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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO IIDIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE TESI DI LAUREA IN PRINCIPI E FONDAMENTI DEL SERVIZIO SOCIALE L’ASSISTENTE SOCIALE TRA PROFESSIONE E SEMI-PROFESSIONE Relatore: Candidata : Ch.mo Prof. GALLO SIMONA GAETANO BALESTRA Matricola: 547001211 Anno Accademico 2014/2015

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI

“FEDERICO II”

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA

IN

SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE

TESI DI LAUREA

IN

PRINCIPI E FONDAMENTI DEL SERVIZIO SOCIALE

L’ASSISTENTE SOCIALE TRA PROFESSIONE E SEMI-PROFESSIONE

Relatore: Candidata :

Ch.mo Prof. GALLO SIMONA

GAETANO BALESTRA Matricola: 547001211

Anno Accademico 2014/2015

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INDICE

INTRODUZIONE………………………………………………….2

CAPITOLO I……………………………………………………….3

CONTESTO STORICO DI RIFERIMENTO……………………3

CAPITOLO II ……………………………………………………...5

NASCITA, SVILUPPO E CRISI DELLO STATO DEL

BENESSERE………………………………………………………..5

2.1 Nascita…………………………………………………………..6

2.2 Sviluppo………………………………………………………....8

2.3 Crisi e Cause che l’hanno scatenata…………………………..9

2.4 Post crisi………………………………………………………...11

2.5 Terzo settore: caratteristiche e legislazione di

riferimento………………………………………................................12

2.5.1 Il punto di vista sociologico…………………………………..15

2.5.2 Il Modello AGIL di Talcott Parsons…………………………17

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CAPITOLO III……………………………………………………. .20

L’ASSISTENTE SOCIALE TRA PROFESSIONE E SEMI-PROFESSIONE:

IL NATURALE BISOGNO DELLA LIBERA PROFESSIONE, RICHIESTA

DA UN WELFARE SEMPRE PIÙ DI

MERCATO………………………………………………………….20

3.1 Le Teorie sul lavoro riprese e approfondite da Ugo Albano….21

3.2 La Sociologia delle professioni………………………………….26

3.3 Il basso riconoscimento dell’autonomia professionale degli assistenti

sociali……………………………………………………......................35

3.4 Differenze di riconoscimento della professione tra il mondo anglosassone e

quello italiano…………………………………………………………37

3.5 Professione o semi-professione?......................................................38

3.6 La mia testimonianza di un caso di basso riconoscimento dell’autonomia

professionale di un’assistente sociale………………………………41

3.7 Riflessioni sull’esperienza……………………………………….47

CONCLUSIONI……………………………………………………..48

BIBLIOGRAFIA…………………………………………………….52

NOTE BIBLIOGRAFICHE……………………………………….. 53

SITOGRAFIA……………………………………………………….55

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Introduzione

L‟obiettivo di questo mio elaborato è evidenziare in che modo il passaggio dal welfare

generalista al libero mercato abbia inciso sulla necessità sentita dagli assistenti sociali di

essere definiti professionisti per quanto ancora oggi risulti irrilevante la presenza della libera

professione nel servizio sociale. Inoltre mi è sembrato interessante e opportuno sottolineare

l‟attualità della problematica del basso riconoscimento dell‟autonomia professionale degli

assistenti sociali in quanto presente in un‟esperienza di lavoro da me vissuta all‟interno di

una cooperativa sociale. Il primo capitolo è caratterizzato da una panoramica generale che

riguarda il contesto storico di riferimento ossia il secondo dopoguerra, durante il quale per la

prima volta in Italia si aprì il dibattito sull‟assistenza sociale per poi giungere con la

Costituzione del 1948 che auspicava ad un sistema di sicurezza sociale, all‟affermazione del

concetto di assistenza basato sull‟assunto della solidarietà. Il secondo capitolo si concentra

invece sui fattori che hanno favorito la nascita, lo sviluppo del Welfare State e la crisi di tale

sistema dalla quale è nato il Terzo settore. Per l‟appunto il secondo capitolo continua con un

excursus sul mondo del Terzo settore, oggetto di studio anche della sociologia e analizzato

in qualità di fenomeno sociale dal sociologo americano Parsons. Il terzo capitolo infine si

concentra sull‟argomento centrale della tesi che verte sul riportare alcune considerazioni di

studiosi e alcune teorie sociologiche sulla posizione in cui oggi versa la categoria degli

assistenti sociali nel mondo del lavoro per poi portare come esempio un‟esperienza di lavoro

personale. I punti di forza di tale elaborato vertono sul partire da alcune teorie portate avanti

da studiosi della sociologia delle professioni per poi arrivare a spiegare se e perché il

servizio sociale è una professione e il riportare un‟esperienza vissuta in prima persona come

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esempio di un caso di non riconoscimento dell‟autonomia professionale degli assistenti

sociali. Inoltre alcune dinamiche vissute durante l‟esperienza in questione hanno dato vita a

degli interrogativi in quanto le stesse oltre a non consentire all‟assistente sociale di svolgere

il proprio ruolo, hanno deviato il corso del programma seguito da alcune utenti ospiti della

struttura che le accoglieva. L‟originalità invece sta nel fatto che tale lavoro non vuole essere

un elenco delle attività lavorative svolte tantomeno un reportage su quanto bella sia stata

questa esperienza bensì un dedicare attenzione al mondo del lavoro sociale, al ruolo

dell‟assistente sociale oggi in un welfare nuovo ed esporre alcuni interrogativi sorti durante

l‟osservazione di situazioni verificatesi nel corso del lavoro da me svolto all‟interno di una

comunità di accoglienza per madri con minori disagiati.

CAPITOLO 1

Contesto storico di riferimento

In Italia, il primo dibattito sull‟assistenza sociale si svolse nel secondo dopoguerra,

all‟interno della Commissione incaricata di dar vita ad uno schema di Costituzione. In quel

clima di forte degrado sociale ed economico si affermò sempre più l‟idea che fosse

necessario trasformare la beneficenza da fatto autonomo e privato a diritto pubblico

soggettivo di tutti i cittadini per la liberazione dal bisogno1. Di conseguenza divenne

essenziale identificare, chi necessitava di assistenza, e riconoscere tale necessità soggettiva,

come diritto derivante dal suo stesso essere cittadino. In seno alle terza

1 Garancini G., Legislazione e mutamenti istituzionali nel campo dell’assistenza in Italia, in Rossi G., Donati P.P.

(a cura di), Welfare State, problemi e alternative, FrancoAngeli, Milano, 1985.

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sottocommissione(sui diritti e sui doveri economici e sociali) si affermava che ogni cittadino

“ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati per vivere, garantiti dalle

assicurazioni sociali e dalle istituzioni di assistenza” . Si sosteneva, quindi, la necessità di

“procedere all‟esame dei mezzi già esistenti o da istituire capaci di avviare l‟Italia ad un

consapevole ed organico sistema di sicurezza sociale”. Contemporaneamente, nella prima

sottocommissione si sottolineava l‟esigenza di precisare non solo l‟eguaglianza dei cittadini

davanti alla legge, ma il loro “diritto ad eguale trattamento sociale”. “Il sistema di sicurezza

sociale prospettato nel dibattito si traduceva nella Costituzione, intenzionata a realizzarvi

uno Stato Sociale dove l‟assistenza era uno degli impegni per giungervi e non un settore

marginale e discrezionale”. Nel maggio del 1947 l‟Assemblea costituente riprese il tema

sull‟assistenza e ne elaborò un nuovo concetto che fu poi trasferito nella Costituzione2. Un

concetto di assistenza il cui assunto era la solidarietà che mirava ad applicare i valori

fondamentali richiamati dal dettato costituzionale: I diritti dell‟uomo da una parte e

dall‟altra i doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2); le pari dignità sociali e

l‟uguaglianza di tutti i cittadini; l‟impegno dei pubblici poteri a rimuovere gli ostacoli di

ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3).

L‟avvento Costituzionale ,avutosi nel 1 gennaio del 1948, cambiò radicalmente

l‟impostazione dello Stato, dove tra i diritti inviolabili della persona emersero anche quelli

sociali e della comunità. Al centro del sistema vi sono attualmente le comunità e le

autonomie locali, alle quali viene così riconosciuta l‟autonomia necessaria a promuovere un

più ampio piano d‟intervento all‟interno dei servizi territoriali. L‟assistenza con il nuovo

assetto costituzionale perde sempre di più quelle caratteristiche d discrezionalità, marginalità

2 Art.38 “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al

mantenimento e all’assistenza sociale”. “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. “Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale”. “L’assistenza privata è libera”.

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e beneficenza che fino a questo momento l‟avevano contraddistinta per assumere invece una

funzione strumentale e di ampio respiro... Pertanto a causa soprattutto delle esigenze della

ricostruzione per anni le indicazioni costituzionali sono rimaste inattuate e infatti per ben

quarant‟anni dalla Costituzione, la normativa in vigore è stata la” legge Crispi”3. Questo

provvedimento stravolse il concetto di assistenza applicato in Italia sino a quel momento (in

cui lo Stato, coerentemente con una visione liberale ed individualista del mondo produttivo

ed economico, delegava interamente l‟attività di assistenza e beneficenza all‟iniziativa degli

Enti ecclesiastici), attribuendo personalità giuridica pubblica alle Opere Pie già presenti sul

territorio, che da quel momento in poi assunsero la denominazione di Istituzioni Pubbliche

di Assistenza e Beneficenza. Successivamente il rapido mutamento della situazione sociale:

(urbanizzazione, crescente industrializzazione, migrazione e mass media) ha fatto emergere

nuovi bisogni che hanno spinto lo Stato ad iniziare un‟opera di legiferazione in campo

assistenziale. Si da così il via ad un‟organica riforma dell‟intero settore dell‟assistenza che

contribuisce ad allargare la costellazione degli enti assistenziali e delle stesse categorie degli

assistiti. La Riforma del settore assistenziale si avrà con la Legge 8 novembre 2000, n.328,

Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

CAPITOLO 2

Nascita, sviluppo e crisi dello Stato del Benessere

3 L.6972/90 “Istituzioni pubbliche di Assistenza e Beneficenza” (IPAB).

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Il termine “Welfare State” “Stato del benessere” viene utilizzato a partire dalla Seconda

Guerra Mondiale per designare un sistema socio-politico-economico in cui la promozione

della sicurezza e del benessere sociale ed economico dei cittadini è assunta dallo Stato, nelle

sue articolazioni istituzionali e territoriali, come propria prerogativa e responsabilità. Il

Welfare State è “un insieme di politiche pubbliche connesse al processo di modernizzazione

tramite le quali lo Stato fornisce ai propri cittadini protezione contro rischi e bisogni

prestabiliti, sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale; introducendo

specifici diritti sociali non ché specifici doveri di contribuzione finanziaria”4. Detto anche

“Stato sociale” è una forma di stato democratico che promuove lo sviluppo economico e

sociale che garantisce a tutti i cittadini un livello accettabile di benessere. Uno stato-

famiglia, in cui tutti i cittadini sono uguali, senza distinzioni, che ha riguardo delle fasce più

deboli in modo che possano diventare loro stessi artefici della loro promozione. In esso lo

Stato interviene attivamente nei rapporti sociali ed economici con l‟offerta di servizi quali la

previdenza e l‟assistenza sociale non ché a livello legislativo e attraverso la pianificazione e

la programmazione economica e le imprese pubbliche.

Nascita

Il concetto di Stato sociale nasce da un rapporto della Convenzione repubblicana francese

nel 1794 che diceva: “In una democrazia tutto deve tendere ad elevare ogni cittadino al di

sopra del bisogno primario: per mezzo del lavoro se è valido, per mezzo dell‟educazione se è

fanciullo e per mezzo dei sussidi se è invalido o vecchio” (Barrere 1794)5, anche se il

4 Quadro 1.1- Cos’è il Welfare State, FERRERA M. Le Politiche sociali, Il Mulino, 2012.

5 Lion A., Maclouf P., L’insecuritè sociale: pauperisme e solidarieté, Ouvrierès, Paris, 1982.

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concetto di socialità è rimasto fuori dall‟ordinamento giuridico per quasi tutto l‟Ottocento6.

Stato sociale o Welfare State (stato del benessere) così detto perché proprio in Gran

Bretagna si è storicamente realizzato per la prima volta attraverso un piano di assistenza

pubblica propugnato da W.H Beveridge nel 19427 e dal quale prende il nome il cosiddetto

Rapporto Beveridge che diviene il manifesto teorico-programmatico dello Stato sociale. In

realtà fu il cancelliere nonché grande statista prussiano Otto Bismarck a realizzare in

Germania il primo Stato sociale tra il 1883 e il 1889 dando vita ad un sistema di

assicurazioni sociali obbligatorie per malattia, infortuni, pensioni di invalidità e vecchiaia.

Pertanto a Bismarck si rifà una tipologia di modello di welfare detto occupazionale, adottato

dai paesi anglo-continentali che assicura a coloro che ricoprono diverse professioni

prestazioni differenziate finanziate tramite contributi sociali. Mentre a Beveridge si rifà il

modello universalistico, adottato dai paesi anglo-scandinavi che si basava sul principio che

tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro posizione avevano diritto ad accedere a tutte le

prestazioni, finanziate principalmente dal gettito fiscale. Ma tornando al discorso

sull‟assistenza c‟erano già stati dei precedenti in Gran Bretagna, dove già nel 1601, sotto il

regno di Elisabetta, fu approvato un regime di leggi dette Poor Laws “Leggi per i poveri” e

soppresso nel 1834 per dare spazio alle New Poor Laws “Nuove leggi per i poveri”. Una

pietra miliare nell‟edificazione dello Stato sociale è il Social Security Act “Atto per la

Sicurezza Sociale” promulgato negli Stati Uniti d‟America nel 1935. Lo Stato sociale nasce

storicamente con l‟emergere delle contraddizioni dell‟economia capitalistica, la distruzione

della civiltà contadina e della solidarietà familiare e di villaggio, la nascita del proletariato,

l‟urbanizzazione, l‟emigrazione, l‟estensione del diritto di voto e l‟avvento al potere dei

partiti socialdemocratici. Tali trasformazioni socio-economico-politiche fanno emergere

6 Cannan E., Smith A. (a cura di), Lectures on Justice police, revenue and arms, Macmillian, 1896.

7 Beveridge W.H., L’impiego integrale del lavoro in una società libera, Einaudi, Torino, 1945.

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nuove forme di povertà, con difficoltà crescenti per la famiglia a provvedervi in modo

adeguato.

Sviluppo

Il susseguirsi di periodiche recessioni economiche, accompagnate da elevati tassi di

disoccupazione, la necessità di provvedere alle esigenze di vedove, di orfani e di tutti i

coloro che non hanno le risorse necessarie per vivere come invalidi, anziani e così via, fa

nascere l‟esigenza di un coinvolgimento diretto dello Stato. Nel secondo dopoguerra, grazie

al dividendo fiscale generato dalla forte crescita economica, la maggior parte dei paesi

capitalisti muove a passi veloci nell‟edificazione del Welfare State, che raggiunge la sua

massima estensione in Svezia e nei paesi nordici in Italia a partire dal primo governo di

centro-sinistra(1962-1963) si assiste ad una forte crescita di leggi, istituzioni e politiche che

configurano un vero e proprio stato sociale. Sempre alla fine della Seconda Guerra Mondiale

a detta di Esping-Andersen si affermano tre diversi regimi di Welfare State: liberale,

conservatore-corporativo, socialdemocratico. Il regime liberale è presente negli Stati uniti, in

Canada, in Australia e nel Regno Unito e privilegia misure di assistenza basate sulla prova

dei mezzi(means-test), schemi di assicurazione sociale in parte circoscritti e con formule di

prestazioni poco generose i cui destinatari sono bisognosi, “poveri”, lavoratori a basso

reddito. Il regime conservatore-corporativo è presente in Germania, in Austria, in Francia e

in Olanda privilegia schemi assicurativi pubblici collegati alla posizione occupazionale

dunque i destinatari sono i lavoratori adulti maschi capofamiglia, con formule di computo

collegate ai contributi e/o alle retribuzioni. Infine il regime socialdemocratico è presente in

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Svezia, in Danimarca e in Norvegia e privilegia schemi universalistici di sicurezza sociale

con alti standard di prestazione i cui destinatari sono tutti i cittadini, con formule di computo

generose ma a forma fissa con finanziamento fiscale8. L‟apogeo sarà raggiunto alla fine

degli anni 70 quando i ritmi dell‟espansione del Welfare State-accompagnati da pressione

fiscale, disavanzi di bilancio e debito pubblico in crescita esponenziale-diventano

incompatibili con un contesto economico profondamente segnato dalla recessione. Negli

anni 80 il Welfare State si consolida, ma i costi per sostenere il sistema non cessano di

aumentare anche a causa di una spirale perversa disavanzo-crescita del debito pubblico-

maggiori interessi passivi-disavanzo, e così via.

Crisi e cause che l’hanno scatenata

Dalla metà degli anni 60 si è cominciato a parlare di “Stato assistenziale” come

degenerazione dello “Stato sociale”, per indicare la crisi profonda di tale modello nella

generalità dei paesi in cui è stato adottato. A partire da quegli anni si è progressivamente

assistito a un forte aumento nel numero e nella dimensione degli apparati pubblici, dominati

da logiche burocratiche e clientelari al tempo stesso inefficienti e inadeguati. Inoltre, i

trasferimenti di redditi e di ricchezza fra i differenti settori e categorie generati dal sistema

della “sicurezza sociale” si sono rivelate spesso arbitrari e iniqui, ingiustificati anche

secondo una logistica puramente assistenziale. Sul fronte fiscale l‟esigenza di coprire gli

ingenti costi per l‟espansione e il mantenimento del Welfare State ha comportato una

8 Quadro 1.3- I tre regimi di Welfare secondo Esping-Andersen, FERRERA M. Le Politiche sociali, Il Mulino,

2012.

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continua crescita della pressione tributaria, quindi una diminuzione negli investimenti e nei

consumi privati con evidenti effetti negativi sul fronte occupazionale. L‟interventismo

statale, sempre più onnipervasivo e irrispettoso dei propri limiti ha mortificato la libertà di

iniziativa e la capacità di rischiare provocando una progressiva deresponsabilizzazione delle

persone e della società. Il fallimento del Welfare State, come pure dell‟economia mista, nella

generalità dei paesi in cui è stato adottato è il logico e inevitabile esito di un sistema sociale-

politico-economico edificato sulla base di una visione distorta dei compiti dello Stato in

ordine al bene comune, a sua volta frutto di una visione antropologica e sociologica erronea.

I nodi critici del sistema del Welfare State sono stati il debito pubblico insostenibile, la

trasformazione dei bisogni sociali per l‟affacciarsi di nuove povertà e bisogni più complessi,

il sistema dei servizi poco rispondente ai cambiamenti sociali legati ai nuovi bisogni.

L‟ideologia su cui si fonda il Welfare State è in radice di tipo collettivistico, anche se non ci

raggiungono gli esiti ultimi insiti in tale ideologia, ovvero una totale pianificazione della vita

sociale ed economica, con l‟abolizione della proprietà privata e della libertà di iniziativa

economica e non. Infatti molte caratteristiche del Welfare State nei paesi capitalisti

ricordano seppur in forme meno estreme, aspetti tipici dell‟organizzazione sociale ed

economica dei paesi del socialismo reale.

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Post Crisi

La crisi del Welfare state ha prodotto nuove definizioni di solidarietà sociale, quali: welfare

society o welfare community, welfare mix o regime di welfare e welfare market. La

differenza tra le definizioni di welfare society e welfare community è solo terminologica ma

si preferisce il termine “comunità” rispetto a quello di “società” perché il vero motore di

questo sistema è l‟energia umana e spirituale che nasce dalle appartenenze comunitarie che

innervano i rapporti interpersonali e tutta la società civile. Welfare community significa

affidare direttamente alle comunità terapeutiche la gestione di tutto il servizio di prevenzione

e recupero dei tossicodipendenti. Il Welfare societario nasce dal superamento dello stato

sociale e si dirige verso una società del benessere che si prende cura del benessere proprio e

di tutte le sue componenti, ispirata e guidata dal principio di sussidiarietà. Il Welfare mix sta

ad indicare una attività di solidarietà in parte affidata allo Stato e in parte affidata al mercato,

alla famiglia e alle associazioni sociali e di volontariato(intermedie). Le relazioni tra i

quattro poli sono chiamate anche Regime di welfare. Il Welfare market di impronta

neoliberista propone una estrema selettività nelle prestazioni di Welfare, selettività

assicurata dal mercato, luogo principe di regolazione della domanda e dell‟offerta. I

cambiamenti demografici, economici, sociali, politici e culturali degli anni 80 e 90 che

hanno investito l‟Europa, hanno portato a concentrarsi sulla ridefinizione dello Stato sociale,

per la quale sempre più hanno avuto un ruolo importante le associazioni di volontariato e le

istituzioni che non mirano al profitto parliamo dunque del Terzo settore.

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Terzo settore

Caratteristiche e legislazione di riferimento

Il terzo settore riunisce una gamma piuttosto ampia di organizzazioni non profit (cooperative

sociali, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative, fondazioni, imprese

sociali etc.)che occupano nicchie di mercato(il settore dei servizi sociali, socio-assistenziali

e socio-educativi) che le imprese for profit giudicano poco conveniente ricoprire. Le realtà

del non profit sono in grado di erogare una serie di servizi concentrati in settori quali

l‟istruzione, la sanità e l‟assistenza alla cui domanda la produzione pubblica ha risposto in

maniera insufficiente. Il Terzo settore si contraddistingue dal Primo settore rappresentato

dallo Stato e in contrapposizione al Secondo Settore rappresentato dalle società

commerciali, quelle for profit. Le organizzazioni no profit sono caratterizzate da attività

organizzative con intento mutualistico e/o solidaristico, da un management indipendente, da

processi decisionali basati sulla democraticità e dall‟equità nella gestione del capitale

economico. Nel Terzo settore rientrano organizzazioni che svolgono iniziative

imprenditoriali come le cooperative sociali ma anche quelle che promuovono attività

volontaristiche come le associazioni di volontariato disciplinate dalla Legge 266/1991 , la

quale stabilisce che per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo

personale, spontaneo e gratuito, tramite l‟organizzazione di cui il volontario fa parte, senza

fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà. Essa considera

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organizzazione di volontariato ogni organismo liberamente costituito al fine di svolgere

l‟attività di cui sopra che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni

personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti. Le organizzazioni di volontariato

possono assumere la forma giuridica che ritengono più adeguata al perseguimento dei loro

fini, salvo il limite di compatibilità con lo scopo solidaristico. Vi rientrano anche le

cooperative sociali, disciplinate dalla Legge 381/91 che ne distingue due forme: quelle di

tipo A e quelle di tipo B. Le prime si occupano della gestione, produzione ed erogazione di

servizi alla persona, di natura socio-assistenziale ed educativa mentre le seconde sono

impegnate nello svolgimento di attività produttive che hanno come scopo l‟inserimento

lavorativo di persone svantaggiate, che devono costituire almeno il 30% dei lavoratori in

compatibilità con il proprio stato soggettivo individuale e siano soci della cooperativa.

Pertanto la legge prevede diverse categorie di soci: i soci prestatori(i soci lavoratori,

dipendenti o collaboratori dell‟organizzazione), i soci volontari(coloro che prestano

volontariamente e senza retribuzione la propria attività lavorativa per la cooperativa ma non

possono essere di più della metà del numero complessivo dei soci), i soci sovventori(persone

fisiche o giuridiche che offrono capitale finanziario alla cooperativa pur senza operarvi in

cambio di una remunerazione del capitale apportato), i soci fruitori(che fruiscono

direttamente o indirettamente dei servizi della cooperativa). Abbiamo anche le Associazioni

di Promozione sociale (APS), regolate dalla legge 383/2000 , le quali svolgono attività che

possono essere rivolte sia a soggetti esterni che interni(ai soci dell‟organizzazione stessa) e

le ONLUS (Organizzazioni non lucrative di utilità sociale) disciplinate dal D. Lgs 460/1997

che considera tali le cooperative sociali(che, secondo la norma, diventano onlus di diritto), le

fondazioni e le associazioni che svolgono attività ritenute di utilità sociale e azioni senza

finalità di lucro. Le Fondazioni seguono la disciplina dettata negli Art. 14-42 del Codice

Civile: <<Associazioni riconosciute e non, fondazioni e comitati>> e sono organizzazioni

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private senza finalità di lucro i cui mezzi derivanti da un patrimonio sono destinati a un

particolare scopo. Ad esse interessa amministrare e gestire il proprio patrimonio al fine di

trarne un rendimento per sostenere le attività che essa sostiene, per il cui sviluppo non è

sufficiente l‟azione collettiva di più soggetti come accade nelle cooperative o nelle

associazioni. Esse si distinguono in fondazioni di erogazione e fondazioni operative, le

prime devolvono dei contributi economici, ottenuti dalla gestione del proprio patrimonio, ad

altri soggetti (individui o meglio organizzazioni) per lo svolgimento di attività che meritano

un sostegno. I destinatari di questi contributi possono essere enti pubblici come i Comuni o

enti privati ossia enti no profit come cooperative sociali o ODV o APS. Le seconde hanno

proprie strutture attraverso le quali perseguono direttamente le finalità istitutive. In merito

alla categoria di Enti No Profit va specificato che oltre alle Cooperative sociali di tipo A e B

e alle fondazioni vi fanno parte anche le Aziende per i servizi alle persona e le Imprese

sociali. Il D. Lgs 207/2001 prevede due tipi di trasformazioni delle IPAB (Istituzioni

Pubbliche di Assistenza e Beneficenza istituite con la legge 6972/1890 detta Legge Crispi)

in un‟ASP e in una fondazione. Nel caso in cui esse si trasformino in una fondazione

perdono la qualifica di ente pubblico mentre se si convertono in ASP mantengono la natura

pubblica ma con un elevata autonomia organizzativa e con una logica operativa aziendale. E

infine le Imprese sociali, disciplinate dal D. Lgs 118/2005 che delinea la possibilità di

svolgere attività di impresa per fini diversi dal profitto e di interesse collettivo, operando

anche oltre i settori in cui agivano le cooperative sociali. Successivamente con il D. Lgs

155/2006 viene stabilito che possono avvalersi del titolo di impresa sociale <<Le

organizzazioni private, ivi comprese gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano

in via stabile e principale un‟attività economica organizzata al fine della produzione e dello

scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse

generale>>. Si tratta cioè delle cooperative sociali, delle ODV, della APS e delle

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Fondazioni. Tra tante normative non possiamo non menzionare quella che ha fortemente

contribuito alla crescita e all‟importanza del terzo settore ossia La Legge 328/2000 , per la

realizzazione del sistema integrato di interventi e di servizi sociali, la quale stabilisce

all‟art.1 c.4 che “Gli enti locali, le Regioni e lo Stato, nell‟ambito delle rispettive

competenze, riconoscono e agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità

sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione

sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di volontariato, degli

enti riconosciuti delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o

intese operanti nel settore della programmazione, nell‟organizzazione e nella gestione del

sistema integrato di interventi e servizi sociali ” e questo nel rispetto dell‟attuazione del

principio di sussidiarietà. Pertanto la programmazione e l‟organizzazione del sistema

integrato compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato mentre la gestione e l‟offerta dei

servizi spetta ai soggetti pubblici e alle ONLUS, alle cooperative sociali, alle ODV, alle

associazioni e ad enti di promozioni sociale, alle fondazioni, agli enti di patronato e a ad altri

soggetti privati.

Il punto di vista sociologico

Diversi sono stati gli studiosi che hanno scelto come oggetto di studio il terzo settore;

economisti , politologi e sociologi. In particolare quest‟ultimi si sono concentrati sulle

funzioni che gli enti non profit svolgono all‟interno della società e soprattutto sugli aspetti

relazionali che caratterizzano il loro rapporto con la collettività e con i singoli utenti, ma

anche con gli enti locali e con le altre organizzazioni di volontariato. Oggi in Italia sono

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utilizzati diversi termini per definire la moltitudine di forme assunte dal terzo settore, essi

sono: terza dimensione, proposta da Ardigò, privato sociale, coniato da Donati; terzo

sistema, individuato da Ruffolo, Borzaga e Lepri, economia civile, di cui parla Zamagni.

Ardigò sostiene che le relazioni o i rapporti generati dal terzo settore sono orientati alla

solidarietà, alla reciprocità, alla condivisione; e inoltre che esso costruisce uno spazio

pubblico autonomo e non sistemico, distinto sia da quello politico-statuale sia da quello

economico.

Donati parla invece di “terza dimensione” per indicare l‟area della solidarietà associativa

come privato sociale. Secondo Donati vi sono quattro poli su cui si organizza in modo

dinamico la società: lo Stato, il mercato, il privato sociale, le reti primarie. Il primo produce

beni pubblici, il secondo beni privati, le reti primarie beni relazionali primari e il privato

sociale beni relazionali collettivi. L‟autore sostiene che con il termine terzo settore si

focalizza l‟attenzione soprattutto sul discorso politico ed economico, mentre con privato

sociale sul discorso relazionale. Il concetto sociologico di privato sociale risulta, secondo

Donati, più pertinente di quello di “terzo settore” perché quest‟ultimo indica un settore che

viene dopo gli altri due ed è definito in rapporto a quelli, mentre il concetto di privato

sociale rende meglio l‟idea dell‟originalità di questa realtà sociale che si compone di sfere

relazionali che, pur agendo in funzione di uno scopo sociale di solidarietà e, quindi, non per

interessi strumentali, sono tuttavia private nella loro gestione.

Il termine “terzo sistema” che nasce nell‟ambito economico si concentra sul carattere

imprenditoriale delle organizzazioni di terzo settore, ma con la differenza che le stesse

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hanno come finalità principalmente il benessere collettivo e non il profitto economico come

nel caso delle aziende.9

Zamagni e gli studiosi della scuola bolognese di economia politica utilizzano il termine

“economia civile” e propongono una distinzione tra quest‟ultima e quella privata. Mentre

l‟economia privata si basa sull‟interesse individuale, l‟economia civile si basa sui principi di

reciprocità e responsabilità e sempre lei produce beni, che lo Stato e il mercato non possono

produrre in quanto caratteristica fondamentale di questi beni è la relazionalità, prerogativa

degli enti non profit (Zamagni, 2007). Zamagni sostiene che questi beni relazionali10

siano

necessari negli attuali contesti storici.

Il Modello AGIL di Talcott Parsons

Il terzo settore in quanto fenomeno sociale può essere compreso solo mediante un‟analisi

interdisciplinare e multidimensionale: interdisciplinare in quanto ogni settore disciplinare

può individuare specifiche caratteristiche delle organizzazioni non profit; multidimensionale

perché ogni fenomeno sociale assolve per sua natura a più funzioni: politica, economica,

culturale. A riguardo possiamo individuare le funzioni che il terzo settore svolge nelle

società complesse grazie al modello AGIL del sociologo americano Parsons. Secondo

Parsons ogni sistema sociale, per sopravvivere e svilupparsi, deve essere in grado di

10

Beni nei quali è fortemente implicata la relazione sociale tra produttore e consumatore e che possono essere prodotti e fruiti solo assieme, solo attraverso le relazioni, solo tenendo conto delle relazioni e dei legami sociali che vincolano produttore e consumatore. Un esempio di bene relazionale è la fiducia.

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risolvere quattro classi di problemi funzionali: l‟economia (A), la politica (G), l‟integrazione

(I), la cultura (L). Dunque ogni sistema deve garantire:

a) il funzionamento delle strutture economiche che concorrono a produrre le

risorse quali beni materiali, tecnologie, capitali, informazioni, conoscenze,

etc.) (funzione economica adattiva).

b) la distribuzione e l‟impiego delle risorse in vista di fini prioritari che vengono

perseguiti in base ad una corretta gestione politica (raggiungimento dei fini).

c) garantire l‟ordine, la certezza di funzionamento delle strutture sociali, il

rispetto delle aspettative reciproche e l‟utilizzo razionale delle risorse,

attraverso le strutture che presiedono alla formulazione delle norme, che ne

controllano il rispetto da parte dei sottosistemi e dei membri della società, e

che ne sanciscono negativamente la violazione (funzione integrativa);

d) d) garantire i processi di interiorizzazione delle norme e dei valori

socialmente condivisi per conferire una identità compatta al sistema sociale

(mantenimento del modello latente).

A questo quadro teorico vanno aggiunte due dicotomie concettuali, quali quella di

spazio/tempo e quella di interno/esterno. Queste ultime dicotomie ci permettono di

sottolineare, da una parte, che ogni sistema di terzo settore può essere analizzato solo in

modo contestuale, cioè all‟interno di uno spazio specifico e di un tempo determinato;

dall‟altra, che ogni organizzazione di terzo settore ha modalità organizzative interne

specifiche e svolge funzioni esterne in base ai rapporti che decide di avere con gli enti

politici, i cittadini, i media, ecc.

Seguendo il modello analitico proposto dallo studioso Parsons, si può senza dubbio

affermare che il terzo settore assolve ad un ruolo politico, ha una dimensione economica,

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svolge una funzione d‟integrazione ed è orientato nelle azioni da un sistema valoriale. Il

ruolo politico svolto dal terzo settore è principalmente un ruolo di pressione e di

rappresentanza di quelli che sono gli interessi e le richieste della popolazione. Il terzo settore

svolge anche un ruolo di innovatore, non solo avanzando richieste di benessere sociale, ma

proponendo progetti innovativi di prevenzione. Tutte le agenzie di terzo settore hanno poi

un‟organizzazione interna, una gestione economica, si attengono a delle regole fiscali,

ricercano e ricevono dei fondi che gestiscono come delle aziende. Il terzo settore genera

anche integrazione sociale, anche se questa funzione viene poco percepita. Un esempio in tal

senso potrebbe essere la partecipazione delle persone alle associazioni, che ha lo scopo di

attivare processi di coinvolgimento nel gruppo e di condivisione degli interessi. Il discorso si

apre così ai concetti di reciprocità atta a consolidare il legame sociale tra le persone

appartenenti ad una comunità. Infine, la dimensione culturale consente di riflettere circa

l‟orientamento di valore che sottende alle azioni. La partecipazione ad un‟associazione o il

lavoro prestato per un‟impresa sociale è motivato da valori quali: la reciprocità, la

solidarietà, la condivisione. Sicuramente, molte sono state le distorsioni motivazionali

relative alla prestazione di lavoro per le imprese sociali orientate solo alla ricerca di lavoro,

ma ciò non toglie che con gli attuali attestati di formazione professionale (OSA) richiesti a

chi decide di lavorare nell‟ambito sociosanitario, tali problemi si possano, o meglio, si

stanno già risolvendo (Colozzi, Bassi, 2003).

C‟è accordo tra i sociologi circa il ruolo non residuale che il terzo settore svolge nelle

società complesse. Si condivide l‟idea secondo cui il mondo del terzo settore rappresenta il

prodotto di una naturale organizzazione interna della società civile che si è consolidato dopo

la crisi dei sistemi di welfare. Infatti, nel corso del tempo si è assistito ad un processo di

differenziazione interna del settore atta a svolgere meglio la funzione di care in modo

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organizzato e rivolta a canalizzare le risorse di socialità verso obiettivi condivisi di sostegno

alle persone in difficoltà.

CAPITOLO 3

L’assistente sociale tra professione e semi-professione:

Il naturale bisogno della libera professione, richiesta da un welfare sempre più di

mercato.

Oggi, la scarsa e insufficiente risposta del settore pubblico alla domanda costante e rilevante

di adeguati e puntuali servizi nonché di prestazioni sanitarie, sociali e socio-sanitarie,

spinge sempre più il cittadino a scegliersi servizi a pagamento. Questa scelta combacia

perfettamente con la tipologia di welfare che sempre più va ad imporsi, ossia privata, a

sussidiarietà, di mercato. Ne consegue che ogni assistente sociale per potersi definire ed

essere definito appieno un professionista deve essere orientato verso la libera professione.

Quest‟ultima esiste e un tariffario lo conferma, nonostante ciò, oggi la presenza della libera

professione nel servizio sociale è irrilevante. Non basta “volere”! E‟ necessario “imparare”

a fare la libera professione e ciò richiede un addestramento tecnico ma anche una

rivoluzione dell‟identità non facile per l‟assistente sociale italiano, da sempre dipendente. La

stessa sociologia delle professioni ci aiuta in questo passaggio, mediante diverse analisi che

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ci consentono di identificare gli elementi oggi essenziali a definire un professionista.

Occorre “imparare con umiltà” la libera professione, replicare le “buone pratiche”, acquisire

ulteriori competenze metodologiche e imprenditoriali, ma anche “disimparare”

progressivamente la professione dipendente e la cultura che da essa deriva. Si può parlare

quindi di “bisogno della professione” che non è solo operativo, ma anche formativo.

Bisogno formativo vuol dire che l‟Università deve andare oltre i sorpassati contenuti

professionali in cui l‟assistente sociale era soprattutto l‟applicazione di una burocrazia

pubblica, ma deve facilitare buoni percorsi individuali per fornire agli studenti i giusti

modelli di lavoro sociale che consentano loro di essere vincenti ossia competitivi nel

mercato del lavoro.

Le teorie sul lavoro riprese ed approfondite da Ugo Albano

Nello spiegarci cosa significa “Essere assistenti sociali oggi” Ugo Albano ci parla del lavoro

sociale tra modernità e post-modernità. Il lavoro sociale è prima di tutto un lavoro, nato

nell‟epoca della beneficenza e della carità che si è poi sviluppato nel tempo come attività

professionale vera e propria. Per poter cogliere l‟essenza della professionalità sociale e

comprendere poi i bisogni dell‟assistente sociale e la motivazione alla base dell‟esercizio

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dell‟attività professionale è opportuno conoscere l‟excursus delle teorie del lavoro in ambito

sociologico. Questo excursus ci fornisce le chiavi di lettura del lavoro nell‟era post-

moderna, è, infatti, nell‟evoluzione delle teorie sul lavoro che vanno individuati i concetti

base secondo i quali è oggi possibile un‟analisi dei bisogni dei lavoratori, anche e

specialmente di quelli dell‟assistente sociale. Sono proprio i bisogni immateriali degli

assistenti sociali che diventano il motore di un buon lavoro di aiuto, tanto più nell‟auto-

imprenditoria. Il lavoro nella storia dell‟uomo è sempre stato vissuto come “dolore

necessario” per la sopravvivenza: il primo libro della Bibbia, la Genesi, rimarca il significato

del lavoro come inevitabile esperienza di dolore e fatica; l‟essere umano ha quindi da

sempre associato la consapevolezza della “costrizione” al lavoro stesso. Nella maggior parte

delle lingue europee il concetto di lavoro si riferisce originariamente soltanto all‟attività di

un essere umano dipendente, il sottoposto, lo schiavo, il servo. Il verbo italiano “lavorare”

deriva, infatti, da laborare, che in latino significa “vacillare sotto un peso gravoso” e indica

in generale la sofferenza e la fatica dello schiavo. Nell‟area linguistica germanica la parola

Arbeit designa la fatica di un bambino rimasto orfano e diventato perciò “servo della gleba”.

Nella lingua francese e in quella spagnola, rispettivamente, i termini travail e trabajo

derivano dal latino tripalium, una specie di giogo che fu inventato per torturare e punire gli

schiavi e le altre persone non libere. Il lavoro, pertanto, non è per nulla, come dimostra

l‟etimologia stessa della parola, sinonimo di un‟attività autodeterminata, ma rinvia a un

destino umano infelice, che è il frutto di un rapporto di sottomissione. Un filone “ortodosso”

del pensiero teorico sul lavoro definisce quest‟ultimo come un “meccanismo di subalternità”

umana in cui il significato di “dipendenza/non libertà” è passato ai nostri tempi dal datore di

lavoro alla società stessa, la quale, specialmente nell‟epoca postmoderna, imporrebbe la

schiavitù del lavoro a livello di norma sociale, accettata e condivisa (Kurz, Lohoff, Trenkel,

1999). Quest‟ultima analisi, d‟estrema derivazione postmarxista, ci indica l‟immutato

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significato del lavoro ai nostri tempi, nonostante l‟evoluzione dall‟iniziale rapporto di

sfruttamento nel passato all‟odierna accettazione del lavoro-dolore, da cui liberarsi solo

attraverso il “non lavoro”. Secondo gli autori citati, quindi, è solo non lavorando che si

ribalta il concetto del lavoro-sfruttamento, in quanto i meccanismi sociali imporrebbero in

ogni caso il significato di non scelta-costrizione. Il binomio “lavorare- soffrire” è quindi

sempre esistito, ma fin dal positivismo, quindi dal Seicento-Settecento, ha iniziato ad

acquisire un significato diverso da quello solito; prima di questo periodo, infatti, il lavoro

rappresentava non solo “una condanna” per il povero e un „esperienza totalmente assente per

il ricco, abituato, quest‟ultimo, a usufruire dei frutti dei suoi beni come per diritto divino, ma

anche un mezzo per procrastinare i rapporti di potere tra le classi sociali. Il positivismo,

quindi, ha avuto indubbiamente il merito di rivedere in chiave filosofica la società di allora e

i rapporti di forza sottostanti le dinamiche sociali, dunque di conseguenza attorno al tema del

“lavoro” si sono sviluppate negli ultimi due secoli riflessioni, considerazioni e analisi

scientifiche. Dal positivismo in poi il lavoro non è più inteso come condanna-privilegio ma

come realtà “per l‟uomo”, esso non significa più “dolore” ma assume lentamente il

significato di una realtà umana, cioè “dell‟uomo”: viene ad essere teorizzato il rapporto tra

l‟uomo e il lavoro, come costui si rapporta ad esso, come lo concepisce, come lo vive, quale

significato gli attribuisce. I primi studi scientifici sul tema si hanno solo con la Rivoluzione

Industriale e per due motivi: solo in quell‟epoca iniziò ad affermarsi la sociologia(la prima a

tentare un‟analisi del “lavoro”) quale scienza e, a partire da quel periodo, l‟industria richiese

alle scienze sociali un forte apporto teorico con l‟obiettivo di ottimizzare i processi

produttivi industriali. Il mondo industriale già allora rilevò come necessaria un‟azione di

“comprensione” dell‟essere umano, dei suoi tempi, della sua motivazione, al fine di renderlo

funzionale rispetto alle esigenze dell‟impresa; la società di allora era, infatti fortemente

interessata dai primi fenomeni di mobilità sociale orizzontale di massa, il cosiddetto

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urbanesimo, e dalla conseguente acculturazione industriale(rivoluzione dei tempi e dei

significati del lavoro stesso, diversificazione e parcellizzazione dei ruoli professionali), il

che richiedeva uno sforzo di comprensione scientifica e di elaborazione/applicazione di

teorie al mondo della produzione (Berger, Berger, 1986). Prima della rivoluzione industriale

il mondo rurale concepiva il lavoro come necessità di vita, connessa spesso a rapporti di

subordinazione con il latifondista e caratterizzata da un rapporto fatalistico con la natura.

Dopo il suddetto fenomeno il lavoro comincia ad assumere significati e contenuti più

razionali e meno creativi di fronte alla necessità, dell‟allora sistema capitalistico agli albori,

di una produzione in serie per abbassare i costi del prodotto. Il passaggio quindi dal mondo

contadino a quello industriale prevede un “adattamento” da parte del lavoratore all‟impresa e

ciò produce fenomeni nuovi, assenti nel mondo rurale, come ritmi frenetici, stress e lavoro

in serie. Inizialmente con la rivoluzione industriale dell‟Ottocento, il significato dato al

lavoro quale “dolorosa necessità per sopravvivere” resta immutato. Successivamente con i

primi movimenti sindacali il significato del lavoro cambia, passando dall‟iniziale necessità-

fonte di dolore a quello successivo di “esperienza per l‟uomo”. Il lavoratore viene

lentamente visto sempre più come un soggetto potenzialmente attivo, tendenzialmente

coinvolto nel processo produttivo stesso. Questo passaggio di significato è basilare per il

mondo moderno: a un‟interpretazione materialistica di stampo marxista in cui il mondo

produttivo industriale impone i suoi interessi sfruttando gli operai, si associa una dimensione

più centrata sull‟essere umano, sul suo coinvolgimento nel processo lavorativo e quindi a

beneficio di quest‟ultimo. E‟ in quella direzione che troviamo calzante la teorizzazione di

Durkheim secondo cui un‟importante chiave di lettura della società moderna andava

definendosi attorno a un‟interpretazione legata alla “divisione del lavoro sociale”, con

indiretta diversificazione dei ruoli lavorativi nell‟ambito delle organizzazioni del lavoro; la

differenziazione dei mestieri e la moltiplicazione delle attività industriali sono, infatti, gli

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elementi-base attorno ai quali andrà a svilupparsi irreversibilmente il concetto di

specializzazione, aspetto centrale ai nostri tempi da cui partire per sviluppare la stessa libera

professione. Secondo Durkheim il mondo lavorativo fino al 1800, determinato prima di

tutto dalle relazioni umane e dai meccanismi di solidarietà, grazie anche all‟influsso della

filantropia religiosa, lasciava il passo a un concetto di “sistema lavorativo”, di

organizzazione, in cui ognuno aveva un compito diverso dall‟altro, in cui ognuno aveva un

ruolo e quindi a ognuno si attribuiva un valore prettamente legato allo status produttivo, in

cui veniva meno anche l‟aspetto solidale classico della società rurale. Non a caso Durkheim,

nel passaggio dalla società “primitiva” a quella “moderna”, pone in evidenza il passaggio

dalla solidarietà meccanica a quella organica (Aron, 1985). Marx, con l‟analisi dell‟allora

società capitalistica e la formulazione della teoria del materialismo storico, ponendo la

“sovrastruttura” (la politica, la filosofia, il pensiero teorico in generale) in subalternità alla

“struttura” (sistemi e mezzi di produzione), definisce il lavoratore-proletario come mezzo

per accrescere il plusvalore del capitale, ma anche come vittima del sistema stesso. Marx

analizza l‟anatomia del sistema capitalistico fotografando i rapporti di produzione, mettendo

in evidenza il mero “utilizzo” della forza-lavoro, definendo quindi il lavoratore come

“alienato” dai meccanismi di governo del sistema stesso. Più tardi la conseguenza sarà la

presa di coscienza del lavoratore rispetto alle sue condizioni da cui trova origine il pensiero

socialista. Quest‟ultimo, collegandosi a quello positivista, iniziava a considerare già allora il

lavoro non solo come inevitabile destino di sofferenza, ma come realtà umana a cui il

lavoratore stesso poteva attribuire altri significati, non solo quelli materiali. All‟opposto la

teorizzazione di Max Weber, secondo cui il lavoro richiamerebbe a sé anche un concetto di

“vocazione”. Weber analizza in un suo studio il rapporto tra l‟etica protestante nella società

tedesca e il significato dato da quella società al lavoro e dimostra come – almeno in

Germania – la dimensione lavorativa possa riguardare il compimento di un disegno divino in

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cui il lavoratore – sempre secondo l‟ottica protestante – compie attivamente il suo lavoro

dando il meglio di se stesso. Il pensiero di Weber evidenzia quindi come la dimensione

lavorativa possa leggersi anche in termini di scelta di vita e di realizzazione personale. Il

lavoro in quest‟ottica non è solo un mezzo con il quale soddisfare bisogni materiali, ma

rappresenta anche un aspetto personale e profondo dell‟identità dell‟individuo (Berger,

Berger, 1986). Questo aspetto è basilare per ogni riflessione sull‟auto-imprenditoria: la

dipendenza comporta accettare di limitarsi a soddisfare i soli bisogni primari ma quando si

passa invece a scelte di auto-imprenditoria il bisogno-motore è proprio l‟autorealizzazione

secondo un “proprio” progetto professionale, connesso quest‟ultimo al più generale progetto

di vita.

La Sociologia delle professioni

Evidenziata dunque la doppia dimensione del lavoro tra aspetti materiali (necessità di

sostentamento) e aspetti sovra-materiali (realizzazione del sé), la sociologia evidenzia

un‟evoluzione della riflessione elaborata da diverse scuole di pensiero americane, da questa

evoluzione nascerà la cosiddetta “sociologia delle professioni” accanto alla “sociologia

industriale”. Il teorico per eccellenza della sociologia industriale è indiscutibilmente

Frederick Winslow Taylor, il quale, sposando l‟idea della divisione del lavoro

nell‟organizzazione , opera un‟ulteriore ripartizione delle professioni, quelle direttive e

quelle esecutive, sulle ultime delle quali lo stesso Taylor va a classificare e prescrivere ogni

azione lavorativa. Egli è convinto che un‟organizzazione “scientifica” del lavoro e quindi

dei processi produttivi portasse a un “contratto di convivenza” condiviso tra dirigenza e

dipendenti. Taylor sostiene quindi che un‟organizzazione lavorativa impostata

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scientificamente previene i conflitti nelle organizzazioni stesse, prevedendo sia uno

“scarico” degli oneri sulle macchine che un “sistema di incentivi” economici di tipo

meritocratico. Taylor afferma che a un aumento del surplus aziendale deve corrispondere un

benessere per tutti, impresati e collaboratori, e che l‟aumento di benessere riduce il rischio di

lotte e rivendicazioni; egli quindi lega “il senso di appartenenza all‟organizzazione” a un

“contratto” chiaro, fatto di incentivi, di disincentivi, di mission condivisa, di valorizzazione

del personale rispetto alla positiva risposta alle finalità del sistema (De Masi, 1999). Un altro

studioso americano, Drucker, espande il concetto (sia weberiano che taylorista) della

“motivazione” come presupposto per poter utilizzare in modo efficiente il prestatore di

lavoro. Drucker afferma, infatti, che senza motivazione crollano la creatività, la flessibilità,

la capacità di intuire i problemi, la disponibilità a risolverli rapidamente, e che quindi un

sistema lavorativo moderno e dinamico deve necessariamente basarsi su risorse umane

collaboranti al processo produttivo. Sempre secondo Drucker, il “capitale”

dell‟organizzazione lavorativa cambia gradualmente significato, dai beni e dalle macchine al

personale, il quale, se coinvolto nei processi produttivi, diventa esso stesso capitale (ibid.). Il

contemporaneo De Masi richiama l‟importanza del considerare il rapporto tra lavoro ed

essere umano che, dall‟iniziale significato di “dolore-condanna” può assumere ora quello di

“passione-realizzazione”; De Masi stesso parla dell‟odierno paradosso della “degradazione

burocratica”, vale a dire dei fattori ambientali che demotivano il lavoratore nelle

organizzazioni finanche ai nostri giorni. Egli sostiene, infatti, che attualmente le

organizzazioni di media e grande dimensione tendono a preferire operatori diligenti a

operatori creativi, semplicemente perché la mission aziendale generalmente ha l‟obiettivo di

auto-conservare il sistema-azienda e non di andare verso l‟evoluzione produttiva. Sempre

secondo De Masi, i sistemi lavorativi moderni e postmoderni assumono significati di

“autoperpetuazione burocratica”, di conseguenza si preferisce il collaboratore obbediente a

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quello creativo. Dunque tra l‟evoluzione sociologica che auspica il coinvolgimento creativo

dei collaboratori nell‟impresa e la realtà odierna che richiede collaboratori passivi e

obbedienti, De Masi appoggia la prima, valorizzando le “dimensioni nuove” (creatività,

partecipazione, coinvolgimento) quali chiavi vincenti per il futuro del lavoro, dimensioni

che vede nell‟auto-imprenditoria. De Masi esalta la dimensione creativa e partecipativa del

lavoro, necessaria nell‟epoca postindustriale, fino a elaborare un‟ipotesi opposta alla

sociologia del lavoro classica, vale a dire la “fusione” nell‟era postmoderna delle due

dimensioni di lavoro e tempo libero; recuperando un concetto classico (presente nei greci e

nei latini) di “ozio creativo” e riflettendo sulla necessità e opportunità di forme lavorative

“altre”. Egli definisce ormai improcrastinabile per il futuro un lavoro di tipo realizzante,

flessibile, gratificante, finanche “ludico” (De Masi, 1999). Secondo De Masi al tempo libero

va dato un ruolo “compensativo” in quanto il futuro del lavoro significa prima di tutto

un‟attività vissuta con passione e coinvolgimento, non più determinata temporalmente

dall‟orologio marca-tempo o dalle mura aziendali. Egli sottolinea il forte bisogno di porre al

centro dell‟impresa il collaboratore, di perseguire il benessere del lavoratore e di consentire

la sua identificazione con l‟ottica di impresa solo così l‟impresa stessa può vincere le sfide

del mercato. De Masi già da oggi individua l‟auto-imprenditoria o le “forme flessibili” come

il “futuro del lavoro”, il quale richiede però una nuova mentalità e la rottura del concetto di

“lavoro dipendente”. Albano condivide questa tesi affermando che è proprio la dipendenza

la condizione che non favorisce l‟evoluzione realizzativa nel lavoro. La dipendenza si

orienta, infatti, verso uno scambio “al minimo” (al di là dei manager e delle figure apicali)

tra dipendente e sistema, quindi nel gioco vengono appagati spesso i soli bisogni primari e,

di conseguenza, l‟affezione e la dedizione al lavoro diventano davvero poco significativi.

Albano conclude dicendo che occorre oggi, invece, dare risposta ai diversi bisogni del

lavoratore, bisogni non solo materiali, ma di realizzazione professionale, bisogni più che

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particolari, nel caso degli assistenti sociali: creatività, autonomia, flessibilità e trasversalità;

tutti elementi che richiedono un approccio diverso al lavoro da parte di questi professionisti,

ma anche scelte lavorative conseguenti, preferibilmente al di fuori della dipendenza.

Riguardo ai bisogni, Albano si sofferma su quelli professionali dell‟assistente sociale

partendo da un dogma che sostiene vada sfatato: il lavoro sociale non è solo un “dare”, ma

specialmente un “dare e avere”, nel senso che chi presta aiuto, sia egli un professionista o

meno, è sempre in una dinamica di interscambio: egli dà perché riceve o ha già ricevuto. Lo

stesso pensiero di Durkheim illustrato prima, con il passaggio della società dalla solidarietà

meccanica a quella organica come fatto tipico della modernizzazione, dimostra come la

“funzione solidaristica” passi dalla “norma sociale” (imposta) al “lavoro sociale” (delegato),

quindi a un aiuto come funzione sociale legittimata e retribuita, in cui l‟aiuto stesso diventa

“termine di scambio”. Tutto ciò per sottolineare il bisogno di sfatare una certa cultura –

tuttora presente – connessa alla gratuità dell‟aiuto e quindi al “non valore economico” (con

il conseguente riconoscimento) del lavoro sociale. Il lavoro di aiuto è un lavoro come un

altro, per cui esso si traduce in un do ut des: aiuto se ricevo qualcosa in cambio, altrimenti

non aiuto. È vero che la motivazione di chi lavora per aiutare gli altri può basarsi su una

forte idealità, e ciò può accomunarlo pure al volontario, ma il tutto non toglie nulla al fatto

che egli lavora per soddisfare legittimamente i propri bisogni. Ogni lavoratore, anche il

prestatore d‟aiuto, è legato ad un contratto che disciplina il gioco “dare-avere”: tu mi dai tot

soldi, io ti do tot ore di lavoro. Anche se nell‟aiuto si va oltre il quantum economico: oltre a

dare il proprio tempo e riceverne denaro, il lavoratore persegue altri obiettivi – immateriali

in generale – che intervengono nello scambio. Tale cosa può essere inquadrata ragionando

sui bisogni specifici dell‟assistente sociale, i quali rappresentano “aspettative bisognose di

appagamento”. A tal fine è utile ricordare la famosa scala dei bisogni di Maslow, la quale è

suddivisa in cinque differenti livelli, dai più elementari (necessari alla sopravvivenza

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dell‟individuo) ai più complessi (di carattere sociale). L‟individuo si realizza passando per i

vari stadi, che vanno soddisfatti in modo progressivo. I livelli di bisogno concepiti sono, in

ordine crescente, a piramide:

1) Bisogni fisiologici (fame, sete, sonno, ecc.).

2) Bisogni di salvezza, sicurezza fisica, morale, di occupazione, familiare, di

salute, di proprietà.

3) Bisogni di appartenenza (amicizia, affetto familiare, identificazione).

4) Bisogni di stima, di prestigio, di successo, di rispetto reciproco.

5) Bisogni di realizzazione di sé (realizzando la propria identità e le proprie

aspettative e occupando una posizione soddisfacente nel gruppo sociale).

Paragonando i bisogni del professionista ai bisogni di ogni persona, emerge che i bisogni di

questo sono gli stessi di ogni essere umano e, in quanto tale, di ogni lavoratore, seppur con

particolarità tutte proprie. Dunque se ricordiamo che esiste una “scala di priorità” dei

bisogni, capiamo come i bisogni stessi del prestatore di aiuto siano diversi, gerarchici e

complessi. Anche l‟assistente sociale ha bisogni primari: senza la retribuzione egli non

vivrebbe bene e quindi non lavorerebbe neanche, questo va detto in quanto oggi è ancora

troppo bassa la percezione dell‟utilità sociale del lavoro di aiuto e infatti è proprio

nell‟ambito di queste professioni che si registrano i più bassi livelli retributivi. Tutto ciò

rileva sia la bassa rilevanza data al “sociale”, sia il fatto che tale settore del mondo del

lavoro è indotto a richiamare personale a bassa qualificazione, fenomeno che depotenzia la

professione stessa(ISFOL,2004). L‟assistente sociale porta nel lavoro tutta una serie di

bisogni immateriali che vanno dallo sviluppo del concetto di sé al riconoscimento delle

proprie capacità, bisogni ascritti nell‟area generale delle “aspettative” del lavoratore.

Appena terminati gli studi, egli esprime il bisogno di riconoscimento delle proprie capacità

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da parte del sistema-lavoro; il suo percorso formativo lo porta alla strutturazione di un

proprio ruolo, cui egli connette sia capacità (saper fare) che identità (saper essere) in un più

complessivo progetto lavorativo personale. Il problema di oggi è che questo riconoscimento

così importante per il professionista troppo spesso dipende dal sistema-lavoro dopo lo

studio. Oggi il percorso di professionalizzazione dell‟assistente sociale si sviluppa troppo

fortemente in relazione alle aperture che l‟organizzazione può permettergli o negargli. Un

meta-bisogno dell‟assistente sociale è di sicuro il mantenimento e lo sviluppo del concetto di

sé: si tratta di un aspetto tipicamente rogersiano che richiama il naturale bisogno di crescita

personale. Se infatti l‟assistente sociale vive un “blocco evolutivo”, egli agirà in modo

“adattante” rispetto ai compiti, demotivandosi al ruolo.

Tornando ai bisogni dell‟assistente sociale, essi riguardano quindi aspetti sia materiali (di

giusta retribuzione) che immateriali; tali ultimi aspetti pongono in evidenza la necessità di

connettere le aspirazioni del professionista agli obiettivi dell‟organizzazione d‟appartenenza

(se dipendente) o del progetto d‟impresa libero professionale. Si tratta di aspettative che

riguardano sia il modo in cui il sistema si pone verso l‟esterno, sia i comportamenti che il

sistema attua verso il professionista. Nel primo caso, infatti, è opportuno che il collaboratore

si senta fiero di appartenere al sistema assegnato; nel secondo caso è invece opportuno che

sia regolato il “patto”, cui faceva riferimento Taylor, cioè sia condiviso il sistema del “dare-

avere” tra l‟assistente sociale e il sistema. L‟assistente sociale deve in altre parole sentirsi

soddisfatto o “in crescita” nell‟appagamento dei propri bisogni superiori, il tutto per evitare

diseconomie sul lavoro dovute alla propria demotivazione. Nello stesso percorso

professionale l‟assistente sociale può porsi in maniera più o meno adattante/passiva o invece

mostrare performance dinamiche e propulsive: è nel secondo caso che troviamo il germe

dell‟auto-imprenditoria e, più in generale, i requisiti della professione, intesa in senso

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sociologico. Albano menziona un elenco dei bisogni di un assistente sociale professionista,

ossia di colui che si pone in senso attivo nella pratica professionale.

BISOGNI PRIMARI: guadagni certi e congrui.

BISOGNI DI CRESCITA LAVORATIVA: carriera, acquisizione di competenze.

BISOGNI IDEALISTICI: approccio etico al lavoro e mission filantropica del

sistema.

BISOGNI DI SVILUPPO DEL SÈ: professionalizzazione, accumulo di esperienze.

BISOGNI DI RICONOSCIMENTO: valorizzazione dell‟impegno e del percorso

professionale.

BISOGNI DI “TENUTA” AL LAVORO: supervisione, coaching, confronto con

colleghi.

BISOGNI DI CREATIVITA‟: ottica “progettuale” del lavoro.

BISOGNI DI CRESCITA INTELLETTUALE: formazione, aggiornamento,

riflessione teorica.

Si può perciò dire che un lavoro sociale finalizzato ai soli bisogni primari (stipendio contro

tot ore a settimana) senza alcuna proiezione verso le altre aree di crescita è anacronistico, ma

probabilmente rintracciabile in una dipendenza “di adattamento al minimo”. Il lavoro sociale

finalizzato alla crescita personale del professionista è invece rintracciabile in forme

postmoderne del lavoro, a dirla con le parole di De Masi, cioè in organizzazioni dinamiche

(in cui crescita individuale e del sistema sono in sinergia e producono il famoso

empowerment) o in attività auto-imprenditoriali. Si tratta di una differenza che possiamo

tradurre in due modi di lavorare e – in termini prettamente sociologici – in due categorie

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distinte: professione e semi-professione. Riguardo queste due categorie Albano dedica

diverse considerazioni partendo dalla domanda che la stessa sociologia del lavoro si pone

ormai da lungo tempo ossia: Che cos‟è la professione? E più nello specifico…Il lavoro

sociale è una semi-professione o una professione? Ma prima occorre rispondere alla

domanda: Qual è la differenza tra professione e semi-professione? Il primo che ha provato a

rispondervi è stato Flexner (1915), che identifica già allora il lavoro sociale più come una

“professione di fatto” che come una “categoria professionale”; la stessa categoria

“professione”, infatti, secondo Flexner, è non solo un‟attività strutturata di tipo liberale,

interessata cioè solo da azione in libero mercato, ma un‟entità sociale in sé avente precise

caratteristiche: una forte formazione scientifica finalizzata all‟acquisizione di tecniche

specifiche, una chiara tendenza alla specializzazione professionale, un‟offerta di servizi alla

società, un‟istituzione preposta all‟accesso all‟esercizio di attività, il controllo dei membri

sul comportamento dei colleghi. Già negli anni venti negli Stati Uniti (contesto di ricerca di

Flexner) era evidente che il servizio sociale fosse debole nel definirsi come professione. Era

allora fragile la formazione scientifica e quasi assente un pensiero circa la specializzazione:

in quel tempo le assistenti sociali, quasi tutte donne, erano semplici addette delle Charity

Organization Societies, erano queste ultime, e non le prime, a offrire servizi alla società. Le

assistenti sociali erano in altre parole il “mezzo” tramite il quale l‟organizzazione perseguiva

il suo scopo, non erano quindi le attrici dell‟attività professionale, tant‟è che la regia e il

controllo sul loro operato risiedeva nell‟organizzazione e non in istituzioni “terze” addette

all‟abilitazione professionale. Allora la professione restava fortemente connessa all‟attività

liberale (intesa, secondo i canoni odierni, come la libera professione), il cui principale

presupposto era l‟autonomia professionale; essendo quest‟ultima oggettivamente limitata da

un‟attività prevalentemente svolta in organizzazioni, ne conseguiva che tali attività non si

definivano come specifiche di una professione. Il mondo di Flexner era pertanto determinato

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da una rigidità del sistema professionale (le professioni allora erano quelle dei medici, degli

avvocati, dei notai) e dalla tendenza al non riconoscimento di altre attività come professione,

semmai a connettere queste ultime in modo subalterno alle “professioni storiche”. Dunque vi

erano le “professioni consolidate” e le attività definite “altre” e dato che tra esse esisteva in

ogni caso una relazione, la sociologia si impegno a categorizzare anche le seconde e lo fece

con Carr Saunders (1955). Secondo quest‟ultimo le attività lavorative potevano essere

catalogate in quattro “aree di appartenenza” in cui potevano essere immesse tutte le attività

lavorative: l‟area delle professioni tradizionali (medico e avvocato), l‟area delle nuove

professioni (chimico, ingegnere e altri laureati), l‟area delle semi-professioni (l‟infermiere, il

farmacista e l‟assistente sociale) e l‟area delle “quasi-professioni” (manager, direttori e

amministratori). Le “quasi-professioni” restano tali a causa della subalternità delle loro

attività ai condizionamenti delle organizzazioni per le quali lavorano, aspetto che ripropone

l‟oggettiva limitazione delle organizzazioni all‟esercizio professionale: è quindi

tendenzialmente l‟attività di libera professione la modalità lavorativa più chiaramente

professionale. Carr Saunders pone l‟assistente sociale nel gruppo delle semi-professioni per

diversi motivi, prima di tutto per la bassa autonomia professionale. Ciò deriverebbe, secondo

l‟autore, dalla “doppia responsabilità”, una nei confronti dell‟organizzazione da cui dipende

e di cui deve seguire le politiche, l‟altra nei confronti del cliente (che è apparentemente

“suo” ma in effetti anche dell‟organizzazione).

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Il basso riconoscimento dell’autonomia professionale degli assistenti sociali

Un tema ancora attuale è il problema del basso riconoscimento dell‟autonomia professionale

degli assistenti sociali da parte delle organizzazioni da cui dipendono, ostacolo che potrebbe

essere superato solo svincolandosi dai condizionamenti organizzativi, quindi facendo

muovere questi lavoratori verso orizzonti di auto-impresa. In sostanza il lavoro liberale, che

è quello storicamente “professionale”, presuppone l‟assenza di vincoli, che invece ogni

organizzazione pone per sua intrinseca natura. La questione delle semi-professioni, cui

apparterrebbe l‟assistente sociale, è ripresa in ambito sociologico da Etzioni (1967) il quale

sostiene che ogni organizzazione richiede, per funzionare, una rigida regolamentazione dei

ruoli giocati al proprio interno e che è normale che essa/esse limiti/ino l‟autonomia dei

singoli trattandosi di un sistema lavorativo di dipendenza. E questo ragionamento rimanda al

motivo per cui il semiprofessionista è collocato in un‟organizzazione e il professionista in

un‟impresa individuale e per tanto a quest‟ultimo è richiesto spirito d‟iniziativa e autonomia

mentre al primo spirito di adattamento ai controlli altrui: in tutto ciò, afferma Etzioni,

l‟osservazione dimostra che è l‟uomo a essere spinto a lavorare come professionista e la

donna come una semi-professionista. Tendenzialmente, infatti, il mondo del lavoro di cura

(e quindi il servizio sociale) è appannaggio del sesso femminile, e proprio per questo,

secondo Etzioni, semi-professionale. Lo studioso traccia inoltre le caratteristiche tipiche

della semi-professione ossia: una formazione professionale più breve rispetto alle

professioni, una fragilità scientifica e tecnica (orientamento al “fare”), uno status sociale

debole (basso riconoscimento), una bassa autonomia (esecuzione di direttive altrui), una

predominanza femminile (basso potere).

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Etzioni è favorevole al fatto che le semi-professioni accettino il proprio status in quanto

funzionale alle organizzazioni anziché provvedano a svilupparsi verso la professione. Tale

sviluppo però è visto come una possibilità da Toren, sebbene egli attesti l‟appartenenza

dell‟assistente sociale all‟area della semi-professione. Scott (1969), riprendendo il concetto

di “doppia responsabilità” nel lavoro sociale, ovvero del conflitto tra interessi del cliente e

quelli dell‟organizzazione, vede come necessaria la professionalizzazione dell‟assistente

sociale a tutela proprio dell‟utente. Scott apre cioè un‟interessante riflessione, tutt‟ora

valida, su come una professione possa restare tale anche in un‟organizzazione, in cui però i

contenuti caratterizzanti dell‟agire vanno ad assumere connotati di tutela dell‟interesse del

cliente, il tutto secondo un senso di “mediazione” con i fini burocratici del sistema. La stessa

“qualità percepita” dal cliente diventerà nel tempo basilare per lo stesso funzionamento delle

organizzazioni di servizio (Bua, 2001); ecco che allora la “doppia responsabilità”

dell‟assistente sociale citata da Scott dall‟iniziale significato di appartenenza alla semi-

professione (come sosteneva Carr Saunders) diventa un elemento fondante dell‟agire

professionale: l‟agito professionale travalica quindi lo status di appartenenza a va a giocarsi

sugli ambiti operativi, sull‟efficacia e sul riconoscimento del sistema. Un altro contributo ci

arriva da Greenwood (1980), il quale come Flexner codifica gli indicatori della professione e

ritiene necessaria la compresenza, affinché un‟attività lavorativa sia professionale di cinque

elementi: un‟abilità professionale (attività derivante da teorie scientifiche condivise),

un‟autorità professionale rispetto ai profani (competenza), una sanzione della comunità

(utilità sociale e autonomia di lavoro), un codice etico a guida dell‟azione dei professionisti,

un‟appartenenza ad associazioni di controllo (ordine professionale). Secondo Greenwood

senza tutti e cinque attributi una professione viene declassata a semi-professione.

Quest‟ultima ha caratteristiche opposte a quelle precedenti ed esattamente: un debole corpo

di conoscenze (attività meramente pratica), competenze deboli e non specifiche, né

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esclusive, un‟assenza o carenza di riconoscimento giuridico o sociale, con bassa autonomia

di lavoro, un‟assenza o carenza di un codice etico sull‟esercizio professionale, un‟assenza o

non incidenza delle associazioni di controllo (ordini e collegi). Greenwood sostiene che sia

possibile per l‟assistente sociale attestarsi sul livello professionale ma necessita di percorsi

conseguenti.

Differenze di riconoscimento della professione tra il mondo anglosassone e

quello italiano

Tutto quanto detto finora è la riflessione generale in ambito sociologico riferita al mondo

anglosassone, ma in Italia?

In Italia il processo di professionalizzazione degli assistenti sociali ha subito forti ritardi

anche per motivi interni alla categoria in occasione dei movimenti del Sessantotto, in cui il

gruppo stesso ha di fatto rallentato il proprio percorso di legittimazione (Villa, 1987). Negli

anni ottanta del secolo scorso tale percorso è ripreso o meglio si è consolidato tramite il

riconoscimento giuridico della professione, avvenuto con il D.P.R 14/198711

, e l‟istituzione

11

D.P.R 14/87 “Valore abilitante del Diploma di Assistente sociale, in attuazione dell‟art.9 del Decreto del

Presidente della Repubblica, 10 marzo 1982, n. 162”.

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dell‟Ordine professionale, avutasi con la legge 84/199312

. Il servizio sociale italiano ha

quindi in questi anni recuperato, seppur in ritardo rispetto agli altri gruppi, tutte le

credenziali per essere annoverato come “professione”: la stessa formazione universitaria, la

formalizzazione delle proprie competenze, l‟ordine professionale e il codice deontologico

approvato dallo stesso nel 1998, questi ultimi entrambi vincolanti per ogni professionista, lo

dimostrano.

Professione o semi-professione?

Dunque l‟assistente sociale italiano è oggi un professionista? Sul piano formale egli

appartiene già alla professione, manca però ancora un riconoscimento di fatto da parte della

società e del mercato stesso. Il gruppo professionale nel suo insieme non è oggi omogeneo e

presenta, in generale, un‟identità diversificata (Albano, 2006) che produce diversi “modi” di

tradurre la propria professionalità, una diversità che nel complesso spingerebbe il gruppo

tutto verso la semi-professione. Esiste cioè un‟eterogeneità da parte degli assistenti sociali

italiani nell‟operare secondo i cinque attributi di Greenwood di cui sopra, situazione che

richiede però un consenso per fare in modo che sia univoco l‟imprinting professionale, cosa

che va tuttora costruita. Esiste una modalità ancora personale nel sentirsi e agire in maniera

più o meno professionale, e ciò risiede anche e specialmente nei percorsi – formativi e

lavorativi – di ognuno. In realtà sostiene Albano dobbiamo obiettivamente ammettere che

oggi l‟esercizio di attività lavorativa come assistente sociale può assumere i connotati sia

della professione che della semi-professione, il tutto in rapporto ai diversi progetti

professionali dei singoli colleghi.

12

L.84/93 “Ordinamento della professione di Assistente sociale e istituzione dell‟Albo professionale”.

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Professione o semi-professione?

Albano sostiene che l‟esercizio pieno della professione richiede una cultura scientifica,

liberale (di mercato), di sfida e di orientamento al lavoro per obiettivi, cultura che forse può

permettere il passaggio del servizio sociale professionale dalla semplice funzione

prestazionale in un‟organizzazione a un rapporto diretto con il committente-pagante. Egli

aggiunge che può anche esistere un servizio sociale semi-professionale e lo si ritrova molto

più facilmente nei rapporti di dipendenza pubblica. E‟ in questo tipo di dipendenza che

scompare, o è presente molto relativamente, il fronte del committente, che invece è basilare

nel gioco di mercato: ciò induce purtroppo dinamiche di adattamento tipiche della semi-

professione, proprio perché quelle professionali spesso non vengono richieste in

un‟organizzazione. Il fatto che lo stesso welfare si sposti dal pubblico al mercato, lasciando

l‟ambito “storico” in cui gli assistenti sociali italiani da sempre esistono, la dice lunga su

questo trend ormai inarrestabile, a cui occorre adeguarsi.

In merito al Welfare state, di cui abbiamo già visto nel secondo capitolo le origini, lo

sviluppo e anche la crisi, si può aggiungere che in realtà in Italia non è mai nato, più che

altro si è trattato di un “sistema” di sussidiarietà pubblico-privato che è stato caratterizzato

da un passaggio pubblico-privato dei servizi alla persona formalizzato con la “legge di

riforma”, la legge quadro 8 novembre 2000 n.328. Possiamo dire che il welfare stesso in

molte zone è nato ex novo già in mano a settori extra-pubblici e infatti in Italia è presente

un welfare mix cioè non solo un sistema di sussidiarietà orizzontale, ovvero di mutuabilità

tra servizi sociali pubblici e privati, ma di un sistema tendenzialmente privato che eroga

servizi di natura pubblica, in cui al pubblico stesso spetta sempre di più un ruolo di

concessione, accreditamento, regia e controllo su un sistema che ormai è di mercato. In

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sostanza il cittadino può accedere direttamente alla “rete dei servizi”: lo stesso art.17 della

suddetta legge immette la possibilità dei “titolo per l‟acquisto di servizi sociali”, il che avalla

la tendenza a una logica di mercato dei servizi alla persona. Dunque se i servizi e le

prestazioni sociali si acquistano dall‟extra-pubblico le stesse possibilità lavorative per

l‟assistente sociale, che fino a vent‟anni fa erano da ricercare nel settore pubblico, si iniziano

a trovare nel privato. In realtà questi risulta ancora oggi allocato per lo più nell‟area pubblica

nonostante il welfare non sia più pubblico. Nonostante i servizi alla persona si siano per la

maggior parte privatizzati l‟assistente sociale non è ancora presente in questo settore, i primi

non lo richiedono e i secondi neanche vi si propongono. Ad oggi le presenze professionali

nell‟area privata e gli stessi contratti collettivi di lavoro di questo settore evidenziano una

grande assenza dell‟assistente sociale. La professione dell‟assistente sociale, nata nel

pubblico, rischia di morirci, vista la fine “operativa” di quest‟area. L‟assistente sociale, nato

come “semi-professione” e utilizzato negli enti pubblici come mera “funzione burocratica”

dell‟ente, con l‟assenza di competenze operative di quest‟ultimo, rischia di non avere più

senso in queste organizzazioni. Il “nuovo welfare” che Albano definisce di mercato richiede

però professioni “imprenditrici”, capaci, anche se con competenze parziali, di organizzare ed

erogare un bene-servizio (Daccò, 2006). L‟assistente sociale italiano, a fronte sia di un

settore pubblico che non offre più lavoro, sia di un settore privato che invece offre diverse

opportunità, deve sganciarsi dal proprio passato e guardare anche allo sviluppo del terzo

settore, in cui inizia ad aprirsi uno spazio professionale specifico (Ghisalberti, 2001). Nella

dipendenza l‟interlocutore del mercato è l‟organizzazione, che ha propri fini per perseguire i

quali si avvale delle competenze dei propri collaboratori. Se l‟organizzazione è pubblica e,

di conseguenza, ha un mercato monopolistico o ha esternalizzato parte di questo monopolio,

ne consegue che le competenze richieste all‟assistente sociale diventano conseguenti, ovvero

di erogazione o di controllo, ma entrambe giocate verso un fronte-cliente poco influente sul

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riconoscimento diretto del valore professionale. Il welfare mix vede non più solo un fronte

erogatore (il servizio pubblico), ma più fronti, esplicita più modalità erogative, dai servizi

complessi alle semplici consulenze, richiede azioni di sostegno ai sistemi stessi (dalla

formazione alla supervisione del personale), prevede cioè una varietà di possibilità

lavorative all‟assistente sociale prima inimmaginabili. Il passaggio dell‟assistente sociale dal

pubblico al privato è un‟occasione storica per passare da un livello di professione “formale”

a uno di professione “sostanziale”. Tale passaggio porta con sé una maturazione identitaria

dall‟ “essere” al “fare” ossia nel libero mercato l‟assistente sociale è costretto non a “essere”

un professionista, ma ad “agire” come professionista, a dar conto cioè al committente-

pagante di quel che fa. Ecco che allora l‟assistente sociale trova finalmente un appagamento

ai suoi bisogni di professionista, solo se egli trova un senso di crescita nel lavoro che

esercita e un conseguente riconoscimento. Ciò dipende certamente dall‟organizzazione di

lavoro, ma anche da come egli stesso si pone nel proprio percorso di professionalizzazione.

La mia testimonianza di un caso di basso riconoscimento dell’autonomia

professionale di un’assistente sociale

Il caso che esporrò di seguito è l‟esempio di quanto effettivamente sia un tema ancora

attuale, come sostiene Ugo Albano, il problema del basso riconoscimento dell‟autonomia

professionale degli assistenti sociali da parte delle organizzazioni da cui essi dipendono. In

riferimento al tema di cui sopra, voglio riportare un‟esperienza di lavoro da me svolta

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durante la quale una dinamica in particolare ha fatto sorgere in me diversi interrogativi. Tale

esperienza è iniziata nel giugno 2012 e si è conclusa nel settembre dello stesso anno dopo

che mi venne proposto un contratto a progetto, rientrante nell‟ambito del Programma

Bilancio di Sostenibilità 2011-2012, portato avanti dalla Fondazione Vodafone Italia per il

Progetto “World of Difference”. Quest‟ultimo aveva l‟obiettivo di implementare il servizio

di accoglienza e cura per donne con figli che hanno subito violenza o che versano in

situazioni di conflittualità o in difficoltà nel gestire il ruolo genitoriale, elargendo un

contributo economico a determinate strutture di accoglienza. La comunità all‟interno della

quale ho lavorato era gestita dalla Cooperativa sociale “Orizzonte” che perseguiva come

obiettivi: un servizio di accoglienza e cura per madri disagiate con figli minori e un percorso

di aiuto al nucleo familiare al fine di consentire il superamento dello stato di bisogno e

quindi il raggiungimento dell‟autonomia (empowerment). Le figure professionali che

lavoravano nella comunità erano una sociologa nonché direttore della cooperativa, un

assistente sociale responsabile della comunità, una psicologa e tre operatrici le cui mansioni

erano quelle di svolgere tutte le attività relative alla preparazione dei pasti, alle pulizie in

generale tranne quelle delle camere delle ospiti delle quali se ne occupavano personalmente.

I tempi di lavoro di tutti gli operatori, me compresa, erano scanditi da turni e pertanto o

lavoravo di mattina dalle 8.00 alle 14.00 o dalle 14.00 alle 20.00, le operatrici lavoravano

dalle 7 alle 15 o dalle 15 alle 23 o facevano il turno di notte. Il mio lavoro consisteva nel

coadiuvare le attività e i laboratori ludici per i minori ospiti della struttura, i minori erano in

totale tre , due di quattro anni e la terza di otto mesi. Le attività e i laboratori non erano

finalizzati al semplice momento ricreativo ma all‟apprendimento dell‟alfabeto, dei numeri,

dei colori ma soprattutto di regole di comportamento e di convivenza tra i due bambini di

4quattro anni, che inizialmente erano soliti comunicare con un violento linguaggio del

corpo. Era stato stabilito che lo svolgimento delle attività da me organizzate e gestite non

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venisse disturbato o intralciato né dalle madri né dalle operatrici e mentre le prime

rispettarono tale disposizione, acquisendo man mano fiducia nei confronti della mia persona

e del mio lavoro in seguito a piccoli ma importanti risultati raggiunti, le seconde non erano

per niente rispettose. Le operatrici intervenivano con affermazioni per impartire disposizioni

varie creando il caos e spesso mi chiedevano di aiutarle in alcune mansioni di pulizia della

struttura che con educazione ho rifiutato di compiere, ricevendo come reazione dispetti vari

e richiami inutili finalizzati solo ad ottenere una ridicola soddisfazione personale ed un

eventuale mio scoraggiamento nel proseguire con il mio lavoro. Nonostante il clima di

lavoro poco accogliente e gli atteggiamenti negativi portati avanti dalle operatrici della

comunità ho proseguito nello svolgimento del mio lavoro e più andavo avanti e più mi

convincevo che sarei riuscita a raggiungere degli obiettivi importanti o meglio che i minori

con cui interagivo li avrebbero raggiunti. I piccoli ma continui miglioramenti

comportamentali dei due minori di quattro anni , uniti alla fiducia riposta in me dalle loro

madri e il rispetto consequenziale, mi davano forza nell‟andare avanti. Nel momento in cui

le operatrici presero atto dei cambiamenti positivi nei comportamenti dei due minori e della

serenità delle loro madri mi lasciarono fare il lavoro con tranquillità. Con il senno di poi ho

realizzato che quello per loro fu un modo per testarmi, per capire se fossi realmente

all‟altezza del lavoro che stavo facendo. L‟assistente sociale responsabile della struttura

cucinava e si occupava delle mansioni proprie delle operatrici di cui una di esse aveva la

consuetudine di porsi come se fosse lei la responsabile della struttura, dell‟organizzazione e

del coordinamento del personale a tal punto che si verificò un capovolgimento dei ruoli e ciò

era evidente dal fatto che le madri ospiti della struttura si rivolgessero a quest‟ultima come

se fosse lei la responsabile vera e propria in quanto riconoscevano lei come tale e l‟assistente

sociale come semplice operatrice. Spesso qualche madre non svolgeva la mansione che le

era stata assegnata come da calendario e ciò ovviamente scatenava la rabbia delle altre che

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invece avevano assolto puntuali la loro. Nel sedare gli animi era evidente la differente

reazione delle madri al richiamo dell‟assistente sociale, responsabile, e a quello

dell‟operatrice che si poneva come se lo fosse. Nel senso che al richiamo della prima le

madri reagivano con sguardi tra loro e risatine di sottofondo seguiti da un: “Non è colpa mia,

è lei che non fa niente!” o da “Dillo a lei, non a me!” per poi non mettere in pratica il

comportamento di rispetto della regola stabilita dalla responsabile. Quando il richiamo

proveniva dall‟operatrice calava il silenzio assoluto, i volti delle madri sbiancavano e subito

chi aveva mancato nello svolgimento della propria mansione, provvedeva. Questa dinamica

mi colpì più di altre e mi spinse a chiedermi il perché e pensai che in quel contesto

l‟assistente sociale non svolgeva la sua competenza di base, generale, ossia quella di aiutare,

di prendersi in carico le utenti ospiti della struttura ma una competenza per lei nuova in

quanto specifica, quella di responsabile dunque era tenuta a coordinare le attività svolte dai

dipendenti della struttura, i rapporti tra loro e tra loro e la cooperativa stessa, insomma si

trattava di una supervisione organizzativa. A riguardo voglio ricordare che la supervisione è

l‟attività di chi, affiancando il management, controlla o dirige la realizzazione di un lavoro

in un contesto organizzativo, nel campo dell‟aiuto il “sistema impresa” (ad es. cooperativa,

ente pubblico ecc.). “L‟organicità dell‟organizzazione lavorativa non è casuale, ma voluta e

governata dal management ed allo stesso tempo è un indicatore di efficacia dell‟operatività;

l‟armonia tra i prestatori di aiuto di una organizzazione sarà da un lato voluta e favorita dalla

dirigenza, dall‟altro l‟effetto di “benessere percepito” che si noterà da parte di chi riceve

aiuto” (Albano, 2004). E‟ interesse dell‟ente favorire l‟equilibrio del contesto e del modello

organizzativo, provvedere a un adeguato sostegno della motivazione del personale,

pervenire ad adeguati livelli di qualità (vedi qualità totale), prevenire e/o rimuovere le cause

di insorgenza delle cosiddette patologie organizzative , quali burn-out e mobbing dalle quali

derivino stress, malessere psicofisico, demotivazione, turnover e altro, fattori che indicano

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chiaramente un cattivo funzionamento dell‟organizzazione, che aggravi di costi e soprattutto

spreco delle risorse umane. Ed è appunto ciò a cui ho assistito durante questa mia esperienza

di lavoro, ad un cattivo funzionamento di tale struttura in quanto la cooperativa stessa che

gestiva la comunità non aveva riconosciuto il ruolo di supervisore organizzativo svolto

dall‟assistente sociale e non era stata in grado di imporre al personale ma anche alle utenti,

ospiti, determinate regole prima di tutto per il rispetto dei ruoli ricoperti dalle figure

professionali. Indice che la stessa probabilmente non riconosceva tale professionalità!? Se la

cooperativa stessa, gli operatori all‟interno della comunità non avevano riconosciuto il ruolo

dell‟assistente sociale perché avrebbero dovuto riconoscerlo le donne, utenti e ospiti della

struttura!? C‟è da dire che probabilmente la stessa assistente sociale aveva di per sé assunto

un approccio errato verso il suo nuovo ruolo, evidente dalla sua insicurezza nel modo di

gestire certe situazioni e di interagire in generale. Il tutto aveva fatto sì che il suo ruolo non

fosse credibile agli occhi delle utenti e dunque non meritevole di attenzione, considerazione

e rispetto. Spesso l‟assistente sociale aveva atteggiamenti e faceva considerazioni che

lasciavano intendere un profondo senso di demotivazione verso il proprio ruolo di

responsabile. Tale stato d‟animo era ovviamente il risultato del non riconoscimento del ruolo

da lei svolto all‟interno della struttura da parte non solo delle utenti ma anche delle

operatrici e di chi gestiva la cooperativa. Per tanto il fatto che le utenti ospiti della struttura

non rispettassero non solo le regole di convivenza tra loro ma anche i ruoli di chi garantiva

loro dei servizi, bloccava l‟assimilazione da parte delle stesse di tali modelli di

comportamento educativi e sociali e per questo di sicuro queste donne avrebbero trovato

difficoltà nel metterli in pratica fuori dalla struttura una volta raggiunta l‟autonomia. Tutto

ciò avrebbe creato loro non pochi problemi di convivenza civile con il mondo esterno una

volta fuori dalla comunità. Le madri ospiti della struttura erano tre, una italiana, una di

origini africane e un' altra minorenne, mentre le prime due seguivano un corso esterno alla

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struttura per conseguire la terza media, la madre minorenne andava regolarmente a scuola.

Tra le tre madri c‟era quella di origine africane da poco in Italia che non parlava l‟italiano

ma inglese e francese mentre suo figlio di quattro anni parlava molto bene l‟italiano essendo

a contatto continuo con l‟altro bambino italiano. Questa madre rispetto alle altre due si trovò

in forte difficoltà nello studiare alcuni argomenti di varie materie non conoscendo l‟italiano

e un giorno mi venne chiesto di aiutarla e nonostante una mia modesta conoscenza della

lingua inglese, la donna non riusciva a capire e a pronunciare i suoni delle lettere

dell‟alfabeto italiano. Insomma mi ritrovai a “fare” da mediatore linguistico-culturale alla

donna che non riuscì a conseguire la terza media e non avendo raggiunto tale obiettivo,

venne trasferita con suo figlio in un' altra struttura. Dopo quell‟episodio mi chiesi perché la

cooperativa non si fosse attivata per chiamare la figura competente per aiutare quella

donna!? Tenuto conto che il bambino italiano di quattro anni andava regolarmente da uno

psichiatra infantile essendo affetto da schizofrenia e da iperattività e seguiva anche una

terapia mirata per i problemi psicomotori che aveva. Perché garantire un servizio ad un

ospite della struttura e penalizzare un altro? Perché il primo è un minore e affetto da

patologie delicate!? Senza nulla togliere al minore che sappiamo avere una priorità in

quanto tale e ancora di più con problemi di salute ma la donna non aveva uguale diritto di

essere seguita e aiutata? L‟accoglienza e la cura erano terminate col l‟averla ospitata

all‟interno della struttura!? Conseguire la terza media le avrebbe in piccola parte spianato la

strada verso l‟ottenimento di un lavoro o potuto far nascere il desiderio di continuare a

studiare e migliorarsi. Ma dopo quel mancato servizio come avrebbe potuto raggiungere

l‟autonomia? Uno degli obiettivi della Cooperativa stessa! Questo episodio per me fu un

altro indice di cattivo funzionamento di questa comunità e dunque della cooperativa stessa in

quanto era stato un esempio di limite/sbarramento all‟accesso ad un determinato servizio che

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la cooperativa avrebbe dovuto prevedere e a cui avrebbe dovuto provvedere affinché quella

donna, quella madre, potesse usufruire e andare avanti nel suo percorso di empowerment.

Riflessioni sull’esperienza

Dopo tre mesi di lavoro in questa comunità il mio lavoro si è concluso con la

consapevolezza di aver raggiunto dei piccoli ma grandi risultati, evidenti nei comportamenti

dei due bambini con cui ho avuto modo di relazionarmi ogni giorno. Entrambi oltre ad aver

imparato i numeri e l‟alfabeto erano riusciti a non litigare più tra loro, ad ascoltare e ad

ascoltarsi, a chiedere le cose e ad accettare il perché non potessero avere o fare una

determinata cosa con la gioia di poterne avere o fare un'altra. Nonostante sia stata

un‟esperienza molto forte dal punto di vista fisico in quanto per sei ore consecutive in sei

giorni su sette ero totalmente e unicamente responsabile dei due minori e dal punto di vista

psicologico trovandomi a dovermi scontrare con i pregiudizi delle operatrici che lavoravano

nella struttura, darei esattamente quanto ho dato visto l‟esito positivo dei risultati e della

crescita anche umana e personale che ne è derivata.

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Conclusioni

La mia tesi parte da alcune teorie appartenenti alla sociologia delle professioni che danno

diverse definizioni e spiegazioni del concetto di lavoro per poi giungere alla distinzione tra

professione e semi-professione e il collocare il lavoro sociale in una delle due categorie in

virtù anche del bisogno dell‟assistente sociale di definirsi ed essere definito professionista.

L‟elaborato segue poi trattando dell‟attualità del problema del basso riconoscimento

dell‟autonomia professionale di suddetta categoria mediante anche una specifica esperienza

di lavoro da me vissuta. Dalle teorie studiate posso concludere che per tutta una serie di

motivi oggi non si può non considerare e non definire professionista un assistente sociale e

che fondamentale è riconoscergli la giusta autonomia professionale per consentirgli di

svolgere al meglio il proprio lavoro. Inoltre l‟esperienza di lavoro che ho svolto mi ha reso

consapevole del fatto che a volte un ente predisposto ad elargire determinati servizi di natura

assistenziale alla persona in stato di bisogno o un attore del terzo settore, nel mio caso

specifico una Cooperativa sociale, non è in grado di garantire con efficienza ed efficacia la

qualità di uno o più servizi e/o l‟equità nell‟accesso ad esso/i agli utenti coinvolti. Pertanto

se un ente di questo tipo risulta mancante o carente nel portare avanti il proprio compito c‟è

il forte rischio che questo mal funzionamento comprometta seriamente il raggiungimento di

un percorso di autonomia o il soddisfacimento di un determinato bisogno da parte di uno o

più soggetti. Di conseguenza ciò potrebbe comportare che questi soggetti non riescano a

trovare la giusta collocazione personale e professionale all‟interno della società e per questo

decidano di cercare alternative non conformi alla legge o comunque esserne attirati

inconsapevolmente. Scegliere volutamente oppure no tali alternative significa assumere uno

stile di vita nocivo per se stessi ma anche per gli altri con i quali ogni giorno ciascuna

persona è tenuta a relazionarsi. Aggiungo inoltre che se da un lato l‟assistente sociale

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responsabile della comunità in cui ho lavorato, non è stata in grado di adempiere ai propri

compiti in modo efficace ed efficiente per inesperienza e demotivazione, dall‟altro hanno

inciso molto anche la mancanza di una retribuzione mensile bensì a scadenza trimestrale e il

fatto che la cooperativa stessa non abbia saputo riconoscere e potenziare il ruolo attribuito a

tale figura professionale con la conseguenza che un‟operatrice svolgesse compiti non suoi

ma dell‟assistente sociale, responsabile. Dunque sulla base di quanto affermato possiamo

concludere che l‟assistente sociale va collocato nella categoria di semiprofessionista come

aveva sostenuto Carr Saunders ma che sostiene lo stesso Etzioni!? In realtà nonostante le

diverse teorie sociologiche a favore di tale tesi la risposta non è poi così scontata in quanto

abbiamo visto che ci sono diversi motivi che ci permettono di affermare che il servizio

sociale italiano sia una professione.

E infatti sul piano formale l‟assistente sociale italiano appartiene già alla professione ma gli

manca ancora un riconoscimento di fatto da parte della società e del mercato infatti ancora

oggi è troppo bassa la percezione dell‟utilità sociale del lavoro di aiuto in quanto bassa è la

rilevanza data al “sociale” a cui si ricollega il fatto che questo settore del mondo del lavoro

spesso richiami personale a bassa qualificazione.

Ringraziamenti

I miei ringraziamenti vanno principalmente ai miei nonni materni che purtroppo non sono

presenti fisicamente oggi ma sono al mio fianco, sempre. E‟ solo grazie a loro se ho potuto

intraprendere questo percorso ed è a loro che dedico in primis questo risultato e questo

giorno. Seguo ringraziando i miei genitori, i miei fratelli e tutta la mia famiglia materna, la

migliore che potessi avere e desiderare! Ringrazio il mio relatore, il Prof. Gaetano Balestra

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per il supporto e la guida che mi ha dato e i miei compagni di viaggio universitari, Lina per

un breve tratto ma importante e i miei amici e colleghi, Annalisa e Salvatore. Annalisa per la

sua presenza, la sua disponibilità, per la nostra affinità nel concepire e nel sentire la

professione di assistente sociale e per la sua bontà d‟animo! Salvatore, che negli ultimi mesi

ha condiviso con me gli stessi stati d‟animo e con il quale ci siamo confrontati e

psicologicamente supportati fino a questo grande giorno! Ringrazio le mie amiche storiche

Francesca e Giovanna che da anni mi accompagnano nel percorso della vita e mi stanno

vicino, condividendo tutto. Sarete sempre un grande punto di riferimento! Ringrazio tutte le

persone che nel corso delle mie esperienze di volontariato e di lavoro hanno contribuito alla

conferma della mia scelta di studi che reputo una scelta di vita. Infine ringrazio me stessa

perché nonostante le tante difficoltà non volute e il momento di crisi che mi ha tenuta ferma

per un bel po‟, ho ripreso con convinzione e con forza e sono andata avanti fino ad arrivare

al raggiungimento dell‟obiettivo che nel profondo non ho mai perso di vista.

Grazie!!!

Tratto da “Ladri di bimbi e ladri di cose” di Giovanni Pappalardo

…. E così, eccomi qui, a godermi il tranquillo della notte. Io, che sarei un ladro di bambini.

E‟ buffo, io non ho affatto esperienza di minori sotto tutela giudiziaria. Anche per questo

motivo, alle selezioni non mi prendono mai. Poi quando mi dicono che gli assistenti sociali

si portano via i bambini, mi viene da ridere. Io da bambino sono stato “rubato”. Ma era quasi

40 anni fa, oggi penso che sarei rimasto a casa, i miei non mi spegnevano mica le sigarette

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addosso. Per fortuna le cose sono cambiate, eppure molti non capiscono che gli

allontanamenti si fanno solo in casi estremi. Si, va bè, provaci a parlare di “interesse del

minore” a chi si beve i pregiudizi come tè freddo….

Vorrei trovare presto il lavoro per cui ho studiato. Mi piacerebbe molto nel settore dei

dannati della terra. Prima che diventino ladri, prima che sia troppo tardi. Non è che io abbia

paura di passare per “ladro di bambini”. Ma tra chi ruba c‟è chi ha dei figli: meglio

prevenire, no?

Enrico Gregori, L’assistente sociale

“Vabbè, noi ci rinunciamo. Non riusciamo proprio a farti parlare. Forse potrebbe avere più

fortuna di noi l‟assistente sociale. Ci parli?”. Remo aveva tutto il vantaggio nel perdere

tempo. Per cui, anche pensando all‟incontro con una donna gentile ed educata, acconsentì di

buon grado…. Ma quando si aprì la porta ci mise un attimo a capire la situazione.

L‟assistente sociale altri non era che un vice-ispettore, alto circa un metro e novantacinque e

largo come un armadio quattro stagioni.

Ho voluto riportare due brevi racconti, uno di Giovanni Pappalardo e l‟altro di Enrico

Gregori per sfatare in qualche modo due grossi e ancor attuali luoghi comuni che

attribuiscono alla professione di Assistente sociale una connotazione negativa e limitata. Il

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primo racconto è un modo per dire e per ricordare che l‟Assistente sociale non è un ladro di

bambini ma un professionista dell‟aiuto che opera con una serie di strumenti e in

collaborazione con altri professionisti affinchè venga sempre tutelato l‟interesse di un

soggetto debole in particolar modo se si tratta di un bambino. Il secondo racconto invece

vuole ricordare che ormai l‟assistenza sociale non è più d‟impronta solo femminile ma si

arricchisce, e aggiungo, si completa del punto di vista e del bagaglio anche emotivo dei

professionisti al maschile.

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saggio1 Terzo settore.doc-Docenti.unina.it