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Università degli Studi di Firenze Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria Tesi di Laurea in Didattica della Fisica Il mondo delle bolle di sapone: un percorso scientifico per la scuola primaria Relatore: Dott. Samuele Straulino Candidato: Sara Pennucci Anno Accademico 2009/2010

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Università degli Studi di Firenze Facoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria

Tesi di Laurea in Didattica della Fisica

Il mondo delle bolle di sapone: un percorso scientifico

per la scuola primaria

Relatore:

Dott. Samuele Straulino

Candidato:

Sara Pennucci

Anno Accademico 2009/2010

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Ai miei genitori,

ad Alessandro,

a me stessa.

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Indice

Indice................................................................................................................. 1

Introduzione...................................................................................................... 3

Capitolo 1

La storia delle bolle di sapone attraverso l’arte, la letteratura e l’architettura...................................................................................................... 5

1.1 Nell’arte ...................................................................................................... 5

1.2 In letteratura ............................................................................................. 14

1.3 In architettura ........................................................................................... 18

Capitolo 2

Le proprietà fisico-chimiche delle bolle di sapone ..................................... 25

2.1 Tensione superficiale ............................................................................... 27

2.2 Bagnabilità ............................................................................................... 33

2.3 Capillarità ................................................................................................. 34

2.4 Il percorso più breve fra n punti e le superfici minime .............................. 37

2.5 Proprietà isoperimetriche ......................................................................... 39

2.6 Il problema di Plateau............................................................................... 45

2.7 L’acqua e le sue proprietà chimico-fisiche................................................ 52

2.8 Il sapone e le sue proprietà chimico-fisiche.............................................. 54

2.9 Riflessione e interferenza ........................................................................ 58

Capitolo 3

Il valore formativo della scienza ................................................................... 63

3.1 Il valore attribuito alla scienza e al bambino a partire dai programmi del

1985 fino alle Indicazioni Nazionali per il Curricolo del 2007.................... 68

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Capitolo 4

I metodi di insegnamento che favoriscono l’apprendimento anche nella scienza ............................................................................................................ 73

4.1 La didattica laboratoriale .......................................................................... 73

4.2 La discussione in classe........................................................................... 79

4.3 Il Cooperative Learning ............................................................................ 81

4.4 Il metodo scientifico sperimentale ............................................................ 83

Capitolo 5

La progettazione del percorso didattico “Le bolle di sapone”................... 89

5.1 Prima della realizzazione del progetto...................................................... 89

5.2 Perché le bolle di sapone? ....................................................................... 91

5.3 Il contesto................................................................................................. 91

5.4 Il progetto ................................................................................................. 92

5.5 Struttura schematica del progetto ............................................................ 92

Capitolo 6

Il progetto didattico fase dopo fase.............................................................. 95

6.1 Prima fase: ci sono bolle … e bolle .......................................................... 95

6.2 Seconda fase : caccia alla “ricetta”......................................................... 108

6.3 Terza fase: attività con le graffette ......................................................... 127

6.4 Fase quattro: ancora in … tensione superficiale .................................... 145

6.5 Quinta fase: il sapone, che cos’è? ......................................................... 164

6.6 Sesta fase: bolle e non bolle .................................................................. 178

6.7 Settima fase: riflettiamo sull’esperienza ................................................. 214

Conclusioni................................................................................................... 225

Bibliografia.................................................................................................... 226

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Introduzione

“...Credo che non ci sia nessuno in questa stanza che non abbia fatto qualche

volta una comune bolla di sapone, e che, ammirandone la forma perfetta e la

meravigliosa lucentezza dei colori, non si sia chiesto come fosse possibile fare

tanto facilmente un oggetto così splendido...

...in una comune bolle di sapone c’è molto di più di quanto immagini di solito chi

si limita a considerarla un gioco”1

Questa tesi descrive un percorso didattico da me svolto in una classe quinta

della scuola primaria, in cui ho trattato l’argomento delle bolle di sapone

mediante una serie di incontri a carattere laboratoriale.

L’argomento “bolle di sapone” può forse sembrare frivolo e infantile; in realtà

invece è molto complesso e presenta concetti e contenuti che lo rendono

particolarmente interessante per la didattica e la divulgazione. è stato da me

scelto perché consente di sviluppare un percorso didattico che attraversa

discipline diverse come la fisica, la matematica, la chimica, e volendo anche la

pittura, la letteratura e l’architettura.

Il primo capitolo della tesi è dedicato alla presentazione delle bolle di sapone,

attraverso un percorso che parte dalla pittura, attraversa l’arte per arrivare fino

all’architettura. Ho scelto di iniziare da questi tre argomenti con lo scopo di

risaltare la delicatezza, la bellezza, l’apparente fragilità di queste piccole sfere,

che hanno emozionato artisti e persone comuni nel corso dei secoli.

Il secondo capitolo affronta invece l’aspetto chimico-fisico delle bolle. L’analisi di

questa parte riguarda i seguenti argomenti: la tensione superficiale, la

bagnabilità, la capillarità, le superfici minime, il problema isoperimetrico, il

problema di Plateau, l’interferenza e la rifrazione e per finire le caratteristiche

chimiche di acqua e sapone.

Nel terzo e quarto capitolo ho affrontato l’importanza del valore formativo della

scienza e ho approfondito le metodologie che, secondo me, sono importanti per

la realizzazione di un buon insegnamento-apprendimento. 1 Charles V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, Zanichelli, 1974

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Il quinto e il sesto capitolo sono stati dedicati completamente alla realizzazione

del mio progetto didattico. In particolare, nel quinto capitolo descrivo il progetto

e spiego in che modo mi sono preparata per realizzarlo; nel sesto capitolo

analizzo il percorso, descrivendo in dettaglio tutti gli incontri svolti in classe,

cercando di focalizzare i momenti più salienti e significativi, fino ad arrivare alla

prova di verifica che ho fatto svolgere ai bambini come valutazione finale.

Nel progetto ho svolto molte attività pratico-sperimentali, non solo con lo scopo

di far apprendere gli argomenti trattati, ma anche con l’intento di far nascere

una curiosità nei loro confronti e di far familiarizzare i bambini con interessanti

fenomeni naturali. Il modo, inoltre, con cui ho presentato queste attività tende a

valorizzare gli aspetti ludici, in maniera che si instauri un atteggiamento positivo

verso gli argomenti affrontati. Queste attività hanno fatto sorgere molte

domande nei bambini che, incuriositi, hanno cercato di darsi loro stessi le

spiegazioni. Sono convinta che il desiderio di conoscere il perché delle cose sia

più utile di spiegazioni fornite senza che nessuno ne avverta la necessità. A

proposito di questo, riporto una breve frase particolarmente significativa, scritta

da una bambina durante la verifica conclusiva: “a me piace fare esperimenti e

mi piace un po’ la scienza e sono curiosa di sapere i perché dei perché”.

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Capitolo 1

La storia delle bolle di sapone attraverso l’arte, la letteratura e l’architettura

Tutto non è che

una bolla di sapone

1.1 Nell’arte

Le bolle di sapone sono state rappresentate fin dall’antichità. Al museo del

Louvre è conservato un vaso etrusco su cui sono dipinti alcuni bambini che

soffiano dentro delle cannucce e si divertono a fare le bolle di sapone. Sembra

quindi che gli antichi conoscessero le sfere lucenti che si ottengono soffiando

all’estremità di un tubo, utilizzando una soluzione particolare. Probabilmente,

per i bambini dell’antichità le bolle di sapone erano divertenti quanto lo sono per

i bambini di oggi.

È prevalentemente nel XVII secolo che si manifesta un maggior interesse degli

artisti per le bolle di sapone. In quel periodo le bolle di sapone sono diventate

oggetto di rappresentazione non tanto per il loro aspetto ludico, quanto come

simbolo, come allegoria della fragilità delle cose umane, della vita stessa.

Simbolo aereo e leggerissimo, sempre affascinante per l’infinita varietà di colori

e di forme, la bolla diviene una costante all’interno del più vasto tema della

caducità umana. Il colore era sicuramente uno dei motivi principali dell’interesse

che le bolle di sapone esercitavano sugli artisti dell’epoca, anche se rendere

con i pennelli il curioso effetto che si manifesta sulla superficie saponosa era

abbastanza complicato, tant’è che in quasi tutti i dipinti le bolle di sapone

appaiono pressoché trasparenti. Nella pittura del Seicento è molto presente il

tema della “vanitas”, natura morta con elementi simbolici allusivi alla caducità

della vita. Questo genere pittorico ha avuto il suo massimo sviluppo in Olanda,

strettamente correlato al senso di precarietà che investì il continente europeo in

seguito alla guerra dei trent’anni e al dilagare delle epidemie di peste. Gli

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elementi caratteristici di tali composizioni possono essere:

il teschio, la candela spenta, il silenzio degli strumenti musicali, in quanto

simboli di morte;

la clessidra o l’orologio, come simboli del trascorrere del tempo;

le bolle di sapone, di solito rappresentate con un putto che le crea

soffiando da una specie di cannuccia, simbolo della precarietà della vita

e dei beni comuni;

un fiore spezzato, come un tulipano o una rosa, simbolo della vita che

prima o poi appassirà come quel fiore2.

“I dipinti dell’epoca si possono dividere in due categorie: quelli in cui è presente

un putto o un ragazzo che fa le bolle di sapone e quelli in cui le bolle di sapone

appaiono immobili nell’aria senza che alcuno le abbia formate, rendendone più

evidente il significato allegorico. Nei primi l’interesse per il gioco dei bambini

diventa in qualche caso prevalente, escludendo il significato allegorico. Nel

secondo gruppo, le bolle sono un elemento fra i tanti che sottolinea il soggetto

del dipinto, quasi un elemento che deve esserci, divenuto come un indizio

preciso e facilmente riconoscibile della “vanitas”. Le bolle, quindi, sono

rappresentate come un elemento statico, fissato per sempre sulla tela”3.

Il dipinto, nella Figura 1, “si riferisce alla Vanità delle cose terrene, come la

ricchezza, la bellezza, il passato e le arti. Il cranio al centro ricorda la vanità di

tutte le espressioni più belle della vita: la musica (il liuto e il flauto), le arti (la

paletta, le spazzole e la piccola scultura), i piaceri della carne (dadi, carte, pipa

e tabacco), lo studio (i libri) e la bellezza (i fiori). L’orologio e le candele

enfatizzano il passare del tempo; le bolle che fluttuano ricordano la fragilità

della vita; la lettera appena leggibile sotto il teschio si riferisce alla morte e alla

guerra; il servo nero, vestito in modo elegante e con una catena d’oro (simbolo

di lealtà) al collo, simboleggia inevitabilmente il tempo che passa. Il servo regge

il ritratto dello sconosciuto che ha commissionato il dipinto, in piccole

dimensioni per indicare mancanza di pretese e rifiuto di ostentazione”4.

2 G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, Vol. 2, dal Cinquecento al Settecento, Einaudi Scuola, 1990 3 M. Emmer, Bolle di sapone tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p.66 4 M. Emmer, Bolle di sapone tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p.63

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Figura 1: D. Bailly, Vanitas con ragazzo nero, 1629

Nel dipinto mostrato in Figura 2, che è un’opera giovanile di Rembrandt, l’artista

rappresenta il riposo di Cupido. Supportato da un cuscino, il dio amore si

adagia su un letto coperto di stoffa rossa. Usando una cannuccia soffia una

bolla in un guscio. Questo motivo è un simbolo di vanitas, familiare nell’arte

olandese del XVII secolo. La nozione di transitorietà della vita, però, non è di

solito associata a Cupido. Come sempre Rembrandt trova una soluzione

creativa mediante un’associazione con la mitologia; rende di fatto la fragile bolla

di sapone un simbolo della fragilità dell’amore. La composizione basata su

diagonali, una forte luce radente che lascia il fondo scuro e i colori luminosi

sono caratteristiche tipiche del suo lavoro prima del 16305.

5 V. Kienerk, P. Marzi Ciotti, Storia dell’arte, volume unico, Sandron, Firenze, 1991

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Figura 2: Rembrandt, Il riposo di Cupido, 1634

Nell’Europa del XVIII secolo, bambini, scienziati e artisti continuano a mostrare

il loro interesse verso le bolle di sapone. Tra gli artisti spicca Jean-Baptiste-

Siméon Chardin, che realizza diverse versioni del dipinto intitolato Le bolle di

sapone, mostrato nella Figura 3. L’opera di Chardin presenta elementi di novità

a differenza dei dipinti e delle incisioni realizzate da artisti dei periodi

precedenti. Chardin si interessa alle bolle di sapone perché è interessato al

mondo e ai giochi degli adolescenti. Il pittore abbandona i temi allegorici e

mette invece in evidenza lo stupore con cui i più giovani ammirano le bolle di

sapone che appaiono ai loro occhi come oggetti magici. L’aspetto fisico delle

bolle è dipinto con cura e con una particolare attenzione alle iridescenze che si

formano sulla loro superficie. Quindi da un lato troviamo la sorpresa e la

meraviglia dei fanciulli e dall’altro il fascino del fenomeno fisico.

Nel dipinto Le bolle di sapone si può notare la straordinaria sensibilità

dell’artista nel rappresentare l’infanzia e l’adolescenza, con il bambino che si

alza sulla punta dei piedi per guardare incantato la bolla di sapone che il

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ragazzo più grande sta realizzando6.

Figura 3: J.-B.-S. Chardin, Le Bolle di sapone, 1734

Nel dipinto La lavandaia (Figura 4), con grande semplicità e discreto realismo,

Chardin descrive un episodio tratto dalla vita quotidiana della classe umile. La

scena si svolge in un interno, le due donne sono occupate a svolgere le

mansioni domestiche, mentre un bimbo è assorto a giocare con delle bolle di 6 La Biblioteca di Repubblica, La storia dell’arte, l’età dell’impressionismo, Vol. 15, Mondadori Electa, Milano, 2006

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sapone. I gesti bloccati, le espressioni semplici compongono un esempio di

grande poesia dell'intimità quotidiana.

Figura 4: J.-B.-S. Chardin, La lavandaia, 1733

Chardin ha utilizzato, come in altre opere di soggetto simile, un espediente

innovativo nel particolare della porta aperta sullo sfondo che introduce lo

spettatore verso un’ulteriore scena, chiara e brillante, tanto da evidenziare una

donna intenta a tendere i panni.

La lavandaia è messa in relazione con La femme à la fontaine, molto simile

nella struttura compositive e comunque legata dallo stesso intento di

descrizione della classe media alla vigilia della Rivoluzione. In entrambi i dipinti

troviamo elementi di estrema delicatezza soprattutto nella rappresentazione di

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alcuni oggetti, piccoli ma discreti esempi di nature morte, genere al quale il

pittore si dedica in altri quadri in maniera più dettagliata. Nel XIX secolo il tema

delle bolle è affrontato da Edouard Manet, con l’opera Le bolle di sapone

(Figura 5). Come Chardin, anche Manet non fa riferimento all’allegoria ma

all’umanità dei ragazzi.

Figura 5: E. Manet, Le bolle di sapone, 1867

Il ragazzo quindicenne si diverte a fare le bolle: l’opera è tutta centrata sulla

figura del ragazzo e sulla corrispondenza tra zone in luce e zone in ombra. La

pennellata è sciolta e rapida. La freschezza della pittura è tale da conferire al

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soggetto grande realismo e immediatezza7.

Fra gli artisti contemporanei possiamo ricordare Cagnaccio di San Pietro con

l’opera La bolla di sapone (Figura 6) e l’orientale Shu Yong.

Figura 6: Cagnaccio di San Pietro, La bolla di sapone, 1927

L’artista cinese è una delle personalità più interessanti della scena

7 V. Kienerk, P. Marzi Ciotti, Storia dell’arte, volume unico, Sandron, Firenze, 1991

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contemporanea e internazionale. La cultura orientale si fonda sulla ricerca

dell’equilibrio e sulla conoscenza dello spirito. Essa rappresenta la cultura

dell’emozione e l’arte esprime emozione. Shu Yong demistifica i miti della

cultura popolare di massa, sottolineando la falsità degli ideali della cultura

americana. Le “Bubbles” (Bolle di sapone) sono la metafora del tempo e delle

sue contraddizioni che avvolge il mondo tra passato e presente. Le bolle di

sapone hanno una duplice simbologia: rappresentano la trasparenza, la voglia

di riscoprire il gioco, sono un legame con la giovinezza. Esse, però sono anche

la metafora del potere e delle sue illusioni, sono il simbolo dell’ambizione e del

successo degli uomini d’affari.. I suoi “Chinese Myths” diventano icone di

modernità che rappresentano il potere di una cultura. Le bolle invadono gli

spazi del dipinto sovrapponendosi allo sfondo e creano riflessi di misteriose

trasparenze8.

Figura 7: Shu Yong, Bubbles

8 http://arteinforma.blogspot.com/2009/12/biennale-internazionale-darte.html

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1.2 In letteratura

Trovare autori che hanno dedicato intere poesie o testi letterari alle bolle di

sapone non è facile. Alcuni scrittori le hanno usate come metafore o hanno

dedicato loro diverse citazioni. Molto più spesso, in tutte le letterature, si

affrontano i temi dell’effimero, della leggerezza, della vanità, della fragilità delle

ambizioni umane, tutte questioni che, come abbiamo visto nell’arte, ricordano le

bolle di sapone.

Le bolle di sapone sono uno degli argomenti classici della letteratura per

bambini. “Di fatto tutti i personaggi più famosi della letteratura per l’infanzia

hanno avuto avventure con le bolle di sapone. A cominciare da Topolino”9.

Figura 8: Topolino, N° 364, 18 Novembre 1962 9 M. Emmer, Bolle di sapone tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p.63

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Gianni Rodari dedicò molti testi alle bolle di sapone. Non si può non ricordare

“Cipollino e le bolle di sapone” del 1952, “Gondola fantasma” del 1978, “Bolle di

sapone” del 1999.

Figura 9: Gianni Rodari, Cipollino e le bolle di sapone, 1952

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Gianni Rodari, nel testo Gondola fantasma, racconta una delle avventure di

Giovannino Perdigiorno nel paese degli uomini di sapone:

Giovannino Perdigiorno

Viaggiando in carrozzone

Capitò nel paese

Degli uomini di sapone.

Gli uomini di sapone

E le loro signore

Sono sempre puliti

E mandano buon odore.

Sono bolle di sapone

Le loro parole,

escono dalla bocca

e danzano al sole.

Fa le bolle il papà

Quando sgrida il bambino

Fa le bolle il professore

Mentre spiega il latino.

Nelle case, per le strade,

dappertutto in ogni momento

milioni di bolle

volano via con il vento.

Il vento le fa scoppiare

Silenziosamente…

E di tante belle parole

Non rimane più niente10.

Anche Italo Calvino scrive sulle bolle di sapone e lo fa nell’opera “Marcovaldo,

ovvero le stagioni in città”. Quella di Marcovaldo è una favola scritta nel 1963,

quando l’Italia sperimentava per la prima volta il boom economico e le

macchine e la frenesia entravano prepotentemente nella vita degli italiani. Le

città cambiavano volto e le strade si facevano affollate e frettolose. La storia di

Marcovaldo è tipica di una letteratura dell’alienazione.

Il buon Marcovaldo fa il manovale in una ditta che si chiama SBAV, tutti i giorni 10 G. Rodari, Gondola fantasma. Gli affari del signor Gatto. I viaggi di Giovannino Perdigiorno, Einaudi, Torino, 1978, p. 99-100

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carica e scarica pancali di merci non ben definite. La sua è una famiglia

numerosa, ha molti figli e abita in una città industriale, quella che sembra una

metropoli in espansione: cantieri in ogni dove, cemento, smog e auto. Queste

situazioni, a grandi linee, rappresentano la cornice entro cui si muove

Marcovaldo; le sue disavventure vengono raccontate attraverso venti novelle

associate alle stagioni dell’anno, da cui il sottotitolo “Le stagioni in città”.

Fumo, vento e bolle di sapone

Inverno

Nella cassetta della posta di Marcovaldo non c’era mai niente, perché nessuno gli

scriveva, ma un giorno i suoi figli Filippetto, Pietruccio e Michelino trovarono un

buono omaggio di una ditta di saponi. I ragazzi pensarono di approfittarne,

prendendo anche quelli delle altre cassette, quelli delle case vicine e quelli caduti

per terra. Così, insieme ad una banda di monelli, ne misero insieme una enorme

quantità, e con tutti questi campioni di detersivi riempirono la casa di Marcovaldo,

sperando di guadagnare tanti soldi. Quando cercarono di venderli, la cosa

cominciò a dare nell’occhio e qualcuno denunciò il fatto alla polizia. Fiutando il

pericolo, Marcovaldo disse ai ragazzi di buttar tutto nel fiume. Così un mattino

fecero la spedizione di scarico, svuotando tutte le scatole nell’acqua, nei pressi di

una rapida e tutto il sapone cominciò a gonfiarsi in tante bolle che si sollevarono

dalla superficie dell’acqua e si dispersero in cielo, volando verso la città, mentre il

fiume continuava a traboccare come un bricco di latte al fuoco.

I grappoli di bolle s’allungavano in ghirlande iridate e tutti gli operai che andavano

al lavoro si fermavano allegri a guardare questo spettacolo pieno di colori. Intanto

le fabbriche avevano cominciato a buttare fuori il fumo nero di ogni mattino. Bolle

colorate e fuliggine nera si confondevano tra loro, finché Marcovaldo, che stava a

guardare con gli altri, cerca cerca nel cielo non riusciva a vedere più le bolle, ma

solo fumo fumo fumo11.

Neppure Gabriele D’Annunzio si è sottratto al loro fascino perfetto e fragile,

dedicando loro una poesia, “La bolla di sapone”.

La bolla

spunta a poco a poco dalla cannuccia,

si arrotonda, cresce, si colora. 11 I. Calvino, Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, Einaudi, 1966

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Poi riflette la finestra,

i vasi di fiori in cielo.

E il bimbo,

prima di lanciarla al vento,

ci si specchia dentro.

La fa dondolare lievemente,

poi la stacca.

La bolla s'innalza,

brilla un istante al sole e sparisce.

Mark Twain nel suo racconto di viaggio, “Innocent Abroad” del 1869 scrive che:

“Una bolla di sapone è la cosa più bella, e la più elegante, che ci sia in natura….

Mi chiedo quanto sarebbe necessario per comprare una bolla di sapone se al

mondo ne esistesse soltanto una”.12

1.3 In architettura

Nell’orizzonte culturale tardo settecentesco e ottocentesco si sviluppano

esperienze architettoniche quali il neoclassicismo. Tutta l’arte neoclassica è

rigorosamente progettata e si serve di tutti i mezzi che la tecnica mette a

disposizione, rivalutando i nuovi materiali e la ricerca tecnico-scientifica degli

ingegneri. Il linguaggio neoclassico si diffonde inizialmente in Francia, dove le

personalità di maggior rilievo sono Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas

Ledoux. Entrambi fanno parte di quella corrente detta della “visione utopica”,

con il progetto di realizzare costruzioni a pantheon o a sfera, così come città del

sole o della luce.

Uno dei progetti più importanti di Boullée è il Cenotafio di Newton, del 1784

(Figura 10). “Boullée era affascinato dalla magnifica bellezza della forma

sferica, dalla maestosità della sfera, dalla grazia del suo contorno, dalla

regolarità del suo passare dall’ombra alla luce. La bolla di sapone era allegoria

della Vanitas, della fragilità della vita; la sua forma, una sfera, simbolo della

12 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 33

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perfezione, legata per questo all’idea della morte”13.

Figura 10: Boullée, Cenotafio di Newton

Figura 11: Berg Arkitektkontor, Ericsson Globe, Stoccolma

13 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p.117

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Il fascino della sfera, dei colori sulla sua superficie, attrae gli architetti, anche ai

giorni nostri. Non come simbolo della Vanitas, anzi come luogo di celebrazione

dello sport, della vitalità e della vita.

Uno degli esempi più stupefacenti è stato realizzato a Stoccolma nel 1989, su

progetto della Berg Arkitektkontor (Figura 11 e Figura 12). Bianca di giorno, la

grande sfera del Globe di notte si riveste di luci colorate. Per nulla fragile e

volatile14.

Figura 12 Berg Arkitektkontor, Ericsson Globe, Stoccolma

Negli anni sessanta del secolo scorso un architetto tedesco, che si chiamava

Otto Frei, sperimentò delle nuove strutture architettoniche, che chiamò, “Tensile

Structures”. Compiva esperimenti utilizzando delle lamine di sapone.

Immergeva in acqua saponata delle strutture che simulavano il progetto

architettonico e otteneva delle lamine di sapone che venivano fotografate e

14 Ibidem

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21

misurate e servivano da modello alla grande architettura. Ovviamente non

bisognava trascurare i calcoli strutturali. Le lamine di sapone non hanno

praticamente peso; una struttura da costruire ha un peso rilevante e ovviamente

i modelli con le lamine di sapone vanno adattati15.

La più famosa realizzazione di Otto Frei è proprio l’enorme tenda sospesa

sopra lo stadio olimpico di Monaco di Baviera (Figura 13 e Figura 14), che era

stato costruito tra il 1969 e il 1971 su progetto dell’architetto Günther Behnisch.

Figura 13 Otto Frei, Stadio di Monaco di Baviera

Figura 14 Otto Frei, Stadio di Monaco di Baviera 15 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino

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22

Anche il progetto dello stadio olimpico di Roma parte dai modelli di lamine

saponate e dai calcoli sulle superfici minime. Come spiega il professor

Emmer16:

“…se immergiamo un telaio metallico, anche di struttura complessa, in acqua

saponata, estraendolo vengono a crearsi, come di incanto, le superfici migliori

possibili, per il principio di minima energia che la natura segue sempre. Lo stesso

principio, seguito dalle api nelle loro cellette, costruite con il minimo dell’energia

per comprendere il massimo dello spazio. Un principio molto presente anche

nell’architettura moderna”.

Un altro esempio di progetto architettonico ispirato da principi della matematica

è il Watercube.

Tobias Walliser, uno degli architetti della piscina olimpica di Pechino, in un

articolo pubblicato nel 2009 ha scritto sia a cosa si è ispirato, sia come è stata

concepita la piscina Olimpica di Pechino.

Figura 15: Veduta del Watercube e dello stadio di Herzog & de Meuron 16 Ibidem

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23

Ecco il principio ispiratore:

“Il cosiddetto Watercube associa l’acqua come elemento naturale e Leitmotiv

tematico con il quadrato, la forma archetipo della casa nella tradizione e mitologia

cinese. Insieme con il grande stadio di Herzog & de Meuron, si crea una dualità tra

l’acqua e il fuoco, tra maschio e femmina, Yin e Yan, con le conseguenti

tensioni/attrazioni”17.

Figura 16: Watercube

“Concettualmente, il quadro e gli spazi interni sono ricavati da un ammasso

indefinito di schiuma di lamine di sapone, il che simbolizza la condizione della

natura che è trasformata in una situazione culturale.

L’apparizione del centro acquatico è di conseguenza un ‘cubo di molecole

d’acqua’. La sua costruzione è stata realizzata su una unica costruzione. Dietro la

casualità è nascosta una rigida geometria che può essere ritrovata in sistemi

naturali come i cristalli, le cellule e le strutture molecolari. In altre parole la migliore

suddivisione dello spazio tridimensionale con celle di egual volume”18.

17 Ibidem p. 261 18 Ibidem

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24

L’architetto Walliser afferma che:

“L’utilizzo di una adeguata formula matematica o di una forma pura che deriva

direttamente da essa non è di grande risultato in architettura. Ma concetti

matematici, oltre la geometria, possono essere una grande fonte di ispirazione per

gli architetti e possono dar luogo a strutture che sarebbero inimmaginabili in altro

modo”19.

Figura 17: Watercube: dettaglio

19 Ibidem, p.262

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Capitolo 2

Le proprietà fisico-chimiche delle bolle di sapone

Alcuni scienziati, qualche secolo fa, iniziarono a porsi domande sulle bolle di

sapone, per esempio riguardo ai colori che appaiono sulle lamine saponose.

Uno di questi scienziati fu Isaac Newton (1642-1726). Verso la metà degli anni

sessanta del 1600 Newton iniziò ad occuparsi di ottica; nel 1666 pubblicò Of

Colours, nel 1669-71 scrisse Lectiones opticae, che nel 1672 rielaborò in New

Theory about Light and Colours. Negli anni successivi approfondì gli studi sulla

rifrazione della luce. Nell’opera Opticks del 1704 Newton descrisse in modo

dettagliato i fenomeni che si osservano sulla superficie delle lamine saponate.

Nel secondo volume dell’Opticks leggiamo:

“Oss. 17. se si forma una bolla con dell’acqua resa prima più viscosa sciogliendovi

un poco di sapone, è molto facile osservare che dopo un po’ sulla sua superficie

apparirà una grande varietà di colori. Per impedire che le bolle vengano agitate

troppo dall’aria esterna (con il risultato che i colori si mescolerebbero

irregolarmente impedendo una accurata osservazione), immediatamente dopo

averne formata una, la coprivo con un vetro trasparente, e in questo modo i suoi

colori, si disponevano secondo un ordine molto regolare, come tanti anelli

concentrici a partire dalla parte alta della bolla. Via via che la bolla diventava più

sottile per la continua diminuzione dell’acqua contenuta, tali anelli si dilatavano

lentamente e ricoprivano tutta la bolla, scendendo verso la parte bassa ove infine

sparivano. Allo stesso tempo, dopo che tutti i colori erano comparsi nella parte più

alta, si formava al centro degli anelli una piccola macchia nera rotonda che

continuava a dilatarsi”20.

Alla fine dell’osservazione 18, aggiunge:

“Nel frattempo, nella parte alta che era di un blu scuro e appariva anche cosparsa

di molte macchie blu più scure che altrove, comparivano una o più macchie nere e

tra queste altre macchie di un nero più intenso… e queste si dilatavano

progressivamente fino a che la bolla si rompeva… Da questa descrizione si può

20 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 109

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dedurre che tali colori compaiono quando la bolla è più spessa”21.

Il fenomeno che Newton aveva osservato è conosciuto con il nome di

interferenza e ne accenneremo una descrizione più avanti.

Durante la seconda metà del 1800 un altro scienziato affrontò il problema dello

studio delle lamine e delle bolle di sapone: è Antoine Ferdinand Plateau. Nel

1873 nell’opera Statistique expérimentale et théorique des liquides soumis aux

seules forces moléculaires pubblicò il risultato di quindici anni di ricerche. In

quell’opera si pongono molti problemi che riguardano le lamine e le bolle di

sapone. Elaborò la moderna teoria delle superfici minime, quelle superfici che

minimizzano l’area della superficie rispetto a qualche proprietà; nel caso delle

bolle di sapone, rispetto al volume d’aria contenuto.

“Plateau fu il più autorevole degli schiumologi. Le sue leggi di geometria della

schiuma sono tuttora valide. Egli diventò cieco durante alcune ricerche di ottica,

perché guardava direttamente il sole. Continuò comunque a studiare la schiuma

e le lamine saponose con l’aiuto di colleghi ed amici. Mise a punto una

soluzione di sapone, acqua e glicerina con cui otteneva pellicole che duravano

anche diciotto ore e potevano essere studiate a lungo. Derivò un insieme di

leggi che descrivono le schiume attraverso esperienze e osservazione”22. Una

delle cose più stupefacenti che Plateau osservò è che se si soffia con una

cannuccia in una soluzione d’acqua saponata gli angoli che le lamine formano

sono solo di due misure: o di 120° o di 109° e 28'. Un risultato che sarà

dimostrato solo nel 1976 dalla matematica americana Jean Taylor.

Molti anni dopo Newton, Charles V. Boys scriverà:

“I colori sulle bolle sono così belli e vari che solo questa sarebbe una ragione

sufficiente per desiderare di sapere qualcosa sulla causa del colore”23.

Nel 1902 Boys pubblicò il libro Soap Bubbles and the Forces Which Moulds

Them. Questo libro è il risultato di tre conferenze che egli tenne per un gruppo

di giovani alla London Institution il 30 dicembre 1889 e il 1° e 3 gennaio 1890. Il 21 Ibidem 22 http://web.unife.it/progetti/matematicainsieme/schiume/index.html 23 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 110

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27

motivo centrale del libro è lo sforzo continuo di svelare i più profondi problemi

connessi con la natura fisica delle bolle di sapone attraverso semplici

esperimenti spiegati nei minimi dettagli24.

2.1 Tensione superficiale25

Talvolta si vedono alcuni insetti che camminano sull’acqua; è anche noto che è

possibile far galleggiare una graffetta metallica o una lametta d’acciaio,

deponendoli con delicatezza sulla superficie del liquido. Questi fenomeni, che

sembrano contraddire l’esistenza della forza di gravità e del principio di

Archimede, possono essere spiegati considerando l’effetto della tensione

superficiale. Prima di tutto cercherò di spiegare le ragioni dell’esistenza di tale

forza, per poi analizzarne in dettaglio gli effetti ed arrivare a misurarla.

Per capire cosa sia la tensione superficiale è prima di tutto importante ricordare

come è fatta al suo interno la materia. È noto che ad ogni elemento chimico

corrisponde un atomo con una struttura interna diversa. Gli atomi si possono

definire i mattoncini che compongono tutte le sostanze che ci circondano. Ogni

sostanza è costituita da più atomi dello stesso tipo o diversi tra loro legati

insieme. Questo insieme di atomi costituisce la molecola. Quest’ultima, pur

potendosi scomporre negli atomi costituenti, è la particella più piccola che ha le

stesse caratteristiche della sostanza che compone. Le molecole di una

sostanza possono coesistere in tre modi differenti: stato solido, stato liquido,

stato gassoso.

Nel primo caso le molecole sono saldamente legate fra loro da alcune forze di

coesione che esistono fra molecola e molecola; queste forze fanno sì che il

solido sia compatto e mantenga un volume e una forma propria. Gli unici

movimenti permessi alle molecole di un solido sono delle vibrazioni, tanto più

intense quanto maggiore è la temperatura, attorno alla posizione di equilibrio. I

liquidi hanno una struttura interna costituita da molecole vicine le une alle altre,

24 C. V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, (trad. it.) Zanichelli, Bologna, 1974 25 S. Straulino, Tensione superficiale (da http://hep.fi.infn.it/ol/samuele) http://www.galenotech.org/chimfis1.htm

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disposte in maniera disordinata, in cui la forza di coesione fra molecola e

molecola non è tale da garantire la compattezza della sostanza. Le molecole

infatti possono ‘scivolare’ reciprocamente, andando ad occupare zone collocate

più in basso rispetto al livello del liquido. Infatti come è noto i liquidi non hanno

volume e forma propri, ma si adattano alla forma del recipiente che li contiene.

Nei gas, al contrario, le molecole sono molto più distanti fra loro rispetto ai solidi

e ai liquidi; per tali sostanze le forze intermolecolari possono essere trascurate

in prima approssimazione. Essendo libere di muoversi, le molecole dei gas si

spostano rapidamente nello spazio. Chiudendo il gas all’interno di un recipiente,

le molecole urtano contro la parete, esercitando in questo modo una certa

pressione. In modo più dettagliato si può vedere come la struttura di un liquido

dia origine alla tensione superficiale. Guardando la Figura 18 si può notare, in

modo schematico e ingrandito, la disposizione delle molecole all’interno di un

liquido.

Una molecola come quella indicata con la lettera A è circondata da altre

molecole simili che la attraggono. La molecola A, sotto l’azione di tali forze,

tenderà a spostarsi di un pochino della direzione della molecola più prossima,

ma manterrà, in media nel tempo, la propria posizione. Una molecola come la

B, che si trova vicina alla superficie del liquido, sentirà anch’essa la forza

attrattiva esercitata dalle molecole vicine, ma queste si trovano soltanto accanto

o sotto la molecola considerata. Ne consegue che la molecola B, e tutte le altre

molecole vicine alla superficie del liquido, sono attratte più efficacemente verso

l’interno del liquido stesso. Per questo motivo il liquido si comporta come se ci

fosse una pellicola invisibile che lo tiene unito. In realtà si tratta di una forza di

origine molecolare, a cui si dà il nome di tensione superficiale. L’intensità della

tensione superficiale dipende dal tipo di liquido considerato e da quale altra

sostanza è circondato. La tensione superficiale è anche la causa della

formazione delle gocce, che sono tenute insieme proprio da questa forza.

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29

Figura 18: Rappresentazione schematica di molecole d’acqua all’interno di un recipiente

Come già visto nel capitolo precedente, i tensioattivi sono in grado di diminuire

la tensione superficiale. Quando la tensione superficiale diminuisce, si ha una

minore coesione della superficie del liquido. È per questo motivo che l’acqua

saponata, a differenza dell’acqua pura, fa la schiuma. Le bolle di sapone

permettono di capire come agisce la tensione superficiale. La lamina liquida

delle bolle di sapone è una membrana elastica, che tende sempre ad occupare

la superficie più piccola possibile. Detto ciò bisogna sottolineare una differenza,

che può essere messa in evidenza con un semplicissimo esperimento. Si

consideri un telaio metallico a forma di U con una sbarretta mobile AB

appoggiata sopra come nella Figura 19. Se si immerge il telaio in acqua

saponata, facendo aderire una lamina liquida sul contorno del telaio e

tenendolo poi orizzontale, si può osservare che la sbarretta AB è attratta verso

la base della U: per impedire questo movimento è necessario applicare nella

direzione opposta una forza F alla sbarretta. Si nota però che l’intensità di

questa forza non è proporzionale all’estensione della superficie della lamina ma

è invece proporzionale alla lunghezza del tratto l = AB. Per questo motivo si

definisce la tensione superficiale (di solito indicata con la lettera greca tau)

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come una grandezza data dal rapporto fra una forza e una lunghezza:

lF2

Nella formula è stato considerato il doppio della lunghezza AB perché la lamina

aderisce su due bordi della sbarretta metallica, il cui spessore è molto maggiore

delle dimensioni tipiche delle molecole.

Figura 19: Telaio metallico a forma di U con lato mobile AB

Esistono molti metodi per misurare la tensione superficiale di un liquido. Per

uno dei più semplici è necessario un dinamometro abbastanza sensibile e un

anello metallico di qualche centimetro di diametro. L’anello, a cui sono attaccati

alcuni fili sottili che permettono l’aggancio, deve essere appeso al dinamometro.

L’allungamento del dinamometro dà una misura del peso dell’anello e del filo:

quindi si potrà leggere un valore F1 sulla scala graduata dello strumento. Il

liquido di cui si vuole misurare la tensione superficiale va messo dentro un

contenitore, appoggiato sopra un supporto regolabile in altezza. Alzando

gradualmente il supporto, cercando di immergere l’anello, si può osservare una

forza resistente, che fa contrarre in modo visibile il dinamometro. Si potrebbe

pensare che sia la spinta di Archimede sull’anello a far contrarre il

dinamometro, ma non è così. Infatti fino a quando l’anello non è completamente

immerso, l’allungamento del dinamometro è molto inferiore rispetto a quando

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l’anello è completamente immerso nel liquido, quindi ben al di sotto della sua

superficie. Nella fase di attraversamento della superficie si ha l’effetto

combinato della spinta di Archimede e della tensione superficiale. Per poter

misurare quest’ultima, senza subire gli effetti della forza idrostatica, è opportuno

procedere nella direzione opposta, rispetto a quanto descritto finora. Si estrae il

cerchietto dal liquido, abbassando lentamente il tavolinetto. Si potrà così

osservare un allungamento crescente del dinamometro, fino ad arrivare ad un

valore massimo F2.

Continuando ad abbassare il tavolinetto, si potrà osservare un distacco

improvviso dell’anello dal liquido e una improvvisa contrazione del

dinamometro. La differenza F2-F1 dà la forza con cui la tensione superficiale

agisce sull’anello.

Sulla base della definizione data, per ottenere τ si deve dividere questo valore

per la lunghezza del tratto interessato. In questo caso la lunghezza da

considerare è pari al doppio della circonferenza dell’anello, per le stesse ragioni

descritte precedentemente. Se r è il raggio dell’anello, il valore della tensione

superficiale sarà dato da:

rFF

πτ

412 −=

Un modo per vedere la tensione superficiale in azione è quello di osservare i

vani sforzi che un insetto fa per uscire dall’acqua: una volta ‘forata’ la pellicola

superficiale dell’acqua, questa - per minimizzare la sua superficie - si avviluppa

attorno al corpo dell’insetto, intrappolandolo. Al contrario, gli insetti pattinatori

come le idrometre e i gerridi, sfruttano la tensione superficiale per pattinare

sull’acqua senza affondare: possono così spostarsi sull’acqua e cibarsi di quegli

insetti che vi rimangono invischiati dalle forze di tensione superficiale. Questi

insetti che camminano sull’acqua sono provvisti di peli superficiali ricoperti di oli,

cioé sostanze idrofobe che respingono l’acqua e permettono alla parte

terminale delle zampe, costituita da tarso e pretarso, di non forare la membrana

superficiale dell’acqua.

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Figura 20: Insetto pattinatore

La capacità di pattinare sull’acqua non è però una caratteristica propria soltanto

degli insetti: ne è capace anche il basilisco.

Sebbene il basilisco sia più conosciuto come una creatura mitologica (un

serpente con ali di pipistrello, testa e zampe di gallo), in realtà, un animale con

questo nome esiste ed appartiene al genere dei Rettili Sauri della famiglia degli

Iguanidi. Vive nelle foreste sudamericane e, da adulto, può raggiungere gli 80 g

di peso e i 70-80 centimetri di lunghezza, compresa la coda che da sola

rappresenta i due terzi dell’intero corpo.

Figura 21: Basilisco

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A causa del suo peso da adulto, la stupefacente abilità di correre sull’acqua è

una prerogativa del basilisco giovane, ovvero di esemplari con un peso fino a

circa 25 g. Infatti, solo esemplari di questa taglia possono correre sull’acqua

sostenuti dalla tensione superficiale, raggiungendo velocità fino a circa 12 km/h.

In particolare, il basilisco corre in posizione semieretta rizzandosi sulle zampe

posteriori e utilizzando la lunga coda come bilanciere.

Figura 22: Basilisco che corre sulla superficie dell’acqua

Dunque, sebbene i basilischi sfruttino forze dinamiche, a differenza degli insetti

pattinatori che sfruttano le forze statiche della tensione superficiale, né gli uni

né gli altri perforano la membrana superficiale dell’acqua.

2.2 Bagnabilità

La bagnabilità è quella situazione in cui una superficie liquida e una superficie

solida entrano in contatto tra di loro, stabilendo una situazione di equilibrio nella

quale la risultante delle interazioni molecolari tra le varie interfacce coinvolte è

tale da garantire la stabilità della struttura26. Per comprendere questo fenomeno

bisogna considerare che le molecole di un liquido sono soggette ad una forza di

coesione che le mantiene unite le une alle altre; ma esiste anche una forza di

adesione che rappresenta la forza con cui le molecole del liquido aderiscono

alla superficie di un materiale con cui vengono in contatto. Quando le forze di

adesione sono grandi rispetto alle forze di coesione, il liquido tende a bagnare

la superficie; quando invece le forze di adesione sono piccole rispetto a quelle

di coesione, il liquido tende a “rifiutare” la superficie. A questo proposito si parla

26 http://it.wikipedia.org/wiki/Bagnatura

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di bagnabilità tra liquidi e solidi. Ad esempio, l’acqua bagna il vetro pulito, ma

non bagna la cera.

Se si depone una goccia di un liquido sulla superficie liscia di un solido, a

seconda della bagnabilità del liquido nei confronti di quel solido, la goccia

formerà un determinato angolo di contatto con il solido. Facendo riferimento alla

figura sottostante, se l’angolo di contatto è inferiore a 90°, il solido viene definito

bagnabile; se l’angolo di contatto è maggiore di 90°, il solido viene definito non

bagnabile. Un angolo di contatto pari a zero indica completa bagnabilità. Per

misurare l’angolo di contatto si può usare un goniometro e un righello27.

Figura 23: L’angolo di contatto di un liquido con un solido viene utilizzato come indice di bagnabilità. Per α<90° il liquido bagna la parete (es. acqua su vetro); per α>90° il

liquido non bagna la parete (es. mercurio su vetro). Se α=0°, il liquido bagna perfettamente la parete.

2.3 Capillarità

La capillarità è l’insieme dei fenomeni dovuti alle interazioni fra le molecole di

un liquido e quelle di un solido (per esempio le pareti di un recipiente) sulla loro

superficie di separazione. I suoi effetti si manifestano per esempio sulla

superficie del liquido in contatto col recipiente, che può presentarsi sollevata

rispetto alla superficie lontana dal bordo del contenitore (questo accade per

esempio nel caso dell’acqua), poiché le forze di adesione tra l’acqua ed il

recipiente che la contiene sono maggiori delle forze di coesione tra le molecole

d’acqua, o più bassa (per esempio nel caso del mercurio) rispetto al resto della

superficie, perché in questo caso sono le forze di coesione a prevalere rispetto

27 http://www.funsci.com/fun3_it/esper2/esper2.htm

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alle forze di adesione.

Quando la superficie di un liquido è curva, nella parte concava si genera una

pressione maggiore di quella esistente nella parte convessa. Per ristabilire

l’equilibrio tra queste pressioni, il liquido dovrà salire o scendere di un certo

tratto all’interno del recipiente. Il fenomeno è più evidente nei tubi capillari,

poiché in questi è maggiore la parte di liquido a contatto con le pareti del

recipiente rispetto al volume totale.

Di conseguenza, la parte di liquido che genera le forze di coesione sarà

maggiore e perciò lo spostamento del livello del liquido all’interno del capillare

sarà più grande. Il nome capillarità deriva dal fatto che il fenomeno è

particolarmente evidente nei tubi sottili, di sezione paragonabile a quella di un

capello. Dalla capillarità dell’acqua deriva l’imbibizione, ossia il movimento

verso l’alto delle molecole d’acqua che gonfiano la sostanza imbevuta. Dato un

liquido in un contenitore, il punto centrale della superficie, che sia gonfio verso

l’alto come per l’olio o il mercurio, o verso il basso come nel caso dell’acqua, si

chiama menisco28.

Figura 24: Il diverso comportamento dell’acqua e del mercurio in presenza di un capillare

Il fenomeno della capillarità può essere spiegato molto bene attraverso gli

esperimenti effettuati da Boys nella sua celebre opera “Le bolle di sapone e le

forze che le modellano”. Boys pone davanti ad una lanterna magica una

28 http://it.wikipedia.org/wiki/Capillarità

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bacinella contenente acqua colorata di blu, in modo che si possa vedere più

facilmente. Vi immerge un tubicino molto sottile di vetro e subito l’acqua vi

affluisce, fermandosi circa un centimetro e mezzo sopra al livello che ha nella

bacinella. L’interno del tubo è bagnato: la pelle elastica dell’acqua aderisce

perciò nel tubo e sale tirando con sé l’acqua, finché il peso dell’acqua sollevata

sopra al livello normale è pari alla forza esercitata dalle forze molecolari. Se si

prende un tubo con diametro circa doppio del primo, questo effetto di spinta che

ha luogo tutto intorno al tubo fa salire un peso doppio d’acqua, ma non fa salire

l’acqua a un’altezza doppia, perché, a parità di altezza, il tubo più largo

contiene molta più acqua di quello più sottile. Non solleva l’acqua neppure fino

all’altezza raggiunta nel tubo più stretto, perché se l’acqua arrivasse così in alto

il suo peso sarebbe quattro volte superiore, e non solo doppio come si potrebbe

pensare in un primo momento. Nel tubo più largo l’acqua sale perciò soltanto a

metà altezza, e, ora che i due tubicini sono uno accanto all’altro, si può notare

che nel tubo più sottile l’acqua è alta il doppio rispetto al livello dell’acqua

contenuta nel tubo più largo.

Supponiamo ora di avere molti tubicini di tutte le misure e di disporli in fila, in

ordine di grandezza. Se li immergiamo tutti in un recipiente contenente acqua,

questa salirà più in alto nel tubo più sottile, e a un livello sempre più basso negli

altri tubicini della fila, finché in un tubo molto largo non si riuscirà addirittura a

capire se l’acqua ha effettivamente un livello più alto rispetto a quello nel

recipiente29.

Figura 25: La capillarità è quel fenomeno che permette all’acqua di risalire i tubicini

29 C. V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, Zanichelli, Bologna, 1974

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2.4 Il percorso più breve fra n punti e le superfici minime

È facile trovare in matematica problemi di questo tipo:

Siano fissati tre punti del piano; si cerchi di capire come è possibile ottenere un

cammino che congiunga i tre punti, in modo tale che la lunghezza totale del

percorso sia la minore possibile.

Questi problemi possono essere generalizzati fino a un numero molto elevato di

punti. Il matematico tedesco Jacob Steiner fu uno tra i primi ad occuparsene.

Sono problemi in cui ci si può imbattere anche nella vita di tutti i giorni. “È ben

noto che se si vogliono collegare tra loro due punti, il cammino più corto che li

unisce è il segmento rettilineo da uno all’altro. Per raggiungere una località da

un’altra, la via più conveniente, se non vi sono altri ostacoli, è quella rettilinea.

Se invece di due località se ne considerano tre e si vuole costruire un sistema

di strade che le colleghi in modo che la lunghezza totale della strada sia la

minima possibile, indicando con A, B e C i tre punti, la configurazione che si

ottiene è quella della figura seguente, formata da tre segmenti che si incontrano

in un punto centrale O”30.

Figura 26: Problema di Steiner per tre punti

30 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 239-240

A

B

C

O

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La soluzione è importante non solo dal punto di vista pratico, per esempio per la

costruzione di strade, ma per un qualsiasi altro caso in cui vogliamo collegare

tra loro un certo numero di punti con il cammino più corto possibile. “Il primo a

porre il problema di Steiner per tre punti fu Pierre Fermat (1601-1665). Nella

Figura 26, gli angoli formati dai segmenti sono non a caso di 120°”31.

Per quanto riguarda il problema di Steiner, è possibile realizzare un modello

con lamine di sapone. Si considerino due lamine di plastica, distanziate da

alcune sbarrette uguali, fissate nei punti che si vogliono collegare. Se si

immerge il tutto nell’acqua saponata e poi lo si estrae, si osserva che tra le

diverse sbarrette si formano delle lamine saponate. Dopo qualche secondo,

necessario per raggiungere l’equilibrio, è possibile osservare in che modo la

lamina si sia disposta.

Figura 27: Esperimento con lamine di sapone

31 Ibidem, p.240

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39

“Un caso particolarmente interessante è quello in cui si considerano quattro

punti posti ai vertici di un quadrato. Una formulazione corretta del problema

potrebbe sembrare quella di trovare un punto per cui è minima la distanza dai

quattro punti assegnati. La soluzione in questo caso è il punto P, in cui si

incontrano le diagonali del quadrato”32. Questa però non è la soluzione migliore:

se teniamo in considerazione le leggi di Plateau (“le lamine si possono

incontrare tre alla volta e formano angoli di 120° fra loro”) si può intuire che, nel

caso delle diagonali del quadrato, gli angoli hanno una misura inferiore a quella

prevista da Plateau e quindi il percorso può essere migliorato. Infatti, se si

cercano configurazioni a forma di doppia Y, ci si accorge che questa soluzione

corrisponde a un cammino più breve. Nella Figura 28 si può vedere ciò che si è

ottenuto dopo aver immerso in acqua saponata due lamine di plastica collegate

da quattro sbarrette.

Figura 28: Esperimento con lamine di sapone

2.5 Proprietà isoperimetriche

Perché si forma una bolla di sapone? Soffiando su una lamina, immersa

precedentemente in soluzione saponata, la superficie si espande e, quando

32 Ibidem, p. 241

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40

smettiamo di soffiare, essa tende all’equilibrio. La bolla assume la forma di una

sfera perché, a parità di volume d’aria contenuta, questo solido ha la superficie

più piccola rispetto a qualsiasi altro. Questa osservazione si deve ad Archimede

e poi a Zenodoro (200 – 100 a.C.); ma solo nel 1884 essa venne dimostrata dal

matematico Schwarz: questa proprietà è detta isoperimetrica e vale nel piano

euclideo e nello spazio a tre dimensioni. La proprietà isoperimetrica afferma che

la circonferenza racchiude la massima superficie con il minimo perimetro e la

sfera, che è l’equivalente della circonferenza nello spazio tridimensionale, è il

solido che ha il massimo volume a parità di superficie. Probabilmente questa

proprietà era nota anche nell’antichità, anche se solo empiricamente.

Nell’Eneide, libro I, v. 360 – 368, Virgilio racconta:

Quindi Dido commossa, ordine occulto

Di fuggir tenne, e d’adunar compagni;

che molti n’adunò, parte per odio,

parte per tèma di sì rio tiranno.

Le navi che trovar nel lido preste,

caricar d’oro, e far vela in un subito.

Giunsero in questi luoghi, ov’or vedrai

sorger la gran cittade e l’alta rocca

de la nuova Cartago, che dal fatto

Birsa nomossi, per l’astuta merce

che, per fondarla, fèr di tanto sito

quanto cerchiar di bue potesse in tergo33.

La leggenda a cui allude Virgilio è quella secondo cui Didone, arrivata in Africa,

chiese al potente re Iarba, re dei Gentili, un tratto di terra per potervi costruire

una città. Il re, non volendogliela concedere, le assegnò in segno di scherno

tanta terra quanta Didone ne potesse circondare con la pelle di un bue. L’astuta

Didone tagliò la pelle in strisce sottilissime e delimitò con queste un ampio lotto

di terra adiacente al mare, dove poi costruì Cartagine. Didone risolse

brillantemente il problema disegnando un semicerchio, massimizzando così la

superficie della nuova città.

33 M. Emmer, Le bolle di sapone tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 89

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41

Figura 29: Ricostruzione di Cartagine

Il problema isoperimetrico “Tra tutte le figure piane che hanno lo stesso

perimetro trovare la figura che racchiude l’area più grande”, che se non ha altri

vincoli, ha come risposta il cerchio, è stato trattato per la prima volta da Pappo,

nel V libro dei suoi volumi di fisica e matematica, intorno al 390 a.C.

Didone aveva quindi risolto un problema di massimi e minimi. I matematici

pensano che Didone fosse a conoscenza, anche se solo empiricamente, della

proprietà isoperimetrica e che la sfruttò a proprio vantaggio.

Il classico problema isoperimetrico risale all'antichità. Il problema può essere

posto nel modo seguente: fra tutte le curve chiuse nel piano di perimetro

fissato, quale curva (se esiste) massimizza l’area della regione inclusa? Si può

mostrare che questo problema equivale a cercare fra le curve chiuse nel piano,

fissata l’area della regione inclusa, quella che minimizza il perimetro.

Anche se il cerchio appare una ragionevole soluzione al problema, la

dimostrazione di questo fatto è piuttosto difficile. Il primo passo verso la

soluzione fu fatto da Jakob Steiner nel 1883. Steiner iniziò con alcune

considerazioni geometriche facilmente comprensibili: per esempio si può

dimostrare che qualsiasi curva chiusa che includa una regione non

completamente convessa può essere modificata includendo un’area maggiore,

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girando le aree concave per farle diventare convesse. Si può inoltre mostrare

che ogni curva chiusa che non sia simmetrica può essere deformata così da

includere un’area maggiore. La forma che è perfettamente convessa e

simmetrica è il cerchio, l’unica curva che massimizza l’area, anche se questa

non è una dimostrazione rigorosa del problema isoperimetrico34.

Un altro modo per arrivare alla soluzione è cominciare a studiare le proprietà

dei poligoni, in particolare iniziando dai rettangoli. È facile verificare attraverso

alcuni esempi che fra tutti i rettangoli di perimetro fissato il quadrato è quello di

area massima. Si può anche dire che, fra tutti i rettangoli di area fissata, il

quadrato ha perimetro minimo.

Quindi in generale vale la seguente proprietà:

Fra tutti i poligoni con un numero fissato di lati e di ugual area, il poligono regolare

è quello che ha perimetro minimo.

Quindi

Fra tutti i poligoni con un numero fissato di lati di ugual perimetro, il poligono

regolare è quello che ha area massima.

Questo significa in particolare che:

fra tutti i triangoli di area fissata, il triangolo equilatero ha il perimetro

minimo;

fra tutti i quadrilateri di area fissata il quadrato ha il perimetro minimo

e questa proprietà può essere generalizzata a poligoni con un numero di lati più

grande.

Possiamo domandarci adesso: a parità di area, potendo utilizzare un numero

qualsiasi di lati, qual è il poligono il perimetro minimo?

Per quanto osservato sopra ci si può limitare a considerare solo i poligoni

regolari. Si può inoltre verificare facilmente che, a parità di area, più lati ha il

poligono regolare, più piccolo è il suo perimetro.

34 http://www.mat.uniroma1.it/people/montefusco/dido.pdf

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43

Figura 30: Considerando vari poligoni regolari con un numero diverso di lati, che

abbiano tutti la stessa area, si osserva che il perimetro diminuisce al crescere del

numero dei lati35

Allo stesso modo si può verificare che, a parità di perimetro, l’area di un

poligono regolare aumenta al crescere del numero dei suoi lati.

35 Figura tratta da http://web.unife.it/progetti/matematicainsieme/schiume/index.html

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44

Figura 31: A parità di perimetro, più lati ha il poligono regolare, più aumenta l’area36

In quest’ottica, la circonferenza viene considerata come un poligono regolare,

con un numero infinito di lati.

Figura 32: A parità di area, la circonferenza ha il perimetro più corto di qualsiasi poligono regolare

I ragionamenti fatti, validi per il piano, possono essere generalizzati allo spazio.

Questa volta prendiamo in considerazione i parallelepipedi. È facile verificare

che tra tutti i parallelepipedi che hanno lo stesso volume il cubo ha la superficie

minima.

E, come il cerchio possiede la proprietà isoperimetrica nel piano, la sfera la

36 http://web.unife.it/progetti/matematicainsieme/schiume/index.html

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possiede nello spazio tridimensionale:

A parità di superficie esterna, il solido che contiene maggior volume è la sfera.

Quindi

Assegnato un volume da contenere, la sfera è quel solido che contiene

quell’assegnato volume con la minor superficie esterna.

2.6 Il problema di Plateau

Se si immerge un contorno chiuso fatto di filo di ferro in un liquido di bassa

tensione superficiale e poi lo si toglie, su questa cornice si distenderà una

lamina avente la forma della superficie di area minima. “Se proviamo a legare

un filo a due punti diametralmente opposti di un telaio, ad esempio a forma di U,

lasciandolo piuttosto lento e lo immergiamo in acqua saponata; quando lo

tiriamo fuori, c’è una pellicola tesa sopra di esso, nella quale il filo si muove

affatto liberamente. Se rompiamo questa pellicola da una parte, la pellicola

rimasta tira immediatamente il filo dalla parte opposta, quanto più le è possibile,

fino a quando il filo diventa teso. Si può notare che questo filo si è disposto

come un perfetto arco di cerchio, perché questa forma geometrica è quella che

consente di avere la massima superficie possibile da una parte, e quindi la

minima dall’altra, dove è tesa la pellicola di sapone. È possibile utilizzare anche

un telaio a forma di anello; nella parte centrale di questo il filo per un breve

tratto è doppio. Se rompiamo la pellicola tra i due fili, essi vengono

immediatamente tirati in direzioni opposte fino a formare una circonferenza

perfetta, perché questa è la forma che consente di avere un’area massima

all’interno, lasciando così all’esterno la minima superficie possibile”37. Intorno

alla metà del diciannovesimo secolo il fisico belga Plateau inizia lo studio delle

forme assunte dalle lamine saponose. Plateau sfrutta le proprietà fisiche

dell’acqua saponata per trovare forme del tutto nuove. “Una delle prime figure di

equilibrio di cui si occupa Plateau è la catenoide, figura di rotazione ottenibile

37 C. V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, Zanichelli, Bologna, 1974, p. 43

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ruotando attorno ad un asse verticale z in un riferimento cartesiano xyz una

curva detta catenaria38.

La catenoide è una superficie di area minima39; utilizzando le lamine di sapone

38 La catenaria è la forma di una fune ideale appesa per i due estremi. Per “fune ideale” si intende che la fune è perfettamente flessibile, inestensibile, senza spessore e con densità uniforme. La catenaria ha moltissime applicazioni in tanti campi. Eulero trovò che la superficie laterale del solido di rotazione generato da una catenaria, la catenoide, è la superficie minima tra due circonferenze della stessa grandezza. La superficie di rotazione della catenaria è l’unica superfice di rotazione, insieme al piano, ad essere superficie minima; questo si può vedere immergendo in una vasca piena di acqua e sapone due circonferenze uguali distanziate: la bolla di sapone che si formerà si disporrà per avere superficie minima e questa avrà proprio la forma di una catenoide. 39 “Alle estremità di un tubo corto faccio due bolle di sapone normali e se tiro una delle due bolle con un altro tubo scorrevole do alla bolla la forma di un cilindro. Tramite un tubicino soffio aria nel cilindro in modo che il suo profilo risulti perfettamente dritto. La pressione nelle due bolle ora dovrebbe essere esattamente la stessa, poiché il passaggio dell’aria tra le due è libero. Misurandole, si può constatare che il diametro della sfera è esattamente doppio di quello del cilindro; ma la curvatura di questa sfera è la metà di quella di una sfera che avesse un diametro lungo la metà del suo: perciò il cilindro, che come sappiamo ha la stessa curvatura della sfera grande, dato che i due si equilibrano, ha soltanto metà della curvatura che avrebbe una sfera del suo stesso diametro, e in esso la pressione è soltanto la metà di quella che ci sarebbe in una sfera del suo stesso diametro. Via via che si soffia dentro nuova aria, si vede la sfera ingrandirsi e diminuire dunque di pressione; il cilindro si assottiglia a metà altezza formando una strozzatura; non è più un cilindro e il suo profilo si incurva verso l’interno. Mano a mano che si continua a gonfiare e a ingrossare la sfera, la parete del cilindro è risucchiata sempre più verso l’interno, ma non indefinitamente. Se si gonfiasse la bolla sovrastante fino a farla diventare enorme, la pressione diventerebbe estremamente bassa: si riduce a zero se la bolla di sopra viene rotta lasciando così l’aria libera di passare dall’interno all’esterno di quello che prima era un cilindro. Ripetiamo l’esperimento in scala maggiore. Prendiamo due grandi anelli di vetro tra i quali si possa tendere una pellicola dello stesso tipo della precedente. Il profilo della pellicola di sapone è curvo, con la convessità verso l’interno, e ha esattamente la stessa forma che aveva assunto il cilindro più piccolo (descritto sopra). Se ciò è esatto, poiché non vi era pressione, non vi dovrebbe essere neppure curvatura. Osservando però la figura è innegabile affermare che non sia curva, però da quanto detto sopra eravamo convinti che la pressione e la curvatura crescessero e diminuissero insieme. Apparentemente si può affermare che la conclusione sia assurda. Si può dire che, poiché la pressione è ridotta a zero, la superficie non deve avere nessuna curvatura; eppure uno sguardo basta a convincerci che la pellicola è così curva da rivelare un profilo snello e elegantissimo.

Osserviamo il modello in figura in modo minuzioso. Se prendiamo un disco con diametro esattamente uguale al diametro interno della figura nella sezione più sottile, e lo appoggiamo di taglio, come nella figura sopra, ebbene si può vedere che il suo contorno si adatta perfettamente nel tratto più vicino alla zona più sottile. Ciò dimostra che, questa parte del modello nell’immagine, vista di lato, appare curva verso l’interno tanto quanto apparirebbe curva verso l’esterno se si potesse osservarla dall’alto. Quindi, se viene considerata soltanto la sezione più sottile, essa appare curva in egual misura sia verso l’interno, sia in direzione opposta, secondo come la si guarda. La curvatura convessa verso l’interno tende a diminuire la pressione interna, e la curvatura convessa verso l’esterno tende ad aumentarla: poiché le curvature sono uguali, si equilibrano esattamente, e non c’è alcuna pressione. Se si potesse

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è possibile ottenere una porzione finita della superficie, che si estenderebbe

all’infinito”40. La catenoide si ottiene immergendo nell’acqua saponata un telaio

formato da due anelli metallici, uniti da un manico di filo metallico in modo tale

che siano paralleli e coassiali: l’equivalente delle due circonferenze del

problema di area minima affrontato da Eulero. La pellicola che si viene a creare

all’estrazione del telaio dall’acqua ha appunto la forma di una porzione di

catenoide, a conferma della soluzione trovata da Eulero.

Figura 33: Catenoide

Plateau si rende conto di un fatto interessante che riguarda le catenoide: date le

due circonferenze del problema di Eulero, quando i piani su cui queste

giacciono sono abbastanza vicini, le catenoidi che passano dalle due

circonferenze sono due, una più incurvata dell’altra. Entrambe le catenoidi sono

superfici minime, ma solo una delle due risolve il problema dell’area minima.

Questo caso offre un esempio di superficie minima che non è la superficie di

esaminare allo stesso modo una bolla che si assottiglia a metà altezza formando una strozzatura, troveremmo che quello che abbiamo detto vale non solo per la zona più sottile ma anche per ogni altro punto del profilo. Una superficie come questa, ugualmente incurvata in ogni punto in direzioni opposte, si chiama superficie di curvatura nulla: è così spiegato ciò che prima sembrava assurdo”. C. V. Boys, Le bolle di sapone e le forze che le modellano, Zanichelli, Bologna, 1974, p.49-52 40 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 157

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area minima per un bordo assegnato. Dalle due catenoidi passanti dalle

circonferenze date, quella più incurvata ha area maggiore e non può mai essere

ottenuta come lamina saponata.

Le superfici minime delle quali è possibile trovare un modello con lamine di

sapone vengono chiamate stabili.

Un’altra superficie minima considerata da Plateau è l’elicoide. Il fisico riesce ad

ottenerla usando un telaio di filo di ferro modellato ad elica. Anche l’elicoide

retto è una superficie minima considerata stabile.

Figura 34: Elicoide

Il principio generale che è alla base del lavoro di Plateau permette di realizzare

tutte le superfici di curvatura media nulla e le superfici minime, di cui si

riconoscono o le equazioni o la generatrice geometrica41. “Si tratta di tracciare

un contorno chiuso qualsiasi con le sole condizioni che esso circoscriva una 41 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino.

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porzione limitata della superficie che sia compatibile con la superficie stessa; se

si costruisce quindi un filo di ferro identico al contorno in questione, si ottiene un

insieme di lamine saponate che rappresenta la superficie in esame. Plateau

non può fare a meno di notare che queste superfici si realizzano quasi per

incantesimo”42.

Per prima cosa Plateau si occupa della forma che si ottiene quando si soffia

con la cannuccia in un liquido saponoso. Non si ottengono delle bolle di sapone

sferiche, staccate le une dalle altre, ma un sistema di superfici saponose

nessuna delle quali perfettamente sferica. Si formano delle lamine più o meno

piatte, che separano tra loro le diverse bolle. “Se si considerano due bolle di

sapone che vengono soffiate insieme e se in entrambe è contenuto lo stesso

volume d’aria, si otterrà una struttura molto simmetrica. Se invece la parte d’aria

contenuta in una è maggiore rispetto a quella dell’altra, la forma che si ottiene è

del tipo mostrato nella Figura 35.

Figura 35: Bolle che contengono diverse quantità d’aria

Se dunque il volume d’aria nelle due bolle è uguale, la parete di separazione

sarà piatta perché la pressione è la stessa da una parte e dall’altra della lamina.

Nel caso di due bolle di volume diverso, la lamina non sarà piatta ma risulterà 42 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 161.

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incurvata dalla parte della bolla più grande. In questo caso la lamina di

separazione ha una curvatura diversa da zero, e per raggiungere l’equilibrio si

ha una pressione maggiore dalla parte della bolla più piccola verso quella più

grande. Essendo la differenza di pressione:

RP τ=

(dove R è il raggio della bolla e τ è la tensione superficiale), pertanto, più il

raggio è piccolo, più forte è la pressione. Questa è quindi la soluzione che

risolve il problema di minimizzare, assegnati due volumi d’aria, l’area della

superficie totale. E la soluzione non ha più una semplice forma sferica”43. È

interessante notare che in entrambi i casi gli angoli che le lamine formano nei

punti di contatto con la parete di separazione sono sempre di 120°. Allo stesso

modo si comporta un sistema di tre bolle. Plateau nota che in questo caso il

sistema di lamine ha tre pareti di separazione che si incontrano per ragioni

analoghe alle precedenti in angoli di 120°. Si possono poi aggiungere altre bolle

e costituire un agglomerato complesso44. Quindi la grande scoperta di Plateau è

la seguente:

“Comunque elevato sia il numero di lamine di sapone che vengono a

contatto tra loro, non vi possono essere altro che due tipi di

configurazioni”45

“Precisamente le tre regole sperimentali che Plateau scopre a proposito delle

lamine saponate sono le seguenti:

1. Un sistema di bolle o un sistema di lamine attaccate a un supporto in fil di ferro è

costituito da superfici piane o curve che si intersecano tra loro secondo linee con

curvatura molto regolare. 2. Le superfici possono incontrarsi solo in due modi: o tre superfici che si incontrano

43 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 163. 44 Ibidem 45 Ibidem

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lungo una linea o sei superfici che danno luogo a quattro curve che si incontrano

in un vertice. 3. Gli angoli di intersezione delle superfici lungo una linea o delle superfici delle

curve di intersezione in un vertice sono sempre uguali, nel primo caso a 120°, nel

secondo caso a 109°28’.

Qualunque sia il numero di bolle e lamine saponate che andiamo a costruire, gli

unici tipi di angoli che formano le lamine sono del tipo indicato da Plateau46.

Uno dei primi telaietti che Plateau prende in considerazione è a forma di cubo.

Figura 36: Disposizione delle lamine in un telaio a forma di cubo

Una volta immerso ed estratto il telaio, le lamine raggiungono la forma stabile in

pochi secondi. Il sistema di lamine che si forma rispetta le regole degli angoli e

inoltre le lamine vanno ad incontrarsi al centro in una lamina di forma cubica,

che risulta sempre disposta parallelamente a una delle facce del telaio cubico.

In un primo momento si potrebbe avere l’impressione che gli spigoli che si

formano siano diritti; in realtà sono incurvati, come si nota guardando più 46 M. Emmer, Bolle di sapone. Tra arte e matematica, Bollati Boringhieri, 2009, Torino, p. 165-166.

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attentamente, perché se non lo fossero non rispetterebbero le regole sugli

angoli.

Figura 37: Disposizione delle lamine in un telaio a forma di prisma

2.7 L’acqua e le sue proprietà chimico-fisiche

L’acqua è il principale composto chimico della biosfera: alla sua presenza e alle

sue proprietà si deve l’esistenza stessa della vita in tutte le forme note. È un

liquido trasparente senza odore né sapore ed è l’unico composto che possiamo

trovare in natura sia allo stato solido (ghiaccio, neve e brina), sia allo stato

liquido (mari, fiumi, laghi, sorgenti e pioggia), sia allo stato aeriforme (vapore

acqueo). “L’acqua si presenta con formula chimica molto semplice: H2O, dove

H sta per idrogeno e O per ossigeno. L’ossigeno e l’idrogeno sono due elementi

chimici con numero atomico 1 e 8 rispettivamente e con peso atomico pari a 1

u.m.a. (unità di massa atomica) per l’idrogeno e 16 u.m.a. per l’ossigeno.

Nonostante la formula sia semplice, l’acqua presenta caratteristiche particolari.

Il legame tra l’ossigeno e l’idrogeno è un legame covalente; gli atomi sono

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disposti nella molecola ai vertici di un triangolo isoscele. L’ossigeno, che è

disposto al vertice superiore, attrae gli elettroni con una forza maggiore (si dice

che è più elettronegativo). Studiando lo spettro di vibrazione-rotazione del

vapore d’acqua è stato dimostrato che l’angolo di legame è di 104.5°”47.

Dato che la forza con cui l’atomo di idrogeno attira l’elettrone di legame è

minore di quella esercitata dall’ossigeno sullo stesso elettrone, la molecola

d’acqua risulta dotata di una distribuzione di cariche elettriche non omogenea.

Figura 38: Molecola polare

Come si osserva dalla Figura 38, le estremità della molecola dove si trova

l’idrogeno hanno una debole carica positiva, quelle dove sta l’ossigeno una

debole (doppia) carica negativa. Ciò implica che, quando sono presenti molte

molecole, tra le estremità con carica opposta si eserciti una attrazione

elettrostatica spesso sufficiente a tenere le diverse molecole unite tra loro.

Questa forza di attrazione prende il nome di legame a idrogeno e, per quanto

più debole degli altri legami chimici, in un insieme di molecole a temperatura e

pressione ambiente è in tale quantità da condizionarne fortemente il

comportamento48.

47 www.progettosigla.it 48 F. Bagatti, M. Braghiroli, E. Corradi, A. Desco, C. Ropa, Le idee della Chimica, Zanichelli, Bologna, 1995

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Figura 39: Legami a idrogeno

In condizioni normali di temperatura e di pressione, il gran numero di legami a

idrogeno che le molecole d’acqua formano tra loro ne aumenta la coesione. Ciò

comporta una elevata tensione superficiale della stessa. Come abbiamo già

visto, sulla superficie dell’acqua manca per le molecole la possibilità di legarsi in

tutte le direzioni, come accade invece all’interno del liquido stesso. L’adesione

molecolare risulta quindi sbilanciata verso l’interno; l’effetto che ne deriva è

analogo alla presenza di una forte pellicola elastica sulla superficie dell’acqua a

contatto con l’aria. La tensione superficiale dell’acqua può essere facilmente

percepita osservando la forma sferica delle gocce d’acqua. I legami ad idrogeno

sono inoltre la causa di altri fenomeni fisici relativi all’acqua, tra cui si possono

ricordare: l’andamento peculiare della densità in funzione della temperatura, la

capillarità, il calore specifico e le sue proprietà di solvente.

2.8 Il sapone e le sue proprietà chimico-fisiche

Il sapone è generalmente un sale di sodio o di potassio di un acido carbossilico

alifatico a lunga catena; viene prodotto ed usato per sciogliere le sostanze

grasse nei processi di pulizia. Si prepara per saponificazione, ovvero per idrolisi

alcalina, di grassi di origine animale o vegetale, che porta alla formazione del

sale carbossilico (il sapone) e di un alcool49.

49 http://it.wikipedia.org/wiki/Sapone

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Figura 40: Esempio di una struttura chimica di un sapone

La saponificazione è appunto la reazione chimica che trasforma la miscela di un

estere (acido grasso) e di una base forte, generalmente la potassa caustica

KOH o la soda caustica NaOH, in sapone e glicerolo, a una temperatura

compresa tra 80 e 100 °C. L’idrolisi dei corpi grassi produce del glicerolo e una

miscela di carbossilati di sodio o di potassio che costituisce il sapone50.

La reazione di saponificazione è la seguente:

Figura 41: R è una catena di atomi di carbonio e idrogeno.

La soda caustica (NaOH) produce un sapone duro, mentre la potassa caustica

produce un sapone morbido.

Il sapone è considerato un tensioattivo. I tensioattivi sono sostanze che, sciolte

in piccole quantità in acqua, ne diminuiscono la tensione superficiale,

aumentando la bagnabilità delle superfici o la miscibilità tra liquidi diversi. La

conseguenza è l’aumento delle proprietà schiumogene, emulsionanti,

disperdenti e detergenti51.

Hanno questa proprietà le sostanze organiche la cui molecola presenta una

testa idrofila polare ed una coda lipofila apolare. Semplificando la

rappresentazione, si può immaginare il tensioattivo come un cerino; il gambo ha 50 P. Silvestroni, Fondamenti di chimica, CEA, 1996 51 Ibidem

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una struttura affine al grasso, mentre la testa è solubile in acqua.

Figura 42: Rappresentazione semplificata di un tensioattivo

La testa si rivolgerà sempre verso l’acqua, mentre la coda si attaccherà sempre

al grasso. Numerosi tensioattivi, superata una certa concentrazione si

organizzano in aggregati supramolecolari, chiamati micelle.

Figura 43: Rappresenrtazione schematica di una micella

“Questa condizione viene rilevata dalle variazioni improvvise delle proprietà

chimiche e fisiche della soluzione. Al di sotto della concentrazione micellare

critica le micelle sono completamente assenti. La micellizzazione dipende dal

bilancio di due effetti principali: la tendenza delle code idrocarburiche ad evitare

il contatto con l’acqua e la repulsione tra le teste cariche, un effetto

destabilizzante sul processo di aggregazione. Le catene idrocarburiche,

evitando il contatto con il solvente, puntano verso l’interno dell’aggregato, privo

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di acqua, mentre la repulsione tra le teste cariche sulla superficie della micella è

attenuata dalla presenza di ioni di carica opposta (controioni). L’associazione

favorevole delle code apolari all’interno della micella avviene attraverso

l’interazione idrofobica, che è l’effetto dominante nella formazione di questi

grandi aggregati di molecole”52.

Figura 44: A sinistra, la concentrazione della molecola anfilitica è minore della c.m.c. Al centro, la concentrazione è uguale alla c.m.c.: la micellizzaione ha inizio.

A destra, aumenta il numero di micelle, mentre la concentrazione di molecole libere rimane costante

I saponi sono sali dei metalli alcalini, sodio o potassio, di acidi grassi con una

lunga catena alchilica. La loro azione consiste nel rimuovere lo sporco,

portandolo in soluzione ed eliminandolo mediante lavaggio con acqua. Lo

sporco è comunemente costituto da sostanza grasse, come l’olio, che sono

polari e non possono sciogliersi in acqua.

Le molecole dei saponi hanno una doppia funzionalità: la testa polare,

elettricamente carica, partecipa alle interazioni attrattive con le molecole

d’acqua circostanti, mentre la coda non polare può interagire con le molecole di

grasso. In ambiente acquoso i saponi formano micelle. Le micelle intrappolano

l’olio o il grasso nella regione interna, non polare, continuando a rimanere

disperse nella soluzione acquosa mediante l’idratazione della superficie esterna

formata dalle teste polari. L’ulteriore lavaggio con l’acqua porterà via le micelle.

Acqua e grasso sono insolubili l’uno nell’altro, ed occorre un mezzo di trasporto,

il sapone, per portare il grasso nella fase acquosa”53.

52 http://www.whatischemistry.unina.it/it/micella.html 53 Ibidem

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58

Figura 45: Una micella in acqua. All’interno vi è uno strato di grasso

2.9 Riflessione e interferenza 54

I colori iridescenti delle bolle di sapone sono causati dall’interazione con la luce

solare e sono dovuti in particolare alla sottigliezza della pellicola. Non si tratta

degli stessi colori dell’arcobaleno; piuttosto somigliano alle sfumature che si

osservano su una macchia d’olio dell’asfalto bagnato. I colori che appaiono

sulla pellicola sono dovuti ai fenomeni di riflessione e di interferenza della luce

che la colpisce. “La pellicola di sapone si può considerare come un sandwich

costituito da due strati di sapone che contengono uno strato di acqua saponata.

Quando la luce illumina la superficie anteriore della pellicola, parte di essa

viene riflessa, parte viene trasmessa e giunge alla superficie posteriore interna

dove viene quasi completamente riflessa. Quindi la luce attraversa nuovamente

la lamina e ritorna in aria. Incontrandosi con la luce riflessa dalla lamina

anteriore si combina ad essa, dando luogo alle figure di interferenza, cioè a

linee colorate, se la luce di partenza è bianca o a linee di un solo colore

intercalate da linee scure se la luce iniziale è monocromatica”.

Ecco una rappresentazione schematica dei processi che avvengono quando la

luce incide su una bolla di sapone:

54 http://www.museoscienza.org/approfondimenti/online/bolle_di_sapone/

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59

Figura 46: Rappresentazione schematica dei processi che avvengono quando la luce incide su una bolla di sapone

Quando la luce colpisce la lamina, di spessore d, il raggio incidente viene in

parte riflesso dalla superficie superiore (raggio 1), in parte passa attraverso la

lamina e quindi viene riflesso nel punto B dalla superficie inferiore. Il raggio di

luce passa poi nuovamente attraverso la superficie superiore (raggio 2) ed esce

dalla lamina. I raggi qui rappresentati si possono interpretare come la direzione

di propagazione di onde piane, rappresentate come in Figura 46.

Quando queste onde emergono dalla lamina, e mi riferisco all’onda 1 e all’onda

2, può succedere che si incontrino e che interferiscano tra loro, dando luogo

alle figure di interferenza. Quest’ultima può essere costruttiva o distruttiva: si ha

interferenza costruttiva quando le creste delle due onde si sovrappongono

(Figura 47) si ha invece interferenza distruttiva quando le onde si distruggono

vicendevolmente (Figura 48).

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Figura 47: Interferenza costruttiva55

Figura 48: Interferenza distruttiva56

In generale, la sovrapposizione di due onde potrà dar luogo a fenomeni più

complessi rispetto ai due meccanismi molto schematici appena spiegati. Vi

sono anche altre onde che emergono, dovute alle riflessioni multiple interne alla

lamina, ma il loro contributo di interferenza è molto minore di quello delle onde

1 e 2.

Figura 49: Onde riflesse e rifratte da una lamina saponosa 55 http://scienzapertutti.lnf.infn.it/concorso/banzibazoli/miglioredeimondi/ipertesto/onde.htm 56 Ibidem

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Se si fa incidere sulla lamina una luce bianca, sulla bolla si osservano strisce di

tanti colori. La luce bianca è il risultato della sovrapposizione di luce di molti

colori differenti, cioè di radiazioni di lunghezze d’onda diverse che si separano

per rifrazione all’interno della lamina. Ogni lunghezza d’onda dà luogo ad un

sistema separato di frange.

Figura 50: Raggio di luce che colpisce la superficie esterna ed interna della bolla di sapone

Quando tutte le onde dei vari colori interferiscono costruttivamente si può

vedere un’unica banda larga di colore bianco. I colori che si vedono, come già

detto, non coincidono con quelli dell’arcobaleno per il sovrapporsi delle frange

di interferenza che corrispondono a diverse lunghezze d’onda. Se, per esempio,

in un punto si incontra un massimo di interferenza della luce violetta con un

minimo di interferenza della luce rossa l’indebolimento delle lunghezze d’onda

più lunghe e il rinforzamento di quelle più corte provoca la comparsa di un

colore bluastro. Il colore percepito dipende inoltre dalle caratteristiche

dell’occhio: se colpito da luce dei tre colori rosso, verde, blu

contemporaneamente percepisce luce di colore bianco. Se colpito da luce di

colore rosso e verde contemporaneamente vede il giallo.

Alla luce di quanto detto, se per esempio lo spessore della pellicola saponosa è

tale per cui si ha il fenomeno dell’interferenza distruttiva di uno dei colori primari

(rosso, blu e verde), cioè le onde che generano uno di questi colori si eliminano,

l’occhio potrà percepire solo la mescolanza dei due colori rimanenti:

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bianco – rosso = blu + verde = verde bluastro (ciano)

bianco – verde = rosso + blu = blu rossastro (magenta)

bianco – blu = rosso + verde = giallo

Se si considera ad esempio una zona dove si vede il colore blu, lo spessore

della lamina in quel punto è tale per cui interferiscono costruttivamente le

radiazioni di lunghezza d’onda corrispondente al colore blu. In una lamina

saponosa posta verticalmente è molto facile individuare una zona in cui lo

spessore è più piccolo che nel resto della lamina, e nella quale avverrà la

rottura: si tratta in genere della parte superiore della membrana, che appare di

colore nero perché il suo spessore è così piccolo che tutti i raggi vi

interferiscono distruttivamente. Infatti nella parte alta della lamina lo spessore è

più piccolo, perché l’acqua tende a scendere per gravità. La zona bianca invece

compare in corrispondenza di un certo spessore dove tutti i colori interferiscono

costruttivamente.

I colori delle bolle di sapone e delle lamine saponose hanno la seguente

successione partendo dall’alto:

1. nero

2. bianco

3. giallo

4. porpora

5. blu

6. verde

Come abbiamo visto, la successione dei colori dipende proprio dallo spessore

della lamina, che è un fattore determinante dell’interferenza.

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Capitolo 3

Il valore formativo della scienza

“Qual è l’immagine della scienza? Quali caratteristiche le assegna il senso

comune?”57 Le risposte a queste domande sono svariate, ma ritengo che

alcune siano fondamentali per iniziare un percorso didattico riguardante la

scienza.

La scienza è percepita come oggetto unico. Nel senso comune, non esistono le

scienze, se non per il dettaglio del differente campo di applicazione, ma soltanto

la scienza. Inoltre, questa scienza unificata è percepita dai più come un

processo di accumulazione ordinata, privo dei momenti di conflitto tra correnti di

pensiero che caratterizzano ad esempio, la filosofia o l’arte. La scienza è vista

come qualcosa senza tempo e senza storia, priva quindi di dinamicità. È vista

come una struttura sociale indipendente, ossia come un modo di pensare e di

essere di un determinato gruppo sociale, gli scienziati per l’appunto. Il pensiero

scientifico viene visto più come un mestiere di alcuni che come una parte della

mente di tutti. L’idea di scienza inoltre è incapsulata nella categoria della

certezza. Questo è uno dei più inossidabili luoghi comuni del nostro tempo58.

Questo secolo ha inferto un colpo definitivo alla coppia “scienza-certezza”, in

tutti i campi e in tutte le discipline. “La scienza infatti è fondata sulla curiosità,

sull’incertezza e sull’indeterminazione, sulla delimitazione della domanda,

sull’insinuazione sistematica del dubbio, sulla prudenza interpretativa,

sull’equilibrio, sul gusto e sul rispetto della distinzione tra le cose, sulla

trasparenza delle procedure”59. Il dominio del modello positivistico e

neopositivistico di scienza e di fare scienza è ormai tramontato. Questo

tramonto è avvenuto attraverso un poderoso lavoro di analisi critica, di studio

delle sue strutture logiche e storiche, di rilettura delle sue crisi e delle sue fasi di

crescita; protrattosi per molti decenni, è stato segnato da una visione più

57 L. Caneva Airaudo, A. Volpi, La scienza in gioco, Carocci Faber, 2006, p. 9 58 Ibidem 59 Ibidem, p. 11

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articolata, più flessibile, più problematica, più storica della scienza.

Intanto dal metodo si è passati ai metodi, riconoscendo che non è solo e

sempre il metodo sperimentale a guidare il lavoro scientifico: lo scienziato

utilizza anche il pensiero astratto, i ragionamenti per analogia, la creatività. Nel

fare scienze si è posta in luce, oltre al ruolo delle ipotesi, dei loro conflitti e della

loro verificazione/falsificazione, anche la possibilità di giungere a una

conclusione sbagliata, che svolge un ruolo di “critica e crescita” della scienza,

poiché stimola il ripensamento di teorie e costringe la scienza a essere un

cantiere in continua attività. “Siamo davanti a un’idea del lavoro scientifico

diversa: più critica, più aperta, più plurale, più flessibile, più dialettica”60. Alla

scienza oggi va riconosciuto un valore importante nella nostra cultura: un valore

cognitivo e sociale prima di tutto, ma anche un valore formativo. La scienza di

fatto ha aperto all’uomo una nuova visione del mondo, libera da superstizioni,

da mitologie e da condizionamenti ideologico-sociali, fondata sulla ragione e

sulla libertà. La scienza è stata quindi una via di liberazione e di dominio della

realtà, non più subita, ma legata sempre più ai bisogni dell’uomo. La scienza

utilizza una ragione critica, che interpreta e ordina i dati dell’esperienza per

indagare i meccanismi della natura. Sia l’antitradizionalismo che la razionalità

critica danno avvio ad una nuova visione del mondo, laica, razionale e

scientifica, che deve essere il prodotto della stessa trasmissione del sapere.

Qua entra in gioco il modo di insegnare scienze. La scuola deve sicuramente

considerare la centralità dell’ordine sistematico in tutti i saperi che veicola: deve

svilupparli secondo un piano articolato e preciso nella loro struttura scientifica.

Questa dimensione però lascia in ombra il fare scienze, la sua varietà di

percorsi e la sua problematicità. Nella scuola insegnare scienze è spesso

servirsi di manuali, commentarli, ripetere insieme. L’insegnamento è soprattutto

manualistico, poco sperimentale e poco riflessivo. La scienza si dovrebbe fare

di più nei laboratori. È proprio la dimensione di vivere la scienza che

bisognerebbe incoraggiare. Solo in questo modo può nascere una nuova

didattica della scienza, non vista come una didattica e una competenza

semplicemente applicativa, ma critica. Conoscere non significa arrivare ad una

60 Ibidem, p. 13

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verità certa ed assoluta, quanto al contrario dialogare con l’incertezza e

interrogarsi costantemente sui propri errori, frutto di un processo di pensiero e

di azione. Edgar Morin, riprendendo il motto di Montagne, dice che è “meglio

una testa ben fatta che una testa ben piena”61: piuttosto che accumulare

conoscenze, è preferibile acquisire un metodo per trattare, organizzare,

orientare con un senso i propri saperi. “Morin afferma che l’attitudine generale

della mente a porre e a trattare i problemi permette ancor meglio lo sviluppo di

competenze particolari o specializzate. Più potente è l’intelligenza generale, più

grande è la sua facoltà di trattare problemi speciali. L’educazione deve favorire

l’attitudine generale della mente a porre e a risolvere i problemi e

contemporaneamente deve stimolare il pieno impiego dell’intelligenza generale.

Questo impegno richiede il libero esercizio della facoltà più diffusa e più viva

dell’infanzia e dell’adolescenza, la curiosità, che troppo spesso l’insegnamento

spegne e che, al contrario, è necessario stimolare o risvegliare, se sopita. Si

tratta di incoraggiare, di spronare l’attitudine indagatrice, e di orientarla sui

problemi fondamentali della nostra stessa condizione e del nostro tempo”62. Ciò

non può essere inscritto in un programma, ciò può essere animato solo da

entusiasmo educativo. “Lo sviluppo dell’intelligenza generale richiede di legare

il suo esercizio al dubbio, lievito di ogni attività critica, che permette di ripensare

al pensato, ma comporta anche il dubbio del suo stesso dubbio. Deve far

appello all’arte dell’argomentazione e della discussione”63. È necessario poi

sviluppare la capacità di contestualizzare e mettere in relazione saperi ed

esperienze diversi in un approccio pluridisciplinare. Si tratta di restituire alla

scienza la sua natura sperimentale all’interno di un quadro di ricerca di senso

che parte dall’esperienza concreta e viva di ciascuno. Quindi la manualità e la

tecnica acquistano una loro dignità fondamentale perché non solo aiutano a

combattere una visione troppo intellettualistica e astratta della scienza, ma

perché l’intelligenza è un dato complesso fatto di sagacità, flessibilità d’animo,

attenzione vigile e capacità di reazione operativa64.

61 Ibidem, p. 15 62 E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 16 63 Ibidem, p.16-17 64 L. Caneva Airaudo, A. Volpi, La scienza in gioco, Carocci Faber, 2006

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Parlare di manualità, di esperienza concreta, di ricerca sperimentale significa

parlare anche di tecnica. Quest’ultima ci mette in relazione con il nostro mondo

materiale e sociale e ci dice che esso è legato al nostro agire. Molti dizionari

definiscono la tecnica come l’insieme dei procedimenti usati per applicare delle

conoscenze e ottenere dei risultati concreti. La tecnica purtroppo molto spesso

viene vista come scienza applicata e così viene separata dall’educazione

scientifica. “Troppo spesso la scuola, succube di una visone dualistica della

conoscenza, scinde la teoria dalla pratica”65. Al contrario, gli oggetti della

tecnica aiutano a comprendere, perché possono stimolare domande sui

fenomeni fisici che permettono il loro funzionamento. L’educazione scientifica,

intesa come educazione alla comprensione dei fenomeni della realtà umana e

naturale, si collega con l’educazione tecnica, intesa come spazio dell’attività

umana per realizzare oggetti concreti. C’è un processo creativo che avviene

grazie a combinazioni, tentativi, prove, adattamenti, recuperi di esperienze e

materiali, procedimenti e ragionamenti. “L’attività scientifica e la tecnica

possono muoversi insieme e integrarsi. La prima si basa su procedimenti

standardizzati che, semplificando, possiamo schematizzare in questo modo:

formulazioni di ipotesi;

verifica delle ipotesi attraverso osservazioni ed esperienze;

analisi dei risultati”66.

La strutturazione di un sapere, come risultato del processo, è legata

all’interpretazione e alla comunicazione delle ricerche e delle esperienze.

Questa dinamica ha bisogno di un processo creativo che va dalla formulazione

di una funzione attesa (che traduce un bisogno) all’appropriazione e

all’esplorazione degli eventuali prodotti già esistenti, alla definizione di nuovi

prodotti e strumenti. In un approccio culturale della scienza più globale, è

essenziale dare ai bambini la possibilità di recuperare all’interno del momento

educativo della scienza il momento tecnico-operativo, la sperimentazione reale:

il tutto all’interno di un contesto anche ludico e piacevole. Troppo spesso ci si

accorge che è la motivazione ad essere carente nei bambini: un collegamento

65 Ibidem, p. 17 66 Ibidem

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più stretto tra queste dimensioni teoriche e pratiche può essere di enorme aiuto.

“Proprio a proposito del gioco, molti studiosi sono concordi nell’affermare che,

nella crescita di ogni individuo, il gioco riveste un ruolo di capitale importanza”67.

Tra le molte valenze che il gioca ha, e che sono trasversali a tutte le culture, c’è

anche quella di consentire al bambino di misurare se stesso: nei confronti della

realtà e nei confronti della conoscenza di sé. Allo stesso modo l’attività manuale

svolge il doppio compito di rappresentare e mantenere vivi i valori propri di una

cultura e di avviare uno stretto rapporto tra la persona e il mondo della materia.

Vi è quindi un parallelismo tra il gioco e l’attività manuale, che spesso si

trasforma in un’unica cosa, rendendo questi due momenti inseparabili

nell’attività del bambino. Nell’infanzia giocare con l’acqua e con tutti gli elementi

naturali è stata l’occupazione più entusiasmante e più ricca di apprendimenti.

Un bambino che gioca con materiale non strutturato sta esplorando e

allargando il suo mondo fantastico, ma sta anche sperimentando conoscenze,

sull’incontro tra il suo corpo e la materia, che forse lo influenzeranno per tutta la

vita. Da ciò e dalla possibilità di ripetere esperienze simili, o più articolate e

complesse, prenderà forma la sua cultura personale, la sua visione del mondo

e la sua percezione della realtà. Il gioco, la dimensione ludica può essere un

forte elemento di costruzione del senso della realtà, Anche perché è una delle

modalità principali dell’esistenza: il gioco attrae sempre perché risponde a un

bisogno profondo della persona68. Si potrebbe affermare che questo bisogno

corrisponde al sentimento di essere liberi unito a quello di avere la possibilità di

esercitare un potere. Il bambino costruendo, facendo, riesce a concepire passo

dopo passo l’oggetto che ha di fronte. In questo modo stabilisce delle

successioni di operazioni concrete che chiariscono il progetto: misura, traccia,

assembla, trasforma i materiali impadronendosi degli attrezzi necessari. Nel

corso della fabbricazione il bambino è messo in condizione di provare, toccare,

sperimentare, testare, modificare, ricominciare, arrivando ad apprendere i

principi di funzionamento degli oggetti che di volta in volta ha davanti. Riesce

infine a fare delle esperienze che possono condurlo a capire meglio le leggi

67 Ibidem, p.23 68 P.Borin, La mano e la mente, Carocci Faber, Roma, 2005

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della natura69.

3.1 Il valore attribuito alla scienza e al bambino a partire dai programmi del 1985 fino alle Indicazioni Nazionali per il Curricolo del 2007

I programmi del 198570, rispetto a quelli promulgati negli anni precedenti,

rappresentano una grossa svolta, non soltanto in ambito scientifico: la scuola di

fatto si adegua alle esigenze formative del fanciullo. Essa infatti per la prima

volta concorre a sviluppare la creatività del bambino. L’attenzione che i

programmi dell’85 mostrano nei confronti della creatività, corrisponde

all’esigenza di promuovere nel fanciullo la consapevolezza di sé e delle proprie

possibilità e di valorizzare una progressiva capacità di autonomia delle

conoscenze sul piano personale e sociale. Il compito della scuola è quello di

raggiungere un’alfabetizzazione culturale partendo dall’orizzonte di esperienze

e di interessi del bambino per renderlo sempre più consapevole del mondo

circostante. Inoltre “la scuola elementare promuove l’acquisizione di tutti i

fondamentali tipi di linguaggio e un primo livello di padronanza dei quadri

concettuali, delle abilità, delle modalità di indagine essenziali alla comprensione

del mondo umano, naturale e artificiale. Essenziale a tal fine è anche la

realizzazione di un clima sociale positivo nella vita quotidiana della scuola,

organizzando forme di lavoro di gruppo e di aiuto reciproco e favorendo

l’iniziativa, l’autodecisione, la responsabilità personale degli alunni. Sono queste

le condizioni necessarie perché ogni alunno viva la scuola come ‘ambiente

educativo di apprendimento’, nel quale maturare progressivamente la propria

capacità di azione diretta, di progettazione e verifica, di esplorazione, di

riflessione e di studio individuale. Pertanto, le sollecitazioni culturali, operative e

sociali offerte dalla scuola elementare promuovono la progressiva costruzione

della capacità di pensiero riflessivo e critico, potenziando nel contempo

creatività, divergenza e autonomia di giudizio, sulla base di un adeguato

69 L. Caneva Airaudo, A. Volpi, La scienza in gioco, Carocci Faber, 2006 70 Programmi della Scuola Elementare, D.P.R. 12 febbraio 1985

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equilibrio affettivo e sociale e di una positiva immagine di sé”. All’insegnamento

scientifico viene attribuito il compito di permettere al bambino l’acquisizione di

conoscenze e abilità che ne arricchiscano la capacità di comprendere e

rapportarsi con il mondo, che lo pongano in grado di riconoscere quale sia il

ruolo della scienza nella vita di ogni giorno e nella società odierna e quali siano

le sue potenzialità e i suoi limiti. In particolare si afferma che è importante “lo

sviluppo di un rapporto sempre più stretto e articolato tra il ‘fare’ ed il ‘pensare’”,

visto come uno degli obiettivi fondamentali dell’educazione scientifica. Il fare,

inteso come attività concreta manuale e osservativa, è riferimento insostituibile

di conoscenze sia per le scienze della natura, sia per lo sviluppo di competenze

tecnologiche.

“La modalità dei nuovi programmi è quella centrata sull’insegnamento per

problemi, attraverso la promozione di percorsi euristici che valorizzano

l’esperienza diretta e la sperimentazione attiva. I bambini sono invitati assieme

agli insegnanti a fare ricerca. È attraverso il coinvolgimento diretto che il

bambino arriva a scoprire le regole che organizzano il mondo circostante.

Attraverso l’azione il bambino costruisce le conoscenze, che fanno riferimento

ad ambiti disciplinari correlati tra loro e che conferiscono unitarietà e

consapevolezza al sapere stesso”71.

Nelle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati del 200372, viene

sottolineata di nuovo l’importanza dell’esperienza personale, delle conoscenze

di ogni singolo bambino e del ‘fare’. Il sapere scientifico ha l’obiettivo di

promuovere la nascita e lo sviluppo del pensiero critico, che aiuterà il bambino

ad interpretare con atteggiamento positivo e aperto le esperienze della vita

futura. Per queste ragioni le materie scientifiche vengono valorizzate sia per

quanto riguarda l’atteggiamento dinamico e di ricerca che possiedono, sia per il

fatto che contribuiscono alla maturazione personale di ogni bambino.

Le Indicazioni nazionali per il curricolo del 200773 sono il documento ministeriale

71 D. Capperucci, Dalla programmazione educativa e didattica alla progettazione curricolare. Modelli teorici e proposte educative per la scuola delle competenze, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 26 72 Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella scuola primaria 2003 73 M.P.I., Indicazioniper il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione,Roma, settembre 2007

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di riferimento per l’odierna azione formativa. L’obiettivo della scuola è quello di

formare ogni persona sul piano cognitivo e culturale affinché possa affrontare

l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali presenti e

futuri; l’istituzione scolastica è chiamata a realizzare percorsi formativi sempre

più personalizzati, rispondenti alle inclinazioni personali, nella prospettiva di

sviluppare gli aspetti peculiari della personalità di ognuno. Lo studente è posto

al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali,

estetici, corporei, spirituali e religiosi. La scuola inoltre deve dedicare particolare

cura oltre che al singolo alla formazione della classe come gruppo, alla

promozione di legami cooperativi fra i suoi componenti e alla gestione di

inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione. La formazione di importanti

legami di gruppo non contraddice la scelta di porre al centro dell’azione

educativa la persona; al contrario è indispensabile per lo sviluppo della

personalità di ognuno. La scuola inoltre fornisce le chiavi per apprendere ad

apprendere, per costruire e trasformare le mappe dei saperi rendendole

coerenti con la rapida e imprevedibile evoluzione delle conoscenze. Deve

quindi elaborare gli strumenti di conoscenza necessari per comprendere i

contesti naturali, sociali, culturali, antropologici nei quali gli studenti si trovano a

vivere e operare. La scuola inoltre può e deve educare i bambini alla

consapevolezza e alla responsabilità di un nuovo umanesimo, perché esistono

relazioni fra il microcosmo personale e il macrocosmo dell’umanità e del

pianeta; perché da un lato tutto ciò che accade nel mondo influenza la vita di

ogni persona, dall’altro ogni persona tiene nelle sue mani una responsabilità

unica e singolare nei confronti del futuro dell’umanità. Per questo motivo il

bisogno di conoscenze degli studenti non si soddisfa con il semplice accumulo

di tante informazioni in vari campi, ma solo con il pieno dominio dei vari ambiti

disciplinari e con la contemporanea elaborazione delle molteplici connessioni

che possiedono. È fondamentale una nuova alleanza fra scienza, storia,

discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di

un nuovo umanesimo. In vista di questo scopo la scuola deve conseguire alcuni

obiettivi:

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Insegnare a ricomporre, i grandi oggetti della conoscenza - l’universo, il

pianeta, la natura, la mente, la storia - in una prospettiva complessa,

rivolta a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in

nuovi quadri di insieme.

Promuovere i saperi di un nuovo umanesimo: la capacità di cogliere gli

aspetti essenziali dei problemi; la capacità di comprendere le

implicazioni, per la condizione umana, degli inediti sviluppi delle scienze

e delle tecnologie; la capacità di vivere in un mondo in continuo

cambiamento.

Diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale

condizione umana possono essere affrontati e risolti attraverso una

stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e

fra le culture.

Questi obiettivi possono essere sviluppati fino dalle prime fasi della formazione

degli alunni. L’esperimento, la manipolazione, il gioco, la narrazione, le

espressioni artistiche e musicali sono occasioni per favorire l’apprendimento per

via pratica che successivamente dovrà essere fatto oggetto di più elaborate

conoscenze teoriche e sperimentali. Allo stesso tempo, lo studio di contesti

storici, sociali e culturali all’interno dei quali si sono sviluppate le conoscenze è

condizione di una loro piena comprensione. In aggiunta, le esperienze personali

che i bambini possiedono degli aspetti della natura, della cultura, della società e

della storia sono importanti al fine della sensibilizzazione verso i problemi più

generali e per la conoscenza di orizzonti più estesi nello spazio e nel tempo. Ma

l’impegno indispensabile per arrivare a raggiungere questo obiettivo è ricreare

insieme agli alunni le coordinate spaziali e temporali necessarie per

comprendere la loro posizione rispetto agli spazi e ai tempi assai ampi della

storia e della geografia umana, così come rispetto agli spazi e ai tempi molto

più ampi della natura e del cosmo. Definire un tale quadro d’insieme è compito

sia della formazione scientifica che della formazione umanistica.

Nelle indicazioni nazionali per il curricolo le discipline sono divise in aree: ciò

indica e suggerisce la possibilità di interazione e collaborazione fra le discipline,

sia all’interno della stessa area, sia fra aree diverse. L’area matematico-

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scientifico-tecnologica comprende argomenti di matematica, scienze dell’uomo

e della natura, tecnologia tradizionale e informatica. Queste discipline

contribuiscono in modo determinante alla formazione culturale delle persone e

della comunità, sviluppando la capacità di mettere in stretto rapporto il ‘pensare’

e il ‘fare’; sviluppano inoltre la capacità di critica e di giudizio, la consapevolezza

che bisogna motivare le proprie affermazioni, l’attitudine ad ascoltare,

comprendere e valorizzare argomentazioni e punti di vista diversi dai propri.

Consentono, in sintesi, all’individuo di manifestare la propria cittadinanza

attraverso valutazioni e decisioni motivate. Tutte e tre le discipline dell’area

hanno come elemento in comune il laboratorio, visto sia come spazio fisico, sia

come momento in cui il bambino possa essere attivo nel progettare e nello

sperimentare, nel formulare le proprie ipotesi e nel verificarle. “Il laboratorio è

anche una comunità di apprendimento dove le conoscenze vengono costruite

per mezzo dell’interazione con i compagni”74. Le conoscenze acquisite sono

quindi il frutto del lavoro costruito dal gruppo, grazie alla valorizzazione del

contributo di ogni componente. “L’astrattezza del pensiero trova una concreta

applicazione nelle attività pratiche, mettendo gli alunni alla prova attraverso

molteplici situazioni problematiche”75. Le scienze naturali e sperimentali

dovranno adottare una metodologia euristica, che, partendo dall’esperienza

diretta, accompagnerà il bambino nel passaggio da forme spontanee di

pensiero a forme più organizzate e strutturate. La scuola inoltre deve cercare di

sviluppare la naturale curiosità dei bambini verso la scoperta; deve essere in

grado di incrementare la motivazione invece di frustrarla. Gli insegnanti

dovranno essere in grado di selezionare alcuni temi sui quali lavorare in modo

diretto e progressivamente approfondito, evitando l’enciclopedismo. Inoltre nella

scuola primaria è opportuno utilizzare il gioco, che ha un ruolo cruciale nella

comunicazione, nell’educazione al rispetto di regole condivise, nell’elaborazione

di strategie adatte ai contesti.

74 D. Capperucci, Dalla programmazione educativa e didattica alla progettazione curricolare. Modelli teorici e proposte educative per la scuola delle competenze, FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 206-207 75 Ibidem, p. 207

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Capitolo 4

I metodi di insegnamento che favoriscono l’apprendimento anche nella scienza

4.1 La didattica laboratoriale

In Italia la didattica laboratoriale ha ricevuto un impulso innovativo negli anni

sessanta e settanta del Novecento ad opera di molti innovatori: Tra questi

ricordiamo De Bartolomeis. Obiettivo dell’educazione, secondo De Bartolomeis,

è la costruzione di un atteggiamento di ricerca critico, creativo e produttivo.

Questo obiettivo può essere conseguito organizzando la scuola come una

struttura a laboratori con utilizzazione programmata degli spazi sociali esterni.

“Il laboratorio è un luogo fisico in cui materiali e attrezzature, metodologie,

esperti sono a disposizione degli studenti perché facciano esperienze

necessarie all’acquisizione di conoscenze e di abilità”76. L’attività di laboratorio

si ispira a termini come progettualità, libertà, cooperazione, produttività,

processi oggettivi e determinismo delle cose, che divengono punti di

riferimento, sostituendo i termini obbligo, coazione, struttura istituzionale. Il

valore di tali riferimenti è attestato da ciò che nei laboratori i bambini

guadagnano in fatto di iniziativa, di partecipazione attiva, di originalità, di

capacità di affrontare situazioni reali, di gratificazione, di collaborazione.

L’attività non dipende prevalentemente dall’intervento del docente e quindi gli

elementi necessari a svolgerla non tendono ad estinguersi con esso77. I

laboratori possono garantire condizionamenti ambientali e organizzativi

favorevoli con un alto grado di continuità, perché tali condizionamenti sono

modi di essere di una struttura istituzionale. “In questo senso il laboratorio si

presenta come:

76 F. De Bartolomeis, La professionalità sociale dell’insegnante. Formazione aggiornamento ambiente di lavoro, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 122 77 C. Laneve, Insegnare nel laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia, 2005

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un’occasione per scoprire l’unità e la complessità del reale, mai riducibile

totalmente a qualche schematismo disciplinare;

un contesto significativo di relazione interpersonale e di collaborazione

costruttiva di fronte a compiti concreti da svolgere;

un itinerario di lavoro euristico, che non scindendo teoria e pratica,

esperienza e riflessione, corporeo e mentale, emotivo e razionale, è

modello di esercizio riflessivo e di ricerca integrata;

uno spazio di creatività che è in grado di accrescere l’autostima degli

alunni e di valorizzare l’ampiezza e lo spessore delle competenze di

ciascuno, facendole interagire e confrontare con quelle degli altri;

un possibile luogo positivo di compensazione di squilibri e di disarmonie

psico-educative;

un’occasione per proporre agli alunni itinerari didattici significativi”78.

Così strutturato, il laboratorio si configura come il bisogno di relazione, di

socializzazione, di esplorazione, di costruzione, di fantasia, di avventura, di

movimento, di fare da sé: tutti bisogni di cui hanno necessità i bambini per

formarsi e per crescere.

La caratteristica principale del laboratorio, dal punto di vista didattico, è la sua

realizzazione con gruppi di alunni della stessa classe o di classi parallele o

verticali, riuniti per livello di apprendimento, per eseguire un preciso compito o

per assecondare liberamente interessi e attitudini comuni. Per quanto riguarda

la formazione del gruppo, la scelta più opportuna è formare gruppi eterogenei,

per evitare il ruolo discriminante delle differenze79. “Se l’attività prevalente è la

ricerca, l’insegnante svolge la funzione di guida-supervisione. Non vengono

esclusi momenti di insegnamento frontale, ma le attività prevalenti sono la

discussione, la ricerca con l’aiuto dell’ insegnante, la ricerca autonoma in

gruppo degli alunni. Questi ultimi si abituano così ad usare materiali e

strumenti. Lo svolgimento delle attività richiede inoltre massima flessibilità nelle

78 C. Laneve, Insegnare nel laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia, 2005, p. 18 79 C. Laneve, Insegnare nel laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia, 2005, p. 18 E. Bottero, Il metodo di insegnamento, FrancoAngeli, Milano, 2007

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attività di gruppo e nell’uso degli spazi e dei tempi”80. L’idea di ricerca cui fa

riferimento De Bartolomeis è molto ampia e si ispira al pragmatismo deweyano.

Nell’idea di De Bartolomeis sono previste varie forme di ricerca, il cui elemento

unificante non è il metodo delle singole scienze, ma uno schema più generale.

Lo schema di massima prevede i seguenti passaggi: determinazione

dell’argomento, individuazione e selezione del problema, scopi della ricerca,

raccolta dei dati, tabulazione, analisi, elaborazione e interpretazione dei dati,

valutazione di procedimenti, fissazione dei risultati in maniera che siano

comunicabili, eventuale valutazione dei risultati in vista di possibili applicazioni

ed interventi. Questo schema mette in evidenza gli obiettivi principali del

metodo: sviluppare abitudini di ricerca e riflessive, di conseguenza un metodo di

lavoro. Più che concentrarsi sull’apprendimento dei contenuti è quindi

necessario mirare all’apprendere ad apprendere81.

L’attività proposta, nel laboratorio formativo, si deve prestare ad una

manipolazione concreta. Un’attività puramente verbale, senza il passaggio al

trattamento reale, non è sufficiente. Quando si parla si sottintendono cose date

per scontate, che così non sono quando si tenta di tradurle in attività tangibili.

L’attività deve implicare le operazioni cruciali. In una sessione di laboratorio non

è possibile fare di tutto: è necessario focalizzarsi su alcune operazioni principali.

È indispensabile che il docente sappia con precisione lo sviluppo della

procedura che intende centrare, anche se non è detto che di questo siano

consapevoli gli alunni. Costoro accetteranno di fare ciò che viene chiesto loro e,

solo alla conclusione, in gruppo, si discuterà sulle azioni compiute e sul risultato

ottenuto. L’attività non deve avere una soluzione unica. Questa affermazione

può risultare sconcertante per coloro che considerano il laboratorio come il

luogo dell’esercitazione meccanica, dell’addestramento concreto, dei passi

obbligati. Ma non è questo il laboratorio inteso come “spazio mentale

attrezzato”, che richiede non una risposta giusta, un’unica soluzione, ma più

risposte e più soluzioni, tutte egualmente plausibili. Le attività devono provocare

80 F. De Bartolomeis, La professionalità sociale dell’insegnante. Formazione aggiornamento ambiente di lavoro, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 124 81 E. Bottero, Il metodo di insegnamento, FrancoAngeli, Milano, 2007

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uno “spiazzamento” cognitivo. L’esperienza di laboratorio deve produrre

dissonanza tra ciò che l’allievo conosceva e ciò che va apprendendo mediante

il lavoro. Deve indurre una maggiore motivazione negli studenti e mantenere

costante il desiderio di scoprire qualcosa di nuovo. Le applicazioni automatiche

irrigidiscono il pensiero e rendono difficile la consapevolezza delle diversità dei

contesti e dei processi. L’attività si deve situare ad una giusta distanza dalle

competenze possedute. “Le abilità richieste nelle attività laboratoriali non

possono collocarsi eccessivamente distanti dalle competenze possedute

dall’allievo, altrimenti costui utilizzerebbe soltanto un approccio per tentativi ed

errori. Per altro verso, le attività non possono neppure identificarsi con le

competenze possedute dell’allievo, che si troverebbe costretto a svolgere un

esercizio, e non a ricercare le soluzioni ad un problema”82.

Le attività devono comportare diversi livelli di interpretazione. Imparare in

laboratorio significa apprendere metodi che possono essere variamente

applicati in diverse situazioni; perciò un metodo diventa suscettibile di

interpretazioni diverse secondo l’angolo visuale adottato. Il gruppo di

alunni in laboratorio viene chiamato a proporre, condividere e

sperimentare i diversi punti di vista.

Le attività devono possedere valenze metaforiche. L’attività laboratoriale

non richiede soltanto competenze di tipo esecutivo, così come non

produce soltanto apprendimenti di tipo operatorio-concreto. Operare in

laboratorio significa fare riferimento (ripensare) ad esperienze lontane ed

eterogenee, e contemporaneamente costruire, su quel pensiero, nuove

esperienze.

Le attività devono coinvolgere il rapporto che ciascuno ha con il sapere.

Nel laboratorio l’azione e la riflessione si ritrovano intrecciati nella

costruzione del sapere individuale. In tal modo il laboratorio supera la

perenne divisione tra teoria e pratica, tra principi e applicazioni,

individuando il sapere come conoscenza in azione83.

Tutte le nuove impostazioni didattiche sono debitrici nei confronti della didattica 82 F. Tessaro, Metodologia e didattica dell’insegnamento secondario, Armando Editore, Roma, 2002, p. 157 83 Ibidem

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laboratoriale per le seguenti caratteristiche :

Personalizzazione. Innanzitutto la personalizzazione degli obiettivi

formativi sulla base delle esigenze formative dei singoli alunni e la

personalizzazione dei percorsi di apprendimento (unità di

apprendimento) sulla base dei livelli di sviluppo e di apprendimento, oltre

che degli stili e dei ritmi di apprendimento, degli interessi, delle

motivazioni e delle predilezioni dei singoli alunni.

Operatività. Intesa come operatività della loro impostazione didattica. Nei

laboratori si attuano i principi metodologico-didattici del learning by doing

(apprendere attraverso il fare: è il modello dell’epistemologia operativa) e

quindi del problem solving e del cooperative learning84.

Tornando alle caratteristiche didattiche del laboratorio, si può affermare che

deve essere visto come:

ambiente in cui si realizza un rovesciamento della prospettiva didattica:

l’obiettivo non è quanto deve conoscere il docente in ordine alle

discipline teoriche, ma in che modo le discipline possono costruire la

competenza nell’allievo, in che modo esse possono cercare di riempire lo

spazio tra il mondo dei problemi vissuti e quello della riflessione. Il

laboratorio è soprattutto luogo di costruzione della conoscenza. Affinché i

contenuti e le procedure proposti non si sovrappongono semplicemente

alle conoscenze già possedute, ma interagiscono con queste

permettendo una loro ristrutturazione attraverso nuovi e più ricchi modi di

connessione ed organizzazione, è necessario trovare efficaci

collegamenti tra i contenuti dell’insegnamento e le esperienze

diversificate degli alunni;

avventura conoscitiva: nell’insegnamento-apprendimento l’insegnante e

l’allievo si costituiscono entrambi come quel viaggiatore, il cui viaggio e

la cui scommessa è il percorso formativo (metafora dell’esplorazione di

Bateson). Il laboratorio didattico è il luogo più indicato per intraprendere

un’avventura conoscitiva;

84 A. Lafranconi Betti, Scuola in laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia,2005

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luogo dove si realizza la meta cognizione. Infatti il laboratorio didattico

mira ad un processo di apprendimento che non incida solamente sulle

abilità di base o acquisite, ma anche sulle modalità della loro

comprensione ed utilizzazione. Infatti, l’approccio metacognitivo è una

modalità di intervento polivalente e trasversale all’interno del processo di

apprendimento;

luogo di approccio cooperativo: il laboratorio è l’ambiente in cui si

concretizza un nuovo modello di insegnamento/apprendimento fondato

sulle interazioni fra gli attori del processo didattico.

In laboratorio l’enfasi va posta sul rapporto tra esperienza individuale e

ricostruzione culturale affinché le teorie servano per rispondere ai perché

diventando significative e motivanti85.

I processi didattici di laboratorio devono mirare sempre sia all’acquisizione delle

competenze, sia al loro consolidamento, attraverso apposite attività. Alle attività

di apprendimento e di consolidamento si aggiungono anche attività di sviluppo

(approfondimento, ampliamento e arricchimento) che non siano meramente

applicative.

Prima di essere “ambiente”, il laboratorio è uno “spazio mentale attrezzato”, una

forma mentis, un modo di interagire con la realtà per comprenderla e per

cambiarla. Il termine laboratorio va inteso in senso estensivo: come qualsiasi

spazio, fisico, operativo e concettuale, opportunamente adattato ed

equipaggiato per lo svolgimento di una specifica attività formativa. Dal punto di

vista logistico il laboratorio della scuola dovrebbe essere un locale a sé stante,

appositamente costruito e corredato per produrre apprendimenti specialistici.

Dal punto di vista formativo, il laboratorio si caratterizza per l’oggetto della sua

azione, vale a dire per l’attività che vi si svolge, che investe il soggetto

operante. Con il lavoro in laboratorio lo studente domina il senso del suo

apprendimento, perché produce, perché opera concretamente, perché

“facendo” sa dove vuole arrivare e perché86.

85 C. Laneve, Insegnare nel laboratorio, Editrice La Scuola, Brescia, 2005 86http://www.univirtual.it/ssis/corsispeciali/moduli%20comuni/download/ITP%20AT%20Labor%2001.pdf

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79

4.2 La discussione in classe

La discussione è un importante strumento didattico, che consente agli alunni di

approfondire le conoscenze già in loro possesso e di costruirne di nuove. Le

dimensioni del ragionamento e della collaborazione, incluse nell’idea della

discussione come ragionamento collettivo, possono essere utilizzate come

guida per l’analisi del discorso in classe. Il ragionamento si esplicita in diverse

modalità del discorso, quali l’interpretazione, la comparazione e la spiegazione;

mentre la collaborazione può essere rilevata a livello di partecipazione, della

coordinazione e della co-costruzione di conoscenza. Nel gruppo che discute si

alternano momenti in cui prevale il supporto tra i partecipanti e momenti in cui

domina il conflitto; entrambe le situazioni hanno un ruolo chiave per lo sviluppo

della conoscenza condivisa all’interno della comunità. Nella discussione hanno

luogo una serie di operazioni epistemiche che rimandano alle fasi del problem

solving e che vanno dalla formulazione del problema alla condivisione delle

scoperte87.

“Il ruolo dell’insegnante è importante nel caratterizzare il tipo di interazione che

si svolge nella classe; in particolare il livello degli scambi tra gli alunni e tra

alunni e insegnante cresce notevolmente se il docente usa espressioni

linguistiche che:

tendano ad evidenziare interessi e motivazioni per portare avanti le

ricerche e sviluppare teorie personali;

guidano gli studenti verso il raggiungimento di scopi collettivi e non

individuali;

sfidano gli alunni ad approfondire la riflessione sulle proprie teorie;

incoraggiano gli studenti ad utilizzare le competenze e le conoscenze

degli altri per costruire insieme conoscenza;

generano un approccio all’apprendimento più orientato al processo che

al compito”88.

È importante che l’insegnante sia il primo ad utilizzare durante la conversazione

87 S. Cacciamani, L. Giannandrea, La classe come Comunità di Apprendimento, Carocci, Roma, 2008 88 Ibidem, p. 43

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forme al plurale (del tipo “noi”) per sottolineare la costruzione collettiva della

conoscenza. Allo stesso modo dovrebbe aiutare gli alunni a percepirsi come

membri attivi di una comunità che costruisce conoscenza e non come semplici

ascoltatori passivi della lezione dell’insegnante. Specialmente nelle prime fasi

del lavoro, il docente potrebbe aiutare gli studenti a sviluppare le teorie

proposte formulando domande. “All’inizio della discussione stessa, l’insegnante

partecipa per sostenere e facilitare l’avvio dello scambio comunicativo,

rinunciando al ruolo di conduttore della lezione, ma ponendosi come membro

del gruppo. In questa fase l’insegnante può mettere in atto tutte le tecniche che

favoriscono l’instaurarsi di un clima di ascolto e di accoglienza reciproca, come

il “rispecchiamento” e l’ascolto attivo, rivolgere richieste di chiarimento e di

approfondimento, sapendo che il suo agire costruisce un modello per gli altri

membri del gruppo”89. Per precisare meglio quanto appena detto, la tecnica del

“rispecchiamento” consiste nella riproposizione, da parte dell’insegnante, di un

argomento espresso da un alunno; lo scopo che si persegue è quello di

incoraggiare lo studente a continuare la sua riflessione, ma anche quello di

consentire agli altri membri del gruppo di soffermarsi sul concetto espresso, per

comprenderlo meglio. Riproponendo il pensiero dell’allievo, l’insegnante ha la

possibilità di capire se l’alunno ha ben compreso quanto era stato espresso,

mentre lo studente viene messo nelle condizioni di chiarire e riformulare le

argomentazioni che non sono state apprezzate perché poco chiare o espresse

in forma non sufficientemente esplicita. “Un’altra mossa comunicativa che

l’insegnante può mettere in atto consiste nella fare il punto della situazione,

raccogliendo le diverse posizioni presentate dal gruppo e mettendo in evidenza

i punti di contatto e di accordo raggiunti. In questo modo l’insegnante può

mettere in connessione informazioni diverse, fornite in momenti successivi e da

più alunni che, considerate insieme, possono far avanzare le posizioni di tutto il

gruppo di lavoro”90. Così facendo, l’insegnante incoraggia il consenso fra gli

studenti. In altri momenti potrebbe invece ritenere più utile stimolare le

divergenze e il conflitto socio-cognitivo, chiedendo espressamente di far

89 Ibidem, p. 44 90 Ibidem

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emergere opinioni discordanti attraverso una richiesta di questo tipo: “siete tutti

d’accordo?”.

Al termine della discussione l’insegnante deve facilitare l’emergere di un punto

di vista superiore, che tenga conto delle diversità delle posizioni di partenza, ma

che sia condiviso dal gruppo e percepito come un prodotto della manipolazione

della conoscenza di tutti91.

4.3 Il Cooperative Learning

“Il Cooperative Learning costituisce una specifica metodologia di insegnamento,

attraverso la quale gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi

reciprocamente e sentendosi corresponsabili del reciproco percorso.

L’insegnante assume un ruolo di facilitatore ed organizzatore delle attività,

strutturando “ambienti di apprendimento” in cui gli studenti, favoriti da un clima

relazionale positivo, trasformano ogni attività di apprendimento in un processo

di “problem solving di gruppo”, conseguendo obiettivi la cui realizzazione

richiede il contributo personale di tutti”92. Tali obiettivi possono essere

conseguiti se all’interno dei piccoli gruppi di apprendimento gli studenti

sviluppano determinate abilità e competenze sociali, intese come un insieme di

abilità interpersonali e di piccolo gruppo indispensabili per sviluppare e

mantenere un livello di cooperazione qualitativamente alto. Tale metodo si

distingue sia dall’apprendimento competitivo che dall’apprendimento

individualistico e, a differenza di questi, si presta ad essere applicato ad ogni

compito, ad ogni materia, ad ogni curricolo93. Il lavoro di gruppo non è una

novità nella scuola; ma la ricerca dimostra che gli studenti possono anche

lavorare insieme senza trarne profitto. Può infatti accadere che essi operino

insieme, ma non abbiano alcun interesse o soddisfazione nel farlo. Nei gruppi di

apprendimento cooperativo, invece, gli studenti si dedicano con piacere

all’attività comune, sono protagonisti di tutte le fasi del loro lavoro, dalla

pianificazione alla valutazione, mentre l’insegnante è soprattutto un facilitatore e 91 Ibidem 92 http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/cooperative_learning.htm 93 N. Rosati, Cooperative Learning a misura di bambino, Anicia, Roma, 2007

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un organizzatore dell’attività di apprendimento. Il cooperative learning presenta

di solito i seguenti vantaggi:

migliori risultati degli studenti: tutti gli studenti lavorano più a lungo sul

compito e con risultati migliori, migliorando la motivazione intrinseca e

sviluppando maggiori capacità di ragionamento e di pensiero critico;

relazioni più positive tra gli studenti: gli studenti sono coscienti

dell’importanza dell’apporto di ciascuno al lavoro comune e sviluppano

pertanto il rispetto reciproco e lo spirito di squadra;

maggiore benessere psicologico: gli studenti sviluppano un maggiore

senso di autoefficacia e di autostima, sopportano meglio le difficoltà e lo

stress94.

I cinque elementi che rendono efficace la cooperazione sono:

l’interdipendenza positiva, per cui gli studenti si impegnano per

migliorare il rendimento di ciascun membro del gruppo, non essendo

possibile il successo individuale senza il successo collettivo;

la responsabilità individuale e di gruppo: il gruppo è responsabile del

raggiungimento dei suoi obiettivi ed ogni membro è responsabile del suo

contributo;

l’interazione costruttiva: gli studenti devono relazionarsi in maniera

diretta per lavorare, promuovendo e sostenendo gli sforzi di ciascuno e

lodandosi a vicenda per i successi ottenuti;

l’attuazione di abilità sociali specifiche e necessarie nei rapporti

interpersonali all’interno del piccolo gruppo: gli studenti si impegnano nei

vari ruoli richiesti dal lavoro e nella creazione di un clima di

collaborazione e fiducia reciproca. Particolare importanza rivestono le

competenze di gestione dei conflitti (più in generale si parlerà di

competenze sociali) che devono essere oggetto di insegnamento

specifico;

la valutazione di gruppo: il gruppo valuta i propri risultati e il proprio modo

di lavorare e si pone degli obiettivi di miglioramento95.

94 Ibidem

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L’efficacia della metodologia cooperativa è data inoltre dal supporto di alcuni

comportamenti e valori specifici. All’interno di questo quadro generale, le

diverse interpretazioni del principio di interdipendenza e delle variabili più

significative nell’apprendimento (interazione, motivazione all’apprendimento,

compito e ruolo dell’insegnante) hanno originato lo sviluppo di diverse correnti o

modalità di cooperative learning96.

Figura 51: Disposizione dei banchi nel Cooperative Learning97

4.4 Il metodo scientifico sperimentale

Il metodo scientifico è stato formulato per la prima volta con chiarezza da

Galileo Galilei; essendo fondato sull’esperimento, viene anche definito metodo

sperimentale. Da una prima osservazione della natura da parte dello scienziato,

nasce un esperimento, sviluppato in maniera controllata in modo tale che si

possa riprodurre il fenomeno che si vuole studiare. “L’esperimento ha lo scopo

di convalidare o confutare l’ipotesi che lo scienziato ha formulato, e l’ipotesi

serve a sua volta per spiegare i meccanismi alla base di quel particolare

evento. Se l’ipotesi viene confermata dall’esperimento, si procede con

l’esecuzione di un gran numero di altri esperimenti indipendenti, in maniera tale

95 Cacciamani, L. Giannandrea, La classe come Comunità di Apprendimento, Carocci, Roma, 2008 96 http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/cooperative_learning.htm 97 Ibidem

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84

che i risultati acquisiti diventino completamente attendibili: i dati raccolti

vengono elaborati e successivamente viene formulata una teoria. Se, invece,

l’ipotesi non è confermata dall’esperimento, l’ipotesi viene modificata e

sottoposta a nuovi esperimenti”98.

Il metodo scientifico si può dividere in due fasi distinte, illustrate nello schema

seguente:

Figura 52: Fasi del metodo scientifico

“In pratica il metodo scientifico è un modo di conseguire informazioni sul

meccanismo degli eventi naturali verso cui ci poniamo delle domande: per

determinare se le soluzioni proposte sono valide si utilizzano dei test

(esperimenti) condotti in maniera rigorosa. La rigorosità del metodo scientifico

risiede nel fatto che una teoria non è mai definitiva, ma è suscettibile di

modifiche o di sostituzioni, qualora vengano alla luce nuovi aspetti non

considerati in precedenza.

Il metodo scientifico richiede una ricerca sistematica di informazioni e un

continuo controllo per verificare se le idee preesistenti sono ancora supportate

dalle nuove informazioni.

98 http://www.scienzeascuola.it/joomla/le-lezioni/24-lezioni/331-il-metodo-scientifico-o-sperimentale

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Se i nuovi elementi di prova non sono favorevoli, gli scienziati scartano o

modificano le loro idee originarie.

Ogni teoria scientifica viene quindi sottoposta a continua revisione: è questa la

grande sfida del metodo sperimentale99.

Figura 53: Fase schematica del metodo sperimentale100

“Nella scuola il metodo sperimentale è spesso ridotto a una schematizzazione

del tipo:

osservazione iniziale del fenomeno;

induzione che porta a ricavare dai dati le ipotesi;

deduzione che dalle ipotesi conduce a formulare previsioni circa future

possibili osservazioni o risultati sperimentali;

verifica sperimentale che porta all’accettazione o alla negazione delle

ipotesi attraverso la realizzazione di esperimenti”101.

Una schematizzazione di questo genere, che mette in evidenza i punti principali

dell’indagine scientifica, si presta facilmente a equivoci; suggerisce infatti

99 Ibidem 100 http://www.saroalioto.it/met_sper.htm 101 M. E. Bergamaschini, L’insegnamento delle scienze sperimentali, 2006, p. 2

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un’immagine del metodo scientifico come di un procedimento quasi automatico,

una specie di meccanismo in cui si perdono i riferimenti entro i quali si svolge la

ricerca scientifica: la realtà naturale con la complessità e la varietà dei fenomeni

che le sono propri.

Occorre dare una precisazione sul significato del termine “dato”, per capire

come viene inteso nel linguaggio della scienza. Prima di tutto è necessario

ricordare che i ‘dati’ sono numeri e che le relazioni che legano fra loro i dati

sono formule matematiche102. Il fatto che il libro della scienza sia scritto in

caratteri matematici fu espresso con chiarezza da Galileo, che intendeva così

superare i sillogismi e i ragionamenti ‘per analogia’, propri della filosofia

naturale aristotelica. È vero però che il dato è un indizio che rimanda ad una

domanda di partenza formulata dallo scienziato e che richiede l’intervento della

sua creatività, perché l’ipotesi va inventata, non può essere dedotta

meccanicamente dai fatti, dai dati. La soluzione non si raggiunge mai mettendo

in fila i dati raccolti, perché da essi non è automaticamente deducibile. Non si

acquisisce dunque una conoscenza scientifica se non si mette in campo la

ragione nella sua pienezza, non solo una razionalità di tipo ipotetico-deduttivo

con la quale spesso si identifica la ragione scientifica: la scienza scaturisce

dalla fantasia, dalla creatività, dall’intuizione, anche da un rapporto diretto con il

mondo naturale; non quindi una ragione analitica, ma una ragione sintetica. Il

metodo sperimentale non può quindi essere ridotto a uno stereotipo, come

detto sopra. Al contrario, va inteso come una dimensione del lavoro scientifico

che in quanto tale, costringe nel lavoro scolastico a recuperare la persona nella

sua unità, piuttosto che dissolta nelle sue molteplici abilità o non abilità103.

Lo scienziato, che è impegnato nel suo lavoro, è consapevole del fatto che

esiste una sorta di ricorsività nelle scienze sperimentali.

Osservando la figura sottostante si può facilmente vedere che si parte

dall’esperienza del fenomeno per formulare domande significative; si procede

formulando ipotesi interpretative che rendano ragione di quanto osservato,

selezionando le risposte in base ai dati osservati; sulla base del modello

102 Ibidem 103 Ibidem, p. 3

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elaborato si formulano previsioni non contenute nei dati osservati noti, secondo

un procedimento logico del tipo “se è vero che… allora posso prevedere che”.

Come ultimo passo, in base alle previsioni si progetta un esperimento che

riproduca il fenomeno in forma semplificata: l’esperimento serve per fare

osservazioni in condizioni ottimali sul comportamento del modello, nello stesso

modo in cui si fanno osservazioni sull’oggetto indagato104.

Figura 54: La ricorsività nel metodo delle scienze sperimentali105

Così facendo, lo scienziato compie un percorso circolare partendo dal

fenomeno naturale per ritornare ad osservarlo, rivolgendo la propria attenzione

agli aspetti nuovi ottenuti dal modello, per verificare il modello e

contemporaneamente comprendere il fenomeno più in profondità.

A livello didattico si possono individuare alcune attività coerenti con il metodo

delle scienze sperimentali, le quali favoriscono il rapporto della persona con il

mondo e hanno inoltre una forte valenza formativa:

“osservare con attenzione la realtà che ci circonda;

descrivere quanto si osserva con modalità che portano dalle forma

verbali o illustrate all’uso del linguaggio numerico e più in generale

matematico;

104 Ibidem, p. 5 105 Schema tratto da: Emmeciquadro, n. 9, agosto 2000, p. 48

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astrarre nella fase di acquisizione del modello interpretativo;

immaginare e progettare la simulazione/esperimento, per verificare le

ipotesi interpretative avanzate;

eseguire procedure sperimentali con l’uso di strumenti e costruendo

apparati di misura appropriati;

organizzare complessivamente il proprio modo di ragionare per

distinguere i fatti dalle interpretazioni; costruire conoscenze ordinate e

sistematiche; costruire gerarchie tra le conoscenze acquisite,

arricchendo il proprio quadro concettuale;

acquisire ed elaborare il linguaggio disciplinare specifico”106.

La ricorsività suggerisce un’impostazione didatticamente efficace: la logica con

cui costruire le tappe di un percorso non è lineare e progressiva, ma,

cambiando il punto di vista o il contesto, si può riprendere il lavoro fatto

proponendo nuovi passi, per arrivare con il tempo ad una conclusione più

approfondita dei fenomeni naturali oggetto di studio. In momenti successivi è

possibile riprendere contenuti simili a livelli più complessi e con modalità

differenti, favorendo il maturare della consapevolezza del cammino realmente

fatto e offendo la possibilità di superare negli anni eventuali difficoltà107.

106 Ibidem, p. 5 107 Ibidem

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Capitolo 5

La progettazione del percorso didattico “Le bolle di sapone”

5.1 Prima della realizzazione del progetto

Durante l’estate appena trascorsa ho passato buona parte del mio tempo a

riflettere su come strutturare il progetto. L’argomento che desideravo sviluppare

ormai aveva preso forma nella mia mente; c’era solo bisogno di capire come far

apprendere a dei bambini della scuola primaria i fenomeni fisici che modellano

le bolle di sapone. Iniziai dalla lettura del libro di Charles V. Boys “Le bolle di

sapone e le forze che le modellano”. Questa opera mi è stata di grande aiuto

per la realizzazione del percorso didattico perché spiega in modo accessibile a

tutti la scienza delle bolle di sapone. Il libro di fatto è una miniera inesauribile di

esperimenti di facile realizzazione. Così, mentre lo leggevo, mi dilettavo a

provare quelli che ritenevo adatti anche a dei bambini. Devo ammettere che

questo tipo di attività mi ha riempita di gioia e ha fatto emergere il “fanciullino”

che è dentro ognuno di noi e al contempo pensavo che i bambini avrebbero

provato delle piacevoli sensazioni. Con il trascorrere dei giorni si andava anche

definendo il modo in cui avrei portato avanti il percorso: avrei trasformato l’aula

scolastica in un piccolo laboratorio a misura di bambino. In questo luogo gli

alunni avrebbero avuto la possibilità di svolgere semplici esperimenti, capaci di

stimolare l’interesse e lo stupore, che sono la spinta principale

dell’apprendimento. Mentre iniziavo a stendere per iscritto il percorso, si

definiva piano piano il ruolo che avrei occupato durante il mio lavoro assieme ai

bambini. Decisi che avrei avuto un ruolo il più marginale possibile, ossia che li

avrei lasciati apprendere tramite l’esperienza diretta. Mi sarei limitata a

stimolare in loro curiosità e riflessioni, attraverso domande e li avrei condotti in

questo modo, tramite la discussione, a raggiungere risposte condivise da tutti

loro. Solo in un secondo momento, dopo la sperimentazione, la discussione e

quindi la completa appropriazione dell’esperienza fatta, avrei fornito loro delle

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piccole pillole di spiegazioni scientifiche. Con questo approccio prettamente

pratico e sperimentale i bambini possono esercitare la loro manualità,

costruendo anche piccoli oggetti, e hanno la possibilità di fare misure ed

osservazioni che possono essere estese anche a questioni di carattere

generale. Contemporaneamente alla stesura schematica del progetto ho

pensato, al di là degli argomenti che avrei approfondito per la mia preparazione

personale, gli argomenti che avrei presentato ai bambini. Non si tratta soltanto

di decidere l’ordine di presentazione, ma anche quali parti potevano essere

facilmente comprese e approfondite e quali no. Ho deciso quindi di iniziare il

mio progetto partendo dalle emozioni e dalle sensazioni che i bambini

avrebbero dovuto esprimere tramite il disegno; poi ho pensato che fosse

opportuno partire dal “gioco” stesso delle bolle di sapone perché ero certa che

facesse parte della loro esperienza diretta. Tramite vari passaggi graduali sarei

potuta arrivare alla creazione di ricette di bolle di sapone sia resistenti che di

grosse dimensioni, creando con i bambini una loro “pozione magica” da

riutilizzare in vari momenti del percorso. Gli argomenti prettamente scientifici

che ho ritenuto opportuno approfondire sono quelli della tensione superficiale,

che ha occupato ben due fasi del progetto, il sapone come tensioattivo, le

emulsioni, la proprietà isoperimetrica e le superfici minime, arrivando ad

accennare anche se solo superficialmente alla formazione dei colori sulle

lamine di sapone. Qualche giorno prima dell’inizio del progetto ho preso accordi

con la collega di scienze di classe quinta che si è dimostrata più che disponibile

nel mettermi a disposizione tutto il tempo per me necessario per la

realizzazione del percorso didattico. Abbiamo concordato che mi sarei

incontrata con la classe due volte alla settimana per un totale di quattro ore

settimanali. Nei giorni precedenti al primo incontro ho riprovato tutti gli

esperimenti, che mi ero proposta di far realizzare ai bambini, e ho strutturato

una scaletta contente delle domande-chiave per ogni argomento, che mi

avrebbe permesso di guidarli nella discussione attiva. Ho preparato inoltre delle

tabelle su carta da pacchi da compilare con loro al momento della conclusione

condivisa dall’intera classe e i cartelloni per le spiegazioni scientifiche dei

fenomeni fisici appresi attraverso gli esperimenti.

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5.2 Perché le bolle di sapone?

L’argomento principale del mio progetto sono le bolle di sapone. Ho scelto

questo argomento perché da sempre affascina i bambini e non solo: chi non ha

mai preso una cannuccia e un bicchiere con acqua e sapone e si è perso con

questo gioco fatto di forme, colori e trasparenze?

Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è divertito a far fluttuare nell’aria

queste bellissime e affascinati sfere. All’apparenza così semplici ma nella realtà

così complesse. Così ho pensato che attraverso le bolle avrei potuto spiegare

in modo ludico e divertente dei concetti fisici complessi. Le bolle di sapone,

inoltre, per la loro natura “magica” e in un certo senso “misteriosa” hanno da

sempre avuto la capacità di suscitare emozioni positive. Mi piaceva quindi l’idea

di regalare loro, oltre che una esperienza di apprendimento, il ricordo di un

percorso didattico svolto all’insegna dell’allegria, perché è questo che le bolle

donano a grandi e piccini.

5.3 Il contesto

Il progetto è stato svolto nella scuola primaria di Fossone, frazione del comune

di Avenza in provincia di Massa-Carrara. In questa scuola svolgo il ruolo di

insegnante di sostegno nella classe seconda. La conoscenza dell’ambiente,

delle colleghe e degli stessi bambini, anche se non appartenenti alla mia

classe, ha fatto sì che scegliessi proprio questa scuola. La classe coinvolta nel

progetto è una classe quinta costituita da diciannove bambini, tutti abitanti nella

zona limitrofa alla scuola. I bambini sono ben integrati e formano un gruppo

compatto. La classe presenta un clima sereno e disteso, in cui tutti mostrano un

comportamento maturo e responsabile, ottenuto sicuramente grazie all’ottimo

lavoro svolto dalle insegnanti durante gli anni precedenti, finalizzato alla

costruzione del rispetto reciproco e della convivenza civile. Sono rimasta

particolarmente colpita dal fatto che i bambini hanno mostrato un atteggiamento

cooperativo e riflessivo nel prendere le decisioni riguardanti sia la vita della

classe, sia le attività da svolgere. La scuola è a tempo prolungato, da lunedì a

venerdì; sono presenti due rientri settimanali con uscita prevista per le ore

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16.30. Purtroppo a causa della “riforma” e dei conseguenti tagli che ha portato

vi è stata una drastica riduzione delle attività di laboratorio.

5.4 Il progetto

L’obiettivo di questo progetto è di strutturare una mentalità curiosa, capace di

osservare ciò che avviene nei fenomeni naturali con metodo e in modo critico:

si gioca con le bolle di sapone per imparare a costruirne di tutti i tipi, scegliendo

come farle, descriverle, toccarle, annusarle e disegnarle, ricercando di volta in

volta le ragioni dei fenomeni osservati.

Durante il lavoro osserverò: quali sono le idee di partenza dei bambini; quanto

accade di imprevisto in corrispondenza delle varie fasi; quali possibili aperture

di contesto si presentano nel corso del lavoro; i percorsi di causa-effetto, non

lineari, intuitivi; le emozioni dei bambini.

5.5 Struttura schematica del progetto

Destinatari: alunni di classe V

Obiettivi:

usare i sensi per indagare;

elaborare previsioni e ipotesi;

predisporre uno schema per l’esecuzione di preparazioni chimiche;

usare forme di rappresentazione diverse per raccogliere dati;

acquisire esperienza diretta sul concetto di circonferenza come perimetro

minimo a parità di area e di sfera come superficie minima a parità di

volume;

dotarsi di un modello per interpretare il fenomeno delle bolle di sapone;

Obiettivi trasversali:

italiano: descrivere adeguatamente idee, concetti, emozioni;

storia: avere notizie della storia di Cartagine e associarla alla regina

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Didone;

matematica: riconoscere le figure legate alla geometria piana e solida.

Organizzazione:

gruppo classe nei momenti di elaborazione delle ipotesi e di discussione;

piccolo gruppo nelle fasi operative e nell’elaborazione e verifica delle

ipotesi;

lavoro individuale nella fase di reperimento del materiale e di verifica.

Metodologia:

didattica laboratoriale;

cooperative learning;

discussione;

metodo scientifico sperimentale.

Materiali:

materiale da disegno;

confezioni per fare bolle di sapone;

bacinelle;

piatti di plastica;

bicchieri di plastica trasparente;

zuppiere di plastica trasparente;

cucchiai di plastica;

bottiglie di plastica;

pinzette;

stuzzicadenti;

graffette;

acqua del rubinetto;

acqua distillata;

detersivo liquido concentrato;

detersivo in polvere;

saponetta;

sale;

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colla vinilica;

glicerina;

zucchero;

miele;

zucchero in zollette;

olio;

coca cola;

latte;

spago;

filo di ferro di diametro diverso

tenaglie;

tavolinetto regolabile in altezza;

supporto per dinamometro;

dinamometro;

anello metallico;

cannucce;

pennello;

cronometro;

stoffa;

imbuto;

candela;

metro;

forbici.

Spazi:

aula;

bagno;

palestra;

cortile.

Tempi: sono state previste sette fasi. Le prime sei di quattro ore ciascuna e la

settima di due ore.

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Capitolo 6

Il progetto didattico fase dopo fase

6.1 Prima fase: ci sono bolle … e bolle

Obiettivo: Esperienze a confronto Dopo essermi presentata agli alunni e motivato la mia presenza nella loro

classe, ho spiegato che il progetto che avremmo realizzato insieme consisteva

nel conoscere sotto tutti i vari aspetti le bolle di sapone. Ho detto loro che, per

conoscere queste bellissime sfere, avrebbero avuto l’opportunità di compiere

esperimenti e che quindi si sarebbero trasformati in tanti piccoli scienziati. Il

fatto che li avessi definiti “scienziati” e il senso di responsabilità che avevo

trasmesso loro mentre spiegavo che questo progetto serviva per la mia tesi di

laurea, ha scaturito in loro un forte entusiasmo, e quando ho chiesto

esplicitamente se erano felici di aiutarmi, in coro mi hanno risposto di sì.

Ho introdotto l’attività chiedendo ai bambini di mettersi comodi, di stare in

silenzio e di ascoltare ad occhi chiusi una brevissima storia:

“Sei dentro una gigantesca bolla di sapone. La bolla , sospinta da un venticello

lieve, si alza appena da terra e ti solleva, facendoti volare nell’aria.

Come stai lì dentro? Lentamente la bolla si muove per la classe ed esce dalla

finestra: il cielo, gli alberi, le case ti passano vicino. Qualcuno ti vede e ti saluta.

Un uccellino ti accompagna divertito per qualche secondo.

Ora la bolla rientra dalla finestra e lentamente ridiscende a terra e tu esci… Ora

guardi la bolla da fuori: un soffio più forte e…paff, la bolla scoppia”

Terminata la breve lettura ho chiesto loro di riaprire gli occhi e di disegnare le

sensazioni e le emozioni che avevano provato. Si sentivano talmente investiti di

responsabilità nei miei confronti che mi domandavano continuamente se il

disegno andava bene, se preferivo che usassero i pennarelli o le matite

colorate. Il risultato finale è stato eccellente come si può ben vedere da alcuni

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disegni che hanno realizzato.

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Terminati i disegni, ho detto che avevo una piccola sorpresa per loro,

chiedendo di chiudere di nuovo gli occhi e di non aprirli fino a quando non glielo

avessi detto io. Ho messo sul banco di ciascun bambino una confezione di bolle

di sapone già pronte e, quando ho chiesto di aprire gli occhi, sui loro volti si è

disegnato un sorriso e mi hanno chiesto se potevano fare le bolle. Ovviamente

ho detto di sì, però mentre facevano le bolle dovevano prestare anche

attenzione alle loro caratteristiche: ho chiesto loro di toccarle, annusarle e

osservarle bene.

Questa attività ha creato un po’ di confusione, come si può ben immaginare; del

resto, la ludicità delle bolle di sapone è innegabile e anche la maestra Manuela

si è dilettata nell’attività.

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Ammetto che non è stato affatto facile distoglierli da questo momento “ludico”;

comunque alla fine sono tornati ai loro banchi. Ho chiesto loro di rispondere per

alzata di mano ad alcune domande.

“Come sono le bolle di sapone che abbiamo fatto? Prima di tutto proviamo a

descriverle”

M.: “sono fragili perché appena le tocchi scoppiano”

L.: “sono molto colorate; sono leggere, sono fragili”

D.: “sono riflettenti come uno specchio”

D.: “sono rotonde, sono leggere, e sono fragili”

G.: “però una bolla che si è appoggiata è rimasta tutta intera”.

Allora chiedo a tutta la classe se sanno perché la bolla è rimasta intera anche

se si è appoggiata.

A.: “perché il banco è bagnato”

“Altre caratteristiche delle bolle di sapone?”

M.: “si spostano con il vento”

D.: “se soffi tanto, le bolle diventano più grosse”

N.: “si spostano e si appoggiano lentamente”

E.: “si muovono come le piume”

Ho invitato i bambini a riflettere sulle seguenti domande:

“come avete fatto a fare le bolle di sapone?”

“Secondo voi cosa serve per fare bene queste bolle di sapone?”

L.: “il soffio”

E.: “la quantità di sapone”

A.: “bisogna soffiare tanto”

E.: “se soffi più lentamente la bolla diventa più grande, se soffi velocemente la

bolla scoppia subito”

M.: “secondo come soffi si possono formare tante bolle e si possono unire”

Ripeto la domanda “ma che cosa vi serve per fare bene queste bolle? Che

strumenti vi servono?”

A.: “il sapone”

F.: “acqua”

M.: “acqua e sapone”

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M.: “mia nonna ci metteva anche lo shampoo”

P.: “aria, ma bisogna soffiare lentamente”

M.: “ho un “affare” grande, uno medio e uno piccolo che serve per fare le bolle”

“Ma come si chiama quello strumento che serve per fare le bolle? Ha un

nome..”

G.: “si chiama ‘soffietto’ ”

Siccome il nome esatto dello strumento non veniva fuori l’ho detto io: “si chiama

telaio!”

Al termine della discussione chiedo ai bambini di disegnare le bolle di sapone e

di descriverle in forma scritta.

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Dopo che i bambini hanno realizzato i disegni sulle bolle di sapone, ho

domandato loro: “Avete mai provato a fare le bolle solo con l’acqua, cioè senza

il sapone? Ci siete riusciti? Pensate a quando fate scorrere l’acqua con un po’

di pressione dal rubinetto di casa: non si vedono delle piccole bollicine?”

I bambini hanno risposto alle mie domande con le seguenti affermazioni:

E.: “quando apri l’acqua del rubinetto sul lavandino si formano delle bollicine

piccolissime”

G.: “quando si muove la mano ‘velocissimamente’ nell’acqua si formano delle

bollicine”

V.: “quando si va in piscina e si soffia dentro l’acqua si formano le bolle”

F.: “anche quando soffi nell’acqua del mare si formano le bolle”

D.: “io quando prendo una coca-cola, con la cannuccia mi diverto a fare le

bolle!”

Successivamente ho portato i bambini in bagno perché avevo progettato di

osservare le bolle di sola acqua. Ho quindi chiesto ai bambini di disporsi in

semicerchio di fronte ai lavandini, ho posizionato due bacinelle e ho aperto

completamente i rubinetti dell’acqua. Ho invitato a osservare bene quello che

accadeva all’interno delle bacinelle.

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Dopo l’osservazione, ho chiesto di descrivere come sono le bolle di sola acqua.

M.: “sono trasparenti, scoppiano subito”

“Ma come sono queste bolle?”

D.: “Piccole, trasparenti, molto fragili”

“Che differenza c’è tra le due bacinelle?”

I bambini hanno risposto che c’è una differenza di pressione e in una bacinella

le bolle risultavano più piccole.

Ho ripetuto ciò per tutti i bambini dicendo che, nella bacinella color argento, le

bolle sono molto poche perché l’acqua esce con meno forza rispetto a prima: la

pressione adesso è diminuita.

L.: “le bolle si formano in fondo e ai margini della bacinella e sono piccoline”

N.: “dove l’acqua esce più piano le bolle sono di meno, dove l’acqua esce più

forte le bolle sono di più”

“Altre caratteristiche?”

P.: “le bolle sono fragili e si formano in fondo alla bacinella”

E.: “scoppiano subito, sono sottili, non sono colorate”

E.: “sono piccole, scoppiano subito, sono trasparenti”

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Dopo l’osservazione diretta, torniamo in classe per raccogliere le caratteristiche

delle bolle di sola acqua in uno schema alla lavagna. Mentre scriviamo queste

caratteristiche, facciamo anche un confronto con le bolle di sapone.

Dopo aver riletto le caratteristiche scritte alla lavagna sulle bolle senza sapone,

pongo ai bambini la seguente domanda:

“Ma che cos’è una bolla di sapone? Potete dare una definizione, oppure fare un

esempio, o ancora fare un paragone”.

E.: “una bolla d’acqua con l’aggiunta di sapone”

A.: “una palla trasparente, fragile, con delle sfumature colorate che fluttua

nell’aria”

D.: “è come il vetro perché si rompe”

P.: “la bolla è come una piuma perché fluttua nell’aria”

Chiedo ad A. di ripetere la sua definizione

A.: “è come una palla…..”

Io intervengo di nuovo dicendo: “ma se lancio una palla, cade subito a terra…”

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Una bambina ha l’intuizione che aspettavo…

V.: “le bolle di sapone sono simili ai palloncini”

Quindi io intervengo dicendo: “perché le bolle di sapone sono simili ai

palloncini? Che caratteristiche hanno in comune?”

Rispondono tutti insieme dicendo che hanno la stessa forma e volano. Viene

fuori una gran confusione; chiedo di dare l’opportunità a V. di completare la sua

definizione, aggiungendo le caratteristiche che hanno in comune.

V: “sono fragili perché anche i palloncini si bucano facilmente, fluttuano

entrambi nell’aria perché sono leggeri”

Chiedo: “ma cosa c’è all’interno dei palloncini e delle bolle di sapone?”

Dicono che all’interno della bolla c’è l’aria ma all’interno dei palloncini c’è l’elio.

Confermo che hanno ragione ma aggiungo: “se noi gonfiamo un palloncino con

la bocca al suo interno c’è…?”

Mi rispondono tutti insieme che c’è l’aria. Quindi abbiamo trovato un'altra

caratteristica in comune.

Chiedo ai bambini se siamo tutti d’accordo a dire che le bolle di sapone sono

simile ai palloncini, e una valanga di voci risponde di sì.

G. interviene dicendo che: “i palloncini resistono di più, perché sono più spessi.”

A questo punto domando: “qual è la differenza tra un palloncino e una bolla di

sapone?”

E. risponde che: “le bolle di sapone sono fatte con l’acqua e il sapone mentre i

palloncini sono fatti di gomma così possono resistere a lungo.”

Quindi approfitto per sottolineare che le bolle di sapone sono formate da una

pellicola di acqua saponata. A questo punto siamo pronti per arrivare ad una

conclusione condivisa da tutta la classe. A. fa il punto della situazione dicendo

che: “le bolle di sapone sono come dei palloncini leggeri, perché fluttuano

nell’aria; come quelli di gomma, sono pieni d’aria, possono entrambi scoppiare

facilmente e hanno una forma rotonda. La loro differenza è che al posto della

gomma c’è uno strato sottile di acqua e sapone.”

Per consolidare ciò che i bambini hanno concluso ho pensato di far prima

vedere e poi provare loro un esperimento. Il mio obiettivo è proprio quello di far

notare che una bolla di sapone si comporta come un palloncino elastico e che

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quindi al suo interno l’aria si trova sotto pressione e sfugge appena è possibile.

Il materiale utilizzato per l’esperimento è il seguente:

una candela accesa

una soluzione di acqua saponata (preparata da me precedentemente)

un imbuto, con un diametro piccolo

Ho preso l’imbuto e ho immerso nell’acqua saponata la parte più larga in modo

da formare una pellicola, ho soffiato nell’imbuto e ho formato una bolla, quindi

ho tappato con il dito l’apertura in modo che la bolla che si era formata non si

sgonfiasse. Ho avvicinato l’estremità dell’imbuto, che avevo chiuso con il dito,

alla fiamma della candela e ho tolto il dito.

I bambini hanno così potuto notare che mentre la bolla si sgonfia la fiamma

della candela inizia ad ondeggiare fino poi a spengersi.

Questa esperienza è stata provata poi direttamente da tre bambini: uno di

questi purtroppo non è riuscito a spengere la bolla, ma questo comunque non è

essenziale per la spiegazione.

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Alla fine degli esperimenti ho fatto notare ai bambini quello che è accaduto. Ho

spiegato che, come avevano già intuito, la bolla si comporta come un palloncino

elastico. Se si gonfia il palloncino e poi lo si lascia andare senza legarlo questo

inizia a girare per la stanza fino a quando l’aria contenuta è completamente

uscita. Nella bolla succede la stessa cosa. Quindi, grazie all’elasticità della

membrana saponosa all’interno della bolla, l’aria si trova a pressione maggiore

rispetto alla pressione dell’atmosfera. Come i bambini hanno potuto notare, non

sempre la bolla riesce a spengere la candela: questo dipende dal valore della

pressione dell’aria contenuta nella bolla. I bambini hanno potuto inoltre notare

che più piccola è la bolla, prima si spenge la candela.

A conclusione di questa prima fase ho spiegato ai bambini che le bolle che

diciamo “di sapone” in realtà sono di acqua saponata. Nelle bolle di sapone

l’acqua è sempre presente anche se in forma ridotta a una sottile pellicola di

molecole che sta all’interno di due sottili membrane di sapone, e in questo

assomiglia un po’ ad un sandwich.

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All’interno della bolla vi è una certa quantità di aria e vapore acqueo la cui

pressione, che è la forza esercitata sulla superficie di sapone interna, equilibra

per un po’ di tempo quella dell’aria che “preme” sulla superficie esterna. Finché

le due pressioni si equilibrano la bolle resiste; poi, quando l’equilibrio si rompe,

la bolla scoppia. Nelle bolle di sola acqua le molecole, in assenza delle due

membrane di sapone, evaporano praticamente subito e la bolla scoppia quasi

istantaneamente.

6.2 Seconda fase : caccia alla “ricetta”

Obiettivo: bolle resistenti e grandi Questa mattina l’obiettivo è quello di individuare delle ricette per creare delle

bolle resistenti e delle bolle di grandi dimensioni. Introduco l’argomento in

questo modo:

“sono veramente molto belle le bolle di sapone, peccato che durino poco. Vi

piacerebbe fare una bolla di sapone che resista più a lungo?”

Ovviamente tutti in coro rispondono di sì. Ho fatto notare che è necessario

cercare di capire perché anche le bolle di sapone finiscono per scoppiare.

“Questa mattina ho pensato di farvi fare qualche esperimento provando ad

utilizzare le bolle di sapone confezionate”.

Memori dell’esperienza precedente hanno iniziato a manifestare un enorme

entusiasmo. Siccome però l’aula non è molto spaziosa e si rischiava di creare

solo caos li ho divisi in piccoli gruppi dando consegne diverse: in questo modo

mentre un gruppo faceva l’esperienza, gli altri potevano osservare ciò che

accadeva. Ho invitato quindi un gruppo a fare le bolle vicino al calorifero, un

altro vicino alla finestra, uno al buio, un altro alla luce del lampadario e per finire

un gruppo all’aperto e un altro ancora al chiuso. Quello che i bambini hanno

osservato è stato riportato in una tabella intitolata “che cosa succede subito alla

bolla?”. Lo scopo era quello di verificare se in determinate situazioni le bolle

“scoppiano” o “non scoppiano subito”.

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Dopo l’esperienza fatta dai diversi gruppi li ho aiutati a riflettere tramite una

discussione guidata.

Ho chiesto alla classe: “che cos’è che fa scoppiare o non scoppiare le bolle di

sapone?”

A.: “vicino alla finestra scoppiano perché il vetro è asciutto e duro”

M.: “scoppiano vicino al calore”

A.: “al buio scoppiano di meno perché ad esempio la luce del sole o del

lampadario le scalda”

E.: “all’aperto le bolle di sapone durano di più perché è freddo, però dopo che si

è mosso il vento sono scoppiate subito”

“Al chiuso invece cosa succede?”

N.: “al chiuso dentro una scatola scoppiano subito perché non possono

muoversi”

“E vicino al termosifone cosa succede?”

G.: “Scoppiano molto velocemente perché la temperatura è troppo alta.”

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Attraverso il confronto, i bambini sono arrivati alla conclusione che la

temperatura più alta fa scoppiare prima le bolle; il freddo le aiuta a durare di più

e che anche il vento è un pericolo per le bolle di sapone.

Ho chiesto loro quali effetti può avere la temperatura dell’aria sulla durata di una

bolla. Ho cercato di favorire la riflessione e semplificare la difficoltà del

ragionamento fornendo esempi ed analogie prese dalla vita quotidiana.

Finalmente ho davanti un bel gruppetto di bambini pronti a fornirmi una risposta.

Decido di chiamare un bambino particolarmente silenzioso, che risponde in

questo modo: “al caldo l’aria che è contenuta all’interno della bolla si gonfia fino

a romperla.”

Gli dico che è stato bravissimo e che il concetto è esatto; domando ai bambini

se sono tutti d’accordo. Qualcuno dice di sì e qualcun altro di no. Allora

domando la motivazione a chi non si era trovato d’accordo con il compagno.

F. allora dice: “per me l’aria non si può gonfiare ma si allarga e fa rompere la

bolla.”

A. precisa ancora meglio dicendo: “sono d’accordo anch’io con F. ma è meglio

dire che al caldo l’aria dentro la bolla di sapone si dilata e la fa scoppiare.”

“E al freddo cosa succede?”, domando.

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L: “al freddo l’aria dentro la bolla si restringe e quindi le bolle di sapone durano

di più.”

I bambini sono arrivati tramite la discussione ad una conclusione in cui tutti si

sono trovati d’accordo. Prima di creare una ricetta per bolle resistenti, ho

approfondito in modo più scientifico ciò che loro avevano appreso tramite

l’esperienza diretta.

Ho spiegato che, come avevano potuto sperimentare loro stessi, esistono dei

pericoli per le bolle di sapone. Il calore prodotto dal termosifone fa aumentare la

pressione all’interno della bolla, dove vi sono aria e vapore acqueo, fino a

romperla; la polvere o il vento agiscono sulle bolle rompendone la membrana

superficiale; l’anidride carbonica, essendo un gas più pesante dell’aria, fa sì che

le bolle gonfiate con il nostro fiato stiano sospese nell’aria solo per poco tempo

e quindi cadendo verso terra siano destinate a scoppiare; per finire l’aria secca

fa evaporare più velocemente la pellicola d’acqua che forma le bolle.

Il calore agisce anche favorendo l’evaporazione dell’acqua che si trova

nell’intercapedine tra i due strati superficiali di sapone, quindi la pellicola

d’acqua si assottiglia e, non riuscendo più a contrastare la pressione dell’aria

esterna, scoppia.

Però c’è un amico delle bolle di sapone ed è il freddo. Infatti se proviamo a

mettere l’acqua saponata in frigo per qualche minuto, possiamo riuscire a

rallentare l’evaporazione della pellicola d’acqua e la bolla di sapone dura più a

lungo.

Ma le bolle hanno anche un’altra amica che è l’umidità; infatti se proviamo a

fare le bolle di sapone nei giorni di pioggia o più semplicemente se proviamo a

spruzzare un po’ d’acqua nell’aria circostante le bolle durano di più. Per

facilitare la spiegazione mi sono avvalsa del seguente cartellone:

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Esaurito l’argomento, pongo alla classe questa domanda:

“come dobbiamo fare secondo voi per ottenere bolle più resistenti?”

I bambini hanno suggerito di mettere più sapone nella soluzione.

Siccome non sono emersi altri suggerimenti, ho proposto ai bambini di dividersi

in piccoli gruppi e precisamente in due gruppi da quattro e in due gruppi da

cinque; ho chiesto loro di sistemare i banchi per poter lavorare. In questa fase

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organizzativa i bambini si sono trovati decisamente smarriti, perché, pur

essendo in quinta, non sapevano disporre i banchi per lavorare a gruppi. Ho

intuito così che non avevano mai fatto alcun lavoro a piccoli gruppi e purtroppo

ne ho avuto conferma dopo averglielo domandato. Dopo aver sistemato i

banchi con il mio aiuto, ho messo a loro disposizione tutto il materiale che

avevo preparato (detersivo liquido concentrato, detersivo in polvere, glicerina,

sale, zucchero, miele, colla vinilica, acqua del rubinetto, acqua distillata, piatti e

bicchieri) per poter creare una ricetta ottimale per ottenere bolle che durino il

più a lungo possibile.

Ho fornito inoltre una bacinella, un cucchiaio, una siringa da 5 ml e una bottiglia

di plastica per ogni gruppo. Prima di iniziare, ho mostrato ai bambini un

diagramma a blocchi con una ricetta base per bolle di sapone resistenti.

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Ho spiegato che, prima di utilizzare gli ingredienti, sarebbe stato opportuno

scrivere la loro ricetta, come avevo mostrato nel cartellone. Ho detto loro che

erano liberi di modificarla a loro piacimento, aggiungendo o togliendo

ingredienti, modificando le dosi che io avevo scritto; l’unica cosa che avrebbero

dovuto mantenere costante era l’utilizzo di 1 litro di acqua di rubinetto o di

acqua distillata.

Operando in questo modo i bambini hanno avuto modo di cooperare

attivamente tra di loro. Oltre a condividere strategie per ottenere il risultato

finale, hanno imparato a rispettare il compagno all’interno del gruppo, ad

interagire, a condividere le loro idee e a collaborare.

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Dopo aver progettato le loro “pozioni magiche” (così le abbiamo chiamate), i

bambini con ordine si sono avvicinati al tavolo degli ingredienti per poter

prendere ciò di cui avevano bisogno.

E, mescolata dopo mescolata, ecco che nelle bacinelle sono apparse le

fatidiche pozioni.

Li ho aiutati a travasarle nelle bottiglie e ho spiegato loro che dovevamo

lasciarle riposare almeno due o tre giorni perché era necessario far evaporare

l’eventuale alcool presente nel detersivo.

Ed ecco finalmente è arrivato il giorno di provare a fare le bolle con le ricette

create dai bambini. Devo ammettere che ero molto preoccupata durante questi

giorni di attesa, perché avevano usato di tutto e avevo paura che alla fine

restassero delusi.

Invito i bambini a disporsi di nuovo a gruppi: ciò ha suscitato entusiasmo.

Consegno un bicchiere di plastica e un telaio (preso dalle confezioni comprate),

fornisco loro un foglio e li informo che prima di verificare se le bolle riescono o

non riescono devono fare delle ipotesi: ogni bambino del gruppo dovrà

esprimere la sua previsione, poi si proverà a fare le bolle, si scriverà la verifica

e infine le conclusioni.

Spiego quindi ai bambini che il metodo che utilizzeranno si chiama metodo

sperimentale e che viene utilizzato dagli scienziati.

Dopo aver scritto le ipotesi, dico che è arrivato il momento di verificare se le

bolle riescono o meno.

Purtroppo su quattro gruppi solo tre riescono nel loro intento: non sto a dire la

delusione.

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Decidiamo di misurare il tempo di vita delle bolle fatte con le loro ricette.

Suggerisco due modi per contare la dura delle singole bolle: uno soggettivo,

contando tutti insieme ad alta voce, ed uno oggettivo, utilizzando un

cronometro. I bambini hanno optato per la seconda possibilità. Visto che sono

tutti d’accordo su quanto detto, propongo di misurare il tempo di vita di cinque

bolle per ogni gruppo, di prendere nota di ogni misurazione e poi di fare la

media aritmetica per vedere quanto possono vivere in media le bolle.

Propongo ai bimbi di creare una ricetta per bolle resistenti condivisa da tutta la

classe, sulla base delle ricette create dai quattro gruppi. Riporto alla lavagna,

sotto loro indicazioni, gli ingredienti che ogni gruppo ha utilizzato.

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Successivamente i bambini tutti insieme scelgono l’ingrediente da utilizzare e la

quantità. Scrivo la ricetta della classe alla lavagna.

Per evitare discussioni su chi avrebbe preparato la “pozione”, decido di farla io;

chiedo però ai bambini di leggermi gli ingredienti che dovrò utilizzare.

Mescoliamo gli ingredienti scelti e mettiamo a riposare la pozione di classe…

non ci resta che attendere.

È arrivato il giorno di provare a fare le bolle con la ricetta di classe, riusciranno

oppure no? I bambini come sempre sono divisi in piccoli gruppi. Consegno loro

un telaio, un bicchiere, dove verso un po’ di pozione, e per finire un foglio, dove

poter fare le loro ipotesi.

Ed ecco che provano a fare le bolle… sono veramente molto resistenti,

rimbalzano perfino.

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Il mio scopo adesso è quello di fare delle bolle molto grandi e propongo ai

bambini questa mia idea.

Scrivo alla lavagna la ricetta base per creare bolle di sapone di grosse

dimensioni; gli ingredienti e le operazioni da eseguire vengono scritte sempre

all’interno di un diagramma a blocchi, come avevamo fatto con l’altra ricetta.

3 cucchiai

di detersivo

1 litro

di acqua

1 cucchiaio

di zucchero

Mescolare bene

Lasciare riposare

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Dico ai bambini che possono variare la quantità degli ingredienti scritti,

mantenendo costante la quantità di un litro d’acqua. Questa volta voglio che

assumano una metodologia più simile al metodo scientifico, ossia dalla ricetta di

partenza saranno invitati a modificare solo una cosa per volta. Sistemo su un

banco al centro della classe gli ingredienti (sapone in polvere, zucchero e

acqua di rubinetto).

Consegno ad ogni gruppo una bacinella, un cucchiaio e una bottiglia di plastica

vuota. Adesso possono iniziare il loro lavoro, come avevano appreso la volta

precedente: scrivono prima gli ingredienti e la loro quantità attraverso il

diagramma a blocchi.

Ed eccoli all’opera… finalmente le pozioni sono pronte e, dopo aver versato il

liquido nelle bottiglie, le lasciamo riposare i canonici tre giorni.

“Cosa ci servirà per fare delle bolle grandi a parte una soluzione ottimale?”

L.: “il telaio”

Tutti i bambini sono d’accordo con la compagna di classe.

“Ma secondo voi il telaio che abbiamo usato fino ad oggi per fare le bolle può

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andare bene?”

Dopo un po’ di silenzio, E. dice che “forse non va bene perché è troppo piccolo

e quindi le bolle che escono sono piccole”.

L. interviene dicendo: “ma i telai che vendono nelle confezioni per fare le bolle

sono tutti piccoli”

A.: “ci vuole per forza un telaio grande ma non esiste.”

Così dico: “che cosa ne dite di farne uno grande come questo?” Mostro il telaio

costruito da me con lo spago e le cannucce.

Sui loro volti si è acceso un bel sorriso…

Fornisco quindi a ogni bambino un pezzo di spago abbastanza lungo e due

cannucce. Spiego che realizzare il telaio che ho fatto è facilissimo: basta far

passare il filo nelle cannucce e fare un nodo per chiudere il telaio. Le cannucce,

come hanno potuto vedere, devono essere posizionate sui lati opposti.

I bambini si mettono al lavoro ed ecco che tutti hanno il loro telaio per fare bolle

giganti.

Siccome non è ancora possibile provare la soluzione per bolle giganti, ne

approfitto per dare qualche spiegazione scientifica di ciò che fino a quel

momento hanno appreso attraverso gli esperimenti. Utilizzando anche questa

volta un cartellone, spiego loro che piccole quantità di sapone sono sufficienti

per ottenere bolle di dimensioni significative. L’ingrediente più adatto è il sapone

liquido per i piatti, sempre meglio quello concentrato. L’aumento della

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concentrazione di sapone in acqua porta all’aumento del numero delle molecole

che possono essere utilizzate per dare origine alla superficie della bolla,

composta da: sapone – acqua – sapone, che dunque potrà formare una sfera di

superficie maggiore. Inoltre alcuni ingredienti come lo zucchero, il miele o la

glicerina, legandosi alle molecole d’acqua che stanno nella lamina che forma le

bolle, le rendono più resistenti per due ragioni:

contrastano la discesa verso il basso delle molecole d’acqua dovuta alla

forza di gravità, e così, almeno per un po’, impediscono alla pellicola di

acqua di assottigliarsi fino a rompersi;

rallentano l’evaporazione della pellicola d’acqua che, assottigliandosi più

lentamente, permetterà alla bolla di durare più a lungo.

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Finalmente una mattina è arrivato il momento di provare le bolle di “grosse

dimensioni”; decido di uscire con i bambini nel cortile della scuola, perché in

questo modo hanno la possibilità di muoversi più facilmente e le bolle hanno

meno probabilità di scoppiare urtando contro i molteplici oggetti che affollano

l’aula.

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Non è stato facile per i bambini fare le bolle di sapone, perché purtroppo questa

mattina ogni tanto soffiava il vento e di conseguenza le faceva scoppiare. Però i

risultati sono stati comunque soddisfacenti e loro si sono divertiti moltissimo

ugualmente, come si può vedere dalle espressioni dei loro volti.

6.3 Terza fase: attività con le graffette

Obiettivo: la scoperta della tensione superficiale

Alla tensione superficiale, che è un argomento particolarmente complesso, ho

dedicato due fasi. Prima di parlare della tensione superficiale, è necessario

precisare l’idea di galleggiamento.

Un oggetto galleggia quando sfrutta la spinta idrostatica per rimanere in

prossimità della superficie dell’acqua, pur penetrando in parte in essa. È proprio

grazie all’acqua spostata che l’oggetto galleggia; infatti il principio di Archimede

afferma che: “un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verso l’alto pari

al peso del liquido spostato”. Da questa definizione discende una conseguenza

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importante: affinché un oggetto galleggi in acqua, la sua densità media deve

essere inferiore alla densità dell’acqua.

Tuttavia, in alcuni casi questa regola sembra violata, come nel caso di una

graffetta di metallo, che è possibile “appoggiare” sulla superficie dell’acqua

senza che questa vada a fondo.

Innanzitutto cercherò di far comprendere ai bambini cosa accade alla superficie

dell’acqua quando vi posiamo sopra qualcosa che resta in superficie come una

graffetta di metallo e cosa succede quando vi si aggiunge del sapone.

Come di consueto i banchi sono disposti in modo da poter organizzare il lavoro

in piccoli gruppi. A disposizione di ogni gruppo ho messo una bacinella di

plastica trasparente colma d’acqua e delle graffette di metallo, un bicchiere con

un po’ di coca cola, un bicchiere con il latte e un bicchiere con il sapone e per

finire una siringa.

Per questa attività avevo preparato anche un tabella intitolata “le graffette

galleggiano o non galleggiano?” disegnata su un foglio di carta da pacchi.

Prima di iniziare l’esperimento chiedo alla classe se secondo loro le graffette

avrebbero galleggiato oppure no. Metà classe ha risposto di sì e l’altra metà di

no.

Propongo ai bambini di appoggiare delicatamente una graffetta sulla superficie

dell’acqua cercando di farla galleggiare. Questo esperimento non è di facile

esecuzione perché serve molta delicatezza! Dopo diversi tentativi non andati a

buon fine sono riusciti a posizionare la graffetta sulla superficie dell’acqua.

In questo modo hanno potuto notare che le graffette lasciate scivolare sulla

superficie dell’acqua riescono a galleggiare.

Suggerisco di provare ad aggiungere un po’ di latte con la siringa e chiedo se

con l’aggiunta di latte la graffetta galleggia.

In modo corale mi rispondono che la graffetta galleggia ancora.

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“Adesso prendete con la siringa un po’ di coca – cola e mettetela nell’acqua.” I

bambini osservano che la graffetta continua a rimanere a galla.

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Come ultima cosa chiedo di aggiungere un po’ di sapone, e con lo stupore

generale la graffetta affonda in un lampo.

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Dopo aver terminato gli esperimenti abbiamo raccolto il risultato nella tabella

preparata.

Spiego ai bambini che con l’aggiunta del sapone si rompe la pellicola

superficiale dell’acqua; “vi ricordate che avevamo visto che il sapone si mette

tra le molecole…” i bambini concludono la frase dicendo “dell’acqua”. Per ora

non dico altro, ma leggo una storia e mi preparo a rivolgere loro alcune

domande.

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La graffetta Loretta

La graffetta Loretta era proprio molto carina. Così carina che tutti, dal temperino

all’evidenziatore al pennarello, la guardavano ammirati. Una volta la graffetta stava

trattenendo dei fogli colorati proprio vicino ad un bellissimo piattino pieno d’acqua.

Il piattino Giacomino le gettò uno sguardo distratto e subito se ne innamorò. Anche

Loretta si innamorò del piattino: “Vorrei stare un po’ con te”, disse il piattino.

“Anche a me piacerebbe molto…”, rispose Loretta.

Lui continuò: “Vorrei che tu galleggiassi con me”.

E lei: “Purtroppo credo di essere troppo pesante… io sono di metallo!”. Poi

d’improvviso Giacomino s’illuminò: “Ho trovato la soluzione, aspetta e vedrai…”.

Egli chiamò a raccolta tutte le molecole di acqua e chiese loro aiuto: “Dovete

aiutarmi!!! Ho bisogno che vi mettiate tutte vicine come una rete elastica per far

galleggiare Loretta”.

Le molecole ubbidienti si disposero l’una accanto all’altra, strette strette tra loro, e

Loretta si sdraiò piano piano sulla superficie: Giacomino e Loretta riuscirono così a

coronare il loro sogno.

Ma un brutto giorno un bimbo dispettoso fece cadere una goccia di sapone nel

piattino indebolendo irrimediabilmente la rete delle molecole che prima era molto

resistente: Loretta, non più sostenuta, precipitò e da quel giorno dovette

accontentarsi di vivere insieme a Giacomino, ma restando sul fondo.

Attraverso delle domande guidate ho aiutato i bambini ad arrivare ad una

conclusione condivisa.

“Chi mi racconta la storia?”

L. racconta diligentemente tutta la storia.

Interviene E., precisando che: “la rete che avevano formato le molecole si

spezza.”

Quindi chiedo: “Loretta da cosa era sostenuta?”

M. risponde: “dalla rete formata dalle molecole d’acqua.”

Domando ancora: “ma le molecole come si erano disposte?”

L: “vicine, strette l’una accanto all’altra.”

“E con il sapone cosa è capitato?” Domando.

D.: “il sapone le ha fatte allontanare e quindi Loretta è caduta.”

Ricordo ai bambini l’esperimento fatto poco prima quando avevano potuto

verificare che la graffette con l’aggiunta del sapone precipitata sul fondo della

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bacinella.

Chiedo “cosa avete capito da questa breve storiella?”

A.: “le molecole dell’acqua sono vicinissime tra loro e in superficie formano un

letto, così la graffetta Loretta può restare sdraiata sull’acqua.”

A. ha fatto un buon esempio; chiedo se ci sono altre idee.

P. dice: “secondo me la rete delle molecole d’acqua che si trovano in superficie

forma come un coperchio.”

A questo punto spiego che la forza che tiene tesa la superficie dell’acqua viene

chiamata dagli scienziati “tensione superficiale” ed è proprio questa che

sostiene Loretta. Il sapone indebolisce o spezza la rete tra le molecole di

acqua in superficie e perciò la graffetta, non più sostenuta, precipita sul fondo.

Per verificare se hanno capito la relazione forza – rete – tensione, chiedo loro di

completare individualmente alcune frasi.

Nell’incontro successivo riprendo l’argomento riguardante la tensione

superficiale chiedendo ad un bambino di raccontare di nuovo la storia della

graffetta Loretta.

“Visto che la storiella ve la siete ricordata molto bene, voglio chiedervi se vi

ricordate anche il nome scientifico che viene dato alla forza prodotta dalla rete

di molecole d’acqua.”

Le mani piano piano iniziano ad alzarsi tutte; la risposta viene data da E. che

dice: “tensione superficiale.”

“Molto bene, questa mattina continuiamo gli esperimenti sulla tensione

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superficiale.”

Spiego ai bambini che ho portato degli strumenti che usano proprio gli

scienziati. Mentre tiro fuori dalla mia borsa il materiale che ci sarebbe servito

per continuare gli esperimenti, un bambino mi chiede se anche nell’acqua

distillata ci sono le molecole d’acqua. Così ne approfitto per spiegare la

differenza tra l’acqua del rubinetto e l’acqua distillata. Continuo a prendere gli

strumenti e ogni volta specifico il nome e spiego a cosa serve. Arrivati al

dinamometro, ne approfitto subito per mostrare come è fatto e per sottolineare

che serve per misurare le forze, che hanno una loro unità di misura che si

chiama Newton.

Una bambina mi domanda se dopo la laurea farò la scienziata e io le rispondo

che farò la maestra. È stata molto simpatica e mi ha fatto sorridere. Dopo

questa piccola parentesi vado avanti con le spiegazioni sui vari oggetti che

utilizzerò per l’esperimento. Quest’ultimo verrà fatto con acqua di rubinetto,

acqua distillata e per finire con acqua e sapone. Finalmente siamo pronti per

misurare la forza della tensione superficiale.

L’esperimento consiste in un piccolo anello di metallo, attaccato al dinamometro

mediante tre fili sottilissimi. Il dinamometro, a sua volta, è attaccato a un

sistema di aste di sostegno. Una bacinella piena d’acqua è appoggiata su un

piano di altezza regolabile. Il sostegno viene prima alzato, per immergere

l’anello, e poi abbassato per farlo uscire dall’acqua. Si misura la forza massima

registrata dal dinamometro prima che l’anello riesca a uscire completamente.

Come prima cosa appendiamo l’anellino metallico al dinamometro e misuriamo

tutti insieme la forza-peso che viene segnata alla lavagna. Dopo aver scritto F,

chiedo: “lo sapete per che cosa sta F?”

Tutti insieme hanno risposto che F sta per forza. Quindi potevo andare avanti

con l’esperimento. Chiedo ad un bambino di aiutarmi a leggere le divisioni sul

dinamometro. Il primo esperimento viene fatto utilizzando l’acqua di rubinetto.

Dopo che l’anellino è stato immerso in acqua, si abbassa lentamente il piano di

appoggio della bacinella. Si osserva un fenomeno particolare: sembra che

l’acqua si attacchi all’anello, impedendogli di uscire. Improvvisamente, però, la

pellicola d’acqua si rompe e l’anello balza verso l’alto.

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Terminato l’esperimento, calcoliamo la forza con cui la tensione superficiale

agisce sull’anello, facendo la differenza fra la forza massima segnata dal

dinamometro prima del distacco e la forza peso dell’anello.

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Il secondo esperimento viene fatto con acqua distillata. Terminato

l’esperimento, i bambini notano che la forza con cui la tensione superficiale

agisce sull’anello è esattamente uguale a quella che avevamo ottenuto con

l’acqua del rubinetto.

Quindi, come abbiamo detto prima, l’unica differenza tra acqua distillata e

acqua di rubinetto è che la prima è priva di sali minerali, ma per quanto riguarda

la tensione superficiale si comporta nello stesso modo.

Il terzo esperimento viene fatto con acqua di rubinetto con l’aggiunta di una

goccia di sapone. Mentre aggiungo il detersivo liquido chiedo ai bimbi di

ripetermi che cosa fa il sapone.

E. risponde dicendo che: “il sapone rompe la tensione superficiale formata dalle

molecole d’acqua.” M. “le fa allontanare, mettendosi in mezzo alle molecole

d’acqua.”

I bambini notano subito che per l’anello metallico è meno difficile entrare

nell’acqua; quindi la tensione superficiale si è abbassata. Dopo questo

esperimento, in cui abbiamo ripetuto la misura delle forze in gioco, verifichiamo

che la forza con cui agisce la tensione superficiale sull’anellino è minore rispetto

alle situazioni precedenti.

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Faccio una sintesi di quanto abbiamo visto: “abbiamo verificato attraverso gli

esperimenti la differenza della forza della tensione superficiale; questa

nell’acqua del rubinetto è molto forte e le molecole d’acqua si tengono strette

strette; quando arriva il sapone, invece, le molecole si allontanano e la rete

diventa più debole”.

Per l’esperimento successivo prendo tre monetine, una da un centesimo, una

da due e una da cinque centesimi, e una bottiglietta d’acqua con il contagocce.

Le dispongo tutte e tre sulla cattedra e domando: “secondo voi quante gocce

d’acqua possono entrare in una monetina da un centesimo?” Provate a

pensarci”. E in breve tempo arrivano le prime risposte.

I bambini rispondono dicendo che per loro ci sta solo una goccia d’acqua.

“C’è qualcuno che pensa che ce ne possano stare più di una?” Nessuno

risponde.

F. dice: “forse due”. Gli altri bambini ci pensano un po’, poi concordano con la

compagna.

Inizio a fare qualche proposta dicendo: “che ne dite di quattro, sette, dieci gocce

d’acqua?”

Nessuno mi appoggia. Vado avanti nella mia sfida e dico: “quindici gocce!”

A questo punto è arrivato il momento di provare a mettere le goccioline d’acqua

sulla monetina.

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Invito i bambini a contarle mentre le lascio cadere: uno, due, tre, (avevo già

superato le loro aspettative ma continuiamo!) quattro, … sette, dieci, …

quindici, … diciotto ed alla diciannovesima goccia l’acqua fuoriesce dalla

monetina. Concludiamo che su una moneta da un centesimo possono entrarci

circa diciotto gocce d’acqua. Domando come si è disposta l’acqua sulla

monetina.

L. risponde che: “forma una cupola.”

“Ma chi forma questa cupola?”

Qualcuno suggerisce che entrino in gioco le molecole d’acqua.

“Più precisamente le molecole dell’acqua che si trovano dove?”

M. risponde dicendo: “quelle che stanno in superficie”, aggiungendo poi che:

“sono tese tra di loro e formano una rete.”

“Quindi che cosa fa questa rete?”

E. risponde dicendo che: “questa rete tiene insieme le molecole d’acqua della

superficie e non le fa cadere; questo fenomeno si chiama tensione superficiale.”

Ripetiamo l’esperimento anche con le monete da due e da cinque centesimi. Gli

esperimenti con queste due monetine sono stati fatti per soddisfare la vivace

curiosità dei bambini. Hanno scoperto così che nella moneta da due centesimi

ci possono stare circa ventisette gocce d’acqua. I bambini si sono fatti prendere

da un forte entusiasmo nello scommettere il numero delle gocce che può

contenere una moneta da cinque centesimi, così alla fine hanno detto che ci

stanno un minimo di trentacinque gocce e un massimo di quaranta gocce. Ed

ecco che tutti insieme iniziano a contare. Alla fine hanno scoperto che nella

monetina da cinque centesimi ce ne stanno circa trentasei.

Chiedo ai bambini di dividersi nuovamente a gruppi e faccio distribuire i fogli.

Consegno un bicchierino a gruppo, un po’ di borotalco e del sapone.

Domando: “il borotalco galleggia o non galleggia?” I bambini iniziano a scrivere

le loro ipotesi prima di fare l’esperimento.

Terminata questa prima fase metto nel bicchiere pieno d’acqua un po’ di

borotalco.

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Verificano che il borotalco galleggia.

Chiedo adesso di fare una seconda ipotesi, riflettendo sulla domanda “il

borotalco con l’aggiunta di sapone nell’acqua galleggia o non galleggia?”

Suggerisco che per verificare quello che succede realmente al borotalco

bisogna aspettare qualche istante.

I bambini scrivono la seconda ipotesi e, dopo che hanno terminato di esprimere

il loro pensiero, verso un po’ di sapone nei loro bicchieri contenenti appunto

acqua e borotalco.

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Dopo qualche istante il borotalco piano piano inizia a scendere verso il fondo.

Al termine dell’esperimento la classe trae le sue conclusioni in maniera

condivisa affermando che il borotalco si è posato sul fondo a causa del sapone

che rompe la tensione superficiale.

è arrivato il momento di proporre alla classe un altro esperimento di forte

impatto visivo. Consegno una bacinella ad ogni gruppo, dove verso le soluzioni

create precedentemente. Chiedo ad una bambina di prendere i telai fatti con lo

spago e le cannucce e di distribuirli ai compagni di classe.

L’obiettivo di questa esperienza è far vedere che esiste una forza che tende a

far contrarre le superfici che delimitano i liquidi ed è ben visibile in particolare

con le lamine saponose. Prima di tutto domando ai bambini di prendere in mano

l’estremità del telaio dalla parte dove si trova una cannuccia e di osservare che

il telaio ha la forma di un rettangolo.

A questo punto dico loro di immergerlo completamente nell’acqua saponata e di

estrarlo delicatamente. I bambini notano che su di esso si è formata una lamina

di sapone e che i lati del rettangolo fatti con lo spago hanno assunto la forma di

due archi.

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Spiego ai bambini che la lamina saponosa ha tanta forza da attirare i lati del

rettangolo, curvandoli verso l’interno del telaio; questa forza è proprio la

manifestazione della tensione superficiale. Quando la lamina si rompe, come i

bambini hanno notato più volte, questi due lati tornano nella configurazione di

partenza.

A questo punto propongo ai bambini di costruire un telaio con il filo di ferro.

Mostrando loro un telaio costruito da me, spiego come procedere. Con un filo di

ferro dovranno realizzare una U e un cursore, le cui estremità possono

muoversi sui lati della U. Li informo che questo telaio serve per verificare la

forza delle lamine saponose e quindi della tensione superficiale.

Ed eccoli all’opera.

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Dopo aver terminato la realizzazione dei telai a forma di U consegno ad ogni

gruppo una bacinella e la soluzione di acqua saponata che avevano realizzato

nella fase precedente. Prima di far provar loro l’esperimento, spiego quello che

dovranno fare.

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Da questo esperimento gli alunni hanno potuto osservare che il lato mobile del

telaio viene richiamato con forza verso il fondo della U dalla tensione

superficiale della membrana saponosa. Sono stati inoltre invitati a tenere fermo

con le dita il cursore, perché potessero rendersi conto della forza esercitata

dalla lamina saponosa.

6.4 Fase quattro: ancora in … tensione superficiale

Obiettivo: la tensione superficiale

Siccome anche questa fase è dedicata alla tensione superficiale, inizio

l’incontro proponendo un subito un esperimento per aver la possibilità di

ricapitolare quanto appreso nella lezione precedente. Ad ogni gruppo consegno

una bacinella e a ciascun bambino una bottiglietta piena d’acqua e un

pezzettino di garza medica. Chiedo di osservare bene la garza e di descriverla.

N. dice che “è molto sottile e ha tanti buchi”.

D. precisa che: “in alcuni punti i buchi sono larghissimi”.

Ripeto a tutti che la garza è molto sottile e ha le maglie larghe; invito i bambini a

togliere il tappo dalla bottiglietta e a mettere sull’apertura la garza; dopo questa

operazione dovranno capovolgere la bottiglia. Prima di iniziare l’esperimento,

domando: “secondo voi, se si capovolge la bottiglia l’acqua esce o non esce e

perché?”

I. dice che l’acqua non esce perché la garza assorbe l’acqua e alcuni bambini

sono d’accordo con lei.

A.: “per me esce perché la garza è sottile e poi ha i buchi, quindi l’acqua esce

per forza”. Altri bambini condividono l’ipotesi di A.

F.: “per me, quando giri la bottiglietta, l’acqua forma una cupola sui buchini e

quindi non esce”; solo in due si trovano d’accordo con la compagna.

Chiedo se ci sono altre ipotesi.

E.: “la garza fa come la tensione superficiale dell’acqua, che per un po’trattiene

l’acqua; poi si rompe e la fa passare”; in due sono d’accordo con E.

D.: “non esce perché i buchini sono piccolissimi e l’acqua non riesce a

passare”.

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A.: “l’acqua non passa e basta.”

Visto che non ci sono altre ipotesi, invito ai bambini a fare l’esperimento. Prima

però suggerisco come posizionare in modo corretto la garza, così che risulti ben

tesa; spiego inoltre che devono posizionare la bottiglietta in verticale e

ovviamente aggiungo di capovolgere la bottiglietta sopra la bacinella per evitare

inconvenienti.

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Dopo aver verificato, tutti in coro i bambini dicono che l’acqua non passa.

“Perché l’acqua all’inizio esce e poi non esce più?”

N.: “secondo me non esce perché si forma una pellicola”

“E cosa fa questa pellicola secondo te?”

A.: “secondo me quando giri la bottiglia esce un po’ d’acqua, ma entra l’aria,

che quindi fa da tappo”

M.: “secondo me quando giri la bottiglia la garza non si bagna completamente”

D.: “quando giri la bottiglia l’acqua crea una striscia sottile d’acqua che

impedisce all’acqua stessa della bottiglia di uscire come se fosse un tappo”

Siccome non ci sono altre idee, intervengo dicendo che D., come P. prima, con

parole semplici hanno dato la spiegazione giusta; a questo punto spiego cosa è

successo alle molecole dell’acqua. “Quando giriamo completamente la bottiglia

le molecole vanno a mettersi all’interno dei buchetti della garza e quindi

formano una rete di molecole sopra la rete della garza e l’acqua non esce più.”

“Sapete dirmi perché mentre giro la bottiglia l’acqua esce?”

E.: “mentre stiamo girando la bottiglia l’acqua esce un pochino perché non si

appoggia tutta sulla garza”

“Molto bene! Mentre capovolgo la bottiglia succede che la rete dell’acqua non

ha ancora coperto tutta la garza e l’acqua trova ancora qualche spazio per

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uscire; una volta che la nostra bottiglietta si trova in posizione verticale, l’acqua

ha finalmente ricoperto tutta la garza e riesce a coprirne completamente i

buchini. Questo è l’effetto della tensione superficiale.”

Proseguo l’incontro dicendo: “se le molecole che stanno in superficie si legano

tra loro per formare una rete, forse questa si potrebbe rompere

semplicemente… tagliandola con un dito!!! Proviamo a vedere se è vero?”

Ad ogni bambino vengono consegnati un bicchiere colmo d’acqua e delle

graffette.

Invito i bambini a far scivolare le graffette sulla superficie dell’acqua; ormai

riescono a compiere l’operazione senza grosse difficoltà.

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Dopo aver fatto scivolare le graffette sull’acqua, propongo loro di tagliare la

superficie con il dito, in una zona vicina alla graffetta o un po’ più lontana. Il

risultato di questa osservazione verrà aggiunto alla tabella “le graffette

galleggiano o non galleggiano?”.

Prima di iniziare l’esperimento domando: “secondo voi la graffetta galleggia

oppure no, se taglio la superficie dell’acqua con il dito?”

I bambini ipotizzano che cada sul fondo ed E. precisa il concetto, fornendo una

spiegazione: “perché si rompe la tensione superficiale.”

Invito i bambini a rompere la superficie dell’acqua in punti differenti con il dito.

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Come avevano correttamente ipotizzato, le graffette cadono sul fondo.

Chiedo: “secondo voi qual è la conclusione dell’esperienza fatta?”

A. risponde dicendo: “se si taglia in qualunque posto la superficie dell’acqua le

graffette cadono.” “Siamo tutti d’accordo?” Rispondono di sì.

L. interviene dicendo che è d’accordo con i compagni; ma riformula il concetto

in modo più preciso affermando che: “quando tagliamo con un dito la pellicola

superficiale dell’acqua, questa si rompe e le graffette affondano.”

Dopo aver terminato l’esperimento abbiamo raccolto il risultato nella tabella “le

graffette galleggiano o non galleggiano”.

Per consolidare ciò che i bambini hanno imparato propongo un gioco. In questo

gioco ogni bambino si trasforma in una molecola d’acqua; le varie molecole,

tenendosi per mano, interagiscono fra loro. Ciascun bambino indossa

un’immagine che rappresenta la molecola H2O, da me preparata in precedenza

con il cartoncino colorato. Per avere più spazio ci siamo spostati nella palestra

della scuola. Prima di iniziare l’attività ho spiegato ai bambini qualcosa sulla

molecola dell’acqua: un piccolo approfondimento mi sembrava doveroso.

Prendo le molecole d’acqua e ne consegno una a ciascun bambino.

“Ora che vi siete trasformati tutti nelle molecole dell’acqua, ditemi cosa c’è

scritto sopra i cartoncini”.

Leggono lettera per lettera quello che è scritto sul cartoncino: “ H – H – O” , poi

leggono tutto insieme “H2O”.

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“È il nome della molecola d’acqua!!!” aggiungono.

“Ciascuno di voi ha due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno; secondo voi

perché li ho posizionati proprio in quel modo e non in un altro? Pensateci bene!”

La prima risposta è stata un boh generalizzato; poi silenzio.

Finalmente interviene M. dicendo: “perché così le hai fatte tutte uguali”.

Rispondo che effettivamente le molecole d’acqua sono tutte uguali; “In ogni

caso c’è un motivo ben preciso nella disposizione che ho scelto …” altro attimo

di silenzio.

“Provate a guardarvi l’un l’altro”, suggerisco.

Spiego loro che le molecole d’acqua tendono ad attrarsi reciprocamente. Gli

atomi di ossigeno hanno la tendenza a legarsi ad atomi di idrogeno di molecole

vicine: questo accade perché l’ossigeno rappresenta un polo elettrico negativo

mentre l’idrogeno è un polo elettrico positivo. I due poli opposti si attraggono.

“Un po’ come succede con le calamite!” ha esclamato qualcuno.

Avendo assegnato a ciascun bambino una molecola d’acqua per la riuscita del

gioco, è importante che le diverse molecole siano orientate in modo da favorire i

legami, cioè così:

A questo punto chiedo a tre bambini di prendersi per mano, e spiego che le

molecole d’acqua si legano tra di loro in un modo simile. Aggiungo che questo

legame viene chiamato dagli scienziati legame a idrogeno.

Ora siamo pronti per iniziare il nostro gioco di simulazione.

Tutti i bambini si prendono per mano. Chiedo loro di iniziare a tirarsi, e quando

si staccano devono cercare di riunirsi al compagno.

Tutto il gruppo si è divertito tantissimo durante la simulazione, che si è svolta tra

molte risate. Vi ha partecipato anche la maestra Manuela.

H+

H+ O-

H+

H+ O -

H+

H+ O -

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Richiamo i bambini intorno a me e spiego che ciò che abbiamo simulato nel

gioco è simile a ciò che accade quando tagliamo l’acqua o la buchiamo con il

dito, come abbiamo fatto nell’esperimento precedente.

“Sapete a questo punto spiegarmi in modo preciso ciò che succede nel caso

dell’acqua?” Silenzio generale: tutti pensano. Ed ecco due mani alzate!

F. dice: “mentre stavamo giocando e ci tiravamo ci siamo divisi tante volte e

tutte le volte con fatica abbiamo cercato di riprenderci per mano”.

Spiegando quello che è accaduto durante il gioco, F. ha dato in modo

“embrionale” una buona spiegazione.

Domando se qualcuno vuole aggiungere qualcosa o esprimere in altro modo ciò

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che la compagna ha detto, pensando anche all’esperimento che avevamo fatto

poco prima in classe.

C’è di nuovo silenzio, ma alla fine A. alza la mano e dice: “quando abbiamo

tagliato l’acqua, le molecole che si trovano in superficie, cioè quelle che si

trovano in tensione sulla superficie, cercano di riavvicinarsi per tappare il buco,

come abbiamo fatto noi quando ci siamo staccati tirandoci e poi abbiamo

cercato di riprenderci per mano”.

Gli dò conferma che quanto ha detto è corretto, e aggiungo: “la tensione

superficiale secondo voi diminuisce o aumenta in questo caso e cosa è

successo alla graffetta durante l’esperimento precedente?”

Tutti in coro rispondono che “diminuisce… e che la graffetta affonda”.

Per concludere chiedo se siamo tutti d’accordo ad affermare che “se tagliamo

l’acqua, le molecole che stanno in tensione sulla superficie cercano di

intervenire per rattoppare la zona dello strappo e che in questa situazione la

tensione superficiale diminuisce e non sostiene più la graffetta che infatti

affonda”. Tutti rispondono che sono d’accordo con quanto è stato detto.

Torniamo in classe e i bambini riprendono posizione all’interno dei loro gruppi.

Chiedo loro: “vi piacerebbe vedere come corrono le molecole sulla superficie

dei liquidi?”

I bambini hanno risposto di sì in coro, com’era da aspettarsi.

Continuo dicendo che: “è sufficiente appoggiarci sopra qualcosa che non vada

a fondo per accorgerci che esse non si muovono solo per rattoppare dei buchi.”

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Distribuisco tre piattini colmi d’acqua per ogni gruppo, nove stuzzicadenti, una

pinzetta, un pezzettino di sapone, un bicchierino contenente olio, una siringa e

una zolletta di zucchero.

Spiego ai bambini che gli esperimenti sono tre e che li faremo uno alla volta,

seguendo l’ordine che suggerisco, così da evitare anticipazioni e confusione.

Sinceramente non ero del tutto convinta di fare questo esperimento, perché

presenta alcune difficoltà; però riconosco che è riuscito bene ed è stato utile.

Nel primo piattino propongo di disporre gli stuzzicadenti a raggiera sulla

superficie dell’acqua, in modo da lasciare tra di loro un piccolo spazio al centro.

Come avevo previsto, questa disposizione ha creato qualche difficoltà, ma dopo

vari tentativi ci sono riusciti.

Ho invitato poi i bambini a collocare in questo spazio con la siringa una o due

gocce d’olio.

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“Cosa è successo agli stuzzicadenti dopo aver messo l’olio?” domando. I

bambini rispondono che gli stuzzicadenti si sono allontanati.

Chiedo ai bambini di prendere il secondo piattino e di disporvi tre stuzzicandenti

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nello stesso modo. Nello spazio vuoto i bambini dovevano collocare un

pezzettino di sapone, sostenendolo con una pinzetta.

“Osservate cosa accade…”

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I bambini dicono che anche con il sapone gli stuzzicadenti si allontanano.

Siamo pronti per fare il terzo esperimento, quindi utilizziamo l’ultimo piattino e

questa volta mettiamo al centro degli stuzzicadenti, disposti un po’ più lontano,

una zolletta di zucchero sempre tenuta con una pinzetta.

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I bambini hanno notato che questa volta gli stuzzicadenti si avvicinano.

A questo punto è arrivato il momento di dare qualche spiegazione sui fenomeni

appena osservati.

Spiego che l’olio non si mescola con l’acqua e, disponendosi sulla sua

superficie, ne rompe la tensione superficiale. Per questo motivo le molecole di

acqua si allontanano dall’olio trascinando con sé gli stuzzicadenti che vi sono

posati sopra.

Lo stesso avviene con il sapone che, creando una piccola membrana oleosa in

superficie, fa sì che gli stuzzicadenti si allontanino.

Lo zucchero della zolletta, invece, per sciogliersi richiama a sé le molecole

d’acqua che si trovano in superficie; gli stuzzicadenti dunque si avvicinano,

portandosi al centro del piattino.

Introduco una nuova discussione sempre riguardante la tensione superficiale.

Domando ai bambini se hanno mai sentito nominare una categoria di insetti

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definita insetti pattinatori.

Qualcuno risponde di no e qualcun altro di sì.

A. dice: “sono quegli insetti capaci di camminare sull’acqua.”

Spiego che si chiamano idrometre e gerridi e chiedo: “sapete come fanno a

camminare sull’acqua?”

Qualcuno risponde che sono talmente leggeri che non rompono la tensione

superficiale dell’acqua.

E. aggiunge: “lo scorso anno scolastico abbiamo parlato un po’ di questi insetti

e abbiamo studiato che, a causa dell’inquinamento dovuto al fatto che si

scaricano i detersivi nell’acqua, questi insetti non possono più camminare.”

Intervengo dicendo che gli insetti pattinatori hanno qualcosa sulle loro zampette

che permette loro di camminare sulla superficie dell’acqua.

E. dice: “hanno le zampe molto leggere e quindi non rompono la tensione

superficiale.”

Aggiungo che però ci sono molti insetti che sono leggerissimi ma che non

riescono comunque a camminare sull’acqua.

Dopo un breve attimo di silenzio M. interviene dicendo che: “forse hanno una

specie di patina sulle zampette.”

Spiego che questi insetti hanno dei peletti idrorepellenti. “Sapete cosa vuol dire

idrorepellenti?”

I bambini rispondono: “che respingono l’acqua”.

Arriviamo alla conclusione che i peletti idrorepellenti, non forando la membrana

superficiale dell’acqua, le permettono di restare in tensione e dunque di

sostenere gli insetti e quest’ultimi possono camminare.

“Ma se invece un insetto rompe la superficie dell’acqua, cosa succede?”

A.: “l’insetto affonda perché rompe la rete dell’acqua.”

“Sapete cosa fa la pellicola dell’acqua quando viene bucata da un insetto?”

Silenzio…

Visto che nessun bambino risponde prendo di nuovo la parola e spiego loro che

la pellicola superficiale dell’acqua si avvolge attorno all’insetto intrappolandolo e

impedendogli di galleggiare.

Pongo la seguente domanda: “secondo voi cosa potrebbe succedere se un

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bimbo dispettoso versasse in uno stagno una grande quantità di sapone?”

Le mani si alzano tutte, ma dò la parola a V. che risponde dicendo: “a parte che

gli animali che vivono nello stagno si sentirebbero male fino a morire,

succederebbe anche che gli insetti pattinatori non potrebbero più camminare

sull’acqua.”

Chiedo se sono tutti d’accordo con la compagna e rispondono di sì.

Terminato questo argomento propongo ai bambini di raccogliere altre prove

sulla tensione superficiale.

La risposta è affermativa e aggiungono che fare gli esperimenti è

divertentissimo.

Invito A. a prendere in mano un pennello e un bicchiere d’acqua e gli chiedo di

immergerlo; domando alla classe di osservare il comportamento delle setole.

E. dice che: “le setole del pennello si gonfiano”

M. interviene dicendo che: “si allargano”.

Chiedo al bambino di tirare il pennello fuori dall’acqua e chiedo di osservare di

nuovo le setole.

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I bambini affermano che adesso le setole si stringono.

“Secondo voi chi fa stringere le setole del pennello?”

Progressivamente i bambini giungono a una soluzione condivisa e

comprendono che il comportamento delle setole bagnate può essere spiegato

ricorrendo alla tensione superficiale.

E., per esempio, ha una buona intuizione: “la forza che tiene insieme le

molecole superficiali dell’acqua spinge le setole verso l’interno”.

Spiego ai bambini che la tensione superficiale dell’acqua agisce in modo da

costringere le setole bagnate a riunirsi, assumendo l’aspetto di massimo ordine,

occupando anche la più piccola area possibile per contenere lo stesso volume.

Dopo questa brevissima spiegazione mostro di nuovo come si comporta il

pennello attraverso una rappresentazione grafica.

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La parte riguardante la tensione superficiale si è conclusa ed è giunto il

momento di approfondire l’argomento trattato con qualche spiegazione più

precisa.

Mostro il cartellone che avevo realizzato precedentemente e inizio la

spiegazione riprendendo il discorso su come è costituita una molecola d’acqua.

Siccome una molecola d’acqua è formata da due atomi di idrogeno e un atomo

di ossigeno e la distribuzione di carica elettrica all’interno della molecola non è

uniforme, ogni molecola attira le molecole vicine: quindi gli atomi di idrogeno

attirano gli atomi di ossigeno e viceversa.

Invitando i bambini ad osservare il disegno, spiego loro che all’interno del

liquido una molecola d’acqua qualsiasi è attratta da tutte le parti con la stessa

forza dalle molecole vicine, mentre le molecole che si trovano sulla superficie

possono essere attratte solo dalle molecole a fianco e da quelle che si trovano

all’interno del liquido.

Continuo dicendo che le molecole in superficie si tirano l’un l’altra, con una

certa forza che più volte durante gli esperimenti abbiamo definito tensione

superficiale.

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Abbiamo visto durante gli esperimenti che il sapone abbassa molto la tensione

superficiale perché le sue molecole, interponendosi tra quelle di acqua che

stanno in superficie, ne diminuiscono la forza di attrazione reciproca. Ciò fa sì,

come abbiamo verificato tante volte, che la tensione superficiale non ce la

faccia più a vincere la forza di gravità a cui è sottoposta la graffetta: ed ecco

infatti che in presenza di sapone questa affonda.

Per lo stesso motivo le pareti della bolla di sapone sono più flessibili di quelle di

sola acqua, che come abbiamo sperimentato durante il primo incontro si

rompono quasi subito.

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6.5 Quinta fase: il sapone, che cos’è?

Obiettivo: conoscere il sapone I bambini come di consueto sono divisi in piccoli gruppi.

Inizio questo incontro ponendo subito una domanda molto semplice. “a cosa

serve il sapone?” Ecco una valanga di mani alzate…

E.: “il sapone serve per abbassare la tensione superficiale dell’acqua”

L.: “a rompere la tensione superficiale.”

Sinceramente non mi aspettavo che arrivassero subito queste due risposte.

“Bravissimi, ma ditemi in modo più semplice a cosa serva il sapone tutti i giorni”

F.: “per lavarsi”

A.: “per lavarsi le mani”

“Ma serve per lavare solo le persone?”

L.: “i piatti”

D.: “i vestiti”

“Quindi serve per togliere che cosa?”

Finalmente tutti insieme rispondono: “lo sporco”.

A: “serve anche per fare le bolle…”

Ricapitolo ciò che hanno detto alla lavagna e sottolineo il fatto, molto

importante, che lo abbiano associato alla tensione superficiale.

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Metto a loro disposizione dei bicchieri trasparenti, dell’acqua, dell’olio, un

cucchiaio e una siringa. Li invito a versare delicatamente i liquidi nel contenitore

e a osservare.

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“Che cosa avete notato?”

E. risponde dicendo che: “l’olio galleggia perché è leggero.”

A questo punto formulo un’altra domanda: “che cosa pensate che possa

succedere se agitiamo con il cucchiaio il sistema costituito da acqua e olio: l’olio

va sul fondo oppure acqua e olio si mescolano tra loro? Pensateci e poi

rispondete; se volete, visto che siete a gruppi, potete consultarvi tra di voi.”

Non tutti i bambini sono d’accordo: alcuni pensano che l’olio vada a fondo,

mentre altri ritengono che acqua e olio si mescolino.

Raccolgo le ipotesi alla lavagna:

se agitiamo con il cucchiaio la miscela di acqua e olio, quest’ultimo va a

fondo: dodici bambini;

se agitiamo con il cucchiaio la miscela di acqua e olio, queste due

sostanze si mescolano: sette bambini

A questo punto i bambini sono pronti per provare l’esperienza diretta.

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Riporto alla lavagna ciò che hanno verificato i bambini dopo l’esperimento.

Del risultato dell’esperimento, come si può vedere dall’immagine sopra, non tutti

i bambini condividono quanto hanno sperimentato e nasce una piccola

discussione tra di loro.

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Dopo averli lasciati per un po’ discutere, intervengo dicendo che l’ipotesi era

riferita solo al momento in cui si mescolano l’acqua e l’olio con il cucchiaio.

Quindi chiedo di miscelarli di nuovo e di osservare cosa succede.

M. dice che: “l’olio si separa in parti piccolissime e poi, quando smetto di

mescolare e lascio passare un po’ di tempo, l’olio si riunisce.”

G. interviene dicendo che: “se mescolo velocemente l’olio si mescola e non si

vede più e dopo ritorna come prima.”

Ripeto quanto detto dai due bambini ma in modo diverso e più chiaro dicendo:

“pur avendo agitato il miscuglio, l’olio e l’acqua si sono apparentemente

mescolati tra di loro in un primo momento, ma dopo breve tempo l’olio si è

separato nuovamente dall’acqua e il sistema si presenta com’era all’inizio.

Domando ai bambini che cosa hanno capito da questa esperienza e da quanto

detto durante la discussione, invitandoli a riflettere sull’ esperimento.

P.: afferma: “acqua e olio non si mescolano tra loro, perché quando abbiamo

finito di mescolare l’olio, che si era diviso in parti piccolissime, si riunisce

all’acqua e tutto torna come prima.”

Tutti i bambini sono d’accordo con quanto affermato visto che ormai i dubbi

sono stati dissolti.

Spiego ai bambini che gli scienziati definiscono acqua e olio liquidi immiscibili,

perché, proprio come abbiamo sperimentato, non si possono mescolare tra

loro; aggiungo che è come se fossero due nemici giurati, che non vogliono mai

fare la pace tra loro e che, se posti in contatto diretto, finiscono inevitabilmente

per litigare e per separarsi nuovamente.

È arrivato il momento di continuare l’esperimento.

Consegno ad ogni gruppo del sapone liquido e chiedo di ipotizzare che cosa

accadrà se realizziamo le stesse operazioni di prima aggiungendo anche il

sapone.

Spiego ai bambini che le ipotesi sulle configurazioni finali dovranno essere

riportate in una tabella come quella che disegnerò alla lavagna e che invito a

copiare su una pagellina a quadretti.

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Ecco le fasi dell’esperimento che porta alla verifica di quanto chiesto nella

tabella.

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Come hanno potuto osservare dall’esperimento, il sapone liquido si posiziona

sul fondo del bicchiere. Adesso chiedo ai bambini che cosa pensano che

succeda se mescoliamo con un cucchiaio.

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I bambini verificano le previsioni fatte agitando il miscuglio.

Terminato l’esperimento e dopo aver osservato che i liquidi si disperdono l’uno

nell’altro, pongo la seguente domanda: “secondo voi che cosa ha fatto il

sapone?

A.: “il sapone si è mescolato con l’olio: non ci sono più le palline di prima ma si

formano come dei brillantini”

M.: “forse il sapone ha diviso l’olio in goccioline microscopiche”.

I bambini condividono quanto hanno detto i compagni.

“E l’acqua?”

F.: “l’acqua si è mescolata con il sapone e con l’olio”.

Riprendo la parola spiegando che l’olio non si è proprio mescolato all’acqua; si

è semplicemente suddiviso in tantissime goccioline, come aveva detto anche

M., che si sono disperse nell’acqua, grazie all’intervento del sapone, dando

origine ad una situazione che gli scienziati chiamano emulsione. “Quindi cosa fa

il sapone?”

L.: “il sapone permette all’olio di emulsionarsi con l’acqua”.

Inizio l’incontro successivo dicendo che nella lezione precedente avevamo fatto

degli esperimenti riguardanti i liquidi immiscibili. Chiedo quindi se si ricordano

quali sono.

I bambini rispondono che l’acqua e l’olio non si mescolano tra di loro.

Chiedo che cosa accade se aggiungiamo un po’ di sapone e mescoliamo.

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Rispondono che si forma una emulsione e a questo punto domando ai bambini

come fa il sapone a mettere d’accordo l’acqua e l’olio, visto che avevamo detto

che l’acqua e l’olio sono nemici giurati e non vanno per nulla d’accordo.

Ricordo loro che quando mescoliamo il sistema di acqua e olio, le goccioline di

quest’ultimo diventano piccolissime e si uniscono alle gocce d’acqua; ma

quando smettiamo di mescolare, l’olio si separa nuovamente dall’acqua e il

sistema torna come era all’inizio. Quando abbiamo aggiunto il sapone

mescolando il sistema abbiamo formato un’emulsione.

“Quindi cosa fa il sapone per mettere d’accordo l’acqua con l’olio?”

D. è l’unico ad alzare la mano, quindi gli dò la parola; dice che: “le particelle del

sapone si uniscono con quelle dell’olio e dell’acqua, si mescolano tutte insieme

e si danno la mano”.

M. aggiunge: “il sapone si posiziona tra le molecole dell’acqua e le molecole

dell’olio.”

P. interviene dicendo che: “il sapone fa mescolare l’acqua e l’olio trasformandoli

in liquidi che si possono mescolare.”

Dico ai bambini che gli scienziati definiscono due liquidi che si possono

mescolare dicendo che sono miscibili.

I bambini arrivano alla conclusione che il sapone si mette in mezzo tra l’acqua e

l’olio e, dando la mano ad entrambi, li fa diventare amici.

Chiedo ai bambini di rappresentare ciò che hanno compreso sul sistema acqua,

olio e sapone, attraverso il disegno.

Ecco qui di seguito alcuni disegni.

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Quando hanno terminato i loro disegni, pongo ai bambini le seguenti domande:

“avete notato che le bolle di sapone hanno la stessa forma sferica delle

goccioline d’olio?” Tutti in coro rispondono di sì.

“Secondo voi, come potrebbero essere disposte le molecole di sapone, l’acqua

e l’aria intrappolata nella bolla? Provate a riflettere su questa domanda”.

L. afferma: “per me, l’aria è all’interno della bolla, il sapone all’esterno.”

Dico ai bambini che, per visualizzare bene la posizione degli elementi che loro

stessi mi suggeriscono, disegnerò sulla lavagna un ingrandimento di una parte

della bolla.

In base al suggerimento di L., inizio raffigurando: aria interna, sapone e acqua,

ponendo quest’ultima come ultimo strato esterno, così come suggerito da M.

Tuttavia alcuni compagni non sono convinti di ciò che ha detto M. e, dopo una

breve discussione, interviene A. dicendo che: “dentro la bolla c’è solo aria e

l’acqua saponata va posizionata all’esterno, quindi vicino alle molecole di

sapone, ma esternamente”.

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E. dice: “secondo me, ci sono due strati di molecole di sapone: uno tra l’aria

interna e l’acqua saponata e uno vicino all’acqua saponata ma più

esternamente.”

Visto che i bambini sono d’accordo con E., completo il disegno avvalendomi del

suggerimento di M., che consiglia di disegnare anche l’aria esterna.

Grazie alla discussione e alla visualizzazione di ciò che hanno detto arrivano

alla conclusione che le bolle di sapone a partire dal centro verso l’esterno, sono

costituite da aria interna, sapone, pellicola di acqua saponata, sapone e per

finire aria esterna.

Detto ciò, è arrivato il momento di far capire ai bambini il legame esistente tra le

bolle di sapone, la tensione superficiale e il sapone. Tramite delle domande

guidate ho fatto riemergere le osservazioni frutto delle loro esperienze. I

bambini hanno affermato quanto segue:

“le bolle di sola acqua sono piccole e si rompono subito”;

“le bolle grosse si fanno aggiungendo all’acqua il sapone”;

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“le bolle più belle e durature si fanno con acqua, sapone, zucchero o

miele o glicerina”;

“l’aggiunta del sapone fa affondare la graffetta perché il sapone

diminuisce la tensione superficiale, come è successo a Loretta”;

“la tensione superficiale agisce tirando verso l’interno, come abbiamo

osservato dall’esperimento fatto con il pennello.”

Dopo aver ripercorso le varie tappe del progetto chiedo ai bambini: “secondo

voi perché le bolle si fanno con il sapone?”

A. risponde dicendo che: “le bolle si fanno con il sapone per il sapone abbassa

la tensione superficiale dell’acqua.”

Quindi chiedo: “la tensione superficiale dell’acqua saponata è minore o

maggiore della tensione superficiale dell’acqua pura?”

M.: “la tensione superficiale dell’acqua saponata è minore di quella di sola

acqua.”

“Allora come possiamo dire?” “Perché le bolle si fanno con il sapone?”

E.: “le bolle si fanno con il sapone perché la tensione superficiale dell’acqua

saponata è minore di quella dell’acqua pura; infatti le bolle di sola acqua

scoppiano subito, come ci hai fatto vedere la prima volta che sei venuta”.

Chiedo alla classe se condivide ciò che ha appena detto la compagna; tutti si

trovano d’accordo con lei.

Ora che abbiamo concluso anche questa fase è arrivato il momento di mostrare

ai bambini un cartellone che rappresenta il sapone, in modo da rendere tutto più

chiaro. Spiego che il sapone è costituito da molecole formate da una coda

idrofoba.

“Vi ricordate cosa significa questo termine?”

G.: “vuol dire che ha paura dell’acqua”.

“Quindi questa coda si allontana il più possibile dall’acqua, e come potete

vedere dal disegno, si lega all’olio o al grasso più in generale. La nostra

molecola di sapone ha anche una testa definita polare, come l’acqua: questo

significa che ha due poli (uno negativo e uno positivo) e di conseguenza si può

unire all’acqua. Ecco per quale motivo il sapone, mettendosi in mezzo tra

l’acqua e l’olio, permette loro di unirsi.

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E. interviene dicendo che: “è come una specie di ponte.”

Chiedo a conclusione di quanto detto se hanno compreso ciò che ho spiegato,

e tutti rispondono in modo affermativo.

6.6 Sesta fase: bolle e non bolle

Obiettivo: comprendere la forma e i colori delle bolle Ed eccoci arrivati all’ultima fase. Inizio il nuovo argomento ponendo subito una

domanda: “secondo voi, perché le bolle di sapone sono sferiche?”

I.: “perché il telaio è tondo”,

E. interviene dicendo: “ma anche con il telaio quadrato escono rotonde, ti ricordi

che abbiamo provato con i telai a U”.

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Chiedo, quindi, se la forma delle bolle dipende dal tipo di telaio.

E. aggiunge: “forse dipenderà da come sono disposte le molecole di sapone.”

D.: “secondo me le molecole di sapone si attaccano al telaio e prendono la sua

forma ma quando soffiamo l’aria si staccano e si chiudono”.

Ho detto loro: “per ora non rispondo alla domanda che vi ho fatto e non vi dico

neppure cosa penso delle vostre affermazioni; al contrario vi dò un pezzo di filo

di ferro per uno. Con il filo di ferro dovete creare dei telai bidimensionali di

forme diverse; anche strane; questi telai poi ci serviranno per osservare cosa

succede quando andiamo a fare le bolle di sapone.”

I telai costruiti hanno forme diverse, che vanno dal semplice rettangolo al cuore

fino ad arrivare a forme del tutto irregolari.

Ed ecco è arrivato il momento per i bambini di provare a fare le bolle di sapone

con i telai costruiti. Consegno ad ogni bambino un bicchierino di plastica

contenente acqua saponata. I bambini si alzano e iniziano a fare bolle in ogni

parte della classe. Le bolle escono dai telai sferiche in ogni caso!

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Faccio notare ai bambini che, utilizzando telai di varie forme, le bolle di sapone

continuano ad avere una forma sferica, e chiedo loro una spiegazione di ciò.

D. provare a dare una risposta: “quando bagniamo il telaio nell’acqua saponata,

la lamina ha la forma del telaio mentre, quando iniziamo a soffiare, l’aria spinge

la lamina verso l’esterno e gonfiandosi prima di staccarsi si chiude e prende la

forma di una sfera.”

“Altre ipotesi non ce ne sono?”

E.: “secondo me come avevo detto prima dipende dalla disposizione del sapone

sul telaio.”

Chiedo se gli altri bambini hanno idee diverse o se condividono ciò che hanno

detto i loro compagni. Tutti tacciono; decido di raccontare ai bambini la

leggenda della regina Didone liberamente tratta dall’Eneide di Virgilio.

La regina Didone

Primogenita del re di Tiro, Didone approdò sulle coste dell’odierna Tunisia intorno

all’814 a.C. dopo un lungo peregrinare e chiese al potente re Iarba un pezzo di

terra per potervi costruire una città. Il re non voleva accontentarla e, pensando di

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prenderla in giro, le concesse di prendere tanto terreno “quanto ne poteva

contenere la pelle di un bue”. Didone non si scoraggiò: scelse una penisola, tagliò

la pelle di bue in tante striscioline sottilissime e… definì quello che sarebbe stato il

futuro territorio della città di Cartagine, delimitandolo con le striscioline che aveva

ottenuto dalla pelle.

Dopo aver letto la leggenda mostro ai bambini sulla cartina dove Didone fondò

la sua città e spiego loro ciò che è scritto nella leggenda.

A questo punto chiedo: “vogliamo aiutare Didone a ottenere con la pelle di un

solo bue il territorio più grande possibile?”

All’unanimità rispondono di sì.

Divido la classe in piccoli gruppi e metto a disposizione di ciascun gruppo le

forbici, lo scotch e un pezzo di stoffa di dimensioni identiche per simulare la

pelle del bue. Il compito che assegno ad ogni gruppo è quello di progettare la

costruzione della propria mini-Cartagine usando la stoffa.

I bambini discutono tra di loro su come tagliare e disporre le striscioline di

stoffa; prima alcuni provano tagliando un foglio di carta.

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Ed eccoli pronti a sistemare le striscioline. Siccome vedo che sono dubbiosi su

come sistemarle, pongo ai bambini una domanda: “secondo voi, in che modo

Didone ha sistemato le striscioline?”

I bambini riflettono sulla domanda ma non rispondono: quindi la pongo in modo

diverso e più semplice, “secondo voi la regina Didone ha sistemato le

striscioline in modo da delimitare il perimetro” (e mostro alla lavagna la

disposizione delle striscioline) “o in modo da coprire la superficie?” (e mostro

anche la seconda possibilità).

I bambini riflettono sulla scelta da fare e provano entrambe le soluzioni

arrivando facilmente a capire che è meglio disporle l’una accanto all’altra per

delimitare il perimetro.

Sorge però un problema: lo spazio a disposizione nell’aula è poco, così

decidiamo di spostarci in palestra. Ogni gruppo inizia a disporre le striscioline

secondo quanto progettato in classe. In un primo momento sono un po’

preoccupata perché i primi due gruppi dispongono le strisce per formare un

rettangolo e un triangolo. Tra me e me penso: “e se a nessuno venisse in

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mente di fare un cerchio? Come posso risolvere il problema?”; per fortuna,

mentre faccio le mie riflessioni, un gruppo inizia a disporre le striscioline una

accanto all’altra fino a formare un cerchio!

Il quarto gruppo invece crea una figura geometrica irregolare.

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Dopo che hanno terminato di creare le loro mini-Cartagini invito ogni gruppo a

misurare i lati delle loro figure geometriche per poi calcolare l’area e il

perimetro.

Il gruppo che ha dato la forma di cerchio alla sua Cartagine però non sa come

si prendono le misure in quanto non hanno ancora studiato la circonferenza.

Così li aiuto dicendo che devono misurare il diametro e mostro loro come si fa.

Come è naturale, mentre prendono le misure si aprono tra i bambini le

scommesse su quale figura è più grande.

Dopo aver segnato le misurazioni sui fogli; torniamo in classe e dico loro che è

arrivato il momento di fare due calcoli per trovare l’area e il perimetro delle mini-

Cartagini.

Sia io sia la maestra di classe diamo aiuto a due gruppi: un gruppo era in

difficoltà perché i bambini non conoscevano le formule per calcolare area e

perimetro del cerchio in quanto, come già detto, non era stato ancora studiato;

un altro gruppo aveva creato una figura geometrica irregolare e di conseguenza

non sapeva come procedere.

Dopo aver risolto i problemi assegnati, ho scritto alla lavagna i risultati ottenuti

dalle figure geometriche create dai bambini con le striscioline di stoffa, in modo

da poter fare un confronto.

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Purtroppo, mentre riportavo i risultati alla lavagna, ho notato che i perimetri

delle quattro figure erano sensibilmente diversi, perché le strisce di stoffa erano

state tagliate con larghezze differenti.

Per ovviare a questo inconveniente, ho focalizzato l’attenzione della classe

sulla terza figura geometrica (rettangolo) e sulla quarta figura geometrica

(cerchio), che avevano un perimetro simile.

In base al confronto di queste due figure, è risultato a tutti evidente che il

cerchio fosse la figura più conveniente da utilizzare perché, nonostante avesse

un perimetro leggermente maggiore di quello del rettangolo, la sua area era

notevolmente più grande di quella di quest’ultimo.

Per confermare il concetto e fare una verifica più quantitativa, propongo loro di

fare un’altra esperienza.

Consegno quindi ad ogni bambino un foglio di carta millimetrata e un filo di lana

di 60 cm di lunghezza, dicendo loro che questo filo sarà il perimetro di una

figura geometrica regolare, che dovranno costruire.

Siccome noto che hanno qualche difficoltà con il filo di lana, consiglio di

fermarlo con lo scotch.

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Li invito a contare i quadretti che si trovano all’interno della superficie delimitata

dal filo di lana.

Quindi chiedo: “il perimetro è uguale per tutte le figure costruite?”

Tutti rispondono in modo affermativo. L. sottolinea che: “i perimetri sono uguali

perché hai consegnato a tutti un filo di lana della stessa lunghezza”.

Ripeto che il perimetro è uguale in ogni figura geometrica costruita, ma chiedo:

“quale figura ha area maggiore?”

Nonostante avessero già contato i quadretti, ripetono l’operazione,

probabilmente per avere la certezza della risposta. E., che è la prima ad alzare

la mano, risponde che il cerchio ha l’area maggiore. Chiedo se sono tutti

d’accordo e mi rispondono di sì. A. riassume quanto ha appreso dicendo: “tra

tutte le figure che abbiamo formato, che hanno lo stesso perimetro, il cerchio ha

l’area più grande”.

“Molto bene: siete tutti d’accordo con quanto detto da A.?”

Per consolidare e verificare le esperienze fatte propongo ai bambini un

semplice problema di geometria.

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Problema: i tre contadini

Tre contadini devono recintare tre terreni diversi. Hanno tutti a disposizione la

stessa quantità di rete. Il primo contadino con la sua rete delimita il suo terreno

all’interno di un rettangolo di dimensioni: 4 m sul alto corto e 6 m sul lato lungo. Il

secondo contadino con la sua rete delimita il terreno all’interno di un quadrato con

lato di 5 m. Il terzo contadino delimita il suo terreno all’interno di una circonferenza

di raggio 3.19 m.

Calcolare la lunghezza del perimetro dei tre terreni e la loro superficie.

Come già detto, i bambini non hanno ancora studiato il cerchio come figura

geometrica, quindi scrivo alla lavagna le formule per calcolare la circonferenza

e l’area del cerchio.

I bambini risolvono il problema dei tre contadini, scoprendo che il perimetro dei

tre terreni è lo stesso, ma le superfici racchiuse sono diverse. In particolare, il

terreno a forma di cerchio è quello che ha l’estensione maggiore.

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Dopo aver riportato alla lavagna i risultati ottenuti dalla risoluzione del

problema, chiedo ai bambini, in base anche alle esperienze fatte fino a quel

momento, ciò che hanno compreso.

Le mani si alzano tutte per rispondere; ciò mi rende contenta perché vuol dire

che il lavoro fatto fino a quel momento ha dato i suoi frutti.

L.: dice che: “tra tutte le figure geometriche del piano che hanno lo stesso

perimetro, il cerchio è quello che ha la superficie maggiore.”

Riprendendo il discorso riguardante la leggenda della regina Didone, dico:

“secondo voi dunque come ha disposto le striscioline Didone?”

I bambini rispondono sicuri che la regina ha disposto le striscioline in modo da

formare un cerchio. Spiego che Didone tagliò la pelle di bue in tante striscioline

sottilissime con cui circondò un pezzo di terra disegnando un cerchio, o meglio

un semicerchio perché voleva che la città di Cartagine si affacciasse sul mare.

Quindi alla fine Didone era una regina esperta di geometria e riuscì a sfruttare

le proprie conoscenze a proprio vantaggio in barba al re Iarba.

Dopo tutta questa matematica annuncio ai bambini che finalmente possiamo

riprendere a fare i nostri esperimenti. I bambini sono pronti a sperimentare le

superfici minime attraverso le lamine saponose.

Decido di fare io stessa l’esperimento, in modo tale che possano prestare tutta

la loro attenzione all’osservazione di quanto accadrà. Per questo esperimento

utilizzo una bacinella contenente acqua saponata, un telaio a forma di U con

cursore e un pezzo di filo di cotone.

Spiego che dovrò legare su un lato del telaio i due estremi il filo di cotone.

Quindi immergerò il tutto nell’acqua saponata e solleverò delicatamente il telaio

fino a quando su questo si sarà formata una lamina saponosa. Prima di

immergere il telaio nell’acqua saponata chiedo ai bambini di ipotizzare il

comportamento del filo di cotone.

Ci sono state previsioni molto diverse:

M.: “secondo me il filo si attorciglia su se stesso”

F.: “per me si attorciglia sul cursore”;

D.: “secondo me si arrotola sulle braccia della U”;

P.: “il filo resta a galla”;

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Chiedo a P di spiegare meglio ciò che ha affermato. P. dice: “il filo resta

‘sdraiato’ sulla lamina saponosa”.

Chiedo se ci sono altre ipotesi;

E.: “per me si attorciglia su se stesso ma resta sulla lamina”;

G.: “secondo me il filo penzola giù perché diventa pesante quando si bagna”.

A questo punto immergo il telaio. Una volta estratto il telaio il filo risulta

leggermente attorcigliato su se stesso e penzola un po’.

Spiego ai bambini che adesso devo bucare la membrana che si è formata tra il

filo di cotone e il telaio ma prima di fare ciò domando: “secondo voi che forma

geometrica prenderà il filo di cotone?”.

E.: “prenderà la forma di un cerchio”;

A.: “per me quella di un quadrato”

M.: “per me invece non assumerà alcuna forma e resterà attorcigliato su se

stesso”.

G. dice: “secondo me prenderà la forma di un triangolo”.

Prima di bucare la lamina ricapitolo ciò che hanno detto i bambini e, già che ci

sono, chiedo di fare una previsione anche alla maestra Manuela: mi risponde

che, secondo lei, una volta bucata la membrana il filo cadrà giù a penzoloni.

A questo punto è arrivato il momento di verificare quanto è stato affermato.

Chiamo un bambino ad aiutarmi: io tengo in mano il telaio a U e il bambino

buca la membrana saponosa tra il filo e il cursore, ed ecco che si è formata la

figura!

Chiedo ai bambini, rimasti a bocca aperta dallo stupore, di osservare il risultato

dell’osservazione.

“Che figura si è formata?” domando.

Tutti mi rispondono che si è formato metà cerchio, e L., in modo più preciso,

dice che si tratta di un semicerchio.

Sottolineo che, a prescindere dalla forma del telaio e del filo, si otterrà, in

questo caso, sempre un semicerchio.

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Adesso facciamo un altro esperimento. Prendo un telaio a forma di racchetta, al

cui interno in precedenza avevo applicato un cappio fatto di filo di cotone. Dopo

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aver bagnato il telaio nell’acqua saponata lo estraggo delicatamente. Prima di

bucare la membrana che si trova all’interno del cappio domando loro quale

figura si sarebbe formata.

Questa volta senza esitare troppo, memori dell’esperienza appena fatta, quasi

tutti insieme rispondono che probabilmente si sarebbe formato un cerchio.

Chiamo un bambino per verificare se quanto detto risulta vero. Ed ecco che

bucando la membrana all’interno del cappio il nostro filo assume proprio la

figura di un cerchio.

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A questo punto dò loro qualche nozione di approfondimento. Spiego che,

quando si rompe la membrana circondata dal filo di cotone, nella membrana

grande appoggiata si crea un foro di forma circolare. Ricordo loro il problema

dei “Tre contadini”: tra tutte le linee chiuse con lo stesso perimetro la

circonferenza è quella che racchiude la superficie massima. Se il foro è di area

massima la lamina rimasta, ossia quella esterna al foro sarà la superficie di

area minima. Concludo dicendo che quando si rompe la pellicola saponosa

all’interno del filo, questo si apre formando un cerchio perfetto

indipendentemente dalla forma che aveva prima.

Alla luce di quanto detto fino a questo punto, ritengo che i bambini possano

sperimentare lo stesso tipo di problemi nello spazio, cioè in tre dimensioni

anziché in due.

I bambini, come sempre, sono divisi in piccoli gruppi. Consegno otto cubetti di

legno uguali a gruppo. Spiego che dovranno costruire delle figure geometriche

di ugual volume, ma con superfici diverse. Prima di iniziare chiarisco che i cubi

messi a disposizione devono essere impiegati tutti nella costruzione di una sola

figura geometrica e che quest’ultima deve essere una figura regolare.

I bambini iniziano il loro lavoretto di “costruzione”.

Ed ecco ciò che hanno costruito.

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Sottolineo ai bambini che tutti i gruppi hanno costruito uno stesso tipo di figura

geometrica, il parallelepipedo. Anche il cubo è un parallelepipedo particolare,

come anche il quadrato è un rettangolo particolare. Disegno alla lavagna i tre

diversi parallelepipedi costruiti dai bambini. A questo punto chiedo loro di

contare le facce esterne delle singole figure e le segno sotto il disegno

corrispondente.

Il mio intento è quello di far comprendere ai bambini che a parità di volume il

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cubo ha la superficie più piccola.

Inizio la discussione dicendo: “per ogni parallelepipedo abbiamo usato la stessa

quantità di cubi, quindi otto per il primo parallelepipedo, otto per il secondo e

otto per il cubo”. “Se abbiamo usato la stessa quantità di cubi per le tre figure

geometriche realizzate, il volume è diverso o è il solito?”

Si alza qualche mano.

D. risponde: “per me è il solito volume.”

Chiedo chi è d’accordo con D., ma solo un bambino lo è; gli altri rispondono che

il volume è diverso nelle tre figure.

Aiuto i bambini dicendo che anche per me il volume è il solito e chiedo di

provare a pensare per quale motivo anch’io dico così.

Dopo aver lasciato un po’ di tempo per la riflessione, chiedo di nuovo perché

secondo me i tre solidi hanno lo stesso volume.

Un bambino risponde dicendo: “perché abbiamo utilizzato la stessa quantità di

cubetti.”

Domando se gli altri condividono la risposta o se hanno opinioni diverse. I

bambini rispondono che sono d’accordo con quanto detto dal compagno.

“Cosa cambia nelle tre figure geometriche?”

M. risponde che: “cambia la quantità delle facce perché nel primo ne abbiamo

contate trentaquattro, nel secondo ventotto e nel terzo ventiquattro”.

“Benissimo, cambia il numero delle facce. Le facce indicano la superficie della

figura solida.”

Chiedo qual è la figura che ha la superficie più piccola.

D. risponde: “il cubo”.

Chiedo se sono tutti d’accordo e rispondono di sì.

“Provate a spiegarmi quello che avete capito da quanto sperimentato fino ad

ora con i cubetti.”

F. risponde dicendo che: “se prendiamo tre parallelepipedi e tra questi c’è un

cubo, e tutte e tre le figure hanno lo stesso volume, il cubo è quello che ha la

superficie più piccola”.

Dopo aver terminato con successo la discussione sui parallelepipedi,

riprendiamo i nostri lavoretti manuali.

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Consegno un panetto di pongo ad ogni bambino; prima di iniziare a lavorarlo,

spiego che devono costruire una figura tridimensionale regolare, tipo il cubo, la

piramide, il cono, il parallelepipedo, la sfera.

Specifico inoltre che non devono assolutamente dividere o scambiarsi pezzi di

pongo perché altrimenti non hanno più la stessa quantità di materiale a testa.

I bambini ora possono iniziare a modellare il pongo.

L’operazione è abbastanza faticosa all’inizio, perché la pasta da modellare è

particolarmente dura. Alla fine riescono a realizzare qualche solido.

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Dopo che i bambini hanno terminato i loro “lavoretti” chiedo di osservare le

figure realizzate, e domando: “i solidi che avete modellato hanno lo stesso

volume?”

Tutti rispondono in modo affermativo, e chiedo loro di motivare la risposta.

La risposta è stata: “perché ci hai dato un panetto di pongo uguale a tutti,

cambia solo il colore.”

Allora domando qual è il solido che ha la superficie più piccola fra quelli da loro

realizzati.

Quasi tutti i bambini, ricordano quello che avevano imparato dall’esperienza

precedente, rispondono che è il cubo; tre bambini azzardano a dire la sfera.

Propongo ai bambini di formare un cubo sempre utilizzando il pongo.

Dopo averlo realizzato, suggerisco di modellare il cubo esercitando pressioni in

tutte le direzioni, e che dovranno compiere questa operazione più volte fino a

quando otterranno una figura solida ben precisa, senza dire quale.

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Mano a mano che manipolavano il cubo, si andava delineando piano piano una

figura tondeggiante; hanno potuto in questo modo sperimentare che il cubo si

stava lentamente trasformando in una sfera.

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Finita questa attività, ricordo ai bambini la domanda che avevo posto loro ad

inizio della sesta fase, ossia: “perché le bolle di sapone hanno forma sferica?”

Per farli arrivare a rispondere alla domanda riprendo il discorso sulla

circonferenza dicendo che: “a parità di area, la circonferenza è la figura che ha

perimetro minimo; allo stesso modo la sfera è la figura nello spazio che a parità

di volume ha superficie minima”.

La sfera è, quindi, la forma geometrica che, a parità di volume d’aria contenuto,

consente alla bolla di resistere più a lungo, perché ha la minor superficie di

contatto con l’aria esterna, come potete vedere osservando le vostre sfere

appoggiate sul banco. Questa forma sferica è indipendente dalla forma del

telaio perché è dovuta all’azione della tensione superficiale che, “stirando” la

lamina liquida, fa sì che le bolle di sapone assumano necessariamente la forma

di una sfera.

Chiedo ai bambini se secondo loro è possibile costruire con l’acqua e il sapone

delle “figure” che non siano sferiche. I bambini rispondono dicendo di no: le

bolle di sapone possono essere solo sferiche! Rilancio la domanda in un’altra

forma: “proviamo a creare delle non-bolle di sapone, ad esempio a forma di

cubo?”

I bambini mi chiedono subito: “non-bolle”?

Dico: “proprio così! non-bolle! Perché solo le bolle hanno una forma sferica, ma

noi faremo delle non-bolle che sono qualcosa di diverso!”

“Come si fa a fare delle non-bolle?” Mi chiedono.

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Rispondo dicendo che devono creare dei telai particolari che poi andranno

comunque immersi nell’acqua saponata. Prima di consegnare il materiale

necessario, mostro i telai tridimensionali che avevo costruito a casa, per dar

loro un esempio concreto di quello che avrebbero dovuto realizzare.

Consegno ad ogni bambino un pezzo di filo di ferro e metto a disposizione delle

cannucce, spiegando che vanno tagliate in pezzi lunghi 5 cm. Una volta

distribuito il materiale, invito i bambini a iniziare il loro lavoro.

Realizzare queste figure non è stato semplice: quasi tutti i bambini hanno avuto

bisogno del mio aiuto, perché non riuscivano a comprendere come costruire il

telaio tridimensionale. Inoltre avevano bisogno del mio supporto per chiudere le

facce che mano a mano si andavano aggiungendo.

Per fortuna, piano piano qualcuno ha compreso il procedimento e, dopo aver

realizzato il proprio telaio, mi ha dato una mano ad aiutare i compagni in

difficoltà. Per realizzarli, hanno impiegato ben due incontri e mezzo. Quasi tutti

hanno costruito il cubo, tranne due bambine, che hanno realizzato la piramide a

base triangolare.

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Finalmente le figure tridimensionali sono pronte!

Prima di immergere i telai nell’acqua saponata faccio qualche domanda ai

bambini. Innanzitutto mostro loro un cubo e una piramide a base triangolare e

domando: “secondo voi cosa accadrà quando immergerò il cubo nell’acqua

saponata?”

L.: “per me quando lo immergi si forma una bolla tutta intorno al cubo e se poi

soffi ci viene un buco”.

“Qual è secondo te la forma che prenderà la bolla?”

L.: “la forma del cubo”.

E.: “il sapone si posiziona su tutti i lati del telaio”.

F.: “se soffi si forma un cerchio”; ricordo a F. che il cerchio è una figura piatta a

due dimensioni e si trova nel piano mentre la sfera è una figura a tre dimensioni

e si trova nello spazio. Gli chiedo, quindi, se soffiando si forma un cerchio o una

sfera.

F.: “Si forma una sfera.”

I bambini non hanno altre ipotesi. Ricordo loro la nostra idea iniziale: la

creazione di non-bolle!

Ho posto ai bambini questa domanda: “dove si posizionano secondo voi le

lamine di acqua saponata, che nel telaio bidimensionale si posizionavano su

tutta la sua superficie?”

M.: “si posizionano sulle facce”,

A. aggiunge che: “all’interno si forma una bolla sferica”.

M.: “secondo me le bolle non vengono; proprio come hai detto tu sono non-

bolle”.

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Insieme ai bambini decidiamo di iniziare l’esperimento immergendo per primo il

cubo. Invito un bambino a compiere l’esperienza, mentre il resto della classe

osserva. Dopo aver tirato fuori dalla soluzione saponosa il cubo, domando ai

bambini di osservare la figura tridimensionale che si è formata.

A. dice che: “si è formata una specie di clessidra all’interno del cubo”

Invito a guardare con attenzione dove si sono posizionate le lamine, poi

domando se si trovano sulle facce del cubo o al suo interno.

E. risponde dicendo che: “sulle facce non ci sono le lamine, si trovano tutte

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all’interno del cubo”. Sottolineo che quello che ha detto è giustissimo e infatti

nei telai tridimensionali le lamine si uniscono sempre all’interno del solido.

Chiamo un altro bambino ad immergere nuovamente il cubo.

Questa volta le lamine saponose si sono posizionate diversamente rispetto a

prima; chiedo che cosa notano.

D.: “al centro si è formato un cubo piccolo che è unito a quello grande con delle

lamine”

“Il cubo piccolo è esattamente uguale al cubo grande?” Mi dicono che sono

uguali ma cambiano le dimensioni.

Chiedo: “osservate il cubo piccolo e osservate il cubo di legno che è sulla

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cattedra: sono proprio uguali?”

I bambini iniziano a muoversi dai loro banchi per guardare con attenzione il

cubo di legno e il cubo formatosi all’interno del telaio tridimensionale.

Finalmente arriva la risposta che aspettavo.

A.: “le facce del cubo sono un pochino diverse!”

Siccome non aggiunge altro, chiedo al bambino che cosa intende con questa

affermazione e sottolineo che ciò che ha detto è giusto. Invito anche gli altri

bambini a riflettere su quanto detto dal compagno.

A. riprende la parola e dice: “le facce del cubo di acqua saponata sono un po’

incurvate verso l’interno”.

“Mentre quelle del cubo di legno come sono?”

V.: “quelle del cubo di legno sono piane”.

Quindi abbiamo scoperto che le facce del cubo all’interno del telaio

tridimensionale sono curve e non piane e questo vale per tutte le superfici di

acqua saponata.

Invito un altro bambino a ripetere l’esperimento con la piramide, per verificare

con un altro modellino se effettivamente le lamine si posizionano come abbiamo

osservato nel cubo.

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I bambini arrivano allo stessa conclusione, ossia che le lamine si uniscono

sempre all’interno della figura lasciando libere le facce della piramide.

Mi chiedono di ripetere l’esperimento e di provare a soffiare per vedere se

effettivamente dai telai tridimensionali non escono le classiche bolle. Quindi

dopo aver immerso di nuovo il telaio nella soluzione di acqua saponata vi soffio

dentro e come avevo anticipato le bolle non si formano.

Chiedo ai bambini: “che differenze e che analogie ci sono tra le bolle e le non-

bolle?”.

P.: “non hanno una forma sferica”

E.: “non fluttuano nell’aria,”

A.: “sono immobili”

G.: “quando ci si soffia si rompono”.

“Mi avete detto le differenze e ora sapete dirmi che cosa hanno in comune con

le bolle di sapone?”

M.: “sono fatte con acqua saponata”

V.: “sono colorate e fragili”.

Continuo la discussione chiedendo alla classe che cosa rappresentano le non-

bolle, mostrando ai bambini un telaio tridimensionale imbevuto nell’acqua

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saponata.

V. risponde dicendo che: “rappresentano semplicemente delle lamine di acqua

saponata molto sottili”.

Dopo questa lunga discussione decido di porre alla classe una domanda

complessa, perché richiede la capacità di ‘trasferire’ l’idea di superficie minima

dalle bolle alle lamine. Ecco la domanda cruciale.

“Prima qualcuno di voi ha detto che le lamine saponate non sono piane ma

curve; sapete spiegarmi perché?”.

I bambini sono in silenzio, nessuno alza la mano; mi rendo perfettamente conto

che non è facile rispondere. Cerco di guidarli verso la risposta, sperando di

riuscirvi.

Prendo un foglio di carta A4 e dico ai bambini di immaginare che questo pezzo

di carta rappresenti la lamina saponosa. Lo tengo con entrambe le mani dalla

parte dei lati corti.

Spiego che la sua superficie è perfettamente piana. Se, però, cerco di

avvicinare i due lati corti, la superficie si incurva. Quando i due lati si toccano ho

ottenuto un cerchio. Allo stesso modo, in un telaio tridimensionale le lamine

tentano di connettersi l’una all’altra per occupare la superficie minima a parità di

volume.

“È per tutti chiaro questo concetto?”

Tutti i bambini rispondono di sì.

È arrivato il momento di affrontare l’ultimo aspetto riguardante il mondo delle

bolle di sapone, i colori. Decido di non dedicarvi molto tempo come per gli altri

argomenti, per non sovraccaricare i bambini di concetti complicati. Introduco

l’ultimo argomento dicendo che abbiamo potuto ammirare molte volte i colori

delle bolle, però lo abbiamo fatto senza soffermaci mai ad osservarli con cura.

La prima domanda che pongo ai bambini è questa: “secondo voi i colori sulle

bolle di sapone si possono vedere sempre oppure si vedono solamente se

passano davanti ad un determinato sfondo?”.

E., M. ed A. alzano subito la mano.

M. dice: “con la luce del sole i colori si vedono bene mentre al buio no”.

E. interviene correggendo M., dicendo che ho parlato di sfondo nella domanda

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che ho posto. Riformulo la domanda dicendo: “se le bolle passano davanti al

grembiulino di A. che è bianco si vedono i colori sulle bolle? E se passano

davanti al grembiulino di L. che è nero si vedono i colori?”

A.: “i colori sullo sfondo bianco non si riescono a vedere, mentre su uno sfondo

scuro si vedono molto bene”.

E. dice che è d’accordo con quanto ha detto A., ma aggiunge che le bolle

quando passano vicino al grembiule di una bimba sono trasparenti.

“Come M. ha detto all’inizio con la luce del sole i colori sulle bolle si vedono.

Quindi sicuramente per vederli avremo bisogno anche di una sorgente

luminosa, che può essere oltre alla luce del sole anche la luce del lampadario o

di una candela.”

L. ricorda un esperimento fatto all’inizio, quando avevamo tirato le tende e

spento la luce. In quel caso i colori si vedevano bene perché comunque dalle

tende filtrava la luce.

Riprendo la discussione dicendo che i colori delle bolle di sapone dipendono

anche dalla sorgente di luce.

“Avete mai sentito parlare di luce bianca?”

Nessuno risponde.

“La luce bianca è formata da un insieme di tanti colori”.

Per far sperimentare quanto affermato, mostro loro il disco di Newton.

Faccio notare che è composto da spicchi colorati e chiedo: “secondo voi, se

faccio girare velocemente questo disco, quale colore vedrò?”

Qualcuno ha risposto che vedrò tutti i colori, qualcun altro che si vedrà il colore

più scuro e qualcuno, che ricordava ciò che avevo detto poco prima, mi ha

risposto dicendo che si vedrà il bianco.

Ho iniziato a far girare velocemente il disco e i colori presenti hanno dato

origine al colore bianco. “Come avete potuto osservare, più veloce sarà la

rotazione meno nitidi saranno i colori degli spicchi, fino a quando si vedrà

soltanto il colore bianco. Concludo dicendo che: “per vedere i colori sulle bolle

si dovrà utilizzare una luce bianca che è formata da tanti colori messi insieme”.

Spiego ai bambini che mi piacerebbe fare un confronto tra i colori delle bolle di

sapone e quelli dell’arcobaleno. Chiedo loro se sanno quanti sono i colori

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dell’arcobaleno e quali sono. I bambini mi rispondono che i colori sono sette e li

elencano. Quando arrivano all’indaco, spiego loro che l’indaco non è un vero

colore ma è soltanto una tonalità compresa fra il blu e il violetto.

Aggiungo anche che in realtà i colori dell’arcobaleno sono sei e non sette, ma

viene aggiunto appunto l’indaco semplicemente per arrivare al numero sette

che è considerato più solenne. Ripeto in sequenza corretta i colori

dell’arcobaleno: rosso, arancione, giallo, verde, blu, violetto. I bambini sono

rimasti stupiti e nello stesso tempo affascinati da questa scoperta sul numero

dei colori dell’arcobaleno.

Prima di iniziare il lavoro di confronto, mostro lo strumento che utilizzeremo per

studiare i colori sulle lamine saponose. Ho spiegato, visto che erano molto

curiosi, i vari passaggi che ho fatto per costruire questo “strumento”. Si tratta di

una cornice di legno, al cui interno si possono creare lamine saponate piuttosto

estese. Lo sfondo della cornice è scuro e permette di osservare bene i colori

delle lamine.

Prendo una bottiglia di acqua saponata e la verso nel contenitore posto sulla

base della cornice di legno.

Coinvolgo anche un bambino, che immergerà e solleverà una bacchetta in

plastica al fine di ottenere una lamina saponosa. Io invece scriverò alla lavagna

la tabella di confronto. Siamo finalmente pronti per iniziare l’esperimento.

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Chiedo ai bambini di osservare bene i colori e ciò che accade man mano che

passa il tempo.

E. risponde dicendo: “i colori sulla lamina prendono delle forme strane e al

passare del tempo i colori spariscono”.

Chiedo quale colore sembra prevalere, via via che gli altri colori spariscono.

Mi rispondono che è il nero.

“Vediamo un po’ se sapete dirmi per quale motivo i colori dopo un po’ si vedono

sempre meno”.

Siccome nessuno risponde, provo ad aiutarli. “I colori si vedono sempre meno

perché, con il passare del tempo, la lamina subisce un cambiamento. Lo

abbiamo visto quando abbiamo fatto le bolle di sapone; per questo fenomeno

dopo un po’ scoppiavano anche se non toccavano niente”.

L. dice che: “forse la lamina diventa più sottile”;

“Secondo te perché si assottiglia?”

M. interviene dicendo che: “il caldo è un nemico delle bolle di sapone e fa

evaporare la lamina che diventa sottile e poi si rompe”.

“Quindi, mano a mano che passa il tempo, la pellicola si assottiglia e nelle parti

dove è più sottile i colori non si vedono più ma si vede solo il nero. Alla fine la

pellicola si rompe”.

Osserviamo bene i colori sulla lamina saponosa e iniziamo a confrontarli.

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Il confronto viene fatto in maniera condivisa da tutta la classe.

Dall’osservazione i bambini hanno notato che non tutti i colori presenti

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nell’arcobaleno lo sono anche nella lamina saponosa.

Hanno anche osservato che più passa il tempo e più i colori scendono verso il

basso fino a sparire completamente poco prima della rottura della lamina.

Dopo questa osservazione ho scritto alla lavagna le due successioni di colori

secondo le indicazioni dei bambini.

Al termine di questo breve percorso sui colori delle bolle di sapone, invito i

bambini a scrivere sul quaderno ciò che hanno appreso da questo ultimo

argomento.

6.7 Settima fase: riflettiamo sull’esperienza

Questa mattina si è svolta la verifica sul percorso svolto. Le domande sono

state strutturate in modo tale da ottenere una valutazione oggettiva; la verifica è

composta in tutto da ventinove quesiti, di cui ventotto sulle conoscenze

affrontate durante il progetto e uno a carattere personale per capire se ai

bambini il percorso è piaciuto e li ha interessati.

Ho strutturato le domande seguendo l’ordine di svolgimento del progetto. In

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particolare ho inserito nove domande a risposta multipla, undici domande con

risposta a scelta tra “vero” e “falso”, cinque domande a risposta aperta; un

quesito che richiede il riassunto di una storia raccontata da me in classe e di

spiegare ciò che la storia ha voluto dire; infine un esercizio di completamento.

In più ho assegnato loro un cruciverba: anche questo riguarda gli argomenti

svolti durante i nostri incontri. Ho cercato di formulare le domande nel modo più

chiaro e semplice possibile, perché non volevo mettere i bambini in una

situazione di difficoltà e di ansia.

La verifica è stata preparata al computer in modo che potessero lavorare

direttamente sui fogli consegnati e per non togliere tempo allo svolgimento della

prova. Quando sono arrivata a scuola, gli alunni avevano già separato i banchi

e stavano rileggendo gli appunti che nei giorni precedenti avevo preparato in

vista della verifica; volevo infatti che tutti avessero le stesse possibilità di

riuscita perché purtroppo qualche assenza per causa dell’influenza c’è stata. Ho

consegnato le fotocopie e, prima di dare inizio alla prova, ho letto le domande in

modo da dare loro la possibilità di chiedere spiegazioni, in caso ci fosse

qualcosa di poco comprensibile.

Finito di leggere, ho consigliato di rifare una lettura personale e di saltare le

domande di cui non conoscevano la risposta per poi tornarci sopra in un

secondo momento. Ho anche consigliato di ripensare alle esperienze fatte

durante il progetto perché sicuramente sarebbero state loro di aiuto.

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Il tempo a disposizione concesso è stato di un’ora e mezza, anche se in realtà i

bambini hanno consegnato molto prima della fine del tempo.

Nella risoluzione delle domande presenti nella verifica non hanno avuto grosse

difficoltà. Qualcuno ha presentato delle incertezze momentanee nella

risoluzione del cruciverba perché non ne aveva mai risolto uno; in ogni caso,

dopo avergli fornito i giusti strumenti, le cose sono andate nel migliore dei modi.

Prima della correzione delle verifiche ho stabilito di attribuire un punto per ogni

domanda tranne che per le domande: 7, 9, 14 alle quali ho assegnato due punti

perché richiedono di spiegare la scelta fatta e per la domanda 20, poiché

richiedeva di ricordare in giusta successione gli elementi che costituiscono una

bolla di sapone.

Invece non ho considerato la domanda 29 perché chiedeva semplicemente di

esprimere il gradimento sull’esperienza fatta.

Ho sommato i vari punteggi ottenendo come massimo risultato 32. Ho fatto

corrispondere il voto al punteggio nel modo indicato nell’istogramma seguente,

che rappresenta la distribuzione dei punteggi ottenuti dai bambini.

L’istogramma dimostra che gli obiettivi che mi ero prefissata sono stati

ampiamente raggiunti!

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Posso quindi affermare che quasi tutti gli alunni hanno acquisito un ottimo livello

di conoscenza e comprensione degli argomenti trattati durante lo svolgimento

del progetto.

Al di là di una valutazione oggettiva, necessaria all’insegnante per valutare più

che altro il proprio operato, ogni classe ha delle proprie peculiarità. Quando ho

letto i risultati ottenuti da ciascun bambino, entrambe le maestre mi hanno

confermato che rispecchiano l’andamento abituale della classe.

Nell’istogramma seguente riporto il numero di alunni per voto individuale.

Questo grafico è ottenuto dal precedente raggruppando gli individui che hanno

avuto punteggi vicini, secondo lo schema mostrato nella figura precedente.

La media aritmetica è superiore a 9, quindi estremamente vicina al voto

massimo.

Per quanto riguarda il cruciverba, è stato deciso di attribuire semplicemente una

valutazione, perché abbiamo stabilito di non conteggiarlo nell’assegnazione del

punteggio della verifica.

Tutti i bambini hanno ottenuto la valutazione “bravissimo”.

Durante la prova di verifica i bambini erano tutti presenti, quindi ho avuto la

possibilità di avere un riscontro completo ed effettivo sul percorso fatto. Tutti

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hanno svolto il compito in completa autonomia.

Passando all’analisi delle singole domande, riporto i risultati ottenuti nella

seguente tabella.

I bambini hanno risposto bene a quasi tutte le domande. Non si sono

evidenziate grosse difficoltà nella risoluzione dei quesiti, anche in quelli dove

veniva richiesto di dare una spiegazione alla risposta scelta.

Aver avuto la possibilità di compiere direttamente molteplici esperimenti ha

Domanda Risposta giusta Risposta parziale Risposta errata

1 19 - - 2 16 - 3 3 19 - - 4 15 - 4 5 17 - 2 6 17 - 2 7 19 - - 8 19 - - 9 15 4 - 10 17 2 - 11 17 - 2 12 18 - 1 13 19 - - 14 13 5 1 15 18 - 1 16 12 - 7 17 19 - - 18 18 - 1 19 16 - 3 20 16 - 3 21 14 - 5 22 19 - 23 16 - 3 24 15 - 4 25 19 - - 26 19 - - 27 13 - 6 28 19 - -

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favorito nei bambini la comprensione degli argomenti trattati durante il progetto,

apportando di conseguenza un buon apprendimento.

Di seguito riporto alcune parti della verifica.

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Il cruciverba…

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Riporto alcuni pensieri espressi dai bambini

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Conclusioni

Alla fine del percorso, qui presentato, posso affermare che è stato importante approfondire

gli aspetti teorici relativi agli argomenti affrontati; soprattutto è stato molto impegnativo

trovare il modo di presentarli alla classe. Anche se ho già avuto diverse esperienze come

insegnante curricolare, questa per me è stata la prima volta in cui ho costruito e realizzato

un percorso didattico in maniera completamente autonoma. Lo scorso anno scolastico,

secondo gli obiettivi formativi di tirocinio del quarto anno, ho infatti progettato, attuato e

verificato un itinerario didattico, ma in accordo e in collaborazione con i docenti della

classe.

Partendo dal concetto che il compito dell’insegnante di oggi non è più quello di imprimere

nozioni nella mente dei bambini, ma è quello di renderli partecipi al loro stesso processo di

apprendimento, ho cercato di sviluppare l’apprendimento attraverso metodologie e attività

didattiche che risultassero coinvolgenti. Attraverso la realizzazioni di molti esperimenti

penso di essere riuscita a sviluppare l’attenzione, l’interesse, la curiosità e la conoscenza

di tutto il gruppo classe. Tirando le somme, posso affermare che nel complesso mi ritengo

più che soddisfatta dei risultati ottenuti. I bambini hanno partecipato al progetto con

entusiasmo, impegno e senso di responsabilità; i momenti in cui ci siamo divertiti sono

stati moltissimi; l’unico momento in cui hanno manifestato un po’ di “scontentezza” è stato

quando si sono trovati a dover risolvere un paio di problemi di geometria.

Per me invece il momento più difficile durante la realizzazione del progetto è stato quando

abbiamo creato i telai tridimensionali, perché la loro costruzione ha richiesto un continuo

intervento da parte mia. Concludendo spero che questa esperienza didattica, anche se

breve, rimanga con il trascorrere del tempo un bel ricordo nella loro mente.

A questo punto sento il dovere di ringraziare l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di

Avenza che mi ha permesso di realizzare questo progetto; le insegnanti di classe quinta,

dove ho sviluppato il percorso didattico e in particolare la Maestra Manuela che mi ha

concesso tutte le ore di cui avevo necessità, senza alcuna riserva; i bambini che con il loro

entusiasmo hanno realizzato un bellissimo lavoro.

Ringrazio i miei genitori e il mio fidanzato che mi hanno supportata durante tutto il

percorso universitario, nel momento della realizzazione del progetto e della stesura della

tesi.

Un ultimo ringraziamento va al Prof. S. Straulino per l’aiuto professionale e cortese che mi

ha dimostrato.

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