Tutta la vita - San Riccardo Pampuri · UMBERTO MOTTA Tutta la vita chiede l’eternità 10 11...
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In copertina e alle pagine 12 e 18 quadri di Umberto Motta.
In quarta di copertina gli auguri di monsignor Luigi Giussani a Umberto
per il Natale 2003
Tutta la vi ta chiede l ’eternità
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Caro Gigi,ti invio le notizie sulla vita di mio fratello
Umberto. Mi sono fatta prendere un po’ la mano, perche’ quando ripenso a lui di primo acchito mi viene
in mente il suo corpo giovane martoriato,prima della morte. Allora mi vengono i brividie mi affiora al cuore una certa disperazio-ne. Ma quando rifletto sulla vita cheUmberto ha vissuto in quella carne e leggo isuoi scritti pieni di speranza, non posso nonsperare anch’io. Questo che ci dai l’oppor-
tunita’ di fare e’ un libretto sulla Speranza chesostiene l’uomo che vive.
GrazieSilvia Motta
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l’incarnazione stessa della Speranza degli uomini. «Bisogna vivere per
l’eterno, è per questo che siamo insieme». Non c’è definizione più esau-
riente della vita umana di queste ultime parole di Umberto. Ancora
inconcepibili per noi che non abbiamo ancora sostenuto l’ultima prova,
il pungiglione della morte. Ma non si può non intuire che è così, proprio
così. Non fosse stato per l’amico Gesù, che questo eterno ha iniziato a
portarlo nel mondo e ci ha donato il centuplo quaggiù, come potrebbe
essere ragionevole l’eternità?
Perciò, grazie per la carità che ci hai fatto amico, vivendo fino all’ultimo
respiro ciò che anche noi abbiamo visto, toccato e annuciamo a voi:
l’inizio gioioso e continuo della vita sgorgante dalla persona di Gesù
Cristo, che ci conduce fino al livello più confidenziale e glorioso del
Mistero, che è Dio, nostro padre.
Grazie, e adesso che sei lì con Flannery, continua a farci la carità, come
ha scritto lei, questa azione per cui la carità cresce invisibile in mezzo a
noi, intrecciando i vivi e i morti, chiamata dalla Chiesa la Comunione dei
Santi.
Luigi Amicone
LLa notizia della morte di Umberto Motta ci ha raggiunto come una pal-
lottola al cuore in una bella notte di mezza estate mentre sulle colline di
Rimini, noi e un gruppo di suoi giovani amici, eravamo raccolti intorno al
desco spensieratamente in compagnia di una coppia di amici protes-
tanti, Erica e Richard Newbury, venuti per la prima volta a Rimini per
partecipare a quel Meeting dell’amicizia fra i popoli a cui anche Umberto
si era preparato a partecipare, e invece è morto. Così, come abbiamo
ricordato altrove, a un certo punto Richard ha iniziato a parlare del
Signore, e a parlarne così naturalmente, che era come se fosse lì, sedu-
to tra di noi, «il Signore che viene a noi per vie che non sono le nostre
vie», e di noi che «non sappiamo il perché e il come, ma sappiamo che
lui è il Signore, come certamente più di noi sa adesso Umberto». È in-
spiegabile perché proprio a noi di questo piccolo giornale è stato fatto
il dono e l’onore di raccogliere e pubblicare pensieri, lettere e testimo-
nianze di questo giovane che nei suoi ventidue anni trascorsi nel mondo
ha lasciato una traccia indelebile destinata a ingigantirsi negli anni. Egli
è infatti uno di quei cristiani a cui gli esseri umani presenti e futuri si ri-
volgeranno, se Dio vuole, per comprendere il loro Destino e, soprattut-
to, per non disperare mai. Poiché, come si può e si deve affermare pure
nello strazio della sua precocissima dipartita ai nostri occhi, Umberto è
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to i primi di luglio, ma lui stesso chiese ai medici di posticipare l’interven-
to perché proprio in quei giorni avrebbe dovuto affrontare diversi esami
in università e per lo stesso motivo spesso si faceva anticipare o po-
sticipare i cicli di chemioterapia. Non ha mai, nemmeno per un istante,
pensato di interrompere i suoi studi e si precipitava sempre a Lugano,
nonostante le precarie condizioni fisiche, dopo ogni operazione e dopo
ogni terapia.
La chemio divenne frequente nel 2003, quando comparvero le meta-
stasi polmonari, e il 6 novembre del 2003 fu operato ai polmoni. Tuttavia
nel gennaio del 2004 le metastasi ricomparvero e da allora Umberto fu
sottoposto a cicli di chemioterapia molto più intensi di quelli che aveva
subìto in precedenza e che duravano più a lungo.
A causa delle terapie, Umberto negli ultimi tempi viveva due settimane
al mese. Un giorno, appena finito un ciclo di chemio, andò insieme a due
suoi amici in auto a Lourdes, guidando lui stesso. Quella volta mi tele-
fonò alle 8 del mattino e mi disse: «Ho guidato tutta la notte e sono a
Lourdes». Umberto non ha mai cercato cure alternative, non ha mai
chiesto di consultare altri dottori, perché si fidava totalmente dei medici
dell’Istituto dei Tumori, che non l’hanno mai abbandonato un istante; tra
questi alcuni medici del Movimento l’hanno particolarmente accompa-
gnato. Quando i dottori ci dissero che le cure non avrebbero più appor-
tato benefici, Umberto volle tentare un altro tipo di chemioterapia,
ancora più duro.
Dopo l’ultima chemio di luglio decise di partire per la Sardegna con i suoi
amici, sempre guidando il suo mitico maggiolone verde mela. Noi a casa
avevamo il cuore in gola, ma Umberto ci diceva che nella vita non si può
calcolare niente, che è inutile progettare, e poi desiderava a tal punto
UUmberto Motta è nato a Melzo il 27 luglio 1982; è morto all’Istituto dei
Tumori di Milano il 26 agosto 2004. Ha vissuto a Pioltello. Ha studiato
all’Istituto Sacro Cuore di Milano dalla prima elementare fino alla matu-
rità artistica. Qui ha incontrato il Movimento di Comunione e
Liberazione, per il quale ha speso gli ultimi anni della sua vita. Si è iscrit-
to alla facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della
Svizzera italiana, a Lugano.
Al primo anno di università, nel marzo del 2002, ha scoperto di avere
un sarcoma sinoviale al piede sinistro, un tumore raro per cui non esiste
una vera e propria cura. Una massa all’interno del suo piede gli provo-
cava un fastidioso dolore. I medici si espressero subito in favore del-
l’amputazione, prima della quale Umberto si sottopose a diversi cicli di
chemioterapia. Il giorno dell’operazione (12 luglio 2002) fu tentato
invano un intervento di conservazione del piede, ma il male era troppo
radicato e i medici furono costretti ad amputare. Umberto ha cammina-
to per tre mesi su una gamba sola, aiutandosi con le stampelle. Ha sem-
pre rifiutato la carrozzella, e con quelle stampelle compiva delle vere e
proprie acrobazie. Quando gli consegnarono la protesi avrebbe dovuto
abituarsi poco alla volta, ma lui la volle portare da subito ventiquattro
ore su ventiquattro perché voleva camminare. Sembrava più difficile
per noi che per lui accettare la sua condizione. La convivenza con la
protesi non fu mai un limite, tanto che si trovò anche ad affrontare l’al-
ta montagna con gli amici e non rinunciò mai a sciare con la fidanzata
Silvia.
Tra cure e ospedali Umberto diceva sempre che non voleva abban-
donarsi totalmente alla scienza e per questo motivo non smise mai di
frequentare l’università e di sostenere gli esami. Doveva essere opera-
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quella vacanza che aveva anticipato la cura per poterci andare. Un
giorno in Sardegna iniziò ad avere dolori lancinanti al torace e gravi dif-
ficoltà respiratorie. I suoi amici lo portarono al pronto soccorso dove gli
procurarono l’ossigeno, ma Umberto decise di terminare la sua vacan-
za come previsto, il 13 agosto. Al suo ritorno capimmo tutti che la situa-
zione si era fatta critica: faceva fatica a camminare e si notava una
fitta rete di capillari rossi sul petto. Eppure il suo aspetto era magnifico:
abbronzantissimo e felicissimo. Quando il dolore divenne più forte, i
medici gli prescrissero alte dosi di morfina.
La notte di domenica 22 agosto, dopo aver scritto i suoi ultimi appunti,
Umberto si sentì molto male. Lo caricammo in auto di forza (non voleva
mai essere ricoverato perché odiava le dinamiche di spersonalizzazione
dell’ospedale; infatti, durante i ricoveri stava in jeans e scarpe da ten-
nis e tentava sempre di uscire prima del previsto). Appena giunti
all’Istituto dei Tumori ci disse senza respiro: «Siamo insieme per l’Eterno.
Questa è la Comunione. Col Mistero e al Mistero è la stessa cosa».
Chiamai il nostro amico don Giorgio Pontiggia che venne immediata-
mente a trovarlo così come nei tre giorni successivi. Gli ultimi.
Il giorno prima di morire disse alla sua fidanzata Silvia: «Sono pronto in
ogni momento». Passò l’ultima notte insieme alla mamma, chiedendole
continuamente di non lasciarlo e di stringergli la mano. Al mattino arrivai
presto e vidi che si era giunti alla fine. Feci appena in tempo a dargli l’ul-
timo saluto che la dottoressa lo sedò con un forte anestetico, per ren-
dergli meno gravosa la fatica del respiro. Umberto morì 12 ore dopo,
prima di mezzanotte, dopo che io e la mia famiglia finimmo di recitare il
rosario e i misteri dolorosi. In seguito al «veni Sancte Spiritus, veni per
Mariam» spirò.
Silvia, i miei genitori, mio marito ed io abbiamo vissuto la malattia di
Umberto nei momenti peggiori (infatti non voleva mostrarsi malato e
sofferente ai suoi amici per non mancare loro di rispetto). Noi abbiamo
avuto il privilegio di essere stati accompagnati dalla sua croce, quella
croce che amava dipingere in ogni luogo perché era il suo mezzo di
comunione con Dio. Umberto è sempre ricorso a Maria, a san Riccardo,
nel cui Santuario si recava spesso a pregare, e soprattutto confidava
nell’intercessione del caro amico Enzo Piccinini. È morto proprio il giorno
26, come Enzo.
Silvia Motta
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Alla sorel la Si lv ia:
<<Bisogna vivere per l’Eterno.Bisogna vivere l’Eterno.E’ per questo che siamo insieme, tutti insieme.Altrimenti saremmo soli. Grazie che stai qui con me>>
Alla cugina Valer ia:
<<La vita eterna inizia ora, in questo istante.Siamo chiamati alla conversione sempre.Prega per me Lella. Grazie>>
24 agosto 2004
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SSono cambiato, sono inevitabilmente cambiato da
quel giorno in cui mio padre, con le lacrime agli
occhi, mi disse che i dottori mi avevano diagnosti-
cato un tumore. Cambiato, perché inevitabilmente
queste cose cambiano la vita di un uomo, cam-
biano la vita nel senso che cambiano il tuo modo
di porti davanti a tutte le cose della vita. Penso a
quegli attimi, ai mille pensieri che affollavano la
mia mente; in quegli attimi cercavo soltanto di
controllare tutto quanto, cercavo di possedere ciò
che stava accadendo e ciò che sarebbe accadu-
to di lì a poco. Sbagliavo, non capivo ciò che real-
mente stava accadendo, la vera grazia per cui
Cristo si svelava a me in quel modo apparente-
mente allarmante; forse allarmante e tragico per-
ché non rispondeva al mio immediato desiderio o
progetto di realtà, una realtà che volevo fosse
mia. Ora capisco, capisco la positività del reale, la
positività di una realtà che vibra continuamente e
nella quale noi stessi vibriamo in ogni istante, la
realtà voluta continuamente da un Volto buono che mi ama, che ama
me. Ora capisco di non poter controllare davvero nulla, che tutto ciò
che accade, il reale, è qualcosa di misteriosamente grande e impreve-
dibile sempre. «Pur vivendo nella carne, vivo nella gloria di Dio», questo
è il senso.
Alla notizia dell’amputazione della parte inferiore della gamba sinistra
sono rimasto inizialmente scioccato. Ma la vera sorpresa è stata il pren-
dere coscienza che Qualcun Altro mi vuole bene, Qualcun Altro mi ama,
sempre. Questa è la vera grazia nella mia malattia, sapere che io sono
continuamente voluto bene. Sono voluto, qui ed ora, nella realtà che mi
si pone davanti agli occhi, nella malattia che ho.
I medici dicono che la cosa più sicura nel mio caso è l’amputazione. Non
ci credo. La cosa più sicura nel mio e in tutti gli altri casi è il Miracolo, il
Miracolo della guarigione, la guarigione che è la cosa più sicura e buona
che l’uomo possa arrivare ad immaginare.
Vado a Lourdes per chiedere alla Madonna di compiere il Miracolo, nella
convinzione che il miracolo si stia già compiendo nello stare con i miei
amici e nel vedere mio papà pregare con noi.
Umberto, Lugano
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Ero a casa in convalescenza dopo la mia prima operazione al piede sin-
istro, il quale negli ultimi mesi si era gonfiato a dismisura. Ero tranquillo,
convinto che fosse soltanto qualcosa di benigno, forse qualcosa dovu-
to ad una storta. Nella mia tranquillità aspettavo soltanto di poter
tornare in piedi per poter andare su a Lugano, in università a seguire i
corsi. All’improvviso torna a casa mio papà, la sua faccia era tesa,
stava male; mi guarda e mi dice: «È arrivato il referto della massa che ti
hanno asportato: è un tumore maligno».
Era appena accaduto un imprevisto, qualcosa che io non avevo assolu-
tamente calcolato, che ha totalmente sconvolto la mia tranquillità e mi
ha costretto a stare davanti alle cose in maniera differente. Stavo zitto.
Sapevo cosa mi aspettava: pesanti cure davvero lunghe. Io, che non
avevo mai avuto nulla, in condizioni stabilmente sane, ora ero affetto da
una grave malattia. Stavamo zitti, io e mio padre, nessuno parlava, total-
mente spiazzati da qualcosa di imprevisto, non cal-
colabile. Improvvisamente mi è venuto da pensare
a tutti i miei amici, ai loro volti, a tutti quanti, credo
di non avere mai pensato a loro come in quel
momento. Subito dopo pensai a cosa sarebbe suc-
cesso, era come se subito in quel momento avessi
voluto sapere come sarebbe andata a finire.
Durante i primi periodi continuamente i miei amici
venivano a farmi visita e capivo quanto io, in quei
momenti, avessi bisogno di loro, ma allo stesso
tempo vedevo come loro avevano bisogno di quel-
la cosa, di ciò che mi stava accadendo. In quel senso chiedevo a tutti
di essere chiari con gli altri, di spiegare tutto ciò che mi stava accaden-
TESTIMONIANZA AGLI UNIVERSITARIDI COMUNIONE E L IBERAZIONE
PER L’ INIZIO DELL’ANNO ACCADEMICO 2002-2003Milano, Palal ido, 16 ottobre 2002
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do fin nei minimi particolari, senza tralasciare nulla.
Non ero ancora in chemioterapia e in quel momento ero obbligato a
chiedermi cosa era realmente per la mia vita, per me, quell’incontro che
stavo facendo, cos’era quel rapporto con Dio che in quel momento era
più forte che mai e che, soprattutto, passava attraverso il tumore che
mi stava crescendo dentro. Era davvero eccezionale vivere tutte le
cose che accadevano (come lo stare con i
miei genitori e amici, lo studio), avendo in
mente il rapporto col Mistero, dentro quello
che mi stava accadendo, era davvero una
grazia il poter affermare in ogni istante quel
rapporto col Mistero che stava passando
attraverso quella malattia. In quel momento
più che mai non potevo far altro che chieder-
mi il perché di ogni cosa.
Non mi sono mai sentito voluto continuamente come in quegli attimi. In
effetti capivo che in ogni istante avrebbe potuto nascere qualcosa di
nuovo dentro di me, ma allo stesso tempo capivo che mentre pensavo
a questo io stavo vivendo, in quel momento vivevo, non morivo, in quel
momento c’era Qualcuno che mi voleva lì. Il prendere coscienza di non
dipendere da me, di non poter calcolare davvero nulla, ma anzi di dipen-
dere totalmente da un Altro, mi commuoveva e allo stesso tempo mi
faceva domandare di più. In quei giorni i medici mi dissero anche che il
modo più sicuro per guarire era l’amputazione del piede stesso. Questa
notizia inizialmente mi sconvolse, ma allo stesso tempo mi stupiva. Il
Mistero si stava rivelando a me in quel modo drammatico, ma allo stes-
so modo mi faceva esistere. In quel momento capii che se quello era il
modo con cui io ero voluto non potevo far altro che dire “sì”, sì perché
tutto ciò era per me. Sapevo che la chemioterapia sarebbe stata una
cura fortissima e conoscevo anche gli effetti distruttivi che avrebbe
avuto su di me, ma in quel momento io volevo vivere ed essere corag-
gioso, (se ero vivo, dovevo vivere). Iniziai a fare la chemioterapia, una
cura devastante, prelievi ed esami continui: non ero abituato, era qual-
cosa di nuovo e durante le cure stavo davvero male per la potenza dei
farmaci che introducevano all’interno del mio corpo. Nello stesso perio-
do anche don Giorgio Pontiggia doveva essere operato dello stesso
male, al pancreas, così ci vedevamo spesso. Era pazzesco vedere l’af-
fiatamento nel raccontarci le cose
che ci accadevano, come andavano
le cure, insomma i nostri stati clinici.
Un giorno, mentre stavamo man-
giando, ad un certo punto don
Giorgio mi chiese: «Come ti senti
durante le cure?». Improvvisamente
mi accorsi che nei momenti in cui
stavo male, nel momento del dolore
(vale a dire durante i giorni immedia-
tamente successivi al ciclo di
chemioterapia) la mia mente era annebbiata dal dolore, in quei momen-
ti pensavo unicamente al mio piede e che avrei rischiato di perderlo.
Così don Giorgio mi disse: «È proprio in quei momenti, Umberto, che noi
dobbiamo chiedere al Signore che si mostri, che si riveli; è in quei
momenti che dobbiamo pregare il Signore perché ci aiuti nel dolore.
Affidati a san Riccardo Pampuri». Nel momento in cui io riprendevo a
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stare bene, ciò che mi faceva arrabbiare era pensare che quel maledet-
to dolore non mi permetteva di essere lucido. Mi ricordo ad esempio
chiaramente le mattine in cui io, svegliandomi nel dolore, stanco e con la
nausea, la prima cosa a cui pensavo era il mio piede sinistro; il dolore mi
faceva pensare soltanto a quello. Mi alzavo e anziché dire l’Angelus
pensavo al fatto che avrei vissuto tutta la vita senza un piede. Questa
cosa mi lasciava sconvolto, ma allo stesso tempo questo pensiero mi
permetteva di prendere sempre più coscienza della realtà, svegliarmi
dal sonno e pregare. Quel pezzo di carne, che nel giro di due, tre mesi
non ci sarebbe stato più, mi faceva pregare! Questa era la vera grazia!
Questo divenne quindi il mio più grande criterio di giudizio di tutto.
Quando chiedevo, la prima cosa che mi veniva in mente erano i miei
amici di Gioventù Studentesca, quelli del liceo, pensando a loro io pre-
gavo. Ciò che mi colpisce, ora che ci ripenso, è il fatto che quando pre-
gavo lo facevo sia per la mia guarigione, ma soprattutto per chiedere al
Signore di permettermi di comprendere quale disegno avesse per me e
tutti coloro che con me stavano condividendo quell’esperienza. Dopo
tre mesi avevo finito i tre cicli di chemioterapia e avrei dovuto essere
operato nel giro di venti giorni. Non sapevo quale intervento mi aspet-
tasse, se l’amputazione del piede o no. I dottori mi dissero che la
chemioterapia aveva fatto molto sul tumore ancora presente nel piede,
ma che non lo aveva ancora sconfitto. Avrebbero deciso durante l’ope-
razione, una volta aperto chirurgicamente il piede, se tenere oppure
amputare il piede. Ovviamente la cosa più sicura era l’amputazione,
poiché l’intervento di conservazione era troppo rischioso; vi era infatti
la possibilità di un riformarsi della malattia nella zona interessata.
Nel frattempo sono andato a Lourdes; la speranza in quel momento era
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anche, ovviamente, quella di guarire e di non perdere il piede, ma princi-
palmente quella familiarità con quella circostanza, la speranza era data
da quell’essere voluto in quell’istante.
Dopo aver dato gli esami della sessione estiva
sono tornato a Milano per essere operato. Il
giorno dopo essere entrato in ospedale sono
stato operato, era il dodici di luglio.
Quello era il giorno dell’essenzialità, sarei giunto
all’essenziale della mia storia e questo lo capivo
davvero tanto.
Ero sdraiato sul mio lettino, poco prima dell’ope-
razione; io non sapevo se mi sarei svegliato con
oppure senza il mio piede sinistro. Da sdraiato ho
immediatamente notato che nella sala in cui mi
trovavo vi era un crocifisso. A quel punto ho provato a sporgermi dal
lettino per vedere se anche al di là del vetro che separava la mia sala
pre-operatoria da quella del paziente a me vicino vi fosse il crocifisso.
Non riuscivo, i macchinari e i medici al mio fianco me lo impedivano, mi
nascondevano la visuale. In quel momento capii realmente che la spe-
ranza era davvero fatta da quei medici che mi stavano per addor-
mentare, la speranza era lì, in quel momento, con quelle persone.
Mi sono risvegliato dopo circa cinque ore, appena sveglio cercai di
riprendere subito lucidità per chiedere al dottore al mio fianco come
fosse andata l’operazione, se avevano amputato oppure no, dato che
io da sdraiato non riuscivo a guardarmi.
«Abbiamo dovuto amputare!», mi dice il dottore.
«Va bene», rispondo io. «Era profondo?».
«Sì», mi risponde lui.
Il farmaco che mi stavano mettendo dentro nel corpo era un potente
antidolorifico e mi annebbiava totalmente, non facendomi sentire il
dolore.
«La realtà vibra sempre!», ho detto a mia sorella e alla Silvia, la mia
morosa. La realtà vibra sempre affinché noi vibriamo in essa, perché
anche in quel momento io ero voluto da Qualcun Altro che mi stava
facendo, ero voluto lì e in quel momento, senza un piede, ma ero volu-
to. La realtà vibra sempre di significato, perché io mi sono risvegliato da
quell’operazione e sto viven-
do, non morendo.
Subito dopo ho voluto
ascoltare lo “Stabat Mater” di
Pergolesi. Non esiste brano
più bello dello “Stabat
Mater”: «Quando corpus mori-
etur/ fac ut animae donetur/
Paradisi gloria», in quel
momento, la musica di
Pergolesi, quelle parole mi
facevano attendere e
desiderare un’altra cosa. Il mio piede era morto e mi faceva desiderare
davvero qualcosa d’altro, quel mio pezzo di carne morta mi faceva pre-
gare. In quel momento, quelle parole dello “Stabat Mater” erano la cosa
che mi dava speranza e significato. Ho chiamato una cara amica del
liceo e le ho detto: «Siamo davvero voluti continuamente, anche adesso.
Offriamo tutto quanto!».
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Chiedo di non essere tranquillo, come non lo sono stato in questi ultimi
mesi, per tutta la mia vita; spero di non essere tranquillo e chiedo di ve-
gliare sempre, spero di essere semplice nel domandare a Cristo.
Chiedo di essere attento e di non addormentarmi mai, di vegliare sem-
pre in ogni momento per non perdere mai di vista la ricerca del signifi-
cato delle cose dentro il vibrare di questa realtà.
Pensate se non accadessero queste cose: vivremmo come animali,
saremmo davvero spacciati nel nostro totale non renderci conto di
dipendere da un Altro e di non poter calcolare davvero nulla, non poter
calcolare nulla perché tutto è già per noi.
Nel gustare di più tutto quanto, a partire dal sostenere gli esami di
quest’anno fino allo stare a lezione in università, ora è inevitabile atten-
dere un’altra cosa. La speranza del nuovo inizio d’anno è una certezza
nel futuro in forza di qualche cosa che avviene nella realtà presente.
Per questo la realtà vibra sempre. La realtà vibra sempre per affer-
mare questa speranza di felicità anche se tutto sembra dire il contrario.
Ho la fortuna di aver incontrato un luogo che è questa compagnia. Un
luogo che mi rilancia ogni giorno in tutto quello che sono chiamato a
fare.
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A Si lvia
5 apri le 2002È quello stupore, provocato dalla tua bellezza, ciò che mi colpisce mag-
giormente. Ciò che mi meraviglia è lo stupore con il quale io stesso mi
accorgo di guardarti. Uno stupore nato da un incontro già voluto, pre-
meditato, nei secoli, nei millenni.
È qualcosa di grandioso, di spettacolare, il fatto che siamo io e te, qui
ora. La tua bellezza, mi sto accorgendo, è anche sostenuta da una
certa modalità di rapporto con le circostanze, con la realtà.
Il tuo vivere il quotidiano mi stupisce, mi meraviglia, mi insegna!
E il sapere che non sei e non sarai mai mia, mi fa sentire ancora più pic-
colo, ma in modo positivo, mi fa comprendere la misericordia di Dio.
Bella, talmente bella che mi commuovo nel capire di essere di Qualcun
Altro, in Qualcun Altro; commosso in quell’istante, breve o intenso,
durante il quale prendo coscienza di essere figlio, di avere un legame di
dipendenza totale con il Mistero. Grazie, grazie Silvia per avermi inse-
gnato tante cose che da solo avrei faticato a comprendere.
Ogni sorriso, ogni cenno, ogni singolo sguardo è e deve essere segno,
rimando a Qualcuno, memoria di questo Qualcuno.
Perché nel viaggio che stiamo compiendo non siamo affatto soli, non
siamo mai persi, neanche nei momenti in cui sembra che il mondo ci crol-
li addosso. La tua bellezza come segno, memoria di Qualcun Altro, come
lo sono le stelle nel cielo, come la luna chiara, quasi bianca che si alza
ancor prima che sia buio, in una giornata serena, primaverile, come è
accaduto oggi. Perché ogni parola non sia detta a caso o ogni istante
non sia sprecato e perché tutto ciò che viviamo o che vivremo sia luce
LETTERE E APPUNTI
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verso il nostro compimento. È la tua voglia di totale adesione che mi
commuove nel vero senso della parola e la tua bellezza è esteriorizza-
ta, evidenziata proprio da questo fattore. Grazie Silvia, grazie di cuore,
che questi anni trascorsi insieme siano il seme della pianta che, se Dio
vorrà, ci accompagnerà per tutta la vita, sarà la nostra vita, per giun-
gere ai frutti di un cammino, di un compiersi.
Ti voglio bene, Umberto
n
Natale 2002Con questa piccola lettera cara Silvia, ti auguro i miei più sinceri auguri
di buon Natale. Vedo tantissimo Silvia, ora più che mai, come la nostra
affezione e familiarità, della quale sempre parliamo, siano il mezzo verso
il compimento; sì, credo che siano il mezzo privilegiato per dire quel SÌ
totale a Cristo. Prego e chiedo che il Signore ci doni la grazia di una vita
grande, ci doni la grazia di riscoprirci ogni giorno uomini cristiani, adesso
più che mai. Chiedo che il riscoprirsi adeguati a essere uomini riparta
ogni giorno, ogni mattina, ogni istante anche dall’amore che ci unisce,
che fa parte interamente della nostra vita.
Il modo più semplice è l’offerta, l’offerta perché siamo voluti continua-
mente! «Grazie Signore per farmi riscoprire ogni volta in Silvia quello per
cui sono fatto, grazie perché ogni volta che guardo lei, i miei amici e tutti
coloro ai quali voglio bene, mi fai chiedere: “Che ne sarà di me, che ne
sarà di loro?”. Grazie davvero». Ancora buon Natale Silvia, con tutta la
semplicità che riesco a usare, GRAZIE!
Con tanto amore, tuo Umberto
12 febbraio 2003, via e- mailTi ho inviato gli esami, spero ti siano arrivati. Davanti alle cose grandi
che ci accadono nel corso della nostra vita non possiamo far altro che
domandare di più e stare in silenzio, perché il silenzio è la virtù dell’uo-
mo forte, dell’uomo che sa attendere, come la pazienza nella vita del
malato, come dice la preghiera a san Riccardo. Chiedo, ultimamente più
che mai, che la nostra storia sia qualcosa che realmente ci porti al com-
pimento, qualcosa di originale, al di fuori di tutte le cose che possano
accadere tra moroso e morosa, chiedo che questo nostro essere
insieme (per la stessa cosa) sia davvero un’affezione, un rapporto di
amicizia preferita intrinsecamente, che porti alla crescita umana delle
nostre anime. La tensione alla stessa cosa è, secondo me, la cosa più
grande, è la vera amicizia, davvero quella che c’era tra Giovanni e
Andrea. All’arme, sempre in veglia, in ogni momento.
Grazie, io sono con te per la stessa cosa
Con amore, tuo in Cristo, Umberto
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4 giugno 2003 Come può il muoversi,
Essere mosso,
Un comune sentirsi,
Nell’attimo in cui si comprende quella positività inesorabile,
Inesorabile Silvia,
Sublime costrizione,
Amata realtà che a me ti accosti come primo sintomo
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Dell’essere mosso,
Mossa nel fiorimento degli anni giovani,
Giovani anni che ti cullano, culla della vita nostra
E non solo mia, tua, imprevedibile, inesorabile,
Voluta.
Tuo in Cristo, Umberto
n
Natale 2003Con questo pensiero ti faccio i miei più
grandi auguri di buon Natale,
ringraziandoti di tutto quanto, carissi-
ma Silvia, di tutto il tempo durante il
quale mi sei stata vicina. Sto compren-
dendo sempre di più il valore di questa
storia, dalla quale mai e poi mai mi
allontanerò. Tutto ciò che ci è accadu-
to, che ci accade e che ci accadrà, è il
metodo con cui il Mistero, che nel
Santo Natale diventa carne, si rivela
quotidianamente a noi, nelle gioie e nei
dolori della vita.
E allora che questa vita e soprattutto questa storia sia per entrambi un
andare incontro al Mistero fattosi carne nel grembo della Madonna.
Grazie, grazie ancora di tutto quanto, di tutto ciò che fai e sei per me e
per la mia vita. In ogni caso, sopra qualsiasi cosa, contro qualsiasi
incertezza, VIVA TE, VIVA NOI, VIVA CRISTO.
Auguri Silvia, Umberto
n
A don Pino
Marzo 2004 Caro don Pino,
Sono felice; sono felice perché ho capito che la certezza, quella certez-
za di cui tanto parliamo, che dà speranza, nasce da un legame, nasce
da quel legame inestinguibile con il Mistero che mi fa. La certezza non
è quella di guarire, ma quella che sulla mia vita in questo istante c’è un
bene, un bene forte, c’è Qualcuno che mi vuole bene. Per questo sono
felice. Il legame inscindibile con il Mistero che fa tutto è ultimamente
quello con le persone che ho più vicine, i miei familiari, la Silvia, gli amici
più cari, coloro che mi accompagnano durante i momenti in cui sto male
a causa delle terapie. Il legame è con coloro con i quali si vive l’essen-
ziale delle cose. Nelle lunghe pause di silenzio che ci sono quando sto
male, proprio perché a causa delle terapie non riesco neanche a parlare,
comprendo cos’è l’essenziale. L’essenziale della vita è andare incontro
al Mistero, nel modo totalmente vocazionale con cui si è chiamati, uno
per uno.
Per me in questo momento è attraverso la malattia che mi costringe a
stare male, ma è una costrizione grande, perché non è fine a se stessa.
Non può essere fine a se stessa, perché altrimenti la vita è inutile.
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Ad un’amica
22 agosto 2004Ciao,
Ti scrivo perché ora più che mai sento il bisogno di farlo, proprio in virtù
del fatto che ciò che primariamente conta, come già ti dicevo, è la li-
bertà nei confronti dell’altro, cioè voglio essere libero totalmente nei tuoi
confronti. Lo faccio oggi perché domani probabilmente inizierò la te-
rapia e di conseguenza inizierò a stare male; in effetti adesso ho un po’
di svarioni per la morfina, ma spero di essere chiaro ugualmente e che
si capisca tutto quanto. Nulla di quello che mi è successo negli ultimi
anni sarebbe stato così utile se non fosse stato vissuto nel modo in cui
è stato vissuto, all’interno della storia a cui apparteniamo, ormai
inevitabilmente, che è il Movimento e con le persone che con me sono
dentro questa storia, i miei amici, te in prima linea. (…)
In quello che è capitato a me, tu e tutti gli altri miei amici siete sempre
c’entrati, fin dall’inizio, fin da quando è nato tutto quanto, fin dall’origine,
carnalmente. È proprio questo che voglio dirti: ripartire dall’origine; se
sento che sto per abbandonare qualcosa che un tempo ritenevo fonda-
mentale, devo ripartire dall’origine di quel fatto, di quel rapporto; vale a
dire chiedermi qual è l’origine del rapporto.
Se tutti i miei amici c’entrano così direttamente, in modo così essenziale
e carnale con la mia malattia, allora anche i tuoi amici, tutti, devono c’en-
trare con quello che ti capita, con la tua vita, ma principalmente con te
come persona. Io non posso sapere certamente quale sia la tua felicità,
vale a dire il modo in cui tu sia più felice, non sono Dio e con le cose che
ti dico e che ti ho detto non intendo far altro che ricordarti quello che
più volte ti ho ripetuto, cioè di essere sempre fedeli all’Incontro fatto,
con Cristo, in questi anni, di essere insieme davanti a quel fatto e di
vibrare continuamente, sempre. Sto capendo che occorre trattare con
rispetto tutto quanto, tutto, dai rapporti con gli amici, fino addirittura alle
cose più drammatiche che ti capitano; trattare tutto con rispetto per-
ché tutto il rapporto con la realtà è il rapporto con il Mistero che fa la
realtà stessa (la Silvia ne è per me il segno più concreto).
Ti saluto con affetto, il tuo amico Umberto
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più mi ricordano lo sguardo benevolo e di amore che Cristo ha avuto e ha
su di me. La malattia non può essere fine a se stessa, deve avere un si-
gnificato, di questo ne sono certo e questa certezza è quella che mi fa
dire: c’è un Altro (Dio) che mi vuole bene e che non lascerà che neanche
un pezzo di carne muoia senza motivo!! È questo che mi fa essere certo,
altrimenti la vita è solo una perdita di tempo!
Ma la vita è il tempo nel quale viviamo, per come siamo voluti.
Ascolto Dvorák e mi viene tristezza, il violino è triste, ma quella tristezza
mi fa dire che anche lui (Dvorák, con quella evidente stempiatura e gli
occhi così attenti, grandi, beati) aveva queste domande, e oggi lui Cristo
lo vede in faccia, è lì. Il livello mistico è quando dici: «I miei genitori, mia
sorella, la mia morosa mi vogliono così bene, e lo vedo; pensa che c’è Uno
che te ne vuole ancora di più!» (e ci deve per forza essere, perché altri-
menti loro non sarebbero così capaci di volermi bene). Dico questo pen-
sando a momenti precisi della mia vita in cui altre persone mi hanno volu-
to così bene e io l’ho visto! Così si capisce cosa vuol dire “strumento di
Dio”; continuo a testa alta perché le cose che ci accadono sono la sostan-
za della nostra vita, sono ciò per cui siamo voluti. Continuiamo con Dio,
continuiamo fino alla morte, per meno di questo nulla vale.
Umbe
n
31 marzo 2004L’urto del cuore è proprio un’esplosione in Cristo.
Voglio vivere sempre con questa coscienza, anche perché vivere così,
altroché se vale la pena tutto ciò che mi sta capitando.
29 febbraio 2004, ore 01.25Gli unici fogli che ho trovato…
Ho scoperto una cosa grande: la certezza è un legame; se la certezza
non fosse un legame con un altro, che per quello che mi capita io identifi-
co come Dio, saremmo spacciati. Perché la certezza non me la do io, c’è,
la certezza di un bene nella mia vita c’è già. È un po’ come il coraggio: uno
è coraggioso non per quello che può e sa fare, ma perché è voluto da un
Altro, che per me è Dio (per me e per tutti), a meno che io sia pazzo. Mi
sembra di essere ubriaco sempre, non perché io beva, ma per come guar-
do le persone. Guardo una persona e mi ven-
gono mille domande sulla sua vita, su quello
che un uomo o una donna sono, su quello che
vivono e la vita che li accompagna. Sono ubri-
aco della vita, in questo momento più che mai,
ubriaco di una cosa che assaporo istante
dopo istante. Forse questo perché vivo pen-
sando sempre che il mio corpo morrà, ma
quello per cui sono voluto è un’altra cosa, è
l’eterno. A volte dico e penso: «Rivelati Signore!», e poi comprendo,
adesso fortissimamente, di essere uno strumento nelle Sue mani.
Sono felice, ma per essere felici davvero occorre saper essere tristi, cioè
guardare tutte le cose, le persone, gli avvenimenti “con tristezza”, vale a
dire con la consapevolezza che non li possiedo, perché mi sono dati; a
questo punto si diventa felici, si è felici perché la risposta ultima sul
mondo e sulle persone non l’abbiamo noi, ma l’ha Dio, che mi ama più di
quanto io mi ami. I miei amici, i miei genitori, la Silvia, il Movimento sono le
persone che più mi ricordano questa gratuità, perché sono le persone che
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Cosa serve avere tutto quello che si può avere se non si ha questo,
l’essenziale della vita, l’essenziale per cui si vive?
«Non nobis Domine, sed nomini tuo da gloriam». Continuiamo con ques-
ta coscienza, e domandando attraverso la preghiera, che è la cosa più
umana che possiamo fare, vale a dire la cosa che più ci rende uomini,
bisognosi e totalmente dipendenti. Se si continua così si arriva a godere,
a essere lieti, anche nella sofferenza, è la sofferenza che ti rende lieto.
Occorre sfruttare totalmente questi istanti, sfruttarli per poter godere
della vita. Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam.
Umberto
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22 agosto 2004Con quale intensità sto vivendo la mia vita!
È qualcosa di straordinario. Lo dicevo l’altro giorno alla Silvia, mentre
stavo male ed ero inibito dalla morfina; le dicevo: «Pensa vivere sempre
così, in questo modo, che grazia».
Sono lieto, è un’intensità enorme che mi fa vivere tutto quanto in modo
davvero più lieto, «tutta la vita chiede l’eternità!». Mi viene in ogni istante
da chiedere l’eterno, capisco che la mia felicità inizia ora, in questo
istante, in ogni istante della mia vita, perché la vita è l’istante,
vocazionale.
Vivendo in questo modo ti viene da amare tutta la realtà, tutta quanta,
ami tutto ciò che ti mette in rapporto col Mistero, la realtà stessa, pro-
prio perché non è tua.
Mi sono reso conto che ultimamente non sono proprio riuscito a fare
tutte le cose che avrei voluto fare: esercizi, Meeting questa settimana,
la vacanzina a Pontresina, ma questa cosa mi rende ancora più con-
sapevole della vita, della realtà; è come se in un certo senso, ogni volta,
mi rendesse sempre più “forte”, perché c’è la coscienza di essere volu-
to e di essere chiamato in un certo modo da Dio, in modo misterioso, ma
grande, perché è voluto da Dio e non è quello che ho in mente io. È a
questo punto che entra in gioco l’offerta totale di sé a Cristo, totale. Il
rapporto con il Mistero in ogni uomo è pro-
prio intimo e carnale. L’altro giorno dopo
essermi svegliato ho pensato: «In questo
momento, per me, il mio rapporto con Dio
passa interamente attraverso questa
malattia, attraverso questa circostanza, io
sono in rapporto con il Mistero anche,
soprattutto tramite la mia malattia, per
questo la devo trattare con rispetto, inti-
mità e carnalità, perché è mezzo di comu-
nione con Dio».
Ma questo rapporto con il Mistero arriva a
ricoprire tutti gli altri aspetti della mia vita,
dal rapporto con la Silvia, con la mia famiglia, con i miei amici, tutto è
segno della gloria di Dio, proprio perché tutta la vita chiede l’eternità. In
questo momento in cui la situazione sembra un po’ aggravata, la mia
posizione davanti alla vita è questa e chiedo che la mia coscienza di
fronte ad essa rimanga sempre tale.
«Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam».
Umberto
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DIRETTORE Luigi AmiconeCONDIR. RESP. Sergio Scalpelli
ART DIRECTION Accent on DesignSTAMPA Parole Nuove Brugherio – Mi
EDITORECooperativa Editoriale Tempi Duri A.r.l.
via Canova 19/a • 20145 Milano
La famiglia ringrazia per la collaborazione
Tempi, Ge.Fi e Accent on Design.
REG. DEL TRIB. DI MILANON. 332 DELL’11/6/1994
TEMPISupplemento a Tempi
Anno 10 – N. 52/01 del 23/12/2004
Caro Umberto
a te che hai avuto il coraggio di abbracciare sorellamorte,
a te che hai avuto la forza di guardarladritto negli occhi,
a te che hai offerto il tuo corpo a Cristo per la nostra salvezza,
a te dico grazie e per te imparero’ adamare affinche’ la tua speranza venga compiuta.
Ciao, il tuo papa’