The circle light

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the circle magazine di innovazione, comunicazione, marketing bimestrale numero 0, anno I aprile 2015 Il marketing della sopravvivenza

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the circlemagazine di innovazione, comunicazione, marketing

bimestralenumero 0, anno Iaprile 2015

Il marketing della sopravvivenza

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The circle - magazine di innovazione, comunicazione, marketing

anno 1 - numero 0 - Aprile 2015

direttore editoriale responsabile di redazione con il supporto diDavide Pellegrini Francesca Fornari/Edicoletta Lateral Training

Non è un giornale, non è nemmeno un house organ. The circle è un prodotto di publishing e, come tale, non ha bisogno di spiegazioni. Raccoglie spunti e riflessioni sul mondo della comunicazione, dei social media e del mar-keting. Soprattutto, cerca di proporre una riflessione di buon gusto e buon senso sul tema del cambiamento e su come l’innovazione ormai sia davvero l’unica strada per rilanciare l’economia, valorizzando gli individui al di là del consumo.

Articoli, esempi presi dal grande “stomaco” della rete, spunti di riflessione rubati dai libri, fatti di cronaca o, sem-plicemente, tendenze e modelli di comportamento che si stanno diffondendo. Abbiamo il dovere di pensare, abbia-mo l’esigenza di ricostruire un mondo sostenibile e sicuro.

Buona lettura

Davide PellegriniChi sono - clicca qui

Sommario

Correzione di bozze, editing, supervisione editoriale a cura de L’Edicoletta

Editoriale - il senso della felicità

Il marketing e l’uomo

Just talented

Il caso Anthony Vincent

The king of Random

The storytelling xperience

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Sto leggendo l’ennesimo libro di Robert & Edward Skidelsky - ci credereste? - e l’introduzione ha già colpito nel segno. Perché lavoriamo se il teorema di Keynes è crollato ormai da tempo? Certo, tutti vogliono di più di quello che hanno ed è pur vero che non c’è bipede sul suolo terrestre a cre-dere nella favoletta che i soldi non diano la felicità. Magari, è vero, non potranno dare quel senso totale e totalizzante di leggerezza e soavità interiore però, siamo sinceri, levano dalle scatole parecchi grattacapi.

Perché, nonostante tutto, ci alziamo la mattina con l’idea fis-sa di realizzare qualcosa del nostro tempo? Probabilmente perché ne abbiamo molto a disposizione e, purtroppo, non è possibile in alcun modo capitalizzarlo al di fuori dell’eco-sistema sociale al quale apparteniamo per stato di nascita. Siamo condannati ad avere un ruolo e a svolgere una man-sione fino a che siamo liberi viaggatori nel globo terrac-queo. Allora molti di sono detti, cerchiamo di fare del nostro meglio. Se dobbiamo avere rapporti con gli altri, se il nostro fare deve misurarsi in funzione del riconoscimento da parte del sistema sociale, cerchiamo di esprimere un potenziale che, nel portare al massimo valore la nostra identità, pos-sa contribuire al miglioramento del contesto. Noi lavoriamo

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perché siamo animali sociali e il nostro essere sociale chiede che il proprio ruolo sia proiettato verso una continua crescita.

Ma questo meccanismo può garantire la feli-cità? I due Skidelsky avvertono: «The political problem is one of organising our collective exi-stence so as to make it easier for people to actually lead good lives».

Il punto non è più il lavoro o il guadagno, e non è neppure la dimensione identitaria del posizio-namento simbolico del ruolo di lavoro; il punto oggi è: per vivere bene bisogna esere felici, e per essere felici e contribuire a ricostruire un sistema collettivo possibile, biosgna prima di tutto ritrovare se stessi.

Editoriale

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Davide Pellegrini

Qualche tempo fa Philip Kotler, grande saggio della cul-tura aziendale, ha dichiarato che il futuro è nel marke-ting umanistico. Come spesso accade, soprattutto nella classica divisione di chi studia le cose e di chi, invece, le applica, la sensazione è stata quella di aver lanciato un monito destinato ad aprire nuove strade di senso nel modo di fare comunicazione, e di aver allo stesso tempo provocato una reazione a catena fatta di scetticismi e critiche piccate.

Dal mio punto di vista, dovremmo cominciare a lavorare in modo serio sulla smitizzazione dei ruoli e – nel rico-noscere i giusti tributi a chi ha dedicato una vita all’iper-definizione sistematica di una teoria – dovremmo usare la nostra testa e ragionare. Lontani, perciò, da qualsiasi soggezione di fronte a uno studioso universalmente ri-conosciuto come guru, cerchiamo di capire il fenomeno partendo, semmai, dall’esperienza più che dal dogma.

“un manifesto per un marketing

umanistico”

Il marketing e l’uomo

Mi ha fatto sorridere l’indignazione di molti accade-mici rispetto alla classificazione di “marketing uma-nistico”. Per molti è un ossimoro, per altri ancora è una forzatura che nasconde una strategia pro-mozionale di nuovi libri o conferenze, per altri an-cora è acqua fresca rispetto allo stare ogni giorno in trincea a combattere con la più che tradizionale dialettica prodotto-mercato. Kotler fa riferimento alla nuova centralità delle persone, al superamento della verticalità delle strategie di marketing in un’o-rizzontalità relazionale che oggi rende le persone e i loro mondi psico-emotivi i veri protagonisti del crearsi e propagarsi di ogni opinione, convinzione, fede. Come dire: prima il mercato condizionava le persone, ora di fatto sono le persone che crea-no il mercato individuando, secondo processi più o meno consapevoli prodotti dalle meccaniche del mondo social, i bisogni e le tendenze di consumo da tramutare in esperienze di prodotto o di servi-zio.

Siamo d’accordo, nel senso che questo ormai lo abbiamo verificato, lo vediamo accadere quotidia-

namente. Ma se interpretiamo in modo diverso il termine umani-stico e spostiamo un poco l’asse del significato – dall’umanizza-zione di un approccio economico al fatto che il marketing debba ormai necessariamente rendersi utile rispetto ai criteri di respon-sabilità e sostenibilità richiesti dalla comunità – ci rendiamo con-to che in un certo senso siamo già pienamente in una nuova fase umanistica. L’impresa, oggi, è impresa sociale quando si riferisce ai bisogni qualitativi, e non solo quantitativi, che il sistema espri-

Dal mio

[email protected]

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ico“Il marketing che vogliamo è sempre stato umanistico”

me; l’impresa è sociale quando ostacola, nel suo modo di fare mercato, certi fenomeni di sperequa-zione e disagio (la crisi del lavoro, l’equa acces-sibilità alla formazione e alla cultura, ecc). Quindi, se esiste un’impresa sociale, per una proprietà transitiva esiste un marketing attento ai valori del-la collettività, che non sono esclusivamente legati ai comportamenti del singolo, quanto al rispetto di un ambiente cooperativo, che ormai vive i suoi giorni nel confronto, nello scambio e nella condi-visione.

Concetti di questo tipo sono davvero ben espressi dai lavori di Ken Robinson che, nei suoi libri come nei suoi celebri speech, ha offerto una nuova in-terpretazione della cultura intellettuale, partendo proprio dal ridimensionamento del ruolo e delle attività del mondo accademico. Di contro alla tra-dizionale interpretazione che pone i professori al punto più alto della piramide del lavoro, Robinson avverte che, se qualcosa è necessario recuperare, è nella direzione di un maggior collegamento con la vita reale, con valori, progetti e sistemi produttivi intimamente legati al lato più concreto della quoti-dianità. Se il marketing, nel tempo, si è reso ecces-sivamente astratto, numerico e vaporoso, anche in risposta a un sistema nevrotizzato da un’eccessivo calcolo e controllo del profitto, oggi si va nella dire-

zione opposta, si lavora su ricadute concrete a beneficio di un ecosistema che si ispira ai migliori esempi di costru-zione e gestione di modelli culturali nuovi, fluidi, orizzontali e collaborativi, in cui l’impegno e il mettersi in gioco rispondono a precise strategie di risanamento del mondo che abitiamo.

Il marketing che noi abbiamo praticato e che vogliamo, in chiusura, è sempre stato umanistico.

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YouTube è il vero social.Non c’è dubbio ormai. Ci troviamo in una fase epocale. Stanchi di ogni intermediazione, messi al sicuro dalla dimestichezza con i linguaggi più veloci e immediati del web, la maggior parte dei giovani sceglie il canale diretto del video e della self promotion. Non è solo un fatto mentale o una moda, è una rivoluzione semantica e comporta-mentale. Nel linguaggio dei più giovani, nel loro modello aspirazionale, non esiste altro che la legittimazione della propria identità per il tramite del consenso pubblico generato a colpi di click. Poco importa fermarsi a riflettere sul senso o meno della caducità del successo. Non è affatto questo il punto.Piuttosto l’opportunità, che combatte la noia e semplifica la fatica di dover comunque produrre come con-danna ontologica e dimensione ineluttabile dell’essere. Se siamo di fatto chiamati a fare qualcosa delle no-stre vite, tanto meglio provare a conquistare notorietà, successo e consenso. Anche se temporaneamente.

La vita è un reality e il talent show è il sottotesto. Il modello americano, il suo strapotere nell’uso e abuso dei media, è tutto votato a questo ultimo obiettivo. E funziona. Diciamolo. Autodidatti con una forte vocazione all’imitazione spopolano sul www e la fanno da padrone, in barba alla vetusta intellettualizzazione retorica della vita che gli ha già cucito addosso la seria gavetta degli studi universitari e poi chissà.

Di esempi ce ne sono davvero tanti. Dovremmo imparare qualcosa. “La vita è un reality in forma di talent show”self

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emSocial counter.

Questo è un simpatico video di tre ragazze che ripropongono un re-pertorio di famose hit musicali, di stili molti diversi, rigorosamente in playback. Il sucecsso del clip è dato dalla bellezza delle ragazze, dalla sfacciataggine e dalla bravu-ra performativa. Siamo all’inizio di aprile 2015. Mentre scrivo su Fa-cebook, il video ha già raggiunto 75 milioni di viewer. Naturalmen-te, si tratta delle SketchSHE, attri-ci professioniste con la vocazione del social.

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My name is Anthony Vincent and I’m the voice of Ten Second Songs, custom songs made in ANY style. Make sure to subscribe to my channel to see/hear some more awe-some music from me.

Si presenta così, questo giovane singer americano che ha lanciato su Youtube il canale Ten Seconds Songs, partendo da un’idea fantastica. Proporre le sue stra-ordinarie abilità di vocalist in cover di un unico pezzo originale rifatte in tanti stili dif-ferenti in dieci secondi. Anthony è già un le-ader più che navigato e ha conquistato una nicchia che, a giudicare dai numeri, non è più neanche tanto piccola. I suoi video viaggiando a suon di milioni di viewer. La mossa intelligente è stata quella di aprire un canale dedicato e puntare su una sorta di self branded content che, grazie al web marketing, porta soldi.

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nt Se dovessimo dire come fa a guadagnare il buon vecchio Anthony, beh, con questo pal-coscenico che si è inventato non crediamo certo che gua-dagni con le feste di anima-zione per bambini. Ma, a ben vedere, You Tube offre più di un’opportunità. Sì, ma quali?

• il canale personalizzato è un modo per evitare la di-spersione sulla rete.

• la pubblicità diretta su You-Tube è un’ottima fonte di reddito.

• I video di Youtube sono grandi ipertesti che tag-gano altre informazioni di vendita.

• Il canale personale permet-te di creare un self brand.

Anthony ha lavorato molto sul family look del canale. Caratteri, lettering, stile di comunicazione, un’identità visiva importante per il rafforzamento del brand.

“I’m my b(r)and”

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La rete a volte, si sa, ti regala delle chicche. In alcuni casi, poi, ci troviamo davanti a delle idee talmente originali, nella loro semplicità, da rimanere piacevolmente meravigliati. Il fai da te è una pratica antica, così come gli esperimenti di scienze (nei film ad ambientazione scolastica americani, per esempio, è un topos); più in generale potremmo dire che tutti si sono prima o poi confrontati con il proprio lato crea-tivo e hanno fatto i conti con l’ambizione a inventare qualcosa. Molte persone amano rifare da soli delle prove di laboratorio che, in qualche modo, hanno il vantaggio del risultato finale immediato e tangibile; magari costruiscono un qualche oggetto meccanico, o assemblano con il legno riciclato degli oggetti d’arredo o, ancora, inventano uno dei tanti gadget utili per le abitudini della vita quotidiana. Diciamo la verità, e senza peccare di eccessivo intellettualismo: l’economia della conoscenza, quando viene spoglia-ta della pratica, può essere davvero noiosa. Ed ecco perché oggi siamo tutti designer o, se ancora non lo siamo, forse lo diventeremo. Il nostro mondo non si risolve più all’interno di un computer, assistiamo a un ritorno alla manualità, al lavoro dei materiali, ai principi della fisica e della meccanica. Addirittura, cominciano a circolare sul web dei tutorial per chi vuole diventare un esperto di fai-da-te.

L’azienda Leroy Merlin, in modo molto intelligente, ne ha fatto una strategia di marketing e customer ex-perience. Da sempre la nota multinazionale specializzata negli articoli per la casa e negli strumenti per il bricolage, ha promosso dei workshop gratuiti per chi volesse imparare a usare gli utensili più particolari. Non parliamo, poi, dei libri in giro. La manualistica specialistica impazza.

Veniamo al dunque. Grant Thompson ha inventato un format che ha chiamato The King of Random.

Su Youtube potete trovare tutti i suoi video, che pubblica ormai con frequenza accelerata in numero non inferiore di due a settimana. La pillola video è dedicata a esperimenti davvero gustosi, invenzioni brillanti fatte con materiali poveri, riciclati dalla vita di tutti i giorni. Dalla creazione di una fonderia fai da te per la fusione di lattine che diventano poi orsetti o muffin di alluminio, alla costruzione di una piccola balestra con una molletta per il bucato, dalla pila fatta con i centesimi di euro a mille altre idee divertenti.

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Grant, che ha iniziato nel 2013 per gioco, ora può vantare una produzione editoriale di rispetto. Quello che colpisce è la quantità incredibile di visualizzazioni (parliamo di milioni) e la cura di tutti i video, corredati di un logo, di effetti grafici, e di una post-produzione ben fatta. Grant avverte: molti di questi esperimenti possono essere pericolosi da rifare in casa, non cercate di imitare quello che vedete se non avete dimestichezza con questo tipo di lavori. Poi, sottolinea: se provate, provate a vostro rischio.

Sappiamo tutti, da tempo immemore ormai, che la rete produce un fortissimo effetto mimetico e imitativo, e che se non spunteranno come i funghi altri format simili, quanto meno saranno in tanti a rifare gli esercizi di The King of Random dentro casa.

Sappiatelo perché è un fatto: siamo in piena tutorial-mania.

“Fai la tua cosa e falla cre-scere. È questa la regola sul web”

Il caso di Grant Thompson ob-bedisce ai consueti crietri di costruzione di un self content brand. Continuiamo a sottolinea-re l’importanza del far diventare una propria passione, un’attitu-dine creativa, un forte interesse, qualcosa di spendibile sul palco-scenico del mondo social. Attenzione: bravi content mana-ger e, più nello specifico, bra-vi progettisti, possono essere tranquillamente in grado di co-struire un caso di successo a ta-volino. Come Grant è stato capa-ce di intercettare l’esplosione di una mania – quella del bricolage – così, imparando a leggere le mappe dei trend, si possono in-dividuare nicche intelligenti.

La moda del fai-da-te c’è sempre stata, ma l’avvento di catene di grande distribuzione dedicate a questo settore, da Leroy Merlin all’Ikea style (che porta i customers a montarsi i mobili da soli), dai libri diventati best seller di tendenza – come nel caso dell’Uomo Artigiano di Ricahrd Sen-net – all’affermazione di interi movimenti di ritorno a un artigianato più innovativo, come per i makers, beh, che dire... per noi sono tutti segnali!

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WWW.LATERALTRAINING.IT

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“Costruiamo storie per comunicare, scambiarci informa-zioni, trasferire un’esperienza e stare meglio”

Come si costruisce una storia efficace?Se, dal punto di vista teorico, la costruzione di un rac-conto passa per gli approcci ben strutturati della nar-ratologia, è pur vero che esistono diversi riferimenti che, in qualche modo, condizionano oggi la progetta-zione e produzione di storie. Senza scivolare nell’ac-cademico, occorre sottolineare che un racconto si lega all’obiettivo che deve raggiungere, sia esso la costru-zione di un mondo valoriale che funga da esempio, sia esso il puro e semplice mondo dell’intrattenimento. Possiamo costruire grandi narrazioni a scopo tera-peutico o formativo, oppure utilizzarle per rafforzare l’immagine e l’identità di un’azienda. Possiamo riferirci al grande scaffale dei racconti universali tramandati come strumento di riflessione sui massimi sistemi, op-pure realizzare noi stessi un universo nel quale far abitare e vivere i personaggi, immergerli in situazioni più o meno originali che possano incarnare il senso dell’esistenza, i suoi schemi, le sue gioie e i suoi dolori.

Una storia può riferirsi a universi semantici molto diffe-renti. Può anche utilizzare linguaggi e mezzi espressivi molto diversi. Ma, e questo per noi è un punto fermo, esistono alcuni elementi che, qualsiasi sia l’operazione che vogliamo fare, ricorrono sempre.

1 – una storia si riferisce a uno scenario, un contesto. Non parlo tanto dell’ambientazione cronologica, mi ri-ferisco piuttosto a una dimensione dell’esistenza. Se pensiamo a un dramma di Shakespeare (tra le altre cose molto usato nel training) dobbiamo fare lo sforzo di immaginare una specifica epoca e, con essa, dei co-dici di comportamento, dei valori e dei rapporti tra le persone molto molto specifici. Le ambientazioni sono legate al tempo in cui la storia accade e al bagaglio di valori che un determinato periodo e un determinato luogo significano per chi ci ha vissuto o ci vive. Presen-te, passato o futuro che sia.

Esopo

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2 – una storia non esiste se non esiste uno scopo narrativo. Avete sentito, per molto tempo, legare la co-struzione delle storie al cosiddetto viaggio dell’eroe, colui che parte da uno stato e che, dopo una lunga peregrinazione, raggiunge un radicale cambiamento che lo porterà a essere qualcos’altro, irreversibilmente e per sempre. Io vi propongo un’altra lettura. Una storia può avere diversi e tanti eroi, può avere anti-eroi, comparse e figure minori. Il cambiamento può essere dato non solo dal cammino personale di un personaggio, ma dall’insieme di uno scopo, dal saper disegnare la trasformazione di una situazione che passa dal proble-ma alla sua soluzione anche in modo collettivo. Se pensiamo alle saghe di Tolkien e de Il Signore degli Anelli in particolare, difficile individuare un unico eroe. Possiamo, però, senza dubbio affermare che si tratta di un grande racconto sull’eterna lotta tra il Bene e il Male.

3 – una storia ha bisogno di un punto di tensione drammatica. Possiamo anche ammettere che esistano al-cune particolari narrazioni in cui non accade nulla. Vi ricordate il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, oppure il grande capolavoro di Samuel Backett Aspettando Godot. Direste davvero che non accade nulla? Se fosse così non avrebbe avuto senso costruire queste storie. Quello che accade, in verità, non si lega a una trama agita dai personaggi, ma a un percorso di cambiamento più intimo e filosofico; qualcosa, però, che diventa una riflessione sull’immobilità, sulla resistenza alla trasformazione, qualcosa che gli stessi personaggi vivono in senso dinamico. Il punto della massima intensità drammatica, il cosiddetto climax, è quando arrivati a fondo del problema si cerca una soluzione, una svolta. Sia essa in senso positivo o negativo.

4 – una storia ha bisogno di una soluzione. Se riusciamo a entrare in una narrazione, è per trovare una via d’uscita e trattenere dentro di noi l’essenza più profonda del significato di quell’esplorazione. Quello che reste-rà, forse, sarà una memoria annebbiata rispetto alle informazioni e nozioni più didascaliche, ma dentro di noi

continueranno a vivere gli esempi e i valori che quei racconti ci hanno lasciato. Uscire è fondamentale, come è fondamentale prefigurare una fine da cui, possibil-mente, far partire (anche se più in senso personale) un nuovo inizio.

Una storia, alla fine, ha bisogno di voi.Scrivere o produrre una narrazione può avere un gran-dissimo valore terapeutico. Portate questi suggerimen-ti con voi, se avete spazio, fateli crescere e createvi il vostro stile.

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