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Reality TEXT Valerio Vallini / PHOTO Poesia, anno III, n.31 Cesare Pavese: ne del suo paese rimarranno per sempre impresse nella sua mente e si fonderanno con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Compiuti i primi studi entrò nel ginna- sio- liceo D’Azeglio dove ebbe professore di italiano e latino Augusto Monti. Laureatosi giovanissimo, a 22 anni, con una tesi su Walt Whitman, firmò nel 1932 una perfetta traduzione del Moby Dick di Melville. Dal 1931 al 1936 scrisse la prima stesura di Lavorare stan- ca, che rappresentano, in un clima di imperante tardo ermetismo, un esempio notevole di poesia-racconto. In quegli anni, nel 1935, fu confinato a Brancaleone Calabro per antifascismo a causa di lettere destinate ad una mi- steriosa “donna dalla voce rauca” che Pavese accettò di farsele indirizzare. Il rapporto con le poche donne della sua vita fu uno dei punti dolenti della sua personalità, una negatività che contribuì al crescere di quel “vizio assurdo” che fu la continua compulsività dell’idea del suicidio fino al tragico epilogo dell’agosto del 1950. Verrà la morte e Lo scaffale dei poeti avrà i tuoi occhi sono state pubblicate nel volume postu- mo nel 1951 insieme a La terra e la morte del 1945. Figura notevole di scrittore e narratore: basti qui ricordare Paesi tuoi del 1941, Feria d’Agosto del 1947, Prima che il gallo canti e La bella estate del 1949, La luna e i falò del 1950. Nota critica Cosa resta a cento anni dalla nascita (9 settembre 1908) della poesia di Cesare Pavese? Lavorare stanca, uscita nella generale indifferenza nel 1936, era stata salutata con entusiasmo da Massimo Mila che scrisse: “Quan- do Pavese ci lesse I mari del Sud (1930) [prima parte di Lavorare stanca], tra noi ci fu chi fece seriamente il nome di Omero. La fase della confessione individuale era superata di slancio pervenendo all’estremo opposto di una oggettivazione narrativa, nella quale la poesia si popolava di personaggi, paesi, e figure: poesia di di- mensione epica, dunque.” Si inneggiava allora a quella poesia scoperta da Pavese nella letteratura americana – chiaro il riferimento all’ An- tologia di Spoon River, il tributo dovuto al blank verse di W. Whitman – come una “scoperta di un antico fondo etnico subnazionale”. Bortolo Pento parlò a proposito di Lavorare stanca, di un Pavese che “aveva scoperto per la poesia italiana la possibilità di rinnovarsi – nell’imperante clima ermetico - con l’introduzione della poesia racconto, della poesia oggettiva. Per lui Pavese fu innovatore perfino sul ter- reno delle forme metriche con quel suo verso lungo di tredici e talora sedici sillabe.” Negli ultimi anni Settanta e Novanta del Novecento, il giudizio critico ha ridimensionato la “leggenda” di Pa- vese poeta, anzi per certe poesie come in Verrà la morte ed avrà o tuoi occhi il giudizio è stato spietato: “elemen- tari e scialbi versicoli” dirà Giovanni Raboni. Per me, “si parva licet”, anche questi versi sono investiti dal proprio “insanabile dolore di uomo solo”, hanno una cantabilità di soave lirismo e amara constatazione del nulla “/...I tuoi occhi/ saranno una vana parola,/ un grido taciuto, un silenzio./... Vincenzo Mengaldo nella sua antologia “I poeti italia- ni del Novecento”, afferma che la poesia pavesiana ha ricevuto attenzioni anche superiori ai suoi meriti dopo la morte dell’autore, un po’di riflesso dall’interesse per l’opera narrativa e per l’eccezionalità della sua figura culturale. A me, la poesia-racconto di Pavese (scoperta purtroppo tardissimo, negli anni Settanta) fece l’effetto di liberar- mi dai vincoli delle forme chiuse, di darmi una libertà espressiva spaccando gli steccati fra prosa e poesia. Fu acque a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Lan- ghe in provincia di Cuneo, il 9 settembre del 1908. Ben presto la famiglia si trasferì a Torino, ma le colli- N un bene? Fu un male? Non lo so. Avrò scoperto l’ombrello, ma certa- mente quell’inizio dei Mari del Sud “Camminiamo una sera sul fianco di un colle,/ in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo/ mio cugino è un gigante vestito di bianco,/...” mi aprì orizzonti sconosciuti e nuove modalità espressive. Di quella raccolta Lavorare stanca, mi piacque l’autobiografismo in An- tenati “/ Stupefatto del mondo mi giunse un’età/ che tiravo dei pu- gni nell’aria e piangevo da solo./... Mi piacquero i silenzi e le vedute in Gente spaesata “/ Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare./ Alla sera, che l’acqua si stende slavata/ e sfumata nel nulla, l’amico la fissa/ e io fisso l’amico e non parla nessuno./...Un po’ meno ho apprezzato nel Il dio caprone, e Luna d’agosto, le escursioni in un mondo contadino profondo e mi- tologico e (forzatamente?) animale- sco. Mitologia, leggenda, un che di torbido e sensuale, come in Donne appassionate, si fondono in un not- turno lunare e vibrante. A rileggerlo oggi, risento le stesse emozioni, le stesse libertà espressive di quegli anni Settanta. Certamente non so scindere i suoi versi dalla sua prosa. Gli uni e l’altra mi affascinano, ma qui in Lavorare stanca, la poesia- racconto assume anche valenze di andamento filmico come in questi Pensieri di Deola: “Deola passa il mattino seduta al caffè/ e nessuno la guarda. A quest’ora in città cor- ron tutti/ sotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessuno/ nean- che Deola, ma fuma pacata e respi- ra il mattino.” Ci vedo una Deola/ Pavese tranquilla e staccata dall’an- gustia e l’angoscia del sesso, dalla dominante e imprendibile figura della donna, un Pavese pacato, lon- tano da quel “vizio assurdo”. Molti versi di Pavese, come Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi ebbero fortuna in quel dopoguerra anche perché legati alla sua “leggenda” di intellettuale problematico, quel “vizio assurdo” - che era poi una pulsione al suicidio -, l’antifascista, il comunista “eretico”, einaudiano. Io lessi e rileggo in quei versi e in quel- le prose, la solitudine di un uomo, la sua impotenza a vivere la vita. l’insanabile dolore di un uomo solo Vita e opere 44 I mari del Sud (1930) Camminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo mio cugino è un gigante vestito di bianco, che si muove pacato, abbronzato nel volto, taciturno. Tacere è la nostra virtù. Qualche nostro antenato dev’ essere stato ben solo - un grand’ uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio. Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto se salivo con lui: dalla vetta si scorge nelle notti serene il riflesso del faro lontano, di Torino. « Tu che abiti a Torino...» mi ha detto «... ma hai ragione. La vita va vissuta lontano dal paese: si profitta e si gode e poi, quando si torna, come me a quarant’anni, si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono». Tutto questo mi ha detto e non parla italiano, ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre di questo stesso colle, è scabro tanto che vent’anni di idiomi e di oceani diversi non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino, usare ai contadini un poco stanchi. [...] Paesaggio II La collina biancheggia alle stelle, di terra scoperta; si vedrebbero i ladri, lassù. Tra le ripe del fondo i filari son tutti nell’ombra. Lassù che ce n’è e che è terra di chi non patisce, non sale nessuno: qui nell’umidità, con la scusa di andare a tartufi, entran dentro alla vigna e saccheggiano le uve. Il mio vecchio ha trovato due graspi buttati tra le piante e stanotte borbotta. La vigna è già scarsa: giorno e notte nell’umidità, non ci viene che foglie. Tra le piante si vedono al cielo le terre scoperte che di giorno gli rubano il sole. Lassù brucia il sole tutto il giorno e la terra è calcina: si vede anche al buio. Là non vengono foglie, la forza va tutta nell’uva. Pensieri di Deola Deola passa il mattino seduta al caffè e nessuno la guarda. A quest’ora in città corron tutti sotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessuno neanche Deola, ma fuma pacata e respira il mattino. Fin che è stata in pensione, ha dovuto dormire a quest’ora per rifarsi le forze: la stuoia sul letto la sporcavano con le scarpacce soldati e operai, i clienti che fiaccan la schiena. Ma, sole, è diverso: si può fare un lavoro più fine, con poca fatica. Il signore di ieri, svegliandola presto, l’ha baciata e condotta (mi fermerei, cara, a Torino con te, se potessi) con sé alla stazione a augurargli buon viaggio. [...] Lalla Romano fu amica e collaboratrice di Pavese all’Einaudi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Cosi li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla. Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti. 22 marzo 1950 Costance Dowling, la donna che pavese amò per ultima

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TEXT Valerio Vallini / PHOTO Poesia, anno III, n.31Cesare Pavese:

ne del suo paese rimarranno per sempre impresse nella sua mente e si fonderanno con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Compiuti i primi studi entrò nel ginna-sio- liceo D’Azeglio dove ebbe professore di italiano e latino Augusto Monti. Laureatosi giovanissimo, a 22 anni, con una tesi su Walt Whitman, firmò nel 1932 una perfetta traduzione del Moby Dick di Melville. Dal 1931 al 1936 scrisse la prima stesura di Lavorare stan-ca, che rappresentano, in un clima di imperante tardo ermetismo, un esempio notevole di poesia-racconto. In quegli anni, nel 1935, fu confinato a Brancaleone Calabro per antifascismo a causa di lettere destinate ad una mi-steriosa “donna dalla voce rauca” che Pavese accettò di farsele indirizzare. Il rapporto con le poche donne della sua vita fu uno dei punti dolenti della sua personalità, una negatività che contribuì al crescere di quel “vizio assurdo” che fu la continua compulsività dell’idea del suicidio fino al tragico epilogo dell’agosto del 1950. Verrà la morte e

Lo scaffale dei poeti

avrà i tuoi occhi sono state pubblicate nel volume postu-mo nel 1951 insieme a La terra e la morte del 1945. Figura notevole di scrittore e narratore: basti qui ricordare Paesi tuoi del 1941, Feria d’Agosto del 1947, Prima che il gallo canti e La bella estate del 1949, La luna e i falò del 1950.

Nota criticaCosa resta a cento anni dalla nascita (9 settembre 1908) della poesia di Cesare Pavese? Lavorare stanca, uscita nella generale indifferenza nel 1936, era stata salutata con entusiasmo da Massimo Mila che scrisse: “Quan-do Pavese ci lesse I mari del Sud (1930) [prima parte di Lavorare stanca], tra noi ci fu chi fece seriamente il nome di Omero. La fase della confessione individuale era superata di slancio pervenendo all’estremo opposto di una oggettivazione narrativa, nella quale la poesia si popolava di personaggi, paesi, e figure: poesia di di-mensione epica, dunque.”Si inneggiava allora a quella poesia scoperta da Pavese nella letteratura americana – chiaro il riferimento all’ An-tologia di Spoon River, il tributo dovuto al blank verse di W. Whitman – come una “scoperta di un antico fondo etnico subnazionale”.Bortolo Pento parlò a proposito di Lavorare stanca, di un Pavese che “aveva scoperto per la poesia italiana la possibilità di rinnovarsi – nell’imperante clima ermetico - con l’introduzione della poesia racconto, della poesia oggettiva. Per lui Pavese fu innovatore perfino sul ter-reno delle forme metriche con quel suo verso lungo di tredici e talora sedici sillabe.”Negli ultimi anni Settanta e Novanta del Novecento, il giudizio critico ha ridimensionato la “leggenda” di Pa-vese poeta, anzi per certe poesie come in Verrà la morte ed avrà o tuoi occhi il giudizio è stato spietato: “elemen-tari e scialbi versicoli” dirà Giovanni Raboni. Per me, “si parva licet”, anche questi versi sono investiti dal proprio “insanabile dolore di uomo solo”, hanno una cantabilità di soave lirismo e amara constatazione del nulla “/...I tuoi occhi/ saranno una vana parola,/ un grido taciuto, un silenzio./...Vincenzo Mengaldo nella sua antologia “I poeti italia-ni del Novecento”, afferma che la poesia pavesiana ha ricevuto attenzioni anche superiori ai suoi meriti dopo la morte dell’autore, un po’di riflesso dall’interesse per l’opera narrativa e per l’eccezionalità della sua figura culturale.A me, la poesia-racconto di Pavese (scoperta purtroppo tardissimo, negli anni Settanta) fece l’effetto di liberar-mi dai vincoli delle forme chiuse, di darmi una libertà espressiva spaccando gli steccati fra prosa e poesia. Fu

acque a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Lan-ghe in provincia di Cuneo, il 9 settembre del 1908. Ben presto la famiglia si trasferì a Torino, ma le colli-N

un bene? Fu un male? Non lo so. Avrò scoperto l’ombrello, ma certa-mente quell’inizio dei Mari del Sud “Camminiamo una sera sul fianco di un colle,/ in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo/ mio cugino è un gigante vestito di bianco,/...” mi aprì orizzonti sconosciuti e nuove modalità espressive. Di quella raccolta Lavorare stanca, mi piacque l’autobiografismo in An-tenati “/ Stupefatto del mondo mi giunse un’età/ che tiravo dei pu-gni nell’aria e piangevo da solo./...Mi piacquero i silenzi e le vedute in Gente spaesata “/ Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare./ Alla sera, che l’acqua si stende slavata/ e sfumata nel nulla, l’amico la fissa/ e io fisso l’amico e non parla nessuno./...Un po’ meno ho apprezzato nel Il dio caprone, e Luna d’agosto, le escursioni in un mondo contadino profondo e mi-tologico e (forzatamente?) animale-sco. Mitologia, leggenda, un che di torbido e sensuale, come in Donne appassionate, si fondono in un not-turno lunare e vibrante. A rileggerlo oggi, risento le stesse emozioni, le stesse libertà espressive di quegli anni Settanta. Certamente non so scindere i suoi versi dalla sua prosa. Gli uni e l’altra mi affascinano, ma qui in Lavorare stanca, la poesia-racconto assume anche valenze di andamento filmico come in questi Pensieri di Deola: “Deola passa il mattino seduta al caffè/ e nessuno la guarda. A quest’ora in città cor-ron tutti/ sotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessuno/ nean-che Deola, ma fuma pacata e respi-ra il mattino.” Ci vedo una Deola/Pavese tranquilla e staccata dall’an-gustia e l’angoscia del sesso, dalla dominante e imprendibile figura della donna, un Pavese pacato, lon-tano da quel “vizio assurdo”.Molti versi di Pavese, come Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi ebbero fortuna in quel dopoguerra anche perché legati alla sua “leggenda” di intellettuale problematico, quel “vizio assurdo” - che era poi una pulsione al suicidio -, l’antifascista, il comunista “eretico”, einaudiano. Io lessi e rileggo in quei versi e in quel-le prose, la solitudine di un uomo, la sua impotenza a vivere la vita.

l’insanabile dolore di un uomo solo

Vita

e op

ere

44

I mari del Sud (1930)

Camminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo mio cugino è un gigante vestito di bianco,che si muove pacato, abbronzato nel volto, taciturno. Tacere è la nostra virtù. Qualche nostro antenato dev’ essere stato ben solo- un grand’ uomo tra idioti o un povero folle –per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiestose salivo con lui: dalla vetta si scorgenelle notti serene il riflesso del farolontano, di Torino. « Tu che abiti a Torino...»mi ha detto «... ma hai ragione. La vita va vissutalontano dal paese: si profitta e si godee poi, quando si torna, come me a quarant’anni,si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono».Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,ma adopera lento il dialetto, che, come le pietredi questo stesso colle, è scabro tantoche vent’anni di idiomi e di oceani diversinon gliel’hanno scalfito. E cammina per l’ertacon lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,usare ai contadini un poco stanchi. [...]

Paesaggio II

La collina biancheggia alle stelle, di terra scoperta; si vedrebbero i ladri, lassù. Tra le ripe del fondoi filari son tutti nell’ombra. Lassù che ce n’è e che è terra di chi non patisce, non sale nessuno: qui nell’umidità, con la scusa di andare a tartufi, entran dentro alla vigna e saccheggiano le uve.Il mio vecchio ha trovato due graspi buttatitra le piante e stanotte borbotta. La vigna è già scarsa:giorno e notte nell’umidità, non ci viene che foglie.Tra le piante si vedono al cielo le terre scoperteche di giorno gli rubano il sole. Lassù brucia il soletutto il giorno e la terra è calcina: si vede anche al buio.Là non vengono foglie, la forza va tutta nell’uva.

Pensieri di Deola

Deola passa il mattino seduta al caffèe nessuno la guarda. A quest’ora in città corron tuttisotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessunoneanche Deola, ma fuma pacata e respira il mattino.Fin che è stata in pensione, ha dovuto dormire a quest’oraper rifarsi le forze: la stuoia sul lettola sporcavano con le scarpacce soldati e operai,i clienti che fiaccan la schiena. Ma, sole, è diverso:si può fare un lavoro più fine, con poca fatica.Il signore di ieri, svegliandola presto,l’ha baciata e condotta (mi fermerei, cara,a Torino con te, se potessi) con sé alla stazionea augurargli buon viaggio. [...]

Lalla Romano fu amicae collaboratrice di Pavese all’Einaudi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Cosi li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla.Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti.

22 marzo 1950Costance Dowling,la donna che pavese amò per ultima