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La tempesta perfetta di GIUSEPPE BORELLO, LORENZO GIROFFI e ANDREA SCERESINI VALENCIA - Sull'autobus che conduce alla periferia meridionale non c'è neanche lo spazio per passarsi una mano sulla fronte e asciugarsi il sudore. I più audaci viaggiano all'esterno della vettura aggrappati ad altre persone, basterebbe una sterzata improvvisa o una buca per farli piombare sull'asfalto. All'interno l'allegra melodia della salsa viene sparata a tutto volume ma gli sguardi sono assenti. L'unica preoccupazione grida un passeggero è: "Speriamo che questa volta ci sia farina per tutti". È l'alba e dai finestrini scorre una lunga fila di persone in attesa di entrare in un supermercato, molte sono donne coi bambini in braccio. "Fermati! Facci scendere!" si urla, la musica ormai non si riesce più a sentire. Scene di ordinaria quotidianità, nel Venezuela del dopo-Chavez sconquassato dalla crisi economica. Siamo nella città di Valencia, circa centocinquanta chilometri a ovest di Caracas: una piccola metropoli da tre milioni di abitanti famosa per essere il cuore produttivo del Paese, oggi però buona parte dei suoi cittadini combatte contro la povertà. Da tempo i dati ufficiali non vengono divulgati e così per tastare il polso della Repubblica Bolivariana bisogna affidarsi a organizzazioni non governative e internazionali. Secondo la ong Provea nel 2015 si avranno 11 milioni di poveri in Venezuela e il collettore di questa miseria galoppante diventa la città. Basta lasciarsi alle spalle il centro di Valencia per Plaza de Toros, dove si trova la più grande arena per corride del Sud America. In questa periferia meridionale le linee perfette degli architetti vengono cancellate da sterminati "barrios" di baracche fatiscenti, per i valenciani è "el Sur". Quando un pollo vale più di un uomo. Proprio in zona si trova l'emblema della crisi venezuelana: il supermercato "El Bicentenario", il più grande dell'intera provincia. È stato nazionalizzato per volere del governo e ogni giorno - dal tramonto all'alba - è assediato da decine di migliaia di persone. I beni di prima necessità sono venduti a prezzi politici. Un litro d'olio, ad esempio, costa 103 bolivar, l'equivalente di 15 centesimi di euro. Per procurarselo, però, bisogna mettersi in fila per diverse ore, sperando di raggiungere la cassa prima dell'esaurimento scorte. Una volta terminata l'attesa, sarà necessario esibire la propria carta d'identità - la cosiddetta "cedula": "Oggi vendono olio e farina

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La tempesta perfettadi GIUSEPPE BORELLO, LORENZO GIROFFI e ANDREA SCERESINIVALENCIA - Sull'autobus che conduce alla periferia meridionale non c'è neanche lo spazio per passarsi una mano sulla fronte e asciugarsi il sudore. I più audaci viaggiano all'esterno della vettura aggrappati ad altre persone, basterebbe una sterzata improvvisa o una buca per farli piombare sull'asfalto. All'interno l'allegra melodia della salsa viene sparata a tutto volume ma gli sguardi sono assenti. L'unica preoccupazione grida un passeggero è: "Speriamo che questa volta ci sia farina per tutti". È l'alba e dai finestrini scorre una lunga fila di persone in attesa di entrare in un supermercato, molte sono donne coi bambini in braccio. "Fermati! Facci scendere!" si urla, la musica ormai non si riesce più a sentire. Scene di ordinaria quotidianità, nel Venezuela del dopo-Chavez sconquassato dalla crisi economica. Siamo nella città di Valencia, circa centocinquanta chilometri a ovest di Caracas: una piccola metropoli da tre milioni di abitanti famosa per essere il cuore produttivo del Paese, oggi però buona parte dei suoi cittadini combatte contro la povertà. Da tempo i dati ufficiali non vengono divulgati e così per tastare il polso della Repubblica Bolivariana bisogna affidarsi a organizzazioni non governative e internazionali. Secondo la ong Provea nel 2015 si avranno 11 milioni di poveriin Venezuela  e il collettore di questa miseria galoppante diventa la città. Basta lasciarsi alle spalle il centro di Valencia per Plaza de Toros, dove si trova la più grande arena per corride del Sud America. In questa periferia meridionale le linee perfette degli architetti vengono cancellate da sterminati "barrios" di baracche fatiscenti, per i valenciani è "el Sur".

Quando un pollo vale più di un uomo. Proprio in zona si trova l'emblema della crisi venezuelana: il supermercato "El Bicentenario", il più grande dell'intera provincia. È stato nazionalizzato per volere del governo e ogni giorno  -  dal tramonto all'alba  -  è assediato da decine di migliaia di persone. I beni di prima necessità sono venduti a prezzi politici. Un litro d'olio, ad esempio, costa 103 bolivar, l'equivalente di 15 centesimi di euro. Per procurarselo, però, bisogna mettersi in fila per diverse ore, sperando di raggiungere la cassa prima dell'esaurimento scorte. Una volta terminata l'attesa, sarà necessario esibire la propria carta d'identità  -  la cosiddetta "cedula": "Oggi vendono olio e farina  -  spiega una signora anziana -. La distribuzione è riservata a coloro il cui numero di documento finisce con uno, due o tre. Gli altri dovranno presentarsi o domani o dopodomani, e così via con gli altri prodotti.

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Venezuela, supermercati vuoti e lunghe file per i generi di prima necessità

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Non ci sono grosse alternative: l'unica è morire di fame". Non di rado, le lunghe attese sotto il sole si risolvono in immense risse tra disperati, con un immancabile corollario di morti e feriti. Nel solo "Bicentenario", durante la prima settimana di agosto, hanno perso la vita ben due persone, una anziana e un bambino: entrambi sono stati travolti dalla folla in corsa, in seguito all'apertura di una nuova cassa. "È arrivato il pollo e tutti ci siamo messi a correre  -  ricorda Margarita, una testimone  - . È stato in quel momento che hanno atterrato una signora anziana. Nella caduta si è rotta la testa e nonostante il sangue sul pavimento, la gente continuava a camminarle sopra. Infine quando siamo arrivati alla cassa ci hanno detto: 'No, abbiamo smesso di vendere'".

Pistole e coltelli. Oggi il punto vendita è presidiato da decine di soldati in divisa verde oliva, con tanto di kalashnikov a tracolla: sbirciando tra le file serrate, nonostante la loro presenza, non è per niente raro veder luccicare un coltello, un coccio di bottiglia o il calcio di una pistola. È una drammatica guerra tra poveri, combattuta per accaparrarsi poco più del nulla. Basta guardarsi un po' attorno per rendersi conto che buona parte degli scaffali sono desolatamente vuoti. Shampoo e sapone sono praticamente introvabili. Lo stesso vale per tante medicine, per i preservativi, e addirittura per l'acqua minerale. Per salvare almeno le apparenze, i responsabili del punto vendita hanno ripiegato su una soluzione grottesca: laddove le mensole andavano svuotandosi, hanno iniziato a riempirle con ogni genere di avanzo di magazzino  -  lumini per le tombe, detersivi per parabrezza, fiori di plastica. Il tutto ripetuto ossessivamente, in sprezzo a qualsiasi senso del ridicolo, come in un eterno film dell'orrore.

La tentazione dei petrodollari. Di chi sono le colpe? La "vox populi", almeno da questo

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punto di vista, è piuttosto concorde: "Gobierno criminal", mormora la gente in coda. Il Venezuela è il dodicesimo produttore di petrolio al mondo e negli anni ha basato il suo modello di sviluppo unicamente sulla vendita dell'oro nero, raggiungendo il 96 per cento delle esportazioni. Il boom del greggio degli ultimi 15 anni, con il barile oltre i 100 dollari, ha trainato il Pil venezuelano, passato da 98 a 509 miliardi di dollari. L'enorme afflusso di banconote verdi ha permesso al "comandante eterno" Hugo Chavez di promuovere politiche di distribuzione della ricchezza e altri piani di intervento come le "Misiones Bolivarianas". Mentre la rivoluzione socialista macinava consensi sia all'estero che alle urne, Chavez ha dato inizio a un piano di nazionalizzazioni ed espropriazioni che ha interessato tutti i settori. Così molte terre e industrie sono passate sotto il controllo statale minando la fiducia degli investitori privati. La doccia fredda è arrivata nel 2014: la concorrenza dei produttori di shale gas, il rischio dell'uscita della Grecia dall'Unione europea, i timori sul raffreddamento della crescita cinese e l'accordo Tehran-Washington  che inonderà il mercato di petrolio iraniano; questi elementi hanno spinto il prezzo del barile sotto i 50 dollari.

"Perché il Venezuela è arrivato al collasso"

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Per il professore Pablo Polo, responsabile della facoltà di economia dell'università di Valencia, il crollo dell'oro nero ha scoperto la fragilità dell'economia di Caracas: "Non ci sono dollari a sufficienza quindi non si importa e non si produce per mancanza di materie prime, anch'esse importate. La risposta del governo? Stampare più moneta locale". Il bolivar si è svalutato rapidamente generando così un processo di iperinflazione senza precedenti: "la tempesta perfetta", lo hanno soprannominato. Secondo i bollettini periodici della Banca centrale venezuelana l'inflazione nel 2014 ha sfiorato il 70 per cento. Mentre per quest'anno le previsioni sono da incubo, la Bank of America stima un aumento dei prezzi del 170 per cento.

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Senza farina ma con la benzina gratis. La sua drammatica entità è riassumibile in un pugno di dati. Secondo il cambio ufficiale, per acquistare un dollaro sono necessari 6,3 bolivar. Questa equivalenza, tuttavia, è valida solo sulla carta. La quotazione reale viene dettata dal mercato nero, in base alle contrattazioni che avvengono ogni giorno nel tratto di giungla al confine con la Colombia e che riguarda i prodotti venezuelani calmierati. Tra questi questi c'è la benzina, a Valencia un automobilista spende l'equivalente di un centesimo di euro per un pieno, oltre confine ci vogliono 25 euro per 40 litri. Un paradiso per i contrabbandieri. Tali dati vengono poi pubblicati su internet sul sito Dolar Today, e attraverso la rete dettano l'agenda economica del Paese. Per acquistare un dollaro sono attualmente necessari almeno 700 bolivar, ovvero oltre cento volte ciò che predica il governo.

Il gap continua ad aumentare, giorno dopo giorno, e con esso i prezzi dei prodotti non calmierati. La banconota di taglio più alto, quella da cento bolivar, vale poco più di dieci centesimi di dollaro. Le monete hanno smesso di circolare, mentre i tagli cartacei più piccoli  -  uno, due, cinque e dieci bolivar  -  sono così svalutati che il loro valore nominale è diventato più basso di quello materiale. Letteralmente, dunque: non valgono la carta sulla quale sono stampati. In un simile contesto, il mondo legale e quello illegale hanno finito ben presto col capovolgersi: il cambio clandestino ha soppiantato quello ufficiale, mentre il mercato nero sta letteralmente fagocitando l'intera economia.

Il mercato nero ha soppiantato quello regolamentato. È nata una nuova figura lavorativa, quella del "bachaquero". Alla lettera, significa "formichina": è colui che ogni giorni si mette in

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fila di fronte ai supermercati, facendo incetta di prodotti di prima necessità e rivendendoli poi, per strada o nelle piazze, a prezzi sensibilmente maggiorati. Se nei negozi non si trova nulla, ai "bachaquero" si può domandare di tutto: a patto, ovviamente, di avere i soldi necessari per pagare. Così la nostra bottiglia d'olio, che ufficialmente costa 103 bolivar, può essere agevolmente recuperata sul mercato nero  -  senza risse né code  -  al prezzo di duecentocinquanta Bolivar. Lo stesso vale per le medicine, per il sapone, per i preservativi e per l'acqua. È tutta questione di soldi, il che effettivamente suona piuttosto paradossale  -  in un Paese che a sedici anni dal trionfo di Chavez continua a definirsi "socialista".

I nemici stranieri. Negli scorsi giorni, la polizia venezuelana ha espulso dal Paese circa millecento cittadini colombiani, rei  -  secondo le accuse di Maduro - "di aver fomentato il contrabbando e aver dato vita a gruppi paramilitari antigovernativi". Una tesi che appare piuttosto scricchiolante, dal momento che tra i deportati figurano anche diversi anziani e almeno duecento bambini. Decine di abitazioni sarebbero state distrutte dalle forze dell'ordine di Caracas, che avrebbero intimato agli occupanti di sgomberare immediatamente e senza alcun preavviso. "Come si può dire che una povera anziana deportata è colpevole della scarsità di prodotti di base di cui soffre il popolo venezuelano?", ha dichiarato senza mezzi termini il presidente colombiano Juan Manuel Santos. Da parte sua, l'erede di Chavez parla di "mistificazioni e falsità", ma nel frattempo la tensione continua a crescere. È lo spettro della cosiddetta "guerra economica", un presunto complotto internazionale orchestrato da Washington, con l'appoggio dei Paesi limitrofi, che secondo Maduro sarebbe il principale responsabile della crisi nella quale versa la nazione.

La tesi viene riproposta in ogni occasione, per mezzo dei media governativi: "Dobbiamo unirci tutti, civili e militari, in una grande controffensiva economica  -  ha annunciato il presidente -. Solo in questo modo potremo porre fine alla guerra economica che sta affamando il nostro

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popolo". Lo specchietto per le allodole ha il duplice ruolo di sviare l'attenzione dalle vere responsabilità del governo, giustificandone  -  nel contempo  -  ogni campagna politica. Prima di scagliarsi contro la Colombia, Maduro aveva duramente attaccato la Guyana, colpevole  -  secondo una vecchia tesi nazionalistica  -  di aver occupato fin dal lontano 1899 alcuni territori appartenenti al Venezuela. L'antica disputa ha tenuto banco per tutta l'estate, in una grottesca sciarada sciovinista che ha raggiunto il suo apice con la seguente dichiarazione del presidente: "L'obiettivo della Guyana è provocare il Venezuela".

L'opposizione politica dietro le sbarre. A meno di tre mesi dalle elezioni parlamentari del 6 dicembre, le autorità di Caracas sono alla disperata ricerca di nuove mosse propagandistiche. I sondaggi danno ormai per certa la vittoria dell'opposizione, anche se sono fuori gioco i suoi leader più carismatici tra cuiLeopoldo López, guida del partito d'opposizione venezuelano Voluntad Popular, condannato a 13 anni di carcere con l'accusa di aver fomentato le rivolte dell'anno scorso contro il governo. Esclusa anche María Corina Machado, altra leader di Voluntad Poular, che non potrà candidarsi per alcune presunte irregolarità nella dichiarazione dei buoni pasto, in passato è stata accusata di ordire un piano per assassinare Maduro. Dopo l'arresto l'oppositrice sta cercando di svegliare le coscienze dei venezuelani pronti ad andare alle urne: "È una sentenza contro un uomo innocente senza che ci siano prove. Il cammino della libertà di Leopoldo Lopez è nelle mani di ogni venezuelano".

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Fuori anche l'ex sindaco di San Cristobal Daniel Ceballos recluso per aver provocato disordini. Ma l'ultima parola per il partito socialista unito del Venezuela non è ancora stata detta. Pechino concederà al Paese latinoamericano un prestito di cinque miliardi di dollari. Nel contempo, è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione decennale, che riguarderà lo sviluppo del settore energetico, l'agricoltura e la tecnologia: i capitali cinesi potranno forse donare un po' di ossigeno alla disastrate finanze del post-chavismo. Dal canto suo, Caracas ricambierà con l'unica moneta di scambio che ancora gli resta a disposizione: greggio a basso costo.

Un bollettino di guerra. L'illegalità, del resto, ha sempre un suo prezzo da pagare: mercato nero uguale business, business uguale denaro, denaro uguale mafia. Per difendere i loro fiorenti imperi, i trafficanti locali hanno messo in piedi decine di bande armate, i cui scagnozzi seminano il panico in ogni angolo della nazione. Oggi il Venezuela è il secondo Paese più violento al mondo, dopo l'Honduras. L'anno scorso si sono contati circa 25mila omicidi. Nella sola regione di Valencia  -  lo stato Carabobo  -  sono state uccise nel mese di luglio di quest'anno 139 persone, per la maggior parte adolescenti. La chiamano crisi economica. Forse, bisognerebbe ribattezzarla guerra civile.

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