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TRA CRONACA E STORIA

LE VICENDE

DEL PATRIMONIO BOSCHIVO

DELLA SARDEGNA

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La foresta è un organismo di illimitata gentilezzae benevolenza che non chiede nulla

per il suo sostentamento ed elargisce generosamentei prodotti della sua attività vitale; essa dà protezione

a tutti gli esseri, offrendo ombra e riposoanche al boscaiolo che la distrugge.

Buddha

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TRA CRONACA E STORIA

LE VICENDE

DEL PATRIMONIO BOSCHIVO

DELLA SARDEGNA

TRA CRONACA E STORIA

LE VICENDE

DEL PATRIMONIO BOSCHIVO

DELLA SARDEGNA

Enea Beccu

Carlo Delfino editore

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© Copyright 2000 by Carlo Delfino editore, Sassari.

Grafica e impaginazione:Italo Curzio, Roma

A mia moglie

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V

Se ho potuto portare a termine questo lavoro, lo devo a un’infinità di persone. Sono tanteche sarebbe impossibile poterle ricordare e ringraziare tutte singolarmente.

Penso a tutto il personale dell’Archivio di Stato di Cagliari, alla disponibilità del dottor CarloPillai nel suggerirmi nuove tracce per la ricerca, alla cortesia della direttrice Dr.ssa MarinellaFerrai Cocco Ortu e della Dr.ssa Gabriella Olla, alle archiviste, agli affezionati e abituali fre-quentatori dell’Archivio, il prof. Paolo Amat di San Filippo, il Sig. Angelo Randaccio, la Dr.ssaVittoria Del Piano, il prof. Francesco Carboni, il Dott. Paolo Cau. E a quello della Bibliotecacomunale di Cagliari, ed in particolare alla Dott.ssa Ester Gessa.Penso alla entusiastica collaborazione del sig. Cossu dell’Associazione Mineraria Sarda di Igle-sias e dell’ing. Giulio Boi, ex Presidente della Associazione.Chi con notizie preziose, chi mettendomi a disposizione fotogrammi d’altri tempi, chi reinfon-dendomi entusiasmo, chi spronandomi a rendere pubblico il risultato della ricerca.Davvero tante e tante persone cui sono profondamente grato e che desidero accomunare qui inun sentito grazie.Grazie anche a mia moglie e ai miei figli. Senza la loro pazienza e la complice comprensione nonsarei riuscito a concludere il lavoro. Grazie per aver compreso.

RingraziamentiRingraziamenti

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Negli stralci documentari trascritti nel libro sono stati riprodotti fedelmente gli errori ortografici, la pun-teggiatura e le particolarità sintattiche e linguistiche dei testi originali.

L’AUTORE

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VII

Ringraziamenti V

Sommario VII

Introduzione IX

Parte Prima L’eredità del passato

Capitolo I Considerazioni preliminari 3Capitolo II La copertura forestale della Sardegna tra il XVIII ed il XIX secolo.

Gli ademprivi 7Capitolo III La localizzazione dei boschi.

La relazione del De Buttet e il documento anonimo del 1800 21Capitolo IV I fattori che hanno inciso sulla regressione quali-quantitativa

dei soprassuoli forestali 35

Parte II Il panoramta forestale nella prima metà del XIX secolo

Capitolo V Depauperamento del patrimonio boschivo ascrivibileal processo di modernizzazione e di industrializzazione dell’isola 71

Capitolo VI Le utilizzazioni boschive intensive.I tagli degli anni Venti 85

Capitolo VII I tagli degli anni Trenta 107Capitolo VIII Le innovazioni legislative della prima metà del XIX secolo

nel comparto forestale 117Capitolo IX La legge sulla sughera.

Le superfici sughericoleLe prime iniziative industriali per la valorizzazione del sughero 127

Capitolo X Il regolamento forestale del 1844 141Capitolo XI I tagli boschivi degli anni Quaranta 167Capitolo XII I tagli nelle foreste del Goceano.

SommarioSommario

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VIII

Le prime utilizzazioni boschive in funzione delle Strade FerrateLa Concessione alla Compagnia delle FerrovieLa vendita dei beni forestali demaniali 177

Capitolo XIII Note sulle foreste sarde 195Capitolo XIV La superficie forestale dell’isola a metà circa del XIX secolo 245

Parte III La seconda metà del XIX secolo

Capitolo XV Il problema degli ademprivi.Le utilizzazioni boschive negli anni Cinquanta 263

Capitolo XVI Altre fonti documentarie sulla estensione delle superfici boscatedella Sardegna nel XIX secolo: gli Atti di scorporo 305

Capitolo XVII Stima delle superfici boscate isolane nella seconda metà del XIX secolo 323Capitolo XVIII La legge sul vincolo forestale del 1877 333Capitolo XIX I tagli boschivi finalizzati alla produzione di carbone 343Capitolo XX La trasformazione dei boschi in altre qualità di colture

e i tagli di fine secolo.Ancora sugli incendi 357

Capitolo XXI Iniziative volte alla estensione ed alla salvaguardiadel patrimonio forestale isolano 379

Capitolo XXII Considerazioni finali 391

Appendice 403

Fonti archivistiche 411

Fonti bibliografiche 415

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Vi è stata presumibilmente un’epoca in cui la Sardegna era ricca di boschi, alla stre-gua di molte terre prima che venissero colonizzate, quando la scarsità di popolazio-

ne, e quindi i limitati bisogni, non avevano ancora determinato la necessità di eliminare laforesta per far posto alle colture agrarie e ai pascoli.Poi, via via che si stabilirono i primi insediamenti umani organizzati, il bosco è stato elimi-nato nelle aree attorno ai villaggi, sostituito da colture ortive e cerealicole, da frutteti e vi-gneti e da pascoli.C’è chi sostiene che i primi grossi disboscamenti nell’isola su vaste superfici furono opera-ti dai Cartaginesi per far posto alle colture cerealicole e che addirittura essi comminasserola pena di morte a quanti consentivano al bosco di riguadagnare spazi perduti.Ma c’è anche chi confuta questa tesi.Di fatto si può ritenere che la scomparsa del bosco dalle aree pianeggianti del Sulcis, daiCampidani di Cagliari e di Oristano e dalle colline della Trexenta e della Marmilla, siapotuta avvenire nella fase più antica della colonizzazione e che il disboscamento sia poiproseguito via via che l’incremento della popolazione imponeva la messa a coltura di nuo-ve terre, per il soddisfacimento delle necessità primarie legate al sostentamento delle po-polazioni.Le fluttuazioni demografiche hanno senza dubbio comportato anche la riconquista al boscodi zone in precedenza coltivate, ma la tendenza costante è stata quella di una contrazionedelle aree forestali.In una successione inarrestabile molte aree boscate sono scomparse o sono state ridotte, tra-sformate in superfici ad altra destinazione di coltura.A questo processo, che per certi versi è da considerare naturale e fisiologico, specie per learee di pianura e di bassa collina, si sono aggiunti fattori involutivi repentini e sconvolgen-ti, elementi disarmonici e traumatici determinati da vicissitudini storiche e sociali, da atti-

IntroduzioneIntroduzione

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vità antropiche più o meno lecite favorite da normative lacunose e inadeguate, che hannoportato ad un impoverimento qualitativo e quantitativo del manto forestale.Vi è comunque il convincimento diffuso che fino al secolo scorso la Sardegna fosse ancoramolto boscosa e ricca di foreste plurisecolari che si immaginano popolate di maestose pian-te, un vero Eden perdutosi poi a causa di sconsiderati tagli che speculatori senza scrupoli,calatisi famelici sull’Isola, avrebbero compiuto, incuranti delle corrette norme di utilizza-zione boschiva e animati solamente dall’avida sete di guadagno.Ad alimentare questi convincimenti concorrono scritti di vario genere, articoli di stampa, re-lazioni, memorie ecc., che pedissequamente riprendono concetti e immagini pervenutici, dauna parte, attraverso diari di viaggiatori che a vario titolo percorsero l’Isola, e dall’altra,attraverso una letteratura ove si confonde spesso per distruzione il taglio di piante e per di-sboscamento anche la corretta utilizzazione boschiva, o si sostituisce, nel definire una co-pertura boschiva, un giudizio estetico a quello tecnico selvicolturale.In effetti, alcune descrizioni di viaggiatori che visitarono la Sardegna già nel Settecento, tra-dottesi in memorie o in relazioni non sempre disinteressate, hanno consegnato alla leggen-da un’isola felice sotto il profilo forestale.Come non ricordare i «..vari boschi assai grandi della Sardegna...» citati da Francescod’Austria d’Este nel suo manoscritto del 1812 o la reverenda maestà delle foreste di Maco-mer, di Benetutti, di Nuoro, di Bono e di Monte Rasu, formate da querce, roveri, cerri, elci,sugheri di maravigliosa grandezza e di immensa mole, che rivestono i fianchi delle monta-gne... di cui parla padre Antonio Bresciani nella sua opera dedicata all’isola? 1

O le querce colossali di sei metri di circonferenza della foresta di Bolotana del Valery? 2 O lesuggestive ed enfatiche note di Honorè de Balzac sulle foreste vergini attraversate in occasio-ne del suo viaggio nell’isola?O questa o quella descrizione lasciataci dal Della Marmora?Questo mitico quadro, costruito forse, più che sulla realtà effettiva, tramite immagini par-ziali di boscosi e ameni siti di sosta arricchiti da fresche acque sorgive, colte da persone ab-bruttite dalle difficoltà del viaggio e mosse da interessi culturali e non, diversi comunque daquelli forestali, o creato estendendo all’intero territorio isolano la preziosità di taluni lembiboscati o la monumentalità di una quercia, di un mirto o di un tasso, o uno scorcio boscosoinusitato, suggestionate forse dall’asprezza e dalla naturalità di un paesaggio inconsueto eda una realtà anche sociale al di fuori del tempo, ha alimentato una letteratura di manierache ha contribuito a inculcare la convinzione che il territorio fosse ricoperto da immense evergini foreste fino al secolo scorso.Le nostre foreste, che all’epoca si pretenderebbero estesissime, favolose e vergini, soprav-vissute quindi, attraverso il tempo, alle più diverse dominazioni, da quella punica a quellaromana, da quella dei Vandali a quella spagnola, sarebbero poi cadute sotto l’impietosa scu-re abilmente maneggiata da impresari boschivi senza scrupoli e alimentata da particolari especulative attenzioni.Fino a farne scempio; fino a ridurre l’isola in deplorevoli condizioni di nudità.Anche i romanzi hanno concorso ad assecondare convincimenti e ad alimentare miti.«Arrivarono all’altipiano dove un tempo era stata l’antica foresta di Escolca di cui non re-stavano che i ruderi: immensi tronchi abbattuti, enormi ceppaie, cataste di rami già segati epronti per il carico».L’ingegnere Antonio Ferraris del Regio Corpo delle Miniere, inviato a Norbio per sollecita-re la consegna forzosa della legna occorrente per le Regie Fonderie, fu uno dei tanti che con-

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tribuì, secondo il pregevole romanzo di Giuseppe Dessì, Paese d’ombre, alla spoliazione del-le montagne sarde.L’energico funzionario statale, che ottemperava a un ordine dell’Intendente generale di Sar-degna, concorreva a distruggere parte del patrimonio forestale dell’isola per far fronte allenecessità delle miniere e delle fonderie regie del nuovo possedimento d’oltremare di CasaSavoia.Paese d’ombre, riprendendo concetti espressi da più parti ed in diversi tempi e condensan-do in un arco temporale ristretto eventi che si succedettero in oltre un secolo, ha finito quin-di per alimentare una credenza assai diffusa, quella secondo cui il manto forestale dell’iso-la, quasi incontaminato e vergine e fantasiosamente costituito tutto da boschi secolari dipiante maestose, sia stato distrutto dagli oscuri interessi di una speculazione esasperata esacrificato sotto la spinta dello sviluppo industriale della Sardegna.Quanto di immaginario possa esservi in tutto ciò, o quanto di vero, incuriosisce e stimola.Curiosità e stimoli eccitati dal sospetto che cronache di viaggio o descrizioni di occasiona-li turisti dei giorni nostri, che avessero per avventura l’opportunità di attraversare alcuneforeste del Sulcis-Iglesiente (quella del Marganai per esempio o la foresta demaniale di Pan-taleo o di Is Cannoneris), dell’Ogliastra e della Barbagia (foresta di Montarbu di Seui, fo-resta di Villagrande e Talana, foresta di Gusana, il M. Ortobene) o di visitare diversi sugge-stivi siti boscosi del Montiferru o del Goceano (M. S. Antonio, Badde Salighes, foresta Bur-gos, foreste demaniali di Fiorentini, Anela e M. Pisano o della foresta di Settefratelli), o diaffacciarsi in qualche voragine con maestose piante abbarbicate sulle ripide pareti o di per-correre le aspre montagne del Supramonte di Orgosolo e di Oliena o di soggiornare in qual-che lembo di Gallura, o, infine, di guadare corsi d’acqua dalle sponde inverdite da inestri-cabili lianacee aggrovigliate alle branche di lecci, ontani e salici, tenderebbero probabil-mente a somigliare alle cronache ed alle descrizioni di alcuni autorevoli e blasonati viag-giatori del XVIII e del XIX secolo che hanno fatto testo.Una rivisitazione del quadro ricomposto attraverso fonti archivistiche o bibliografiche del-l’epoca, ed una ricostruzione delle vicende succedutesi nel periodo considerato, può perciòforse contribuire a delineare più compiutamente quale fosse il panorama forestale dell’iso-la, a localizzare i soprassuoli più rappresentativi e a identificarne i parametri selvicoltura-li, a conoscere l’impiego del legname e l’uso dei boschi, a stabilire circostanze e fatti chehanno coinvolto il patrimonio forestale e a definire la misura del suo eventuale depaupera-mento e le relative cause.

NOTE

1 Padre Antonio Bresciani: Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati con gli antichissimi popoli orientali,Napoli, 1850. -2 A.C.P.Valery: Voyage en Corse, à l’ile d’Elbe et en Sardaigne - , Parigi, 1835.

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Parte Prima

L’eredità delpassato

L’eredità delpassato

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• Considerazioni preliminari

I

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Inizialmente è esistito un rapporto ancheintimo tra comunità e bosco, basato tal-

volta sulla sacralità attribuita ad alcuni di es-si o sul terrore che le fitte foreste incutevanoaccompagnandosi a miti e leggende popola-ri, ma sempre comunque sul rispetto di unbene che si avvertiva prezioso e misterioso edal quale il villaggio ed il singolo potevanotrarre diverse utilità e vantaggi.I boschi non sfuggivano al regime basatosull’uso comunitario delle terre originatosiab antiquo nell’isola: ciascuno traeva dal bo-sco tutti i benefici che questo poteva dargli,in ragione del proprio fabbisogno e dellespecifiche esigenze.Ed il bosco soddisfaceva a diverse necessitàdi sostentamento: forniva il legname per lacostruzione delle case e degli arredi, la legnaper gli impieghi domestici quotidiani, diver-si frutti commestibili, erbe medicinali, pa-scolo per il bestiame domestico, rifugio eprotezione contro le intemperie, acque sorgi-ve e aria salubre, ed infine, attraverso la fau-na selvatica, un utile complemento di svagoe di reddito.La vastità del territorio e la scarsità della po-polazione non creavano grossi conflitti tra i

diversi fruitori né incidenze pesanti sullearee boscate.Ogni villaggio disponeva del suo fundamen-tu, dell’insieme cioè del territorio che giuri-dicamente gli apparteneva e che era organiz-zato, fin da tempi antichissimi, in modo datenere ben distinte le aree in cui si svolgeva-no le attività agricole ed il pascolo del be-stiame domestico da quelle destinate inveceal pascolo brado e alla raccolta della legna.Mentre le prime eran situate tutto attorno al vil-laggio e destinate al pascolo del bestiame da la-voro (siddu), alle semine (vidazzone) e, a rota-zione, al pascolo del bestiame domito (paberi-le), le seconde, denominate saltus, erano situa-te lontano dal centro abitato e raggruppavano leterre incolte ed i boschi riservati al pascolo delbestiame rude e alla raccolta della legna.Le superfici dei saltus appartenevano in par-te alla Comunità, in parte al Sovrano (saltusde Rennu), ma tutte erano comunque sog-gette all’uso comune, ai diritti consolidatidelle popolazioni «de llenar y herbar» ed an-che di «haser todos los adimplivos», come sidirà in epoca spagnola.Successivamente, l’estendersi e l’affermarsidel sistema feudale, specie dopo la conqui-

Capitolo I

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sta spagnola, alterò, via via, il naturale rap-porto esistente tra mondo rurale e bosco, de-terminando una sorta di frattura di quello daquesto.Andò instaurandosi un regime in cui perma-neva l’uso comunitario dei beni, ma in cui ilsingolo era tenuto alla corresponsione di untributo in funzione dell’utilità che traeva dalbosco e a cooperare agli oneri dei servizi ge-nerali dell’amministrazione del feudo. Un sistema che permase per secoli, fino ametà circa del XIX sec., e che perfezionò l’e-sazione ed estese i balzelli: l’organizzazionefiscale del feudo e gli arrendatori feudali di-vennero implacabili, e la pressione dei tributisul mondo rurale talvolta pesante: feudo, pre-sente, deghino di pecore, deghino di porci, er-baggio delle capre, incarica delle vacche, in-carica delle capre, salto di corte, incarica diporci, sbarbagio, erbaggio delle vacche, er-baggio di pecore, diritti di scrivania, diritti diofficialia, formaggio di peso, ecc. ecc.E ai balzelli imposti dai feudatari si somma-vano gli abusi e le vessazioni perpetrati da-gli ufficiali regi e da quelli baronali.Le infeudazioni, con le quali parti del terri-torio venivano concesse in feudo unitamen-te ai villaggi, prevedevano in genere che iltitolare avesse giurisdizione sugli abitantipresenti e futuri e diritti sui terreni, sui bo-schi, sui pascoli, sulle acque ecc.Nei territori infeudati, oltre ai Capitoli diCorte, alle Prammatiche spagnole e ai Pre-goni sabaudi, si aggiunsero i bandi baronaliche regolavano la vita interna dei feudi e leprestazioni feudali, talvolta in violazionedelle norme consuetudinarie e degli stessiatti di concessione.1

Ciò che era stato in precedenza un dirittocerto, divenne talvolta un diritto indefinito,incerto e condizionato: la legna per gli usidomestici poteva essere prelevata, ma al pre-lievo doveva corrispondere un compenso; ilpascolo poteva essere esercitato, ma previopagamento di un tributo, anzi di diversi tri-buti: 2 pecore per ogni «segno» (pari a 10

pecore) e 1 capo suino «mardiedu» ogni cin-que, come deghino di porci, e uno ogni ven-ti come sbarbagio (pascolo per il solo in-grasso dei maiali nel periodo della cadutadelle ghiande). E poiché a questi tributi dovuti dai pastorilocali potevano sommarsi quelli dei pastoridi altre contrade, si manipolavano spesso idati sulle possibilità pabulari del territorio osulla produzione delle selve ghiandifere, co-sì da consentire l’ingresso al pascolo di be-stiame proveniente da altre contrade ed ac-crescere le rendite del feudatario. E ciò generò conflitti, controversie e proble-mi con le comunità viciniori per l’utilizzodei pascoli e dei boschi, e la conflittualitàsfociò talvolta in atti di violenza e in vanda-lismo. I contrasti sorgevano in particolare nellearee di confine tra feudi limitrofi coinvol-gendo i rispettivi feudatari, e a farne le spe-se erano spesso i boschi, distrutti da incendiappiccati per azioni ritorsive di un feudata-rio nei confronti dell’altro.Diversi Parlamenti di epoca spagnola ripor-tano tracce degli attriti per il possesso e lerelative rendite di terreni contestati, così co-me riportano tracce delle proteste contro di-versi feudatari che pretendevano di imporreulteriori balzelli oltre a quelli previsti dal-l’atto di infeudazione.Si poteva produrre carbone, ma occorrevapagare al feudatario un corrispettivo. Si po-tevano prelevare i legnami per le travaturedelle costruzioni o per fabbricare strumentiagricoli, ma occorreva ottenerne la licenza, ecosì via.È vero che talvolta gli abitanti di questo oquel villaggio riuscivano ad ottenere la gra-tuità del legnatico, ma si trattava di eccezioni.Nel Parlamento del 1697-99 per esempio fusancito, per la Barbagia di Belvì, che i vas-salli potessero raccogliere liberamente leghiande necessarie per l’allevamento in casadi un maiale e di tagliare senza speciale au-

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torizzazione il legname occorrente per la co-struzione delle case e per gli attrezzi agrico-li.2 Anche gli abitanti del Sarrabus godevanodi speciali privilegi per cui erano esentati inperpetuo dal pagamento dei corrispettivi do-vuti per pascolo, legna e seminerio.3

È pur vero inoltre che i diritti relativi al le-gnatico e alla facoltà di carbonizzare, gra-vanti sui vassalli, erano relativamente mode-sti, se rapportati al totale generale delle ren-dite feudali, in media appena lo 0,73% e lo0,006%4 rispettivamente delle rendite agri-cole percepite dai baroni, ma rappresentava-no tuttavia dei balzelli cui era obbligo sotto-stare in uno al rispetto di norme dettate perl’abbattimento degli alberi, oneri che neifeudi in cui esistevano, rappresentavano co-munque quote non trascurabili per le magrerisorse dei vassalli.Il bosco, da rifugio amico e provvido, da na-turale e illimitato bene che poneva i suoifrutti a disposizione della comunità, diven-ne, poco alla volta, elemento di vincolo e dipeso soprattutto per l’attività pastorale; sicreò un distacco con la foresta, strumento at-traverso il quale veniva avvertito ed eserci-tato il potere feudale; si instaurò un rappor-to quasi conflittuale tra il pastore e quella, eal corretto uso del bene, come conseguenza,si sostituirono gradualmente l’abuso, l’incu-ria e la distruzione.E a quello che era stato inizialmente un in-contrastato diritto feudale, fece seguito, coltempo, un contestato diritto di esazione.Soprattutto sul finire dell’epoca spagnola enel primo periodo di quella sabauda, furonoavvertite sempre maggiori spinte al rifiutodell’autorità baronale e una crescente insof-ferenza verso i tributi.Si contestarono sempre più, da parte deiconsigli comunitativi, i pascoli ai pastori fo-restieri, le utilizzazioni boschive che i feu-datari richiedevano di eseguire, e la stessasovranità su determinati territori.

I pastori finirono per divenire i veri incon-trastati signori delle aree forestali, con tuttele conseguenze del caso.Si assistè in alcune contrade a fenomeni dirivolta vera e propria, come nella Gallura, incui il banditismo si innestò nel mondo pa-storale e divenne problematico anche per ilpotere costituito far rispettare le norme, ocome nel Nuorese e nel Goceano, a seguitodell’Editto sulle chiudende che segnò, insie-me ad altri atti normativi, il trapasso tra laplurisecolare sonnolenta dominazione spa-gnola e la più moderna e attiva dominazionesabauda.La prudente politica dei primi anni successi-vi alla presa di possesso dell’isola da partedel vicerè barone di Saint Remy (anno 1720)in nome di Vittorio Amedeo II, giustificatadalla necessità di consolidamento della dina-stia dei Savoia nel nuovo possedimento, edal rispetto delle clausole degli accordi diVienna del 1718 che imponevano di conser-vare leggi, regolamenti, statuti e privilegiesistenti nel Regno di Sardegna, aveva la-sciato inizialmente immutato l’assetto delmondo rurale ancorato saldamente agli usi ealle norme consolidatesi durante il dominiospagnolo.Poi la ventata innovatrice voluta da CarloEmanuele III e avviata dal suo Ministro Bo-gino richiese che in nome del progresso, del-la industrializzazione dell’isola, della moder-nizzazione della sua agricoltura e dello sfrut-tamento delle sue ricchezze minerarie, attra-verso l’impiego razionale delle risorse locali,si utilizzassero anche le foreste dell’isola.Una copertura boschiva che ancora nella se-conda metà del ‘700 ricopriva le montagnedel Sulcis, dell’Iglesiente e del Sarrabus asud; che vedeva al centro dell’isola le fore-ste del Goceano spingersi verso sud ovest,senza soluzioni di continuità, attraverso lealture di Bolotana e Silanus ed i monti diMacomer, fino ai boschi della Commenda diS. Leonardo e di Scano Montiferro e a Sene-ghe, e congiungersi, tramite le selve di Pat-

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tada, di Buddusò, di Alà dei Sardi e di Mon-ti, ai boschi della Gallura a nord, ed unirsiinfine, ad oriente, alle foreste della Barba-gia, dell’Ogliastra e del Gerrei.Ancora in parte boscosa era all’epoca laNurra, e le montagne che sovrastano Bosaerano ricoperte di un unico manto forestalefino a Montresta e Villanova, manto che siestendeva a nord verso Putifigari e a nord-est verso Uri.Boschi cedui, alcuni dei quali ricchi di prov-vigione legnosa o fustaie dense e plurisecola-ri di leccio e di roverella; soprassuoli di lecciomisto ad annosi olivastri o querceti infram-mezzati da maestosi tassi e millenari ginepri.Ma anche boschi talvolta radi o molto radi;fustaie spesso stramature e decrepite, privedi rinnovazione, con piante bitorzolute, con-torte e deformi, tronchi spezzati e marce-scenti, rami monchi e fusti cavi, anneriti dalfuoco e minati da carie.

Foreste qualitativamente appetibili per la«bontà impareggiabile del legname superio-re a quello d’Italia ed equivalente a quello diBorgogna, qualità primaria dell’Europa»,come ebbe a relazionare nel 1824 il capitanodi vascello Albini a proposito dei boschi diS. Leonardo, ma soprattutto foreste idonee afornire per la maggior parte solo legna da ar-dere e carbone.E fitte boscaglie e dense macchie che siestendevano sulle colline fino al piano, ric-che di filliree, di corbezzoli, di grossi lenti-schi e di olivastri.Ma anche meno fitte boscaglie e macchie ra-de e cisteti e soprassuoli forestali con inci-pienti segni di degradazione ed evidenti gua-sti da incendio occupavano vastissime su-perfici e completavano il panorama foresta-le della Sardegna, all’epoca in cui il governoSabaudo cominciò a mostrare interesse perla risorsa forestale isolana.

NOTE

1 Su quanto fossero arbitrari e spesso bizzarri talunibalzelli che gravavano sul mondo rurale, G. Toniolo(in Storia del Banco di Sardegna, Laterza, 1995, pag.51) ricorda che al marchese dell’Asinara spettavanogli uppeddus de sos sorighes, corrisposti a compensodei danni provocati dai topi nel granaio, e che al ba-rone di Ossi i vassalli dovevano corrispondere an-nualmente una carretta di grano quale segno di grati-tudine per essersi trasferito da Alghero a Sassari, equindi più vicino ai suoi sudditti.

2 G. Sorgia: «Dal momento spagnolo alla presenza sa-bauda » da «Meana, radici e tradizioni», 1989.3 ASC, Regio demanio, V.157. Comune di S. Vito. Laspeciale concessione fu accordata ai Sarrabesi dal Ca-pitolo di Grazia di Donna Violanta Carroz datato 8maggio 1480.4 F. Carboni.Annali Fac. Magistero Univ. di Cagliari.Nuova serie Vol.X, 1986. «Per una geografia dei di-ritti feudali» pagg.178-179-232.

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• La copertura forestale della Sardegnatra il XVIII ed il XIX secolo

• Gli ademprivi

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Per tentare di delineare un quadrosufficientemente approssimato del-

la situazione forestale isolana all’inizio delXVIII secolo, è opportuno fare preliminar-mente alcune considerazioni e tener presen-ti i diversi elementi che in un dato territoriocondizionano il tipo, la distribuzione e le ca-ratteristiche strutturali e fisionomiche dellavegetazione in genere e della copertura fore-stale in particolare.Elementi, alcuni di carattere generale, altridi natura specifica.Tra i primi, le vicende paleogeografiche, ifattori climatici, quelli morfologici e quelligeopedologici; tra i secondi quelli biotici.La posizione geografica della Sardegna col-loca l’isola in piena area climatica mediter-ranea caratterizzata fondamentalmente dauna stagione calda e arida e da una fredda eumida.In funzione poi della esposizione, della di-stanza dal mare e dei rilievi, si hanno dif-ferenziazioni termometriche e pluviome-triche tali da poter identificare diversi tipiclimatici, da quello subtropicale a quellotemperato-caldo, a quello subumido e, inaree limitate alle zone più alte dei rilievi

del Gennargentu e del Limbara, a quelloumido.Per la stretta correlazione esistente tra vege-tazione e clima, le formazioni forestali arbo-ree, rappresentate nell’Isola essenzialmenteda boschi di leccio, di roverella e di sughera,sono localizzate nelle zone a clima umido esubumido.In quelle a clima temperato-caldo, che rap-presentano la gran parte del territorio, si svi-luppano invece sia le formazioni arboree aleccio e sughera che le boscaglie arbustivedi sclerofille sempreverdi più evolute (a pre-dominanza di corbezzolo, erica e fillirea) –in condizioni di altitudine medio alta e nelleesposizioni più fresche –, sia le formazioniarbustive della macchia mediterranea piùtermofila e xerofila, ad altitudini medio bas-se e nelle esposizioni più calde.Perciò, in una certa misura, salvo ove la de-gradazione e l’impoverimento del substratopedologico particolarmente incidenti aveva-no nel tempo innescata una regressione del-la composizione floristica, possiamo ritene-re che la copertura vegetale naturale dell’i-sola, all’inizio del XVIII secolo, fosse, percomposizione e distribuzione, quella deter-

IICapitolo II

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minata appunto dai fattori climatici ed edafi-ci, e soprattutto – a parità di altre condizioni– quella che l’incidenza e la frequenza e lacasualità dei fattori di alterazione degli equi-libri naturali avevano determinato.

Che perciò le aree litoranee e costiere spazzatedai venti fossero caratterizzate dalle associazio-ni vegetali più termoxerofile, spesso a porta-mento prostrato, in cui raramente si inserivanoelementi arbustivi o arborei di un certo rilievo,tranne che in alcune situazioni particolari.Associazioni che interessavano, in particola-ri situazioni, anche aree interne, ovunqueesistessero condizioni pedoclimatiche chenon potevano consentire l’insediamento e losviluppo di specie più esigenti.Che nelle aree montane, al disopra dei 1100metri circa d’altitudine, il freddo e la vento-sità, o talvolta la superficialità del substratopedologico, non consentissero che la presen-za di garighe ad arbusti nani e prostrati o dipiccoli spinosi cespugli. Che i boschi propriamente detti, le forma-zioni vegetali più evolute, le leccete in parti-colare, ma anche i boschi misti di leccio eroverella o i querceti puri, vegetassero nellearee più interne dell’isola, a quote medio al-te, sugli altopiani o sui versanti più freschicon suoli più evoluti, o nei valloni, lungo lacatena del Marghine ed in parte del Gocea-no, sul Gennargentu, nei supramonti delleBarbagie e sulle alture dell’Ogliastra, delSalto di Quirra, del Sarrabus e dell’Iglesien-te, ove le condizioni climatiche erano piùconfacenti alle loro specifiche esigenze, eche in tali localizzazioni raggiungessero an-che dimensioni considerevoli.Che le boscaglie arbustive, quelle più termo-file a olivastri, lentischi, alaterno, cisti, mirtoe ginepro fenicio, e quelle più mesofile a cor-bezzolo, eriche, filliree e ginepro rosso, fos-sero le formazioni vegetali più diffuse e oc-cupassero ampi spazi dell’isola, con la lororicca varietà di specie e la non comune esu-beranza, frammiste spesso ad alberi di leccioe sughera; e che questa macchia mediterra-nea manifestasse, in particolari favorevoli si-tuazioni stazionali, tutto il suo prorompenterigoglio vegetativo, differenziando elementiparticolarmente sviluppati, più somiglianti averi e propri alberi che ad arbusti. Carta fitoclimatica della Sardegna (da P.V. Arrigoni).

Orizzonte mesofilo della foresta di leccio

Orizzonte delle foreste miste sempreverditermoxerofile

Orizzonte freddo umido della foresta mon-tana del climax del leccio

Climax degli arbusti montani prostrati edelle steppe montane mediterranee

Orizzonte delle boscaglie e delle macchielitoranee

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D’altra parte però occorre considerare che lesuperfici forestali all’epoca non potevanonon essere state condizionate, nella compo-sizione e nella distribuzione, dalla secolareutilizzazione fattane dagli abitanti dell’isolae non essere state alterate, nella loro struttu-ra, dall’esercizio del pascolo, dagli incendifrequenti e dalle altre attività antropiche.

Tenuto perciò conto dei limiti oggettivi checondizionano l’evoluzione e la composizio-ne specifica del paesaggio vegetale, si puòritenere che l’estensione, la struttura, lo sta-to generale ed in parte la localizzazione delpatrimonio forestale isolano, all’inizio delXVIII secolo, fossero la risultante delle vi-cissitudini da esso subìte nei secoli prece-denti ed in particolare la conseguenza di unrapporto con l’uomo e le sue attività econo-miche spesso incuranti delle esigenze postedal buon governo delle foreste.

Monte Linas (Sardegna centro meridionale). L’assenzadi vegetazione arborea nelle aree cacuminali è ascrivi-bile in larga misura al limitato spessore dei suoli.

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Ripercorrendo brevemente il sistema comu-nitario di utilizzo delle terre, praticato inSardegna fin dai tempi più remoti, e rimastoin auge fin oltre la metà del XIX secolo, ve-diamo che le aree forestali erano relegate neisaltus ed erano costituite da cespugliati, bo-scaglie e boschi.Esse erano le più lontane dal villaggio e veni-vano destinate soprattutto al pascolo brado, alpascolo del bestiame «rude», cioè alle man-drie e alle greggi appartenenti in genere agliabitanti dello stesso villaggio, ma talvolta an-che a pastori di villaggi diversi.Le norme in uso fin dal XIV sec., prescrive-vano l’obbligo di tenere questo bestiame lon-tano dal centro abitato e quindi dalle aree de-stinate all’agricoltura ed al pascolo del bestia-me «domito» , adibito al lavoro dei campi. Secondo il sistema antico e consuetudinariodella Sardegna, ogni villaggio aveva duequalità principali di territorio: una prima de-stinata ai seminativi, ai vigneti ed agli orti,oltre che al pascolo del bestiame domito, zo-na interdetta severamente ai pastori (Cartade Logu, capitoli CXXXV, CXXXVI,CXXXVII, CLI, CLIV, CLV, CLVI, CLX-VII) già denominata habitacione, perchéformava quasi un tutt’uno con lo stesso cen-tro abitato; una seconda parte comprendentele montagne, le foreste, le selve ghiandiferee i cespugliati, tutti terreni riservati al pasco-lo del bestiame «rude» tenuto in branchi, de-finita brevemente come saltus (salto). I soprassuoli forestali venivano distinti indue categorie: le selve ghiandifere, costitui-te in genere da pascoli arborati o da fustaie adensità varia, ma anche da cedui invecchiatio da formazioni miste, e i boschi cedui, ingenere formati da boscaglie di essenze arbu-stive e/o arboree, utilizzati periodicamenteper ricavarne carbone e legna da ardere.Le selve ghiandifere, o più semplicemente ighiandiferi, ospitavano di preferenza bestia-me suino, i porci rudi: il pascolo era loro ri-servato da Ottobre a tutto Gennaio, periododi maturazione e di caduta delle ghiande ed

in cui era prescritto che ogni altra specie dibestiame venisse allontanata dal bosco, sal-vo gli equini, che godevano di particolari at-tenzioni e premure.I cedui venivano invece pascolati da tutte lespecie di bestiame, vacche, pecore, capre emaiali.Sui boschi le popolazioni avevano sempreesercitato, ab antiquo, oltre al pascolo, ancheil diritto di legnatico,1 diritto riconosciutodal codice arborense, consolidatosi durantela dominazione aragonese e spagnola e ri-preso anche in epoca sabauda: «... in qualunque dei suddivisati boschi e sel-ve, chiunque dei vassalli per gli usi propri ocasaleschi, per fabbriche per istrumenti ara-tori, per abbrucciare e qualsivoglia altro uso,può tagliare il bosco che gli abbisogna, pur-ché non tagli la pianta dalla caspa».2

Diritto che coinvolgeva tutte le aree boscateindipendentemente dal titolo di proprietà;veniva perciò esercitato sia sui boschi pub-blici, demaniali e comunali, sia su quelli pri-vati.Diritto quindi di prelevare il legname occor-rente per il fabbisogno familiare, ma con di-vieto di abbattere le piante alla base del fu-sto, salvo che non si trattasse di soggetti sec-chi.Le scale per i carri, i pezzi per gli aratri, letravi e i travicelli per le costruzioni, ed il ta-volame per gli assiti, dovevano perciò esse-re ricavati unicamente dalle branche e dairami degli alberi vitali.Non era questa una norma tesa alla salva-guardia del bosco e ad impedire un eccessi-vo diradamento dei soprassuoli arborei: ten-deva piuttosto a salvaguardare la pianta co-me produttrice di ghiande e quindi comefonte alimentare per il bestiame, fonte reddi-tualmente più remunerativa. In realtà poi le cose erano andate e andava-no diversamente da quanto prescritto, sia inmerito a questo dettato, sia in relazione allenorme che prescrivevano le cautele da adot-tarsi nell’uso del fuoco per scongiurare gli

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incendi, o che lo vietavano come pratica col-turale nelle aree forestali.I pastori in particolare, incontrastati e quasiunici fruitori dei boschi, esercitavano infattiabitualmente e frequentemente ogni sorta diutilizzo e di abuso sui soprassuoli boschivi:dall’abbattimento di piante d’alto fusto, alpascolo indiscriminato, al taglio dei rami perforaggiare il bestiame, all’atterramento di al-beri avviluppati dall’edera (per utilizzarequest’ultima come alimento per il bestiame),al disboscamento di aree da destinare a col-tivazione di cereali e via dicendo; un uso delbosco, insomma, finalizzato alle prioritarie epreminenti esigenze di sopravvivenza delbestiame e che, incurante di ogni correttanorma selvicolturale, sconfinava spessissi-mo in abuso.E gli abusi, protrattisi per secoli, avevanodeterminato, in talune contrade, un gradualedeterioramento della copertura boschiva.«L’attuale stato, in cui abbiamo ritrovato leselve, e boschi minacciante una non lontanadecrescenza per la poca cura nel conservar-gli...» recitava il Pregone viceregio del 2aprile 1771, n.66, 3 a sottolineare che le mi-sure e i divieti che esso dettava, traevanomotivo dal deprecabile stato generale dei so-prassuoli boschivi.Foreste in cui al legittimo diritto d’uso per le-gnatico, ghiandatico e pascolo, si erano sosti-tuiti nel tempo gli abusi incontrastati di abbat-tere piante; di capitozzarle e di sramarle; di di-radare e di eliminare i soprassuoli arborei e ar-bustivi; di pascolare ovunque, senza tenerconto del carico di bestiame né dei danni pro-vocabili al novellame; di incendiare la vegeta-zione boschiva per far posto alle colture ce-realicole o per favorire il ricaccio dei polloni oancora per anticipare la crescita dell’erba.In talune aree si erano originati inevitabil-mente soprassuoli meno densi, in altre sierano trasformati quelli già meno densi inboschi sempre più radi, fino a far loro assu-mere la connotazione di pascoli arborati o fi-no a determinarne la scomparsa.

Alla conseguente graduale contrazione dellasuperficie boscata si associavano un preca-rio stato fitosanitario e un’alterazione strut-turale dei soprassuoli: per i danni provocatidagli incendi; per la mancanza di rinnova-zione a causa del pascolamento continuo odella perdita della facoltà pollonifera delleceppaie; per l’eccessivo invecchiamentodella copertura ascrivibile al divieto di ab-battimento degli alberi ad alto fusto; per lecondizioni delle piante, compromesse spes-so dal marciume del legno favorito dai taglidi capitozzatura, dalle sramature e daglisbrancamenti operati maldestramente.E che questa fosse sostanzialmente la realtàforestale isolana tra la fine del XVIII e l’ini-

Albero monumentale facente parte della fustaia stra-matura di leccio del Supramonte di Orgosolo. La lec-ceta, sfuggita ai tagli operati nel secolo scorso, rap-presenta, con attendibile fedeltà, lo stato di alcuni so-prassuoli forestali presenti in Sardegna fino alla se-conda metà del XIX secolo.

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zio del XIX sec., ce lo testimoniano pun-tualmente e costantemente diverse fonti.Già il De Buttet 4 nella sua documentata re-lazione risalente al 1768, e di cui diremoampiamente più appresso, riferì che la gran-de foresta di lecci esistente nelle montagnetra Orosei e Siniscola, aveva le piante piùgrandi «gatées», deteriorate, e che eranopertanto inutilizzabili per gli impieghi con-nessi alle necessità dell’Artiglieria Reale.In quella grande foresta le sole piante utiliz-zabili erano quelle di diametro assai mode-sto, compreso tra i 20 e i 25 centimetri. Non sappiamo, perché il De Buttet non nefece cenno, per quali cause le piante fosserocariate; è presumibile però che il loro statoprecario fosse dovuto alla stramaturità, atte-so il plurisecolare divieto di abbattimentodelle piante «ghiandifere», od anche ai gua-sti conseguenti agli incendi, od ancora allacarie insediatasi sulle ferite slabbrate di taglimal eseguiti, o a tutte queste cause insieme.Di incuria dei boschi fa cenno il Pregone del2 aprile 1771, citato più sopra, ed il «Di-scorso istorico politico legale dei boschi eselve del Regno di Sardegna» 5 datato 15marzo 1800: «s’abbrucciano tuttodì e s’in-cendiano i boschi, e le tenute di terreno im-boschito, e non di rado anche selve intiere; sitagliano fuor di regola, e fuor di tempo glialberi, e non si sostituisce mai; si sradicanoe si svellono le piante a capriccio, e senz’al-cun ritegno, badando soltanto a godered’un’utilità presente, e non pensando allaposterità, ed ai bisogni futuri...». E sull’eccessivo invecchiamento dei boschi,causa anch’esso di una non ottimale situazio-ne, ci riferisce anche uno scritto anonimo da-tabile verso la fine del ‘700, che così recita:«...valloni, e coste di Montagne, che senzanumero in Sardegna ritrovansi ripieni d’al-tissimi, e grossi alberi d’elce, oltre a unaquantità di Alni, soveri, oleastri, Ginepri,Arbuti, Lentischi, Pini, quercie...quali con-sumansi dal tempo, e vi marciscono senzac-ché se ne ricavi profitto veruno...». 6 La si-

tuazione non era minimamente mutata qual-che anno dopo, se nel 1808, in una lettera del30 giugno diretta alla Segreteria di Stato, ilConservatore generale dei boschi e selvedella Sardegna, facendo proprie alcune os-servazioni del capitano comandante la RegiaMarina, Cav. Demai, si esprimeva in terminiinequivocabili circa lo stato delle forestedell’isola e le cause che ne erano all’origi-ne: 7

«È noto a ognuno che le selve di Sardegna in-vece di mantenersi vanno scemando ogni annoin seguito agli abusi d’ogni sorta praticati da’pastori e coltivatori delle terre vicine».«... moltiplicati gli abusi, non è maravigliache in tutta l’estensione del Regno non sitrovi una sola selva ben conservata che dianel vederla lo stesso piacere che si provaquando si trovan quelle ben custodite delPiemonte, della Savoia, della Francia, dellaSvizzera, e della Germania.Nelle nostre su cento fusti appena se ne ri-trovan due o tre che posson servir alla co-struzione ed alla Marina».«....quando si traversano le selve esistentinon si può senza ribrezzo veder le piante.Quasi tutte sono storte, di poca elevazione ediametro, nodose, marcite nell’interno e dipessimo aspetto. Così le ha vedute il Con-servatore nelle immense selve del Sulcis, diFlumini maggiore, di Sinnai, Burcei, Mara,e Muravera dell’incontrada tutta di Sarra-bus, di Tertenia, Villagrande, Talana, Fonni,Orgosolo, e Mamoiada, di S.tu Lussurgiu eCuglieri, selve che se fossero tenute a dove-re, basterebber sole per tutti i bisogni di treisole come la Sardegna». Analogo a questi ultimi è il giudizio di Fran-cesco D’Austria-D’Este: 8 «Vi sono vari bo-schi assai grandi, dai quali non se ne tiraquasi nessun profitto, poiché per mancanzadi strade e comunicazioni, e perché non visono fabbriche e non vi è industria e che ilsardo in generale è piuttosto pigro, non si ti-ra alcun profitto dei legni dei boschi e si de-teriorano i boschi stessi. Poiché in tutti i bo-

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schi... vi si lascia entrare tutto il bestiame apascolare, non vi sono boschi né misurati néregolati, non si tagliano mai regolarmente...perché non vi è nessuno che sappia e che ab-bia solo un’idea di cosa è la coltura di un bo-sco né che conosca il prezzo della legna» .Né molto diversa era la situazione anche neiboschi più pregiati come quello di S. Leo-nardo di Siete Fuentes, malgrado gli apprez-zamenti dello stesso Francesco D’AustriaD’Este che aveva annotato che vi vegetava-no alberi grossi e dritti: bellissimo bosco fol-to, ha bei alberi dritti alti, con legna da co-struzione.Nel 1824 infatti la foresta, come molto pun-tualmente riferì il Capitano di vascello Albi-ni in una nota del 9 febbraio 1824, 9 eraun’«Aggregata di 22.000 piante di quercia,4.000 di elice, 1.000 circa di sovero, la mag-gior parte delle quali sono d’una estremavecchiezza, rovinate da varie cause...»; edancora «...di figura molto tortuose...», anchese idonee in buona parte per gli impieghiusuali della Real Marina e della Artiglieria.Il quadro generale sullo stato della copertu-ra arborea offertoci dall’ufficiale sabaudo at-traverso i rapporti presentati sull’argomentoalla Segreteria di Stato è quanto mai emble-matico.Dice l’Albini che i boschi della Commendafacevano parte di una vasta foresta che siuniva a quelle di Cuglieri e di Scano Monti-ferro. Essi erano stati oggetto di consistentiprelievi di legnami nel 1750 ed anche in an-ni successivi.Da S. Leonardo, nel 1794, erano state prele-vate per esempio 3331 piante, di cui 500 perla Real Marina e 2831 «..a conto dell’Impre-sa...». E certamente doveva trattarsi del ma-teriale migliore, di piante quindi con legna-me tecnologicamente pregevole, fatto chepoteva essere valutato spesso solo dopol’abbattimento. L’Albini si mostra più attento di altri nelladescrizione di caratteri selvicolturali del bo-sco lussurgese che giudica in condizioni non

ottimali: manca la rinnovazione, distrutta dalcontinuo pascolamento delle vacche, e la co-pertura boschiva è discontinua: ampi spazisono stati disboscati qua e là, in corrispon-denza delle superfici più fertili, per destinar-li alla coltivazione dell’orzo (orzaline); mol-te piante vengono capitozzate o malamentesramate per alimentare il bestiame; altre, av-viluppate dall’edera, vengono addirittura ab-battute per ricuperare l’edera come alimentoper i vaccini; altre ancora atterrate per rica-vare legna da ardere.Questo il quadro sconfortante che l’Albinifornisce su uno dei boschi più preziosi allo-ra presenti nell’isola. Ma la situazione era altrettanto preoccupan-te nel resto della Sardegna, come afferma lostesso Albini: «...essere quasi tutte le forestedi quest’isola ugualmente distrutte..» ed es-sersi «... la fatale distruzione protratta peruna immensa quantità d’anni». Che questo precario stato fosse generalizza-to e perdurasse ancora anni dopo e malgradole diverse denunce, lo si evince inoltre dairapporti che i diversi Intendenti provincialidell’Isola inoltrarono, agli inizi del 1830, inrisposta ad un’esplicita richiesta del f.f. diVicerè, Roberti, 10 circa lo stato generale del-le foreste dell’isola.La richiesta traeva spunto dalla necessitàcontingente di conoscere i danni causati dalrigido inverno 1829-30 alla copertura fore-stale, sia direttamente dalle nevicate e daitemporali abbattutisi nell’isola, sia indiretta-mente dallo sfrondamento delle chiome del-le piante operato dai pastori per alimentare ilbestiame affamato.Il preambolo della nota Roberti è quanto maisignificativo delle condizioni della copertu-ra boschiva che si è visto non essere statedelle più soddisfacenti, e delle relative cau-se compromissorie che preoccupavano chiera preposto al governo dell’Isola e che cosìle stigmatizzava: «La conservazione ed il miglioramento deiboschi e delle selve è stata sempre oggetto di

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grande importanza nella pubblica econo-mia....come apparisce dalle analoghe dispo-sizioni della Regia Prammatica tit. 42 cap. 3delle Carte Reali 12.4.1775 e 29.8.1756, delPregone 2.44.1771...». «...le cure dello stesso Governo e dei rispet-tivi dicasteri subalterni vi sono maggior-mente chiamate ora, che il distruggimentodelle boscaglie e dei ghiandiferi cresce a di-smisura collo svellimento delle radiche, edestirpazioni delle piante per l’uso del fuocoo per ridurre a coltura i terreni; cogli incen-di all’oggetto di accrescere il pascolo pel be-stiame minuto; coll’irregolare taglio dei mi-gliori alberi onde farne quel legname chepotrebbe ugualmente aversi regolandogli iltaglio per via di diradazione ed applicando-lo preferibilmente alle piante infruttifere oprossime a deperire; si guastano le selve fi-nalmente collo scapezzamento degli alberipiù prosperi tagliandosene i rami frondosi eferaci di frutti per nutrire il bestiame ne’tempi freddi e nevosi, di modo che per unamalregolata economia di pastura si distruggequesta istessa...» .Il Vicerè, nel dare incarico di «... vegliaresulla esatta osservanza delle precitate leg-gi... », richiese un esatto rapporto «...accom-pagnandolo anche colle... osservazioni eproposizioni analoghe alla conservazione eristabilimento di esse per gli ulteriori prov-vedimenti del Governo». E lo spaccato della situazione della copertu-ra forestale che si desume da ciò che riferi-rono i funzionari governativi e i Sindaci èassai eloquente: emergono condizioni di ab-bandono e di degrado dei boschi, gli abusiche si commettevano, i tagli indiscriminatiche subivano, ed i danni provocati dagli in-cendi, ma anche da talune radicate consuetu-dini pastorali, sfrondamenti delle chiome so-prattutto.Scrivevano ad esempio da Ossi: 11

«...ne risultò che nei territori delle narratedue curie (del Contado di S. Giorgio) esistesoltanto in quelli della Baronia di Ossi, il

salto ghiandifero denominato Littu oro ossiaBore quale da lungo tempo... andò già in de-cadenza dal taglio della legna che alla rinfu-sa vi si facea». «...e siccome... vennero aggiornati (all’ini-zio del 1829) i vassalli di questo detto vil-laggio che non incorreva pena quegli che sicoglierebbero con ramatura di legna fruttife-ra... gli alberi fruttiferi di sovero ed erce chetrovavansi con le fronde in pochi giorni edin breve spazio di tempo vennero spogliatidelle pertiche e novelli rami che vi esisteva-no, e per nutrire i buoi domiti con le dette fo-glie e per l’avidità di provvedersi di legna ri-manendo in quell’epoca libere le alberi diquercia per trovarsi senza fronde sarebbe ne-cessario che per tre o quattro anni si vietas-se... di recidere dalle alberi fruttiferi il ben-ché menomo ramiscello...» .L’Intendente provinciale di Ozieri riferivainvece in data 27.3.1830: «...fra le altre cau-se di distruggimento delle selve...taglio deirami..» ed ancora «..si annovera specialmen-te gl’incendi provenienti, massimo in Gallu-ra dallo spirito di vendetta verso i proprieta-ri feudatari..» .12

E il Consiglio comunitativo di Fonni a suavolta, in una nota databile nello stesso perio-do: 13

«...non esservi forse montagne ghiandiferetalmente rovinate come queste di Fonni, es-sendo ridotte a tale stato che non potendosifar più tagli di legna da fuoco fuorché nellemontagne più lontane, scoscese ed elevateove gli alberi sono guasti, ma non affattosfrondati, si scarseggia non solo, ma è desi-derabile un carro di buona legna ed appenabasta una giornata per trasportarlo e tirarlodai luoghi molto pericolosi» .Una delle cause della scarsità delle piante,secondo quanto riferivano gli amministrato-ri locali, «....è stato fin qua l’uso della legnaper coprire i tetti, non volendosi decidere gliabitanti a fabbricar le tegole» .«La seconda causa provviene appunto dalmal inteso sistema di pasturia. Si taglia male

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da tutti i pastori vaccai e caprai ma il mag-gior guasto si suol fare dai pecorai i quali ap-pena consumata la stagia ed il pascolo dellevidazzoni, si provvedono della scure e sidanno al taglio delle quercie senza riservanon solo pei vaccai ma anche per le pecore,senza badare al frutto delle ghiande...».«Per ogni greggia di pecore si mutilanogiornalmente 4 - 6 ed 8 alberi di quercia...» «...si aveva qualche consolazione nel ghian-difero del così detto Monte Nou...ma questapure va deteriorando sensibilmente per lostesso abuso del taglio che si fa dai pastori.Si dice che vi siano alberi a migliaia o tron-cati dal fondo o recisi nelle chiome, insom-ma se non rovinati almeno guasti». Da Nuoro l’Intendente provinciale lamentavaanch’egli la consuetudine dell’assidare, delrecidere cioè i rami delle piante per alimenta-re il bestiame: «...non trovo alcun mezzo diprevenire il devasto delle selve ed alberighiandiferi nell’anni sterili di pascolo...».Anche ad Orani i boschi venivano trattati al-lo stesso modo: 1200 sughere tagliate dallefondamenta, e nelle cussorge di litus e oro-gulu 22 sughere recise e 1000 tra sughere,roverelle e lecci spogliati totalmente di tuttele loro fronde. 15

Ed il Giudice mandamentale segnalava idanni provocati dai locali alle piante col ta-glio dei rami. 16

Nel centro sud dell’isola la situazione nonera diversa: l’Intendente provinciale di Isilidenunciava infatti, in una nota del 26 aprile1830: «...essere...costante l’abuso di rappez-zare e atterrare anche i migliori alberi ghian-diferi....essere necessarie delle disposizionionde farsi eseguire in regola ed in via legit-tima il taglio di legname...». 17

Lo sfrondamento non era vietato da alcunanorma; di conseguenza veniva abitualmentepraticato in periodi di scarsità alimentare perforaggiare il bestiame, sia durante le nevica-te – a carico delle piante di leccio e di su-ghera – che nei lunghi periodi di siccità esti-

va – in danno, oltre che delle citate specie,anche della roverella –.Per quanto esso fosse la causa prima dellacarie che attraverso tagli grossolanamenteeseguiti nei rami invadeva il fusto, pregiudi-cando lo stato sanitario e l’utilizzazione dellegname, non vi è traccia di norme, né neiprimi provvedimenti sabaudi, né in quelliprecedenti, che vietassero questa deprecabi-le e compromissoria consuetudine.Solo col Regolamento forestale del 1844 fuinfine introdotto il divieto di «..tagliar pian-te grosse o piccole nel pedale o nei rami...»(art. 27).Ma anch’esso ebbe solo parziale applicazione.Da Bosa 18 comunicarono che per la stima deidanni erano stati nominati 20 periti pastoriche, previo giuramento, avevano riferito:«...numero di alberi 1490 totalmente deperi-ti, che porterebbero l’ingrassamento di 1590porci; quello causato dagli incendi ammonte-rebbe al numero d’alberi 6381, che ingrasse-rebbero 115 animali; e quell’altro cagionatodall’irregolare e abusivo taglio fatto dagliagricoltori montrestini nei salti di Cugumerae Silvamanna, ed altresì dagli agricoltori Bo-sinchi nei salti di Teulas mannu, e Benas ar-riverebbe al numero d’alberi 4893, che han-no privato il pascolo ad animali 5449». In totale si lamentava il deperimento o laperdita di 12.764 piante e la poca operositàdel personale preposto alla sorveglianza, iministri di giustizia, che consentiva «... loslargamento del seminerio dentro ai boschi eselve...», lo sgherbimento, e lo scapezza-mento delle piante migliori.Sempre in merito alle foreste del bosano,l’Intendente provinciale di Cuglieri nella no-ta del 22 giugno 1830 diretta alla Segreteriadi Stato 19, lamentò che sulle piante si face-vano delle «... incisioni... per distaccare l’e-dera, essendo la medesima molto amica del-le piante più alte e rigogliose... ed il taglio siesegue senza la minima cautela...».Tuttavia, aggiungeva la nota, «...la praticanon va vietata perché l’edera...è il solo nu-

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trimento del bestiame vaccino, allorché sonocadute le foglie degli alberi» .Suggeriva quindi l’opportunità che venisseadeguatamente regolamentata.Ed a proposito di Macomer lo stesso funzio-nario riferì:«La montagna di S. Antonio de sas coas, ildi cui dominio si disputa tra il Barone e ilComune di Macomer e tra questo e quello diBorori seguita la sorte delle cose litigiose;tutti vi concorrono come ad una preda, ognianno soffre il taglio di 600 e più piante...». Secondo l’Intendente la causa del degradoera da ascriversi alla poca solerzia dei mini-stri di giustizia, i quali, a loro dire, venivanoimpediti nell’azione di sorveglianza dal Ma-gistrato della Reale Udienza, che ritenevanon doversi procedere ad alcuna innovazio-ne fino a che non venisse definita la lite...«...in modo da non fomentare i pregiudizi ei disordini...». In questo monocorde lamento sembrò fareun’eccezione la sola provincia di Oristano,ma non in tutto il suo territorio. Asseriva infatti l’Intendente provinciale ori-stanese: 20 «... in generale poco e di pochi al-beri ghiandiferi schiantati dal temporale oscapezzati per la sussistenza del bestia-me...»; ma aggiungeva: «Più consistente es-sere stato siffatto guasto nei mandamenti diMasullas, Samugheo ed Assol e di Neoneliin particolare il cui delegato lo fa ascenderea circa 8.000 alberi di quercia... che da 10anni a questa parte vanno via via consuman-dosi dagli incendi provenienti dalla parte delvicino villaggio di Ortueri».

Il commerciante inglese Larking, di cui sidirà in seguito, così si espresse sullo stato del-le foreste sarde in una lettera inviata alla Se-greteria di Stato 21 «...La description d’uneforêt est celle de toutes, partout même depe-rissement par le mêmes causes, le même re-mede pourra égalment s’appliquer a toutes.Toutes le forêts sont peuplées d’arbres pa-raissant avoir à peu près la même age, ils

sont tous vieux, et parvenus à peu d’excep-tion, à leur plus grande maturité; dans aucu-ne forêt il ne se trouve ni taillis, ni baliauxpour remplacer les arbres qui tombent, soitsous la hâche destructrice du pasteur ou au-tre, soit pour l’age...» .22

Egli attribuiva grande responsabilità dellostato di deperimento dei soprassuoli allaconsiderevole quantità di bestiame di tutte lespecie che gravitavano sui boschi: le plantu-le nate dalle poche ghiande sfuggite ai maia-li erano preda del morso di vacche e pecore;ed anche agli incendi appiccati dai pastori:«...le feu qu’ils font partout dans les bois quise communiquent aux broussailles et desbroussailles aux arbres, change dans uneseule nuit, une belle forêt dans une vaste de-sert, ou ne se voit plus que quelques troncsnoir et sans vie....» .23

Tale è il quadro della qualità del manto fore-stale che emerge da queste ed altre significa-tive note, quadro che conferma i guasti, l’in-curia e lo stato di degradazione di larga par-te della copertura forestale dell’isola.Sotto il profilo sanitario e strutturale, in de-finitiva, i boschi sardi lasciavano molto a de-siderare: la loro densità era spesso bassa, lacopertura discontinua ed un consistente nu-mero di soggetti erano decrepiti e stramaturie tecnologicamente inutilizzabili.Un’alta percentuale delle piante apparente-mente integre, inoltre, era in realtà costituitada soggetti minati da carie diffuse del tron-co, ed una volta abbattute si rivelavano ini-donee agli impieghi più nobili del legname evenivano abbandonate sul letto di caduta o,in talune favorevoli condizioni di trasporto,destinate a legna da ardere.Su ciò concordano, oltre a quelle già viste,diverse altre testimonianze documentali: la-gnanze dei commercianti acquirenti, relazio-ni di funzionari governativi, verbali di col-laudo di tagliate ecc.Come ad esempio il verbale di collaudo del-la tagliata eseguita nel 1846 24 da Giovanni

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Bianchi nelle foreste del Marghine, forse lemigliori in assoluto che potesse vantare laSardegna: su un totale di 2.322 piante di ro-verella abbattute, ben 913 risultarono inser-vibili, nel senso che «...non se ne potea rica-vare niente», com’è detto nel verbale.Né del tutto soddisfacente doveva essere lostato delle 1.409 piante non scartate dai ver-balizzanti: esse vennero giudicate buone so-lo in quanto potevano fornire «... un pezzoqualunque di legname...», segno che, alme-no in parte, anche alcune di queste non do-vevano essere immuni da carie.Quindi, in una delle foreste più preziose edappetite del Regno di Sardegna, oltre il 39%delle piante non era utilizzabile come legna-me da opera.

Ma la percentuale delle piante difettose do-veva essere ancora superiore, ove si consi-deri che per contratto il Bianchi aveva il di-ritto di scegliersi personalmente ad uno aduno i soggetti da abbattere e che perciò lepiante martellate erano individuate tra i sog-getti che apparentemente si presentavano in-tegri.Per l’interesse che il documento può rivesti-re, si ritiene di doverne riportare i dati piùsalienti (Tab. 1).

Quando, a partire dal 1820, si dette inizio al-l’utilizzo industriale dei boschi della Sarde-gna, l’alta percentuale di piante inservibili edifettose ed utilizzabili solo come legna daardere fu spesso motivo di controversie, di

REGIONE INTERESSATA DAL TAGLIO

Pauli rangiu, Funt.na su suerzuMuranarba-EstremaduSu trau de Giuanni Marras,Su muru de sa pudda, Fun.na de luduSu ludrau de sa cambaAutunnalesSa moscherda, Abba arzolaSu idarzu, M. stidduS’abba lughia, Costa de sa Moscherda, Kentu trazusBadde salighes, Piano d’ortachisPrunasChilò, S. Maria de Sauccu, Sa cambula tunda, Serra des BattiasPascale, Sa spina moriga,Sa pala de su casteddu,Sedda melaPerdu aghedu, coddu de sa figu, cantaru de sa pettorinaCrastu turbidu, Mura urasSa striua, Buiordiddos, sa pala de sa castanzaSa ucca de sa MoscherdaMara piga

Totali

7674

951251916135

135

110

124

77

10560

1247

11

1.409

6158

4391

1352723

111

95

78

54

3433

646–

913

137132

1382163268858

246

205

202

131

13993

1881310

2.322

NUMERO DI PIANTE

IDONEE INSERVIBILI TOTALE

Tab. 1 Verbale di collaudo della tagliata eseguita da Giovanni Bianchi nel 1846 nei boschi del Mar-ghine.

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liti e di mancati o ritardati pagamenti, tra gliappaltatori del taglio e lo Stato.Anche nelle selve di Bonorva, che vantavapregiate foreste di roverella, le piante inuti-lizzabili venivano calcolate intorno al25% 25, piante che, dopo essere state segatein parte, venivano abbandonate non appenail taglio consentiva di accertarne i difetti.Se pure si può avere qualche prudente riser-va quando segnalazioni di questo tipo pro-venivano dagli appaltatori o dai loro delega-ti, non si può non prestar fede alle denuncedi funzionari statali esperti e incaricati delleverifiche o delle martellate.Lo stesso Tiscornia, Conservatore generaledei boschi e selve, in una nota del21.3.1846 26, segnalava all’Intendente gene-rale del Regno, condividendo quanto l’im-prenditore Bianchi lamentava, che le piantedell’area del taglio, situata nel Marghine interritorio dei Comuni di Macomer, Bolotanae Bonorva, erano in gran parte inservibili:«... trovandomi sul posto... due cose mi sisono fatte osservare: l’una che il Bianchiavendo libera scelta, aveva ragione di pren-dere quelle piante che più gli tornassero aconto, (a dir vero, in questo taglio, quasi tut-te guaste)...».Il luogotenente di vascello Marchese Ricci,incaricato nel 1847 di sovrintendere allamartellata di 1998 piante di roverella e di170 lecci nelle montagne del Goceano, pre-ferì eseguire personalmente la scelta dellepiante, per evitare di martellare piante difet-tose e guaste 27, che evidentemente il Ricci,che aveva avuto modo di fare diverse altreesperienze in Sardegna, riteneva vi fossero.Nel meridione dell’isola la situazione nonera dissimile.Dal carteggio intercorso in merito ad un ri-chiesto taglio di 400 lecci, «atti ad opera»,da un certo Salvani, nella foresta di Monte-nieddu, a Sarroch 28, il Brig. For.le Diana,così riferiva al Conservatore dei Boschi eSelve Tiscornia:

«..non sonosi potute trovare in alcun sitoquelle qualità e grossezza di piante sane everamente buone ed atte a costruzione» cosìcome le voleva il richiedente.Le piante erano cave e difettose, inidoneeper costruzione e solo utilizzabili per legnada ardere e per ricavarne corteccia.«...Ne misurai di dette piante una quantità,che sono parte d’esse della circonferenza dimetri 1, 80, parte 1, 65, parte 1, 60 e parte 1,50...» L’altezza variava da un massimo di m.3, 50- 4, 00 a m. 2, 75-2, 80. E se questa era la situazione sui boschi delversante sud occidentale dell’isola, non mi-gliore era quella del settore sud orientale, neiboschi situati sul massiccio montuoso deiSettefratelli. Qui la causa del degrado delle foreste avevaun’origine diversa: era in parte da imputarsialle utilizzazioni smodate e superiori agli in-crementi legnosi dei soprassuoli, ma concor-reva ai guasti, con un’incidenza non trascu-rabile, anche l’invalso scorzamento dei fustiper produrre la cosiddetta «rusca», la scorzada tannino richiesta dall’industria conciariadella capitale e che alimentava anche un cer-to commercio con la Francia.«...nei ghiandiferi di queste montagne» – ri-feriva il pubblico ufficiale Cao all’Intenden-za generale 29 – «si sta ormai facendo una di-struzione degli alberi di ghianda, non tantoda quelli che ne tagliano per legnami quantoda molti altri che vanno a farne lo scorza-mento per praticare quasi un pubblico com-mercio della scorza delle elci di queste mon-tagne, trafficandola per Cagliari e vendendo-la ai negozianti della medesima».E lo scorzamento dei fusti portava a morte lepiante. E poiché era ormai praticato da di-versi anni, aveva finito per incidere pesante-mente sui boschi del Sarrabus e su quelli diQuartu, Sinnai e Maracalagonis, prima chene venisse regolamentato il prelievo ed ilcommercio col Pregone del Conte Don Gia-como de Asarta del 7.12.1841. 30

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Circa la densità dei boschi, dallo Stato deibeni demaniali dell’isola, datato 7 agosto1842, si possono desumere interessanti da-

ti sulla densità di alcune montagne ghiandi-fere di diverse parti del territorio sardo(Tab. 2).

NOTE

1 I diritti d’uso, di pascolo, di legnatico, di raccoglie-re ghiande e frutti di bosco ecc. erano denominati, contermine spagnolo, adimplivos, ademprivi, e venivanoprevisti negli atti di infeudazione quali diritti, per lapopolazione del feudo, «..en quieta y pacifica posses-sio de llenar y herbar...en los saltos...».2 ACC, Fondo Ballero - Manoscritti -: «Discorso isto-rico politico legale dei boschi e selve nel Regno diSardegna».3 ASC, Atti governativi e amministrativi, n. 309, V. 64 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 1280: «Relationsur la qualité, et quantité del bois, qui sont sur les co-tes du Royaume de Sardaigne, faite par M. Le Sou-slieutenant d’Artillerie De Buttet, envoyée à la Courle 6 Avril 1768».5 ACC, Fondo Ballero, Manoscritti, 2.6 ACC, Fondo manoscritti, F. municipale I, n. 9: «Ri-flessioni intorno all’Isola di Sardegna», Cap. decimoquinto, De Boschi.

7 ASC, Intendenza generale, Vol. 828.8 D’Austria-D’Este F.: «Descrizione della Sardegna,1812».9 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 1280: «Relazionesulla foresta di S. Leonardo di Sette Fontane, sua si-tuazione e qualità di terreno, quantità e qualità dipiante, cause che la distruggono, ed i mezzi da ripro-durla, del 9.2.1824».10 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 1280: Circolaredel 6 febbraio 1830 dell’incaricato delle funzioni diViceré diretta ai Sig.ri Intendenti delle Province.11 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 1280 il 2 marzo1830.12 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 128013 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 1280, nota privadi data.14 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 1280, nota del 20aprile 1830.

COMUNEDENOMINAZIONE MONTAGNE

GHIANDIFERE

LORO ESTENSIONE NUMERO DENSITÀ

STARELLI HA PIANTE PIANTE/HA

Laconi

NurallaoFlorinasPloagheGoniVillanova M.

RomanaSiliqua

StunuLeonesuTra Stunu e SarcidanoSarcidanoGiunchiGiunchi–Pala PassinuBadde augialeBadde pessighesLittu pizzinnu e piùFilighedduArcosuGutturu su nairiSedda is olionisFenugusMeurreddaTruba mannaCamboni mannuCambonedduZinnigas-Baccu de moi

7.9503.4721.425

91863070254040

17560

19060

2001002007550

1006560

3.1801.388

57036725228101616702476248040803020402624

148.00060.00019.00018.30012.0003.0001.0002.5002.5003.0002.0001.4001.0003.0001.5002.5001.500

8002.0001.4001.200

4643135047

107100156156438318423737315040505450

Tab. 2 «Stato dei beni demaniali dell’isola» (7 agosto 1842).

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15 ASC, Segr. di Stato, serie II, Vol. 1280. Nota del 27marzo del 1830.16 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 1280.17 ASC, Segr. di Stato, Serie II, Vol. 1280.18 ASC, Segr. di Stato V. 1280, nota del 3 marzo 183019 ASC, Segr. Stato. Serie II, V. 1280.20 ASC, Segr. di Stato, Serie II, V. 128021 ASC, Demanio feudi, Boschi e selve, V. 14. Notadel luglio 1836.22 «..La descrizione di una foresta può estendersi a tuttele altre, dappertutto lo stesso deperimento e per le stes-se cause, a tutte potrà applicarsi un identico rimedio.

Tutte le foreste sono popolate d’alberi che sembranoavere la stessa età, sono tutti vecchi, e giunti, salvopoche eccezioni, a un’età stramatura; in nessuna fore-sta si trova rinnovazione agamica o da seme per sosti-tuire le piante che cadono, sia sotto la scure distruttri-ce del pastore, sia a causa dell’età...».23 «...il fuoco che essi fanno dappertutto nei boschiche si propaga ai cespugli e dai cespugli agli alberi,

cambia in una sola notte una bella foresta in un vastodeserto, ove non si vedono più che alcuni tronchi an-neriti e senza vita...».24 ASC, Intendenza generale, V. 831- Verbale di col-laudo del 21.8.1846, firmato da Giovanni Bianchi, dalBrigadiere forestale Nori e dal guardiaboschi EnricoMelis.25 ASC, Intendenza generale, V. 829. Nota del12.3.1842 dell’Avv. Carlo Balladore, Vice Intendentegenerale, diretta al Vicerè.26 Segreteria di Stato, Serie II, V.1282.27 ASC, Int. generale, V. 831, anno 1847.28 ASC, Intendenza generale, V. 831. Nota del 28 apri-le 1846.29 ASC, Segr. di Stato, V. 1281. Nota del 29.4.1839.30 ASC, Atti Governativi e amministrativi, n. 1459 bis,Vol. 19.31 In ASC, Regio demanio V. 15632 ASC, Regio demanio, V. 156

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• La localizzazione dei boschi

• La relazione del De Buttete il documento anonimo del 1800

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Definire con esattezza localizzazio-ne, caratteristiche e confini delle

aree boscate nel periodo antecedente l’epocaconsiderata, è questione impossibile.

Le fonti documentarie sono spesso impreci-se e avare e gli scarsi e frammentari cenniche viaggiatori occasionali o funzionari go-vernativi o Reggitori di feudatari o storici, ogeografi o naturalisti, che hanno avuto occa-sione di visitare od anche di percorrere laSardegna in lungo e in largo, hanno dedica-to all’aspetto forestale dell’isola, non ci con-sentono di avere un panorama sufficiente-mente attendibile sulla boscosità dei singoliterritori nelle diverse epoche, almeno finoalla 2ª metà del XVIII sec. Gli scritti del lontano passato quando nonhanno del tutto ignorato l’argomento, si so-no limitati ad accenni vaghi e sommari, sen-za soffermarsi in note puntuali che consenta-no di localizzare i diversi compendi boscatie i relativi aspetti selvicolturali. Rivestonotuttavia un certo interesse che rende possibi-le approssimarsi alla definizione del panora-ma forestale dell’isola agli albori del XIXsecolo.

Lo storico sardo Giovanni Francesco Fara 1

per esempio, nel descrivere la Sardegna allasua epoca (intorno al 1580), fa spesso riferi-mento alla boscosità dell’isola, ricca, com’e-gli dice, di ghiandiferi e selve. Ne parla aproposito della Nurra, in cui abbondavano...glandiferis, silvis et venatione aprorum...,della Gallura, definita silvestre, della Barba-gia di Belvì, circondata da montagne ricchedi castagneti e di specie quercine, castaneiset inglandibus refertis, della Barbagia di Ol-lolai, i cui monti erano ricoperti da dense fo-reste, condensisque sylvis obtegitur, e dellaBarbagia di Seùlo, dalle fitte e maestose fo-reste,.. altis et condensis sylvis.. e di altrearee ancora, ma non emerge dal suo mano-scritto altro che una generica descrizionesull’argomento e una delimitazione pergrandi aree territoriali.In un altro interessante manoscritto del1581-82 redatto da un certo Giovan BatistaDe Lecca, su incarico del vicerè, vengonodescritti i 114 feudi in cui allora era ripartitala Sardegna.Il De Lecca tratteggia le principali destina-zioni d’uso del territorio e le sue potenzialitàche sono connesse, da una parte, alla bonifi-

IIICapitolo III

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ca delle aree paludose, all’adozione di tecni-che agricole più appropriate ed alla sicurez-za delle campagne nei confronti delle incur-sioni barbaresche, e dall’altra, all’espansio-ne delle superfici agricole attraverso l’elimi-nazione del bosco.Alla sua epoca questo tipo di intervento eragia stato attuato su parte dei feudi (nove),ma il de Lecca lo auspica per circa quarantadi essi.Nel documento gli accenni all’aspetto fore-stale sono, per questa ragione, più frequentie consentono di individuare le principali for-mazioni boschive che caratterizzavano i sin-goli territori e, con una certa approssimazio-ne, di localizzarle.I soprassuoli vengono distinti in due grandicategorie : boschi di gianda detti anche bo-schi grandi, in cui sono ravvisabili le fustaiedi leccio, sughera e roverella, e il bosco rasodi lentischi o genericamente di matte (piantein vernacolo) o di ogliastrj (olivastri).Complessivamente sono 23 i feudi in cuierano presenti i boschi di ghianda e 59 quel-li in cui l’estensore accenna a presenze di ar-busti, e soprattutto di olivastri.Nell’insieme i tre quarti del territorio isola-no era ricoperto da soprassuoli forestali, dicui i boschi d’alto fusto rappresentavano po-co più di un terzo.Questi ultimi erano localizzati in prevalenzanella parte centro settentrionale del territorio, tuttavia non mancavano nella parte sud oc-cidentale dell’isola, in corrispondenza delSulcis Iglesiente (montagne di Pula e Capo-terra, compendio di Iglesias e Fluminimag-giore). Erano presenti nel Gerrei, in Oglia-stra, nel Mandrolisai e nel Montiferro, da cuisi spingevano, attraverso la catena del Mar-ghine-Goceano, da una parte fino alla Gallu-ra e dall’altra fino alla Barbagia e al Sarci-dano, e, attraverso le alture di Villanova ePutifigari, verso la Nurra. Anche Martin Carillo, nella relazione pre-sentata a Filippo III d’Aragona (anno 1612),sulle condizioni della Sardegna, parla di

«montes... muy fertiles y delitosos...», dimonti in cui «en los mas levantados y altosay arboledas, fuentes, rios...» e fa un cennoalla «..espessuras de los bosques...», facendointendere che la copertura boschiva dell’iso-la era folta 2 ed aggiungendo che questi mon-ti ricoperti di arboledas, fornivano abbon-dante pascolo ad ogni sorta di bestiame,«...dan pastos en abundancia a todo generode ganado...».Non di più si apprende da altri scritti relati-vi alla Sardegna comparsi nel 1714 3 o nel1717 4 tutti volti a fornire un quadro sulleistituzioni politiche e militari che governa-vano l’isola e sui donativi, sui sussidi, sullegabelle e sulle altre rendite che da essa pote-vano ritrarsi. Neppure dalla Relazione del 1701 di Gero-nimo de Zabarayn, Reggitore e Amministra-tore generale dello Stato di Oliva in Sarde-gna, che tratta delle rendite feudali del Mon-teacuto, del Marghine e dell’Anglona, terri-tori in parte presumibilmente ricchi all’epo-ca di boschi e foreste, possiamo trarre pun-tuali e circostanziate indicazioni.Le aree forestali erano evidentemente discarso rilievo sotto il profilo reddituale con-nesso al legname ritraibile e perciò su di es-se non ci si soffermava più di tanto a descri-verne gli aspetti selvicolturali; tutt’al più unaccenno al pascolo, soprattutto suino, ch’e-rano in grado di garantire.Compaiono solo due interessanti note: l’unarelativa al bosco della Incontrada del Mar-ghine (verosimilmente quello in regione SuSauccu, di cui avremo occasione di parlareampiamente), che aveva un perimetro di seimiglia; l’altra relativa al territorio delle tre In-contrade (M. Acuto, Marghine, Anglona) edelle tre Baronie (Osilo, Coghinas, Silva deIntros), che descrive come vastissimo e che«abbonda di ogni genere di selvaggina» maparticolarmente di cinghiali, cervi e daini. Il che indirettamente, in qualche misura, ciconsente di desumere che doveva essere, al-meno in parte, ricoperto da formazioni fore-

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stali, macchie e soprassuoli arborei. 5 Alcunefonti documentarie poi, oltre che generichesull’argomento, sono anche sospette e mani-festamente inattendibili, tutte volte a deli-neare un’isola felice, ad esaltare le sue risor-se naturali e a tracciare strumentalmente unasituazione artatamente allettante..Nello scritto anonimo Description geografi-que, historique et politique du Royaume deSardaigne (Cologne, 1718), ad esempio, siafferma che l’isola è ricoperta di verde e difiori in tutte le stagioni; che è così fertile chei frutti e i prodotti della terra non hannouguali in nessun’altra parte, sia qualitativa-mente che quantitativamente, a causa so-prattutto della purezza delle acque che irri-gano le campagne; che il toponimo Logudo-ro deriva da ricche miniere d’oro; che il cli-ma è tale che gli abitanti hanno una salute diferro e muoiono tutti in età avanzata, e via diquesto passo.In termini generici sul tema forestale siesprimeva anche l’anonimo piemontese chein un manoscritto del 1759 6 relazionò sullegenti sarde e sulle caratteristiche del nuovopossedimento di Casa Savoia. Scriveva infatti che «...incontransi...folti bo-schi d’alberi atti al lavoro e ad altri usi ne-cessari nei quali fanno dimora li cervi, ca-prioli ed altri animali selvatici..» e dai qualiil pastore ritraeva pascolo per il suo gregge.Neppure dalla Relazione della visita che ilvicerè D’Hallot des Hayes compì nel Regnodi Sardegna 7 nel 1770, si riesce ad avere ele-menti di conoscenza sulla distribuzione esull’estensione dei boschi nell’isola, anchese non sfuggirono all’attenzione del Vicerèalcuni degli aspetti e dei problemi forestaliche furono poi oggetto del già citato Prego-ne del 2 aprile 1771 8, documento che segnòun’importante tappa nella regolamentazionesui tagli, sul disboscamento, sulla conserva-zione delle aree boscate e sugli incendi.

Appena uno squarcio, ma ancora molto gene-rico, si apre con Andrea Manca dell’Arca: 9

«Tanta quantità di monti e piani deserti percarestia di gente, son cagione che la Sarde-gna abbonda di boscaglie, le di cui macchie,alberi ed arbusti nascono da sé col beneficiosolo della natura senza piantarli, né industriadi coltivazione, e divengono adulti confor-me lo richiede la sua specie, malgrado ilcontinuo danneggiamento degli armenti, chegirano per tutto..».

Poi, man mano che la monarchia Sabaudaconsolida la sua presenza nell’isola e si atti-va il processo di graduale modernizzazioneattraverso lo sviluppo delle attività e l’utiliz-zo delle risorse locali, si accentua via vial’interesse anche verso il settore forestaleisolano e fanno la loro comparsa atti e docu-menti di varia natura e relazioni specifiche,attraverso i quali è possibile delineare unquadro sufficientemente approssimato sullaboscosità dell’isola, sulla dislocazione e sul-la struttura dei soprassuoli forestali, sulleutilizzazioni e sulla qualità del legname ri-traibile. Preziose sono a questo riguardo le relazioniinformative redatte al fine di acquisire ele-menti di valutazione sui diversi progetti dicolonizzazione che furono intrapresi per losviluppo della spopolata isola di Sardegna ealtri documenti inerenti richieste di licenzeper l’impianto di questa o quella attività in-dustriale che presupponeva la disponibiltà diprodotti legnosi, unica fonte di energiaSi apprendono così le prime notizie non so-lo sui tagli di legname che vengono eseguitiin Sardegna, sul consumo di legna e carboneper l’attività mineraria, per quella conciaria,per quella cartaria ecc., ma anche sulla di-slocazione e sulla composizione specifica dialcuni soprassuoli forestali.Emergono anche alcuni dati sulle quantità dilegname ricavato da tagli eseguiti nelle fore-ste di Esiano (Scano Montiferro) e di Cu-glieri negli anni 1750 e 1751, 10 tagli ordina-ti dallo Stato per ricavarne assortimenti divaria grandezza da destinare alla costruzione

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di infrastrutture marittime del porto di Nizzae ad altre necessità della Marina Reale. E si apprende di altre utilizzazioni eseguitenella Nurra, ancora sulle montagne di Sca-no, e in quelle di Fluminimaggiore per con-to dello Stato. 11

Il rinato interesse per l’attività mineraria,(concessioni generali alla società Nieddu eDurante, poi al console svedese Mandel, edinfine utilizzo in parte diretto dello Stato), adatare dal 1721, attraverso le localizzazionidelle miniere e delle fonderie, ci consente diaggiungere ulteriori tasselli conoscitivi dellearee boscate ed in parte della relativa lororicchezza in massa legnosa.Le ricerche e la coltivazione delle miniere diargento, piombo, zinco, ferro e rame, che inte-ressavano le zone di Malaropa, di Monteponi,di Spirito Santo, di Fluminimaggiore, di Do-musnovas, e di Montevecchio nella Sardegnasud occidentale, quelle dell’Acqua Cotta pres-so Villacidro, e di Monte Narba nel Sarra-bus, quelle di Arzana e Ierzu nell’Ogliastra equella di Funtana raminosa presso Gadoni,ci forniscono infatti direttamente o indiretta-mente notizie sulla presenza di boschi, tal-volta sulla loro composizione specifica, ta-laltra anche sulla consistenza del prodottolegnoso ricavabile.Possiamo annotare per esempio che la fon-deria di Arzana sorgeva in regione Pira in-sirìa, lontano dalle zone boscate; che quelledi Sa corti de is eguas e di Sa Tellura, pres-so Fluminimaggiore, erano circondate inve-ce da fitte boscaglie. Così come può aiutarci nella ricostruzionedel panorama forestale il conoscere i quanti-tativi di legname che venivano conferiti allerispettive miniere e fonderie per assicurare illoro funzionamento. Anche altri rami della nascente industria iso-lana dovevano necessariamente ricorrere allegno come fonte energetica: tonnare, fab-briche di vetro, distillerie, industrie concia-rie, industrie cartarie ecc. ecc.

Talvolta perciò, attraverso il carteggio relati-vo a queste concessioni, è possibile acquisi-re utili elementi di conoscenza sulla coper-tura forestale di un dato territorio e sullacomposizione floristica della vegetazione.In un promemoria del 6 luglio 1782, peresempio, redatto in merito alla fattibilità diun progetto di una fabbrica di vetro nel ter-ritorio di Sassari, 12 dopo aver elencato tuttele materie prime di cui si può disporre in lo-co, dall’argilla, ai sali alcalini, alla potassa,ai sali di soda, al quarzo, alla sabbia, all’ac-qua per i molini ecc. si dice testualmente:«Ciò non basta, che vi vuol fuoco, e per ilfuoco vi vuol mezzo per sostenerlo».«La Sardegna in generale ha pochi boschi,ed i pochi suoi boschi sono assai limitati.All’incontro vi sono tenute amplissime in-colte, e ricoperte per la maggior parte di len-tisco le di cui radici sono buonissime per farfuoco, e di grandissimo uso per i camini.L’estrazione di queste piante potrebbe nellostesso tempo servire di vantaggio all’Isolacon rendere così il terreno lavorabile, e diservizio per l’agricoltura».D’altra parte, si aggiunge, facilmente ci sipuò provvedere delle radici del lentisco sianel capo di Sassari che in quello di Cagliari.«Potrebbe fare una difficoltà la piccolezzadella legna... ed il timore della consumazio-ne a danno del necessario uso dei regnicoli,se non vi fosse altro boscame...».La località prescelta per la costruzione dellafabbrica è San Giorgio, al di là di FiumeSanto, nella Sardegna Nord occidentale.«Presso il luogo indicato, anzi nel luogostesso v’è legna piccola di lentisco e cisto...:consumata questa v’è Monte Claro ricco dilegna, distante meno d’un ora: ed in egualdistanza Don Michele: alla distanza d’un’o-ra e mezzo vi è Zamburra ove è assai legna,ed alberi ancora d’alto fusto. Rimane ancorail gran magazzino di legna in Campo Calva-giu,... abbondantissimo di legna grossa, diestensione immensa che occupa valli, pianu-

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re colline e monti senza che vi siano pastorie tanche».«Da questo fondo grandissimo, lasciando iltaglio di lecci ed altre piante ghiandifere ri-sulta un nutrimento per la fabbrica di som-mo riguardo».Se nella piana di Porto Torres abbondava lamacchia a lentisco, nei dintorni di Algheronon mancava il mirto, materia prima occor-rente per l’industria conciaria sarda almenofino ai primi decenni del XIX secolo.Un tale «...acconciatore algherese LorenzoAllivesi, acconciando li cuoi alla manieradel Paese, mi dice non servirsi della cortec-cia di Rovere, bensì di quella di Mourta,quale esso stesso va cercarsi con poco trava-glio, ritrovandosene in queste vicinanze ab-bondantemente...». 13

Un panorama sufficientemente attendibile –anche se parziale – della realtà forestale iso-lana, tra la fine del ‘700 e i primi anni del1800, ci è offerto attraverso due relazionispecifiche compilate, l’una, da un ufficialesabaudo, il De Butet nel 1768, e l’altra, daun autore anonimo, nel 1800 e intitolata«Discorso istorico politico legale dei boschie selve nel Regno di Sardegna».

La relazione del De Buttet

L’accresciuta attenzione del Governo sa-baudo verso le risorse isolane, ma anche lanecessità di ridurre la dipendenza dall’este-ro quanto a importazioni di legname utiliz-zabile per le necessità della R. Marina e del-la R. Artiglieria, 14 indusse a promuovereun’indagine conoscitiva specifica, che fu af-fidata ad un certo De Buttet, luogotenented’artiglieria.La sua relazione, datata 6 aprile 1768, pur li-mitata territorialmente alle aree costiere ocomunque facilmente raggiungibili dalla co-sta, 15 ci fornisce un prezioso quadro di rife-rimento e ci consente di localizzare alcuni

complessi forestali e di avere indicazionisulla qualità e sulla quantità delle piante pre-senti.Trattandosi di una testimonianza forse unicasull’argomento, si ritiene utile riportarne ipunti salienti che concernono le due speciepiù significative prese in considerazione dalDe Buttet: leccio e roverella.Riferisce l’ufficiale che i boschi di leccio so-no i più diffusi nell’isola e che il taglio del-le piante non è consentito se non per strettiusi domestici e che la specie è consideratapreziosa sia perché fornisce una ricercatapastura per i maiali, sia perché, in annate dicarestia o di scarsa produzione di grano, leghiande vengono utilizzate come alimentodi sussistenza dalle popolazioni rurali in di-verse zone dell’Ogliastra. 16

Le zone prossime alla costa, 17 ove il relato-re individua foreste idonee al taglio sono leseguenti:a) le montagne del Sarrabus, ed in partico-

lare la località denominata Buddui, ovevegetano considerevoli foreste di lecciocon piante per la maggior parte di buonataglia, utilizzabili sia per costruzioni cheper impieghi dell’Artiglieria.Il loro trasporto, nota il De Buttet, può ef-fettuarsi o attraverso la piana che dominail golfo di Cagliari, previa apertura di unastrada, o lungo la pianura di Camisa, so-luzione che comporta un viaggio di tregiornate di carro.

b) la montagna, denominata Quadazone,compresa tra Barisardo e Tertenia, con al-beri di leccio di buona qualità. Il traspor-to del materiale potrebbe effettuarsi inuna giornata di carro, previa apertura diapposita strada.

c) le montagne tra Orosei e Siniscola ove èlocalizzata una grande foresta di lecci. Diquesta, gli esemplari più grossi sono perla maggior parte rovinati, per cui si pos-sono utilizzare per gli impieghi dell’Arti-glieria 18 e per altri usi, solo quelli con

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diametro intorno a 20-25 cm, dai quali èpossibile ricavare pezzi squadrati di 4-5once di lato. 19

Il trasporto del materiale verso la costa èfacilitato dalla presenza di una pista chesi diparte dal piede della montagna egiunge fino al mare; il trasporto compor-ta poco meno di una giornata di carro.

d) la vallata del fiume Liscia, in Gallura,ove è possibile rinvenire buoni boschi dileccio ma di taglia mediocre. I lecci sonogeneralmente frammisti ad olivastri, tran-ne che nella località Candela ove il boscoè di solo leccio.Il trasporto del legname non sarebbe dif-ficoltoso e potrebbe effettuarsi con una odue giornate di carro.

e) lecci di buona taglia si trovano ancoralungo il Rio Vighedo, nel tragitto com-preso tra Candela e Longosardo (S.Tere-sa di Gallura), le cui montagne sono inte-ramente boscate di lecci di diversa taglia.La preventiva sistemazione di una stradaatta a valicare il Monte Candela consen-tirebbe di effettuare il trasporto del mate-riale legnoso in due giorni.

f) oltre Longosardo e fino alla Nurra, nonsi trovano più boschi di leccio lungo lacosta.La Nurra è una distesa di terreno di circa30 miglia, dalla torre della Pelaga fino aPorto Conte, e vi si trova un bosco mistodi leccio ed olivastro, ma con predomi-nanza del leccio. Le piante migliori si tro-vano lungo la vallata del Conno ed in di-verse altre località.Il materiale può essere trasportato o ver-so Sassari o verso Alghero, località servi-te entrambe da una strada da carri chegiunge fino a Porto Torres.La zona è molto ventosa e ciò limita lacrescita delle piante più esposte. Diversiesemplari sono deperiti e presentano lacima seccagginosa.Le piante sono generalmente di buona ta-glia e alcune sono già state utilizzate dal-

l’Artiglieria e per la costruzione di unaCaracca 20 che è stata costruita a PortoTorres quasi interamente in legno.

g) sulla montagna Crastu d’elittus, situatatra Villanova e Bosa, si trovano dellesplendide foreste di leccio con esemplarimolto alti e molto grossi, utilizzabili perricavarne grosse assi o larghe tavole o al-tri assortimenti di notevole grandezza.Queste foreste consentono ovunque, alloro interno, una agevole transitabilitàper i carri. Il trasporto più conveniente èquello verso Bosa in quanto non presentadifficoltà e la strada di collegamento ne-cessita solo di qualche riparazione neipunti più impervi.Gli abitanti di S. Cristoforo hanno l’abi-tudine di trainare per questa strada delletravi di leccio fino a Bosa, travi che ne-cessitano per le costruzioni.

h) sulla montagna di Scano vi sono dellebuone tagliate di leccio: le piante sono ditaglia eccezionale e possono fornire gros-si pezzi curvi per la costruzione di va-scelli o grosse assi per ogni sorta di uti-lizzazioni.La bontà del legno non è però uniforme:verso la sommità della montagna, a cau-sa della superficialità del suolo, le piantesono di qualità scadente.Prevalgono comunque gli esemplari dibuona qualità tecnologica.Gli assortimenti legnosi possono esseretrasportati o attraverso Santulussurgiu, eda qui al mare, oppure attraverso Cuglie-ri; in entrambi i casi occorrono due gior-nate di carro. 21

Da queste montagne si è ricavato il le-gname per la costruzione della nuova Ca-racca di Cagliari.

i) sulla montagna di Fluminimaggiore vi èuna considerevole foresta di lecci, conmagnifici esemplari, soprattutto verso lasommità della montagna.Quando sono state eseguite utilizzazioniforestali per le necessità statali, è stata

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costruita una strada verso Fluminimag-giore e da qui fino al mare, senza alcunadifficoltà.

l) presso il villaggio di Domusdemaria, inlocalità Perda Sterria e Mitza s’orcu, visono molti boschi di leccio, ma la stradaverso il mare è disagevole, se pure è sta-ta utilizzata per un trasporto di legnameeffettuato per conto dell’Artiglieria.Il legname qualitativamente valido non èconsiderevole e le dimensioni delle pian-te non sono al di sopra di quelle medie.

m)a tre ore di strada da Pula si trova unabella foresta di lecci ai piedi di due mon-tagne vicine tra esse, Monte Arbo e Mon-te Nieddu.La strada verso il mare non presenta parti-colari difficoltà ed è stata già utilizzata per

il trasporto di legname occorrente per loStato e per alcuni privati. Il tempo occor-rente si valuta in una giornata di carro.

Il De Buttet tralascia la descrizione di altreforeste di leccio che pure riferisce essere pre-senti, poiché le ritiene di qualità scadente.Quanto ai boschi di roverella limitrofi allearee costiere, il De Buttet riferisce essere laspecie meno comune del leccio.Relaziona di aver visto piante sparse in di-verse località dell’Ogliastra ed anche vicinoTempio e Castelsardo, senza però incontrarevere foreste di roverella se non oltre Villa-nova Monteleone, lungo la strada per Bosa,prima di giungere a S. Cristoforo.In tali zone principiavano foreste di questaspecie verso Monte Minerva, poi sulla mon-tagna di S. Cristoforo e su quella di Crastudelittus e località vicine, foreste con pianteidonee a fornire tavole non più larghe di 5 o6 once; le piante sono molto alte e possonofornire travi per piccoli bastimenti e assi permodesti edifici.Il legname viene convogliato, come già peril leccio, verso il porto di Bosa.Un’altra foresta esiste ancora in località Saltodeminotadas, prossima al mare, ai piedi delMonte Crastu delittus. Qualitativamente lepiante sono analoghe a quelle di S. Cristofo-ro ed il legname proveniente da essa vieneconvogliato verso Alghero, con un tragitto dicirca mezza giornata, avvalendosi di una pes-sima strada, come ben sanno gli algheresi chela utilizzano per il trasporto della materia pri-ma loro occorrente.Sulle montagne di Scano, a fianco al leccio,si trovano buone piante di roverella.La foresta, che appartiene in parte alla Com-menda di S. Leonardo, ha circa 10-12 migliadi circonferenza. Gli alberi che vi vegetanosono per la maggior parte di grossa taglia,bassi e molto ramificati. Vi si possono rica-vare travi per diversi tipi di edifici ed ancheper fasciame ed alcuni pezzi di particolarepreziosità.

Piante stramature e seccaginose caratterizzavanodiversi boschi della Sardegna quando furono intra-presi i primi tagli per l’utilizzazione industriale dellegname.

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Già varie volte sono state abbattute pianteper i diversi servizi reali.Roverelle si trovano ancora nelle montagnedi Cuglieri, ma esse sono qualitativamentemeno apprezzabili di quelle viste in prece-denza.Oltre a queste foreste, conclude il De But-tet, ve ne sono molte altre nelle zone inter-ne dell’isola ma «trovandosi esse troppolontane dal mare, ritengo inutile darne la de-scrizione».

Il documento anonimo del 15 marzo 1800

Altra preziosa fonte documentaria ai fini didelineare lo stato e la consistenza delle fore-ste sarde, è costituita da un manoscritto ano-nimo intitolato Discorso istorico politico le-gale dei boschi e selve nel Regno di Sarde-gna, risalente al 1800, 22 di cui esistono trecopie: la prima presso l’archivio comunaledi Cagliari, Fondo Ballero; la seconda pres-so l’Archivio di Stato di Cagliari, Segreteriadi Stato Vol. 828; e la terza è invece conser-vata presso la Biblioteca Universitaria diCagliari.Dall’Anonimo apprendiamo intanto che cir-ca i due terzi dell’isola sono ridotti a coltu-ra, sebbene poi la metà delle superfici colti-vate fosse lasciata incolta per la consueta ro-tazione che alternava ad un anno di coltiva-zione del terreno a cereali uno di riposo pa-scolivo; e che quindi circa un terzo della su-perficie isolana, e perciò più o meno800.000 ettari, era interessato da cespugliati,incolti e foreste.L’ignoto autore distingueva le formazioniforestali in boschi ed in selve.Secondo la sua definizione, Boschi eranodette le formazioni vegetali naturali miste,mentre le Selve rappresentavano formazioniarboree monospecifiche, governate a fustaiao a ceduo.L’Anonimo però ne dava anche un’altra de-finizione: bosco e selva generalmente nonsono che l’unione confusa di piante d’ognimaniera di qualunque età, e di qualunquespecie, né veruna reale distinzione fra questidue nomi v’è, fuorché quella che la bizzar-ria, e l’uso ha dato ad una o più grande opiù piccola estensione di terreno coperta dialberi.Perché si potesse definire bosco, la copertu-ra forestale doveva avere un’estensione mi-nima di 40 trabucchi quadrati (corrisponden-te a circa Ha 1, 5).

Distribuzione dei boschi delle aree costiere secondo larelazione del De Buttet (1768).

1: leccio2: roverella

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L’Anonimo in definitiva concludeva defi-nendo bosco qualunque estensione di terre-no ricoperta da boscaglie arbustive e mac-chie che alberi rigorosamente non formano,tuttoché alcuni anche di questi in esse vi esi-stano.Selve invece venivano definite le estensionidi terreno ricoperte d’alberi d’alto fusto, aqualunque specie appartenessero in sito pia-no o montuoso esse siano.Erano in genere aperte, ossia d’alberi nonfolti, e per lo più d’una medesima qualità evenivano comunemente denominate «Pa-dentis» e «Silvas».In Sardegna, secondo lo scrittore anonimo,Sonovi molti boschi inoltre foltissimi di bo-sco sterile e d’abbrucciare; frequenti profit-tevoli selve d’alberi d’alto fusto, atti per for-mare le travi per le case, e per altri simili usidi costruzione di navi. Fra questi si vedonoprodurvisi in copioso numero i ginepri, i sa-vini, i tassi, i frassini, gli allori, i salici e ipioppi.Molto più però in maggior numero vi si pro-ducono quasi in tutte le montagne del Re-gno, in ogni dove, singolarmente poi nellaGallura, a selve vastissime gli alberi ghian-diferi, le quercie cioé, i lecci, i roveri, i su-gheri.Si trattava di boschi e foreste naturali, tran-ne forse la selva o il bosco comunementedetto di S. Leonardo, selva....vastissima dipiù ore di strada, in cui si passa andando daS. Lussurgiu alla Planargia di Bosa ed a Ca-bu Abbas, sita in una vaga deliziosa pianu-ra, che, secondo l’anonimo autore della re-lazione, fu forse impiantata dai Benedettiniche vi avevano un loro monastero.Le selve erano dette in vernacolo, oltre che«silvas» e «padentis», anche litus od ancheboscus ed erano costituite soprattutto da es-senze quercine, di tutte e quattro le qualitàconosciute, di leccio cioé, di rovere, di su-ghero e di quercia.Erano diffuse ovunque ma particolarmentenel Dipartimento di Monte Acuto 23 e in tut-

ta la parte settentrionale dell’isola, in Gallu-ra e nell’Anglona, ed ancora nei dipartimen-ti di Austis e Tiana 24 ed in tutta la parte me-ridionale dell’isola.In quest’ultima tuttavia, le foreste sono piùdi spettacolo interessante all’illuminato na-turalista, che d’utilità, poiché i trasporti so-no assolutamente ineseguibili, se non è chetrattasi d’alcuna di queste in prossimità delmare; giacché le più abbondanti e folte sonoverso il concentrico, e perciò inutili se nonche potrebbe qualcuna fornire materia aqualche manifattura, come sarebbe quelladel vetro, del sapone o di lanifizi.Altre specie, come i cipressi, i ginepri ed i pini,crescevano prosperosi sulle colline e sullemontagne di Iglesias e di Fluminimaggiore,nelle Barbagie ed in altri territori ancora.Vi erano poi gli olivastri, specialmente nelterritorio di Galtellì e dell’Ogliastra ed intutta la parte orientale dell’isola.E noci, nocciuoli e castagni nel Mandrolisaie nelle Barbagie, e allori e tassi, in vernaco-lo indicati come longu fresu o linnu ruiu.Nelle selve del Marghine ed in quella di Ma-comer abbondava l’acero minore, l’acerobosso (Acer monspessulanum) localmentenoto col nome di aera di cui si servono pertutte le opere esterne delle fabbriche e dellecase, perché molto resiste all’umido, e per-ché di tanta forza e reazione lo conoscono,che la palla rimandi a forza uscita dalloschioppo.Il territorio sardo poteva ancora vantare piop-pi, olmi ed ontani (in vernacolo alinu) che for-mano piccoli boschetti in Domusnovas e al-trove: Nei feudi dei quali ritiene per anche ilSovrano l’utile dominio, come nel Goceano, eParte Ozier Real, vi sono di questi boschi e diqueste selve e molto ameni, e molto estese sene veggono nei territori di Bono e di Abba-santa e nelle attenenti montagne, che ai colliMenomeni del Marghini s’uniscono, i qualieziandio coperte sono di selve foltissime.Oltre a questi boschi S’incontrano ad ognipasso viaggiando nell’Isola estensioni va-

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stissime e medesimamente inaccessibili diboscaglie, singolarmente di corbezzoli, dicistio....che appellano murdegu e da ultimoPer ogni dove verdeggia copiosissimo il len-tisco, del di cui olio molti villaggi e popola-zioni si servono per il lume; viaggiasi in piùluoghi in mezzo al mirto.Nelle campagne di Alghero, della Nurra e diSorso, la palma nana era molto diffusa edabbondante e veniva usata per formare ceste,sporte, corde e scope, mentre la parte più te-nera comeché saporita, e di gusto niente af-fatto ingrato, veniva utilizzata nelle mense. La proprietà di questi boschi era, secondol’Anonimo, in parte di alcune Comunità, main larga misura erano possedute dai Baronie dai Feudatari del Regno: le più belle fore-ste ricadevano nei territori appartenenti alDucato di Mandas ed a quello di Beneven-to, e ai Marchesati di Orani, Quirra e Villa-cidro.

Dalla relazione del De Buttet, e più ancoradal discorso comincia a delinearsi un pocopiù nitidamente il panorama forestale deiprimi dell’Ottocento: aree boscate nel meri-dione della Sardegna, qualcuna in zone vici-ne alle coste, ma soprattutto nelle aree piùinterne; e poi nell’area centrale dell’isola, leforeste di S. Leonardo, Cuglieri e Scano, chesi protendevano fino ai boschi del Marghinee questi fino a quelli di Monte Acuto e poi sufino alla Gallura; e nelle Barbagie e nell’O-gliastra e nella Nurra; ed ancora nell’Anglo-na e nell’altopiano di Villanova Monteleone.

Si trattava di formazioni forestali le più di-verse: dalle fustaie, ai cedui, alle macchiemesofile, a quelle xerofile ed ai cespugliati.Le fustaie occupavano verosimilmente leparti più distanti dal villaggio e meno acces-sibili, le vallate interne irraggiungibili e glialtipiani privi di vie d’accesso, mentre i ce-dui erano posti in aree più prossime ai centriabitati o comunque in località in qualchemodo accessibili.

Le fustaie costituivano soprassuoli coeta-neiformi ma anche disetaneiformi.Quanto a composizione, variavano da quellemonospecifiche di leccio o di roverella o disughera, a quelle miste.Alcune avevano piante di buona taglia, altredi taglia eccezionale; ma altre ancora piantedi taglia mediocre. Alcune con alberi molto alti e molto grossi,altre con alberi di diametro rilevante, ma confusti bassi e molto ramificati.Quanto alla densità, è presumibile che quel-le situate in relativa vicinanza dei centri abi-tati fossero più rade, e che quelle poste nellearee più lontane avessero densità maggiore eprovvigioni più consistenti.Anche se questo non costituiva una regola,come testimonia in proposito l’Angius neldescrivere la situazione delle foreste di Teu-lada. Scrive l’Angius: «Queste montagne so-no in massima parte ricoperte di alberi ghian-diferi e di altre specie, ma vi sono frequenti itratti in cui non si vedono che soli arbusti.Sebbene queste regioni siano rimaste in grantempo spopolate, vi frequentavano non per-tanto i pastori, e questi erano allora liberi aincendiare a loro volontà. Quei che legnava-no e facevano carbone, non allontanandosimai di gran tratto dalle sponde del mare, nonpoterono fare i guasti che si intendono fatti anotevoli distanze dal mare».

Alcuni boschi presentavano una bassa den-sità e una scarsa provvigione legnosa; altrierano ascrivibili più a pascoli arborati che aboschi propriamente detti.Da determinati soprassuoli si potevano rica-vare pregevoli assortimenti legnosi idoneiper svariati impieghi, quali travature per so-lai e tetti, legname per costruzioni navali eper mobili, tavolame per assiti ecc.; da alcu-ni solo legname di mediocre qualità o assor-timenti di limitate dimensioni; da altri infinesolo legna da ardere. Vi erano poi, come riferisce il De Buttet, aproposito delle foreste tra Orosei e Sinisco-

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la, i soprassuoli in cui gli esemplari più svi-luppati erano inutilizzabili perché stramaturie cariati.Sebbene il De Buttet non abbia fatto espres-so riferimento alle ragioni del precario statovegetativo di parte dei boschi oggetto dellasua relazione – se si eccettua qualche cennoin cui ascrive ciò a limiti stazionali dovuti afattori climatici (ventosità in particolare) opedologici (superficialità del terreno) – pos-siamo supporre che le piante ch’egli defini-sce genericamente gatèes fossero in una cer-ta misura seccagginose per vetustà, ma chealtre presentassero il tronco cavo, corrosodalla carie del legno, in conseguenza di dan-ni subiti nel tempo e ascrivibili, in parte, agrossolani tagli di capitozzatura e sramaturae a incendi.I primi, praticati consuetudinariamente daipastori per alimentare le greggi durante lenevicate e nei periodi di scarsità di pascolo,ed i secondi, costituenti un male di anticheorigini assai radicato nel mondo rurale e im-piegato ordinariamente come strumento col-turale, ma, all’occorrenza, anche come mez-zo di ritorsione. E in questa seconda versio-ne, a questo mezzo facevano ricorso non so-lo le classi rurali più povere, ma anche leclassi dominanti:«...Se sorgea ira fra due baroni, essi cercava-no di danneggiarsi... bruciando le messi, ta-gliando gli alberi, incendiando i boschi...». 25

I boschi occupavano una certa estensione, evedremo successivamente quanta, ma, a giu-dicare dalle testimonianze di cui si dispone,erano piuttosto trascurati e malgovernati. Sul loro precario stato generale e sull’impe-rante vandalismo che minava la conserva-zione stessa della copertura forestale, si è giàdetto in precedenza.Si può aggiungere che l’Anonimo osservavanel «Discorso istorico politico legale», chese i boschi fossero stati meglio governatiavrebbero potuto fornire, oltre ad un miglio-

re e più abbondante pascolo suino, ed alla le-gna per gli usi abituali delle popolazioni, an-che legname da lavoro che invece si era co-stretti ad importare dalla Svezia e dalla Cor-sica. E denunciava le cause principali del deterio-ramento della copertura boschiva: s’abbruc-ciano tuttodì e s’incendiano i boschi, e le te-nute di terreno imboschito, e non di rado an-che selve intiere, si tagliano fuor di regola efuor di tempo gli alberi, e non si sostituiscemai, si sradicano e si svellono le piante acapriccio, e senz’alcun ritegno, badandosoltanto a godere d’una utilità presente enon pensando alla posterità, ed ai bisognifuturi.

Lo sbrancamento e lo sfrondamento delle piante (det-to in vernacolo “assidare”) operato abitualmentedai pastori per alimentare gli armenti, oltre alle cal-losità e alle malformazioni del tronco, era spessocausa della carie del legno che rendeva inutilizzabilimolti soggetti.

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Alla fine del XVIII secolo quindi, il panora-ma forestale sardo non era dei più esaltantiquanto a stato generale, ed anche l’estensio-ne delle aree boscate andava gradualmenteriducendosi.Secondo l’Anonimo del Discorso la Sardegnaaveva, alla sua epoca, circa 800.000 ettari diterre incolte, termine col quale è presumibilevolesse intendere quelle non messe a colturaagraria, e perciò comprendenti selve boschimacchie, cespugliati e incolti.Non molto per la verità, in relazione alla co-mune e diffusa opinione che la Sardegnafosse boscosissima fino al secolo scorso.La «boscosissima Nurra» cui fa cenno il Faradescrivendo l’isola nel XVI secolo, ai primidell’ottocento aveva già cambiato fisionomia:agli iniziali e limitati tentativi di colonizza-zione della Nurra, si erano susseguite semprepiù numerose le concessioni di tierras arato-rias e di consorgias de ganados, cioé di terreda destinare a coltivazioni agricole ed altrearee da destinare al pascolamento, fatte dalComune di Sassari, cui la Nurra apparteneva,che avevano portato gradualmente ad insedia-menti stabili e alla messa a coltura di aree ini-zialmente boscate.Erano scomparsi in questo modo, inevitabil-mente, parte dei ginepri descritti dal De But-tet e dei lecci, quelli seccagginosi perchéesposti al vento ma anche quelli di buona ta-glia.In modo simile la «disabitata e silvestre Gal-lura» del Fara, era andata man mano popo-landosi in funzione di concessioni di cussor-gias individuali a favore di pastori e dei con-seguenti relativi insediamenti di nuclei fami-liari; e le deserte aree boscate lontane daicentri abitati erano state trasformate in qual-che misura in coltivi e pascoli stabili ottenu-ti con l’eliminazione di parte della coperturaforestale.Anche ampie aree del Sulcis avevano subìtoalterazioni e trasformazioni: i pastori delle zo-

ne interne avevano preso possesso stabile, apartire dalla seconda metà del XVIII sec., deiterritori deserti, fino a quel momento utilizza-ti solo stagionalmente nei periodi invernali. Erano sorti i furriadroxius e i boddeus, gliaggregati di insediamenti che origineranno,poi, via via, i villaggi del Sulcis come San-tadi, Nuxis, Narcao ecc. L’utilizzazione agricola e pastorale di areeprima deserte aveva determinato una conse-guente graduale contrazione di superfici oc-cupate da cespugliati, da macchie ed ancheda soprassuoli arborei.In circa due secoli – periodo che separa larelazione del De Lecca dal Discorso dell’A-nonimo – si era attuato ciò che il De Leccaaveva suggerito doversi praticare: l’elimina-zione dei boschi rasi di lentisco e delle mat-te che impediscono e quello di alcunj boschibonj per seminar per poter produrre granquantità di formentj.A queste «perdite» di superfici forestali, chepossiamo ritenere rientranti in un normaleprocesso naturale legato alla colonizzazionee messa a coltura di nuove terre da parte diuna popolazione il cui incremento demogra-fico fu costante (anche se con qualche mo-mentanea flessione), a partire dal 1485, si ag-giunsero quelle derivanti dagli incendi im-piegati come strumento colturale dai pastori.

ANNO POPOLAZIONE ABITANTIDELLA SARDEGNA PER KMQ

1485 157.578 6, 51603 266.676 11, 01678 299.356 12, 41688 230.321 9, 51698 260.551 10, 81728 309.994 12, 81848 543.207 22, 51861 588.068 24, 41881 682.000 28, 31901 791.754 32, 8(da F. Corridore, Storia documentata della popolazione della Sardegna(1479-1901), Torino, 1902)

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NOTE

1 Fara G.F. «De Corographia Sardiniae», Cagliari,1838.2 Maria Luisa Plaisant: «Martin Carillo e le sue rela-zioni sulle condizioni della Sardegna»3 La Sardaigne paranimphe de la paix aux souverainsde l’Europe, Boulogne 1714.4 Descrizione del Regno di Sardegna nel 1717, in Bi-blioteca Reale di Torino, Miscellanea di Storia Patria,139, 8, pubblicata a cura di L. Del Piano in ArchivioStorico Sardo, Vol. XXIX, 1964.5 Descrizione e mappa dello Stato di Oliva in Sarde-gna di Zabarayn (1701), tradotto da Italo Bussa, Qua-derni Bolotanesi n. 13, Anno XIII, 1987.Lo Stato di Oliva in Sardegna comprendeva tre In-contrade (Montacuto, Marghine e Anglona), tre Baro-nie (Osilo, Coghinas, Silvas de intro). Le incontradedovrebbero individuare le vaste concessioni allodiali,cioè possedute dal feudatario in piena e libera pro-prietà, mentre le Baronie dovrebbero riguardare leconcessioni strettamemte feudali.La relazione è stata fatta per dare un quadro delle ren-dite e delle spese dell’amministrazione del feudo: visono quindi tutti i diritti e tributi, quelli certi e quelliincerti, e la misura di essi.Si tratta di tariffe per pascolo di pecore e di porci, er-baggio di capre ecc.ecc.; con un solo diritto certo di«paglia e legna (paxa y lena), fra i 17 e 20 altri bal-zelli.Anche Silvas de intro non ha rendite per legname, an-zi neppure per legna: le sue rendite derivano esclusi-vamente dal pascolo e dagli affitti.Nella descrizione di Monte Acuto, comprendenteOzieri, Nughedu, Pattada, Bantine, Osidda, Nule,Buddusò, Alà, Berchidda, Oschiri, Tula, Ittiri Fustial-vu, non si fa alcun cenno ai boschi e alle aree foresta-li, ma solo al numero di case, agli abitanti ecc. Solo perBantine si dice che è ricco «de mucha caza» di cin-ghiali, cervi e daini «venados, ciervoles y cabiroles».Neppure per il Marghine, comprendente Macomer,Borore, Dualchi, Noragugume, Bolotana, Lei, Sila-nus, Bortigali, Birori, Mulargia, si fa cenno ai boschi.Per Bolotana si dice che «È un villaggio posto nellacatena di un monte di un bel terreno fertile...».Per l’Anglona non si dice di più. Essa comprendevaNulvi, Chiaramonti, Martis, Sedini, Bulzi, Laeru, Per-fugas, Bisarcio.Sulla Baronia del Coghinas, di Silvas de intro e saltidel Goceano si dice solo che i frutti di essa sono co-stituiti da affitti del suo territorio, che sono di coltiva-zione e pascoli. 6 Anonimo piemontese: Descrizione dell’isola di Sar-degna, a cura di F. Manconi, 1985.7 Loddo Canepa F. «Relazione della visita del VicerèDes Hayes al regno di Sardegna(1770)». Arch. Stori-co sardo, Vol. XXV, Fasc. 3-4, Padova, 1958.

8 ASC, Atti Governativi e Amministrativi, n. 309,Vol.6.

9 Andrea Manca dell’Arca: Agricoltura di Sardegna,Napoli 1780.

10 ASC, Segr. di Stato, serie II, Vol. 1280.

11 ASC, Segr. di Stato, serie II, Vol. 1280.

12 ASC, Segreteria di Stato, serie II, V. 1300.

13 ASC, Segreteria di Stato, serie II, V.1300. Nota del30.5.1761 del Governatore di Alghero alla Segreteriadi Stato.

14 Il legname veniva prevalentemente importato, all’e-poca, dalla Svezia e dalla Corsica. Successivamenteanche dalla Dalmazia e dall’Albania.

15 La scarsissima viabilità esistente nelle aree internedell’isola, il precario stato delle rare carrarecce limi-tarono l’interesse del De Buttet ai boschi delle solearee costiere, per ovvie ragioni di costi di esbosco del-la materia prima.

16 Per le stesse finalità venivano impiegate anche leghiande di sughera e di roverella.

Su questo insolito uso si ha la testimonianza dell’An-gius. «In alcuni paesi montani dell’Ogliastra adopra-no per pane la ghianda del leccio».

Secondo il Lamarmora la farina delle ghiande venivaimpastata con acqua ricca d’argilla. Poi si confeziona-vano piccoli biscotti appiattiti che venivano cosparsidi cenere perché non si attaccassero alla tavola. Perinsaporirli si usava del lardo fuso.

Questa sorta di pane era in uso, secondo il Lamarmo-ra, a Baunei, Triei, Urzulei, Arzana e Gairo.

17 All’epoca, i porti in attività erano situati soprattuttolungo la costa occidentale: Alghero, Bosa, Oristano eIglesias. Su quella orientale si trovavano porti di pic-colo cabotaggio quali Arbatax, Orosei e Castiadas.

Porto Torres ed Olbia non erano molto affidabili acausa di interramenti, presenza di scogli e mancanzadi protezioni frangiflutti.

18 L’Artiglieria impiegava il legname, scelto opportu-namente, soprattutto per la costruzione di affusti dicannoni e di spingarde navali.

19 Un’oncia equivaleva a m.0, 043

20 Caracca era detta una sorta di pontone cavafangodestinato allo scavo dei fondali marini alla bocca delporto. Lo stesso termine veniva usato per indicare unagrossa nave destinata in special modo ai trasporti.

21 Attraverso Santulussurgiu e la piana di Milis si ac-cedeva al Porto della Gran Torre di Oristano; attra-verso Cuglieri al porto di Bosa, in località PedrasNieddas.

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22 ACC, Fondo Ballero, Manoscritti: Discorso istoricopolitico legale dei boschi e selve nel Regno di Sardegna.23 Il Dipartimento o ducato di Monte Acuto, compren-deva Ozieri, Bantine, Pattada, Tula, Berchidda, Osid-da, Nule, Alà dei Sardi, Oschiri, Ittireddu, Nughedu S.Nicolò, Buddusò e Salto di Sylvas.

24 Il Dipartimento o Curatoria di Austis comprendevaAustis, Teti, Tìana e Monti-mannu.25 Casalis G. Dizionario geografico storico- statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna,Vol.XVIII quater, Torino, 1856. (Compilazione di Vit-torio Angius).

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• I fattori che hanno inciso sulla regressionequali-quantitativa dei soprassuoli forestali

Si è accennato in precedenza al fatto chela diminuzione della superficie boscata

dell’isola è avvenuta con una certa gradualitàquasi fisiologica fino a metà circa del XIX se-colo. Si è pure detto che lo stato generale deisoprassuoli boschivi dell’isola non era, a quel-l’epoca, tanto soddisfacente, e che, al contra-rio, molti boschi presentavano in modo netto emarcato i segni di un’incuria secolare.Sul depauperamento del patrimonio silvico-lo avevano inciso fattori di diversa natura,alcuni risalenti a epoche molto lontane, altriinvece sopravvenuti in epoca sabauda.Tra i «mali» antichi vanno annoverati prin-cipalmente:

- la cosiddetta pratica di «narbonare» o farenarboni;

- l’attività pastorale;- gli incendi;- le utilizzazioni boschive tradizionali.

1. I Narboni

Narboni, secondo la definizione contenutanel «Dizionariu Universali» 1 era detta quel-

la superficie di terreno che veniva disbosca-ta per essere destinata a colture agrarie:Terrenu sboscau de sa linna, o limpiau de saperda, ch’insaras a primu est postu in istadude coltivazioni.(Terreno privato della copertura boschiva, ospietrato, che per la prima volta viene mes-so a coltura).La pratica del «narbonare», che veniva per-ciò prevalentemente attuata all’interno dideterminate aree boscate, di preferenza pia-neggianti e con suolo profondo, consistevanel disboscare e dicioccare interamente unacerta superficie, e nel dissodarla (pratica det-ta appunto del «fare narboni») per coltivarvigrano o, più frequentemente, orzo, per 2-3anni; in quest’ultimo caso le aree messe acoltura erano denominate più propriamenteorzaline.Le piante forestali venivano abbattute e ri-dotte in cenere e con questa si fertilizzava ilterreno.La produzione cerealicola se ne avvantag-giava: il grano, che di solito aveva una resadi 1:5 - 1:7, raggiungeva produzioni supe-riori di una volta e mezzo quella normale;con l’orzo si arrivava a duplicare il raccolto

IVCapitolo IV

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ordinario, con rese di 1:16-1:20 e talvoltaanche di 1:30 in terre di forza e sarchiate 2

ed anche oltre: «La produzione dell’orzo interreni aperti suol essere del 15, in terreniconcimati di ceneri di vegetali o d’altro, an-che del 50».

Poi, esaurita la fertilità indotta dalla conci-mazione, la superficie veniva abbandonata eci si spostava altrove; l’ultima area disbo-scata e messa a coltura andava ad aggiun-gersi alle tante altre aperte e abbandonate.Nel bosco si creavano vuoti sempre più am-pi: alla copertura arborea distrutta si sosti-tuiva quella arbustiva ed a questa i cisteti e icampi nudi, ed il bosco perdeva col tempouniformità e continuità. I narbonatori erano in genere dei concessio-nari di cussorge, pastori che si erano stabili-ti, in ragione della loro attività preponderan-te, lontano dai villaggi e che giocoforzaprovvedevano a produrre quanto necessitavaal sostentamento del nucleo familiare. La pratica era assai diffusa ed anche tollera-ta, almeno fino ad una certa epoca, e pocoalla volta aveva finito per creare sempre piùampie chiarie all’interno dei soprassuoli,con un’inevitabile diminuzione di densità euna perdita netta di superficie forestale.Successivamente si cercò di porre rimedioagli abusi condizionando l’apertura del nar-bone ad apposite licenze rilasciate dal tribu-nale della Reale intendenza, come si evincedal Pregone dell’intendente generale Bongi-no del 22 gennaio 1759 3, riferito in partico-lare alle montagne del dipartimento delMandrolisai:Constatato che alcuni «...vanno continua-mente rovinando quelle montagne co’ taglieccessivi d’alberi fruttiferi, e disboscandoterreni per narboni...» si prescriveva che:«...d’ora in avanti non osino, né ardiscano difare tagli d’alberi fruttiferi in dette monta-gne, nemmeno disboscare, o fare narboni pelseminerio in que’ territori sotto pretesto, némotivo alcuno senza che prima ottengano la

permissione, di questo tribunale della Realeintendenza, la quale sarà loro accordata iniscritti, colla espressione delle regole, chedovranno praticarsi tanto nel taglio che neldisboscamento, senza violare il disposto del-la R. prammatica...».Col successivo Pregone del 1771 4 si cercòdi frenare il disboscamento che i cussorgialioperavano nei terreni avuti in concessione,mediante l’obbligo loro imposto di mantene-re in istato di selve le aree boscate, e con-temporaneamente quello di rimediare aiguasti provocati in precedenza, mediante lasemina o la piantagione di alberi fruttiferi oda ghianda, pena, nei casi di reiterata ina-dempienza, di revoca della concessione cus-sorgiale.E il dettato normativo venne esteso anche al-le superfici non cussorgiali, coinvolgendo laresponsabilità di tutti i possessori di boschi,compresi i feudatari: «Ingiungiamo ai Baroni ed altri investiti diselve di coltivare, seminandovi ghiande, ivacui che vi faranno...». Per le persone incaricate di far rispettare leleggi, censori e ministri di giustizia, venivaprescritto di profittare della «visita solita farsidai Ministri di giustizia per...far l’estimo deglielceti, o sia selve da ghianda, per riconoscersii detti vacui» e per segnalare al Governo lapuntuale osservanza della norma. 5

Ma il dettato non raggiunse grandi effetti. Oltre ai danni diretti dovuti all’eliminazionedella copertura forestale, dai narboni poteva-no derivare ulteriori guasti ai boschi quando– com’era consuetudine – si faceva ricorsoal fuoco per eliminare le stoppie, e le fiam-me si propagavano accidentalmente alla ve-getazione arborea circostante.Nell’Antico Archivio Regio è riportata l’in-chiesta promossa per appurare le cause e gliartefici di un incendio sviluppatosi nelle cam-pagne di Atzara tra il 15 e il 18 settembre1790 e originatosi da un «narbone» : 6 «...pu-sieron fuego en varias partes de la vidazoni de

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esta villa de Atzara, y aun en territorios de lasvillas de Sorgono, Ortuery y Desulo, de cuyofuego se suscitaron varios incendios, que cau-saron dano, tanto en el pasto, que en los terri-torios esisten, y si bien à todos los que seanincendiarios entiende acusarles las penas quehan incurrido impuestas por las Reales pra-maticas y editos que los prohiben...» L’incendio, originatosi in località «Tolu» e«Fossu de bau arena», «...à procedido denarbonis que han hecho las personas de Pe-dro Pablo Casula, y Juan Manca e Joseph,ambos de la villa de Atzara, los quales sinprevio permisso de la R. Intendentia, nì eldevido acenso....contra los espressos prego-nes de los Ill.mos Senores Intendentes G.les,uno de data 22. 1. 1759...»

A scorrere «I nomi di luogo della Sarde-gna» 7 ci si rende conto di quanto fosse diffu-sa in tutta l’isola la pratica del narbonare, daAllai ad Arbus, a Belvì, ad Armungia, a Cu-glieri, a Dolianova, a Desulo, a Domusnovas,a Gonnosfanadiga, a Guspini, a Iglesias, aLuogosanto, a Meana, a Mogoro, a Muravera,a Narcao, a Orroli, a Ozieri, a Palau, a Perda-sdefogu, a S. Basilio, a S. Nicolò Gerrei, aSantadi, a Seneghe, a Siliqua, a Sindia, a Sor-gono ecc., insomma in tutte le province ri-corrono frequentemente nomi di località cheevocano l’antica consuetudine.I toponimi narboni, narvones, narboneddu,nerboni, nalboni, narvones, narboneri, nal-bunacci stanno oggi a testimoniare di unadiffusa tecnica colturale tra il mondo ruraleisolano, che si perpetrava a scapito dellearee boscate, e che concorse a determinareuna riduzione dei soprassuoli forestali ed unpeggioramento qualitativo della coperturaarborea.

Narboni: aree agricole ricavate a scapito di superficiforestali e destinate, ieri alle colture cerealicole edoggi ad erbai. Le trasformazioni di questo tipo, nu-merose e diffuse su tutto il territorio isolano, sono unadelle cause cui va ascritto il depauperamento quali-quantitativo dei boschi della Sardegna.

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Malgrado i Pregoni, l’inveterata pratica con-tinuò a persistere a lungo, e ne ritroviamo laconferma in diversi documenti dei decennisuccessivi.In una nota di un Intendente provinciale alVicerè si affermava infatti che «..questo abu-so è così inveterato... che non solo è compa-tito, ma anche adottato per sistema e vi ac-cadono di conseguenza degli incendi tantovasti quanto frequenti e pregiudizievoli es-sendo impossibile il trattenere il fuoco inpiccoli spazi che non vengono circoscrittiche da boscaglie». 8

E in un altro documento: Chi rovina mag-giormente la foresta sono le orzaline o bera-nili...terreno seminato a orzo che formano ipastori in mezzo della foresta scegliendo unluogo ove gli alberi hanno prosperato mag-giormente, atterrano le piante che trovansidentro e senza riguardo alcuno sfrondano lealtre circonvicine per erigere coi rami siepidi confine e «... per fare anche penetrare ilsole...» 9 relazionava il Capitano di vascelloAlbini sulla foresta della commenda di S.Leonardo nel 1824.In questo stesso bosco, nel 1829, furonocensiti n. 157 campi, originatisi, molto pro-babilmente, da precedenti orzaline, per com-plessivi 700-800 ettari.Nella Contea di Ittiri veniva addirittura ri-scosso dal feudatario un dritto di narboni acarico sia dei locali che dei narbonatori fo-restieri, a testimonianza di una pratica cosìdiffusa da aver indotto il feudatario a farnemotivo di esazione di ulteriori tributi piutto-sto che a contrastarla.Ed un simile dritto di narbonai per i fore-stieri, pari a mezzo starello, esisteva altresìnella Baronia di Cabuabbas, che compren-deva i villaggi di Giave e Cossoine.

Il narbonare fu dunque una pratica consue-tudinaria e diffusa in tutte le parti dell’isolache persistette per lunghissimo tempo, alme-

no fino alla seconda metà del XIX secolo, edalla quale è da ascrivere la perdita di unaquota non irrilevante di aree boscate, sia peri danni diretti da essa provocati attraversol’eliminazione dei soprassuoli boschivi, siaper quelli indirettamente indotti nei casi incui l’impiego del fuoco, in fase di formazio-ne del campo, o successivamente per l’eli-minazione delle stoppie dei cereali che vivenivano coltivati, si tramutava incidental-mente in incendio. 10

Anche la trasformazione in pascoli più omeno arborati di alcuni soprassuoli boschiviè in parte riconducibile ai narboni operativinel tempo.È questo il caso per esempio del bosco de-nominato Matta Sindia nel Comune omoni-mo, che, com’è documentato in altra parte,si estendeva ai primi dell’Ottocento su unasuperficie di circa 1280 ettari e che oggi èinvece classificabile in larga parte appuntocome pascolo arborato, stato nel quale erastato ridotto già intorno alla metà del secoloscorso.Queste zone furono infatti destinate a perio-dico utilizzo agricolo; ne fa fede la segnala-zione in tal senso presentata il 4.2.1843 al-l’Intendente generale, in cui si lamenta chediversi abitanti del villaggio dissodano emettono a coltura le aree boscate e che unodi questi ne sarebbe stato il Sindaco delloscaduto esercizio 1842, nominato AntonioMaria Pisanu Irde, che in vece d’impedirequel disordine... si avrebbe anch’egli semi-nato un rasiere d’orzo.Le indagini appurarono successivamenteche ben 59 persone vi avevano seminato in-teressando una superficie totale di 136 sta-relli. 11

Con l’entrata in vigore del Regolamento fo-restale del 1844, il dissodamento dei boschidello Stato, dei Comuni e di altri corpi am-ministrati fu assoggettato a precise norme ea specifiche autorizzazioni: per i boschi de-

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maniali da parte del Primo Segretario di Sta-to per gli affari di Sardegna; per quelli co-munali o di altre pubbliche istituzioni daparte del Vicerè per superfici superiori a unostarello cagliaritano (pari a 40 are) e da par-te dell’Intendente generale per superfici in-feriori.Le richieste dovevano essere presentate daiConsigli comunali ed essere sottoposte alparere dell’Intendente provinciale ed a quel-lo del Conservatore dei boschi; in caso diviolazione delle prescrizioni erano previstemulte da 50 fino a 100 lire per ogni starellodisboscato e l’obbligo di reimpianto del bo-sco sulle superfici dissodate senza autorizza-zione.Ma le prescrizioni sollevarono diverse la-gnanze delle comunità locali. Il Consiglio comunitativo di Suni si affrettòa scrivere al Vicerè per richiedere di potereffettuare le orzaline – da sempre operatesulle montagne – ove la popolazione soleaseminare i generi secondari, in quanto le fa-miglie traevano sostentamento attraversoquesta pratica e, tranne tre o quattro di esseprovviste di terreni propri, tutte «...tiravanoquasi lungo l’anno...la loro sussistenza...». 12

Ma secondo l’Intendente provinciale di Cu-glieri 13 le orzaline preludevano alla recin-zione del sito «...con notabile pregiudiziodella pastorizia e dei terreni stessi su di cuicoll’andar del tempo ne pretendono il pienodominio», e perciò la richiesta era da respin-gere anche in considerazione che per ottene-re le orzaline gli abitanti «...tagliano e svel-lono le boscaglie...».

Anche da Montresta il Sindaco ed il Consi-glio comunale scrissero al Vicerè:«...supplica voglia degnarsi l’E.V. graziarequesta Comunità di Montresta del godimen-to degli ademplivi come per lo passato dipoter cioè far uso di qualunque qualità di le-gno seco, o verde per uso del fuoco, e far uso

di travi travicelli, aratori e simili, del racco-glimento della ghianda per uso dei porcimannali, ed anche per venderne, di poter farcarbone di legno non fruttifero, di poter ta-gliare le frondi degli alberi anche ghiandife-ri per pascerne i buoi nell’inverno e nei dipenuria di pascolo, o di qualche temporale, onevicata, come anche poter sgherbire i ter-reni da seminarsi da tutte quelle macchie, ecespugli che gli ingombrano, comprensiva-mente ai rami anche d’alberi ghiandiferi, perrendere i terreni atti al seminerio, e non ve-nirvi soffocate le biade, che vi si seminano,onde occorrere al rimedio di tanti mali chesovrastano questa povera popolazione». 14

La nota del Sindaco accompagnava la deli-berazione del Consiglio del 23 agosto del1845 in cui si ribadivano le richieste già vi-ste e si sottolineava che l’indigenza degliabitanti «...la maggior parte privi di beni difortuna, vedendosi privi di mezzi d’industriaonde ritrarne la sussistenza come per l’ad-dietro procureranno espatriare riducendo ilcomune ad esser spopolato...».In questo caso, secondo le affermazioni del-l’Intendente provinciale di Cuglieri, la sup-plica era immotivata in quanto l’eserciziodei diritti d’uso, non era stato affatto impe-dito alla popolazione; si era solo cercato difar intendere che il Comune avrebbe dovutopreliminarmente munirsi delle autorizzazio-ni prescritte.

Per certi versi questa pratica agricola ricordaquanto ancora oggi è dato talvolta di osser-vare su alcune pendici montuose o collinariove, eliminata la vegetazione arbustiva edissodato il terreno, viene impiantato un er-baio per la produzione di foraggi. Sistemati-camente le aree, esaurita la scarsa fertilitàdel suolo e divenute improduttive e sterili,vengono poi abbandonate.

Molti dei cisteti che punteggiano aree fore-stali sono di questa origine.

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2. L’attività pastorale

Le superfici boscate isolane, in un’economiache tradizionalmente aveva nella pastoriziaun suo punto di forza, 16 hanno sempre rap-presentato aree di eminente interesse pasto-rale, più che forestale. Ogni sorta di bestiame, vaccino, equino, ca-prino, ovino e suino, stagionalmente o pertutto l’arco dell’anno, singolarmente dislo-cato in zone ben definite o promiscuamenteunito sulle stesse superfici, trovava in esse ilproprio sostentamento.D’altra parte non esistevano soluzioni alter-native in quanto le norme in uso fin dal XIVsec. prescrivevano l’obbligo di tenere legreggi e le mandrie lontano dal centro abita-to e dalle aree destinate all’agricoltura ed alpascolo del bestiame domestico impiegatonel lavoro dei campi (il cosiddetto siddu). Il Capitolo CXXXVII della Carta de Logu 17

era molto chiaro in proposito e prevedevadure sanzioni e la rifusione dei danni a cari-co del proprietario dei porci di branco, dellepecore o delle capre che fossero stati ritro-vati all’interno di vigne ed orti.Per i porci rudi 18 e per le pecore 19 esistevauna deroga per il periodo compreso tra il 1°Luglio ed il 1° Ottobre, periodo nel quale eraloro consentito di riavvicinarsi alla habita-cione per pascolare le stoppie. Alle capre 20

era invece costantemente interdetto anchesoltanto l’avvicinarsi alle aree comunquecoltivate o destinate al pascolo del bestiamedomestico, salvo che per il tempo stretta-mente necessario eventualmente all’abbeve-rata.Ciò di fatto esiliava i pastori nelle fasce ter-ritoriali più distanti dai centri abitati, nei sal-ti (saltus), luoghi poco accessibili e per lopiù impervi, occupati da cespugliati, mac-chie e boschi.

Su pinnetu, tradizionale ricovero dei pastori sardi costruito nelle aree forestali (saltus) in cui prevalentementesi svolgeva l’attività pastorale.

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Come conseguenza le aree forestali avevanofinito per divenire di assoluto dominio deipastori, che le utilizzavano in funzione delleloro immediate necessità: per il pascolo delbestiame e per l’attività agricola di sussi-stenza, anteponendo a ogni altra considera-zione il loro esclusivo e personale interessee la sopravvivenza del loro patrimonio zoo-tecnico.L’esercizio del pascolo era consentito previacorresponsione al feudatario di un compen-so, in moneta o in natura, denominato de-ghino o sbarbargio.Tale reddito, se pure di modesta entità, serapportato ad altri redditi rurali, 21 era pre-ponderante rispetto a quello ritraibile dallaproduzione legnosa dei boschi.Quest’ultimo infatti, anche per le formazio-ni vegetali in grado di fornire legname daopera, date le difficoltà di trasporto connes-se alla scarsità di vie di collegamento e diponti, ed al pessimo stato delle poche stradeesistenti, e i conseguenti altissimi costi diesbosco, finiva per essere del tutto trascura-bile.Per quelle poi che erano in grado di fornireesclusivamente legna da ardere e carbone,boscaglie arbustive e cedui misti di leccio,solo poche, quelle situate in luoghi accessi-bili, fornivano un qualche reddito attraversoil commercio dei prodotti con i villaggisprovvisti di aree forestali; le altre, la mag-gior parte, erano utilizzate esclusivamenteper soddisfare i diritti di legnatico delle po-polazioni ed il reddito da esse ricavabile eramodestissimo. 22

Ciò portava di riflesso a una sottovalutazio-ne del valore delle superfici boscate in quan-to tali, a trascurare ogni pratica selvicoltura-le e ad anteporre alle esigenze del boscoquelle dettate dal pascolo, attività più reddi-tizia per le casse baronali.Le norme che regolavano l’attività armenti-zia privilegiavano il pascolo suino rispetto aquello delle altre specie animali.

I boschi d’alto fusto, le selve ghiandifere,per antica consuetudine, erano riservate in-fatti soprattutto al pascolo dei maiali che visi esercitava, in forma esclusiva, nel periododella maturazione e della caduta delle ghian-de, ordinariamente dall’ottobre a tutto gen-naio.In tale lasso di tempo un apposito bando im-poneva l’allontanamento dal bosco ghiandi-fero delle altre specie di bestiame, che peròpotevano accedervi nel restante periodo del-l’anno.Ed il pascolo suino era tanto importante eprivilegiato che, nei ghiandiferi che ospita-vano i porci rudi, veniva vietata perfino l’at-tività venatoria perché avrebbe potuto di-sturbare o disperdere il bestiame.Ogni branco di porci era contrassegnato dasegni particolari cui corrispondevano i rela-

Piante avviluppate dall’edera. Tra le cause del depe-rimento dei boschi, lamentate da più parti nel secoloscorso, vi era l’abbattimento di piante per utilizzarel’edera come alimento per il bestiame.

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tivi proprietari, segni ottenuti praticando op-portuni tagli nelle orecchie degli animali:- «trunca ad una e bogada di nanti all’altra»- «scala de nanti e bogada di dietro»- «trunca ad una e rundinina all’altra»- «rundininas ambas»- «truncas ambas»- «rundinina ad una e scala de nanti all’al-

tra».Data la nota alternanza di produzione frutti-fera delle specie quercine, che vede ad anna-te di pasciona succedersi annate di magra, siprocedeva anno per anno per ogni fillada,ossia per ogni «ghiandifero», alla stima del-le ghiande e quindi del bestiame che potevatrovarvi sufficiente alimento per consentirnel’ingrassamento (la cosiddetta grassa). La stima era eseguita più che per evitare unsovraccarico di capi e quindi di possibilidanni al bosco, per stabilire se e in che mi-sura, soddisfatte prioritariamente le esigenzedegli abitanti di quel determinato feudoaventi diritto, si poteva affittare parte del pa-scolo a pastori di altre giurisdizioni.La valutazione veniva affidata a persone le-gate al feudatario e da questo dipendenti, efacilmente poteva concludersi con una so-vrastima della grassa perché in tal modo ilbarone era autorizzato ad affittare il sovrap-più a pastori non locali, il che gli consentivadi aumentare il proprio reddito.Al numero di capi ufficialmente autorizzatosi aggiungeva quello che pascolava abusiva-mente, fatto tutt’altro che infrequente specienelle foreste meno accessibili e situate inzone impervie, rifugio spesso di latitanti:«Anche nelle montagne d’Urzulei – segnala-va l’Intendente provinciale di Lanusei in unanota del 19.12.1841 – ...sovrabbondanza dighiande, ma abitate come desse sono damoltissimi banditi vi si introducono secondoil solito i porci... senza alcun permesso... edifficile si rende a ciò porre riparo, trattan-dosi di montagne assai scabrose... riescesempre difficilissimo se non impossibile didare attacco ai banditi...» 23

.

I maiali venivano distinti in:- porci mannali, quelli allevati nelle abita-

zioni del paese, in genere uno per famiglia,per i quali era consentito il prelievo dighiande dal bosco (diritto di ghiandatico);

- porci rudi, quelli allevati allo stato bradonei boschi, distinti, a loro volta, in:

- matricini (o mardidu o mardiedu), gliadulti;

- annicoli (o achisorgius), i giovani, valuta-ti, ai fini del pascolo, pari alla metà delmardidu;

- lattanti, i piccoli che non venivano conteg-giati nella stima.

Più tardi, col Regolamento forestale del1844, la materia fu regolata in modo da as-sicurare una maggiore obbiettività alla sti-ma, onde evitare danni da sovraccarico dibestiame.L’estimo ghiandifero venne da allora affida-to a dei porcari non locali che vi provvede-vano con apposita perizia giurata.Il Giudice di mandamento rompeva poi ap-posito bando pubblico per portare a cono-scenza del villaggio le risultanze della stimaper ogni località.Il pascolo dei suini poteva essere esercitatonei boschi ininterrottamente in ogni periododell’anno ed ai porci rudi venivano riserva-te in via esclusiva le selve ghiandifere dal1° novembre al 15 febbraio dell’anno suc-cessivo. La grassa, ossia la capacità di alimentarequel certo numero di capi suini, veniva sti-mata, di solito, solo sui boschi Comunali oDemaniali soggetti ad ademprivio e non suiboschi privati.Sebbene non sia possibile, per i noti motividi alternanza di produzione ghiandifera del-le specie quercine 24 stimare, attraverso il nu-mero di capi della grassa, l’estensione dellefustaie esistenti nei singoli Comuni, tuttaviala consultazione di documenti relativi allastima del numero di capi ammissibili al pa-scolo ci aiuta a definire quante «filladas» e

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quindi quante e quali fustaie esistevano suquel dato territorio, e avere un’idea dellaomogeneità della copertura forestale.Consente inoltre indirettamente di raffronta-re la presenza dei ghiandiferi nei diversi ter-ritori con lo stato attuale degli eventuali so-prassuoli.Per tale motivo si ritiene un utile comple-mento al presente lavoro il riportare in Ap-pendice, alla quale si rinvia, la stima del nu-mero dei porci rudi redatta per l’annata1856-57 in diversi comuni dell’isola.

Nei boschi cedui, formati da boscaglie di es-senze arbustive o da soprassuoli misti arbo-rei utilizzati periodicamente per ricavarecarbone, si esercitava il pascolo di tutte lespecie di bestiame, vaccino, suino, caprinoed ovino, ininterrottamente e senza limita-zione alcuna.Come diritto di pascolo veniva corrispostonormalmente il deghino, in natura o in dana-ro, e in misura differenziata secondo i diver-si feudi.

Dunque, di norma, tutto il bestiame dovevapermanere nei salti, lontano dalle aree distretta pertinenza del villaggio e delle colti-vazioni.Isolati dal contesto sociale, i pastori adempi-vano alla loro attività con un unico obiettivo,per il quale e in funzione del quale viveva-no, quello di far produrre il proprio bestiamee di assicurarne la sopravvivenza.E ciò li portava ad anteporre a ogni altra nor-ma quella dettata da contingenti necessitàproduttive o da egoistici bisogni, che il piùspesso si estrinsecavano in atti e comporta-menti che producevano guasti a singolepiante o ad interi soprassuoli. Nella già ricordata relazione stilata sui bo-schi della Commenda di S. Leonardo, così siesprimeva il Capitano di vascello Albini:Non vi sono alberi giovani... per il continuopascolo del bestiame e varie altre cause...

...il pascolo continuo delle vacche che noncontente di distruggere le piccole piante cheappena nascono...; ed ancora: ...allorquan-do non vi è sufficiente pascolo per le foresteatterrano anche quelle piante che si trovanocoperte dell’ellera e approfittano di quellepoche foglie......Si contano già 4000 e più ceppi d’alberiabbattuti.

Alcuni pastori, beneficiando di particolariconcessioni, si erano insediati stabilmente inparti ben definite dei salti, nelle cosiddettecussorge, e avevano colonizzato ampi lembidi territori forestali con l’inevitabile scom-parsa di molti soprassuoli boschivi e l’alte-razione strutturale di altri. Ciò era avvenutosoprattutto nella Nurra, in Gallura, in partedel Sulcis ed avvenne successivamente an-che nel Sarrabus.Per secoli, prima che venissero presi in con-siderazione i danni che un certo esercizio delpascolo comportava, i guasti si erano succe-duti e sommati e avevano pesantemente in-ciso soprattutto sulla estensione e sulla qua-lità dei boschi. D’altra parte l’economia isolana si era sem-pre retta su due attività preponderanti: quel-la agricola propriamente detta, e quella pa-storale.Quest’ultima alimentava anche una certaesportazione di pelli, formaggio, insaccati ecapi vivi, e forniva una quota di reddito aifeudatari; pertanto, se si prescinde dalle nor-me ricordate più sopra, emanate per perse-guire i danni alle coltivazioni agricole, o perfavorire una specie animale rispetto adun’altra, nessuna altra limitazione esistevaall’esercizio dell’attività pastorale nei bo-schi: non quello di rispettare e proteggere ilnovellame: «Oziosi i pastori per esercitar lebraccia agitan la scure e fanno eccidio dipianticelle e di rami...» 25 né quello di nonpascolare nelle tagliate; nessuna proibizonecirca il taglio di rami per alimentare il be-

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stiame e nessuna indicazione su come ese-guire il taglio; nessun limite territoriale; nes-suna limitazione al carico di bestiame o aquesta o quella specie.Da qui gli abusi lamentati e descritti in in-numerevoli documenti, a danno di singoli al-beri o a scapito di intere superfici boscate, eascritti con monotona e costante ripetizioneal mondo pastorale: abbattimento di piante,sbrancamenti, disboscamenti, incendi, dis-sodamenti.In una nota del Visconte di Flumini e Gessadiretta alla Segreteria di Stato 26 si lamenta-va che «...alcuni suoi vassalli di Flumini eConesi, ed altri pastori circonvicini a saltighiandiferi detti di Gessa proprio del suo de-manio, vanno facendo guasti sì notevoli neimedesimi, da minacciare gravissimi danni, eforse ancora la rovina....».«Primamente nello scorso inverno atterraro-no grandissima quantità di alberi di alto fu-sto per nutrire co’ teneri rami e virgulti i lo-ro armenti; qual fatto è di natura tale a farconoscere qual spirito di sana economia ligoverni....». Gli organi preposti al governo della cosapubblica erano ben consci dei guasti chel’attività pastorale nel suo insieme provoca-va ai boschi o direttamente o indirettamentee, se pure in mancanza di norme giuridichespecifiche e codificate, tentarono, attraversocircolari e disposizioni varie, di porre un fre-no agli abusi, anche in contrasto con i Con-sigli comunitativi che continuavano a pero-rare e la necessità di «narbonare» e quella disbrancare gli alberi.La Reale Giunta Patrimoniale, in un docu-mento diretto alla Segreteria di Stato del 6maggio 1826, riferendosi ad una richiesta intal senso dei Consigli comunitativi di Botti-da, Burgos ed Esporlatu, così commentava:«... i particolari...sotto il pretesto di procura-re sul luogo un alimento ai buoi da lavoro at-

terrano gli alberi intieri e distruggono il bo-sco..».«Ma gli abusi a cui dà luogo l’attuale siste-ma di agricoltura resistono talmente... che ilsuolo della Sardegna vedesi ogni dì più po-vero e più nudo di piante e selve...».

Soltanto nel 1837 però, col Pregone sulla su-ghera, venne per la prima volta imposta unalimitazione al pascolo in zone boscate: nellesugherete infatti si vietò quello delle capre esi prescrisse il risarcimento dei danni pro-dotti dalle altre specie.Occorrerà tuttavia attendere il «Regolamentopel governo dei boschi nel Regno di Sarde-gna», approvato con Regie Patenti albertine il14. 9. 1844, per trovare dei princìpi di regola-mentazione del pascolamento, demandati aprovvedimenti degli Intendenti provincialiche dovevano corrispondere «..ai bisogni rea-li delle popolazioni, ed alla conservazione deiboschi» e che dovevano essere emanati sullascorta di proposte dei Consigli comunali.L’attività pastorale costituì comunque sem-pre, sia per la rilevanza numerica degli ad-detti al settore sia per il modo arcaico in cuil’esercizio veniva condotto, una delle causemaggiormente incidenti sullo stato di degra-do e sul depauperamento delle superfici fo-restali isolane.L’incidenza crebbe con l’aumento del patri-monio zootecnico che registrò, dall’inizioalla fine del XIX secolo, un costante incre-mento (Tab. 3).

ANNO BOVINI

N.EQUINI

N.CAPRINI

N.SUINI

N.

18081849/50

212.540281.792

53.08958.314

184.527408.948

92.052168.230

Tab. 3 Consistenza e ripartizione del patrimoniozootecnico isolano nella prima metà del XIX sec.28

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3. Gli incendi boschivi

L’impiego del fuoco come mezzo colturalerisale, come si sa, ad epoche molto remote:esso veniva ordinariamente impiegato nelmondo rurale quale strumento per creare oripulire i campi, o per rinnovare i pascoli.Il fuoco poteva però facilmente evolversi inincendio e come tale provocare danni allezone contermini e dilagare nelle aree fore-stali prive di qualunque sistema di difesa.L’incendio è da annoverare in Sardegna trale cause principali di regressione del patri-monio forestale; da sempre è stato un maleendemico dell’isola, frutto di pratiche coltu-rali radicate sia nel mondo contadino che inquello pastorale: appiccato abitualmente daipastori per ripulire i pascoli, per fertilizzaree migliorare il cotico erboso, o per favorireil ricaccio dei giovani polloni delle essenzearbustive invecchiate, e per narbonare; odancora causato accidentalmente dai contadi-ni con l’abbruciamento delle stoppie.Ma anche strumento di offesa cui si facevaspesso ricorso: Se sorgea ira tra due baroni,essi cercavano di danneggiarsi, invadendouno il territorio dell’altro, guastando i lavo-ri agrari, bruciando le messi, tagliando glialberi, incendiando i boschi. 29

In Sardegna l’incendio fu considerato un de-litto, e come tale perseguito da precise nor-me fin da epoca giudicale.Nella Carta De Logu 30 son ben cinque i ca-pitoli dedicati alla normativa sugli incendi:quelli colposi erano puniti con ammende di£ 25 e la rifusione dei danni provocati(cap.45); quelli dolosi, distinti in incendio dicase (cap.46) e incendio di terreni coltivati(cap. 47), prevedevano pene molto più seve-re: la pena di morte nel primo caso (... e siatjuygadu dellu ligari a unu palu, e fagherilluarder...), e il taglio della mano destra nel se-condo, qualora l’incendiario non fosse statoin condizioni di rifondere il danno cagiona-

to (... e si non pagat issa... saghitsilli sa ma-nu destra..).Altre norme riguardavano la prevenzionedegli incendi, come il divieto di bruciare lestoppie prima dell’8 settembre (cap.45: Vo-lemus et ordinamus, chi nexuna personadeppiat, ne pozzat ponni fogu infini a passa-da sa Festa de Santa Maria, chi est a diesottu de Capudanni..) e l’obbligo di provve-dere alla difesa del villaggio e delle aree col-tivate mediante apertura di fasce parafuoco(sa doha) entro il 29 giugno (Santu Pedru deLampadas), pena, in caso contrario, il paga-mento di un’ammenda di soldi 10 per abi-tante del villaggio. Le norme del codice arborense si preoccu-parono molto delle case, degli orti, dei semi-nati e delle vigne, dell’area del villaggio checostituiva la così detta habitacione, ma nontrascurarono gli incendi delle terre incolte,dei saltus, delle aree forestali situate lontanedai centri abitati.Vi era evidentemente la consapevolezza del-la reale loro incidenza nel tempo sulla con-servazione dei boschi, intesi come ricchezzadella collettività che andava tutelata.Nelle aree forestali tuttavia l’uso del fuococolturale era generalizzato e di fatto accetta-to o tollerato, e dal fuoco, impiegato comestrumento colturale, facilmente potevanooriginarsi degli incendi.E quando gli incendi divenivano incontrolla-bili ardevano per settimane intere e distrug-gevano superfici forestali vastissime.Il codice arborense prevedeva che chiunquepotesse far ricorso all’uso del fuoco adottan-do le dovute precauzioni (..ciascaduna per-sona pozzat ponni fogu a voluntadi sua,guardandosi però non fazzat dannu ad atti-ri..) , ché altrimenti si incorreva in una mul-ta di £ 10, oltre alla rifusione del danno pro-vocato dall’incendio.Se il colpevole fosse risultato nullatenenteera prevista la prigione a discrezione dellaCorte.

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Si prevedeva anche la pena in solido per ilvillaggio nell’eventualità che il colpevolenon venisse individuato (istituto detto inca-rica): i Giurati del villaggio erano tenuti adeseguire le indagini e a provvedere alla cat-tura dei colpevoli entro 15 giorni, pena unamulta di £ 30 per il villaggio grande e di £ 15per il piccolo, oltre a 100 soldi a carico delCuratore. L’istituto della responsabilità collettiva perla rifusione dei danni provocati dagli incen-di fu mutuato poi dagli spagnoli e successi-vamente anche dai governi sabaudi e rimasein vigore fino al varo del Codice Felicianodel 1828. 31

E non v’è dubbio che fu applicato con uncerto rigore, anche se non raggiunse comun-que l’obiettivo di contenere gli incendi nel-l’isola.Un fatto curioso ed emblematico, a tale pro-posito, lo si rileva dalla documentazioneconcernente il riscatto del Viscontado di Flu-mini e Gessa 32 da parte dello Stato, a segui-to della legge del 1835 sul riscatto dei feudi.Il Visconte di Flumini, Asquer, in tale circo-stanza, ricomprese tra i redditi del suo feudoanche una dirama di lire sarde 875 che il Co-mune di Fluminimaggiore corrispondeva an-nualmente al feudatario fin dal 1754 a titolodi rifusione di danni provocati al bosco daun incendio il cui autore era rimasto eviden-temente ignoto.Il procuratore del Comune eccepì che la di-rama derivava da titolo di pura incarica eche i ghiandiferi incendiati «...ove esistesse-ro, non frutterebbero neppure la terza partedegli scudi 370 stabiliti per indennità». 33

Ma il visconte insistette, e in una sua con-trodeduzione:«...Dimentica però egli o pare voglia ignora-re il titolo di siffatta indennità. L’incendio fugravissimo e tale, che 20 e più migliaia dighiandiferi andarono inceneriti, per cui si

mosse il giudizio, e condannato il Comunealla rifazione dei danni, fu convenuto chequella somma si pagasse in perpetuo, men-tre non era altrimenti possibile che fosse ilFeudatario altrimenti soddisfatto sì dai fruttiperduti, che dalla distrutta proprietà».E in un verbale della Delegazione Feudi fuannotato:«...In quanto finalmente concerne alle liresarde 875 che la Comunità paga al Feuda-tario, in dipendenza dell’atto di transazio-ne delli 9 gennaio 1754, osserva il Feuda-tario che né per la ragione né per la formapuò avere sussistenza la pretesa rescissionedel Comune mentre ed un sufficiente corri-spettivo fu dal Feudatario conceduto colcondono di tutti i processi compilati perl’incendio...».La controversia si protrasse a lungo, fino ache non si addivenne, in data 28 agosto1839, alla stipulazione di un concordato trail visconte don Francesco Asquer, assistito,in qualità di minore, dal suo Curatore Ago-stino Diaz, ed il Consiglio comunale di Flu-mini rappresentato dal Regio Fisco generale.Il Supremo Consiglio stabilì poi, al puntoterzo della sentenza che ratificava di fatto ilconcordato «..doversi comprendere nel con-to dell’attivo le lire ottocentosettantacinqueannualmente corrisposte dal Comune di Flu-mini dipendentemente dall’articolo quartodela transazione 9 gennaio 1754». 34

Goceano: aree forestali degradate da ripetuti incendi.

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Dall’epoca giudicale in poi la questione de-gli incendi fu comunque costantemente allaribalta: ne troviamo traccia nel Parlamentodel Duca di Gandia, don Carlo Borgia contedi Oliva (1612-1614), ove venne previstauna pena di due anni di galera a chi avesseappiccato fuoco nelle zone ove si erano pra-ticati innesti di ulivi, e si raccomandava chei prelati minacciassero la scomunica a caricodegli incendiari.Si trattava di proteggere soprattutto beniconsiderati fonte di ricchezza, piante che colloro prodotto potevano concorrere ad accre-scere il reddito dell’isola e ad affrancarladalle importazioni dell’olio di oliva dallaAndalusia.E poi più in là, sotto Filippo III di Spagna(1578-1621), quando si avvertì che «.. in-cendios, y fuegos, que con tanta facilidad seponen en el dicho Reyno...» (ci si riferiva al-la Sardegna) imperversavano incontrastatisu molte contrade e cominciavano ad evi-denziarsi alcuni guasti ai soprassuoli boschi-vi e ad emergere sia la penuria di legna in al-cuni distretti, sia i riflessi negativi sulla pro-duzione di ghiande. E quando, presa ulteriore coscienza della va-stità e della pericolosità del fenomeno, sicercò di reprimerlo con norme apposite,quale quella contenuta nelle Prammatichespagnole al capo XI del titolo 42, che ripro-pose l’istituto della responsabilità collettivanel caso che gli autori dell’incendio fosserorimasti ignoti: «Per contenere gli avidi diaprire, e coltivare nuove terre, ed i pastori difar crescere più presto l’erba, i quali appic-ciano a bella posta il fuoco, ed abbruccianoalcune montagne, e v’introducono dopo ab-brucciate le loro greggie per mangiare i nuo-vi, e freschi germogli dal che ne nasce che siperdono i roveri, e quercie, e gli altri alberiin pregiudizio della razza dei porci, ed in di-scapito in conseguenza dei Dritti del re, e deiSignori, oltre il danno grande che ciò portanelle crude invernate al bestiame medesimola mancanza di ricovero sotto questi alberi,

che più non esistono, e la mancanza dellaprovvista sufficiente del bosco, che perciòmanca alle Città, e Villaggi del Regno: perovviare a tanti danni s’ordina e si comanda,che occorrendo simili incendi s’eseguisca inodio di chi lo cagionasse, ciocché venne giàordinato e prescritto nei suddetti capi 5 e 6del titolo 25 ed ove non risultasse del delin-quente, o ne risultasse e fosse persona esen-te, i più vicini abitatori del luogo in cui l’in-cendio accadesse, paghino il danno che neha sofferto il padrone, e lo indennizzino delprodotto che tutti gli anni ne ricaverebbe, setal incendio non fosse seguito, affinchéognuno così si impegni, perché non v’acca-dano incendi né nelle Montagne, né in altritenimenti fruttiferi, che l’abbondanza e lasussistenza somministrano al popolo». 35

In epoca sabauda, con la Carta Reale29.8.1756, si introdusse il divieto di impie-gare il fuoco per eliminare la vegetazione ecoltivare nuove terre, ed anche per procura-re pascoli più abbondanti.Ed ancora, col Pregone del 2 aprile 1771, n.66, si vietò l’accensione di fuochi sotto lepiante o nelle loro vicinanze (art. 68), penail risarcimento dei danni e l’ammenda discudi 25. Si prescrisse inoltre l’obbligo per«i passeggieri, che faranno fuoco nelle mon-tagne, dove sogliono soffermarsi..» di spe-gnere il fuoco stesso prima di abbandonare ilsito, pena un’ammenda di lire 25, oltre il ri-sarcimento dei danni.Tutte norme che denotano l’attenzione delleistituzioni verso un fenomeno che continua-va a procurare seri danni alla copertura bo-schiva.Le norme venivano tuttavia osservate solo inparte; vi erano anzi alcune contrade, come laGallura, ove la violazione sistematica dei di-vieti connessi all’accensione dei fuochi neimesi estivi, era divenuto motivo per esigereda parte del feudatario un balzello suppleti-vo denominato capretta di fuoco (oveja defuego) e localmente turiccia di focu, che

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consisteva appunto nella corresponsione diuna capra in cambio del permesso di accen-dere fuochi in ogni stagione. 36

Ma poiché «Le Leggi emanate a riparo degliabusi invalsi negli incendi, che si destanonelle montagne, e nelle pianure per aprire allavoro nuove terre, e per procurare al bestia-me un anticipato pascolo non sono state suf-ficienti a prevenire, e scansare i danni gra-vissimi, che ne ridondano al Pubblico, ed aiparticolari col devastamento delle selve edabbruciamento degli alberi fruttiferi, e dellechiusure...», Vittorio Emanuele I, col RegioEditto riguardante gli incendi del 22.7.1806,oltre a reiterare le norme prammaticali giàricordate, introdusse due importanti novitàcirca il divieto di metter fuoco nelle terre nelperiodo estivo e prima dell’ 8 settembre:- la perdita, a carico del contravventore, del-

la superficie coltivata e del suo prodotto, afavore del Monte Granatico;

- l’obbligo di munirsi di apposita autorizza-zione del Giudice del luogo per impiegareil fuoco dopo l’8 settembre.

Sancì inoltre il divieto di pascolo per un an-no sui terreni bruciati in violazione di legge,sotto pena di sei scudi per ogni capo di be-stiame.«Ordinazioni si bandirono, sí per puniregl’incendi nelle montagne e nelle pianurecon danno enorme delle selve...opera per lopiù di pastori intesi a pascoli abbondevoli edantecipati nell’autunno...» scriveva in pro-posito P. Martini. 38

Ma né queste ordinazioni sabaude, né quellespagnole, come neppure, d’altra parte, tuttele norme che si sono succedute in materia,riuscirono mai a sradicare il secolare depre-cabile impiego del fuoco come strumentocolturale o di offesa, proprio, se non esclusi-vo, del mondo rurale sardo: le distruzioni e ilutti frequenti che tuttora si verificano inSardegna ne danno una chiara conferma.Neppure il Codice di Carlo Felice (Leggi ci-vili e criminali del Regno di Sardegna) che,

reiterando un disposto prammaticale, preve-deva la pena di morte per chiunque avesseappiccato dolosamente il fuoco a case, ma-gazzini od altri edifici entro o contigui al po-polato (art. 1958) o a case o capanne abitate(art. 1959), e la galera a tempo a chi volon-tariamente avesse incendiato piante in piedio atterrate e a legne e legnami ammassati oin catasta, nonché a vigne, oliveti e coltivi.

La pena della galera a tempo fu prevista an-che per coloro che avessero fatto ricorso al-l’uso del fuoco, per motivi colturali, primadell’otto di settembre (art. 1962), pena tra-mutata successivamente nel carcere. 39

Non mancarono nel tempo sanzioni esem-plari: Girolamo Serra di Nurri fu condanna-to il 2 settembre 1832 a tre anni di galera ol-tre alla rifusione dei danni, valutati in soldi7 e danari 6, per aver appiccato fuoco allestoppie su un terreno in località Sa perda desa furca, «...onde prepararlo al futuro semi-nerio...», in quanto il fuoco, «...avendosi di-latato danneggiò le siepi dei possessori cir-convicini...» 40

.

Tuttavia le sanzioni amministrative o le con-danne penali non sortirono l’effetto di conte-nere il fenomeno, ancora acuto e rilevantenel 1840.È di quell’anno infatti il Pregone del vicerèDe Asarta 41 che richiama le precedenti di-sposizioni contenute negli artt. 1962, 1963,1964 e 1965 del Codice Feliciano del 1828:«Essendo stati informati dei gravissimi dan-ni che vengono ogni anno cagionati nel Re-gno per la trascuratezza degli agricoltori del-le prescritte cautele, e pel riprovevole usoinvalso nella classe dei pastori, contro l’e-spresso divieto delle leggi, di appicciar ilfuoco nell’estiva stagione... volendo Noiporre un argine alle funeste conseguenze...sono per lo passato e massime nell’annoscorso, derivate, distruggendosi con fre-quenti incendi, a danno del Pubblico, e deiprivati, non solo gli attuali, ed innumerevoli

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vantaggi che ritrar si possono dai legnamisia per l’economia domestica, che per l’in-dustria e pel commercio, ma ben anco le fon-date speranze delle future generazioni, dicui l’attuale è depositaria e custode...».

E di qualche anno appresso la Circolare delVicerè G. De Launay ai Giudici di Manda-mento 42 perché vigilassero più attentamentee richiamassero a una più puntuale attenzio-ne verso il problema degli incendi e la tute-la delle aree boschive, sia i Ministri di Giu-stizia, sia le autorità locali, e perché mettes-sero ogni cura nel perseguimento degli in-cendiari.Le note del Casalis- Angius sui boschi deidiversi villaggi della Sardegna, riportanocon martellante monotonia, tra le cause del-la distruzione di questa o quella foresta, odello stato spesso miserevole dei soprassuo-li boschivi, gli incendi, appunto.E mirabilmente, nello stesso testo, a propo-sito dello stato delle foreste sarde e della lo-ro distruzione ascrivibile in buona parte aipastori e agli incendi da essi appiccati, vienedetto:«...in sul finir della state, quando soglionoabbrustolar i cespugli delle lande per averdal ceppo vigorosi germogli dopo le brama-te piogge autunnali, o propagano per mali-gnità l’incendio nelle prossime selve, o nonusano le convenienti precauzioni contro ilprogresso delle fiamme».«Ned è caso raro la combustione delle fore-ste, perché non passa anno che se ne abbianoa deplorare non pochi, e accade sovente chel’ardore del sollione sia per molti giorni fattopiù cocente da questi spaventosi fuochi». A proposito di un terribile incendio svilup-patosi nella Nurra nel luglio del 1839, l’An-gius (Casalis-Angius, voce Logudoro) lo de-scrisse così:«Nel luglio di quest’anno suscitatosi nellaNurra un violentissimo incendio si stendevaserpeggiando col favore de’ venti sopra mol-te miglia quadrate, e con orribili fiamme

struggea i foltissimi boschi dell’Argentiera,e inceneriva poco men che tre milioni digrandi lecci e un milione di annosissimi uli-vastri. L’infiammamento durò circa due set-timane, e per tanto tempo soffrì Sassari uncalore infernale. Il fuoco fu per malignità,ma senza intenzione di cotanto effetto, ap-piccato a una catasta che tenea pronta un mi-serabile per incarbonarla».E sugli incendi che costantemente dilagava-no nelle campagne :«Per simili disastri accadde che le selvoseregioni dell’isola siano state sgombrate ingran parte, e che al presente in pochi luoghivedasi una vegetazione prospera». Anche il Lamarmora testimoniò più voltesul fenomeno, attribuendolo ai «...pastori dicapre, i quali da tempo immemorabile, neimesi d’estate, appiccano il fuoco alle bosca-glie per farvi spuntare qualche nuovo talloonde dar nutrimento al loro gregge. È cosarara che il fuoco appiccato a tal fine agli ar-busti di un certo luogo, anche ristretto, pos-sa essere circoscritto nei limiti dell’area chesi vuole incendiare; epperciò accade quasisempre che questi incendii si estendano e sipropaghino ai luoghi vicini. Si veggono al-lora spazii estesi per molte leghe, montagneintiere, vaste foreste...diventare in poche orepreda alle fiamme». E riferì come nel 1828, «...avendo io fattouna corsa sino al Gennargentu..pei lavoriche facevo attorno alla mia carta, dovettipassare la notte del 5 al 6 di quel mese...lanotte era serena...vidi non meno di 38 luoghidiversi andar divorati dalle fiamme, fra iquali più di una foresta...»43

.

Camba e Coll., in «La criminalità rurale inSardegna», Rivista sarda di criminologia, IV(anno 1968), fasc. 1, ha messo in luce l’esi-stenza di 116 processi di incendio per il pe-riodo 1801-1830, tratti da cause criminalidella R. Udienza.La Repetto 44 riferisce che dallo spoglio del-le Cause Criminali del R. Demanio emergo-

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no 20 processi di incendio, dei quali 17agro-pastorali, compresi tra il 1782 e il1824. Ma lo stato precario di conservazionedei documenti fa ritenere all’autrice che ilnumero riscontrato sia verosimilmente unaparte minima rispetto all’effettiva casistica.Quanto alle cause determinanti di questi in-cendi, dagli atti processuali si evince che lamaggior parte di quelli agro-pastorali a dan-no del demanio regio furono dovuti:- per uso di seminerio, che com’è notto

(sic!), riesce più fertile nei terreni incen-diati (ASC, R. Dem. - Cause Crim., V.1137);

- per narbonare..il terreno ad uso del semi-nerio (V. 1116);

- appostatamente nelle terre sgherbite perlavorare (V. 731);

- come qui (S. Lussurgiu) è solito farsi, pre-parare al seminerio (V. 1475);

- ai pastori per profittare il bestiame lorodella pastura dell’erba, che più abbon-dantemente nascerebbe doppo (sic!) in-cendiata la montagna (V. 1137);

- per approfittare della pastura dei freschi eteneri germogli che sogliono dopo a pocotempo dalle rispettive radici germogliaredei freschi e teneri ramoscelli, che servo-no di buon pascolo ed alimento (V. 577).

Tra la documentazione archivistica pervenu-taci sugli incendi di cui sopra, particolareevidenza assumono i territori dei Comuni diAbbasanta e di Santulussurgiu: sul primoesistono gli atti istruttori di ben sette incen-di dal 1802 al 1817; sul secondo, le inchie-ste condotte su tre incendi, una del 1823 edue del 1824.Ad Abbasanta l’area colpita fu soprattuttoquella demaniale denominata montagna diAbbasanta, facente parte del feudo regioParte Ozier, classificata all’epoca, con ter-mine spagnolo, bellotal, corrispondente alsabaudo ghiandifero, ossia bosco di quercericco di ghiande.

Il primo incendio della serie si verificò il 13agosto del 1802 in località Su Bighinzu e In-tra accorru, dalle quali si estese poi ai sitidenominati Tanqueta e sardighinas, interes-sando diverse piante di roble(rovere) e di al-cornoque (sughera).L’inchiesta non appurò le effettive responsa-bilità dei tre sospettati, Pala Corona Sisin-nio, Joseph Serra e Joseph Tore, che, a dettadel testimone Juan Sanna, di Francesco, dianni 24, da Abbasanta, venivano pubblica-mente additati come responsabili: «..he oìdodezir publicamente...haver puesto el fue-go...».Più produttivi furono invece gli accertamen-ti condotti per appurare le responsabilità didue incendi verificatisi nel 1816 ad opera diGraziano Puddu, Bonaventura Sias, Giusep-pe Schirra Oppo, Palmerio Mureddu, GioStefano Zecchinu e Gio Bachisio Dessì, in-cendi originatisi da fuochi colturali non au-torizzati.A risultati positivi pervennero anche gli ac-certamenti condotti su un incendio dolososviluppatosi il 9 settembre 1817, tra le 9 e le10 del mattino. 46

Il responsabile fu identificato in Gio Bachi-sio Dessì grazie alla testimonianza di Simo-ne Arca Cherchi di Abbasanta, di anni 22.Dal relativo verbale d’interrogatorio delCherchi il Dessì «...accese fuoco medianteun acciajo e pietra fuocaja ad una macchia disovero, ed altra legna, che tagliato in un trat-to di terreno che il medesimo avea prapara-to per il seminerio; quel fuoco appena acce-so s’incaminò per gli alberi giandiferi sen-zacché il medesimo Dessì siasi curato di fa-re degli sforzi possibili onde poterlo smor-zare....».Poi il Dessì «...poco curandosi delle mieproteste se ne partì senza aver spento dettofuoco, quale appiccandosi d’un’albero al-l’altro, cagionò un grandissimo danno, chesi sparse per tutto quel distretto....».Ma l’incendiario agì anche il giorno appres-so, a detta del testimone che stavolta era in

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compagnia di altre persone, in località Mat-ta Niedda, limitrofa a Mura Crabina: qui ap-piccò un incendio e poi non riuscì a domar-lo, ed allora «...se ne andiede disperato co-noscendo in se stesso il tanto e male cheavea fatto nel mettere fuoco solo e senza ve-runa assistenza in una stagione così critica; enoi dopo essere stati per molte ore combat-tendo...vedendo che erano inutili tutti i no-stri sforzi...lo lasciammo andare a suo talen-to...che restò per tutto quel giorno caminan-do alla libera, fintantoché si smorzò da sesolo.....».Nello stesso anno si sviluppò anche un altroincendio che interessò diverse località diAbbasanta: Perda carpida(?), Mura surgia-gas, Sarraighinas, Brunellu, Sos noos, Subau de sa figu niedda, Bau de nughe, Su cra-stu de sa rughe, Bantine, Procargios, Su lit-tu, S’argiola de su pranu, fino al ponte diBonorchis.I periti accertarono che anche questo incen-dio era d’origine dolosa:«...d’esser detto fuoco messo apostatamenteper mano altrui, giacché in molti alberi al-l’intorno di questi abbiamo trovato della le-gna secca fatta a mucchio, acciocché ab-brucciando questa, s’attaccasse in seguito ilfuoco a detti alberi....».

Le norme dell’epoca prevedevano ancoral’applicazione dell’istituto dell’incarica, giàricordato più sopra, che sanciva la responsa-bilità collettiva dell’intera comunità qualoral’autore del danno fosse rimasto sconosciu-to, e ciò facilitò di certo l’identificazione dialcuni dei responsabili degli incendi.Sebastiano Usai, pubblico banditore di Ab-basanta, dichiarò a verbale 47 che il giorno 18settembre 1817 aveva rotto il bando «...intutti i luoghi e modi soliti del villaggio diAbbasanta a voce alta, ed intellegibile, ed asuono di tamburo, dando ad intendere a tuttiquelli abitanti che... nel preciso e perentoriotermine di giorni quindici... abbiano di pro-muovere ad arrestare l’autore, od autori...ab-

biano messo a maleficio della Reale Monta-gna ghiandifera di Abbasanta, con aver ca-gionato il medesimo un eccessivo danno ne-gli alberi, sotto pena, che trascorrendo dettotermine senza aver pronto, ed arrestato gliautori, si vedranno detti abitanti incorsi nel-la pena dell’incarica.....».

Parte degli incendi erano dovuti a cause dif-ferenti da quelle colturali. Erano espressio-ne del malessere del mondo rurale avversoquesta o quella modifica legislativa sovver-tente secolari e consolidati diritti o suppostidiritti.Ne sono un esempio gli effetti dell’Edittodelle chiudende, le ripercussioni che si eb-bero a seguito delle tagliate operate sui bo-schi di roverella negli anni Trenta e Quaran-ta, ed infine le reazioni che si verificarononel mondo rurale in conseguenza dei muta-menti nell’assetto proprietario intervenutidopo la metà del XIX secolo.

La legge sulle chiudende del 1820

L’Editto Regio 6 ottobre 1820, noto comel’Editto delle chiudende, rappresentò un fat-tore di turbamento nell’equilibrio del mondorurale, ed ebbe riflessi negativi sulla coper-tura forestale.Prevedeva la facoltà, per chi fosse titolare diproprietà perfette, di chiuderle; e identica fa-coltà, subordinata però ad espressa autoriz-zazione, ai titolari di proprietà gravate daservitù di ademprivio. Essa mirava alla formazione della proprietàperfetta, strumento ritenuto indispensabileper favorire lo sviluppo dell’agricoltura nel-l’Isola.Se il fine fu lodevole, non altrettanto lo ful’applicazione pratica della norma, che ebbeeffetti devastanti in molte campagne.Le concessioni di terreno da destinare a col-tivazioni specializzate, oliveti, vigne , cerea-li, o a pascolo, dovevano essere di superficie

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limitata, 15-20-30-70 starelli (da 6 a 28 etta-ri), e venivano accordate con la clausola chefossero lasciate libere alcune aree di uso co-mune: la strada per il passaggio del bestiamerude, quella per il passaggio del bestiamedomestico e dei carri, il pubblico abbevera-toio e la vicina fonte perenne.In realtà poi le cose andarono diversamentee si verificarono tanti abusi: furono recintateanche superfici considerevoli, con o senza l’autorizzazione prescritta, inglobati abbeve-ratoi e strade, sottratti all’uso comunitariopreziosi pascoli ghiandiferi, e ciò finì per ge-nerare molti disordini tra la popolazione ru-rale povera e già esasperata dalle angheriebaronali.Il Rettore teologo Salvatore Satta di Bono eun certo Don Raimondo Angioi, per esem-pio, incorporarono in altre loro tanche su-perfici appartenenti al prato siddu, destinatoal pascolo comune del bestiame domito, uni-tamente a una strada pubblica e a un abbe-veratoio, incuranti dei richiami del Comunee «..con pregiudizio di tutta quanta la popo-lazione..».A Ghilarza furono recintate gran parte delleterre comunali ove si esercitava il pascolo eove la popolazione era solita procurarsi lalegna per gli usi correnti. Come conseguen-za gli abitanti si videro privati del diritto di«legnare» e di pascolare, con conseguentemoria di bestiame.

A Cossoine, nella tenuta comunale Su mon-te, dalla quale si traeva la legna da ardere eda opera, diversi, nottetempo, recintaronoalcune zone in località «Su padru de siddu»e incuranti dei richiami ufficiali, le destina-rono a vigneti. 50

Il podatario generale del Ducato di Mandasprocedette invece a «..una vastissima con-cessione di terreni non minore di starelli cin-quecento situati tra i limiti di S. Basilio eSant’Andrea in favore del Sig. ComandanteVirdis» e si trattava di terreni in cui esiste-

vano diritti di pascolo e di legnatico in favo-re di tutti i villaggi della Trexenta, compren-denti soprassuoli ghiandiferi ed abbeveratoi.

In qualche provincia, come quella di Alghe-ro, il fenomeno fu limitato per l’opposizionedei baroni che ritenevano, a torto, di essereproprietari dei feudi, e furono recintate qua-si esclusivamente aree comunali, ma an-ch’esse tra le mille difficoltà interposte daifeudatari.Al dicembre 1832, in questa provincia, ri-sultavano recintati a siepe, a fosso, o a murocarbaro, solo 3.758 starelli, contro ben195.094 ancora aperti e recintabili.In quella di Nuoro invece, al giugno del1831, risultavano formati già n. 879 chiusiper un totale di 45.391 starelli cagliaritani 52

contro un’estensione di pascoli pubblici e diterreni aperti di starelli cagliaritani214.560. 53

I prinzipales, i notabili dei singoli villaggi,le persone benestanti «..le quali ad altro nonpensano che a chiudere terreni per usurparnedalla Comunità e far necessitare l’abbeve-raggio del bestiame nei fiumi, con il qualmezzo nell’invernale stagione e nella prima-vera si fanno pagare a caro prezzo dai pasto-ri il pascolo» 54 approfittarono dell’Edittoper impadronirsi di vaste terre d’uso comu-ne e questo sfociò in disordini, devastazionied incendi, molti dei quali riguardarono areeboscate.La privatizzazione delle terre fu quasi inav-vertita nelle aree di pianura ed in quelle aprevalente coltura agraria, ove l’evoluzoneverso la proprietà perfetta era avvenuta neltempo, e nella Gallura, ove la colonizzazio-ne delle campagne con la formazione deglistazzi da una parte, e l’appropriazione gra-duale di vaste estensioni di uso comune dal-l’altra, trovò una situazione di fatto in granparte già evoluta verso la proprietà privata.Fu invece traumatica nelle zone a prevalen-te economia pastorale, ove i terreni lontani

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dai centri abitati erano, di fatto o di diritto, diuso comune.Per questo motivo la protesta fu molto acce-sa specie nelle province di Nuoro e Ozieri,ma anche in quelle di Iglesias e Cagliari, ovele superfici forestali sottratte all’uso comunein forza di questa legge, incisero sulla dispo-nibilità – se non a prezzi esosi – dei pascoli,ed anche delle ghiande occorrenti per l’alle-vamento dei maiali domestici e determinaro-no, in qualche caso , una riduzione di dueterzi del loro numero. 55

L’esasperazione delle popolazioni portò alleprime demolizioni delle chiudende erette su-bito dopo l’Editto, sia a Bono che a Pattada.Ma il fenomeno continuò per anni e si acuìnel 1832, anno in cui assunse particolare ri-levanza e interessò l’ordine pubblico.I disordini iniziarono a Gavoi, «che fu il pri-mo a demolire i chiusi e così dare l’esempioagli altri», poi si propagarono a Mamoiada,a Benetutti e a Nule.Vi furono numerosi incendi e demolizionianche a Nuoro, Ozieri, Fonni, Oliena, Bitti,Orotelli, ed alcuni incendi su boschi ghian-diferi ad Arbus e a Pula.I protestatari, cui si unirono anche facinoro-si e malavitosi che colsero l’occasione percommettere ogni sorta di delitti, omicidicompresi, e coloro che profittavano dellecircostanze per regolare ruggini antiche, riu-niti in quadriglie di 200-300 armati e a ca-vallo, percorsero le campagne distruggendochiudende e appiccando incendi.Né il fenomeno cessò col Pregone viceregiodel 21.8.1832 che impose lo scioglimentodelle quadriglie, perché queste continuaronoper un certo tempo, e «..gli autori dei disor-dini non si contentarono di demolire le chiu-sure illegali, ma non ne risparmiarono alcu-na». 56

Vi furono, come si è accennato, diversi de-vastanti incendi: a Pattada, per esempio,«..che si estese in territorio di Ozieri e vi ca-

gionò il danno di scudi tremila», e a Bene-tutti:«..Ma l’incendio più grave si è quello che siappicciò nel territorio di Benetutti nel gior-no stesso in cui era stato pubblicato il Pre-gone e che dopo sei giorni e sei notti nonerasi ancora riusciti a spegnerlo ed andavatuttavia serpeggiando per la montagna, ca-gionandosi un guasto ed una distruzione in-descrivibile..» 57 e, secondo un’altra testimo-nianza: «..si vidde nello stesso giorno ed intutta la vasta estensione dei salti di quel vil-laggio improvvisamente acceso da varie par-ti un grand’incendio che col favore del ven-to che soffiava dovette immediatamente im-perversare attraverso d’un gran numero ditanche che dovette incenerirne il pascolo efieno che ivi si rinchiudeva..».L’incendio distrusse prati e vigne e poiavanzò verso il villaggio di Benetutti «..cheper miracolo non s’introdusse dentro».E «..Lo stesso fuoco è andato serpeggiandonei successivi giorni in quei salti e continuòa devastare un gran numero di tanche e unavasta estensione di ghiandifero».In una nota del 29.9.1832 (ASC, Segr. diStato, serie II, V.1618) il Maggiore Cottalor-da, comandante dei Carabinieri Reali, fece ilpunto della situazione, riferendo come aFonni, villaggio che «..partorisce uomininon ad altro dati se non al maleficio, alla ra-pina e ai delitti», gli abitanti «..non contentidi devastare i chiusi vi appiccarono pure ilfuoco»; come a Ozieri e Pattada vi fosserostati incendi; come «..peggiori sono i sacer-doti, come sarebbero il Reverendo vicarioPietro Mattu, Preti Loi, Dejana, che...ad al-tro non tendono le loro mire, che a crescerei loro beni..»; come i disordini si fosseroestesi a Oliena e Bitti; come il più perfido sifosse dimostrato il Rettore di Benetutti, cheaveva incitato dal pulpito ai disordini e«..l’incendio appiccato nelle tanche si inol-trò fino a incenerire le vigne, i possessi, edarrivò al cimitero e poco mancò che gli abi-tanti stessi ne restassero vittima..».

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In un rapporto del settembre 1832, si detta-gliarono alcuni altri incendi verificatisi inquel mese:- la notte del 5, a Fonni, fu incendiata la tan-

ca dello speziale Loi;- la notte dell’8 in Fonni appiccarono il fuo-

co al chiuso di Giovanni Marrocu e demo-lirono la tanca di Antonio Angheleddu;

- il 1° di settembre si verificarono molti in-cendi nelle campagne di Ozieri, Pattada,Buddusò, Bantine e Nughedu, con distru-zione di tanche, vigne, pascoli comunali emolti ghiandiferi;

- la sera del 2, nel territorio di Benetutti, sisvilupparono diversi incendi che invaserole campagne di Bono, Nuoro ed Orani,provocando ingenti danni;

- la mattina del 6 scoppiò un incendio nelterritorio di Bono.

Gli incendi e le demolizioni furono partico-larmente concentrati nella provincia di Nuo-ro, ma non si limitarono a quella provincia:- a Guspini il 5 settembre venne appiccato

un incendio a un ghiandifero e furono di-strutti 450 alberi;

- ad Arbus «furono gl’incendi in quest’annoscandalosissimi..»;

- a Pula, in data 6 settembre un gravissimoincendio distrusse ulivi, peri, olivastri,«..15 e più mila fascine e tante altre mac-chie». 59

Per inciso, a seguito dei disordini , furonoemesse diverse sentenze di condanne, dallapena di morte, comminata a GiampaoloMattu della quadriglia di Olzai, all’esilio inaltre contrade dell’isola: a Carloforte, a Ca-stelsardo, a Tempio e a Iglesias, cui soggiac-quero diversi sacerdoti. 60

4. Le utilizzazioni boschive tradizionali.

Nel passato la legna, utilizzata direttamenteo trasformata in carbone, rappresentava l’u-

nica fonte energetica di cui si disponeva,non essendo ancora noto né il carbone fossi-le né il petrolio.Di conseguenza costituiva un bene di prima-ria necessità sia per gli usi domestici – ri-scaldamento nel periodo freddo e usi di cu-cina, tanto nei villaggi rurali che nei centriurbani maggiori – sia per alcune attività pro-duttive – fonderie, vetrerie, fabbricazione dicalce ecc...–Anche il legname da opera era ritenuto pre-zioso, perché veniva utilizzato per l’espleta-mento dell’attività agricola – scale per carri,gioghi, aratri, paleria, manici ecc.– e per lacostruzione di fabbricati – solai, travature,orditure di tetti e simili.

a) Il legname da opera e la legna da ardere eda carbone.

Gli atti di infeudazione e le concessioni didiversa natura riconobbero la primaria im-portanza di questo bene ed ai vassalli fusempre concesso il diritto di legnatico in mi-sura corrispondente al loro fabbisogno:«...In qualunque dei suddivisati boschi, eselve, chiunque dei vassalli per gli usi proprio casaleschi per fabbriche, per istrumentiaratori, per abbrucciare, e per qualsivogliaaltro uso, può tagliare il bosco che gli abbi-sogna, purché non tagli la pianta dalla ca-spa» e molti villaggi ebbero a disposizionedei salti, terreni boscati «..specialmente de-stinati per farvi legna i pubblici».Non si può però parlare di vere utilizzazioniboschive, di tagliate regolari e consistenti,ma solo di prelievi limitati in genere al sod-disfacimento delle necessità della singola fa-miglia, di modeste quantità reperibili con laraccolta della ramaglia o delle piante schian-tate dal vento o di quelle comunque secchee, talvolta, dall’estrazione dei ciocchi di eri-ca, corbezzolo, lentisco e fillirea ricavabilianche dalla messa a coltura di aree forestali.Il taglio propriamente detto, per rifornirsi dilegna da ardere o per produrre carbone, ve-

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niva praticato solo sui cedui, formati quasiesclusivamente da specie arbustive dellamacchia mediterranea e non potevano inte-ressare le piante d’alto fusto.Le norme prammaticali vietavano infatti,come si è visto, l’abbattimento di quelle, sal-vo deroghe speciali.

La risorsa legno era stata considerata sempretanto preziosa, che se ne era fatto oggetto diparticolari favori a vantaggio di questa oquella città, da parte di diversi sovrani ara-gonesi.Così per esempio la città di Cagliari già dal1360, in virtù di uno speciale privilegio con-cessole dal Re Don Pietro D’Aragona, aconferma di analoghi atti risalenti al 1327 edal 1331, poteva, senza pagamento e senza li-cenza alcuna, tagliare ovunque e far tagliareil boscame e la legna necessaria per gli usidei suoi abitanti.. Privilegio confermato dalSupremo Magistrato con atto del 26 aprile1777, in base al quale la Capitale potevaesercitare detto diritto nei territori del Mar-chesato di Quirra e nei salti dei villaggi diSarroch, Maddalena, Osaraba e Pedrasal. Il Marchesato di Quirra era vastissimo: com-prendeva le Baronie di S. Michele, di Pula edi Uras, il Dipartimento di Monreale, quellodi Ogliastra e quello del Sarrabus, e abbrac-ciava le Incontrade Partemontis, Parteusel-lus e Marmilla. E Cagliari esercitava in pieno il diritto ricor-rendo ai boschi presenti nei territori di Uta,Assemini, Capoterra, Sarroch e Villa S. Pie-tro, Pula, Domusdemaria, S. Giovanni di Pu-la, Teulada, Villaputzu, Muravera e S. Vito.Da queste contrade prelevava legna da arde-re e da opera ma anche fascine di erica e dialtre specie arbustive per alimentare forni efornaci.E in queste contrade si carbonizzava perrifornire la capitale del carbone occorrente.Analogo privilegio aveva la città di Sassari –se pure limitato al territorio compreso in una

circonferenza di 30 miglia – in forza del Di-ploma del Re Alfonso D’Aragona del16.1.1427, confermato con sentenza dellaReale Udienza del 30 marzo 1729, fino aiterritori delle Baronie di Ittiri e di Uri e delContado di S. Giorgio.Anche Alghero era accomunata a Sassari inquesto speciale favore reale, ma essa solita-mente si provvedeva di legna nell’ambitodei propri territori ed in quelli appartenentiai feudi di Valverde e di Monteleone.Oristano, oltre che dai propri territori, pote-va trarre legna dai villaggi del Campidano.Iglesias invece si provvedeva dalle monta-gne del Marganai e dai salti di S. Marco, og-gi quasi interamente spogli di vegetazionearborea ed arbustiva, ma ieri tanto ricchi daconsentire anche ai non residenti, dietro pa-gamento di mezzo scudo, di procurarsi la le-gna occorrente utilizzando qualunque essen-za, col divieto però di abbattere alberi ghian-diferi.Ancora altre due città reali godevano di que-sti speciali diritti: Castelsardo e Bosa. La prima poteva utilizzare, oltre che i boschie le ricche selve presenti sul proprio territo-rio, le estese foreste dei salti di Coghinas perprocurarsi il legname da costruzione. La seconda ricorreva alla campagne circo-stanti l’abitato ma si avvantaggiava anchedel diritto di legnatico nei territori di Villa-nova e di Montresta che dipendeva da essa.Si è già detto che da buona parte dei boschii rispettivi possessori non ritraevano redditialtro che in funzione del pascolo su di essiesercitabile e che il prelievo di legname daopera era limitato e circoscritto in quantodifficoltà di vario genere e alti costi di tra-sporto della materia prima, rappresentavanogrosse remore al suo proficuo utilizzo.Nel XIV secolo ad esempio, «..la produzio-ne sarda di legname grosso, pur rilevante incerte contrade dell’isola, come l’Ogliastraon se bosca la fusta, dalla quale si rifornivail mercato cagliaritano, almeno in quegli an-

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ni risultava in gran parte indisponibile per ledifficoltà delle comunicazioni create dallostato di guerra». 62

Per l’una o per l’altra causa comunque i pre-lievi di massa legnosa erano sostanzialmentelimitati a quelli necessari per soddisfare lenecessità primarie delle popolazioni, in gene-re modesti e di certo inferiori agli incremen-ti legnosi dei boschi, salvo che nelle areeprossime ai centri urbani maggiori.Solo per boschi e boscaglie più prossimi aivillaggi si può parlare di utilizzazioni inten-sive in termini essenzialmente di prelievo dilegna da ardere e di legname per usi casale-schi occorrenti agli abitanti e rientranti nel-l’antico diritto di legnatico. Anche i boschi più vicini alle coste venivanointeressati da tagli frequenti, per fornire assor-timenti di una certa grandezza, o legna da ar-dere o carbone, da trasportare poi via mare su-perando distanze altrimenti impossibili.Così i boschi che ricoprivano i versantiorientali del massiccio dei Settefratelli, era-no assoggettati a periodici tagli ed il prodot-to veniva imbarcato sulla spiaggia di CapoCarbonara e raggiungeva Cagliari.Sempre via mare, alla capitale dell’isola con-fluivano legna e carbone ricavati dalle fore-ste di Sarroch, di S. Pietro di Pula, di Capo-terra e di Assemini, attraverso la spiaggia diLa Maddalena, e di Domusdemaria e Teula-da, attraverso il porticciolo di quest’ultimovillaggio.In termini di massa legnosa i prelievi effet-tuati dalle popolazioni rurali che insistevanosu aree boscate dell’interno dell’isola, e re-lativi al soddisfacimento dei bisogni dome-stici, all’approntamento degli attrezzi da la-voro e al prelievo di travature e tavolame perle costruzioni, potevano considerarsi sostan-zialmente modesti, tenuto conto della scar-sità di popolazione.Tuttavia, in determinate località, ove oltrealle necessità delle comunità più vicine, siallestiva legna e carbone per rifornirne i vil-

laggi e i paesi sprovvisti di aree boscate, po-teva verificarsi un prelievo superiore agli in-crementi e quindi dar luogo, alla lunga, a undepauperamento del capitale forestale o auna progressiva scomparsa della coperturaboschiva.Nelle aree di pianura e di bassa collina, pri-vate ormai da tempo di zone boscate, le po-polazioni si avvalevano, per il riscaldamentoe la cottura dei cibi, delle residue specie ar-bustive della macchia, del cisto, del lentisco,del mirto e dei ginepri, e talvolta, in mancan-za anche di queste formazioni vegetali, dellosterco degli animali domestici.La maggior parte dei villaggi situati in que-ste zone, già alla fine del XVIII secolo, fa-cevano ormai ricorso sempre più spesso al-l’acquisto dall’esterno di carbone e legna.

Delle diverse specie arboree ed arbustiveche compongono la ricca flora sarda, tuttetrovavano utili impieghi e diversificati uti-lizzi in funzione delle caratteristiche tecno-logiche dei rispettivi legni.Si trattava in larga misura di impieghi limi-tati alle necessità familiari o della comunitàalla quale apparteneva questo o quell’arti-giano, sebbene non mancassero i casi di al-cuni centri ove si era consolidata una certaspecialistica maestria e ove venivano allesti-ti, per essere esportati in tutta l’isola, deter-minati attrezzi ed utensili in legno ed anchemobili. A Cagliari ad esempio esistevano bravi arti-giani che si distinguevano nella costruzionedi mobili anche pregevoli; a Sassari e Santu-lussurgiu si ricorreva per l’allestimento dicarri, carrettoni e aratri; a Tempio e Aritzoper il tavolame e le travi da costruzione.Nell’insieme però gli impieghi del legnameda opera ricavato in loco era modesto anchenelle città, in parte perché non erano del tut-to conosciute ancora le pregevoli qualità dialcuni legni, ed in parte perché la nobiltà e laborghesia preferivano importare i mobili da-gli stati di terraferma.

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Ma l’ostacolo maggiore all’utilizzo del pro-dotto locale era rappresentato dalle difficoltàe dai costi di trasporto notevoli dalle zoneboscate a quelle di impiego.

In un manoscritto anonimo databile intornoalla metà del ’700 intitolato Riflessioni in-torno all’isola di Sardegna 63 già citato inprecedenza, ci si sofferma sulle difficoltà «...per cavare da valloni il Legname, per esserequesti inaccessibili, a qualunque genere ditrasporto, per la mancanza di strade, e sen-tieri, sarebbe impossibile il poterlo trasferiresino ai luoghi destinati...» e si propone il tra-sporto fluviale previo accatastamento dellamateria prima lungo le sponde in attesa del-le piogge invernali.Una soluzione analoga propose GiovanniMaria Mameli 64 per utilizzare proficuamen-te le «... vastissime selve, boschi e macchie,che in gran numero sparse qua e là vi si tro-vano...» e per sopperire alla scarsità di legnada ardere nella Capitale e nelle altre città,«...accaduto a forza di scegliere ne’ boschi enelle macchie, che aveva vicine gli alberi, ei frutici fin dalle radici, a dispetto delle prov-vide disposizioni delle leggi, e senza darsipensiero dell’avvenire, e per causa dell’in-soffribile licenza dei Pastori e degli Agricol-tori che incendiano ogni anno vasti tratti diterreno e distrugge appena nati i germoglidelle radici sfuggite al zappone dell’avaroBoscajuolo, gli uni per procurarsi più ab-bondanti pascoli, e gli altri per estendere illoro seminerio oltre il bisogno».A conferma della precarietà della rete viariaisolana, il Loddo Canepa, nel suo commen-to introduttivo alla relazione sulla visita ef-fettuata dal Viceré Des Hayes nei diversi Co-muni dell’isola nel 1770, così si esprimeva:«Era secolare nell’isola..la piaga delle catti-ve e scarse comunicazioni che si ripercuote-va così sinistramente negli scambi dei pro-dotti isolando dal consorzio umano non po-chi comuni specie di montagna» e rilevavache la scarsità delle vie di comunicazione

era da ascriversi al malgoverno spagnolonon disposto a sacrificare allo scopo partedel donativo.«Le strade vicinali, ove c’erano, si trasfor-mavano con la pioggia in canali fangosi, ifiumi non si potevano attraversare per man-canza di ponti e dove ponti per avventura sitrovavano, erano in condizioni rovinose».Lo stesso Viceré Des Hayes sperimentò asuo danno l’impraticabilità di alcune stradee la precarietà dei guadi di alcuni torrenti do-po una pioggia. Egli dovette forzatamente,in più occasioni, rinviare la partenza di po-che ore o di qualche giorno in attesa di poterguadare senza pericolo i fiumi in piena o va-riare l’itinerario programmato, o ancora an-nullare le visite ad alcuni centri dell’isolaper l’impraticabilità delle strade e per l’in-guadabilità dei corsi d’acqua.

Nel periodo spagnolo la viabilità era statatrascurata notevolmente: oltre che una insuf-ficienza delle strade, vi era un problema ditransitabilità delle scarse vie esistenti, in ge-nerale molto precario anche a causa dellainesistenza o della inaffidabilità dei ponti, eciò aggravava notevolmente le comunica-zioni ed i trasporti.L’argomento fu quasi sempre ignorato daiParlamenti tenutisi nell’isola , salvo in qual-cuno di essi:- Nel Parlamento di don Antonio de Cardo-

na (1543) si fa esplicito riferimento allostato dei ponti nei fiumi maggiori, con larichiesta di poter provvedere alla loro ripa-razione con denari del parlamento.

- Nel Parlamento presieduto dal Vicerè Gio-vanni Coloma (1572-74), la città di Sassa-ri che mal tollerava che le massime auto-rità dell’isola risiedessero a Cagliari, ad-duceva a motivazione della proposta dispostare nel Logudoro una giurisdizioned’appello la mancanza di ponti che nel pe-riodo invernale rendevano malagevoleraggiungere la Capitale.

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- Nello stesso Parlamento del 1572-74, lacittà di Bosa richiese il restauro del pontesul Temo poiché molte persone perivanomentre guadavano il fiume.

- Nel Parlamento del Vicerè Antonio Colo-ma conte di Elda (1603) si sollecitava il re-stauro dei ponti e delle strade maggiori e sirichiedeva che i baroni riparassero le stra-de dei rispettivi territori.

- Nel Parlamento del Duca di Gandia donCarlo Borgia conte d’Oliva (1612-1614) sirichiedeva che per far fronte alle pessimecondizioni della viabilità dell’isola, i vas-salli venissero comandati anche in giornifestivi a sistemare le strade per 12 giorni,dal 15 marzo al 15 giugno di ogni anno.

- Nel Parlamento ordinario di don GerolamoPimentel marchese di Bajona (1631-1633)fu ordinato che 25.000 scudi fossero riser-vati alla riparazione di ponti e strade e cheil Tesoriere reale tenesse separata questasomma.

A causa delle suddette difficoltà di trasporto,spesso il legname da costruzione veniva per-ciò in larga misura importato, fin da epochelontane: per la restaurazione delle torri diCagliari, avvenuta nel 1376, i 581 pezzi oc-correnti per travature, solai, soppalchi e sca-le delle otto torri furono impiegati futs diabete, futs di rovere, pino e aladern per lamaggior parte importati. Nello stesso anno furono inoltre importati n.24 trapes o travature leggere destinate allagalea reale Sent Martì e i 458 pals impiega-ti per la ricostruzione della palizzata del por-to di Cagliari, tutto materiale provenientedal loch de la Scora, de les parts de plageRomana, corrispondente al litorale di Terra-cina. 65

In altre epoche si fece ricorso ad importa-zioni dalla Spagna, come si evince dalla «Li-sta delle spese state fatte in riparazione del-l’Hospedale di S. Antonio per quanto riguar-da il coperto che minacciava rovina» del 12luglio 1742, 66 in cui insieme all’impiego di

20 travi detti scalandroni, reperiti in loco, fi-gurano anche n. 12 tavole di Barcellona.Quasi certamente d’origine locale erano in-vece i 44 tronchi di ginepro venduti il 24gennaio 1594 a Cristoforo Franco, capitanodel re, tronchi avanzati da quelli impiegatiper la costruzione della torre della Scaffa. 67

Più tardi si importò legname anche dallaSvezia e dalla Corsica 68, dalla Dalmazia edall’Albania, come ci riferisce FrancescoD’Austria-D’Este: 69

«...Ed ora avendo molti e bei boschi portanoin Sardegna e vidi io stesso scaricar navi ca-riche di legname, di travi né molto lunghi,né molto grossi ma idonei per far barche, perfar lavori di falegname ordinario, anche dilegno dolce di Malta, legno che viene dallaDalmazia ed Albania, e che si paga moltocaro...». Il Governo Sabaudo, per scoraggiare le im-portazioni e indurre gli artigiani sardi ad im-piegare il prodotto locale, impose dazi doga-nali esorbitanti sui legnami e lavori in legnoche venivano colpiti in ragione del loro pe-so.Sui mobili gravava ad esempio una tariffa, asecondo della loro qualità, da £ 48 a £ 96 ilquintale.Ma da una nota del Ministero delle Finanzedel 1820, si evince che neppure queste ecce-zionali misure ebbero effetto: «la protezionenon giovò a invogliare quei regnicoli a dedi-carcisi, giacché consta che pochi mobili sifanno e questi ancora lontani dalla perfezio-ne che si ottiene in altri paesi» 70

Allo scarso forzoso utilizzo della materiaprima localmente disponibile, si aggiungevaperciò anche una limitata capacità nel ridur-la adeguatamente in tavole – fatta qualcheeccezione per gli arizzesi ed in parte per itempiesi – e, salvo rari casi, nel lavorarla.Da diverse fonti (De Buttet 1756; Angius,1830-50; documenti d’archivio del 1845) –sappiamo infatti che venivano reclutati ta-gliatori di Lucca per ridurre i tronchi in ta-

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vole, perché in loco non erano reperibilimaestranze di adeguata professionalità.In definitiva il legname isolano trovava soloun limitato e circoscritto utilizzo, connessospecialmente ai fabbisogni domestici quoti-diani o ad altri piccoli usi, per i quali veni-vano impiegate diverse specie arboree ed ar-bustive.Dal pioppo si ricavavano per esempio so-prattutto travi, travicelli e tavole per assiti edall’ontano tavolame grossolano.Il ginepro e il tasso, dai legni molto duri eresistenti, fornivano le travi e i travicelli piùpreziosi per le capriate dei tetti e l’armaturadi solai e soffitti, ma venivano utilizzati da-gli ebanisti, unitamente al noce, anche per lacostruzione di mobili come ci ricorda l’An-gius: «...innumerevoli ginepri.....dai quali sisanno lavorare mobili di grandissimo pre-gio. Veramente per la bellezza e per la dure-volezza sorpassano le opere più stimate deltasso e del noce».Per la costruzione di carri e di tini si facevainvece ricorso al leccio e alla roverella. Le tavole di frassino trovavano impiego perfabbricare barili e utensili da cucina, mentredal salice si ottenevano i cerchi per botti, ti-ni e barili.Per la costruzione degli aratri veniva impie-gato in parte il leccio ed in parte l’olmo.Quest’ultimo forniva la materia prima ancheper le ruote dei carri e dei molini e per i fusidei torchi.Per parti di mobili e per tavolini l’olivastroera preferito ad altre essenze. Dal corbezzolo si ricavava invece la paleriae le pertiche da utilizzare come sostegni epali tutori.Il legno di fillirea, bianco, forte e pesante,veniva impiegato dai tornitori per specificiimpieghi, ma era utilizzato anche per allesti-re piccole travi rustiche.Il legno di castagno si utilizzava per la co-struzione di mobili; la radica di olivo e diolivastro per placcaggi.

La resina estratta dai pini a Fluminimaggiore,era anch’essa oggetto di commercio, e me-scolata con storace 71 veniva utilizzata comeincenso.Il legname di pino, ricavabile, oltre che daboschi esistenti a Fluminimaggiore e a Sini-scola, da pinete presenti in Gallura, venivautilizzato per parti di imbarcazioni e, ridottoin tavole, per assiti per pavimenti.Dall’ontano (Verna), si ricavavano conteni-tori di varia misura impiegati anche per laRegia Polveriera.Un impiego inusuale ebbe anche l’agrifoglio(in vernacolo alesi ed anche olostrighe) daquanto si desume da una nota concernente lacostruzione di una barca commissionata alM.tro Miguel Zuddas, barquero di Cagliari,il 10 luglio 1742 72.Si tratta di un contratto per la costruzione diun barco de la sanidad in cui la carena do-veva essere tutta di un pezzo e di legna ale-si; e sempre dello stesso legno dovevano es-sere le ruote di poppa e di proda, come purele madere e le castagnole.

Tutte le specie indistintamente venivano poiutilizzate come legna da ardere, anche seper questo uso si faceva ricorso più fre-quentemente alle essenze arbustive dellamacchia mediterranea, le stesse che in ge-nere erano ricercate per ricavarne del buoncarbone vegetale: corbezzolo, erica, fillireae lentisco. In alcuni villaggi la carbonizzazione del le-gno alimentava una fiorente attività econo-mica, come a S. Basilio, a Sinnai, a Mura-vera, a Soleminis, a Teulada, a Bantine e aLuras.Il carbone veniva prodotto di norma avva-lendosi delle specie arbustive ricordate, poi-ché era vietato, come sappiamo, il taglio del-le essenze ghiandifere e degli olivastri, salvoche non si trattasse di piante secche:«Dovranno solamente tagliarsi gli alberi nonghiandiferi......, ad eccezione di quelli che

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saranno secchi ed affatto inutili alla produ-zione...» e «...non sarà permesso di tagliarearboscelli d’elce e d’olivastro per qualunqueuso o pretesto..» 73 veniva prescritto in unaconcessione per carbonizzazione effettuatanella Nurra.

Per quello prodotto con legno di fillirea e dicorbezzolo si calcolava che 2 carbonaieequivalessero a 20 carichi da soma di carbo-ne, per produrre i quali occorrevano 60 cari-chi da soma di legno.

Il carbone più pregiato, riservato in parti-colare per le fucine e le oreficerie, si otte-neva dalla carbonizzazione dei ciocchi d’e-rica.Quelli ottenuti dal nocciolo e dall’ontanovenivano invece impiegati come componen-ti della polvere da sparo.

Elenco delle piante forestalipiù comunemente impiegatenel passato e loro uso.

Acero: Acer monspessulanum, noto comeAera, Costi, Costighe, Oladighe: il legno bianco e leggero era ricercato daitornitori e dagli intarsiatori.Agrifoglio: Ilex aquifolium, Alàse, Arangiuburdu, Olòstiu, Olòstrighe, Olostru: bacchee corteccia si impiegavano per preparare lapania per catturare gli uccelli. Il legno duroe compatto per lavori da tornio.Bagolaro: Celtis australis, Sugargia, Surza-ga, Sugraxia. Il legno compatto, duro e nera-stro veniva impiegato per costruzione di fru-ste.La corteccia per concia.Bosso: Buxus sempervirens, Bussu in ver-nacolo.Il legno durissimo e di colore giallo era im-piegato dagli stipettai, tornitori, intagliatori.Carrubo: Ceratonia siliqua, Carruba, Silim-ba, Tilimba.

Il ginepro, dal legname duro e resistente, veniva uti-lizzato in passato prevalentemente per travature del-le abitazioni, ma anche per lavori di tornio e per in-tarsio.

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I legumi venivano impiegati per alimenta-zione del bestiame; il legno, duro e venato dirosso, per lavori da intaglio; la corteccia perconcia.Castagno: Castanea sativa, Castanza.Il legno veniva impiegato per paleria, cerchi,vasi vinari e mobili. La corteccia per concia.Corbezzolo: Arbutus unedo, Olioni, Alido-ne, Lidone.I frutti, schiacciati e macerati in acqua, pro-ducevano un liquore alcoolico e buon aceto.Corteccia e foglie venivano usati per la con-cia. Il legno per carbone e per lavori al tor-nio e per paleria.Erica: Erica spp., Castannalzu, scoba, sco-va, tuvara.Dal legno si ricavava un carbone pregiatoper orafi e fabbri; dai ciocchi di ràdica sifabbricavano le pipe.Fillirea: Phillyrea spp., Aliderru, Arrideli,Littarru.Dalla carbonizzazione del legno si ricavavaun ottimo carbone.Frassino: Fraxinus spp. In vernacolo era detto Frassu, Ollastu dearrìu, Ozzastru de ribu, Linnarbu.Il legno bianco, duro e flessibile si impiega-va per stanghe di vetture, raggi di ruote e at-trezzi agricoli.Ginepro: Juniperus spp., Zinnibiri, Nìbaru,Ajacciu.Il legno, duro e resistente, veniva usato pertravi e pali, per lavori di tornio e per intarsio.Leccio: Quercus ilex, Elighe, Ilixi. Il legno bianco gialliccio, compatto, duro epesante veniva impiegato per lavori diversi,dagli attrezzi agricoli a parti di imbarcazio-ni, e per produrre carbone. Le ghiande come surrogato del caffè e peralimentazione di maiali e pecore. La cortec-cia per la concia.Lentisco: Pistacia lentiscus, Chessa, Gessamoddiccia, Lestincu, Modditza, Stincu.Dalle bacche,bollite e spremute, si ricavavaun olio pregiato, «ollu de stincu», particolar-mente adatto per illuminazione, ma anche

per condimento una volta depurato tramiteebollizione; dai rami ceste e altri lavori arti-gianali; dal legno carbone e lavori da intar-sio.Dalla incisione dei rami si otteneva un ma-stice con proprietà odontalgiche.Mirto: Myrtus communis, Murta, murtadurci.Le foglie venivano impiegate per la conciadelle pelli. Dalla distillazione dei fiori e del-le foglie si ricavava «l’acqua degli angeli».Noce: Juglans regia, Nuxi, Nughe.Il legno veniva impiegato per mobili e lavo-ri da intarsio; i frutti per consumo corrente.Nocciòlo: Corylus avellana, Lintzola, Nint-zola, Nughedda, Nuxedda.Il legno bianco, leggero e flessibile, ridottoin carbone, veniva impiegato come additivoalla polvere da sparo. La radice per lavori ditornio e per intarsi. Il frutto era consumatoabitualmente. Olivastro: Olea oleaster, Ollastu, Ozzastru,Olieddu.Il legno, duro, rosso-giallo, venato, era uti-lizzato per lavori da intarsio. Le chiome peralimento del bestiame.Olmo: Ulmus campestris, Lumu, Olamu,Olumu, Ulimu, Ulumu.Il legno, duro, pesante e di color gialliccio,con macchie bruno rossicce, veniva impie-gato per costruire pezzi di carro, pezzi dimolino e per affusti.Ontano: Alnus glutinosa, Alinu, Alnu.La corteccia veniva impiegata dai tintori, illegno per mobili ma anche per produrre car-bone pregiato utilizzato come addittivo nel-la polvere da sparo.Palma nana: Chamaerops humilis, Buatta,Parma de Santu Pedru, Prama, Pramitzu.Dalle foglie si ricavavano scope e corde; igermogli venivano consumati come ali-mento.Pino: Pinus pinea e P. pinaster; Uppinu invernacolo. Ridotto in tavole, era impiegatoprevalentemente per assiti. Se ne faceva un

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certo uso anche nella costruzione di imbar-cazioni. La resina era utilizzata per produrreuna sorta di incenso.Pioppo: Populus spp., Fustialvu, Linnarvu.Il legno veniva impiegato per travature e lacorteccia per la concia delle pelli.Quercia spinosa, Quercus coccifera, Arroi,Landiri malu, Orroi, Roi.Usato prevalentemente per legna da ardere.La corteccia delle radici si impiegava per laconcia delle pelli.Roverella: Quercus pubescens, Chercu,Crecu, Orroli, Ròvaru:Il legno duro, pesante e tenace, più resisten-te di altri, trovava impiego sia per costruzio-ni navali che portuali. La corteccia per con-cia; le ghiande e il fogliame per alimento delbestiame.Salice: Salix spp.: Sàlighe, Sàlixi, Zrappa,Sarpa.Il legno veniva impiegato per opere di tor-nio, per botti e per costruzioni leggere e dibreve durata. La corteccia trovava impiegonell’industria conciaria per la concia di cuoifini.Sughera: Quercus suber, Ortìgu, Sùara,Suergiu, Suerzu.La corteccia veniva impiegata per tappi, perla costruzione di arnie e per la copertura del-le capanne. Verso il 1835-37 cominciò ad as-sumere interesse industriale.Frutti e fogliame si utilizzavano per alimen-tazione del bestiame, il fellogeno per concia.Tasso: Taxus baccata, Eni, Linna arrùbia,Longufresu, Tassu.Il legno, durissimo e pesante, veniva impie-gato per travature.

b) La produzione di ceneri

Alcuni guasti, se pure più contenuti e circo-scritti territorialmente a una parte della pro-vincia di Nuoro e di Tempio, erano connessiall’abbattimento di piante per la produzionedi ceneri occorrenti per confezionare l’uva

passita, come ci riferisce il Casalis: «Vi so-no alcuni che per avere ceneri di legno dileccio a lissiviare le uve passe atterrano unalbero di gran prosperità». 74

La pratica era però limitata ai centri ove esi-steva una produzione tradizionale di uvapassita, come Oliena e Tempio.

Ben più incidente negativamente sui boschifu invece la produzione di cenere per potas-sa destinata all’ esportazione.Fin dal 1818 il negoziante Gian Battista Ca-sabianca di Tempio, in società con il nego-ziante Antonio Atanasio, napoletano, aveva-no ottenuto l’autorizzazione, con atto di Vit-torio Emanuele I, datato 21.1.1818, per isti-tuire nei territori della Gallura e «..presso ilPorto detto di Arzachena..» una fabbrica dipotassa.La licenza prevedeva che si facesse uso solo«....dell’arbusto, o macchia chiamata Lilla-tro, o Filaria, e che in quei territori abbondasotto il nome volgare di Litarru».Vi era contemplato anche l’utilizzo degli oli-vastri, ma limitato ai soli rami; le piante do-vevano poi essere innestate a favore dei pro-prietari, a cura del richiedente, il quale do-veva altresì concordare coi proprietari tuttala questione, in modo da poter favorire an-che la messa a coltura delle superfici di ter-reno coinvolte.A giudicare però dal commento che l’An-gius fa in proposito 75 venivano ridotti in ce-nere anche gli alberi ghiandiferi:«Per la immensa quantità di legna da fuocoavrebbe potuto la Gallura nutrire molte fab-briche di potassa: tuttavolta non ne fu isti-tuita che una sola nella regione di Cattala,vallata amenissima, coperta di lecci, varia-ta di eriche e mirti, la quale dopo non mol-to cadea per la mala fede di quelli, che tra-sportavano nel continente le botti. I gallu-resi ne risentirono grave perdita, de’ qualialcuni erano impiegati nei lavori, altri ven-

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devano il permesso di legnare ne’ loro di-stretti. Ma sopra questi ultimi non tacerò,che molti, ai quali mancavano i porci, sicredettero lecito di vendere pure la loroparte de’ ghiandiferi, i quali furono ridottiin cenere».Identico permesso di produrre potassa venneaccordato per l’isola dell’Asinara a un talenegoziante Agostino Diaz che fu autorizzatoad abbattere alberi vetusti, cespugli e frutti-ci, per favorire, anche in questo caso, la for-mazione di superfici da mettere a coltura,aree che all’epoca erano incolte e abbando-nate. 76

Le ceneri di soda e la potassa figuravanonella tabella dei diritti doganali all’esporta-zione stabiliti dal regolamento tariffario del18 maggio 1820, segno che testimonia che laproduzione di potassa era di una certa entità,tanto da essere anche esportata. 77

Altre tracce di tale attività si ritrovano nelladeliberazione del Consiglio comunale di Ta-lana del 28 aprile 1878, 78 in cui si addiven-ne alla vendita di 1000 piante di leccio neisalti comunali «Su Sterzu», «Su fronti de iscerbus» e «Su fundu de sa canna», a favoredi Antonio Carta di Fonni che intendeva pro-cedere alla cenerizzazone del legname rica-vabile.

c) La produzione di calce

L’alimentazione delle fornaci per la produ-zione di calce, comportava anch’essa un co-spicuo consumo di legna da ardere, soprat-tutto quando si cominciò a produrla per far-ne oggetto di commercio.Per tale attività venivano impiegate soprat-tutto le specie arbustive della macchia, lenti-sco, corbezzolo , erica ecc.Anche in questo caso, il taglio degli arbustie l’utilizzo come combustibile della legna edei ciocchi, si associava spesso alla trasfor-mazione dell’area forestale in area agricolao pastorale.

d) Le «scandulas»

Se pure con carattere residuale rispetto aimali antichi di cui si è trattato in preceden-za, ed anche se circoscritto al territorio diFonni, ed in parte di Desulo, tra le cause didegradazione e depauperamento dei sopras-suoli forestali, va annoverato l’impiego del-le scandulas.Erano così chiamate le tavolette di legno chevenivano impiegate per la copertura dei tettidelle case, in sostituzione delle tegole in ter-racotta che pare divenissero fragilissime alformarsi del ghiaccio, evento abbastanzafrequente nelle aree di montagna in cui i duecentri sono situati.Le scandule, già usate per altro nell’anticaRoma, secondo quanto ci riferisce Plinio, 79

erano tavolette ottenute a spacco, lunghe cir-ca 20 cm, larghe circa cm. 10 e dello spes-sore di circa cm 2,5.

L’Intendente provinciale di Nuoro, in unanota sull’argomento diretta alla Segreteria diStato (ASC, v. 1280 – Nota dell’11.1.1824),e provocata dalle proteste di innumerevolipersone e del corpo comunitativo, nel farpresente l’opportunità di favorire la costru-zione di tegole, per evitare i gravi danni che

Le scandulas, tavolette in legno grossolanamente ot-tenute per spacco, venivano usate per la coperturadei tetti a Desulo e a Fonni.La scomparsa di alcuni boschi dal territorio di que-st’ultimo centro è in parte da attribuire al grande di-spendio di legname conseguente a questo tradizionalee plurisecolare impiego.

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l’impiego delle scandulas provocava, riferi-va che Fonni è circondata da montagne e chequeste ..dacché erano zeppe di folte bosca-glie e di immensa quantità di moltissimi al-beri massime di quercia, oggi è il giorno chesi viaggia delle ore a campo raso fino allasommità delle stesse montagne.Il disboscamento era attribuibile allo .. sre-golato immenso taglio che quelli abitanti agara quotidianamente ne fanno..; aggiunge-va il funzionario che fortunatamente la mag-gior parte degli abitanti ..ne riconosce l’irre-parabile danno che va a seguire se si conti-nua nello stesso devasto per formare solo itetti delle loro abitazioni coperti di puro le-gno...che annualmente debbono quasi rin-novare.Malgrado il depauperamento dei boschi e lastessa pericolosità di questa inveterata usan-za in caso di incendio, le scandulas conti-nuarono ancora per anni a sostituire le tego-le usate altrove. In un’altra nota del 1830 infatti fu lo stessoConsiglio Comunitativo 80 a lamentare cheuna delle cause della scarsità delle piante«..è stato fin qua l’uso della legna per copri-

re i tetti, non volendosi decidere gli abitantia fabbricar le tegole».E più in là, nel 1834, fu il comandante deldistaccamento dei cavalleggeri di Fonni, 81 acomunicare che a Fonni esisteva la consue-tudine delle scandulas, tavolette di legnousate per copertura in sostituzione delle te-gole di terracotta, tegole che «nel crudo in-verno si disfanno sia per non trovarsi terraadattata, sia per imperizia», e che propose diovviare alla distruzione di alberi limitando iltaglio alle piante strettamente occorrenti perfar fronte alle necessità. Aggiunse però cheil problema della precarietà delle tegole interracotta era fittizio, perché in luoghi ugual-mente freddi quali Ollolai, Aritzo, Tonara eMeana, si impiegavano tegole tradizionaliche resistevano alla neve.Le scandulas avevano una breve durata, so-lo 1-2 anni ed era stato stimato che a Fonni,per questo uso, venivano abbattuti comples-sivamente mille alberi all’anno grossi deipiù vegeti e prosperi, calcolando che moltierano cariati all’interno e si lasciavano mar-cire sul posto in quanto inidonei all’allesti-mento delle tavolette.

Scala del carro Sardo, così stesso chiamata in Sardegna (da Le costituzioni di Eleonora giudicessa di Arborea inti-tolata Carta de Logu, con note di Don Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli, Roma 1805 - ristampa anastatica, ed.“3T”, Cagliari, 1974).

A. Scala del carro sardo.1. Parte inferiore della scala7. Foro per inserire la cavicchia

che trattiene il giogoB. Asse con le ruote

4. Parte interna della ruota5. Parte esterna della ruota6. Ruota

C. ForcellaSi colloca sotto la scala in 2,dalla parte facciata 3, quando si staccano i buoiaffinché non cada

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E 1000 piante erano sufficienti per l’ingras-so di 200 porci, aggiungeva molto puntual-mente l’ufficiale per sottolineare la gravitàdella perdita.Occorreva perciò vietare la deprecabileusanza per evitare di perdere i boschi comegià avvenuto nei contorni vicini al villaggio.

e) Gli attrezzi agricoli

Tra i consumi minori di legna, che hanno in-ciso relativamente sui consumi, ma che lo-calmente hanno rappresentato qualche pro-

blema, va citato quello relativo all’allesti-mento di attrezzi per l’agricoltura.Il consumo era modesto; tuttavia lo si ricor-da perché anch’esso è stato fonte di un qual-che abuso, come venne segnalato dall’Inten-dente provinciale di Nuoro il 17 giugno1841 82 a proposito dell’abbattimento di lec-ci e roveri per costruire carri «...quali ado-prandosi qui all’antica foggia senza cerchi diferro e con ruote fisse nell’asse, si consuma-no annualmente dal contadino che per indiformarne uno nuovo recide una gran piantache mai più viene surrogata».

NOTE

1 Dizionariu Universali, de sa tipografia Arciobispali,Casteddu, 1832.2 Casalis-Angius. Op. citata, voce NURRI.3 ASC, Editti e Pregoni, Tit. XI, Ordinazione XV.4 Pregone 2 aprile 1771, paragrafo 72.5 Pregone viceregio del 2 aprile 1771, n. 66. artt. 75 e 76.6 ASC, AAR, 212/20. Rapporto del Conte di St.Martìn al suddelegato patrimoniale.7 G. Paulis: «I nomi di luogo della Sardegna», Sassa-ri, 1987.8 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1280.9 ASC Segreteria di Stato, serie II. V. 1280. RelazioneAlbini del 9.2.1824.10 Da una relazione del Dipartimento forestale di Igle-sias diretta al Conservatore generale dei Boschi, data-ta 6 aprile 1851 (ASC, Ademprivi ai Comuni 1845 -1854, V. 18), si rileva quanto l’amministrazione fore-stale del Regno di Sardegna paventasse il pericolo diincendi boschivi derivanti dalla consuetudinaria prati-ca agricola dell’eliminazione delle stoppie col fuoco:«...ebbi in detto salto a riconoscere esistervi veramen-te dei vacui, e tratti di terreni non imboschiti...dell’e-stensione caduno di tre a quattro ettari, quali sembra-no atti al seminerio e buoni a ridurli a coltura....». Edaggiungeva:«... che siccome detti terreni non imboschiti trovansiintermediati e circondati dei più folti ghiandiferi....»non era consigliabile destinarli a coltivazione per idanni che i boschi avrebbero potuto soffrire dagli in-cendi derivanti dai fuochi che gli agricoltori erano so-liti fare per fertilizzare i terreni.

11 ASC, Regio Demanio, Boschi e selve, V. 18.

12 ASC, Regio Demanio, Boschi e selve,V. 18 - Notadel 12/11/1844.

13 ASC, Regio Demanio, Boschi e selve, V. 18. Notadel 30/11/1844.

14 ASC, Regio Demanio, Boschi e selve. V. 18. Notadel 30 agosto 1845.

15 ASC, Regio Demanio, Boschi e selve, V. 18. Notadel 13 settembre 1845.

16 Secondo B. Anatra (L’ancien régime in Sardegna -Milano, 1985): «Su una popolazione per oltre l’80 percento gravitante sull’economia naturale sarda, un ter-zo circa apparteneva al mondo pastorale».

17 Le Costituzioni di Eleonora giudicessa d’Arborea.Traduzione di Don G. M. Mameli de’ Mannelli. Ri-stampa anastatica, Ed. «3 T», Cagliari, 1974.

18 Cap. CLIV della Carta de Logu, op. citata.

19 Cap. CLVI della Carta de Logu, op. citata.

20 Cap. CLV della Carta de Logu, op. citata.

21 I diritti feudali provenienti dall’allevamento rappre-sentavano mediamente il 22% del totale, come riferi-sce F. Carboni in «Per una geografia dei diritti feuda-li», Annali Facoltà Magistero, Cagliari, 1986-pag.230).

22 Il diritto di legnare rappresentava appena l’1% del-la rendita feudale agricola ed era presente in 18 feudisu 95 (Cfr. F. Carboni «Per una geografia dei dirittifeudali», op. citata).

23 ASC, Regio Demanio, Boschi e selve, V. 1.

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24 Nelle selve del marchesato di Laconi per esempio, siebbe la seguente stima riferita ad annate diverse (daACC Fondo Aymerich, Riscatto feudi, Laconi, V. 239provvisorio):anno 829 831 1832 1833 1835 1856Laconi ? 6300 266 3850 1885 3140Nurallao 700 1800 0 1550 1150 2135

25 Casalis-Angius «Dizionario istorico..» opera citata,Vol. XVIII bis.

26 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1641. Anno 1837(?).

27 Secondo S. Cettolini , op. citata, pag 12, nel 1848,coloro che esercitavano la pastorizia in Sardegna, era-no ben 80.000. Secondo M. Clark (La storia politica esociale 1847-1914, tratto da «Storia dei sardi e dellaSardegna», Vol.IV, Milano 1989), nel 1871 la Sarde-gna contava 30.037 pastori.

28 Tratto da G. Stefani: «Dizionario generale geografi-co- statistico degli Stati Sardi», Torino, 1855.

29 Casalis G.: «Dizionario geografico, storico ecc» op.citata. Vol. XVIII quater, Voce Sardegna.

30 Le Costituzioni di Eleonora Giudicessa d’Arborea,intitolate Carta de Logu, tradotte da Don Giov. MariaMameli de’ Mannelli, Roma 1805. Ristampa anastati-ca, Cagliari 1974.

31 ASC, Leggi civili e criminali del Regno di Sarde-gna, Torino, 1827. 6 E 5.

32 ASC, Regio demanio feudi, Cartella n. 94. Docu-mentazione risalente all’anno 1838.

33 ASC, Regio Demanio feudi, Cartella 94. Documen-to del 18 aprile 1838.

34 ASC, Regio demanio feudi, Cartella 94. Sentenzadel Supremo Consiglio del 13.9.1839.

35 ACC, Fondo Ballero, Manoscritti, 2, riportato dalF.A. Vico: «Leyes y pragmaticas reales del Reyno deSardena», Cagliari, 1680.

36 L’Incontrada di Gallura apparteneva al marchesatodi Orani.

37 «Una regione feudale nell’età moderna» di Giusep-pe Doneddu, Sassarri, 1977.

38 P. Martini: Storia di Sardegna dal 1799 al 1816, Ca-gliari 1852.

39 ASC, Atti amministrativi n. 1635, V. 23: Regie Pa-tenti del 29.12.1846 -

40 ASC, Reali Udienze, classe IV 3/36, pag. 44.

41 ASC, Atti governativi e amministrativi n. 1524, V.19. «Disposizioni viceregie relativamente agli incen-di» del 6 giugno 1840.

42 ASC, Atti amministrativi e governativi, V. 20, n.1524. Circolare regia del 13 agosto 1843.

43 Della Marmora: Itinerario dell’Isola di Sardegna,op. citata.44 G. Olla-Repetto: Per una storia degli incendi agro-pastorali in Sardegna, Arch. Storico Sardo, V. 30, an-no 1973.45 ASC, Regio demanio, Cause criminali, Busta n. 15.46 ASC, Regio Demanio, Cause criminali, V. 24. 47 ASC, Regio Demanio, Cause criminali, V. 24.48 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1618.49 ASC, Regio demanio Feudi, V. 135.50 ASC, Regio Demanio Feudi, V. 135.51 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1618. Nota dell’Int.generale al Vicerè del 20.9.1832.52 Lo starello cagliaritano era pari all’epoca a 39,86are. Dopo il 1839 fu parificato a 40 are.53 ASC, Segreteria di Stato, serie II, V. 1618.54 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1618.55 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1618.56 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1618. Memoria delreggente l’ufficio fiscale generale in data 11.9.1832.57 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1618. Nota del Con-sultore delegato di Bono dell’8.9.1832.58 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1618. Nota da Bonodel 8 settembre 1832.59 ASC, Segr. di Stato, serie II, V. 1618. Notadell’11.9.1832.60 ASC, Segr. di Stato, serie II. V. 1619.61 A. Girgenti: «La storia politica nell’età delle rifor-me» tratto da «Storia dei sardi e della Sardegna», Vol.IV, Milano 1989.62 Ciro Manca «Il libro di conti di Miquel Ca-Rovira»,Padova 1967, pag. 31.63 ACC - Fondo Municipale, I, n. 9 - Cap. decimo-quinto, De Boschi.64 G.M. Mameli de’Mannelli: «Trattato dell’arte ve-traria», a cura di Paolo Amat di San Filippo, Accade-mia nazionale delle Scienze, serie V, vol. XVIII, par-te II, 1994.65 Ciro Manca, op. citata, pag. 46.66 ACC. Vol. 59, II, Carta 34.67 ASC, apocha de 35 l.3 s. 6 d. per sivynes sobra desdit die en dit lloch (Caller 24. 1. 1594):

«Lo dit magnifich Francisco Jorge en dit nom fermaapocha a Hieroni Solinas de la maryna de Caller detrentasinch llines tre sous y sis dines de moneda calla-ressa les quals son per lo preu de quarantaquatre sivy-nes que se han venut per lo magnifich Cristopal Fran-co capita de sa magestat aprecyades en dites 35 l. 3 s.6 d. posades presents los predits en dita caxia de dites

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quatres claus qual sivynes son restades de les que se ancomprat per la obra de la torra de la Scaffa....».68 «Discorso istorico, politico legale dei boschi e sel-ve del regno di Sardegna». ACC, Fondo Ballero, Ma-noscritti, 2.69 F. D’Austria D’Este: «Descrizione dell’Isola di Sar-degna», 1812.70 Bernardino Anselmo: «La finanza sabauda in Sar-degna»,Vol. II,1741-1847, Torino, F.lli BoccaEd.,1924.71 Storace è detta la resina estratta dalla pianta omoni-ma (Styrax officinalis).72 ACC, Vol.59, II, Carta 34.73 ASC, Segreteria di Stato, serie II, V. 1280, anno1820.

74 Casalis-Angius. Op. citata, Voce Barbagia.75 Casalis-Angius: «Dizionario geografico ecc.» ope-ra citata. Voce Gallura.76 ASC, Regie Provvigioni, V. 39.77 ASC, Atti Gov. e Amm.vi, n.1015,V.14 «Nuovo Re-golamento e tariffe doganali per la Sardegna». R.Editto 18.5.1820.78 ASC, Prefettura, II versamento V. 160.79 In Casalis-Angius, Op. citata, voce Desulo -80 ASC, Segreteria di Stato, serie II, V.1280, Nota del1830, senza data.81 ASC, Segreteria di Stato, serie II, V.1280. Nota del7 febbario 1834.82 ASC, Segreteria di Stato, serie II, V. 1281.