Trucchi e Trappole Cognitive alla base dell'Acquisto
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NEUROPSICOLOGIA DELLE DECISIONI D’ACQUISTO.
Nonostante il concetto di brand conservi un’indiscussa centralità nell’ambito degli
studi sui comportamenti d’acquisto, le recenti ricerche di psicologia dei consumi e
di neuromarketing non si sono limitate ad analizzare il valore della marca e i
relativi correlati neurali, ma hanno invece esteso il loro raggio d’azione fino a
comprendere altre caratteristiche peculiari del consumo, fra le quali spicca
l’articolato processo di scelta che precede la decisione di acquistare un determinato
prodotto: obiettivo di questo capitolo è quindi presentare una serie di studi
finalizzati ad approfondire le caratteristiche del decision-making messo in atto dal
consumatore di fronte a determinati beni, evidenziando sia, se possibile, le sue basi
neurologiche, sia alcune delle distorsioni cognitive in grado di intervenire
inficiandone la validità.
Al fine di comprendere al meglio quali siano i circuiti cerebrali maggiormente
impegnati durante l’attività di scelta e di acquisto di un determinato prodotto, un
team di lavoro condotto da Ambler e Braeutigam costruì appositamente un centro
virtuale di shopping, sottoponendo quindi 18 soggetti alla MEG1 durante il processo
di decision-making che l’esperienza simulata imponeva loro. Il design sperimentale
prevedeva il susseguirsi di 3 fasi: inizialmente ai soggetti veniva chiesto di operare
una scelta fra una sequenza di beni di marche diverse, in maniera molto simile a
quanto avviene in un supermercato nella quotidianità; successivamente, venivano
presentate le medesime opzioni di scelta, ma questa volta i soggetti dovevano
limitarsi ad indicare quale, fra i prodotti presentati, fosse secondo loro quello di
dimensioni più piccole. Infine, tutti venivano sottoposti a un questionario per
verificare il loro livello di familiarità con i vari brand esposti durante la sessione di
shopping virtuale.
I risultati dell’esperimento, oltre ad evidenziare una maggiore velocità nelle scelte
caratterizzate dalla presenza di un brand familiare (soprattutto per quanto riguarda
il genere femminile), hanno messo in luce un duplice percorso di attivazione
cerebrale, a seconda della prevedibilità o meno delle decisioni prese dagli individui.
1 La MEG, sigla che sta per Magnetoencelografia, è un apparato che registra i campi magnetici indotti dall’attività neuronale. Per una dettagliata definizione del funzionamento, si rimanda a Babiloni F., Meroni V., Soranzo, R., (2007).
1
Quando il processo di decision-making veniva effettuato in presenza di marche
familiari, i soggetti impiegavano infatti circuiti neurali profondamente differenti
rispetto a quando la scelta veniva compiuta fra alternative che implicavano brand
non conosciuti, ad eccezione di quanto avveniva nelle prime fasi puramente
percettive, dove le attivazioni cerebrali erano comuni a entrambi i percorsi
cognitivi.
Dopo circa 90 ms dalla presentazione delle opzioni, la condizione sperimentale in
cui i soggetti erano chiamati a prendere una decisione sul prodotto da acquistare si
caratterizzò infatti, indipendentemente dal livello di familiarità del brand, per una
maggiore attivazione della corteccia visiva rispetto ai casi in cui i soggetti, nella
condizione di controllo, dovevano semplicemente esprimersi indicando l’oggetto
dalla dimensione minore; questa scoperta, secondo gli sperimentatori, è in accordo
con quei precedenti dati raccolti in letteratura che si esprimono a favore di una
correlazione fra l’attività della corteccia visiva e il lavoro svolto dalla memoria di
lavoro. Quest’ultima, data l’importanza per il soggetto di basare una qualsiasi
decisione d’acquisto sul recupero mnemonico di alcuni ricordi concernenti il
medesimo marchio percepito, sarebbe infatti in grado di stimolare l’attività della
corteccia visiva, richiamandola ad una maggiore accuratezza nel processo di
formazione di un quadro rappresentazionale della realtà. Al contrario, in un
contesto in cui il soggetto deve solo fornire un dato relativamente semplice
riguardante una qualità prettamente fisica dell’oggetto, la memoria di lavoro non
dovrebbe avviare un medesimo processo di recupero mentale di informazioni
passate, limitando di conseguenza anche l’attività della zona occipitale deputata alla
visione; al fine di chiarire quale sia il grado di familiarità del brand presentato, il
cervello dei soggetti mette quindi immediatamente in atto, tramite la memoria di
lavoro, un processo di natura fortemente attentiva.
In un secondo stadio percettivo, all’incirca dopo 325 ms dalla presentazione delle
opzioni di scelta, è stata poi riscontrata, nella condizione in cui i soggetti dovevano
compiere una decisione d’acquisto, una forte attivazione di una serie di aree
temporali anteriori e mediane sinistre che risultavano invece meno coinvolte nella
semplice condizione di controllo. Di nuovo, questo dato non sorprende, e trova una
sua spiegazione nel ruolo svolto da queste regioni corticali, tradizionalmente
2
accostate ad una intensa attività di recupero semantico ed episodico delle
informazioni immagazzinate nella nostra memoria; in questa fase del decision-
making, l’attenzione dei soggetti è infatti orientata a identificare l’immagine del
prodotto che percepiscono, classificandola e comparandola con i dati conservati
nella memoria relativa a quel medesimo prodotto. Se la prima fase si
contraddistingueva quindi per una sorta di pre-allarme inviato alle regioni cerebrali
puramente percettive, la seconda si caratterizza invece per l’inizio di una vera e
propria attività di ricerca delle informazioni necessarie.
Dopo 500 ms dall’inizio della scelta da parte dei soggetti, sembrano invece
emergere due quadri di attivazione cerebrale differenti a seconda del grado di
familiarità o meno con il brand. Per quanto riguarda le scelte non prevedibili, ossia
le situazioni in cui il soggetto si trovava di fronte a marche da lui sconosciute, i
ricercatori hanno riscontrato una forte attivazione nella corteccia inferiore frontale
destra, corrispondente alla celebre area di Broca (area 44 di Brodmann).
Il coinvolgimento di questa regione, fondamentale per l’espressione del linguaggio
parlato, potrebbe rivelare una tendenza del soggetto a vocalizzare silenziosamente il
brand sconosciuto, aiutando così, tramite una ripetizione continua, un processo
decisionale che manca di un effetto di familiarità che solo una marca nota ed
affidabile può dare. Nel caso invece di scelte prevedibili, quando cioè il soggetto si
trovava di fronte a un brand conosciuto, si osservava una forte attivazione della aree
parietali destre circa 900 ms dopo l’inizio del compito, dato che, secondo i
ricercatori, sarebbe dovuto alla tentazione del soggetto di trasformare la decisione
d’acquisto in un potenziale atto motorio finalizzato al concreto raggiungimento
dell’oggetto prescelto: conoscendo infatti la funzione di alcune aree parietali,
deputate alla codificazione dello spazio circostante e all’esecuzione dei movimenti
corporei, un loro forte coinvolgimento sarebbe indispensabile per mettere a fuoco il
prodotto da acquistare ed avviare di conseguenza un processo motorio orientato
letteralmente ad “afferrarlo” (Ambler, Braeutigam, 2004).
Uno studio simile è stato svolto dal team di Knutson, che ha studiato attraverso la
FMRi le reazioni cerebrali di diversi soggetti impegnati in un’esperienza simulata
di shopping, articolata lungo tre differenti fasi: in un primo momento veniva
mostrata loro la singola immagine di un prodotto acquistabile; successivamente,
3
unitamente all’immagine, veniva presentato il prezzo del medesimo bene. Infine, in
un terzo momento i soggetti dovevano decidere se acquistare o meno il prodotto
proposto. L’esperimento terminava poi con un’intervista nella quale i partecipanti
esprimevano una propria scala di preferenze per desiderabilità e prezzo che
avrebbero pagato in riferimento ad ogni prodotto visionato.
I risultati della FMRi rivelarono un pattern di attivazione differente a seconda della
decisione dei soggetti di acquistare o meno i prodotti visualizzati: durante la prima
fase di semplice presentazione del prodotto, nel caso di beni acquistati e
particolarmente desiderati dal soggetto, si registrava infatti una marcata attività del
nucleo accumbens (NAcc); per noi non si tratta di un dato sorprendente, dato il
ruolo, già preso in considerazione, di quest’area cerebrale nel porsi come regione
centrale del circuito della ricompensa, e più in generale dell’intero sistema
dopaminergico.
Nella seconda fase, in cui di fianco all’immagine del prodotto faceva comparsa il
prezzo relativo al bene stesso, si verificava invece da una parte una forte attività
dell’insula nei casi in cui l’oggetto non veniva poi acquistato, e dall’altra un forte
coinvolgimento di regioni mesiali prefrontali limitrofe all’area ventromediale nelle
circostanze in cui il soggetto sceglieva di acquistare il prodotto, data la convenienza
economica. Se l’attivazione dell’insula è sempre correlata a situazioni di rischio o
di dolore, e non stupisce quindi un suo coinvolgimento proprio nella fase di
presentazione di un elevato prezzo da pagare per un bene che proprio per questo
motivo non verrà acquistato, l’attivazione della corteccia ventromediale sembrava
direttamente proporzionale allo scarto fra il prezzo che il soggetto era disposto a
pagare e quello effettivo del prodotto, fornendo in questo modo una precisa
anticipazione di quali beni sarebbero poi stati acquistati: maggiore era la
convenienza economica per i soggetti, maggiore risultava l’attivazione di questa
regione cerebrale, il cui ruolo durante i processi di ricompensa è ormai più che
noto.
Questo studio non solo ci fornisce un potente strumento predittivo del processo
decisionale d’acquisto, il cui esito è in qualche modo anticipato dall’attività di
determinate aree cerebrali, ma contribuisce anche a presentare il decision-making
stesso come un complesso processo mentale che vive di una vera e propria
4
competizione neurale fra l’immediato piacere dell’acquisto (Nucleo Accumbens) e
il correlato dispiacere relativo al pagamento (Insula) (Knutson et. al., 2007).
L’idea del processo decisionale come tensione fra diversi circuiti neurali trova il
suo fondamento anche in un’altra ricerca, condotta questa volta da McClure e
Cohen: sottoponendo i soggetti alla FMRi, si chiedeva loro di scegliere fra un
piccolo buono-regalo di Amazon che avrebbero ricevuto immediatamente, e un
altro buono, sempre di Amazon, leggermente più cospicuo e che avrebbero però
ricevuto da due a quattro settimane dopo. Dall’analisi della risonanza magnetica
funzionale emersero due distinti circuiti neurali in grado di predire la scelta del
soggetto: nel caso dei soggetti che optavano per l’ottenimento immediato del
buono, si riscontrò una forte attivazione del sistema limbico, tradizionalmente
associato al lato emotivo e impulsivo della mente, e di alcune zone del circuito
dopaminergico, come il nucleo accumbens (NAcc); nel caso invece di soggetti che
sceglievano il premio più cospicuo, rimandandolo però di 2 o 4 settimane, a
prevalere erano alcune aree prefrontali, come la dorsolaterale, che solitamente sono
deputate a ruoli inerenti alla memoria di lavoro e al ragionamento. Questi dati sono
in grado di fornire una rappresentazione neurale efficace della tensione dei soggetti
fra la volontà di ottenere una ricompensa subito e quella di resistere ricevendo un
guadagno maggiore in un futuro; in termini metaforici, sistema limbico e zone
prefrontali potrebbero rivestire il ruolo di correlati neurali rispettivamente
dell’atteggiamento “cicala” e di quello “formica” (Leher, 2009; Motterlini, 2008).
Definite le principali regioni cerebrali coinvolte nell’atto d’acquisto,
concentriamoci ora su alcune possibili distorsioni cognitive che possono intervenire
nel decision-making del consumatore, influenzandone le scelte; ci occuperemo in
particolare di quattro fenomeni di natura strettamente cognitiva: nell’ordine, si
tratta del framing, dell’euristica dell’ancoraggio, dell’effetto dotazione e del
paradosso della troppa scelta.
Effetto Framing: dipende dai punti di vista
Abbandonato il mito cartesiano di una realtà oggettiva dotata di un proprio status
ontologico indipendente dall’individuo, e sposata invece un’idea di realtà come
costruzione soggettiva intrinsecamente dipendente dalla mente del soggetto, le
5
scienze umane nell’ultimo secolo hanno spostato il focus della percezione dalla
cosa in sé al come essa viene vista dall’uomo, il quale, non più visto come un’entità
che tenta di riprodurre passivamente la realtà nella propria mente, è stato invece
preso in considerazione come un essere che agisce attivamente interpretando il
mondo e costruendo la realtà secondo fattori percettivi, cognitivi e basandosi sul
proprio vissuto precedente.
Questa rivoluzione copernicana nel modo di intendere la mente umana ha
influenzato da vicino anche il processo decisionale dell’individuo, il cui esito non è
più visto come un qualcosa di indipendente dal contesto in cui lo stesso processo si
realizza, ma è anzi fortemente vincolato ad una serie di variabili ambientali; uno
stesso risultato può essere infatti inserito in cornici contestuali molto differenti,
influenzando il modo in cui viene percepito dal soggetto e dando adito, in un
quadro consumistico, a decisioni d’acquisto che possono rivelarsi profondamente
diverse fra di loro: ad esempio, è risaputo che una quantità di gelato minore ma
posta in una piccola coppa che fatica a contenerla viene acquistata più volentieri e a
cifre più alte rispetto ad una quantità maggiore di gelato situata però in una coppa
dalle dimensioni molto più grandi. Questo avviene in particolare quando le coppe
vengono presentate separatamente, e il soggetto, non potendo comparare
precisamente la quantità di gelato di entrambe, lascia che la sua scelta venga
guidata dalla capienza del contenitore: <<comperare una coppa di gelato
traboccante ci piace, suscita un’emozione positiva; comprarne una mezza vuota
no>>2; è questo il classico esempio di processi decisionali influenzati non dalla
natura del quadro, ma dall’ampiezza della cornice (Motterlini, 2006).
Prendiamo ora il caso di un test sperimentale riguardante la vendita di due differenti
set di stoviglie: il primo è costituito da 24 pezzi (8 piatti piani, 8 piatti fondi e 8
piatti da frutta), tutti in buone condizioni; il secondo, invece è costituito da un
numero maggiore di pezzi, 40 (8 piatti piani, 8 piatti fondi, 8 piatti da frutta, 8 tazze
di cui due con un difetto, 8 piatti da dolce di cui 7 con un difetto). Valutando
congiuntamente i due set, e potendo paragonarli fra loro, i soggetti a cui era chiesto
di fornire una valutazione monetaria di entrambi erano chiaramente disposti a
spendere di più per il set di 40 pezzi (mediamente 25 euro) rispetto a quanto
2 Motterlini, (2006), p. 113.
6
avrebbero pagato il primo set che, anche se in buone condizioni, presentava
comunque meno pezzi privi di difetto (la valutazione qui si aggirava intorno ai 23
euro); la sorpresa arrivava invece quando si cambiavano le condizioni del processo
decisionale, presentando ad alcuni soggetti soltanto il primo set e ad altri soltanto il
secondo, in quella che viene chiamata una condizione di valutazione separata:
contrariamente al principio di razionalità, qui i soggetti si dichiaravano
maggiormente disposti ad acquistare il primo set (valutazione di 25 euro) rispetto al
secondo (valutato mediamente 18 euro). Qualsiasi sia il fattore che abbia
determinato questo cambiamento nella valutazione (probabilmente mentre la
valutazione congiunta spinge a una comparazione fra i due set, nella valutazione
separata, in mancanza di altri elementi, si paragona semplicemente il numero totale
di pezzi con la quantità di pezzi intatti) l’esperimento ci offre più che mai la
possibilità di comprendere come le scelte di consumo siano pesantemente
influenzate dalla modalità in cui vengono presentate.
Generalmente tendiamo a privilegiare, per esempio, un rivenditore che ci fa pagare
un litro di benzina 1,75 e fa lo sconto di 0,05 euro a chi paga in contanti, piuttosto
che uno che fa pagare un litro di benzina 1,70 applicando un aumento di 0,05 euro a
chi paga con il bancomat o carta di credito; la sostanza è la medesima, ma il frame
con la quale ci viene offerta cambia radicalmente, modificando anche i nostri
atteggiamenti di consumo: la parola sconto è molto più attraente della parola
aumento, soprattutto di questi tempi. (Balconi, Antonietti, 2009).
Anche le offerte del tipo “paghi 2 e prendi 3” agiscono sullo stesso meccanismo
cognitivo, facendoci credere che il terzo prodotto non costa nulla: in realtà anche il
terzo bene ha un suo prezzo, dato che per ottenerlo dobbiamo ottemperare a una
condizione onerosa sia in termini monetari che di vincolo al consumo futuro,
obbligandoci a consumare la scorta prima di acquistare una marca alternativa: non
si tratta di altro che un efficace trucco per presentare alla nostra mente un concetto
allettante come quello di gratuità (Lugli, 2010).
Per una migliore comprensione dell’influenza del framing sulle nostre scelte di
acquisto, prendiamo ora in considerazione quello che è stato chiamato l’effetto di
attrazione o di disturbo; in un recente esperimento, 100 studenti sono stati messi di
fronte a due differenti condizioni di scelta riguardanti l’offerta di un abbonamento
7
annuale al giornale The Economist: in un primo caso i soggetti dovevano decidere
fra tre differenti opzioni:
Abbonamento online con accesso a tutti i numeri pubblicati a partire dal 1997,
per 59$;
Abbonamento in formato cartaceo, per 125$;
Abbonamento in formato cartaceo più formato online con accesso a tutti gli
articoli pubblicati a partire dal 1997, per 125$.
Gli sperimentatori raccolsero 16 preferenze per la prima opzione, 84 per la terza e
nessuna preferenza per la seconda alternativa, ritenuta evidentemente sconveniente
dal momento che, paragonata alla terza, offre meno servizi allo stesso prezzo.
L’esperimento fu così ripetuto scartando la seconda opzione, e offrendo ai soggetti
la possibilità di scegliere solo fra la prima e la terza alternativa: il risultato fu anche
qui sorprendente, dato che le preferenze si ribaltarono letteralmente facendo
registrare un 68-32 in favore del primo abbonamento; ciò a significare che la
seconda alternativa, sul piano pratico totalmente inutile, svolgeva invece un ruolo
di fondamentale importanza, offrendo ai consumatori una pietra di paragone per
valutare le altre opzioni, e spingendo così il processo decisionale in favore di una
delle due (Lugli, 2010). Il meccanismo è chiamato effetto disturbo, e viene usato da
molti venditori che, grazie all’introduzione di un’alternativa manifestamente non
conveniente rispetto ad una scelta onerosa, inseriscono la scelta in una cornice utile
ad orientare i consumatori proprio verso l’opzione più cara: <<se aggiungiamo
un’altra opzione, chiamata (-A), nettamente peggiore della prima (A), ma anche
molto simile ad essa, il confronto tra di loro diviene facile e suggerisce non solo che
(A) è meglio di (-A) ma che è anche meglio di (B)>>3
Un altro potente effetto di framing intrinsecamente legato ai nostri atti d’acquisto fa
invece riferimento alla nostra avversione per gli estremi, che ci porta spesso a
eliminare, in una scelta fra diverse alternative, da una parte l’opzione più
economica, associata ad una rinuncia sul piano dei benefici ricercati, e dall’altra
quella più costosa, che implica un’eccessiva rinuncia sul piano economico,
spingendo di conseguenza le nostre preferenze verso l’alternativa centrale.
3 Lugli, 2010, p. 91.
8
È su questo meccanismo che giocano molti venditori, impegnati a porre i loro
prodotti sul mercato in una posizione economicamente intermedia: una stessa
offerta in termini di prezzo può avere differente successo a seconda che si trovi in
un contesto ricco sia di alternative più dispendiose che di opzioni più economiche,
oppure in un ambiente in cui rappresenta l’offerta minore o maggiore (Lugli, 2010).
L’effetto framing è stato indagato anche per quanto riguarda i suoi possibili
correlati neurali: in una sorta di gioco d’azzardo ricreato in laboratorio, un’identica
scommessa veniva presentata a dei soggetti in due diverse modalità: nel primo caso
venivano dati loro 50$, chiedendo di scegliere fra la possibilità di tenersene
sicuramente 20$, oppure di investire l’intero denaro a loro disposizione in una
lotteria che con il 40% di possibilità permetteva loro di mantenere i 50$, e con il
restante 60% di possibilità faceva perdere tutti i soldi dati inizialmente. Nel
secondo, caso, invece la lotteria non cambiava, ma questa volta la possibilità
iniziale era quella di perdere 30 dei 50$ ottenuti, piuttosto che di mantenerne 20$:
la situazione ovviamente è la stessa, ma il modo di presentarla variava, e questo
portava i soggetti ad affidarsi alla lotteria il 42% delle volte nel primo caso, e ben il
62% nel secondo caso.
Fin qui, niente di nuovo: un’altra conferma della validità dell’effetto framing; ma
quando i neuroscienziati usarono la tecnica FMRI per studiare l’attività dei cervelli
dei partecipanti, scoprirono che chi sceglieva di scommettere lasciandosi
“abbindolare” dal differente frame, era sviato dall’eccitazione dell’amigdala, una
regione cerebrale che, quando attiva, evoca sensazioni negative di perdita. Questa
zona cerebrale era tuttavia attiva anche nei cervelli di coloro che non si lasciavano
influenzare dalle due diverse presentazioni, ma la differenza, per questi ultimi,
risiedeva nella contemporanea attivazione della zona prefrontale. In parole povere,
anche chi capiva subito che i diversi frame di scelta si riferivano a una medesima
situazione, provava comunque un’ondata negativa di emozione negativa quando
pensava al contesto di perdita, ma, a differenza degli altri, che decidevano sull’onda
di questa sensazione, sapeva cogliere il segnale filtrandolo con elementi di
razionalità stimolati dalla corteccia prefrontale.
Una decisiva evidenza sperimentale in grado non solo di mostrarci un possibile
correlato neurale dell’effetto framing, ma anche di darci una conferma del fatto che
9
le persone razionali non sono tanto coloro che non ascoltano il proprio sentire, ma
piuttosto coloro che, ascoltandolo, lo sanno comprendere (Leher, 2009; Motterlini,
2008).
Euristica dell’ancoraggio: attenzione all’ancora
Era il 1979 quando gli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky
stravolsero lo studio dell’economia formulando la ormai celebre prospect theory:
mandando definitivamente in pensione la figura dell’homo economicus, dotato di
una razionalità perfetta e sempre capace di valutare correttamente gli esiti delle
proprie azioni scegliendo quella che massimizza la sua utilità, la prospect theory, da
una parte raccogliendo una serie di evidenze empiriche che testimoniavano una
continua violazione del principio di razionalità nelle decisioni quotidiane, e
dall’altra analizzando a fondo i meccanismi cognitivi della mente umana, si impose
come modello psico-economico in grado di integrare diversi dati comportamentali
in un quadro unico mirato a fornire una dimensione descrittiva delle decisioni reali.
Tralasciando momentaneamente il tema dell’avversione alle perdite, che sarà
centrale per spiegare successivamente l’effetto dotazione, poniamo ora l’accento sul
fatto che gran parte del merito della prospect theory sta nell’aver colto una
caratteristica fondativa del nostro sistema percettivo:
“Un tratto essenziale della presente teoria è che il valore è associato alle variazioni di ricchezza o benessere, piuttosto che agli stati finali. Questa assunzione è compatibile con i principi base della percezione e del giudizio. Il nostro apparato percettivo è sintonizzato sulla valutazione delle variazioni piuttosto che sulla valutazione di grandezze assolute. Quando rispondiamo ad attributi quali la brillantezza, la pesantezza o la temperatura, il contesto passato e presente dell’esperienza definisce un livello di adattamento, o punto di riferimento, e gli stimoli sono percepiti in relazione a questo punto di riferimento”4
Se il nostro cervello è quindi programmato per riconoscere i cambiamenti da un
determinato punto di riferimento, piuttosto che per valutare le dimensioni assolute,
questo è probabilmente dovuto al fatto che i nostri neuroni sono in grado di
codificare lo scarto fra due diversi istanti, piuttosto che di reagire in base a una
4 Kahneman, Tversky, (2005), p. 79.
10
singola situazione: <<se immergiamo una mano nell’acqua, la stessa temperatura
dell’acqua ci sembrerà calda se la nostra mano si era adattata a un ambiente più
freddo, e fredda in caso contrario.>>5.
Questa caratteristica fondante del nostro sistema cognitivo fa sì che le nostre
decisioni siano basate non tanto su una valutazione dell’esito in sé, come
prescriveva la teoria dell’homo economicus, quanto piuttosto sull’analisi della
correlazione fra l’esito possibile e un preciso punto di riferimento, che funge da
vera e propria ancora del ragionamento, ed è generalmente rappresentato dalla
situazione attuale in cui si trova il soggetto; in particolare, ciò avviene in ambito
consumistico, dove le nostre decisioni sono spesso maturate dopo una meticolosa
comparazione fra diversi beni o differenti prezzi.
Basti pensare a questo proposito al successo dei saldi: la spesa per un oggetto
opportunamente scontato risulterà vantaggiosa per il semplice fatto di essere
paragonata al prezzo pieno, che spesso viene anche appositamente aumentato per
creare la percezione di un guadagno in realtà fittizio; la comunicazione di uno
sconto eccita infatti la mente del cliente, che, ancorandosi mentalmente al prezzo
pieno e valutando l’affare in base allo scarto con quello reale, trova il modo di
minimizzare il dolore della perdita (con un possibile correlato neurale in una
minore attività dell’insula?) sbilanciando così il decision-making verso la volontà di
ottenere immediatamente la ricompensa (Lugli 2010, Motterlini 2008).
Il valore dello sconto non è tuttavia assoluto, ma dipende dal contesto di
riferimento: un medesimo sconto di 4 euro vale infatti diversamente se offerto su un
bene che costa 12 euro o su uno che ne vale 97; questa diversità è spiegata,
nell’ambito della prospect theory, da un fenomeno percettivo, per il quale la
sensibilità psicologica è maggiore per cambiamenti più vicini al livello di
riferimento, mentre diminuisce marginalmente. Così come, per un principio
prospettico, la distanza fra due punti sembra minore se i punti sono lontani nello
spazio, anche lo scarto fra due prezzi sembra ridursi con l’aumentare delle cifre.
Questo, oltre a dare supporto a quelle ipotesi che vedono un correlato neurale
comune fra l’atto di contare e la percezione spaziale, fornisce anche una
spiegazione al fatto che vi sarebbero più persone disposte a muoversi in un negozio
5 Motterlini, (2006), p. 96.
11
vicino per guadagnare 4 euro su un prodotto che ne costa 12, piuttosto che
risparmiare la medesima cifra su un bene valutato 97 (Balconi, Antonietti; 2009).
Sfruttando sempre il meccanismo dell’ancoraggio, alcuni negozi di abbigliamento
istruiscono il proprio personale a vendere l’oggetto più costoso per primo, puntando
sul fatto che quando il cliente arriverà a valutare altri oggetti per loro natura meno
cari, anche se saranno più costosi del solito, i loro prezzi non sembreranno così alti
rispetto alla spesa già effettuata (Lugli, 2010).
Anche i concessionari automobilistici e i siti delle compagnie aeree low-cost fanno
in modo di ancorare la mente del consumatore a un certo punto di riferimento,
corrispondente a un prezzo iniziale, aumentando solo successivamente la cifra
grazie all’aggiunta di optional vari, i quali, rappresentando solamente un graduale e
indolore aumento, vengono percepiti come poco costosi in relazione al prezzo-
ancora (Motterlini 2008).
Ma il fenomeno dell’ancoraggio è molto più efficiente di quanto si pensi: qualche
anno fa un gruppo di economisti del MIT decise di organizzare un’asta per i suoi
studenti, mettendo in vendita diversi oggetti come bottiglie di vino, tastiere wireless
e scatole di cioccolatini. La peculiarità di quest’asta consisteva nel fatto che ogni
studente doveva scrivere su un foglio le ultime due cifre del suo codice di
previdenza sociale, e decidere poi per ogni prodotto se era disposto a pagare quella
cifra. Successivamente, gli studenti dovevano indicare la cifra massima che erano
disposti a spendere per i diversi oggetti. Anche se in linea teorica il numero di
previdenza sociale non avrebbe dovuto esercitare nessuna influenza sulle offerte, si
registrò un profondo divario fra coloro il cui numero terminava con cifre alte (80-
99) e coloro il cui numero finiva con cifre basse (10-20): i primi fecero un’offerta
media di 56 dollari, i secondi di soli 16.
Questo esperimento, in cui l’ancora costituiva un punto di partenza totalmente
scollegato con il compito da portare a termine, rende l’idea di come il nostro
cervello ricerchi continuamente pietre di paragone dalle quali partire per costruire
un ragionamento, mantenendole anche contrariamente a qualsiasi principio
razionale (Leher, 2009).
12
Effetto dotazione: l’importanza del possesso
Fra i principali meriti della prospect theory vi è senza dubbio quello di aver messo
in luce il fenomeno di avversione alle perdite. Diretta conseguenza del fatto che
l’utilità, al contrario di quanto prescritto dalla scelta razionale, è associata non a
stati di ricchezza e benessere, ma a variazioni rispetto a un determinato punto di
riferimento, l’avversione alle perdite si rivela come una tendenza tipicamente
umana ad assumere un atteggiamento differente di fronte ai guadagni e alle perdite:
sistematicamente viene infatti osservato che la desiderabilità legata ad una certa
vincita è inferiore, di circa la metà, rispetto alla desiderabilità di non perdere la
medesima cifra, e che per questo motivo la gente generalmente rifiuta le lotterie
simmetriche che distribuiscono equamente la probabilità di vittoria fra la perdita e il
guadagno di una stessa somma di denaro6 (Kahneman, Tversky, 2005).
Il fatto che le perdite vengono sempre codificate come più grandi dei guadagni
trova un suo correlato nelle decisioni d’acquisto nell’effetto dotazione: con questo
termine si fa riferimento alla ricorrente situazione in cui un individuo, per cedere un
oggetto, pretende molto di più di quanto non sia disposto a pagare per acquistarlo:
in altri termini, il semplice possesso di un bene sembra moltiplicarne il valore
percepito (Motterlini, 2008). Quest’effetto è stato riscontrato diverse volte in sede
sperimentale: dividendo alcuni soggetti in due distinti gruppi di compratori e
venditori, e assegnando a questi ultimi una tazza ciascuno, il numero di scambi di
mercato andati a buon fine si rivelò decisamente sotto le aspettative, a causa di una
differente valutazione delle tazze da parte dei soggetti: se i venditori, infatti, non
erano mediamente disponibili a vendere il bene in loro possesso per meno di $5, i
compratori, d’altra parte, non valutavano le tazze più di $2,25-2,75, mettendo in
luce una notevole differenza di valutazione dovuta al semplice fatto di possedere o
meno l’oggetto in questione (Kahneman, Knetsch, Thaler, 2005).
Con lo scopo di comprendere se la ragione di questa iper-valutazione di un bene in
possesso stia in un vero e proprio aumento della sua attrattività o piuttosto in una
difficoltà a separarsene, Knetsch condusse nel 1990 un esperimento in cui divise i
6 “Una caratteristica saliente degli atteggiamenti verso i cambiamenti per quanto riguarda il benessere è che le perdite sembrano più grandi dei guadagni. Il peggioramento che un individuo prova perdendo una somma di denaro sembra essere maggiore del piacere associato al guadagno della stessa somma. La maggior parte delle persone, infatti, trova le scommesse simmetriche del tipo (x, 0,50; -x, 0,50) particolarmente poco attraenti” Kahneman, Tversky, (2005), p. 81.
13
soggetti presenti in due gruppi differenti, assegnando a uno 5 penne a sfera di
prezzo medio, e a un altro $4,50, e dando poi il via a un libero mercato di scambio;
al termine, i soggetti potevano scegliere come premio per la partecipazione
all’esperimento o una penna o due tavolette di cioccolato: come previsto
dall’effetto dotazione, i soggetti a cui venivano assegnate a inizio esperimento le 5
penne a sfera optavano nel 56% dei casi per la penna, a differenza del solo 24% di
preferenze date alla penna dall’altro gruppo.
Quando però tutti i soggetti venivano sottoposti a un questionario finalizzato a
valutare l’attrattività di 6 doni da mettere a disposizione come premi finali, emerse
che coloro che erano dotati di penne durante l’esperimento non le valutavano più
attraenti rispetto a coloro che avevano svolto l’esperimento senza di esse. Questo
dato dimostrerebbe come <<il principale effetto della dotazione non è esaltare
l’attrattività del bene che si possiede, ma solo la sofferenza che si prova nel
separarsene>>7, e inserirebbe questo effetto cognitivo in un quadro teorico di
avversione alle perdite che abbiamo già sottolineato nei capitoli precedenti, e che
vede come argomento centrale l’incorporazione di un’entità esterna nei confini del
proprio sé: una volta che un oggetto viene interiorizzato ed entra nelle
configurazione mentale del sé, l’individuo sperimenta verso di esso non solo un
vero e proprio senso di proprietà, ma anche una percezione di appartenenza
dell’oggetto al proprio “io”. L’effetto dotazione gioca proprio sulla flessibilità dei
confini corporei, suscitando nei soggetti una difficoltà a separarsi da ciò che viene
ritenuto in un breve tempo come “parte del sé”.
Ovviamente, questo meccanismo è alla base di molti comportamenti d’acquisto, e
viene spesso sfruttato da venditori particolarmente abili: molti agenti immobiliari,
illustrando le nuove abitazioni, fanno un largo uso di parole finalizzate a far
sembrare la casa, fin dai primi momenti, come già di proprietà dei nuovi clienti.
Facendo percepire la casa come propria, il venditore fa infatti leva sull’effetto
dotazione, che dovrebbe suscitare nel cliente un senso di proprietà e un immediato
relativo dispiacere per un’eventuale separazione.
Allo stesso modo, le concessionarie d’auto fanno in modo di fissare un prezzo base
per la vendita, e, solo dopo che il consumatore ha accettato la proposta, aumentano
7 Kahneman, Knetsch, Thaler, (2005), p. 137.
14
il prezzo grazie all’inserimento di vari optional che difficilmente frenano la
decisione d’acquisto dell’acquirente, ormai già proiettato verso una percezione
dell’automobile come oggetto proprio (Lugli, 2010).
L’avversione alle perdite gioca il suo ruolo fondamentale anche in un’altra
componente decisiva dei comportamenti d’acquisto, il denaro: acquisito ormai lo
status di bene in sé e non più giudicato come semplice moneta di scambio per
giungere ad altri beni, l’importanza del denaro è tale che una relativa perdita
provoca nell’uomo un vero e proprio dolore che trova un suo correlato neurale
nell’attività dell’insula (Lugli, 2010). L’elemento di curiosità, a questo proposito, è
che l’avversione alle perdite di denaro è evidente in misura molto maggiore quando
acquistiamo qualcosa in contanti piuttosto che quando completiamo transazioni
economiche con la carta di credito. Quest’ultima, secondo recenti studi di neuro-
imaging, riduce nettamente l’attivazione dell’insula, provocando nel cliente un
minore dolore verso le proprie spese e non alimentando una percezione di una reale
perdita che viene invece provocata solo nei casi di pagamenti in contanti. Anche in
un semplice esperimento in cui diversi studenti, durante un’asta, sono invitati a
proporre delle offerte, è stato riscontrato che queste ultime sono molto più alte
quando il solo metodo di pagamento accettato è la carta di credito (Leher, 2009).
Il dolore per la perdita di denaro è tale che le persone, quando è possibile,
preferiscono generalmente concentrare la spesa in un unico periodo piuttosto che
pagare la medesima cifra diluita nel tempo, operazione questa che avrebbe come
unico effetto quello di protrarre in futuro i singoli istanti di dispiacere: <<la somma
delle perdite di denaro realizzata con la concentrazione degli acquisti suscita infatti
un’emozione negativa inferiore a quella che avremmo avvertito diluendo gli
acquisti […] la concentrazione degli acquisti equivale a una riduzione dell’effetto
dotazione>>8 (Lugli, 2010).
Il paradosso della troppa scelta: more is less
Contrariamente a quanto prescritto dalla teoria della scelta razionale, secondo la
quale il consumatore tenderebbe a prendere in esame il maggior numero di
informazioni disponibili al fine di massimizzare la propria utilità, il comportamento
8 Cfr. Lugli, (2010) p. 60.
15
quotidiano degli individui è invece caratterizzato da un’ auto-limitazione del campo
di scelta e da una semplificazione continua del processo decisionale. Così, mentre
in tempi non lontani si era convinti che un maggior assortimento di marche e
prodotti implicasse una maggiore soddisfazione del cliente data dall’offerta di un
più vasto ambito di beni fra cui scegliere, ora è chiaro invece, secondo quello che è
chiamato il “paradosso della troppa scelta”, che l’eccessiva presenza di alternative
in un contesto di scelta rallenta e rende più complicata la decisione d’acquisto,
producendo nell’individuo un sovraccarico cognitivo che lo allontana dal compito e
lo obbliga a mettere in atto diverse euristiche mentali: decidere fra un numero
elevato di opzioni, se inizialmente sembrava maggiormente desiderabile e foriero di
un’ampia libertà individuale, determina invece, alla fine, un forte effetto
demotivante nei consumatori (Olivero, Russo, 2009; Balconi, Antonietti, 2009).
Una prima evidenza empirica di questo fenomeno è emersa nello studio di Sheena
Iyngar e Mark Lepper, due psicologi che hanno studiato in un supermercato della
California gli effetti sul comportamento d’acquisto di un numero elevato (24), e di
un numero ristretto (6) di differenti marche di marmellata. Posizionando fra i
banchi della spesa un banchetto che alternativamente offriva le due diverse quantità
di marmellate, gli psicologi notarono che, sebbene il numero di clienti che si
fermava ad osservare era maggiore quando era presente un’elevata quantità di
alternative (24 marmellate), si registrarono molti più acquisti (30% contro il 3%) se
la scelta verteva solo su 6 tipologie: quando il campo di scelta era limitato, i clienti
che compravano i prodotti erano infatti dieci volte di più.
Il medesimo risultato è stato poi riscontrato in più occasioni: a partire dai piani
pensionistici, per i quali si è osservato un calo delle adesioni direttamente
proporzionale all’aumento delle opzioni d’investimento offerte, passando per
l’ambito scolastico, dove la motivazione di uno studente a scrivere un tema può
essere incrementata limitando la scelta degli argomenti, fino agli affari della
Procter&Gamble, che vide le sue vendite crescere del 10% dopo aver preso la
decisione di ridurre le varianti di Shampoo da 26 a 15, (Gigerenzer, 2007; Leher,
2009; Balconi, Antonietti, 2009; Lugli, 2010).
Alla luce delle diverse evidenze empiriche raccolte, la quantità ideale di opzioni da
offrire ad un cliente dovrebbe aggirarsi intorno al sette, cifra che viene stimata
16
come numero massimo di elementi che la nostra memoria di lavoro può mantenere
durante lo svolgimento di un compito (Balconi, Antonietti, 2009).
Lo stesso paradosso cognitivo è stato comunque riscontrato anche nei contesti di
scelta in cui, pur essendo presenti poche alternative, le opzioni venivano descritte
sulla base di un numero elevato di attributi da prendere in considerazione durante il
processo decisionale: illustrando ad esempio un numero non elevato di case in
vendita, ma fornendo nello stesso tempo al possibile acquirente una quantità di
5,10,15,20 o 25 attributi per casa, si è osservato che la confusione del cliente e la
mancanza di qualità delle decisione finale erano fortemente dipendenti
dall’aumento degli attributi. Compiendo diversi studi a questo proposito, sembra
che il tempo impiegato per decidere fra varie opzioni rallenti inesorabilmente
quando per ogni opzione viene fornito un numero di attributi superiore a 12. Anche
in questo caso, i venditori più abili cercano di facilitare la decisione del cliente
offrendogli, oltre a un numero limitato di alternative, anche una modesta quantità di
attributi per ognuna, in modo tale che il confronto fra le opzioni risulti il più esile e
facile possibile.
Il paradosso della troppa scelta è probabilmente dovuto sia ad un sovraccarico
cognitivo che trova la sua ragione d’essere nella limitata capacità della nostra
mente, la quale non è in grado di operare scelte prendendo in considerazione un
numero illimitato di possibilità, sia ad un senso di eccesiva responsabilità degli
individui, i quali, di fronte a un numero elevato di opzioni percepiscono una
maggiore pressione nel dover raggiungere la migliore decisione possibile (Balconi,
Antonietti; 2009). Data questa duplice difficoltà in un contesto di ampia scelta, i
consumatori mettono in atto diverse strategie difensive: molti tendono a rinviare
sistematicamente questi tipi di decisione, rallentando il processo decisionale o
addirittura fuggendo da esso; altri, invece, si impongono regole ed auto-limitazioni
in grado di restringere il campo di scelta e di semplificare di conseguenza la
decisione (in un supermercato, ad esempio, leggere le alternative di assortimento in
verticale e focalizzare l’attenzione sulla posizione centrale, piuttosto che acquistare
preferibilmente i prodotti all’inizio dello scaffale rispetto al senso di percorrenza
senza visionare tutte le alternative, sono esempi di euristiche impiegate per
facilitare il decision-making) (Lugli, 2010).
17
Oltre al paradosso della scelta, che per certi versi è l’emblema dell’effetto negativo
portato nel processo decisionale da un sovraccarico cognitivo, vi è anche un altro
dato interessante in grado di mostrare come l’eccessivo utilizzo delle funzioni più
razionali della propria mente, in un contesto di scelta, porti a un netto
peggioramento della qualità dell’intero decision-making: in un esperimento
condotto dallo psicologo Wilson, a diverse ragazze era chiesto di scegliere il loro
poster preferito fra un paesaggio di Monet, un quadro di Van Gogh e tre poster
umoristici di gatti. Ma, mentre un gruppo doveva semplicemente indicare la propria
scelta portandosi a casa il poster preferito, un altro gruppo sperimentale doveva
compilare un questionario indicando le ragioni della loro decisione e i fattori
valutati come positivi e negativi per ogni poster. Già a questo livello emerse una
profonda differenza: il primo gruppo aveva selezionato maggiormente i quadri
artistici, mentre il secondo, probabilmente spinto dalla paura di non conoscere le
motivazioni sottostanti ad una scelta di carattere artistico, si rifugiava in una
tranquilla scelta di quadri rappresentanti i felini, sicuramente più facilmente
argomentabile sulla base dei proprio gusti personali.
Due settimane dopo, Wilson ricontattò le ragazze per vedere quale gruppo avesse
preso la decisione migliore: il primo gruppo, vale a dire coloro che non avevano
dovuto rendere conto della propria scelta, sembrava totalmente soddisfatto della
propria decisione, dichiarando esplicitamente di non voler cambiare idea. Le
ragazze del secondo gruppo, invece, nel 75% dei casi si mostrarono insoddisfatte
della scelta, chiedendo agli sperimentatori il permesso di poter tornare indietro sui
propri passi: chi aveva ascoltato il proprio gusto personale, risultava quindi
contento del proprio decision-making; chi era stato costretto ad una
razionalizzazione forzata, era invece andato contro le proprie preferenze rimanendo
deluso dalla propria capacità decisionale (Leher, 2009). Questo esperimento
costituisce un buon segnale in grado di suggerirci che, in scelte d’acquisto
caratterizzate dalla presenza di alternative con una scarsa funzionalità e con
un’elevata importanza estetica, pensare troppo può rivelarsi anti-produttivo e può
condurre lontano dalle proprie preferenze.
Ricapitolando quanto espresso da questi ultimi dati, possiamo concludere con una
certa sicurezza << che usare poca informazione produce il vantaggio di effettuare
18
scelte migliori e maggiormente soddisfacenti, risparmiare tempo ed energia
cognitiva ed evitare la sgradevole esperienza di conflitto>>: contrariamente a
quanto si potrebbe pensare, un cliente soddisfatto non è un soggetto che utilizza
tutte le proprie risorse cognitive per risolvere un decision-making caratterizzato da
un gran numero di informazioni, ma è anzi un consumatore che richiede un
processo di scelta rapido, efficace e basato su pochi ma essenziali elementi9.
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9 Cfr. Balconi, M., Antonietti, A., (2009), p.90.
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