TUTTI PER UNO UNO PER TUTTI

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Il volume raccoglie i racconti e le testimonianze presentati al concorso di scrittura I Soci, la Cooperativa, i suoi Valori. Storie di lavoro e di cantiere, promosso da Coopservice nel 2012, in occasione dell’Anno Interna- zionale delle Cooperative, indetto dall’ONU per richia- mare l’attenzione sul valore sociale ed economico di un sistema di imprese che organizza nel mondo un miliardo di soci e dà lavoro a più di cento milioni di persone. Il concorso era rivolto alle socie e ai soci di Coopser- vice e si proponeva l’obiettivo di fissare sulla pagina ri- cordi e testimonianze di vita e di lavoro in cooperativa. Con particolare riguardo alle vicende in grado di met- tere in luce il contributo fornito da Coopservice alla soluzione di problemi o alla soddisfazione di esigenze dei clienti e delle comunità nelle quali opera la cooperati- va. Per favorire la partecipazione e in considerazione della cospicua presenza di soci stranieri ancora in diffi- coltà con la lingua italiana, il concorso è stato suddiviso in due sezioni: la prima riservata ai racconti scritti di- rettamente dai soci, la seconda alla raccolta di testimo- nianze attraverso interviste. Complessivamente sono stati presentati trentotto elaborati, di cui cinque “fuori concorso”, secondo quan- to stabilito dal regolamento che prevedeva che non potessero concorrere alla premiazione, per incompatibi- lità, i consiglieri d’amministrazione della cooperativa, i soci attivi nell’area sociale, i soci dimessi per anzianità e i lavoratori non soci. La commissione esaminatrice era composta da Si- mona Caselli, presidente di Legacoop Reggio, Giordano Gasparini, direttore della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e Ferrante Trambaglio, giornalista.

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Il volume raccoglie i racconti e le testimonianzepresentati al concorso di scrittura

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Il volume raccoglie i racconti e le testimonianze presentati al concorso di scrittura I Soci, la Cooperativa, i suoi Valori. Storie di lavoro e di cantiere, promosso da Coopservice nel 2012, in occasione dell’Anno Interna-zionale delle Cooperative, indetto dall’ONU per richia-mare l’attenzione sul valore sociale ed economico di un sistema di imprese che organizza nel mondo un miliardo di soci e dà lavoro a più di cento milioni di persone. Il concorso era rivolto alle socie e ai soci di Coopser-vice e si proponeva l’obiettivo di fissare sulla pagina ri-cordi e testimonianze di vita e di lavoro in cooperativa. Con particolare riguardo alle vicende in grado di met-tere in luce il contributo fornito da Coopservice alla soluzione di problemi o alla soddisfazione di esigenze dei clienti e delle comunità nelle quali opera la cooperati-va. Per favorire la partecipazione e in considerazione della cospicua presenza di soci stranieri ancora in diffi-coltà con la lingua italiana, il concorso è stato suddiviso in due sezioni: la prima riservata ai racconti scritti di-rettamente dai soci, la seconda alla raccolta di testimo-nianze attraverso interviste. Complessivamente sono stati presentati trentotto elaborati, di cui cinque “fuori concorso”, secondo quan-to stabilito dal regolamento che prevedeva che non potessero concorrere alla premiazione, per incompatibi-lità, i consiglieri d’amministrazione della cooperativa, i soci attivi nell’area sociale, i soci dimessi per anzianità e i lavoratori non soci. La commissione esaminatrice era composta da Si-mona Caselli, presidente di Legacoop Reggio, Giordano Gasparini, direttore della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e Ferrante Trambaglio, giornalista.

In appendice al volume, una selezione delle foto pre-sentate dai soci della cooperativa al concorso fotografico “Coopservice, il lavoro, l’Italia”, indetto in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, aperte a Reggio Emilia il 7 gennaio 2011, dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

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il piacere di raccontarsi

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storie di Vita e di laVoroin cooperatiVa

A cura di Vladimiro Ferretti e Ferrante Trambaglio

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Indice

7 Presentazione Cooperatori a tutto tondo, di Roberto Olivi e Lino Zanichelli 11 Parte Prima

RACCONTI 13 Alessia De Santis, Angeli nel fango 19 Seyed Nematollah Raissy, “E buonanotte ai sognatori” 27 Mara Balocchi, La capra nel foyer 33 Roberto Gallozzi, Il mio mattoncino 37 Francesca Biagini, Una famiglia allargata 43 Adriana Cinque, Sull’autobus del sorriso 45 Silvana Cosentino, Il sindaco di piazza Esquilino 51 Giuseppe Dallaglio, La “macchina del fango” 55 Francesco Mattanini, Gabri 59 Nicoletta Accietto, Ricominciare a cinquant’anni 63 Mina Arouch, “Più corri, più lui ti corre dietro” 67 M. Campanini, N. Talignani, D. Fadini, Dusty e la sua signora 71 Sigfrido Cescut, Una scelta di vita 75 Lucia Chiatti, Barbara Lombardi, Il caro estinto in buone mani 79 Antonio Damiano, Voglia di fare 83 Anna Erasmi, Un giorno al “Santa Maria” 87 Elena Incerti, Via Buuoozzi! 91 Carla Lombardi, Il mio lavoro 93 Massimo Melinato, “Cooperativa vuol dire...” 97 Michela Pinna, La nuova vita di Carmela 103 Carmen Presutto, Il cuore grande del cantiere 107 Rosalba Rivoli, “Mica sto rubando, cosa crede?”

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111 Rossana Salsi, Ulisse 115 Mario Uccella, La Reggia 123 Dario Vioni, “Vacanze” romane 129 Luana Aceti, Storia di Lu 133 Rosalia Cangelosi, La squadra 135 Angelina Greco, L’uomo misterioso 137 Mirella Puliani, “Sì, è anche mia!” 139 Rita Scotti, Dal mio osservatorio speciale 145 Parte seconda TESTIMONIANZE 147 Alessandro Russo, Noi ci siamo, sempre 151 A. Bannour, L. Llukovi, H. Fawzi, A. Demir, G. Manni, Un “flirt” in Val Venosta 155 M. Mensah, N. M. Salama, S. Kalmani, K. Narjis, Grazie mamma Mina 159 Gianfranco Ardizzoni, Storie di ordinario coraggio 165 Patrizia Patrizi, Fiamme in pediatria 167 Mauro Dinoi, Solitudini 171 Giacomo Giordano, L’allegra famigliola 173 Biagio Maddamma, Tutto in Coop 175 Postfazione Se i soci si raccontano, di Vladimiro Ferretti 177 aPPendice fotografica

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Dare un titolo unitario ad una raccolta di scritti di auto-ri diversi non è mai un compito facile. “Tutti per uno, uno per tutti” – il titolo scelto dai curatori di questo volume che raccoglie i racconti di socie e soci di Coopservice inviati al concorso di scrittura promosso dalla nostra cooperativa nel 2012, in occasione dell’Anno Internazionale delle Cooperati-ve proclamato dall’ONU – non poteva essere più appropriato. Rispecchia infatti il punto centrale di quasi tutti i racconti, nei quali lo stimolo a far bene il proprio lavoro e lo spirito di emulazione non sono mai scevri dalla importante componente della solidarietà.

Atteggiamento decisivo che accompagna l’esperienza di la-voro sin dal momento dell’ingresso, attraverso la prassi della buona accoglienza. Chi arriva non è un concorrente, ma una persona che insieme a me contribuirà, “mattoncino su mat-toncino” alla costruzione della grande casa di Coopservice.

L’altro grande valore che emerge con forza dalla totalità degli scritti, a cominciare da quello risultato vincitore, “An-geli nel fango” di Alessia De Santis, è racchiuso nel concetto che cooperazione e solidarietà sono valori che travalicano i

Presentazione

Cooperatori a tutto tondodi Roberto Olivi* e Lino Zanichelli**

* Presidente Coopservice**Responsabile Politiche Sociali

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confini della cooperativa per abbracciare tutti i momenti della vita dei singoli soci. Il problema di un socio diventa ricerca di soluzione da parte di tutti gli altri.

Concetto magistralmente condensato nelle semplici paro-le di una delle socie accorse ad aiutare la collega con la casa alluvionata e che al suo stupefatto “non dovevate...” risponde perentoriamente: “Non dirlo neanche per scherzo, certo che dobbiamo! Siamo una cooperativa, se non ci aiutiamo fra di noi!?”. Quasi che la propensione a cooperare, ad aiutare gli altri in difficoltà sia una qualità connaturata, iscritta nel DNA di ogni singolo socio della cooperativa.

Sulla stessa linea il racconto di Francesca Biagini dal fronte del tremendo terremoto che ha colpito soprattutto il mode-nese nel maggio 2012, con tutti i suoi strascichi di dolore e di paura. Racconto dal quale emerge un’altra peculiarità dei cooperatori, vale a dire la capacità di fare cose straordinarie come fosse ordinaria amministrazione. “Qui – scrive Francesca – nessuno abbandona chi chiede aiuto”.

A partire – appunto – dal primo giorno di lavoro in Coop-service, dove c’è sempre qualcuno che ti prende per mano, soprattutto se sei straniero e non conosci la lingua.

Altra caratteristica dei soci di Coopservice che emerge da-gli scritti dei partecipanti al concorso e che merita di essere sottolineata riguarda la loro attitudine ad essere cooperatori sempre, a 360 gradi. Dentro e fuori la cooperativa. Coopera-tori come stile di vita che si prolunga anche oltre l’orario di lavoro e che informa tutto il loro modo di vivere, per cui an-che i problemi familiari dei singoli soci diventano i problemi di tutti e il risolverli ha il doppio significato della vicinanza ad una persona amica e del bene della cooperativa.

Tutti insieme i trentotto racconti qui raccolti costituisco-no anche una emozionante fotografia tridimensionale dove la storia, l’attualità e il futuro di Coopservice si intrecciano e si rincorrono come in un gioco di specchi.

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C’è la microstoria della nostra cooperativa letta attraverso le fusioni e le acquisizioni vissute direttamente da alcuni degli autori dei racconti, vicende che hanno evidentemente lascia-to una traccia profonda i cui aspetti psicologici forse non sono stati sufficientemente indagati.

C’è la grande storia delle trasformazioni della struttura pro-duttiva mondiale ad opera delle multinazionali, che come uno sprazzo entra prepotentemente nel racconto di Sigfrido Ce-scut sulla Zanussi di Porcia in Friuli, diventata Electrolux e da questa trasformata in fabbrica di lavatrici sotto gli occhi di due testimoni d’eccezione, Papa Giovanni Paolo II (invitato all’inaugurazione) e il premio Nobel per la pace, Mikhail Gor-baciov, successivamente in visita allo stabilimento.

E c’è, soprattutto, la Coopservice di oggi. Una grande azien-da in cui il colore predominante è il rosa (anche fra gli autori dei racconti le donne sono in netta maggioranza), diffusa su tutto il territorio nazionale, con forti radici emiliano-roma-gnole, felicemente multietnica. E in movimento. In frenetico movimento, si potrebbe dire considerando l’aggettivo in una accezione positiva. Tanto che volendo adottare un’altra me-tafora – dopo quella del mattoncino – si potrebbe pensare ad un alveare. In Coopservice si muovono tutti e tutto. Con ogni mezzo, su ruote o ad elica che sia. Da e per la sede, da e per le filiali. Emblematica l’istantanea del reggiano Dario Vioni che nel suo racconto “sghetta” con la sua auto per le vie di Roma.

Un movimento che forse rispecchia l’essenza di una coope-rativa multiservizi, di Coopservice in particolare. Ormai estesa in tutte le regioni italiane e con soci e dipendenti provenienti da tutti i continenti.

Si viaggia per le nuove gare, per e dai cantieri. Si viaggia naturalmente quando scatta l’istinto della solidarietà di fronte alle grandi emergenze. Da Roma a L’Aquila per il terremo-to, ad Aulla per l’alluvione. In Coopservice viaggia persino l’ufficio paghe, un posto di lavoro che potrebbe sembrare il

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più sedentario del mondo, come ricorda nel suo racconto fuo-ri concorso, Rita Scotti, oggi responsabile dell’ufficio soci di Coopservice. La sua testimonianza, con cui chiudiamo que-sta breve presentazione, ha anche il sapore della rivincita nei confronti del luogo comune che vorrebbe quella che si chiama la “struttura” (gli uffici centrali della sede di Reggio Emilia) come una sorta di centro di potere, con venature di tipo “po-litico”. In Coopservice questo non accade. La struttura è parte integrante dell’azienda, in simbiosi con tutte le sue complesse articolazioni.

E l’ufficio soci è, secondo Rita, anche un punto di osserva-zione privilegiato, da cui si può vedere, per esempio, come il “potenziale umano di Coopservice è incredibile, le buone es-senze delle differenze ti trasformano in cittadino del mondo”. E questa è la terza “dimensione” della fotografia, quella che riguarda il futuro.

Grazie per averci regalato questa originale tranche de vie, in cui si legge in filigrana tutto l’orgoglio di far parte della fami-glia sociale di Coopservice, quel filo rosso che lega idealmente l’una all’altra le vostre storie di vita e di lavoro, così diverse, così uguali.

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Parte Prima

RACCONTI

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Pioveva ininterrottamente da due giorni. Maria non aveva mai visto tanta pioggia scendere in un così breve lasso di tempo, sembrava letteralmente si fossero aperte le proverbiali cataratte del cielo. Quella mattina, andando al lavoro, aveva visto il fiume dietro casa raggiungere pericolosamente il livello di guardia. Ferma al semaforo non aveva potuto fare a meno di guardare l’acqua sotto di sé scorrere vorticosa e arrabbiata; aveva for-mulato una preghiera silenziosa al Signore affinché gli argini tenessero o almeno smettesse di piovere. Ma la pioggia, sorda alle sue preghiere, aveva continuato a scendere imperterrita. Non era ancora finito il suo turno in ospedale quando il trillo del telefono la fece sussultare; posò il lamello e si tolse i guanti, estrasse il telefono dal cassetto del carrello. “Marco” indicava il display, Maria sbiancò, non era un buon segno, se la chiamava il marito a quell’ora doveva essere successo qualcosa. Immediatamente il pensiero andò ai bambini. “Pronto?” disse. Dall’altra parte una voce concitata cominciò a parlare, Ma-ria ascoltava in silenzio, incapace di ribattere. “Ma...ma... è impossibile... gli argini...”

Angeli nel fango *Alessia De Santis

* Primo classificato - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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Di nuovo la voce dall’altra parte ricominciò a spiegare.“Hanno ceduto? Come hanno ceduto?” non poteva credere alle sue orecchie.“Va bene, ho capito. Ci…ci vediamo lì...”. Chiuse la conversazione e si mise il telefono in tasca. Uscì dal reparto con passo svelto e si diresse verso l’ufficio della capocantiere, doveva andare a casa, assolutamente, ma prima i bambini; doveva sapere se i bambini stavano bene.“Che scema” si disse “certo che stanno bene, la scuola non è mica vicino al fiume”. Tuttavia doveva saperlo con certezza, chiamò e si tran-quillizzò solo quando seppe che la piena non era arrivata al quartiere della scuola, poi chiamò sua madre chiedendole di andare a prendere i bambini nel pomeriggio.Riuscì a stento a trattenere le lacrime, non poteva cedere, non ancora. Mentre aspettava l’ascensore saltellava da un piede all’al-tro; l’attesa le sembrava interminabile, poi finalmente le porte di acciaio si aprirono, scese al piano meno uno e, correndo, raggiunse l’ufficio. Bussò alla porta e poi entrò senza aspettare la risposta. Paola, la capocantiere, stava parlando al telefono agitata, alzò la testa per vedere chi era entrato e poi alzò una mano per dire a Maria di aspettare un attimo.Neanche un minuto posò il telefono e si rivolse a Maria:“Cosa c’è? Sono molto occupata!” “Paola devo andare a casa, il fiume...”“Sì lo so c’è la piena ed è uscito dagli argini, l’ambulatorio di Soave è stato invaso dall’acqua”.“Anche casa mia...” disse con voce tremante Maria.“Orco can! Hai avuto molti danni?”“Non so niente...”“Non preoccuparti, noi ci arrangiamo! Vai pure a casa, ci man-cherebbe! Telefonami, tienimi aggiornata!”

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“Gr…grazie balbettò”. Maria si cambiò velocemente, prese la sua auto e si diresse verso casa. Impiegò quasi due ore a percorrere i dieci chilome-tri che la separavano dal fiume; metà delle strade erano chiuse e il traffico sulle altre era congestionato, mentre la pioggia non voleva smettere di scendere. Intanto all’ospedale altre ragazze, nella stessa situazione di Maria, lasciarono il lavoro, mentre le colleghe rimaste, com-presa la stessa Paola, si divisero i turni per garantire il servizio, l’ospedale doveva andare avanti. Maria si trovò bloccata sul ponte, la strada era chiusa e non facevano passare nessuno. Parcheggiò la macchina e si diresse verso l’argine che da quel lato aveva tenuto, stringendo convulsamente il manico dell’ombrello tra le mani.Pregava che casa sua fosse salva “Ti prego Signore, un po’ di fortuna, per una volta...” Ma non era tempo di fortuna... non quel giorno.Dall’alto dell’argine Maria vide casa sua e le gambe le cedet-tero. Si lasciò cadere in ginocchio. Davanti a lei non c’erano più né le strade, né i campi che ben conosceva, ma solo un lago, un enorme lago marrone da cui spuntavano le cime degli alberi e i tetti delle case. L’acqua, nella sua furia inarrestabile, aveva invaso tutto fino al primo piano, le finestre erano sfondate, i cancelli di-velti, mentre le auto, trascinate via, si erano accumulate più a valle contro un muretto rimasto miracolosamente integro, come tante carcasse senza vita. Quando vide sfilare davanti a sé la barca della protezione civile che faceva la spola per portare in salvo le persone in-trappolate nei piani alti delle proprie case, per la prima volta Maria si rese conto dell’entità della tragedia. Sarebbe potuto succedere di notte, mentre tutti erano in casa, oppure quel pomeriggio, quando i bambini, tornati da scuola, sarebbero

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probabilmente stati al piano terra a guardare la televisione.Forse, dopotutto un po’ di fortuna l’aveva avuta. Chiamò suo marito perché la raggiungesse lì e sua madre pregandola di tenere i bambini per quella notte. Dopo altre quattro ore l’ondata di piena cominciò a deflui-re, anche se lentamente; restarono svegli tutta la notte, sotto il riparo messo a disposizione dalla protezione civile, ad osser-vare quello strano lago fuori posto che circondava casa loro e il cui livello finalmente cominciava a scendere. Solo all’alba ottennero il permesso di scendere verso il pa-ese, verso casa. Le strade si erano trasformate in fiumi di acqua e fango. Mentre avanzava, stringendo la mano del marito per farsi for-za, con l’acqua che le arrivava alle caviglie, non poteva fare a meno di guardare le case come la sua, vedeva il fango uscire dalle finestre al piano terreno lasciandosi dietro una scia di melmosa desolazione. Quando arrivarono al portone di casa erano entrambi ba-gnati fino alle ossa; con mano tremante Marco apri la porta d’ingresso, un’ondata di acqua fangosa, finalmente libera dalla sua prigione, si riversò su Maria, che cadde a terra malamen-te. Accanto a lei passarono alcune delle sue cose; la scarpina di ceramica sulla credenza al piano terra, il piccolo quadretto all’ingresso e la cornice con la foto del suo matrimonio. Pre-se la cornice e la fissò. Era troppo. In quel momento tutta la tensione accumulata in quella incredibile notte di veglia le cadde addosso come un macigno. Scoppiò in lacrime, mentre cercava di ripulire la foto dal fango; ma le sue mani erano spor-che, quindi ogni volta che sfregava la sporcava ancora di più, e più la sporcava più si affannava freneticamente per ripulirla. Come se da quel gesto dipendesse la sua vita. Il marito le si chinò accanto, prese delicatamente la foto dal-le sue mani e la ripulì con un fazzoletto prima di restituirgliela, lei sollevò il viso e gli restituì uno sguardo pieno di gratitudine.

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In quel momento lui le si accucciò accanto e l’abbracciò. Rimasero così per diverso tempo, in silenzio, confortando-si con la reciproca presenza. Sotto una pioggia, che, sebbene meno intensa, ancora non cessava di cadere. Chiamarono il lavoro avvisando che non sarebbero andati quel giorno, ma probabilmente neanche quello successivo. Poi ispezionarono la casa per valutare i danni, i piani superiori era-no agibili, perciò si cambiarono. Indossare degli abiti asciutti era meraviglioso, sembrava tutto un po’ più facile; il tempo di piangere era finito, ora c’era bisogno di reagire, di rimboccarsi le maniche. Stavano ripulendo la cucina quando udirono una voce. “Maria, ci sei?” Chi la chiamava? Non riusciva a riconoscere la voce, non sembrava una dei vicini; la donna lasciò quello che stava fa-cendo per uscire in strada, lo spettacolo che le si parò davanti la lasciò senza parole. Davanti a lei, illuminate da un pallido raggio di sole che finalmente faceva capolino dalle spesse nuvole, il primo dopo tre giorni di pioggia, le ragazze del cantiere sorridevano. Con gli stivali bianchi e le cerate gialle con lo stemma Coopservice, spiccavano in mezzo a tutta quella desolazione, come angeli in mezzo al fango. “Siamo venute a dare una mano...” disse Anna con il suo accento slavo, facendosi portavoce del gruppo, “Paola ci ha prestato questo” continuò indicando il grande aspira liquidi arancione che usavano per le sgrossature in cantiere. “Io…io…non so cosa dire... ragazze...non dovevate...” “Non dirlo neanche per scherzo, certo che dobbiamo! Sia-mo una cooperativa, se non ci aiutiamo fra di noi!?” alzò le spalle e allargò le mani in un gesto che valeva più di mille parole. Un mormorio di approvazione si sparse tra le ragazze. Anna tese una mano, Maria la prese e non poté più tratte-

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nere il pianto. “Grazie...” mormorò tra le lacrime, “Grazie...”.

Questa storia è liberamente ispirata ad un episodio raccontatomi dalle colleghe dell’ospedale di S. Bonifacio (Vr) dopo l’alluvione che ha colpito il Veneto nel 2010. I nomi sono stati volutamente cambiati perché la storia qui raccontata è solo un esempio dello stra-ordinario spirito dei soci Coopservice. Eventi analoghi mi sono stati riferiti anche all’indomani delle alluvioni di La Spezia e Genova del 2011(ADS).

Alessia De Santis, 34 anni, Parma, in Coopservice dal 2006

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Mi chiamo S.N. Raissy, sono nato a Gorgan, in Iran, il 12 ottobre 1953 o meglio questa è la data che ufficialmente appa-re nei documenti poiché, causa un errore di conversione (che ancora stento a comprendere) erroneamente venne trascritta quella. In realtà sono nato il 12 febbraio di quell’anno.

Ho deciso di partecipare a questo concorso, pensando mol-to a cosa scrivere e su come cominciare. Mi sono venute in mente molte domande che mi sono state fatte negli anni da amici, conoscenti e colleghi di lavoro che ho deciso di ripor-tare qui la loro curiosità, insieme alle mie risposte.

Le principali domande che mi venivano rivolte riguarda-vano il significato del mio nome e cognome; il nome esatto del mio paese, se fosse Iran o Persia e quale dei due fosse il più antico; quali fossero le abitudini degli iraniani; come fosse una giornata tipo iraniana; come fosse la mia città natale; perché fossi emigrato dall’Iran e perché avessi scelto proprio l’Italia (qualcuno sottintendendo che sarei anche potuto non veni-re); cosa avessi fatto in Italia; perché ci fossi rimasto; quali lavori avevo svolto; quale stessi svolgendo ora. In particolare sull’ultimo, cioè guardia particolare giurata (G.P.G.), doman-dandomi come mi fossi avvicinato alla Coopservice e magari se avessi potuto, raccontare qualche aneddoto divertente.

“E buonanotte ai sognatori” *Seyed Nematollah Raissy

* Secondo classificato - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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Raccontare tutto a voce, parlando, è una cosa, ma scrivere diventa molto impegnativo, cercherò dunque di essere all’al-tezza del compito anche se difficile.

Il mio nome completo è Seyed Nematollah. Seyed in arabo significa Signore, Nobile. Questo sopran-

nome fu dato all’eroe spagnolo El Cid (in realtà inizialmente era proprio Seyed) dopo che aveva salvato la vita di due emiri arabi, governanti nella Spagna di allora. Nel mondo Islamico Sciita ed in tutta l’Iran, Seyed ha un altro significato: tutti i discendenti del Profeta, da parte di sua figlia Fatemeh (la pace del Signore sia con lei) vengono chiamati Seyed (nel clero sciita, coloro i quali indossano il turbante nero sono tutti Seyed!). Nematollah significa dono (Nemat) di Dio (Allah); Deodato dunque. Raissy deriva da Rais che significa Presiden-te, Capo mentre la “y” finale indica “di” (sarebbe come De o Von). Se fossimo in televisione concluderei dicendo: “Non sono mica micio micio e bao bao!”.

Il nome esatto del mio paese, o meglio, il più antico, è Iran, “terra degli Ariani”. Furono infatti proprio gli Ariani del nord Europa a dare questo nome al nostro altipiano. Gli Ariani emigrarono per ben due volte nell’altipiano Irano-Indiano: la prima volta quattromila e la seconda tremila anni fa. Una parte di questi restò in Iran ed un’altra in India. Ecco perché veniamo definiti Indo-Europei. (A proposito, i cosiddetti “Pa-dani” razzisti, conoscono la storia? Secondo me sono ignoranti in materia e mancano di intelletto e materia grigia). Furono invece i greci a rinominare l’Iran, Persia. I regnanti di allo-ra (cito Dario e Ciro ma ce ne sarebbero altri) erano della regione Sud-Ovest, chiamata Pars, oggi Fars. La capitale del regno di Dario fu chiamata Persepolis. I romani (durante l’e-ra dell’Impero Romano) ci chiamarono Part o Parti poiché i regnanti di allora provenivano dalla regione Nord-Est (chia-mata Part). Poi divenne di nuovo Persia, poiché i sassanidi venivano dalla regione di Pars. Infine, il padre dello scià Reza

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Pahlevi nominò di nuovo la mia terra Iran, nel 1935 davanti alle Nazioni Unite.

La giornata tipo invece inizia con la sveglia impostata sul-la base dell’inizio dell’orario del lavoro. Si fa una colazione a base di tè, zucchero, pane, formaggio, miele, marmellata, bur-ro e latte (è una ricca colazione, che ovviamente non tutti si possono permettere); naturalmente si fanno tutte quelle cose riguardanti l’igiene personale: ci si lavano faccia e denti, si fa la doccia... Poi si procede chi verso il lavoro, chi la scuola, i più piccini l’asilo o le scuole materne (che sono per la maggio-ranza private). Poi si rientra in casa per il pranzo la cui base è sicuramente il riso con variante di condimenti (sughi, ragù…) e contorni a base di yogurt, insalata e pane. Al pomeriggio, i dipendenti di ditte private rientrano al lavoro, per poi arri-vare alla cena. Durante il tempo libero ci si diverte con varie attività quali hobbies, sport (calcio, pallavolo, tennis, corsa, camminata...), lettura, TV, cinema, teatro (meno), ascoltare musica e ballare (anche se di solito si fa nel privato poiché, con l’attuale regime, non sono ammessi luoghi quali discote-che, disco-dinner e simili).

La mia città natale si chiama Gorgan ed è antica di ben settemila anni, quando ancora il mar Caspio prendeva il nome dalla città stessa. Furono proprio i miei concittadini ad innalzare le prime bandiere rosse nel mondo, come simbolo di rivolta contro i Califfi Abbassidi di Baghdad all’incirca 7-8 secoli fa.

Mi si domanda poi perché sono uscito dall’Iran e come mai sia venuto proprio in Italia (ribadisco che per qualcuno signifi-cava: “se non fossi venuto, sarebbe stato molto meglio!”). Beh, l’emigrazione nasce quasi sempre da una necessità: lavoro, po-litica, non trovarsi bene nel proprio paese e studio; nel mio caso fu proprio questo il motivo: la necessità di studiare. In Iran, sia ai tempi dello scià sia dopo la rivoluzione l’università era ed è a numero chiuso. Per accedervi è necessario parte-

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cipare ad un concorso, a livello nazionale, e per superarlo è necessario ottenere massimi voti (oltre l’otto). Al concorso, quell’anno, parteciparono trecentomila studenti ed i posti va-canti solamente diecimila per tutte le facoltà (non bastavano più solo gli ottimi voti). Io volevo studiare medicina ma nono-stante i miei ottimi voti, non ce la feci a superare il concorso. Scelsi l’Italia per due motivi: il primo economico; il secondo l’amicizia. Vi erano infatti molti miei concittadini giunti in Italia, per lo stesso motivo, nell’ottobre del 1974. Eh sì, sono ormai ben 38 anni! La mia permanenza in Italia è stata poi motivata da altre ragioni: la politica ed il matrimonio con una bellissima scandianese (abitante di Scandiano, paese in pro-vincia di Reggio Emilia ndr). Fu per gli stessi motivi politici che decisi di cambiare facoltà, dirottando i miei studi (dopo aver studiato Medicina a Ferrara) su Scienze Politiche indi-rizzo Sociale, laureandomi nel marzo 1982 all’Università degli Studi di Padova.

Nel 1986 riuscii ad acquisire la cittadinanza Italiana, per mia espressa volontà secondo conoscenza e coscienza, dopo aver studiato la Costituzione Italiana e superato l’esame con un bel 28/30 (questo vale la pace dell’anima dei “padani”?).

I miei lavori? Nonostante i miei studi: operaio, metalmec-canico (Zincatura Padana a Corte Tegge di Cavriago), ma-gazziniere, rappresentante porta a porta, operatore alla Casa Albergo comunale per la prima accoglienza degli immigrati a Reggio Emilia, mediatore ed animatore culturale per la Coop Consumatori Nord-Est per le scuole di vari livelli (materne, elementari, medie inferiori, medie superiori). Per le scuole materne ed elementari: “Tutti i gusti sono giusti” metteva in risalto le diversità alimentari adducendo che la diversità non è altro che ricchezza. “Prodotti del sud e consumi del nord” dove per nord e sud si intendevano quelli del mondo stesso. Il percorso era rivolto alle scuole medie inferiori e aveva lo sco-po di togliere il pregiudizio mentale che i paesi del sud o terzo

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mondo debbano essere necessariamente poveri, anzi. I ragazzi, arrivavano da soli a comprendere le motivazioni per cui i paesi del sud sono poveri nonostante le loro ricchezze alimentari (caffè, tè, cacao, frutta, tutti alimenti consumati nel nord) e minerarie (petrolio, gas, oro, argento, avorio, platino).

Con la simulazione del mercato globale i ragazzi compren-devano da soli i veri motivi di questa classificazione.Per chi lo volesse sapere, per essere definito paese del nord occorre avere punti molto alti in materia di: reddito pro capite annuo; indice di alfabetizzazione del Paese; aspettative di vita.Nei paesi del nord del mondo sono nell’ordine (mediamente):35.000 $ reddito pro capite annuo; 98% indice di alfabetizza-zione; oltre 80 anni; aspettative di vita.Ovviamente basta non raggiungere uno di questi punti per es-sere declassati a “Sud del mondo”.

Per i ragazzi invece delle scuole medie superiori il percorso si concentrava sul ruolo dei paesi del Sud nella moda. Questa mia attività è durata fino al 2008 ed ho smesso perché la nuo-va cooperativa subentrata alla precedente mi voleva sfruttare! Per poter svolgere questa attività, che si sviluppava al mattino, necessitavo di trovare un’occupazione che me ne lasciasse il tempo; venni così a conoscenza, tramite amici, della nostra Cooperativa. Nel settembre 1998 entrai a far parte di questa grande famiglia, ci misi ben due anni, ma alla fine ci riuscii!

Tutto questo tempo perché l’allora responsabile aveva delle perplessità sul fatto che potessi fare la guardia vista la mia pro-venienza (Iran, Medio Oriente). Poveretto!

C’è voluto il “coraggio” dell’attuale direttore del nostro set-tore per essere assunto e gli sarò sempre grato per questo.

Io, per contro, non l’ho mai deluso, anzi, è sempre stato molto contento di me, me lo conferma egli stesso. Ne sono come certo, anche perché me l’ha detto egli stesso varie volte.

Alcuni aneddoti avvenuti in questi anni di servizio? La prima sera ci hanno detto di andare alla “PF 11” A.C.T. fer-

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roviaria. Io non sapevo nemmeno dove fosse e ci ho messo ben mezz’ora a trovarla! Il collega (che ormai ha raggiunto la pensione) dopo averci accolto (eravamo in due), cominciò a spiegarci cosa dovevamo e non dovevamo fare. Ogni volta che finiva di spiegarci una cosa concludeva con un “buonanotte sognatori” ed io ridevo, dentro di me, per questa sua conclu-sione. Solo più tardi capii che non era “buonanotte sognatori” bensì “buonanotte ai suonatori” che si usa quando si vuole concludere un racconto. Poc’anzi scrissi che all’accoglienza eravamo in due; beh, il giorno seguente il collega si è dimesso!

Certi colleghi, all’inizio del mio servizio, pensavano che io avessi studiato filosofia. Non riuscivo a capire il perché di que-sto pensiero fino a che un giorno, un collega me lo spiegò. Una delle prime notti di servizio scrissi sul registro questa frase: “Si dice ‘meglio soli che male accompagnati’ ma chi l’ha scritto non sapeva il significato della parola solitudine”. Leggendo questa frase, conclusero che io fossi esperto di filosofia.

La maggior parte dei miei servizi è stato ed è svolto presso le Cantine Riunite di Campegine. In tutti gli anni di servizio in questo luogo, non mi sono capitati molti eventi particolari; l’unico fu un incendio nel dicembre 2011. Come sempre, ver-so le 23 andai a fare l’ultimo controllo delle macchine, delle centrali frigorifere ed idriche e delle autoclavi. Non riscontrai nulla di anomalo ma mentre riportavo l’esito dell’ispezione sul registro sentii alcuni strani rumori, uscii dall’ufficio per con-trollare che non ci fosse nulla di anomalo. Rientrando nell’uf-ficio vidi una scia di fumo grigio lungo la scala del primo piano, salii per vedere da dove proveniva e cosa stava succedendo. Non appena scattò l’allarme vidi il fuoco negli uffici contabili! In quel preciso istante arrivò il collega per il cambio turno e, non appena mi chiamò gli dissi di prendere immediatamente l’estintore e di raggiungermi negli uffici contabili. Lui corse e riuscimmo a spegnere l’incendio, gettando anche acqua sui fogli e sui quaderni per evitare l’espandersi delle fiamme e mi-

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nimizzare i danni. Scendemmo per lavarci la gola, il naso e le mani. Eravamo coperti di fumo nero fino nei polmoni ma prendemmo sicurezza ed avvisammo via radio. L’iter prevede di chiamare il 115 e di attendere, inerti, i soccorsi. Decisi, ed il mio collega mi seguì, di ignorare il regolamento e di inter-venire, a nostro rischio e pericolo perché l’unico pensiero che avevo era quello di limitare i danni al cliente per il quale, in quel momento, prestavo servizio.

Ps: per la mia famiglia, dopo questo gesto coraggioso, sono diventato un Supereroe, quasi come Iron Man!

Ora lascio questo mio breve riassunto di vita concludendo che grazie ai servizi prestati come G.P.G alle Cantine Riuni-te e al CIV sono diventato, da buon Musulmano, un grande esperto di vini e buonanotte ai suonatori (o ai sognatori?).

Seyed Nematollah Raissy, 59 anni, Reggio Emilia, paese d’origine Iran, in Coopservice dal 1998

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Questa storia e racconto di vita ha inizio più di ventisei anni orsono quando un giorno come tanti altri io, giovane donna da poco disoccupata, ricevo la telefonata della mia vi-cina. “Abbiamo preso un grosso appalto – mi dice – e stiamo assumendo personale; so che non è certo quello che facevi pri-ma – infatti io dipingevo, modellavo, cucivo, lavoravo resina e sapone, insomma creavo oggetti da regalo – ma se vuoi un posto c’è”.

E così inizia il mio percorso in cooperativa. Era l’anno 1985, l’azienda, di Parma, si chiamava Cooperativa Operaia 78. Di buon mattino mi presento davanti al Teatro Regio, ma non per assistere all’Aida o a qualche concerto dell’Orchestra Toscanini, ma assunta per un tempo limitato a pulire palchi e platea.

Non posso scordare il mio primo giorno, quando una si-gnora sulla cinquantina, ben in carne e con un camice color fucsia, chiede con tono austero: dove sono le nuove assunte?

A poco a poco ci avviciniamo tutte a lei, che avevamo ca-pito da subito sarebbe stata il nostro mentore e, con fare ti-mido, alziamo la mano. La donna, che di nome faceva Rina, comincia a impartire disposizioni, indicandoci una ad una.

“Tu prendi l’aspiratore e vai ad aspirare le poltrone in pla-

La capra nel foyer *Mara Balocchi

* Terzo classificato ex aequo - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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tea, tu vai con le altre a lucidare quegli ottoni, e tu piccolina – puntando il dito verso di me – prendi la capra e vai nel foyer”.

Io rimasi immobile quasi paralizzata dalla paura. Sapevo cos’era il foyer ma, francamente, non vedevo nei paraggi nes-sun animale né tantomeno capivo cosa avrei dovuto farci con una capra. Allora Rina con tono deciso e non troppo cordiale mi urla: picina et capì?“Ma scusi – le rispondo – cosa dovrei farci con una capra nel foyer?” E lei, ormai al limite: scopare tutti i pavimenti, cos’al-tro se no?

Continuavo a non capire e la paura aumentava, sicuramen-te alimentata dai volti di tutte le altre colleghe che mi guarda-vano come se pensassero: questa è tonta. A quel punto, dicendomi tra me e me che non sono tonta, ma che più semplicemente ignoravo il mestiere, mi giro verso Rina e le chiedo se può farmi vedere in concreto di cosa si tratta. Scopro così che la capra non è altro che un attrezzo metal-lico ricoperto di un tessuto a frange arrotolato che, passato sul pavimento, attira la polvere per un effetto chiamato energia statica.

Iniziai a ridere. “E io che pensavo di dover strofinare il vello di un animale sui pavimenti di una stanza dove si va a fuma-re!” dico alle colleghe. Ne avevo di cose da imparare! E tante in tutti questi anni ne ho apprese e di storie vissute in cantiere ne avrei talmente tante da riempiere un tomo.

Nel tempo, da operatrice sono passata a essere io la Rina di turno e tutto ciò che lei mi aveva insegnato, ora ero io a doverlo trasferire alle novizie, a loro ho spiegato non solo l’ar-te del saper fare, ma del fare insieme, con il piacere e la gioia che solo il lavoro di gruppo sa dare, attraverso innanzitutto il rispetto delle persone e delle regole. Sicuramente il lavoro di

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squadra più bello fu quando la direzione mi incaricò di coor-dinare e organizzare tutte le pulizie del Palazzo Ducale di Co-lorno, prima di un’importante evento, la “Mostra dei Farnese” che si tenne nella primavera del 1995.

Ci consegnarono un’ala del Palazzo completamente abban-donata, dove ragnatele, polvere, calcare erano i soli abitanti di quelle preziose stanze. Per noi tutte, vedere ogni giorno il risultato del nostro duro lavoro, ci faceva sentire quasi degli archeologi e come tali sco-prire che sotto allo sporco vi erano mosaici preziosi o legni finemente intarsiati, ci faceva davvero emozionare.

Eravamo diventate, a dire di tutte, non le donne delle pu-lizie, ma le restauratrici del Palazzo Ducale. Persino lo stupore del professor Gherpelli, che alla sera veniva a vedere i risulta-ti, ci lasciava senza fiato e orgogliose del nostro operato.

Settimane e settimane trascorse così, a pulire, a raschiare in ginocchio come tante Cenerentole, e sicuramente i locali che ci ospitavano erano davvero principeschi, ricordo che si ride-va e si sognava pensando a quante giovani dame con quegli abiti così voluminosi da passare appena dalle porte, avevano calpestato quei pavimenti che ora toccava a noi lucidare. Alla fine però fu un successo inaspettato, quella che mesi prima era un’ala desolata di una reggia tornò a risplendere ed a regalare la bellezza dei suoi dipinti, degli stucchi e di quei lampadari a gocce che giorni prima avevamo pulito, passandoli tra le dita come un rosario in preghiera e avendo cura di trattarli come piccoli diamanti non per il valore economico ma sicuramente storico.

Per me la vera sfida però doveva ancora avere inizio, infatti da quel momento la tranquillità di quelle mura si trasformò velocemente in un gran bazar.

Falegnami, stuccatori, pittori, elettricisti, montatori, tap-pezzieri, fioristi e chi più ne ha più ne metta, erano giunti al Palazzo e tutti dovevano lavorare e tutti erano di intralcio uno

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all’altro. Insomma era diventata una vera Babele!Ricordo che il collega Tiziano Tinti, che si occupava della

sicurezza della mostra, con aria affranta mi disse: qui non ne usciamo vivi. Inoltre, un altro nemico era alle porte e bussava insistentemente, era il tempo! Dovevamo fare tutto, bene e in fretta, l’inaugurazione era vicina.

Decisi così, essendo noi l’ultimo anello di una catena che si doveva chiudere alla perfezione, di prendere in mano la situa-zione e con l’aiuto di Tiziano mi misi ad organizzare il lavoro di tutti, calcolando tempi per montare, illuminare stuccare sten-dere pedane rosse fiammanti ed alla fine pulire. Mi sentivo come un vigile ad un incrocio, prima tu, poi tocca a te, dopo lavorate voi insieme e così via. Giorno dopo giorno e a volte anche qualche notte, passata urlando, parlan-do, organizzando ma con la consapevolezza che rispettando il lavoro di tutti alla fine ne saremmo usciti vincenti. E fu dav-vero così.

L’inaugurazione fu un successo. Dagli ingressi principali pieni di fiori e di bandiere tricolore entrarono politici, critici d’arte, il prefetto, sindaci di vari Comuni, vip locali e naziona-li e dalle porte di servizio uscivamo noi, piccole donne sfinite, con le mani callose e screpolate, con i nostri attrezzi del me-stiere, aspiratori, monospazzole, scope, palette e quella che nel tempo era diventata una costante compagna, la capra.

Con Tiziano ancora oggi ogni tanto ricordiamo quei giorni di duro lavoro, che sono stati pienamente ricompensati dalla gioia e dallo stupore dei volti dei visitatori della mostra, che oltre ad ammirare gli splendidi dipinti, potevano ammirare stanze tornate alla bellezza di un tempo, con pavimenti così lucidi che le signore in sottana dovevano preoccuparsi.

L’esperienza vissuta è stata per me fondamentale nel mio percorso di vita e d’azienda. Ho imparato che il rispetto delle persone viene prima di tutto e che è solo lavorando insieme che si raggiungono obiet-

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tivi importanti.Spesso ci si dimentica che il Noi è meglio dell’Io! Adesso a

distanza di così tanti anni da allora, nonostante i miei attrezzi oggi non siano più scope e palette o la mia odiata e amata ca-pra, ciò che ho imparato l’ho trasferito nell’ufficio.

Ogn’uno di noi può dare il meglio se sa che quello che fa ha un obiettivo preciso, solo così ne troverà soddisfazione nel vederlo realizzato e ne condividerà con i collaboratori le sof-ferenze e le gioie nel realizzarlo. Il lavoro, qualunque esso sia, dà la possibilità ad ognuno di esprimersi, misurarsi e a volte sfidarsi. Per me è stato così.

Ecco perché alla mia Cooperativa chiedo non solo ricavi e profitti, ma di consentire a tante persone, attraverso il lavoro, un futuro di sogni e speranze per se stessi e per le generazioni che verranno. Il lavoro nobilita l’uomo, il troppo lo rende schiavo ma non averlo rende l’essere inutile alla società. E a tanti miei colleghi e a tutti quelli che disprezzano ciò che hanno, dico: ricordatevi sempre da dove venite, per me è così e ne sono fiera.

Mara Balocchi, 49 anni, Parma, in Coopservice dal 1992

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Quando vidi la locandina nella quale Coopservice dava vita a questa stimolante iniziativa, pensai che sarebbe stato in-teressante per i soci condividere esperienze e storie di vita la-vorativa diverse tra loro, in quanto nate in realtà sociali dove il rapporto tra cooperativa e territorio cambia e si arricchisce ogni volta dei valori e dei colori della diversità.

Ma quale poteva essere il mio contributo a questa iniziati-va? Di quale esperienza potevo rendere partecipi gli altri soci?

Non riuscivo facilmente a darmi una risposta che mi sod-disfacesse ma poi pensai che forse l’unica cosa che potevo rac-contare poiché la conoscevo profondamente e dall’interno era la mia di storia, la mia di esperienza: quel rapporto che si era creato tra Roberto e Coopservice dal suo inizio ad oggi e che, spero, continuerà nel futuro.

Il mio incontro con l’azienda avvenne nel 2003. Provenivo da un periodo non semplice dove una dura se-parazione giudiziale, la presenza di due figli adolescenti ed il definitivo abbandono degli studi universitari, con la tesi già assegnata, per dedicarmi completamente al lavoro e rispettare i miei doveri di padre separato, mi rendevano poco incline ad essere cordiale ed aperto con la gente restando scarsamente predisposto ai rapporti umani.

Il mio mattoncino *Roberto Gallozzi

* Terzo classificato ex aequo - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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In quel periodo collaboravo dall’esterno con una grande compagnia estera che si occupava dell’edificazione di cen-tri commerciali a livello nazionale ed europeo. Il modo ed il mondo nel quale svolgevo la mia attività erano diversi da come immaginavo: non peggiori o migliori, semplicemente “diversi”: una forte scala gerarchica dove le decisioni vengono prese dall’alto ed i collaboratori svolgono i compiti assegnati con un grande individualismo finalizzando tutto al solo rag-giungimento dell’obiettivo.

Il centro commerciale in costruzione sarebbe stato dotato di una sala controllo, gestita da un istituto di vigilanza che avrebbe curato anche l’intera sicurezza. Inviai un mio curricu-lum e dopo un breve periodo di tempo venni convocato per un colloquio iniziando così il mio cammino in Coopservice.

Le cooperative non godevano allora, almeno nell’area di Roma, di una buona fama: erano considerate poco affidabili come pagatori e restie nel versamento regolare delle contri-buzioni previdenziali oltreché instabili e sempre prossime allo scioglimento. Con questo animo “colmo di serenità e fiducia” nell’azienda cominciai a lavorare. La prima cosa che mi col-pì conoscendo i colleghi con maggiore anzianità di servizio era quel clima di cordialità, forse tipicamente romano, con il quale parlavano tra loro delle varie postazioni lavorative, scambiandosi le esperienze personali e dandosi suggerimen-ti e consigli su come svolgere al meglio l’incarico, nel caso di eventuali sostituzioni; all’inizio pensavo che ciò avvenisse solo tra amici ma poi notai che questa rete di informazioni ba-sata sul passaparola era un vero proprio mezzo di collaborazio-ne anche tra colleghi che magari non si frequentavano spesso. La cosa m’incuriosì e decisi di approfondire quella che era una mia conoscenza superficiale del mondo cooperativo.

Mi venne chiesto se volevo diventare socio ed accettai, devo dire con non pochi dubbi ma, per fugarli, l’unico modo era quello di vivere la realtà cooperativa dall’interno. Quan-

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do, in seguito, si presentò l’opportunità chiesi di far parte del Comitato soci di Roma venendo così a contatto con una real-tà sociale concreta e pulsante fatta di esseri umani, che lavora-no nella cooperativa e che formano il corpo della cooperativa stessa, alzandosi ogni mattina molto presto o in alcuni servi-zi, svolgendo il proprio turno di notte ed in ogni stagione, al freddo d’inverno e al caldo d’estate. Ed è in questa realtà che ho apprezzato quei valori di partecipazione e solidarietà che mi hanno fatto sentire parte di un insieme e non un lavora-tore isolato che deve eseguire passivamente ciò che gli viene ordinato: mi sono sentito considerato persona con diritto di esprimere la mia opinione su quello che è anche mio, esse-re protagonista in maniera responsabile della vita della mia azienda consapevole che il mio comportamento dannoso col-pisce anche gli altri lavoratori. Questo non significa che sia sempre tutto semplice: la co-operativa è fatta da persone con un vissuto unico, originale e diverso, noi che ci lavoriamo siamo esseri umani con propri limiti ed aspirazioni tutte legittime finché rispettose della di-gnità dei nostri colleghi; ed a ciò non si sottrae neanche la dirigenza sia quella di filiale che nazionale.In quasi dieci anni di lavoro ho condiviso momenti difficili, capaci di dilaniare l’identità stessa di Coopservice: ma quan-do nelle assemblee si è fatto riferimento alla comunità ed ai valori dei soci per cogliere quelle indicazioni che potevano essere utili per prendere importanti decisioni, non ci si è mai sbagliati, come l’unità e la solidarietà che si sono manifestate per la scelta di una nuova dirigenza (nazionale e locale) capa-ce di rappresentare le nostre aspettative in un momento così drammatico come quello attuale. L’idea di solidarietà, il lavoro del singolo finalizzato al buon andamento del gruppo aziendale e quindi al successo di tutti, il mio impegno unitamente a quello dei colleghi che con me condividono l’esperienza del Comitato soci, il ritrovarsi insie-

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me anche nei momenti di allegria durante le gite in montagna e la consapevolezza che lo svolgimento responsabile del mio lavoro possa rappresentare un mattoncino in più nella costru-zione e nel consolidamento di un progetto comune, mi ha aiu-tato ad uscire dalla palude dell’isolamento morale nella qua-le stavo lentamente sprofondando e se a qualcuno pare poca cosa, per me ha fatto la differenza.

Roberto Gallozzi, 53 anni, Roma, in Coopservice dal 2003

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Ho letto la traccia del concorso diverse volte, ma non sono sicura di come debba impostare il mio racconto. La mia per-plessità nasce dal fatto che conosco molte persone meritevoli d’encomio e gli episodi che mettono in luce i contributi forniti alla soluzione di problemi o alla soddisfazione di esigenze dei clienti e/o della comunità, a dire il vero, sono all’ordine del giorno. Non è un fatto eccezionale che tutti si prodighino per tenere in piedi la “baracca” (come verrebbe definita Coopser-vice dai vecchietti che, ogni santa mattina, che piova o che ci sia il sole, chiacchierano in piazza Grande, all’ombra della Ghirlandina!).

Ci sono i colleghi dell’ufficio servizi che, quando devono uscire le quindicine, il più delle volte restano fino a sera inol-trata, senza pretendere nulla in cambio.

Ci sono i responsabili dell’organizzazione che, con estre-ma umiltà e tenacia, cercano di accontentare le richieste dei clienti (a volte anche assurde) e di farle combaciare con le esigenze dei dipendenti (che non sempre giocano per la stessa squadra!).

C’è la responsabile della filiale che deve giostrarsi, come un abile giocoliere circense, tra mille problemi, richieste, doman-de e risposte...e lo fa col sorriso e il tacco 15!

Una famiglia allargata *Francesca Biagini

* Menzione speciale - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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C’è la collega dell’amministrazione, (per la quale, lo am-metto, ho una vera e propria devozione), che ha la caparbietà di voler trovare le soluzioni a tutti i problemi che le si pre-sentano, puntuali come una cambiale, tutti i giorni. Ci sono i colleghi della sala radio, che battibeccano come vecchie co-mari, ma che, in fondo, si stimano e collaborano con impegno costante, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno.

Ci sono i responsabili del trasporto valori e degli zonisti che devono coordinare quotidianamente un gruppo di lavoratori piuttosto nutrito ed eterogeneo, che hanno tanti chilometri di strada sotto le scarpe e sulle spalle e, nonostante tutto, non si lamentano del viaggio. Ci sono i ragazzi della sala conta, chiusi nel loro ambiente (a mio avviso claustrofobico), quasi fossero una specie protetta dal WWF, per tutelare gli interessi delle banche e dei “grossi” clienti. Di certo sto dimenticando qualcuno di altrettanto impor-tante, ma come si fa a sceglierne solo uno?

All’inizio io avevo una mia idea, ma la persona che avevo chiamato in causa ha preferito restare parte di un gruppo.

Essere “solo” uno dei tanti.Fa più rumore un albero che cade o una foresta che cresce?

Certo il gesto eclatante ha molta evidenza e se ne parla per parecchi giorni ma, alla fine, è nel quotidiano che viene fuo-ri il carattere, che si scopre l’identità di una persona o di un gruppo di lavoro.

Perché è questo che, alla fine, ci contraddistingue: si lavora in squadra e tutti lo fanno con impegno ed estrema umiltà. Se prendo il dizionario e cerco la definizione di “cooperativa”, leggo: associazione che, basandosi sulla collaborazione di più soci, assicura loro speciali vantaggi. Ed è questo lo spirito che dovrebbe animare ciascuna filiale.

Non c’è un solo albero, ma una foresta intera, fatta di gio-vani arbusti, ancora troppo fragili ma con la voglia di crescere,

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di pini e abeti che, magari, si fanno notare solo a Natale, di sequoie, forti nella loro corteccia rugosa, c’è qualche quercia secolare, che rassicura con la sua ombra, ci sono anche i salici piangenti, che si lamentano ma che, alla fine, fanno il loro dovere. Purtroppo, come in tutti gli ambienti variegati, nel mucchio c’è anche qualche pianta carnivora che crea un qual-che scompiglio.

Eppure la foresta cresce, fornisce ossigeno, aiuta l’ambiente che la circonda, con caparbietà e tenacia. Resiste nella calura estiva e ripara dalla morsa del gelo invernale. In mezzo a tante persone, con tante vicende e storie vissute, avrei potuto tro-vare molti aneddoti divertenti, da riportare fedelmente qui, ma gli eventi recenti mi hanno portata a scegliere un racconto più personale, un racconto che ha coinvolto tutti noi in prima persona.

Tutti sanno del sisma che ha colpito la nostra provincia il 20 maggio scorso, ma non tutti sanno che i danni maggiori sono stati provocati dalle scosse successive, quelle del 29 mag-gio. Tre scosse, una alle 9, una alle 12.58 ed una alle 13.00 che hanno dato il colpo di grazia a quelle strutture che avevano miracolosamente retto la prima volta. Lo scempio causato è sotto gli occhi di tutti, eppure, credetemi, non è abbastanza, non è nulla, in confronto alla realtà che da allora si vive quo-tidianamente.

Il nostro tipico spirito goliardico è stato inghiottito dalle crepe del terreno, che si sono portate dietro anche una buona parte di vita di ognuno di noi. In questo frangente ho visto le reazioni di molti colleghi. Alcuni hanno perso il sorriso, sostituito da una determina-zione sorprendente, pur di non farsi abbattere da questa trage-dia. Altri hanno continuato a lavorare senza posa, perché il loro senso del dovere è andato oltre la paura. Perché sentivano che era giusto così.

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Altri hanno avuto un cedimento, umanamente comprensi-bile, seguito da un recupero di dignità e di voglia di non soc-combere, che mi ha colpita.

Anche i clienti hanno dovuto affrontare le conseguenze del sisma.

Chi era già in difficoltà ha chiuso i battenti, la maggior parte ha fatto buon viso a cattivo gioco e s’è rimboccata le maniche. Dopo le tre scosse che hanno fatto tremare la terra e l’a-nima di tutti noi, un cliente in particolare ci ha chiamati, chiedendoci di accompagnarlo a fare un sopralluogo delle sue strutture. Per ovvie ragioni di privacy non posso dire il nome, si sap-pia solo che è uno di quei clienti “grossi”, che ha tante struttu-re, che ha obblighi di procedure e di “gerarchie” da rispettare. Eppure, nel momento del bisogno, il loro responsabile non ha seguito la normale procedura, ma ha preso in mano il tele-fono ed ha chiamato direttamente uno dei nostri responsabili, in prima persona. Perché sapeva di potersi fidare. Credo che la fiducia di un cliente non si possa comprare con una stretta di mano, ma sul campo. Ed è questo che fanno i miei colleghi. Ci mettono la faccia, ci mettono il cuore.

Se uno di loro promette qualcosa, puoi star certo che farà il diavolo a quattro pur di mantenere la parola data. Ed anche quel pomeriggio le aspettative del cliente sono state mantenu-te. Uno di noi è andato personalmente a fare i sopralluoghi, consapevole del rischio che correva. Perché quando ha rispo-sto all’appello del cliente, ha sentito che, dall’altra parte della cornetta, non c’era solo “un cliente”, ma c’era una persona. Una persona impaurita che chiedeva aiuto. E qui nessuno abbandona chi chiede aiuto.

È passato un mese, da quel maledetto terremoto. La paura ci accompagna ad ogni passo, ad ogni alito di vento che sem-

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bra portatore di sventura. Per fortuna possiamo contare su tante brave persone che, oltre ad un aiuto concreto, ti sanno dare il coraggio di guarda-re avanti col sorriso e con cuore più leggero. Perché per queste persone Coopservice non è solo il posto dove si lavora, ma una seconda famiglia. Una famiglia vera.

Certo non sono sempre rose e fiori. In famiglia a volte si litiga, ci si arrabbia, si sbattono porte. A volte qualcuno se ne va, molto più spesso, come un figliol prodigo, qualcuno chiede di tornare. Ma alla fine, in famiglia si fa sempre pace, magari davanti ad una tigellata in sala riunioni, dove tutti portano qualcosa da condividere con gli altri (ebbene sì, abbiamo fatto anche questo!) e dove tutti, la sera, tornano a casa con qualcosa in più: la pancia piena ed il cuore colmo d’affetto, per questa paz-za famiglia allargata che è Coopservice!

Non ho la presunzione di pensare che questo mio testo possa vincere un qualche premio ma, nel caso fosse ritenuto degno di nota, l’e-ventuale premio verrebbe consegnato (siamo già tutti d’accordo) ad uno dei nostri colleghi che, tra i tanti, è stato particolarmente colpi-to dal sisma, che ha vista distrutta la sua casa e, nonostante tutto, continua a presentarsi puntuale ogni mattina, per svolgere il suo lavoro con lo stesso impegno e coraggio di sempre. Chapeau! (FB)

Francesca Biagini, 42 anni, Modena, in Coopservice dal 2006

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Salve a tutti, mi presento, sono la socia Adriana e sto per narrarvi una bella esperienza che ho vissuto nell’ambito lavo-rativo. Anzi, voglio essere più precisa: premetto che per rag-giungere il mio posto di lavoro mi servivo dell’autobus numero nove. Ed è qui che si svolge la storia che sto per raccontarvi.

Che bei ricordi! Come per tutte le mie care colleghe anche per me la sveglia suona abbastanza presto, sono quindi ancora un po’ assonnata quando ogni mattina mi affretto per raggiun-gere la mia fermata dell’autobus.

Un bel giorno, mentre penso al freddo e alla nebbia, salgo sull’autobus e voltato lo sguardo chi trovo? Proprio la mia col-lega dove io lavoro; ho dimenticato il freddo oppure insieme io e lei l’abbiamo condiviso, mah, comunque parla parla e sia-mo già arrivate. Ho scoperto tante cose di lei della sua cultura, non essendo italiana. Del suo modo di essere, di quanto lavora fuori e den-tro casa, ma chi l’avrebbe mai detto? Ma non è tutto; da quel giorno il nostro incontro è diventato come un appuntamento fisso.

Un giorno però abbiamo visto un volto nuovo nel fantasti-co autobus numero nove, così abbiamo esteso il nostro calore anche a lei, un’altra straniera, dalle lontane filippine; un’ in-

Sull’autobus del sorriso *Adriana Cinque

* Menzione - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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fermiera, pensate, che però svolgeva tutt’altro lavoro. Anche con lei abbiamo condiviso i nostri problemi di mamme e don-ne lavoratrici, facendoci coraggio l’una con l’altra.

Ma quanta povertà esiste in quelle terre! Forse quel giorno abbiamo apprezzato di più il nostro lavoro, la nostra terra e quello che abbiamo.

Beh! Un’altra si era unita ai nostri sorrisi. Ma c’è dell’al-tro!

Sullo stesso autobus viaggiava un altro personaggio, una ra-gazza africana che parlava poco ma ascoltava le nostre conver-sazioni. Mi chiedevo: perché non parla e non sorride con noi?

Abbiamo scoperto che lavorava molto ed era tanto stanca, però alla fine ce l’abbiamo fatta, siamo riuscite a strappare un sorriso anche a lei. A volte mi fermo e ripenso a quei momen-ti, dove capivo che la vita non è sempre facile per qualcuno di noi. Ma quanta forza e quanto coraggio in quegli occhi an-cora un po’ chiusi dal sonno. Con tanta voglia di affrontare la vita!

Lasciatevelo dire, le donne sono proprio un grande esercito.

Adriana Cinque, 45 anni, Modena, in Coopservice dal 2006

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È sempre difficile iniziare un racconto di vita che dura or-mai da ventitré anni; eh sì; perché la prima volta che ho messo piede in quella che sarebbe stata la mia prima esperienza di cooperativa, risale al settembre 1989, zona Spinaceto, Roma, uno dei tanti quartieri dormitorio della città, di fronte c’era un gruppo di case dello IACP.

L’ufficio era situato in uno di quei centri commerciali in cemento armato, costruito anche quello nel periodo più red-ditizio delle imprese di costruzione. Quartieri decisamente freddi, inanimati, terrificanti, imbrattati dalle scritte con co-lori funebri; i ballatoi usati durante la notte come ritrovo dei tossicodipendenti, tanto da costringere i condomini a mettere dei cancelletti con le chiavi all’ingresso di ogni scala esterna.

La mattina quando arrivavo trovavo siringhe dappertutto, una volta ne infilzarono una persino sulla porta a tarda sera mentre ero in ufficio. Ho trascorso molto tempo da sola in quel luogo eppure non avevo paura, anzi quando ce ne siamo andati, ho provato tanta tenerezza per quell’abbandono.

L’aver scelto di lasciare un lavoro a pochi passi da casa e andare a sessanta chilometri più lontano per realizzare il mio grande sogno, mi dava la forza di superare qualsiasi ostacolo.

La mia è una famiglia numerosa, eravamo tredici persone

Il sindaco di piazza Esquilino *Silvana Cosentino

* Menzione - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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quindi di già una bella cooperativa. Il senso di responsabilità, di condivisione che avevo respirato nel mio nucleo famigliare mi ha aiutato sicuramente nell’intento.

Un bel giorno qualcuno mi è venuto a cercare conoscendo la mia formazione scolastica e professionale, nonché la mia grande passione per il sociale e per la politica. Mi ha salutato ed invece di darmi la mano, come ho aperto la mia ci ha messo sopra un mazzo di chiavi e mi ha detto: “Te la senti di avviare una cooperativa già costituita con una licenza di vigilanza?”

Avevo solo 26 anni con una patente presa da poco ed una famiglia non proprio agiata; è con molto sacrificio che ho pre-so il mio diploma di ragioneria, perché dovevo studiare e lavo-rare contemporaneamente. Ho sbarrato gli occhi e gli ho detto: “Sei sicuro?”. E lui: “Più che sicuro, anche perché devi fare tutto gratis fino a quando la stessa cooperativa sarà in grado di avere commesse per pagarti lo stipendio”.

Si chiamava Vigilia scrl ed aveva come logo la piazza del Campidoglio a Roma; la chiamarono così perché la sua costi-tuzione è avvenuta il giorno prima della Liberazione. La prima persona che ho conosciuto è stato il suo presi-dente, un partigiano iscritto all’Anpi che purtroppo non c’è più, Giuseppe Maras, che ancora oggi ricordo con affetto, sia lui che la moglie; era la sua autista personale perché lui non guidava. Insieme erano deliziosi e spassosi, soprattutto quando tran-sitavano a 60 chilometri orari sul grande raccordo anulare: due persone meravigliose. Poi ho conosciuto quello che sarebbe diventato il mio com-pagno di lavoro: Luca. Il primo contratto importante è stato stipulato con l’assicurazione Unipol, tanto che ancora oggi ci lavora la prima guardia decretata, il quale proprio per questa sua longevità aziendale è meglio conosciuto come il sindaco di piazza Esquilino.

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La mia prima sala operativa era una segreteria telefonica che riascoltavo a distanza fino a quando non andavo a dormire e meno male!.

Una sera sento una voce disperata nella segreteria, era quella di un impiegato che lavorava in una ditta situata nello stesso palazzo dell’Unipol, se non ricordo male al quarto pia-no. Ricordo l’ansia di non di riuscire a contattarlo prima che chiamasse il 113, ed invece era stato bravo e noi fortunati: aveva lasciato il suo numero di telefono. Dopodiché la prima cosa che ho fatto, ovviamente, fu quel-la di tranquillizzarlo: lo saremmo andati a liberare presto.Il momento più increscioso è stato quando ho chiamato al te-lefono Carlo; la guardia che nel fare il giro d’ispezione, non si era accorto di lui e lo aveva chiuso dentro. Purtroppo Carlo non c’era; inevitabile un momento di panico, le chiavi le ave-va solo lui.

All’epoca poche persone avevano il cellulare, ma lui sì, era un blocchetto più che un cellulare, però ci ha evitato di fare una figura barbina e, ancora più importante, di evitare guai più seri dal punto di vista aziendale, ma soprattutto il poveraccio chiuso dentro è potuto tornare a casa in ora decente e senza traumi.

I primi mesi di lavoro ho conosciuto anche il presidente di una cooperativa di Reggio Emilia che poi diventò il primo presidente di Coopservice. Il progetto era quello di aprire una filiale a Roma, ma i rap-porti con l’allora amministratore di Vigilia si sono interrotti e non se ne fece più nulla. Soltanto nel 1995 siamo diventati Coop-service; eravamo circa 45 soci e la fusione fu un momen-to importante e doloroso; si era creato uno scontro in quella che fino ad allora era stata una grande famiglia. Non ho rimpianti sapevo di fare la cosa giusta, non avrei mai permesso a nessuno di mettere a rischio il lavoro di tante persone a vantaggio solo dell’ego sconfinato di qualche socio.

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Purtroppo eravamo troppo piccoli, le commesse non ci garantivano la copertura degli stipendi, dei contributi e non riuscivamo più neanche a pagare l’affitto, e poi andavamo a lavorare in una delle cooperative che aveva la sua sede nella rossa Emilia e io adoro questo colore.

Io e Luca lo stipendio lo prendevamo in piccole rate, addi-rittura in alcuni periodi abbiamo dovuto contribuire con ver-samenti volontari per garantire lo stipendio ai nostri soci.

È stata per me un’esperienza bella ed importante, di crescita professionale ma soprattutto umana, era come una creatura; gli ho dedicato tanto di quel tempo che mi sono dimenticata di farne una in carne ed ossa.

Un altro momento emozionante è stato quando sono stata premiata per i dieci anni, il calore, l’affetto di quell’assemblea non lo dimenticherò mai, hanno voluto un discorso, si è emo-zionato anche il presidente.

Ricordo di aver presenziato a tante assemblee e nonostante l’esperienza e la mia spiccata indole a fare comizi, ogni volta avevo lo gnocco in gola, come se fosse sempre la prima volta.

L’affetto, la stima, la fiducia che in questi anni, ho avuto dai ragazzi e ragazze con cui ho condiviso questa esperienza, mi danno ancora oggi la forza di percorrere 140 chilometri al giorno, per andare a timbrare il mio cartellino.

Il mio intento è sempre stato quello di trasmettere a coloro cui sto vicino ciò in cui credo, la condivisione, e la partecipa-zione nel rispetto delle regole.

Un altro momento emozionante è stato il mio primo pas-saggio d’appalto di pulizie ospedaliere, era il 2006 eravamo in quattro a fare l’assunzione di 180 persone in un giorno e mez-zo, perché il responsabile del personale che era all’ispettorato con la lista dei nomi non arrivava mai. Peraltro visto il suo buon carattere nessuno osava chiamarlo.

Era la prima volta che vedevo in azione una vera e propria macchina da guerra; composta da splendide ragazze e signore

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che di giorno erano in tuta e trasportavano scatoloni, sposta-vano file di carrelli che a guardarli serviva la patente per con-durli.

Organizzavano turni, consegnavano divise, ci aiutavano nelle fotocopie, tenevano a bada rappresentanti sindacali in maggioranza uomini; per poi andare a cena a notte fonda tra-sformate in fatine o in pantere con due occhiaie marroni gros-se come castagne per la stanchezza, ma sempre con la voglia di scherzare e giocare.

La nostra azienda vanta sicuramente un colore rosa predo-minante fra i nostri soci e di questo sono molto orgogliosa; in questo momento però il mio pensiero più grande è verso una di quelle guardie di cui parlavo prima, che è in ospedale per colpa di un balordo, che lo ha gravemente ferito mentre svol-geva il suo lavoro; nonostante sia sempre stata atea, in questo momento prego per lui, affinché possa continuare a borbottare nel comitato soci e con i suoi compagni di lavoro, ma soprat-tutto per la figlia che ha bisogno di lui.

Un abbraccio, Silvanella.

Silvana Cosentino, 50 anni, Roma, in Coopservice dal 1995

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La mia storia comincia nel 1999, a Reggio, in via Della Co-stituzione (un segno?), dove allora abitava quella che sarebbe stata la mia famiglia. Sì, la mia famiglia che, pur essendo di umili origini, in quegli anni cominciava a godere di un discre-to benessere.

Con tutto quel che c’era da fare, pensarono bene che forse era meglio un’adozione piuttosto che impegnarsi in un conce-pimento, e fui adottata. Walter, il mio papà, pensò che vivere a Bolzano, da sola, non mi avrebbe certo aiutato a crescere, e decise di strapparmi ai miei monti altoatesini e trapiantarmi in questa terra nebbiosa e fertile.Mi hanno cambiato anche il nome, e da quel giorno mi chia-mo “Coopservice Naturalmente” e raccolgo, trasporto e smal-tisco rifiuti speciali.

A Reggio sono cresciuta circondata e protetta da fratelli molto più grandi di me, che mi hanno aiutato e sostenuto quando ero in difficoltà, ma poi, diventata più grandicella, anch’io ho messo le mie capacità e forze a disposizione di tutti. Gli anni passavano, e a volte mi sembrava che la mia pre-senza fosse un peso, altre volte mi facevano sentire importante

La “macchina del fango” *Giuseppe Dallaglio

* Menzione - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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e, ogni tanto, mi facevano cambiare casa. Dalla piccola sede di via Costituzione al capannone di Corte Tegge, in via Gua-diana e poi, da lì, al centro logistico di via Agnoletti, dove avevo a disposizione un grande piazzale e un magazzino mi-nuscolo; per fortuna mi fecero spostare velocemente a Cadel-bosco, dove pensavo di essermi sistemata una volta per tutte, ma, dopo poco più di un anno, ecco una nuova collocazione a Reggio, in via Fratelli Bandiera.

Ma non per molto… Naturalmente, nonostante i cambiamenti (e non solo di casa) crescevo e facevo nuove esperienze. Devo dire che oltre ai frequenti traslochi, altre cose, ogni tanto, mi facevano riflettere; per esempio, mi cambiavano spesso il soprannome: da Divisione a Settore, poi Area e infine Linea. Un paio d’anni fa mi spiegarono anche che era arrivato il momento di cambiare nome (e famiglia!), per poter diven-tare finalmente grande. Questo concetto non mi era molto chiaro, ma poi non se ne fece nulla.

Intanto continuavo a crescere, a volte guardando quelli che facevano il mio stesso mestiere dall’alto in basso (beh, avevo una famiglia con le spalle grandi!), a volte mettendo tra le mie esperienze qualche delusione.

Clienti importanti come le strutture sanitarie di Reggio (ASL e Azienda Ospedaliera); l’ospedale Niguarda di Milano, gli ospedali di Trieste Cattinara e Maggiore, il San Martino di Genova, mi hanno scelto e si sono affidati alle capacità di chi lavora con me.

A volte leggevo con stupore sui giornali di scandali, di de-litti e truffe ambientali, ma erano naturalmente realtà lontane dal mio modo di lavorare e dal mio concetto di etica dei servizi ambientali.

Poi ecco, qualche mese fa, ricordo era un venerdì, una tele-fonata, “siamo sul giornale!”.Siamo sul giornale? E che giornale? Perché parlano di noi? Chi

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ha fatto un comunicato stampa senza dirci niente? Che titolo ha l’articolo? “I predoni della sanità. Ci rubano la salute”.

L’ospedale Niguarda è nell’occhio del ciclone e noi con lui.Corro a comprare il giornale e leggo l’articolo tutto d’un fiato. È ormai più di un anno che ci lavoro dentro, ma quello che descrive il giornalista, io non l’ho mai visto.

Fino a quel momento della “macchina del fango” ne avevo solo sentito parlare in televisione, ma non riuscivo certo a ca-pire fino in fondo il significato di quelle parole. In un attimo siamo in televisione, altri giornali rilanciano la notizia, si parla di “servizi”, di rifiuti, di “coop rosse”, di sfruttamento dei lavo-ratori, patti politici segreti, tutto in un calderone, mescolando con cura. La macchina del fango è qui.

Telefonate concitate con i responsabili dell’ospedale, con i lavoratori (sì, lo ricordo quel ragazzo che faceva tante doman-de, lo trovavamo nei posti più strani), con il responsabile del cantiere.

“Tranquilli, hanno scritto cose non vere, i lavori vengono svolti nel migliore dei modi e non potrebbe essere diversamen-te, questa è una vetrina importante per la nostra cooperativa”.

Meno male, tiro un sospiro di sollievo, ma non è finita. Sabato mattina ore otto, una telefonata: “I carabinieri stanno controllando tutto. Nucleo Ecologico e NAS stanno facendo una accurata ispezione in tutti i luoghi descritti dal giornalista”. Bisogna essere lì. Subito.

Dopo due giorni di controlli e verifiche se ne sono andati. Tutto a posto. Ma per giornali e Tv non è una notizia, pensano già ad altro.

Giuseppe Dallaglio, 55 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 2000

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Oggi, ripensandoci, rimane quasi tutto sfumato. Ovattato come un sogno a un passo dal risveglio. Come una fotografia in bianco e nero dove solo alcuni particolari rimandano colore, mettendo tutto il resto in un secondo piano americano dove ogni cosa diventa un insieme periferico. Nel momento, tut-tavia, l’adrenalina prese a scorrere nelle mie vene come lava fredda.

Era una sera di maggio di qualche anno fa, di un giorno qualunque in un mese storicamente nefasto. Anche al lavo-ro era stato un giorno qualsiasi. Tanto correre e impegnarsi per ottenere, forse, un minimo di risultato accettabile. D’altra parte io lavoro in Logistica e l’immagine di Sisifo la tengo sul comodino. Squilla il cellulare e controvoglia rispondo senza nemmeno controllare il display, imprudentemente. La voce è quella che non ti aspetti, anzi, quella che non vorresti sentire nemmeno per gli auguri di Natale. “Pronto?” sussurro cauta-mente. “Sono Barbara”, abbaia la voce.

Stiamo parlando della mamma di mio figlio, quello più pic-colo. Dico la mamma di mio figlio perché non è mia moglie, non ha mai rischiato di diventarla. “Cosa posso fare per te?” dico. Sulla difensiva, ma con tono da call center. “Non fare l’idiota, risponde lei, Gabri ha avuto un incidente”.

Gabri *Francesco Mattanini

* Menzione - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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Gabri è Gabriele. Mio figlio, quello più piccolo appunto. Ecco la lava fredda. L’adrenalina come antimateria. La sospensione del tempo, dell’esserci, del poter ancora di-ventare. Poi arrivano alle labbra le domande. Miliardi di domande essenzialmente inutili. Quando? Dove? Come? Una sola è la domanda importante ma non sempre è la prima che arriva alla coscienza. Quando le arterie non por-tano più sangue ma sassi e cemento la parola cessa di essere orchestrata dal cervello e prende vita propria. Allora senti la tua voce porre domande secondarie mentre l’urgenza è un’al-tra. Quella di sapere subito l’unica cosa davvero importante. “Come sta?” riesco a chiedere dopo un’eternità. La gola, la lingua, il palato come carta vetrata. “Lo stanno portando in elicottero a Pisa” dice lei “all’Ospedale di Pontremoli si sono dichiarati inadeguati prevedendo possibili complicazioni”.“I medici non si sono pronunciati. Non sappiamo nulla”, ag-giunge lei. “Parto subito” dico, improvvisamente vittima di una calma innaturale. E parto. Lungo la strada, dalla terra alla luna, arrivano no-tizie. Gabri ha avuto l’incidente in motorino. Era in giro con gli amici. Si è distratto e ha perso il controllo. Si è schiantato contro un lampione. Ha sbattuto violentemente la testa. Il casco è volato via. Ha perso conoscenza e non si è ancora svegliato. Gabri è ricoverato in rianimazione. Fatta la Tac, sospetta lesione a tre vertebre. Cinquanta chilometri a Pisa, la notte vischiosa e densa come catrame. Entro nella stanza e lo vedo lì, piccolo come quando era davvero piccolo. Parlo con i medici gentili che in modo gentile mi confer-mano la sospetta lesione delle vertebre. Faranno un’altra Tac

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domani mattina per verifica. Intanto Gabri è in coma farma-cologico. Passo il resto della notte accanto a lui. Non serve, non si sveglierà. Sono io che voglio esserci.

La mattina seguente, in attesa della Tac di verifica, chiamo i colleghi che lavorano con me e il mio direttore per informar-li dell’accaduto. Spiego la situazione. Non posso e non voglio muovermi da lì. Non riesco nemmeno ad immaginare quale possa essere l’evolversi delle situazioni quindi chiedo scusa a tutti nel dichiarare che il mio posto, in attesa degli eventi, è accanto a Gabri.

Alle dieci di mattina viene fatta la Tac. Gabri veleggia, sembra serenamente, nel sogno indotto. Nel frattempo ricevo tantissime telefonate dai colleghi che si informano sulle con-dizioni di mio figlio. Tutti sono commossi e solidali, qualcuno non riesce a trattenere le lacrime. Vogliono condividere con me preoccupazione e dolore, aiutarmi a credere, essermi vicini nella speranza. E io sono davvero grato a tutti.

La frenesia del lavoro, i problemi di sopravvivenza, i piccoli conflitti giornalieri a volte ci fanno sprofondare nella depres-sione e nella solitudine. Come nelle sabbie mobili ci sentia-mo inghiottire lentamente. Non ci accorgiamo che intorno ci sono tante persone che si preoccupano per noi. Solo non hanno il tempo o il modo per manifestarlo. O a volte anche solo il coraggio per farlo. Ci vuole coraggio per esternare i sen-timenti.

La Tac di verifica smentisce la precedente. Nessuna verte-bra lesionata. Frattura della mandibola e della clavicola, ematomi diffu-si. Prognosi ancora riservata ma escluse le conseguenze fisiche paventate in un primo momento. Ancora non sappiamo come procederà il decorso del trau-ma né cosa richiederà la riabilitazione. Ancora decido di stare vicino a Gabri finché ce ne sarà bisogno.

Nel pomeriggio mi chiama il direttore della divisione. Si

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informa sulle condizioni di mio figlio e mi comunica che la direzione svoltasi al mattino ha ratificato un mio eventuale spostamento temporaneo alla filiale di Calenzano. Questa so-luzione mi permetterebbe di stare vicino a Gabri e di conti-nuare a lavorare. Mi dice che Coopservice non si dimentica dei suoi uomini.

Il terzo giorno Gabri si sveglia. Dolorante e confuso non ricorda quasi nulla. Gli racconto quello che so e vedo l’orgoglio nei suoi oc-chi. Quello di un antico guerriero che ha vinto la sua batta-glia. E mi sorride, perché entrambi sappiamo che potremo anco-ra raccontarci cose.

Solo al ritorno saprò che alla notizia dello scampato perico-lo i miei colleghi hanno festeggiato per me.

Solo dopo qualche tempo scoprirò che in quel mese di mag-gio è davvero finita l’infanzia di Gabri. Basta con Game Boy e Nintendo. Unico interesse le femmine giovani.

Francesco Mattanini, 60 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 1996

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11 marzo 2010: data memorabile (solo per me natural-mente, per i più senza un significato particolare) come la bat-taglia di Trafalgar per il grande lord Horatio Nelson: rimarrà incisa nella mia memoria indelebilmente! Eh sì, non è mica semplice rimettersi in gioco a cin-quant’anni! Tutto è iniziato qualche mese prima, quando entro nell’uf-ficio Coopservice dell’Ospedale S. Andrea della mia città, La Spezia. Un po’ impacciata e emozionata busso (con un po’ di timore). “Avanti”, mi risponde una bella voce di donna, autorevole, ma gentile. Mi ritrovo a fare un lungo respiro e a contare mentalmente fino a tre in gesto scaramantico, prima di abbassare la maniglia della porta e entrare nella stanza, (dopo un perentorio “avanti”).

Mi trovo davanti, seduta ad una scrivania, una bella don-na: bionda, occhi nocciola da cerbiatto, curata. Mi presento: “Piacere, Nicoletta” e lei, tono gentile e professionale: “Ciao, piacere mio, Serena”. Mi fa accomodare sulla sedia davanti a lei, con il mio curriculum-vitae (in perfetto stile latino) tra le mani un po’ sudate dall’emozione. Mi mette a mio agio parlando del più e del meno, studi fatti, esperienze lavora-tive precedenti. Comprendo che non deve essere semplice,

Ricominciare a cinquant’anni *Nicoletta Accietto

* Menzione - Sezione “Racconti scritti dai soci”

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a volte, anche scomodo, il ruolo che ricopre: intelligenza, capacità, ma, presumo, anche forza di carattere, decisione. Pur mantenendo la propria sensibilità e umanità. Alla fine del colloquio, si alza, mi dà la mano, e con modi garbati mi congeda dicendo che le ho fatto una buona impressione, che leggerà il mio curriculum e che mi chiamerà eventualmente per le sostituzioni ferie.

Esco che quasi non cammino.. levito...tante le sensazio-ni: un’ alternanza di emozioni, dubbi, speranza, gioia, timore (tipo yo-yo insomma!). Sarà così? Quando accadrà? E sarò all’altezza?

Passano i giorni e nulla, neppure un cenno. Poi un giorno, quando ormai non ci credo e spero più, il cellulare squilla la solita voce argentina: “Ciao, sono Serena di Coopservice, ricordi?” Altroché se ricordo! E il cuore ha un battito in più, un’accelerazione furiosa. Pare quasi un tamburo dei Sioux nella folle danza attorno ad un falò. Prosegue: “Dovresti ve-nire, devo parlare con te”.

Certo che vengo, non me lo faccio ripetere una volta di più. Prendiamo accordi e il giorno stabilito mi presento per la seconda volta nel suo ufficio. Mi dice che mi mette alla prova, stabilisce i particolari e, tra gioia e un nodo di com-mozione, ha inizio la mia “avventura” è l’11 marzo 2010.

Potrei raccontare aneddoti comici, situazioni commoven-ti, che sono avvenute all’interno di questa grande famiglia che è Coopservice. Ognuno con la sua storia personale, il suo vissuto, il carattere, le gioie e i dolori, i problemi personali.Qui ho conosciuto persone speciali che sono diventate ami-che: Paoletta, Gianna, Daniela, Oriana; altre a cui magari, non sono molto simpatica, non c’è sintonia. Ma così è la vita, sempre e per tutti.

Ma la cosa più importante è che mi è stata data l’oppor-tunità di vivere dignitosamente, di “guadagnarmi” la vita

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come dicevano i nostri vecchi. Il poter “bastare a se stessi”, guardare più serenamente al futuro. Parole come dignità, rispetto, onore non sono più solo parole, ma tangibile realtà. Posso guardare al futuro con rinnovato ottimismo, posso dire che la mia vita, dopo molte vicissitudini è proprio iniziata a cinquant’anni, quando per molti, forse, questo rappresenta un traguardo, per me è un punto di partenza; è il mio punto di forza.

To be continued.

Nicoletta Accietto, 53 anni, La Spezia, in Coopservice dal 2010

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Il mio nome è Mina Arouch, sono originaria di Casablan-ca, la mia nazionalità di origine è dunque marocchina, ma ora sono anche cittadina italiana.

Sono arrivata a Reggio Emilia, con i nostri quattro figli, nel 1985 grazie al ricongiungimento familiare con mio marito che già lavorava qui. Per alcuni anni mi sono occupata solamente della famiglia e della crescita dei miei figli, poi la decisione di entrare nel mondo del lavoro. I bambini erano cresciuti e con la loro mag-gior autonomia mi è stato possibile gestire casa e lavoro.

Mio marito mi aiutò a trovare un posto in Coopservice come addetta alle pulizie, un lavoro che non avevo mai fatto prima: in Marocco, infatti, avevo sempre lavorato come sarta. Non parlavo bene l’italiano, ma la volontà e la necessità di lavorare mi fecero ben presto accantonare questo problema. E poi avevo la possibilità di lavorare in una cooperativa, un nome che in me evocava i valori positivi della solidarietà e della collaborazione, quasi si trattasse di una famiglia.

Ricordo ancora, come fosse ieri, la prima giornata di lavo-ro. Destinazione San Lazzaro. Ero molto emozionata, ma allo stesso tempo avevo una grande voglia di riuscire. La capo can-tiere del San Lazzaro era allora Lucia Pistillo; sopra di lei Giusy Noto.

Non conoscevo il San Lazzaro e non sapevo chi ci viveva e

“Più corri, più lui ti corre dietro”

Mina Arouch

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perché. Non sapevo fosse un ex-manicomio, una struttura per malati di mente.

Per prendere servizio, mi incontro con Lucia alle 5.30 del mattino, al padiglione Bertolani. Sembrava tutto vuoto, an-che se dalla grande sporcizia si capiva benissimo che doveva essere abitato; basti dire che per pulire i bagni serviva la gom-ma dell’acqua. Il piano zero era comunque tutto vuoto; ho capito poi che i malati scendevano verso le otto.

Salendo al piano rialzato avviene, per me, la scoperta dei malati di mente. Ricordo la paura, la difficoltà a parlare; ca-pivo bene Lucia che mi spiegava i lavori che dovevo fare, ma non riuscivo a comunicare con queste persone.

“Nani non devi aver paura di loro – mi incoraggiava Lucia – i matti sono quelli fuori, questi non fanno male a nessuno!”

Quante volte ci ho ripensato, se Lucia non mi avesse aiuta-to non sarei riuscita a continuare il mio percorso in Coopser-vice. Per sette giorni ho lavorato in affiancamento a Lucia che apprezzava il mio modo di lavorare (pur non credendo che fosse il mio primo lavoro), ma mi ha dovuto insegnare ad ot-timizzare le cose che facevo. “Sei proprio brava – mi diceva – ma con i tempi non ci stiamo!”

Al settimo giorno di prova usavo le attrezzature già autono-mamente, così che Lucia scende al piano di sotto per prendere la lavasciuga e io mi trovo sola. All’improvviso alle mie spalle arriva un ragazzo completamente nudo che inizia a rincorrer-mi; spaventatissima scappo e urlo chiamando Lucia. Il ragazzo continua a rincorrermi. Finalmente arriva Lucia, abbraccia il ragazzo e lo tranquil-lizza e mi spiega che non devo scappare: “più corri, più lui ti corre dietro”.

Temevo proprio di non farcela, il lavoro mi piaceva, mi tro-vavo bene con le colleghe, ma temevo di dover dare le dimis-

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sioni per la troppa paura che avevo. Al termine dei quindici giorni di prova, la capocantiere mi dice che è contenta di me, ma che le mie difficoltà erano mol-to evidenti; avevo persino perso dieci chili di peso. Alla fine mi presento a Giusy Noto, convinta a dare le dimissioni. Giusy telefona a Lucia che ancora una volta mi aiuta, consigliando di tenermi, ma di spostarmi in un’altra struttura; secondo lei ero brava, ma non adatta al San Lazzaro.

Così inizio a lavorare all’Ospedale Spallanzani; e passo dopo passo sono andata avanti, tanti cantieri, tante esperienze che mi hanno permesso di raggiungere l’obiettivo di un lavoro che soddisfa le mie aspettative.

Nel 2006 ritorno presso il San Lazzaro che, nel frattempo, è diventato la sede di varie strutture dell’Ausl di Reggio Emilia, compresi molti distretti provinciali quali: Albinea, Puianello, Roncadella, Masone, S. Michele, Scuolette, Pulce (il Centro d’Igiene Mentale, non il carcere), Via delle Ortolane, Centro Prelievi, Bagnolo, Mancasale, Scandiano.

Attualmente ricopro il ruolo di responsabile dei servizi d’i-giene e sanificazione erogati da Coopservice per l’Ausl di Reg-gio Emilia: organizzo e coordino il lavoro di 35 persone che si rapportano con me; mantengo i contatti con i clienti cercan-do di risolvere ogni tipo di problema; controllo la qualità dei nostri servizi. In quest’ultimo anno, Coopservice mi ha offerto altre due grandi opportunità: sono stata designata responsabile del co-mitato soci della Bassa Reggiana e, su indicazione della coope-rativa, sono entrata a far parte della Commissione Provinciale delle Pari Opportunità.

Mina Arouch, 57 anni, Reggio Emilia, paese d’origine Marocco, in Coopservice dal 1989

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Sono Dusty, il carrellino ecologico della filiale di Parma. Deve essere un giorno speciale oggi; la mia signora, paf-futella, simpatica e allegra, ha messo un po’ di rossetto sulle labbra ed io sono tirato a lucido come non mai. Sono talmente brillante che appena uscirò, chi mi guarde-rà dovrà indossare gli occhiali da sole.

Tutti i prodotti migliori, più delicati, ecologici hanno tro-vato posto nei vari scomparti del mio marsupio. I miei amici carrelli mi stanno guardando con occhio cri-tico, so che stanno pensando “che me la tiro”...è un po’ vero, effettivamente così elegante “sono un gran figo”.

È ora di partire, la mia signora mi fa accomodare sul fur-gone e in perfetta sicurezza ci avviamo verso la nostra desti-nazione. Si tratta di una bella abitazione, nuovissima, i proprietari hanno appena traslocato, coppia giovane immagino cuorici-ni ovunque, giovinezza, amore ed armonia.

La mia signora con delicatezza e morbidi movimenti co-mincia la sua “opera”: guanti, panni, detergenti, olii, vengo-no colti dal mio marsupio, utilizzati e riposti con precisio-ne, lei sempre così ordinata e veloce oggi è quasi maniacale, nemmeno un granello di polvere deve sfuggire e neppure un alone deve rimanere.

Dusty e la sua signora

Maria Campanini, Nadia Talignani, Delmina Fadini

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Dopo ore di instancabile lavoro l’intervento è finito. Con orgoglio io e la mia signora ci guardiamo intorno, sappiamo che la perfezione non esiste, ma con un sorriso di compiaci-mento attendiamo l’incontro con la giovane coppia per la verifica.

Avverto un gelido vento, non scompiglia i capelli, non infastidisce gli occhi, ma improvvisamente ci paralizza le gambe e l’anima. Non esiste più l’iniziale cordialità delle presentazioni, solo cipiglio, inquisizione, tutto sembra essere stato sbagliato, tut-ta la nostra passione demolita in pochi secondi. La camera operatoria si è trasformata in un’aula di tribu-nale, la mia signora è persino accusata di essere grassa, lei con quell’incedere un po’ trotterellante e soffice, grassa! La mia signora sa di non meritare queste ingiuste accuse, si dovrà sottoporre ai controlli aziendali, dare spiegazioni e versione dei fatti. È fiduciosa di riuscire a giustificare il tutto e come nei più romanticoni dei film: la verità verrà a galla.

La mattina iniziata con grande eleganza e gioia, si è tra-sformata improvvisamente in un mesto rientro, viso contrat-to e piccole stelline sotto gli occhi che non brillano. Io sono stato ricollocato tra gli altri carrelli, niente più esuberanza. Con sguardo timido e sospettoso, mi giro verso gli amici carrelli, mi aspetto angherie dopo tutta l’alterigia di inizio mattina. Lo sguardo è vuoto, nessun commento e capisco che la punizione sarà veramente dura.

È passato un mese ormai, la mia signora si occupa di altri carrelli, Bobby, Nency, persino il vecchio Ido. Ho un po’ di polvere addosso, ma ciò che pesa maggiormente è l’etichetta: “porta fortuna”!

Ma cosa sta succedendo! Chi mi scuote…terremoto… al-luvione...quale catastrofe? Una voce allegra, un trotterellio morbido, un colpetto di

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tosse: wow! È la mia signora che sta preparando i prodotti e materiali da inserire nel mio marsupio.

Si riparte, ricomincia la giornata è stato tutto un bruttis-simo sogno.

Maria Campanini, 52 anni, Parma, in Coopservice dal 1992Nadia Talignani, 55 anni, Parma, in Coopservice dal 1992Delmina Fadini, 59 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 1992

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Quale inizio, se non dal coraggio di una scelta: quella di trasformarsi da operai in cooperatori. Decisione dettata da quanto aveva imposto la multinazionale Electrolux a metà de-gli anni Ottanta del Novecento, trasformando lo stabilimento Zanussi di Porcia, uno dei più grandi d’Italia, da fabbrica di elettrodomestici in centro che si sarebbe sempre più specializ-zato nella sola produzione di lavatrici.

Con progressione impressionante, malgrado scioperi, ma-nifestazioni, interventi delle forze politiche democratiche gli occupati avevano cominciato a ridursi, da tredicimila, quanti erano alla fine degli anni Settanta, ad alcune migliaia, in poco più di un lustro.

Per molti si prospettava la cassa integrazione a zero ore. Solo una parte di operai e operaie avrebbe potuto trasferirsi nello stabilimento di Susegana, distante cinquanta chilome-tri. Un futuro d’incertezze, di probabile disoccupazione, an-dava affrontato con un nuovo modo di pensare e agire. Forza d’animo e spirito d’iniziativa non fecero difetto, soprattutto alle lavoratrici che si assunsero la responsabilità di fondare una cooperativa di servizi per acquisire, in appalto, le pulizie.

L’Electrolux pensava solo a ridurre i costi, la cooperativa serviva per mantenere preziosi posti di lavoro. E una parte de-gli stessi sindacalisti della ex fabbrica Zanussi, assunsero il ruo-lo di funzionari e poi dirigenti della cooperativa che, nata per pulire le palazzine degli uffici, andò presto ingrandendosi con

Una scelta di vita

Sigfrido Cescut

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le pulizie dei reparti produttivi e poi assumendo anche servizi di manutenzione e facchinaggio.

Pur in appalto, il lavoro era di nuovo diventato sicuro per i dipendenti cooperatori che aumentavano di pari passo con la costruzione della nuova fabbrica di lavatrici, benedetta nien-temeno che dal Papa Giovanni Paolo II e visitata da Mikhail Gorbaciov, premio Nobel per la pace e leader sovietico della “Perestrojka” (Ricostruzione).

Dopo i grandi timori, in cooperativa era arrivata la certezza di mantenere il posto, rafforzata dalla successiva fusione socie-taria con Coopservice di Reggio Emilia.

Dalla terra di Camillo Prampolini (Reggio Emilia, 27 aprile 1859 - Milano, 30 luglio 1930) apostolo del primo socialismo, profeta, antesignano della cooperazione, arrivava nel Porde-nonese una cooperativa oltremodo affermata nel settore dei servizi, in Italia e addirittura all’estero. Per i tanti soci iniziava una stagione di duro lavoro nei rinnovati stabilimenti Electro-lux di Porcia, anche al sabato e qualche volta di domenica.

Così per vent’anni, a cavallo del nuovo millennio che avrebbe riservato cambiamenti sociali, culturali, politici del tutto imprevisti.

Coopservice, ogni anno che passa, unisce sempre più la-voratori italiani e immigrati, dai paesi dell’Est, dopo il crollo del muro di Berlino, ma provenienti anche dall’Africa, Asia e America Latina. I presupposti di un mondo multietnico e interculturale, sono più che mai presenti in una cooperativa d’avanguardia, come Coopservice.

Di pari passo all’introduzione delle nuove tecnologie in fabbrica - l’Electrolux recentemente ha rivoluzionato ancora le linee produttive, in funzione di una lavatrice del futuro - nel più grande cantiere italiano di Coopservice, quello di Porcia, emerge la capacità della responsabile Antonella Pasut d’amal-gamare persone così diverse fra loro per provenienza geografi-

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ca e cultura, affratellate da una comune ricerca di benessere, per sè e le proprie famiglie. Va subito detto che anche in questi anni, segnati da una crisi economica di proporzioni mai viste prima, Coopservice, con limitate riduzioni d’orario, ha man-tenuto integri i posti di lavoro a Porcia. Le capacità di Anto-nella non possono limitarsi solo al trasmettere, nei modi più rapidi e precisi, nozioni fondamentali per l’uso di motoscopa e lavasciuga, carrelli e pimespi elettrici attrezzature peraltro indispensabili per far funzionare e organizzare, con profitto, un’impresa di pulizie nelle immense strutture di una delle più grandi fabbriche d’Europa.

Le qualità dei singoli, quando comprese, trasmettono impa-reggiabili potenzialità a tutta la squadra. Impossibile elencare, nella vita del cantiere, tutti gli episodi che hanno confermato le eccellenti doti della responsabile e degli oltre cento soci che lei dirige a Porcia.

I danni per un corto circuito in una centralina elettrica, sono contenuti dall’intervento dei pompieri. L’immediato ri-pristino del reparto, di domenica, però è opera dei lavoratori di Coopservice che permettono all’Electrolux, il giorno successi-vo, di non perdere la produzione di una sola lavatrice. Emer-genze simili continuano a verificarsi periodicamente, dopo un temporale eccessivo e l’allagamento di qualche reparto e magazzino, la rottura di una condotta d’acqua, tutti episodi che richiedendo l’immediata disponibilità di tanti dipendenti Coopservice, a volte invitati a cena dagli stessi responsabili Electrolux che, in tal modo, esprimono riconoscenza.

Non solo normalità del lavoro ed emergenze, scandiscono l’operare di Coopservice a Porcia. Esiste infatti qualcosa che si pone fra i due concetti. Ancora non è stato coniato un vo-cabolo adatto a quel tipo di situazioni. Ma queste si ripetono, ogni qualvolta dirigenti internazionali dell’Electrolux, mini-stri della nostra Repubblica, rappresentanti di governi stranie-ri o comitive particolarmente importanti e numerose visitano

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l’immensa fabbrica di Porcia. Succede spesso, e sempre duran-te i giorni lavorativi della settimana. I reparti possono essere puliti prima delle visite solo dopo i due turni produttivi, di notte. È un lavoro disagiato che, nella migliore delle ipotesi, reclama di rientrare nel cantiere dopo cena, nella peggiore, di continuare il turno pomeridiano, fino al giorno dopo. “Situa-zioni simili – afferma Antonella – possiamo affrontarle solo con l’ironia, perlopiù rivolta ai nostri mariti e compagni che, da sonnambuli, quando rientriamo alle quattro o alle cinque del mattino, ci chiedono cosa mai sia successo”. La squadra per le emergenze notturne è stata costruita da Antonella tenendo conto delle esigenze di ognuno. Coloro che la compongono, quasi tutte donne, accettano quella necessità, più volte duran-te l’anno. In tutte c’è la consapevolezza che il sacrificio serve a far navigare la grande nave di Coopservice in un mare tempe-stoso, mai così cattivo come in questi ultimi tempi.

L’equipaggio speciale, in gran parte costituito da donne, cerca di approdare al porto dove si salva il lavoro prezioso, presupposto indispensabile per continuare a vivere e sperare.

Sigfrido Cescut, 58 anni, Pordenone, in Coopservice dal 2002

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“Siete pronte a trasportare cadaveri dai reparti all’obito-rio?” Tutto ebbe inizio da questa telefonata. Fu il nostro responsabile che nel lontano febbraio 2006 con queste parole ci faceva entrare in una nuova e inedita dimen-sione. Noi, che avevamo sempre pensato di essere pronte a tutto, ci spaventammo da morire! La prima telefonata diceva: “Do-mani mattina alle otto in punto dovete prendere servizio con il trasporto”.

Erano le cinque del pomeriggio e avevamo una manciata di ore per assimilare e organizzare il servizio di per sé molto delicato. Da lì a poco arrivò una seconda telefonata: “Il servizio parte questa sera alle venti”. Erano le cinque e un quarto. Panico totale! Dovevamo improvvisarci novelli Caronte in uno Stige che ci appariva cupo e agitato. Le ore successive e una parte della nottata le passammo a pianificare, reclutare e addestrare personale.

La nostra collega dell’Ospedale del Valdarno aveva iniziato lo stesso servizio a gennaio 2005. Ovviamente era in ferie! Richiamata immediatamente arrivò all’Ospedale di Arezzo alle dieci di sera, nel frattempo noi avevamo fatto tutti i per-

Il caro estinto in buone mani

Lucia Chiatti, Barbara Lombardi

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corsi e reclutato volontari per la nottata.Purtroppo non avevamo considerato la “prova barelle”.

Infatti, il primo problema concreto fu verificare la fattibili-tà del trasporto e il modo per farlo era unicamente quello della simulazione. Fummo pertanto costrette a convincere qualcuno a recitare la parte più iettatoria, ovvero quella del caro estinto.

Toccò ad un collega di notevole corporatura, previa pro-messa di cene, doni e financo di serate in nostra compagnia, senza limitazioni di “divertimento”. Ovviamente si trattò di promesse marinaresche.

Fu la sorte, o la divina provvidenza, ma forse più semplice-mente ciò che definiamo con la parte meno nobile del corpo, a venirci in soccorso. Questo è ciò che vogliamo pensare oggi, a mente fredda. Allora l’attribuimmo a nostri fantomatici, presunti, abili poteri. Sta di fatto che misteriosamente per alcuni giorni ad Arezzo non morì nessuno.

A quel punto provammo a vendere la nostra “aurea” profes-sionalità nel campo della risoluzione dei problemi. Più risolti di così. Da allora per noi è diventata anche una questione di…spi-rito. E del resto come potrebbe essere altrimenti?

Di episodi che ce ne hanno dato occasione ce ne sono stati e certo altri ce ne saranno.

Come quando alle tre di una notte con neve...Centralinista: Pronto? mi hanno attivato dall’obitorio

dell’Ospedale del Valdarno chiedendomi se cortesemente gli potevi portare un termometro rettale. Operatrice Coopservice: che volete? Ragazzi sono le tre di notte e sta nevicando, avete finito di prendermi per i fondelli? Centralinista: nooo, nooo! I carabinieri sono in obitorio e hanno bisogno del termometro.

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Operatrice Coopservice: ma se è morto la febbre non ce l’ha! Ragazzi fatemi dormire. Centralinista: Dai che è vero non è uno scherzo, i carabinie-ri! Il termometro rettale lo vogliono i carabinieri! Muoviti! Operatrice Coopservice: ragazzi io vengo ma se è uno scherzo la pagate, sta anche nevicando! Quando la nostra donnina è arrivata in obitorio ha trovato i carabinieri che l’aspettavano, ma nella fornitura degli stru-menti il termometro non è presente, per cui è dovuta andare al pronto soccorso e farsene dare uno. Per vostra curiosità, da ormai esperte in materia, vi diciamo (visto che ve lo starete sicuramente chiedendo) che il termo-metro rettale serve per stabilire l’orario del decesso.

Oppure come quest’altro episodio. Una sera che toccò a un vecchietto passare a miglior vita nel reparto di pronto soccorso, il nostro compito si rivelò piut-tosto complesso. Infatti, purtroppo era paralizzato dalla vita in giù da un sac-co di tempo e costretto a vivere la maggior parte del tempo su una carrozzina. Questa circostanza unita al fatto che l’uomo era deceduto da parecchie ore e il suo corpo si era raffreddato e irrigidito con le gambe aperte e piegate come in posizione seduta, gene-rò non pochi problemi per il trasporto. Caricarlo sulla barella fu un impresa e ancor più passare dalle anguste porte. Fu così che l’operatrice, evidentemente esasperata dalla fa-tica, provò ad incoraggiare il poveretto con un “coraggio non-no ci mancano ancora due porte e ce l’abbiamo fatta”. La risposta, ovviamente e fortunatamente, non arrivò.

Chiatti Lucia, 39 anni, Arezzo, in Coopservice dal 2003Lombardi Barbara, 43 anni, Arezzo, in Coopservice dal 2003

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Mi chiamo Antonio Damiano e sono socio cooperatore da ventiquattro anni. Sono entrato in Cooperativa Reggiana Puli-zie nell’ottobre 1988 e più tardi ho visto l’unificazione con Co-opsicurezza, poi il primo gennaio 1991 nacque Coopservice.

Desidero anch’io scrivere per questo concorso e lasciare la mia esperienza e testimonianza ai posteri o generazioni futu-re e dirgli come l’azienda Coopservice, da piccola o piccole aziende cooperative, oggi è una azienda rinomata e accetta-ta dal mercato in cui opera. Mi piace iniziare con “c’era una volta”; oggi la cooperativa e il movimento cooperativo sono cambiati molto, come insieme ad essi il paese Italia è cambia-to, inserito come è nella Unione Europea. La nostra azienda è di grosse dimensioni cosa che permette di misurarsi in un mercato europeo e globale.

Io sono entrato come socio, pagando la mia quota sociale di lire 500.000, che oggi sono 250 euro; mentre oggi la quota sociale per diventare socio di Coopservice è di ben 1500 euro.

In passato si lavorava sui cantieri con mezzi che oggi sono migliorati, ma alcuni attrezzi, come la scopa, la paletta e la lavasciuga, sono rimasti uguali.

Sono entrato che ero giovane, avevo ventun anni, è sta-to ed è rimasto il mio primo lavoro a tempo indeterminato. Prima di entrare in Coopservice ho fatto anch’io il lavoro a tempo determinato, che oggi si dice precario. Cosa per cui so-

Voglia di fare

Antonio Damiano

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lidarizzo con i giovani in quanto capisco cosa vuol dire avere un lavoro non continuativo, non sicuro.

In passato serviva a noi giovani a fare gavetta, si diceva, era un modo per entrare nel mondo del lavoro; ma io, a differenza dei giovani di oggi, potevo scegliere, sapendo che l’appunta-mento con il lavoro fisso non era lontano.

Ho lavorato in vari cantieri diversi; il mio primo cantiere è stato L’Act che oggi è Seta; pulivo corriere, autobus e ci sono stato otto mesi. Poi sono stato al cantiere “sgrossature” per due anni e mezzo, quando già era nata Coopservice; poi gli ospedali, il primo lo Spallanzani fino a quando è stato chiuso (in tutto undici anni e mezzo), poi il Santa Maria Nuova (tre anni) ed infine il Magati di Scandiano, dove lavoro ormai da sei anni.

Il mio periodo formativo in azienda è iniziato all’Act, ma si è completato soprattutto alle sgrossature dove si imparava di più come pulire. Anche se non era come oggi e dovevi soprat-tutto arrangiarti, era una formazione piuttosto “fai da te”; oggi ogni nuova persona che entra riceve un affiancamento e un minimo di addestramento che anche se non perfetto rispetto a quando ero giovane io, è pur sempre un passo avanti. Mi è anche capitato di essere io a dover insegnare ai giovani che poi mi sostituivano. E anche se non sono un responsabile di cantiere desidero dire che tutto quello che ho imparato e tra-smetto ai giovani l’ho imparato sulla mia pelle; è frutto della mia esperienza sul campo e della mia grande voglia di fare e correggersi. Di errori ne ho naturalmente fatti, ma ho sempre cercato di rimediare, mettendomi in discussione. Cosa che ha migliorato me e il mio lavoro, che svolgevo ogni giorno sul cantiere.

Aggiungo che il modo di lavorare in Coopservice è molto migliorato anche grazie alle leggi sulla sicurezza come la 626 e le varie certificazioni come la ISO 9001 della qualità e la responsabilità sociale. Un ulteriore passo avanti che mi piace-

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rebbe fosse fatto in questo campo, sarebbe l’adozione da parte della nostra azienda di materiali e detersivi ad impatto zero per l’ambiente, che si possano riciclare.

Finisco dicendo di ritenermi comunque fortunato per aver avuto sempre un lavoro e con ciò la possibilità di vivere la mia vita.

Antonio Damiano, 45 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 1988

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Guardo l’orologio, sono le sette del mattino e sono ancora nell’atrio dell’ospedale. Il “Santa Maria Nuova” sarà pure una struttura ospedaliera considerata tra le migliori in Italia ma adesso non vedo l’ora di uscire di qui, ne ho avuto abbastanza dopo che sono entrata al pronto soccorso con mio padre alle dieci di ieri sera e ho girato tutta la notte per un bel po’ di reparti. Poi è sabato, non si lavora e fuori ci sono tante cose da fare.

Ma non per tutti oggi è giornata di riposo. Ecco infatti le ragazze di Coopservice con le loro divise a righine rosa, che per riconoscerle non ho certo bisogno di consultare il cartello, appeso un po’ ovunque, con la descrizione delle varie tipolo-gie di divise indossate dal personale che opera in ospedale. Le ragazze sono alle prese con le macchine pulitrici che guidano con abilità cercando di evitare le persone che, forse ancora un po’ assonnate, vagano distratte nell’atrio dell’ospedale.

A pensarci bene, al lavoro durante la notte, nella sala d’at-tesa del pronto soccorso, c’erano anche due guardie Coopser-vice che hanno gestito con professionalità una situazione di emergenza. Parenti di pazienti ricoverati all’OBI (che non è il supermercato di bricolage ma un reparto legato al pronto soc-corso in cui si resta in osservazione almeno 24 ore) “bivacca-vano” e parlavano ad alta voce ormai da un po’, infastidendo con la loro confusione le persone vicine. Le guardie dopo aver-

Un giorno al “Santa Maria”

Anna Erasmi

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li più volte ripresi con modi garbati, visto che i soggetti poco graditi continuavano a disturbare, li hanno pregati di uscire e di fronte ad un loro rifiuto, seguito anche da offese, sono state costrette a fare intervenire gli organi di pubblica sicurezza per evitare che la situazione degenerasse.

Pulizie, vigilanza... ma per un vero lavoro di squadra manca ancora un settore all’appello, la logistica. Pur se menzionata alla fine, la logistica non è certo ultima per importanza, soprattutto per me che dopo tanti anni passati in filiale penso di avere una buona dose di logistica nel sangue. Non nascondo un po’ di nostalgia per via F.lli Bandiera, ogni volta che ci passo davanti e vedo il buon Lino nel cortile del magazzino sistemare i camion mi vengono in mente le sue preziose perle di saggezza (una fra tante: “a ghè na regola!’’).

In ospedale i “professionisti del trasloco” li ho incontrati all’opera durante il trasferimento di un reparto da un piano all’altro. Poi li ho visti anche durante il trasporto di materiale medico da un ambulatorio ad un altro, aiutare persone che si erano perse nel labirinto dei “gruppi di salita” (se sbagli ascen-sore sei spacciato!).

Vorrei sottolineare quest’ultimo aspetto del lavoro del per-sonale Coopservice all’interno dell’ospedale: il “servizio alle persone” che va al di là della semplice prestazione lavorativa.Per operare infatti in un ambiente come quello dell’ospedale, dove spesso la sofferenza delle persone è ben evidente, oltre ad essere “bravi” ad effettuare il proprio servizio di pulizia, vigi-lanza o logistica, è necessario avere anche una certa sensibilità e rispetto verso ogni individuo che si incontra. E di persone che entrano ed escono dall’ospedale se ne incontrano tante; sono talmente tante che fanno dell’ospedale una piccola città, e diverse sono le età, le motivazioni: si va da coloro che in ospedale ci lavorano, sono i medici, gli infermieri a coloro che si devono sottoporre ad esami o devono soltanto prenotarli.

Ritornando al ruolo “speciale” del personale di Coopser-

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vice, ho sentito di degenti che si sono affezionati alle signore che ogni mattina, nello spolverare i tavolini e lavare i pavi-menti delle stanze, raccontavano le loro storie di vita (di figli laureati, di mariti all’estero ecc.) ai malati che sempre deside-rosi di compagnia aspettavano con ansia il giorno seguente per sentire il seguito della storia quasi fosse una telenovela.

Ho visto guardie al pronto soccorso che per consolare figli, padri e madri, ai quali era stato impedito dagli infermieri di ac-compagnare alla visita del medico di turno il parente, gli spie-gavano che le regole di accesso negli ambulatori erano quelle per tutti e non solo per loro.

Ricordo, ancora, il ragazzo del settore traslochi che mi ha insegnato una scorciatoia per evitare di farmi a piedi un chilo-metro di corridoi per raggiungere l’uscita, quella stessa uscita di cui dicevo all’inizio e che non vedevo l’ora di raggiungere.

Ma poi, finalmente fuori dall’ospedale, sono sicura che incontrerò altre persone di Coopservice al lavoro nei super-mercati, in qualche palestra o in qualche ufficio pubblico. E considerato che sono della logistica e mi conoscono un po’ tutti, mi chiederanno una informazione su come mettere il fi-glio a carico (mi verrà anche mostrata la foto del bimbo sul cellulare!), come fare per cambiare conto corrente (mi ver-rà raccontato della difficile situazione economica) e su come fare per ottenere un aumento di livello (mi verrà spiegato che all’attribuzione di nuove responsabilità non è seguito un ade-guamento retributivo).

Insomma sarà uno slogan banale ma vero: “Ovunque an-drai sempre Coopservice troverai!”.

Anna Erasmi, 42 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 2001

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Risuonava così il suo nome, pieno, rotondo, ripetuto come uno scherzoso monito al nostro futuro prossimo. Il luogo della sede, la destinazione finale dove la fuuusione per incorpooorazione ci avrebbe condotto e portati a diventare la divisione logistica di Coopservice.

Per alcuni appariva come una opportunità di redenzione, chi la percepiva come una punizione, chi vedeva una speranza di cambiamento, altri la vivevano con indifferenza, ma per tutti il cammino era tuttavia iniziato.

Spesso il nostro imponente collega, corpulento nel fisico e nell’intelligente ironia, riprendeva i nostri errori, i capricci lavo-rativi, i ritardi, con una occhiata maliziosa e il famigerato “via Buozzi” si materializzava nel gesto minaccioso del braccio teso ad indicarne la direzione o spuntava scritto su un foglio appeso al nostro monitor. Il tacito accordo di giocare sul nostro futuro era nato in modo spontaneo, naturale.

Era vivace ed eterogeneo il gruppo storico dell’MGM, cresciu-to assieme anagraficamente e professionalmente. C’erano persone e personaggi, semplici colleghi e amici, responsabili e insubordi-nati, con il reciproco rispetto come punto di forza e la confiden-za preziosa alleata nei momenti difficili. E c’eravamo anche noi. Cinque disomogenee donne, più o meno trentenni, diverse per carattere, ruolo e ambizione, consapevolmente coabitanti il me-desimo ufficio. Una lunga stanza che vedeva posizionate in modo

Via Buuoozzi !

Elena Incerti

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sapiente, alle estremità, responsabile amministrativa e sua aiu-tante, e al centro tre opinabili irrequiete impiegate, due con il privilegio di dirimpettaie alle responsabili e la terza, giovane e avvenente, come trattino d’unione. C’erano giornate nelle quali il nostro ufficio poteva prestarsi ad uno studio sociologico dell’u-niverso femminile, spirituale, materiale, emotivo. Come quando la minuta ragazza entrava alle otto del mattino e, salutando con un grugnito ed uno sguardo in fessura, pietrificava per le successi-ve due ore le possibili velleità di dialogo altrui. O come quando il dispettoso collega baffuto rompeva il perverso ordine cromatico con il quale la nostra giovane collega teneva allineati a semicer-chio gli evidenziatori, preziosa arma di controllo di interminabili fatture di telefonia. Un gesto in buona fede, dall’intento scherzo-so ma in grado di scatenare in lei reazioni colorite da improperi di tutto rispetto. Armonia di giornate stroncata sul nascere dal quotidiano enfatico buongiorno dispensato dalla collega più an-ziana che, noncurante dell’aspetto di notte da veglia della capa, le azzardava comunque un sorriso di apertura, minacciosamente respinto al mittente. Lo squilibrato gesto del fischiettante tecnico di cantiere di offrire il caffè ad una sola componente dell’ufficio o rivolgere un complimento individuale poteva infine innescare considerazioni degne di un forum televisivo o irritare la permalo-sa del gruppo con sindrome di Calimero.

Fortunatamente non mancavano le occasioni per interrompe-re questo primo esperimento di reality, così tra urgenze di lavoro, problematiche dei soci, aneddoti di cantiere e le divertenti bat-tute di una coppia di colleghi dalla contagiosa simpatia, tutto o quasi si riequilibrava.

Avevamo imparato poco alla volta ad affrontare le impetuose richieste di report da consegnare all’istante all’accigliato direttore e da lui formulate con modi a dir poco risoluti. A comprendere le domande a sfondo pseudo-amministrativo che l’ortodossa capo-cantiere elaborava annebbiata da ore e ore di spunta di migliaia di prodotti inventariati. Sapevamo che quando la responsabile

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si immergeva nel controllo di gestione per il bilancio trimestrale tutte avremmo dovuto essere pronte e possibilmente silenziose ol-treché collaborative. Che non c’era e non c’è alternativa al con-trollo a due della prima nota, senza bofonchiare una leggeva le fatture e l’altra controllava. Che gli incontri settimanali tra dire-zione, tecnici e capi cantiere erano fondamentali per il confronto, per verificare la tenuta organizzativa, mantenere un soddisfacente livello qualitativo di lavoro e monitorare la marginalità econo-mica dei cantieri. Per investire insomma. E ancora, che quando si preparava l’elenco dei soci aventi diritto al voto in assemblea, questo non quadrava mai per un nome, ed era sempre inesorabil-mente lei, la stessa socia dal nome palindromo. Che spesso die-tro a questi nomi c’erano storie di vita silenziose e incredibili, di difficoltà e sofferenza e che non mancavano episodi di profonda solidarietà e fiducia verso di loro. E di frequente, proprio il presi-dente dai modi apparentemente burberi e sommari era il primo ad emozionarsi affrontando certe situazioni. Avevamo accettato che l’invidiabile fisico della nostra giovane collega non risentiva dei settimanali pranzi luculliani dalla nonna. E maliziosamente appreso come sfilarsi in momenti delicati gli orribili gambalet-ti, senza lasciare nemmeno l’immaginazione di averli indossati. Compreso che la musica di sottofondo al lavoro non può ripro-durre ininterrottamente le stesse canzoni senza minare i nervi di qualcuna. E che le cene organizzate per ritrovarsi con i colleghi della palazzina erano serate di allegra spensieratezza popolate di racconti e canzonature.

Un tempo così, fatto da momenti di grande impegno, serie-tà, anche tensione, intervallato dallo scoppio di risate fragorose, spesso condivise, a volte rubate. Un’alternanza di individualità, umane e professionali, alcune scalpitanti altre, loro malgrado, più remissive. Forse un po’ tutte vulnerabili in quella che si prean-nunciava come una nuova esperienza di vita.

Il momento propedeutico al passaggio, al cambiamento, è sta-to forse più difficile del trasferimento fisico vero e proprio. Le fasi

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transitorie non sono mai semplici e la nostra credo abbia risentito di una gestione improvvida da parte di una sorta di Caronte no-minato per l’occasione e che ha avuto il pregio di esaltare la parte peggiore di noi colleghe. Invidia, competizione, litigi, polemica, nulla degli stereotipi da luogo comune ci siamo fatte mancare.

A distanza di anni penso che l’inesperienza, il timore di misu-rarsi con competenze nuove, la famigliarità di un ambiente che sicuramente proteggeva ma non elevava, abbiano lasciato cam-po a questi spiacevoli atteggiamenti ma anche paradossalmente contribuito a preservare amicizia e rispetto. L’arrivo in via Buozzi e l’approdo alla nuova esperienza è stato differente per tutte, sia nei tempi che nell’affidamento delle nuove mansioni. E differenti sono stati per tutte questi anni in cooperativa.

Ognuna li ha affrontati e metabolizzati personalmente, cer-cando di ricreare la propria individualità professionale e caratte-riale, anche sbagliando, cadendo, rialzandosi, cercando confronto e compromessi, o semplicemente crescendo, con l’obiettivo, ne sono convinta, di sentire appartenenza.

Di tutte però non passa giorno che non mi feliciti piacevol-mente come per la minuta ragazza che vedo semplicemente cre-sciuta. Ha acquistato meritatamente sicurezza, stima, competenza e posizione. Ha mantenuto la serietà e caparbietà di sempre che addolcisce con una nuova simpatia e disponibilità e ogni mattina sorride apertamente ai colleghi.

Mi piace pensare che come lei tante altre colleghe o colleghi operativi, abbiano seguito un analogo percorso di crescita e af-fermazione contribuendo a perpetuare lo spirito di condivisione, l’ideale di partecipazione attiva, la consapevolezza di misurarsi per un obiettivo comune: il valore e l’importanza del lavoro.

Un filo ininterrotto, dal passato al presente. Sull’importanza di esperienze come la nostra, Coopservice credo potrà contare e investire sempre.

Elena Incerti, 43 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 2005

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Sono una socia di Coopservice, cosa di cui sono molto con-tenta. Vi lavoro da circa undici anni. Ho avuto molte soddi-sfazioni da colleghi, colleghe e clienti.

Adesso vi racconto la mia vita: mi sono sposata 16 anni fa e mi sono trasferita in Emilia Romagna per trovare lavoro; ho cercato tanto ma non lo trovavo. Tutti mi dicevano che erano al completo di personale e che non prendevano nessuno del Sud.

Mi sentivo così sconfortata, fin quando ho incontrato una signora che mi disse di iscrivermi al collocamento del lavoro. Da lì ho trovato da lavorare in un ospedale, come ausiliaria, per circa due anni. E lì ho incontrato molte ragazze che lavo-ravano per Coopservice. Così alla scadenza del contratto ho deciso di cercare lavoro in Coopservice. Sono stata convocata per un colloquio e ho iniziato a lavorare quasi subito.

I primi giorni, che ricordo come fosse ieri, ero impacciata, timida ma anche emozionata. Pian piano però mi sono messa in carreggiata e ho iniziato a lavorare per alcuni cantieri; ho trovato clienti simpatici e gentili, anche clienti difficili, ma ho sempre trovato un punto d’incontro sul campo lavorativo.

A volte ho avuto delle discussioni con le colleghe e i re-sponsabili però, con buon senso, abbiamo subito risolto tutto. Basta poco a volte; l’importante è chiarirsi e non portare ran-cori con nessuno.

Il mio lavoro

Carla Lombardi

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In questi anni di lavoro ho visto episodi di scontro fra col-leghe, ma ho anche conosciuto colleghe di lavoro molto brave e disponibili.

Io penso che il lavoro viene svolto meglio quando tra col-leghe c’è armonia. Ringrazio Coopservice perché mi ha dato l’opportunità di lavorare e viaggiare.

Carla Lombardi, 40 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 2001

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Eccomi qua a scrivere qualche riga.Mi presento: sono Massimo Melinato, classe di ferro 1970,

fino a un paio di anni fa imprenditore di successo, titolare dell’omonimo panificio a Mestre. Un poco folle (a detta di molti) ed estroverso, a quarant’anni decido in un’oretta di vendere la mia premiata attività a un dipendente e rimettermi in gioco.

Dopo una breve parentesi come direttore di una filiale di GDO, niente nomi per non essere accusato di fare pubblici-tà, smanettando sul web vedo una proposta di lavoro come aiuto capocantiere in quel di S. Benedetto Acque Minerali di Scorzè.

Invio il curriculum e il giorno dopo vengo contattato da Archimede. Yesss, centro!

Mi fissano un colloquio il giorno stesso ed emozionato come un bambino e vestito da prima comunione mi reco nell’ufficio di Coopservice. Ah, dimenticavo, la febbre oltre 38° che mi perseguitava da due giorni.

Imbottito di antipiretici e color giallo canarino, mi trovo davanti quelli che da lì a poco sarebbero diventati i mie cari colleghi: Nicoletta, capocantiere serio e nevrotico ma dal cuo-re morbido; Paola, responsabile delle pulizie civili, cinquan-tenne di bella presenza con il franch sulle unghie! e non per ultimo quel quasi mio coetaneo ragazzotto friulano, simpatico

“Cooperativa vuol dire...”

Massimo Melinato

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e a modo, Graziano, responsabile.Mi ricordo come ora le prime parole di Nicoletta in un bel

dialetto della provincia veneta: “Seto usar el compiuter?”, che tradotto sarebbe: “Sai usare il computer?”.

Un poco imbarazzato e con la testa che continuava a girare risposi che me la cavavo discretamente anche forse gonfiando le mie reali capacità informatiche, ma ormai ero nella mischia e di certo non sono uno che molla.

Il mattino seguente dopo una notte non proprio riposante mi presento in cantiere con i miei soliti quindici minuti in anticipo e lì trovo ad attendermi il capocantiere.In pochi minuti sono vestito di tutto punto pronto a segui-re Nicoletta che si muove nei meandri dei capannoni come fossero i corridoi di casa sua e, cosa non facile, ricordarmi la strada per tornare indietro!

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti (nel vero senso della parola); ho imparato un sacco di cose che davo per scon-tate o forse mi sfioravano soltanto come la solidarietà dei mol-ti colleghi pronti ad aiutarti nel tuo lavoro o solamente offrirti un caffè. Un fatto su tutti mi è rimasto impresso, accaduto dopo pochi mesi che mi trovavo in Coopservice: una mattina sono stato svegliato da una collega in lacrime che mi riferiva la morte per incidente stradale del marito di una nostra la-voratrice marocchina con due figli piccoli a carico. Oltre al dolore scontato della poveretta, per me una bella tegola cadu-tami in testa a pochi mesi dall’incarico di gestire la squadra di cui lei faceva parte e che ormai reputavo come la mia seconda famiglia. Ma nel giro di poche ore è scattata in Coopservice una gara di solidarietà che ha permesso alla ragazza di far rim-patriare la salma del congiunto e soprattutto di non sentirsi abbandonata.

In questi tempi fatti di ristrettezze e spread non è cosi scon-tato trovare aiuto da gente come te che si sveglia di buon mat-tino per portare a casa la pagnotta, ma forse cooperativa vuol

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dire pure questo.Fortunatamente la nostra vita di cantiere non è scandita

soltanto da disgrazie ma anche da episodi divertenti o perlo-meno simpatici come il momento del pranzo in mensa o le pizze organizzate dove si possono accantonare problemi, livel-li, colore e lasciarsi andare a qualche sana risata in compagnia.

Oramai sono passati due anni e mi sento parte di questa grande famiglia. Mia moglie, santa donna, ogni tanto mi ri-badisce che era da tempo che non mi vedeva andare al lavo-ro così volentieri e pure mia figlia mi ha sorpreso quando nel momento dell’imbarco del volo per Maiorca dell’estate scorsa a Malpensa con un’esclamazione tipica di un bambino di sette anni mi disse: “Papi, guarda una tua dipendente!”, notando sul grembiule di una operatrice il logo Coopservice. Con natura-lezza risposi a mia figlia: “Collega, Gaia, una collega”.

Massimo Melinato, 42 anni, Venezia, in Coopservice dal 2011

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Potrei raccontare tante storie relative al mio cantiere e alla città nella quale opero, credo però che la storia di Carmela rispecchi quella di molte donne che hanno lasciato con dif-ficoltà la propria terra nella speranza di un futuro migliore e grazie a Coopservice sono riuscite ad averlo.

Originaria della Sicilia, Carmela si trasferì nelle Marche ed esattamente in Ancona quando aveva poco più di vent’anni. Non fu facile per lei ambientarsi in quel nuovo contesto, ca-pire esattamente i modi di fare dei marchigiani, il loro modo di parlare, la loro diffidenza; a Favara al contrario c’era sempre stata tanta condivisione.

La città era però così bella, nuova ed invitante che accen-deva in lei speranze di una vita migliore. E poi dopotutto c’e-ra pur sempre il mare, anche se differente da quello della sua amata terra.

Non era stato semplice far cambiare idea al rigido marito sul fatto che anche lei avrebbe lavorato e che sarebbe stata autonoma. Neppure se si parlava del bene dei loro tre figli. Da quando era venuta a conoscenza, da parte di sua cognata, che nel grande ospedale marchigiano cercavano del personale, lei non aveva più smesso di pensarci e di crederci ed era diventato un chiodo fisso.

Carmela sognava di cambiare la sua vita, desiderava inte-grarsi in una nuova realtà, voleva sentirsi libera da ogni stereo-

La nuova vita di Carmela

Michela Pinna

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tipo e schema. Avrebbe potuto risolvere tante questioni personali, avreb-

be acquisito più importanza in famiglia non essendo più succu-be degli atteggiamenti di nessuno.

Si riteneva fortunata del fatto che sua cognata lavorasse già all’interno della struttura e che avrebbe quindi, probabilmen-te, interagito con il responsabile di cantiere. Ci sperava, anche se tra le due non correva esattamente buon sangue, a causa di alcuni debiti insoluti. In realtà le cose non andarono esattamente così come aveva pensato. Dovette infatti inviare il suo asettico curriculum nella sede centrale e sperare in qualche modo d’essere chiamata.

I giorni passavano silenziosi. Le banche chiamavano così come i creditori, ma era tutto inutile perché non c’era rimasto più niente di pignorare.

Il pigro marito si alzava tardi la mattina, si vestiva da gran signore e bighellonava per le strade del centro spendendo in slot machine ed alcool i pochi soldi, guadagnati con qualche lavoro occasionale. Quando rientrava ormai ubriaco sfogava la sua frustrazione su moglie e figli.

Avrebbe dovuto lasciarlo, lo sapeva benissimo, ma avevano lottato così tanto per potersi sposare che adesso non avrebbe avuto alcun senso arrendersi. Dopotutto, per assurdo era l’uni-ca persona “amica”. Provenivano dalla stessa regione, aveva-no lo stesso modo di pensare, gli stessi modi di fare, lo stesso amore per la loro terra.

Sentirlo vicino la faceva sentire un po’ meno lontano da casa. Era combattuta e sola.

Proprio quando iniziava a perdere totalmente ogni speran-za, ricevette la chiamata per il colloquio. Si segnò l’appunta-mento ed il numero di telefono della filiale di Ancona. Chiamò subito sua cognata, le diede la buona notizia, le disse che finalmente le avrebbe potuto restituire quanto dovuto.

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Era felice perché piano, piano avrebbe coperto tutti i debiti ed avrebbe avuto una vita migliore. Insomma in qualche modo sentiva che quel lavoro era già suo.

Il giorno del colloquio arrivò.Lei indossava un maglione in lana bianco e azzurro, ed un

paio di jeans. Si presentò nella portineria e chiese dell’uffi-cio dell’impresa di pulizia. Seguì le indicazioni del portiere. Imbucò uno stretto corridoio in direzione del pronto soccor-so, svoltò verso l’ascensore per poi salire una rampa di scale. Ancora una manciata di passi e trovò davanti a sé una porta in legno con un grosso adesivo con la scritta “Coopservice” e di fianco quello che ad un primo sguardo poteva sembrare un regolamento aziendale.

Bussò. La porta si aprì con un po’ di fatica perché ostacolata dalla

sedia, la quale veniva anch’essa limitata da una grande scriva-nia. L’ufficio finiva lì. Esattamente dove iniziava. Piccolissimo. Il giovane ragazzo all’interno le fece un sorriso di cortesia, sa-lutandola.

“Salve, mi chiamo Carmela, cercavo il responsabile delle pulizie” disse gentilmente. “Sono io” rispose il giovane por-gendole la mano “Piacere”.

Carmela pensò che fosse molto giovane. Aveva un viso pu-lito e sincero ed i suoi occhi azzurri in qualche modo le fecero pensare che non ci sarebbe stato nessun problema. Era comunque particolarmente tesa perché aveva real-mente necessità di lavorare. Si sedette su una sedia pieghevo-le emersa dietro la porta, e iniziarono a parlare uno di fronte all’altra. Dopo qualche domanda su i suoi dati personali e sui tra-scorsi lavorativi, lui le parlò di dinamiche aziendali, del rego-lamento con alcuni cenni sul contratto nazionale. Tutte cose nuove.

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Dopo, il colloquio finì. Le avrebbe fatto “sapere”.Mentre scarpinava in direzione dell’autobus, si sentiva fidu-

ciosa e leggermente angosciata. Era conscia di avere fatto una buona impressione, ma nelle questioni lavorative non c’è mai niente di scontato, tutto può accadere.

Lei nel campo del lavoro aveva avuto poche esperienze nel-la sua vita, e d’altra parte erano state tutte in nero. Era stata a servizio di tante signore laggiù a Favara, aveva stirato tanto, cucinato, e soprattutto pulito. Aveva comunque tanta buona volontà ed era sempre stata una persona disponibile.

Dopo una settimana ricevette la tanto attesa chiamata. Sarebbe stata assunta, avrebbe avuto un mese di prova, avrebbe avuto i contributi, la malattia, gli straordinari pagati. Un orario d’entrata e d’uscita definito da un contratto e da un rilevatore elettronico.

Era entusiasta che il fato le avesse dato la possibilità di ri-farsi una vita, anche perché a casa le cose non andavano pro-prio. Suo marito era sempre più violento e geloso, e il vizio del gioco continuava a far accrescere i debiti.

Iniziò a lavorare.Era faticoso svegliarsi presto la mattina dopo aver passato

delle notti insonni a litigare con il marito violento. Lei si fece forza, s’impegnò e ben presto passò un mese. Aveva constatato, inoltre, che tante sue colleghe si trovavano nella sua stessa situazione e che tramite la cooperativa erano riuscite crearsi una nuova vita. Oltre ad aver la sicurezza di uno stipendio tutti i mesi, si lavorava in tranquillità rispet-tando le norme di sicurezza. Questo era un bene per lei, non avrebbe mai voluto rischiare. Inoltre aveva sentito di un gros-so pacco regalo per Natale; la possibilità di fare qualche gita o un pranzo in ristorante.

Era tutto nuovo e tutto magnifico.Anche quel giorno, dopo aver timbrato il cartellino, aprì

la porta dell’ospedale per andare a prendere l’autobus; con il

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sole sul viso ed il caldo vento estivo si fermò a pensare che in-credibilmente un’azienda le aveva dato la possibilità di vivere un’altra vita, e che questa rappresentasse ormai un punto saldo della sua esistenza.

Una nuova prospettiva stava nascendo e questo grazie a Coopservice.

Michela Pinna, 36 anni, Ancona, in Coopservice dal 2001

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Mi chiamo Carmen. Sono in Coopservice da quattro anni. Lavoro all’ufficio tecnico. Sono tutti i giorni alle prese con gare d’appalto, capitolati da leggere, scadenze da rispettare e con progetti da elaborare: in sintesi descrivo come è organiz-zato un cantiere di Coopservice.

Due anni fa l’azienda mi ha dato l’opportunità di trascor-rere un periodo di formazione in uno dei nostri appalti. Scelsi “il Cattinara”, l’ospedale principale di Trieste; non avrei mai immaginato che le sensazioni e le emozioni vissute mi rima-nessero ben oltre il termine di quell’esperienza.

Per la prima volta riuscii, finalmente, a vedere e a provare con mano tutto quello che ho sempre descritto nei miei lavori.

Alle sei di mattina c’è la “partenza”. I nostri locali, nei sot-terranei dell’ospedale, si animano di persone. Tutti vestono i colori dell’azienda. Ognuno alle prese con il proprio carrello da attrezzare e rifornire con il materiale da lavoro, panni rossi, gialli, verdi, blu, microfibre varie e poi di corsa verso gli ascen-sori che portano ai reparti.

Arrivati al 12° piano della torre si scorge un panorama me-raviglioso. La sala di attesa si apre su una vetrata completa-mente vista mare.

Tornando a noi: si comincia a pulire dagli studi medici, proseguendo con le infermerie e le camere di degenza. Vedo applicate le metodologie descritte per anni, la sequenza delle

Il cuore grande del cantiere

Carmen Presutto

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operazioni, l’impiego dei diversi panni colorati. Quanti ne ho contati ogni mattina nella mia permanenza in cantiere. Ogni operatore ne ha a disposizione almeno venti.

Il pomeriggio è il tempo delle “periodiche”, le famose pulizie di fondo. Gli operatori lavorano in coppia. Hanno un carrello enorme completo di ogni cosa. La stanza da risanare è com-pletamente vuota in attesa della pulizia radicale. Si attacca la monospazzola. Antonio e Marco mi spiegano che si devono compiere dei cerchi concentrici sul pavimento; mentre loro già ridono, decido di provare. Prendo il timone, pesantissimo, non riesco a spostarlo di un millimetro; dopo diversi tentativi ho capito che applicando la tecnica corretta la monospazzola si riesce a guidare anche solo con un dito. In compenso ho avuto il braccio indolenzito per due giorni.

In questa meravigliosa esperienza ho incontrato persone che non dimenticherò mai. Tutti mi hanno accolto con molto calore facendomi sentire come a casa. Un appuntamento fisso era ormai diventato quello con Silvia, in turno serale all’Anatomia Patologica. Lei, da tutti riconosciuta la più esperta, in quel periodo insegnava alle neo assunte.

Durante la mia permanenza al Cattinara ho avuto, an-che, il privilegio di festeggiare Franca. Una signora che dopo trent’anni di lavoro è andata meritatamente in pensione.

Lasciai il Cattinara con molta nostalgia. Quel posto così imponente mi aveva toccata dentro. Ci ritornai diverso tempo dopo in modo del tutto casuale. Ero a Trieste per un sopralluo-go. Rividi tutti i colleghi, gli operatori, i capo cantiere; non c’era Silvia, continua a fare il turno serale in Anatomia; non nego la forte emozione provata in quel momento.

Solo allora ho capito fino in fondo che i cantieri che quoti-dianamente descrivo possiedono una carica umana e una soli-darietà tra le persone così intensa che difficilmente si riescono a percepire nelle loro totalità senza viverle in prima persona.

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Per questo mi sento di ringraziare l’azienda per l’esperienza che mi ha permesso di vivere, ma soprattutto tutte le persone in carne e ossa che ho incontrato in quel periodo e che mi tornano sempre in mente tutte le volte che vado a descrivere un nuovo progetto di “cantiere”.

Carmen Presutto, 35 anni, Modena, in Coopservice dal 2008

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Come definiresti il lavoro di una guardia giurata nei centri commerciali? Questa domanda sembra facile facile eppure...bi-sogna saper gestire molteplici situazioni e stare costantemen-te attenti alle variabili che fanno di una tranquilla giornata di lavoro un’emergenza continua. Nonostante il mansionario con qualsivoglia implementazione curata dall’ufficio organiz-zazione, qualche volta si cerca l’ispirazione dal manuale delle improvvisazioni! Insomma non ci si annoia mai. Davvero! È un lavoro che “allena” nel vero senso fisico della parola! Certo non facciamo i centometristi, ma lasciatemi dire: percorriamo chilometri e chilometri; sovente abbiamo pensato di soddisfa-re una intima curiosità: indossare un contapassi per sapere, a fine turno, quanta strada abbiamo fatto! È prevalente il con-tatto con il pubblico o la clientela a cui garantiamo la sicurez-za, anche se talvolta non sembra particolarmente favorevole al controllo laddove è richiesto, sentendosi un po’ protagonista orwelliano.

Poi essendo lì tutti i giorni, diventiamo per loro persone di fiducia, a cui rivolgere ogni genere di richiesta, che non sempre ha a che vedere con il nostro servizio in quel momento: “Vada a vedere, qualcuno ha parcheggiato davanti al cancello di casa mia, abito appena qui dietro all’Ipercoop. L’avevo detto a mia moglie che dovevamo mettere il divieto davanti al nostro garage, ci han-no parcheggiato davanti e siamo dovuti venire in bicicletta!”.

“Mica sto rubando, cosa crede?”

Rosalba Rivoli

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Una volta una signora venendomi incontro correndo mi ha chiesto se le potevo procurare una tronchese e aiutarla a “scassinare” il lucchetto della sua bici. “Come?!” le ho chiesto stupita. “Sì! sì!, alla mia bici hanno messo un lucchetto, ven-ga è qui di fuori”. “Ma, signora, forse è meglio attendere, sarà stato messo per errore”; è così che la signora arrabbiatissima, indispettita per non aver potuto mettere in atto il suo intento per colpa mia, va fuori per rientrare da lì a poco dicendomi che si era accorta che la sua bici era parcheggiata quattro metri più in là e quella con il lucchetto da “scassinare” era identica alla sua... meno male!

Ci vuole anche tanta pazienza in un centro commerciale di provincia come il mio, in una cittadina dove si conoscono quasi tutti, la guardia per loro è come il vigile che sta nella piazza del centro, la frase tipica è: “Lei che è un vigile sicura-mente lo saprà”!

Così la pensava quel vecchietto quando con convinzione mi chiese se potevo raccomandarlo per andare a fare volonta-riato nei vigili del fuoco. “Sa sono ancora molto in forma e mi rammaricherebbe essere scartato solo perché anagraficamente sono avanti con l’età”, mi disse facendomi l’occhiolino.Eh sì, l’età non conta davvero, neanche per il signore che uscì con un forno a microonde sottobraccio dall’uscita senza spesa, quasi quasi pareva fischiettasse. Quando lo fermai affermò de-ciso: “Non penserà mica che lo sto rubando? Lo porto a casa per provarlo, poi torno a pagarlo!”.

Certo mi è capitato pure che un tizio con un televisore nel carrello venendo da un negozio di elettrodomestici del centro commerciale, entrando nell’Ipercoop mi chiedesse in quale cassa poteva pagare. “Ma lei questo televisore dove l’ha pre-so?”. Capito che il signore era uscito da MediaWorld senza pagare, incomprensibilmente senza essere visto, ho sorriso tra me pensando che se fosse stato “avvistato” dal personale del negozio mentre oltrepassava le casse indisturbato avviandosi

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in galleria, non avrebbero mai creduto alla sua buona fede!“Signore, non può pagarlo all’Ipercoop!” gli dissi gentilmente, accompagnandolo nell’altro negozio dove, spiegato l’equivo-co, il personale stupito fece pagare il televisore al loro cliente!

Certo la comicità di alcune situazioni alleggerisce i mo-menti in cui devi intervenire a sedare le risse tra i clienti alle casse che si azzuffano per la fila, apostrofandosi con i soliti “lei è un maleducato” fino al classico “ti aspetto fuori”. Non sem-pre è facile pacificarli ma, potere della divisa che indossiamo, riusciamo ad intimidire i più chiassosi e calmare le animosità di quelli che dalle parole passerebbero senza esitare ai fatti.

Poi c’è anche il furbo che, uscito con un carrello colmo e da noi bloccato, per fugare lo sguardo sospettoso con cui lo guardiamo, con occhi innocenti dice che voleva pagare dal di fuori delle casse, “da lì, vede? non c’è fila!”

Vero, in tutti questi anni non ci sono neanche mai mancati momenti difficili dove la richiesta principale è la capacità di controllo delle situazioni.Come quella volta che un tale, dopo aver indossato capi di abbigliamento e un costoso paio di scarpe, cercò di guadagnare l’uscita senza pagare. In quell’occasione, il ladruncolo, non ri-uscendo a sfuggirci tentò di scappare all’interno dell’area ven-dita, ci fu un inseguimento con salti allo scaffale, dribbling tra i clienti e difficoltà da corsa ad ostacoli.Alla fine quando riuscimmo ad agguantarlo e a tenerlo fermo, aggressivo com’era gli ci vollero solo un paio di manette con un epilogo negli uffici della polizia.

Insomma tanti gradi di difficoltà e la stessa voglia di sem-pre: garantire, vigilare, controllare, su e giù dalle casse a cam-minare, camminare, camminare.

Rosalba Rivoli, 48 anni, Bologna, in Coopservice dal 1997

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Fa molto freddo oggi, siamo rimaste sole, ancora non mi rendo conto ma è così, è la realtà da accettare, le cose non cambieranno, lui, il nostro pilastro di vita se n’è andato, e adesso il vuoto totale, come si fa a vivere? Devo rientrare al lavoro, per fortuna i colleghi sono anche amici, sto bene con loro, la mia presenza è solo fisica, la mia mente è assente, ma so che mi aiuteranno, si preoccupano per me, mi chiamano, mi portano fuori con loro.

Passano i mesi, un anno, niente, il pensiero è sempre lì; nulla mi sprona, gli amici, l’orchestra, il compagno, il lavoro, nulla, neppure il tempo che si è fermato a quel primo giorno di marzo piovoso e gelido; sì, ti parlo, ma non ti vedo, sono sicura che mi senti, ma io non sento più niente.

Anche tu che mi vuoi un bene dell’anima, non sai come aiu-tarmi, per me la vita è troppo lunga, non mi va più di viverla tutta se è così che devo viverla, non immagini neanche il mio dolore, però quel giorno mi accompagni in un posto, qualcosa cambia, e mentre tu mi dici: “Guarda quel batuffolo che spunta dall’erba”, vedo due occhietti neri che mi fissano e dicono: “Ti voglio già bene”, mi stai chiedendo di portarti con me?

Il destino ci ha fatti incontrare, non è un caso se eri lì pro-prio in quel momento; infatti da quel momento la nostra vita è cambiata in tutto.

Ti porto in ufficio, i miei colleghi e il mio responsabile sono

Ulisse

Rossana Salsi

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contenti, forse ho trovato un’ancora di salvataggio, ti lasciano stare al lavoro con me quel giorno, questo mi aiuta molto.

Nel frattempo mi accorgo che qualcosa in te non va, però ti voglio già troppo bene, affronteremo tutto insieme, sei pic-colo, ma ti vedo star male, soffri, i dottori dicono che è la mia immaginazione, sono seccati perché li chiamo in continuazio-ne, peggiori ogni giorno, cosa devo fare?

Mi contattano uno specialista a Roma, forse lui sa cos’hai piccolo tesorino mio.

Non mi sono sbagliata, sei ammalato, una malattia rara, au-toimmune, dicono, una sventura che capita agli uomini come ai cagnolini indifesi, ma ci sono io topolino, non mi arrendo, costi quel che costi.

I due anni di continue sfide con la malattia ci assorbono completamente, il tempo passa, ti voglio un bene dell’anima, quando mi vedi arrivare piangi dalla gioia ogni volta, di’ la verità, ti ha mandato lui vero da noi?

Inaspettatamente la malattia si addormenta, passiamo in-sieme otto anni bellissimi e spensierati; mamma, siamo salve grazie a lui.

Una notte il destino capovolge le cose, in ogni modo mi fai capire che stai male, male come allora, forse peggio, tutto ricomincia: in fin di vita. Una volata in clinica e la sentenza spietata “pancreatite fulminante”, non danno speranze, sven-go, salvatelo per favore, vi prego. Chiamo il mio responsabile e le mie colleghe capiscono perfettamente come mi sento, come sto, sanno tutto di lui, sono disperata; mi dicono di prendermi tempo per risolvere il problema, lo sapevo che mi avrebbero aiutata ancora.

Sto qua draghetto, non ti lascio solo, dormo sul pavimento, vicino a te giorno e notte, tutto il tempo che sarà necessario, non te ne puoi andare, non sono pronta, non posso sopportarlo. È il pessimismo più totale di tutti i veterinari, ti guardo mentre dormi, piccolissimo, con tutti quei tubicini, non pesi

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nemmeno due chili, ma di tanto in tanto alzi gli occhietti per controllare se sono lì.

Improvvisamente ti alzi, la febbre è passata, ti riprendi pia-no piano, tra gli sguardi increduli di tutti; grazie papà, ma la tua malattia si è risvegliata, e nessun dottore la sa curare, mi spiegano che in Italia non c’è lo studio: ok, se è così, allora la studio io.

Mentre per sei mesi corriamo almeno tre notti a settimana in clinica, gli antibiotici che tengono sotto controllo la ma-lattia ti stanno distruggendo, io intanto continuo a studiare questa “enterite linfoplasmacellulare autoimmune” e capisco alcune cose.

Faccio altre ricerche e scopro il nome di un professore a Gi-nevra specializzato in queste malattie, lo chiamo, il bene che ti voglio non ha prezzo, rinuncio anche alla musica – unica pas-sione della mia vita da trentacinque anni – tu hai salvato me, io salverò te, non mi pesa rinunciare a tutto, il mio interesse è solo vederti star bene, ti ho fatto una promessa quando ti ho adottato, e la manterrò ad ogni costo.

Grazie a questo professore che ti segue, i miglioramenti sono immediati, la febbre è scomparsa, incrocio le dita, ma le cose sono comunque molto cambiate, fai una vita serena insie-me a noi e tutti i giorni qui qualcuno mi chiede di te.

Dico grazie ai miei colleghi, perfino ai ragazzi che lavorano nei cantieri, credevo che nessuno capisse il mio amore, amore verso un cagnolino indifeso, ma mi sbagliavo, mi hanno dato un aiuto sia morale che pratico, sostituendomi quando c’era bisogno e interessandosi sempre di come andavano le cose, ancora adesso la prima cosa che molti mi chiedono quando entrano in ufficio è: “Come sta il tuo adorato Ulisse?” Perché come alcuni di loro mi hanno fatto notare “gli affetti di una persona, non si possono discutere”.

Rossana Salsi, 46 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 2000

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La chiamavamo così tra noi, guardie particolari giurate dell’istituto di vigilanza per il quale lavoravo sin dal 1997.

Era il soprannome che avevamo dato alla villa a due pia-ni che si estendeva per cinquecento metri quadri al centro di un polmone verde grande almeno il doppio, poco fuori dal paese dove ogni notte effettuavo il servizio di pattuglia. Villa di proprietà di un nostro cliente. Un cliente importante che possedeva una grande azienda di componentistica elettronica legata alla produzione della telefonia cellulare sita nella zona industriale poco fuori l’abitato. Era praticamente il padrone del paese. La metà degli abitanti di sesso maschile e un quarto di quelli di sesso femminile lavorava per lui e chi non lo faceva direttamente, era legato all’indotto che la fabbrica produce-va.

Aveva una moglie, la sua seconda, noto avvocato del foro di Reggio Emilia, e una bambina di cinque anni. Altri due figli vivevano in Inghilterra con la madre, che aveva divorziato dall’uomo molti anni prima.

Noi rispondevamo alle eventuali segnalazioni d’allarme eseguendo controlli dell’area cortiliva, un parco di semprever-di, che la circondava. Non potevamo accedere all’interno se non accompagnati da persone autorizzate.

La chiamata mi arrivò alle due del mattino. – Vai a controllare – mi disse il collega dalla centrale.

La Reggia

Mario Uccella

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– Hanno spento l’allarme e dentro non rispondono. Se hai bisogno d’appoggio fammelo sapere. –

Non avevo bisogno d’aiuto. Sapevo com’erano fatti la villa e il parco. Se avevano spento l’allarme non poteva essere stato che qualcuno della famiglia del cliente.

E infatti non appena raggiunsi il cancello principale, in ferro battuto lavorato a disegni floreali, notai subito un’auto dall’aria familiare. Una Audi A4 station wagon. L’auto della signora era parcheggiata nel vialetto di ghiaia che conduceva alla casa. Suonai al videocitofono esterno posto sul lato sini-stro e il cancello si aprì, cigolando in maniera sinistra, come per un grido di dolore. Aveva un disperato bisogno d’olio nei cardini! Raggiunsi l’ingresso della casa e scesi. La signora si palesò sull’uscio un attimo dopo. Alta, capelli tagliati corti all’altez-za del collo, fisico asciutto, tacchi alti. Ricordai d’averla vista qualche volta all’ingresso del tribunale quando facevo il servi-zio al metal detector. – Buonasera. – dissi, avvicinandomi. – È tutto a posto? – – Sì, sì... grazie. È tutto a posto. – Nella voce un’incrinatura. Mi avvicinai un altro po’. Lei prese a guardarsi alle spalle. Spostava nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro. Prese una sigaretta dal pacchetto che teneva tra le mani e l’accese. Soffiò il fumo verso l’alto. – Ci chiedevamo come mai non rispondesse al telefono. – – L’ho sentito squillare ma non sono riuscita a rispondere. Stavo cercando il numero per chiamarvi. – – Se permette allora avverto io che è tutto regolare... – – Va bene. – e tirò un’altra boccata.

Mi voltai per raggiungere la macchina e aprire il canale di comunicazione con la centrale tramite la radio di servizio.Non feci in tempo. Una botta alla testa fece diventare tutto nero all’improvviso.

Quando il buio si dissolse, mi ritrovai disteso a faccia in

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giù sul pavimento in cotto di un salone che pareva una piazza d’armi. La testa mi faceva un male cane. Volevo passarmi una mano tra i capelli per tastare il bozzo sulla nuca ma non potei farlo: avevo le mani bloccate dietro la schiena e più cercavo di divincolarmi più sentivo stringersi qualcosa di plastica attorno ai polsi. Dovevano aver usato delle fascette da elettricista per legarmi.

Mi guardai intorno. Sulle pareti c’erano arazzi e quadri di grande valore, pari a qualche annata del mio reddito. Un gran-de tavolo con quattro sedie che parevano troni al centro. A una estremità della stanza c’era la padrona di casa, espressione atterrita, che guardava nella mia direzione.

Di fronte avevo due tizi, facce patibolari. Armati.Uno aveva in mano una semiautomatica dall’aria molto fami-liare. Era la mia pistola d’ordinanza. Mi ero fatto beccare come un pivellino alle prime armi. Non potevo fare altro che assi-stere impotente alla più classica delle rapine in villa, di quelle che si leggevano spesso sui giornali. Almeno così credevo. – Non dovevate... – sentii dire alla donna. – Mi avevate promesso... – – Sta’ zitta! – la minacciò uno dei due.Italiani. Senza inflessioni dialettali. Il pregiudizio sui furti per-petrati dagli extracomunitari era stato infranto.

L’altro malvivente si avvicinò a me, agitandomi sotto il naso un’altra pistola, un revolver sei colpi. – Qualcuno sa che sei qui? – chiese. – La mia centrale... Manderanno qualcuno a controllare se non rispondo. – – A questo abbiamo già pensato. La signora ha chiamato, ringraziato e ha detto che segnalerà la tua solerzia ai tuoi capi. –

Ridacchiò. Si avvicinò ancora e potei osservarlo meglio. Barba lunga di tre giorni, occhi nero carbone. Sulle braccia tatuaggi di fattura artigianale. Un delinquente entrato e uscito dalla galera chissà quante volte.

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– Prendete quello che volete e andatevene. – provai a dire. – Vi lasceremo il tempo di scappare prima di... – – Sentitelo l’eroe! – e rise di gola. – Non hai capito proprio niente. Abbiamo già tutto quello che ci serve... e pure di più. – La signora si avvicinò e l’abbracciò. Lui mi guardò. Il sorriso di scherno divenne un ghigno. – Hai capito adesso? –

Avevo capito. E la faccenda si stava trasformando in un incubo.

Pochi minuti dopo, i due malviventi si allontanarono per completare la messa in scena del finto furto. La signora e io ri-manemmo soli nel salone. Lei accese un’altra sigaretta e soffiò il fumo verso il soffitto. I nostri occhi si incrociarono. – Non mi guardi così. – disse.Non la stavo guardando in nessun modo. Cercavo di capire come restare vivo. – Mi sono innamorata. – continuò. – Questo almeno lo capisce? E lei capisce che non mi lasceranno libero?Che... che vuol dire? – Dovrà giustificare anche una morte, signora. La mia. – – Non ce ne sarà bisogno. Io andrò con loro e... E a sua figlia non pensa? – – Mia figlia verrà con me. – – Vuol dire che è qui, con lei? – – Di sopra, dorme nel suo letto. – – Lei deve essere completamente impazzita. – – Non le permetto! – – Posso permettermi quello che mi pare. La pelle è mia. –

Stizzita, spense la sigaretta nel posacenere che stava sul ta-volo. Uscì a passo svelto. Andava a raggiungere la figlia o i suoi complici, vallo a sapere. Uno dei due ladri, quello che mi aveva sottratta la pisto-la, comparve sulla soglia del salone. Aveva un sacco nero del pattume sulle spalle. Era colmo sino all’orlo. Se il furto andava

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simulato, doveva essere fatto per bene. E infatti aveva un sor-riso soddisfatto stampato sul volto. – Quant’è la tua parte? – dissi. – La metà. – – La metà... ma la signora se la pappa il tuo socio. E a te resta solo il rischio. – – Nessun rischio. – – Mi ammazzerete. Trent’anni di galera non te li toglie nes-suno. – – Lui non mi mollerà. E non ci torneremo più in carcere! – – Coi soldi della signora, lui non ci finirà di certo. – – Piantala! M’hai rotto. –

Non è affatto piacevole guardare la propria pistola carica dalla parte della canna puntare dritto verso la tua testa, sape-te? Niente affatto piacevole. – E allora? – ringhiò. – Hai qualche altra bella stronzata da dire? – – Bravo... – dissi sforzandomi di restare calmo. – Ammazza-mi e sarai fritto sul serio. Le tue impronte sulla pistola e il tuo amico che se la ride. – Per un attimo ebbi la netta sensazione d’averlo punto nel vivo. Sudava e pareva riflettere tra sé. Ritrasse la pistola e ca-ricò un calcio. Mi piegai per attutire il colpo. Il socio e la si-gnora rientrarono nel salone in quel momento esatto, con un tempismo perfetto. – Che stai facendo? – gli chiese il complice. – Mi preparo all’ergastolo. – rispose l’altro. – Non è quello che mi succederà? Finirò al gabbio, come avete deciso tu e la signora! – – Ma che stai dicendo? – Gli puntò la mia pistola sulla faccia. La signora sbiancò e co-minciò a tremare. – Sto parlando di te e lei... dei soldi e di quello che mi spetta! –

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– La metà. È quello che abbiamo pattuito... – – Tu ti prendi lei e i suoi soldi e a me lasci un morto sul groppone! – – Che ti piglia eh? Si può sapere? – e alzò il revolver nella direzione del complice. – Mi prende che non dovevo fidarmi di te! – – Piantala! Che vuoi che faccia, eh? Che mi liberi di lei? Vuoi che la mandi via? Ecco... lo faccio! –

Spinse la signora che finì prima per sbattere contro una del-le sedie a forma di trono e poi in terra. Lei lo guardò stranita. – Non me ne frega niente di lei. Non conta niente. – con-tinuò. – Non basta! – urlò l’altro. – Voglio i miei soldi e li voglio ora! –

Guardai la signora dolorante a terra. Il suo sogno d’amore aveva assunto le tinte di uno psicodramma.

– Vuoi che l’ammazzi, eh? L’ammazzo qui adesso! E poi am-mazzo pure la bambina. – Il suo innamorato le puntò il revolver alla testa. Cominciò a piangere.

– Non mi basta! – e il complice premette il grilletto. La pallottola sfiorò la testa dell’altro che si abbassò e fece fuoco a sua volta. Senza sbagliare il colpo.

Il secondo malvivente fu sbalzato all’indietro e sbatté con-tro il muro che aveva alle spalle per poi afflosciarsi come un sacco vuoto, immobile. Era morto. L’altro si rivolse verso di me con espressione rabbiosa, puntandomi la pistola. È colpa tua, brutto pezzo di m... Non riuscì a terminare la frase. Ancora oggi non so come la mia pistola fosse riuscita a scivolare sino alle mani della signora che l’aveva stretta e puntata contro l’ex amante.

– Voltati, brutto figlio di p... – aveva urlato. E aveva spara-to. Il ladro s’era stupito. Aveva incassato due colpi al bersaglio grosso e s’era abbattuto in avanti. Erano morti entrambi inse-guendo un sogno finito contro un muro fatto di pallottole.

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La signora aveva mollato terrorizzata, la mia pistola e ora se ne stava in terra, inebetita, a guardare i due cadaveri e il sangue che cominciava a sporcare il costoso pavimento del salone.

Strisciai verso i corpi. Cercavo qualcosa per potermi libera-re. Per mia fortuna, trovai in una tasca una tronchesina. Cer-cai di scuotere l’apatia della donna.

– Smetta di piangere e venga a darmi una mano! – le urlai. – Pensi a sua figlia... –

Non so come lei si alzò, prese la tronchesina e pur con qual-che difficoltà riuscì a spezzare le fascette che mi legavano le mani. Recuperai la verticalità e presi il cellulare per avvertire la mia centrale e le forze dell’ordine.

– Si sono ammazzati a vicenda... hanno litigato per spartirsi il bottino e hanno pensato bene di risolverla con le pistole. – dissi all’operatore che lo chiedeva come si fossero svolti i fatti. La signora mi guardò. Si asciugò le lacrime con le mani e scappò verso il piano superiore della casa. Stava andando dalla figlia e a maledire la sua stupidità. Forse.

Il pm di turno che relazionava al procuratore capo via cel-lulare. Le luci blu delle gazzelle dei carabinieri e quelle delle autoambulanze. I tecnici della scientifica impegnati nei rilievi. I sacchi neri della mortuaria che avvolgevano i due cadaveri.

Il padrone di casa, premuroso, cercava di preservare la moglie dalle domande indiscrete dei tutori dell’ordine e dei giornalisti, accorsi a frotte non appena la notizia s’era diffu-sa. Quanto avrebbero dato per sapere che la signora era stata complice dei rapinatori e stava per scappare con uno di loro?

– Tutto bene? – mi chiese il maresciallo Branco, coman-dante della locale stazione, avvicinandosi. Ci conoscevamo bene. Il suo caratteristico accento romano mi ricordava quello di Tomas Milian nei poliziotteschi anni Settanta.

– Sì. Tutto bene. – – Dovrai risponne a ‘n sacco de domande. –

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– Lo so, ma è il meno. – – Comunque nun te devi preoccupa’. La dinamica dei fatti

è chiara, l’ha detto già er magistrato. Chiara sì. – Osservai la signora di sottecchi. Lei ricambiò. L’espressione

pareva di riconoscenza. Branco notò il gioco di sguardi.– Ce quarche cosa che dovrei da sape’? – disse.

– No... l’hai detto pure te che la dinamica dei fatti è chiara. – – Chiara come ‘st’alba... – e stirò la schiena che emise un scrocchio.

Lontano, all’orizzonte, il sole cominciava a incendiare la giornata.

– Che dici, ce ne annamo a prende’ un caffè? – – Paghi te? –

– M’ hai mai visto paga’? – – Mai. –

– Appunto…Annamo! –

Mario Uccella, 48 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 1997

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Trenta giugno, Reggio Emilia. Sono le otto del mattino, in-sieme a Stefano carico la macchina che contiene ben quattro pc, quattro stampanti e quattro terminali per la rilevazione delle presenze: domani c’è l’avvio dell’appalto e come sempre il tempo non è mai abbastanza! Per farci stare tutto devo ab-bassare i sedili posteriori, faccio fatica a caricare i bagagli, do un’ultima controllata...c’è tutto. Imposto il navigatore, Roma, piazza Sant’Onofrio, destinazione trovata, tempo di percor-renza 4 ore e 35 minuti, temperatura del climatizzatore 22 gradi, serbatoio pieno, radio sintonizzata per le informazioni sul traffico, sembra quasi la partenza per le vacanze, ma non è proprio così.

Il caldo e l’afa si fanno già sentire, il vetro dell’auto scotta, la situazione per ora è tranquilla, ma so già che peggiorerà, la compagnia è gradevole e fa passare in fretta il tempo, il viaggio è lungo ma gli argomenti di cui si può parlare sono molti.

Subito dopo aver passato Arezzo, io e Stefano facciamo una sosta in Autogrill: un caffè, una scappatina in bagno e all’im-provviso una sorpresa inconsueta: incontriamo il CT della na-zionale di calcio Prandelli e l’ex giocatore del Milan Albertini: c’è gente intorno a loro, alcuni chiedono un autografo, altri scattano foto. Dopo qualche minuto passato ad osservare la situazione siamo di nuovo in marcia; manca ancora un pezzo di strada e le cose da fare sono molte.

“Vacanze” romane

Dario Vioni

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Verso mezzogiorno, quando il sole si è fatto alto arriviamo a destinazione, telefono ad una collega per chiedere aiuto: ci sono le attrezzature da scaricare e da mettere al sicuro, ci di-cono “presentatevi alla sbarra!”. Facciamo per entrare quando un fischio fortissimo ci ferma, è il portiere, che ci intima: “Non è possibile entrare!”; provo con la parola magica “Coopservi-ce, abbiamo delle attrezzature da scaricare”, qui non si scherza: “Avete dieci minuti dopodiché l’auto viene rimossa!”. Ok.

Entriamo a passo d’uomo effettivamente la via si fa stretta e di parcheggi neanche l’ombra; ci fanno segno di posteggiare in una piccola area di scarico merci, ancora un ordine preciso: “Dieci minuti, ok?”

Finalmente arrivano i nostri, facce conosciute, “presto un carrello, un roll”, “dove possiamo mettere tutta questa roba?”, “di certo non possiamo lasciarla in macchina”; ci risponde risoluta Antonia: “ci hanno dato alcune stanze che stiamo sfruttando come magazzino, lì può andare bene?”. “Perfetto, non chiedevo di meglio”. Inizio a trasportare le attrezzature, arrivo davanti ad un ascensore, primo piano. Esco dalle porte ed inizio a vedere le persone con le divise Coopservice, mi sento già meglio e più a mio agio, entro in reparto, si respira l’aria dell’avvio cantiere, cartoni accatastati, un’area dedicata all’allestimento dei carrelli, un’altra dove ci sono i prodotti, qualcuno che inizia già a preparare le taniche per diluire le quantità.

Chiamo il “capo”: “Monica, ciao siamo arrivati, come ci or-ganizziamo?” “Ti porto nell’ufficio in cui puoi piazzare il primo pc poi ti mostro dove mettere il terminale per le presenze”. En-tro in ufficio, non mi rendo bene conto di quel che c’è, metto giù le attrezzature, attacco i cavi, accendo, provo la connes-sione tutto funziona; è sempre un sollievo vedere che tutto va per il meglio. Poi tocca al terminale, “puoi metterlo qui”, tiro fuori il mio fido trapano HILTI e la “scatola delle meraviglie”, faccio il primo buco nel muro e tutto procede, piazzo il termi-

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nale, faccio le connessioni e terminato il tutto, ho bisogno di sapere se tutto funziona. “Pronto Andrea, ci sei? riesci a pro-varmi il terminale n. 00152?” “Ciao Dario, ok, provo, subito!” Una magica scritta compare sul display, tutto è pronto, tutto è funzionante.

La macchina non ha nemmeno fatto in tempo a raffreddar-si che si parte per un’altra meta, ci sono altri due presidi ospe-dalieri in cui effettuare l’installazione. Carico armi e bagagli, imposto nuovamente il navigatore, mi faccio dare il numero di telefono del referente, poi parto. Percorro la via più antica d’Italia e dopo circa 45 minuti arrivo a destinazione: l’ambien-te è cambiato, mi ritrovo in mezzo al verde, appena scendo dall’auto sento già un’aria diversa, ma c’è il mare! Una leggera brezza soffia e mi allevia la calura, riprendo le forze, prendo il telefono e chiamo: “Pronto, Palmira, sono Dario “Dove sei?”. Cerco di spiegarle dove mi trovo, l’ingresso è sempre un buon punto di ritrovo, mi viene incontro, “vieni ti accompagno”, dopo qualche metro mi indica il luogo e mi dice: “il terminale va piazzato qui”. Installo il tutto, richiamo Andrea a Reggio Emilia: “Prova!”, tutto ok anche stavolta, le cose stanno an-dando al meglio.

Quando sono le cinque sono in viaggio verso l’ultimo pre-sidio ospedaliero dove devo installare l’ennesimo terminale, arrivo in un paese movimentato, mi avevano detto che era un bel posto, ma di certo non lo immaginavo così! Tutt’intorno è pieno di gente in costume che va e viene, sono distratto, ma il navigatore non si lascia disorientare dall’aria vacanziera, mi intima di svoltare, ci sono! Parcheggio davanti all’ospedale, mi viene incontro una guardia Coopservice, mi mostra dove installare il terminale, eseguo gli ordini, faccio tutte le prove del caso, anche questa è andata, per domani è tutto pronto.

Sto per andarmene, ma vengo attratto da un bagliore, salgo su di un ponticello, faccio qualche passo e vedo il sole che si specchia sul mare è valsa la pena di percorrere tanta strada, a

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volte piccole soddisfazioni ti ripagano di grandi fatiche. Vorrei restare per vedere il sole che si spegne nel mare, ma i miei compagni di avventura mi aspettano, tra me e me penso: “non si abbandona il gruppo!” Risalgo nuovamente in macchina, imposto il mio fido navigatore e riparto. All’imbrunire entro in Roma, c’è una magica atmosfera, percorro la strada lungo il Tevere, sulla sinistra fa capolino l’isola Tiberina, poi all’oriz-zonte scorgo la basilica di S. Pietro illuminata, ormai ci siamo.

Raggiungo i miei colleghi a cena, poche parole, istruzioni ben chiare, domani è il grande giorno!

Sono le quattro e un quarto del mattino del primo luglio, squilla il telefono sopra al comodino della stanza d’albergo, mi affaccio alla finestra e vedo il “capo” che richiama all’ordine, prendo il telefono e rispondo: “scendo subito”.

Pur essendo prestissimo l’afa mi investe, mi manca l’aria, ma devo prendere fiato perché la giornata sarà lunghissima, è proprio una levataccia ma pur sempre passeggera, penso a quelli che dovranno farlo per giorni, settimane, per portare tutto a regime, far funzionare le cose al meglio; il pensiero mi risolleva, ora ho ripreso fiato, muoviamoci è tempo di recarsi al lavoro.

Sono più di cento scalini quelli che mi separano dall’ospe-dale, sembra una montagna insormontabile, vista l’ora; arran-co, sbuffo, dove sono finiti i miei vent’anni.... Ormai ci sono quasi, finalmente vedo la strada fatta di sanpietrini, ci siamo, ancora un piccolo sforzo ed è fatta.

Apro l’ufficio e trovo un locale angusto, anche se ne ho visti di peggiori, sono pronto e alle cinque, speriamo puntuali, arriverà il personale. Il mio compito consiste nella consegna dei cartellini e impartire le istruzioni operative su come tim-brare, per certificare la propria presenza al lavoro con Coopser-vice, ed iniziare il servizio. Mancano venti minuti all’ora X ed iniziano ad arrivare i primi, cosa devo fare? Come funziona questo “affare”? Ma se sbaglio qualcosa? Se una mattina arrivo

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in ritardo? Ormai è normale amministrazione, ne ho già visti tanti altri, Stefano, mio compagno di avventura, seguirà l’av-vio, preparazione dei carrelli, istruzioni sul codice colore, l’at-tenzione ai prodotti ed alle diluzioni: tutte operazioni semplici sulla carta ma fondamentali per erogare un servizio di qualità.

In “galleria”, così viene chiamato questo lungo corridoio di collegamento, sfrecciano i carrelli, sembra quasi una sfilata, ad ogni caposquadra è assegnata una funzione, uno stabile da seguire e le parole d’ordine sempre le stesse: essere invisibili, subentrare a chi c’era prima senza farsi notare, ridurre i disser-vizi e offrire un servizio di qualità.

La mattina trascorre apparentemente tranquilla, il sole si fa sempre più audace, aumenta la calura e l’afa, ma noi sia-mo sempre lì, attenti, vigili, pronti a rispondere nel migliore dei modi e nel minor tempo possibile, ormai è l’ora di pranzo, qualcuno chiede: “Che si fa?” Idea! un volontario fa scorta di panini al prosciutto e bottigliette d’acqua, ci si ritrova tutti nel “magazzino” per una breve ma meritata sosta. Ed è questo il momento, più bello: ritrovarsi tutti insieme e ricreare sempre l’atmosfera della cooperativa, per condividere le difficoltà.

Iniziano i primi commenti, i primi consigli e ci si sostiene a vicenda, ed è questo il vero momento di crescita per poter carpire i segreti dell’altro, riunire insieme esperienze diverse, per poi metterle in pratica nel lavoro di tutti i giorni.

La mia strada si separa dal resto del gruppo, prendo l’auto e mi reco nell’ultima delle sedi distaccate per proseguire con l’installazione dei sistemi di rilevazione e piazzare il pc che sarà un utile compagno per la gestione della commessa.

Il traffico è tremendo, per noi abituati alla calma della pia-nura, “sghetto” tra le auto, cerco di farmi spazio, il navigatore mi assiste, senza di lui sarei perso, prossima tappa via Baldelli. Lì incontro vecchi amici, Roberto e Fabrizio che sono con noi dal 2006: finalmente dei volti conosciuti, qualcuno su cui con-tare. Procediamo, con l’installazione del terminale e poi dritti

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in via San Nemesio, dove anche lì c’è da piazzare un compu-ter; si lavora in sinergia dove possibile.

Ormai, anzi finalmente, è sera ed è tempo di tornare alla base, serve una doccia, anche fredda perché la giornata è stata pesante e non è ancora finita, le giornate in ospedale non fini-scono mai e pochi sono i momenti di stasi, c’è sempre qualcuno che ha un problema, una necessità, la vita qui non si ferma mai.

Dopo una doccia rivitalizzante ci troviamo tutti per la cena, finalmente è tempo di riepiloghi e ci si raduna fuori dall’hotel; qualcuno si fuma l’ennesima sigaretta, non oso pensare quan-te, dopo una giornata del genere, ma in certi momenti ci si aggrappa a tutto. Partiamo per il ristorante e una volta trovato ci sediamo, ci guardiamo negli occhi, stanchi ma soddisfat-ti: è stata dura ma anche questa volta è andata. La tensione inizia a scendere, i volti si fanno distesi e ora è proprio il mo-mento delle chiacchiere e della compagnia. Attenzione però mancano all’appello le ragazze del personale: ci sono le ultime comunicazioni da fare, ci sono degli obblighi imprescindibili. Ordiniamo anche per loro perché poi ci raggiungeranno e cer-cheremo di renderle partecipi della “festa”, aggiornarle sulle battute migliori, sugli aneddoti, da condividere con loro; non deve sfuggire nulla perché la giornata è stata bella e dev’es-sere vissuta in tutto e per tutto. Eccole che arrivano, Laura, Michela e Gloria, “Com’è andata?” chiede qualcuno, “Bene, comunicazione SARE fatta!” è stata dura ma è finita.

Ormai sono le undici di sera e dopo le prime fasi in cui si è scherzato e qualcuno si è fatto anche una bella risata, le forze ci stanno abbandonando. Si paga il conto e si torna all’hotel: l’ultima sigaretta, l’ultima battuta, poi tutti alle brande. Entro in camera, mi stendo sul letto e un pensiero mi pervade prima di addormentarmi: tutto sommato è andata bene, lo spirito dell’avvio cantiere anche stavolta ci ha assistito!

Dario Vioni, 39 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 2004

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C’era una volta una fanciulla nata in una città sul mare, dove non c’era mai la nebbia e il clima era sempre dolce; la fanciulla, che tutti chiamavano Lu, era anch’essa dolce come la brezza del suo mare e viveva i suoi giorni pensando.

Era curiosa del mondo e della vita, si faceva mille domande giungendo a delle conclusioni tutte sue e poi aveva un sogno.

“Immagina - diceva una canzone - immagina che non esi-stano più i paesi, che non ci sia più nulla per cui uccidere o morire. Immagina che tutti possano vivere in pace. Puoi dirmi che sono un sognatore, ma non sono l’unico a sognare, imma-gina che non ci sia più bisogno di avidità e fame, immagina tutta la gente che si divide il mondo”.

Questo era il suo sogno.Lu adorava il vento, che nella sua città quando soffiava,

spettinava anche le idee. “I matti amano il vento”, le diceva la gente.

Mah! Forse un poco matta lo era davvero perché andava in bagno senza la compagnia delle amiche e non piangeva mai se non per le ingiustizie; allora piangeva di rabbia con dei grandi sospiri e grossi lacrimoni.

Non era una persona d’azione, ma di parole; però non aven-do la voce acuta e tonante nessuno la ascoltava.

Storia di Lu *Luana Aceti

*Fuori concorso

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Avrebbe voluto dipingere per trasferire sulla tela le sue emozioni che non sapeva tradurre in parole, avrebbe voluto fare l’archeologo per dare alle sue domande risposte a cui nes-suno poteva dar soluzioni, ma diventò ragioniera. Ragioniera? Com’era lontano dal suo sentire il mondo dei “conti”!

Eppure s’impegnò nel lavoro e con la solita curiosità, tro-vò soddisfazione anche nel fare la ragioniera. Lavorò in una piccola ditta di pulizie, dove imparò: buste paga, personale, contabilità, gare e tutto senza computer, non esisteva ancora; per quanto aveva scritto, il dito dove poggiava la penna si era deformato.

La ditta era privata con il “padrone” sempre presente in ufficio: lui decideva qualunque cosa. Lu imparò, con grande fatica, che i dubbi, le opinioni, i sug-gerimenti non sempre vanno manifestati perché il “padrone” ha le sue certezze, le sue convinzioni e non vuole consigli: lui pensa per noi, nel bene e nel male.

Passarono venticinque anni e quando ormai Lu non si po-teva più dire “fanciulla”, trovò un altro posto di lavoro. Questa volta la ditta era una cooperativa.

Cooperativa? “Chissà cos’è” si chiese, lei sapeva solo che i lavoratori di una cooperativa si chiamano “soci” e che versano una somma di denaro per partecipare agli utili.

E così si trovò in un altro mondo. Naturalmente il lavoro era rinnovato dalla nuova tecnologia, ma tutto il resto...

C’era sempre un via vai di persone indaffarate, tutte si da-vano del tu e lavoravano, ora con l’uno ora con l’altro, in li-bertà e armonia, così sembrava a Lu che era decisamente fra-stornata. Quello che la faceva preoccupare di più era che non sape-va mai a chi chiedere; c’era così tanta gente con così tante qualifiche e responsabilità diverse, che pensava: “Questa volta non ne esco viva”. E invece dopo un po’ di tempo e con tanta pazienza capì.

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Capì che non c’è un “padrone” che decide tutto, ma come nella migliore delle democrazie, tutti potevano partecipare alle decisioni per il bene della cooperativa che è poi il bene dei soci.

Era chiaro che c’erano soci leali, collaborativi, competen-ti e con obiettivi comuni; ed altri arrivisti, egoisti, scorretti, invidiosi, avidi di potere, incapaci e quindi disinteressati al bene collettivo. Costoro non sapevano o non volevano sapere che dal “dare vitalità” al lavoro collettivo, avrebbero avuto un ritorno concreto anche loro.

I valori societari, però, erano sani e in quello credeva Lu. Le persone sbagliate, con la volontà comune si potevano e si dovevano isolare e allontanare.

Pianse ancora per le ingiustizie che subirono alcuni e gioì ogni volta che i meriti erano premiati.

Passarono i mesi e gli anni sempre seduta alla sua scrivania, non essendo ambiziosa non si esibiva e aveva alti e bassi come tutti.

Le piaceva, soprattutto, trasferire quello che aveva impara-to a nuove colleghe, ma non le piaceva assolutamente telefo-nare: il telefono era occupato, la persona cercata non c’era op-pure era fuori stanza, “riprovi più tardi”, il telefono squillava, squillava e non rispondeva nessuno, intollerabile e seccante!

Un giorno, che pareva come tanti, arrivò una telefonata dal Presidente in persona che le disse: “Sei stata scelta per far parte del Cda”. Cda? Consiglio d’Amministrazione? Oddio e adesso? Io? Ma proprio io? Io Lu? E perché? E cosa devo fare? E cosa vuol dire far parte del Cda di una Cooperativa così grande? Le venne la tremarella, iniziò a balbettare e a pensare... Anche i pensieri incespicavano. Una bella responsabilità! Cera in gioco il futuro della Coo-perativa e di tutti i soci e dipendenti, “il bene comune”.

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Beh! Accipicchia! Forse adesso qualcuno l’avrebbe ascoltata.Immagina…le rimbalzò in testa la canzone; certo, immagi-

na tutta la gente che si divide il mondo!Ripassò i valori della Cooperativa:

1) Lavoro di squadra: nessuna divisione e rivalità, ci si aiuta nelle difficoltà e poi l’unione fa la forza;2) Coerenza: insieme si studia e si decide una linea di compor-tamento e di sviluppo e, in squadra senza incertezze, si prose-gue fino al raggiungimento dell’obiettivo;3) Trasparenza: nessun muro divisorio per chi si vuol nascon-dere, nessuno specchio che rifletta la vanità, nessuna colonna per celare gli agguati e che le parole non siano mute per colpa di un vetro, ma alla luce del sole e senza paure, raccontarsi, suggerire, consigliare, dubitare, arrabbiarsi per costruire insie-me e fare sempre pace.

Lu adesso era pronta, serenamente e con animo fiducioso si mise a disposizione con la volontà di soddisfare il suo sogno, senza presunzione, senza ambizione.

Purtroppo tutto il mondo occidentale stava vivendo un pe-riodo di vacche magre, crisi, recessione, disoccupazione, deca-denza; un nuovo medioevo, dove il solo valore era l’egoismo.“Con mastodontica fatica e sconfinata fiducia” - si disse, decisa e convinta - Lu, proviamo a continuare la costruzione di una casa sicura e accogliente in seno alla nostra Cooperativa”.

Nessuno sa come andò a finire. Ma se tendi l’orecchio sen-tirai anche tu: “Imagine all the people sharing all the world”.

Ah dimenticavo! La cooperativa era, è e sarà sempre: Coo-pservice società cooperativa per azioni.

Luana Aceti, 57 anni, Genova, in Coopservice dal 1999

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Mi chiamo Rosalia e attualmente svolgo il ruolo di capo cantiere presso l’Ospedale Civico di Palermo.

Vorrei raccontarvi il mio ingresso in Coopservice; è sta-to nel luglio 2001, dopo che la fabbrica per cui lavoravo, nel settore tessile, aveva chiuso per problemi di mercato ed ad un tratto mi sono ritrovata in mobilità, con grande preoccupa-zione per la mia famiglia e per me, anche perché in Sicilia le opportunità erano poche.

La Coopservice nel 2001 aveva vinto l’appalto delle pulizie all’Ospedale Civico ed ha assunto le persone che facevamo parte di un progetto in ospedale. Ero contenta perché non mi sentivo più tagliata fuori dal mondo del lavoro, mi si apriva un nuovo mondo, visto che venivo da un altro settore.

Quello che mi ha colpito ed entusiasmato in questo lavoro sono state le persone che ho conosciuto. Ho cominciato come addetta alle pulizie nel reparto di dialisi, il lavoro mi piaceva ed ero disponibile ad imparare ogni giorno sempre di più.

Un ricordo particolare va a Christian Speciale che purtrop-po ci ha lasciati nel 2005 in seguito ad un incidente stradale con la sua moto. Lui mi diede la responsabilità di capo can-tiere.

Dopo l’incidente di Christian ho conosciuto Arduina Lanzi

La squadra *Rosalia Cangelosi

*Fuori concorso

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una responsabile che ricordo ancora adesso con ammirazione per la sua professionalità, anche perché ci ha aiutato a supera-re il brutto momento ed il vuoto che ci aveva lasciato il nostro Christian.

Con Arduina ho imparato molto, professionalmente; mi faceva vedere la cose in modo da rendermi sempre più capace e sicura nel lavoro. Infatti il nostro appalto cresceva con l’affi-damento di altre aree, come l’alto rischio e l’attività di ausilia-riato, quindi il nostro lavoro dava soddisfazioni e gratificazioni sia ai soci che ai lavoratori non soci.

Arduina ci ha guidati a diventare una squadra compatta e soprattutto con uno spirito solidale.

Adesso i responsabili dell’area sud sono Paolo Pommella e Monica Fabris.

Ciò che accomuna tutti, uomini e donne, sono sani princi-pi di trasparenza e coerenza, che consentono di valorizzare le aspirazioni dei soci e dei lavoratori di Coopservice, come – lo dico con grande orgoglio – è successo a me.

Rosalia Cangelosi, 55 anni, Palermo, in Coopservice dal 2001

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Io non sono tanto brava a scrivere, ma ci provo, raccontan-do alcuni avvenimenti che sono successi nei miei tredici anni che ho lavorato, con orgoglio, per la Coopservice.

Inizio da quella volta che io e la mia collega Enza abbiamo trovato la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Modena al-lagata e lavorando tutto il giorno siamo riuscite a ripristinare tutto.

Oppure da quella mattina che c’erano le lauree e tutti i ragazzi con il vestito “buono” si preparavano a vivere la loro giornata speciale (eravamo emozionate anche noi per loro), ma ad un certo punto saltò un tubo dell’acqua ed iniziò ad uscire acqua sporca ed un futuro ingegnere che passava di lì in quel momento si ritrovò con la sua bella tesi e il suo vestito “buono” tutto nero. Noi non sapevamo se ridere o piangere ma anche questo incidente fu risolto.

Ma quello che voglio raccontare più a fondo è qualcosa che riguarda più da vicino me e la mia collega Enza.

Come ogni mattina ci alzavamo alle cinque e come sempre arrivavamo nel parcheggio esterno della facoltà per fare insie-me la strada che ci rimaneva (tengo a precisare che a quell’ora è ancora buio).

Una mattina trovammo un uomo che come ci vide iniziò

L’uomo misterioso *Angelina Greco

*Fuori concorso

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a seguirci e noi ci affrettammo a correre dentro. Comunque a tutto ciò non demmo molto peso.

Ma la mattina dopo e quella dopo ancora successe la stessa cosa e allora a quel punto ci siamo un po’ impaurite e abbiamo pensato di chiamare le nostre guardie giurate di Coopservice e spiegare loro la situazione. La mattina seguente le guardie giu-rate ci aspettarono come angeli custodi e la cosa ci fece molto piacere; visto che l’uomo era lì, ci fecero salire sulla macchina e ci portarono fin davanti alla porta dell’università. E la stessa cosa fecero per molte mattine. Noi ci sentivamo come due principesse che si recavano al ballo del principe.

Dopo un certo periodo di tempo l’uomo non si vide più ma le nostre guardie giurate continuarono a sorvegliare su di noi.Grazie ai nostri ragazzi non è successo niente ma chi può dirlo? Forse quel poveretto non aveva una casa, era solo, non ave-va famiglia, fatto sta che noi ci siamo prese una gran paura e da allora al mattino ci guardiamo sempre attorno prima di scendere dalla macchina.

Angelina Greco, 61 anni, Modena, in Coopservice dal 2002, in pensione dallo scorso anno

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È nata una nuova stella nel firmamento, si chiama Co-opservice!

Si è insediata a Roma dal 2006 e ha ottenuto subito un grande successo, per la sua etica, la serietà e la professionalità con cui opera. Tutte cose per cui bisogna ringraziare, per il grande impegno che profondono, tutto lo staff dirigenziale con in testa il presidente, Roberto Olivi, ormai famoso in tutto il mondo!

Coopservice dove io lavoro è una grande bella casa, mi pia-ce tanto, anche perché io avendo lavorato per ben sedici anni con la Team Service di Roma come socia, so cosa vuol dire lavorare in cooperativa e so il valore di essere socia.

Essere socia è un grande onore perché sei valorizzata come persona, non sembra nemmeno di fare le pulizie, anzi!

I miei figli mi dicevano sempre: mamma la cooperativa non è la tua. Tu sei un numero! Sei uguale agli altri!

Io allora mi arrabbiavo tanto! Non è così! La ditta, il gruppo me lo sento mio, perché i valori quali il rapporto con le persone, il dialogo, il confronto, la partecipa-zione attiva a tutte le iniziative non ci sono da altre parti. Lavori con grande impegno, dai il massimo di te stessa quando c’è la stima e la considerazione.

“Sì, è anche mia!” *Mirella Puliani

*Fuori concorso

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Insieme, uniti si cresce sempre di più. Quindi evviva la coop, i soci, il gruppo Coopservice. Grazie di esistere.

Mirella Puliani, 62 anni, Roma, in Coopservice dal 2006

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“Ciao, io sono Cesare, che parte interpreti in questa storia?”Un vecchio socio ad un giovane al suo primo giorno di lavoro in cooperativa.

Ho deciso di scrivere per dar voce anche a quelle attività di “struttura” che rimangono sempre nascoste; come farlo? At-traverso il mio percorso lavorativo (la mia interpretazione) in Coopservice. Naturalmente la mia è una partecipazione fuori concorso, mi sentirei in conflitto d’interesse diversamente, mi sembra però importante ricordare l’impegno, la dedizione e la passione che quotidianamente motivano le azioni di noi im-piegati. Il mio ingresso risale a giugno del 1999, all’ufficio paghe.Della permanenza in questa funzione voglio ricordare un epi-sodio del 2001: l’assunzione dei lavoratori socialmente utili (LSU) di Avellino e Napoli, oltre 800 persone. Per motivi di tempo e spazio non ripercorro l’iter che portò diverse persone, da diverse filiali a Napoli il 29 giugno di quell’anno, ma vo-glio partire dall’arrivo in aeroporto dove ad attenderci c’era-no l’allora responsabile del personale Roberto Cinelli e la sua assistente Simona Campanini. Piano, piano, superando tutti i disguidi e i ritardi dei trasporti italiani arrivarono con me dalla sede, Daniela Davoli, Claudia Castellani; dalla filiale del Friuli arrivò Emanuela Belgrado; da quella del Veneto Laura Scorpio

Dal mio osservatorio speciale *Rita Scotti

*Fuori concorso

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e, infine, da quella di Genova Luana Aceti.L’indomani mattina ci saremmo dovuti recare ad Avellino

per l’assunzione di circa 400 persone ed il giorno successivo a Napoli per i restanti; il tempo a disposizione sarebbe stato poco e l’appuntamento era per le otto ad Avellino presso una palestra comunale (se non ricordo male).

Per accelerare ed ottimizzare il lavoro del giorno dopo, ap-pena sistemati i bagagli nelle camere d’albergo, Cinelli si im-possessò di un salottino in un corridoio, ci convocò tutte e cominciò la “distribuzione attrezzi”: elenchi, cucitrici, matite ecc. Lavorammo per preparare tutta la documentazione che ci sarebbe servita all’indomani fino oltre l’una di notte sotto i flash di un gruppo di turisti giapponesi che molto divertiti nel vedere degli italiani, forse napoletani che lavoravano fino a quell’ora tarda, fotografavano senza pietà. In realtà avevamo probabilmente l’aspetto di profughi: stanchi, affamati, seduti in terra in questo salottino e con qualche tramezzino che Ci-nelli era riuscito a recuperare. A tarda notte tutto era pronto, potevamo finalmente dedicarci ad una doccia ristoratrice, ri-posare qualche ora, perché alle sette ci sarebbero venuti a pre-levare dei colleghi per accompagnarci alla nostra destinazione di lavoro.

Non nego di aver pensato: “Alle otto, figuriamoci, da que-ste parti, a quell’ora non ci sarà nessuno, i primi si faranno vedere alle dieci (se va bene)”.

Luogo comune, pensiero retorico, subito smentito. Al no-stro arrivo trovammo già un’interminabile fila di persone che con grande gioia abbracciavano l’opportunità di un lavoro, forse stabile, ma sicuramente con un’azienda seria.

Raccogliemmo non solo firme, ma anche tanti racconti di vita e attestati di speranza. Il lavoro per quella giornata si con-cluse verso le due pomeridiane, saltando il pranzo; ancora una volta Cinelli ci aveva aiutato procurandoci delle pizze e qual-cosa da bere e da consumare durante il lavoro.

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Inutile dirlo, eravamo stanchissimi tutti, ma con una gran-de allegria e soddisfazione interiore. L’ultimo ricordo è di una telefonata che arrivò mentre Cinelli riaccompagnava le tre reggiane in aeroporto: era Luciano Facchini, l’allora direttore della divisione pulizie, che dall’estero chiedeva informazioni su come era andata e ringraziava tutti per aver collaborato a dimostrare la serietà, la competenza, la qualità, la velocità di azione di Coopservice.

Dopo l’ufficio paghe, arriva l’opportunità di lavorare all’uf-ficio gare, il nome riporta subito alla competizione, alla sfida.

Parliamo del 2002, data in cui inizia l’attività dell’ufficio gare della divisione vigilanza in modo autonomo. Quello fu un periodo di grande trasformazione per la divisione, periodo in cui cominciarono ad uscire molti appalti pubblici, il panorama commerciale, almeno nei miei ricordi e nelle mie percezioni, si stava trasformando.

La divisione vigilanza Coopservice godeva già di una buona stima a livello nazionale, ma negli anni successivi fece un gran-de salto di qualità e sempre più frequentemente la si poteva trovare nel ruolo di capogruppo. La mandataria o capogruppo è colei che deve organizzare e coordinare tutto il lavoro legato alla preparazione ed alla presentazione della documentazione relativa alla gara. Compito non facile che richiede sempre molta competenza da parte di tutti coloro che contribuiscono alla sua realizzazione: dalla documentazione amministrativa ai sopralluoghi, alla relazione tecnica, all’intuizione. Un lavoro complesso, faticoso, che impegna senza tregua fino alla famosa chiusura delle buste, un necessario lavoro di gruppo, senza del quale si rischiano errori.

Roberto Olivi allora era il direttore della divisione vigilan-za, maestro nell’insegnamento del lavoro di gruppo, subito im-parato e messo in pratica da Mara Balocchi e dalla sottoscritta.

Ricordo ore e ore di analisi di capitolato, discussioni vi-vaci con il nostro responsabile Vasco Faietti, ma ricordo an-

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che la gioia e la soddisfazione quando all’apertura delle buste Coopservice veniva dichiarata la vincitrice, in quel momento tutto si dimenticava: le fatiche, le discussioni e con Mara ci lasciavamo andare in un piccolo balletto propiziatorio e libe-ratorio.

Le cose però ovviamente non sempre andavano bene e a tale proposito voglio raccontare di una del Ministero della Difesa di Roma. Un appalto molto importante che riguarda-va tutta Italia e Coopservice era la capogruppo di circa venti istituti.

Arrivo subito al momento dell’apertura della gara. Con Sergio Gubellini ed altri due rappresentanti di istituti com-ponenti la nostra ATI, arriviamo presso la sede del Ministero alle 9 di mattina. Per entrare dobbiamo depositare i nostri do-cumenti d’identità e non li potremo più ritirare fino alla fine delle operazioni di assegnazione.

Così con il cuore a mille battiti comincia l’apertura e la let-tura della documentazione. Questo lavoro dei componenti la commissione di gara, andrà avanti tutto il giorno, tra colpi di scena, discussioni, dichiarazioni a verbale. Alla fine alle nove di sera l’associazione temporanea d’imprese guidata da Co-opservice, sembra essere la vincitrice, ma non si potrà proce-dere alla verbalizzazione dell’assegnazione, perché concorrenti rivali bloccheranno il procedimento con un ricorso. Stremati dalla stanchezza ed anche un po’ dalla fame, ci rendiamo pre-sto conto di avere perso l’ultimo volo possibile e così anche l’ultimo treno con destinazione Reggio Emilia. Per fortuna il responsabile commerciale di un istituto mandante era sceso a Roma in automobile, così a notte fonda riusciamo a fare ritor-no alle nostre rispettive abitazioni.

Nel 2007 la mia mamma, settantacinque anni, vedova, de-cide finalmente di trasferirsi vicino a me. Affido il trasloco a Coopservice, Andrea Grassi si occupa del preventivo e dell’as-segnazione della squadra di lavoro.

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La consegna, nei giorni precedenti il trasloco, degli scatolo-ni con le indicazioni precise di come li avremmo dovuti riem-pire, gli avvisi esposti indicanti orari e mezzi occupati; il tutto crea una situazione per noi quasi surreale, avvertiamo un senso di perdita: una parte di noi se ne sta andando, anzi, la stiamo abbandonando; le certezze, i punti di riferimento, i ricordi. A scuoterci l’arrivo del mezzo che dal balcone deve “far uscire” oltre trent’anni di vita; la mamma emozionata e frastornata.

Di quei momenti ricordo la cordialità, la professionalità dei colleghi Francesco Galasso e Paolo Vacondio, veloci, precisi, attenti ad ogni richiesta della piccola signora che si muove un po’ stordita fra loro.

A fine giornata, la “nuova casa”, in realtà poco più di un mini appartamento, è completamente funzionante, armadi, mobili, lampadari, tutto montato alla perfezione. Ci tengo a precisare che nessun segno o graffio è rimasto a testimoniare il trasloco.

Un ricordo molto dolce è rimasto dentro di me. Non ho più presente ora chi dei colleghi ne fu l’artefice, ma ad un cer-to punto uno di loro si avvicina alla mamma con una scato-la contenente diversi piccoli oggetti recuperati nella vecchia cantina e li sottopone al suo controllo.

Era riuscito a cogliere il grande senso di distacco che avvol-geva la mamma, così le aveva raccolto ogni minima cosa, ogni piccolo oggetto, ogni piccolo ricordo che la potesse accompa-gnare nella nuova sistemazione.

Nel 2008 uno dei momenti “scossi” della vita di Coopser-vice, porta ad una riorganizzazione aziendale ed io mi ritrovo a lavorare presso l’ufficio soci. Collocazione alla quale avevo sempre ambito, ma che in quel particolare momento storico della vita aziendale, richiedeva reinterpretazione senza l’ausi-lio di predecessori. Prima di reinterpretare però era assoluta-mente necessario vincere la riluttanza e conquistarsi la fiducia dei soci che non mi conoscevano nonostante fossi in azienda

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da ormai nove anni.Sono trascorsi quattro anni e non è difficile sentirmi affer-

mare: “Sono molto fortunata, ho la possibilità di conoscere tante persone, realtà; culture, religioni differenti, è un arric-chimento continuo”.

Il potenziale umano di Coopservice è incredibile, le buone essenze “delle differenze” ti trasformano in cittadino del mondo. Sì, il mio lavoro, come tutti quelli amministrativi, è fatto di numeri, per forza i conti devono tornare, il budget lo devi rispettare, ma sono le relazioni e le interazioni con i soci e i di-pendenti che danno l’energia per continuare nella ricerca del miglioramento, con la consapevolezza che più il livello della mia interpretazione sarà alto, più grande sarà, anche se in pic-colissima parte, il vantaggio collettivo.

Rita Scotti, 56 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 1999

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Parte seconda

TESTIMONIANZE

Testi raccolti da Rita Scotti

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Vorrei ricordare due episodi che, a mio parere, illustrano bene lo spirito che anima i soci di Coopservice nelle situazioni di emergenza. Il primo risale al terremoto che poco meno di quattro anni fa sconvolse L’Aquila; il secondo all’alluvione di Aulla del 2011. Entrambi hanno come protagonisti “i ragazzi della logistica” con i quali ho la fortuna di lavorare, ma po-trebbero riguardare chiunque.

Da presunti “sciacalli” a super eroiL’Aquila, lunedì 6 aprile 2009, ore 3,32. Una scossa di ter-

remoto di particolare intensità distrugge il centro della città, causando numerose vittime e feriti (il bilancio definitivo sarà di 308 morti, 1600 feriti e 65000 sfollati).

Appena due giorni dopo, mercoledì 8, arriviamo sul posto. Per dare una mano, offrendo la nostra esperienza in fatto di lo-gistica. Nella gran confusione del momento, qualcuno ci darà degli sciacalli, venuti dal Nord solo per fare affari.

Poco importa se la solidarietà dei soci di Coopservice e dell’a-zienda si è già messa in moto attraverso la donazione di ore di lavoro e di altri contributi tangibili, gli abitanti dell’Aquila non possono ancora saperlo. E in ogni caso, comprensibilmente, vedo-no solo la loro tragedia. Conoscono solo la loro grande sofferenza.

Noi ci siamo, sempre *Alessandro Russo

* Primo classificato – Sezione “Testimonianze”

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Iniziamo subito a collaborare con i dipendenti dell’Agen-zia delle Entrate – già nostro cliente – per trasferire al centro commerciale l’Aquilone tutto quanto è recuperabile. Trenta, quaranta persone impegnate a inscatolare e salvare quel che è rimasto degli uffici. Lavorando giorno e notte, anche duran-te le innumerevoli scosse di assestamento. Botte improvvise e continue, che ogni volta colpiscono gambe e testa e l’adrena-lina sale e le emozioni si mescolano. E mentre si lavora, i rac-conti degli aquilani a fare da sottofondo: l’arrivo della scossa, la paura, la collega dell’ufficio a fianco morta sotto le macerie, il suo sangue ancora visibile. Tutto si trasforma e prende una dimensione ed un valore diverso.

In breve tempo, da presunti sciacalli ci trasformiamo in “su-per eroi”. Con le nostre tute mimetiche, il casco, le attrezza-ture e la tensione alle stelle, lavoriamo e cerchiamo di aiutare il più possibile tutti, senza sosta, con la forza che si rigenera di continuo dal muscolo più nobile: il cuore.

I giorni passano e gli abitanti dell’Aquila, da sospettosi, chiusi nel proprio dolore, cominciano ad apprezzare il nostro operato che contribuisce concretamente a migliorare le diffi-cili condizioni di vita del post terremoto. Anche dando un’oc-cupazione a una quarantina di persone del luogo, rimaste senza lavoro a causa del sisma.

Siamo rimasti all’Aquila, anche dopo la prima emergenza, contribuendo fra l’altro all’allestimento dei locali che hanno ospitato, in luglio, la riunione del G8.

Attualmente siamo presenti con un magazzino e alcune commesse importanti. E Coopservice non è più percepita come un’azienda del Nord, ma come un’azienda abruzzese.

Per finire, voglio ricordare i ragazzi della squadra in prima linea, per tre mesi, insieme a me: Massimo Birzi, Carlo Gal-lo, Vladimir Bondanov, Claudio Pennella, Ludovico Selva, Alessandro Cerquetani, Mario Urzi, Dino Mancini e Dome-nico Catino.

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L’archivio è allagato? Si salva nel congelatoreAulla, 25 ottobre 2011, intorno alle 18.15 uno tsunami di

acqua e fango, con un’onda di tre metri, si abbatte sulla città in pochi minuti, trascinandosi dietro tutto; due persone per-dono la vita.

L’indomani vengo contattato dai responsabili dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia del Territorio, più nota come ca-tasto, che mi richiedono un sopralluogo immediato ai locali adibiti ad archivio, dove viene conservata copia di tutte le pratiche evase dalle due agenzie, documenti di estrema impor-tanza per l’amministrazione e per i cittadini.

Giunto sul posto, mi si presenta un panorama a dir poco catastrofico. Acqua e fango ovunque, fino a toccare il soffitto. La pressione dell’acqua ha abbattuto pareti e porte antipanico. Nessun locale è stato risparmiato.

Cominciamo subito con l’aiutare le impiegate delle agenzie a pulire e rimuovere il fango. Ma, incredibile a dirsi, più fango veniva tolto, più se ne riformava, quasi trasudasse dai pori dei muri.

Dopo aver fatto defluire l’acqua, con gran lena ci mettiamo all’opera. In men che non si dica le donne si ritrovano con i vestiti completamente imbrattati di fango. Decidiamo così di mettere a disposizione i nostri cambi di abiti da lavoro. A quel punto, tutti con il marchio Coopservice sul petto, siamo anche simbolicamente una sola squadra.

A un certo punto, il direttore, lasciando trapelare una buo-na dose di pessimismo, mi chiede quante possibilità ci siano, a mio parere, di recuperare i documenti.

Mi prendo 24 ore di tempo per verificare la fattibilità della sua richiesta. Contatto subito un biologo di Bologna che mi indirizza alla ditta Frati e Livi di Castelmaggiore. Dove mi si propone, nientemeno, di congelare tutti i docu-menti per interrompere il processo di deterioramento della carta e il procrearsi delle muffe. Ma l’operazione, per riusci-

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re, va fatta subito.Ne parlo immediatamente con il direttore che, di fronte

alla mia proposta, si dimostra alquanto incredulo. Tuttavia, si fa autorizzare dagli uffici centrali di Roma la spesa di 3.000 euro per il congelamento dei documenti, non senza aver veri-ficato prima l’attendibilità della mia proposta e, forse, anche che non fossi un po’ matto.

Così, su camion frigo a meno venti gradi, trasportiamo i documenti a Castelmaggiore.

Ci vorranno altri tre giorni per avere la certezza di riuscire a portare a termine con successo il recupero di 110 metri lineari di documenti, sottoposti a congelamento, lavaggio, asciugatu-ra (con passaggio dal caldo al freddo in meno di un secondo), spolvero e, infine, rilegatura.

A conclusione del lavoro riconsegniamo al cliente, presso il sistema archivistico centrale di Roma, i documenti salvati.

Nei mesi successivi mi faccio vivo con il cliente per sapere se i documenti trattati siano stati nel frattempo richiesti in vi-sione da qualcuno. La risposta affermativa arriva da un diret-tore molto soddisfatto che conferma che i documenti vengono periodicamente richiesti e che la loro leggebilità è perfetta.

Complessivamente, l’operazione di salvataggio è costata al committente 60 mila euro. Abbiamo ragione di credere che se i documenti non fossero stati recuperati, il costo per l’ammini-strazione sarebbe stato molto più elevato.

Spero di essere riuscito con le mie parole a far capire che il nostro lavoro in cooperativa si nutre non solo di indispensabili competenze professionali, ma anche di senso civico, solidarie-tà, voglia di esserci. Perché, come sostiene il collega Massimo, noi italiani abbiamo un cuore grande e quando succede qual-cosa di grave ci siamo sempre.

Alessandro Russo, 32 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 2003

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*Secondo classificato – Sezione “Testimonianze”

Il nostro racconto prende spunto da un articolo pubblicato sul Notiziario Coopservice dedicato alla riapertura della stori-ca ferrovia della Val Venosta avvenuta il 5 maggio 2005. Tra le righe dell’articolo si poteva leggere: “…la nuova ferrovia della Val Venosta si sta rivelando un vero successo, oggetto di studio a scopo imitazione in tutta Italia”. A svolgere il servizio di pulizia su quei treni (prototipi ATR, con due motori da 500 cavalli l’uno) era Coopservice, attraverso la filiale di Bolzano.

La conferma che quella prima esperienza sarebbe stata un successo arriva nel 2008, precisamente il 13 dicembre con un altro treno denominato ora ETR (treno elettrico regionale) che tutti chiamano confidenzialmente Flirt: un amore, un’e-mozione. Si tratta di un classico treno elettrico e le nuove linee sono la Bolzano-Merano (andata e ritorno) e Bolzano – Fortezza – San Candido (andata e ritorno).

Il sogno di espandere l’esperienza iniziata in Val Venosta, si è dunque avverato e anche in questo caso ci siamo noi, c’è Co-opservice, con il compito di svolgere le pulizie giornaliere sui treni in quattro siti: Merano, Bolzano, Fortezza, San Candido. Il servizio occupa in totale dodici persone.

Ma, a questo punto, è forse opportuno che ci presentiamo.

Un “flirt” in Val Venosta *

Abdelhak Bannour, Luan Llukovi,Hicham Fawzi, Ayhan Demir, Gabriele Manni

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I nostri nomi sono Abdelhak Bannour (capo cantiere, co-nosciuto da tutti come Bruno), Luan Llukovi, Hicham Fawzi, Ayham Demir, Gabriele Manni (responsabile della commes-sa) e vorremmo raccontare in cosa consiste il servizio di pulizia dei treni.

Partiamo dall’arrivo del treno. I nostri addetti, quattro per turno, salgono subito sul convoglio: due cominciano la pulizia dei bagni, due quella delle cabine.

Finiti questi locali, si ritrovano e dividendosi due in testa e due in coda al treno iniziano la pulizia di cappelliere, vetri, pa-reti sottostanti e la rimozione della polvere che si annida sugli schienali dei sedili e nelle fessure a triangolo. Così avanzano con perfetta sincronia fino a metà treno.

A questo punto, due persone si “staccano” dedicandosi alle pulizie esterne del treno che significa: attaccarsi con le pompe per il prelevamento delle acque reflue, caricamento delle ac-que pulite, scaricamento acque reflue in contenitori da 1000 litri (6 per ogni impianto) che verranno poi svuotati una volta a settimana da addetti di aziende specializzate in espurgo.

Gli addetti al lavoro esterno procedono poi al caricamento di sabbia (otto serbatoi per ogni treno per un totale di sabbia caricata pari a circa 100 kg ogni giorno). Sabbia che viene utilizzata dai macchinisti in periodi di pioggia, freddo, ghiac-cio, sia al momento della partenza che in frenata quale ausilio antislittamento. Nel periodo invernale, considerate le basse temperature che si registrano nella zona, il quantitativo di sab-bia immesso nei serbatoi attraverso un imbuto appositamente studiato da noi, raddoppia.

Terminate le operazioni all’esterno, gli addetti si ricongiun-gono con i colleghi rimasti all’interno per completare la pulizia delle pareti e dei vetri laterali. Operazione che contempla an-che la cancellazione delle scritte e l’eliminazione dei chewing gum da sedili e pavimentazione delle carrozze. Malvezzi diffusi purtroppo anche in queste zone e che comportano (come nel

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caso di scritte fatte con pennarelli indelebili) veri e propri in-terventi di ritinteggiatura.

Gli interventi di pulizia comprendono naturalmente anche le cosiddette “fisarmoniche” e cioè i passaggi da una carrozza all’altra, mentre un vero e proprio tocco artistico con effetto coreografico (la nostra firma) è riservato alle bordure gialle nei pressi delle porte di salita e discesa passeggeri e sui gradini di entrata nelle cabine guida. Chi sale deve avere l’impressione di entrare in un bel posto, quasi regale e meravigliarsi di essere lì.

Il calendario delle pulizie straordinarie prevede, infine, il lavaggio del soffitto (una volta la settimana) e l’aspirazione dei sedili (due volte la settimana).

Questa diciamo è la normale amministrazione. Poi c’è da tenere conto del fatto che si è costretti a lavorare per diversi mesi all’anno con temperature medie al di sotto dei 20 gradi centigradi, con punte che raggiungono anche 30 gradi sotto-zero.

Le infrastrutture provinciali a Bolzano, Merano, Fortez-za sono inesistenti; i box riscaldati per ricovero pompe e per la protezione della rubinetteria, costruiti a San Candido dal cliente, sono comunque insufficienti alle esigenze operative. Basti pensare che alle temperature citate le acque ghiaccia-no velocemente i nostri uomini sono costretti ad operare con acqua calda o bombolette di gas per sghiacciare valvole e rac-cordi sui tubi. Il medesimo problema ghiaccio si ripropone al momento del prelevamento delle acque reflue dal treno per poi invasarle nei contenitori di plastica. Senza contare le rot-ture o gli incidenti tutt’altro che infrequenti a meno trenta gradi sottozero. Come nel caso della banale (a temperature normali) rottu-ra di un tubo con l’acqua che colpisce gli operatori e ghiaccia immediatamente, rendendo gli indumenti rigidi, gelidi, im-portabili. Così improvvisando, i nostri ragazzi devono cercare di “decongelarsi” il più presto possibile e contemporaneamen-

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te provvedere alla riparazione e manutenzione del guasto per poter garantire il termine del servizio nel migliore dei modi e nei tempi stabiliti.

Ma può capitare anche – come è realmente accaduto – di sparire nella neve alta durante gli interventi sulla parte di tre-no che rimane allo scoperto nel capannone (non sufficiente-mente lungo) dove viene ospitato per le pulizie. Problema-tiche che affrontiamo con passione, attenzione all’obiettivo da raggiungere, ricercando sempre nuovi ‘”meccanismi” per migliorare tempi e redditività e, soprattutto, con un grande lavoro di gruppo.

Tanto che dopo l’avvio nel 2005 in Val Venosta, il succes-sivo sviluppo nel 2008 in Val Pusteria, grazie al riscontro più che positivo – anche oltre i confini italiani – sia sulla comodi-tà e sulla puntualità dei treni ETR, sia sul loro grado di pulizia, nel 2012 le autorità e gli enti competenti, stanno pensando di estendere i treni “Flirt” (diventati sinonimi del benessere del viaggiare) anche ad Austria, Svizzera e Germania.

Mentre per i “vecchi” ATR che al momento arrivano a Malles c’è da registrare un forte interesse della autorità svizzere per un prolungamento delle linee fino a Tubre.

Abdelhak Bannour, 47 anni, Bolzano, paese d’origine Marocco, in Coopservice dal 2000 Luan Llukovi, 35 anni, Bolzano, paese d’origine Albania, in Co-opservice dal 2008Hicham Fawzi, 26 anni, Bolzano, paese d’origine Marocco, in Co-opservice dal 2012Ayhan Demir, 39 anni, Bolzano, paese d’origine Turchia, in Co-opservice dal 2012Gabriele Manni, 56 anni, Bolzano, in Coopservice dal 1995

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Le nostre sono quattro storie diverse di inserimenti lavora-tivi, delle difficoltà iniziali incontrate e del loro superamento grazie allo spirito di solidarietà tra di noi colleghe di lavoro e alla disponibilità e alla comprensione della responsabile del nostro gruppo di lavoro, Mina Arouch, che abbiamo avuto la fortuna di incontrare nella nostra esperienza di lavoro.

Non capivo una parola e piangevo sempre Sono Mabel Mensah, ghanese, sono arrivata in Italia nel 2003, grazie al ricongiungimento familiare e dopo quattro mesi di permanenza in Italia trovo lavoro in Coopservice. La prima e più grossa difficoltà incontrata è stata la lingua. Non conoscevo l’italiano e non capendo, osservavo gli sguardi ed il tono di voce delle persone, sia che provenissero dalla capo cantiere, che dalle infermiere o capo sala o colle-ghe. Ricordo che queste voci a me sembravano tutte cattive come se fossero insulti e allora piangevo. Piangevo sempre.

Fu la capo cantiere Lucia Pistillo, dopo un mese di prova, a dirmi che sì ero molto brava ma che avrei dovuto assoluta-mente imparare l’italiano e mi consigliò di frequentare una scuola adatta, prima della eventuale assunzione.

Grazie mamma Mina *

Mabel Mensah, Naema Mohamed Salama, Saadia Kalmani, Karima Narjis

*Terzo classificato – Sezione “Testimonianze”

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Non riesco ad entrare in un corso regolare, ma conoscendo l’inglese (in Ghana lo parlano tutti) mi metto subito a studiare con l’aiuto di un libro con traduzione inglese/italiano. Ottengo così una sufficiente padronanza della lingua italia-na e dopo alcuni mesi la promessa di Lucia si realizza e il mio rapporto con Coopservice si trasforma in un contratto a tempo indeterminato, presso l’Ospedale di Albinea e l’ufficio Igiene dell’Usl. Da quel momento tutto è più semplice. Da allora non piango più. Anzi mi diverto lavorando. Fac-cio parte del gruppo di lavoro di Mina Arouch, con la quale mi trovo benissimo perché grazie alle sue doti di comprensione ri-esce sempre a mettere a loro agio le persone, anche coloro che immigrate come me ancora non conoscono bene la lingua, la cultura e le usanze italiane.

Quanta paura all’ex manicomio Il mio nome è Naema Mohamed Salama. Sono arrivata in Italia dall’Egitto nel 1983 per ricongiungimento familiare e la-voro in Coopservice dal 1990. I miei ricordi sono legati soprat-tutto al mio primo lavoro presso il “Bertolani”, un padiglione dell’ospedale psichiatrico. Gli ambienti da pulire in quegli anni erano veramente in condizioni terribili, escrementi e vomito ovunque, anche nel-la sala da pranzo, spesso si doveva utilizzare la gomma dell’ac-qua per pulire.

Ricordo ancora i calci alle porte, le urla di disperazione dei ricoverati che chiedevano che andassi ad aprire la porta dietro cui erano rinchiusi. Poi le cose sono cambiate, il metodo di gestione degli assistiti è cambiato e anche per noi che ci lavo-ravamo le cose sono migliorate.

Rischi, purtroppo, ci sono sempre. A me è capitato, per esem-pio, di ricevere in pieno viso un mazzo di chiavi, scagliato con violenza da un giovane ricoverato delle “Scuolette” (Residenza di Salute Mentale, ndr), al quale avevo sconsigliato di camminare sul

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pavimento bagnato che stavo pulendo. Un episodio che mi ha in-dotto in seguito a chiedere di essere spostata in un altro cantiere.

Un gesto di solidarietà che non dimenticherò maiMi chiamo Saadia Kalmani Sono arrivata in Italia dal Ma-

rocco nel gennaio del 2001 con un contratto di lavoro da ba-dante a La Spezia. Purtroppo l’anziana alla quale facevo l’as-sistenza muore dopo breve tempo e io mi ritrovo disoccupata e senza altri punti di riferimento se non un nipote che vive a Reggio Emilia. Decido di trasferirmi a Reggio e nel luglio dello stesso anno del mio arrivo in Italia trovo lavoro in Coopser-vice.

Sembra tutto sistemato, tutto tranquillo. Neanche per idea. In realtà non riesco a far quadrare i miei tempi di lavoro con quelli dei servizi di trasporto pubblico ai quali sono costretta a ricorrere non avendo l’automobile. Il mio servizio all’Ospeda-le di Albinea inizia infatti alle sei del mattino e gli autobus di cui ho bisogno iniziano le corse molto dopo.

Ed è a questo punto, proprio quando sembra destino che debba rinunciare anche a questo posto di lavoro, che scatta la solidarietà delle mie colleghe. Salama si offre di sostituirmi tutti i giorni dalle 6 alle 7.30 dan-domi il tempo di arrivare con i mezzi pubblici sul posto di lavo-ro. Ma la stessa Salama farà ancora di più offrendomi un posto sulla macchina del marito per il viaggio di ritorno a Reggio. Un gesto di solidarietà che non dimenticherò mai.

Fantasmi sotto i portici della via Emilia Sono Karima Najris, marocchina, e sono arrivata in Italia

nel settembre del 2000 per ricongiungimento familiare.Le prime parole italiane che ho imparato sulla mia pel-

le sono state il “mi dispiace” con cui il mio primo datore di lavoro mi comunicò dopo soli due mesi l’intenzione di non rinnovarmi il contratto. È così che dopo una regolare doman-

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da nel febbraio del 2001 sono arrivata in Coopservice, primo contratto: un mese di prova presso il cantiere Agac di Reggio Emilia.

Erano passati circa 5 mesi dal mio arrivo in Italia ed avevo ancora difficoltà con la lingua, nei momenti di pausa osserva-vo le colleghe con sguardo un po’ smarrito. Piano, piano ho imparato il linguaggio, soprattutto le frasi necessarie ed indi-spensabili al lavoro.

Ma più delle difficoltà della nuova lingua da imparare sono state altre, per me, le difficoltà che ho dovuto superare. Una soprattutto, la paura che mi accompagnava la sera lungo tutto il percorso dalla sede Agac a Coviolo, che dovevo affrontare a piedi per tornare a casa, dal momento che i miei orari coinci-devano con l’orario della cessazione del servizio di autobus. Con la paura come sola compagnia. Per fantasmi che na-scevano dalla mia fantasia come quello che per una settimana ho immaginato mi seguisse, sentendo alle mie spalle come un ticchettio di passi proprio nel tratto dei portici della via Emilia e che con l’aiuto di mio marito ho potuto finalmente scoprire essere semplicemente il rumore di un condizionatore.

È stato anche nel mio caso grazie a Mina che ho potuto cambiare cantiere e fare orari di lavoro diversi, più adeguati alle mie esigenze.

Mabel Mensah, 36 anni, Reggio Emilia, paese d’origine Ghana, in Coopservice dal 2004Naema Mohamed Salama, 51 anni, Reggio Emilia, paese d’origine Egitto, in Coopservice dal 1990Saadia Kalmani, 60 anni, Reggio Emilia, paese d’origine Marocco, in Coopservice dal 2001Karima Narjis, 38 anni, Reggio Emilia, paese d’origine Marocco, in Coopservice dal 2001

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Le storie che racconto attingono ai ricordi dei molti anni trascorsi nel settore della sicurezza di Coopservice ri-coprendo vari gradi di responsabilità e vogliono essere un mio personale riconoscimento al coraggio e alla dedizione al lavoro dimostrati da alcune giovani e meno giovani guar-die giurate. Sia per la capacità di elaborare in tempi ristretti strategiche complesse come di compiere gesti eclatanti in difesa dei valori affidati alla loro custodia contro pericolosi tentativi di rapina; sia per la fermezza con cui fanno rispet-tare procedure e regolamenti codificati anche in assenza di segnali di pericolo immediato. Segno di serietà e prima regola per una sana prevenzione. Ho scelto di seguire una scaletta per date che ricalca un po’ l’età dei miei ricordi.

Correva l’anno 1980L’azione si svolge all’esterno e dentro una delle agenzie

della Cassa di Risparmio di Reggio Emilia. Protagonisti tre rapinatori e la nostra Gpg, Andrea Benelli, 23 anni, in ser-vizio antirapina.

Tre rapinatori, tra i quali un ex carabiniere, tiratore scel-to, armato di pistola si introducono nella banca, disarmano Benelli (nella concitazione viene anche esploso un colpo

Storie di ordinario coraggio *Gianfranco Ardizzoni

*Menzione – Sezione “Testimonianze”

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forse a scopo intimidatorio) e danno il via alla classica azio-ne di rapina: questa è una rapina, tutti a terra o spariamo. Tutti eseguono eccetto Benelli che rimane impassibile in piedi a guardare i rapinatori negli occhi, incurante delle loro continue minacce di sparargli un colpo in testa. Mi-nacce che fanno perdere tempo prezioso ai rapinatori e favoriscono l’ingresso sulla scena di due agenti inviati sul posto in seguito alla segnalazione di un cittadino il quale aveva udito il colpo di pistola. La rapina fallisce, due dei malviventi vengono catturati, lo stesso Benelli subito en-trato in azione provvede a recuperare la sacca con i soldi. L’aver fissato a lungo negli occhi i rapinatori consentirà poi a Benelli di riconoscere attraverso le foto segnaletiche il terzo complice riuscito a fuggire e a favorirne la cattura una decina di giorni dopo.

Correva l’anno 1986Il luogo è la sede di Aia Sogema di Masone, Reggio Emilia.

Protagonisti: il signor Veronesi, proprietario dell’azienda e la nostra Gpg, Paolo Ruffo.Una storia meno drammatica della precedente, ma altret-tanto significativa.

Alla portineria del cantiere arriva una grossa Mercedes scura, alla guida un autista con passeggero, che avvicinan-dosi dà per scontato il sollevamento della sbarra. La sbarra però rimane immobile, abbassata.

Ruffo pur avendo intuito che a bordo c’è il signor Ve-ronesi, proprietario dello stabilimento, si avvicina all’au-to, chiede il motivo dell’ingresso ed i documenti, secondo quanto previsto dal mansionario concordato tra Coopservi-ce e proprietà in fase di contratto.

Il signor Veronesi a questo punto scende dall’auto; non è contrariato dal comportamento di Ruffo, anzi si congratula con lui per la solerzia nell’esecuzione del proprio lavoro.

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Correva l’anno 1998Di questo episodio ricordo anche il giorno, esattamente

il 26 ottobre. La scena si svolge su un tratto di autostrada A1 nei pressi di Modena, percorso in quel momento da un nostro furgone portavalori con alla guida la Gpg Claudio Mattioli.

Cinque chilometri prima dell’uscita dall’autostrada, il nostro furgone viene superato da una Audi A6 scura, che una volta terminato il sorpasso, inizia a frenare.Mattioli capisce immediatamente di essere oggetto di ten-tativo di rapina e decide di tamponare l’A6, che continua comunque la sua corsa. Mentre entra in azione a sostegno una Lancia Tema Ferrari che accenna a spingere il nostro furgone contro il guardrail. Non bastasse Claudio vede spuntare da un finestrino della A6, che intanto è tornata sotto, la canna di un fucile a pompa.

C’è poco tempo per la reazione. In un attimo Claudio decide di speronare l’Audi per poi dedicarsi alla Lancia, spingendola di forza contro il guardrail. Riuscendo a sco-raggiare finalmente i rapinatori e a guadagnare l’uscita dall’autostrada.

Passano alcuni mesi e la scena si ripete in fotocopia. Stesso luogo, stessa ora, e probabilmente la stessa banda. Cambiano i protagonisti sul furgone portavalori di Coopservice su cui ci sono questa volta due veterani come Eugenio Agliardi e Giuseppe Della Porta i quali non si lasciano impressionare ed intimorire dai numerosi colpi di fucile a pompa provenienti da due auto. La blindatura regge perfettamente e le ruote del furgone pur con tre gomme forate dai colpi d’arma, hanno continuato a girare e permettere ai nostri di raggiungere an-cora una volta l’uscita di Casalecchio di Reno.

L’episodio mi valse, in qualità di titolare della licenza dell’istituto di Modena, i complimenti del Questore per l’o-perato e la freddezza dimostrati dalle nostre guardie giurate.

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Correva l’anno 2003La vicenda abbraccia un periodo di circa due mesi tra feb-

braio e marzo. Lo scenario è l’Ipercoop di Zagabria (10 mila metri quadrati di superfice di vendita, 50 casse) dove Coopser-vice presta i suoi servizi di antitaccheggio, con personale cro-ato.

Ma le cose non funzionano al meglio. Il personale croato dimostra in realtà una scarsa propensione a capire l’importan-za della conoscenza delle tecnologie e sull’utilizzo delle tele-camere nel servizio di antitaccheggio. Si ventila addirittura la possibilità della sospensione del servizio.

Serve un’idea. Decido di giocare la carta della sollecitazione dell’orgoglio croato. Come? Innescando un primo elemento di competitività, affiancando loro, cioè, un italiano, altamente professionalizzato. La scelta cadde su Daniele Cattini una Gpg di Modena, ex poliziotto, ottimo conoscitore delle tecniche di videosorveglianza, ma che aveva dalla sua anche una non comune prestanza fisica. Doveva essere, nella mia idea, una competitività a tutto campo.

Cattini inizia a lavorare con le telecamere ed in 10 minuti individua un soggetto sospetto. Si porta in area vendita, segue per cinque minuti il soggetto e nota che preleva dagli scaffa-li due programmi per computer. Lo segue senza farsi notare alle casse e verificato che non avviene il pagamento dei due programmi, blocca lo stesso in galleria. Cattini esibisce il suo tesserino Coopservice di riconoscimento e si qualifica agente Interpol, utilizzando poi un inglese un po’ incerto lo invita a seguirlo presso l’infermeria dove lo consegna alle guardie cro-ate. Inutile dire che la “cura” funzionò al meglio. L’entità dei recuperi aumentò subito del 50% e il pericolo della chiusura del servizio fu scongiurato.

Corre l’annoIn questa carrellata di anni che “corrono” ho ricordato

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esclusivamente episodi, atti, gesti compiuti da altre persone, da gruppi di persone delle quali sono stato coordinatore o re-sponsabile. Per chiudere voglio ricordare invece un fatto di cui sono stato protagonista in prima persona, qualcosa che è molto di più di un episodio, dal momento che comporta un rapporto che dura ormai da oltre 20 anni. Si tratta di un fatto accadu-to nel 1990 quando ero responsabile dell’organizzazione della filiale sicurezza di Reggio Emilia ed era nelle mie competenze valutare le domande di assunzione. Fu in quella circostanza che mi toccò il privilegio di aprire le porte di Coopservice ad un giovane napoletano, Egidio Zampillo, il quale circa dieci anni dopo sarà premiato “quale miglior Responsabile Uffici Servizi della Vigilanza”, lavoro che continua a svolgere con profitto a Modena.

Ciò che ho raccontato non è frutto della nostalgia, bensì dell’orgoglio di far parte di una grande azienda; solo in Co-opservice può accadere che uno entri come GPG e dopo undi-ci anni si trovi a ricoprire il ruolo di Capo Filiale con titolarità della licenza. Io posso confermarlo e non sono certo un’ecce-zione.

Gianfranco Ardizzoni, 63 anni, Reggio Emilia, in Coopservice dal 1985

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Fiamme in pediatria *Patrizia Patrizi

Il mio nome è Patrizia, sono operatrice presso l’Ospedale Bam-bin Gesù. Vorrei parlare di un episodio accaduto il 5 Novembre 2010, che mi ha molto coinvolto.

È da poco iniziato il mio turno di lavoro, presso il pronto soc-corso, quando scatta l’allarme incendio.

Le fiamme si sono propagate dal reparto pediatria dove sono ricoverati piccolissimi pazienti, molti dei quali in terapia inten-siva. Oltre alle fiamme, il manto nero del fumo in breve avvolge gli ambienti.

I soccorsi sono immediati sia da parte del personale medico e infermieristico che del personale Coopservice. Senza paura e sen-za sosta, mi prodigo anch’io per portare in salvo i piccoli pazienti. I bambini più gravi vengono evacuati per primi, molti di loro sono intubati. Negli occhi dei genitori si legge il terrore. Per salvare i loro piccoli, li mettono fra le braccia degli operatori. Mi ritrovo così a portar fuori, stringendoli al petto, questi corpicini. Che af-fido alle mani esperte dei medici, caricandoli sulle ambulanze o sugli autobus adibiti in gran fretta a mezzi di soccorso.

Un lavoro stremante, ma non posso fermarmi, comincio ad avere bruciore agli occhi, fatico a respirare, ma devo continuare ad allontanare dal pericolo chi già stava soffrendo.

Siamo rimasti fino a notte inoltrata, aiutati anche da altri col-leghi che prestano servizio presso l’Ospedale Polidoro e che, non essendo in turno, si sono precipitati al Bambin Gesù per collabo-

* Menzione – Sezione “Testimonianze”

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rare ai soccorsi.Alla fine riusciamo a mettere al sicuro dieci piccoli ospiti del-

la terapia intensiva che, non avendo inalato fumo, per fortuna non hanno subito alcuna conseguenza. A differenza dei quaranta intossicati da fumo che si conteranno tra infermieri, medici, ge-nitori ed operatori.

Nei giorni successivi, per il mio comportamento ho ricevuto un encomio da Coopservice di cui vado orgogliosa.

Il mio lavoro mi piace moltissimo perché mi dà l’opportunità di aiutare questi esserini che soffrono, di interagire con i familiari.

Attualmente svolgo il servizio di pulizia presso la sala operato-ria cardiologica. Ho dovuto superare qualche ostacolo, soprattut-to con colleghi, ma ciò non ha intaccato la grande soddisfazione che provo per il mio lavoro in Coopservice.

Che mi ha fatto incontrare delle creature speciali, come quel bambino piccolissimo, ricoverato da un anno, che ha subito un trapianto.

Lo vedo crescere, partecipo delle sue sofferenze, condivido le preoccupazioni dei genitori e dei familiari. E condivido anche le gioie per i progressi che compie verso la guarigione.

Patrizia Patrizi, 54 anni, Roma, in Coopservice dal 2009

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Solitudini

Mauro Dinoi

Mi chiamo Mauro Dinoi, Maurino per amici e colleghi, sono guardia giurata in forza all’istituto di vigilanza Coopser-vice di Bologna. Ho un’irrefrenabile passione per tutto ciò che è tecnologico. Lavoro con una bella squadra di colleghi con i quali mi trovo bene anche fuori orario. Ed è proprio di una vacanza con un gruppo di colleghi bolognesi di qualche anno fa che vorrei parlare.

Si tratta del primo week end lungo a Montegrotto Terme organizzato da Coopservice.

Insieme ad altri, veniamo alloggiati nella dependance (sco-moda) dell’albergo.

Ma, anziché perderci d’animo, ben presto riusciamo a fare di quella sistemazione un po’ disagiata un ambito punto di ri-trovo. Il clima da gita scolastica che si respira nella depen-dance, per il solo fatto di essere appartata, fa il resto. Scherzi, battute, aperitivi e party a notte fonda, si susseguono per tutto il week end. Anche gli altri soci ospiti della dependance ven-gono contagiati dalla nostra allegria, ben felici di aver scampa-to il pericolo di trascorrere un soggiorno da pensionati.

Tra loro spicca la presenza di “zia Donata” (responsabile dei servizi di pulizia alla Malpensa), che dapprima rimane sul-le sue, seriosa e arrabbiata con i colleghi per la loro presunta indisciplina, per poi lasciarsi contagiare, insieme al gruppo di soci lombardi, dall’allegria dei bolognesi.

In verità, la voglia di divertirsi si era manifestata fin dall’u-

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scita dal casello autostradale di Montegrotto, quando il col-lega Mimmo che intendeva pagare con moneta contante il pedaggio, si vede aprire la sbarra automaticamente senza aver neppure preso in mano il portafogli. Pensa ad un guasto, quin-di cambia uscita, seguito dalle altre due auto dei colleghi. La situazione si ripete, a quel punto pensando ad uno sciopero, Mimmo passa, mentre la sbarra per le vetture che seguono si riabbassa, fino a quando non verrà pagato il pedaggio. Non potendo fare altro che prenderla in ridere, ci rimettiamo in viaggio seguendo, per non sbagliare, le indicazioni del naviga-tore. Naturalmente finiamo con l’allungare di 14 chilometri il tragitto.

All’arrivo, scaricando l’auto, Mimmo scopre che a fargli passare gratuitamente il casello non era stato un improvviso colpo di fortuna, ma più banalmente un Telepass dimenticato nel cruscotto dell’auto.

Cominciamo subito con il ribattezzare le camere: 112, i ca-rabinieri, 113, la polizia, 115, i vigili del fuoco. Da quel mo-mento, quest’ultima, manco a dirlo, sarà per tutti la camera dove spegnere i bollori da massaggio.

È allora che Stefano Tugnoli, detto anche il Conte Paolo Maria dei Conti Tugnoli rientra in camera per fare una doccia. La porta è aperta, perché le pulizie non sono ancora terminate. Al momento di rivestirsi cerca la valigia che ricordava di aver appoggiato sul letto. Nulla, nella stanza non c’è traccia della valigia. Addio indumenti di ricambio. Naturalmente, defor-mazione professionale, pensa subito ad un furto. Scende dal portiere per denunciare l’accaduto.

Non so se i colleghi fossero dietro l’angolo ad osservare e ridere. Comunque sia nessuno aveva rubato alcunché. Meno che meno la sua valigia. Paolo Maria dei Conti Tugnoli aveva semplicemente sbagliato camera. Chiarito l’equivoco, di corsa tutti a cena. Poi, canti e balli fino a notte inoltrata.

È davvero una fortuna sapere che puoi contare su colleghi

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che sono anche amici. Per di più in tempi di grandi solitudini come questi.

Non ho potuto fare a meno di pensare a ciò, di fronte a un recente episodio tristissimo e coinvolgente che ho vissuto in prima persona sul lavoro.

È mercoledì 9 maggio 2012, mattina, sto prestando servizio al Palazzo della Regione Emilia Romagna. Sono da poco passa-te le sette, quando ricevo una telefonata: mi si chiede di veri-ficare la presenza di un uomo a terra all’esterno di una terrazza dell’edificio. Si pensa possa trattarsi di un manutentore che si è infortunato scivolando.

Il corpo dell’uomo giace immobile. Lo vedo bene, ma da quella distanza non si riesce a riconoscerne l’identità. Imme-diatamente allerto il 113, mentre il mio collega Mario Maio chiama l’ambulanza. Appena arrivano i soccorritori li ac-compagno, attraverso il percorso più breve, fino al terrazzino dove si trova il corpo. Senza indugio verificano le condizioni dell’uomo. Passano pochissimi minuti ed anche il 113 arriva sul posto. Ogni tentativo di soccorso è inutile. L’uomo pur-troppo è morto. Agli agenti non resta altro da fare che identi-ficare il cadavere.

Indosso all’uomo non c’è nessun documento d’identità. Se-condo alcuni dei presenti si tratta comunque di un viso noto, anzi, molto noto a Bologna. Sull’accaduto viene richiesta a quel punto la massima riservatezza, fino a quando non saran-no del tutto certe le generalità dell’uomo. Certezza che non tarderà ad arrivare grazie al ritrovamento della sua carta di credito.

Seguono momenti molto concitati. Bisogna appurare se ci si trova di fronte a un caso di suicidio o se l’uomo è stato uc-ciso. Arrivano polizia, carabinieri, giornalisti, tantissime per-sone. Il morto era un personaggio pubblico molto conosciuto ed amato in città. Le verifiche ed i controlli non risparmiano neppure noi guardie giurate. Ad oggi il suo ufficio è ancora

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sotto sequestro.Quello stesso giorno un’altra persona, malata e disperata

si lanciò da un piano alto dell’Ospedale S. Orsola, trovando naturalmente la morte. Solo un poliziotto intervenne, nessu-na notizia sui giornali, nessuna domanda sul perché di questo gesto disperato.

Due disperazioni diverse che si sono consumate, una sotto i riflettori e l’altra nel silenzio più assoluto, ma che si posso-no rispettosamente leggere, per quanto riguarda gli sfortunati protagonisti, sotto il medesimo titolo: l’uomo e la propria so-litudine.

Mauro Dinoi, 37 anni, Bologna, in Coopservice dal 1996

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L’allegra famigliola

Giacomo Giordano

Mi chiamo Giacomo. Faccio la guardia giurata a Bologna. Un lavoro che mi mette a contatto con realtà anche molto diverse fra loro. Tutte comunque interessanti e coinvolgenti. Alcune, come i centri commerciali Ipercoop, ai quali il nostro istituto di vigilanza fornisce molteplici servizi, sono una fonte inesauribile di situazioni e casi umani.

Un giorno, durante un servizio di “retro cassa”, il mio col-lega addetto alle telecamere mi mette in allerta informandomi che una coppia con bambina si sta aggirando tra gli scaffali delle acque minerali con una play station e diversi giochi in mano.

Si sofferma sulla donna e vede che sta manomettendo il di-spositivo antitaccheggio applicato ai prodotti che ha preleva-to e con la bimba cerca di raggiungere l’uscita, mentre l’uomo con i video giochi occultati prende una strada diversa.

Io e il collega Roberto De Santis decidiamo di dividerci per seguire i due sospetti.

Tempestivamente raggiungo l’uomo e dopo averlo fermato lo accompagno all’ufficio antitaccheggio. Purtroppo Roberto non riesce a fare altrettanto con la donna che si dilegua. Non mi perdo d’animo e dopo averne rilevato le generalità, lascio il suo documento d’identità al mio collega, invitandolo ad av-vertire il 112 se non sarò di ritorno entro pochi minuti. Rag-giungo quindi il parcheggio insieme alla persona fermata nel

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tentativo di individuare la donna che, certamente, sta aspet-tando il compagno in auto. Mai intuizione fu più vera. Sono bastati pochi minuti per ricongiungere l’allegra famigliola di taccheggiatori e recuperare l’intera refurtiva.

Ci sono poi i tentativi di furto goffi, diversamente non sa-prei definirli. Messi in atto per lo più da persone psicologica-mente disturbate. Come quella volta che un uomo distinto stava guadagnando l’uscita con l’imballo di cartone di una scarpiera, dentro al quale aveva nascosto maldestramente una televisione al plasma da 40 pollici.

Per niente sprovvedute, invece, la ragazza che utilizzando il lettore salvatempo aveva prelevato prodotti per un valore di 1.650 euro, registrandone solo una minima parte.

Per aver sventato questo furto, ho ricevuto un encomio da parte di Coopservice, cui successivamente seguì un passaggio di livello. Dell’episodio si occupò anche il Resto del Carlino che sottolineò la professionalità degli uomini della vigilanza che avevano smascherato il tentativo della ragazza, riuscendo a bloccarla prima che fuggisse.

In conclusione, mi preme ricordare che dietro l’esito posi-tivo dei nostri interventi c’è sempre il gioco di squadra, una grande collaborazione fra colleghi senza la quale tutto sarebbe più difficile, per non dire impossibile.

Giacomo Giordano, 39 anni, Bologna, in Coopservice dal 2006

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Tutto in Coop

Biagio Maddamma

È il mio primo giorno di lavoro presso l’Ipercoop di Imola. Sono ancora uno sbarbatello, e probabilmente si vede. “Ades-so in Coopservice assumono anche i bambini?”, mi accolgono le colleghe Angela e Rosalba.

Alle mie rimostranze – vanto ormai ben 22 anni compiuti – incredule mi chiedono di mostrare un documento di identità. “Sono arrivato sul cantiere con mezzi propri e non accompa-gnato dalla mamma”, dico di rimando esibendo la patente di guida. Il ghiaccio è rotto.

Il primo incarico che mi viene affidato è il controllo accessi.Successivamente vengo assegnato alla vigilanza ispettiva

notturna, servizio che mi farà ottenere un encomio da parte del questore di Bologna.

È notte, scatta l’allarme al Centro Lame. Arrivato sul posto mi accorgo di tre persone che stanno scappando dalla zona di scarico merci. Con la collaborazione del collega Massimo Catania riesco a bloccare i fuggitivi, dando immediatamente l’allarme alle forze dell’ordine, che in pochi minuti arrivano sul posto.

Passano due anni e vengo spostato in centrale operativa. Un servizio pesante e impegnativo, di grande responsabilità. Spesso si tratta di trovare soluzioni immediate ai problemi. Anche facendo ricorso al buon senso, ma senza perdere di vi-sta mai il regolamento interno Coopservice e le disposizioni

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della questura. È quindi la volta dell’ufficio servizi, dove incontro nuova-

mente Rosalba. Non ho più l’aria del ragazzino, nel frattempo ho accumulato una ricca esperienza e forse anche qualche chi-lo di troppo.

Anche per Rosalba qualcosa è cambiato, adesso è rappre-sentante sindacale aziendale e sul lavoro nascono facilmente fra noi piccole discussioni sull’organizzazione.

Oggi, a 34 anni, mi occupo della programmazione dei servi-zi forniti dai custodi, in tutto 160 persone.

Sono molto legato alla nostra cooperativa e cerco di non mancare mai alle iniziative che mi permettono di socializzare con i colleghi. Anche quando coincidono con ricorrenze par-ticolari. Come la prima edizione dell’Open Day della filiale di Bologna che è caduta, l’anno scorso, proprio il giorno del primo anniversario del mio matrimonio. Ma io e mia moglie siamo stati felici di condividere con i colleghi un momento così importante per noi.

Biagio Maddamma, 35 anni, Bologna, in Coopservice dal 2000

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Quando nella primavera del 2012, in coincidenza con la proclamazione dell’Anno Internazionale delle Cooperative da parte dell’ONU, decidemmo di promuovere fra le socie e i soci di Coopservice un concorso di scrittura, con lo scopo di racco-gliere storie e testimonianze di lavoro e di vita in cooperativa, sapevamo di poter contare su una collaudata esperienza. Poi-ché, nel corso degli anni, la nostra attenzione nei confronti delle iniziative finalizzate a “dar voce” alla base sociale è sem-pre stata molto alta. A partire dal nostro periodico aziendale, “Notiziario Coop-service”, concepito sin dal suo primo numero uscito nel 1991, anno di nascita della cooperativa, proprio per “far parlare” i soci, raccogliendo le loro opinioni e le loro storie di lavoro. Ma dando anche spazio alla loro vita extralavorativa, rac-contata attraverso la rubrica “Fuori orario”. Una galleria di personaggi dalle storie insospettabili, in prevalenza scrittori, alcuni dei quali figurano in questa raccolta. Ma ci sono anche l’attore di teatro, il cabarettista, il ballerino, il provetto violi-nista, la suonatrice di sax, lo scambista di libri rari e altro nei mercatini domenicali, i volontari del 118 e quelli delle missio-

Postfazione

Se i soci si raccontanodi Vladimiro Ferretti*

* Responsabile Comunicazione Coopservice

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ni umanitarie in Europa e in Africa. Analoghe considerazioni potremmo fare a proposito dei tanti video di bilancio preparati per le annuali assemblee generali, veri e propri mini sceneggiati interpretati da nostri soci, un’esperienza di comunicazione aziendale assolutamente originale. Anche il concorso fotografico sui 150 anni dell’Unità d’Ita-lia, letta attraverso le particolari lenti della cooperativa (una selezione di foto è pubblicata in appendice), rientra a buon diritto fra le attività rivolte ad arricchire di contenuti la parte-cipazione dei soci. Se, insomma, alla luce di questi precedenti, il successo del concorso di scrittura non è arrivato del tutto inaspettato, è pur vero che il numero e la qualità dei lavori presentati ci hanno piacevolmente sorpreso, superando ogni più ottimistica aspet-tativa. A conferma che ogniqualvolta si persegue con deter-minazione la strada del coinvolgimento e della valorizzazione delle persone, anche attraverso strumenti inediti e apparente-mente fuori dagli schemi consolidati del management, come appunto può sembrare un concorso di scrittura, le sorprese po-sitive di certo non mancano. D’altronde, in Coopservice – come abbiamo poc’anzi ricor-dato – la pratica della narrazione è coltivata da tempo, in virtù della diffusa consapevolezza che le imprese – e le cooperative soprattutto – costruiscono la propria identità attraverso il rac-conto di sé. Allo stesso modo delle persone. Ci piace pensare che la buona riuscita del concorso di scrit-tura, i cui risultati sono qui raccolti sotto l’emblematico titolo “Tutti per uno, uno per tutti” (titolo dalla forte suggestione letteraria e cooperativistica ad un tempo) sia ascrivibile anche a questa buona pratica, iniziata anni orsono e continuamente rinnovata.

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aPPendice fotografica

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COOPSERVICE, IL LAVORO, L’ITALIAFoto vincitrici, segnalate e finaliste del con-corso fotografico riservato ai soci della co-operativa, promosso in occasione delle ce-lebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, aperte a Reggio Emilia, Città del Tricolore, il 7 gennaio 2011, dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

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Elzbieta Malgorzat Waldmann, “Contro la polvere del tempo” – 1a classificata

Mauro Dinoi, “In alto il Tricolore” – 3a classificata

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Dario Vioni, “Avviamento d’appalto en plain air” – 2a classificata

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Alessia De Santis, “Benvenute in Coopservice” – Segnalata

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Vanessa Manfredini, “Piccole socie crescono” – Segnalata

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Massimo Nieddu, “Dal produttore al consumatore” – Segnalata

Valentini Umberto, “Uniti siamo tutto” – Segnalata

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185Rosina Scarcina, “Tirato a lucido” – Segnalata

Michela Pinna, “Fine del primo turno di lavoro” – Segnalata

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Elena Incerti, “Precarietà e precariato: noi li combattiamo” – Segnalata

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187Davide Casoli, “Le griffe” – Finalista

Elisabetta Fornaciari, “Appeal” – Finalista

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Barbara Lombardi, “Verso un nuovo cantiere” – Finalista

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189Rafaella Marazia, “La coltivazione della memoria” – Finalista

Cinzia Rizzo, “Efficienza discreta” – Finalista

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Francesca Bassoli, “Donne e Valori” – Finalista

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Messo in pagina presso Compograf, Reggio Emilia,e stampato nel mese di febbraio 2013in carattere Goudy Old Style da Bertani & C., Cavriago (RE)per conto di Coopservice s.coop.p.a.Via Rochdale, 5 – Reggio Emilia

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Il volume raccoglie i racconti e le testimonianze presentati al concorso di scrittura I Soci, la Cooperativa, i suoi Valori. Storie di lavoro e di cantiere, promosso da Coopservice nel 2012, in occasione dell’Anno Interna-zionale delle Cooperative, indetto dall’ONU per richia-mare l’attenzione sul valore sociale ed economico di un sistema di imprese che organizza nel mondo un miliardo di soci e dà lavoro a più di cento milioni di persone. Il concorso era rivolto alle socie e ai soci di Coopser-vice e si proponeva l’obiettivo di fissare sulla pagina ri-cordi e testimonianze di vita e di lavoro in cooperativa. Con particolare riguardo alle vicende in grado di met-tere in luce il contributo fornito da Coopservice alla soluzione di problemi o alla soddisfazione di esigenze dei clienti e delle comunità nelle quali opera la cooperati-va. Per favorire la partecipazione e in considerazione della cospicua presenza di soci stranieri ancora in diffi-coltà con la lingua italiana, il concorso è stato suddiviso in due sezioni: la prima riservata ai racconti scritti di-rettamente dai soci, la seconda alla raccolta di testimo-nianze attraverso interviste. Complessivamente sono stati presentati trentotto elaborati, di cui cinque “fuori concorso”, secondo quan-to stabilito dal regolamento che prevedeva che non potessero concorrere alla premiazione, per incompatibi-lità, i consiglieri d’amministrazione della cooperativa, i soci attivi nell’area sociale, i soci dimessi per anzianità e i lavoratori non soci. La commissione esaminatrice era composta da Si-mona Caselli, presidente di Legacoop Reggio, Giordano Gasparini, direttore della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e Ferrante Trambaglio, giornalista.

In appendice al volume, una selezione delle foto pre-sentate dai soci della cooperativa al concorso fotografico “Coopservice, il lavoro, l’Italia”, indetto in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, aperte a Reggio Emilia il 7 gennaio 2011, dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.