Tortora Guida

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Alle porte della cultura ortora t Amministrazione Comunale di Tortora Dipartimento Cultura

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Comune di Tortora

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Alle portedella cultura

ortorat

Amministrazione Comunale di Tortora Dipartimento Cultura

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Foto in gentile concessione di Foto Pucci - TortoraTesti a cura del Prof. Michelangelo Pucci

ripresi dal sito www.mipucci.it

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72%e’ L’ULTIMO DATO DI RACCOLTA DIFFERENZIATA NEL NOSTRO COMUNE. CONTRIBUISCI AD AUMENTARE QUESTA PERCENTUALE.

DIFFERENZIAMOCI.

Amministrazione Comunale di Tortora Assessorato all’Ambiente

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pag.6Le origini del borgoTortora e i suo mille volti

pag.10Il centrostoricoLa storia e la nascitadel primo centro urbano

pag.20Le tradizionitortoresiUsi e costumi di una terra millenaria

pag.24Cosa vistiareI monumenti e le chiesea cui bisogna far visita.

pag.28MappaLa cartina e le informai-zoni utili per spostarsi.

pag.34Museodi BlandaArcheologia nella bassavalle del Noce.

I N D I C E

pag.12La marinaLa zona più modernadi Tortora

pag.18Le aree montane Le frazioni ed il Parcodel Pollino

pag.44La Zafarana e la cucinaGastronomia tipica

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Tortora è il primo comune della Calabria nord occidentale che si affaccia sul Mar Tirreno, al confine con la Basilicata. Il suo territorio prevalentemente collinare è incluso in gran parte nel Parco nazionale del Pollino, confina sul versante nord con i comuni di Maratea e Trecchina, a nord-est

con Lauria, ad est con Laino Borgo, a sud con Aieta e Praia a Mare e ad ovest con il Mar Tirreno. Il territorio è diviso in tre realtà antropiche: il centro storico che conta circa 600 abitanti, le frazioni montane con circa 550 abitanti e la marina con circa 5000 abitanti.

Coordinate 39°58’ 00’N 15°48’00’E Altitudine 300m s.l.m. (Centro Storico)Superficie 57,88 km²Abitanti 6186Densità 106,88 ab./km²Comuni confinanti Aieta, Laino Borgo, Lauria (PZ), Maratea (PZ), Praia a Mare, Trecchina (PZ) Cod. postale 87020Prefisso 0985Codice ISTAT 078149Cod. catastale L305Nome abitanti tortoresi (in dialetto locale turturisi)Patrono san Biagio santo Patrono sant’Antonio da Padova santo ProtettoreGiorno festivo 3 febbraio

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D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie

ma la risposta che dà a una tua domanda..

Il centro storico nasce sotto la dominazione longobarda. Prima ‘Laura’ di monaci greco-bizantini, poi fortificazione bizantina, suc-cessivamente castello longobardo e infine feudo normanno. Fino a questo punto della ricerca storica non sono emersi documenti del tempo che aprano un qualche bar-lume sulle origini di Tortora.  Possiamo fare solo delle ragio-nevoli supposizioni, partendo da indizi e considerazioni. Probabil-mente in epoca romana il pianoro sulla falesia e le pendici del Cifolo erano terreno agricolo, sede di una villa o masseria. In epoca bizantina e longobarda l’area comincia ad animarsi per la presenza di monaci eremiti, provenienti dall’Oriente palestinese ed egiziano, conquista-to prima dai persiani e poi dagli arabi, questi monaci di rito greco trovano qui un ambiente ideale sia dal punto di vista naturale per la presenza di numerose grotte, an-fratti e boschi, sia dal punto vista

politico potendo godere prima della protezione dei Bizantini e successivamente della tolleranza dei Longobardi. Essi vi costituis-cono una “laura”, prova ne sono i toponimi di santi: Sandu Micìelu, Sanda Dumìnica,  Sandu Jàculu, Sand’Andrìja, Sandu Pìetru, Matrid-dòmini e, soprattutto, ai piedi della falesia, le grotte, ognuna sede di un eremita.E’ molto probabile che i Bizantini, nel sito dell’attuale “Palazzo”, già nel VI secolo  vi abbiano costruito, nel corso delle guerre gotiche, una fortificazione, avamposto di difesa di S. Brancato, dove sopravviveva una presenza dei Blandani dopo l’abbandono del Palècastro,  contro le incursioni gotiche provenienti da Laino attraverso i Piani del Carro e la valle della Fiumarella. Questa fortificazione  è rafforzata nei secoli successivi dai Longobar-di per farne un rifugio per monaci, contadini e pastori in occasione delle incursioni saracene, chia-

Tortora, le origini del borgo

Italo Calvino

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mata “Castello delle Tortore”. A mano a mano che le incursioni saracene diventano sempre più virulente creando turba-tive sempre più frequenti e severe alla comunità blandana di S.Brancato e a mano a mano che la potenza  longobarda si indebolisce, la gente tende a risalire la valle per trovare, anche se temporaneamente, ri-fugio sulla falesia. Il rifugio fu denominato “Julitta” la piccola Julia, con riferimento alla seconda parte del nome di Blanda Julia.  Fino a pochi de-cenni fa il primitivo nucleo ur-bano popolare costruito a valle del castello era correntemente denominato Julitta.Il toponimo è rimasto al vico che da via ‘Sand’Andrìja’, all’imbocco della piazza, scende nel vallone, là dove anticamente vi era l’accesso al paese.      Comunque la pop-olazione continuò a far capo a San Brancato per le neces-sità produttive ed abitative. La

chiesetta longobarda, costruita sull’orlo sud del pianoro,  con-tinuò infatti ad essere frequen-tata fino al XII secolo. Tramon-tata la potenza longobarda, nel secolo IX ritornano i Bizantini, che si attestano ad Aieta tol-lerando nel Castello delle Tor-tore la presenza dei longobardi, dal momento che il principato longobardo  di Salerno era di-ventato un loro protettorato. La popolazione, superata la dif-fidenza nei confronti dei vecchi e dei nuovi occupanti, comincia ad abbandonare S. Brancato e si stabilisce sul pianoro sopra la falesia che dal Palazzo arriva a Mbedilaterra, vi costruisce le case costituendovi il primo nucleo dell’attuale paese, ben protetto dal castello.Con la conquista normanna nella seconda metà del secolo XI il nome di ‘Castello delle Tortore’ viene cambiato in “Ter-ra di Tortora”   I Normanni chiamavano, ap-punto, “Terre” i loro feudi.

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Ormai per buona parte disabitato, sta rivivendo una una nuova giovinezza grazie alle ristrutturazioni del patrimonio edilizio con i fondi del terremoto e a recenti opere di arredo urbano.Si adagia a mezza collina, sulle pendici del monte Cifolo. Si allunga digradando dal punto più alto, ‘ La Grangìja’, al punto più basso, ‘Mbedilatérra’, sul dorso di un costone.La parte più bassa, la più antica, è aggrappata sulla cima di uno sperone tra due pareti rocciose a strapiombo sui due burroni che la fiancheggiano, in una posizione arroccata e naturalmente protetta. Lo sperone è il residuo di un terrazzamento di origine marina (formatosi presumibilmente intorno a 4.000.000 di anni fa) che occupava tutta la valle della fiumarella; se ne vede dall’altra parte del fiume la parte corrispondente chiamata Cirieno.

Successivamente la parte mediana della valle è sprofondata per effetto di un bradisismo positivo locale lasciando posto al mare che si è addentrato nella valle formando un piccolo fiordo. In questo periodo il mare ha scavato (presumibilmente intorno a 3.000.000 di anni fa) le varie grotte che si vedono sulle pareti delle falesie che appaiono a mezza costa nella valle. Sollevandosi lo zoccolo continentale, per effetto di un bradisismo negativo più generale, il fiume ha continuato a scavare la valle fino ad oggi. Le vedute dalla collina Sarre e dal mare sono uniche e affascinanti proprio per questa caratteristica. Da un’altezza media di 280 metri di altitudine, il paese appena occhieggia la Marina e il mare.Chi guarda dal mare lo intravede infossato nella valle, adagiato ai piedi della Vallina come se dormisse.

Il Centro Storico

La bellezza si vedeil fascino si sente

Roberto Gervaso

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E’ una pianura alluvionale che si estende dalla spiaggia alle pendici del monte Cifolo e del monte Schiena dell’Armi di Aieta. Si affaccia sul mar Tirreno nella parte sud del golfo di Policastro.Ha la forma di un quadrilatero irregolare, con la base maggiore a monte di circa 3.500 metri; il lato opposto che corre lungo l’arenile del lido per 2.000 metri circa; il lato lungo il fiume Noce di circa 2.700 metri e il lato a questo opposto, al confine con Praia a Mare, di circa 900 metri (pari a circa 500 ettari, 5 kmq).Nel passato la Marina è stata la fonte principale delle risorse agricole del Comune. Era detta ‘sutt’acqua’, cioè irrigua grazie alla Fiumarella da cui, mediante acquedotti a sbarramento, si prelevava l’acqua incanalata poi in fossi che servivano con le loro

diramazioni tutti gli appezzamenti.Oggi, cementificata per molta parte, con i suoi circa 5.000 abitanti è la zona più popolata del territorio.Ai redditi agrari si sono sostituiti i redditi urbani e turistici sotto la forma di redditi ricavati dalla locazione stagionale delle case e, sempre nel periodo estivo, dall’apporto monetario dei villeggianti speso negli esercizi commerciali.Il Lungomare Sirimarco e la Piazza Stella Maris sono il fulcro della vita “estiva”. Dal lungomare lungo circa 3 km è possibile ammirare le bellezze di Praia a Mare e della vicina Maratea, la vista si allunga fino a Capo Palinuro. La pianura è attraversata, nella direzione nord-sud, dalla ferrovia Salerno-ReggioCalabria e dalla SS 18.

La Marina

Questo mare è pieno di voci

questo cielo è pieno di visioniGiovanni Pascoli

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Questo mare è pieno di voci

questo cielo è pieno di visioni

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Piazza Stella Maris è il punto di incontro più grande di Tortora ed è ubicata nei pressi del Lungomare Sirimarco, E’ stato da poco allestito un parco giochi gratuito per i più piccoli. Uno spazio dove le famiglie possono passare in tranquillità le giornate e dove i bambini danno spazio al loro divertimento. L’area è coperta dal wifi gratuito per accedere ad internet.

Una città anche per i più piccoli.

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Il Noce anticamente chiamato Talaus, è un fiume a corso perenne del versante tirrenico della Calabria. È lungo quarantacinque chilometri e nasce da più sorgenti nella Murge del Principe (1398 metri), gruppo di colli alle falde settentrionali del massiccio del Sirino. Nel Pleistocene il suo bacino superiore costituiva un lago di cui è rimasta traccia nel piccolo lago Sirino. Con andamento prevalente verso sud, sfiora i centri di Lagonegro e Rivello, allargando poi notevolmente il suo fondovalle nei pressi di Lauria, grazie al contributo, da sinistra, di svariati corsi d’acqua, tutti provenienti dal monte Sirino, tra i quali i torrenti Bitonto, Prodino Grande, Senieturo,

Carroso e Torbido.Giunto presso l’abitato di Parrutta(frazione di Trecchina) il fiume scorre più incassato, con sembianze di fiumara. Fungendo da confine tra Basilicata e Calabria, riceve prima le acque del torrente Pizinno, e poi, quelle dalla Fiumarella di Tortora, per sfociare, dopo qualche chilometro nel mar Tirreno, Il fiume ha un regime spiccatamente torrentizio con notevolissime variazioni di portata, specialmente nella stagione invernale quando è frequentemente in piena. Nonostante ciò la sua portata è perenne, prossima ai due metri cubi al secondo anche in estate.

Il fiume Noce

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Le aree montane del territorio tortorese ne costituiscono la parte più estesa. Si tratta di luoghi molto accidentati, per lo più coperti da macchie e da boschi, che una volta erano una risorsa per il Comune. Subito alle spalle del Centro Storico, l’andamento altimetrico si alza intorno ai 700-800 metri con le punte della Vallina, di Bocca della Cappella, della Rotondella, per elevarsi ai 1089 m. della Cocuzzata, ai 1274 m. di Serramale e ai 1238 m. del Rossino, sulla cui cima si incrociano i confini ta Tortora, Lauria e Laino. Negli altipiani e nelle vallate tra una punta e l’altra ci sono degli insediamenti umani più o meno numerosi. Probabilmente le montagne sono state, quando più, quando meno, sempre abitate. Attualmente, complessivamente, le aree montane contano 400

abitanti. Nei secoli passati generazioni e generazioni di montanari, accanto alla pastorizia, hanno sviluppato anche l’agricoltura, giovandosi di numerose sorgenti e micro sorgenti di acqua potabile, utili anche per usi agricoli, sfruttando i terreni a declivio più dolce sui fianchi delle montagne o nei fondovalle o creando dei terrazzamenti con muri a secco, rubando alla natura ogni pezzetto di terra coltivabile. Molte contrade montane sono contrassegnate da toponimi di santi. Sono il ricordo del periodo medioevale allorquando nelle terre montane e collinari soggiornarono i monaci greco-bizantini qui venuti nel periodo bizantino anche per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste dei governanti di Bisanzio.

Le frazioni montanedi Tortora sono 19. Il primo paesedella Calabria ricadeanche nei confinidel Parco del Pollino

Le aree montane

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nord con i comuni di Maratea e

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Ci vuole un bel po’ di storiaper spiegare un po’ di tradizione

Il Fidanzamento: Sia che l’iniziativa partisse dalle famiglie, sia che partisse dagli innamorati, il fidanzamento ufficiale era un affare di famiglia che doveva svolgersi secondo una procedura ritualizzata. Al corteggiamento a distanza con sguardi furtivi in chiesa nel corso della messa solenne della domenica con l’accompagnamento distanza a casa della ragazza scortata dalla madre, doveva seguire una richiesta ufficiale: ‘li masciéati’.La famiglia del giovane mandava due persone a casa della ragazza che ne chiedessero la mano ai suoi genitori pronunciando quasi sempre lo stesso rituale. La famiglia del giovane mandava due persone a casa della ragazza che ne chiedessero la mano ai suoi genitori.Di solito si trattava di due donne estranee alla famiglia, parenti o no del ragazzo, ma potevano essere

eccezionalmente anche uomini o gli stessi genitori del pretendente se i rapporti tra le famiglie erano già stretti.La domenica successiva era opportuno che i genitori del fidanzato facessero visita ai genitori della fidanzata con un presente in un cestino foderato e coperto da fini tovagline. L’incontro serviva pure per definire l’aspetto economico della futura unione.Da quel momento il giovane era autorizzato a frequentare la casa della fidanzata, ma non poteva toccarla. Tra lui e lei doveva sempre sedere un altro familiare della ragazza.Il fidanzamento era ufficializzato agli occhi della gente quando veniva permesso al giovane di accompagnare la fidanzata in chiesa per la messa solenne delle feste, seguiti a pochi passi di distanza dai familiari di lei per sorvegliarli che non si toccassero.

Alcune delle tradizioni tortoresi

Italo Calvino

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La Panificazione: Fino agli anni ’50 ogni famiglia tortorese panificava in casa. Il procedimento aveva inizio con la macinatura del grano in uno dei due mulini funzionanti lungo la Fiumarella: uno era in località ‘Gramijùolu’ vicino al ‘Pondi d’Ajìta’, l’altro ‘ànnu Livìtu’, i sacchi erano portati in testa dalle donne o a dorso d’asino.Intanto nei giorni precedenti ci si erano procurate delle fascine di frasche secche e di erica (ruséddi).La panificazione vera e propria avveniva in casa. All’alba la padrona di casa nelle famiglie contadine, o la donna di servizio o una donna a giornata nelle famiglie signorili, si metteva in opera per cernere con uno staccio la farina direttamente nella madia. Fatta una conca nella farina vi aggiungeva il sale, vi versava acqua tiepida e vi scioglieva il lievito, un piccolo pane crudo preso dall’impasto lievitato della panificazione precedente. A poco a poco, con il lievito così diluito, amalgamava tutta la farina continuando a lavorare il miscuglio con i pugni fino ad ottenere un impasto omogeneo. Quando tutti i pani erano sistemati nel forno, ridava un altro po’ di calore e ne sigillava la bocca con il chiusino di lamiera (mésa). Dopo alcune ore, a cottura avvenuta, tirava fuori le ‘panelle’ (panéddi) e le sistemava su un tavolo per il raffreddamento.Le ‘pitte’ servivano parte per il consumo immediato della famiglia e parte erano distribuite a parenti e vicini con l’obbligo di scambio quando a loro volta panificavano.Le ciambelle erano date ai poveri.

Le Fiere: ‘La féra’ era la mostra mercato dei paesi che si faceva due o tre volte all’anno in occasione delle feste più importanti tra le quali quella patronale. Era indispensabile per la compra-vendita di attrezzi di lavoro e domestici e, soprattutto, di animali.A Tortora c’era la fiera per S. Biagio e per S. Antonio. Fino agli anni quaranta aveva luogo ‘Mballatùrru’ e lungo la via per ‘Matriddòmini’ . Successivamente trovò la sua sede ‘annu Pondi’ e ‘annu vaddòni di lu Pondi’. A Praia a Mare si faceva il 15 agosto nei vasti

arenili della spiaggia.Ognuno attendeva queste occasioni per rifornirsi degli attrezzi di ferro (zappe, zappette, forconi, coltelli, ecc.), di legno (forconi e vari), di vimini (panieri, ceste, cestelli, cestini, canestri, corbe da basto, ecc.); per comprare asini, maiali, buoi, vacche, mucche, capre, pecore, pollami, ecc. o per disfarsi degli animali vecchi o difettosi.Partecipavano alle fiere i montanari di Tortora, gente di Trecchina, di Lauria, di Laino con i loro animali e prodotti, con i loro lavori in vimini, nonché mercanti e zingari con i loro lavori in ferro.Le fiere non offrivano solo opportunità di affari ma anche di incontri interessanti che permettevano la conoscenza di persone diverse con le loro lingue, culture e abbigliamenti diversi. ‘Li furìsì’ scendevano vestiti di tutto punto dei loro abiti in velluto anche in piena estate. Le donne dei paesi vicini mettevano in mostra le loro formosità prorompenti sotto i loro indumenti dai colori vivaci. Vestivano larghe gonne pieghettate, aderenti corpetti e fazzolettoni in testa annodati dietro la nuca. Mariti insoddisfatti e scapoli, giovani e non, andavano alla fiera non per acquisti ma per andare a boccheggiare di fronte a queste bellezze.

Lavorazione dei salami: Un’arte molto antica. La riuscita della lavorazione dipendeva da una sensibilità che si tramandava attraverso l’esperienza e la pratica.Le salsicce (zazìcchji).Le donne addette, sedute attorno ad una tavola, tagliuzzano in pezzettini la carne dei tagli di seconda scelta e grasso, aggiungono del sale nella giusta dose, peperone secco tritato o macinato, finocchio a grani. Rimestano e lavorano a mano il tutto fino ad omogeneizzarlo, ne friggono una piccola quantità e l’assaggiano per valutare la salatura e l’equilibrio degli aromi. Se necessario apportano le opportune correzioni. Quando giudicano che gli ingredienti sono nelle giuste proporzioni, insaccano a mano la pasta di carne così preparata nell’intestino tenue

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precedentemente lavato e rivoltato del maiale servendosi di appositi imbuti. La riuscita del salame dipende pure dalla pressatura dell’impasto senza lasciare all’interno del salame la benché minima sacca d’aria. A questo scopo di tanto in tanto si trafora con una forchetta l’intestino ripieno per favorire la fuoruscita dell’aria.

Le soppressate (zupirséati)Subito dopo le salsicce, ripulita la tavola, le donne tagliuzzano in pezzettini nelle giuste dimensioni, la carne dei tagli di prima scelta e grasso di prima qualità, aggiungono sale e pepe nero a grani. Rimestano e lavorano a mano il tutto fino ad omogeneizzarlo, ne friggono una piccola quantità e l’assaggiano per valutare la salatura e l’equilibrio dell’aroma. Se necessario apportano le adeguate correzioni. Quando ogni componente è giudicato nella giusta proporzione, insaccano a mano la pasta di carne nell’intestino crasso precedentemente lavato, sterilizzato e rivoltato servendosi di appositi imbuti. La buona riuscita del salame dipende pure dalla pressatura dell’impasto senza lasciare la più piccola sacca d’aria. Per favorirne l’uscita si trafora l’intestino con una forchetta. Una volta insaccati, i salami vengono appesi a pertiche sospese sotto le travi in ambiente molto ventilato, freddo e asciutto, opportunamente affumicato da legna di elce o quercia. Una volta curate le salsicce tagliate a pezzi vengono conservate in vasi immersi nella sugna, le soppressate vengono conservate in vasi immerse nell’olio. Tutti i salami vanno consumati nell’arco massimo di 12 mesi.

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cosavisitare

La piccola Cappella Mater Domini è costituita da un’unica na-vata rettangolare di circa venti metri  quadrati.  Internamente,  l’effige  dipinta  sull’altare  viene  oggi  parzialmente  co-perta da una statua della Madonna; il dipinto richiama il cul-to dell’Odigitria, “colei che guida nel cammino”, del quale furo-no portatori, intorno alla fine del primo millennio, i monaci italogreci. più noti come basiliani che festeggiavano la Madonna di Mater-domini il martedì dopo la Pentecoste. L’ubicazione della  cap-pella, ai piedi di una grande grotta, possibile  rifugio di  monaci  eremiti,  costituisce  un  indizio  sull’antichità  del  culto  di  Mater  Domini.  L'attuale struttura non è originaria, è stata in-fatti ricostruita all'inizio del secolo scorso con affreschi proba-bilmente ma non fedelmente ispirati a quelli precedenti.

Cappella Mater Domini

XI secolo

i monumenti

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La Chiesa del Purgatorio è la più antica del paese; risalente,  infatti, al XII secolo, pre-senta  una  struttura molto  semplice,  sovrastata  da  un  piccolo  campanile. Da  ammirare  anche  il  suo bel portale  romanico sul quale sono scolpite figure zoomorfe verosimil-mente ispirate ai  segni  dello  Zodiaco  (Leone,  Ariete,  Scorpione,  Pesci,  Sagittario  e  Cancro),  secondo una tradizione iconografica interessante e difficile da ricostruire. So-pra il portale troviamo  due monofore rettangolari che fiancheggiano una nicchia. Costi-tuita ad un’unica navata, la Chiesa è a pianta quadrata quasi perfetta.

Chiesa del Purgatorio

Chiesa San Pietro e Paolo XIV secolo

XII secolo

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La Chiesa di San Pietro Apostolo, che è anche la Chiesa Madre di Tortora, presenta uno stile classico con tre portali d’ingresso rettangolari; sempre esternamente si riconoscono due ordini: tuscanico in basso e corinzio in alto. Ha tre portali d’ingresso rettangolari; quello centrale di dimensioni più grandi, è fiancheggiato da alte colonne decorative. Nella parte superiore si notano due nicchie che ospitano statue marmoree ed un rosone centrale con la raffigurazione della Madonna. Sul lato sinistro della facciata svetta di poco più alto il campanile cuspidato con orologio e campane. L’interno, a tre navate decorate con stucchi policromi, custodisce la statua lignea di San Pietro Apostolo. Il primo nucleo della chiesa, a due navate, fu costruito verso la fine del 1300; risale, invece, al 1700 la ristrutturazione e la costruzione della terza navata.

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Il Convento della SS. Annunziata, in pieno centro storico, ha an-nessa una Chiesa corredata dalla singolare cupola a gradini di-gradanti con copertura a tegole. Il prospetto principale è privo di elementi decorativi, conserva esclusivamente il portale rettango-lare sormontato da un decorativo timpano triangolare. L’interno, ad un’unica navata, molto sobrio, custodisce sculture lignee e dip-inti raffiguranti scene della Bibbia. Il chiostro è circondato da un porticato delimitato da colonne monolitiche ed archi a tutto sesto; sopra il porticato è presente un loggiato scoperto

Convento della SS. Annunziata

XV secolo

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E’ una massiccia costruzione di forma triangolare, originariamente, proba-bilmente, fu un’area fortificata bizantina; successivamente trasformata dai Longobardi in castello fortezza posto all’ingresso del borgo Julitta; dal XI secolo è stata sede ed abitazione dei signori feudali di turno: i Cifone sotto i Normanni e gli svevi, i Lauria sotto gli Angioini e gli Aragonesi, i De Montibus (dal 1496) sotto gli Aragonesi, i Martirano (dal 1560), gli Exarquez (dal 1565) e i Ravaschieri (dal 1602) sotto i vicerè spagnoli, i Vitale (dal 1692) e i Vargas Machuca principi di Casapesenna (dal 1824) sotto i Borboni; solo negli ultimi scorci del XIX secolo, divisa in lotti, la costruzione è stata venduta a privati e adattata ad abitazione civile; negli anni ‘40 del 1900 ha ospitato classi della scuola elementare; danneggiata dai terremoti degli anni ‘80 e ‘90 è stata restaurata.

Palazzo Casapesenna

XV secolo

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mappa Tortora Marina e centro Storico

Infopoint Pro Loco

Infopoint Museo/Navetta

Ecoisola Comunale

Municipio

Poste Italiane

Bancomat

Farmacia

Museo di Blanda

Infopoint Albergo Diffuso

NORD

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CENTRO STORICO

Presso l’Infopoint Museo di Blanda è possibile prenotare la propria visita guidata gratuita. La navetta partirà dal Lungomare per giungere nel Centro Storico ed una

guida vi accompagnerà per le vie del borgo fino al Museo..

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Piazza Stella Maris sul Lungomare di Tortora è coperta interamente dal servizio wifi

offerto dal Comune di Tortora. Per accedere basta effettuare la registrazione tramite

il proprio tablet, pc o smartphone. Username e password verranno fornite tramite sms

dopo la registrazione e l’inserimento del proprio numero di cellulare

INFORMAZIONI UTILIVIGILI URBANI TORTORA0985 766883 | fax 0985766 761GUARDIA MEDICACorso Garibaldi - 87020 Tortora Centro Storico | tel: 0985 75010COMUNE DI TORTORAVia Panoramica al Porto | 0985 764008 SERVIZIO RACCOLTA DIFFERENZIATA800.58.97.32 (solo da rete fissa)Telefono Progettambiente : 0971.81180 PROLOCO TORTORA349 4568140 | 380 7954545FARMACIA BOSSIO DOMENICOVia Nazionale, 170Telefono: 0985-72388;FARMACIA URBANOPiazza Pio XII, Centro StoricoTelefono: 0985-75009;CARABINIERI112POLIZIA STRADALE113EMERGENZA MEDICA118

WIRELESS GRATUITO

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foto Stefano Renzi

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Il territorio comunale di Tortora è interessato, ormai da parecchi anni, da intense ricerche archeologiche condotte dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, affiancata, via via, da prestigiosi Enti e Istituti di ricerca, quali la Soprintendenza Speciale al Museo “L.Pigorini” di Roma, le Università di Cosenza, di Messina e di Pisa.Gli scavi hanno consentito una puntuale ricostruzione della storia degli insediamenti nell’area, dalle epoche più antiche, documentate dai reperti del Paleolitico Superiore nella zona di Rosaneto e nella grotta di Torre Nave, fino all’occupazione romana, di cui restano importanti vestigia come il Mausoleo di Contrada Pergolo e la città di Blanda sulla collina del Palecastro. Nel corso degli anni, sempre e in ogni modo, l’Amministrazione Comunale di Tortora ha fornito il suo appoggio entusiasta a tali ricerche, anche con importanti sacrifici economici, al punto che il caso di Tortora, come ricordato

in più occasioni dal Soprintendente per i Beni Archeologici della Calabria, risulta uno dei più fortunati e proficui esempi di collaborazione reale tra un Ente locale e l’Amministrazione Statale, nell’ambito della ricerca e della tutela archeologica in Calabria. L’intensità e la costanza delle ricerche, che hanno fatto sì che Tortora risultasse uno dei siti archeologici meglio indagati e conosciuti in Calabria, sono state sempre accompagnate dalla pronta divulgazione delle scoperte, tramite mostre, pubblicazioni e convegni scientifici, e soprattutto dalla valorizzazione del patrimonio rinvenuto, come documentano il restauro e la sistemazione dell’area del Mausoleo, e, oltre all’allestimento della Mostra Archeologica, dove, attraverso l’esposizione dei reperti provenienti dalla necropoli di S. Brancato e di una serie di pannelli didattici, si può apprezzare lo sviluppo storico di questo suggestivo lembo di Calabria, dalla preistoria all’epoca romana imperiale.

Blanda Julia

La cultura è ciò che resta

quando si è dimenticato tutto

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Le basse colline a ridosso del tratto finale del corso del fiume Noce hanno ospitato, fin dalla più antica preistoria, gruppi umani che hanno lasciato tracce significative del loro passaggio. In località Rosaneto è stato riconosciuto un insediamento all’aperto databile a circa 150 mila anni fa, che ha restituito una serie di strumenti ricavati da ciottoli e selci. In seguito alle successive glaciazioni, scomparvero gli insediamenti all’aperto, a vantaggio degli abitati in grotta. La cavità naturale di Torre Nave, posta quasi al confine col territorio di Praia, fu abitata nel corso del Paleolitico Medio e all’inizio del Paleolitico Superiore, circa 35 mila anni orsono; gli scavi, effettuati negli anni ‘60, hanno permesso di rinvenire strumenti litici e ossa di animali esposti nel Museo Civico di Praia a Mare. Come per il vicino territorio di Praia, alcune cavità naturali lungo la Fiumarella di Tortora sono state abitate anche nel corso dell’età del Bronzo.

La Preistoria

Gli EnotriMa è con il VI secolo a.C. che le basse colline a ridosso della foce del Noce tornano ad essere fittamente abitate da popolazioni indigene (Enotri) stanziate da secoli nella Calabria settentrionale e nella Basilicata. Secondo una recente ipotesi, l’enclave etnico qui stanziato sarebbe l’altrimenti ignoto popolo dei Serdaioi di cui abbiamo notizia da fonti epigrafiche e numismatiche. Sul pianoro di San Brancato e lungo le pendici del colle Palecastro gli scavi hanno permesso di riportare alla luce nuclei di sepolture databili tra il 540 e il 450 a.C. circa, esposte nel museo. Le tombe sono semplici fosse rettangolari scavate

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nel terreno, all’interno delle quali si deponeva il defunto, in posizione supina, con il corredo di vasi e oggetti personali che ne caratterizzano il ruolo nella comunità e l’ideologia funeraria. Le tombe più antiche (540-510 a.C.) presentano in maggioranza vasellame di produzione locale e qualche vaso di tipo greco; quelle femminili hanno ricche parures di oggetti di ornamento in ambra: orecchini, collane, pendenti, bracciali. Le tombe della fase successiva (510-450 a.C.) mostrano un sempre maggiore grado di adeguamento alle mode greche, sia nell’ideologia funeraria che nell’uso di oggetti di importazione greca. Splendidi vasi attici a figure nere e rosse si affiancano ai caratteristici crateri con decorazione geometrica di produzione locale. Dall’area della necropoli di San Brancato proviene anche un eccezionale documento epigrafico che molto potrebbe svelare circa la natura della popolazione stanziata a Tortora. Si tratta di un cippo originariamente infitto nel terreno, iscritto su tre delle quattro facce laterali e sulla sommità; il lungo testo, purtroppo frammentario e incompleto, è stato redatto utilizzando l’alfabeto greco di Sibari; la lingua, invece, non è il greco, ma un dialetto italico di non facile lettura e interpretazione.

ORARI DI APERTURA MUSEOTutti i giorni dalle 09.30 alle 12.30

e dalle 17.30 alle 23.00

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I Lucani

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Nella seconda metà del V secolo a.C., in seguito a vari eventi storici che provocarono la crisi di alcune colonie greche e l’indebolimento delle comunità enotrie, la popolazione dei Lucani scende verso Sud dalle contrade interne del Sannio e si impossessa di numerose aree della Basilicata e della Calabria.A Tortora l’arrivo dei Lucani è documentato a partire dall’inizio del IV secolo a.C. dalla sovrapposizione di tombe con caratteristiche diverse rispetto ai sepolcreti enotri e dalla costruzione delle mura di fortificazione di Blanda sul Palecastro. Le tombe lucane (sale 3-4) che occupano tutto il IV secolo sono caratterizzate da una varietà di tipologie e di riti funerari. Accanto alle semplici fosse scavate nel terreno, come nella fase precedente, sono presenti anche tombe a incinerazione, del tipo cosiddetto “ad ustrinum”; si tratta di fosse rettangolari, scavate poco profondamente nel terreno, sopra le quali veniva allestita una catasta di legname sulla quale si deponeva il defunto col suo corredo di vasi e oggetti personali; quindi si dava fuoco alla catasta e si lasciavano sul posto i resti del rogo. Tra le tombe a fossa, particolarmente

significative sono quelle “a cassone”: vaste fosse rivestite da grandi tegole di terracotta e poi coperte da un tetto a due spioventi di tegole e coppi, come la tomba 44 esposta nel museo (sala 4) e ricostruita nel suo aspetto originario. Il corredo di queste grandi tombe, destinate a personaggi eminenti della comunità, sia di sesso maschile che femminile, è caratterizzato da numeroso vasellame a figure rosse di produzione italiota e da vasi a vernice nera; compaiono anche anfore vinarie e grandi contenitori di derrate, oltre a interi set di oggetti in piombo che fanno riferimento all’uso di arrostire le carni: griglie, alari e gruppi di spiedi. Particolarmente interessanti alcuni vasi a figure rosse con scene figurate: grandi anfore, piatti e vasi per bere (skyphoi), grandi zuppiere con coperchio (lekanai). Alcune tombe, invece, sono di adulti di sesso maschile, guerrieri armati di lancia di ferro e cinturone di bronzo.Poco sappiamo delle vicende di Blanda nel corso del III secolo a.C.; le aree di necropoli sembrano esaurirsi verso la fine del IV secolo a.C. e lasciano ritenere che la comunità sia sicuramente entrata in crisi già al tempo della spedizione di Pirro.

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I Romani

La definitiva capitolazione ai Romani avviene tuttavia nel corso della guerra annibalica; lo storico romano Tito Livio racconta, infatti, che nel 214 a.C. il console romano conquistò la città di Blanda che diviene civitas foederata.Dopo due secoli di vita stentata (assai scarsamente documentata dai resti archeologici), sul colle Palecastro, sede della città lucana fortificata, in seguito ai provvedimenti legislativi con i quali tra il 90 e il 50 a.C. la cittadinanza romana venne estesa a tutti gli italici, nacque il municipium di Blanda Julia; ad esso è dedicata l’ultima sezione del museo (sala 5). Gli scavi sul Palecastro hanno permesso di portare alla luce sulla sommità del colle la piazza del foro con il Capitolium, il tempio dedicato alla triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva. A Sud-Ovest del foro è emerso un settore dell’abitato romano sovrapposto ai resti della fase lucana; lo scavo ha portato alla luce resti di ampie case organizzate intorno ad un cortile centrale e affacciate su strade rettilinee; i materiali recuperati sia nel foro che nel quartiere abitativo documentano le varie fasi di vita fino al VI secolo d.C., quando la città viene definitivamente abbandonata. Personaggio certamente eminente è il duoviro Marco Arrio Clymeno, magistrato supremo della colonia, al quale, verso la fine del I secolo d.C., il senato cittadino e la popolazione intera dedicarono una statua nel foro; l’imponente base in pietra con iscrizione dedicatoria fu rinvenuta casualmente sul Palecastro nel 1969 ed è oggi conservata nella sala consiliare del Comune. Marco Arrio possedeva fabbriche di mattoni coi quali sono stati costruiti molti edifici pubblici e privati sia a Blanda che nel territorio circostante fino a Scalea, Orsomarso e Grisolia, come mostrano i numerosi frammenti di laterizi recanti il marchio M.ARRI. Un monumento di grande importanza è il Mausoleo funerario in contrada Pergolo, recentemente scavato e restaurato e oggi visitabile. Si tratta di un grande

edificio circolare costruito sopra la tomba dell’illustre defunto, le cui ceneri sono state rinvenute in un anfratto roccioso sotto le fondazioni. L’edificio non era accessibile; il muro anulare conteneva un tumulo di terra a sua volta internamente ripartita da strutture quadrangolari; sulla sommità del tumulo, a circa m 5 dal terreno, al centro della sistemazione a giardino, svettava la statua del defunto posta all’estremità del pilastro centrale rinvenuto nel corso dello scavo. La monumentalità dell’edificio e la rarità del tipo di mausoleo a tumulo in Magna Grecia, diffuso invece a Roma, nel Lazio e nella Campania tra I secolo a.C. e I secolo d.C., permette di attribuire questa tomba monumentale ad un importante personaggio dell’aristocrazia, forse, addirittura, ad uno dei fondatori della colonia. Un importante documento di piena epoca imperiale è il frammento di sarcofago esposto al Museo, appartenuto ad una Cominia Damianete, come ricorda l’iscrizione scolpita sul marmo, morta in giovane età intorno alla fine del III secolo d.C. Dalle fonti ecclesiastiche sappiamo che Blanda divenne precocemente sede vescovile, forse già tra fine IV e V secolo d.C., e lo rimase almeno fino al 743. Fondamentale riscontro archeologico a queste notizie è costituito dalla chiesa protobizantina rinvenuta a San Brancato nel 1999. Si tratta di un piccolo edificio a pianta centrale con ingresso ad Ovest e tre absidi, databile tra VI e VII secolo d.C.; all’interno e subito all’esterno sono state rinvenute alcune semplici tombe a fossa. La chiesa documenta il progressivo abbandono delle aree costiere, troppo esposte alle sempre più frequenti scorrerie saracene, e il ritiro dei nuclei superstiti verso siti più interni; tale processo culminerà con la nascita dell’abitato normanno di Tortora su uno sperone roccioso sulla Fiumarella di Tortora a circa km 5 dalla costa.

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Con l’espressione “Zafarana di Tortora” si indica il peperone rosso dalla caratteristica forma a corno di capra, utilizzato, soprattutto nell’area calabro-lucana, per l’essiccatura, a cui viene sottoposto sotto forma di “Nzerte”, un filo fatto passare tra i peperoni poi posti al sole ad asciugare.La “Zafarana” appartiene alla famiglia delle solanacee e la sua origine è lontana: arriva dal Brasile ed è giunta a noi dopo la scoperta dell’America; il suo nome, invece, deriva dal latino safranum o dall’arabo zafràn (z dolce), significa zafferano. Le regioni dove oggi si coltiva maggiormente sono la Sicilia, la Puglia, la Campania, il Lazio e la Calabria. A Tortora le zone di produzione della “Zafarana” si estendono dalla Fiumarella di Tortora sino ai Piani del Carro. I terreni ideali di coltivazione sono di origine alluvionale di limo-sabbiosa e quelli collinari di medio impasto che, posizionati ad una quota sul livello del mare variabile tra i 250 ed i 340 metri, risultano assoggettati ad un clima tipicamente mediterraneo. La Zafarana è la protagonista

della cucina tortorese, infatti, in quanto prodotto molto versatile, si presenta come ingrediente fondamentale di numerose pietanze: abbinata ad altri componenti è servita come antipasto, nei primi, nei secondi e persino come dolce. A Tortora la festa dedicata al rubicondo ortaggio, denominata “Zafaranafest”, si svolge solitamente verso la fine di settembre e quest’anno giungerà alla sua quarta edizione. Essa rappresenta un momento di allegra convivialità, nel centro storico del paese, nata con lo scopo di rianimare la parte antica, ma anche per destagionalizzare l’offerta turistica. Durante quest’appuntamento è possibile degustare numerosi piatti a base di Zafarana accompagnati da un bicchiere di vino e da tanta buona musica. Inoltre essendo un prodotto agricolo il personaggio principale della kermesse, quest’ultima offre l’occasione per affrontare temi legati all’agricoltura e ad altre forme di economia che consentano di valorizzare il territorio ma allo stesso tempo di preservarlo dai rischi della globalizzazione.

E’ il frutto più saporitodegli ortaggidell’estate.Originario delle Americhe è stato per anni il cibo della“gente comune”.

44La Zafarana

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Le ricette di un tempoil sapore di sempre

Questo piatto è molto semplice ma può variare notevolmente di gusto in dipendenza degli ingredienti della salsa che lo condisce. Ingredienti: farina granulosa di granturco, salsa di pomodoro, carne di maiale, erbe aromatiche, olio, sale. Preparazione: salsa: soffriggere dell’olio con uno spicchio d’aglio, aggiungere estratto di pomodoro, acqua, due o tre pezzi di carne di maiale, un’erba aromatica (o basilico, o prezzemolo) secondo i gusti, lasciar cuocere.Cuocere la polenta in una pentola versando la farina nell’acqua bollente a spolvero e rigirandola con un mestolo di legno a bastone (riminatùru). Continuare ad aggiungere farina fino a che la polenta non raggiunge una certa consistenza, poi continuare a girarla fino a cottura completa. Minestrare, in un piatto fondo da portata o in piatti fondi da tavola, a strati, coprire ogni strato con la salsa ed abbondante formaggio grattugiato.Consumare con cucchiaio prelevando pezzi di polenta con tagli verticali.

La frascàtula cu lu sùcu di pummadòra

Làgani e cìciari

Il modo di alimentarsi dei Tortoresi ha nel corso dei secoli affermato forse più che altrove il vincolo tra la necessità di nutrirsi e la spiritualità: ogni ricorrenza sacra aveva il suo alimento di devozione, ogni avvenimento felice o luttuoso della quotidianità si celebrava con il cibo. Una regola non scritta prescriveva la celebrazione della vigilia del Natale attraverso la preparazione del baccalà, le feste di Carnevale esigevano un insieme di piatti a base di carne di maiale, si rispettava la sacralità della Pasqua con il pane rituale conosciuto come “pucciddéatu”. Il tempo ha inesorabilmente affievolito la rigidità di questo diario gastronomico, lasciando però tracce riconoscibili nelle interpretazioni alimentari del nostro antico borgo. Ancora oggi l’alimentazione dei Tortoresi è essenzialmente quella di un tempo, definita dalle consuetudini, dalle convinzioni popolari e dalla forza della storia. La Calabria intera, e Tortora non si sottrae a questo evento, nelle sue coltivazioni ha colto, facendole proprie, le influenze delle colture degli Enotri, fondatori di una civiltà di cui si sente ancora vivo l’orgoglio. Incontestata è ad esempio l’origine greca dei laganoi, le “làgane” proverbialmente amate a Tortora, mentre è probabilmente di origine araba l’usanza di riporre sott’olio e sotto peperoncino la “nudìlla” novellame di pesce azzurro.Come è evidente, si tratta di un alimento conservato, dunque un tempo speranza vitale nei periodi, non infrequenti, di carestia.Gli insaccati, la sugna, il lardo, i formaggi, le melanzane sott’olio e i pomodori seccati erano preparati seguendo rituali, invocazioni, auspici e scaramanzie di cui resta ormai solo un sommesso ricordo pronunciato a bassa voce da sagge donne di casa. >>

Piatto del ‘gualéanu’ Si ricorreva a questa ricetta per serate particolari e nei giorni in cui si avevano ‘gùommini ànni spìsi’.Ingredienti: fettuccine (làgani), ceci e peperone secco tritato. Preparazione: Cuocere in una pignatta di terracotta i ceci. Fare un impasto di farina e acqua, lavorarlo fino a formare una pagnotta consistente. Con il matterello spianarla gradualmente sulla tavola di legno su un velo di farina, fino ad ottenere una sfoglia sottile. Spolverarla con farina e ritagliare le fettuccine della larghezza di 15 mm. circa. Stenderle su un telo a trama grossa e lasciarle asciugare. Mettere sul fuoco un pentola con molta acqua, aggiungere del sale quando è calda. Raggiunto il bollore, vi si calano le fettuccine (làgani) e si lasciano cuocere immergendole di tanto in tanto con l’aiuto di un forchettone di legno. A cottura avvenuta, si sollevano con una schiumarola e si depositano in un piatto fondo di portata. Vi si aggiungono i ceci. Si prepara il peperone tritato seguendo la ricetta di ‘la zafaréana piséata’. Appena pronto si versa su fettuccine e ceci e si amalgama rigirando il tutto delicatamente.Consumo: Si fanno le porzioni in piatti fondi e si servono in tavola. Si consumano con il cucchiaio.

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Questo piatto è molto semplice ma può variare notevolmente di gusto in dipendenza degli ingredienti della salsa che lo condisce. Ingredienti: farina granulosa di granturco, salsa di pomodoro, carne di maiale, erbe aromatiche, olio, sale. Preparazione: salsa: soffriggere dell’olio con uno spicchio d’aglio, aggiungere estratto di pomodoro, acqua, due o tre pezzi di carne di maiale, un’erba aromatica (o basilico, o prezzemolo) secondo i gusti, lasciar cuocere.Cuocere la polenta in una pentola versando la farina nell’acqua bollente a spolvero e rigirandola con un mestolo di legno a bastone (riminatùru). Continuare ad aggiungere farina fino a che la polenta non raggiunge una certa consistenza, poi continuare a girarla fino a cottura completa. Minestrare, in un piatto fondo da portata o in piatti fondi da tavola, a strati, coprire ogni strato con la salsa ed abbondante formaggio grattugiato.Consumare con cucchiaio prelevando pezzi di polenta con tagli verticali.

La frascàtula cu lu sùcu di pummadòra

Làgani e cìciari

Piatto del ‘gualéanu’ Si ricorreva a questa ricetta per serate particolari e nei giorni in cui si avevano ‘gùommini ànni spìsi’.Ingredienti: fettuccine (làgani), ceci e peperone secco tritato. Preparazione: Cuocere in una pignatta di terracotta i ceci. Fare un impasto di farina e acqua, lavorarlo fino a formare una pagnotta consistente. Con il matterello spianarla gradualmente sulla tavola di legno su un velo di farina, fino ad ottenere una sfoglia sottile. Spolverarla con farina e ritagliare le fettuccine della larghezza di 15 mm. circa. Stenderle su un telo a trama grossa e lasciarle asciugare. Mettere sul fuoco un pentola con molta acqua, aggiungere del sale quando è calda. Raggiunto il bollore, vi si calano le fettuccine (làgani) e si lasciano cuocere immergendole di tanto in tanto con l’aiuto di un forchettone di legno. A cottura avvenuta, si sollevano con una schiumarola e si depositano in un piatto fondo di portata. Vi si aggiungono i ceci. Si prepara il peperone tritato seguendo la ricetta di ‘la zafaréana piséata’. Appena pronto si versa su fettuccine e ceci e si amalgama rigirando il tutto delicatamente.Consumo: Si fanno le porzioni in piatti fondi e si servono in tavola. Si consumano con il cucchiaio.

Le Ricette Tipiche

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Una specialità natalizia Era, fino alla prima del 1900, l’unico dolce a distinguere il giorno di Natale dagli altri giorni. Ingredienti: farina, lievito naturale, sale, olio, zucchero, miele. Preparazione: preparare un impasto simile a quello del pane, lasciarlo molto molle, metterlo a lievitare. Staccarne un pugnetto, lavorarlo con le mani unte d’olio in modo da ricavarne un cordoncino di pasta molle, darlo a torcere e gettarlo in abbondante olio bollente; oppure prendere il cordone di pasta per una estremità con il pollice e l’indice e, senza mollarlo, calarlo nell’olio bollente facendolo ruotare. Quando la pasta si è indorata e si sono prodotte delle bollicine in superficie la ‘grispédda’ è pronta. Sollevare dall’olio, depositarla su un sopporto assorbente per asciugarla dell’olio in eccesso. Stendere su un piatto da portata, cospargere di miele e zucchero in quantità discreta.Consumare tiepida o fredda.

Li grispéddi

Li cannarìculiLa tavola dei Tortoresi non è certo raffinata o traboccante d’ingredienti, né potrebbe essere così, data l’ancestrale limitatezza di una terra amara, tormentata per secoli da un’economia rozza che l’ha impoverita di risorse anziché accrescerne le condizioni.La tavola resta comunque energica, intensa e fortemente aromatica. Le verdure sono, senza eccezione, le protagoniste dell’alimentazione Tortorese, da sole o insieme alla pasta e a tutti i derivati del maiale costituiscono il fondamento della nostra gastronomia.L’ortaggio che più di ogni altro si presta ad un’infinità di ricette é la melanzana, come non ricordare la tanto decantata preparazione sott’olio che la vede in tavola irriconoscibile nei delicati filetti in salamoia.Altri ortaggi immancabili sulle nostre tavole sono i pomodori e i peperoni dai quali si ricava con la benevolenza del sole estivo la memorabile “zafaréana piséata” dal caratteristico colore rosso e dall’immancabile comunione con l’insaccato principe “zazìcchju”.La centralità del pane nella nostra alimentazione è consacrata dalla preparazione fortemente curata e rituale.Il nostro è un pane gustoso e ricco di varianti: ricordiamo la “pìtta”, unta abbondantemente d’olio e adornata di fossette, le frese abitualmente chiamate “frisìddi” ed infine il pane di farina di mais (péani cìtrinu) tanto ineluttabilmente in voga nei lugubri tempi di guerra.Nella nostra tradizione gastronomica, la pasta è un privilegio della “fìemmina” alla quale si attribuisce la qualità della buona cucina, non tanto per la cottura che ha in ogni caso un valore emerito per raggiungere un buon risultato, ma quanto alla capacità della donna di casa di impastare la farina e l’acqua trasformandola in creative fogge . E fra queste, la forma più diffusa, è quella dei “fusìddi” resi possibili avvolgendo un pezzetto di pasta tornita su uno stelo di saracchio dal quale con abilità e maestria si sfila un lungo, ruvido e attorcigliato saggio di grano saporito. Il condimento classico è il sapido e scivoloso sugo di pomodoro con aglio, olio robusto, peperoncino e carne di capra o castrato. Oggi, come ieri, re incontrastato della tavola dei Tortoresi è il maiale, da sempre protagonista inconsapevole, prima del complesso rituale della macellazione e poi della trasformazione in appetitosi salumi. Giuseppe Sola

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Ricetta antica: Ingredienti: 300 gr. di farina di semola di grano duro, 2 uova, sale o zucchero (secondo i gusti), strutto di maiale gr.80, un pizzico di bicarbonato, miele, buccia d’arancia o/e limone grattugiata, confettini minuti di zucchero. Preparazione: Sulla spianatoia praticare un fontanella nel mucchio di farina, sciogliervi le uova (albume e tuorlo), lo strutto e il bicarbonato, impastare ed omogeneizzare, allungare il panetto a bastoncino dello spessore di un dito, tagliare il bastoncino a pezzi di 4 cm circa di lunghezza, affondare indice, medio e anulare in ciascun tronchetto e trascinare verso di sé (come nei cavatelli). Cottura: mettere a bollore olio abbondante in una pentola fonda, calarvi i pezzi preparati come sopra fino a indoratura e prelevarli con schiumarola, adagiarli su un panno assorbente per eliminare l’eccesso di olio. Guarnizione: stendere i pezzi fritti in un piatto a vassoio; preparare la guarnizione riscaldando il miele per renderlo quasi liquido e filante, aromatizzarlo con la buccia d’arancia o/e limone; irrorare con questo preparato la frittura e cospargerla con i confettini di zucchero. I ‘cannarìculi’ son pronti per il consumo.

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Una specialità natalizia Era, fino alla prima del 1900, l’unico dolce a distinguere il giorno di Natale dagli altri giorni. Ingredienti: farina, lievito naturale, sale, olio, zucchero, miele. Preparazione: preparare un impasto simile a quello del pane, lasciarlo molto molle, metterlo a lievitare. Staccarne un pugnetto, lavorarlo con le mani unte d’olio in modo da ricavarne un cordoncino di pasta molle, darlo a torcere e gettarlo in abbondante olio bollente; oppure prendere il cordone di pasta per una estremità con il pollice e l’indice e, senza mollarlo, calarlo nell’olio bollente facendolo ruotare. Quando la pasta si è indorata e si sono prodotte delle bollicine in superficie la ‘grispédda’ è pronta. Sollevare dall’olio, depositarla su un sopporto assorbente per asciugarla dell’olio in eccesso. Stendere su un piatto da portata, cospargere di miele e zucchero in quantità discreta.Consumare tiepida o fredda.

Li grispéddi

Li cannarìculi

Ricetta antica: Ingredienti: 300 gr. di farina di semola di grano duro, 2 uova, sale o zucchero (secondo i gusti), strutto di maiale gr.80, un pizzico di bicarbonato, miele, buccia d’arancia o/e limone grattugiata, confettini minuti di zucchero. Preparazione: Sulla spianatoia praticare un fontanella nel mucchio di farina, sciogliervi le uova (albume e tuorlo), lo strutto e il bicarbonato, impastare ed omogeneizzare, allungare il panetto a bastoncino dello spessore di un dito, tagliare il bastoncino a pezzi di 4 cm circa di lunghezza, affondare indice, medio e anulare in ciascun tronchetto e trascinare verso di sé (come nei cavatelli). Cottura: mettere a bollore olio abbondante in una pentola fonda, calarvi i pezzi preparati come sopra fino a indoratura e prelevarli con schiumarola, adagiarli su un panno assorbente per eliminare l’eccesso di olio. Guarnizione: stendere i pezzi fritti in un piatto a vassoio; preparare la guarnizione riscaldando il miele per renderlo quasi liquido e filante, aromatizzarlo con la buccia d’arancia o/e limone; irrorare con questo preparato la frittura e cospargerla con i confettini di zucchero. I ‘cannarìculi’ son pronti per il consumo.

Le Ricette Tipiche

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Alle porte della cultura è lo slogan che da qualche anno identifica Tortora, un messaggio che in poche e semplici parole racchiude tutto ciò che il nostro paese può offrire. Cultura che parte dall’antichità, come avrete potuto leggere dalle pagina di questa guida, cultura delle tradizioni popolari e gastronomi-che, cultura dell’accoglienza per far trovare, a voi turisti, un paese sempre più vivibile e al passo coi tempi, senza però perdere le sue peculiarità. Colgo l’occasione quindi, per invitarvi a visitare le frazioni montane e guardare la nostra cittadina anche da un’altra prospettiva: con alle spalle al mare. Spingetevi a visitare i vicoli del nostro borgo antico, approffitate delle guide turistiche che abbiamo messo a disposizioni per voi; vi racconteranno la storia di un luogo che ha ospitato gli enotri e gli antichi romani, un posto che è stato fulcro delle prime popolazioni calabro-lucane. Tutto questo poi è lambito dal nostro mare, al quale da tempo dedichiamo un’attenzione particolare per la sua balneabilità. Buon soggiorno quindi e, ricordate, quando rientrate a casa di raccontare ciò che avete potuto ammirare.

Il Sindaco Ing. Pasquale Lamboglia

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Comune di Tortora (Cosenza)Dipartimento Cultura Pro Loco Tortora

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