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2 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova Dipartimento di Storia delle Arti Visive e della Musica SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN STORIA E CRITICA DEI BENI ARTISTICI, MUSICALI E DELLO SPETTACOLO INDIRIZZO: STORIA DEL TEATRO E DELLO SPETTACOLO CICLO XXI L’OFFICINA GOZZIANA: DAL TESTO ALLA SCENA. NUOVI STUDI SULLE FIABE Direttore della Scuola: Ch.mo Prof. Alessandro Ballarin Supervisore: Ch.ma Prof.ssa Elena Randi Dottoranda: Giulietta Bazoli

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova

Dipartimento di Storia delle Arti Visive e della Musica

SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN

STORIA E CRITICA DEI BENI ARTISTICI, MUSICALI E DELLO SPETTACOLO

INDIRIZZO: STORIA DEL TEATRO E DELLO SPETTACOLO

CICLO XXI

L’OFFICINA GOZZIANA: DAL TESTO ALLA SCENA.

NUOVI STUDI SULLE FIABE

Direttore della Scuola: Ch.mo Prof. Alessandro Ballarin

Supervisore: Ch.ma Prof.ssa Elena Randi

Dottoranda: Giulietta Bazoli

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Nel Corso dell’intero triennio di elaborazione della tesi siamo state seguire costantemente dal Professor Piermario Vescovo, che ci ha instancabilmente indirizzate nelle ricerche, ci ha fornito consigli e proposto correzioni. Lo ringraziamo davvero di cuore.

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INDICE Introduzione p. 5 Nota preliminare sul Fondo Gozzi p. 10 Abbreviazioni p. 11 SEZIONE I: I MANOSCRITTI 1. Il Fondo Gozzi e i manoscritti delle Fiabe p. 13 - I manoscritti della Donna serpente p. 17 - I manoscritti del Mostro Turchino p. 37 -I manoscritti di Zeim re de’ geni p. 53 - I manoscritti di Turandot, di Zobeide e dei Pitocchi fortunati p. 57 2. Per una riflessione terminologica: “scenario”, “soggetto” e “ossatura” p. 69 3. Il problema della datazione delle Fiabe p. 86 4. Lo studio dell’onomastica p. 96 5. Le fonti p. 102 - Modelli nella Donna serpente p. 113 -La novellistica e il Mostro turchino p. 120 -Il caso di Zeim re de’ geni p. 127 SEZIONE II: PERCORSI INTERPRETATIVI 1. La ricezione gozziana nel Romanticismo p. 133 2. Istanze romantiche negli scritti di Gozzi p. 142 3. La quête nella Donna serpente p. 155 - La vicenda: un percorso di formazione p. 155 - Per una geografia simbolica p. 176 - L’ “altro” mondo: l’ombra di Melusina e di Morgana e altri echi fiabeschi p. 181 4. Il tema del Doppio nel Mostro turchino p. 191 - I personaggi e la struttura p. 191 - Il genio Zelou p. 195 - La lotta contro l’idra p. 199 - Un sottotesto spagnolo: La vida es sueño p. 202 5. L’elemento soprannaturale in Zeim re de’ geni p. 210 - L’intervento “divino” p. 210 - Il tema della magia p. 220 SEZIONE III: LA SCENA 1. La compagnia Sacchi p. 225 - L’organico negli anni delle Fiabe (1761-1765) p. 225 - La troupe dopo il 1765 p. 253 2. Tra attorialità e autorialità: il caso della compagnia Sacchi p. 262 3. Il rapporto di Gozzi con gli attori p. 278 4. Le indicazioni sceniche nelle ossature delle “vecchie” e “nuove” carte p. 284 5. Le rappresentazioni gozziane p. 303 - Le tournée della compagnia Sacchi p. 303 Il repertorio gozziano in altre compagnie p. 310 Appendici p. 313 Bibliografia p. 364

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Introduzione Il presente lavoro verte principalmente sull’analisi di tre delle dieci fiabe teatrali di Carlo

Gozzi scritte e rappresentate a Venezia tra il 1761 e il 1765: La donna serpente, Il mostro

turchino e Zeim re de’ geni. La selezione è stata operata in base ad alcuni criteri. Anzitutto si

è scelto di esaminare solo le fiabe che nel Fondo Gozzi, recentemente scoperto da Fabio

Sodini e da tre anni circa reso disponibile presso la Biblioteca Marciana di Venezia, offrissero

documenti manoscritti (copioni, abbozzi, ossature, ecc.) particolarmente importanti. Tale è

sembrato in primo luogo l’unico copione emerso, quello della Donna serpente, sulla base del

quale si è potuto portare avanti lo studio iniziato negli anni Ottanta da Paolo Bosisio sul

copione del Re cervo, il solo allora disponibile. Da subito sono parsi di estremo interesse i

manoscritti preparatori del Mostro turchino e di Zeim re de’ geni, consistenti in abbozzi,

ossature e postille, tipologie, queste, mai rintracciate prima della fruibilità del Fondo Gozzi, e

che quindi si prestano ad essere utili punti di riferimento per ricostruire non solo

l’elaborazione del testo, ma anche quella scenica. Tali autografi contengono infatti indicazioni

di Gozzi agli attori e appunti per risolvere, a teatro, alcuni snodi cruciali della vicenda. La loro

analisi si è rivelata fondamentale anche per completare lo studio del copione della Donna

serpente, poiché documentano il lavoro svolto dall’autore sul testo prima di approdare alla

versione per lo spettacolo, e quindi permettono di ricostruire il modus operandi dall’ideazione

alla stesura di un’opera.

Si è privilegiato inoltre lo studio di testi fiabeschi poco noti: l’unica edizione esistente in

commercio del Mostro turchino e di Zeim re de’ geni è quella curata da Giuseppe Petronio

negli anni Sessanta, priva, però, di un commento dettagliato ed esaustivo, nonché delle

Prefazioni, che invece costituiscono un prezioso documento per comprendere non solo le

circostanze storiche e culturali che hanno portato alla genesi delle due fiabe, ma anche per

intenderne i sensi sottesi.

Le tre pièces individuate condividono la certezza di essere state rappresentate al di fuori delle

abituali “piazze” toccate dalla compagnia di Antonio Sacchi, ossia della troupe per la quale

Gozzi lavora per molti anni: La donna serpente e Zeim re de’ geni sono date a Roma (al

Teatro Capranica), mentre Il Mostro turchino a Napoli, nella versione rimaneggiata dal

celebre Cerlone mentre Gozzi è ancora in vita.

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La tesi è composta da tre sezioni: una “filologica”, una di natura esegetica, fondata sulla

convinzione che le fiabe possano essere interpretate secondo coordinate piuttosto lontane

dalla tradizione italiana critica otto-novecentesca, e una terza di carattere scenico.

Nella prima parte sono analizzate le differenti stesure delle tre fiabe attorno a cui ruota la tesi;

più precisamente, abbiamo esaminato i manoscritti preparatori anteriori alla princeps

Colombani, datata 1772 e curata dall’autore, utilizzando sia i manoscritti autografi già

acquistati dalla Marciana negli anni Trenta sia quelli del Fondo Gozzi. Essi consistono in una

serie di fogli contenenti le sintesi delle diverse fiabe, le spiegazioni degli antefatti offerte in

modo schematico con l’elenco dei personaggi e dei luoghi della storia, le complete stesure in

prosa delle vicende, e, in qualche caso, anche le prime prove per la versificazione del testo.

Lo studio di questi materiali preparatori ha permesso di ricostruire con una certa precisione il

modus operandi del veneziano.

Gli “appunti”, oggetto di una disamina minuziosa, si sono rivelati fondamentali per vari

motivi; anzitutto perché hanno dimostrato che la primigenia stesura gozziana del testo è

realizzata già pensando alla rappresentazione; in secondo luogo, perché hanno permesso di

ricostruire il processo, a tappe, del progressivo allontanamento della fiaba dal modello

ispiratore. In questo senso, un’importante conclusione raggiunta è stata l’individuazione di

due momenti ben distinti dell’ispirazione gozziana, ispirazione che, in una prima fase, si

traduce sulla carta in forma di appunti presi a partire dalla lettura, compiuta da Gozzi, di una

data opera. Lo dimostrano, per esempio, i puntuali rimandi al numero di pagina dell’edizione

del Cunto de di cunti letta da Gozzi e utilizzata come fonte ispiratrice della inedita potenziale

“ultima puntata” della trilogia, costituita dall’Amore delle tre melarance e dall’Augellino

belverde. Nel creare la maggior parte delle Fiabe, l’autore inizia dalla trascrizione fedele degli

eventi cardine desunti dal testo-matrice e scelti per essere drammatizzati, per poi innestare

nella Fiaba due tradizioni tipicamente italiane: le maschere della commedia all’improvviso e i

poemi eroicomici quattro-cinquecenteschi, che assolvono al ruolo di “cerniera”, spesso in

maniera satirica, tra la realtà e la rappresentazione e irrobustiscono la spettacolarità delle

Fiabe.

I manoscritti documentano anche un incessante lavoro di revisione e di riscrittura delle

composizioni fiabesche, che quindi costituiscono un prodotto assai ponderato, e non il frutto

estemporaneo ed improvviso della creatività gozziana. Ciò è dimostrato, per esempio, dallo

studio dell’onomastica, che viene spesso modificata nel corso dell’elaborazione testuale,

come si verifica confrontando i materiali relativi ad un stessa fiaba. Non di rado Gozzi “cede”

il nome presente in una pièce non ancora edita ad un’altra pièce e, di conseguenza, modifica il

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nome del personaggio della prima. Ciò prova, fra l’altro, come spesso l’elaborazione di una

fiaba si sovrapponga nel tempo a quella di un’altra: nel periodo intercorso tra l’abbozzo

iniziale e la redazione finale di una fiaba egli può portarne a termine una seconda, scegliendo

definitivamente i nomi dei personaggi.

In base all’analisi delle modifiche onomastiche si è potuta stabilire, sia pure con qualche

margine di incertezza, una nuova datazione delle Fiabe relativa alla scrittura dell’ossatura,

ossia della primitiva bozza della pièce che il drammaturgo stendeva a proprio uso e sulla base

della quale tracciava poi il testo completo. La cronologia stabilita sposta la composizione dei

Pitocchi fortunati, fiaba scevra di elementi meravigliosi andata in scena nel 1764, in

prossimità di quella della Turandot, altra composizione fiabesca priva della dimensione

magica, rappresentata due anni prima. In quest’ottica il 1762 viene ad acquisire

un’importanza eccezionale perché diventa l’anno in cui Gozzi, dopo il successo ottenuto con

le prime quattro fiabe, medita sul genere fiabesco e sulla possibilità di sperimentare altri

generi, privi delle mirabilia – come Turandot e I pitocchi fortunati – e più simili ai deprecati

drammi flebili d’importazione francese, ai quali si avvicinano la Doride e il Cavaliere amico

(1762). Proprio di quest’ultima pièce è stata rinvenuta nel Fondo l’ossatura, che prevedeva

addirittura un finale tragico dal sapore dongiovannesco, e che quindi lascia supporre la

volontà gozziana, poi abbandonata, di cimentarsi nel genere tragico.

Nei manoscritti delle Fiabe – più precisamente in quelli che abbiamo definito “ossature” -

accanto ai nomi di ciascun personaggio, lo scrittore è solito apporre aggettivi che ne

connotano il carattere o sintetici resoconti delle sue azioni nel corso della pièce; tali

indicazioni si dimostrano funzionali sia per l’autore, che le adotta come linee guida da seguire

nella composizione della vicenda, sia per gli attori, che ne fanno delle imprescindibili qualità

sulle quali costruire il personaggio da loro interpretato. Le prescrizioni segnalate costituiscono

anche una spia della natura del testo gozziano nella forma di ossatura: come si è anticipato,

esso è essenzialmente una prima bozza scritta dal drammaturgo a proprio uso, bozza sulla

base della quale scriverà il testo definitivo, che completerà solo dopo averlo verificato sul

palcoscenico con gli attori. Nelle ossature sono ancora irrisolte diverse soluzioni sceniche e

non sono ancora scritte per intero le battute di alcuni personaggi.

Oltre alla definizione dell’iter compositivo dell’autore, la complessa stratificazione dei

materiali preparatori delle Fiabe ha reso necessaria una riflessione teorica su alcuni vocaboli

tecnici - “ossatura”, “soggetto”, “canovaccio”, “scenario” - spesso dagli studiosi usati,

erroneamente, in modo intercambiabile.

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La seconda parte della tesi, di carattere esegetico, è nata a partire dal reperimento, all’interno

delle fiabe esaminate, di suggestioni squisitamente romantiche: si sono riscontrati i temi del

doppio, della quête, della “magia” invisibile ai sensi dell’uomo, dell’amore inteso come

mezzo per accedere ad una dimensione superiore; si sono evidenziate le categorie del

mescolamento di tragico e comico e dell’ironia; si sono messe in evidenza le frequenti

allusioni ai limiti del pensiero filosofico di stampo illuminista, soprattutto in relazione alla

possibilità di conoscere la verità solo attraverso i sensi. Si è tentato dunque di proporre

un’interpretazione di tipo simbolico della Donna Serpente, del Mostro turchino e di Zeim re

de’ geni, “autorizzata”, del resto, da quella compiuta dai romantici francesi e tedeschi, che,

non a caso, citano Gozzi accanto a Cervantes, a Calderon de la Barca e a Shakespeare.

Nella terza parte della tesi si è tentato di ricostruire un quadro dell’organico della compagnia

di Antonio Sacchi durante gli anni del sodalizio con Gozzi, di indicare quanto più

verosimilmente possibile la distribuzione delle parti nelle Fiabe e di abbozzare un calendario

(luoghi e periodi) delle messinscene fiabesche fino alla morte del drammaturgo, avvenuta nel

1806.

A tal fine, sono stati consultati tutti i periodici, le gazzette e gli Avvisi dell’epoca, che hanno

fornito molte notizie sugli attori; ci si è naturalmente serviti del fondamentale pilastro

costituito dalle Notizie istoriche de’ comici italiani di Francesco Bartoli, anch’egli attore nella

troupe Sacchi fra il 1771 e il 1777; informazioni importanti sono state tratte infine da una

pièce scoperta nel Fondo Gozzi e da brani di carattere metateatrale, utili a penetrare nelle

complicate relazioni intrattenute dai comici e a delinearne meglio le singole caratteristiche e

gli ingressi e le uscite dalla compagnia nell’arco dei vent’anni in cui Gozzi ne è il primo poeta

(1761 - 1782).

La consultazione di numerosi documenti ha condotto alla compilazione di un calendario con

gli spostamenti della compagnia di Sacchi, accompagnati da qualche notizia relativa agli

spettacoli rappresentati. Particolarmente rilevante, in questo senso, è l’apprezzamento del

1776 da parte di uno dei massimi rappresentati della cultura illuministica italiana milanese,

Alessandro Verri, spettatore delle rappresentazioni delle Fiabe per più sere consecutive.

A partire dalle carte manoscritte del Fondo (ma non solo), è stata compiuta anche una

riflessione sul tipo di rapporto di Gozzi con gli attori, al di là delle dichiarazioni presenti

nell’autobiografia, spesso dimostratasi poco affidabile. Ne è emerso il ritratto di un esperto e

sapiente uomo di teatro che legge a tavolino l’intero dramma ai comici, assiste alle prove ed

esprime giudizi sulle soluzioni sceniche, anche contraddicendo Sacchi, nel caso ritenga che le

scelte del capocomico non siano efficaci o possano annoiare il pubblico. Questo ruolo attivo

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rivestito dall’autore, forse detentore di un peso rilevante anche nella distribuzione delle parti,

dimostra il desiderio di esercitare la volontà autoriale in termini moderni, sia sul “testo

letterario” che sul “testo spettacolare”.

Difficile è la ricostruzione delle messinscene delle Fiabe, dal momento che non si è ancora

reperita alcuna testimonianza italiana o straniera che descriva nel dettaglio gli spettacoli della

compagnia Sacchi. Tuttavia un passo importante è stato compiuto nell’individuazione di uno

scenografo, Domenico Fossati, almeno per quanto riguarda il suo ruolo nella prima fiaba,

L’amore delle tre melarance. L’artista, effettivamente attivo a Venezia negli anni Sessanta del

Settecento, proviene da una nota famiglia di architetti svizzeri, i Fossati appunto, di cui a

Bellinzona abbiamo spogliato l’archivio familiare. L’indagine non ha riportato la scoperta di

disegni o bozzetti di scena, che risultano sparsi nelle collezioni private australiane ed

americane, però si è individuata una lettera autografa del nipote che, presentando la figura

dello zio, ricorda il suo impiego nella prima fiaba gozziana, una probante testimonianza della

collaborazione fino ad ora testimoniata solo da una nota delle famose Iscrizioni veneziane del

Cicogna.

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Nota preliminare sul Fondo Gozzi

Tutti i testi delle Fiabe sono tramandati da testimoni manoscritti autografi, approntati per la

princeps, acquistati negli anni Trenta dalla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia; in vita

dell’autore sono inoltre state pubblicate due edizioni edite a Venezia contenenti le dieci opere

fiabesche, una presso l’editore Colombani tra il 1772 e il 1774 e la seconda presso l’editore

Zanardi tra il 1801 e il 1804.

La recente acquisizione del Fondo Gozzi - il cospicuo archivio manoscritto e in larga parte

autografo del conte Carlo Gozzi scoperto nel 2004 da Fabio Soldini1 e ora conservato presso

la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia - ha permesso di confrontarsi sia con stesure

complete in versi delle fiabe, sia con “materiali preparatori”, ovvero stesure parziali e/o intere

in prosa, abbozzi di scene e appunti.

Il Fondo presenta una serie di faldoni. Ogni fiaba ne ha uno proprio, nel quale l’ordinatore del

ha inserito tutte le carte ad essa relative. Nel faldone che reca la segnatura 10.14 “Frammenti

teatro”, tuttavia, abbiamo rinvenuto qualche carta appartenente alle Fiabe. In particolare, il

foglio 35r contiene la prima scena del quinto atto del Mostro turchino, mentre nelle carte 36r-

37v troviamo due scene in prosa del terzo atto della Donna serpente. Ciò lascia supporre che

possano esservi altre carte relative alla Fiabe sparse nel Fondo e mischiate ad altre.

La numerazione progressiva delle pagine e i titoli sulle camicie sono stati compilati

dall’ordinatore, Gasparo Gozzi (1856-1935). In concomitanza della carte sciolte, essa spesso

non corrisponde né alla successione logica delle vicende fiabesche né a quella cronologica

con cui sono state scritte; tuttavia si farà sempre riferimento a tale numerazione, anche

qualora l’errore sia evidente, per poter identificare immediatamente nel Fondo il foglio citato.

1 Per la storia e il regesto del Fondo Gozzi si veda Carlo Gozzi, 1720-1806, Stravaganze sceniche, letterarie

battaglie, a cura di Fabio Soldini, catalogo della mostra (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, 20 luglio – 10 settembre 2006), Venezia, Marsilio, 2006.

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Abbreviazioni

DoSefε: stesura in versi della Donna serpente contenuta nel Fondo Gozzi Mtfβ: brogliaccio del Mostro turchino contenuto nel Fondo Gozzi

Mtfγ : prima ossatura del Mostro turchino contenuta nel Fondo Gozzi

Mtfδ : seconda ossatura del Mostro turchino contenuta nel Fondo Gozzi

Mtfε : stesura in versi del Mostro turchino contenuta nel Fondo Gozzi

Mtm : manoscritto marciano del Mostro turchino preparatorio per l’edizione Colombani Mts : edizione Colombani del Mostro turchino PiFofγ : prima ossatura dei Pitocchi fortunati contenuta nel Fondo Gozzi

PiFofδ : seconda ossatura dei Pitocchi fortunati contenuta nel Fondo Gozzi Tufγ : prima ossatura della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi

Tufδ : seconda ossatura della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi

Tufε1 : prima stesura in versi della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi

Tufε2 : seconda stesura in versi della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi Zefγ : prima ossatura di Zeim re de’ geni contenuta nel Fondo Gozzi

Zefδ :seconda ossatura di Zeim re de’ geni contenuta nel Fondo Gozzi Zefε : stesura in versi di Zeim re de’ geni contenuta nel Fondo Gozzi Zem : manoscritto marciano di Zeim re de’ geni preparatorio per l’edizione Colombani Zofγ : prima ossatura della Zobeide contenuta nel Fondo Gozzi

Zofδ : seconda ossatura della Zobeide contenuta nel Fondo Gozzi

Zofε : stesura in versi della Zobeide contenuta nel Fondo Gozzi

Le abbreviazioni segnalate si basano sulla seguente classificazione dei materiali presi in esame: f : Fondo Gozzi M : manoscritti marciani preparatori per l’edizione Colombani S : edizione a stampa Più in particolare, per distinguere in modo uniforme all’interno del Fondo Gozzi i diversi momenti della scrittura fiabesca si è scelto di adottare le seguenti sigle: fα : appunto, idea

fβ : brogliaccio

fγ : prima ossatura:

fδ : seconda ossatura

fε : stesura in versi

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Sezione I

I MANOSCRITTI

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Il Fondo Gozzi e i manoscritti delle Fiabe

Il Fondo Gozzi contiene molto materiale relativo alle fiabe teatrali dello scrittore2. In

particolare, esso ha rivelato la presenza di appunti, abbozzi, ossature e prime versificazioni di

otto delle dieci Fiabe e di altre narrazioni fiabesche mai date alle stampe. Dalla disamina e dal

raffronto di questo materiale eterogeneo, si sono riscontrate delle affinità che hanno permesso

di delineare il modus operandi dell’autore, stabilendo delle “fasi” più o meno fisse di lavoro

attraverso cui egli giungeva al prodotto finale, fasi peraltro esplicitate nella Più lunga lettera

di risposta che sia mai stata scritta, su cui torneremo in modo approfondito nel prossimo

capitolo.

La documentazione relativa alle Fiabe ci consente di individuare cinque fasi di elaborazione

del testo.

Fase α: il momento del concepimento dell’idea di una fiaba si traduce in un breve “schizzo”

dell’asse portante della vicenda e si presenta al lettore come appunto, spesso preso a partire

dalle letture che Gozzi stava facendo e di cui menziona il titolo.

Fase β: dopo lo spunto da cui scaturisce l’idea di comporre la fiaba, Gozzi ne stende l’intero

brogliaccio. Questa fase viene trasposta sulla carta scrivendo, in forma narrativa, la trama

della vicenda.

Fase γ: a questo momento corrisponde l’ossatura, consistente nella stesura in prosa della

fabula, già divisa in atti e in scene, ma ancora priva di battute vere e proprie.

Fase δ: essa indica un’ossatura diversa dalla precedente, più vicina, sia per contenuto che per

onomastica, alla versione finale edita. Sotto il profilo strutturale è identica alla fase γ: è infatti

divisa in atti e scene ed è ancora priva di battute, si caratterizza però per la lapidaria stesura

delle scene già trattate nell’ossatura concepita nella fase γ e può ospitare nuove scene assenti

nella stesura precedente.

Fase ε: è il momento della verseggiatura, della stesura dei dialoghi, di cui, per alcune fiabe, si

registrano due versificazioni.

2 Nel Fondo che, vista l’ingente mole, non è ancora stato esplorato interamente con cura e dovizia e può

dunque riservare inattesi ritrovamenti, non sono contenute né le ossature né le stesure in versi dell’Amore delle tre melarance e del Corvo. Della prima fiaba è conservato solo un foglio recante una breve parte in versi che coincide con quella andata a stampa (Fondo Gozzi, 10.14, c. 96r: «Olà, chi qua mi chiama dal centro orrido, ed atro? / Sei tu mago da vero, o mago da teatro? Etc.»), della seconda invece non è stato reperito alcun materiale, esauritosi, probabilmente, nel “vecchio” manoscritto marciano già studiato negli anni passati.

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Abbiamo delineato queste cinque fasi soprattutto al fine di visualizzare con immediatezza le

costanti presenti in tutti i materiali preparatori delle Fiabe e di tracciarne una tabella. I

“vecchi” manoscritti acquistati negli anni Trenta dalla Biblioteca Nazionale di Venezia - che

furono usati per la princeps Colombani, come attestano in modo inequivocabile la licenza di

stampa e alcuni caratteri grafici che rimandano al lavoro tipografico3 - documentano un

ulteriore processo di revisione intermedia, soprattutto linguistico, collocabile

cronologicamente tra la quinta fase dei materiali del Fondo e l’edizione definitiva del testo.

Tre di questi manoscritti (Zobeide, I pitocchi fortunati e Zeim re de’geni) recano anche,

singolarmente, la licenza di rappresentazione e per questo si può supporre che siano copioni o

comunque i testi “preventivi” più prossimi alla messinscena. A questi tre, si aggiunge il

copione manoscritto del Re cervo, rilegato come documento a se stante, non compreso nel

gruppo dei manoscritti utilizzato per vergare la Colombani.

Nella Più lunga lettera di risposta che sia stata scritta, inviata ad un poeta teatrale de’ nostri

giorni, Gozzi enuclea il proprio metodo di lavoro:

io non mi sono mai posto allo scrittoio per scrivere una Favola da esporre in su le scene, se non la vidi prima in

tutta la sua estensione coll’occhio mentale; né prima di porre in assetto una diligente ossatura di viluppo atto ad

interessare, e facile da svilupparsi; di proporzionata divisione di atti conciliabili colle decorazioni, di apparecchio

di circostanze, di scene attese da’ spettatori, di avvertenze, di condotta, e con quell’ordine, di cui i miei generi

che per lo più hanno un aspetto d’una novità capricciosa, sono suscettibili, non mi sono giammai recato a

dialogarla4.

Precedente il momento in cui l’autore vede con l’occhio mentale tutta la fiaba – momento a

cui noi riteniamo corrisponda sulla carta la scrittura del brogliaccio, ovvero dell’intera trama

dell’opera esposta in maniera narrativa (fase β) - si situa l’invenzione gozziana (fase α) che,

nel caso delle Fiabe, consiste in una rielaborazione di spunti provenienti principalmente, ma

non solo, dalla novellistica orientale mediata dalla cultura francese (Cabinet des fées) e da

quella italiana del Seicento (Lo cunto de li cunti e Posilecheata). L’idea si materializza sul

foglio sotto forma di appunto/appunti molto interessanti perché ci permettono di stabilire

inequivocabilmente la fonte primaria da cui Gozzi ha attinto: è l’autore che spesso rimanda al

3 Cfr. PAOLO BOSISIO, Gli autografi di «Re Cervo» una fiaba scenica di Carlo Gozzi dal palcoscenico alla

stampa con le varianti dedotte dagli autografi marciani, in IDEM, La parola e la scena. Studi sul teatro italiano tra Settecento e Novecento, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 55-78.

4 CARLO GOZZI, La più lunga lettera di risposta che sia stata scritta, inviata ad un poeta teatrale de’nostri giorni. Giuntivi nel fine alcuni frammenti tratti dalle stampe pubblicate da parecchi Autori, e de’ comenti dallo stesso Gozzi fatti sopra i frammenti medesimi, in IDEM, Opere edite ed inedite, Venezia, Zanardi, 1801-1804, vol. XIV, p. 25. Il corsivo è nostro.

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modello utilizzato, citando addirittura il titolo della novella ispiratrice e il numero della

pagina del testo consultato. A tale fase corrisponde dunque il momento dell’ispirazione, o

meglio il momento in cui il drammaturgo, leggendo altri testi, è colpito da un’immagine o da

una “circostanza” – termine utilizzato per un episodio del Mostro turchino - che traspone su

carta, decidendo poi se e in quale modo rielaborarla. Alcune idee rimangono evidentemente

inutilizzate: nel materiale manoscritto inerente all’ Augellino belverde, sono state ritrovate

tracce fiabesche, ascrivibili alla fase α, mai realizzate e, per quanto fino ad ora esaminato, mai

sviluppate in fabulae, altre tracce, invece, sono state accolte e sviluppate nella fase successiva,

in cui l’autore si figura l’intera trama (fase β).

Per delineare la fase primaria di ispirazione e tentare di individuare la categoria o il genere di

circostanze che potevano far balenare in Gozzi l’idea di una vicenda fiabesca è prezioso il

materiale contenuto nel fascicolo dell’Augellino belverde che Alberto Beniscelli ha iniziato a

dipanare5. Il faldone relativo a questa fiaba filosofica offre, oltre all’ossatura, alcuni fogli

contenenti materiale eterogeneo da cui sembra trapelare l’intenzione gozziana di costruire una

terza “puntata” dopo l’Amore delle tre melarance e L’augellino belverde. Tali appunti

costituiscono probabilmente la prima fase di una fiaba mai realizzata e recano alcuni nomi dei

protagonisti delle due pièces appartenenti a questa trilogia, senza però costituirsi mai in un

brogliaccio di forma compiuta. In queste carte compaiono frequenti riferimenti espliciti alle

letture compiute da Gozzi, soprattutto alle novelle:

Un’antico pellegrino per gratitudine attenda al passo un suo benefattore, o una sua benefattrice, d’un giorno.

L’ammaestra nell’impresa ch’è per fare, poi narra ch’egli da dieci anni doveva esser morto, che pregò la morte di

lasciare il suo spirito nel corpo il quale doverebbe essere da dieci anni in polvere divorato da vermi, per potere

ammaestrarlo, che quello era il punto che lasciava disciolto in polvere il suo corpo etc. Si specchi etc. Suo

discorso morale etc. Si discioglie e lascia un mucchio d’ossa coll’ignudo teschio avvolto nella polvere, sparisce.

La donna piange e da sepoltura alle ossa etc. Questo potrebbe essere Calmon statua ritornato uomo6.

Brighella potrebbe essere un petì metre galante a buona fortuna. Fa il dotto il franco il filosofo attomista. Nel

fine de’ suoi discorsi termina con un raglio d’asino vizio rimastogli dall’esser stato cambiato in asino

nell’Augello belverde. Abbia in scarsella forbici pettini e ferri per introdursi come dilettante d’acconciature con

le signore, per la sua povertà7.

5 ALBERTO BENISCELLI, Nel laboratorio delle Fiabe, tra vecchie e nuove carte, in Carlo Gozzi entre

dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur: un carrefour artistique européen, Atti del convegno di studi, (Università Paris-Sorbonne, 23-25 novembre 2006), a cura di Andrea Fabiano, «Problemi di critica goldoniana», numero speciale, 2007, XIII, pp. 75-91.

6 Fondo Gozzi, 4.6, c. 34r. 7 Ibidem.

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Vedi fiaba delli tre re animali a carte 425 dello Cunto. L’orco potrebbe essere nella torre in mezzo del lago a

Barbarina. Nota innalzamento del lago e burrasca per diroccare la torre, con altro.

In quella torre, in una stanza vi potrebbe essere il pellegrino Calmone assistente con la trasformazione del

cadavere.

Al passare nella torre del lago vi potrebbero essere le due sirene che addormentano col canto.

Nota la carrozza nel fine della fiaba delli tre re animali con leoni. Può star ferma può essere magica e che faccia

giungere gl’oggetti, far girare un Sole e una Luna far guardare gl’oriuoli, far giungere le città e le persone etc.

Nel nano giallo la vecchia Fata amante del Principe che ama una Principessa. La fata si fa giovane e bella ma il

segno8.

Notisi nella serpentina verde una principessa orrida per fatagione, ma per ciò saggia e filosofa. Per non essere

stata perseguitata e adulata dagl’uomini si ritira in un castello di solitudine9.

Si noti nella tirannia delle Fate l’amante di Cleonice che per liberare il popolo dal flagello d’un dragone protetto

dalle Fate combatte col dragone, l’uccide. Le Fate si vendicano facendo in sul fatto cambiare l’uccisore in

presenza di Cleonice nella figura del medesimo dragone morto10 .

Re Serrandippo Prologo Cigolotti storico di piazza. Fa narrazione di maraviglia di quella corte e del Filosofo

capitato che fece tre gran doni al Re poi si morì. Prima maraviglia lo fece con un’anello che le diede divenir

giovine vedi Fiaba pietra dello Gallo11. Gli diede una statua la quale ad ognuno che gli narra una bugia ride

sgangheratamente. Gli diede di potere con alcune diaboliche parole morire e passare in qualunque corpo e poi

con le stesse parole ripristinarsi. Tal secreto è comunicato solo al suo fedele ministro. Essere oggi il Re per

prendere moglie per successione al regno attendere diverse donzelle nella camera della statua. Ma che o Cielo

etc. Il Mago morendo lasciò predetto che gran cose in quella corte dovevano succederre a dì etc. dell’anno 1761

Populo staremo a vedere etc. parte

Cominci la Commedia dal Re in trono in camera della statua col ministro ad una ad una donzelle di parecchi

caratteri la statua ride all’ultima non ride.

Storia del Giovane Re e del re de’Genj nelle Arabe. Cominciarla dal Re giovine che dorme. Apparisce il vecchio

che gli addita il tesoro pago della sua obbedienza anteriore. Accenna gli antefatti sparisce il Re si desta allegro.

Arriva la regina madre loro scena per andare a scoprire il tesoro. Magnifico sia il vecchio schiavo ricco12.

La fase β, da noi identificata con l’occhio mentale attraverso cui Gozzi si figura l’intera

vicenda, corrisponde, su carta, alla stesura del brogliaccio, cioè alla trama sommaria e

principale (senza dunque alcun riferimento alle maschere della commedia dell’arte che

8 Ivi, c. 34v. 9 Ivi, c. 35r. 10 Ivi, c. 36r. 11 La fiaba La pietra del gallo è contenuta ne Lo cunto de li cunti, (GIAMBATTISTA BASILE, Lo cunto de li

cunti, a cura di Michele Rak, Milano, Garzanti, 1998, pp. 664- 675). 12 Fondo Gozzi, 4.6, c. 35v. L’intero passo è poi cassato.

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l’autore impianta in un momento successivo), come si evince dall’abbozzo inedito della Pulce

contenuto nel Fondo, di cui proponiamo uno stralcio:

Il Re Tartaglia di Monterotondo morsicato da una pulce, la prese, volle schiacciarla coll’unge. Era tanto grossa e

ben fatta. Il re se ne invaghì l’allevò col proprio sangue, crebbe di giorno in giorno a segno che giunse alla

grandezza d’un caprone. Il Re Tartaglia capriccioso la fece scannare e scorticare. Fatta seccare la pelle, mise

un’editto che chiunque indovinasse di qual animale fosse quella pelle averebbe sua figliuola in consorte. Esposta

la pelle pubblicamente, vennero da ogni parte del mondo persone per conoscere quella pelle. Chi diceva ch’era di

Gattomammone, chi di lupocerviere, chi di coccodrillo etc. nessuno indovinava. Giunse alla fine un’orco

orridissimo e spaventoso, il quale averebbe fatta paura all’uomo più audace del mondo, volse rivolse annusò e

rifiutò la pelle. Finalmente gridò esser quella la pelle dell’Arcifanfano delle pulci. Il Re vedendo che l’orco

aveva indovinato per mantenere la regia parola chiamò la Figliuola bellissima, e le disse che aveva dispiacere,

ma che la parola d’un monarca non doveva alterarsi, e però che se ne andasse coll’orco suo sposo. La Figliuola

impallidita lagnossi amaramente rimproverò il Padre13.

Dopo la scrittura del brogliaccio, l’autore si dedica all’ossatura (fasi γ e δ): un termine che

indica l’imbastitura della fabula ma che, come verificheremo, sottende strati più complessi e,

spesso, non viene impiegato in modo univoco dallo stesso Gozzi. La versificazione (fase ε) costituisce l’ultimo stadio del processo compositive che il Fondo attesta per le Fiabe.

I manoscritti della Donna serpente14

SINOSSI La vicenda si apre con il racconto da parte di due fate, Farzana e Zemina, della vicenda d’amore della loro compagna Cherestanì, che, infrangendo un decreto del mondo fatato a cui apparteneva, si è sposata con il mortale Farruscad, principe di Teflis facendogli promettere di non cercare di scoprire la propria identità. Prima dell’avvenimento – narrano le fate - Farruscad, durante una battuta di caccia aveva incontrato una cerva bianca dalle corna d’oro di cui si era innamorato e, per inseguirla, era caduto insieme al fedele aiutante, Pantalone, in un torrente. Qui essa si era trasformata in una splendida fanciulla, Cherestanì. Da allora sono passati otto anni di matrimonio e sono nati due figli, Rezia e Bedredino. Nel momento in cui si apre la vicenda, i due sposi si trovano separati: Farruscad è in un deserto; infatti, spinto dalla curiosità a frugare in uno scrittoio in cerca di notizie sulla propria consorte, viene scoperto da Cherestanì, che sparisce insieme ai figli e al palazzo incantato in cui

13 Ivi, c. 33r. 14 Si avverte che questo paragrafo, con qualche modifica, è confluito in GIULIETTA BAZOLI , Dal ‘Serpente’

alla ‘Donna serpente’: prime riflessioni sulla vicenda compositiva, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur…, cit., pp. 107-127.

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vivevano. Nel deserto si aggirano anche Brighella, Tartaglia e il ministro Togrul, fedeli consiglieri di Farruscad che gli comunicano la morte del padre e la sua ascesa al trono di Teflis, città che però si trova in gravi condizioni perché assediata dal gigante Morgone, pretendente di Canzade, la sorella del principe. Per spronare il giovane a tornare nel suo regno, Pantalone si traveste da mago e Togrul indossa i panni del re defunto: pur scoperto il trucco, Farruscad si risolve ad abbandonare il deserto e a desistere dalla ricerca della moglie. Proprio dopo questa decisione, Cherestanì gli compare in sogno e, dopo avergli rammentato il proprio amore, gli fa giurare di non maledirla per tutto il giorno seguente. Atto secondo. Dopo il verificarsi dei presagi funesti predetti da Cherestanì, il sorgere di un sole rosso e un terremoto, nel deserto si materializzano Rezia e Bedredino che, non appena abbracciano il padre, vengono presi dalle guardie della madre, comparsa nel frattempo, e gettati nel fuoco. Farruscad resiste e non maledice la moglie ma, risoluto, decide di ritornare nel suo regno e di difenderlo. Qui, dopo aver riabbracciato la sorella, giunge il ministro Badur, che racconta la distruzione delle ultime vettovaglie per la città assediata da parte di una strega che riconosce poi in Cherestanì. Dopo questo episodio, Farruscad maledice la moglie che, finalmente, gli svela la sua vera natura e la giustificazione delle azioni compiute: le vivande trasportate da Badur, in realtà un traditore, erano avvelenate e i figli non sono morti ma, attraverso le fiamme, hanno perso la loro natura sovraumana e possono così vivere nel mondo umano insieme al padre. Cherestanì si trasforma in serpente, annunciando che salverà la città e che rimane un ultimo modo per rivederla ancora ma non lo rivela. Atto terzo. Grazie all’innalzamento prodigioso del fiume Cur che travolge l’accampamento nemico, Teflis è salva. Mentre la corte si rallegra, Farruscad segue sottoterra la fata Farzana, amica di Cherestanì che, desiderando riavere la compagnia di Cherestanì, spera intimamente che il principe perda la vita nelle tre prove che deve affrontare per rivedere la moglie. La prima e la seconda consistono nell’affrontare rispettivamente un toro che sputa fuoco e un gigante: entrambi vengono uccisi grazie ai consigli del mago Geonca. L’ultima prova, il bacio a qualunque cosa fuoriesca da un sepolcro, vede Farruscad fronteggiare un serpente; ancora una volta, l’aiuto di Geonca si rivela provvidenziale per far desistere il principe dall’uccidere l’animale e per fargli mantenere la promessa. Dopo il bacio, il serpente si trasforma in Cherestanì, divenuta completamente mortale e, mentre i due insieme ai figli partono per il regno di Eldorado, Canzade, promessa sposa di Togrul, va a regnare su Teflis.

Il Fondo Gozzi conserva della «quinta fola scenica»15 una stesura manoscritta completa

intitolata Il Serpente16, che precede la redazione proposta dallo scrittore per la princeps

Colombani del 1772.

Una prima importante e macroscopica differenza tra i due testi è costituita dal cambiamento

del titolo: nel manoscritto è Il Serpente, mentre nell’edizione per la stampa è La Donna

serpente, nome con cui il lavoro venne presentato al Teatro Sant’Angelo.

15 CARLO GOZZI, La donna serpente, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. II, p. 112: «La Donna serpente fu

la mia quinta fola scenica. Posta in iscena dalla truppa Sacchi nel teatro di S. Angelo a Venezia a dì 29 ottobre l’anno 1762, si fecero di questa tra l’autunno, e il carnevale susseguente diciassette fortunatissime recite». Almeno una data delle diciassette repliche è nota: si tratta del 4 dicembre 1762, come si legge nel manoscritto IX dei Notatori e Commemorali di Pietro Gradenigo (collocazione Archivio Gradenigo-Dolfin, 67 presso la Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia): «Sabato 4 dicembre 1762 Nel Teatro di Sant’Angelo fu recitata, e replicata con applauso una comedia intitolata La Donna serpente».

16 Fondo Gozzi, 4.2/1, cc. 1r-33v conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Cartaceo; fascicoli legati, anno 1762 circa; cc. 33 (cartulazione nuova a matita), mm. 283 x 196 (rilevata alla c. 1). Coperta in cartoncino; titolo autografo, alla c. 1r.: Il Serpente. Numero d’ingresso nella Biblioteca Marciana 378730. Il manoscritto verrà da qui in avanti indicato come DoSefε.

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La stesura conservata nel Fondo Gozzi non è, ovviamente, preceduta dalla Prefazione, scritta,

come è noto, tra il 1772 e il 1775 insieme a quelle delle altre fiabe e dei drammi spagnoleschi

in previsione dell’edizione Colombani17. Nel manoscritto, inoltre, si registra l’assenza della

postilla dello scrittore alla fine della dodicesima scena del terzo atto («Tutte le scene di

mirabile, e d’illusione di questo popolare atto terzo furono eccellentemente eseguite dalla

truppa comica del Sacchi»18), un dato chiaramente “consuntivo”, aggiunto dopo la

messinscena.

Dal punto di vista linguistico il testo manoscritto si differenzia da quello edito soprattutto per

la presenza di geminate e raddoppiamenti ipercorretti (per esempio: schiffo, abbominevole,

ribbrezzo, asillo). Inoltre nel Serpente persistono voci dialettali che vengono invece sostituite

con analoghe italiane nella versione approntata per la stampa: l’orbariola di cui si lamenta

Pantalone nel primo atto si trasforma in vertigini 19, le robe mangiative della didascalia della

sesta scena del primo atto in vari cibi20 e si trovano antiche e più desuete parole veneziane

come fuora21 per il più diffuso e comune fora.

Nel manoscritto nessun monologo è considerato come scena a parte, diversamente da quanto

si riscontra nel testo a stampa, dove lo scrittore, forse adottando uno schema di suddivisione

del testo di tipo letterario, ricava per ciascun soliloquio una scena, un’operazione già

riscontrata da Paolo Bosisio nel Re cervo22. Da imputarsi a una revisione finale per la

pubblicazione appare la sostituzione del nome arcaico della maschera del Magnifico, intesa

anche come ruolo generico di vecchio, con quello preciso e determinato di Pantalone,

cambiamento che investe tutte le altre fiabe contenute nel Fondo Gozzi23.

Come l’edizione Colombani, Il Serpente, seguendo i canoni dei testi drammatici “classici”, si

compone di vere e proprie didascalie e di battute scritte per intero (come accade

sistematicamente per le parti dei personaggi che non sono maschere); ma si compone anche di

17 La Prefazione alla Donna serpente, pur non essendo anteposta alla fiaba, è contenuta nel Fondo Gozzi nel

fascicolo, già menzionato, 8.6, intitolato Dediche e prefazioni comprendente, tra le altre, quelle dell’Amore delle tre melarance, del Re cervo, dell’Augellino belverde, dei Pitocchi fortunati, della Turandot, del Mostro turchino e di Zeim re de’ Geni.

18 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 402, III, 12. 19 «MAGNIFICO: vedendoli in lontano Togrul… Togrul… Tarta… Ogio forsi l’orbariola? » (DoSefε, I, 4, c.

6v.) sostituito da «Pantalone: (vedendoli in lontano) Togrul… Tarta… m’ingrosso… Ogio forsi le vertigini?» (CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 351, I, 4).

20 «Truffaldino e Brighella, con robe mangiative e Tartaglia» (DoSefε, c. 8r., I, 6) sostituito da «Truffaldino,

e Brighella con vari cibi, e Tartaglia» (CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 356, I, 6). 21 Anche per il Dizionario redatto dal Boerio (GIUSEPPE BOERIO, Dizionario del dialetto veneziano, seconda

edizione aumentata e corretta aggiuntovi l’indice italiano veneto già promesso dall’autore nella prima edizione, Venezia, Tip. Giovanni Cecchini, 1856) questa forma è più antica e più rara dell’avverbio fora.

22 Cfr. PAOLO BOSISIO, Gli autografi di «Re Cervo» …, cit., p. 76. 23 Per esempio, per quanto riguarda la Turandot, si veda JAVIER GUTIÉRREZ CAROU, Il Fondo Gozzi e la

genesi della Turandot, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur…, cit., p. 131.

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porzioni di testo strutturate secondo la modalità del canovaccio. Alcune delle sezioni

pertinenti Brighella, Truffaldino, Tartaglia e Smeraldina svolte in forma di canovaccio in

terza persona vengono trasformate in battute nell’edizione a stampa, la cui struttura da

commedia all’ “improvviso” risulta quindi meno ampia. Per esempio, se nella partitura

primitiva troviamo: «Tart: in dietro vede il principe, qualche parola d’allegrezza, qualche

trasporto, e qualche passo per abbracciarlo, ma l’ordine lo trattiene, si nasconde di nuovo»24,

nella Colombani si legge: «TARTAGLIA (da sé indietro): Quello è il principe Farruscad… è lui

senza dubbio. Uh, che allegrezza!... Io non mi posso trattenere… Voglio abbracciarlo (fa

qualche passo con trasporto, poi si ferma). Ma, Tartaglia, che fai? Crepa per l’amore, ma non

alterare gli ordini, che ti furono dati (si nasconde di nuovo)»25.

Nel Serpente si riscontra per l’uscita di ciascun personaggio la presenza della dicitura «via»,

tipica degli scenari e della recitazione “all’improvviso”, che invece verrà sostituita

successivamente con le varie voci «entra» o «esce»; risultano poi cancellate le locuzioni «in

questo», poste di solito alla fine di una scena, e «il fine dell’atto» che siglava il termine,

appunto, di un atto.

È interessante notare che nel manoscritto vengono sottolineati i passi in forma di canovaccio

riguardanti il sentimento di un personaggio, l’azione da compiere (per esempio, piangere o

porgere la mano), le entrate e le uscite; sottolineati risultano anche certi suggerimenti relativi

all’improvvisazione rivolti agli attori, soprattutto alle maschere, suggerimenti costituiti da

alcune frasi su cui poter insistere per ottenere in scena un effetto comico o caricaturale. È il

caso della seconda scena del primo atto, dove, a proposito della prima comparsa della

principessa Cherestanì, si legge: «ritrovò sotto il fiume un fiorito praticello, e non

maccheroni, ma la cerva cambiata nella più bella principessa di diciott’anni la più bella, la più

bella sior mio benedetto che si vedesse con due occhi che sopra i fiumi non ve ne sono di così

belle sua descrizione»26. Nella Colombani, in cui tutto si esaurisce in una riga27, si perdono le

24 DoSefε, c. 7v. 25 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 354, I, 5. Si riportano di seguito altri esempi: «TARTAGLIA:

che erano passati cinquantanove giorni, e cinque ore, che per qualche ora potrà ancora resistere […] fa suo conto che il cerotto aveva virtù di tenere sazi mesi due. Che erano passati cinquantanove giorni, e cinque ore, che per qualche ora potrà ancora resistere. Ma poi cascherà morto. Suoi riflessi sulla virtù del cerotto, per quanta spezie di persone sarebbe utile […] che convien ritirarsi per non essere scoperto, si nasconde in dietro, ma che si sente una gran fame» e «Tart. Suo spavento. Dove mai l’abbiano lasciato» (DoSefε, c. 7r). Nella Colombani invece si

legge: «TARTAGLIA: sono passati cinquantanove giorni, e cinque ore, per poche ore potrò ancora resistere, ma poi cascherò morto […]. Bella virtù è però quella di questo cerotto! A quante povere genti sarebbe necessario! […] Qui bisogna nascondersi per non essere scoperto; ma io mi sento venire una fame, che divorerei un bue» e «TARTAGLIA : (spaventato) Che voce è questa! Dove diavolo m’hanno lasciato?» (CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., pp. 353-354, I, 4).

26 DoSefε, c. 3v.

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sottolineature, sicché scompare anche «sua descrizione». Tale indicazione è una delle

numerose varianti del manoscritto rispetto all’edizione che inducono a vedere nel Serpente il

testo usato per la messinscena della fiaba. Verosimilmente infatti la dicitura «sua descrizione»

doveva servire agli attori, che avrebbero improvvisato come rendere la bellezza di Cherestanì,

mentre essa appare invece inutile e scarsamente comprensibile per il lettore.

Anche altre differenze testuali fra la primitiva stesura della fiaba e quella della Colombani

lasciano supporre che il testo proveniente dal Fondo Gozzi sia stato impiegato come copione.

Nella versione manoscritta si assiste anzitutto ad un uso più frequente di ripetizioni28 e di

esclamazioni, cancellate in seguito, presumibilmente perché alla lettura non avrebbero avuto

la stessa potenza drammatica o la stessa enfasi resa dall’oralità. Sono espunte dall’edizione a

stampa anche molte espressioni volte a descrivere l’atteggiamento dei personaggi che,

evidentemente, servivano più per gli attori che per i lettori. Si confrontino, per esempio, i

seguenti passi del Serpente: «Tart. in dietro. Suoi stupori della mensa apparita, suo desiderio

di prendersi qualche sbocconcello. […] Tart. in dietro. Che gli sembra che dorma. Suoi

stupori delle cose udite e vedute» e «Farr. Che aveva fatto assai lazzi di sorpresa: Padre, mio

genitor, come voi qui!» 29 con i corrispettivi dell’edizione Colombani: «TARTAGLIA : (in

dietro) Quella mensa non c’era. Chi l’ha portata? Mi sento morire di fame. Se potessi di

nascosto prendere qualche cibo. […] (esce in dietro) Mi gira il capo, come una ruota di fochi

artificiali. Ho vedute, e udite le gran cose! Mi sembra, che il principe dorma» e «FARRUSCAD:

(confuso) Padre… Mio genitor… come voi qui…!»30.

L’abbondanza di indicazioni riguardanti i diversi coefficienti scenici riscontrata nel

manoscritto conferma l’ipotesi che esso sia utilizzato per la messinscena. Il Serpente infatti, a

differenza del testo edito, si distingue per il carattere prescrittivo: in generale, indugia

maggiormente sul tipo di vestiario dei personaggi, fornisce istruzioni sui movimenti degli

attori, sulle tonalità di voce che devono assumere e segnala il momento opportuno per

eseguire i lazzi. Tali informazioni nell’edizione a stampa risultano ridotte: i costumi sono

descritti sommariamente, il passaggio alla stesura dei dialoghi in prima persona comporta

necessariamente che vengano sciolte ed esplicitate le indicazioni del tipo «suoi lazzi per la

paura» e sono espunte tutte le precisazioni che non servono al lettore. Per esempio, la

didascalia della scena finale della fiaba in cui si radunano tutti i personaggi prevede che «tutti

27 «TRUFFALDINO: Oh maraviglia! Trovò nel fondo non più la mensa, ma la cerva cambiata in una principessa con un seguito di damigelle» (CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 343, I, 2).

28 Per esempio, nella scena seconda del primo atto «è così sior mio benedetto» compare cinque volte nel testo manoscritto e solamente due nel testo a stampa.

29 DoSefε, c. 7v e c. 9v. 30 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 355, I, 5 e p. 359, I, 8.

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con atto di stupore vanno abbracciandosi, ecc.31». Nel manoscritto, invece, sono offerte

indicazioni più lunghe e dettagliate. Forse proprio in ragione del fatto che erano destinate agli

attori che in quel momento venivano a trovarsi tutti sul palcoscenico, Gozzi si dilunga

maggiormente e scrive: «Tutti atti di stupore, monosillabi e abbracciamenti, massime di

Truffaldino che affettatamente va abbracciando tutti con gravità. I fanciulli bacieranno le

mani ai loro genitori»32.

Nella prima scena del primo atto, l’edizione Colombani si limita a riportare il luogo in cui si

svolge la vicenda e i nomi dei personaggi presenti («Bosco corto. Scena prima, Farzana, e

Zemina fate»), mentre nel manoscritto si legge: «Atto primo: bosco corto. Scena prima che

serve di prologo. Farzana e Zemina, Fate vestite di bianco»33; il particolare non è

indispensabile alla lettura, ma diventa interessante se rapportato alla messinscena e

considerato un suggerimento alla costumistica.

Oltre a dimostrare che l’autore, nello stesso momento in cui scriveva il testo, aveva

embrionali idee relative ai costumi e al tipo di strumenti musicali da utilizzare e già pensava

ad alcune soluzioni per risolvere i nodi scenici più cruciali, dalle didascalie relative alle scene

di trasformazione e di travestimento34 del Serpente emerge maggiormente l’attenzione di

Gozzi nei confronti della rappresentazione. Per esempio, nella quinta scena del secondo atto

in cui due guardie, su ordine di Cherestanì gettano i figli nelle fiamme, Gozzi nel manoscritto

annota: «Sparirà la fiamma co’ ragazzi, i quali, se occorre, nel correre che faranno dentro le

31 Ivi, p. 406, III, scena ultima. 32 DoSefε, c. 33r. 33 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 339, I, 1, e DoSefε, c. 2r. 34 Anche nel Mambriano, lettura che sicuramente Gozzi fece, si assiste a un episodio in cui il mago Malagigi,

dopo aver cambiato aspetto, si recava da Rinaldo irretito da Carandina per ricordargli i propri doveri (FRANCESCO CIECO DA FERRARA, Libro d’arme e d’amore nomato Mambriano, introduzione e note di Giuseppe Rua, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1926, vol. I, p. 115, canto VI, ottava 6: «Or che sa Malagigi de gl’inganni / Usati per colei, dispose al tutto / Trar la cristianità di tanti affanni; / Ma prima che a ciò far si sia condotto, / Cangiò il linguaggio, effigie, abito e panni, / E come mercadante s’è ridutto, / Sopra un naviglio, il gentil negromante, / Pigliando il suo cammin verso levante». Si tratta anche in questo caso di un travestimento e non di una metamorfosi per la quale si potrebbero indicare ma con corrispondenze generiche quella di Vertumno in vecchia (PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, a cura di Pietro Bernardini Marzolla, Torino, Einaudi, 1994, pp. 590-591, libro XIV, vv. 654-657: «Ille etiam picta redimitus tempora mitra, / innitens baculo, positis per tempora canis, / adsimulavit anum cultosque intravit in hortos, / pomaque mirata est»; «E un giorno poi [Vertumno], calcatasi sul capo una mitria colorata, preso un bastone per appoggiarcisi, sistematisi dei capelli bianchi sulle tempie, si camuffò da vecchia ed entrò in quegli orti così ben curati») e di Aletto nella sacerdotessa Calibe (VIRGILIO, Eneide, a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1989, pp. 274-275, libro VII, vv. 415-420: «Allecto torvam facies et furialia membra / Exuit: in vultus sese transformat anilis / Et frontem obscenam rugis arat, induit albos / Cum vitta crinis, tum ramum innectit olivae: / Fit Calybe Iunonis anus templique sacerdos / Et iuveni ante oculos his se cum vocibus offert»; «Torva, Aletto, faccia e membra furiali / spoglia, prende forma di vecchia, solca / l’oscena fronte di rughe, veste capelli / bianchi con sacra benda, v’intreccia foglie d’olivo. / Si fa Calibe vecchia, sacra a Giunone e del tempio custode, / e agli occhi del giovane appare con queste parole»).

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scene, potranno essere cambiati in ragazzi simili di paglia»35; nella didascalia a stampa,

invece, si riscontra semplicemente: «Escono i due soldati, i quali avranno due bambocci,

simili ai due ragazzi»36. L’indicazione non ha interesse a specificare in che modo avvenga la

sostituzione dei bambini affidata solo all’immaginazione del lettore.

Anche per l’episodio della trasformazione di Cherestanì in serpente lo scrittore nel

manoscritto appunta: «Si cambierà in serpente dal petto in giù e farà una bella caduta, se

occorre»37; successivamente il passo è sostituito dalla semplice registrazione: «si trasforma in

un orrido e lungo serpente dal collo in giù, cadendo protesa a terra»38. Il confronto sembra

dimostrare che la stesura primitiva è prettamente di carattere scenico: l’attrice che

impersonava la principessa poteva, se lo riteneva opportuno, unire alla battuta finale del suo

monologo una bella caduta. È evidente che l’aggettivo usato in questa nota rimanda al

contesto della messinscena, dove l’azione deve necessariamente essere il più possibile

suggestiva e amplificata.

La caduta fu poi sulle scene effettivamente eseguita come dimostra la lettera scritta da Gozzi

il 25 luglio 1778 all’impresario del Teatro Capranica di Roma che gli aveva chiesto qualche

consiglio sulla messinscena della Donna serpente:

l’Autore ebbe il piacere di vederle [le circostanze delle trasformazioni] ottimamente eseguite, ma non si prese la

pena di esaminare minutamente il modo, e può solo riferire ciò che vide all’ingrosso. […] La Donna ha sotto la

sopraveste un imbusto dipinto a squame di serpente verdastro, con un lungo sacco che va diminuendosi in lunga

coda formato sopra a’ de’cerchi e dipinto come l’imbasto. Al sparire della sopraveste la Donna cade a terra, e

con una funicella vien tirato il sacco che si prolunga in coda coprendola tutta sin oltre alle gambe. Ella sfonda

sotto al palco dopo aver espressi gl’ultimi versi…39.

Nella scena del travestimento del Magnifico-Pantalone nel mago Chesaja, la versione

manoscritta abbonda di dettagli dalla connotazione prettamente tecnica mancanti nella

Colombani: si legge infatti che «la voce passerà una quinta o due più innanzi»40 e che la

maschera, toccandosi il mento rimasto senza la barba finta, scoprirà la caduta del suo

camuffamento. La stessa minuzia descrittivo-prescrittiva si riscontra nella scena successiva, in

cui Togrul compare travestito da Atalmuc, padre di Farruscad: «Togrul da vecchio venerando

35 DoSefε, c. 16v., 36 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 376, II, 5. 37 DoSefε, c. 22r. 38 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 389, II, 13. 39 IDEM, Lettere, a cura di Fabio Soldini, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 126-129. 40 DoSefε, c. 8v.

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curvo con bastone, con turbante e vestito regio, deformato con barba, ciglia e capelli

bianchi»41. Il passo differisce dalla più breve e sommaria didascalia dell’edizione a stampa:

«Togrul uscirà trasformato in un vecchio re, vestito riccamente»42.

La volontà e l’impegno dello scrittore affinché in scena il travestimento riesca nella maniera

migliore e illuda gli spettatori di assistere veramente alla comparsa prima di Chesaja e poi di

Atalmuc, emergono dalle annotazioni e direttive di massima, relative anche alla scelta della

tonalità di voce, che seguono l’episodio. Si legge infatti:

L’effetto dell’antecedente scena, e di questa, dovrà nascere dalla diformazione del Magnifico, e di Togrul a tale

che l’uditorio non possa conoscerli nella figura per quei comici che sono, anzi creda che siano quelli de’quali

s’udiranno le voci sino al punto della trasformazione e s’avverte che chi recita di dentro deve il più possibile

stare nascosto e recitare con energia e senso, e non leggere, concertando prima molto bene il premeditato co’

gesti del compagno. Le figure del Magnifico e di Togrul travestiti devono essere serie e magnifiche. Togrul:

uscendo dalla parte opposta a quella del Magnifico, accompagnando voce da vecchio ma energico43.

Anche la precisione con cui Gozzi annota nel manoscritto la tipologia «a morso»44 degli

strumenti che devono comporre una «sinfonia dolce» non si riscontra nella Colombani, in cui

la didascalia si limita a riportare la qualità della melodia senza accennare ai mezzi per

produrla45.

Alcune varianti sembrerebbero contraddire quanto sin qui affermato. Nell’edizione a stampa

si trovano infatti, sia pure raramente, specificazioni relative al visivo aggiuntive a quelle

presenti nel manoscritto. Analizzandole, però, si scopre che non inficiano l’ipotesi del testo-

copione perché mirano a rendere edotti i lettori su tutte quelle notizie implicite di cui la

messinscena si rende portatrice e che mancano invece nel Serpente, non essendo destinato alla

lettura. Nella Colombani dunque, si assiste da una parte alla scomparsa delle didascalie

relative ai movimenti in scena dei personaggi e al loro abbigliamento, informazioni superflue

per chi legge la fiaba ma utili invece a chi la deve mettere in scena, dall’altra all’aggiunta di

nuove indicazioni che, intendendo supplire alla mancanza del dato visivo, si soffermano

maggiormente sulla descrizione dell’ambiente in cui il lettore deve immaginarsi lo

41 Ivi, c. 9v. 42 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 359, I, 8. 43 DoSefε, c. 9v. 44 DoSefε, c. 11v. Con la dicitura «a morso» probabilmente si intende uno strumento che possa essere

“addentato” al momento dell’esecuzione, come una specie di moderno scacciapensieri. 45 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 363, I, 10 «Mentre Farruscad dorme, s’andrà il deserto

trasformando in un giardino. Il prospetto, che sarà di macigni, si cambierà in un magnifico palagio risplendente. Tutto ciò succederà al suono d’una sinfonia soave, che terminerà sonora, e strepitosa».

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svolgimento della vicenda. Per esempio, all’inizio della seconda scena del primo atto, Gozzi

per la versione a stampa adotta la didascalia «Cambiasi la scena, che rappresenterà un orrido

deserto con varie rupi nel fondo, e vari sassi sparsi atti a servir di sedili»46, preferendola alla

più schematica e concisa «Scena seconda. Orrido diserto. Truffaldino, e Brighella assisi sopra

un sasso»47. In quest’ultima non è specificata la funzione dei sassi perché si presuppone che

essa sia ovvia per gli attori, mentre nella prima è necessario dare al lettore le coordinate

geografiche, seppure sommarie, che nella messinscena erano offerte dalle scenografie e dagli

oggetti di scena. Analogamente, nell’episodio in cui Farruscad sta per uccidere il serpente-

Cherestanì dopo avere esclamato: «Ah, questa spada alfin, che tutto vinse, spezzi ancor quel

sepolcro, e il serpe uccida»48, Gozzi per la versione edita aggiunge la didascalia «in atto di

colpire il sepolcro», assente nel manoscritto dove la battuta recitata in scena prevedeva

“naturalmente” che alla parola seguisse l’atto e che gli spettatori vedessero quindi la spada

alzarsi per colpire l’animale, mentre per il lettore l’aggiunta era necessaria per aumentare

nella sua immaginazione la drammaticità della scena.

Nel terzo atto, dopo il bacio di Farruscad al serpente e l’oscuramento della scena

accompagnato da tuoni e lampi, come informano le didascalie di entrambi i testi, nella

Colombani si legge che il sepolcro si trasformerà in un carro trionfale, mentre il manoscritto

si limita ad annotare la trasformazione dell’animale in Cherestanì, lasciando invece aperta la

soluzione scenografica da adottare («resterà in arbitrio del sepolcro e del monte il formare

qualche scena a piacere»49). Questa conclusione dunque risulta un abbozzo, probabilmente

perché Gozzi non aveva ancora riflettuto sulle modalità scenotecniche per effettuare il cambio

di scena e forse, solo dopo aver assistito personalmente all’espediente dell’introduzione del

carro sul palcoscenico, decise di includerlo nelle didascalie per l’edizione a stampa.

Se il manoscritto è il copione usato dalla compagnia Sacchi il 29 ottobre 1762 per la prima

rappresentazione veneziana, si capisce il motivo per cui in esso compaiono riferimenti

comprensibili solo al pubblico del luogo che spariscono nella successiva stesura preparata per

la stampa. È il caso della prima scena del secondo atto in cui Truffaldino e Brighella decidono

di fare colazione e menzionano vari cibi tipicamente locali: lingue salmistrate, fegato,

doppione50, altro alla luganeghera, riso con la midolla, stuffà di code, nombolo51 arrosto e cibi

46 Ivi, p. 342, I, 2. 47 DoSefε, c. 3r. 48 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 405, III, 13. 49 DoSefε, c. 33r.. 50 Dopion: l’intestino retto degli animali, distinto con tal nome dalle trippe. 51 Lombo.

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alla becchera52. L’elenco termina con un appunto di Gozzi evidentemente scritto per gli

interpreti: «si nominino cibi ad uso di Venezia, e luoghi topici, e usanze di merende

veneziane»53.

La più probante dimostrazione che il manoscritto possa essere stato utilizzato per la prima

messinscena è l’assenza sia della licenza di stampa ecclesiastica sia di quella governativa,

presenti nel manoscritto approntato per la princeps, e l’esistenza invece della licenza di

rappresentazione, sottoscritta dal «magistrato eccellentissimo degl’essecutori contro la

bestemmia rivisto e licenziato per il teatro Lorenzo Maria Cossali, il 9 ottobre 1762»54, cioè

esattamente venti giorni prima che debuttasse al teatro Sant’Angelo.

Ad ulteriore conferma che si tratti del copione – e proprio di quello per la “prima” veneziana -

viene un dato di rilievo: nella scena seconda del primo atto Truffaldino, dopo avere incontrato

Brighella, comincia a raccontare la sua avventura. Nel testo della Colombani si legge:

TRUFFALDINO: Narra, che nel tal anno (accenna un millesimo, che venga a formare il termine in quel punto

degl’otto anni, accennati dalle due fate), alli dodici del mese di aprile, come Brighella sa, uscirono dalla città di

Teflis il principe Farruscad, Pantalone suo aio, egli, e molti cacciatori per andare a caccia.

Nel manoscritto l’anno è invece specificato: si tratta del 12 aprile 175455. La data non è

casuale perché se ad essa si aggiungono gli otto anni fiabeschi trascorsi insieme da Farruscad

52 «Truf. a Brighella che voglia per merenda. Brig. Lingue salmistrate, doppione e altro alla luganeghera.

Truf. No meglio riso con le midolla, stuffà di code, nombolo arrosto cibi alla becchera» (DoSefε, c. 14r).

«TRUFFALDINO: […] Proponevano di fare una colazione, perché l’aere era perfetto, e gli avea fatto digerire. Contrastavano sulla qualità de’cibi, che si dovevano chiedere al diavolo (CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 370, II, 1).

53 DoSefε, c. 14r. Sarebbe interessante scoprire se Gozzi, come per la Turandot, di cui nel Fondo Gozzi si

può leggere la variante di ambito toscano del terzo indovinello della principessa, avesse approntato delle modifiche nell’elenco culinario a seconda della città in cui si rappresentava La donna serpente. L’uso di modificare alcune scene comprensibili solo al pubblico veneziano si rintraccia anche nel Re cervo e nella Turandot. Nell’esordio della prima fiaba, compare in scena il personaggio Cigolotti, un cantastorie veneziano noto esclusivamente alla platea locale: per questo motivo Gozzi, nella stesura rivolta agli attori, annota: «Si avverte che fuori di Venezia come il Cigolotti non è conosciuto così potrà noiare il prologo, il quele rimane anche superfluo, quando si fa comparire nel fine lo stesso mago Guzaratte ad abbruciare il foglio [contenente il verso magico]. Lo stesso si può fare anche a Venezia» (PAOLO BOSISIO, Gli autografi…, cit., p. 82). Nell’autografo servito per la tipografia della Turandot si legge, cassata, la seguente postilla: «Quest’enigma in cui si vede figurato il Leone della veneta bandiera fu composto dovendosi esporre per la prima volta in Venezia questa rappresentazione. Fu adoperato per tutte le città dove fu la truppa Sacchi, soggette al serenissimo veneto dominio. Fu sostituito quest’altro per le città de’ stati esteri» (CARLO GOZZI, Turandot, in IDEM, Fiabe teatrali, a cura di Paolo Bosisio, cit., p. 81).

54 DoSefε, c. 33v. 55 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 342, I, 2. Nel manoscritto si legge: «Truf. […] nell’anno 1754

alli 12 d’Aprile come sa, uscirono Farruscad principe, Pantalone Agio del detto, e lui con altri cacciatori fuori della città di Teflis, alla caccia» (DoSefε, c. 3r).

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e Cherestanì, di cui si parla nella prima scena, si deduce che l’anno corrente sia proprio il

1762, l’anno in cui andò in scena per la prima volta La donna serpente56.

Quanto sinora addotto a dimostrazione che Il Serpente sia il copione non perde credibilità di

fronte al riscontro della cancellatura, nel manoscritto, di intere scene della fiaba.

Questi tali tagli possono essere imputati a tre ordini di motivazioni. Il primo è di natura

estetica: forse Gozzi, non essendo soddisfatto di quello che aveva appena scritto, decise di

depennare alcune parti della vicenda sostituendole con altre che confluiranno poi

nell’edizione a stampa. Nel manoscritto, infatti, le scene cassate sono seguite immediatamente

dalla riscrittura delle nuove: una prova indicante che nel Serpente il drammaturgo fece le

correzioni durante, e non dopo, la stesura della fiaba. È plausibile ipotizzare anche che Gozzi

abbia eliminato alcune scene dopo averle “sperimentate” in prova sul palcoscenico:

quest’ultima considerazione pone il problema, al momento irrisolto, di capire quanto tempo

prima di ottenere la licenza di rappresentazione da parte della censura le compagnie

iniziassero le prove. Il secondo e il terzo ordine di motivazioni riguardano questo organo di

controllo. Gozzi, infatti, potrebbe avere scritto queste scene e averle poi cancellate per evitare

di incappare in problemi con la censura, anche se è difficile capire per quali ragioni le scene

depennate avrebbero potuto provocarne l’intervento. Oppure il censore potrebbe aver cassato

alcune parti; questa spiegazione sembra però la meno plausibile perché, nelle opere a stampa

di fine Settecento – le uniche di cui si abbiano informazioni precise riguardo all’approvazione

della censura - , il visto del revisore, negli scritti che avevano subito correzioni ed espunzioni,

includeva una dicitura che prevedeva l’approvazione, solo con le opportune modifiche,

formula assente nella licenza di rappresentazione del Serpente.

Il terzo atto del manoscritto costituisce senza dubbio il più interessante per la quantità di

cancellature: la quarta, la quinta, la sesta e la settima scena sono cassate e sostituite da altre

quattro corrispondenti che ricorrono quasi identiche nella Colombani.

Ad un primo sommario studio, i cambiamenti sostanziali operati dallo scrittore si rivelano

preziosi perché rimandano ad altre fonti utilizzate dal drammaturgo, oltre a quelle già note

costituite da Le cabinet des Fées e dai romanzi cavallereschi57. Nel testo edito, la terza scena

56 È curioso notare che mentre nell’edizione Colombani nel Prologo del Re Cervo si fa riferimento a una data

precisa, il 5 gennaio 1762, data appunto della prima rappresentazione al Teatro San Samuele, nel manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale Marciana (Mss. Ital., Classe IX, n. 685, Colloc. 12075) compaia solo l’indicazione dell’anno, senza la precisazione del giorno. Cfr. PAOLO BOSISIO, Gli autografi di «Re Cervo»…, cit., pp. 79-80. A questo stesso anno di composizione rimanda anche il fatto che la precedente fiaba, Turandot, era andata in scena al Teatro San Samuele il 22 gennaio 1762 ed è verosimile ritenere dunque che Gozzi si fosse dedicato alla scrittura della Donna serpente dal gennaio di questo stesso anno. 57 Proprio per l’utilizzo di queste fonti nella Donna serpente si rinvia al recente intervento di Alberto Beniscelli, Tra narrazione e teatro: il riuso di alcune fonti ‘romanzesche’ nelle “Fiabe” gozziane, in Carlo Goldoni e Carlo

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termina con la scomparsa sottoterra della fata Farzana e di Farruscad, pronto a compiere

qualsiasi impresa pur di rivedere Cherestanì58; nella versione manoscritta, invece, essa finisce

con l’annotazione: «Qui sparirà Farzana con Farruscad», e poi, cassato, «sopra un canapè

rimarrà un uomo figura simile a Farruscad con una guancia appoggiata a una mano in atto di

grave malinconia»59, posa che ritorna nel Metafisico60.

Gozzi Evoluzione e involuzione della drammaturgia italiana settecentesca: da Venezia all’Europa, «Theatralia. Revista de Poética del Teatro», Javier Gutierrez Carou & Jesus G. Maestro (eds.), Pontevedra, Mirabel, 2006, 8, pp. 69-79. Alle famose tre prove che Farruscad deve affrontare, nel manoscritto ne viene aggiunta un’altra: dopo lo scontro con il toro, il principe si trova a scontarsi con guerrieri la cui peculiarità consiste nel loro raddoppiarsi ogni volta che vengono uccisi ed è il mago Geonca che rivela al cavaliere il modo per vincere, consistente nel tirare in mezzo agli uomini una pietra; tale scena - annota lo stesso Gozzi - provocherà sorpresa nell’uditorio. La soluzione proposta dal mago richiama il poema boiardesco e precisamente l’episodio in cui Mandricardo, re di Tartaria, si libera dall’attacco degli animali feroci che erano nati dalla biada da lui tagliata, scagliando in mezzo a loro un sasso fatato. «Due guerrieri usciti da dove s’è sprofondato il toro, con elmi e pennacchi ben in punto con spada, e scudo, indi quattro guerrieri simili, Farruscad e Voce / Un guer: All’armi, all’armi, / misero,a che venisti in questo loco? / mettono mano assaltano Farruscad / Far: All’armi pur. Mal spaventar si tenta / chi la vita non cura / accetta l’assalto, combatte fieramente con i due guerrieri, gli uccide uno dopo l’altro, vanno a cadere tuttidue in sito dove possano divenir quattro simili con sorpresa dell’uditorio a suo tempo / Un disperato /s’ impari ad assalir / qui i due divengono quattro assaltano Far / Un guer: Un disperato / impari come follemente espone / a inutil opra, e a morte la sua vita. / Far: Oimè! Misero me! Che vedo mai? / Questo mal sceme all’infinito cresce / ma timor non mi prende / viene assalito segue combattimento contro i quattro / Voce: è vana l’opra. / Figlio, ti volgi a destra, e quella pietra / raccogli in sul terren, scagliala in mezzo / a que’guerrier, che se gli uccidi ancora / di quattro agl’otto cresceranno, e d’otto / sedici diverranno, e all’infinito / la mesce crescerà. Tu perirai. / Far: Io t’obbedisco portentosa voce / del mio Geonca / raccoglie e scaglia la pietra in mezzo a’guerrieri i quali spariscono / Ite all’infernal baratro creature diaboliche» (DoSefε, cc. 30r-30v). MATTEO

MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, cit., t. II, p. 1095, libro III, canto II, ottave 13-16: «Come cadeva il grano in su la terra, / In diverso animal se tramutava: / Per tutto intorno Mandricardo serra, / E sua prodezza poco gli giovava, / Ché non se vidde mai sì strana guerra. / La folta sempre più moltiplicava / De lupi, de leoni e pori ed orsi: / Qual con graffi loro assalta, e qual con morsi. / Durando aspra e crudel quella contesa / Quasi era posto il cavalliero al basso, / E restava perdente de la impresa, / Tanto era de le fiere il gran fracasso; / Né potendo più quasi aver diffesa, / Chinosse a terra e prese in mano un sasso. / Quel sasso era fatato; e non sapea / Già Mandricardo la virtù che avea. / Questa pietra ch’io dico, avea segnali / Verdi, vermigli, bianchi, azuri e de oro, / E, come tratta fu tra gli animali, / Tra quelli apportò zuffa e gran martoro; / Perché e tauri selvatici e’cinghiali / E l’altre bestie cominciâr tra loro / Sì gran battaglia e morsi aspri e diversi, / Che in poco d’ora fôr tutti dispersi». Molto probabilmente Gozzi lesse Boiardo attraverso il rifacimento di Francesco Berni da cui qui di seguito sono tratte le ottave riguardanti gli stessi argomenti. FRANCESCO BERNI, Orlando innamorato già dal Sig. Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano ed ora rifatto tutto di nuovo da M. Francesco Berni, Fiorenza, [s. n.], 1725, p. 308, libro III, canto II, 18-20: «Come cadeva il gran sopra la terra, / Di diversi animai forma pigliava; / Ferendo d’ogni intorno il Tartaro erra, / Ma poco la sua forza gli giovava: / Mai non si vide la più strana guerra, / Ognor la flotta più moltiplicava / Di lupi, di lioni, e porci, ed orsi, / Chi con graffi l’assalta, e chi con morsi / Durando in questa guisa la contesa, / Il Cavalier alfin veniva lasso, / E restava perdente all’impresa, / Tanto era delle fiere il gran fracasso: / Onde ricorso all’ultima difesa, / Chinassi in terra, e prese in mano un sasso, / Il quale era fatato, e non sapea / Già Mandricardo la virtù, ch’avea. / Era la pietra distinta a segnali / Verdi, vermigli, bianchi, azzurri, e d’oro; / Come la trasse in mezzo agli animali, / Il Diavol parse, ch’entrasse fra loro: / Pantere cominciarono, e cinghiali, / Lioni, ed orsi, e l’un contro l’altro toro, / Sì gran battaglia, e scherzi così brutti, / Che in un momento fur dispersi tutti». Mandricardo è protagonista di un’altra azione ripresa similmente da Farruscad: capitato all’ostello dell’orco, ne richiama l’attenzione suonando la campana, così come il principe fiabesco suona il timpano prima di affrontare il toro (MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, cit., t. II, p. 1095, libro III, canto III, 37, p. 1117).

58 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 394, III, 3: «[Farruscad] porge la destra a Farzana, e con un prodigioso lampeggiar nell’aere sprofondano tutti e due».

59 DoSefε, c. 25r. 60 CARLO GOZZI, Il metafisico, ossia L’amore e l’amicizia alla prova. Dramma del Co. Carlo Gozzi, in Il

teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del

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Nel Serpente la scena seguente, depennata, consisteva nel racconto dettagliato di Truffaldino

della presa della città di Teflis da parte del re Morgone e dell’inaspettato prodigio che aveva

ribaltato le sorti del regno di Farruscad:

Brighella Truffaldino e Farruscad finto

Brig: affannoso correndo / maestà un gran prodigio, allegri, un gran prodigio…

Truf.: Correndo mette una mano sulla bocca a Brighella, che taccia, ch’è un ignorante, che quella non è maniera,

né stile per fare una narrazione a un re, che non ha viso di nunzio reale etc.

Brig.: Ch’è matto etc. Lo respinge, ripiglia la narrazione. La sappia Maestà, che nel tempo che il re Morgone…

Truf.: Tura nuovamente la bocca a Brighella, che risolutamente non può soffrire una narrazione così vile etc.

Brig.: che insolenza sia quella, che la faccia dunque lui etc

Truf: che stia zitto e l’ascolti. Rientra correndo ed esce con gravità. Signor / una mano alla fronte, e riverenza

grave / di portentose opre inaudite io nunzio son / un’occhiata a Brig. poi si rimette / di busne61 e cenamelle alla

moresca, e tamburelli al suono,

e d’urla spaventevoli, Morgone,

il feroce Morgone, a queste mura

dava l’assalto ed infinite scale

saliano i Mori dalla voce orrenda.

Dal re loro cacciati / un’occhiata come sopra / era Canzade

con Togrul valoroso sopra il muro,

e quinci, e quindi62 providi, e leggeri

correan per tutto, eran per tutto e spirto

mettean ne’ pochi lor soldati e pece

e acceso zolfo, e grosse pietre e travi

facean dall’alto traboccar sui capi

degl’arrabbiati miseri profani / come sopra /

eran però gli sforzi opera vana,

e dalla moltitudine già oppressa

soccombea la città quando… oh prodigio!

L’acqua del Fiume Cur, com’acqua al foco,

che nel lavegio al troppo ardor s’innalza,

più alto favore sui pubblici teatri, così italiani come stranieri, corredata di «Notizie storico-critiche» e del «Giornale dei teatri di Venezia», Venezia, [s.n.], 1798, vol. XIX, p. 87, III, 12: «Don Raimondo: [siede, s’appoggia al tavolino colla fronte appoggiata alla palma, mostra agitazione, e dopo essersi asciugato gli occhi, con gravità e commozione]».

61 Con busne (probabilmente il termine deriva dal francese busine e dal latino buccina, voce equivalente di tromba) si designa uno strumento a fiato che si specializza proprio nel Settecento come nome del trombone a tiro, o a “coulisse”.

62 Si rammenti l’uso frequente degli avverbi quinci e quindi nell’Orlando Furioso, per esempio nel canto XII: «E mentre or quinci or quindi invano il passo / Movea, pien di travaglio e di pensieri, / Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, / re Sacripante et altri cavalieri / vi ritrovò, ch’andavano alto e basso, / né men facean di lui vani sentieri; / e si ramaricavan del malvagio / invisibil signor di quel palagio» (LUDOVICO ARIOSTO, Orlando furioso, a cura di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 1976, t. I, p. 246, canto XII, ottava 11).

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rarefarsi vedemmo, e sormontata

nell’alveo suo, discender rovinosa

sopra al campo de’mori, d’un torrente

allagar la campagna, e ne suoi flutti,

e ne vortici suoi tutti i nimici

sollevar, sprofondar, girare intorno…

sollevar, sprofondar, girare intorno…

sollevar, sprofondar…

Brig: Mo via, sollevar, sprofondar e negar tutti.

Truf. sollevar, sprofondar, girare intorno… / con velocità /

come palio ne’ suoi voraci giri

ogni moro crudel. Morgone istesso

venne a gala tre volte bestemmiando

le stelle e il ciel, ma finalmente oppresso

fu dall’onde sommerso e al fondo giacque.

Brig. Dove diavolo abbia imparato quella storia.

Truf essere in possesso etc

Brig ch’è stata troppo lunga, che sua maestà non l’ha ne meno ascoltata.

Truf avvicinandosi al re finto fu dall’onde sommerso e al fondo giacque. Avvicinandosi più fu dall’onde

sommerso e al fondo giacque. Che par addormentato.

Brig che l’avrà fatto addormentare con quella lunga cantilena.

Truf Maestà maestà, se abbia udita la prodigiosa liberazione.

Re finto farà col capo di sì, poi tornerà nella prima positura.

Brig Truf si guarderanno l’un l’altro confusi63.

In questa lunga parodia delle narrazioni epiche e cavalleresche, in cui compare una parziale

improvvisazione in versi compendiata e confluita nella Colombani nella celebre scena di

Sacchi-Truffaldino venditore di gazzette64, è evidente l’impiego della tecnica del

63 DoSefε, cc. 25r-26r. 64 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., pp. 395-396, III, 5: «Truffaldino, con un tabarro corto, e lacero, un

cappello tignoso, e un mazzo di relazioni a stampa nella mani, indi Brighella. (Truffaldino imitando i venditori delle relazioni, verrà gridando il seguente compendio spropositato). Nuova, distinta, e autentica relazion, che ve descrive, e ve dichiara del gran sanguinoso combattimento seguito a dì, ecc. del mese di, ecc. sotto l’alma città di Teflis. Sentir, come el tremendo gigante Morgone diede l’assalto con due milioni di mori alla città di Teflis. Sentir, come bravamente, e valorosamente la città, e fortezza con quattrocento soldati soli se difese, e la gran strage, che si fece di quei barbari cani. Sentir, come se trovava in spaventoso pericolo e la città, e fortezza medesima. Sentir, come inaspettatamente, e prodigiosamente con permissione del cielo se innalzette il fiume, chiamato Cur, ecc. ha inondato tutto il campo di quei barbari cani. Sentir la tremenda strage, e come li ha negati tutti, col numero delle persone, che sono restate morte. Chi avesse caso di legger la autentica, e distinta relazion, si spende la vil moneta di un soldo. Nuova, e distinta relazion, ecc. Brighella: L’interrompe, e chiede, che vada gridando per la reggia. Truffaldino: La relazione della battaglia, e del prodigio, ecc. Brighella: Come si possa scrivere, e stampare un fatto successo che non è un’ora. Truffaldino: Che gli scrittori, e gli stampatori, quando si tratta di guadagnare, sono saette. Brighella: Che in quella città venderà poche relazioni alle genti già tutte

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“tormentone”, consistente nella ripetizione frequente e “ad effetto” di alcune frasi. Tale scena

soppressa, già nella versione manoscritta, viene sostituita da altre due, corrispondenti alla

quarta e alla quinta anche nell’edizione a stampa, ma con qualche variante aggiunta. La quarta

scena riscritta, infatti, risulta simile e non uguale a quella del testo edito: da un lato indugia

maggiormente su particolari macabri di un possibile suicidio del principe, e dall’altro,

menzionando la regina Culicutidonia65, rievoca una lettura sicuramente compiuta dal Gozzi,

affine anche al suo gusto polemico e parodistico, Rutzvanscad il giovine,

arcisopratragicissima tragedia ad uso del buon gusto de’ grecheggianti compositori da

Catuffio Panchiano bubulco arcade del nobile veneziano Zaccaria Vallaresso. L’opera,

parodia dell’Ulisse il giovane di Domenico Lazzarini, ha come protagonisti proprio dei

discendenti di Cherestanì e di Farruscad66 e dimostra ulteriormente l’ampia circolazione delle

novelle orientali nella Venezia dei primi decenni del Settecento.

La quinta scena del Serpente, sostitutiva della quarta cassata e corrispondente alla quinta della

Colombani, con la famosa comparsa di Truffaldino venditore della gazzetta contenente il

resoconto della battaglia, non include alcuna didascalia riguardante il vestiario di Sacchi; al

contrario, nell’edizione a stampa si trova esplicitato che egli indossi un tabarro corto e lacero

e porti un cappello tignoso. Sembra plausibile ritenere che l’indicazione, che si ritrova

identica nella Prefazione alla fiaba quando Gozzi ricorda appunto il successo ottenuto con

quella scena e le conseguenze provocate, sia stata aggiunta dall’autore dopo avere constatato

personalmente l’efficacia di quel tipo particolare di abbigliamento e l’immediata

comprensione da parte del pubblico della parte interpretata da Antonio Sacchi67.

informate del successo. Lo consiglia ad andare a Venezia ad intruonar con le grida il capo a chi passa, che venderà molte relazioni. Truffaldino: che per venderle a Venezia converrebbe aggiungere alla relazione trenta volte il doppio di successi. Brighella: Ch’è matto. Chiede dove sia il principe».

65 «Tartaglia: Non vorrei però […] che si fosse gettato col capo in giù in qualche destro reale come la regina Culicutidonia. Eh, non lo credo. Questo palagio è lungo mezzo miglio, si sarà ficcato nelle stanze più occulte verso scirocco. Seguimi Pantalone» (DoSefε, c. 28r). Proprio l’episodio citato da Gozzi, il suicidio della regina

Culicutidonia, fu raffigurato da Gaetano Zoppini nell’edizione Bettinelli (Venezia, 1737) di Rutzvanscad il giovine, arcisopratragicissima tragedia. Tale incisione è stata esposta alla recente mostra Carlo Gozzi 1720-1806. Stravaganze sceniche, letterarie battaglie, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, 20 luglio – 10 settembre 2006, ora nel catalogo Carlo Gozzi 1720-1806…, cit., p. 50.

66 ZACCARIA VALLARESSO, Rutzvanscad il giovine, arcisopratragicissima tragedia ad uso del buon gusto de’grecheggianti compositori da Catuffio Panchiano bubulco arcade in Teatrali serj e giocosi del secolo XVIII, Venezia, Antonio Zatta e figli, 1791, pp. 209-291. A dimostrazione della conoscenza di Gozzi della Histoire du roi Ruzvanschad et de la princesse Cheristany si leggano le seguenti battute. «Astrologa di piazza: Che sfortunato Rutzvanscad nipote! / […] Né le calamità, ch’oggi vedansi / Per colpa son del re, che saggio, e pio / Regge con dolce fren l’ignoto mondo: / Ma Giove irato, allorché l’ava insigne / Kerestanì, de Genj alta nipote, / S’unì contro il divieto ad un uom terreno, / Come ne fanno al mondo / Le novelle persiane eterna fede, / L’ira non vuol depor sinchè non veda / Tutta perir quest’infelice stirpe» (Ivi, I, pp. 212-213). Anche nell’inedita commedia gozziana Le gare teatrali, compare un riferimento all’opera di Zaccaria Vallaresso.

67 CARLO GOZZI, Prefazione alla Donna serpente, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. II, p. 112: «Essendo questa rappresentazione pienissima di prodigi, per risparmio di tempo, e di spesa alla truppa comica, e per non

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La quinta scena depennata, prosecuzione della quarta cancellata svolta al cospetto di un

fantoccio avente le stesse sembianze del principe (il già citato uomo figura simile a

Farruscad), prevedeva una gag comica di Smeraldina, Brighella e Truffaldino al cospetto del

finto re: i due uomini chiedevano a turno la mano della donna al sovrano, il quale, essendo un

fantoccio, non poteva fare altro che rispondere di sì con la testa, senza parlare, suscitando, con

la sua perenne approvazione a qualunque cosa, equivoci e pretesti per zuffe fra i tre68,

situazione tipica dei canovacci dell’arte.

La scena sesta cassata continuava nello stesso modo, ma l’arrivo del saggio Pantalone

spostava la discussione sul problema più serio dell’esigenza e soprattutto dell’urgenza di

seppellire i cadaveri che erano riemersi dopo il ritiro delle acque del fiume Cur, proposta a cui

si opponeva invece Tartaglia, anch’egli sopraggiunto nel frattempo, che proponeva di

spogliare i cadaveri prima della sepoltura. Anche in questo caso, il re rispondeva di sì ad

entrambi, creando nei due apprensione e preoccupazione per il suo stato mentale, mentre in

Smeraldina, Truffaldino e Brighella, che già precedentemente avevano sperimentato

l’“infermità” del re, la situazione suscitava ilarità e risate69.

obbligarla alla dimostrazione col fatto di molti avvenimenti mirabili, ma necessari da sapersi all’uditorio, feci uscire il Truffaldino imitator di que’ mascalzoni laceri, che vendono la relazione a stampa per la città, accennando il contenuto in compendio di quelle con de’ spropositi». Secondo Laura Riccò il ruolo che Truffaldino viene qui ad assumere prefigura, in modo sintetico, quello di Brighella nei Due fratelli nemici, in cui è incaricato di leggere, sotto forma di ossatura, il finale del suo dramma flebile, che altro non è se non quello della stessa pièce gozziana l’ossatura (cfr. LAURA RICCÒ, Parrebbe un romanzo…, cit., p. 167, nota 36).

68 Vista l’importanza di questa e delle altre scene inedite, si ritiene di trascriverle qui per intero. «Smeraldina e detti / Smeraldina allegra comincierà a narrare la liberazione della città. / Truf e Brig che faccia, ch’è informatissimo, ma che non parla, loro monosillabi e stupori e commiserazioni. Che sarà ciò per il dolore della perdita della consorte divenuta serpente. / Truf al re finto, se si contenti che per i suoi meriti sposi Smeraldina. / Re finto col capo di sì, e si rimette. / Brig che i suoi meriti sono maggiori, che sua maestà non lo priverà d’una sposa da lui per tanto tempo desiderata, lo prega della grazia. / Re finto col capo di sì poi si rimette. / Smer che non crede mai che voglia obbligarla a prendere un marito contro suo genio, che veramente inclina a Truffaldino, che glielo conceda. / Re finto col capo di sì, poi si rimette. / Brig che lo supplica a non fargli tal torto, cha ha una promissione di Smeraldina, che comandi che la promessa sia eseguita. / Re finto di sì e si rimette. / Truf Smer Brig loro stupori e confusione per quel sì perpetuo in questo» (DoSefε, c. 26r).

69 «Magnifico, Tartaglia e i detti / Magnifico a Tartaglia che lasci parlare e narrare il fatto a lui perché s’andrebbe troppo alle lunghe / Tart vuol incominciar narrazione / Truf che non s’incomodino che S. M. è informato, ma che ha girato il cervello, che non parla, e che fa cenno di sì sempre senza saper che si faccia. / Mag che sarà il dolore della moglie serpente, che alla fine si darà pace / Tart che anch’egli ha una moglie serpente, e che conviene sofferirla. / Brig che tal più al meno crede che tutti le mogli siano serpenti. / Mag che non era tempo di scherzi. Al re finto che si dia pace, che per allora non lo disturba di vantaggio. Che le acque sono calate, che il campo è pieno di cadaveri, se permetta che vadino a farli seppellire perché non cagionino corruzione nell’aere. / Re finto sì col capo, e si rimette. / Tart che crede bene prima di seppellire i cadaveri, di fare lo spoglio, se così voglia. / Re finto di sì e si rimette. / Truf Brig Smer Signor sì, Signor sì, Signor sì, loro risata. / Mag a sua maestà che il caldo è grande, che ci vorrebbero sei giorni di tempo a fare lo spoglio di si gran numero, che il fettore potrebbe appestare l’aere del territorio. / Re finto di sì, come sopra. / Tart che si perde un’utilità grande, che lo consiglia a permettere lo spoglio. / Re finto di sì e come sopra. / Brig Smer Truf Signor sì, Signor sì, Signor sì, risata. / Mag ridè cagadonai? Ave cuor de rider in sto boccon de disgrazia? / Non so che cuor che abbie qua bisogna subitamente cercar un chirurgo, e farghe cavar sangue» (DoSefε, cc. 26r-26v, III, 6).

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L’accumulazione progressiva dei personaggi della vicenda veniva esaurendosi nella scena

settima, in cui, davanti al re finto, comparivano anche Togrul e Canzade chiesta in sposa

proprio dal visir70: in questo modo si ritrovavano in scena pronti per assistere al “gran finale”

tutti gli attori che, con le loro entrate, avevano smorzato la tensione drammatica della terza

scena e contemporaneamente erano riusciti a creare un clima di suspense e attesa. Nell’azione

successiva la voce di Geonca svelava ai presenti il mistero: quello seduto non era il re, ma uno

spettro lasciato per ingannarli; il vero Farruscad infatti aveva deciso di affrontare prove

terribili pur di riavere la consorte. Al termine delle parole del mago, una didascalia prevedeva

la sparizione del re finto e la presenza del solo canapè, a cui seguivano i lamenti di

Truffaldino per avere composto un resoconto così poetico andato poi sprecato perché recitato

inanzi a una statua.

Appartenenti alla fase intermedia di elaborazione tra la versione manoscritta completa della

fiaba e l’edizione a stampa possono considerarsi i fogli sparsi71, sempre manoscritti, che

seguono Il Serpente e che contengono una versione di alcune scene del testo72, in certi casi

diverse da entrambe

le redazioni sin qui considerate. Una prova per stabilire la data di stesura di queste carte è

l’assenza delle parti cassate nel Serpente, precisamente della quarta, della quinta, della sesta e

della settima scena del terzo atto; sono presenti, invece, le scene che già nella versione

manoscritta integrale erano state proposte in alternativa a quelle depennate e che si ritrovano

uguali anche nel testo edito.

In una delle pagine spurie73 si trova il nome di Ruzvascad, protagonista della tragicommedia

di Vallaresso e eroe della fiaba Histoire du roi Ruzvanschad et de la princesse Cheristany

contenuta nella raccolta di favole Les mille et un jours, cancellato e sostituito con quello di

Farruscad74. Evidentemente si tratta di un lapsus dello scrittore, segnale della presenza

costante delle letture compiute e della varietà e vastità delle fonti intrecciate nelle fiabe, che

risultano complessivamente appartenenti a tre generi: la favolistica orientale, il poema eroico-

70 «Canzade, Togrul, e i detti / Canz Fratel liberi siamo. / Togr Ah mio Signore / si compia l’allegrezza, e

s’ebbi mai merito alcun, della sorella vostra / la desiata man mi sia concessa. / Re finto di sì, e come sopra. / Tart Brig Truff Smer Signor sì, Signor sì, Signor sì, loro risata. / Canz Qual stravaganza! A che si scherzi, indegni. / Mag Mo altezza la xe cusì lù. Xe mezz’ora che no se ghe pol cavar altro che un sì fuora de proposito. / No digo che nol dovesse dir de sì alla domanda de sior / Visir meritevole de tutto, ma se ella ghe dirà: despenseme» (DoSefε, c. 26v).

71 Fondo Gozzi, collocazione 4.2 / 2, carte sciolte, anno 1762 circa, cc. 11, cartulazione nuova a matita; mm. 286 x 206 rilevata alla c. 1.

72 Più precisamente questi fogli riportano del primo atto le scene 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, del secondo le scene 4, 5, 6, 7 e del terzo le scene 5, 6, 7, 8.

73 Il foglio si trova tra la carta 9v. e la carta 10r. 74 Fondo Gozzi, 4.2 /2, carta che si trova tra la c. 9v. e la c. 10r.

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comico, a cui Gozzi si ispirerà soprattutto per la Marfisa bizzarra, e il poema cavalleresco, in

particolare l’Orlando innamorato, l’Orlando Furioso e la Gerusalemme liberata75.

Oltre alla fondamentale presenza del poema boiardesco nell’episodio del bacio al serpente, già

evidenziata da Alberto Beniscelli, è curioso notare il rinvio a questa fonte nei fogli sparsi in

forma di appunto dello scrittore: «un asinello con le orecchie pungenti e la coda tagliente. toro

con corna e coda di fuoco»76. Entrambi gli animali rimandano all’Orlando innamorato,

rispettivamente al combattimento di Orlando nel giardino di Falerina contro l’asino mostruoso

che presidia la porta di ponente e contro il toro posto a guardia della porta di mezzogiorno;

quest’ultimo episodio fu poi riutilizzato da Gozzi per la prima prova di Farruscad77.

Rispetto al Serpente, in queste carte appare meno sottolineato il lato serio e alto della fiaba.

Per esempio, Tartaglia, qui connotato maggiormente dal linguaggio della maschera, si prepara

alla battaglia dicendo: «Io per altro sono risoluto o di morire, o di foderarmi un

75 Nel Serpente, alla carta 14v Gozzi, nella stesura della satira che Truffaldino compie riguardo alla vita in

città, aggiunge alla fine come “nota di scena”: «vidi e conobbi anch’io le inique corti», che al pubblico colto richiamava la celebre ottava del poema tassiano (TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., p. 152, canto VII, 12: «Tempo già fu, quando più l’uom vaneggia / ne l’età prima, ch’ebbi altro desio / e disdegnai di pasturar la greggia; / e fugii dal paese a me natio, / e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia / fra i ministri del re fui posto anch’io; / e benché fossi guardian de gli orti / vidi e conobbi anch’io le inique corti»). D’altro canto, la presenza della Gerusalemme liberata si coglie anche nella descrizione di Canzade come guerriera, compiuta da Smeraldina, che ricorda da vicino la figura di Clorinda e in un’ottava dedicata all’eroina tassiana si ritrova lo stesso sintagma, i vani colpi, che ricorre anche nella prima scena in cui compare Canzade. CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., pp. 263-264, II, 8: «CANZADE: vidi ‘l gigante, e disdegnosamente / or a fianchi, ora fronte, de fendenti, / di punte, di rovesci, e mandritti / caricai quel feroce. Ei colpi vani / della ferrata mazza disperato / menava all’aria. Il mio destrier veloce / saltar facendo, a vuoto egli feria»; TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., p. 178, VII, 118: «Così spinge le genti, e ricevendo / sol nelle spalle l’impeto d’inferno, / urta i Francesi con assalto orrendo, / e i vani colpi lor si prende a scherno».

76 Mss. Fondo Gozzi, 4.2 /2, c. 1v. 77MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, cit., t. II, pp. 600-602, libro II, IV, 56-61 e pp. 596-597,

libro II, IV, 41-45: «Come è la porta nella prima faccia. / Tutta è di zoie, e vale un gran tesoro; / non la diffende né spata né maccia / ma un asino coperto a scagli d’oro, / ed ha l’orecchie lunghe da due braccia: / come coda di serpe quella piega, / e piglia e strenge a suo piacere e lega / […] ma la sua coda taglia come spata, / né vi può piastra né maglia durare»; «E una porta di bronzo si disserta: / Fuora usc’il toro a mezo della terra. / Mugghiando uscitte il toro alla battaglia, / e ferro e foco nella fronte squassa, / né contrastar vi può piastra né maglia, / ogni armatura con le corna passa. / […] Per questo la battaglia non s’arresta / con l’altro corno, ch’è di foco, mena». FRANCESCO BERNI, Orlando innamorato…, cit., p. 169, libro II, IV, 55-56 e p. 168, libro II, IV, 39-42: «Mai non fu visto sì ricco lavoro / Che questa porta mostra in prima faccia / Tutte son gioje, e vogliono un tesoro, / E non è che per lei difesa faccia; / Se non un’asinel, di scaglie d’oro / Coperto, e lunghe ha l’orecchie due braccia, / Che, qual serpe la coda, quella piega, / E piglia, e stringia ciò che vuole, e lega. / Tutto è coperto di scaglia dorata / Com’io ho detto, e non si può passare, / Taglia la coda qual spada affilata / Né vi può arme resistenza fare»; «Tinto s’è con quel sangue in ogni loco, / Perché altrimenti tutta l’armadura / Gli arebbe consumata a poco a poco / Quel toro, ch’era cosa orrende, e scura, / Ch’ha un corno di ferro, ed un di foco, / Al ferir suo nessuna cosa dura, / Arde, e consuma ciò, che tocca appena, / Resiste il sangue sol della serena. / Di lui, poco di sopra fu detto, / ch’era guardian di verso mezzo giorno, / Il Conte venne alla porta in effetto, / Poiché si fu aggirato un pezzo intorno: / E quel sasso, ond’egli era chiuso, e stretto / E di bronzo una porta anche fu aperta, / Ecco la fiera con la testa all’erta / Mugghiando esce e zappando alla battaglia, / E ferro, e foco con la fronte squassa, / Né contrastar vi può piastra, né maglia, / Ogni armatura con le corna passa. / Il conte con quel brando, che strataglia, / Gli tira un colpo alla testa giù bassa, / Proprio lo giunse nel corno ferrato, / E glie l’ha tutto di netto tagliato. / Ma di ferir per questo il tor non resta, / Con l’altro corno, ch’è di foco mena / Con tanta furia e con tanta tempesta, / Che il Conte si sostiene in piedi appena».

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giamberlucco78 per questo verno di mostacchi di moro», mentre nel manoscritto integrale si

legge: «TARTAGLIA : Oh, dieci contro diecimila; ma non mi importa; mi sento uno spirito

superiore. È meglio morire ammazzato in una battaglia che dalla fame»79.

I fogli manoscritti presentano tagli rispetto al Serpente: per esempio, vengono espunte le parti

del dialogo tra le due fate nella prima scena riguardanti il giuramento prossimo a cui sarà

chiamato Farruscad e le conseguenze del suo spergiuro. In questo modo, Gozzi non si lascia

sfuggire alcuna anticipazione al pubblico; questa soluzione però, nel momento di preparare il

testo per la stampa, viene rivista dallo scrittore, che forse preferisce informare da subito il

lettore di quanto accadrà; infatti la versione di questa scena per la pubblicazione riprende

quella del Serpente.

Probabilmente il drammaturgo, prima di fissare definitivamente la versione per la stampa,

torna a riflettere anche sull’onomastica80 e i fogli documentano tale ripensamento: per

esempio, si scopre che il nome originariamente scelto da Gozzi per la sorella di Farruscad era

Schirina81, che qui compare cassato e sostituito con quello di Canzade, adottato anche nella

Colombani.

Inoltre, il nemico moro non è Morgone come nell’edizione a stampa, ma Torgut/Torgutte82,

nome che sia nel manoscritto contenente l’intera fiaba che nei fogli sparsi appare sempre

cassato e sostituito con il primo. Tale correzione - proprio perché presente in entrambe le

versioni a mano ed inoltre scritta con l’inchiostro nero, non con quello marrone con cui era

solito scrivere Gozzi – dev’essere frutto di un ripensamento successivo alla data della stesura

completa della storia. Analogamente, nella redazione delle carte spurie, la maschera generica

del Magnifico, protagonista del Serpente, è sostituita con quella specifica di Pantalone; tale

soluzione si ritrova anche nel testo edito e dimostra ulteriormente l’appartenenza dei fogli ad

una fase di elaborazione intermedia.

Gli esempi citati permettono di concludere che Gozzi, nei dieci anni intercorsi tra la

rappresentazione delle fiabe e la loro versione finale per la princeps, periodo in cui si ritiene

che questi fogli siano stati stesi, non aveva ancora stabilito definitivamente l’attribuzione dei

78 Variante arcaica per l’italiano “zamberlucco”: lunga e larga veste di panno, che usavano gli anziani per

ripararsi dal freddo. 79 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 393, III, 2. 80 Nell’iniziale elenco dei personaggi compaiono anche quelli che durante lo svolgimento della vicenda

vengono solo nominati, come il sacerdote Chesaja, il padre di Farruscad, il re Agazir (e non Atalmuc) e Gulinda, padre di Cherestanì.

81 Il nome di Schirina compare anche in un’altra fiaba, la Turandot. 82 Il nome Torgutte richiama Margutte, il mezzo gigante astuto, violento e dedito solo al bere e al mangiare,

compagno di Morgante nell’omonima opera del Pulci mentre Morgone contiene la radice del nome Morgante.

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nomi ai personaggi delle sue opere, come si dimostrerà più dettagliatamente nel capitolo

riguardante Zeim re de’ geni.

Un documento assai prezioso per l’esame del processo compositivo della fiaba è costituito da

quattro fogli manoscritti sparsi diversi da quelli sin qui esaminati, compresi in un fascicolo

fittizio 83, contenenti la prima parte del testo gozziano. È presumibile che queste carte

precedano la redazione manoscritta completa della fiaba sia per la mancanza di parti in versi,

sia perché diversa è l’onomastica dei personaggi. Inoltre nel discorso di Truffaldino mancano

o sono ridotte le esclamazioni di sorpresa e le ripetizioni che caratterizzano l’intervento della

maschera, soprattutto nel Serpente, dove esse sono distinte dal resto del racconto per la loro

sottolineatura (la battuta «e cusì sior mio benedetto» compare qui solo una volta al contrario

della stesura completa, dove appare per cinque volte, mentre sono cassate le espressioni del

tipo «e corri, e corri, e cammina, e cammina»).

I quattro fogli riportano poche scene della vicenda tra cui quella iniziale così riassunta:

«Boschetto. Scena prima di due damigelle vestite di bianco. Si lamentano fra loro che la

giornata fatale si avvicina. Che chi sa se passerà felicemente. Se Cherestanì loro padrona

scanserà la sventura perché Ruzvanscad sarà spergiuro». Tale bozza può indurre alla

congettura che inizialmente le due compagne di Cherestanì non fossero fate ma semplici

damigelle, circostanza che avrebbe privato il prologo celeste della patina di magia e mistero.

D’altro canto il ridimensionamento dell’elemento soprannaturale è rintracciabile anche nel

racconto di Truffaldino a Brighella sulle modalità con cui si era ritrovato nel deserto: mentre

nella versione a stampa e nel Serpente il mago Geonca aveva indicato la via per raggiungere il

principe, in una carta dei quattro fogli sparsi si legge che «un Filosofo gli aveva detto che si

portasse sul monte Olimpo»84.

Dall’analisi del Serpente emerge la figura di un Carlo Gozzi che non fu solo drammaturgo,

ma uomo di teatro tout court: profondo conoscitore della macchina teatrale e primo spettatore

ideale delle sue invenzioni fiabesche, nel manoscritto il veneziano dimostra, almeno in nuce,

di sapere orchestrare i diversi coefficienti scenici. L’attenzione dimostrata verso la

83 Mss. Fondo Gozzi, 10.14, cc. 36r-37v conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

Cartaceo, carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse a matita “Frammenti Teatro”; secoli XVIII seconda metà e XIX inizio; cc. 102. Cartulazione nuova a matita, mm. 302 x 213 (dimensione maggiore, rilevata alla c.1), mm. 173 x 117 (rilevata alla c. 6). Numero d’ingresso nella Biblioteca Marciana 378733. L’onomastica di queste carte costituisce un’altra prova della conoscenza da parte di Gozzi dell’opera di Zaccaria Vallaresso e della suggestione che esercitò sul drammaturgo: in queste carte il protagonista maschile è identificato come Ruzvanscad e anche il nome del padre defunto, che qui è Muezim anziché Atalmuc, ricalca quello di un figlio della regina Culicutidonia (il nome dell’altro figlio della regina, Calaf, sarà impiegato nella Turandot).

84 La citazione è tratta dalla carta 36v del fascicolo dal Fondo Gozzi, 10.14.

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costumistica e verso la scenografia nonché verso una sia pur minima gestualità e l’intonazione

della voce esprimono il desiderio dello scrittore di trasportare sul palcoscenico un’opera il più

possibile simile a quella che aveva immaginato componendola e di offrire agli attori, almeno

nelle parti più difficili da rendere visivamente, una personale indicazione da seguire per non

tradire la sua intenzione originaria.

I manoscritti del Mostro turchino

SINOSSI Zelou, un genio di rara bellezza da tempo trasformato in mostro turchino e costretto a vivere in una grotta per avere offeso i Saggi del monte sacro della Cina, tramuta nel mostro turchino il giovane principe Taer, unico modo, questo, per liberare se stesso dall’ingrata sembianza. Nel contempo, cambia la sposa di Taer, la principessa Dardanè, in un uomo e le impone il silenzio sulla sua natura femminile, pena la morte. Infine sollecita Taer a leggere un libro in cui è scritto il suo destino. Atto secondo. Alla reggia di Nanquin, il vecchio re Fanfur, padre di Taer, assiste all’estrazione dall’urna del nome della giovane vergine destinata all’idra, un mostro dall’alito letale che, insieme al cavaliere fatato, divoratore di tutte le persone che passano sotto la sua torre, e al mostro turchino, colpevole delle razzie di bestiame e della distruzione delle coltivazioni, costituisce i tre flagelli che si sono abbattuti sulla città cinese, immediatamente dopo le nozze del re con Gulindì, una perfida e lasciva schiava che, mentre simula amore per il marito, lo tradisce circondandosi di amanti travestiti da damigelle, come maliziosamente rivelano i ministri di Fanfur, Tartaglia e Pantalone. Nel frattempo è giunta presso la corte Dardanè, sotto il nome di Acmed, che desta la passione di Gulindì in modo talmente sfrenato da indurla a dichiararsi al giovane, fino a promettergli di avvelenare il re per ottenere il regno. Acmed, non potendo palesare la sua vera natura, esorta la donna ad amare il marito, ma il loro incontro è scoperto da Fanfur che ne chiede spiegazione. La schiava, per vendicarsi di essere stata respinta, fa credere al re che il giovane voglia combattere con il mostro turchino, Fanfur le crede e acconsente al presunto desiderio. Atto terzo. Il nome estratto dall’urna è quello di Smeraldina che, vergine, era giunta da poche ore in città. Il capitano delle guardie, Brighella, che ha il compito di arrestarla e di imprigionarla per offrirla all’idra il giorno seguente, scopre che la donna è sua sorella. Nonostante ciò, appellandosi al valore dell’eroismo – un valore che appare in realtà svuotato e degradato – il fratello decide di compiere il proprio dovere e incarcera Smeraldina. Nel frattempo Acmed si reca nel bosco dove vive il mostro turchino, sotto cui si cela Taer; esso si offre volontariamente al giovane e, lasciatosi incatenare e condotto a corte, le parla con amore, incitandola a non provare disprezzo per lui. Atto quarto. Acmed, attraverso le armi magiche regalatele dal mostro, affronta e vince un cavaliere fatato, che in realtà scopre non possedere alcuna forma umana ma essere un’armatura vuota, e abbatte anche sopraggiunta per divorare Smeraldina. Non appena l’animale è ucciso, Gulindì muore, ma, spinta dal rancore, presso il re accusa Acmed di averla avvelenata, dopo aver tentato invano di sedurla. Fanfur decide immediatamente di far imprigionare il giovane e di ucciderlo il giorno seguente. Atto quinto. Nonostante la prospettiva di fuga offerta da Tartaglia, Acmed decide di restare in prigione insieme al mostro turchino e, non potendo dimostrare la sua innocenza, accetta il destino di morte incombente. Proprio mentre il re preleva il giovane, il mostro ne svela l’identità e Acmed per magia torna ad essere Dardanè; Taer, che non è riuscito a farsi amare dalla donna, sta per morire, secondo la profezia, ma la sposa, intuendo la possibilità che dietro

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le fattezze ferine vi sia l’amato, si dichiara innamorata del mostro. Una luce risplende nel carcere: il principe si materializza, abbraccia il padre e Truffaldino, servitore di Taer riprende a cantare il motivo popolare dedicato a Smeraldina dedicatole nel bosco all’inizio della vicenda.

Mtfβ: brogliaccio del Mostro turchino contenuto nel Fondo Gozzi

Mtfγ : prima ossatura del Mostro turchino contenuta nel Fondo Gozzi

Mtfδ : seconda ossatura del Mostro turchino contenuta nel Fondo Gozzi

Mtfε : stesura in versi del Mostro turchino contenuta nel Fondo Gozzi

Mtm :manoscritto marciano preparatorio per l’edizione Colombani Mts : edizione Colombani del Mostro turchino

Nel faldone relativo al Mostro turchino conservato nel Fondo Gozzi si trovano un fascicolo85

contenente una stesura autografa, in versi, di quasi tutta la fiaba (da qui in avanti Mtfε) e tre

fogli autografi sciolti recanti abbozzi dell’originaria ossatura della fiaba (carte 20r-v, 22r–v e

23r-v).

Mtfε che presenta una versione del Mostro turchino verseggiata e divisa in atti e scene assai

simile86 a quella contenuta nel manoscritto marciano approntato per l’edizione Colombani87

(Mts), non riporta l’intera fiaba: mancano infatti – probabilmente a causa della perdita di

alcune carte - l’intero secondo atto, la penultima e l’ultima scena del terzo atto.

Nella forma di una nota consuntiva è stesa la descrizione dell’idra nel “vecchio” manoscritto

marciano (Mtm) e nella Colombani (Mts), mentre in Mtfε non si specifica che il mostro abbia

sette teste. Da una parte ciò si spiega con l’uso a cui sono preposte le diverse redazioni: è

plausibile che la versione manoscritta Mtfε sia la più simile alla redazione del copione e

lasciasse dunque aperte, o meglio non specificate, le soluzioni scenografiche e costumistiche,

al contrario delle versioni di Mtm ed Mts, destinate ai lettori, la cui fantasia visiva si voleva

alimentare.

85 Conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia «Mss. Fondo Gozzi, 4.4. Cartaceo; carte

sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1859-1935) scrisse ad inchiostro viola “Volume III, pg. 89 Il mostro turchino” con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1765-1802; cc. 23 (cartulazione nuova a matita; bianca la c. 21); mm. 281 x 203 (rilevata alla c. 1). Numero d’ingresso nella Biblioteca Marciana 378730», in Carlo Gozzi (1720-1806) cit., p. 125.

86 Dal punto di vista linguistico, Mts si differenzia da Mtfε per l’aggiustamento delle geminate e dei

raddoppiamenti ipercorretti e per l’italianizzazione di alcuni termini: per esempio il vocabolo dialettale «scapezzare» è sostituito con «traboccare» («TRUFFALDINO: Che si deve lasciar, che i cavalli mangino un poco d’erba, perché traboccano ogni momento per debolezza», CARLO GOZZI, Il mostro turchino in IDEM, Opere…, cit., p. 593, I, 2).

87 Conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Mss Ital. Classe IX, n. 681, collocazione 12071.

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Mtfε non è preceduto dalla Prefazione, scritta, come è noto, in previsione dell’edizione

Colombani e non presenta la definizione «fiaba tragicomica in cinque atti», che Gozzi

aggiungerà solo in seguito, durante il momento di revisione globale delle sue opere, nel

tentativo di inserirle in un quadro programmatico.

Confrontando il manoscritto Mtfε, privo di licenza di rappresentazione e quindi non

identificabile con il copione, con quello del Serpente in cui invece è acclusa tale licenza, si

perviene a due possibili conclusioni: la prima è che Gozzi, a quest’altezza cronologica (1764),

dopo essersi cimentato per tre anni con la scrittura e la verifica sulla scena delle

rappresentazioni fiabesche, scelga di preparare, in vista dello spettacolo, un testo quasi

interamente scritto (pochissime sono le scene lasciate ad arbitrio degli attori); più

probabilmente, però, Mtfε è stato composto poco prima di Mtm: infatti in Mtfε non sono

presenti alcune diciture tipiche degli scenari della commedia dell’arte - per esempio “via”, “il

fine dell’atto” - e le didascalie non sono sottolineate, prassi invece riscontrata nel Serpente e,

in precedenza, da Bosisio nel copione del Re cervo) e ciò potrebbe ipotizzare che Mtfε costituisca una sorta di “brutta copia” di Mtm. A testimonianza di tale passaggio di funzione –

da un testo per lo scrittore a uno per un pubblico di lettori - si può addurre, in maniera

esemplificativa, la diversa risoluzione di una battuta. In Mtm ed Mts, la prima battuta di

Truffaldino, scritta in prosa, termina con «canterà la strofa seguente di canzon nota e

popolare»88 a cui seguono le strofe di tale motivetto; in Mtfε non si riscontra questa

prescrizione e viene immediatamente proposta la canzone, senza alcuna indicazione.

A livello formale la stesura di Mtfε è molto simile a quella di Mtm: le parti dei personaggi seri

sono interamente verseggiate, mentre quelle delle maschere sono per lo più in prosa; essa,

tuttavia, lascia due scene ad arbitrio dei comici, che risultano stese in dettaglio nella versione

a stampa. Infatti, in Mtfε a conclusione della seconda scena del primo atto si legge:

In questa scena Truffaldino potrà bere il licore anche prima che parta Smeraldina. In dimenticanza tuttidue,

potranno credersi l’una meretrice, l’altro assassino in quel bosco, o altro, far baruffa, ingiuriarsi e corrersi dietro

partendo. La scena resta ad arbitrio89.

88 CARLO GOZZI, Il mostro turchino cit., p. 593, I, 2. 89 Mtfε, c. 2v.

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Tale suggerimento, o meglio il suo possibile sviluppo, non è accolto in Mts in cui Truffaldino

beve il liquore magico solamente dopo la dipartita di Smeraldina, non innestando ulteriori

sketch tipici della commedia all’improvviso.

In questa stessa scena alle maschere è affidata un’altra scena ad arbitrio:

Scherzi di Truffaldino e Smeraldina su questo velo incantato, sulla sua dilattazione universale, sulle spalle delle

donne. Truffaldino crede che quasi tutti i veli che si vendono alle botteghe abbiano queste virtù [Truff crede che

il Cosmopolita abbia venduto un infinità di questi veli etc.].

Tale indicazione nella Colombani è così risolta:

TRUFFFALDINO: Se abbia avuto lei quel velo sulle spalle qualche volta, ec.

SMERALDINA: Non mai; ma che sarebbe stata costante anche se lo avesse avuto.

TRUFFFALDINO: Suoi scherzi su questo velo incantato; che crede oggidì tutti i veli, che si vendono alle botteghe

alle donne, incantati come quello di Bizeghel90.

In questo modo viene espunto qualunque riferimento alla realtà veneziana dell’epoca: il

Cosmopolita, infatti risulta nominato anche da Goldoni negli Innamorati91 e sembra

desumersi un ciarlatano settecentesco conosciuto nella città di Venezia.

Anche a livello contenutistico Mtfε non presenta varianti sostanziali rispetto alla vicenda

edita; tuttavia le cassature ivi presenti sono interessanti perché dimostrano la tipologia della

revisione gozziana operata sulla trama che mira al conseguimento di un grado patetico

maggiore rispetto alla prima stesura.

Il drammaturgo cancella l’ammonimento esplicito rivolto dal mostro a Dardanè sulla

necessità che ella si innamori di lui - e tutti i riferimenti relativi - pena la morte dello sposo, e

riscrive l’avvertimento in maniera più sibillina, assegnando al principe, trasformato in mostro,

il tentativo di convincere la donna ad amarlo.

Mostro Figlia ti ferma. Dard. Che più dir vorrai? Mostro Di tua condizion poco ti dissi. Dard. Che mai ti resta a dir?

ZELOU: Figlia, ti ferma. DARDANÈ: Che più dir vorrai? ZELOU: Tu in questo bosco per tua cruda stella / fra poco tornerai.

90 CARLO GOZZI, Il mostro turchino cit., p. 594, I, 2. 91 CARLO GOLDONI, Gl’innamorati, a cura di Siro Ferrone, Venezia, Marsilio, 2002, p. 113, II, 14: «Fabrizio:

Aspettate, che vi voglio guarir del tutto. Vado a prender un maraviglioso, stupendo arcano del famosissimo, magnificentissimo Cosmopolita». La nota, a p. 151, riporta: «dall’Ortolani in poi tutti i commentatori parlano di un famosissimo ciarlatano settecentesco, senza però fornire ulteriori spiegazioni».

92 La stessa battuta sarà poi affidata al mostro/Taer nella conclusione della vicenda: prima che il re entri nella prigione per uccidere Dardanè, esso le giura che se si svelerà o se non si innamorerà di lui il suo sposo morirà: «

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Mostro Contempla, figlia, / quest’orridezza mia, guardami attenta. Dard. Sì, ben ti guardo, ed a fatica io miro / [l’orrenda effiggie] , e il mostruoso corpo. / Non m’obbligar più a lungo a rimirati. Mostro Misera dimmi, il tuo Taer ti preme. Dard. Ah! Non mel chieder più. Quanto me stessa / mi preme il mio Taer. Mostro Sappi, io compiango / la tua condizion. [Tu il tuo caro amante / non averai mai più se pria quel core non s’ammollisce / e se nol prende affetto, tenero amor per quest’orrida effigie.] Dard. [Ah Dio! Che xxx innamorarmi io deggio / dell’orridezza tua.] Non resisto il tuo / sguardo. Mostro [Dardanè ascolta. Giuro per quanto / ho di più sacro al Cielo, per la stigia Palude, / pel Barbaro infernal che se il / tuo core di me non si innamora / della mia presenza perduto / è il tuo Taer92. Dard. Ah come mai mover potrassi il / cor per tal oggetto / Taer Taer tu sei dunque perduto / piange/ Mostro prendendo la mano Figlia, non tel dissi io / che dura e acerba è la tua condizion? / Non sbigottirti gratitudine spesso in sen di donna, di donna giusta, il cor commuove / e accende. / Per un oggetto d’orridezza carco. Non disperar / in tutto.] In Nanquin passa / t’esponi alla miseria a cui ti deggio / inviar obbedendo al tuo destino. / I miei precetti non scordarti. [Impresa / impossibile è certo il strano amore / ma senza questo è il tuo Taer perduto / né dispensarti dell’amore io posso] Dard. Non sbigottirti Dardanè. M’affollano / le idee confuse [incontransi i perigli] / Tutto si soffra. Si converta il core. / Guarda il mostro / oh Dio Taer Taer soffrirò tutto / ma che a tanta orridezza il cor si mova / questo non sia giammai. Taer ti perdo / ma con la morte mia sarai perduto / via93.

DARDANÈ: E che per questo? ZELOU: Di tua condizion poco ti dissi. DARDANÈ: Che mai ti resta a dir? ZELOU: Contempla, figlia, / quest’orridezza mia, guardami attenta. DARDANÈ: Sì, ben ti guardo, ed a fatica io miro / l’atroce effigie, e il mostruoso corpo. / Non m’obbligar più a lungo a rimirati. ZELOU: Misera! Dimmi, il tuo Taer ti preme? Dardanè: Ah! Non mel chieder più. Quanto me stessa / mi preme il mio Taer. ZELOU: Sappi, io compiango / la tua condizion. Contempla, figlia, / quest’orridezza mia, non spaventarti. DARDANÈ: Oh Dio, mi sciogli, non voler, ch’io miri / tanta orridezza. Qual strana richiesta? / non resiste il mio sguardo ZELOU: Ah miserabile! / Di più non dico. Parti; in Nanquin passa, / t’esponi alla miseria, a cui ti deggio / inviar, obbedendo al tuo destino. / I miei precetti non scordarti. Ah, figlia, / impossibile è certo quest’impresa, / ch’io ti deggio tacer. Taer tu perdi, / né dispensarti dall’impresa io posso. DARDANÈ: Non sbigottiti, Dardanè. M’affollano / le idee confuse e questo Mostro iniquo… / scaglierammi nel pelago crudele / degl’inauditi arcani di miseria. / Tutto si soffra, e almen lo sposo mio / sappia, ch’io tutto feci, e se la morte / mi troncherà le vie di possederlo, / morte m’è necessaria; altro non voglio94.

La revisione gozziana sortisce l’effetto di far innamorare la protagonista del mostro in

maniera più spontanea: Dardanè, seppure in ultimo, è sì spinta a confessare il proprio amore a

Zelou/Taer perché intravede la possibilità che sia lo sposo, però non ne ha la sicurezza; al

contrario, nella versione di Mtfε il mostro addirittura compie un giuramento sulla veridicità

delle sue parole, secondo cui la donna non rivedrà il marito se prima non si innamorerà di lui.

Quest’ultima idea si riscontra già nei primitivi abbozzi costituiti dalle carte sciolte che

corredano il fascicolo; infatti in esse si legge:

DARDANÈ: Giurami ancor, che, se a fanfur mi scopro, / perduto è il mio Taer. Giurami ancora, / che, s’io non t’amo, al tramontar del sole / l’amato mio taer la vita perde. TAER: per quanto è di più sacro in ciel rinchiuso / per la stigia palude, in sulla fronte, / sopr’al mio capo, Dardanè, tel giuro», in CARLO GOZZI, Il mostro turchino cit., pp. 671-672, V, 4.

93 Mtfε, cc. 4r-4v. 94 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., pp. 600-601, I, 4.

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Spaventi della principessa. Umanità del mostro. S’introduca la commisera. Che vedrà il principe ma non lo

conoscerà che dovrà patire gran tribolazioni, che in ogni caso chieda soccorso a lui, ma che sino che non si

innamora di lui non vederà il suo Principe […] se dirà nulla, se non soffrirà, se non s’innamorerà di lui, non

averà più il Principe e perirà. Princ. Se ubbidendo verrà a fine de’ suoi affanni. Mostro suo giuramento.

Principessa come mai potrà innamorarsi di lui. Mostro che s’ingegni, che forse sarà per gratitudine95.

Il tema della gratitudine come sentimento nobile che può condurre ad amare è presente fin dal

primo abbozzo della fiaba e il ritocco di Gozzi sulla trama tende, appunto, ad evidenziare la

spontaneità con cui si manifesta in Dardanè.

Nella stesura di Mtfε il mostro a consegnare all’eroina la spada magica e a proporsi come

consigliere per il futuro prossimo («Mostro tu t’esponi a perigli incomprensibili. / Bisogno

avrai di questa spada. Prendi. Meco / consiglia ogni tuo casso sempre avrai / buon

consigliere» e, ancora, «Dard. Io questa spada da te ricevo, e il suo / consiglio e i Numi

assisteranno un’infelice amante»96), soluzione poi cassata dal drammaturgo che preferisce

farla compiere a Taer /mostro, aumentando, in questo modo, il pathos della scena del primo

incontro tra i due sposi. Infatti, Dardanè si reca alla grotta per uccidere Zelou, il quale si offre

spontaneamente come vittima alla giovane, esortandola poi a non ucciderlo con la stessa

spada di cui le fa dono97.

In generale, la versione del Mostro turchino del Fondo Gozzi - concepita nella sua primigenia

stesura, antecedente alle cassature presenti - mostra una maggiore aderenza alle novelle

orientali di riferimento. Alcuni dettagli depennati rinviano puntualmente al modello: per

esempio, il drammaturgo scrive in prima battuta che il velo magico, menzionato da

Smeraldina, era stato posto dal mago Bizeghel sul capo di Dardanè; poi corregge modificando

la posizione dell’indumento, non più appoggiato sulla testa, ma sulle spalle. Il particolare

cassato è però significativo perché rinvia alla novella Histoire de Boulaman-Sang-Hier,

prince d’Achem contenuta nelle Mille et Un Quart d’heure: contes Tartares di Thomas Simon

Gueullette, in cui l’ebreo Isacco Mier, invaghito di Sirma, non essendo corrisposto, ricorre al

velo magico in grado di fare innamorare della persona che gli è innanzi chiunque lo indossi in

95 Mtfβ, c. 20r. 96 Le citazioni provengono, rispettivamente da Mtfε c. 4r e c. 4v. 97 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 638, III, 6: «TAER: Non sbigottirti, / figlia, ne’gravi tuoi perigli;

forse / utile ti sarò col mio consiglio. Gratitudine spesso in sen di donna, / di donna giusta, il cor commuove, e accende / per un oggetto d’orridezze carco».

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capo98. Peraltro, nella fiaba citata fa capolino anche il nome Sarchè, che Gozzi intendeva

adoperare per la fiaba.

In Mtfε, l’elenco dei personaggi è sostituito dalla semplice dicitura «attori», che sopravvive

anche in Mtm. Rispetto all’omologa lista proposta nell’edizione Colombani e in Mtm, non

compaiono le «schiave che non parlano» e il carnefice, personaggi muti evidentemente

aggiunti in un momento successivo alla messinscena.

In Mtfε la revisione dell’onomastica, che Gozzi è solito compiere, investe anche il

protagonista: Taer, infatti, è il nome scelto dal drammaturgo per sostituire quello di Roumi,

qui cassato e sostituito dalla nuova soluzione e che sparisce definitivamente in Mtm. Come

dimostrato anche per La donna serpente e come si evidenzierà per Zeim re de’ geni, l’autore

scriveva contemporaneamente - o comunque a distanza ravvicinata di tempo – le ossature

delle fiabe che verseggiava in seconda battuta, adottando nomi diversi da quelli

originariamente pensati, nomi che nel frattempo Gozzi poteva aver utilizzato nella

messinscena di qualche altra fiaba già portata a compimento.

In Mtfε, un dettaglio denso di significati assente in Mtm consiste nella presenza di due nomi

poi cassati: Sarchè, la figlia del re Fanfur e sorella del protagonista e Samiragib, principe di

Bisnagar e pretendente di Sarchè. Se di questi due personaggi si parlerà più avanti,

analizzando il materiale preparatorio per la stesura della fiaba, è tuttavia opportuno

soffermarsi da subito su un particolare di tipo grafico. Nella lista dei personaggi i due nomi

risultano inseriti equidistanti dagli altri e non aggiunti in interlinea: dunque, nel momento in

cui Gozzi stende quest’elenco li immagina come personaggi che agiranno nella vicenda e solo

in un secondo momento il drammaturgo decide di depennarli. Esistono però almeno altre due

fasi di ripensamento intorno a tale eliminazione: dopo aver espunto i due personaggi, il

drammaturgo ci ripensa e reintegra quello femminile che compare in interlinea nel citato

elenco99, forse, egli ritiene così di aumentare il pathos della vicenda – in questo modo non

sarebbe stata Smeraldina a essere destinata all’idra ma la sorella del protagonista -e, infatti, in

Mtfε si rintraccia un riferimento puntuale alla donna:

98 «Doubana me présenta un voile de couleur de roses: je le mis sur ma tête; mais à peine en fus – je converte,

que je ressentis un feu inconnu qui me couroit de veine en veine: j’ignorois ce que je sentois, une tendre langueur s’étoit emparée de tous mes sens, j’avois honte de m’arrêter aux réflexions qui occupoient alors mon esprit», in THOMAS SIMON GUEULLETTE, Mille et Un Quart d’heure: contes Tartares, Paris, chez les Libraires Associés, 1753, tomo XXI, p. 261; la prima edizione del testo risale al 1715.

99 L’elenco dei nomi cassati risulta il seguente: Samiragib principe di Bisnagar amante Sarchè sorella di Taer condannata all’idra (aggiunto in interlinea) Sarchè sorella di Roumi destinata pasto all’idra

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ZELOU: Dentro a quell’urna per placare il volgo

di Sarchè la sua figlia e tua sorella

il re fece riporre e con gli altri nomi

anch’ella ogni giorno

corre periglio d’esser tratta a sorte100

Poi, Gozzi torna nuovamente sulle sue decisioni e depenna questo riferimento e il nome

Sarchè nell’elenco dei personaggi, scelta che mantiene in Mtm, in cui infatti non è presente

alcuna menzione della fanciulla.

Tale avvicendamento può essere spiegato ipotizzando che Gozzi avesse in mente una fabula

in cui ad agire fossero due coppie di personaggi: da una parte, dunque, le vicende di Taer e

Dardanè, e dall’altra quelle di Sarchè e Samiragib, strettamente connesse tra loro. In un

secondo momento il drammaturgo, forse resosi conto dell’intreccio troppo complicato e della

possibile dispersione dell’attenzione da parte del pubblico, avrebbe desistito dall’impresa,

focalizzando la sua storia solo su due coniugi.

Quest’ipotesi è suffragata da un’altra cassatura rintracciabile nella scena finale della fiaba.

Zelou, che trae una sorta di morale della vicenda, si esprime, nell’originaria intenzione

dell’autore, con le seguenti parole:

ZELOU: Le pari vostre coniugate coppie

vinceron Mostri, infernali ombre ed idre

e tornaron sempre felici al fine101.

Nel discorso del mostro il riferimento è a due coppie che affrontano entrambe situazioni

pericolose e, inoltre, sono definite pari, cioè di uguale valore sia morale che sociale (secondo

la concezione conservatrice di Gozzi) e dunque non possono che essere quelle formate sia dal

figlio sia dalla figlia del re Fanfur.

Evidentemente l’idea di intrecciare più vicende persiste nella volontà gozziana se due delle tre

fiabe scritte dopo Il mostro turchino sono connotate da una pluralità di storie che si

intersecano tra loro: nei Pitocchi fortunati il ritorno del re Usbec, finto pitocco, al suo regno,

si snoda in parallelo con le sorti del visir Saed e dell’indigente Pantalone, e in Zeim re de’

geni si assiste allo svolgimento di tre azioni principali compiute dai tre figli del re.

100 Mtfε, c. 5v. 101 Mtfε, c. 19r.

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Probabilmente, a quest’altezza cronologica, Gozzi, dopo essersi sufficientemente cimentato

nelle fiabe, intendeva, operando sempre all’interno di questo genere, sperimentare nuove

tipologie, ricorrendo alla fabula doppia, rispettivamente senza e con la magia.

Si è appena detto, a dispetto delle date degli esordi, che Il mostro turchino precede

cronologicamente I pitocchi fortunati: la prima fiaba debutta l’8 dicembre 1764, mentre la

seconda il 28 luglio 1764 a Parma e il 29 novembre dello stesso anno a Venezia. Oltre alla

Prefazione, in cui l’autore presenta Il mostro turchino come settima fiaba102, abbiamo però

una testimonianza di Gozzi in cui, in una lettera, asserisce che essa risulta terminata

nell’ottobre del 1763:

Il Mostro turchino tra il volere, il non volere, gl’imbarazzi, l’accidia e la rabbia è finito; ma così fiacco e scipito,

che intendo non far d’esso uso alcuno. Non sono queste espressioni d’affettata modestia, ma di sincerità. Sono

arrabbiatissimo colla poesia e vorrei poterla frustare. Ho preso dell’affetto a questi deserti [la campagna] e mi

sono più cari i ragli di questi asini, che il sentire a Venezia: oh che cuccagna!103.

La lettera dimostra in modo inoppugnabile che la fiaba, o almeno l’ossatura, è terminata nel

1763; successivamente l’autore dovette lavorarci per molto tempo in considerazione sia della

sua denunciata insoddisfazione, sia della data del debutto, avvenuto quasi un anno dopo.

Inoltre, si noti il riferimento all’incipit del motivetto disprezzato, che però Gozzi adopererà

per introdurre la maschera di Truffaldino104.

La retrodatazione del Mostro turchino è supportata anche da un dato presente nella lettera che

Baretti invia a Francesco Carcano da Londra il 12 marzo 1784, nella quale, come noto, si

scaglia contro Gozzi, colpevole di avere inserito le maschere della commedia improvvisa

anche nell’edizione Colombani105:

Pochi mesi sono mi furono mandati gli otto volumi del conte Carlo Gozzi di Venezia, e costì m’aspettavo un

banchetto poetico de’ meglio imbanditi, perché avevo letto in manoscritto il suo Mostro turchino e la sua

Zobeide106.

102 CARLO GOZZI, Prefazione al Mostro turchino, in IDEM, Opere edite e inedite, cit., t. III, p. 102: «Il Mostro

Turchino, ch’io bilanciai molto per la soggezione, in cui m’avevano posto i colti, ed acuti miei giudici, fu la settima Fiaba Teatrale, ch’io donai alla truppa Sacchi».

103 GASPARE GOZZI, Gaspare e Carlo Gozzi e la loro famiglia, in «Archivio veneto», tomo III, parte II, 1872, pp. 277-278. Gaspare, autore dell’articolo, è il pronipote di Carlo e Gaspare.

104 CARLO GOZZI, Il mostro turchino…, cit., p. 593, I, 2: «TRUFFALDINO: oh che cuccagna! / Oh che felicità / Andar in campagna / con la so innamorà. / Oimè, che moro, / e moro per amor / un t, un’i, un’a, un’m, e un’o».

105 Cfr. LAURA RICCÒ, «Parrebbe un romanzo»…, cit., pp. 195-199. 106 GIUSEPPE BARETTI, Epistolario, a cura di Luigi Piccioni, Bari, Laterza, 1911, t. II, p. 272. L’accostamento

del Mostro turchino alla Zobeide, andata in scena per la prima volta a Torino il 10 agosto 1763 e replicata a Venezia l’11 ottobre dello stesso anno, lascia presagire che queste due opere mandate al Baretti fossero le ultime

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La descrizione dell’assetto del manoscritto non è esaurita: infatti il fascicolo presenta tre fogli

autografi contenenti appunti per l’ossatura della fiaba. Da un’analisi più dettagliata sembra

plausibile che queste carte risalgano a due momenti ideativi distinti.

Il primo foglio, la carta 20 (Mtfβ), che nel recto presenta il contenuto del primo atto e che nel

verso enuclea parte del quarto e quinto atto, mostra una tipologia di scrittura che si configura

come una sorta di brogliaccio di appunti, quasi che il drammaturgo, dopo aver letto una

manciata di racconti del Cabinet des feés, volesse immediatamente conservarne la traccia,

annotandosi gli episodi che avevano colpito la sua immaginazione e declinandoli già in vista

di una, seppur primitiva, idea compositiva.

In questa prima fase di trascrizione ed assorbimento del modello, Gozzi si preoccupa di

delineare la vicenda dei protagonisti e affida loro anche risoluzioni che, invece, a partire da

Mtfδ, apparterranno alle maschere. Per esempio, dalla lettura del foglio, si evince che è il

protagonista a narrare al mostro gli antefatti107 – le prove sostenute in passato per conquistare

Dardanè – mentre nella stesura completa del Mostro turchino tale racconto è delegato alle

maschere, Truffaldino e Smeraldina, nella seconda scena del primo atto.

La carta 20r reca un conciso riassunto del primo atto, già diviso in scene; tuttavia esso non è

definibile come un’ossatura ma piuttosto appare una stesura compiuta di getto: innanzitutto

manca l’intera seconda scena affidata alle maschere e il foglio, in entrambe le facciate, riporta

annotazioni più che vere e proprie descrizioni delle scene.

La prima constatazione rinvia al modus operandi gozziano: se da una parte il drammaturgo

estrae la “materia prima” per le fiabe dalle fonti orientali, il passo successivo che compie –

processo peraltro testimoniato dai fogli seguenti, 22r-23v, da qui in avanti Mtfδ1 e Mtfδ2 - è

proprio quello di innestare le scene per le maschere, in omaggio alla grande tradizione italiana

della commedia all’improvviso, in cui gli attori della compagnia Sacchi eccellevano. a disposizione in quel momento, e dunque, a quell’epoca, cioè il 1763, Gozzi aveva terminato la prima fiaba ma non i Pitocchi fortunati. La questione non è oziosa se si pensa alla disposizione con cui Gozzi ordina le fiabe in vista dell’edizione Colombani: Il mostro turchino infatti appare nella settima posizione mentre nell’edizione Zanardi nell’ottava. Per un’analisi dettagliata della cronologia delle fiabe si rinvia JAVIER GUTIÉRREZ CAROU, Stesura, recita, stampa: l’ordine delle fiabe teatrali di Carlo Gozzi, in Parola, musica, scena, lettura. Percorsi nel teatro di Carlo Goldoni e Carlo Gozzi, atti del convegno (Venezia 12-15 dicembre 2007), Venezia, Marsilio, in corso di stampa.

107 Mtfε, c. 20r: «Princ. Che ha tutti i segni d’amore, narrazione breve delle cose passate. Mostro che il tempo

passato non si deve misurare col presente, ch’egli ha necessità grande ch’ella s’innamori» mentre nell’edizione a stampa si legge: «Truffaldino: Che a dir il vero, Taer, s’è meritato tale affetto, perché ha fatte le grand’imprese a liberarla dalle persecuzioni del mago Bizeghel. Se si ricordi di quel gran combattimento, che fece con la Scimmia di fuoco, e quell’altro coll’Asino dalle orecchie, che legavano, e dalla coda, che tagliava; e quell’altro coll’uccellone, che cacava olio bollente nel viso; e tutto superato, e tutto vinto per amore!», in CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 594, I, 2.

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Per la versione Mtfβ è preferibile adottare il termine di abbozzo perché essa si configura come

una pagina in cui ai principali eventi del primo atto, si aggiungono note in limine di Gozzi:

per esempio, dopo la seconda scena, sul margine destro della carta 20r si legge «circostanza

di Dardanè. Combatta col cavaliere del castello. Suo combattimento ammaestrata dal mostro.

Cavaliero è d’arme vuote». L’annotazione si delinea come una sorta di promemoria che lo

scrittore appunta in modo conciso – dimostrato dalla collocazione spaziale di tale postilla sul

foglio – con l’intenzione di svilupparlo successivamente, nell’ossatura, ovvero nella stesura in

prosa più lunga e dettagliata della fiaba, in cui l’episodio della lotta contro il cavaliere fatato

compare all’altezza del quarto atto.

Interessante è rilevare come nella scena successiva, la terza, il drammaturgo faccia

riferimento alla «seconda circostanza» dell’eroina dimostrando, dunque, di avere

immediatamente fatto proprio l’appunto preso in precedenza. Tale procedimento documenta

un tipo di scrittura che si svolge in fieri e che riconduce alla fase ideativa, in cui ispirazioni e

suggestioni provenienti dalla lettura di più novelle orientali confluiscono, come tasselli, in una

storia “nuova”, reinventata da Gozzi, che la sigilla aggiungendo le parti per le maschere.

La carta 20v, presentando l’«ultima circostanza di Dardanè», risulta un compendio del quarto

e del quinto atto: la scrittura in prosa, non divisa né in atti né in scene, riporta gli snodi

principali degli ultimi due atti con precisazioni, apposte in interlinea, che Gozzi aggiunge

rispetto al modello orientale di partenza; ne è un esempio la nota in cui si specifica che la

regina perfida accusa Dardanè di averla avvelenata, un particolare nuovo inserito dal

drammaturgo, non rintracciabile nelle fonti orientali utilizzate. Alla stessa tipologia è

riconducibile l’aggiunta in interlinea nella carta 20r del particolare del libro - il libro regalato

dal genio all’eroe in cui sono descritte le prove che la sposa dovrà affrontare e i modi per

superarle - altro elemento assente nei modelli di riferimento. Tale appunto costituisce un

memorandum per l’autore che, evidentemente, lo ritiene un elemento logico imprescindibile

per lo sviluppo della sua composizione fiabesca, pur rielaborando plots già esistenti108: infatti,

la novità assoluta della trasformazione dell’eroe in mostro e dell’aiuto che presta all’amata

sotto queste orride spoglie, implica necessariamente una motivazione plausibile del modo con

cui Taer possa prestare soccorso a Dardanè e l’inserzione del libro risponde perfettamente a

quest’esigenza.

108 Certamente Gozzi scarta a priori i riferimenti della novella orientale che ritiene inutili per la sua

composizione fiabesca, per esempio, non accoglie minimamente il riferimento alla pretesa del centauro blu di ricevere ogni tre anni un infante in cambio della promessa di combattere contro gli orchi, insieme a cento fratelli.

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A livello contenutistico Mtfβ denuncia un’aderenza maggiore al modello orientale rispetto

alla versione edita della fiaba: per esempio, in essa si legge che il genio è condannato da

cinque anni ad uscire dalla grotta per distruggere la città, la stessa durata delle razzie

compiute dal centauro blu nell’Histoire du Centaure Bleu, indicazione che non è ripresa in

Mtfε, in cui, invece, Gozzi preferisce far emergere il tempo fiabesco dei «cento anni» della

trasformazione del genio in mostro.

Anche l’onomastica109 dimostra in modo cogente l’assunzione e l’amalgama delle fonti

orientali: da una parte la protagonista è designata fin da subito come Dardanè, scelta che,

mantenuta fino all’edizione a stampa, testimonia la preferenza accordata a questo nome da

parte dello scrittore che, quindi, in precedenza, l’aveva estrapolato – e decontestualizzato –

dall’Histoire d’Aboulcassem Basri in cui compariva, o che aveva “ereditato” da alcune pièces

del Theatre de la Foire110. Dall’altra parte si coglie l’indecisione gozziana sul nome da

assegnare al protagonista maschile: nella carta 20r si trova cassato il nome Faruc e sostituito

con Outzim, l’omonimo personaggio dell’Histoire d’Outzim-Ochantey Prince de la Chine,

novella a cui Gozzi si era ispirato, anche a livello contenutistico, per la composizione del

Mostro turchino, e che prova in modo inequivocabile il debito contratto dal drammaturgo nei

confronti del modello orientale. Tale scelta non sarà quella definitiva: come si evince da Mtfε, il nome del protagonista diventa Roumi, poi cassato e sostituito, infine, con quello di Taer111.

Anche il nome Roumi, ricorrendo nell’Histoire de Sinadab, fils du médecin Sazaniuh, rinvia

nuovamente alla raccolta Mille et Un Quart d’heure: contes Tartares, a cui pure appartengono

i nomi del principe Samir-Agib e del regno di Bisnagar112 cassati in Mtfε, ma voci entrambi

presenti nell’Histoire de Satché-Cara, princesse de Bornéo.

L’onomastica, dunque, costituisce una prova tangibile della lettura delle novelle orientali - nel

caso del Mostro turchino della specifica raccolta di Gueullette - e della profonda suggestione

esercitata sul drammaturgo nella scelta dei nomi dei personaggi fiabeschi: Faruc, cassato già

109 Più precisamente, dall’Histoire du Centaure Bleu, Gozzi adotta il nome della città, Nanquin, e quello del re, Fanfur, presentato, anche nel racconto orientale, come un uomo ciecamente innamorato di una donna malvagia; il nome Fanfur è nominato anche nel Marco Polo del fratello Gasparo. Il nome del mostro, Zelou, deriva da Zéloulou, il genio malefico personaggio dell’Histoire de Cheref-Eddin et de Gul-Hindy, fiaba da cui è tratto anche il nome della regina Gulindì.

110 Il nome di Dardanè si ritrova nelle piéces francesi Pelerins de La Mecque e Arlequin Hulla ou la femme répudiée; inoltre, il suo doppio maschile, Acmed, deriva probabilmente dall’Histoire du prince Ahmed et de la fée Pari-Banou contenuta nella raccolta araba Les Mille et une nuits.

111 Il nome Taer, rintracciabile nella piéce forain Arlequin Hulla ou la femme répudié, si trova anche nell’Histoire de Couloufe et de la belle Dilara e nell’Histoire d’Alcouz, de Thaer et de meûnier; tuttavia il personaggio a cui è ispirato il protagonista della fiaba gozziana, un uomo fedele alla sua sposa e disposto a superare prove impossibili per rivederla, è ricalcato su Outzim, eroe dell’Histoire d’Outzim-Ochantey, Prince de la Chine.

112 Il regno di Bisnagar esisteva veramente: era ubicato all’interno dell’India nei pressi del Gange.

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in questo primo foglio, tornerà nuovamente nell’immaginario gozziano a designare il re – che

pure è solo evocato nella pièce - padre di Suffar, protagonista dell’ultima fiaba Zeim re de’

geni, in cui fa capolino anche il nome Sarchè adottato per l’eroina, nome che invece

scompare, insieme al personaggio stesso, in Mtm ed Mts.

Tale “migrazione” onomastica fornisce anche una conferma della cronologia delle opere

fiabesche: dopo la rappresentazione del Mostro turchino – ma quindi non dopo la sua stesura -

Gozzi compone solamente altre due fiabe, l’Augellino belverde che però, presentandosi come

continuazione ideale dell’Amore delle tre melarance, non può che riprenderne i nomi, e Zeim

re de’geni in cui il drammaturgo può far confluire gli appellativi cassati nell’opera fiabesca

immediatamente precedente.

Alla fine della terza scena, in cui Dardanè incontra il mostro, in posizione non consequenziale

all’episodio appena abbozzato, Gozzi annota la «seconda circostanza»:

battaglia di Dardanè con l’idra morta la quale doveva morire la principessa Camzem, tiranna, che more ucciso il

dragone113.

Ancora una volta il nome Camzem riconduce alla fonte orientale ed è spia dell’interesse di

Gozzi verso questo nome che, infatti, si trova impiegato in Zeim re de’ geni, mutato in

Canzema. L’oscillazione idra/dragone se da una parte è spiegabile con l’assunzione del mito

classico, familiare alla cultura occidentale, dall’altra ammicca all’altro grande serbatoio

utilizzato spesso dal drammaturgo, Lo cunto de li cunti.

Specialmente tre novelle possono avere stimolato e rafforzato l’immaginario gozziano nella

composizione del Mostro turchino: Lo mercante (I, 7) e Lo dragone (IV, 5) e Le tre corone

(IV, 6).

Nel primo racconto si assiste alle vicende del giovane Cienzo che, scappato da Napoli per

avere picchiato il figlio del re, si imbatte in un castello tutto parato a lutto. Chiesto il motivo,

il protagonista scopre che Menechella, la figlia del re, è destinata a essere la prossima vittima

di «no dragone co sette teste, lo chiù terribele che se fosse maie visto a lo munno, lo quale

aveva le centre de gallo, lo capo de gatto, l’uocchie de foco, le bocche de cane corzo, l’ascelle

de sportegliene, le granfe d’urzo, la coda de serpe»114. Il mostro, che divora una persona al

113 Mtfβ, c 20r. 114 GIAMBATTISTA BASILE, Lo cunto de li cunti, cit., p. 148: «un dragone con sette teste, il più terribile che

fosse stato mai visto al mondo, che aveva le creste di gallo, la testa di gatto, gli occhi di fuoco, le bocche di cane corso, le ali di pipistrello, le zampe d’orso, la coda di serpente».

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giorno, viene affrontato e sconfitto da Cienzo, tagliando con un colpo solo tutte le teste e

cospargendo sui sette monconi una radice magica in grado di bloccarne la rigenerazione.

Nella seconda novella si tratta di un legame misterioso – e però noto alla donna- che lega la

vita di una regina malvagia a quella di un dragone: se quest’ultimo morirà anch’ella perirà, a

meno che le estremità del suo corpo non vengano unte dal sangue dell’animale115.

Nelle Tre corone Marchetta, la figlia di un re, si traveste da uomo su consiglio di un’orca.

Scambiata per paggio, un sovrano la conduce a palazzo dove ella suscita il desiderio della

regina, che prima tenta di circuirla con regali, poi la supplica e infine la minaccia;

all’ennesimo rifiuto la incolpa presso il marito di averle tentato violenza, in questo ricalcando

anche l’episodio biblico di Giuseppe e Putiferre. Il re decreta immediatamente la

decapitazione del paggio, impedita però dalla comparsa dell’orca che svela l’identità

femminile del giovane e accusa la regina. Il finale prevede la condanna della donna e il nuovo

matrimonio del re con Marchetta.

È facile individuare punti di contatto macroscopici – personaggi, situazioni e “funzioni” - tra

le novelle napoletane e Il mostro turchino; d’altronde, la struttura della fiaba gozziana è, a

tratti, sovrapponibile al tipo 514 della classificazione proposta da Aarne-Thompson116.

Gli altri due fogli, 22r-v e 23r-v, che costituiscono il manipolo di carte staccate dal corpus

principale, contengono una stesura in prosa, divisa in scene non numerate, «per l’atto

secondo» e «per l’atto terzo»117 e sembrano appartenere a una fase intermedia tra le versioni

Mtfβ e Mtfε .

Il “riassunto” «per l’atto secondo» è simile agli sviluppi noti della vicenda fiabesca: l’atto si

apre nella reggia nel momento dell’estrazione dall’urna del nome della vittima. Qui sono

enunciati sinteticamente gli argomenti delle battute di ciascun personaggio, che saranno poi

sviluppati e verseggiati nella versione completa della fiaba.

115 Ivi, pp. 744-745: «a lo stisso tempo ch’isso adacciava l’anemale, se sentette la regina adacciare lo core e,

vistose a male termene, s’addonaie de l’arrore suio, che s’aveva comprato a denare ‘n contante la morte; e, chiammato lo marito, le disse chello che l’avevano pronostecato l’astrolache e che da la morte de lo dragone pendeva la vita soia e commo dobetava che Miuccio avesse acciso lo dragone, mentre essa se ne senteva sciuliare a poco a poco» («nello stesso momento nel quale [Miuccio] tritava la bestia, la regina si sentì affettare il cuore e, vistasi a mal partito, si accorse del suo errore, perché si era comprata la morte in contanti; e, chiamato il marito, gli raccontò quello che avevano previsto gli astrologi e come dalla morte del dragone dipendesse anche la sua vita e come avesse il sospetto che Miuccio avesse ammazzato il dragone, perché lei si sentiva venir meno a poco a poco»).

116 STITH THOMPSON, La fiaba nella tradizione popolare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 694: «tipo 514. Il mutamento di sesso: una fanciulla travestita va in guerra al posto del padre o del re e 1. o l’eroina sposa la principessa che ne mantiene il segreto 2. o la regina tenta di sedurre il presunto eroe e non riuscendovi pretende dal re che sia mandato a compiere un’impresa impossibile che però è portata a termine grazie ad oggetti magici. Poi o l’eroina si mostra donna e sposa il reo o riesce magicamente a cambiare di sesso e a sposare la principessa».

117 Rispettivamente alle carte 22r e 23r.

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In continuità con l’abbozzo sopra descritto, la stesura Mtfδ mantiene nell’intreccio il

personaggio di Sarchè che, se in Mtfε è appena menzionata, qui invece agisce attivamente

nella vicenda: è la giovane ad estrarre il nome della vittima sacrificale, che si rivelerà essere

lei stessa. Il momento è ricco di pathos e pare che proprio a questo scopo tendessero le

modifiche operate da Gozzi nella scena del sorteggio: infatti, seppur cassato, si legge che

Sarchè doveva essere chiamata al cospetto del padre solo a estrazione avvenuta, mentre la

soluzione adottata successivamente, che vede Sarchè non solo presente ma anche

“responsabile” del triste verdetto, aumenta lo sgomento degli altri personaggi e del pubblico.

A differenza della versione Mtfβ, nelle due carte il cavaliere è già definito fatato – dunque

non è più designato semplicemente come cavaliere del castello - apposizione adottata

nell’elenco dei personaggi di Mtfε, e, difformità più sostanziale, compaiono le maschere della

commedia all’improvviso: Tartaglia, Smeraldina, Truffaldino e Pantalone; quest’ultimo come

nei materiali preparatori delle altre fiabe del Fondo Gozzi, nominato semplicemente con il

nome del ruolo generico di vecchio, Magnifico. Le maschere dialogano tra loro pressappoco

degli stessi argomenti rintracciabili nella versione del Fondo Gozzi (per esempio discutono

della dabbenaggine del re che non si accorge dei tradimenti della regina, della presenza a

corte di amanti travestiti da damigelle, o delle origini umili della regina).

Dal foglio 22 emerge un’idea di sviluppo contenutistico alquanto diverso rispetto a Mtfε: non

compare alcun riferimento alla parentela di Brighella con Smeraldina – e quindi alla possibile

agnizione dei due fratelli che permetteva di presentare la vittima non come personaggio

totalmente estraneo agli altri – che, infatti, appare impiegata come cameriera della regina118.

La carta 23, recante un riassunto estremamente conciso del terzo atto, scritto in prosa e diviso

in scene non numerate, presenta una situazione diversa da quella appena descritta e

perfettamente sovrapponibile alla versione della vicenda contenuta in Mtfε (e quindi anche in

Mtm ed Mts): Smeraldina incontra Truffaldino a corte e gli chiede di aiutarla a trovare un

impiego, poi, pur riconosciuta da Brighella come sorella, è incarcerata per essere offerta in

pasto all’idra il giorno successivo.

A nostro avviso, confrontando in Mtfδ la lunghezza della scena dell’incontro tra Truffaldino e

Smeraldina e della successiva agnizione tra quest’ultima e Brighella, con quella delle altre

presenti nel recto e verso dello stesso documento, si coglie una maggior cura da parte del

118 MTf, c. 22v: «Mag.co Ma troppa condiscendenza. Arriva da Ca del Diavolo quella certa Smeraldina che

sarà qualche venturiera frustada [dal diavolo]. La piace alla Signora Regina il suo spirito e Fanfur ghe la dona subito alla Signora Gulindì. Quella sarà una mezzana. Che verrà mano a mille iniquità etc.».

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drammaturgo nel delineare la scena in questione. Paragonando questa tipologia di materiale

preparatorio del Mostro turchino, ossia la stesura connotata dalla dicitura «per l’atto», con

quella analoga reperita per Zeim re de’geni, di cui però si è conservata l’intera «materia per

l’atto» che, come si dimostrerà nel capitolo successivo, appartiene alla fase immediatamente

precedente alla stesura divisa in scene, si può affermare che in questa carta, Gozzi non avesse

ancora formulato questa scena e che, pertanto, dovesse stenderla con più cura, come infatti

accade nel foglio 23.

Infatti, nei fogli sparsi che corredano Zeim re de’ geni, come si avrà modo di appurare119, la

stesura concisa, denominata dall’autore «per l’atto» è un riassunto diviso per scene - in cui

vengono individuati chiaramente gli interlocutori di ciascuna – che dipende da una versione

precedente più articolata e più particolareggiata. L’autore si dilungava maggiormente laddove

mancava un’azione nella stesura di riferimento; è quindi possibile ricondurre a questo caso

anche il segmento testuale del Mostro turchino. Ciò significa che tra le carte 22 e 23 non c’è

sequenzialità temporale (vale la pena ricordare nuovamente che la numerazione dei fogli non

è autografa e che, essendo posteriore alla scrittura, spesso è risultata imprecisa) anche se la

dicitura «per l’atto terzo» sembra perfettamente successiva alla pagina precedente

contrassegnata da quella «per l’atto secondo». Tuttavia è indubitabile che la carta 22, in cui

Sarchè è presentata come vittima sacrificale, appartenga a una fase precedente rispetto a

quella in cui è stata scritto il foglio successivo dove si evince che Smeraldina è la vergine

scelta per essere data in pasto all’idra.

Anche le due pagine manoscritte, denominate Mtfδ1 e Mtfδ2, sono riconducibili ad altrettante

fasi compositive che arricchiscono ulteriormente la complessa stratigrafia dei materiali

preparatori delle fiabe, non esauribile nella sola definizione di “ossatura”.

L’analisi dei materiali preparatori della fiaba, oltre a documentare l’incessante lavoro

gozziano di revisione a livello sia di trama sia di forma testuale, rivela l’influenza dal modello

orientale, mostrata da alcuni dettagli contenutistici e, soprattutto, dall’onomastica, e

testimonia il successivo allontanamento durante la fase di rielaborazione personale. Inoltre,

emerge che, almeno durante la prima fase ideativa, l’influenza più forte è esercitata dai

modelli fiabeschi, sia orientali sia napoletani, rispetto al romanzo epico-cavalleresco italiano,

le cui suggestioni diventano visibili nelle fasi successive, soprattutto nel momento della

verseggiatura.

119 Si rinvia al capitolo «Il manoscritto di Zeim re de’ geni».

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Comparando fiabe orientali, napoletane e racconti dell’immaginario cavalleresco occidentale,

e, ancora, miti antichi, Gozzi si presenta come un moderno antropologo comparativista ante

litteram, e certamente come un curioso collezionista di varianti: applicando snodi imprevisti,

raddoppia e rafforza le trame a partire dal riconoscimento di alcune funzioni che attraversano,

da sempre, la storia del meraviglioso.

I manoscritti di Zeim re de’ geni

SINOSSI La scena si apre in un bosco in cui Pantalone dialoga con la figlia Sarchè a proposito del desiderio della fanciulla di recarsi in città. Il padre, un tempo consigliere di Faruc, defunto re di Balsora, le proibisce di andarci perché luogo di vizi e di cattiveria. Poco dopo a Pantalone compare Zeim, il re dei geni, che gli svela il motivo dei gesti compiuti verso i tre figli del re: ha rapito in fasce Dugmè, appare a Zelica sotto forma di ombra spaventandola e permette a Suffar di dilapidare il patrimonio per evitare alle successive dieci discendenze terribili sciagure. Zeim ottiene che il consigliere, ritiratosi in campagna proprio per evitare di assistere al progressivo disfacimento della famiglia reale e per allevare in un contesto moralmente sano la figlia, gli giuri di aiutarlo nella missione salvifica. La scena si sposta a corte dove i due fratelli Zelica e Suffar discutono sulle nozze della giovane con il principe nemico Alcouz che, dopo essersi innamorato, protegge anch’egli la città dall’assedio della regina mora Canzade, la quale rivendica Suffar come sposo, in base a un accordo prematrimoniale stabilito dai rispettivi genitori. Zelica, a sua volta innamorata del principe, non può sposarlo a causa di una profezia compiuta dall’ombra della madre che costantemente le appare: se si sposerà, andrà incontro a un terribile destino scongiurabile solo se sarà in grado di trovare una serva fedele che le assomigli, persona che la principessa ha già trovato e che tiene segregata nel sotterraneo sottoponendola alle più dure prove per saggiarne la lealtà. Secondo atto. Truffaldino, guardiano e aguzzino della serva Zirma, il cui vero nome è Dugmè, preso da un moto di compassione la incita a scappare ma la giovane, caratterizzata da una purezza d’animo sovraumana, rifiuta e sceglie di continuare a sopportare la schiavitù pur di non tradire la principessa, in nome dell’obbedienza, virtù a lungo appresa dal pastore che in fasce la trovò e la educò (Zeim travestito). Nel frattempo il genio è comparso in sogno a Suffar orinandogli di scavare sotto lo studio del padre in cui è celato un immenso tesoro. Il giovane, accompagnato da Truffaldino,si imbatte in un’enorme quantità di ricchezze che però non può toccare prima di avere trovato una statua – la sesta di una serie - di cui c’è solo il piedistallo e il cui valore è superiore a tutti i tesori custoditi nella stanza. A questo punto gli compare davanti l’ombra del padre che, dopo averlo rimproverato per la condotta, gli dice di recarsi nel bosco, alla ricerca di Pantalone, l’unico in grado di condurlo dal re dei geni che gli saprà indicare come trovare la statua mancante. Atto terzo. Nella città di Balsora, Canzema si prepara all’assalto e rifiuta anche un’ambasciata di pace compiuta da Tartaglia e Brighella, rispettivamente ministro di Suffar e capitano di Alcouz. Nel bosco Suffar e Truffaldino incontrano Pantalone che li conduce nella reggia di Zeim. Qui il genio si offre di fornirgli la statua purchè prima gli conduca in sposa una fanciulla pura e casta che il principe dovrà cercare per il mondo intero con il solo aiuto di uno specchio magico, in grado di oscurarsi se chi vi si specchia non è innocente. Atto quarto. Dopo aver compiuto molti tentativi invano, i tre uomini giungono alla casa di Pantalone in cui si trova anche la figlia che si rivela essere la fanciulla tanto ricercata. Il padre si dispera per l’amara scoperta ma sa che deve mantenere fede alla promessa fatta a Zeim: è quindi disposto a lasciare l’amata figlia, ma Suffar, innamoratosi di lei, dichiara che lascerà il regno e verrà ad abitare nel bosco pur di averla come sposa. Pantalone lo

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rimprovera e gli ricorda il giuramento pronunciato al genio; inoltre se non gli consegnerà la fanciulla, esso la ucciderà. A malincuore e addolorato il principe acconsente e i due uomini, piangendo, conducono Sarchè nel palazzo di Zeim. Intanto a corte Zelica confida a Zirma la condanna a cui deve assoggettarsi: la prima notte di nozze si trasformerà in tigre e resterà in quelle sembianze per quattro anni. La serva, a cui toccherà sostituire la principessa, la consola e le promette che non approfitterà né della posizione sociale acquisita né dell’amore di Alcouz, al quale, infatti, con uno stratagemma impedirà di avvicinarsi prima di quattro anni. Atto quinto. Tutti i personaggi si ritrovano nel sotterraneo per ammirare la sesta statua, coperta da un telo bianco sotto cui si scopre esserci Sarchè. Compare il genio che, dopo aver spiegato tutti gli enigmi e avere sciolto Zelica dalla maledizione, dichiara che l’esempio sommo da seguire è quello di Zirma, a cui affida il congedo finale.

Zefγ : prima ossatura di Zeim re de’ geni contenuta nel Fondo Gozzi

Zefδ :seconda ossatura di Zeim re de’ geni contenuta nel Fondo Gozzi Zefε : stesura in versi di Zeim re de’ geni contenuta nel Fondo Gozzi Zem : manoscritto marciano di Zeim re de’ geni preparatorio per l’edizione Colombani

L’analisi dei manoscritti di Zeim re de’ geni consente di aggiungere notizie di rilievo sul

modus operandi del drammaturgo. Per questa fiaba si dispone di alcune pagine contenenti i

riassunti di ciascun atto, riportati integralmente alla fine del presente contributo, ascrivibili a

una fase primitiva di ideazione, meno evoluta della ossatura. Tali sintesi comprendono gli

argomenti dei cinque atti (la «materia dell’atto»120, come scrive Gozzi). In questa prima

stesura (Zefγ), oltre a delinearsi più o meno dettagliatamente i contenuti dei dialoghi in forma

paratattica, vengono specificati i diversi luoghi in cui si svolge il racconto e si configura

chiaramente l’avvicendamento con cui devono parlare i personaggi. Per esempio:

Materia per l’atto terzo

Casa di Magnifico

Suffar Truffaldino Magnifico

Scena di ricognizione fra Magnifico e Suffar. Narrazione di Suffar, necessità della sesta statua posseduta da

Zeim. Magnifico saper chi sia Zeim poterlo condurre ma pericolo grande. Suffar comunque sia lo conduca a

Zeim. Narrazione di Magnifico di quanto occorre eseguire per andare da Zeim, quanto si deve passare, come

poi deva diportarsi. Suffar tutto promette, partono121.

120 «Mss. Fondo Gozzi, 4.7, cc. 1r-29r conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “Volume IV Zeim”, con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1765-1802, cc. 30 (cartulazione nuova a matita; bianca la c. 20) mm. 286 x 205 (rilevata alla c. 1). Numero d’ingresso nella Biblioteca Marciana 378730», in Carlo Gozzi..., cit., p. 125. Alla 20r si legge «materia per l’atto terzo», alla 22r «materia per l’atto quarto», alla 22v «materia per l’atto quinto», alla 24r «materia per l’atto primo», alla 25r «materia per l’atto secondo».

121 Ivi, c. 20r.

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Dopo questa prima fase, Gozzi mostra di ritornare sugli appunti e inizia a dipanare la materia

numerando le scene e aggiungendone di nuove: viene così a modellarsi una seconda versione,

sempre sotto forma di appunti - che chiameremo Zefδ 122 – e che contiene scene aggiunte e

create ex novo, insieme ai riassunti di quelle già scritte in precedenza che si trovano in Zefγ. Per esempio, in quest’ultima versione, viene narrato l’episodio dell’apparizione dell’ombra

della madre defunta a Zelica in circa venti righe:

Ombra esser quella l’ultima volta che le comparisse e che viene a compiangere la sua estrema sventura.

Zelica agitata perché mai le comparisca sempre ad accrescere le sue angoscie perché se ella sua madre tanto

le raccomandò di non maritarsi e se tal maritarsi deve incontrare le tremende sciagure, voler poi che si mariti

[e non voler dire quali sciagure deve incontrare. Può fuggire] Ombra le maledizioni ch’ebbe al suo nascere, il

ratto di Zirma sua sorella gemella, furono cagione della sua morte. Le raccomanda di non maritarsi sapendo

che da ciò doveva dipendere la sua gran fatalità, il dolore la faceva parlare ma sapeva ben che tal destino

dover compiersi. Zelica può fuggire nascondersi etc. evitare un funesto maritaggio. Ombra Se non ami forse

Alcouz Zelica Quanto la sua vita, ma queste minacciate disgrazie a lei possono essere di dolore allo stesso

etc. Ombra Alcouz merita amore, il giorno è giunto che si deve compiere il corso della sua orrida vicenda.

Non si deve prolungare. Zelica ma per pietà qual vicenda. Ombra Segua il matrimonio faccia bere di nascosto

allo sposo quella polvere ch’è un leggero sonnifero / getta una cartolina / Seguito il matrimonio legga il

foglio sigillato, saprà le sue sventure ma non sarà più tempo d’evvitarle. Si raccomandi alla serva. La sola

fedeltà di quella potrà un giorno restituirla in felicità. Ma quanto è difficile che una serva sia fedele in simile

inaudita circostanza. La sua disgrazia sarà interminabile, Alcouz non sarà più suo etc. Voglia il cielo che si

dia in Zirma l’impossibilità fedeltà. Figli a ti lascio etc. etc. Zelica sue agitazioni suoi pianti123.

In Zefβ il tutto si esaurisce in una riga:

Ombra della Madre e Zelica, ombra consegna polvere e foglio sigillato da non aprirsi che dopo seguito il

matrimonio. Sparisce124.

Ultimata la rielaborazione dell’“ossatura”, come di consueto, Gozzi imbastisce una

scrittura più completa della fiaba e la verseggia, ottenendo un’altra stesura (Zefε), sempre

contenuta nel Fondo Gozzi, che testimonia un intreccio prossimo a quello del manoscritto

Zeim re de’ geni completamente verseggiato e già noto125 in quanto facente parte del gruppo

122 Nel Fondo Gozzi, relativamente a questa fase, si hanno documenti riguardanti solo il terzo, il quarto e il

quinto atto. 123 Fondo Gozzi, 4.7, c. 21v. 124 Ivi, c. 26r. 125 Mss Ital. Classe IX, n. 682, collocazione 12072, conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di

Venezia.

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dei manoscritti serviti per l’edizione Colombani conservati da tempo nella Biblioteca

Nazionale Marciana (versione Zem).

In quest’ultima versione, come in Zefε, si trovano semplici istruzioni sceniche: per esempio,

nell’elenco dei personaggi, accanto a Canzema, l’orribile regina mora che pretende la mano di

Suffar, si registra l’annotazione «uomo da donna»126 (vale a dire “uomo travestito da donna”),

che evidentemente serviva per la rappresentazione. In entrambi i manoscritti, Zefγ e Zefδ, si

trovano anche possibili soluzioni da verificare sul palcoscenico, come alla fine del quarto atto,

in cui, dopo la conclusione della battaglia eroica tra la regina mora e il principe Alcouz, si

legge: «Qui se occorre di finir l’atto con maggiore spirito, duello di Tartaglia e un moro il

quale sarà certo atteso dall’uditorio»127, scena che è scritta per intero nella versione edita nella

Colombani, e che si può supporre realmente realizzata in teatro. Esiste quindi una soglia oltre

la quale il “testo preventivo” propriamente inteso si sospende e lascia aperta la sua risoluzione

affidandola al lavoro scenico, pratica per altro testimoniata anche dal Serpente - la versione

della Donna serpente contenuta nel Fondo -, in cui, dopo il bacio al serpente, nel manoscritto

si legge: «resterà in arbitrio del sepolcro e del monte il formare qualche scena a piacere»128.

Per completezza, a queste quattro fasi, se ne deve aggiungere una quinta, che, ponendo il

problema delle fonti utilizzate da Gozzi per questa specifica fiaba, rinvia a un’ulteriore fase

creativa, a monte di quelle fino ad ora esaminate. Tale fase costituisce un importante e

privilegiato luogo di osservazione del modus operandi dello scrittore, questa volta da un

punto di vista più contenutistico che strutturale, esaminato invece nel paragrafo precedente.

Infatti, essa permette di approfondire non solo la conoscenza delle fonti principali della fiaba,

ma anche del loro trattamento – ridimensionamento, intersezione e interazione tra più modelli

- che rinvia al primigenio momento creativo.

Il fascicolo di Zeim re de’ geni del Fondo Gozzi comprende due pagine a sé stanti, 19r e 19v,

contenenti la stesura delle prime due scene della fiaba e l’elenco dei personaggi129 con

importanti varianti che lasciano supporre una storia abbastanza diversa da quella poi

effettivamente messa in scena. La differenza più sostanziale, per l’economia e il significato

della trama, è l’assenza del personaggio di Zeim dall’elenco: solo in un secondo tempo Gozzi

avrebbe introdotto questo personaggio, desumendolo dalla novella araba Histoire du Prince

126 Ivi, c. 46r Nel manoscritto del Fondo Gozzi alla 24r si legge: «Canzema regina mora uomo vestito da

donna». 127 Mss Ital. Classe IX, n. 682, c. 75r. Nel manoscritto Fondo Gozzi, 4.7, alla carta 28r si legge: «Qui si può

fare un duello di Tartaglia con qualche moro, se occorre terminar l’atto con maggiore spirito». 128 Fondo Gozzi, 4.2/1, c. 33r. 129 Mss. Fondo Gozzi, 4.7, cc. 19r e 19v.

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Zeyn Alasnan et du Roy des genies contenuta nelle Mille et une nuits, ed eletto a protagonista

principale e motore della vicenda.

I manoscritti di Turandot, di Zobeide e dei Pitocchi fortunati

Tufγ : prima ossatura della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi

Tufδ : seconda ossatura della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi

Tufε1 : prima stesura in versi della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi

Tufε2 : seconda stesura in versi della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi

Il faldone della Turandot contenuto nel Fondo Gozzi è costituito da due fascicoli130: il primo

presenta la stesura completa della fiaba in versi (Tufε2) molto simile a quella del manoscritto

preparatorio per l’edizione Colombani, il secondo consiste in un insieme di carte sciolte.

Esaminate in dettaglio, esse testimoniano diverse fasi della scrittura gozziana: vi è, anzitutto,

quella che possiamo definire la prima verseggiatura dell’intera fiaba (Tufε1), che presenta

numerose correzioni ed aggiunte, riprese puntualmente in Tufε2. Poi vi sono fogli recanti la

stesura in prosa dei primi tre atti divisi in scene abbastanza dettagliate (Tufγ)131, una facciata

in cui trovano spazio le prime cinque scene del quarto atto, a partire dalla stesura Tufγ rese

però in maniera estremamente sintetica (Tufδ) e, infine, alcuni fogli contenenti gli indovinelli

da recitarsi in occasione del matrimonio tra Leopoldo II di Toscana e Maria Luigia di

Spagna132 e un altro indovinello di carattere “metateatrale”, che prevede come risposta la

parola “spettatori”, i quali in tal modo erano direttamente chiamati in causa, sicché esso

probabilmente assolveva la funzione di captatio benevolantiae.

Il manoscritto della Turandot contenuto nel Fondo certifica che la composizione delle fiabe

non è avvenuta di getto come il drammaturgo spesso lascia intendere negli scritti teorici:

130 Cfr. Carlo Gozzi, 1720-1806, Stravaganze sceniche, letterarie battaglie, cit., p. 123. 131 Fondo Gozzi, 3.5, cc. 35r-38v. La carta 34r-v presenta un’altra prova di versificazione della scena di Calaf

e Adelma. 132 Per la descrizione accurata del manoscritto rimando a JAVIER GUTIÉRREZ CAROU, Il Fondo Gozzi e la

genesi della Turandot, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur…, cit., pp. 129-139; in particolare pp. 137-138.

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infatti, esso testimonia di una revisione contenutistica e onomastica – oltre che metrica –

compiuta dall’autore perfino nella fase di una seconda versificazione.

Le modifiche più evidenti volgono in una direzione metateatrale: in Tufε2 nella scena iniziale

del primo atto – dove si situa l’incontro di Barach con Calaf – Gozzi aggiunge a margine

diverse battute relative alla “favola” secondo cui esiste una principessa che fa decapitare i

pretendenti nel caso non rispondano agli indovinelli da lei formulati. Le postille sono poi

puntualmente accolte nella Colombani e ammiccano chiaramente alle stesse Fiabe gozziane,

difficili a credersi e derise dai più:

CALAF: Ecco l’antica

fiaba che udii tra Carazani, e risi.

Dì pur, Barach.

BARACH: Fiabe non sono.

CALAF: Odo la fola,

che udito ho ancora, e che rider mi fece.

Odi, s’io la so bene.

CALAF: Dì, Barach

non è questa la fola? Or dì tu ‘l resto

ch’io m’annoio a dirla133.

Più rilevante, dal punto di vista drammaturgico, è la decisione maturata da Gozzi di espungere

le battute di Adelma, una schiava di Turandot, rivolte a Calaf, con le quali gli dichiarava il

proprio amore durante l’incontro che avveniva alla fine del quarto atto134. Eliminando la

dichiarazione di Adelma, lo scrittore mira ad accrescere la suspense del colpo di scena finale,

non sospettando Calaf che ella nutra amore nei suoi riguardi, ma non solo. Senza la

confessione di Adelma, Gozzi ottiene quello che si era prefissato con la scrittura della

Turandot, cioè di mostrare le “trasformazioni per lo più afflittive” non solo di Turandot ma

anche di un’altra donna. Infatti, sulla scena prende corpo sia il cambiamento repentino del

133 CARLO GOZZI, Turandot, in IDEM, Opere. Teatro e polemiche teatrali, a cura di Giuseppe Petronio,

Milano, Rizzoli, 1962, rispettivamente per la prima p. 248, I, 1 e per le due successive p. 249, I, 1. Nel manoscritto del Fondo la prima battuta è identica mentre le altre sono lievemente modificate: «CALAF: Odo la fola, / che udito ho ancora, e che rider mi fece. / Odi, s’io la so a mente» e «CALAF: Dì, Barac / non è così la fola? Or dì tu ‘l resto / ch’io m’annoio a dirla» (Fondo Gozzi, 3.5, c. 5r). D’ora in avanti le citazioni delle Fiabe saranno sempre desunte dal testo curato da Petronio che si basa sulla Colombani.

134 Fondo Gozzi, 3.5, c. 33v: «ADELMA: Sappi crudele ch’io t’amo tanto, io sono / sì dalla tua virtù da quei begl’occhi… / Ah troppo m’avvilisco… Ignoto ascolta / tu forse non morrai, ma non sperare / di posseder la mia nimica mai».

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sentimento della principessa nei confronti di Calaf – vera e propria metamorfosi interiore che

si specchia in quelle esteriori delle altre opere fiabesche – sia l’estremizzazione dell’amore di

Adelma verso il principe e dell’odio verso Turandot, sentimenti che, essendo trattenuti fino ad

allora – mancando, appunto, la dichiarazione d’amore – conducono la schiava a volersi

pugnalare, pur di non vedere l’amato con la rivale.

In direzione di una maggiore drammaticità del testo tendono anche le espunzioni di alcune

scene comiche tra le maschere, presenti in Tufε1 e assenti invece in Tufε2. È il caso delle

battute tra Tartaglia e Magnifico che siglavano, nella prima versificazione, la fine del secondo

atto e che miravano a stemperare la tensione precedentemente accumulata con i tre indovinelli

di Turandot e quello propostole da Calaf in ultimo.

MAGNIFICO: Mi son storno. Cosa diseu de quel matto Tartagia.

TARTAGLIA : Non mi dir altro. Scampa la testa, ha la quaglia sul

pirone, e se la lascia scappare con questa stolidaggine.

MAGNIFICO: Se el fusse mio omo d’onor che vorrai

desfarlo a forza de stramason.

TARTAGLIA : Se fosse mio e mancasse il carnefice, io lo farei volentieri, se

lo meriterebbe135.

Gozzi dunque, in questa prima fase di revisione, opta per stendere una patina più cupa e

“patetica” sulla fiaba. Lo dimostra anche un’aggiunta emblematica: mentre in Tufε1 la moglie

di Barach, Schirina, non assisteva alla cattura del marito – e Gozzi aggiunge in un secondo

momento la postilla «si faccia parlar Schirina»136 sul margine destro di tale foglio - in Tufε2 la

donna è presente alla deportazione dei due uomini da parte delle guardie di Turandot,

ottenendo un effetto di maggior pathos rispetto a quello della scena coniata in precedenza.

Zofγ : prima ossatura della Zobeide contenuta nel Fondo Gozzi

Zofδ : seconda ossatura della Zobeide contenuta nel Fondo Gozzi

Zofε : stesura in versi della Zobeide contenuta nel Fondo Gozzi

135 Ivi, c. 19r. 136 Ivi, c. 20r.

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Il faldone della Zobeide contenuto nel Fondo Gozzi presenta la stesura manoscritta in versi

dei primi quattro atti (Zofε) e una versione in prosa del quarto e quinto atto (Zofγ); inoltre nel

fascicolo è accluso un foglio sciolto contenente una versione in prosa molto ridotta di parte

del terzo e parte del quarto (Zofδ).

La problematica maggiore che emerge dalla lettura del fascicolo inerente a questa fiaba è

dovuta ai primi fogli: la carta 3r-v presenta un elenco dei personaggi, a cui segue la stesura in

prosa del primo atto diviso in scene, bruscamente interrotto all’altezza della quarta, dopo la

quale Gozzi scrive la prima scena del secondo atto, poi, pur avendo a disposizione ancora

mezza pagina, interrompe la scrittura.

Il foglio seguente 4r-v – ma ricordiamo ancora una volta che la numerazione delle carte

manoscritte non è autografa – fornisce un altro elenco dei personaggi e presenta la

verseggiatura delle prime tre scene della fabula precedentemente vergata in prosa (con una

piccola inversione: qui il primo a parlare con Zobeide è Tartaglia a cui segue il Magnifico,

mentre là l’ordine era capovolto) e poi, sempre in versi, compare un dialogo tra il Magnifico e

Sadì, un personaggio assente nell’edizione a stampa ed espunto proprio in Zofε, che Gozzi

decide di togliere tracciandovi sopra una riga.

Nella carta seguente, 5r, ci imbattiamo in un terzo incipit della fiaba, che comincia

direttamente con l’incontro tra Zobeide e Abdalac, il calender, incontro che nell’edizione a

stampa costituisce la quinta scena e che quindi si pone proprio nel punto in cui Gozzi aveva

interrotto l’ossatura del primo atto (cc. 3r-v).

Volendo riepilogare la situazione testimoniata da questi primi fogli manoscritti, si viene ad

avere la seguente “radiografia”:

cc. 3r-v (in prosa) cc. 4r-v (in versi) c. 5r (in versi) Edizione a stampa

Sinadab Re di Samandal

negromante

[Abuzaid] Beder Re di

[Derbent] d’Ormus

Schemsedin Principe

suo figliuolo

Dilara figiuola di

Abuzaid

Salè figiuola di Abuzaid

[Cadige] Zobeide

figliuola di Abuzaid

Sinadab[bo] Re di

Samandal Negromante

[Sadì Principe giovinetto

erede del regno

innamorato di Salè]

Zobeide sposa di

Sinadab[bo]

Salè sua sorella

Beder Re d’Ormus

Schemsedin suo figlio

Masoud [generale]

Assente Beder re d’Ormus

Salè sua figliuola

Zobeide altra figliuola

Schemsedin figliuolo di

Beder

Dilara sua consorte

Masud principe di Zamar,

amante di Salè

Sinadab re di Samandal,

negromante, sposo di

Zobeide, moro

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Abdalac vecchi

Calender solitario

Masoud Capitano di

Abuzaid

Smeraldina serva di

Zobeide

Truffaldino

Tartaglia

Brighella

Magnifico

Principe di Beder, amante

di Salè

Dilara moglie di

Schemsedin

Tartaglia [capitano]

ministro di Sinadab

Magnifico [capitano sul

campo di Beder] [ajo di

Sadì] Ministro di Sinadab

Mulladina serva di

Zobeide

Truffaldino

Brighella

Soldati

La Discordia

Abdalc sacerdote

Calender vecchio

Pantalone ministro di

Sinadab

Tartaglia ministro di

Sinadab

Brighella servo di corte di

Beder

Truffaldino servo di corte

di Beder

La Discordia

Soldati

Varie voci di donne

Una donna con la testa

tagliata nelle mani

Samandal città La scena è intorno alla

mura e nella città di

Samandal

Atto primo Atto primo

Zobeide sola grotta leone

e tigre incatenati

Atto primo

Cortile regio con due

grotte chiuse nel fondo

alle porte delle quali un

leone e una tigre

incatenati passeggeranno

innanzi e indietro

Atto primo

Regio cortile; nel fondo

portone chiuso d’una

grotta; una tigre, e d un

leone incatenati al

portone della grotta,

innanzi al quale

passeggiano, come di

guardia

Scena 1: Zobeide sola

Scena 2: Zobeide e

Magnifico

Scena 3 Zobeide e

Tartaglia

Scena 4 Zobeide e

Abdalac

Fine

Scena 1: Zobeide sola

Scena 2: Zobeide e

Tartaglia

Scena 3: Zobeide e

Magnifico

Scena 4: Zobeide,

Magnifico e Sadì

Scena 5: Zobeide,

Magnifico e Sadì

Scena 1: Zobeide e

Abdalc

Scena 2: Sinadabbo,

Magnifico, Tartaglia,

Smeraldina, Abdalac

Scena 3: Sinadabbo solo

Scena 4: Sinadabbo e

Smeraldina

Scena 5: Abdalac e

Sinadabbo

Scena 1: Zobeide sola

Scena 2: Zobeide e

Tartaglia

Scena 3: Zobeide e

Pantalone

Scena 4: Zobeide e

Abdalac

Scena 5: Sinadab,

Pantalone, tartaglia e

guardie

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Scena 6: Zobeide e

Abdalac

Fine

Scena 6: Abdalac solo

Scena 7: Abdalac e

Zobeide

[etc.]

Scena 6: Sinadab solo

Scena 7: Sinadabbo e

Smeraldina

Scena 8: Sinadab e

Abdalac

Scena 9: Abdalac e

Zobeide

[etc.]

Come emerge dalla tabella, tra i quattro incipit ci sono varie differenze, la più evidente delle

quali consiste nella revisione onomastica e nell’eliminazione definitiva di un personaggio che,

stando alla presentazione nell’elenco, presumibilmente doveva rivestire un ruolo non

secondario per lo sviluppo della vicenda: Sadì. Almeno in un primo momento, quindi, la

trama era stata concepita in maniera alquanto diversa da quella edita e che, come abbiamo

visto nel caso del Mostro turchino, lasciava presagire, nel senso aristotelico, un doppio

racconto, in cui si sarebbero incrociate le vicende di Zobeide, intenta ad evitare di cadere

vittima del maleficio dello sposo e quelle di Sadì, erede del trono di Samandal, alla ricerca

dell’amata Salè.

L’elenco dei personaggi della carta 4r accoglie le sostituzioni onomastiche redatte nella lista

del foglio 3r - per esempio, il padre di Zobeide ha fin dalla sua prima comparsa il nome Beder

- e fa capolino anche la Discordia, due dati che indurrebbero a collocare cronologicamente

tale lista dopo quella del foglio 3r, una supposizione lecita dal momento che, solitamente, la

stesura in prosa precede quella in versi137. Inoltre, nel primo elenco Sadì, Dilara e Zobeide

sono presentate come sorelle e non c’è alcun cenno a vicende sentimentali, mentre

nell’edizione a stampa Dilara è cognata di Zobeide, avendone sposato il fratello Schemsedin,

e Salè è amata da Masud, legami che d’altronde rendono ancora più plausibili i motivi per cui

i due giovani si trovano a combattere contro Sinadabbo. Come cognate e non come sorelle

Dilara e Zobeide figurano anche nell’elenco del foglio 4r, che quindi si situa in una posizione

intermedia tra gli altri due.

Tuttavia, nella carta 4r ci si imbatte in un nuovo personaggio, Sadì, la cui parte è già

versificata e che però non compare nelle stesure in prosa di cui disponiamo e nemmeno nel

primo elenco dei personaggi. Siamo dunque portati a formulare due ipotesi: o mancano i fogli

recanti la versione in prosa della trama in cui compariva anche Sadì o Gozzi decide di

137 In base all’esame più dettagliato eseguito sulle fiabe del Mostro turchino e di Zeim re’dei geni, anche in questo caso si ritiene di scartare l’idea secondo cui la versione in prosa possa essere un sommario della stesura in versi.

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inserirlo nel passaggio dalla prosa alla versificazione. Nel primo caso la mancanza della carte

può essere imputata alla semplice dispersione oppure rimanda a una precisa volontà gozziana:

forse l’autore, nel momento in cui inizia a versificare l’ossatura in cui compaiono anche le

vicende di Sadì, decide di espellere tale personaggio dalla vicenda, gettando poi via la sua

scaletta, e in fieri attua le conseguenti modifiche. Questa ipotesi è supportata anche dal fatto

che, nell’elenco del foglio 4r, l’apposizione «amante di Salè», accanto al nome Masoud, è

chiaramente un’aggiunta fatta posteriormente all’intero elenco, vista la sua posizione sul

foglio più marginale delle altre e in considerazione dell’inchiostro usato, diverso da quello per

la compilazione degli altri nomi. L’indizio porta a pensare che l’autore, subito dopo aver

depennato un personaggio, cerchi di riassestare l’intera vicenda cambiando il meno possibile:

Salè, rimasta una presenza insignificante all’interno della trama, diventa l’amante di uno dei

generali di Beder.

È possibile che Gozzi abbia volontariamente conservato il foglio 4r-v perché in esso sono

contenute le prime scene in versi, che egli infatti non riscrive quando riprende a dialogare il

primo atto: la carta 5r comincia con quella che nell’edizione è la quarta, vale a dire quella

dopo il monologo della protagonista e delle due scene con Tartaglia e il Magnifico, già redatte

in 4r-v.

Ci sono però delle varianti interne al testo che lasciano propendere per un’altra soluzione

interpretativa: la carta 4r-v è stata scritta dopo la carta 5r-v e seguenti, dopo cioè l’intera

verseggiatura del primo atto; in quest’ultima infatti Abdalac presenta Dilara e Salè come le

sorelle di Zobeide («Abdalac […] ti narrerò che Dilara e Salè / Sorelle tue, fur dall’iniquo

tolte»)138 e solo accanto, aggiunto sul margine destro, si trova il nuovo verso «tua cognata e

sorella fur rapite / Da questo dissoluto e schiffo mostro»139, in sostituzione di quello cassato.

Gozzi, dunque, accoglie nella versificazione le modifiche onomastiche compiute nell’elenco

della carta 3r e sviluppa la vicenda a partire dall’ossatura, accogliendo la parentela delle tre

donne enunciata nell’elenco. Forse, solo dopo aver scritto i dialoghi del primo atto, non

soddisfatto, decide di introdurre nella trama un nuovo personaggio, Sadì, e si accinge a

riscrivere le prime scene testimoniate dalla carta 4r-v, invertendo, rispetto all’ossatura,

l’ingresso delle maschere: il Magnifico infatti, essendo il servitore del giovinetto, ha il

compito di introdurlo in scena e per questo non può che parlare a Zobeide solo dopo la

dipartita di Tartaglia. Il Magnifico infatti, pur presentandosi in maniera comica – in maniera

maggiore rispetto all’edizione a stampa – funge da raccordo tra la protagonista e Sadì, infelice

138 Fondo Gozzi, 4.3, c. 6v. 139 Ibidem.

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erede al trono di Samandal e innamorato della sorella di Zobeide, Salè. Dopo un breve

scambio di battute fra i tre, appare Abdalac, che licenzia i due uomini per restare solo con la

protagonista e a questo punto si interrompe, sulla carta, la scena, ricollegandosi direttamente

all’ incipit del foglio 5r in cui, appunto, si assiste al dialogo tra questi due personaggi.

L’ipotesi trova conferma anche in un’altra aggiunta presente in Zofε: nella pagina in cui viene

cambiato il verso della parentela delle donne con Zobeide, qualche riga sotto, aggiunto sul

margine destro si legge a proposito di Salè: «amata da Sadì [che per timore] di questo regno /

successor sfortunato che per timor / or tace e piange la perduta amante. / Dilara tua cognata al

sposo suo / volle serbar a forza e fede e core / o morirsi volea. Stanco etc.». L’ultima parola si

congiunge perfettamente al verso già incolonnato «stanco e sdegnato / d’affaticarsi invano il

negromante […]», dato indubbio della natura di aggiunta del passo posto a margine e quindi,

come tale, compiuta in una fase posteriore alla composizione dei dialoghi.

Le carte testimoniano la successiva e permanente eliminazione del personaggio, con la

conseguente modifica della persona innamorata di Salè, che, come già annunciato, diventa

Masud.

L’idea che Gozzi offre di sé negli scritti teorici – quella di uno scrittore che si improvvisa

drammaturgo per gioco e per necessità di interloquire, a distanza ma sullo stesso campo con

Chiari e Goldoni - è molto lontana dalla figura che si intravede dietro e dentro le carte del

Fondo.

Se i manoscritti del Mostro turchino e di Zeim re de’geni già analizzati in dettaglio, rivelano i

numerosi interventi compiuti dal drammaturgo in sede di ossatura, quelli della Turandot e

della Zobeide testimoniano come la volontà gozziana creatrice e di raffinamento delle proprie

opere si perpetui fino all’ultima fase della versificazione, lasciando intravedere la figura di

uno scrittore che torna a lavorare sulle sue opere per tempi lunghi, anche per decenni, come

nel caso della Marfisa bizzarra, i cui documenti ritrovati dimostrano i numerosi interventi

dell’autore sul testo apportati nel corso di tutta la sua vita140.

140 Cfr. MARTA VANORE, Dal Fiume Meduna al Liston: genesi creativa de La Marfisa bizzarra, in Parola,

musica, scena, lettura:percorsi del teatro di Goldoni e di Gozzi, Atti del convegno (Venezia, 12-15 dicembre 2007), in corso di stampa.

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PiFofγ : prima ossatura dei Pitocchi fortunati contenuta nel Fondo Gozzi

PiFofδ : seconda ossatura dei Pitocchi fortunati contenuta nel Fondo Gozzi

Nel Fondo Gozzi sono conservate poche carte relative ai Pitocchi fortunati che documentano

le due diverse tipologie di ossature già attestate per le altre fiabe; anche in questo caso

disponiamo di una versione in prosa più antica in senso cronologico (PiFofγ) e di un’altra più

recente (PiFofδ). La scansione temporale che congetturiamo è deducibile, ancora una volta, a

partire dall’onomastica: in PiFofδ i nomi dei personaggi corrispondono a quelli dell’edizione

a stampa, mentre tale corrispondenza non si registra in PiFofγ, la cui variantistica sarà

opportunamente esaminata più avanti.

Dal punto di vista strutturale la più rilevante tra i due documenti sta nella diversità del numero

di atti tra la prima e la seconda ossatura: PiFofγ infatti reca la stesura della fabula fino al

quarto atto ed è quindi privo del conclusivo quinto atto, che, visto lo svolgimento della

vicenda ivi contenuto, possiamo ipotizzare che avrebbe dovuto essere simile a quello

dell’edizione, invece PiFofδ contiene solamente il terzo e ultimo atto e appare dunque più

prossima alla stesura edita.

Le scene di PiFofγ sono abbastanza dettagliate e si rivelano molto simili a quelle che Gozzi

appronta per l’edizione con l’eccezione di alcune lasciate “aperte”, o meglio, da stendere:

quelle relative alle maschere:

Scena: qui qualche scena delle maschere.

Se occorre scena d’udienza alle maschere141.

Il “non finito” ci riporta al modus operandi di Gozzi, che utilizza le scene delle maschere –

certamente molto attese dal pubblico - per riempire eventuali “buchi” o per terminare gli atti,

come spesso si riscontra nelle ossature delle altre fiabe, tanto più in questa dove in realtà sia

Pantalone che Tartaglia perdono qualunque traccia della vis comica che le connota.

Le maschere, dunque, dimettono i loro consueti panni di servitori e ciò mette in discussione la

visione che i nemici di Gozzi e soprattutto la critica successiva hanno di lui, cioè quella di un

accanito sostenitore della commedia all’italiana. La questione è tanto più nevralgica se

pensiamo alle ossature portate alla luce dal Fondo Gozzi in cui le parti per le maschere non

141 Fondo Gozzi, 4.5, c. 3r.

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solo non sono lasciate completamente all’improvviso, ma, al contrario, vengono redatte con

una puntualità e una minuziosità che lasciano poco all’attore.

La particolarità delle opere fiabesche risiede, a nostro avviso, non tanto nell’avere riproposto

le maschere della commedia dell’arte, quanto nella loro collocazione geografica in mondi

esotici e lontani e la co-esistenza con personaggi “alti” e tragici: le scene riservate ad esse non

sono poi così numerose all’interno di ciascuna fiaba e nel caso del Re cervo e dei Pitocchi

fortunati alcune di esse cambiano fisionomia: Tartaglia in entrambe le fiabe è un uomo

potente e malvagio, Pantalone, pur incarnando comunque i valori della bontà e semplicità,

era, nella prima ossatura dei Pitocchi fortunati addirittura un governatore142. In quest’ultima

fiaba, come nella Turandot, con cui condivide la mancanza di elementi magici, le maschere –

intese come quelle tradizionali della commedia dell’arte - hanno poco peso; eppure sappiamo

che entrambi i titoli godettero un successo pari a quello delle altre fiabe.

Da una lettura complessiva delle carte contenute nel Fondo non vincolata al giudizio

tradizionale che imputa a Gozzi la strenue difesa della commedia dell’arte, si delinea la figura

di uno scrittore non così solerte nei confronti del genere all’improvviso o, almeno, non nei

modi in cui la critica lo ha sempre dipinto. In considerazione dell’eterogeneità dei documenti

emersi (oltre alla Fiabe e ai drammi “spagnoleschi” figurano anche opere “goldoniane”, balli

etc.), sembra inverosimile che, se Gozzi avesse davvero desiderato riportare in auge la

tradizione della commedia all’improvviso, non abbia steso qualche scenario, per scrivere il

quale possedeva tutte le competenze necessarie. Nella prefazione alla Turandot, l’autore

ammette di avere composto questa fiaba perché al Corvo, quella immediatamente precedente,

non era stato riconosciuto il giusto merito; si lamenta soprattutto del fatto che i suoi detrattori

avevano attribuito ingiustamente alla presenza delle maschere e alla trasformazione del

protagonista in statua, gli unici motivi del successo di pubblico. Se alla seconda accusa Gozzi

risponde scrivendo una fiaba scevra di qualsiasi elemento magico, alla prima obiezione egli

replica, nella citata prefazione, che le maschere «avevano pochissima parte»143; quindi, già a

partire dalla seconda fiaba il drammaturgo sceglie di impiegarle poco. La scelta compiuta da

Gozzi non è conforme alla figura dipinta dalla critica e confermata, per la verità dall’autore

142 Nella Prefazione ai Pitocchi fortunati Gozzi accenna a questo cambiamento «In una libera, e capricciosa

scenica opera fiabesca prego il mio Lettore a sofferire le maschere, ch’io volli sostenere, nelle circostanze, nelle quali sono in questa fola, in Samarcanda» (CARLO GOZZI, Prefazione ai Pitocchi fortunati, in IDEM, Opere edite ed inedite, Venezia, Zanardi, 1802, t. II, p. 197).

143 Ivi, t. II, p. 5.

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stesso. Dietro le insistenti dichiarazioni intese a mostrarsi come il protettore delle maschere,

sembra nascondersi la noluntas gozziana, individuata da Anna Scannapieco144 .

La considerazione ci spinge oltre: se a Gozzi non interessava davvero rivitalizzare il

repertorio della commedia dell’arte – o almeno certamente non in modo attivo visto l’assenza

nel Fondo di qualunque tipo di materiale ascrivibile alla categoria “canovaccio” – per quale

motivo sceglie la compagnia Sacchi? Il drammaturgo, infatti, ammette in vari passi dei suoi

scritti teorici e memorialistici di aver soccorso la truppa di Antonio Sacchi sia perché

all’epoca dell’Amore delle tre melarance (1761) reggeva con difficoltà la concorrenza delle

opere di Chiari e Goldoni, rispettivamente al teatro Sant’Angelo e al San Luca, sia perché si

contraddistingueva per la morigeratezza dei costumi – pregio che Gozzi non tributerà ad essa

in anni successivi – e per l’eccezionale bravura dei comici che la componevano.

In verità ci sembra che il sodalizio Sacchi-Gozzi si sia rivelato profondamente proficuo per

entrambi: da una parte il capocomico ha avuto il privilegio di mettere in scena le opere del

poeta di compagnia senza pagarlo (accenni alla sua munificenza, soprattutto per differenziarsi

dai rivali, costellano l’intera produzione gozziana); dall’altra, il Conte si è servito di

un’eccellente compagnia per attuare il proprio progetto culturale e per sperimentare e

sperimentarsi nel genere teatrale, abbandonando nel corso del tempo, proprio come Goldoni,

l’impiego delle maschere “mascherandole” nei servitori e nei personaggi minori e intriganti

delle commedie spagnolesche, o facendole ancora apparire in qualche dramma (per esempio

nella Donna innamorata da vero, nella cui Prefazione Gozzi sente però il bisogno di

giustificare la loro presenza145 o, ancora, nella Donna vendicativa disarmata

dall’obbligazione).

Le Fiabe, così come sono rese dalle ossature, non costituiscono affatto il baluardo delle

maschere della commedia all’improvviso, né sono la risposta reazionaria – come già assodato

da tempo146 - alla riforma goldoniana, bensì inaugurano il lavoro del Conte come uomo di

teatro, teatro che anch’egli desiderava modificare e in cui riversa il proprio sterminato

bagaglio culturale che spazia dalla novellistica orientale a quella italiana, dai poemi

cavallereschi ai concetti della filosofia illuministica, seppure quest’ultimi presentati in modo

del tutto arbitrario.

144 ANNA SCANNAPIECO, Carlo Gozzi: la scena del libro, Venezia, Marsilio, 2006. 145 CARLO GOZZI, Prefazione alla Donna innamorata da vero, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., 1803, t.

X, p. 5: «l’intreccio mi parve bizzarro, o capriccioso abbastanza per convenire colle maschere della Commedia Italiana».

146 ARNALDO MOMO, Maschere e contro-riforma nel teatro di Gozzi, in IDEM, La carriera delle maschere, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 231-367.

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Se scorriamo le dieci Prefazioni che corredano le Fiabe scritte tutte insieme in vista della

princeps, ci accorgiamo che Gozzi non punta mai l’attenzione sul fatto di avere riportato nel

teatro comico le maschere della commedia all’improvviso – che la tradizione vuole in via

d’estinzione -, tanto più che, come abbiamo già enunciato, egli anzi ribadisce la scarsa

rilevanza all’interno della vicenda, ma preferisce evidenziare la particolarità della sua

impresa, quella cioè di avere ridotto a materia “teatrabile” delle fole. Ciò è soprattutto

evidente per le prime fiabe, il Corvo e la Turandot, nelle prefazioni delle quali si legge:

Per prova della mia proposizione composi il Corvo. Tal fola si narra a’fanciulli, ed io ho tratto l’argomento di

questa da un libro Napoletano, intitolato: Lo cunto delli cunti: trattenimento per le piccierille147.

Cotesti ingrati furon cagione, ch’io scelsi dalle Fole Persiane la ridicola Fola di Turandot per formarne una

Rappresentazione, bensì colle maschere, ma appena fatte vedere, e col solo fine di sostenerle, e spoglia di

meraviglie148.

147 CARLO GOZZI, Opere edite ed inedite, cit., 1802, t. I, p. 106. 148 Ivi, p. 5.

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Per una riflessione terminologica: “scenario”, “soggetto” e “ossatura”

Il tentativo di “classificare” il materiale eterogeneo di cui si compongono i manoscritti delle

Fiabe ha condotto a sondare il significato di alcuni termini tecnici abitualmente usati nelle

questioni teatrali e retrospettivamente concepiti in modo intercambiabile (scenario, soggetto,

canovaccio, etc.) per cui si è reso necessaria uno scandaglio lessicale, partendo dai vocaboli

usati da Carlo Gozzi.

Riferendoci alle stesure in prosa delle Fiabe, abbiamo adottato il termine “ossatura”, per

definire la scaletta di lavoro del drammaturgo, uno strumento destinato all’autore, come

testimoniano alcune postille autografe quali: «vedi se è meglio mettere in prosa spostare» etc.

Tali annotazioni escludono che le ossature gozziane siano prodotti destinati agli attori.

Eliminiamo immediatamente dall’orizzonte gozziano – almeno per quel che concerne le opere

a stampa e i manoscritti del Fondo riguardanti le fiabe – il termine “canovaccio”: esso infatti

non appartiene al vocabolario dell’autore e, come il prezioso contributo di Piermario Vescovo

mette in luce, si deduce che non sia mai stato utilizzato da nessun drammaturgo italiano del

Settecento con il significato che l’uso corrente gli attribuisce149 (anche i “francesizzati”

Riccoboni e Goldoni impiegavano il lemma francese “canevas” e mai quello italiano).

Il vocabolo “scenario” occupa una percentuale davvero esigua nel lessico dell’autore150 e, per

quel che abbiamo potuto rilevare, compare, in stretto riferimento alle sue opere, mentre Gozzi

utilizza talvolta in maniera dispregiativa, per riferirsi alla produzione goldoniana d’esordio.

Le due occorrenze in cui la parola è utilizzata nell’opera gozziana stanno rispettivamente in

un manoscritto della Turando e nella prefazione a stampa a Cimene Pardo:

Dopo apparato / come nel scenario / siede Altoum, gl’altri tutti battono / la fronte in terra, poi siedono ai loro

posti151.

149 «“Canovaccio” come indicazione del “testo a soggetto” è un francesismo, perché solo in francese, e non in

italiano, esistono prima un referente e un traslato figurato pertinenti all’uso […] nella lingua francese canevas indica la tela grezza che serve di base all’arazzo», PIERMARIO VESCOVO, “Farvi sopra le parole”. Scenario, ossatura, canovaccio, in corso di stampa. Ringrazio Piermario Vescovo per avermi fatto leggere in anteprima il suo contributo.

150 Certamente la progressiva disamina del Fondo Gozzi recherà nuove informazioni anche rispetto alla terminologia adoperata dallo scrittore.

151 Fondo Gozzi, 3.5/2, c. 10r.

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Lo scenario del secondo, terzo, quarto e quint’atto fu sorprendente, legatissimo alla rappresentazione, ed efficace

soccorso all’illusione152.

Analizzando i due contesti di riferimento, è evidente che al lemma sono attribuiti due

significati diversi: nell’ultimo passo Gozzi sta sottolineando la particolare cura con cui

Cimene Pardo venne messa in scena dalla compagnia del teatro San Giovanni Grisostomo e

con il vocabolo allude al complesso apparato scenografico che la pièce, certamente non

irrilevante se pensiamo alle didascalie previste per l’opera e, in particolare, per gli atti

menzionati; la prima occorrenza, invece, allude a qualcosa di diverso dalla scenografia, cioè

all’insieme dei movimenti scenici, delle entrate e delle uscite, nel caso specifico della prima

apparizione in scena dell’imperatore Altoun e della sua corte nella Turandot.

L’appunto si trova nel manoscritto del Fondo che reca la prima stesura in versi della fiaba

(Tufε1) all’inizio della carta 10r, e il foglio che lo precede contiene la conclusione del primo

atto. In Tufε2 l’inizio del secondo atto è siglato da un dialogo comico fra Truffaldino e

Brighella, assente in Tufε1, ma, dal momento che la carta 10r non reca alcuna informazione

relativa all’atto o alla scena ai quali la carta specifica si riferisce siamo portati a ipotizzare che

Gozzi abbia scritto anche nella prima verseggiatura le battute tra le maschere ma che il Fondo

non le abbia conservate. Si può presumere, dunque, che l’autore, dopo il dialogo fra

Truffaldino e Brighella, abbia redatto l’appunto sullo scenario, che riguarda, evidentemente,

le modalità con cui i cortigiani entrano dalla porta principale, descritta in precedenza, e si

dispongono in scena (momento peraltro narrato con dovizia di particolari in Tufε2). Il

drammaturgo sembra fare riferimento a una stesura di quest’entrata già tratteggiata nel

dettaglio: con ogni probabilità Gozzi allude allo “scenario” vero e proprio, concepito

tecnicamente come il foglio contenente le entrate e le uscite degli attori, e recava

verosimilmente la descrizione dell’ingresso di tutti i personaggi che facevano parte della

corte.

L’accezione del termine “scenario”, in questo caso, è prossima a quella espressa da Andrea

Perrucci nel trattato Dell’arte rappresentativa premeditata ed all’improvviso (1699), in cui

esso viene definito come una sorta di scaletta con le indicazioni per gli attori relativamente

alle loro entrate ed uscite153.

152 CARLO GOZZI, Cimene Pardo in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., 1803, tomo IX, p. 115. 153 ANDREA PERRUCCI, Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso, parti due, Napoli, presso

Michele Luigi Mutio, 1699, pp. 150-151.

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Se nel caso della Turandot, l’impiego del lemma equivale alla definizione perucciana, nelle

Prefazione a Cimene Pardo esso indica, senza dubbio, l’apparato scenografico dell’opera, in

un significato molto prossimo a quello che si riscontra nelle Memorie di Lorenzo Da Ponte:

egli infatti utilizza il termine in coppia con vestiario, intendendo l’apparato scenografico,

comprensivo delle “robbe per la scena” e dei costumi154.

In effetti le accezioni gozziane del vocabolo sono entrambe testimoniate dal Dizionario

redatto dal Tommaseo:

Scenario: 1. tutto lo spazio occupato dalle scene, e le Scene stesse dipinte, e rappresentanti cose relative alla

commedia. 2. Foglio in cui sono descritti i recitanti, le scene, i luoghi pe’quali volta per volta devono uscire in

palco i comici.

Il secondo significato è presentato come estinto dallo stesso Tommaseo che quindi, intorno a

metà Ottocento, periodo della compilazione del vocabolario, documenta la sopravvivenza del

termine solo nella prima accezione. E, infatti, se nel Settecento maturo la parola “scenario”

indica senza alcun dubbio la scenografia, come attesta il trattato del Milizia155 - e ancora

Giovanni De Gamerra nell’esporre le linee guida del suo progetto per il rinnovamento del

teatro di Napoli, chiede esplicitamente che l’edificio venga dotato di uno scenario ad esso

confacente156 -, alla fine del Seicento, come già testimoniato dal trattato di Perrucci, essa

allude al singolo foglio recante le entrate e le uscite degli attori, simile al manda-fuori, stando

all’impiego del termine nel Malmantile racquistato157.

Il vocabolo “scenario” compare anche nella prefazione scritta da Francesco Andreini al

Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala:

Avrebbe potuto il detto Signor

Flavio (perché a ciò fare era idoneo) distender l’opere sue,

e scriverle da verbo a verbo, come s’usa di fare; ma perché

154 LORENZO DA PONTE, Memorie, a cura di Giovanni Gambarin e Fausto Niccolini, Bari, Laterza, 1918,

parte II (1777-1792): «Ebbene! - disse - andate da Rosemberg e ditegli ch’io vi do l’uso del teatro. Rosemberg mi ricevette con gran giubilo; ma entrò Thorwart, e questi, sotto vari pretesti, guastò la faccenda. - Eccellenza, non abbiamo né un ricco scenario né un ricco vestiario. Vi sarebbero sempre dispute tra cantanti italiani e attori tedeschi: non si possono trasportar le scene ogni giorno senza grandissimo disturbo». Il corsivo è nostro.

155 FRANCESCO MILIZIA , Del teatro, Venezia, Pasquali, 1773, p. 64: «La scena è in Cartagine, e l’Architettura è Gotica. Lo Scenario ugualmente che il Vestiario deve essere regolato dal Poeta».

156 GIOVANNI DE GAMERRA, Novo teatro, Pisa, Ranieri Prosperi, 1789, p. 3: «Espone rispettosamente il Gamerra, che il Novo teatro avrà bisogno d’una dotazione di Scenario corrispondente a quella decorosa apparenza, che egli si propone di stabilire in tutto […]. Questo scenario non abbisognerà meno d’una spesa di scudi 2000».

157 LORENZO LIPPI, Il malmantile racquistato, Prato, nella stamperia di Luigi Vannini, 1815.

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oggidì non si vede altro che Comedie stampate con modi

diversi di dire, e molto strepitosi nelle buone regole, ha

voluto con questa sua nuova invenzione metter fuora le sue

Comedie solamente con lo Scenario, lasciando a i bellissimi

ingegni (nati solo all’eccellenza del dire) il farvi sopra

le parole, quando però non sdegnino d’onorar le sue fatiche

da lui composte non ad altro fine che per dilettare

solamente, lasciando il dilettare et il giovare insieme,

come ricerca la poesia, a spiriti rari e pellegrini158.

Se leggiamo un qualunque testo ivi contenuto, il significato attribuito da Perrucci al termine

copre solo in parte il significato che in questa prefazione il vocabolo riveste: è vero che tutti

gli “scenari” sono dotati delle indicazioni relative alle entrate e alle uscite dei personaggi, a

volte arrivando a un grado estremo di scarnificazione delle battute come nel caso del Creduto

morto159 ma è altrettanto vero che le favole rappresentative sono presentate da Andreini e

dallo Scala come il materiale su cui i nobili, e più in generale i dilettanti, possono «farvi sopra

le parole», cioè possono costruire la commedia. Tuttavia, se pensiamo al significato di

“scenario” nel trattato di Perrucci, non sembra plausibile che un gruppo di non professionisti

possa ordirvi la trama di un dramma, avendo solo a disposizione una scaletta con le entrate e

le uscite.

A conferma dell’ossrrvazione, viene una battuta che il figlio di Francesco, Giovan Battista

Andreini, mette in bocca al personaggio di Filino in Le due comedie in commedia: egli

asserisce che gli basta leggere lo scenario per saper recitare la commedia160.

Se ci spostiamo in ambito settecentesco, non possiamo non confrontarci con Goldoni che,

nella Prefazione a Il servitore di due padroni, adopera la parola “scenario” per distinguere il

testo a stampa da quello effettivamente composto intorno al 1745 per Antonio Sacchi, in cui

c’erano solamente indicazioni di massima relative agli argomenti che poi gli attori avrebbero

158 FLAMINIO SCALA, Il teatro delle favole rappresentative, a cura di Ferruccio Marotti, Milano, Il Polifilo,

1976, 2 voll. 159 Ivi, vol. II, p. 230: «ISABELLA: lo crede lo spirito d’Orazio; spaventata, ritorna in casa / LAURA: fuora,

fa il simile, via / FLAVIO il simile, via / PANTALONE il simile, via / PEDROLINO: il simile via». 160 GIOVAN BATTISTA ANDREINI, Le due comedie in comedia, in Commedie dell’arte, a cura di Siro Ferrone,

Milano, Mursia, 1986, vol. I, 2 1: «ROVINIO: Messer Filino, quest’è la vostra parte della commedia, non è così? / FILINO: Sì, mio signore, e la so benissimo; poiché Lelio, giovine di vostra signoria, n’ha così tutti ben istrutti che basta veder lo scenario d’ogni commedia e siamo atti a recitarla. E in questo suggetto io fo Narciso». Il corsivo è nostro.

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sviluppato autonomamente (in maniera positiva stando alla testimonianza del drammaturgo,

tant’è vero che il passo sfocia poi nel famoso elogio dell’attore161).

In questo caso la definizione goldoniana si sovrappone in parte al concetto di ossatura

gozziana anche se in quest’ultima si assiste a una maggiore definizione dei dialoghi delle

maschere della commedia dell’arte, pur essendo scritti in prosa e lasciati come tali

nell’edizione. Se andiamo a scandagliare ulteriormente la prefazione del Servitore di due

padroni, intuiamo che lo “scenario” approntato da Goldoni serve ai comici, mentre l’ossatura

gozziana assolve alla funzione di scaletta per l’autore, che dimostra di tornarci sopra per

dialogare le parti dei personaggi “alti” o per modificare qualche scena.

A completare il quadro delle occorrenze del termine “scenario” nella produzione gozziana

intervengono altri casi, accomunati dall’utilizzo del lemma in chiave negativa e dispregiativa,

in riferimento all’acerrimo nemico, Goldoni, che viene così apostrofato: «Per gl’Istrion

scenari componeva, / undici lire l’uno li vendeva», e ancora: «Deh torna a far scenari per il

Sacchi / come facevi un dì per poche lire»162. Più “neutra” è la connotazione della parola nel

Teatro Comico all’Osteria del Pellegrino, in cui Gozzi smentisce che la riforma goldoniana

abbia preso le distanze dalla commedia all’improvvisa, laddove, invece, Goldoni ne conservò

i contenuti, pur avendo impedito ai comici di recitare provvisti solamente dello scenario163.

Più spinoso è il tentativo di circoscrivere il termine “ossatura”, non tanto per il significato che

Gozzi gli attribuisce, quanto per le implicazioni che la definizione porta inevitabilmente con

sé.

L’ossatura gozziana è paragonabile all’“ideazione” alfieriana nella maniera in cui viene

tramandata dagli autografi dell’astigiano: se scorriamo le “idee dell’atto”, vale a dire gli

stesure in prosa delle tragedia scritte da Alfieri, troviamo l’elenco dei personaggi – e spesso,

l’onomastica subisce una revisione in questa sede – e degli atti divisi in scene concepite in

161 CARLO GOLDONI, L’Autore a chi legge in IDEM, Il servitore di due padroni, in Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di Giuseppe Ortolani, Milano, Mondadori: «Quando io composi la presente Commedia, che fu nell’anno 1745, in Pisa, fra le cure legali, per trattenimento e per genio, non la scrissi io già, come al presente si vede. A riserva di tre o quattro scene per Atto, le più interessanti per le parti serie, tutto il resto della Commedia era accennato soltanto, in quella maniera che i Commedianti sogliono denominare a soggetto; cioè uno Scenario disteso, in cui accennando il proposito, le tracce, e la condotta e il fine de’ ragionamenti, che dagli Attori dovevano farsi, era poi in libertà de’ medesimi supplire all’improvviso, con adattate parole e acconci lazzi e spiritosi concetti. In fatti fu questa mia Commedia all’improvviso così bene eseguita da’ primi Attori che la rappresentarono, che io me ne compiacqui moltissimo, e non ho dubbio a credere che meglio essi non l’abbiano all’improvviso adornata, di quello possa aver io fatto scrivendola». Il corsivo è nostro.

162 PAOLO BOSISIO, Carlo Gozzi e Goldoni. Una polemica letteraria con versi inediti e rari, Firenze, Olschki, 1979, p. 120 e p. 298.

163 VITO PANDOLFI (a cura di), La commedia dell’arte. Storia e testo, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1957, vol. IV, p. 397: «Quanto tu non volessi, che fosse novità l’averla scritta, in iscambio di lasciarla recitare improvvisamente da Comici col solo scenario, altra riforma non ci scopro». Cfr. anche LAURA RICCÒ, «Parrebbe un romanzo». Polemiche editoriali e linguaggi teatrali ai tempi di Goldoni, Chiari, Gozzi, Milano, Bulzoni, 2000, in particolare pp. 163-176.

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modo che al nome di ciascun personaggio sia affiancato un brevissimo riassunto della battuta

che, successivamente, sarà verseggiata in modo esteso. A livello formale, rispetto all’ossatura

gozziana, l’unica differenza evidente è nelle modalità di segnalare le entrate e le uscite perché

spesso Gozzi le risolve nella dicitura “via”, mentre Alfieri inserisce queste informazioni

direttamente nel corpo della battuta, in modo diegetico: per esempio, «arriva Bruto che …

etc»164.

D’altronde, la famosa dichiarazione del metodo di lavoro del tragediografo è sovrapponibile a

quanto dichiara Gozzi nella Più lunga lettera di risposta che sia mai stata scritta:

E qui per l'intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare,

stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l’essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più

procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il

quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideate dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e

scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l'estratto a scena

per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma

della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un

pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come.

Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai

tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue

poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v’è

nell’idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori. Questo meccanismo io l'ho

osservato in tutte le mie composizioni drammatiche165.

Assai simili le idee esposte nella prefazione della Donna contraria al consiglio:

io non mi sono mai posto allo scrittoio per scrivere una Favola da esporre in su le scene, se non la vidi prima in

tutta la sua estensione coll’occhio mentale; né prima di porre in assetto una diligente ossatura di viluppo atto ad

interessare, e facile da svilupparsi; di proporzionata divisione di atti conciliabili colle decorazioni, di apparecchio

di circostanze, di scene attese da’ spettatori, di avvertenze, di condotta, e con quell’ordine, di cui i miei generi

che per lo più hanno un aspetto d’una novità capricciosa, sono suscettibili, non mi sono giammai recato a

dialogarla166.

164 VITTORIO ALFIERI, Antonio e Cleopatra, edizione critica a cura di Marco Sterpos, Asti, Casa d’Alfieri,

1980, p. 134. 165 IDEM, Vita, Epoca 4, capitolo 4. 166 CARLO GOZZI, La più lunga lettera di risposta… , cit., p. 25. I corsivi sono nostri. D’altronde, l’ “occhio

mentale” è un momento imprescindibile per qualsiasi opera artistica: basta ricordare le parole di Leonardo: «la pittura… la pittura è prima nella mente del suo speculatore e non po pervenire alla sua perfezzione senza la manuale operazione. […]. Il pittore ha dieci varii discorsi, con li quali esso conduce al fine le sue opere, cioè luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, remozione, propinquità, moto e quiete» cit. in CESARE SEGRE, La descrizione al futuro: Leonardo da Vinci in IDEM, La pelle di san Bartolomeo. Discorso e tempo dell’arte,

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L’opera ch’io intitolai La Donna contraria al consiglio, composizione scenica, è favola allegorica di invenzione

da me ideata, intrecciata, e composta a seconda del mio poetico capriccio167.

Possiamo affermare che i primi due “respiri” confluiscono nell’ossatura gozziana, la quale, a

seconda della sua maggiore o minore accuratezza (fase γ o δ) rispecchierà ora l’ideazione ora

la stesura concepita da Alfieri.

Le “idee” dell’astigiano si costituiscono come un piano del lavoro dell’autore, che infatti,

proprio come Gozzi, correda il testo di appunti inequivocabilmente rivolti a se stesso, come

nel caso della commedia Uno o sia Dario, in cui si legge: «a tutto questo bisognerà pensare

meglio per la distribuzione degli Atti»168.

Nella commedia I Pochi, o sia i Gracchi di Alfieri, si assiste a un’altra tipologia della

distribuzione della materia: dopo la lista dei personaggi, a cui, come in alcune pagine di Zeim

re de’ geni, segue un’apposizione che mira a delinearne le caratteristiche o l’azione principale

che compiono nel dramma, compare l’argomento in cui in una decina di righe si espone la

trama della commedia, siglata poi dalla annotazione «si distribuisca poi questo alla meglio nei

cinque atti»169. La successiva stesura si dimostra ancora un testo non del tutto risolto, almeno

sulla carta, e per esempio si reperiscono annotazioni del tipo: «scene varie, in cui si mettano

in campo queste varie passioni. Si vedano, e si pizzichino le due matrone Terza, e Sempronia.

Porzia venga ad adulare Sempronia. Porzia faccia una scena d’amore plebeo col Patrizio

Gracco. Gracco maggiore ne faccia una di motti acerbi col rivale Oratore, insomma s’intrecci

come vorrà la progressione»170, scene che saranno poi sviluppate contestualmente alla

verseggiatura.

Le ossature alfieriane, come quelle gozziane, assolvono alla funzione di «lavoro preparatorio,

individuale, di scrittoio e semmai, la differenza sostanziale è su un altro piano che non

appartiene all’invenzione individuale del testo […] ma alla sua concertazione collettiva»171:

Gozzi scriveva per la compagnia Sacchi e con essa, sul palcoscenico, risolveva alcune “zone”

Torino, Einaudi, 2003, p. 21. Segre constata l’anonimia con cui Leonardo, nel progetto scritto a proposito dell’Ultima cena, si riferisce ai personaggi, che, al massimo, definisce genericamente “apostoli”, anonimato che si rispecchia in alcune ossature gozziane in cui gli agenti sono nominati in maniera indistinta (per esempio, nella versione della Turandot Adelma e Zelima, schiave di Turandot, sono presentate semplicemente come “schiave di Turandot”). La somiglianza rilevata sta a significare come, in questa fase di lavoro, la parte preceda l’individualità del personaggio.

167 CARLO GOZZI, Prefazione, in Opere cit., t. IX, p. 5. 168 VITTORIO ALFIERI, Uno o sia Dario, in IDEM, Commedie, a cura di Fiorenzo Forti, Asti, Casa d’Alfieri,

1953, p. 218. 169 Ivi, p. 222. 170 Ivi, p. 223. 171 PIERMARIO VESCOVO, Farvi sopra le parole, cit.

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del testo che lasciava deliberatamente aperte sulla carta, mentre l’astigiano, come noto, non

intratteneva alcun rapporto diretto con gli attori.

Nella categoria “ossature” va incluso anche lo scheletro del Corvo contenuto nei “vecchi”

manoscritti marciani, da Elvira Garbero Zorzi erroneamente ritenuto un canovaccio scritto da

un poeta poco ferrato nel mestiere teatrale.

Cerchiamo di distinguere, se possibile, l’ossatura dal canovaccio, là dove solitamente è il

contenuto che ci riporta a un campo o all’altro172.

È ancora Vescovo a individuare l’identità esistente tra un’ossatura che viene verseggiata dal

poeta e un’ossatura (quanto oggi si è soliti definire canovaccio) che viene dialogata dai

comici, rifacendosi a una definizione di Ludovico Antonio Muratori che, in un passo del

trattato Della perfetta poesia italiana, si sofferma criticamente sui comici italiani, imputando

loro soprattutto il difetto di non volere imparare a memoria un intero testo e di preferire «il

soggetto, come lo chiamano, cioè la sola ossatura delle commedie, che poscia all’improvviso

è da loro rivestita di parole»173.

L’operazione gozziana di estrazione del soggetto da un’opera altrui interamente compiuta,

tessendoci sopra una nuova ossatura da cui poi procedere alla verseggiatura, rispecchia la

prassi della commedia all’improvviso che desume un soggetto – che resta fissato sulla carta

come tale – sul quale in scena saranno costruiti “all’improvviso” i dialoghi dagli attori.

In questo senso, illuminante, a dispetto della critica mordace alla commedia all’improvviso

che vi compare, è il giudizio dell’erudito spagnolo Leandro Fernández de Moratín a proposito

di uno spettacolo all’improvviso a cui aveva assistito durante il soggiorno italiano tra il 1793

e il 1796. Dopo aver visto L’empio punitor di se stesso, con Truffaldino cuoco oltremontano

al teatro Sant’Angelo a Venezia nella stagione autunnale del 1794, riflettendo su questo

genere teatrale, egli – in modo più lungimirante di altri suoi contemporanei - dimostra di

avere colto la peculiarità del genere che, appunto, non è integralmente definibile

“all’improvviso”:

è una di quelle commedie che si rappresentano senza suggeritore: conosciuta la trama e l’ordine delle scene gli

attori sostengono la commedia col dialogo improvvisato, come loro capita. È cosa che al primo momento reca

172 Ivi, «solo uno studioso del tutto irresponsabile scambierebbe le ossature del Saul e della Mirra o di altre

tragedie di Vittorio Alfieri che noi possediamo per “scenari” o “canovacci”, mentre ciò è molto più facile per dei testi della medesima forma che rinviano a trame di commedia e che, magari, vedono la presenza diretta delle maschere tra i personaggi».

173 ANTONIO MURATORI, Della perfetta poesia italiana, Modena, nella stampa di Bartolomeo Soliani, 1706, t. II, p. 6.

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sorpresa, ma poi disturba: non v’è dubbio che nell’azione, nelle intenzioni e nell’avanzare del dialogo si nota tale

scioltezza e spontaneità, da confondersi con la stessa realtà: gli errori, le ripetizioni, il togliersi la parola l’un

l’altro, il parlare contemporaneamente in due o tre, sono elementi che contribuiscono ad aumentare in modo

straordinario la illusione […] aggiungasi, poi, che non è tutto improvviso ciò che vi si dice: gli attori non solo

conoscono a menadito l’intreccio, ma anche sanno a memoria tutti quei brani che sono in relazione immediata

con quello, ed è necessario che sia così perché essi non abbiano a perdersi […] prolungano a piacere il dialogo,

secondo l’umore del giorno, secondo la loro prontezza e la esperienza che hanno del teatro. Così, volere o non

volere, non sono i comici che fanno la commedia nel teatro: la commedia è già bella e fatta, solo essi la ornano

con buffonate, con equivoci, allusioni sudice, spiritose, come vengono loro in mente e con una grande quantità di

movimenti, di smorfie ridicole, esagerate e strane174.

Dal passo emerge anche il peso del contributo che ciascun comico può dare al testo, a seconda

del grado di acculturazione posseduto, argomento che svilupperemo trattando della

compagnia Sacchi, composta da comici tutt’altro che insipienti175.

I comici possono infatti rivestire con battute un’ossatura, intesa semplicemente in questo caso

come una stesura generale dell’opera – più o meno corposa e dettagliata – ma possono anche

desumere il “soggetto” da un testo interamente scritto e poi tornarlo a dialogare con altre

parole; operazione peraltro attestata anche dalla pratica gozziana, soprattutto per quel che

concerne i drammi “spagnoleschi”: il drammaturgo infatti ha davanti a sé il dramma originale

interamente disteso, ne estrae il “fondo” come ammette egli stesso in più occasioni, e su

questo fondo riformula una diversa ossatura che poi verseggia. Illuminante in questo senso è

un appunto inedito del Fondo riguardante le prefazioni per i drammi di ispirazione spagnola:

Per le prefazioni alle commedie spagnole.

Sulla qualità degl’argomenti. Preso il fondo e non la tessitura e il dialogo. Esame sulle tre compagnie comiche di

Venezia. Un fondo buono spagnolo fu lavorato come feci per la compagnia Sacchi e riuscì. Il medesimo soggetto

sarebbe stato lavorato diversamente per le altre due compagnie, se il fondo è buono sarebbe riuscito lavorato

colle viste a caratteri delle altre Truppe da me conosciuti e colle viste al genio della mia nazione176.

Non a caso il drammaturgo, in molte prefazioni, ammette di avere “saccheggiato” le opere del

teatro spagnolo, sottolineando però sempre come i dialoghi fossero nuovi e frutto di personale

inventiva. L’esempio più rilevante che si trova nel Fondo Gozzi è costituito dall’estratto del

174 ANGELA MARIUTTI (a cura di), Il drammaturgo del Settecento Leandro Fernández de Moratín, in Quattro spagnoli in Venezia: Leandro Fernández de Moratín, Antonio Pedro de Alarcon, Angel Sanchez Rivero, Mariano Fortuny y Madrazo, Venezia, F. Ongania, 1957, pp. 174-175.

175 Sulla questione del lavoro dei singoli attori rimando a FERDINANDO TAVIANI – MIRELLA SCHINO, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo, Firenze, La casa Usher, 1986, pp. 365-379.

176 Fondo Gozzi, 3.1, c. 6r.

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Tessitore di Segovia in cui viene compendiata la trama della pièce spagnola, su cui poi

l’autore imbastisce il dramma: ci troviamo di fronte a «una sorta di regressione dall’azione

dialogata all’ossatura»177 qui denominata estratto, rimandando chiaramente a una fonte (le

modalità di estrazione di un “soggetto” da un’opera già interamente scritta per il teatro è

esemplificato da Perrucci che utilizza una commedia di Giambattista della Porta).

E, ancora, è lo stesso meccanismo sotteso ai rifacimenti goldoniani da parte di Cerlone e a

quelli gozziani il cui tratto più originale risiede nella condensazione delle quattro maschere

della commedia dell’arte in una sola, quella napoletana di Pulcinella.

La definizione di “soggetto” offerta da Perrucci nel suo trattato risulta perfettamente

sovrapponibile a quella di ossatura gozziana, così come l’abbiamo cercata di definire nei

precedenti capitoli:

Il soggetto non è altro che una tessitura delle scene sopra un argomento formato, dove in compendio si accenna

un’azzione che deve dirsi e farsi dal recitante all’improvviso, distinguendosi per atti e scene…178.

Quindi, almeno per Gozzi, sembrerebbe che ossatura e soggetto nel senso perrucciano si

identifichino in una stesura in prosa della “materia” divisa in atti e in scene, un’ossatura-

soggetto che quindi si presenta già in una forma di “dieresi sceneggiata” e non nelle modalità

di «pura individuazione della trama come intreccio narrativo (l’argomento, l’intreccio, o la

materia che dir si voglia)»179, fase β del processo compositivo gozziano.

In realtà ci pare di intuire che, almeno per Gozzi, “soggetto” sia un sinonimo di “fondo”, di

base di una trama e quindi non perfettamente equivalente alla ossatura. A dimostrazione di ciò

si può leggere la Prefazione al dramma pastorale per musica Eco e Narciso, in cui l’autore,

criticando chi «ruba i soggetti delle nostre Tragedie per ridurli a muti contorcimenti

lascivi»180, intende colpire coloro che desumono la trama, l’argomento - e non l’ossatura nel

senso di piano di lavoro che le si è attributo181- per farne poi dei balli.

177 PIERMARIO VESCOVO, Farvi sopra le parole, cit. 178 ANDREA PERRUCCI, Dell’arte rappresentativa premeditata, cit. 179 PIERMARIO VESCOVO, Farvi sopra le parole, cit. 180 CARLO GOZZI, Opere edite ed inedite, cit., t. VIII, p. 8. 181 In riferimento a questo dramma si legga anche la fitta corrispondenza gozziana in merito alla

composizione di Eco e Narciso che ruota principalmente intorno ai problemi sulla parte musicale affidata a Buranello (Cfr. MARIA GRAZIA PENSA, La favola di Eco e Narciso, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur…, cit., pp. 155-169). In una di queste missive, a destinatario ignoto, Gozzi scrive: «Il dramma riuscì lunghetto, quantunque io abbia troncata molta materia comica nell’ossatura», ad ennesima testimonianza di come la stesura dell’ossatura facesse parte della prassi gozziana per qualunque opera (CARLO GOZZI, Lettere, a cura di Fabio Soldini, Venezia, Marsilio, 2004, p. 282).

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In Goldoni, al contrario, sembra che il termine “ossatura” equivalga a quello di “soggetto”,

come egli stesso afferma nella dedica del Prodigo (1757), in cui, tessendo l’elogio degli abili

cavalieri e dame che recitarono la sua commedia si ritaglia solamente il merito di aver fatto

un’«ossatura, detta comicamente [cioè dagli attori] il Soggetto»182.

Le cinque diverse fasi del lavoro del drammaturgo da noi individuate possono essere

compendiate in tre: rimanendo inalterate la fase α, l’appunto conciso e singolo, che precede

l’ideazione alfieriana nonché quella a cui si riferisce l’occhio mentale gozziano, e quella ε, la

verseggiatura, che come per Alfieri e Goldoni costituisce l’approdo ultimo del processo

compositivo, le tre fasi β, γ, δ fanno riferimento a un unico momento, la scrittura

dell’ossatura, che, a seconda del maggiore o minor grado di rifinitura, abbiamo designato con

sigle diverse.

La fase β, come avremo modo di appurare nel caso di alcuni fogli del Mostro turchino, si

riferisce alla semplice narrazione della trama, al brogliaccio, in cui non compare alcuna

disposizione in maniera “teatrale” del testo, la fase γ prevede una stesura in atti e spesso in

scene della materia, la fase δ documenta un’ulteriore revisione del testo dipendente dal testo

concepito nella fase precedente, con aggiunte o espunzioni di intere scene e condensazione

delle scene precedentemente già redatte in modo da delineare la stessa scansione degli

episodi come nella stesura in versi.

Percorrendo la produzione teorica gozziana, ci accorgiamo che adottando il termine

“ossatura” Gozzi si riferisce ora all’uno ora all’altro di questi tre momenti, anche se in realtà

si scorge qualche differenza terminologica. Abbiamo già avuto modo di soffermarci sulla

dichiarazione del metodo di lavoro del veneziano enucleato nella Più lunga lettera di risposta

che sia mai stata scritta da cui estraiamo il sintagma “ossatura di viluppo” che si caratterizza

per essere «di proporzionata divisione di atti conciliabili colle decorazioni, di apparecchio di

circostanze, di scene attese da’ spettatori, di avvertenze, di condotta, e con quell’ordine, di cui

i miei generi che per lo più hanno un aspetto d’una novità capricciosa183» che sottintende,

dunque, una forma di testo diviso in atti e scene, già teatralmente abbozzato. Se però

leggiamo la Prefazione al volume ottavo della Colombani, Gozzi si scusa con i lettori della

mancata pubblicazione della Pulce che non aveva potuto mettere in scena a causa della morte

del macchinista della compagnia Sacchi, anche se l’aveva già «posta in ossatura». Ebbene, se

182 CARLO GOLDONI, Il Prodigo, in IDEM, Opere, a cura di Giseppe Ortolani, Milano, Mondadori, 1976, vol.

VII, p. 5: «Chi ha veduto rappresentare questa commedia a Bagnoli, si ricorderà aver veduto una bella Commedia, perché animata da cavalieri e Dame, pieni di spirito e di talento, che l’hanno fatta comparire quel che non è. Io non feci che l’ossatura, detta comicamente il Soggetto, e i valorosi Attori sopra uno scheletro di poche carte, mi hanno lavorata una Commedia di ben tre ore».

183 CARLO GOZZI, La più lunga lettera di risposta…, cit., p. 25. I corsivi sono nostri.

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la Pulce ritrovata nel Fondo, esaurisce i materiali relativi a questa fiaba scritti dal

drammaturgo, ci imbattiamo in un testo molto diverso rispetto alle altre ossature: esso è una

narrazione – esattamente come La narrazione del principe dell’aquila marina ritrovata

anch’essa nel Fondo - o meglio, una trascrizione dell’omonima fiaba basiliana,

opportunamente tagliata. Siamo dunque alle prese con un semplice intreccio narrativo, un

brogliaccio che potrebbe appartenere alla fase β da noi individuata, in cui appunto

confluiscono i testi non ancora concepiti per la scena, siano essi trascrizioni più o meno fedeli

di novelle, come in questo caso, sia estratti desunti da altre opere drammaturgiche, come il già

menzionato caso del Tessitore di Segovia.

A essere scrupolosi osservatori, notiamo come in questo caso Gozzi abbia genericamente

impiegato il termine “ossatura” e non “ossatura di viluppo” che aveva usato per

contraddistinguere uno dei momenti compositivi del suo lavoro, quasi a indicare che

l’ossatura può essere “semplice” o “di viluppo”, cioè, rispettivamente, con la materia esposta

sotto forma di narrazione (fase β) o già disposta in maniera drammatica (fase γ e/o δ).

Se prendiamo il passo inedito autografo già esaminato in precedenza, relativo alle Prefazioni

per i drammi “spagnoleschi”, riscontriamo l’assenza del termine ossatura:

Sulla qualità degl’argomenti. Preso il fondo e non la tessitura e il dialogo. Esame sulle tre compagnie comiche di

Venezia184.

Il drammaturgo utilizza il lemma “tessitura”, per indicare quanto definisce nella Più lunga

lettera di risposta “ossatura di viluppo”. Infatti, nel passo proposto a Gozzi preme sottolineare

come solamente il “fondo”, inteso come l’argomento, sia desunto dall’originale spagnolo,

mentre il prodotto finale, ottenuto dalla costruzione del testo teatrale e dalla sua

versificazione, siano il frutto originale della sua penna.

Possiamo ipotizzare, riscontrandolo soprattutto nelle Prefazioni, che quando Gozzi impiega il

semplice termine “ossatura” intende riferirsi al brogliaccio, cioè alla stesura narrativa della

trama, mentre quando usa il vocabolo composto, ossatura di viluppo, allude alla forma

testuale più prossima a quella finale, “classicamente” divisa in atti e scene e in cui i

personaggi agenti sono tratteggiati a fondo – non, ovviamente in senso psicologico – e resi

diversi da quelli del testo base.

Nella Prefazione a Il Montanaro Giovanni Pasquale Gozzi si sofferma soprattutto sui

personaggi, precisando come abbia desunto alcuni dei loro tratti dalla documentazione storica

184 Fondo Gozzi, 3.1, c. 6r.

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e altri invece abbia preferito inventarli, tra l’altro adducendo una motivazione che prefigura

un autore molto attento alla resa spettacolare e alle richieste del pubblico:

Lineando io in quella [Donna Maria Padilla] un carattere decente, mi sono allontanato

dalla relazione degli storici perché ciò che si legge

in un storia non è sempre combinabile con una pubblica

rappresentazione teatrale.

[…]

Accordando colla verità della Storia, delle mie immaginate

invenzioni, ho posto in assetto d’ossatura di intreccio e di viluppo,

e composi, qual ella sia l’Azione scenica morale intitolata Il Montanaro

Giovanni Pasquale185.

L’autore, in questo caso, si esprime utilizzando il termine “ossatura” con due apposizioni: la

prima, ossatura d’intreccio, allude alla trama, la seconda, “ossatura di viluppo”, rinvia alle

modalità con cui essa è stata dipanata. Non è casuale l’impiego dei due complementi di

specificazione: Gozzi, poco prima, ha ammesso di avere desunto l’argomento da varie fonti e

di avervi aggiunto anche scene immaginate, cioè nuove rispetto alla fonte; in questo modo,

egli ha inventato anche l’ossatura di intreccio, vale a dire il brogliaccio, perché ha innestato

situazioni - o dette in termini gozziani “circostanze”- ex novo.

La doppia precisazione permane anche nel testo edito186 nella stessa sequenzialità viene cioè

posposta la parola “viluppo” a “intreccio”, specchio della effettiva consequenzialità. In tale

precisazione reperiamo anche un’altra connotazione relativa al termine “tessitura”. Poche

righe dopo, l’autore scrive: «Le circostanze da me tessute in apparecchio, sembrano

abbastanza sufficienti a cagionare un sì buon effetto sopra un giovinetto Re». Il passaggio

presenta l’operazione della tessitura come un apparecchio dei fatti della vicenda in vista di

una rappresentazione teatrale, che presuppone una divisione in atti e scene, in altre parole, si

costituisce così l’ossatura di viluppo.

Nella Prefazione al Montanaro il drammaturgo specifica che l’ossatura può essere sia di

intreccio sia di viluppo. Si scorge dunque nell’autore una precisa consapevolezza della

differenza tra “ossatura d’intreccio”, che presenta la nuda scansione temporale delle azioni

della vicenda, come anche La Pulce e Il racconto del principe dell’aquila marina - nel cui

185 Fondo Gozzi, 3.1, c. 9v. Nella Prefazione al Montanaro Don Giovanni Pasquale non si registra il termina

ossatura bensì «legatura d’intreccio e di viluppo» (Carlo Gozzi, Prefazione al Montanaro Don Giovanni, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., 1803, t. XI, p. 8).

186 Ibidem: «[le notizie] altre riferite degli Scrittori relative alle memorie di quel Re, hanno destata in me l’idea d’innestare una legatura d’intreccio, e di viluppo assai vasto in questa scenica azione».

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titolo di quest’ultimo già si mette l’accento sul carattere intrinsecamente narrativo della

stesura – e “ossatura di viluppo”, che presuppone una mescolanza degli elementi della fabula,

un abbozzo dei caratteri e una disposizione dei fatti diversa rispetto a quella di partenza. L’

“ossatura di viluppo” si pone come base per la composizione dei dialoghi. Non solo. Al

concetto di ossatura di viluppo si sovrappone quello di tessitura, termine che indica uno stadio

progredito della stesura del testo e che presuppone che ci sia già stata l’orditura. Nella

Prefazione alla Figlia dell’aria ossia l’innalzamento di Semiramide Gozzi scrive:

Io lessi quelle due fantasie, come lessi per il passato i viluppi del Teatro Spagnolo, non già per fare delle

traduzioni, ma per risvegliare in me delle idee da edificare delle nuove tessiture da vestire de’miei dialoghi

confacenti a’nostri Teatri […] la prima parte della Figlia dell’Aria di Calderone accese il mio genio a formare un

edifizio affatto nuovo nell’ossatura, e ne’dialoghi, ch’io intitolai […] per far rilevare quella interissima

differenza, che passa dall’intreccio, e da’ dialoghi dell’Autore Spagnolo, all’intreccio, ed a dialoghi miei187.

Gozzi legge i viluppi del teatro spagnolo, cioè le opere già stese nella canonica forma teatrale

con l’intenzione di creare delle tessiture (quindi ossature già divise in atti e scene) pronte per

essere rivestite con nuovi dialoghi. La seconda parte del brano testimonia l’uso neutro della

parola “ossatura” che fin qui abbiamo proposto di identificare con il brogliaccio e, infatti,

Gozzi dopo aver parlato genericamente di “ossatura”, usa il termine “intreccio”, impiegandolo

per indicare la semplice proposta sequenziale delle azioni. Qui Gozzi insiste sul fatto che ha

formato «un edifizio affatto nuovo», già a partire dall’ossatura che ha abbozzato,

Ancora, nella Prefazione di Bianca contessa di Melfi, il drammaturgo utilizza i due verbi

“ordire e tessere”, che rinviano – o almeno così sembra a chi scrive – anche metaforicamente

ai due momenti di scrittura: ordire la trama e tesserci sopra come momenti corrispettivi del

filare in cui la tessitura della trama avviene sull’orditura e dunque su qualcosa di preesistente:

leggendo io un’opera del Teatro Spagnolo di Don Francesco de Roxas intitolata Casarse per vergarse, mi sono

immaginato di trattare quest’argomento con un’ossatura diversa, e con un’eloquenza de’sentimenti, e

de’dialoghi diversi tutto, tessendo un’azione tragica, ch’io intitolai: Bianca Contessa di Melfi, ossia il

Maritaggio per vendetta.

[…] L’aver fissata la massima di comporre un dramma sopra l’argomento di cosa scritta, successa, o

rappresentata, non toglie il merito a chi ha saputo ordire, e tessere una nuova scenica composizione, che

piaccia188.

187 Ivi, pp. 111-112. 188

CARLO GOZZI, Prefazione a Bianca contessa di Melfi ossia il maritaggio per vendetta, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., 1803, t. X, p. 139.

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Puntuale riscontro della sovrapposizione dei termini di “ossatura” e “orditura” si mostra il

Dizionario redatto del Tommaseo, in cui entrambe le parole, almeno in un’accezione,

significano «disposizione della materia di un componimento»189.

La metafora della tessitura si ritrova anche nella Prefazione a Cimene Pardo, in cui Gozzi

asserisce di avere tessuto con difficoltà sopra l’ordito imbastito da lui stesso:

Confesso d’aver lasciata trascorrere la fantasia per tal modo nell’orditura di quest’opera, che il tenere unita le fila

ordite nel tesserlo con della chiarezza, della ragione, e della connessione, m’ha fatto mulinare il cervello190.

Dopo questi esempi, possiamo tornare all’inedito abbozzo per le Prefazioni alle commedie

“spagnolesche”. Vi si evince ora con maggior chiarezza che i termini “fondo”, “tessitura” e

“dialogo” alludono al metodo di lavoro dell’autore, additato nella Più lunga lettera di

risposta: “fondo” è l’idea, “tessitura” è l’ossatura di viluppo e il “dialogo” corrisponde alla

versificazione. Adottando i significati concepiti dall’autore nella Più lunga lettera, si evince

che la tessitura consiste nella disposizione del testo già concepito in modo teatrale, vale a dire

diviso in atti e scene, che è ben diverso dal brogliaccio o semplice ossatura, in cui si ricalca da

un modello in modo più o meno passivo la trama senza alcuna specificazione e

approfondimento dei personaggi.

Un altro utilizzo del termine “tessitura” comprova tale ipotesi. Nella citata Prefazione a Il

Montanaro Giovanni Pasquale, Gozzi afferma che «la tessitura delle circostanze, e degli

accidenti; i caratteri da me dati agl’interlocutori, sono di mia invenzione»191. L’impiego del

termine sembrerebbe condurci direttamente a quella che abbiamo definito “ossatura di

viluppo”, già divisa in scene e in atti però, se esaminiamo l’uso delle parole “accidente” e

“circostanza” nelle opere gozziane, conveniamo con relativa sicurezza che il termine indica il

“fondo”, l’idea, che deve essere combinata e sviluppata per confluire in una trama ben

architettata e dunque “tessere le circostanze” significa creare una fabula, in altre parole

stendere un’ossatura.

Il riferimento ai caratteri dei personaggi si trova spesso utilizzato da Gozzi insieme ai

vocaboli “ossatura” e “dialoghi” per sottolineare il suo personale apporto, non costituito solo

dall’ossatura ma anche dai caratteri che vengono tratteggiati in modo diverso rispetto al testo-

189 190 CARLO GOZZI, Prefazione a Cimene Pardo, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., 1803, t. IX, pp. 114-115. 191 Ivi, p. 9.

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matrice, e dai dialoghi. Si sottolinei inoltre che i due vocaboli non sono mai impiegati se è

presente il termine “tessitura” perché quest’ultimo presuppone che già sia stato fatto un lavoro

sui personaggi e di “rimpolpamento” della trama.

Per esempio, nella prefazione manoscritta inedita a Bianca contessa di Melfi, il drammaturgo

usa i tre termini a scandire, in altro modo rispetto a quanto esposto nella Più lunga lettera, il

proprio metodo:

Uno s’immagina di scrivere qualche

Rappresentazione teatrale leggendo

un Romanzo, l’altro leggendo una

novella, l’altro leggendo una Storia, l’altro una Fola,

l’altro udendo un racconto, l’altro osservando i fatti d’una famiglia, i caratteri e le catastrofi dell’umanità fuori

da questi principj non credo che sia nata ne sia

per nascere azione scenica in quelle tante che

abbiamo vedute e che uderemo.

[…]

Quelle molte fortunate Rappresentazioni, quali si sieno,

ch’io mi sono immaginato di scrivere richiamando alla memoria e leggendo quelle fiabe che le femminette mi

raccontavano e quelle molte che immaginai e

ch’io scrissi leggendo le cose del Teatro

Spagnolo come dati romanzeschi, non ebbero

che questi principj. Le mie ossature, i

miei caratteri, i miei dialoghi diferenti le fanno mie creature dicono abbastanza ch’io non sono

un traduttore, e dio non ho mai prodotta

nessuna di queste opere senza nominare

le commedie e gli Autori che avevano risvegliata

in me la fantasia di comporle, perché

ognuno potesse fare un’esame di confronto192.

O, ancora, nella Prefazione di Amore assottiglia il cervello, contenuta nel Fondo, si legge:

Discorso [preliminare al Pubblico del Conte Carlo Gozzi sul proposito] che contiene le verità che si vedranno

Io non lessi e non leggo giammai le

192 Fondo Gozzi, 3.1, c. 14r. Quest’ultimo passo è ripreso anche nell’edizione della Prefazione, in cui, però, il

riferimento non è più ai “caratteri” bensì ai “sentimenti”: «Porga il solito mio debito nell’avvertire i lettori, che leggendo io un’opera del Teatro Spagnolo di Don Francesco de Roxas intitoltata Casarse per vergarse, mi sono immaginato di trattare quest’argomento con un’ossatura diversa, e con un’eloquenza de’ sentimenti, e de’ dialoghi diversi tutti, tessendo un’azione tragica, ch’io intitolai Bianca contessa di Melfi, ossia Maritaggio per vendetta» (CARLO GOZZI, Bianca contessa di Melfi, ossia Maritaggio per vendetta, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. X, p. 139).

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opere del teatro spagnolo certamente

per tradurle nell’idioma italiano, né per

conservare le loro ossature, né per attaccarmi

a’loro caratteri né per valermi spezialmente

punto né poco de’ loro dialoghi.

[…] Mi servirono come serve uno squarcio si storia, una novella, un romanzo, o un caso veduto e udito per

ordirvi sopra un’azione scenica193.

La possibile equiparazione tra ossatura e intreccio è ulteriormente fornita dalla Prefazione del

Metafisico, in cui si legge:

L’Amore, l’Amicizia alla prova, d’un Autore spagnolo, risvegliò in me la fantasia di comporre il Dramma, ch’io

intitolai: Il Metafisico, allontanandomi affatto dall’intreccio, da’dialoghi, e da’caratteri della strana commedia

spagnola194.

Dunque, con il lemma “tessitura” Gozzi allude a una forma testuale che precede la

verseggiatura, analogamente a quanto espresso anche nella Prefazione della Figlia dell’Aria:

Io lessi quelle due fantasie [le opere di Don Pedro Calderone], come lessi per il passato i viluppi del Teatro

Spagnolo, non già per fare delle traduzioni, ma per risvegliare in me delle idee da edificare delle nuove tessiture

da vestire de’miei dialoghi confacenti a’nostri Teatri195.

193 Fondo Gozzi, 3.2, c. 1r. 194 CARLO GOZZI, Prefazione del Metafisico in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. XII, p. 5. 195 Ivi, t. XI, p. 111.

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Il problema della datazione delle Fiabe

In vista dell’edizione Colombani delle sue opere (1772), Gozzi scrive, oltre alle lettere

dedicatorie che corredano ciascun volume, le Prefazioni da apporre ai singoli drammi in cui

fornisce alcune informazioni sulle fonti utilizzate - soprattutto nel caso dei drammi

“spagnoleschi” -, sulle eventuali polemiche suscitate dalle pièces e notizie riguardanti il

debutto di ciascuna composizione (luogo e data precisa).

Scorrendo tutte le Prefazioni è quindi possibile tracciare un calendario delle rappresentazioni

gozziane che però – rimarchiamo fin da ora - è altro rispetto all’individuazione della

successione con cui l’autore effettivamente compose le opere.

Il problema di una datazione univoca delle Fiabe emerge confrontando quanto Gozzi

asserisce nelle Prefazioni con l’elenco che ne offre in altri scritti teorici e l’ordine con cui le

struttura nella prima edizione a stampa, a cui senza alcun dubbio l’autore stesso soprintese196:

la cronologia, infatti, non combacia del tutto197.

Dalla comparazione tra le date delle “prime” indicate da Gozzi nelle Prefazioni e le esplicite

dichiarazioni presenti in esse affiorano già alcune discrepanze e, nello stesso scritto

introduttivo, convivono due attestazioni cronologiche diverse.

Ordine di rappresentazione Ordine indicato esplicitamente da Gozzi

1 L’amore delle tre melarance

2 Il corvo Il re cervo (nell’edizione Zanardi)

3 Il re cervo

4 Turandot Il re cervo (nell’edizione Colombani)

5 La donna serpente La donna serpente

6 Zobeide

7 I pitocchi fortunati Il mostro turchino

8 Il mostro turchino I pitocchi fortunati

196 ANNA SCANNAPIECO, Carlo Gozzi: la scena del libro, cit., p. 20. 197 Per una puntuale indagine relativa all’ordine delle fiabe rimando a JAVIER GUTIÉRREZ CAROU, Stesura,

recita, stampa: l’ordine delle fiabe teatrali di Carlo Gozzi, in Parola, musica, scena, lettura: percorsi del teatro di Goldoni e di Gozzi, cit. Inoltre cfr. GERARD LUCIANI , Carlo Gozzi (1720-1806). L’homme et l’oeuvre, Paris, Champion, 1977, vol. I, p. 265, nota 30.

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9 L’augellino belverde

10 Zeim re de’ geni Zeim re de’ geni

Nelle Prefazioni è sempre presente l’indicazione della prima messinscena (per esempio:

«posta che fu in iscena dalla truppa Sacchi nel teatro San Samuele in Venezia a dì cinque di

gennaio, l’anno mille settecento sessantadue»198) e spesso si trova anche una precisazione che

colloca cronologicamente la composizione all’interno del ciclo fiabesco («fu la mia seconda

fola»199), dunque, è possibile tracciare una netta distinzione tra l’ordine delle rappresentazioni

e la scansione con cui l’autore compose le opere, o meglio la scansione che Gozzi intende

proporre al lettore, disegnando, implicitamente, un preciso iter compositivo, specchio di un

autore versatile, reattivo e capace di dominare abilmente il corso del ciclo teatrale fiabesco.

A partire dall’esempio appena proposto, relativo al Re cervo, se scorriamo la relativa

Prefazione nella Zanardi, l’edizione posteriore a quella Colombani (1801-1804), ci

imbattiamo in un implicito ordine differente rispetto a quello della princeps, testimoniato

dall’asserzione «questa moltitudine era concorsa alle due [L’amore delle tre melarance e Il

corvo] prime mie fole»200; tuttavia, qualche riga dopo Gozzi individua Il re cervo come la sua

seconda favola. Se è indubitabile che essa sia la terza in ordine di messinscena – le date

riportate dall’autore sono suffragate, là dove presenti, dai resoconti contenuti nei Notatori

Gradenigo – incappiamo però in una contraddizione, oltre alla constatazione della diversa

collocazione nelle due edizioni201.

A completare questo affondo nella prima produzione fiabesca rappresentata a cavallo del

1761-1762 (Il corvo nella stagione autunnale mentre Il re cervo e la Turandot nella stagione

carnevalesca), la Prefazione della Turandot riporta un altro dato interessante perché Gozzi vi

afferma di avere scritto questa fiaba in risposta alle critiche ricevute dai detrattori in merito

alla rappresentazione del Corvo: essi, infatti, pur riconoscendone la forza intrinseca,

imputavano la causa del successo alla sola presenza delle maschere e alla fascinazione delle

trasformazioni meravigliose che vi erano contenute. L’autore decide dunque di replicare

componendo una fiaba scevra di qualsiasi elemento magico e di trasformazioni, la Turandot

appunto.

198 Cfr. CARLO GOZZI, Il re cervo, a cura di Alberto Beniscelli, cit., p. 43. 199 Ivi, cit. p. 42 200 Ibidem. Si tenga però presente che nell’edizione Colombani Gozzi esprime lo stesso concetto

riferendosi però a tre fiabe, L’amore delle tre melarance, Il corvo e Turandot e, conseguentemente, Il re cervo è presentato come quarta fiaba.

201 Cfr. JAVIER GUTIÉRREZ CAROU, Stesura, recita, stampa…, cit.

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Da questa motivazione, che si trova esposta pressoché identica anche nella Prefazione

presente nel Fondo Gozzi202, si deduce facilmente che la Turandot sia stata scritta

immediatamente dopo Il Corvo e che dunque sia la terza fiaba, posizione che occupa

nell’edizione Colombani; ciò però è in contraddizione con un altro dato: essa andò in scena

dopo Il re cervo, eppure di ques’ultima pièce, in cui l’elemento magico è predominante,

l’autore non ne fa menzione.

Le discrepanze fin qui registrate, spesso attribuite dalla critica al ricordo affievolito di Gozzi,

che scrisse le Prefazioni circa dodici anni dopo l’esordio teatrale203, possono spiegarsi con

altre due ipotesi: una si riferisce al concetto di ossatura e l’altra riguarda l’atteggiamento

gozziano nei confronti della presentazione e del “confezionamento” della Colombani.

L’autore può avere indicato a ragione la Turandot come terza fiaba – pur non accennando a Il

re cervo – se si usa come parametro per questa asserzione lo stadio compositivo testimoniato

dall’ossatura e non l’intera stesura: in altre parole, egli potrebbe avere iniziato veramente a

pensare alla fiaba scevra di magia dopo la rappresentazione del Corvo - e le conseguenti

critiche - dunque dopo il 24 ottobre 1761; possiamo congetturare inoltre che lo scrittore,

prima di questa data, avesse già abbozzato – non possiamo stimare con quale precisione – Il

re cervo, o, addirittura non lo avesse fatto in concomitanza alla stesura del Corvo, ipotesi che

spiegherebbe il motivo per cui Gozzi, nella Zanardi, definisce Il re cervo come seconda

favola.

La congettura sembra credibile e trova sostegno nella scelta da parte dell’autore di presentare

ben tre novità nell’arco di un paio di mesi: probabilmente il drammaturgo intendeva donare

alla compagnia Sacchi solo le fiabe del Corvo e del Re cervo ma, dopo la rappresentazione

della prima, intendendo reagire alle critiche in tempi brevi, compone la Turandot per farla

rappresentare prima della conclusione della stagione teatrale carnevalesca.

Se però prestiamo fede al racconto della genesi di queste prime composizioni fiabesche

tramandata dalle Memorie inutili, che ci presenta la scansione L’amore delle tre melarance, Il

corvo, Il re cervo e Turandot, rileviamo un’imprecisione di non poco conto: Gozzi asserisce

che i critici dell’ Amore delle tre melarance imputavano il trionfo ottenuto alle maschere e

alle trasformazioni magiche e perciò il drammaturgo decide di rispondere loro lanciando la

202 Fondo Gozzi, 3.1, cc. 52r-v. La differenza sostanziale tra la Prefazione edita e quella inedita è l’allusione,

in quest’ultima, a quattro indovinelli anziché ai tre consueti. 203 Paolo Bosisio riguardo all’errore della posizione del Re cervo all’interno della cronologia del ciclo

fiabesco osserva: «La confusione si spiega con il ricordo sbiadito che il Gozzi dovette avere di una stagione tanto intensa della sua attività creativa quando si accinse, a distanza di parecchi anni, a raccogliere le opere per la stampa e a redigere le introduzioni» (CARLO GOZZI, Fiabe teatrali, a cura di Paolo Bosisio, Roma, Bulzoni, 1984, p. 212).

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sfida di replicare il successo componendo altre due fiabe dello stesso genere, Il corvo e Il re

cervo. Solo in seguito, colpito nuovamente dalle obiezioni precedenti, egli decide di proporre

sulla scena una composizione scevra dell’elemento meraviglioso, la Turandot.

Le schiere nimiche si ingegnavano a deridere la mia Fiaba [L’amore delle tre melarance] [...] Adducevano [...]

che la cagione del gran concorso ch’ella aveva, derivava dall’essere appoggiata al formidabile ridicolo di quelle

quattro valenti maschere [...], e dal maraviglioso di alcune trasformazioni [...]. Ridendo io delle loro vane

diseminazioni, proposi pubblicamente che la forza dell’apparecchio, i gradi della condotta [...] potevano [...]

fermare l’umano genere [...]. Nuove beffe alla mia proposizione, e nuovo cimento per me nel provarla con

evidenza sulla popolazione. La Fiaba del Corvo [...] fece questo miracol […]. Volli battere il ferro mentr’era

rovente e la mia terza Fiaba intitolata il Re cervo, ribadì la mia proposizione con delle enormi replicate calche

acclamatrici […]. E perchè i miei ostinati pochi avversarj sostenevano a gola gonfia ancora, che il grand’effetto

delle mie tre prime Fiabe avveniva dalla decorazione, e dal maraviglioso delle magiche trasformazioni [...] con

altre due Fiabe, la Turandotte, e i Pitocchi fortunati [...] ho provata interamente la mia proposizione204.

Se consideriamo attendibile l’autobiografia gozziana, iniziata nel 1780 e pubblicata solo nel

1797, incorriamo in una differente scansione cronologica delle prime fiabe rispetto a quanto

espresso nelle Prefazioni del 1772 che sembrano inaffidabili, o meglio sono concepite da un

autore che intende proporre la propria opera, e soprattutto ripercorrere l’esordio teatrale,

presentandosi in una maniera particolare, anche a costo di alterare alcuni fatti. L’ideologia

gozziana sottesa alla Colombani, come sostenuto da Anna Scannapieco, risponde a una

precisa volontà di controreplicare alle accuse che gli erano state mosse e si pone come una

forte presa di posizione in un clima culturale considerato in decadenza: quando si appresta

alla prima pubblicazione delle opere nel 1772, Gozzi intende proporre l’immagine di un uomo

pronto a rispondere immediatamente alle critiche e a cambiare, in itinere, il proprio modus

operandi e perciò propone la Turandot come fiaba scritta quasi di getto in risposta ai dissensi

manifestati.

Inoltre, sembra che la scrittura del Re cervo e della Turandot rispondano entrambe, sia pure in

diverso modo, a due critiche mosse all’autore dopo il successo conseguito con Il corvo: da

una parte la prima fiaba dimostra, in maniera provocatoria, che un titolo fanciullesco è in

grado di richiamare un cospicuo numero di spettatori, dall’altra la seconda esibisce una trama

priva di metamorfosi.

Nelle Prefazioni delle Fiabe, Gozzi dimostra di avere colto la più grande novità del suo

operato: l’avere trasformato delle fiabe in senso stretto in opere destinate al teatro e di avere

204 CARLO GOZZI, Memorie inutili, edizione critica a cura di Paolo Bosisio, con la collaborazione di Valentina Garavaglia, Milano, LED, 2006, t. II, parte II, capitolo I, pp. 418-420.

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quindi inventato un nuovo genere teatrale, come, peraltro, con grande acume scorse il fratello

Gasparo205 immediatamente dopo la “prima” dell’ Amore delle tre melarance:

[…] ma chi leggerà la Fola del Corvo in quel libro, e vorrà confrontarla colla mia rappresentazione, vorrà far

cosa assolutamente impossibile. Un tale avviso io do al mio Lettore non solo per il Corvo, ma per tutte quelle

Fiabe, che uscirono poscia dal mio capriccio, nelle quali ho voluto conservare il solo titolo, e alcune circostanze

note delle medesime.

Cotesti ingrati furono cagione, ch’io scelsi dalle fole persiane la ridicola fola di Turandot per formare una

rappresentazione, bensì colle maschere, ma appena fatte vedere, e col solo fine di sostenerle, e spoglia affatto del

magico mirabile.

In questi scritti introduttivi riguardanti le prime fiabe, il drammaturgo si sofferma con una

certa insistenza sulle fonti utilizzate, volendo sottolineare l’operazione intellettuale compiuta:

non a caso egli utilizza il termine “rappresentazione” - lemma quasi assente nelle Prefazioni

successive, anche non fiabesche, in cui si esprime con altri vocaboli che servono da base per

possibili confronti con i modelli di riferimento (ossatura, intreccio etc.) – a indicare l’approdo

finale e inconsueto di una comune fiaba popolare.

Individuare un’univoca cronologia diventa ulteriormente complicato adottando il parametro

dell’ossatura – più o meno dettagliata - che rimanda a una fase del lavoro gozziano diversa da

quella della rappresentazione della fiaba e dalla redazione del testo per la stampa. Ossatura e

versificazione – intendendo con questo termine la scrittura dei dialoghi - non sempre si

susseguono immediatamente: è molto probabile che Gozzi lasciasse “fermentare” la stesura in

prosa di una fiaba mentre ne stava lavorando ad un’altra.

Grazie alla scoperta delle ossature e delle prime prove di verseggiatura di molte delle Fiabe

nel Fondo Gozzi, è ora possibile ipotizzare una datazione relativa alla prima stesura di

un’opera. Denunciamo subito il limite della cronologia definita in questo modo, priva di una

data autografa; tuttavia, almeno per alcuni “blocchi”, si giunge ad individuare un quadro

temporale alquanto diverso da quello fino ad ora esaminato.

L’indagine prende avvio da un’inoppugnabile testimonianza: in una lettera rivolta a un

destinatario ignoto, Gozzi nel mese di ottobre del 1763 scrive:

205 Si veda la recensione dell’Amore delle tre melarance in GASPARO GOZZI, Scritti scelti, a cura di Nicola

Mangini, Torino, UTET, 1960, p. 411-413 («Gazzetta veneta», 27 gennaio 1761, n. 103).

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Il Mostro turchino tra il volere, il non volere, gl’imbarazzi, l’accidia e la rabbia è finito; ma così fiacco e scipito,

che intendo non far d’esso uso alcuno. Non sono queste espressioni d’affettata modestia, ma di sincerità. Sono

arrabbiatissimo colla poesia e vorrei poterla frustare. Ho preso dell’affetto a questi deserti [la campagna] e mi

sono più cari i ragli di questi asini, che il sentire a Venezia: oh che cuccagna!206.

La fiaba – sia essa in forma di ossatura o già verseggiata - risulta terminata nel 1763;

successivamente l’autore dovette lavorarci per molto tempo in considerazione sia della sua

manifesta insoddisfazione, sia della data del debutto, avvenuto quasi un anno dopo (8

dicembre 1764).

Nella missiva che Baretti invia a Francesco Carcano da Londra il 12 marzo 1784, nella quale,

come noto, si scaglia contro Gozzi, colpevole di avere inserito le battute delle maschere della

commedia improvvisa anche nell’edizione Colombani207, menziona due fiabe:

Pochi mesi sono mi furono mandati gli otto volumi del conte Carlo Gozzi di Venezia, e costì m’aspettavo un

banchetto poetico de’ meglio imbanditi, perché avevo letto in manoscritto il suo Mostro turchino e la sua

Zobeide208.

L’accostamento del Mostro turchino alla Zobeide, andata in scena per la prima volta a Torino

il 10 agosto 1763 e replicata a Venezia l’11 ottobre dello stesso anno, lascia presagire che le

due opere citate dal Baretti siano state le ultime a disposizione per la lettura in quel momento.

Se accettiamo tale supposizione, si delinea un blocco unitario – a livello di ossatura o

comunque di testo non destinato né agli attori né alla stampa – composto da queste due fiabe

che non corrisponde alla successione delle rappresentazioni, secondo cui Zobeide è la sesta e

il Mostro turchino l’ottava. La fiaba “scardinata” risulta essere I Pitocchi fortunati, priva di

qualsiasi elemento magico; se essa fosse stata scritta prima di questo micro-gruppo, cioè

prima dell’autunno 1763, sarebbe stata composta in prossimità della scrittura della Turandot,

avvalorando quanto indicato da Gozzi sia nelle Memorie inutili che nella Più lunga lettera di

risposta209, in cui afferma di avere scritto le due fiabe prive di magia in successione. Inoltre –

206 GASPARE GOZZI, Gaspare Gozzi, Gaspare e Carlo Gozzi e la loro famiglia, in «Archivio veneto», tomo

III, parte II, 1872, pp. 277-278. Gaspare, autore dell’articolo, è il pronipote di Carlo e Gaspare. 207 Cfr. LAURA RICCÒ, Parrebbe un romanzo, cit., pp. 195-199. 208 GIUSEPPE BARETTI, Epistolario, a cura di Luigi Piccioni, Bari, Laterza, 1911, vol. II, p. 272. 209 CARLO GOZZI, La più lunga lettera..., cit., pp. 32-33: «Scrissi, e donai a’ Comici la Favola di Turandotte.

La [sic] Favola de’ Pitocchi fortunati, ignude affatto di maraviglie, e di trasformazioni. Le acclamazioni, e le repliche fioccarono. E che per ciò? Siccome aveva intrecciate in quelle due Favole per episodio con ragionevole legatura, e influenza all’azione, le nostre eccellenti comiche maschere italiane, che avevamo in quel tempo, delle quali conosceva l’indole, e lo spirito, e alle quali appoggiai delle parti connaturate co’ loro differenti caratteri, i miei collerici sprezzatori ostinati gracchiarono, che la cagione del gran concorso e delle acclamazioni, aveva origine dagli episodj delle quattro maschere soltanto, e non mai dal ripieno, dalla orditura, dalla condotta, dalla

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ma ci muoviamo sempre in ambito congetturale – la vicinanza delle due uniche fiabe scevre di

elementi meravigliosi risponderebbe alla precisa volontà autoriale di zittire i detrattori delle

opere fino ad allora andate in scena. Relativamente all’accusa della presenza della maschere

della commedia all’improvviso come chiave del successo gozziano, sia nella Turandot che ne

I pitocchi fortunati, esse sembrano “mascherate” da ministri o da semplici poveri uomini e, in

questo modo, viene attenuata la loro vis comica.

Il legame che intercorre tra Zobeide e Il mostro turchino si scorge anche, a livello di ossatura,

nell’abbandono gozziano dell’intenzione di costruire per entrambe una vicenda con una

fabula doppia, cioè con due coppie di personaggi agenti, idea forse maturata dopo la

composizione dei Pitocchi fortunati, in cui le fila della trama si moltiplicano, ma troppo

complicata da realizzare in una fiaba contenente già l’elemento magico; da qui la decisione di

eliminare il co-protagonista in entrambe. Peraltro, se è lecito scorgere un percorso di

sperimentazione anche all’interno dello stesso genere fiabesco, riscontriamo come l’idea di

una trama con più di un personaggio principale si attui nell’Augellino belverde, con le vicende

intrecciate di Renzo e Barbarina e nell’ultima fiaba, Zeim re de’ geni, in cui addirittura sono

tre i protagonisti.

Individuato il micro-blocco costituito da Zobeide e dal Mostro turchino, resta il problema

della sua collocazione all’interno della produzione fiabesca. Nell’edizione Colombani Gozzi

presenta esplicitamente I pitocchi fortunati come ottava fiaba e Il mostro turchino come

settima, nonostante sia l’ottava ad essere andata in scena. La specificazione temporale emerge

prepotentemente nello scritto prefatorio, quasi che il drammaturgo smanii dall’imprimere

nella mente del lettore questo dato, che, nel giro di una pagina, è ribadito per ben tre volte210.

Esaminando la Prefazione del Fondo Gozzi relativa a Il mostro turchino, ci si accorge di una

cassatura rilevante: l’autore, infatti, in prima battuta scrive che questa fiaba è l’ottava, poi

sostituisce l’indicazione numerica con settima211. Se accogliamo l’idea della Colombani come

un lavoro costruito ad hoc dall’autore in risposta alle critiche riversate su di lui, è possibile

forza de’ dialoghi, dall’arte contenute da quelle due Favole. Possibile, diss’io, che la replicata approvazione e la perseveranza del concorso, e degli applausi della mia nazione, non leghino le lingue de’ pochi inviperiti contro a’ miei capricci scenici? Scrissi, e donai a’ comici le Favole la Zobeide; la Donna serpente; il Mostro turchino; l’Augel belverde; Zeim Re de’ Genj, che cagionarono quel romore di applausi, di acclamazioni di repliche noti per sino a’ pesciolini».

210 CARLO GOZZI, Prefazione al Mostro turchino, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. III, pp. 101-103: «avendo ottenuto il mio intento sul Pubblico nella mia proposizione con sei rappresentazioni, io aveva anche stabilito di troncare un corso d’opere Teatrali, riuscito con un non meritato onore […] Il Mostro Turchino […] fu la settima Fiaba Teatrale, ch’io donai alla Truppa Sacchi […] confesserò che il rispetto, e il timore, ch’io ho del Pubblico, mi fece costar questa Fiaba, settima di questo nome, una fatica non conveniente al suo ridicolo titolo di Mostro Turchino».

211 Fondo Gozzi, 3.1, c. 39r.

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ritenere che Il mostro turchino fosse davvero l’ottava fiaba composta dall’autore, il quale

deliberatamente decide di esibirla in una posizione posticipata, forse per mostrare le capacità

con cui diversificò, anche all’interno, la produzione fiabesca intervallando due composizioni

di magia, Il mostro turchino e L’augellino belverde con una priva del meraviglioso.

Inoltre, la presentazione come ottava fiaba, si sposa con le dichiarazioni esposte nella

Prefazione a Il mostro turchino di voler «troncare un corso d’opere Teatrali [le Fiabe],

riuscito con un non meritato onore»212. Se essa fosse la settima fiaba, Gozzi, prima di

concludere il ciclo fiabesco, avrebbe scritto ancora altre tre fiabe, I pitocchi fortunati,

L’augellino belverde e Zeim re de’ geni. Inoltre, se nella Prefazione dell’Augellino

belverde213 il drammaturgo confessa lo stesso proposito esposto in quella del Mostro turchino,

nei Pitocchi fortunati non si registra alcuna affermazione di questo genere, assenza che

potrebbe segnalare la contiguità del Mostro turchino con L’augellino belverde. A nostro

avviso, la possibilità che il genere fiabesco diventasse monotono per il pubblico, oltre al

desiderio dell’autore di sperimentare modalità compositive teatrali, costituisce il vero motivo

per cui Gozzi lo dismise e sarebbe dunque questa la causa per cui La pulce sarebbe approdata

al palcoscenico, mentre egli imputa la decisione alla morte del macchinista della compagnia

Sacchi, dichiarazione presumibilmente inattendibile se si identifica l’apparatore con Giuseppe

Arena, morto nel 1762, dunque tre anni prima del termine del ciclo fiabesco.

Se I pitocchi fortunati fossero stati composti nel 1762 – anno in cui Gozzi scrive anche i due

drammi flebili214 Doride e Il cavaliere amico - si spiegherebbe la ragione per cui La donna

serpente comparve sulla scena solo nell’ottobre dello stesso anno e non prima: il

drammaturgo, prima di tornare al genere meraviglioso, si cimentò con la creazione di ben tre

opere prive dell’elemento magico; tuttavia è anche ipotizzabile che la stesura della Donna

serpente risalga, in verità, a un periodo prossimo alla verseggiatura della Turandot: infatti, nel

Serpente, il manoscritto del Fondo Gozzi contenente tale fiaba, si registra la cassatura del

nome di un personaggio, Schirina, che compare nella Turandot. Poiché è pressoché

impossibile che il veneziano avesse impiegato lo stesso nome in due fiabe diverse, è

plausibile che La donna serpente fosse stata abbozzata già all’inizio dell’anno 1762, ma che

212 CARLO GOZZI, Prefazione al Mostro turchino, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. III, p. 102. 213 Idem, Prefazione all’Augellino belverde, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. III, p. 201: «io m’ero

determinato […] a troncare il corso delle composizioni sceniche, dalle quali non voleva utilità nessuna, ma né meno quel peso disturbatore, che incominciavano a darmi». Nella Prefazione inedita contenuta nel Fondo Gozzi dell’Augellino belverde si trova, seppur cassata, la seguente affermazione: «ma come si vedrà in seguito, non potei eseguire questo mio proponimento» (Fondo Gozzi, 3.1, c. 56r).

214 In un foglio manoscritto del Fondo Gozzi si legge, cassata, la seguente ammissione: «Confesserò d’aver procurato d’accostarmi / Un po’ troppo alla regolarità, e alla / Semplicità della Francia in un / Mio dramma che intitolai Doride» (Fondo Gozzi, 3.2, c. 2r).

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Gozzi avesse preferito concludere la stagione teatrale del carnevale lanciando, implicitamente,

la sfida di cimentarsi con un nuovo genere, la fiaba teatrale non magica.

Il quadro che si viene delineando indica da una parte l’uso arbitrario degli scritti teorici che

corredano la Colombani – il drammaturgo cioè non è sincero nel prospettare al lettore la

scansione delle sue opere perché desidera tratteggiare se stesso e la sua produzione in modi

che possano invalidare le critiche mossegli, soprattutto da Elisabetta Caminer215 - dall’altra,

l’intero anno 1762 sembra essere un periodo in cui Gozzi matura alcune riflessioni – che

immediatamente prendono corpo nella scrittura teatrale – intorno al genere serio,

intendendolo, in questo caso specifico, come la produzione priva di elementi sovrannaturali e

focalizzata sugli effetti che le passioni producono nella vita dei personaggi agenti.

Possiamo arrivare a ipotizzare che l’autore, dopo aver sperimentato lo scarso successo

ottenuto con la Doride e Il cavaliere amico, testimoniato dall’esiguità delle repliche, abbia

deciso di ritornare a praticare il genere fiabesco meraviglioso, lasciando da parte I pitocchi

fortunati che “rispolvera” qualche tempo dopo.

Dall’esame delle ossature risulta che un altro “blocco” compatto, il primo in ordine

cronologico, è costituito da Il corvo e da Il re cervo. Le due fiabe, come abbiamo già

affermato, furono probabilmente stese simultaneamente e la scelta dell’onomastica indica una

fase in cui Gozzi, pur ispirando ai modelli novellistici orientali almeno per la trama del Re

cervo, è ancora legato a una tradizione italiana (Il corvo deriva dall’omonima fiaba di Lo

cunto de li cunti216): in entrambe, infatti, non sono presenti nomi orientaleggianti, che invece

popolano, a partire dalla Turandot, tutte le altre fiabe, ad eccezione dell’Augellino belverde. I

nomi Leandro e Clarice, personaggi secondari nel Re cervo, sono gli stessi impiegati

nell’Amore delle tre melarance, e nel Fondo Gozzi è testimoniato un altro congedo,

esplicitamente destinato al pubblico veneziano, sempre pronunciato da Angela, diverso da

quello edito, in cui il legame con la fiaba d’esordio è ancora più stretto perché la protagonista

fa riferimento al Truffaldino cuoco reale presente proprio in quella:

ANGELA: e voi Sig. Truffaldino cuoco difenderete

in avvenire le regie pignatte da’ voleri

215 Per la presentazione della Turandot cfr. ANNA SCANNAPIECO, Carlo Gozzi: la scena del libro, cit., p. 39;

per il concetto di noluntas si rimanda all’intero libro della studiosa. 216 Per questa fiaba Vittorio Pisani aveva individuato anche una fonte orientale, seppure con le ovvie

differenze che rispecchiano ai mutamenti di carattere culturale: si tratta di una novella indiana contenuta nel Kathasaritsagara (Cfr. VITTORE PISANI, Il ‘Corvo’ di Carlo Gozzi e un racconto corrispondente della novellistica indiana, in «Rassegna italiana politica letteraria e artistica», giugno 1925, anno VIII, serie II, vol. XV, fasc. LXXXV, pp. 354-357).

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ipocondriaci e procurate

di farci ridere. Rinnovellate le nozze con

rape composte, sorci pelati, e gatti scorticati

e a voi gentil ascoltator cortesi

vorrei poter mostrare palesemente

che non bramiam solo utile ne’ Paesi

ma affetto, ma perdono ardentemente.

Se sapeste quanto entriamo accesi

d’affaticarsi sempre maggiormente

quando è al fin la commedia e i Veneziani

accompagnan le mie colle lor mani! 217.

L’onomastica presente nell’ossatura del Corvo riecheggia quella della prima fiaba gozziana.

Non solo i due scritti prevedono un personaggio di nome Leandro, ma il mago,

originariamente, non aveva nome Norando bensì Celio, proprio come quello della prima

fiaba, dietro cui il drammaturgo aveva celato la figura di Goldoni. Poi, forse per evitare agli

spettatori qualunque possibile fraintendimento – d’altronde nella stessa prefazione egli insiste

sulla presenza di questo negromante di natura diversa da quelli delle commedie

all’improvviso218 – con la figura parodistica tracciata precedentemente, il drammaturgo

cambia il nome del negromante, rompendo qualunque collegamento, anche a livello

onomastico, con la favole del suo esordio teatrale.

La simultaneità con cui sono state scritte le fiabe è un dato assodato dalla critica più recente,

almeno per quel che concerne Il Corvo, Il re cervo e la Turandot, andate in scena

rispettivamente il 24 ottobre 1761, il 5 gennaio e il 22 gennaio 1762: l’intervallo tra una

messinscena e la successiva è talmente esiguo da aver fatto presumere che l’autore avesse già

completato la stesura della fiaba seguente prima della rappresentazione o che, almeno, ne

avesse composto l’ossatura.

Dalla disamina da noi eseguita si verrebbe a costituire idealmente la seguente successione

cronologica delle ossature: L’amore delle tre melarance, Il corvo, Il re cervo, Turandot, I

pitocchi fortunati, La donna serpente, Zobeide, Il mostro turchino, L’augellino belverde e

Zeim re de’ geni, la stessa scansione proposta nelle Memorie inutili219.

217 Fondo Gozzi, 4.1, c. 35r. 218 Metti citaz introduz corvo 219Cfr. Javier Gutiérrez Carou, Stesura, recita, stampa..., cit.

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Lo studio dell’onomastica

La rassegna delle varianti onomastiche costituisce un’operazione spesso utile per individuare

cronologicamente la prima fonte d’ispirazione del drammaturgo. Ma non solo. La scelta dei

nomi consente di identificare una fase di lavoro posteriore a tutte quelle fino ad ora prese in

considerazione: Gozzi, dopo aver avere visto l’intera vicenda fiabesca coll’occhio mentale,

dopo averne scritto l’ossatura e averla dialogata, compie una revisione del testo che non

consiste solamente nel labor limae sulla singola pièce, bensì in una collazione complessiva tra

le fiabe e gli appunti relativi.

Le diverse stesure presenti nel Fondo Gozzi testimoniano un’incessante revisione dei nomi

dei personaggi da parte del veneziano, tale da indurci ad ipotizzare che l’autore lavorasse alla

completa formulazione del testo partendo da appunti presi in precedenza, e che quindi, nel

tempo intercorso tra l’abbozzo iniziale e la redazione finale di una fiaba, potesse portarne a

termine un’altra scegliendo definitivamente i nomi dei personaggi; tale decisione comportava,

ovviamente, alcune modifiche nell’onomastica adottata anteriormente. Ciò spiega, per

esempio, il motivo per cui nei materiali inediti riguardanti I pitocchi fortunati (1764) si

incontra, espunto, il nome Dilara, presente nella Zobeide composta l’anno precedente.

Gozzi spesso riutilizza i nomi precedentemente depennati da una composizione fiabesca o ne

crea ex novo per sostituirli con altri. Un esempio del primo caso è identificabile nella Donna

serpente: nel Serpente, la sorella del protagonista è Schirina, nome che viene in un secondo

momento cambiato con quello di Canzade, rimasto fino alla versione finale. Tale

avvicendamento pone un problema di datazione perché Schirina è un personaggio della

Turandot, fiaba andata in scena circa un anno prima della Donna serpente e della quale

improbabilmente Gozzi intendeva reimpiegare un nome già utilizzato in precedenza.

Analogamente, il nome Sarchè presente in Zeim re de’ geni, figura, cassato, nel manoscritto

inedito del Mostro Turchino220 ed era assegnato alla sorella del protagonista destinata ad

essere sacrificata all’Idra; tale personaggio scompare nell’ultima stesura della fiaba, ma il dato

saliente è di aver reperito un nome – approssimativamente Il mostro turchino è stato

composto nel 1764 - impiegato in seguito, circa un anno dopo, in un altro contesto fiabesco.

220 Fondo Gozzi, 4.4. c. 1r.

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Da imputare al secondo caso, cioè alla soppressione di alcuni nomi per altri non rinvenibili

nei manoscritti, sono, per esempio, le correzioni nella Donna serpente di Torgut, il gigante

moro che assedia la città di Teflis, in Morgone e del protagonista Ruzvanscad in Farruscad, e,

nell’Augellino belverde, di Barbara/Renzuola in Barbarina e di Fosca in Tartagliona.

Nelle nuove carte del Fondo Gozzi si riscontrano anche soppressioni definitive di alcuni nomi

dalla lista dei personaggi, benché essi permangano nelle battute dei protagonisti, come quello

di Elmaze, la madre del principe Calaf nel manoscritto della Turandot. Il nome si rinviene nel

testo matrice della fabula gozziana, l’Histoire du prince Calaf et de la princesse de la Chine,

contenuta nelle Mille et un jours. A tale raccolta, e più in generale al Cabinet des fées, il

drammaturgo attinge spesso per le fiabe, sia per le vicende, come ha ulteriormente confermato

il Racconto del principe dell’aquila marina, sia per l’onomastica. Si pensi, per esempio, oltre

a quanto già evidenziato da Luciani221, a Schirine dell’Histoire de Malek et de la princesse

Schirine, a Rezia e a Bedreddin dell’Histoire du roi Hormoz, surnommé le Roi sans chagrin, e

a Taher dell’Histoire de Couloufe et de la belle Dilara; né va dimenticato il riscontro del

nome Gulinda nelle pagine contenenti pochi appunti della Donna serpente, che risulta dalla

contrazione dell’originale persiano Gul-Hindy.

Il nome Elmaze consente anche di ricondurre le fiabe ad un’altra grande fonte d’ispirazione, il

Théâtre de la Foire: infatti, nella Princesse de la Chine tra i personaggi figura anche Elmazie.

I riferimenti gozziani di tipo onomastico alle pièces teatrali francesi del periodo compreso tra

1715 e 1730 sono molteplici: Dilara, Zelica, Usbeck, Farzana, Torgut, Rezia, Dardanè,

Sindbad, Zemine, Timur-Can e Bedreddin.

Il caso dei Pitocchi fortunati esemplifica la stratigrafia di fonti accumulate nelle composizioni

fiabesche: dallo studio delle poche pagine manoscritte del Fondo Gozzi, è emerso che il nome

originale di Angela, la figlia di Pantalone di cui si innamora il sovrano Usbec e che sfila

davanti al visir Muzaffer, è Zemrude222. Tale appellativo è sì impiegato dal veneziano proprio

nei Pitocchi, ma per designare un’altra parte, quella della moglie ripudiata: si deve risalire

fino alla novella contenuta nelle Mille et un jours, l’Histoire du prince Fadlallah, fils de ben-

Ortoc, roi de Moussel per imbattersi in una donna, Zemrude appunto, che, proprio come

Angela nella fiaba gozziana, si presenta davanti al perfido visir. Se la fonte persiana era già

221 Gerard Luciani, Carlo Gozzi, cit., pp. 506-507: «pour l’identification des sources non précisées, il est

difficile de se fonder sur les noms des personnages: certains se retrouvent assez exactement dans la source correspondante, sous une forme plus ou moins modifiée. Si Calaf subsiste, Tourandocte est devenue Turandot, Altoun-Khan Altoum, Schéhréstany a été simplifiée en Cherestanì, comme Zeloulou en Zelou, Adelmuc en Adelma et Timurtasch en Timur. En revanche c’est sans doute le désir de simplifier pour la scène qui a amené Gozzi à condenser Gul-Hindy en Gulindi et à transormer en Farruscad l’imprononçable Ruzvanscad».

222 Fondo Gozzi, 4.5, c. 3r.

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stata individuata223, preme sottolineare il progressivo allontanamento dal modello orientale224,

che invece, in seguito alla conoscenza delle nuove carte, in modo ancora più sostanziale di

quanto non sia stato espresso in passato, si può affermare fosse alla base dell’ideazione dello

scrittore, a tal punto da determinare la stessa attribuzione dei nomi anche nelle sue fiabe.

Se da una parte i Pitocchi fortunati rinviano alle Mille et un jours attraverso l’Histoire du

prince Fadlallah, fils de ben-Ortoc, roi de Moussel e attraverso l’Histoire de Couloufe et de

la belle Dilara225 per il tema trattato, il ripudio di una moglie e l’impiego da parte del marito

di un Hulla per riaverla, dall’altra però sono profondamente intrisi della vis comica

proveniente dalla pièce del Théâtre de la Foire, la cui vicenda, diventando l’argomento

principale a differenza dell’originale orientale, viene maggiormente sviluppata e descritta e

trova largo spazio anche nei Pitocchi fortunati.

Quanto esposto fin qui non intende sminuire l’influenza esercitata dalla novellistica

orientale sul drammaturgo veneziano, ma mettere a fuoco più chiaramente il ruolo

intermediario assunto dalle pièces di Lesage e D’Orneval tra le fiabe gozziane e la novellistica

orientale. L’utilizzo drammaturgico parziale e di breve estensione del repertorio novellistico

orientale da parte degli autori francesi spalanca gli occhi a Gozzi sulle potenzialità inespresse

di quel repertorio.

In quest’ottica, i nomi costituiscono le impronte delle diverse tradizioni cui attinge

l’invenzione composita delle Fiabe. Seguirne le tracce, le distribuzioni, le cassature, i ritorni

significa penetrare più profondamente non solo il definirsi delle singole trame nell’occhio

mentale dell’autore, ma tentare di datare le età e le influenze delle multiformi letture del

drammaturgo, il principio, talvolta, di connessione di un repertorio, e l’ingresso in campo di

una tradizione.

La scoperta del Fondo Gozzi, restituendo l’ossatura di gran parte delle Fiabe, ha permesso di

suffragare l’ipotesi della simultaneità della scrittura gozziana, soprattutto mediante l’analisi

dell’onomastica cassata. Il drammaturgo evita di impiegare, per la composizione di una nuova

fiaba, il nome di un personaggio già presentato in una rappresentazione salvo il caso

dell’Augellino belverde che, ponendosi come ideale continuazione dell’Amore delle tre

melarance, ne riprende alcuni nomi.

223 GERARD LUCIANI , Carlo Gozzi, cit., p. 513. 224 In questo caso, l’adozione del nome di Angela per la protagonista, potrebbe rinforzare la tesi espressa da

Ginettte Herry secondo cui nei Pitocchi fortunati l’eco shakespeariano di Measure for Measure agisce molto più profondamente di quanto finora sostenuto (GINETTE HERRY, I pitocchi fortunati, les contes persane et Measure for Measure, Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur…, cit., pp. 267-277).

225 Anche questa novella è già stata identificata come fonte per i Pitocchi da Luciani; le carte manoscritte del Fondo corroborano tale tesi perché nell’elenco dei protagonisti appare il nome Gulendam, che è facilmente rapportabile a quello di Ghulendam presente nella fonte persiana.

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Proponiamo di seguito una tabella con le varianti onomastiche registrate nell’intero corpus

fiabesco, comprensivo sia dei manoscritti del Fondo Gozzi sia di quelli già posseduti dalla

Biblioteca Nazionale Marciana226:

Nomi cassati nei manoscritti227 Nome sostituito

nella stessa fiaba

edita

Nome precedentemente cassato che si

ritrova nell’edizione a stampa

[Angela] (Il corvo) Armilla Angela (Il re cervo; I pitocchi

fortunati)

[Celio] (Il corvo) Norando Celio (L’amore delle tre melarance)

[Rosa] (Il re cervo) Clarice

[Guzaratte] (Il re cervo) Durandarte

[Canzema] (Turandot) Adelma Canzema (Zeim re de’ geni)

[Schirina] (La donna serpente) Canzade Schirina (Turandot)

[Ruzvanscad] (La donna serpente) Farruscad

[Torgut / Torgutte] (La donna serpente) Morgone

[Muezim] (La donna serpente) Atalmuc

[Cadige] (Zobeide) Zobeide

[Abuzaid] (Zobeide) Beder

[Mulladina] (Zobeide) Smeraldina

[Dilara] (I pitocchi fortunati) Zemrude Dilara (Zobeide)

[Gulinda] (Il serpente) in vs

[Gulendam] (I pitocchi fortunati)

Gulindì (Il mostro turchino)

[Sadì] (Il mostro turchino) Personaggio

eliminato

[Faruc] (Il mostro turchino) Taer Faruc (Zeim re de’ geni)

[Sarchè] (Il mostro turchino) Personaggio

eliminato

Sarchè (Zeim re de’geni)

[Pompea] (L’augellino belverde) Ninetta Pompea (L’augellino belverde)

[Fosca] (L’augellino belverde) Tartagliona

[Barbara / Renzuola] (L’augellino

belverde)

Barbarina

[Lugrezia / Vincenza] (L’augellino Smeraldina

226 Per completezza, visto che Doride e Il cavaliere amico furono composti negli stessi anni delle Fiabe,

riportiamo le cassature onomastiche ivi presenti, rispettivamente: [Climene] Doride, [Marianna] balia di Doride; [Anselmo] Don Silvio, [Alberto] Don Ramiro, [Smeraldina] Cecchina, [Trappola] [Tartaglia] [Trappola] Giansimone.

227 Intendiamo qui l’insieme dei manoscritti autografi gozziani, sia quelli già noti, sia quelli provenienti dal Fondo Gozzi.

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belverde)

[Brunoro] (Zeim re de’ geni) Alcouz

Da una parte lo studio dell’onomastica consente di avanzare delle proposte sulla scansione

con cui le carte manoscritte sono state vergate, dall’altra permette di risalire alle fonti da cui

Gozzi trasse spunto sia per i nomi sia per determinate situazioni dell’intreccio. Tratteremo il

caso di un paio di Fiabe, rimandando quelli relativi a La donna serpente, Il mostro turchino e

Zeim re de’ geni ai rispettivi capitoli.

L’attribuzione e la tipologia dell’onomastica si è rivelata una modalità molto proficua per

ordinare cronologicamente i manoscritti relativi alla Turandot. Dalla lettura della prima

ossatura della fiaba (Tufγ) si evince che il drammaturgo non avesse ancora risolto il problema

dell’attribuzione onomastica per tutti i personaggi poiché in essa non sono connotate da nome

le due ancelle di Turandot – cha saranno poi Adelma e Zelima – alle quali Gozzi fa

riferimento impiegando appellativi generici, come «schiava innamorata di Calaf». Inoltre, in

Tufγ la moglie di Barach si chiama Ismaele e non Schirina come nell’edizione a stampa;

quest’ultimo nome, però, la connota fin da Tufδ, in cui compare anche il nome di Adelma e

che testimonia, dunque, la maggior resa di dettagli, assimilando questa versione in prosa – sia

pure testimoniata da una sola facciata – alla stesura verseggiata e la sua attribuzione a una

fase intermedia tra Tufγ e Tufε1.

Quest’ultimo dettaglio è pregno di considerazioni rilevanti: il nome Schirina compare nel

manoscritto della Donna serpente, più precisamente nelle pagine spurie contenenti alcune

scene cassate, non presenti nell’edizione, benché già verseggiate. Dal momento che è

impossibile che Gozzi abbia adottato lo stesso nome per due personaggi diversi di uno stesso

testo – egli dimostra di mantenere e riutilizzare alcuni nomi già usati in precedenza solo nel

caso dell’ Augellino belverde, che si pone come diretta continuazione dell’Amore delle tre

melarance e che quindi, legittimamente, ripropone gli stessi personaggi – si può ipotizzare

che all’altezza cronologica della prima ossatura della Turandot, Gozzi avesse già approntato

la stesura in versi della Donna serpente e che però, pur avendo quasi pronta tale fiaba, avesse

preferito finire di stendere l’altra impiegando in essa, fin dalla seconda ossatura, il nome

Schirina, poi mantenuto anche nell’edizione.

Tale ipotesi è ragguardevole se si pensa al motivo espresso nella Prefazione, già

precedentemente preso in considerazione, per cui il drammaturgo decide di scrivere la

Turandot: il dato onomastico indica che Gozzi abbia già scritto La Donna serpente – o che

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comunque fosse arrivato a un grado di rifinitura abbastanza avanzato – ma che, per evitare di

incappare ancora in un giudizio negativo per la presenza in scena di metamorfosi, abbia optato

per la scelta di comporre una fiaba senza magia, la Turandot appunto. Dopo la sua

messinscena, l’autore dovette necessariamente cambiare l’onomastica della Donna serpente e

sostituì il nome Schirina, con cui era designata la sorella del protagonista, con Canzade.

L’analisi della revisione onomastica del manoscritto della Turandot permette anche di

collocare cronologicamente le due liste dei personaggi che si trovano nel fascicolo del

Fondo228: esse non sono ascrivibili alla fase della prima ossatura (Tufγ) – mancando in

quest’ultima i nomi delle due ancelle della principessa – e, pertanto, vanno riportate al

periodo della seconda ossatura (Tufδ).

228 Fondo Gozzi, c. 3r e c. 9v.

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102

Le fonti

I numerosi interventi gozziani sull’onomastica dei personaggi (i nomi dei luoghi rimangono

sempre invariati tranne nel caso del Cavaliere amico, la cui ossatura mostra ben tre

ripensamenti229) si dimostrano anche testimonianze assai preziose per il tentativo non solo di

individuare il modello a cui Gozzi ha guardato, ma anche per ipotizzare l’ingresso in campo

di una tradizione e di un repertorio. Si è già detto come le prime tre fiabe testimonino un

legame con la tradizione italiana: L’amore delle tre melarance deriva da un racconto popolare

assai diffuso230, Il corvo è desunto da una novella di Lo cunto de li cunti231 e Il re cervo, pur

adottando la trama di due novelle orientali, conserva ancora, nei nomi, un’impronta

sostanzialmente italiana. Quest’ultima fiaba può dunque collocarsi in limine tra la dismissione

del repertorio di ispirazione locale e l’adozione a piene mani della tradizione orientale,

onomastica compresa.

L’onomastica del Corvo è strettamente connessa con quella dell’omonima fiaba basiliana in

cui i protagonisti sono Iennariello e Milluccio - in Gozzi diventano Jennaro e Millo -, mentre

l’unico altro nome specificato nella novella, Liviella, la donna rapita, non è accolto e viene

mutato in Armilla. È probabile che la prima scelta del nome della protagonista, Angela, fosse

dovuta all’attrice che la interpretava, cioè Angela Sacchi, esattamente come il nome di Rosa

anziché di Clarice nell’ossatura della Rappresentazione del re pappagallo (primo titolo del Re

cervo) contenuta nel Fondo Gozzi, potesse riferirsi alla comica Rosa Lombardi.

Al di là della permanenza dell’onomastica basiliana all’interno del Corvo gozziano, l’ossatura

della fiaba, contenuta in un manoscritto marciano già acquistato dalla Biblioteca Nazionale

Marciana di Venezia negli anni Trenta, rivela una maggiore aderenza al modello napoletano,

da Gozzi alterato in sede di seconda verseggiatura; per esempio ne La rappresentazione del

Corvo232 si legge:

229 Fondo Gozzi,

230 In proposito si veda ANGELO FABRIZI , Carlo Gozzi e la tradizione popolare: a proposito dell’«Amore delle tre melarance» in IDEM, Destino dell’antico. Da Dante a Saba, Cassino, Lamberti, 1997, pp. 75-93.

231 Francesco Bartoli nelle Notizie istoriche de’ comici italiani afferma di avere scritto una tragicommedia, La favola del Corvo, in metro sciolto (FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche de’ comici italiani, Padova, Conzatti, 1781-1782, anastatica Bologna, Forni, 1978, t. I. pp. 76-77).

232 Indicazioni mss marciano, c. 36r.

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Notisi che nella Fiaba le colombe dopo che si sono poste sull’albero e prima di ognuna delle parlate fecero quella

voce che fanno i colombi / rucche rucche che noi diciamo zugo zugo.

Il verso dei colombi a cui allude Gozzi si ritrova espresso in maniera identica nel Cuorvo, la

fiaba a cui Gozzi allude:

Ed ecco, mentre mesurava ciento miglia de distanzia co due parme de cannolo, vedde passare no palummo e na

palomma, che fermatose ‘ncoppa la ‘ntenna deceva lo mascolo rucche rucche e la femmina le respose […] e,

ditto chesto, tornaie a gridare rucche rucche233 .

Se nel caso del Corvo è quindi indubbia la fonte a cui Gozzi attinge, più controverso ci pare il

caso del Re cervo. Infatti, la critica moderna ha individuato puntualmente le due novelle

orientali impiegate per costruire la trama della fiaba, la tartara Histoire des quatres sultanes

de Citor e la persiana Histoire du prince Fadlallah. Tuttavia ci pare che l’intreccio, almeno

nella sua stesura più primitiva (La rappresentazione del re pappagallo) si rinvenga in un’altra

antica raccolta di novelle orientali, Il Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di

Serendippo, per opra di M. Christoforo Armeno dalla Persiana nell’Italiana lingua

trasportato, stampata a Venezia nel 1557 presso Michele Tramezzino234. È possibile che la

lettura di questo libro da parte del drammaturgo si inserisca nell’interesse, tipicamente

settecentesco, scaturito nei confronti dell’Oriente235, documentato anche dalla compilazione

del Cabinet des fées236. Nello specifico, è assodato l’interesse del fratello di Carlo, Gasparo,

per la storia turca, come documenta una lettera datata 19 novembre 1740, indirizzata ad Anton

Federigo Seghezzi, in cui egli asserisce di avere ancora «quel tomo grosso de’ Turchi

233 GIAMBATTISTA RAK, Il cuorvo, in IDEM, Lo cunto de li cunti…, cit., pp. 822-825: «Ed ecco che, mentre

misurava cento miglia di distanza con due palmi di tubo, vide passare un colombo e una colomba, che si posarono sull’antenna e il maschio diceva rucche rucche e la femmina gli rispondeva […] e, detto questo, tornò a gridare rucche rucche».

234 Il libro venne dedicato a Marco Antonio Giustiniani, col privilegio di papa Giulio III datato 23 ottobre 1555.

235 Sulla diffusione e sulla conoscenza della lingua e della cultura turca a Venezia nel Cinquecento si veda MANLIO CORTELLAZZO, La conoscenza della lingua turca in Italia nel ‘500, in «Il Veltro», 1979, anno XII, pp. 125-130 e 133-141; ROBERT MANTRAN, Venise, centre d’informations sur les Turcs, in Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, Firenze, Olschki, 1977, vol. I, pp. 111-116; e ANGELO MICHELE PIEMONTESE, Le fonti orientali del ‘Peregrinaggio’ di Christoforo Armeno e gli ‘Otto Paradisi’ di Amîr Khusrau da Delhi, in «Filologia e Critica», maggio-agosto 1987, anno XII, fascicolo II, pp. 185-221, in particolare pp. 186-190.

236 La raccolta di fiabe orientali Les mille et une nuits en françois (Paris, 1704-1717), tradotte per la prima volta dall’arabo da Jean Antoine Galland, ebbe un successo straordinario e stimolò François Pétis de la Croix a pubblicare nel 1710-1712 Les mille et un jours. Contes persans, traduits en français e poco dopo Thomas-Simon Gueullette Les mille et un quart-d’heure. Contes tartares (1712-1715). I quarantuno volumi del Cabinet de fées apparsi fra il 1785 e il 1789 furono il coronamento di questa moda orientaleggiante.

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lunghissimo» e «Annali turcheschi»237, alludendo rispettivamente all’Istoria universale

dell’origine ed imperio de’ Turchi e agli Annali turcheschi, o vero Vite de’ Principi della

Casa ottomana, entrambe opere del Cinquecento.

L’appunto (ReCefα) relativo alla fiaba del Re cervo contenuto nel Fondo Gozzi in un faldone

spurio238, pare implicare più distintamente la fonte cinquecentesca, oltre a mostrare la volontà

originaria di amplificare ulteriormente l’elemento meraviglioso:

Re Serrandippo Prologo Cigolotti storico di piazza. Fa narrazione di maraviglia di quella corte e del Filosofo

capitato che fece tre gran doni al Re poi si morì. Prima maraviglia lo fece con un’anello che le diede divenir

giovine vedi Fiaba pietra dello Gallo239. Gli diede una statua la quale ad ognuno che gli narra una bugia ride

sgangheratamente. Gli diede di potere con alcune diaboliche parole morire e passare in qualunque corpo e poi

con le stesse parole ripristinarsi. Tal secreto è comunicato solo al suo fedele ministro. Essere oggi il Re per

prendere moglie per successione al regno attendere diverse donzelle nella camera della statua. Ma che o Cielo

etc. Il Mago morendo lasciò predetto che gran cose in quella corte dovevano succedere a dì etc. dell’anno 1761

Populo staremo a vedere etc. parte.

Cominci la Commedia dal Re in trono in camera della statua col ministro ad una ad una donzelle di parecchi

caratteri la statua ride all’ultima non ride.

L’appunto del Re cervo esaminato costituisce il nucleo di partenza della fiaba, a cui, com’è

noto, si interseca anche il secondo motore della vicenda, ovvero la trasformazione del sovrano

in un cervo e poi in un vecchio.

Dal primitivo abbozzo della trama possiamo ipotizzare la conoscenza gozziana del

Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, fonte che nella critica recente ci

pare menzionata solamente da Enrico Cerulli, il quale, occupandosi della riedizione del testo

237 GASPARO GOZZI, Lettere, a cura di Fabio Soldini, Varese, Guanda, 1999, p. 58. Sulla circolazione di libri

di argomento orientale si veda anche il saggio di Ginette Herry in cui la studiosa afferma che, l’ampia diffusione di questa tipologia di testi, il modello orientale che veniva portato sulle scene era uno stereotipo (GINETTE

HERRY, L’Epouse persane, Arcana à Julfa, Arcana a Ispahan. La Perse de Goldoni ou le moment narcissique, in Etudes sur le XVIIIe siècle, a cura di Jean-Paul Schneider, Strasbourg, Universite des sciences Humaines, 1982, pp. 127-260, in particolare pp. 157-162.

238 Fondo Gozzi, 7.1, c. 8r. L’appunto si trova a metà di questa carta. 239 La fiaba La petra de lo gallo è contenuta nello Cunto de li cunti (GIAMBATTISTA BASILE, Lo cunto de li

cunti, cit., p. 664: «Mineco Aniello , pe virtù de na preta trovata ‘n capo a no gallo, deventa giovane e ricco; ma essennole truffata da dui negromante, torna viecchio e pezzente e, cercanno lo munno, a lo Regno de li Surece ha nova de l’aniello ed, aiutato da dui surece, la recupera, torna a lo stato de ‘mprimmo e se venneca de li mariuole»). Proprio La pietra del gallo sarà ripresa e rielaborata da Clemens Brentano nella fiaba Gockel e Hinkel, così come Lo polece (La pulce) in quella intitolata Baron di Saltapungi (sul desiderio dell’autore tedesco di tradurre l’intera raccolta seicentesca di fiabe si veda LIONELLO V INCENTI, G. Basile e C. Brentano, in IDEM, Alfieri e lo Sturm und Drang, Firenze, 1966, pp. 1-20.

239 Cfr. REMO CESERANI, Il fantastico, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 85-95.

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cinquecentesco, aveva sottolineato le evidenti somiglianze contenutistiche con Il re cervo240,

oltre a provare la diffusione della novellistica orientale già in epoca umanistica241.

Il libro è costituito da novelle a incastro che si sviluppano a partire dalla decisione del re di

Serendippo, Giaffer, di inviare i tre figli nel mondo prima di affidare loro il regno. Nel corso

delle avventure i tre fratelli si imbattono in Beramo (Bahrām), un re reso edotto da un filosofo

sul modo per trasmigrare nel corpo di un animale morto. Il re confida il segreto al suo

consigliere, il quale però, con intenti malvagi, durante una battuta di caccia in cui vengono

uccisi due cervi, gli propone di trasformarsi entrambi negli animali morti. Non appena

l’anima del sovrano passa nel corpo di uno dei cervi, il suo compagno assume le sembianze

del re e, imitandone i modi, non desta alcun sospetto a corte, tranne che in Dilara, – nome che

ricorre nella produzione fiabesca gozziana -, una delle mogli del sovrano, che, a conoscenza

del segreto magico, nutre dei dubbi nei confronti dell’uomo che pretende di essere suo marito

e, adducendo la scusa di una terribile visione che le aveva ordinato di essere casta – un motivo

analogo è addotto dalla fedele schiava travestita da regina per non coricarsi con il marito di

quella in Zeim re de’ geni - riesce a non giacere insieme a lui. Nel frattempo il re tramutato in

cervo si imbatte nel cadavere di un pappagallo e ne prende le sembianze; catturato da un

uccellatore, gli parla e gli promette di arricchirlo se egli riuscirà a donarlo alla regina,

condizione che si verifica. Il pappagallo-re confida alla regina fedele l’accaduto le suggerisce

di promettere al finto marito di cedergli a patto che lui si trasformari in un animale. Il ministro

asseconda la moglie e, non appena trasformato in gallina, il sovrano riacquista il proprio

aspetto e uccide la gallina sgozzandola.

Cerulli, non conoscendo il manoscritto marciano contenente La rappresentazione del re

pappagallo, non poteva riscontare le profonde somiglianze della novella con la stesura

originaria della fiaba gozziana, basata sulla trasformazione del re in pappagallo e non in un

vecchio, come nella versione edita. Il cambiamento, imputato all’esigenza scenica di far agire

sul palcoscenico un uomo e non un animale, nonché di aumentare il pathos242, è

un’invenzione prettamente gozziana: nel racconto orientale l’Histoire du prince Fadlallah il

240 Cfr. ENRICO CERULLI, Una raccolta persiana di novelle, in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei,

Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1975, volume XVIII, pp. 274-362.

241 Ivi, p. 358: «resta quindi il dato assai importante per la storia culturale, che una raccolta sistematica di novellistica orientale, e qui specificatamente persiana, era entrata nell’ambito delle letterature europee già a metà del Cinquecento, due secoli prima delle Mille e una Notte». Sull’autore del testo cinquecentesco si veda ivi, pp. 335-340.

242 Cfr. PAOLO BOSISIO, Gli autografi di «Re cervo»…, cit., pp. ; ALBERTO BENISCELLI, Dal canovaccio al testo, in IDEM, La finzione del fiabesco. Studi sul teatro di Carlo Gozzi, Genova, Marietti, 1986, pp. ; ALBERTO

BENISCELLI, «Meraviglia delle tramutazioni» e «passioni naturali» ne «Il Re cervo», in CARLO GOZZI, Re cervo, Collezione del Teatro di Genova, Genova, Marietti, 1991, pp. 11-28.

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re si tramuta da cervo a usignolo, e sotto queste spoglie avvicina la moglie, senza però dirle

nulla; la regina si affeziona all’usignolo e un giorno, morto il suo cagnolino, il re-usignolo

decide di trasmigrare nel corpo dell’animale, abbandonando quello dell’altro. La morte

dell’uccellino getta nella disperazione la donna e il finto re, nella speranza di conquistarne

l’affetto, trasmigra in esso, ma, contemporaneamente, il re riprende le sue sembianze e uccide

l’usignolo.

Il particolare delle modalità della trasformazione è rilevante perché corrobora la congettura

del modus operandi dell’autore veneziano, che, in una prima fase di lavoro, accoglie quasi

parassitariamente il modello di riferimento, per poi distanziarsene seguendo soprattutto due

direzioni: le esigenze della scena e la già individuata «drammaturgia delle passioni»243.

Proprio a quest’ultimo motivo si deve, probabilmente, la soppressione di Truffaldino nei

panni di uccellatore che avrebbe proposto sketch tipici della commedia all’improvviso,

minando troppo la serietà e il pathos della fiaba, operazione riscontrata anche ne Il serpente .

La scelta di trasformare il re in pappagallo, oltre al nome Beramo, potrebbe costituire un’eco

del Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, testo che contiene anche la

novella concernente una statua donata a un sovrano da un filosofo che ride quando sente una

bugia e che viene impiegata dal re per sincerarsi della fedeltà delle sue quattro mogli244.

Oltre alla vicinanza contenutistica tra il racconto orientale esaminato e Il re cervo, è assai

rilevante reperire tra le rappresentazioni allestite dalla compagnia del Teatro Nuovo

(Comunale) di Bologna, nel decennio 1772-1782, accanto ad alcuni titoli di fiabe gozziane,

quello di una pièce che sembra rimandare alla novella contenuta nel testo cinquecentesco:

Il Re di Serandippo Trasformato da Tartaglia primo Ministro del Regno, in cervo, e Tartaglia tramutato in re di

Serandippo. Una statua, che ride alle bugie delle Donne, un Filosofo trasformato in Pappagallo245.

Il peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo presenta anche altri racconti –

rintracciabili, più o meno modificati, nel Cabinet des fées – che lo avvicinano ai motivi

principali della Turandot e del Mostro turchino, per esempio, una novella narra della regina

dell’India a cui il padre ha raccomandato di sposarsi solo con il pretendente che saprà

superare tre prove; un’altra si dipana a partire dalla scoperta del tradimento della moglie del re

243 ALBERTO BENISCELLI, Nel laboratorio delle Fiabe, tra vecchie e nuove carte, in Carlo Gozzi entre

drammaturgie de l’auteur…, cit., p. 75 e p. 78. 244 Cfr. ENRICO CERULLI, Una raccolta persiana di novelle, cit., pp. 305-312. 245 CORRADO RICCI, I teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII. Storia aneddotica, Bologna, Successori Monti, 1888, pp. 210-212.

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da parte del figlio e dalla conseguente accusa di violenza che la donna lancia nei confronti di

quest’ultimo per screditarlo agli occhi del padre246.

Il libro cinquecentesco, oltre ad essere ripreso da Sercambi247, fu tradotto anche in altre lingue

europee: inglese, olandese, tedesco e francese. Proprio a quest’ultima traduzione, pubblicata

nel 1719, compiuta dal Chevalier de Mailly, che innestò nella raccolta elementi tipici della

cultura francese settecentesca248, sembra abbia attinto Voltaire per la composizione di Zadig

(il protagonista riesce a capire di che animale si parli senza averlo mai visto, proprio come i

tre figli del re di Serendippo)249.

L’appunto del Re cervo esaminato fino ad ora suggerisce ulteriori considerazioni anche in

relazione ad un’altra fonte esplicitamente nominata. Gozzi, infatti, fa riferimento a un filosofo

che dona tre regali al re, mentre nella fiaba edita tale “funzione” spetta al mago Durandarte, il

quale elargisce solo due doni al re Deramo: è assente, infatti, l’anello in grado di ringiovanire,

un dettaglio trascurato in seguito perché probabilmente ritenuto superfluo allo sviluppo della

vicenda, ma è presente nella fiaba La petra de lo gallo, contenuta nel Pentamerone. Essa

riguarda esclusivamente l’oggetto in grado di fare ringiovanire – qui è una pietra mentre

nell’immaginario gozziano, forse influenzato dalla letteratura cavalleresca, si tramuta in un

anello – e narra le vicende di Mineco Aniello una trova la pietra magica nella testa di un

gallo, si arricchisce e poi, dopo che gli è stata rubata, riesce a riconquistarla con l’aiuto del re

dei topi. Dunque, il primitivo abbozzo testimonia l’intenzione originaria di servirsi anche di

una novella italiana desunta da una raccolta già utilizzata per il Corvo, oltre che delle due

orientali già individuate dalla critica.

Anche altri appunti gozziani, riconducibili alla fase α e tutti contenuti nel manoscritto

dell’Augellino belverde del Fondo Gozzi, si dimostrano estremamente preziosi per lo studio

delle fonti poiché in essi il drammaturgo cita direttamente il modello di riferimento e

l’immagine – sia essa una situazione o un personaggio - che intende riprendere:

Vedi fiaba delli tre re animali a carte 425 dello Cunto. L’orco potrebbe essere nella torre in mezzo del lago a

Barbarina. Nota innalzamento del lago e burrasca per diroccare la torre, con altro.

In quella torre, in una stanza vi potrebbe essere il pellegrino Calmone assistente con la trasformazione del

cadavere.

246 Cfr. ENRICO CERULLI, Una raccolta persiana di novelle, cit., pp. 295-304. 247 Il testo si può leggere in Novelle inedite di Giovanni Sercambi dal Codice Trivulziano XCIII, a cura di

Rodolfo Renier, Torino, 1889, pp. 9-16. Sul rapporto tra Il re cervo e Il peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo cfr. ENRICO CERULLI, Una raccolta persiana di novelle, cit., pp. 354-357.

248 Cfr. ivi, pp. 342-345. 249 Cfr. ivi, pp. 357-358.

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Al passare nella torre del lago vi potrebbero essere le due sirene che addormentano col canto.

Nota la carrozza nel fine della fiaba delli tre re animali con leoni. Può star ferma può essere magica e che faccia

giungere gl’oggetti, far girare un Sole e una Luna far guardare gl’oriuoli, far giungere le città e le persone etc250.

L’esempio proposto ci permette di risalire non solo alla matrice – la fiaba di Li tre ri animale,

compresa nella raccolta napoletana Lo cunto de li cunti251 – ma anche all’edizione utilizzata

dall’autore: l’indicazione della pagina non può che alludere alla seconda edizione di Antonio

Buliffon252.

Dal frammento emerge con chiarezza che l’autore leggeva le proprie fonti non per ricopiarne

pedissequamente la trama, ma per trovare dei particolari – in questo caso le immagini della

donna imprigionata in una torre in mezzo a un lago e della carrozza magica su cui tutti i

personaggi basiliani viaggiano al termine della loro avventura – da distribuire sapientemente

nelle Fiabe; ancora, si rintracciano rimandi a Lo cunto de li cunti e, in particolare, a La cerva

fatata, a Le tre corone e a Lo tronco d’oro253.

Inoltre, questi appunti, nonostante l’alto grado di sintesi con cui sono espressi, dimostrano, di

essere già stati “trattati” in vista di un possibile inserimento all’interno delle produzioni

fiabesche:

Brighella potrebbe essere un petì metre galante a buona fortuna. Fa il dotto il franco il filosofo attomista. Nel

fine de’ suoi discorsi termina con un raglio d’asino vizio rimastogli dall’esser stato cambiato in asino

nell’Augello belverde. Abbia in scarsella forbici pettini e ferri per introdursi come dilettante d’acconciature con

le signore, per la sua povertà254.

250 Fondo Gozzi, 4.6, c. 34v.

251 GIAMBATTISTA BASILE, Li tre ri bestie (I tre re animali), in IDEM, Lo cunto de li cunti, cit., pp. 700-713. 252 Cfr. ALBERTO BENISCELLI, Nel laboratorio delle Fiabe…, cit., pp. 87-91. 253 Cfr. ivi, pp. 89-90: «Un re non avendo figliuoli si mise a piangere e a gridare o Cielo mandami un’erede

etc. Sentì una voce rispondere / Re t’appago tu risolvi / Vuoi tu figlia che si fugga / O vuoi figlio che ti strugga? / Il Re entra in confusione, suona il campanello, chiama i consiglieri li fa sedere, chiede se debba volere una figliuola che gli fuga, o un figliuolo che lo strugga. Varj consigli sulla vita, e sull’onore dei consiglieri politici ed eruditi. Vedi Cunto de li Cunti a carte 460 e 461. Si stabilisce, una figliuola. Il Re grida Una figlia una figlia la voce con versi dice che sia esaudito che comandi alla moglie. Re chiama la moglie le comanda che gli vada a partorire una figliuola grande e grossa sicchè sia buona di agire nel secondo atto della commedia sino che l’orchestra suona, Regina dice d’ubbedirlo. Si scioglie il consiglio»; «Un’albero d’oro colle fronde d’oro, sotto la radice ha una scala dove si dischiude un mondo nuovo tutto ricchezza»; «Truffaldino sia cambiato uomo pietoso e dabbene. Abbia stimoli per far bricconate lo trattiene il timore di divenir statua nuovamente. Vedasi fiaba del fegato del dragone marino. Si può far partorire mobili far che Ninetta partorisca dodici o più figliuole Smeraldina ancora imbroglio di Tartaglia per le troppe figliuole e di Truffaldino modo che si pensa di maritarle, d’aprire conversazione di far scrittura coi sposi e dar loro in dote le spese per due anni e che frattanto s’impieghino etc. satira».

254 Fondo Gozzi, 4.6, c. 34r.

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In questa sorta di «taccuino d’appunti»255, si rinvengono anche numerosi rimandi al Cabinet

des fées, per esempio a La tirannie des fées détruite di Madame Louise de Bossigny Auneuil,

a Le nain jaune e a Le serpentin vert di Madame d’Aulnoy, senza contare che l’acqua che

balla, il pomo che canta e l’incontro di una giovane con l’uccellino verde mentre è alla ricerca

del fratello, elementi che connotano L’augellino belverde, si ritrovano nel racconto della

stessa narratrice, La princesse Belle-Étoile & Le prince Chéri256:

Nel Nano giallo la vecchia Fata amante del Principe che ama una Principessa. La fata si fa giovane e bella ma il

segno d’esser la vecchia fata sono i piedi animaleschi che per decreto non può a bastanza nascondere. Il Principe

finga amarla e non conoscerla. Suoi pianti sulla riva del mare. Comparsa della sirena e regalo della spada

incantata per liberare la Principessa nel castello ardente d’acciajo, che arde per il sole che lo percuote tutta la

campagna e le genti vicine. La Principessa gelosa d’aver veduto il Principe con la bella Fata sdegnata non lo

ascolta fugge egli corre per trattenerla, lascia cadere in terra la spada incantata per pigliar per le vesti la

Principessa. Esce il nano / che può esser l’orco / invola la spada, fa caricare di catene il principe reso impotente

senza la spada. La principessa pentita. Disperazione del Principe. Minaccia dell’Orco se la Principessa non lo

sposa. Principessa vuol sposar l’orco per liberare il Principe. Principe la chiama tiranna etc. che brama più tosto

morire che vedere tal sposalizio, la prega etc. Furori dell’orco etc. La sirena è comparsa con li capelli lunghi che

le coprono il seno e la vita, ha uno specchio nelle mani, è ignuda e dal mezzo in giù è pesce, ciò si vede da due

code che s’innalzano di qua e di là.

La fata serpentina dall’acqua che balla, e pomi che cantano, può essere la fata che fa Renzo prigioniero257.

Notisi nella Serpentina verde una principessa orrida per fatagione, ma per ciò saggia e filosofa. Per non essere

stata perseguitata e adulata dagl’uomini si ritira in un castello di solitudine258.

Si noti nella Tirannia delle Fate l’amante di Cleonice che per liberare il popolo dal flagello d’un dragone

protetto dalle Fate combatte col dragone, l’uccide. Le Fate si vendicano facendo in sul fatto cambiare l’uccisore

in presenza di Cleonice nella figura del medesimo dragone morto259 .

255 La definizione è di Beniscelli (ALBERTO BENISCELLI, Nel laboratorio delle Fiabe…, cit., p. 88). 256 Le cabinet des fées ou Collection choisie des contes des fées, et autres contes merveilleux, Rue et Hôtel Serpente, 1785, volume IV, pp. 179-266. 257 Fondo Gozzi, 4.6, cc. 34v- 35r. 258 Ivi, c. 35r.

259 Ivi, c. 36r.

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Sono ancora pure immagini e non l’intreccio260 che Gozzi desume dalla novella Le nain

jaune: infatti non compare, nella trascrizione, alcun riferimento al giuramento pronunciato

dalla principessa di sposare il nano giallo con la conseguente comparsa della fata per

vendicare la disattesa promessa, nonché l’epilogo tragico; contano l’ambientazione della

vicenda, le caratteristiche dei personaggi e il loro modo di presentarsi davanti agli occhi del

lettore. Inoltre, è possibile che Gozzi abbia tratto ispirazione proprio da questa fiaba per

l’ideazione, rintracciabile nelle scene cassate de Il serpente, del fantoccio che sostituisce a

corte il protagonista, mentre, questi, si trova nel regno sotterraneo a combattere. Nella novella

francese, infatti, la sirena che aiuta il principe a sfuggire alla fata malvagia, compone con le

alghe un «gros paquet»261, simile al giovane, per ingannarla.

In aggiunta alle novelle francesi già indicate da Beniscelli262, si possono aggiungere i seguenti

frammenti che si configurano come personali appunti su cui Gozzi pensava, evidentemente, di

tornare:

Si rifletta nella Blò e verde alla Principessa che all’apparire dell’amante si trasforma in statua, e le sue damigelle

si trasformano in cespugli fioriti i quali cantano.

Si rifletta all’amante che deve andare per una delle due strade l’una della vita l’altra della morte. Il mago pone

sul capo dell’amante una mano, si fa notte oscurissima, l’amante s’invia per una delle due strade che più

accomodi alla rappresentazione263.

Oltre all’importante rimando alla messinscena del secondo frammento, che documenta

l’attenzione dell’autore per la resa spettacolare già a partire da un semplice abbozzo, i brani

alludono rispettivamente a Vert & Bleu e a Tourbillon, entrambi racconti di Mademoiselle De

La Force264.

Tra la annotazioni ne figura anche una curiosa che lo scrittore appunta come possibile

conclusione di una commedia:

260 La pratica di trarre l’argomento per una pièce teatrale da una novella, come fece in larga parte Giraldi per

le tragedie e per le “tragedie a lieto fine”, diede vita ad una proliferazione di opere teatrali che riproponevano soprattutto le vicende del Decameron di Boccaccio in cui, da sempre, era risultata inscindibile la narrazione dalla rappresentazione per l’evidente trama romanzesca di ogni novella: rapimenti, naufragi, smarrimenti e ritrovamenti, separazioni e ricongiungimenti di amanti, tutti espedienti avventurosi che trovavano posto nelle commedie, «il Decameron era in questo senso un grande zibaldone teatrale» (NINO BORSELLINO, “Decameron” come teatro in «Biblioteca teatrale», 9, 1974 ).

261 Cabinet, vol. III, p. 145, edizione del 1985 (?) 262 Si tratta dei seguenti racconti: Le serpentin vert, Le nain jaune, e dell’Histoire du sauvage Kolao 263 Entrambe le citazioni sono tratte dal Fondo Gozzi, 4.6, c. 34v. 264 Cabinet, VI volume, rispettivamente, pp. 78-102 e 103-126.

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Un mago fa entrare in un bagno un’uomo, lo cava dal bagno cambiato in donna smanie dell’uomo.

Tale trasformazione si potrà fare per finire una commedia di due donne innamorate l’una dell’altra: una sia

vestita in uomo, l’altra da donna. Quella da donna si innamori di quella da uomo credendola donna. Quella da

donna s’innamori di quella da donna credendola per varie notizie uomo265.

Per completezza accenniamo rapidamente ai modelli impiegati da Gozzi negli inediti

manoscritti recanti La pulce e Il racconto del principe dell’aquila marina. La prima fiaba si

presenta come un brogliaccio narrativo che ricalca pedissequamente la fonte omonima

contenuta, nuovamente, in Lo cunto de li cunti: ne è ripreso l’intero svolgimento dall’inizio

alla fine e, in questa fase di scrittura, Gozzi mantiene anche l’onomastica di tutti i personaggi

secondari, mentre indica quelli principali con appellativi generici (il re e la principessa). La

seconda narrazione è desunta da un paio di racconti del Cabinet des fées da cui Gozzi trae,

fraintendendolo, anche il titolo266.

Le note gozziane si rivelano preziose testimonianze sia delle fonti che l’autore intende

impiegare, sia soprattutto delle singole e spaiate suggestioni che egli si propone di rielaborare;

più in generale possiamo affermare che tre sono i “serbatoi” a cui Gozzi attinge sia per

l’onomastica che per il contenuto delle Fiabe: le novelle italiane del Seicento (Lo cunto de li

cunti e Posilecheata ma anche, almeno nel caso del Cavaliere amico, steso negli anni delle

Fiabe, le novelle del Firenzuola267), il Cabinet des fées e la tradizione italiana epico-

cavalleresca268, quest’ultima presente in modo massiccio nella Marfisa bizzarra su cui

l’autore lavorò per lunga parte della vita, iniziando negli anni immediatamente precedenti le

Fiabe.

Dal repertorio epico-cavalleresco sono trasposte soprattutto alcune situazioni. Valga come

esempio il bacio di Farruscad, protagonista della Donna serpente, al serpente che in realtà è la

fata metamorfosata, immagine che si ritrova perfettamente sovrapponibile nell’Orlando

265 Fondo Gozzi, 4.6, c. 35v. 266 Il racconto del principe dell’Aquila marina si trova all’interno del fascicolo riguardante l’Augellino

belverde del Fondo Gozzi 4.6, precisamente alle cc. 40r-42v. 267 CARLO GOZZI, Prefazione al Cavaliere amico, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. Vedi introduz.

Cavaliere amico tratto dalla sesta novella del Firenzuola. Sull’utilizzo della fonte novellistica – con esito alquanto negativo - si veda Bianca Baroncelli Da Ros, Una novella del Firenzuola ridotta “ad uso di scena” da Carlo Gozzi, in «Drammaturgia», 1956, pp. 53-62.

268 COLAGROSSO, p. 45 Il duello fra fratelli che essendo travestiti non si riconoscono ricorre spesso nelle tragedie gesuitiche e nei drammi spagnoli di cappa e di spada e solitamente è un’azione che ha poco a che fare con la scena principale. Nel Demetrio ( il ms si trova alla Biblioteca Nazionale di Napoli sotto la segnatura XIII E 36. Fu rappresentata dal Collegio de’Nobili di Napoli avanti l’ecc.mo sig. Conte Onnatte Viceré nel 1651 e non venne mai pubblicata nota 1 p. 41) dello Zuccarone (II; 11) Aristeo, che indossa l’arma di Lesbino, è sfidato dal fratello Filebo e nello scontro lo ferisce. zobeide

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innamorato269. Dalla produzione epico-cavalleresca sono desunte anche brevi e puntuali

citazioni che Gozzi innesta nel testo delle fiabe. Non sono però solo i poemi celebri

(Gerusalemme liberata, Orlando furioso e il già citato Orlando innamorato) ad ispirare

l’autore, ma anche quelli meno noti, come, caso eclatante, il Dragoncino da Fano nel caso

della Marfisa bizzarra270, e il Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi per quel che concerne

le Fiabe, la cui eco si rinviene soprattutto nell’Augellino belverde, quando Renzo, prima di

mettersi alla ricerca dell’animale magico, confida alla sorella Barbarina che il pugnale

sanguinerà se si troverà in pericolo271. L’episodio è ricalcato su quello ivi presente e che, a

sua volta, ricorre nelle composizioni fiabesche popolari tanto da essere classificato da Aarne e

Thompson272.

La predilezione gozziana per la tradizione epico-cavalleresca può essere imputata anche alla

frequentazione di Giuseppe Baretti, l’autore della Frusta letteraria, amico di Carlo e di

Gasparo, che dimostra di conoscere ed amare il genere in tutto il suo sviluppo cronologico,

dai cantari due-trecenteschi ai poemi rinascimentali, fino a quelli eroicomici del Sei-

Settecento.

All’inizio letti per pura passione, successivamente i romanzi cavallereschi vengono indagati

soprattutto sotto l’aspetto linguistico e, proprio nel tentativo di rivalutare questo tipo di

letteratura, si inquadra la proposta fatta dal torinese a uno dei suoi fittizi corrispondenti273 di

impegnarsi a costruire «una buona raccolta de’ nostri poeti epici, preceduta da varie

dissertazioni e corredata di varie note»274 con lo scopo di rintracciare le origini della

«mitologia» che vi compare.

269 Gozzi leggeva il poema boiardesco nel rifacimento del Berni; la stessa versione era utilizzata anche da

Giuseppe Baretti che, nella prima delle Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio (GIUSEPPE BARETTI, Prefazioni e polemiche, a cura di Luigi Piccioni, p. 37) cita il lamento di Angelica innamorata desumendolo dal testo di Berni.

270 Cfr. MARTA VANORE, Dal Fiume Meduna al Liston, cit. 271 Cfr. CARLO GOZZI, L’augellino belverde, in IDEM, Opere, cit., pp. 760-762 (IV, 4) e pp. 769-771 (IV, 10). 272 Nella classificazione Aarne-Thompson la vicenda fiabesca rientra nel “tipo 303”, denominata,

genericamente I due fratelli. Esso prevede il seguente sviluppo: «Un fratello si allontana da casa in cerca di avventure: se gli succederà qualcosa di brutto l’albero che è spuntato nel giorno della sua nascita si affloscerà. Il giovane parte, salva una principessa da un drago, la sposa e riparte nuovamente per un’altra avventura ma viene fatto prigioniero da una vecchia strega che lo tramuta in pietra. Il gemello, vedendo l’albero ricurvo, capisce che il giovane è in pericolo e parte. Incontra la cognata che però lo scambia per il marito e gli raccomanda di non recarsi nel luogo in cui compare un fuoco magico. Il fratello capisce dove sia il gemello, si reca sul luogo e sconfigge la strega liberando il fratello». Sempre nel Malmantile racquistato si rinviene anche un’altra tipologia fiabesca, del tipo 507b, chiamata semplicemente Il mostro e la stanza nuziale: «l’eroe scopre che tutti gli sposi della principessa sono morti durante la prima notte di matrimonio. Un aiutante magico, spesso un morto riconoscente, salva l’eroe […] infatti un drago o un serpente vengono per ucciderlo ma il morto li uccide. Poi si scopre che la principessa ha una maledizione e al suo interno ha dei serpenti e l’unico modo per salvarla è dividerla a metà».

273 GIUSEPPE BARETTI, La scelta delle lettere familiari, a cura di Luigi Piccioni, 1912, pp. 197-198. 274 Ibidem.

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La preferenza barettiana accordata al genere cavalleresco – per cui l’Italia primeggia sulle

altre nazioni275 - risiede soprattutto nella convinzione che esso permetta l’estrinsecazione di

un tipologia di poesia, a detta dello scrittore, più «naturale»276, ossia ricca di immaginazione e

di sentimento e in grado di mostrare la capacità espressiva della lingua italiana. A tale

proposito, nella prima delle Prefazioni alla traduzione delle tragedie di Corneille, il critico

sostiene che se i tragediografi italiani utilizzassero tutte le potenzialità che il linguaggio natio

offre, otterrebbero prodotti qualitativamente superiori a quelli delle altre nazioni, soprattutto a

quelli francesi277.

Modelli nella Donna serpente

Le tre prove a cui si sottopone Farruscad risultano desunte da un genere letterario molto caro

a Gozzi, il poema epico-cavalleresco a cui le fiabe teatrali, e soprattutto la Donna serpente,

rimandano in numerose scene. La ripresa gozziana più eclatante dall’Orlando innamorato

consiste nel tema del Fier Baiser presente in Boiardo nell’episodio in cui Brandimarte bacia il

serpente, - in realtà la fata Febosilla metamorfosata -, che esce da un sepolcro:

275 IDEM, La frusta letteraria, a cura di Luigi Piccioni, Bari, Laterza, 1932, vol. I, pp. 141-142: «[…] se

l’Italia nostra si può a ragion dar vanto d’essere epicamente superiore all’antica Roma, alla moderna Inghilterra e a tutto il resto del mondo, grazie al suo dante, al suo Ariosto, al suo Tasso; l’Italia nostra si può con vie maggior ragione gloriare ancor d’aver prodotti degli altri poemi che non si possono registrare in altra classe che in quella degli epici, e che sono privativamente suoi […]. E qual è quella nazione antica e moderna, signori miei, che abbia esempligrazia due poemi da porsi a paraggio con l’Orlando innamorato e col Morgante, nell’uno e nell’altro de’ quali la natura è dipinta, son quasi per dirre, con maggiore verità che non lo è in qualunque altro de’ poemi epici della nostra e d’altre nazioni? […] nessun poeta d’altra nazione o antica o moderna ha saputo scrivere cose così meravigliose, sia per singolare e vasta invenzione, o sia per varia e vera pittura di costumi e di cose. Né qui finiscono ancora l’epiche glorie della nostra contrada; e il Quadriregio del Frezzi, e la Secchia rapita del Tassoni e il Malmantile del Lippi, e il Ricciardetto del Forteguerra, e un gran numero di altri epici poemi o seri o burleschi […] accrescono tutti per questo canto la nostra superiorità sulle altre nazioni».

276 Ibidem. 277 IDEM, Prefazioni e polemiche, a cura di Luigi Piccioni, 1912, pp. 36-37: «un povero sventurato già

prigioniero, che facesse una parlata come quella del conte Ugolino in Dante, o un imbasciatore cha favellasse come Alete a Goffredo in Tasso, o una sposa che si lamentasse del marito fuggitole come la meschinella Olimpia in Ariosto». Proprio sulla scia barettiana è possibile collocare l’inedito scritto gozziano Notizie, pareri, e riflessioni sopra il Morgante maggiore di Pulci, contenuto nel Fondo Gozzi (Fondo Gozzi, 17.5, cc. 1r-65r: Notizie, pareri, e riflessioni sopra il Morgante maggiore di Pulci, sullo stile del detto Poema, e sulla persona dell’Autore. Opuscolo di Carlo Gozzi da lui scritto, non colla presunzione di persuadere, ma unicamente per alcune sue distrazioni).

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[Farruscad] corre al sepolcro, avvicina il viso per dare il bacio promesso. Esce dal sepolcro fino al petto un

serpente con un’orrida testa; apre la bocca facendo vedere denti lunghissimi; avvicinasi al viso di Farruscad, il

quale spaventato salterà indietro, e mettendo la mano sulla spada278.

Poich’ebbe Brandimarte questo letto, / la sepoltura a forza dissertava / ed uscirne una serpe insino al petto, / la

qual forte stridendo zuffelava; / ne gli occhi accesa e d’orribil aspetto, / aprendo il muso gran denti mostrava. / Il

cavalliero, a tal cosa mirando, / se trasse indietro e pose mano al brando279.

Gozzi recupera l’episodio boiardesco ma aggiunge un tratto originale, assente nell’episodio

romanzesco e presente invece, tra le opere in cui ricorre il Fier Baiser280, nel Bel inconnu di

Renaut de Beaujeu281 (1200 circa): il protagonista anziché vincitore “occasionale” della prova

di valore è il responsabile dell’infrazione che ha trasformato la donna in serpente e risulta,

dunque, “colpevole” come Farruscad. Nel testo medioevale si riscontrano altri interessanti

parallelismi con la Donna serpente: il cavaliere, prima di liberare la regina Blonde Esmeree

dall’incantesimo che l’aveva trasformata in animale, si era innamorato, corrisposto, di una

fata, responsabile della sua educazione sentimentale: per potersi unire a lei, il bello

sconosciuto aveva dovuto affrontare prove magiche, non superabili con la prodezza e la forza,

ma con la fiducia cieca nei suggerimenti avuti, esattamente come la terza sfida proposta

all’eroe fiabesco. Il cavaliere abbandona poi la fata per eseguire il compito che gli era stato

affidato, comportandosi, dunque, in modo analogo a Farruscad nel momento in cui aveva

anteposto all’amore la “ragion di stato”. Successivamente il protagonista del testo medievale,

pentito, chiede alla fata perdono e viene così nuovamente accolto anche se ella, che ha doti

divinatorie, sa che se ne sarebbe andato. E, infatti, il cavaliere prende commiato dalla giovane

per partecipare a un torneo dal quale, la donna gli rivela, non avrebbe più fatto ritorno perché

si sarebbe sposato, cosa che avviene, nonostante il giuramento del giovane. Inoltre nel

racconto in versi si fa menzione di un’Isola d’oro, luogo in cui abitava la fata, che può essere

rapportato all’Eldorado della fiaba gozziana.

Altre suggestioni che derivano dal poema boiardesco sono tipiche del mondo

cavalleresco: scontri, vittorie e sconfitte di persone singole e di interi popoli, spesso originati

278 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., III, 13. 279 MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando Innamorato, II, XXVI, 7. 280 Il motivo del Fier Baiser fa capolino anche nel racconto in versi della Ponzela Gaia: il cavaliere Galvano

incontra in un bosco un serpente che si trasforma in una splendida fata, figlia di Morgana. La donna gli offre il suo amore, a condizione che egli non lo riveli a nessuno, ma Galvano infrange la promessa, vantandosi di possedere la fanciulla più bella del mondo. Nonostante ciò, Ponzela Gaia lo salva dalla decapitazione e in seguito viene imprigionata dalla madre in una stanza sotterranea, in cui l’acqua le arriva al seno. Galvano, dopo molte avventure, riesce a liberarla, travestendosi da Dama del Lago, parente di Morgana.

281 RENAUT DE BEAUJEU, Il bel cavaliere sconosciuto, a cura di Antonio Violetti, Parma, Pratiche, 1992, p. 221: «Vide allora un armadio aprirsi / e sbucarne fuori un serpente, […], / sputava lingue di fuoco, / era orribile e enorme».

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da motivi incomprensibili o inaccettabili per chi combatte. È il caso, coma si è già visto, del

“semplice” e popolano Pantalone che rimprovera a Farruscad di avere lasciato la sua città,

accuse che ricordano il passo boiardesco in cui un messaggero narra a Sacripante la situazione

in cui si trova il regno invaso da Mandricardo:

TOGRUL: Il regno dal re moro, Morgone, inesorabile, è assalito, distrutto. Le campagne, gli alberghi, i tempi sacri saccheggiati sono, e scorre per tutto il ferro, e il foco. Stupri, pianti, rovine, e sangue sparso, che de’sudditi vostri allaga il piano, sono i trofei d’un principe accecato, che in lunga inerzia, in scellerate trame di una vil maga, in odio a’numi eterni, vive sepolto, sozzo, e al cielo a schifo282.

Tutto il regno come una facella mena a roina e mette a foco ardente; e tu combatti per una donzella, né te muove a pietà della tua gente, che sol te aspetta e sol di te favella, e de altro aiuto non spera niente. La tua patria gentil per tutto fuma, il fer la strazia e il foco la consuma283.

La preferenza accordata al poema boiardesco da parte di Gozzi risiede nel significato culturale

dell’Orlando innamorato che, nei propositi delle scrittore quattrocentesco, doveva coniugare i

cicli epici di Francia, le vicende di Carlo Magno, con quelli magico-amorosi della Bretagna,

le vicissitudini dei cavalieri della Tavola Rotonda; ma la dialettica tra le armi e gli amori si

delinea già a favore della materia di Bretagna, dell’eros, come già il titolo indica: Orlando è,

appunto, innamorato.

La scelta di far prevalere il tema amoroso su quello epico era, all’epoca di Boiardo, un

rovesciamento polemico della gerarchia tradizionale secondo cui le fole dei romanzi non

soltanto godevano di scarso prestigio letterario, come anche le fiabe ai tempi di Gozzi, ma

erano considerate “inferiori” rispetto alla più nobile serietà delle vicende carolingie. Basti qui

ricordare, descritta per ordine di importanza, la sfilata degli amanti nell’Amorosa visione del

Boccaccio in cui «alla gente gioconda / ne’loro aspetti tutti cavalieri / chiamati della Tavola

ritonda» fa seguito la «più mirabil baronia»284 dei paladini francesi.

Nei tre libri che compongono l’Orlando innamorato, così come nei tre atti della fiaba, il

fondale di guerra non esce mai di scena, anzi, progressivamente avanza sempre più in primo

piano occupando il testo per sequenze sempre più estese (il secondo atto gozziano si svolge

quasi per intero nella città di Teflis assediata), finendo con il risucchiare, nel terzo libro,

anche gli innamorati Orlando e Rinaldo in uno scontro che i due combattono, comunque,

282 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit. I, 8. 283 MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, cit., II, III, 10. 284 GIOVANNI BOCCACCIO, Amorosa visione, in IDEM, Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore

Branca, Milano, Mondadori, 1974, vol. III, canto 11, 1.

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all’insegna dell’eros: il più valente nella battaglia contro gli infedeli si assicura la donna

amata in premio285.

Proprio nella figura dell’eroe che esce dalla scena epica, abbandona fisicamente il luogo della

guerra, per entrare nello spazio fisico e mentale dell’amore è possibile scorgere la fisionomia

di Farruscad: trasportato in un mondo altro, lontano dal campo di battaglia e dalla sua città,

anch’egli si spoglia del ruolo di re per vestire i panni di amante.

La scelta da parte del drammaturgo di disseminare all’interno delle sue opere puntuali

citazioni ed episodi offerti dai tre poemi cavallereschi (Orlando innamorato, Orlando furioso

e Gerusalemme liberata) cela un intento polemico: lo scrittore vuole distinguersi all’interno

del panorama culturale del Settecento e in particolare modo da quello veneziano. Gozzi,

infatti, si scaglia contro l’imperante omologazione classicista del gusto francese (Voltaire

scrisse che si leggeva Omero per dovere, Ariosto per piacere) che considera il romanzo

cavalleresco solamente come un monstre admirable, ma privo di utilità e di dignità

letteraria286. Proprio al filosofo francese rimanda il finale della Donna serpente: Farruscad,

Cherestanì e i due figli abbandonano Teflis per andare a vivere definitivamente nell’Eldorado.

Al dilagare della moda francese e dell’importazione del romanzo inglese (si pensi

alla Pamela di Richardson ripresa anche dal Chiari nell’omonima commedia), Gozzi oppone

due “rimedi”: il recupero di un altro tipo di romanzo della tradizione italiana, quello

cavalleresco appunto, e la letteratura barocca spagnola, anche teatrale. Nelle Memorie inutili e

nella Più lunga lettera di risposta che sia mai stata scritta il drammaturgo esplicita tale idea:

il pretendere di ridurre il gusto, ed il genio di tutte le nazioni, al gusto e al genio d’una sola nazione, era pretesa

fanatica e vana costrizione ingiusta […] Tutti i prodotti di imitazione dal francese erano ridotti a somigliarsi

l’uno con l’altro per modo, che sembravano quasi sempre già anteriormente veduti, e sempre con spossatezza, e

peggioramento maggiore […]. I censori del Gozzi non saprebbero spiegare il perché Guglielmo Shakespeare

285Se si considera che tra gli «antiqui signori e cavalieri» e la società contemporanea di Boiardo si è

interposta l’età del ferro segnata dalla fuga dell’«allegrezza e cortesia» e contraddistinta dalla decadenza cavalleresca, il mito culturale e storico su cui si poggia l’Orlando innamorato appare completo e coerente. Esso si configura come un vero e proprio ritorno ad un antico non classico e come il sogno di una reincarnazione nella moderna corte estense dei valori alti e “gentili” della più nobile tradizione cavalleresca. Allo stesso modo Gozzi, che vive in prima persona la graduale decadenza del teatro “tradizionale”, della sua classe sociale e, più in generale, della città di Venezia, ripropone le virtù, presenti anche nei poemi epico-cavallereschi.

286 Restando in ambito illuminista, anche Claude-Adrien Helvétius denigra i romanzi cavallereschi, la cui lettura ritiene dannosa soprattutto per le donne: «il loro spirito [delle giovani donne], che l’educazione occupa di solito troppo poco, afferra con avidità finzioni che lusingano passioni naturali alla loro età. Nei romanzi trovano materiali per i loro castelli in aria. Esse li mettono in opera tanto più volentieri quanto il desiderio di piacere e le galanterie che si fanno loro continuamente le mantengono in questo godimento. Allora occorre soltanto un lieve dolore per far girare la testa a una giovinetta, per persuaderla che è Angelica, o qualche altra eroina che le sia piaciuta, e farle prendere per tanti Medoro tutti gli uomini che le si avvicinano» (CLAUDE-ADRIEN HELVÉTIUS, Dello spirito, a cura di Alberto Postigliola, Roma, Editori Riuniti, 1994, p. 142).

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poeta teatrale inglese con le opere sceniche sue miste di tragico, di comico, di storico, di magico, di favoloso, di

bassezze popolari, e d’impossibilità abbia avuto il vigore di penetrare gli animi degli spettatori, di farli fremere,

inorridire, meravigliare, impietosire, piangere, ridere. Cercando io di dare un nuovo aspetto a scenici generi miei

scelsi alcuni semi dell’informe teatro spagnolo (che non è informa al gusto, e al genio della sua nazione) da far

rinascere, innestare e fecondare nel nostro teatro287.

L’amore per la letteratura spagnola288 e la profonda conoscenza che dimostra di avere di essa -

caso veramente eccezionale nel panorama settecentesco italiano -, trovano spiegazione

nell’amicizia di Gozzi con Giovan Battista Conti, il maggior ispanista veneto del secolo, e

nella lettura di una fonte importante, per quanto di seconda mano, per la formazione di

un’idea sulla Spagna da parte del pubblico italiano, il romanzo Gil Blas di Lesage289, autore

che aveva tradotto il ciclo persiano Les milles et un Jours della raccolta Le Cabinet des Fées,

da cui il veneziano aveva attinto la “materia prima” per molte fiabe.

Testimonianza delle letture ispaniste compiute dal conte sono il poema Don Chisciotte, che

Gozzi nelle Memorie Inutili racconta di avere scritto da giovane, e l’onomastica gozziana

delle fiabe in cui, per esempio, si dimostra la conoscenza del testo di Cervantes290: nella

Donna serpente si trova nominato il cavallo del Gonella291 e nel Re cervo Durandarte è un

nome che ricorre già nel Don Chisciotte292. Proprio nel Re cervo il Prologo si presenta in

scena con le fattezze invecchiate e negli abiti consunti di un cantastorie: è Cigolotti, «uomo

solito a narrare delle favole, e dei romanzi al popolo nella piazza di Venezia»293. Al di là della

realistica connotazione ad uso degli spettatori veneziani, il prologo rinvia alla zona magico-

fiabesca del capolavoro spagnolo, laddove Don Chisciotte aveva prestato la propria voce

287 CARLO GOZZI, La più lunga lettera di risposta…, cit., 25. 288 Certa è la lettura, da parte del drammaturgo, delle opere dello spagnolo Augustin Moreto da cui riadattò

due commedie per altrettanti drammi “spagnoleschi”. Si noti che, contemporaneamente, a Vienna anche Metastasio dimostra di essere stato influenzato dal Moreto in alcune opere e, inoltre, porta sulla scena austriaca un paio di episodi tratti dal Don Chisciotte. Vienna, d’altronde, era un ambiente permeato di ispanismo perché numerosi sostenitori spagnoli di Carlo d’Asburgo, che si era proclamato re di Spagna, lo avevano seguito in questa città quando aveva dovuto rinunciare al trono.

289 Da una novella contenuta nel quarto libro del romanzo, Goldoni aveva tratto l’argomento per la tragicommedia Enrico, composta nel 1738.

290 «Quello che è prodigioso nel Don Chisciotte è la continua fusione di illusione e realtà, che ne fanno un libro così comico e così poetico»; con queste parole Flaubert celebrava, più di due secoli dopo la pubblicazione, il romanzo di Cervantes. L’accostamento e l’incastro di questi due piani, illusione e realtà, è, come si è visto, una costante dei poemi cavallereschi italiani e anche delle fiabe gozziane: non stupisce, dunque, di trovare nei testi del veneziano rimandi all’autore spagnolo con cui, evidentemente, Gozzi sentiva di condividere l’invenzione di una forma letteraria che, sotto l’insegna dell’ironia e della semplicità, si dimostrasse capace di rappresentare l’aspetto tragico e quello comico del mondo.

291 CARLO GOZZI, La donna serpente, in IDEM, Opere…, cit., p. 347, I, 3: «PANTALONE: occhi infossai, come quelli del cavallo del Gonella, pieni de sgargagi, copai, lasseve veder».

292 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, parte II, capitolo XXIII: «Questo è l’amico mio Durandarte, fiore e specchio dei cavalieri innamorati e valenti del tempo suo».

293 CARLO GOZZI, Il re cervo, in IDEM, Opere…, cit., p. 171, I, 1.

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narrante ad un vecchio dalla barba bianca, vestito con una lunga cappa ed una berretta nera, al

modo cioè di Cigolotti294.

Si noti che l’operazione gozziana è diversa da quella dei suoi contemporanei: mentre infatti

Cigolotti-Gozzi chiede agli spettatori di prestare fede a ciò che vedranno, di credere cioè ai

mirabilia, gli altri scrittori settecenteschi di solito utilizzano, del romanzo di Cervantes: gli

elementi che demistificano la narrazione: le riprese, cioè, esaltano le funzioni di parodia e

contraffazione che un personaggio come Don Chisciotte, calato in contesti quotidiani, poteva

suggerire.

Il protagonista cervantiano è l’emblema del cavaliere che insegue l’Ideale, in perenne lotta

contro la realtà, al cui materialismo egli oppone una meravigliosa illusione di bellezza e di

purezza. Farruscad gli somiglia: insegue metaforicamente e fisicamente - gettandosi nel fiume

- l’Ideale, la fata Cherestanì, e al suo amore incondizionato e totale si oppongono altri

personaggi della fiaba che non lo comprendono e che lo tentano di imbrogliare travestendosi,

proprio come le persone che incontra il cavaliere.

Afferente al genere cavalleresco295, il Morgante di Luigi Pulci è un altro costante

“sottotesto” all’interno della produzione fiabesca gozziana, soprattutto nella Donna serpente.

Il poema eroicomico si caratterizza per il gusto inconsueto e irregolare, per il bisogno

intrinseco dell’autore di evadere dagli schemi tradizionali per comporre un mosaico nuovo

con tessere “vecchie”, già utilizzate; questa volontà eclettica296 contraddistingue anche Gozzi,

che tra l’altro, proprio come Pulci, si era nutrito delle letture del Burchiello, del Folengo e di

294 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, parte seconda, capitolo XXIII: «Mi si offerse subito alla vista un

sontuoso palazzo o castello reale, vi si aprirono due grandi porte e vidi uscirne un venerando vecchio, vestito d’una lunga veste di baietta viola che gli strascicava per terra; gli circondava gli omeri e il petto una stola dottorale, di raso verde; il capo era coperto da un berretto milanese nero, e la barba, bianchissima, gli scendeva oltre alla cintola. Il portamento, il passo, la gravità e vastità della persona, ogni cosa per se stessa e per tutte quante assieme, mi colpirono e meravigliarono».

295 Il Morgante propone un mondo che non è propriamente quello della cavalleria, ma, piuttosto, quello della piazza in cui il canterino espone alla folla le vicende di Morgante e di Margutte. Il grado di spettacolarità in questo senso è notevole e il poema si caratterizza proprio per la spiccata presenza dell’“actio” che lo rende un testo con valenze fortemente teatrali, in cui le scene non sono semplicemente narrate, ma vengono raccontate per immagini, con un forte impatto visivo.

296 Giovanni Getto, riprendendo una definizione di Heinrich Wolfflin, ha paragonato la figura di Pulci a quella di Leonardo per la varietà di esperienze accumulate e perché entrambi costituiscono un esempio insigne di un gusto irrequieto per le esplorazioni nella letteratura e nella natura: «Di tutti gli artisti del Rinascimento Leonardo è stato quello che più ha goduto della forma di questo mondo. Tutto lo incatena: la vita del corpo e le passioni umane, le forme delle piante e degli animali, e la vista del rivo che tra le acque chiare come cristallo lascia trasparire nel fondo i sassolini. L’unilateralità dei pittori che si occupano solo della figura gli è incomprensibile… divenne così uno sperimentatore incontentabile» (GIOVANNI GETTO, Studio sul «Morgante», Firenze, Olschki, 1968, pp. 199-200). Queste parole ben si adattano anche al drammaturgo veneziano che “attraversa” la letteratura italiana e straniera abolendo i tradizionali confini tra i generi letterari, cercando invece di trovare le somiglianze e le possibilità di interazione tra di essi; in questo modo un poema eroico può contenere in nuce un potenziale teatrale nella stessa maniera in cui una fiaba può presentare azioni tragiche.

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Rabelais (Morgante fa parte dell’albero genealogico di Pantagruele), oltre che di Cervantes297,

poeti la cui serietà trascende l’abito scherzoso con il quale si presentano al lettore. Non si

dimentichi inoltre la vena parodistica, tanto affine a quella gozziana soprattutto nell’Amore

delle tre melarance, che percorre tutto il poema pulciano298.

Nel Serpente si registra un elenco di strumenti musicali che rimandano puntualmente al

poema comico-cavalleresco e che dimostra ulteriormente la profonda conoscenza di tale testo

da parte del conte veneziano299:

Fatto il convito, vennon molti suoni,

acciò che meno il giorno lor rincresca:

trombe e trombette e nacchere e busoni,

cembolo, staffa e cemmamelle in tresca,

corni, tambur, cornamuse e veglioni

e molti altri stromenti alla moresca,

liuti e arpe e citare e salteri,

buffoni e giuochi e infiniti piaceri300.

E’ si sentiva i più stran maccheroni

e tante busne e corni alla moresca

che rimbombava per tutti i valloni,

e par che degli abissi quel suon esca;

tanti pennacchi, tanti stran pennoni,

tante divise, la più nuova tresca,

297 Anche in Don Chisciotte compare il personaggio di Morgante: all’inizio del romanzo viene citato proprio

dall’eroe cervantiano, e, più avanti, all’inizio della seconda parte, in uno scambio polemico di battute tra il curato e il barbiere da una parte e Don Chisciotte dall’altra, in cui è messa in discussione la statura del gigante.

298 Per esempio, sotto la figura del diavolo Astarotte, che durante il viaggio in Occidente con Rinaldo e Ricciardetto si lancia nell’esposizione di ardite dottrine logico-teologiche, geografiche e geologiche, non è difficile scorgere Marsilio Ficino e la cerchia dei filosofi neoplatonici che erano al servizio della corte medicea. Sotto l’insegna di Pulci, non si dimentichi, si apre l’intera produzione fiabesca gozziana: infatti, L’amore delle tre melarance è preceduto da due ottave del Morgante: «Io me n’andrò colla barchetta mia, / quanto l’acqua comporta un picciol legno; / e ciò, ch’io penso colla fantasia, / di piacere ad ognuno è il mio disegno: / convien, che varie cose al mondo sia, / come son vari volti, e vario ingegno; / e piace all’uno il bianco, all’altro il perso, / o diverse materie in prosa, e in verso. / Ben so, che spesso, come già Morgante, / lasciato ho forse troppo andar la mazza, / ma, dove sia poi giudice bastante, / materia c’è da camera, e da piazza: / ed avvien, che chi usa con gigante / conviene, che se ne appicchi qualche sprazza, / sicch’io ho fatto un altro battaglio / a mosca cieca, o talvolta a sonaglio» (CARLO GOZZI, L’amore delle tre melarance, in IDEM, Opere…, p. 52).

299 La conoscenza di Pulci da parte del drammaturgo era dovuta, almeno in parte, anche alla frequentazione con Giuseppe Baretti, estimatore della poesia pulciana, che esprimeva le sue lodi nella Frusta letteraria: «ma chi è direte voi, questo bravaccio, il quale con questa sua terribile frusta in pugno si lusinga così baldamente di far più che non fece Morgante col battaglio?»; «[il Morgante] non fa meno onore alla nostra poetica terra di quello che gliene facciano i poemi epici di Dante, dell’Ariosto e del Tasso» (GIUSEPPE BARETTI, La frusta letteraria, Milano, Sonzogno, 1829, rispettivamente p. 4 e p. 226).

300 LUIGI PULCI, Morgante in IDEM, Morgante e opere minori, a cura di Aulo Greco, Torino, UTET, 2006, t. I, pp. 499-500, cantare 16, ottava 25).

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era cosa a veder per certo oscura,

e fatto averebbe Alessandro paura301.

Truffaldino: di portentose opre inaudite io nunzio son, di busne e cenamelle alla moresca, e tamburelli al suono,

e d’urla spaventevoli, Morgone, il feroce Morgone, a queste mura dava l’assalto302.

La novellistica e il Mostro turchino

Sommariamente la fabula del Mostro turchino riprende - anche sotto il profilo onomastico - e

rielabora tre novelle303 “a incastro” delle Mille et Un Quart d’heure: contes Tartares di

Thomas Simon Gueullette304: l’Histoire d’Outzim-Ochantey Prince de la Chine, l’Histoire du

Gulguly-Chenamé e l’Histoire du Centaure Bleu.

Nel primo racconto orientale sono narrate le vicende di Fanfur, imperatore della Cina, che,

rimasto vedovo, rivolge tutte le attenzioni al figlio Outzim, il quale però lo abbandona. Dopo

sei anni dalla sua scomparsa, Fanfur decide di dare un nuovo erede al regno e sposa una

bellissima schiava, Kamzen, che finge di provare amore verso il re. L’Histoire du Gulguly-

Chenamé, che si pone come continuazione della precedente novella, ha come protagonista la

principessa Gulguly, sposa di Outzim, da cui è stata divisa a causa di un incantesimo: una

nebbia fitta, sorta all’improvviso, li ha separati, come accade a Dardanè e Taer nel Mostro

turchino quando vengono trasformati. La giovane, convinta che lo sposo sarebbe tornato a

Nanquin, vi si reca travestendosi da uomo, Souffel, e qui, presso la corte, scatena la passione

amorosa di Kamzen tanto da indurla a dichiararsi al giovane e a prospettargli la corona,

confidandogli di poter avvelenare Fanfur. L’abboccamento finisce con l’entrata nella stanza

del re a cui non sfugge l’inquietudine dei due. Chiesta spiegazione, la regina, mentendo, rivela

al marito che il cavaliere si è proposto di sfidare il centauro, che due giorni dopo sarebbe

apparso alle porte della città. L’Histoire du Centaure Bleu, in cui si racconta la cattura

301 Ivi, t. II, p. 1034, cantare 26, ottava 45. 302 Il Serpente, III, 4. I corsivi delle tre citazioni sono nostri. 303 Cfr. LETTERARIO DI FRANCIA, Il mostro turchino, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1934,

volume CIII, fascicoli 307-308, pp. 27-54. 304 THOMAS SIMON GUEULLETTE, Mille et Un Quart d’heure: contes Tartares, Paris, chez les Libraires

Associés, 1753, 3 voll; la prima edizione del testo risale al 1715.

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dell’animale da parte di Gulguly grazie allo stratagemma del vino con cui lo fa ubriacare,

presenta, tra l’altro, lo stesso esordio fosco della fiaba gozziana. Questa infatti recita:

Bosco, spelonca, nel fondo sotto un monte305 .

ZELOU: Io, dalla mia caverna spesso uscendo,

stermino i campi, e le giuvenche e i tori

trucido e squarto, e il territorio infesto306.

E nell’Histoire du Centaure Bleu:

Il y avoit aux environs de Nanquin, une petite montagne, au bas de la quelle étoit une caverne, d’où depuis cinq

ans, à un certain jour, sortoit un Centaure Bleu, qui venoit jusqu’aux portes de la ville, et y enlevoit quelques

vaches et quelques boeufs307.

Il mostro svela di essere un mago che per un’imprecisata colpa sarebbe dovuto rimanere in

quella forma per nove anni, a meno di non essere vinto da una donna. Durante il tragitto verso

il palazzo esso scoppia a ridere quattro volte, le cui ragioni svela alla fine della novella. La

prima risata era dovuta al fatto che aveva visto piangere il padre di un bambino defunto e un

bonzo cantare, mentre proprio quest’ultimo era il padre naturale. La seconda era scaturita

dall’impiccagione di un ladruncolo, a cui stavano assistendo persone che si erano macchiate

di colpe ben più gravi. La terza risata davanti al re era dovuta al fatto che il popolo stava

acclamando Souffel sbagliandosi sulla sua vera identità, e, infine, aveva riso perché le

damigelle della regina erano uomini travestiti, caso a cui si allude anche nel Mostro

turchino308. Il re, scoperto il tradimento della moglie, la condanna a morte e fa sposare al

figlio l’eroina.

Nelle mani del drammaturgo veneziano il triplice modello orientale subisce, però, sostanziali

cambiamenti: Gozzi inventa la trasformazione del protagonista in mostro turchino e dedica

ampio spazio alla figura della moglie infedele e alla sua morte. L’inserimento delle due novità

risponde a una precisa intenzione dell’autore, ossia di sottolineare l’elemento patetico della

vicenda e soprattutto di porre in contrasto la straordinaria fedeltà dei due sposi, definita, per

305 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, in IDEM, Opere…, cit., p. 591, I, 1. 306 Ivi, p. 603, I, 5. 307 THOMAS SIMON GUEULLETTE, Mille et Un Quart d’heure…, cit., t. II, p. 58. Il corsivo è nostro. 308 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, in IDEM, Opere…, p. 591, II, 3: «PANTALONE: la gha certe schiave,

che la serve che sta sempre coverte col velo e le fa certi passi longhi co le cammina, che gho paura, che sotto quei veli ghe sia tanti mustacchi».

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l’unicità, «inaudito miracol nuovo»309, con l’amoralità e il comportamento spregiudicato di

Gulindì, emblema della cultura illuminista. Inoltre Gozzi toglie alla matrice orientale

qualunque aspetto di casualità connesso agli eventi, i quali, invece, nella fiaba del veneziano

si delineano parti di un unitario disegno “celeste” in cui anche i tre flagelli si configurano

come punizione divina. La decisione stessa di porre al fianco di Dardanè, il principe, seppure

in sembianze mostruose - diversamente da quanto accade nella fonte – si spiega con la

volontà di non frammentare la vicenda, ma, anzi, di compattarla e ricondurla a un’implicita

unità.

Se nello scrittore veneziano nell’elaborazione dell’iniqua figura femminile agiscono le

suggestioni del mito di Fedra310, occorre però aggiungere che dietro la cura con cui è

tratteggiata Gulindì si cela un motivo ideologico: l’infedeltà al marito e l’attrazione per

uomini giovani rispecchierebbero le caratteristiche della donna moderna circondata dai

cicisbei, una moda, questa, soprattutto veneziana e comunemente diffusa, come si evince

anche da alcune commedie goldoniane311. L’attacco al gentil sesso, secondo Gozzi disinibito e

infedele per le letture moderne eversive compiute, è reiterato nella scena all’improvviso in cui

Truffaldino, giunto nel bosco prima di perdere la memoria, compie a proposito del velo

magico, capace di infiammare anche la donna più casta che lo indossa. La maschera della

commedia dell’arte, in risposta a Smeraldina, che racconta la maniera eroica in cui la padrona

Dardanè ha resistito a questa prova, scherza sul fatto che tutte le donne dell’epoca sembrano

provviste del velo fatato312.

La collocazione di Gulindì in una posizione sociale di rilievo, nonostante l’umilissima

provenienza, ed inoltre la sua immoralità ed il discutibile comportamento tenuto mirano

evidentemente a proporre il credo conservatore gozziano, secondo il quale la virtù non attiene

ai ceti inferiori, che devono restare pertanto nella condizione in cui sono nati. Solo i nobili

309 Ivi, p. 620, I, 1. 310 La falsa accusa di seduzione compare anche nel mito di Bellerofonte: egli, ospite a Tirinto dal re Preto, è

circuito dalla moglie Stenbea che, respinta, lo accusa di aver tentato di irretirla. Il marito, non volendo uccidere in casa propria un ospite, manda Bellerofonte dal suocero Iobate, re di Licia che gli impone prove pericolose; dopo averle superate, mostrandogli dunque il proprio lato divino, l’uomo lo designa come successore al trono.

311 Per esempio nella Famiglia dell’antiquario Doralice, figlia del saggio Pantalone, non appena diventa “cittadina” assume l’abitudine, adottata anche dalla suocera, di farsi circondare da giovani uomini, usanza che il padre, diventato amministratore della casa del consuocero, abolisce immediatamente (CARLO GOLDONI, La famiglia dell’antiquario, in IDEM, Commedie scelte, a cura di Giuseppe Ortolani, cit., vol. III, 1948, p. 247: «PANTALONE: […] quarto che né l’una né l’altra di dette due signore [suocera e nuora] abbiano da avere amicizie, continue, e fisse, e quella che ne volesse avere, possa esser obbligata andar ad abitare in campagna»).

312 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 594, I, 1: «Truffaldino: suoi scherzi su questo velo incantato; che crede oggidì tutti i veli, che si vendono alle botteghe alle donne, incantati, come quello di Bizeghel». Vale la pena ricordare che questa scena è assunta come modello per la “teoria della pazzia” in Welt als Wille und Vorstellung di Arthur Schopenhauer; invece il filosofo cita una scena della Zobeide (IV, 3) per la teoria del ridicolo.

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sono portatori di valori positivi e quindi degni delle cariche che occupano. E infatti

inadempiuto rimane l’accorato appello rivolto da Acmed alla schiava: «Fa conoscere al

mondo, che la nascita / virtù non toglie, e ch’anche in fra i meschini / nascer può un’alma di

virtù ripiena, / degna di scettro, e diadema al capo»313.

L’obiettivo della critica gozziana, mediato dai personaggi, può essere precisato meglio. La sua

reprobatio infatti, attraverso Fanfur, Zelou e Brighella, capitano delle guardie del re, è rivolta

soprattutto contro la filosofia illuminista, che nella successiva fiaba del 1765, l’Augellino

belverde, è esplicitata: compaiono, infatti, i nomi di Voltaire, Rousseau ed Helvetius314,

additati a responsabili della settecentesca degenerazione morale315. Lo scrittore veneziano si

schiera in particolare contro una gnoseologia fondata in modo determinante sui sensi, la vista

in primis, nel momento in cui mostra gli errori e gli inganni a cui il fenomenico condanna

Fanfur, che ad esso si affida. Un tema cardine, questo, dell’intera produzione fiabesca di

Gozzi.

Anche il mostro costituisce una figura del moderno e delle sue perversioni. Causando

volontariamente la separazione dei due fidi amanti per sottrarsi alla maledizione che gli è stata

imposta, Zelou apre la pièce con una proclamazione di puro egoismo: «Assai m’incresce / di

dover rovesciare tante miserie / sulle vostre persone [Taer e Dardanè], per far libera / la mia

dalla condanna, in cui son stretto. / Ma chi può amare in se stesso il tormento, / potendo uscir

coll’addossarlo altrui?»316. Tale comportamento è, per Gozzi, il risultato dell’adozione del

principio dell’“amor proprio”, cioè della tesi nata dal magma delle dottrine illuministiche e

sensistiche secondo cui qualunque azione dell’uomo mira al conseguimento del proprio

interesse, e Zelou, che sceglie di mettere a rischio le vite altrui pur di liberare se stesso, ne è

l’emblema.

313 Ivi, p. 622, II, 8. 314 Secondo il filosofo francese dalla percezione di piacere o di dolore, insita in ciascuna sensazione, nasce

l’impulso all’azione; da ciò ne deriva che l’interesse proprio, definito anche «amor di sè» - ma privo di alcuna connotazione morale - è l’unico impulso che guida l’operato umano. Nei trenta capitoli del terzo discorso contenuto nel libro Dello spirito («Se lo spirito debba essere considerato un dono della natura o un effetto dell’educazione»), Helvetius passa in rassegna le varie passioni umane e dimostra come tutte derivino dall’amore di sé, con la conseguente deduzione che ogni interrelazione tra gli uomini consista, in verità, nell’utilizzazione dell’altro per fini egoistici (Cfr. CLAUDE-ADRIEN HELVÉTIUS, Dello spirito, cit., pp. 72-73).

315 CARLO GOZZI, Prefazione all’Augellino belverde, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. III, p. 201: «I due moderni filosofi, Renzo e Barbarina, principali personaggi in quest’azione, imbevuti delle massime de’ perniciosi signori Elvezio, Russò, e Voltere; che sprezzano e deridono l’umanità col sistema dell’amore proprio»; ma precedenti “vittime” dell’amor proprio sono anche i due servi, Truffaldino e Brighella, che, nel Corvo, abbandonano il loro padrone perché caduto in miseria: «Dopo un dialogo, che satiricamente dimostri due servi cattivi, che non sentono gratitudine de’ benefizi ricevuti, ma abbandonano i loro padroni caduti in miseria, giudicando, che così deva fare l’uomo di spirito, per cercar miglior fortuna altrove» (CARLO GOZZI, Il corvo, in IDEM, Opere…, cit., p. 154, V, 1). Per una lettura approfondita di questo passo, in base alla prassi dei ruoli teatrali si veda LAURA RICCÒ, Parrebbe un romanzo…, cit., pp. 249-252.

316 IDEM, Il mostro turchino, cit., p. 659, I, 1.

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Brighella infine rappresenta colui che ha abbracciato le nuove idee illuministe, rinnegando

tutti i valori tradizionali. Trovandosi a dover compiere la scelta “tragica” per eccellenza tra

onore e amore, cioè fra la soluzione di consegnare alla giustizia e destinare all’idra la sorella

Smeraldina appena ritrovata dopo tanti anni o di lasciarla fuggire, Brighella fa prevalere

l’“eroismo” - inteso alla sua maniera - e decide di sacrificare la giovane, giungendo perfino a

colpevolizzarla di essere giunta vergine nella città317:

SMERALDINA: Eroe briccone, poltrone, boia del tuo sangue. L’eroismo sarebbe, se devi anche obbedire il tuo re,

di morire almeno generosamente o ucciso dal Cavaliere o dall’Idra qui a fianco della tua sfortunata sorella

(piange).

BRIGHELLA: Ignoranza, debolezza inutile, della qual un filosofo no deve esser capace. Ti ti ga un’educazion, che

se usava nei tempi remoti. L’eroismo, che ti intendi ti, no xe altro, che un’antiquata parola, che se trova nelle

istorie, e nei romanzi, e che ancuo se scansa, come cosa ridicola. Cusì dixe l’inoculazion del bon senso. Se no ti

avessi pregiudizi de educazion antica, ignorante, se ti avessi studià i sistemi filosofici correnti, el to nome no

saria entrà in tel’urna delle putte, e adesso no ti saressi in sta miseria. L’eroismo ancuo xe mostrar franchezza

sulle disgrazie dei altri, e anca sulle proprie, per arrivar ai so intenti. Mi no gho el mio intento a aspettar de esser

sbudellà dal Cavalier della Torre318.

Non è escluso che il sarcasmo del Mostro turchino, pur rivolto a un contesto culturale ben

determinato, sia stato suggerito anche dall’Histoire du Centaure Bleu, in cui trapela una

critica alla furbizia e alla stoltezza degli uomini che emerge nei motivi addotti dal centauro

per giustificare le sue risate, tra cui spicca quella dovuta all’accorgimento usato da Gulindì

per nascondere gli amanti, di chiara ascendenza novellistica (oltre alla citata fonte orientale,

l’espediente ricorre anche nel Decamerone): la regina fa indossare loro abiti femminili,

presentandoli come sue damigelle.

Tale impianto narrativo si legge anche in una novella contenuta nelle Piacevoli notti di

Giovan Francesco Straparola319, la cui protagonista ha nome Costanza. Nell’ottica del

317 Ivi, p. 631, III, 2; pp. 655-656, IV, 6; p. 657, IV, 6: «BRIGHELLA: Eroismo, desmissite. Devo ubbidir al

mio Monarca. No gh’è remission. Ti [Smeraldina] zonzi all’età, che ti ga, ti viazi tanto mondo, e ti arrivi in Nanquin putta? A to danno, no ti dovevi arrivar qua putta a metter a repentaglio l’eroismo d’un fradello della mia qualità. Guardie, fe el vostro uffizio»; «BRIGHELLA: cara sorella, care le mie carne, lassa, che tegna serrà in tel cuor el tormento, e che possa mantegnir, per tua, e per mia gloria, un esterno da eroe a dispetto della fragile umanità»; « BRIGHELLA: mi te dago l’ultimo addio, colla gloria de no aver spanto gnanca una lagrima, e vado via, perché no vorrai, che a fermare de più se indebolisse quella virtù, che per grazia del ciel xe ancora forte».

318 Ivi, p. 656, IV, 6. 319 GIOVAN FRANCESCO STRAPAROLA, Le piacevoli notti, a cura di Donato Pirovano, Roma, 2000, t. I, pp.

246-262. La principessa Costanza abbandona la reggia e, travestitasi da uomo, assume il nome Costanzo. Giunta alla corte di Bettinia, viene accolta come paggio dal re; ma la moglie del monarca si innamora di lei e, al suo rifiuto, la spedisce a compiere prove pericolose, la prima delle quali consiste nel catturare, per soddisfare un desiderio del re, uno dei satiri definiti «spezie di uomini, i quali dal mezzo in su tenevano la forma di creatura umana, ancor che le loro orecchie e corna di animale fusseno. Ma dal mezzo in giù avevano le membra di pelosa

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recupero della tradizione italiana propugnato da Gozzi, è possibile che il drammaturgo abbia

voluto rendere un omaggio allo scrittore cinquecentesco, tant’è che la parola “costanza” viene

ripetuta spesso all’interno della vicenda, incarnato alla perfezione da Taer e Dardanè.

L’eroismo che nella fiaba veneziana Brighella deride, che se trova nelle istorie, e nei romanzi,

è quello esibito dai campioni del poema epico-cavalleresco italiano dell’ultimo Quattrocento e

del Cinquecento: dall’Orlando innamorato, dall’Orlando furioso e dalla Gerusalemme

liberata, i primi due dei quali compaiono nel Mostro turchino mediante allusioni testuali. Il

drammaturgo, soprattutto nelle opere fiabesche, utilizza spesso inserti provenienti da questi

generi letterari, a significare che l’eroismo mostrato dai protagonisti delle sue creazioni si

ispira a quello dei prodi paladini boiardeschi e ariosteschi, cioè al prototipo del cavaliere

antico, capace di mettere a repentaglio la propria vita per raggiungere un ideale, sia esso

salvare una donna o conquistare una città.

Il recupero del poema epico-cavalleresco si spiega con la volontà gozziana di opporre all’idea

di un essere umano che agisce solo per il proprio tornaconto, propugnata, a suo parere, dalla

concezione filosofica illuminista, o meglio sensista, un uomo che, invece, si muova all’interno

della società spinto da alti ideali, identificati dal drammaturgo con quelli cavallereschi. E i

personaggi principali delle fiabe sono dotati proprio delle virtù cavalleresche, onore, spirito di

sacrificio, coraggio e costanza – che Gozzi pare rimpiangere e che sembra addurre a modello

per il pubblico.

Nel Mostro turchino i riferimenti al poema cavalleresco sono espliciti ed impliciti. Per

esempio, in bocca a Brighella è posta una battuta proveniente dall’Orlando furioso, «spesso

dei pazzi la fortuna ha cura»320, la cui fonte era immediatamente riconoscibile anche da parte

di un pubblico poco colto, che però assisteva agli spettacoli di piazza321 e dei teatri di prosa,

in cui, all’epoca, venivano messi in scena interi episodi tratti dalle epiche gesta dei paladini.

Lo stesso procedimento è d’altronde attestato anche nel Serpente, il manoscritto del fondo

Gozzi contenente la fiaba della Donna serpente, in cui si legge, a margine della satira che

capra, con un poco di coda torta a guisa di coda di porco, e nominavansi satiri i quali sconciamente danneggiavano villaggi, i poderi e gli uomini del paese». Costanza, grazie a uno stratagemma, fa ubriacare i satiri e ne cattura uno che, lungo il tragitto verso il palazzo, ride per quattro volte, esattamente come nella novella orientale. La regina, ansiosa di rivalsa, mette ancora alla prova il giovane e lo obbliga a far parlare il centauro che gli rivela le ragioni delle sue risate, ricalcanti fedelmente il modello orientale. Il re, scoperto il tradimento della moglie, la condanna a morte e si sposa con Costanza.

320 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 657, IV, 6. Il riferimento testuale si trova in LUDOVICO ARIOSTO, Orlando furioso, a cura di Cesare Segre, Torino, Einaudi, t. II, p. 773, canto XXX, ottava 15: «Ma la Fortuna, che dei pazzi ha cura, / del mar lo [Orlando] trasse nel lito di Setta, / in una spiaggia etc».

321 Per spettacoli di piazza si intende soprattutto quelli narrati dai cantori, tipologia che, ai gradi più bassi (per esempio Cappello e Cigolotti) Gozzi introduce addirittura in scena come personaggi-soglia per la loro marginalità, ingenuità e differenza tra realtà e mondo incantato.

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Truffaldino compie riguardo alla vita in città, «vidi e conobbi anch’io le inique corti», una

citazione puntuale della celebre ottava tassiana322.

Le allusioni ai poemi cavallereschi si trovano soprattutto nella descrizione delle prove

affrontate da Taer in un lontano passato per conquistare Dardanè, narrate velocemente da

Truffaldino all’inizio della pièce, e da quelle imposte ad Acmed. Tra i cimenti superati dal

principe, la maschera della commedia dell’arte cita gli scontri con un uccello che rilascia olio

bollente – un’eco delle arpie mitologiche - e con un asino dalla coda tagliente e dalle lunghe

orecchie capaci di legare. I due animali rimandano al poema boiardesco: Orlando infatti

combatte contro un «occello che smaltisce una acqua molle, / qual, come tocca gli occhi, il

veder tolle» e contro «uno asino […] ha l’orecchie lunghe due braccia: / come coda di serpe

quelle piega, / e piglia e strenge a suo piacere e lega […] e mena la sua coda, che è

tagliente»323.

Il «licor d’obblivione», l’espediente utilizzato da Zelou per ottenebrare i ricordi di Truffaldino

e Smeraldina, afferisce alla tradizione boiardesca: lontana eco delle fonti dell’amore e

dell’odio, esso rimanda puntualmente al liquore in grado di far perdere la memoria offerto in

un calice di cristallo ad Orlando da una donzella, mentre il paladino sta cercando di liberare

Angelica, imprigionata nella rocca di Albracca324.

La prova del velo a cui è stata sottoposta Dardanè, cui rapidamente accenna Smeraldina

all’inizio della pièce, rimanda nuovamente alla matrice orientale: nell’Histoire de Boulaman-

Sang-Hier, prince d’Achem a Sirma, oggetto del desiderio dell’ebreo Isacco Mier, viene fatto

indossare un velo magico, capace di infiammare d’amore chiunque lo vesta; la giovane

tuttavia riesce a resistervi e non cede alle brame dell’uomo325.

322 TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Mondadori, 1976, p. 152,

canto VII, 12: «Tempo già fu, quando più l’uom vaneggia / ne l’età prima, ch’ebbi altro desio / e disdegnai di pasturar la greggia; / e fugii dal paese a me natio, / e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia / fra i ministri del re fui posto anch’io; / e benché fossi guardian de gli orti / vidi e conobbi anch’io le inique corti».

323 MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, a cura di Riccardo Bruscagli, Torino, Einaudi, 1995, t. II, pp. 599-602, libro II, canto IV, ottave 50-61.

324 Ivi, pp. 136-137, libro I, canto VI, ottave 43-46. Per contrasto, la bevanda ricorda anche il liquore che Rinaldo beve, costretto da Malagigi, proprio per recuperare la memoria (FRANCESCO CIECO DA FERRARA, Libro d’arme e d’amore nomato Mambriano, introduzione e note di Giuseppe Rua, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1926, vol. I, p. 115, canto VII, ottava 79). Le proprietà del liquore sono assimilabili a quelle del fiume Lete, e a tale acque secondo Di Francia si riferisce il ferrarese: «e che al fiume Lete pensasse qui il Boiardo ce lo prova anche questo, che il liquore bevuto da Orlando nella coppa offertagli dalla donna, non nasce da una fonte, ma scorre in una riviera» (LETTERARIO DI FRANCIA, Il mostro turchino…, cit., p. 40). Il tema del sacrificio di una vergine ricorre anche nell’episodio boiardesco di Lucina strappata all’orco da Gradasso e Mandricardo e in quello ariostesco di Forisena, figlia del re Corbante, salvata da Olivieri, Rinaldo e Dodone, che si ritrova analogo nel Morgante.

325 Un mantello magico compare anche nel Fabliau du mantel mautaillè in cui però l’indumento, se indossato da una donna non onesta, si accorcia,.

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La lotta intrapresa da Taer contro la scimmia di fuoco e quella di Acmed contro il cavaliere

fatato derivano invece dall’Histoire du Singe couleur de feu: il principe Outzim, disarcionato

dal cavallo e giunto in una grotta, incappa in una scimmia color di fuoco di grandezza umana

che lo incita a distruggere una piccola altura presente nella spelonca, da cui esce un uomo

coperto interamente di lamine e armato che attacca il principe. Dopo essere riuscito a

sganciargli l’elmo, egli lo atterra, ma scopre che all’interno dell’armatura non c’è alcun corpo.

E, ancora, il mago Bizeghel che insidia Dardanè, nominato da Truffaldino, riconduce alla già

menzionata novella Histoire d’Outzim-Ochantey, Prince de la Chine.

Dall’elenco delle fonti o delle suggestioni da cui Gozzi dimostra in modo inequivocabile di

avere attinto, si intuisce già l’originalità dello scrittore nel rimbastire il materiale narrativo a

disposizione per creare un’opera dotata di un nuovo senso, come ampiamente la critica ha

dimostrato per l’Amore delle tre melarance326.

Il caso di Zeim re de’ geni

Il fascicolo di Zeim re de’ geni del Fondo Gozzi comprende due pagine a sé stanti, 19r e 19v,

contenenti la stesura delle prime due scene della fiaba e l’elenco dei personaggi327 con

importanti varianti che lasciano supporre una storia abbastanza diversa da quella poi

effettivamente messa in scena. La differenza più sostanziale, per l’economia e il significato

della trama, è l’assenza del personaggio di Zeim dall’elenco: solo in un secondo tempo Gozzi

avrebbe introdotto questo personaggio, desumendolo dalla novella araba Histoire du Prince

Zeyn Alasnan et du Roy des genies contenuta nelle Mille et une nuits, ed eletto a protagonista

principale e motore della vicenda.

L’elenco dei personaggi, contenuto nelle due pagine citate, fornisce ulteriori informazioni:

Faruc, il padre di Zelica e Suffar, a differenza di quanto accade nella fabula edita, è ancora in

vita e, infatti, il dialogo della prima scena del primo atto, riportato nelle due pagine segnalate,

si svolge proprio tra il «Re padre e la principessa figlia». Esso riguarda la proposta di

326 La vicenda da cui è tratta la storia della prima fiaba gozziana, oltre alla fonte letteraria dello Cunto de li

Cunti, era presente, seppure con minute varianti, in diverse tradizioni orali italiane. Cfr. LUDOVICO ZORZI, Struttura e fortuna della «Fiaba» gozziana, in «Chigiana» 1976, nuova serie, n 11, vol. XXXI, pp. 25-40; ANGELO FABRIZI , Carlo Gozzi e la tradizione popolare: a proposito dell’«Amore delle tre melarance», in Idem Destino dell’antico. Da Dante a Saba, Cassino, Lamberti, 1997, pp. 75-93; MARGHERITA ORTOLANI, Il mistero della fiaba: L’amore delle tre melarance di Carlo Gozzi, in «Filologia antica e moderna», 2001, 20, pp. 73-108.

327 Fondo Gozzi, 4.7, cc. 19r e 19v.

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matrimonio fatta dal principe nemico e il rifiuto da parte della giovane, che si ritrova anche

nella fiaba nota, in cui, però, i personaggi sono Zelica e suo fratello Suffar.

Sempre nell’elenco, accanto al nome di Faruc segue l’apposizione «re di Gur»328, cui succede:

«la famiglia di Faruc sia imbrogliata per le maledizioni della fata». A differenza della fiaba

edita di Zeim re de’ geni in cui la causa delle vicissitudini non è imputata ad alcuna ragione

magica, nel manoscritto la maledizione di una fata, invece, è all’origine della vicenda, come si

ripete anche più avanti, nella presentazione di Zelica, «Principessa figlia di Faruc amante di

Alcouz Re di Divandur. La detta Zelica fu maledetta da una Fata in fasce in presenza della

Madre la quale Madre le disse che non si maritasse etc. e come nella fiaba»329.

Proprio l’ultima annotazione, «come nella fiaba», testimonia il modo in cui Gozzi, in una fase

di prima elaborazione del testo, fosse solito scrivere attingendo direttamente alla fonte

d’ispirazione. Il rimando, in questo caso, come già riscontrato da Luciani330, va alla novella

La vajassa fedele compresa nella Posilecheata di Pompeo Sarnelli, in cui una delle sette fate

invitate al palazzo reale per festeggiare la nascita della principessa, dopo essere caduta

scivolando su gusci di noccioline, maledice la piccola condannandola nella prima notte di

nozze a trasformarsi in una serpe per tre anni, tre giorni e tre minuti, e a rimanere per sempre

in quelle sembianze nel caso non riuscisse a trovare «una vajassa fedele, c’aggia doje sore

cotecune, e sia figlia de na mamma che non aggia, né mamma, né patre, né bavo, né figlie

mascole, e che la facce de la vajassa fedele arresemmeglia tutta a la toja»331. Gozzi riprende il

racconto con qualche significativa variante: nella fiaba edita la schiava fedele è in realtà la

sorella gemella di Zelica rapita da Zeim e allevata in una povera casa, e continuamente

sottoposta a castighi per mettere alla prova la sua lealtà; inoltre la principessa non si trasforma

in un serpente, come nella novella, ma in una tigre, o, come si legge nel manoscritto, in

un’orsa332, forse per esigenze sceniche (un attore poteva facilmente travestirsi da orso), e forse

perché la metamorfosi in una serpe era già stata utilizzata e vista dal pubblico nella Donna

328 La città di Gur è nominata nella novella tartara Histoire de Faruk, in cui viene spiegato il significato nella

lingua persiana (THOMAS-SIMON GUEULLETTE, Les Mille et un Quart d’Heure Contes Tartares, Paris, les Libraires associés, 1753, vol. III, p. 102: «Gur en Persan signifie Asne sauvage»).

329 Fondo Gozzi, 4.7, c. 19v. La stessa formula, «come nella fiaba», compare anche in margine a una scena dell’Augellino belverde nella versione manoscritta contenuta nel Fondo (cfr. ALBERTO BENISCELLI, Nel laboratorio delle Fiabe…, cit., p. 86); ciò avvalora ulteriormente la tesi secondo cui Gozzi fu un abile “sarto” nell’utilizzo delle fonti, in grado di estrapolare dalle letture compiute le parti che poteva immediatamente reimpiegare nella costruzione delle trame delle sue opere.

330 GERARD LUCIANI , Carlo Gozzi, cit., vol. II, p. 525. 331 POMPEO SARNELLI , Posilecheata, a cura di Enrico Malato, Firenze, Sansoni, 1962, p. 79. 332 Alla fine dell’elenco dei personaggi, alla carta 19v, si legge: «Arcano del diventar orsa serbato sino al

punto della scena notturna in cui si cava dalla sposa la serva dal nascondiglio».

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serpente333. Se questi elementi rimangono anche nella versione finale di Zeim, in essa sparisce

invece la maledizione originaria della fata alla bambina che si trova, appunto, nelle pagine 19r

e 19v334, probabilmente eliminata dallo scrittore durante la ridefinizione del concetto di magia

che ha investito la stesura dell’intera fiaba.

Dall’analisi di questi due fogli si può ipotizzare, dunque, che il drammaturgo in origine abbia

in mente una trama più simile a quella della novella di Sarnelli e che però decida, in seguito,

di accorpare questa vicenda a quella di Zeyn narrata nelle Mille et une nuits. Il debito

contratto dal veneziano nei confronti di quest’ultima fonte è evidente fin dalla scelta del nome

del protagonista, anche se esso nell’Histoire du Prince Zeyn Alasnan et du Roy des genies

connota il principe e non il genio, che invece rimane anonimo. La fabula orientale è adottata

quasi fedelmente e addirittura, in Zα del Fondo Gozzi, le statue che il principe Suffar scopre

nel sotterraneo dello studio del padre sono otto, come nel racconto orientale, numero che poi

Gozzi diminuisce a cinque; quanto al palazzo del genio, esso si trova su un’isola, proprio

come nella novella, mentre nella stesura finale è collocato in un bosco.

In questi due fogli, proprio perché Gozzi non aveva ancora attinto al serbatoio delle Mille et

une nuits e all’Histoire du Prince Zeyn Alasnan et du Roy des genies, non risulta, almeno

dall’elenco dei personaggi, che Pantalone, qui nominato semplicemente Magnifico, abbia una

figlia destinata ad essere la fanciulla alla cui ricerca si mette Suffar, che nella versione edita è

Sarchè, ed è presumibile che, essendo consigliere di Faruc, continui ad agire all’interno della

corte e non si sia ritirato in campagna335. Tuttavia, il nome di Sarchè compare nell’elenco dei

personaggi ed anzi sembra rivestire un ruolo importante. Ella infatti è «la principessa

guerriera amante di Suffar, araba incognita, armata da uomo»336, che pur militando nel campo

avversario di Suffar, se ne innamora e lo libera dalla prigionia della mora Canzema; i due non

possono però sposarsi a causa di «nimicizie sanguinose fra le due famiglie»337. Tale

presentazione lascia intravedere lo sviluppo di una trama molto distante da quella della

redazione finale, ricca di travestimenti e di trasformazioni, di ascendenza epico-

333 Cfr. VINCENZA PERDICHIZZI, Didascalie e indicazioni registiche nelle Fiabe di Gozzi, in Carlo Gozzi entre

dramaturgie de l’auteur…, cit., p. 99. 334 L’elemento meraviglioso, in questa primigenia ideazione, si concretizza nella maledizione iniziale alla

famiglia del re, in particolar modo a Zelica, e nella presenza di due fate, Muladina e Gulpenè, i cui nomi derivano rispettivamente da Mulladine dell’Histoire de Boulaman-Sang-Hier, prince d’Achem e da Gulpenhé dell’Histoire d’Outzim-Ochantey Prince de la Chine, entrambe novelle tartare contenute nel Cabinet des fées.

335 Il particolare non è di poco conto se si pensa che l’ incipit della fiaba edita è costituito dal dialogo in cui Pantalone, in palese polemica con i precetti dettati dai filosofi illuministi, convince la figlia a non recarsi nella città, luogo di traviamento, ma a restare nella “naturale” campagna.

336 Fondo Gozzi, 4.7, c. 19v. 337 Ibidem.

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cavalleresca338: afferente proprio a questo genere letterario è il nome, cassato, Brunoro,

amante di Zelica, che rimanda all’omonimo protagonista del Morgante di Pulci, un testo i cui

echi si ritrovano spesso anche all’interno delle altre composizioni fiabesche339 e che Gozzi

amava particolarmente, come dimostra anche l’inedito scritto Notizie, pareri, e riflessioni

sopra il Morgante maggiore di Pulci, contenuto nel Fondo Gozzi340.

Si è detto che il nome Zeim è probabilmente tratto dall’Histoire du Prince Zeyn Alasnan et du

Roy des genies; va ora aggiunto che un altro Zeyn si ritrova nella Statue merveilleuse341 di

Lesage, dove si narrano, appunto, le vicende di Zeyn, re del Cachemire, che, aiutato da

Mobarec, il vecchio visir ritiratosi dalla corte dotato dello stesso nome e dello stesso ruolo

dell’omonimo schiavo liberato dal padre di Zeyn nelle Mille et une nuits, intraprende la

ricerca della fanciulla casta su ordine di Feridon, il re dei geni. Le trame dell’Histoire du

Prince Zeyn Alasnan et du Roy des genies e della Statue merveilleuse fin qui sembrano

sovrapposte perfettamente, impedendo di discernere quale delle due vicende abbia influito

maggiormente su Gozzi; però la pièce teatrale presenta qualche dettaglio interessante, che la

avvicina maggiormente alla fiaba. Anzitutto per l’ambientazione: il regno del Cachemire,

infatti, è in guerra come quello di Balsora del testo gozziano. Il re dei geni di Lesage fa

promettere a Mobarec di aiutare il re, esattamente come Zeim strappa a Pantalone lo stesso

giuramento; inoltre, la figlia di Mobarec rivela d’essere la statua mancante, che il protagonista

deve cercare, esattamente come un’icona di marmo è la figlia di Pantalone. Quest’ultimo, in

Zeim re de’ geni, costringe il principe a mantenere fede al giuramento prestato al genio, di

portargli la giovane donna proprio come nella Statue merveilleuse è Mobarec a incitare il re a

compiere il suo dovere e a consegnare la fanciulla a Feridon, e Sarchè, che alla fine cede alla

338 Il poema cavalleresco, oltre a costituire una fonte per l’atmosfera che traspare da alcuni episodi della

fiaba, è spesso richiamato in modo antifrastico da citazioni testuali: per esempio, Truffaldino in una scena comica in cui finge di essere innamorato di Dugmè, dice le stesse parole che Armida rivolge a Rinaldo dopo la decisione di abbandonarla «ti son scudiero e scudo» (CARLO GOZZI, Zeim re de’ geni, in IDEM, Opere…, cit., p. 817, II, 3 e TORQUATO. TASSO, Gerusalemme liberata, cit., p. 366, canto XVI, ottava 50). Un riferimento allo stesso poema, sempre evocato attraverso l’antifrasi, si è trovato nel Serpente, nella satira che Truffaldino compie riguardo alla vita in città e che termina con il celebre sintagma tassiano «vidi e conobbi anch’io le inique corti».

339 Tale presenza è rilevante soprattutto nell’Amore delle tre melarance in cui parte dell’onomastica, per esempio i nomi di Creonta e Morgana, rinvia al testo pulciano, oltre che l’ottava di apertura della fiaba desunta proprio dal Morgante.

340 Fondo Gozzi, 17.5, cc. 1r-65r: Notizie, pareri, e riflessioni sopra il Morgante maggiore di Pulci, sullo stile del detto Poema, e sulla persona dell’Autore. Opuscolo di Carlo Gozzi da lui scritto, non colla presunzione di persuadere, ma unicamente per alcune sue distrazioni.

341 A. R LESAGE - J. P. D’ORNEVAL, La statue merveilleuse, in Le théâtre de la Foire ou l’Opéra Comique, contenant les meilleures pièces qui ont été représentées aux foires de S. Germain et de S. Laurent, Genève, Slatkine, 1968, t. II, p. 399: «cette Piéce avoit été composée par les Auteurs du Rappel de la Foire à la vie, pour être donnée avec ce Prologue à l’Opéra Comique, dont ils espéroient le rétablissement à la Foire de S. Germani 1719. Mais ce Spectacle demeurant supprimé, ils la farent représenter en prose par la Troupe des Danseurs de Corde du sieur Francisque, qui, ne se voyant pas inquietée par les Comédiens, la joüa à la Foire de S. Laurent 1720».

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volontà paterna di diventare la sposa di un essere non umano, trova perfetta corrispondenza

nelle parole della Rezia di Lesage: «Seigneur [père] il peut disposer de ma main»342.

L’avvicinamento al Théâtre de la Foire da parte del drammaturgo negli anni di composizione

delle fiabe, è graduale: nella Donna serpente (1762) il riferimento è solo di tipo onomastico,

attraverso la menzione del mago Checsaia (Késaia è l’idolo della pièce Arlequin roi de

Serendib)343, nei Pitocchi fortunati (1764) è presente, almeno in parte, a livello contenutistico,

ma è con Zeim re de’ geni (1765) che diventa un modello importante quanto la fonte araba.

Già nei Pitocchi fortunati i rimandi al teatro d’oltralpe non si limitano alla superficie: si pensi

ad Arlequin Hulla ou la femme répudiée, la cui storia, una complicata usanza per riprendere in

sposa la moglie ripudiata, costituisce una delle vicende da cui è composta la fiaba gozziana e

in cui lo stesso appellativo Hulla viene riproposto tale e quale al pubblico italiano per

designare un povero, un pitocco, come ha già ampiamente dimostrato Luciani344. Nella pièce

comica i protagonisti “divorziati” si chiamano Taher e Dardanè, gli stessi nomi che connotano

i due personaggi “alti” del Mostro turchino che, al contrario degli omonimi francesi, sono

stati separati da un crudele destino e affrontano terribili prove per riabbracciarsi.

342 Ivi, p. 420. 343 Cfr. CARLO GOZZI, La donna serpente, in IDEM, Fiabe teatrali, a cura di Alberto Beniscelli, p. 239, nota 2. 344 GERARD LUCIANI , Carlo Gozzi, cit., pp. 509-510.

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Sezione II

PERCORSI INTERPRETATIVI

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La ricezione gozziana nel Romanticismo

Le Fiabe345, tradotte interamente in prosa in tedesco nel biennio 1777-1779 da August

Clemens Werthes346, Theatralische Werke von Carlo Gozzi, aus dem Italienischen

übersetzt347, suscitano l’interesse di Ludwig Tieck, Ernst Theodor Hoffmann, i fratelli

Schlegel, Gotthold Ephraim Lessing, Friedrich Maximilian Klinger, Friedrich Schiller e

Johann Wolfgang Goethe, scrittori che, pur cogliendo alcuni tratti fondamentali dell’opera

gozziana, ne travisano certi aspetti, soprattutto in relazione alla funzione delle maschere.

Tale fraintendimento è imputabile al compito che i romantici si assumono di contestare la

riforma di stampo illuminista del teatro tedesco avviata da Johann Christoph Gottsched (1700-

1766), il quale si era scagliato contro la figura di Arlecchino che, per sua costituzione, negava

il concetto di mimesi e suscitava un riso difficilmente rapportabile a finalità morali348.

345 Le Fiabe non furono le uniche opere gozziane ad essere tradotte: nel 1779 uscì Juliane von Lindorak la versione tedesca della Doride che era stata messa in scena ad Amburgo, nel 1780 le Due notti affannose a Lipsia (Wie man sich die Sache denkt, oder Die zwei schlaflosen Nächte), nel 1781 Friedrich Wilhelm Gotter, epigono di Lessing, traspose in lingua tedesca il Pubblico secreto (Das öffentliche Geheimmis), e, sempre nello stesso anno Werthes come appendice alla già menzionata silloge fiabesca appose anche Die zwei feindseligen Brüder (I due fratelli nimici), nel 1782 Salomon Friedrich Schletter pubblicò la versione tedesca del Cavaliere amico o sia Il trionfo dell’amicizia (Karl von Freystein oder Die Schule der Jünglinge), nel 1784 in occasione della rappresentazione della Principessa filosofa al teatro imperiale di Vienna, uscì Die philosophische Dame, oder Gift und Gegengift. Per una rassegna esaustiva delle opere straniere che furono influenzate dalla produzione gozziane rimandiamo a Bodo Guthmüller e Wolfgang Osthoff, (a cura di), Carlo Gozzi. Letteratura e musica. Atti del convegno internazionale. Centro tedesco di studi veneziani, Venezia, 11-12 ottobre 1995, Venezia-Roma, Bulzoni, 1997 e a Lucilla Castellari, Dal carnevale veneziano al romanticismo musicale tedesco. Da La donna serpente di Carlo Gozzi a Le fate di Richard Wagner, Udine, Campanotto, 2005, pp. 32-33. 346 Cfr. CARLO GOZZI, Lettere, a cura di Fabio Soldini, Venezia, Marsilio, 2004, p. 99, lettera a Giuseppe Baretti, 12 aprile 1777: «[i teatrali capricci miei] resistono ad ogni soffio, e già i volumi della mia Collezione incominciano a scorrere in Germania trasportati nell’idioma Tedesco». 347 La silloge non comprende né Il ragionamento ingenuo né L’appendice al ragionamento ingenuo, considerati invece importanti da Gozzi perché depositari della sua poetica. La scelta di Werthes di non tradurre questi testi è indicativa del modo in cui i tedeschi, e più in generale gli stranieri, recepirono l’opera gozziana: scissa dal contesto in cui era nata e dalle polemiche ivi sottese, fu facilmente trasfigurata e ricondotta alle “teorie” romantiche che proprio allora stavano germogliando: la libertà dalle regole classiche, la commistione tra tragico e comico, la presenza dell’elemento grottesco e la potenza della fantasia, anche se «il miracoloso, il mitico, il soprannaturale, il fantastico erano coefficienti estrinseci e secondari» nel veneziano (CARLO GOZZI, Fiabe, a cura di Ernesto Masi, Bologna, Zanichelli, 1884, p. CXXV). 348 Cfr. RITA UNFER LUKOSCHIK, Riflessioni sulla fortuna di Gozzi in area linguistica tedesca, in Carlo Goldoni e Carlo Gozzi : evoluzione e involuzione della drammaturgia italiana settecentesca: da Venezia all’Europa, Theatralia. Revista de Poética del Teatro, Javier Gutierrez Carou & Jesus G. Maestro (eds.), Pontevedra, Mirabel, 2006, 8, pp. 137- 139.

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Alla “cacciata” di Arlecchino dai teatri reagisce per primo Lessing349, che rivede il significato

del riso: da espressione di un atteggiamento distaccato e superiore con cui deridere i difetti

umani secondo il dettato di Gottsched, esso viene concepito come sfogo naturale dell’uomo

che condivide le debolezze altrui. A questo cambiamento di rotta, si deve aggiungere

l’operazione compiuta da Justus Möser (1720-1794), che nel 1777 pubblica l’autodifesa di

Arlecchino, Harlekin, oder Vertheidigung des Groteske-Komischeen350, la cui eco si ritrova

nelle traduzioni gozziane di Werthes, in cui le maschere della commedia dell’arte declinano

verso il grottesco, “categoria” che, infatti, è presente nei testi romantici tedeschi, ma che non

pertiene alla volontà dello scrittore veneziano:

con Möser essi [i letterati difensori d’Arlecchino] vivranno la “gioia” del Truffaldino gozziano come correttivo

all’eccesso di ragione, ed i drammi del veneziano come adeguati a rispecchiare le vere esigenze dell’animo

umano in cui l’ilarità è componente fondamentale. Il mondo culturale tedesco […] leggerà insomma l’opera

teatrale gozziana come correttivo anti-illuminista nel senso che non invalida ma, nel relativizzarli, ribadisce i

principi fondamentali dell’ideologia da cui scaturisce e di cui si rivela suo elemento costitutivo, avviando quel

processo di dinamicizzazione che solo è atto a conservarne le forze migliori in un continuo tentativo di

autoregolamentazione interna351.

Schlegel si sofferma sull’uso delle maschere352 nelle Fiabe gozziane e conclude che esse

rappresentano «quella parte prosaica dell’umana natura che mette in ridicolo la parte

poetica»353 e costituiscono la personificazione dell’ironia perché controbilanciano l’eccesso

dei personaggi “alti”. Lo scrittore tedesco, che pure elogia Gozzi354 («nonostante l’immensa

349 In realtà Lessing dimostra di conoscere la produzione del veneziano già prima della traduzione tedesca delle Fiabe: infatti, in una lettera datata 28 aprile 1776 al fratello Karl, che intendeva raccogliere le migliori opere italiane in una silloge, gli additò proprio quelle di Gozzi (l’episodio è citato da Masi, CARLO GOZZI, Fiabe, a cura di Ernesto Masi, cit., p. CXXVII). 350 Sulla questione, cfr. RITA UNFER LUKOSCHIK, Riflessioni sulla fortuna di Gozzi…, cit., pp. 141-142. 351 Ivi, p. 143. 352 AUGUST WILHELM VON SCHLEGEL, Lezione IX, in Corso di letteratura drammatica, traduzione italiana con note di Giovanni Gherardini, Milano, Molina, 1844, p. 155: «Bisogna per altro confessare che quest’ultimo genere [le burlette improvvisate e con maschere] non è privo d’interesse per l’osservatore; poiché i tratti più notabili del carattere nazionale e tutte le differenze del linguaggio e di costume vi sono afferrati con una sagacità e con un brio straordinari. Benché sempre si presentino gli stessi personaggi, non è per questo che non vi sia grande varietà d’intrecci: in simile guisa si vede nel giuoco degli scacchi un piccolo numero di pezzi, ciascun de’ quali si muove sempre d’un modo, per dar luogo a una infinità di combinazioni». Una simile opinione è espressa anche da Goethe, che durante il soggiorno veneziano aveva assistito a rappresentazioni della commedia improvvisa: «Queste maschere [quelle della compagnia Sacchi], che da noi si conoscono solo come delle mummie, perché per noi sono prive di vita e non significano nulla, qui invece fanno meraviglie perché sono le espressioni del paese stesso» (J.W. GOETHE, Scritti sull’arte e sulla letteratura, a cura di S. Zecchi, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 56). 353 AUGUST WILHELM VON SCHLEGEL, Lezione IX, cit., p. 156. 354 Lo scrittore tedesco accostò Gozzi a Shakespeare nel frammento Lycaeum der schönen Künste (1797) e ad Aristofane nell’Athenäum (1798).

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distanza che separava questo genio inculto dai grandi maestri nel genere romantico, si sarebbe

dovuto comprendere ch’egli aveva, al pari che essi, afferrata una disposizione fondamentale

della natura umana»355), gli riconosce di avere rappresentato il vero, ma con il limite di essersi

sempre fermato alla superficie356. All’autore delle Fiabe è attribuito il merito inoltre di aver

fatto prevalere, unico nell’Italia del Settecento, i sentimenti dell’onore e dell’amore, in cui si

manifesta l’immaginazione e in cui la parte seria e poetica si trova a convivere con quella

grottesca, rappresentata appunto dalle maschere357.

Proprio tale compresenza di tragico e comico, assieme all’evidente denuncia dell’artificiosità

della pièce gozziana, costituisce uno dei motivi per cui Goethe decide di allestire la Turandot

tradotta in versi da Schiller, Turandot, Prinzessin von China, nel 1802 al teatro di corte di

Weimar358.

Nella versificazione della Turandot, il problema maggiore in cui si imbatte Schiller - che

cambia i tre indovinelli togliendo, ovviamente, quello riguardante la città di Venezia – è

relativo alle maschere: se nel testo italiano esse servono per rompere l’illusione teatrale,

richiamando costantemente lo spettatore all’hic et nunc, in quello tedesco perdono sia

qualunque intento “straniante” sia la connotazione della recitazione all’improvviso e/o in

dialetto, esprimendosi invece come tutti gli altri personaggi359.

Non da ultimo, se Gozzi ha delineato in Turandot e in Calaf rispettivamente le allegorie della

ragione e del sentimento, in una dialettica il cui equilibrio appariva forzato, con il

cambiamento troppo repentino dei sentimenti della protagonista, Schiller focalizza

l’attenzione solamente sull’eroina, che presenta come “amazzone” vendicatrice e simbolo

della libertà delle donne. Inoltre, proprio per smorzare l’improvvisa soluzione finale, lo

scrittore tedesco insinua già nel primo incontro-scontro dei due personaggi alcuni dettagli che

fanno presagire il cedimento dell’eroina all’amore nei confronti di Calaf: in questo modo il

conflitto non è più esterno – Turandot simbolo della ragione versus Calaf incarnazione della

passione e dell’amour-passion – ma interno alla donna (amore versus orgoglio),

apparentandola agli eroi di stampo romantico in preda a una psicomachia tutta interiore.

In realtà, questo aspetto è totalmente estraneo alla poetica di Gozzi: egli, infatti, non intende

delineare i personaggi psicologicamente, né, tanto meno, indaga a fondo sui motivi della

decisione finale di salvare e di sposare Calaf, che, a ben vedere, sono lontani dall’espressione

355 AUGUST WILHELM VON SCHLEGEL, Lezione IX, cit., pp. 156-157. 356 Ivi, p. 155. 357 Cfr. ivi, pp. 156-157. 358 Cfr. SUSANNE WINTER, Tra ragione e passione. Turandot di Carlo Gozzi e di Friedrich Schiller, in «Problemi di critica goldoniana», 2002 [ma 2001], VIII, pp. 223-251; pp. 240-241. 359 Su questo tema cfr. ivi, pp. 241-243.

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d’amore360, ma intende proporre al pubblico personaggi-marionette guidati dalla ragione e

dalla passione, i due elementi su cui erano incentrati molti dibattiti settecenteschi.

È soprattutto Ernst Theodor Amadeus Hoffmann ad accogliere l’eredità gozziana

nell’ispirazione fiabesca sottesa alla produzione di drammi per musica, e, sul piano

drammaturgico, soprattutto nella Prinzessin Brambilla (1821), in cui la commedia dell’arte

diventa l’egida dell’estro creativo e della pura fantasia. Lo stesso sottotitolo dell’opera, un

capriccio alla maniera di Jakob Callot, se da una parte allude alla presenza delle riproduzioni

delle celebri incisioni di Callot delle maschere della commedia dell’arte, dall’altra rinvia

proprio al «capriccio teatrale», una definizione spesso usata da Gozzi in relazione alle proprie

composizioni.

Riferimenti al drammaturgo veneziano si trovano anche in Die Serapionsbrüder (I confratelli

di San Serapione), una raccolta di dialoghi, fiabe e racconti di Hoffmann datata 1819-1820:

nel dialogo, Der Dichter und der Komponist (Il poeta e il compositore) l’opera gozziana è

considerata straordinaria e “romantica” perché in essa si estrinsecano le forze del

soprannaturale e compare la trattazione di temi profondi accanto alla presenza dell’elemento

triviale costituito dalle maschere:

Luigi: Soltanto il poeta geniale, ispirato, può realizzare un’opera genuinamente romantica, perché quegli soltanto

sa trasporre nella vita i fenomeni prodigiosi del mondo degli spiriti… l’influenza esercitata su di noi da esseri

soprannaturali deve estrinsecarsi in fenomeni visibili e dischiudere dinanzi ai nostri occhi un mondo romantico

in cui il linguaggio stesso […] sia musica. […] questo è il compito del poeta geniale, veramente romantico.

Pensa al meraviglioso Gozzi. Nelle sue fiabe drammatiche egli realizzò pienamente ciò che io pretendo dal

poeta-librettista […] c’è in questi fatti [le azioni delle fiabe] una grandezza, di cui i nostri moraleggianti poeti

teatrali che vanno a frugare nelle miserie della vita quotidiana, come nella spazzatura dei saloni, non hanno

nemmeno idea.

Ferdinando: Soltanto in una trama veramente romantica l’elemento comico si sposa così bene con quello tragico

da costituire un tutto omogeneo ed efficace che prenda l’animo dello spettatore in modo così singolare, così

prodigioso…361.

360 Se rileggiamo Turandot infatti, non possiamo non rilevare che la protagonista sembra decidersi per il matrimonio più per pentimento che per vero amore: «TURANDOT: Nessuno funesti più le nozze mie. / (in atto riflessivo) Calaf per amor mio la vita arrischia. / Un ministro fedel morte non cura / per far felice il suo signore. Un altro / ministro, ch’esser puote re, riserva / pel suo monarca il trono. Un vecchio oppresso / vidi pel figlio apparecchiarsi a morte; / ed una donna, che qui meco tenni / amica più, che serva, mi tradisce. / Ciel, d’un aborrimento sì ostinato, / che al sesso mascolino ebbi sin’ora, / delle mie crudeltà, perdon ti chiedo» (CARLO

GOZZI, Turandot, in IDEM, Opere…, cit. p. 333, V, 2). 361 ERNST THEODOR AMADEUS HOFFMANN, Il poeta e il compositore, in IDEM, I confratelli di San Serapione, a cura di C. Pinelli, Torino, Einaudi, 1969, t. II, pp. 71-91.

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L’elemento comico e triviale contenuto nelle Fiabe trova spazio nella riflessione

sull’umorismo compiuta da Jean Paul, e ancora maggiore è l’eco gozziano in Ludwig Tieck,

che trae ispirazione dalle composizioni fiabesche del veneziano, per esempio scrivendo nel

1796 Ritter Blaubart a partire da suggestioni provenienti dalla Zobeide, come egli stesso

ammette nella prefazione, nonostante precisi di comporre secondo la maniera tedesca; inoltre

tracce dell’Amore delle tre melarance e del Mostro turchino si rinvengono rispettivamente in

Prinz Zerbino e Das Ungeheuer und der verzauberte Wald.

Tieck, come Gozzi, sottolinea la finzione della rappresentazione ma, a differenza dell’italiano,

interviene in maniera diretta: nel caso del Gatto degli stivali, oltre al prologo in cui si assiste

allo scambio di opinioni tra alcuni spettatori sulla pièce a cui stanno per assistere, ci sono

scene in cui il pubblico interviene direttamente dalla platea, ora criticando l’esposizione

troppo “piana” e semplice dell’incipit, ora criticando che il gatto parli; i commenti esterni

interferiscono con la vicenda rappresentata362 ottenendo lo stesso effetto straniante delle

maschere di Gozzi che però, non si rivolgono mai all’uditorio, ma restano sempre nella realtà

teatrale, vale a dire che esse parlano e commentano tra loro le vicende in quanto personaggi

della storia.

L’accentuazione degli aspetti romantici di Gozzi viene portata avanti dal saggio monografico

di Franz Horn apparso nel 1803, che individua l’espressione del sublime nelle fiabe

gozziane363.

Proponendosi di combattere ogni pregiudizio e ogni conoscenza non fondata sulla ragione,

l’Illuminismo aveva dissolto l’interesse per le realtà soprannaturali e in alcuni casi aveva

ridotto al controllo dell’intelletto la fantasia e il sentimento umano364. Al di sotto della

tendenza dominante comunque, nacquero correnti divergenti e talora opposte, soprattutto

attente all’ambito religioso (per esempio la corrente del pietismo che predicava una

spiritualità individuale e interiore e le sette teosofiche che vedevano nel mondo un

insondabile legame tra tutte le cose). Emblematico è il caso di Rousseau – uno dei filosofi a

cui Gozzi si riferisce spesso – che, pur appartenendo al movimento illuminista, ha una visione

molto personale del concetto di natura e dell’io e per il quale il progresso e la scienza non

362 Si pensi anche al Mondo alla rovescia in cui compaiono le maschere che però o non vogliono recitare la loro parte, esigendone una tragica (Scaramuccia), o decidono per una volta di essere spettatori andando a sedersi in platea (Pierrot), nonché ai continui riferimenti a copioni, suggeritori, interventi di macchinisti di cui l’intero testo è colmo. 363 Cfr. S. MARTINETTI, Gozzi e i musicisti romantici tedeschi, in «Chigiana», Rassegna annuale di studi musicologici, 1974, vol. XXXI, 11, p. 80. 364 Cfr. MARIO PUPPO, Tendenze antilluministiche, in IDEM, Il Romanticismo, Roma, Edizioni Studium, 1994, pp. 18-22. Inoltre, sulle correnti sotterranee si veda FURIO JESI, Mitologie intorno all’Illuminismo, Bergamo, Lubrica, 1990.

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costituiscono il massimo dei beni per l’umanità. Egli si fa portatore dell’istanza di recuperare

gli istinti e, soprattutto nell’Emilio, espone il punto più controcorrente della poetica dei Lumi,

individuando nella riflessione l’origine della corruzione e dell’infelicità dell’uomo, tesi

prossima a quella esposta da Pantalone alla figlia Sarchè proprio nell’incipit di Zeim re de’

geni365.

Il Romanticismo tende ad esaltare il valore del sentimento, e in particolare dell’amore, non di

rado interpretato come occasione per l’uomo di tornare ad essere armonico e unitario. In

questo contesto, la donna è vista come creatura capace di avvicinarsi alla perfezione in quanto

più incline a sentire e a seguire la propria parte irrazionale e diventa lo strumento attraverso

cui l’uomo compie un cammino di formazione. Basti pensare a Das Käthchen von Heilbronn

di Kleist in cui la protagonista, dopo avere fatto un sogno mantico sull’uomo che è destinata a

sposare, lo incontra ed è disposta anche a farsi maltrattare pur di seguire l’illuminazione che

la Grazia le ha concesso366. Per suo tramite, l’amato raggiunge l’Ideale. Nel balletto Giselle la

protagonista costituisce l’Ideale verso cui tende Albrecht. Analogamente nella Donna

serpente Cherestanì, essendo fata, è perfetta, e Farruscad compie un cammino fisico e

simbolico grazie alla donna.

L’amore è esperienza cardine attorno a cui ruota l’esistenza umana ed è anche il tema centrale

di tutte le Fiabe gozziane, che lo declinano in diversi modi: dall’amour-passion di Calaf – e,

per certi versi, anche di Farruscad – a quello che, mancando l’oggetto del desiderio, degenera

in malattia in Millo nel Corvo, da quello puro e docile di Angela nel Re cervo e nei Pitocchi

fortunati, a quello “sbagliato” di Zobeide nell’omonima fiaba, che si lascia ingannare dalle

false apparenze del malvagio Sinadabbo.

Nelle composizioni gozziane trova spazio anche la presentazione dell’amore coniugale:

Angela e Deramo nel Re cervo, Cherestanì e Farruscad nella Donna serpente, Angela e Usbec

nei Pitocchi fortunati, Dardanè e Taer nel Mostro turchino sono tutte coppie sposate messe

alla prova dal Fato in quanto a fedeltà e a costanza; e, nonostante le accreditate idee sociali di

stampo conservatore del drammaturgo, ci sembra rilevante notare la non appartenenza al

rango principesco di Angela, protagonista delle due fiabe citate che, non solo si unisce in

matrimonio con un re, ma lo aiuta anche nella riconquista della posizione perduta367.

365 Per un puntuale esame si rinvia al capitolo Zeim re de’ degni del presente lavoro. 366 Cfr. ELENA RANDI , Il viaggio di formazione nella Käthchen von Heilbronn kleistiana, in IDEM, Percorsi della drammaturgia romantica, Padova, Utet Università, 2006, pp. 25-45. 367 Nel Re cervo Angela smaschera Tartaglia consentendo al marito, trasformato in vecchio, di riprendere le proprie sembianze di re, mentre nei Pitocchi fortunati la donna aiuta Usbec ad ingannare il perfido Sadì. Va altresì notato che entrambe le protagonista sono state precedentemente messe alla prova: nel Re cervo Angela, parlando con sincerità, non è incappata nella risata della statua magica, rivelatrice di menzogna, mentre nei

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Generalmente le opere romantiche condividono con le Fiabe la stessa ambientazione

indefinita e certamente non realistica: si pensi al Medioevo evocato da Novalis, all’antica

Grecia vagheggiata da Hölderin, o, ancora, alla natura incontaminata dell’America del Nord

delineata da Chateaubriand.

Inoltre, componente fondamentale della poetica romantica è l’ironia, che indica una sorta di

elevazione dello spirito dell’artista dalla propria opera che gli consente di vederla per quello

che è, vale a dire una finzione, un concetto, questo, fondamentale anche nella poetica

gozziana e che reperiamo nel Gatto con gli stivali di Tieck, in cui gli attori stessi ironizzano

sulla pièce.

Almeno negli intenti, l’orientalismo gozziano è molto diverso da quello goldoniano della

“trilogia persiana” (1753-1756) evocato, secondo il conte, con il solo scopo di attirare più

pubblico368, anche se dobbiamo ricordare il concomitante passaggio dal teatro Sant’Angelo al

più spazioso San Luca che poteva essere motivo di rinnovamento nel repertorio, nonché le

raccomandazioni di Vendramin a scrivere «commedie teatrali» e non solo di parole369. Le

atmosfere esotiche consentono una ricca e inusuale scenografia, nonché la possibilità offerta

al drammaturgo di trattare il tema di una passione cieca e violenta370 – peraltro giudicata

scandalosa da Gozzi che definisce la commedia «specchio lascivo di bigamia e di lussuria»371

- in un altrove lontano. Nelle Fiabe l’orientalismo concerne più propriamente il genere

fiabesco e i nomi delle città e dei personaggi, desunti dalla tradizione letteraria e da quella di

viaggio, designano immediatamente un altro mondo:

Pitocchi fortunati la protagonista rimane fedele al marito anche dopo avere scoperto che non è re. In Zeim re de’ geni Sarchè, figlia di Pantalone sposa il principe Suffar solo dopo aver acconsentito alla necessità di diventare moglie del genio. A ben vedere nelle Fiabe è solo la schiava Gulindì, sposa del re Faruc nel Mostro turchino, a essere considerata indegna della posizione che occupa, ma Gozzi si premura di sottolineare il carattere negativo e infedele della donna e di addurlo a vero motivo della sua riprovazione nei confronti della donna. 368 CARLO GOZZI, Teatro comico all’Osteria del Pellegrino, in IDEM, Opere edite ed inedite non teatrali, Venezia, Zanardi, 1805, t. I, p. 182 :«[la terza bocca del mostro] fingeva personaggi eroici di paesi lontani, di costumi, e di leggi non conosciute dal popolo, e qui con le novità faceva nascere curiosità nella gente la quale si ravviluppava di nuovo». 369 Cfr. DINO MANTOVANI , Carlo Goldoni e il Teatro di San Luca a Venezia, Carteggio inedito (1755-1765), Milano, Treves, 1885, p. 117. 370 L’ambientazione delle vicende in luoghi lontani ed esotici era una scelta compiuta anche da Tasso che per il Torrismondo (1587) dichiarò di aver preferito un posto lontano e poco conosciuto per permettersi una maggiore libertà creativa e narrativa (TORQUATO TASSO, Discorsi dell’Arte Poetica e del Poema Eroico, a cura di L. Poma, Bari, Laterza, 1964, libro II, p. 109: «Dee dunque il poeta schivar gli argomenti finti, massimamente se finge esser avvenuta alcuna cosa in un paese vicino e conosciuto, e fra nazione amica, perché fra’ popoli lontani e ne’ paesi incogniti possiamo finger molte cose di leggieri senza toglier autorità alla favola. Però di Gotia e di Norveggia e di Suevia e d’Islanda o dell’Indie Orientali o di paesi di nuovo ritrovati nel vastissimo Oceano oltre le Colonne d’ Ercole si dee prender la materia de’ sì fatti poemi»). 371 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit. Sulla questione cfr. MARZIA PIERI, Introduzione, in CARLO GOLDONI, La sposa persiana. Arcana in Julfa, Arcana in Ispana, a cura di Marzia Pieri, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 19-22, pp. 62-63 nota 28 e p. 68, nota 38.

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in confronto con l’ambiente orientale goldoniano quello gozziano è privo di informazioni sulla vita quotidiana,

sui costumi e abitudini sociali, sulla lingua […] la realtà remota della fiaba teatrale è quella fiabesca. Non

valgono dettagli particolari, perché la fiaba si svolge per definitionem in spazi e tempi lontani non o poco

precisati372.

Proprio il Märchen, la fiaba, diventa uno dei generi letterari più diffuso perché è espressione

della fantasia ed un gioco, uno “scherzo” assimilabile alla partitura musicale, analogia

espressa soprattutto da Novalis. Considerando il totale delle Fiabe, dieci, è ragguardevole il

numero delle riduzioni operistiche compiute a partire da esse, tra cui spiccano La donna

serpente di Casella, Turandot di Busoni e di Puccini, Il re cervo di Werner Henze, L’amore

delle tre melarance di Prokof’ev, Il corvo di Emanuel Schikaneder e le Die Feen (Le fate) di

Richard Wagner, oltre ai balletti di cui L’amore delle tre melarance di Giulio Cesare

Sonzogno su libretto di Renato Simoni (1936) costituisce l’esempio più importante.

Die Feen, scritta tra il 1833 e il 1834, quando Wagner aveva solo vent’anni373, si concentra in

prevalenza sulla figura femminile di Ada: fata, disposta a rinunciare ai privilegi del suo regno

per amore, nonostante la disubbidienza del marito, Arindal, che infrange il patto di non

chiederle l’identità, mostra di avere piena fiducia nell’amato, che invece appare debole,

incapace di reagire davanti alla perdita della moglie. Proprio come Farruscad, egli riesce a

superare le prove imposte solo perché spinto dall’amore, sentimento che si configura dunque

come mezzo per elevare gli uomini a un mondo superiore (la figura salvifica della donna

ricorre anche in altre opere wagneriane, per esempio Senta si sacrifica in Fliegender

Holländer ed Elisabeth dona la propria vita alla Vergine per salvare Tannhäuser nell’ opera

omonima374).

Die Feen è esemplificativa della revisione in chiave “romantica” apportata dal tedesco: il

cambiamento più sostanziale, riguardante il finale, prevede che la fata, trasformata in pietra,

sia liberata dall’incantesimo grazie al canto di Arindal, e che insieme siano poi accolti dal re

delle fate in un mondo soprannaturale; dunque il potere della musica, arte somma, non solo

372 SUSANNE WINTER, Dalla “commedia di carattere orientale” alla “fiaba orientale teatrale”. Orientalismi goldoniani e gozziani, in Carlo Goldoni e Carlo Gozzi. Evoluzione e involuzione della drammaturgia italiana settecentesca…, cit., p. 231. Per l’argomento si veda anche FELICE DEL BECCARO, L’esperienza esotica del Goldoni, in «Studi goldoniani», 5, 1979, pp. 62-101. 373 Wagner era venuto a conoscenza dell’opera gozziana tramite lo zio Adolf, che aveva tradotto la fiaba del Corvo (Der Rabe) nel 1804. 374 Un altro elemento ricorrente nell’opera wagneriana è il fuoco purificatore: in Die Feen, come nella Donna serpente esso serve per bruciare la natura immortale dei figli, ma l’elemento si rintraccia anche nel Ring des Nibelungen allorché Brünnhilde, non più valchiria ma donna, chiede di essere circondata da un muro di fiamme oltrepassabile solo da un eroe, Siegfried.

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riesce a invertire la metamorfosi, ma permette anche all’uomo, novello Orfeo, di accedere

all’immortalità375.

Un aspetto travisato dell’opera del veneziano riguarda le scene a soggetto, ovviamente

estranee alla prassi tedesca; Wagner, per esempio, individua nella scrittura abbozzata

gozziana la manifestazione originaria dell’arte:

il geniale Gozzi dichiarava impossibile prescrivere la rappresentazione di certi caratteri delle sue commedie in

prosa, e meno ancora in versi, e si limitava a indicare l’argomento delle scene. Seppure con ciò si risalga ai

primordi dell’arte drammatica, si tratta precisamente dei primordi di un’arte vera alla quale, nella sua

susseguente evoluzione, si deve poter sempre ritornare, se non si vuole che il fondamento dell’arte si dissolva in

vano artificio376.

L’esempio di Die Feen permette di evidenziare un tema ricorrente nelle opere romantiche,

l’unione di un essere soprannaturale con un mortale, tra mondo superiore e umano proposto

anche nella Donna serpente: si pensi, in ambito tedesco, a Undine di Hoffmann tratto

dall’omonimo racconto di Friedrich de la Motte-Fouqué, al wagneriano Lohengrin – in cui

Elsa viene punita per la curiositas come Farruscad - o, in quello francese, soprattutto ai

balletti377.

375 Sul confronto puntuale tra le due opere si veda Lucilla Castellari, Dal carnevale veneziano al romanticismo musicale cit., pp. 87-96. 376 Richard Wagner, Nel mondo degli attori, in Ricordi, battaglie, visioni, traduzione di Ervino Pocar, prefazione di Massimo Mila, Milano / Napoli, Ricciardi, 1995, p. 443. 377 Per alcuni esponenti del Romanticismo, per esempio Stendhal, il balletto è considerato la migliore arte con cui esprimersi perché la musica, linguaggio immediato, sorregge il gesto (Cfr. ELENA RANDI , Balletto e teatro nel pensiero di Stendhal, in IDEM, Anatomia del gesto. Corporeità e spettacolo nelle poetiche del Romanticismo francese, Padova, Esedra, 2005, pp. 15-55).

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Istanze romantiche negli scritti di Gozzi

La scelta del genere fiabesco come esordio teatrale in Gozzi non è casuale e si pone già come

una presa di posizione, nella forma adottata e nei titoli puerili, all’interno della querelle con

Goldoni, il quale pretendeva la verosimiglianza della storia proposta nei testi teatrali. Al

teatro “realistico” Gozzi oppone la fiaba, per sua definizione a-temporale, a-spaziale e

strutturata per tipi fissi (le “funzioni” proppiane). Egli sceglie un genere esplicitamente e

dichiaratamente finto, in cui è superfluo domandarsi se la vicenda rappresentata sia più o

meno verosimile perché «in questa forma l’elemento prodigioso non è prodigioso, ma

ovvio»378. La “naturale” convivenza di realtà e di irrealtà è per Tzvetan Todorov il segno che

differenzia il fiabesco dal fantastico379: in quest’ultimo infatti si registra almeno un momento

di sconcerto nel verificarsi dell’avvenimento straordinario, esitazione che i personaggi delle

Fiabe non mostrano di avere380.

Lo scontro relativo al concetto di verosimiglianza interessa i due drammaturghi più che altro

per i risvolti educativi che esso comporta. Vediamo le teorie di Gozzi al proposito. Con le

Fiabe egli dimostra che, nonostante il pubblico sappia bene di assistere a uno spettacolo,

dunque a una finzione, partecipa emotivamente alla vicenda favolosa, esattamente come a

quella più realistica di stampo goldoniano o del dramma flebile381 importato dalla Francia:

378 André Jolles, Forme semplici. Legenda sacra e profana, Mito, Enigma, Sentenza, Caso, Memorabile, Fiaba, Scherzo, Milano, Mursia, 1980, p. 224. 379 Roger Caillois, Nel cuore del fantastico, con una postfazione di G. Almansi, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 90-92: «Il fantastico manifesta uno scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo della realtà […] Il fantastico è dunque rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile all’interno dell’inalterabile legalità quotidiana, e non sostituzione totale di un universo esclusivamente prodigioso all’universo reale». 380 Rosalba Campra propone una definizione di “fantastico” legata al concetto di limite: «Appare quindi come preliminare al fantastico, in questo senso, la nozione di frontiera, di limite non valicabile per l’essere umano. Una volta stabilita l’esistenza di due statuti di realtà, l’attuazione del fantastico consiste nella trasgressione di questo limite, per cui il fantastico si configura come azione» (Rosalba Campra, Il fantastico: una isotopia della trasgressione, in «Strumenti critici», anno XV, 45, fascicolo 2, giugno 1981, p. 204) e, ancora, sottolinea che mentre la realtà percepita con i sensi laddove chiaramente ingannatrice (per esempio il sole gira) può essere controreplicata dalla verità scientifica (è la terra che gira) - e quindi esiste solo una verità – così non si verifica per il fantastico: «nella letteratura fantastica lo sfasamento si crea a partire da altri parametri: tutto è nell’esperienza, e tutto viene presentato come verità, ma le verità sono discrepanti. Si possono cos’ avere diverse definizioni della realtà: da parte del personaggio (protagonista o testimone), da parte del narratore, da parte del destinatario (in quanto presenza esplicita o implicita nel testo)» ivi, pp. 209-210. 381 Per le critiche rivolte al dramma flebile e alla “tragedia urbana” cfr. Carlo Gozzi, Manifesto dedicato a’ magnifici signori giornalisti, prefattori, romanzieri, pubblicatori di manifesti, e foglivolantisti dell’Adria , Venezia, Colombani, s.d. (ma in realtà 1772) e Carlo Gozzi, Prefazione al Fajel, tragedia del signor d’Arnaud tradotta in versi sciolti dal conte Carlo Gozzi, Venezia, Colombani, 1772.

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ma se l’effetto di questi [i drammi flebili, che fanno ridere, e piangere] sarà il far ridere, il far piangere, e il tener

fermo un uditorio, non si nieghi, che con una buona morale io non abbia cagionati gli spessissimi effetti col

Corvo, colla Donna serpente, col Mostro turchino, colla Donna Elvira, e con altro; e mi riservo a provare, ch’io

ebbi il coraggio di andar più innanzi colle mire di educazione nelle mie fiabe, che non andarono i drammatici

della flebilità, e che le mie fiabe, quali si sieno, sono più originali, e più nuove nell’indole de’ drammi flebili382.

Il drammaturgo con le Fiabe crea un mondo “altro”, in cui regna e trionfa la virtù383,

differente da quello quotidiano e lo può connotare in modo verosimile proprio perché ne ha

già dichiarato la finzione, additandolo come fiaba. Egli persegue l’«illusione d’una verità»384:

È palese a me, e dè palese a’ saggi imparziali conoscitori del vero, la fatica, e lo studio, che usai in que’ dieci

sterilissimi argomenti, perché riuscissero opere non indegne d’un pubblico, e cogl’intrecci, e coll’invenzione

delle forti circostanze, e co’ colori di verità, e colle utili, e chiare allegorie, e co’ Sali, le facezie, le morali

critiche osservazioni sui costumi, l’eloquenza possibile, e finalmente con quegl’ingredienti necessari a dare

aspetto di verità ad una fola, a tenere fermo per tre ore un uditorio dotto, ed indotto con un universal sofferenza,

ed approvazione385.

Gozzi osserva che se qualunque pièce, anche la più “realistica”, è già di per sé una finzione,

quella fiabesca lo è ancora di più, il che comporta, per lui, un impegno e uno sforzo superiore

da parte dei comici, che devono doppiamente ingannare il pubblico, recitando con il fine di

mostrare una verità che non esiste:

382 Carlo Gozzi, Ragionamento ingenuo, a cura di Alberto Beniscelli, Genova, Costa & Nolan, 1983, p. 75. 383 Come per Gozzi, anche per Ariosto la fantasia non mira dunque alla fuga dalla realtà, ma alla creazione di una dimensione altra, in questo caso poetica, che della realtà rappresenti le proporzioni, seppure in una scala maggiore e con più libertà. A differenza del suo predecessore Boiardo, lo scrittore ferrarese concepisce il mondo cavalleresco non come un paradigma attraente e lontano, ma come una finzione letteraria della quale celebrare i valori ancora attuali, soprattutto l’eroismo e l’amore. Simile è la concezione sottesa alla scrittura delle fiabe gozziane: infatti, per il drammaturgo, esse non costituiscono un semplice spettacolo d’evasione e d’intrattenimento, né si limitano a rinviare ad un mondo “altro”, lontano in quanto fiabesco, ma si propongono di costruire, proprio attraverso la finzione teatrale, questo altro e “alto” universo, in cui a muovere i personaggi che lo popolano sono valori e sentimenti nobili, come l’onore e l’amore. 384 Carlo Gozzi, Memorie inutili, cit., pp. 418-419: «Ridendo io delle loro [delle schiere nimiche] vane diseminazioni, proposi pubblicamene che la forza dell’apparecchio, i gradi della condotta, l’arte rettorica, e l’armoniosa eloquenza, potevano ridurre un puerile falso argomento trattato in aspetto serio, all’illusione d’una verità». 385 Carlo Gozzi, Ragionamento ingenuo, cit., p. 88. Il corsivo è nostro. Sulla presenza a teatro del pubblico più colto si vedano anche le seguenti dichiarazioni gozziane: «Per tenere ferme in un teatro con piacere per tre ore otto, o novecento persone di colta, e d’incolta maniera di pensare» (Carlo Gozzi, Prefazione alla Turandot, in Carlo Gozzi, Opere, Venezia, Colombani, 1772, t. III, p. 12). E, ancora «Le schiere nimiche si ingegnavano a deridere la mia Fiaba [L’amore delle tre melarance] con de’ freddi scherzi, ostentando della nausea letteraria, e un zelante disprezzo. Addicevano che tale scenica azione non era che una triviale buffoneria da plebaglia, dimenticandosi che il cetto nobile ed educato l’aveva intesa, gustata e goduta» (Carlo Gozzi, Memorie inutili, cit., p. 418).

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tuttoché la truppa Sacchi in quel tempo, affidando tutta la sua fortuna al caricato ridicolo delle valenti maschere,

fosse assai sfornita di comici capaci a sostener colla necessaria compostezza, sentimento, e bravura, le parti

serie, le quali in un falso argomento hanno il doppio bisogno, che in argomento verisimile, d’una comica

particolare abilità, che aiuti a dipingere in esse quella verità, che non rinchiudono386.

Il dibattito sulle Fiabe che ancora infiamma i letterati a fine Settecento, a distanza dunque di

trenta-quarant’anni dal loro successo, è significativo: Gozzi aveva in un solo colpo dimostrato

la fallacia e l’inconsistenza di tutte le teorie teatrali che additavano l’imitazione del quotidiano

come presupposto necessario per l’immedesimazione e l’educazione, sconfitta che non poteva

essere accettata facilmente, come dimostrano le parole infiammate di Alessandro Pepoli nel

1796:

Quanto al vero, al verisimile, e al probabile rispettabili, proverei a quel Cavaliere [Gozzi], che l’arte poetica la

quale ha l’industria di dipinger per verità delle impossibilità, e d’intrattenere in un pubblico Teatro le intere

popolazioni erudite, e ineducate, coltamente e moralmente, nel pianto, nel riso, e nell’interesse per più, e più

rappresentazioni, com’egli confessa, non è arte poetica da sbandire dal Parnaso387.

Il vero, il verosimile e il probabile sono categorie che rimandano alla querelle sulla necessaria

verosimiglianza delle vicende rappresentate in teatro, disputa che inizia nel Cinquecento, a

partire dalle prime traduzioni italiane della Poetica aristotelica.

Benché Gozzi ritenga sia compito del teatro suscitare le emozioni degli spettatori, non si

nasconde l’artificiosità di qualunque pièce, come già l’incipit del Ragionamento ingenuo

rileva:

pretendiamo di ridere, di piangere, e di meravigliarci vedendo rappresentare fintamente ne’ teatri delle vicende, e

delle azioni umane, e inumane. Pagando all’uscio, spesso a caro prezzo, il posto e sofferendo infinito disagio,

siamo desiderosissimi in traccia d’essere scossi d’alcuno di questi effetti388.

Il desiderio degli spettatori, poeta compreso, è di provare emozioni, ed esse possono scattare

davanti a una pièce realistica quanto dinanzi ad una fantastica. Lo conferma la lettera di uno

spettatore del Corvo riportata dall’«Osservatore veneto» in data 28 ottobre 1761, in cui egli

386 Carlo Gozzi, Prefazione alla Turandot, in Carlo Gozzi, Opere, Venezia, Colombani, 1772, t. III, p. 12. Il corsivo è nostro. 387 Alessandro Pepoli, Breve comento, notizie, e riflessioni sopra al sesto frammento [tratto dalla Dissertazione sull’utilità, sulle invenzioni, e sulle regole della Fisedia del Nobil Sig. Co. Alessandro Pepoli], Venezia, Curti, 1796, p. 168. Il corsivo è nostro. 388 Carlo Gozzi, Il ragionamento ingenuo, cit., p. 52. Il corsivo è nostro.

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ammette di avere sentito que’ movimenti, ossia le emozioni, che solitamente vengono suscitati

dalla tragedia, pur essendo consapevole di assistere a una vicenda impossibile ad accadere:

Sono stato a vedere una e due volte la rappresentazione del Corvo. Comecché in essa si veggano rappresentate

molte cose le quali si sa che sono impossibili ad accadere, non posso negarvi che l’animo mio non ne sia rimasto

ingannato a segno che m’è convenuto a forza sentire que’ movimenti che si provano al recitare d’una tragedia.

Di tali componimenti io non sono punto intendente. Qualche ragione pur vi dee essere dell’effetto ch’essa fa

sull’animo degli spettatori. Se non vi rincresce l’entrare in tali argomenti, favoritemi di qualche risposta,

accertandovi che io ve ne sarò obbligato389.

Attraverso l’analisi delle ossature delle Fiabe, abbiamo dimostrato che le parti affidate a

Truffaldino, Brighella, Tartaglia, Pantalone e Smeraldina, in larga misura erano già state

delineate dall’autore e abbiamo incrinato il ritratto di difensore della commedia

all’improvviso offerto da lui stesso, ipotizzando che esso fosse il risultato della noluntas

gozziana. La ragione della presenza delle maschere nelle composizioni fiabesche va quindi

ricercata altrove e può essere ricondotta al dibattito sull’illusione, sulla verosimiglianza e

sulla verità richieste al testo drammatico.

Nelle maschere la critica moderna ha individuato l’espressione del punto di vista dell’uomo

comune, privo degli alti slanci passionali distintivi dei protagonisti fiabeschi, nonché del buon

senso, incarnato soprattutto da Pantalone. Le maschere, inoltre, eserciterebbero la funzione di

richiamare gli spettatori / lettori all’hic et nunc, facendo riferimenti a persone e a luoghi

realmente esistenti.

Gli esempi sono molteplici ma ci limitiamo a proporre una campionatura di figure note nella

realtà veneziana del tempo: “Chiara matta” (nel Re cervo), “el strolego Cingarello” (in

Turandot), “la scimia del Padoanello” (nel Mostro turchino), “‘I Masgomieri e il Cavalier

Burri” (nella Donna serpente); di località della laguna e veneziani: “Caorle, Mazorbo,

Portobuffolè” (nel Mostro turchino), “Bragola” e “calle de’ Corli” (nell’Augellino belverde);

di feste tipiche: la Regata storica (nell’Augellino belverde); di canzonette veneziane (nel

Mostro turchino e in Zeim re de’ geni).

Nel Corvo si fa riferimento alla provenienza veneziana fittizia della maschera di Pantalone,

citando anche località della laguna:

Jennaro: Pantalone, io mi credei perduto a così orribile burrasca.

Pantalone: Come! Sala da che paese sia mi?

389 Gasparo Gozzi, Scritti scelti, a cura di Nicola Mangini, Torino, Utet, 1967, p. 543.

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Jennaro: Sì, dalla Giudeca di Venezia; me l’avrete detto mille volte.

Pantalone: Mo dassenazzo, che, dove ghe xe Zuechini, no pericola bastimenti. Ho imparà a mie spese. Do

pieleghi, e un trabaccolo ho rotto da Malamocco a Zara per imparar el mestier390.

Nel Re cervo il riferimento all’attualità – Chiari all’epoca dirigeva la «Gazzetta veneta» -

attraverso la menzione di “Madama la gazzetta” è correlato, in sede di stampa, da

un’opportuna nota esplicativa dell’autore391:

Pantalone: Vado a dar parte con quattro righe a mio fradello Boldo a Venezia delle mie esaltazion. Si ben che sta

novità anderà su madama la gazzetta, nonostante vogio scriver una madama lettera, e metterla a madama la

posta392.

Nella stessa fiaba ben più corposa è l’irruzione della realtà del tempo: sul palcoscenico,

infatti, appare il personaggio Cigolotti, un noto cantastorie veneziano393, che funge da prologo

alla vicenda e che ancora ricompare, trasformato in statua, nell’Augellino belverde, insieme ad

un altro “novellatore”, Cappello.

Nella Donna Serpente appare uno squarcio della vita veneziana settecentesca allorché

Antonio Sacchi, il celebre Truffaldino, vestito come un venditore di gazzette, si presenta sulla

scena per riferir, per «la vil moneta di un soldo»394, le notizie riguardanti la battaglia della

città di Teflis. Il pubblico, in questo modo, riconosce immediatamente sul palcoscenico una

figura tipica della propria realtà quotidiana. Il successo che ebbe questo espediente è ricordato

dallo stesso Gozzi nella Prefazione alla fiaba, dove riporta la notizia che i venditori veneziani

di gazzette decisero di sfruttare questa suggestione e si appostarono all’uscita del teatro a

smerciare «la relazione de’ gran casi avvenuti nella Donna serpente»395. Nello stesso episodio

si intravede l’ammiccamento gozziano agli spettatori veneziani: Brighella allude

polemicamente all’usanza tipica nella città lagunare di “gonfiare” le notizie per vendere più

copie delle gazzette («Truffaldino: Che gli scrittori, e gli stampatori, quando si tratta di

guadagnare sono saette. Brighella: Che in quella città venderà poche relazioni alle genti già

390 Carlo Gozzi, Il corvo, in Carlo Gozzi, Opere, a cura di Giuseppe Petronio, cit., p. 435, I, 2. 391 Idem, Il re cervo, in Carlo Gozzi, Opere, a cura di Giuseppe Petronio, cit., p. 567, I, 13: «Alludesi alla gazzetta, che scriveva in quel tempo il Signor Abate Chiari, appellandola madama la gazzetta» . 392 Ibidem. 393 Ivi, p. 555, I, 1: «Questo [prologo] era d’un vecchio, appellato Cigolotti, notissimo in Venezia, d’una grottesca figura, solito formare de’ rigoletti nella Piazza di S. Marco, e a narrare al popolo le maraviglie degli antichi Romanzi, e de’ Negromanti, con una voce molto grossa, una goffa gravità, e un miscuglio di spropositi infiniti, nel suo linguaggio, ch’egli affettava toscano». 394 Carlo Gozzi, Prefazione alla Donna serpente, in Carlo Gozzi, Opere, Carlo Gozzi, Opere, Venezia, Colombani, 1772, t. III, p. 132. 395 Ivi, p. 254, III, 3.

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tutte infornate del successo. Lo consiglia ad andare a Venezia ad intruonar con le grida il capo

a chi passa, che venderà molte relazioni. Truffaldino: Che per venderle a Venezia converrebbe

aggiungere alla relazione trenta volte il doppio di successi»396).

Per procurare diletto allo spettatore, Gozzi ne calamita l’attenzione ora sulle vicende

rappresentate, facendolo immedesimare nei personaggi principali, ora, al contrario, sul

carattere artificiale della rappresentazione397, la cui falsità è esplicitata dal titolo stesso,

“fiaba” appunto, e dai frequenti richiami alla realtà cittadina del tempo, affidati alle maschere.

In pratica, le Fiabe alternano momenti di “risucchio” emotivo del pubblico, ad altri, concepiti

per distanziarlo dalle vicende rappresentate offrendogli uno spazio di distacco riflessivo.

Le maschere assolvono il compito di farsi portavoce della poetica gozziana in relazione al

contesto culturale dell’epoca, soprattutto letterario, attraverso riferimenti metateatrali, resi

sempre in chiave ironica e satirica. I bersagli preferiti sono gli avversari di sempre, Goldoni e

Chiari; all’esperimento di quest’ultimo di far parlare le maschere in versi fa riferimento Gozzi

quando, in una scena del Corvo, presenta Truffaldino in atto di leggere una sentenza legale in

endecasillabi con tono esageratamente ampolloso. Anche la cultura illuminista è spesso

avversata in chiave parodistica: per esempio è il linguaggio forbito tipico dell’epoca ad essere

preso di mira nel discorso grondante di retorica e pronunciato in versi da Tartaglia e Brighella

per proporre la pace alla regina usurpatrice Canzema in Zeim re de’ geni. Il dialogo non miete

alcun effetto positivo, ma anzi rischia di procurare alle due maschere l’amputazione della

lingua. O, ancora, alla concrete e coeve critiche alle commedie all’improvviso si deve

ricondurre il dialogo autoreferenziale dei due servi, Brighella e Truffaldino, nella Donna

serpente:

Truffaldino: adduceva il gran disturbo de’ servi nelle commedie, che piacevano a’ padroni, e a’ servi no. A lui

piaceva l’Arlecchino, a’ padroni no. Lo faceva ridere; i padroni dicevano, che il ridere delle buffonate di quel

personaggio era una scioccheria. Se dovesse ficcarsi degli aghi nelle natiche per non ridere a ciò, che lo faceva

ridere. Brighella: che certo quello era un gran disturbo. Che quando le maschere dicevano nella commedia delle

cose, che lo facevano ridere, conveniva per la vergogna, ch’egli ridesse sotto al tabarro. Truffaldino: ch’egli

aveva vedute moltissime Dame, e moltissimi Cavalieri ridere senza vergognarsi; che tuttavia è contento d’esser

partito da un mondo, che sosteneva un’incomoda serietà in apparenza, e in sostanza era assai ridicolo. Quella

396 Ivi, p. 262, III, 5. 397 Interessante è l’analoga considerazione espressa da Ippolito Pindemonte relativamente al piacere procurato dalla vista della natura nei giardini: «ciascun sa, che molti piaceri si compongono di sensazione e di riflessione ad un tempo» in Sui giardini inglesi e sul merito in ciò dell’Italia. Dissertazione d’Ippolito Pindemonte e Sopra l’indole dei giardini moderni. Saggio di Luigi Mabil, con altre operette su lo stesso argomento, Verona, Società Tipografica, 1818, p. 16. Per l’argomento cfr. Alberto Beniscelli, Le fantasie della ragione, cit., pp. 45-75.

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solitudine gli piaceva etc.398.

Se da una parte i frequenti richiami alla realtà infrangono l’illusione fiabesca, dall’altra

provocano uno smarrimento nel pubblico, che riconosce immediatamente come familiari i

nomi, i luoghi e i personaggi menzionati, ma, tuttavia, li ritrova inseriti in un contesto

innaturale e molto distante dalla realtà a cui, pure, essi appartengono. Tale estraneità ingenera

negli spettatori una distanza ancora maggiore dai fatti rappresentati, distanza che permette

loro di esercitare l’ironia.

La finzione a cui le maschere alludono viene anche messa in scena allorché esse si travestono

da personaggi seri: è il caso di Pantalone che nella Donna serpente si mostra nelle vesti del

mago Checsaia per indurre il principe a fare ritorno nel regno e per farlo desistere dalla

ricerca della moglie. Le didascalie riguardanti i preparativi nell’abbigliamento della maschera

con cui Gozzi correda questa scena sono molto dettagliate non solo nel copione della fiaba,

come è naturale che siano essendo esse rivolte agli attori, ma anche nell’edizione a stampa:

Pantalone uscirà senza la solita sua maschera, ma ingombrato il viso da gran basette, e gran barba bianca.

Sotto questa avrà nascosta la consueta sua barba. Abbia una gran mitra sacerdotale. Sotto a questa sia nascosta

la sua maschera di Pantalone, a tale che possa cadergli sul viso allo sparir della mitra. Abbia una veste

sacerdotale; sotto a questa la sua sottana, e le brache da Pantalone. Sia accomodato in modo, che possa

trasformarsi dalla figura di sacerdote in quella di Pantalone. Si avverte, che il Pantalone accomodato da

sacerdote non dovrà aver nessun segno, per cui gli spettatori possano riconoscerlo. Dovrà egli accompagnar

con gesti proporzionati ciò, che un altro di dentro dirà per lui, sino al punto della trasformazione, e il gesto

dovrà esser grave, e decente ad un vecchio sacerdote399.

A nostro avviso, la minuziosa descrizione costumistica - nonché l’esplicitarsi della finzione

nella raccomandazione che un attore parli al posto di Pantalone da dentro le quinte - si

configura, in un gioco di specchi, come un’ulteriore dichiarazione dell’illusione teatrale (gli

spettatori sono ingannati dalla “maschera” di Pantalone) e come una critica alla modalità

conoscitiva attuata solo attraverso i sensi, tipologia che il pubblico stesso sperimenta essere

fallace.

Le maschere, dunque, non costituiscono un corollario nella poetica gozziana, ma, anzi,

acquistano la stessa importanza dei personaggi seri perché sono preposte a un differente fine.

Se questi ultimi inducono all’immedesimazione e al pianto, le maschere, invece, svelano al

398 Carlo Gozzi, La Donna serpente, in Carlo Gozzi, Opere, a cura di Giuseppe Petronio, cit., p. 600, I, 1. 399 Ivi, p. 612, I, 3.

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pubblico la finzione dello spettacolo, nel modo satirico che è a loro congeniale e suscitando il

riso:

Il Pubblico pianse, e rise a modo mio, e corse in folla ad infinite repliche di questa fola [Il corvo] come s’ella

fosse stata una verità, con un danno indicibile a’ due Poeti, e con dei plausi serj de’ Gazzettieri alla condotta di

quella, alla morale, al senso allegorico, e fu da essi giudicata un vero esempio d’amor fraterno400.

L’efficacia spettacolare non dipende per nulla dal fatto che la rappresentazione riproduca il

quotidiano.

Scorrendo gli scritti teorici di Gozzi rileviamo un’apparente contraddizione401 perché l’autore

spesso si riferisce alle sue composizioni utilizzando il termine “allegoria”, ma ciò non gli

impedisce di ribadire più volte che il teatro deve costituirsi come una sorta di recinto il cui

spazio interno è preposto al divertimento. In effetti il diletto può avere (ed ha nel vocabolario

gozziano) una natura intellettuale, può non essere affatto un semplice intrattenimento

superficiale e privo di spessore.

Io non ho, che divertito i miei nazionali in teatro con delle opere innocenti, sostenendo il mirabile, passione

indivisibile dall’umanità, colla forte, e modesta passione di circostanza, vestita di quella eloquenza pittrice, che a

me fu possibile, ma nulla certamente dannosa; colla imitazione della natura, tuttoché ciò non si voglia: con de’

voli faceti di fantasia, e con un’austera morale spesso allegorica402.

È evidente che tutte le Fiabe propongono abbastanza esplicitamente un modello di virtù e

contestualmente criticano un determinato sistema, che definiremo, generalizzando, di stampo

illuministico. In questo senso, lungimirante era stato il giudizio di Gasparo, che aveva colto

nel teatro del fratello non la volontà di ingrandire un pezzo del Mondo, goldonianamente

inteso, bensì quello di crearne un altro totalmente illusorio, in cui il substrato proveniente dai

poemi di tradizione italiana quattro-cinquecentesca – l’irruzione di tori, giganti, serpenti che

si trasformano in principesse - non irrobustisce soltanto la spettacolarità delle pièces, ma

400 Carlo Gozzi, Memorie inutili, cit., p. 419. Il corsivo è nostro. 401 Rosalma Salina Borello, Carlo Gozzi e la Gozzische Manier, in Carlo Goldoni e Carlo Gozzi: evoluzione e involuzione della drammaturgia italiana settecentesca: da Venezia all’Europa, (Theatralia. Revista de Poética del Teatro, 8), Javier Gutierrez Carou & Jesus G. Maestro (eds.), Pontevedra, Mirabel, 2006, p. 120: «Alla radice della scelta fiabesca sta dunque una profonda contraddizione: da una parte il Gozzi vuole un teatro fonte di sano e puro divertimento, in opposizione a quello goldoniano, in cui avverte uno stretto e rischioso legame con la realtà; dall’altra, per poter fare della propria opera uno strumento pedagogico e polemico, deve trasformare la fiaba in favola o, meglio ancora, con le parole stesse di Gozzi in “allegoria”». 402 Carlo Gozzi, Il ragionamento ingenuo, cit., p. 58.

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contribuisce alla costruzione di questo nuovo mondo. Esso non è creato, però, per evadere

superficialmente dalla realtà, ma, sotto la veste faceta, nasconde significati profondi:

sarà facile, che i buoni ingegni rivelino, che ho trattate sovente le massime più serie, e più importanti sotto una

veste faceta, né ciò averò fatto certamente senza qualche ragione. In un secolo, in cui si combatte la virtù con una

gravità magistrale, e seduttrice, applaudita, annoiano, o non vengono lette le difese dell’oppressa virtù, trattate

colla serietà cattedratica. I modi satirici, e faceti, se tali riescono, oltre ad un non so qual privilegio di libertà, che

vien loro comunemente concesso, per lo meno scuotono, e fermano gli uomini sulla lettura; né pretendo però di

farmi di un utile effetto mallevadore403.

Nella prospettiva dell’autore filo-fantastico, proprio l’immediata chiarezza di non assistere ad

una riproduzione del quotidiano, suggerirebbe allo spettatore di essere di fronte ad un

percorso “altro”, che va interpretato, che presuppone una storia “seconda”, sia essa di natura

morale, allegorica o quant’altro, e dunque, una volta uscito di teatro, egli sarebbe indotto a

riflettere sulle vicende osservate.

Susanne Winter404 ha dimostrato nel caso della Turandot che lo scontro tra Calaf e Turandot

allude a quello tra passione e riflessione – seppure ambientato in un luogo fiabesco - di cui i

due personaggi sono rispettivamente incarnazioni. E proprio in quest’ottica, secondo la

Winter, «il teatro di Gozzi non si intende come scuola, come lezione pratica con effetto diretto

sulla realtà, ma come illusione che, indirettamente, si riferisce alla realtà. È allegorico nel

senso di uno stimolo alla riflessione, all’attività della propria intelligenza dello spettatore»405.

Il termine “allegoria” ricorre spesso nelle Prefazioni delle Fiabe, ma non solo: in quella della

Figlia dell’aria o sia l’innalzamento di Semiramide, classificato dallo stesso autore come

«dramma favoloso allegorico», Gozzi, insistendo nel paragonare l’intenzione con cui scrisse

questo dramma a quella sottesa alle composizioni fiabesche, compie un’esplicita

dichiarazione di poetica:

io non presi giammai a trattare una favola in sulle scene, che per un pretesto, e per poter sostenere della sana

morale nelle circostanze da me apparecchiate di quella, e per censurare coll’eloquenza, e una chiara allegoria, la

corruttela del costume, i sofismi velenosi, e la scienza d’una sforzata ebra metafisica de’nostri tempi406.

403 Ivi, p. 90. 404 Susanne Winter, Tra ragione e passione. Turandot di Carlo Gozzi e di Friedrich Schiller, in «Problemi di critica goldoniana», 2002 [ma 2001], VIII, pp. 223-251. 405 Ivi, p. 239. 406 Carlo Gozzi, Prefazione alla Figlia dell’aria o sia l’innalzamento di Semiramide, dramma favoloso allegorico, Venezia, Curti, 1791, p. 5. Il corsivo è nostro. Il drammaturgo presenta i personaggi stessi come immagini allegoriche (ivi, p. 7).

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È soprattutto La più lunga lettera di risposta che sia stata scritta a contenere professioni di

questo tipo, che si riallacciano alla prassi dell’allegoria già in atto nell’antica Grecia, a partire

da Aristofane, per poi giungere ad Ariosto, a Tasso e a Shakespeare:

chiedete a’ vostri, e a’ miei censori, e sprezzatori, il perché l’antichissimo greco Menandro scrittore di

Commedie semplici, e l’antichissimo greco Aristofane scrittore di Commedie allegoriche, intitolate: Le Nuvole,

Le Vespe, Gli Augelli, Le Rane, generi interamente differenti del primo, sieno rimasti ambidue nel Tempio

dell’Immortalità da tanti secoli, dal qual Tempio nessuno potrà scacciarli ne’ secoli venturi407.

Il mio nominare gl’immortali Menandro, Aristofane, Omero, Virgilio, Dante, Ariosto, Tasso, Shakespeare sul

proposito delle mie arditezze allegoriche sceniche, mi fa comparire malgrado mio, a’ vostri, ed a’ miei, più

fanatici traviati, che ragionevoli critici dileggiatori, quell’ambizioso, e quel presuntuoso, che certamente non

sono. Il demonio dell’ambizione non potè mai adularmi, né fare che per il buon effetto che fecero resistenza in

sul teatro le mie allegoriche rappresentazioni dovessi cadere nell’ebbrezza di considerarle ottime e degne di

immortalità. Difendo il genere allegorico, e non difendo i generi miei408.

Il drammaturgo si preoccupa di legittimare la propria scelta, l’adozione del genere allegorico,

e di inserirla nella scia di una tradizione dai nomi illustri, vere e proprie auctoritas, per poi

passare a difendere più esplicitamente il modello fiabesco:

ho fatto talora favellare gli animali, i mostri, i simulacri, ed altri corpi insensati nelle mie allegoriche Favole, ma

non mai senza ragione, e senza significato. Credei sempre, che la satira sul costume, fosse più urbana, e avesse

maggior creanza vestita col velo del senso allegorico, della satira ignuda, e sfacciata che spesso giunge ad essere

libello detestabile409.

A distanza di quarant’anni dal suo esordio come drammaturgo – La più lunga lettera di

risposta che sia stata scritta viene edita nel 1802 – Gozzi addirittura addita nel genere

allegorico la via per superare l’impasse teatrale dell’epoca e per ottenere il plauso da parte sia

degli spettatori incolti sia di quelli colti:

mancata essendo la popolare innocente lepida Farsa dell’arte italiana alla sprovveduta, ed essendo necessario un

genere Drammatico che intrattenga i dotti, e gl’indotti ne’ nostri Teatri aperti all’universale, non credo

407 Carlo Gozzi, La più lunga lettera di risposta che sia stata scritta, inviata da Carlo Gozzi ad un Poeta teatrale italiano de’ nostri giorni. Giuntivi nel fine alcuni frammenti tratti dalle stampe pubblicate da parecchi Autori, e de’ comici dello stesso Gozzi fatti sopra i frammenti medesimi, in Carlo Gozzi, Opere edite ed inedite, Venezia, Zanardi, 1802, tomo XIV, pp. 8-9. Il corsivo è nostro. 408 Ivi, p. 12. Il corsivo è nostro. 409 Carlo Gozzi, La più lunga lettera di risposta…, cit. p. 37. Il corsivo è nostro.

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spregevole il suggerire un genere drammatico allegorico ragionato, artificioso, utile a’ proprietari de’Teatri, a’

Commedianti, e di qualche profitto ne’ cervelli alterati degli spettatori, per quanto può essere profittevole la

drammatica, specialmente in Italia, in cui i Teatri non sono considerati, che come ricinti di passeggeri

divertimenti, e di applausi, che sono scordati con gli Autori delle opere applaudite poco dopo l’abbassar de’

sipari410.

E ancora:

Un genere scenico poetico allegorico, qualunque sia l’argomento, e anche frivolo, ben apparecchiato nelle sue

circostanze, ingrandito dal significato di un arcano misterioso che tenga occupate le menti per penetrarlo; di

predizioni innegabili conseguenti; adorno di caratteri naturali faceti, e serj del nostro secolo; d’una satira urbana,

le di cui punture promuovano più le risa che l’ira; d’una saporita, chiara, lepida ironia convincente; d’una

locuzione or robusta, e sublime, or bassa, e volgare proporzionata a’ caratteri degl’interlocutori; d’una

decorazione grandiosa, da cui non bandisco il maravaglioso; allegoria che tenga fermo, e terso lo specchio della

sana morale in tutta la sua estensione, sarà sempre un genere scenico fortunato nel Teatro aperto all’universale e

non indegno de’ dotti, nè della grazia d’Apollo. Colui che dirà, che un tal genere è un a sciocchezza, sarà

sciocco. Colui che dirà, che un tal genere è facile, sarà il sciocco secondo. Colui che dirà, che un tal genere è

impossibile, sarà il sciocco terzo di questo nome411.

In quasi tutte le Prefazioni delle Fiabe412 Gozzi si riferisce ad esse in termini di allegoria:

Le circostanze tragiche, e robuste, ch’ella [la fiaba del Re cervo] contiene, trassero delle lagrime, e ‘l buffonesco

delle maschere, ch’io volli sempre per le mie proposizioni tener ferme nel teatro, ed intrecciate, nulla ha levato al

vigore della feroce fantastica serietà degli impossibili accidenti, e dell’allegorica morale413.

Chi avrà però ingegno sufficiente a preparare un’orditura appoggiata alla critica, e ad una chiara allegoria sui

costumi degli uomini, e sui falsi studi de’ secoli […] troverà che il mirabile non ha sterilità, e ch’egli sarà sempre

sulle scene dell’Italia il più robusto, e il più utile alle italiane, comiche, truppe414.

410 Ivi, pp. 149-150. 411 Ivi, pp. 151-152. 412 Nel caso dell’Amore delle tre melarance è il fratello di Carlo, Gasparo, a individuare nella fiaba il velo dell’allegoria : «il tessitore di essa […] ha avuta l’intenzione di coprire sotto il velo allegorico certi doppi sentimenti e significati che hanno una spiegazione diversa dalle cose che vi sono espresse. Avrei troppo che fare se io volessi sviluppare ogni minima parte da quel velame che la ricopre;ma solo alcune poche cose dirò, acciocché queste poche aprano la via all’udienza di poterne esaminare più altre da sé medesima, quando sarà assicurata che da capo a fondo quelle novelluzze e bagattelle rinchiudono non piccola dottrina» (Gasparo Gozzi, Scritti scelti, a cura di Nicola Mangini, Torino, UTET, 1967, p. 412. Il passo è tratto dalla «Gazzetta veneta» del 27 gennaio 1761, n. 103). 413 Carlo Gozzi, Prefazione al Re cervo, in Carlo Gozzi, Opere, Venezia, Colombani, 1772, t. III, p. 12. Il corsivo è nostro. 414 Idem, Prefazione alla Donna serpente, in Carlo Gozzi, Opere, Venezia, Colombani, 1772, t. III, p. 132.

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La Zobeide è una fiaba, ch’io trassi in parte dalle novelle arabe, e ch’io composi sotto al velo d’un tragico feroce

in arcano […] ne’costumi, e nel carattere del re moro, Sinadabbo, io vorrei, che fosse falsa l’allegoria, ch’è

purtroppo allusiva a’ nostri tempi, colla sciagura di molte fanciulle infelici, le quali poco ascoltano i Calenderi

Abdalac, ch’io posi in questa rappresentazione415.

L’allegoria dell’ultimo esempio trova una più ampia trattazione nelle Memorie inutili, in cui il

drammaturgo esplicita la circostanza da cui scaturì l’idea di comporre Zobeide: durante il

soggiorno in Dalmazia negli anni giovanili conobbe una donna che, raggirata, aveva subito

violenza da parte di un famoso colonnello416, il quale la abbandonò dopo tre giorni.

L’episodio è volutamente ripreso in chiave allegorica nella Zobeide.

Il lemma “allegoria” è un hapax all’interno delle Fiabe: infatti esso compare solo una volta in

una battuta di Zelou, il genio del Mostro turchino. Il contesto in cui il vocabolo è inserito

riporta a un passo dell’Orlando innamorato nel rifacimento del Berni, versione del testo

boiardesco che Gozzi leggeva:

Zelou: Son l’ombre, i mostri, i cambiamenti e l’Idre,

i flagelli, le morti e le vittorie,

che voi vedeste in questo vostro regno,

alte dottrine, allegorie, che un giorno

molto avean pregio, or disprezzate sono

da moderni scrittor, né recar noia

dessi a svelarle. Tra di noi fra poco

tutto dispiegheremo e goderemo,

traendo fuor della cassetta il frutto

d’antica poesia che più non s’usa,

ma che a’ benefattor nostri ancor piace417.

Io non m’intendo di filosofia

e non vo’ fare il dotto né ‘l messere;

ma che non sia nascosta allegoria

sotto queste fantastiche chimere,

non mel farebbe creder tutto il mondo,

415 Idem, Prefazione alla Zobeide, in Carlo Gozzi, Opere, Venezia, Colombani, 1772, t. IV, p. 15. 416 Carlo Gozzi, Memorie inutili, cit., p. 874: «il tal Colonnello m’ha ingannata, sedotta, violentata, indi barbaramente abbandonata tre giorni dopo la mia sciagura […] una tal narrazione mi rese sorpreso, e m’empiè d’amarezza. Quel tal Colonnello ch’ella m’aveva nominato era in fatti un famoso stupratore di ragazze, e un di presso il Sinadato della mia favola allegorica teatrale. La Zobeide, che godute alquanti giorni le giovinette le trasformava in giuvenche, e le mandava alla pastura. Il gran potere che quel Colonnello aveva sui popoli della Dalmazia, lo salvava da’ rigori della Giustizia». 417 Carlo Gozzi, Il mostro turchino, in Carlo Gozzi, Opere, a cura di Giuseppe Petronio, cit., p. 677, V, 6.

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e che non abbian senso alto e profondo

[…]

Questi draghi fatati, quest’incanti,

questi giardini e libri e corni e cani,

ed uomini salvatichi e giganti,

e fiere e mostri ch’anno visi umani,

sono fatti per dar pasto a gl’ignoranti;

mo voi ch’avete gl’intelletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto queste coperte alte e profonde418.

418 Francesco Berni, Orlando innamorato già dal Sig. Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano ed ora rifatto tutto di nuovo da M. Francesco Berni, Fiorenza, [s. n.], 1725, p. 234 e p. 254.

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La quête nella Donna serpente

La vicenda: un percorso di formazione

La vicenda della Donna serpente si offre come il viaggio fisico e simbolico di un giovane,

Farruscad, che, attraverso l’esperienza amorosa, compie un cammino di formazione dell’io

tramite il quale giunge, al termine della storia, a un grado di conoscenza più elevato rispetto a

quello da cui era partito.

Esso inizia fuori dalla reggia, nel bosco, spazio che è emblema del disorientamento

dell’anima419 e, come tale, prelude a un’evoluzione della personalità, messa in moto dalla

caduta di Farruscad nel fiume, luogo d’accesso ad un mondo soprannaturale, dal quale il

giovane tornerà alla superficie trasformato. Spesso nelle fiabe i protagonisti si smarriscono o

vengono abbandonati in un bosco, proprio come accadeva negli antichi riti di iniziazione, in

cui un bambino veniva allontanato dalla casa dei genitori e lasciato in tale luogo per affrontare

alcune prove che lo avrebbero reso adulto, affiancato in questa cerimonia dallo sciamano,

solitamente mascherato.

Farruscad giunge nel bosco per inseguire una cerva: “colpito” da Amore durante una battuta

di caccia, trasformatosi da cacciatore in preda420, egli, folle, la insegue e si getta in un

torrente, dove essa si trasforma in Cherestanì. L’animale di cui si innamora perdutamente il

419 Si pensi alla selva dantesca, al bosco dove si perdono i cavalieri dei poemi cavallereschi, al protagonista della Hypnerotomachia Poliphili, Polifilo, che, dopo essersi smarrito in una selva e aver lottato contro un drago, giunge a sontuose terme dove incontra Polia, la più pura delle ninfe. 420 Il riferimento mitologico più prossimo a quest’episodio è rinvenibile nella vicenda di Atteone, di cui Giordano Bruno diede un’interessante interpretazione: «De molti, dunque che per dette vie e altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son quelli, che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de caccia de fiere salvatiche e meno illustri, […]. Rarissimi, dico, son gli Atteoni, alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda, e dovenir a tale, che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto […] vegnano trasformati in cervio, per quanto non siano più cacciatori, ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre specie de venaggione, che si fa de le cose particolari, il cacciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca dell’intelligenza propria; ma in quella divina e universale viene talmente ad apprendere, che resta necessariamente ancora compreso, assorbito, unito. Onde da volgare, ordinario, civile e populare diviene salvatico, come cerbio ed incola del deserto», (GIORDANO BRUNO, De gli eroici furori, in IDEM, Dialoghi italiani. Dialoghi metafisici e dialoghi morali, nuovamente ristampati con note di Giovanni Gentile, a cura di Giovanni Aquilecchia, Firenze, Sansoni, 1972, p. 1125).

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principe richiama i topoi classici, soprattutto quattrocenteschi421: si pensi, per esempio, alle

Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano di Poliziano in cui Iulio, giovane dedito alla

caccia che dispregia Amore, viene punito dalla divinità422. Cupido gli fa comparire davanti

una cerva che lo attrae in un bosco; lì, l’animale si trasforma in una bellissima fanciulla che,

attraverso il sentimento amoroso, educa Iulio alla Sapienza. In quest’opera si riflette

chiaramente la teoria platonica, mediata dal circolo filosofico di Marsilio Ficino, per cui

l’esperienza d’amore costituisce un passaggio imprescindibile per l’elevazione dell’anima

verso la contemplazione e per il raggiungimento della sapienza.

Il cervo assume un’importanza simbolica rilevante anche nella prima iconografia cristiana:

proprio come la colomba, il pesce e l’agnello, è l’animale che ricorda Gesù perché, con le sue

corna, è crocifero. Inoltre esso appare nei racconti agiografici come simbolo di conversione e

di rinascita: per esempio, nella Vita di Sant’Eustachio, il cervo inseguito da un cacciatore, si

ferma e domanda all’uomo il motivo per cui lo perseguita, provocandone poi la conversione.

Il riferimento più rilevante proviene dall’Estoire del Saint Graal: Josephè, figlio di Giuseppe

d’Arimatea, dovendo attraversare un fiume particolarmente pericoloso, si mette a pregare per

ottenere un aiuto, che si materializza in un cervo bianco (il colore indica la purezza e la

castità), con una catena d’oro al collo (simbolo di umiltà), accompagnato da quattro leoni (gli

evangelisti)423. Alcuni particolari della descrizione si ritrovano nella Donna serpente, in cui la

cerva appare «bianca come la neve, tutta fornita di cordelle d’oro, di fiori, di gioie al collo

[…] la più bella cosa… la più bella cosa che si possa vedere con due occhi»424. Esiste,

dunque, un significato profondo attribuito a questo animale: è il traghettatore, fisico e

simbolico, tra due mondi, ruolo che ricopre anche la cerva inseguita da Farruscad,

“trasportando” il giovane in un’altra dimensione, in cui comincia una nuova vita.

Tale significato di rinascita intesa come cambiamento di vita, viene corroborato anche dalla

presenza dell’acqua425, elemento vitale che allegoricamente nutre l’anima del principe

421 Anche nell’Orlando innamorato è presente un bellissimo cervo fatato inviato da Morgana e inseguito da Brandimarte: «Ma nova cosa che ebbe ad apparire, / Qual sturbò il ragionar della donzella; / Ché un cervo al verde prato vedean gire / Pascendo intorno per l’erba novella. / Come era vago non potrebbe io dire, / Ché fiera non fu mai cotanto bella; quel cervo è della Fata del Tesoro, / Ambe le corna ha grande e de fino oro» (MATTEO

MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, cit., p. 414, I, XXII, 57). 422 ANGELO POLIZIANO , Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici, in IDEM, Poesie italiane, a cura di Saverio Orlando, Milano, Rizzoli, 1988, I, 33-34: «Ivi consiglio a sua fera vendetta / prese Amor, che ben loco e tempo aspetta; / e con sua mano di leve aer compuose / l’imagin d’una cerva altera e bella: / con alta fronte, con corna ramose, / candida tutta, leggiadretta e snella». 423 Il riferimento è tratto dall’Estoire del Saint Graal, cit. in CARLO DONÀ, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 320. 424 CARLO GOZZI, La donna serpente, in IDEM, Opere…, cit., p. 342, I, 2. 425 V. J. PROPP, Edipo alla luce del folclore, Torino, Einaudi, 1975, pp. 103-104: «nell’invio del bambino verso una presunta morte e nella sua educazione lontano dai genitori è facile riconoscere le tracce del rito iniziatici

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lavandola dalle imperfezioni umane legate ai sensi. Al di là dell’importanza contingente

dell’acqua in un deserto, il suo valore simbolico risale alle cosmogonie e ai miti di

fondazione: per esempio, nella mitologia greca raccontata dallo scrittore latino Igino, Dioniso

fonda il santuario di Ammone vicino a un corso d’acqua, che l’aveva salvato dalla sete. Si

pensi anche all’importanza dell’acqua nella religione cristiana e, in particolare, nel rito del

battesimo dove essa diventa simbolo di purezza e di rinascita spirituale, in grado di liberare

l’anima dalle macchie terrene.

È significativo che Farruscad cada completamente nel torrente: nell’Histoire du roi

Ruzvanschad et de la princesse Cheristany, la versione orientale della fiaba, che costituisce la

fonte primaria a cui Gozzi attinse, il protagonista aspetta che la cerva ricompaia nei pressi di

un pozzo e quindi non si butta volontariamente nell’acqua426. Al contrario, nella Donna

serpente il principe si comporta come un iniziato dei Misteri Eleusini, - preceduti, appunto,

dai bagni rituali di purificazione -, che come tale deve morire simbolicamente per poter

iniziare una nuova vita.

Pantalone, fedele servitore di Farruscad che si era gettato nel torrente per seguirlo, fin

dall’inizio della vicenda manifesta ostilità nei confronti di Cherestanì: secondo la sua

opinione ella è una strega che prende le sembianze di una bellissima principessa con lo scopo

di tenere prigioniero il principe. La maschera della commedia dell’arte, infatti, paragona

esplicitamente Cherestanì ad Angelica e ad Alcina427, capaci di fare innamorare i più nobili

cavalieri ed eroi e di dissuaderli, tenendoli con sè, dallo svolgere il compito loro affidato:

PANTALONE: D’una striga maledetta, che tol la figura, che la vol, co ghe piase; che deve aver quattro, o

cinquecent’anni sulle tavernelle. Oh anello incantà de Angelica; dove xestu? Ti, che ti ha scoperto ai occhi di

Ruggiero, che le bellezze de Alcina gera tante deformità, ti averessi pur guario anca sto povero putto,

scoverzendoghe la redolese in sta siora Cherestanì428.

Farruscad in questi termini è proprio un cavaliere il cui cammino, almeno nell’ottica dei

personaggi più “bassi”, legati al contingente, è stato deviato dall’amore per la donna, un

[…]; il passaggio attraverso l’acqua non è soltanto l’inizio del cammino regale, ma è anche la condizione dell’ascesa al trono». 426 Il protagonista della novella orientale non giunge nel mondo della fata attraverso l’acqua, bensì attraverso un sonno magico. Il servitore Muezim, non trovando il principe, si ricorda di averlo visto addormentato sopra una sedia la sera prima – scena che ricorda molto da vicino la posa di Farruscad nel Serpente - e teme che si trovi nell’isola della fata. 427 D’altronde l’episodio ariostesco stuzzicherà l’immaginario degli artisti, si pensi per esempio alla composizione dei drammi giocosi L’Isola di Alcina di Bertati con musica di Gazzaniga e L’Isola incantata di autore ignoto con musiche di Marcello Di Capua. 428 CARLO GOZZI, La donna serpente, in IDEM, Opere…, cit., p. 347, I, 3.

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sentimento che è presentato come folle perché travalica la ragionevolezza: egli, infatti, si è

spogliato del proprio ruolo di civis, di re, per vestire i panni dell’innamorato, è un principe

che ha abbandonato la famiglia e il regno a causa dell’amore per Cherestanì, rea, secondo

Pantalone, di averlo sedotto con la magia

PANTALONE: (travestito da mago): Taci, empio, non nominar chi è in odio al cielo [Cherestanì], d’un abborribil

sozza maga il nome: io vengo a trarti dalle man d’una novella Circe barbara, iniqua […]. L’ingorda maga,

lasciva, infame ti tenne […]. Staccati figlio da questo asilo d’ogni scelleraggine, di bruttura e di vizio429.

L’ottica di Pantalone430, che incarna nelle fiabe gozziane il personaggio dotato di buon senso

e portatore di valori “sani” e semplici, è chiara: l’amore non può e non deve essere smisurato

(e se è tale è spiegabile solo come conseguenza di una magia), ma, al contrario, equilibrato.

Quest’ultima tipologia amorosa ricorre generalmente nelle commedie goldoniane, anche se ci

sono eccezioni. Si pensi, per esempio, all’amore e alla conseguente gelosia di Eugenia e di

Fulgenzio negli Innamorati in cui il sentimento, trasformato in un’insana passione, spinge

perfino a un gesto sconsiderato.

Un amore “folle”431 – sembra affermare Gozzi - certamente non è per tutti: solo alcune anime

elette e grandi possono provarlo e per il drammaturgo, almeno nelle fiabe, esse appartengono

solo agli uomini e alle donne di un ceto elevato. Non è un caso, infatti, che i protagonisti

principali maschili e femminili delle composizioni fiabesche siano re e regine, figure che, tra

l’altro, fino a pochi decenni prima non potevano comparire che nel genere tragico. Al

contrario, nelle commedie goldoniane coeve i personaggi appartengono o alla classe media -

alla “borghesia” pre-rivoluzionaria -, o sono popolani, mentre i nobili presenti incarnano i

valori negativi della cupidigia, dell’avarizia e dell’egoismo. E, ancora, “contro” i campielli, le

calli, i caffè di Venezia goldoniani, il conte propone regge misteriose e città meravigliose

dell’Oriente, i cui nomi, desunti dalla tradizione letteraria e da quella di viaggio, designano

immediatamente un altro mondo, radicalmente diverso da quello degli spettatori.

429 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., I, 7. 430 In una battuta Pantalone esplicita la sua modalità di visione, che avviene «coi occchi della mente» (Ivi, I, 3). 431

IIvi, p. 357, I, 7 e p. 360, I, 8: «PANTALONE: Ti scuoti, folle» e «TOGRUL: Cherestanì, / lorda maga, ti tenne. In cerva apparve, / e tu folle… arrossisco a dire il resto / di quanto è a me palese… inorridisco».

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La follia amorosa di cui è vittima Farruscad432 connota anche altri protagonisti delle fiabe

gozziane che analogamente compiono un viaggio fisico-simbolico: nell’Amore delle tre

melarance, nonostante la spiccata satira del teatro di Chiari e di Goldoni, il principe Tartaglia

si mette alla ricerca disperata dell’amore dei tre frutti, delle melarance appunto, nel Corvo il

re Millo addirittura si ammala433 perché non riesce a trovare la donna con le caratteristiche del

corvo ucciso, nella Turandot Calaf rischia la vita per conquistare una donna che ha visto solo

in ritratto e il suo sentimento assume i connotati di una vera e propria patologia (si ricordi

l’ossessiva frase che ripete il protagonista, «Morte pretendo, o Turandotte in sposa»434) e,

infine, nell’Augellino belverde Renzo si innamora di una statua435.

L’esperienza amorosa totalizzante, in grado di affrontare difficili prove, in cui non opera il

metro di giudizio costituito dalla ragione, si pone dunque come punto d’inizio della quête di

Farruscad che lo spinge a ricercare la moglie, simbolo dell’Ideale e della perfezione. In

quest’ottica trova spiegazione anche la scelta del titolo della fiaba: esso, come in molte opere

romantiche436, allude alla donna, vero motore della vicenda e potenza salvifica che, come la

Beatrice dantesca, indica la strada da seguire all’amato, il quale, in tal modo, diventa il

protagonista effettivo della storia – basti pensare che Farruscad compare in venticinque scene

mentre Cherestanì solo in sette – e l’unico, dunque, che “camminando” compie una

metamorfosi (mentre la fata, essere perfetto fin dall’inizio, tramutandosi in serpente, soggiace

ad una esclusivamente esteriore). Il giovane, infatti, all’inizio della vicenda è un principe 432 Di tale follia amorosa è vittima anche Cherestanì ma, a differenza di Farruscad, proprio per la natura sovraumana che le consente di conoscere il futuro, sa perfettamente a che cosa andrà incontro: ella sceglie consapevolmente di amare un umano e decide di chiedere a Demogorgon, il re delle fate, il permesso di unirsi in matrimonio con un essere mortale, - la «folle richiesta» di cui parla Farzana nel prologo -, pur sapendo il pericolo che corre, come rivelano le parole rivolte allo sposo: «CHERESTANÌ: La curiosità, tiranna tua, / pur troppo al nuovo dì sarà appagata, / che la sentenza mia, da me voluta / per eccesso d’amor per Farruscad, / si compie al nuovo dì» (Ivi, p. 365, I, 10). L’eccesso d’amor per Farruscad è interpretabile anche come un atto di amore compiuto nei confronti dell’Uomo da parte del divino, che in qualche modo si sacrifica: nello specifico, Cherestanì accetta la possibilità di essere trasformata in serpente. 433 CARLO GOZZI, Il corvo, in IDEM, Opere…, cit., p. 96, I, 4, «IENNARO: Sospiri e lagrime, / mestizia insuperabile, il fratello, / il caro fratel mio consuma e uccide; / e folle per la Reggia ogni momento / va reiterando: Chi di voi mi reca / donna di chiome e ciglia nere, come / le penne del fatal Corvo, e vermiglia, / come il suo sangue, e bianca al paragone / della pietra, su cui l’ augel morì?». 434 Nella terza scena del secondo atto Calaf ripete la frase per tre volte, nella quinta scena dello stesso atto per altre due volte. 435 È interessante sottolineare che nelle restanti fiabe ciò che muove la vicenda non è il folle amore bensì quello costante e fedele, sottoposto a numerosi ostacoli: nel Re cervo Angela, sposa del re Deramo, deve sfuggire alle insidie del ministro Tartaglia che ha assunto le sembianze del marito, nel Mostro turchino Dardanè deve fidarsi delle parole del mostro per potersi ricongiungere con l’amato, nei Pitocchi fortunati Angela continua ad amare Usbec nonostante abbia scoperto che sia un pitocco e non un re, e Saed rimane fedele a Zemrude, anche se ha sposato un altro uomo, e, infine, in Zeim re de’ geni al principe Suffar viene chiesto di sacrificare la donna amata per mantenere fede a una promessa. Un caso a parte è costituito dalla Zobeide, la cui vicenda ruota invece attorno alla falsità dell’amore di Sinadab per Zobeide; ma di questa fiaba, che costituisce un unicum all’interno della produzione fiabesca, si tratterà più avanti. 436 Si pensi, tra gli altri, alla Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist, alla Mademoiselle de Maupin e a Giselle di Théophile Gautier.

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mentre alla fine invece è re: se tale passaggio, formalmente, avviene per la morte del padre,

non può sfuggire il cambiamento interiore del protagonista che da ragazzo è diventato adulto,

completando dunque il proprio percorso di formazione.

Farruscad, espulso dal mondo magico a causa della curiosità, si ritrova in un deserto, - luogo

per antonomasia, in cui manca l’acqua -, ma anche spazio deputato alla ricerca, in cui egli

prosegue il cammino, aiutato amorevolmente da Cherestanì, che provvede ogni giorno al suo

sostentamento, allestendogli una mensa imbandita.

Nel deserto Farruscad piange sconsolato per la perdita della moglie: il dolore lo paralizza e

l’unica azione che ripetutamente compie è quella di continuare a correre, senza una meta

precisa:

FARRUSCAD: Ah invan la cerco, invano ansante corro pel deserto dolente, che la troppo sdegnata Cherestanì

crudele sorda è al dolor.

Le parole pronunciate dal principe riportano alle peregrinazioni dei cavalieri dell’Orlando

furioso, a quel vano spostarsi dei personaggi nel castello di Atlante che, abbagliati da quello

che inseguono e chiusi nel loro desiderio, sono letteralmente incapaci di vedere gli altri

uomini che incontrano. Farruscad assume proprio i tratti dei personaggi ariosteschi: erra senza

sosta ma inutilmente, e, vittima della propria passione, incolpa la donna di essere troppo

crudele, come lo era stata Angelica con Orlando.

Il riferimento al poema di Ariosto è più profondo di quanto non appaia: nella seconda ottava

del primo canto, il ferrarese espone la materia del suo poema: «[Orlando] che per amor venne

in furore e matto, / d’uom che sì saggio era stimato prima»437. È, dunque, l’amore

sconvolgente, e non dominato dallo fedele consiglio de la ragione, il tema dell’opera

ariostesca, lo stesso sentimento che, come si è già detto, prova Farruscad. L’uomo con le sue

debolezze e “pazzie” e non il prode paladino o il principe, interessa ai due scrittori, anche se

nell’Orlando furioso Astolfo compie un viaggio sulla luna per recuperare il senno di Orlando

mentre, in modo antitetico, nella Donna serpente il mago Geonca scende negli inferi per

aiutare Farruscad.

Una volta uscito dall’acqua, Farruscad, dopo aver conosciuto la natura divina, la perfezione,

non può più farne a meno e cerca di recuperare ciò che ha perduto; ma la volontà è ancora

debole e proprio per questo motivo più volte è tentato di desistere dall’impresa. Il primo

ostacolo che il principe si trova a fronteggiare è costituito dall’opposizione dei due suoi

437 LUDOVICO ARIOSTO, Orlando furioso, cit., p. 1, canto I, 2.

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aiutanti, Pantalone e il ministro Togrul, che, travestiti rispettivamente da mago Checsaia e da

Atalmuc, il padre defunto, lo incitano ad assumersi la propria responsabilità di re di Teflis e a

ritornare nel regno per difenderlo dall’assedio del gigante nemico, deviando, in questo modo,

il percorso del protagonista, richiamato all’elemento terrestre per eccellenza, la terra.

I travestimenti adoperati dai due personaggi meritano qualche riflessione. Nelle note

all’edizione della Donna serpente, Alberto Beniscelli individua nella scelta del nome

Checsaia un omaggio dell’idolo Kesaia della commedia Arlequin roi de Serendib di Alain-

Renè Lesage438, autore conosciuto e apprezzato da Gozzi. Al di là del significato del nome, il

drammaturgo intende probabilmente mettere in ridicolo la figura stessa del negromante, così

come concepita dai filosofi illuministi: la barba bianca, la mitra sacerdotale, l’aspetto di

anziano (tutte indicazioni presenti nelle didascalie), non sono che gli attributi con cui il

razionalismo settecentesco presentava e screditava l’immagine del mago tanto che, in alcune

opere gozziane439, esso si rivolge direttamente al pubblico lamentandosi per questa infelice

sorte. Gozzi, quindi, sembra irridere la concezione illuminista della magia e si propone di

indicare un significato più profondo del termine: il mago, non connotato da alcun segno

particolare, non è un illusionista, ma è colui che è capace di penetrare negli arcani del mondo

e di superare il mondo sensibile. Se si adotta tale significato, la magia concepita dallo scrittore

veneziano è molto vicina a quella sottesa da William Shakespeare in The tempest in cui

Prospero più che un negromante appare come un profondo conoscitore della natura440.

Un cenno merita il travestimento impiegato da Togrul: quest’episodio, assente, come il

precedente, nella fonte orientale, è di invenzione gozziana e richiama alla memoria il celebre

episodio shakespeariano del fantasma del padre di Amleto. Il finto Atalmuc si presenta a

Farruscad con le seguenti parole: «TOGRUL: Io fui tuo padre, or di tuo padre / sono lo spirto,

ed impalpabil ombra»441 che ricalcano il celebre passo inglese «GHOST: I am thy father’s

438 CARLO GOZZI, La donna serpente, in IDEM, Fiabe teatrali, a cura d Alberto Beniscelli, cit., p. 239, nota 2. 439 Per esempio, nella Marfisa bizzarra il mago Malagigi denuncia lo stato in cui è caduto: «In quanto a me, che la professione, / Di Mago sia distrutta e posta sotto / Poco m’importa. Grazie a Salomone / E ad Rutilio, in altro sono dotto; / Ed ho sempre concorso di persone / sapendo trar la cabala pel Lotto. / Servo mille persone del paese / Con la mia Fiorentina e Bolognese. / Ho fatti guadagnar danari assai / Con le Cabale mie, cha fan miracoli. / Ognun mi fa regali sempremai. / Un giorno mi porran ne’ tabernacoli. / I concorrenti non mancano mai, / C’hanno bisogno a interpretar oracoli; / Co’ calcoli numerici gli appago, / Ed ho già fatto di tesori un lago» (CARLO GOZZI, La Marfisa Bizzarra. Poema faceto, in IDEM, Opere, Venezia, Colombani, 1772, t. VII, p. 302, canto X, ottave 71-72). 440 Per questa tesi si veda in particolar modo il capitolo di FRANCES A. YATES, La magia negli ultimi drammi: La tempesta, in Gli ultimi drammi di Shakespeare. Un nuovo tentativo di approccio, Torino, Einaudi, 1979, pp. 81-101. Inoltre si noti l’analogia della scelta della grotta coma abitazione del mago sia nella Donna serpente che in The Tempest. 441 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 359, I, 8.

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spirit»442. Inoltre, entrambe le apparizioni pretendono che i due uomini si assumano le proprie

responsabilità: Atalmuc domanda a Farruscad, se lo ha rispettato in vita443, di diventare re e di

ritornare al regno per difenderlo, mentre il fantasma chiede ad Amleto di essere suo figlio e di

vendicarlo in quanto tale, se davvero lo ha amato444. La comparsa, ai parenti più stretti, di

ombre che chiedevano giustizia, è un espediente che si ritrova spesso nelle tragedie cinque-

seicentesche, ma è probabile che il veneziano avesse avuto in mente proprio l’opera

shakespeariana dal momento che il drammaturgo inglese era noto a Gozzi, come dimostra il

ritrovamento di una carta, all’interno del Fondo Gozzi, contenente la traduzione di una pagina

del Romeo and Juliet, e come si deduce dalla trama dei Pitocchi fortunati, chiaramente

debitrice al Measure for Measure.

Come il fantasma spinge Amleto ad essere uomo, così il finto Atalmuc desidera che Farruscad

riprenda il proprio ruolo di perfetto civis e che continui la vita e il cammino a cui il padre

l’aveva indirizzato; in quest’ottica il principe sembra uno dei personaggi della Gerusalemme

liberata, che, attratti da qualcosa o da qualcuno, perdono di vista il loro obiettivo445. La

sovrapposizione di Farruscad alla figura di Ruggiero diventa esplicita nelle parole di

Pantalone ricordate in precedenza, oltre che in un preciso riferimento testuale, il verbo

pascersi, presente nell’opera tassiana a proposito dell’incantamento compiuto da Armida a

442 WILLIAM SHAKESPEARE, Hamlet, a cura di Nemi D’Agostino, Milano, Garzanti, 1984, p. 48, I, 5. 443 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 360, I, 8: «TOGRUL: Se del tuo genitor dramma, scintilla / di rispetto, e d’amor più senti al core, / segui almen l’ombra sua […] staccati, figlio, da questo asilo d’ogni scellerataggine, / di bruttura e di vizio». 444 WILLIAM SHAKESPEARE, Hamlet, cit., p. 50, I, V: «If thou didst ever thy dear father love». 445 Nelle versione della fiaba contenuta nelle nuove carte manoscritte gozziane, compare un preciso rimando all’opera tassiana. Non stupisce che Gozzi apprezzasse Tasso con il quale aveva in comune la sensazione del prossimo disfacimento di un mondo e il fatto di accorgersi, per primo, del passaggio epocale che si trovava a vivere e che lo portava a essere irrequieto e insofferente. Gli anni tra il 1564 e il 1574 costituiscono per Tasso il periodo in cui riprende e porta a termine la Gerusalemme liberata, in cui ne stende la difesa e in cui medita sul ruolo dell’arte, in particolare quella letteraria (Discorsi dell’arte poetica e Lettere poetiche). Se per Tasso la questione era quella di restituire l’arte alla materia storica, per Gozzi si tratta di riassegnare al teatro la sua peculiarità, quella cioè di essere il luogo della finzione, del gioco, della meraviglia, della sperimentazione: ecco dunque i travestimenti, le metamorfosi, l’esistenza di mondi altri perfettamente funzionanti come quelli reali, in cui imbattersi in un gigante, in una maga, in un uomo trasformato in statua è perfettamente “normale”. Tasso, nei Discorsi sull’arte poetica scrive: «così parimenti giudico che da eccellente poeta un poema formar si possa, nel quale, quasi in picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d’esserciti, qui battaglie d’esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendi, qui prodigii; là si trovino concilli celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità; là avvenimenti d’amore or felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contenga» (TORQUATO TASSO, Discorsi sull’arte poetica, in Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964). Tali parole possono essere riferite anche ai testi gozziani, al picciol mondo che il teatro da sempre rappresenta e dove si intrecciano vari elementi appartenenti alla vita quotidiana e al meraviglioso, che nelle fiabe è ovviamente diverso da quello cristiano proposto da Tasso, ma che comunque non viene relegato in un cantuccio, come volevano, secondo Gozzi, gli scrittori illuministi.

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Ruggiero446, che Gozzi impiega proprio in riferimento all’inadempienza ai doveri regali.

Togrul infatti, una volta smascherato, incita con dure parole il principe a ricoprire la carica di

re:

TOGRUL: Ma qual regno! Qual re! L’un forse d’altri,

l’altro suddito inetto, anzi in catene

di abbominevol femmina sommesso,

che di padre defunto, di sorella,

di trucidati sudditi, di regno

più non si cura, e del suo mal si pasce447.

È Cherestanì, immagine della donna salvifica, che interviene nel momento in cui Farruscad

sta per arrendersi alla “ragion di stato”: i due stratagemmi vengono svelati e, anche se nella

fiaba non è specificato per quale motivo le maschere cadano dal viso dei due uomini, è lecito

ipotizzare che sia una magia della fata che rivela, dunque, la falsità della realtà che si presenta

davanti agli occhi dell’uomo.

Nonostante ciò, Farruscad, dopo avere appreso da Togrul smascherato la morte del padre e

l’assedio della città, decide di abbandonare le ricerche di Cherestanì: il contingente spinge

l’Uomo, ancora debole, a desistere dalla ricerca dell’Ideale, ma la protagonista si materializza

davanti al marito nel sonno-sogno magico448, in un momento cioè in cui la vista esteriore

smette di operare e, fidandosi nuovamente di lui, seppure con timore, gli rivela per enigmi il

prossimo futuro e lo supplica di non maledirla per l’intera giornata successiva, qualunque

cosa veda.

CHERESTANÌ: ma le stelle,

il destin mio crudele così comanda.

Sforzata sono a comparir tiranna

per eccesso d’amor. Son condannata

a farmi sospettar maga, deforme,

sotto a finte bellezze, e tutto è amore,

e il più fervido amor, che a te mi stringe. […]

Farruscad, io ti prego, al nuovo giorno,

446 TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., p. 358, XVI, 19: «e i famelici sguardi avidamente / in lei pascendo si consuma e strugge». Il corsivo è nostro. 447 Il corsivo è nostro. CARLO GOZZI, La donna serpente, in IDEM, Opere…, cit., p. 362, I, 8. 448 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 363, I, 9: «FARRUSCAD: (è in atto di partire). Ma qual fiacchezza, e qual sonno improvviso / m’assale, e mi trattien! Non so partire… / non so fermarmi… e vorrei pur… né posso… (siede sopra un sasso) / l’inaspettato… prodigioso sonno…qualcosa vuole da me (e s’addormenta)».

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giorno per me terribile, con pace

soffri quanto vedrai. Non aver brama

di saper la ragion di quanto vedi;

non la chieder giammai. Credi, ogni cosa

nascerà con ragion. Ma soprattutto,

per quanto nascer vedi, mai non esca

dalla tua bocca verso la tua sposa

la maladizion449.

La richiesta è molto chiara e Farruscad accetta immediatamente, come un bambino: da tale

stadio infantile il protagonista parte per il viaggio che lo porta a trasformarsi in un adulto,

capace di vedere oltre alle apparenze, in grado di leggere la realtà non solamente con gli

occhi; e la prova finale, infatti, il bacio ad un essere mostruoso e repellente, dimostra proprio

l’acquisizione di questa vista interiore.

La prima prova che il principe si trova ad affrontare nel mondo terreno è costituita dalla

visione - si noti dunque lo stretto legame con la facoltà visiva incapace però, secondo Gozzi,

di penetrare a fondo le cose - dell’uccisione dei figli. I due bambini, e quindi una parte dello

stesso Farruscad, vengono gettati nel fuoco450: in apparenza si tratta di omicidio, ma in realtà

esso si dimostra catartico e necessario per spogliare i figli della loro natura divina e per

renderli mortali, proprio come il padre451.

Il gesto di Cherestanì, nonostante non si tratti di omicidio, appare comunque negativo: infatti,

priva i figli della loro parte immortale452. In realtà la scelta della fata si spiega con la volontà

449 Ivi, p. 364, I, 10. I corsivi sono nostri. 450 Il fuoco, dunque, è un altro elemento naturale dal significato simbolico: purifica bruciando, annulla e distrugge il male tanto che la tradizione cristiana lo indica come unico modo di cancellare il minimo residuo corporeo delle streghe o di altri esseri demoniaci. Esso faceva parte anche di alcuni antichi riti pagani e, per esempio, nelle feste dette Parilia, di ascendenza pastorale e diffuse nell’antica Roma, il momento principale era costituito dal salto attraverso il fuoco ritenuto, appunto, purificatore. 451 Nell’Histoire du roi Ruzvanschad et de la princesse Cheristany solo uno dei figli viene buttato nel fuoco mentre l’altro è dato in pasto a una salamandra, che in realtà si rivelerà essere una fata, animale comunque che vive nel fuoco. 452 La motivazione del gesto di Cherestanì si ritrova, impiegata in senso opposto, in un episodio mitologico, strettamente affine alla storia fiabesca gozziana, dal momento che i genitori appartengono ai due mondi, umano e divino: si tratta di Teti, una dea figlia di Oceano e di Peleo, il re di Ftia in Tessaglia, dalla cui unione nasce Achille. La leggenda narra che Achille fosse il settimo figlio nato da questo matrimonio e che Teti avesse cercato per ognuno di essi, di eliminare dal loro essere gli elementi mortali portati da Peleo. A questo scopo, li immergeva nel fuoco, causandone però la loro morte. Achille evitò la stessa sorte solo per intervento del padre, che decise di sottrarlo alla madre e di affidarlo alle cure del centauro Chirone. In riferimento a questo episodio mitologico è interessante ciò che si legge nella Biblioteca di Apollodoro: secondo lo scrittore Teti, condannata a partorire un figlio in grado di offuscare la gloria del padre, non trova alcuna divinità disposta a sposarla e per questo motivo si unisce in matrimonio con un mortale, Peleo, a cui chiede di sopportare qualunque atto sconsiderato la veda compiere. Il marito, non a conoscenza della natura divina della moglie, non mantiene la promessa e causa la scomparsa di Teti. Una tipologia identica si trova anche nella tradizione orientale: in un racconto del Mahābhārata, otto divinità, costrette a reincarnarsi per una colpa commessa, supplicano la dea

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di evitare ai due bambini la sua stessa sorte: ella pur avendo deciso liberamente di sposare un

mortale, sa, fin dall’inizio, di condannare sé e il marito, senza che lei né lo voglia né si possa

opporre. La madre amorevole decide di bruciare la parte immortale della propria discendenza

perché solo in questo modo essa può acquisire quella libertà dalle “stelle” e dal re delle fate,

di cui ella per prima non aveva goduto.

In merito a questo episodio è opportuno fare due riflessioni. La prima riguarda il genere

fiabesco, a cui La donna serpente appartiene: tutte le fiabe presentano episodi di forte

drammaticità, basti pensare a qualunque racconto dell’infanzia per imbattersi in tentativi di

omicidio, morte dei genitori o storie in cui i protagonisti vengono abbandonati ancora in

fasce; Gozzi però innesta un evento tragico per eccellenza, proveniente direttamente dalla

tragedia classica, dalla Medea euripidea. La seconda riflessione riguarda proprio le ragioni per

cui lo scrittore, che non è un semplice accumulatore di fonti, sceglie questo episodio, che

facilmente evocava quello antico: esaminando il racconto mitologico si evidenziano

sovrapposizioni tra i personaggi tragici e quelli fiabeschi.

Medea è una maga, figlia del re della Colchide (e perciò nipote del Sole-Elios) e della maga

Circe, responsabile nell’Odissea di avere trasformato i compagni di Ulisse in maiali, che

decide di lasciare il paese di origine e di abbandonare la famiglia per seguire uno straniero,

Giasone. Fin da questa prima definizione è possibile rintracciare un parallelismo con la

Donna serpente: la fata Cherestanì, che da Pantalone spesso è chiamata «striga maledetta», si

innamora di uno “straniero”, ovvero di un mortale, appartenente quindi a una condizione

diversa dalla propria e sceglie di “tradire” il proprio mondo congiungendosi con un uomo e

contravvenendo all’ordine di Demogorgon. La protagonista gozziana, dunque, si presenta

come una nuova Medea: una figlia che si ribella alla propria famiglia e una donna che tradisce

la propria patria in nome di un amore più grande di qualunque altro vincolo.

Proprio in considerazione di questa somiglianza453, è possibile ipotizzare che Gozzi abbia

rivalutato la figura di Medea, per secoli vista come la madre crudele, che antepone il desiderio

Gange di non farli nascere da una donna umana. La dea si unisce dunque con un essere mortale al quale chiede di non essere rimproverata qualunque atto compia, anche se crudele. Gange butta nelle sue acque i figli, affinché perdano il loro carattere mortale, ma il padre interviene e la donna scompare per sempre. 453 Significativo è anche un altro particolare comune delle due vicende: il re di Corinto, Creonte, concede a Medea un solo giorno per lasciare la città con i suoi figli, giorno in cui Medea si macchierà dell’omicidio dei propri figli, di quello di Creusa, figlia del re e futura moglie di Giasone, e di Creonte stesso. In questo modo la maga priva il regno di Corinto del suo capo, causando guerre per la successione al trono. Anche Cherestanì commette i “crimini” in un solo giorno e diventa una nuova, seppure finta, Medea: uccide i figli e manda in rovina la città di Teflis, distruggendo le ultime provvigioni che potevano salvare la città assediata; ma, come si sa, è solo apparenza e la tragedia è una finzione. Tale indicazione, spiegabile nella Medea con la stretta osservanza delle unità aristoteliche, riproposta nella Donna serpente tende ad evidenziare il carattere tragico della fiaba.

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di vendetta perfino alla vita dei figli. Rileggendo la tragedia antica è opportuno rilevare che la

protagonista è costretta ad abbandonare la città di Corinto insieme ai figli, in questo modo

banditi dal regno; anche da tale imposizione e dalla conseguente condizione di esuli, a cui

sarebbero stati relegati, nasce la ribellione della donna. La strega è dunque una madre che è

disposta a tutto pur di non fare condividere il proprio destino ai figli: nello stesso modo

Cherestanì sceglie di gettare nel fuoco i bambini per preservarli da una sorte, sì immortale, ma

dominata da ferree leggi e tremende punizioni per i trasgressori. Si deve sottolineare che la

fata, nel compiere questo terribile gesto, è disperata e piange: la risoluzione compiuta, che

comporta per i figli il definitivo allontanamento dal mondo fatato, è coraggiosa, ma difficile.

BEDEDRINO: Ite al padre, ci disse [Cherestanì], ah miserabili!

Io mi sento morir. Figli infelici,

oh non v’avessi partoriti! Oh quanto

soffrir dovrete! Oh quanto vostra madre

crudel sarà con voi! Con se medesima

quanto cruda sarà!454

La raffigurazione positiva di Medea ha un’origine molto antica: in opere pre-euripidee la

protagonista o non si macchia affatto dell’omicidio dei figli o lo compie involontariamente455.

Tale tesi è ripresa nell’opera settecentesca Della spedizione degli Argonauti in Colco del

veneziano Gian Rinaldo Carli456 (1745), amico, insieme al fratello Girolamo, sia di Carlo che

di Gasparo Gozzi, come attestano le numerose lettere che costituiscono il loro epistolario.

Egli inficia la tradizione antica che attribuiva a Medea le caratteristiche di maga e di

scellerata457 adducendo come prova Omero e Esiodo: essi, infatti, o non ne accennano o

addirittura ne parlano in modo positivo, con attributi elogiativi458. Rinaldi arriva a contestare

454 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 374, II, 4. 455 Cfr. EMILY A. MCDERMOTT, Euripides’ Medea. The incarnation of disorder, London, Pennsylvania State University Press, 1989, pp. 9-20. Secondo l’autrice esistono due diverse versioni della vicenda di Medea: la prima vede la madre del tutto innocente: l’uccisione dei figli è attribuita al popolo di Corinto per vendetta contro Medea responsabile dell’omicidio dei sovrani. Nella seconda la donna uccide involontariamente i figli pensando di renderli immortali, attestazione che si trova nel poema del corinzio Eumelo (VII secolo a. C. ). 456 GIAN RINALDO CARLI , Della spedizione degli Argonauti in Colco, Venezia, presso Giambattista Recurti, 1745. 457 GIAN RINALDO CARLI , Della spedizione degli Argonauti in Colco, cit., pp. 92-93: «con due orridi caratteri viene Medea dall’antichità contraddistinta; e sono di Maga, e di Scellerata. Mulier venefica, e scelerata la dice Igino [Fabulae, XXVI] ed Orazio comandò nella Poetica, che dovesse ella sempre rappresentarsi feroce e invitta sit Medea ferox invictaque». 458 Ivi, p. 96: «io sono persuaso ripigliando i due caratteri attribuiti a Medea, che tutti questi racconti non sono altro che illegittimi aborti della greca letteratura. Sa il mondo filosofico quanta impression far possano sull’animo di chi pensa giusto, le temute del volgo magiche ampollosità. Di Medea niente era noto, per quello credo io, a’ tempi di Omero, e di Esiodo, primi copiosi fonti della greca mitologia. Essi alcerto non ne fanno

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la “veridicità” della fabula euripidea e accusa il tragediografo – riprendendo Diodoro Siculo -

di avere aggiunto l’episodio dell’infanticidio, assente nelle narrazioni mitologiche arcaiche, su

commissione degli abitanti di Corinto459.

Inoltre, a Venezia, nel 1746 nel Teatro Grimani di San Samuele andò in scena la Medea

scritta da Hilaire Bernard De Longepierre460, tradotta da Gasparo Gozzi, in cui Giasone è

dipinto come un uomo spregevole, intenzionato ad avere con sé i figli a qualunque costo e

Creusa appare come una donna arrogante, che non accoglie la sincera supplica della

protagonista di poter restare con i figli: da tale quadro emerge una figura di Medea che

assomiglia a quella di una vittima d’amore, raggirata dall’uomo e sola in una terra straniera.

Nell’episodio dell’omicidio dei figli, l’accento è posto sul Fato, crudele, che ha condannato i

bambini a subire un triste destino, esattamente come nella Donna serpente Cherestanì deve

compiere il tremendo atto per obbedire alla volontà del re delle fate: «Medea: occhi miei, cari

figli, / sfortunati fanciulli, / condannati dal cielo a tanti mali / fin dalle fasce»461 e

«Cherestanì: ah miserabili! […] Anime mie… ciò, che non voglio… voglio… / deggio

voler… ciò, che voler non posso…»462. Se nella tragedia greca le vicende umane sono guidate

da un’imperscrutabile Ananke, dalla Necessità che per l’uomo rimane sconosciuta e che è

costretto passivamente a subire, nella fiaba gozziana invece chi può ribaltare la sorte è proprio

un essere mortale, Farruscad463.

Alcune caratteristiche del personaggio di Medea si ritrovano anche nel protagonista maschile

della fiaba: infatti, Farruscad ha abbandonato per un amore folle, il padre, la sorella e il regno,

colpe di cui si è macchiata Medea secondo la nutrice nel monologo che pronuncia all’inizio

della tragedia euripidea. Anche la donna rimpiange la patria («Padre mio, città dalla quale

alcun motto; anzi Esiodo in un luogo [Teogonia, v. 999] la dice Medea de’ bei piedi gran lode presso loro; ed altrove [Teogonia, v. 990] Fanciulla degli occhi belli ». 459 Ivi, p. 97: «conchiuderò pur con Diodoro che il dire, che allor quando in Grecia pervenne l’ira a tal segno la sorprendesse da far macello de’ propri parti, non possa esser altro che una mostruosità de’ Tragici [Biblioteca storica, l. IV] e infatti ella è una mostruosità, anzi un’impostura dello stesso Euripide, il quale attribuì a Medea quella strage, che fecero gli stessi Corinti. Chiaramente scrive Filostrato [Heroica, Lipsiae, 1708] che ogni anno de’ Corinti faceansi sacrifici ai figliuoli di Medea, ch’essi avevano uccisi per compiacer Glauce; e così Eliano soggiunge [Varia storia, lib. V, cap. 21] mercè dell’arte, e dell’ingegno del Poeta, la verità fu superata dalla bugia. Anzi Parmenisco presso la Scoliaste d’Euripide rapportato da Tommaso Munchero [Not. Ad Igin. Fab XXV sed quinque talentis ab illis (Corinthiis) corruptum Euripidem in Medeam transtulisse eam caedam] ci vuol persuasi che Euripide fingesse ciò corrotto da’ Corinti con cinque talenti […] ma sia egli vero, o no, certa cosa è ch’egli attribuì a Medea una colpa che non fu sua». 460 HILAIRE BERNARD DE LONGEPIERRE, Medea. Tragedia da rappresentarsi nel teatro Grimani di San Samuele, [riduzione di Gaspare Galli], Venezia, s.m.t., 1745. 461 HILAIRE BERNARD DE LONGEPIERRE, Medea, cit., p. 47, III, 7. 462 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 375, II, 5. 463 L’affermazione del libero arbitrio dell’uomo si trova nella drammaturgia spagnola barocca, in particolare nella Vita è sogno, testo noto a Gozzi, dove un principe condannato dalle stelle alla carcerazione a vita, sceglie, dopo avere sperimentato la propria cattiveria, di essere “buono” contraddicendo tutte le profezie compiute in precedenza.

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migrai dopo avere ucciso il fratello mio!»464) esattamente come Farruscad, dopo avere saputo

dal suo fedele ministro le condizioni in cui si trova la città di Teflis e dopo avere appreso la

notizia della morte del padre esclama: «Padre mio… quanto sento dolor d’aver perduto un

padre, come voi! […] Padre, regno, miei sudditi perduti, dolce sorella mia, Canzade

amata»465.

Se Giasone tradisce Medea in senso stretto, Farruscad risulta comunque colpevole di

infedeltà: infatti, egli non ha mantenuto la promessa fatta a Cherestanì e in questo modo

entrambi gli uomini, dunque, sono rei di non avere rispettato la parola data. Nella tragedia

greca è il coro a proclamare che «i giuramenti più non hanno più corso»466, mentre nella fiaba

già nella prima scena del primo atto la fata Farzana asserisce che Farruscad sarà spergiuro.

Anche una prova superata da Giasone con l’aiuto di Medea – non menzionata nella Medea

euripidea e neppure in quella senecana467 ma che appartiene alla tradizione mitologica e che

trova spazio nel testo di Rinaldi -, ricorda da vicino una di quelle affrontate da Farruscad,

depennata poi nell’edizione a stampa ma presente nella versione manoscritta della Donna

serpente ritrovata nel Fondo Gozzi. All’eroe greco, che deve mettere il giogo a due tori

selvaggi che sputano fuoco e uccidere il drago custode del vello d’oro per poi seminarne i

denti, Medea confida che da essi sarebbero nati numerosi guerrieri e che l’unico modo per

sconfiggerli sarebbe stato quello di gettare un sasso fatato causando lo scompiglio tra di loro

fino a portarli a uccidersi reciprocamente. Tale risoluzione magica è impiegata anche nel

Serpente: Geonca ordina a Farruscad di lanciare un sasso in mezzo ai soldati, che si

moltiplicavano non appena uno di loro veniva ucciso.

Nell’opera cinquecentesca di Natale Conti, Mythologiae sive Explicationis fabularum Libri X,

viene offerta una lettura simbolica della vicenda mitologica e, in particolare di questa scena:

Giasone rappresenta l’Uomo che aspira all’oro della prudenza, l’aratura del campo, diviso in

quattro parti, allude alla fatica che egli compie nella fanciullezza, nella gioventù, nella virilità

e nella vecchiaia, i tori rappresentano la voluttà, l’aratro invece gli aiuti al sostentamento

umano, mentre i guerrieri simboleggiano le avversità e le seduzioni a cui l’animo umano è

464 EURIPIDE, Medea, in IDEM, Le tragedie, a cura di Anna Beltrametti, traduzione di Filippo Maria Pontani, Milano, Mondadori, 2007, vol. I, p. 139. 465 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 363, I, 9. 466 EURIPIDE, Medea, cit., p. 157. 467 Nel testo euripideo Medea non compie alcun riferimento a questo episodio, mentre in quello senecano la protagonista accenna all’aiuto prestato a Giasone contro i soldati cresciuti dai denti del drago ma l’espediente del sasso non è citato, al contrario del testo settecentesco veneziano, Gian Carlo Rinaldi, Della spedizione degli Argonauti in Colco, cit., p. 103: «indi [Medea] gli [a Giasone] soggiunse, che appena nati gli uomini armati dovesse gittar loro nel mezzo un sasso; il quale da loro preso per cibo si sarebbero uccisi a vicenda».

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costantemente sottoposto468. È probabile che Gozzi avesse letto questo libro – vista anche la

sua natura poco accademica, congeniale dunque al gusto del veneziano -, e che ne abbia

tenuto conto durante la stesura della fiaba.

La tragedia antica si chiude con l’immagine di Medea trasportata da un carro trainato da

draghi, in un luogo che è altro rispetto al suo regno di provenienza, la Colchide, e alle città

umane. Analogamente, la conclusione della fiaba prevede la partenza di Cherestanì e

Farruscad verso l’Eldorado, un regno dunque che si trova in un mondo “altro” e “alto”469.

La seconda dimostrazione dell’apparente malvagità di Cherestanì consiste nella distruzione

delle vettovaglie destinate a salvare Teflis dalla carestia: Farruscad, che prima aveva

sopportato il dolore di un padre, non riesce invece a dominare quello di re che vede la città

prossima alla completa distruzione e, assumendo a guida del proprio operato la “ragion di

stato”, maledice la sposa, infrangendo la promessa fatta. Non avendo superato le prove

“terrene”, il principe, per riconquistare la moglie, deve superarne altre tre nella dimensione

infera, in cui si ritrova solo. La discesa nel mondo ctonio, per ricercare la propria sposa,

ricalca quella di Orfeo: ma se nel racconto mitologico l’esito è negativo proprio per la

curiositas del protagonista, colpa di cui si è macchiato anche Farruscad all’inizio della Donna

serpente, esso nella fiaba è invece positivo, grazie all’aiuto del mago Geonca, a significare

che l’Uomo ha bisogno di essere guidato da una voce – e in questo caso proprio sola voce si

tratta -, per riguadagnare la situazione edenica originaria.

Lo scontro con il toro470, simbolo della ferinità che può essere sottomessa nello stesso modo

in cui l’animale può essere addomesticato e impiegato dall’uomo nelle fatiche fisiche, è

468 NATALE CONTI, Mythologiae sive Explicationis fabularum Libri X, Venezia, [s. n.], 1568, pp. 103-104. 469 Medea è interessante in rapporto anche a un’altra fiaba, la Turandot: la cattiveria e l’insensibilità che caratterizza questo personaggio gozziano, possono essere spiegate non solo come superbia intellettuale della protagonista, ma anche come precisa risposta e presa di potere che la donna compie. In particolare, Turandot rivendica il diritto di scegliere se e con chi sposarsi: «perché mai di quella libertà [di sposarsi], di che disporre dovrai poter ognun, dispor non posso?» (CARLO GOZZI, Turandot, cit., p. 268, II, 5). Anche Medea constata proprio questa mancanza: è opinione della maga che alle donne sia riservato un destino crudele perché devono avere la dote per essere sposate, sono scelte dall’uomo, non possono ripudiare il marito, e, addirittura, arriva a dire: «noi donne tra tutti gli esseri animati e dotati di senno siamo certo le creature più misere» (EURIPIDE, Medea, cit., p. 143). Per questo tema si veda ELENA ADRIANI , Medea. Fortuna e metamorfosi di un archetipo, Padova, Esedra, 2006, pp. 46-55. Inoltre Turandot, dopo essere stata sconfitta da Calaf, si abbandona a una lunga invettiva contro il sesso maschile che non rispetta il patto nuziale, proprio come Giasone: «Io so, che tutti perfidi / gli uomini son: che non han cor sincero, / né capace d’amor. Fingono amore / per ingannar fanciulle, e appena giunti / a possederle, non più sol non le amano, / ma ‘l sacro nodo marital sprezzando / passan di donna in donna» (CARLO GOZZI, Turandot, cit., pp. 280-281, III, 2). 470 Si ricordino però anche i frequenti spettacoli veneziani della caccia ai tori (in realtà buoi) che si tenevano nelle piazze veneziane (per un approfondimento si veda LINA PADOAN URBAN, Allestimenti teatrali a Venezia nel secolo XVIII: intermezzi con giochi di magia bianca e fuochi artificiali. Apparati scenografici per le feste sull’acqua, in piazza e nei campi, in Les innovations théâtrales et musicales italiennes en Europe aux XVIIIe et XIXe siècles, a cura di Irène Mamczarz, Presses Universitaires de France, 1991, pp. 66-67). I Notatori Gradenigo riportano spesso notizie di questi spettacoli, uno anche finito male.

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riconducibile a una delle prove rituali imposte a un iniziato, frequentemente a un candidato al

trono, e anche a una delle dodici fatiche di Ercole, la lotta contro il toro di Minosse. Le

imprese dell’eroe mitologico vengono spesso interpretate come i passi del cammino che

l’anima umana compie per liberarsi dagli istinti primordiali e per staccarsi dalla materialità:

significati che ben si adattano anche alla vicenda fiabesca.

La seconda prova consiste nella lotta contro un gigante, figura anch’essa legata alla mitologia

classica: infatti i Giganti sono i figli di Gea (Terra) e lottare contro di essi significa contrastare

la propria natura primordiale per liberarsene e poter accedere alla visione e alla conoscenza

della parte spirituale del proprio essere. In questa prospettiva non sembra casuale che i

Giganti, appena nati, avessero minacciato il Cielo scagliando contro di esso alberi infuocati e

rocce enormi e che la gigantomachia, la guerra vittoriosa di Zeus contro questi esseri, ricorra

frequentemente nelle arti plastiche, in particolare nella decorazione dei frontoni dei templi

antichi.

Il terzo cimento è la richiesta a Farruscad di baciare qualsiasi cosa esca da un sepolcro: egli

accetta ma, a differenza di quanto credeva, non scopre uno scheletro bensì un serpente. Tale

animale, che nella tradizione cristiana è sinonimo del Male, della tentazione, e della

seduzione471, presenta in realtà un carattere ambivalente perché nelle culture arcaiche e

orientali aveva un significato positivo472, connesso con il significato di rinascita per la sua

capacità di ringiovanire grazie alla muta, diventando dunque il simbolo della vita che si

rigenera. Inoltre il serpente era anche un simbolo di potere: nell’antico Egitto l’ureo, ossia il

cobra in posizione d’attacco, veniva posto sopra la corona del faraone e, nella mitologia

egiziana, la divinità con il viso di quest’animale era Atun, spesso associato a Ra, dio del Sole

e quindi espressione della massima potenza della vita.

È interessante ricordare che nella rielaborazione latina del mito di Medea da parte di Seneca,

si trovano frequenti richiami proprio al serpente presentato come “monstrum”, cioè come

qualcosa di terribile e meraviglioso al tempo stesso, che è associato alla protagonista. Fin

dall’inizio della tragedia esso compare intrecciato ai capelli delle Furie, è poi evocato dalla

maga durante l’incantesimo fatto alle vesti di Creusa e si ritrova nella conclusione a trainare il

carro della protagonista («squamosa gemini colla serpentes iugo»473). Medea, inoltre, viene

definita signora dei serpenti e sembra instaurare un nuovo ordine cosmico stravolgendo le

471 Nei testi cristiani ogni animale che striscia sulla terra ha una connotazione negativa, sicchè i termini anguis, aspis, basiliscus e draco risultano intercambiabili. 472 Anche in tempi più recenti, in alcuni testi letterari, il serpente ha assunto una connotazione positiva: si pensi, per esempio, che nella Fiaba di Goethe esso simboleggia il diffondersi di un’umanità autentica. 473 LUCIO ANNEO SENECA, Medea, in IDEM, Teatro, Milano, Mondadori, 2007, p. 564.

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leggi naturali, cambiando la successione delle stagioni e invertendo il corso dei fiumi (anche

Cherestanì devia le acque del fiume Cur provocando un’inondazione nel campo del gigante

Morgone e assicurando la salvezza alla città di Teflis).

Nella riflessione del filosofo latino il serpente è chiaramente il simbolo dell’amore erotico e

sensuale che striscia nel cuore dell’individuo e gli fa perdere la ragione: l’Eros, dunque, è qui

presentato come passione smodata, che diventerà l’«immoderata cogitatione» di Andrea

Cappellano. Nella Medea senecana “vince” l’amore inteso come forza potente, primordiale e

aggressiva che distrugge l’intelletto e le regole della convivenza pacifica, concezione che

Gozzi ribalta. Farruscad, baciando il serpente, non solo dimostra di aver imparato a guardare

oltre le apparenze, ma anche di accettare la parte più irrazionale di sé; inoltre l’amore

smisurato assume un valore positivo perché nutre l’anima umana e non la rende sterile,

metaforicamente non cangia le persone in statue. E, infatti, proprio in statua si era trasformato

Calmon, un personaggio dell’Augellino belverde, che confessa di essersi tramutato in pietra

per avere letto troppo le pagine dei filosofi illuministi: «CALMON: Son un che un giorno visse

qual tu or sei / filosofo meschin […]. Tronca mi fossi / la lingua, prima di cambiare il nome /

dell’eroismo d’opere pietose, / che pur vedea talor d’uomo per altro uomo, / in quel di

fanatismo, di follia»474.

Sia Giasone che Farruscad, soccorsi dalle donne, riescono a superare le prove ma la loro

vicenda amorosa si conclude diversamente: solo il secondo infatti, è premiato e vivrà “felice e

contento” perché, sempre usando le parole di Calmon, non è stato vittima dell’«amor proprio

[…] cagione d’ogni menoma azion»475, al contrario dell’eroe greco. Inoltre è da rilevare

l’assistenza costante che il mago Geonca - invisibile a tutti e di cui, in tutto il corso della

fiaba, si sente solo la voce - presta al principe: qui il negromante non espleta solo la tipica

funzione fiabesca dell’aiutante magico perché, essendo pura phonè, egli incarna il

personaggio più lontano dalla fisicità e dalla materialità, che compare per sostenere Farruscad

nei momenti in cui Cherestanì non si materializza. Tale alternanza induce anche a ritenere

Geonca come un’emanazione dell’Amore e non sarebbe dunque un caso che nelle scene in cui

la fata non compare ci sia il mago e viceversa 476.

L’elemento duale, il divino e l’umano, che connota i due protagonisti, si ritrova fin dal

prologo della fiaba che si sdoppia in uno “celeste” e in uno “terreno”: se nella prima scena del

primo atto compaiono Farzana e Zemina, le due fate compagne di Cherestanì, che raccontano

474 CARLO GOZZI, L’augellino belverde, in IDEM, Opere…, cit., p. 705, I, 10. 475 Ibidem. 476 Adottando un’interpretazione in chiave psicanalitica moderna, Geonca potrebbe anche essere la voce interiore di Farruscad, la sua coscienza, che una volta fatta luce sulle parti “buie”, lo guida verso la luce della conoscenza.

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la storia dell’amica dal loro punto di vista onnisciente e capace di penetrare gli «arcani»477,

nella scena successiva Truffaldino e Brighella ripercorrono gli avvenimenti accaduti secondo

la loro percezione, umana, dunque limitata e imperfetta. Fin dal preludio La donna serpente

offre implicitamente due livelli di lettura: uno più profondo, capace di illuminare gli eventi,

anche quelli apparentemente più incomprensibili, l’altro più superficiale, che si limita a

registrare i fatti utilizzando i sensi, i quali spesso nella vicenda si dimostrano fallaci e

ingannatori.

Nella fiaba la dimostrazione dell’inaffidabilità dei cinque sensi e della conoscenza del mondo,

solo parziale, a cui essi conducono, cela una profonda riflessione gnoseologica da parte del

drammaturgo, che si traduce in un atteggiamento critico nei confronti della filosofia

illuministica. In questo caso, l’attacco è al sensismo settecentesco, il cui esponente massimo

fu Étienne Bonnot de Condillac: egli riconduce ogni contenuto e atto del conoscere alle

sensazioni, rielaborate, solo in un secondo momento, attraverso la riflessione478. Nel Saggio

sull’origine delle conoscenze umane (1746) e nel Trattato delle sensazioni (1754)

Condillac479 dimostra che il desiderio, la volontà e perfino la memoria sono in realtà

«sensazioni trasformate», cioè non immediate ma affinate: i sensi, dunque, in linea con i

principi lockiani480, costituiscono l’unica fonte di informazione sui corpi. Proprio da queste

teorie si sviluppò l’illuminismo materialista di Claude-Adrien Helvetius481, autore spesso

citato negativamente da Gozzi482. Il filosofo arriva a negare perfino l’esistenza di una facoltà

di giudizio che prescinda dalle sensazioni, e definisce la riflessione semplicemente come un

confronto tra immagini sensibili.

477 «FARZANA: Andiam; che non è onesto il recar tedio / al mondo aspettator d’opre inaudite, / e soprattutto con gli arcani nostri / convien non recar noia a chi ci ascolta», CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 341, I, 1. 478 Secondo Condillac, l’anima, in origine, non aveva bisogno dell’elemento materiale – il corpo – per conoscere: la dipendenza dalla sensibilità gli deriva dal peccato originale che, tra i suoi effetti, provocò ignoranza e concupiscenza, rendendo quindi l’anima schiava del corpo (Cfr. ETIENNE BONNOT DE CONDILLAC , Saggio sull’origine delle conoscenze, in IDEM, Opere, introduzione di Carlo Augusto Viano, traduzione di Giorgia Viano, Torino, Utet, 1976, pp. 90-91). 479 Il sensismo di Condillac influì sull’illuminismo materialista ed ebbe sviluppi morali e sociali in Claude-Adrien Helvétius, Denis Diderot e Paul-Henry Thiry d’Holbach. Anche in Italia il sensismo di Condillac ebbe vasta diffusione, soprattutto per mezzo dell’esposizione divulgativa fornita da padre Soave. 480 Nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane Condillac individua una linea filosofica comune che comincia con i peripatetici, passa per Bacone e giunge a Locke, verso cui lo scrittore francese spesso dimostra la sua ammirazione (Cfr. ETIENNE BONNOT DE CONDILLAC , Saggio sull’origine delle conoscenze, cit., pp. 83-84). 481 Secondo il filosofo francese dalla percezione di piacere o di dolore, insita in ciascuna sensazione, nasce l’impulso all’azione; da ciò ne deriva che l’interesse proprio, definito anche «amor di sè» - ma senza alcuna connotazione morale -, è l’unico impulso che guida l’operato umano (CLAUDE-ADRIEN HELVÉTIUS, Dello spirito, a cura di Alberto Postigliola, Roma, Editori Riuniti, 1994. p. 73). 482 CARLO GOZZI, Prefazione, in L’augellino belverde, in IDEM, Opere edite ed inedite, cit., t. III, p. 201: «i due moderni filosofi, Renzo e Barbarina, principali personaggi di quest’azione, imbevuti delle massime de’ perniciosi signori Elvezio, Russò, e Voltere; che sprezzano, e deridono l’umanità col sistema dell’amor proprio».

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La proposta di due interpretazioni dei casi di Cherestanì e di Farruscad, proprio in apertura

della fiaba, sembra riflettere la Weltanschauung dell’autore e quella opposta dei sensisti: per il

drammaturgo, i sensi – in particolare la vista - non bastano per conoscere perché si fermano

all’apparenza, ed è, dunque, necessario acquisire una visione superiore, sovraumana, in grado

di svelare gli «arcani» alla quale l’uomo deve tendere. In tale modo Gozzi pone il tema della

conoscenza e dei due principali modi attraverso cui raggiungerla, con i sensi o con un aiuto

divino: Farruscad oscilla tra questi due piani gnoseologici e fino al termine della vicenda si

muove fisicamente tra il mondo umano e quello divino, dalla reggia al bosco, dal fondo

incantato del fiume al deserto, e nuovamente dalla reggia fino alla meta finale, l’Eldorado.

La vicenda della Donna serpente, in cui uno dei due sposi infrange un divieto divino, perde

l’amata e decide di affrontare, con successo, una serie di prove per riconquistarla fino

all’apoteosi finale, sembra ispirata alla novella apuleiana di Amore e Psiche483, il cui

significato allegorico, la quête dell’Anima, è ben noto484. Il racconto, oggetto di fortunate

riscritture485, tra cui quella di Boiardo, è contenuto nel quarto libro dei Metamorphoseon libri

(o Asinus aureus) che narrano le peripezie del giovane Lucio, trasformato in asino fino alla

riconquista della forma umana, grazie all’intervento della dea Iside. In considerazione della

lunghezza e della posizione centrale della novella all’interno dei Metamorphoseon libri si

pensa essa abbia la funzione di sottolineare il parallelismo tra le esperienze di Psiche e quelle

di Lucio486: l’opera intera già nell’antichità, è stata letta come un itinerario spirituale del

483 La vicenda ricorda anche l’antico mito dell’essere mortale Pururavas per la ninfa celeste Urvaçi: egli perde l’amata per avere infranto una promessa ma riesce a riconquistarla dopo aver superato alcune prove al termine delle quali viene assunto nel mondo fatato; tale conclusione è molto vicina all’opera Le fate di Wagner, in cui l’eroe, appunto, entra a far parte del mondo superiore.. 484 Plotino fu il primo a leggere allegoricamente la vicenda: nelle Enneadi (6, 9, 9) Psiche diventa il simbolo dell’anima colma dello spirito divino che ritorna a questa condizione di partenza dopo una caduta, mentre Eros, in questo caso nella forma di oυράνιος è colui che spinge l’anima a ricongiungersi al divino (l’altra forma che può assumere è quella di Έρως πάνδηµος che invece contamina l’anima con le passionalità.). Sull’argomento, e in particolare sull’esegesi offerta da Fulgenzio Fabio Planciade (Mythologicon 3, 6), si legga CLAUDIO

MORESCHINI, Introduzione, in LUCIO APULEIO, La novella di Amore e Psiche, a cura di Claudio Moreschini, Padova, Editoriale Programma, 1991. 485 Sulla diffusione della novella nel corso del Sette-Ottocento si veda SONIA CAVICCHIOLI , Le metamorfosi di Psiche. L’iconografia della favola di Apuleio, Venezia, Marsilio, 2002, in particolare il capitolo Fra Parigi e Roma: il grande ‘revival’della favola al termine del Settecento, pp. 171-206. 486 CLAUDIO MORESCHINI, La demonologia e le ‘Metamorfosi’di Apuleio. La ‘curiositas’, in CLAUDIO

MORESCHINI, Apuleio e il platonismo, Firenze, Olschki, 1978, p. 37: «La novella di Amore e Psiche deve illuminare la storia centrale di Lucio; essa costituisce la proiezione del pellegrinaggio di Lucio nel mondo del mito, dove il messaggio è più chiaro, perché è reso universale. Il significato della novella è, dunque, nei suoi termini generali abbastanza evidente: anche Psiche, come Lucio, mostra simplicitas e curiositas; anche Psiche, come Lucio, viola le leggi della natura con questo suo atteggiamento; anche Psiche, come Lucio, ha bisogno di affrontare un certo numero di peripezie prima di essere restituita alla sua dignità –anzi, a una dignità maggiore di quella che possedeva prima. Il parallelismo tra la narrazione principale e quella più breve impone, per quest’ultima, la medesima chiave interpretativa della prima: la caduta, la purificazione, l’assunzione in un mondo più alto. Verisimilmente – anche se non esplicitamente affermata - alla base di questa concezione apuleiana si trova la filosofia platonica unita alla religione isiaca». Anche Piero Scazzoso vede nella novella

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protagonista-autore, e, più in generale, come la storia della caduta e della redenzione dell’

Uomo.

La novella apuleiana presenta di per sé alcune funzioni tipicamente proppiane che ne fanno

una vera e propria fiaba: l’allontanamento dalla casa paterna della protagonista, l’imposizione

all’eroe di un divieto e la sua infrazione, l’abbandono della nuova casa, il duello tra il

protagonista e l’antagonista, il superamento di alcune prove grazie a un aiutante magico e

soprannaturale, l’assunzione da parte dell’eroe di un nuovo stato, e infine il matrimonio.

Inoltre il racconto di Amore e Psiche si differenzia dagli altri inserti narrativi sparsi nel

romanzo perché non essendo ambientato in alcun spazio definito, accentua gli elementi

fantastici e inverosimili: l’incipit stesso, «erant in quidam civitate rex et regina»487, ricalca

quello delle fiabe.

Innanzitutto è opportuno richiamare i numerosi elementi che le due storie condividono e che

inducono a ritenere la novella una sorta di sottotesto della Donna serpente, a cominciare da

Farruscad e Cherestanì, i doppi speculari di Amore e Psiche. Nella fiaba è la protagonista

femminile ad appartenere ad un mondo sovraumano, in questo caso al mondo delle fate,

mentre Farruscad, dopo avere infranto un divieto per la troppa curiositas, (forza una

cassettiera per cercare notizie sull’identità della moglie), compie scelte e azioni che lo portano

ad avere una maggiore conoscenza di sé e del mondo circostante. Nella novella la situazione è

rovesciata: è la donna a sbagliare a causa della curiosità, volendo vedere il volto dello sposo, e

a trovarsi ad affrontare alcune prove per riconquistare lo sposo, mentre il giovane è una

divinità, Amore appunto. Entrambi i casi presentano un’unione tra due persone appartenenti a

mondi diversi, il Cielo e la Terra, l’eterno e il caduco, il perfetto e l’imperfetto, nella quale

uno dei due sposi, l’essere umano, conquista, dopo aver superato delle prove, un mondo

differente da quello in cui aveva abitato prima: Psiche è assunta nell’Olimpo e Farruscad si

reca nel mitico e opulento regno di Eldorado. Se la vicenda di Psiche rappresenta il cammino

che l’anima deve compiere per ritornare al mondo delle Idee, secondo il platonismo di cui il

testo antico è infarcito488, e in epoca ellenistica assorbì semantiche più filosofiche indicando il

tema mistico della riunificazione del divino all’uomo489, analogamente il percorso compiuto

un’allegoria dell’iniziazione, in funzione, quindi, anticipatrice del libro XI proprio per le sua struttura: stato edenico, curiositas, connubio mistico, prove di Psiche, pericolo mortale e infine apoteosi (PIERO SCAZZOSO, Prefazione, in LUCIO APULEIO, Metamorfosi, edizione critica con traduzione e note di Piero Scazzoso, Milano, Istituto Editoriale Italiano, [s. d.]. 487 LUCIO APULEIO, La novella di Amore e Psiche, a cura di Claudio Moreschini, cit., p. 72. 488 Sull’argomento si veda CLAUDIO MORESCHINI, Apuleio e il platonismo, Firenze, Olschki, 1978. 489 PIER ANGELO GRAMAGLI , La novella di Cupido e Psyche. Genere letterario e interpretazione, in Interpretazione e Riconoscimento. Riconoscere un testo, riconoscersi in un testo, Atti del Decimo colloquio sulla Interpretazione (Macerata, 21-23 marzo 1988), a cura di Giuseppe Galli, Genova, Marietti, 1989, p. 99.

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da Farruscad è leggibile come quello che l’Uomo intraprende verso la perfezione, verso

l’Ideale.

Due sono gli antagonisti di Psiche che, a differenza di quelli fiabeschi gozziani, riescono nel

loro intento: le sorelle, infatti, la spingono a infrangere il divieto e a guardare il viso

dell’amato. È vero che esse agiscono per invidia mentre i due ministri per buona fede,

convinti di fare il meglio, ma entrambe queste coppie sono caratterizzate dal fatto di costituire

il primo ostacolo propriamente umano in cui i due protagonisti si imbattono; inoltre le due

donne instillano in Psiche il dubbio che il marito sia in realtà un mostro esattamente coma

Pantalone e Togrul prospettano a Farruscad l’idea che la moglie sia una strega e una creatura

infernale.

I puntuali richiami alla tragedia classica, al mito e alle altre fonti, si spiegano nel tentativo

operato da Gozzi di rinnovare il teatro dall’interno e di farlo diventare uno spazio di

sperimentazione, secondo la sua poetica di combinare vecchie note per ottenere una nuova

sinfonia490.

La forma della fiaba veneziana presenta, quindi, una struttura fondata su spinte e controspinte,

il cui risultato consiste in un’originale compenetrazione di piani diversi in cui i momenti

avventurosi ed eroici e quelli lirici-sentimentali si intrecciano saldamente, e a cui Gozzi

aggiunge il mondo delle maschere della commedia dell’arte, creando un continuo e repentino

mutamento di luci e di ombre, di opposte prospettive, di oscillazione tra verità e apparenza.

Come i cavalieri cristiani deviano dalla loro missione e sono sottoposti alla forza centrifuga

degli eventi esterni e delle tentazioni, e solo il capitano Goffredo si dimostra la perfetta

realizzazione della virtù e della magnanimità, così Cherestanì fin dall’inizio e Farruscad solo

dopo aver compiuto una metamorfosi, sembrano incarnare i valori di lealtà, di fedeltà e di

bontà di un’umanità perduta della favolosa età dell’oro.

490 CARLO GOZZI, L’amore delle tre melarance, in IDEM, Opere…, cit., p. 55 «PROLOGO: Vogliamo in scena por commedie nuove, / cose grandi, e non mai rappresentate. / Non mi chiedete quando, come, o dove / abbiam le cose nuove ritrovate; / che dopo un seren lungo, quando piove, novella pioggia a quella pur chiamate; ma bench’ella vi sembri pioggia nuova, / fu sempre piova. / Non van tutte le cose all’infinito. / Quello, ch’è capo un dì, ritorna coda».

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Per una geografia simbolica

Il luogo in cui viene a trovarsi Farruscad una volta infranta la promessa di non cercare di

scoprire l’identità della moglie, è definito, fin dalla didascalia della seconda scena del primo

atto, come «un orrido deserto con varie rupi nel fondo, e vari sassi sparsi»491. Proseguendo

nella lettura della fiaba, però, si trovano battute che contraddicono quest’affermazione e

lasciano intendere che lo spazio in questione sia, al contrario, una foresta. Vediamole in

dettaglio.

Nella conclusione della scena terza del primo atto, Farruscad, ignorando le proteste di

Pantalone che lo vorrebbe riportare a Teflis, dichiara che rimarrà in «queste contrade» e che

continuerà senza tregua a cercare la moglie «per questi boschi solitari»492. Se tale riferimento

lascia supporre una configurazione geografica del luogo tale per cui, accanto al deserto, si

estenda un bosco - ed è plausibile ipotizzare che esso sia proprio quello in cui dialogano le

due fate in apertura della fiaba -, le successive indicazioni indicano però una sovrapposizione

tra i due spazi.

Nella scena quarta Pantalone ordina a Tartaglia di nascondersi dietro «quell’arzere»493, profilo

che non connota un’ambientazione desertica, ma, al contrario, denota la presenza di un corso

d’acqua. Sempre Pantalone, nella scena settima in cui compare travestito da mago, insiste

sulla natura diabolica di Cherestanì, svelando a Farruscad che «tutte le fiere, e gli alberi, e i

duri sassi» presenti in «quest’erema valle», sono, in realtà, uomini trasformati. Ancora una

volta vengono impiegati sostantivi che non rimandano certamente a un ambiente desertico in

senso stretto, quanto piuttosto a un luogo solitario, lontano dall’ambiente cittadino, più

verosimilmente a una radura nella foresta, ipotesi confermata anche da un’affermazione di

Tartaglia (II, 2) in cui asserisce di avere sentito, durante la notte trascorsa, l’ululato di civette,

animali spesso associati agli alberi e ai boschi. Inoltre, nella stessa scena, Tartaglia,

guardandosi intorno, vede «alberi seccati, montagne cambiate di luogo, ruscelli scorrere

d’acque pavonazze»; tralasciando il messaggio di malaugurio sotteso in tali segni, ciò che

emerge è la presenza di alberi, di montagne e di corsi di acqua, tutti elementi che inficiano

l’ambientazione desertica494.

491 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 342, I, 2. 492 Ivi, p. 351, I, 3. 493 Ivi, p. 353, I, 4. 494 Anche l’ordine di Cherestanì impartito a Farruscad di salire su «un poggio» (II, 5) tradisce l’ambientazione desertica.

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L’alternanza e l’assimilazione deserto/foresta si carica di un significato simbolico: infatti, fin

dal cristianesimo medievale il primo termine è spesso sostituito dal secondo, pur

mantenendone il significato allegorico. Da una parte il deserto alludeva a un ambiente

pericoloso, in cui si materializzavano prove da superare, - si pensi alle tentazioni a cui Gesù

dovette resistere-, dall’altra esso indicava il luogo, per antonomasia, lontano dalla città in cui

gli eremiti si ritiravano in cerca di una maggiore spiritualità o per fare penitenza. Il deserto

biblico, che appartiene alla geografia fisica del mondo orientale, nell’Europa occidentale si

“trasforma” nella foresta, il cui significato, però, si sovrappone a quello del deserto, anche

sotto il profilo linguistico495.

La foresta, con tale senso ambivalente, compare anche all’interno dei romanzi cortesi: per

esempio nel Tristan di Béroul, Tristano e Isotta, per seminare re Marco, si rifugiano in un

luogo desolato, una foresta appunto, che diventa simbolo di asilo e di penitenza. Soprattutto di

quest’ultima connotazione si carica il bosco nell’Yvain ou Le Chevalier au lion, il romanzo di

Chrétien de Troyes, in cui il protagonista, per non avere assolto la promessa fatta alla moglie

di ritornare da lei entro un anno, - si è in presenza anche qui di un patto-divieto infranto che

rimanda alla logica fiabesca, e in particolare a quella della Donna serpente -, diventa pazzo e

fugge in una foresta dove un eremita lo aiuta a rinsavire. Il bosco, dunque, non è un luogo

totalmente abbandonato dagli uomini, ma, anzi, ospita persone ai margini della società umana,

fuggiaschi e banditi – si pensi, per esempio ai Masnadieri di Schiller ,- e creature fantastiche.

La foresta-deserto diventa luogo di avventure e di prove nell’ultimo romanzo di Chrétien,

Perceval ou le Conte du Graal, il cui protagonista compie, in tale spazio, un viaggio a tappe,

che si connota come un percorso di iniziazione496, e proprio qui, in ultimo, un eremita, che si

scopre essere lo zio, gli rivela la causa e il senso ultimo delle sue “venture”.

Riassumendo, nella tradizione medievale, tre erano i significati attribuiti alla spazio che

oscilla dal deserto alla foresta:

1. luogo di asilo

2. luogo di penitenza

495 Come ha rilevato Jacques Le Goff, esiste un’associazione linguistica tra le parole deserto e foresta che si viene a creare nel momento in cui nascono le lingue romanze: «l’epiteto quasi naturale per la foresta è ‘gaste’, vuota, arida e, vicini alla foresta, sono i sostantivi ‘gast’ e ‘gastine’, luoghi incolti, lande boschive. Tutte queste parole derivano da vastum, ‘vuoto’. In questo ricco vocabolario appaiono, ancora, a lato del trionfante ‘foresta’, termini designanti i boschi, aventi la stessa radice del germanico ‘Wald’: ‘galt’, ‘gant’, ‘gandine’» (JACQUES LE

GOFF, Il deserto-foresta nell’Occidente medievale, in IDEM, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Bari, Laterza, 1983, p. 37). 496 Chrétien de Troyes utilizza la metonimia foresta «soutaine», solitaria. Un altro epiteto attribuito a questo luogo è «félone», traditrice, nel senso di spazio in cui avvengono le tentazioni e le allucinazioni, esperienze che riconducono ancora al significato simbolico del deserto biblico.

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3. luogo in cui si devono affrontare delle prove

Le tre valenze si ritrovano compresenti nella Donna serpente: lo spazio in cui Farruscad

agisce quasi fino al termine del secondo atto è un luogo di penitenza («Farruscad: Ah,

Pantalone! Io fui di me medesimo / il traditor. Disubbidii la moglie […] Fui disubbidiente, / la

curiosità mia maledico […] Ramingo sempre / andrò per questi boschi ognor chiamando /

Cherestanì mia sposa»), di asilo («Farruscad: s’abbandoni questo / duro asilo infernale, aspro,

ed atroce» e «Cherestanì: questo non fia per Farruscad più asilo»497, e di cimenti (Farruscad

“sopporta” l’uccisone dei figli).

Ma cosa indica, all’interno della fiaba gozziana, questo spazio ibrido? La risposta oggettiva è

che esso si configura come una sorta di spazio “cuscinetto” e di tempo di interregno tra il

mondo incantato in cui viveva il protagonista insieme alla moglie e ai figli prima di infrangere

il divieto e quello umano, la città di Teflis. Per comprendere meglio il suo significato, è

necessario, dunque, esaminare i due estremi.

È opportuno subito precisare che il meraviglioso palazzo, con ascendenze boiardesche498, di

cui parla Truffaldino nella seconda scena del primo atto, a parere di chi scrive, non è quello

regale, ed è collocabile in una parte imprecisata del regno di Eldorado, lontano però dalla città

capitale. La prova che avvalora tale affermazione si trova nella quarta scena del secondo atto:

i due bambini si materializzano improvvisamente davanti a Farruscad e, interrogati su dove si

trovi la madre rispondono: «Bedredino: Ell’era, padre, in un palagio luminoso, e grande,

coronata regina, in mezzo / al suono di mille strumenti, e tante grida / di voci allegre […] ma

non saprei dirvi, / qual città fosse quella». Il figlio narra di essere stato in un palazzo – si noti

l’uso dell’articolo indeterminativo-, e in una città che non conosceva, diversi quindi da quelli

in cui aveva abitato con i genitori negli otto anni precedenti: tale luogo, non familiare, è la

reggia di Eldorado. Che si tratti proprio di essa lo si desume anche dall’ultima scena del

primo atto: Cherestani, non appena ottiene il giuramento da parte del marito, è raggiunta da

Farzana, con un «seguito di damigelle» (I, 11), che le comunica la morte del padre Abdelazin,

re di Eldorado, e la sua imminente incoronazione acclamata a gran voce499: la fata, dunque, si

reca nel palazzo reale solo dopo essere diventata regina.

497 Le citazioni si trovano rispettivamente in CARLO GOZZi, La donna serpente, cit., p. 351 (I, 3); p. 363, (I, 9); p. 366, I, 10. 498 Cfr. CARLO GOZZI, La donna serpente, in IDEM, Fiabe teatrali, a cura di Alberto Beniscelli, cit., p. 226, nota 2. 499 Ivi, p. 367, I, 11: «Farzana: Ormai del vostro nome / suona ogni lido. Il popolo affollato / chiama Cherestanì, Cherestanì. / Voi sua regina vuole. Il regno, il trono / per voi sta pronto. I sudditi in affanno / chiedon Cherestanì; più non tardate».

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Il luogo incantato sotto il fiume rimanda all’Eldorado volteriano di Candido (1759), anzitutto

perché identico è il mezzo – l’acqua - attraverso cui i protagonisti vi giungono: Farruscad si

getta nel torrente, mentre Candido e Cacambo sono trasportati dalla corrente. L’opulenza del

palazzo di Cherestanì, «colle colonne di diamanti, le porte di rubini, le travi d’oro»500 evoca

precisamente i «pezzi d’oro, smeraldi, rubini»501 raccolti nelle strade dai protagonisti del

romanzo. L’Eldorado fiabesco è «ignoto al mondo; ma di più doppi avanza / il regno tuo [di

Farruscad]»502 esattamente come il regno immaginato dallo scrittore francese è sconosciuto ai

più («gli Spagnoli hanno avuto qualche lontano sentore del nostro paese, e l’hanno chiamato

El Dorado»503). E, ancora, uscire da questo luogo significa abbandonare lo stato di felicità

assoluta per un destino spesso crudele: se la sorte di Cherestanì prevede la trasformazione in

serpente per due secoli, peggiore si è rivelata quella romanzesca degli abitanti di El Dorado,

uccisi dagli Spagnoli504.

La città di Teflis, al contrario, è immersa in uno scenario tragico: è assediata, «le campagne, /

gli alberghi, i tempi sacri saccheggiati […] e scorre per tutto il ferro, e il foco»505, e il popolo

subisce ogni tipo di violenza. E un vero e proprio scenario di inferno dantesco è quello dipinto

da Canzade:

500 Ivi, p. 344, I, 2. 501

VOLTAIRE, Candido, in IDEM, Candido, Zadig, Micromega, L’ingenuo, introduzione e traduzione di Maria Moneti,Milano, Garzanti, 2000, p. 43 502 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 367, I, 11. 503 VOLTAIRE, Candido, cit., p. 46. Probabilmente Voltaire si riferisce a Walter Ralegh. Nella carta geografica da lui realizzata, l’Eldorado era collocato nella valle della Guaina, tra il Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco, al centro della quale si trova il lago di Manoa e alle cui spalle sorge la città di Manoa il Dorado, il cui re, el hombre dorado, manifestava il proprio potere facendosi soffiare addosso della polvere d’oro (Cfr. Franco Marenco, Introduzione, in WALTER RALEGH, La ricerca dell’Eldorado. Con la relazione del secondo viaggio in Guiana di Laurence Keymis, a cura di Franco e Flavia Marenco, Milano, il Saggiatore, 1982, pp. 9-43). 504 VOLTAIRE, Candido, cit., p. 45: «Il regno in cui ora vi trovate è l’antica patria degli Incas; essi molto avventatamente l’abbandonarono per rendersi soggetta un’altra parte del mondo, e furon infine sterminati dagli Sapgnoli». 505 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 244, I, 8. Il binomio ferro-fuoco, impiegato spesso nei poemi cavallereschi, dall’Orlando innamorato (MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, a cura di Riccardo Bruscagli, Torino, Einaudi, 1995, t. II, p. 1095, libro II, canto XVII, 2, p. 818: «Africa tutta vien di qua dal mare, / Sfavilla tutto il mondo a gente armata; / Per ogni loco, in ogni regïone / è ferro e foco e gran destruzïone») all’Orlando furioso (LUDOVICO ARIOSTO, Orlando furioso, a cura di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 1976, t. II, p. 1235, canto 46, 112: «che, solo, [il pagan] a ferro e a fuoco una gran parte [di Parigi] / n’avea distrutta, e ancor vi rimanea, / e rimarrà per molti giorni il segno»), compare anche nelle tragedie coeve. Si pensi, per esempio, al Creso di Giovanni Dolfin in cui lo scenario prospettato è desolante: «Creso: i prati verdi / De’regni miei col sangue / Coloriscono i fiori, / E già purpuree in lor nascono l’erbe / Già nel fecondo suolo / Il ferro, e ‘l fuoco ostil mieton le biade. / Già dentro a i Lidi fonti / Si bee l’acqua sanguigna; / E del Pattolo già le bionde arene / Si veggono vermiglie. / E mentre ei l’onde al mar porta in tributo, / Urta in monti d’estinti, e in dietro corre; / E nel mirar se stesso / Mutato in sangue, inorridisce, e geme. / Angusti sono i campi all’ossa, e poca / Per coprire i cadaveri è la terra, / Che i vomeri e gli aratri in van sospira» (GIOVANNI DOLFIN, Creso, in Tragedie del cardinal Giovanni Dolfin con dialogo sopra di esse, Roma, presso Gio. Maria Salvioni, 1733, pp. 149-150, I, 1).

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Canzade: Per l’assedio crudo / d’inedia, e fame mezzi i cittadini / languendo estinti son. Mancati i cibi, / i

destrier furon cibo, indi ogni carne / ogni animal domestico fu cibo. / Che più? M’inorridisco. Uomini morti /

cibo furo a’ viventi, e padri a’ figli, / e figli a’ padri, ed alle mogli furo / delle ingorde, e per fame empie

mascelle, / abbominevol pasto, orrido e fiero. / Pianti, ululati, e maledizioni. / Pe’desolati alberghi, e per le vie /

s’odon reiterar sopr’al tuo capo506.

Gli aggettivi evidenziati (in corsivo nel testo) si trovano spesso impiegati nella fiaba nel

momento in cui si fa riferimento al serpente507, chiaro simbolo infernale, o alla “strega”

Cherestanì, quasi a voler indicare che il male assoluto, incarnato in tale animale, si trova ora

nella città.

Se nel contesto culturale cortese il bosco, nella sua accezione di luogo spirituale, era avvertito

in opposizione al mondo, in particolare al castello, nella vicenda della Donna serpente il

castello è sostituito con Teflis, e, più generalmente con il concetto di città. Tale connotazione

negativa, di cui si carica la società moderna, si ritrova anche in altre fiabe: in Zeim re de’ geni

Balsora appare un luogo lascivo e da evitare, mentre nel Mostro turchino e nei Pitocchi

fortunati il regno è governato da persone inetti, che lo privano della giustizia. Da questa breve

carrellata si evince che l’idea di città, per Gozzi, è associata alla rovina, che essa avvenga per

cause endogene o esogene (per esempio la città di Teflis assediata dai barbari). Ciò non può

non riportare alla concezione conservativa sociale e politica del drammaturgo che, assistendo

in prima persona alla fine di un’intera epoca, percepiva tale cambiamento come dannoso e

rimpiangeva la stabilità del passato.

Se l’Eldorado rappresenta una condizione di perfezione508, una sorta di paradiso perduto, e

Teflis un luogo infernale, il deserto-foresta, che sta in mezzo a questi due poli, si configura

verosimilmente come uno spazio purgatoriale, che prelude a una “salita” e quindi intermedio.

Tutti i personaggi che si muovono in quest’ambiente sono dantescamente connotati dal tema

del ricordo: Truffaldino e Brighella il modo in cui sono giunti nel deserto, Farruscad

ripercorre la vicenda amorosa, infine Togrul illustra al principe la situazione politica del regno

dal momento della sua scomparsa. All’interno di questa panoramica l’unica eccezione sembra

506 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 382,II, 10. Il rimando è al dantesco fiero pasto del conte Ugolino (Inferno, 33, 1). I corsivi sono nostri. 507 «Zemina: che cambierà la sua bella presenza / in schifo, abominevole serpente, / se lo sposo in diman la maledice?»; «Pantalone: l’ingorda maga, / lasciva, infame»; «Cherestanì: per viltà estrema tua sarò a me stessa / per il corso de’ secoli, e a’viventi / miserabile oggetto, orrido, e schifo», «Cherestanì: perfido, io sola / miseramente abbandonat ti deggio, / cambiar l’aspetto in orrido serpente» (CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., rispettivamente p. 341, I, 1; p. 357, I, 7; p. 261, II, 5, p. 337 e p. 388, II, 12). 508 L’oro, a cui rimanda la parola Eldorado, nelle dottrine alchemiche indicava la conoscenza esoterica e rimandava a uno stadio più elevato dell’evoluzione spirituale dell’uomo. Nel cristianesimo, soprattutto ortodosso, l’oro è il simbolo della luce divina e della perfezione, come risulta anche dall’impiego del metallo nelle tavole medievali e nelle icone.

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essere Cherestanì, la quale anzi, parla del prossimo futuro, ma, le didascalie della fiaba

informano che all’apparire della fata «s’andrà il deserto trasformando in un giardino»509.

Lo spazio purgatoriale si muta dunque nel giardino edenico: in questo modo per Farruscad,

addormentatosi, diventa possibile ascoltare le rivelazioni sulla sua sorte e su quella della

consorte, rivelazioni che però sono parziali e riferite per arcani. Dopo la “caduta” causata

dalla curiositas, il giovane può rivedere l’Eldorado, a cui tornerà per altre vie, solo in

sogno510: infatti, il sonno in cui sprofonda Farruscad è definito inaspettato e prodigioso511 e

l’ora in cui il avviene, circa l’alba512, è tradizionalmente indizio della sua veridicità. Nella

Donna serpente, dunque, il sonno non è l’imago mortis, non rimanda al mondo infero, anche

se Farruscad, addormentandosi, sente «una sinfonia soave, che terminerà sonora,

strepitosa»513; nelle fiabe il canto o la melodia erano spesso elementi che preludevano al

regno dei morti: l’eroe si addormentava in un bosco dopo aver sentito dolci suoni

(esattamente quello che succede anche al Rinaldo tassiano che cade in un sonno profondo

dopo aver udito il canto di Armida514).

L’ “altro” mondo: l’ombra di Melusina e di Morgana e altri echi fiabeschi

L’unione tra un essere immortale, soprattutto una fata, e uno mortale, tema centrale della

Donna serpente, affonda le sue radici nelle fiabe popolari, che a loro volta rielaborano episodi

509 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 363, I, 10. 510 Il trasporto magico da un luogo all’altro, e, nello specifico, dalla selva al palazzo, si ritrova nella commedia spagnola En est avida todo es verdad y todo es mentira, oltre che nella Vita è sogno ma se in quest’ultimo lo spostamento, anche allegorico, di Sigismondo dal carcere al palazzo avviene sotto sonnifero, nella prima commedia calderoniana citata lo spostamento avviene per magia Cfr. ERMANNO CALDERA, Sulla “spettacolarità delle commedie di magia, in IDEM (a cura di), Teatro di magia, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 15-16. 511 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 363, I, 9: «Farruscad: Ma qual fiacchezza, e qual sonno improvviso / m’assale, e mi trattien! Non so partire… / non so fermarmi… e vorrei pur… né posso… (siede sopra un sasso) / l’inaspettato… prodigioso sonno… / qualcosa vuol da me (s’addormenta)». Anche Psiche, dopo aver aperto il vasetto ricevuto da Proserpina, viene colta da un sonno infernale: a questo punto Cupido la raggiunge e, svegliandola, le consente di portare a termine l’ultima prova affidatale da Venere; di tipo celeste è, al contrario, il sonno di Farruscad. In entrambe le vicende, però, l’apparizione dello/a sposo/a divino avviene nel momento in cui la ragione e la vista smettono di operare, creando nell’essere umano la predisposizione a utilizzare un altro tipo di sguardo. 512 È lecito ipotizzare che si tratti di un sogno fatto all’alba perché nella scena precedente, (I, 9), si dice che il confronto tra Farruscad e Togrul smascherato avviene quando la notte è già avanzata, mentre nella scena successiva, (II, 1), Brighella e Truffaldino parlano della notte appena trascorsa. 513 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 363, I, 10. 514 TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Mondadori, 1976, p. 152, canto XIV, 65: «Sì canta l’empia [Armida], e ‘l giovinetto al sonno / con note invoglia sì soavi è scòrte. / Quel serpe a poco a poco, e si fa donno / sovra i sensi di lui [Rinaldo] possente e forte; / né i tuoni omai destar, non ch’altri, il ponno / da quella queta imagine di morte».

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mitologici515. In particolar modo, la vicenda per cui un uomo si mette alla ricerca della moglie

soprannaturale scomparsa e delle conseguenti avventure per recuperarla, rientra appieno nella

classificazione di Aarne e Thompson (tipo 400: l’uomo alla ricerca della moglie perduta).

Tale materiale fiabesco viene assunto e rielaborato dai romanzi cortesi sicchè è possibile

trovare tracce della vicenda fiabesca gozziana nel Roman de Mèlusine ou l’Histoire des

Lusignan che Jean d’Arras compone verso la fine del Trecento516. Con la nascita della

leggenda di Melusina e la prolificazione dei racconti che ad essa si ispirano517, si viene a

formare un tipo di schema narrativo ricorrente, definito da Laurence Harf-Lancner

“melusiniano”, in contrapposizione a quello “morganiano” 518:

RACCONTO MELUSINIANO RACCONTO MORGANIANO 1. Incontro -presenza del bosco e/o dell’acqua -caccia -solitudine dell’eroe -apparizione e inseguimento dell’animale magico -apparizione della fata

1. Incontro -presenza del bosco e/o dell’acqua -caccia -solitudine dell’eroe -apparizione e inseguimento dell’animale magico -accesso a un altro mondo

2. Patto 2. Patto

515 L’unione tra un essere umano e uno divino, a significare la compenetrazione dei due mondi, è il tema di numerosi racconti mitologici. Tra tutti, qui ci limiteremo a ricordarne uno significativo in rapporto alla Donna serpente: l’episodio dell’amore di Venere per Anchise, a cui la dea tiene celata la sua identità. Filostrato offre una spiegazione del motivo per cui un tale tipo di unione non era auspicabile: «le divinità amano esseri divini e gli uomini esseri umani, e gli animali amano altri animali. In breve, esseri simili amano i loro simili, per generare una discendenza autentica e della loro razza; ma quando un essere si congiunge con un altro diverso, non si ha né unione né amore» (FILOSTRATO, Vita di Apollonio di Tiana, a cura di Dario Del Corno, Milano, p. 304, 1978, VI, 40). Congiungersi con una dea è, dunque, una colpa, esattamente quella di cui si è macchiato Farruscad agli occhi di Pantalone («Pantalone: Ah, quanto / dovrai patir, stolto garzon, che cieco / a lei ti desti in preda, a ripurgare / la colpa tua d’esserti a lei congiunto!», CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 357, I, 7) e, soprattutto, essa investe anche i figli che diventano «figli di sozzo amor, figli d’abisso» (p. 358, I, 7). Il matrimonio tra mortali e esseri soprannaturali diventerà un tema frequento spesso dalla produzione romantica, che in quest’unione intravedeva la continua ricerca della perfezione da parte dell’uomo: si pensi, per esempio, al balletto gauteriano La Péri, ispirato a un racconto contenuto nelle Mille et une nuits. 516 La trama del romanzo francese è la seguente: un giorno, durante una battuta di caccia, il re Elinas d’Albania, nei pressi di una fontana sente un canto melodioso che proviene da una fanciulla di straordinaria bellezza, la fata Presine, di cui si innamora. La fata accetta di sposarlo purché egli giuri di non vederla durante il parto, ma Elinas non mantiene fede alla promessa e Presine scompare per sempre portandosi via le tre figlie, tra cui Melusina, la quale, cresciuta e scoperto il tradimento del padre, decide di punirlo. La madre, però, ancora innamorata dello sposo infligge alla figlia una terribile punizione: ogni sabato fino al giorno del Giudizio si muterà in serpente dalla vita in giù. Il figlio del conte di Forez, Raimondino, uccide accidentalmente lo zio, conte di Poiters, e, disperato vaga per la foresta. Qui, accanto a una fontana, incontra Melusina che gli promette di aiutarlo se accetta di sposarla con il patto di non vederla mai il sabato. Il giovane accetta e i due vivono felici con i loro dieci figli e ingrandiscono il regno, costruendo anche il castello di Lusingano. Raimondino infrange la promessa e Melusina si trasforma in un enorme serpente alato, sparendo nell’aria tra gemiti e grida di dolore. I figli della fata e i discendenti compiranno grandi imprese, rendendo così il nome dei Lusingano famoso, mentre il re, pentito, si ritirerà a vita in un monastero. 517 Chamfort, Dictionnaire Dramatique, p. 216. Né si deve dimenticare la pièce Mélusine presentata al Theatre Italien nel 1719 per Fuzelier 518 Cfr. LAURENCE HARF-LANCNER, Introduzione, in Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1989, in particolare pp. XI-XV. Nelle composizioni in cui è presente Morgana, la fata è dipinta come una donna malvagia e lussuriosa, che imprigiona nel suo castello gli amanti.

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-amore improvviso -richiesta di matrimonio da parte dell’uomo -assenso della donna a una condizione

-amore improvviso -richiesta di matrimonio da parte dell’uomo -assenso della donna a una condizione

3. Unione nel mondo umano -vita felice con prole

3. Unione nel mondo magico

4. Violazione del patto -scoperta della natura ferica della donna

4. Violazione del patto

5. Scomparsa della fata -la prole resta con il padre -l’uomo resta solo e sconta la sua colpa

5. Ritorno del protagonista nel mondo umano

[in alcune tradizioni, che non appartengono al corpus melusiniano, l’eroe si riscatta e, affrontando una serie di prove impossibili, si ricongiunge con la sposa e insieme vivono nel mondo soprannaturale]

La Donna serpente si presenta come il risultato del connubio di questi due schemi, che

vengono riassunti e condensati nelle prime due scene iniziali della vicenda e proposti in

termini fiabeschi: il passato – gli otto anni trascorsi dall’uscita venatoria di Farruscad-, viene

narrato sotto forma di favola e l’analessi termina con la scomparsa della fata e con la cacciata

del protagonista dal mondo fatato, senza ritorno a quello originario.

L’incontro tra Farruscad e Cherestanì avviene secondo le modalità del racconto morganiano:

Farruscad, durante una battuta di caccia in un bosco, insegue una cerva bianca che si getta in

un fiume, e, per catturarla, si butta nell’acqua ed entra in un “altro” mondo519. Il colore della

cerva, che nella novella orientale Histoire du roi Ruzvanschad et de la princesse Cheristany

era bianca con macchie gialle e nere, si spiega in rapporto alle féerie: solitamente gli animali

che accompagnano le fate, cani e cavalli, sono bianchi; tale colore, dunque, è un rinvio

immediato allo status soprannaturale della donna, e, probabilmente, proprio per questa

allusione, Gozzi, nel Serpente, aveva indicato che le fate dovessero essere vestite di bianco520.

Dopo la promessa fatta da Farruscad di non cercare l’identità della moglie, i due amanti

insieme ai figli – una caratteristica, quest’ultima, melusiniana - vivono per otto anni nel regno

soprannaturale. A questo proposito è interessante rilevare che Gozzi, optando per la

segretezza della natura della fata, si discosta dall’ Histoire du roi Ruzvanschad et de la

519 La tradizione medievale è ricca di donne fatate che vivono in magnifici palazzi sotto l’acqua: si pensi soprattutto alla Dama del Lago e all’evoluzione graduale delle ninfe delle acque, le Sylvaticae, in fate, che conservano però questo legame con l’acqua (anguane, ondine, sirene). 520 SR, c. 2r, I, 1.

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princesse Cheristany, in cui, invece, la protagonista svela immediatamente la propria identità

e anzi, proprio a causa di questa, intima al principe di non maledirla mai521.

Dopo la violazione del patto, che aveva permesso a Farruscad l’ingresso nel mondo fatato, si

assiste alla sua espulsione da esso, che coincide con il termine dei racconti morganiani. A

questo punto, un altro accordo – il giuramento di non maledire mai la moglie – consente a

Cherestanì di materializzarsi anche nel mondo terreno – la fata, dunque, anche se per poco

tempo, vive tra gli uomini come Melusina-, in cui però non è accettata e, a causa del suo

comportamento in apparenza crudele, viene “cacciata”. In termini proppiani, i due segmenti

presentano le diverse tipologie in cui si presenta l’eroe nelle fiabe: vittima (viene rapito), e

cercatore (si mette alla ricerca del bene rubato, in questo caso della consorte).

Com’è noto, la vicenda della Donna serpente prosegue: il giovane affronta prove impossibili

fino a riconquistare la sposa, con cui vivrà in una dimensione soprannaturale. Tale regno è

quello meraviglioso e opulento del racconto morganiano, in cui la fata conduce i suoi amanti,

dimentichi di tutto il resto; ma l’oblio della vita terrena rimanda anche al mondo dei morti,

spesso oggetto della catabasi da parte degli eroi fiabeschi.

L’ “altro” mondo è connotato dall’assenza della temporalità: per il protagonista il tempo non

passa mai, e così, quando egli ritorna nel mondo terreno, scopre solitamente che i genitori

sono morti ed egli stesso si trova vecchio tutto d’un colpo.

Anche all’interno della Donna serpente permane la distinzione forte tra il mondo umano e

quello ctonio, connaturale al genere fiabesco, la cui soglia è costituita dal fiume in cui cade

Farruscad. Infatti, tutto quello che si trova sotto di esso rinvia a una dimensione infera, che,

come per altre fiabe, non deve necessariamente essere infernale522.

Proprio il fiume523 in cui si getta l’eroe gozziano acquista i tratti infernali del Lete: esso

cancella nel principe ogni traccia della vita terrena, tant’è che egli non menziona mai la

521 La protagonista si presenta coma la figlia del re dei Geni, Menontcher, e, poco prima del matrimonio, ricorda al giovane, definito «figlio di Adamo», che, appartenendo a due specie diverse potrà capitare che assista a qualcosa di inusitato: egli deve sopportarlo, affidandosi al fatto che i geni non operano mai a capriccio. 522 ANITA SEPPILLI, Poesia e magia, Torino, Einaudi, 1971, p. 480: «Infero [va inteso] non tanto come materialmente sotterraneo, quanto come evocazione del luogo mitico oltre le acque, comunque sia storicamente immaginato, dove si decidono i destini». Il mondo infero non è necessariamente un Inferno: in molte fiabe per esempio al personaggio sprofondato sottoterra appare un mondo meraviglioso e lucente, si pensi per esempio, alle Scarpe logorate dal ballo in cui dodici principesse scendono ogni notte nella profondità della terra per ballare in un mondo meraviglioso, costruito con argento, oro e diamante. 523 Come già ha già notato Alberto Beniscelli (Carlo Gozzi, La donna serpente, cit., p. 225, nota 3), il salto nell’acqua dei personaggi gozziani ricorda quello compiuto da Orlando e Adriano nel lago al cui fondo si trova il palazzo di Morgana. È opportuno rilevare che, nelle ottave in questione, il mondo della fata è ripetutamente definito altro e nuovo rispetto a quello di partenza dei cavalieri, a significare che si tratta proprio di un regno diverso da quello umano e terreno: «Cadendo dalla ripa a gran fraccasso / Callarno entrambi [Orlando e Aridano] per quella acqua scura, / Dico Aridano e lui tutti in un fasso. / Già giuso erano un miglio per misura, / E roïnando tutta fiata a basso, / Cominciò l’acqua a farsi chiara e pura, / E cominciarno di vedersi intorno: / Un altro sol

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famiglia e il regno fino all’arrivo di Togrul e Brighella, il cui compito, analogo a quello della

coppia tassiana formata da Ubaldo e Carlo, è di riportare con loro sulla terra il giovane,

irretito dalla bellezza della fata/maga.

Un elemento che conduce a una sfera “altra” è ravvisabile fin nella prima scena del primo

atto: le due fate –tre se si considera anche la nominata Cherestanì- si rivelano essere proprio le

fatae, ovvero coloro che reggono il Fato, le tre Parche524. Esse, infatti, conoscono il futuro –

sanno che Farruscad sarà spergiuro e che il giorno seguente sarà quello fatale -; in particolar

modo Farzana, che non approva il matrimonio dell’amica con Farruscad, si sovrappone a

Lachesi: è colei a cui «è commessa l’opra»525 di recidere il filo della vita del principe. Che

Gozzi intenda alludere alle tre Parche, è confermato anche dalla scelta di discostarsi

dall’Histoire du roi Ruzvanschad et de la princesse Cheristany: se nella novella orientale la

protagonista è accompagnata da una sola ancella, Maimona, nella Donna serpente è invece

attorniata da due figure femminili che compongono la triade mitologica.

L’identificazione proposta è per altro corroborata dalla presenza del re Demogorgon: il

signore delle fate, già presente nella tradizione letteraria, per esempio in Boiardo e in

Marino526, secondo la mitologia è anche il padre delle Parche. Egli è dipinto già nell’Orlando

innamorato come una sorta di vero e proprio tiranno, che può castigare così duramente le fate

tanto da far loro desiderare la morte527. Anche nella Donna serpente Demogorgon assume

tratti negativi: ha costretto Cherestanì a non rivelare la propria identità al marito e le ha

imposto di essere crudele e feroce agli occhi dello sposo; inoltre, ha imposto che la fata si

trasformi in un serpente per due secoli nel caso in cui Farruscad non adempia alla promessa.

Il mutamento di una fata in quest’animale o in uno simile, come punizione per un’infrazione

commessa, si trova per la prima volta menzionato, -almeno secondo l’opinione di chi scrive-,

trovarno e un altro giorno. / Come pasciuto fosse un novo mondo, / Se ritrovarno al sciutto in mezo a un prato» (MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, cit., p. 664, II, VIII, 4-5). I corsivi sono nostri. 524 Pio Rajna, Le fonti dell’Orlando furioso, a cura di Francesco Mazzoni, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 130-131: «le fate, […] sono in sostanza vecchie divinità sbalzate dal trono». Per il significato si pensi anche ai tria Fata, cioè alle tre statue rappresentanti le Parche, che si trovavano sul Foro romano. 525 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 223, I, 1. 526

IDEM, La donna serpente, in IDEM, Fiabe teatrali, a cura di Alberto Beniscelli, cit., p. 221, nota 2, cui va aggiunta la menzione fatta da Ariosto nei Cinque canti (I, 4 e I, 30). 527 MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, cit., p. 754, II, canto XIII, 27-28: «Sopra ogni fata è quel Demogorgone / (Non so se mai lo odisti raccontare), / E iudica tra loro e fa ragione, / E quello piace a lui, può di lor fare. / La notte sa cavalca ad un montone, / Travarca le montagne e passa il mare, / E strigie e fate e fantasime vane / Batte con serpi vive ogni dimane. / Se le ritrova la dimane al mondo, / perché non ponno al giorno comparire, / Tanto le batte a colpo furibondo, / Che volentier vorian poter morire. / Or le incatena giù nel mar profondo, / Or sopra al vento scalcie le fa gire, / Or per il foco dietro a sé le mena, / A cui dà questa, a cui quella altra pena».

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nel dramma per musica La fata meravigliosa528, in cui è presente anche il tema del Fier

Baiser, oltre alla trasformazione di un uomo in cervo, episodio che connota la fiaba gozziana

Il re cervo. La fata Carmenta espone la legge di Demogorgon secondo cui ogni essere fatato è

trasformato in basilisco per un intero giorno:

CARMENTA: Del sovran / Re de Genj temuto, e spaventoso / Demogorgon, è legge / Che ogni Fata soggiaccia alla

sciagura / Di commutarsi per lo spazio intiero / D’una notte in un mostro orrido, e fiero. / In me che gli son cara /

A poch’ore ristretta è la mia pena; / Né liberar mi posso / Da questa metamorfosi deforme, / Se un cavalier

gentile / Vago d’aspetto (e tal sareste voi) / Non fa del suo coraggio / Prova.

RONFONE: E qual prova è codesta?

CARMENTA: Allor ch’io resti / Dal mostruoso aspetto / Coperta, e trasformata, un dolce baccio / Imprimendomi

in fronte, in quell’istante / Ripiglio l’esser mio.

RONFONE: Or via farlo prometto

[…]

CARMENTA: S’accosta il fier momento… / Ohimé che legge è questa! / Fuggo… non posso… ahi sento / L’ora

per me funesta / Quel punto a me fatal. / Odio, furor, e sdegno / Mi occupa i sensi, e tremo / Fuggo da me stessa,

e temo / L’inevitabil mal.

Si trasforma la Fata in un Basilisco529.

Che il luogo in cui si trova Farruscad all’inizio della fabula sia infero è dimostrato dal viaggio

compiuto da Togrul e Brighella: dal monte Olimpo, attraverso un buco, anch’essi compiono

una discesa, durante la quale sono capaci di non assumere cibo grazie alle virtù magiche di un

cerotto posto sullo stomaco da Geonca. Questo espediente potrebbe essere la traslazione del

divieto di non mangiare, che spesso si ritrova nelle fiabe: l’eroe, una volta sceso sottoterra,

non deve nutrirsi del cibo ctonio, pena il rischio di restare in quel mondo, come dimostra

anche il mito di Proserpina, condannata a non poter abbandonare il regno di Plutone per aver

ingoiato chicco di melograno. Proprio a questo mito, collegato all’oltretomba, rinviano i

«torchi accesi»530 di cui parla Brighella, - il cui accenno sembra superfluo nell’economia

528 La fata meravigliosa, dramma giocoso per musica da rappresentarsi nel teatro di San Cassiano nel carnevale 1745, Venezia, presso Modesto Fenzo, 1746. 529 Ivi, cit., pp. 53-54, III, 3. Le possibilità che Gozzi abbia letto o visto a teatro quest’opera aumentano se si confronta la scena immediatamente successiva al bacio con quella analoga contenuta nel Serpente: «Ronfone da un bacio in fronte al mostro, e nello stesso punto sparisce l’antro, ed il mostro medesimo restando, lui immobile, e la Scena mutata in montuosa, con porto di mare, e con un mobilissimo naviglio sull’ancore» (Ivi, p. 55, III, 3); «Resterà in arbitrio del sepolcro e del monte il formare qualche scena a piacere» (SR, c. 33r., III, 14). È probabile che Gozzi, non avendo ancora elaborato e sperimentato una risoluzione scenica precisa, si sia ricordato di quella adottata nella Fata meravigliosa, in cui appunto si assiste a un cambio di scena a partire da una montuosa. 530 Carlo Gozzi, La donna serpente, cit., p. 345, I, 2.

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meravigliosa della fiaba -, gli stessi cioè utilizzati da Demetra per ricercare la figlia

Proserpina.

Il divieto di non toccare cibo infero spiega i lauti banchetti allestiti magicamente nel deserto.

Se è lecito supporre che si tratti di un’opera amorosa di Cherestanì verso lo sposo, è però

curioso che la voce di donna che ordina a Farruscad di mangiare non sia riconosciuta come

quella della moglie («Farruscad: voce, tu non sei già della consorte»531). L’assunzione di cibo

nell’“altro” mondo comporterebbe al protagonista l’impossibilità di ritornare nella propria

dimensione, evenienza, questa, che Farzana e Zemina vogliono evitare. La voce udita da

Farruscad sembra, a chi scrive, che appartenga più opportunamente a una delle due fate,

probabilmente a Farzana: è necessario che il “nemico” si nutra con cibo magico e che non sia

contaminato da quello infero. Tale precauzione si esaurisce nel momento stesso in cui a

Farruscad viene ordinato di salire su un poggio per essere ricondotto a Teflis532, e quindi

termina il “rischio” che si possa fermare: dopo di esso, infatti, la mensa si trasforma in un

vero e proprio pranzo infernale composto da scorpioni, rospi e serpenti.

In questa prospettiva, anche il divieto di non maledire la moglie posto a Farruscad, uomo in

carne e ossa, si presenta come un surrogato del silenzio, che l’eroe di molte narrazioni

fiabesche deve rispettare per poter accedere al mondo infero e poi ritornare.

Il deserto svela la propria dimensione diversa da quella terrena nel momento in cui le armi

“tradizionali” vengono neutralizzate dalla magia: Farrusacad, Togrul, Pantalone e Tartaglia

sfoderano le spade per salvare Bededrino e Rezia ma rimangono «incantati»533. Nel mondo

della fata i mezzi umani non hanno più potere, esattamente come l’elsa di Rinaldo prigioniero

che, anzi, nella Gerusalemme liberata, assume un’altra funzione (magici, infatti, sono gli

strumenti donati dal mago di Ascalona a Carlo e Ubaldo, verga, foglio e scudo).

Tale questione conduce al problema della identificazione del luogo campestre in cui

Farruscad affronta le tre prove: esso si trova in uno spazio infero o terrestre? A dimostrazione

della prima ipotesi c’è soprattutto la didascalia posta alla fine della quarta scena del terzo atto:

«[Farruscad] porge la destra a Farzana, e con un prodigioso lampeggiar nell’aere

sprofondano tutti e due»534, in cui l’inabissamento dei due personaggi allude,

immediatamente, a una nuova catabasi nel mondo infero, in cui Farruscad si scontra con

creature magiche, un toro che sputa fuoco e un gigante in grado di ricomporre gli arti

531 Ivi, p. 355, I, 5. 532 Nella novella orientale è il protagonista a chiedere di potere fare ritorno al suo regno, la Cina, invasa dai Mongoli. 533 Carlo Gozzi, La donna serpente, cit., p. 576, II, 5. 534 Ivi, III, 4, p. 394.

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amputati dalla spada. La terza prova si inserisce perfettamente in questo contesto: il serpente,

infatti, uscendo da un sepolcro, esplicita il rimando al mondo dei morti, ed, evocando

l’atmosfera del finale del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, - Farruscad non ha

mantenuto una promessa come Don Juan -, offre un’ulteriore conferma che si tratti di una

scena non propriamente terrena.

Il luogo campestre è, però, facilmente raggiungibile anche da tutti gli altri personaggi della

pièce: ad essi, infatti, Geonca ordina di prestare soccorso a Farruscad, che si trova «presso al

monte vicin»535, a cui essi sopraggiungono, seppure a prove già terminate. L’indicazione

geografica del negromante sembra indicare una zona concreta e abbastanza vicina alla reggia,

non un luogo conio e inaccessibile.

Si è già detto che i personaggi non riescono ad estrarre la spada per impedire alle guardie di

Cherestanì di gettare i gemelli nel fuoco: è evidente, dunque, che quel contesto fosse

imperniato di magia. Tale problema, però, non sussiste nel luogo campestre: Farruscad riesce

a sconfiggere i il toro e il gigante combattendo con la propria spada e Geonca si limita a

indicargli il punto in cui deve colpire gli avversari, non fornendogli alcun mezzo magico,

presente generalmente in numerose fiabe, anche gozziane (si pensi, per esempio, agli

strumenti che il Mostro turchino, nell’omonima pièce, dona a Taer con lo scopo di salvare la

donna amata). Adottando quest’ottica, può essere spiegata la scelta del drammaturgo di

depennare la prova che prevedeva la lotta di Farruscad con uomini armati la cui peculiarità era

quella di moltiplicarsi: infatti, in quell’occasione, la risoluzione era totalmente affidata a un

sasso magico.

L’appartenenza della scena campestre al mondo infero o a quello terrestre non è definibile con

certezza; tuttavia, a questo proposito, utile è la distinzione tra trasferimenti orizzontali e

verticali (discese/ascese) che compie Gian Paolo Caprettini536. Egli sostiene che nella

traslazione, cioè il movimento che avviene in senso orizzontale, si sottolinea il concetto di

sfida: l’altrove è nel mondo “storico” e il protagonista si confronta «con difficoltà che

competono all’organizzazione del mondo in cui vive»537, mentre nelle discese-ascese si

delinea un concetto di prova come sfida di un limite, e non dunque di una persona e l’eroe,

che qui si connota come eroe-cercatore, essenzialmente sfida se stesso, scontrandosi con forze

che lo attraggono verso altre sfere.

535 Ivi, III, 8, p. 397. 536 GIAN PAOLO CAPRETTINI, La fiaba e il mondo che non c’è. Brevi considerazioni sulla sfida, la prova e l’altrove come luogo del senso alternativo, in Immagini dell’Aldilà, a cura di Sonia Maura Barillari, Roma, Meltemi, 1998, pp. 181-186. 537 Ivi, p. 183.

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Le prove a cui si sottopone l’eroe costituiscono un vero e proprio rito di iniziazione, in cui

non c’è alcun membro della comunità (e, infatti, Farruscad le affronta nell’unico momento

della vicenda in cui non ha nessuno al suo seguito). La solitudine dell’eroe sottolinea che egli

è l’eletto, a lui solo è concessa la possibilità di accedere ad un mondo superiore, e il

superamento delle tre prove, elementi connaturali al genere fiabesco, consente a Farruscad di

essere degno di accedere al mondo soprannaturale della sposa e, soprattutto di essere il re di

Eldorado538, carica che, all’inizio della vicenda, non poteva ricoprire, perché il padre di

Cherestanì era ancora in vita. La morte di Abdelazin, la cui notizia è data in sordina539 e che

può essere letta come una traslazione dello scontro fiabesco tra genero e suocero, è in realtà

un accadimento importante: Cherestanì, incoronata regina, potrebbe disporre del regno a suo

piacimento, ma la legge di Demogorgon le impedisce di essere completamente libera. Ancora

una volta, si è in presenza di un’autorità maschile che impedisce alla figlia di sposare l’uomo

che desidera, innescando un inevitabile scontro generazionale.

Opposto a Demogorgon, signore tirannico e crudele, si colloca la figura di Geonca, che

assolve la funzione del deus ex machina classico: questo personaggio – che si presenta come

pura voce -, pur comparendo solo alla fine della vicenda, si rivela il suo risolutore e l’unico,

tra i personaggi soprannaturali, ad essere onnisciente. Infatti, nessuna delle fate sa quale sarà

la sorte di Cherestanì, - e nel primo atto addirittura Zemina sbaglia prevedendo che Farruscad

non sarà spergiuro – mentre Geonca rivela fin dall’inizio a Togrul che se Farruscad apparirà a

Teflis, la città si salverà «per non intese vie»540. Inoltre, aveva avvertito Togrul che non

sarebbe stato possibile dissuadere il principe a ritornare nel suo regno.

Nell’opposizione Demogorgone/Geonca si può intravedere quella tra il Fato irremovibile e la

Provvidenza che si rivela appunto nei momenti più difficili. In quest’ottica Cherestanì è colei

che si libera dalla tirannia del signore delle fate, mentre Farruscad è colui che per primo

sperimenta l’operato della Provvidenza, sotto le spoglie di Geonca, che, infatti, fin dall’inizio

è definito da Zemina «il negromante amico di Farruscad»541 anche se in realtà il principe non

lo conosce, come rivela la battuta «pietosa voce, dì, chi sei?542».

Geonca, figura non presente nell’originale novella orientale e inventata, dunque, dal

drammaturgo veneziano, può essere definito un “antenato” di Zeim: il genio, come si vedrà

nel capitolo dedicato alla fiaba Zeim re de’ geni, rappresenta nitidamente la Provvidenza –

538 Carlo Gozzi, La donna serpente, cit., p. 407, III, scena ultima: «Cherestani: Tu [Farruscad] meco co’ miei figli / nel vasto regno d’Eldorado, occulto / al mondo tutto, e mio, regnar potrai». Il corsivo è nostro. 539 Ivi, I, 11, p. 367: «Cherestanì: Sì, morto è il padre mio; / di qua principio hanno le mie sventure». 540 Ivi, p. 361, I, 8. 541 Ivi, p. 341, I, 1. 542 Ivi, p. 400, III, 11.

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parola che per altro viene pronunciata esplicitamente- che spesso opera attraverso vie

misteriose e incomprensibili per gli esseri umani. Se Zeim compare fin dall’inizio e assume il

ruolo vero e proprio del protagonista, nella Donna serpente Geonca si tiene più in disparte e

non ha le fattezze di un personaggio, rimanendo solo voce. Nel confronto fra queste due fiabe

è possibile scorgere l’evoluzione del pensiero gozziano in merito al concetto di Provvidenza e

se Cherestanì si libera dall’influenza delle «stelle»543 (Fato/Demogorgon) nel corso della

vicenda, in Zeim re de’ geni non compare più alcuna allusione al mondo fatato, come ben

evidenziano le correzioni del drammaturgo rinvenute nel Fondo Gozzi volte ad eliminare

l’intervento malefico di esseri soprannaturali544.

Nella Donna serpente l’esautorazione dei concetti di fato e di predestinazione si coglie nel

comportamento di Cherestanì verso i figli, che altrimenti non trova una spiegazione esaustiva.

Infatti, è noto che la fata li “uccida” per togliere loro la parte fatata di cui sono composti, in

modo da renderli totalmente mortali. Il motivo di tale gesto risiede proprio nella volontà di

sottrarre Bedredino e Rezia alla tirannia di Demogorgon/Fato che lei stessa, in quanto figlia di

una fata e di un mortale, era condannata. Quest’ipotesi trova sostegno nell’incipit della fiaba

stessa: Gozzi, infatti, per bocca di Zemina, informa che Cherestanì è «figlia di Abdelazim, re

di Eldorado, uomo a morte soggetto, e della vaga fata Zebdon»545. Il particolare, se fosse

superfluo, non sarebbe stato esposto in un luogo così privilegiato come è l’inizio di qualunque

storia; dunque esso è un dato importante per l’economia della vicenda: Cherestanì, sposando

un essere mortale, itera il suo passato ma desidera prevenire il futuro dei propri figli,

modificando la loro natura.

Demogorgon, anche se solo nominato, costituisce il vero antagonista fiabesco, e, l’happy end

della Donna serpente è dimostrazione della sua sconfitta da parte dell’eroe che vince,

appunto, il Fato, permettendo a Cherestanì di essere mortale. Il finale si spinge oltre: il regno

di Eldorado è ora affidato a due esseri completamente umani.

543 Ivi, p. 364, I, 10. 544 Per un’accurata analisi del personaggio rinvio al capitolo dedicato alla fiaba Zeim re de’ geni. 545 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 567, I, 11.

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Il tema del Doppio nel Mostro turchino

I personaggi e la struttura

La doppiezza, intesa in ogni sua gradazione e sfumatura di significato - duplicità, molteplicità,

ambiguità, finzione, simulazione, menzogna546 - è un tratto che investe tutti i personaggi della

fiaba, sia positivi che negativi.

I protagonisti, i «fedeli amanti»» Taer e Dardanè, sono connotati da una duplicità di ordine

macroscopico: entrambi, per mano di Zelou, hanno subito una metamorfosi, il primo in un

indefinito mostro e la seconda in un uomo. Si delinea così un primo tipo di doppiezza, di cui

sono però consapevoli solo i due amanti, che comporta uno scarto tra l’esteriorità e

l’interiorità, tra l’apparenza e la verità.

Negli altri personaggi opera invece un altro tipo di doppiezza, intesa nel senso più negativo

del termine: doppio, per esempio, è Truffaldino perché ama sia la regina sia Smeraldina, ma

l’emblema assoluto della finzione è rappresentato da Gulindì che, mentre simula amore per il

re Fanfur, lo tradisce e arriva a meditarne perfino l’omicidio, senza che egli ne abbia il

minimo sospetto. Speculare è il suo destino: fa travestire gli amanti da damigelle e si

innamora di una donna che indossa abiti maschili.

Doppia, o meglio complementare, può essere definita la coppia dei fratelli Smeraldina-

Brighella: il presunto eroismo di quest’ultimo per esplicarsi ha proprio bisogno della sorella,

che, abbracciando i valori di un tempo, si è presentata casta nella città di Nanquin. I due

rappresentano i poli tematici ricorrenti nell’intera vicenda: da un lato Brighella, che si

definisce filosofissimo547 e si presenta come incarnazione delle nuove idee illuministe,

dall’altro Smeraldina compare come “conservatrice” e custode dei valori tradizionali.

Anche nella forma con cui il Mostro turchino si offre alla rappresentazione o alla lettura è

insito il tema del doppio: si assiste infatti alla presenza di due prologhi - le prime due scene -

l’uno complementare dell’altro, e a un’alternanza calcolata di esterno/interno in ogni atto. 546 I significati attribuiti al termine «doppiezza» sono: «1. stato, condizione, qualità di cosa doppia; duplicità. 2. mancanza di lealtà, di sincerità; ambiguità, falsità, ipocrisia. 3. contegno ambiguo, azione sleale, finzione, impostura, inganno, imbroglio, intrigo» (Cfr. SALVATORE BATTAGLIA , Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET; 1961-2004, voce ‘dopppiezza’, d’ora in avanti l’opera sarà citata come GDLI). 547 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 649, IV, 3.

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Infatti, se il primo atto è interamente ambientato nel bosco, il secondo si sviluppa totalmente

all’interno della reggia; i restanti tre atti presentano ciascuno al proprio interno,

simmetricamente la scansione reggia (o esterno) - bosco (o prigione) – reggia548. L’alternanza

è riconducibile alla dualità simbolica luce/ombra in cui quest’ultima diventa il luogo deputato

per l’inizio di un percorso, per le confessioni, per lo scioglimento degli intrighi e luogo per

eccellenza della verità - o meglio della verità imprigionata nella forma materiale - mentre lo

splendore della reggia è la sede delle macchinazioni, delle bugie e della finzione. Il bosco è

ancora una volta assunto nell’accezione che aveva nella tradizione cortese e cavalleresca: sede

di incontri con esseri soprannaturali e luogo tipico di avventura, esso è anche un labirinto in

cui metaforicamente ci si smarrisce; e infatti, i due protagonisti perdono la propria identità per

assumerne una nuova, di natura fittizia.

Al binomio esterno-interno corrisponde una combinazione ombra-luce. Il primo atto si apre

con uno scenario buio e desolante: in tale contesto, l’invocazione alle stelle da parte di Zelou,

oltre a rimandare al significato di destino, nonché a prospettare l’egida sotto cui si svolgerà

l’intera vicenda, che si potrebbe definire celeste, offre un’immagine di luce in

contrapposizione al «bosco, spelonca, nel fondo sotto un monte»549. Lo stesso chiarore

contraddistingue l’ultima scena della pièce in cui l’oscuro carcere, che imprigiona Taer e

Dardanè, si tramuta in «una scena risplendente». La luce (o l’assenza di luce) costituisce una

sorta di fil rouge che attraversa l’intera fiaba la cui connotazione metaforica invade i

personaggi, contraddistinti, appunto, da parti in ombra che li porta ad apparire per volontà o

per imposizione diversi da ciò che sono realmente (Acmed è in realtà Dardanè, il mostro è

Taer, Gulindì è perfida etc.).

Apriamo un breve inciso per aggiungere che il buio rimanda anche al peccato originario, alla

materia, al corpo: Zelou, genio e perciò privo di una fisicità determinata, capace di

materializzarsi in qualunque forma, ha peccato di ΰβρις contro i saggi del monte della Cina ed

è condannato a restare in un corpo animalesco, esattamente come l’uomo, immortale, in

seguito al peccato originale è punito con la perdita del paradiso terrestre e della condizione

edenica. La spelonca in cui vive Zelou è tutt’uno con la prigione corporea, con l’«orrida

spoglia» in cui è costretto a «restar chiuso»; non a caso il bosco è definito opaco, cioè privo di

luminosità, senza luce divina. In quest’ottica Taer, che si trova ingabbiato nel corpo anche se

548 Il primo atto è ambientato completamente nel bosco, al contrario del secondo, in cui le azioni si svolgono presso la «sala regia in Nanquin» e nella «stanza magnifica di Gulindì». Gli altri atti sono suddivisi nel seguente modo: atto III scene 1-2 reggia, scene 3-4-5-6 bosco-spelonca, scene 7-8-9 reggia; atto IV scene 1-2-3 reggia, scene 4-5 «camera oscura», scene 5-6-7-8-9-10 esterno della città; atto V scene 1 reggia, scene 2-3-4-5 «prigione», scene 6-7 «scena risplendente, magnifica». 549 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 591.

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ignora la colpa commessa, altri non è che l’Uomo che si trova ad affrontare sofferenze senza

conoscerne il motivo, ma come il principe può tornare allo stato originario servendosi del

libro in cui è scritto il futuro e affidandosi alle parole che gli sono state dette da Zelou, cioè

un’entità superiore; altrettanto - sembra sottinteso - può fare l’intero genere umano.

Interamente giocata sul contrasto tra la verità e l’apparenza, la trama è permeata dall’elemento

duale, che compare fin dall’inizio. Le prime due scene infatti possono essere definite

prologhi, uno celeste e uno terreno, una modalità di costruzione testuale peraltro già utilizzata

da Gozzi per l’apertura della Donna serpente, in cui rispettivamente compaiono le due fate

Farzana e Zemina e Brighella e Truffaldino. Nella prima scena del Mostro turchino si assiste

a un’interpretazione veritiera e “alta” degli antefatti e della vicenda futura da parte di Zelou,

nella seconda, invece, il compito di definire le vicende passate è affidato alle maschere,

espressione di una visione superficiale del mondo, incapace di penetrare nei meccanismi che

lo rendono cosmo. Ai loro occhi, perfino il bosco definito opaco da Zelou nella scena

immediatamente precedente diventa un luogo edenico, con «piante amene, mormorio dei

ruscelletti, canto de’ canori augelli»550 e sede congeniale per gli intrecci amorosi, al contrario

invece di quanto si rivelerà essere per Taer e Dardanè. Doppio è anche l’intervento di Zelou:

se nella prima scena prepara il suo piano per dividere i due protagonisti facendoli perdere nel

bosco e rivestendoli di una nuova identità, nella seconda esso fa dimenticare la propria a

Truffaldino e a Smeraldina che, in questo modo, si scordano del loro amore, al contrario di

quanto avviene per i protagonisti.

Il racconto degli antefatti da parte delle maschere, utile anche a dimostrare la fedeltà dei due

amanti, condivide con il prologo celeste una funzione anticipatrice: infatti Truffaldino dice a

proposito del suo padrone che «non ha mai guardate altre donne, che tutte gli parevano orride,

ecc. Che ne ha vedute di bellissime disperate per il padrone, ma che l’ha sempre veduto a

sprezzarle tutte, e quasi a sputar loro sopra»551. La scelta dei vocaboli non è casuale:

l’aggettivo «orrido» sarà spesso impiegato da Dardanè per rivolgersi al mostro e Taer, che

disprezza le altre donne, sarà a sua volta vittima dello stesso atteggiamento, in una sorta di

legge del contrappasso. Non solo. Truffaldino ricorda le tre prove superate in passato da Taer

per conquistare la sposa: si tratta di scontri fisici, una tipologia ricorrente nelle tre che Acmed

si troverà ad affrontare, e che risolverà per mezzo di strumenti magici. Nel passato favoloso, il

cimento sostenuto da Dardanè è di tipo morale, come quello nuovamente propostole per

ricongiungersi con Taer: ella dovrà vincere le proprie resistenze e amare il mostro. L’impresa

550 Ivi, p. 593, I, 2. 551 Ivi, pp. 593-594, I, 2.

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è qualitativamente assimilabile al bacio che Farruscad deve dare al serpente nella Donna

serpente, fiaba i cui personaggi sono speculari al Mostro turchino: se là è l’uomo che è

chiamato ad essere attivo, qui invece è la donna protagonista delle azioni e unico personaggio

che si relaziona con tutti quelli della pièce552.

Anche il futuro di Dardanè è leggibile nelle parole pronunciate da Smeraldina: la principessa,

che è riuscita a superare la prova del velo incantato, del velo cioè capace di instillare il

desiderio di qualunque uomo nella donna che lo indossa, si troverà ad affrontare proprio una

donna che sembra portarlo, Gulindì, incline al tradimento e alla lussuria, che addirittura

conduce a corte gli amanti, vestendoli da damigelle.

La canzone popolare dedicata da Truffaldino a Smeraldina è anch’essa strumento con cui si

enuncia il tema del Mostro turchino - nonché frequente topos letterario - della morte per

amore: «che moro / e moro per amor». Significativamente il ritornello è ripreso a siglare la

fine della fiaba, in cui il pericolo è stato scansato.

L’incipit, così costituito, contiene tutti gli elementi utili alla comprensione della vicenda, ma

anche - in filigrana - il plot nonché la conclusione: l’«orrida spoglia» in cui è costretto Zelou,

diventerà la stessa in cui sarà condannato Taer, dalla quale potrà uscire grazie a «due fedeli

amanti». Si potrebbe affermare che Zelou costituisca una sorta di doppio di Taer, o meglio

che ne costituisca una figura anticipatrice: entrambi condannati ad assumere le fattezze del

mostro turchino, hanno come unica possibilità di salvezza la fedeltà dei due sposi.

Inoltre nell’incipit è enunciata esplicitamente la morale della fiaba:

ZELOU: tempo verrà, che le trasformazioni,

ch’io son per cagionar, servir potranno

d’allegorici casi, e i sprezzatori

mostri saranno, com’io son, cercando

di trasformar se stessi in nuovo aspetto,

grato nel mondo, trasformando altrui,

se mai potranno, in aborriti mostri553.

La storia dunque ospita anzitutto due trasformazioni: quella di Taer in mostro, dall’apparenza

repellente ma dall’interiorità umana e amorosa e quella doppia subita dalla protagonista che,

travestita da uomo, sarà additata come colpevole da una finta innocente. Il gioco del doppio si

552 Infatti Dardanè è l’unico personaggio che incontra tutti quelli presenti nella vicenda, ad eccezione di Truffaldino. 553 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 592, I,1.

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frantuma poi in mille specchi e viene perseguito anche nella composizione formale della

fiaba.

Il soliloquio di Zelou, connotato da una forte vis polemica nei confronti del concetto di amor

proprio, così come allora andava forgiandosi nell’entourage illuministico, procede per

metafore che lo spettatore-lettore potrà comprendere solo alla fine della pièce. Fin dall’inizio

dunque si suggerisce implicitamente un livello di lettura diverso da quello superficiale della

semplice concatenazione di eventi fantastici e meravigliosi: l’allegoria è la protagonista non

solo dei gesti che il mostro compirà, ma anche dell’intera fiaba e questa dichiarazione

d’intenti posta all’inizio del dramma e attribuita a Zelou ha quindi un valore programmatico

ben definito.

Il genio Zelou

Doppio, nell’accezione di ambiguo, è Zelou, il mostro turchino. Responsabile della

separazione dei due eroi per il suo interesse – l’amor proprio di stampo illuminista – esso è

facilmente identificabile, usando le funzioni proppiane, con l’antagonista della storia. In verità

lo specifico personaggio risulta più complesso: se da una parte è vero che Zelou agisce per il

personale tornaconto, come non esita a dichiarare a entrambe le sue “vittime”, dall’altra non si

mostra completamente insensibile alla loro sorte ma, anzi, tenta di istruirle affinché riescano a

superare le difficoltà. Le sue intenzioni sono ambivalenti: per esempio, da una parte si può

pensare che il genio abbia trasformato Dardanè in uomo per non farla cadere vittima dell’idra,

dall’altra parte, però, esso non l’ha sottratta ai lascivi desideri di Gulindì; inoltre le si rivolge

chiamandola figlia e incoraggiandola a non avere paura delle sue fattezze mostruose554. E,

ancora, pur condannando Taer alla forma mostruosa, gli intima di leggere il libro lasciato per

lui nella sua grotta, in cui troverà svelato il futuro, consentendogli, dunque, di raggiungere un

grado di conoscenza superiore a quella umana. D’altronde, il nome stesso del mostro, Zelou, -

seppur ripreso dalla tradizione novellistica orientale che lo connota negativamente555 - sembra

554 Ivi, p. 599, I, 4: «Zelou: Parliamo, o figlia, / di tua condizion, della sua taci». 555 Il nome Zeloulou compare nell’Histoire du Cheref-Eldin, fils du Roi d’Ormus & de Gul-Hindy, princesse de Tuluphan contenuta nelle Mille et Un Quart d’heure. La storia informa che in Tartaria esistevano due specie di geni, l’una incline a far del bene agli uomini che riconosceva come capo Geonca (Geonca in persiano vuol dire

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rinviare a un concetto positivo, lo zelo appunto, cioè la «diligenza, l’alacrità e la premura»556,

caratteristiche che i due protagonisti dovranno dimostrare di possedere nel corso della vicenda

per potersi ricongiungere. Lo zelo, dunque, sembra essere anche la parola chiave dell’intera

pièce, nonché uno dei valori morali raccomandati dallo scrittore al pubblico, che ricorre

nell’ultima fiaba Zeim re de’geni557.

Il termine zelo prospetta anche altri due significati confacenti alla pièce: «amore,

benevolenza, sollecitudine della divinità nei confronti degli uomini» e «superbia,

tracotanza»558. Il primo senso riporta al tentativo di definire lo stato di Zelou; esso si presenta

a Taer come un genio punito, condannato dai «Saggi del monte sacro della China» a rimanere

imprigionato in un corpo bestiale fino all’arrivo di «due fedeli amanti». In qualche modo,

dunque, Zelou è costretto dall’“alto” a essere cattivo: né il pentimento né qualunque tipo di

espiazione possono sciogliere l’incantesimo ed esso non ha altra scelta che riversare la propria

condanna su una coppia di innocenti.

In quest’ottica, l’incipit della fiaba, «o stelle, o stelle, io vi ringrazio»559, riveste un significato

profondo: fin dalla prima battuta vengono chiamate in causa le stelle, una dimensione altra e

alta che si dimostrerà il motore dell’intera vicenda e che, soprattutto, si rivelerà salvifica per

tutti i personaggi a tal punto che, potenzialmente, la sentenza potrebbe essere pronunciata da

ciascuno di loro. Benché la “Provvidenza” agisca anche attraverso azioni che conducono

all’infelicità, il tema della gratitudine, frequentato spesso da Gozzi nelle fiabe, prende corpo

soprattutto nell’ultima, in cui il genio Zeim, per assicurare la felicità alle cento future

discendenze di una famiglia reale, mette duramente alla prova il coraggio dei membri di

quella vivente.

Inoltre, i modi e i tempi verbali con cui Zelou si esprime - in prevalenza tempo futuro e modo

condizionale e imperativo – sono il segno di una delle tesi sottese alla fiaba: la necessità e

l’ineluttabilità degli eventi passati e futuri; attraverso Zelou opera l’Άνάγκη classica e, anzi, il

mostro sembra rivestire i panni di un oracolo, parlando a Dardanè per enigmi560 e affidando a

Taer un libro in cui sono scritti gli eventi futuri.

re del mondo), l’altra, cattiva, aveva come capo Zeloulou. In questa vicenda Gulhindj è un personaggio positivo che viene cresciuta come uomo perché scambiata nella culla a causa di un maleficio. 556 Cfr. GDLI, voce ‘zelo’. 557 Dugmè, protagonista che incarna la perfezione umana nella fiaba Zeim re de’ geni, compare per la prima volta nella vicenda cantando il seguente motivo: «Dugmè: Qual calma all’interno / è mai l’ubbidire! / Voler contraddire (che pena non è? / Si va contro al cielo, / e contro al potere. / È meglio per zelo, / che a forza volere, già breve è la vita / dei servi, e dei re» (CARLO GOZZI, Zeim re de’ geni, in IDEM, Opere…, cit., p. 813, II, 2). 558 Cfr. GDLI, voce ‘zelo’, rispettivamente secondo significato e accezione antica del primo. 559 L’invocazione alle stelle era peraltro una clausola impiegata assai frequentemente nei drammi metastasiani. 560 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 597, I, 4: «Zelou: Sì, il vedrai [Taer], / ma non lo vedrai».

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Il secondo significato attribuito al termine zelo - tracotanza - rimanda intrinsecamente alla

colpa di cui si è macchiato Zelou: esso ammette di essere stato superbo nell’avere offeso i

Saggi, peccando dunque di ΰβρις, e, in seguito a ciò, di avere subito una metamorfosi, una

punizione divina ricorrente spesso all’interno della mitologia classica561 proprio per punire la

tracotanza.

Lo stesso difetto è peraltro insito anche in altri personaggi della fiaba, a cominciare dal

protagonista: Taer, infatti, dimostra il proprio disgusto nei confronti del mostro, nonostante

gli sia già stato detto che dentro quella scorza animalesca vi sia un genio, quindi un’entità

superiore agli esseri umani (e, infatti, Zelou lo ammonisce a non essere così aspro nei suoi

confronti e a trattenere la boria562). Per la legge del contrappasso, Taer è trasformato proprio

nella forma vivente che ha disprezzato e, a sua volta, capirà cosa significa essere vilipeso.

Si può affermare che anche Fanfur dimostri tracotanza, non direttamente nei confronti del

mondo divino come Zelou, o semi-divino come Taer, bensì verso il suo popolo. Il re,

totalmente succube di Gulindì, è “cieco”563: non vede la vera natura della moglie e non presta

fede all’opinione dei ministri negativa sul suo conto. Ci si trova davanti a un caso limite: sia il

popolo che gli alti dignitari di corte conoscono la malvagità e la falsità di Gulindì, mentre il

sovrano, che per antonomasia dovrebbe essere più saggio, ignora la propensione perfida della

donna, e vittima di questo folle amore, arriva perfino a far condannare Acmed, salvatore del

suo regno.

Zelou, pur essendo un’entità superiore a quella umana, condivide con quest’ultima l’attitudine

al peccato e si colloca in una posizione intermedia tra il mondo umano e celeste, sfera

quest’ultima, accanto alla quale è situato, invece, Zeim, protagonista dell’omonima fiaba

gozziana.

Zelou, dunque imperfetto e punito, è un essere ibrido, che però è in grado di conoscere il

futuro e forse proprio a tale caratteristica rinvia l’aggettivo turchino del titolo che, oltre a

derivare dalla traduzione del francese bleu della novella Histoire du Centaure Bleu, rimanda

561 Come si è già visto anche nella Donna serpente, il recupero di episodi desunti dalla mitologia è un’operazione costante nella produzione di Gozzi che da moderno “comparativista” mescola suggestioni provenienti dai più diversi ambiti. Vale la pena ricordare l’analoga operazione, seppure con scopi totalmente diversi, che Antonio Conti compì nel Globo di Venere (1739): ai racconti mitologici riconobbe una sorta di dignità scientifica e l’intrinseca costituzione di strumento di conoscenza per cui sotto la narrazione si celano verità morali e intellettuali, riprendendo molto da vicino le tesi esposte da Bacone in Della sapienza degli antichi (Cfr. ANTONIO CONTI, Il globo di Venere, a cura di Monica Farnetti, Roma, Salerno, 1992, pp. 16-20). 562 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 604, I, 5: «Zelou: Taer, non tanta boria, e non minacce / a chi procura il minor mal, che puossi / nelle sciagure tue». 563 In questo senso, la sua condizione di cecità interiore trapela dalla battuta della protagonista: «Dardanè: qual cecitade / è questa di Fanfur?» (ivi, p. 626, II, 10).

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all’immagine di luce, azzurro cupo, colore tradizionalmente legato alla dimensione divina, e

sottende anche il significato di «incomprensibile, oscuro, misterioso»564.

La voce dotta zēlu(m) offre un nuovo spunto di lettura della fiaba: con essa si indica la brama,

l’emulazione, la gelosia e la rivalità. Adottando lo «schema del desiderio triangolare»

girardiano565 si viene a costituire la seguente triade:

Dalla fabula del Mostro turchino si evince che Gulindì invia Acmed a uccidere il mostro

turchino, pur essendoci altri due flagelli da sconfiggere. La scelta può essere spiegata

adottando lo schema girardiano che prevede sempre la presenza di due personaggi nella

situazione di desiderare uno stesso oggetto e che inevitabilmente entreranno in conflitto tra

loro, finché uno dei due non eliminerà l’avversario. Gulindì, pur ignorando che dietro le

sembianze del mostro turchino si nasconda Taer, di fatto tenta di sbarazzarsi del nemico,

facendolo uccidere da Acmed. In questo modo, oltre a Dardanè, anche il principe diventa

vittima della regina.

564 Cfr. GDLI, voce ‘turchino’. 565 René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, Milano, Bompiani, 1965.

Acmed

Gulindì Mostro turchino

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Come prevede lo schema girardiano, si assiste alla formazione di un triangolo amoroso, sia

pure falso, nel senso che è solo supposto da Fanfur, che ritiene Acmed innamorato della

moglie Gulindì. In questo caso, Fanfur decide consapevolmente di uccidere l’avversario,

ritenuto colpevole di aver tentato di sedurre la moglie e di averla poi avvelenata. Lo schema si

rivela speculare al precedente: se nel primo caso – quello al cui vertice è posto Acmed - la

regina vuole far uccidere il principe, nel secondo – quello al cui apice si trova Gulindì - è il re

che intende eliminare la principessa; in questo modo Taer e Dardanè diventano vittime

dell’esercizio arbitrario del potere regale.

La lotta contro l’idra

Si è osservato come le prove affrontate dai protagonisti – sia quelle narrate da Truffaldino sia

quelle superate drammaticamente nel corso della vicenda - e perfino i mezzi magici utilizzati,

siano tutti riconducibili ai poemi cavallereschi o alle novelle orientali; dall’elenco è rimasta

esclusa la lotta contro l’idra, che merita un discorso a parte.

Dietro all’episodio si nasconde un riferimento mitologico: quello dell’idra di Lerna dalle sette

teste sconfitta da Ercole. Inoltre l’archetipo di una donna sacrificata a un mostro ricorda le

vicende di Perseo e Andromaca, ma anche di Amore e Psiche o di Esione, mito nel quale la

vittima è designata tramite estrazione del nome da un’urna, caso che ricorre anche nel Mostro

turchino, e non ci soffermeremo sugli innumerevoli esempi di vittime sacrificali, il cui più

Gulindì

Fanfur Acmed

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significativo rimane quello di Teseo566. Nel caso del Mostro turchino, il debito più cogente è

nei confronti di Ariosto: Angelica è salvata da Ruggiero, il quale, dopo aver provato ad

affrontare l’animale invano con le armi di un cavaliere, utilizza lo scudo magico il cui

bagliore ferisce chi lo guarda, ma prima, per evitare che anche la donna ne sia colpita, le

consegna un anello incantato in grado di proteggerla. La dinamica è ripresa da Gozzi, che,

però, trasforma l’oggetto magico salvifico, l’anello, in una radice miracolosa in grado di

permettere ad Acmed e a Smeraldina di non morire per il fetore sprigionato dal mostro.

Nella fiaba settecentesca l’idra si configura come un vero e proprio flagello inviato dal cielo

per punire Fanfur, che, ottenebrato dall’amore per la schiava, non è più capace di discernere la

realtà dalla finzione.

L’invenzione gozziana è però più sottile: la vita dell’animale è infatti strettamente e

misteriosamente connessa a quella di Gulindì e quando essa muore, anche la donna perisce,

mentre nella novella orientale la schiava veniva fatta uccidere dal marito, dopo averne

scoperto il tradimento. Se da una parte riecheggia l’eco della fiaba di Basile, Il dragone567 - di

cui però Gozzi riprende solo il motivo della connessione tra la regina e l’animale senza

proporre quali siano i nessi che legano le vite della sovrana e della bestia presente invece nella

novella napoletana -, dall’altra si potrebbe asserire che l’idra costituisce il doppio della regina,

o meglio che ne costituisca la sua emanazione, la sua raffigurazione esteriore. Innanzitutto è

lecito paragonare l’ingordigia dell’animale che si nutre solo di vergini, alla lascivia di

Gulindì, e spesso, nel testo, si trovano gli stessi aggettivi per connotare entrambe le creature.

La schiava - in questo senso come altre celebri donne respinte presenti nella tradizione

566 L’archetipo agisce anche nell’epica cavalleresca ma qui, spogliato dai significati religiosi e cultuali, si costituisce come uno degli ingredienti dell’avventura, attraverso cui il campione può dimostrare il proprio coraggio: ecco, dunque l’esposizione di Angelica all’orca marina, il sacrificio di Olinda, ma anche in tempi più vicini a Gozzi, la ripresa, seppure marginale, del tema nel Demofoonte di Metastasio, in cui il nome è estratto da un’urna, che a sua volta riprende il tema proposto nell’Inês de Castro di La Motte. Ne è eco l’episodio del serpente che nel giardino di Falerina «divora tutte le persone / Che arrivan forestiere in quel paese» MATTEO

MARIA BOIARDO, Orlando innamorato, cit., libro I, canto XVII, ottava 8 e libro II, canto III, ottava 50. 567 GIAMBATTISTA BASILE, Lo cunto de li cunti, a cura di Michele Rak, Milano, Garzanti, 1998, pp. 740-741: «era poco lontano da sto castiello no dragone ferocessimo, lo quale nascette a no stisso partoro con la regina; e, chiamate da lo patre l’astrolache a strolocare sopra sto fatto, decettero che saria campata la figlia soia quanto campava lo dragone e che morenno l’uno sarria muorto necessariamente l’autro. Sulo na cosa poteva resorzetare la regina: ed era, se l’avessero ontato le chiocche, la forcella de lo pietto, le forgie de lo naso e poza co lo sango de lo stisso dragone» («poco lontano da questo castello c’era un dragone ferocissimo, che era nato dallo stesso parto della regina; e gli astrologi, quando erano stati chiamati dal padre per interpretare questo avvenimento, avevano detto che sua figlia sarebbe vissuta finché fosse vissuto il dragone e che se fosse morto l’uno necessariamente sarebbe morto anche l’altro. Solo una cosa avrebbe potuto far rivivere la regina ed era se le avessero unto le tempie la forcella del petto le frogie del naso e i polsi con il sangue dello stesso dragone»).

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letteraria - allude alla possibilità di trasformarsi in una furia e in una fiera568 in caso di un

ennesimo rifiuto da parte di Acmed.

Assumendo l’identificazione tra l’idra e Gulindì, e tra Smeraldina e Dardanè in quanto la

maschera all’inizio della vicenda si definisce specchio dell’eroina569, si verrebbe a creare una

sorta di “equazione” del seguente tipo: Smeraldina : Dardanè = idra : Gulindì. Smeraldina,

condannata ad essere mangiata dall’idra, risulta il corrispettivo, o la metafora, di Dardanè-

Acmed, destinata a essere “divorata” dalla lussuria di Gulindì; dunque, la principessa,

salvando la damigella e uccidendo l’animale, altro non compie che salvare se stessa e

assassinare la schiava.

Curiosamente la stessa immagine mitologica dell’idra è sdoppiata: quella descritta da

Gozzi ha in realtà solo una delle caratteristiche di quella di Lerna, e cioè il fiato mortale,

modalità con cui è solita uccidere570. L’altra azione nefasta classicamente attribuita al mostro

dell’antica mitologia, la razzia di bestiame e la distruzione del raccolto, viene invece imputata

al mostro turchino571. Il fiato letale dell’animale è il corrispettivo del respiro umano: Gulindì,

solo per il fatto di respirare, è causa dei flagelli che si sono abbattuti sulla città di Nanquin,

contestualmente alle nozze con Fanfur; la sua stessa essenza è mortifera perché corrompe i

buoni costumi e inquina la terra in cui vive, secondo un principio che, di nuovo, la assimila

all’idra, nell’antichità proposta come simbolo della parola malaria572.

568 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 644, I, 3: «Gulindì: Amor m’addita / parole, vezzi, tenerezze, ed atti / da soggiogar quel core, o nel core mio / l’insofferibile fiamma ammorza alquanto; / che, s’ei non m’ama, io diverrò una fiera». 569 Ivi, p. 594, I, 2: «Smeraldina: Che s’egli [Truffaldino] ha l’esempio di Taer, suo padrone, ella ha lo specchio di Dardanè, sua signora». 570 Animali che uccidono con l’alito popolano anche i testi della letteratura religiosa, a partire dal De vita Constantini di Eusebio, in cui si narra dell’esistenza di un drago che, ai tempi di Costantino, uccideva la popolazione con velenose esalazioni e che dimorava sotto il Foro o sotto la rupe Tarpa capitolina. La sua fame veniva placata dalle offerte che mensilmente le vestali gli portavano nella tana. Quando Costantino ne abolì il culto, il mostro uccise quotidianamente centinaia di persone, anche bambini, finché il papa Silvestro scese personalmente nella tana e lo uccise. Esiste anche un’altra leggenda, sempre di ambito romano narrata dal biografo del papa Leone IV, associata alla rituale esposizione dell’Acheropita, l’immagine di Cristo ritenuta non dipinta da mani umane. La processione giunse presso la chiesa di S. Lucia in Orphea dove, si dice, si trovasse un basilisco che avvelenava i passanti con il suo alito pestilenziale ma il papa, con la sola preghiera, riuscì a debellare il mostro. Cfr. PASQUALE TESTINI, Il simbolismo degli animali, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto Medioevo, settimana di studio del Centro italiano di studio sull’alto Medioevo, 7-13 aprile 1983, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1985, II, p. 1156. 571 Per completezza, si deve aggiungere che l’omicidio dei passanti attribuito al cavaliere fatato, era il delitto perpetuato da Echidna, mostro il cui corpo era quello di una donna ma con coda di serpente, nonché madre dell’idra. 572 Nel Dizionario etimologico di Battisti-Alessio si legge che l’idra, leggendario serpente con più teste, in origine era il simbolo della malaria.

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Un sottotesto spagnolo: La vida es sueño

La prima scena della Vida es sueño è come un andito rischiarato da poca luce: guidandoci nel vivo dell’azione

con calcolata lentezza, ne lascia intravedere gli oggetti, le forme, senza però rivelarli interamente. Il lettore non

meno dell’eventuale spettatore si trova per qualche tempo sospeso fra attrattive diverse, incerto sull’identità delle

cose e dei volti che gli vengono incontro. Egli potrà percorrere quel cammino affidandosi anche al significato

primario delle parole: ma sarà come afferrare, lungo la via, delle ombre573.

L’analisi dell’incipit della pièce barocca offerta da Carmelo Samonà ben si adatta a quello del

Mostro Turchino, fiaba che, oltre a condividere con La vida es sueño una comune radice

tematica orientale – Calderón sembra riadattare una novella delle Mille et une nuits in cui un

califfo permette a un mendicante di regnare nel tempo che intercorre tra due sonni – mostra

significative somiglianze con essa574.

La prima scena del dramma seicentesco si apre con l’immagine di una donna, Rosaura,

travestita da cavaliere, che, mossa da una ragione ignota è sbalzata da cavallo e, insieme al

buffone Clarino, scende dalla parete rocciosa di una montagna fino alla grotta-prigione di

Sigismondo, di matrice platonica, prescritta dalla didascalia: «Da un lato, una montagna

dirupata e, dall’altro, una torre che, a pianterreno, serve di prigione a Sigismondo»575.

Fin dal primo scambio di battute tra Rosaura e Clarino, trapelano l’angoscia e il travaglio

sopportato per le non precisate sciagure passate. La scena, in cui agiscono echi della

tradizione cavalleresca576, è connotata dal tramonto del sole e dalle tenebre che vanno

avvolgendo la prigione.

Nonostante la didascalia iniziale sia simile a quella spagnola577, ben diversa è la scena di

apertura della fiaba gozziana, in cui si staglia la figura di Zelou. Se nel testo calderoniano si

ignora il motivo della caduta di Rosaura (caduta avvenuta fuori scena e che determina l’inizio

della vicenda), Gozzi invece si premura di informare il lettore/spettatore: è per volontà del

573 CARMELO SAMONÀ, Ippogrifo violento. Studi su Calderón, Lope e Tirso, prefazione di Mario Socrate, Milano, Garzanti, 1990, p. 19. 574 Sulla diffusa e capillare presenza del teatro calderoniano in Italia nel Settecento, soprattutto per quel che riguarda la composizione delle commedie di magia, cfr. ERMANNO CALDERA, Sulla “spettacolarità delle commedie di magia, in Ermanno Caldera (a cura di), Teatro di magia, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 16-17. 575 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, La vita è sogno, a cura di Cesare Acutis, traduzione di Antonio Gasparetti, Torino, Einaudi, 1980, p. 5, I, 1. 576 CARMELO SAMONÀ, Ippogrifo violento…, cit., p. 20: «Calderón ha elaborato il suo dramma anche a livello, per così dire, di favola: in questa chiave l’inizio del primo atto non è molto dissimile da quello di un romanzo sentimentale del tardo medioevo, e i gesti del personaggio possono rammentare quelli di un Leriano o di un Arnalte. C’è, di comune, soprattutto il senso della verità nascosta». 577 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 591, I, 1: «Bosco, spelonca, nel fondo sotto un monte».

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mostro turchino – genio e quindi capace di operare incantesimi – che Dardanè, disarcionata

dal cavallo, si avventura nel bosco. Provocando un temporale, infatti, esso riesce a far

spaventare i destrieri dei protagonisti e a farli correre in due direzioni diverse. La donna, il cui

animale muore, giunge «infelice, da implacabil stella perseguitata, oppressa»578, in prossimità

della spelonca del genio.

Si pone dunque immediatamente l’accento sulla non casualità degli eventi, ma anzi su un

preciso disegno perseguito da Zelou. Se Rosaura discende la montagna e incomincia dunque il

suo percorso iniziatico, accettando, rassegnata, di assumere come guida quella che le porgono

«le leggi del destino»579; analogamente Dardanè parte per la città di Nanquin «obbedendo al

suo destino»580, destino che Zelou ha predetto fin dall’inizio, e di cui diventa il motore,

innestando con la sua magia tutta la serie degli eventi che avverranno nel corso della fiaba.

La protagonista del dramma di Calderón si imbatte nell’«oscura prigione, nel sepolcro d’un

cadavere vivo»581 in cui è nascosto Sigismondo; nella fiaba gozziana la prigione, non di tipo

materiale bensì corporale, è costituita dall’«orrida spoglia» in cui è «chiuso» Zelou.

Prettamente significante si rivela la scelta dei termini: se l’aggettivo da una parte rinvia al

concetto di fosco, scuro582, dall’altra il sostantivo può indicare anche cadavere, salma583; in

questo modo la prigione materiale e il corpo mostruoso in cui è ridotto Zelou sono

perfettamente sovrapponibili. Non solo. Questa considerazione induce anche a una riflessione

sul concetto del corpo, “mostruoso” in quanto legato alla materia, carcere dell’anima.

Tra le numerose speculazioni compiute intorno alla figura di Rosaura, spicca quella che la

associa all’anima colta nell’atto di distaccarsi da tutto ciò che è materiale, di cui è emblema il

«violento ippogrifo»584. Al contrario, il percorso di Dardanè tende verso la materia: più

578 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, La vita è sogno, cit., 579 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, La vita è sogno, cit., p. 5, I, 1: «Rosaura: io, senza altra guida che quella che mi porgono le leggi del destino, discenderò, cieca e disperata, per l’intricata scabrosità di questa montagna eccelsa che mostra al sole il cipiglio della sua fronte». 580 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 600, I, 4: «Zelou: Parti; in Nanquin passa, / t’esponi alla miseria, a cui ti deggio / inviar, obbedendo al tuo destino». 581 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, La vita è sogno, cit., p. 7, I, 1: «Rosaura: riesco a distinguere un’oscura prigione, il sepolcro d’un cadavere vivo. E perché la mia meraviglia s’accresca, vi giace un uomo vestito di pelli ferine, carico di catene, che ha per sola compagnia quella del lume». 582 Cfr. GDLI, voce ‘orrido’. Il primo significato è «che provoca un’emozione violenta o di terrore, che turba nel profondo, che sgomenta, pauroso, spaventoso, terribile per proprietà intrinseca (ma talora può anche risultare attraente o interessante proprio per la reazione intensa che determina nell’animo)», ma interessanti ai nostri fini sono il settimo e il diciottesimo significato, rispettivamente: «fosco, scuro (un colore, un’ombra)» e «privo di finezza e di eleganza, disarmonico, goffo, mancante di elaborazione, grezzo». 583 Cfr. GDLI, voce ‘spoglia’. Il primo significato è quello letterale «indumento, abito, veste », il secondo «corpo umano, in quanto contrapposto all’anima o sede di essa o in quanto cadavere, salma», il terzo « aspetto fisico di una persona o anche di un animale, sembianza, aspetto esteriore». 584 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, La vita è sogno, cit., p. 5, I, 1: «Rosaura: Violento ippogrifo che corresti a gara col vento, fulmine senza fiamma, uccello senza colore, pesce senza squame e bruto senza istinto naturale, dove ti sfreni, dove ti trascini, dove ti precipiti nel confuso labirinto di queste rocce nude?».

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specificatamente pare sia volto alla ricerca dell’essenza profonda celata dietro il fenomenico,

quasi in una sorta di procedimento alchemico; non a caso, la prova più difficile imposta alla

donna – o meglio suggerita in modo aleatorio come necessaria per ricongiungersi con lo sposo

– consiste proprio nell’amare il mostro turchino, dietro alle cui fattezze si nasconde Taer. E

quest’ultimo la invita spesso a guardare oltre la sua repellente fisicità sottolineando le

caratteristiche umane che possiede, ed esprimendo il proprio sentimento con lacrime versate

copiosamente con discorsi eloquenti.

Giunta a corte, Rosaura si riappropria degli abiti femminili mentre, in modo del tutto

speculare, Dardanè è costretta a indossare quelli maschili per recarsi in città; anche nel

palesarsi di una e nel nascondersi dell’altra si intravede il diverso grado di conoscenza a cui

sono pervenute le due donne: la prima ha compiuto la propria quête allontanandosi dalla

materialità incarnata nell’«ippogrifo violento» - su cui insisteremo più avanti - e può aiutare

Sigismondo, la seconda ha simbolicamente perso la propria identità nel bosco-labirinto e

sembra colta nel momento iniziale del suo percorso esistenziale. D’altronde il travestimento

di Rosaura - peraltro un espediente teatrale assai diffuso soprattutto nelle commedie e comune

nel teatro poliforme barocco – allude alla perdita dell’identità unitaria: la donna rappresenta

l’anima smarrita e Sigismondo il corpo che ha perso il contatto con l’anima e che si trova in

balia solamente del proprio istinto585.

Il personaggio di Sigismondo “distribuito” nei tre protagonisti della fiaba: Fanfur, Taer e

Zelou. Il primo è il prototipo della bestialità, intesa come istinto passionale che lo porta a

compiere gravi azioni; nel caso specifico Fanfur, a dispetto della volontà del proprio popolo,

non esita a condannare colui che aveva salvato la città dalle tre calamità, solamente perché

incapace di controllare la sua rabbia contro Acmed, reo, ai suoi occhi di avere avvelenato la

moglie. Egli, insieme a Gulindì, - due personaggi dunque interamente umani - appare

vincolato alla sfera materiale: non solo si è sposato con una donna più giovane e di rango

sociale inferiore – addirittura una schiava - ma non è in grado di distinguere la realtà

dall’apparenza, non accorgendosi della finzione della moglie e non intuendo lo stretto legame

che intercorre tra le sue nozze e l’apparizione dei tre flagelli in città, di cui invece si rendono

conto anche i ministri. Pur ammettendo che le sciagure sono frutto della collera divina586,

Fanfur ne ignora, come Edipo, il motivo e si limita a tentare di placare l’ira divina con «tanti

585 Cfr. CARMELO SAMONÀ, Ippogrifo violento…, cit., pp. 99-106. 586 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 609, II, 1: «Fanfur: Ira del ciel, che feci / per meritar sì orribili flagelli?».

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gran sacrifici, ed ostie pingui»587. Sensibile alle disgrazie che opprimono il regno e i sudditi,

adduce la vecchiaia come causa della sua incapacità di reagire e di risolvere i problemi e

arriva perfino a piangere, un comportamento che non si addice a un sovrano. È quindi una

figura piuttosto inetta quella che Gozzi presenta: si tratta di un vecchio che ha perso la facoltà

di discernere il giusto dallo sbagliato e che sposandosi con una serva, per di più giovane, ha

contaminato l’intero regno588.

Taer è accostabile, in maniera antitetica, a Sigismondo per la metamorfosi subita: se il primo

è trasformato in mostro pur mantenendo un’interiorità umana, il principe calderoniano passa

da una condizione bestiale (incatenato, coperto di pelli animali e rinchiuso in una prigione589)

ad una più che umana, regale, in cui però rivela la propria natura ferina. I due principi

rinchiusi nella grotta, inoltre, sia pure con diverse modalità e per differenti fini, esprimono la

loro infelicità in modo analogo:

Taer: Oimè, misero me! Sogno, o son desto! […] Barbare stelle a che mi condannate? […] e tu, spelonca, / ad un

figlio di Re lurido albergo, / cela queste mie membra orride, e sozze. (Il mostro turchino, p. 607, I, 6)

Sigismondo: Oh misero me! Oh me infelice! Voglio sapere, cielo, giacchè mi tratti in questo modo, quale delitto

ho commesso contro di te. (La vita è sogno, p. 7, I, 2)

La natura bifronte, che connota sia Sigismondo sia Taer, coinvolge anche il terzo personaggio

maschile della fiaba gozziana, Zelou, imprigionato in un corpo bestiale per il peccato di ΰβρις, lo stesso di cui si è macchiato a corte Sigismondo e che lo ha condannato a ritornare nella

condizione bestiale di partenza.

Significativamente i tre personaggi della fiaba ricoprono altrettanti stadi delle

“trasformazioni” del principe nel corso della pièce spagnola:

Sigismondo imprigionato nella

torre, incatenato e vestito di pelli

(è uomo ricoperto da strati di

animale)

Sigismondo vestito da re, nella

reggia (esteriorità umana ma

interiorità ferina e istintiva)

Sigismondo nuovamente nella

torre, vestito di pelli a causa

dell’ΰβρις manifestata

Taer nel bosco trasformato in Fanfur re, nella reggia Zelou nel bosco in spoglie

587 Ivi, p. 610, II, 1. 588 Contaminazione, µίασµα, è il termine che ricorre nel prologo dell’Edipo re sofocleo: «Creonte: Febo possente ci ordina chiaramente di cacciare dal paese il contagio che è nutrito in questa terra, e di non farlo crescere irreparabile». 589 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, La vita è sogno, cit., p. 9, I, 2: «Sigismondo: per quanto tu possa, tra paure e chimere, chiamarmi mostro, io sia qua come un uomo tra le fiere e una fiera tra gli uomini».

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mostro turchino (è uomo dentro

spoglie animalesche)

(esteriorità umana ma interiorità

ferina e istintiva)

animalesche a causa dell’ΰβρις manifestata

Zelou ricalca parzialmente la figura di Clarino nella pièce calderoniana: per lo svolgimento

delle due vicende i due rivestono scarsa importanza (nella fiaba gozziana il genio scompare

dopo il primo atto e ricompare come deus ex machina nel finale). La presenza di Zelou e

Clarino si spiega con lo svolgimento

della funzione tipica del teatro secentesco: quella del personaggio rivelatore di significati, del personaggio, cioè,

che scioglie il groviglio, che scoperchia gli ingranaggi nascosti. È una funzione che non si spiegherebbe con la

realtà della situazione teatrale e che non ha nulla a che vedere col personaggio-Clarín in quel dato momento

dell’azione: è qualcosa che trascende quella realtà, in quanto è strumentale ancora una volta alla realtà dei

simboli della commedia590.

Carmelo Samonà nel saggio Ippogrifo violento insiste sull’incipit del dramma calderoniano

che, carico di valenze simboliche, contiene in nuce la prefigurazione dell’intera vicenda e non

può dunque essere risolto sic et simpliciter. Le metafore iniziali adoperate da Rosaura in

relazione al cavallo, a cominciare dalla definizione adottata di ippogrifo, convergono tutte a

sottolineare il lato mostruoso, ferino e bruto dell’animale nell’ottica di una trasposizione di

Sigismondo che, dunque, è in qualche modo evocato in absentia591. D’altronde la stessa

natura dell’ippogrifo – cavallo con testa di uccello - rimanda al concetto di dualità, che

investe sia Sigismondo (uomo-bestia) sia il mostro turchino (bestia-genio / bestia-uomo)592 e

che, più in generale, riguarda il mondo, soprattutto nella prospettiva barocca593. Se il termine

ippogrifo, pregnante di significato, rimanda al protagonista principale della pièce,

590 Ivi, p. 56. 591 Cfr. ivi, pp. 27-66. 592 Cfr. CARMELO SAMONÀ, Ippogrifo violento…, cit., pp. 46-47: «Parole come hipogrifos, semones, centauros contengono una sfumatura di bifrontismo, di duplicità, che va oltre il gusto generico del «raro» e «peregrino»; esse toccano un valore profondo della concezione del reale, perché rompono la compattezza e l’unità, in senso generalmente classico, dell’oggetto rappresentato. Questa è la loro forza in determinati casi: in un invito a cogliere significati «duali» o molteplici, e perciò ambigui, nell’unità solo apparente, nell’olimpicità solo astratta dei valori naturali dell’uomo». 593 Sembra interessante sottolineare come nella pur meravigliosa e fantastica produzione fiabesca gozziana, non compaiano mai figure mostruose intese come combinazione di due parti di animali: per esempio, sia nel Re cervo che nella Donna serpente i protagonisti si trasformano in un animale intero. Esiste però un “hapax”: la trasformazione finale in centauro, dunque un essere ibrido, di Sinadab, il perfido negromante orientale protagonista della Zobeide. La trasformazione è spiegabile adottando il significato di doppio e deforme inteso come mancanza di unità in contrapposizione a quella divina: Sinadab, che incarna le tradizioni di un’altra religione e che usa la magia per fini “demoniaci”, oltre che condurre una vita sregolata e viziosa, è condannato a essere un’entità ibrida.

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analogamente la parola “stelle”, collocata all’inizio della fiaba, allude al Fato, vero motore

della vicenda.

Anche la prima scena della fiaba settecentesca presenta, seppure nascosti in filigrana, gli

elementi cardine intorno a cui si svilupperà l’intera trama: l’«orrida spoglia» in cui è costretto

Zelou, diventerà la stessa in cui sarà condannato il principe gozziano, dalla quale potrà uscire

grazie a «due fedeli amanti». Si potrebbe affermare che Zelou è il doppio di Taer, anzi, la sua

figura anticipatrice: la condizione mostruosa del genio termina nello stesso momento in cui

inizia quella del principe. Non solo. Nel corso della fiaba diventa palese che la caratteristica

dei due amanti, la fedeltà reciproca, additata dalla profezia come necessaria per liberare

Zelou, si dimostra, in realtà, indispensabile proprio per la loro stessa sopravvivenza e il loro

ricongiungimento finale.

Inoltre, la predizione fatta dai Saggi del monte sacro cinese non mira solo alla liberazione di

Zelou, ma anche a salvare la città di Nanquin, contaminata dalla lascivia e dall’ingordigia di

una schiava assurta al ruolo di regina. Tutto, dunque, sembra svolgersi sotto l’egida di una

stringente Άνάγκη, di una volontà superiore che è adombrata già dalla prima battuta di tutta la

pièce gozziana: «O stelle, o stelle, io vi ringrazio», dove per “stelle” si deve intendere il fatum

latino594.

Nell’ incipit del Mostro turchino è enunciato anche il senso della fiaba che, attraverso

«allegorici casi», mostra due tipologie di trasformazione: l’una di chi, “mostro”, vuole

apparire diverso da quello che è, l’altra di chi invece viene fatto apparire orribile, pur non

essendolo.

ZELOU: tempo verrà, che le trasformazioni,

ch’io son per cagionar, servir potranno

d’allegorici casi, e i sprezzatori

mostri saranno, com’io son, cercando

di trasformar se stessi in nuovo aspetto,

grato nel mondo, trasformando altrui,

se mai potranno, in aborriti mostri595.

Protagoniste di questa tipologia di trasformazione, dunque ben diversa dalla metamorfosi,

sono le due donne: Gulindì rientra nella prima specie e Dardanè nella seconda.

594 Questo è peraltro il terzo significato attribuito al termine stella nel Vocabolario della Crusca. 595 CARLO GOZZI, Il mostro turchino, cit., p. 592, I, 1.

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Nella Vida es sueño si assiste alla dialettica tra predestinazione e libero arbitrio, un tema

cardine per la Spagna del Seicento, che riecheggia anche nel Mostro turchino ma con altri

toni. Nessuno dei personaggi principali della fiaba è davvero libero di agire perché è il Fato -

le «stelle» richiamate nell’incipit – a muoverli attraverso fili invisibili e incomprensibili, e a

condurli sempre verso una situazione che si dimostrerà migliore di quella di partenza. Non a

caso i due protagonisti, fin dalla prima scena, sono evocati non come soggetti, bensì come

oggetti: «trovar doveansi due fedeli amanti». In verità sembra che gli unici personaggi liberi,

che compiono scelte non obbligate, siano Fanfur e Gulindì. Considerando che il primo,

accecato dall’amore per la donna, spinge, seppure involontariamente, il proprio regno

sull’orlo del baratro, e che Gulindì è pronta a uccidere il marito e a mandare a morte un

innocente, si può intuire che la concezione gozziana della libertà umana non sia positiva e

che, anzi, in questa come in altre fiabe, egli desideri un’umanità che si affida completamente

alla volontà superiore, chiamata propriamente ed esplicitamente Provvidenza in Zeim re

de’geni. Anche Brighella è portavoce di queste idee: egli sceglie di sacrificare la sorella in

nome di una presunta forma di eroismo, sotto cui si cela, in realtà, la paura di morire e che

riconduce dunque la sua decisione al concetto di amor proprio596.

Di diverso spessore è l’analoga decisione maturata all’interno della Vida es sueño da

Clotaldo che, riconosciuta la figlia nel cavaliere che ha dovuto arrestare e che ha l’ordine di

uccidere, sposta l’oggetto determinante della sua scelta sulla lealtà dovuta al re Basilio,

nonché sul concetto di onore, onnipresente nei drammi spagnoleschi del secolo597.

In conclusione si può affermare, impiegando la stessa terminologia usata da

Samonà598, che la fiaba gozziana condivide con il dramma spagnolo il costante riferimento

596 Ivi, p. 656, IV, 6: «Brighella: Ignoranza, debolezza inutile, della qual un filosofo no deve esser capace. Ti ti ga un’educazion, che se usava nei tempi remoti. L’eroismo, che ti intendi ti, no xe altro, che un’antiquata parola, che se trova nelle istorie, e nei romanzi, e che ancuo se scansa, come cosa ridicola. Cusì dixe l’inoculazion del bon senso. Se no ti avessi pregiudizi de educazion antica, ignorante, se ti avessi studià i sistemi filosofici correnti, el to nome no saria entrà in tel’urna delle putte, e adesso no ti saressi in sta miseria. L’eroismo ancuo xe mostrar franchezza sulle disgrazie dei altri, e anca sulle proprie, per arrivar ai so intenti. Mi no gho el mio intento a aspettar de esser sbudellà dal Cavalier della Torre». 597 PEDRO CALDERÓN DE LA BARCA, La vita è sogno, cit., p. 13, I, 4: «Clotaldo: Ma, ahimè, che debbo fare in un simile frangente, se chi la portava per avere protezione la porta per la sua morte, arrivando davanti a me già condannato? […] Che triste fato! Oh incostanza della sorte! […] condurlo dinanzi al re è come condurlo, mio Dio, a morire. Ma per la legge del vassallaggio non posso neppure nasconderlo al sovrano mi sento vinto ora dall’amore e ora dalla lealtà. Ma perché esito? La lealtà verso il re non viene forse prima della vita e dell’onore? Vinca la lealtà e muoia mio figlio». 598 CARMELO SAMONÀ, Ippogrifo violento…, cit., p. 104: «Abbiamo visto che le prime scene sono dominate da tre valori costanti, che si ribadiscono e si rincorrono a un livello tematico (percepibile a sua volta nel doppio piano dei contenuti e dei simboli) e stilistico (e cioè insieme immediato e metaforico): a) una natura ibrida o doppia; b) la perdita o la mutilazione di una qualità essenziale; c)la caduta. Ogni personaggio ed oggetto ne è investito contemporaneamente. L’ippogrifo è nello stesso tempo cavallo e volatile; è come un raggio privo di luce o un uccello senza colori; precipita in un confuso labirinto di rocce. Rosaura è insieme donna e uomo, è priva dell’onore e di un’identità precisa; scende dall’alto del monte verso la valle. Segismundo è un uomo e una

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«alla natura ibrida o doppia» rapportata sia ai singoli personaggi (microcosmo) sia al

macrocosmo, «la perdita o la mutilazione di una qualità essenziale» che si esplica nella

metamorfosi di Taer in mostro e nella trasformazione di Dardanè in uomo e il tema della

«caduta» in seguito al peccato di ΰβρις.

fiera, un principe e un selvaggio; è privo della libertà; è stato gettato fin dalla nascita nel fondo di un oscuro carcere».

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L’elemento soprannaturale in Zeim re de’ geni

L’intervento “divino”

Zeim re de’geni, pur essendo l’ultima fiaba scritta da Gozzi e come tale costituisca una sorta

di testamento spirituale dell’autore e di congedo dal genere fiabesco, è stata trascurata dalla

critica recente599.

Come tutte le altre opere fiabesche, anche Zeim re de’geni affonda le sue radici nel Cabinet

des fées, in particolare nel racconto intitolato Histoire du Prince Zeyn Alasnan et du Roy des

Genies contenuto nelle Mille et une Nuits, da cui Gozzi attinge inequivocabilmente anche per

la scelta onomastica; tuttavia si rivelano delle significative varianti su cui è necessario

interrogarsi.

La prima differenza, che emerge già dal titolo, concerne i personaggi principali: se nel

racconto arabo il protagonista è il Prince Zeyn, mentre il Roy des Genies, senza appellativo,

ha un ruolo marginale nell’economia della vicenda, nella fiaba di Gozzi si verifica il contrario

e Zeim diventa il nome con cui è designato il re dei geni e vero, indiscusso protagonista.

Il fatto che in Gozzi il personaggio dotato di poteri magici abbia un nome proprio non si

ritrova nel racconto delle Mille et une Nuits, in cui chi ha poteri sovrannaturali è un anonimo

re dei geni, che costituisce una figura trascurabile. Ciò comporta che nella fiaba veneziana

l’elemento sovrannaturale è centrale e muove la vicenda, mentre nell’Histoire du Prince Zeyn

Alasnan et du Roy des Genies le azioni magiche sono estemporanee e gratuite.

Zeim è colui che sa prevedere il futuro e prevenire le terribili sciagure che sarebbero avvenute

alla famiglia reale per oltre dieci discendenze. Il suo operato risulta però incomprensibile a

tutti gli altri protagonisti della fiaba: egli pretende da ciascuno di fidarsi di lui, di andare oltre

l’apparenza dei fatti, preghiera che anche Cherestanì aveva rivolto, invano, a Farruscad. La

prova più difficile richiesta ai personaggi è dunque quella di credere che esista una volontà

superiore, un “regista” in grado di guidare i propri attori in mezzo a vicende tragiche per poi

condurli al lieto fine.

599 Basta pensare che l’edizione a stampa più moderna, curata da Giuseppe Petronio, risale al 1962.

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Zeim muove i fili della vicenda presentandosi sotto spoglie diverse a coloro che hanno

bisogno del suo aiuto per iniziare il loro percorso di conoscenza: a Suffar compare in un

primo momento, in sogno, sotto le sembianze di un vecchio venerabile, poi in forma semi-

animalesca, mentre a Zelica come l’ombra della madre. L’essere sovrannaturale, pur

presiedendo al destino dei suoi protetti, non è indifferente alle loro sofferenze, in particolare a

quelle amorose di Zelica da cui prende congedo con le seguenti parole: «ah, figlia, un’ombra

io sono, / ma non ombra però d’’angoscia priva»600.

Il genio è capace di leggere nell’animo umano al di là dell’apparenza, come dimostra nel

dialogo con Pantalone: per esempio, capisce lo stato d’animo del vecchio che, dietro ai suoi

atteggiamenti adulatori, nasconde paura e dubbio601, riguardo l’operato dello spirito, che

sospetta scientemente dannoso per la famiglia reale. Pantalone è ignorante, nel senso che

ignora, come la maggior parte dei personaggi, il fine ultimo degli interventi di Zeim, volti a

impedire disgrazie future più grandi di quelle che sta subendo la discendenza diretta di

Faruc602. Se il personaggio sovrannaturale diviene centrale e si offre come l’elemento

ordinatore degli eventi, si capisce perché sin dal titolo della fiaba scompaia qualunque cenno

alla realtà umana, invece presente nel titolo della novella araba di riferimento.

Poiché la sorte è manovrata da Zeim, figura saggia e benevola, ed è di conseguenza salvifica,

ne consegue che chi più vi si abbandona corrisponde all’essere dotato della più alta

perfezione. Tale appare la schiava Zirma, che accetta passivamente il destino senza resistere,

come risulta dal dialogo con Zelica603: già creatura che incarna l’Ideale fin dal primo atto,

Zirma non subisce metamorfosi nel corso della pièce. In questo si differenzia dagli altri

personaggi che, invece, intraprendono con la sorte una lotta vana, e che alla fine della

vicenda, dopo avere imparato la virtù dell’obbedienza, risultano aver compiuto una

maturazione. In questo modo trova giustificazione il sottotitolo della fiaba gozziana, la serva

fedele, dove l’accento è evidentemente posto sull’unico personaggio umano totalmente

perfetto, degno di essere assunto ad esempio, come il genio esplicita nel finale della fiaba604.

600 CARLO GOZZI, Zeim re de’ geni in IDEM, Opere, cit., pp. 805-806, I, 5. 601 Ivi, p. 792, I, 2: «Zeim: ti leggo nel cor. Dubbio ti assale; / dell’opre mie diffidi, e mal sincero / meco ragioni. Adulazion non soffro». 335 Ivi, p. 794, I, 2: «Zeim: Spinsi la ruota, e nella fresca etade / di Suffar, di Dugmè le angustie volli, / e di Zelica ancor. Tutto io procuro, / che il peso lungo di miserie acerbe / di dieci etadi, abbia il suo corso e sfogo sui figli di Faruc». 603 Ivi, p. 820, II, 4: «Zirma: ei [un certo vecchio] sempre mi dicea, che a servir nata / era, ed a’patimenti, e ch’io dovessi / rassegnarmi a’voler degli alti Numi. / Che sacra, non intesa provvidenza / tutto dispone, e che mirabil opra / era de’grandi il posto, e grado a grado / veder le genti, insino alla minuta / plebe, operar subordinate a’ primi, / era cosa celeste». 604 Ivi, pp. 871-872, V, 2: «Zeim: che bell’esempio / di virtù volontaria, a chi soggetto / è nel mondo a servir, Dugmè non dona?».

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La giovane non solo accetta la propria condizione, ma giunge perfino a sceglierla.

Truffaldino, in un moto di pietà nei suoi confronti, si finge innamorato e le propone di

scappare insieme ma Zirma rifiuta categoricamente di tradire la fiducia della regina e lo

bastona per l’infedeltà. È da rilevare che, tra gli sproloqui che Gozzi mette in bocca alla

maschera della commedia dell’arte, compare la battuta «ti son scudiero e scudo»605, verso che

è ripreso dalla Gerusalemme liberata606 e che è pronunciato dalla maga Armida nel momento

in cui l’amato Rinaldo, ritornato in sé, decide di lasciarla e di andare a combattere. La

citazione, adoperata in maniera antifrastica, oltre ad assolvere l’impiego consueto di

aumentare la comicità del personaggio che la pronuncia, rimanda un significato profondo.

Armida è colei che è riuscita a sedurre il paladino e a deviare il suo percorso ritardando la

conquista di Gerusalemme; Zirma invece, contrariamente a Rinaldo, è inflessibile, non cede

alla tentazione grazie alla propria «ostinatissima virtù»607 coltivata con l’insegnamento

impartitole dal suo educatore Zeim, da lei creduto un semplice pastore608: «ah, non t’allettino,

/ spesso dicea, sofistici talenti, / che maliziosamente libertade / dipingono a’ mortali, fuor da

questo / bell’ordine, dal cielo posto fra noi».

Tali parole segnalano la presenza della consueta polemica gozziana contro il raziocinio dei

filosofi illuministi, ai quali si fa riferimento fin dalla prima scena del primo atto dove

compaiono Sarchè e il padre Pantalone che, funzionario alla corte del re Faruc, dopo la sua

morte, vedendo il regno nelle mani del giovane vizioso e scialacquatore Suffar, ha deciso di

ritirarsi in campagna, nel luogo edenico per eccellenza, lontano dalla città e in stretto contatto

con la natura per tentare di allevare la figlia in maniera sana609.

L’esperimento di condurre una vita più naturale è rovinato dalle letture che la giovane

compie, nocive secondo il padre perché la inducono a credere che esista un mondo diverso e

migliore da quello in cui vive610 e a desiderare una vita differente dalla propria; alla

605 Ivi, p. 817, II, 2. 606 TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Mondadori, 1976, p. 366, canto XVI, 50: «Sarò qual più vorrai scudiero e scudo: / non fia ch’in tua difesa io mi risparmi […]». 607 La citazione proviene da una battuta di Truffaldino (CARLO GOZZI, Zeim re de’ geni, cit., p. 818, II, 3). 608 Zeim si presenta a Zirma come un «vecchio / di bianchissima barba, e che di bianche / vesti anche si vestiva, austero molto» (Ivi, p. 819, II, 4). Il colore bianco che contraddistingue il genio sottolinea maggiormente la sua essenza spirituale elevata. 609 L’idea che una buona educazione sia possibile solo lontano dalla civiltà e soprattutto dalla reggia sarà espressa, per esempio, anche da Hugo nel Roy s’amuse in cui Triboulet, credendo di poter proteggere la figlia Blanche, la costringe a vivere segregata in una casa circondata da un immenso giardino, luogo in cui ricercare la purezza perduta. 610 CARLO GOZZI, Zeim re de’ geni, cit., pp. 789-790, I, 1: «Pantalone: una sola lettura, che ghe sia un monde deferente da sto nostro retiro de paese, ga forza de svegiar in ti delle idee, che te lo rende noioso e molesto. Quanto meglio donca saria per ti, che no ghe fusse nessun libro, che mettesse sti principi d’inquietudine in tela fantasia!».

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speculazione filosofica, Pantalone oppone «el sol che leva, i fiori che nasce, i frutti che se

maura, un ortesello ben coltivà, un disnaretto senza potacchi»611.

A queste parole la figlia replica chiedendo se non le sia possibile, almeno per un giorno,

vedere la città di Balsora, ma il padre le risponde descrivendo la gente che vi abita come

traditrice, assassina, effeminata e consigliandole di impiegare il tempo leggendo le

«panchiane del gabinetto delle Fade»612, meno nocive di quelle filosofiche che hanno

trasformato le città nel modo appena descritto; la metateatralità è esplicita: la raccolta di fiabe

orientali, a cui Gozzi ha attinto a piene mani, è più seria ed educativa dei racconti filosofici

del tempo. Per inciso, nelle carte manoscritte contenenti la materia per l’atto primo e

riguardanti la stessa scena, Gozzi fa un esplicito riferimento al «Filosofo Russó»613.

Pantalone, nel tentativo di far desistere la figlia dall’andare in città, le spiega che chi legge

meno e sa meno, prova meno infelicità perché non alimenta i desideri insaziabili tipici

dell’animo umano; è interessante ritrovare quest’identica formulazione, usata però in modo

diametralmente opposto, nel Genio buono e il genio cattivo di Goldoni, in un passo in cui il

Genio cattivo tenta Arlecchino e Corallina, proprio sostenendo che la loro felicità si fonda

sull’ignoranza del mondo614 e instillando loro l’immagine seducente di mense imbandite e di

opulenti città, in contrasto con la casa di campagna e l’orto in cui vivono i due protagonisti e

che, all’inizio, elogiano, proprio come fa Pantalone615 in Zeim. Da notare inoltre che il Genio

cattivo sembra il corrispettivo in negativo di Zeim, non solo perché istiga i due poveretti ad

abbandonare il locus amoenus che si sono costruiti, ma anche perché prospetta loro la

possibilità di cambiare il proprio stato sociale616 che, come si è detto, era invece

categoricamente escluso dall’orizzonte proposto dalla fiaba gozziana.

611 Ivi, p. 790, I, 1. 612 Ivi, p. 791, I, 1. 613 Fondo Gozzi, 4.7, c. 24r.: «Ricerche curiose di Sarchè. Risposte morali del padre. Mondo pessimo e perché. Filiosofo Russó, chi non acquista grand’idea ha minori infelicità». 614 CARLO GOLDONI, Il genio buono e il genio cattivo, a cura di Andrea Fabiano, Venezia, Marsilio, 2006, p. 86, I, 2: «Genio cattivo: Poveri sfortunati! La vostra felicità è fondata sulla vostra ignoranza. Se conosceste il mondo , se conosceste i beni e i piaceri di questa vita, comprendereste la vostra miseria, piangereste il vostro destino». 615 Ibidem, p. 86: «Arlecchino: caro sior barbon, cossa ghe pol esse a sto mondo de più delizioso de sta campagna, e de più comodo della nostra capanna, de più dolce de do persone che se vol ben? Genio cattivo: se conosceste il mondo non parlereste così. Voi siete nella più deserta, nella più povera situazione della terra. Passate i giorni vostri in un bosco, mentre infinito popolo passeggia per le vie spaziose delle città ricche e superbe. L’albergo vostro è un’affumicata capanna, e tanti più fortunati e di voi forse men meritevoli, albergano in doviziose pareti, riposano su morbidi letti, siedono a laute mense, si trastullano fra i più soavi piaceri». Si confronti con Carlo Gozzi, Zeim re de’ geni, cit., p. 790, I, 1: «Pantalone: Sarchè, to povera mare xe morta in mezzo alle grandezze della passion, mi son sta a tempo, scampando dalle magnificenze, de conoscer che la solitudine, el sol, che leva, i fiori, che nasce, i frutti, che se maura, i rosignoli, che canta, un ortesello ben coltivà, un disnaretto senza polacchi, xe i veri oggetti donai dal cielo bastanti a occupar la mente d’un omo». 616 CARLO GOLDONI, Il genio buono e il genio cattivo, cit., p. 87: «Genio cattivo: Il mondo è fatto per tutti; ogni uomo nato nella più vil condizione, puù aspirare ai primi gradi della civil società, e vi furono dei pastori che giunsero a possedere delle corone».

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Nel manoscritto del 1765 si trova la seguente battuta pronunciata da Pantalone: «tutti i miseri

mortali come semo noi, giudica quel che i vede materialmente»617; la frase richiama

l’attenzione sull’idea che l’uomo sia destinato ad interpretare i fatti solo materialmente. Otto

anni dopo Gozzi torna sulla battuta decidendo di modificarla, evidentemente al fine di rendere

meglio il suo pensiero: «Ghe xe delle cosse recondite, che nu altri miseri mortali no podemo

capir, perché pensemo materialmente, e i filosofi po dise, che le xe fiabe»618. È vero che si fa

riferimento agli illuministi ma non – come sostiene molta critica - solo come atto di accusa

fine a se stesso, bensì per contrapporli ad un modo di leggere i fatti che poggia sulla

convinzione dell’esistenza, dietro ad essi, di «cosse recondite». Sembra che Gozzi

implicitamente voglia richiamare una modalità di interpretazione delle proprie opere, che non

si fermi alla superficie del sensibile, ma penetri più in profondità, sotto il velo dell’apparenza.

Alcuni dei motivi sottesi alla fiaba si poggiano su una fonte d’ispirazione già utilizzata da

Gozzi per la Donna serpente: la novella apuleiana di Amore e Psiche, il cui fulcro consiste

nella caduta della protagonista in seguito all’infrazione di un divieto divino e nelle imprese in

cui deve cimentarsi per scontare il castigo fino alla sua apoteosi con l’ingresso nel mondo

divino.

Secondo l’interpretazione di Fulgenzio, che per primo offre della novella un’esegesi in chiave

filosofico-allegorica, la città in cui regnavano i genitori della fanciulla rappresentava il mondo

e le tre figlie incarnavano la carne, il libero arbitrio e l’anima, Psiche appunto, che non a caso

era più bella delle altre due perché più nobile della prima e superiore alla seconda. Venere è la

libido che invia Cupido, il desiderio, a distruggere Psiche, ma il potium può essere rivolto sia

al bene sia al male e in questo caso si unisce alla giovane619.

617 Fondo Gozzi, 4.7, c. 2v. 618 CARLO GOZZI, Zeim re de’ geni, cit., p. 796, I, 2. 619 Un esame accurato della storia dell’esegesi della novella apuleiana sarebbe troppo lungo ma mi limito a segnalare un’interpretazione moderna: quella di Leopardi che nello Zibaldone scrive: «Io non soglio credere alle allegorie, né cercarle nella mitologia, o nelle invenzioni dei poeti, o credenze del volgo. Tuttavia la favola di Psiche, cioè dell’Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell’uomo e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo… Del resto combinando quest’osservazione, col racconto della Genesi, dove l’origine immediata della infelicità e decadimento dell’uomo, si attribuisce manifestamente al sapere, come ho dimostrato altrove, mi si fa verisimile che in somma queste gran massime, l’uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura, ultimo frutto ed apice della più moderna e profonda, e della più perfetta o perfettibile filosofia che possa mai essere; fossero non solamente note, ma proprie, e quasi fondamentali dell’antichissima sapienza, se non altro di quella arcana e misteriosa come l’orientale, e come l’egiziana dalla quale è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e la sapienza greca» (GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, p. 637, 10 febbraio 1821).

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La lettura delle due sorelle offerta da Fulgenzio sembra particolarmente utile se rapportata alla

fiaba di Gozzi: anche in questo caso ci si trova di fronte a una famiglia i cui membri, due

sorelle e un fratello, si presentano più o meno legati alla sfera della materialità. Come nella

novella apuleiana, in cui le due sorelle attraenti intese come i piaceri sensuali e come tali

strettamente uniti all’anima, abitano nella stessa casa con Psiche, così in Zeim re de’geni i tre

risiedono nella stessa reggia, anche se Zelica e Suffar ignorano la loro parentela con Zirma.

Proprio quest’ultima può essere sovrapposta alla figura di Psiche: ella è pura, innocente ma a

differenza dell’eroina apuleiana, è immune dalla curiositas grazie all’educazione impartitale

da Zeim; la schiava inoltre è condannata a una punizione uguale a quella imposta da Venere

alla giovane, mondare e separare i semi delle diverse piante.

Nella fiaba gozziana le figure femminili appaiono più vicine alla fonte della conoscenza:

Zirma è stata addirittura allevata dal genio e Zelica è abituata a parlare con l’ombra della

madre, dimostrandosi capace di vedere oltre la realtà sensibile e di obbedire a quanto

comandato, anche se il motivo le risulta incomprensibile.

La prima prova affrontata da Zelica sembra consistere nel rifiutare la proposta di matrimonio

rivoltale da Alcouz, l’uomo che ama, per eseguire l’ordine impartitole dall’ombra, ma in

realtà essa è compiuta e superata non tanto perché ella nutre fiducia in quanto le è stato

rivelato, ma piuttosto per il timore di incorrere nel triste destino profetizzatole. Zelica quindi è

ancora lontana dal sacrificio puro auspicato dalla morale della fiaba: obbedendo solo perché

mossa dalla paura non si dimostra libera di scegliere consapevolmente il sacrificio che le

viene chiesto. Nel corso della fiaba, la giovane compierà un’evoluzione proprio verso

l’acquisizione di questa libertà che le permetterà di esercitare in toto la virtù e di assecondare

spontaneamente il suo destino, diventando l’alma grande di cui parlava l’ombra nel primo

atto620. Ciò avviene nel momento in cui Zelica accetta la condanna ad essere trasformata in

tigre e decide di fidarsi delle parole pronunciate dall’ombra che l’ammonivano a fidarsi di

Zirma. È significativo che tale metamorfosi avvenga nel giorno delle nozze: oltre ad

aumentare il pathos della vicenda amorosa, essa mostra come l’anima debba sempre essere

pronta alla rinuncia, anche all’amore, in vista di un obiettivo superiore, spesso però non

comprensibile.

La figura maschile di Suffar appare quella più ancorata alla dimensione materiale e

quest’aspetto emerge già significativamente dalla sua prima comparsa: pur essendo colpevole

620 CARLO GOZZI, Zeim re de’ geni, cit., p. 804, I, 5: «Ombra: Un’alma grande / sacrificar se stessa alfin pur deve / per riparare, in quanto possa e vaglia, / alla distruzion d’ una cittade, / a una strage de’sudditi innocenti».

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di avere ridotto il regno alla miseria per avere dilapidato il patrimonio del padre e gestito in

maniera inefficace gli affari pubblici, accusa Zelica di essere la causa della rovina prossima

della città se non accetterà la proposta di matrimonio di Alcouz. La sorella gli risponde che la

vera ragione dell’assedio da parte della regina mora Canzema risiede nel suo rifiuto di onorare

la promessa di matrimonio con la sovrana che loro padre aveva fatto. All’accusa il principe

replica l’impossibilità di mantenere fede alla parola data a causa della scarsa avvenenza della

futura sposa. Fin da subito, dunque, la figura di Suffar appare dominata dall’egoismo - difetto

che Gozzi imputava alla “predicazione” illuminista - e scarsamente incline ad assumere fino

in fondo il ruolo di un re che, avendo a cuore il bene collettivo dei sudditi, è capace di

sacrificare se stesso. Significativo nell’apologo che compie Suffar è l’utilizzo dell’espressione

«dura legge»621 che si trova spesso impiegato nelle tragedie cinque-seicentesche, ma con un

significato opposto e ben più profondo: se negli scrittori il termine indica la tragica volontà

suprema incarnata dal fato o dallo Stato per cui due amanti non possono stare insieme, in

bocca a Suffar, assume il significato opposto e la legge dura è quella paterna che lo ha unito

in matrimonio; anche nel linguaggio del principe è dunque ravvisabile la smoderatezza che ne

contraddistingue la vita.

Egli è preda di passioni smodate per le ricchezze e, come trapela dalle parole dei suoi

servitori, anche per le donne. Proprio dalla possibilità di possedere un’enorme quantità d’oro

prospettatagli in sogno da un vecchio (Zeim travestito), egli si era recato in Egitto. A questo

primo viaggio, rivelatosi fallimentare, intrapreso solo per cupidigia, ne segue un altro che

però viene compiuto all’interno della reggia: Suffar deve scavare sotto lo studio del padre

dove sono nascoste ricchezze inestimabili.

Questo tragitto costituisce allegoricamente l’inizio del percorso più profondo dell’anima di

Suffar verso una maggiore conoscenza interiore ed esteriore e, non a caso, esso si configura

come una vera e propria catabasi durante la quale incontrerà lo spirito del padre, seguita da un

itinerario ascendente.

Quello che si presenta davanti al principe una volta sceso è, come indica la didascalia

gozziana, «una stanza grande, in cui tutto spira immensa ricchezza. Cinque statue d’oro

coronate di gemme, disposte con ordine sopra piedistalli. Un piedistallo sullo stesso ordine,

mancante della sesta statua»622: il viaggio all’interno della propria anima rivela la presenza

esclusivamente di beni legati alla dimensione terrena e non ricchezze spirituali. Adottando

621 Ivi, p. 798, I, 3: «Suffar: qual è il mio error, se fin dalle mie fasce / di me dispose il genitor per lei? / Qual dura legge a un imeneo mi sforza / senza il consenso mio, d’un mostro orrendo?». 622 Ivi,, Zeim re de’ geni, cit., p. 821, II, 5.

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questa lettura è spiegabile l’assenza della sesta statua che, recita l’iscrizione, vale più di tutti i

tesori presenti nella stanza: essa, come il finale della fiaba rivela, è Sarchè, che rappresenta la

castità e l’innocenza, proprio le virtù di cui Suffar è privo e di cui dovrà innamorarsi per poi

giungere a desiderarle e a cercarle.

L’anima di Suffar è debole e ancora molto legata alla materia: prova ne è che egli non

obbedisce al divieto di impossessarsi di alcun oggetto prima di avere recuperato la sesta statua

e, con la giustificazione che «l’oro può tutto»623,

A causa del gesto avventato, il giovane sprofonda nel pavimento fino al busto. L’episodio

richiama il più noto inabissamento di Don Giovanni che, a differenza del protagonista della

fiaba, non si redime e finisce simbolicamente nell’oscurità. Il rimando al celebre testo è

peraltro rinforzato dal fatto che Suffar è accompagnato da Truffaldino, che certamente

funzionava sulla scena come controparte comica, ma che alla parte più colta del pubblico

ricordava il servo che sprofonda insieme al padrone nel Convitato di pietra tirsiano, pièce che

più volte era stata data nei teatri veneziani dell’epoca e che fino alla rivalutazione fatta in

epoca romantica, era sempre stata considerata come esemplare per il castigo degli uomini

viziosi.

Determinante è la comparsa del padre defunto, in cui si può ravvisare la parte migliore,

inconscia e latente di Suffar, l’unica capace di spingere il principe a proseguire la sua quête.

L’ombra rimprovera il figlio per i vizi di cui è vittima e lo ammonisce a seguire la virtù e ad

acquistare la capacità di rassegnarsi facendo appello al libero arbitrio624 di cui l’uomo è

dotato.

La felicità a cui aveva alluso Zeim nel primo dialogo avuto con Suffar non è dunque quella

che deriva dal possesso delle ricchezze ma dalla conquista della virtù, e, in quest’ottica,

davvero il principe potrà essere contento e “ricco” se riuscirà a possedere la sesta statua625.

Peraltro quest’interpretazione delle parole del genio trova sostanza nella dichiarazione che lo

stesso aveva compiuto in precedenza al cospetto di Pantalone e che, essendo posta proprio

all’inizio della fiaba, ne costituisce il tema dominante seppur sotteso: «io tento / l’unico

mezzo d’una sferza acerba / per destar la virtù, ch’è il perno vero / della felicità»626.

623 Ivi, p. 823, II, 5. 624 Ivi, pp. 825-826, II, 6: «Ombra: Se non lo [il cuore] purghi / dai presi vizi, e dalle violenze / interamente, e nol raffreni, e avvezzi / alla rassegnazione, alla virtude; / in un mar di miserie ti rimani. / Libero arbitrio ha l’uomo. Svegliati, iniquo». 625 Ivi, p. 809, I, 7: «Zeim: Il più felice, / e il più ricco monarca della terra / esser potrai, se giungi a possederli [inestimabili tesori]». 626 Ivi, p. 796, I, 2.

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Il cammino di Suffar verso l’acquisizione della virtù è travagliato: dopo avere trovato la

fanciulla casta, il principe la desidera per sé ed è disposto a infrangere la parola data al genio,

pur di non cedergli Sarchè. In quest’occasione egli si dichiara addirittura disposto a rinunciare

alle ricchezze e al regno pur di rimanerle accanto627. Se da una parte l’amore riesce a

distogliere Suffar dalla sfera materiale, esso è tuttavia ancora imperfetto, e, percepito

soprattutto come desiderio sensuale, costituisce un ostacolo al raggiungimento di un

sentimento assoluto e disinteressato. Pantalone riesce a dissuaderlo facendo leva soprattutto

sul pericolo mortale che l’infrazione alla promessa causerebbe a Sarchè e esplicitamente

condanna il sentimento di Suffar: «L’azion, che la vorrai far, no xe generosa; l’è un amor

proprio, uno stimolo della so passion»628. Con il termina amor proprio Gozzi allude

apertamente alla tesi nata dal magma delle dottrine illuministiche e sensistiche secondo cui

qualunque azione dell’uomo mira al conseguimento del proprio interesse, e Suffar, che sceglie

di mettere a rischio la vita dell’amata pur di averla a fianco, è un’esemplificazione di tale

concetto.

In questa lettura appare significativa la scelta di Gozzi di cambiare, rispetto alla fiaba persiana

del ciclo arabo assunta a modello, il numero delle statue presenti nella stanza sotterranea che

diventano cinque anziché otto. Il numero cinque allude ai sensi a cui Suffar si è ampiamente

affidato nel corso della vita ed è un chiaro rinvio alla dimensione sensibile dell’esistenza da

cui però l’uomo si deve staccare per trovare una conoscenza più profonda e veritiera (la sesta

statua)629.

Come tradizionalmente avviene nelle fiabe, anche in quella gozziana viene donato al

protagonista uno strumento magico utile a facilitargli il compito che gli è stato affidato: si

tratta di uno specchio che si oscurerà se vi si specchieranno donne non caste e, al contrario,

rimarrà trasparente al riflesso di una fanciulla dotata di virtù. Tale oggetto, oltre a essere già

presente nell’Histoire du Prince Zeyn Alasnan et du Roy des Genies e a costituire un ottimo

elemento per la resa scenica, può farsi portatore di una valenza simbolica: assumendo infatti

l’ipotesi che Zeim sia la trasfigurazione di Gozzi, quello che lo specchio dimostra non è solo

la scarsità di donne virtuose ma più in generale la mancanza dell’esercizio della virtù nella

società del tempo i cui valori sani, secondo lo scrittore, si stavano progressivamente perdendo

627 Ivi, p. 855, IV, 5: «Suffar: schiavo son d’amore / più mio non son; dispor di me non posso […] / Povera vita io scelgo in questi boschi / di costei sposo, e tuo compagno. Il regno / mi scordo, le grandezze, ed i tesori, / tutto rinunzio». 628 Ivi, p. 855, IV, 5. 629 Anche il sei è ritenuto denso di significati mistici: basti pensare che Sant’Agostino riteneva il numero importante perché costituisce la somma dei primi tre numeri, oltre che indicare il tempo impiegato da Dio per creare il mondo.

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anche a causa delle dottrine illuministiche, ree di mettere in crisi le gerarchie sociali e l’ordine

pubblico.

La lettura metaforica può spingersi anche oltre: se infatti Zeim-Gozzi dona a Suffar uno

specchio in grado di mostrargli l’unica donna che vuole accanto, quella virtuosa, lo scrittore

invece regala la fiaba stessa, in cui verranno mostrati casi esemplari da cui trarre

insegnamento e degni di essere imitati. La favola dunque diventa specchio non di come è, ma

di come dovrebbe essere la società a cui vengono richiesti il sacrificio e l’obbedienza.

Il Leitmotiv della sottomissione, esplicitato nella quarta scena del secondo atto attraverso le

parole di Dugmè cariche di rassegnazione ha indotto spesso la critica gozziana a “etichettare”

questa fiaba come quella più dichiaratamente politica, in cui l’ideologia conservatrice dello

scrittore emerge maggiormente ma, a nostro parere, al di là del significato contingente, si può

intravedere anche un senso più profondo. Proprio il fatto che Gozzi abbia abolito, nell’ultimo

lavoro fiabesco, la magia intesa come caso meraviglioso a sé stante, come accadimento

prodigioso inspiegabile, e l’abbia invece ridefinita e impiegata come il mezzo attraverso cui

opera Zeim, che qui assume i connotati di una mente suprema e ordinatrice, sembra una scelta

volta a indicare la volontà dell’autore di opporsi all’idea più generale del Caos, inteso in

chiave non solo politica, ma anche in termini di vita quotidiana. Le trasformazioni storico-

politiche e culturali di cui Gozzi è stato testimone hanno scosso le fondamenta di un’epoca, e

di conseguenza di un popolo che si trova disorientato e confuso, incapace spesso di spiegarsi i

rivoluzionamenti e di accettarli, il drammaturgo in primis. È vero che in Zeim fanno capolino

le istanze sociali conservatrici dell’autore, per esempio l’affermazione che chi è nato per

servire non deve cercare di mutare la propria condizione, ma è altrettanto certo che

l’obbedienza a cui si fa riferimento vale anche per i protagonisti, principi e principesse, che

nel corso della vicenda imparano proprio a seguire i precetti provenienti dall’“Alto”, nel caso

di Suffar da Zeim e in quello di Zelica dall’ombra della madre defunta. Lo stesso vale per

Pantalone, il buon vecchio consigliere di corte che si ritira in campagna dopo aver

sperimentato il cattivo governo di Suffar: anche a lui, infatti, viene domandato di riporre

nell’operato di Zeim una fiducia illimitata, e di mostrargli fedeltà pur vedendo che,

apparentemente, il genio sta conducendo alla rovina la famiglia reale. L’idea sottesa alla fiaba

sembra che sia l’attuazione, da parte di tutti, della capacità di abbandonarsi fiduciosamente

alla Provvidenza (termine comparso proprio nel dialogo di Dugmè citato), che agisce

certamente attraverso vie incredibili e “magiche”630.

630 D’altronde l’apertura gozziana verso una dimensione più profonda trova supporto nelle letture compiute: la scelta di rivolgersi al repertorio spagnolo seicentesco, anche calderoniano, piuttosto che alla letteratura francese

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Forse anche Gozzi, che all’epoca della scrittura delle fiabe cominciava a intravedere i segni

della crisi che da lì a poco si sarebbe abbattuta sulla repubblica di Venezia, sentiva la

necessità di credere che dietro i capovolgimenti sociali del tempo ci fosse un disegno supremo

e benefico.

La soluzione adottata da Gozzi di fare di Zeim, re dei geni, il personaggio principale della

vicenda risponde a una sua visione del mondo: fiducia nel tempo presente, auspicio

dell’accettazione passiva da parte di ogni classe sociale del proprio stato e delle proprie

condizioni, rassegnazione degli uomini ad un destino che non è pensato come Caso. I

sentimenti che predominano nella fiaba sono infatti la sottomissione, l’obbedienza e la

pazienza, gli stessi che si ritrovano nel mélodrame, i cui protagonisti dimostrano il loro

eroismo sopportando le forze che si abbattono contro e non opponendosi ad esse.

Il tema della magia

Se «il primo ritratto dell’amante, che è all’origine di qualsiasi creazione artistica, nasce dal

rimpianto, dall’assenza della persona amata […] il rimpianto genere immagini»631, si può

affermare che la fiaba costituisca proprio il modo attraverso cui Gozzi ricostruisce un mondo,

quello della magia e degli “arcani”, che ritiene di avere perso, soprattutto a causa

dell’imperante cultura illuminista.

Il drammaturgo, recuperando nelle Fiabe questa sfera, si inserisce nel dibattito veneto occorso

soprattutto intorno al 1750 concernente la magia, di cui sono testimonianze Del congresso

notturno delle lamie, con due dissertazioni sull’arte magica di Girolamo Tartarotti (1749),

l’ Arte magica dileguata (1750) e l’Arte magica annichilata (1754), entrambe opere di

Scipione Maffei, le Osservazioni sopra l’opuscolo Arte magica dileguata di padre Luziato

uscito a Venezia nel 1750 che, replicando al libro del veronese sosteneva l’esistenza di

streghe e maghi fin dal tempo di Cristo, adducendo come prove i passi dei Santi Padri a

favore della sua tesi, confutata dall’arciprete Antonio Florio e sostenuta invece da Francesco

Staidelio con la dissertazione Ars magica adserta. In Veneto venne poi stampata nel 1751

coeva, allora imperante a Venezia, può essere giustificata, oltre che con la frequentazione del noto ispanista Giovan Battista Conti, anche da una vicinanza ideale con gli autori spagnoli e con l’affascinante tema del “gran teatro del mondo”. 631 Maurizio Bettini, Il ritratto dell’amante, cit., p. 45.

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L’arte magica dimostrata, dissertazione di Bartolomeo Preati vicentino in cui si afferma la

realtà della magia e si critica l’abitudine di ricondurre tutti i fenomeni alle leggi della fisica o

di ascriverli all’immaginazione e alla superstizione632. Anche Gian Rinaldo Carli, amico della

famiglia Gozzi, entrò nella disputa nel 1749 contro Tartarotti con la Dissertazione epistolare

sopra la magia e stregheria633, in cui - oltre a comparire una curiosa etimologia di maschera

che deriverebbe proprio da strega634 - imputava la convinzione dell’esistenza di una

dimensione soprannaturale all’ignoranza e alla volontà umana di spiegare qualsiasi evento635.

I maghi gozziani spesso si presentano al pubblico come vittime di questo processo che ha

decretato la morte della loro arte magica; si pensi alle parole del mago Malagigi nella Marfisa

bizzarra che riprendono il titolo dell’opera di Maffei:

MALAGIGI : Stupisco che voi [i paladini che gli hanno chiesto aiuto] siate sì ignoranti

e che giunto all’orecchio non vi sia

che usciti son de’ libri nuovi alquanti

i quali han disertato la magia.

Non vi sono più streghe o negromanti,

un’impostura è l’arte mia.

I moderni scrittor spregiudicati

i negromanti al sole hanno mandati636.

632 Per la questione si veda “magia”, voce del Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro ai nostri giorni compilato dal cavaliere Gaetano Moroni romano, Venezia, tipografia emiliana, 1846, vol. XLI, pp. 301-309. 633 GIAN RINALDO CARLI , Dissertazione epistolare sopra la magia e stregheria stampata nell’anno MCCXLIX unitamente al Congresso notturno delle Lamie dell’Abate Tartarotti, in IDEM, Delle opere del signor commendatore Don Gianrinaldo, conte Carli, pubblicato nell’Imperial monistero di S. Ambrogio maggiore, 1784, pp. 59-177. 634 Ivi, pp. 168-169: «in dette leggi di Rotari si apprende inoltre che i Longobardi alle supposte streghe davano il nome di Masche strigam quae dicitur Masca: donde a gli Italiani venne la voce Maschera: ed appunto dalle persone trasformate con maschere, e co’ vestiti alterarti di notte per loro indiretti fini, ebbero l’Orco, la Befana, l’Erodiade la loro origine». Sull’origine della maschera di Arlecchino si veda LUCIA LAZZERINI, Arlecchino, le mosche, le streghe e le origini del teatro popolare in «Studi mediolatini e volgari», 1977-1979, 25-26, pp. 93-155 e LUCIA LAZZERINI, Preistoria degli zanni: mito e spettacolo nella coscienza popolare, in Scienze, credenze occulte, livelli di cultura, Firenze, Olschki, 1982, pp. 445-475. 635 GIAN RINALDO CARLI , Dissertazione…, cit., p. 154: «l’ignoranza delle cagioni fisiche e naturali, unita all’orgoglio degli uomini di saper tutto, facilitò l’illusione, di credere essere cosa sopranaturale, ed opera degli Spiriti buoni, o cattivi, tutto ciò che non intendevano e che aspetto aveva di straordinario e di meraviglioso». Lo scrittore condanna sia le persone che si ritengono maghi e streghe per la «coscienza erronea», sia coloro che «fecero abuso della retta credenza» punendo con estrema facilità persone e bandendo libri tra cui perfino «i poveri libri d’Euclide […] perché creduti assolutamente magici: essendo pieni di circoli, di triangoli, e d’altre figure di questo genere». 636 CARLO GOZZI, La Marfisa bizzarra, cit., libro X, canto 66.

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O, ancora, alle parole di commiato pronunciate dal mago Durandarte nel Re cervo in cui

amaramente annuncia la fine della magia, soppiantata dalle scienze naturali e dal credo

illuminista che nega l’esistenza di qualunque fenomeno inspiegabile:

DURANDARTE: […] e sol vi dice,

ch’oggi i segreti magici hanno fine;

ch’io più mago non son. Resti l’incarco

alla fisica industre di far guerra

sugli organi, e le voci, che passando

di corpo in corpo le medesime sono.

Tolga questo mio fine a’ dotti spirti

cagion di dsputar637.

La fisica e la scienza si sostituiscono alla magia, connessa alla possibilità umana di stupirsi e

di meravigliarsi e la relegano all’interno delle fiabe, privandola di quell’aurea “sacra” che la

contraddistingue, depotenziandola; rendendola forma priva di sostanza, essa è ridotta ad

attenersi solo alla superficie e i negromanti assumono la semplice funzione di opache

presenze che decretano il lieto fine. È il caso di Norando (il mago del Corvo) e di Durandarte

(dopo il commiato “tragico” e serio appena citato) che siglano eccezionalmente la conclusione

della pièce – di solito affidata invece alla prima donna come comprovano tutte le altre Fiabe -

utilizzando toni fiabeschi più popolari e dissolvendo la magia638.

Esaminando nel dettaglio La donna serpente, Il mostro turchino e Zeim re de’ geni

dimostreremo le modalità tutt’altro che casuali con cui opera il “Fato”, e, tuttavia, a parte il

caso di Zeim re de’ geni, in cui esso prende il nome di “Provvidenza”, in ultima battuta, è

imperscrutabile anche dalle entità soprannaturali: infatti negromanti, geni e fate agiscono

secondo una legge a sua volta dettata da un volere superiore di cui si ignora il motivo. Nel

Corvo Norando è costretto dal destino a vendicare il rapimento della figlia con la

marmorizzazione del colpevole a comportarsi da inumano («Crudo è ‘l destino; / io di quel

son ministro»639), nella Donna serpente Cherestanì deve soggiacere ai dettami di

Demogorgon ed apparire perfida agli occhi di Farruscad, nel Mostro turchino Zelou, genio di

637 CARLO GOZZI, Il re cervo, cit., p. 236, III, scena ultima. 638 Norando: si rinnovellino le nozze con rape in composta, sorci pelati, gatti scorticati, e, se d’altro non siamo degni, almeno i fanciulletti colle loro picciole mani faccian qualche segno di aggradimento (CARLO GOZZI, Il corvo, cit., p. 166, V, scena ultima) e Durandarte: Si rinnovellino / colle solite rape, e i consueti / sorci el nozze; e voi, pietosi spirti, / se ‘l convertirsi nostro, sino in bestie, / per divertirvi, qualche scusa merta, / consolateci almen con qualche segno / di quella umanità, che sì vi onora (CARLO GOZZI, Il re cervo, cit., p. 236, III, scena ultima). 639 CARLO GOZZI, Il corvo, cit., p. 157, V, 4.

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rara bellezza, è trasformato in mostro dai «saggi del monte della China»640, in Zobeide perfino

Abdalac, personaggio dotato di poteri magici, deve sottostare ai Numi («da’ Numi prima / fu

l’opra disegnata»641): sembra dunque cha la causa di un’azione sia rimandata all’infinito,

infinito che, come tale, rimane insondabile e incomprensibile per gli uomini642. È evidente che

tale idea si pone in netto contrasto con l’affermazione di stampo illuministico della possibilità

di conoscere la natura e il mondo a partire dallo studio e dall’osservazione delle leggi che li

regolano, assumendo come punto di partenza, l’inesistenza di un’entità superiore che regge i

fili delle vicende secondo intenti precisi e logici – come Candide dimostra - nonché con il

principio della autodeterminazione umana.

Gozzi ribalta questo assioma e pone gli “arcani” a fondamento delle Fiabe: gli uomini, ma

anche le creature soprannaturali, agiscono secondo un principio che si dimostra per lo più

benefico e positivo, ma che tuttavia è sempre sfuggente e si presenta, appunto, sotto forma di

arcano incomprensibile e inafferrabile dalla natura umana, come i casi delle fiabe dimostrano,

diventando in questo modo allegorie, già a partire dalla prima fiaba, l’Amore delle tre

melarance643, che pure era connotata da una esplicita vis polemica.

La magia gozziana opera in scenari accostabili a quelli della letteratura neo-gotica: foreste,

deserti, grotte, sepolcri, e, più in generale contesti decadenti con immagini di rovine che

pertengono non solo gli ambienti, ma anche la società644.

640 IDEM, Il mostro turchino, cit., p. 602, I, 5. 641

IDEM, Zobeide, cit., p. 497, V, ultima scena. 642 BARBARA PIQUÉ, Scrittori di fiabe alla corte del Re Sole, Roma, Bulzoni, 1981: pp. 109-110: «l’affidare il destino dell’uomo al volere di lunatiche creature immaginarie, non era in fondo come negare quella Provvidenza divina che il Bousset aveva sì caldamente affermata? Nelle fiabe nessun disegno trascendente pare regolare il corso della vita umana […] nulla è certo, tutto è casuale e imprevedibile. E impotente è la ragione dinanzi al fato – e si ricordi l’etimologia di fata, da fatum». 643 CARLO GOZZI, Memorie inutili, t. II, p. 418: «La collera che risvegliò quell’arditissima produzione [L’amore delle tre melarance] ne’ due Poeti, e ne’ loro partigiani colla rivolta che ha cagionata, colle parodie, e con gl’arcani allegorici che conteneva». 644 Cfr. PIERMARIO VESCOVO, Per una lettura non evasiva delle Fiabe…, cit., pp. 180-181.

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Sezione III

LA SCENA

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La compagnia Sacchi

L’organico della compagnia Sacchi negli anni delle Fiabe (1761-1765)

Le prime messinscene delle dieci fiabe teatrali di Carlo Gozzi si devono alla compagnia

Sacchi nel periodo 1761-1765.

Il ritrovamento nel Fondo Gozzi di alcune carte relative agli attori e un’ulteriore indagine sui

manoscritti marciani preparatori per l’edizione Colombani hanno fatto emergere dati inediti

relativamente alla compagnia sin qui sconosciuti agli studiosi, consentendo di annettervi nomi

di interpreti negli anni del sodalizio con Gozzi e di approfondire le notizie concernenti quelli

già noti.

Nei primi anni Sessanta i membri della troupe da Gozzi nominati nel Canto ditirambico in

onore di Sacchi Truffaldino erano: Antonio Sacchi, la moglie Antonia Franchi Sacchi, le due

figlie Angela e Giovanna, la sorella di Antonio, Adriana Sacchi, Cesare Darbes, Agostino

Fiorilli, Gaetano Casali, Ignazio Casanova, Atanagio Zannoni, Giuseppe Simonetti e la figlia

Chiara, e Giovanni Vitalba, dunque un totale di tredici persone. Rodrigo Lombardi645, primo

marito di Adriana e celebre dottore, Antonio Vitalba646 e Ludovica Bassi647 militarono nella

troupe negli anni precedenti al sodalizio di Sacchi con il Conte e morirono nel 1749 il primo e

nel 1758 gli altri due. A questi si devono aggiungere Giovanni Valentini, Rosa Lombardi e

Francesco Pozzi.

I ritratti riguardanti questi attori e le loro caratteristiche artistiche, provenienti soprattutto da

Francesco Bartoli, autore delle Notizie istoriche de’ comici italiani, che pure entrò nella 645 Sia Rasi che Colomberti riportano la notizia che Benedetto, figlio di Rodrigo, si dedicò ai balli grotteschi e che in seguito militò nella compagnia Sacchi, (Rasi lo definisce primo ballerino) anche durante il viaggio a Lisbona dove, su richiesta di quella regia corte, risiedette per undici anni «con onorevole stipendio» (ANTONIO

COLOMBERTI, Notizie storiche de più distinti comici e comiche che illustrarono le scene italiane dal 1780 al 1880, manoscritto presso la Biblioteca del Burcardo, coll. Ms. 3/15/3/19, c. 162r). Tornato in Italia interpretò la maschera di Arlecchino e morì a Torino nel carnevale del 1795; anche i suoi figli, Giovanni e Federico, intrapresero la carriera comica. 646 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche de’ comici italiani, Padova, Conzatti, 1781-1782, anastatica Bologna, Forni, 1978, t. II, pp. 271-272. L’attore era stato il “maestro” di Albergati Capacelli (cfr. GERARDO GUCCINI, La vita non scritta di Carlo Goldoni. Prolegomeni e indizi, in «Medioevo e Rinascimento». Annuario del Dipartimento di Studi sul Medioevo e il Rinascimento dell’Università di Firenze, III, 1992, p. 351). 647 Luigi Rasi la definisce «attrice di molti pregi, così nelle commedie scritte, come in quelle all’improvviso. Fu nella Compagnia di Antonio Sacchi e in altre» (LUIGI RASI, I comici italiani. Biografia, bibliografia, iconografia, Firenze, Bocca, 1897-1905, t. I, p. 293).

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compagnia Sacchi648, si dimostrano utili per congetturare la distribuzione delle parti delle

Fiabe. Essi risultano particolarmente parlanti una volta confrontati con gli elenchi dei

personaggi scritti a mano da Gozzi per due pièces, in cui accanto a ciascun nome il

drammaturgo aveva apposto quello dell’attore che l’avrebbe interpretato.

Come la maggior parte delle compagnie settecentesche, anche quella di Sacchi, almeno

inizialmente, aveva una gestione familiare: ad eccezione di Gaetano Casali, Cesare Darbes,

Ignazio Casanova e Agostino Fiorilli, Giovanni Valentini e Francesco Pozzi, gli altri dieci

attori erano legati tra loro da vincoli di parentela.

Antonio Sacchi (Vienna 1708 – Marsiglia 1788)649 fu capocomico e celeberrimo Truffaldino,

«uomo degno d’una memoria indelebile, e si potrà in lui costituire l’esempio d’un Comico

eccellente, il di cui nome sarà ognora nella Teatrale Istoria, e rinomato, e famoso»650.

All’inizio della carriera, stando a quanto narra Bartoli, si distinse soprattutto come ballerino,

arte, questa del ballo, che si presume non abbia mai smesso di praticare e che probabilmente

tornò a “rispolverare” in tarda età, se si identifica nel capocomico l’Antonio Sacchi ascritto da

Claudio Sartori come inventore di alcuni balli651. Inoltre, presso l’Archivio di Genova è

conservato un “Avviso” dell’attore con l’annuncio che avrebbe reso omaggio alla città ligure,

in cui si era ritirato dopo lo scioglimento della compagnia veneziana, offrendo ai cittadini una

sua performance di ballo, nonostante l’età avanzata652.

648 Francesco Bartoli, con la moglie Teodora Ricci, fece parte della compagnia Sacchi dal 1771 al 1777, anno in cui Teodora si recò a Parigi. 649 Antonio Sacchi nacque a Vienna mentre il padre Gaetano Sacchi, anch’egli attore, era al servizio dell’imperatore Leopoldo; morì nel 1788 sulla nave che lo stava portando da Genova a Marsiglia, città in cui aveva una figlia maritata. La notizia della sua morte apparve nella «Gazzetta Urbana Veneta» di mercoledì 19 novembre 1788: «Quest’uomo famoso che ammirare si fece fino a’ confini d’Europa: che fu chiamato fuori d’Italia, dove non intendesi la nostra lingua: che volar fece il suo nome appresso tutte le nazioni dove conoscesi e pregiasi la comic’arte: che nelle nostri parti rese col suo valore angusti al concorso i maggiori teatri, è morto indigentemente nel suo tragitto da Genova a Marsiglia e il suo cadavere soggiacque al comune destino de’passeggeri marittimi d’esser gettato in mare. Sarà vero che molto in sua vita egli abbia guadagnato e molto speso: ma è vero non meno che l’arte comica in Italia non arricchisce nemmeno chi l’esercita colla più grande fortuna». Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., t. II, pp. 143-149. 650 Ivi, p. 149. 651 Il nome di Antonio Sacchi figura, dal 1757 al 1759, negli elenchi degli interpreti di alcuni dei Libretti italiani a stampa dalle origini al 1800 di Claudio Sartori: ne Il retiro degli dei, stampato a Pietroburgo nel 1757 e rappresentato il 25 novembre 1757 nel giorno dell’incoronazione di Elisabetta I, ne Il mondo della luna e ne La cascina mentre nella Didone abbandonata figura addirittura come direttore dei balli (rispettivamente in CLAUDIO SARTORI, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, catalogo analitico con 16 indici, Cuneo, Bertola & Locatelli, 1992, vol. V, p. 34, 1991; vol. IV, pp. 174-175; 1990, vol. II, p. 79 e p. 335). 652 Nel 1786 effettivamente Sacchi risulta attivo a Genova al Teatro Falcone in una compagnia propria con cui si esibì il 16 gennaio 1786 davanti agli Arciduchi di Milano, Ferdinando e Beatrice d’Este (Avvisi, Genova, 3, 21 gennaio 1786: «I R.R. Arciduchi di Milano sempre in attenzione del tempo favorevole alla continuazione del loro viaggio proseguono a godere delle private Conversazioni, e del teatro […]; essendo lunedì 16 corrente passati a quello del Falcone a godervi similmente di quella Rappresentanza Comica eseguita dalla Compagnia Sacchi, per essere rimasta indisposta la Signora de Agostani prima attrice dell’Opera in musica».

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Presumibilmente nella Quaresima del 1738, e comunque sicuramente dopo il 1735, anno in

cui ritornò dalla tournée russa653, Antonio, insieme a Casali, entrò nella compagnia di

Giuseppe Imer, al servizio della famiglia Grimani, lavorando prima nel teatro San Samuele e

poi in quello di San Grisostomo. È imputabile a questo periodo la scrittura del testo

parodistico recitato in musica Il pastor fido ridicolo654, la cui edizione veneziana del 1739 è

provvista di una premessa firmata «Antonio Sacco e compagni». La collaborazione con la

nobile famiglia veneziana durò molto a lungo, seppure intervallata da un altro viaggio in

Russia presso la corte della zarina Elisabetta Petrovna (1742-1745). Anche Pietro Chiari,

durante il suo servizio per i Grimani dal 1749 al 1752, ebbe modo di lavorare con Sacchi e

soprattutto di vederlo “in azione”. Ecco quanto testimonia il poeta:

la truppa, da cui furono recitate [le mie commedie], aveva degli attori abilissimi; e tra questi una donna, qualche

personaggio serio, ed uno Zanni, che oso dir francamente non aver pari nel loro mestiere, se li cercate con la

lanterna di Diogene per tutta l’Europa655.

L’omaggio segue quello dell’altro grande drammaturgo del tempo656, Goldoni, che, circa dieci

anni prima, durante il biennio 1739-1740, scrisse appositamente per il comico due canovacci,

La notte critica ossia i cento e quattro accidenti in una notte e Le trentadue disgrazie

d’Arlecchino657. Il sodalizio Goldoni-Sacchi riprese dopo il ritorno del comico dal viaggio in

Russia. Nel 1745, non appena arrivato in Italia, il capocomico si recò dal drammaturgo, che in

quel periodo soggiornava a Pisa per svolgere l’apprendistato di avvocatura, e, dopo l’incontro

653 Cfr. MARIALUISA FERRAZZI, Commedie e comici dell’arte italiani alla corte russa (1731-1738), Roma, Bulzoni, 2000, pp. 45-49. 654 Cfr. ANNA SCANNAPIECO, Alla ricerca di un Goldoni perduto: ‘Osmano re di Tunisi’, in «Quaderni Veneti», 20, dicembre 1994, pp. 13-14; inoltre sull’argomento si veda anche Piermario Vescovo, «Mestre e Malghera» da Venezia a Varsavia, in Le metamorfosi odiamorose in birba trionfale nelle gare delle terre amanti (Mestre e Malghera), a cura di MARIA GIOVANNA MIGGIANI E PIERMARIO VESCOVO, «Problemi di critica goldoniana», X/XI, 2003-2004, pp. 7-20. 655 PIETRO CHIARI , Lettere scelte di varie materie, piacevoli, critiche ed erudite, scritte ad una dama di qualità, Venezia, Pasinelli, 1751, t. III, pp. 247-248; la lettera è datata 27 settembre 1751. 656 CARLO GOLDONI, Prefazioni dell’edizione Pasquali XV, in Idem, Memorie, a cura di Paolo Bosisio, traduzione di Paola Ranzini, Milano, Mondadori, 1993, p. 911: «se tutte le maschere avessero il talento del Sacchi, le commedie all’improvviso sarebbero deliziose» e Idem, Memorie del Signor Goldoni per servire alla storia della sua vita e a quella del suo teatro, in Memorie, cit., I, XLI, p. 241: «alla grazia naturale della sua recitazione aggiungeva uno studio attento dell’arte della commedia e dei diversi teatri d’Europa […] le sue battute comiche, i suoi motti di spirito non erano attinti dal linguaggio del volgo e nemmeno da quello dei comici. Egli faceva ugualmente ricorso agli autori di commedie, ai poeti, agli oratori, ai filosofi; […] aveva l’arte di far sì che la semplicità del balordo si appropriasse delle massime di quei dotti». Inoltre Goldoni definì Sacchi «il migliore Arlecchino d’Italia» (CARLO GOLDONI, Prefazioni dell’edizione Pasquali XV, cit., p. 908). 657 Di quest’ultimo l’originale è andato perduto mentre è conservato solo l’estratto delle Vingt-deux infortunes d’Arlequin, riscritto dall’autore nel 1764 per la Comédie-Italienne. In seguito anche la compagnia Medebach presentò questo testo al teatro San Giovanni Grisostomo il 5 febbraio 1765, ma nel frattempo lo scenario fu assai praticato da Sacchi (Cfr. CARLO GOLDONI, Memorie del Signor Goldoni…, cit., I, XLI, p. 241).

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tra i due, il drammaturgo compose Il servitore di due padroni e Il figlio di Truffaldino perduto

e ritrovato.

Pur avendo firmato con i Grimani un accordo che lo vincolava, Sacchi, alla proposta di recarsi

a Lisbona al servizio dei reali, disattese il vincolo contrattuale e partì da Venezia nel 1753

«dopo aver passata la Primavera a Milano, e a Genova facendo alcune recite per aspettare

l’imbarco»658. La notizia è registrata anche da Pietro Gradenigo nei Notatori alla data 28

luglio 1753: «Commedianti inservienti al Teatro di S. Gio. Grisostomo passano a Lisbona per

la corte del Re di Portogallo, mediante il patto di cinque mille duecento zecchini all’anno»659.

Presso la corte estera godette di grande favore e, secondo quanto tramandato da Bartoli, vi

mise in scena anche alcune rappresentazioni goldoniane impiegando i bambini della

compagnia660 - torneremo poi su questo punto per cercare di identificare i piccoli attori che,

una volta ritornati a Venezia, si esibirono anche in quella città come testimoniano i Notatori

Gradenigo661 -; tra loro vi era sicuramente Giovanna Sacchi, la cui presenza è suffragata da

un sonetto in onore della bambina recentemente ritrovato da Maria João Almeida nella

Biblioteca Nacional de Portugal a Lisbona..

Dopo il famoso terremoto del 1755, la compagnia ritornò a Venezia e si stabilì nel teatro San

Samuele dove propose soprattutto il repertorio della commedia dell’arte; il ritorno della

troupe è peraltro pronosticato, con finzione letterale, da Gozzi nella Tartana degl’influssi per

658 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., t. II, p. 144. 659 Biblioteca del Museo Civico Correr di Venezia, Gradenigo-Dolfin 67, vol. II, c. 660 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., t. II, p. 144: «Fu la Compagnia assai bene accolta, e il suo modo di recitare piacque moltissimo alla Reale Famiglia, ed a tutta la Corte. Non contento il Sacco di produrre il suo proprio divertimento, altro cerconne per maggiormente rendere gradita la di lui servitù. E ciò eseguì col fare apprendere a’ piccoli fanciulli figliuoli de’ Comici suoi alcune Commedie del Goldoni, le quali erano da essi, benché di tenera età, meravigliosamente eseguite». L’abitudine di fare recitare i bambini era praticata anche da altri capocomici: per esempio Gaetano Florio, un attore che per breve periodo aveva militato nella compagnia Sacchi, fece recitare da bambina Anna Fiorilli Pellandi il 13 gennaio 1781 a San Giovanni Grisostomo ne Il sogno avverato favola pastorale divisa in due atti (in Trattenimenti teatrali di Gaetano Fiorio, Venezia, presso Domenico Fracasso, 1791, t. I, pp. 248-249: «Lettore cortesissimo avendo nella Compagnia sette piccioli Ragazzi, che dimostravano dello spirito, mi venne in pensiero di scrivere qualche picciola Commedia, e m’addossai il paziente incarico d’istruirli […] credo bensì che l’applauso prodotto fosse dall’esattezza, colla quale questi fanciulli la rappresentavano [il più vecchio non arrivava all’età di 12 anni]. Destava meraviglia in fatti il vedere Comici di sei, sette anni, maneggiare gli affetti, eseguire scene mute, con ragionato pantomimo, ed arrivare ad interessar il Pubblico. Fra questi si distinse particolarmente l’Annetta Fiorilli, che sosteneva la parte di Amarilli, e fin d’allora prometteva di riuscire quella brava Attrice, che presentemente vien celebrata». Anche un’altra pièce dello stesso autore, I pazzi corretti, commedia di un atto in prosa andata in scena nel 1776 San Giovanni Grisostomo fu scritta «ad uso dei piccoli fanciulli» (in Trattenimenti… cit., t. II, p. 294). 661 PIETRO GRADENIGO, Commemoriale, diario, ed annotazioni curiose occorse in Venezia, nelle Città suddite, ed altrove da ottobre 1758, sino tutto aprile 1760, manoscritto presso la Biblioteca del Museo Correr, Gradenigo-Dolfin 67, vol. V, 22 novembre 1758: «[i fanciulli di ritorno dal Portogallo] nel Teatro San Samuele ottimamente questa sera rappresentarono la Commedia intitolata la Vedova scaltra. Essi altrettanto spiccarono in Lisbona e sono li figlioli delli propri comici da colà ritornati in Venezia».

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l’anno bisestile 1756662 . Presto, però, le commedie di Chiari e Goldoni offuscarono gli

spettacoli proposti da Sacchi e il “suo” teatro venne snobbato a favore del Sant’Angelo e del

San Luca in cui, rispettivamente, venivano allestire le pièces dei due drammaturghi.

Probabilmente anche per le difficoltà insorte in quel momento, Sacchi avanzò la propria

candidatura al re di Napoli, che proprio allora, nel 1759, era alla ricerca di una compagnia

stabile per la sua corte663.

A supplire alla carenza drammaturgica della compagnia Sacchi intervenne Gozzi che, mosso

anche da personali propositi, individuando nella compagnia lo “strumento” con cui attuare il

proprio progetto teatrale664, compose nel 1761 L’amore delle tre melarance, in cui, come

noto, vengono irrisi sotto le figure del mago Celio e della fata Morgana rispettivamente Carlo

Goldoni e Pietro Chiari.

Dopo il successo ottenuto con la rappresentazione, attestato anche dalla recensione del fratello

Gasparo nella Gazzetta Veneta, il drammaturgo scrisse regolarmente opere teatrali

regalandole alla compagnia Sacchi, la quale nel 1762 si trasferì al teatro Sant’Angelo e nel

1769 in quello più grande di San Luca665.

662 CARLO GOZZI, La profezia del Burchiello per il mese di dicembre. Sopra il ritorno del Sacchi, Truffaldino in Idem, Opere, Venezia, Colombani, 1774, t. VIII, pp. 68-70. In onore di Sacchi, il drammaturgo scrisse nel 1761 il Canto ditirambico de’Partigiani del Sacchi Truffaldino (ivi, pp. 164-179), in cui elogiava l’attore, la sua compagnia e la tenace – nonché riuscita - riproposizione degli spettacoli della commedia all’improvviso. Sacchi certamente era già in Italia a partire dal 1755, anno in cui figura come ballerino al teatro Regio di Torino (Archivio Storico di Torino, Fondo Coll. IX, Conti, stagione 1755/1756). Nel frattempo la compagnia, oltre a Venezia, lavorò anche a Milano, Torino, e Bologna. Quest’ultima piazza ospitò Sacchi almeno per l’estate del 1759, come testimonia l’iscrizione sotto l’arco del portico di San Luca finanziato con il ricavato della recita del capocomico: «Antonio Sacco / e compagni comici / con la recita fatta / nel teatro Formaliari / li X luglio MDCCLIX» (LUIGI RASI, I comici italiani…, cit., t. II, p. 461). 663 Risale al 20 ottobre 1759 la lettera di Antonio Sacchi spedita al re fanciullo Ferdinando IV, in cui presentava la propria compagnia come candidata per essere quella di comici lombardi che il re stava cercando: « […] qui è percorsa una voce che a divertimento del nuovo sovrano debba scegliersi una compagnia comica Lombarda; e che V. E. abbia già dato gli ordini opportuni per il rifacimento del teatro di Corte. Ciò supposto per vero, ardisco io prima di ogni altro offrirle la mia Comica Compagnia, in quel grado medesimo che ella ebbe l’onore di servire per più di due anni la Maestà Fedelissima del Re di Portogallo a sua Reale famiglia, e che servirebbe ancora se la fatale disgrazia non avesse turbato il corso di così bella servitù. Posso di più assicurare ch’essa compagnia è molto migliorata e che i soggetti comici ridicoli che la compongono, capaci son di divertire qualunque principe Cattolico anche severamente educato» (il documento si trova riportato per intero solo nella prima edizione dei Teatri di Napoli di Benedetto Croce, Napoli, Pierro, 1891, pp. 489-491); nelle successive ristampe lo scrittore compie solo un accenno a questa lettera. Nonostante la scrittura firmata da Sacchi nel 1758 con i fratelli Grimani in cui si impegnava a servirli per quattro anni, 664 Cfr. ANNA SCANNAPIECO, Carlo Gozzi e i comici, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur: un carrefour artistique européen, atti del Convegno di studi, Università Paris-Sorbonne, 23-25 novembre 2006, a cura di Andrea Fabiano, «Problemi di critica goldoniana», numero speciale, XIII, 2007, pp. 25-27. 665 Vendramin lasciò che fosse Gozzi ad occuparsi del contratto della durata di 6 anni per la compagnia Sacchi stipulato in data 28 agosto 1769. Di tale atto la Biblioteca Casa Goldoni di Venezia conserva tre copie (Archivio Vendramin 42 F 16/10) mentre una minuta si trova nei manoscritti gozziani recentemente rinvenuti (Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 10.11).

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L’indiscussa bravura del comico pertiene sia all’abilità666 fisica e dialogica667 con cui

interpretò la parte di Truffaldino, sia all’intelligenza con cui seppe gestire le compagnia che

volle migliorare, preparandola anche per le rappresentazioni serie.

La serietà e dedizione professionale del capocomico emerge da un’inedita carta del Fondo

Gozzi dal contenuto metateatrale668: si assiste infatti al suo tentativo di allestire una prova a

cui però gli attori o non si presentano o si dimostrano svogliati e disattenti; il clima non è

dunque dei migliori per la concentrazione, a cui si aggiunge anche l’arrivo di una masnada di

bambini, « Il Sig. Idelfonso, la Sig.ra Teresa, Il Sig. Costanzo, [la Sig. Marianna] ragazzi»,

rispettivamente Idelfonso Zanoni e Teresa Zanoni, figli di Atanasio Zanoni e Adriana Sacchi,

e Costanzo Sacchi Vitalba, figlio di Angela Sacchi e Giovanni Vitalba. Il signor Antonio,

nome con cui è identificato il capocomico nella pièce, con autorevolezza riesce alla fine ad

avere la meglio e a svolgere la prova con una certa cura.

666 «Nessun altro Arlecchino riuscì finora ad imitare le differenti posture con le quali tiene il suo corpo quando rappresenta: sono attitudini scomposte con simmetria, sciocche con ispirito, grossolane con grazia e sempre bizzarre ad analoghe sempre all’attuale situazione in cui la cosa che tratta dee porre l’animo suo […] i più cattivi Arlecchini […] sono quelli che vogliono imitarlo […] egli ha poi l’arte unica ed inimitabile d’attirar seco gli uditori medesimi negli imbrogli di narrazioni nelle quali si ingolfa e si immerge con facetissimi imbarazzi d’elocuzione intricata che intraprende sempre ardito, e ne’quali sembra imboscato a non poterne più uscire; ma un istante scioglie i nodi ed esce dal labirinto, appunto quando pare all’uditore attentissimo, sedotto dalle di lui disperate circonlocuzioni, che non gli sia più possibile l’uscirne» (GIACOMO CASANOVA, Supplemento dell’opera intitolata Confutazione della storia del governo veneto d’’Amelot de La Houssaje, Amsterdam, Mortier, 1769, p. 288). A proposito di imitatori di Sacchi, è noto che solo Luigi Perelli, il celebre capocomico, sostituì l’attore nei giri del 1776 ma la sua permanenza nella compagnia si limitò solo a quell’anno (Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., t. II, p. 84). Un altro grande estimatore di Sacchi fu Felice Sacchi, detto Felicino Sacchetti: secondo la testimonianza di Bartoli, l’attore assisteva spesso alle recite del celebre Truffaldino per migliorarsi come Arlecchino (cfr. ivi, II, p. 142), 667 In una sola occasione l’attore fu richiamato dalle autorità per avere oltrepassato i limiti della decenza ammessa in teatro, come testimoniano i Notatori compilati da Pietro Gradenigo in data 22 ottobre 1772 che registrano l’ingiunzione ad Antonio Sacchi da parte delle magistrature veneziane di non comparire più in scena a causa di alcune licenze troppo satiriche che si era preso durante una rappresentazione. Dopo qualche giorno a casa, gli fu concesso nuovamente di calcare le scene: «Antonio Sacchi, faceto Arlecchino […] abusando di troppe antecedenti correzioni, e ricordi fattigli da’competenti Magistrature in Venezia, si lasciò trasportare da alcuni disdicenti dialoghi non esponibili sulle scene […] gli fu proibito con supremo comando di più comparire in qualunque commedia sino a nuovo ordine; onde così moderare la lingua non solo esperimentata alquanto libera in sali ridicoli, ma assai mordace in satiriche espressioni. Stette però alquanti giorni ritirato in casa, ma gli fu poi, dopo seria ammonizione, permesso di continuare la sua professione, sempre però nei limiti dell’onestà e della prudenza» (Biblioteca del Museo Civico Correr di Venezia, Gradenigo-Dolfin 67, vol. XXXIV, c.). L’aneddoto è raccontato in modo dettagliato da Colomberti: durante una scena con Colombina, l’attore alluse all’atto sessuale facendo riferimento, appunto, a un tipo di amore che conduceva alla maternità. Nonostante la battuta avesse suscitato il riso del pubblico, terminata la scena, la servetta, sentendosi offesa, rimproverò dietro le quinte Sacchi; tale alterco fu sentito da coloro che si trovavano sul palcoscenico che lo riportarono al Primo Bargello della Polizia Veneta. Egli chiamò a sé il comico, che, presentatosi con un sacchetto pieno di miglio, pronto per entrare in prigione, fece sorridere l’ufficiale tanto da indurlo a commutargli la pena e a permettergli di tornare a casa (Cfr. ANTONIO COLOMBERTI, Notizie storiche…, cit., c. 40r). Anche Gasparo Gozzi aveva riportato la notizia della censura a Sacchi (GASPARO GOZZI, Lettere, a cura di Fabio Soldini, Varese, Guanda, p. 629). 668 Per la trascrizione integrale delle carte si rinvia all’Appendice 6.

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La moglie di Antonio Sacchi, Antonia Franchi, recitò fin da giovane insieme al marito669,

soprattutto nelle parti serie in cui fu nota come Beatrice, nome con cui Gozzi la dipinge nel

Canto ditirambico de’ Partigiani del Sacchi Truffaldino670. La sua presenza accanto al marito

negli anni delle Fiabe è comprovata dall’inedita pièce metateatrale contenuta nel Fondo

Gozzi, Le convulsioni o sia Il contratempo. Introduzione a due farse 671 databile 1763-

1764672, in cui compaiono in scena i veri attori della compagnia, tra cui «la signora

Tonina»673, ossia Antonia Franchi Sacchi. Dal marito ebbe almeno due figlie, entrambe attrici

nella stessa compagnia: Giovanna e Angela.

La figlia minore Giovanna calcò le scene fin da quando era bambina e Bartoli fornisce la

preziosa indicazione secondo cui Gozzi «scrisse per lei alcune parti di giovinette nelle sue

favole», in particolare la parte di Barbarina nell’Augellino belverde, scelta ben riuscita,

secondo le parole dello scrittore («venne rappresentata con molto valore»674). Sempre alla

stessa altezza cronologica delle Fiabe, ella rivestì la parte di prima donna nel Cavaliere amico

(1762), come si evince dalle lamentele espresse dalla sorella Angela nelle Convulsioni:

ANGELA: la parte de dona Cecilia in tel Trionfo dell’amicizia, piuttosto che darmela a mi, i l’ha dà alla

Zannetta, che xe una ragazza tanto longa, che se averze el petto per farse sentir […] la Zannetta e la Rosa pol far

qualche seconda parte ora l’una ora l’altra ma la prima parte mai675.

Riguardo all’età di Giovanna, grazie alla recente scoperta fatta da Maria João Almeida presso

la Biblioteca Nacional de Portugal a Lisbona di un sonetto in onore della comica che la

669 Cfr., LUIGI RASI, I comici italiani…, cit., t. III, p. 471; NARDO LEONELLI, Attori tragici, attori comici, con prefazione di Renato Simoni, Milano, E.B.B.I., 1960, t. I, p. 387; FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., t. II, pp. 142-143. Il nome di Antonia Franchi compare nella Nota della compagnia de’ comici di San Samuele di Venezia che Giuseppe Imer aveva presentato a Mantova nel 1746. Nell’elenco compare come terza donna, detta Vittoria; tra gli attori spiccano i nomi di Gaetano Casali (primo uomo), di Marta Focari (prima donna, detta Aurelia), di Giuseppe Simonetti (quarto uomo, detto Florindo), di Oldorico Lombardi (dottore), di Giuseppe Marliani (Brighella) e di Antonio Sacchi (Truffaldino). 670 Gozzi menziona l’attrice nel Canto ditirambico de’Partigiani del Sacchi Truffaldino [1761], (in CARLO

GOZZI, Opere, Venezia, Colombani, 1774, VIII, p. 174): «Siede ancor la Beatrice / che de’ Sacchi accresce il novero, / perché il mondo mai sia povero, frutta di cotal radice». 671 Per una dettagliata analisi della pièce rinvio a PIERMARIO VESCOVO, Il repertorio e la «morte dei sorzi». La compagnia di Antonio Sacchi alla prova, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur..., cit., pp. 141-153). Le convulsioni o sia Il contratempo. Introduzione a due farse si trova presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 9. 4. 672 Ivi, p. 144. 673 Oltre ad Antonia, compaiono Adriana Sacchi, (la signora Adriana), Angela Sacchi (la signora Angelina), Giovanna Sacchi (la signora Zannetta), rispettivamente moglie, sorella, prima e seconda figlia di Antonio Sacchi, Rosa Lombardi (la signora Rosa), Chiara Simonetti (la signora Chiara), Antonio Sacchi (il signor Antonio Sacchi), Atanasio Zanoni (il signor Atanagio), Agostino Fiorilli (il signor Fiorilli), Giovanni Vitalba (il signor Vitalba), Giuseppe Simonetti (il signor Giuseppino), Cesare Darbes (il signor Darbes) e, presumibilmente Giovanni Valentini (il signor Giovannino). 674 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 151. 675 Fondo Gozzi, 9.4, c.

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dipinge come fanciulla di sette anni676, possiamo ipotizzare che, all’epoca della composizione

delle Convulsioni (1763-1764), avesse tra i diciassette e i venti anni (il periodo del soggiorno

portoghese della compagnia è compreso tra il 1753 e il 1755).

Dopo l’ottimo esordio, l’attrice lasciò presto la compagnia per dedicarsi alla famiglia,

presumibilmente intorno all’inizio degli anni Settanta.

Più informazioni abbiamo sulla figlia maggiore di Sacchi, Angela, che sposò Giovanni

Vitalba677 da cui ebbe un figlio di nome Costanzo, uno dei bambini che disturba le prove della

compagnia nelle carte inedite di carattere metateatrale prima citate. Bartoli afferma che

Angela recitò per molti anni come prima donna, senza allontanarsi mai dalla compagnia,

particolare confermato da Gozzi che, nelle Memorie inutili, racconta gli ultimi anni della

troupe, accennando proprio alla presenza della figlia di Sacchi678. Stando al profilo delineato

nelle Notizie istoriche, la comica era brava anche nelle «rappresentazioni studiate»679, oltre

che in quelle all’improvviso, ma non era avvenente680; tuttavia a lei venne sicuramente

affidata la parte di Cherestanì nella “prima” della Donna serpente681.

Angela è la protagonista indiscussa delle Convulsioni: presentandosi come una

venticinquenne che nella rappresentazione dell’Orfana riconosciuta è costretta invece a

interpretare la madre della protagonista, si lamenta perché non le è stata affidata la parte della

676 Per la trascrizione del sonetto rinvio all’appendice 2. 677 In un periodo successivo alla morte del marito è riconducibile la missiva di Elisabetta Catrolli (sorella di Francesco, soprannominato Vitalbino, che nel 1762 fu responsabile della chiamata a Parigi del Goldoni), a Giacomo Casanova datata 16 aprile 1783 in ci si legge che la figlia di Antonio, Angiola era l’amante di Carlo Maffei negoziante, il quale morendo le aveva lasciato quattromila ducati (Lettere di donne a Giacomo Casanova, raccolte e commentate da Aldo Ravà, Milano, Treves, 1912, p. 224). 678 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit. p. CARLO GOZZI, Memorie inutili, edizione critica a cura di Paolo Bosisio, con la collaborazione di Valentina Garavaglia, Milano, LED, 2006, 679 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., t. II, pp. 151-152. 680 Ivi, p. 152: «Peccato che al suo valore non corrispondesse ancora il di lei personale, che per essere basso, e pingue di soverchio le fu di molto discapito nell’arte sua». Tale immagine corrisponde a quella contenuta nel Canto ditirambico de’Partigiani del Sacchi Truffaldino [1761], (in CARLO GOZZI, Opere, Venezia, Colombani, 1774, VIII, p. 174) in cui Gozzi sottolinea l’aspetto poco attraente dell’attrice: «L’Angelina il monte assaggia / ma s’ingrassi un po’ più adagio». Il drammaturgo però, a dispetto di quest’asserzione, nelle Memorie inutili si esprime in modo differente a proposito dell’universo muliebre che affiancava Antonio Sacchi: «alcune ragazze di quella comica famiglia, nessuna delle quali era brutta, e nessuna senza qualche buona disposizione al mestiere mi pregavano di soccorsi […]» (CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit. p. ). La bravura di Angela era riconosciuta anche dai colleghi, come dimostra il sonetto dedicatole da Ignazio Casanova per il successo ottenuto nel 1766 nella rappresentazione di Anche una donna sa custodir un segreto (Al merito della valorosa signora Angiola Sacco Vitalba prima donna della Compagnia de’ Comici al teatro Formagliari la primavera dell’anno 1766), riportato da Rasi (LUIGI RASI, I comici italiani…, cit.). Nelle Convulsioni Angela stessa dichiara la propria età: l’attrice, infatti, venticinquenne, nell’Orfana riconosciuta deve fare da madre ad un’attrice che ha diciannove anni: «Angela: Mi ho da far da madre d’una mia zermana? Una donna de vinticinque anni ti la lassi ridur a far da mare de una che ghe n’ha disnove? […] Ormai i me mette a far una parte da vecchia», (Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 9.4, Le Convulsioni o sia Il Contratempo. Introduzione a due farse, c. 5r). 681 Francesco Bartoli, Notizie istoriche…, cit., t. II, p. 152: «La parte di Cherestanì nella Donna Serpente Favola del Nobile Sig. Co. Carlo Gozzi fu scritta per lei insieme con molte altre nelle Commedie tratte dallo Spagnolo».

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prima donna682, che, evidentemente fin da quegli anni (1763-1764), era consuetudine

recitasse, come peraltro attesta Bartoli («sostenne per molti anni il carattere di prima Donna,

non mai partendosi dalla Compagnia de’ suoi Parenti. Fu spiritosa parlatrice nelle Commedie

all’improvviso, e nelle rappresentazioni studiate mostrò sempre una pari abilità»683). Seppur

relegata a seconda donna, soprattutto con l’arrivo nel 1771 di Teodora Ricci, musa di Sacchi e

di Gozzi, Angela recitò ancora le parti da protagonista in casi eccezionali, per esempio

quando sostituì proprio la Ricci, che aveva partorito a Bergamo durante l’estate del 1772 nella

Caduta di donna Elvira, come si legge nella lettera di Francesco Bartoli datata 13 giugno

1772 indirizzata a Gozzi684.

Dalla pièce metateatrale desumiamo, oltre all’età della comica – venticinque anni se riteniamo

attendibile quanto scritto nelle Convulsioni – che Angela, per i toni con cui si rivolge al

«Signor Giovannino», alias Giovanni Vitalba, è già sposata con il comico.

Il marito di Angela, Antonio Vitalba685, si distinse soprattutto nelle parti di innamorato. Il suo

nome è legato allo scandalo scoppiato in seguito alla rappresentazione della commedia

gozziana Le droghe d’amore avvenuta a Venezia nel teatro San Salvatore il 10 gennaio 1777.

Nella pièce, dietro al personaggio di Don Adone e alle sue avventure amorose, era adombrato

– non troppo implicitamente - Pietro Antonio Gratarol, segretario del Senato che, proprio in

quel periodo, era l’amante di Teodora Ricci, interprete principale femminile della commedia,

nonché donna desiderata sia da Sacchi che da Gozzi. Don Adone era impersonato da

Giovanni Vitalba; «buon’uomo, ma cattivo attore, per sua sciagura aveva i capelli tendenti al

biondo come quelli del Gratarol, e la sua statura era più poco meno, consimile. Da ciò nacque

il traditore artifizio del baratto di parte»686. Nelle Memorie inutili - scritte dal drammaturgo

682 Il “sistema” delle parti fisse, per cui «le prime donne, i primi Amorosi non cedono le prime parti a nessuno. Sieno vecchi, cadenti, non lasciano di rappresentare le parti di giovani amanti, di semplici giovinette, e che la commedia precipiti, e che il teatro perisca piuttosto, che perdere il diritto del loro posto» era stata la «regola più ridicola delle altre» in cui si era imbattuto Goldoni all’esordio della sua carriera di drammaturgo. 683 Ivi, p. 152. 684 POMPEO MOLMENTI, Carlo Gozzi inedito, in «Giornale storico della letteratura italiana», 87, 1926, pp. 36-73; pp. 63-64: «Bergamo, 13 giugno 1772 / Stimatiss. Sig. Conte, e Compare, / Giovedì 11 dell’andante [giugno], mentre Teodora preparatasi per recitar la Virginia, fu sorpresa dai dolori del parto […] Doveasi questa sera recitar la Filosofa, per nuova richiesta di S.E. il Podestà, ma con rincrescimento del medesimo si è dovuta mettere a monte. Domani si replicherà la Donna Elvira, che piacque assai, e dove Teodora sostenne la parte di Bianca lo scorso Mercoledì. In questa replica supplirà la Sig. Angiola alla mancanza di mia Moglie». 685 Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 272. 686 Cfr. CARLO GOZZI, Memorie inutili cit., t. II, XXXII, p. 674. Il comico, se si presta fede al racconto di Gozzi, inizialmente non doveva rivestire i panni di don Adone, affidati invece a Luigi Benedetti; tuttavia all’ultimo momento, e all’insaputa del drammaturgo, Sacchi decise di cambiare le parti e Vitalba, che assomigliava molto a Gratarol, interpretò il giovane sciocco. Il pubblico non faticò a identificare don Adone con il nobile veneziano, il quale, temendo la reazione del Senato, che non approvava la sua relazione con la Ricci e dopo essere stato deriso dagli spettatori che si erano recati alla rappresentazione, si allontanò da Venezia senza la preventiva approvazione da parte del Consiglio dei Dieci, un vero e proprio reato nella Venezia del tempo che egli pagò con l’esilio perpetuo e la confisca dei beni. A Stoccolma scrisse la Narrazione apologetica con l’intento di

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per rispondere alle accuse di Gratarol che, fuggito da Venezia dopo le rappresentazioni, era

stato condannato dal Senato veneto all’esilio e che aveva scritto la Narrazione apologetica

per difendere il suo operato, accusando anche il drammaturgo - Gozzi dimostra la propria

innocenza rendendo noti gli sforzi compiuti affinché non si realizzasse la rappresentazione,

che egli aveva intuito potesse essere fraintesa, e imputa alla gelosia di Sacchi il motivo della

sostituzione di Benedetti con Vitalba687 più simile nell’aspetto a Gratarol che subì perfino

un’aggressione durante la tournée milanese del 1777 in cui rappresentava ancora don Adone

nelle Droghe d’amore688.

Adriana Sacchi (1707-1776)689 imparò con il fratello Antonio fin da piccola la professione e si

recò in tournée in Russia. Solitamente nelle Fiabe sostenne la parte di Smeraldina, ma come

precisa Bartoli, in gioventù si era distinta, con il nome di Beatrice, anche nelle parti serie690,

oltre che nell’arte del ballo691.

Lavorò fin da ragazza nel teatro San Luca: risale, infatti, al 1726 l’ingaggio del padre,

Gaetano Sacchi, e di Adriana fino al 1731 presso il teatro veneziano. Durante il sodalizio

della compagnia Imer con Goldoni, la comica, avvicendandosi alla Pontremoli, interpretò

Smeraldina nel Momolo Cortesan andato in scena nel Teatro San Samuele nel 1738 in

occasione dell’apertura della stagione di carnevale. Vi recitavano anche il fratello Antonio

(Truffaldino), Rodrigo Lombardi (Dottore), lo stesso Imer (Ludro) e Golinetti (Momolo).

giustificarsi per l’improvvisa dipartita dalla città lagunare adducendo motivazioni politiche (in particolare si scagliò contro la famiglia Tron) e attaccando Gozzi, che mosso dall’invidia per la relazione con la Ricci, avrebbe ideato la commedia per deriderlo e prendersi così una rivincita. 687 Ivi, II, XXXII, p. 667: «Chiesi tuttavia ad alcuni de’ Comici ragione di quel baratto, i quali mi protestarono di non saper altro senonchè il Sacchi aveva consegnate le pari disposte in quel modo ch’io vedeva. Chiesi ragione al Sacchi, ed egli mi rispose, che essendo la parte di quel Don Alessandro di carattere d’un geloso furente molto comica, e teatrale, egli s’era preso la libertà, contro la mia disposizione, di darla al Benedetti come ad Attore di maggior fuoco del Vitalba, persona fredda, con sicurezza che il Benedetti avrebbe sostenuto quel carattere molto bene, e tenuta allegra una gran parte della Commedia». 688 Ivi, II, XLV < rectius XLIV>, p. 794. 689 La data di morte precisa è 1 febbraio 1776, come si legge in E. VON LOEHNER, Carlo Goldoni e le sue memorie. Frammenti, in «Archivio veneto», 1882, p. 55. Anna Croce nota che nella primitiva ideazione gozziana delle Droghe d’amore la confidente della prima amorosa non era una damigella nobile bensì una servetta dai tratti comici, chiamata Smeraldina che, molto probabilmente, il drammaturgo veneziano aveva cucito addosso ad Adriana prima che morisse nel 1776. La parte della damigella ricomparve, infatti, per la rappresentazione del 1777 e fu recitata da Angela Sacchi (ANNA CROCE, Le droghe d’amore, in Carlo Gozzi scrittore di teatro, atti del Convegno internazionale Venezia, 4-5 novembre 1994, a cura di Carmelo Alberti, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 277-278). Sull’attrice, cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., t. II, pp. 152-153. 690 Bartoli, p. «Era nubile ancora quando nell’anno 1727. rappresentò in Pavia la Diofebe». 691 Adriana lavorò al teatro la Pergola di Firenze come ballerina per l’estate e l’autunno 1749 e per il carnevale 1750 (l’informazione proviene dal manoscritto del segretario dell’Accademia degli Immobili, Palmieri Pandolfini, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, Nelli, II-97, parte III: «Estate Autunno 1749 Ipermestra e Clemenza di Tito: ballerini […] Adriana Sacco di Venezia»). Immediatamente dopo il terremoto di Lisbona, l’attrice e la sorella si recarono a Parigi dove «protette da un banchiere, il quale le trattò tanto bene e con dispendio e sfarzo tale, che tacendo il nome di ballerine, si spacciarono per dame italiane» (GASPARO GOZZI, Lettera a Stelio Mastraca, da Venezia 10 giugno 1756, in Idem, Scritti scelti di Gasparo Gozzi, a cura di Nicola Mancini, Torino, UTET, 1960, p. 713).

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Ebbe anche occasione di sostituire la Passalacqua nella parte della servetta e in seguito fu a

sua volta rimpiazzata da Anna Baccherini. Nelle Fiabe di Gozzi Smeraldina692 da semplice

servitrice e subisce una trasformazione: infatti, se nell’Amore delle tre melarance interpreta la

perfida schiava mora, nella Donna serpente è la serva fedele che combatte con la sua signora,

Canzade, passa poi a indossare le vesti della guerriera al servizio dalla cattiva regina mora in

Zeim re de’geni e diventa, nell’Augellino belverde, una madre pietosa e incompresa, «che

parla sempre col cuore in mano […] e non è niente filosofa»693. Stando alla testimonianza del

Bartoli, fu moglie di Rodrigo Lombardi e poi, sopraggiunta la sua morte, si risposò con

Atanasio Zanoni.

Quest’ultimo (Ferrara 1720 – Venezia 1792)694, «uno de’ più egregi Comici de’ nostri

giorni»695, prima di recitare nella compagnia Sacchi in cui rimase fino allo scioglimento696,

militò in quella di Girolamo Medebach. La sua fama è dovuta alla parte di Brighella, i cui

dialoghi decise di offrire alle stampe durante la vecchiaia697. Secondo Bartoli, l’attore diede

692 MARZIA PIERI, Da Andriana Sacchi a Teodora Ricci: percorsi di drammaturgia, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur…, cit., pp. 35-36: «Gozzi utilizza a fondo il suo magazzino di lazzi e di moine, valorizza le scena pantomimiche, i doppi sensi allusivi, le prodezze linguistiche e i mimetismi di ogni genere, che le sono congeniali, in una galleria di Smeraldine di ogni formato e foggia possibili, che si inaugura con la mora spietata e faconda dell’Amore delle tre melarance, prosegue con le damigelle orientali del Corvo e del Re cervo che hanno studiato Tasso e Guarini, o della Zobeide, alle prese con gli orridi prodigi della grotta, arriva alla Smeraldina guerriera della Donna serpente, alla Smeraldina Andromeda del Mostro turchino, condannata ad essere divorata dall’idra, cha fa lazzi buffoneschi e disperati incatenata durante il duello fatale, all’altra guerriera mora, che in Zeim re de’ geni combatte terribile contro Brighella come una specie di Armida, fino a concludersi nel ritratto di ‘evangelica pietosa’ dell’Augellino belverde. […] Questa Smeraldina sfiorita nello sguardo di un Truffaldino che si consola nei bordelli è un punto d’arrivo di grande forza (l’attrice era una donna sessantenne), un cammeo brutalmente icastico entro una composizione quanta anomala e conturbante». 693 CARLO GOZZI, L’augellino belverde in Idem, Fiabe teatrali, a cura di Alberto Beniscelli, Milano, Garzanti, 1994, p. 326. 694 Dai registri della Curia Patriarcale risulta che l’attrice sposò Oldorico Lombardi il 27 gennaio 1738 (more veneto). Adriana si sposò con Atanasio Zanoni nel 1749. Proprio per l’autunno 1749 e per il carnevale 1750 l’attrice risulta attiva come ballerina a Firenze, insieme alla sorella Lisabetta, per il teatro la Pergola (l’informazione è desunta dal già citato manoscritto di Pandolfini). L’attore morì nel 1792 per un banale incidente: uscendo da una casa di un ricco veneziano cadde in un canale e colpito da polmonite, non si riprese più. 695 Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., t. II, pp. 282-285, LUIGI RASI, I comici italiani…, cit., t. III, pp. 731-736, Leonelli, II, 474-475; Enc. Spett., 2095. 696 Zanoni fu uno degli ultimi a lasciare la compagnia, secondo la testimonianza di Gozzi (CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., t. II, III, II, p. 916). 697 Motti brighelleschi e Raccolta di vari motti arguti allegorici e satirici ad uso del teatro, Padova, Conzatti, 1789. Zanoni, a proposito di quest’ultimo testo dedicato al «Nobile Sig. Co. Giuseppe Alcaini sig.re e padrone veneratissimo», confessa di averlo scritto per ricordare i tempi andati e felici: «è per me un sollievo il cercare nella mia memoria una infinità di quei detti che m’uscivano dalla voce improvvisamente ne’tempi felici, detti che dall’umiltà mia sarebbero punto considerati, se non avessero avuto l’onore della pubblica generosa acclamazione» (Ivi, pp. 5-6).

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una personale impronta alla maschera che, pur dovendo presentarsi come sciocca, riuscì a

rendere più acuta e penetrante698.

Ebbe due figli, Teresa e Idelfonso, entrambi già nominati nel gruppo dei bambini che

giocando interrompono la prova della compagnia presentata nelle carte gozziane inedite; la

prima, esperta nel ballo699, recitò «qualche parte di fanciulla nelle Commedie del Sig. Co.

Carlo Gozzi»700 e poi sostituì la madre Adriana Sacchi nella parte di servetta, veste in cui

probabilmente la vide Goethe durante il soggiorno a Venezia701.

Idelfonso Zanoni, divenuto celebre soprattutto per la maschera denominata Agonia, ideata

dall’attore stesso, caratterizzata dalla raucedine e dall’estrema lentezza dei movimenti, calcò

soprattutto le scene del teatro Sant’Angelo a Venezia sostenendo la parte dell’innamorato

nella compagnia Pellandi, di cui faceva sicuramente parte già dal 1800, come testimonia

l’elenco degli attori fornito dal Giornale dei Teatri702; probabilmente Leandro Fernández de

Moratín durante il soggiorno veneziano assistette a una rappresentazione in cui recitava

proprio Idelfonso703. Certamente faceva parte della compagnia Sacchi nel 1778, come si

698 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit.: «E’ notissimo, che il Brighella suol fingersi un uomo Bergamasco d’ordinaria estrazione, di niuna coltura, ma destro, accorto, e ritrovatore di spiritose invenzioni. Atanasio Zanoni per rendersi particolare nell’eseguire la parte di questo personaggio, ha voluto allontanarsi dall’adottato suo trivial costume, e l’ha reso un uomo illuminato, e spiritoso; che parla con eleganza, con raziocinia con buon criterio, che ha qualche cognizione delle scienze, e ch’è naturalmente per se stesso un poco filosofo». 699 Il suo nome compare nel corpo di ballo del teatro San Benedetto, insieme a Antonio Menecucci, marito di Angela Menecucci, durante l’autunno 1768 e il carnevale 1769 (Cfr. F. PASSADORE - F. ROSSI, Il teatro san Benedetto di Venezia. Cronologia degli spettacoli 1755-1810, Venezia, Fondazione Levi, 2003, pp. 45-49). 700 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 285: È probabile che l’attrice, da bambina, avesse interpretato Pompea nella fiaba gozziana L’augellino belverde (CARLO GOZZI, L’augellino belverde in Idem, Fiabe teatrali, a cura di Paolo Bosisio, Roma, Bulzoni, 1984, p. 488). 701 Sulla sua interpretazione è rimasta la testimonianza di Goethe (W. GOETHE, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1993, pp. 103-104: «della compagnia Sacchi, per la quale lavorò il Gozzi e che ora [1786] si è sciolta, ho veduto la Smeraldina, una personcina pienotta, vibrante di vivacità, destrezza e buonumore. Con lei pure Brighella [Atanasio Zanoni], un attore asciutto e prestante, ottimo soprattutto per la mimica facciale e manuale. Queste maschere che per noi non sono più mummie, prive come sono di vita e di significato, qui fanno mirabilia, da autentiche creature del paese»). Teresa si sposò nel 1795 con l’attore Agapito Angiolini con cui nel 1815 entrò a far parte della compagnia Blanes e poi della compagnia Raftopulo, nella quale recitò con successo al teatro Carcano di Milano nelle due opere Il giudice di se medesimo e Sofia Vander-Noot. 702 Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1800, t. LII, p. 15. Prima del 1800, militò nella compagnia di Antonio Goldoni almeno per l’anno comico 1789-1790. Le Notizie storico-critiche sulla Ginevra di Scozia, (in Giornale dei teatri di Venezia, in Il teatro moderno applaudito… cit., 1796, t. II, p. 85) riportando il successo ottenuto dalla piéce rappresentata dalla compagnia di Fiorio al teatro San Giovanni Grisostomo nel gennaio 1796, imputano al «giovine signore Zannoni» e ad Angela Bruni (Ginevra) il merito di tale impresa. 703 Leandro Fernández de Moratín, durante la sua permanenza a Venezia nell’autunno del 1794, assistette a una rappresentazione al teatro Sant’Angelo, quasi certamente della compagnia Pellandi in cui militava Idelfonso: «Uno dei personaggi di questa farsa è il sig. Agonia Moribondo, vestito come Tartaglia, ma con la differenza che il vestito non è nero, ma di colore scuro, con guarnizioni rosse e gialle e occhielli d’argento. Il compito specifico di questo personaggio consiste nel fare l’asmatico, e nell’emettere di tanto in tanto degli sgradevoli falsetti quando nel calore della disputa si vede obbligato a forzare la voce» (Il drammaturgo del Settecento Leandro Fernández de Moratín, in Quattro spagnoli in Venezia: Leandro Fernández de Moratín, Antonio Pedro de

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evince dall’Indice de’ spettacoli teatrali per il carnevale dell’anno 1778, Milano, Giacomo

Agnelli, p. 84 (viene nominato come Alfonso Zanoni).

Cesare Darbes, famoso Pantalone, ebbe occasione di lavorare, oltre che con Gozzi, anche con

Goldoni: quest’ultimo, durante il praticantato di avvocatura a Pisa (1745-1748), ricevette la

visita dell’attore che gli chiese di scrivergli una commedia senza maschera sull’esempio dello

scenario Pantalon paroncin; il drammaturgo accettò e compose Il frappatore (Tonin bella

grazia), in cui il protagonista è un goffo e sciocco veneziano704. Il sodalizio tra i due proseguì:

per Darbes vennero scritte le commedie L’uomo prudente e I due gemelli veneziani, opera in

cui l’attore interpretò entrambi i fratelli (lo stesso drammaturgo affermò che la personalità

doppia del comico gli consentì facilmente di recitare «il diverso personaggio dello spiritoso e

dello sciocco»705) e Goldoni mise in evidenza la bravura del comico anche nelle parti a viso

scoperto, senza maschera706. Come attesta anche Bartoli707, Darbes collaborò con la

compagnia Medebach per il teatro dei Vendramin fino al 1750708 quando, su invito di

Augusto III, elettore di Sassonia e re di Polonia, decise di recarsi a Dresda dove rimase fino al

1756 circa, data in cui tornò a Venezia e come Pantalone entrò nella compagnia Sacchi fino al

1769, anno in cui, attratto da maggior guadagno, entrò nella compagnia Lapy709.

Alarcon, Angel Sanchez Rivero, Mariano Fortuny y Madrazo, a cura di Angela Mariutti, Venezia, F. Ongania, 1957, p. 176). La compagnia Pellandi presentava spesso commedie all’improvviso: oltre a quella appena citata, l’erudito spagnolo menziona anche Truffaldino inghiottito da una balena che segnala coma “farsa”. 704 Cfr. CARLO GOLDONI, Memorie del Signor Goldoni…, cit., I, LI, pp. 284-288. 705 IDEM, L’autore a chi legge, in I due gemelli veneziani, in Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, Milano, Mondadori, 1973, vol. II, p. 155. 706 IDEM, Memorie del Signor Goldoni… cit., t. II, 1, p. 302: «era là [a viso scoperto] che poteva brillare maggiormente». 707 Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit, t. I, pp. 45-49. 708 Darbes, infatti, era legato formalmente al teatro dei Vendramin, come si evince da un contratto stipulato dall’attore in data 2 novembre 1749 e sottoscritto nuovamente in data 7 marzo 1750 (Biblioteca Casa Goldoni di Venezia, Archivio Vendramin, 42 F. 8, cc. 24r-v). L’ultima commedia recitata da Darbes prima di abbandonare la compagnia fu L’Erede Fortunata andata in scena al teatro Sant’Angelo nel carnevale del 1750 con scarso successo; nello stesso anno, dopo la sua partenza per Dresda fu sostituito dal vicentino Antonio Cristoforo Mattiuzzi, detto Collalto. Alla corte di Augusto III, elettore di Sassonia e re di Polonia, il comico rimase fino al 1756 (o fino al 22 febbraio 1758, anno del rilascio del passaporto); nel 1755, a Varsavia e a Dresda, egli mise in scena Li tre fratelli gemelli (o I tre gemelli veneziani, titolo con cui compare in A. BARTOLI, Scenari inediti della commedia dell’arte, Sala Bolognese, Forni, 1979, p. XLVII) desumendo la trama dalla pièce goldoniana I due gemelli veneziani. Darbes figura nell’elenco della compagnia dei comici italiani che nel carnevale del 1752 rappresentarono al Regio elettoral teatro di Dresda l’opera Zoroastro di Rameau, con parole del nobile signor di Cahusac e musica di Johann Adam, una tragedia tradotta dal francese e riadattata da Giacomo Casanova. Certa è la sua interpretazione di Pantalone nel Goffo inganna il furbo e nel Taberino ortolano (Cfr. M. KLIMOWICZ – W. ROSZKOWSKA, La commedia dell’arte alla corte di Augusto III di Sassonia 1748-1756, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, 1988, pp. 56-57). Nel Frammento di dramma per musica, uno dei manoscritti gozziani recentemente scoperti, compare come personaggio lo stesso Darbes (Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 9.4, c. 22r). 709 Lavorò con la compagnia di Vincenzo Bugani e della Battaglia prima di morire nel 1778. Bartoli, oltre a esprimere il proprio giudizio positivo sull’attore, riporta anche quello offerto dal contemporaneo Antonio Piazza («Il Pantalone era tanto stimabile per la sua abilità, che per la bontà del suo carattere. Buon marito, ottimo padre, sincero amico, non aveva altro difetto, se per difetto può dirsi, che quello di un cuor troppo grande, e superiore

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Secondo la testimonianza di Bartoli, Darbes a Dresda si sarebbe arricchito grazie alla carica di

soprintendente ai giochi d’azzardo710; tuttavia, tra i manoscritti del Fondo Gozzi compaiono

brani di una curiosa pièce musicale in cui l’attore, definito appunto «Comico della Sacra Real

Maestà de Federico Augusto Re di Polonia ed Elettore di Sassonia», appare inseguito da un

coro di creditori tedeschi e tocca a Truffaldino-Sacchi salvarlo, presentandosi al cospetto della

regina per ottenere l’indulgenza per il compagno711.

Gaetano Casali712, soprannominato Silvio713, fu ugualmente eccellente nelle parti

all’improvviso e in quelle premeditate, specialmente nelle parti di innamorato. Durante la sua

permanenza in qualità di primo amoroso nella compagnia milanese dell’Anonimo,

Bonaventura Ignazio Vitali Buonafede, collaborò con Goldoni che conobbe in quella città nel

1733714. Il drammaturgo aveva già scritto per la compagnia dell’Anonimo uno dei primi

intermezzi per musica, Il gondoliere veneziano ossia gli sdegni amorosi (1732) basandosi

sulle qualità canore dei comici, tra cui sicuramente spiccava Casali. Fu proprio quest’ultimo a

chiedergli di riscrivere il Belisario, uno scenario assai diffuso nel repertorio comico del

tempo, «senza maschere né buffonate»715. L’ammirazione per Casali fu tale da spingere

Goldoni, che allora si accingeva a riscrivere in versi la Griselda di Pietro Pariati, a inserire la

figura di Artrandro, padre della giovane, proprio pensando all’attore716. D’altronde era stato

l’ amico Casali, incontrato in modo fortuito durante uno spettacolo all’Arena di Verona

durante l’estate del 1734, a presentare Goldoni a Giuseppe Imer, al cospetto del quale il alle forze sue» in Antonio Piazza, Il teatro ovvero fatti di una veneziana che lo fanno conoscere, Venezia, presso Giambattista Costantini, 1777-1778, 2 voll. Il testo è stato edito recentemente con il titolo L’attrice, a cura di Roberta Turchi, Napoli, Guida, 1984; il riferimento è a p. 129). Il romanziere esprime un giudizio positivo anche sulle qualità attoriali di Darbes che aveva visto nei panni del veneziano Anselmo proprio nella sua commedia L’Amicizia in cimento (ANTONIO PIAZZA , L’Amicizia in cimento, in Commedie di Antonio Piazza, Venezia, 1786, I, p. XIII: «noi aggiungeremo solo, che dopo lui, non è rimasto all’Arte Comica un Pantalone, per cui da altri possa nutrirsi la speranza, di vederlo in questi tempi uguagliato giammai»). 710 Bartoli t. I, p. 47. 711 Fondo Gozzi, 10.14, cc. 89r-90v. Per la trascrizione delle carte si rimanda all’appendice XXX. 712 LUIGI RASI, I comici italiani…, cit., t. I, pp. 596-599, Enc. Spett. 154, M. LEONELLI, Attori tragici, attori comici, Roma, 1946, pp. 216 e sgg., O. TREBBI, Contributo alla biografia dei comici italiani, «Rivista italiana del teatro» VII, 43, 2, pp. 250 e sgg., G. MANFREDI, L’attore in scena, Verona, 1796, pp. 30, 61 pp. 42-46, GOLDONI, Mémoires première partie, XXIX, A. GENTILE, Goldoni e gli attori, Trieste, 1951, pp. 1-6, L. FERRANTE, I comici goldoniani, Bologna, 1961, pp. 42-46, NICOLA MANGINI , I teatri di Venezia, Milano, 1974, pp. 125-146. Bartoli, pp. 156-157 713 Oltre che come Silvio, nella compagnia il Casali era noto anche con il nomignolo di “Cavadenti”, forse da riferire al suo ruolo di secondo amoroso nelle commedie. 714 Goldoni, che allora risiedeva presso Orazio Bartolini, aveva già assistito alle esibizioni di tale compagnia intercedendo in suo favore presso il governatore di Milano e i direttori del teatro Ducale (Cfr. CARLO GOLDONI, Prefazione all’edizione Pasquali XI, in Memorie, cit. p. 858). 715 Cfr. IDEM, Memorie, cit., p. 175. L’opera, dopo la “revisione” goldoniana, andò in scena al teatro San Samuele il 24 novembre 1734 e fu riproposto nella primavera del 1735 al Teatro degli Obizzi a Padova. 716 Ivi, p. 215: «mi assunsi con piacere il compito di accontentare la Romana [Cecilia Rutti]; ma non seguii in tutto gli autori del dramma; operai molti cambiamenti; aggiunsi ai personaggi il padre di Griselda: un padre virtuoso che aveva visto senza orgoglio salire la figlia al trono e la vedeva scendere senza rimpianti. Avevo ideato questo nuovo personaggio per dare una parte al mio amico Casali»).

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drammaturgo lesse il Belisario, ottenendo un’approvazione tale da ricevere immediatamente

la proposta di lavorare per la sua compagnia717.

Lavorò nella compagnia Sacchi negli anni delle Fiabe come innamorato con molto impegno,

riconosciutogli anche dal Manfredi: «questo [Casali] solo si studia di ridurre il Teatro al gusto

de’buoni esempi, e per lo più rappresenta Tragedie di buoni autori con concorso numeroso, ed

applauso»718.

Giuseppe Simonetti prima di militare nella compagnia Sacchi in qualità di innamorato - oltre

che di imparentarsi con lo stesso capocomico sposandone la sorella Anna719 - aveva lavorato

nella compagnia Imer720. Simonetti assunse con Sacchi, almeno per l’anno 1758, anche la

funzione di capocomico, come si evince da un carteggio tra Antonio Vitalba e Francesco

Vendramin, in cui si menzionano in data 12 dicembre 1758 «Antonio Sacchi e Giuseppe

Simonetti ambi Capi della Compagnia di Comici del Teatro San Samuele»721. Bartoli

aggiunge che il comico faceva parte della compagnia già durante il viaggio in Portogallo in

cui si distinse facendo «de’ fuochi artificiati, pe’ quali aveva moltissima pratica»722.

Proprio come fuochista si presenta lo stesso attore in una nota rintracciata nei manoscritti del

Fondo Gozzi:

717 L’anno successivo Casali cantò nella Fondazione di Venezia goldoniana musicata da Giacomo Maccari e nel dramma eroicomico Aristide, come testimonia il libretto a stampa del 1735, in cui il nome dell’attore, come quelli di tutti i personaggi, compare sotto forma di anagramma. È anche possibile che Casali abbia interpretato Osmano nell’Osmano di Tunisi, una pièce goldoniana di cui non rimane alcuna testimonianza spettacolare, ma la cui traccia è stata rinvenuta da Anna Scannapieco (ANNA SCANNAPIECO, Alla ricerca di un Goldoni perduto… cit., pp. 9-56). 718 GIANVITO MANFREDI, L’attore in scena, Verona, Ramanzini, 1746, p. 30; contrariamente, Giuseppe Baretti in riferimento alle commedie letterarie della tradizione italiana scrive nelle Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio: «In sostanza, di tutte le additate commedie i comici di Venezia non ne vogliono arrischiare alcuna né in Venezia né altrove; eppure alcuni di questi comici, e principalmente Gaetano Casali, conoscono molto bene il buono delle nostre commedie e le leggono e cavano da quelle di molte belle cose, com’eglino stessi affermano» (GIUSEPPE BARETTI, Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio in Idem, Prefazioni e polemiche, a cura di Luigi Piccioni, Bari, Laterza, 1933, II edizione, p. 50). 719 Simonetti «sposò il 23 gennaio 1740 (more veneto) Anna Caterina Sacchi, nata a Ferrara il 29 aprile 1710», secondo quanto è riportato in in E. VON LOEHNER, Carlo Goldoni e le sue memorie, Frammenti, in «Archivio veneto», 1882, p. 55. 720 Nacque nel 1703 (LUIGI RASI, I comici italiani…, cit., t. III, p. 540; Bartoli, II, pp. 240-241 LEONELLI, II,

362-363). Nel 1737 Imer provvide alla dipartita del Vitalba ingaggiando Simonetti per le parti serie. Per Anna Scannapieco, tale sostituzione è successiva: infatti, nel 1739 Vitalba risulta ancora attivo a Venezia; secondo l’ipotesi di Ginette Herry, basata sulle Memorie goldoniane, Vitalba passò al servizio del duca di Modena e fece ritorno a Venezia, senza però rientrare nella compagnia di Imer. Goldoni, proprio riguardo a questo avvicendamento, esprime un giudizio sui due attori: «Vitalba, Primo Amoroso, era stato sostituito da Simonetti, meno brillante del predecessore ma più decoroso, istruito e docile» (CARLO GOLDONI, Memorie del Signor Goldoni…, cit., I, XL, p. 233). Ugualmente equilibrato è il giudizio espresso dal drammaturgo nella Prefazione all’edizione Pasquali XV in cui Simonetti è descritto come un «giovane di bella figura e di ottima aspettativa, […] meno brillante nelle commedie [rispetto al Vitalba] ma più composto e più nobile nelle tragedie» (CARLO

GOLDONI, Prefazioni all’edizione Pasquali XV, in Memorie, cit., p. 910). 721 Biblioteca Casa Goldoni di Venezia, Archivio Vendramin, 42 F 9 1/36. 722 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 240.

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Carnevale 1763. Terminando le fatiche de’ comici del Teatro di Sant’Angelo di Venezia il carnevale dell’anno

1763 con una macchina di fuochi artificiali in segno d’umilissimo ossequio. Giuseppe Simonetti comico e

fuochista723.

In merito all’esecuzione di fuochi artificiali al teatro Sant’Angelo in cui lavorò la compagnia

fino alla fine degli anni Sessanta, anche i Notatori Gradenigo riportano alcune notizie e

dunque è possibile che si riferiscano all’attività di Simonetti:

al teatro Sant’Angelo nel 1766 dopo una breve ridicola commedia ci furono fuochi artificiali con varie

prospettive, figure matematiche di nuova e rara idea e manifattura sorprendente724.

[1767] Dopo la Commedia Finger di essere morto per non morire con Truffaldino custode delle carceri ma

imprigionato, furono proposti fuochi con prospettive e mutazioni e diversità di colori725.

Anche in un altro frammento inedito metateatrale l’attore, che compare in scena

impersonando se stesso, parla delle proprie invenzioni:

Giuseppino a Atanagio / per l’ultima sera di carnevale poi, ho preparata una macchinetta di fochi d’invenzione

affatto nuova. Dovrebbero far bene726.

Chiara Simonetti Benedetti727, figlia di Giuseppe, si sposò nel 1769 con l’attore Luigi

Benedetti728. La sua carriera iniziò soprattutto come ballerina e come tale, infatti, viene

presentata nelle Convulsioni:

«Angela: La Chiara xe ballerina, che la tenda i so pà de dù e alle so capriole; anca sta novità

ga da esser, che la ballerina toga la parte della prima donna?»729. Tale “ruolo” di prima donna

le fu infatti assegnato da Gozzi che, avendone visto le potenzialità come attrice, le scrisse

appositamente alcuni drammi:

723 Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 3.3, Prologhi e congedi teatrali, c. 61r. Sui fuochi artificiali si veda: LINA PADOAN URBAN, Allestimenti teatrali a Venezia nel secolo XVIII: intermezzi con giochi di magia bianca e fuochi artificiali. Apparati scenografici per le feste sull’acqua, in piazza e nei campi, in Les innovations théâtrales et musicales italiennes en Europe aux XVIIIe et XIXe siècles, a cura di Irène Mamczarz, Presses Universitaires de France, 1991, pp. 62-64. 724 Notatorio XII, c. 136, 19 febbraio. 725 Notatorio XVIII, c. 2. 726 Fondo Gozzi, 727 Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 241-242. 728 Ivi, I, pp. 119-120. 729 Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 9.4, c.

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Il Nobile Sig. Co. Carlo Gozzi conoscendo in lei molta disposizione per riuscire nell’arte comica una buona

recitante730, scrisse a sua requisizione la parte della Donna Protagonista nelle due rappresentazioni intitolate una:

La Caduta di Donna Elvira; e l’altra la Punizione nel precipizio731. Sostenne la Chiara quel nobile, e reale

carattere con molta verità, e portandosi valorosamente {…} lo stesso Poeta scrissele altre parti, cioè quella di

Donna Laura nel Pubblico secreto; e l’altra di Donna Violante nelle Due Notti affannose732.

Benchè Bartoli menzioni solo i drammi “spagnoleschi”, nelle Convulsioni si evince che la

comica avesse interpretato Doride nell’omonimo dramma, nonostante la giovane età e la

maggiore dimestichezza nella danza:

Andriana: […] le xe arrivade tute do al gran trionfo de far da prime donne in te le commedie. La signora

innocente rassegnata (verso la Chiara), la signora Orfana riconosciuta (verso la Rosa)733.

Il dettaglio è rilevante perché possiamo supporre che dalla data in cui si rappresenta il testo, il

1762, l’attrice potesse avere ricoperto una parte principale anche nelle Fiabe.

Dopo essersi fatta onore nelle opere gozziane, si distinse per essere stata la prima interprete

italiana dell’Eugenia di Beaumarchais tradotta dall’Abate Perini734, ma, dopo l’ingresso della

Ricci nella compagnia, rimase nella compagnia come seconda donna.

Tra gli attori della compagnia Sacchi figura anche Ignazio Casanova di cui Bartoli restituisce

il ritratto di un attore versatile e competente sia nelle parti serie, soprattutto in quelle di

730 La predilezione che il conte Gozzi nutriva nei confronti dell’attrice era stata colta, malignamente, anche da Pietro Antonio Gratarol: «Sapevo bene che il Sig. Co. Allora prediligeva questa costumatissima giovane [Teodora Ricci] sua Commare, come anche sapevo che per molti anni prima avea prediletta una nipote di Sacchi, detta la Chiaretta, altra eccellente attrice: ma supponevo altresì che la sua predilezione fosse stata e fosse puramente spirituale e di stile Petrarchesco» (Pietro Gratarol, Narrazione apologetica, Venezia, 1797, pp. 34-35). 731 Entrambe le pièces risalgono al 1768. 732 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 241. Le Due notti affannose è un’opera databile 1771, mentre la precedente, il Pubblico secreto, è del 1769. 733 Fondo Gozzi cit. 734 In realtà si tratta della traduzione dell’abate Luigi Pieroni (Eugenia, commedia in cinque atti in prosa di monsieur de Beaumarchais. Tradotta in italiano dall’abbate Luigi Pieroni, Vicenza, presso Gio. Battista Vendramini Mosca, 1769); essa è riportata integralmente anche nel Teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1796, t. I. Il successo ottenuto da questa pièce è testimoniato anche da Gozzi che, nella prefazione al Fajel scrisse: «Se l’Onesto colpevole, se il Beverley, se il Disertore, se l’Eugenia, che tradotti piacquero sulle scene italiane, sono commedie […] chi direbbe che l’Eugenia del Signor Beaumarchais ch’ebbe un così buon incontro ne’ Teatri nostri tradotta dal Signor Abate Perini, non sia che un Dramma formato d’una novella che si legge nel Diavolo zoppo, Romanzo spagnolo, che si trova avvilito co’ libricciuoli scartati?» (CARLO GOZZI, Il Fajel tragedia del Sig. D’Arnaud tradotta in versi sciolti dal conte Carlo Gozzi, in Opere, Venezia, Colombani, 1772, VI, pp. 22-23). Su questa traduzione si legga anche la lettera di Francesco Albergati Capacelli indirizzata a Elisabetta Caminer nel marzo del 1769 (ROBERTO TROVATO, Lettere di Francesco Albergati Capacelli alla Bettina, in «Studi e problemi di critica testuale», 28, aprile 1984, pp. 112-114).

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innamorato, sia in quelle all’improvviso, in cui si distingueva soprattutto come Arlecchino735.

Recitò nella compagnie di Sacchi, di Pietro Rossi per l’anno 1762736 e di Girolamo

Medebach, ma non abbiamo rinvenuto alcun dato che possa fornire la data della sua dipartita

dalla troupe Sacchi.

Nelle Convulsioni Fiorilli, passando in rassegna le offerte spettacolari della serata, nomina il

comico: «Da Meddebacche se fa… etc. Da Casanova se fa… etc. Nell’altro teatro se fa… etc.

e da noi se fa l’Orfana»737. L’accenno a Casanova lascia presagire che egli fosse un

capocomico «o ne faceva comunque la funzione per un’altra compagnia»738. È probabile che

le breve permanenza di Casanova nella compagnia di Pietro Rossi, menzionata da Bartoli, si

fosse prolungata e che dunque egli stesse lavorando per quella troupe proprio nel momento in

cui si immagina avvenga la scena dell’inedita pièce.

Nelle Convulsioni compare anche un personaggio, «il signor Giovannino» identificato con

Giovanni Valentini739, un attore bolognese che rivestiva i panni di Pantalone e del Dottore ma

che si cimentava con successo anche nelle parti serie e premeditate di stampo goldoniano. Il

nome del personaggio, Giovannino, ha fatto propendere verso l’ipotesi che si tratti di

Valentini; inoltre egli ebbe come seconda moglie Margherita740, un nome che ricorre in un

altro prologo metateatrale, conservato nel Fondo Gozzi741, presumibilmente contemporaneo

735 Bartoli, cit. Casanova compare nell’elenco dei principali attori che ricoprirono la parte di Arlecchino in Italia stilato da Maurice Sand (M. SAND – A. MANCEAU, Masques et bouffons (comédie italienne): texte et dessins, Paris, Michel Lévy frères, 1860, I, p. 113: «Ignazio Casanova, de Bologne, en 1754»). L’attore morì nel 1774, dopo aver recitato nella Dalmatina, con ancora indosso l’abito di Radovich (cfr. Carlo Goldoni, La dalmatina, a cura di Anna Scannapieco, Venezia, Marsilio, 2005, p. 320 e p. 333). 736 È plausibile che all’inizio del 1762 Casanova recitasse ancora con la compagnia Sacchi se, come ipotizza Alberto Beniscelli, prestava la voce al mago Durandarte trasformato in pappagallo nella fiaba Il re cervo andata in scena al teatro San Samuele il 5 gennaio 1762 (Cfr. CARLO GOZZI, Il re cervo, in Fiabe teatrali, a cura di Alberto Beniscelli, cit. , p. 72). 737 Fondo Gozzi, cit. 738 PIERMARIO VESCOVO, Il repertorio e la «morte dei sorzi»... cit., p. 146 739 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 257: «Comico universale, che fu sempre utile, e lodevole ornamento di tutte le Comiche Truppe nelle quali ebbe impiego ne’ molti anni che egli esercita la Comica Professione. La Compagnia d’Antonio Sacco; quella di Niccola Petrioli; l’altre di Pietro Rossi, e d’Onofrio Paganini; come non meno quella di Francesco Paganini figlio d’Onofrio, e l’altra della Faustina Tesi, servirongli di largo campo al Teatrale valor suo apprezzato, e gradito universalmente in ogni Città. Ne’ giovanili anni suoi recitò da Pantalone; in progresso pose la Maschera del Dottore; e nell’una, e nell’altra si esercita anch’oggi a norma dell’occasione che se gli presenta. Eseguì ne’ suoi giorni più freschi una Commedia, in cui sotto il nome di Zanetto rappresentava diversi Personaggi con una grazia indicibile. Col fiorire poi delle Commedie del Goldoni egli adattossi a rappresentare que’ caratteri caricati, scritti la maggior parte dall’Autore per Antonio Martelli, e vi riuscì meravigliosamente. Nel tragico ancora, e ne’ caratteri mezzani sa farsi applaudire, ed unisce alla Comica abilità anche un poco quella del canto […]». 740 Giovanni Valentini rimase nella compagnia di Francesco Paganini in qualità di caratterista, insieme alla seconda moglie Margherita Valentini (la prima, Rosa Valentini detta Diana, morì nel 1760), dal 1778 al 1781. La sua attività per l’anno 1780 è testimoniata anche da Colomberti che lo definisce «bravo Pantalone e dottore», mentre per la moglie si limita a registrare che fu una «mediocre serva» (ANTONIO COLOMBERTI, Notizie storiche…, cit., c. 55r). 741 Fondo Gozzi, cit.

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alle pièce. Tuttavia, questo nome è anche quello della moglie di Agostino Fiorilli, come

l’attore-personaggio ammette in altri fogli manoscritti inediti, in cui è messa in scena una

prova della compagnia – o meglio il tentativo da parte di Sacchi di fare una prova con tutti gli

attori che però o sono sbadati, o sono distratti da altre occupazioni -.

L’unico altro attore presente nella compagnia all’epoca della pièce con cui «il signor

Giovannino» si sarebbe potuto identificare è Ignazio Casanova, che però è citato in

riferimento a un altro teatro; inoltre in un brano inedito metateatrale, Casanova è denominato,

precisamente, «il signor Casanova». Rimane, tuttavia, un dubbio: Angela, nel rivolgersi a

Giovannino, lo apostrofa come «sior avvovato»742. Se l’appellativo non è impiegato in tono

ridicolo, esso potrebbe alludere a Casanova che, come ci tramanda Bartoli, iniziò la carriera

nel foro743; inoltre in un’altra versione delle Convulsioni ritrovata nel Fondo Gozzi744, il nome

Giovannino è sostituito con quello di Giannino, che potrebbe indicare Ignazio.

Nelle convulsioni appare anche un’attrice, Rosa, mai nominata da Gozzi che avrebbe dovuto

recitare la parte della prima donna nell’Orfana riconosciuta. Da alcuni riferimenti interni al

testo, Piermario Vescovo l’ha identificata con Rosa Lombardi, figlia di Adriana Sacchi e del

primo marito Rodrigo Lombardi745. Possiamo supporre che l’attrice, almeno fino alla presunta

data della pièce, non avesse mai recitato in qualità di prima attrice: ella, infatti, si dimostra

molto emozionata e trepidante per la rappresentazione. Inoltre, nel frammento appena citato

relativamente all’interpretazione di Chiara nella Doride, Adriana si complimenta con la figlia

per riuscire a recitare la parte delle prima donna riferendosi proprio nell’Orfana riconosciuta

e più avanti, infatti, Rosa ammette di essere contenta di avere finalmente una parte

importante:

Chiara: Se ti savessi, Rosa, che gusto che ho che ti facci quella parte stassera, sento proprio che vegno tanto fata.

Rosa: Sento la to ose, ma no vedo el to cuor. Basta, stassera intanto farò l’orfana. È tanto tempo che desidero una

bona parte, l’è pur vegnuda746.

742 Fondo Gozzi, cit., «ANGELA Che la fazza qualche seconda parte, e no da prima dona. Ma, e la Chiaretta, perché halla da far da Doride in tel Geloso feroce, via? E perché la Rosa halla da far stassera la prima parte in tell’ Orfana, via, sior avvocato?». 743 Bartoli, cit. 744 Fondo Gozzi, cit. 745 Ivi, p. 148. Bartoli a proposito di Adriana Sacchi nomina la figlia Rosa: «Divenne Moglie di Rodrigo Lombardi bravo Dottore, di cui si parlò, e n’ebbe da lui più figli, e fra gli altri una femmina chiamata Rosa, che essendosi maritata con Francesco Arena (figliastro di Cesare d’Arbes rinomato Pantalone) bravo inventore di macchine, e trasformazioni, recitava di buona grazia, ed era una pregevole Donnina, ma venne a morte in gioventù, seguendo dopo pochi mesi il Marito, andato all’altro Mondo prima di lei» (Bartoli, cit.) 746 Fondo Gozzi, cit.

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Agostino Fiorilli, celebre Tartaglia747, indossò questa maschera, ancora prima di entrare nella

compagnia Sacchi: già nel 1738 la interpretava presso il teatro Fiorentini di Napoli con

Saverio Fusco e il Pulcinella Domenicantonio di Fiore748. Entrò nella compagnia veneziana

per sostituire il cognato di Sacchi, Rodrigo Lombardi, morto nel 1749; il provino avvenne a

Genova, mentre la troupe era in partenza per il Portogallo749.

Oltre alla definizione gozziana del comico «portento dell’arte»750, anche Bartoli ne tessé

l’elogio:

Una buona voce, un personale vantaggioso, un lazzo spiritoso, e pronto, sono i capitali in lui meno stimabili. Il

suo profondo intendere l’arte con cui si alletta il Popolo in certe situazioni, che devonsi afferrar di volo, e che

sfuggite non lasciano luogo di far colpo alla Scenica arguzia; e l’essere grazioso naturalmente senza stento, senza

affettazione, o durezza; il mostrarsi pronto ritrovatore d’un vivace motteggio, che altro non ribatta, ed

avvilisca751; il sapere con immensa perizia tutta la Commedia a memoria senza dimenticarsi giammai alcuna

ancorché menoma cosa; questi sono finalmente tutti quei pregi rari, che in lui abbondevolmente si trovano, e che

lo costituiscono un perfetto originale del vero Comico pronto, spiritoso, ed arguto752.

Fiorilli si vide tributare onori da Giuseppe Baretti, che pur scettico sulla commedia

all’improvvisa, dovette riconoscergli l’estrema bravura753. La straordinaria interpretazione

della maschera nelle Fiabe gli permise di ritagliarsi uno spazio sempre maggiore: basti

pensare al ruolo di antagonista nel Cervo e all’analogo ruolo che, in un primo momento,

doveva avere anche nei Pitocchi fortunati come dimostra l’ossatura ritrovata nel Fondo

747 Il padre Antonio fu un ottimo innamorato e capocomico mentre la madre, Isabella, fu prima donna. Cfr. Cfr. Francesco Bartoli, Notizie istoriche…, cit., I, pp. 217-220. 748 SALVATORE DI GIACOMO, Cronaca e storia del Teatro di San Carlino. Contributo alla storia della scena dialettale napoletana 1738-1884, Napoli, Salvatore Di Giacomo, 1891, pp. 86-89. 749 Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., I, p. 218: «Il Fiorilli s’accinse a risponderli, e fecelo con tanta grazia, e con sì bel modo, che spiegando a poco a poco i suoi sentimenti con quella ridicola balbuziente pronunzia, ora tenendo la voce sommessa, ed ora strepitosa innalzandola, e contorcendo la bocca, e dimenando le braccia, ed il tutto eseguendo co’ più naturali movimenti di un uomo, che tale difetto avesse in propria natura, e aggiungendo il Fiorilli in quell’istante tutto ciò che l’arte seppe insegnarli». 750 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., t. II, III, II, p. 915. 751 L’arguzia dell’attore contraddistingueva anche la persona stessa se è vero quanto racconta Gozzi a proposito di un pranzo fatto insieme ad alcuni comici della compagnia, in cui Teodora Ricci venne presa di mira dal sarcasmo di Fiorilli per i gioielli che indossava, regalati dal suo nuovo spasimante, Pietro Antonio Gratarol (Cfr. Carlo Gozzi, Memorie inutili, t. II, II, XXII; p. 565). 752 BARTOLI, cit. 753 GIUSEPPE BARETTI, An account of the manners and customs of Italy, with observations on the mistakes of some travellers, with regard to that country, in IDEM, Opere, a cura di Franco Fido, Milano, Rizzoli, 1967, pp. 620-621: «Yet in spight of their critical austerity I must own, that some of the actors, particularly Sacchi and Fiorilli, (commonly called Truffaldino and Tartaglia, from the characters in which they excel) whom I have lately seen in Venice, made me unwilling to join in opinion with our critics; and I cannot very cordially wish for a total alteration in our wonted manner of composing and exhibiting comedies, as the efforts which our actors are obliged to make when put to this hard stretch, are such, that they give me often much greater occasion for wonder than for criticism».

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Gozzi754. Socio della compagnia Sacchi a tutti gli effetti755, militò fino al 1779, poi andò in

quella della Battaglia; la sua sostituzione all’interno della troupe creò qualche scompenso,

come mostra la lettera di Luigi Ballerini indirizzata a Daniele Andrea Dolfin, ambasciatore in

Francia, datata 11 ottobre 1779, in cui asserisce che «San Luca è in terra per la mancanza del

Tartaglia [Agostino Fiorilli] e la vecchiezza del Sacchi»756.

Anche il figlio Antonio757 lavorò con Sacchi in giovane età come lascia intendere il

manoscritto gozziano della Rappresentazione del re cervo, in cui si accenna al «signor Fiorilli

giovane»:

754 Infatti, nell’ossatura della fiaba Tartaglia avrebbe dovuto essere il perfido Cadì. 755 Bartoli, cit., La compagnia si divideva in soci il cui “stipendio” era variabile a seconda del successo ottenuto, e quindi instabile e legato a qualunque contingenza e in stipendiati, cioè «i comici forestieri provveduti a stipendio» (CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 433). Per esempio, nel 1775, in occasione dei lavori di restauro al teatro San Salvatore, la compagnia Sacchi, costretta a non esibirsi per ventidue sere, perse ventidue giorni di incassi (Ivi, p. 524.). La posizione degli stipendiati era dunque più favorevole rispetto a quelli dei soci perché il loro guadagno era sempre corrisposto, a dispetto di qualunque imprevisto. Anche Gozzi affronta tale questione in merito alla posizione contrattuale della Ricci (Ivi, p. 510 e p. 527: «il dimostrarle [alla Ricci], che i Comici stipendiati erano a miglior partito degl’interessati nell’impresa esposti a un facile rovescio d’una sorte dipendente dal Pubblico, e obbligati a pagare i stipendiati […] lei sa, Signor Conte (proseguì egli [Sacchi] il poco frutto delle Compagnie comiche dell’Italia, le enormi spese annuali de’viaggi, e trasporti, e i pericoli a’quali gl’interessati nell’impresa vanno soggetti appoggiati alla incertezza, ed a strani avvenimenti, a fronte de’stipendiati, che devono avere l’indiminuto loro onorario accordato»). I contratti degli stipendiati potevano avere durata annuale o più frequentemente triennale, come quelli di Teodora Ricci e Francesco Bartoli di cui si accenna nelle Memorie inutili (Ivi, p. 490 e p. 454). L’importo pattuito veniva distribuito nei mesi e chi non rispettava la scrittura era condannato a pagare una penale; spesso Gozzi si appellò proprio questa penale per dissuadere la Ricci ad abbandonare repentinamente la compagnia (Ivi, p. 534 e p. 917). Interessanti sono le delucidazioni su tali modalità riportate dal Colomberti: «In addietro a questo secolo le anticipazioni ai comici non erano usate e soltanto la buona fede legava fra loro il capo-comico , e i stipendiati. Una lettera in forma di accettazione prendeva quasi sempre il luogo di contratto per un’anno; e vi furono non pochi esempi che un Attore rimanesse con un Capo-comico dieci o dodici anni senza rinnovarla: una conferma a voce bastava» e «l’anticipazione non s’inseriva mai nelle antiche scritture artistiche: Le imprese promettevano uno stipendio annuale, il quale veniva suddiviso in tanti giorni quanti se ne contava l’Anno comico (che come al presente incominciava col primo giorno di Quaresima e finiva coll’ultimo di Carnevale) e la frazione che ne risultava chiamatasi spesato giornaliero; e questo era sempre posticipato. L’artista spesso stabiliva che gli venisse pagato dal capo-Comico l’importare del viaggio, ma questo suo debito doveva essere da lui scontato nel corpo della Quaresima, se piccolo, o al più nella Primavera, se forte, sul suo stipendio giornaliero» (ANTONIO COLOMBERTI, Notizie storiche…, cit., rispettivamente c. 17r e c. 39r). 756 POMPEO MOLMENTI, Epistolari veneziani del Settecento, [1914], Venezia, Supernova, 2005, p. 27. Già in precedenza il comico intendeva abbandonare la compagnia ma Gozzi l’aveva convinto a rimanere (Cfr. CARLO

GOZZI, Memorie inutili cit., t. II, II, VII, pp. 450-451). 757 Bartoli, cit., «Figlio del mentovato celebre Agostino, che dal Padre apprese a giocar anch’esso con qualche abilità lo stesso Personaggio ridicolo del Tartaglia. E’ stato con diverse Compagnie vaganti, cioè col Bazzigotti, colla Tesi, e con Pietro Rossi. Fu a Venezia colla Battaglia; e presentemente trovasi insieme colla Moglie, di cui si parlerà, nella rinomata Compagnia di Girolamo Medebach. Recita le Commedie dal Padre suo pur recitate, e va seguendo, se ben da lungi, quell’orme di valore, che potranno forse un giorno condurlo a più felici, e sicuri avanzamenti». Fiorilli entrò con la moglie Caterina nella compagnia Menichelli, con la quale recitò a Trieste nell’autunno 1786 e a Padova per il carnevale dell’anno seguente (testimonianza del successo di Caterina è il libretto La Medea, scena lirica tragica tradotta dal tedesco. Recitata da Catterina Fiorilli e Francesco Menichelli in Gorizia l’estate dell’anno 1786, Gorizia, Valeri, 1786). Sempre nella compagnia Menichelli, Fiorilli si esibì a Trieste nell’autunno 1792, insieme alla moglie e alla figlia Anna. Insieme alla moglie dal 1796 entrò nella compagnia Pellandi e proprio a una pièce rappresentata da essa si riferisce un giudizio negativo sulla performance di Fiorilli. Il barone J. Von Hammer-Purgstall, che aveva assistito all’ultima recita della compagnia Pellandi a Trieste nel 1798, La madre di famiglia del Sografi, osservava che «gli uomini recitavano senza confronto, peggio ancora [delle attrici]; il Napoletano [Antonio Fiorilli] specialmente, che passa qui per il

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Si farà sopra il corpo del re, dirà il verso “cra, cra, etc.” con fretta imbrogliandosi con dispetto, anderà morendo

con lazzi, all’ultima parola del verso caderà morto il corpo di Tartaglia giù per la riva del fiume, risusciterà

l’altro corpo somigliante al re, il quale sarà il signor Fiorilli giovane accomodato con arte a somiglianza, e qui

sarà dietro la riva del fiume cambiato il corpo di Tartaglia con un Tartaglia di stracci758.

Sicuramente nel 1771, anno d’ingresso dell’autore delle Notizie istoriche nella troupe del

Sacchi, egli se ne era già andato visto che Bartoli non lo menziona nella compagnia e che si

sofferma sul comico soprattutto in virtù del fatto di essere il padre della famosa Anna Fiorilli

Pellandi, avuta dalla moglie Caterina759.

Oltre a questi attori, con cui certamente Gozzi si confrontò tra il 1761 e il 1765, non abbiamo

altra testimonianza diretta del drammaturgo sulla presenza di altri possibili comici. Ricaviamo

tuttavia qualche informazione dalle Notizie istoriche, in cui, per esempio, si accenna alla

presenza di Lorenzo Bellotto nella compagnia Sacchi, senza però alcun riferimento

cronologico relativo alla sua permanenza760.

Il gruppo fin qui delineato risulta però incompleto se confrontato con alcune informazioni

provenienti soprattutto dalle carte del Fondo Gozzi e da Bartoli; è proprio quest’ultimo che

nella descrizione di Francesco Pozzi, detto Pozzetto, fornisce il prezioso dato secondo cui egli

fu il primo attore ad interpretare la parte di Farruscad nella Donna serpente, morendo poi nel

1764761. È lecito supporre che il comico, pur non essendo mai menzionato nella produzione

gozziana – nemmeno nell’inedita Le convulsioni in cui Gozzi fa agire gli attori della

compagnia Sacchi negli stessi anni in cui ne faceva parte Francesco - fosse tutt’altro che un

miglior attore, correva furioso su e giù per il palcoscenico, con una veemenza inutile» (la testimonianza è riportata in CARLO CURIEL, Il Teatro S. Pietro di Trieste: 1690-1801, Milano, Archetipografia, 1937, p. 331). Antonio figura come capocomico di una «Primaria Compagnia» nel 1800 (ANTONIO COLOMBERTI, Notizie storiche de più distinti comici… , cit., c. 58r). 758 Biblioteca Nazionale Marciana, La rappresentazione del re cervo, c. 18v. 759 L’attrice venne scritturata, insieme al marito, dalla compagnia Battaglia dal 1779 al 1781. Nel 1796 entrò nella compagnia Pellandi in cui ricoprì la parte della «prima nelle commedie dell’arte» (Giornale dei teatri di Venezia, in Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1796, t. III, p. X, autunno 1775 e carnovale 1796), insieme, tra gli altri, a Teodora Ricci, Anna Fiorilli, Giulio Minelli, Alfonso Zanoni e Antonio Fiorilli; successivamente venne impegnata nelle «parti di madre» (Giornale dei teatri di Venezia, cit., 1798, t. XXII, p. 14, autunno 1797 e carnovale 1798). Figura in questa compagnia fino all’anno comico 1800-1801. Su Antonio Fiorilli, cfr. Bartoli I, p. 216. 760 Infatti, Bartoli si limita a registrare che Bellotto entrò nella compagnia Sacchi solo dopo lavorato in quella di Antonio Marchesini, senza però specificare l’anno; l’attore, ottimo interprete di Pantalone, morì nel 1766 (Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., I, p. 119). 761 Ivi, II, p. 98: «milanese che recitò la parte dell’innamorato […] travagliò assai giovane nella compagnia di Antonio Sacco, e fu il primo che sostenesse la faticosa parte di farruscad nella favolosa rappresentazione intitolata La Donna serpente scritta dal Sig. Conte Carlo Gozzi […] passò dopo con altre vaganti compagnie e morì il 3 giugno 1764 a 25 anni».

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attore “secondario” se gli venne affidata la parte del protagonista e, verosimilmente, potrebbe

essere stato il primo amoroso anche nelle quattro fiabe andate in scena prima della Donna

serpente.

Inoltre, la presenza di Pozzi è attestata in maniera incontrovertibile dal manoscritto marciano

della Zobeide impiegato per la princeps, in cui, accanto all’elenco dei personaggi, figurano,

cassati, i nomi di alcuni attori – tra cui il nostro – due dei quali sono però totalmente

illeggibili. Il novero dei comici in questo manoscritto è probabilmente imputabile al fatto che

esso reca la licenza di rappresentazione (19 maggio 1763) e contiene, dunque, se non il

copione usato veramente dalla compagnia, certamente il testo più prossimo ad esso.

Cominciamo proprio da questa pièce, che offre un maggior numero di dati, rispetto alle altre

Fiabe per ipotizzare le parti affidate agli attori della compagnia Sacchi. Salvo specifiche

precisazioni, dobbiamo presupporre sempre che le maschere, Truffaldino, Brighella,

Pantalone, Tartaglia e Smeraldina, siano interpretate rispettivamente da Antonio Sacchi,

Atanasio Zanoni, Cesare Darbes, Agostino Fiorilli e Adriana Sacchi. Dalla lettura del

manoscritto della Zobeide già citato apprendiamo che Abdalac, il calender dotato di poteri

magici, è «Pozzi», che quindi, ancora una volta, riveste una parte importante, essendo tale

personaggio secondo solamente ai due protagonisti. Masud, che combatte contro il malvagio

Sinadabbo, è «Simonetti», mentre il protagonista è «Giovanni»762, Giovanni Vitalba763 che,

infatti, ricopriva spesso la parte di primo amoroso.

Considerando che abbiamo un’affidabile testimonianza da parte del Bartoli sul ruolo di

protagonista affidato ad Angela Sacchi nella Donna serpente, la fiaba immediatamente

precedente a Zobeide, , possiamo ipotizzare che la stessa comica interpretasse la parte di

Zobeide e che la sorella Giovanna e la cugina Rosa Lombardi vestissero i panni,

indifferentemente, di Salè e Dilara, gli altri due personaggi femminili della fiaba. La

Discordia e la «donna con la testa tagliata nelle mani» potrebbero essere state interpretate da

Antonia Sacchi, l’unica donna a poter recitare la figura decapitata perché nella scena in cui

compare, tutte le altre attrici appena nominate, compresa Adriana-Smeraldina, assistono

all’apparizione o arrivano in scena poco oltre, comunque dopo un lasso di tempo troppo breve

per potersi cambiare d’abito.

Dall’elenco restano fuori Beder e Schemsedin, rispettivamente padre che muore nel corso

della fiaba e fratello di Zobeide, probabilmente rappresentati da Casali, vista la propensione

762 I nomi riportati sono quelli che compaiono nel manoscritto.. 763 L’assegnazione di questa parte invalida l’ipotesi espressa da Paolo Bosisio secondo cui Abdalac era Casali, mentre lo studioso non aveva sostenuto alcun nome per Masud (Cfr. CARLO GOZZI, Fiabe teatrali, a cura di Paolo Bosisio, cit., p. 392, nota 3).

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documentata dal Bartoli per le parti tragiche e da Casanova (o da Giovanni Valentini) in

considerazione della notorietà come innamorato.

Per quanto riguarda La donna serpente, sappiamo con certezza che Farruscad e Cherestanì

furono interpretati da Pozzi e da Angela Sacchi764, mentre possiamo solo fare congetture in

merito agli altri interpreti. Le parti femminili, le due fate Farzana e Zemina, e Canzade,

sorella del protagonista, potrebbero essere state affidate alle altre giovani della compagnia,

Rosa Lombardi e Giovanna Sacchi (due donne basterebbero a coprire le tre parti perché una

fata non compare mai insieme a Canzade). A proposito di quest’ultima attrice, grazie al

sonetto portoghese ritrovato già menzionato, possiamo ipotizzare che all’epoca di questa fiaba

avesse circa sedici-diciotto anni, un’età che fa supporre il suo impiego per una delle parti

femminili sopradette e non per Rezia e Bededrino, i due figli di Cherestanì, che, invece,

potremmo identificare con i veri bambini presenti all’epoca nella compagnia: Teresa Zanoni,

Costanzo Vitalba, Idelfonso Zanoni. Togrul, il visir amico del protagonista, potrebbe essere

stato recitato da Giovanni Vitalba, mentre Badur, il traditore che fa un’apparizione fugace, da

Giovanni Valentini. Dall’elenco abbiamo lasciato fuori Ignazio Casanova perché nel 1762

lavorò nella compagnia di Pietro Rossi, ed è quindi presumibile che non fosse disponibile per

l’intero anno comico 1762-1763.

Interessante si rivela l’ipotetica distribuzione delle parti nella Turandot: a nostro parere è

infatti possibile che, in origine, Gozzi avesse scritto la parte di Barach, il fedele servitore del

principe Calaf, per Cesare Darbes. La congettura poggia su indizi interni all’ossatura della

fiaba del Fondo Gozzi: infatti, nella prima scena dell’atto iniziale si trova una battuta

inizialmente assegnata a Pantalone, nome pi cassato e sostituito da quello di Barach (ma

Pantalone rimane come personaggio all’interno della fiaba). Probabilmente in principio Gozzi

scrive “Pantalone” già pensando di assegnare il personaggio a Darbes, usualmente interprete

della maschera di vecchio. Che a Darbes sia affidata la parte di Barach sembra confermato

dalla presenza di un’annotazione posta a fianco della battuta, che suona «satira sulle

vedove»765. È abbastanza improbabile che il drammaturgo volesse affidare una scena comica,

come presumibilmente doveva essere la caricatura suggerita a Barach che in questa e in altre

scene si dimostra un personaggio serio e a volte perfino “tragico”, pronto a tollerare le torture

di Turandot, pur di non rivelarle il nome del principe, a meno che la satira non un tratto

distintivo dell’attore che lo impersonava. In altre fiabe la satira colta e non triviale

764 Bartoli, cit., : «La parte di Cherestanì nella Donna Serpente Favola del Nobile Sig. Co. Carlo Gozzi fu scritta per lei insieme con molte altre nelle Commedie tratte dallo Spagnolo». 765 Fondo Gozzi, cit.

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contraddistingue proprio Darbes-Pantalone, indicazione che ci porta a convalidare l’ipotesi

iniziale; inoltre si deve precisare che nell’ossatura la maschera e l’aiutante non sono mai nella

stessa scena, al contrario di quanto si registra nella versione edita, la cui co-presenza è relativa

solamente ad una scena. Bisogna anche prendere in considerazione l’eventualità in cui invece

Pantalone potesse essere interpretato da un altro comico, Giovanni Valentini, l’unico

competente per interpretare questa maschera.

Non avendo reperito alcun altro dato utile per l’assegnazione possibile delle parti, ci

limiteremo a congetturare, in base alle qualità attoriali, la seguente distribuzione: Casali e

Simonetti avrebbe potuto fare la parte di Altoum o di Timur, rispettivamente padre di

Turandot e di Calaf, Adriana Sacchi, viste le capacità anche tragiche, Schirina, Angela, come

prima donna, Turandot, Giovanna Sacchi e Rosa Lombardi indifferentemente quelle di

Zemina e Adelma; infine, Giovanni Vitalba o Francesco Pozzi sarebbero potuti essere

Calaf766.

L’incertezza tra Vitalba e Pozzi per la parte del protagonista è riscontrabile anche per Il re

cervo, rappresentato per la prima volta nello stesso mese in cui debuttò la Turandot (gennaio

1762). Ancora una volta attribuire la parte della protagonista ad Angela Sacchi anche in virtù

del nome della protagonista, Angela appunto. La scelta onomastica non è casuale, come

mostra in modo inequivocabile il nome Teodora in onore di Teodora Ricci per la pièce che la

consacrò al successo (La principessa filosofa). Con lo stesso genere di motivazione, cioè

grazie all’equivalenza del nome del personaggio con quello dell’attore, si identifica in Clarice

la comica Rosa Lombardi perché in origine il nome con cui è designata la figlia di Tartaglia

era, appunto, quello di Rosa. Oltre alla maschera di Brighella, nella fiaba gozziana del Re

cervo, sappiamo che Zanoni recitò con estrema perizia anche la parte di Cigolotti, un anziano

cantastorie vivente ai tempi in cui andarono in scena le fiabe: «Atanagio Zanoni, che sostiene

con rara abilità il personaggio del Brighella tra le maschere nella truppa Sacchi, rappresentava

cotesto vecchio [Cigolotti] con quella perfetta imitazione nel vestito, nella voce,

negl’intercalari, nel gesto e nella positura, che suol far sempre ne’ teatri un grand’effetto, con

indicibile applauso»767. Nei manoscritti gozziani recentemente ritrovati riguardanti questa

fiaba, si è scoperto che originariamente il drammaturgo avesse pensato di portare sul

palcoscenico il vero Cigolotti e che solo a causa dell’impossibilità di attuare tale espediente,

766 Cfr. CARLO GOZZI, Fiabe teatrali, a cura di Paolo Bosisio, cit., pp. 306-307, n. 3. 767 IDEM, Prefazione al Re cervo, in IDEM, Fiabe teatrali, a cura di Alberto Beniscelli, cit., p. 43

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avesse affidato la parte a Zanoni768. A Leandro e al mago Durandarte potrebbero avere dato

corpo Simonetti e Casali.

È estremamente probabile che anche nel Corvo la protagonista fosse Angela Sacchi; e infatti

questo è il primo nome che compare nell’ossatura della fiaba per connotare la donna, poi

cambiato in Armilla. Gli altri quattro personaggi maschili, oltre, ovviamente, alle maschere, i

due fratelli protagonisti Millo e Jennaro, il mago Norando e il ministro Leandro, potrebbero

essere stati affidati, rispettivamente, a Pozzi, Vitalba, Casali e Simonetti.

È da notare che nelle prime tre fiabe, L’Amore delle tre melarance, Il corvo, Il re cervo, i

personaggi femminili che vi compaiono sono in numero esiguo rispetto a quello delle fiabe

successive, in cui sono sempre presenti, oltre a Smeraldina, altre tre donne. Ciò, almeno in

parte, è dovuto alla crescita professionale, oltre a quella fisiologica, delle attrici della

compagnia Sacchi che Gozzi poteva pensare di impiegare nel momento stesso in cui si

accingeva a scrivere una fiaba.

La scelta di inserire più personaggi femminili è da imputare anche a ragioni di ordine

drammaturgico: nel momento in cui l’autore rinuncia agli elementi meravigliosi, compensa

questa mancanza con l’arricchimento degli elementi sentimentali e passionali, portando a tre il

numero delle attrici rispetto alle due delle fiabe precedenti769. La triplice presenza femminile

non si riscontra nel Mostro turchino, ma nell’intenzione dell’autore – come manifesta

l’ossatura della fiaba – c’era la volontà di inserire oltre all’antagonista Gulindì e alla

protagonista Dardanè, anche una terza donna, Sarchè.

Quanto alle altre fiabe, Il mostro turchino, I pitocchi fortunati, L’augellino belverde e Zeim re

de’ geni, non possedendo alcuna informazione ipotetica o certa che ci permetta di attribuire

una parte a qualche attore della compagnia piuttosto che ad un altro – ad eccezione della

protagonista dell’ Augellino belverde che fu Giovanna Sacchi come attestato da Bartoli e della

morte di Francesco Pozzi avvenuta nel 1764 – ci pare più utile offrire una tabella riassuntiva

con i comici a disposizione negli anni delle Fiabe comprensiva di tutti i dati riportati fino ad

ora:

768 A questo proposito si veda ALBERTO BENISCELLI, Nel laboratorio delle Fiabe, tra vecchie e nuove carte, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur…, cit., pp. 79-80. 769 Sulla funzione sempre più centrale esercitata dalle figure femminili nelle Fiabe si veda MARZIA PIERI, Da Andriana Sacchi a Teodora Ricci: percorsi di drammaturgia, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur…, cit., pp. 29-50, in particolare pp. 38-39.

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Prima donna Angela Sacchi / Giovanna Sacchi / Chiara

Simonetti / Rosa Lombardi

Seconda donna Rosa Lombardi / Chiara Simonetti /

Giovanna Sacchi / Angela Sacchi / Antonia

Franchi Sacchi

Primo amoroso

Giovanni Vitalba / Francesco Pozzi / Gaetano

Casali

Innamorato Giuseppe Simonetti / Ignazio Casanova

Generico, dottore Giovanni Valentini

Smeraldina Adriana Sacchi

Truffaldino Antonio Sacchi / Ignazio Casanova

Brighella Atanasio Zanoni

Tartaglia Agostino Fiorilli

Pantalone Cesare Darbes / Giovanni Valentini

Bambini Costanzo Vitalba / Teresa Zanoni / Idelfonso

Zanoni

Al di là delle peculiarità attoriche dei singoli, resta da capire chi tra Gozzi e Sacchi, di fatto,

attribuisse le parti ai comici: se infatti siamo portati a credere che “naturalmente” tale compito

spettasse al capocomico, reperiamo però dichiarazioni dell’autore che ci lasciano supporre un

suo coinvolgimento maggiore anche in questo tipo di decisioni. Ne Le convulsioni, proprio

riguardo all’ “artefice” della distribuzione delle parti emergono due tesi contrastanti:

VITALBA Ma se chi ha scritto le commedie ha anca scritto de so pugno la disposizion delle parte, cossa se ga

da far, un affronto de disponerle al contrario?

GIOVANNINO Co la xe po cuisì ghe vol pazienza e tor quel che vien.

ANGELA Eh, che chi scrive le commedie no ghe pensa una gazarada; so mi come che la xe, mi so i arcani, caro

stucco. Fa disponer le parte, sastu chi? chi no vol far la fegura odiosa de desponerle lu come che el vol, e cussì se

cava i marroni colla zampa del gatto; cuco, vegnimo dalle nuvole, macaco?

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Dunque, Vitalba sostiene che sia l’autore delle commedie a scrivere «de so pugno» la

distribuzione delle parti, tanto che un eventuale cambiamento sarebbe un oltraggio, mentre

Angela, negando ogni possibile coinvolgimento dello scrittore, afferma, in modo sibillino e

provocatorio, che chi dovrebbe assegnare le parti, per non mostrarsi troppo autoritario, di fatto

le lascia decidere ai comici stessi. Se recuperiamo l’analogo passo testimoniato da un altro

manoscritto recante la stesura immediatamente precedente a quella de Le convulsioni sopra

testimoniata reperiamo una cassatura significativa:

ANGELA: eh che chi scrive le commedie no ghe pensa un diavolo. [xe mio Padre] So mi come la xe, mi so i

arcani, caro stucco [xe sto missier, xxx] e basta so mi chi che scriver te disposizion per [cavarse] no far [lu] la

figura odiosa de disponerle come el vol770.

Il tono della risposta di Angela è rivolto contro il padre che poco incisivo – o forse troppo

sensibile alle lusinghe femminili, come la biografia sacchiana ci mostra, soprattutto

nell’ultimo “fatale” colpo di fulmine per Regina Gozzi che condusse il capocomico perfino a

rubare e ad abbandonare senza preavviso la compagnia di Pietro Rosa in cui lavorava771 -

permette agli altri di proporsi per le parti.

Le testimonianze relative alla contestata messinscena de Le droghe d’amore sembrano

provare che fosse Gozzi usualmente ad attribuire le parti: il drammaturgo, infatti, sostiene di

averle assegnate «con quella proporzione che mi parve confacente agl’Attori, e alle Attrici

della Compagnia da me conosciuti»772 e imputa al capocomico la sostituzione finale, per di

più a sua insaputa, di Benedetti con Vitalba, più somigliante a Gratarol – ma dobbiamo

precisare che la dichiarazione è tendenziosa perché il conte sta cercando di discolparsi dalle

accuse mossegli dall’ex segretario del Senato - .

770 Fondo Gozzi, cc. 32r-33v. 771 Carlo Giovannoni, attore nella compagnia Rosa, ricorda che l’assunzione del celebre attore fu dovuta a una lettera in cui Sacchi esponeva le proprie disgrazie. La missiva è citata da Bruno Brunelli, Le ultime pazzie di Truffaldino, in «Rivista italiana del dramma», 15 luglio 1937. Nella stagione di carnevale 1785-1786 Sacchi avrebbe dovuto recitare nella compagnia Rosa al teatro Nuovo di Padova, con cui aveva preso direttamente i contatti, come si evince da una lettera (citata in BRUNO BRUNELLI, I teatri di Padova. Dalle origini alla fine del secolo XX, Padova, Draghi, p. 196: «Monsieur, Il Sig.r Santo Pengo Le avrà anticipato le mie premure per ottener dalli Ill.mi Cavalieri il Novo Teatro per il carnevale venturo 1786. Sono state con bontà accolte anco da S. Eccellenza Catterino Corner Capit.o di Padova a cui le feci manifestare; spero adunque che V.S.R. vorrà favorire questa mia richiesta e procurarmene la sicurezza: di tutto la prego, ed umiliandoli i miei complimenti passo con ogni stima protestarmi. Venezia 20 Febbraio 1784-1785») ma, poco prima dell’inizio della stagione Sacchi insieme a Regina Gozzi, lasciò la compagnia e venne rimpiazzato da Giacomo Greffi. 772 CARLO GOZZI, Memorie inutili cit., p. 633. Gozzi prosegue poi il racconto:«Fu dal Capocomico Sacchi commessa in sul fatto al Copista la estrazione delle parti, e la consegna agl’Attori com’io le aveva disposte» (Ivi, p. 642).

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In un altro passo della sua autobiografia, il drammaturgo lascia intravedere la propria

rassegnazione a vedere cambiamenti microscopici e macroscopici nelle opere da lui scritte,

soprattutto nelle repliche successive al debutto773, dichiarazione che ci lascerebbe attribuire a

Sacchi l’ “ultima parola” in materia di messinscena.

La troupe dopo il 1765

Nonostante la nostra scelta di privilegiare lo studio dei componenti della “prima” compagnia

Sacchi, con cui Gozzi, attraverso le Fiabe, debuttò come drammaturgo, per completezza

presentiamo anche gli altri attori che, nel corso degli anni, ne fecero parte, soffermandoci

soprattutto sulle qualità attoriali e sulle possibili parti che avrebbero potuto interpretare nelle

composizioni fiabesche che continuarono a essere presenti nel repertorio della troupe774.

L’annessione di nuovi attori negli anni Settanta fu un’esigenza dovuta anche allo spostamento

della compagnia dal teatro Sant’Angelo al più grande San Luca775.

Gaetano Casali fu sostituito nel 1767 da Luigi Benedetti, che rimase nella compagnia fino al

1780 come primo amoroso. Egli si era precedentemente distinto nei teatri romani e

specialmente nell’interpretazione di Milord Bonfil nella Pamela, durante la stagione 1758-

1759 al teatro Capranica, pièce a cui aveva assistito anche Goldoni, che lo elogiò776.

773 Ivi, p. 667: «ho vedute moltissime teatrali opere mie esposte negl’anni susseguenti al primo anno in cui furono prodotte, mutilate, difformate e guaste della comica virtù, senza la menoma ricerca del mio consentimento, né mi sono mai disturbato, o degnato di far sopra un tale arbitrio un picciolo cenno di lagnanza». 774 Nel manoscritto di Giovanni Rossi intitolato Leggi e Costumi veneziani conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (cod. ital., classe VII, n. 1396 =9287) si trova un elogio della compagnia Sacchi, in cui l’autore “mescola” gli attori che nel corso di trent’anni hanno fatto parte della troupe: «Ora la compagnia del Sacchi avrebbe forse da se sola bastato ad attrarre il popolo. Imperciocchè Antonio Sacco presentandosi muto sulla scena, co’ soli suoi movimenti destava l’attenzione, e il riso; Atanasio Zanoni, il Brighella, era uomo capace d’animare qualunque dialogo seco lui; Cesare D’Arbes era il più caro Pantalone che sentito si fosse, Roderigo Lombardi il più facondo Dottor Balanzoni, Antonio Vitalba inimitabile innamorato, e parlatore all’improvviso, Agostino Fiorilli un Tartaglia sceltissimo, e la Ricci per gradimento e per avventure l’idolo delle scene». 775 Sulla questione, cfr. NICOLA MANGINI , Carlo Gozzi, un «rustego» alla corte di una commediante, in Carlo Gozzi scrittore di teatro, a cura di Carmelo Alberti, atti del Convegno internazionale (Venezia, 4-5 novembre 1994), Roma, Bulzoni, 1996, pp. 88-89. 776 Goldoni si era recato nella città laziale nel 1758 su invito dell’impresario del teatro di Tordinona per assistere alle prove della Vedova spiritosa, la cui messinscena si rivelò fallimentare a tal punto da spingere il drammaturgo a ripartire. Durante la permanenza del veneziano il teatro Capranica proponeva, con strepitoso successo, la Pamela, come ricorda Goldoni: «Al Tordinona avevo fallito; era per me una delusione cocente; ma fui risarcito dagli attori del Capranica. Tale teatro, che da qualche anno si era consacrato alle mie opere, in quel periodo rappresentava la mia commedia Pamela. Tale opera era resa così bene e tanto piaceva che, da sola,

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Sempre nel 1767 entrò nella compagnia come innamorato l’eccellente Petronio Zanarini che

si distinse soprattutto per le interpretazioni tragiche sia mentre faceva parte della compagnia

Sacchi (memorabile la tragedia Gustavo Wasa777 recitata insieme a Teodora Ricci), sia

soprattutto quando ne uscì: la sua fama, infatti, è principalmente legata a Galeotto Manfredi e

all’Aristodemo di Monti nel carnevale del 1787 a Roma presso il teatro Valle778.

sostenne il teatro dall’apertura fino alla chiusura, cioè dal dicembre fino al martedì grasso. Tutte le volte che vi andavo era per me un giorno di trionfo. Gli attori del Capranica, che io avevo colmato di elogi, perché essi se li meritavano, mi pregarono di voler comporre una commedia per il loro teatro. Non che avessero bisogno di una commedia scritta per loro, dal momento che disponevano di quelle che di anno in anno mandavo alle stampe; ma era una galanteria che volevano fare a me, per gratitudine dei profitti che le mie opere avevano loro procurato» (CARLO GOLDONI, Memorie del Signor Goldoni, cit., II, XXXVIII, pp. 495-496). La richiesta fu esaudita e Goldoni scrisse il seguito della Pamela, ovvero la Pamela maritata che venne rappresentata nel teatro Capranica per la prima volta durante il carnevale del 1760. Il drammaturgo la stampò nel primo tomo dell’edizione Pasquali (Venezia, 1761) e nella suddetta prefazione l’autore confessò di non «aver veduto in Italia miglior Attore di lui [Benedetti]» (CARLO GOLDONI, Pamela fanciulla. Pamela maritata, a cura di Ilaria Crotti, Venezia, Marsilio, 1995, p. 190). Si deve ricordare che a Roma era ancora in uso il divieto di non fare recitare le donne né nelle opere in musica né in quelle di prosa (e, in questo senso, fu una v era e propria concessione quella di fare recitare Rosa Medebach a Roma nel 1788 come dimostra il dispaccio del segretario di stato al luogotenente Montani di Ancona. Sulla questione cfr. FERDINANDO TAVIANI , Goethe e La Locandiera, in Il teatro a Roma nel Settecento, Roma, Treccani, 1989, 2 voll., I, p. 210). Goethe accolse con favore tale divieto perché riteneva che in questo modo gli spettatori non perdessero mai la coscienza di trovarsi innanzi a un’illusione. Questa prassi era considerata in modo positivo anche dal “riformatore” Luigi Riccoboni poiché intravedeva la possibilità che il teatro non fosse più tacciato di immoralità. Sul divieto romano di fare recitare le donne in teatro cfr. GIULIA DE

DOMINICIS, I teatri a Roma nell’età di Pio VI in Archivio della Reale Società Romana di storia patria , XLVI, 1922, pp. 34-38. De Dominicis riporta il giudizio negativo espresso dall’abate Richard su questa prassi, proprio in relazione alla Pamela: «nelle commedie è insopportabile il vedere la parte di giovinetta rappresentata da un uomo che ha la barba lunga e la voce rauca. L’ho potuto osservare in una commedia di Goldoni intitolata Pamela, quasi interamente tradotta dal francese. L’attore che rappresentava Pamela giovane graziosa, sebbene intelligentissimo, aveva un aspetto così opposto al personaggio che rappresentava, che non ci si poteva rassegnare a vedere la giovinezza, la grazia e la bellezza rappresentata da una persona muscolosa, con la barba nera e spessa, con gran piedi e grosse braccia» ivi, p. 37. 777 Gustavo Wasa, tragedia di Alessio Piron, traduzione di Francesco Gritti, in Teatro tragico francese ad uso de’teatri d’Italia ovvero raccolta di versioni libere di alcune tragedie francesi, Venezia, Salvioli, 1771. Nella prefazione si legge che la pièce andò in scena al San Luca nel 1772 ottenendo un discreto successo grazie all’interpretazione di Petronio Zanarini e di Teodora Ricci. L’attore recitò anche nel Venceslao, un’altra tragedia tradotta da Gritti che, nella prefazione, ne ricorda l’insuccesso nell’autunno del 1773 a Venezia, nonostante l’eccezionale interpretazione di Zanarini, a cui era stata affidata la parte del protagonista (Teatro tragico francese… cit., I, pp. 6-8: «rappresentata in Venezia l’Autunno 1773 si replicò il Venceslao; ma nella seconda recita le loggie pressoché vuote e il Parterre deserto provarono ad evidenza quanto fosse stata l’impressione del pubblico a quella del traduttore contraria […] la nota abilità di chi ne sosteneva il protagonista [Petronio Cenerini, il miglior attore che vantino le scene d’Italia per i caratteri, gravi, dignitosi, ed eroici] restò, per così dire, sconfortata ed inerte alla vista dei, quanto interessanti altrettanto goffamente enunciati, impetuosi trasporti di Ladislao»). Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, pp. 278-282. 778 L’Aristodemo andò in scena a Roma al teatro Valle il 16 gennaio 1787 e Galeotto Manfredi il 15 gennaio 1788. Lo stesso Monti (VINCENZO MONTI, Esame critico dell’autore sopra l’«Aristodemo», in IDEM, Aristodemo, a cura di A. BRUNI, Parma, Guanda, 1998, pp. 212-213) scrisse che quest’attore aveva svolto un ruolo determinante nel decretare il successo alle sue tragedie e aggiunse: «questo incomparabile comico, che gli stessi Francesi paragonano e molti antepongono ai più famosi della loro nazione, questo Roscio novello animò talmente i miei poveri versi, che io medesimo ne rimasi colpito». Tra gli spettatori era presente Goethe, che osannò l’attore poiché era riuscito a rendere sulla scena la stessa austerità e grazia espresse dalle antiche statue degli imperatori romani (W. GOETHE, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1993, p. 178). Anche le Notizie storico-critiche sull’Aristodemo (in Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1796, t. I, p. 65) riportano il successo ottenuto dalla tragedia soprattutto per l’interpretazione di Zanarini: «Esposta [la tragedia] sul teatro

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Durante la sua permanenza nella compagnia veneziana spiccò nel Radamisto779, nel Filottete e

nelle opere gozziane La principessa filosofa, in cui recitava Don Cesare, amante appassionato

e Il moro di corpo bianco. Ottimo il giudizio espresso da Gozzi sul comico, «il miglior

comico che abbia l’Italia»780, a dispetto dell’insuccesso ottenuto con Amore assottiglia il

cervello781.

Valle nel carnevale del 1787, venne rappresentata con pienissimo concorso e straordinario applauso per otto sere consecutive. Ivi il valore del celebre Petronio Zanarini si manifestò eminentemente, sostenendo con tragica dignità il carattere di Aristodemo» (sulla rappresentazione dell’Aristodemo e sul significato assunto in funzione della poetica neoclassica si veda Letizia Norci Cagiano de Azevedo, Lo specchio del viaggiatore. Scenari italiani tra Barocco e Romanticismo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992, p. 117). Nel 1790 Zanarini entrò a far parte della compagnia Perelli, in cui si distinse nell’interpretazione del padre. La sua bravura non scemò con gli anni se il Giornale dei Teatri di Venezia (in Il teatro moderno applaudito… cit., t. III, p. XXII) nel 1797 gli dedicò il seguente elogio: «sempre uguale a se stesso e sempre grande tanto nel tragico quanto nel comico; specialmente colla parte del Re nell’Adelasia in Italia, con quella di Benetto nelle Spose veneziane rapite, e coll’altra di protagonista nel Ladislao». 779 La pièce venne data per tentare di riempire il teatro, deserto a causa della paura del pubblico che l’edificio potesse crollare, nonostante gli interventi di restauro. La scelta di portare sulla scena quest’opera si dimostrò vincente: «Radamisto e Zenobia di Crebillon tradotta da un cavaliere Torinese, già recitata in Torino dalla Compagnia Sacchi, alla quale il cavaliere traduttore liberale aveva regalato un vestiario ricchissimo adattato alla Tragedia medesima, fu esposta in quella occasione nel Teatro di San Salvatore, per fare un tentativo. Quella tragedia con uno sforzo di decorazione inusitato, sostenuta mirabilmente da’ tre personaggi Petronio Zanerini, Domenico Barsanti, e Teodora Ricci, scemò alquanto il timor panico della popolazione, e fu replicata per molte sere con buon concorso» in CARLO GOZZI, Memorie inutili cit., t. II, II, XVIII, p. 526. Il successo della rappresentazione è peraltro testimoniato anche da Gritti (Prefazione, in Teatro tragico francese ad uso de’teatri d’Italia… cit., I, pp. 12-13) in cui, dopo aver espresso un giudizio negativo sugli attori italiani, puntualizza che ne esistono di bravi: «Allorch’io accuso d’inconsideratezza, d’indocilità, e d’ignoranza gli attori italiani, intendasi sempre del maggior numero, col quale non voglio in conto alcuno confusi que’pochi che, o intendono abbastanza il loro mestiere, e lo esercitano con bravura, o sono ingenuamente disposti a prevalersi degli utili avvertimenti, che lor vengono dati. Radamisto, e Zenobia, di Crebillon nobilmente dal Signor Marchese Diomede Borbon dal Monte di Sorbello tradotta, ha ultimamente data una prova e dell’abilità degli Attori nostri e della influenza che à il vario modo di rappresentarle sul destino delle tragedie. La tragedia suddetta tradotta già dal celebre defonto Abbate Frugoni, e more solito dieci anni prima rappresentata a Venezia, annojò l’Uditorio: e la nuova traduzione, con diligenza, e decoro dalla compagnia del Sacchi prodotta, gliene ha fatto conoscere, a spese della propria sensibilità, tutto il pregio». 780 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., t. II, III, II, p. 915. L’attore ottenne anche l’approvazione di Francesco Saverio Salfi che, commentando la rappresentazione del Bruto primo tenutasi presso il Collegio dei Nobili il 15 agosto 1796 si espresse nel seguente modo: «Se eccettuate uno Zanerini, e qualche altro di cui abbiamo riconosciuto il talento e la costumatezza, un attore ordinario è un compendio di contraddizioni e di assurdi» (F.S.SALFI , Declamazione tragica, in «Termometro politico della Lombardia», n. 17, 3 fruttidoro, 20 agosto, 1796, p. 155). 781 Sia Rasi che Leonelli (p. 472) sostengono che all’inizio la compagnia non ottenne successo proprio a causa di Zanarini: nella messinscena della commedia gozziana Amore assottiglia il cervello, egli si era ritagliato la parte principale di don Berto che però, in quanto giovane e sciocco, non gli calcava alla perfezione; l’opera andò in scena al teatro San Luca l’11 dicembre 1781 ottenendo fischi e dissensi. Nel 1788 indossò i panni di padre nella Dalmatina, proposta nuovamente sulle scene veneziane nel teatro San Luca, dalla compagnia Belloni-Perelli («Gazzetta Urbana Veneta», sabbato 4 ottobre 1788). Presso il teatro Nuovo di Trieste nel 1795 Zanarini si esibì con la compagnia Perelli, in cui lavorò almeno fino alla stagione 1796-1797. In seguito tornò a Bologna, dove la madre e il fratello Pietro, parroco di un paese vicino alla città, furono uccisi dall’Armata Repubblicana francese. Petronio riuscì a fuggire a Venezia dove la compagnia di Antonio Goldoni, in cui aveva militato per un anno, gli propose di ritornare a lavorare; ma egli non accettò e visse in solitudine in un’imprecisata isola dell’Estuario per circa un anno. Poi, dal 1800 rientrò nella compagnia di Goldoni fino al 1802, in cui si ritirò definitivamente dalla scena.

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L’attore è ricordato da Bartoli – e su questo punto insiste anche Columberti782 – come un

rinnovatore della scena teatrale, ovvero come il primo che tentò di attuare una “riforma”

costumistica, per la quale gli abiti di scena dovevano corrispondere, almeno a grandi linee, al

tempo della vicenda rappresentata:

Non sarà inutile il dire, che Petronio Zanarini veste in qualsivoglia carattere con abiti appropriatissimi a quel

personaggio, che rappresenta, e ch’egli medesimo ne inventa, disegna, e colorisce i modellini, facendo poi ad

altri colla sua assistenza ultimarne l’esecuzione; onde in lui vediamo, e nelle vesti, e negli altri ornamenti

quell’Eroe, quel Guerriero, e quel Sovrano, appunto come appariva a’ giorni suoi e in Roma, e nella Grecia, ed

in altre Nazioni o colte, o rozze fra i Popoli vicini, e fra le genti più lontane783.

Goethe, avendo assistito alla messinscena romana dell’ Aristodemo, oltre ad elogiare l’attore,

sottolineò con ammirazione proprio le scelte costumistiche che, rifacendosi all’epoca

rappresentata, aumentavano il pathos e l’austerità del personaggio, i cui vestiti lo facevano

assomigliare a una statua romana. Zanarini, dunque, si allinea al gusto del classicismo

settecentesco espresso anche da Antonio Conti, che, suggerendo le scenografie per le sue

pièces, rimandava al seicentesco De re vestiaria di Ottavio Ferrari784.

Nel Settecento l’acquisto degli abiti di scena era spesso a carico dei singoli attori che, a

seconda delle possibilità economiche, compravano vestiti più o meno sfarzosi. Gozzi si offrì

eccezionalmente di aiutare Teodora Ricci nelle spese del vestiario785, escluse dal contratto

insieme a quelle relative ai viaggi, come era consuetudine anche per i cantanti, secondo

quanto emerge, per esempio, dal contratto stipulato dall’impresario dell’opera per il teatro

782 Colomberti sostiene che proprio con l’esempio di Zanarini cominciò ad attuarsi il cambiamento nei costumi di scena per cui diventarono conformi al periodo rappresentato; inoltre lo scrittore imputa a quest’attore l’inizio della riforma della declamazione tragica (ANTONIO COLOMBERTI, Notizie storiche de più distinti comici…, cit., c. 251r). A tale proposito, Ferdinando Galanti, sostiene che Zanarini fu anche direttore di un’accademia di declamazione teatrale e di musica, nata dopo la chiusura dell’Accademia degli Ardenti (FERDINANDO GALANTI , Carlo Goldoni e Venezia nel secolo XVIII, Padova, Fratelli Salmin, 1881, p. 392). Proprio per le sue abilità declamatorie, Zanarini è menzionato nel Giornale dei teatri di Venezia: «Bastò la sola parte di Aristodemo nella tragedia di questo nome [Petronio Zanarini] per far comprendere agl’intelligenti che se il maggior numero de’nostri attori rassomigliassero al Zanerini, non avremmo noi, intorno all’arte della declamazione teatrale, nulla da invidiare alle nazioni straniere» (in Il teatro moderno applaudito… cit., 1797, t. X, p. 18, autunno 1796 e carnovale 1797). 783 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 280 784 Cfr. FERDINANDO TAVIANI , Goethe e La Locandiera, cit., I, pp. 201-213. 785 Gozzi racconta l’aneddoto secondo cui la Ricci, protagonista di Gustavo Wasa, non aveva abbastanza soldi per procurarsi un costume scozzese decoroso per la tragedia, al contrario delle altre attrici che, non dovendo provvedere personalmente all’acquisto degli abiti, ne possedevano alcuni più eleganti di quelli della prima donna (CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 464).

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degli Obizzi Mariano Piccolini con Teresa Imer per la rappresentazione del Demofoonte nel

1743786.

Il vestiario non era di secondaria importanza: esso fu uno dei motivi che indussero la

compagnia Sacchi a mettere in scena Radamisto e Zenobia di Crebillon nel teatro San

Salvatore nel 1775, anno in cui il teatro aveva subito lavori di restauro. Dopo la riapertura, il

pubblico era scarso poiché temeva un crollo; nella speranza di attirare un maggior numero di

spettatori, la compagnia Sacchi scelse di allestire tale opera perché in occasione della

precedente rappresentazione torinese Frugoni, traduttore torinese dell’originale francese787,

aveva regalato costumi preziosi e sfarzosi adatti alla tragedia.

L’importanza che la costumistica stava assumendo all’interno della pièce, soprattutto come

fonte di richiamo per un maggior numero di spettatori, è evidenziata dalla stagione padovana

del carnevale 1790-1791, contrassegnata dalla rivalità fra il Teatro Nuovo e il Teatro degli

Obizzi. Quest’ultimo infatti, contrariamente al tacito accordo fino ad allora vigente fra i due

teatri, secondo il quale si suddividevano le stagioni, aveva deciso di aprire per il carnevale788.

I Presidenti del Teatro Nuovo, volendo presentare uno spettacolo atto ad attirare quanto più

pubblico possibile, decisero di investire soprattutto nell’allestimento e nel vestiario789.

786 In esso infatti si specifica che il viaggio, il vitto e i costumi sono a carico della cantante e compresi nel compenso, mentre l’alloggio è a carico del teatro e se ne occupava un agente del marchese che di solito sceglieva un luogo vicino al teatro: «Addì 26 marzo 1743 Venezia Con questo mio biglietto di obligazione, che valer debba, quanto qualunque publico instromento fatto per mano di Notaro di questa Città resta stabilito da me sottoscritto di accettare, come in fatti accetto per cantare nell’opera, che si dovrà fare in questo mio Teatro nella prossima Fiera di giugno 1743 la Sig.a Teresa Imer per recite n. 24 in circa, cominciando dal giorno 13 Giugno sino a c.a la metà del venturo Luglio, per le quali conseguirà per suo onorario a’suoi debiti tempi zecchini di Venezia numero trentacinque, restando in questa somma compreso viaggi, spese di cibaria, picciolo vestiario, ed altre spese; che resteranno tutte a carico di d.a Virtuosa di Musica, fuorché il semplice alloggio fornito, che da me resterà a Lei per d.o tempo, e per quello delle prove in Padova provveduto. Si obbliga all’incontro la sud.a Sig.a Teresa di cantare la sua parte in d.e recite, per le quali dovrà essere con la sua parte imparata alle prove, che si faranno e in Venezia, e in Padova, e per le sud.e recite, e per tutt’altro, come sopra, altro non potrà pretendere che zecchini di Ven.a n. 35, e alloggio, come sopra. In fede Io Teresa Imer a fermo (sic) e prometto quanto sopra» (è nella raccolta che Brunelli definisce sua; cit. in Brunelli p. 130). Inoltre esistono diverse lettere di Niccolini (soprano) rivolte a Bortolo Abbati in cui si raccomanda di trovare gli alloggi vicini al teatro, in modo tale che i ballerini e i cantanti, anche in caso di pioggia, potessero facilmente e velocemente raggiungere il teatro (Biblioteca del Museo Civico di Padova, lettera del Niccolini all’Abbati, 15 aprile 1745). 787 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 526. I costumi e le decorazioni dovevano essere tenute in gran conto se entrambi, splendidi nell’Amore e Psiche rappresentata al Teatro Obizzi dalla compagnia Pellandi il 30 aprile 1788, motivarono l’aumento del prezzo del biglietto d’ingresso (CARLO CURIEL, Il Teatro S. Pietro di Trieste: 1690-1801, Milano, Archetipografia, 1937, p. 247). 788 Con due teatri aperti in una sola città, grande era la paura dei capo-comici di avere scarsi guadagni. Emblematica in tal senso è la condizione preliminare all’ingaggio posta da Paganini, scritturato per la stagione al Teatro Nuovo: egli pretendeva che durante il carnevale recitasse solo la sua compagnia, senza altri possibili concorrenti. 789 Nel contratto con il “costumista” si legge che egli deve provvedere a fornire un vestiario decente, consono al soggetto dell’opera, privilegiando soprattutto gli abiti dei primi attori e il corpetto della prima donna. La scelta dei colori spetta a lui, anche se gli si raccomanda di assecondare il più possibile il gusto dei cantanti e dei ballerini (Padova, Archivio del Teatro Verdi, VI, Filza Scritture nelle Opere Buffe in Carnevale, luglio-agosto 1790; l’opera buffa in questione si intitola Gli Zingari in fiera). Giuseppe Callegari, fratello di Antonio Callegari

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Nel 1779 al celebre Fiorilli succedette il più modesto Antonio Nardi790 che stette nella

compagnia Sacchi fino allo scioglimento791, mentre Darbes fu rimpiazzato da Giovan Battista

Rotti792, che aveva lavorato anche come copista del Metastasio a Vienna. Nonostante la

pesante “eredità”, riuscì a ritagliarsi un proprio modo di recitare la maschera di Pantalone e

ottenne un meritato successo nella parte di Giannetto nella Principessa filosofa; restò nella

compagnia fino alla morte, avvenuta nel 1780, e fu rimpiazzato da Giulio Minelli793.

Nello stesso anno, il 1780, a Luigi Benedetti, definito da Gozzi «uomo accorto, e giudizioso»

e «il più giudizioso, e flemmatico della comica compagnia»794, subentrò Domenico Lucchesi,

un attore preparato sia nelle commedie all’improvviso che in quelle premeditate795.

direttore d’orchestra del teatro Nuovo per quella stagione, annunciava il 18 dicembre 1790 la partenza da Venezia del vestiario «quasi tutto nuovo». Da questo si deduce che la consuetudine era di riaccomodare i vestiti usati in precedenza e che solo un’occasione speciale come questa poteva far decidere di acquistare abiti realizzati ad hoc. Relativamente a questa stagione è conservato un carteggio di Giuseppe Callegari con il segretario del teatro Ribeccato a proposito di una saetta che il direttore dei balli e primo ballerino per quella stagione, Carlo Bencini, aveva richiesto. Callegari propose a Bencini di eseguire la scena della burrasca «con il solito strepito di sassi […] che tanto la burrasca farà il suo effetto» e proseguiva raccomandandosi di non acquistarla perché sarebbe stata una spesa non indifferente (Padova, Archivio del Teatro Verdi, Documenti VI, Lettere di Giuseppe Callegari, 18 e 21 dicembre 1790); ma evidentemente il coreografo la riteneva indispensabile e infatti essa compare tra gli oggetti di scena per quella stagione (Archivio del Teatro Verdi, V, Documenti, e VI, Filza Scritture per la stagione d’opere buffe – Carnevale 1790-1791). 790 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 59: «Il Nardi dopo d’aver fatto uno studio assiduo sopra il modo di travagliare dell’accennato Fiorilli, dopo d’aver osservato in qual guisa conduceva i di lui Scenici Soggetti, e dopo d’aver apprese da lui tutti que’ lazzi appropriati alle varie Commedie dalla Truppa Sacco rappresentate, coraggioso v’entrò, e fornito di buono intendimento ha supplito alle veci del predetto Fiorilli, ed ha riparato alla di lui mancanza travagliando con grazia, e colla più assidua attenzione». 791 L’avvicendamento avvenne nel 1779 come si desume anche da una lettera di Luigi Ballerini a Daniele Andrea Dolfin, ambasciatore in Francia datata 11 ottobre 1779: «San Luca è in terra per la mancanza del Tartaglia [Agostino Fiorilli] e la vecchiezza del Sacchi» (Pietro Momenti, Epistolari veneziani del Settecento, [1914], Venezia, Supernova, 2005, p. 27). Anche poco prima della sua morte, Rotti continuava a calcare le scene: la sua presenza attiva nel 1780 è registrata dal Colomberti, che si limita a definirlo «mediocre Pantalone» (ANTONIO

COLOMBERTI, Notizie…, cit., c. 55r). 791 Nardi ebbe una carriera assai lunga con la compagnia Sacchi: infatti, ancora nella primavera del 1782 recitava a Padova nel teatro degli Obizzi insieme ad Antonio Sacchi e a Atanasio Zannoni (Bruno Brunelli, I teatri di Padova. Dalle origini alla fine del secolo XX, Padova, Draghi, 1921, pp. 187-188). 792 Rotti si sposò nel 1779 con Marianna Ricci, sorella della più famosa Teodora; anche Marianna lavorò recitando e ballando nella compagnia Sacchi. 793 Nella compagnia Sacchi entrò nel 1780-1781; nel 1795-1796 l’attore si spostò in quella Pellandi al Sant’Angelo a Venezia (Giornale dei teatri di Venezia, in Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1796, t. III, p. X). 793 Minelli recitò nella compagnia Lapy dall’anno 1777 all’anno comico 1779-1780. In quella Pellandi, ricoprì la parte di Pantalone, quasi ininterrottamente, dalla stagione 1786-1787 al 1799-1800. 793 Colomberti narra proprio del suo incontro avvenuto con Minelli, riportato anche dal Rasi: nel 1824, infatti, lo scrittore era a Venezia lungo la riva degli Schiavoni e qui vide un uomo povero e vagabondo ergersi in piedi e cominciare a raccontare storie e a recitare dei passi con tale bravura che Colomberti ne restò colpito; solo in seguito venne a conoscenza di aver assistito a un’improvvisazione del celebre attore di un tempo. 794 CARLO GOZZI, Memorie inutili cit., t. II, II, XV, p. 500 e II, XXXIX <rectius XXXVIII>, p. 744. Bartoli: fa esso valere la sua prontezza di spirito in tutte quelle Commedie che da’ Comici si chiamano all’improvviso, e recita ancora nelle cose studiate con attenzione indefessa, e con un vivo desiderio di farsi conoscere sempre più per un Comico pratico, e ne’ suoi doveri precisamente immancabile . In effetti egli assolveva spesso il compito di intermediario e fu proprio questo attore ad accompagnare Gozzi a casa della Dolfin dopo lo scoppio dello

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Regina Marchesini Ricucci entrò nel 1768 nella compagnia Sacchi in qualità di prima donna,

come attestano le Memorie inutili, e vi restò fino al 1771796, anno in cui il capocomico decise

di sostituirla (l’episodio è narrato anche da Gozzi: «perché i Comici italiani hanno la falsa

etichetta ne’ personaggi serj de’ titoli di primo, secondo, terzo ec. la prima Attrice della

Compagnia era allora la Regina Cicucci valentissima comica, ma che per non essere gran cosa

grata al Pubblico di Venezia, con tutto il di lei valore, il Sacchi l’aveva licenziata per

provvedersi d’un’altra prima Attrice»)797. Dopo aver tentato invano di convincere Caterina

Manzoni, il capocomico si imbattè in Teodora Ricci, che preferì alla brava ma costosa Maria

Maddalena Battaglia. La cacciata di Regina si colloca negli anni del delicato passaggio della

compagnia Sacchi dal teatro Sant’Angelo al più vasto teatro San Luca (1770-1771), anni in

cui la composizione della compagnia si modifica e con essa anche le qualità morali che Gozzi

tanto apprezzava all’inizio della amichevole assistenza («De’comici forestieri accetttati per

rinforzo, giovavano alle rappresentazioni, ma guastavano de’cervelli della prima tanto

pacificata brigata»798).

scandalo per la rappresentazione delle Droghe d’amore, in cui Benedetti avrebbe dovuto interpretare Don Adone. L’attore lavorò nella compagnia Belloni-Perelli, in cui comparve nella Dalmatina come primo amoroso a soggetto nel 1788 al teatro San Luca («Gazzetta Urbana Veneta», sabbato 4 otttobre 1788, p. 640). Con la compagnia Perelli si esibì a Trieste nell’estate 1790 insieme a Petronio Zanarini, che interpretava la parte del padre; nel 1797 figura nell’elenco della compagnia del teatro San Luca «pei caratteri» in coppia con Carlo Paladini, e ancora con Zanarini (Esopo, in Almanacco per l’anno MDCCXCVII, Venezia, Tip. Pepoliana, pp. 156-157). Negli anni comici 1797-1798 e 1798-1799 fu scritturato dalla compagnia di Antonio Goldoni (Giornale dei teatri di Venezia, in Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1798, t. XXII, p. 13 e 1799, t. XXXII, p. 8) che però lasciò l’anno seguente per ritornare in quella di Perelli; e infatti per l’autunno 1798 e per il carnevale 1799 risulta impegnato al teatro San Luca (Il teatro moderno applaudito, cit., t. XXXII, 1799, p. 8) che però lasciò l’anno seguente per ritornare in quella di Perelli; e infatti per l’autunno 1798 e per il carnevale 1799 risulta impegnato al teatro San Luca (Il teatro moderno applaudito, cit., t. XXXII, 1799, p. 8). Dopo il 1780, risulta che Benedetti tornò a Venezia come impresario teatrale del San Samuele per l’autunno 1795 e il carnevale 1796, per l’autunno 1796 e il carnevale 1797 e di nuovo per l’autunno 1797 e il carnevale 1798, secondo le notizie fornite dal Giornale dei Teatri di Venezia (in Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1796, 795 Francesco Bartoli, Notizie istoriche…, cit., I, pp. 304-305 796 Probabilmente l’attrice entrò subito a far parte della compagnia di Pietro Rossi, nella quale lavorò certamente nel 1777 e 1778, durante i quali si esibì al teatro San Pietro di Trieste insieme, tra gli altri, a Elisabetta Fiorilli, Angela Perelli, Maddalena Rossi, Giovan Battista Gozzi, (Pantalone), Carlo Giussani (Brighella) e Giovanni Fiorilli (Tartaglia). Anche Bartoli, nel lungo componimento intitolato Il Corso di Firenze, offre una testimonianza del passaggio della compagnia Rossi a Firenze, nel teatro di via Santa Maria, durante il carnevale 1778; tra gli elogi profusi si trova quello rivolto alla Marchesini: «Il Brighella mi piace, in fede mia / Che un pari ad esso qio non è mai stato. / Son bravi l’Andolfati, e l’Ugolini, / La Fiorilli, e non men la Marchesini» (riportato in CARLO CURIEL, Il Teatro S. Pietro di Trieste: 1690-1801, Milano, Archetipografia, 1937, p. 84). 797 CARLO GOZZI, Memorie inutili, t. II, II, VII, p. 451. 798 Ivi, II, VI, p. 446. Certa è la sua presenza in tale compagnia a Padova durante il carnevale 1781-1782 (Padova, Archivio del Teatro Verdi, VII, Carteggio coi comici).

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Su Teodora Ricci799, che occupa tanto spazio nelle Memorie inutili , ci limitiamo a segnalare

che, musa sia del capocomico sia del drammaturgo, interpretó le parti di prima donna, a

cominciare dai drammi “spagnoleschi” composti dal 1771800; anche suo maritò Francesco

Bartoli entrò nella compagnia Sacchi, ma si ammalò poco tempo dopo801.

Alla Ricci che partì per Parigi nel 1777, in qualità di prima donna, subentrò Antonia Bernaroli

(dal 1777 al 1780 circa) che fu allieva di Francesco Bartoli, come il comico ammette nelle

Notizie istoriche802. Nelle Memorie inutili Gozzi accenna rapidamente a tale episodio

riferendosi all’attrice come a «una certa Bernaroli di cui mi vien detto del bene»803.

L’importanza assunta da questa comica è testimoniata dal Prologo per la Sig. ra Bernaroli

scritto dal drammaturgo in occasione dell’apertura delle recite a Venezia e datato 4 ottobre

1779804.

A sua volta la Bernaroli fu sostituita nel 1780 da Elisabetta Martorini Vinacesi nel 1780,

celebre interprete della protagonista nel dramma dell’abate Andrea Willi, Rosalia805; proprio

al 1780 risale il Prologo per Verona giugno 1780. Per la Sig.ra Bettina Vinacesi che compare

nei manoscritti gozziani recentemente reperiti806. Secondo quanto asserisce Gozzi nelle

Memorie inutili nel 1774 Elisabetta era stata scelta come prima attrice da Francesco Zannuzzi,

comico del teatro italiano di Parigi, ma ella aveva rifiutato807.

La compagnia Sacchi si sciolse tra il 1782 e il 1783, dopo anni di problemi intestini e di litigi

dovuti soprattutto al carattere di Antonio, come testimonia Gozzi:

Il Sacchi Eccellente Comico, ma antico d’anni, e presso che rimbambito; insidiato nel cuore, nella mente, e nelle

sostanze; addormentato ne’ suoi amori faceti nell’età sua di oltre agl’ottant’anni, fu l’origine vera del

799 Si veda Bartoli, II, pp. 106-111. 800 Teodora Ricci aveva ventidue anni quando entrò nella compagnia di Sacchi: era nata il 26 settembre 1749 a Verona. Si esibì anche come ballerina nel teatro San Benedetto tra il 1764 e il 1765. Sulla sua triste fine si legga E. BOCCHIA, La fine di un’attrice del Settecento: Teodora Ricci, in «Aurea Parma», X, 1926, n. 3. 801 Cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., I, pp. 74-109. 802 Ivi, I, pp. 120-121 803 CARLO GOZZI, Memorie inutili, t. II, II, XXV, p. 611. 804 Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 3.3, Prologhi e congedi teatrali, c. 86r. 805 ANDREA WILLI , Rosalia, ovvero L’Amor coniugale, Venezia, 1797. Nelle Notizie storico-critiche sulla Rosalia, ovvero l’amor coniugale (Giornale dei teatri di Venezia, in Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1797, t. XI, p. 68) si legge: «la fama stessa che il sig. ab. Willi per alcuni anni si è è mantenuta sulle scene dell’Italia, egli la dee in particolar modo a questo medesimo componimento ammirabilmente sostenuto dall valore dell’egregia attrice [la signora Elisabetta Martorini, per cui il sig. ab. Willi scrisse la maggior parte de’suoi componimenti scenici, ne’quali ella spiegò sempre unita alla più fina intelligenza la più delicata-patetica espressione] che fu la prima a rappresentare in esso la parte di protagonista». 806 Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 3.3, Prologhi e congedi teatrali, c. 87r . 807 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., t. II, II, XVI, p. 508. Sull’attrice cfr. FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, pp. 33-35.

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scioglimento d’una Compagnia valente […] il vecchio [Sacchi] preso da una dispettosa vergogna di vedersi

scoperto nelle sue debolezze, ostinato, impuntigliato in quelle, e irritato dalle ragionevoli censure d’una ingiusta

direzione, e amministrazione, era divenuto una specie di demonio808.

808 Ivi, III, II, pp. 914-915. In una lettera di Elisabetta Catrolli (sorella di Francesco Catrolli, soprannominato Vitalbino, che fu il responsabile della chiamata a Parigi del Goldoni nel 1762) a Giacomo Casanova datata 16 aprile 1783 si legge che la compagnia Sacchi si è sciolta e che lo stesso Antonio Sacchi è «andato in una Compagnia volante» (Lettere di donne a Giacomo Casanova, raccolte e commentate da A. Ravà, Milano, Treves, 1912, p. 224).

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Tra attorialità e autorialità: il caso della compagnia Sacchi

In generale nel Settecento, gli attori godettero di scarsa considerazione sia da parte dei

letterati, sia da parte del pubblico. Per esempio Alessandro Pepoli, nella raccolta delle proprie

opere teatrali (1787), dissemina numerosi suggerimenti rivolti agli attori che intendevano

cimentarsi nella recitazione di una di esse, non solo affinchè potessero apprenderne meglio il

significato sottinteso dall’autore, ma anche perché fossero in grado di recitarle nel modo più

conveniente possibile, nonostante la loro imputata incapacità. La raccolta è corredata anche di

un Avvertimento ai lettori in cui Pepoli si giustifica della presenza dell’inusuale Avvertimento

agli attori:

D’una altra idea devo avvertire i miei lettori, ed è che, superbo a segno di non rammaricarmi all’estremo se da

nessuna compagnia comica né questa [Eduigi] né altre mie tragedie venissero poste in esecuzione809; non lo sono

però abbastanza per adattarmi a vederle al solito maltrattate e peggiorate da attori insulsi ed ignoranti e da un

modo di sceneggiarle contraddittorio. Siccome dalla prima di queste sfortune, non avendo compagnie comiche,

quali sono le francesi, non è possibile il dispensarsi, così poi, per non soggiacere alla seconda, a ciascheduna

[tragedia] ho premesso per ordine vari Avvertimenti relativi al modo con cui voglio i punti d’azione più

essenziali sceneggiati810.

Lo stereotipo dell’attore insulso e ignorante presentato anche da Riccoboni811, era dovuto in

parte al fatto che i comici analfabeti si facevano leggere la propria parte più volte fino a

memorizzarne almeno un abbozzo per poi ricorrere, in palcoscenico, al suggeritore, ottenendo

spesso un risultato negativo: la recitazione discontinua andava a scapito della verosimiglianza

del personaggio che interpretavano e, senza di essa, era impossibile “ingannare” il pubblico

perché si accorgeva facilmente della finzione di quella passione piuttosto che di uno specifico

809 Tale prefazione è antecedente al successo ottenuto dal Ladislao durante il carnevale veneziano del 1796. 810 Teatro del conte Alessandro Pepoli, Venezia, Palese, 1787-1788, tomo I, Prefazione, cit. Il corsivo è nostro. 811 LUIGI RICCOBONI, Discorso della commedia all’improvviso e scenari inediti, a cura di Irene Mamczarz, Milano, Il Polifilo, 1973, p. 11: «questa è la causa perché mancano Poeti comici a l’Italia; chè per altro se di un buon numero di scelte Commedie il nostro Teatro provveduto fosse, quelli stessi ignoranti Comici sopra de’quali pare cadere il difetto altrui, le rappresenterebbero, e con la direzione di qualche Comico, se si trovasse, non affatto sciocco, o de’ poeti autori, non le rappresenterebbero forse infelicemente, poiché l’ignoranza loro non si farebbe così facilmente conoscere».

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sentimento, mancando i «colori di verità»812. Nell’Appendice al ragionamento ingenuo Gozzi

addita ai comici italiani il modello francese per cui «[gli attori] sanno a memoria le opere che

rappresentano, e tutti la parte di tutti in modo, che l’azione sembra improvvisa e vera»813. Il

conte, peraltro, imputava proprio alla mancanza di educazione uno dei motivi per cui i comici

di altre nazioni erano migliori degli italiani, oltre al fatto che all’estero l’arte teatrale era

stimata e che quindi anche gli stipendi dei comici erano più alti che quelli degli italiani,

costretti a poi a farsi la triste fama di amanti o di creduli mercanti814. Inoltre Gozzi denunciava

la mancanza di mecenati dei teatri e degli scrittori di teatro815, su questo punto in sintonia con

gli illuministi Pietro Verri e Pietro Secchi816.

812 CARLO GOZZI, Ragionamento ingenuo, a cura di Alberto Beniscelli, Genova, Costa & Nolan, 1983, pp. 137-139: «[la mancanza di memoria è] l’idra, da cui nascono innumerabili difetti, i quali si familiarizzano con i nostri attori che [dall’affidarsi all’orecchio e al suggeritore derivano] quella freddezza, quella tardanza, e quei controtempi, che tolgono all’azione e ai dialoghi la forza ne’colori di verità, la veemenza cordiale dei sentimenti, e fanno la rappresentazione priva di naturalezza». 813 Ivi, p. 134. 814 Infatti, una compagnia comica guadagnava poco se si tiene conto che solitamente all’impresario andavano i proventi dell’affitto dei palchi, la vendita dei biglietti d’ingresso, i profitti dei balli, la licenza della mescita di caffè e vino, la vendita dei libretti d’opera e le tasse per i tavolini e le carte da gioco – il gioco d’azzardo spesso era permesso durante gli spettacoli -. A questo proposito si veda l’editto promulgato a Milano il 5 dicembre 1778 dal principe Ferdinando d’Austria riportato in POMPEO CAMBIASI , La Scala 1778-1906. Notizie storiche e statistiche di Pompeo Cambiasi, Ricordi, p. 6: «Capo settimo. Da questo generale divieto [proibizione dei Giuochi di Azzardo] finalmente dichiariamo esclusi li Teatri della Città, quando siano aperti per qualche publico divertimento, ove saranno permessi li Giuochi a forma delle Concessioni, e dei rispettivi Capitolati cogli Appaltatori, come pure li Teatri dei altri Luoghi, ai quali venga perciò accordata una speciale licenza dal Governo». I profitti ricavati dal gioco d’azzardo erano molto consistenti e ad essi dovette ricorrere anche Maria Teresa d’Austria quando, per evitare un tracollo finanziario del Kärntnerthortheater (il Teatro Nazionale di Vienna), tollerò che il gioco d’azzardo vi venisse introdotto (CARLO CURIEL, Il Teatro S. Pietro di Trieste: 1690-1801, Milano, Archetipografia, 1937, p. 55). In questo senso, testimonianza dell’ingente guadagno dei teatri con il gioco, è la lettera dell’impresario del teatro degli Obizzi, Mariano Niccolini, che, di ritorno da Brescia, in cui aveva visto i cospicui profitti del teatro tratti dai giochi de «il faraone, la bassetta e il biribis», auspicava, per la stagione estiva del 1745, di ottenere le licenze per gli stessi, in modo tale da coprire maggiormente le spese (Biblioteca del Museo Civico di Padova, Raccolta di lettere autografe, fasc. 259, 1. c. XXX, lettera di B. degli Obizzi senza data [ma evidentemente dell’aprile 1745]). 815 CARLO GOZZI, Ragionamento ingenuo, cit., p. 863: «nell’Italia mancano i Nobili Mecenati che proteggano i Scrittori, e i Teatri, e per guarire quegl’uomini che per avventura giudicano inetta boria questo tal mio donare a queste tali persone, per questi tali riguardi, per non avere questo tale avvilimento, dichiaro che se ci fossero in Italia de’maggiori di me, e Mecenati liberali verso a’Scrittori, i quali avessero avuta la nobile debolezza di credere in me qualche merito, e avessero voluto porgermi de’premj che non m’avvilissero, non sarei stato superbo né increato nel rifiutarli, né averei avuto il rossore nel riceverli». Gozzi non era l’unico intellettuale che chiedesse un intervento da parte di mecenati: anche Scipione Maffei nella Premessa al Teatro tragico italiano o sia scelta di Tragedie per uso della scena ricorse all’egida di Platone per l’auspicio di protezione all’attività teatrale da parte dei governi (SCIPIONE MAFFEI, Premessa al Teatro tragico italiano o sia scelta di Tragedie per uso della scena, Verona, Vallarsi, 1733, I, p. 21). 816 Pietro Verri, che frequentava spesso i teatri milanesi, in una lettera al fratello Alessandro datata 19 agosto 1779, auspicava che i principi illuminati, su modello del Duca di Parma, proteggessero le istituzioni teatrali a patto che venisse formata una compagnia “ducale-reale” di bravi attori formata da circa trenta unità di cui al massimo 8-10 donne: «il principe che promovesse questa nobile idea dovrebbe dapprincipio incamminare la cosa sotto gli occhi propri per un paio di anni: avere un direttore uomo di gusto, passare agli attori un salario che li togliesse dalla miseria, poi a misura che più studia uno e si raffina relegarlo ora in denaro, ora con un bel vestito; fatta così la compagnia e imparate che avessero una cinquantina di belle rappresentazioni, lascerei che la mia compagnia girasse per i teatri d’Italia, a Venezia, Bologna, Genova, Firenze, Torino, e Milano» Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di G. Seregni, 12 voll. Milano 1910-1942, vol. X, 1939, pp. 55-56).

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Nonostante la pessima reputazione di cui godettero i comici imputata alla presunta indecente

condotta morale e alla loro ignoranza, non mancarono esempi di attori abbastanza colti che si

dilettarono anche nella scrittura di qualche pièce.

La questione è stata sollevata già da Anna Scannapieco, che, occupandosi del testo

goldoniano Osmano re di Tunisi e rapportandolo al testo parodistico recitato in musica Il

pastor fido ridicolo817, la cui edizione veneziana del 1739 è provvista di una premessa firmata

«Antonio Sacco e compagni», si era soffermata sulla “autorialità” degli attori firmatari:

converrà considerare un dato inevitabilmente sommerso da un polemismo pubblicistico di secolare spessore: una

conoscenza così radicale, organica e creativa del meccanismo teatrale da consentire, a non pochi di questi attori,

di farsi autori, nel senso drammaturgica del termine, dei propri testi; accanto, e forse antecedente a questa

disposizione, si distingue un ragguardevole grado di acculturazione, nonché la capacità, già sedimentata, di

valere nelle “studiate rappresentazioni818.

Senza contare l’esempio significativo, in relazione alla scrittura delle Fiabe, in cui Patriarchi,

in una lettera datata 31 gennaio 1761, a proposito dell’Amore delle tre melarance scrive: «i

comici del San Samuele ne sono autori, ma si dice che alquanti accidenti o episodi le furono

appiccati dal conte Carlo Gozzi819», in cui è evidente una differenza tra gli autori che tessono

un dialogo da un soggetto, e l’Autore che invece costruisce la vicenda.

In verità, abbandonato lo stereotipo negativo del comico settecentesco, ci imbattiamo anche in

attori straordinari che contribuivano al successo non solo per la loro interpretazione, ma anche

per i dialoghi che imbastivano sul momento; e infatti le lodi di Perrucci si rivolgono

soprattutto ai “commedianti all’improvviso”:

a tutti [gli attori] però v’è d’uopo accompagnarsi il sapere, altrimenti saranno tanti Pappagalli, o Simie, che

avezze a proferire gli accenti, o a contraffare gli altrui gesti non sanno render ragione di ciò, che si fanno […].

Non potranno mai costoro, e siano pure valent’uomini i Maestri, riuscire in alcun modo, perché chi non intende

la forza delle parola, è impossibile, che le dia quella forza, che ci bisogna; Poiché se gli direte, alza la mano,

Interessante è rilevare che pure in questa compagnia utopistica gli attori sarebbero stati reclutati tra «figli di famiglia, di spirito, e colti ma sventati e poveri», a testimoniare come il pregiudizio sui comici persistesse ancora nella società che pure li intendeva trasformare da «istrioni» a «bravi comici». 817 Cfr. ANNA SCANNAPIECO, Alla ricerca di un Goldoni perduto…, cit., pp. 13-14; inoltre sull’argomento si veda anche PIERMARIO VESCOVO, «Mestre e Malghera»…, cit., pp. 7-20. 818 ANNA SCANNAPIECO, Alla ricerca di un Goldoni perduto…, cit., p. 27. 819 In L. MELCHIORI, Lettere e letterari a Venezia e a Padova a mezzo il secolo XVIII, Padova, CEDAM, 1942, p. 47.

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muovi il piede, muta la voce, termina il periodo, fa questa interrogazione, e questo ammirativo, lo faranno, ma

come un Orologio concertato, che se in minima parte della misura della ruota esce, sconcerta tutte le ore, né si sa

più il tempo820.

Scorrendo le Notizie istoriche, rileviamo numerosi elogi riguardanti il livello di

alfabetizzazione e acculturazione profusi ai comici della compagnia Sacchi negli anni del

sodalizio con Gozzi e non solamente ad Antonio il cui valore era stato riconosciuto da molti

letterati (Goldoni, Chiari, Baretti, Grimani). Al capocomico, Bartoli imputava la scrittura di

«alcuni soggetti di Commedie da lui dettati, e specialmente di quello rappresentato con

somma fortuna che ha per titolo: Truffaldino Molinaro Innocente»; inoltre lo definì «arguto, e

ritrovatore di molte scene da lui inserite ne’ vecchi Soggetti dell’arte, onde darli una miglior

verità, e per togliere ad essi quegli assurdi, che in alcuni non poteano sofferirsi, che con

rabbia e dispiacere dagli uditori»821. Benché la capacità “autoriale” del capocomico sia

presentata in modo inequivocabile, Gozzi non ne fa mai cenno e, tutt’al più, nomina Sacchi

come la persona che gli sottoponeva alcuni testi da cui poi il drammaturgo avrebbe tratto

ispirazione. Inoltre, negli elogi gozziani dell’attore, non compare mai una parola riguardo la

cultura e la conoscenza della lingua francese e spagnola, che invece vengono esaltati nel

ritratto compiuto da Bartoli:

Non è il Sacco solamente un Comico materiale, ma è d’un ingegno non spoglio di cognizioni, specialmente

intorno alla Storia Universale, mostrandosi nelle conversazioni di dotte persone illuminato, ed erudito; oltre di

ciò egli possiede la lingua Francese, e la Spagnola, e nelle occasioni di dover mettere in Scena qualche nuova

rappresentazione, o Comica, o Tragica che sia, sa molto bene istruire i suoi Comici, insegnando ad essi il vero

modo di eseguirle con puntualità, ed accuratezza822.

Ad accreditare l’istruzione di Sacchi, certo non comune tra i comici, è il ritrovamento di una

nota presente nella commedia Offender colla finezza, che si presenta come una «commedia

820 ANDREA PERRUCCI, Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso, Napoli, M.L. Mutio, 1699, p. 83. Più in generale, sulla considerazione positiva dei comici espressa da Perrucci si veda anche FRANCESCO

COTTICELLI, Moralità e teatro nelle riflessioni di Andrea Perrucci, in Dibattito sul teatro. Voci, opinioni, interpretazioni, a cura di Carla Dente, cit., pp. 73-85. 821 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 147. 822 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 148.

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spagnola di don Girolamo di Viglayzan tradotta in italiano dal signor Antonio Sacchi righe

quaranta una, e mezza, ed il resto da Luigi Benedetti 19 marzo 1773»823.

La figlia di Antonio, Angela, dimostra di saper scrivere in modo abbastanza appropriato,

come certificano le lettere – seppure poche – rintracciate.

Anche per altri comici si rinvengono testimonianze che li connotano come uomini acculturati

e certamente alfabetizzati: tra esse spicca la Raccolta di varj sonetti fatti da diversi comici

sulla suposta morte del Signor Antonio Sacco e sul disinganno della medesima824 in cui

compaiono, come autori, Vincenzo Sorra, Petronio Zanarini, Idelfonso Zanoni, Teresa Zanoni

e Atanagio Zanoni. Quest’ultimo fu altresì autore della commedia La patria presentata a

Ferrara nel carnevale 1747 e replicata a Venezia nello stesso anno con ampio successo,

mentre la figlia Teresa è tratteggiata da Bartoli come assidua lettrice825.

Il celeberrimo Brighella, Zanoni, stando alle testimonianze offerte da Bartoli, eccelleva nei

dialoghi proprio per le numerose e variegate letture compiute:

Colla lettura di molti libri Francesi, e Spagnoli, non che Italiani, ha saputo egli ritrovare una fonte di gustosi

concetti, di massime dilettevoli, ed instruttive, di sentenze dall’universale approvate, e d’Apologhi Semi-

Esopiani argutissimi, e faceti. Ne’ Contratti Rotti, negl’Influssi di Saturno, nella Vedova Indiana826; ed in altre

Commedie dell’arte, dove egli abbia un assoluto maneggio, vedasi pure il Zanoni porre in opera tutto il suo

ingegno, ed infaticabilmente adoprarsi con lode nell’esecuzione dello studiato suo personaggio. Nelle favole del

Sig. Carlo Gozzi, e nelle altre sue produzioni tratte dallo Spagnolo, dove abbia parte, sa ben egli, senza punto

scostarsi dall’intenzione dell’Autore, inserirvi qualche suo concettoso discorso sparso di lepidezze, e tolto solo

dal vasto ripostiglio della sua testa […] Egli è dotto, ed erudito; né v’ha cosa fra la Storia, o moderna, o antica,

che nuova arrivar possa alla sua cognizione. Egli è pure amante delle Muse, ed ha talvolta scritta qualche Poesia

degna di molta lode. Di sì fatti Comici non dovrebbero giammai venir meno i giorni, e dovrebbero vivere

insieme coi secoli827.

Nonostante l’elogio, in cui addirittura Zanoni viene definito «dotto ed erudito», e la lunga

permanenza del comico nella compagnia Sacchi, fino al 1792, non si ritrova tra gli scritti

gozziani un cenno alla cultura dell’attore, che ottiene solo un riconoscimento 823 Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 9.10, c. 9r. 824 Treviso, Giulio Trento, 1783. L’occasione per la compilazione della raccolta dei quattordici sonetti – oltre agli attori già menzionati figurano anche Alessandro Riva e Pietro Andolfati - fu la degenza di Sacchi dovuta a un malore mentre recitava a Trieste nel 1783 (per l’accaduto e le cure prescrittegli dal medico Leonardo Vordoni, cfr. CARLO CURIEL, Il Teatro S. Pietro di Trieste: 1690-1801, Milano, Archetipografia, 1937, pp. 160-161). 825 FRANECSCO

BARTOLI, II, p. 285: «Legge continuamente de’ buoni Libri, erudendo la mente su d’essi, e mostrandosi degna figlia del degnissimo Padre suo». 826 Nell’Appendice al ragionamento ingenuo Gozzi afferma che questo soggetto è stato scritto per la truppa Sacchi dal fratello Gasparo (CARLO GOZZI, Il ragionamento ingenuo, cit., pp. 121-122). 827 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 284.

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nell’introduzione a Il re cervo - limitatamente alla bravura con cui aveva reso il cantastorie

Cigolotti nelle parole e nei gesti – e nulla di più.

Una maschera “autrice” di alcune commedie all’improvviso - La somiglianza inganna, o sia

Fonso creduto Tartaglia, e Tartaglia creduto Fonso, Tartaglia perseguitato dagl’influssi di

Saturno, I contratti rotti, La grotta incantata, La tavernaria, La trappolaria, Il salasso,

Tartaglia istorico828- fu Agostino Fiorilli, eppure anche il comico è menzionato solo

nell’Appendice al ragionamento ingenuo ed è menzionato sì per le capacità di «rinverdire» i

soggetti delle rappresentazioni all’improvviso, ma solo per supportare la tesi gozziana della

decadenza del genere, che si era isterilito829.

Un altro attore «provveduto d’intelligenza»830 è sicuramente Gaetano Casali che, oltre ad

essere stato direttore del teatro San Samuele nel 1746, e ancora nel 1751831 e ad essersi

828 Tutte le pièces sono menzionate, oltre che in Barili (I, pp. 219-220) da Gozzi nell’Appendice al ragionamento ingenuo (ivi, pp. 115-122); inoltre lo scrittore riporta il “soggetto” che servì da guida ai comici per recitare I contratti rotti. Tale commedia figurava nel repertorio di varie compagnie, per esempio fu messa in scena a Trieste nell’ottobre 1776 dalla compagnia di Pietro Rossi e venne rappresentata a Venezia; nel teatro Sant’Angelo l’8 gennaio 1796 e nel teatro san Luca il 14 dicembre 1796 (Giornale dei teatri di Venezia, in Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1796, rispettivamente t. II, p. 8 e t. VI, p. 21). Forse è la stessa pièce menzionata da Salvioli con il titolo I Contratti fatti e disfatti dalla sagacità di Brighella con Arlecchino disperato per non poter riscuotere i suoi crediti, Milano, presso Gaet. Motta, s. a. (G. SALVIOLI - C. SALVIOLI , Bibliografia universale del teatro drammatico italiano con particolare riguardo alla storia della musica italiana, Venezia, Ferrari, 1903, I, p. 874). Inoltre, Salvioli informa dell’esistenza di un’edizione della commedia intitolata Le Furberie di Brighella, con Arlecchino etc., Novara, E. Crotti, 1858. 829 Cfr. CARLO GOZZI, Il ragionamento ingenuo, cit., p. 117. 830 CARLO GOLDONI, Prefazioni dell’edizione Pasquali XIII , in Memorie, cit., pp. 881-882: «quest’onorato galant’uomo, provveduto di intelligenza, e di capacità nel mestiere, di bella statura, e di buona voce, parlando bene e con una pronuncia avvantaggiosa e grata, non ha mai avuto buona disposizione per la parte dell’Amoroso […] all’incontro nelle tragedie riusciva mirabilmente, e soprattutto nelle parti gravi, come nel Catone del Metastasio, nel Bruto dell’abate Conti, nella parte di Giustiniano nel mio Belisario, e in altre simili. Del resto poi il più attento, il più zelante comico della Compagnia; sempre il primo alle prove; vestendosi colla maggiore verità, secondo i caratteri che doveva sostenere, e tanto internandosi in quelli, che, quando aveva intorno l’abito di Giustiniano, non degnava rispondere a chi gli parlava». Anche Francesco Griselini, nella dedica del Socrate filosofo sapientissimo (FRANCESCO GRISELINI, Socrate filosofo sapientissimo tragicommedia, con un saggio dell’antica Commedia Greca d’Aristofane intitolata Le Nubi, Venezia, presso Domenico Deregni, 1755, p. ) definisce Casali «un uomo di lime nella sua professione, di grande attività, indefesso ai propri doveri, e di onorati costumi». 831 Nel 1751, quando la compagnia del San Samuele ritorna da Mantova, Gaetano Casali si firma «capo della compagnia comica di San Samuele di Venezia» (la notizia è riportata da ERMANNO VON LOHHNER, Carlo Goldoni e le sue memorie. Frammenti, in «Archivio Veneto», 1882, vol. XXIV, p. 22). Anche Giambattista Mancini (GIAMBATTISTA MANCINI , Riflessioni pratiche sul canto figurato, Milano, presso Giuseppe Regio Stampatore, 1777, pp. 234-235) si era soffermato sull’attività “imprenditoriale” svolta da Casali e riportava l’aneddoto secondo cui, «capo d’una compagnia di Comici» a Venezia in un momento in cui non guadagnava molto con le «solite commedie», decise di ricorrere alle opere di Metastasio e, «distribuitene dunque le parti, e fatte queste imparare da’ suoi attori, stava aspettando una qualche favorevole occasione, per produrle in pubblico». L’occasione gli si presentò quando la prima rappresentazione in musica dell’Artaserse al teatro San Giovanni Grisostomo non fu apprezzata: Casali sfruttò quest’insuccesso e il giorno seguente «espose nel cartello, che dalla sua Compagnia verrebbe quella sera recitato lo stesso Artaserse». Il popolo, che accorse più per curiosità che per vero interesse, rimase stupito perché «quegli attori seppero così ben caratterizzare col solo gesto, e recitativo parlante que’ personaggi, che rappresentavano, che ne riportarono l’universale applauso, ed a

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affaticato «in quel tempo per ridurre l’arte comica ad un gusto migliore»832, compose Le

azioni d’Ercole imitate da Truffaldino suo Scudiere e L’eroica pazienza di Socrate gran

Filosofo d’Atene833.

Nonostante gli elogi ottenuti da Goldoni e da Griselini, Casali viene solo menzionato da

Gozzi nell’Appendice al Ragionamento ingenuo («Abbiamo perduti i Vitalba, i Vulcani, i

Casali, le Bastone, le Davie, attori e attrici serie, che, animate dal talento e dall’emulazione,

unite alle maschere, formavano uno spettacolo in tutte le sue parti vivace, dilettevole e

mirabile»834) e nel Canto ditirambo de’ Partigiani del Sacchi Truffaldino («Lo spettabile

Casali / Sieda pur ch’è il benvenuto / Ed in tuon di Cassio e Bruto / La polenta un po’

c’insali»).

Oltre a questi attori che formarono la compagnia Sacchi negli anni delle Fiabe, anche alcuni

di quelli che si aggiunsero in seguito si esercitavano nella scrittura, come nel caso del

Pantalone Giovan Battista Rotti che, per primo835, tradusse I due Amici o sia Il negoziante di

Lione di Beaumarchais, e che aveva qualche rudimento anche di lingua latina e tedesca836.

Non si può non menzionare la cultura certamente eclettica che contraddistinse Petronio

Zanarini che includeva la storia naturale, quella civile e la poesia837, né va tralasciato

tal segno, che furono obbligati a replicare con molte recite l’Opera stessa». Casali, incoraggiato da questo insperato successo continuò a recitare quelle opere di Metastasio ottenendo un congruo profitto e riconoscimento tale da indurlo a scrivere una lettera al Metastasio riconoscendolo come cooperatore del suo successo. 832 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., I, p. 156. 833 Le azioni di Ercole imitate da Truffaldino suo scudiere, tragicommedia in prosa e in versi di Gaetano Casali, comico detto Lelio, Milano, Ghislandi, 1753, venne rappresentata nello stesso anno a Milano. L’altra opera, in versi martelliani, fu rappresentata e stampata a Torino. Bartoli, a proposito del comico, asserisce che «molto adoprò la penna per la Compagnia Sacco» (Francesco Bartoli, Notizie istoriche…, cit., I, p. 157 ). 834 CARLO GOZZI, Il ragionamento ingenuo, cit., pp. 125-126. 835 LUIGI RASI, I comici italiani…, cit., t. III, pp. 442-443; LEONELLI, II, 306. La traduzione della Caminer risale infatti al 1772 (I due amici, in Composizioni teatrali moderne tradotte da Elisabetta Caminer, Venezia, Pietro Savioni, 1772, III) ed è quella riportata anche nel Teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1798, t. XXIV. 836 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., II, p. 136 : «Fu il primo che in Italia traducesse la Commedia di Monsieur Beaumarchais intitolata: I due Amici o sia il Negoziante di Lione; avendo scritto la parte d’Aurelio in lingua Veneziana per recitarla egli medesimo; e questa Rappresentazione fu esposta sul Teatro Filarmonico di Verona nell’Estate del 1771. e comparve ancora nel Teatro a S. Luca di Venezia prima che in quello di S. Angelo si facesse vedere l’altra traduzione della Signora Caminer Scrisse altresì una Commedia d’Argomento Spagnolo per ordine d’Antonio Sacco in versi sciolti, ma fu rappresentata una sola volta con poca fortuna. Il Rotti era un uomo d’ingegno, pratico della Lingua Latina, della Francese, e della Tedesca; e molto adoprò la penna in servizio del mentovato Sacco». 837 Bartoli, cit. «Ha pur questo raro Comico de’ talenti a quelli del Teatro discosti, i quali gli fanno doppio ornamento, e rendono i di lui meriti più graditi. Egli si applica volentieri nelle cognizioni della Storia Naturale, e piacegli infinitamente d’esaminare le più minute produzioni della natura, e di vedervi col Microscopio quanto di grande in ogni cosa ha saputo riporre quell’Ente supremo, che ne fu il Creatore. Egli dilettasi pure della Storia Civile, e piacegli d’intendere le azioni degli andati Eroi, e farsi quindi una erudizione di fatti, che gli serve talvolta di trattenimento fra’ discorsi delle amichevoli sue ricreazioni. Coltiva un bellissimo genio per la Poesia,

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Anselmo Porta, attore della compagnia Sacchi prima del sodalizio con Gozzi, che scrisse la

tragedia Scipione in Africa838 , oltre a Le Metamorfosi d’Amore di argomento magico e la

Regina Ester; inoltre, secondo Bartoli, fu anche autore della «parte studiata» della Pescatrice

inserita nel Convitato di Pietra, scritta appositamente per Angela Sacchi839.

Inoltre vale la pena ricordare la co-presenza di un altro “drammaturgo” nella compagnia tra il

1771 e il 1777: Francesco Bartoli. Nelle sue Memorie istoriche egli menziona diverse opere

scritte durante la degenza che lo vide costretto all’inattività artistica proprio mentre lavorava

con Sacchi che, a detta dello scrittore, gli si rivolse per una commedia desunta da un originale

spagnolo che intitolò Il Finto Muto, ovvero il Mezzano de’proprj affronti840.

I comici con cui Gozzi lavorava negli anni delle Fiabe per lo più erano educati alle lettere e

leggevano molto, anche per aumentare il proprio bagaglio culturale da riutilizzare poi sul

palcoscenico. Nonostante ciò, il drammaturgo non si soffermò mai sulle qualità intellettuali

della compagnia, che, invece, presentò in maniera positiva per i buoni comportamenti e la

morigeratezza dei costumi. Se non avessimo i ritratti compiuti da Bartoli, saremmo indotti a

credere che gli attori della troupe di Sacchi corrispondessero al cliché settecentesco che li

presentava come rozzi, incolti e addirittura incapaci di imparare a memoria la parte perché

analfabeti.

Non c’è dubbio che Gozzi, nella ricostruzione del suo percorso come drammaturgo, abbia

modificato qualche fatto o ne abbia presentati alcuni come irrilevanti nascondendo invece

l’opposta percezione di esso (è il concetto di noluntas che, come ha dimostrato Anna

Scannapieco, pervade l’intera produzione editoriale del conte).

Facciamo un passo indietro e torniamo al 1762: nella Prefazione a Il re cervo Gozzi asserisce che nel periodo in

cui venne messa in scena la fiaba, cioè nel gennaio-febbraio 1762, la compagnia Sacchi era priva di attori in

grado di sostenere le parti serie841 ma, nonostante questa mancanza – secondo noi pretestuosa -, la

e scrive in lingua Toscana qualche componimento, ma la di lui Musa vuol prevalere nel verseggiare in lingua Bolognese, nella quale ha di già scritte molte graziosissime rime». 838 Questa pièce, attribuita ad Antonio Martin Cuccetti, appare nel Teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Salvioli, 1800, t. XLVII. Il dramma fu rappresentato nel teatro San Luca a Venezia nel 1794. 839 FRANCESCO BARTOLI, Notizie istoriche…, cit., I, pp. 94-97. 840 Cfr. ivi, I, p. 80. Bartoli ci informa che durante la permanenza nella compagnia Sacchi, in quindici mesi scrisse Il mago salernitano, Fiorlinda Principessa di Gaeta, La Sepolta viva e poi «nell’accennato 1773 scrissi in Parma a requisizione d’Antonio Sacco una commedia tratta dallo Spagnolo, ch’ intitolai, Il Finto Muto, ovvero il Mezzano de’propri affronti». 841 CARLO GOZZI, Prefazione, in Il re cervo, in IDEM, Opere edite ed inedite, Zanardi, I, p. 200: «tuttoché la truppa Sacchi in quel tempo, affidando tutta la sua fortuna al caricato ridicolo delle valenti Maschere, fosse assai sfornita di Comici capaci a sostener colla necessaria compostezza, sentimento, e bravura le parti serie, le quali in un falso argomento hanno il doppio bisogno, che in argomento verisimile, d’una comica particolare abilità, che aiuti a dipinger in esse quelle verità, che non rinchiudono».

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rappresentazione conseguì un successo strepitoso, replicando per sedici sere consecutive. Nello stesso anno

l’autore iniziò la stesura dei drammi seri, Il cavaliere amico e la Doride, che sfioravano addirittura la tragedia

(nel caso de Il cavaliere amico il primo finale attestato dall’ossatura gozziana prevedeva la “catastrofe” con la

morte del protagonista). Questa decisione pare però in contraddizione con quanto espresso nella citata

Prefazione: assodato che non vi furono cambiamenti nell’organico della compagnia Sacchi in quegli anni –

tranne forse la dipartita momentanea di Ignazio Casanova – perché mai Gozzi avrebbe scritto due opere che

richiedevano ai comici una competenza anche nel campo serio sapendo che non poteva disporre di attori abili in

questo genere? Ci sembra strano che l’autore, così attento a vincere ogni battaglia, abbia potuto volontariamente

abbracciare un progetto già a priori fallimentare o comunque altamente a rischio. La risposta pare offerta

dall’autore nella Prefazione alla Doride e a Il cavaliere amico, in cui dichiara di aver composto i due drammi su

richiesta di Sacchi, che desiderava qualche sera di riposo per sé e l’esercitazione dei suoi comici anche in generi

che non erano loro confacenti affinché potessero migliorare e competere con le proposte degli altri teatri842.

L’affermazione può essere confutata in entrambi i due punti. Il primo riguarda la richiesta

sacchiana di ritagliarsi qualche sera di riposo. Possiamo senza dubbio asserire che Antonio

effettivamente non compariva almeno nel cavaliere amico: infatti, il manoscritto marciano

preparatorio per la Colombani reca il nome di tutti gli attori accanto a quelli dei personaggi e

quello del capocomico non vi compare. Inoltre nell’ossatura della fiaba conservata nel Fondo

Gozzi ci imbattiamo nel nome di Truffaldino, poi cassato. Almeno nell’originaria volontà

gozziana, dunque, Sacchi avrebbe dovuto esserci, e la sua presenza non si spiegherebbe se

davvero all’autore fosse stata espressamente demandata la scrittura di una pièce in cui l’attore

non avesse dovuto comparire.

Arriviamo al secondo punto riguardante gli attori: se può essere vero che la compagnia non

includeva nel proprio repertorio opere serie a quell’altezza cronologica, mancanza di cui si

giovavano gli altri teatri veneziani, è però altrettanto certo che alcuni comici erano competenti

e abili anche nelle parti premeditate e “alte”. Se ci affidiamo alle testimonianze offerte da

Bartoli, siamo portati a profilare un quadro delle capacità attoriali alquanto diverso da quello

prospettato da Gozzi. Tra il 1762 e il 1763 militavano nella compagnia Sacchi comici del

calibro di Darbes, riconosciuto anche da Goldoni come versatile e valente anche nelle parti

serie, e di Adriana Sacchi, che nella giovinezza si era cimentata proprio nelle parti serie,

recitando anche nella tragedia Diofebe e che, vale la pena ricordare, ne Il corvo si esprimeva

in versi. Nutriamo pure qualche dubbio sulle incapacità professionali nel ricoprire “ruoli” più

gravi da parte di Agostino Fiorilli, che aveva cominciato la carriera da innamorato e che era

842 Ivi, IV, p. 113: «Il cavaliere amico e la Doride sono due tragicommedie ch’io composi pregato dal Sacchi. Egli desiderava d’introdur nel teatro, accreditato per le le valenti Maschere, delle rappresentazioni senza di quelle, per avere qualche sera di riposo, e per porre in qualche credito la sua Truppa, combattuta da’serj degli altri Teatri, anche nell’aspetto del serio».

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stato scelto originariamente da Sacchi per le parti di vecchio, prima che esibisse la sua vis

comica nella maschera di Tartaglia. E che dire dei comici solitamente preposti alle parti meno

facete e divertenti come Casali, Pozzi e Simonetti, se non che ottennero sempre successo nelle

loro interpretazioni, come ci dimostrano anche i successi ottenuti con le fiabe Il corvo, Il re

cervo e Turandot che includono momenti di grande pathos?

Ci sembra dunque possibile cogliere nelle parole gozziane che aprono Doride e Il cavaliere

amico un tono dissimulatore del vero motivo per cui vennero scritte che, a nostro parere,

consiste nella precisa volontà del drammaturgo di sperimentare generi diversi dalle Fiabe e

molto più vicini ai tanto deprecati drammi flebili che allora invadevano la piazza veneziana e

di cui Gozzi, ottimo osservatore e conoscitore della macchina teatrale, intravedeva le

potenzialità. Inoltre non è da sottovalutare il cambiamento del teatro attuato nell’autunno del

1762 dalla compagnia Sacchi, che dal San Samuele si spostò al più centrale Sant’Angelo, in

cui l’autore avvertì forse l’esigenza di proporre al pubblico un repertorio diverso da quello

praticato nel vecchio teatro843.

Le due pièces si pongono come un intermezzo nel ciclo fiabesco e costituiscono il tentativo

dell’autore di misurarsi con il genere serio – e, in ogni caso di accogliere il principio della

varietas accennato anche dal fratello Gasparo844 - tentativo che si pone, a quest’altezza

cronologica, come il primo compiuto. Infatti i due drammi, al di là della trama romanzesca,

dal punto di vista formale non si differenziano molto dalle Fiabe e in realtà perfino le

maschere sopravvivono, seppure “mimetizzate”, con i loro tratti distintivi: Giansimone

napoletano, Alessandro veneziano e Cecchina, serva di Lucrezia sono lo specchio di

Tartaglia-Fiorilli, Pantalone-Darbes e Smeraldina-Adriana; e infatti nel manoscritto del

Cavaliere amico del Fondo Gozzi, nell’elenco dei personaggi compaiono direttamente i nomi

delle tre maschere e anche quello di Brighella, nella parte del bargello845. Dalla lettura

843 Cfr. PIERMARIO VESCOVO, La compagnia Sacchi, cit., p. 141. 844 Nel Pronostico del Velluto intorno a’ teatri si legge: «Destatevi, o nobili ingegni, e rifrustando tutti que’ generi di rappresentazioni Teatrali, che noi da lungo tempo in qua v’abbiamo insegnate, ricreate gli animi ora con l’uno, ed ora con l’altro, imbandendo la mensa vostra con cibi diversi, che talora anche grossolani piacciono, purchè non sieno sempre quelli. Escano una sera gli Zanni, e i Magnifici, con novelle invenzioni. Un’altra i sublimi fatti, e i tragici sieno rappresentati; che se gran moltitudine di gente non vi concorre, acquisteranno i recitanti concetto, o con quel breve cambiamento aguzzeranno vie più la voglia del ridere nelle persone. Mescolansi le commedie di carattere, e dietro a quelle le Tragicommedie si mostrino sulla scena: né sieno perciò sbandite le favole, che con la loro maraviglia intrattengono molto bene i circostanti» (in Osservatore veneto, n. V, 17 febbraio 1762). 845 Fondo Gozzi, c. 1r. L’elenco dei personaggi appare molto “sofferto” e quasi tutti i nomi subiscono una revisione, tra cui importanti sono quelli relativi alle maschere: Giansimone, servo di Don Ramiro era prima chiamato Trappola, Brighella e Tartaglia, poi ancora Trappola, Cecchina aveva il nome di Smeraldina, Alessandro, vecchio servo di Don Silvio, a sua volta era passato attraverso i nomi di Pantalone, Franco, e

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dell’ossatura di quest’ultima opera deduciamo che probabilmente Gozzi abbia osato molto più

di quanto non abbia voluto ammettere. Infatti, essa attesta la volontà di un finale tragico per la

vicenda con la morte del protagonista in un clima di ascendenza don giovannesca846, un salto

– dalle fiabe alla tragedia - forse troppo grande da chiedere al pubblico, una considerazione

che spinge il drammaturgo a tornare a lavorare sul finale concependone uno nuovo, positivo,

poi attestato dall’edizione a stampa.

Nella Prefazione del Cavaliere amico Gozzi dimostra consapevolezza delle ragioni per cui il

pubblico privilegiava la compagnia Sacchi nella scelta degli spettacoli a cui assistere: capisce,

infatti, la preferenza degli spettatori per le maschere e, ciononostante, sceglie di “eliminarle”

– nei modi che abbiamo detto - dalle due pièces serie pur ammettendo che le due opere erano

state scritte in versi e in prosa, come anche a proposito de Il corvo, perché gli attori che

interpretavano Pantalone, Tartaglia e Smeraldina «erano abilissimi per la prosa» ma «non atti

a recitare in versi»847. La forma delle tragicommedie è dunque la stessa con cui si presentano

tutte le Fiabe, parte in versi e parte in prosa, con l’unica differenza che le maschere in senso

stretto sono eliminate, o meglio nascoste sotto altri abiti in modo che il pubblico si abituasse a

vederle anche in una maniera diversa da quella consueta. Gozzi non si esime dal giudicare il

suo tentativo un insuccesso da imputare, si badi, al pubblico, che, abituato ad aspettarsi dalla

Gianmaria ed era il vecchio servo di Don Silvio. Truffaldino compariva come servo di Don Gregorio, falso amico d’Alberto, che nell’edizione ha nome di Don Ramiro. 846 Fondo Gozzi, cc. 6v-7r: «Franco ansante entri e dopo alcune difficoltà narri esser morto Alberto e come e quali parole disse prima di morire. Afflizione della madre e della sorella disperazione d’Anselmo conforti di Franco ad ognuno. Anselmo dopo aver fatte le sue disposizioni circa alle donne, dica voler supplicare il Governatore di permettere la sepoltura nella città ad Alberto aver già da molti anni fatto fabbricare un sepolcro dove ha stabilito sino da quel tempo di voler esser sepolto con l’amico suo. Essere questo sepolcro nella casa di que’ solitari etc. voler chiedere a quei solitari un piccolo appartamento presso al sepolcro dove vuol vivere il resto de’giorni suoi in ritiro in contemplazioni riflessi morali e disprezzi del mondo Preghiere di donna Cassandra di non abbandonarla che avendo perduto il figlio solo la solleva l’idea d’averne un altro in esso. Parole consimili di donna Clelia. Anselmo rinnovi le sue disposizioni circa allo stabilimento di quella famiglia e sposalizio di donna Clelia tra un’anno. Dica aver così stabilito di vivere presso al sepolcro dell’amico e d’essere con esso seppellito e di voler fare scolpire in sul monumento la seguente iscrizione / epitaffio / il fine / L’epitaffio sia un sonetto sublime di don Anselmo / Il Governatore s’innesti nella Commedia come attonito degl’eroismi di Anselmo Discorso della Nubile / o vero la Nubile dica con Anselmo ciò che dirà al Governatore / Don Ramiro non muoja ma stando in attenzione fuori delle porte. Alla commessione dell’epitaffio, e ad altre disposizioni di Anselmo fatte per donna Clelia e donna Cassandra e fa altre azioni gloriose e con festa si finisce / Nelle commissioni d’Anselmo l’ultima che da a donna Cassandra prima di partire o a Pantalone sia il sonetto». 847 CARLO GOZZI, Prefazione, in Il corvo, in IDEM, Opere edite ed inedite, Zanardi, I, p. 114: «Si troverà, ch’ella è scritta parte in versi, parte in prosa, e ch’ella ha alcune scenette disegnate col solo argomento, e coll’intenzione. […] Nessuno potrà scrivere la parte d’un truffaldino in prosa, non che in versi, e il Sacchi è uno di quegli eccellenti Truffaldini da eseguir l’intenzione, scritta da un Poeta in una scena improvvisa, in modo da superar ogni Poeta, che volesse scriverla». Il riferimento a Sacchi che improvvisa sull’intenzione del poeta è, a quest’altezza cronologica alquanto pretestuosa: la composizione de Il Corvo si colloca proprio all’inizio della carriera teatrale del drammaturgo, volendosi retrospettivamente presentare sul palcoscenico come l’anti-Goldoni (la satira de L’amore delle tre melarance andò in scena dieci mesi prima), pone l’accento sulla improvvisazione del Sacchi-Truffaldino. In realtà se si esamina il testo edito si scorge che la libertà di Sacchi di improvvisare che millanta Gozzi è in realtà molto più ristretta di quanto si possa pensare.

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compagnia Sacchi un determinato tipo di repertorio, si dimostra refrattario e diffidente verso

le novità, tanto che non vi furono molte repliche dei due drammi848.

La considerazione è espressa con lucidità e piena consapevolezza dall’attore Atanasio Zanoni

ad apertura delle Convulsioni in cui il celebre Brighella sta appunto conversando con Sacchi

sulla possibilità di inserire nel repertorio drammi seri:

SACCHI (uscendo) E mi son persuaso cusì, o bella.

ATANAGIO E mi, con la debita riverenza, no la me entra.

SACCHI Mo perché?

ATANAGIO Mo perché co se fa cose serie da nu no i ghe vol vegnir.

SACCHI Mo perché?

ATANAGIO Mo bisogna andarlo a domandar a tutta la città el perché. Mi no saverìa cosa dir. I dise che da nu

no gavemo esercizio per le cose serie, che per le cose serie bisogna andar in tei altri teatri.

SACCHI Mo perché?

ATANAGIO Mo perché la massima xe stabilida cusì. Co gh’è cose serie in tei altri teatri, sior sì; co non

gh’entra le maschere nel nostro teatro, sior no. Al publico se deve far umilissima riverenza e ringraziarlo che

l’abbia della benignità per le maschere so devotissime e obbligatissime serve.

SACCHI E mi son persuaso che ghe sia bisogno de romper sto giazzo, de sfadigarse e de procurar a poco alla

volta de entrar in grazia del pubblico anca colle cose serie per tegnir in decoro el teatro e la compagnia. Sempre

le maschere, sempre le maschere, le povere maschere se stracca, al pubblico riveritissimo le ghe anderà zó dei

calcagni, e po festa. Bisogna intramezzar, tegnir duro, studiar, esercitarse insin che la ghe se catta anca colle

opere serie e che se entra in concetto.

[…]

ATANAGIO Eh, sior sì, la curiosità stassera, per esser cosa nova, menerà qualchedun. La se repplicherà anca,

ma doman po saremo scarsetti forte. Ghe sarà trenta gentilissime persone che la chiamerà per la terza volta, ma

se condiscenderemo alla gentilezza, alla terza anderemo in debito della metà delle spese, con sta diferenza: che

848 Fondo Gozzi, 3.2: «Sulla materia teatrale in Italia oltre / a ciò non è possibile il porre sul conto / del nulla il basso popolo, perch’è lo / stesso che il condannare i comici a morirsi / di fame. Non si oppongano alcuni pochi / fortunati effimeri esempi su questo proposito. Ho / detto stampato, e provato, che sono effimeri, / e inconcludenti quanto al sostegno della italiana / messe comica. […] / confesserò d’aver procurato d’accostarmi / un po’ troppo alla regolarità, e alla / semplicità della Francia in un / mio dramma che intitolai: Doride / Egli piacque in Venezia ma non ha cagionata / l’irruzione di profitto alla comica ricotta / da me sempre procurata a’ Comici, sorpassando le letterarie etichette. / Ad onta di que’ non meritati elogi, / che riscosse questo Dramma tradotto, / nell’idioma tedesco, espresso ne’ fogli / in istampa della Germania, egli non / è in Italia oggidì, che un Dramma per / i Teatrelli privati de’comici dilettanti, / per quelli de’ collegi, e per qualche compagnia / comica volante per l’Italia, in cui tutto / piace per misericordia, e perch’ella è sola / in quel Paese dove pianta la sua pescaggione. / Io non fo qui menzione d’una cosa / palese per ostentare impostura sull’esempio / d’alcuni scrittori, ma soltanto per dare / un giusto vigore alla mia opinione sostenendo / con mio discapito l’inefficacia sulle nostre / scene d’un mio dramma ch’io composi / per il teatro italiano, e che, non so come, / scrissi per il Teatro tedesco. / Considero che il buon incontro avuto / da quest’opera in sui Teatri della Germania / sia derivato dal costume militare, e dal / punto d’onore sostenuti in essa, a’ quali / è avezza quella Nazione armigera tanto / nella maggior parte de’ suoi uffizi, quanto / nelle Rappresentazioni sceniche de’suoi / Teatri per lo più appoggiate agl’avvenimenti / delle armate, e de’militari».

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se sta commedia dell’Orfana se facesse, verbigrazia, da Medebac, se faria un pienon per otto sere, e da nu una

sera passabile, una liziera e piva.

SACCHI Mo benissimo, se tien duro e col tempo, subiotto.

[…]

FIORILLI Dicono che si devano lasciare le cose serie da una parte e che si deva tirar dritto col nostro ridicolo

delle maschere; la cassetta ha data la sentenza con tanto di bocca849.

Appurata la stretta consonanza tematica delle Prefazioni della Doride e del Cavaliere amico

con Le convulsioni, nonché i motivi ispiratori dell’impresa gozziana, ci permettiamo di fare

una congettura che, seppure affascinante, ha bisogno di altri riscontri possibili in futuro, anche

mediante una disamina puntuale e sistematica dell’ingente corpus di cui è composto il Fondo

Gozzi. L’ipotesi è quella di vedere nelle Convulsioni non solo una farsa divertente giocata

sugli stereotipi della prima donna che, nel momento in cui si vede declassata a seconda, è

colpita da convulsioni, ma anche un’implicita estrinsecazione del pensiero gozziano. Esso

corrisponderebbe alle idee esposte dal capocomico, che dialoga con un Brighella depositario

di tutte le possibili critiche e i dubbi nutriti da un comune spettatore, nonché della reticenza

dimostrata dagli attori nel momento in cui la rappresentazione sia diversa dalle consuete, e

dunque porti a un cambiamento nell’usuale distribuzione delle parti.

Accettando tale ipotesi, è anche possibile scorgere nella battuta di Sacchi relativa alle Fiabe –

hapax nell’intera pièce – i motivi per cui Gozzi, all’altezza del 1763-1764, stava

riconsiderando il genere della fiaba di magia:

ATANAGIO Eh, le fiabe, le fiabe xe la morte dei sorzi. Là gh’è el serio, el ridicolo, el maravegioso, la passion,

tutti se fa onor insomma.

SACCHI El so anca mi, ma el combinar el ridicolo col serio, la passion coll’argomento falso, el maravegioso

coll’economia, xe dificile assai. La me creda, che qualche operetta seria, che no porta certe spese, de quando in

quando xe una mana850.

Sembra che oltre alla difficoltà di ottenere un prodotto teatrale “bilanciato”, anche motivi di

ordine economico potessero incidere sulla scelta delle composizioni da scrivere e da proporre

sul palcoscenico. Riportiamo, per esempio, un passo estremamente lucido con cui Gasparo

Gozzi espone il problema proprio a partire dalle rappresentazioni fiabesche del fratello:

849 Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 9.4, Le Convulsioni o sia Il Contratempo. Introduzione a due farse, c. 2r. 850 Ivi.

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Non sapendo oggimai sul Parnaso qual’altra cosa più inventare, destammo un capriccioso ingegno a ridurre in

rappresentazioni da scena quelle favole che si narrano a’ fanciulli; ed egli seguì la nostra volontà per modo, che

gli spettatori rimasero in tal novità grandemente appagati […] Guai a’ recitanti, poiché per gareggiare teatro con

teatro, saranno obbligati a fare gravissime spese di trasformazioni e apparenze; e la maggiore squisitezza e

sottigliezza richiederà sempre dispendio più grande. La mano di Giove scaglia-folgori entrerà nella cassetta

dell’entrata, e tutti i danari disperderà in trovatori di ordigni per far volare uomini e fiumi. Entrerà la mano di

Giove nella cassetta, entrerà e sarà utile per li recitanti la concorrenza de’ popoli. Verrà il legnaiolo, e dirà: ecco

la polizza mia; assi e travicelli ho tagliati, chiodi comperati, lavorato dì e notte io e i compagni miei. E la mano

di Giove caverà della cassetta, e salderà la polizza al legnaiolo. Verrà il pittore, e dirà: ecco la polizza mia.

Fronteggiano quegl’imitati alberi per mia cagione. E quel cartone sembra sasso altrui per averlo io colorito. Per

opera mia vestito è quel monte di alberi ed erbe. E la mano di Giove caverà della cassetta, e salderà la polizza al

pittore. Uomini trasportati da’ diavoli in aria; giganti, dragoni, centauri e chimere metteranno innanzi agli occhi

le polizze, e saranno saldati851.

Anche Carlo, nella Prefazione alla Donna serpente, aveva imputato alla necessità di

risparmiare la ragione della comparsa in scena di Truffaldino venditore di gazzette in cui

erano compendiati degli avvenimenti catastrofici:

Essendo questa rappresentazione pienissima di prodigi, per risparmio di tempo, e di spesa alla truppa comica, e

per non obbligarla alla dimostrazione col fatto di molti avvenimenti mirabili, ma necessari da sapersi all’uditorio,

feci uscire il Truffaldino imitator di que’ mascalzoni laceri, che vendono la relazione a stampa per la città,

accennando il contenuto in compendio di quelle con de’ spropositi852.

Potremmo chiederci a questo punto il motivo per cui Gozzi abbia deciso comunque di dare

alle stampe due opere che non avevano mietuto il successo desiderato. Le Prefazioni alla

Doride e al Cavaliere amico diventano l’occasione per Gozzi di spiegare che il fallimento

delle loro messinscene era imputabile all’insistenza di Sacchi, che aveva preteso due opere

serie benché la compagnia in quegli anni non comprendesse attori adatti a recitarle, come del

resto, Gozzi denuncia. In questo modo egli imputava ad altri la sua disfatta ed eliminava dalla

sua brillante carriera teatrale il ricordo di un flop che altrimenti sarebbe rimasto indelebile.

851 [Pronostico intorno a’teatri in Osservatore veneto, n. V, 17 febbraio 1762, oppure Opere del viniziano G.G., III, pp. 202-207 da controllare]. Sulla questione economica relativamente agli allestimenti dispendiosi nei teatri romani del Settecento si è pronunciata anche Elisabetta Mori, (Sogni e favole io fingo. Teatro pubblico e melodramma a Roma all’epoca di Metastasio, catalogo della mostra (Roma 1983) a cura di C. Messina, Roma, Tipografica Editrice Romana, 1983, p. 100): «accadeva spesso che i possessori dei teatri [a Roma] (generalmente nobili) finivano col contrarre debiti enormi soprattutto con i falegnami e le maestranze edili , per cui erano queste persone che si trovavano ad accampare i diritti maggiori sul teatro». 852 Carlo Gozzi, Prefazione alla Donna serpente, in Idem, Opere, Zanardi, p.

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L’immagine di un autore che non solo rispetta, ma addirittura, in caso di disaccordo, cede alle

richieste del capocomico, come attestato anche in occasione del finale di Bianca contessa di

Melfi o, ancora, del dono alla compagnia delle Droghe d’amore seppur insoddisfatto della

propria opera, pare poco compatibile con la forte personalità del conte.

In quest’ottica anche la tanto esibita magnanimità con cui donava alla compagnia le proprie

pièces è passibile del dubbio che fosse in realtà un modo per non scendere ad alcun

compromesso con la compagnia e con gli eventuali “direttori” dei teatri: non stipendiato,

Gozzi era libero di scrivere ciò che desiderava.

La strada intrapresa con la Doride e Il cavaliere amico verso un genere teatrale diverso dalla

fiaba proseguì negli anni successivi, al termine del ciclo fiabesco, e già a ridosso del 1772

Gozzi presenta la compagnia Sacchi esperta anche nei drammi seri. Certamente il

cambiamento dell’organico contribuì alla realizzazione del proficuo cambiamento del

repertorio, una scelta che si dimostrò vincente soprattutto nei confronti del «pubblico

veneziano capriccioso»853.

Nella Prefazione al Fajel (1772) così si esprime Gozzi sull’operato di Sacchi, soprattutto in

qualità di capocomico854:

Il Sacchi, rinomato Truffaldino, è l’unico oggidì tra’ Comici dell’Italia, che intenda le circostanze de’ tempi; e il

ben condurre una Truppa Comica, perché non resti sterile l’utilità della sua professione. Egli tiene la sua

Compagnia esercitata nella Commedia improvvisa, e ben proveduta de’ più atti personaggi ad una tale

rappresentazione; ma ben fornita la tiene ancora di abilissimi personaggi a recitare qualunque buona Tragedia,

Tragicommedia, o Commedia composta, o tradotta, che gli venisse da qualche leggiadro spirito recata. Per tal

modo egli dà respiro, e rinvigorisce l’aspetto di novità alla Commedia improvvisa indispensabile a sussistere nel

Teatro con frutto per quanto lungo è l’anno, e si ripara da’ pregiudizj, che gli può cagionare una coltura sino ad

ora nell’Italia sognata. Entro a tali trincieramenti si coltiva, e si diverte il Pubblico, e si ricevono dal Pubblico

853 Il drammaturgo del Settecento Leandro Fernández de Moratín, in Quattro spagnoli in Venezia…, cit., p. 189: «Ma il pubblico di questa città è troppo capriccioso, incostante e incoerente in queste materie: quando arriva ad esser alla moda l’andare in un teatro, tutti gli altri restano deserti, anche se vi rappresentassero delle cose meravigliose». La riflessione dell’erudito spagnolo nasce dopo aver assistito nell’autunno 1794 al teatro San Benedetto alla rappresentazione Oro non compra amore, ritenuta dal critico la migliore vista fino ad allora ma poco applaudita dal pubblico. Si veda anche l’analogo giudizio sul pubblico veneziano esposto da Giuseppe Baretti: «i volubili Veneziani dimenticarono immediatamente le altre acclamazioni con le quali avevano accolto la maggior parte delle commedie del Goldoni e del Chiari, risero clamorosamente alle spalle di entrambi, ed applaudirono i Tre Aranci nel modo più forsennato» (GIUSEPPE BARETTI, Dei modi e costumi d’Italia [An Account of the Manners and Customs of Italy, 1768], prefazione di M. Mari, a cura di M. Ubezio, Torino, Nino Aragno Editore, 2003, p. 141). 854 La prima manifestazione di ammirazione nei confronti di Sacchi da parte del drammaturgo risale ancora a prima che Gozzi iniziasse a scrivere per la compagnia: si tratta del manoscritto In lode del Sacchi famoso Truffaldino conservato presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (Mss. ital., classe IX, n. 329 =6463). Nell’elogio le capacità attoriali di Sacchi vengono ritenute superiori a quelle del suo “rivale” Francesco Cattoli.

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que’ soccorsi, che ha il Sacchi, a torto invidiato da que’ Comici, che non sanno né la loro Professione, né l’utilità

che può venire a quell’arte ch’esercitano nell’Italia.

La prefazione sembra, o meglio vuole, ricollegarsi a quella scritta per i due drammi seri, e,

infatti le prefazioni, stilate per l’imminente edizione Colombani, furono redatte

presumibilmente nello stesso lasso di tempo: le argomentazioni sono le stesse, ma se nel 1762

la Doride e Il cavaliere amico si erano rivelati fallimentari perché gli attori non erano

preparati nella recitazione di parti serie, all’altezza del 1772 grazie alla lungimiranza del

capocomico, la compagnia poteva esibirsi in qualunque genere di rappresentazione teatrale.

È probabile che Gozzi, in realtà, nel 1762 si fosse reso conto che il pubblico non era ancora

pronto ad accettare con entusiasmo opere prive di maschere, e infatti tra le prime opere

spagnolesche se ne rintraccia qualcuna in cui compaiono ancora le maschere (per esempio ne

Il pubblico secreto e ne Le due notti affannose, rispettivamente 1769 e 1771).

Aver attribuito a Sacchi il merito della variazione del repertorio era anche un abile modo per

scansare la legittima domanda del motivo per cui un autore, che si era dichiaratamente

mostrato strenuo sostenitore della commedia all’improvviso, avesse poi scritto opere per

contenuto e forma molto lontane da essa.

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Il rapporto di Gozzi con gli attori

Nonostante l’ammirazione per la compagnia Sacchi, che tuttavia scemò nel corso degli

anni855, anche Gozzi compì una lucida e spietata analisi della categoria dei comici: essi

imparano fin da bambini ad essere falsi e sono mossi esclusivamente dal proprio interesse

economico, nascosto sotto le espressioni di cortesia e di gratitudine, che svaniscono

immediatamente qualora sia messo in discussione il guadagno. Il mondo dei comici dipinto

dal conte è dominato dalla venalità che li induce a sorvolare su qualunque principio morale o

su qualsiasi riflessione maturata intorno alle possibili conseguenze delle loro azioni: «il tempo

presente è il solo tempo da’ Comici contemplato»856.

Il drammaturgo, pur ammettendo che la cattiveria, e il gusto della sopraffazione sono difetti

che contraddistinguono anche le persone “normali” nota che i comici si distinguono da queste

per la loro superbia e tracotanza anche una volta scoperti: non provano né rammarico né

vergogna ma, anzi, diventano più alteri. Nonostante delinei in maniera così negativa il mondo comico, Gozzi offre, almeno all’inizio

della sua volontaria amichevole assistenza, un quadro positivo della compagnia Sacchi, che

appunto si distingue per spessore morale da tutte le altre857, a tal punto da cacciare i membri

che si macchiassero di qualche scostumatezza e da scegliere i rimpiazzi basandosi più

sull’onestà della persona che sulla sua bravura (o almeno è questa la visione, sicuramente

soggettiva, che Gozzi propone nelle Memorie inutili, nonché la sua giustificazione per la loro

frequentazione858).

855 Nelle Memorie inutili le critiche alla venalità e al carattere irriconoscente dei comici, in particolare di Sacchi, si infittiscono negli anni fino all’espressione da parte di Gozzi di rammarico per l’amicizia e l’aiuto prestati all’intera compagnia: «Condanno me d’essermi immerso a proteggere, e sostenere, e a praticare famigliarmente per divertimento una Compagnia comica mascolina, e femminina» (CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 724). 856 Ivi, p. 423. Con particolare accanimento Gozzi dipinge le comiche che insidiano gli uomini per avere doni e per spogliarli progressivamente dei loro beni e che «adorano la scelleraggine, e disprezzano la onestà, e la discrezione, se per la prima sperano di poter accrescere il loro stato, o appagare la loro ingordigia» ivi, p. 428. 857 Ivi, p. 426: «La unione, la buona armonia, le occupazioni domestiche, lo studio, la subordinazione, il rigore, la proibizione alle femmine di ricever visite, l’abborrimento che queste dimostravano di accettar doni da’seduttori, l’ore regolarmente divise ne’lavori casalinghi, nelle preci, e l’opere di pietà co’ miserabili ch’io vidi nel mio comico drapppelletto, mi piacquero». 858 Ivi, p. 426: «Quantunque io sia spregiudicato, e spoglio da certi riguardi, e non abbia scansato ne’ miei studj sulla umanità giammai di ritrovarmi di passaggio senza ribrezzo alcuno con tutti i generi di mortali, è però cosa certa, che senza la ottima fama de’miei protetti, non mi sarei intrinsecato, e familiarizzato, né avrei scelta la mia giornaliera conversazione con questi nelle ore d’ozio, conversazione che fu allegra, e costante per più di vent’anni».

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La compagnia si guasta nel tempo sia a causa della «giudicata coltura che si pretese di

introdurre in sui teatri, com’anche una certa predicata coltura voluta introdurre nelle famiglie

private, corruppe il costume di queste»859 sia per l’inserimento di nuovi comici «forestieri

[…] che animarono la libertà di pensare, e di operare» e «satireggiavano l’amministrazione

degl’utili, e la condotta. Accusavano d’ingiustizia, di tirannia, e anche di furto, i

disponitori»860. Questo periodo è da stimare pressappoco intorno al 1770-1771: Gozzi scrive,

infatti, cha ha donato alla troupe di Sacchi Le due notti affannose, riscuotendo successo e che

poco dopo avvenne il passaggio al teatro San Luca.

Stando alle Memorie inutili Gozzi decise di scrivere per il teatro per competere sullo stesso

piano con Goldoni e Chiari, oltrechè per la curiosità di accostarsi alla «scenica

popolazione»861 che – precisa – non aveva ancora avuto ancora modo di conoscere.

L’autore asserisce spesso di avere conosciuto e studiato le predisposizioni degli attori per

poter scrivere le parti nel modo a loro più confacente possibile862:

in un breve giro di tempo, studiai, e penetrai filosoficamente tanto bene gli spiriti, e i caratteri de’ miei soldati,

che tutte le parti da me scritte ne’ miei capricci poetici teatrali, composte con la mira all’anima dei miei

personaggi, e a quelli addossate, erano esposte sul Teatro per modo che sembrava che uscissero da’ loro propri

cuori naturalmente, e perciò piacevano doppiamente.

Il veneziano dunque componeva ad hoc per ciascuno degli attori863, una prassi che, se

prestiamo fede alle parole di Gozzi, non era consuetudine tra i drammaturghi dell’epoca:

Questa facoltà, o non è posseduta, o non è esercitata da tutti gl’ingegni che scrivono per i Teatri, ed è

un’industria necessaria da usarsi nelle Compagnie comiche d’Italia, perché la tenuissima contribuzione che

danno per usanza invecchiata gli Spettatori, non dà modo a’ nostri Comici di estendersi a un vasto numero di

Attori, e di Attrici stipendiati, da poter scegliere, e da poter addossare con adeguato equilibrio di proporzione

tutti i varj caratteri che si danno in natura. Da un tale mio studio, e da questa mia penetrazione, imitazione, ed

abilità (studio ch’io non disgiungo dallo studio ch’io feci sull’indole, e sul genio de’miei Ascoltatori) avvenne

molta parte di quel vantaggio all’opere mie teatrali, che non è conosciuto dalla incapacità de’miei pochi censori,

e che le sostenne per tanti anni con quella fortuna che nessuno potrà negare864.

859 Ivi, p. 433. 860 Ibidem. 861 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 416. 862 Ivi, p. 420. 863 Gozzi scrisse per la compagnia nuove composizioni ma fu anche rinovellatore degli scenari che la compagnia gli presentava, il cui linguaggio era desueto e infarcito di termini apodosi tipici del gusto del Seicento. Inoltre preparò prologhi e congedi da recitare in occasione dell’apertura e chiusura di una stagione, scene tragiche e comiche che rientrano nelle commedie improvvisate e che Gozzi, secondo l’uso del tempo, chiama generici. 864 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 420.

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Gozzi non incluse Goldoni865 tra i drammaturghi incapaci di compiere un attento studio sugli

attori disponibili, tuttavia rivelava la maggior facilità del compito del drammaturgo rivale:

scrivere per le maschere è difficile perché era necessario abbinare al carattere dell’attore in

modo appropriato tutte le facezie e le arguzie che le contraddistinguono, senza però ridurle in

scipitezze o in toni graziosi che snaturano le maschere, fino a renderle ridicole o grossolane.

L’osservazione e lo studio dei caratteri dei comici sembra che venga effettuato anche per ogni

nuovo ingresso in compagnia: Gozzi si sofferma in dettaglio sull’analisi di Teodora Ricci, che

entrò nella compagnia Sacchi nel 1771. Benché pro forma (Sacchi infatti aveva già deciso di

scritturarla), il drammaturgo assistette al provino e nei giorni successivi si recò a casa

dell’attrice – scrive - per «farle recitare le sue parti con quegli avvertimenti che mi parvero

necessarj»866, con l’obiettivo «di conoscere l’indole sua per poter comporre delle parti che

stessero bene al di lei carattere»867, scopo raggiunto con la composizione della Principessa

Filosofa, per la cui interpretazione fu istruita dal drammaturgo868.

L’autore si mostra fine intenditore e conoscitore dell’arte attorica nel momento in cui

tratteggia i pregi e i difetti della Ricci: ha buona memoria e voce, un aspetto gradevole e una

capacità di «accomodarsi» in modo elegante per il teatro. I difetti invece sono costituiti dalla

mancanza di attenzione nei dialoghi e dalla scarsa naturalezza in scena, virtù, quest’ultima,

ritenuta da Gozzi necessaria per raggiungere l’auspicata illusione teatrale.

Ugualmente, Gozzi, che aveva assistito anche al provino di Regina Gozzi, la comica

individuata dal Sacchi per sostituire la Ricci dopo la sua partenza per Parigi nel 1777, così si

esprime: «Ella mi recitò quella parte [della Principessa Filosofa] con voce asmatica, con

infiniti controsensi, con una monotonia insoffribile, con una pronunzia del nostro vernacolo

più triviale e plebeo, e con una bassezza d’esporre stomachevole. Volli darle il tuono vero di

recitare, de’ suggerimenti, e farla replicare. Ella cadde costantemente in tutti i difetti di

prima»869. Nonostante il giudizio negativo di Gozzi, Sacchi, invaghito della giovane, decise di

865 CARLO GOLDONI, Prefazione al Prodigo, cit., «Questo rigoroso precetto di adattar le parti agli Attori non lo ha lasciato scritto nessuno, ma io me en sono fatta una legge, e me ne trovo contento. Da ciò riconosco la maggior fortuna delle opere mie sui teatri rappresentate, e da ciò riconoscono i Commedianti il loro concetto». Per la scrittura goldoniana rivolta agli attori, cfr. anche GERARDO GUCCINI, La vita non scritta di Carlo Goldoni. Prolegomeni e indizi, in «Medioevo e Rinascimento», annuario del Dipartimento di Studi sul Medioevo e il Rinascimento dell’Università di Firenze, III, 1992, pp. 341-359, p. 349: «la drammaturgia goldoniana si è svolta in simbiosi con un seguito di comici creativi e di grande personalità, i cui personaggi o tipi scenici preesistevano alle rielaborazioni testuali dell’autore». 866 Carlo Gozzi, Memorie inutili, cit., p. 456. 867 Ivi, p. 457. 868 Ivi, p. 466. 869 Ivi, p. 612.

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scritturarla; dunque, anche se il parere del drammaturgo contò assai poco in questo tipo di

decisione, è però incontestabile la sua perizia ed esperienza dell’arte attorica e l’assunzione,

quasi più di Sacchi, o più precisamente della figura di Sacchi così come emerge dalle

Memorie inutili, di un ruolo “registico” o meglio di guida per i suoi attori: li segue

costantemente nel corso delle prove e talvolta, come si è visto per l’episodio della Ricci, li

invita a casa per far loro provare la parte, per istruirli nei gesti e nelle tonalità di voce da

assumere in particolari passaggi870.

La pratica di ammaestrare i comici e di fornire consigli ad artisti d’altro genere871 era

consuetudine per Gozzi, come egli asserisce:

tutte le persone le quali esercitano le professioni teatrali della Comica, della Musica, della Danza, crederono

d’avere un’indispensabile bisogno del mio consiglio, del mio parere, e del mio ajuto nelle rappresentazioni,

ne’prologhi, negli addii, ne’metri di caricare le note, nelle idee, e nelle direzioni de balli pantomimi tragici,

comici etc872.

L’aiuto di Gozzi viene costantemente richiesto dalla Ricci, anche nel momento peggiore del

loro rapporto: è proprio la parte di Leonora, la protagonista delle Droghe d’amore – pièce che

creò il famoso scandalo a causa del quale il senatore Pietro Antonio Gratarol abbandonò

Venezia - che ella chiese al drammaturgo di ascoltare intervenendo sulle azioni e sul senso873.

870 Ivi, p. 601: «come si fa prediligere, a far grande un’Attrice, ed a porla nel possesso del pubblico favore come fec’io […] ciò si fa esaminando, studiando la di lei anima, il di lei istinto, le di lei inclinazioni, il di lei carattere, la di lei capacità; scrivendo delle parti adattate al di lei naturale; insegnandole, e ripassandole ben trenta volte per una, con cento predicate avvertenze tutte coteste parti». 871 La familiarità di Gozzi con gli attori andava ben oltre la pratica della scena: infatti se egli si offre di aiutare nella recitazione soprattutto le più giovani attrici, non si esime dal fare anche il precettore scolastico, insegnando loro a tradurre dal francese e a scrivere lettere sopra diversi argomenti, inducendole alla riflessione su questioni morali. 872 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 469. 873 Il 10 gennaio 1777 andò in scena al teatro San Luca le Droghe d’amore, dramma spagnolesco gozziano tratto da Celos con celos se curan di Tirso da Molina. Già prima della rappresentazione circolavano voci che la pièce fosse stata scritta dal drammaturgo con l’intenzione di porre in ridicolo il segretario del Senato, Pietro Antonio Gratarol, verso cui nutriva invidia per le attenzioni, corrisposte, verso Teodora Ricci. L’opera, in realtà, stando al racconto gozziano delle Memorie inutili, venne composta nel 1775 durante una breve malattia che costrinse Gozzi a stare a letto. Il risultato fu letto dal drammaturgo al cospetto della Ricci, di Michele Molinari e del dottor Camparetti. Una seconda lettura avviene l’anno successivo alla presenza dell’intera compagnia Sacchi, poi Gozzi, fattala leggere dall’amico Innocenzo Massimo, ne riporta un giudizio negativo: essa è troppo lunga. Il drammaturgo se ne dimentica finchè gli viene richiesta da Sacchi che la ottiene e sottoposta alla Magistratura di revisione, ne ottiene il beneplacito. Frattanto la Ricci teme di intravedere nei panni di Don Adone Gratarol, il quale da ella avvertito chiede al magistrato della bestemmia di rivederla. A questo punto Sacchi, temendo forse di non riaverla, chiede l’intercessione di Caterina Dolfin Tron, peraltro avversaria di Gratarol che lo aiuta. Il dramma è messo in scena e il teatro è pieno di persone. Il giorno successivo il segretario del Senato si rivolge allo stesso Gozzi perché blocchi le rappresentazioni ma invano. Su Caterina Tron e su Le droghe d’amore si legga POMPEO MOLMENTI, Carlo Gozzi inedito, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXVII, 1926, pp. 49-52 e pp. 52-55.

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L’interesse di Gozzi nei confronti delle proprie opere riguarda ogni momento, dalla fase

creativa, vincolata alla considerazione degli attori a disposizione, a quella finale della resa

scenica. Tra le due situazioni si situa la consegna della pièce alla compagnia, un passaggio a

cui il drammaturgo tiene particolarmente: egli infatti presiede sempre alla lettura del testo874,

e anzi è lui stesso a leggerlo ai comici, o, almeno, così si evince dall’autobiografia. Lo scopo

era di segnalare agli attori le intenzioni dei personaggi, che non voleva fossero tradite:

La intenzione de’ sentimenti dello Scrittore d’un’opera scenica è soltanto da lui conosciuta. Senza questa lettura

preliminare, e senza una somma attenzione di chi compose l’opera, s’odono ne’ Teatri moltissimi controsensi da

una gran parte de’nostri Comici per lo più macchine ignorantissime875.

Nella prima metà del Settecento, tale pratica era stata peraltro auspicata da alcuni insigni

letterati per risolvere, almeno in parte, il problema della scarsa capacità degli attori di recitare

dando un significato al testo. L’attribuzione del senso poteva essere raggiunta leggendo

l’opera al cospetto di una persona che sapesse indicare le intenzioni del poeta sottese: è la tesi

sostenuta da Scipione Maffei nella Premessa al Teatro tragico italiano o sia scelta di

Tragedie per uso della scena del 1733876. L’idea del drammaturgo ha il limite di concernere

solo il genere tragico: infatti, secondo la sua opinione, gli spettacoli comici che si basavano

874 Di tutt’altra specie era la lettura compiuta da Alfieri delle sue stesse opere: essa avveniva di fronte a un «semi-pubblico» composto da dodici-quindici individui e surrogava la rappresentazione pubblica, osteggiata dal drammaturgo (Cfr. VITTORIO ALFIERI, Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, Asti, 1951, pp. 229-230). Seppur lontana dal palcoscenico, tale pratica era utile per Alfieri che, osservando le reazioni del suo esiguo pubblico, poteva poi ritornare sopra alcuni passi modificandoli: «e neppur negherò, che anche degli ottimi consigli, e non pochi, mi siano stati suggeriti dopo quelle diverse letture, da uomini letterati, da uomini di mondo, e specialmente circa gli affetti, da varie donne. I letterati battevano su l’elocuzione e le regole dell’arte; gli uomini di mondo, su l’invenzione, la condotta e i caratteri, e perfino i giovevolissimi tangheri, col loro più o meno russare o contorcersi; tutti in somma, quanto a me pare, mi riuscirono di molto vantaggio». Dunque anche per Alfieri una verifica “scenica” – seppure circoscritta - era imprescindibile per qualsiasi opera teatrale, la cui caratteristica sta proprio nell’interazione tra spettacolo e spettatori. Nella risposta a Calzabigi sulla criticata oscurità dei suoi testi, l’astigiano replica che la lingua adoperata, composta prevalentemente di termini contratti e di sincopi, è comprensibile per chi la conosce. Questo destinatario non è individuato nel pubblico che frequentava i teatri a fine Settecento, incapace di cogliere il significato dei versi alfieriani anche per l’incompetenza degli attori. Ancora una volta i comici e gli spettatori italiani sono tacciati di scarsa educazione (Risposta dell’Alfieri al Calsabigi, in Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, Asti, 1978, p. 233: «Mi si dirà: per chi scrivi? Pel pubblico. Ma il pubblico non le sa. In parte le sa; e le saprà meglio, quando ottimi attori, sapendoli perfettamente, reciteranno questi miei versi così a senso, che sarà impossibile lo sbagliare. Il pubblico italiano non è ancora educato a sentir recitare: ci vuol tempo, e col tempo si otterrà»). 875 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 634. 876 SCIPIONE MAFFEI, Premessa al Teatro tragico italiano o sia scelta di Tragedie per uso della scena, Verona, Vallarsi, 1733, I, p. 21: «prima di esporsi a una tragedia, [gli istrioni dovrebbero] leggerla in presenza di qualche intendente da cui fossero avvertiti dell’intenzione del poeta e de’passi più nobili e singolari, poiché questi dovrebbe l’attore con un certo trattenersi e con espressione e enfasi particolare quasi darne cenno all’uditore, essendo per altro in mano di chi recita il far languire i più bei passi del mondo e il fargli perdere inosservati. Dovrebbero ancor provar le azioni e consultar certi modi, niente di meno di quello che ne’drammi per musica si faccia».

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sull’improvvisazione, avevano minor difficoltà nel catturare l’attenzione del pubblico, sia

perché più divertenti rispetto alle scene tragiche ed enfatiche, sia perché i comici, non avendo

bisogno del suggeritore, riuscivano a rendere più fluida la recitazione877.

I riferimenti alla consuetudine di leggere insieme agli attori tutta l’opera, sia essa comica o

tragicomica, sono invece numerosi all’interno delle Memorie inutili:

Letta da me quell’opera [La principessa filosofa] a tutta la comica assemblea, si proruppe nelle consuete

eccessive lodi, e nella consueta esultanza.

L’osteria del Salvatico, in cui s’era radunata la Compagnia comica ad un pranzo, ebbe la cattedra della lettura

che per antipasto io feci dell’opera mia, a quella allegra commitiva.

Fatta ch’ebbi la disposizione delle parti in iscritto sull’opera licenziata, doveva io per consuetudine necessaria far

la lettura agl’Attori, e alle Attrici radunati che dovevano rappresentarla.

Mi portai alla prima prova d’un’opera scenica che aveva donata alla Compagnia, la qual prova non era che una

lettura d’incontro delle parti distribuite con tutti gl’Attori, e le Attrici seduti in circolo878.

Una volta compiuta la prima lettura, ci si trasferisce sul palcoscenico, dove Gozzi presenzia

alle prove. Lo si deduce, per esempio, da un passo delle Memorie inutili: allorché i comici alla

seconda prova delle Droghe d’amore non vedono lo scrittore, si precipitano a casa sua per

chiedergli spiegazioni879.

877 La presenza del suggeritore, che interveniva spesso perché gli attori non imparavano la parte, era peraltro un altro problema della recitazione nel Settecento. Maffei ed altri teorici insistettero proprio su questo punto: i comici dovevano necessariamente sapere a memoria le loro battute in modo da rendere scorrevole le scene e da raggiungere il più alto grado di verosimiglianza sul palcoscenico (Ibidem: «Bisogna infine che si contentino gl’istrioni d’imparar perfettamente a memoria, perché senza questo, troppo la scena languisce: nuoce molto l’uso di non mettersi nella mente i richiami aspettando però l’avviso di chi suggerisce; poiché nelle scene vive e di forza, quando somma prontezza richiedesi e quando anche prima di parlare l’atteggiamento dee preparar la risposta, freddissima e scipita cosa riesce veder l’attore come una statua star aspettando la voce di chi rammenta»). Ugualmente si esprime Giulio Cesare Becelli nella Prefazione al Teatro di Maffei (Verona, Tumermani, 1730, p. XXIX): «corregger si potessero [gli errori] che alcuni comici commettono, a cagione del non intender le parole, né la forza dell’azione; ovvero per la freddezza e la confusione nascente dal non averle bene a memoria». 878 Carlo Gozzi, Memorie inutili, cit., rispettivamente p. 462, p. 526, p. 634 e p. 499. 879 Cfr. Carlo Gozzi, Memorie inutili, cit., p.

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Le indicazioni sceniche nelle ossature delle “vecchie” e “nuove” carte

Da una complessiva analisi del Fondo Gozzi emerge che le ossature delle fiabe, ossia gli

scritti gozziani consistenti nel paino dell’autore in via di definizione, (intese come tutte le

stesure appartenenti alle fasi da noi chiamate β, γ, e δ) presentano indicazioni o riflessioni

riguardanti diversi coefficienti scenici; inoltre, in alcuni casi, anche la fase α, costituita da un

semplice appunto, mostra la particolare attenzione del drammaturgo verso dettagli inerenti a

una possibile messinscena.

A completare il quadro, esistono anche le due ossature rinvenute nei “vecchi” manoscritti

marciani del Corvo e del Re cervo, recanti annotazioni riguardanti soprattutto il momento

della metamorfosi, rispettivamente di Jennaro in statua e del re Deramo in cervo e,

immediatamente dopo, di Tartaglia nel re880.

Fin dal momento dell’ossatura, dunque, Gozzi si pone il problema della resa scenica delle sue

pièces, soprattutto in concomitanza dei nodi cruciali, che pensa a come tradurre in termini

visivi. D’altronde il drammaturgo aveva già esposto il suo modus operandi nella Più lunga

lettera di risposta in un passo a cui spesso la critica ha attribuito importanza più perché

contiene l’enucleazione del metodo di lavoro gozziano, ricalcando i tre “respiri” alfieriani,

che per l’affermazione espressa dall’autore di accingersi a scrivere solo dopo aver “visto”

l’intera favola dipanarsi teatralmente nella sua immaginazione:

io non mi sono mai posto allo scrittoio per scrivere una Favola da esporre in su le scene, se non la vidi

prima in tutta la sua estensione coll’occhio mentale; né prima di porre in assetto una diligente ossatura

di viluppo atto ad interessare, e facile da svilupparsi; di proporzionata divisione di atti conciliabili colle

decorazioni, di apparecchio di circostanze, di scene attese da’ spettatori, di avvertenze, di condotta, e

con quell’ordine, di cui i miei generi che per lo più hanno un aspetto d’una novità capricciosa, sono

suscettibili, non mi sono giammai recato a dialogarla881.

880 Per l’argomento si veda anche VINCENZA PERDICHIZZI, Didascalie ed indicazioni registiche nelle Fiabe di Gozzi, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur: un carrefour artistique européen, atti del Convegno di studi, (Università Paris-Sorbonne, 23-25 novembre 2006), a cura di Andrea Fabiano, in «Problemi di critica goldoniana», numero speciale, 2007, XIII, pp. 93-105. 881 CARLO GOZZI, La più lunga lettera di risposta che sia stata scritta, inviata ad un poeta teatrale de’nostri giorni. Giuntivi nel fine alcuni frammenti tratti dalle stampe pubblicate da parecchi Autori, e de’ comenti dallo stesso Gozzi fatti sopra i frammenti medesimi, in Opere edite ed inedite, Venezia, Zanardi, 1801-1804, 14 voll., XIV, p. 25.

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Il passo testimonia inequivocabilmente che lo scrittore compiva un lavoro “a tavolino” già

concependo come fine ultimo la rappresentazione: nel momento di iniziare a scrivere una

fiaba Gozzi pensava a un’ipotetica vita di essa sul palcoscenico; e proprio dalle ossature si

rinvengono tracce di quanto il drammaturgo si figurava con l’occhio mentale.

Esclusa l’Analisi riflessiva della fiaba L’amore delle tre melarance perché, come recita il

titolo, si tratta di un’analisi riflessiva e dunque di un prodotto consuntivo, posteriore alla

messinscena, che traspone su carta il ricordo dello spettacolo, esaminando le “vecchie” e

“nuove” carte manoscritte è possibile reperire indicazioni – siano essi suggerimenti, appunti o

vere e proprie didascalie - non trascritte nell’edizione Colombani, sulla scenografia e sugli

oggetti di scena, sugli attori (loro posizione, entrate-uscite, gesti e tonalità di voce), sulla

coreografia (intesa come i movimenti corali dei personaggi), sulla musica (sia essa melodia o

semplice suono) e sulla luce.

Nell’ossatura del Corvo ci imbattiamo in un paio di scene sicuramente ambientate sulla nave

con cui Jennaro torna a Frattombrosa: nella mente dell’autore l’imbarcazione doveva stare sul

palcoscenico ed essere una costruzione praticabile, dal momento che in essa si trovavano

anche i due regali maledetti portati al fratello Millo, il falcone e il cavallo, che dovevano

scendere dalla nave subito dopo l’abbraccio dei due fratelli. Dalla lettura delle carte marciane

ricaviamo anche che Gozzi immaginasse questa scena svolgersi su due piani: un secondo

piano rialzato in lontananza, “abitato” da Jennaro, Armilla e gli animali e un primo piano

occupato dal blocco di personaggi Millo, Truffaldino, Brighella e Pantalone; quest’ultimo

correva su e giù per la scaletta che congiungeva i due piani e che testimoniavano lo sbarco. Il

momento di sospensione dovuto all’esitazione di Jennaro a scendere dalla nave per primo a

riabbracciare il fratello, insinua immediatamente in Millo il sospetto che il giovane sia

innamorato di Armilla e che non voglia separarsene; questo dettaglio viene però eliminato

nelle versioni verseggiate successive (Coε1 Coε2) forse perché non realizzabile sul

palcoscenico del Teatro San Samuele o per altri fattori pratici.

Nell’ossatura del Corvo è scritto e poi cassato quanto segue:

Si potrà fare un riflesso al Re sopra parole dette dal fratello di non coricarsi con la sposa temere

tradimenti e sedere sopra una poltrona in anticamera dove s’addormenterà. Prime parole di confusione.

Il colpo del fratello potrà tagliare la poltrona882.

882 Ivi, c. 3v.

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Stendendo per la prima volta tale scena, il drammaturgo l’aveva immaginata carica di pathos:

Jennaro avrebbe dovuto colpire proprio la poltrona su cui era sdraiato il fratello; ma Gozzi

torna molto presto su questa soluzione per cambiarla con una di minor effetto emotivo e

visivo (Jennaro colpisce la porta dietro cui si trova la camera degli sposi). Evidente è la

straordinaria forza drammatica impressa alla scena fin dalla primigenia scrittura: l’autore

avrebbe semplicemente potuto descrivere l’ingresso del fratello nella camera con la spada in

mano sguainata all’inseguimento dell’invisibile drago, ma, invece, queste carte preparatorie

dimostrano che la stesura gozziana si delinea veramente come la trasposizione delle immagini

che l’occhio mentale del conte si figura e che, successivamente, giungono direttamente al

palcoscenico.

Nel manoscritto marciano della Rappresentazione del Re cervo, individuato come «il copione

probabilmente impiegato per la prima rappresentazione» da Paolo Bosisio883, le indicazioni

sceniche, assenti nell’edizione, sono molteplici, a cominciare dall’annotazione «Per la

decorazione» che segue l’elenco dei personaggi. Essa comprende: «Due mezzi busti di stucco

sopra due tavolini come si dirà a suo loco. Due cervi movibili fatti d’uomini. Un pappagallo

movibile e volante. Un orso e cani. Un bosco come sfondo ben decorato con alberi»884.

Manifesta è la destinazione per lo spettacolo delle indicazioni offerte dal drammaturgo in

questo passo: infatti specifica che i cervi siano degli uomini, che il pappagallo non possa

essere solo un fantoccio statico ma debba anche muoversi, e il bosco è ben determinato - deve

essere pieno di alberi – sicché non sembra una didascalia generica. Quest’ultima precisazione

non è superflua se si tiene conto che nella Rappresentazione del re cervo, a differenza del Re

cervo edito, le trasformazioni del re Deramo e di Tartaglia avvengono in un altro modo – che

esamineremo più avanti – per cui è necessario che ci siano alberi dietro cui gli attori possano

sostituirsi tra loro.

Che Gozzi pensasse alla realizzazione scenica durante la scrittura della Rappresentazione del

re cervo emerge anche dalla seguente didascalia:

Gabinetto regio con due sedili ricchi nel mezzo, due tavolini alle parti un poco più in dietro, sopra ai

quali due mezzi busti di stucco bianchi. Quello della parte dove dovrà sedere il re sia un uomo vivo

nascosto fino al petto nel tavolino e artefatto con cartoni o altro, sicché sia similissimo nella struttura

all’altro stucco vero. Sia bianco tutto sino gl’occhi che terrà chiusi sicché l’udienza non s’avveda che

sia uomo vivo. Sieno tuttidue questi stucchi bene illuminati e posti in modo da esser ben scoperti

883 PAOLO BOSISIO, Gli autografi di «Re Cervo» una fiaba scenica di Carlo Gozzi dal palcoscenico alla stampa con le varianti dedotte dagli autografi marciani, in La parola e la scena. Studi sul teatro italiano tra Settecento e Novecento, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 55-157: il riferimento si trova a p. 57. 884 La rappresentazione del re cervo, cc. 32r-v.

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dall’uditorio. L’uomo stucco riderà a suo tempo come si dirà più e meno, ma col gesto solo del viso, e

non con la voce mai. L’uomo che farà questa comparsa abbia viso grande, e abilità di far viso ridente, e

viso serio quando occorra885.

Nell’edizione la precedente didascalia è così resa:

Si cambia la scena, che rappresenterà il gabinetto regio di Deramo, con porta di facciata. Ai lati della

porta vi saranno due nicchie, e in queste due mezzi busti di statue. Il mezzo busto sulla sinistra sarà un

uomo vivo congegnato sino alla cintura, e bianco in modo, che l’uditorio lo creda uno stucco, simile a

quello della destra. L’uomo, che rappresenterà questo stucco, sia comico ed abbia abilità di assecondare

le scene, che seguono, come si vedrà notato. Questa statua si suppone esser uno de’ due gran segreti

magici, donati da Durandarte, negromante, al re Deramo, accennati dal Cigolotti, prologo. Nel mezzo al

gabinetto, vi saranno dei cuscini all’orientale da sedere886.

Confrontando la didascalia con la corrispondente del manoscritto emergono particolari

significativi: nella Rappresentazione del re cervo Gozzi spiega come intende che sia fatto lo

stucco, la parte inferiore del corpo dell’attore dovrebbe essere nascosta con «cartoni o altro»,

il trucco bianco dovrebbe coprire anche gli occhi e i due stucchi dovrebbero essere illuminati,

cioè ben visibili al pubblico in modo – intuiamo – che esso possa cogliere il lieve movimento

delle labbra dello stucco “vivo”, che sorride ogni volta che una donna, aspirante alla mano del

re, mente. Inoltre l’autore raccomanda che la parte sia affidata a un attore che «abbia viso

grande, e abilità di far viso ridente, e viso serio quando occorra»: dunque la cura per la

realizzazione scenica da parte del drammaturgo emerge chiaramente e riguarda ogni dettaglio,

dalla luminosità della scena – un’indicazione tecnica – a un consiglio sull’attore da scegliere,

suggerimento che attiene alla composizione della compagnia Sacchi.

Se nell’edizione a stampa la fiaba termina con l’apparizione di Durandarte, la sua rinuncia a

essere mago e la chiusa che «si rinnovellino colle solite rape, e i consueti sorci le nozze»887,

ben diversa si configura la scena finale della Rappresentazione del re cervo, certamente

spettacolare:

Cigolotti batterà il suo fucile, appiccherà fuoco a una carta, questo fuoco accenderà una macchinetta o

ruota di fuochi artifiziati.

885 Ivi, I, 4. 886 Ivi, I, 7. 887 CARLO GOZZI, Il re cervo, in Fiabe teatrali, a cura di Paolo Bosisio, Roma, Bulzoni, 1984, p. 210, III, scena ultima.

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Rispetto alla versione edita, Gozzi prospettava un finale più imponente e maestoso dal punto

di vista visivo, che avrebbe lasciato sicuramente a bocca aperta il pubblico; il drammaturgo

aveva ideato tale conclusione non in modo generico, ma, al contrario, pensando alle

straordinarie capacità tecniche di un attore delle compagnia, Giuseppe Simonetti, dalla cui

mano, tra l’altro, proviene uno scritto inedito del Fondo Gozzi che ne attesta l’abilità di

“fuochista”.

Ciò dimostra ulteriormente la tesi secondo cui l’autore scriverebbe a tavolino pensando già

alla scena e si preoccuperebbe di abbozzare qualche idea per le risoluzioni sceniche, a

testimonianza, anche del fatto che in realtà, la scrittura delle fiabe non costituisce per il

drammaturgo solo un passatempo, bensì un impegno serio e a cui dedicare molto tempo, tesi

supportata dalle numerose ossature ritrovate nel Fondo Gozzi, documentanti l’incessante

lavoro di revisione operato su esse.

Nell’ossatura della Zobeide l’attenzione per la scena emerge in modo ancora più evidente:

Gozzi appunta infatti: «camera per controscena per preparare la camera dell’incendio»888.

L’annotazione rinvia alla necessità che ci sia una «camera» per permettere di allestire la scena

della pioggia di fuoco, la terza del quarto atto della fiaba; e infatti le prime due scene di

quell’atto sono ambientate genericamente al «campo» e si può quindi ipotizzare che i

personaggi presenti in esse agissero in primo piano, per permettere, dietro, di allestire la scena

“magnifica” seguente. Gozzi, dunque, già nello stendere l’ossatura, si appunta la necessità

scenica segnalata.

Sono le didascalie riguardanti le metamorfosi le parti su cui Gozzi mostra di soffermarsi

maggiormente e da cui si evince che, seppure in embrione, aveva qualche idea sul modo di

realizzare queste trasformazioni, che costituiscono le scene cardine nelle fiabe di magia, su

cui sicuramente sia il drammaturgo che gli attori e l’allestitore si saranno sicuramente a lungo

soffermati per stupire gli spettatori.

Scrive Ermanno Caldera, a proposito delle commedie di magia di area spagnola cinque-

seicentesche, con cui il veneziano intrattiene, peraltro, un incessante “dialogo a distanza” e

mutua alcune “circostanze”:

ma questo tipo di teatro [le commedie di magia] ci offre anche rapporti più sottili, come quello che

vincola l’attore alla scena e viceversa. Quando, secondo un’operazione magica non infrequente, un

personaggio si trasforma in statua, non solo assistiamo al ripetersi del gioco delle apparenze […] ma

accade pure l’insolito fenomeno di un attante che entra a far parte della scenografia. Nel caso opposto,

anche più frequente, delle statue che si animano, si verifica il fenomeno, altrettanto o forse anche più

888 Zobeide, cit., c. 28r.

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curioso, di un tratto di scena che assume funzioni di attante. È chiaro che, attraverso una siffatta osmosi,

si viene a ottenere una compattezza spettacolare che la commedia di magia non condivide con

nessun’altra opera “de teatro”, dal momento che il motivo delle statue animate è esclusivamente suo889.

[…]

Anche le comparse e scomparse improvvise dei personaggi rappresentano un modo di impiego totale

delle possibilità delle scena, oltre ad essere una forma rivoluzionaria di entrata e di uscita. Solitamente

l’attore poteva entrare in scena o uscirne penetrando attraverso le quinte laterali o da aperture praticate

nel fondale. Ma nelle commedie di magia gli si offrivano molte altre possibilità: poteva sprofondare o

spuntare dal pavimento attraverso botole (escotillones), […] o comparire improvvisamente e altrettanto

improvvisamente scomparire in senso orizzontale grazie a una piattaforma girevole (devanadera).

Dall’analisi delle ossature emerge che Gozzi non si limita a scrivere affidando poi

completamente la risoluzione delle scene di magia agli addetti al lavoro, ma, anzi, si appunta

per sé - e presumibilmente per la compagnia - almeno l’idea relativa al modo di effettuare la

trasformazione, anche se poi non si occupa della sua realizzazione materiale.

Nel caso della Rappresentazione del re cervo, per esempio - che di ossatura non si tratta bensì

di un testo verseggiato ed interamente compiuto – Gozzi si preoccupa di risolvere il doppio e

ravvicinato mutamento di Deramo in cervo e di Tartaglia in re. Scrive infatti a proposito della

trasformazione del primo personaggio:

Deramo si farà sopra a un cervo morto. Anderà dicendo il detto verso in piedi e anderà morendo, finito

il verso caderà giù per la riva del fiume, il cervo risusciterà e correndo entrerà par una scena. Tartaglia:

O maraviglia! O diavolo il corpo del re se ne va giù per il fiume (corre e piglierà per i piedi l’altro corpo

somigliante al re) […] Si farà sopra il corpo del re, dirà il verso “cra, cra, etc.” con fretta

imbrogliandosi con dispetto, anderà morendo con lazzi, all’ultima aprola del verso caderà morto il

corpo di Tartaglia giù per la riva del fiume, risusciterà l’altro corpo somigliante al re, il quale sarà il

signor Fiorilli giovane accomodato con arte a somiglianza, e qui sarà dietro la riva del fiume cambiato il

corpo di Tartaglia con un Tartaglia di stracci890.

Rispetto alla versione edita ci sono numerose variazioni:

[Tartaglia] anderà verso il corpo del re , e mentre vorrà dire il verso, adirassi strepito di corni, e di

cacciatori, che usciranno seguendo un orso. Tartaglia spaventato si ritirerà. I cacciatori entreranno

inseguendo l’orso. Uscirà un uomo nella forma di Tartaglia a tale, che s’assomigli a segno d’ingannare,

si farà sopra l’corpo del re. Tartaglia dirà in poca distanza il verso cra cra, ec. quel suo simile

889 ERMANNO CALDERA, Sulla “spettacolarità” delle commedie di magia, in Idem (a cura di), Teatro di magia, Roma, Bulzoni, 1983, rispettivamente p 24 e p. 28. 890 La rappresentazione del re cervo, c. 18v.

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accompagnerà le parole col gesto, caderà morto, risusciterà il re. Nuovamente di ritorno usciranno i

cacciatori inseguendo l’orso, il re si ritirerà. Partito l’orso, e i cacciatori, uscirà nuovamente Tartaglia in

forma di Deramo. Avvertasi, che sin dal principio Deramo dovrà avere una maschera, per poter con

altra simil maschera accomodar al possibile la somiglianza di questi due personaggi.

Non ci soffermiamo sulla rilevanza sostanziale del modo in cui avviene la trasformazione, già

sottolineata da Bosisio e Beniscelli891 e che documenta una “preistoria” dell’ideazione della

fiaba; preme piuttosto evidenziare come Gozzi abbia tentato di risolvere questo passaggio

delicato e difficile da rendere scenicamente, o comunque abbia abbozzato una personale idea

di risoluzione che, a differenza dell’edizione a stampa, prevedeva la presenza di un corso

d’acqua in scena, o comunque all’interno del fondale, verso cui l’attore che impersonava

Deramo sarebbe dovuto andare, in modo che, non visto dal pubblico, potesse essere sostituito

da Antonio Fiorilli. Queste annotazioni «provano il radicamento di Gozzi alla concreta pratica

della scena, al centro della quale sta il pieno riconoscimento di ruoli, competenze, studio»892.

Notevole è lo stratagemma appuntato dal poeta a proposito del modo di far parlare il cervo

dentro a cui si trova l’anima del re, assente nella Colombani:

Il vecchio morto che sarà Deramo parlerà per il cervo con qualche canna che vada a riferire vicino al

cervo, il quale farà il gesto solo.

Il cervo uscirà, si porrà vicino al vecchio morto, il quale parlerà per il cervo per conservare l’illusione.

Nei codici marciani “vecchi” si è conservata anche un’altra versione della Rappresentazione

del re cervo, anteriore a quella a cui abbiamo fatto riferimento fino ad ora: in essa, che si

presenta in versi – e quindi testimonia una fase già evoluta del lavoro sul testo – Gozzi si

sofferma con indicazioni tutt’altro che generiche sulla trasformazione finale di Tartaglia in

cervo, momento clou che sancisce la conclusione della fiaba e scena difficile da realizzare con

arte tanto che l’autore scrive:

(qui due guardie portano dentro il morto dentro ala quale converrebbe che fosse il signor Fiorilli perché

la scena è forte, e con altra persona dentro non riuscirà, massime dovendo il cervo morire con rabbia e

somma agitazione di gesti accompagnati dalla voce e dalle parole. Egli ha del tempo assai da prepararsi

perché non ha più parte nella commedia dopo la scena sesta del secondo atto, e la fatica di far da

891 Si veda PAOLO BOSISIO, Gli autografi di «Re Cervo»… cit., e ALBERTO BENISCELLI, Il re cervo in Carlo Gozzi, Re cervo, adattamento di Marco Sciaccaluga, Genova, Edizioni del Teatro di Genova, 1991, pp. 11-60. 892 ALBERTO BENISCELLI, Nel laboratorio delle Fiabe, tra vecchie e nuove carte, in Carlo Gozzi entre dramaturgie de l’auteur et dramaturgie de l’acteur…, cit., p. 82.

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animale batte in questa sola ultima scena. Questo cervo morto sarà posto dalle guardie sulla scena in

sito opportuno al caso che dovrà nascere)893.

Tale didascalia rimanda chiaramente alla scena: il drammaturgo non solo si preoccupa di

risolvere i nodi cruciali, ma in questa postilla addirittura suggerisce quale attore dovrebbe

“interpretare” la parte del cervo moribondo, e lo individua con certezza, segno, da una parte,

della profonda conoscenza degli attori della compagnia Sacchi – sebbene fossero solo alcuni

anni che vi lavorava insieme, dato che lascia supporre un’assidua frequentazione delle scene –

e, dall’altra parte di una competenza dell’autore nelle fasi di costruzione di uno spettacolo.

Inoltre Gozzi, da profondo conoscitore dell’intera macchina teatrale, non si accontenta di

parlare di un generico attore, ma consiglia/suggerisce/ordina alla compagnia chi debba essere:

Fiorilli, oltre e essere un versatile comico, può facilmente prepararsi per questa

trasformazione perché ha molto tempo a disposizione dalla sua ultima apparizione in scena.

E, ancora, dopo l’ultima trasformazione di Tartaglia finto re in cervo, Gozzi annota:

«s’avverte il re a cadere in uno scorcio che la sua bocca non resti in vista all’uditorio»;

l’insistenza su questo dettaglio è motivata dal fatto che l’attore dovrà poi prestare la sua voce

al cervo, senza però che gli spettatori se ne accorgano.

Ciò che emerge da questa rassegna di esempi, oltre al fatto che Gozzi non sia indifferente alla

trasposizione scenica delle sue opere ma anzi tenti di risolvere – almeno sulla carta – alcuni

nodi cruciali, è la maggiore quantità di cadute, di stratagemmi scenici e di sostituzioni che

nell’occhio mentale dovevano avvenire sul palcoscenico, rispetto a quanto si osserva nelle

didascalie delle versioni edite. L’effetto immaginato da Gozzi nello stendere i manoscritti è di

maggiore meraviglia, stupore e movimento.

Come gia rilevato nel capitolo relativo alla Donna serpente, Gozzi nel Serpente indugia

maggiormente sui dettagli della trasformazione di Cherestanì nell’animale: «si cambierà in

serpente dal petto in giù e farà una bella caduta, se occorre»894, indicazione sostituita nella

versione edita dalla semplice annotazione «si trasforma in un orrido e lungo serpente dal collo

in giù, cadendo protesa a terra»895. Nella prima didascalia Gozzi sembra suggerire all’attrice,

che interpretava la principessa, di cadere al termine del suo monologo, consiglio che la donna

pare abbia seguito.

893La rappresentazione del re cervo, cc. 36v-37r. 894 SR, c. 22r., II, 11. 895 Carlo Gozzi, La donna serpente, in IDEM, Fiabe teatrali, a cura di Alberto Beniscelli, Milano, Garzanti, 1994, p. 274, II, 13.

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Metamorfosi e travestimenti sono le categorie su cui l’autore dimostra di soffermarsi

maggiormente: si veda, sempre all’interno del Serpente, il travestimento di Pantalone nel

mago Chesaja, durante il quale «la voce passerà una quinta o due più innanzi»896 e in cui la

maschera, toccandosi il mento rimasto senza la barba finta, scoprirà la caduta del suo

camuffamento. La stessa minuzia descrittivo-prescrittiva si riscontra nella scena successiva, in

cui Togrul si traveste da Atalmuc, padre di Farruscad: «Togrul da vecchio venerando curvo

con bastone, con turbante e vestito regio, deformato con barba, ciglia e capelli bianchi»897. La

descrizione differisce dalla più breve e sommaria didascalia dell’edizione a stampa: «Togrul

uscirà trasformato in un vecchio re, vestito riccamente»898. E ancora, si leggano le seguenti

righe, a dimostrazione della perizia e dell’interesse dell’autore per la realizzazione dello

spettacolo:

L’effetto dell’antecedente scena, e di questa, dovrà nascere dalla diformazione del Magnifico, e di

Togrul a tale che l’uditorio non possa conoscerli nella figura per quei comici che sono, anzi creda che

siano quelli de’quali s’udiranno le voci sino al punto della trasformazione e s’avverte che chi recita di

dentro deve il più possibile stare nascosto e recitare con energia e senso, e non leggere, concertando

prima molto bene il premeditato co’ gesti del compagno. Le figure del Magnifico e di Togrul travestiti

devono essere serie e magnifiche. Togrul: uscendo dalla parte opposta a quella del Magnifico,

accompagnando voce da vecchio ma energico899.

Le annotazioni gozziane concernenti gli attori sono di due tipologie: la prima riguarda la

posizione che devono occupare sul palcoscenico, la seconda le modalità attoriche, siano esse

movimenti o intonazione della voce.

Per esempio, nell’ossatura del Corvo Gozzi scrive: «Angela e Smeraldina assise sopra una

pietra stanno co’ fazzoletti agl’occhi piangenti»900, asserzione che lascia presupporre, in

questa scena, la presenza di almeno due sassi che possano fungere da sedili. Gli stessi oggetti

scenici si ritrovano spesso impiegati con la medesima funzione in altre fiabe ed è perciò

possibile ipotizzare che facessero parte delle “robbe per la scena” di cui la compagnia Sacchi

era dotata . Il particolare sparisce nella versione edita, sicché, in mancanza di una didascalia

precisa, si è portati a immaginare che la scena in cui Jennaro confida ad Armilla il motivo per

cui l’ha rapita preveda i due attori in piedi, presumibilmente l’uno di fronte all’altra, mentre

896 SR, c. 8v., I, 7. 897 SR, c. 9v., I, 8. 898 CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 242, I, 8. 899 SR, c. 9v., I, 8. 900 Il corvo , c. 1r.

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l’ossatura lascia intravedere la possibilità che la confessione del giovane avvenga o mentre

egli è seduto a fianco della donna o, secondo noi più verosimilmente vista l’intonazione

patetica e concitata delle battute del giovane, muovendosi intorno al sasso su cui siede

Armilla inerme.

Proseguendo nella lettura dell’ossatura ci si imbatte nella annotazione: «Celio Principe mago

cala d’alto sul dosso d’un’aquila». Gozzi ipotizza una discesa dall’alto del mago, come le

divinità classiche, ma, nell’edizione a stampa il negromante, che nel frattempo ha preso il

nome di Norando, «appare dal mare sopra un mostro marino»901; dunque egli emerge dal

basso, o, comunque, dallo stesso piano del palcoscenico. Probabilmente il drammaturgo, dopo

essersi confrontato con lo spazio del teatro San Samuele e con il materiale di scena degli

attori, opta per un ingresso più facile da eseguire, che potrebbe essere la semplice entrata da

una quinta o anche dal basso, utilizzando una botola, la cui esistenza è certa perché è

adoperata per l’uscita di Jennaro nella stanza del fratello nell’atto seguente.

Nella Rappresentazione del re cervo si ha la sensazione che Gozzi veramente trasponga su

carta quello che vede con l’occhio mentale: è il caso della scena in cui la statua-uomo viene

sostituita con uno stucco vero:

Qui entreranno guardie le quali si porranno con le schiene celando i due tavolini dai busti sicché, senza

che l’uditorio s’avveda, l’uomo di stucco si ritirerà e in suo luogo sarà posto uno stucco vero

somigliante. Poi le guardie con arte disoccuperanno la veduta de tavolini.

La descrizione si presenta come il riflesso dell’immaginazione dell’autore: sul palcoscenico le

guardie devono posizionarsi in modo da coprire le due statue – quindi è ipotizzabile che vi

siano due-tre comparse per statua – e, nel frattempo, l’attore-statua deve indietreggiare,

presumibilmente scivolando dietro la quinta più vicina e, contemporaneamente, al suo posto

deve essere messo uno stucco finto. Questo meccanismo complesso e sincronizzato sparisce

nella versione edita, in cui si registra semplicemente:

Entrano le guardie; […] occupano le due statue; vien cambiato l’uomo statua occultamente con uno

stucco verosimilissimo. Smeraldina parte. Le guardie la seguono902.

Scompare, dunque, ogni accenno al movimento dell’attore, sostituito semplicemente dalla

soluzione generica «vien cambiato», e si risolve il modo con cui liberare la scena dalle

901 CARLO GOZZI, Il corvo, in IDEM, Opere, a cura di Giuseppe Petronio, Milano, Rizzoli, 1962, p. 103, I, 7. 902 IDEM, Il re cervo, in Fiabe teatrali, cit., p.168, I, X.

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guardie che escono dietro a Smeraldina, mentre l’ossatura testimonia come Gozzi dovesse

ancora trovare un’altra soluzione plausibile perché le guardie lasciassero visibilità agli stucchi

(nell’ossatura, la didascalia era spostata rispetto alla posizione in cui si trova nella versione

edita, perciò il drammaturgo non poteva sfruttare la dipartita di Smeraldina per liberare la

scena).

Per ottenere una maggiore efficacia scenica, Gozzi si sofferma anche a puntualizzare alcune

entrate e uscite a cui non ne corrispondono di analoghe nelle versioni edite: per esempio, nella

seconda stesura in versi della Turandot contenuta nel Fondo Gozzi (Tufε2), si legge: «Qui

vedrassi innalzarsi al di dentro della porta della città un brutto carnefice etc.»903. Il termine

“qui” pare alludere al significato “in questo punto dello spettacolo”, cioè indicare con

precisione il momento in cui il carnefice deve apparire per la prima volta sul palcoscenico.

Ciò avviene contestualmente all’incipit della narrazione di Barach a Calaf sul comportamento

malvagio della principessa Turandot, a voler quindi accentuare l’atmosfera lugubre e

spaventosa che il racconto del servitore del principe instaura, tanto che Gozzi, sul foglio

manoscritto, fa sparire il boia al termine di questa prima battuta di Barach, mentre nel testo

edito il carnefice compie una fugace apparizione prima che egli incominci a parlare con il

principe. È evidente che, se al lettore poco importa sapere quando il carnefice si ritira dalla

scena, viceversa questa comparsa è significativa, da una parte per chi esegue lo spettacolo e

dall’altra, dal punto di vista visivo, per lo spettatore che vede il boia entrare in scena e

infiggere l’ennesimo scalpo dell’ultimo pretendente proprio nel momento in cui Barach addita

a Calaf il palazzo reale. Inoltre, in questa stessa stesura, il carnefice è reso con particolari

ancora più cruenti: non solo ha le braccia ignude e gronda di sangue, ma ha anche «gran

mustacchi», che dovevano essere facilmente visibili dal pubblico.

Anche in fase avanzata del lavoro compositivo, nell’atto di stendere in versi le fiabe, si

rintracciano indicazioni relative ai movimenti che devono compiere gli attori: è il caso della

Zobeide, in cui Gozzi, a fianco della scrittura del monologo di Sinadabbo, il moro malvagio

che imprigiona e trasforma in animali le sue numerosi mogli, aggiunge: «frema Salè rinchiusa

in quella grotta nella sua miseria / accenna a una delle grotte»904, da cui si deduce che l’attore

deve indicare con un gesto la grotta in cui sono rinchiuse le donne. Il particolare è

significativo anche perché permette di supporre che la scenografia “ideale” supposta da Gozzi

903 Tufε2, c. 7r. 904 Zobeide, c. 8r.

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sia composta da più di una grotta, mentre nell’edizione a stampa la didascalia iniziale si limita

a delinearne solamente una al centro della scena905.

La vexata quaestio relativa alla presenza della musica nelle rappresentazioni fiabesche è stata

spesso posta, soprattutto, in anni recenti da Gérard Lucianì906, il quale ritiene che essa non sia

stata solo una debole “ancilla” dello spettacolo, ma, al contrario, abbia accompagnato spesso i

momenti salienti delle composizioni di magia. Nel materiale del Fondo Gozzi relativo alle

Fiabe non è stata rinvenuta alcuna annotazione musicale, anche se la presenza in esso di piani

per comporre balli, nonché di riflessioni sull’opera musicale, testimonia l’inclinazione - fosse

anche solo per curiosità - del veneziano verso la musica, interresse da lui mai manifestato

negli scritti teorici.

Relativamente alle Fiabe, ciò che si evince dalle loro ossature, messe a confronto con le

versioni edite, è una maggiore precisazione dell’accompagnamento musicale – sia esso

semplice suono o una più sviluppata melodia – che, talvolta, sigla l’inizio o la fine di alcune

scene. Tali indicazioni riguardano soprattutto gli strumenti da utilizzare per ottenere la

melodia prefigurata e scompaiono o vengono “generalizzati” nell’edizione a stampa.

Per esempio, nella già nota ossatura del Corvo, Gozzi, per l’entrata in scena del re Millo al

cospetto del fratello trasformato in statua, appunta: «Ré. S’oda un suono lugubre di strumenti

col morso e altri scordati»907, dunque si tratta di una musica stridente abbastanza ben

individuata. Nella versione edita il riferimento agli strumenti scompare e la didascalia recita

semplicemente: «udirassi ‘l suono d’una marcia flebile», trasformandosi in una descrizione

piuttosto sommaria e generica, anche difficile da immaginarsi per il lettore. Evidentemente,

quando Gozzi si rivolge ai lettori, menziona la musica solo per dare maggiore rilevanza

all’ingresso del re triste e poco gli importa fornire indicazioni precise sugli strumenti da

utilizzare; al contrario, quando scrive per sé o per gli attori, ha forse costantemente presenti

gli strumenti musicali di cui dispone la compagnia e quindi di cosa concretamente possa

avvalersi.

905 CARLO GOZZI, Zobeide, in IDEM, Fiabe teatrali, cit., p. 320, I, 1: «Regio cortile; nel fondo portone chiuso d’una grotta; una tigre ed un leone incatenati al portone della grotta, innanzi al quale passeggiano, come di guardia». 906 GERARD LUCIANI , Musica e spettacolo negli scritti di Carlo Gozzi, in «Chigiana», Rassegna annuale di studi musicologici, XXXI, nuova serie, 11, 1976, pp. 41-59, in cui lo studioso francese passa in rassegna le opere in cui Gozzi accenna all’impiego della musica, in particolare fa riferimento a La malia della voce (1774), a La Figlia dell’aria (1786) e alla favola pastorale Eco e Narciso; e Carlo Gozzi e la Musica in Parola, musica, scena, lettura:percorsi del teatro di Goldoni e di Gozzi, atti del convegno internazionale, Venezia, 12-15 dicembre 2007, in corso di stampa. 907 Il corvo , c.4r.

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Quest’ultima nota rinvia all’uguale precisione con cui il drammaturgo segnala nel manoscritto

del Serpente la tipologia «a morso»908 degli strumenti che devono comporre una «sinfonia

dolce» nel momento in cui Farruscad si addormenta e compare Cherestanì, dettaglio che non

si riscontra nella Zanardi, in cui la didascalia si limita a riportare la qualità della melodia

senza accennare ai mezzi per produrla909.

Analoghe didascalie corredano la Turandot del Fondo Gozzi: per esempio nella scena del

primo ingresso di Altoum, nel manoscritto si registra: «Tamburelli e strumenti che prendono a

fare il loro giro per scena si ritirano», mentre nella versione edita si legge solamente «al suono

di una marcia»910.

La testimonianza più importante – ed anche affascinante - della rilevanza attribuita alla

musica dal veneziano all’interno delle composizioni fiabesche è attestata dalla sua menzione

fin dalla fase α del lavoro di Gozzi, vale a dire dagli appunti di lavoro che egli era solito

trascrivere contestualmente o immediatamente dopo la lettura di un testo. I seguenti passi911,

tratti dalla carte sparse che corredano il fascicolo dell’Augellino belverde, comprovano

l’interesse musicale del drammaturgo e l’intenzione di inserire la musica – in un caso si

accenna addirittura all’orchestra – nelle fiabe:

Si stabilisce, una figliuola. Il Re grida Una figlia una figlia la voce con versi dice che sia esaudito che

comandi alla moglie Re chiama la moglie le comanda che gli vada a partorire una figliuola grande e

grossa sicchè sia buona di agire nel secondo atto della commedia sino che l’orchestra suona, Regina

dice d’ubbedirlo. Si scioglie il consiglio.

Per inserire una scena di musica far uscire due sirene da qualche fonte o dal mare che col canto loro

addormentino il conquistatore o la conquistatrice, o si difendano dal canto per arte.912

908 SR, c. 11v., I, 9. Con la dicitura «a morso» probabilmente si intende uno strumento che possa essere “addentato” al momento dell’esecuzione, come una specie di moderno scacciapensieri. 909 «Mentre Farruscad dorme, s’andrà il deserto trasformando in un giardino. Il prospetto, che sarà di macigni, si cambierà in un magnifico palagio risplendente. Tutto ciò succederà al suono d’una sinfonia soave, che terminerà sonora, e strepitosa» (CARLO GOZZI, La donna serpente, cit., p. 247, I, 10). 910 Le citazioni provengono da Carlo Gozzi, Turandot, in Idem, Fiabe teatrali cit. p. 140, II, 2. 911 Oltre a questi passi, trascrivo anche quelli già messi in luce da Beniscelli, proprio in relazione alla sfera musicale, nella disamina delle carte manoscritte dell’ Augellino belverde nell0’articolo Nel laboratorio delle Fiabe…, cit., pp. 87-88: «al passare nella torre del lago vi potrebbero essere le due sirene che addormentano col canto», «si rifletta alla giovane ch’esce da un lago di quando in quando con una catena al piede», oltre che a quello di carattere inerente a una possibile scenografia «nota innalzamento del lago e burrasca per diroccare la torre con altro». 912 Fondo Gozzi, cit. c. 34r.

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Fino a questo momento abbiamo preso in esame prevalentemente le ossature in prosa e

qualche stesura verseggiata delle fiabe, dimostrando l’attenzione nutrita da Gozzi verso la

realizzazione scenica. Il dato è ancora più chiaro se consideriamo gli abbozzi e le idee –

restituiti dai manoscritti del Fondo Gozzi - appartenenti a quella che abbiamo definito fase α

del lavoro dell’autore.

Nel citato fascicolo relativo all’Augellino belverde, i fogli finali contengono una grande

quantità di schizzi teatrali, di veri e propri appunti che sembrano fissare i momenti più

significativi di una lettura o quelli che potevano essere riadattati in vista di una composizione

scenica di argomento certamente fiabesco, visto il loro contenuto costituito da scene di

trasformazioni e di magia. Per esempio, si legge:

Si rifletta all’amante che deve andare per una delle due strade l’una della vita l’altra della morte. Il

mago pone sul capo dell’amante una mano, si fa notte oscurissima, l’amante si invia per una delle due

strade che più accomodi alla rappresentazione913.

In questa concisa annotazione due sono i dati più significativi: innanzitutto il riferimento

esplicito alla rappresentazione, da cui si deduce che Gozzi non solo scrivesse ciò che poi

intendeva impiegare per la composizione della trama narrativa in senso stretto, della fabula,

ma metteva su carta anche scene che avrebbero avuto risalto sul palcoscenico e che avrebbero

meravigliato gli spettatori. Il secondo dato riguarda l’ambientazione scura improvvisa, che si

ritrova impiegata frequentemente all’interno di tutte le fiabe: il buio, i terremoti, i fulmini e i

tuoni, usati in concomitanza dell’epifania e della sparizione di un personaggio magico, o a

sancire l’irruzione del mondo fatato in quello quotidiano del personaggio, non possono non

ricondurci alla scenografia barocca, anche se in essa non si esaurisce lo spettacolo gozziano (e

perciò non crediamo attendibile la motivazione addotta da Gozzi, la morte del macchinista del

teatro Sant’Angelo, come causa della sua decisione di non mettere in scena la Pulce).

Passando in rassegna gli scartafacci sopra citati ci si imbatte in altre annotazioni ricche di

particolari eminentemente teatrali:

La sirena è comparsa con li capelli lunghi che le coprono il seno e la vita, ha uno specchio nelle mani, è

ignuda e dal mezzo in giù è pesce, ciò si vede da due code che s’innalzano di qua e di là914.

913 Fondo Gozzi, 4.6, c. 34v. 914 Ibidem,

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Nella dettagliata descrizione della fisionomia della sirena e del modo in cui l’ipotetico

spettatore la dovrebbe riconoscere (le code che sbucano presumibilmente da un bacino

d’acqua) si riconosce la mano di uno scrittore che ferma sul foglio immagini, più che trame

narrative, e che anche nella lettura delle fonti, si focalizza sui tratti più teatralizzabili, in una

sorta di fermo-immagine per la scena.

E, ancora, gli appunti del Fondo svelano un lettore attento alle situazioni e alle figure che

potrebbe impiegare in una futura composizione per la truppa Sacchi, come dimostrano i

seguenti passi:

Notisi il selvaggio che andò a prendere l’anima di suo figliuolo morto e la reca in una vescica.

Adattabile a Truffaldino915.

Un mago fa entrare in un bagno un’uomo, lo cava dal bagno cambiato in donna smanie dell’uomo. Tale

trasformazione si potrà fare per finire una commedia di due donne innamorate l’una dell’altra: una sia

vestita in uomo, l’altra da donna. Quella da donna si innamori di quella da uomo credendola donna.

Quella da donna s’innamori di quella da donna credendola per varie notizie uomo vestito da donna.

Innamorate alla perdizione, si disperano alla scoperta. Il mago rimedia nel modo descritto. Si può fare

che sieno tuttidue uomini, o devasi intendere che sieno uomini, etc. (Fondo Gozzi, 4.6, cc. 35v-36r).

Talvolta si sa che effettivamente poi Gozzi realizza le soluzioni sceniche immaginate, come

nel caso della fiaba Zeim re de’ geni di cui è conservato questo primigenio appunto:

[Storia del Giovane Re e del re de’Genj nelle Arabe. Cominciarla dal Re giovine che dorme. Apparisce

il vecchio che gli addita il tesoro pago della sua obbedienza anteriore. Accenna gli antefatti sparisce il

Re si desta allegro. Arriva la regina madre loro scena per andare a scoprire il tesoro. Magnifico sia il

vecchio schiavo ricco]916.

Esperto uomo di teatro, l’autore individua anche le scene potenzialmente “a rischio” di essere

male eseguite e per esempio, nella Rappresentazione del re cervo, a conclusione della scena

piuttosto frenetica e movimentata in cui i cacciatori seguono un orso, sparandogli, troviamo

l’avvertimento: «tutti dietro all’orso. Questa scena vuol essere fatta con agitazione, prestezza

e ordine».

Già alcuni testi editi provano la riflessione di carattere prettamente tecnico e scenico compiuta

dal drammaturgo: tale è il caso della Figlia dell’aria, in cui si trovano scelte drammaturgiche

915 Fondo Gozzi, 4.6, c. 35r. 916 Fondo Gozzi, 4.6, c. 35v.

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dettate da esigenze scenotecniche. È lo stesso Gozzi, nella Prefazione, a voler spiegare il

motivo per cui, nel finale, adotta la figura di un indovino che compare dalle acque - e non la

dea Minerva come la trama renderebbe più ovvio - per predire il futuro agli Assiri:

Siccome avrei potuto far comparire nel fine della favola, a fare le medesime predizioni, la stessa Dea

Minerva, e siccome nella compagnia comica, che espose la mia Favola non v’era Attrice a cui poter

addossare questa comparsa, lascio la difesa alla gratitudine de’poveri comici dell’apparizione d’un

creduto annegato, a’quali ho risparmiata la provvista d’una Attrice, e la spesa d’un vestito di costo per

una Deità917.

Alla base della scelta, dunque, stanno motivi di ordine pratico – la mancanza di un’attrice

libera da altre parti per quella scena - e di carattere economico: la retribuzione di un’ulteriore

comica, nonché il costo del suo vestito, che, in quanto appartenente a una divinità, doveva

essere maestoso, e avrebbe pesato non poco sullo scarso guadagno della compagnia.

Il drammaturgo dimostra di prestare attenzione preventivamente anche a quanto deve avvenire

sul palcoscenico: nella stessa pagina appena citata, Gozzi spiega il motivo dell’inserzione

delle vicende amorose di Nino con Lisia e Irene, noiose a teatro, adducendo due tipi di

motivazioni. La prima è di carattere “psicologico”: esse permettono di indugiare sul carattere

tirannico e barbarico di Nino, la seconda risponde a un’esigenza pratica perché la loro

proposta consente al «decoratore» un tempo congruo per allestire gli scenari seguenti, in

particolar modo per quelli più complessi, «a veduta delle fabbriche e de’ luoghi di delizia

donati da Nino a Pennone nell’atto secondo; e per l’apparecchio delle due scene trasformate a

vista replicatamente della reggia di Nino nella reggia di Venere, nell’ultimo atto della mia

Favola»918.

Pare però che l’ultima parola su questioni squisitamente sceniche spetti a Sacchi, anche se

Gozzi si dimostra sempre un ottimo e acuto osservatore della messinscena. È il caso di Bianca

contessa di Melfi ossia il maritaggio per vendetta, un’opera desunta dalla pièce spagnola di

Don Francesco de Roxas, Casarse per vengarse, il cui finale prevede che il re, per disfarsi

della moglie senza avere alcuna colpa, provochi un incidente facendole precipitare addosso

«le muraglie e le fabbriche de’gabinetti già sconnesse». Temendo che la resa scenica di questo

momento tragico potesse essere particolarmente difficile, Gozzi era propenso a cambiarlo,

ma, su insistenza degli attori, che ne intravedevano le ottime possibilità spettacolari e il

917 CARLO GOZZI, Prefazione, in La figlia dell’aria o sia l’innalzamento di Semiramide, dramma favoloso allegorico, Venezia, Curti, 1791, p. IX. 918 Ivi, pp. IX-X.

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conseguente stupore che avrebbe generato nel pubblico, decide di assecondarli,

mantenendolo. L’autore ricorda la contentezza dei comici per la risoluzione ottenuta, ma,

perspicacemente, aggiunge:

I comici s’ingannarono in questa decorazione, ch’era un picciolo gabinetto, o possiam dire, una trappola

poco maggiore di quella che basta a schiacciare un topo, ma che fu sufficiente quasi a schiacciare da

vero anche la povera Attrice, che rappresentava la parte di Bianca, scoccando contrattempo, e assai

male. Quest’edifizio ridicolo, e in un funesto, fu da me contraddetto altamente sulle prove dell’opera ma

perché il mio temperamento pacifico non s’accende mai abbastanza, massime sopra a tali materie

abbandonai il mio parto all’opinione de’ Comici […] e il risultato fu una meschina e mal eseguita

caduta919.

L’espediente, comunque apprezzato dal pubblico anche nelle repliche, suscita in Gozzi delle

perplessità perché, nel caso fosse stato male eseguito, avrebbe suscitato ilarità anziché

rappresentare il momento più tragico della vicenda; e infatti ciò si verifica e a distanza di soli

due anni, al drammaturgo è assegnata la riscrittura di una nuova versione del finale, senza la

rovinosa caduta.

Gli apparatori, i costumisti e gli scenografi che tanta parte hanno nella realizzazione delle

opere gozziane, soprattutto delle Fiabe in cui la magia è un elemento essenziale e costitutivo

della composizione, restano anoninimi, sia negli scritti teorici di Gozzi sia nelle poche

testimonianze reperite sulle messinscene. È stato possibile, tuttavia, individuare con certezza

lo scenografo impiegato per l’Amore delle tre melarance: Domenico Fossati920 (Venezia

1743-1784), ultimo figlio del più celebre architetto Giorgio Domenico. Iscritto all’Accademia

veneta di pittura - tra i suoi insegnanti ci fu Pietro Longhi - Domenicoe fin da giovane

collaborò con il padre come “apparatore” di alcune feste pubbliche e dal 1764 al 1784 dipinse

oltre sessanta scene per i maggiori teatri veneziani921, soprattutto per il San Samuele (tra le

opere musicali spiccano le “prime” del Convito di Cimarosa nel 1782 e Lo sposo di tre e

marito di nessuna di Cherubini nel 1783). La notizia dell’ingaggio dell’artista come

scenografo per la prima fiaba gozziana era offerta da Emanuele Antonio Cicogna nell’opera

Delle inscrizioni veneziane922. Un’indagine svolta nell’Archivio di stato di Bellinzona, in cui

è raccolto il maggior numero di documenti dell’intera famiglia Fossati, ha portato alla luce

919 CARLO GOZZI, Bianca contessa di Melfi ossia il maritaggio per vendetta, Venezia, Curti, 1791, pp. VIII-IX. 920 Cfr. CARLO PALUMBO FOSSATI, I Fossati di Morcote, catalogo della mostra, Bellinzona, pp. 7-8. 921 Secondo Cicogna, Domenico lavorò anche nel teatro alla Scala di Milano e in quelli di Monza e Graz; inoltre, dopo l’incendio del San Benedetto a Venezia nel 1773, presentò un progetto che, seppur lodato, non fu relaizzatoperchè troppo costoso. 922 Venezia, 1824-1853.

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un’ulteriore probante testimonianza della collaborazione tra lo scenografo e Gozzi: si tratta di

una lettera autografa scritta dal nipote di Domenico, Ercole, in cui si accenna all’attività dello

zio in qualità di scenografo923, imputandogli lo «scenario della fiaba L’amore delle tre

melaranze del Conte Carlo Gozzi»924. Inoltre, il catalogo della mostra sulla famiglia imputa a

Domenico anche lo scenario per il debutto della contestata piéce gozziana Le droghe d’amore

(1777); è quindi verosimile che il drammaturgo sia ricorso alla collaborazione con l’artista

anche per qualche altra opera e che abbia proseguito il sodalizio per alcune delle Fiabe.

L’importanza attribuita alla resa spettacolare da parte di Gozzi – e, in generale dei

drammaturghi veneziani - è tanto più rilevante se si pensa che, quasi fino alla fine del

Settecento, quando si discute di teatro, ci si riferisce esclusivamente alla sua matrice letteraria;

per esempio, a Roma, i due periodici principali; le Effemeridi letterarie e l’Antologia romana,

riportano notizie riguardanti sì il teatro, ma solo concepito come testo925 . Ciò, evidentemente,

non vale qualora si faccia riferimento a un’opera musicale, come dimostrano anche le lettere

di un anonimo spettatore romano926. L’evento spettacolare non è ancora percepito nella sua

complessità almeno fino al 1780-1785 circa: fino a quegli anni gli articoli teatrali romani

riguardano solamente le produzioni scritte e si concentrano sulle nuove pubblicazioni (per

esempio, una cospicua attenzione – in numero di pagine - è dedicata alla raccolta delle

tragedie del Bettinelli, alla prima edizione della Storia critica dei Teatri antichi e moderni di

Pietro Napoli Signorelli, ai Tentativi drammatici di Alessandro Verri). Il panorama editoriale

nella città laziale cambia a partire dagli anni Ottanta, con la fondazione di una nuova rivista, Il

Giornale delle Belle Arti, diretto inizialmente dall’abate Giuseppe Carletti, in cui intere

pagine sono dedicate alle arti “minori”: la scenografia, la danza, la musica e l’architettura; ma,

contrariamente alle modalità con cui Gozzi utilizza queste “ancille”, la linea principale che

traspare dalla lettura di questo giornale, è quella anti-barocca: le decorazioni, in generale,

devono perseguire il concetto della verosimiglianza e non devono essere «rivestite di un

923 I bozzetti e i disegni di Domenico Fossati si trovano smembrati in varie collezioni, soprattutto in Australia e in America. 924 Archivio di Stato di Bellinzona, Collezione Famiglie, Fossati, c. 4r. 925 Per l’argomento si veda GIULIETTA PEJRONE, Il teatro attraverso i periodici romani del Settecento, in Il teatro a Roma nel Settecento, Roma, Treccani, 1989, vol. II, pp. 599-615;«complessivamente, dallo spoglio degli estratti presi in esame emerge nelle riviste [Antologia romana e Le effemeride letterarie] il persistente principio dell’imitazione sulla natura, il riferimento al mondo classico, l’attenzione posto alla moralità degli intrecci e alla bellezza del linguaggio e infine al contrasto fra il gusto teatrale italiano e quello francese» (ivi. p. 606). 926 FABRIZIO DELLA SETA, Il relator sincero (Cronache teatrali romane, 1739-1756), in «Studi musicali», IX, 1, 1980, pp. 73-116. Le lettere qui pubblicate testimoniano l’interesse di uno spettatore per una rappresentazione musicale nel suo complesso: la musica in primis – e quindi un’analisi delle qualità canore dei cantanti – i costumi, le scenografie e un’ attenzione particolare all’uso della luce.

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fanatico capriccio, ma […] di nobile e maestoso decoro», come recita un articolo apparso nel

primo numero della rivista romana927.

927 «Giornale delle Belle Arti», 1786, n. 1, pp. 2-4.

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Le rappresentazioni gozziane Le tournée della compagnia Sacchi Come ogni troupe settecentesca, anche quella di Sacchi nei mesi primaverili ed estivi

compiva dei “giri” in altre piazze italiane, spesso mettendo in scena le nuove pièces per

saggiarne il valore e per verificare il gradimento del pubblico prima di presentarle a Venezia,

luogo in cui il pubblico era molto esigente, anche per la variegata offerta teatrale.

Cercheremo di ricostruire le tournée della compagnia dagli anni in cui debuttarono le Fiabe

fino allo scioglimento della compagnia, basandoci sia sui materiali d’archivio raccolti, sia su

alcune indicazioni reperite nel Fondo Gozzi, costituite soprattutto dai prologhi e dai congedi

che spesso sono provvisti di una datazione e, assolvendo alla funzione di captatio

benevolantiae, rivolgono omaggi alla città ospitante.

Per l’anno 1761 certa è la presenza della troupe Sacchi a Milano: è Gozzi stesso a offrire

questa notizia nella Prefazione al Corvo, che debuttò, appunto, nella città lombarda,

presumibilmente nel teatro ducale.

L’anno seguente la tournée toccò Parma, in cui la compagnia ebbe uno spettatore

d’eccezione: Goldoni, anche se il suo giudizio non poteva che essere negativo: «Ho goduto le

tre ultime recite dell’opera in musica, e domani va in iscena la compagnia Sacchi, e vedrò

qualche sua commedia. Oh quanto più volentieri vedrei le tragedie di Zola!»928. A Mantova

debuttarono i due drammi seri gozziani Il cavaliere amico e Doride, rispettivamente il 28

aprile e il 21 giugno, come si legge nelle relative Prefazioni. A partire da queste date, si può

ipotizzare che gli attori avessero prima inaugurato la stagione primaverile padovana, per poi

passare a Mantova (aprile-giugno), Parma (luglio), Reggio Emilia (luglio) e infine Milano

(agosto).

Per l’anno 1763 disponiamo di un unico dato certo, di mano gozziana: la “prima” della

Zobeide a Torino il 10 agosto. Dell’accordo con il teatro Carignano abbiamo rintracciato una

nota, datata 27 settembre 1762, conservata all’Archivio Storico di Torino in cui si dispone, tra

l’altro, che i comici veneziani restino per un paio di mesi: «Si è ordinato spedirsi

Capitolazione da sottoscriversi Di Robilant, e di Salmor al Capo Comico Sacchi per il Teatro

928 CARLO GOLDONI, Lettera al Marchese Francesco Albergati, da Parma, il 2 luglio 1762, in Idem, Opere, Verona, Mondadori, 1956, XIV, p. 253.

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Carignano, secondo il solito stile, dal primo sabbato del Corpus Domini dell’anno venturo,

sino a tutto il mese di agosto»929.

Nel 1764 due sono le città raggiunte dalla compagnia Sacchi di cui abbiamo notizie certe: la

prima è Parma in cui debuttarono I pitocchi fortunati, come ci ragguaglia Gozzi nella

Prefazione a questa fiaba, la seconda è Milano. La presenza della troupe veneziana nella

piazza lombarda è attestata anche da una lettera che Giuseppe Baretti inviò a Francesco

Carcano in data 14 aprile 1764 per chiedergli di “appoggiare” il capocomico:

Parte per costà [Milano] il famoso Truffaldino Sacchi, che se non vi fosse noto, vorrei dire che siete un indiano e

non un milanese. Io qui l’ho trattato assai poco, perché ho troppe faccende; pure gli voglio bene assai; e poi gli

ho degli obblighi non mediocri, perché molte nuvole di tristezza me le ha sgombrate dalla mente il passato

carnevale con quel suo abito scaccato, con que’suoi moti e più con quelle sue tante lepidezze; onde è che per

inclinazione, egualmente che per gratitudine, ve lo raccomando quanto so e posso. Accrescetegli a poter vostro la

folla al teatro, e dategli de’pranzi per amor mio, e fatelo bere alla salute mia con voi, e in somma trattatelo con

quella somma urbanità con cui io tratterei, sulla raccomandazione vostra, uno a cui voi aveste inclinazione e

gratitudine. Benché in teatro, per compiacere il grosso dell’udienza, egli si lasci scappare qualche cosetta un po’

grassetta; pure nel suo conversare familiare egli è tale, che le vostre intemerate Marianne e Carlotte non hanno

che temere, né il suo parlare domestico farà in esse altro effetto che quello di ornare di qualche sorriso quelle

loro angeliche innocenti facce. Voi, che siete tanto innamorato de’ Gozzi, potrete da esso sentire d’essi quante

novelle vorrete, essendo loro familiarissimo, e tanto del conte Carlo quanto io lo sono del conte Gasparo930.

In un’altra lettera datata 14 luglio 1764 indirizzata al celebre attore David Garrick, che si

trovava in Italia insieme alla moglie, Baretti caldeggia un suo incontro con Sacchi e Fiorilli,

di fatto non avvenuto:

Signor Sacchi is still in Milano long with Tartaglia; and inclosed you have a letter that will do for both. But I

have anotion you go another ay;and it is a great pity, as you will lose an opportunità of seeing two actors not

easily to be matched, if I am allowed to judge, after having seen you for ten seasons running931.

Per l’anno 1765 non si sono reperite molte informazioni, lacuna che può essere spiegata con

l’invito –presumibilmente accettato - alla compagnia di recarsi a Vienna alla corte di

929 Archivio Storico di Torino, Fondo Coll. IX, vol. V, Ordinati, 3 aprile 1760 – 4 maggio 1765, foglio 192, 27 settembre 1762 930 GIUSEPPE BARETTI, Epistolario, a cura di Luigi Piccioni, Bari, Laterza, Bari, 1936, I, p. 200, lettera CXXXII. 931 Ivi, p. 212, lettera CXLI, A David Garrick, Venezia 14 luglio 1764: «il signor Sacchi è ancora a Milano con Tartaglia, e vi accludo una lettera per tutt’e due. Ma ho idea che facciate un’altra strada: ed è un gran peccato, perché perderete l’occasione di vedere due attori difficilmente uguagliabili, se mi è lecito giudicare dopo aver visto voi per dieci stagioni».

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Francesco I e di Maria Teresa. Dopo la morte dell’imperatore, avvenuta il 18 agosto 1765,

Sacchi ritornò in Italia, ma troppo tardi per avere ingaggi per l’estate.

Nel 1766 i comici veneziani si esibirono a Bologna932, presso i teatri Formagliari e Comunale;

successivamente si spostarono a Mantova.

Per la primavera del 1767 la compagnia fu ingaggiata a Torino. In questa stagione, nella quale

fece il suo ingresso nella troupe Petronio Zanarini, furono messe in scena tutte le Fiabe,

tranne la Zobeide che era già stata presentata qualche anno prima, come si evince da una nota

proveniente dall’Archivio di Torino933.

Nel 1769 gli attori veneziani ebbero l’occasione, durante la stagione primaverile a Modena, di

recitare presso il teatro di Corte al cospetto di Giuseppe II, imperatore d’Austria, in visita

nella città. Il ministro e consigliere di stato, Clemente Bagnesi, in una lettera indirizzata al

segretario Bianchi riferisce che l’Imperatore prestò molta attenzione alla «commedia con

Arlecchino e le altre maschere»934, rappresentata alle ore 5 al Teatro di Corte illuminato oltre

al consueto e della durata di circa due ore. Proprio per celebrare la presenza dell’Imperatore, il

duca Francesco III aveva accordato un sussidio speciale per l’opera da rappresentare, di cui

però non si è individuato il titolo. Anche Alessandro Gandini riporta la notizia dell’illustre

spettatore e inoltre fornisce un dato importante sul numero delle rappresentazioni proposte

dalla compagnia a Modena, circa sessanta, indicazione che consente di stimare a due mesi la

durata della sua permanenza nella città935..

Nel 1771 i giri noti della compagnia inclusero luoghi vicini: Mantova936, Vicenza e Verona937,

città, quest’ultima, in cui Teodora Ricci partorì. L’anno successivo, da alcune notizie

contenute nelle Memorie inutili, ricaviamo che la tournée toccò Bergamo e Milano938..

932 Corrado Ricci, I teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII. Storia aneddotica, Bologna, Successori Monti, 1888, pp. 486-487: «La compagnia [Sacchi] si esibì al teatro Formagliari […] la compagnia Sacchi recita al Formagliari in aprile e poi si sposta il 24 giugno al Comunale». Sul teatro Formagliari, cfr. ivi, pp. 73-115. 933 Archivio Storico di Torino, Fondo Coll. IX, Ordinati , foglio 144. 934 Lettera di Bagnesi al Segretario Bianchi, Milano, 15 marzo 1769, Archivio di Stato di Modena, cancelleria ducale, busta 139 A Bagnesi. 935 La compagnia Sacchi recita a Modena presso il teatro di Corte; in una delle rappresentazioni è presente Giuseppe II, Imperatore d’Austria in visita a Modena. Anche Gandini riporta quest’informazione: «2 aprile 1769 corso di 60 recite fatte dalla Comica Compagnia Sacchi, che ottenne l’unanime approvazione. In una sere di questo spettacolo intervenne al Teatro l’imperatore Giuseppe II reduce dal suo viaggio di Roma […] 12 giugno Terminarono le recite, che furono 61, fatte dalla Compagnia Sacchi» (ALESSANDRO GANDINI , Cronistoria dei teatri di Modena dal 1539 al 1871, Tip. Sociale, Modena, 1873; anastatica Forni, Bologna, 1969, II, p. 31). Sul teatro di corte, detto anche ducale cfr. pp. 3-9 e GENEVIÈVE BARBONI YANS, Contributo alla storia della gestione degli spettacoli nel ducato estense, in Teatro e musica nel ‘700 estense. Momenti di storia culturale e artistica, polemica di idee, vita teatrale, economia e impresariato, a cura di Giuseppe Vecchi e Marina Calore, Firenze, Olschki, 1994, pp. 279-286. 936 CARLO GOZZI, Memorie inutili, edizione critica a cura di Paolo Bosisio, con la collaborazione di Valentina Garavaglia, Milano, LED, 2006, p. 456: «[…] perché la compagnia de’ miei protetti doveva presto partire per Mantova, la Ricci mi pregò di volerla assistere ne’pochi giorni che si fermava in Venezia nelle parti di quelle rappresentazioni che le erano state consegnate, nuove per lei». A Mantova, nel repertorio presentato dalla

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Riguardo al 1773, sappiamo con certezza che i comici sostarono a Bologna, città per la quale

nel Fondo Gozzi è stato reperito un Addio939.

Nel 1774 la presenza della compagnia Sacchi è documentata per le città di Padova e di

Vicenza. Nella prima si fermò nel mese di maggio, come si evince da una nota contenuta nel

manoscritto di Gennari: «maggio: la compagnia Sacchi è a Padova al Teatro Nuovo per tutto

il mese di maggio con l’impegno di incontrare l’aggradimento pubblico»940; dell’incarico si è

rintracciato anche l’accordo, datato 2 febbraio 1774941. Tale presenza è corroborata dalla

scoperta dell’inedito Congedo della compagnia comica del Sacchi dalla città di Padova

1774942 contenuto nel Fondo Gozzi, oltre che da una lettera di Gozzi datata 27 ottobre 1773,

indirizzata a una destinataria non identificabile, la «Sig. ra Maria P. rona Stim. ma» in cui

scrive a proposito dell’ingaggio della primavera futura:

questa mattina il Signor Sacchi mi pregò ad assicurare i Cavalieri disponitori del Teatro, che nella prossima

Primavera sarà senza fallo a servire colla sua Truppa alla Piazza di Padova nel modo che gli fu proposto,

giudicando l’esibizione la medesima accettata dal Signor Medebach l’anno scorso. Io do a lei questa sicurezza

perché usi la gentilezza di farla capitare a que’ Cavalieri, e perché il Teatro non sia disposto per altri Comici

nella Primavera943.

La presenza della troupe Sacchi sulle scene vicentine è attestata dall’inedito Prologo per

introduzione alle recite della compagnia comica del Sacchi a Vicenza 1774944, contenuto nel

Fondo Gozzi.

Nel 1775 la tournée raggiunse Torino e Genova945, città, quest’ultima, che ospitò la

compagnia anche l’anno seguente, come si deduce da un passo delle Memorie inutili in cui,

compagnia, spicca la nuova produzione gozziana La Innamorata da vero, che verrà proposta sulle scene del teatro San Salvatore a Venezia nell’autunno dello stesso anno. Nella stagione veneziana dell’autunno 1771 e del carnevale 1772 furono presentate al teatro San Salvatore anche Il conte d’Essex, il Fajel, Gustavo Wasa e La principessa filosofa (CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., pp. 460-464). Quest’ultima pièce venne rappresentata per la prima volta l’8 febbraio 1772 e fu replicata per 18 sere. 937 Ivi, p. 458: «la compagnia [Sacchi] passò a Mantova, indi a Verona a recitare, dove la Ricci partorì». 938 Ivi, p. 456: «ella [Teodora Ricci] era in quel tempo [1772] in sul punto della sua partenza con la Comica Compagnia e di andarsene alle piazze di Bergamo, indi di Milano». 939 La sosta della compagnia Sacchi in questa città è testimoniata dal ritrovamento nei manoscritti marciani di recente acquisizione dell’Addio per Bologna 1773 (Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 3.3, c. 111r). 940 L’informazione, desunta da Gennari, è riportata da BRUNO BRUNELLI, I teatri di Padova. Dalle origini alla fine del secolo XX, Padova, Draghi, 1921, pp. 169-170. 941 Padova, Archivio del teatro Verdi, II, Documenti, c. 4r. 942 Fondo Gozzi, 3. 3, c. 74r. 943 Cfr. CARLO GOZZI, Lettere, a cura di Fabio Soldini, Venezia, Marsilio, 2004, p. 94, lettera 14. 944 Fondo Gozzi, 3. 3, c. 79r 945 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 530: «La Compagnia Comica passò la primavera, e la state di quell’anno 1775 a Torino, ed a Genova».

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peraltro, si intravede la nascita dei conflitti tra i comici da una parte e Teodora Ricci dall’altra

che spinsero l’attrice a lasciare la troupe un paio di anni dopo:

la Compagnia Comica era partita da Venezia, e ricevei una lettera da Genova dalla Comare [Teodora Ricci] con

le consuete espressioni di buona amicizia, ma piena di invettive contro al Sacchi, e contro la Sua compagnia

intera946.

Nella stagione primaverile-estiva del 1776 gli attori veneziani recitarono a Mantova, dove

Luigi Perelli, che a sua volta diventò capocomico, si esibì come Truffaldino al posto del

celeberrimo Sacchi, ottenendo il plauso della città:

il rinomatissimo Truffaldino Antonio Sacco prese il Perelli nella sua Compagnia l’anno 1776 e volle che in suo

luogo andasse egli a Mantova a dar principio alle recite di primavera. V’andò il Perelli, e fu in Mantova

lodato947.

Probabilmente dopo la tappa a Mantova, la compagnia si recò a Bologna; l’ingaggio è

documentato dallo scambio epistolare tra Sacchi e il senatore Gregorio Casali Bentivoglio

Paleotti durante il 1775948.

Nel 1777 Milano ospitò nuovamente i comici veneziani che inclusero certamente nel

repertorio almeno le fiabe dell’Amore delle tre melarance e del Mostro turchino, pièces

nominate da un famoso spettatore: Pietro Verri. In alcune lettere al fratello Alessandro,

dimostra di gradire le rappresentazioni della compagnia Sacchi, preferendole addirittura a

quelle proposte degli altri teatri:

Abbiamo Sacchi, e Tartaglia ed io colla Marietta non manchiamo tutte le essere di essere alla loro predica.

Sacchi ha settant’anni, fa ridere come prima. La ragione mormora e si vorrebbe opporre; ma il sentimento sforza

a ridere, e convien dire che la ragione per questa volta ha torto.949

Non so se il R. duca d’Ostrogozia abbia portata una idea favorevole di noi […]. Se dovesse giudicare dello stato

della drammatica in Italia dal teatro di Milano, gli abbiamo regalato il Re di Coppe, il Mostro turchino, e le altre

cose del Sacchi e del Tartaglia, che pure mi divertono a dispetto del buonsenso. Per me trovo che l’opera seria

dopo due o tre repliche mi annoia e trattane un’aria o due, che ascolto sempre volentieri, nel resto è forza il fare

946 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 532: 947 FRANCESCO BARTOLI, Notizie…, cit., t. II, p. 84. 948 Le tre lettere sono riportate integralmente in Fabiana Piazza, Antonio Sacco, tesi di laurea anno accademico 1995/1996, Università degli studi di Torino, relatore Gigi Livio, pp. 265-267. 949 Giovanni Seregni (a cura di), Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. Dal 1 aprile 1777 al 30 giugno 1778, Milano, A. Milesi & figli, 1937, vol. IX, p. 17, n. VIII, 796, 12 aprile 1777.

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delle ciarle e una piccola loggia è sempre incomoda per restarvi in compagnia. L’opera faceta m’interessa di più,

ma vorrei che venisse cambiata spesso e non facendosi ricado nello stato, in cui mi lascia l’opera seria. Le

commedie di Goldoni sono rappresentate con tanta cantilena, ciarlanateria e affettazione che rare volte

m’interessano, se ne eccettui quelle in dialetto veneziano, le quali si confanno al costume de’commedianti e le

rappresentano bene. Le francesi, naturalmente, i rifiuti sono quelli che vengono a cercar pane in Italia, e il loro

tono basso, unito alla forma de’nostri teatri, mi pone nella disperazione di capire appena la metà; non ho

l’orecchio fino. Dunque restano Sacchi e Tartaglia e questo è lo spettacolo solo che m’interessa quasi tutte le

sere950.

Il repertorio della compagnia era vario e includeva anche drammi seri che, sebbene non

rappresentati in maniera eccezionale, giungevano a commuovere: «Ieri sera al nostro Teatro è

stato rappresentato l’Indigente di Mercier,e, quantunque non fosse esposto come si doveva da

questa compagnia di Sacchi e Tartaglia, pure mi ha fatto piangere»951.

Secondo l’autobiografia gozziana a Milano fu rappresentata anche l’opera Le droghe d’amore

che, proprio per lo scalpore suscitato a Venezia e per lo “scandalo Gratarol” che ne seguì, era

attesa con grande curiosità952. Il passaggio sulla piazza lombarda è inoltre testimoniato dal

Prologo per Milano la primavera dell’anno 1777 e dall’Addio per Milano il giorno 27 luglio

1777953.

Nel 1778 la compagnia fu ospitata a Torino, a Bologna954 e a Firenze. Ad attestarci la

presenza della compagnia Sacchi in questa città sono i documenti inediti costituiti dal Prologo

per la città di Fiorenza la primavera 1778 e dall’Addio per Fiorenza 1778955. Anche La

Gazzetta Toscana (n. 17, 25 aprile 1788) riporta la notizia delle straordinarie performances,

soprattutto costituite dalla commedia all’improvviso:

La celebre Compagnia del Sig. Antonio Sacco una di quelle addette al servizio dei Teatri dell’inclita Dominante

del veneto Dominio, dette principio nella sera stessa (lunedì sera) alle comiche sue fatiche nel Teatro di via Santa

Maria, ed espose un saggio all’udienza delle vere commedie all’improvviso con maschere delle quali finora non

ne abbiamo avuto che una debole idea, ed è stato universale il genio del Pubblico, che è rimasto attonito

nell’ammirare anche nelle piccole cose ricavato un ridicoloso gustoso, pieno di Sali faceti, e delle più vivaci, e

argute lepidezze. Mercoledì con una maggior decenza teatrale, grandiosità di abiti, comparse, e scenari adatti al

clima Americano, fu da questi valorosi comici rappresentata la Tragedia del Sig. Piron “Ferdinando Cortes, o sia

950 Ivi, pp. 63-65, n. XLII, 812. 951 Ivi, p. 30, n. XVII, 800. 952 CARLO GOZZI, Memorie inutili, cit., p. 794: «Il Sacchi ch’era andato quell’anno [1777] a piantare la sua uccellagione a Milano, sull’esempio del frutto che gli aveva dato in Venezia la mia Commedia: Le droghe d’amore volle esporla anche nel Teatro di quella Città con la speranza d’una buona ricolta». 953 Fondo Gozzi, 3. 3, c. 65r. 954 Il Prologo per Bologna 1778 testimonia la presenza della compagnia in questa città. 955 Fondo Gozzi, 3. 3, c. 83r e 84v.

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il Montezuma” tradotto dal francese alla quale l’udienza dimostrò la sua approvazione con gl’incessanti

battimenti di mano.

Nel 1779 i comici veneziani calcarono le scene dei teatri di Torino e di Alessandria, mentre

l’anno seguente quelli di Verona956 e Trieste. È in quest’ultima città che il capocomico,

durante una rappresentazione al teatro San Pietro, ebbe un malore, a cui accenna il Diario del

conte Carlo de Zinzendorf957.

Nel 1781 la tournée raggiunse Verona, Milano e Padova; il successo patavino ottenuto al

teatro degli Obizzi fu tale da fare ingaggiare la compagnia anche l’anno seguente in occasione

della visita dei “Conti del Nord”, ovvero del Granduca e della Granduchessa di Russia, Paolo

Petrovich e Maria Teodorowna. Infatti, il Vice-Podestà Alvise Mocenigo, aveva provveduto

economicamente affinché al teatro Nuovo di Padova fosse dato uno spettacolo degno

dell’occasione (25 gennaio 1782) e la scelta ricadde sulla compagnia Sacchi, che allora

lavorava al teatro San Luca e sui ballerini del teatro Sant’Angelo (in una lettera di Luigi

Ballarini a Dolfin si legge che Alvise Mocenigo «fece illuminare il teatro per dar una

commedia eseguita dalle maschere di San Luca, passate a quella parte espressamente»958). In

realtà, le altezze non si recarono a teatro a vedere la rappresentazione, che, con tutta

probabilità si trattava di una commedia all’improvviso. In primavera Sacchi recitò

nuovamente al teatro degli Obizzi e terminò la stagione il 10 giugno 1782, come si legge nel

manoscritto redatto da Gennari: «Questa sera i Comici della compagnia del Sacchi

Truffaldino diedero fine alle loro Recite nel Teatro degli Obizzi, già cominciate subito dopo

le Feste di Pasqua, e continuate con gran concorso»959. Probabilmente era la stessa compagnia

veneziana ad aver inaugurato la stagione primaverile il 24 aprile, anche se l’unica

testimonianza reperita si riferisce solo a una generica «Compagnia di Comici cominciò le sue

rappresentazioni nel Teatro Obizzi»960.

956 La presenza della compagnia a Verona è attestata dal Prologo per Verona. Giugno 1780 per la signora Bettina Vinacesi (Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 3. 3, c. 87r). 957 Il passaggio nella città è testimoniato anche dal Prologo per Trieste la primavera 1780 (Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Fondo Gozzi, 3. 3, c. 98r). Durante la rappresentazione triestina il capocomico ebbe un malore, secondo la testimonianza del conte Carlo de Zinzendorf desunta dal suo diario in data 23 aprile 1780: «La donna serpente de Gozzi, conte de Fée. Sacchi fesant le rôle d’Arlequin ne me frappa pas si excessivement, a peine put-il marcher» (la citazione è tratta da CARLO CURIEL, Il Teatro S. Pietro di Trieste cit., p. 445). 958 Pompeo, Momenti, Epistolari veneziani del Settecento, Venezia, Supernova, 2005 (ristampa anastatica dell’edizione milanese Sandron, 1914), p. 77. 959 Il passo è riportato in BRUNO BRUNELLI, I teatri di Padova… cit., p. 188: 960 Ivi, p. 190. Proprio in quell’anno il teatro era stato migliorato dal marchese Tomaso degli Obizzi, che aveva ampliato il palcoscenico.

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Nello medesimo anno la troupe si spostò anche a Mantova, a Trieste e a Milano, in cui recitò

presso il teatro della Canobbiana961.

Nel 1783 la compagnia recitò a Torino e a Trieste, città in cui Sacchi fu colto da un malore

improvviso e grave, tanto da rischiare la vita; in onore della sua guarigione, alcuni comici

composero dei sonetti confluiti poi nella Raccolta di varj sonetti fatti da diversi comici sulla

suposta morte del Signor Antonio Sacco e sul disinganno della medesima962.

Nel 1784 si hanno notizie di rappresentazioni della compagnia Sacchi a Padova e a Trieste,

ma il consenso era ormai scemato, soprattutto per la totale sottomissione del capocomico ai

capricci della nuova “musa” Regina Gozzi. Tuttavia, il valore delle rappresentazioni,

soprattutto di quelle fiabesche, era ugualmente riconosciuto, come dimostra la testimonianza

dell’attore Garnier, che recitava a Trieste nella compagnia di Felix Berner in concomitanza

con quella veneziana:

contemporaneamente a noi, ora la Compagnia Sacchi di Venezia, rappresentava lavori del Gozzi con una

prontezza, specialmente nei meccanismi, che tuttora rimane per me un indovinello. Quest’era specialmente il

caso per Re cervo e per Turandot. Lo spettacolo incominciava alle 10 della sera e terminava spesso alle due del

mattino963.

Il repertorio gozziano in altre compagnie

L’immediato successo ottenuto dalle rappresentazioni delle Fiabe è dimostrato anche dalla

loro acquisizione nel repertorio di altre compagnie, oltre a quella di Sacchi, negli stessi anni

in cui quest’ultima le metteva ancora in scena. Furono soprattutto Pietro Rossi, Francesco

Paganini e Luigi Perelli i capocomici che inserirono alcune pièces nei cartelloni da loro

proposti in città diverse da Venezia, dove, molto probabilmente, si temeva il confronto troppo

serrato con la troupe che aveva come “poeta di compagnia” Gozzi stesso.

961 La notizia della presenza della compagnia Sacchi nel teatro della Canobbiana è desunta da POMPEO

CAMBIASI , La Scala 1778-1906. Notizie storiche e statistiche di Pompeo Cambiasi, Milano, Ricordi, p. 420. 962 Treviso, Giulio Trento, 1783. L’occasione per la compilazione della raccolta dei quattordici sonetti – oltre agli attori già menzionati figurano anche Alessandro Riva e Pietro Andolfati - fu la degenza di Sacchi dovuta a un malore mentre recitava a Trieste nel 1783 (per l’accaduto e le cure prescrittegli dal medico Leonardo Vordoni, cfr. CARLO CURIEL, Il Teatro S. Pietro di Trieste: 1690-1801, Milano, Archetipografia, 1937, pp. 160-161). 963 FELIX GARNIER, Meine Pilgerfahrt durchs Weltgetümmel, 1802, riportato in CARLO CURIEL, Il Teatro S. Pietro di Trieste cit., p. 164.

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Nel 1776, per esempio, al teatro San Pietro di Trieste furono rappresentate tre fiabe dalla

compagnia di Rossi: Il corvo, Zobeide, I pitocchi fortunati, oltre alla Caduta di donna Elvira

“spalmate” su tutto il periodo della sua permanenza, rispettivamente il 29 settembre, il 20

ottobre, il 2 novembre e il 27 ottobre964.

Nel 1788 Francesco Paganini presentò a Milano varie opere gozziane tra cui, certamente Il re

cervo. La notizia è riportata dal «Corriere di gabinetto. Gazzetta di Milano» in data lunedì 14

gennaio 1788: «per il teatro della Canobbiana si prepara una favola molto spettacolosa

d’impegno del Tartaglia, intitolata il Re Cervo, che si esporrà nella corrente settimana»965.

È assai verosimile che la troupe di Pellandi, durante la permanenza a Padova nella stagione

primaverile del 1789, abbia presentato qualche fiabe gozziana, in considerazione della

reprobatio contro di esse espressa da Polcastro in data 19 aprile 1789.

Nel 1779 si assistette a una curiosa proposta da parte dei teatri romani nella stagione del

carnevale: infatti, Zeim re de’ geni venne esposto sulle scene contemporaneamente in due

teatri, al teatro Capranica nella versione gozziana, al teatro di Tordinona rimaneggiato dal

celebre Cerlone, come si evince dal Diario ordinario in data 2 gennaio:

Nel teatro di Tordinona una nova comedia intitolata il Re de’Genj, o sia la schiava fedele del celebre Sig.

Francesco Cerlone, con farzetta in musica a cinque voci, che porta il titolo Le virtuose bizzarre. Al teatro

Capranica una nova comedia intitolata il Re de Genj del rinomata Sig. Co. Carlo Gozzi, con intermezzi in musica

a cinque voci intitolati La finta Folletta966.

La motivazione addotta da Giulia De Dominicis per spiegare tale sovrapposizione riguarda la

politica conservatrice romana che ben si sposava con la morale proposta da questa fiaba:

Nel 1779 al Capranica veniva rappresentata la fiaba Il Re dei Genii, l’ultima delle fiabe gozziane, ma la più

comprensiva rispetto ai suoi principii conservatori di politica e di morale […]. Questa teoria non poteva meglio

964 La notizia, desunta dal diario di Carlo de Zinzendorf, è riportata da Carlo Curiel, Il Teatro S. Pietro…, cit., p. 411: «[…] La favola del corvo, c’est un conte des fées». Cfr. ORIETTA GIARDI , Sulle principali compagnie che recitavano a Venezia alla fine del Settecento, in «Biblioteca Teatrale», 5-6, 1987, p. 224. 965 N. 4. È probabile che la compagnia comica fosse quella di Francesco Paganini, la cui presenza a Milano presso il teatro della Canobbiana è certa per il carnevale del 1788 (POMPEO CAMBIASI , La Scala 1778-1906, cit., p. 420). Il teatro della Canobbiana fu inaugurato il 21 agosto 1779 e edificato, su disegno di Giuseppe Piermarini, dagli antichi proprietari del Regio Ducal Teatro, bruciato nel 1776. Il nome deriva da Paolo Canobbio, fondatore delle scuole di filosofia e dialettica soppresse nel 1768; sulla stessa area venne costruito il teatro. Esso, che aveva una capienza di duemila spettatori, aveva quattro ordini di palchi oltre al loggione. 966 La notizia è poi riportata anche in ALBERTO CAMETTI , Il teatro di Tordinona, poi di Apollo, prefazione di Antonio Muñaz, Tivoli, Arti Grafiche A. Chicca, 1938, II, p. 404: «1779 stagione di carnevale [29 dicembre 1778 - 16 febbraio 1778; impresario M. A.. Calcagnini]: Recitata in prosa con intermezzi in musica. Primo spettacolo la nuova commedia del celebre Francesco Cerlone Il Re dei Geni, ossia la schiava fedele, con Le virtuose bizzarre, martedì 29 dicembre 1778». Le informazioni relative ai due spettacoli sono desunte dal Cracas, Diario ordinario, n. 418, pp. 18-19. Cfr. anche GIULIA DE DOMINICIS, I teatri di Roma…, cit., p. 186.

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rispondere alle idee conservatrici del Governo e del popolo di Roma, non poteva essere in più aperto contrasto

con la filosofia novatrice, che giungeva noi dalla Francia, filosofia che, se trovava ammiratori e seguaci in altre

città d’Italia, come per esempio a Milano, a Roma era accolta in generale con aristocratica freddezza dalla menti

più colte, o al più approvata superficialmente per vezzo di moda, dal gran mondo degli sfaccendati967.

[…] è strano che mentre al Capranica si rappresentava la fiaba del Gozzi, al Tordinona si rappresentava la fiaba

omonima del Cerlone, che da ultimo, imitando il Gozzi, tentò anche questo genere e i rifacimenti dei drammi

spagnoli. Se la cosa fosse avvenuta in un centro di lotte e di discussioni teatrali, si sarebbe senz’altro potuto

concludere che le due rappresentazioni si facevano contemporaneamente perché meglio si potessero mettere a

confronto l’arte del maestro e quella dell’imitatore; ma Roma era troppo incurante di questi confronti letterari,

troppo aliena da queste prove, perché si possa venire, con una certa sicurezza ideale, a tale conclusione968.

967 GIULIA DE DOMINICIS, I teatri a Roma…, cit., p. 105. 968 Ivi, p. 105.

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Appendici969

969 Si presenta il testo in prima trascrizione solo come materiale di studio. Nella trascrizione si è proceduto seguendo gli adattamenti d’uso (trasformazione della j semivocalica o finale in i, regolarizzazione degli accenti sui monosillabi e oscillazione delle maiuscole) e rispettando la punteggiatura e le variazioni grafiche dell’originale in quanto il testo si presenta come appunto di lavoro e non destinato alla lettura. Si è scelto di indicare tra parentesi quadre i materiali significativi cassati dall’autore e tra parentesi uncinate le integrazioni congetturali di parole o le lacune non integrabili dovute a illeggibilità del manoscritto. Le parentesi tonde sono impiegate per lo scioglimento di abbreviazioni non convenzionali.

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Appendice 1

Trascrizione degli “appunti” gozziani (fase α)

(Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana,

Fondo Gozzi 4.6, cc. 34r-36r)

c. 34r

Un re non avendo figliuoli si mise a piangere e a gridare o Cielo mandami

un’erede tec. Sentì una voce rispondere

Re t’appago tu risolvi

Vuoi tu figlia che si fugga

O vuoi figlio che ti strugga?

Il Re entra in confusione, suona il campanello, chiama i consiglieri li fa sedere,

chiede se debba volere una figliuola che gli fuga, o un figliuolo che lo struga.

Varj consigli sulla vita, e sull’onore dei consiglieri politici ed eruditi. Vedi

Cunto de li Cunti a carte 460 e 461. Si stabilisce, una figliuola. Il Re grida Una

figlia una figlia la voce con versi dice che sia esaudito che comandi alla moglie

Re chiama la moglie le comanda che gli vada a partorire una figliuola grande e

grossa sicchè sia buona di agire nel secondo atto della commedia sino che

l’orchestra suona, Regina dice d’ubbedirlo. Si scioglie il consiglio.

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Per inserire una scena di musica far uscire due sirene da qualche fonte o dal

mare che col canto loro addormentino il conquistatore o la conquistatrice, o si

difendano dal canto per arte.

Un’antico pellegrino per gratitudine attenda al passo un suo benefattore, o una

sua benefattrice, d’un giorno. L’ammaestra nell’impresa ch’è per fare, poi narra

ch’egli da dieci anni doveva esser morto, che pregò la morte di lasciare il suo

spirito nel corpo il quale doverebbe essere da dieci anni in polvere divorato da

vermi, per potere ammaestrarlo, che quello era il punto che lasciava disciolto in

polvere il suo corpo etc. Si specchi etc. Suo discorso morale etc. Si discioglie e

lascia un mucchio d’ossa coll’ignudo teschio avvolto nella polvere, sparisce. La

donna piange e da sepoltura alle ossa etc. Questo potrebbe essere Calmon statua

ritornato uomo.

Brighella potrebbe essere un petì metre galante a buona fortuna. Fa il dotto il

franco il filosofo attomista. Nel fine de’ suoi discorsi termina con un raglio

d’asino vizio rimastogli dall’esser stato cambiato in asino nell’Augello belverde.

Abbia in scarsella forbici pettini e ferri per introdursi come dilettante

d’acconciature con le signore, per la sua povertà

Tartaglia si un Re invecchiato rimbambito che si lascia condurre per il naso da

ministri de’ quali è in una soggezione orrida.

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c. 34v

Truffaldino sia cambiato uomo pietoso e dabbene. Abbia stimoli per far

bricconate lo trattiene il timore di divenir statua nuovamente. Vedasi fiaba del

fegato del dragone marino. Si può far partorire mobili far che Ninetta partorisca

dodici o più figliuole Smeraldina ancora

Imbroglio di tartaglia per le troppe figliuole e di truf modo che si pensa di

maritarle, d’aprire conversazione di far scrittura coi sposi e dar loro in dote le

spese per due anni e che frattanto s’impieghino etc satira

Vedi fiaba delli tre re animali a carte 425 dello Cunto. L’orco potrebbe essere

nella torre in mezzo del lago a Barbarina. Nota innalzamento del lago e burrasca

per diroccare la torre, con altro

In quella torre, in una stanza vi potrebbe essere il pellegrino Calmone assistente

con la trasformazione del cadavere.

Al passare nella torre del lago vi potrebbero essere le due sirene che

addormentano col canto.

Nota la carrozza nel fine della fiaba delli tre re animali con leoni. Può star ferma

può essere magica e che faccia giungere gl’oggetti, far girare un Sole e una Luna

far guardare gl’oriuoli, far giungere le città e le persone etc.

Pelle esposta della pulce sia cagione della perdita di Barbarina e Pompea la qual

Pompea può esser nel ventre del pesce cane nel lago della torre dell’orco e

parlare del ventre di quello.

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Si rifletta nella Blò e verde alla Principessa che all’apparire dell’amante si

trasforma in statua, e le sue damigelle si trasformano in cespugli fioriti i quali

cantano.

Si rifletta all’amante che deve andare per una delle due strade l’una della vita

l’altra della morte. Il mago pone sul capo dell’amante una mano, si fa notte

oscurissima, l’amante s’invia per una delle due strade che più accomodi alla

rappresentazione.

Un’albero d’oro colle fronde d’oro, sotto la radice ha una scala dove si dischiude

un mondo nuovo tutto ricchezza.

Nel nano giallo la vecchia Fata amante del Principe che ama una Principessa. La

fata si fa giovane e bella ma il segno

c. 35r

d’esser la vecchia fata sono i piedi animaleschi che per decreto non può a

bastanza nascondere. Il Principe finga amarla e non conoscerla. Suoi pianti sulla

riva del mare. Comparsa della sirena e regalo della spada incantata per liberare

la Principessa nel castello ardente d’acciajo, che arde per il sole che lo percuote

tutta la campagna e le genti vicine. La Principessa gelosa d’aver veduto il

Principecon la bella Fata sdegnata non lo ascolta fugge egli corre per trattenerla,

lascia cadere in terra la spada incantata per pigliar per le vesti la Principessa.

Esce il nano / che può esser l’orco / invola la spada, fa caricare di catene il

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principe reso impotente senza la spada. La principessa pentita. Disperazione del

Principe. Minaccia dell’Orco se la Princ. non lo sposa. Principessa vuol sposar

l’orco per liberare il Principe. Principe la chiama tiranna etc. che brama più tosto

morire che vedere tal sposalizio, la prega etc. Furori dell’orco etc.

La sirena è comparsa con li capelli lunghi che le coprono il seno e la vita, ha uno

specchio nelle mani, è ignuda e dal mezzo in giù è pesce, ciò si vede da due codi

che s’innalzano di qua e di là

La fata serpentina dall’acqua che balla, e pomi che cantano, può essere la fata

che fa Renzo prigioniere.

L’orco può essere il rapitore di Barbarina e Pompea.

Due amanti amicissimi innamorati di due sorelle custodite gelosamente in varie

forme s’introducono a parlar loro, sono sempre scoperti. Nell’ultima introdotti

come giovani turchi figliuoli d’un Ambasciatore turco in Spagna, uno d’essi si

scopre con un atto di caldo trasporto amoroso con l’amata, sperando non esser

scoperti. È scoperto. Son scacciati. L’altro rimprovera il trasportato, egli si scusa

con la ragione che quando s’ama non possonsi trattenere i trasporti. L’altro dice

amare anch’esso la sua, e non essersi scoperto. L’altro sostiene ch’egli non

amerà quanto lui. L’altro non esser possibile che nessuno ami più di lui la sua.

L’altro sostiene il contrario. Si sfidano a duello per sostenere chi di loro avesse

amor più fervente.

Notisi il selvaggio che andò a prendere l’anima di suo figliuolo morto e la reca

in una vescica. Adattabile a Truffaldino.

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Notisi nella serpentina verde una principessa orrida per fatagione, ma per ciò

saggia e filosofa. Per non essere stata perseguitata e adulata dagl’uomini si ritira

in un castello di solitudine.

c. 35v

A meditare, s’innamora di lei un Re fatto animale da una fata, se gli mostra, si

palesa amante la Principessa lo fugge.

Egli con lamenti si nasconde. La Principessa trova una barchetta dorata

incautamente sale sopra quella, la barca s’innoltra nel mare, si leva una burrasca,

la Principessa è per annegarsi. Si duole. Comparisce l’animale Re esibisce ajuto.

Principessa ricusa vuol piuttosto annegarsi. Re con sospiri e lamenti si ritira. La

barca si rompe a uno scoglio, la Principessa siede sull’orrido scoglio , si lagna

mentre dura il suo lamento la scena si cambia senza ch’ella s’avveda in una

stanza magnifica. Lo scoglio in un ricco trono dov’ella è seduta. Ella non

s’avvede segue i suoi lamenti sullo scoglio sul diserto sul pericolo d’esser

divorata da mostri marini. Leva gl’occhi sua sorpresa etc.

Di notte oscura voce compassionevole mentre ella dorme sopra un soffà si desta.

Suo timore. Suo coraggio sua risposta. Dialogo che ridonda in danno della voce

che più non parla. Principessa s’addormenta Re animale s’avvanza. Le siede a

canto suo discorso amoroso suo pianto adagio per non destarla sua brama di

baciarle una mano, adagio gliela bacia la bagna di lacrime. La principessa si

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sveglia si move a compassione segue sposalizio. Patto di non vederlo per due

anni e tener conversazione all’oscuro etc.

[Storia del Giovane Re e del re de’Genj nelle Arabe. Cominciarla dal Re giovine

che dorme. Apparisce il vecchio che gli addita il tesoro pago della sua

obbedienza anteriore. Accenna gli antefatti sparisce il Re si desta allegro. Arriva

la regina madre loro scena per andare a scoprire il tesoro. Magnifico sia il

vecchio schiavo ricco]

Rotto il sigillo e il coperchio d’un pozzo esca un fummo denso s’innalza in

colonna a poco a poco si trasforma in un genio, o altra figura che ragiona.

Un mago fa entrare in un bagno un’uomo, lo cava dal bagno cambiato in donna

smanie dell’uomo.

Tale trasformazione si potrà fare per finire una commedia di due donne

innamorate l’una dell’altra: una sia vestita in uomo,l’altra da donna. Quella da

donna si innamori di quella da uomo credendola donna. Quella da donna

s’innamori di quella da donna credendola per varie notizie uomo

c. 36r

vestito da donna. Innamorate alla perdizione, si disperano alla scoperta. Il mago

rimedia nel modo descritto. Si può fare che sieno tuttidue uomini, o devasi

intendere che sieno uomini, etc.

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321

Un cavaliero o una dama in un palazzo imbrogliata passando di notte all’oscuro

per una stanza le vien posta destramente una lettera in mano non sa da chi

contenuto della lettera conforme al bisogno etc.

Un cavaliero è stimolato a tirare una catena d’oro, egli la tira dopo romore

cadono alquanti globi di fuoco i quali si convertono in mostri che combattono.

Facciasi esame alla storia Novelle Persiane libro terzo e 26 (126) volendosi

adoperare Giulia di Sachsper.

Due dame giovani entrano nel Palzzo di Firmaz genio della ragione per

soccorso, egli stupisce e dice loro di non vedere mai altro che vecchi consumati

inabili ai vizj e donne decrepite non badate etc.

Notisi nelle novelle del Mogol il Re di Balsora al quale un vecchio maraviglioso

estrae mentre dorme dal cuore un granello di color livido, questo è l’amor

proprio e guarisce da tutti i suoi vizj e male inclinazioni, essendo massime

innamorato della propria sorella.

Si noti nella tirannia delle Fate l’amante di Cleonice chee per liberare il popolo

dal flagello d’un dragone protetto dalle Fate combatte col dragone, l’uccide. Le

Fate si vendicano facendo in sul fatto cambiare l’uccisore in presenza di

Cleonice nella figura del medesimo dragone morto.

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322

Appendice 2

Tabella riassuntiva dell’onomastica gozziana

Manoscritti

Fondo Gozzi

Testo a stampa Testi del Théâtre

de la Foire

Cabinet des fées

Zelima

(Turandot)

Zulima (La queue

de verité; Le

monde riverse)

Timur (Turandot) Timur-Can

(Zemine et

Almanzor)

Timurtasch

(Histoire du

prince Calaf et de

la princesse de la

Chine)

[Elmaze]

(Turandot)

Elmaze*

(Turandot)

Elmazie (La

princesse de

Chine)

Elmaze (Histoire

du prince Calaf et

de la princesse de

la Chine)

Farzana (La

donna serpente)

Farzana (Le jeune-

vieillard)

Farzana (Histoire

des deux frères

génies, Adis et

Dahy)

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323

[Torgut /

Torgutte] (Il

serpente)

Torgut (Le jeune-

vieillard)

Torgut (Histoire

des deux frères

génies, Adis et

Dahy)

[Gulinda] (Il

serpente)

[Gulendam] (I

pitocchi fortunati)

Gulindì (Il mostro

turchino)

Ghulendam

(Histoire de

Couloufe et de la

belle Dilara;

Histoire d’un

tailleur et de sa

femme )

[Schirina] (Il

serpente)

Schirina

(Turandot)

Schirine (Histoire

de Malek et de la

princesse

Schirine)

Bedredino (La

donna serpente)

Bedreddin (Roger

de Sicile, ou le roi

sans chagrin)

Bedredin (Histoire

de Bedreddin

Hassan; Histoire

du roi Hormoz,

surnommé le Roi

sans chagrin)

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324

Rezia (La donna

serpente)

Rezia (Les

pelerins de La

Mecque; La statue

merveilleuse)

Rezia (Histoire du

roi Hormoz,

surnommé le Roi

sans chagrin)

Zemina (La

donna serpente)

Zemine (Zemine

et Almanzor)

Checsaia (La

donna serpente)

Késaia (Arlequin

roi de Serendib)

Khasayas

(Histoire de deux

hiboux)

[Dilara] (I

pitocchi fortunati)

Dilara (Zobeide) Dilara (La

princesse de

Carizme; La

princesse de

Chine)

Dilaram (Histoire

du prince de

Carizme et de la

princesse de

Géorgie)

Sinadab (Zobeide) Sindbad (La reine

du Barostan)

Sindbad (Histoire

de Sindbad le

marin)

Dardanè (Il

mostro turchino)

Dardanè (Les

pelerins de La

Mecque; Arlequin

Hulla ou la femme

Dardanè (Histoire

d’Aboulcassem

Basri)

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325

répudiée)

Taer (Il mostro

turchino)

Taher (Arlequin

Hulla ou la femme

répudiée)

Taher (Histoire de

Couloufe et de la

belle Dilara)

Usbec (I pitocchi

fortunati)

Usbeck (Achmet

et Almanzine)

Usbec-Kan

(Histoire de

Couloufe et de la

belle Dilara)

Muzaffer (I

pitocchi fortunati)

Moussafer

(Arlequin Hulla

ou la femme

répudiée)

Mouzaffer

(Histoire de

Couloufe et de la

belle Dilara)

Zelica (Zeim re

de’ geni)

Zelica (La

princesse de

Carizme; La reine

du Barostan;

Achmet et

Almanzine)

Zelica (Histoire

d’Atalmulk,

surnommé le Vizir

triste, et de la

princesse Zelica)

Zeim (Zeim re de’

geni)

Zeyn (La statue

merveilleuse)

Zeyn (Histoire du

prince Zeyn

Alasnan et du roy

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326

des genies)

[Sarchè] (Il

mostro turchino)

Sarchè (Zeim re

de’geni)

[Zemrude] (I

pitocchi fortunati)

Angela (I pitocchi

fortunati)

Zemrude (Histoire

du prince

Fadlallah, fils de

ben-Ortoc, roi de

Moussel)

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327

Appendice 3

Trascrizione del Mostro turchino

(Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana,

Fondo Gozzi 4.4, cc. 20r-23v)

c. 20r

Atto primo bosco Spelonca città Nanquin

Scena prima

Mostro turchino

Che finalmente giunto il tempo che finirà la sua condanna dopo dugent’anni che

è ramingo e cinque di danneggiar quella città e quel territorio sa essere un genio.

Vede venire i due principi Outzim [Faruc] e Dardanè. Compiange il loro caso.

Fa nascere nembi e saette che spaventi i loro cavalli e si disgiungano. Si ritira

nella caverna

Scena seconda

Principessa Dardanè spaventata, ringrazia il cielo d’aver salvata la vita per il

cavallo precipitato. Piange il principe lo chiama.

Circostanza di Dardanè. Combatta col cavaliere del castello. Suo combattimento

ammaestrata dal mostro. Cavaliero è d’arme vuote

Scena III

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328

Mostro e principessa

Spaventi della principessa. Umanità del mostro. S’introduca la commisera. Che

vedrà il principe ma non lo conoscerà che dovrà patire gran tribolazioni, che in

ogni caso [venga a chiedere] chieda soccorso a lui, ma che sino che non si

innamora di lui non vederà il suo Principe. Principessa sua confusione etc.

Mostro la fa cambiare in donna vestita da uomo. Nuovi spaventi della

principessa. Mostro la consiglia ad andare alla città a introdursi alla corte, a

esibirsi per guerriero a non dir mai chi sia, se dirà nulla, se non soffrirà, se non

s’innamorerà di lui, non averà più il Principe e perirà. Princ. Se ubbidendo verrà

a fine de’ suoi affanni. Mostro suo giuramento. Principessa come mai potrà

innamorarsi di lui. Mostro che s’ingegni, che forse sarà per gratitudine. Princ via

verso la città. Seconda circostanza battaglia di Dardanè con l’idra morta la quale

doveva morire la principessa Camzem tiranna, che more ucciso il dragone.

Scena IV

Mostro e Principe

Scena come sopra. Mostro si fa innanzi. Principe vuol combatterlo. Mostro che

si cheti etc. Narrazione sopra al re Fanfur suo padre e alla moglie e sopra

circostanze della città. Che non speri di aver più la principessa s’ella non si

innamora di lui [se un giovane che sarà sconosciuto a suoi occhi non

s’innamorerà] Princ. Che ha tutti i segni d’amore, narrazione breve delle cose

passate. Mostro che il tempo passato non si deve misurare col presente, ch’egli

ha necessità grande ch’ella s’innamori. Etc. Dopo scena mostro chiede perdono

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329

al Principe se per liberare se medesimo da una lunga condanna per necessità

deve cogliere quel punto a rovesciar addosso a lui le sue disgrazie. Suoi precetti

gli da un libro. Suoi precetti se brama di ritornare felice, trasforma il principe in

se stesso, egli diviene un bel giovane, fugge. Principe spaventato dopo scena e

disperazione si ritira nella caverna. Fine dell’atto.

c. 20v

Ultima circostanza di Dardanè. Condannata alla morte per accusa lasciata

morendo dalla principessa di seduttore d’esser avvelenata da Dardanè. Dardanè

suo discorso in prigione col mostro incatenato. Dialogo tra il mostro e Dardanè.

Dardanè contro il mostro d’aver sofferto tanto senza palesarsi con la speranza di

riavere il suo Principe per le promesse del mostro. Esser il mostro bugiardo esser

ridotta alla morte senza speranza di avere il suo Principe. Mostro che manca

ancora ch’ella s’innamorerà di lui, ingrata etc. Dardanè ch’ella finalmente può

scampare la morte palesandosi. Mostro non si palesi per pietà perché non vederà

il Principe che perirà. Dard come potrà vederlo se a momenti attende la morte.

Mostro potrà vederlo se s’innamorerà di lui. Dard che oltre all’orridezza l’odia

di più perché la ridotta a quel passo. Mostro che se non s’innamora egli è

condannato dal destino a [morir] spirar l’alma a momenti che seco morirà il

principe. Suo pianto. Agitazione di Dardanè dopo scena tutta la corte e il Re.

Si fa bendar gl’occhi a Dardanè. Dardanè con disperazione, gode della morte

s’inginocchia. Il Carnefice per ordine di Fanfur alza la scimitarra per tagliarle la

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330

testa. Mostro con voce lo ferma. Palesa le Principessa che si trasforma in donna.

Stupori di tutti di veder tanta innocenza. Mostro spezza catene. Suo discorso

compassionevole a Dardanè. La chiama ingrata. Esser finita la speranza per lui.

Sue agonie di morte [tenerezza] non può palesarsi [parole equivoche], vuol

morire etc. Tenerezza di Dardanè a poco a poco parole vicine a morte del mostro

tenere a Dardanè Dardanè rimproveri a sé stessa piglia il mostro per la mano che

viva che l’ama etc. Trasformazione del mostro. Stupori allegrezze.

c. 22r

Per l’atto secondo Regia

Fanfur vecchio Re in trono Magnifico Tartaglia grandi del regno. Urna nel

mezzo.

Fanf afflitto suo discorso piangente sulle disgrazie del regno, suo esame sulle

sue disgrazie, non saper da che naschino tante peripezie e flagelli. Chiede che

s’abbia di nuovo quel giorno del mostro Turchino del Cavalier fatato e dell’Idra

Magnifico narrazione de’danni fatti quella mattina dal mostro etc

Tartaglia Uccisioni fatte dal cavalier fatato, e spaventi recati alla città. Quanti

cavalier sono morti sin ora da lui etc.

Mag.co Non si può più vivere, i sudditi disertano e fuggono sotto altri Regni, la

città è spopolata quasi affatto

Tart. Che dalla parte del monte dell’Idra tutto quel giorno si sentono urla

tremende, oltre al solito Dura condizion dei Padri e delle Madri di dover porre i

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331

nomi delle loro figlie in quell’urna per essere estratte e mandate in cibo . che le

genti sussurrano che incominciano a inveire contro la sua persona e che non

vorrebbe etc.

Fanf sua disperazione. Suo esame sopra a sacrifici fatti per placare i Dei. Sua

condizion d’aver posto nell’urna sino il nome dell’unica sua Figlia Sarchè per

essere alla condizione de’sudditi etc. Scuotasi l’urna e si prepari al nuovo giorno

cibo all’Idra.

venga Sarchè a cavare e cavi Sarchè scena tenera col padre

Mag.co Trema ch’esca il nome di Sarchè. Esce il nome di Sarchè. Dolore di

tutti. Fanfur dopo disperazione e dolore chiama Brighella ordina [che sia data la

infausta nuova a Sarchè che sia imprigionata] che sia posta in prigione avvisato

il popolo della sua condizione. Al nuovo giorno sia data all’Idra. Partenza e

distaccamento.

Fanfur Anderà a cercare qualche alleviamento nell’angoscia da Gulindì sua

moglie unico conforto rimasto nella sua decrepitezza via coi Magnati.

Scena

Magnifico e Tartaglia

Mag.co stupisce che il Re non s’avveda che i flagelli vengono per l’iniquità

della moglie. Pare infatuato.

Tart. Anche lui. Varie narrazioni d’amori secreti. Che sino a lui un’eunuco era

venuto a volerlo vestir da donna per ordine delle Regina Gulindì per essere

introdotto etc. ma che s’era scansato

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Mag.co Se non avesse il cuore oppresso riderebbe. Da che fare di Tart. Etc. non

crede.

Tart Suoi giuramenti etc. parli piano etc.

Mag.co Ma che quel buon Re’ Fanfur creda tutto e non apra mai gl’occhi.

Stupisce, che una vil schiava l’abbia ridotto etc. piano a Tart. Aver saputo che è

figlia d’un gua cortellini e d’una rompi pignoli

c. 22v

Tart di ciò non stupisce perchè il secolo è filosofico. Né stupisce molto della

debolezza di Fanfur. Un vecchio impotente, una bella giovane furba come il

diavolo. Averà sempre forza di condurlo per il naso etc. Suoi esempi etc.

Mag.co Ma troppa condiscendenza. Arriva da Ca del Diavolo quella certa

Smeraldina che sarà qualche venturiera frustada [dal diavolo]. La piace alla

Signora Regina il suo spirito e Fanfur ghe la dona subito alla Signora Gulindì.

Quella sarà una mezzana. Che verrà mano a mille iniquità etc.

Tart. Giunge quel moro buffone detto Truffaldino, piace alla Signora Gulindì, e

Fanfur sia subito al servigio della Signora Gulindì. È un pezzo di diavolo tanto

fatto, no sa nulla.

Mag. co Ma peggio, giunge non son tre ore quel bel giovinetto che dice essere

un Cavaliere della Giorgia, e che sarà qualche vagabondo che averà perduto

tutto alla corte etc. Nol ghe despiase alla Signora Gulindì e Fanfur servirete di

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333

paggio alla Signora Gulindì. Ha un viso che par un Cupido, da vero veneziano

che ha un viso da far innamorar i pillastri, figurarsi etc.

Tart Burli Pantalone, le ha donato per paggio quel ganimede

Mag.co Mo sì al cospetto etc.

Tart O poveretto me poveretto me cosa mi narri etc. Via

Mag.co Ma le xe cusì e nu altri poveretti gavemo el cesto el mostro Turchin, el

Cavalier fadà, e l’Idra con dodese teste, e bisogna seguirla /via

c. 23r

per l’atto terzo

incontro di Smeraldina e Truffaldino par loro di conoscersi. Truf che si ricorda

d’aver avuto uno schiaffo. Smer esser vero in un bosco perché voleva prendersi

delle confidenze. Chiede scusa. Se abbia nessuna carica in quella corte. Se possa

assisterla non sapendo come viver. Truff se abbia carica e come? Equivoci di

superbia sugl’amori della Regina. Come abbia nome. Sm. Smeraldina etc Truf

Se sia per fortuna la vergine Smeraldina Smer. Sì. Truf che non ha altro bisogno

ch’è impiegata Smer in che Truf come non sappia l’estrazione del lotto. Smer

non saper nulla Truf vedendo Brighella Che ecco la firma [la commisera e parte]

che ha finite tutte le sue miserie etc. /Via

Brig Guardie e Smer

Brig Sue smanie vedendo Smeraldina, che le fattezze le paiono di sua sorella.

Moti e rivoluzione che si sente nel sangue.

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334

Smer Suoi saluti, compiti. Aver inteso ch’egli viene a solevarla d’ogni miseria,

lo ringrazia etc. e sul proposito. Scena conduce Smeraldina in carcere

Scena

Bosco spelonca

Taer mostro con libro sua parlata vede Dardanè venire in mezzo al’armi. Si ritira

Scena

Dardanè in mezzo all’armi Magnifico Tartaglia

Scena tra Dardanè Magnifico Tart vedono uscir il mostro l’abbandonano e

fuggono tutti

Scena

Taer e Dardanè scena tenera e artificiosa.

Taer incatenato da Dardanè via verso Nanquin

Regia Gulindì

Sue smanie per esser cagione del sacrificio d’Acmed. Fierezze per i rifiuti,

dolcezze per l’amore.

Scena

Fanfur e la detta

Astutamente Gulindì a Fanfur. Perché non sia stato umano etc.

Fanf suoi nascenti sospetti

Scena

Magnifico nuove che si vede il mostro giunger verso Nanquin. Disperazione di

Fanfur ordini

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335

c. 23v

Tartaglia che il mostro è incatenato dal Giovine. Odonsi tamburi e viva.

Taer mostro Dardanè e gl’altri. Scena che finisca l’atto.

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336

Appendice 4

Trascrizione di Zeim re’ de geni

(Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana,

Fondo Gozzi 4.7, cc. 19r-26v)

c. 19r

Atto primo scena prima. Stanza con soffà da dormire [città in lontano. Campo

d’arme, mischia].

Re padre e principessa figlia [Padre e Brighella] soldati. Padre alla figlia se sei

risolta di sposare il principe assediatore, o di volere che s’azardi la vita del Padre

nuovamente. Figlia suoi affetti verso al padre sua avversione al matrimonio.

Padre non saper il perché ella aborrisca tal matrimonio. Il principe essere bello,

esser ricco, esser generoso, narra belle azioni del principe, se veramente l’odi.

Figlia suoi ardenti affetti verso il principe. Padre perché dunque si opponga al

matrimonio di quello, perché non sia ancora contenta del sangue sparso, della

città assediata. Ch’egli l’ama che per amore suo e per l’onore in cui si è

impegnato è ridotto all’estremità, che doverebbe finalmente risolvere a cambiare

le stragi in allegrezza, levarlo di pericolo. Figlia suoi spasmi suoi monosillabi

suoi arcani che nulla dicono, suoi pianti. Padre sua disperazione, esser meglio il

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337

finire la vita, anima i soldati, non aver altra speranza che sull’armata della

principessa nuova ch’è giunta etc., sue parole compassionevoli alla figlia, che

sentirà presto la sua morte, e che dovrà sposare a forza il principe, via. Figlia

agitata lo chiama, si dispera sua parlata all’anima di sua madre per i timori posti

in arcano nella sua mente prima di morire, ordinandole che non si mariti senza

dire di più, ordinandole di tacere e ordinandole di provvedersi una serva che le

somigli, di tenerla nascosta, di sperimentare la sua fedeltà per valersene al caso

che fosse sforzata a maritarsi in questo

Truffaldino aguzzino e la detta.

Truffaldino che pensi fare di quella serva in quella grotta, ch’egli le ha usate le

tirannie maggiori di questo mondo, che non ha più cuore di sofferire di trattarla

in quella maniera. Principessa che taccia, come si porti Fatima. Descrizione

della pazienza di Fatima narra le tirannie usate, con qual ilarità l’abbia sofferte

etc. fa un’ammonizione alla principessa etc. Principessa a parte suoi lamenti di

doverla trattare a quella maniera, a Truffaldino che se l’ama taccia, e si porti a

usare nuove tirannie alla stessa, che se mai ha avuto bisogno che sia

tiranneggiata quello è il giorno. Truffaldino sue smanie e via.

Principessa sue agitazioni se il principe è obbligato a sposare la principessa

mora, sue agitazioni se è obbligata a sposarlo lei, suo amore, tirannia di pensieri

etc. Si ritira a pregare il cielo che per qualche forma le manifesti il senso delle

parole della madre morta via.

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338

Campo.

Principe e Magnifico capitano.

Principe sulla crudeltà della principessa. Magnifico che leverebbe l’assedio, non

esser giusto sacrificare tanta gente per una debolezza. Che non potrà resistere

perché è giunta la principessa mora che pretende la sua mano per promessa del

padre defunto con un’armata terribile. Principe, che poco teme, che ha valore da

resistere e che morirà piuttosto di sposar quell’orrida principessa. Magnifico sua

politica, che non si guarda la bruttezza quando la moglie è ricca etc. Principe

satira sui matrimoni d’interesse. Vari riflessi in questo

Messo e i detti

c. 19v

Messo esservi un ambasciatore della Principessa mora che chiede udienza.

Principe che s’avanzi, messo via [Principe e maga] Tartaglia e seguito di mori.

Faruc re di Gur nel Caucaso, la famiglia di Faruc sia imbrogliata per le

maledizioni della fata

Suffar principe suo figlio, promesso dal padre da piccolo alla piccola regina di

Nubbia mora, il detto Suffar non la vuole per sposa

Zelica principessa figlia di Faruc amante di Alcouz re di Divandur. La detta

Zelica fu maledetta da una fata in fasce in presenza della madre la quale madre

le disse che non si maritasse etc. e come nella fiaba

Brunoro amante di Zelica

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339

[Suffar era stato maledetto anche lui in fasce, era gemello di Zelica]

Canzema regina di Nubia amante di Suffar. Mora orrida superba e feroce

armigera / Smeraldina sua scudiera mora

Zirma serva fedele di Zelica

Due fate <Muladina e Gulpenè>

Truffaldino aguzino compassionevole di Zirma

Brighella poeta di Gur

Tartaglia capitano di Canzema regina mora

Magnifico consigliere di Faruc

Sarchè principessa guerriera amante di Suffar, araba incognita armata da uomo,

sua azioni generose e armigere per Suffar. Suffar [aveva la maledizione di non

sposare donna che avesse del maschile e guerriera perciò crede non dover

sposare Canzema mora non sapendo Sarchè esser donna avendolo essa liberato

dalla schiavitù della mora con azione generosa chiede a Suffar di ammogliarsi,

Suffar pur che non sia Canzema la moglie e sia sua pari, giura, Sarchè sarà sua

pari, si scopre] non la conosce né può sposarla per nimicizie sanguinose fra le

due famiglie vien come venturiera in soccorso di Faruc.

Arcano del diventar orsa serbato sino al punto della scena notturna in cui si cava

dalla sposa la serva dal nascondiglio.

c. 24r970

Suffar Re di [Gur nel Caucaso] Balsora. Fu dissoluto, in disordine, assediato etc. 970 La cartulazione del manoscritto, in carte sciolte, è nuova e quindi posteriore alla scrittura gozziana perciò può capitare che essa non rispetti l’ordine cronologico delle scene e degli atti.

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340

Zelica sua sorella amante del principe Alcouz

Zirma sorella sconosciuta di Zelica, serva fedele. Fu rapita in fasce dal genio

Magnifico ministro ritirato in un bosco per [non aver potuto impedire la mala

condotta di Suffar suo signore] non vedere la corte in pericolo dopo la morte di

Faruc e per il mondo rilasciato. È amico del re de geni ma timoroso

Sarchè sua figlia allevata in ritiro. Castisssima

Alcouz re di Divandur amante di Zelica, [assediato in Gur. Rovinato per amore

di Zelica] assediatore di Balsora

Canzema Regina mora uomo vestito da donna fiera assediatrice di [Gur]

Balsora, armigera,pretende Suffar

Smeraldina sua scudiera mora

Tartaglia [fu ministro di Suffar ribellato per la miseria del Re al campo di

Canzema] ministro di Suffar pieno di genio per ribellarsi

Truffaldino aguzino pietoso di Zirma serva fedele, poi seguace di Suffar

Brighella Capitano d’Alcouz

Zeim re de’geni. Cagione dell’oppressione della famiglia di Suffar. Egli fu

grand’amico di Faruc padre di Suffar. Opprime la famiglia di Suffar per

amicizia, prevedendo che dopo la felicità di un governo ne nasca dai successori

il disordine e la decadenza. La calamità istruisce etc. Questo Zeim è re dei geni,

a forza amante di Zirma che infin divien sua sposa.

Materia per l’atto primo. Bosco corto.

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341

Magnifico e Sarchè sua figliuola innocente. Il padre ha condotto al passeggio la

figliuola. Ricerche curiose di Sarchè. Risposte morali del padre. Mondo pessimo

e perché. Filosofo Russó chi non acquista grand’idea ha minori appetiti minori

infelicità. Bella cosa il sol nascente, gl’uccelli, l’erbe, i fiori etc etc. meglio

abitare in quel bosco che nelle città. Fa ritirare la figliuola, resta, suo breve

discorso. In questo. Lampi tuoni. Magnifico soliti segni della comparsa del

genio Zeim. Aver timore ogni volta che lo vede non esser mai potuto usare alla

sua amicizia etc. Bisogna fingere

Zeim mostruoso e Magnifico.

Zeim perché sempre sia timoroso dinanzi a lui. Magnifico se credesse esser

sicuro le direbbe la ragione. Zeim che dica etc. Magnifico che l’averlo veduto

tanto benefico al re padre di Suffar, e il vederlo cambiato dopo la morte di Faruc

vecchio re verso la sua famiglia lo fa temere. Zeim quali tirannie abbia usate?

Magnifico lasciate correre in Suffar in Balsora tutte le disgrazie e aver rapito

dalla culla [Zirma] Dugmè sorella. Tener con apparizioni spaventose angustiata

Zelica altra sorella ora in forma di sua madre ora d’altro. Città assediata miserie

etc. Aver fatto morire la madre di disperazione etc etc. Zeim non esser queste

tirannie. Sua spiegazione. Calamità necessaria dopo una lunga felicità e perché.

Operare anche in benefizio di se medesimo, arcano. Non aver però usate tirannie

verso lui. Magnifico aver avuto dei benefizi ogni volta che andò a ritrovarlo ma

che le tirannie usate alla famiglia del suo signore sono anche tirannie a lui, Ch’è

fuggito dalla corte da quindici anni per non essere

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342

c. 24v

spettatore di miserie. Zeim che darà prova se ami la famiglia regia. Magnifico

sue proteste. Zeim lo fa giurare che soffrirebbe in pace qualunque disgrazia. Che

proverà in quel giorno anche lui con sommo dolore di quanta tirannia sia capace

che s’apparecchi a ubbedire a tutte le vicende o perirà etc. etc. etc. Sparisce.

Magnifico spaventato si ritira.

Camera nella regia.

[Zeim Suffar che dorme]

Zelica e Suffar.

Loro contrasti, e rimproveri reciprochi. Stato loro di angustia. Zelica esser

cagione Suffar per la mala condotta. Suffar esser vero, ma poter lei sposare

Alcouz assediatore e troncare angustie. Zelica a parte suo dolore, ch’egli

potrebbe sposare Canzema e troncar etc. Suffar collerico sua disperazione sulla

oridezza di Canzema mora, che perderà volentieri la vita e il regno piuttosto di

sposarla, ma perché aborrisca Alcouz, narra sua qualità sue imprese generose,

avergli salvata la vita nelle sortite etc. etc. Tenere in dietro l’assalto alla città che

vuol dare Canzema. Egli chiede di parlare con lei. È giunto in città pensi a

riceverlo. Zelica sua agitazione, sua difesa. Suffar sue preghiere di trattarlo con

buona grazia, è stanco si ritira dopo riflessi sul suo stato, e cenni in arcano

d’altre speranze. Zelica sua agitazione sulle parole dette dalla madre prima della

morte, sulle sue apparizioni, accenna la schiava tenuta con tirannia per rimedio.

Suoi rimorsi, suoi spasmi, suoi amori per Alcouz. In questo

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Alcouz sua umiltà suo amore sue esibizioni. Zelica suo occulto amore sue

ripulse sforzate sue lagrime. Alcouz sue tenerezze. Amore vince. Zelica

promette di sposarlo. Alcouz allegro va a far ritirare il suo picciolo campo nella

città per difesa contro Canzema. Parte.

Zelica ombra di sua madre. Che fece mai non potersi però fuggire il suo destino.

Zelica sua disperazione. Ombra se abbia provista la schiava. Zelica sì. Ombra se

l’abbia trattata con tirannia. Zelica sì. Ombra se soffra se l’ami. Zelica sì. Ombra

che le dia l’ultime prove che quello è il giorno fatale per lei, che a quella sola

potrà al punto estremo confidarsi, che quella sola potrà ricuperarla dalla miseria

in cui deve cadere indispensabilmente. Se abbia conservato il foglio datogli

sigillato alla sua morte. Zelica sì. Ombra se l’abbia mai aperto. Zelica no.

Ombra che seguito il matrimonio lo legga, si regoli esattamente come dice il

foglio, con sospiri parte.

Zelica sua agitazione

Truffaldino e la detta. Truffaldino sua narrazione del modo con cui Zirma soffre

la tirannia nel sotterraneo, esser stanco. Zelica che dica la schiava di lei.

Truffaldino narrazioni d’amore e di rispetto d’espressioni etc. Zelica che vada

tosto a caricarla di fatiche maggiori etc. Truffaldino Suoi rimproveri alterati.

Zelica che taccia e ubbedisca. Truf collerico parte <>.

c. 25r

Altra stanza.

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Suffar dormiente apparizione del genio da vecchio desta Suffar. Suffar suo

spavento, perché lo perseguiti, esser stato in Egitto invano, esser ritornato e

invano. Che voglia. Genio loda l’ubbidienza. Doversi fare un matrimonio di

Alcouz e Zelica. Misera Zelica, sarà un matrimonio di dolore, nulla rimedierà

alla strage del Regno anzi l’accrescerà. I soli tesori occulti di quella regia poter

rimediare. Suffar quali tesori se gl’erari son vuoti, se la città è all’estremo.

Genio che vada con il più fedele e semplice nel gabinetto del padre levi la pietra

di mezzo al pavimento, miri ciò che trova ma ubbedisca all’iscrizione che vede,

alla voce che sente, o rovine sobissamenti etc. Sparisce. Suffar agitato

dall’allegrezza e dal timor via.

Fine dell’atto primo.

Materia per l’atto secondo. Camera nella regia.

Brighella capitano di Suffar. Tartaglia ministro. Loro allegrezza per il campo

introdotto, per le nozze. Brighella narrazione di furori di Canzema sua

descrizione. Esser giunti rinforzi al campo, fierezza di Canzema sue imprese,

che si farà l’assalto che teme etc. via per far preparare il tempio per le nozze etc.

Se devono morire si daranno prima una buona ubriacata.

Sotterraneo con molino da mano.

Prima Zirma e Zeim da vecchio.

Zirma e Truffaldino. Truffaldino rigoroso e brusco con fatica. Zirma che faccia

la regina, se sita bene. Truffaldino Benissimo, ha commesso che giri il molino e

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macini in fretta tutto quel giorno venti sacca di biada. Zirma obbedientissima.

Truffaldino a parte sua compassione. Forte che si fermerà mai ha commissione

di bastonarla. Zirma pazientissima. Truffaldino voler provarla. Che piange per

vederla ridotta a tanta tirannia. Zirma sue risposte virtuose. Truffaldino voler

provarla più. Suoi sospiri si finge innamorato con affettazione. Zirma suoi

rimproveri sulla infedeltà alla padrona. Truffaldino aver preparata una nave

carica di ricchezze e di soldati che il vento spira favorevoli per condur la nave

sulle montagne di Bergamo che si risolva a fuggir seco dalla tiranna Zelica etc.

Zirma sue minaccie Truffaldino a parte che è bestialmente fedele. Allora al

mulino. Zirma gira il mulino. Truffaldino con sferza la minaccia perché è tarda.

Zirma in fretta. Truffaldino a parte piange in questo

Zelica e i detti. Entra Zelica, truffaldino la strapazza adagio Zelica che parta da

quella stanza e vada dal fratello che lo chiede. Truffaldino irato via. Zirma gira il

molino senza veder Zelica. Zelica la chiama. Zirma si volge le corre in contro si

ginocchia, le bacia la veste. Zelica che si levi. Quanto sia ch’è al suo servizio.

Zirma credo che siano due anni che le sembravano momenti se sia stanca de suoi

modi aspri. Zirma che furono dolci, che non è degna di servirla, che la maggior

pena è stata il vederla rare volte. Zelica, se le abbia concepito odio. Zirma non

poter

c. 25v

aver per lei rispetto e amore. Zelica chi sia, donde nata. Zirma esser un’infelice

parto, allevata da un villano, affaticata nel sole pascolando bestiame etc. etc. che

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seppe un giorno dal villano con suo rossore esser un parto trovato a caso sulle

sponde del fiume etc. che le parve d’essere fortunata quando il suo servo venne

a comperarla dal villano sentendo che doveva servire una regina e che levavasi

dai modi rozzi villaneschi e da rimproveri de suoi raccoglitori. Zelica che ne ha

provate più di venti alle sue fatiche che tutte disperate e impazienti chiesero di

partire, ch’ella sola parla così. Zirma tali sono quelle che non cercano che il

bene per se stesse, che fanno tutto con intenso dispetto, che guardano con animo

invidioso l’alto stato della padrona, che non sono capaci d’amore per le loro

signore, che non possono sofferire la loro costituzione, non guardando i voleri

del cielo che con previdenza sommamente saggia con giro di providenza

costituisce i gradi etc. etc. Zelica come pensando tanto bene possa compatire in

lei tante stravaganti tirannie usate. Zirma crede che il cielo per il suo migliore

nella breve dimora sua in questo mondo così abbia comandato, ama in lei la

mano d’una padrona, la mano esecutrice de voleri del ciel etc. Zelica seguimi

Zirma, io sono più di te sventurata se si senta in grado d’esserle all’estremo

fedele. Zirma sino alla morte etc.

Suffar e Truffaldino con torchio.

Sotterraneo del tesoro con otto grandi urne piene di oro e di gemme. Cinque

statue risplendenti d’oro, una nicchia e piedistallo per la sesta mancante quivi

iscrizione. Non esser degno di possedere quel tesoro chi non acquista la sesta

statua ch’esiste al mondo che sorpassa di prezzo infinitamente le altre. Di

facciata monumento da cui si leverà l’ombra coronata del padre di Suffar.

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Suffar dopo letto iscrizione, esser in bisogno di danaro potrà levar soldati,

corrompere i capitani di Canzema a Truffaldino che levi una delle urne.

Truffaldino vuol levarla, terremoto, spaventato la lascia. Ombra si leva, al figlio

che non pensi di valersi della menoma parte di quel tesoro se non acquista la

sesta statua di maggior prezzo della altre, se toccherà il tesoro prima si

sprofonderà la città e tutti nel più tenebroso abisso. Suffar come possa acquistar

la statua e dove. Ombra che si porti nel bosco n.n. ivi troverà un suo vecchio

ministro che conosce Zeim re dei geni, dalla mani del quale può ricevere tal

statua. Suffar come possa abbandonar la città in tempo delle calamità, in tempo

che Zelica è per farsi sposa etc. Ombra misera città, misera Zelica. Non usi

resistenza, suoi rimproveri sulla vita passata, e sulla poca rassegnazione, si

chiude. Scena fra Truffaldino e Suffar Truffaldino vuol provare a levar l’urna

ancora, terremoto, tuoni, etc. gli cade la torcia al bosco al bosco etc.

Fine dell’atto secondo.

c. 20r

Materia per l’atto terzo

Casa di Magnifico.

Breve scena tra Sarchè e Magnifico. Magnifico vede capitar gente, alla figlia che

si ritiri.

Suffar, Truffaldino, Magnifico.

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Scena di ricognizione fra Magnifico e Suffar. Narrazione di Suffar, necessità

della sesta statua posseduta da Zeim. Magnifico saper chi sia Zeim poterlo

condurre ma pericolo grande. Suffar comunque sia lo conduca a Zeim.

Narrazione di Magnifico di quanto occorre eseguire per andare da Zeim, quanto

si deve passare, come poi deva diportarsi. Suffar tutto promette, partono.

Campo bosco corto.

Canzema mora Smeraldina.

Scena di fierezza di Canzema per il rifiuto di Suffar per il ritiro di Alcouz.

Smeraldina sua ira per il ritiro di Brighella. Loda le bellezze di Canzema, la

accende alla vendetta. In questo

Ambasciatori da Balsora siedono.

Tartaglia e Brighella Loro ambasciata per parte d’Alcouz che Canzema si ritiri

etc. l’oggetto delle sua fiamme Suffar non esser più in Balsora, si crede moto

annegato per disperazione o fuggito, può andarsene. Canzema sua fierezza vuol

distrutto Alcouz, Balsora, la famiglia reale, etc. Smeraldina maltratta

l’ambasciatore. Canzema ordina siano tagliate le orecchie e il naso

agl’ambasciatori e rimandati. A parte Tartaglia suoi pianti. Brighella sue istanze

a Smeraldina per non essere diformato. Smeraldina commossa, suo ripiego

ridicolo, si fa tagliare le orecchie e i nasi a due asini. Li rimanda.

Palagio luminoso di Zeim con riviera. Barca con Truffaldino Magnifico e

Suffar.

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Modi usati per l’apparizione del genio, sua apparizione. Patti e giuramenti

stabiliti tra Suffar e Zeim per la statua, minacce in mancanza. Zeim si ritira.

Magnifico Suffar Truffaldino via.

Regia.

Zelica Zirma.

Zelica che si avvicina il tempo d’ esperimentare la sua fedeltà. Zirma in che mai

possa dimostrare quanto l’ami quanto sia capace d’esser fedele. Zelica esser

all’oscuro anche essa di quanto occorra da lei, che si nasconda in quella vicina

stanza dove la terrà chiusa sino al punto che occorrerà, in breve sarà da lei.

Zirma obbedisce. Si ritira.

[Alcouz Zelica

Alcouz muove dal campo, assalto che deve sostenere la mattina] Zelica Ombra

di sua madre.

c. 21v

Ombra esser quella l’ultima volta che le comparisse e che viene a compiangere

la sua estrema sventura. Zelica agitata perché mai le comparisca sempre ad

accrescere le sue angoscie perché se ella sua madre tanto le raccomandò di non

maritarsi e se tal maritarsi deve incontrare le tremende sciagure, voler poi che si

mariti [e non voler dire quali sciagure deve incontrare. Può fuggire] Ombra le

maledizioni ch’ebbe al suo nascere, il ratto di Zirma sua sorella gemella, furono

cagione della sua morte. Le raccomanda di non maritarsi sapendo che da ciò

doveva dipendere la sua gran fatalità, il dolore la faceva parlare ma sapeva ben

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che tal destino dover compiersi. Zelica può fuggire nascondersi etc. evitare un

funesto maritaggio. Ombra Se non ami forse Alcouz Zelica Quanto la sua vita,

ma queste minacciate disgrazie a lei possono essere di dolore allo stesso etc.

Ombra Alcouz merita amore, il giorno è giunto che si deve compiere il corso

della sua orrida vicenda. Non si deve prolungare. Zelica ma per pietà qual

vicenda. Ombra Segua il matrimonio faccia bere di nascosto allo sposo quella

polvere ch’è un leggero sonnifero / getta una <> / Seguito il matrimonio legga il

foglio sigillato, saprà le sue sventure ma non sarà più tempo d’evvitarle. Si

raccomandi alla serva. La sola fedeltà di quella potrà un giorno restituirla in

felicità. Ma quanto è difficile che una serva sia fedele in simile inaudita

circostanza. La sua disgrazia sarà interminabile, Alcouz non sarà più suo etc.

Voglia il cielo che si dia in Zirma l’impossibilità fedeltà. Figlia ti lascio etc. etc.

Zelica sue agitazioni suoi pianti.

Alcouz e la detta.

Alcouz nuove del campo ma perché pianga Zelica non piangere s’inganna.

Alcouz tenerezze, se le dispiaccia il dover essere sua sposa, la mestizia essergli

di cattivo augurio. Zelica è impossibile non mostrare qualche mestizia. Miseria

del regno, fratello perduto forse perito. Alcouz non si teme per Suffar egli ha

lasciato nella sua stanza scritto che parte che non si tema per lui che forse a

momenti ritornerà a fare la regia colma di letizia etc. aver dato l’ordine per

l’apparecchio del tempio. Dover la mattina incontrare l’assalto di Canzema, che

la felicità d’esser suo sposo lo farà più vigoroso etc. Zelica a parte. Oggetto di

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amore, oggetto di miseria per lei. Tutti forse saranno lieti, lei sola sarà la

miserabile etc. etc. dopo scena.

Brighella Tartaglia e i detti.

Tartaglia essere pronti i sacerdoti al tempio. Brighella. Svolazano sonetti fatti in

fretta, il tempio è affollato di donne per vedere la nuova

c. 22r

sposa, satiretta. Zelica sua risoluzione. Alcouz sua allegrezza sua gratitudine

presi per mano partono. Tartaglia due ch’entrano nuovamente nell’Isola del

maritaggio. Brighella Suoi scherzi sulla carta topografica. Tartaglia Altri

scherzi. Suono d’istrumenti. Al tempio etc.

Fine del terzo atto.

Materia per l’atto quarto bosco corto.

Qui scene di tenerezze e d’agitazione tra Magnifico Suffar e Sarchè. Passione di

Suffar, passione di Sarchè, generosità ma necessarietà di Magnifico / via verso

Zeim. Qualche scena di Truffaldino spedito alla città.

Altro bosco.

Canzema e Smeraldina loro rassegna e apparecchio per l’assalto da darsi la

mattina alla città

[Stanza nella regia. Alcouz che dorme]

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Palagio del genio consegna di Sarchè. Genio manda alla regia Suffar a valersi

del tesoro etc. etc. tutti saranno felici. Suffar e Magnifico piangendo partono.

Non potranno esser felici.

Stanza nella regia. Suffar che dorme.

Entra Zelica con lume. Guarda Alcouz, sua agitazione. Risolve di sottoporsi al

destino, trae Sarchè dalla stanza, è uguale a lei nei vestiti e in tutto.

Trasformazione scena agitata tenera e disperata, si cambia. Fugge. Suffar si

desta. Fedeltà e generosità di Zirma. Strepito di strumenti bellici. Brighella e

Tartaglia l’assalto si da alla città, le truppe sono pronte. Suffar conforta Zirma

sotto nome di Zelica. Non voler come vile attendere l’assalto s’esca con le

truppe e si respinga il campo via parole di Zirma. Fine dell’atto quarto.

Materia del quinto atto vari duelli ridicoli e seri. Alcouz dopo lungo duello vince

Canzema, la disarma, la fa prigioniera. Fierezze di Canzema.

c. 22v

Materia per l’atto quinto

Stanza del tesoro vedesi sul piedistallo ch’era vacuo la statua tutta coperta,

questa sia Sarchè. Afflizione di Suffar. Tutti in scena fuori che Dugmè e Zelica e

Smeraldina. Alcouz afflitto per Zelica perduta in braccia d’una tigre nel giardino

etc.

Scena prima.

Suffar Alcouz Magnifico Tartaglia Brighella Truffaldino.

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c. 26r

Per l’atto terzo

Scena prima. Bosco corto.

Campo Canzema e Smeraldina more loro dialogo sull’abbandono di Alcouz e

Brighella. Scena ridicola.

Scena seconda.

Campo Brighella ambasciatori e le dette scena ridicola.

Scena terza regia.

Dugme Zelica picciola scena la fa nascondere.

Scena quarta.

Ombra della madre e Zelica, ombra consegna polvere e foglio sigillato da non

aprirsi che dopo seguito il matrimonio. Sparisce.

Scena quinta.

Alcouz Zelica scena amorosa e mesta. Zelica si scusa per la perdita di Suffar.

Alcouz aver trovato biglietto che forse tornerà.

Scena quinta.

Tartaglia Brighella e i detti. Loro riferta. S’aspetti l’assalto. Il tempio e i

sacerdoti sono pronti. Alcouz si vada al tempio se deve morire almeno morire

sposo di Zelica. Al tempio. Brighella Tartaglia scherzi sulla carta del maritaggio.

Scena sesta. Boscaglia folta dietro palagio di Zeim luminoso.

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Suffar Magnifico e Truffaldino loro scena d’apparecchio. Apresi la boscaglia.

Scopresi palagio con romori e prodigi e s’apre. Esce Zeim con viso umano il

resto animalesco.

Questa scena sarà cominciata sa Magnifico. Domanderà scusa a Suffar di non

averlo lasciato entrare nel suo casino per esser indecente. A parte per la figlia

etc. Truffaldino lo rimprovera di senza creanza e d’avarizia.

Scena settima.

Zeim e i detti come la favola.

Fine dell’atto terzo

c. 26v

Per l’atto quarto. Bosco corto. Porta del casino di Magnifico con finestra.

Scena prima [camera del Magnifico].

Truffaldino [esser stanco di stare dietro al padrone e al vecchio aver vedute

specchiarsi trecento cinquecento fanciulle e sempre oscurarsi il specchio che già

sapeva per questo esser impossibile di possedere il tesoro] con specchio nelle

mani che già pareva la fanciulla ritrovata. Che il signore diavolo Zeim può che

aspettarla. Si sono fatte specchiar più di cinquecento ragazze in quei contorni, e

sempre il specchio era diventato nero. Esser stato incantato sull’esperienza di far

specchiare quella ragazza di [cinque] sei anni e lo specchio esser venuto nero.

Esser però vero che la fanciulla cominciava a imparare il solfeggio per fare la

cantatrice. Gran virtù di quel specchio. Esser curioso di specchiare se stesso per

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vedere se diventa nero. Si guarda. Resta sorpreso della gran nerezza. Sue

proteste di castità, etc. Aver lasciato il padrone indietro perché vuol la

compagnia del vecchio che non può camminare per i calli. Ha fame. Vede la

casa di Magnifico, non sa intendere perché la tenga chiusa. Ha brama di veder

dentro, d’appagare i suoi sospetti. Guarda per una fessura. Sue meraviglie di

vedere una bella fanciulla che lavora di calza. Sua satira sul buon vecchio che

non vuol accettarli. Però che potria essere sua figliuola tenuta con ritiratezza.

Vuol battere. Picchia.

Scena seconda.

Sarchè di dentro e Truffaldino.

Scena artificiosa di Truffaldino per farsi aprire. Non può. Prima suoi esami.

Spera che quella potesse essere la casta ricercata. Con arte la fa venire alla

finestra. Viene sotto la finestra appoggia la schiena al muro procura d’incontrare

la faccia di Sarchè nel specchio. L’incontra. Sua allegrezza che resta lucido,

replica, s’ode venire.

Suffar Magnifico.

Suffar disperato che dunque non si deve poter trovare la ragazza. Dovrà perire il

regno, egli dovrà restare in desolazione etc. Magnifico che non è da disperarsi,

che manca un pezzo di paese da quella parte sotto il monte che forse etc. / a

parte / che certamente caschi il mondo in casa sua non entrerà, che sua figlia

carissima non deve entrare in pericolo d’andare alle mani di quel diavolo che ciò

sarebbe la sua morte.

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Suffar esser stanco che riposerebbe un poco, che non si cura di agi, che gli apra

il casino etc.

Magnifico a parte imbrogliato. Dubita delle parole di Zeim a parte delle calamità

etc. possibile che non di trovi casta, che voglia da lui tal sacrificio. Che anche lui

è stracco ma che bisogna esser solleciti di troppo. Il genio vuole ubbidienza non

bisogna fermarsi un momento. Suffar ora dove sia Truffaldino, che senza lo

specchio è superfluo l’andare in cerca. Magnifico a parte maledice Truffaldino e

l’intoppo, è agitato, affannoso. Che Truffaldino sarà passato innanzi è meglio

proseguire il viaggio.

c. 23r

Suffar che farà forza

Magnifico a parte / che respira a trascinarlo lungi da quella casa che qualcosa

sarà. In atto di partire.

Scena 4

Truffaldino dalla finestra e i detti.

Truffaldino sua voce allegra che ha trovato la casta la casta la casta etc.

Magnifico Oimè maestà questo xe un colpo che me leva la vita. Cade in

svenimento.

Suffar assiste Magnifico. Verso Truffaldino chi sia etc.

Truffaldino che ha trovata la casta, lo specchio sta lucido tutto lucido suoi giuri,

è figlia del vecchio. Gliela farà vedere. Entra. Chiama di dentro la signorina

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Sarchè, ch’è giuntoli suo signor padre che esca presto, che è caduto in

svenimento vada ad assisterlo.

Suffar suoi stupori non intende nulla.

Scena 5.

Sarchè Suffar Magnifico.

Sarchè esce dove sia suo padre lo vede in svenimento disperata si gli accosta.

Suffar sua sorpresa sulla bellezza si va innamorando.

Sarchè piange sopra il padre lo richiama alla vita.

Suffar si innamorerà sempre più, riflessi sopra tanta bellezza casta innocente.

Magnifico torna in se stesso sua disperata, ramemora parole di Zeim, sua parlata

tenera, suo impegno e giuramento di sacrificar tutto per la felicità di Suffar. Sua

risoluzione. Alla figlia che l’ha sacrificata che deve abbandonarla a uno spirito

etc. etc.

Sarchè Sue preghiere che non intende staccarsi da lui per pietà etc.

Magnifico Non esservi più caso, ha data la parola ha giurato al Cielo, si

rassegni. Se le è stata obbediente per il passato risolva d’essere all’estremo

obbediente in si dura circostanza quello è il suo re etc. Resterà almeno una

memoria immortale di lei che si sia sacrificata per la salvezza d’una reale

famiglia d’un regno. Quanto a lui durerà poco nel dolore che perderà la vita e

Sarchè faccia conto di non avere più padre.

Sarchè Priega Suffar di assisterla, a non permettere la sua disgrazia.

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Suffar a Magnifico che si rallegri. Lodi e amori verso Sarchè. Abbandona ogni

felicità, ogni ricchezza il regno, rimarrà infelice in vita sua, che la maggior sua

infelicità sarebbe il sacrificare si bella si virtuosa etc.

Magnifico Sua correzione sulle promesse dello spoglio delle passioni. Predizioni

dell’ombra e di Zeim etc. Che nulla gioverebbe il trattenerla, ramemori la

minaccia di Zeim. Non ha cuore di vedere sua figlia morire dinanzi agl’occhi e

l’altre stragi. Risoluto prende la figlia per mano in atto di condurla al sacrificio.

Suffar collerico contro Magnifico sua disperata. Sarchè dee essere sua. Non

permetterà mai che vada etc. vuol impedire con violenza. Oscurità lampi tuoni.

Magnifico sua disperazione. Sue preghiere verso Zeim. Rimproveri a Suffar che

brami di veder quell’innocente sbranata dal mostro etc.

c. 23v

Sarchè Sue parole d’umiliazione. Prega d’esser condotta al suo destino.

Suffar Sua maggior tenerezza. Suo cambiamento di spirito. Che certo quello è il

maggior sforzo dell’animo suo. Ringrazia Sarchè, ringrazia Magnifico. Si

sottomette per non vedere la strage. Ah non la sua sforzata volontà ma la virtù di

Magnifico e della figlia saranno premiate dal cielo. Tutti piangendo via.

Truffaldino esce di casa aver mangiato. Vede che sono partiti che sono asini a

partire senza ringraziarlo di tanto benefizio. Li vede in lontano. Sue grida. Senza

creanza asini vuol seguirli e caricarli di rimproveri / via.

Scena 6 camera Alcouz dorme.

Scena della trasformazione di Zelica.

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Finisce con suoni d’istrumenti militari che l’assalto si da alla città. Tartaglia e

Brighella Vengono a dar la nuova.

Alcouz Risolve d’uscire e respinge il campo via tutti.

Scena settima.

Scena della consegna di Sarchè a Zeim.

Parlata di Zeim suoi pronostici di felicità.

Vadano verso Balsora. Egli aver spedito una truppa di geni a spaventare il

campo di Canzema che sarà sconfitto si chiude nel palagio. Magnifico Suffar

Truffaldino via piangendo.

Scena ottava si cala scena di bosco.

Combattimento.

Duello di Brighella con Smeraldina resta vinto, promette di sposarla. Duello

d’un moro e Tartaglia il moro è vinto.

Duello d’Alcouz e Canzema. Canzema resta morta.

Finisce l’atto.

Atto quinto

Scena del tesoro. Statua coperta da un velo. Tutti.

Suffar è piangente disprezza i tesori disprezza tutte le felicità. Si scopre la statua

è Sarchè. Sorpresa allegrezza. Apparizione di Zeim tutto risplendente ha seco

Zelica. Lode alla virtù di tutti che vien premiata dal cielo. Restino tutti nella

felicità ma mortale. Dugmè sorella di Suffar e di Zirma merita d’essere

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immortale come la più virtuosa e d’esempio a tutte le serve etc. etc. a lei tocca

ringraziare etc.

Zelica si è sacrificata ma per necessità. Suffar e Magnifico sacrificarono Sarchè

ma per non vederla perire e per non perire. Dugmè virtuosa sofferse, virtuosa

ricusò un re sposo un regno per essere fedele per solo amore e virtù etc.

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Appendice 5

À Senhora Joanna Sacco, Que na idade de sete annos desempenha com

admiraçaõ de todos o papel de criada nas Comedias Italianas, que se representaõ

no Theatro do Bairro Alto, Apparecendo no mesmo Theatro depois de huma

dilatada infirmidade, que fez suspender por muito tempo as ditas Comedias

Soneto

Já que ninguem quiz crer, que como

Aurora

Em ti, Joanna, a graça reluzia,

Ser Sol representaste, que escondia

A luz, que nesse Theatro brilha agora.

Para bem nosso foy tua melhora, pois se

repete já nossa alegria;

Se nos faltara em ti taõ bello dia, Sempre

para nós triste a noite for a.

Hoje em devido obsequio attentamente

Ao teu Progenitor se satisfaça

E em repetidas graças se lhe augmente;

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Pois, quando a sorte em tudo taõ escaça

Ouvillo não permitte a toda a gente,

Em ti nos communica a melhor Graça.

Biblioteca Nacional de Portugal, L. 59725

A. [impresso]

Alla Signora Giovanna Sacco, che in età di sette anni rappresenta mirabilmente

la parte di Serva nelle Commedie Italiane, che si recitano nel Teatro del Bairro

Alto

Sonetto

Eccome mai dentre sì brieve giro

Un spirto sì vivace si rinserra?

Chi vide mai tal grazia in su la terra,

Come quell’è, che in te, Giovanna,

ammiro?

Qualora i vezzi, I moti, e l’arte io miro,

Che l’angusta tua salma asconde, e serra,

Io penso allora, e il mio pensier non erra,

Che cosa sei scesa dall’alto Empiro.

Come di chiara luce il volto adorno

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Se brilla sul mattin la vaga Aurora

Ci annunzia bello, e risplendente il giorno;

Così dal dolce brio, che t’avvalora,

Spero veder tai pregi a te d’intorno,

Che farai delle Grazie un altra Suora.

Biblioteca Nacional de Portugal, L. 59726 A. [impresso]

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BIBLIOGRAFIA

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MANOSCRITTI Autografi di Carlo Gozzi Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana Fondo Gozzi, 3.1, Prefazioni. Cart.; carte sciolte contenute entro una camicia di carta, sulla quale l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse il titolo; secc. XVIII seconda metà-XIX in.; cc. 68 (cartulazione nuova a matita); mm 305 x 210 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 3.2, Prefazioni teatrali e altri scritti di carattere teatrale. Cart.; carte sciolte; secc. XVIII seconda metà-XIX in.; cc. 63 (cartulazione nuova a matita da 1 a 62); sulla c. 36r è incollato un foglietto numerato c. 36 bis); mm 288 x 208 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 3.3, Prologhi e congedi teatrali. Cart.; carte sciolte entro una camicia di cartoncino, a sua volta compresa in camicia di carta, sulla quale Gaspare Gozzi (1856-1935) riprese a matita il titolo “Prologhi e congedi”; secc. XVIII seconda metà-XIX in.; cc. 164 (cartulazione nuova a matita), mm 278 x 196 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 3.4, Ragionamento ingenuo, e Storia sincera dell’origine delle mie dieci Fiabe teatrali. Cart.; fascicoli legati da c. 1 a c. 9 e carte sciolte da c. 10 a c. 31, racchiusi, assieme al fascicolo legato di cc. 1-9, entro una camicia di carta recante il titolo “Ragionamento ingenuo e storia sincera dell’origine delle mie dieci fiabe teatrali. Prefazione alle Opere edite ed inedite del co. Carlo Gozzi Venezia - Zanardi - 1801”, forse di mano di Gaspare Gozzi (1856-1935); aa. 1772-1801; cc. 31 (cartulazione nuova a matita); mm 285 x 200 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 3.5, Turandot. Composito di 2 elementi; le due unità sono contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse con un inchiostro viola: “Volume II La Turandot”, conriferimento all’edizione dello stampatore veneziano Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi uscite negli anni 1801-1804. Fondo Gozzi, 4.1, Il Re Cervo.

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Cart.; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse con un inchiostro viola: “Volume I pg. 197 Il Re Cervo”, con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1761-1801; cc. 37 (cartulazione nuova a matita); mm. 280 x 201 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 4.2, La donna serpente. Cartaceo; fascicoli legati, anno 1762 circa; cc. 33 (cartulazione nuova a matita), mm. 283 x 196 (rilevata alla c. 1). Coperta in cartoncino; titolo autografo, alla c. 1r.: Il Serpente. Fondo Gozzi, collocazione 4.3, La Zobeide. Fondo Gozzi, 4.4, Il mostro turchino. Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1859-1935) scrisse ad inchiostro viola “Volume III, pg. 89 Il mostro turchino” con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1765-1802; cc. 23 (cartulazione nuova a matita; bianca la c. 21); mm. 281 x 203 (rilevata alla c. 1). Numero d’ingresso nella Biblioteca Marciana 378730», in Carlo Gozzi (1720-1806) cit., p. 125. Fondo Gozzi, 4.5, I Pitocchi fortunati. Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “Volume II pg 193 I Pitocchi fortnati”, con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1765-1801, cc. 8 (cartulazione nuova a matita) mm. 295 x 208 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 4.6, L’augellino belverde. Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “Volume III pg 199 L’augellino belverde”, con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1765-1802, cc. 45 (cartulazione nuova a matita) mm. 292 x 202 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 4.7, Zeim, re dei genj. Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “Volume IV Zeim”, con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1765-1802, cc. 30 (cartulazione nuova a matita) mm. 286 x 205 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 4.8, Doride.

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Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “Volume IV pg. 209 Doride”, con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1765-1802, cc. 44 (cartulazione nuova a matita) mm. 285 x 202 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 7.1, Il cavaliere amico. Cart.; fascicoli legati, (cc. 1-11 e 12-17) e carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “Volume IV pg. 111 Il cavaliere amico”, con riferimento all’edizione Zanardi delle Opere edite ed inedite di Carlo Gozzi; aa. 1762-1802; cc. 48 (cartulazione nuova a matita da 1 a 47, + c. 31 bis) mm. 285 x 202 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 8.6, Dediche e prefazioni. Cart. Carte sciolte racchiuse entro una camicia di carta da Gaspare Gozzi (1856-1935) che scrisse a matita il numero 15 sul recto della camicia anteriore; aa. 1772-1774; cc. 9 (cartulazione nuova a matita) mm. 296 x 200 (rilevata alla c. 3). Fondo Gozzi, 8.7, Prefazione al volume delle Opere edite ed inedite non teatrali. Cart.; carte sciolte; a. 1804; cc. 3 (cartulazione nuova a matita); mm. 282 x 196 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 9.10, Offender colla finezza. Cart.; carte sciolte (cc. 1-8) e fascicoli legati (cc. 9-48); a. 1773-05-19 (data presente alla c. 9v); cc. 48 (cartulazione nuova a matita); mm. 292 x 204 (rilevata alla c. 1), mm. 300 x 208 (rilevata alla c. 9). Fondo Gozzi, 10.3, Il Tessitore di Segovia. Cartaceo; carte sciolte (cc. 1-4) e fascicoli legati (cc. 5-57); a. 1779 circa (data presente alla c. 5r); cc. 57 (cartulazione nuova a matita); mm. 280 x 195 (rilevata alla c. 1), mm. 307 x 211 (rilevata alla c. 32). Fondo Gozzi, 10.4, Isabella e Ruggero. Ballo. Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta; secc. XVIII seconda metà - XIX in.; cc. 4 (cartulazione nuova a matita); mm. 303 x 218 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 10.5, La bella Arsene.

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Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “La bella Arsene Ballo”; a. 1780 (data alla c. 1r); cc. 12 (cartulazione nuova a matita); mm. 237 x 179 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 10.6, Coriolano, o sia la forza della bellezza. Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “Coriolano Ballo”; secc. XVIII seconda metà - XIX in.; cc. 4 (cartulazione nuova a matita); mm. 304 x 211 (rilevata alla c. 2). Fondo Gozzi, 10.7, La fata Urghella. Ballo seriofaceto allegorico. Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “La fata Urghella Ballo”; secc. XVIII seconda metà - XIX in.; cc. 8 (cartulazione nuova a matita); mm. 281 x 211 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 10.8, I mietitori. Ballo eroico villereccio pantomimo. Cartaceo; carte sciolte; secc. XVIII seconda metà - XIX in.; cc. 9 (cartulazione nuova a matita); mm. 287 x 196 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 10.9, Piano per comporre un ballo militare da intitolarsi I prigionieri di guerra, o sia La Donna di spirito. Cartaceo; fascicoli legati contenuti entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “I prigionieri di guerra Ballo”; secc. XVIII seconda metà - XIX in.; cc. 6 (cartulazione nuova a matita); mm. 242 x 177 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 10.10, Il Re Pastore. Ballo eroico pantomimo. Cartaceo; carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse ad inchiostro viola “Il Re pastore Ballo”; secc. XVIII seconda metà - XIX in.; cc. 13 (cartulazione nuova a matita); mm. 293 x 212 (rilevata alla c. 1). Fondo Gozzi, 10.11, Progetto di contratto di Antonio Sacchi dell’anno 1770. Cartaceo; carte sciolte; a. 1770; cc. 8 (cartulazione nuova a matita); mm. 284 x 204 (rilevata alla c. 1), mm. 240 x 175 (dimensione maggiore, rilevata alla c. 4). Fondo Gozzi, 10.14, Frammenti Teatro. Cartaceo, carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui l’ordinatore Gaspare Gozzi (1856-1935) scrisse a matita “Frammenti Teatro”; secoli XVIII seconda metà e XIX inizio;

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cc. 102. Cartulazione nuova a matita, mm. 302 x 213 (dimensione maggiore, rilevata alla c. 1), mm. 173 x 117 (rilevata alla c. 6). Fondo Gozzi, 18.3. Cartaceo, carte sciolte contenute entro una camicia di carta su cui si legge, scritto a matita, di mano presumibilmente di Gasparo Gozzi (1856-1935) “Da ordinare Varie”; secc. XVIII seconda metà e XIX in. (scritti e abbozzi di varie epoche, si veda ai nn. 6, 12, 16, cui si aggiunge al f. 33r un indice delle opere letterarie di Carlo ancora più tardo, di mano dell’ordinatore e dunque entro il 1935); cc. 33 (cartulazione nuova a matita), mm. 214 x 158 (rilevata alla c. 23), mm. 563 x 407 (dimensione maggiore, rilevata alla c. 31). Fondo Gozzi, 18.4. Cartaceo; aa. 1765-1806, varie lettere e minute di lettere di Carlo Gozzi. Mss. Italiani, classe IX, n. 329, collocazione 6463, In lode del Sacchi famoso Truffaldino Mss. Italiani, classe IX, n. 680, collocazione 12070. Cartaceo; fascicoli legati, XVIII secolo. Il corvo cc. 55r-81v. Turandot cc. 82r-113v. Il Re Cervo cc. 114r-137v. Mss. Italiani, classe IX, n. 681, collocazione 12071. Cartaceo; fascicoli legati, XVIII secolo. La donna serpente cc. 2r-22v. La Zobeide cc. 23r-60v. Il mostro turchino cc. 61r-98v. I pitocchi fortunati cc. 99r-134v. Mss. Italiani, classe IX, n. 682, collocazione 12072. Cartaceo; fascicoli legati, XVIII secolo. L’Augellino belverde cc. 41r-77v. Zeim, Re de’ geni cc. 41r-77v. Il cavaliere amico o sia Il trionfo dell’amicizia cc. 78r-117v. Doride, o sia la Rassegnata cc. 118r-152v. Mss. Italiani, classe IX, n. 684, collocazione 12074.

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Cartaceo; guardie in carta e cartoncino, fascicoli legati, aa. 1761-1772. Rappresentazione del Corvo cc. 1r-60v. Mss. Italiani, classe IX, n. 685, collocazione 12075. Cartaceo; guardie in carta e cartoncino, fascicoli legati, a. 1761. La rappresentazione del Re cervo Fiaba di non più veduti accidenti divisa in tre atti cc. 1r-39r. Altri manoscritti Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana Mss. Italiani, classe VII, n. 1396, collocazione 9287, Leggi e Costumi veneziani. Venezia, Biblioteca di casa Goldoni Archivio Vendramin, fascicoli 42F 8/1. Archivio Vendramin, fascicoli 42F 9/1-36. Archivio Vendramin, fascicoli 42F 12/1-11. Archivio Vendramin, fascicoli 42F 16/1-10. Venezia, Archivio di Stato Inquisitori di stato, busta 538. Inquisitori di stato, busta 713. Inquisitori di stato, busta 914, fascicoli documenti vari. Padova, Archivio di Stato Archivio del Teatro Verdi, II, Documenti.

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Milano, Archivio Storico Spettacoli pubblici, parte antica, n. 34 Roma, Biblioteca del Burcardo Antonio Colomberti, Notizie storiche de più distinti comici e comiche che illustrarono le scene italiane dal 1780 al 1880, collocazione Manoscritti. 3/15/3/19. Bellinzona, Archivio di Stato Collezione Famiglie, Fossati OPERE A STAMPA Opere selezionate di Carlo Gozzi (1720-1806) La tartana degl’influssi per l’anno bisestile 1765, Parigi (ma Venezia), [s. e.] (ma Colombani), 1757. I sudori di Imeneo con la rassegna de’poeti per le felicissime nozze del N. H. Sebastiano Mocenigo e della N.D. Chiara Zeno. Canti quattro faceti, Venezia, Zatta, 1759. Manifesto del Co: Carlo Gozzi, dedicato a’ magnifici Signori Giornalisti, Prefattori, Romanzieri, Pubblicatori di Manifesti, e Foglivolantisti dell’Adria, [s.n.t.] (ma: Venezia, Colombani, 1772). Opere del Conte Carlo Gozzi, Venezia, Colombani, 1772-1774, 8 voll. Tre opere teatrali del Conte Carlo Gozzi, cioè La donna innamorata da vero, Il moro di corpo bianco, il Metafisico, che formano il tomo IX delle sue opere, Venezia, Foglierini, 1787. Opere del Conte Carlo Gozzi. Tomo X, che contiene La figlia dell’aria, Bianca di Melfi, Cimene Pardo, Venezia, Curti, 1792. Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà, Venezia, Palese, 1797, 3 voll.

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