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4.3. Gli enti sovranazionali: Unione Europea e altri Un processo che è andato aumentando continuamente dopo la II Guerra Mondiale è quello della costituzione di organismi sovranazionali. Le Nazioni Unite sono state a lungo l’ente ufficialmente delegato a tale costituzione, ma nel corso del tempo altri organismi di varia natura (politici, economici, di consultazione e coordinamento, di cooperazione militare, ecc.) si sono consolidati ed alcuni hanno conquistato ruoli rilevanti a livello mondiale (di G7, WTO, OCSE, NATO, si dirà più avanti.). Alcuni si sono costituiti sulla base di una coerenza geografica: l’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana), l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), la CEE (Comunità Economica Europea), poi Unione Europea, l’ASEAN (Associazione dei paesi del Sud Est Asiatico), per indicare alcuni tra quelli più importanti. La contiguità geografica ha favorito la loro continuità nel tempo, ma solo l’esperienza europea e parzialmente quella del Sud Est Asiatico hanno dato segni di crescita e consolidamento. L’OUA ha visto progressivamente ridursi il proprio ruolo di coordinamento e sostegno al processo di integrazione africana a causa dei continui e ripetuti conflitti interni che hanno fatto preferire i discorsi di facciata alle politiche operative. La fondamentale questione dei confini arbitrari tracciati delle potenze coloniali e accettate/subite dagli Stati di nuova indipendenza è stata la questione politica irrisolta in Africa. La paura che ridiscutendo i confini potessero sorgere conflitti interstatali devastanti ha portato alla costruzione di rapporti formali rispettosi tra gli Stati, ma senza reale sostanza politica (Davidson, 1987). La fine della guerra fredda e dei “giochi” di potere delle due superpotenze ha relegato l’Africa ancora più nel dimenticatoio delle relazioni internazionali. Si assist eal divampare di conflitti cruenti interni, legati a quelle divisioni etniche, linguistiche, culturali che solo formalmente si pensava fossero temperate dall’esistenza degli Stati. L’Africa è forse l’esempio più chiaro di quanto possano essere conflittuali le strutture dello stato e le forme tradizionali del potere quando queste fanno riferimento a culture “forti” e condivise, sia pure sotto forme apparentemente frammentate e deboli (clan e gruppi etnici). L’OSA si è mostrata rapidamente un organismo troppo dipendente dal peso statunitense il cui ruolo dominante (per economia e potenza militare) è stato favorito anche dalla logica dello schieramento provocato dal contenzioso ideologico con Cuba (unico Stato americano sospeso dall’organizzazione). L’ASEAN ha prodotto un inizio di integrazione economica, ma le diffidenze e le diversità degli stati membri hanno limitato lo sviluppo di una più profonda collaborazione sul piano politico. La prolungata questione indocinese e il più che decennale conflitto vietnamita hanno innescato differenze di schieramento (pro USA

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4.3. Gli enti sovranazionali: Unione Europea e altri

Un processo che è andato aumentando continuamente dopo la II Guerra Mondiale è quello della costituzione di organismi sovranazionali. Le Nazioni Unite sono state a lungo l’ente ufficialmente delegato a tale costituzione, ma nel corso del tempo altri organismi di varia natura (politici, economici, di consultazione e coordinamento, di cooperazione militare, ecc.) si sono consolidati ed alcuni hanno conquistato ruoli rilevanti a livello mondiale (di G7, WTO, OCSE, NATO, si dirà più avanti.).Alcuni si sono costituiti sulla base di una coerenza geografica: l’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana), l’OSA (Organizzazione degli Stati Americani), la CEE (Comunità Economica Europea), poi Unione Europea, l’ASEAN (Associazione dei paesi del Sud Est Asiatico), per indicare alcuni tra quelli più importanti. La contiguità geografica ha favorito la loro continuità nel tempo, ma solo l’esperienza europea e parzialmente quella del Sud Est Asiatico hanno dato segni di crescita e consolidamento.

L’OUA ha visto progressivamente ridursi il proprio ruolo di coordinamento e sostegno al processo di integrazione africana a causa dei continui e ripetuti conflitti interni che hanno fatto preferire i discorsi di facciata alle politiche operative. La fondamentale questione dei confini arbitrari tracciati delle potenze coloniali e accettate/subite dagli Stati di nuova indipendenza è stata la questione politica irrisolta in Africa. La paura che ridiscutendo i confini potessero sorgere conflitti interstatali devastanti ha portato alla costruzione di rapporti formali rispettosi tra gli Stati, ma senza reale sostanza politica (Davidson, 1987). La fine della guerra fredda e dei “giochi” di potere delle due superpotenze ha relegato l’Africa ancora più nel dimenticatoio delle relazioni internazionali. Si assist eal divampare di conflitti cruenti interni, legati a quelle divisioni etniche, linguistiche, culturali che solo formalmente si pensava fossero temperate dall’esistenza degli Stati. L’Africa è forse l’esempio più chiaro di quanto possano essere conflittuali le strutture dello stato e le forme tradizionali del potere quando queste fanno riferimento a culture “forti” e condivise, sia pure sotto forme apparentemente frammentate e deboli (clan e gruppi etnici).

L’OSA si è mostrata rapidamente un organismo troppo dipendente dal peso statunitense il cui ruolo dominante (per economia e potenza militare) è stato favorito anche dalla logica dello schieramento provocato dal contenzioso ideologico con Cuba (unico Stato americano sospeso dall’organizzazione). L’ASEAN ha prodotto un inizio di integrazione economica, ma le diffidenze e le diversità degli stati membri hanno limitato lo sviluppo di una più profonda collaborazione sul piano politico. La prolungata questione indocinese e il più che decennale conflitto vietnamita hanno innescato differenze di schieramento (pro USA o pro URSS e Cina) e di sistemi socio-economici che solo molto lentamente hanno cominciato ad affievolirsi nell’ultimo decennio (dell’Agnese, 2000).

Il successo, in termini di produzione e aumento del reddito, degli accordi di libero scambio e in particolare l’esperienza europea hanno fatto da stimolo alla sottoscrizione di accordi economici simili nel mondo. Negli ultimi due decenni del secolo XX si sono costituiti l’APEC (Cooperazione Economica dell’Asia-Pacifico, 18 Paesi affacciati sull’oceano Pacifico, tra la riva americana e quella asiatica), il Mercosur (Mercato Comune del cono sud dell’America meridionale) e il NAFTA (North America Free Trade Association, tra USA, Canada e Messico). In questo genere di accordi, però, la presenza di una superpotenza economica e politica quale gli USA (NAFTA e APEC) o l’ancora scarsa volontà cooperativa dei paesi membri (Mercosur) hanno limitato notevolmente gli effetti positivi o hanno favorito i Paesi membri in modo squilibrato. Anche l’accordo di partenariato mediterraneo, firmato a Barcellona nel 1995, stenta a decollare (Gillespie, 1997; Joffe, 1999).

Solo l’Unione Europea ha saputo crescere e consolidarsi, lungo un progetto di integrazione economica prima, monetaria poi e, da ultimo, politica per il futuro (Lizza, 1999). Nata come Comunità Economica per favorire la circolazione delle merci e sostenere il processo di ricostruzione dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale, la Comunità ha saputo superare le tensioni politiche degli anni ’60, quando le posizioni nazionali di alcuni Paesi membri (in particolare quelle francesi) scontavano ancora l’atteggiamento secolare di scontro (con Germania e Regno Unito) e di riferimento alle “patrie”. Le positive conseguenze economiche della caduta delle barriere daziarie ed economiche (1968) hanno consentito di assorbire senza scompensi i

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quattro progressivi allargamenti del numero dei membri (1973: Regno Unito, Irlanda, Danimarca; 1980 Grecia; 1986: Spagna e Portogallo; 1995: Svezia, Finlandia, Austria) che portavano dai sei fondatori alla trasformazione in Unione Europea con 15 membri, dai sei fondatori. Sono previsti ed approvati altri due allargamenti (prima Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, poi Estonia, Slovenia e Cipro), mentre già ci sono in lista d’attesa richieste di adesione che porterebbero il numero dei paesi membri a 27.

Un tale allargamento pone però seri problemi organizzativi, anche perché il processo di integrazione si è sviluppato privilegiando il piano economico lasciando insoluti alcuni meccanismi politici decisionali (ad esempio voto all’unanimità o a maggioranza) e di attribuzione dei poteri tra i vari organismi interni (Commissione, Parlamento, Consiglio), i quali sono sostanzialmente non molto democratici (per poteri attribuiti e possibilità di controllo reciproco) e che nessun Paese membro adotterebbe per se stesso come sistema gestionale. Questa ambiguità, abbinata ad una consistente e pragmatica condivisione ideale della necessità dell’Unione, paradossalmente è stata uno dei motivi del successo dell’integrazione europea, che è culminata con la decisione volontaria e condivisa, veramente unica nella storia dell’umanità, di 12 Paesi di rinunciare alla propria moneta nazionale in favore di una moneta unica: l’euro. Del resto c’è chi attribuisce il principale fattore positivo e di “spinta” del processo di integrazione proprio al fatto che l’Europa è una “società”, prima ancora che un progetto politico (Levy, 1999; Cerreti, 1999).

La diffusa considerazione positiva circa il processo di allargamento politico dell’Unione Europea deve ancora affrontare due problemi seri: quale struttura politica (cioè quali istituzioni comuni, con quali poteri e con che rapporto reciproco) e quali confini dell’Europa. Circa il primo problema si è cominciato a discuterne a partire dall’incontro intergovernativo di Nizza del dicembre 2001, mentre il secondo problema è ancora un tema da accademici e da geografi politici. La questione dei confini “dell’Europa” diventa particolarmente significativa perché ai margini orientali si può arrivare fino al Caucaso e oltre, se Georgia ed Armenia vengono considerate di cultura europea (come in effetti sono, in parte). Inoltre, sia Russia che Turchia hanno territori, anche vasti, che geograficamente sono considerati fuori dall’Europa (Siberia e penisola anatolica). Tali questioni costringono al confronto reale due posizioni teoriche differenti: quella che pone ancora come fondamento della geopolitica e delle relazioni internazionali lo Stato-nazione (Rathenau, 1980; Demarest, 1998; Chafetz, 1999) e quella che invece punta alla sovranazionalità ed allo stemperamento del significato e della rigidità dei confini, anche senza volerli abolire (Held, 1999). Una terza posizione punta, invece, alla flessibilità dei confini, alle relazioni sfumate tra le aree socio-culturali e a una sovranazionalità che non si fonda sugli Stati-nazione e/o sugli organismi internazionali di tipo “imperiale”. Essa è, tuttavia, ancora minoritaria e comincia solo ora a cercare collegamenti e strutture stabili (Toesca, 1998; Falk, 1999; Fotopoulos, 1999; Selznick, 1999; Badie, 2000;).

5. Organizzazioni internazionali rilevanti

5.1. Organizzazione delle Nazioni Unite: scopi e ruolo

L’ONU è nata nel 1945, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, con lo scopo di evitare il ripetersi di un’altra guerra mondiale, distruttiva come quella appena conclusa. Sorse per iniziativa delle potenze vincitrici; la particolare condizione di privilegio data a quest’ultime (USA, Gran Bretagna, Francia, URSS, Cina) nel Consiglio di Sicurezza ne è la testimonianza. La sede dell’assemblea e del suo segretario (massima carica istituzionale della durata di 5 anni) è a New York; altre sedi decentrate sono in molte città: Montreal, New York, Parigi, Roma, Vienna, Washington, compresa Ginevra, in Svizzera, Paese che, tuttavia, è stato fino al 2002 solo osservatore e non membro ufficiale; gli Svizzeri hanno approvato l’adesione all’ONU con un referendum passato a stretta maggioranza nel marzo 2002. Nel dicembre 1948 è stata formalmente approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani, in 30 articoli, che vincola al loro rispetto gli Stati aderenti all’ONU. Il rispetto reale dei principi proclamati non è però puntuale in nessun Stato del mondo. Questo il motivo che spinge singoli e associazioni a chiedere un franco dibattito internazionale che superi la

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contraddizione tra dichiarazioni formali e comportamenti reali (Archibugi, 1998, Amnesty, 1998; Cassese, 1999).L’ONU è composta da stati e 51 di loro firmarono la sua costituzione nel 1945 (si consideri che, al momento della firma, Regno Unito e Francia avevano ancora vasti possedimenti coloniali, per cui il numero di Stati nel mondo era molto ridotto rispetto ad oggi). Il processo di decolonizzazione ha provocato la formazione di molti Stati indipendenti che, nel corso del tempo, hanno fatto crescere il numero di membri aderenti all’ONU. Nel 2006 tutti gli stati indipendenti del mondo (192) erano membri dell’ONU; la Città del Vaticano ha la caratteristica di osservatore permanente. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha la qualifica di osservatore speciale. Taiwan (Repubblica di Cina) nel 1971 è stata sostituita dalla Repubblica Popolare di Cina come unica rappresentante del popolo cinese.

Gli scopi principali delle Nazioni Unite erano e restano la proclamazione e la difesa dei diritti individuali a livello internazionale, il dibattito ed il confronto pacifico tra Stati per risolvere le controversie internazionali, il mantenimento della pace, la promozione di iniziative per favorire lo sviluppo economico e politico dei Paesi membri.

Le Nazioni Unite sono rimaste coinvolte nelle dinamiche bipolari conseguenti allo scontro politico ed economico tra USA e URSS iniziato alla fine degli anni ’40 e durato, col nome di Guerra Fredda, fino al 1991 (fine dell’URSS). I tentativi di muoversi operativamente e anche di fare dichiarazioni ufficiali erano sempre condizionati dal diritto di veto che ciascuno dei 5 membri permanenti aveva nel Consiglio di Sicurezza. Ciononostante sono state numerose le iniziative messe in atto per mantenere la pace, assistere i profughi, promuovere accordi e soluzioni pacifiche delle controversie, costituire enti e organismi di aiuto e coordinamento internazionale. Questo è tanto più significativo se si considera che l’ONU non dispone di fondi e di forze armate proprie, ma deve dipendere dai finanziamenti e dalla disponibilità degli Stati membri.

Con la fine della Guerra Fredda e dello scontro tra USA e URSS le Nazioni Unite si sono trovate a dover fronteggiare le nuove sfide internazionali legate alla sicurezza, al terrorismo politico, alla frammentazione e alla dissoluzione di vari Stati, sulla spinta di forze separatiste, in nome molto spesso di identità etniche. L’attuale burocratica struttura operativa e la mancata reale riflessione sul ruolo politico sovranazionale dell’ONU di fronte alle nuove sfide contemporanee ne appesantiscono le capacità operative e rendono l’organismo debole rispetto agli USA ed agli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto.

5.2. Consiglio di Sicurezza dell’ONU

Le dinamiche geopolitiche mondiali dopo il crollo dell’URSS hanno visto crescere la sfida al cosiddetto Sistema di Vestfalia, fondato sulla centralità dello Stato-nazione e sul principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato. Per questo quel sistema è chiamato “anarchico ordinato” (Walzer, 1992; Zolo, 1995), perché non esiste un governo con poteri superiori ad ogni singolo Stato (da cui “anarchico”), anche se l’essere costituito da Stati viene considerato un fattore di “ordine”. Naturalmente nella realtà esiste una sorta di gerarchia mondiale con differenti possibilità d’azione per un certo numero di Stati più potenti politicamente, militarmente ed economicamente (Agnew 1995 e 1998; Eva, 1999).

Con la fine della contrapposizione USA-URSS il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è diventato sempre di più il vero centro decisionale mondiale per le questioni di sicurezza e di intervento armato, ma con la pesante contraddizione, sul piano del diritto, che 5 suoi membri sono di fatto al di sopra di qualsiasi sanzione. Il Consiglio è composto da 15 membri, di cui 5 permanenti (USA, Russia, Cina, Regno Unito, Francia) ed altri 10 eletti a rotazione ogni due anni dall’Assemblea Generale. Nelle decisioni rilevanti sul piano politico (dichiarazioni di condanna di uno Stato o dichiarazioni di principio) e militare (invio di truppe sotto l’egida dell’ONU o autorizzazione dell’uso della forza) la decisione deve essere presa non solo a maggioranza, ma anche con il voto favorevole di tutti i 5 membri permanenti. Questa clausola costituisce il cosiddetto “diritto

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di veto” a disposizione di ciascun membro permanente che è in grado, quindi, di bloccare qualunque decisione lo riguardi o che riguardi Paesi amici.

I momenti di crisi a partire dal 1991 hanno visto il voto unanime del Consiglio nell’autorizzare l’uso della forza contro l’Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait, l’approvazione dell’intervento “umanitario” in Somalia (fine 1991), l’autorizzazione agli aerei NATO di bombardare le zone serbe in Bosnia per fermare la “pulizia etnica” e ottenere l’invio di truppe che mantenessero la pace. Nella seconda metà del decennio, però, c’è stato anche il bombardamento della Repubblica di Iugoslavia a seguito della pulizia etnica contro gli albanesi in Kossovo, approvato specificatamente dal Consiglio solo dopo l’inizio dell’intervento armato deciso dalla NATO, ed infine la “guerra contro il terrorismo internazionale”, iniziata e condotta dagli USA e alleati dopo l’attacco alle torri gemelle di New York e al Pentagono del settembre 2001, approvata genericamente dal Consiglio come diritto all’autodifesa degli USA, senza entrare nel merito della definizione delle azioni da compiere.

In questo nuovo e problematico contesto internazionale di transizione, il Consiglio di Sicurezza si trova sempre più di fronte a difficili decisioni; il suo ruolo di peacekeeping e peace-enforcing sarà sempre più condizionato dallo squilibrio di potere tra alcuni dei membri permanenti e gli altri Stati membri che, almeno formalmente, si pongono su un piano di uguaglianza dei diritti, rispetto ai primi.

5.3. Organismi economici dell’ONU

I due fondamentali organismi economici delle Nazioni Unite sono il Fondo Monetario Internazionale (FMI; IMF nell’acronimo inglese) e la cosiddetta Banca Mondiale (World Bank), costituita da quattro diverse istituzioni con forti connessioni operative e decisionali. Questi due organismi sono stati ufficialmente istituiti nel 1945, insieme con la costituzione dell’ONU, anche se il FMI è stato concepito come strumento operativo dopo gli accordi di Bretton Woods (febbraio 1944), che delineavano le strategie economiche dei Paesi vincitori dopo la fine della seconda guerra mondiale. La sede di ambedue le istituzioni si trova a Washington, e questo sottolinea lo stretto legame con le strategie economiche statunitensi e, soprattutto, con l’impostazione economica capitalista.

Il FMI è diventato operativo nel 1947 e l’URSS, dopo una iniziale adesione, non ratificò mai il trattato operativo. Nel FMI i diritti di voto non sono uguali tra tutti i membri, ma dipendono dal peso relativo che ogni Paese ha nell’economia mondiale e dalla quota con cui contribuisce al fondo comune; questo peso viene rivisto ogni 5 anni, ma le potenze economiche internazionali, USA in testa, hanno sempre un ruolo preponderante (gli USA hanno un peso corrispondente a circa il 18% dei diritti di voto). Questo squilibrio di potere e le strategie adottate hanno portato negli ultimi anni a una crescente critica circa i criteri con cui il Fondo elargisce i crediti. Sono stati sempre più criticati i cosiddetti Piani di Aggiustamento Strutturali per i paesi del Terzo Mondo perché, in cambio dei prestiti, puntano ad imporre provvedimenti di riforme interne che possono produrre miglioramenti produttivi, ma con forti ricadute sul piano dei costi sociali. La posizione del FMI è così autorevole che la concessione di prestiti da parte sua ad uno stato apre l’apertura di flussi di credito anche da parte delle banche commerciali private; un suo blocco dei crediti costituisce motivo sufficiente per la sospensione generalizzata dei crediti. Tutto questo ha portato il FMI a svolgere anche una funzione politica indiretta di pressione sui governi, in qualche caso con conseguenze politiche di vasta portata (vedi la crisi in Indonesia nel 2000) (Demichelis, 1998; Vaccaro, 1999).

Quattro istituzioni della Banca Mondiale sono: IBRD-BIRS (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo), fondata nel 1945; IFC (International Finance Corporation), fondata nel 1956; IDA (International Development Association), fondata nel 1960; MIGA (Multilateral Investment Guarantee Agency), fondata nel 1988. Dopo la fase iniziale di sostegno alla ricostruzione delle economie europee la Banca Mondiale ha indirizzato i propri finanziamenti verso il sostegno delle economie in via di sviluppo ed arretrate. La sua politica si è andata allineando sempre più alla filosofia del FMI ed anche la Banca Mondiale è stata aspramente criticata come operatore indiretto delle potenze economiche e degli interessi delle potenti

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società multinazionali. Da qualche anno la BM ha ufficializzato un cambio di strategia ed un ritorno agli scopi originari, cioè il sostegno alle economie arretrate o in condizione critica dei Paesi in via di sviluppo (PVS). La Banca stila un rapporto annuale (World Bank Report) che viene citato spesso dagli oppositori della globalizzazione come testimonianza degli squilibri esistenti e dell’impossibilità di uscire dal circolo vizioso dell’economia dominante, senza profondi cambiamenti nella logica stessa dell’economia globalizzata.

5.4. Organismi socio-assistenziali dell’O N U

Quale organismo internazionale con grandi ambizioni, nel corso del tempo l’ONU ha costituito una serie di organismi operativi incaricati di sviluppare politiche di aiuto alle persone, di sostegno allo sviluppo in diversi settori, di protezione di beni, di armonizzazione delle normative nazionali. A differenza del FMI e della BM questi organismi socio-assistenziali non sono direttamente coinvolti nei grandi flussi finanziari dell’economia mondiale, ma hanno continuamente bisogno di fondi; questo ha ridotto le possibilità e la rilevanza di alcuni di essi, mentre altri sono diventati specie di associazioni tecniche di settore (ad esempio l’AIEA, l’Agenzia per l’Energia Atomica e l’UPU, Unione Postale Universale). Tra gli organismi che hanno mantenuto una certa rilevanza ci sono la FAO (Food and Agriculture Organization) con sede a Roma e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) con sede a Ginevra. I settori in cui operano questi due organismi sono rilevanti e fondamentali per la vita e la sopravvivenza di miliardi di individui. Altri organismi dell’ONU si muovono con nobili intenti assistenziali o di protezione, come l’UNICEF per l’infanzia, l’ILO per la diffusione delle leggi che proteggano i lavoratori, l’UNESCO per la protezione del patrimonio storico-artistico e culturale, l’ACNUR per l’assistenza dei profughi e i rifugiati politici, ma la loro operatività rimane marginale e molto dipendente da fondi privati, elargizioni di stati o iniziative benefiche specifiche per la raccolta di sovvenzioni.

La FAO è stata in passato un forte sostenitore della cosiddetta Rivoluzione Verde, cioè l’introduzione di nuove specie, fertilizzanti e sistemi di irrigazione efficaci nei paesi del Terzo Mondo per favorire la crescita della produzione agricola; risultati positivi ci sono stati ed alcuni Paesi (India, Cina, ad esempio) sono diventati esportatori di cereali, ma in generale i problemi interni agli Stati legati alla sperequazione nella proprietà della terra e dei capitali non hanno risolto il problema della diffusa sottonutrizione, dipendente anche dai tassi di crescita demografici molto alti dei Paesi in via di sviluppo (PVS).

L’insieme degli organismi costituiti dalle Nazioni Unite nel corso degli anni avrebbero dovuto configurarsi come una sorta di articolazione operativa di un governo mondiale, responsabile verso l’assemblea generale. Il dibattito sul ruolo dell’ONU, sulla sua riforma e sulla sua centralità nel governo del mondo è stato spesso molto vivace e con proposte interessanti, soprattutto dopo la fine dello scontro bipolare (Archibugi, 1992; Held, 1992 e 1999; Falk, 1999). Purtroppo i soggetti più interessati ad un tale dibattito sono stati gruppi di ricerca e associazioni non governative, mentre il ruolo dell’ONU ha subito potenti sfide dalla posizione egemone assunta, per forza di cose, dall’unica superpotenza rimasta e dallo sviluppo delle crisi geopolitiche (pulizie etniche, terrorismo, ecc.) in cui l’immediata operatività militare degli USA o della NATO hanno costretto le Nazioni Unite al ruolo di notaio di decisioni prese altrove (crisi iugoslava nel 2000-01) o anche, talvolta, di semplici spettatori (“guerra al terrorismo” a fine 2001).

5.5. North Atlantic Treaty Organisation - NATO

Nota anche come Patto Atlantico, l’organizzazione venne istituita nel 1949 come patto di difesa politico-militare tra USA, Canada e i paesi dell’Europa occidentale (12) di fronte al pericolo sovietico. Il Patto si proponeva anche di favorire la cooperazione socio-economica e culturale tra i Paesi membri, ma è sempre stato identificato quasi esclusivamente come un patto militare difensivo. Grecia e Turchia sono entrati nel 1952; la Germania Federale (ex Occidentale) nel 1955. La Spagna è membro dal 1982, qualche anno dopo la morte del dittatore Francisco Franco (1975). L’appartenenza alla NATO ha sempre voluto significare anche

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una condivisione ideologica del modo di vita occidentale e dei suoi principi di riferimento. Non a caso, dopo la fine del blocco sovietico e il dissolvimento dello schieramento comunista, un certo numero di paesi dell’ex Patto di Varsavia (il corrispettivo della NATO nel mondo comunista) hanno chiesto di entrarvi. Nel 1994 la NATO ha offerto con successo a tutti i Paesi dell’Est europeo la firma dell’accordo di cooperazione militare chiamato Partnership per la Pace; Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca sono membri NATO dal 1999 e altri Paesi ex comunisti sono in lista d’attesa. Le recenti crisi internazionali hanno spinto anche la Russia ad accettare una maggiore collaborazione con la NATO, anche se essa non rinuncia alle proprie ambizioni di leadership mondiale, almeno pari a quelle svolte a suo tempo dall’URSS.

La NATO ha come organo principale il Consiglio dell’Atlantico del Nord (o Consiglio Atlantico), con sede a Bruxelles, in cui le decisioni debbono essere prese sempre all’unanimità dai rappresentanti degli attuali 19 Stati membri. L’adesione alla NATO ha sempre avuto anche un risvolto politico di schieramento ed una sostanziale accettazione della leadership statunitense; solo la Francia ha preso talvolta posizioni più autonome, come quella del 1966 di uscire dall’organizzazione militare integrata (per rientrarvi progressivamente nella seconda metà degli anni ’90).La fine del confronto con l’URSS ha messo in questione la sopravvivenza della NATO in quanto patto difensivo. La decisione è stata quella di mantenere in vita l’organizzazione ed anzi di proiettare l’azione del Patto anche fuori dei confini degli Stati membri (LiMes, 1999) mettendo le proprie consistenti capacità operative al servizio dell’ONU (azioni in Iraq-Kuwait, Bosnia, Kossovo, Macedonia negli anni ’90), come sostegno a iniziative “umanitarie” (Somalia 1991), e anche per operazioni di polizia internazionale (lotta al terrorismo e attacco all’Afghanistan dopo il settembre 2001). La perdita di ruolo internazionale dell’ONU, che non dispone di forze militari proprie, dipende in parallelo anche dalla sperequazione con la posizione forte degli USA che, oltre a disporre di un proprio potenziale militare enorme, possono contare sull’appoggio sostanzialmente incondizionato del Regno Unito e di uno schieramento militare alleato, in grado di essere rapidamente operativo.

Per i Paesi dello schieramento occidentale, considerare la NATO come strumento in favore della sicurezza internazionale si scontra con le preoccupazioni di molti Paesi non europei, Cina in testa, circa un possibile strapotere occidentale, che li metta in condizione di inferiorità anche politica. Queste preoccupazioni si manifestano con il continuo riferimento al necessario ruolo “direttivo” e di confronto dell’ONU da parte di molti Paesi del Terzo e Quarto Mondo e della Cina stessa, quando non ha interessi diretti da difendere.

5.6. World Trade Organisation - WTO

L’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO nell’acronimo inglese) è l’organismo che il 1° gennaio 1995 è succeduto al GATT (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio), a sua volta fondato nel 1947 da 30 Stati per regolare il commercio internazionale e favorirne lo sviluppo tramite l’abolizione progressiva delle barriere doganali e di ogni altra restrizione. Il GATT è stato per molti anni un luogo di incontro dove si stabilivano i comportamenti commerciali considerati buoni e dove si stipulavano accordi bilaterali e/o multilaterali in specifici settori (come l’accordo multifibre). Gli accordi venivano presi all’interno di sessioni di negoziati periodici, chiamate rounds; ci sono stati 8 rounds, ciascuno dei quali ha preso un nome specifico, politico o geografico in relazione a dove si iniziavano le negoziazioni (Tokyo Round e Uruguay Round sono stati gli ultimi due). Nel 1993 sono stati 117 gli Stati che hanno concluso l’Uruguay Round ed hanno sottoscritto la creazione del WTO, cioè un’organizzazione stabile (con sede a Ginevra) con stato giuridico ben definito.Le Nazioni Unite avevano istituito propri organismi di tipo economico, commerciale e di aiuto allo sviluppo (UNCTAD, UNIDO, IFAD), ma il GATT-WTO ha catalizzato l’interesse delle potenze economiche mondiali in quanto organismo che consentiva ad esse maggiori margini di manovra e di pressione (Andreff, 2000). Non è un caso che i gruppi e le associazioni che contestano le forme della globalizzazione economica abbiano scelto la riunione del WTO a Seattle nel 2000 per esordire come movimento mondiale organizzato (da cui il nome di Popolo di Seattle dato ai cosiddetti antiglobalisti).

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Nell’ambito degli accordi del WTO si sono raggiunti risultati notevoli di abbassamento o esclusione di tariffe protezionistiche e nell’ultimo decennio i flussi commerciali internazionali sono aumentati notevolmente, grazie anche alla progressiva integrazione negli accordi di liberalizzazione di tutti quei Paesi che facevano parte del blocco socialista legato all’Unione Sovietica. L’entrata della Cina nell’organizzazione (e del suo enorme potenziale mercato), avvenuta alla fine del 2001 dopo un lungo periodo d’attesa, ha sancito la centralità del WTO nell’orientamento del commercio internazionale. Restano ancora delicati problemi da risolvere; infatti ci sono settori che sono ancora al di fuori dell’ambito WTO, quali il settore degli audiovisivi, i prodotti finanziari, la questione dei diritti d’autore, la cosiddetta “eccezione culturale” (con cui gli Stati vogliono proteggersi dalla colonizzazione culturale, tramite film, programmi TV, musica, ecc.). Su questi temi lo scontro è tutto interno alle potenze commerciali (USA e Europa per prime) e si sono verificate nel tempo vere e proprie guerre commerciali senza esclusione di colpi, pur tra Stati “occidentali” e con la stessa impostazione economica capitalista.

L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) raggruppa i Paesi più sviluppati economicamente e si propone di favorire la crescita economica degli Stati membri e lo sviluppo del commercio mondiale. Ha sede a Parigi e agisce per gruppi di lavoro. Vi fanno parte 29 Stati, prevalentemente europei e di cultura anglosassone; gli “esterni” sono solo quattro: Giappone, Messico, Turchia e l’ultimo arrivato la Corea del Sud.

5.7. E’ possibile un Ordine Mondiale?

L’istituzione delle Nazioni Unite nel 1945 ha rappresentato il tentativo di dare un’impronta pacifica ad un ordine mondiale che si stava ricostituendo dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale. Le buone intenzioni si sono scontrate con una realtà conflittuale, generata dal rapido deterioramento delle relazioni tra USA e URSS, sfociato nella Guerra Fredda che è durata fino al 1991. Il sistema geopolitico bipolare fondato sul confronto/scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica è stato, a suo modo, un “ordine mondiale”: i protagonisti erano chiari, i rapporti di dipendenza e le alleanze sostanzialmente definiti e stabili, le due superpotenze esercitavano un’opera di controllo politico che aveva anche effetti stabilizzanti. Durante il processo di decolonizzazione la gara tra i due Paesi leader mondiali era focalizzata sulle manovre per attrarre nella propria sfera di influenza il nuovo Stato indipendente; naturalmente la posta in palio era vissuta e propagandata in modo così “ideologico” e così forte che tutti i mezzi più o meno leciti e/o morali erano considerati utilizzabili (Kissinger, 1974).

La fine dell’URSS ha cambiato la situazione in modo fondamentale, ma già negli anni ’80 i presidenti USA parlavano di Nuovo Ordine Mondiale, anche perché la politica del presidente russo Michail Gorbaciov aveva innescato in URSS e nei Paesi satelliti dinamiche politiche interne nuove che lasciavano sperare in più aperti scenari geopolitici, anche se nessuno era stato in grado di prevedere il collasso di un sistema potente e rigido come quello sovietico. Il 1989 e il 1991 sono stati gli anni della svolta. L’8 novembre 1989 “cadeva” il Muro di Berlino; in sostanza il confine (“il Muro”), che aveva diviso la capitale tedesca dal 13 agosto del 1961, veniva dichiarato come superabile senza documenti speciali per gli abitanti della città. Ciò avveniva sull’onda di un veloce sfaldamento delle istituzioni politiche di quella parte della Germania (la Repubblica Democratica Tedesca o Germania Est) che fino a quel momento era stata una delle pedine più fedeli (e più occupate militarmente) dell’Unione Sovietica. Con la fine del Muro diventava obsoleta anche quella lunga linea di confine che dal 1947 separava i Paesi dell’Europa dell’Est (comunista) da quelli occidentali e che era stata chiamata la Cortina di Ferro. Nel dicembre 1991 l’Unione Sovietica veniva dichiarata sciolta dal presidente russo Boris Eltsin, dopo mesi di convulse tensioni politiche interne che avevano visto anche un tentativo di colpo di stato da parte di nostalgici del “comunismo di ferro” e l’assedio al parlamento dove si erano rifugiati i rivoltosi (agosto 1991).

Altri fatti importanti erano accaduti nel 1991. Nel gennaio una coalizione di 32 Stati, sotto la guida degli USA e su mandato dell’ONU, aveva attaccato l’Iraq del dittatore Saddam Hussein perché questi aveva invaso il confinante Kuwait e si rifiutava di evacuarlo. La vittoria era arrivata abbastanza velocemente, vista la

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sproporzione delle forze. Il Kuwait è tornato uno Stato indipendente e sovrano, ma ancora all’inizio del 2002 Saddam Hussein era al potere, l’Iraq sotto embargo e sotto controllo aereo militare da parte di USA, Regno Unito e Francia. Alla fine del 1991 il presidente Bush senior, sotto “copertura dell’ONU”, lanciava una “operazione umanitaria” in Somalia, distrutta da guerre intestine e con la popolazione affamata. Questa operazione, di segno nuovo e diverso, non ha avuto il successo sperato e la Somalia continua ad esser un non-Stato in mano a capi clan, veri e propri “signori della guerra” nella parte Sud e con due parti del Paese (Somaliland a Nord e Puntland a Nord Est) che si sono dichiarati indipendenti.

Il 1991-2001 è stato anche il decennio della scomparsa della Federazione Socialista Iugoslava, suddivisasi in sei repubbliche indipendenti dopo una pluriennale e atroce guerra fratricida all’insegna della pulizia etnica, cioè l’eliminazione fisica dal proprio territorio di chi non fosse serbo, croato o bosniaco-musulmano a seconda dei casi (Diddi, 1995; Morin, 1997). C’è stata poi la pulizia etnica da parte dei serbi nel Kossovo, a larga maggioranza albanese-musulmana, con i bombardamenti della NATO sulla Serbia del presidente Milosevic per far finire l’esodo dei rifugiati e le persecuzioni. La fine del regime di Milosevic ha portato ad una stabilizzazione della situazione balcanica dopo anni di scontri cruenti, ma la crisi kossovara ha mostrato la debolezza intrinseca dell’ONU, che ha giustificato i bombardamenti solo dopo che essi erano cominciati su iniziativa degli USA e degli alleati della NATO.

La cosiddetta comunità internazionale sembra essersi organizzata con un ordine mondiale in cui alcuni Stati più potenti (militarmente, politicamente, economicamente) esercitano una egemonia nelle decisioni che investono le questioni di rilevanza mondiale. Si tratta di quella che è stata definita una nuova Santa Alleanza (Zolo, 1995; Agnew, 1998), in grado di muoversi autonomamente e anche di orientare le scelte degli organismi preposti alla regolazione delle controversie mondiali (ONU, Consiglio di Sicurezza) o alla decisione di strategie da adottare in campo economico (FMI, BM, WTO). Alcuni Paesi che sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sono presenti nella NATO, hanno i maggiori poteri di voto nel FMI e nella BM, si riuniscono periodicamente per concertare strategie economiche e politiche. Queste riunioni, e gli effetti che riescono ad ottenere, hanno portato alla costituzione per autogenesi di un organismo che non ha fondamento istituzionale, ma in effetti svolge alcune funzioni che potrebbero essere svolte da un ipotetico governo mondiale. Si tratta del gruppo dei sette paesi più industrializzati al mondo e per questo chiamato G7 (USA, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada, in ordine di importanza economica). A seguito della fine dell’URSS e dopo alcuni anni di anticamera, sempre più spesso il gruppo si allarga alla Russia e diventa così G8. In poche occasioni il gruppo è diventato G9 con la partecipazione della Cina.

Possiamo identificare una generica somiglianza tra questi Stati nel fatto che dispongono di popolazione consistente, di economie ricche (o potenzialmente ricche), di estensioni territoriali a volte considerevoli, di arsenali militari di tutto rispetto. L’unico stato molto popolato, molto esteso, dotato di armi nucleari, che non fa parte della élite mondiale è l’India, secondo paese al mondo per popolazione (con circa 1 miliardo di abitanti).

Il ruolo dell’ONU, oggi e nel prossimo futuro, rimane il problema principale da affrontare e da risolvere nel campo delle relazioni internazionali, soprattutto perché l’attacco terroristico alle Torri gemelle di New York ed al Pentagono, avvenuto l’11 settembre 2001 con più di 3000 morti, ha scatenato la comprensibile reazione degli USA nei confronti dell’Afghanistan che ospitava il responsabile “quasi” dichiarato di quell’atto sconvolgente. L’appoggio della NATO, della Cina e della Russia è stato immediato. Per superficie, popolazione, armamenti, ruolo internazionale e risorse economiche sono i Paesi che più hanno possibilità concrete di condividere con gli Stati Uniti la leadership mondiale, anche se ad un gradino inferiore; inoltre sia Cina che Russia devono fare i conti con difficili anche se limitati conflitti interni, originati da movimenti separatisti e con manifestazioni terroristiche e/o di lotta armata. La Russia del presidente Putin ha cominciato a dispiegare una politica strategica autonoma, tesa a recuperare il ruolo di leadership che aveva l’URSS (Kolossov, 2002) e la Cina, discretamente, ha consolidato sempre più la sua presenza e la sua rilevanza nello scacchiere internazionale politico ed economico (Eva, 2000).

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6. Il confronto tra identità e culture

6.1. La globalizzazione inevitabile

Per globalizzazione si intende comunemente il progressivo processo di integrazione a livello mondiale, fondato sulla tecnologia informatica e delle telecomunicazioni, e riferito in particolare all’economia ed alla finanza. Questa dinamica di integrazione non è nuova nella storia, anche se il processo attuale ha come elementi nuovi la tecnologia informatica, la rapidità di comunicazione che essa consente (telematica), e la velocizzazione in genere di molti processi (comunicazioni, trasporti, produzione, ecc.). Il termine globalizzazione però viene sempre più utilizzato anche nel campo culturale, dei comportamenti dei gruppi umani e anche dei singoli individui; in questo è sempre più rilevante l’influenza, lo sviluppo e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa.

La globalizzazione però si mostra essenzialmente come fenomeno legato alla finanza ed allo spostamento di consistenti masse di capitali in ogni parte del globo dove vi siano borse (azionarie, di valute, di merci) e dove sia possibile “investire” capitali nella produzione di beni, materie prime o capitali. Il controllo della liquidità è sempre stato un fattore di potere nella storia dell’economia capitalista (Arrighi, 1996). I Paesi sviluppati continuano ad avere in tutto ciò il ruolo principale (Amin, 1997; Di Meglio, 1997; Morin, 1999). Sono nati e cresciuti anche movimenti di resistenza e di opposizione a questo processo, soprattutto da parte di chi, rispetto ai vantaggi, sottolinea come maggioritari i pericoli di consolidamento di un potere globale in mano a pochi; un potere fondato sull’omogeneizzazione culturale (Ramonet, 1996) e su un modello di società e consumi distruttivo dell’ambiente e delle specificità dei gruppi umani nelle diverse aree geografiche. Il confronto ed il dibattito sulla globalizzazione e sui suoi possibili effetti (positivi o negativi) e sempre più ampio e vivace (Held, McGrew, 2001).

La crisi finanziaria che ha colpito i Paesi dell’Asia orientale e sudorientale nel periodo 1997-‘99 è stata un esempio per vedere in cosa consiste principalmente il processo di globalizzazione: ha mostrato che gli equilibri finanziari mondiali sono delicati e che i Paesi “emergenti”, indicati per lungo tempo come modello da seguire, erano più fragili e “dipendenti” di quanto fosse ufficialmente ammesso (Fan Gang, 1999; Dassù, 1999; Eva, 2000). Il movimento dei capitali finanziari è globalizzato, ma il loro controllo rimane ancora in gran parte nelle mani di gruppi ben localizzati geograficamente: USA ed Europa Occidentale, visto che il Giappone non ha più il controllo di masse di liquidità come fino all’inizio degli anni ’90 (Bouissou, 1995; Katz, 1998). La gestione della crisi asiatica ha mostrato anche che si sta puntando ad un ruolo rafforzato del Fondo Monetario Internazionale come controllore/regolatore delle economie; questo è il senso degli inviti a “dare regole” al sistema senza ridurre o modificare la libertà di movimento dei capitali e delle localizzazioni industriali. I Paesi in forte crisi di liquidità debbono accettare (subire) le politiche economiche proposte dal FMI, pena la non concessione dei prestiti di cui, per altro, non possono fare a meno.

I piani del FMI sono tecnicamente efficaci, ma all’interno di una concezione dell’economia (quella dell’Occidente) che si propone “ideologicamente” come la migliore possibile. L’idea base è che se il Sud del mondo seguirà l’esempio del Nord industrializzato e capitalista si risolverà, col tempo e con soddisfazione di tutti, la questione Nord/Sud. A prova di questo si citano i numeri dell’aumento dei consumi mondiali, dei flussi commerciali, del reddito pro capite di molti Paesi del mondo che hanno seguito il modello capitalista: è quella che si può chiamare “la risposta numerica”. Essa però esclude altri fattori (umani) ed altri indicatori, relativi ad alcuni servizi (istruzione, sanità, ecc.) che costano e non producono profitti.

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6.2 La globalizzazione discutibile

Per quanto riguarda il modello socio-economico è già stato evidenziato come il processo di integrazione globale faccia riferimento al cosiddetto “modello occidentale” (Wallerstein, 1978; Galbraith, 1988; Krugman, 2000), imperniato su tre fattori principali:

1) il sistema di produzione, è quello sviluppatosi dalla Rivoluzione Industriale, ma con particolare riferimento, oggi, all’accumulo di capitale e all’economia dei consumi; i sistemi tradizionali di produzione, anche quelli non arretrati e che garantiscono la “sostenibilità” dei bisogni sociali collettivi, vengono di fatto progressivamente marginalizzati;

2) il sistema di relazioni interpersonali riduce lo spazio e l’azione sociale delle cosiddette “famiglie allargate” (molto diffuse in Africa ed in Asia): o diventano un mini-sistema economico (impresa) in grado di accumulare capitale e/o di produrre, o subiscono un processo di disgregazione;

3) il sistema dei diritti/valori (centrato sulla differenziazione delle classi sociali, sui diritti individuali, sulla forma e sui meccanismi di funzionamento dello Stato-nazione e della rappresentanza politica così come è stata elaborata in Europa e negli USA). Ciò comporta che non vengano concepite altre forme di organizzazione collettiva della società, rispetto al modello parlamentare multipartitico, anche se nella pratica convivono regimi autoritari, repressivi e fondati sul privilegio di alcune classi sociali.

La diffusione mondiale del modello socio-culturale occidentale non è cosa di oggi; è principalmente la conseguenza del colonialismo (Braudel, 1999). Il postcolonialismo ha rappresentato una sorta di continuità della dipendenza economica di molti Paesi dalle ex potenze coloniali senza gli aspetti del controllo politico. Su questa situazione si innesta l’attuale processo di globalizzazione, che utilizza a fondo l’eredità del passato secondo vari aspetti. Anzitutto sfruttamento delle risorse (anche umane); gli standard lavorativi, e quindi i costi, sono minori nei PVS, grazie anche al lavoro dei bambini o alla negazione dei diritti sindacali. I dati diffusi dalla Banca Mondiale mostrano che il 30% della popolazione nei 55 Paesi più poveri della Terra, circa un miliardo e cento milioni di persone, vive sotto i limiti della sussistenza, con un reddito inferiore a un dollaro al giorno per persona.

In secondo luogo bisogna considerare la “forzatura” economica. In Africa (nord-occidentale ed australe) Società sudafricane, anglo-statunitensi ed australiane controllano grandi miniere. Per questo è opinione diffusa tra gli economisti che i problemi principali dei Paesi africani siano soprattutto le infrastrutture ed i trasporti. Quelle diventano così talora problematiche prioritarie, a scapito di altre, quali la difesa dell’ambiente. Dal canto loro i Paesi più poveri non possono certo permettersi il lusso di badare al modo in cui producono. Per loro produrre ed esportare qualcosa è già un miracolo. Inoltre l’adesione ad un modello economico importato ha condotto i Paesi del Terzo e Quarto Mondo a dipendere dalle quotazioni internazionali dei prodotti che esportano, in particolare delle materie prime e dei cereali.

Infine sembra esistere, per i Paesi più poveri, una sorta di forzatura culturale, cioè la creazione di un sistema sociale misto (locale-Occidentale) da cui non si può più tornare indietro; poiché sono in calo progressivo le attività economiche tradizionali, mentre aumenta la interdipendenza squilibrata Nord/Sud. Per esempio la diffusione dei nuovi sistemi di comunicazione, in particolare dei computer (Internet, ecc.), se da un lato consente nuove ed imprevedibili dinamiche sia verticali che orizzontali all’interno della struttura sociale, da un altro punto di vista favorisce ancora di più il distacco e la disuguaglianza tra chi possiede o non il mezzo tecnico (limite economico individuale), tra chi si trova in un’area che dispone “infrastrutturalmente” di tecnologia e chi no (limite economico geografico); ma anche e soprattutto tra chi ha sufficienti conoscenze/abilità per usarle e chi non le ha e non può averle (limite culturale e livello di istruzione).

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6.3. Le risposte alla globalizzazione

Il processo di globalizzazione non è comunque assoluto ed ha bisogno di tempo per dispiegarsi. Questo consente alle diverse società una certa dose di adeguamento ed anche di “resistenza”. In effetti le diverse caratteristiche socio-culturali provocano diversi tipi di risposta. In rapporto alla globalizzazione vi sono società che assimilano modificando; è il caso delle cosiddette Tigri asiatiche e di quei Paesi che sono riusciti a mantenere la cosiddetta “coesione sociale”, spesso risultato di una storia millenaria, pur adottando (spesso in modo esasperato) il modello produttivo industriale. Altre società, invece, semplicemente subiscono la globalizzazione; sono principalmente i Paesi africani (subsahariani) e molti dell‘America Latina. Infine altri Paesi la rifiutano; sono, parzialmente, alcuni Paesi islamici ed alcuni di quei Paesi che sono usciti da poco dal sistema politico-economico di tipo sovietico. Vi sono poi altri Paesi abbastanza grandi e popolati, ad esempio India e Brasile, che hanno una situazione composita, per cause storiche e sociali. Per questo, subiscono il processo di globalizzazione in modo irregolare e con forti differenziazioni interne.

La globalizzazione è un processo dinamico e composito su cui è possibile intervenire. In qualche misura ogni presona e gruppo sociale ha la responsabilità della scelta di accettare, subire o opporsi. Gli estimatori della globalizzazione ne favoriscono l’azione perché convinti che la sua completa diffusione a livello planetario consentirà di migliorare per tutti la qualità della vita, e si aspettano quindi un futuro positivo (Thurow, 1997; Krugman, 2000). Coloro, invece, che sono convinti della pericolosità o della non desiderabilità di tale processo cercano di intervenire per ridurre i danni e/o per indirizzare i processi socio-economici fin da subito in una direzione più equa e solidale (Sen, 1993 e 1994; Yunus, 1998; Falk,1999; Unctad, 1999). Chi pensa di poter rimanere “neutrale” pare automaticamente schierato in favore della globalizzazione, che subisce di fatto senza intervenire.

L’attacco terroristico a New York e al Pentagono (sede del comando militare USA) ed i fatti conseguenti hanno sottolineato che un Ordine Mondiale nei fatti esiste, ma che non può sperare di essere una base di convivenza pacifica e duratura, considerando che a molti Paesi poco potenti questo “ordine” appare più subito che condiviso e fondato sull’accettazione delle disparità di condizioni economiche e di potere esistenti. Questo a dispetto delle dichiarazioni di principio, come la Carta dell’ONU, che tutti gli stati della Terra hanno sottoscritto e dichiarato di voler rispettare. La questione dei diritti umani di base rimane ancora una nebulosa con molte ambiguità, ma sta diventando un tema centrale nelle dinamiche geopolitiche (Bauman, 2000; Zolo, 2000).

La costituzione all’Aia (Paesi Bassi) di tribunali speciali internazionali per i crimini commessi durante la guerra civile balcanica (Calvetti, 2001) e in Ruanda-Burundi, le prime condanne per genocidio e massacri di massa, come pure l’inizio del processo all’ex presidente iugoslavo Milosevic (2002), testimoniano della volontà di dare concretezza alle affermazioni di principio circa i diritti sanciti nella Carta dell’ONU del 1948. L’istituzione di un Tribunale Penale Internazionale permanente non ha ancora raccolto l'adesione necessaria di almeno 120 Stati mondiali e ha visto la dichiarata opposizione di sette Paesi, tra cui USA e Cina, probabilmente perché l’esistenza di un tale tribunale riporterebbe su un piano di uguaglianza anche Stati che oggi, in un certo senso, siritengono al di sopra di un controllo internazionale. Il processo di adesione è comunque in corso.