TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è...

27

Click here to load reader

Transcript of TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è...

Page 1: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

TORINO, 16 aprileIntervento di Graziella Gaballo

Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare questo tema storicamente, raccontando anche come è nata la legge 194, comunemente chiamata legge sull’aborto, ma che in realtà recita “Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”.È un invito che ho accettato volentieri perché sono sempre più convinta che è importante, anzi necessario, fare un passaggio di memoria dell’ esperienza del femminismo degli anni Settanta del Novecento: occorre narrarla e trasmetterne metodo e contenuti, soprattutto per chi non l’ha vissuta, ma ha ricevuto, senza nemmeno averne magari consapevolezza, il patrimonio che da essa è scaturito, a maggior ragione se si pensa che di quel passato non c’è nemmeno mai stata fino in fondo, nella maggior parte dei casi, una trasmissione familiare, basata sull’oralità, che provasse a tessere su questi temi un legame tra generazioni. E tocca alla nostra generazione farci radici e costruire consapevolmente una genealogia: perché non resti un vuoto storiografico, e perché la memoria storicizzata fornisca a chi è venuto dopo strumenti di conoscenza e di consapevolezza. Ed è anche quello che ho cercato di fare in questo libro Né marito né partito1, sul femminismo genovese degli anni Settanta, dove l’intento è stato quello di scrivere qualcosa che riguardasse Genova, ma non solo, perché sono convinta che storia locale e microstoria abbiano un senso non in sé - se non a livello di pura documentazione - ma solo se sanno aprirsi e parlare a tutti, trovando spiegazione e significato in un più ampio scenario.

Parliamo quindi del femminismo degli anni Settanta, che ha visto al proprio centro la conoscenza e la consapevolezza del proprio corpo e dei temi della sessualità. E, appunto, il concetto di autodeterminazione inteso come diritto di poter scegliere rispetto alle questioni della sessualità e della riproduzione, rivendicando la totale autonomia della gestione del proprio corpo contro le mille forme di violenza, coercizione e discriminazione subite dal genere femminile. In questo intervento focalizzerò la mia attenzione sul movimento femminista degli anni Settanta e quindi in particolare su sessualità e aborto, ma è ovvio che il discorso è più ampio: oltre evidentemente a tutto il tema della violenza sessuale, rientrano in questo quadro – ma immagino ne parlerà chi è stato chiamato a riflettere maggiormente sulla attualità – tutto il complesso discorso della legge 40, delle unioni di fatto e anche, come è stato detto da una giovane femminista a Paestum nel 2012, del precariato. Perché è tristemente vero che chi non ha un lavoro, e quindi una indipendenza economica, è molto limitato nella possibilità di autodeterminare la sua vita.

1 Graziella Gaballo, “Né partito né marito…”. I fatti del 7 marzo 1978 e il movimento femminista genovese degli anni Settanta, Joker/Archivio dei Movimenti Genova, Novi Ligure 2014.

1

Page 2: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

Nell’elaborazione del femminismo degli anni Settanta la sessualità costituì un nodo centrale - analizzato e approfondito in maniera originale soprattutto attraverso la pratica dell’autocoscienza oltre che riflessioni, letture e gruppi di studio - da cui si dipanarono le diverse tematiche: dal ruolo della donna alla procreazione responsabile, dal rapporto col proprio corpo ai consultori e alla legge sull’aborto. Tutto ciò acquista una rilevanza ancora maggiore se si riflette sul fatto che le donne di quella generazione erano cresciute negli anni Cinquanta, cioè in un periodo contrassegnato da un esasperato moralismo e da un'etica religiosa altamente sessuofobica. Parlare di sessualità significava parlare sia delle differenze di genere sia della distinzione tra sessualità e procreazione e dell'essere soggetti attivi nel rapporto sessuale: perciò ricerca e discussione sui metodi contraccettivi; conoscenza del proprio corpo, di cui le donne erano state espropriate dalla cultura, dalla medicina moderna e dalla educazione repressiva; libertà di fare esperienze sessuali e diritto a esprimere i propri desideri. Fu soprattutto attraverso l’autocoscienza che le donne scoprirono una nuova dimensione della sessualità, anche se c’erano dei sostegni teorici di queste acquisizioni, in particolare l’articolo di Ann Koedt, Il mito dell’orgasmo vaginale e il saggio di Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale. Nel primo, diffuso inizialmente ciclostilato e poi stampato su “Donne è bello”2 si denunciava la falsità del costrutto freudiano dell’orgasmo vaginale visto come “maturo” contro quello clitorideo, “immaturo”. Per Freud una giovane diventava realmente una donna sessualmente adulta quando abbandonava l'orgasmo clitorideo, ottenuto con la pratica della masturbazione, in favore dell'orgasmo vaginale, provocato dalla penetrazione maschile; egli infatti sosteneva che la frigidità femminile – intesa come incapacità di raggiungere l'orgasmo vaginale - era una forma di nevrosi, riconducibile a una fissazione alla fase puberale. Nel secondo saggio, Carla Lonzi definiva la donna clitoridea come colei che prende coscienza dell’esistenza di desideri propri e afferma la propria autonomia, ponendo se stessa come soggetto alternativo al soggetto maschile. La donna vaginale, invece, secondo Lonzi, fonda e realizza la sua vita in funzione del piacere dell’uomo e questo ruolo, impostole dalla società patriarcale, le impedisce la manifestazione della propria sessualità.

Strettamente collegato alla tematica della sessualità è il discorso sulla salute e sul corpo, di cui le donne intendevano riappropriarsi, sia riconoscendo i propri desideri, sia imparando a prendersene cura in prima persona.

Il rapporto con i medici e con la medicina tradizionale Il movimento femminista degli anni Settanta sottolineò e denunciò la violenza con cui avvenne la nascita della medicina occidentale moderna, effettuando il passaggio in mani maschili dei saperi riguardanti il corpo e le trasformazioni della vita - nascita, malattia, vecchiaia e morte – tradizionalmente appannaggio delle donne, che erano 2 Si tratta di una raccolta di scritti sulla condizione femminile e sul movimento di liberazione delle donne - il cui titolo è chiaramente coniato sulla falsariga dello slogan Black is Beautiful - a cura del gruppo milanese Anabasi, 1972.

2

Page 3: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

state da sempre le prime farmaciste, le guaritrici, le levatrici che andavano di casa in casa, di villaggio in villaggio; numerosi “processi” alle streghe portarono alla morte di moltissime donne, spesso guaritrici accusate, processate e condannate per stregoneria. Ma il movimento delle donne lesse la medicina ufficiale anche come istituzione autoritaria di controllo sui corpi e mise in discussione la figura del “tecnico”, depositario del sapere medico, per il particolare ruolo di potere che rivestiva3.

La pratica del self- help La risposta collettiva al bisogno di sottrarre il proprio corpo e la propria salute alle pratiche mediche dominanti e di portare avanti su questi temi una ricerca autonoma furono il ricorso al self-help e la nascita dei primi consultori autogestiti, o centri per la salute delle donne. La consapevolezza della necessità di riprendere nelle proprie mani la conoscenza del corpo e delle fasi fisiologiche che si attraversavano nel corso della vita portò infatti alla riappropriazione e alla gestione in prima persona di conoscenze e pratiche tecniche; e attorno a queste nuove realtà si svilupparono una ricerca e una elaborazione ricchissima, in cui si intrecciavano i diversi piani dell’esperienza femminista: dalla pratica dell’autocoscienza e delle relazioni tra donne all’agire sociale, dall’approccio critico al sapere - soprattutto quello medico - al confronto con le istituzioni.

In particolare, i gruppi di self-help erano una sorta di gruppi di autocoscienza con al proprio centro però la fisicità del corpo, che le donne - attraverso l’autovisita o visitandosi a vicenda - imparavano a scoprire e conoscere, acquisendo nel contempo anche una maggiore sicurezza di sé: pratica specifica e molto interessante, che si rifà all’esperienza americana del Women Health Movement, e su cui c’è poca produzione scritta, anche perché si tratta di un' esperienza corporea, in gran parte non verbale e non verbalizzata. Alla sua base stavano l’appropriazione critica di conoscenze e tecniche mediche, la loro divulgazione a vantaggio di tutte e l’utilizzo di pochi strumenti semplici, come uno speculum di plastica e i suoi obiettivi erano innanzi tutto la “demedicalizzazione” di quelle funzioni fisiologiche (ciclo mestruale, gravidanza, e menopausa) che venivano invece trattate dalla medicina ufficiale alla stregua di 3 In questi anni vennero pubblicati anche parecchi libri relativi alle tematiche in questione, tra cui Noi e il nostro corpo, del Boston Women’s Health Book Collective i saggi del 1973 di Barbara Ehrenreich e Deindre English, che uscirono in Italia nel 1975, raccolti sotto il titolo di Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna - con un’introduzione di Luciana Percovich, del Gruppo femminista per una Medicina delle Donne – e il libro di Liliana Paggio, Avanti un’altra, donne e ginecologi a confronto. Nei saggi di Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna in particolare si denuncia – oltre alla violenta cancellazione del sapere e delle pratiche legate alla salute e al corpo proprie delle guaritrici, da cui nasce la medicina moderna – anche la categorizzazione a malattia di tutte le funzioni del normale ciclo riproduttivo femminile e l’esistenza di un sistema medico istituzionalizzato in una gerarchia dove il potere è come sempre nelle mani degli uomini. Il libro di Liliana Paggio invece, è frutto di una ricerca compiuta per una tesi di laurea, durante la quale quattro giovani ricercatrici hanno avvicinato un campione di quaranta ginecologi - ospedalieri, mutualistici, privati – fingendosi pazienti alle prese con problemi di carattere ginecologico o sessuale: ne emerge un quadro molto significativo, a volte drammatico e a volte sconcertante, del rapporto delle donne con la struttura sanitaria e con la figura del ginecologo.

3

Page 4: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

malattie: recuperando quella cultura dei saperi femminili in cui la conoscenza del corpo femminile e l’assistenza al parto erano di competenza delle donne, si rivendicava anche un ritorno alla dimensione naturale di questi aspetti, rivalutando ad esempio il parto in casa o quello effettuato con il metodo Leboyer. Se a livello individuale self-help significava riconquistare il controllo sul proprio corpo e sulla propria salute, invece di delegarlo passivamente al medico per poi subirne il potere, a livello collettivo voleva dire creare un movimento e un corpo di conoscenze ai quali tutte le donne potevano far riferimento. Tutto ciò non inerisce però solo alla sfera della conoscenza e del saper fare tecnicamente delle operazioni, ma tocca anche la dimensione del vissuto e dell’emotività, in quanto si tratta di una particolare modalità di riappropriazione della propria corporeità sessuata. Come per la presa di coscienza, si parte da sé; e come nel piccolo gruppo anche qui gli incontri - in cui, armate di speculum e pila, ci si visitava da sole e a vicenda - sono molto emozionanti: è un’esperienza dirompente, nella quale non manca nemmeno l’aspetto anche un po’ ludico, di curiosità e complicità.Il passaggio seguente va nella direzione dell’ampliamento e allargamento di queste esperienze; dal piccolo gruppo, costituito da poche persone che si conoscono e si frequentano con regolarità, al progetto più ambizioso di dar vita a centri per la salute delle donne e infine a Consultori autogestiti.

I Consultori autogestitiLa “stagione” dei consultori autogestiti costituisce un’esperienza ponte tra la pratica dell’autocoscienza e la fase della mobilitazione di massa. I primi di essi nascono in Italia, in modo informale, dal 1973 e sono basati su volontariato femminile: gestiti dalle donne per le donne, essi non si pongono come “erogatori di servizi”, bensì come luoghi di riflessione e di ricerca collettiva, in cui la donna viene riconosciuta come soggetto e dove il ruolo tecnico dello specialista non dà vita a un rapporto gerarchico di potere. Aperti ai bisogni concreti e più urgenti delle donne, i consultori autogestiti si organizzano per dare risposte a esigenze che spesso non trovano riconoscimento sociale né istituzionale, quali quelle di una maggiore “umanizzazione” del parto, di anticoncezionali e farmaci esenti da effetti nocivi, della possibilità di ricorrere a un aborto libero e non traumatico.

L’aborto Il problema dell’aborto - che fu al centro insieme al divorzio e alla legge sulla violenza sessuale una delle grandi battaglie politiche di quegli anni - viene da subito avvertito, a differenza di quello del divorzio, come qualcosa che chiama direttamente in causa le donne, le riguarda e le coinvolge in prima persona. Parecchie ne hanno avuto esperienza diretta o indiretta e ciò che prima era relegato nel loro vissuto intimo era emerso, talvolta faticosamente, nei gruppi di autocoscienza.Certamente, si tratta di un tema che mette in gioco sensibilità e convinzioni, e che viene vissuto sempre nella sua complessa contraddittorietà, quella cha sarà poi tradotta in parole dallo slogan più diffuso di quegli anni: Vogliamo l’aborto/non

4

Page 5: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

vogliamo abortire. Apparve infatti chiaro da subito come, da una parte, fosse in gioco la libertà di scelta delle donne rispetto al proprio corpo e all’essere madri, ma c’era altrettanto forte la consapevolezza che dall’altra si trattava di una scelta individuale e dolorosa, che non poteva ricadere semplicemente nella categoria dei diritti civili, dove lo collocava la campagna dei radicali che per primi avevano promosso il referendum per l’abolizione delle norme del codice Rocco.

L’intervento politico sull’abortoQuando, intorno alla metà degli anni Settanta, il nodo dell’aborto acquista visibilità pubblica e rilevanza politica, perché su di esso si apre una battaglia parlamentare, su questo tema però il movimento si confronta e si divide. Al suo interno, le posizioni sono varie e contrastanti: non solo legge sì e legge no, ma anche mobilitazione o disimpegno, depenalizzazione o liberalizzazione.

Infatti, se molte donne si impegnarono in prima persona in questa campagna, con la capacità di imporre nuovi contenuti e punti di vista diversi, frutto di anni di riflessione e confronto, ci fu anche chi decise di non condurre nessuna battaglia in questa direzione, come il Collettivo milanese di via Cherubini che motivò tale scelta con un documento, pubblicato su “Sottosopra” del febbraio 1975, - Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso - in cui si metteva in evidenza la stridente contraddizione tra l’approfondimento sulla sessualità femminile condotto nei gruppi di autocoscienza e un intervento sul piano legislativo incapace, per la sua stessa natura, di coglierne e restituirne la complessità: è quella che viene chiamata “l’obiezione della donna muta”, cioè di colei che non voleva essere interpretata e rappresentata nelle battaglie politiche e nelle teorizzazioni globalizzanti e omnicomprensive. Veniva messo anche in discussione il senso di manifestazioni pubbliche in cui gli uomini, invece di interrogarsi sul loro comportamento sessuale, marciavano insieme alle donne per chiedere l’aborto libero “su un corpo che non è il loro”.Da una parte, quindi, la legge sull’aborto – pur con tutte le sue lacune, incongruenze e limitazioni - veniva vista come un grosso passo avanti nel riconoscimento dell’esistenza di un problema ritenuto fino ad allora sostanzialmente “privato”, dall’altra parte la riduzione a legge di una problematica così complessa e densa di sfaccettature era letta come qualcosa che impoveriva e toglieva spessore al dibattito ricco e articolato espresso fino ad allora dal movimento. Perciò, una parte del femminismo si sottrasse, con le motivazioni che si sono viste, alle campagne di mobilitazione e a quelle manifestazioni di massa che costituirono invece per molte donne, fino ad allora esterne – più che estranee - al movimento, la prima occasione di entrarvi e di partecipare alle sue iniziative.

Chi condusse la campagna politica per l'aborto lo fece, comunque, muovendosi su un terreno che era quello della propria specificità e del proprio privato, con un’escalation delle azioni di protesta che culminò nelle autodenunce delle donne che

5

Page 6: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

avevano abortito, nella costruzione di una rete non clandestina di solidarietà e aiuto alle donne che dovevano abortire e nelle grandi manifestazioni di massa.

Ma si trattava pur sempre di una mobilitazione che implicava - come già si è visto - anche un forte coinvolgimento, tale da non poter essere facilmente ricondotto entro una questione dibattuta in termini legislativi. Ed emergevano perciò contraddizioni, dubbie ricadute emotive:

avevamo avuto delle discussioni se ad esempio ci poteva essere un limite al momento in cui interrompere la gravidanza. Che le decisione dovesse essere interamente della donna, su questo eravamo tutte d’accordo. Però non c’erano accordi monolitici sul momento; alcune pensavano che tre mesi fosse il limite, a meno di casi eccezionali (malformazioni, etc.), altre invece pensavano che si potesse andare avanti. Io personalmente pensavo di no. Pensavo che una donna non potesse pensare a sei mesi di abortire. Poi l’aborto è senz’altro una cosa non piacevole neanche dopo due settimane, però mi sembrava tollerabile entro tre mesi.

Ci sono state tantissime sfaccettature in questo dibattito, fino ad arrivare a questa cosa che chiama anche un po’ in campo il nostro radicalismo estremista: che non ci doveva essere nessun termine di legge sulla questione. Doveva essere depenalizzato; poi erano le donne che autonomamente avrebbero deciso quando era il loro momento se abortire e quando abortire. Bisognava dare fiducia alle donne e comunque era una decisione data alle donne: che le donne si prendevano (“l’utero è mio”). Questo per me è ancora un problema assolutamente su cui non saprei cosa altro aggiungere e cosa altro dire, perché comunque mi ricordo di una compagna che ho aiutato ad abortire e che era al quinto mese. E quindi… lei ovviamente immaginavo come stava, io anche; però la decisione era sua e io …

Per dare meglio conto delle posizioni e per poter inserire le varie tappe dell’intervento femminista all’interno del contesto più generale, è necessario però ripercorrere, sia pure in maniera sommaria e nelle sue linee essenziali, la faticosa e lunga elaborazione di una legge su questo tema.

La proposta di una legge di iniziativa popolareLa legge in vigore, prima della 194, risaliva al codice Rocco, nel quale l’aborto era definito “delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe” e veniva punito con pene detentive da 5 fino 12 anni, sia per chi vi si sottoponeva che per chi lo procurava. Ciononostante, pur di non portare avanti una gravidanza non desiderata o mettere al mondo un figlio che si sapeva di non poter mantenere - in una situazione in cui non era possibile ricorrere agli anticoncezionali perché erano illegali - ogni anno circa tre milioni di donne abortivano e di queste ventimila morivano di aborto (e si tratta di cifre ufficiali, presumibilmente inferiori a quelle reali). Infatti, chi non poteva, per ragioni sociali ed economiche – ed era la maggior parte delle donne – accedere a cliniche private o ricorrere a medici compiacenti, che facevano pagare ben cara la loro disponibilità, era costretta ad affidarsi alle mammane, le donne del paese cosiddette esperte, che con il chinino, gli aghi da calza, il prezzemolo e senza

6

Page 7: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

anestesia procuravano l’aborto in condizioni igieniche spaventose, che accrescevano enormemente il rischio di morte. Già nel 1971 - subito dopo la sua costituzione – l’Mld - cioè il Movimento per la Liberazione della Donna, nato nel 1970 e che si costituì però ufficialmente, come una formazione specifica composta da uomini e da donne nell'ambito del Partito radicale (cui era federata, al pari del Fuori (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, il movimento per i diritti degli omossessuali fondato nel 1973 da Angelo Pezzana, e di altri movimenti) solo nel febbraio del 1971, col suo primo congresso - proponeva di raccogliere firme per presentare una legge d'iniziativa popolare che abolisse il reato di aborto, sostenendo che porre di fatto fuori legge un comportamento femminile ricorrente (e secolare) nel momento stesso in cui esso avveniva comunque, a dispetto di ogni legge, significava in definitiva che le donne soffrivano di un difetto di cittadinanza proprio a causa di un diritto civile negato.Immediatamente Carla Lonzi, rifiutò per sé e per il suo gruppo (Rivolta femminile) di apporre la firma sotto la proposta dell'Mld. Rivolta Femminile, uno dei primi gruppi del femminismo italiano, nato nella primavera del 1970, sulla base di un manifesto programmatico alla cui stesura avevano partecipato Carla Lonzi, Carla Accardi, Elvira Banotti e altre. In esso si affermava che la donna sarebbe riuscita a liberare davvero sé stessa se avesse saputo ricominciare da capo il cammino della storia e della cultura, perché “identificare la donna all’uomo” avrebbe significato “annullare l’ultima via di liberazione”4. Alla critica delle istituzioni patriarcali - come la famiglia e il matrimonio - si affiancava quella dei grandi filosofi del passato (i “sistematici del pensiero”) che avevano teorizzato l’ inferiorità e la soggezione delle donne come condizione immutabile5, ai quali si contrapponeva, in termini di riflessione filosofica e politica, la radicale presa di distanza dall'universo maschile e da una cultura e una storia che non davano conto dell'esperienza femminile; la necessità di rapporti significativi tra donne; l'affermazione dell'alterità e della differenza tra i sessi, la critica radicale dell'uguaglianza: “Liberarsi non vuol dire per la donna accettare la stessa vita dell'uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell'esistenza”, è una delle frasi iniziali ed emblematiche del Manifesto.Carla Lonzi colse infatti da subito quello che verrà poi riconosciuto come il vero nocciolo della questione e che si riassume nella domanda che ogni donna dovrebbe porsi: “Per il piacere di chi sto abortendo?”. Si aprì perciò il dibattito sul nesso inscindibile tra maternità e sessualità femminile dentro il modello obbligato per “natura” dell'eterosessualità. Per Carla Lonzi la soluzione del problema non era una legge che legalizzasse l’aborto, ma rivendicare per le donne una sessualità sganciata dalla procreazione:

4 Cfr. Manifesto di Rivolta femminile, cit.5 Non a caso uno degli scritti più importanti e conosciuti di Carla Lonzi si intitola proprio Sputiamo su Hegel.

7

Page 8: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire.

Il grande interrogativo che da subito, quindi, si imponeva alla riflessione delle donne, ma non solo, era se una legge che rendeva l’aborto legale potesse diventare un obiettivo di liberazione, mascherando e negando un’oppressione che cominciava prima e di cui l’aborto rappresentava solo l’aspetto finale. Un anno spartiacque: il 1973È il 1973 ad essere da questo punto di vista un anno spartiacque, perché – per una serie di fatti concomitanti - diede visibilità al problema. Innanzi tutto, la proposta di un disegno di legge, l'11 febbraio 1973, che portava la firma del socialista Loris Fortuna e in cui si individuavano dei casi (se sussisteva un pericolo grave per la salute della mamma, se la donna era stata vittima di violenza o di incesto, se aveva già partorito cinque volte o aveva più di 45 anni) per i quali non veniva mantenuto il divieto di aborto, costituì la spinta iniziale all’avvio di un dibattito parlamentare su questo tema; fino ad allora, alla chiusura della Chiesa corrispondeva l’inadeguatezza della legislazione in Italia: sull’aborto, infatti, non era prevista alcuna regolamentazione - salvo poi punirlo, come si è visto, in quanto “delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe”, con la reclusione da due a cinque anni.

Nel dibattito che si apre il 28 febbraio in seguito a questa proposta di legge, all’interno del gruppo dirigente del Pci, che fino ad allora non aveva preso posizione,

ritornano, aggravati, gli stessi limiti che già erano emersi nella discussione sul divorzio: sottovalutazione della maturità del paese, privilegiamento – talora ossessivo – del rapporto con la Dc, inadeguatezza culturale.

La posizione dell’Udi - almeno per questa prima fase - era già emersa con molta chiarezza in un convegno del 1972 sulla maternità.L’Udi (Unione Donne italiane) nasce a Roma, nell’Italia ancora in guerra, raccogliendo le esperienze elaborate dai Gruppi di difesa della donna durante la Resistenza e proponendosi di “unire tutte le donne italiane in una forte associazione” che sapesse “difendere gli interessi particolari delle masse femminili e risolvere i problemi più gravi e urgenti di tutte le donne lavoratrici, delle massaie e delle madri”. Considerata una delle realtà protagoniste dell'Italia repubblicana, ha sostenuto negli anni molte battaglie in difesa dei diritti delle donne e per una loro piena cittadinanza: strumenti di diffusione di questi temi erano la rivista “Noi donne” e la pagina settimanale della donna sul quotidiano comunista “l’Unità”, dove si affrontavano a volte anche alcune questioni specifiche del privato femminile. L’Udi condivideva con Pci e Psi le scelte politiche di fondo: le sue dirigenti erano, non a caso, spesso esponenti di rilievo, sia sul piano nazionale che locale, di quei

8

Page 9: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

partiti. Voto alle donne, diritto al lavoro e parità salariale, diritto all'istruzione, pensione alle casalinghe, accesso a tutte le carriere, servizi sociali per l'infanzia e per le lavoratrici sono le tappe di un percorso nel quale gli obiettivi della componente femminile si intrecciavano con quelli più generali del movimento operaio, anche se veniva comunque rivendicata dalle militanti dell’Udi una loro autonomia rispetto ai partiti di riferimento.

In quel convegno l’Udi alla richiesta di liberalizzazione dell’aborto contrapponeva il suo superamento attraverso i consultori, l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole e la sua depenalizzazione nelle strutture sanitarie pubbliche: tutte proposte in cui non c’era alcun cenno all’ autodeterminazione della donna e in cui l’aborto continuava ad essere visto come un problema sociale - un fenomeno che confermava la miseria e l’arretratezza sociale femminile - e non come una libera scelta, momento di determinazione di sé e del proprio destino.

Sempre nel 1973 si svolse a Padova il processo a Gigliola Pierobon, accusata per un aborto praticato otto anni prima, nel ‘67, quando era ancora minorenne. Gigliola Pierobon, giovane seguace di Lotta femminista, a 17 anni restò incinta e venne subito abbandonata dal padre del bambino. Decise allora di abortire, con l’aiuto di un amico universitario – divenuto poi suo marito – e di un’assistente infermiera, entrambi incriminati con lei. La giovane, rompendo il silenzio e l’ipocrisia, dichiarò che la persona cui si era rivolta le aveva chiesto 30 mila lire anziché le 500.000 normalmente richieste dai medici compiacenti che pubblicamente si dichiaravano contro l’aborto.Lotta femminista - movimento nel quale la Pierobon militava - decise di fare un caso politico del processo, che si trasformò così in un grosso momento di mobilitazione, caratterizzato dal rendersi visibili, a sostegno dell’imputata, di alcuni gruppi del femminismo italiano - che con la loro presenza vi conferirono una connotazione politica e non più di semplice cronaca - e dall’inizio della pratica provocatoria dell’autodenuncia di massa come momento alto di disobbedienza civile, sulla scia di quanto era già avvenuto in Francia con il Manifesto delle 343. Si trattava di un Manifesto in cui 343 donne più o meno celebri si autodenunciavano, dichiarando di aver abortito. In testa alla lista delle firmatarie c’era Simone de Beauvoir, seguita da nomi quali Marguerite Duras, Jeanne Moreau e Catherine Deneuve. Il manifesto con tutte le firme fu pubblicato da uno dei maggiori settimanali francesi, “Le nouvel observateur” e quella spettacolare confessione di un reato punibile con anni di carcere fu diffusa così in centinaia di migliaia di copie. Poco dopo il famoso Manifesto delle 343 ne apparve un altro, detto “dei medici”, in cui molti nomi illustri nel campo della scienza medica approvavano la campagna femminista e ne condividevano gli obiettivi.Durante il processo Perobon, il pm convocò, assistite da avvocato, tre donne, scelte a caso tra le centinaia che si erano provocatoriamente autodenunciate per lo stesso

9

Page 10: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

reato. Il tribunale concesse il perdono giudiziale alla Pierobon, che all’epoca dei fatti era minorenne.

Ancora in quell’anno, a febbraio si svolge l’incontro - organizzato a Roma, presso la facoltà di Medicina, da “il manifesto” insieme con il movimento femminista - con l’avvocata francese Gisèle Halimi, che aveva difeso una giovanissima donna violentata da un compagno di classe, e la madre di lei Michèle Chevalier, processata per aver aiutato ad abortire la figlia sedicenne. La detenzione di una minorenne, della madre e delle complici avevano suscitato grande risonanza e sdegno nella società francese già sensibilizzata l’anno precedente dal citato manifesto delle 343 e nel corso del processo e del pubblico confronto che ne seguì erano addirittura intervenuti due premi Nobel per la medicina, Francois Jacob e Jacques Monod, a dichiarare che la decisione se una gravidanza dovesse continuare o no non spettava al biologo, al medico, al giudice o al vescovo, ma solo alla donna e che l’aborto non era affatto un infanticidio6. Questo dibattito, che trovò anche una forte risonanza sulla stampa, ebbe il merito di riportare ancora una volta la questione dell’aborto sotto i riflettori dei media e all’attenzione dell’opinione pubblica italiana.

Infine, sempre nel ‘73 nasce - per iniziativa delle radicali Adele Faccio, Emma Bonino e Maria Adelaide Aglietta - il Cisa (Centro di informazione per la sterilizzazione e l’aborto) che si pone come obiettivo la riforma delle norme del codice penale sull'aborto e sulla sterilizzazione, lo studio scientifico delle tecniche per l'interruzione di gravidanza e della vasectomia e l'assistenza alle donne bisognose di aborto terapeutico negli ospedali pubblici. Ma il Cisa aiuta anche ad abortire tutte le donne che lo desiderano, all’inizio organizzando voli charter a basso costo per Londra e per l’Olanda presso cliniche precedentemente contattate, poi gestendo direttamente cliniche o consultori per praticare l’aborto con l’aspirazione o “metodo Karman”: il rispondere ai molti aborti clandestini con molti aborti alla luce del sole era una scelta ben precisa di rifiuto della clandestinità attraverso gesti di disobbedienza civile.

Firenze, Seveso, TrentoIl 1975 è un altro anno di svolta, ricco di avvenimenti significativi. Si apre il 10 gennaio, con la polizia che fa irruzione a Firenze nella sede del Cisa, in seguito a una denuncia del deputato missino Giorgio Pisanò, arrestando quaranta donne, alcuni medici tra cui il ginecologo Giorgio Conciani e anche esponenti del partito radicale (il suo segretario Gianfranco Spadaccia, Emma Bonino, Adele Faccio) accusati di coprire l’attività di una nota clinica fiorentina in cui venivano effettuati aborti con il metodo Karman. Il provvedimento giudiziario ebbe un grande risalto sulla stampa e contribuì a portare ancora una volta all'attenzione dell'opinione pubblica il tema dell’aborto clandestino. Il 12 gennaio, due giorni dopo, cinquemila 6 Alla fine il processo si chiuse con pene molto miti: una multa alla ragazza, un anno di reclusione a chi aveva praticato l’aborto, assoluzione per le due intermediarie.

10

Page 11: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

donne scendevano in piazza a Firenze gridando: “Fuori le donne che hanno abortito, dentro Fanfani7 e tutto il suo partito” e manifestazioni simili vennero organizzate in tutta Italia. Il 18 e il 19 gennaio 1975 sono giornate legate a due immagini ormai fissate nella memoria collettiva. La prima è quella del manichino rappresentante una specie di dea Cibele che veniva portata in giro adornata di collane di bambolotti, in un corteo romano del 18 gennaio; l’altra è quella della donna incinta, nuda e crocefissa sotto la scritta Ecce mater, apparsa il 19 gennaio sulla copertina dal titolo Aborto: una tragedia italiana di “L’Espresso”, che promuoveva una raccolta di firme, sostenuta dal partito radicale, per un referendum abrogativo degli articoli del codice penale che vietavano l’aborto8.

L’11 febbraio, a Trento una manifestazione nazionale porta diecimila donne in corteo, dopo l’incriminazione per procurato aborto di 273 donne, i cui nomi figuravano nelle cartelle di un ginecologo; altri cortei di solidarietà si tengono a Firenze e Padova.

Il 1975 è anche l’anno in cui la Corte costituzionale dichiara non punibile l’aborto terapeutico, secondo il principio per cui non c’è equivalenza “tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione, che persona deve ancora diventare”, creando in tal modo un vuoto legislativo, proprio mentre la mobilitazione è nel pieno dello sviluppo, e costringendo di fatto i partiti che – tranne quello socialista – si erano fino ad allora rifiutati di confrontarsi esplicitamente su questa tematica, ad affrontare la questione, presentando vari progetti di legge: quelli di Psdi, Pci, Pri, Pli e Dc. Il movimento femminista da una parte si occupa concretamente delle donne costrette a ricorrere a un aborto, garantendo loro la possibilità di farlo e o all’estero o clandestinamente in Italia, ma in modo gratuito e sicuro; dall’altra si pone, rispetto al discorso legislativo, come sostenitore - con grande fermezza e nessuna disponibilità a mediazioni - del fatto che la prima e ultima parola dovevano spettare unicamente alla donna, in ciò contrapponendosi nettamente a tutti i progetti di legge presentati, che sfoceranno poi nell’elaborazione di un testo unico, la cui discussione avrà inizio nell'aprile 1976.Il 6 ottobre del 1976, infine, fu presentato alla Camera dei Deputati un nuovo progetto di legge da Silverio Corvisieri e Mimmo Pinto, rispettivamente di Avanguardia Operaia e Lotta Continua e facenti entrambi riferimento a Democrazia Proletaria: la legge cosiddetta “delle donne”, perché recepiva richieste provenienti da una parte del movimento dei consultori di Torino, che prevedeva l’estensione

7 Amintore Fanfani (1908 –1999), più volte Presidente del Consiglio, nel 1973 era stato rieletto Segretario politico della Democrazia Cristiana, carica che ricopriva ancora nel 1975.8 Questa copertina provocò l’intervento della magistratura e la denuncia del giornale per oscenità e vilipendio alla religione.

11

Page 12: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

illimitata del concetto di autodeterminazione femminile, consentendo l’interruzione della gravidanza fino anche al nono mese9.

Sempre nel 1975, il 10 luglio avvenne il famoso incidente all’Icmesa con una fuoriuscita di diossina che interessò una vasta zona circostante, comprendente i territori di Seveso, Cesano Maderno, Desio. In una situazione in cui la legge consentiva a mala pena il cosiddetto “aborto terapeutico”, il caso Seveso scatenò un aspro dibattito, da un lato sull’entità dei rischi teratogeni e mutageni in caso di gravidanza delle donne contaminate e dall’altro sulle procedure con cui accertare il “danno psicofisico” della madre, attestazione senza la quale non era possibile ricorrere all’aborto10.In quello stesso anno, intanto, si costituiva a Roma il Crac (Coordinamento Romano per la liberalizzazione dell’Aborto e della Contraccezione) nel quale confluirono donne provenienti da Avanguardia Operaia, Pdup, Lotta Continua e da vari Collettivi femministi: un'autogestione in cui c’era spazio per il self-help, l'autocoscienza prima e dopo l'intervento, la gratuità e la scelta delle case private attrezzate per la circostanza.L’anno si chiude, infine, il 6 dicembre 1975, con una grande manifestazione che si svolge a Roma, per rivendicare il diritto all’aborto libero, gratuito, assistito e in cui l’ultima parola fosse quella della donna. L’ importanza di questa manifestazione non consiste unicamente nel numero delle partecipanti che ne fa una delle prime e più grandi manifestazioni nazionali di sole donne, ma soprattutto nella risonanza che provocò nella stampa e nell’opinione pubblica, che non poterono più non prendere atto di questo nuovo soggetto politico. La manifestazione romana restò però nella memoria collettiva anche per gli incidenti che si verificarono - primo segnale della frattura fra la componente femminile di Lotta Continua e il suo gruppo dirigente e più in generale fra il movimento femminista e i gruppi della nuova sinistra - in quanto alcuni militanti di Lotta Continua cercarono di entrare con la forza nel corteo delle femministe che volevano invece procedere da sole e avevano perciò chiesto agli uomini di fermarsi ai margini.

Gli incidenti che seguono sono lo specchio di una crisi incomponibile: mettono a nudo l’incomunicabilità costitutiva del movimento femminista con i modi e le forme della politica maschile e, di contro, i nervi scoperti dei solerti “compagni” di lotta, militanti nei gruppi della nuova sinistra, pronti a collocare la causa della liberazione della donna in cima ai loro programmi, ma altrettanto pronti a riprendersi il posto di comando che sentono insidiato dalle “compagne”.

Non è certo un caso che il quotidiano “Lotta Continua” per due giorni glissi su quanto accaduto, limitandosi a dare notizia della manifestazione; ma con quello che è successo dovrà comunque fare pesantemente i conti a distanza di poco meno di un

9 La proposta era talmente assurda che lo stesso gruppo di Democrazia Proletaria si asterrà nel momento della votazione finale del testo.10 Cfr. al proposito l’inchiesta di Marcella Ferrara (a cura di), Le donne di Seveso, Editori Riuniti, Roma 1977 e l’elaborazione dell’accaduto sotto forma di romanzo di Laura Conti, La lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, Roma 1978.

12

Page 13: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

anno, in quel congresso che si svolse a Rimini tra il 31 ottobre e il 4 novembre 1976 e che sancì la fine del movimento.

Gli ultimi dibattiti e l’approvazione della leggeIl 7 giugno del 1977 la votazione al Senato determina la reiezione della legge nei termini in cui era stata presentata dalla Camera – che l’aveva approvata con 310 voti favorevoli e 296 contrari - rendendo in parte vani gli undici mesi di proposte e tentativi di miglioramento del testo.

Due sono in particolare i punti su cui maggiormente si discute: l’età in cui si può abortire (16 versus 18) e la partecipazione del padre alla decisione C’è un tentativo del Pci di andare comunque all’apertura di una trattativa con la Dc su punti precisi: la “reintroduzione” della legittimità del padre del concepito a partecipare alla decisione dell’aborto e l’elevamento a 18 anni dell’età minima che consente alle donne di decidere autonomamente l’interruzione della gravidanza. Si tratta di modifiche che intaccano gravemente il principio dell’autodeterminazione, sulle quali alcune deputate annunciano già che non staranno alla disciplina di partito; diranno no Susanna Agnelli, del Pri; Anna Maria Magnani Noya, del Psi e Giancarla Codrignani, cattolica indipendente nel Pci; ma anche le donne dell’Udi. Infatti, nella battaglia sulla legge per l’aborto, i percorsi del movimento femminista e quelli dell’Udi si scontrano e si incontrano a più riprese;, avvengono nell’Udi cambiamenti non da poco, che la portano dal collateralismo al Pci all’affermazione decisa di una propria autonomia e al far propri temi e pratiche dei femminismi. Si va dalla dissociazione rispetto alla posizione del Pci proprio sulla questione della libera scelta della donna all’accettazione del separatismo in occasione della seconda grande manifestazione delle donne su questi temi11, - indetta per il 3 aprile 1976 in seguito alla bocciatura del testo sull’aborto in discussione in Parlamento - riconoscendo così di fatto la legittimità dell’impostazione femminista della campagna e agevolando il passaggio dalla fase precedente di pesante conflittualità alla costituzione invece di un fronte femminile comune.

Ma all’interno del movimento il fronte è ancora parecchio diviso. E diviso il movimento si presenta alla manifestazione romana che vede l’8 Aprile 1978 scendere in piazza 15.000 donne, e che si caratterizza anche per qualche colluttazione per far rispettare la decisione che alla testa del corteo ci fosse lo striscione dei collettivi dei consultori (Aborto libero, gratuito, assistito) e non quello dell’ Mld, che aveva come parole d’ordine la depenalizzazione e la richiesta di referendum. Gli slogan più gridati sono: Moro qui, Moro là / ma l’aborto dove sta?;aborto libero autodeterminato/ no alla legge dello Stato; Dc Pci Vaticano/ sulla nostra pelle si danno una mano.

11 La prima era stata quella del dicembre 1975.13

Page 14: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

Il rapimento dell’on. Moro - avvenuto il 16 marzo 1978 - cui faceva riferimento uno slogan della manifestazione ha in effetti un grosso peso anche sulla discussione della legge, se come scrive Miriam Mafai

un argomento nuovo è stato introdotto nel dibattito da parte di molti democristiani […]. Dicono che la strage di via Fani e il rapimento dell’on. Moro e la necessaria salvaguardia delle istituzioni democratiche – su cui tutti, naturalmente, concordiamo – comportano anche la necessità di riaffermare la validità di alcuni principi morali, come appunto il rispetto della vita umana, che questa legge metterebbe in forse.

D’altra parte, possiamo anche ricordare come dai banchi della Dc il sen. Trifogli sostenesse, replicando a un intervento della senatrice comunista Renata Talassi Giorgi: “Mi batto contro la barbarie di chi vorrebbe salvare Moro dalla prigione delle Br e però vuole uccidere il nascituro nella prigione dell’utero” e come gli facesse eco il suo compagno di partito Alessandro Agrimi, affermando: “In questo Paese si condanna la caccia e si tutelano le uova di selvaggina ma contemporaneamente, con la legge sull’aborto, si apre la caccia all’uomo”. E - sempre perché è giusto anche ricordare affermazioni di questo tipo, che quasi si stenterebbe a credere vere se non fossero documentate - il procuratore generale alla corte d’appello dell’Aquila, Donato Massimo Bartolomei, in una conferenza sul diritto alla vita organizzata nel capoluogo abruzzese sentenziava: “L’aborto legalizzato è contrario alla naturale riservatezza delle donne che preferiscono quello clandestino”.

I maggiori partiti, temendo il referendum proposto dal partito radicale mirante alla completa liberalizzazione dell’aborto che era stato fissato per il giugno 1978, e preferendo giungere comunque a una legge, accelerarono i lavori della Camera, facendo il ricorso anche alla cosiddetta “seduta fiume”.Il testo (sostenuto da Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e sinistra indipendente) fu approvato dalla Camera con 308 voti a favore e 275 contrari. (Dc, Msi-Dn, Democrazia nazionale, Sudtiroler Volkspartei, e per un altro verso Pr e Dp) e definitivamente approvato in senato il 22 maggio con 160 voti contro 148, tra cui Pr e Dp non perché contrari alla depenalizzazione, ma perché si opponevano ai limiti che la legge poneva alla totale libertà di abortire. La legge 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”) che veniva così approvata era caratterizzata dalla connotazione della donna come soggetto che, in quanto tale, era la sola a poter decidere di avviare un procedimento per l’interruzione di gravidanza, ma solo a determinate condizioni: il percorso si doveva svolgere in strutture pubbliche e l’aborto era possibile solo se si dimostrava che la donna era in condizioni fisiche, psicologiche, materiali tali per cui non era possibile portare a termine la gravidanza. Tali condizioni erano valutate dal medico, il quale poteva comunque praticare l’obiezione di coscienza (nel 1979 sono il 72% i medici obiettori).Quindi c’è un incontrollabile potere dato al medico e alla medicina che deve decidere se la donna è nella condizione fisica o psicologica di non poter portare avanti la

14

Page 15: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

gravidanza e che può fare obiezione di coscienza: la legge che mantiene l’aborto reato; e punisce con il carcere le pratiche di autogestione; sottopone le minorenni al controllo della famiglia, col rischio di ricacciarle nell’aborto clandestino.Ma è anche importante sottolineare alcune cose: nella legge 194, non si fa menzione di alcun “diritto” all'aborto, si parla invece di autodeterminazione, proprio perché la grammatica dei diritti risultò, innanzitutto alle legislatrici che vi lavorarono, fuorviante, inadeguata ad esprimere il nesso indissolubile di libertà e responsabilità compreso nella mente-corpo femminile. Ricorrendo al concetto del tutto nuovo di autodeterminazione fu possibile affermare la libertà femminile senza cadere nella rivendicazione di un diritto individuale all'aborto che avrebbe attivato un corrispondente diritto del concepito, in paradossale conflitto con la madre.La fonte di questo potere è nella relazione madre/feto che si instaura nella gravidanza e che solo le donne vivono e dunque possono accogliere o no. È la relazione corporea e umana indispensabile per venire al mondo non riportabile alla logica dei diritti che prevede individui separati, neutri, equidistanti. Una logica di diritti paritari contrapposti che divide ciò che nel grembo materno è legame che solo la donna può scegliere di portare avanti. Nessuno fuori di lei. Come fa notare la filosofa Caterina Botti12, ciò che si deve fare è riconoscere che ci troviamo davanti a una relazione tra donna e feto in cui la piena partecipazione della donna è fondamentale ed è solo per questo motivo che deve essere la sua parola a contare. Posizione, come si vede, ben diversa da quella che sostiene che la donna deve avere l’ultima parola rispetto all’aborto perché nessuno ha il diritto di interferire con il suo corpo – considerato a stregua di una proprietà privata- o perché si tratta di una scelta che riguarda solo lei; qui si tratta di sostenere, invece, che la donna è libera di decidere perché si trova in quella specifica relazione e se ne sente responsabile. L’aborto, cioè, più che un atto che interrompe la vita di un embrione, è la decisione di non far sviluppare una relazione; decisione quindi in cui anche la donna perde qualcosa, quella parte di sé messa in gioco nel divenire madre.

I referendum L’approvazione della legge fece decadere il referendum abrogativo degli articoli del Codice Rocco sul reato d’aborto, voluto dai radicali e che si sarebbe dovuto svolgere nel giugno del ’78; ma ne furono proposti altri due, abrogativi della legge 194. Il primo era promosso dall’organizzazione cattolica Movimento per la vita, che già tre mesi prima della approvazione da parte del parlamento della legge 194 aveva avviato in parecchie città italiane una raccolta di firme con cui presentò ben due referendum; l’altro, richiesto dal Partito radicale per abrogare gli articoli che regolavano l’intervento di interruzione di gravidanza nelle strutture pubbliche, al fine di liberalizzare maggiormente l’aborto.

12 Cfr. Caterina Botti, Prospettive femministe. Morale, bioetica e vita  quotidiana,   Espress Edizioni, Torino 2012.15

Page 16: TORINO, 16 aprile · Web viewTORINO, 16 aprile Intervento di Graziella Gaballo Quello che mi è stato chiesto oggi, in questo incontro sul tema dell’autodeterminazione, è di inquadrare

Nel febbraio 1981 la Corte Costituzionale ritenne ammissibile il quesito referendario del Partito Radicale e uno solo dei due quesiti abrogativi promossi dal Movimento per la vita e indisse i referendum abrogativi per il 17 maggio 1981.

Fu di nuovo una battaglia che vide schierate e impegnate le compagne dei collettivi: la schiacciante vittoria dei No contro l'abolizione della legge proposta dai cattolici (che ottennero solo il 32 % di consensi), insieme alla bocciatura di quello dei radicali sulla totale depenalizzazione (che ottenne l’11%), sembrò segnare la fine della discussione sull'aborto. Ma il dibattito era destinato a ripresentarsi ciclicamente: basti ricordare come ancora oggi sia in atto una battaglia contro il massiccio ricorso all’obiezione di coscienza – che si è trasformata da strumento di affermazione di libertà e di disobbedienza civile ad arma utilizzata in contrapposizione a diritti sanciti da una legge nazionale13 - e per ottenere la garanzia che la legge venga applicata e che ciascuna donna, ovunque viva in questo paese, vi possa ricorrere senza che la sua responsabile scelta si trasformi in una corsa a ostacoli.

13 Non solo attualmente - a causa dell’altissima percentuale di medici obiettori - in Italia ci sono strutture dove alla donna che ha deciso di interrompere la gravidanza è impedito totalmente di vedere rispettata la propria scelta, ma tra pochi anni non esisteranno medici con esperienza di IVG (interruzione volontaria di gravidanza). Tutto ciò trasforma quindi di fatto l’obiezione di coscienza – che poteva avere un senso nel 1978, in quanto la legge prevedeva una procedura nuova che poteva contrastare con i principi etici di personale già assunto, ma non adesso, visto che chi lavora in un ospedale vi è entrato già sapendo che c’è una legge dello stato che garantisce la possibilità di aborto - in obiezione di struttura.

16