Una voce nel silenzio

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di Pietro Solimeno, drammatico. “Se tu conoscessi veramente il significato della parola amore, non staresti seduto a guardarlo mentre se ne va.” Isabella è una donna come tante: volitiva, spontanea, esuberante. E come tante donne è sposata a un uomo che non la ama. Sarà la scoperta dell’ennesimo tradimento a cambiare il suo destino: un terribile incidente la costringerà in un letto d’ospedale per il resto dei suoi giorni. Isabella continuerà ad amare, a sognare e a pregare in silenzio, chiusa nel suo mondo di gesti non fatti e parole non dette. Implorerà un Dio ingiusto di darle la morte, perché quella che vive non è più vita. Solo l’amore per la musica e per Marco, il suo insegnante di pianoforte, riusciranno a darle la forza di continuare a far sentire la sua voce: una voce nel silenzio. Un romanzo intimo e tagliente, che attraverso gli occhi e il cuore di una donna in coma irreversibile affronta argomenti del nostro quotidiano, arrivando a sfiorare con rabbia e delicatezza un tema

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In uscita il 30/9/2014 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2014 (4,99 euro)

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PIETRO SOLIMENO

UNA VOCE NEL SILENZIO

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UNA VOCE NEL SILENZIO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-768-1 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Personaggi e luoghi citati sono frutto della fantasia dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e personaggi, viventi o scomparsi, è assolutamente casuale.

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Regalami un’ora della tua vita, Basterà.

* * *

Il sole cala Dalla finestra posso vedere il cielo tingersi di rosso

Uno spettacolo meraviglioso. Ti fa amare il mondo

Ti avvicina alla tua anima Ti fa sperare di morire.

* * *

Guardo intorno a me e ho paura Guardo dietro di me e ho paura Guardo davanti a me e ho paura Guardo la paura e non ne ho più.

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Di nuovo sola. So che è arrivato il momento. Sento i suoi passi, sta per entrare nella stanza. Non ho paura, non ne ho più. Ha il libro con sé, la mia storia raccontata in un romanzo, l’ultimo della mia vita. Siede accanto a me senza dire nulla. Apre il libro e rimane ancora in silenzio a rileggere nella sua mente l’ultima pagina. Si alza, mi bacia sulle labbra e siede ancora. Lo apre e inizia a leggere.

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La lunghezza effettiva della vita è data dal numero di giorni diversi che un individuo riesce a vivere.

Quelli uguali non contano. L. De Crescenzo

Prologo La bambina entrò nella stanza e le si avvicinò. Le rimboccò la coperta, le diede un bacio sulla guancia e si allontanò. In un angolo un vecchio impianto stereo aspettava di essere acce-so. Prese un 33 giri dei Genesis e lo pulì con molta delicatezza. Dopo aver guardato i solchi sulla superficie, lo mise sul piatto fa-cendo attenzione a non rigarlo nell’impatto con la testina. Subito dopo la sua piccola mano si portò sulla manopola del volume per controllare che fosse adeguato, per non disturbare troppo. Per un po’ rimase a guardare il disco che girava, incantata. Appena la musica iniziò a impregnare le pareti con le note dei menestrelli, si voltò verso di lei, per accertarsi che tutto andasse bene, per cerca-re un segno qualsiasi nei suoi occhi semichiusi, poi sedette su una sedia, in silenzio. Muoveva lo sguardo in ogni angolo della stanza, curiosa, forse a ricercare una novità che rompesse quella strana e continua mono-tonia, un segno, qualcosa.

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Dopo qualche minuto si alzò e si avvicinò al letto. La sua piccola mano si fece avanti per sollevare la coperta, poi fece scorrere l’altra sotto le lenzuola come le aveva insegnato la nonna. La mano si fece lentamente strada fino ad arrivare al pannolone e toccarlo, per sentire se fosse di nuovo umido. Fece una smorfia e uscì nel corridoio. Dopo poco la nonna entrò, sorrise e scoprì il corpo. La bambina era tornata nel suo angolo a guardare quei gesti che ormai vedeva ripetersi da anni, come un rito a volte sconcertante, altre noioso, altre triste. Un rito che si ripeteva fin da quando ancora non riu-sciva nemmeno a camminare, e a capire. Vedeva la zia che veniva voltata, il pannolone che veniva tolto, e poi, con molto amore, la-vata, asciugata e cosparsa di borotalco. Poi lasciata scoperta per qualche minuto, per farle prendere aria, per far ossigenare quella parte del corpo che rimaneva nascosta al mondo. Infine, il nuovo assorbente messo al suo posto, e poi baciata, di nuovo, sulla fronte.

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Chiudo gli occhi di fronte a tutte le guerre del mondo, e mi ritiro silenzioso nel regno della musica, come nel regno

della fede, dove tutti i nostri dubbi e i nostri dolori si annegano

in un mare di suoni. Wackenroder

1 Ieri «Ottimo, hai delle doti che pochissimi hanno, ma vediamo di mi-gliorare ancora, da te pretendo molto di più». «Sì? E cosa vuoi da me?». «Isabella, da te pretendo il massimo, e so che hai ancora molto da dare». «Non chiedermi troppo… non sei sposato, e allora…». «Smettila di scherzare. Sai come la penso. Tu hai capacità innate, e sta a me metterle in evidenza». «D’accordo, ho capito, però adesso basta. Ho fame, voglio man-giarmi una bella pizza». «Va bene, continueremo domani». «Posso venire a casa tua per la lezione?».

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«No, lo sai che non faccio mai lezione a casa mia, mi sembra di avertelo già detto». «Uff… va bene, sei geloso della tua privacy almeno quanto mio marito lo è di me». «Geloso? Di me?». «E di chi altri, sennò?». «Dì a tuo marito che io sono una persona seria». «Non ho mai messo in dubbio la tua serietà, e forse è anche per questo che mi fai un po’ ridere». «A domani, Isabella». «A domani. A proposito, non fissarmi il sedere, almeno quando c’è lui». «Non mi piace che tu dica queste cose». «Ah sì? E cosa ti piace allora?». «Che ti comporti da professionista quale sei, ecco cosa mi piace, quindi non hai bisogno di perderti in provocazioni». «Perché non m’inviti a mangiare una pizza?». «Ma cosa ti passa per la testa? Che cosa racconteresti a tuo mari-to? Oppure sei così strana da dirgli che stasera restiamo a man-giare insieme?». «Lui è fuori e io sono sola a casa. Non ti ho chiesto di venire a letto con me, ti ho solo proposto di invitarmi a mangiare qualcosa insieme, non mi sembra una richiesta impossibile». «Qui sanno chi sei, e che sei sposata, e sanno anche chi sono io “lo scapolo”, di conseguenza...». «Uno più uno fa due, e non è detto che l’uno deve essere sempre sopra l’altro: il due è un numero a parte». «Sei strana, anzi direi matta da legare. Va bene, accetto, mangia-mo insieme questa pizza, ma lontano da qui». «La prendiamo e la mangiamo da te». «Ti ho già detto di no, non insistere».

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«Perché no? Da te non ci vede nessuno, così ti senti più sicuro. Sei a casa tua, chi vuoi che venga a saperlo?». «E se tuo marito chiama a casa?». «Lui non chiama mai, ma se lo facesse, non troverebbe la mia vo-ce dall’altra parte della cornetta». «E se ti chiamasse al cellulare?». «Gli dirò che sono fuori a mangiare la pizza con un bellissimo scapolo, e mio insegnante di musica». Oggi Caldo, freddo, brividi, poi di nuovo caldo, insopportabile, e poi ancora freddo, che mi entra nelle ossa, che mi scorre nel sangue come un fluido estraneo, in un corpo che non è più il mio. Lo sen-to tremare, arcuarsi, tendersi come un arco, e poi ancora caldo fa-stidioso, e il cuore che batte forte, ma solo nella mia fantasia. Il mio cuore ha paura, io no, io non ne ho più. Rido, rido e piango, poi nella mia mente solo il silenzio, un silenzio pieno di pensieri, e ricordi, tanti ricordi. Piango, ma non di paura: piango di dispe-razione mentre guardo il disgustoso soffitto di questa stanza, visto talmente tante volte che non lo sopporto più! CAMBIATE IL COLORE! Cambiate la mia vita accidenti a voi! O almeno co-minciate dal colore! Fa schifo! Non vedete che sembra cacca? Chi l’ha scelto? Voglio una stanza blu, di un blu notte, con le stelline sul soffitto che s'illuminano al buio, che mi fanno sognare, che mi fanno vo-lare da questo maledetto letto per portarmi via con loro.

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Dio! Perché? Cosa ti ho fatto? Lo so, ce l’hai con me perché non ti ho mai amato. Che accidenti vuoi? Dimmelo, fatti sentire per una volta, e questa volta fallo mostrandoti. Fammi capire, spie-gami perché mi fai marcire qui! Questo me lo devi! Ma che fai, cosa m’inietti in vena? Non ci capisci nulla di medi-cina, cosa c’è, vuoi fermare la mia fantasia? Ci vuole ben altro, non basta la tua medicina, ci vuole altro, ben altro, altro… Oggi Marco, dove sei? Lo sai che se stai troppo di fianco non ti vedo. Resta seduto accanto a me. La mano, ti prego prendimi la mano. Grazie amore mio, grazie, è bello farmi accarezzare da te, anche se non sento il tuo calore è bello sapere che ci sei. Tu non sei co-me mio marito. Sai da quanto non lo vedo? Due anni, Marco, due anni. Per lui sono già morta, ha fatto presto. Ho sentito l’infermiera che parlava di lui con il medico, diceva che se la spassava con un'altra. Che dovevo aspettarmi dal lui? Era te che volevo, ma tu no! Tu non mi hai mai voluto. Ricordi, Marco? Ricordi quando ti portavo sulla mia moto e tu ti stringevi forte? Era paura? No, non ci credo, anzi credo proprio che ne approfittassi per avvicinarti. Non sai come mi sentivo quando le tue mani erano accostate al mio corpo, ero talmente emozionata che facevo finta di sbagliare strada per stare di più con te, per non smettere di sentire il tuo contatto, le tue mani sul mio corpo, un’ebbrezza indescrivibile. E tu, brutto scemo, mi di-cevi che sbagliavo strada! Che cosa pensavi?

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Per te esisteva solo quello, il pianoforte, altro non mi dovevi, al-tro non volevi. Il mio pianoforte non ha più suonato una sola nota; sembra che anche lui senta la mia sofferenza. Perché non insegni alla bambi-na? Sono sicura che ha delle capacità, dopotutto è mia nipote, qualcosa le avrò pure trasmesso. Neanche tu hai più suonato, al-meno in questa casa. L’ultima volta suonasti proprio qui, fu mio marito a chiedertelo, ricordi? Ti disse: “Non farti pregare come Isabella, lei per me non suona mai”. E tu rispondesti dicendo che la musica era per pochi. Ci rimase male, eccome se ci rimase ma-le, ma non disse più nulla, e allora tu ti sedesti sul panchetto e i-niziasti a suonare quel meraviglioso brano di Debussy, La cathé-drale engloutie. Lui non ci ha capito nulla, mi disse che era una musica strana, che non era normale, come te. E poi, tu l’hai scelto di proposito, quel brano! Perché io vedo tutto, sento tutto, soffro per tutto. Agli altri magari non è capitata questa sorte, magari dormono, non percepiscono come me, i loro sono sonni senza sogni, senza dolore. Sai che una volta ho sognato che facevamo l’amore? Più di una volta a essere sincera. Mi viene da ridere, tu eri immobile su di me, non facevi proprio nulla, tenevi gli occhi chiusi e basta. Guarda che non si fa così! Qualcosa devi metterci anche tu, e non parlo solo di quello, incapace! Che fai, ti alzi? Vai già via? Anche tu resti sempre meno, tutti re-stano sempre meno, faccio paura? Ti prego, resta ancora qualche minuto con me, non lasciarmi la mano, ti prego. Marco, guardami in faccia: non vedi le mie lacrime? Non sono riflessi incondizio-nati! Le mie lacrime sono vere, vere! Sono vere! Va bene vai, è giusto così, tu hai la tua vita, io non ho più nulla. Tornerai domani? Torna domani e raccontami una delle tue sto-rielle. Non mi hai mai fatto ridere, sai? Tu e le tue storie senza

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logica, inutili. Esci, sì, esci e vattene via. Lasciami sola, sto me-glio, meglio che averti intorno a fissarmi come un idiota, senza dire una sola parola. E chiudi la porta, non lasciarla aperta come fai sempre. Che fai? La chiudi prima di uscire? Marco, mi fai pa-ura… perché ti avvicini così? Che stai facendo? Sei troppo vici-no, sento il tuo alito. Mi stai baciando sulle labbra. Non staccarti, Marco… ti prego, non staccarti più da me. Vattene, vattene! Non farmi questo, Marco smetti, poi sto male, così mi fai del male lo capisci? Vai via, ti prego, vai via e non tornare mai più, mai più amore mio. Mai più. Ieri «Andiamo, Marco… non ho trenta centimetri tra il pollice e il mignolo!». «Puoi farcela, basta volerlo». «Ancora con questa storia? Dimmi una cosa, tu ce l’hai la ragaz-za? E non ridere». «No, non ho la ragazza. Ce l’avevo». «Ho capito, ti ha lasciato lei». «Non mi ha lasciato lei». «Devo crederci?». «Come ti pare». «Ma tu non controbatti mai? Che diavolo di carattere hai?». «Guarda che qualche volta mi altero anch’io». «Ti alteri? Come parli forbito, io invece m'incazzo». «Ecco, brava, tu t'incazzi, io mi altero».

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«Con me?». «Ma che c’entri tu adesso?». «Anche perché io sono una santa, quasi». «Certo, una santa. Da quello che mi racconta tuo marito, non mi pare proprio». «E cosa dice di me di tanto peccaminoso?». «Dice che sei un po’ matta, e che ti arr… incazzi subito, per qual-siasi piccolezza». «Già, piccolezza. Perché beccarlo a fare lo scemo con la donna delle pulizie è una piccolezza». «Scusami, questo non lo sapevo». «Non scusarti, sono anni che tra di noi non va. Stiamo insieme ma ancora non so perché, e oltretutto fa pure il geloso». «Dovrebbe?». «Sì che dovrebbe!». «Isabella, torna in te e continuiamo la lezione». «Senti, mettiamo il caso che volessi tradire mio marito, tu lo fare-sti con me?». «Il bemolle ancora non ti riesce bene, vediamo di migliorarlo, lo so che è difficile, ma con l’esercizio ce la puoi fare». «Ho capito, non ti piaccio». «Isabella, tu sei una donna bellissima, e io sono il tuo insegnante di pianoforte, insegnante e basta. Non mischio mai certe cose con il lavoro». «Peccato, i cocktail certe volte riescono squisiti». «Ripeti l’esercizio, abbiamo ancora un’ora, vediamo di utilizzarla al meglio». «Un’ora mi basterebbe». «A me, no». «Davvero? Vorresti fare sesso per più tempo?». «Parlavo della lezione, Isabella, la lezione!».

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Ieri La moto ruggiva lungo la strada che portava nell’entroterra ma-remmano, ogni curva un brivido che mi saliva fin nei capelli. Il vento mi sferzava il viso, la pelle, a ricordarmi quanto fosse bello essere vivi. Marco era seduto dietro di me, sulla mia moto. Ero riuscita a convincerlo ad accompagnarmi: dopo tante resistenze aveva ac-cettato, ponendo però delle condizioni. La meta erano i bagni termali di Saturnia, in Toscana. Quando gli proposi di accompagnarmi rimase incredulo; scosse più volte la testa in segno di diniego dicendomi: «Sei completa-mente impazzita? Hai dimenticato che l’hobby più in voga da queste parti è il pettegolezzo? Se ti accompagnassi alle terme, nel giro di un’ora lo saprebbero tutti, incluso tuo marito. Anzi, so-prattutto tuo marito. Lo sai anche tu che il mondo è piccolo». Cercai di rassicurarlo ribadendo: «Piccolo ma abbastanza grande. Non devi avere di questi timori, lui sarà a Milano per lavoro, non penserà certo a me. E poi lo sa che vado alle terme. Una toccata e fuga, si parte la mattina e si torna la sera, cosa c’è di male?». «Una donna sposata che va alle terme con uno scapolo, ecco cosa c’è. Non pensi a quello che potrebbe derivare da questo viaggio? Non parlo di conseguenze emotive, e lo sai. Io parlo di due per-sone, io e te, che vanno insieme a fare una gita. Non è normale una situazione del genere, e oltretutto è anche pericolosa». Lo lavorai ai fianchi, giorno dopo giorno. Alla fine riuscii a con-vincerlo dicendogli che poteva essere una buona occasione per andare a trovare i suoi parenti che abitavano a pochi chilometri da lì. Io sarei rimasta ad aspettarlo, senza creargli troppi problemi. Una gita tra amici, nulla di più. Nessuno sarebbe mai venuto a saperlo.

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Parcheggiai la moto con Marco che ancora mi urlava nelle o-recchie. Mi diceva che ero pericolosa alla guida, “pericolosa e in-cosciente” furono le parole esatte. Sedette su un muretto in pietra e si tolse il casco: era davvero impaurito. Posai il mio sulla sella della moto e mi accomodai accanto a lui, cercando di trattenermi dal ridere: non lo avevo mai visto così sconvolto. Un uomo come lui che aveva paura di come guidavo... forse aveva ragione. «Al ritorno prendo un treno!». «Da qui non passano treni». «Un pullman, allora». «Non passano neanche i pullman». «Un taxi. E non venirmi a dire che non ci sono neanche i taxi!». «Uff… per qualche curva in derapata! Entriamo che ho prenotato una camera». «Cosa?». «Marco, per favore… vuoi forse che indossi il costume sul bordo della piscina?». «Come in tutte le terme, ci sono gli spogliatoi». «Usalo tu lo spogliatoio, io voglio una camera. Dai Marco, prima vado io e mi preparo, poi entri tu. Tranquillo, non ho intenzione di violentarti, gli uomini non li prendo mai con la forza». Marco non disse più nulla; mi seguì rimanendo a pochi metri di distanza, guardandosi sempre intorno, e non lo faceva certo per ammirare il posto. Quel suo modo ingenuo di porsi mostrava una sensibilità e un a-nimo che pochi avevano. Altri, al suo posto, si sarebbero sfregati le mani; lui invece si comportava come se si fossero invertiti i ruoli: lui la donna, io l’uomo. Mi presentai alla reception chiedendo se la camera prenotata a nome di Marco Andreani fosse pronta.

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Non disse nulla, anche se un alone rossastro apparve sulle sue guance; mi aspettavo una sua reazione quando saremmo rimasti soli. «Mi spiace, non abbiamo nessuna prenotazione a questo nome». «Mi scusi, ho sbagliato: la prenotazione è a nome di Isabella Ma-riani». Dopo un breve controllo l’addetto alla reception fece un sorriso radioso. «La camera è pronta, ecco la sua scheda» esclamò porgendomi la chiave magnetica. «La direzione le augura una buona permanen-za». Lungo il corridoio avevo iniziato a ridere; Marco era accanto a me, lui però era serio. In compenso mi stava accompagnando. «Entri?». «No, vado a bere qualcosa che ne ho bisogno. Appena sei pronta raggiungimi, mi cambierò nello spogliatoio». Entrai in camera e velocemente afferrai la sua borsa, la gettai sul letto e chiusi la porta lasciandolo fuori. «Se vuoi il tuo costume devi cambiarti qui, dopo che sarò uscita. E stai tranquillo!» dissi avvicinandomi alla porta per farmi sentire bene. Si allontanò con passo svelto: ero riuscita a farlo arrabbiare. Dopo una ventina di minuti lo trovai seduto al bar, aveva un bic-chiere tra le mani, probabilmente acqua minerale naturale, come suo solito. La sua espressione concentrata mi fece supporre che stesse pensando a qualcosa d’importante. «Ciao Marco, tutto bene?». Diede un sorso senza staccare gli occhi dai miei, iniziava a infa-stidirmi. Gli feci la linguaccia strabuzzando gli occhi: era una smorfia che avevo imparato da bambina e che tiravo fuori ogni

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volta che volevo far sorridere qualcuno, così serio non mi piace-va. Riuscì a farsi andare di traverso l’acqua, poi si mise a ridere. «Dammi la chiave, che qui l’unico vestito sono io. A proposito, tu il costume ce l’hai?». Non capivo cosa intendesse dire. Avevo un bikini molto sottile, questo sì. L’accappatoio bianco che indossavo era aperto, e lui non aveva perso l’occasione per dare una sbirciatina. «Marco, i fanghi devono attaccarsi alla pelle, non al costume». Si allontanò che ancora rideva, però ogni tanto si voltava. Arrivati a bordo vasca, mi accorsi subito che il posto era davvero molto frequentato. Non mi aspettavo di trovare così tanta confusione. Chiesi il motivo di quella ressa in piscina alla prima persona che mi capitò, venendo così a sapere che tutte quelle donne erano le compagne dei giocatori di golf impegnati in una gara proprio lì, all’hotel. Sbuffai scocciata, avrei preferito più privacy. Marco stava tornando, camminava con il suo solito passo lento. Mi colpì subito l’accappatoio che indossava, somigliava molto a quello usato dai pugili sul ring. Evitai di farglielo notare, era troppo permaloso. «Marco, rivestiamoci che qui c’è troppa confusione: andiamo alle cascate». «Devo rivestirmi del tutto?». «Metti un paio di pantaloncini e una maglietta, alle cascate ci si bagna come in piscina». «Fa freddo!». «Avrai tempo per scaldarti». La sua era paura, una maledetta paura di risalire in moto, questo l’avevo capito, stava già tremando al pensiero del ritorno. Dove-vo trovare il sistema per fargliela passare. «Vuoi guidare tu?».

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«Sei sempre stata molto gelosa della tua moto, come mai questo cambiamento?». «Così… sempre se te la senti, visto che hai sempre guidato uno scooter di piccola cilindrata». «Sali, ti faccio vedere come si pilota una moto». La serie di curve per arrivare alle cascate fu affrontata con una si-curezza che mi lasciò sconcertata. Sapeva guidare una moto, e anche bene. Io mi limitavo a stringermi a lui, era l’occasione che aspettavo da tanto tempo, e lui inconsciamente me ne aveva data l’opportunità. «Isabella, mi stai facendo il solletico. Perché non ti afferri alle maniglie della moto?». «Perché così posso toccarti». Non disse più nulla, continuò a guidare accelerando leggermente. Quando arrivammo, le cascate si presentarono a noi in tutta la lo-ro bellezza. Un leggero vapore si staccava dalla superficie dell’acqua creando sfumature irreali, magiche. Marco rimase affascinato: non aveva mai visto una natura simile, tanto che si spogliò subito e s’immerse nelle acque calde e fu-manti. «Entra Isabella, è bellissimo, però senti che puzza!». M’immersi anch’io e mi avvicinai a lui. Finalmente sorrideva, sembrava non avere più paura. «I tuoi zii dove abitano?» gli chiesi con la speranza di convincer-lo a portarmi con sé. «Saturnia, poco lontano da qui. Si sono trasferiti qualche anno fa, prima abitavano a Roma, poi con la loro liquidazione si sono comprati una casetta. Io da loro non ci sono mai stato. In realtà non ne ho mai avuta l’occasione. Ho visto solo delle foto che mi hanno inviato l’anno scorso. Si trova nel centro storico, molto ca-rina».

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«Perché dopo non andiamo a trovarli?». «Vuoi venire con me? Non mi sembra il caso». «Di’ loro che sono tua amica, non crearti problemi che non esi-stono. Tanto noi siamo amici, giusto?». Non rispose, si limitò a fissarmi negli occhi per qualche istante, poi con la mano prese del fango e me lo mise sulla testa. «No! Il fango puzza da morire!». «Fa bene ai capelli, e tu li hai molto belli, quindi non può che mi-gliorarli». Avevo il fango che mi colava dalla testa, ma ero così felice che non trovai le parole per rispondergli. Rimasi a guardarlo mentre mi sorrideva con un’espressione diversa, più serena. Finalmente una luce che non avevo mai visto brillò nei suoi occhi. «Mi porti a conoscere i tuoi?» insistetti sperando di convincerlo, non mi andava di restare sola, volevo stare con lui. «Va bene, anche se non crederanno che siamo solo amici». «Perché dici così?». «Perché stai sempre a guardarmi». Feci finta di non aver sentito, ma solo per poco. Dimostrai la mia soddisfazione sorridendogli: finalmente mostrava la sua attenzio-ne verso di me. «Perfetto, andiamo all’ora di pranzo, così ci fermiamo a mangiare in qualche bel ristorantino del posto. Da queste parti la cucina è eccellente». Poco dopo le undici tornammo in albergo, una doccia mi aspetta-va, avevo tempo per farmi bella e per organizzarmi: il pranzo in-sieme sarebbe stata un’ottima occasione. Marco mi aspettava al bar, in camera con me non voleva proprio starci. Quando fu il mio turno di attesa, preferii sedermi vicino alla pi-scina a guardare le persone che discorrevano tra di loro. Dopo poco una coppia si era avvicinata a me, due ragazzi molto giova-

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ni: si capiva che erano fidanzati, o almeno che stavano insieme, potevo sentire i loro discorsi. «Perché non vuoi che mia madre lo sappia?». «C’è bisogno di dirtelo ancora? Lo sai che non mi sopportano, e poi non mi sembra il caso». «Sono due anni che andiamo avanti così, alla fine dovrai deci-derti. Non credi sia arrivato il momento di affrontare la realtà? Loro sono consapevoli di questo, vedrai, con il tempo impare-ranno ad accettarti, anche perché li metterò di fronte a una scel-ta». «Di quale scelta stai parlando?». «O ti accettano, o me ne andrò di casa. Andremo a vivere insie-me, vedrai che saranno loro a riavvicinarsi». Li stavo spiando, ero interessata alla loro discussione, ma nella voce di quel ragazzo avevo avvertito un’incertezza che non ri-guardava solo il coraggio di presentarsi ai suoi genitori, c’era si-curamente qualcosa di più. «Sono stufa di continuare così, io non voglio più nascondere nul-la a nessuno. Sarò io a parlare con i miei, se tu non vorrai essere presente, non m’importa». Quel silenzio da parte di lui faceva presagire quello che ormai so-spettavo: quello che disse mi rimbombò nella mente come un tuono, qualcosa che mi entrò nel cuore come una scarica di dolo-re, e il viso di lei, angosciato e impaurito, non voleva credere a quelle parole. Iniziò con il dire che il suo lavoro lo teneva troppo impegnato, e che doveva anche studiare: di tempo da passare con lei sarebbe stato sempre meno. «Credo che dovremmo prenderci un po’ di tempo. Siamo giovani e vogliamo crearci un futuro. Di tempo per pensare alle cose se-

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rie ne avremo in seguito, per il momento è meglio che ognuno di noi segua la sua strada, è meglio staccare la spina per un po’». Lei lo ascoltava incredula, cercava le parole giuste per fargli cambiare idea. «Va bene, se credi che ancora non sia arrivato il momento di co-noscere i miei, va bene, aspetterò, ma non lasciarmi!». «Io non ho intenzione di conoscere i tuoi, né ora né mai. Speravo lo avessi capito che ormai io e te stavamo insieme come amici. Quel sentimento che c’era prima adesso è cambiato. Io non sono più innamorato di te, cerca di fartene una ragione». Parole taglienti come una lama affilata che ti entra lentamente nella carne. Una freddezza nel tono della sua voce che definire disarmante era troppo riduttivo. Lo vidi alzarsi e allontanarsi senza dire altro, ma quello che mi ferì fu vedere lei che non voleva lasciargli la mano. Lo chiamava sottovoce, non riusciva neanche più a parlare. Riuscii a percepire in lei un dolore così forte da annientarti. Rimase seduta con la testa china a piangere da sola, mentre con la mano si accarezzava il ventre.

* * * Guidavo piano, non volevo che s’impaurisse di nuovo, e invece lui mi spronò ad aumentare l’andatura dicendo che altrimenti non saremmo mai arrivati. L’ingresso nel borgo fu un tuffo nel passato. Dopo poche decine di metri vide in lontananza la casa dei suoi zii, l’aveva ricono-sciuta confrontandola con la foto che si portava dietro. La facciata era orientata verso sud, interamente costruita in pietra locale, il bianco grigio con sfumature marroni creava un bellissi-mo effetto.

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Le persone passeggiavano tranquille per le vie del borgo, un’aria di serenità sembrava avvolgere tutti. Saturnia, un nome particola-re legato alla storia della Maremma. Marco non conosceva le origini di quel nome, era l’occasione per fare sfoggio della mia cultura, almeno era quello che credevo. «Conosci la storia di questo posto?» Lui rimase in silenzio ad ascoltarmi, incitandomi con un sorriso a continuare. «Alcuni cenni storici ci inducono a pensare che Saturnia derivi dal nome del dio Saturno. Si dice che sia molto antica, che risalga addirittura alla seconda metà dell’ottavo secolo Avanti Cristo. Un borgo misterioso, forse la prima città italica. Secondo antiche leggende il diavolo usciva dalle acque sulfuree che sgorgavano da questa terra, creando così quel mistero andato man mano cre-scendo con il tempo. Di conseguenza le acque erano considerate stregate. L’odore dello zolfo aumentava la credenza popolare, un odore satanico, era così che lo definivano. In questo borgo nel medioevo ci sono state anche diverse incursioni da parte dei sara-ceni. Comunque è interessante com’era considerata: una città do-ve riti satanici di streghe e maghi si susseguivano, e il diavolo partecipava sempre attivamente». Non rispose subito, stava analizzando quello che gli avevo appe-na detto. «Sei una storica da quattro soldi, lo sai?». «So cose che tu non sai, e questo mi basta!». «Ora completo la tua cronistoria. Saturnia è stata anche dominata dai senesi, ma in seguito diventò un covo di cospiratori, tanto che Siena stessa decise di distruggerla. Per quanto riguarda il dio Sa-turno, fu la sua ira a fargli scagliare un fulmine dal quale sgorgò l’acqua sulfurea. Comunque, per essere più precisi, questa zona fu vittima d’incursioni anche da parte di altri invasori».

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Gli feci una smorfia e mi allontanai, voltandomi sempre indietro per vedere se mi seguiva. Percorsi alcuni metri m’indicò l’ingresso della casa. Un cancello di ferro battuto delimitava il giardino. Marco afferrò un cordino a cui era appesa una campanella di bronzo e, con fare solenne, agi-tò il batacchio che rimbalzò più volte emettendo un suono piace-vole. Non aveva nessuna intenzione di staccare la mano dalla cordicella, tanto che dovetti fermarlo. Dopo pochi secondi la por-ta si aprì: due persone anziane si presentarono sulla soglia rima-nendo a guardarci, finché finalmente riconobbero Marco. L’arredamento della casa era squisitamente coordinato, semplice, adatto al posto. Le sedie impagliate mi fecero tornare indietro nel tempo, quando da ragazzina mio nonno m’insegnava l’arte dell’impagliatura. Gli reggevo le matasse mentre mi parlava di forme ortogonali, di quadro di lavoro e tante, tante altre cose. Io non capivo, e lui lo sapeva, di conseguenza coglieva l’opportunità per spiegarmi il significato di quelle parole. La sua cultura era in-finita. Una cucina economica vecchio stile con una pentola sopra mi fe-ce sorridere: erano anni che non ne vedevo una. Un contenitore di coccio borbottava emanando un profumo di ragù che impregnava l’aria. Nella pentola, invece, una gallina aveva trovato la sua mi-sera fine. Su una mensola erano presenti una serie di targhe, tutte con delle note musicali incise. Sopra una credenza, un piccolo mulino a vento interamente costruito in legno faceva girare le sue pale gra-zie a un ruscello, che accanto faceva scorrere le acque fino a farle cadere in un pozzo costruito con minuscoli pezzi di pietra. La signora era incuriosita dalla mia presenza, i suoi occhi erano sempre su di me, poi mi accorsi che guardava l’anulare della mia mano sinistra: sicuramente cercava di capire qualcosa di più.

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Fui presentata come amica ma più che altro come promettente pianista, aumentando così l’interesse dello zio di Marco, il quale mi confermò di essere stato un musicista di rilievo con un passato di primo violino presso l’orchestra di Fiesole. «Benvenuta nella nostra casa. Quando Marco mi ha telefonato per comunicarmi il suo arrivo, mi ha anche detto che non sarebbe sta-to solo. Sì, ha parlato anche di lei e di come la stima come piani-sta, ponendo l’accento sul suo futuro, che secondo lui sarà ricco di soddisfazioni. Normalmente Marco è molto restio a dare giudi-zi positivi» disse lo zio, mentre la zia nascondeva un sorriso tra le labbra. Marco rimase in silenzio, forse non si aspettava tanta loquacità dai suoi parenti al punto da spingerli a rivelarmi la telefonata. Lo zio si chiamava Antonio, la zia Rosanna, entrambi fiorentini di nascita e, da quello che avevo capito, persone molto intelligen-ti. «Marco è sempre stato il nostro nipote preferito, anche se non lo vediamo spesso: il suo lavoro lo tiene sempre molto impegnato. La scuola, le lezioni private, le sue amicizie» disse la zia conti-nuando ad ammiccare al mio indirizzo. Finalmente aveva smesso di guardarmi l’anulare, anche se non portavo più la fede nuziale, un leggero alone biancastro intorno al dito era ancora visibile. Rimanemmo a parlare con loro per molto tempo, l’orologio posto sopra il camino segnava quasi l’una, e la fame iniziava a farsi sentire. Il profumo di ragù che proveniva dalla cucina mi fece immaginare un piatto di tagliatelle fatte in casa debordanti di quel sugo. Mentre il desiderio rendeva la salivazione ormai ingestibile, la zia si era alzata per controllare il pranzo. La sua intenzione era averci come ospiti ma Marco era stato tassativo: evitiamo di re-stare a pranzo con loro. Non voleva creare situazioni imbaraz-

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zanti e, più che altro, non voleva dar loro l’occasione per fargli capire qualcosa di più. Sapeva che in seguito a ogni telefonata la zia gli avrebbe sempre chiesto di me, quindi meno restavamo in quella casa, meglio era. Arrivò il momento di salutarli, Marco aveva detto loro che era-vamo insieme ad altri amici, e che il pranzo era stato organizzato con tutti loro: non potevano insistere. Dopo avermi abbracciata e baciata mi chiesero di tornare a tro-varli, anche da sola se Marco avesse continuato a essere oberato dai suoi impegni. Lo zio mi strinse la mano e mi chiese di seguir-lo, voleva farmi vedere il retro del giardino, secondo lui era una parte della casa che non potevo assolutamente perdere. Marco era rimasto a parlare con la zia, ma i suoi occhi erano puntati su di me. Il giardino era veramente bello, molto curato, si capiva che lo zio di Marco ci teneva molto, ma non era quello il vero motivo per cui ci eravamo allontanati. Voleva parlare con me, da sola. Mi prese ambedue le mani e mi avvicinò a sé, con molta delica-tezza: non immaginavo certo che quel giorno mi avrebbe rivelato una parte del segreto che riguardava Marco, il segreto della sua vita. Mi abbracciò, poi avvicinò la bocca al mio orecchio e iniziò a parlarmi. Quelle frasi furono un sussurro, un sussurro che mi lasciò lette-ralmente impietrita. Mentre continuava a dirmi sottovoce frasi che stentavo a credere, mi ripetevo ossessivamente: non lo dirò mai a Marco, non gli chiederò mai nulla, sarà lui a parlarmene quando sarà pronto a farlo. Mi sentivo scossa, volevo andare via, subito. Mi staccai brusca-mente da lui e mi allontanai. Marco mi aspettava davanti al cancello. Non disse nulla, sorrise ma in modo diverso dal solito. Uscimmo senza proferire parola.

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Camminammo per le stradine di Saturnia in un silenzio oppressi-vo: cercavo inutilmente il modo per iniziare un discorso con lui, ma senza tanta convinzione. In simili situazioni mi era difficile far finta di nulla. Aveva ripreso a guardarsi intorno, aveva iniziato di nuovo ad a-vere paura. Finalmente fu lui a rompere la tensione. «Che impressione ti hanno fatto?». «Sono due brave persone, la zia ti adora, mentre tuo zio ti consi-dera l’essere perfetto». «Sì, in fondo lo sono». «Perfetto?». «No, brave persone. E smettila di fare sempre la spiritosa». Entrammo in un ristorante e sedemmo a un tavolo lontano dalla finestra. Volle scegliere un posto al riparo da sguardi indiscreti: secondo lui bastava per non farsi notare. I suoi occhi lasciavano trasparire un turbamento e uno stato d’ansia che al momento mi preoccupò. Mi accorsi allora che non si trattava della mia presenza, e neanche della paura che qualcuno potesse scoprirci lì, in quel ristorante, come due fidanzatini che cercano di nascondersi al mondo, non sapendo che il mondo, un giorno, li avrebbe annientati. Iniziammo a mangiare parlando del mio futuro come pianista, delle prove che avrei dovuto affrontare e di tutte le difficoltà che mi aspettavano. Avevo l’impressione che Marco cercasse di ras-sicurarmi, e allo stesso tempo sembrava volesse cancellare qual-cos’altro attraverso l’interesse che mostrava verso gli altri. Non stava a me entrare nell’argomento, doveva essere sua la de-cisione di parlarmene, e invece mi spiegava come avrei dovuto affrontare un concerto che avrei dovuto tenere il mese successivo. «Quanti anni aveva?».

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Gli posi la domanda all’improvviso, senza rendermene conto, in-terrompendolo mentre mi raccontava di quando aveva eseguito un gruppo di tre composizioni che conoscevo molto bene (Liebe-sträume), una in particolare: il sogno d’amore, di Franz Liszt. Si era soffermato sulla terza esecuzione per esaltarla quando am-mutolì. Avevo tradito il giuramento che mi ero imposta, “sarà lui a parlarmene quando sarà pronto a farlo”, subito dopo mi accor-si che forse lui aspettava che gli chiedessi qualcosa per aiutarlo a mettere in pace la sua coscienza… non ci sarei mai riuscita. «Solo ventotto». Pronunciò quella frase, altro non disse. Abbassò la testa e posò la forchetta sul piatto. D’improvviso si alzò e si diresse verso il ba-gno. Non lo seguii, non gli dissi nulla, lo lasciai allontanare. In quel momento capii che voleva restare da solo. Rimasi a pensare al dramma che aveva vissuto, al suo comporta-mento dovuto a quello che era successo e, forse, a un senso di colpa che non aveva motivo di esistere. Dovevo trovare le parole giuste per aiutarlo, qualcosa per allevia-re il suo dolore. Non ci riuscivo, forse perché parole non c’erano. Niente avrebbe attenuato la sua sofferenza. Chi ha perso la perso-na che ama in modo così tragico, forse non troverà mai più la spe-ranza di trovare pace. Tornò dopo molto tempo, iniziavo a preoccuparmi. La cameriera non si era più avvicinata al nostro tavolo, l’aveva visto allonta-narsi con un’espressione che lasciava immaginare il suo stato. Se ne stava in un angolo ad aspettare che tornasse senza staccare gli occhi da me. Quando Marco sedette di nuovo al tavolo sembrava più tranquil-lo.

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«Ti parlerò di quella ragazza che conobbi tanto tempo fa. Lei a-desso non c’è più, ma è sempre dentro di me, mi parla in ogni at-timo, la vedo in ogni cosa che faccio, e forse la rivedo... ». Rimase per molto tempo ancora in silenzio, mentre io aspettavo ch terminasse quella frase, che dicesse quella parola che ancora oggi non riesco a definire se di speranza o di sconfitta: non fu co-sì. «Ogni giorno mi parla, mi sorride, ma più che altro mi chiede perché» disse prendendomi la mano. «Ci siamo conosciuti molto tempo fa, alla nostra scuola di musi-ca. Un giorno in particolare lo ricordo come il più bello, il giorno in cui uno di noi avrebbe scelto la persona con cui provare un brano. L’insegnante mi chiese di non mancare assolutamente, perché avrei conosciuto qualcuno che mi avrebbe fatto scoprire il “sapore” della musica. Era il suo modo per dire che ogni musici-sta ha un’anima da qualche parte che aspetta di unirsi per comple-tare quel disegno chiamato armonia musicale: parlava solo di amore. Ci fece riunire nella sala delle prove chiedendoci di non parlare, di rispettare il silenzio, sarebbe stata la musica a farlo. Lei indossava un vestito azzurro che faceva risaltare i suoi capel-li, sembrava una ragazzina che incominciava a conoscere il mon-do. Era curiosa, di una curiosità che la induceva a chiedere di tut-to quello che facevamo, di quello che ci circondava e del futuro di tutti noi. Il suo sorriso era così particolare e intenso che potevi annegare nei suoi occhi. I suoi lunghi capelli neri erano legati in una coda che le cadeva sulle spalle esaltando la sua femminilità. Era di origine francese, si era trasferita con i suoi in Italia da poco tempo. Anche i genitori erano musicisti. La ricordo ancora come una ragazza timorosa, sensibile, una musicista molto dotata. Si chiamava Claire.

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L’insegnante cominciò a suonare il violino. Io ascoltavo estasiato la melodia e assaporavo le sensazioni che riusciva a trasmettere. Rimasi con gli occhi chiusi per molto tempo, fino a che il maestro si fermò, guardò ognuno di noi e disse: «Una vostra compagna di corso continuerà a suonare il brano che ho appena iniziato. Solo uno di voi, e solo chi si sentirà davvero in grado di unirsi a lei nella melodia, potrà usare il suo strumento per tentare di produrre quel disegno che molti filosofi e pensatori hanno definito non so-lo armonia universale, ma il nostro vero essere». Claire prese il suo strumento e riprese il brano del maestro con una sensibilità che avrei poi definito rivelatrice. Aveva messo qualcosa di più: lo aveva reso più dolce, più fruibile per le menti meno preparate ad ascoltare brani così impegnativi. Gli aveva da-to un tocco che oggi definirei magico. Mi alzai dal panchetto del pianoforte dov’ero seduto, presi un vi-olino dalle mani di uno dei miei compagni e iniziai a suonare con lei. La mia intenzione era di farle variare le note, di farle cambiare melodia, di creare insieme a lei qualcosa di nuovo. Incredibile quello che stavo per fare. Quando si accorse che volevo costringerla a cambiare melodia sorrise, ma non si fermò, anzi mi seguì invitandomi a continuare. Il nostro insegnante se ne andò sorridendo: aveva assolto il suo compito. La sua musica si librava nell’aria con una leggerezza inverosimi-le, come se le note si polverizzassero per creare sfumature mera-vigliose. Polvere di note, così le definii in quel momento. Gli altri erano rimasti con i loro strumenti immobili ad ascoltare, inerti di fronte a tali sensazioni. Forse qualcuno riusciva a percepire il senso di gioia che quelle note riuscivano a trasmettere, qualcosa

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che non tutti possono sentire: forse solo chi è innamorato davvero può fondersi con tale bellezza. Il suo strumento era l’oboe. Diceva sempre che ero l’unico che riusciva a stimolare la sua creatività musicale. Pochi giorni dopo mi propose di suonare un brano insieme, senza estranei ad ascol-tarci, solo pochi amanti dell’amore, è così che disse, lo ricordo come adesso. «Suonerai con me in un gruppo di archi, un quartetto per oboe e archi». Io sarei stato uno dei violini. Il primo strumento che ho suonato. Volle eseguire l’Adagio dal concerto in Do minore di Benedetto Marcello. Le dissi che tre violini erano pochi per quel brano, allora lei mi chiese di trovarne altri, di occuparmene per-sonalmente e di scegliere solo i migliori. Ci riunimmo nella sala del conservatorio la sera dopo cena. Era inverno e ricordo che pioveva forte. Lei arrivò trafelata con il suo oboe stretto a sé, aveva una paura terribile di bagnarlo. Così mi disse: «J’ai une peur terrible». Le sorrisi e l’accompagnai nella sala. Gli altri erano già presenti, tutti intenti ad accordare gli archi e a provare qualche passaggio. Chiesi dov’era il direttore, lei mi rispose col suo francese: «Mon Amour, c’est moi, qui d’autre?». Finita la frase sorrise e mi baciò. Era tutta bagnata, era uscita dal-la sua auto senza ombrello con l’unico pensiero di non danneg-giare il suo oboe, un Lorée costosissimo, regalo di suo padre. Iniziammo il concerto, tu conosci il brano, e sai cosa si prova a suonarlo. Ricordi? Era anche il tuo preferito. Finita l’esecuzione era commossa, aveva gli occhi velati. Se l’avessi guardata meglio avrei sicuramente visto le sue guance umide di lacrime. Si alzò e si allontanò. Anch’io mi alzai per raggiungerla. La cercai a lungo nei corridoi ma non riuscii a trovarla. È strano, sai? Provai una paura diversa, la stessa paura che mi avrebbe accompagnato per il

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resto della vita. In lontananza sentivo gli altri congratularsi tra di loro, voci lontane. La trovai in bagno che si rifaceva il trucco. Mi accorsi che le ma-ni le tremavano, il suo corpo era scosso da tremiti. Pensavo stesse male, ero impaurito. Si avvicinò e mi disse solo: «Scusami, l’amore fa vibrare l’anima, et je t’aime». Decidemmo di vivere insieme, sia i suoi genitori sia i miei erano a conoscenza della nostra relazione, ma lei tentava di non coin-volgerli, mi ripeteva sempre: «Toi et moi, seuls pour toujours. Io e te, per sempre, da soli». Vivemmo mesi impregnati di una felicità che non avevo mai co-nosciuto. Hai presente tutte le sfumature dei colori? Lei era que-sto, e quando insisteva nell’esaltare i colori dell’amore escludeva sempre il bianco e il nero, mi ripeteva: «L’uno è la causa, mentre l’altro è la privazione, e io voglio solo le sfumature. Questa è la mia filosofia dell’amore». Passarono mesi intensi e seguirono molti concerti suonati insie-me. Londra, Praga, Budapest e Vienna furono alcune delle nostre mete. Claire stava diventando una piccola stella della musica. E-ravamo sempre insieme, in qualsiasi momento della giornata. So-lo una volta mi chiese di non seguirla, doveva tornare in Francia per sbrigare alcune pratiche riguardanti la vendita di una casa in-sieme ai genitori, e tante, tante visite ai suoi parenti. Tempo per stare insieme e per girare un po’ non ce ne sarebbe stato. Mi pro-mise che un giorno Parigi sarebbe stata la città dove l’amore si sarebbe fermato ad ascoltarci per imparare da noi nuove note co-me neanche la musica stessa sarebbe mai stata capace di creare: il ritmo dei nostri cuori». Fine anteprima.Continua...