coloro i quali, come i Farisei, credono alle Scritture, hanno le chiavi ma rifiutano di entrare e impediscono ad altri di entrare per mezzo della loro perversione della Parola, sono chiamati “cani” e sono esclusi dall’albero della vita. Questa è una dura condanna che nessun uomo oserebbe utilizzare da se stesso; in Filippesi è utilizzata da Paolo e in Apocalisse viene annunziata da Giovanni sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Niente è più odioso a Dio che una perversione della Sua verità che dichiari di esserne una difesa. Furono i Farisei ad attirare su se stessi l’ira di Gesù. Ai falsi uomini di chiesa viene ora accollato un giudizio simile. Cani ed assassini sono perciò esclusi dal regno, sia gli empi fuori dalla chiesa sia quelli dentro la chiesa e il termine più duro è riservato per i cani. Gli assassini almeno sono uomini.

Il libro di Apocalisse, dato a dei credenti turbati, alcuni che compromettevano altri che soffrivano, li convoca ad entrare nella loro eredità e a riconoscere il carattere cosmico della vittoria cui sono stati fatti partecipi. Ma Apocalisse, la convocazione alla vittoria, è stata erroneamente utilizzata per giustificare vite vissute nell’aspettativa di tribolazione ed orrore. Ma il messaggio di Apocalisse è invece questo: E lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ode dica: «Vieni». E chi ha sete, venga; e chi vuole, prenda in dono dell'acqua della vita (Riv. 22:17).

La vittoria è basilare alla fede cristiana, certamente lo è anche la tribolazione, ma alla tribolazione non viene mai dato il primato nella prospettiva della fede. La stessa durezza del giudizio sui “cani” è parte dell’assicurazione di vittoria e di separazione. La traduzione del Moffat dei due versi che fanno riferimento ai “cani” ci danno il sapore del duro linguaggio della Bibbia: Filippesi 3:2, “State attenti a quei cani, quei malvagi operai, il partito dell’incisione!” e Apocalisse 22:15, “Andatevene voi cani, voi stregoni, voi immorali creature, voi assassini, voi idolatri, voi che amate e praticate la menzogna, andatevene, ognuno di voi!” Questa certezza e durezza di giudizio esprime la certezza e l’inevitabilità della sovranità e della vittoria. La Nuova Gerusalemme è l’erede del regno, e i santi di Cristo erediteranno la terra. Chiamando la santa città “Gerusalemme”, Egli dichiara che tutte le intenzioni e gli scopi di Dio, tutte le sue promesse ed i suoi piani che noi discerniamo nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, giungono finalmente al loro perfetto adempimento.1

1 Thomas F. Torrance, The Apocalipse Today , Grand Rapids; Eerdmans, 1959, p. 14.

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“Il tempo è vicino”, ci viene detto. L’adempimento non è lasciato al futuro ma comincia nel presente. Il comando perciò non è di sigillare i detti della profezia di questo libro. Essi “sono di rilevanza immediata e perciò della più urgente necessità”.2

Sia la battaglia che la vittoria sono adesso.

Il Regno di Dio

2 Ibid., p. 153

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In Ezechiele 40-47, il profeta parla del tempio ristabilito. Poiché Ezechiele scrisse negli ultimo giorni di Gerusalemme, sotto l’ombra del collasso e della cattività di Giuda, è stato talvolta assunto che la profezia fosse un quadro idealizzato del secondo tempio, o una visione di un reale tempio destinato ad essere ricostruito alla fine del tempo. In entrambi i casi, l’interpretazione ha in mente un tempio vero e proprio. Ma la visione di Ezechiele non è di un tempio vero e proprio perché nessun tempio ha le inusuali fattezze di questo, come un flusso d’acqua che sgorga dalla soglia e che miracolosamente cresce di misura. Il tempio è ovviamente tipico e simbolico. Il tempio della visione di Ezechiele manca dell’arca della testimonianza e del velo ed è chiaramente non un tempio inteso letteralmente.1Il tempio è chiaramente il regno e reame di Cristo, il cui destino è di rinnovare il mondo.

Questa vittoria fu chiaramente fondamentale alla speranza e alla predicazione apostolica. Ciò è manifesto nel riferimento a Edom. Edom, quale popolo in parentela, aveva fatto la dichiarazione di essere il vero popolo di Dio mentre in realtà era in inimicizia con Israele e col Signore. Gli Edomiti potevano essere perdonati e potevano entrare nella congregazione per fede alla terza generazione (Dt. 23:8). Il destino di Edom, alla venuta di Cristo, era di essere una proprietà di Israele, vale a dire che un rimanente sarebbe stato convertito (Amos 9:11-12). Questo significava che i nemici di Cristo, che sono solo nominalmente suoi ma in realtà sono contro di Lui, dopo essere stati giudicati ed abbassati, sarebbero entrati nel regno di Dio per fede. Giacomo, in Atti 15:17, citò la profezia di Amos come evidenza della “Signoria mediatoriale di Cristo sui Gentili credenti…Egli, [Giacomo] fa riferimento alla profezia di Amos 9:11-12, concernente la conquista di Edom da parte del Messia: ‘Affinché posseggano il resto di Edom’”. Come ha notato il Wyngaarden: “possedere il rimanente di Edom è dunque spiritualmente inteso nel fatto che egli vede illustrato, qui, il proponimento di Dio: ‘Affinché il resto degli uomini e tutte le genti cerchino il Signore’ (Atti 15:17)”.

La chiesa nelle Scritture è la casa della fede. È fondata sulla confessione di fede in Gesù quale Cristo, il Figlio del Dio vivente. Su questa confessione, su Se stesso quale Roccia, Cristo dichiarò: “Edificherò la mia chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno su di essa” (Mt. 16:18). Ma la maggior parte della predicazione di Cristo andò al di la dell’elementare atto di fede, il fondamento necessario della conversione, e mise in rilievo il Regno di Dio: “Bisogna che io annunzi la buona novella del regno di Dio anche alle altre città, perché sono stato mandato per questo” (Luca 4:43). “La parola del regno” (Mt. 13:19) era il perdono dei peccati (Mt. 9:2; Mc. 1:1-4, 14-15; Lc. 3:3,ecc.). Il regno è un termine più ampio di chiesa o stato. È il regno di Dio in ogni reame, la totale sovranità di Dio e della Sua Parola per ogni sfera di vita. È il regno di Cristo in giudizio sopra ai suoi nemici quanto il suo regno in pace e prosperità sopra ai suoi santi trionfanti. La chiesa è lo strumento, l’insegnante e il predicatore, il messaggero, e il suo messaggio è chiaramente dichiarato da Gesù Cristo:

1 Martin J. Wyngaarden: The Future of the Kingdom in Prophecy and Fulfilment, Grand Rapids: Baker Book House, 1955; p. 113 ss.

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E questo evangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo in testimonianza a tutte le genti, e allora verrà la fine (Mt. 24:14).

In altre parole, mentre la rigenerazione è l’inizio del regno quanto l’inizio dell’appartenenza alla chiesa del credente, il vangelo è molto più ampio: è l’intero consiglio di Dio, la totalità della Sua parola per il regno.

Separatamente da questo fatto non potremo comprendere Apocalisse. Interpretare questo libro nei termini dei santi e del loro destino personale, leggerlo nei termini de popolo Ebraico e del loro ristabilimento, o vederlo come il rapimento del popolo di Dio dalla storia, è perdere il punto essenziale di Apocalisse.

Apocalisse 1-3 ovviamente parla alle chiese, per prepararle per le loro responsabilità al loro Signore, a prendere posizione in faccia ad un mondo ostile. Nei capitoli 4-11 , è rivelato che il destino dell’uomo in Cristo è di essere un erede del regno di Dio, e che Gesù Cristo è sia il testatore che l’esecutore della proprietà. Ma i falsi eredi, i figli di Caino e popolo di Babilonia, hanno preso la terra e si sono dichiarati i veri eredi. Di conseguenza, Gesù Cristo istituisce il giudizio sui falsi eredi per togliere loro il possesso della terra e dare al Suo popolo la loro eredità. Questi sette giudizi sono modellati secondo le sette piaghe contro l’Egitto. L’apogeo è vittoria per il regno di Cristo: “I regni del mondo sono divenuti il regno del Signor nostro e del suo Cristo, ed egli regnerà nei secoli dei secoli” (Riv. 11:15).

Quindi, nei capitoli 12-20, questo stesso fatto viene visto dalla prospettiva della questione basilare, la guerra tra Cristo e Satana. Due regni sono in guerra, il regno dell’uomo, o Babilonia la Grande, e il Regno di dio, la Nuova Gerusalemme. Il Regno dell’uomo, o Babilonia, cerca di stabilire un unico ordinamento mondiale ed un’unica religione mondiale; cerca di porre sul trono l’uomo quale dio, di stabilire un totale umanesimo in ogni sfera. Nella battaglia che ne consegue, Babilonia avanza verso un vicino trionfo, ma Dio porta la catastrofe su Babilonia nella forma di un totale disastro economico. L’apogeo, la culminazione della battaglia è in due grandi banchetti o tavoli della comunione: la cena delle nozze dell’Agnello, cioè il trionfo del regno di Dio, e la festa degli avvoltoi, la distruzione totale di Babilonia.

Nei capitoli 21 e 22 vengono descritti gli splendori della Nuova Gerusalemme, il Regno di Dio. Il trionfo è glorioso nel tempo, la totalità della perfezione e della gloria per tutta l’eternità. Il grido della chiesa, nella bocca di San Giovanni è :”Sì, vieni Signore Gesù” e la conclusione dichiara “La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con tutti voi. Amen”. Gesù è Cristo-Messia, Signore-Dio, e governatore. Quando San Giovanni grida: “Vieni Signor Gesù” egli chiama il Dio-Re a venire in giudizio e nella prosperità della Sua restituzione.

Il vangelo sociale predica il vangelo del socialismo e dello statalismo; il vangelo Arminiano e Pietista predica il vangelo dell’astensione, della ritirata e del rapimento. Il Vangelo di Gesù Cristo è la buona novella del Regno di Dio.

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L’Albero della Vita

In Eden, l’albero della vita era un vero e proprio albero i cui frutti avevano effettivamente, per mezzo del proposito creativo di Dio, l’abilità di dare vita continua. Quando l’uomo cadde nel peccato, divenne necessario impedire all’uomo

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l’accesso a quell’albero (Gen. 3:22-24). Con l’albero della vita l’uomo avrebbe potuto avere una perpetua vita terrena. Quest’albero “era la simbolica rappresentazione di Dio che apre la sua mano per dare vita senza fine, vita terrena perpetua, ad Adamo”. Inoltre, l’albero era un emblema, un segno dell’Alleanza di Dio”.1

Col suo peccato l’uomo divenne un trasgressore dell’Alleanza, e la comunione con Dio fu spezzata. Peccato e morte divennero la condizione umana perché l’uomo rifiutò le condizioni divine per la sua vita, l’Alleanza con Dio.

Anche l’albero proibito, l’albero della conoscenza del bene e del male era un reale albero. Non c’era male nell’albero stesso, e neppure nel suo frutto. Hoeksema, nel commentare il nome di questo albero, ha osservato:

Il nome implica, in primo luogo, in connessione al comando di Dio che gli stava attaccato, che determinare ciò che è bene e ciò che è male non è per l’uomo ma è prerogativa di Dio e che è vocazione dell’uomo semplicemente ascoltare e obbedire. Dio, il Creatore è sovrano; e l’uomo, la creatura è servitore. Appartiene solamente a Dio la prerogativa sovrana di determinare ciò che il Suo servitore deve fare e ciò che non deve fare, ciò che è bene e ciò che è male. È quindi, in secondo luogo il nome di questo albero indica che non mangiandone, vale a dire, in modo positivo, per mezzo dell’obbedienza l’uomo avrebbe veramente conosciuto per esperienza, conosciuto come insegnato da Dio, conosciuto nel senso che egli avrebbe attivamente assunto la giusta attitudine nei confronti del bene e del male. In questo senso l’albero era il mezzo per il quale l’uomo avrebbe avuto una conoscenza sperimentale (esperienziale) del bene e del male. Se avesse obbedito il comandamento di Dio, avrebbe conosciuto il bene ed il male in modo tale che avrebbe amato il bene ed odiato il male, ed avrebbe così sperimentato il favore e l’amicizia di Dio che costituiscono la vera conoscenza di Dio. Se avesse disobbedito il comando, avrebbe conosciuto il bene ed il male in modo tale che avrebbe amato il male e odiato il bene, e avrebbe sperimentato così proprio l’opposto della benedizione e della vera conoscenza di Dio, vale a dire l’abbietta miseria e desolazione dell’ignoranza spirituale e delle tenebre, lo squallore di quell’esperienza che descritta con questa parole: “Vivere senza Dio è morte!”.2

L’Alleanza con l’uomo in Eden era basilarmente la stessa Alleanza ristabilita dopo la Caduta con gli uomini dell’Alleanza e poi col popolo della stessa, Israele nell’epoca del Vecchio Testamento, e, da allora il popolo di Cristo. Benché a volte, “il patto delle opere” sia utilizzato per descrivere il patto con Adamo, l’espressione è fuorviante.3 Qualsiasi ed ogni Alleanza o Patto Dio stabilisca con l’uomo ha come primo e superiore aspetto, grazia. Dio è Signore e sovrano assoluto, e l’uomo non

1 H.C. Hoeksema: “The Tree of Life” in Paradise the First and the Forbidden Tree . Grand rapids: Reformed Witness Hour, 1969; p. 82 H.C. Hoeksema: “The Forbidden Tree. Its name and Purpose;” in Ibid., p. 15.3 Vedi Herman Hoeksema: Reformed Dogmatics, Grand Rapids; Reformed Free Publishing Association, 1966. p. 214-226.

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può contrarre un patto di opere con Dio, l’uomo può ricevere una posizione nel patto per grazia di Dio. Il Patto o Alleanza è stato in ogni epoca primariamente ed essenzialmente un patto di grazia. Secondo, l’obbedienza o le opere sono un aspetto secondario del patto. Il responso dell’uomo al patto di grazia è fede ed obbedienza. Ma poiché il patto è un patto di grazia ha inevitabilmente una legge. Senza una legge non c’è patto. La legge del Patto in ogni epoca, in Eden, in Israele e nell’era cristiana, è ciò che Dio richiede all’uomo che mantiene il Patto. Mantenere il patto significa mantenere la legge del patto, cioè i termini del patto. Ad Adamo fu richiesto di comportarsi secondo la legge del patto. Questo significava obbedire ogni parola di Dio, mangiare dell’albero della vita, riempire il giardino in obbedienza a Dio, dare un nome o classificare gli animali, vivere con Eva secondo i termini della vocazione di Dio e dei suoi requisiti, e rifiutare di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. Nel suo aspetto secondario, il patto era un patto delle opere precisamente perché era un patto di grazia.

Il patto con Adamo gli richiedeva obbedienza nei termini dei doveri a lui prescritti e della sua vocazione. Il Patto con Abramo pure richiese obbedienza (Gen. 17:1). Il Patto con Israele fu contrassegnato da un codice legale esteso. Il Patto, come rinnovato da Gesù Cristo, era designato a restaurare obbedienza alla legge (Matt. 5: 17-20). L’accusa persistente di Cristo contro i farisei, che affermavano di mantenere il Patto fu precisamente che essi trasgredivano il Patto nello spirito e nei fatti (Matt. 5. 17-20; 6:5, 16-18, 7:15-21, ecc.).

Gesù Cristo, con la Sua perfetta giustizia, e con la Sua morte espiatoria e la sua resurrezione, e nella veste di ultimo Adamo, il capo federale della nuova umanità, riportò gli uomini redenti in comunione con Dio e divenne per l’uomo il nuovo albero della vita. L’uomo in Cristo è morto alla legge quale incriminazione, come sentenza di morte per le trasgressioni, ma l’uomo è vivo alla legge quale requisito del Patto, quale giustizia di Dio alla quale l’uomo deve dare il proprio assenso e la propria obbedienza, e per la quale deve vivere.

Così, l’albero della vita in Eden aveva la propria legge, e Gesù Cristo, l’albero della vita in Apocalisse,1ha la Sua legge, la stessa continua legge che richiede all’uomo di servire Dio come sacerdote, profeta e re in Cristo, di obbedire la parola di Dio in ogni reame di vita, e di glorificare Dio con la sua obbedienza.

Negare la legge è negare il Patto. Negare la legge è negare la grazia che dona la legge del patto. Gli estesi echi di Genesi ed Esodo in Apocalisse non sono accidentali. Le chiese del Patto sono chiamate alla fede e all’obbedienza nei capitoli da 1-3; quelli fuori dalla fede e contro la legge, che non ascolteranno Colui la cui parola è legge, ricevono le piaghe ed i giudizi che sono dispensati ai trasgressori del Patto (Riv. 4-19) mentre quelli che camminano in fede ed in obbedienza banchettano di nuovo dall’albero della vita. Il parallelo è ben chiaro. Il non credere la parola di Dio ed il disobbedirle tolse all’uomo il paradiso. La fede nel Figlio di Dio incarnato ed obbedienza alla legge del patto restituiscono l’uomo al paradiso, una nuova vita sulla terra, e la pienezza della vita nel regno eterno. San Paolo parlò di se come: “benché non sia senza la legge di Dio, ma sotto la legge di Cristo” (1 Cor. 9:21). 1 La croce è chiamata un albero da Pietro (Atti 5:30; 10: 39), e da Paolo (Gal. 3:13).

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Richard Baxter dichiarò che lo “strumento divino” per il dovere dell’uomo “è chiamato una Legge in un aspetto e un Patto in un altro”.1 Come Kevan l’ha riassunta: “La grazia di Dio non può distruggere la Legge di Dio”.2

La gloriosa visione di grazia che conclude Apocalisse si fonda fermamente nel Patto di Dio e la relativa legge. Dio non è mai antinomiano in nessun punto della sua parola. C’è una legge perché c’è un patto di grazia. La vita nel Patto, e la vita della nuova creazione, è obbedienza alla legge della grazia.

Parte TreDimensioni del Futuro

1 Citato da End of Doctrinal Controversies, da Ernest F Kevan, The Grace of Law, A Study in puritan Theology (Grand rapids: Baker Book House, 1965; p. 112.2 Ibid, p. 155.

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Matteo 24

Per comprendere questo capitolo, esaminiamo la sua collocazione. Gesù aveva sconcertato i discepoli nella loro giudaica attesa di un regno Messianico millenario. Aveva parlato della sua imminente morte a Gerusalemme, e della sua resurrezione. Aveva descritto il Regno in termini molto diversi da ciò che Israele si attendeva. Il Vangelo di Matteo da in modo speciale grande prominenza ai Suoi insegnamenti riguardo al regno, e nulla in quell’insegnamento conduce alla speranza dei Giudei.

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Anziché confermare la speranza giudaica, Gesù pianse per la rovina che Gerusalemme stava per incontrare e, immediatamente prima del discorso di questo capitolo, aveva dichiarato: “Ecco, la vostra casa vi è lasciata desolata” (Mt. 23:38). Nei Suoi insegnamenti durante la sua ultima settimana Egli aveva enfatizzato questo punto con parabole e con proclami, dicendo bruscamente: “Perciò io vi dico che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a una gente che lo farà fruttificare” (Mt. 21:43). Fu precisamente perché Gesù negò il regno ai Giudei e lo riservò a Dio, e ne diede perciò un’interpretazione totalmente differente che la sua condanna da parte del Sinedrio fu resa inevitabile: “che non perisca tutta la nazione” (Gv. 11:50).

I discepoli, turbati da queste parole, richiamarono l’attenzione di Gesù verso il tempio, non perché gli edifici (Mt. 24:1) non gli fossero familiari, ma per ricordargli che questo era il tempio di Dio, e una garanzia, come essi assumevano, della permanenza di Israele nel piano di Dio. “Ma Gesù disse loro: ‘Non vedete voi tutte queste cose? In verità vi dico che non resterà qui pietra su pietra che non sarà diroccata ’” (v.2). Ciò era sconcertante per i discepoli. E allora essi assunsero che Gerusalemme ed il tempio sarebbero potuti cadere solamente se la fine del mondo fosse stata vicina, e Gesù sarebbe stato presentato come Re del mondo, in un ordine ri-creato. La loro domanda dimostra che questa correlazione fu fatta chiaramente: “Dicci, quando avverranno queste cose. E quale sarà il segno della tua venuta, e della fine dell’età presente?” (v.3) La loro domanda in questo modo assume che tre cose siano identiche nel il tempo in cui devono accadere:

1. la caduta di Gerusalemme e la distruzione del tempio, assieme alla devastazione della nazione.2. La sua venuta come Re in potenza.3. La fine del mondo.

Gesù, nel rispondere alla loro domanda, distingue questi tre eventi e, nel suo quadro della storia, elimina interamente qualsiasi riferimento ad un millennio nel senso Giudaico o pre-millennarista. Era difficile per i Giudei visualizzare la caduta del tempio e di Israele eccetto che nei termini della fine del mondo: essi confidavano nella loro propria giustizia, sicuri della propria superiorità e sicuri dei propri privilegi con Dio. Ma Gerusalemme cadde nella guerra del 66-70 D.C., e le poche pietre lasciate una sopra l’altra dopo quella brutale guerra e distruzione di Gerusalemme da parte di Tito furono tirate giù al tempo dell’Imperatore Giuliano.

La prima sezione principale, versi 4-28, tratta della caduta di Gerusalemme e la venuta di Cristo in giudizio su Israele in quella distruzione. La domanda fu posta da quattro discepoli: Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea (Mc.13:3), i quali chiesero “il segno” della sua venuta e della fine del mondo.

Per questo nostro Signore nella sua risposta tratta prima di tutto la questione dei “segni”. “Guardate che nessuno vi seduca” (Mt. 24:4) e ciò riguardo alla questione dei segni. Egli li avverte riguardo a falsi segni, e li specifica.

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1. Si leveranno falsi messia, promettendo il millennio e il rovesciamento di Roma, e con ciò sedurranno molti Giudei (Mt. 24:11,23-24). A causa delle aspettative Giudaiche di quel tempo, i falsi messia furono numerosi, e spesso ebbero successo, a volte conducendo migliaia in rivolta contro Roma. Per loro era facile fiorire, infatti era sopraggiunto l’anno 5000, e apparentemente sarebbe dovuta cominciare l’era del regno di Dio.

2. “Guerre e rumori di guerre” costituivano un altro falso segno. Roma aveva goduto una lunga epoca di pace, ma agitazioni cominciarono ad insinuarsi in tutto l’impero, e nella capitale stessa iniziò una lunga processione di imperatori che passarono velocemente dalla successione alla morte. I Giudei furono perseguitati ed uccisi in molte parti dell’Impero a decine di migliaia. Questi “segni” (Mt. 24:6) sembrarono a molti preannunziare la fine del mondo.

3. Il prossimo falso segno era “carestie, pestilenze e terremoti in vari luoghi” (Mt. 24:7). Questi accaddero con particolare acutezza durante il primo secolo. Ci furono seri terremoti attraverso tutto l’impero ed anche in Pompei. Una carestia ai tempi di Claudio è menzionata in Atti 11:28.

4. La persecuzione costituisce un altro falso segno (Mt. 24:9-13), ma, come gli altri avvenimenti, queste cose sono solamente “l’inizio dei dolori” o delle doglie di parto (Mt. 24:8).

Tutti questi falsi segni caratterizzarono particolarmente l’epoca che precedette la caduta di Gerusalemme, ma hanno altrettanto caratterizzato altri periodi della storia, e per questa ragione costituiscono falsi segni. Questi sono aspetti ricorrenti della storia che caratterizzano un mondo pregno di peccato e scosso. Tutte queste cose, che accaddero ai loro giorni e che costituirono fuorvianti segni della FINE, sono (v.8), invece, solo segni dell’INIZIO dei “dolori del parto” dell’era Messianica. In questo modo, questi eventi costituiscono falsi segni della fine, e veri segni dell’inizio. Sono elementi nel secondo scuotimento della terra (Eb. 12:23-27) “affinché rimangano quelle che non sono scosse”. Non che questi dolori siano i veri segni della fine, ma piuttosto che “questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo in testimonianza a tutte le genti, e allora verrà la fine”(Mt. 24:14). Il Grande Mandato che nostro Signore ha dato alla chiesa il giorno della Sua ascensione enfatizzava che “Ogni potestà mi è stata data in cielo e sulla terra”, e questa potestà deve essere resa manifesta a tutti i popoli. “Andate dunque, e fate discepoli di tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte le cose che io vi ho comandato. Or ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dell’età presente. Amen” (Mt. 28:18-20). Non è la conversione di ogni creatura ad essere il segno della fine, né lo è un mondo liberato da ogni opposizione e non credenza del vangelo, ma piuttosto un mondo che è stato portato sotto la disciplina del vangelo ed evangelizzato in ogni area. E questo è lontano dall’essere un segno specifico o facilmente identificabile della fine, né viene dato per questo. Piuttosto, è un promemoria, un sollecito della grande responsabilità che grava sulla chiesa in ogni epoca. In Colossesi 1:6, 23 vediamo l’estensione a cui la chiesa primitiva testimoniò al mondo civilizzato del suo tempo. Lenski traduce la frase

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conclusiva “non fino ad allora” la fine verrà. Il tempo non è definito. La chiesa può dire solamente che la propria responsabilità prima della fine le è data.

Nei versi 15-28, nostro Signore poi parla della caduta di Gerusalemme come Sua venuta in giudizio, dissociandola dalla fine. Il Giorno del Signore e la venuta del Signore, anche la Sua venuta sulle nuvole, è spesso annunciata nelle Scritture come una vera venuta, e come distinta dalla fine e allo stesso tempo parte di essa e suo precursore. La sua venuta è sia giudizio che misericordia (Isa. 19:1).

La dissacrazione e distruzione del tempio viene immediatamente portata alla mente Giudaica dal verso 15. Il riferimento a Daniele non significa che Daniele 9:27 e Daniele 12:11 sono adempiuti nella caduta di Gerusalemme. La profezia di Daniele fu adempiuta prima del tempo di Cristo, ed è descritta in 1 Maccabei 1:20-68. Questa desolazione è analoga alla precedente. In quell’avvenimento, comunque, la dissacrazione avvenne durante la Guerra Giudaica, sotto l’insistenza degli stessi Zeloti, come Giuseppe Flavio acclara. Così, la desolazione che precedette la caduta del tempio (Mt. 24:2), fu in questa istanza Giudaica. I Giudei, avendo crocifisso il Signore della Gloria, non diedero alcuna importanza, alla fine, di contaminare il tempio nella loro auto difesa. La desolazione del tempio, resa possibile dai Zeloti che ammisero nel santuario gli Idumei, col risultato che 8500 uomini furono uccisi, avvenne PRIMA dell’assedio di Gerusalemme da parte di Tito. Dunque, Gesù diede questo avvenimento come segno ai cristiani che la nazione era finita, e che dovevano fuggire. L’avvertimento di questi versi, perciò, è per credenti, i quali, fidandosi del proprio Signore, scapperanno quando la sua profezia avviene. Benché il tempio sia stato ulteriormente contaminato dai Romani dopo la loro conquista della città, fu la precedente contaminazione a costituire un avvertimento ai cristiani in tempo sufficiente da dare un’opportunità per una rapida fuga. Luca 21:20 associa la desolazione con Gerusalemme circondata da soldati. I cristiani si salvarono dagli orrori della Guerra Giudaica precisamente perché furono allertati da queste parole e fuggirono. Le parole di nostro Signore diedero molta fretta alla fuga, nel sottolineare l’orrore e nel non permettere sprechi di tempo o ritardi. Egli la chiamò pure (Mt. 24.21) la più grande tribolazione della storia, tale che non sarà mai eguagliata fino alla fine del mondo.

Gerusalemme era affollata di compagnie di pellegrini per la Pasqua. Approssimativamente un milione morirono, molti per crocefissione, e due milioni furono venduti a morire come schiavi. Ma gli orrori più grandi avvennero all’interno della città prima della sua fine, quando la fame e la paura portarono i sedicenti eletti a indicibili orrori e cannibalismo. I Romani distrussero sistematicamente la città e vi gettarono il sale dopo aver arato la terra dove prima questa sorgeva. “E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuna carne si salverebbe; ma a motivo degli eletti, quei giorni saranno abbreviati” (V. 22). Agli eletti, i cui parenti di sangue erano tra quelli destinati alla distruzione, fu risparmiata una più lunga agonia, e il tempo dell’assedio fu abbreviato da Dio. Perfino Tito lo riconobbe: “Certamente noi abbiamo avuto l’assistenza di Dio in questa guerra, e non fu alcun altri che Dio che

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espulse i Giudei da queste fortificazioni, poiché cosa avrebbero potuto fare le mani degli uomini, o qualsiasi macchina per rovesciare queste torri?”1

Di nuovo, Gesù trattò con la speranza prematura della Sua venuta. Durante l’assedio, i falsi messia abbondarono, e molti li seguirono nella speranza di una liberazione miracolosa. Secondo Giuseppe Flavio, molti di questi erano nel libro paga di Roma. Egli registra anche segni e meraviglie, nella forma di strani fenomeni naturali. Gesù marchia come false tutte queste speranze: “Ecco, ve l’ho predetto” (vss. 23-26). La Sua venuta alla fine non avrà bisogno di essere annunciata da falsi profeti e da uomini impazziti di terrore. Sarà immediata e ovvia a tutti gli uomini in tutto il mondo (v. 27). Come il lampo è visto da tutti, ed è nel cielo, così la sua venuta sarà vista da tutti e sarà nel cielo e non sulla terra. Questi falsi messia e i falsi profeti che li annunciavano abbondavano in Giudea per una sola ragione: era divenuta un putrido carcame e perciò attirava gli avvoltoi. Le carogne attraggono i mangiatori di carogne, e un’abbondanza di ciarlatani religiosi indica la presenza di un popolo spiritualmente morto e marcio che è pronto per la ripulitura (v. 28).

Matteo 24: 29-35 forma un passo comunemente malinteso, interpretato senza riferimento al simbolismo del Vecchio Testamento e al suo significato Biblico. Isaia 13:10 e 34:4-5 devono essere letti in questa contesto, e pure Ezechiele 32:7-8. I profeti descrivono la caduta degli imperi del Vecchio Testamento parlando del sole oscurato, la luna che non risplende, le stelle che cadono dal cielo, l’esercito dei cieli che si dissolve, e dei cieli arrotolati come un rotolo. Queste cose vengono precisamente considerate come adempiute nei termini della caduta degli imperi del Vecchio Testamento, rendendo così ovvio che non possono essere intesi letteralmente. Questi stessi avvenimenti sono predetti per l’era del vangelo da Pietro, nel citare Gioele 2:28-32, in Atti 2: 16-21, e hanno luogo “PRIMA che venga il grande e terribile giorno dell’Eterno”. Perciò, essi non sono manifestazione della fine dei tempi, ma eventi dell’era del vangelo. Nel Vecchio Testamento essi rappresentano (significano) i governatori e le potenze delle nazioni, proprio come nel sogno di Giuseppe simboleggiano autorità. I profeti nel parlare in questo modo dichiararono che le autorità umane della loro era sarebbero state scosse e distrutte prima della venuta del Figlio nato dalla vergine. Ora, Cristo dichiara: “Ora, subito dopo l’afflizione di quei giorni” (Mt. 24:29), cioè dopo la caduta di Gerusalemme, avverrà nuovamente lo scuotimento del mondo, e l’era del vangelo vedrà ogni autorità umana scossa, confusa e distrutta, e Cristo stabilito quale solo vero sovrano dell’uomo, delle nazioni e dell’universo.

Se gli eventi di questi versi (29-35) si riferiscono alla fine del mondo, allora Gesù ha dichiarato qualcosa ovviamente non vero e impossibile nel dire: “in verità vi dico che questa generazione non passerà, finché tutte queste cose non siano avvenute” (v.34). La stessa cosa si applica a Matteo 16:28: “In verità vi dico che alcuni di coloro che sono qui presenti non morranno prima d’aver visto il Figlio dell’Uomo venire nel suo regno”. Se queste affermazioni sono vere, allora il linguaggio di questo passo deve necessariamente essere figurativo, nello stesso senso in cui è utilizzato nel Vecchio Testamento. Roderik Campbell ci indica il vero 1 Marcellus Kik. Mattew XXIV, Philadelphia: Presbyterian and Reformed Publishing Co., 1948, p.62.

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significato quando scrive “Quando leggiamo di Cristo venire ‘con le nuvole’ dobbiamo cercare quegli eventi nella storia nei quali l’occhio della fede troverà l’evidenza del fatto che Cristo sta ora guidando la sua chiesa, governando tra le nazioni della terra, e portando avanti, per mezzo di giudizio e di misericordia i suoi propositi nella redenzione dell’uomo. Alla sua ascensione ‘ una nuvola lo accolse e lo sottrasse alla vista’ (Atti 1:9). Lo nascose alla vista fisica dei discepoli”1

La distruzione dello stato Giudaico in adempimento della profezia di Cristo è il “segno” che egli governa “con potenza e grande gloria”, e tutti i popolo vedranno in ciò una prova visibile della sua sovranità assoluta. Che le nazioni rifiutino di riconoscere la sua sovranità non costituisce obiezione: tutte le cose, inclusi il cuore, la mente e la coscienza del non credente, testificano della totale ed assoluta sovranità di Dio il Figlio.

Non appena il vecchio testamento ed il suo tempio, popolo e città sono finalmente giudicati e tolti di scena, comincia la piena proclamazione ai Gentili. Questo è descritto nel verso 31. Il “potente suono di tromba” è spesso considerato applicarsi solamente alla fine del mondo. L’utilizzo del Vecchio Testamento acclara che la tromba suona per chiamare il popolo di Dio all’adorazione, per marciare in vittoria, per annunciare la nuova luna, e per proclamare il giubileo. Tutti questi significati sono inclusi nel verso 31. è la proclamazione del vangelo a tutta la creazione, guardando avanti alla sua grande ri-creazione. È la proclamazione del nuovo “anno” o era della storia, il tempo di giubileo, la redenzione degli schiavizzati. È la chiamata a marciare alla vittoria, e la chiamata ad adorare Dio il Figlio. La tromba compare con un simile significato in Isaia 27:13, e Isaia 61.1 fu utilizzato da nostro Signore (Lc. 4:17-21) per dichiarare l’inizio del grande giubileo dell’era del vangelo.

La parabola del verso 32 è spiegata con chiarezza da nostro Signore nei versi 33-35. Il suo significato è chiaro: la caduta di Gerusalemme, tutti i segni di cui ha parlato finora, non sono segni della fine ma semplicemente dell’inizio. Quando il fico germoglia, e le foglie cominciano a spuntare noi sappiamo che l’estate è vicina, NON L’INVERNO. Con queste parole di J.M. Kik: “La distruzione di Gerusalemme non fu un segno terribile, fu il segno dell’inizio dell’estate. Sarebbe stato l’inizio di una messe mondiale”. Così, essi dovevano essere incoraggiati da questi segni e, nonostante l’immediato dolore per la caduta della loro nazione, dovevano fidarsi in modo assoluto della Sua parola in tutte le cose, poiché: “I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mt. 24:35).

Perciò Gesù definitivamente e con grande forza dissociò la caduta del tempio e di Gerusalemme dalla fine del mondo. Egli predisse molto certamente la caduta di Gerusalemme, e diede segni espliciti di avvertimento della sua venuta, per poter salvare i suoi discepoli e i suoi seguaci dal venire coinvolti nella sua tragica fine. Ora Egli rende egualmente chiaro che NON c’è SEGNO della vicinanza della fine del mondo. La predicazione del vangelo in tutto il mondo e la frantumazione dell’autorità umana vengono dati, ma nessuno dei due è sufficientemente specifico da rendere l’uomo capace di indicare con certezza il suo ritorno. “Quanto poi a quel giorno e a 1 Campbell: Israel and the New Covenant, p. 71

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quell’ora, nessuno li conosce, neppure gli angeli dei cieli, ma soltanto il Padre mio”(v.36). “Vegliate dunque, perché non sapete a che ora il vostro Signore verrà” (v.42; vedi anche v.44). Proprio come gli uomini ai giorni di Noè non ebbero altro avvertimento della venuta del diluvio oltre alla chiamata al pentimento e alla dichiarazione del giudizio, “così sarà pure alla venuta del Figlio dell’Uomo” (v. 39). I cristiani poterono essere avvertiti della venuta del Signore in giudizio su Gerusalemme e così salvare se stessi. Ma ora non ci sarà per il peccatore opportunità di sfuggire o per il cristiano per prepararsi: sarà “preso” prima di rendersi conto dell’avvenimento. I santi saranno rapiti e portati via nel momento stesso in cui il mondo sarà distrutto.

La parabola del verso 43 è utilizzata per insegnare a vegliare e non deve essere spinta a concludere che il Signore è paragonato a un ladro. Precedentemente, ai versi 12-13 la perseveranza viene data come un segno della vera fede. Questo viene nuovamente affermato nei versi 45-51. Il falso servitore perde la fede nel governo del Signore a motivo del “ritardo” e prontamente stabilisce il proprio ordinamento, il quale è una manifestazione del peccato. Quando gli uomini sentono che Dio è remoto e il suo governo è assente, gettano via ogni ritegno e rivelano la loro vera natura. La prova del ritardo e della pazienza è la messa alla prova dei santi. Più specificamente, il servo è l’amministratore del Signore, il ministro, l’anziano, l’operaio cristiano, e ogni cristiano con responsabilità il quale, avendo la sensazione che il Signore venga meno nei suoi confronti e nel governare ogni cosa, utilizza ciò che considera impotenza di Dio come propria opportunità per indulgere verso se stesso e per stabilire il proprio governo, anziché fare il proprio lavoro in fede e con pazienza, egli usa i propri privilegi cristiani per stabilire se stesso nel peccato, nel potere e nell’auto-indulgenza. Alla sua venuta il Signore fa gettare di fuori tali uomini e li destina ad una porzione con gli ipocriti, poiché tali sono (v.51), ma il servo che ha ben presente di essere un servitore, e fedelmente attende il suo Signore e ha fiducia nel suo governo, sarà grandemente ricompensato. Quelle cose che prima teneva in amministrazione le possederà ora come un re in Cristo. “Beato quel servo che il suo padrone, quando egli tornerà, troverà facendo così. In verità io vi dico, che lo costituirà sopra tutti i suoi beni”. Il regno sarà dato ai santi quale loro eredità in Cristo. Le parabole del capitolo 25 vengono dunque indirizzate alla chiesa per esortarla alla fedeltà e alla resistenza. Esse enfatizzano il fatto del lungo ritardo (dal punto di vista umano) nella seconda venuta: “Lo sposo tardava” (25:5, vecchia Diodati “tardando lo sposo”; in 25:19, le parole “ora, dopo molto tempo, ritornò il signore di quei servi nuovamente enfatizza la necessità di avere pazienza, e il sentimento del ritardo dal punto di vista umano.

Così, nostro Signore ci mette in guardia contro il cercare di stabilire delle date, cercare segni, e di avere fretta al suo tardare. Egli offre la caduta di Gerusalemme come pegno del suo assoluto governo e sovranità, un segno da far portare il lutto alle nazioni ma da far gioire i santi. La stessa assoluta sovranità che Egli manifestò nel profetizzare la caduta di Gerusalemme e nel comandarla, Egli manifesta oggi quale solo e assoluto Signore della storia. Le “tribù della terra” hanno grande ragione di essere in lutto, ma noi dobbiamo gioire, essendo entrati nel

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giubileo, ed essendo incaricati di chiamare altri dentro a quella vita di vittoria, sperimentata qui in potenza molto reale, e nella sua pienezza nell’era a venire.

1 & 2 Tessalonicesisulla Seconda Venuta

1 Tessalonicesi 4:13- 5:11Paolo, nello scrivere ai Tessalonicesi, affrontava una situazione non troppo

dissimile quella nostra moderna, nel fatto che il popolo della chiesa era diviso in due campi, quelli che dubitavano la resurrezione, e quelli che a questo riguardo si erano dati a credenze stravaganti. Paolo scrive affinché essi potessero evitare la tristezza dei

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pagani: “come gli altri che non hanno speranza (4:13). Credere che Gesù morì e risorse (4:14) significa anche credere nella nostra resurrezione dai morti. Cristo è il rappresentante dell’uomo (il capo federale), e tutti quelli che sono membri della sua nuova umanità compartecipano della sua vita e della sua resurrezione. Perciò, coloro i quali muoiono prima del suo ritorno non vivranno una vita minore, come credevano alcuni dei Tessalonicesi. Per i pagani, c’era una pallida ed indesiderabile immortalità dell’anima, concepita come una esile sostanza materiale, e la vita dell’anima era poco attrattiva, ma evanescente, senza significato e penosa. Le “ombre” dei defunti è un’espressione significativa che è indicativa della considerazione pagana per il dopo la vita; è un’esistenza grigia, ombrosa. Paolo assicura i Tessalonicesi che non è questo tipo di vita senza significato ad essere in serbo per i morti. La loro presente vita in Cristo, come anime, è una di gloria, e alla seconda venuta, si rialzeranno nei loro corpi risorti, e insieme a coloro che saranno vivi “saranno rapiti insieme a loro sulle nuvole, per incontrare il Signore nell’aria” (4:17). Nel verso 16 Hendriksen traduce: “Con un comando gridato”, vale a dire come quello di un conquistatore.1

In 5:2, Paolo ammonisce i credenti ad essere preparati in ogni tempo. Gli uomini non avranno indicazioni della sua venuta. Gioiranno dicendosi: “Pace e sicurezza” (5:3), quando la subitanea rovina cadrà su di loro. Proprio come un ladro viene inaspettato, così il Signore verrà inaspettatamente e troverà i non credenti impreparati.

Davanti a tutto questo, egli emette un avvertimento ai cristiani. Li urge ad evitare il sonno e ad essere vigili (5:6-8). Secondo Hendriksen:

Dormire (cf. Mc. 13:36; Ef. 5:14) significa vivere come se non ci fosse mai un giorno del giudizio. È indicativo di rilassatezza morale e spirituale. Luca 12:45 descrive questa condizione vividamente…

Vegliare significa vivere una vita santificata, nella consapevolezza della venuta del giorno del giudizio. È indicativo di attenzione morale e spirituale…

Essere sobri significa essere ripieni di onestà morale e spirituale, non essendo eccessivamente eccitati da un lato, ne indifferenti dall’altro, ma calmi, stabili e assennati (cf. 1 Pt. 4:7), facendo il proprio dovere e adempiendo il proprio ministero (2 Tim. 4:5) La persona sobria vive profondamente.2

In 5:3 Paolo dichiara che il giorno è nelle mani del Signore interamente, sia riguardo alla venuta, sia alla relativa conoscenza. Non c’è modo di sfuggirlo o di prevenirlo. Proprio come una donna con bambino, al momento del travaglio, non può impedire la sua venuta, così sono gli uomini incapaci di impedire la venuta del Grande Giorno del Signore.

1 William Hendriksen: I e II Thessalonians; Grand rapids. Backer Book House, 1955, p. 1152 Ibid.; p. 125

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Sia questo passo, sia Romani 13:11-14 ci danno un’altra importante immagine, come indica Vos: la storia, Paolo dichiara, è al presente in una grande notte mondiale.3 Ma con la venuta di Cristo, si può dire che la notte è terminata e che il giorno è ora vicino. La grande notte mondiale è nel processo di essere dispersa da parte del Signore col Suo evangelo, ed il grande giorno albeggerà alla sua venuta. I credenti vengono dunque richiamati a rivestirsi dell’ “armatura della luce” e di prepararsi. Per i non credenti, comunque, il Giorno del Signore è tenebre e non luce (Amos 5:18). Inoltre, le doglie del parto descritte in 5:3 appartengono alla creazione intera, la quale geme ed è in travaglio per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio (Rom. 8:19-23).

2 Tessalonicesi 2

In 2 Tessalonicesi 2, Paolo torna nuovamente sul soggetto. Nella sua lettera precedente (1Tess. 5:1), egli aveva fatto riferimento ai suoi insegnamenti orali sui “tempi” (periodi di tempo) e “stagioni” (tempo marcato da chiare tendenze ed eventi) pertinenti alla venuta del Signore. Egli scrive ora per correggere alcune percezioni erronee. Opinioni sbagliate riguardo alla seconda venuta sono prevalenti, alcuni aspettandolo immediatamente, e perfino apparentemente negligendo il proprio lavoro in questa credenza. Parole falsificate, apparentemente attribuite a Paolo, venivano fatte circolare per aumentare la confusione.

Paolo tratta questa questione indicando che certe cose devono trasparire prima che avvenga la resurrezione generale. Queste cose sono:

1. L’apostasia (2:3)2. La manifestazione dell’uomo del peccato (2:3-6,8-12)3. La venuta del Signore (2:8)4. Il potere che impedisce o trattiene il male per il momento viene tolto (2:6-7)

A questo punto è istruttivo rivedere alcuni dei punti cardinali di Apocalisse, come concepisce il futuro:

1. L’umanesimo crea o cerca di creare un mondo senza Dio2. Questo ordinamento o sogno è chiamato Babilonia la Grande.3. C’è un totale collasso di questa speranza e del suo ordinamento.4. Ne consegue il regno dei santi.

È necessario, inoltre, richiamare l’attenzione al fatto che c’è una comune confusione di diversi termini. Anticristo e “quell’empio” (2:8) sono pretesi un'unica figura, e i due termini sono divenuti alternabili, ma non c’è fondamento valido per questa scelta.

Prima di tutto, anticristo è un nome usato solo da San Giovanni, in 1 Gv. 2: 18, 22; 4:3 e in 2 Gv.7. L’originale Greco acclara la definizione di anticristo, il quale è 3 Geerardus Vos: The Pauline Eschatology; Grand rapids; Eerdmans, 1930, p.81.

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descritto come già qui ai giorni di Giovanni: “Costui è l'anticristo, che nega il Padre e il Figlio”. Leggere un anticristo è tradurre male il Greco.

Non c’è assolutamente alcun fondamento per intendere anticristo in modo diverso da come Giovanni l’ha dichiarato essere: qualsiasi e ogni persona, dentro o fuori la chiesa, la quale neghi il Padre e il Figlio. Abbiamo avuto anticristi con noi dai giorni di San Giovanni.

Secondo, l’uomo del peccato(anomia1-senza legge) manifesta la vera natura del peccato, essere come Dio, usurpare il suo trono. Il peccato di Adamo è fatto divenire il principio della religione per l’uomo del peccato, il quale, come Giuda, è chiamato il “figlio della perdizione” (2:3), cioè esposto, marchiato come Giuda quale apostata e traditore. Deifica se stesso e ha il potere “bugiardo”, portenti, segni e prodigi (in v. 9 bugiardi qualifica portenti, segni e prodigi e non solo prodigi). La traduzione del Berkeley rende “il mistero dell’iniquità” di v. 7 con “il principio nascosto dell’empietà”. Così, o un movimento, o un movimento capeggiato da una figura, incorpora il principio di Satana e la sua tentazione in un assalto diretto all’ordinamento di Dio, in un tentativo di sostituire l’ordinamento di Dio con l’ordinamento dell’uomo, il nuovo dio. Ciò significa, perciò, un ordinamento totale in chiesa, stato, e qualsiasi altra cosa, nel quale il principio di “anomia” contrarietà alla legge, di contrarietà a Dio, viene incarnato. Chiesa e stato seguono le orme di questa “azione di Satana”(2:9).

Terzo, un potere restrittivo ordinato da Dio, un potere che impedisce, verrà tolto. L’anomia in questo modo governerà anziché essere governata. Ovviamente, perciò, il principio di legge nella chiesa, nello stato, nella casa e in qualsiasi altro luogo, ma specialmente nel governo civile, sarà “tolto di mezzo”, sarà rimosso dal principio dell’anomia.

Quarto, Gesù Cristo “distruggerà questo empio o l’iniquo (il senza legge) che Egli consumerà col soffio della Sua bocca e annienterà all’apparire della sua venuta” (2:8). Questo è un procedimento di distruzione prima per la Parola (lo spirito della sua bocca), e secondo, con la sua venuta. Una parte del procedimento di distruzione implica l’azione di Dio con la quale Egli manda “una forte delusione” “efficacia d’errore, perché credano alla menzogna, affinché siano giudicati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma si sono compiaciuti nella malvagità” (2:11-12).

Quinto, lo scopo di Paolo in questa lettera non è di soddisfare la curiosità degli uomini riguardo alle cose che devono avvenire, ma di prepararli alla battaglia contro le potenze delle tenebre. Proprio come Dio divenne carne e la giustizia di Dio fu resa manifesta nella persona di Gesù Cristo, così ‘l’anti-legge’ sarà reso manifesto nel principio dell’anomia, del peccato. La tentazione di Satana, anziché essere la vergogna dell’uomo, sarà elevata a orgoglio e gloria dell’uomo. Ma la vittoria è assicurata in Cristo, e i santi sono chiamati alla battaglia fino alla vittoria. Paolo scrisse per “confortare i vostri cuori e confermarvi in ogni opera buona” (2:17).

1 N.d.T. L’Inglese ha “lawless” e “lawlesness” In Italiano manca una parola che traduca bene il senso di “a-nomia” cioè senza-legge, dunque da qui userò il termine “anomia”.

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Salmo 149La chiamata è alla Vittoria

Ci fu un tempo in cui il Salmo 149 fu largamente usato in tempi di pericolo e di guerra. Ammesso che a volte eretici come Thomas Munzer ne fecero un uso malvagio, rimane il fatto che tutti quelli che lo utilizzarono avevano su questo punto una consapevolezza più realistica del significato delle Scritture di quanto non abbiano i cristiani oggi. Salmo 149 e testi simili delle Scritture furono usati in egual modo da ortodossi e da eretici perché su questo punto entrambi credevano nell’affermazione

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spesso ripetuta delle Scritture che Dio chiama il Suo popolo alla vittoria nel tempo e nell’eternità.

Questo è un salmo di Lode: ci da aspetti della lode di Dio, aspetti che Dio ha ordinato e richiede.

Ci sono due modi in cui noi siamo chiamati e ci viene richiesto di lodare Dio. Il Salmo comincia e termina con una chiamata ed un comando: “Lodate il SIGNORE” (che è il significato di Alleluia: lodate Jah!).

La prima forma di lode richiesta è la lode di adorazione esuberante, di gioia e di bellezza (vv.1-4). La chiamata è a cantare un “canto nuovo”, cioè un canto di ringraziamento per la liberazione.. L’adorazione di Dio richiede lode e ringraziamento (v.1).

Il popolo di Dio (Israele) deve gioire nel suo Fattore; devono essere gioiosi in colui che è il loro Re. Il fatto della regalità di Dio proviene dalla sua creazione del cielo e della terra. Quale Creatore di tutte le cose, Dio è l’assoluto legislatore, Signore e Re su tutto.

La lode di Dio è di esuberante, gioioso ringraziamento. Devono lodare Dio (v.3) con la mente e col corpo, con la musica e la danza (cf. Es. 15:20; Gdc. 11:34; 2 Sam. 6:14; Ger. 31:4). La vita del credente deve essere una vita gioiosa in ogni aspetto. Egli deve essere di mente “sobria” (1Tess. 5:6), cioè stabile, calmo, evitando sia l’indifferenza sia l’eccitabilità. Ma una persona sobria può essere anche gioiosa ed esuberante, L’eccitabilità o l’instabilità emozionale e la gioiosa esuberanza sono due cose diverse.

La ragione per questa gioia si trova nel fatto che il Signore “si compiace (prende piacere) nel Suo popolo”. Essi sono gli “umili” che qui significa “inchinati” dall’ oppressione, dalla sofferenza a motivo della loro posizione di fede. Ma il Signore “corona gli umili di salvezza” (v.4). Il proposito di Dio, come lo ha dichiarato Isaia è “per accordare gioia a quelli che fanno cordoglio in Sion per dare loro un diadema invece della cenere, l'olio della gioia invece del lutto, il manto della lode invece di uno spirito abbattuto, affinché siano chiamati querce di giustizia, la piantagione dell'Eterno per manifestare la sua gloria” (Isa 61:3).

La seconda forma di lode richiesta è con la battaglia fino alla vittoria (vv.5-9).L’introduzione a questo è il verso 5, che richiede ai santi di “esultare nella

gloria, cantare di gioia sui loro letti”. Ciò che i versi 6-9 hanno in mente è una battaglia reale e la distruzione fisica dei nemici di Dio. Questi versi non si possono mitigare spiritualizzandoli. Parlano di una letterale distruzione dei nemici di Dio come mezzo per lodare Dio, un mezzo ordinato da Dio e una vittoria da Lui ordinata. È questo trionfo che li fa gridare di gioia sui loro letti, incapaci di dormire dalla vera gioia. È la chiamata di Dio per il Suo popolo.

Questa chiamata alla vittoria implica, primo, la lode di Dio dal cuore e dalla bocca. Secondo, richiede uno stato di guerra, di guerra totale, contro i nemici di Dio, contro il male. Il popolo di Dio deve essere pronto alla guerra: “abbiano nella loro mano una spada a due tagli” (v.6). Terzo, Dio chiama il suo popolo ad esercitare il potere in ogni area, nella chiesa e nello stato, e a servire Dio nel portare la giustizia ad efficacia contro chi commette il male: “per far vendetta sulle nazioni e infliggere

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castighi sui popoli” (v.7). Quarto, la natura stessa di questa vendetta viene specificata. Non tutto il male può essere eliminato dal mondo. Ma una legge ed un ordinamento pii possono “legare”, incatenare il male ed imporre “ceppi di ferro” e restrizione su tutti coloro che violano la legge. Quinto, “per eseguire su di loro il giudizio scritto”, non è per i santi solo un dovere, ma fare questo è anche il loro “onore” o la loro gloria. Come scrisse Alexander: “Agire come strumento di Dio in questo grande procedimento giudiziario, lontano dall’essere disonore o fatica, è un onore riservato per tutti quelli che sono oggetto della sua misericordia e soggetti della sua grazia”.1

La mal’ interpretazione di questo Salmo implica la sua lettura come un documento interamente del passato, della storia di Israele, di nessun rilievo per noi oggi. Ammesso che il salmo possa aver avuto un riferimento ad uno specifico accadimento storico, ed è probabile che sia così, nondimeno è una perversione della storia limitare al passato un testo che è dato senza tale limitazione. Era Dio per la vittoria la dove si concerne con Israele e per la sconfitta dove si concerne con uomini e nazioni cristiane? Leupold legge questo salmo nei termini del passato, e in quei termini lo difende.2 Ma tale difesa è triste, e rincresce in un abile commentatore. Era l’azione di Dio morale allora e immorale ora?

La negligenza verso questo Salmo, e di molti altri passi similari, avviene a motivo dell’eresia prevalente del disfattismo, un credo Manicheo che satana trionferà nel mondo materiale e solo la seconda venuta ribalterà questa sconfitta.

Questo Salmo parla incondizionatamente, e parla di vittoria. Coloro i quali rifiutano di credere che la storia vedrà il trionfo del popolo di Dio, la loro vendetta sui nemici di Dio, e il loro governo in giustizia e verità, stanno negando a Dio la lode che gli è dovuta.

Salmo 149 è uno dei salmi de “ Il Grande Hallel” (Sal. 146-150) è fondamentale alla lode di Dio, alla “lode espressa con potenza”.3

Un punto finale: i commentatori che, trattando questo Salmo come applicabile esclusivamente alla storia d’Israele, allora e solo allora difendono la sua moralità, rivelano la propria immoralità. Limitare una giustificazione della vittoria alla storia da tempo passata è spaventoso. Il loro Dio è morto; era in funzione solo nell’antico passato d’Israele. Tali uomini sono colpevoli di bestemmia e meritano la vendetta di Dio, che siano credenti o meno. Il Signore è un Dio di battaglia e di vittoria. Non c’è altro Dio. Le Scritture conoscono un solo vero Dio, ed Egli non cambia.

1 Joseph Addison Alexander: The Psalms; Grand Rapids, Zondervan, 1864, p. 563.2 H.C. Leupold: Exposition of the Psalms; Columbus Ohio, Wartburgh Press, 1959, p. 1001-1005.Nel v.3, Leupold insiste nel tradurre la semplice parola “danza” in “danza solenne!”. Se c’è in questo salmo qualcosa di chiaro è che è significata gioia esuberante, non solennità. Una “danza solenne” è il tipo di bestemmia pretenziosa messa in campo dalle chiese moderniste. Leupold assume che sia significata una danza religiosa. Dalla prospettiva delle Scritture, tutte le cose sono religiose, ma solo atti di adorazione sono associati col santuario.3 Lesile S. M’Caw. “The Psalms” , in F. Davidson, A.M. Stibbs, E.F. Kevan, editori: The New Bible Commentary; Grand Rapids, Eerdmans, 1953; p. 513.

Venga il Tuo Regno 204