Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

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Città di Moncalieri Assessorato alla Cultura Testimoni luoghi memorie Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998 - 2006 a cura di Lucio Monaco, Marcella Pepe, Gabriella Pernechele Scuole Superiori Statali della Città di Moncalieri Istituto di Istruzione Superiore Statale “Majorana” Istituto Tecnico Industriale Statale “Pininfarina”

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A cura di Lucio Monaco, Marcella Pepe, Gabriella Pernechele

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Città di MoncalieriAssessorato alla Cultura

Testimoni luoghi memorieViaggi di studio nei Lager nazisti

1998 - 2006

a cura di Lucio Monaco, Marcella Pepe, Gabriella Pernechele

Scuole Superiori Statali della Città di MoncalieriIstituto di Istruzione Superiore Statale “Majorana”Istituto Tecnico Industriale Statale “Pininfarina”

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Città di MoncalieriAssessorato alla Cultura

Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998 - 2006

Il Progetto Memoria, il presente volume e le iniziative collegate alla ricorrenza del “Giorno della Memoria”, 27 gennaio 2007, sono posti sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Il volume è pubblicato con il patrocinio e il contributo della Regione Piemonte e della Provincia di Torino

Comitato PromotoreLorenzo Bonardi - Sindaco di MoncalieriMariagiuseppina Puglisi - Assessore alla Cultura

Coordinamento generale e curatela del volumeLucio Monaco, Marcella Pepe, Gabriella Pernechele

Produzione audiovisivaLaboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”Francesco Martino, Carla Piana

FotografieStudenti e docenti del Progetto Memoria e Mario Pettinati

Segreteria organizzativaElena Ughetto - Dirigente Settore Cultura e IstruzioneBruna Bonaldo - Direttore Ufficio CulturaAlba Ginestrella - Ufficio Cultura

Grafica e stampaComunecazione, Bra (CN) - Gennaio 2007

Si ringrazianoGiuliana Tedeschi, Eleonora Vincenti, Massimo Lajolo, Paolo Valentino

La Città di Moncalieri si rende disponibile a regolare eventuali diritti sulle immagini riprodotte nel volume per lequali non sia stato possibile identificare la provenienza. Per i casi in cui non è stato possibile ottenere il permessodi riproduzione, a causa della difficoltà di rintracciare chi potesse darlo, si è notificato all’Ufficio della proprietàletteraria, artistica e scientifica che l’importo del compenso è a disposizione degli aventi diritto.

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PRESENTAZIONE 3(Mariagiuseppina Puglisi, Lorenzo Bonardi, Gianni Oliva, Umberto D’Ottavio, Ferruccio Maruffi)

INTRODUZIONE 11Incontrare i luoghi(Lucio Monaco)

I. I VIAGGI DEL PROGETTO 19

II. LE GUIDE DELLA MEMORIA 37

1. Il contesto storico (Marcella Pepe)Il sistema concentrazionario nazista 37Lo sfruttamento economico dei prigionieri 38Cronologia della Shoah (Adriana Mogna) 40La Conferenza di Wannsee 42I campi fascisti 48Le leggi razziali 57

2. I luoghi della deportazione (Lucio Monaco)Cenni sulla storia del Lager di Auschwitz 63Le deportazioni dall’Italia ad Auschwitz 67Bolzano: il Durchgangslager di Gries 69Il KL Buchenwald (Lucio Monaco, Marcella Pepe) 70Il campo di concentramento di Dachau 77Ebensee, Kommando di Mauthausen (Italo Tibaldi) 79Il Durchgangslager di Fossoli di Carpi. Cronologia 83Gusen I, Gusen II, Gusen III: sottocampi di Mauthausen 85Hartheim e il “Programma di Eutanasia” 87Linz I, II, III: sottocampi di Mauthausen 88Le “marce della morte” 89Il Lager di Mauthausen e lo sterminio mediante il lavoro 90Melk: il sottocampo di Mauthausen e il lavoro in galleria 94Il KZ di Mittelbau-Dora fra produzione missilistica e sterminio 95Il KL di Ravensbrück 102Il KZ di Sachsenhausen e la sua storia 108

III. PERCORSI DI MEMORIA 111Scienza, razza, biologia: un percorso possibile (Rosella Cocciolo) 111Memoria ufficiale, memorie vive. Usi della monumentalità (Alessandra Matta) 121Il Lager come museo (Piero Cresto-Dina) 145

Indice

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IV. TESTIMONI E MEMORIE 165Immagini e parole di Anna Cherchi 166Il racconto di Natalia Tedeschi (Studentesse dell’ITCS “Marro”) 168Un viaggio (Maria Clara Avalle) 172Pio Bigo, Memorie e testimonianze di una vita da schiavo 174Intervista a Giorgio Ferrero (Marcella Pepe) 178Marcello Martini, Fossoli 13-21 giugno 1944 184Frammenti di riflessione da un viaggio a Fossoli (Studenti dell’I.I.S. “Majorana”) 191Albino Moret, Dalla cattura alla liberazione 195Il racconto di Natalino Pia (Studentesse dell’ITCS “Marro”) 205Primarosa Pia, Viaggio della memoria 208Benito Puiatti, Ricordi di Dachau 209“Sono stato prigioniero e bon.” Ricordo di Antonio Temporini (Luisa Bonelli) 217 Da Moncalieri ai Lager nazisti: i deportati moncalieresi (Lucio Monaco) 218Un ragazzo di Borgo San Pietro (Elisa Armentaro, Alessandra Gardino) 221

V. I “GIORNI DELLA MEMORIA”. 225LA COMMEMORAZIONE DEL 27 GENNAIO NELLA CITTÀ DI MONCALIERI(Mariagiuseppina Puglisi)

VI. INTITOLAZIONE DELLA “SALA DEI CENTO” A PRIMO LEVI 231(Moncalieri, 28 maggio 1999)Primo Levi tra memoria e profezia (Carlo Ossola) 231Primo Levi testimone del nostro tempo (Alberto Cavaglion) 235

VII. APPENDICI 239

A. ARCHIVI DELLA MEMORIAGuida all’Archivio Multimediale (Pier Luigi Cavanna, Marcella Pepe) 239Indici 241Filmografia testimoni (Pier Luigi Cavanna) 248

B. IMMAGINI DELLA MEMORIALavorare sulle testimonianze con le immagini e l’informatica 251Esperienze di un Laboratorio Multimediale (Carla Piana) 251Compagni di un viaggio (Emanuele Cassaro e Matteo Gai) 255Compagni di un viaggio: fra emozioni, conoscenza e ragione (Lucio Monaco) 256Frammenti di memorie (Emanuele Cassaro) 258Le forme della memoria (Carla Piana) 25944145 Anna (Michela Cane) 260Anna e Natalia a Ravensbrück (Carla Piana) 260La necessità di sopravvivere (Carla Piana) 262L’eco della memoria. Un testimone fra i giovani (Carla Piana) 262Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e Gusen (Carla Piana) 263Ricordo di Albino Moret (Carla Piana) 266Matricola 0155. Un deportato inesistente (Michela Cane) 266Memorie di pietra (Paolo Bommino) 268Tracce. Un’esperienza didattica di uso del Kalendarium 269

di Danuta Czech (Lucio Monaco)Tracce (Lorenzo Anania e Mario Mancuso) 270

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Il 27 gennaio 2002, nella Sala Conferenze del Real Collegio Carlo Alberto di Mon-calieri, fu presentato il volume Percorsi di memoria. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2001, nel corso di una cerimonia – è ancora vivo il ricordo – in cui al rilevante signifi-cato implicito si univano la valenza emotiva e una intensa commozione: quel giorno fuconferita la cittadinanza onoraria a Pio Bigo, Anna Cherchi, Albino Moret, NatalinoPia, Benito Puiatti e Natalia Tedeschi, i testimoni che avevano accompagnato il Pro-getto Memoria nei suoi primi quattro anni di svolgimento, di cui il libro era il racconto.

Va a queste sei persone – Albino, Anna e Natalia sono poi mancati – il nostropensiero e il ringraziamento più sentito.

Pur con storie personali diverse, hanno vissuto la comune orrenda esperienza del-la deportazione e avvertito l’urgenza e la responsabilità di testimoniare e di accompa-gnare gli studenti nei Lager, tornando con enorme dolore e con grande determinazio-ne nei luoghi dell’offesa. Conferendo loro la cittadinanza onoraria, la Città ha volutosegnalare fortemente non solo la profonda riconoscenza e il grande affetto nei loroconfronti, ma anche l’adesione convinta ai valori della libertà, della democrazia, deidiritti dell’uomo.

La continuità amministrativa e la coerenza programmatica sono stati elementi im-portanti per lo sviluppo successivo del Progetto Memoria che, per i contenuti, le fina-lità e i risultati raggiunti, dev’essere a buon diritto considerato uno dei punti più im-portanti del nostro programma politico-amministrativo.

La presentazione di quel volume, scritta nel 2001 da Carlo Novarino, alloraSindaco di Moncalieri e da Mariagiuseppina Puglisi, Assessore alla Cultura,contiene considerazioni che vogliamo anche oggi ribadire e per questo, in parte,ripubblichiamo.

Il Progetto Memoria che ha interessato le Scuole Superiori di Moncalieri è stato voluto e costruitoper mantenere vivo il ricordo e per avere memoria del più tragico evento che ha sconvolto il secolo tra-scorso, un male assoluto che ha attraversato l’Europa distruggendo ogni barriera di civile convivenza.

Un male che ha prodotto abissi di dolore e devastato la dignità di tante popolazioni: la discrimina-zione, la persecuzione, la deportazione, la spoliazione, la sofferenza, la distruzione dei cittadini ebreidi ogni Paese dominato dal nazismo e da governi di ispirazione razzista e fascista. Un male che haanche difficoltà a trovare una voce che lo possa definire: la Shoah, l’Olocausto, il genocidio, la soluzio-ne finale.

È necessario riflettere su un evento di tale “delittuosa” portata e sulla sua inconcepibile e assurdaferocia, un evento che è cresciuto e si è radicato all’interno di Paesi civili, evoluti, sviluppati. Le radicidi questa tragedia si trovano non solo nel disegno criminoso di alcune oligarchie, ma investono stratiampi e diffusi di società, in un ambiente culturale “conformista” che per tanti motivi, anche banali epiccoli, ha reso possibile prima, tollerato poi e infine accettato l’organizzazione meticolosa e scientificadella Shoah. Pensiamo alle leggi razziali, all’antisemitismo sempre più diffuso e progressivo, con le

Presentazione

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sue fonti anche colte e religiose. È un viaggio nel cuore della cultura di una società i cui rapporti socialihanno permesso, se non addirittura favorito, tale delitto: è un viaggio che ha solo due mete.

Una è la dimenticanza, benché questa possa non essere meramente il frutto di un colpevole intentodi negare o di cancellare. La dimenticanza e l’oblio servono a stendere un velo grigio che consente di al-lontanare, di assolvere senza giudicare, di archiviare senza capire. È una scelta riprovevole che non vo-gliamo percorrere perché si accantona in tal modo un male assoluto senza averne prodotto gli anticorpi,cosicché il male può riprodursi.

L’altra meta, l’unica moralmente accettabile, è ricordare, mantenere viva la memoria per quantosia dolorosa, per quanto sia atroce. Questo è ciò che abbiamo cercato di fare con il Progetto Memoria.Mantenere la memoria di una tragedia assoluta, consci che questa non è stata il frutto di un gruppo dicriminali di guerra, di fanatici nazisti di un solo Paese, di un particolare e irripetibile momento. È unatragedia che ha coinvolto l’impegno di un grande numero di donne e di uomini con gradi e livelli diversidi consapevolezza. Si stima che oltre un milione di persone abbia dedicato alla sua attuazione la pro-pria attività consapevole: fra queste c’era anche molta gente comune. Il piano di sterminio di un popoloa cui tanti hanno prestato la propria opera o dato il proprio consenso aveva la sua base nelle aberrantiteorie razzistiche che miravano a uno Stato nuovo fondato sulla omogeneità appunto “razziale”: eraun obiettivo rassicurante per tanti nei confronti del nuovo, del diverso, nei confronti delle insicurezze chel’evoluzione della modernità si portava dietro, allora come ora. Un nuovo Stato forte, autoritario, omo-geneo, “razzialmente” capace di rassicurare gli individui fragili, intimoriti dalle forme della competi-zione sociale ed economica e pervasi dal timore di perdere privilegi anche piccoli, anche marginali.Quanto di questo è superato e quanto invece è ancora vivo e attuale?

Se ci guardiamo attorno vediamo che l’Europa è ancora interessata da forti inquietudini e da formedi xenofobia che serpeggiano, da manifestazioni di intolleranza religiosa: progetti politici esecrabili,tuttavia prosperi e reali. Noi sappiamo che questi progetti continueranno a sollecitare le fantasie dei piùdeboli: sono risposte semplici e semplificate alle paure quotidiane di ciascuno di noi; un capro espiato-rio (il diverso, l’estraneo) è la proposta più facile per esorcizzare i problemi.

La violenza non viene cancellata dal progresso e dalle modernizzazioni, e neppure appartiene a unpassato irripetibile allontanato una volta per tutte. La violenza è sempre presente nei recessi dei nostricomportamenti: è una via di fuga da cui ci separano soltanto la nostra responsabilità, la nostra matu-rità civile e la capacità di opporci. Dobbiamo quindi conservare la memoria per imprimere nella co-scienza collettiva il senso della responsabilità come valore civico e la consapevolezza della tragedia chesi ripropone ove vincano complicità, silenzio, indifferenza.

Dobbiamo conservare la memoria per radicare la consapevolezza del nostro passato nelle atrocità enel qualunquismo indifferente che ha segnato la nostra storia con le leggi razziali, con i propositi colla-borativi di una parte del nostro Paese, con un pesante contributo politico, istituzionale e morale allosterminio. Non c’è un male assoluto che può essere isolato una volta per sempre: c’è un male profondoche può essere molto diffuso; dunque dobbiamo conservare la memoria per riaffermare il valore fondan-te e fondamentale dei rapporti sociali costituito dalla “democrazia” come sistema che si regge sul plu-ralismo e sul confronto fra le differenze.

Alcuni anni sono trascorsi dalla scrittura di quella presentazione: ora entriamo neldecimo del Progetto Memoria, che si è nel tempo consolidato ed evoluto mantenendotuttavia ben saldo il suo impianto originario di progetto territoriale in cui istituzioni,scuole, testimoni hanno realizzato una rete virtuosa che – grazie ai viaggi, ai luoghi eallo studio – ha consentito ai giovani un’esperienza altamente formativa e agli adultiun’opportunità fondamentale nell’elaborazione di una coscienza civile matura econsapevole.

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5Presentazione

Un programma politico che voglia includere contenuti e alti obiettivi di crescitaper i singoli e per la collettività deve sostenere progetti di studio e di laboratorio cherinforzino i giovani, ne nutrano la mente, ne arricchiscano la personalità e ne consoli-dino la coscienza.

Questo è stato il significato del Progetto Memoria, ed è emblematico suggellarlocon la pubblicazione del secondo libro, cui affidiamo la documentazione di quanto èstato fatto nella consapevolezza che i testi possono conservare la memoria e che la me-moria è il filo che deve legare le generazioni tracciando un percorso nella coscienzacollettiva, perché ognuno impari a combattere l’indifferenza e a ripudiare ogni formadi estremismo.

Le Scuole Superiori di Moncalieri hanno in questo periodo effettuato un percorsopluriennale di studio e di analisi di testi producendo documentazione – cartacea, arti-stica e multimediale – sull’esperienza vissuta a scuola e nei viaggi.

Abbiamo visto centinaia di giovani lavorare con serietà e impegno sotto la guidadei loro insegnanti; l’incontro con i testimoni nei luoghi della memoria è stato un ele-mento formativo essenziale, a maggior ragione in quanto il viaggio non è mai statomomento conclusivo ma passaggio intermedio per i gradi successivi della loro rifles-sione.

I materiali di studio e le ricerche dell’I.I.S. “Majorana” e l’Archivio Multimedialedell’ITIS “Pininfarina” costituiscono un patrimonio documentale che potrebbe di-ventare centro di documentazione disponibile alla consultazione.

Per questo esprimiamo il nostro ringraziamento più sentito a quanti si sono impe-gnati in un complesso lavoro pluriennale: le istituzioni, i docenti, i testimoni, gli stu-denti hanno contribuito a delineare un itinerario di studio in cui lezioni, testimonian-ze, viaggi, documentazione sono mescolati insieme in un unico percorso della memo-ria che è insieme storia e formazione civile.

In tale contesto, le istituzioni devono sempre essere presenti a rafforzare il sensomorale e civico dei giovani che devono sentire una certezza, quella di non essere soli,e devono coltivare una speranza, quella di una società fondata sul rispetto della digni-tà di ogni essere umano, una società di donne e di uomini liberi votati alla costruzionedi un mondo di fratellanza tra i popoli, nel rispetto delle culture diverse e attraverso ilriconoscimento della propria identità.

La nostra Città è orgogliosa di avere partecipato al Progetto Memoria.

Il Sindaco L’Assessore alla CulturaLorenzo Bonardi Mariagiuseppina Puglisi

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«È avvenuto, quindi può accadere di nuovo»: così scriveva Primo Levi neI sommersi e i salvati, il suo ultimo lavoro pubblicato poco prima della tragica morte. E inquella frase egli condensava il senso di una vita trascorsa nella testimonianza di ciòche era avvenuto dietro i fili spinati di Auschwitz, di Dachau, di Mauthausen e deglialtri luoghi di deportazione. Ciò che oggi appare come un’aberrazione vergognosa èrealmente accaduto; è accaduto nella civile Europa del XX secolo; è accaduto in unanazione, la Germania, che era all’avanguardia scientifica e culturale del continente; èaccaduto che un intero popolo di decine di milioni di abitanti credesse nella superiori-tà della propria “razza”, riempisse di sangue l’Europa intera, seguisse nel suo delirioun personaggio come il caporale Adolf Hitler, che a distanza di più di mezzo secolo anoi sembra tragicamente ridicolo.

In quelle stesse pagine de I sommersi e i salvati Primo Levi aggiungeva una considera-zione inquietante: i nazisti – egli scriveva – non erano dei mostri, non erano uominigeneticamente tarati. Erano uomini come noi, ma erano stati educati male. E una cat-tiva educazione di Stato, che aveva monopolizzato ogni strumento di comunicazionee di formazione, aveva insegnato a milioni di tedeschi che fosse giusto sterminare gliebrei, i diversi, gli oppositori politici; che fossero leciti i Lager, le camere a gas, i fornicrematori; che le coscienze dovessero tacere di fronte alla missione di dominio della“razza” ariana. Milioni di tedeschi avevano creduto a quel messaggio; oppure aveva-no taciuto per viltà, per interesse, per complicità; oppure ancora, non si erano oppostiper debolezza. In ogni modo, essi avevano seguìto sino in fondo Hitler nell’avventuradella guerra e nella vergogna dei Lager.

In tale premessa si trova anche il senso dei percorsi didattici e dei viaggi dellamemoria organizzati dalla Città e dalle Scuole di Moncalieri. Prima insegnare ai piùgiovani che cosa è accaduto, come è accaduto, perché è accaduto; poi far conoscereloro i luoghi, accompagnati dalle testimonianze dei pochi sopravvissuti; poi ancora ri-prendere il discorso didattico in classe. Lezioni, testimonianze, viaggi di studio mesco-lati insieme in un unico percorso della memoria, che è insieme storia e formazione ci-vile. Presentando il volume, che raccoglie le esperienze maturate in questi anni, non sipuò non esprimere stima e riconoscenza a chi (amministratori, docenti, studenti) hasaputo sostenere uno sforzo così qualificato e intenso. «Mai più» si legge in una gran-de lapide di granito posta all’ingresso del Lager di Dachau: perché sia davvero “maipiù” occorre che le nuove generazioni sappiano e non dimentichino. Grazie dunquealla Comunità di Moncalieri per aver saputo lavorare in tale direzione con tantoimpegno.

L’Assessore alla Cultura della Regione PiemonteGianni Oliva

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7Presentazione

Non si scriverà né si parlerà mai abbastanza della Shoah. In tal senso l’apprezza-mento per questa pubblicazione non può che essere massimo, perché, più del revisio-nismo o, peggio, del negazionismo, è la riduzione della memoria, la sua perdita, arappresentare il più grave pericolo rispetto al periodo storico che ha visto il determi-narsi di quell’oscuramento umano noto come nazifascismo e che invece necessita dicostante attualizzazione.

Non solo per un fatto fine a se stesso, un “ricordo”, che già di per sé sarebbe suffi-ciente e necessario, ma ciò che più ci pare importante sottolineare per i valori e i rife-rimenti che ne derivano, è l’insegnamento che ne scaturisce in fatto di civiltà, di valo-rizzazione dell’integrazione delle diverse culture, di apertura agli altri, di rispettivacontaminazione e accettazione senza cui si corre il rischio di imboccare strade che,partendo dall’individualismo e dall’autoreferenzialità – mali sempre più evidenti del-la nostra società contemporanea –, possono portare, con il contributo di fattori socia-li, politici e culturali sfavorevoli, a paurosi ritorni a tempi bui già vissuti.

Il libro Testimoni luoghi memorie, segno di un impegno che dura dal 1998, con il suoarticolarsi fra ricostruzioni storiche e percorsi di viaggi, testimonianze, archivi e im-magini, ci aiuta a ricordare ciò che è scritto in quelle tragiche pagine della Storia e ciincoraggia nel continuare a operare affinché nessuno sforzo sia risparmiato e gliorrori di cui l’umanità si è resa colpevole non abbiano a ripetersi.

L’Assessore alla Formazione professionale e all’Istruzione della Provincia di TorinoUmberto D’Ottavio

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Esce a cura dell’Assessorato alla Cultura della Città di Moncalieri questa impor-tante opera sulla memoria dei campi di sterminio nazisti.

Un percorso dettagliato che si avvale di testimonianze significative. E dire che il“dopo Lager” era stato abbastanza mortificante all’inizio. Invece con il trascorrere diquesti sessant’anni – per il consapevole impegno delle istituzioni, specialmente in Pie-monte, dove Regione, Province e Comuni si sono attivati (e fra questi proprio la Cittàdi Moncalieri) – molto si è fatto affinché dimenticanza non fosse. Quella che segue èun po’ la storia del “dopo Lager”.

A suo tempo avevamo testimoniato e scritto che i Lager di sterminio nazisti furonoluoghi terrificanti, resi ancora più cupi e sinistri dal fumo nero che fuoriusciva ininter-rottamente dai forni crematori. I reticolati di fili spinati percorsi dall’alta tensione cheli circondavano erano diventati, con il trascorrere del tempo, una sorta di attrazionefatale e un ossessionante invito a farla finita. I deportati tuttavia si erano guardati benedal toccarli, quei fili, perché il meccanismo perfetto della soppressione, invece di spe-gnerlo, aveva impresso a ciascuno di loro il desiderio di vivere il più a lungo possibile.Cosicché ucciderli, e tanti ne erano stati uccisi, era servito soltanto a testimoniare l’ef-feratezza di quel sistema e a suggellare la sua inevitabile sconfitta morale.

Negli anni che seguirono superstiti e famigliari tornarono spesso a visitare i campi.I primi, per ricercare se stessi, quello che erano stati capaci di essere, per risentirequella stupefacente voglia di vivere che li aveva animati, che aveva accompagnato gliultimi istanti dei loro compagni morti. I famigliari, per vedere i luoghi dove il lorocaro era scomparso, camminare adagio sulla terra che lui, sospinto e vilipeso, avevacalpestato, sperando che nell’azzurro del cielo, sul verde dei prati, sulle pareti dellebaracche fosse rimasta miracolosamente impressa l’immagine di un sorriso, il cennodi un possibile arrivederci.

Tuttavia gli uni e gli altri non si voltarono soltanto indietro, ma restando uniti nel-la loro Associazione parteciparono alla vita politica, sociale e culturale del Paese.

Piero Caleffi, che aveva scritto “come si facesse presto a dire fame”, e FrancescoAlbertini da Verbania si resero promotori in Parlamento della legge contro il genoci-dio. E lo stesso Albertini, vincendo la causa con il Governo federale tedesco per il sim-bolico indennizzo a favore dei reclusi nei Lager di sterminio, ottenne il riconoscimen-to della figura giuridica dei deportati italiani politici e antifascisti ovviando a quella“dimenticanza”. Italo Tibaldi si batté da par suo affinché l’Associazione NazionaleEx Deportati fosse eretta a Ente morale. E fu eretta. Poi s’impegnò a ricostruire la cro-nologia dei “trasporti”, evidenziando – cifre alla mano – uno degli aspetti più diaboli-ci del sistema nazista: quello di mandare a morire uomini, donne e bambini amigliaia di chilometri di distanza dalla loro patria.

Giovanni Melodia e Giorgina Bellak fin dal ’60 parlarono delle donne e dei bam-bini nei Lager, e ancora tante volte dopo ne parlò Giovanni.

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9Presentazione

Perché uomini, donne e bambini deportati nei Lager diventassero memoria pe-renne Gemma e Giacinto Guareschi, genitori di Marco, morto a Mauthausen, pro-mossero il Monumento ai caduti italiani. Albe Steiner e Barbiano di Belgiojoso pro-gettarono un “Museo della Deportazione” a Carpi e l’ANED allestì i Memoriali adAuschwitz e Ravensbrück. Bepi Calore, medico – e partigiano “Marangoni” –, colseun premio importante che accomunava professionalità, abnegazione e coraggio dideportato.

Vincenzo Pappalettera fece uscire dal camino le memorie e le nozioni del sacrifi-cio. Lidia Beccaria Rolfi, una donna partigiana in Mondovì, fece uscire quelle delledonne di Ravensbrück, e Giuliana Tedeschi, una donna ebrea, quelle di Auschwitz-Birkenau.

Gino Valenzano, che aveva già descritto l’inferno, raccontò dell’uomo in quel fuo-co. Quinto Osano pensò ai morti e ai vivi, ai morti soprattutto, affinché emozioni e la-crime, fumo e aria restassero tracce indelebili di partecipazione e gratitudine.

Teo Ducci progettò e presentò mostre dappertutto, coniugando da par suo arte edolore, e Primo Levi per tutta la vita fu e, anche adesso che non c’è più, continua aesserlo, il Testimone Principe.

Alberto Todros – chi se non un architetto che era stato prigioniero a Mauthausen? –diede alla Sezione Piemontese dell’ANED solide basi e robusti architravi di programmie iniziative testimoniali.

Molti “ex” riempirono pagine di storia sui campi. Bruno Vasari, che aveva presocarta e penna fin da subito, inventò convegni internazionali e diede impulso alla pub-blicazione del libro fondamentale curato da Anna Bravo e Daniele Jalla, La vita offesa,raccolta di testi d’incontestabile valore-verità.

Ci fu il processo sui crimini compiuti alla Risiera di San Sabba affinché la giustizia– anziché dimentica – fosse giusta, e la città di Prato si gemellò per iniziativa degli“ex” con la città di Ebensee affinché la pace – anziché transitoria – fosse imperitura.

E la Città di Moncalieri? In questi ultimi anni, collegandosi a gruppi via via piùnumerosi di insegnanti, si è impegnata tantissimo nelle scuole e ha organizzato viaggidi studio nei Lager nazifascisti. Importanti restano le cittadinanze onorarie date ad al-cuni sopravvissuti. Fra costoro Anna Cherchi, Natalia Tedeschi, Albino Moret non cisono più, ma resterà il ricordo prezioso della loro presenza nelle scuole della città.

In fondo, a pensarci bene, la prima delle date “storiche” che hanno contrassegna-to il “dopo Lager” fu il 9 giugno del ’45 quando, appena scesi dal treno, all’ingresso diun bar di Via Sacchi a Torino, al nostro apparire la gente sparì in fondo alla sala. Il5 maggio di qualche anno dopo, anniversario della liberazione di Mauthausen,alcuni di noi in una sala da ballo di Corso Vittorio – si chiamava “Castellino” –ricordando quella data chiesero all’orchestra di suonare Ci sposeremo a maggio con tanterose... Prima che le danze cominciassero i ballerini si rivolsero al nostro gruppo,battendo tutti a lungo le mani. A fine ottobre del ’48, al Cimitero generale, fu accoltaufficialmente la Salma del Deportato Ignoto. Per venire ai giorni nostri, quando leesequie di Natalia prima, di Albino poi e infine di Anna furono accompagnate dalGonfalone della Città di Moncalieri.

Torino, 20 ottobre 2006

Il Presidente dell’ANED Regione PiemonteFerruccio Maruffi

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Incontrare i luoghiLucio Monaco

Dieci anni dopoNell’arco di dieci anni1 in Italia (ma non solo) i viaggi di studio nei Lager

nazifascisti sono diventati un’esperienza diffusa, caratterizzata da percorsi didattici dimaggiore o minore complessità e ampiezza, non limitati all’ambito dell’insegnamen-to della storia e finalizzati alla formazione della coscienza civile. La situazione, rispet-to al momento in cui abbiamo iniziato l’esperienza moncalierese, è quindi ben diver-sa: fare un bilancio significa anzitutto fare i conti con questo scarto, così come con letrasformazioni che sono avvenute nei luoghi stessi della memoria.

Non occorre per esempio riproporre l’interrogativo sull’utilità della educazione“a partire dai luoghi”2 come si proponeva, sia pure rapidamente, nel nostro volumedel 2002.3 Una simile strategia conoscitiva è oggi largamente consolidata, sia sul pia-no della riflessione teorica e metodologica sia su quello del terreno concreto e operati-vo: da parte di chi è soggetto attivo del viaggio – insomma chi lo progetta e lo organiz-za – e da parte di chi tutela i luoghi stessi.

Può essere invece utile ribadire, in primo luogo, le caratteristiche che, attraversoinevitabili “correzioni di rotta” dovute al mutare dei tempi, il Progetto delle Scuole diMoncalieri possiede rispetto a iniziative apparentemente simili (e in qualche casocondotte effettivamente con gli stessi criteri); e in secondo luogo vedere come questitratti specifici rispondono alle nuove condizioni d’insieme, che possiamo velocementeindicare nella “popolarità” raggiunta dall’argomento – con tutti i vantaggi di una co-noscenza diffusa, ma anche con i problemi legati a un possibile eccesso di esposizionemediatica – e nelle trasformazioni dei luoghi, spesso passati dalla “forma abbando-no”4 a una configurazione completamente diversa, attraverso ricostruzioni o monu-mentalizzazioni.

Il viaggio ai luoghiIn prima istanza c’è l’idea “forte” – perché formulata sin dai primi anni, e poi sem-

pre più esplicitata – che il viaggio non sia un momento conclusivo ma una delle tappedel processo di conoscenza, che non si esaurisce nella visita. Punto di arrivo dunque di

Introduzione

1 Consideriamo decennale la durata del Progetto, dato che il viaggio del 2007 è già stato messo in programma.2 N. Baiesi / G. D. Cova, “Educa il luogo”, in T. Matta (cur.), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della vio-lenza nazista e fascista in Italia, Milano, Electa, 1996, pp. 140 sgg.3 L. Monaco / G. Pernechele (curr.), Percorsi di memoria. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2001, Città diMoncalieri, Assessorato alla Cultura, 2002.4 Cfr. il saggio di N. Baiesi / G. D. Cova citato supra, nota 2.

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un’attività di ricerca che è anche progettuale, e punto di partenza per una verifica del-le conoscenze acquisite e della realizzabilità del Progetto, nelle sue varie articolazionipossibili. Attraverso il viaggio, quindi, il percorso conoscitivo che proponiamo, incen-trato sull’ideologia nazifascista e sulle sue conseguenze, si fa esperienza di laboratorio,che per così dire precipita in realizzazioni comunicative dei tipi più diversi: la scrittura(e questo stesso libro ne è una prova, speriamo riuscita), il lavoro sulle immagini fisse– disegni, fotografie, forme grafiche – e in movimento (film documentari e di creazio-ne, multimedialità), la partecipazione a mostre ed esposizioni in manifestazioni locali.

Il riepilogo dei nove anni di viaggi e delle realizzazioni a essi collegate, offerto nel-la sezione successiva, mostra un quadro abbastanza significativo per quantità e quali-tà di realizzazioni: senza però dimenticare che stiamo parlando non di risultati defini-tivi e assoluti, ma sostanzialmente di simulazioni, valide soprattutto per il metodo im-piegato – che sia di ricerca storica o sociale, o di realizzazione tecnica o estetica, di va-lutazione delle forme di memoria – piuttosto che per il prodotto in sé.

Conseguenza di tale impostazione è che il percorso del viaggio, in genere non pre-fissato rigidamente ma discusso durante gli incontri di preparazione, è legato all’argo-mento specifico, quasi monografico, previsto per ogni anno scolastico: il “tema cen-trale” del lavoro di studio e approfondimento indicato in testa a ogni resoconto, nellepagine che seguono. Fin dal primo anno sono state costruite delle “guide al viaggio”:queste, prima ancora che illustrare la storia specifica dei luoghi da visitare, intendonomettere i luoghi in relazione alle attività svolte, ai progetti da realizzare, a un percorsopossibile di conoscenza.

Tutto questo non è così ovvio come potrebbe sembrare. In effetti, se osserviamo inquale contesto avvengano i numerosi viaggi organizzati da scuole e istituzioni (non so-lo intorno alla data fatidica del 27 gennaio), possiamo individuare tipologie diverse.Potremmo perfino operare una classificazione schematica muovendoci nella varietàdi proposte e realizzazioni attuate in luoghi e in tempi diversi, a partire all’incirca da-gli ultimi vent’anni (e muovendo lo sguardo non soltanto alla realtà italiana, ma anchea quella di molti altri Paesi europei, oltre naturalmente a Israele). C’è (ed è una tipolo-gia più frequente di quanto non sembri) il “viaggio premio”, legato a un concorso, na-zionale o locale; c’è il “viaggio istituzionale”, frutto di iniziative di singole ammini-strazioni ed enti territoriali, caratterizzato da momenti di maggiore ufficialità e ceri-monialità; c’è il “viaggio di istruzione” (non sembri blasfemo il riferimento alla vec-chia “gita scolastica”), momento di routine scolastica in cui la visita a un luogo di me-moria tende a costituire una parentesi di riflessione (ciò che non rende il viaggio menosignificativo, ovviamente) in un contesto d’insieme più vicino alle dinamiche turisti-che. Crediamo che il tipo di viaggio cui si avvicinano le esperienze del ProgettoMemoria moncalierese sia ancora qualcos’altro, definibile certamente come “viaggiodi studio”, se non ci fosse un elemento in qualche modo eccedente, costituito dallapresenza – in un contesto di progettualità quale quello indicato – di figure-chiave del-la memoria, ossia i superstiti dei campi, che sempre in tutti questi anni hanno accom-pagnato insegnanti e studenti sui luoghi dello sterminio. È peraltro vero che anche ne-gli altri tipi di viaggio il testimone è presente: ma nel caso del viaggio di studio, lo“studio” – il rapporto con il passato e il recupero dei suoi significati – si carica di unadimensione di autenticità che mobilita forze di natura emotiva (e questo è un processonon privo di rischi, se lasciato senza controllo) e istanze etiche profonde, messe in gio-co da eventi in cui sono coinvolti valori umani fondamentali. Anche l’esperienza del

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13Introduzione

testimone e della testimonianza si collocherà, come quella del contatto con i luoghi, inposizione intermedia all’interno di tutto il percorso conoscitivo proposto.

Restando su un piano più concreto, va sottolineato che questa strategia di viaggiodi studio e testimonianza è condivisa da numerose scuole, piemontesi e non, per ini-ziativa di singoli insegnanti che poi si coordinano in gruppi più ampi, in genere conapporti interdisciplinari, di cui rimangono tracce significative in pubblicazioni, film,lavori multimediali e altro.5 Ci pare però che l’esperienza di Moncalieri riesca a in-trecciare il piano del “viaggio di studio” con quello del “viaggio istituzionale” perchési lega, come appare da queste pagine, al territorio tramite le attività di laboratorio(ben visibile, questo aspetto, in alcuni viaggi, come quello esplicitamente dedicato alladeportazione dei moncalieresi del 2005, nel sesto decennale della Liberazione) e tra-mite un momento istituzionale di ufficialità sempre presente in ogni viaggio. Credia-mo che una simile prospettiva aumenti, in qualche modo, la valenza educativa e for-mativa del Progetto stesso, in un’ottica contemporaneamente locale ed europea (e for-se anche più ampia, nelle intenzioni).

Moncalieri ha avuto pochi deportati, come ricordiamo in altra parte del volume. Ilcoinvolgimento, negli ultimi anni, di alcuni loro famigliari, divenuti in qualche modo,nel corso dei viaggi, “testimoni di secondo grado”, ha fatto sì che il viaggio ai luoghiabbia implicitamente ricuperato una terza tipologia di viaggio, che è poi la più antica:quella del “viaggio di pellegrinaggio”. Un pellegrinaggio laico, beninteso, che è un ri-torno dei superstiti e una ricerca, da parte dei famigliari degli scomparsi, di tracce esegni, nei luoghi, delle vite perdute. Questo tipo di viaggio, carico di memoria e diaffetti – quindi di emotività –, si è originato nei primi anni del dopoguerra; riguardain primo luogo i superstiti e i famigliari degli scomparsi, in genere riuniti nelle primeforme associative che solo più avanti, negli anni ’60, confluiranno in quella che oggi èl’ANED. Si configurano in quel momento due livelli di testimonianza, che riemerge-ranno nelle esperienze più vicine a noi: quella del testimone diretto, del superstite, equella che chiameremo qui di “secondo grado” del famigliare. Bisogna del resto pen-sare che il primo “pellegrinaggio” è probabilmente quello organizzato a Torino nel-l’ottobre 1948, che portò ottanta persone a Mauthausen: «Alcuni di loro, gli “ex” so-prattutto, cominceranno a fare progetti, per far sì che in futuro si moltiplichino inizia-tive come questa… e che i campi vedano, quanto prima, crescere la presenza di uomi-ni, di donne e di giovani, soprattutto.»6 È una storia ancora da scrivere, ma che ha im-pregnato la memoria familiare e riverbera tracce nell’oggi. I viaggi scolastici ai Lager,dunque, costituiscono un dato recente ma che si riallaccia a esperienze lontane e di-rette dei protagonisti stessi, vissute da loro dopo la Liberazione: anche in questo si co-stituisce con il passato un legame diretto e tenace.7

5 Non è possibile farne un censimento completo. Segnaliamo soltanto due lavori recenti e significativi ai fini del no-stro discorso: G. Restelli (cur.), Auschwitz. La barbarie civilizzata: il più grande centro di sterminio che il mondoabbia visto, Milano, RaccoltoEdizioni, / IPSIA “A. Bernocchi” di Legnano, 2005; Idem, Viaggio in un mondo fuo-ri dal mondo. Dachau. Ebensee. Hartheim. Gusen. Mauthausen, Milano, RaccoltoEdizioni / IPSIA “A. Bernoc-chi” di Legnano, 2006. 6 F. Maruffi, Laggiù dove l’offesa (rivisitando i luoghi della memoria), Cuneo, Ramolfo, 2001, pp. 8-9.7 In questa chiave si possono leggere le considerazioni di Ferruccio Maruffi nella “Presentazione” del libro(cfr. supra, pp. 8-9).

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Crediamo che di tutto ciò si possa trovare traccia nel nostro libro quando lasciamola parola agli studenti che riflettono sulla loro esperienza di incontri con i testimonidiretti e con i testimoni che abbiamo definito “di secondo grado”.

I testimoni, la memoria, il territorioAltra esperienza ormai decisamente diffusa è quella del rapporto con la testimo-

nianza diretta dei superstiti tenuta sui luoghi; e del resto a quest’ultimo decennio siaddice senz’altro, a livello generale, la definizione di “era del testimone”. All’inizio delProgetto, i viaggi ci apparivano come resi necessari proprio dalla possibilità di visitarei luoghi, i Lager, insieme con i superstiti. Essi, oltre a rendere partecipi della loro vi-cenda individuale, sanno indirizzare lo sguardo verso prospettive specifiche – quelledel deportato italiano, che ha una sua collocazione peculiare nell’universo concentra-zionario – non sempre facili da cogliere alla luce delle spiegazioni fornite, sui luoghi,dalle guide o dai pannelli rivolti a un pubblico più vasto. Oltre a ciò, se la storia di que-sta attività di testimonianza (oggi quasi scontata, ma non così dieci o più anni fa) è unadifficile storia, piena di ostacoli, reticenze e rifiuti, ed è forse tutta da scrivere, la figuradel testimone resta fondamentale per un incontro con quel “mondo fuori dal mondo”di cui Primo Levi ha tracciato una sintesi così acuta nel suo ultimo libro, I sommersi e isalvati.

Nei nostri percorsi di ricerca la testimonianza è stata sempre esperita nelle due for-me, quella della parola (scritta, registrata) del testimone, e quella della sua presenza fi-sica, in un primo tempo nell’edificio scolastico, per gli incontri iniziali e la presa dicontatto, poi nel viaggio e sui luoghi. E abbiamo già sottolineato «quanto sia profon-da, coinvolgente e formativa (nel senso veramente più ampio del termine) l’esperienzadi una visita a un Lager insieme a chi vi è stato, ridotto a numero, a “pezzo”, e ne è rie-merso – ne riemerge ogni volta – per testimoniare con le parole, o soltanto coi silenzi,con lo sguardo, con la presenza».8 Tutto questo, però, non è avvenuto, e non avviene,in modo automatico e scontato, come una certa tendenza semplificatrice sembra tal-volta suggerire a livello di mass media. In realtà il rapporto con il testimone è bidirezio-nale – dal testimone a chi lo ascolta, ma anche da chi ascolta al testimone – e necessitadi un approccio consapevole.

Sulla testimonianza e sul testimone come fonte di conoscenza (e non solo storio-grafica), alcune cose sono cambiate negli ultimi dieci anni. Il rapporto fra storia etestimonianza, fra storia e memoria è oggi affrontato in modo più complesso, nellaconsapevolezza di dover superare l’idea (diffusa, specie in ambito scolastico, tra glistudenti) che la seconda, più “viva”, prevalga sulla prima (verso la quale è spesso ripe-tuta l’accusa di essere astratta e “libresca”). Nel corso dell’esistenza del Progetto è di-ventata sempre più centrale l’istanza a conferire il giusto ruolo a ciascun elemento e adistinguere nella complessità delle situazioni: il testimone “connota” e arricchisce laconoscenza storica, se già precedentemente la possediamo; oppure è il punto di par-tenza per allargare la visuale fino alla conoscenza ricuperata anche da altri strumentidi lavoro (più raramente, a tale livello, viene a costituire egli stesso l’unica fonte su undeterminato avvenimento, o aspetto, prima ignorato). Infine oggi il testimone èconsapevole del ruolo che riveste, e questo talvolta genera problemi di non facile solu-

8 L. Monaco / G. Pernechele (curr.), Percorsi di memoria cit., p. 10.

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15Introduzione

zione. La testimonianza, anche nella situazione ideale e più efficace che è quella del-l’interazione con il luogo, presuppone un’allerta costante del senso critico, anzituttoovviamente da parte del docente. Questi problemi si fanno più acuti nella prospettiva,certo non lontana, dell’utilizzazione della testimonianza “viva” effettuabile soltantoattraverso la sua registrazione.9

Nel nostro Progetto abbiamo seguìto due strategie per fissare il rapporto con iltestimone in modo da rendere più praticabile la strada della riflessione e rielaborazio-ne su un piano non solamente empatico o emotivo; o se si preferisce il superamentodella dimensione di pura soggettività a cui la testimonianza, da sola, rischia di rima-nere confinata.

La prima è stata quella di fissare la testimonianza sul luogo attraverso la registra-zione (cioè la ripresa video) e i successivi interventi di montaggio (quindi diri-costruzione della testimonianza) se l’esperienza si è calata nella successiva realizza-zione di un film (si veda per questo aspetto l’Appendice VII. B del libro). Certamentegli intenti in questo lavoro sono anzitutto didattici, e quindi non si può pensare che ta-li materiali costituiscano dei veri e propri apporti specialistici o documentari. Tuttaviala costituzione dell’Archivio Multimediale, illustrata più avanti (nell’Appendice VII.A), ha l’ambizione di proporre materiali utili non solo a documentare i dieci anni diattività, ma anche le singole vicende dei testimoni che vi compaiono.

La seconda si è collocata sul versante della trasformazione della testimonianza inparola scritta. Si deve del resto pensare che scrivere, forse più ancora che parlare, èstato un impulso primario nei deportati sia durante la prigionia, sia all’indomani del-la Liberazione.10 Ci piace pensare che il passaggio dall’oralità alla scrittura è stato, an-che qui, bidirezionale: studenti che trascrivono i racconti dei testimoni, e testimoniche, forse anche dopo aver visto le proprie parole prendere forma, organizzano il lororacconto in libro.11 Le nuove scritture raccolte nel Capitolo IV del presente volumecostituiscono, almeno ce lo auguriamo, un preludio a nuovi libri di memoria.

Anche in questo modo, pensiamo, si può evitare il rischio dell’appiattimento, dellasovrapposizione tra memoria e storia e si rinnova la possibilità di ricordare e comme-

9 Rinviamo alle pagine di Annette Wieviorka, L’era del testimone, trad. it. di F. Sossi, Milano, Cortina, 1999, in par-ticolare pp. 109 sgg.10 L’affermazione può sembrare discutibile, ma è suffragata da testimonianze capillarmente diffuse: per esempio,Orfeo Mazzoni (un deportato di Moncalieri), in un’intervista del 1982 ricorda: “Quando sono arrivato a casa daMauthausen mi sono messo lì e ho fatto un piccolo diario, ma il diario della, diciamo ‘solo’, della prigionia... L’hofatto perché… ho fatto… un diario, non un diario, ho tirato giù degli schizzi diciamo… sarebbe, più che tutto sarebbeche uno si ricorda di… si ricorda dei numeri, diciamo” (ADP). Pio Bigo, deportato a Mauthausen, Gusen, Linz,Auschwitz e Buchenwald, riuscì a tenere un piccolo diario durante la sua permanenza a Linz, anche se poi dovettedisfarsene (Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette Lager, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, p. 72). Il suocompagno di deportazione Sergio Lucco Castello stese una memoria all’indomani stesso della Liberazione, al-l’ospedale di Linz. Attilio Armando, deportato a Flossenbürg, stende le sue memorie – che riprenderà qualche an-no dopo ampliandole – al suo ritorno in Val di Susa (Dalla Val Sangone a Flossenbürg, Alessandria, Edizioni del-l’Orso, 2006). E fin qui abbiamo citato casi appartenenti alla categoria di «coloro che non scrivono» (cfr. P. Bigo, Iltriangolo di Gliwice cit., p. 170); a maggior ragione l’affermazione vale per nomi più noti (Liana Millu, Giuliana Te-deschi, e ovviamente lo stesso Primo Levi).11 Questo ci pare possa essere detto per Natalino Pia, che dopo la pubblicazione di un breve riassunto della sua vi-cenda di scampato alla ritirata di Russia e allo sterminio di Gusen (in Percorsi di memoria cit., pp. 73-74 e alle pp.205-207 del presente volume) ha proposto il suo racconto per esteso nel volume La storia di Natale. Da soldato inRussia a prigioniero nel Lager, Novi Ligure, Joker, 2003, 20063).

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morare affiancandosi alle forme istituzionali senza cadere in ritualizzazioni formali ein luoghi comuni mediatici.

Nuove possibilità per la memoria diretta ci pare siano offerte dalla presenza dei“testimoni di secondo grado” di cui già abbiamo detto. Probabilmente si tratta di undiscorso ancora da affrontare e da pensare in termini teorici. La presenza, sempre di-screta e mai sostitutiva, dei famigliari – vogliamo qui ricordare Adriano Sattanino, ifamigliari di Orfeo Mazzoni, di Pietro Paolo Bertoglio, di Antonio Temporini, la mo-glie e la figlia di Natale Pia (Margherita Benzi, mancata nel 2006, e Primarosa Pia) –ha costituito in qualche modo un tramite empirico tra le nuove generazioni e la me-moria vissuta del passato. Ma è soltanto un inizio, che riteniamo debba essere ulte-riormente esplorato confrontandolo anche con le esperienze legate ad altre situazionie realtà territoriali.

Se poi limitiamo il discorso a Moncalieri, il legame stretto che il Progetto ha istitui-to con alcuni momenti celebrativi (anzitutto la ricorrenza del 27 gennaio, poi quelladel 25 aprile) ed espositivi (mostre e rassegne) ha segnato in modo sempre più marcatoquesti ultimi anni, come si può notare dal riepilogo proposto più avanti (Capitolo V)sui modi in cui le nostre esperienze si sono connesse al “Giorno della Memoria”. Unsegno permanente è quello lasciato dalle due lapidi, una posta nell’atrio del PalazzoComunale, l’altra sulla scalinata di Via Monfalcone, che ricordano sia le vittime sia leattività di memoria dei superstiti dei Lager.

Un tema trasversaleIl Progetto Memoria ha costituito, prima di tutto, un’esperienza scolastica e didat-

tica, e concluderemo con questi aspetti. Quando scegliemmo il termine percorsi per da-re il titolo al libro che chiudeva l’esperienza dei primi quattro anni era perché aveva-mo individuato nella storia dei Lager, della deportazione, della Shoah – argomentiscomodi, inconciliati, eccedenti – un «nodo conoscitivo che comporta attenzione alle di-mensioni letteraria, linguistica, sociologica, artistica… anche per coniugare adegua-tamente emozionalità e razionalità».12 Ci pare di aver proceduto con maggiore sicu-rezza su questo terreno, introducendo in modo più deciso temi e metodi specifici didiscipline diverse, individuate con precisione e cognizione di causa. Ciò appare parti-colarmente evidente nell’apporto (quasi un’irruzione) delle nuove tecnologie digitali emultimediali e dei nuovi linguaggi. Le tecniche attuali di registrazione e manipolazio-ne di immagini, suoni e parole permettono possibilità nuove di archiviazione e con-servazione della memoria, ma anche di rielaborazione e di comunicazione delle espe-rienze e delle conoscenze. Nella consapevolezza che anche la multimedialità sia unmodo (a sua volta trasversale e interdisciplinare, implicando diversi livelli di abilità ecompetenze) di trasmettere la memoria, e una modalità di comunicazione immediataed efficace, si è dato avvio a esperienze laboratoriali di questo tipo. Il coinvolgimentopiù ampio si è ovviamente avuto nella scuola tecnologica per definizione fra le tre,cioè l’ITIS “Pininfarina”, con la partecipazione di insegnanti e specialisti informaticie un’attenzione particolare alla sintassi dei linguaggi visivi e anche alla responsabilitàche nasce dalle scelte formali decise nei momenti di rielaborazione dei materiali e dei

12 L. Monaco / G. Pernechele (curr.), Percorsi di memoria cit., p. 9.

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17Introduzione

documenti.13 Il libro presenta quindi, oltre al suo aspetto consueto, cartaceo, costitui-to dalle parole stampate, alcuni saggi di tale attività di “memoria multimediale”, rac-colti in due DVD.

Analogamente, la dimensione estetico-artistica, legata in particolare alle arti figu-rative – in altri termini, più chiaramente scolastici, la disciplina di “disegno e storiadell’arte” – è servita a costruire una griglia conoscitiva fondante sia dei modi di vede-re i luoghi, durante il viaggio, sia delle forme di documentazione, rappresentazione einterpretazione dell’esperienza comunicata al ritorno. Probabilmente il risultato piùinteressante raggiunto in tale ambito è costituito dal lavoro sul Monumento italiano aMauthausen, di cui riportiamo una parziale documentazione, essendo, almeno in vo-tis, un’attività in corso d’opera suscettibile di ulteriori sviluppi. Un altro approccio tra-sversale e, come si dice, interdisciplinare si è configurato nell’apertura alle scienzebiologiche, con gli apporti più recenti della genetica, per intervenire in termini speci-fici nella discussione sulle teorie razzistiche che stavano alla base delle legislazioni an-tisemite nazista e fascista e che a tratti riemergono, trasformate o mascherate, in nonpoche realtà del mondo contemporaneo: un intervento di rigore scientifico che con-ferma il carattere profondamente educativo e (cosa più importante) formativo delProgetto, per gli studenti e i docenti che vi partecipano.14 Di queste attività, a bilanciofortemente positivo, diamo appunto conto nel volume, in una sezione apposita, per-ché riteniamo che il loro inserimento esplicito e strutturato costituisca un tratto origi-nale del Progetto.

Tali scelte hanno corrisposto, del resto, alle trasformazioni intervenute in questianni nei luoghi della memoria, cui si accennava all’inizio della nostra Introduzione.Nel costituirsi dei Lager (spesso, come nel caso di Bolzano, Gusen, Ebensee, di quelche ne resta, e non è molto) in “musei” (usiamo le virgolette perché si tratta di museiparticolari, com’è ovvio e come apparirà più ovvio a chi leggerà il saggio dedicato aquesto problema, un saggio che ci piace pensare nato proprio dalla interazione con inostri viaggi, specie quelli del secondo quinquennio), la forza comunicativa del-l’espressione estetica, che qui diventa più esplicitamente allusiva e simbolica, ha sosti-tuito con maggiore ricchezza di linguaggio e di significati la precedente generazione(se così si può chiamare) di opere monumentali e commemorative.

Il caso più emblematico è forse quello del Castello di Hartheim, dove una serie diinstallazioni particolarmente significative contribuiscono a far emergere e a rivelarsialla conoscenza e alla sensibilità emotiva la realtà del centro di sterminio che era statacancellata fisicamente dai nazisti, e che né la presenza di strutture commemorative néla ricostruzione archeologica riuscirebbe a restituire con la stessa intensità. Il discorsovale per tutti quei Lager in cui non solo il ricordo, ma anche la comprensione profon-da degli eventi sono affidati a installazioni ed esposizioni permanenti che seguono icanoni dell’arte contemporanea o delle espressioni più di avanguardia e talvoltasperimentali.

13 Si vedano più avanti le Appendici VII. A (“Archivi della memoria”) e VII. B (“Immagini della memoria”).14 Su questo aspetto di educazione paritaria (docenti e discenti, in una certa fase dell’attività, imparano e cresconointellettualmente in egual misura) e continua, così come sulla strategia dei percorsi, e sul rapporto tra memoria in-dividuale e conoscenza storica, si vedano le considerazioni di David Sorani, “Dallo studio della Shoah alla passio-ne civile”, in Ha Keillah, a. XXXI-153, n. 1 / febbraio 2006, e il precedente “Esistenza, memoria e storia”, ibidem,a. XXX-148, n. 1 / febbraio 2005.

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Il percorso che passa attraverso questa somma di esperienze, e che abbiamo cercatodi delineare, consente di definire il Progetto Memoria come un laboratorio di praticheconoscitive e di intervento nella realtà. Di qui l’importanza, per noi, delle realizzazio-ni successive al viaggio, e in particolare di quelle che meglio esprimono la tensione acomunicare, più che descrizioni o racconti, le rielaborazioni personali. È consueto af-fidare tale compito alla parola scritta; noi abbiamo cercato di farlo anche attraverso leimmagini, ed è per questo che nel Capitolo III viene proposta una scelta di sguardi suiluoghi della memoria, nella forma di fotografie fortemente interpretative: una sceltaseguìta anche da molte istituzioni museali e che pare, oggi, tra le più adatte a comuni-care ciò che sembra incomunicabile.15 E questo, nella convinzione già espressa neiPercorsi di memoria più volte citati, e che non possiamo non ribadire, che «la conoscenzapiena dei Lager nazisti e di ciò che hanno rappresentato dovrebbe davvero costituire,per gli uomini di oggi che vivono un’inquieta modernità, una tappa obbligatoria delloro percorso di formazione civile ed etica».

15 Un esempio tra i più riusciti è E. Balawejder / T. Kranz / B. Rommé, In the middle of Europe. Konzentrations-lager Majdanek, Münster, Stadtmuseum Münster, 2001.

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Capitolo I - I viaggi del Progetto

* I titoli dei paragrafi che seguono riprendono i temi che sono stati di volta in volta al centro del Progetto.1 Lettera di Oswald Pohl a Heinrich Himmler, datata 30.4.1942 e cosiddetta “Circolare Pohl”. Cfr. La circolare Pohl.L’annientamento dei deportati politici nei Lager nazisti attraverso il lavoro, Milano, FrancoAngeli, 1991, p. 51.2 A. Bravo / D. Jalla, La vita offesa, Milano, FrancoAngeli, 1986 sgg., p. 19.

1. “Lo sterminio attraverso il lavoro”*

27-30 aprile 1998: viaggio di studio a Mauthausen e DachauLucio Monaco

Questo primo viaggio di studio è stato impostato, sia per il percorso di prepa-razione sia per quello di visita, all’insegna di un tema che si voleva ben congruentecon i luoghi visitati: quello del Lager inteso come luogo non solo di sterminio, ma disterminio produttivo e di annientamento mediante il lavoro, in stretta interdipendenzacon le industrie di guerra e – in prospettiva, secondo i nazisti – con i bisogni economi-ci di un ipotetico tempo di pace.1 È un aspetto che caratterizza la deportazione italia-na, dato il quadro cronologico, e che coinvolge anche le vicende degli ebrei deportatidall’Italia, come già notava Primo Levi nella sua “Prefazione” a Se questo è un uomo.Mauthausen e Dachau, il primo con i suoi ottomila italiani deportati (di cui circa lametà dal Piemonte, secondo Anna Bravo e Daniele Jalla2) e il secondo con i suoi oltrediecimila, disseminati in entrambi i casi nei vari sottocampi, rappresentano per la va-rietà e la vastità delle articolazioni produttive l’emblema stesso di tale dimensione delLager. Quaranta studenti dell’ITCS “Marro” e del Liceo Scientifico “Majorana”, con3 testimoni (Natale Pia, Benito Puiatti e Margherita Benzi Pia), 4 insegnanti e 2 Consi-glieri comunali (Roberta Battilana, Doriano Begheldo) hanno ripercorso uno degli iti-nerari della deportazione italiana, sull’asse del Brennero.

La scelta di questo tracciato – il più diretto per giungere a Salisburgo, e di lì nel ba-cino del Danubio – obbediva anche alla volontà di ricordare che l’Italia di Salò ha co-nosciuto, all’interno del suo territorio, la presenza di campi di smistamento e di prigio-nia, anche se le tracce sono ormai labili. Il passaggio per Bolzano ha così costituitol’occasione per ricordare, con una breve scheda e con la stessa presenza di NatalinoPia, il campo oggi scomparso.

Il giorno 28 è stato dedicato interamente alla visita del Lager principale di Mau-thausen (che si presenta come luogo di memoria e come museo) e del sottocampo diGusen (di cui resta unicamente il Memoriale, opera dell’architetto Lodovico Belgiojo-so, egli stesso superstite del Lager). La visita al Lager principale, scandita da letture dipagine di memorie e di poesie di deportati, è iniziata con una riflessione davanti alMonumento italiano, proseguendo poi secondo il percorso concordato con il testimo-

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Capitolo I20

ne principale, Natalino Pia, cioè quello stesso seguìto dai deportati al loro arrivo, inte-grato con la visita del Museo e di altri settori del campo. Data la ristrettezza di alcunilocali, ci si è divisi in due sottogruppi alternando però sempre gli interventi testimo-niali a indicazioni storiche (specialmente sulle gassazioni dell’aprile 1945, che hannocoinvolto numerosi italiani).

Nel pomeriggio si è visitato il Memoriale di Gusen, e si sono incontrati i rappre-sentanti di un’Associazione locale, attiva nella conservazione della memoria dei tresottocampi dell’area di Gusen: l’Arbeitskreis für Heimat- Denkmal- und Geschi-chtspflege (AHDG). Alla lettura di testi di memoria di superstiti italiani si è così affian-cata la visita guidata al Memoriale e al vicino sistema di gallerie denominato “Berg-kristall”, presso St. Georgen. La visita, accompagnata da spiegazioni e inquadramentistorici effettuati in inglese, è durata fino al tardo pomeriggio.

Il giorno successivo è stato dedicato alla visita di Salisburgo e quindi allo sposta-mento a Monaco. Il 30 si è svolta la visita al Lager e Museo di Dachau, con un mo-mento ufficiale in cui il Sindaco di Moncalieri, Carlo Novarino, e l’Assessore alla Cul-tura, Mariagiuseppina Puglisi, hanno incontrato il primo Vicesindaco di Dachau,Katerina Ernst, e Gabriella Hammermann, responsabile della ricerca presso ilMemoriale di Dachau. Anche qui, oltre a brevi discorsi delle autorità, è stata data laparola alle testimonianze scritte di superstiti (testi poetici di Giovanni Melodia e Ne-vio Vitelli),3 mentre Benito Puiatti, il testimone deportato a Dachau, ha poi guidato lavisita all’insieme del campo e al Museo.

Nel mese successivo – un breve spazio di tempo, condizionato dalle scadenze dellachiusura dell’anno scolastico – gli studenti hanno costruito un percorso fotografico,corredato di didascalie e commenti, attualmente conservato negli archivi delle duescuole. Un gruppo ha invece approfondito il contatto con Benito Puiatti, il testimoneterritorialmente più vicino e raggiungibile, che ha poi steso una breve memoria dellasua deportazione (pubblicata più avanti, nel Capitolo IV, con il titolo “Ricordi di Da-chau”), spinto dall’intensità dell’esperienza di questo viaggio e del colloquio con glistudenti.

2. “Dalle leggi razziali nazifasciste ad Auschwitz”25-30 marzo 1999: viaggio di studio ai Lager di Auschwitz I, Auschwitz II-Birkenau, Auschwitz III-Monowitz e a CracoviaLucio Monaco

Nell’anno scolastico 1998-1999 la deportazione è stata studiata principalmente con-siderando il Lager come luogo di applicazione delle teorie razzistiche nazifasciste, anchealla luce della ricorrenza del sessantesimo anniversario delle leggi razziali italiane (1938).La scelta del luogo da visitare non poteva non ricadere su Auschwitz, con uno sforzofinanziario non indifferente, reso possibile dal contributo di altri enti e istituzioni.4

3 Si possono leggere nel volume apparso nell’edizione originaria in tedesco e curato da Dorothea Heiser, La miaombra a Dachau. Poesie dei deportati, trad. it. di M. G. Camia, Milano, Mursia, 1997.4 Oltre alla Città di Moncalieri e ai singoli Istituti scolastici, si menzionano il Ministero della Pubblica Istruzione(circ. 411/98), la Provincia di Torino, e la filiale di Moncalieri dell’allora Istituto Bancario Sanpaolo di Torino.

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21I viaggi del Progetto

Il viaggio si presentava complesso anche per l’elevato numero dei partecipanti (76studenti, 6 insegnanti, 2 testimoni, oltre a 2 Consiglieri comunali, Roberta Battilana eArturo Calligaro), legato alla partecipazione di tutte e tre le Scuole Superiori Statalidi Moncalieri (quindi con l’aggiunta, rispetto all’anno precedente, dell’ITIS “Pininfa-rina”) e la ricerca di un percorso di visita adeguato alla testimonianza diretta: infattidue fra gli ultimi superstiti di Auschwitzin Piemonte, Natalia Tedeschi (deportataa Birkenau nel 1944) e Pio Bigo (“politi-co” spostato da Mauthausen a Monowitznel dicembre 1944), si sono lasciati coin-volgere con grande disponibilità nell’at-tuazione del programma. Si sono formatidue gruppi di partecipanti che, essendopartiti a distanza di un giorno, hanno visi-tato in momenti separati le città di Craco-via e Varsavia per poi ritrovarsi nel mo-mento centrale del percorso di studio diAuschwitz (27 e 28 marzo).

Il filo conduttore è stato costituito dal-la testimonianza di Natalia Tedeschi (siveda più avanti, al Capitolo IV) e dallamemoria scritta di Pio Bigo – che ha do-vuto rinunciare al viaggio per un’improv-visa malattia – contenuta nel suo libro Iltriangolo di Gliwice5 letto dai partecipantidurante la fase di studio preparatoria. Iltipo di percorso proposto per il compren-sorio di Auschwitz ha potuto così seguireun itinerario in certo senso anomaloe inusuale, poiché è cominciato daBirkenau, proseguendo per Monowitz eper il tratto stradale Monowice-Gliwice,pervenendo quindi alla visita di Au-schwitz I e del suo Museo soltanto il se-condo giorno.

Birkenau è stato infatti il luogo d’arrivo dei due testimoni, e d’altro canto sullabanchina di Birkenau si svolgeva la “selezione” che destinava alle camere a gas gli ina-bili, e al sistema dei sottocampi gli abili al lavoro. Il Lager di Birkenau, o Auschwitz II,è stato così visitato per primo, affiancando la testimonianza di Natalia Tedeschi allespiegazioni della guida e a una breve ma intensa lettura di un semplice elenco di nomidi bambini ebrei italiani (tratto dal Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion)6

deportati e uccisi all’arrivo a Birkenau, effettuata sulle rovine di uno dei crematori.

5 P. Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette Lager, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998.6 L. Picciotto Fargion, Il Libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia. 1943-1945, Milano, Mursia, 1991, 20022.

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Capitolo I22

Nel pomeriggio si è cercato di ripercorrere il tragitto della “marcia della morte” daMonowice a Gliwice, descritto nel libro di Pio Bigo, iniziando proprio da una visita alsito del Lager di Monowitz. L’emozione di ritrovarsi sul luogo della prigionia di PrimoLevi si è condensata nella lettura della poesia “Buna”7 presso quello che un tempo eral’ingresso del campo.

Monowitz (Monowice in polacco) è un sito difficilmente ritrovabile e visitabile,perché sono state del tutto cancellate le strutture del Lager. Solo l’assistenza di unostudioso del Museo di Auschwitz, Andrzej Strzelecki, autore di studi e ricerche sullastoria del Lager, ha permesso di “leggere” questo e gli altri luoghi della marcia di eva-cuazione del campo, che si è potuta seguire in dettaglio da Monowice a Neu Berun eMikolów, e non fino a Gliwice, dato il cattivo stato della strada, in rifacimento in piùluoghi.

La giornata del 27 va anche vista in funzione di una più piena comprensione dellestrutture museali di Auschwitz I, visitato il 28, strutture che com’è noto riguardanoprevalentemente Birkenau e la storia della Shoah, e che sono state quindi analizzatecome momento di sintesi di un’esperienza compiuta in gran parte con la visita prece-dente a Birkenau e a Monowitz (e naturalmente con i lavori e le ricerche scolastiche).Sempre ad Auschwitz I si è svolto un momento ufficiale con l’incontro del Sindaco diMoncalieri, Carlo Novarino, e dell’Assessore alla Cultura, Mariagiuseppina Puglisi,con una delegazione del Comune di Oswiecim (nome polacco di Auschwitz).

Le due giornate di Auschwitz sono state efficacemente inquadrate, prima e dopo,anche dai percorsi di visita dedicati ai Ghetti di Cracovia e ai luoghi del Ghetto diVarsavia e dell’insurrezione, che hanno fornito una conoscenza diretta della storiadelle comunità ebraiche polacche e della Shoah.

Lo spazio di tempo che haseparato il viaggio dalla con-clusione dell’anno scolasticoha consentito ai docenti dicoordinare un ampio quadrodi realizzazioni, fra cui (oltre ailavori propriamente scolastici)vanno citati i due video I giova-ni e la memoria8 e Compagni di unviaggio,9 un’esposizione foto-grafica, analoga a quella del-l’anno precedente, allestita se-paratamente nei tre istitutiscolastici e quindi alla Biblio-teca Comunale di Moncalieri,e il CD-Rom multimediale Il’900. I giovani e la memoria (1999,ITIS “Pininfarina”).

7 Già in P. Levi, L’osteria di Brema, Milano, Scheiwiller, 1975; poi confluita in Idem, Ad ora incerta, Milano, Garzanti,1984.81999, SVHS, col., 17’, regia C. Piana (ITIS “Pininfarina”), presentato alla rassegna torinese “Big 2000”.91999, VHS, col., 8’, regia E. Cassaro / M. Gai (L.S. “Majorana”), presentato a “Torino Film Festival 1999 (Scuole)”.

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23I viaggi del Progetto

3. “Forme della memoria” (I)26 novembre 1999: viaggio di studio al Museo del Deportato di Carpi (Modena) e a Fossoli di CarpiLucio Monaco

Il tema scelto per l’attività dell’anno 1999-2000 – una riflessione sui Lager comeluogo di conservazione monumentale, museale e documentale di memoria – è statodefinito con la formula di “Forme della memoria”. Si sono pertanto studiati, e ancheper così dire verificati sul campo, i vari modi in cui si può trasmettere la memoria ditali eventi, dalla parola scritta (il libro, l’intervista, la ricerca storica) all’immagine,considerata nelle sue varie forme espressive (fotografia, cinema, multimedialità).

Il rapporto fra le scuole si è fatto più stretto (e più specialistico) con l’istituzione,presso l’ITIS “Pininfarina”, di un Laboratorio Multimediale Interscolastico espressa-mente dedicato all’argomento. Questa prima, rapida giornata di studio ha quindiavuto la duplice funzione di alfabetizzare gli studenti che partecipavano all’iniziativaper il primo anno, e contemporaneamente di introdurre al complesso problema dellaconservazione dei luoghi. Nessun luogo in Italia è così emblematico della cattivacoscienza nazionale come il campo di transito di Fossoli, di cui si procede lentamentee faticosamente a un difficile ricupero. La particolare formula espositiva del Museo diCarpi (efficacemente illustrata dalle responsabili, Roberta Gibertoni e AnnalisaMelodi), d’altro canto, oltre ad avviare allo studio della deportazione, rappresentaemblematicamente le numerose possibilità della memoria “monumentale”. Anche inquesto caso, comunque, la memoria di un luogo abbandonato come il campo di tran-sito di Fossoli è stata resa più viva, durante la visita, dalla lettura di una nota poesia diPrimo Levi, “Il tramonto di Fossoli”.10

4. “Forme della memoria” (II)4-8 aprile 2000: viaggio di studio al Lager di Mauthausen e ai suoi sottocampi (Melk, Gusen, Linz, Hartheim, Ebensee)Lucio Monaco

Il nuovo viaggio ai Lager del “sistema Mauthausen” è stato concepito allo scopo dicostruire un’immagine storica non solo dell’organizzazione dello sfruttamento/ster-minio di esseri umani attuato dai nazisti, ma anche delle varie forme di conservazionedella memoria: il luogo-museo e centro di ricerca e documentazione (il campo princi-pale); il luogo-monumento, con le sue varie soluzioni (il Memoriale di Gusen, il Cre-matorio-Memoriale di Melk); il luogo restituito e parzialmente ricostruito (le galleriedi Ebensee); il luogo scomparso e solo a fatica ricostruibile (Linz). Il periodo di prepa-razione e di studio si è principalmente basato sulla lettura di testi di memoria e su unsaggio di particolare interesse.11 Partecipavano al viaggio 43 studenti delle tre scuole,

10 Cfr. supra, nota 7.11 Gordon J. Horwitz, All’ombra della morte. La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen, trad. it. di G. Ge-novese, Venezia, Marsilio, 1994.

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Capitolo I24

accompagnati da 4 insegnanti e da un testimone, Pio Bigo, superstite di tre dei Lagervisitati (Mauthausen, Gusen, Linz), oltre a 2 Consiglieri comunali (Pietro Aguiari,Arturo Calligaro) e al Presidente del Distretto scolastico 32, aggiuntosi ai patrocinato-ri dell’iniziativa. Anche in questo viaggio, per dare un respiro più ampio (e, sostanzial-mente, europeo) all’esperienza, si è stabilito un contatto con le organizzazioni localiche si fanno carico, non sempre senza problemi, dei luoghi di memoria.

Il primo luogo visitato è stato il Memoriale di Melk, raggiunto dopo aver visitato lanota abbazia, lungo un percorso che era, in parte, quello degli stessi deportati avviati alavorare nelle gallerie vicine al campo. Il giorno dopo (6 aprile) il gruppo ha procedu-to alla visita di Mauthausen, guidata e dettagliatamente illustrata anche sulla base delproprio vissuto dal testimone Pio Bigo, che si era in precedenza incontrato a lungocon studenti e insegnanti. Sempre nel campo principale si è svolto l’incontro ufficialefra le autorità di Moncalieri e il Sindaco di Mauthausen. Il pomeriggio è stato dedica-to a una visita a Gusen (anch’essa vivificata dalla testimonianza diretta) e quindi alluogo dove sorgevano i tre Lager di Linz, oggi non più visibili, luogo ritrovato graziealle indicazioni di Brigitte Kepplinger, dell’Università di Linz. Accanto ad alcuni pan-nelli commemorativi di recente installazione, Pio Bigo ha così potuto rievocare unaparte della sua prigionia sui luoghi stessi della deportazione.

Il 7 aprile il gruppo ha raggiunto Salisburgo passando per Hartheim: qui, graziealla disponibilità di Brigitte Kepplinger, è stato visitato – nonostante le difficoltà lega-te a imponenti lavori di restauro del Castello – il Memoriale dedicato alle vittime del-l’Operazione “T4” e ai deportati uccisi nella camera a gas, anche in questo caso in-quadrando il contesto storico e richiamando le letture esaminate durante il periodopreparatorio. Nella tarda mattinata si è raggiunto Ebensee, dove si è affiancata la te-

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25I viaggi del Progetto

stimonianza di un deportato polacco, Wl⁄adisl⁄aw Zuk, che collabora con i responsabi-li del Memoriale, e che – come Pio Bigo – era stato prigioniero ad Auschwitz. La visi-ta del sito del Lager, ricostruibile dai pochi elementi rimasti, in analogia al caso di Gu-sen, e le spiegazioni storiche fornite all’interno dell’unica galleria oggi aperta ai visita-tori hanno concluso la fase di studio del viaggio, proseguito nel pomeriggio e nel gior-no seguente con una visita storica e artistica di Salisburgo.

Anche in questo caso, accanto a prodotti più legati all’attività scolastica, si possonorilevare alcune realizzazioni caratterizzanti il Progetto: i video Le forme della memoria12 eFrammenti di memorie,13 il CD-Rom multimediale Un viaggio nella memoria.14

5. “Memoria e scritture”15-18 marzo 2001: viaggio di studio a Berlino, Wannsee, Sachsenhausen e RavensbrückLucio Monaco

“Memoria e scritture” è stato il tema-guida del quarto anno di attività. “Scritture”al plurale, per sottolineare la molteplicità dei modi di tramandare la memoria, sia daparte dei testimoni e dei protagonisti, sia da parte di chi comunica la memoria delleproprie esperienze nate, o comunque legate, a quella memoria. Scritture dunque nelsenso di tracce incise con la parola scritta, o l’oralità raccolta e fissata con la registrazio-ne, l’immagine o la multimedialità, ultima delle “scritture” moderne. I percorsi nellescritture tracciati dagli approcci di studio diversi da scuola a scuola sono poi stati rilet-ti e, si può dire, rivissuti nel viaggio di studio che ha avuto come meta l’area di Berlino:città della convivenza fra luoghi di memoria modernamente predisposti – come l’alle-stimento del Bebelplatz, la piazza del rogo dei libri del 1933, dove scaffali vuoti sotter-ranei, visibili attraverso un vetro, ricordanoil gesto che avrebbe poi portato a bruciare,dopo i libri, gli uomini – e documenti delpassato, come i resti, per quanto modificati,dei Lager di Sachsenhausen (uno dei primi epiù importanti in territorio tedesco) e diRavensbrück (unico Lager destinato esclusi-vamente alla deportazione femminile).

Al viaggio hanno partecipato 54 studentidelle tre scuole, 6 insegnanti, 2 testimoni su-perstiti (Anna Cherchi e Natalia Tedeschi),2 Consiglieri comunali (Arturo Calligaro,Silvia Di Crescenzo), il Presidente del Di-stretto scolastico 32.

12 2000, VHS, col., 20’, in concorso a “Sottodiciotto Filmfestival” (Torino, novembre 2000) e a “Torino Film Festival2000 (Scuole)” realizzato dagli insegnanti dell’ITIS “Pininfarina” e da studenti dei tre Istituti (accluso al volume acura di L. Monaco/G. Pernechele, Percorsi di memoria. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2001, Città di Moncalieri,Assessorato alla Cultura, 2002).13 2000, SVHS, col., 9’, regia E. Cassaro (L.S. “Majorana”), presentato a “Torino Film Festival 2000 (Scuole)”.14 2000, Laboratorio Multimediale Interscolastico presso ITIS “Pininfarina”.

Anna Cherchi e Natalia Tedeschi a Sachsenhausen (marzo 2001)

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Capitolo I26

Già nel pomeriggio della prima giornata, dedicato alla visita di Berlino, il percorsodi tipo urbanistico-architettonico in rapporto con la storia della città immediatamen-te prima, durante e dopo la guerra ha toccato in più punti l’oggetto specifico del viag-gio (in particolare con l’installazione di memoria del Bebelplatz ricordata sopra).

Il mattino del 16 è stato impegnato dalla visita al Lager di Sachsenhausen, guidatadal personale del locale Museo, con una sosta davanti ai monumenti commemorativi,alle rovine del crematorio e della camera a gas e al luogo delle esecuzioni. I parteci-panti si sono divisi in due gruppi (necessità comune in tutti i luoghi di questo tipo, cherichiedono raccoglimento e stretta colloquialità con chi illustra, spiega o testimonia),che hanno seguìto percorsi diversi, ritrovandosi poi al Blocco “Patologia”: qui si èsvolto il momento testimonialmente più significativo e nel contempo più carico diemozione, quando Anna Cherchi ha raccontato – sul luogo stesso dove è stata tortu-rata – la sua esperienza di vittima di un esperimento medico.

Nel pomeriggio si è raggiunto il Museo dell’Olocausto di Wannsee, visitato a pic-coli gruppi coordinati dagli insegnanti dopo una dettagliata spiegazione dell’eventostorico e dell’articolazione del sito di memoria. Nella villa oggi trasformata in Museodell’Olocausto, gli studenti hanno così potuto ripercorrere attraverso documenti scrit-ti e fotografie l’intera storia del Terzo Reich, della Conferenza di Wannsee, delle sueconseguenze.

Il giorno 17, insieme con il Sindaco di Moncalieri Carlo Novarino e l’Assessore al-la Cultura Mariagiuseppina Puglisi, il gruppo ha raggiunto il Lager di Ravensbrück.La direttrice del Memoriale, Sigrid Jacobeit, ha accolto il gruppo e ha poi ceduto laparola ai Sindaci di Moncalieri e di Fürstenberg per una breve cerimonia; anche que-sto momento ufficiale, che è ormai una tradizione dei viaggi di studio nell’ambito delProgetto Memoria, ha avuto un particolare significato, in quanto sottolinea la volontàda parte delle istituzioni di preservare la memoria dei Lager e di sostenere un’espe-rienza di alto valore formativo per le nuove generazioni.

Nel pomeriggio una parte del gruppo si è trattenuta fino a sera nel Memoriale, ap-profondendone la visita (in particolare all’area vera e propria del campo, in fase diristrutturazione, e alle esposizioni in corso), effettuando riprese video e soprattuttodialogando con le due testimoni, in una straordinaria e irripetibile sinergia di espe-rienze legate alla dimensione – per molti aspetti peculiare anche al livello dei linguag-gi e delle “scritture” – della deportazione femminile.

L’ultimo giorno è stato poi dedicato ad alcuni aspetti culturali offerti da Berlino(principalmente la Museuminsel) e al rientro.

I risultati delle attività di ricerca e dell’esperienza del viaggio sono confluiti in unCD-Rom curato dal Laboratorio Multimediale Interscolastico presso l’ITIS “Pininfa-rina”, intitolato Memoria e scritture, come sempre sotto la supervisione tecnica diFrancesco Martino e dei suoi collaboratori, e in un video, 44145 Anna.15

15 2001, Betacam, col., 16’, regia M. Cane (L.S. “Majorana”), presentato in una sezione di “Torino Film Festival2001” e accluso al precedente volume Percorsi di memoria cit.

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27I viaggi del Progetto

6. “L’ultima fase dei Lager: storia e memorie”27 febbraio-3 marzo 2002: viaggio di studio ai Lager di Buchenwald e DoraMarcella Pepe

Il percorso di studio di quest’anno si è incentrato sulla storia della fase conclusivadei Lager, alla luce dei luoghi scelti come meta del viaggio – i Lager di Buchenwald eDora – e in considerazione dell’esperienza dei due testimoni accompagnatori, PioBigo, superstite di Buchenwald, e Albino Moret, superstite di Dora. I due Lager rap-presentarono, infatti, nel sistema concentrazionario nazista un immenso serbatoio dimanodopera impiegata nell’industria degli armamenti e nella produzione missilistica(in particolare Mittelbau-Dora), che segnarono la politica economica degli ultimi an-ni del regime. La testimonianza di Pio, che nel suo libro16 ha dato “memoria” dell’in-surrezione di Buchenwald, è stata dunque il filo con-duttore delle ricerche preparatorie, accanto ad altritesti di ex deportati del Lager,17 mentre il saggio sugli“schiavi di Hitler”18 ha consentito agli studenti di co-noscere la “storia” delle gallerie di Mittelbau-Dora,premessa indispensabile per ascoltare la testimo-nianza appassionata di Albino.

Al viaggio hanno partecipato 38 studenti delleScuole Superiori di Moncalieri, 6 docenti, i testimo-ni appena ricordati, Carla Piana (in veste di regista),2 Consiglieri comunali (Pietro Aguiari, GiuseppeArtuffo) e un rappresentante del Distretto scolastico32 (Giuseppe De Girolamo).

Il programma prevedeva, oltre alle visite delle cit-tà di Weimar, Erfurt e Ulm, tutte e tre di notevole in-teresse storico-artistico, due giornate di studio da de-dicare ai siti della deportazione (28 febbraio e1° marzo). La mattina del 28 una guida del Memo-riale di Buchenwald ha condotto il gruppo attraversoi resti del vastissimo Lager di Buchenwald, accompa-gnata nelle spiegazioni dalla testimonianza, intensa epuntuale, di Pio Bigo. Le parole di Pio hanno ripetu-to instancabilmente le pagine del suo libro: l’appellodei prigionieri, il ricordo della baracca n. 10, il tra-sporto e la cremazione dei cadaveri, l’insurrezionedell’11 aprile e la fuga delle SS dal campo.19

16 P. Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette Lager cit.17 In particolare, E. Wiesel, La notte, trad. it. di D. Vogelmann, Firenze, Giuntina, 1988; R. Antelme, La specie umana,trad. it. di G. Vittorini, Torino, Einaudi, 1969, 19972; J. Semprún, Il grande viaggio, trad. it. di G. Zannino Angiolillo,Torino, Einaudi, 1964, 19902.18 R. Lazzero, Gli schiavi di Hitler. I deportati italiani in Germania nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori,1996.19 Si rimanda agli ultimi capitoli del Triangolo di Gliwice cit. (pp. 105-129), dove si possono ritrovare la testimonianza suBuchenwald e il racconto della sua liberazione.

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Capitolo I28

Il 1° marzo, giorno della visita al Lager di Mittelbau-Dora e alle sue gallerie, inprossimità della città di Nordhausen, il gruppo è stato guidato dal Direttore del Mu-seo, Jens-Christian Wagner, e da Albino Moret, che aggiungeva i suoi personali ricor-di sulle condizioni di lavoro e di vita dei prigionieri alla ricostruzione storica (tutta intedesco, con traduzione simultanea) della guida. Dopo la visita del Museo il gruppo siè recato sul luogo “vero” – e non quello ufficiale con la lapide commemorativa – dellafucilazione dei sette alpini italiani colpevoli di “sabotaggio”,20 ritrovato grazie ai ricor-di di Albino: qui si è avuto il momento forse più alto dell’esperienza testimoniale delviaggio, documentato anche dal film di Michela Cane su Albino Moret.21

Nel Lager di Dora si è svolta la cerimonia ufficiale, con gli interventi del Sindaco diMoncalieri Carlo Novarino, dell’Assessore alla Cultura Mariagiuseppina Puglisi, delVicesindaco di Nordhausen e di un funzionario del Consolato italiano di Lipsia; ceri-monia che era stata anticipata il giorno prima da un’analoga commemorazione da-vanti al Monumento alle vittime di Buchenwald (una placca-ricordo conservata a37°, temperatura del corpo umano), a sottolineare l’importanza del ruolo delle istitu-zioni per la conservazione della memoria.

Il lavoro di riflessione sul viaggio nelle singole scuole si è incentrato intorno a duemetodi di ricostruzione: l’esame della documentazione audiovisiva dell’itinerario, acura degli studenti del Laboratorio Multimediale Interscolastico dell’ITIS “Pininfari-na”, raccolta nell’Archivio Multimediale dell’Istituto; la rielaborazione filmica dellatestimonianza di Albino Moret, nell’opera già citata di Michela Cane e nel videoRicordo di Albino Moret,22 realizzato dal Laboratorio Multimediale Interscolastico.

20 Per la ricostruzione di questo episodio si vedano la guida “Il KZ di Mittelbau-Dora fra produzione missilistica esterminio”, al Capitolo II del presente volume, e il testo di R. Lazzero, Gli schiavi di Hitler cit., pp. 114-117.21Matricola 0155. Un deportato inesistente, SVHS, col., 14’ 56”, regia M. Cane, già inserito nel DVD Nell’inferno di Dora. Il tun-nel delle armi segrete di Hitler (realizzato dal Comune di San Germano Chisone nel 2004) e accluso al presente volume.22 2002, VHS / DVD, col., 16’ 30”, regia C. Piana, presentato il 27 gennaio 2003 alla Biblioteca Civica di Moncalieri, eaccluso al presente volume.

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29I viaggi del Progetto

7. “Memorie di pietra”25-29 marzo 2003: viaggio di studio a Mauthausen, Gusen, EbenseeMarcella Pepe

Il ritorno nell’area di Mauthausen, dopo i viaggi del 1998 e del 2000, era motivatodallo scopo di documentare lo stato delle numerose “memorie di pietra” erette in quelparticolare luogo-museo che è il campo principale: i Monumenti delle Nazioni e, so-prattutto, il Monumento italiano. Di qui il tema di studio scelto.

Al viaggio, preparato da un lavoro di approfondimento sulla memorialistica e sul-la storiografia concernente la deportazione, hanno partecipato 54 studenti delleScuole Superiori di Moncalieri, 6 docenti, 2 testimoni (Giorgio Ferrero, superstite diEbensee, e Natale Pia, superstite di Gusen), Carla Piana (coordinatrice della troupe distudenti incaricati di filmare le fasi più importanti del viaggio) e 2 Consiglieri comu-nali (Michele Morabito, Giuseppe Artuffo).

La mattina del 26 marzo è stata dedicata alla visita di Mauthausen e al suo Museo,mentre nel pomeriggio il gruppo si è spostato nel campo satellite di Gusen, dove è statoaccolto da Martha Gammer, responsabile del KZ Gusen Memorial Committee, un’as-sociazione che si adopera per la conservazione del sito della memoria dell’area diGusen. Nel Memoriale di Gusen, ai piedi del forno crematorio, unico elemento conser-vato intatto in un sito quasi com-pletamente snaturato, è stata posa-ta una corona. Le testimonianze diGiorgio Ferrero e di Natale Piahanno arricchito la visita di Mau-thausen e di Gusen con la forza el’autenticità della loro esperienzadi deportazione.

Il 27 marzo, davanti al Monu-mento italiano di Mauthausen, siè svolta in mattinata la cerimoniaufficiale, cui hanno presenziato ilSindaco del Comune di Maut-hausen, il Sindaco di MoncalieriLorenzo Bonardi e l’Assessore allaCultura Mariagiuseppina Puglisi.Profonda commozione ha susci-tato la commemorazione della exdeportata Natalia Tedeschi, ac-compagnatrice nei viaggi adAuschwitz del 1999 e a Sachsen-hausen e Ravensbrück del 2001,cittadina onoraria di Moncalieri,deceduta a Torino proprio nelgiorno della nostra partenza.

Nella giornata del 27 marzo, dopo la cerimonia, gli studenti, divisi in quattrogruppi di lavoro, si sono poi dedicati alla lettura di testimonianze su Mauthausen e a

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Capitolo I30

un lavoro di schedatura dei Monumenti – prima fase di un percorso di studio prose-guito nei mesi successivi – seguendo queste direttive di ricerca: 1) rilievo e mappaturadel Monumento italiano (15 studenti del L.S. “Majorana”, coordinati da AlessandraMatta, Lucio Monaco, Gabriella Pernechele); 2) schedatura dei Monumenti delle Na-zioni (20 studenti delle tre scuole, coordinati da Dario Molino e Luigi Turco); 3) sceltae lettura di poesie e brani tratti da libri di memorie in alcuni luoghi-simbolo del cam-po, come il portone di ingresso, la cava di granito, il camino del forno crematorio(10 studenti delle tre scuole, coordinati da Marcella Pepe); 4) videoripresa dei lavori(9 studenti, quasi tutti dell’ITIS “Pininfarina”, coordinati da Carla Piana). La giorna-ta si è conclusa con una breve visita di Linz.

Il 28 marzo è statatoccata l’ultima meta delviaggio, il sottocampo diEbensee: qui si è svoltauna cerimonia presso ilMonumento eretto inmemoria delle vittimedalla moglie dell’indu-striale Lepetit, decedutoa Ebensee, seguìta dallatestimonianza di GiorgioFerrero; poi il gruppo,guidato da WolfgangQuatember, direttore delWiderstandsmuseum(Museo della Resistenza)di Ebensee, ha visitato legallerie destinate daHitler alla produzione di

parti di carri armati, soffermandosi sulla mostra collocata al loro interno.Il 29 marzo, dopo una visita storico-artistica della città di Salisburgo, è iniziato il

viaggio di ritorno.A fine anno scolastico gli studenti del Liceo “Majorana” hanno allestito per la

“Pinacoteca a Cielo aperto” della Città di Moncalieri (maggio 2003) la mostra Ombredel tempo, con i materiali raccolti a Mauthausen sul Monumento italiano, esposta poinell’istituto, mentre le schede dei Monumenti delle Nazioni sono state raccolte in unCD-Rom da Dario Molino. La rielaborazione filmica ha invece seguìto due percorsi:la ricostruzione del viaggio e della testimonianza di Natale Pia nel video Memorie di pie-tra23 di Paolo Bommino, e l’omaggio a Natalia Tedeschi attraverso l’opera di CarlaPiana, Con Anna e Natalia a Ravensbrück 2001,24 raccolta di immagini e testimonianzedel viaggio del 2001 conservate nell’Archivio Multimediale del Progetto Memoria.

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232003, SVHS, col., 8’, regia P. Bommino (I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica), proiettato al concorso “Filmare la Sto-ria” del Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, dei Diritti e della Libertà di Torino (22-30 giugno 2004).24 2003, SVHS, col., 11’ 08”, regia C. Piana, presentato il 27 gennaio 2004, in occasione della celebrazione del “Giornodella Memoria”, al Teatro Matteotti di Moncalieri, proiettato al concorso “Filmare la Storia (2004)” e accluso al pre-sente volume.

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31I viaggi del Progetto

8. “Gli spazi della memoria”23-26 marzo 2004: viaggio di studio a Cracovia, Auschwitz I, Auschwitz II-Birkenau, Auschwitz III-Monowitz, GliwiceMarcella Pepe

La memoria è stimolata dai luoghi. Sono i luoghi dove si è consumata la vicenda del-la deportazione, che parlano con il loro silenzio ai visitatori e fanno riaffiorare, nei testi-moni di quegli eventi, ricordi rimossi. Nei campi vengono collocate lapidi, vengonoeretti monumenti in ricordo delle vittime, vengono allestiti musei dotati di documenta-zione scritta, di fotografie, ora sempre più spesso di film; talvolta i campi sono monu-menti in se stessi, musei a cielo aperto (come Auschwitz II-Birkenau), oppure vengonotrasformati in Memoriali che alludono simbolicamente alla storia attraverso l’arte.

Il secondo viaggio (il primo fu nel 1999) ad Auschwitz rispondeva all’intento di co-noscere i luoghi dello sterminio sistematico, e comprendere il senso delle letture pre-paratorie.25 Vi ha partecipato Pio Bigo, che ha sostituito Natalia Tedeschi, la testimo-ne del primo, ormai scomparsa, segnando così una notevole differenza tra i due viag-gi, poiché la personalità del testimone, la sua biografia, il suo essere uomo o donna,deportato politico (come Pio) o “razziale” (come Natalia) danno un’impronta partico-lare alla visita degli “spazi della memoria”. Con Pio Bigo hanno visitato il comprenso-rio di Auschwitz 28 studenti, 6 docenti, Carla Piana (come di consueto, in veste di re-gista) e una folta rappresentanza istituzionale della Città di Moncalieri: l’Assessore al-la Cultura Mariagiuseppina Puglisi, il Vicesindaco Modesto Pucci, il Presidente delConsiglio comunale Vincenzo Quattrocchi, l’Assessore all’Istruzione e al TurismoFulvio Musso e 2 Consiglieri comunali (Vincenzo Cherubino e Giuseppe Artuffo).

I partecipanti, divisi in due gruppi, hanno compiuto in giorni diversi la visita diCracovia e si sono ricongiunti il 24 e il 25 marzo per il percorso di studio di Au-schwitz. La visita della città era finalizzata non solo all’aspetto storico-artistico, maanche a quello più inerente al Progetto,comprendendo l’antico quartiere ebrai-co di Kazimierz, con le sue sinagoghe, ela farmacia del Dottor Pankiewitz, oggimuseo, dove sono conservate documen-tazioni sulla storia del ghetto allestito dainazisti nel 1941.

Il 24 marzo è stato interamente dedi-cato alla visita del Museo di Auschwitz I,sotto la guida del suo direttore, HenrykSwiebocki, e delle strutture del campoprincipale. Di fronte al “Muro della mor-te” si è svolta la cerimonia ufficiale, conla commemorazione delle vittime e la de-posizione della corona.

Pio Bigo ad Auschwitz con Henryk Swiebocki (marzo 2004)

25 La bibliografia consigliata riguardava soprattutto la Shoah ed era incentrata intorno ai testi Se questo è un uomo di PrimoLevi, La notte di Elie Wiesel, C’è un punto della terra…di Giuliana Tedeschi, Il silenzio dei vivi di Elisa Springer, La parola ebreodi Rosetta Loy, 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti, La banalità del bene di Enrico Deaglio e l’autobiografia di RudolfHöss, Comandante ad Auschwitz, anche se il libro più importante è stato ancora quello di Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice cit.

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Capitolo I32

Il giorno successivo la meta è stata il “campo della morte”, cioè Auschwitz II-Birkenau, con i resti dei forni crematori e i camini delle baracche distrutte, dove è evi-dente la scelta di far “parlare” i luoghi nella loro desolazione. Nel pomeriggio del 25,nonostante l’inclemenza del tempo, un gruppo ha seguìto Pio Bigo nel sito dove sor-geva Auschwitz III-Monowitz (a 7 km dal campo principale), di cui non restano chepoche vestigia: qui Pio ha raccontato il suo arrivo, il 3 dicembre 1944, e l’inizio della“marcia della morte” che lo portò a Buchenwald, passando per Gliwice (17 gennaio1945). E proprio Gliwice, il luogo dove Pio sfuggì a una selezione e che dà il titolo alsuo libro di memorie, è stata l’ultima tappa del nostro itinerario. Era un obiettivo chesi perseguiva fin dal 1999: l’individuazione della lapide, che oggi ricorda il sito deiquattro Lager di Gleiwitz (nome tedesco di Gliwice), ha rappresentato per Pio, e per

tutti noi, un momento testi-moniale molto elevato e in-tenso.

Dopo il viaggio, nella par-te conclusiva dell’anno scola-stico, gli studenti hanno alle-stito mostre fotografiche,esposte alla seconda edizionedella “Pinacoteca a Cieloaperto” della Città di Mon-calieri e poi nei rispettivi isti-tuti, mentre un gruppo delL.S. “Majorana” ha rielabo-rato l’esperienza del viaggioin un video intitolato Tracce.26

9. “Resistenza e deportazione: dai campi del duce ai Lager nazisti. Percorsi della deportazione italiana”22-26 aprile 2005: viaggio di studio a Nonantola, Carpi e Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen, Hartheim, EbenseeMarcella Pepe

Il tema che si è scelto di approfondire nell’anno scolastico 2004-2005 riguarda leresponsabilità del regime fascista nella deportazione e nello sterminio, responsabilitàa lungo minimizzate e solo recentemente messe in luce dalla ricerca storica italiana.L’immagine del “buon italiano” e del fascismo come di una “dittatura benigna” ha re-sistito fino a pochi anni fa, favorita dal confronto con l’efferatezza dei crimini nazisti,

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26 2004, SVHS, col., 3’, regia L. Anania / M. Mancuso (I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica), presentato a “Sottodi-ciotto Filmfestival”.

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33I viaggi del Progetto

ma non è in alcun modo giustificabile. Anche il fascismo, infatti, attuò una spietata re-pressione politica ed elaborò dal 1938 una sua legislazione razziale; anche il fascismoebbe fin dagli esordi una sua rete di strutture di internamento di vario tipo, che si dila-tò con l’inizio della guerra raggiungendo la massima efficienza durante la Repubblicadi Salò, quando il regime provvedeva con solerzia a radunare nei “campi di transito”e a consegnare alle SS oppositori politici ed ebrei. Grazie agli studi di storici qualiCarlo Spartaco Capogreco, Costantino Di Sante, Fabio Galluccio, Michele Sarfatti,27

la tendenza autoassolutoria è entrata in una crisi irreversibile.Il nostro viaggio mirava a ripercorrere idealmente quello di tanti deportati dai

campi italiani ai Lager nazisti, ed ecco il motivo delle soste a Fossoli e a Bolzano primadi raggiungere Mauthausen e i suoi sottocampi. Il quarto viaggio nell’area di Mau-thausen aveva però anche altri obiettivi: dare un seguito al lavoro del 2003 sulle “me-morie di pietra” contribuendo ad accrescerle e ricordare le vittime moncalieresi, le-gando ancora più strettamente il Progetto al territorio. È anche questo il senso dellastruttura realizzata dagli studenti dell’I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica e instal-lata al Memoriale di Gusen.

Al viaggio hanno partecipato 43 studenti delle Scuole Superiori di Moncalieri,accompagnati dal testimone Natale Pia, superstite di Gusen, 5 docenti e 2 Consigliericomunali (Giuseppe Avignone e Giuseppe Artuffo). Si sono uniti al gruppo anchealcuni cittadini moncalieresi, perlopiù parenti di Natale Pia e degli altri deportatimoncalieresi (fra cui Adriano Sattanino, fratello di Rinaldo), a rappresentare quantoormai sia importante e irrinunciabile per lo studio del fenomeno concentrazionario latestimonianza di secondo grado.

A causa della mancanza di tempo, dovuta all’intensità del programma di viaggio eal notevole interesse suscitato in tutte le sue tappe, sono state un po’ sacrificate le visitedi Salisburgo e Innsbruck, previste rispettivamente per il 23 e il 26 aprile. Nel vero eproprio itinerario di studio si sono visitati:

- nella mattinata del 22 aprile, Villa Emma, vicino a Nonantola, in provincia diModena, dove numerosi ragazzi ebrei furono nascosti per oltre un anno e sal-vati così dalla morte; poi, nel pomeriggio, il campo fascista di Fossoli, “campodi transito” (Durchgangslager), da cui partirono nel 1944 i trasporti di deportatiitaliani verso i Lager nazisti, e il Museo del Deportato a Carpi;- nella seconda giornata (23 aprile), il Durchgangslager di Bolzano-Gries, chefu campo di transito (in sostituzione di Fossoli, smantellato il 1° agosto 1944),ma anche campo di concentramento a tutti gli effetti, con propri sottocampi.Qui si è svolto un incontro ufficiale con i rappresentanti delle istituzioni locali,il Senatore Lionello Bertoldi e l’Assessore alla Cultura Carlo Repetto, ed è sta-ta deposta una corona ai piedi del Monumento italiano;- la mattina del terzo giorno (24 aprile), il Lager di Mauthausen, con il suo nuo-vo Museo e, nel pomeriggio, il principale dei suoi campi satellite, Gusen, dove ilgruppo, come già nel 2003, è stato accolto dalla responsabile del KZ GusenMemorial Committee, Martha Gammer;- nella mattinata del 25 aprile il Castello di Hartheim, sede dell’Operazione

27 Si vedano nel Capitolo II le guide a “I campi fascisti” e “Le leggi razziali” con le relative bibliografie, su cui si è fon-data la preparazione degli studenti per il viaggio.

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Capitolo I34

“T4” fino alla sua interruzione, nel 1941, e poi luogo di morte per i deportatiprovenienti dal complesso di Mauthausen; nel pomeriggio dello stesso giorno,Ebensee, dove il gruppo, guidato da un collaboratore di Wolfgang Quatember,direttore del KZ-Gedenkstätte und Zeitgeschichte Museum Ebensee (Memo-riale del campo di concentramento e Museo di Storia contemporanea Eben-see), ha visitato i resti del campo, il Museo e le gallerie.

Una riflessione non secondariaindotta dal viaggio riguarda il mu-tamento dei luoghi di memoria nelcorso del tempo, grazie alla crescen-te sensibilità delle istituzioni e del-l’opinione pubblica, sempre piùconsapevoli della necessità di nondimenticare gli orrori del passato alfine di evitare il loro ripetersi.

A Gusen, infatti, il Memoriale èstato notevolmente ampliato rispet-to al 2003, data della nostra ultimavisita; quanto a Bolzano, sono statieretti recentemente vari monumen-ti, non solo in Via Resia (sede delDurchgangslager), ma anche in luo-ghi periferici (per ricordare il lavoroforzato e le partenze dei prigionieriper la Germania), cui ci ha condottiCarla Giacomozzi, responsabiledell’Archivio Storico della città;nuovi musei sono stati allestiti aMauthausen e a Ebensee; infine, ilCastello di Hartheim, nel 2000 an-cora in un totale abbandono, è statocompletamente ristrutturato e ar-ricchito di dotazioni museali.

La testimonianza di Natale Pianei Lager e durante le numerose oretrascorse in pullman è stata prezio-sa, sommessa, com’è nella naturadella persona, ma forse anche perquesto totalmente priva di retoricae coinvolgente nella sua autenticità.

Il libro che, spinto dalla figliaPrimarosa, si è da poco deciso a scrivere e ha appena pubblicato,28 è stato per tutti ipartecipanti quasi un’eco della sua voce.

Adriano Sattanino e Natalino Pia al Monumento di Bolzano (aprile 2005)

Museo del Memoriale di Gusen: Natalino Pia indica la sua baracca (aprile 2005)

28 N. Pia, La storia di Natale. Da soldato in Russia a prigioniero nel Lager, a cura di Primarosa Pia, con Prefazione e Schede suiLager di Lucio Monaco, Novi Ligure, Joker, 2003, 20063.

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35I viaggi del Progetto

Quest’anno la cerimonia ufficiale si è svolta nel Monumentale di Gusen, il 24 aprile,alla presenza del Sindaco di Moncalieri Lorenzo Bonardi e dell’Assessore alla CulturaMariagiuseppina Puglisi. Lucio Monaco ha ricordato i quattro cittadini moncalieresiche, oltre al testimone e cittadino onorario Natale Pia, hanno sofferto o sono morti aGusen: Michele Sandrone, morto a Gusen il 30 marzo 1945; Pietro Paolo Bertoglio,deportato a Ebensee il 25 marzo 1944 e morto a Gusen il 12 marzo 1945; RinaldoSattanino (“Nando”), deportato prima a Bolzano, poi a Mauthausen, morto a Gusen il19 aprile 1945; Orfeo Mazzoni, deportato a Bolzano, a Mauthausen e poi trasferito il20 febbraio 1945 a Gusen, dove rimase fino alla Liberazione (deceduto nel 1998). Inonore dei martiri commemorati alcuni studenti del Liceo “Majorana” hanno depostouna installazione in terracotta realizzata da loro, che reca incisi i numeri di matricoladei caduti.29

Oltre all’installazione appena ricordata, frutto dei due viaggi a Mauthausen (2003e 2005) è stato il DVD Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e Gusen,30 realizzato daCarla Piana con i materiali dell’Archivio Multimediale del Progetto Memoria.

10. “Immagini e memoria”*

28 marzo - 1° aprile 2006: viaggio di studio a Buchenwald e DoraPier Luigi Cavanna

Il viaggio di quest’anno ha riproposto il “cammino” di quello effettuato nel 2002,ma ha visto la partecipazione di un solo testimone, Pio Bigo, deportato a Buchen-wald, mentre era assente Albino Moret, sopravvissuto a Dora e recentemente scom-parso.

“Sulle tracce di Albino Moret” è diventato pertanto il tema del percorso di studio.La riflessione si è incentrata sulle difficoltà di avere ancora per un lungo periodo comecompagni di viaggio testimoni di primo grado che guidino e accompagnino gli stu-denti durante le visite ai Lager. Questi uomini preziosi e indispensabili per consentireagli allievi di cogliere le emozioni e gli stenti che hanno vissuto i deportati, e ricevereuna testimonianza storica diretta sul fenomeno concentrazionario, stanno “facendofatica” a concedere la loro disponibilità. Lo stesso Pio Bigo, nell’intervista video rila-sciata durante il viaggio,31 ha insistito sul peso che oggi i testimoni sentono nell’accet-tare di partecipare ai “viaggi della memoria”, sottolineando, oltre all’età avanzata, lacrescente problematicità di raccontare e spiegare le loro tristi esperienze. Il viaggio,soprattutto la visita a Dora, ha prefigurato quale potrà essere in futuro l’apporto e ilruolo dei testimoni-assenti: la loro “presenza” si concretizzerà con la testimonianzaottenuta grazie ai nuovi strumenti multimediali, accanto alla lettura dei libri che han-no scritto o delle interviste che hanno rilasciato. E non è casuale che quest’anno, per

* Viaggio preceduto da una visita di un ristretto gruppo di studenti (28 novembre 2005) al Campo di Fossoli e al MuseoMonumento al Deportato di Carpi, insieme al testimone Marcello Martini (analoga al percorso del 1999, qui sopra aln. 3). Cfr. le testimonianze alle pp. 184-194. 29 Si rimanda, per un approfondimento del senso dell’installazione e per l’analisi delle sue caratteristiche, al saggio“Memoria ufficiale, memorie vive. Usi della monumentalità”, pp. 128-130 del presente volume.30 2005, SVHS, col., 26’ 40”, regia C. Piana, presentato il 27 gennaio 2006 durante le celebrazioni per il “Giorno dellaMemoria” al Teatro “Matteotti” di Moncalieri, e accluso al presente volume.31 E ora fruibile nel DVD-Video L’eco della memoria. Un testimone fra i giovani, 2006, col., 40’, regia e montaggio di C. Pianae F. Martino, accluso al presente volume.

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testimoniare “le tracce del ricordo di Albino”, sia stato proiettato un video, quello rea-lizzato da Michela Cane dopo il viaggio del 2002.32 Non solo: dal viaggio è emersa an-che un’altra possibilità di attingere alla storia vissuta della deportazione, e cioè l’usodei testimoni di “secondo grado”, grazie alla presenza di Adriano Sattanino, fratellodel deportato moncalierese morto a Gusen nel ’45.33

Al viaggio hanno partecipato, accanto a Pio Bigo, 52 studenti delle Scuole Supe-riori di Moncalieri, 5 docenti, l’Assessore alla Cultura della Città di Moncalieri Ma-riagiuseppina Puglisi, 2 Consiglieri comunali (Giuseppe Artuffo e Giancarlo Chiapel-lo), i parenti di Rinaldo Sattanino (il fratello Adriano, la nuora Nadia e la nipote Fran-cesca), e una cittadina di Moncalieri.

Mercoledì 29 marzo è stato visitato il KL Buchenwald. All’arrivo al campo, intor-no al Monumento ai Deportati di Buchenwald (la lapide già ricordata, con la tempe-ratura costante di 37°), si è svolta la cerimonia ufficiale, momento ormai tradizionaledei viaggi ed evento sempre carico di significato, cui ha partecipato il Sindaco diWeimar, Volkhardt Germer. Dopo è cominciata la visita, seguendo il percorso propo-sto da Pio Bigo. È stato toccante osservare il disorientamento iniziale di Pio nel non ri-trovare i luoghi vivi nella sua memoria e ora parzialmente trasformati dai lavori diconservazione e restauro del Lager. La visita è proseguita nel primo pomeriggio, sem-pre percorrendo il “cammino” suggerito da Pio. Poi il gruppo si è diviso per una“esplorazione personale” del campo e del Museo, ed è ripartito alla volta di Weimarper visitare la città con l’apporto di due guide locali.

Giovedì 30 marzo si è svolta la visita al KZ Mittelbau-Dora. Durante lo sposta-mento è stato proiettato il video di Michela Cane su Albino Moret, come abbiamo giàdetto, e qui è iniziato il cammino “sulle tracce di Albino”, concretizzatosi nella visitaal campo e alle gallerie grazie alle guide Florian Schaefer e Angela Fiedermann. Mo-menti particolarmente significativi sono stati la “scoperta” delle gallerie, la sosta allalapide che ricorda la fucilazione dei sette alpini,34 la breve cerimonia ufficiale davanti

al forno crematorio presso il Monu-mento ai Deportati russi e la visita alMuseo.

La mattinata di venerdì 31 marzoè stata dedicata alla città di Erfurt, enel pomeriggio si è intrapreso il viag-gio di ritorno con tappa serale a Ulm.

La riflessione successiva al viag-gio è confluita nella rielaborazionedell’intervista ad Adriano Sattaninoche è già stata ricordata e nello studiodel materiale video, girato dagli allie-vi del “Pininfarina”, presso il Labo-ratorio Multimediale, in vista di unfilm su Pio Bigo. 35

32 Cfr. supra, nota 21.33 Elisa Armentaro e Alessandra Gardino, della Sezione Scientifica dell’I.I.S. “Majorana”, hanno intervistato duranteil viaggio Adriano Sattanino, alla luce della nuova funzione dei testimoni di secondo grado, e hanno riportato i collo-qui nell’intervista di pp. 221-224, Capitolo IV del presente volume.34 Cfr. supra, nota 20.35 Cfr. supra, nota 31.

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Il sistema concentrazionarionazistaMarcella Pepe

Il Lager è un simbolo centrale della storiadel Novecento ed è figlio della modernità, nelsenso che la mostruosità dello sterminio è av-venuta all’interno di una società tecnologica-mente avanzata, non in una società arretrata.

Non dobbiamo pensare ai campi di con-centramento come al frutto di una degenera-zione del regime nazista, ma come a un suoelemento caratterizzante: in essi si realizzòpienamente la società auspicata da Hitler. Il“nuovo ordine nazionalsocialista”, che si sa-rebbe imposto sull’intera Europa in caso di vit-toria della Germania nella seconda guerramondiale, fu sperimentato su vasta scala neicampi di concentramento, dove vigeva la ge-rarchia delle “razze” e si prefigurava un’uma-nità ridotta in condizione di schiavitù.

Il primo KL (Konzentrationslager)1 della Ger-mania nazista fu Dachau, nei pressi di Monacodi Baviera, inaugurato il 22 marzo 1933, menodi due mesi dopo la nomina di Hitler a Cancel-liere del Terzo Reich. Nel corso del 1933 nenacquero circa altri 50 e vi furono imprigionatioppositori politici, asociali, criminali.

Dal 1934 i KL passarono sotto il controllo

della SS (Schutzstaffel, guardia del corpo di Hi-tler) e di Heinrich Himmler, capo della poliziadel Reich.

Tra il 1936 e il 1939 furono aperti nuovicampi:• a Sachsenhausen, vicino a Berlino (1936);• a Buchenwald, nei pressi di Weimar (1937);• a Mauthausen, in territorio austriaco (1938);• a Flossenbürg, presso il confine cecoslovacco

(oggi Repubblica Ceca) (1938);• a Ravensbrück, a Nord di Berlino, riservato

alle donne (1939).In essi fu concentrata la popolazione dei

KL, che all’inizio della guerra era di circa25.000 detenuti, mentre venivano chiusi quasitutti i campi sorti disordinatamente nei primimesi di potere dei nazisti.

Con l’inizio della guerra (1° settembre1939, invasione della Polonia), fu edificato inGermania un vero e proprio Stato delle SS. Il27 ottobre 1939 fu creato il RSHA (Ufficiocentrale per la sicurezza del Reich), che unifi-cava sotto Reinhard Heydrich tutti i servizi dipolizia, compresa la Gestapo, e sorsero altricampi:• a Neuengamme, nei pressi di Amburgo, do-

ve furono deportati soprattutto scandinavi(1940);

• a Gross-Rosen, nella Slesia inferiore (1941);

1 Le sigle KL e KZ (Konzentrationszentrum) sono sostanzialmente equivalenti e nel volume le adoperiamo indifferentemente. La prima eraimpiegata a livello ufficiale, la seconda era più diffusa nell’ambito del parlato (anche Kazett, Katzettbar).

Capitolo II - Le guide della memoria

Riproduciamo qui parte delle schede elaborate in previsione dei singoli viaggi per accompagnare,composte in fascicoli secondo l’ordine richiesto dall’itinerario e dotate di piantine, la visita ai luoghi dimemoria. In alcuni casi, per i Lager visitati in più occasioni, si riproduce soltanto la scheda più recen-te. Le guide seguono due percorsi tematici: il contesto storico e le guide ai luoghi della deportazione, di-sposte queste ultime secondo un ordine rigorosamente alfabetico.

1. Il contesto storico

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Capitolo II38

• ad Auschwitz, nei pressi di Cracovia, in Po-lonia (1940), campo principale e cuore di untriplice complesso, che comprende Au-schwitz II-Birkenau (1941) e Auschwitz III-Monowitz (1942);

• a Majdanek (1941), a Chel/mno (1941), aBel/zec (1942), a Sobibór (1942), a Treblinka(1942), tutti in Polonia e tutti, insieme conquello di Auschwitz II-Birkenau, campi disterminio immediato, smantellati daitedeschi prima della fine del 1944;

• a Bergen Belsen, nei pressi di Amburgo(1943);

• a Mittelbau-Dora nel centro della Germa-nia, sede di fabbriche sotterranee per le armiV2 (1943), come Ebensee e Gusen (sotto-campi di Mauthausen).

Dall’estate del 1944, l’avanzata delle trup-pe sovietiche da Est e di quelle angloamerica-ne da Ovest costrinse le SS a evacuare i KL aun ritmo che si fece sempre più incalzante conil passare dei mesi. L’obiettivo era impedireche i deportati, testimoni di tanti crimini eatrocità, finissero nelle mani dei nemici delReich. I prigionieri, già ridotti a larve umane,furono allora trasportati verso i Lager che sitrovavano nel cuore della Germania e costrettia vere e proprie “marce della morte”. Molticaddero sulle strade, uccisi dagli stenti, dalfreddo, o dai fucili delle SS; molti altri furonolasciati morire di fame chiusi in vagoni ferro-viari, o morirono una volta arrivati nei nuovicampi sovraffollati; altri ancora vennero elimi-nati perché non trasportabili.

Lo sfruttamento economicodei prigionieriMarcella Pepe

ARBEIT MACHT FREI (“Il lavoro rende liberi”)era scritto all’ingresso di numerosi Lager nazi-sti. Questa scritta cinica, che promette la“libertà” attraverso il lavoro, mentre nei Lagersi attuava lo “sterminio” attraverso il lavoro,identifica una delle funzioni principali deicampi di concentramento: infatti, i detenutifurono un’immensa risorsa di manodoperaper il regime nazista e per l’industria tedesca.

Fino al 1937 le attività svolte dai detenutierano tutte connesse alla vita interna dei KL(manutenzione dei campi, produzione di benie servizi destinati al consumo interno, comevestiario per i prigionieri e per le SS, coltiva-zione di prodotti agricoli…).

Dalla costruzione di Buchenwald (1937) inpoi, i detenuti erano stati utilizzati anche per larealizzazione di nuovi campi e delle strade checonducevano a essi: il loro lavoro si era quindiesteso al sistema delle costruzioni e si svolgevain cave e fornaci per la produzione di laterizi,rimanendo comunque nell’ambito dell’appa-rato concentrazionario.

Nel 1938 si verificò un salto di qualità a li-vello organizzativo: la manodopera dei Lagervenne inserita in vere e proprie imprese com-merciali e produttive create dalla SS (la DESTe la DAW),1 gestite da un Ufficio economico eamministrativo (WVHA) diretto da OswaldPohl, anche se, fino a tutto il 1941, le loro risor-se continuarono a essere destinate a un pro-gramma edilizio esclusivamente civile.

Fin dal 1940, inoltre, l’economia tedescafece ricorso a manodopera straniera, costituitada lavoratori civili reclutati nei Paesi soggetti alReich attraverso l’Organizzazione Todt (cosìchiamata dal nome del ministro tedesco degliarmamenti) e da prigionieri di guerra (da nonconfondere con i deportati rinchiusi nei

1 Deutsche Erd- und Steinwerke e Deutsche Ausrüstungswerke: fornivano materiali edilizi per il rinnovamento architettonico progetta-to da Albert Speer nelle grandi città tedesche, Berlino e Norimberga.

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39Le guide della memoria

Lager). Dall’ottobre del 1941 questi lavoratorifurono impiegati anche nei settori dell’econo-mia bellica, in aperta violazione delle conven-zioni internazionali.

Tra il 1940 e il 1941 i KL diventarono sem-pre più dipendenti dal WVHA, ma comincia-va anche a esserci un parziale impiego dei de-tenuti nell’industria bellica non dipendentedalla SS. Ad esempio, la scelta del sito diAuschwitz da parte della IG-Farben per la co-struzione della fabbrica Buna (febbraio 1941)fu certamente determinata dalla possibilità diutilizzare come manodopera i prigionieri diquel Lager.

Nel 1942 il dominio nazista raggiunse lasua massima espansione, ma l’entrata in guer-ra degli Stati Uniti (dicembre 1941) e l’esten-sione dei fronti richiedevano all’economia bel-lica tedesca uno sforzo intenso. Era infatti falli-ta l’ipotesi strategica della “guerra lampo”(Blitzkrieg) e la Germania, quando ancora do-minava gran parte dell’Europa, era già all’af-fannosa ricerca di risorse materiali e umaneper sostenere una guerra che si prolungava.

Le sconfitte militari che si susseguirono apartire dalla fine del 1942 e l’avvicinamentodei fronti di guerra ai confini del Reich, oltreagli attacchi aerei inglesi e americani che di-strussero le città industriali tedesche, acuironole difficoltà dell’economia nazista. Aumentavail numero dei Paesi mobilitati contro la Ger-mania (dall’autunno del 1943 ci sarà anchel’Italia del Regno del Sud): l’esercito andavadunque potenziato, ma si dovevano anche ri-costruire le fabbriche bombardate (si pensò difarlo in gallerie sotterranee, puntando sul pro-getto della creazione di armi micidiali come imissili V1 e V2).

La necessità di uomini che sostituissero glioperai tedeschi incorporati nell’esercito spinsei gerarchi nazisti a rafforzare lo sfruttamentodella manodopera straniera: furono così tra-scinati in Germania, entro la fine del 1944,circa 7 milioni di “schiavi” per l’economia te-desca, cui si devono aggiungere 2 milioni diprigionieri di guerra costretti al lavoro.

Le fughe e gli atti di sabotaggio di questi la-

voratori coatti erano puniti con l’imprigiona-mento nei KL.

Parallelamente, a partire dall’autunno del1942, Heinrich Himmler e il WVHA diOswald Pohl cercarono con ogni mezzo di in-crementare il numero dei deportati da adibireal lavoro e di intensificarne lo sfruttamento.Tale sforzo era però in buona parte vanificatodal tasso di mortalità spaventosamente elevatoall’interno dei Lager, dovuto alle condizioni divita (freddo, sottoalimentazione…) e di lavoro(turni che arrivavano a dodici ore), oltreché al-le atrocità di ogni genere (dagli atti di sadismoagli esperimenti pseudoscientifici condotti sucavie umane).

Si può quindi parlare a pieno titolo di “ster-minio attraverso il lavoro”.

Le contraddizioniNello sfruttamento dei deportati, i vantaggi

degli imprenditori erano notevoli perché la ta-riffa che dovevano pagare ai comandanti deicampi come compenso per il lavoro di un dete-nuto rappresentava appena un terzo del sala-rio di un lavoratore tedesco di qualifica equi-valente. I guadagni maggiori andavano peròall’Ufficio economico e amministrativo dellaSS (WVHA), che era al tempo stesso fornitoredi manodopera alle industrie private (da cui ri-ceveva un compenso) e datore di lavoro trami-te le società SS.

Vi furono forti contrasti fra il WVHA e ilRSHA (Ufficio centrale per la sicurezza delReich) che perseguivano obiettivi diversi, so-prattutto rispetto ai deportati razziali: lo sfrut-tamento produttivo (il WVHA) e lo sterminio(il RSHA).

Un caso in cui la contraddizione fra lavoroschiavile e sterminio risulta evidente è quellodella deportazione, nell’aprile del 1944, di ol-tre 100.000 ebrei ungheresi che avrebbero do-vuto, secondo gli ordini di Hitler, essere impie-gati nella costruzione di fabbriche sotterraneedi aeroplani, proprio nel momento in cui piùferoce e sistematica era l’attuazione della“soluzione finale”.

Forse il fatto che i deportati razziali in gra-

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do di svolgere un lavoro produttivo siano statialmeno temporaneamente risparmiati per es-sere prima sfruttati fino all’ultima risorsa fudovuto in parte al prevalere dell’ipotesi delWVHA, in una situazione che per la Germa-nia si faceva sempre più disperata.

Le responsabilitàLe responsabilità dello sfruttamento eco-

nomico dei deportati, come di quello dei lavo-ratori stranieri e dei prigionieri di guerra– uno sfruttamento tremendo che finì percoincidere con lo sterminio – ricadono certa-mente sui gerarchi del regime hitleriano e sullaSS, ma anche in buona misura su tanti im-prenditori privati tedeschi, grandi e piccoli.

IG-Farben, Krupp, Siemens, BMW, Steyr,Messerschmitt, Heinkel, Volkswagen: sonosoltanto alcuni fra i nomi più noti di una listadi imprese che costruirono le loro fortune ap-profittando spregiudicatamente della massa dischiavi che il potere nazista metteva a loro di-sposizione. Nei numerosi processi del dopo-guerra, infatti, saliranno sul banco degli impu-tati industriali e dirigenti di aziende accanto aigerarchi nazisti.

Cronologia della ShoahAdriana Mogna

Shoah in ebraico significa «distruzione, ca-tastrofe», ed è usato dagli storici per indicare ilgenocidio degli ebrei d’Europa perpetrato dalregime nazionalsocialista tedesco, e dai gover-ni collaborazionisti durante il secondo conflit-to mondiale, come parte integrante del pianoper l’instaurazione di un “nuovo ordine euro-peo”, che prevedeva anche l’eliminazione de-gli oppositori politici e di coloro che eranoconsiderati “sottouomini” (omosessuali, zin-gari, slavi, neri, asociali disoccupati, lavoratoriirregolari, individui affetti da malattie invali-danti ed ereditarie, prostitute, ribelli).

Un evento inscritto nella modernitàIn quanto è caratterizzato dalla presenza

simultanea di elementi mai prima di allorapresentati congiuntamente:

• uno Stato che agisce in prima persona e lodichiara;

• uno sterminio per ragioni di “biologia raz-ziale” che avviene nel cuore dell’Europa;

• un’opera di sterminio pianificata, condottacon una logica e un metodo di tipoindustriale;

• la distruzione dell’ebraismo dell’Europaorientale;

• le camere a gas e i crematori;• le sedicenti sperimentazioni medico-scienti-

fiche;• il lavoro coatto sia punitivo sia produttivo;• la morte in serie, organizzata secondo una

logica tayloristica;• la burocrazia, quel “governo di nessuno”

che trasforma gli uomini in semplicifunzionari.

Premesse ideologiche e organizzative(1933-1939)

Sono da ricercarsi nell’ideologia nazista ein particolare in quella di Hitler, che raccogliealcuni aspetti della cultura nazionalista, razzi-sta e antisemita tedesca del primo dopoguerra.

Nel Mein Kampf si sostiene che la Storia siacaratterizzata da una lotta fra “razze superio-ri” destinate a vincere e “razze inferiori” desti-nate a essere sottomesse. Il futuro della Germa-nia deve dunque essere legato alla ricerca di unLebensraum (“spazio vitale”) da conquistar-si a Oriente a danno dei popoli slavi, e alla lot-ta radicale per estirpare il marxismo bollatocome “bolscevismo giudaico”: mistura diantisemitismo radicale e acceso anti-bolscevismo mutuata da Alfred Rosenberg,teorico razzista del Terzo Reich.

Il sistema ideologico-organizzativo nazistapoggia inoltre su due parole d’ordine: ilFührerprinzip (“principio del capo”) e laVolksgemeinschaft (“comunità di popolo”).In base al primo, un movimento politico e unanazione devono essere organizzati secondo un

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rapporto gerarchico di subordinazione a uncapo, dotato di un potere carismatico indi-scusso. La comunità popolare, invece, propo-ne l’unione di tutti gli appartenenti alla “raz-za” germanica.

Giunto al potere nel 1933, il nazismo pre-para le misure legislative e organizzative de-stinate al raggiungimento di questi obiettivi.Tra il 1933 e il 1939 si preoccupa di cancella-re dalla vita politica tedesca e di escludere daogni diritto di cittadinanza gli ebrei, gli oppo-sitori politici, gli asociali e le altre categorie di“sottouomini” prima menzionate:

• Dachau, 1933: primo campo di concen-tramento, allestito contro i “nemici” della si-curezza del Reich;• eugenetica, 1933: prima legge demogra-fica che introduce la sterilizzazione forzata eche coinvolgerà circa 400.000 persone;• leggi di Norimberga, 1935: gli ebrei per-dono la nazionalità tedesca, i diritti politici;vietati i matrimoni misti, perseguiti i contattisessuali;• “arianizzazione” dell’economia,1937: gli ebrei sono costretti a rinunciare alleloro attività industriali e commerciali; espro-priazione dei loro patrimoni mediante auto-denuncia; divieto di esercitare alcune profes-sioni, medicina, avvocatura, attività alber-ghiera, ogni tipo di incarico statale e direttivo;• “notte dei cristalli”, 1938: passaggiodalla discriminazione legislativa alla violenzadi massa (pogrom); incendi di sinagoghe, sac-cheggi, aggressioni, distruzione di negozi e ca-se di ebrei, di cui più di 30.000 vengono rin-chiusi nei Lager, altri spinti all’emigrazione;• Operazione “T4”, 1939-1941: program-ma di eliminazione di malati mentali, anzianiinfermi, portatori di handicap fisici e mentali,neonati con malformazioni, internati in mani-comi criminali. La sigla “T4” deriva dall’indi-rizzo della sede per l’organizzazione del “Pro-gramma di Eutanasia”, a Berlino, in Tiergar-tenstrasse n. 4. Il “Programma” provocheràl’uccisione di circa 80.000 tedeschi per soffo-camento da monossido di carbonio e rientranel progetto nazista di “miglioramento della

razza”. L’Operazione sarà interrotta ufficial-mente nel 1941 per la protesta dei famigliaridelle vittime e degli esponenti delle Chieseprotestante e cattolica.

Ghetti / massacri all’Est / campi dellamorte (1939-1941)

Con lo scoppio della guerra il sistema con-centrazionario si dilata enormemente e diven-ta, oltreché un ingranaggio cruciale dell’eco-nomia tedesca, lo strumento principale per ilgenocidio di ebrei e zingari, per l’annienta-mento della classe dirigente polacca e dei resi-stenti dei Paesi occupati.• 1939. Dopo l’occupazione della Polonia e lasua spartizione con l’URSS, il territorio vienediviso in due grandi zone: il Warthegau, an-nesso direttamente al Reich, e il Governatora-to generale. Sono imposte subito misure perimpedire agli ebrei di spostarsi, obbligandoli aportare una stella identificativa e a farsi rap-presentare presso le autorità naziste dagliJudenräte (“Consigli ebraici”) in modo chegli ordini delle autorità tedesche siano resi ope-rativi dagli stessi ebrei.• 1940. La popolazione ebraica viene rin-chiusa in ghetti circondati dal filo spinato ocintati da mura (in Polonia e in alcune cittàsovietiche occupate), dov’è imposto il lavorocoatto senza adeguati rifornimenti alimentarie senza assistenza medica. Iperaffollate e mise-re anticamere della deportazione, vedrannonascere al loro interno alcune forme di resi-stenza (rivolta del Ghetto di Varsavia, termi-nata con un vero e proprio massacro nel 1943).• 1941. Quando le truppe naziste invadonol’URSS, viene immediatamente avviatolo sterminio degli ebrei e dei comunisti.Le Einsatzgruppen, reparti speciali al se-guito della Wehrmacht, operano il massacrodi più di un milione di persone, mediante fuci-lazione ed eccidi di massa, e non prima di averfatto scavare alle vittime le fosse comuni. Leoperazioni sono così efferate e sanguinose chepersino i carnefici soffrono di turbe psichiche efisiologiche; diventa inoltre sempre più diffici-le, anche nei grandi spazi dell’Est, occultare i

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cadaveri, mentre si delinea che tale praticanon può essere estesa ai Paesi occidentali, fittidi città, industrie e reti di comunicazioni.Vengono così istituti i campi di sterminio,la cui funzione è quella di uccidere in modo“pulito”, cioè attraverso uno sterminio imme-diato con la gassazione. Nello stesso periodo ègià in atto nei Lager lo sfruttamento economi-co dei deportati.

La “soluzione finale” (1942-1945)• 1942 (gennaio). Conferenza di Wannsee:si decide che l’Europa deve diventare Judenfrei(“libera dagli ebrei”). Ogni Paese alleato od oc-cupato deve essere rastrellato e gli ebrei devonoessere trasferiti a Est per il “trattamento finale”.Per gli ebrei dei ghetti si ufficializza l’elimina-zione già in corso, per quelli dei Paesi occiden-tali si decide l’annientamento premeditato.• 1942 (aprile). Circolare Pohl: annienta-mento attraverso il lavoro. Di fronte alle avvi-saglie di un’inversione di tendenza sul pianomilitare, si decide di concentrare ogni sforzonella produzione bellica, destinando al lavorotutti i prigionieri. I Lager si trasformano inenormi agglomerati di forza lavoro e inizia intutta Europa la caccia agli schiavi per la guer-ra di Hitler.• Lo sfruttamento economico: i prigio-nieri vengono impiegati nella costruzione diLager, strade, in progetti di ristrutturazioneedilizia, nelle industrie belliche tedesche. Aprosperare sul lavoro dei deportati sono leprincipali industrie tedesche (Siemens,Volkswagen, Krupp, AEG, IG-Farben) che aprezzo quasi nullo comprano non lavoratori,ma Stücke (“pezzi”) ad altissimo ricambio. A lu-crare su tale vendita è la SS nella sua veste dicentro di potere economico e fulcro del vastis-simo circuito di corruzione che attraversa il si-stema concentrazionario. Fanno parte dellaSS anche i medici che usano i prigionieri comecavie per i loro “esperimenti scientifici”.

• Un sistema intricato: fino al 1945 il si-stema dei campi funziona a pieno regime ed èsmantellato quando giungono gli Alleati, an-che se è cura dei nazisti in fuga distruggerequante più prove possibili. La classificazionedei Lager (rieducazione, lavoro, sterminio), ele fasi e le finalità della deportazione (terroreinterno, sterminio e sfruttamento, annienta-mento attraverso il lavoro), non hanno impli-cato uno sviluppo omogeneo e lineare: le di-verse funzioni si sono intersecate, il prevaleredell’una o dell’altra è dipeso dall’andamentodella guerra, dalla lotta fra le componenti delPartito e dello Stato, o sono coesistite nellastessa struttura concentrazionaria, come adAuschwitz, centro di sterminio e luogo di sfrut-tamento schiavile, esempio più compiuto del-l’intreccio fra ideologia razzista e calcolo eco-nomico, assurto nel secondo Novecento a sim-bolo della Shoah.

Fonte bibliografica.Lo schema cronologico è il frutto di una rielabora-zione condotta a partire dalle pagine di A. Bravo /A. Foa / L. Scaraffia, I fili della memoria. Uomini e donnenella storia dal 1900 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2003,pp. 269-276, 323-341.

La Conferenza di WannseeMarcella Pepe

La Conferenza di Wannsee fu convocatada Reinhard Heydrich, il capo del RSHA (Uf-ficio centrale per la Sicurezza del Reich), e sisvolse il 20 gennaio 1942 in una villa situata inun quartiere residenziale signorile del sobbor-go berlinese di Zehlendorf, all’indirizzo di AmGrossen Wannsee nn. 56-58.1 La scelta del luo-go fu probabilmente motivata da esigenze dimassima segretezza: la tenuta di Wannsee ap-parteneva a una fondazione creata daHeydrich stesso (la Fondazione Nordhav, che sioccupava di acquistare e gestire case di riposoper i membri del Servizio di sicurezza della SS

1 Dal 1992 la villa è diventata “luogo di memoria” (Gedenkstätte) e sede di una mostra permanente sulla Shoah.

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e le loro famiglie), e il personale della villa of-friva quindi garanzie di affidabilità.

La Conferenza di Wannsee è nota negliambienti estranei alla ricerca storica come ilmomento in cui fu decisa la “soluzione finaledella questione ebraica”. Tale convinzione,però, risulta ormai sbagliata: infatti, è notoche al momento dello svolgimento della riu-nione parecchie centinaia di migliaia di ebreierano già stati uccisi in eccidi di massa. LaConferenza ebbe certamente un ruolo rile-vante nell’ufficializzare e generalizzare la de-cisione e i metodi della “soluzione finale”, maquesta era già in atto da molti mesi.

Secondo Kurt Pätzold ed Erika Schwarz,autori del saggio fondamentale Ordine del gior-no: sterminio degli ebrei,2 l’inizio dello sterminiodegli ebrei va retrodatato al 22 giugno 1941,all’indomani dell’invasione tedesca dell’Unio-ne Sovietica. Fino ad allora, la persecuzionenei confronti degli ebrei era stata attuata in va-ri modi e forme: con la definizione a mezzodecreto (leggi di Norimberga del 1935); conl’esclusione dalla funzione pubblica, dalle pro-fessioni, dalle scuole; con le imposte sui patri-moni e la confisca dei beni; con l’arianizzazio-ne delle imprese ebraiche; con la segregazionedal resto della popolazione in palazzi abitatisolo da ebrei (soluzione adottata in Germaniaprima della guerra) o in appositi quartieri (ighetti creati in Polonia dopo lo scoppio dellaguerra). Durante questa persecuzione decinedi migliaia di ebrei avevano perso, oltre ai benie al lavoro, anche la vita.

Tuttavia il vero e proprio genocidio comin-ciò soltanto dopo il 22 giugno 1941, a operadelle Einsatzgruppen, unità mobili di massa-cro che operavano nelle retrovie del fronte rus-so. La procedura dei massacri era standardiz-zata, con poche varianti. I tedeschi sceglieva-no un luogo per l’esecuzione e preparavanouna fossa comune. Prima della fucilazione,che avveniva talvolta sparando alla nuca, mapiù spesso con il tiro di squadra a distanza e

con le mitragliatrici, gli ebrei consegnavano glioggetti di valore e gli indumenti. Poi cadevanonella fossa con “infornate” successive, secondoil “sistema delle sardine”: una prima “inforna-ta” si faceva stendere sul fondo della fossa e ve-niva fucilata; la seconda si distendeva con la te-sta dalla parte dei piedi dei morti; alla quinta osesta si chiudeva la fossa.

Tale metodo, però, presentava alcuni in-convenienti: da un lato, numerosi soldati assi-stevano alle fucilazioni come a uno spettacolo,traendo godimento dalla morte (e questo eraconsiderato un “eccesso”, non conforme alladisciplina e al prestigio dell’esercito tedesco);dall’altro lato, gli esecutori materiali e gli stessicomandanti delle Einsatzgruppen accusavanodifficoltà psicologiche, avevano incubi nottur-ni e disturbi somatici. Si cercarono allora altrimetodi, meno traumatici delle armi da fuoco:prima la dinamite e poi camion speciali, vere eproprie camere a gas viaggianti (Gaswagen), incui venivano eliminate fino a 60-70 vittime pertrasporto.

Ebrei uccisi dalle Einsatzgruppen entro lafine del 1941:125.000 (Einsatzgruppe A, regione baltica)45.000 (Einsatzgruppe B, Bielorussia)59.000 (Einsatzgruppe C, Galizia e Ucraina)76.000 (Einsatzgruppe D, Bessarabia)

Fonte: R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, trad. it.di F. Sessi / G. Guastalla, Torino, Einaudi, 1995, 1999

2,

p. 316.

Alle Einsatzgruppen fu anche affidato ilcompito di giustiziare i prigionieri di guerrasovietici, ebrei e non ebrei. Le ragioni di que-sto particolare trattamento erano ideologiche,oltreché “razziali”: l’annientamento della “su-bumanità bolscevica” era considerato per ilReich “un diritto naturale di difesa”. Se agliebrei si aggiungono dunque i prigionieri diguerra sovietici, le vittime della prima ondatadi massacri salgono a 500.000.

2 K. Pätzold / E. Schwarz, Ordine del giorno: sterminio degli ebrei. La conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942 e altri documenti sulla «soluzione fina-le», trad. it. di A. Michler, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

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Capitolo II44

Alla fine del 1941, inoltre, era già in funzio-ne il primo dei campi adibiti esclusivamenteallo sterminio, nella località polacca diChel/mno, ribattezzata dai tedeschi Kulmhof,dove gli ebrei erano stipati in camion al cui in-terno venivano convogliati i gas di combustio-ne del motore, ed era già stata avviata la cosid-detta “Operazione Reinhard”,3 che prevedevala costruzione dei campi di sterminio diBel/zec, Sobibór e Treblinka.

Del resto, Hitler aveva già in mente da tem-po la possibilità di sfruttare l’occasione dellaguerra per arrivare allo sterminio totale della“razza” ebraica: lo prova il “profetico” discor-so che pronunciò il 30 gennaio 1939, sette me-si prima dell’invasione della Polonia:

«In questo giorno, che forse non sarà me-morabile solo per i Tedeschi, vorrei ag-giungere questo: nella mia vita, nel corsodella mia lotta per il potere, spesso sonostato profeta, e spesso sono stato sbeffeg-giato, in primo luogo dal popolo ebreo cheha accolto con risa le mie profezie, vale adire che un giorno avrei assunto il coman-do dello Stato e, facendo ciò, del popolointero, e che fra le altre questioni avrei ri-solto il problema ebraico. Credo che nelfrattempo la risata della iena giudea dellaGermania le si sia spenta in gola. Oggi sarò di nuovo profeta: se la finanzaebraica internazionale d’Europa e fuorid’Europa dovesse arrivare, ancora unavolta, a far precipitare i popoli in unaguerra mondiale, allora il risultato non sa-rà la bolscevizzazione del mondo, e dun-que la vittoria del giudaismo, ma al con-trario, la distruzione della razza giudea inEuropa.»4

Gli storici sono concordi nell’affermareche lo sterminio è iniziato in seguito a disposi-

zioni date verbalmente da Hitler ai suoi più di-retti collaboratori, Hermann Göring e Hein-rich Himmler. Entrambi istruirono ReinhardHeydrich, il capo del RSHA, l’Ufficio che ave-va coordinato la persecuzione degli ebrei.

Ma Heydrich volle un’autorizzazione for-male e, subito dopo l’invasione dell’UnioneSovietica, incaricò Adolf Eichmann di redige-re un testo di autorizzazione alla «soluzione fi-nale della questione ebraica» da sottoporre al-la firma di Göring:

Autorizzazione del 31 luglio 1941 di HermannGöring per il capo della Polizia di sicurezza e delSD, Gruppenführer della SS Reinhard Heydrich,a preparare una «soluzione globale della questioneebraica»«A integrazione delle disposizioni dell’or-dinanza del 24 gennaio 1939, nella qualeLa si incaricava di avviare la questioneebraica, mediante emigrazione o evacua-zione, alla soluzione più favorevole in rela-zione alle circostanze, con la presente Leassegno l’incarico di predisporre tutte lenecessarie misure per preparare dal puntodi vista organizzativo, pratico e materialeuna soluzione globale della questioneebraica nell’area dell’Europa sotto in-fluenza tedesca. Tutte le altre istanze cen-trali devono cooperare allo scopo. Inoltre,La incarico di rimettermi al più presto unpiano complessivo dei provvedimenti daadottare riguardo all’organizzazione, l’at-tuazione e i mezzi materiali necessari perrealizzare la desiderata soluzione finaledella questione ebraica.»5

Quindi, il 29 novembre 1941, quando Hey-drich convocò la Conferenza di Wannsee, la“soluzione finale” era già in atto.

La riunione, prevista per il 9 dicembre1941, fu poi spostata al 20 gennaio 1942. Con

3 “Azione” o “Operazione Reinhard” (Aktion o Einsatz Reinhard), così denominata in omaggio al suo ispiratore, Reinhard Heydrich.4 Tratto da R. Hilberg, op. cit., p. 431.5 K. Pätzold / E. Schwarz, op. cit., p. 79.

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l’espressione «eventi improvvisi, che richiedo-no la presenza di una parte dei signori invita-ti», addotta a giustificazione dello slittamentonella seconda lettera di invito ai 14 partecipan-ti, Heydrich intendeva probabilmente alludere

alle prime controffensive sovietiche e alla deci-sione di Hitler di schierarsi a fianco del Giap-pone, dopo l’attacco giapponese alla flottaUSA (7 dicembre 1941).

I partecipantiLa Conferenza di Wannsee fu detta dei “Segretari di Stato” in quanto vi parteciparono 9 Segre-

tari o Sottosegretari di Stato, che rappresentavano tutti i ministeri, salvo quelli delle Finanze e deiTrasporti (non perché questi ministeri non fossero importanti nell’organizzazione della “soluzionefinale”, ma perché Heydrich voleva discutere questioni di principio e non aspetti di ordine pratico):

Wilhelm Stuckart Segretario di Stato al Ministero degli InterniRoland Freisler Segretario di Stato al Ministero della GiustiziaAlfred Meyer Segretario di Stato al Ministero dei Territori orientali occupatiErich Neumann Segretario di Stato presso l’Ufficio del Piano quadriennaleJosef Bühler Segretario di Stato del Governatorato generaleMartin Luther Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari esteriGerhard Klopfer Membro della Cancelleria del partito nazista e anche Oberführer della SSFriedrich W. Kritzinger Rappresentante della Cancelleria del Reich (in seguito Segretario di Stato)Georg Leibbrandt Accompagnatore del Segretario di Stato Meyer

C’erano poi rappresentanti della SS:

Heinrich Müller Capo della Gestapo (Polizia segreta di Stato, Sezione IV del RSHA)Adolf Eichmann Responsabile della Sezione IV B 4Otto Hofmann Responsabile dell’Ufficio centrale per la “razza” e la colonizzazioneEberhard Schöngarth Comandante della Polizia di Sicurezza e del SD

per il Governatorato generaleRudolf Lange Comandante della Polizia di Sicurezza e del SD per la Lettonia

Il verbaleIl «piano complessivo dei provvedimenti

da adottare riguardo all’organizzazione, l’at-tuazione e i mezzi materiali necessari per rea-lizzare la desiderata soluzione finale della que-stione ebraica», di cui si parla nell’autorizza-zione di Göring del 31 luglio 1941, è rappre-sentato dal verbale della Conferenza diWannsee; non esistono altri progetti più ampie articolati.

Il documento, redatto da Eichmann se-guendo le istruzioni di Heydrich, fu ritrovatonel 1947 dagli organi investigativi americanifra gli atti confiscati al Ministero degli Affariesteri del Reich.

Nel processo del 1960-61, dinanzi al Tri-

bunale distrettuale di Gerusalemme, AdolfEichmann volle dipingersi come un personag-gio insignificante, non seduto allo stesso tavolodei partecipanti ma in disparte insieme a unaanonima segretaria; tuttavia questa autodifesaè contraddetta dal passo del verbale in cuiHeydrich dichiara che proprio a Eichmannsarebbero stati affidati i compiti di organizza-zione e coordinamento, e che i vari addetti allosterminio dovevano «tenersi in contatto conlui». Tutti i funzionari partecipanti alla Confe-renza del 20 gennaio 1942 erano al correntedell’inizio dello sterminio, essendovi già atti-vamente coinvolti in quanto esperti di questio-ni ebraiche. Perché dunque Heydrich avevaindetto la Conferenza e li aveva convocati?

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Dalla lettura del verbale emergono quattroobiettivi principali perseguiti da Heydrich, fraloro collegati:

1. chiarire che il “trattamento” degli ebreiera di sua esclusiva competenza amministrati-va, come dimostra il fatto che avesse allegatoagli inviti l’autorizzazione firmata da Göring.Il verbale riporta la sua dichiarazione intro-duttiva: «La responsabilità della soluzione fi-nale della questione ebraica spetta, senza ri-guardo a questioni di confini geografici, alReichsführer della SS e capo della Poliziatedesca»;

2. informare i presenti della decisione disterminare gli ebrei integralmente. Nessunopoteva più pensare che gli ebrei sarebbero sta-ti uccisi in gran numero: la “soluzione finale”riguardava “tutti” gli ebrei presenti sul territo-rio del Reich;

3. garantire un coordinamento ottimale frale istanze centrali del Reich. A questo proposi-to il verbale parla di «sincronizzazione delle li-nee di condotta»;

4. risolvere il controverso problema deiMischlinge e degli ebrei che avevano contrattomatrimonio misto, per tracciare un confinenetto fra deportazione e sopravvivenza e farlorispettare dappertutto. Era importante, infatti,determinare con esattezza le persone oggettodel provvedimento. Era questo l’unico puntoche i partecipanti alla Conferenza dovevanoaffrontare, in assenza di precise direttive daparte di Hitler, che non aveva ancora decisocome comportarsi con i Mischlinge e con co-loro che avevano contratto matrimonio misto,ed era pertanto disponibile a prendere in esa-me contributi di idee sul problema. Le propo-ste su questo punto occupano una parte ampiadel verbale.

Nel verbale, il “progetto” viene presentatocon un linguaggio eufemistico e con parole ve-late:- “respingimento”, “emigrazione”, al posto di“espulsione”;- “evacuazione”, invece che “deportazione”;- “soluzione finale”, invece che “sterminio”;

- “riduzione naturale”, invece che “annienta-mento attraverso il lavoro”;- “trattare (gli ebrei) in maniera adeguata” perdire che dovevano essere fucilati o eliminatinelle camere a gas;- “ebrei interessati al provvedimento”, ovverocondannati a morte;- “ripulire”, “setacciare”, per dare l’idea che sistava risanando l’Europa da parassiti;- “trasportare (gli ebrei) a Est”, ovvero depor-tarli nei campi di sterminio;- “possibilità di soluzione”, invece che “modidi uccidere”.

La verità a Wannsee fu dunque pronuncia-ta con reticenza: non si parlò di campi di ster-minio né di progetti di una loro costruzione;non si parlò dei massacri delle Einsatz-gruppen, né delle fucilazioni né dei Gaswagen;non si fece cenno agli ebrei che erano già statiuccisi. Tuttavia, c’è un punto in cui il verbalenon lascia adito a dubbi: quando riferisce la di-chiarazione di Heydrich secondo cui neppureuna «cellula germinale di una nuova rinascitaebraica» sarebbe sopravvissuta.

E impressiona, nella sezione III del verbale,l’elenco degli 11 milioni di «ebrei interessati alprovvedimento», divisi in base al Paese di pro-venienza: risulta evidente l’intenzione, poi rea-lizzata solo a metà, di eliminare sistematica-mente tutti gli ebrei viventi sul continente euro-peo. Heydrich scelse di presentare la nuovapolitica antiebraica della “evacuazione versol’Est” come la naturale continuazione dellaprecedente politica, che tendeva a favorirel’emigrazione degli ebrei, solo adeguata allemutate circostanze; scelse quindi di non enfa-tizzare la rottura. Ma è significativo il fatto chenessuno dei partecipanti alla riunione abbiachiesto se fosse possibile continuare a incorag-giare l’emigrazione, segno che erano tutti d’ac-cordo con l’idea di distruggere anche le “cellu-le germinali” di una futura generazione ebrai-ca, e quindi con l’idea del genocidio del popoloebraico.

Sulla durata della riunione il verbale nondice nulla. A Gerusalemme, durante il proces-so in cui comparve in veste di imputato,

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Eichmann affermò che era durata circa un’orae mezzo: quindi l’argomento fu trattato in mo-do estremamente conciso e senza difficoltà, edel resto anche il verbale è breve (15 pagine).Alla fine della riunione – riferì Eichmann alprocesso – Heydrich era di ottimo umore e sitrattenne a bere del cognac insieme a Müller eallo stesso Eichmann.

Conseguenze della ConferenzaSubito dopo la Conferenza, l’Ufficio IV B4

del RSHA, diretto da Adolf Eichmann, ema-nò direttive dettagliate in merito alle operazio-ni preparatorie per la “soluzione finale” per-ché non sfuggisse nemmeno uno degli ebreiresidenti nei territori sottoposti al dominio delReich: censimento delle vittime, confisca deiloro beni, restrizioni alla loro libertà di movi-mento. Poi si passò all’azione:

• dopo Chel/mno (Kulmhof), dove già neldicembre 1941 gli ebrei venivano uccisi neicamion a gas, sorsero i campi di sterminio diBel/zec (aperto nel marzo 1942), Sobibór (mag-gio 1942), Treblinka (luglio 1942), attrezzaticon camere a gas che utilizzavano il monossi-do di carbonio, già sperimentato nell’ambitodel “Programma di Eutanasia”, ma non dotatidi forni crematori;

• intanto procedevano, sotto la direzione diRudolf Höss, i lavori per dotare di camere agas il grande campo di sterminio di AuschwitzII-Birkenau; qui vennero eretti quattro mas-sicci fabbricati, che contenevano camere a gase forni crematori, e fu usato l’acido cianidrico(lo Zyklon-B, un prodotto fino ad allora impie-gato contro insetti e roditori);

• dal febbraio 1942 una raffica di provvedi-menti colpì gli ebrei tedeschi, i cui beni furonoconfiscati prima del loro trasferimento neighetti polacchi;

• finì il privilegio degli ebrei del Ghetto diTheresienstadt (Terezín), in Boemia, un ghet-to speciale per anziani, invalidi di guerra o de-corati e per ebrei “importanti” (si temevanointerventi in loro favore da parte dell’esercito),che fu l’ultima creazione di Heydrich primadella sua morte, avvenuta il 4 giugno 1942 in

seguito alle ferite riportate in un attentato: nel-l’ottobre 1942 partirono da Theresienstadt iprimi convogli diretti ad Auschwitz e già pri-ma di quella data, a luglio, erano partiti diciot-to convogli diretti a Treblinka; nell’autunnodel 1944 Himmler ne ordinò la quasi totaleevacuazione.

Un’altra istituzione centrale, insieme alRSHA, fu essenziale nell’attuazione della “so-luzione finale”: il Ministero dei Trasporti, inparticolare le ferrovie del Reich (Reichsbahn). IlRSHA requisiva i convogli ferroviari e pagavaalla Reichsbahn una “tariffa di gruppo”, parialla metà del costo del biglietto di III classe (bi-glietto di sola andata), perché i deportati eranocaricati su vagoni merci.

La “soluzione finale”, messa dunque in at-to a partire dal 22 giugno 1941 e perfezionatadopo la Conferenza di Wannsee, fu portataavanti sino alla fine della guerra. E, se è veroche il 26 novembre 1944, di fronte all’incalza-re degli alleati a Occidente e dell’Armata rossaa Oriente, il Reichsführer della SS Himmlerordinò lo smantellamento delle installazioni disterminio di Auschwitz, è anche vero che gliebrei continuarono a morire, dopo quella da-ta, nelle marce di evacuazione e nei campi so-vraffollati dove venivano trasportati, o fucilatio falcidiati dalla fame, dagli stenti e dalle ma-lattie. Gli storici concordano nel calcolare incirca 6 milioni gli ebrei vittime del nazionalso-cialismo.

Bibliografia.Kurt Pätzold / Erika Schwarz, Ordine del giorno: ster-minio degli ebrei cit., raccoglie i documenti sulla Con-ferenza di Wannsee, fra cui il verbale redatto daEichmann. Raul Hilberg, La distruzione degli Ebreid’Europa cit., rappresenta uno dei più completi con-tributi alla comprensione del meccanismo burocra-tico-amministrativo che ha consentito lo sterminiodi sei milioni di ebrei. Sul processo ad Adolf Eichmann: Hannah Arendt,La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. diP. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 1964, e il film diEyal Sivan, Uno specialista. Ritratto di un criminalemoderno, FR./GERM./BELG./AUSTR./ISR.,1999.

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Capitolo II48

I campi fascistiMarcella Pepe

La ricerca storica contemporanea si staorientando a contrastare l’opinione, molto dif-fusa nel senso comune, degli italiani “bravagente”, umani verso le popolazioni dei Paesiinvasi e vittime anch’essi della dittatura diMussolini, costretti a subire un regime vessato-rio, mandati a combattere una guerra non sen-tita. Questa immagine “buonista” degli italia-ni, che affonda le sue radici nel Ventennio, maperdura ed è stata riproposta anche recente-mente, ad esempio dal film Mediterraneo di Ga-briele Salvatores (1991), fu rafforzata nell’im-mediato dopoguerra da una serie di fattori po-litici e psicologici:

a) il paragone con la ferocia dei crimini na-zisti, che non fu oggetto di una seria compara-zione storica ma un comodo alibi, in quantonon si può tacere che nei Paesi occupati l’eser-cito italiano abbia attuato una politica repres-siva nei confronti dei civili (devastazioni, inti-midazioni, internamenti, fucilazioni di ostag-gi) oltreché contro le forze della Resistenzapartigiana;

b) l’insabbiamento dei processi contro i cri-minali di guerra italiani1 e dunque la mancan-za di una “Norimberga italiana” che accertas-se i misfatti dell’occupazione fascista in Africae nei Balcani;

c) il fallimento dell’epurazione inizialmen-te progettata dal governo di unità nazionalepresieduto da Bonomi (luglio 1944), quindi ilmancato ricambio degli apparati statali e il“colpo di spugna” sulle responsabilità fascisteanche ad alti livelli, in seguito all’applicazioneestensiva dell’amnistia concessa dal Ministro

della Giustizia Togliatti il 22 giugno 1946;d) le scelte dei partiti della sinistra e degli

antifascisti, che preferirono sottolineare i meri-ti della Resistenza piuttosto che insistere sullecolpe del fascismo, e considerare il fascismostesso come una parentesi ormai chiusa dellastoria italiana, in un’ottica di riconciliazionenazionale e di normalizzazione;

e) gli oggettivi interessi degli angloamerica-ni, in sintonia con la classe dirigente moderataitaliana (dal maggio 1947 entrò definitivamen-te in crisi l’unità antifascista e De Gasperi for-mò un governo monocolore democristiano), aristabilire la continuità dello Stato e il ritornoall’ordine in una nazione di confine tra i dueblocchi come l’Italia, quando cominciava aprofilarsi la “guerra fredda”;

f) l’atteggiamento degli stessi ebrei italiani,che, pur essendo stati fra le vittime principalidella dittatura, sdrammatizzarono l’originedella persecuzione, oscurata in un certo sensodalla deportazione nei campi di sterminio na-zisti dopo l’8 settembre 1943, e si rifugiaronoin una “memoria di carattere riconciliatorio”.2

A questa autorappresentazione assolutoriadel comportamento degli italiani corrispondeuna tendenza a minimizzare le colpe del regi-me, visto come un totalitarismo dal volto uma-no, non paragonabile al nazismo o allo stalini-smo. Eppure, anche il fascismo si servì sistema-ticamente fin dai suoi esordi della repressionepolitica e razziale; anche il fascismo ebbe nu-merose strutture di vario tipo (campi ed edificicome ex monasteri, caserme, ville…) destinateall’internamento degli oppositori politici, deglistranieri, delle minoranze etniche. Oggi però icampi fascisti non sono sentiti come “luoghi dimemoria”, e di conseguenza si trovano in uno

1 Fin dai mesi successivi all’8 settembre, i Ministeri della Guerra e degli Affari Esteri svilupparono un’azione mirata a eludere l’articolo29 dell’armistizio, che conteneva la clausola della consegna agli Alleati dei criminali di guerra. Lo fecero percorrendo contemporanea-mente due strade: la presentazione di una documentazione difensiva, che ammetteva le violenze ma le giustificava come risposte allabarbarie dei “ribelli”, e la rivendicazione del diritto dell’Italia a processare in proprio i presunti colpevoli. La strategia italiana volta a im-pedire l’estradizione dei criminali e a rassicurare gli Alleati continuò nel dopoguerra con l’istituzione di una Commissione d’inchiestanell’aprile del 1946, ma il mutamento delle condizioni geopolitiche fece passare in second’ordine la questione e, nel 1951, tutti i proce-dimenti aperti furono archiviati. Per un approfondimento si leggano C. Di Sante, “Crimini senza giustizia né memoria” in Idem (cur.),Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Verona, ombre corte/documenta, 2005, e G. Oliva, Si ammazza troppopoco. I crimini di guerra italiani. 1940-1943, Milano, Mondadori, 2006.2 C. S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi, 2004, p. 5.

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49Le guide della memoria

stato di abbandono: edifici e baracche sonostati distrutti o riconvertiti ad altri usi, e soltan-to qualche testimone diretto dei fatti ricorda lavicenda dell’internamento. I campi italiani ri-dati alla storia e alla riflessione sono, guardacaso, quelli considerati in qualche modo an-che “patrimonio nazista”, come Fossoli diCarpi, presso Modena (primo campo di tran-sito verso la Germania, diviso dal marzo 1944in due settori gestiti rispettivamente dalle au-torità italiane della RSI e dalla SS), dove c’èuna baracca ricostruita e vengono effettuatevisite guidate; o come la Risiera di San Sabbaa Trieste (campo di detenzione di polizia, alle-stito dai tedeschi fra l’ottobre-novembre 1943nella Zona del Litorale Adriatico), che è statadichiarata monumento nazionale nel 1965.

Cerchiamo ora di ricostruire la storia del-l’internamento fascista nelle sue varie fasi etipologie.

Il confino di polizia (1926-1943)Se Hitler, appena nominato Cancelliere,

nel 1933, rinnovò tutta la legislazione prece-dente, Mussolini scelse invece la via della con-tinuità con il passato, apparentemente senzabrusche rotture, utilizzando spesso le leggi vi-genti in epoca liberale, ma ovviamente forzan-dole e snaturandole.

Un esempio è il “confino di polizia”, chederivava dal “domicilio coatto” di epoca libe-rale e, analogamente a quest’ultimo, si fonda-va su misure di prevenzione decise dalla poli-zia, sottraendo individuazione e definizionedei comportamenti pericolosi alla legislazionee alla magistratura. Diversamente dal “domi-cilio coatto”, che era comminato prevalente-mente ai delinquenti comuni con saltuarie ec-cezioni,3 il confino nel fascismo si applicavaanche e soprattutto agli oppositori politici. Lasemplicità della procedura ne fece lo strumen-to più adottato dal regime fascista: infatti, adifferenza del Tribunale speciale, che dovevabasarsi su una prova anche minima per emet-

tere una condanna, il confino prevedeva la de-portazione per via amministrativa (appositecommissioni presiedute dal Prefetto decideva-no le assegnazioni al confino, anzi ratificavanodecisioni già prese dal dittatore) e fu utilizzato,oltreché per gli antifascisti attivi, anche perquegli oppositori potenziali su cui non c’eranoprove, ma solo dicerie, come gli scontenti, i“fannulloni”, gli operai che si lamentavano delsalario ribassato, gli scrittori, gli stessi fascistidissidenti.

Le località scelte per il confino furono didue tipi: 1) piccole isole; 2) piccoli agglomeratidell’Italia centromeridionale.

Isole. Il confino nelle isole, che diventaro-no una sorta di carceri all’aperto, riguardò inparticolare gli oppositori politici ritenuti piùpericolosi, cioè gli attivisti di partito, e miravaa spegnere la loro capacità di resistenza e il lo-ro ribellismo attraverso l’ozio forzato, le vessa-zioni dei carcerieri, la vita in ambienti promi-scui e deprimenti. I primi confinati venneromandati in isole già sedi di “domicilio coatto”:Favignana, Lampedusa, Pantelleria, Ustica(dove fu confinato Antonio Gramsci nel 1926).A esse si aggiunsero Lipari (soppressa nel 1933e teatro della celebre evasione di Carlo Rossel-li, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, cheriuscirono a raggiungere la Francia), Ponza(aperta nel 1928 e chiusa nel luglio 1939, dovefu internato nel 1935 Sandro Pertini), Ventote-ne (popolata dal 1939, dopo la chiusura diPonza, da 800 confinati, fra cui Altiero Spinel-li, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, antesi-gnani del federalismo europeo, che qui scrisse-ro il “Manifesto di Ventotene”), l’Arcipelagodelle Tremiti (adibito a partire dal 1937-38 aluogo di detenzione punitiva per confinati“indisciplinati” o “incorreggibili” e teatro diclamorose proteste, come quella contro l’im-posizione del saluto romano).

Agglomerati dell’Italia centromeri-dionale. In un primo tempo erano confinatinelle località della terraferma gli oppositori

3 Il domicilio coatto fu usato a fini di repressione politica nel 1894, da Francesco Crispi, e dopo i tumulti del 1898.

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Capitolo II50

considerati meno temibili, sorvegliati da pode-stà e carabinieri, ma l’incremento del numerodei confinati negli anni Trenta e il timore chele isole di deportazione non fossero sufficientia contenerli spinsero il Ministero dell’Internoa creare colonie di confino sulla terrafermaanche per gli oppositori più pericolosi. Nel1939 a Pisticci, in provincia di Matera, fu alle-stita una colonia confinaria che potrebbe esse-re definita “il primo campo di concentramen-to italiano”, recintata, non subito ma in un se-condo tempo, da filo spinato. Diretta dall’im-presario Eugenio Parrini (personaggio in stret-to rapporto con il Ministero dell’Interno), lacolonia di Pisticci fu, nelle intenzioni del regi-me, un esperimento a sfondo sociale per «to-gliere i confinati dall’ozio» e per «unire allabonifica agraria la bonifica umana»:4 i confi-nati vennero utilizzati in lavori artigianali,agricoli (dissodarono e coltivarono terreni),edili (costruirono le infrastrutture della colo-nia, le casette previste dal piano di riassettofondiario, oltre a un intero villaggio in stile fa-scista denominato Marconia in onore delloscienziato appena scomparso), in cambio diuna paga giornaliera di 5 lire, in aggiunta allanormale “mazzetta” di 6 lire. La “rieducazio-ne” non ebbe in ogni caso l’esito sperato e neiconfinati costretti a lavorare si rafforzò la de-terminazione di opporsi al regime, come risul-ta dalle loro testimonianze.5

Nel 1926 i dissidenti politici confinati era-no 900; nel 1943 raggiunsero quota 12.330 (suun totale di 16.876 confinati).6 Cifre sicura-mente ben lontane da quelle della deportazio-ne politica interna del nazismo. I motivi di taledifferenza, lungi dal configurare una suppostadittatura benigna, sono da ricercarsi nella vo-lontà del duce di presentare agli occhi dell’opi-nione pubblica mondiale l’immagine di un an-tifascismo debole e di un governo che godevadi largo consenso sociale. D’altronde, già nella

prima metà degli anni Venti lo squadrismofascista aveva inferto un colpo mortale al dis-senso politico e numerosi antifascisti militantierano ormai all’estero. Inoltre, sui giornali diregime, la vita nelle colonie di confino era pre-sentata in modo tranquillizzante, come unaspecie di “villeggiatura” volta soltanto a elimi-nare dalla circolazione chi avrebbe intralciatoil cammino dell’Italia verso un “futuro radio-so”, offrendogli al contempo la possibilità di“redimersi”.

I campi colonialiNel 1930 l’Italia realizzò 15 “campi di con-

centramento” nella Libia orientale (Cirenai-ca), organizzati in tendopoli recintate da filospinato (il più duro fu quello di el-Agheila, de-stinato ai famigliari dei guerriglieri, dove per-sero la vita migliaia di libici). Alla loro chiusu-ra, nel 1933, dei 100.000 deportati – reclusinelle tendopoli insieme con duecentomila capidi bestiame – erano rimasti in vita meno di60.000.7 Fortemente voluti da Mussolini, ordi-nati dal governatore Badoglio, materialmenteorganizzati dal generale Graziani e creati, sep-pur in tempi e con modalità differenti, in tutti iterritori d’oltremare (anzitutto in Cirenaica,ma poi anche in Somalia e in Etiopia), i campicoloniali del regime fascista rappresentaronoun salto di qualità rispetto alla prassi di inter-namento vigente in epoca liberale e furono ilterreno di sperimentazione di metodi che po-tevano poi essere applicati nella penisola (e fu-rono in effetti applicati soprattutto nei “campiper slavi”), come la legislazione razziale o il la-voro forzato o la stessa struttura in tendopoli.

I campi del fascismo monarchico(1940-1943)

Con l’inizio della guerra, nel 1940, il regi-me fascista creò dei veri e propri campi di in-ternamento che si possono suddividere sostan-zialmente in due tipologie:

4 Così si esprime il Capo della polizia Arturo Bocchini in una relazione a Mussolini del 6 agosto 1938. Cfr. C. S. Capogreco, op. cit., p. 30.5 C. Ghini / A. Dal Pont, Gli antifascisti al confino (1926-1943), Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 289.6 C. S. Capogreco, op. cit., p. 30.7 Ibidem, pp. 54-55. Per un’analisi più ampia si legga il contributo di Nicola Labanca, “L’internamento coloniale italiano”, nel libro a cu-ra di C. Di Sante, I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Milano, FrancoAngeli, 2001, pp. 40-67.

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51Le guide della memoria

1. campi dell’internamento civile “regola-mentare”, dipendenti dal Ministero dell’Inter-no;

2. campi dell’internamento civile “paralle-lo”, dipendenti dal Ministero della Guerra edal Regio Esercito.

La definizione di campi di internamento siadatta ai primi, mentre per la seconda tipolo-gia sarebbe più appropriata la definizione di“campi di concentramento”.

1. I campi dell’internamento civile“regolamentare”. I civili internati dal Mi-nistero dell’Interno sono ulteriormente classi-ficabili in due categorie:

• internati stranieri, la cui pericolosità con-sisteva nell’essere sudditi di nazioni nemiche;

• internati italiani, la cui detenzione eramotivata da esigenze di pubblica sicurezza.

Gli ebrei si trovarono, dopo le leggi del1938, in una condizione a metà strada fra ledue categorie. Le leggi razziali stabilirono chegli ebrei stranieri (tali erano considerati quellientrati nel Regno dopo il 1919, tra cui moltis-simi affluiti dalla Germania e dai Paesi sotto-messi al Terzo Reich per sfuggire alle persecu-zioni naziste) dovessero allontanarsi dall’Italiaentro il 12 marzo 1939, pena l’espulsione. Seb-bene però non tutti gli ebrei stranieri fosseroriusciti a emigrare, la minacciata espulsione dimassa non avvenne, e una circolare emanata il20 maggio 1940 dal Ministero dell’Interno liincludeva fra i civili da internare. Gli ebreistranieri furono concentrati prevalentementenel campo di Ferramonti di Tarsia, oltreché inaltri campi e in centinaia di località destinateall’internamento libero.

Anche gli ebrei italiani, una volta esclusa– perché tecnicamente irrealizzabile a guerrainiziata – la possibilità di una loro espulsione,vennero concentrati nei campi di Urbisaglia,Campagna e Gioia del Colle a partire dal1941. Furono circa 400 gli ebrei italiani inter-

nati dall’entrata in guerra fino al 25 luglio1943: il numero potrebbe apparire esiguo, main percentuale è alto, poiché in Italia gli ebreierano soltanto 46.656;8 inoltre, la motivazioneprincipale del loro internamento era quelladell’appartenenza “razziale”, pur non essendochiaro se l’intenzione di Mussolini fosse quelladi internare “tutti” gli ebrei o solo quelli “direale pericolosità”. La persecuzione degliebrei in Italia tra il 1938 e il 1943 fu poco con-siderata dagli storici nel dopoguerra, a frontedi una forte sottolineatura della deportazionenazista nel periodo 1943-45, e anche nella me-morialistica non le è stato dato lo stesso rilievo.

Analogamente agli ebrei, gli zingari si tro-varono inclusi in entrambe le categorie. Glizingari stranieri, che in Italia erano 25.000,tra i primi a essere sorvegliati dalla polizia fa-scista (fin dal 1926) per motivi di «igiene pub-blica e prevenzione della criminalità», furonoarrestati numerosi a partire dal 1938 e respintioltre frontiera o deportati in campi nomadi al-lestiti da loro stessi. Dal 1941 le carovane dizingari che affluivano in Italia dalla Croazia edalla Bosnia-Erzegovina furono dirottate neicampi gestiti dal Ministero dell’Interno aBaiano, Agnone, Tossicia, Ferramonti, Tremi-ti, Vinchiaturo e in diverse località di interna-mento libero. Per gli zingari italiani (vittimeanch’essi del clima creato dalle leggi razzialibenché non fossero esplicitamente menzionatiin esse), i primi ordini di internamento giunse-ro con la circolare inviata dal Capo della poli-zia Bocchini ai prefetti l’11 settembre 1940.

Presso il Ministero dell’Interno furono atti-vati un “Ufficio internati stranieri” e un “Uffi-cio internati italiani”, che ricevevano le segna-lazioni dalle prefetture, dai ministeri, dalleambasciate e dai consolati italiani, dall’Ovra,dalla Demorazza (Direzione generale demo-grafia e razza). Gli arresti iniziarono nel giu-gno 1940, subito dopo l’entrata in guerra del-

8 M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Torino, Einaudi, 2002, p. 10.

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Capitolo II52

l’Italia, e i fermati potevano essere destinati aun “campo”, se ritenuti molto pericolosi, o auna “località di internamento” dove vivevanonon fisicamente separati dagli abitanti del po-sto ed erano definiti “internati liberi”.

Come appare evidente nella tabella che se-gue,9 nel corso degli anni la persecuzione del

regime ebbe sempre più di mira la categoriadei “nemici interni”, cioè gli oppositori in ge-nere, oltreché gli ebrei e gli “allogeni” (slavidella Venezia Giulia e tedeschi del Sud Tirolo),e numerosi “internati liberi” furono trasferitinei campi.

internati stranieri internati italiani totale

ottobre 1940 4.251 (2.412 ebrei) 1.373 (331 ebrei) 5.624novembre 1942 7.369 4.366 11.735aprile 1943 6.832 12.285 19.117

9 Rielaborazione dei dati riassunti da C. S. Capogreco, op. cit., pp. 65-66.10 Anche questa tabella è una ricostruzione a partire dalla mappatura dei campi in calce a C. S. Capogreco, op .cit., pp. 179-247.

I campi dell’internamento civile “regola-mentare” furono ubicati nell’Italia centrale emeridionale ed erano più di 40.

Oltre a quelli riportati in tabella,10 svolserofunzione di “campi di internamento” anche il

“centro di lavoro” di Castel di Guido (Roma) equattro colonie di confino funzionanti: Vento-tene (Lazio), Tremiti (Puglia), Pisticci (Luca-nia), Ustica (Sicilia).

Emilia-Romagna 2 Montechiarugolo; Scipione di Salsomaggiore

Toscana 3 Bagno a Ripoli; Sant’Andrea a Rovezzano; Oliveto

Marche 6 Fabriano; Sassoferrato; Urbisaglia; Pollenza; Treia; Petriolo

Umbria 1 Colfiorito (Foligno)

Lazio 3 Fraschette (Alatri); Badia di Farfa; ex colonia confinaria di Ponza

Abruzzo-Molise 19

Campania 4 Campagna; Ariano Irpino; Monteforte Irpino; Solofra

Puglia 3 Manfredonia; Alberobello; Gioia del Colle

Calabria 1 Ferramonti di Tarsia

Sicilia 1 ex colonia confinaria di Lipari

Civitella del Tronto; Corropoli; Isola del Gran Sasso; Nereto;Tortoreto; Tossicia; Notaresco; Città Sant’Angelo; Casoli;Istonio; Lama dei Peligni; Lanciano; Tollo; Chieti; Agnone;Boiano; Casacalenda; Isernia; Vinchiaturo

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2. I campi dell’internamento civile“parallelo”. Teoricamente soltanto il Mini-stero dell’Interno aveva titolarità riguardo al-l’internamento dei civili, ma di fatto fu ilRegio Esercito a gestirlo nelle zone della exJugoslavia occupate o annesse nel 1941, nelcontesto di un’occupazione contraddistinta daparticolare violenza verso le popolazioni iner-mi e da intenti esplicitamente razzisti, in quan-to volta – oltreché contro il movimento parti-giano – a realizzare una sorta di “pulizia etni-ca”, in continuità con la ventennale politica del“fascismo di frontiera” contro le minoranzeslave in Italia. Accanto a quello “regolare”, cifu dunque un internamento civile “parallelo”.

Un documento davvero impressionante èla “Circolare 3C-L”, emanata il 1° marzo1942 dal generale Mario Roatta, comandantedella II Armata stanziata in Slovenia, che pre-vedeva l’incendio e la distruzione di case e vil-laggi, nonché l’internamento massiccio dellapopolazione maschile dai 16 ai 60 anni e, inuna correzione successiva alla prima stesura,anche di donne e bambini. In base alle diretti-ve della Circolare, che diventò un riferimentoper le disposizioni antiguerriglia emanate daaltri generali nelle zone occupate, avrebberodovuto essere internati operai, disoccupati,profughi, senzatetto, ex militari, frequentatoridi dormitori pubblici, persone trasferitesi inJugoslavia dalla Venezia Giulia dopo l’avventodel fascismo, simpatizzanti del movimentopartigiano, abitanti delle case prossime ai luo-ghi dove fossero stati compiuti sabotaggi, fa-miglie in cui risultassero assenti componenti disesso maschile, studenti e intellettuali a pre-scindere dall’eventuale militanza politica.

Roatta prescrive la massima durezza nellarepressione, raccomanda «il ripudio delle qua-lità negative compendiate nella frase “bonoitaliano”» e sintetizza lo spirito della Circolare

3C-L nel motto: «non dente per dente, ma te-sta per dente».11

I campi previsti dalla Circolare 3C-L eranodistinti in “repressivi” e “protettivi”: questi ul-timi erano destinati a coloro che si presentava-no spontaneamente per essere “protetti” dalleazioni del movimento partigiano, ma serviro-no in realtà a tutelare spie e collaborazionisti.

Tre furono le strutture principali dell’inter-namento “parallelo” situate in territoriooccupato:

• Arbe (Rab) per il settore dell’Adriaticosettentrionale, cioè l’area di Fiume e la Slove-nia, il campo più grande e tristemente famoso,definito da molti autori jugoslavi un “campo disterminio” a causa dell’alta mortalità (lo stori-co sloveno Tone Ferenc ha documentato 1.436morti);12

• Melada (Molat) per il settore dell’Adriati-co centrale, cioè la Dalmazia;

• i campi integrati di Mamula e Prevlakaper il settore dell’Adriatico meridionale.

Dal 1942 si sviluppò anche una rete distrutture per internati jugoslavi situate in terri-torio italiano e allestite perlopiù in ex caserme:

• Gonars e Visco, nel Friuli-Venezia Giulia;• Monigo e Chiesanuova, in Veneto;• Renicci, in Toscana;• Colfiorito (già campo di internamento

civile “regolamentare”), in Umbria;• Cairo Montenotte, in Liguria, un campo

messo a disposizione dal 23 febbraio 1943 per“allogeni” sloveni e croati residenti nei vecchiconfini del Regno: i reclusi ancora presenti nelcampo dopo l’8 settembre 1943 furono tuttideportati in Germania.

Sulla base di fonti attendibili, soprattutto lerelazioni della Croce Rossa Internazionale, sipuò valutare in circa 100.000 il numero deicivili ex jugoslavi internati dall’Italia fascista.

Con l’incremento sempre più massiccio de-

11 Della “Circolare 3C-L” parla C. S. Capogreco, op. cit., pp.70-72. Si tratta di un testo diviso in 23 capitoli, parzialmente riprodotto inappendice al già citato saggio di G. Oliva, Si ammazza troppo poco. La versione integrale è consultabile presso l’Inštitut za Novejšo Zgodo-vino di Lubiana.12 T. Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima. Confinamenti-rastrellamenti-internamenti nella Provincia di Lubiana. 1941-1943. Documenti, Društvo piscev zgo-dovine NOB-Inštitut za novejso zgodovino, Ljubljana, 2000, citato in C. S. Capogreco, op. cit., p. 147.

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gli internamenti, l’Autorità militare cercò difare in modo che i civili ex jugoslavi passasserosotto la giurisdizione del Ministero dell’Inter-no. Ma la Direzione generale di PubblicaSicurezza affermò che i propri 40 campi eranoormai saturi e che era impossibile pensare dicostruirne di nuovi.

Alla fine del 1942 fu raggiunto un compro-messo: in attesa che il Ministero dell’Internoprovvedesse a edificare nuovi campi, degli exjugoslavi avrebbe continuato a occuparsi ilRegio Esercito. Il Regio Esercito e il Ministerodell’Interno non erano dunque né separati néin concorrenza sulla questione dell’interna-mento civile.

Tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942, in-fatti, la Direzione generale di Pubblica Sicu-rezza riservò agli ex jugoslavi i propri campi diCasoli, Città S. Angelo, Corropoli, Lanciano,Notaresco e Scipione; ne istituì uno nuovo aSassoferrato; riattivò le ex colonie di confinodi Ponza e Lipari. Nell’aprile 1943 Mussolini,su proposta dell’Alto Commissario per la Pro-vincia di Lubiana Emilio Grazioli, dispose chei campi ubicati nella Penisola, tranne Visco,passassero in breve al Ministero dell’Interno,ma con gli Alleati prossimi allo sbarco e il regi-me fascista ormai in crisi, lo scambio di conse-gne rimase sulla carta.

Al momento dell’armistizio dell’8 settem-bre 1943, dunque, i “campi per slavi”, sia inItalia sia nei territori occupati, erano ancorain mano all’esercito.

Condizioni di vita nei campi del fascismo monarchico

Nei campi dell’internamento civile“regolamentare” la crescente penuria dicibo, la convivenza in promiscuità fra personediversissime per età e ceto, l’ozio forzato (solodal luglio 1942 fu consentito lo svolgimento diattività lavorative all’esterno del campo agliinternati non pericolosi) determinarono unasituazione di grande disagio. Il sussidio gior-naliero (inizialmente di 6,50 lire, poi aumenta-to) consentì negli anni 1940-41 un vitto suffi-ciente (anche perché c’erano mense autogesti-

te), ma la successiva perdita di valore della lirafece diminuire il potere d’acquisto del sussidio:si sviluppò il mercato nero e gli internati co-minciarono a soffrire la fame. Le giornate era-no tutte uguali, scandite dagli appelli, dalpranzo, dalla distribuzione della posta (che eraconsentito ricevere, ma solo da famigliari, edera sottoposta a censura), dall’arrivo di nuoviinternati o dalla partenza di altri. Era vietato(principale differenza rispetto agli “internatiliberi”) avere rapporti con la popolazione loca-le; inoltre, era vietato leggere pubblicazioninon autorizzate e possedere apparecchi radio.La vigilanza all’esterno dei campi era svoltadalla Milizia Volontaria per la SicurezzaNazionale e/o dai Carabinieri.

Sia gli internati nei campi “regolamentari”sia gli “internati liberi” non dovettero quasimai subire crudeltà gratuite, ed eventuali azio-ni di questo tipo venivano disapprovate e per-seguite dalle autorità superiori. Neppure gliebrei furono sottoposti a particolari angherie,però vivevano nel timore di essere prima o poiconsegnati ai nazisti. Tuttavia l’atteggiamentodei dirigenti e del personale di custodia diven-tò più duro anche nei campi “regolamentari” apartire dal 1942, quando vi arrivarono in grannumero deportati “slavi”.

Nei campi “per slavi” dell’interna-mento civile “parallelo” le condizioni divita furono molto più gravose che nei campiamministrati dal Ministero dell’Interno: gliinternati non avevano sussidi economici némense autogestite; venivano frequentementealloggiati in tendopoli senza arredi e situate inriva al mare, su terreni renosi e fangosi, dove,privi di indumenti adeguati, spesso non regge-vano ai rigori e all’umidità dell’inverno.

In questi campi il sovraffollamento, ladrammatica situazione igienico-sanitaria e ladenutrizione generalizzata determinarono unalto tasso di mortalità. Le razioni giornalierepreviste dal Regio Esercito erano di 877 calo-rie, corrispondenti a meno della metà del fab-bisogno calorico minimo di un essere umano:dunque la fame e le malattie a essa connesse

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55Le guide della memoria

regnavano sovrane e, del resto, erano conside-rate dalle autorità militari ottime alleate perneutralizzare eventuali velleità dei prigionieri.Celebri, a questo proposito, sono le dichiara-zioni del generale Gastone Gambara:«Logico e opportuno che campo di concentra-mento non significhi campo di ingrassamento.Individuo malato = individuo che statranquillo.» 13

I medici dell’ospedale di Treviso, dove era-no condotti gli internati in fin di vita, restava-no esterrefatti di fronte alla loro denutrizione:«identici a quelli di Buchenwald» li definì ilProfessor Menenio Bortolozzi.14 Le condizionipeggiori dal punto di vista ambientale e ali-mentare furono nei campi di Arbe e di Mela-da, ma anche nei campi ubicati in Italia il tassodi mortalità fu molto alto.

I campi del fascismo repubblicano(1943-1945)

Alla vigilia dello sbarco degli Alleati e delcolpo di Stato15 che determinò la caduta delfascismo monarchico il 25 luglio 1943, i de-portati vennero trasferiti dalle isole di confinoe dai campi del Sud verso l’Italia centrosetten-trionale, in campi ritenuti più controllabili.

In tali trasferimenti, ultime esibizioni dipotere del regime ormai allo sbando, che av-venivano spesso sotto i bombardamenti allea-ti, parecchi furono i feriti.

Il Governo Badoglio, pur affrontando laquestione della liberazione dei deportati neiquarantacinque giorni precedenti l’armistizio,lo fece con cautela eccessiva e la macchina bu-rocratica si mise in moto con estrema lentezza:dal 27 luglio al 21 agosto furono necessariesette circolari perché si dichiarassero prosciolti

gli internati di nazionalità italiana, e la libera-zione degli internati stranieri, prevista esplici-tamente come clausola dell’armistizio, fu ordi-nata solo il 10 settembre 1943, con il rischio,per gli oltre 6.000 ebrei detenuti, di cadere nel-le mani dei tedeschi che avevano occupato laPenisola. Ciò dimostra come l’apparato buro-cratico del Regno d’Italia fosse ancora legatoal regime mussoliniano.

Il 12 settembre, subito dopo l’annuncio del-l’armistizio, un commando di aviatori e para-cadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla suaprigione a Campo Imperatore, sul Gran Sasso.Il 23 settembre il duce creò la RepubblicaSociale Italiana, schierandola a fianco dei vec-chi alleati, e immediatamente, il 1° novembre1943, il Ministero dell’Interno del nuovo Statoabrogò per l’Italia centrosettentrionale le mi-sure liberatorie adottate dal Governo Badoglionell’estate del 1943. La RSI non utilizzò più ilconfino di polizia, ma continuò l’applicazionedell’internamento, indirizzandolo soprattuttocontro gli oppositori politici, i partigiani, i re-nitenti alla leva e accentuandone l’aspetto pu-nitivo. Una speciale “attenzione” venne dedi-cata agli ebrei, sia italiani sia stranieri: conl’ordinanza di polizia n. 5 del 30 novembre1943, emanata dal ministro dell’Interno Buf-farini Guidi, venne disposto l’allestimento dicampi di concentramento provinciali, dove irastrellati venivano reclusi in attesa di essereconsegnati alle SS e trasportati nei Lagernazisti.

I “campi di transito” consegnati dalla RSIai nazisti furono quattro: Fossoli di Carpi, Bor-go San Dalmazzo, Bolzano-Gries, e la Risieradi San Sabba. Essendo la Zona del LitoraleAdriatico sotto amministrazione tedesca dopo

13 Ars, II, XI Corpo d’Armata, b. 726, s.f. VII, nota del generale Gastone Gambara, 17 dicembre 1942, riportata in C. S. Capogreco, op.cit., p. 142.14 Ibidem, p. 144. Capogreco cita la testimonianza del Professor Menenio Bortolozzi, tratta da R. Bolis, “Chi erano quei 2.800 sloveni nelLager fascista a Monigo”, in L’Unità, 25 aprile 1980.15 L’espressione, usata da storici come M. Salvadori, E. Ragionieri, P. Spriano, C. S. Capogreco, pare appropriata anche considerandogli esiti del 25 luglio 1943; generalmente, infatti, un colpo di Stato implica l’apporto delle Forze armate e non comporta un ricambio diclasse dirigente (come invece accade dopo una rivoluzione): quello di Badoglio fu un governo di militari e tecnici, che doveva, nelleintenzioni, garantire la continuità con il fascismo.

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Capitolo II56

l’armistizio dell’8 settembre,16

la Risiera nacque verso la finedi ottobre del 1943 direttamen-te dall’esperienza dello Einsatz-kommando Reinhard (“repar-to operativo” formato da uomi-ni agli ordini del generale SSaustriaco Odilo Lotario Glo-bocnik, triestino di nascita, ad-destrati in Polonia nei campi disterminio immediato di Tre-blinka, Bel/zec, Sobibór) e fu unLager polifunzionale: non solodi transito verso la Germania,ma di detenzione di polizia, disfruttamento della forza lavoroprigioniera e anche di stermi-nio, in quanto dotato di fornocrematorio.

16 Due erano le Zone d’operazione soggette all’amministrazione tedesca e sottratte alla sovranità italiana, non a caso due zone di fron-tiera, destinate a essere incorporate nel Reich se la Germania avesse vinto la guerra: la prima comprendeva le province di Belluno,Trento e Bolzano (dunque anche il campo di Bolzano-Gries); la seconda comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume,Pola, Lubiana. Si veda, a questo proposito, E. Collotti, “L’occupazione tedesca in Italia con particolare riguardo ai compiti delle forze dipolizia”, nel volume a cura di C. Di Sante, I campi di concentramento in Italia cit., p. 252.

Bibliografia.Il libro di Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einau-di, 2004, è stato il punto di partenza e il filo conduttore della guida, in quanto rappresenta senz’altro l’opera piùcompleta, rigorosa e sistematica finora pubblicata sull’internamento fascista, soprattutto riguardo al periodo 1940-43 in cui l’Italia era ancora uno Stato sovrano. Capogreco, presidente della Fondazione Ferramonti, è inoltre autoredi studi su singoli campi, come quelli di Ferramonti di Tarsia e di Renicci. Utili ai fini dell’approfondimento del temasono anche i testi curati da Costantino Di Sante, fra cui si segnala l’articolo “Origine e sviluppo del sistema concen-trazionario fascista” comparso ne L’Unità del 21 gennaio 2002 e il volume I campi di concentramento in Italia. Dall’inter-namento alla deportazione (1940-1945), Milano, FrancoAngeli, 2001. Il libro è la raccolta degli atti del Convegno na-zionale tenutosi presso l’Università di Teramo nel marzo del 1998 e ripropone in modo complesso il problema dellaconservazione e della trasmissione della memoria, per anni colpevolmente trascurata, dei campi fascisti. Interessan-te è anche il saggio di Fabio Galluccio, I Lager in Italia. La memoria sepolta nei duecento luoghi di deportazione fascisti, Civez-zano, Nonluoghi Libere Edizioni, 2002: animato dalla volontà di far conoscere questa triste storia al di là della ri-stretta cerchia degli studiosi, Galluccio sviluppa molti riferimenti all’attualità (al rinascere di movimenti xenofobi inItalia e altrove) e alle responsabilità dei popoli, ieri come oggi. E racconta del suo viaggio sulle tracce dei campi ita-liani dimenticati (situati perlopiù in ex monasteri, ville abbandonate, caserme), con particolare attenzione agli ebreidi ogni nazionalità in essi prigionieri. Ne risulta così un diario tra il “giallo” e l’autobiografia, in cui l’autore confessai propri dubbi, gli scoramenti, le frustrazioni di una ricerca che procede tra mille difficoltà (pochissimi sanno o ricor-dano, rare sono le pur utilissime pubblicazioni di storici locali). Sul nodo dei campi “per slavi” o dell’internamentocivile “parallelo”, si vedano, ancora, Carlo Spartaco Capogreco, Una storia rimossa. L’internamento dei civili jugoslavi daparte dell’Italia fascista (1941-43), Annali di studi istriani e mediterranei, Koper (Capodistria), 22/2000, e CostantinoDi Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Verona, ombre corte/documenta,2005, in cui il curatore seleziona e commenta una scelta significativa di documenti sulla vicenda dei crimini italianiin Jugoslavia e dei mancati processi, argomentando con la mancanza di una “Norimberga italiana” il persistere del-lo stereotipo del “bravo italiano”. Un’opera seria di divulgazione, che utilizza i risultati delle ricerche di Capogrecoe Di Sante, oltre a contributi di altri studiosi e a materiali d’archivio, è il libro di Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco.I crimini di guerra italiani. 1940-1943, Milano, Mondadori, 2006.

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57Le guide della memoria

giche, quello “moderno” si distingue per dueelementi nuovi. Uno è quello biologico: esisteuna “razza” semitica, e tale rimane a menoche non si diluisca attraverso le generazioni(quattro, secondo le leggi di Norimberga).

E nella gerarchia nazista delle “razze”, nelnuovo ordine nazionalsocialista che prefigura-va un’umanità ridotta in schiavitù al serviziodella “razza” ariana dominatrice, gli ebrei era-no al fondo, insieme agli zingari, agli slavi, aineri. Il secondo elemento, cui si presta gene-ralmente scarsa attenzione, è quello politico.Nella ideologia di Hitler, ispirata ad AlfredRosenberg, il teorico razzista del Terzo Reich,autore del libro Il mito del XX secolo (1930), l’an-tisemitismo si coniugava con la lotta contro ilmarxismo, bollato come “bolscevismo giudai-co”, e si giustificava come necessità di abbatte-re la “cospirazione giudaica mondiale” soste-nuta dai cosiddetti Protocolli dei Saggi di Sion, unclamoroso “falso” probabilmente redatto dallapolizia zarista di inizio Novecento.

Nemmeno la legislazione antisemitica è inassoluto una novità del XX secolo, benché nonavesse mai raggiunto prima una tale sistemati-cità di elaborazione (fondandosi su presuppo-sti che pretendevano di essere scientifici) e untale grado di ferocia nell’applicazione (ne furo-no vittime, secondo stime attendibili, sei milio-ni di ebrei), da indurre gli storici a usare termi-ni come “genocidio” (dal greco ghènos, “stir-pe”, a indicare lo sterminio di un intero popo-lo), “Olocausto” (“sacrificio”) o Shoah (che inebraico significa “disastro, catastrofe”).Quest’ultimo termine si è affermato fuori diIsraele sull’onda dell’emozione suscitata nel1985 dal film Shoah di Claude Lanzmann e de-scrive l’evento dal punto di vista delle vittime,mentre Endlösung (“soluzione finale”) appartie-ne all’ambito burocratico e al linguaggio vela-to dei persecutori.

La legislazione antiebraica in Germania

Il 7 aprile del 1933 il Terzo Reich emanò leprime leggi razziali, con cui gli ebrei tedeschivennero esclusi da numerose professioni e as-

Le leggi razzialiMarcella Pepe

Nel 1938 il governo fascista emanò le leggirazziali, proseguendo l’allineamento con lapolitica dell’alleato nazista (le leggi di Norim-berga sono del 1935), iniziato dopo la stipula-zione dell’Asse Roma-Berlino (1936). Tra il1938 e l’estate del 1939, il Terzo Reich estesela legislazione antiebraica vigente in Germa-nia all’Austria, alla Lituania, al territorio deiSudeti, al protettorato di Boemia, ed ebberouna propria normativa persecutoria ancheRomania, Ungheria, Slovacchia. Nei primidue anni di guerra, agli Stati già con una legi-slazione antisemitica si aggiunsero la Franciadi Vichy (ottobre 1940), la Bulgaria (gennaio-febbraio 1941), la Croazia nata dalla disgrega-zione della Jugoslavia (aprile 1941), che scelse-ro fin dall’inizio per le loro leggi il criterio clas-sificatorio “razziale” tedesco e italiano, cui siuniformarono subito anche Romania, Unghe-ria e Slovacchia. L’Europa si ritrovò così anti-semita in pieno XX secolo, a centocinquan-t’anni dalla Rivoluzione francese e dallaDichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.

L’antisemitismo tradizionale e l’anti-semitismo “moderno”

Occorre premettere che l’antisemitismo,ovvero la pregiudiziale ostilità nei confrontidegli ebrei, è molto più antico del nazismo edel fascismo e attraversa tutta la storia dell’Eu-ropa cristiana. Per i cristiani, infatti, gli ebreierano il “popolo deicida”, colpevole dell’ucci-sione di Cristo. Né le persecuzioni antiebrai-che sono una prerogativa del XX secolo, bensìuna “costante” della storia europea a partiredal Medioevo. Fondata su accuse assurde, co-me quella di avvelenare i pozzi per diffonderele malattie epidemiche, la caccia all’ebreo hasempre coinvolto grandi masse che si accani-vano contro minoranze facilmente riconosci-bili e di dimensioni troppo piccole per potersidifendere, facendone un capro espiatorio. Tut-tavia, mentre l’antigiudaismo tradizionale sibasava su motivazioni prevalentemente teolo-

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Capitolo II58

sociazioni. Fu definito come “non ariano” chiavesse anche soltanto un nonno appartenentea una Comunità ebraica. Tale formulazione,poiché valutava l’aspetto religioso, rischiavaperò di escludere dai “non ariani” i discenden-ti di ebrei secolarizzati e non soddisfaceva tut-to l’establishment nazista.

Fecero chiarezza le leggi di Norimbergadel 1935, che aprirono la strada allo sterminio,distinguendo gli ebrei in due categorie: l’ebreo“puro” (privato di ogni diritto) e il mezzosan-gue, l’ibrido (Mischling), che a sua volta fu di-stinto in “ibrido di primo grado” (al 50%, diincerto destino) e in “ibrido di secondo grado”(al 25%, destinato all’assimilazione con il po-polo tedesco).

Nel 1938 fu avviato il censimento degliebrei e di tutti i loro beni e, nella notte tra il 9 eil 10 novembre (detta “notte dei cristalli”), siscatenò il più gigantesco pogrom che la storiaoccidentale ricordi, con la distruzione di 267sinagoghe, 7.500 negozi e l’arresto di 26.000ebrei.

Con l’inizio della guerra e l’invasione dellaPolonia (1939) le dimensioni del “problemaebraico” diventarono enormi. Si calcola infat-ti che nei territori occupati (da Oslo a Salonic-co, da Parigi a Varsavia) gli ebrei fossero circa3.000.000 e che solo nella parte della Poloniasottomessa al Terzo Reich (il Warthegau, an-nesso direttamente, e il Governatorato gene-rale) risiedessero almeno 1.800.000 ebrei.

Le norme emanate per escludere gli ebreitedeschi dal consorzio civile si rivelarono diconseguenza largamente insufficienti. I nazistiprovvidero allora alla creazione dei ghetti (alprimo, costruito a L/ ódz, seguirono quelli diVarsavia, Cracovia, Lublino, Czestochowa,Kielce, Lwów), dove gli ebrei furono costretti a“traslocare” abbandonando le loro case e iloro beni.

In seguito, dopo l’invasione dell’UnioneSovietica (22 giugno 1941), il problema dellapresenza ebraica nelle terre da germanizzaresi fece sempre più grave (erano altri 4.000.000gli ebrei nella nuova area raggiunta dall’avan-zata delle truppe tedesche); fu allora che ven-

nero organizzati i “gruppi di intervento”(Einsatzgruppen) incaricati dei primi feroci mas-sacri, dei quali, secondo calcoli approssimativi,furono vittime circa 800.000 persone.

Contemporaneamente venivano aggiuntial già imponente sistema concentrazionarionazista nuovi Lager adibiti allo sterminio:Auschwitz fu inaugurato il 14 giugno 1940, enel 1941 furono aperti altri cinque campi nellazona tedesca della Polonia.

Quando, il 20 gennaio 1942, nella Confe-renza di Wannsee, presso Berlino, fu decisa la“soluzione finale” (Endlösung) del problemaebraico, lo sterminio era già in atto, sia pure informa non ancora sistematica, e si trattava sol-tanto di “sincronizzare le linee di condotta” ditutte le istanze centrali del Reich al fine di rag-giungere l’obiettivo in modo ottimale. Il capodel RSHA (Ufficio Centrale per la Sicurezzadel Reich), Reinhard Heydrich, informò i par-tecipanti alla Conferenza dell’intenzione dinon lasciar sopravvivere «neppure una cellulagerminale di una nuova rinascita ebraica»: tut-ti gli ebrei presenti sul territorio del Reich do-vevano essere trasferiti nei campi dell’Est euro-peo per subire il “trattamento finale”, ovverolo sterminio attraverso il lavoro. Le nuovedisposizioni giunsero ai comandanti dei KL il30 aprile 1942 con la Circolare Pohl.

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In ItaliaPrecedute dal Manifesto degli scienziati razzisti

(14 luglio 1938), sottoscritto da 180 scienziati eredatto (secondo i diari di Botta e Ciano) quasicompletamente dallo stesso Mussolini, e dauna campagna di stampa che doveva prepara-re il Paese alla loro ricezione, furono emanatea più riprese, a partire dal 5 settembre 1938, leleggi razziali, cui fecero immediatamente se-guito le ordinanze applicative:

5 settembre 1938: provvedimenti per la di-fesa della “razza” nella scuola italiana;

7 settembre 1938: provvedimenti nei con-fronti degli ebrei stranieri;

15 novembre 1938: integrazione delle nor-me per la difesa della “razza” nella scuola ita-liana;

17 novembre 1938: provvedimenti per ladifesa della “razza” italiana;

29 giugno 1939: disciplina dell’eserciziodelle professioni da parte di cittadini di “raz-za” ebraica.

Il 6 ottobre 1938 era stata approvata dalGran Consiglio del Fascismo la Dichiarazionesulla razza.

La lettura del Manifesto degli scienzia-ti razzisti sbalordisce per l’impudenza, la pa-lese arbitrarietà e l’infondatezza storica di cer-te affermazioni che vengono presentate come“scientifiche”.

Alcune citazioni:«Il concetto di razza è concetto puramente biologi-co. Esso è quindi basato su altre considera-zioni che non i concetti di Popolo e di Na-zione, fondati su considerazioni storiche,linguistiche, religiose. Però alla base delledifferenze di Popolo e di Nazione stannodelle differenze di razza.»«La popolazione dell’Italia attuale è nella mag-gioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana[…]. Dopo l’invasione dei Longobardinon ci sono stati in Italia altri notevoli mo-vimenti di popoli capaci di influenzare lafisionomia razziale della Nazione […].Questa antica purezza di sangue è il piùgrande titolo di nobiltà della Nazione ita-liana.»«È tempo che gli Italiani si proclamino franca-mente razzisti. Tutta l’opera che finora hafatto il Regime in Italia è in fondo del raz-zismo.»«Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.Dei semiti che nel corso dei secoli sono ap-prodati sul sacro suolo della nostra Patrianulla in generale è rimasto.»1

Il re Vittorio Emanuele III firmò tutti i de-creti; il papa Pio XI protestò soltanto contro lanorma che vietava i matrimoni misti, invocan-do il Concordato del 1929; né Pio XI né il suo

1 Il testo complessivo del Manifesto si può leggere nel saggio di G. Israel / P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, il Mulino,1998, pp. 365-367.

Campi di sterminio immediato Stime approssimative dei morti

Auschwitz II-Birkenau da 1.500.000 a 2.000.000Majdanek da 100.000 da 200.000Chel/mno da 150.000 a 300.000Bel/zec 600.000Sobibór da 250.000 a 500.000Treblinka da 750.000 a 1.000.000

Fonte: F. Francavilla, I Lager nazisti fra repressione, sterminio e sfruttamento economico, Consiglio Regionale del Piemonte, 1982.

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Capitolo II60

successore Pio XII si pronunciarono pubblica-mente su altri provvedimenti.

Le leggi razziali italiane si preoccuparonoin primo luogo di definire l’ebreo, con una ca-sistica ancora più minuziosa di quella delleleggi di Norimberga. Vennero considerati di“razza” ebraica coloro che avessero:

• entrambi i genitori di “razza” e di religio-ne ebraica;

• un solo genitore di “razza” ebraica e l’al-tro di nazionalità straniera;

• un solo genitore di “razza” o di religioneebraica e l’altro di nazionalità italiana;

• madre di “razza” ebraica, in caso di pa-dre ignoto.

Non venne invece considerato di “razza”ebraica chi fosse nato da genitori entrambi dinazionalità italiana, di cui uno solo di “razza”ebraica, ma non appartenente alla religioneebraica.

Per il fascismo, dunque, le persone erano di“razza” ebraica o di “razza” ariana. La cate-goria giuridica dei “misti”, tanto importantein Germania, in Italia non fu considerata. Perquesto aspetto le leggi italiane non erano affat-to più lievi di quelle tedesche, anche se nonprevedevano violenze fisiche ai danni degliebrei e non introdussero, neppure durante laRepubblica Sociale Italiana, l’obbligo di por-tare un segno distintivo come la stella gialla.

Inoltre, le leggi razziali, nel loro insieme,stabilivano che era proibito ai cittadini italianidi “razza” ebraica:

• contrarre matrimonio con persone ap-partenenti ad altra “razza”;

• prestare servizio militare in pace e inguerra;

• esercitare l’ufficio di tutore o curatore diminori o di incapaci non appartenenti alla“razza” ebraica;

• essere proprietari o gestori di aziende conpiù di 100 dipendenti e proprietari di terrenicon un estimo superiore a 5.000 lire o di fab-bricati con un imponibile superiore a 20.000lire;

• avere alle proprie dipendenze, in qualitàdi domestici, cittadini di “razza” ariana;

• iscriversi alle scuole di ogni ordine e gra-do, pubbliche o private, frequentate da alunniitaliani;

• insegnare nelle scuole statali o parastatalidi qualsiasi ordine e grado e nelle università(con immediata sospensione dall’insegnamen-to o dalla libera docenza);

• esercitare le professioni di notaio e gior-nalista (per gli altri professionisti era obbligato-ria la denuncia di appartenenza alla “razza”ebraica e l’iscrizione in “elenchi aggiunti” daistituirsi in appendice agli albi professionali).

Era fatto divieto di avere alle proprie di-pendenze persone di “razza” ebraica:

• alle amministrazioni civili e militari delloStato;

• al Partito Nazionale Fascista;• alle Province, ai Comuni e a tutti gli enti

pubblici;• alle amministrazioni delle aziende muni-

cipalizzate e delle aziende collegate agli entipubblici;

• alle amministrazioni di imprese private diassicurazione.

C’erano tuttavia categorie di ebrei cui nonerano applicabili le disposizioni contro la“razza”:

• i componenti delle famiglie dei caduti nel-le guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola edei caduti per la causa fascista;

• i mutilati, gli invalidi, i volontari e i deco-rati al valore nelle guerre sopracitate;

• gli iscritti al Partito Nazionale Fascista dal1919 fino al secondo semestre del 1924;

• i legionari fiumani.Le leggi razziali disponevano, infine, l’al-

lontanamento dall’Italia di tutti gli ebrei stra-nieri entro il 12 marzo 1939; quelli ancora pre-senti sul suolo della Penisola nel maggio del1940 furono internati nel campo di concentra-mento calabrese di Ferramonti di Tarsia.

«Discriminare e non perseguitare» era ilmotto iniziale di Mussolini. Tuttavia, già nelfebbraio del 1940 era stata comunicata uffi-cialmente all’Unione delle Comunità israeliti-che italiane l’intenzione del regime di espellereentro dieci anni tutti gli ebrei (non solo gli ebrei

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stranieri) dall’Italia, anche se lo scoppio dellaguerra rese poi impossibile qualsiasi uscita, e ilprogetto fu accantonato nel corso del 1941.Furono invece emanate disposizioni ammini-strative per l’internamento degli ebrei ritenuti“pericolosi” (maggio-giugno 1940) e per illavoro obbligatorio (maggio 1942).

Secondo Renzo De Felice (Storia degli ebreiitaliani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993) lapolitica del fascismo nei confronti degli ebreisubì una svolta radicale a partire dal 1943, do-po l’8 settembre e la costituzione della Repub-blica Sociale Italiana, che implicò la totalesudditanza del regime mussoliniano rispettoall’alleato nazista. In effetti da quel momentola Milizia fascista fu attivissima nel ricercaregli ebrei per consegnarli alle SS, che li carica-vano su vagoni blindati e li deportavano nelReich (il principale campo di smistamento eraa Fossoli, presso Modena). E certamente dal-l’autunno del 1943 la discriminazione si tra-sformò in aperta persecuzione.

Lo storico Michele Sarfatti imposta però ilproblema diversamente.2 Secondo Sarfatti,occorre retrodatare l’avvio in Italia di una verae propria politica antisemitica e correggerel’idea di un antisemitismo italiano blando e infondo propagandistico, almeno fino alla Re-pubblica di Salò. Egli afferma che fin dal 1936Mussolini aveva deciso di risolvere la questio-ne ebraica dotando l’Italia di una «modernapolitica antiebraica» e che la decisione di pro-mulgare le leggi razziali non fu l’effetto di pres-sioni tedesche, bensì un’azione politica auto-noma, sebbene correlata a fattori qualil’alleanza con la Germania, la conquista del-l’Etiopia, l’esigenza di forgiare il “carattere fa-

scista” degli italiani e di giungere a un “totali-tarismo perfetto”. E fu una decisione attinentepiù alla politica interna che alla politica estera,influenzata dall’ostilità verso le prese di posi-zione critiche degli ebrei contro la guerra im-periale e dalla loro solidarietà nei confronti deicorreligionari perseguitati dai nazisti. Insom-ma, «le leggi avevano una “finalità antiebrai-ca”, non furono un atto strumentale ad altrepolitiche».3

Comunque «l’antisemitismo fascista pre-parò il terreno allo sterminio deciso dallaGermania nazista», come sottolinea LilianaPicciotto Fargion.4 E lo storico Enzo Collotti farilevare che il compito delle SS fu «enorme-mente agevolato dalla preesistenza di stru-menti della individuazione nominativa, dellalocalizzazione, con tanto di indirizzi di resi-denza e di abitazione, degli ebrei italiani e stra-nieri residenti in Italia […], raccolti presso leanagrafi e una serie di altri enti pubblici […].Alla stessa stregua, l’uso dei campi di concen-tramento e delle strutture di reclusione allesti-te dal regime fascista offrì ai tedeschi la possi-bilità di procedere con relativa rapidità alla fa-se preliminare della deportazione.»5 Si potreb-be dire, parafrasando Michele Sarfatti, che lapolitica antiebraica del regime fascista si arti-colò in due distinte fasi, autonome ma nellostesso tempo legate l’una all’altra: quella della«persecuzione dei diritti» (autunno 1938-esta-te 1943), caratterizzata dalla promulgazionedelle leggi razziali, e quella della «persecuzio-ne delle vite» (8 settembre 1943-25 aprile1945), segnata per gli ebrei dagli arresti e dalledeportazioni, o dalla vita in clandestinità edalla partecipazione alla Resistenza.6

2 Numerose sono le pubblicazioni di Michele Sarfatti sulla persecuzione antiebraica in Italia, a partire da “Gli ebrei negli anni del fasci-smo” (pubblicato nel secondo dei due volumi Gli ebrei in Italia, curato da Corrado Vivanti per gli Annali della Storia d’Italia, Torino, Einau-di, 1997), cui sono seguìti, sempre per la Einaudi, i saggi: Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (2000); Le leggi antiebraichespiegate agli italiani di oggi (2002); La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo (2005). Si tratta di opere serie e rigorose, ma al con-tempo sintetiche e di scorrevole lettura, dunque particolarmente adatte al mondo della scuola.3 M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi cit., p. 14 e La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo cit., pp. 77-78.4 L. Picciotto Fargion, Il Libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia. 1943-1945, Milano, Mursia 2002 (edizione aggiornata rispetto aquella del 1991). Il libro cataloga tutte le vittime identificate per nome, dati biografici essenziali, notizie principali sull’arresto e la depor-tazione o l’uccisione in Italia.5 E. Collotti, “Introduzione” a C. Di Sante (cur.), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Milano,FrancoAngeli, 2001, p. 12.6 M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo cit., p. 75.

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Capitolo II62

I perseguitati dalle leggi razziali italiane fu-rono 51.100, di cui 46.656 ebrei e 4.500 nonebrei (41.300 italiani e 9.800 stranieri).7 L’ope-razione più importante ai danni degli ebreiitaliani, se non altro per il numero di vittime(1.023), fu quella del primo rastrellamentocompiuto all’alba del 16 ottobre 1943 nelGhetto di Roma: ce ne dà una stupenda, vivis-sima descrizione Giacomo Debenedetti in16 ottobre 1943 (Milano, OET, 1945; Palermo,Sellerio, 1993).

Tra emigrazioni, fughe, uccisioni, deporta-

zioni, il calo della popolazione ebraica in Italiadal 1938 al 1945 fu del 48%: nel 1945, infatti, i46.656 gli ebrei presenti sul territorio italianonel 1938 si erano ridotti a 26.938.8

Alle vittime identificate vanno aggiunti tut-ti coloro che furono arrestati senza lasciaretraccia o non sono identificabili per nome e co-gnome perché entrati in Italia senza essere sta-ti registrati alle frontiere. Si tratta di almeno al-tre 900-1.000 persone, che portano il totaledelle vittime ad almeno 8.529.9

7 Ibidem, p. 83. Si veda anche Idem, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi cit., p. 22.8 Dati tratti dal sito della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, www.cdec.it. Sul sito si possono trovare i te-sti delle leggi razziali dell’Italia fascista, la statistica generale degli ebrei vittime della Shoah in Italia (tavole riportate dal già citato Librodella memoria di L. Picciotto Fargion), bibliografie e strumenti.9 http://www.cdec.it, visitato nel giugno-ottobre 2006.

Le vittime identificate della Shoah in Italia furono 7.579, come appare dalla seguente tabella.

arrestati e deportati 6.806arrestati e morti in Italia 322 (di essi 42 non furono in realtà arrestati: si suicidarono

o furono uccisi mentre sfuggivano all’arresto o morironoper gravi disagi o privazioni)

arrestati e scampati in Italia 451 (numero indicativo in quanto non è possibile al mo-mento elaborare tabelle complete; si tratta di evasi, di libe-rati o di altri casi)

totale identificati 7.579

Fonte: L. Picciotto Fargion, Il Libro della memoria cit., Tavola 1.

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63Le guide della memoria

2. I luoghi della deportazione

Cenni sulla storia del Lager di AuschwitzLucio Monaco

La storia di Auschwitz si può articolare intre fasi, in cui s’incrociano e si sovrappon-gono gli aspetti che caratterizzano l’istitu-zione concentrazionaria nazista (repressio-ne, sterminio, sfruttamento economico):1940-1941: costruzione e ampliamentodel Lager principale («complesso duraturoche sarebbe dovuto servire per molti anniancora come luogo di detenzione e di an-nientamento degli avversari del Reich»1),delle installazioni agricole e degli stabili-menti industriali a esso collegati;ottobre 1941-autunno 1944: potenzia-mento delle strutture produttive e indu-striali; installazione delle strutture di ster-minio (impiego dell’acido cianidrico; ca-mere a gas; “soluzione finale” a Birkenau);inverno 1944-gennaio 1945: smantel-lamento e abbandono del Lager.

Auschwitz, «il più grande centro di stermi-nio che il mondo abbia mai visto»,2 concentra eriassume in tutta la sua complessità la vicenda– centrale nel Novecento – del totalitarismo na-zifascista e della sua politica di sterminio.

Eccezionale si presenta anzitutto per l’esten-sione: la “zona di interesse” del campo ricopri-va un’area di 40 km quadrati. Venne prevista,fin dai primi progetti (1940), una compresenzadi impianti produttivi di ogni tipo (dall’agricol-tura alla chimica), che sfruttavano la manodo-pera schiavile fornita dal Lager. La quarantinadi sottocampi sorta così fra il 1941 e il 1944 ser-

viva direttamente all’economia della SS (azien-de agricole), ma soprattutto agli apparati pro-duttivi di grandi consorzi tedeschi, di cui i piùnoti sono la IG-Farbenindustrie, gli HermannGöring Werke, la Siemens-Suckert. Si trattavadi attività legate all’industria bellica e ad alcunericerche sperimentali: miniere di carbone, in-dustria chimica, armamenti, edilizia. A partiredall’estate 1941 il territorio di Auschwitz fu in-dividuato anche come località in cui collocarele strutture distruttive necessarie all’attuazionedella “soluzione finale”. Il progetto del sotto-campo “per prigionieri di guerra” di AuschwitzII-Birkenau, risalente all’inizio del 1941, fu tra-sformato in progetto di campo di sterminio im-mediato. L’area interessata era quella diBrzezinka (in tedesco Birkenau), a circa 3 kmdal campo principale. I deportati (prevalente-mente russi e polacchi) lavorarono alla costru-zione del campo fra il marzo del 1941 e il feb-braio del 1942, mentre sorgeva contempora-neamente un altro Lager (detto poi AuschwitzIII) presso lo stabilimento industriale di Buna,nelle vicinanze di Monowice (Monowitz in te-desco), a circa 7 km dal campo principale.

«All’ingegneria della guerra e dello stermi-nio contribuirono non solo gli imprendito-ri e i capitalisti tedeschi, ma anche impresedi vari Paesi, Italia compresa. Nel marzo1942 a Roma i dirigenti della IG-Farbenfirmarono un accordo con un consorzio diimprese edili italiane, il “Gruppo italiano”,per la costruzione degli edifici della nuovafabbrica [cioè Buna]; le imprese fornivanoanche la manodopera. Lo storico BrunelloMantelli ha ricostruito la vicenda e ha ri-trovato pure una copia del contratto, pub-blicato nel 1942 a cura della “Federazionenazionale fascista costruttori edili. Rag-gruppamenti Germania”, con il nome del-le aziende che vinsero l’appalto.»3

1 D. Czech, “Genesi, costruzione e ampliamento del campo”, in Auschwitz. Il campo nazista della morte, Oswiecim, Museo Auschwitz-Birkenau, 1995, p. 26.2 R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, trad. it. di F. Sessi / G. Guastalla, Torino, Einaudi, 1995, 19992, p. 957.3 G. Nebbia, “L’ingegneria dello sterminio”, in T. Bastian, Auschwitz e la menzogna di Auschwitz, trad. it. di E. Grillo, Torino, BollatiBoringhieri, 1995, p. 124; cfr. B. Mantelli, “Il cantiere di Babele”, in Storia e dossier, a. V, n. 44 / ottobre 1990.

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Capitolo II64

Per le uccisioni di massa i dirigenti delLager – in primo luogo il comandante RudolfHöss – sperimentarono una tecnica di gassa-zione diversa da quelle usate nel “Programmadi Eutanasia” (T4) e negli altri centri di stermi-nio immediato. Al monossido di carbonioHöss sostituì l’acido cianidrico (nome com-merciale: Zyklon-B, un potente antiparassita-rio). Gli esperimenti furono condotti nel cam-po principale (Auschwitz I) a partire dall’ago-sto 1941. In settembre, nei sotterranei delBlocco 11, fu eseguita la prima gassazione dimassa: 600 prigionieri di guerra sovietici e 250malati. Venne poi attrezzato un locale presso ilcrematorio: vi furono uccisi centinaia di pri-gionieri di guerra sovietici e, a partire dall’au-tunno 1941, gli ebrei che arrivavano con i pri-mi trasporti destinati allo sterminio. I trasportigiungevano in treno; le vittime venivano av-viate verso il crematorio e portate nelle fintedocce adiacenti. Il basso rendimento del cre-matorio, costruito nel 1940 per scopi più “or-dinari”, portò al trasferimento di queste ope-razioni nel nuovo campo di Birkenau.

Con Birkenau si venne a creare una siste-matica e specifica industria di morte, organiz-

zata in fasi e suddivisioni del lavoro di tipoindustriale: la disposizione dei settori, dellebaracche e degli edifici, la dislocazione deiraccordi ferroviari, le attività e i ritmi dellesquadre di lavoro interne al campo furono resifunzionali al progetto di sterminare principal-mente gli ebrei e gli altri gruppi giudicati “infe-riori” (gli zingari). Nelle camere a gas eranoinviati, all’arrivo, i gruppi destinati alla sop-pressione immediata o gli inabili al lavoro(selezionati in base a criteri variabili, a secondadel momento); a essi si aggiungevano i prigio-nieri deperiti, malati e giudicati inutili nel cor-so delle periodiche “selezioni”. Nell’estate1942 vennero messe in funzione le prime duecamere a gas (Bunker I e II), collocate in edificirurali riadattati. I morti erano sepolti, e piùtardi incinerati, in fosse adiacenti.

L’intensificazione di tale attività distruttivadi massa portò, verso la fine del 1942, a un ul-teriore e più vasto progetto, comprendente, altermine dei lavori, quattro edifici, denominati“Crematorio II, III, IV, V”. I primi due com-prendevano camere a gas sotterranee (Badean-stalten, “bagni-docce”), depositi per i corpi (ca-pacità di 2.000 cadaveri), montacarichi, fornicrematori. I Crematori IV e V avevano le ca-

mere a gas in superficie e pre-sentavano dimensioni più ri-dotte.

Fu perfezionata anchel’organizzazione dei convogliin arrivo. All’inizio, i treniscaricavano i deportati neipressi del campo principale;dall’estate del 1942 i convoglisi fermarono allo scalo mercidi Oswiecim, circa a metàstrada fra Auschwitz I eAuschwitz II: la selezione de-gli inabili al lavoro avvenivasulla banchina d’arrivo. Dalmaggio del 1944 i convoglifurono fatti arrivare diretta-mente a Birkenau: la selezio-ne si teneva sulla banchina, o“rampa”, posta fra il settoreIl

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maschile e quello femminile delcampo. Il sistema dello stermi-nio mediante il gas, già allusiva-mente preannunciato da Hitlernel Mein Kampf, aveva così rag-giunto il suo livello organizzati-vo e tecnologico più elevato. Fral’estate del 1942 e l’estate del1944 furono mandati a mortecentinaia di migliaia di ebreid’Europa e gli zingari del“Campo per famiglie” diBirkenau (settore BIIe), che ave-va imprigionato, fra il febbraioe il luglio 1944, più di 20.000uomini, donne e bambini.

Alla fine del 1943 l’area diAuschwitz presentava il se-guente assetto:

a) il campo principale (campo maschile),con settori per le esecuzioni, l’imprigionamen-to (Bunker), un crematorio (la camera a gasannessa aveva avuto un’utilizzazione limitatadal 1942 alla primavera 1943), settori ammini-strativi e archivi;

b) il campo di Birkenau, diviso in settori: ungrande campo femminile (settori BIa e BIb),due settori maschili, un “ospedale” maschile euno femminile, in cui fra l’altro si svolsero effe-rate sperimentazioni pseudo-mediche e far-macologiche (Clauberg, Mengele) su uomini,donne e bambini, con la complicità di istitutidi ricerca e di aziende farmaceutiche; il “Cam-po per famiglie di zingari”, quello per le fami-glie ebraiche provenienti da Terezín, e l’areadei crematori per lo sterminio immediato.

Comandante del campo, fino al novembre1943, fu l’SS Rudolf Höss, poi sostituito nelmomento in cui Auschwitz venne definitiva-mente suddiviso in tre settori: il “campo prin-cipale” (Stammlager), KL Auschwitz I; il KL Au-schwitz II (Birkenau); il KL Auschwitz III(Monowitz) e i circa quaranta sottocampi, più

o meno lontani dall’area principale.Verso l’autunno-inverno 1944, anche in se-

guito alla grande rivolta dei Sonderkomman-do dei Crematori IV, V e II di Birkenau, chedistrusse completamente il Crematorio IV(7 ottobre), le operazioni di sterminio imme-diato vennero gradatamente sospese e si avviòun progressivo smantellamento del campo,anche in considerazione della vicinanza del-l’esercito sovietico (attestato a 200 km di di-stanza). Furono predisposti piani di evacuazio-ne del campo, con trasferimenti di prigionieriad altri KL. Si dislocò anche la maggior partedel contenuto dei magazzini (proveniente dal-la spoliazione delle vittime all’arrivo); vennerodistrutti in parte gli archivi e si smantellarono icrematori, spostandone le parti utili inGermania e distruggendo le strutture fisse. «IlCrematorio V e le relative camere a gas fun-zionarono al massimo del loro rendimentofino alla seconda metà di gennaio del 1945.»4

L’ultimo tragico capitolo della storia diAuschwitz riguarda il piano di abbandono del

4 A. Strzelecki, “Evacuazione, liquidazione e liberazione del campo”, in Auschwitz. Il campo nazista della morte cit., p. 246.

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Capitolo II66

campo, messo a punto alla fine del 1944 e at-tuato a metà gennaio 1945. Dai campi e daisottocampi, fra il 17 e il 21 gennaio, circa60.000 prigionieri vennero avviati in lunghecolonne appiedate verso alcuni centri ferrovia-ri, costretti a camminare per decine e in qual-che caso centinaia di chilometri. I superstiti fu-rono caricati su vagoni ferroviari scoperti etrasportati verso altri KZ: Sachsenhausen,Bergen Belsen, Buchenwald, Dora, Flossen-bürg, Dachau, Mauthausen… Questi traspor-ti, denominati “marce della morte”, causaro-no migliaia di morti e furono accompagnati daesecuzioni individuali e di massa.

Nel frattempo, ad Auschwitz, le SS distrus-sero i crematori e incendiarono magazzini, ar-chivi, in alcuni casi anche le baracche con iprigionieri incapaci di marciare. Nei tre campi(Auschwitz I, Birkenau, Monowitz) erano co-munque rimasti circa 7.000 prigionieri, libera-ti dai soldati sovietici il 27 gennaio.

Il calcolo dei prigionieri passati perAuschwitz è reso complesso, oltreché dallascomparsa della documentazione, distrutta ingran parte con l’abbandono del Lager, dal du-plice carattere (sterminio immediato e stermi-nio mediante il lavoro) del campo. Il numerodei prigionieri ufficialmente registrati assom-ma a circa 400.000 persone, di cui poco piùdella metà ebrei, e per il resto polacchi(140.000), zingari (21.000), prigionieri di guer-ra sovietici (12.000) e appartenenti a varie na-zionalità. Soggetto a valutazioni anche moltodistanti fra loro è il numero dei non registrati(tutti ovviamente uccisi). Secondo FrantišekPiper, «dei circa 1.300.000 deportati ne so-pravvissero 223.000, i restanti 1.100.000 peri-rono nel campo», e se questo dato è da consi-derare approssimato per difetto, «allo stato at-tuale delle ricerche […] non vi sono elementiper affermare che una tale cifra sia stata supe-riore a 1.500.000 individui».5

Bibliografia. La bibliografia su Auschwitz è va-stissima. Oltre all’ormai classico volume diHermann Langbein, Uomini ad Auschwitz. Storia delpiù famigerato campo di sterminio nazista, trad. it. diD. Ambroset, Milano, Mursia, 1984, si può segnala-re la veloce ma precisa (e spesso innovativa) messa apunto di Sybille Steinbacher, Auschwitz. La città, ilLager, trad. it. di U. Grandini, Torino, Einaudi,2005. Fra numerosi altri testi si possono vedere:i due CD Destinazione Auschwitz (1: “Verso Au-schwitz”; 2: “La fabbrica dello sterminio”), Proedi-CDEC, Milano, 2000;l’edizione italiana del Kalendarium di Danuta Czech(reperibile soltanto su www.deportati.it; è previstaun’edizione a stampa, in traduzione italiana, per il2007): è una minuziosa cronologia di avvenimenti,anno per anno e giorno per giorno, con le indicazio-ni delle fonti, perlopiù archivistiche, da cui sono de-sunte le informazioni;per riflessioni di tipo storiografico, che affrontanoanche il problema del cosiddetto revisionismo: Gio-vanni Gozzini, La strada per Auschwitz. Documenti e in-terpretazioni sullo sterminio nazista, Milano, BrunoMondadori, 1996; Till Bastian, Auschwitz e la menzo-gna su Auschwitz. Sterminio di massa e falsificazionedella storia, trad. it. di E. Grillo, Torino, BollatiBoringhieri, 1996; sul funzionamento della “cate-na” dello sterminio ad Auschwitz e sul rapporto fratecnologia e genocidio: Jean-Claude Pressac,Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, trad.it. di M. Chamia, Milano, Feltrinelli, 1993; per uninquadramento generale dello sterminio del popoloebraico: Shoah. Gli ebrei e la catastrofe, Milano,Electa/Gallimard, 1995, oltre naturalmente al-l’opera fondamentale di Raul Hilberg, La distruzionedegli Ebrei d’Europa, trad. it. di F. Sessi / G. Guastalla,Torino, Einaudi, 1995, 19992 (2 voll.);anche la memorialistica richiederebbe una trat-tazione specifica. Non citiamo ovviamente le noteopere di riferimento di Primo Levi. Ci limitiamo asegnalare: Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo, Mi-lano, Edit, 1946, ora ristampato in ed. anastatica(Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005) e C’è un puntodella terra... Una donna nel Lager di Birkenau, Firenze,Giuntina, 1988 sgg.; Liana Millu, Il fumo di Birkenau,Genova, Locatelli, 1947 e ora Firenze, Giuntina,1986 sgg.; Charlotte Delbo, Un treno senza ritorno,trad. it. di L. Collodi, Casale Monferrato, Piemme,2002; Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di setteLager, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998 sgg. Sipuò avere un panorama più completo al sito già ci-tato www.deportati.it.

5 F. Piper, “Il numero delle vittime del KL Auschwitz”, in ibidem, p. 176.

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67Le guide della memoria

Le deportazioni dall’Italia ad AuschwitzLucio Monaco

Gli italiani deportati ad Auschwitz appar-tenevano, per la quasi totalità, alle comuni-tà ebraiche dell’Italia del Centro-Nord(quindi dopo il settembre 1943, del territo-rio della Repubblica di Salò e della Zonadel Litorale Adriatico). Accanto a essi si de-vono considerare gli ebrei del Dodecaneso(sotto amministrazione italiana fino all’8settembre) e un certo numero di ebrei stra-nieri che avevano trovato rifugio in Italia.Più ristretto invece il numero degli italianifiniti ad Auschwitz in qualità di “politici”(su di loro si possiedono ancora pochi dati).

Deportati appartenenti alle comunitàebraiche italiane ed ebrei stranieriresidenti o rifugiati in Italia

Secondo le ultime ricerche, i convogli parti-ti dall’Italia (territorio della Repubblica di Sa-lò) per Auschwitz furono 11, per un totale dicirca 4.500 deportati, di cui risultarono super-stiti, alla liberazione, poco più di 250 persone.A questi occorre aggiungere gli ebrei stranieririfugiatisi, nel settembre 1943, a Borgo SanDalmazzo (in provincia di Cuneo), poi con-centrati in una caserma e di lì deportati alcampo di transito francese di Drancy e quindiad Auschwitz: 328 persone, 10 superstiti. DalLitorale Adriatico (Adriatisches Küstenland, cioèTrieste e l’Istria, cedute da Mussolini alla SS)furono fatti partire per Auschwitz almeno 20convogli, con 1.117 persone (81 superstiti).Dal Dodecaneso infine furono deportate1.820 persone, con un unico convoglio Atene-Auschwitz (179 superstiti).

Il quadro complessivo che ne risulta è di un

totale di circa 7.500 deportati con 518 super-stiti, pari a poco più del 7%.

A tale cifra vanno naturalmente sommati– per completare il quadro della deportazioneebraica dall’Italia, che costituisce un aspettodella Shoah – i circa 1.000 ebrei deportati dal-l’Italia verso Lager diversi da Auschwitz(Ravensbrück, Flossenbürg, Buchenwald, Ber-gen Belsen). Liliana Picciotto Fargion ha iden-tificato 8.566 nominativi di persone deportate(poco più di 1.000 superstiti alla liberazione). 1

La disaggregazione di questi dati statisticirivela aspetti impressionanti. Più di 100 risul-tano i bambini di età inferiore a un anno, circa500 quelli di età compresa fra due e dieci anni.

Oltre 500 furono gli ultrasettantennideportati.2

Diversamente dagli altri Paesi dell’Europaoccidentale occupati dai nazisti, in Italia nonvi fu alcuna fase preparatoria nell’organizza-zione dei rastrellamenti, dal momento che leleggi razziali del 1938 avevano creato le condi-zioni necessarie all’attuazione dei piani nazi-sti: in particolare, la schedatura degli ebrei, co-stantemente aggiornata dal regime fino al 25luglio 1943, e la presenza di un organismo chepresiedeva, dipendendo dal Ministero dell’In-terno, all’attuazione delle norme antiebraiche,la Direzione generale per la demografia e larazza (Demorazza). «Anche se fra i due regi-mi, fascista e nazista, non vi fu coordinamentoné intenzione di continuità [...] occorre sottoli-neare con forza che l’antisemitismo fascistapreparò il terreno allo sterminio deciso dallaGermania nazista.»3

La prima grande deportazione di ebrei ita-liani si verifica quindi a breve distanza dallanascita della Repubblica di Salò: il 16 ottobre1943 vengono rastrellati a Roma 1.023 ebrei,che giungeranno ad Auschwitz il 22 ottobre.Di essi, 839 saranno immediatamente elimi-

1 L. Picciotto Fargion, Il Libro della memoria cit., pp. 28, 34, anche se, come s’è detto, sul sito della Fondazione Centro di DocumentazioneEbraica Contemporanea (www.cdec.it, visitato nel giugno-ottobre 2006) si trova l’aggiornamento della cifra a 8.529. Cfr. la guida “Leleggi razziali”, p. 62, n. 9.2 Ibidem, pp. 26-33.3 Ibidem, p. 810.

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Capitolo II68

nati nelle camere a gas. Fino a dicembre, le re-tate e gli arresti furono organizzati e gestiti dainazisti, mentre a partire dal 1944 la situazionedivenne più complessa, e s’intrecciarono, nelladinamica dei rastrellamenti e delle deporta-zioni, decisioni e competenze sia italiane siatedesche. Fu creato un campo di transito a Fos-soli di Carpi, presso Modena, dove i prigionie-ri ebrei attendevano il formarsi dei convogliper Auschwitz. Con l’evoluzione del conflitto,il campo fu smantellato (luglio-agosto 1944) ene venne organizzato uno più a Nord, il “cam-po di transito” di Bolzano. Anche di qui parti-rono convogli di ebrei per Auschwitz e taloraper altri Lager (Ravensbrück, Flossenbürg).

Altri trasporti per Auschwitz partirono dal-la Zona del Litorale Adriatico. Gli ebrei eranoconcentrati nel Lager triestino della Risiera diSan Sabba (un vecchio essiccatoio di riso situa-to alla periferia di Trieste), che fungeva ancheda magazzino di raccolta dei beni razziati e daluogo di imprigionamento e assassinio di par-tigiani e antifascisti (nella Risiera fu allestitoun forno crematorio, segno di una elevatamortalità). Dalla Risiera si formavano poi iconvogli per Auschwitz, sovente misti (“politi-ci” ed ebrei).

Deportati “politici” italiani ad Auschwitz

Un esiguo numero di “politici” italiani, an-cora poco conosciuto, risulta immatricolato adAuschwitz, come si è potuto rilevare da quantodetto in precedenza. «Si registrano – scrive Li-liana Picciotto Fargion – da Trieste molti casi dipolitici deportati verso Auschwitz anziché versoi Lager tedeschi loro destinati.»4 Ma Auschwitzpoteva essere raggiunto anche in modo menodiretto. Si segnalano qui, a titolo d’esempio del-la complessità dei percorsi seguìti, due casi:

1. un gruppo di operaie milanesi fu arrestatoin occasione degli scioperi del marzo 1944. Im-prigionate prima a San Vittore, poi in una ca-

serma di Bergamo, il 24 marzo partono per laGermania su un convoglio misto: in un vagonele donne («una settantina» secondo la testimo-nianza di Loredana Bulgarelli5), negli altri gliuomini. Arrivate a Mauthausen le donne sonochiuse nella prigione del campo; non ricevonomatricola, e quindi il loro passaggio non vieneregistrato. Il 25 aprile 1944 sono deportate adAuschwitz, dove ricevono un numero di matri-cola compreso tra le serie 79000 e 81000. Alcu-ne di loro risultano poi trasferite nel Lager diFlossenbürg, e lì nuovamente immatricolate;

2. da Mauthausen, a fine novembre 1944,circa 1.120 deportati (tra loro 165 italiani, di cui23 giunti nel Lager austriaco il 20 marzo 1944)sono spostati ad Auschwitz. Un mese e mezzodopo, i superstiti italiani ritorneranno aMauthausen o saranno evacuati su altri Lager(Buchenwald; solo uno, il saluzzese ArmandoZoccola, sarà liberato dai sovietici adAuschwitz). È un gruppo professionalmentecompatto: meccanici con varia specializzazio-ne, saldatori, elettricisti (anche se non tutti furo-no poi impiegati in modo coerente), che venne-ro mandati ad Auschwitz III per ultimare i lavo-ri di Buna.

Bibliografia. Uno strumento fondamentale di ri-cerca è costituito dallo studio già più volte citato diLiliana Picciotto Fargion, Il Libro della memoria. Al-trettanto rilevante (anche se d’impianto più discorsi-vo) è il volume di Susan Zuccotti, L’Olocausto in Italia,Milano, Mondadori, 1988.Per il tragico capitolo dei bambini deportati si veda“I bambini deportati dall’Italia e dal Dodecaneso”,in Lidia Beccaria Rolfi / Bruno Maida, Un futurospezzato. I nazisti contro i bambini, Firenze, Giuntina,l997, pp. 155 sgg.Sulla storia e la dinamica dei trasporti dall’Italia ver-so i Lager nazisti si veda Italo Tibaldi, Compagni diviaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I “trasporti” dei deporta-ti 1943-1945, Milano, FrancoAngeli, 1994.La vicenda degli ebrei rifugiatisi nel settembre 1943a Borgo S. Dalmazzo è stata ricostruita da AlbertoCavaglion, Nella notte straniera. Gli ebrei di St-Martin-Vésubie, Cuneo, L’Arciere, 1991.

4 Ibidem, p. 867.5 Cfr. M. Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz, Milano, Mursia, 1994, pp. 53-72.

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69Le guide della memoria

Bolzano:il Durchgangslager di Gries (luglio 1944-aprile 1945)Lucio Monaco

L’evoluzione della guerra sul fronte italia-no nell’estate del 1944, con gli angloamericaniin lenta ma progressiva risalita verso Nord,spinse i nazisti a chiudere il campo di transitodi Fossoli (attivo dal gennaio 1944 e riservato adeportati sia politici sia razziali, inviati poi adAuschwitz o in altri Lager come Mauthausen eBuchenwald) e ad aprirne uno più a Nord, vi-cino al Brennero. Fu prescelta Bolzano, dove sitrasferirono, a partire dal 21 luglio 1944, di-versi componenti del nucleo SS che aveva ope-rato a Fossoli: fra loro Karl Thito, Hans Haagee alcuni collaborazionisti ucraini.

La scelta risultò funzionale: il campo diBolzano (per la precisione, Bolzano-Gries,chiamato anche campo “di Via Resia”) rimaseattivo per dieci mesi e smistò complessivamen-te circa diecimila deportati avviandoli ai Lagerin Germania e Polonia. Un certo numero diprigionieri rimase a Bolzano (tra essi LauraConti ed Egidio Meneghetti); qualcuno fu li-berato prima che il campo cessasse di funzio-nare. Alla liberazione, il 3 maggio 1945, eranopresenti 3.500 prigionieri.

Il campo fu poi utilizzato per attività bene-fiche, promosse da don Daniele Longhi, che viera stato imprigionato. Negli anni Sessanta eraancora utilizzato da famiglie senza casa. De-molite le strutture, l’area fu riconvertita a sco-po edilizio. Una lapide-ricordo e un grupposcultoreo, che rappresenta alcuni deportati,sono stati collocati nelle vicinanze di Via Re-sia, presso la Chiesa San Pio X.

Nel campo di Gries (località nelle imme-diate vicinanze di Bolzano) furono rinchiusiuomini, donne e bambini, distinti da triangolidi tela di diversi colori applicati sull’uniformeo sui vestiti: rosso per i politici, rosa per i ra-strellati civili, azzurro per i civili stranieri ne-mici, verde per gli ostaggi altoatesini, giallo

per gli ebrei. Ebrei e zingari vennero schedatisu registri a parte, ma non immatricolati (se-condo le ultime ricerche avrebbero costituitocirca il 10% delle 12.000 presenze nel campo).

Le donne imprigionate o in transito furonocirca un migliaio; si trattava di ostaggi (parentidi partigiani altoatesini), di prigioniere politi-che di passaggio (destinate prevalentemente alLager di Ravensbrück), di ebree italiane e dialtre nazioni europee, quasi tutte avviate adAuschwitz; si segnala anche la presenza di ungruppo di zingare italiane. I bambini (in nu-mero non superiore alla ventina) erano preva-lentemente ebrei e vivevano con le madri nellabaracca femminile.

La detenzione a Gries poteva durare dapochi giorni a molti mesi, dato il suo caratteredi Lager prevalentemente di “transito”(Durchgangslager). A partire dal 2 febbraio 1945,i bombardamenti della linea ferroviaria impe-dirono le deportazioni di gruppi consistenti diprigionieri, che poterono essere avviati in Ger-mania solo con automezzi (circa 30 personeinviate a Dachau). Poté così salvarsi un centi-naio di ebrei italiani, fra cui Giacomo Debene-detti, chazan presso la Sinagoga di Torino, ar-restato mentre si prodigava per i superstiti del-la Comunità, ridotti a vita clandestina.

Le strutture gerarchiche, che potevanocoinvolgere anche i prigionieri (capilavoro, ca-piblocco), erano analoghe a quelle degli altriLager, e così pure l’organizzazione della gior-nata, comprendente operazioni di appellomattutino, squadre di lavoro all’esterno o al-l’interno del campo (mediamente 10 ore lavo-rative), appello serale.

Le squadre di lavoro esterno erano sfrutta-te come manodopera gratuita per lavori pe-santi e pericolosi in città e nei dintorni: produ-zione bellica, rimozione macerie dei bombar-damenti e brillamento mine, lavori agricoli,immagazzinamento beni razziati dai nazisti.Furono anche istituiti alcuni sottocampi (inbaracche, attendamenti, caserme) in varie lo-calità altoatesine: Merano, Certosa di ValSenales, Val Sarentino, Vipiteno, Dobbiaco,Colle Isarco.

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Capitolo II70

Particolarmente dure erano le condizionidei prigionieri giudicati “pericolosi” (blocchiD ed E) o rinchiusi nelle celle, esposti alle vio-lenze continue di due guardie SS ucraine ol-tremodo crudeli, Michael Seifert e Otto Sain.

Nel campo operava anche un comitatoclandestino di resistenza, che aveva contatticon l’esterno e poté agevolare numerosi tenta-tivi di fuga, non sempre riusciti.

Bibliografia. Per una ricostruzione dettagliata sirimanda alla voce di Frediano Sessi nel Dizionariodella Resistenza, a cura di E. Collotti / R. Sandri / F.Sessi, Torino, Einaudi, 2001, vol. II (“Luoghi, for-mazioni, protagonisti”), pp. 404-406.

Il KL Buchenwalda) Breve storia del LagerLucio Monaco

Il KL Buchenwald, situato nella Germaniacentrale, in Turingia, a breve distanza daWeimar, fu aperto il 15 luglio 1937, con il no-me di KL Ettersberg, mutato in KL Buchen-wald (“bosco dei faggi”) alla fine dello stessomese. Un fianco della collina di Ettersbergvenne disboscato dai primi 150 prigionieri, inmaggioranza detenuti comuni, provenientidal KL Sachsenhausen (sorto un anno prima).Altri deportati, in genere “politici”, furonotrasferiti poco dopo dal KL Lichtenburg. I la-vori di costruzione durarono fino al 1939, cul-minando nell’edificazione del crematorio (in-verno 1939-40). L’area recintata da più di trechilometri di filo spinato misurava 40 ettari.

Concepito per una capienza massima di6.000 prigionieri, il Lager ne contava 7.723già nell’estate 1938 (tutti maschi; solo nell’esta-te 1944 affluirono donne deportate). La cate-

goria più numerosa, in quell’epoca, era costi-tuita dai cosiddetti “asociali” (60%), seguìti dai“politici” (20%), dai criminali comuni (14%),dai Bibelforscher (“Testimoni di Geova”, 5%) eda un più ristretto gruppo di “triangoli rosa”(omosessuali).

Un ulteriore afflusso si ebbe con l’An-schluss dell’Austria (1938); da Dachau arriva-rono più di 2.000 ebrei austriaci. Altri ebrei(oltre 9.000) vi furono rinchiusi, ma per unbreve periodo, in seguito alla Kristallnacht (“not-te dei cristalli”, 9-10 novembre 1938).

Con lo scoppio della guerra (settembre1939) il KL Buchenwald accentuò il suo carat-tere di campo di annientamento, ma si trasfor-mò poco dopo anche in luogo di produzionebellica.

Nell’autunno-inverno 1939, mentre la po-polazione del KL toccava le 20.000 unità, fucreata una zona di attendamenti (“campo ten-da”) presso il piazzale dell’appello: deportatipolacchi ed ebrei austriaci vi furono lasciatimorire di fame e di freddo.

Nel settembre 1940 la DAW (un’industriadi proprietà SS)1 installò, ai margini del KL,una zona di produzione; l’esempio fu poi se-guìto dalla Gustloff, altra industria di arma-menti gestita dalla SS.

Per i prigionieri inabili al lavoro in conse-guenza dei maltrattamenti fu praticato, versola fine del 1941, il sistema delle selezioni edell’eliminazione nei “Centri di Eutanasia”istituiti per l’Operazione “T4” (vennero uccisioltre 500 prigionieri, in maggior parte ebrei).

Un’altra eliminazione sistematica fu quelladei prigionieri di guerra sovietici, fucilati inuna zona esterna al campo, tra il 1941 e il1943, dalla squadra SS del Kommando 99(oltre 8.400 vittime, non immatricolate).

All’inizio del 1942 risale l’istituzione di unsettore destinato agli esperimenti medici.

Un apposito settore a Nord dei blocchi ven-

1 Cfr. la guida “Lo sfruttamento economico dei prigionieri”, nota 1, p. 38.

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ne poi ulteriormente recintato e adibito a cam-po di quarantena. In quest’area, chiamata“Piccolo campo” (Kleines Lager), venivano an-che confinati gli inabili per morirvi d’inedia edi mancanza di cure (vi perì fra gli altri il socio-logo francese Maurice Halbwachs).

Il KL subì una crescita esponenziale nel nu-mero dei prigionieri, passando dalle 8-9.000presenze del 1941 e 1942 alle oltre 37.000 deldicembre 1943. Furono progressivamenteaperti oltre cento sottocampi (“Lager dipen-denti”, Nebenlager), di cui alcuni confluirono nelKZ principale di Mittelbau-Dora. Lavoraronoe morirono nei 129 sottocampi e nel complessodi Dora prigionieri di ogni nazionalità: fra gliitaliani, molti rifugiati in Francia, deportati frail 1942 e il 1943; militari italiani, giunti alla finedel 1943; e “politici” italiani soprattutto dallaVenezia Giulia nel 1944. Le prime donne de-portate iniziarono ad affluire nell’estate 1944:costituiranno un terzo delle presenze, su un to-tale, per quell’anno, di oltre 60.000 deportati(solo metà detenuti nel Lager principale).

Il culmine del processo di sovrappopolazio-ne del Lager si ebbe tra le due prime settimanedi gennaio 1945. L’appello del 1° gennaio, in-fatti, registrò 63.189 prigionieri maschi e24.210 femmine; il 15, erano diventati rispetti-vamente 83.906 e 26.650. Su Buchenwald ve-nivano fatti confluire i prigionieri evacuati daiLager orientali; a sua volta ladirezione del KL cercò di al-leggerire questa pressione de-mografica insostenibile contrasporti successivi verso altriLager (Mauthausen, BergenBelsen).

La liberazione del KLBuchenwald è legata alla storiadelle organizzazioni clandesti-ne di Resistenza sviluppate giàa partire dalla fine del 1938,quando i “politici” tedeschi eaustriaci (caratterizzati daltriangolo rosso) prendono ilcontrollo delle posizioni primariservate ai delinquenti comu-

ni (triangolo verde). Quando giunsero depor-tati di altre nazionalità prese forma l’ILK(Internationale Lager Komitee, presieduto dalcomunista tedesco Walter Bartel, luglio 1943)che diede vita nel 1944 all’IMO (Internationa-le Militärische Organisation), che arrivò a rac-cogliere oltre 900 membri, di dodici nazionali-tà. Tale rete organizzativa, in cui confluiva an-che il Comitato italiano di Solidarietà coordi-nato da Fausto Pecorari e da FerdinandoZidar, riuscì a impedire la realizzazione delpiano nazista di evacuazione, di liquidazionedel campo e di uccisioni mirate di prigionieri.L’11 aprile l’IMO guidò la rivolta che portò al-la liberazione del campo prima dell’ingressodell’esercito USA (13 aprile).

Un calcolo approssimato per difetto assom-ma a 240.000 il totale dei deportati a Buchen-wald (Lager centrale e sottocampi); di questirisultano deceduti circa 56.000 prigionieri(con un tasso di mortalità oscillante intorno al25%.

Gli italiani furono una minoranza piccolama attiva: circa 2.500-3.000 persone, di cui,nei giorni della liberazione, 178 erano presentinel Lager centrale. Su 2.471 nominativi sicu-ramente rintracciati, il totale degli italianideceduti è di 995 persone.

Salvo poche eccezioni, la quasi totalità fudeportata dall’area triestina.

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Capitolo II72

b) Aspetti della storia del KL Buchenwald attraverso la memoria dei testimoniMarcella Pepe

Il nome “Buchenwald” fu dato al campoda Heinrich Himmler il 28 luglio 1937. I co-mandanti furono Karl Otto Koch, dal luglio1937 al settembre 1941, e Hermann Pister, dalsettembre 1941 al 1945.

«Si pensava che quello fosse il peggiorecampo di concentramento che potesse esi-stere, perché Buchenwald era immenso[…], un mondo furiosamente eretto con-tro i vivi, tranquillo invece e indifferente difronte alla morte.»2

Al campo si accedeva attraverso un grandeviale asfaltato, fiancheggiato da imponenti co-lonne di pietra sormontate dalle aquile delReich:

«Di qui i Kommando partivano per il lavo-ro, nella luce grigia o dorata dell’alba, op-pure, d’inverno, alla luce dei riflettori, alsuono allegro delle marce suonate dall’or-chestra del campo. […] Partenza in musi-ca, verso il lavoro quotidiano, verso le fab-briche Gustloff, i Deutsche Ausrüstungs-Werke, abbreviato, DAW, la “Mibau”, tut-to quel rosario di fabbriche di guerra intor-no al campo.»3

Il viale terminava con un cancello sul qualecampeggiava la scritta in grandi lettere di ferrobattuto JEDEM DAS SEINE (“A ciascuno il suo”).

All’interno del recinto di Buchenwaldc’erano il “campo grande”, dove alloggiavanoi detenuti dopo l’immatricolazione; e il “Pic-colo campo” o campo di quarantena o “cam-po tenda”, costruito nel 1939 per ospitare i

prigionieri provenienti dalla Polonia. Inoltrec’erano il complesso degli edifici dell’ammini-strazione, le baracche delle SS, le fabbriche delcampo e il camino del forno crematorio, dalquale usciva in permanenza il fumo nero deicadaveri bruciati. Al centro, l’immenso rettan-golo della piazza dell’appello e, intorno, il filospinato percorso da corrente elettrica ad altatensione.

All’esterno del campo c’erano le baracche,dette “villette”, degli “ospiti speciali”, tra cuil’ex Presidente del Consiglio francese LéonBlum e la Principessa Mafalda di Savoia.

Oggi la struttura del campo è pressochéintatta. Sono ancora visibili il perimetro di filospinato, gli uffici del comando, la piazza del-l’appello. Le aree dove sorgevano le baracche(distrutte nel dopoguerra per motivi igienici)sono indicate da varie superfici di pietrisco. Unmuseo illustra la vita del campo e i suoi orrori.

L’evacuazione e la liberazioneNegli ultimi mesi di guerra Buchenwald

era sovraffollato a causa dei trasporti prove-nienti da altri campi, ma ormai il cerchio in-torno alla Germania si stringeva sempre più eil 5 aprile 1945, di fronte all’incalzare delletruppe alleate, le SS cominciarono a evacuareil campo principale e i campi satelliti.

Dei 28.250 prigionieri evacuati dal campoprincipale, circa 13.500 furono uccisi o mori-rono di stenti e di fatica nel corso dell’evacua-zione. Il numero complessivo di prigionieri diBuchenwald e dei campi satelliti che furonovittime dell’evacuazione è stimato in 25.500.Ma i nazisti non riuscirono a completare l’ope-razione perché i membri della Resistenza clan-destina, sabotando gli ordini delle SS, ne ral-lentarono lo svolgimento. E l’11 aprile 1945,mentre molti uomini della SS si davano alla fu-ga, ordinarono l’insurrezione e presero il con-trollo del campo senza attendere l’arrivo del-l’esercito americano, liberando 21.000 prigio-

2 R. Antelme, La specie umana, trad. it. di G. Vittorini, Torino, Einaudi, 1969, 19972, p. 15.3 J. Semprún, Il grande viaggio, trad. it. di G. Zannino Angiolillo, Torino, Einaudi, pp. 152, 218.

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nieri, tra cui 4.000 ebrei inclusi circa 1.000bambini. Gli anglomericani arrivarono il 13aprile 1945.

La ResistenzaGruppi di prigionieri organizzati erano

presenti a Buchenwald fin dai primi anni dellasua esistenza: ne facevano parte militanti e di-rigenti del Partito Comunista tedesco. All’ini-zio, il loro scopo fu quello di collocare i loromembri in posti strategici per rendersi utili aglialtri detenuti e aiutare i più deboli; infatti, sinoalla fine del 1938, l’amministrazione internadi Buchenwald era per la maggior parte in ma-no ai prigionieri “criminali”, contrassegnatidal triangolo verde, il cui potere si esprimevasoprattutto in delazioni e in violenze nei con-fronti dei prigionieri a loro affidati. Quando siscoprì che i “triangoli verdi”, insieme ad alcu-ne SS, erano coinvolti in episodi di corruzionee in furti, l’amministrazione del campo provvi-de a rimuovere molti di loro dai posti che occu-pavano e gradualmente i “politici”, i “triango-li rossi”, li sostituirono. Qualche cellula diResistenza si preoccupò altresì di collocare al-cuni dei suoi componenti in posizioni-chiaveal fine di facilitare l’attività clandestina.

Più tardi, dopo l’inizio della guerra e l’af-fluenza a Buchenwald di prigionieri politiciprovenienti dai Paesi occupati, si formaronopiù gruppi di Resistenza sulla base della nazio-nalità. E a partire dall’estate del 1942 si costi-tuì un Comitato Clandestino Internazionaleche riuscì addirittura a creare una propria or-ganizzazione militare: grazie al coraggiosocontributo di deportati che lavoravano nelleofficine e nelle fabbriche per la produzionebellica situate nei dintorni del campo, fupossibile compiere azioni di sabotaggio e tra-fugare parti di armi, riassemblate poi di nasco-sto in attesa dell’occasione per usarle. L’occa-sione si presentò nei primi giorni dell’aprile1945, quando i tedeschi decisero l’evacuazio-ne di Buchenwald: l’11 aprile il Comitato Clan-

destino Internazionale si mise in contatto conle truppe americane, tramite un’emittente co-struita in segreto per chiedere aiuto, e nellostesso tempo ordinò l’insurrezione generale.Quando, il 13 aprile, gli Alleati giunsero aBuchenwald, il campo era già stato liberatodagli stessi deportati ed era diretto dal Comi-tato Clandestino Internazionale.

Leggiamo le testimonianze di Pio Bigo e diElie Wiesel sugli avvenimenti del giorno dellaliberazione.

«Il giorno 11 aprile eravamo tutti nel cam-po, chi in baracca, chi nel via vai delle stra-dine del Lager. Il rumore delle cannonateera molto forte, a pochi chilometri. Versole ore 10,30 – lo ricordo come fosse ora – lesirene suonarono l’allarme, mentre dueapparecchi sorvolavano il campo a bassaquota. Io e altri compagni che eravamofuori, storditi dalle sirene, guardammo gliaerei, credendo che fossero i tedeschi venu-ti per distruggere noi e il Lager. Dopo unistante i velivoli ritornano per un secondogiro: noi li guardiamo e vediamo sui fian-chi la stella bianca. In molti avevamo capi-to quel simbolo, ci siamo messi a gridare“Sono loro, gli americani!” Fecero diversigiri a bassa quota quasi sfiorando le garittedi guardia delle SS. L’11 aprile 1945, diprimo mattino, il comandante del campoaveva ricevuto una telefonata dal comandoSS di Weimar (che dista nove chilometri daBuchenwald) con l’ordine di sterminare iprigionieri e di bruciare tutto. Il prigionie-ro spagnolo che era addetto come scriva-no, conoscendo perfettamente il tedesco, ein contatto con l’organizzazione segretadel comitato di liberazione, avvisò subito iresponsabili. Poco dopo partì l’insurrezio-ne dei prigionieri, a cui partecipai conPrato e Fioris. Nel pomeriggio i compo-nenti del Comitato ci riferirono tutto quel-lo che ho appena spiegato.»4

4 P. Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette Lager, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, p. 119.

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Capitolo II74

«Alle dieci del mattino le SS si sparpaglia-rono per il campo e si misero a spingere leultime vittime verso il piazzale dell’appel-lo. Il movimento di resistenza decise alloradi entrare in azione. Uomini armati sorse-ro all’improvviso un po’ dappertutto. Raf-fiche, scoppi di bombe a mano. Noi ragaz-zi restammo sdraiati per terra nel blocco.La battaglia non durò a lungo. Verso mez-zogiorno tutto era ritornato calmo; le SSerano fuggite e i resistenti avevano preso ladirezione del campo. Verso le sei del po-meriggio il primo carro armato americanosi presentò alle porte di Buchenwald.»5

Esperimenti medici e crudeltàAnche a Buchenwald, come in altri Lager,

c’era una baracca, il Block 50, dove i medicinazisti facevano esperimenti su cavie umane(inoculazione di tifo petecchiale, di colera, didifterite, di sostanze venefiche, di plasma san-guigno non fresco).

Il nome di Ilse Koch è tristemente famosotra quelli dei tedeschi che hanno commessoatrocità. Ilse Koch era la moglie del coman-dante del campo di Buchenwald. Dopo laguerra subì due processi, uno davanti a unacorte internazionale e uno nel suo Paese, in cuifu accusata di crudeltà ai danni dei deportati,incluso l’assassinio, ma ciò per cui tutti la ri-cordano è la sua passione per gli ornamenti inpelle umana, in particolare per i paralumi.

Lasciamo la parola ai testimoni.

«Il socialista Bonino […] ci riferì una cosache mi è rimasta impressa a distanza di an-ni ed è sempre presente in me come un ri-cordo allucinante: Ilse Koch, moglie delcomandante SS del campo, amava gli abat-jour costruiti con la pelle umana dei prigio-nieri che portavano bei tatuaggi sul corpo.La pelle veniva recuperata dai cadaveri nei

crematori; quando gli addetti si accorgeva-no di un bel tatuaggio, avvisavano gliesperti, che provvedevano alla concia perricavarne paralumi. Anche le teste dei pri-gionieri che sembravano interessanti veni-vano vuotate e imbalsamate […]. In certeoccasioni, se i prigionieri con i tatuaggierano vivi, venivano immediatamente uc-cisi, per poi inviare la pelle alla concia.»6

«Quegli occhi chiari di Ilse Koch posati sulpetto nudo, sulle braccia nude del deporta-to che si era scelto come amante, qualcheora prima, mentre il suo sguardo già rita-gliava la pelle bianca e malsana secondo ilpunteggiamento del tatuaggio che l’avevaattirata, mentre il suo sguardo già immagi-nava il bell’effetto di quelle linee azzurra-stre, di quei fiori o quei velieri, quei serpen-ti, quelle alghe marine, quelle lunghe capi-gliature femminili, quelle rose dei venti,quelle onde marine, e quei velieri, di nuovoquei velieri distesi come gabbiani squitten-ti, il loro bell’effetto sulla pelle pergamena-ta, cui qualche trattamento chimico davauna tinta d’avorio, dei paralumi che scher-mavano tutte le lampade del suo salotto,dove, a sera, proprio lì dove aveva fatto en-trare, sorridente, il deportato scelto comestrumento di piacere, duplice strumento,nell’atto stesso del piacere, prima, e poi peril piacere ben più durevole della sua pellepergamenata, trattata a dovere, d’avorio,zebrata dalle linee azzurrastre del tatuag-gio che dava al paralume un tono incon-fondibile, proprio lì, sdraiata su un divano,radunava gli ufficiali delle Waffen-SS, in-torno a suo marito, comandante del cam-po, per ascoltare uno di loro che suonava alpiano qualche romanza, oppure un veropezzo per pianoforte, qualcosa di serio, unconcerto di Beethoven, chissà…»7

5 E. Wiesel, La notte, trad. it. di D. Vogelmann, Firenze, Giuntina, 1980, pp. 111-112.6 P. Bigo, op. cit., p. 113.7 J. Semprún, op. cit., p. 140.

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Gli ebrei a BuchenwaldI primi ebrei tedeschi arrivarono a Buchen-

wald nella primavera del 1938; a loro si ag-giunsero, il 23 settembre 1938, gli ebrei prove-nienti dall’Austria e i 10.000 arrestati dopo lanotte dei cristalli (9-10 novembre 1938). Il trat-tamento riservato agli ebrei fu, anche in que-sta prima fase, particolarmente crudele: lavo-ravano 14-15 ore al giorno, generalmente nel-la cava di Buchenwald, e vivevano in condizio-ni molto dure. Tuttavia, l’obiettivo iniziale deinazisti non era sterminarli, ma costringerli aemigrare dalla Germania. Così, nell’inverno1938-39, furono rimessi in libertà 9.370 ebrei,anche se morirono ben 600 prigionieri dellanotte dei cristalli.

Dopo lo scoppio della guerra il numero deideportati ebrei nel campo salì di nuovo: già nelsettembre 1939 erano circa 2.700. Poi, in se-guito all’ordinanza emessa il 17 ottobre 1942che prevedeva il trasferimento ad Auschwitz ditutti gli ebrei detenuti nel Reich, gli ebrei diBuchenwald – tranne 204 lavoratori ritenutiessenziali – furono mandati in quel Lager. Solonel 1944 giunsero a Buchenwald trasporti diebrei ungheresi provenienti da Auschwitz e,dopo una breve permanenza nel campo prin-cipale, la maggior parte di loro fu distribuita invari campi satelliti e adibita alla produzione diarmi. A cominciare però dal 18 gennaio 1945,quando Auschwitz e gli altri campi dell’Est fu-rono evacuati, affluirono a Buchenwald mi-gliaia di prigionieri ebrei, sopravvissuti a unaestenuante “marcia della morte” nella neve,durata diversi giorni e compiuta in parte a pie-di in parte in carri bestiame. Fra gli evacuatic’erano parecchie centinaia di bambini, chevennero alloggiati nel Block 66, eretto apposi-tamente per loro nel “Piccolo campo”.

Leggiamo una pagina particolarmente toc-cante di Jorge Semprún sull’atroce morte di al-cuni bambini ebrei.

«Era l’ultimo inverno di quella guerra,l’inverno più freddo di quella guerra la cuiconclusione è stata decisa dal freddo e dal-

la neve. I tedeschi erano investiti da unagrande offensiva sovietica che si rovesciavaattraverso la Polonia, e facevano evacuare,quando ne avevano il tempo, i deportatiche avevano radunato nei campi polacchi.[…] Un giorno, in uno di quei vagoni incui c’erano alcuni sopravvissuti, quandohanno spostato il mucchio di cadaveri ge-lati, spesso incollati gli uni agli altri per viadei vestiti gelati e rigidi, hanno scopertotutto un gruppo di bambini ebrei, […] cir-ca una quindicina, che si guardavano in-torno con aria stupita, che guardavano icadaveri ammucchiati come sul ciglio dellestrade sono ammucchiati a volte i tronchid’alberi già privi di corteccia, che aspetta-vano di esser trasportati altrove, che guar-davano gli alberi e la neve sugli alberi, cheguardavano come guardano i bambini. Ele SS, dapprima, sono parse seccate, comese non sapessero che farsene di quei bam-bini dagli otto ai dodici anni, su per giù,benché alcuni, per l’estrema magrezza,per l’espressione dello sguardo, sembrasse-ro dei vecchi; […] li hanno radunati in unangolo, forse per avere il tempo di chiedereistruzioni, mentre scortavano sul grandeviale le poche decine di adulti sopravvissu-ti di quel convoglio. […] Comunque, sonotornati in forze, con dei cani, e ridevanorumorosamente, gridavano spiritosagginiche li facevano ridere a più non posso. Sisono disposti ad arco ed hanno spinto da-vanti a sé, sul grande viale, quella quindici-na di bambini ebrei. Mi ricordo, i ragazzi-ni si guardavano intorno, guardavano leSS, all’inizio devono aver creduto che liscortassero semplicemente verso il campo,come poco prima avevano visto fare congli adulti. Ma le SS hanno mollato i cani ehanno incominciato a picchiare i bambinicon le mazze, per farli correre, per metterein moto quella caccia spietata sul grandeviale, quella caccia inventata da loro, o cheera stato ordinato loro di organizzare, e ibambini ebrei, sotto i colpi dei randelli, ti-rati e malmenati dai cani che saltavano in-

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torno a loro, che li mordevano alle gambe,senza abbaiare, senza mugolare, erano ca-ni addestrati, i bambini ebrei si sono messia correre sul grande viale, verso la portadel campo. Forse in quel momento nonavevano ancora capito che cosa li attende-va, forse avevano pensato che era soloun’ultima angheria, prima di farli entrareal campo. E i bambini correvano, con i lo-ro grandi berretti con lunghe visiere, infi-lati fino alle orecchie, e le loro gambe simuovevano goffamente, a scatti e lenta-mente nello stesso tempo, come al cinemaquando proiettano un vecchio film muto,come negli incubi quando si corre con tut-te le proprie forze senza riuscire ad avan-zare di un passo, e la cosa che vi insegue viraggiungerà, vi raggiunge e voi vi svegliatecol sudor freddo, e la cosa, la muta di canie di SS che correva dietro ai bambini ebrei,ebbe presto inghiottito i più deboli, quelliche avevano solo otto anni, forse, quelliche presto non ebbero più la forza di muo-versi, che erano rovesciati, calpestati, ran-dellati per terra, e che restavano distesilungo il viale, segnando coi loro corpi ma-gri, scomposti, la progressione di quellacaccia, di quella muta che si rovesciava lo-ro addosso. E presto non ne rimasero chedue, uno grande e uno piccolo, che aveva-no perso i berretti nella corsa disperata, e iloro occhi brillavano come scoppi di ghiac-cio nei visi grigi, e il più piccolo comincia-va a perdere terreno, le SS urlavano dietrodi loro, e anche i cani hanno cominciato aurlare, l’odore del sangue li faceva impaz-zire, e allora il più grande dei bambini harallentato la corsa per prendere la manodel più piccolo, che già inciampava, e han-no fatto ancora qualche metro, insieme, ilmaggiore che con la destra stringeva la si-nistra del più piccolo, diritto davanti a lo-ro, fino al momento in cui i randelli li han-

no abbattuti, insieme, con la faccia controla terra, le mani strette per sempre. Le SShanno radunato i cani, che ringhiavano, ehanno rifatto la strada in senso inverso,sparando a bruciapelo alla testa di ognunodei bambini caduti nel grande viale, sottolo sguardo vuoto delle aquile hitleriane.»8

Elie Wiesel, che all’epoca della sua deten-zione a Buchenwald aveva quindici anni, rac-conta ne La notte la storia della sua deportazio-ne dalla piccola città di Sighet, in Transilvania,ad Auschwitz e Buchenwald. Così descrivel’arrivo del suo convoglio a Buchenwald:

«Era notte fonda. Dei guardiani vennero ascaricarci. I morti furono abbandonati neivagoni. Soltanto coloro che potevano an-cora tenersi sulle gambe furono fatti scen-dere. […] L’ultimo giorno era stato il piùmicidiale: eravamo saliti in cento in quelvagone e scendemmo in dodici, fra cui io emio padre. Eravamo arrivati a Buchen-wald. Sulla porta del campo alcuni ufficia-li delle SS ci aspettavano. Ci contarono, epoi fummo condotti verso il piazzale del-l’appello. Gli ordini venivano dati dagli al-toparlanti: “In file di cinque. In gruppi dicento. Cinque passi avanti.”. Io stringevoforte la mano di mio padre. Il vecchio e fa-miliare timore: non perderlo. Accanto anoi si alzava l’alto camino del forno cre-matorio, ma non c’impressionava più; eramolto se attirava la nostra attenzione.»9

Bibliografia (a cura di Lucio Monaco)Un quadro d’insieme della storia di Buchenwald sipuò ricavare dal resoconto analitico di A. Berti,Viaggio nel pianeta nazista. Trieste-Buchenwald-Langenstein, Milano, FrancoAngeli, 1989, pp. 61-92.Le memorie europee di superstiti di Buchenwaldannoverano alcuni dei libri di deportazione più notiper la qualità e la complessità dell’elaborazione let-

8 Ibidem, pp. 154-157.9 E. Wiesel, op. cit., pp. 101-102.

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teraria, ma anche i primi saggi, stesi sempre da su-perstiti, che indagano la struttura e i meccanismi to-talitari dell’universo concentrazionario. Proprioquesto è infatti il titolo del breve scritto di DavidRousset, L’univers concentrationnaire, Paris, Editions DeMinuit, 1946; L’universo concentrazionario, trad. it. diL. Lamberti, Milano, Baldini & Castoldi, 1997. A Buchenwald, per incarico della PsychologicalWarfare Division, aggregata alle truppe americane,un ex prigioniero austriaco, Eugen Kogon, stese unrapporto di un centinaio di fogli dattiloscritti ac-compagnato da oltre cento testimonianze dirette disuperstiti. Da tale materiale scaturì l’opera diEugen Kogon, Der SS-Staat. Das System der deutschenKonzentrationslager, München, Alber, 1946 / Düssel-dorf, Schwann, 1946, ampliata negli anni successivi(l’ultima edizione è del 1974, pubblicata dalla casaeditrice Kindler di Monaco) e tradotta in francese (siveda L’Etat SS, Paris, Seuil, 1970). L’importanza diquesto studio, che coordina l’esperienza diretta del-l’autore con molte informazioni sull’intero sistema,è notevole. Fra i testi che rielaborano la testimonian-za utilizzando gli strumenti della letteratura si se-gnalano: R. Antelme, La specie umana, trad. it. di G.Vittorini, Torino, Einaudi, 1969, 19972, uscito nel1947, che rievoca soprattutto l’esperienza dell’auto-re nel sottocampo di Gandersheim; D. Rousset, Lesjours de notre mort, Paris, Hachette, 1993, complessoromanzo a base autobiografica che illustra con effi-cacia i problemi politici ed etici del progetto di orga-nizzazione di un movimento clandestino di resisten-za all’interno del Lager; J. Semprún, Il grande viaggio,trad. it. di G. Zannino Angiolillo, Torino, Einaudi,1964, 19902, narrazione autobiografica di eccezio-nale valore letterario in cui, assumendo come luogofondamentale il vagone piombato che lo trasportòdalla Francia a Buchenwald, l’autore ricostruisce,con flash-back e flash-forward, la propria vicenda diesilio, resistenza e deportazione; E. Wiechert, La sel-va dei morti. Una cronaca, trad. it. di L. Mazzucchetti,Verona, Mondadori (“Arianna”), 1947, un volumet-to di notevole qualità narrativa, in cui la testimo-nianza di una pur breve prigionia nel campo rag-giunge la tensione etica di certe pagine di PrimoLevi. Tra i libri di testimoni che arrivarono aBuchenwald in seguito all’evacuazione di Auschwitzdopo la massacrante “marcia della morte”, ricor-diamo E. Wiesel, La notte, trad. it. di D. Vogelmann,Firenze, Giuntina, 1980, e P. Bigo, Il triangolo diGliwice. Memoria di sette Lager, Alessandria, Edizionidell’Orso, 1998. Nell’ambito della memorialisticaitaliana, citiamo almeno: Antonino Garufi, Diario diun deportato. Da Dachau a Buchenwald comando Ohrdruf,Palermo, Gelka, 1990; Gianni Longhetto, 43936.Buchenwald gli altri e io, Verona, s. n., [1980?], conuna lunga testimonianza sul “Piccolo campo”; Fau-sto Pecorari, Vita e morte, a Buchenwald, di S. A. R. la prin-cipessa reale Mafalda di Savoia-Hessen, s.l., s. n. (ma Ro-ma, Salomone, [1945?]), breve opuscoletto di 14 pp.

Il campo di concentramento di Dachau (1933-1945)Lucio Monaco

L’apertura del Lager di Dachau (22 marzo1933) fu annunciata da Heinrich Himmler (ca-po della polizia politica bavarese oltrechéReichsführer della SS) in una conferenzastampa tenuta il giorno prima. Definito “il pri-mo campo di concentramento” (das erste Kon-zentrationslager), il campo aveva una capienzaprevista di 5.000 prigionieri; la sorveglianzaera affidata alle SS. Ai primi “politici” (in mag-gioranza comunisti e socialdemocratici tede-schi) si aggiunsero ben presto le altre categorie(“asociali”, “immigrati”, ebrei, ecc.). Già unmese dopo, la magistratura della vicina città diMonaco cercò di far luce sui primi assassinii:Himmler allora escluse la polizia bavarese dalcontrollo del campo e nominò comandantel’SS Theodor Eicke, che fece di Dachau un ve-ro e proprio laboratorio di sperimentazionedel sistema dei KL. Il regolamento di Eicke etutto l’insieme di norme, scritte o meno, perl’eliminazione e la punizione dei prigionieri, elo sfruttamento del lavoro (a vantaggio anzi-tutto delle imprese di proprietà SS), costituiro-no il modello di base per tutti gli altri Lager.Non a caso a Dachau ebbe sede la scuola diaddestramento per il personale SS di custodiada impiegare nei KL.

Tra il 1937 e il 1938 il campo fu completa-mente ristrutturato e assunse l’aspetto che inparte conserva ancora oggi: un rettangolo dicirca 600 metri per 300, in cui si entrava da uningresso con la scritta ARBEIT MACHT FREI (“Illavoro rende liberi”). Da un lato si accedeva auna grande costruzione riservata ai servizi eall’amministrazione del campo; essa si affac-ciava sull’Appellplatz, della capienza di circa40.000 persone. Di fronte, in direzione Nord,si apriva una strada (Lagerstrasse) lunga circa300 metri, bordata di pioppi, ai cui lati eranodisposte una trentina di “baracche” (Blöcke),indicate con lettere dell’alfabeto e con nume-razione da 1 a 30. Misuravano 90 m x 10 ed

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erano previste per 200 persone ciascuna. Inrealtà questo numero fu ampiamente supera-to, con condizioni di sovraffollamento e di ma-lattie tali che dopo la liberazione tutte questecostruzioni vennero bruciate (oggi sono con-servati solo i perimetri delle fondamenta).

Per far fronte all’innalzarsi del tasso di mor-talità, si predisposero impianti di cremazione:dapprima un solo forno crematorio (installatonel 1939), poi un complesso di quattro forniognuno della capienza di più corpi (fino a 8).In questi locali avvenivano anche esecuzioniper impiccagione.

Soltanto nel 1942 fu progettata e costruitauna camera a gas, camuffata da doccia, cheperò non entrò mai in funzione, salvo una pro-va di collaudo con alcune vittime. Per le elimi-nazioni di massa, specialmente degli inabili edei malati, si usò il Castello di Hartheim, chedisponeva di una camera a gas.

La funzione punitiva del campo, caratte-rizzata da regole spietate (punizioni corporali,mancanza di cibo, “palo”, impiccagioni e fuci-lazioni, celle di rigore nel Bunker) e da esecu-zioni individuali e di massa, fu affiancata findall’inizio dal sistema di sfruttamento dellaforza lavoro costituita dai prigionieri. Anchein questo, Dachau funzionò da modello (tantopiù che Eicke nel 1934 diventò ispettore gene-rale dei KL). Alcuni detenuti erano impegnatinelle attività necessarie al funzionamento e al-la manutenzione del campo; altri furono tra-sferiti nelle fabbriche di proprietà SS (la primafu l’industria ceramica di Allach, dove sorse unsottocampo) e, con la progressione del conflit-to, furono sempre più sfruttati nella produzio-ne bellica (BMW, Krauss-Maffei, Messer-schmitt), nei “sottocampi” esterni (Kommandos).Alla fine del conflitto i sottocampi risultavanoalmeno 165, dislocati in Baviera, nelWürttenberg e anche in area austriaca. I piùimportanti, oltre ad Allach, erano quelli diAugsburg (costruzioni aeronautiche), di Kau-fering, di Mühldorf, di Monaco-Riem e diBurgau (Messerschmitt), con migliaia di pri-gionieri. Al momento della liberazione, su untotale di circa 67.000 prigionieri presenti nel

“sistema Dachau”, più della metà (35.000) sitrovava nei Kommando esterni.

Il campo fu la sede di numerosi esperimentimedici e pseudomedici, con la complicità delleindustrie farmaceutiche; migliaia di deportatifurono vittime di queste pratiche crudeli espesso inutili (esperimenti sulla malaria, sullasopravvivenza ad alta quota e a basse tempera-ture, sulla cancrena).

Dachau funzionò anche da campo di tran-sito (sia per Auschwitz sia per altri KL) e daluogo di custodia per prigionieri “speciali”(politici di rilievo dei Paesi occupati, come ilcancelliere austriaco Schuschnigg o l’italianoSante Garibaldi). I prigionieri in transito (spe-cialmente ebrei e zingari) non sempre eranoregistrati.

Con l’avanzata degli eserciti alleati,Dachau divenne (insieme a Bergen Belsen eMauthausen) uno dei punti d’arrivo delle mar-ce di evacuazione dai Lager abbandonati osmobilitati dai nazisti: le cosiddette “marcedella morte”. Un esempio: dei 5.000 evacuatida Buchenwald il 9 aprile 1945 ne arrivaronoa Dachau – il 28 aprile – 1.600; gli altri mori-rono nel tragitto.

A loro volta, in aprile, le SS cercarono disvuotare il campo inviando migliaia di prigio-nieri a Sud o verso Mauthausen; un convogliodi centinaia di ebrei fu abbandonato sulla lineaferroviaria con i portelli dei vagoni bloccati, esi lasciarono morire di fame e sete i prigionieri.Il piano di abbandono del Lager non ebbe suc-cesso anche per una serie di interventi dei pri-gionieri, organizzati in un comitato interna-zionale: essi riuscirono ad avvertire l’esercitoamericano accelerandone l’avanzata, e fu or-ganizzata un’azione armata nella stessaDachau, in cui si sacrificarono deportati au-striaci e tedeschi. Le SS abbandonarono ilLager il 27 aprile; la prima jeep americana vientrò due giorni dopo. Nel campo principale sitrovavano 32.000 prigionieri: più di 3.000 mo-rirono nei giorni successivi.

A partire dalla fine del 1940, in seguito adaccordi con la Santa Sede, tutti i preti cattolicierano stati concentrati a Dachau (Block 26 e

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Block 28: il secondo era riservato ai sacerdotipolacchi; nel primo fu costruita anche unacappella). Nel campo vennero complessiva-mente imprigionati circa 2.700 religiosi (preticattolici, pastori protestanti, ortodossi) di cui700 morirono. Non tutti i preti cattolici venne-ro portati o trasferiti a Dachau. Ad esempio,per quanto riguarda i religiosi italiani, 32 (suun totale di 50) sono direttamente deportati, otrasferiti entro l’estate 1944, a Dachau (ne so-pravvivranno 27); i rimanenti, imprigionati inaltri Lager, vi rimarranno fino alla morte o allaliberazione (7 superstiti al maggio 1945). I reli-giosi di tutta Europa deportati nei Lager nazi-sti sono calcolati in numero di circa 5.000.

I rabbini furono tutti inviati ad Auschwitz onegli altri campi di eliminazione immediata(nessun sopravvissuto fra i 16 rabbini e chaza-nim deportati dall’Italia).

I primi italiani giunsero a Dachau nel set-tembre 1943: si trattava di detenuti del peni-tenziario militare di Peschiera. Una trentina ditrasporti, perlopiù da Trieste, si susseguironofino al marzo del 1945: in prevalenza antifasci-sti, partigiani e rastrellati. Alla liberazione delcampo, gli italiani presenti erano 3.388 (su32.000 prigionieri): poco più della metà diquanti, allo stato attuale dei conti, vi erano sta-ti deportati (5.000).

Si calcola che passaronosicuramente da Dachaupiù di 200.000 persone,con una mortalità di circail 30%.

Bibliografia. Per un ap-profondimento della storiadel Lager di Dachau si ri-manda alla voce di Fredia-no Sessi, “Dachau”, inE. Collotti / R. Sandri /F. Sessi (curr.), Dizionariodella Resistenza, Torino,Einaudi, 2001, vol. II(“Luoghi, formazioni, pro-tagonisti”), pp. 451-454.

Ebensee, Kommando di MauthausenItalo Tibaldi

A 100 km da Mauthausen, campo princi-pale, Ebensee è un grazioso villaggio austriacosituato a Sud del Lago Traunsee. A Nord dellago si trova la città turistica di Gmunden, vici-no all’autostrada Salisburgo-Linz. Il piccolovillaggio di Ebensee ha il suo porticciolo ed ècircondato da grandi massicci montuosi fra cuil’Höllen Gebirge (1.862 m) e la stazione sciisti-ca di Feuerkogel. Nell’insieme un piccolo pa-radiso per le vacanze e il riposo.

Ed è in questo quadro incantato che, nel-l’inverno 1943-44, fu creato il campo di Eben-see, Kommando di Mauthausen.

Il campo funzionò, durante circa diciasset-te mesi, per la costruzione di officine sotterra-nee finalizzate alla creazione di benzina sinte-tica e alla produzione di missili. S’iniziarono14 tunnel, divisi in due gruppi di 7. Il lavoroera dei più difficili: ventiquattro ore su venti-quattro le squadre di uomini lavoravano allaloro perforazione. L’urgenza per l’entrata infunzione delle officine e la crescita della mor-

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talità con la conseguente sostituzione continuadegli uomini deceduti a causa del lavoro, deicolpi, del freddo, della fame e dei trattamentisubiti nel campo hanno inevitabilmente deter-minato l’aumento progressivo delle dimensio-ni del Kommando.

Il campo entrò in funzione il 24 novembre1943 con il primo convoglio di 400 detenuti ecessò le sue funeste attività il 6 maggio 1945,data della liberazione, presente, a quel mo-mento, un effettivo di 16.650 uomini. PerEbensee passarono approssimativamente da25 a 30.000 prigionieri.

Il numero ufficiale dei decessi registrati è di8.749 al 30 aprile 1945, ma in realtà fu di qua-si il doppio. Tra il 1° e il 6 maggio 1945 mori-rono più di 300 detenuti al giorno. Per diversigiorni dopo la liberazione la mortalità era an-cora di circa 200 decessi al giorno.

Costruzione del campoIl campo fu impiantato a 5 km dal villaggio

sul fianco della montagna. All’arrivo del pri-mo convoglio, il campo non esisteva ancora e ideportati dormivano alla stazione merci diEbensee. Di sera, dopo una giornata di lavorotrascorsa alla preparazione dei tunnel, intra-prendevano la costruzione del futuro campodi Ebensee: abbattimento di alberi, livella-mento del terreno, edificazione delle primebaracche in legno, dove avrebbero ben prestoabitato. In dicembre, gennaio e febbraio, l’in-verno non era ancora rigido, ma pioveva inin-terrottamente. L’acqua era fredda: era nevefusa. Eravamo poco vestiti: soltanto una giac-ca e una camicia. L’acqua, che scorreva suinostri corpi, ci gelava.

Alla fine del mese di gennaio la prima ba-racca era abitabile. A quell’epoca la futurapiazza dell’appello era ancora in uno stato in-descrivibile e, con l’abbattimento degli alberi,il livellamento con mezzi rudimentali e lapioggia, eravamo in un mare di fango. Dove-vamo rimanere per ore in questo pantano du-rante gli appelli del mattino e della sera.Il campo fu costruito progressivamente: ognimese due baracche nuove entravano in funzio-

ne. Il risultato finale fu un campo di una trenti-na di baracche. Nel corso del 1944 furono in-stallati i magazzini di approvvigionamento, lecucine, la baracca per la disinfezione, l’infer-meria, il forno crematorio. Il campo era cinta-to con filo spinato elettrificato ad alta tensione.Si costruirono anche, fuori del campo, barac-che e villette per l’alloggiamento dei nostriguardiani SS. L’insieme rappresentava il cam-po e i lavori svolti dai prigionieri, oltre quellifatti nelle officine.

Costruzione delle officine sotterraneeIl nostro lavoro consisteva, all’inizio, nel-

l’abbattimento del fianco della montagna perottenere una superficie ben diritta. È su questafacciata che, in seguito, inizieranno gli scaviper le entrate dei tunnel. Al mattino ci alzava-mo alle 6 e partivamo alle 6.30, dopo aver be-vuto un’indefinibile acqua annerita, chiamatacaffé, e null’altro. Percorrevamo a piedi il tra-gitto dal campo al Grande Steinbruch, là dovesarebbero dovuti nascere i primi tunnel. Sitrattava di circa 4 km all’andata e altrettanti al-la sera per il ritorno al campo. Cominciammolo scavo di 7 tunnel in fila.

Nel marzo 1944 si aprirono i cantieri di unnuovo insieme di tunnel, il Piccolo Steinbruch,sito vicino al campo, contro la parete attigua.Eravamo soggetti alle stesse condizioni di lavo-ro: l’unico vantaggio, ed era molto importante,era il non dover percorrere 8 km per andare eritornare. Inoltre, essere chiamati per il lavoroal Grande Steinbruch era una punizione terri-bile, poiché significava una morte più rapida.Anche qui furono iniziati 7 tunnel: quindi allaliberazione esistevano complessivamente 14entrate di tunnel. Dopo le entrate, che forma-vano delle volte di circa 10 m di larghezza per4 di altezza, entravamo in vaste sale dalle di-mensioni allucinanti, delle vere cattedrali: da25 a 30 m di larghezza, 160 di lunghezza e 15di altezza. Gallerie trasversali collegavano itunnel fra di loro. Al termine dello scavo le saleerano interamente costruite in calcestruzzo.Saranno usate tonnellate di calce.

Si ottennero diversi piani. Il pianterreno fu

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previsto per l’installazione di macchinari vari,il primo piano per gli uffici, i servizi tecniciecc.; l’ultimo piano doveva alloggiare i lavora-tori delle officine. Costoro non conoscerannopiù la civiltà esterna, il sole, le stagioni, la vita:la schiavitù più inumana mai esistita fino allamorte.

Il lavoro sotto i colpiNel tunnel la roccia era calcarea e a mano

a mano che ci si addentrava nella montagnal’aria diventava irrespirabile. Le esplosioninella miniera, i gas che si ammucchiavano, lapolvere fine e bianca del calcare che si alzava,facevano sì che gli uomini che respiravanoquesta atmosfera, con i polmoni incrostati,non resistessero a lungo.

I Kapo, signori del Kommando, prendeva-no continuamente a colpi di bastone, di cavoelettrico o a pedate tutti coloro che si trovava-no sul loro passaggio per farli lavorare più ve-locemente. Ma non dimentichiamo le SS, chesorvegliavano il tutto e facevano accelerare ilavori: là dove servivano tre uomini per spin-gere un vagoncino, ne toglievano uno, mentrei Kapo picchiavano i due rimanenti affinchériuscissero a spingere.

La media del lavoro era di tre mesi conti-nuati, al Grande Steinbruch. In seguito, con ipolmoni pieni di calcare, il prigioniero, ormaidivenuto scheletrico, aveva dato tutta la suaforza e, non potendo più continuare, venivapercosso. Allora, non essendo più in grado dilavorare, era trasportato nelle baracche in cuierano ammassati quelli in attesa della morte.Si aggiunga a tutto ciò il clima. Nel marzo1944, fecero la loro apparizione la neve e ilfreddo. Durante l’inverno cadde fino a un me-tro di neve. La temperatura raggiunse i -20°.Ma il disagio più terribile era il vento che si ri-versava nella valle.

Gli uomini che lavoravano avevano dirittoa un paio di mutande, una camicia, una giac-ca, un paio di pantaloni e, qualcuno, un cap-potto e un paio di zoccoli di legno. Con il pas-sare dei mesi e l’aggravarsi della guerra, gliabiti cominciarono a mancare, e ben presto

quelli che non lavoravano non ebbero più négiacca né pantaloni né zoccoli. Si comprendeallora come, vestiti soltanto con mutande e ca-micia, moriranno di freddo rimanendo per oresotto tempeste di neve in attesa degli appelli.

Lo spettacolo era indescrivibile. I tunnelsembravano dei formicai. Ogni uomo era oc-cupato sia a portare via le pietre con i vagonci-ni sia a trasportare legna per erigere le gallerie.Si lavorava di notte e di giorno accompagnatidalle urla dei Kapo, dalle grida dei deportati,dal rumore dei martelli pneumatici. Era infer-nale: qui, gli uomini rimanevano a terra, colpi-ti a morte dai Kapo; là, c’era un ferito, feritoda una pietra nel tunnel, con la testa fracassa-ta; altrove, un detenuto colto da dissenteriache i compagni portavano via prima che i car-nefici lo vedessero. Anche se si aveva un males-sere passeggero, non si poteva smettere il lavo-ro perché, se si veniva scoperti, si era pestati amorte.

Ecco l’inferno dove i deportati lavoravanocontinuamente, stanchi, nutriti – a mezzogior-no – con una specie di minestra che, all’inizio,era composta di patate e di verdura, ma chenel 1945 consisteva di ortiche e bucce di pata-ta. La cena della sera era ridotta a un pezzo dipane nero e una ciotola con un piccolo qua-drato di margarina ogni 4 deportati; in seguitola ciotola era per 8, unicamente per quelli chelavoravano.

La vita al campoIl campo, con il passare del tempo, prende

l’andamento di una piccola città di 400 uomi-ni, poi si passa a 5.000, 10.000 e infine 15.000uomini. Tutte le nazionalità europee vi sonorappresentate. Il regime interno è molto diver-so a seconda dei periodi; all’inizio dobbiamosistemare l’interno del campo, oltre alla nostragiornata di lavoro, cioè abbattere alberi, livel-lare il terreno, inghiaiare, ecc.; ogni capo ba-racca comanda ai deportati che vi abitano dieffettuare questi compiti.

Tra i capi dei blocchi, alcuni sono vecchicriminali o asociali, violenti e cattivi. Colpisco-no a morte i deboli. Quando i lavori sono me-

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no importanti, vengono allora prolungati gliappelli del mattino e della sera per ore. Avre-mo appelli che variano da mezz’ora a 3 e an-che 4 ore, sull’attenti, al freddo, sotto la neve ola pioggia. Al termine, si rientrerà ai blocchi.Ma non potremo fare niente, poiché non neabbiamo il diritto. Dovremo aspettare la di-stribuzione della minestra che si prolunga perore, seguendo l’umore del capo. In seguito, an-ziché il riposo tanto atteso, sarà il momentodel controllo dei pidocchi. Durante intermina-bili ore ciascuno a turno dovrà essere esamina-to. Frattanto, si subirà il supplizio di 25 colpisulle reni mentre tutti quelli del blocco do-vranno assistere a questo spettacolo. La nottedi riposo sarà breve nella baracca. Le finestreresteranno aperte, anche quando farà moltofreddo, e dopo quattro o cinque ore di sonno cisarà il risveglio, che sarà diverso a seconda deicapi dei blocchi: alcuni con l’acqua e un attiz-zatoio, altri con forti fischi o manganellate.Dopo la distribuzione del “caffé”, ancora l’ap-pello, poi la formazione in comando per anda-re a lavorare nei diversi luoghi.

Ogni tanto, dopo l’appello serale, ci riuni-scono in semicerchio, le prime file accovaccia-te, le altre in ginocchio e in piedi; scorgiamoche al centro di questa siepe umana è stataeretta una forca. Una SS avanza con il capoblocco, che c’informa che avranno luogo unao più impiccagioni; il motivo sarà sempre lostesso: tentata evasione. Dovremo assistere al-lo “spettacolo” nel più assoluto silenzio.

Nel campo si trovano una prigione, i bloc-chi destinati agli invalidi, che sono stesi a terrasenza coperte, i blocchi di sterminio e, accantoa questi, una camera fredda dove sono depostii cadaveri prima di essere bruciati nel fornocrematorio che abbiamo costruito nell’agosto1944. C’è anche l’infermeria, ma i medici de-vono curare i feriti e i malati con quelle pochemedicine che ricevono, senza contare la man-canza di spazio. È incredibile questa sofferen-za umana, questi uomini che aspettano la vitao la morte.

Abbiamo anche uno stabilimento di disin-

fezione con docce, che però serviranno per uc-cidere.

Nel periodo fra il marzo e l’aprile 1945 dueconvogli in evacuazione su Ebensee sarannoquasi annientati. Riceveranno una doccia cal-da e fredda e dovranno aspettare nudi per di-verse ore nella tempesta di neve. La mortalitàregistrata nell’aprile 1945 è stata ufficialmentedi 4.500 morti.

Nel 1945 i nostri effettivi aumentano a cau-sa dell’evacuazione dei campi che si trovanosui diversi fronti. In quattro mesi si passa da10.000 a 16.500 deportati. L’alimentazione ri-mane sempre la stessa e ben presto le razionidiminuiscono. Poco prima della liberazionecontiamo i giorni che possiamo resistere per-ché è molto difficile sopravvivere con un nutri-mento così misero.

Nell’aprile 1945 la mortalità è tanto inten-sa che si devono scavare delle fosse comuni permetterci i cadaveri, visto che il forno cremato-rio non può più bruciarli. Il campo è un infer-no. La morte è là e si avvicina sempre più anoi. Tutte le mattine, all’appello, ci guardiamoe cerchiamo quelli che mancano. Ci osservia-mo e cerchiamo di capire chi sarà ancora ingrado di resistere.

L’organizzazione per la sopravvivenzaSolidarietà non è una parola vana. Si tenta

tutto per cercare di aiutare i più sfavoriti. Alcu-ni possono procurarsi dei rifornimenti, graziealla loro particolare situazione di lavoro, e limettono a disposizione per nutrire altri. Nonpossiamo soccorrere tutti, ma il poco che riu-sciamo a raccogliere permette di sostenere ilmorale della collettività e non ci sentiamo ab-bandonati in questa marea umana che si batteper sopravvivere. La solidarietà e l’amicizia as-sumono allora tutto il loro valore.

Nell’aprile 1945 gli uomini sono ridotti ascheletri: sono quasi tutti nudi o mal vestiti.

Il 5 maggio avverrà il nostro ultimo appelloprima della liberazione. Grazie all’organizza-zione internazionale clandestina, molto attiva,apprendiamo che le SS hanno deciso il nostro

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sterminio. All’appello del mattino, prima diraggrupparci sulla piazza, i responsabili inter-nazionali di solidarietà ci informano sulla ne-cessità di armarsi di bastoni, martelli, tenaglie,ecc. per battersi, poiché è meglio battersi liberiche morire rinchiusi in un tunnel la cui entrataè stata minata con una locomotiva imbottitadi esplosivo. Eravamo stati avvertiti da un sol-dato della Luftwaffe. In effetti, a quell’epoca,l’esercito tedesco aveva sostituito una partedelle SS. All’ordine di andare al tunnel, un“NO!” unanime fu pronunciato da tutti i de-portati. Per la prima volta vedemmo i capi SSandarsene senza infierire.

Rimanemmo per tutto il giorno liberi nelcampo e, all’indomani, 6 maggio 1945, nelpomeriggio, avvenne la liberazione del campocon l’entrata di due carri americani.

Eravamo liberi e stava per cominciareun’altra vita; ma a Ebensee molti non cono-sceranno questa gioia, perché la mortalità èstata grande.

Ecco, in poche parole, una memoria diEbensee.

Vico Canavese, 17.2.2000

Italo TibaldiTorino Porta Nuova, 13.1.1944Mauthausen, 14.1.1944 (42307)Ebensee, 28.1.1944-6.5.1945Torino, 15.7.1945

Italo Tibaldi, autore di studi e ricerche archivistichee documentarie sui convogli di deportati partiti dal-l’Italia, curatore di “ANED-ricerche”, ha pubblica-to fra l’altro il volume Compagni di viaggio. Dall’Italia aiLager nazisti. I “trasporti” dei deportati 1943-1945, Mi-lano, FrancoAngeli, 1994; deportato a Mauthausened Ebensee, è Vicepresidente del Comitato Interna-zionale di Mauthausen e svolge la sua attività di ri-cerca in ambito internazionale.Bibliografia. Per la storia di Ebensee è fondamen-tale il saggio di Florian Freund, KZ Zement Ebensee. Ilcampo di concentramento di Ebensee, commando di Mau-thausen, e l’industria missilistica, trad. it. di E. Caserio,Burolo, ANED / L’Artigiana, 1990. Un testo di me-moria costituito principalmente da disegni è il librodi Giovanni Baima Besquet, Deportati a Mauthausen1943-1945, Torino, Teca, 1946 / Torino, Assesso-rato alla Cultura della Provincia di Torino, 1979.

Il Durchgangslager di Fossoli di Carpi. CronologiaLucio Monaco

• 30 maggio 1942: requisizione di terreni agri-coli e istituzione del “Campo per prigionieri diguerra n. 73”. Vi sono destinati prigionieri bri-tannici e del Commonwealth;• luglio 1942: vengono internati i primi 1.800prigionieri, distribuiti in 191 tende. Si fabbri-cano anche baracche in muratura, destinate asostituirle, e nel giro di un anno l’area si pre-senta divisa in due zone: il campo originario,o “Campo vecchio”, e il suo ampliamento, o“Campo nuovo”, separato da un canale;• 8 settembre 1943: le truppe tedesche occupa-no il campo arrestando e internando in Ger-mania i militari italiani e i prigionieri;• 14 novembre 1943: nella Carta di Verona (attocostitutivo della Repubblica Sociale Italiana, oRepubblica di Salò) si dichiara che «gli appar-tenenti alla “razza” ebraica sono stranieri, du-rante questa guerra appartengono a nazionali-tà nemica»;• 30 novembre 1943: ordinanza di polizia n. 5del Ministero degli Interni della RSI: «Tutti gliebrei […] residenti nel territorio nazionaledebbono essere inviati in appositi campi diconcentramento»;• 10 dicembre 1943: una ordinanza del Capodella polizia prescrive che si faccia eccezione«per i malati gravi et vecchi oltre anni 70; sonoper ora esclusi i misti e le famiglie miste salvoadeguate misure di vigilanza». Tuttavia nel-l’ottobre 1944 il Ministro degli Interni disponeche siano «inviati in campo di concentramen-to» anche «coloro che pur essendo di originemista sono stati però considerati appartenentialla “razza” ebraica». Queste direttive si so-vrapponevano alle operazioni di attuazionedella soluzione finale verso gli ebrei italiani daparte dei nazisti in territorio italiano, a partiredalla fine di settembre 1943 (deportazione de-gli ebrei romani: 16 ottobre 1943; deportazio-

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Capitolo II84

ni degli ebrei di Firenze, Siena, Bologna, Mon-tecatini, Torino, Genova, Milano: novembre-dicembre 1943);• sono così predisposti dalle autorità di Salòcampi di concentramento provinciali, affidatialle prefetture e diretti da funzionari di Pubbli-ca Sicurezza o dai podestà;• 5 dicembre 1943: apertura ufficialedel “Campo concentramento ebrei” di Fossolidove le autorità italiane prevedono di far af-fluire tutti gli ebrei internati nei campi di con-centramento provinciali (oltre ai nuovi arre-stati). Il campo è gestito, con diverse compe-tenze, dalla Prefettura e dalla Questura di Mo-dena, e dal Podestà di Carpi;• l’area su cui sorge il campo è quella del cosid-detto “Campo nuovo”, facente parte del di-smesso “Campo per prigionieri di guerran. 73”. Era di fatto impossibile, per le ridottedimensioni (capaci di ospitare circa 3.000 per-sone) internarvi tutti gli ebrei presenti in Italia(circa 35.000);• a fine dicembre risultavano già internati cir-ca 900 ebrei;• gennaio 1944: i nazisti aprono a Verona un“Ufficio antiebraico” della Gestapo (IV B4)con a capo Friedrich Bosshammer, funziona-rio dell’ufficio di Eichmann. Fossoli è indivi-duata come campo di transito per concentraree poi avviare gli ebrei verso Auschwitz. Il pas-saggio del controllo del campo ai tedeschi av-viene gradualmente tra febbraio e marzo;• febbraio 1944: primi trasporti da Fossoli perBergen Belsen, 146 persone, ebrei libici di na-zionalità inglese (19,2%), e per Auschwitz, cir-ca 650 persone, ebrei italiani (22,2%: il tra-sporto di Primo Levi);• 15 marzo 1944: passaggio dei poteri e sparti-zione del campo. L’area del “Campo vecchio”è affidata ad autorità italiane (RSI), che vi cu-stodiscono prigionieri politici ed ebrei non de-stinati alla deportazione; l’area del “Camponuovo” è gestita dai nazisti che vi custodisco-no, in due aree definite, prigionieri politici edebrei, entrambi destinati alla deportazione.Comandanti del campo tedesco sono nomina-te le SS Karl Titho e Hans Haage;

• 5 aprile 1944: secondo trasporto perAuschwitz, circa 600-800 persone, ebrei italia-ni (il convoglio di Giuliana Tedeschi);• 16 maggio 1944: terzo trasporto perAuschwitz, circa 600 persone, ebrei in maggio-ranza italiani. Secondo trasporto per BergenBelsen, 167 persone, ebrei libici in prevalenzadi cittadinanza britannica;• 21 giugno 1944: primo trasporto perMauthausen, circa 500 persone, “politici” ita-liani;• 22 giugno 1944: uccisione dell’antifascistaPoldo Gasparotto, esponente del Partitod’Azione;• 26 giugno 1944: quarto trasporto perAuschwitz, circa 600 persone (cui si aggiungo-no altre centinaia, fino a un totale di circa1.000, caricate a Verona);• luglio 1944: i tedeschi occupano il “Campovecchio” e ne assumono il controllo. I prigio-nieri sono inviati in Germania come “lavora-tori volontari”, oppure rilasciati; inizia il tra-sferimento di prigionieri e delle strutture del“Campo nuovo” nel Durchgangslager diBolzano-Gries;• 12 luglio 1944: fucilazione, al poligono diCibeno (presso Fossoli), di 67 prigionieri, parti-giani e antifascisti (due riescono a salvarsi; unaltro condannato, Teresio Olivelli, esponentedell’Azione Cattolica, scampa alla morte na-scondendosi all’appello: sarà poi scoperto edeportato a Bolzano e a Flossenbürg, dove mo-rirà);• 1° agosto 1944: svuotamento del “Camponuovo” e ultimo trasporto per Auschwitz, al-meno 300-500 persone, ebrei italiani. Il piùgiovane: Umberto Nacamulli, nato a Veneziail 27.4.1944. La più anziana: Natalie Cameri-ni, nata a Trieste il 21.12.1852. Altri deportatifurono inviati a Bergen Belsen, Buchenwald,Ravensbrück;• agosto-novembre 1944: l’area del campo ri-mane sotto il controllo di militari tedeschi,mentre vi transitano i “lavoratori volontari”reclutati in prevalenza con rastrellamenti, dainviare in Germania;• autunno 1945: nel “Campo nuovo” è attivato

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85Le guide della memoria

il “Centro di raccolta dei profughi stranieri” inattesa di smistamento;• maggio 1947-giugno 1952: insediamentodell’Opera Piccoli Apostoli e fondazione diNomadelfia, una comunità di bambini orfanio abbandonati fondata da don Zeno Saltini(oggi attiva presso Grosseto);• 1952-1965 ca.: insediamento del “VillaggioSan Marco”, per profughi giuliani e dalmati;• 1984: cessione dell’area del campo al Comu-ne di Carpi e progettazione di recupero delsito.

Bibliografia. E. Collotti / P. Dogliani (curr.),Arbeit macht frei, catalogo della mostra tenutasi aCarpi nel 1985; il saggio di L. Picciotto Fargion, IlLibro della memoria più volte citato; L. Klinkhammer,L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, trad. it. diG. Sajia Panzeri, Torino, Bollati Boringhieri, 1994;la ricostruzione spesso citata di Italo Tibaldi, Com-pagni di viaggio; T. Matta (cur.), Un percorso della memo-ria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Ita-lia, Venezia, Electa, 1996; gli studi di Anna M. Ori,“La memoria stratificata del campo di Fossoli”, in Ilpresente e la Storia, n. 65 / giugno 2004, pp. 125-178,e Il campo di Fossoli. Da campo di prigionia e deportazione aluogo di memoria 1942-2004, Carpi, APM, 2004.

Gusen I, Gusen II, Gusen III:sottocampi di Mauthausen(1940-1945)Lucio Monaco

I tre sottocampi costruiti intorno al villag-gio di Gusen (a 5 km da Mauthausen), deno-minati Gusen I, Gusen II, Gusen III, hannocostituito una realtà a sé per quantità di depor-tati e durezza di condizioni di prigionia e di la-voro.

I lavori di costruzione di Gusen I furonoavviati nel marzo del 1940; anche in questocampo uno degli obiettivi economici era costi-tuito dallo sfruttamento delle vicine cave digranito. Fin dall’inizio il lavoro costituì uno deimezzi di eliminazione dei prigionieri, in pre-valenza polacchi, fra cui molti religiosi, e re-pubblicani spagnoli deportati dalla Francia.Nel 1941 fu installato il crematorio e si diedeinizio alle eliminazioni sistematiche di malati,inabili, portatori sospetti di malattie contagio-se, sia al Castello di Hartheim sia nel campostesso (bagni di acqua gelida, annegamenti an-che di massa, iniezioni al cuore, gassazioni suveicolo).

Nell’arco di tre anni il campo viene a con-tenere un numero di prigionieri superiore aquello del campo principale di Mauthausen,con l’arrivo di deportati sovietici, jugoslavi,francesi, italiani e l’apertura di altre attivitàproduttive (Steyr-Daimler-Puch AG) legate al-la produzione bellica. Nel marzo del 1944 co-minciano i lavori per la costruzione di GusenII (St. Georgen). I deportati, oltre a costruire ilcampo, sono impegnati nello scavo di un siste-ma di gallerie in cui sono collocati impianti perla produzione di armi e parti di aerei (Steyr-Daimler, Messerschmitt). In dicembre si dà ilvia all’allestimento di Gusen III, destinato al-la produzione di laterizi (DEST).1

1 Cfr. nota 1, p. 38 del presente volume.Nel campo di Fossoli (novembre 1999)

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Capitolo II86

Furono scavati nella montagna circostantee nei pressi di St. Georgen 7 km di tunnel (lar-ghi da 6 a 8 m, alti da 10 a 15) per ubicarvi laproduzione bellica e i macchinari dell’Istitutodi ricerca della Scuola Superiore Tecnica diVienna, relativamente alla produzione missili-stica (V1 e V2). I lavori furono eseguiti senzabadare alla sicurezza degli operai, e provoca-rono quotidianamente morti e feriti.

La ricostruzione delle presenze di prigio-nieri e della mortalità lascia intravedere le du-rissime condizioni di vita e di lavoro dei depor-tati. Secondo gli ultimi dati, su circa 21.000presenze registrate fra il 1940 e il 1942, si sonoavuti almeno 14.000 decessi. Nel 1943, il nu-mero di prigionieri più alto registrato è di9.000 unità, quello dei morti è di 5.225. Nel1944, si contano rispettivamente 22.000 e4.700 unità; nel 1945, 15.000 e 8.800.

Sono documentate almeno due circostanzein cui si procedette a eliminazioni di massacon il gas Zyklon-B, in baracche adattate pertale operazione: il 2.3.1944 (164 prigionieri diguerra sovietici) e il 22.4.1945 (più di 800 ma-lati e invalidi). Una terza strage, il 2.3.1942(300 polacchi e spagnoli malati di tifo), non ri-sulta sufficientemente documentata.

Il Memoriale di Gusen e la conservazione dell’area

Il campo di Gusen I ha subìto vicende chene hanno alterato irrimediabilmente la fisio-nomia. Alla fine degli anni Cinquanta se n’èdecisa la lottizzazione ed è sorta una fitta seriedi costruzioni abitative. È naturalmente scom-parsa la recinzione, sono state eliminate ba-racche e strutture concentrazionarie. Rimanericonoscibile, per quanto riconvertito in abita-zione, l’edificio dell’ingresso e del comandodel campo, ben visibile dalla rotabile asfaltataMauthausen-Gusen.

L’associazione dei superstiti ha acquistatoun lotto di terreno e vi ha eretto una strutturacommemorativa, opera dell’architetto Lodo-vico Barbiano di Belgiojoso, che fu egli stessoprigioniero a Gusen. All’interno di questo edi-ficio, la cui materia e il cui spazio alludono

all’universo chiuso e al labirinto di morte costi-tuiti dal Lager, si trova collocato il forno cre-matorio.

Bibliografia. Testi e disegni nel Diario di Gusen diA. Carpi (Milano, Garzanti, 1971, 1993); si vedanoanche i testi poetici di Q. Osano, Perché ricordare. Ri-cordi e pensieri di un ex deportato, Alessandria, ANED /Edizioni dell’Orso, 1992. Per la memorialistica si ri-cordano le memorie di F. Malgaroli, Domani chissà.Storia autobiografica 1931-1952, Cuneo, L’Arciere,1992, e di F. Maruffi, Codice Sirio. I racconti del Lager,Casale Monferrato, Piemme, 1986 /Carrù, Stam-peria Ramolfo, 2003; la testimonianza di N. Pia, Lastoria di Natale. Da soldato in Russia a prigioniero nel Lager,Novi Ligure, Joker, 2003, 20063, e le pagine dedicatea Gusen nel libro già citato di Pio Bigo, Il triangolo diGliwice, pp. 27-47.

L’ingresso di Gusen I negli anni ’40 (in alto) e oggi (in basso)

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87Le guide della memoria

Hartheim e il “Programmadi Eutanasia”(ottobre 1939-agosto 1941)Lucio Monaco

Esercizio di calcolo proposto in un libroscolastico di matematica per il primociclo, Germania nazista, a. s. 1935-1936:La costruzione di un manicomio richiede 6 milionidi marchi. Quante nuove abitazioni, al costo di15.000 marchi, si potrebbero invece costruire conquesta somma?

Riprendendo ed esasperando concezionidi eugenetica sviluppatesi in Europa e in Ger-mania a partire dal primo decennio del Nove-cento, il nazismo educò progressivamente al-l’idea di “vite inutili” (lebensunwerte Leben, “viteche non valgono la pena di essere vissute”),dannose per molti aspetti – da quello econo-mico a quello “razziale” – alla collettività.

Il 1° settembre 1939 sono attribuiti poterispeciali a una commissione che procederà a de-finire le complicate vie burocratiche con cuisopprimere le “vite inutili”. Il comitato ha sedea Berlino, in una villa di un quartiere residen-ziale, al n. 4 della Tiergartenstrasse: da cui il no-me in codice “T4”, che indica il centro organiz-zativo della “Fondazione di utilità pubblica perla cura e il ricovero in istituti”, eufemismo percelare il “Programma di Eutanasia”. Copertodal segreto di Stato, organizzato minuziosa-mente, il Programma è rivolto alle persone af-fette da malattie giudicate incurabili, agli indivi-dui portatori di handicap, o definiti anormali oasociali, di ogni età e sesso, residenti in Germa-nia e nell’Austria occupata, e considerati “boc-che inutili”, “vite indegne di essere vissute”. Liaspetta una “morte misericordiosa”.

Una complessa rete di collaboratori mediciha l’incarico di schedare gli individui da elimi-nare, ricoverati in cliniche e ospedali pubblicie privati, dividendoli in tre categorie:

1) ricoverati affetti da schizofrenia e sindro-mi neurologiche;

2) ricoverati da più di cinque anni;3) ricoverati nei manicomi criminali, ap-

partenenti alle cosiddette “razze inferiori”,oppure stranieri, anche se non affetti dalle pa-tologie suindicate.

Prelevati dagli ospedali e dagli istituti in cuisi trovano, essi vengono condotti nei centrispecializzati dipendenti dal T4 e qui soppressicon metodi studiati appositamente. L’elimina-zione con il gas monossido di carbonio si rivelala pratica più efficace, anche per l’espedientedelle finte docce. Il Programma, esteso agliinabili al lavoro (per esempio, ai grandi invali-di tedeschi della prima guerra mondiale e,sembra, ai feriti gravi nella guerra in corso) ealla popolazione dei Paesi orientali conquista-ti, viene interrotto ufficialmente nell’agostodel 1941, soprattutto per l’opposizione delleChiese, luterana e cattolica; ma continuerà inaltre forme sino alla fine della guerra.

I centri T4 furono sei (Grafeneck, Branden-burg, Bernburg, Hartheim, Sonnenstein, Hada-mar). Complessivamente si ebbero oltre 70.000vittime, nel corso dell’intera operazione.

Il “trattamento 14f13”Le strutture del T4 furono utilizzate poi

per i prigionieri dei KL malati e/o inabili allavoro. Commissioni si recavano nei Lager ecompilavano liste dei destinati alla soppressio-ne dopo un esame sommario, talvolta racco-gliendo adesioni volontarie con la prospettivadi inesistenti “campi di riposo”. Le vittime deltrattamento 14f13 erano portate prevalente-mente a Sonnenstein e Hartheim.

Da Mauthausen e Gusen sono documen-tati trasporti di questo tipo per un totale di cir-ca 5.000 vittime; da Dachau furono inviatepiù di 3.000 persone; circa 1.400 daBuchenwald e poco più da Ravensbrück.

Il Castello di HartheimSorto nel Rinascimento, divenuto poi rico-

vero per bambini gravemente ammalati, ilCastello è trasformato nella primavera del1940 in fabbrica di morte: fino al 1943 vi sonouccise migliaia di persone. Funziona anche

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Capitolo II88

come camera a gas per il Lager di Dachau eper quello di Mauthausen (che pur possiedeuna sua camera a gas). I prigionieri sono tra-sportati in autobus che hanno l’assoluta pre-cedenza, i cui vetri sono rivestiti da tendine eda uno strato di vernice. Arrivati a Hartheimvengono introdotti nella camera a gas, camuf-fata da stanza per docce, dopo che sono statimarcati tutti quelli con denti d’oro; a distrug-gere i cadaveri provvede il forno crematorio.

I centri del “Programma di Eutanasia” fu-rono gestiti in prevalenza da uomini della SS,che con la fine del T4 si ritroveranno a capodei grandi campi di sterminio immediato(Bel/zec, Sobibór, Treblinka) ma anche in altriLager (la Risiera di San Sabba a Trieste). Essipoterono familiarizzarsi con le tecniche diprogrammazione e di organizzazione dellosterminio, per imparare a compierlo in modorapido ed efficiente: i centri furono dunquevere e proprie “scuole” dello sterminio. Har-theim diventò il principale centro di esecuzio-ne del trattamento 14f13. La camera a gas eraaccessibile dal cortile interno; le bombole diCO si trovavano in un ripostiglio attiguo e ilgas era fatto affluire tramite un tubo postoall’altezza del pavimento. La stanza era ca-muffata da doccia, con finti spruzzatori al sof-fitto. Fra il dicembre 1944 e il gennaio 1945l’impianto fu smantellato, e a guerra conclusavi furono alloggiate famiglie. Il Castello fu se-de di abitazioni private; soltanto qualche lapi-de e targa commemorativa e pochi materialidocumentari, radunati in una stanza al pian-terreno, ricordarono per molto tempo l’atrocepassato. Dal 1999 sono però iniziati i lavoriper l’allestimento di un Memoriale più ampio.

Bibliografia. Gordon J. Horwitz, “Il Castello”, inIdem, All’ombra della morte. La vita quotidiana attorno alcampo di Mauthausen, trad. it. di G. Genovese, Vene-zia, Marsilio, 1994, pp. 77-109. Un più ampio di-scorso sul T4 si può trovare in Gitta Sereny, In quelletenebre, trad. it. di A. Bianchi, Milano, Adelphi, 1975,19992.

Linz I, Linz II, Linz III: sottocampi di MauthausenLucio Monaco

Presso Linz, importante città austriaca ecentro di industrie metallurgiche, sorsero trecampi dipendenti da Mauthausen. La loro sto-ria è ricostruibile con difficoltà, per carenza didocumentazione e di ricerche.

Linz I fu attivo dal febbraio 1943 al 3 ago-sto 1944. I prigionieri erano impiegati in lavo-ri di costruzioni edili e in metallurgia (lavora-zione dell’acciaio), alle dipendenze dellaDEST1 e dei Reichswerke (HermannGöringswerke). Dopo alcune incursioni aereeil campo fu chiuso e i prigionieri spostati aLinz III, poco distante. Il campo contenevacirca 800 prigionieri.

A Linz II, in funzione dal febbraio 1943 almarzo-aprile 1945, alcune centinaia di prigio-nieri (numero più alto raggiunto: 285) lavora-vano alla costruzione di rifugi antiaerei e diedifici militari. Periodo di attività: febbraio1944-marzo/aprile 1945.

Maggiore importanza ebbe invece il cam-po di Linz III, sorto nel maggio 1944 e libera-to dagli Alleati il 5 maggio 1945. Il numero piùalto di prigionieri raggiunto (da non confon-dersi con il totale, su cui non vi sono dati preci-si) risulterebbe, secondo le ricerche più recen-ti, di 5.615 unità. Una buona parte dei prigio-nieri era sfruttata nel lavoro agli attigui Her-mann Göringswerke (acciaio, carri armati).Nei primi giorni di maggio le SS distrussero gliarchivi e prepararono l’evacuazione dei de-portati (circa 6.500 stando a Enea Fergnani,superstite del campo) su Ebensee; l’operazionefu interrotta dall’avanzata alleata, che liberò iprigionieri il 5 maggio 1945.

Lager relativamente piccolo e di lavoro

1 Cfr. supra, nota 1, p. 38.

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produttivo, Linz III non possedeva cremato-rio. I morti erano periodicamente raccolti einviati al crematorio di Mauthausen. Negli ul-timi mesi vennero seppelliti in fosse comuni,per la difficoltà di comunicazioni con il campoprincipale.

Bibliografia. Per la memorialistica italiana suLinz si ricordano: Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice. Me-moria di sette Lager, Alessandria, Edizioni dell’Orso,1998, pp. 49-70 (Linz I e III); Enea Fergnani, Unuomo e tre numeri, Milano, Speroni, 1945 / Milano-Roma, Avanti, 1955

2, pp. 184-229 (Linz III) (il volu-

me è stato ripubblicato nel 1991 dal Comune diVenezia, dall’Assessorato agli Affari istituzionali);Antonio (“Ivo”) Tonussi, Ivo. Una vita di parte,Treviso, Matteo, 1991, pp. 154-166.

Le “marce della morte”Lucio Monaco

Con questo termine ormai entrato nell’usostoriografico (Death Marches, Todesmärsche) s’in-dicano i trasferimenti massicci di prigionieri (apiedi e su ferrovia) da un Lager – campo prin-cipale o sottocampo – a un altro. Ciò avvennenella fase finale della storia di molti KZ: difronte all’avanzata degli angloamericani o deirussi, i Lager venivano fatti sgomberare com-pletamente (“Nessun prigioniero deve caderevivo nelle mani dei nemici”, era l’ordine). Allostesso tempo erano attuate, in genere, la di-struzione o l’asportazione degli archivi e diparte delle installazioni. Non dovevano rima-nere testimonianze né testimoni: i malati era-no uccisi, gli altri si incamminavano a piedi ocon altri mezzi verso i Lager di destinazione.Incolonnati talvolta per chilometri, caricati sucarri bestiame, erano scortati dalle SS, daguardie armate e dai Kapo, che sopprimevanochiunque non riuscisse a tenere l’andatura ri-chiesta. L’eliminazione dei più deboli potevaavvenire anche durante le soste e coinvolgeredecine o centinaia di vittime. In generale, nelle“marce della morte” la mortalità di prigionieriraggiunse punte elevate, stimate intorno alla

metà dei prigionieri. Cfr. D. Goldhagen, Ivolonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni el’Olocausto, trad. it. di E. Basaglia, Milano,Mondadori, 1996, parte V.

Forse la più vasta operazione di tale generefu costituita dalle “marce della morte” per losgombero di Auschwitz, culminate fra il 17 e il21 gennaio 1945. L’inverno, la mancanza dicibo e di abbigliamento, la prostrazione fisica ele violenze falcidiarono i deportati. Da alcunisottocampi i prigionieri (circa 2.000) partironocon trasporti ferroviari. Da altri vennero av-viati interamente a piedi: è il caso dei 3.200prigionieri di Jaworzno che camminarono per250 km fino al Lager di Gross-Rosen. Il grossodei prigionieri (circa 50.000 persone nei varicampi, compresi Auschwitz I, II e III) fu in-stradato a piedi verso i due nodi ferroviari diWodzislaw Slaski e Gliwice. Di qui vennerosmistati verso Buchenwald, Bergen Belsen oMauthausen, con trasporti ferroviari effettuatiin condizioni spaventose (carri bestiame apertisotto la neve e al gelo) che causarono molte al-tre vittime.

Bibliografia. Sullo sgombero di Auschwitz si vedaA. Strzelecki, Evacuazione, liquidazione e liberazionedel campo in Auschwitz. Il campo nazista della morte,Oswiecim, Museo Auschwitz-Birkenau, 1995,pp. 243 sgg. Le testimonianze dei superstiti italiani sipossono leggere nelle rispettive opere di memoriali-stica. Per una panoramica sulla situazione nei variKZ e il racconto di tre superstiti si veda il volume diE. Vincenti (cur.), Gli ultimi giorni dei Lager, Milano,FrancoAngeli, 1992. Per il racconto dell’evacuazio-ne di Buna verso Gliwice e Buchenwald si veda iltesto di Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di setteLager cit., pp. 93-107.

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Capitolo II90

Il Lager di Mauthausen e lo sterminio mediante il lavoro (1938-1945)Lucio Monaco

1938: dopo l’Anschluss (“annessione” dell’Au-stria al Reich) viene costruito il Lager princi-pale, su un’altura sovrastante la cittadina diMauthausen (presso Linz), in prossimità diuna cava di granito ceduta dal Comune diVienna alla DEST,1 un’impresa di proprietàdella SS.

All’edificazione del campo (1938-1939)sono destinati prigionieri tedeschi, austria-ci, cechi e boemi, provenienti in gran partedal Lager di Dachau. Nell’arco di tre anniil numero dei prigionieri raggiunge le8.000 unità. In questo periodo i prigionieriappartengono alle seguenti categorie: cri-minali comuni, “asociali”, politici, “Testi-moni di Geova” (Bibelforscher), zingari. Ilcuore dell’attività lavorativa del campo èla cava di granito, che fornisce anche ilmateriale per l’edificazione dei muri peri-metrali, delle torri, dei portali d’ingresso.

1940: si allestisce il “Lager dipendente” (Neben-lager) di Gusen, a circa 5 km da Mauthausen(4.000 prigionieri alla fine dell’anno). È il primodei 56 sottocampi, distribuiti in tutta l’area in-dustriale adiacente a Vienna e nella regione del-l’Alta Austria centrale. La loro funzione princi-pale era quella di impegnare i prigionieri in atti-vità produttive di tipo bellico (in molti casi conmacchinari collocati in gallerie, per via deibombardamenti alleati) e nella costruzione del-le infrastrutture (gallerie, impianti).

Nel marzo 1940 giungono a Mauthausen iprimi deportati stranieri (cioè non provenientida territori del Reich): 448 polacchi. Seguiran-no i combattenti repubblicani spagnoli esuli inFrancia (invasa dai nazifascisti), circa 8.000 (ne

sopravviveranno 1.600), cechi (circa 4.000) edebrei olandesi (circa 2.000). Il gruppo naziona-le maggioritario risultò, nel corso degli anni,quello dei polacchi, fra cui numerosi sacerdoticattolici. Sempre nel 1940 arrivano anche iprimi giovanissimi (tra 13 e 18 anni), in generefamigliari dei combattenti repubblicani spa-gnoli. Tra campo e sottocampi si raggiunge laquota di circa 8.200 prigionieri. Si tratta, co-me s’è visto, prevalentemente di “politici”, de-stinati a crescere in numero con l’evoluzionedella guerra: scioperanti, resistenti di ogni ge-nere, partigiani, prigionieri di guerra sovietici.

In previsione del numero crescente di inter-nati e di un accrescersi della mortalità (dovutaanche alle condizioni particolarmente rigidedi disciplina e sfruttamento) il campo fu dotatodi un forno crematorio cui se ne aggiungeran-no altri due; di crematori si forniranno anche,più avanti, i sottocampi di Gusen (1941), Eben-see (1944) e Melk (1944).

1941: Mauthausen è catalogato da HeinrichHimmler come “campo di III livello” (di mas-simo rigore), cioè di annientamento dei prigio-nieri, mediante lavoro o altro. Alla fine dell’an-no il sistema di campi conta quasi 16.000 pri-gionieri; circa 8.500 sono concentrati a Gusen.

Verso la fine del 1941, la configurazione delLager è quella in parte riconoscibile oggi. Sipossono individuare tre aree:

1) il campo principale, posto in cima a unacollina, recintato sul lato meridionale da ungrande muro di granito, alto quattro metri,con torri e ingressi, con aggiunta di filo spinatoe reticolato elettrificato; a settentrione la recin-zione era incompleta e prevaleva il reticolato.In quest’area erano situate le baracche dei pri-gionieri, il piazzale dell’appello, i locali di doc-cia e disinfezione, le cucine e, a partire dal1941, il Bunker: un complesso in buona partesotterraneo con celle, locali per sperimentazio-ni mediche ed esecuzioni, crematorio e came-ra a gas (si veda più avanti);

1 Cfr. supra, nota 1, p. 38.

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91Le guide della memoria

2) la cava di granito, profonda 100 metri elunga un chilometro, cui si accedeva scenden-do una scalinata dai gradini sconnessi e irrego-lari. Vi lavoravano da 1.000 a 3.000 prigionie-ri, compresi quelli assegnati al “distaccamentodi punizione” (Strafkommando), costretti a porta-re sulle spalle massi di 30-60 chili; molti prigio-nieri vennero fatti precipitare lungo la scala odalle pareti della cava;

3) il “campo ospedale” (Krankenlager),un’area rettangolare, racchiudente una decinadi baracche, con cucina e servizi, che si trovavaal di sotto del campo principale, a fianco dellastrada di accesso. Circondato da reticolati elet-trificati, fu denominato “Campo russo” (dagliitaliani “Camporosso”), perché all’origine eradestinato ai prigionieri di guerra sovietici; madal 1943 fu usato per i malati e gli invalidi e di-ventò una struttura a sé, mentre i prigionierisovietici vennero rinchiusi nelle baracche 16-19 del campo principale (di quarantena) o nel-la baracca 20, ulteriormente isolata con filospinato, i cui cinquecento prigionieri, nel feb-braio 1945, effettuarono una fuga in massasalvandosi soltanto in dodici.2

1942: il sistema dei sottocampi si avvia al mas-simo sviluppo. Il 30 aprile 1942 il capo dell’Uf-ficio centrale economico amministrativo della

SS dirama una circolare (“Circolare Pohl”) persfruttare nel modo più completo la manodope-ra costituita dai prigionieri: l’industria bellicatedesca aveva un crescente fabbisogno di forzalavoro. I sottocampi nascono dall’esigenza dicollocare le industrie belliche al riparo daibombardamenti (in gallerie scavate nelle mon-tagne) e di decentrare e distribuire l’enormequantità di prigionieri che serviva allo scopo, eche non poteva essere concentrata in un unicocampo, spesso molto distante dai luoghi dilavoro.

I prigionieri sono impiegati in tre settori:costruzione di infrastrutture (strade, cen-trali elettriche, indotto);trasferimento sotterraneo delle industriebelliche (scavi gallerie, installazione mac-chinari);produzione di armamenti.Il Lager principale di Mauthausen nel1942 assume funzioni nuove legate a que-sti sviluppi. Si presenta infatti come:sede amministrativa centrale del sistema diraccolta, selezione e distribuzione dellamanodopera schiavile, secondo le richiesteprovenienti dalle varie industrie;direzione finanziaria per controllare i pro-venti derivanti dall’affitto dei prigionieri-schiavi alle varie industrie;direzione centrale dell’organizzazione disorveglianza.

Di conseguenza, ogni nuovo trasporto in-viato nell’area di competenza di Mauthausenarrivava al Lager centrale, dove i prigionierierano registrati, selezionati e predisposti alledurissime condizioni di disciplina e lavoro delLager mediante la quarantena.

Oltre ad assolvere a questa funzione di smi-stamento, Mauthausen serviva anche comeluogo di raccolta ed eliminazione degli inabili

2 Cfr. il capitolo “Fuga da Mauthausen”, in G. J. Horwitz, Al-l’ombra della morte. La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen,trad. it. di G. Genovese, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 161-183(per la cifra dei sopravvissuti, in particolare p. 163).L

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Capitolo II92

(divenuti tali in conseguenza dei trattamentisubiti durante la prigionia e il lavoro forzato), ecome centro di annientamento di particolaricategorie di nemici del Reich, soprattutto pri-gionieri di guerra sovietici (eliminati con ilgas), ebrei olandesi e un consistente numero diintellettuali cecoslovacchi.

Gli ebrei deportati a Mauthausen erano ingenere stati arrestati con imputazioni di ti-po politico. La loro sorte era comunque in-comparabilmente peggiore: fra i 90 ebreiarrivati nel 1940, alla fine dell’anno 80 era-no già deceduti. I circa 2.600 ebrei deporta-ti da Olanda, Austria, Polonia, Cecoslovac-chia e Romania fra il 1941 e il 1942 moriro-no nel giro di un anno dall’arrivo; i pochisuperstiti furono trasferiti ad Auschwitz. Alcune migliaia di ebrei ungheresi (prove-nienti da Auschwitz) e polacchi giungeran-no poi a Mauthausen nell’estate del 1944.Va ricordato che, fra il 1938 e il 1945, il nu-mero degli ebrei morti a Mauthausen risul-ta di circa 39.000 persone.

Un ruolo importante nelle operazioni diannientamento era ricoperto dalla camera agas (gas Zyklon-B): essa venne messa in fun-zione nel maggio 1942, con l’eliminazione di208 prigionieri di guerra sovietici. Nel corso diquattro anni vi furono eliminate circa 5.000persone, oppositori politici ritenuti pericolosi,malati e inabili al lavoro (provenienti dalRevier). Inoltre, fra il 1941 e il 1942, gli inabilie i malati di Gusen furono anche uccisi in unveicolo che faceva la spola fra Gusen eMauthausen, in cui i trasportati (a gruppi di30) venivano asfissiati probabilmente con mo-nossido di carbonio. Infine, fra l’agosto 1941 eil dicembre 1944, la camera a gas del Castellodi Hartheim (a 20 km da Linz) eliminò altrimalati, inabili e selezionati provenienti daiLager di Mauthausen, Gusen e Dachau (nomein codice: “Operazione 14f13”): in tutto circa8.000 persone, di cui 5.000 trasferite daMauthausen e Gusen. Alla fine del 1942 il “si-stema Mauthausen” conta 14.000 prigionieri.

1943: si completa il sistema dei sottocampi au-striaci e della produzione in fabbriche sotterra-nee, che va dagli impianti di benzina sinteticaagli aerei superveloci agli armamenti più con-venzionali. A questi campi si assegna spesso unnome in codice: “Cemento” (Ebensee), “Cri-stallo di rocca” (St. Georgen presso Gusen),“Quarzo” (Melk), ecc. Migliaia di deportati fu-rono anche impiegati in fabbriche esterne,spesso di proprietà SS (i Göringswerke). I turnidi lavoro erano massacranti (12 ore), anche segli addetti ad alcune lavorazioni potevano usu-fruire di un vitto leggermente migliore. Ma innumerosi campi il lavoro significava la morte ol’inabilità nel giro di tre mesi; malati e inabilierano mandati al Revier, al “Campo russo” diMauthausen o direttamente eliminati nelle ca-mere a gas o con altri sistemi.

Dal 1943 arrivano a Mauthausen gli italia-ni (per la maggior parte resistenti e antifasci-sti). Essi vengono accolti come traditori dai na-zisti, e come nemici fascisti dagli altri deportati(che ignoravano i mutamenti politici avvenutiin Italia dopo il 25 luglio). Di qui una condizio-ne particolarmente difficile che poté esseremodificata soltanto dopo molti mesi. Il primotrasporto italiano (ottobre 1943, 300 persone)proveniva dal campo d’internamento di CairoMontenotte, dove si trovavano cittadini diGorizia, Trieste, Capodistria, deportati dai fa-scisti. Fino al febbraio 1945 si ebbe una venti-na di trasporti, per un totale di deportati che,allo stato attuale delle ricerche, è stimato in cir-ca 8.000 persone. Alla fine del 1943 i deportatidi Mauthausen (e sottocampi) assommano a25.000 unità (8.000 a Gusen).

1944: nell’intensificarsi dei trasporti (preva-lentemente di “politici”) da tutta Europa, si se-gnalano dall’Italia i convogli di prigionieri ar-restati in occasione degli scioperi del marzo1944.

L’11 marzo arriva un convoglio con 597 de-portati dalla Toscana, dal Piemonte, dallaLombardia; il 16 marzo è la volta di 563 de-portati da Piemonte, Lombardia e Liguria; aiprimi di aprile giungono altri 600 italiani, dal-

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93Le guide della memoria

la Lombardia. In tutto l’anno si avranno 15trasporti dall’Italia. Le donne deportate(perlopiù operaie scioperanti) non rimangonoa Mauthausen, ma vengono spostate adAuschwitz o a Ravensbrück.

Verso la fine del 1944 i nazisti iniziano l’eva-cuazione dei Lager orientali e di Auschwitz, fa-cendo affluire i superstiti delle marce della mor-te su Mauthausen. I più deboli sono eliminati,gli altri smistati nei campi secondari.

La popolazione dei campi del complesso diMauthausen aumenta così fino a superare le72.000 unità (tra cui circa 1.000 donne).

1945: le condizioni del campo peggiorano acausa del sovraffollamento (84.000 prigionieri inmarzo) e della mancanza di cibo. Aumenta l’af-flusso degli evacuati da Auschwitz (9.000 perso-ne, in prevalenza ebrei), Gross-Rosen,Sachsenhausen, Nordhausen, Ravensbrück.Con loro giungono gli ebrei inviati a lavorare al-le fortificazioni della frontiera austro-ungherese.

Nel settore più settentrionale dell’“areasorvegliata” del campo viene costruita unatendopoli in cui tifo, denutrizione e malattieprovocano centinaia di vittime (molte di esse

sepolte in fosse comuni, perché i crematorinon bastavano più allo smaltimento dei cada-veri). In aprile una serie di trattative con laCroce Rossa permette la liberazione di alcunecentinaia di detenuti (in maggior parte france-si). Ma fra il 20 e il 28 aprile vengono eliminatenella camera a gas del campo principale diver-se centinaia di prigionieri (sicuramente alme-no 650) prelevati dal Krankenlager o Revier(“Campo russo”). Tra loro vi è un alto numerodi italiani. Il 29 aprile la camera a gas vieneparzialmente smantellata. Il 5 maggio 1945 ilLager di Mauthausen è raggiunto da due au-toblindo alleate e il Comitato Internazionaledi Resistenza (tra i componenti, l’italiano Giu-liano Pajetta), sorto clandestinamente nel mar-zo, s’impadronisce del campo, liberandolo conle armi strappate ai nazisti. Si trovavano nelcampo principale, in quel momento, circa20.000 prigionieri, quasi tutti al limite della so-pravvivenza. Più del 10% moriva nel mesesuccessivo alla liberazione.

Si calcola che siano passati per il complessodei Lager dipendenti da Mauthausen circa230.000 deportati. I morti furono almeno120.000.

Questa tabella è ricavata dalle ricerche più autorevoli:

anno 1938 1939 1940 1941 1942 1943 1944 1945 presenze (*) 1.010 2.995 8.200 15.900 15.900 25.607 72.392 64.800morti (**) 36 445 3.486 8.114 14.293 8.481 14.776 36.214

(*) Non è il numero totale di prigionieri, bensì il numero di prigionieri più alto registrato nell’anno. Sono escluse ledonne, presenti a Mauthausen in modo consistente solo nel 1944 (959) e nel 1945 (1.734). (**) Il dato del 1945 è sottostimato di circa 16.000 persone, giunte a Mauthausen già morte nei trasporti dall’Est, op-pure morte nel mese successivo alla liberazione. Tasso complessivo di mortalità: 52,5%.Fonte: H. Maršalek, Die Geschichte des Konzentrationslager Mauthausen, Wien, Österr. Lagergemeinschaft Mauthausen,1980.

Bibliografia. Lo studio di Hans Maršalek citato sopra è stato finalmente tradotto in italiano (La storia del campo diconcentramento di Mauthausen, trad. it. di P. Ferrari, Wien, Österreichische Lagergemeinschaft Mauthausen, 1999). A esso si deve aggiungere il saggio molto interessante, già menzionato in nota, di Gordon J. Horwitz, All’ombra dellamorte. La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen, trad. it. di G. Genovese, Venezia, Marsilio, 1994. La memoriali-stica italiana è molto ampia e rinviamo ad A. Bravo / D. Jalla, Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazioneitaliana 1944-1993, Milano, FrancoAngeli, 1994. Fra i testi più noti: P. Caleffi, Si fa presto a dire fame, Milano, Mursia,1979; V. Pappalettera, Tu passerai per il camino, Milano, Mursia, 1965; F. Maruffi, Codice Sirio. I racconti del Lager, CasaleMonferrato, Piemme, 1986; A. Buffulini / B. Vasari, II Revier di Mauthausen. Conversazioni con Giuseppe Calore,Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1992, e le pagine già citate di N. Pia, La storia di Natale. Da soldato in Russia a prigionie-ro nel Lager, e di P. Bigo, Il triangolo di Gliwice.

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Capitolo II94

Melk: il sottocampo di Mauthausen e il lavoroin galleriaLucio Monaco

Il sottocampo di Melk fu fondato nell’ambi-to del progetto di dislocazione delle industriebelliche (cfr. la “guida” su Mauthausen, all’an-no 1942). La cittadina, dominata dalla celebreabbazia benedettina, fu scelta per la presenza dialcune caserme risalenti alla prima guerra mon-diale, dove s’insediarono le SS. Il campo (uffi-cialmente sorto il 20 aprile 1944, in omaggio alcompleanno di Hitler) venne fatto costruire daiprigionieri trasferiti da Mauthausen, il cui pri-mo nucleo giunse a Melk il 23 aprile (un miglia-io di deportati politici francesi). Ai deportati fu-rono fatte costruire le infrastrutture per rag-giungere, con la ferrovia, la località di Roggen-dorf, circa 4 km a Est, dove si cominciò a realiz-zare un complesso sistema di gallerie per la pro-duzione di cuscinetti a sfera e di altri compo-nenti per l’industria bellica. L’insieme dell’ope-razione, cui era principalmente interessata laditta Steyr-Daimler-Puch AG (collegata, dopo il1938, agli Hermann Göring Reichswerke), fudenominato in codice “Progetto Quarzo”.

Ogni mattina i deportati erano caricati sucarri bestiame per raggiungere il cantiere dellegallerie; qui la produzione bellica fu avviata neldicembre 1944, mentre proseguivano parallela-mente i lavori di scavo. In marzo gli stabilimentisotterranei coprivano un’area di ben 7.880 m

2. I

lavori si svolgevano in condizioni disumane: inparticolare, quelli per lo scavo delle gallerie por-tavano al rapido esaurimento fisico dei deporta-ti, insufficientemente nutriti, alloggiati e vestiti.(«Di 10.000 uomini non più di 1.000-1.200 era-no dotati di camicia e solo la metà possedevadelle scarpe», scrive Horwitz.)1

Il clima, le sevizie, le condizioni di lavoro ag-gravavano la situazione. Nel novembre 1944,

nel campo fu costruito un crematorio dalla dittaTopf – la stessa che si aggiudicò l’appalto diAuschwitz-Birkenau – mentre gli inabili e i ma-lati gravi venivano rinviati a Mauthausen perl’eliminazione diretta (camere a gas del campocentrale o di Hartheim) o tramite il passaggio alRevier (“Campo russo”). A Melk furono trasfe-riti prigionieri di ogni nazionalità: fra gli altri,polacchi e ungheresi (in gran parte ebrei prove-nienti da Auschwitz nell’estate 1944), francesi,italiani, sovietici, jugoslavi, austriaci e tedeschi,greci. Una statistica delle SS registra un totale di5.000 decessi (tra cui 300 italiani); a questa cifra,non completa, vanno aggiunti più di 1.500 ma-lati uccisi a Mauthausen o Hartheim. Circa14-15.000 persone furono complessivamentedeportate a Melk, dove il numero più alto di pri-gionieri raggiunto fu di circa 10.000 presenze.

Con l’avvicinarsi dei sovietici, le SS evacua-rono il campo. L’11 aprile 1945 si cominciò losgombero dei 7.800 prigionieri presenti: 1.500giovani, giovanissimi e malati furono inviati aMauthausen; una quarantina di malati gravi eintrasportabili fu eliminata sul posto, secondouna pratica usata in numerosi sottocampi diMauthausen. Il grosso dei prigionieri fu avviatocon trasporti fra il 13 e il 15 aprile 1945 verso ilcampo di Ebensee, ormai sovraffollato e ridottoin condizioni indescrivibili.

Del campo di Melk rimane soltanto unMemoriale contenente il crematorio.

Bibliografia.Fondamentale è lo studio di Bertrand Perz, ProjektQuarz. Steyr-Daimler-Puch und das KonzentrationslagerMelk, Wien, Verlag für Gesellschaftskritik, 1991, 523pp. (la cui riduzione, pubblicata a Vienna nel 1992,è stata tradotta in italiano con il titolo Il campo di con-centramento di Melk: “commando” di Mauthausen, impiantosotterraneo Quarz, trad. it. di E. Caserio, Burolo, L’Ar-tigiana / ANED, 1993, 57 pp.). Molti disegni del de-portato francese Daniel Piquée-Audrain (reperibiliin Idem, Mauthausen – 62978. Plus jamais ça! 22 dessinsà la plume 1945-1947, Paris, Amicale de Mauthau-sen, s. d., o nel testo di Maurice Petit, A leurs mémoires,[Déportés], pour l’amitié entre les peuples, Paris, Petit etRousseau, 1964) si riferiscono a Melk. Nel già citatostudio di Gordon J. Horwitz, All’ombra della morte. Lavita quotidiana attorno al campo di Mauthausen, trad. it. diG. Genovese, Venezia, Marsilio, 1994, il capitolo“Fuori dal monastero” (pp. 131-159) è interamentededicato al Lager di Melk.

1 G. J. Horwitz, All’ombra della morte. La vita quotidiana attorno al campo diMauthausen, trad. it. di G. Genovese, Venezia, Marsilio, 1994,p. 135.

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95Le guide della memoria

Il KZ di Mittelbau-Dora fra produzione missilistica e sterminioLucio Monaco

Le premesse: i progetti missilistici della Wehrmacht e l’evoluzione del conflitto (1932-1943)

La storia della progettazione missilistica te-desca precede l’avvento del nazismo. Il primolavoro teorico sull’argomento esce nel 1923;qualche anno più tardi ritroviamo il suo auto-re, il matematico Hermann Oberth, comeconsulente del regista Fritz Lang in uno deiprimi film di fantascienza, Una donna sulla luna(1929).

Il coinvolgimento dell’esercito tedesco (set-tore Artiglieria dell’Ufficio Armamenti) inizianel 1932. Legami sempre più stretti tra ufficimilitari e università portano al primo lancio dirazzi del modello “Aggregat” (1934); due annidopo viene creata una base missilistica aPeenemünde, sul Mar Baltico, diretta dall’in-gegnere Wernher von Braun, attivo nei pro-getti missilistici fin dal 1932 (quando era anco-ra studente) e dal generale Walter Dornberger.

L’evoluzione delle ricerche missilistiche diPeenemünde non è né scontata né lineare. Ilprogetto, all’inizio della guerra (1939), sem-brava eccessivamente costoso e non necessa-riamente prioritario rispetto al potenziamentodell’aviazione (Luftwaffe): dei vari tipi della se-rie “Aggregat” (da A1 ad A12) soltanto il razzo“A4” risulta affidabile, ma i primi lanci (estate1941) falliscono o danno risultati scadenti.Il rallentamento della “guerra lampo”, la scon-fitta nella battaglia aerea d’Inghilterra, la pro-spettiva di una guerra di logoramento portanoa una maggiore attenzione di Hitler versoPeenemünde (novembre 1941) e all’appoggio,

dal 1942, del nuovo ministro per gli Arma-menti e la Produzione bellica, Albert Speer.

Alle rivalità (la Luftwaffe per parte sua stalavorando alla bomba volante “Fi 103”, poinota come V1), ai conflitti di competenzanell’apparato burocratico nazista e a quelli diinteresse (con l’intromissione di Himmler edella SS) si aggiungono gravi problemi produt-tivi. Per una massiccia produzione in serie di“A4” (poi soprannominati “V2”) occorre repe-rire materie prime, individuare e attrezzare lezone di produzione, procurare manodoperasufficiente.

Il progetto missilistico si sta però rivelandoun interessante affare per tutti:

«Ci si riprometteva di ottenere prestigio,guadagno, accesso alle materie prime e al-la manodopera, e infine ampliamento del-la propria sfera di potere. Le SS volevano ilprestigio, indipendenza nell’accedere allearmi e influenza sull’industria; il Ministeroper le armi e munizioni cercava di ottenereil controllo su tutte le parti della produzio-ne bellica, in competizione con l’UfficioArmamenti dell’esercito. […] Strettamen-te in connessione con il Ministero delle mu-nizioni agiva l’industria, che aveva il massi-mo interesse all’accesso gratuito alle nuovetecnologie avanzate, ripromettendosi di ot-tenere grandi vantaggi e possibilità di gua-dagno dal nuovo prodotto. […] Si andaro-no formando di volta in volta differenticoalizioni da parte dei gruppi di poterecoinvolti.»1

Questa rete di rivalità e la stessa concorren-za tra i razzi “Fi 103” e gli “A4” da un lato fini-scono per produrre un eccesso di fiducia nellenuove armi, con importanti conseguenze sulpiano strategico e politico, dall’altro chiarisco-no il ruolo delle forze in competizione fra loro.A favore dell’industria privata prevalgono mo-

1 F. Freund, KZ Zement Ebensee. Il campo di concentramento di Ebensee, commando di Mauthausen, e l’industria missilistica, trad. it. di E. Caserio,Burolo, ANED / L’Artigiana, 1990, p. 26.

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Capitolo II96

delli organizzativi e giuridici, come quello del-le società a responsabilità limitata (GmbH),che facilitano l’accesso a impianti e brevetti diproprietà dell’esercito, sia per la produzione fi-nita sia per il lucroso aspetto delle componentie dei semilavorati. Alla questione della mano-dopera provvederà invece, con rilevanti gua-dagni sul piano economico e di peso politico,tutta la macchina organizzativa dei campi diconcentramento strettamente controllati dallaSS di Himmler.

Un fattore non previsto tuttavia modificabruscamente questi sviluppi: la notte fra il 17 eil 18 agosto 1943, 600 apparecchi alleati bom-bardano Peenemünde. I nazisti salvano pro-getti e documenti, ma muoiono 168 tecnici,oltre a centinaia di operai (molti sono polacchie prigionieri sovietici). Nel giro di due settima-ne viene varato un progetto di dislocazionesotterranea della produzione missilistica prin-cipale in una serie di gallerie già esistenti (manon completate), ai piedi del Monte Kohnstein(332 m, sull’altopiano dello Harz), pressoNordhausen, in Turingia, scavate dalla societàWIFO (“Società di studi economici”, creatanel 1934 dal Ministero dell’Industria delReich) per realizzare un deposito sotterraneodi carburanti e prodotti chimici. Espropriatala WIFO, per il progetto di completamento erealizzazione del tunnel e del suo complesso si-stema di gallerie si fonda una società denomi-nata “Mittelwerke GmbH”. Viene creato unKommando di lavoro, dipendente dal KLBuchenwald: nome in codice, Dora. È il set-tembre del 1943.

I “Progetti Kammler”. L’ObergruppenführerSS Hans Kammler è incaricato dell’am-pliamento del progetto di dislocazione sot-terranea delle attività produttive legate allaproduzione missilistica, dislocazione cheperò nel corso del 1944 verrà estesa a unpo’ tutta la produzione bellica. Nasconocosì altri impianti sotterranei, per la mag-gior parte situati in territorio austriaco equindi dipendenti da Mauthausen: Redl-

Zipf, Ebensee, Gusen, Melk, Hinterbrühlfra i principali.I nomi in codice. Dall’estate 1943 si usano si-stematicamente nomi in codice per indica-re i progetti legati alla produzione missili-stica. Mittelwerk, Mittelraum, Mittelbau – conallusione alla collocazione geografica delloHarz, all’incirca al “centro” (Mitte) dellaGermania – indicano il coordinamento ge-nerale (e anche, come s’è visto, il nome diuna società). Dora indica il Kommando di-staccato nel Kohnstein, poi lo stesso KZ,quando verrà costruito. Laura, il Komman-do per il collaudo dei motori dei razzi si-tuato a Lehesten, fra Turingia e Baviera, inuna cava di ardesia; Zement (“Cemento”) eQuarz (“Quarzo”) sono attribuiti a Ebenseee Melk, Malachit a Langenstein, e così via.L’assegnazione di codici dilaga verso la fi-ne del 1944, con la produzione ormai siste-matica dei missili. Talvolta sono usati nomiin codice anche per le persone, come l’in-gegnere Porsche, che aveva progettato unavisita a Dora nell’estate 1944, ed è citatodai documenti segreti come “Doktor Piek”.Lo stesso nome di “Dora” sembra essereacronimo (estremamente generico) di Deut-sche Organisation Reichs Arbeit (ma se ne dan-no altre spiegazioni).

La prima fase del KZ Dora (28 agosto 1943-febbraio 1944)

In questo periodo Dora è uno degli oltrecento Aussenkommando di Buchenwald. I pri-mi deportati arrivano nella conca dove si acce-de al Tunnel della WIFO il 28 agosto 1943: so-no 107 polacchi scortati da 40 SS. Altri tra-sporti si susseguono: in ottobre i prigionieri so-no circa 4.000.

Di un vero e proprio Lager esterno alTunnel (con perimetro di recinzione, barac-che, edifici di servizio) si potrà parlare solo apartire dal marzo 1944: nei primi mesi si dàpriorità assoluta alla sistemazione del Tunnel,vista l’emergenza creatasi con la distruzione diPeenemünde.

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Il Tunnel WIFO consisteva in due gallerieparallele, A e B, distanti circa 200 m, collegatefra loro da gallerie di raccordo larghe undicimetri e alte otto per una superficie totale occu-pata di circa 100.000 m2. Nell’agosto 1943 pe-rò i lavori non sono ancora stati portati a ter-mine, e inoltre per la produzione missilistica sirende necessaria qualche modifica, soprattuttocon l’ampliamento delle gallerie trasversali.Soltanto l’uscita Sud della galleria B era stataultimata. Si dà dunque priorità allo scavo in-terno. Le SS alzano alcune tende presso l’usci-ta della galleria B mentre i deportati vengonodestinati al Tunnel: lì dentro per la maggiorparte “vivono”, lavorano e muoiono senza ve-dere l’esterno per mesi.

Le condizioni di lavoro sono inimmagina-bili: turni di 12-14 ore, ambiente saturo diumidità e di polvere prodotta dalle esplo-sioni e dai lavori di scavo nella roccia polve-rosa (anidrite). A parte gli specialisti, chi èfortunato lavora con piccone o pala, gli al-tri a mani nude. Per dormire si sono innal-zate strutture di legno a castello in alcunegallerie trasversali prive di aerazione; la di-stanza fra i piani è di mezzo metro, la ca-renza di ossigeno indebolisce ancora di piùi prigionieri alimentati in modo assoluta-mente insufficiente. Manca l’acqua potabi-le: l’unico apporto idrico è quello del surro-gato di caffé al mattino e alla sera, e della“zuppa” di mezzogiorno: quando va bene,due litri in tutto. E questo in un ambientepermanentemente saturo di polvere di cal-cio. Il sistema di controllo è quello del La-ger: ogni “mancanza” è punita con ferocibastonature o, se ritenuta sabotaggio, conla morte immediata, spesso nella forma diimpiccagioni collettive particolarmentecrudeli: i prigionieri sono appesi a decinealle travi della volta, o ai carrelli delle gru,con un morso alla bocca perché non gridi-no. Nel Tunnel si muore ogni giorno, per

sfinimento, per le percosse: a ogni turno unKommando porta all’esterno 40, 80 cada-veri e più.In genere i morti sono cremati a Buchen-wald: dalle registrazioni rimaste, si ricavaun totale di 2.882 decessi tra ottobre 1943e marzo 1944. Non si muore però solo nelTunnel: invalidi e malati sono anche inviatial Revier esterno (inizialmente una tenda,poi un blocco vero e proprio, quando na-scerà il campo con una struttura organiz-zata); da qui, nel gennaio 1944, partono al-cuni “trasporti” per Majdanek (KL in ter-ritorio polacco, fornito di camere a gas) eBergen Belsen. André Sellier ha valutato in3.000 il numero dei deportati eliminati inquesti trasporti: secondo il suo calcolo, fon-dato su documenti, sui 17.535 deportatientrati in Lager dal settembre 1943 al mar-zo 1944, i deceduti nello stesso periodo ri-sultano 5.882: un terzo circa del totale.2

A poco a poco viene ultimata la galleria A.Nel dicembre 1943 una parte della galleria B,dove sono previste le operazioni di montaggio,è attrezzata al punto da poter ricevere in for-ma ufficiale il ministro Speer, il quale, nelle suememorie, si dichiara impietosito dalle condi-zioni fisiche dei deportati e si attribuisce il me-rito di aver fatto avviare il progetto che porteràalla costruzione del campo esterno, «con ba-racche per i 10.000 prigionieri». A fine mesevengono ultimati tre razzi “A4”, conclusi sim-bolicamente la sera del 31 dicembre. Tuttaviala produzione sistematica sarà avviata solo do-po il completamento delle strutture interne,che si accompagna alla costruzione pianificatae stabile del campo esterno.

La costruzione del KZ e l’organizzazione del lavoro produttivo(marzo-settembre 1944)

A partire dal marzo 1944 una parte dei de-portati di Dora lavora all’edificazione del cam-

2 A. Sellier, Histoire du camp de Dora, Paris, La Découverte, 1998, pp. 399-403.

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po esterno e delle sue strutture. Sul modello diBuchenwald, il campo si presenta come unapiccola città, con un centinaio di costruzioni(numerate da 1 a 150, ma i numeri 43-100 nonfurono assegnati): 50 blocchi dormitorio, 9blocchi destinati al Revier e altri per serviziamministrativi e diversi, tra cui una bibliotecae un cinema (sul modello di Buchenwald), unacaserma di pompieri. Nell’estate del 1944 ilcampo, ripulito e svuotato dei prigionieri, in-viati nel Tunnel, verrà visitato dalla CroceRossa. Già da marzo, comunque, Dora è statodotato di un forno crematorio che lo rende au-tonomo nell’operazione di smaltimento deicadaveri. Si tratta all’inizio di un forno crema-torio di tipo leggero, collocato provvisoria-mente in una baracca; nel settembre 1944 èsostituito da quello tutt’oggi conservato nel-l’edificio originario.

L’organizzazione di Dora si sviluppa se-condo un vero e proprio modello industriale. Iprigionieri non dormono più nelle gallerie, emolti di loro escono finalmente a rivedere laluce dopo sei mesi. La maggior parte lavora, aturni, nel Tunnel, e utilizza il campo esternoper dormire, per i rari momenti di riposo, eper il ricovero in Revier. Una serie di squadre èdestinata ai lavori di manutenzione e di gestio-ne delle strutture esterne e al trasporto dei se-milavorati e delle parti prodotte in altri sotto-campi od officine, mentre gli addetti alla per-forazione continuano a vivere permanente-mente in galleria, notte e giorno, salvo perio-diche uscite per la disinfestazione.

La lavorazione degli “A4” (cioè “V2”) com-prende una serie molto differenziata dioperazioni, dalle meno qualificate (traspor-to materiali), affidate alle Transportkolon-nen, sorta di sottoproletariato del campo, aquelle specialistiche a vari livelli, che met-tono sovente a contatto prigionieri e civilitedeschi, “capisquadra” (Meister) o inge-

gneri. Il sistema diventa pienamente opera-tivo in autunno; nella stessa epoca l’estre-mità Sud della galleria A (chiamata “WerkII”) viene riservata alla produzione dei “Fi103” (noti come “V1”), sotto il controllodella Luftwaffe (le “V2” sono invece di re-sponsabilità Wehrmacht). Tutta la proce-dura costruttiva, in alcune fasi di elevato li-vello tecnologico, è sintetizzata nelle paginedi Ricciotti Lazzero.3

Il funzionamento del campo esterno pre-senta numerose analogie con quello dei KLnella fase dello “sterminio produttivo”(Vernichtung durch Arbeit) prevista, in sostanza,dalla Circolare Pohl. Una particolarità di Do-ra è comunque costituita dal Revier, che nelperiodo estate-autunno 1944 vede la presenzadi personale medico (costituito da prigionieri)competente e in grado, per una serie fortunatadi combinazioni, di aiutare per quanto possibi-le i malati. Il medico capo SS, Kahr, è favore-vole ai miglioramenti e all’efficienza dell’ospe-dale; Kapo e Schreiber sono due politici tede-schi, comunisti, che godono della stima gene-rale e sono bravi organizzatori. Fra i medici c’èun noto chirurgo mastoideo francese, LouisGirard; francese è anche il chirurgo capo,Jacques Poupault, affiancato da specialisti ce-chi, belgi e francesi. Oltre a salvare, nei limitidella situazione, i compagni, il personale delRevier diventa punto di riferimento per l’orga-nizzazione della Resistenza del campo; reteche subirà un duro colpo con una serie di arre-sti e uccisioni alla fine del 1944.

È possibile tracciare un bilancio quantitati-vo di Dora nei mesi che vanno dall’aprile al-l’ottobre 1944. In questi mesi il campo registrala presenza di un numero di prigionieri relati-vamente costante, tra le 11.000 e le 12.000unità, che salgono a 12.000 per settembre e ot-tobre. La mortalità media è di 150 persone almese.

3 R. Lazzero, Gli schiavi di Hitler. I deportati italiani in Germania nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1996, pp. 132-133.

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L’organizzazione del lavoro si articola an-che in una rete via via più complessa di sotto-campi che, pur dipendendo – come del restoDora – da Buchenwald, fanno però capo aMittelbau-Dora per il ciclo produttivo d’insie-me. Come s’è detto, il progetto generale, inparticolare per quanto riguarda le dislocazionisotterranee, era affidato a Hans Kammler e alsuo Sonderstab (“Stato maggiore speciale”) consede a Porta Westfalica, presso Minden, e divi-so in quattro “ispettorati” (Sonderinspektionen).Questi uffici individuavano le località e crea-vano i nomi in codice.

Fra questi sottocampi ricordiamo, ancheper la presenza di italiani, quello già citato diLehesten “Laura” (collaudo propulsori dei“V2”), con un migliaio di prigionieri; quello diEllrich “Erich”, con una media di 5-6.000 pri-gionieri e una mortalità molto elevata a parti-re dal dicembre 1944 (381 morti) fino al piccodel mese di marzo (circa 1.000 morti); quellodi Zwieberge-Langenstein, che toccò un mas-simo di 5.000 prigionieri (vi perirono 97 italia-ni); quello di Gandersheim, reso noto dall’in-tensa testimonianza di Robert Antelme, Laspecie umana.

L’autonomia del campo e gli ultimi mesi (ottobre 1944-aprile 1945)

Nell’autunno 1944 Dora cessa di dipende-re da Buchenwald e diventa un Lager autono-mo (e principale) con il nome di KZ Mittel-bau. La decisione è applicata dal 1° novembreanziché dal 1° ottobre inizialmente previsto, epuò essere spiegata come presa d’atto dellaconcentrazione nell’area del Mittelraum ditutto il sistema di fabbricazione delle “armi se-grete”, di fatto secretato e svincolato, nella ge-stione, dal KL Buchenwald, da cui alcuni sot-tocampi, come Zwieberge-Langenstein, con-tinuano tuttavia a dipendere. Sono però possi-bili anche altre interpretazioni che individua-no una dialettica interna ai comandi SS.

I Kommando dipendenti da Mittelbau-Dora assommavano a una quarantina: sene può vedere un elenco nel già citato sag-gio di Ricciotti Lazzero.4 Tra di essi,Ellrich “Erich” e Harzungen “Hans” con-tano migliaia di prigionieri. Per avereun’idea della distribuzione dei deportati, siconsiderino le cifre di novembre 1944 (se-condo A. Sellier):5 13.441 presenti a Dora,7.870 a Ellrich, 4.009 a Harzungen, e i re-stanti distribuiti in 5 sottocampi. Un docu-mento dell’amministrazione centrale deiKZ rileva, all’appello del 15 gennaio 1945,un totale di 29.323 prigionieri presenti intutto il complesso di Mittelbau (a fronte dei33.797 del 1° gennaio 1945).

Mentre continua la produzione ormai apieno ritmo di “V1” e “V2”, a Mittelbau, do-po gennaio, cominciano ad affluire i convogliprovenienti dai Lager dell’Est caduti in manoai sovietici: Auschwitz, Gross-Rosen. Chi nonmuore all’arrivo viene spostato a Nordhausen,nella Caserma Boelcke: questo luogo diventaun terribile “centro di raccolta” dove, insiemecon gli inabili al lavoro inviati da Ellrich eHarzungen, i prigionieri vengono abbandona-ti a se stessi e lasciati morire. Nel Tunnel i na-zisti si accaniscono contro i sovietici, condrammatiche impiccagioni collettive effettua-te sia nelle gallerie sia sull’Appellplatz del cam-po. A questo proposito osserva Sellier:

«I sovietici paiono essere stati eliminati inquanto sovietici, per razzismo, come lo erastato un numero considerevole di prigio-nieri di guerra fin dal 1941. […] Il secondoaspetto notevole di queste esecuzioni è lascelta del Tunnel. […] Sembra che si siavoluto impressionare i civili tedeschi, la cuifedeltà al regime non era più così sicura.»6

La fine di Mittelwerk è segnata il 1° aprile,con l’avvicinarsi degli Alleati (più lontani, co-munque, di quanto fosse stato riferito a vonBraun). La produzione viene interrotta, si na-

4 Ibidem, pp. 164-167.5 A. Sellier, op. cit., p. 263.6 Ibidem, p. 286.

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scondono nella miniera di Dörnten progetti,piani e documenti; i tecnici abbandonano laTuringia. Nei giorni successivi Nordhausen èbombardata (moriranno anche alcuni depor-tati superstiti nella Boelcke Kaserne, diventa-ta, come s’è visto, un deposito di malati, inabi-li e moribondi abbandonati a se stessi), e lastruttura organizzativa del campo collassa.

Ha allora inizio una serie di “marce dellamorte” che da Dora o dai sottocampi porta iprigionieri (quelli che sopravvivono) a BergenBelsen, Ravensbrück, Sachsenhausen, Lubec-ca. A Gardelegen, il 15 aprile, i nazisti chiudo-no in un fienile un migliaio di deportati, poiappiccano il fuoco e sparano su chi cerca difuggire. Muoiono quasi tutti: 1.016 persone.Due russi, tre francesi, un ebreo ungherese edue polacchi si salvano e segnaleranno agliAmericani, una settimana dopo, il massacro.Le fotografie di Gardelegen e della BoelckeKaserne (molto diffuse, anche se quasi sempreprive di didascalie) restano fra i documenti piùatroci della storia di Dora e dei Lager nazisti.

Quale fu il bilancio umano diDora e dei suoi sottocampi? Se-condo André Sellier, «per uncomplesso concentrazionario ilcui ordine di grandezza era, indefinitiva, di circa 40.000 prigio-nieri, le perdite umane in pocopiù di venti mesi saranno state dicirca 26.500 vittime: 15.500 nelcampo o nei “trasporti” e 11.000al momento delle evacuazioni».7

La deportazione degli italiani a Dora

Il primo gruppo di deportatiitaliani giunge a Dora l’8 ottobre

1943. Si tratta di prigionieri militari – IMI8 –da questo momento però sottoposti allo stessotrattamento dei deportati politici e cosiddettirazziali.9 In particolare a Dora gli IMI sonoimmatricolati con un numero preceduto da ze-ro (tra i primi morti in galleria, le matricole0333, 0388, 0316, 019…) che li distingue ri-spetto ai triangoli rossi (i politici) immatricolaticon le serie di Buchenwald (cinque cifre).

I deportati IMI nel campo del Tunnel risul-tano, secondo alcune fonti,10 748. Un elencopiù preciso di nominativi completi, ma riferitoanche ai sottocampi di Dora e comprendentealtre categorie di deportati, assomma a 1.453persone. Di questi morì circa un terzo, standoad alcune ricerche ancora in corso.11

Il 14 dicembre 1943 sette IMI addetti alleperforatrici, a cui il Kapo ha sottratto partedella razione di cibo, protestano: il gesto è con-siderato sabotaggio e il giorno dopo vengonofucilati davanti agli altri prigionieri. I loro no-mi sono ricordati su un pannello posto presso illuogo della fucilazione.

7 Ibidem, p. 403.8 IMI: “Internati Militari Italiani”, deportati nel territorio del Reich dopo l’8 settembre e rinchiusi in appositi Stalag (doppio acronimoper Mannschaftsstammlager, “campo principale per prigionieri di guerra”) e Offlag (Offizierlager, “campo per ufficiali”). In alcuni casi, mili-tari italiani e IMI furono inviati in KZ (Dachau e Buchenwald-Dora sono i casi più noti).9 Usiamo l’espressione “cosiddetto” perché il concetto di “razza”, scientificamente infondato, non può essere condiviso nemmeno sulpiano linguistico e terminologico.10 A. Sellier, op. cit., pp. 130-131.11 Ricciotti Lazzero, negli Allegati del suo saggio già citato, riporta un elenco di 430 nomi.

Testimonianza di Albino Moret sul luogo della fucilazione degli IMI (marzo 2002)

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La produzione missilistica e i suoi sviluppi postbellici

Anche su tale argomento si possono pro-porre alcune cifre – non dei morti, bensì deimissili prodotti. André Sellier valuta in 4.575il numero di “V2” prodotte fra il gennaio 1944e il 18 marzo 1945, con un totale di 3.255 tiririusciti (1.610 sul Belgio, 1.403 sulla Gran Bre-tagna – quasi tutti su Londra – e il resto in altriPaesi europei). Ricciotti Lazzero, che utilizzaaltre fonti, fa salire la quantità di “V2” prodot-te a 5.789. Quanto ai “V1”, il dato più sicuro èl’indice di produzione per il mese di febbraio1945 (concentrata dunque nel Tunnel A):2.275 esemplari. I tiri riusciti di razzi “V1”(solo in parte prodotti a Dora) furono nel com-plesso 21.770.12

La vicenda di Dora si prolunga nei decennidel dopoguerra. Si suole dire che il KZMittelbau-Dora si colloca alle origini dei volispaziali e del programma “Apollo” dellaNASA. La questione è naturalmente più com-plessa e vi si accennerà qui per sommi capi.

a) La divisione della Germania e la spartizionedelle tecnologie di Dora. Liberata dalle forzefranco-anglo-americane, la Turingia è inclusanell’area di controllo sovietico a partire dal lu-glio 1945. Tuttavia, ai primi di maggio gliamericani avevano rintracciato von Braun,Dornberger e numerosi tecnici. L’archivio diDörnten viene ricuperato poco prima che lazona passi sotto il controllo britannico: quat-tordici tonnellate di documenti sono inviatenegli USA. Si avvia parallelamente un pianoper il ricupero di parti di “V2” e di macchinarinecessari al loro assemblaggio: 450 tonnellatedi materiali prendono così la strada degli StatiUniti, verso la base militare di White Sands. Il17 luglio, superando una serie di difficoltà ditipo politico, prende avvio l’“OperazioneOvercast”, per il reclutamento da parte degliUSA di specialisti tedeschi in “bombe volan-ti”, guidati da von Braun, interlocutore privi-

legiato degli americani. Il contingente di scien-ziati e tecnici comprenderà 146 persone – dicui 127 specialisti in “V2” – stabilite negliStati Uniti a partire dai primi mesi del 1946. AWhite Sands saranno eseguiti, tra il 1946 e il1947, 66 lanci di “V2”.

Gli inglesi per parte loro tentano di assol-dare von Braun e Dornberger nell’estate 1945,ma senza successo; compiono quindi alcunilanci di “V2” che sono riusciti a ricostruire,nella base di Cuxhaven e più avanti in Austra-lia. I risultati insoddisfacenti li convincono adabbandonare la ricerca in questo campo (“Pia-no Blackfire”).

Nel luglio 1945 i sovietici assumono il con-trollo della Turingia e quindi di Dora; gli ame-ricani hanno asportato documenti e macchi-nari, ma le installazioni sono rimaste intatte. Isovietici rintracciano alcuni specialisti, fra cuiHelmut Gröttrup, e li trasferiscono in UnioneSovietica. Nell’ottobre 1947 vengono effettua-ti i primi di una serie di 11 lanci di “V2” dallabase di Kapustin Yar (200 km a Est di Stalin-grado).

Anche la Francia s’interessa ai “V1” e “V2”e si assicura la collaborazione di tecnici tede-schi. Fra loro è l’ingegnere Heinz Bringer, delgruppo di Peenemünde, che decenni più tardiideerà il motore “Viking” del razzo europeo“Arianna”.

b) L’occultamento del passato. Nessuno di que-sti tecnici – con una sola eccezione – sarà inda-gato per le responsabilità nella conduzionedella fabbrica di missili a Dora, cioè del KZMittelbau. Va poi notato che soltanto negliStati Uniti il gruppo di scienziati tedeschirimane protagonista anche nel passaggio allaricerca spaziale (dopo una prima fase incen-trata sulla ricerca di nuove armi). Il ricordo diDora e del ruolo degli scienziati nazisti vieneoccultato sia negli Stati Uniti sia in Gran Bre-tagna. La spettacolarità del programma spa-ziale (satellite Explorer I, febbraio 1958; pro-gramma “Apollo”, 1961; “Saturno V”, no-

12 Cfr. i saggi citati di Sellier e di Lazzero rispettivamente alle pp. 163 e 145-146.

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vembre 1968, seguìto dallo sbarco sulla Lunadue anni dopo) fa di von Braun una figura diprimo piano della ricerca tecnologica, e inva-no le associazioni dei deportati francesi prote-stano fin dal 1966: le loro denunce sonoignorate.

Solo alla fine degli anni Settanta si solleva ilvelo sulla tragedia di Dora e sulle responsabili-tà degli scienziati, soprattutto grazie a un li-bro-testimonianza di un deportato francese,Jean Michel, dal titolo significativo: Dora. Nel-l’inferno del campo di concentramento dove gli scienzia-ti nazisti preparavano la conquista dello spazio(Parigi, 1975), tradotto in inglese quattroanni dopo.

Bibliografia. Uno dei più recenti lavori su Dora èin francese: André Sellier, Histoire du camp de Dora, Pa-ris, La Découverte, 1998, 537 pp., con ricca biblio-grafia di riferimento (una delle più aggiornate, com-plete e interessanti), anche scientifica. È specifica-mente dedicato a Dora il capitolo V (“La fabbricapiù crudele d’Europa”) in Ricciotti Lazzero, Glischiavi di Hitler. I deportati italiani in Germania nella secon-da guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1996,pp. 109-153 / 163-195. La memorialistica italianasu Dora non è molto ricca e comprende un solo reso-conto di una “matricola zero” (quello di Pialli). Eccoun elenco quasi completo: Osiride Brovedani, L’in-ferno dei vivi. Memorie di un deportato, Trieste, Grafad,1971; Gregorio Pialli, Una voce da Buchenwald. CampoDora-Buchenwald, Verona, Bettinelli, 1966 / Vicenza,Scuola Grafica I.S.G., 19732 (edizione riveduta e ag-giornata); Carlo Slama, Lacrime di pietra. Gli orrori delLager segreto dove si costruivano le V2, Milano, Mursia,1980 sgg.; Calogero Sparacino, Diario di prigionia. Unsiciliano nel Lager, Milano, La Pietra, 1984 (ora dispo-nibile in rete: www.deportati.it).

Il KL di RavensbrückLucio Monaco

Ubicazione e topografiaRavensbrück, campo di concentramento

femminile, si trova nei pressi di Fürstenbergsulla Havel, 90 km a Nord di Berlino, nella re-gione del Brandeburgo. È dunque un Lagerinsediato nel cuore del Reich, per la sua vici-nanza al centro del potere politico.

La struttura del Lager è grosso modo ret-tangolare, anche se si è modificata con il tem-po. Cinto da un muro alto 4 metri, attrezzatocon corrente ad alta tensione, il Lager fu in ori-gine dotato di 14 baracche, di cui ciascunaospitava da 200 a 250 donne, più l’infermeriae i servizi. Dopo gli ampliamenti, il settore del-le prigioniere venne a comprendere una ses-santina di “baracche” (Blöcke) allineate dentrodue rettangoli adiacenti. Il crematorio si trova-va a metà strada fra il Lager e il Lago Schwed(dove erano versate le ceneri). Fuori del cam-po, a Nord, c’erano le installazioni industriali(Siemens). Vicino al Lager, separato dalla zonaamministrativa SS, era ubicato il piccolo cam-po maschile. Circa 1 km a Ovest esisteva il sot-tocampo di Uckermark, o Jugendlager, conce-pito all’inizio (1942) come campo di rieduca-zione per giovani tedesche, ma diventato dallafine del 1944 il luogo di eliminazione delle pri-gioniere malate e inabili al lavoro prelevate nelcampo principale.

Storia e cronologia del campo1937-1939: i primi progetti di centri di deten-zione esclusivamente riservati alle donne comeRavensbrück risalgono al 1936 (la fortezza– “casa di lavoro” – di Moringen, presso Han-nover).1 Dalla fine del 1937 le donne di Morin-gen, che all’inizio erano una settantina, venne-ro tutte trasferite nel centro di Lichtenburg, an-ch’esso attivo dal 1933 ma diventato, dal 1937,

1 Bundesgesetzblatt 1977, al n. 957 dell’elenco. Essa fu attiva fra il marzo 1933 e il marzo 1938, anche se soltanto negli ultimi due anni eb-be la funzione di accogliere esclusivamente donne tedesche internate.

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“campo femminile” (Frauenschutzlager); vi eranorinchiuse prigioniere di diversa provenienza:politiche, comuni, ebree, Testimoni di Geova,emigrate rientrate in Germania, donne accusa-te di reati contro la purezza “razziale”.

Questi due KZ costituiscono il prototipodel campo di Ravensbrück, aperto il 15 mag-gio 1939 come unico campo destinato a rice-vere esclusivamente detenute donne: al termi-ne della sua costruzione (maggio 1939) vi con-fluiranno per prime proprio le circa 2.000 pri-gioniere di Lichtenburg.

Lager femminile dalla parte delle detenute,Ravensbrück lo fu anche dalla parte dellaguarnigione: non però al livello delle strutturedi comando, assegnate a uomini SS, riprodu-cendo in tal modo la gerarchia dei sessi che futipica del Terzo Reich.

L’organizzazione del Lager non si differen-ziava da quella di tutti gli altri KL; il servizio disorveglianza era svolto da 150 “guardiane”(Aufseherinnen) – tre di loro nel dopoguerrasaranno giustiziate – alle dipendenze di unaOberaufseherin.

Oltre a essere KL, Ravensbrück fu anchesede di campo d’addestramento per le sorve-glianti dei settori femminili dei KL (creati ver-so il 1941-42). Si calcola che fra il 1942 e il1945 fossero state istruite a Ravensbrück circa3.500 ausiliarie della SS.

Quando Ravensbrück comincia a popolar-si di prigioniere, i KL hanno mutato la propriafisionomia rispetto ai primi campi “selvaggi” eal prototipo di Dachau. Nuove categorie si ag-giungono a quella, dominante fino al 1936, dei“politici”: sono gli “asociali” (termine assai ge-nerico che può comprendere una casisticapiuttosto vasta, dal vagabondaggio alla micro-delinquenza al disturbo mentale), i dissenzien-ti per ragioni religiose (a cominciare dai Bibel-forscher, i Testimoni di Geova, “Studiosi dellaBibbia”), gli zingari, gli ebrei (le leggi di No-

rimberga risalgono al 1935) e ancora i detenu-ti comuni, gli omosessuali, i politici arrivati afine pena carceraria e non scarcerati. Un mu-tamento che riflette la politica di serrata nazifi-cazione dell’esercito e della diplomazia, attua-ta da Hitler per estendere in profondità il pote-re del partito su tutti i settori della società tede-sca, e che comporta un estendersi del numerodei KL. Questa composizione variegata appa-re nel campo dai primi mesi: il Block 1 è asse-gnato alle politiche; il 2 alle zingare e alle aso-ciali; il 3 alle Testimoni di Geova, e così via neimesi successivi. Oltre 400 zingare arrivano agiugno portando con sé i loro bambini: si puòintravedere qui uno dei caratteri più specifici edrammatici della deportazione femminile.

1939-1940: con le invasioni territoriali (Sude-ti) e lo scoppio del conflitto, Ravensbrück sipopola di un’altra categoria di deportate: le“politiche” straniere. È la fase della internazio-nalizzazione dei KL. Nei Paesi conquistati sisviluppa la Resistenza nelle sue varie forme: aRavensbrück arrivano prima le resistenti po-lacche (dal 23 settembre 1939), poi le cecoslo-vacche (dall’agosto 1940). Accanto all’interna-zionalizzazione, il campo segue anche l’evolu-zione del sistema concentrazionario, con il col-legamento all’economia e all’industria delReich. Ancora in tempo di pace, nell’inverno1938-39, Himmler aveva fondato due società,DEST e DAW,2 che avrebbero sfruttato il lavo-ro degli internati facendo capo all’Ufficio eco-nomico SS diretto da Oswald Pohl.

Le SS si trasformano in imprenditori cherealizzeranno affari colossali sia con le indu-strie di guerra (a partire dalla crisi del 1942) siacon i fabbricanti d’installazioni di morte dimassa (camere a gas, crematori). In questo pro-cesso, contrastato e contraddittorio (per l’op-posizione all’attività di Pohl da parte del capodella Gestapo, Heydrich, e di Eicke, capo del-l’Ispettorato dei campi), s’inseriscono le donnedeportate, che popolano il “loro” campo a rit-

2 Cfr. supra, nota 1, p. 38.

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mo crescente: oltre 3.000 nell’aprile 1940, ol-tre 4.000 in agosto.

1941: è installato nel Lager uno stabilimento,di proprietà SS, per la confezione di divise mi-litari. Lo “stabilimento” (Industriehof) è costrui-to da squadre di detenuti di Dachau, che edifi-cheranno anche un piccolo Lager maschile(circa 2.000 prigionieri).

In agosto scoppia un’epidemia e il campo èabbandonato a se stesso per alcune settimane,sorvegliato a distanza dalle SS. A settembre siattribuisce la matricola 7935. Ripresa in manola situazione, le SS verso la fine dell’anno inau-gurano il sistema delle selezioni: le deportateanziane, malate o invalide vengono trasferitein altri Lager o centri di eliminazione.

1942: l’attività produttiva di Ravensbrück co-nosce un grande sviluppo. La Siemens vi tra-sferisce una filiale, collocata oltre la cinta delLager, che utilizzerà la manodopera del cam-po; vengono ampliati o costruiti nuovi blocchi,capannoni, magazzini: siamo nel 1942,Ravensbrück è diventata una città che passanel corso dell’anno da 7.000 a 10.000 abitanti(ma le matricole toccano il numero 15558 indicembre).

Lo stesso anno vede avviarsi l’infamia dellesperimentazioni mediche: anche su questo ver-sante la condizione delle donne deportate, spe-cie se appartenenti alle categorie “inferiori”– come le slave (in questo caso le polacche) –eguaglia quella degli uomini (sottoposti a speri-mentazioni analoghe a Dachau e Sachsen-hausen). Un’ottantina di prigioniere polacche,russe, Testimoni di Geova tedesche, e una bel-ga sono sottoposte a esperimenti di vivisezionefra l’agosto 1942 e il gennaio 1943. Molte muo-iono, altre verranno uccise in seguito. Un pic-colo gruppo sopravviverà grazie alla solidarie-tà delle compagne e potrà testimoniare controi responsabili degli esperimenti.

Alla fine del 1942, quando erano già inizia-ti gli invii ad Auschwitz (deportate ebree e zin-gare), e la curva della mortalità era in costanteascesa, si calcola che le deportate presenti nelLager fossero salite a 10.800.

Intorno al 1942 il sistema del lavoro ormaiorientato verso l’industria di guerra si espande,e Ravensbrück, città concentrazionaria, si cir-conda di sottocampi e Kommando di lavoroesterni (saranno più di 40 nel 1945) oppure af-fitta la manodopera ad altri KL.

«Per tutti – scrive Lidia Beccaria Rolfi – ba-sti ricordare la miniera di sale di Beendorf,[…] dove le detenute hanno lavorato allaproduzione di pezzi di aereoplano in unafabbrica sotterranea installata a 600 metrisotto terra, in una vecchia miniera di sale.L’evacuazione di queste deportate [nel1945] è fra le più drammatiche, un viaggiod’inferno durato 12 giorni in vagone be-stiame, in condizioni così inumane chequando il treno arriva a Neuengamme haabbandonato sul percorso circa 1.000 ca-daveri.»3

1943: in aprile è immatricolata la prigionieran. 19.244. Si costruisce il crematorio. La fun-zione del campo per l’impiego di manodoperafemminile nell’economia di guerra diventasempre più massiccia: le donne sono impiegatein ogni tipo di lavoro, dalla produzione indu-striale ai lavori pesanti, al trasporto di materia-li edilizi. Si completa il sistema dei sottocampie il numero delle prigioniere cresce progressi-vamente, nonostante le strutture restino quelledel 1942 (ne consegue il sovraffollamento delcampo). Un tentativo di eliminare le polacchesopravvissute agli esperimenti medici vienesventato da una ribellione delle compagne diBlock.

1944: la produzione industriale bellica è spin-

3 L. Beccaria Rolfi, “Il Lager di Ravensbrück. La popolazione femminile dalla nascita del campo alla liberazione”, in L. Monaco (cur.),La deportazione femminile nei Lager nazisti, Milano, FrancoAngeli, 1995, p. 36.

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ta al massimo e le prigioniere crescono costan-temente di numero. Il numero di matricolapassa dal 38818 di aprile al 91748 di dicem-bre, le prigioniere presenti a un appello da24.720 a 43.733 negli stessi mesi (questi datisono stati conservati grazie a prigioniere fran-cesi addette agli uffici di registrazione). Per au-mentare la capacità ricettiva del campo vieneinstallata una grande tenda su una zona palu-dosa (Block 25) in cui furono ammassate e mo-rirono migliaia di prigioniere, specialmentepolacche. Allo sfruttamento intensivo per il la-voro consegue una crescita della mortalità, ac-canto all’eliminazione fisica degli elementinon desiderati (anziane, donne incinte, prigio-niere con problemi psicologici). Il 1944 vedeun afflusso di massa di nuovi arrivi da tuttele parti d’Europa, Italia compresa, e ancheda Auschwitz (soprattutto di polacche daBirkenau).

La filiale della Siemens, posta fuori dellarecinzione, si organizza e diventa un vero eproprio sottocampo, con cinque blocchi dor-mitorio, un blocco di “servizi” estremamenteprimitivo e un blocco per la cucina (le malatesono inviate al campo principale). Il tutto ècinto da filo spinato sotto tensione.

1945: l’appello del 15 gennaio registra 46.070prigioniere e 7.848 prigionieri. Al sovraffolla-mento del campo le SS rimediano con trasferi-menti mediante selezione al campo di Ucker-mark, dove le prigioniere vengono uccise conveleno e con iniezioni. Accanto al crematorios’installa una camera a gas Zyklon-B, adattan-do una baracca di legno, del cui funzionamen-to si occupano, dalla fine di gennaio, alcune SStrasferite da Auschwitz (abbandonato dai na-zisti il 18 gennaio). Il Sonderkommando di pri-gionieri addetti alla camera a gas e alla crema-zione sarà sterminato dalle SS il 25 aprile1945, ma vi sono testimonianze di prigionierie dichiarazioni giurate di SS che permettonodi ricostruire la vicenda. In totale, le vittimedella camera a gas di Ravensbrück assomma-no a circa 6.000.

Un’altra camera a gas in muratura era in

fase di costruzione ma fu distrutta dalle SS aiprimi di aprile per non lasciare tracce di que-sta tecnica di sterminio (si trattava di una strut-tura complessa, simile a quelle di Hartheim odi Birkenau, anche se di minori dimensioni).

Nel marzo 1945 tutte le deportate francesiclassificate “NN” (“Nacht und Nebel”, cioècondannate a morte), e un gruppo di donnezingare con i bambini vengono inviate a Mau-thausen, da dove le più anziane e malate e lemadri con bambini verranno rinviate a BergenBelsen. In aprile vengono liberate, dopo tratta-tive con la Croce Rossa, più di 300 francesi,norvegesi, belghe e olandesi.

Il 26 aprile il campo è evacuato con unaterribile “marcia della morte” diretta a Nord.Le superstiti sono raggiunte e liberate dall’Ar-mata Rossa a Schwerin, e lo stesso avviene peralcune centinaia di prigioniere rimaste, perchémalate o incapaci di muoversi, nel Lager prin-cipale.

Il lavoroIl lavoro inutile. Praticato soprattutto nella

fase della quarantena, o a scopo punitivo, eccocome lo descrive Lidia Beccaria:

«Il lavoro consiste nel prendere una palatadi sabbia nel mucchietto di sinistra e get-tarla in quello di destra dove la compagnadi fianco esegue la medesima operazione.La sabbia viaggia in tondo e ritorna al luo-go di partenza dopo essere passata sullapala di tutte le deportate addette al lavoro.Se la compagna di sinistra è più forte, se sausare la pala, e se non ha ancora capito onon vuole capire il gioco delle aguzzine, ilmucchio di sinistra cresce, l’SS se ne accor-ge, incomincia a urlare: “Schnell!” e spessopicchia con le mani o con il frustino la de-portata che non sa reggere al ritmo, chenon si adegua al tirocinio del lavoro a cate-na, e la malcapitata deve per forza accele-rare i tempi. Il lavoro della sabbia è un la-voro che massacra: avviene per noi sotto ilsole di luglio che batte sul capo scoperto,non concede un attimo di sosta, elimina

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tutti i tempi morti, perché durante quelleore è proibito bere, fermarsi, accedere allalatrina (che non esiste). S’interrompe amezzogiorno, giusto il tempo per rientrarea passo di marcia al campo, correre nelblocco, consumare la zuppa velocemente,tornare; poi la danza in tondo della sabbiariprende e dura fino a sera. La giornatanon finisce mai, il lavoro spezza le reni, lemani non abituate a tenere la pala gonfia-no e si riempiono di vesciche, la testa scop-pia per il caldo e la fatica. Alla fatica fisicasi aggiunge la rabbia per quel lavoro inuti-le, assurdo, che non è possibile inquadrarenemmeno nella logica del profitto, perchédistrugge la manodopera prima ancora diaverla sfruttata nella produzione.[…] Etuttavia anche questo lavoro senza sensoha uno scopo: a Ravensbrück tutto ha unsenso, se visto nella logica della città con-centrazionaria. La vita inattiva delle de-portate nel blocco di quarantena […] è te-muta dalle SS, perché può trasformarsi inun’organizzazione di resistenza alla disu-manizzazione e in una scuola di educazio-ne politica.»4

Il lavoro produttivo. Lo sfruttamento dellamanodopera schiavile costituita dalle deporta-te cominciò con l’installazione della sartoria diproprietà SS. Il reparto era comandato da unaSS, Gustav Binder, particolarmente feroce, ca-pace di picchiare fino alla morte, senza ragio-ne evidente, le prigioniere; viveva con la mo-glie e il figlio nell’area riservata alle SS. Le de-portate erano poi impiegate nelle attività pro-duttive dei vari sottocampi (in tutto una qua-rantina) di cui il più vicino era a poche decinedi metri, il “Campo Siemens” (Siemenslager).Ecco come lo descrive Lidia Beccaria:

«Il lavoro si svolge in due turni: dodici oreper il turno di giorno […] e dodici ore di

notte […] Giorno e notte le schiave lavora-no a pieno ritmo, senza tempi morti, senzanemmeno andare alle latrine. Le operaieassenti per malattia sono sostituite imme-diatamente, quelle che non dànno la buo-na produzione sono licenziate e rimpiaz-zate […].»5

Le prigioniere di Ravensbrück, oltre a lavo-rare nei sottocampi, potevano anche essere“affittate” alle amministrazioni di altri Lagerper svolgere attività produttive.

Svolgere un’attività produttiva poteva rap-presentare una possibilità di sopravvivenza,ma significava in qualche misura collaborarecon i nazisti. Ecco perché si svilupparono co-munque varie forme di resistenza, da quellaestrema del rifiuto del lavoro (che coinvolse leTestimoni di Geova) alle forme di sabotaggio,spesso scoperte e punite con la morte.

Il lavoro “disponibile”.Le squadre venivano formate ogni giorno,

con compiti diversi, scegliendo le prigionieredalla colonna delle “disponibili” (verfügbaren),non impegnate in Kommando stabili.

«Sono i lavori più duri e massacranti: boni-fica dei terreni paludosi lungo le rive del la-go, rimboschimento di zone brulle, tagliodi pini, carico e scarico di vagoni e di bat-telli, […] pulizia dei pozzi neri, disinfesta-zione.»6

Lo sterminio: esperimenti medici e selezioni

Nel Lager si praticò sistematicamente losterminio delle persone improduttive (per etào per malattia) seguendo sistemi diversi a se-conda dei periodi e del livello di affollamento:

a) “trasporti neri”: le prigioniere seleziona-te come inabili erano inviate in luoghi di ster-minio (Majdanek, Hartheim e altri luoghi col-

4 L. Beccaria Rolfi / A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Torino, Einaudi, 1978, pp. 33-34.5 Ibidem, p. 83.6 Ibidem, p. 73.

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legati alle Operazioni “T4” e “14f13”). Il pri-mo trasporto di questo tipo risale al dicembre1941. «Poi i “trasporti neri” si susseguirono alritmo di due o tre al mese, fino alla fine dinovembre-inizio dicembre 1944. Effettuati dinotte, quasi clandestinamente, non compren-devano che 50-70 donne alla volta.»7 Altri tra-sporti simili potevano essere molto più nume-rosi, come quello diretto a Majdanek (gennaio1944, 900 prigioniere e qualche decina dibambini);

b) Jugendlager: le inabili erano inviate pureal vicino sottocampo di Uckermark, che con isuoi 6 Blöcke diventò, dalla fine del 1944, cam-po di eliminazione, attuata con metodi vari(avvelenamento, inedia, assideramento e ab-bandono). Anche a Uckermark si svolgevanoulteriori selezioni per l’invio nella camera agas del Lager principale;

c) esperimenti medici: quelli più noti si svol-sero fra l’agosto 1942 e la primavera 1943 nelreparto di osteologia chirurgica del medico SSKarl Gebhardt. Con il pretesto di sperimenta-re rimedi per la cancrena gassosa e altre pato-logie legate alle ferite da arma da fuoco, si ef-fettuarono interventi disumani e crudeli:asportazioni di ossa, induzione di infezioni,mutilazioni (in realtà tali pratiche vanno visteanche alla luce delle forti rivalità fra ambientimedici SS). Si svolsero inoltre pratiche di steri-lizzazione e di aborti forzati. C’è da ricordareche i numerosi neonati furono in un primotempo uccisi subito, poi lasciati morire di famein un apposito reparto, il Kinderzimmer (set-tembre 1944-aprile 1945). Qui nacquero (nelperiodo di tempo indicato) almeno 500 bam-bini. Solo cinque sopravvissero grazie alla soli-darietà delle prigioniere. Molti bambini tem-poraneamente sopravvissuti vennero inviati intrasporto a Bergen Belsen, insieme alle madri;

d) camere a gas: come già detto prima, a Ra-vensbrück fu attuato anche lo sterminio me-diante gas Zyklon-B, per un totale di circa 6.000

vittime, a partire dal gennaio 1945. L’intera or-ganizzazione faceva capo alla SS JohannSchwarzhuber, già comandante ad Auschwitzfino all’ottobre 1944, trasferito a Ravensbrücknel gennaio del 1945. Le vittime rientravanoperlopiù nella categoria delle malate e delle ina-bili al lavoro e venivano in genere trasferite inprecedenza al campo di Uckermark; di lì eranoinviate alla camera a gas, ma il trasferimento siregistrava come “trasferimento a Mittwerda”,in modo da non farlo figurare nelle statistichedella mortalità del campo. Non sono compro-vate occasionali uccisioni con il gas in ambientiprovvisori (come i vagoni ferroviari).

Le cifreIl calcolo delle deportate presenta numero-

se difficoltà. Dall’apertura del KL al febbraiodel 1945 si calcola che le deportate immatrico-late a Ravensbrück siano state 107.753. Par-tendo da questa cifra come approssimata perdifetto, si è proposta la cifra totale di 125.000persone deportate in Lager.

In termini generali i gruppi nazionali era-no in percentuale così ripartiti: polacche24,9%; tedesche 19,9; russe e ucraine 19,l;ebree di varie nazionalità 15,l; altre 2,2. Lefrancesi erano 793; le zingare, forse, 534; lebelghe 279; le ceche 179; le jugoslave 173. Dif-ficile anche il calcolo delle vittime, per la prati-ca di registrare come “trasferite” numerose de-portate inviate alla morte. Secondo alcune sti-me, le vittime sarebbero state circa 90.000.

Le italianeIl primo convoglio di italiane deportate

comprendeva 14 “politiche” piemontesi, giun-te da Torino il 30 giugno 1944. Seguirono al-meno 7 trasporti (ma la cifra andrà probabil-mente aumentata) per un totale, approssimatoper difetto, di 313 persone (l’ultimo arrivò il 16gennaio 1945). Questa cifra aumenterà sicura-mente con il proseguimento delle ricerche an-

7 G. Tillion, Ravensbrück, Paris, Seuil, 1988, p. 221.

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cora in corso, che hanno individuato, a tut-t’oggi, 919 nomi di italiane e italiani immatri-colati a Ravensbrück, provenienti sia dall’Ita-lia sia da altri Lager.

Scrive Lidia Beccaria Rolfi: «A parte po-che eccezioni, credo comunque che le italianein campo abbiano avuto un destino abbastan-za simile: arrivate tardi, quando già Raven-sbrück è sovraffollato, sono partite in trasportidi lavoro o sono rimaste mescolate fra la follaanonima ed eterogenea del sottoproletariatocon rari contatti con le privilegiate. Alcune,come me, riescono a risalire il primo scalinodella scala sociale, a diventare operaie e ad ar-rivare a Siemens o al Betrieb, dove tuttaviahanno sempre una situazione peggiore di altrein quanto sono isolate, possono contare rara-mente sull’appoggio di deportate di altre na-zionalità, non ricevono pacchi né corrispon-denza, devono comprare tutti gli oggetti es-senziali con moneta pesante: razioni di pane edi zuppa. La maggior parte di quelle che sonorimaste sottoproletariato, verfügbar sempre,sono scomparse, travolte dalla macina del si-stema che ha condannato a morte tutte, maper prime le deportate non produttive.»8

Bibliografia.Sono fondamentali le seguenti opere di memoria (initaliano): L. Beccaria Rolfi / A. M. Bruzzone, Le don-ne di Ravensbrück, Torino, Einaudi, 1978; M. Massa-riello Arata, Il ponte dei corvi. Diario di una deportata aRavensbrück, Milano, Mursia, 1979; M. Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e di Hitler, trad. it. di M.Margara, Bologna, il Mulino, 1994; M. Coslovich,Storia di Savina. Testimonianza di una madre deportata,Milano, Mursia, 2000.Fra gli studi si segnala: L. Monaco (cur.), La deporta-zione femminile nei Lager nazisti, Milano, FrancoAngeli,1995 (Atti del Convegno internazionale di Torino,20-21 ottobre 1994, con numerosi interventi suRavensbrück).Sugli esperimenti medici si può vedere: L. Sterpello-ne, Le cavie dei Lager. Gli “esperimenti medici” delle SS,Milano, Mursia, 1978, 19852.

Il KZ di Sachsenhausen e la sua storiaLucio Monaco

Situato a 35 km a Nord di Berlino, nei pres-si di Oranienburg, il campo di Sachsenhausenfu di fatto aperto il 12 luglio 1936.

Si tratta dunque del secondo Lager instal-lato dai nazisti, dopo quello di Dachau (1933).

In questa data (luglio 1936) presero posses-so della prima baracca 50 deportati trasferitidal KL di Esterwegen nello Emsland. Sempreda Esterwegen vi furono trasportati nel giro ditre settimane altri 1.000 detenuti, cui se ne ag-giunsero altri provenienti da Lichtenburg (chediventò campo femminile) e Sachsenburg.

Gradualmente il KL di Sachsenhausen siconfigurò come il più grande KL della Ger-mania settentrionale: dai 31 ettari del primoimpianto, con attrezzature industriali e podereper il lavoro agricolo, si espanse fino a coprire388 ettari, compresi gli edifici industriali e iquartieri per le SS.

La sua pianta era quella di un gigantescotriangolo. Destinato in origine a circa 10.000detenuti con 68 baracche ed edifici accessoriper la produzione e la guarnigione, finì percomprendere oltre 210 baracche. Queste ulti-me si allineavano su quattro file a semicerchiointorno all’Appellplatz. Il campo era cinto daun muro alto 2,7 m, con 9 torri di guardia, dafilo spinato con corrente ad alta tensione eall’esterno da cavalli di Frisia della larghezzadi 1 m e 20.

Nel 1940 nello Industriehof fu costruito ilcrematorio con due forni.

Dall’autunno 1941 fu avviato un program-ma di eliminazione sistematica e pianificatadei prigionieri di guerra sovietici. Fu innalzatoun apposito Block denominato “Centro diricerche mediche”, con annesso un cremato-rio. Il settore del campo in cui si trovava eraisolato da un ulteriore muro di cinta che impe-diva la visuale.

I prigionieri erano fucilati o impiccati, op-pure uccisi in “veicoli a gas” (monossido di8 L. Beccaria Rolfi / A. M. Bruzzone, op. cit., p. 107.

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carbonio) appositamente concepiti. Fu co-struita anche una camera a gas che funzionavacon Zyklon-A (liquido in capsule) e con il piùnoto Zyklon-B: un dispositivo automatico per-metteva l’apertura del contenitore del gas e unventilatore spingeva il gas all’interno dellacamera.

Un aspiratore aerava il locale; i corpi veni-vano poi avviati al crematorio. Questo ciclo diuccisione e distruzione programmata è in so-stanza simile a quello dei campi di eliminazio-ne immediata come Treblinka o Birkenau.

Non è tuttavia possibile indicare il numerocomplessivo dei deportati uccisi nella cameraa gas. Sicuramente, oltre ai 18.000 sovietici eli-minati nel campo, vi fu uccisa una parte dei4.000 deportati malati nel febbraio 1945; ver-so la fine del 1944, secondo una testimonianzadel Rapportführer Böhm, furono gassate 27lavoratrici coatte dell’Est.

Oltre a essere uno dei più estesi KL sul ter-ritorio del Reich, Sachsenhausen diventò unasorta di città delle SS, con grandi baraccamen-ti e depositi, in quanto sede centrale dell’Ispet-torato di tutti i KL, alla cui testa fu postoTheodor Eicke, l’ex comandante di Dachau.

Il trattamento particolarmente feroce chefu praticato nei confronti dei deportati aSachsenhausen è responsabile dell’elevatamortalità registrata: fra il gennaio e il marzodel 1940 morirono 2.000 dei 12.000 deportatipresenti, sterminati da epidemie, dal freddo,dalla fame.

In un primo tempo i più deboli erano smi-stati su Dachau, poi furono spediti all’elimina-zione alla volta di Auschwitz, Majdanek e de-gli altri campi di sterminio fuori del Reich.

La massima mortalità colpì comunque iprigionieri sovietici.

Nel novembre del 1938 aveva avuto iniziola deportazione degli ebrei tedeschi, cui si ag-giunsero 1.200 studenti cecoslovacchi dopol’occupazione del 1939 e, fra gli altri gruppi, iminatori francesi deportati dopo gli scioperidel Pas de Calais.

È possibile ricostruire, anche se la docu-

mentazione è incompleta, una tabella indicati-va delle presenze nel KL:

31 dicembre 1941: 10.705 deportati;31 dicembre 1942: 28.224;31 marzo 1944: 47.709;31 gennaio 1945: 56.624;20 aprile 1945: 36.687.

È tuttavia difficile stabilire con certezzaquanti deportati siano passati per il campo diSachsenhausen; il tribunale sovietico che nel1947 condannò le SS del campo valutò i de-portati a Sachsenhausen sulle 200.000 unità,di cui almeno 100.000 hanno trovato la morte.

Dal dicembre del 1944 gli eccidi in massa sisusseguirono in concomitanza con l’evacuazio-ne di altri KL che si riversavano su Sachsen-hausen sotto l’incalzare dell’avanzata sovietica.

Nella graduatoria dei gruppi nazionali cheebbero il maggior numero di vittime si trovanoal primo posto i sovietici, seguìti da polacchi,tedeschi, francesi, olandesi, belgi, norvegesi ealtri ancora.

La mortalità a Sachsenhausen fu alimenta-ta dal rigore stesso delle pene corporali. Straf-exerzieren e Strafsport (tra cui il cosiddettoSachsengruss: fare flessioni per ore con le brac-cia incrociate dietro la testa) erano modi tantodiversi quanto inutili e sadici per spossare i de-portati, al pari delle fustigazioni, del “palo”,degli appelli in piedi per ore al gelo sino allosfinimento. Ancor più metodiche erano le tor-ture che avvenivano nel Bunker, il carcere delKL. Le forche servivano per esecuzioni segreteo pubbliche, a scopo di intimidazione, specieper impedire tentativi di fuga. Le celle d’isola-mento, in cui fu rinchiuso anche il pastoreMartin Niemöller e furono uccisi numerosipolitici, e soprattutto la compagnia di punizio-ne (i cui componenti erano costretti a marciareanche per 50 km al giorno con zaini carichi di15 kg di sabbia), fecero parte del complesso or-ganizzato per l’assassinio premeditato dei de-portati. Tra i diversi eccidi, si ricorda quellodell’11 ottobre 1944 in occasione del quale fu-rono fucilati, fra gli altri, tre ex deputati comu-

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nisti al Reichstag (Ernst Schneller, MathiasThesen e Gustl Sandtner).

Del lavoro dei deportati nei 61 sottocampidi Sachsenhausen profittarono anzitutto le im-prese economiche della SS, in particolare laDAW e la DEST,1 ma anche un folto gruppodi industrie private che noleggiavano i depor-tati pagando al comando del KL un prezzoancora più alto di tali imprese. Le SS lucrava-no poi anche sullo sfruttamento dei cadaveri esulla rapina dei valori asportati ai prigionieri edepositati presso la Reichsbank. Tra le indu-strie dell’area berlinese che sfruttarono i de-portati di Sachsenhausen si citano almenoDemag, Heinkel, Henschel, Argus, Daimler-Benz, IG-Farben, Brabag, UFA, Siemens,AEG, Registratori Krupp.

Oltre al lavoro, mezzo diffuso di sterminioa Sachsenhausen fu rappresentato dalla prati-ca degli esperimenti medici eseguiti sui depor-tati nella cosiddetta infermeria modello(“Block di Patologia”), che in realtà era una ve-ra e propria camera di tortura. Vi furono spe-rimentati nuovi gas, nuovi farmaci contro iltifo petecchiale, la tubercolosi, l’epatite epide-

mica e per il rallentamento dell’attività cardia-ca, l’effetto di nuove granate e di pallottole ve-nefiche. Si testarono unguenti contro le ustionial fosforo. Quest’ultima risultava una praticaparticolarmente dolorosa perché i detenuti do-vevano essere per prima cosa ustionati.

Il 10 aprile 1945 il campo principale subìun grave bombardamento aereo. Sotto l’incal-zare dell’avanzata sovietica, il 21 aprile 1945 leSS ordinarono l’evacuazione, trasformatasi inuna lunga teoria di detenuti avviati a marceforzate verso il Mar Baltico che lasciava, stradafacendo, una scia ininterrotta di cadaveri. Leprime truppe sovietiche che arrivarono a Sa-chsenhausen all’alba del 22 aprile liberarono isuperstiti. Questi erano in gran parte ammala-ti che non avevano potuto essere evacuati e fu-rono assistiti da medici sovietici e polacchi, im-pegnati poi a contenere ulteriori decessi.

Italiani deportati a SachsenhausenLe più recenti ricerche hanno rintracciato

421 nominativi di italiani deportati a Sachsen-hausen, direttamente o da altri Lager, fra cui

risultano 10 donne prove-nienti dall’Istria e dalla Vene-zia Giulia.

Antonio Temporini (1922-2001), che abitò a Moncalieridal 1946, fu deportato anchea Sachsenhausen-Oranien-burg (matricola 72496).

Anna Cherchi, prigionieraa Ravensbrück, fu portata nel“Blocco di Patologia” diSachsenhausen per esservisottoposta a una sperimenta-zione pseudomedica, comeracconta nei video già citati,44145 Anna e La necessità di so-pravvivere, quest’ultimo allega-to al volume.

38 Cfr. supra, nota 1, p. 38.

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111

Le origini dell’uomo modernoIl cervello dell’uomo, 300.000 anni fa, aveva dimensioni uguali alle nostre; anzi,

un volume un po’ superiore a quello attuale, anche se ciò non implica che la strutturainterna fosse uguale alla nostra. Nel corso dei 100.000 o 200.000 anni successiviscompaiono le parti più primitive della fisionomia di Homo sapiens arcaico e si assiste auna evoluzione degli strumenti; ma è possibile che l’uomo abbia dovuto subire ulte-riori cambiamenti per giungere all’attuale livello di evoluzione.

La maggior parte delle scoperte importanti di resti fossili è stata fatta scavando,spesso non a scopi archeologici, soprattutto in Europa, dove vi è un’alta densità di po-polazione più che altrove e quindi una maggiore necessità di costruire. Questo ci spie-ga perché l’Europa sia stata molto studiata, sia dal punto di vista archeologico che pa-leoantropologico e ci abbia fornito grandi quantità di materiale. Ed è proprio inEuropa che, negli ultimi 200.000 anni, si sviluppa un tipo particolare di Homo sapiens,l’uomo di Neanderthal, mentre in Africa si trova un sapiens arcaico più simile all’uomomoderno.

L’Africa è sicuramente al centro dell’origine e dell’espansione dell’uomo, anche senon tutti i paleoantropologi concordano: alcuni danno molta importanza alle scoper-te fatte in Cina, dove i reperti di Homo erectus sarebbero somiglianti ai cinesi attuali.Questi studiosi sostengono che l’uomo moderno non si sia sviluppato in un’area geo-grafica particolare ma nel mondo intero e quindi sono a favore di un’origine “policen-trica” cioè di una ipotesi di evoluzione multiregionale, secondo la quale le po-polazioni di Homo erectus migrarono dall’Africa in tempi remoti e si evolsero poi local-mente in Homo sapiens, mantenendo reciproche relazioni grazie a un flusso genico.

Capitolo III - Percorsi di memoria

Scienza, razza, biologia: un percorso possibileRosella Cocciolo

Il così tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi, che se ne fanno un solo boccone, si comportainvece in modo assai diverso quando è molto puro: allora resiste ostinatamente all’attacco. Se ne potevano trar-re due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l’elogio della purezza, che protegge dal male come unusbergo; l’elogio dell’impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamentemoralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vi-ta viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze… Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano disale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non seiuguale… perché ebreo sono anch’io… Sono io l’impurezza che fa reagire lo zinco, sono io il granello di sale edi senape. L’impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di “La Difesa della Raz-za”, e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro.

Primo Levi, “Zinco”, da Il sistema periodico

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Capitolo III112

Altri paleoantropologi sostengono l’ipotesi africana, secondo la quale l’antena-to dell’uomo moderno era africano; esso si sarebbe evoluto in diverse specie di Homosapiens arcaiche, rimpiazzate successivamente dalla linea dell’uomo moderno.

Le testimonianze più antiche dei nostri diretti progenitori sono due e vengono en-trambe dal Sudafrica: le caverne dette Border Caves e quelle alla foce del fiumeKlasies. La datazione dei due siti è compresa fra i 130.000 e 74.000 anni fa per il pri-mo, fra i 15.000 e 74.000 anni fa per il secondo. Altri siti archeologici, abitati da uo-mini di tipo moderno, sono stati scoperti in Medio Oriente: il più importante è inQafzeh (Israele) datato fra i 109.000 e 92.000 anni fa.

Grazie a questi ritrovamenti si conferma l’ipotesi che l’uomo moderno abbia avu-to origine in Africa, ipotesi suffragata dal fatto che l’Homo sapiens arcaico africano (chein precedenza viveva in Africa) è molto più simile all’uomo moderno che non l’Homosapiens arcaico di altre parti del mondo.

Vari tipi di Homo sapiens arcaico abitavano diverse parti del Vecchio Mondo già300.000 anni fa: Neanderthal in Europa 200.000 anni fa, e l’uomo moderno in Africadel Sud e Israele 100.000 anni fa; successivamente, nell’arco di tempo di poco più di60.000 anni, l’Homo sapiens sapiens raggiunge tutti gli angoli del pianeta mostrando disapersi avventurare e adattare.

Sembra che l’uomo moderno abbia raggiunto la Nuova Guinea e l’Australia circa60.000 anni fa costruendosi delle imbarcazioni per attraversare il mare, che a queitempi era meno esteso ma rappresentava comunque un ostacolo da superare solo conmezzi nautici. In Australia si trovano siti archeologici datati intorno a 55.000-60.000anni fa e resti fossili di uomo moderno che risalgono a 40.000-35.000 anni fa.

In Europa l’uomo moderno giunge un po’ più tardi: probabilmente provenendoda Oriente arriva in Francia intorno ai 35.000 anni fa. In seguito raggiunge le partipiù fredde dell’Asia e successivamente le Americhe intorno ai 15.000 anni fa approfit-tando del fatto che lo Stretto di Bering, nel corso dell’ultima glaciazione, si presentavacome terra emersa (TAV. 1).

TAV. 1 - Espansione dell’uomo moderno. (Fonte: L. e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo, p. 182)

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113Percorsi di memoria

“Eva africana” e il DNA mitocondrialeUna nuova ipotesi, basata sul modello africano e sugli studi del DNA mitocondriale,

sostiene che una popolazione di uomini moderni visse in Africa 200.000 anni fa, co-minciò a migrare attraverso il Medio Oriente verso l’Asia e l’Europa circa 100.000anni fa sostituendo, con il suo arrivo, Homo erectus e Homo neanderthalensis.

Questa ipotesi nasce da una ricerca di laboratorio sui mitocondri condotta daAllan Wilson, un biochimico che ha lavorato all’Università di Berkeley in California.Nel gennaio del 1987 A. Wilson e i suoi collaboratori pubblicano su Nature “Mito-chondrial DNA and Human Evolution”, un articolo destinato a segnare un’epoca:

A giudizio di Wilson e colleghi, i dati relativi al DNA mitocondriale indica-no che la trasformazione dalle forme arcaiche di Homo sapiens a quelle mo-derne è avvenuta in Africa, prima che altrove, in un periodo compreso fra100.000 e 140.000 anni fa, e che tutti gli esseri umani attuali discendono daquella popolazione africana.1

Lo studio di Wilson e colleghi è la prova più convincente, a livello molecolare, a so-stegno dell’ipotesi dell’origine dell’uomo moderno da una popolazione africana pri-mitiva.

Ma prima di spiegare questa ipotesi è necessario parlare un po’ di Biologia. (TAV. 2)

I meccanismi che regolano l’ere-dità biologica in tutti gli organismi vi-venti sono controllati dal nucleo e inparticolare dai suoi cromosomi, daigeni e dal DNA.

• I cromosomi sono strutture costi-tuite da DNA e proteine, contengonol’informazione genetica e sono visibi-li soltanto durante i processi di divi-sione cellulare.

• Il gene è un’unità ereditaria pre-sente nel cromosoma, sequenza dinucleotidi che svolge una funzionespecifica come codificare la sintesi diuna molecola di RNA o di una pro-teina.

• Il DNA (acido desossiribonuclei-co) è una macromolecola costituitada zucchero, fosfato e base azotata (nucleotide), ha una struttura elicoidale a doppio fila-mento e contiene tutte le istruzioni genetiche.

La trasmissione dei caratteri ereditari dai genitori ai figli avviene al momento delconcepimento, quando lo spermatozoo feconda la cellula uovo: in queste cellule ger-minali è contenuto tutto il DNA destinato a formare un nuovo individuo e a renderlo

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1 R. Lewin, Le origini dell’uomo moderno, trad. it. di I. C. Blum, Bologna, Zanichelli, 1996, pp. 89-90.

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Capitolo III114

simile ai suoi genitori. I loro nuclei partecipano in egual modo alla formazione delnuovo individuo, portando ognuno un corredo cromosomico quantitativamenteeguale (23 cromosomi) ma qualitativamente diverso come patrimonio genetico eredita-rio; il citoplasma della nuova cellula (zigote) è fornito invece esclusivamente dall’uovo.(TAV. 3)

• I mitocondri sono organelli presenti in tutte le cellule degli organismi superiori, tal-volta a decine di migliaia, che si occupano della produzione di ATP. Si pensa che inorigine fossero batteri, che si sono legati in simbiosi con le cellule; si riproducono indi-pendentemente dal nucleo, seppure sotto il suo controllo.

Il mitocondrio è però indipendente dal resto della cellula in quanto provvisto di unsuo piccolo cromosoma costituito, come tutti i cromosomi, da DNA e, in un cromoso-ma umano, si compone di 15.600 nucleotidi.

Un fatto importante da considerare è che i mitocondri sono trasmessi ai figli solo dallamadre. Quindi, il DNA dei mitocondri di due fratelli è identico, anche se hanno un pa-dre diverso.

Nel DNA mitocondriale, però, ogni tanto, hanno luogo dei piccoli cambiamenti(succede anche nel DNA nucleare) che chiamiamo mutazioni, per cui uno dei quindici-mila e più nucleotidi viene sostituito da un altro. Da quel momento in poi i discenden-ti di una stessa madre avranno quel filamento di DNA mitocondriale mutato. Le mu-

tazioni sono un fenomeno abbastanza raro, e quando osser-viamo il DNA mitocondriale di individui che hanno la stessamadre non ne troviamo; se prendiamo individui senza lega-mi parentali le differenze si trovano.

Il DNA mitocondriale offre dati facilmente interpretabiliai fini della ricostruzione di alberi filogenetici. Esso accumu-la le mutazioni da 5 a 10 volte più velocemente del DNA nu-cleare ed è utile per documentare tempi evolutivi relativa-mente brevi.

Le indagini di Allan Wilson e collaboratori rivelano chedue individui che differiscono per un solo nucleotide hannoascendenti comuni più vicini nel tempo rispetto a individuiche differiscono per due o più nucleotidi e che la prima sepa-razione nell’albero del DNA mitocondriale umano ha avutoluogo 190.000 anni fa, data di nascita della cosiddetta Evaafricana.

Quindi l’idea è che tutto ha avuto origine in Africa: Homoabilis e Homo erectus si sono originati in Africa; le osservazioniarcheologiche suggeriscono la stessa cosa per l’uomo moder-no. Ma quando è avvenuto tutto ciò? Per Homo habilis due mi-lioni e mezzo di anni fa; Homo erectus ha lasciato l’Africa unmilione di anni fa e Homo sapiens sapiens 100.000 anni fa, poi-ché a partire da questa data troviamo tracce di uomo moder-no in Africa e Medio Oriente.

La data indicata da A. Wilson è di 190.000 anni ed è inaccordo con l’origine africana, ma come giustifichiamo laT

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115Percorsi di memoria

differenza tra i 190.000 anni suggeriti dalle ricerche sul DNA mitocondriale e i100.000 anni dei reperti archeologici trovati in Sudafrica e Israele?

I 190.000 anni in realtà segnano l’inizio della prima mutazione avvenuta nel DNAmitocondriale di una singola donna, la cui figlia è risultata diversa dagli altri. I discen-denti di quella donna hanno avuto destini geografici diversi: molto probabilmentenon hanno lasciato subito l’Africa, anzi dev’essere trascorso molto tempo fra l’originedella mutazione e il formarsi di un gruppo di discendenti che dal continente africanopenetrò in Medio Oriente e in Arabia. La data della migrazione è anteriore a quelladel ritrovamento dei primi crani fossili in Israele ed è più tarda di quella in cui è avve-nuta la mutazione mitocondriale. Le date mitocondriale e archeologica sono diverse:la prima è più antica della seconda.

Siamo diversi

Per le attuali popolazioni il termine “razza” andrebbe bandito, sostituitodall’espressione descrittiva neutra “gruppo etnico”.2

Le differenze che vi sono tra gli individui sono differenze dovute a diversi fattori:una buona parte di queste è di natura biologica ed ereditaria, determinata dai nostrigeni e quindi dal nostro DNA. L’altra parte è dovuta all’influenza che l’ambiente hasull’individuo, a fattori accidentali o a modificazioni volontarie.

La genetica moderna applicata alla teoria dell’evoluzione ci ha permesso di rico-noscere l’esistenza di forze che determinano le differenze biologiche tra gli individui eche sono sostanzialmente quattro: la mutazione, la selezione naturale, il caso e la mi-grazione.

• Le differenze che vi sono tra i vari gruppi etnici e che colpiscono, ancora oggi,molti di noi, sono il risultato di mutazioni e cioè di piccoli cambiamenti che avvengonoin modo casuale nel DNA e che possono essere vantaggiosi per l’individuo perché lomigliorano. Il colore della pelle, dei capelli e degli occhi, la forma del corpo e le suecaratteristiche hanno tutte una componente biologica e quindi ereditaria: l’espansio-ne dell’uomo moderno dall’Africa agli altri continenti ha generato un adattamento,culturale e biologico, alle diverse condizioni climatiche, conseguenza di una vera epropria differenziazione genetica. Per esempio abbiamo colori diversi della pelle per-ché è più vantaggioso avere la pelle chiara nelle regioni settentrionali e scura nelle re-gioni tropicali: la pelle chiara è in grado di assorbire i raggi ultravioletti e trasformareil precursore della vitamina D, presente nei cereali, in vitamina; la pelle scura proteg-ge dagli ultravioletti e impedisce la formazione della vitamina: è quindi sufficiente, inquesti casi, mangiare pesce o carne.

La mutazione può anche essere non vantaggiosa perché danneggia l’individuomodificandone una o più funzioni (è il caso di alcune malattie ereditarie come la ta-lassemia, la corea di Huntington, la sindrome di Down), oppure vantaggiosa per ilportatore di una data malattia ereditaria (vantaggio dell’eterozigote) come la talassemia:l’individuo eterozigote è più resistente alla malaria.

Ma vi sono anche mutazioni completamente invisibili ai nostri occhi: il sistema dei

2 J. S. Huxley / A. C. Haddon, Noi Europei. Un’indagine sul problema «razziale», trad. it. di F. Mastrorilli / M. Nani, Torino, Edizioni diComunità, 2002, p. 199.

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Capitolo III116

gruppi sanguigni A, B, AB, 0 è un esempio di mutazione umana ereditaria.• Gli esempi appena descritti sono anche casi di selezione naturale: l’espressione, co-

niata da Darwin nella sua teoria dell’evoluzione, indica il processo mediante il qualela natura “sceglie” l’individuo più adatto all’ambiente.

• Il caso è una componente importante nella storia dell’evoluzione: una mutazionepuò andare perduta, specialmente dopo parecchie generazioni, o al contrario può sal-varsi; può anche avere un successo tale da soppiantare definitivamente il tipo prece-dente.

• La storia dell’uomo è fatta di piccole e grandi migrazioni: dal punto di vista geneti-co i cambiamenti di residenza di un’intera famiglia, lo spostamento seguìto da un ma-trimonio, le colonizzazioni sono spostamenti importanti che hanno dato vita a strut-ture molto caratteristiche.

Quindi la teoria dell’evoluzione può aiutarci a comprendere la storia dell’umani-tà, anche se un grosso contributo, oggi, ci viene dato dagli studi sul DNA mitocon-driale e dalla ricerca genetica.

L’albero riportato in figura (TAV. 4) fa riferimento allo studio di 110 geni: sono i ge-ni dei gruppi sanguigni, delle proteine del sangue, di enzimi e altri caratteri. Si può os-servare che la differenza più grande è quella che separa gli africani dai non africani, equesto rafforza le ipotesi di molti paleoantropologi secondo i quali l’uomo modernoha avuto origine in Africa e da lì si è poi spostato in altre parti del mondo.

È possibile, quindi, ricostruire la storia dell’uomo a partire dalle popolazioni attua-li? Se studiamo un solo gene non sarà possibile dire molto, anche se è impossibile direa priori quale dev’essere il numero di geni studiato. Sicuramente un criterio corretto èquello di continuare a esaminare nuovi geni sino a quando non si raggiungerà unastabilità delle conclusioni tale da non evidenziare alcun cambiamento nonostantel’aumento del numero osservato. Oltre al numero è necessario considerare anche lavelocità di variazione di un gene, velocità che cambia molto dall’uno all’altro ed è dif-

ficile da misurare. Sicu-ramente la selezionenaturale può avere unagrande influenza ridu-cendo o aumentandoin modo notevole la ve-locità evolutiva anchese vi sono geni (geni si-lenziosi) che non ven-gono influenzati dallaselezione naturale.

Al contrario vi sonogeni che variano po-chissimo da una popo-lazione all’altra: quindinon è facile prevedere ecalcolare la velocitàevolutiva di un gene.

TAV. 4 - Albero delle popolazioni. (Fonte: L. e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo, p. 179)

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Grazie agli studi condotti da Luigi Luca Cavalli-Sforza, se a questo puntomettiamo a confronto i valori tra dati archeologici e dati genetici, otteniamo laseguente tabella:

Separazione fra popolazioni Tempo in cui è avvenuta Distanza geneticaAfrica e resto del mondo 100.000 anni fa 100Asia S.E. e Australia 55-60.000 anni fa 62Asia ed Europa 35-40.000 anni fa 48Asia N.E. e America 15-35.000 anni fa 30

Nota: nello studio della Genetica di popolazioni una delle applicazioni maggiormente riscontrate è ilconfronto di popolazioni diverse attraverso l’analisi delle frequenze alleliche (geni). A questo proposito si usala distanza genetica che misura la differenza genetica tra le popolazioni confrontando le frequenzedegli alleli tenendo conto di tutti i loci analizzati. Per esempio la frequenza del gene Rh- è in Inghilterradel 41,1%, presso i baschi del 50,4% e presso i lapponi del 18,7%: la distanza tra baschi e inglesi è del9,3% e tra baschi e lapponi è del 31,7%. Quindi, quanto più tempo è trascorso dal momento della sepa-razione di due popolazioni tanto maggiore è la distanza genetica tra esse.

Osservando i valori della tabella si nota che la distanza genetica tra due popolazio-ni diminuisce con il diminuire del tempo trascorso dalla separazione.

Se proviamo a calcolare la velocità evolutiva di numerosi geni otteniamo i seguen-ti valori e riscontriamo che le distanze genetiche tra l’Africa e gli altri continenti, se-condo gli studi di L. L. Cavalli-Sforza, sono:• 24,7 con l’Oceania• 20,6 con l’Asia• 16,6 con l’Europa• 22,6 con l’America

La distanza minore è quella tra l’Africa e l’Europa, seguìta da quella tra Africa eAsia. Essendo Africa ed Europa continenti vicini, vi sono state sicuramente migrazio-ni in entrambe le direzioni e scambi genetici importanti: quindi lo scambio geneticotra popolazioni altera le distanze genetiche riducendole tra quei popoli che hannoavuto grossi scambi migratori.

Diversi, ma in superficieSiamo pochissimo diversi. Abituati a notare le differenze tra pelle bianca epelle nera o tra le varie strutture facciali siamo portati a credere che debba-no esistere grandi differenze fra europei, africani, asiatici e così via. La real-tà è che i geni responsabili di queste differenze visibili sono quelli cambiati inrisposta al clima. Tutti coloro che oggi vivono ai Tropici o nell’Artico devo-no, nel corso dell’evoluzione, essersi adattati alle condizioni locali; non è tol-lerabile troppa variazione individuale per caratteri che controllano la nostracapacità di sopravvivere nell’ambiente che abitiamo. Dobbiamo inoltre te-nere a mente un’altra necessità: i geni che rispondono al clima influenzanocaratteri esterni del corpo, perché l’adattamento al clima richiede modifichedella superficie del corpo. Appunto perché esterne, queste differenze cattu-rano in modo prepotente il nostro occhio e automaticamente pensiamo chedifferenze della stessa entità esistano anche per tutto il resto della costituzio-ne genetica. Ma questo non è vero: siamo poco diversi per il resto della no-stra costituzione genetica.3

3 L. e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1993, p. 185.

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Capitolo III118

La “razza”

Il significato con cui la parola “razza” è usata dagli scienziati, quello concui è usata dai razzisti e quello con cui è usata nel linguaggio popolare si so-no inestricabilmente mescolati e confusi. La concezione che il profano hadella “razza” è così confusa e carica di elementi emotivi che qualsiasi tenta-tivo di modificarla sembrerebbe incontrare grossi ostacoli… È un vocaboloche suscita rapide reazioni… risposte emotivamente condizionate.4

L’adattamento climatico ha originato, quindi, caratteri visibili sulla superficie cor-porea dell’uomo e ciò ci porta a pensare che possano esistere le “razze”. Ai tempi diGobineau, diplomatico e scrittore francese del XIX secolo, abbagliato dall’ideale del-la “razza” pura, si conoscevano solo i caratteri visibili e non si sapeva ancora che perottenere la purezza e quindi l’omogeneità genetica è necessario, per decine di genera-zioni, incrociare tra loro parenti molto stretti come fratelli e sorelle, genitori e figli; econ quale risultato? Le conseguenze sarebbero assai negative sia per la fecondità siaper la salute dei figli; e poi… non è mai accaduto nella storia dell’uomo.

È corretto parlare di “razza” per l’uomo? La storia dell’uomo è paragonabile aquella di altre specie animali? Qual è il significato di questo termine?

Partiamo da quest’ultima domanda: secondo Battaglia la “razza” è «l’insieme dianimali o piante della stessa specie, contraddistinti da caratteri pressoché omogenei,trasmessi ereditariamente. Con riferimento all’uomo, indica ciascuno dei gruppiomogenei (gruppi bianco, negro e giallo) in cui (secondo concezioni scientifiche pro-prie del secolo XIX) si suddividerebbe l’umanità in base a un insieme di specifici ca-ratteri biologici, somatici, e psico-attitudinali che inciderebbero in modo determinan-te nelle capacità intellettive ed emotive e nel comportamento socio-culturale degli ap-partenenti a ciascun gruppo. Nella seconda metà del secolo XX, dopo le tragicheesperienze derivate dalle ideologie razziste e, in particolare, da quella nazista che pre-tendeva di trovare in tale concezione il fondamento oggettivo delle sue proposte e atti-vità politico-criminali, le scienze antropologiche, biologiche e genetiche hanno rimes-so in discussione la validità scientifica del concetto di “razza” proponendo di definirlosemplicemente come ciascuna popolazione che si distingue dalle altre per la frequen-za relativa di certi tratti somatici ereditari.»5 In biologia la “razza” è concepita come lasuddivisione di una specie che eredita le caratteristiche fisiche di una data popolazio-ne, distinguendosi così da altre popolazioni di quella specie. Il termine ha un’originenon molto chiara e a questo proposito nel 1959 il filologo romanzo GianfrancoContini6 ha individuato l’etimologia della parola “razza” nel francese antico haraz,letteralmente “allevamento di cavalli, deposito di stalloni” (da cui l’espressione “ca-vallo di razza”). Nel 1749 L. L. de Buffon lo introduce nella letteratura scientifica, nelsuo significato zoologico.

Per quanto riguarda l’origine dell’uomo possiamo dire che tutte le varietà umaneappartengono alla stessa specie e che derivano da un unico ceppo. Per gli animali ècorretto parlare di razze perché essi non vagano al di fuori del loro normale habitat e

4 A. M. F. Montagu, La razza. Analisi di un mito, trad. it. di L. Lovisetti Fuà, Torino, Einaudi, 1966, pp. 365-366.5 S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1990, vol. XV, s. v.6 G. Contini, “I più antichi esempi di «razza»”, in Studi di filologia italiana, 1959, vol. XVII, pp. 319-327.

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119Percorsi di memoria

la stabilità delle loro consuetudini è fondamentale nella formazione delle razze; quan-do si vogliono fare paragoni tra l’uomo e gli altri esseri viventi dobbiamo tenere contoche la storia dell’uomo è unica e tipica della sua specie, fatta di migrazioni e di incroci.

Se esaminiamo numerosi geni tra gli individui di due Paesi vicini o di due città ita-liane potremo scoprire che vi sono differenze, ma che sono poco significative; la di-stanza genetica cresce con la distanza geografica ma, anche tra un africano e un euro-peo o altro, tale distanza è sempre troppo poco significativa. È vero che i biologi e i na-turalisti sono abituati a classificare: Linneo fu il primo ad adottare un metodo di clas-sificazione; ma può essere utile all’uomo classificare la sua specie in “razze”?

Sappiamo che la migrazione dà origine a nuovi incroci producendo frequenti me-scolanze tra geni: per es. la migrazione degli africani condotti come schiavi in Ameri-ca ha prodotto un importante flusso genico e gli studi effettuati sui RFLP (polimorfismi del-la lunghezza dei frammenti di restrizione) di individui europei mostrano che anche loro sonoil frutto di una mescolanza tra geni (intermedi tra africani e orientali).

Dunque, nella specie umana, il concetto di “razza” non serve a nulla: la strutturadelle popolazioni umane è talmente complessa, fatta di continue migrazioni e incrociattraverso tutti i continenti e le nazioni, da rendere impossibile una netta separazione.Studiando qualsiasi sistema genetico ritroviamo sempre un grado elevato di “varietàgenetica”, cioè un gene si può presentare nelle sue diverse forme (polimorfismo), e que-sto avviene per una piccola popolazione, per una grande popolazione, per una nazio-ne, per un intero continente: non esiste la purezza genetica.

Il razzista è convinto di appartenere a una “razza” biologicamente superiore aqualsiasi altra, ritenendo che la propria sia la migliore indipendentemente dal fattoche ciò che viene lodato di più siano questioni biologiche o socioculturali: è quindi perlui indispensabile mantenere la purezza affinché questa sua presunta superiorità nonvada perduta.

Ma forse il razzismo è anche una manifestazione di odio e paura per tutto ciò cheè diverso: se da un lato conosciamo molte cose sulla biologia del corpo umano, dall’al-tro continuiamo a ignorare o a saper molto poco del perché un uomo non riesca adamare, perché tenda a distruggere, perché odi e perché non riesca a comunicare conun altro essere umano. Purtroppo la società moderna reprime le capacità dell’uomo– potenzialità artistiche, intellettuali e affettive – e tutto il mondo delle sue emozioni,trasformandolo in “uomo macchina” e allontanandolo sempre più dal proprio nucleobiologico. Ciò ha portato alla disumanizzazione, con conseguente crisi d’identità:sono le emozioni che danno valore, colore e senso a qualsiasi azione umana e consen-tono all’uomo di entrare in relazione con se stesso e con tutto il mondo.

Bibliografia.Si citano qui di seguito i saggi fondamentali per un approfondimento del tema, segnalati secondo uncomodo ordine alfabetico: L. L. Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Milano, Adelphi, 2001; L. e F.Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1993; L. e F. Cavalli-Sfor-za, Chi siamo, Milano, Mondadori, 2004; H. Curtis / N. Sue Barnes, Invito alla Biologia, trad. it. di F.Cecere, Bologna, Zanichelli, 2003; S. Gould, Intelligenza e pregiudizio, trad. it. di A. Zani, Roma, Edi-tori Riuniti, 1985; J. S. Huxley / A. C. Haddon, Noi Europei. Un’indagine sul problema «razziale», trad. it.di F. Mastrorilli / M. Nani, Torino, Edizioni di Comunità, 2002; R. Lewin, Le origini dell’uomo moder-no, trad. it. di I. C. Blum, Bologna, Zanichelli, 1996; M. F. A. Montagu, La razza. Analisi di un mito,trad. it. di L. Lovisetti Fuà, Torino, Einaudi, 1966; N. Myers (cur.), Atlante di Gaia, trad. it. di A. Bel-lomi / L. Serra, Bologna, Zanichelli, 1987. Molto interessante risulta anche l’articolo di AlbertoPiazza, “Esistono i razzisti, non le razze”, in La Stampa. Tuttoscienze, n. 557 / 17 marzo 1993.

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Capitolo III120

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121Percorsi di memoria

Memoria ufficiale, memorie vive.Usi della monumentalitàAlessandra Matta

1. Il Monumento italiano nel Lager di Mauthausen

Il contesto*

Lungo il percorso che dall’ingresso del Lager di Mauthausen conduce alla cava digranito, nell’area un tempo occupata dalle residenze del personale SS, sorgono oggiventi monumenti commemorativi. Si tratta di installazioni a ricordo degli apparte-nenti a popoli e nazioni d’Europa che furono deportati nel Lager. Alcuni monumentipresentano un aspetto più consueto, celebrativo; altri si propongono più esplicitamen-te come installazioni a carattere simbolico ed espressivo.

Il primo a essere realizzato, in ordine cronologico, fu quello della Francia (1949). Sei an-ni dopo venne edificato il Monumento italiano (1955); l’anno successivo fu la volta dellaPolonia, seguìta dall’Unione Sovietica (1957), dalla Jugoslavia (1958), dalla Ceco-slovacchia (1959) e dal Belgio. Un comitato di repubblicani spagnoli in esilio fecesorgere, nel 1962, un monumento a ricordo degli spagnoli antifranchisti. Sempre agli anniSessanta risalgono i monumenti dell’Ungheria (1964), della Repubblica Democrati-ca Tedesca (1967), del Lussemburgo (1968) e dell’Albania (1969). Al decennio suc-cessivo appartengono i monumenti di Gran Bretagna (1970), Bulgaria (1976), e quellodedicato agli Ebrei (1976). Dopo gli altri monumenti nazionali di Grecia (1980), Re-pubblica Federale Tedesca (1983), Olanda (1986) e Slovenia (1995), l’ultimo in or-dine di tempo è dedicato a un altro popolo perseguitato, i Sinti e Rom (1998).

Il Monumento italiano si distingue dagli altri perché è l’unico a presentare un affa-stellamento di lapidi, targhe commemorative, fotografie e altri oggetti che ne ricopro-no interamente il retro, ossia il lato che si offre alla vista del visitatore nel momento incui questi accede all’area monumentale uscendo dal Lager, o comunque percorre lastrada verso la cava. Il lato opposto è quello “ufficiale”, presso il quale si tengono le ce-rimonie commemorative e si collocano le corone lasciate dai gruppi in visita.

Il modello per questa duplicità (memoria ufficiale e memoria viva di singoli e grup-pi) è costituito dal Monumento francese, di pochi anni anteriore, in cui però le lapidi ele targhe hanno dimensione e configurazione uniformi, e inoltre restano nascoste auna vista dall’esterno, a causa della struttura circolare della costruzione (un muro si-mile a quello italiano, ma più articolato). La parte “privata” e “viva”, nel Monumentofrancese, risulta la meno immediatamente visibile e presenta comunque un caratterepiù ordinato e strutturato, anche se meno spontaneo.

* I paragrafi “Il contesto”, “La storia”, “Aspetto attuale”, sono in larga misura tratti da una scheda didattica di presentazione del viaggiodi studio a Mauthausen, Gusen, Ebensee, elaborata da Lucio Monaco in occasione della mostra Ombre del tempo, “Pinacoteca a Cieloaperto”, Moncalieri, maggio 2003.

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La storiaL’idea di un’installazione commemorativa italiana era nata durante uno dei primi

viaggi di superstiti e famigliari di deportati morti nel Lager, organizzato dall’ANEDdi Torino nell’autunno 1948. L’anno successivo si formò a Genova un comitato d’ini-ziativa per la realizzazione del Memoriale, seguìto, nel 1950, dalla costituzione di unComitato nazionale. L’intervento decisivo, anche e soprattutto sul piano finanziario,

dell’ANCI (Associazione Nazionaledei Comuni Italiani) e dell’UPI (Unio-ne Province Italiane) portò infine allarealizzazione del Monumento, inau-gurato il 2 luglio 1955.1

Progettato a titolo gratuito dall’ar-chitetto Mario Labò, padre di Gior-gio, studente partigiano torturato e fu-cilato ventitreenne a Roma nel 1944,3si pone dall’inizio come proposta al-ternativa rispetto a quella curata neglistessi anni dall’ente diplomatico (la“Legazione italiana”) a Vienna, che,più economica, prevedeva la realizza-zione di una colonna marmorea sor-montata dalla lupa capitolina.

A un’inopportuna estetica tradi-zionalista, ben poco significativa nelcontesto della deportazione, e che fral’altro riprendeva paradossalmente laretorica fascista della romanità, il pro-getto di Labò contrapponeva una so-

luzione essenziale, insieme simbolica e funzionale nella sua capacità di accogliere ma-nifestazioni spontanee popolari.

DescrizioneIl Monumento consiste in un muro (dimensioni approssimative 3 x 15 x 1,5 m) co-

struito con conci di granito ricavati dalla cava di Mauthausen, analogo quindi allemura perimetrali del Lager.

Il prospetto anteriore, più alto e imponente, rivolto a valle (verso la cava), reca unascritta a carattere “ufficiale”, mentre la facciata posteriore, più bassa per via dellapendenza del terreno e prospiciente il Lager, era nel progetto «destinata all’apposizio-

Capitolo III122

1 Cfr. Come fu ideato e attuato il Monumento italiano nel campo di Mauthausen, a cura del Comitato genovese “Per un monumento a Mauthausene lapidi negli altri campi tedeschi di eliminazione”, Novi Ligure, Arti grafiche novesi, [1959?].2 Il disegno fa parte della raccolta Gott mit Uns, realizzata in clandestinità durante la guerra e pubblicata nel 1945. Cfr. Antonello Trom-badori, Gott mit Uns. 24 tavole in nero e a colori di Renato Guttuso (Roma, La Margherita, 1945), cit. in Werner Haftmann, Guttuso, Firenze-Milano, Giunti, inserto allegato a Art e Dossier n. 208 / febbraio 2005; la tavola è pubblicata in Filippo Tuena, “Il critico artificiere”, in Arte Dossier, n. 219 / febbraio 2006, p. 23.3 Cfr. la biografia di Giorgio Labò sul sito www.anpi.it; e “Biografie della Resistenza romana”, a cura di M. Avagliano, init.geocities.com/memoriadiclasse/resistenza/bioresistenzaromana.htm (entrambi i siti sono stati visitati nell’ottobre 2006).

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La dicotomia della forma, ispirata al Monumento francese, è idea-guida della pro-gettazione, criterio coerente delle scelte tecnologiche, architettoniche, paesaggistichee, con i suoi risvolti semantici, ne fa un’opera incisiva e originale.

Lo schema seguente è un tentativo di esplicitare in sintesi le caratteristiche di con-trasto fra le due facciate suggerite da un’analisi del Monumento.

123Percorsi di memoria

ne di omaggi alla memoria degli Scomparsi, sotto forma di fotografie, corone, ecc.».4Una breve scalinata supera il dislivello tra le due parti della costruzione, invitando

a muoversi intorno a essa. Come tutta la vasta area monumentale, così anche la zonaprospiciente il fronte ufficiale del Monumento italiano è a prato, percorso da viottoli.A differenza di questo, concepito per attirare l’attenzione da lontano, il fronte poste-riore è dotato di un marciapiede lastricato che risponde all’esigenza di fruire di quellaparte dell’opera da vicino, utilizzandone la superficie.

La porzione di muro destinata all’apposizione di omaggi alla memoria si distinguedal resto anche per essere intonacata e percorsa da un ripiano sul quale negli anni so-no stati appoggiati gli oggetti che per vari motivi non si potevano fissare alla superficieverticale.

4 Come fu ideato e attuato il Monumento italiano nel campo di Mauthausen cit., p. 14.

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alto... ...bassolontano... ...vicinoesterno... ...interno

entrando (nel Lager)... ...uscendo (dal Lager)sfondo Lager... ...sfondo cielo

freddo... ...emozionante

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Aspetto attualeNel Monumento italiano si sono così sovrapposti più di cinquanta anni di memo-

rie. Famigliari, amici e compagni di prigionia, istituzioni e associazioni, da ultimo an-che scuole hanno lasciato un segno sul retro del muro; non c’è però una successioneordinata per cronologia, o una disposizione strutturata per forme. Solo le prime lapi-di, più “ufficiali” (a destra, a cominciare dalla prima, firmata dal Governo italiano,dall’ANCI/Decorati al V. M., dall’ANCI e dall’UPI) sono uniformi; il resto delle tar-ghe, fotografie, lapidi e strutture commemorative segue modelli diversi, stratificati neltempo, inizialmente simili ai sacrari partigiani edificati in Italia in quegli stessi anni.

Il risultato è una sorta di creazione artistica spontanea e collettiva, fondata sull’ac-cumulo di memoria e di materiali visivi che cercano di restituire una fisionomia indi-

viduale agli scomparsi.Nel corso del tempo, tuttavia, molti di que-

sti elementi si sono deteriorati; alcune fotogra-fie sono cadute, le iscrizioni su alcune lapidi sisono cancellate. Inoltre lo spazio disponibile èstato interamente saturato e non rende possi-bile la continuazione di questa forma di ricor-do, che per di più non appare proporzionataal numero degli italiani morti nel Lager (circa5.000).

Il mantenimento degli oggetti applicati èaffidato alla cura dei singoli che li hanno ap-posti: noi stessi, nel corso della nostra visita,5

abbiamo effettuato con Natalino Pia – testi-mone e superstite di Mauthausen e Gusen – il

restauro di una piccola lapide da lui applicata negli anni Cinquanta in memoria disuo cognato.

Dato lo stato di degrado e la necessità di un intervento di restauro, soprattutto nelretro, sono allo studio progetti di recupero del Monumento. Alcuni di essi prevedonola rimozione dei materiali (da conservare altrove, in un muro aggiuntivo da costruirsiappositamente a fianco di quello originale, oppure in locali del Museo di Maut-hausen) e la loro sostituzione con una formula più esplicitamente rappresentativa del-la totalità degli italiani morti nel Lager. Membri dell’ANED sostengono invece l’im-portanza di tutelare la peculiarità di opera “viva”, “emozionante”, specificamenteprevista e voluta dal suo progettista, rispettando i sentimenti di chi si è adoperato perlasciare segni tangibili di memoria, effettuando interventi minimi di consolidamento,ripristino, pulizia degli oggetti esistenti e diramando l’invito a non prevedere in futurol’apposizione di altri oggetti.

Per evitare in ogni caso che si perda o che si attenui la specifica e originale storia diquesto Monumento, abbiamo pensato di documentare la sua forma attuale, costruen-done una mappa. L’intento era quello di approfondirne il contenuto negli anni suc-cessivi, ricomponendo la successione cronologica degli oggetti applicati e, dove possi-bile, ricostruendo le vicende delle persone e dei gruppi di cui questi segni hanno volu-to conservare la memoria.

Capitolo III124

5 Si tratta del viaggio del Progetto Memoria del marzo 2003 a Mauthausen, Gusen, Ebensee (cfr. Capitolo I § 7 “Memorie di pietra”).

Monumento italiano a Mauthausen, particolare

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Capitolo III126

Rilievo del Monumento italiano a MauthausenMappa degli oggetti apposti. A cura di Silvia Colombo, Francesca Muttoni.

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127Percorsi di memoria

Il rilievoDurante il viaggio di studio del 25-29 marzo 2003 si è condotta un’operazione di

rilievo finalizzata all’analisi, conservazione e valorizzazione di questa testimonianzadi memoria.

Ne sono stati fattivamente coinvolti:- gli studenti dell’I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica, Emanuela Antonucci,

Paolo Bommino, Valentina Carta, Silvia Colombo, Elisa De Grandi, Federica Gior-da, Elisa Migliore, Francesca Muttoni, Annalisa Procopio, Aurora Rapalino;

- gli insegnanti Alessandra Matta, Lucio Monaco, Gabriella Pernechele;- il consigliere comunale Giuseppe Artuffo.

Un gruppetto ha effettuato il rilievo metrico, registrando con schizzi forme e quo-te relative all’architettura. La studentessa che ha tenuto le fila dell’operazione ha suc-cessivamente eseguito a scuola i disegni geometrici (pianta e quattro prospetti) inscala 1:50.

Il resto del gruppo, ripartito ordinatamente il muro in settori, ha rilevato ogni sin-golo oggetto, annotando per ciascuno la posizione, una descrizione comprendente lecaratteristiche di forma e materiali, l’eventuale presenza di fotografie e il contenutocompleto delle iscrizioni.

I dati raccolti sono stati sistemati a scuola in elenchi in ordine topologico, per set-tore, in cui tutti gli oggetti rilevati sono distinti da una numerazione riferibile a unamappa: si tratta del prospetto posteriore del Monumento, rappresentato in scala 1:20,con l’indicazione di ciascuno degli oggetti della memoria – lapidi, fotografie, targhe,corone, cornici, urne, sassi – che costituisce la sintesi di questa parte del lavoro.

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Capitolo III128

6 S. Maffioletti (cur.), BBPR, Bologna, Zanichelli, 1994.

2. Una installazione nel Memoriale di Gusen

Opera del 1967 dell’architetto Lodovico Barbiano di Belgiojoso (1909-2004),6 su-perstite del campo, il Memoriale di Gusen I è un recinto labirintico spiraliforme costi-tuito da muri in calcestruzzo grezzo di altezza crescente che conduce al forno crema-torio, tutto ciò che resta del sottocampo di Mauthausen. Il percorso all’interno del

Memoriale separa simbolica-mente il forno crematorio dalquartiere residenziale che hacompletamente cancellato – oprofondamente trasformato – letracce del Lager sul territorio.

I muri del Memoriale sono li-miti, gli spazi interni sono vuoti.Custodiscono la memoria delimi-tando il solitario resto del passatodai segni invasivi del presente.

Le alte pareti grigie evocanonel visitatore l’idea di reclusione,di costrizione, di spoliazione.

Un gruppo di studenti dell’I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica (Manuel Cane,Alessandra Gardino, Matteo Garitta, Fabrizio Iannone, Alessandro Ossola, AndreaTosco) ha voluto installare nel cuore del recinto, in prossimità del forno crematorio,un’opera commemorativa dei quattro moncalieresi deportati a Gusen.

Esterno del Memoriale di Gusen ISullo sfondo, a ridosso, edifici costruiti sul terreno già occupato dal Lager

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129Percorsi di memoria

Si tratta di un oggetto in terracotta smaltata a freddo progettato e realizzato daglistessi studenti presso il Laboratorio artistico territoriale Tablò con il supporto dell’ar-tista Marilena Bergamini.7 Si compone di dueparti non separabili: la superiore recante le iscri-zioni (un prismoide triangolare) e la base, en-trambe realizzate con la tecnica delle lastre (l’ar-gilla è stesa in fogli tagliati secondo sagomedefinite e, dopo una parziale asciugatura,assemblati).

L’idea iniziale di incidere una targa più omeno tradizionale è stata superata quando i ra-gazzi hanno cominciato a progettare. Il triango-lo rosso che in Lager contrassegnava i deportatipolitici è stato interpretato come forma da ela-borare e scomporre in quattro moduli tridimen-sionali che rappresentano i quattro deportati.

7 Cfr. il sito www.marilenabergamini.com.

Disegno di Federica Abrate, Giulia Romano.

Disegno di Vanessa Saracino, Margherita Trimboli.

Disegno di Lucia Martinelli, Luca Picchi.

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Capitolo III130

Le facce principali sono speculari; su una sono incisi i nomi con le rispettivedate di nascita e di morte, sull’altra i numeri di matricola assegnati all’ingres-so nel campo con i quali gli individui venivano privati della propria persona-lità. Ogni deportato è rappresentato da un prisma; a differenza degli altriquello di Orfeo Mazzoni non è allineato e il vertice del triangolo è rivolto ver-so l’alto per rappresentare il suo contributo alla memoria portato ai giovanidopo il ritorno a casa. Su una faccia laterale abbiamo riportato un versotratto dalla poesia di Primo Levi “Shemà”, posta a premessa di Se questo è unuomo. La scelta è strettamente legata al senso della memoria e al ricordo delpassato per la nostra generazione e per quelle future. Un altro elemento sim-bolico è il materiale, la terracotta, fragile: vuole essere uno stimolo a rinno-vare la memoria. Questo è anche rappresentato dall’esigua altezza dell’ope-ra che spinge l’osservatore a piegarsi verso di essa partecipando attivamenteall’azione del ricordare.8

Abbiamo voluto definire “installazio-ne” questo lavoro degli studenti perché traegran parte del suo significato dall’intentooriginario di essere collocato all’interno delMemoriale di Gusen. Ciò che distinguel’installazione dalla scultura è il fatto chel’opera non è solo un oggetto tridimensio-nale, ma comprende l’intero ambiente,senza il quale non avrebbe senso.

8 M. Cane / D. Fabbro / A. Gardino / M. Garitta / F. Iannone / A. Ossola / A. Tosco, “In ricordo dei deportati moncalieresi a Gusen”,in W Moncalieri, luglio 2005, p. 18.

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131Percorsi di memoria

3. Riflessioni a margine

MURO

• Il Monumento italiano di Mau-thausen e il Memoriale di Gusenhanno in comune – tra altre caratte-ristiche quali la concezione architet-tonica anziché scultorea, il rigoreformale e una impostazione razio-nalista – il fatto di essere entrambi,in grande sintesi, dei muri.

• In questa caratteristica risiede unacerta carica simbolica. Nonostantenella maggioranza dei Lager esi-stessero pochi muri veri e propri (lebaracche erano in legno, le recinzio-ni di filo spinato), il muro è un’im-magine che rimanda efficacementeal mondo concentrazionario, attra-verso i concetti di separazione, chiu-sura, isolamento, reclusione; il muroè pesante, inamovibile, definitivo co-me il sopruso.

COLLEZIONE

• Una seconda caratteristica espres-siva del Monumento italiano diMauthausen è quella di essere illuogo di una raccolta, di una colle-zione. La collezione risponde al-l’esigenza di conservare in modo or-dinato e sistematico, nella prospetti-va di approfondire conoscenze, maanche di esporre, rendere pubblico.

• Jonathan sta conducendo una ri-cerca; la sua collezione è paragona-bile a una raccolta di dati, di infor-mazioni. Al tempo stesso è il modoper avvicinarsi a un passato perdutoe mai conosciuto; così la sorella diAugustine colleziona gli oggetti chetrova nei campi intorno alla sua ca-sa, dove prima dello sterminio nazi-sta sorgeva il suo shtetl, per tratte-nere qualcosa di un mondo inesora-bilmente scomparso. La sabbia rac-colta sul greto del Brod acquista si-gnificato nel momento in cui Jona-than se ne appropria chiudendola inuno dei suoi sacchetti: in questo mo-do sabbia qualsiasi diventa sabbiadi Trachimbrod, e Trachimbrod di-menticato shtetl raso al suolo ses-sant’anni prima riprende a esistere,nella memoria.

• Collezionare è anche atto del ra-dunare per capire, e in questo sensosi dice raccogliere le proprie idee,raccogliersi, col significato di pensa-re. L’atto del raccogliersi per ritirarsi

ANONIMO

• La grande quantità di oggetti af-fastellati sul Monumento italianodi Mauthausen per la quasi totalitàdei fruitori (non in grado di ricono-scere nomi e volti) risulta di fatto uninsieme anonimo. Il pensiero chemolti tra coloro che hanno un tempoapposto le lapidi sono ormai mortinon fa che sottolineare l’anonimato eacuire ancora una volta l’angosciadi fronte al tempo, alla morte, al-l’inevitabile labilità della memoriastessa.

• Su questo spaesamento (l’immagi-ne nata per ricordare non è più ricor-dabile da nessuno) fa leva l’opera diBoltanski, con le sue interminabiliserie di fotografie anonime o di sca-tole chiuse. Il panico che ci prendequando ci troviamo di fronte ai muc-chi di scarpe, di valigie, di occhiali,di pentole nelle vetrine del Museo diAuschwitz I non proviene soltantodalla percezione diretta e concretadelle dimensioni enormi dello ster-minio, e nemmeno dalla intollerabi-le evidenza che le cose più infime, lecose deperibili, i banali oggetti delquotidiano ci sopravvivono, ma an-che dall’impossibilità di attribuirequelle cose, così vere, così attuali,così nostre, a qualcuno.

• Degrado. Il tempo lascia le suetracce inconfondibili: le fotografiesbiadiscono, le cornici si staccano, le

Felix Nussbaum, Autoritratto con passaporto per ebrei,1943, Osnabrück, Kulturgeschichtliches Museum

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Capitolo III132

• L’artista francese Christian Bol-tanski (1944)9 tratta il tema deltempo e della memoria coprendomuri di riproduzioni di vecchie foto-grafie illuminate ciascuna da unalampadina; con scatole di latta o dicartone recuperate costruisce altepareti che delimitano percorsi labi-rintici, configura opprimenti super-fici verticali costituite da abiti usatiappesi.

• Il muro separa, dunque può svol-gere il ruolo negativo di chiusura; altempo stesso la sua superficie apreuno spazio che può essere di rappre-sentazione ed esposizione. ComeBoltanski, Jonathan, il protagoni-sta del film Ogni cosa è illumi-nata,10 appende a un muro la suacollezione di ricordi sistematica-mente cellophanati, nella necessitàdi fissare su un supporto visibile eduraturo oggetti che non sono chel’emblema della fugacità dell’esi-stenza e della stessa conoscenza.

• Il muro è elemento base nella defi-nizione di spazio e dunque di archi-tettura. Senza divisori non hannosenso i concetti di interno/esterno,anteriore/posteriore, così significa-tivi, come abbiamo visto, nei duememoriali.

9 D. Semin / T. Garb / D. Kuspit, ChristianBoltanski, New York, Phaidon, 1997.10 L. Schreiber, Everything is illuminated,USA, 2005.

in una dimensione interiore rimandaproprio alla potenzialità conoscitivae creativa dell’elenco.

• Agostino di Ippona11 tratta la me-moria come un contenitore di imma-gini sparse disordinatamente che ilpensiero raccoglie e dispone alla con-siderazione dello spirito.In quest’ottica la raccolta di lapidi ealtri oggetti non sarebbe mero affa-stellamento disordinato e casuale,ma esito di un progetto razionale dicostruzione di una sorta di allegoriadella memoria come facoltà dell’in-telletto umano.

11Cfr.. Agostino, Le confessioni, libro X, 8.12-27.38.

vernici si scrostano, le pietre si spac-cano. I volti svaniscono, i nomi sonosempre meno leggibili, le date sem-pre più incomplete. L’anonimatoavanza con il tempo, e a esso anchegli oggetti si arrendono.12

12 Cfr. P. Cresto-Dina, “Memoria e secolarizza-zione. Il Lager come museo”, in F. Luisetti /G. Maragliano (curr.), Dopo il museo, «qua-derni di estetica & ermeneutica», Torino, Trau-ben, 2006, pp. 129-162.

Museo di Hartheim: oggetti appartenuti alle vitti-me del “Programma di Eutanasia”

Monumento italiano, Mauthausen

Page 137: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

133Percorsi di memoria

4. Esposizioni

OMBRE DEL TEMPO

Materiali raccolti ed elaborati dal viaggio di studio a Mauthausen, Gusen, Ebensee(25-29 marzo 2003)

• “Pinacoteca a Cielo aperto”, Moncalieri, maggio 2003• I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica, giugno 2003

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Capitolo III134

UN PUNTO DELLA TERRAMostra fotografica

Progetto Memoria 2003 – 2004Viaggio di studio in Polonia

I.I.S. “MAJORANA” sezione scientifica Moncalieri

UN PUNTO DELLA TERRA

Fotografie, filmati, ricostruzioni letterarie, elaborati grafici dal viaggio di studio ad Auschwitz I,Auschwitz II-Birkenau, Auschwitz III-Monowitz, Gliwice (23-26 marzo 2004)

• “Pinacoteca a Cielo aperto”, Moncalieri, maggio 2004• I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica, giugno 2004

UN PUNTO DELLA TERRAMostra fotografica

Progetto Memoria 2003 – 2004Viaggio di studio in Polonia

I.I.S. “MAJORANA” sezione scientifica Moncalieri

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135Percorsi di memoria

SEGNI, NOMI, UOMINI

Commento grafico-fotografico dal viaggio a Carpi e Fossoli (28 novembre 2005)

• I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica, anno scolastico 2005-2006

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Capitolo III136

5. ImmaginiB

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137Percorsi di memoria

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Capitolo III138

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Il Lager come museo*Piero Cresto-Dina

Ho voluto dipingere il grido, più che l’orroreFrancis Bacon

L’estetizzazione della memoriaOggi l’affermazione di una coscienza storica dello sterminio non sembra più tanto

dover lottare contro le tendenze all’oblio e alla rimozione che hanno segnato i primidecenni del dopoguerra, quanto contro un eccesso di produzione simbolica che necaratterizza il diffondersi sul piano della cultura di massa. I Lager hanno attraversatole diverse fasi di una progressiva museizzazione. Si tratta probabilmente di un feno-meno molto simile a quello che ha coinvolto altri luoghi della storia – castelli, rovine,campi di battaglia –, da tempo mete di un turismo culturale che sembra attestare laconvergenza fra il compimento della storia e la sua risoluzione in finzione. Difficil-mente nell’esperienza dei visitatori lo sguardo può posarsi su qualcosa che non siauna forma estetizzata dell’evento, e ciò in modo del tutto indipendente dal grado diconsapevolezza e concentrazione con il quale ci si accosta ai luoghi. La dimensioneespositiva è ovunque dominante. Ma se è vero che «il turismo è la forma compiutadella guerra», come ha scritto Marc Augé a proposito di Waterloo,1 non vi è turismoche possa portare a compimento la storia dei Lager. Il Lager resiste al turismo di mas-sa, l’evento che vi si è svolto non è, in quanto tale, suscettibile di compimento. Il desti-no delle vittime, sia esso costituito dalla morte di milioni di uomini o dalla sofferenzadi coloro che sono sopravvissuti, non si lascia porre troppo facilmente in relazione conle circostanze grazie alle quali se ne conserva oggi il ricordo. Se la coscienza arretra difronte alle implicazioni di una simile ipotesi, è forse perché l’evento, nella sua enormi-tà, ci pare irredimibile e vorremmo salvaguardare, insieme con il suo essere definitiva-mente compiuto, anche la sua unicità. La visita ai campi, così come il mero eserciziodella rammemorazione, non può costituire una sorta di risarcimento postumo neiconfronti dei deportati.2 L’appagamento che potrebbe nascere da questa convinzionerenderebbe insignificante l’esperienza del viaggio.

Davanti allo sterminio non siamo disposti a prendere in considerazione un esitofinzionale. Non perché la violenza consumata in altri contesti ci appaia meno reale,ma perché la memoria della deportazione tocca in modo più diretto la nostra coscien-za postmoderna, mettendo esplicitamente in causa e rendendo in qualche modo «in-comprensibile», come ha detto Zygmunt Bauman, tutta la civiltà occidentale.3 Nes-sun episodio della storia moderna ha assunto in maniera altrettanto precisa, nella co-scienza culturale occidentale, il valore di evento capace di descrivere la forma genera-

* Il saggio è apparso, in forma leggermente diversa, nel volume a cura di F. Luisetti / G. Maragliano, Dopo il museo, «quaderni di estetica& ermeneutica», Torino, Trauben, 2006, con il titolo “Memoria e secolarizzazione. Il Lager come museo” (pp. 129-162).1 M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, trad. it. di A. Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 8.2 Com’è noto, l’impossibilità di un’affermazione di positività di fronte a eventi che ridicolizzano la costruzione di ogni senso dell’imma-nenza è stata esemplarmente argomentata da Adorno nelle pagine finali della Dialettica negativa (Th. W. Adorno, Dialettica negativa, trad.it. di C. A. Donolo, Torino, Einaudi, 19752, pp. 326-69).3 Z. Bauman, Modernità e Olocausto, trad. it. di M. Baldini, Bologna, il Mulino, 1992, p. 126.

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le della Storia, la sua essenza forse catastrofica, la sua possibile mancanza di senso.Lyotard ha proposto l’immagine di un terremoto che abbia distrutto gli strumentistessi di misurazione.4 Così, la memoria della Shoah è divenuta un modello per la co-struzione della memoria storica in generale.

D’altra parte, pochi altri eventi storici hanno raccolto fino a oggi così tante formedi rappresentazione, e assai di rado la memoria storica si è legata altrettanto stretta-mente a luoghi, spazi, paesaggi, immagini. In nessun altro caso si è così assiduamentecondensata nell’esperienza del viaggio e del confronto con i testimoni, consideratacome indispensabile complemento alla lettura dei testi. Il compito è allora quello diporre a confronto la profusione delle immagini e delle narrazioni con l’enunciata im-possibilità di un’articolazione discorsiva dell’unicità dell’evento. Nel tentativo di aggi-rare una certa convenzionalità del tópos della memoria per richiamarsi alla costitutivadistanza dello sguardo, si rischia in effetti di incorrere in un tópos altrettanto conven-zionale: quello dell’inesprimibilità, dell’ineffabilità, dell’alterità radicale, enfatizzan-do il paradosso che si formula nella costrizione a «dire l’indicibile».5 È vero, il nucleodell’evento, il punto di vista dei morti, è destinato a restare inespresso.6 La testimo-nianza dei superstiti si scontra sempre con un «fondo intestimoniabile», con una «im-possibilità della testimonianza», alla quale non può che far riscontro l’inevitabile ten-denza alla sua «estetizzazione».7 Eppure non vi è altro modo di procedere, se nonquello di tenere fermo a questo nucleo “irriducibile”, ausdruckslos, nella consapevolez-za che in ogni caso non potremo evitare il lento trascorrere della memoria. Dire tuttoquello che si può dire, sapendo che non si può dire tutto e che sulla cosa più importan-te abbiamo perso da tempo la possibilità di parlare.

Trascendenza e visibilità sono i due fuochi a partire dai quali si orienta qualsiasidiscorso sulla storia dei campi. Pensare al Lager come a un pezzo di mondo al di fuoridel mondo ordinario, uno spazio sottratto alla sfera della finzione generalizzata ci pa-re, da un lato, essenziale. Alla base di tutte le tendenze revisionistiche e relativistichec’è, in fondo, il mancato riconoscimento di ciò che nello sterminio resta inspiegabile eintraducibile nella lingua ordinaria della comunicazione, inaccessibile a qualsiasiconsiderazione fondata su concetti come «equivalenza», «scambio», «compensazio-ne». Questo elemento irrecuperabile ha probabilmente qualcosa a che fare con quel-lo strato antropologicamente profondo al quale i Lager rinviano, costringendoci aporre in una forma spaventosa la domanda: che cos’è l’uomo?8 D’altro canto, i Lager,come tutte le cose nell’epoca dell’estetizzazione diffusa, sono condannati alla visibili-tà, alla dimensione pubblicitaria, espositiva. La loro affinità con i luoghi nei quali siesprime la tendenza umana al collezionamento, alla raccolta, all’esposizione e all’ar-chiviazione li rende inavvertitamente solidali con quelle manifestazioni che nel mon-do contemporaneo, per sua essenza museale, cadono sotto il controllo delle diverse

4 J.-F. Lyotard, Il dissidio, trad. it. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 81.5 Cfr. R. S. C. Gordon, Primo Levi: le virtù dell’uomo normale, trad. it. di D. Bertucci / B. Soravia, Roma, Carocci, 2003, pp. 69-70.6 Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, in Opere, vol. I, Torino, Einaudi, 1958-1987, p. 716: «Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. [...] Noisopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hannotoccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i “mussulmani”,i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale.»7 Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 32-33.8 È significativo che la domanda antropologica compaia, fin dal titolo, quale nodo tematico dei primi e fondamentali scritti di memoria,da Levi (Se questo è un uomo) ad Antelme (L’espèce humaine).

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agenzie dell’estetizzazione. Che siano organizzati a tutti gli effetti come musei – è ilcaso ad esempio di Auschwitz I, di Buchenwald, di Mauthausen –, o che assumano inmodo più generico i caratteri del “luogo di memoria e ammonimento” (Mahn- und Ge-denkstätte), essi non sfuggono a una condizione elementare di «leggibilità»: la corniceentro la quale s’inscrivono i loro progetti espositivi deve risultare familiare, i codiciche presiedono all’organizzazione degli spazi e allo svolgimento della narrazione de-vono essere noti in anticipo, il visitatore deve poter attivare quegli stessi a priori dellapercezione che l’estetizzazione generale del mondo della vita gli ha messo in funzio-ne. Il turista che fotografa l’impressionante fuga dei binari dalla torretta d’accesso aBirkenau o si raccoglie a Buchenwald presso la lastra metallica con i nomi delle nazio-ni (che una fiamma invisibile tiene costantemente alla temperatura del corpo umano)assume, nel bene e nel male, un contegno di tipo estetico. Che un tale atteggiamentoresti precluso al superstite, assai più attento a registrare i cambiamenti che il tempo in-troduce nell’aspetto originario dei luoghi, è una circostanza piuttosto rilevante, sullaquale dovremo tornare.

Il rischio implicito nell’assunzione del Lager in una logica di tipo museale è ovvia-mente quello della banalizzazione, della neutralizzazione tranquillizzante. Qualcosadi analogo è avvenuto nei musei d’arte nel corso del Novecento, con l’assorbimentodella forza d’urto dell’avanguardia nel quadro di una concezione storico-evolutivadella crisi. Ma qui è in gioco una conciliazione ben più decisiva dal punto di vista so-ciale. Nonostante tutti gli appelli a considerare l’eventualità di un ritorno di «ciò che èstato», il Lager-museo sembra rassicurare sul fatto che la nostra società funziona se-condo leggi del tutto diverse da quelle che vigevano al suo interno. Noi contempliamola violenza al riparo delle nostre certezze, forti della convinzione che la società, nelsuo complesso, sia qualcosa che nasce precisamente per impedire il Lager.9 Il Lager-museo diviene così una dimostrazione e contrario della bontà dell’ordine sociale.

Il potenziale ideologico insito in una tale opzione può essere colto soprattutto se siriflette su certe tendenze che sono tipiche della nostra epoca. L’apertura al turismo dimassa fa leva sulla spettacolarizzazione della vita sociale e sull’assuefazione del pub-blico a un orizzonte interamente dominato da simboli e immagini. Il modo di esseredei semiofori è divenuto il modo di essere di tutte le cose. Elementi dello spazio quoti-diano (strade, case, negozi, villaggi) sollecitano sempre più spesso una fruizione «este-tica», di carattere museale. Come ha rilevato Baudrillard, il mondo è ormai un readymade e il museo uno spazio per la trasposizione di oggetti d’uso comune, dove la bana-lità del quotidiano acquista connotati estetici. Ne consegue la situazione esemplare diun mondo di simulazione, in cui la realtà sparisce senza lasciare traccia.10

In che modo una tale autoreferenzialità tocca le forme alle quali è consegnata lamemoria storica, la ricezione dell’evento massimamente reale? A un primo sguardo,la parola d’ordine della «derealizzazione», all’insegna della quale sociologi e filosofidella cultura sono soliti rubricare i fenomeni tipici della postmodernità, non trovaconferma più piena di quella che viene dalla considerazione dei modi di fruizione del-la Storia. Basta pensare al carattere spettacolare acquisito dall’Olocausto in certe ver-

9 Z. Bauman, Modernità e Olocausto cit., p. 18.10 Cfr. J. Baudrillard, Il complotto dell’arte & interviste sul ‘complotto dell’arte’, trad. it. di L. Frausin Guarino, Milano, Pagine d’Arte, 1999,pp. 79-90; Idem, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, trad. it. di G. Piana, Milano, Cortina, 1996, p. 9.

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sioni cinematografiche o al «fascino» surrettiziamente esercitato da talune rappresen-tazioni finzionali del nazionalsocialismo. La curiosità indifferentemente sollecitatadalle strategie militari come dalle procedure di annientamento degli uomini nelle ca-mere a gas, dalle biografie romanzate dei potenti come dagli esperimenti criminali deimedici nazisti, non è molto più proficua, al fine di una giusta conoscenza, dell’atteg-giamento di chi, di fronte all’orrore, si rifiuta di superare una modesta soglia di infor-mazione, pago del grado di consapevolezza acquisito. Tuttavia, l’ovvia constatazioneche quella curiosità si alimenta dell’apparenza di ineffettualità conferita alla rappre-sentazione del dolore dai meccanismi dell’industria culturale non rende insignificantetutto quello che si svolge sotto il segno dell’estetizzazione. Se è vero che ancheAuschwitz può essere «digerito» come un aspetto del tutto conseguente al moltiplicar-si dei nessi funzionali nella realtà e andare incontro alla crescente disponibilità dellepersone a cogliere ovunque il lato «normale» delle cose, l’estensione della dimensionesimbolica allo spazio della Storia è anche – oggi più che mai – una condizione neces-saria per il persistere della memoria. Soltanto, si tratta di domandarsi che cosa pro-priamente venga ricordato laddove l’evento da ricordare, il suo «esser stato», si ripro-pone continuamente come un trascendens al quale non è possibile accostarsi con i con-cetti generici che orientano la nostra comprensione ordinaria della Storia.

La rappresentazione che dileguaIpotizziamo che questo rapporto fra inesprimibilità ed esponibilità possa essere

pensato alla luce del concetto di «secolarizzazione», almeno nella forma che un taleconcetto assume nel quadro della proposta filosofica di Gianni Vattimo, dove indicasoprattutto un nesso di provenienza che lega la modernità a un nucleo di esperienzadel sacro che rimane attivo anche dopo la dissoluzione delle strutture sacrali nella so-cietà laica e moderna. Certo, prima di assegnare un qualunque significato «religioso»alla memoria della Shoah occorrerà considerare come l’esperienza della Storia «dopoAuschwitz» sia entrata in una fase del tutto nuova, che non solo impone la radicale ri-formulazione di tutti i problemi tradizionali della teodicea,11 ma vanifica in anticipoogni ulteriore tentativo di filosofia della storia, se è vero che la moderna filosofia dellastoria – giusta la lezione di Karl Löwith – dipendeva in modo sostanziale dall’inter-pretazione teologica della Storia come storia della salvezza.12 Ciò che per una co-scienza laica, in un tale clima di congedo, mantiene tuttavia in vita la «forma» del-l’esperienza religiosa non è tanto la meditazione sul silenzio degli dèi, quanto quellasul silenzio delle vittime. L’essenza museale del Lager, con i rituali di raccoglimentoche comporta, reagisce anzitutto alla privazione della voce, a quel torto che consistenell’impossibilità per le vittime di portare a conoscenza il danno subìto. Contro la ten-denza a scorgere nei fenomeni di estetizzazione il segno di una dissoluzione della sa-cralità e di un esonero diffuso, occorre domandarsi se non sia proprio il museo, graziea quella funzione di scambio fra visibile e invisibile che pertiene in generale alla prati-ca del collezionare,13 a ereditare nella realtà secolarizzata parte della sacralità un tem-

11 Nel modo più lucido lo ha dimostrato H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, trad. it. di C. Angelino, Genova, il me-langolo, 1993.12 Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, trad. it. di F. Tedeschi Negri, Milano, Edizioni diComunità, 19652.13 Cfr. K. Pomian, “Collezione”, in Enciclopedia, vol. III, Torino, Einaudi, 1978, pp. 341-46.

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po appartenuta alla Chiesa. La visita ai campi si configura di fatto come una sorta dirituale secolarizzato, un rituale dello sguardo e del silenzio.14

La domanda più importante riguarda però, ancora una volta, la possibilità stessadi una citabilità del passato. Come può un pensiero che si pone in dialogo con la tra-dizione, e dunque con l’oblio e la rimozione, confrontarsi con l’oggetto «trascenden-te» e «reale» per antonomasia, con l’indicibile non-trasmissibile, con il «dissidio» chescaturisce dall’impossibilità di rendere testimonianza del torto subìto, con il silenzio cheavvolge l’evento improponibile? In effetti, il paradigma della secolarizzazione postulaprecisamente la traducibilità in senso profano di un’origine non più direttamenteesperibile e insieme l’ammissione che un’eventuale esperienza del passato non po-trebbe in ogni caso dipendere da una decisione individuale o da un’attestazione di au-tenticità testimoniale. Per Vattimo il tramonto postmoderno della nozione di soggettotrae inevitabilmente con sé la crisi della testimonianza. Tutta la problematicità e l’an-goscia che avvolge la figura del superstite in quella che Annette Wieviorka ha definitol’ère du témoin15 verte probabilmente sulla consapevolezza che l’avvio di una nuova epo-ca può dipendere solo da un nuovo ordine del mondo che la testimonianza non è, inquanto tale, in grado di evocare,16 se non in forma indiretta e messianica.

Come pensare allora forme di rappresentazione capaci di trarre un contenuto diverità dal suo isolamento per tradurlo sul piano della visibilità e della fruizione socialesenza riproporre, insieme con la trascendenza dell’oggetto, la vocazione sostanziali-stica della metafisica?

In età moderna il problema della possibilità/legittimità della rappresentazione sipone in un contesto già fortemente segnato da opzioni di carattere estetico e teologicoemerse nel dibattito medioevale sullo statuto dell’immagine e sul suo valore di veri-tà.17 Assumendo il significato paradigmatico di quelle riflessioni e dandone per acqui-siti gli snodi principali, ci accingiamo ora a tracciare un itinerario del tutto particolarenel territorio fin qui descritto: a) ammettiamo, a titolo di ipotesi, la rappresentabilità delLager, b) tentiamo in secondo luogo di giustificare quest’ipotesi col definire le condi-zioni di una buona rappresentazione; c) cerchiamo infine di verificare se queste condi-zioni siano in linea di principio soddisfatte dall’immagine estetica, svolgendo alcuneconsiderazioni sull’arte e sulla sua dimensione testimoniale.

È abbastanza naturale scegliere quale punto di partenza l’irriducibilità dell’imma-gine alla mera riproduzione (o copia).18 Vale la pena ricordare come già nell’antichitàuno dei significati dell’imago fosse quello che la poneva in relazione con la mascherafunebre; quest’ultima non era in linea di principio sottoposta a un vincolo di tipo mi-

14 Cfr. J. Kugelmass, “Why We Go to Poland. Holocaust Tourism as Secular Ritual”, in J. E. Young (cur.), The Art of Memory. Holocaust Me-morials in History, München-New York, Prestel, 1994, pp. 175-83. Romano Boico, vincitore nel 1966 del concorso per la sistemazionedella Risiera di San Sabba, concepisce il cortile cintato del campo come «una basilica laica, a cielo libero» (M. Rossi, “Il Museo-Monu-mento della Risiera: la visita”, in T. Matta (cur.), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Milano,Electa, 1996, p. 133).15 Cfr. A. Wieviorka, L’era del testimone, trad. it. di F. Sossi, Milano, Cortina, 1999.16 Cfr. G. Vattimo, “Tramonto del soggetto e problema della testimonianza”, in Idem, Le avventure della differenza, Milano, Garzanti, 1980,p. 64.17 Cfr. L. Russo (cur.), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’Immagine, trad. it. di C. Gerbino, Palermo, Aesthetica, 1997; cfr. inoltre il volu-me, a cura del Centro Internazionale Studi di Estetica, Nicea e la civiltà dell’immagine, «Aesthetica Preprint», n. 52 / aprile 1998.18 Nota è la sintesi di Gadamer, secondo la quale si deve intendere per immagine (Bild) una realtà autonoma che resta legata all’origina-le senza tuttavia sopprimersi a suo favore, come accade invece alla copia (Abbild); a differenza della riproduzione, il Bild realizza una sor-ta di incremento ontologico che coinvolge l’oggetto rappresentato e gli conferisce unità e senso: cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad.it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 19907, pp. 168-79.

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metico, ma era piuttosto chiamata a preservare la memoria, a rendere presente l’assen-te e ad affermare l’essenzialità del legame fra visibile e invisibile.19 Una fondamentalefunzione simbolica veniva assicurata mediante la risoluzione del passato in presenzavisibile, del tempo in spazialità. Jean-Pierre Vernant spiega come anche il kolossós chenella Grecia arcaica si sotterrava nella tomba vuota (ma che spesso veniva eretto al disopra della tomba, in posizione visibile) non riproducesse affatto i lineamenti del de-funto (dando l’illusione della sua apparenza fisica), ma avesse piuttosto la funzione diincarnare la sua vita nell’aldilà, costituendone una sorta di «doppio».20 Vorremmoavanzare l’ipotesi che nella rappresentazione estetica dello sterminio sia in giocoqualcosa di molto simile all’incontro con una sfera per sua natura sottratta allo sguar-do e tuttavia almeno potenzialmente soggetta alla figurazione.

Nel tentativo di definire le condizioni di rappresentabilità dello sterminio, Jean-Luc Nancy stigmatizza come «idolo» l’immagine che vuole imporsi come presenzamassiccia e autosufficiente, in grado di sostituire un originale assente.21 Possiamo ca-ratterizzare in questo modo la «cattiva rappresentazione». Vi sono monumenti e me-moriali della Shoah che vogliono esprimere sul piano sensibile – nella pietra, nelbronzo, nel cemento o nella celluloide – l’orrore materiale degli eventi. Nel loro sforzoriproduttivo, opere come queste sfuggono a ogni criterio estetico, non «rappresenta-no», ma «commemorano» o segnalano, manifestando al contempo «la loro impoten-za a rappresentare, il loro fallimento artistico».22

Rappresentazione estetica è invece quella che non vuole essere descrizione o sosti-tuirsi all’originale assente, ma resta consapevole del vuoto che si apre nel dato sensibi-le. Nancy chiama «rappresentazione interdetta» una messa in presenza «sospesa da-vanti a quest’altro dalla presenza»,23 sospensione che mette in gioco la stessa rappre-sentabilità, che inscrive la distanza direttamente nella rappresentazione, anziché faredi questa la riproduzione di qualcosa. Il paradosso è qui il seguente: per il modo in cuisi è svolto, lo sterminio coincide con la cancellazione della possibilità stessa della rap-presentazione, ma proprio questa circostanza, questa impossibilità, è ciò che si do-vrebbe (e non si può) rappresentare. Se la Shoah «rappresenta» qualcosa nella storiadel mondo, non si tratta d’altro che dello statuto particolare cui si vede costretta larappresentazione dopo la Shoah stessa. La domanda con la quale deve misurarsi l’im-magine è allora quella sulle condizioni in cui il Lager ha ridotto la rappresentazionenel mondo moderno.

Quale arte può essere all’altezza di un simile compito? Che la domanda sulle con-dizioni della rappresentazione – in sé ineludibile per l’arte contemporanea – possascaturire da una riflessione sulla temporalità e sulla memoria dopo Auschwitz risultaevidente quando si pensi al lavoro di artisti come Jochen Gerz, Hans Haacke, RonaldB. Kitaj, George Segal o Christian Boltanski. Il fatto che non tutte le loro produzionisiano monumenti all’Olocausto non implica la leggibilità del loro progetto artistico aldi fuori delle condizioni instaurate da quell’evento. Ciò è particolarmente evidente

19 Cfr. R. Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia delle sguardo in Occidente, trad. it. di A. Pinotti, Milano, Il Castoro, 1999, pp. 22-25.20 J.-P. Vernant, “Figurazione dell’invisibile e categoria psicologica del «doppio»: il kolossós”, in Idem, Mito e pensiero presso i Greci. Studi dipsicologia storica, trad. it. di M. Romano / B. Bravo, Torino, Einaudi, 19782, pp. 344-345.21 Cfr. J.-L. Nancy, Tre saggi sull’immagine, trad. it. di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2002, pp. 57-63.22 Ibidem, p. 64.23 Ibidem, p. 65.

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nel caso di Boltanski. Alle tracce in via di estinzione, all’impossibilità per l’immaginedi restituire l’originale, all’orientamento «soggettivo» della memoria, all’aspetto «reli-quiale» e «frammentario» della testimonianza l’artista francese ha dedicato un per-corso che denuncia costantemente la propria dipendenza dalla condizione epocale incui ci si trova a proposito della rappresentazione.24

Si potrebbe obiettare che si tratta pur sempre di una riflessione di secondo grado eche altra cosa sono le opere create dai deportati stessi nel periodo della loro detenzio-ne. Ma la circostanza che, riflettendo sulla memoria del genocidio, l’arte possa tema-tizzare in generale la struttura della rappresentazione e la sua portata conoscitiva in-vita a mettere in secondo piano quella distinzione – pure legittima in sede storica – fraarte dell’Olocausto e arte sull’Olocausto25 con la quale s’intende rimarcare l’assolutovalore testimoniale di opere realizzate nei campi a rischio della vita e con materiali difortuna, e poi miracolosamente messe in salvo dopo la liberazione. Accentuare trop-po questa distinzione porterebbe da un lato a ridimensionare il significato di testimo-nianza delle opere nate negli anni successivi alla liberazione dei campi (anche di quel-le realizzate dagli stessi ex deportati sulla base di un’elaborazione non esente da con-flitti, come per i tanti scritti di memoria faticosamente venuti alla luce nel dopoguer-ra), dall’altro a trascurare la dimensione artistica di disegni e dipinti coevi agli eventi,ai quali si vorrebbe attribuire un’esclusiva funzione documentaria. Ma come non ri-cordare la tematizzazione baudelairiana del conflitto, artisticamente fecondo, fra vi-sione e memoria, fra «obbedienza all’impressione» e sintesi formale, fra velocità diesecuzione e bellezza? Se da un lato una «barbarie inevitabile, sintetica, infantile»,che scaturisce dalla volontà di vedere tutto e registrare il transitorio, traspare spessoanche in un’arte perfetta, dall’altro nessun grande artista dipinge, propriamente par-lando, dal vero, ma sempre affidandosi alla propria capacità di assorbire e trattenerel’impressione, il colore generale, il contorno.26 Così si può dire che la giusta restrizionedel concetto di esteticità alla rappresentazione artistica, in base alla quale Nancy negavalore estetico a forme di presentazione sensibile artisticamente «fallimentari», nondeve far dimenticare che nella rielaborazione figurativa dell’esperienza del Lager glistessi confini fra rappresentazione artistica e presentazione extra-artistica tendono aconfondersi: anche il più semplice dei disegni, fissando l’attimo del ricordo e costrin-gendo l’osservatore a ricostruire la continuità dei vissuti, gli istanti che precedono e

24 La catastrofe ebraica compare esplicitamente al centro di installazioni come Canada o La fête de Pourim (cfr. ad esempio Christian Boltan-ski. Lessons of Darkness, Jerusalem, The Israel Museum, 1989, o Christian Boltanski. Réserves – La fête de Pourim, Basel, Museum für Gegen-wartskunst, 1989), ma l’interpretazione delle icone di Boltanski come monumenti ai bambini scomparsi ad Auschwitz o a Treblinka nonesclude la presa d’atto di una riflessione più generale sulla sopravvivenza della memoria individuale e collettiva, sul tempo e sulla perdi-ta. Scrive lo stesso Boltanski: «È sicuro che tutto deve scomparire. Tutti i tentativi di lottare contro la morte, contro la scomparsa, sonovani. Quando qualcuno muore, è quella che io ho chiamato la piccola memoria che sparisce veramente. Tutto quello che sapeva, le suestorie, i suoi libri preferiti, i suoi ricordi... Tutto ciò che ci forma e che ci costruisce sparisce totalmente quando si muore», citato in D. Ec-cher (cur.), Christian Boltanski, Milano, Charta, 1997, p. 36. Nel suo commento alla Festa di Purim il filosofo e critico d’arte Arthur Dantoha scritto: «Nella nostra cultura, quando muore l’ultima persona che sa, senza bisogno che glielo spieghino, a chi si riferisce una deter-minata immagine, quella è la morte definitiva del soggetto ritratto. Niente è più profondamente anonimo dell’immagine di un viso chenessuno riconosce. L’equiparazione dell’irriconoscibilità delle immagini che erano un tempo immediatamente riconosciute con la mor-te stessa – con la morte della memoria – è la metafora che anima le opere caratteristiche di Boltanski» (ibidem, p. 106).25 Cfr. le voci “Arte” e “Arte in Italia”, in W. Laqueur (cur.), Dizionario dell’Olocausto, ed. it. a cura di A. Cavaglion, Torino, Einaudi, 2004,pp. 39-47. Per la distinzione citata, cfr. in particolare p. 40. Per quanto riguarda l’arte dell’Olocausto, Sybil Milton classifica cinque cate-gorie principali di opere: 1) ritratti e autoritratti, 2) rappresentazioni di oggetti, paesaggi e nature morte, 3) dipinti di carattere docu-mentario sulla vita nei campi, 4) caricature, 5) lavori astratti (cfr. ibidem, pp. 44-45).26 Cfr. C. Baudelaire, “Il pittore della vita moderna”, in Idem, Scritti sull’arte, trad. it. di G. Guglielmi / E. Raimondi, Torino, Einaudi,1992, pp. 290-292.

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Capitolo III152

seguono quello irrigidito nell’immagine, ad animare l’orrore del quotidiano, esprimeuna verità per nulla circoscritta all’aspetto illustrativo. Anche di fronte a opere in cuiprevale l’intento di esporre con precisione documentaria la vita e la morte dei depor-tati, come nei dipinti eccezionalmente perspicui di Wl/adysl/aw Siwek,27 lo choc percet-tivo rivendica la propria centralità. Tutta la discussione sulla legittimità del giudizioestetico per opere che sembrano scaturite anzitutto da un impulso all’esattezza e allaveridicità diviene privo di senso se si considera la capacità propria dell’immagine direstituire la «forza cruda dell’occhio che ha visto e trasmette la sua indignazione».28

Abbiamo un’espressione artistica che è anche testimonianza, così come molti scritti dimemoria non rinunciano a essere letteratura. Il ricorso all’espressione figurativa daparte dei prigionieri dei campi invita a prendere atto di un peculiare orientamento«immaginale» della memoria e ci spinge a riconoscere la possibilità di una dimensio-ne secolarizzata dell’esperienza, di una sua virtuale traducibilità. Il Lager – provere-mo in seguito ad argomentare – è uno spazio tendenzialmente aperto alla figurazione.

Prendiamo in esame l’opera di Zoran Music. È l’artista stesso a dircelo: «SenzaDachau avrei fatto della semplice illustrazione. Dopo Dachau dovevo andare al cuoredelle cose.»29 Il bisogno di rappresentare nasce dalla visione della morte. Music portai cadaveri in primo piano, prende in consegna i corpi rimasti senza sepoltura, ne fal’oggetto centrale della propria testimonianza. I disegni eseguiti a Dachau nell’estre-mo del pericolo – e certamente non nati per il museo – diventano la sorgente di tuttal’opera successiva. Una sorta di anamnesi lo induce a rielaborare dopo il 1970 le visio-ni già una volta fissate sulla carta e fino a quel momento tenute nascoste. A partire dalciclo Nous ne sommes pas les Derniers esse tornano a «occupare il cuore dell’opera e a nu-trirla».30 I mucchi di corpi emaciati, gli arti aggrovigliati e contratti, la bocca aperta, lapelle quasi trasparente, le lunghe membra scarnificate, le dita sottili, la rete ancora vi-sibile delle vene: è davanti a queste immagini che Music dice di aver avuto «la rivela-zione improvvisa di una bellezza tragica». Nei cadaveri fragili e disseccati vede qual-cosa come una «grazia» che il disegno, «omaggio ultimo a ciò che resta di umano inqueste forme», non deve tradire.31

Per Music dipingere è come aspettare che le cose arrivino a poco a poco, compa-rendo dall’oscurità, così come le forme compaiono all’occhio di colui che, provenen-do dall’esterno luminoso, entra nel buio di una cattedrale e vede gli oggetti delinearsia poco a poco. Egli attende che le immagini affiorino, che i ricordi escano dall’oblio:

27 Cfr. W. Siwek, Kiedys to namaluje..., Oswiecim, Panstwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau, 2000.28 P. Levi, “Presentazione”, in A. Benvenuti, K.Z. Disegni dai campi di concentramento nazifascisti. Arte come testimonianza, Treviso, edizione fuo-ri commercio con la partecipazione della Cassa di Risparmio della Marca Trivigiana, 1983, p. 7. Il volume curato da Benvenuti costi-tuisce, per quanto ne sappiamo, il più ampio catalogo pubblicato in Italia di disegni eseguiti nei Lager. La rassegna comprende più diduecentosettanta opere di un centinaio di artisti. Benvenuti ha raccolto le riproduzioni prendendo visione degli originali nelle collezionidi Budapest, Lubiana, Novi Sad, Terezín, Varsavia, Belgrado, Praga, Oswiecim, Gerusalemme e di molti centri concentrazionari. Fra idisegni presenti nel catalogo ricordiamo quelli eseguiti da Jerzy Adam Brandhuber e Xavery Dunikowski ad Auschwitz, da Corrado Ca-gli, Karol Konieczny, Jósef Szajna e Boris Taslitzky a Buchenwald, da Aldo Carpi a Gusen, da Carlo Slama e Léon Delarbre a Dora, daLeo Haas a Terezín, da Zoran Music e Bozo Pengov a Dachau, da Wl/adysl/aw Siwek a Birkenau. Molti luoghi deputati alla memoriadella Shoah ospitano collezioni permanenti. Ad Auschwitz si trovano più di seimila dipinti, sculture e lavori grafici. Presso lo Yad Va-shem di Gerusalemme, dove si trova la più ampia collezione di opere dedicate al genocidio, le creazioni degli artisti ebrei che nei variPaesi europei operarono sotto l’occupazione tedesca si affiancano a quelle di artisti della seconda o terza generazione dei superstiti.29 Cit. in Zoran Music. Œuvres de 1947 à 2001, Genève, Galerie Jan Krugier, Ditesheim & Cie, 2001, p. 36.30 J. Clair, La barbarie ordinaire. Music à Dachau, Paris, Gallimard, 2001, p. 59.31 Ibidem, p. 32.

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cose da tempo scomparse, immagini di cui resta solo l’essenziale.32 La sua pittura coglie ilbreve istante del disvelamento, che è anche quello in cui le cose ricominciano a spro-fondare nel nulla. Gli ultimi dipinti sono figure del superstite: personaggi solitari, conil volto quasi illeggibile, seduti o con le braccia innaturalmente tese, a malapenaemergenti da uno sfondo indistinto e scuro, quasi confusi con esso. A volte si trattadell’artista nel suo atelier. Gli impressionanti autoritratti cui alla fine si consacra in mo-do quasi esclusivo sembrano apparizioni, spettri che sorgono dal regno dei morti. Daessi si può capire in quale misura l’elaborazione del proprio tema abbia portato Musica problematizzare l’essenza stessa della rappresentazione, ossia il suo carattere sospe-so, violentemente esposto al nulla e all’oblio. Questi dipinti non si limitano a registra-re apparizioni in forma di ricordi, ma mostrano la pittura in se stessa come apparizio-ne. Secondo le parole di Jean Clair: la pittura come «manifestazione», «sorgere del vi-sibile alle soglie dell’invisibile».33

Su un punto non è dunque possibile ingannarsi: l’intento non è quello di rivelarel’orrore in quanto tale, documentando o illustrando qualcosa come «la realtà». Di-pingere l’orrore vorrebbe dire narrare, attendere ancora alla dimensione figurativa.Music non disegna la camera a gas, che del resto non vede se non dopo la liberazione,ma piuttosto cerca di comprendere la morte «da pittore», riflettendo sulle condizionistesse della visibilità. Questa dimensione apofatica dell’orrore entro la quale si inscri-ve la sua pittura ci porta in prossimità delle Figure di Francis Bacon, per molte dellequali un interprete come Deleuze ha sottolineato l’estraneità a ogni forma di brutali-tà o tortura. La Figura, vale a dire il modo rappresentativo con il quale Bacon superala figurazione (l’illustrativo, il narrativo), compare qui anche nel suo antico significatodi «apparizione», «larva». La violenza che le appartiene non è quella del rappresenta-to, ma quella della sensazione, che agisce direttamente sul sistema nervoso.34

Anche il progetto di dissoluzione del volto che Deleuze attribuisce a Bacon potreb-be caratterizzare altrettanto bene gli ultimi dipinti di Music. Fin dall’inizio questi ave-va potuto assimilare dal vivo le deformazioni cui, in modo programmatico, Baconsottopone il corpo in vista della sua «interpretazione» pittorica. Ciò che viene menoin entrambi è la sintesi organica della figura: essa viene colta piuttosto nell’atto di di-sfarsi. Del resto, la carne macellata in Bacon e le cataste di cadaveri in Music rappre-sentano in modo ancor più eloquente «quello stato del corpo in cui la carne e le ossa,anziché comporsi strutturalmente, si confrontano localmente».35 Ancora una voltanon si tratta di descrivere, ma di pensare fino in fondo le condizioni della rappresenta-zione in un’epoca di crisi della rappresentazione, vale a dire in un’epoca in cui ciò chepiù di ogni altra cosa dovrebbe essere mostrato si è definitivamente sottratto alla visi-bilità. L’adempimento dell’antica profezia secondo la quale tutto deve ritornare inpolvere viene verificato nel corpo stesso di una pittura che non può più essere rivela-zione, ma non accetta per questo di consegnarsi alla pura immanenza.

32 Cfr. Zoran Music. Œuvres de 1947 à 2001 cit., pp. 80-81.33 J. Clair, La barbarie ordinaire. Music à Dachau cit., pp. 66-67.34 G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. it. di S. Verdicchio, Macerata, Quodlibet, 19993, p. 88.35 Ibidem, pp. 55-56.

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Capitolo III154

Architettura del vuotoNel dispositivo nazista di rappresentazione, alla crisi della rappresentazione fa ri-

scontro un eccesso simbolico che Nancy definisce «iper-rappresentazione»: la pura esemplice esibizione di una presenza totale, satura, che rimanda solo al proprio esser-presente, alla propria immanenza, che non manifesta altro che se stessa. Poiché non ri-vela nulla, è una rappresentazione «senza resti, senza scavo [...], senza linee di fuga».36

Ma oggi ci troviamo forse di fronte a una paradossale linea di continuità fra l’oggettodella musealizzazione e i modi in cui questa si realizza. Sembra anzitutto che il Lager-museo erediti dalla realtà totalitaria l’impulso parossistico alla raccolta e alla cataloga-zione dei propri materiali. Si pensi ad esempio alla cura maniacale con la quale neicampi venivano registrati uomini e cose, alla quasi sistematica trascrizione delle imma-tricolazioni e dei decessi (cui negli ultimi anni si oppose soltanto la volontà di sterminiototale), alla meticolosa definizione di spazi e funzioni, all’intrinseca «musealità» dellaEffektenkammer, nella quale trovavano posto ad Auschwitz gli oggetti tolti ai deportati almomento del loro ingresso nel Lager (figg. 1 e 2).37 La vocazione rappresentativa e«mediatica» del nazismo non si esercitava soltanto nelle parate militari e nell’arte mo-numentale, ma aveva un suo momento specificamente «collezionistico», che non puòessere spiegato solo sulla base delle pur evidenti motivazioni di carattere economico oamministrativo (quantificazione della disponibilità di manodopera, trasformazionedelle cose in vista del loro reinserimento nel circuito delle merci).38 Vi è qualcosa di di-spendioso, di celebrativo, di gratuito e di esemplare nel modo in cui il Lager organizzail proprio dispositivo interno, l’articolazione delle funzioni, la delimitazione degli spa-zi, l’assegnazione dei ruoli. Nessun oggetto, nessuno strumento (inanimato o animato),

nessun luogo deve re-stare privo della suacornice, della sua de-scrizione, di una tasso-nomia che determinila posizione che glicompete. È un sistemache si autolegittimanell’esibire la propriacapacità inclusiva, nelmettere alla prova lapropria tenuta conl’aumento della com-plessità: ma qui la coe-sistenza della serie edella singolarità asso-luta si afferma a spesedella seconda.

36 Cfr. J.-L. Nancy, Tre saggi sull’immagine cit., pp. 74, 79.37 Scarpe, valigie, capelli, vestiti, occhiali, protesi, ombrelli, bottoni, oggetti legati alla vita e al lavoro dei deportati: la tesi dell’essenza al-legorica del museo postmoderno potrebbe venirne corroborata.38 La creazione di musei e archivi sui propri «nemici» era una mania dei nazisti. Hannah Arendt ricorda come Eichmann, all’inizio delsuo incarico presso il Servizio di sicurezza, fosse stato assegnato all’Ufficio informazioni in vista della creazione di un museo massone(cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 19922, p. 45).

Fig. 1 - Museo di Auschwitz-Birkenau Fig. 2 - Museo di Auschwitz-Birkenau

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A confermare l’impressione di una strana dialettica dell’apparenza sono poi le for-me stesse del campo di sterminio: effetti prospettici, linee di fuga, contrasti di luce,monumentalità non esente da ambizioni formali.39 Primo Levi osserva come una pre-disposizione scenografica e architettonica, per quanto funzionale a un progetto di si-stematica falsificazione della realtà, fosse insita nella stessa struttura concentraziona-ria.40 Nonostante le profonde trasformazioni che hanno cancellato molte delle traccee definitivamente mutato il volto dei campi ancora esistenti,41 la suggestione del luogocontinua ad agire sul visitatore a un livello che si potrebbe definire «aptico» o «am-bientale», prima ancora che attraverso precisi riscontri fattuali. Non so se questo tipodi fruizione sia corretta, voglio soltanto osservare che si tratta del livello minimo di pe-netrazione, senza il quale non si dischiude la strada della conoscenza. Possiamo avan-zare l’ipotesi che nella sistemazione museale dei Lager sia stata decisiva la disponibili-tà dei luoghi a una trasformazione in senso simbolico, come se il linguaggio formaledi carattere architettonico e visivo cui di volta in volta si è fatto ricorso fosse già quellodella realtà preesistente e non si trattasse di altro che di recepirne e rovesciarne taluneindicazioni, al fine di creare una sorta di racconto esteticamente «leggibile».42

Ciò vale naturalmente non solo per gli spazi esterni, ma anche per l’allestimentodei percorsi che costituiscono la parte propriamente museale dei luoghi della memo-ria. Impianti espositivi di tipo tradizionale e persino già un po’ invecchiati, come quel-li che si osservano nei padiglioni di Auschwitz I, possono comunque contribuire a in-staurare un certo grado di tensione estetica, con effetti «atmosferici» di volta in voltasuggeriti da un’illuminazione ridotta, dalla studiata assenza di didascalie, dal mono-cromatismo delle superfici. In anni recenti si è affermata sempre più l’esigenza diun’«architettura del silenzio», espressa da una lingua «minimale» e fondata suun’estrema semplificazione dei segni.43 Ovviamente si pone qui il problema del rispet-to degli spazi preesistenti, ma questo non significa che i modi di presentazione nonpossano trarre spunti decisivi dalle esperienze più innovative maturate in sede proget-tuale. Se pensiamo ad esempio allo Jüdisches Museum di Berlino o al Dansk JødiskMuseum di Copenhagen, entrambi realizzati su progetto dell’architetto DanielLibeskind, siamo in grado di riconoscere due condizioni essenziali che potrebbero es-sere riprese in ogni intervento sui luoghi della memoria:

1) il museo rivendica una sorta di «autosufficienza visiva e teorica», in quanto real-tà che vuole essere interpretata ed esperita essa stessa come opera compiuta, «a pre-scindere dai contenuti espositivi»;

2) di qui l’esigenza di evitare ogni sovraccarico nell’allestimento, puntando invecesu un programmatico svuotamento dello spazio; il museo dev’essere organizzato in-

39 Sulla fantasiosa tipologia kitsch delle torri di guardia si soffermavano ad esempio Alain Resnais e Jean Cayrol in una celebre sequenzadi Nuit et brouillard. Più spesso, tuttavia, l’architettura del Lager recepisce la monumentalità stereotipata delle installazioni militari.40 P. Levi, Pagine sparse 1981-1987, in Opere, vol. II, Torino, Einaudi, 1997, p. 1269. 41 Non sto quindi pensando alla scomparsa dei luoghi, cancellati dalla ricostruzione, rioccupati da edifici civili o da capannoni industria-li, e nemmeno alla soppressione di singoli elementi per volontà dei nazisti (distruzione dei crematori, delle strutture produttive ecc.), maall’aspetto generale dei campi superstiti, al loro impatto visivo immediato.42 Cfr. ad esempio le considerazioni sulle valenze simboliche connesse alla risistemazione del complesso museale di Carpi da parte delgruppo di architetti BBPR in R. Gibertoni / A. Melodi, “Il Campo di Fossoli e il Museo Monumento al deportato di Carpi”, in T. Mat-ta (cur.), Un percorso della memoria cit., pp. 104-05; cfr. anche B. Zevi, “Cinetica per tollerare i massacri. Museo monumento al Deportatodi Carpi”, in Idem, Cronache di architettura, vol. IX, Roma-Bari, Laterza,1975, pp. 182-185.43 Questo ad esempio l’orientamento degli architetti dello studio MSP-H nella realizzazione del nuovo centro di accoglienza per i visita-tori del campo di Mauthausen (cfr. «Abitare», n. 442 / settembre 2004).

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torno a un «vuoto» fisicamente percepibile dai visitatori e tale da costituire il vero og-getto del museo; questo svuotamento può avere un valore altamente evocativo,44 pro-prio perché non è indotto da una tematizzazione esplicita, essendo l’architettura stes-sa a trasmettere il senso di un percorso erratico, labirintico, con evidenti effetti dispaesamento.

Nei progetti di Libeskind l’elemento perturbante è rafforzato anche dalla contesta-zione dell’ortogonalità delle superfici, dall’inclinazione delle pareti, dall’apertura ditagli luminosi obliqui, dal variare della pendenza del piano di calpestio. Certo, non èpensabile la pura e semplice trasposizione di queste soluzioni alla realtà del Lager,laddove è in gioco semmai la prospettiva del restauro e della ricostruzione storica-mente attendibile. Ma assumere il punto di vista di una logica autonoma dello spaziomuseale servirà quantomeno a evitare svolgimenti narrativi incentrati su princìpi cro-nologici e storicistici tipici di un orientamento museografico, purtroppo assai diffusonei luoghi della memoria, che non riesce a individuare contenuti pedagogici al di fuo-ri di quelli affidati alla funzione didascalica delle presentazioni.

Luoghi e identitàNel nostro ambito l’efficacia di ogni relazione simbolica è legata alla presenza di

un luogo reale che diviene monumento, spazio destinato all’elaborazione del lutto e allacelebrazione del ricordo nel luogo stesso degli eventi. Il Lager rivela al massimo gradoquanto siano «divenuti fluidi i tradizionali confini fra museo, monumento e prassi sto-riografica».45 In questo senso andrebbero lette tutte le forme attraverso le quali la me-moria tende a fissarsi nel paesaggio: la lapide, il segno collocato nella più stretta pros-simità con il luogo dove la morte ha colpito o dove la vita continua a svolgersi.46

Nei vari allestimenti di forme «diffuse» di museo, collegate allo spazio urbano edextraurbano e a tutti gli altri luoghi di memoria presenti su un dato territorio, si devescorgere una medesima esigenza di radicamento e contestualizzazione. L’esperienzadella traccia inserita nel territorio genera un’emozione del tutto particolare, che è altempo stesso di carattere storico ed estetico: si tratti della traccia autentica che s’in-contra sul luogo dell’evento (traccia magari quasi scomparsa, come a Monowice, do-ve fra le nuove costruzioni ben poco ricorda ancora la presenza del campo), oppuredella traccia intenzionalmente posta, ma perlopiù inosservata, disattesa (l’iscrizione, ilmonumento, la fotografia). I Lager e i luoghi della memoria raccontano anche storielocali e trasmettono ricordi spazialmente situati.47

Il «luogo» nasce propriamente con il suo riconoscimento come luogo, con la sua isti-tuzionalizzazione a monumento da parte di una collettività. È solo il monumento a le-gare l’evento alla sua rappresentazione, facendo del luogo un luogo.48 Che nei con-

44 Cfr. G. Alessandri, Le parole del vuoto. Lo Jüdisches Museum di Berlino, in «Art e Dossier», n. 196 / gennaio 2004, pp. 8-13. Riferendosi allamemoria specifica dell’ebraismo europeo, cui è dedicato il museo berlinese, Alessandri ricorda come vuoto, oltre allo spazio del genoci-dio e dell’esilio, sia «anche lo spazio sacro della cultura ebraica, rigorosamente iconoclasta e intrisa di una valenza messianica».45 A. Huyssen, “Monument and Memory in a Postmodern Age”, in J. E. Young (cur.), The Art of Memory cit., p. 16.46 Cfr. C. Dellavalle, “Nota introduttiva”, in N. Adduci / L. Boccalatte / G. Minute, Che il silenzio non sia silenzio. Memoria civica dei caduti dellaresistenza a Torino, Torino, Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti”, 2003, p. 9.47 A un impatto non del tutto diverso puntano oggi i tentativi degli artisti di ristrutturare l’esperienza percettiva del fruitore mediante lacreazione di opere integrate nel paesaggio e determinate a esplorare le relazioni offerte dalla topografia o dalla storia del luogo (site speci-fic art, environmental art). 48 Cfr. N. Baiesi / G. D. Cova, “Educa il luogo”, in T. Matta (cur.), Un percorso della memoria cit., p. 143.

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fronti del luogo persino l’esperienza personale possa assumere valore fondante dipen-de in ultima analisi dal fatto che anche questa esperienza può essere partecipata ad al-tri e divenire oggetto di un riconoscimento comune. Del resto, nell’odierna tipologiadi contatto con i Lager, la riscoperta del luogo scomparso, non monumentalizzato epressoché cancellato (Monowice, appunto, o Gliwice o Linz), costituisce solo uno deicasi possibili (benché tutt’altro che raro), al quale sarà comunque possibile attribuireuna sorta di monumentalità «implicita» o virtuale. Di solito il visitatore si trova difronte a un grado più o meno accentuato di monumentalizzazione esplicita: il memo-riale in assenza del campo scomparso (Gusen), il memoriale-crematorio quale residuodi un campo preesistente (Melk), il luogo in corso di recupero (Fossoli), il luogo par-zialmente ricostruito (le gallerie di Ebensee o di Mittelbau-Dora), il luogo museo ocentro di documentazione (Auschwitz I, Mauthausen, Buchenwald, Dachau).49

Il concetto antropologico di luogo presuppone una serie di relazioni di identità edifferenza che hanno il loro terreno di applicazione nella Storia. Marc Augé ha carat-terizzato l’idea di modernità (anche in senso baudelairiano) in termini di integrazionedell’antico nel nuovo, coesistenza di diverse temporalità fondata sull’individuazionedi luoghi identitari e relazionali presso i quali possono essere sperimentate quelle for-me di socializzazione dell’esperienza che sono decisive per il consolidarsi delle singoletradizioni culturali. Ma a questo modello ha poi contrapposto il concetto di una sur-modernité caratterizzata invece dall’assenza di vere e proprie forme di integrazione trai diversi piani temporali e nella quale i luoghi antichi si limitano a occupare un postocircoscritto e specifico, come «luoghi della memoria» repertoriati e classificati. La no-stra epoca – afferma – non produce più luoghi, ma solo nonluoghi, ossia spazi non iden-titari, né relazionali, né storici.50

La riflessione da noi condotta sul rapporto fra luogo e visitatori, fra evento e turi-smo, fra memoria e rappresentazione, non ci ha forse spinti a formulare l’ipotesi chela fruizione museale resti sempre condizionata da un’insormontabile dissociazionetra individuo e spazio, da una costitutiva incapacità del soggetto di adeguarsi al livellodi esperienza richiesto? I Lager-museo sembrano a tutti gli effetti nonluoghi, proprioperché in essi la Storia rischia continuamente di diventare uno «spettacolo specifico»,dove convivono, in qualità di clienti o passeggeri, individualità poco rilevate che sten-tano a tradursi in veri nuclei di identità collettiva. Questa circostanza viene anzitutto

49 Per l’approfondimento di questa tipologia nel quadro di un percorso didattico e formativo sui luoghi della memoria, cfr., in questo vo-lume, il Capitolo I § 4, “Forme della memoria” (II). Un caso particolare, ma tutt’altro che raro, è quello del museo-memoriale senza rap-porto con il luogo in cui sorge. Poiché questa dimensione espositiva non rientra, per varie ragioni, nell’orizzonte da noi considerato, ci li-mitiamo a segnalare tre casi che mettono in luce come anche in queste fondazioni siano in corso procedure complesse di legittimazioneculturale, politica e comunitaria. a) Più o meno discutibilmente, nel caso del centro Yad Vashem di Gerusalemme, la peculiare ubicazio-ne del sito è tale da fornire una legittimazione etica, in chiave secolarizzata, al moderno Stato di Israele, come spazio di redenzione inrapporto alla catastrofe della Shoah (cfr. S. Friedländer, “Memory of the Shoah in Israel. Symbols, Rituals and Ideological Polariza-tion”, in J. E. Young (cur.), The Art of Memory cit., p. 153). b) La prossimità spaziale dello United States Holocaust Memorial Museum diWashington, inaugurato nel 1993, con gli edifici simbolo della storia americana sembra conferire a questo museo il compito di custodi-re non soltanto la memoria dell’Olocausto, ma anche l’integrità degli ideali di democrazia e uguaglianza sui quali si è costruita l’identi-tà nazionale degli USA (ibidem, p. 33). c) In Italia, in forme più ridotte, il Museo della Deportazione di Prato è concepito come un viag-gio simbolico in un campo di lavoro e di sterminio nazista. Il legame con la realtà «locale» è suggerito, in questo caso, dalla vicenda de-gli operai del Pratese deportati nei Lager di Mauthausen ed Ebensee.50 Cfr. M. Augé, Finzioni di fine secolo seguìto da Che cosa succede?, trad. it. di A. Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 83-84; Idem,Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. di D. Rolland, Milano, Elèuthera, 1993, p. 73. Come esempi di nonluo-ghi Augé indica grandi magazzini, spazi commerciali, aeroporti, stazioni ferroviarie, mezzi di trasporto, catene alberghiere, struttureper il tempo libero, punti di transito, spazi soggetti a occupazioni provvisorie, bidonville, campi profughi, centri di transito per emigran-ti e, in generale, tutte le «installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni» (ibidem, p. 36).

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sperimentata sulla pelle del superstite. Come s’è detto, il ritorno sui luoghi non si ri-compone per lui nella forma di una relazione estetica. Per il deportato il luogo è luo-go, senza disgiunzione, senza la possibilità di un’estraneità o di una distanza. Dove glialtri vedono vuoti, egli vede solo luoghi pieni, antropologicamente densi. La sua at-tenzione per la conservazione del dettaglio e il senso di perdita che avverte di frontealle trasformazioni cui vanno incontro le cose si lega al ricordo di un tempo in cui iLager hanno mostrato in modo più brutale la loro originaria natura di nonluoghi: areedi transito più che di residenza, aree di estrema concentrazione demografica segnateda una sostanziale trasformazione del rapporto con lo spazio e dalla imposizione diun presente assoluto negatore della Storia, centri di trasferimento di intere popolazio-ni e interi gruppi sociali, compatibili soltanto con l’impiego delle più efficaci procedu-re per l’accelerazione del trasporto su vasta scala.

Ma proprio il riconoscimento della centralità della figura del superstite e del nessoche continua a legarlo al Lager – sia nella prospettiva della visita, laddove risulta evi-dente l’importanza della sua funzione di accompagnamento, sia in una più ampiaprospettiva di «contatto» e negoziazione fra le associazioni internazionali degli ex de-portati e le amministrazioni dei luoghi di memoria – dovrebbe indurci a considerarela portata «regolativa» della fruizione museale (in senso kantiano). Forse entrambe leesperienze, quella del testimone che ritorna sui luoghi e quella del visitatore «estetico»che partecipa a una sorta di cerimoniale laico, tendono a realizzare una peculiare va-lenza identitaria, come se fosse davvero possibile costruire una tale identità contro quelnemico comune che, secondo Walter Benjamin, «non ha smesso di vincere».51 La pos-sibilità di ricostituire rapporti identitari con certi «luoghi» storici appare, nel caso delLager, rovesciata. Qui abbiamo degli spazi che sono nati come «nonluoghi» e vorreb-bero oggi diventare per la prima volta «luoghi». Dire che il Lager-museo è un monu-mento significa riconoscere che nella sua orbita va costituendosi una lingua che non èpiù quella istituita nel campo ai fini di un’elementare economia di scambio e tantevolte descritta negli scritti di memoria. Se il nonluogo è lo spazio della comunicazionenon umana fra individuo e potenza collettiva,52 il monumento è una delle forme dellacondivisione e si oppone alla solitudine del nonluogo come la lingua autentica si op-pone alla comunicazione funzionale alle esigenze della nuda vita.

Certo, il monumento rischia di produrre non solo ricordo e consapevolezza, maanche oblio, irrigidimento, distacco dal passato e dagli spazi della vita quotidiana.Non è un caso che si sia affacciata alla coscienza artistica l’esigenza di creare monu-menti che fossero anche contro-monumenti – come quello di Jochen ed Esther Gerzad Amburgo –,53 monumenti che mettono in discussione i presupposti stessi del pro-

51 W. Benjamin, Sul concetto di storia, trad. it. di G. Bonola / M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 27: «[Il pericolo] minaccia tanto l’esi-stenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari [...]. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione delpassato al conformismo che è sul punto di soggiogarla.»52 M. Augé, Nonluoghi cit. p. 108.53 Cfr. S. Schmidt-Wulffen, “The Monument Vanishes. A Conversation with Esther and Jochen Gerz”, in J. E. Young (cur.), The Art ofMemory cit. pp. 69-75. Si tratta di un singolare monumento che «dilegua» nel tempo, inizialmente costituito da una colonna alta dodicimetri a base quadrata, sulla cui superficie di piombo i passanti potevano incidere i propri nomi, attestando così il loro antifascismo. Viavia che le singole porzioni della colonna fossero state piene di iscrizioni, l’intero monumento sarebbe sprofondato nella propria base infasi successive, fino eventualmente a scomparire del tutto. Una sezione della colonna sarebbe comunque stata sempre visibile attraversouna vetrina posta nel sottostante passaggio pedonale. Inaugurato nel 1986, il monumento fu abbassato per l’ottava e ultima volta nel1993. Nell’intenzione degli artisti, il vuoto così intervenuto sul sito del monumento sarebbe stato per tutti un invito ad assumere perso-nalmente il carico della memoria e della lotta contro l’ingiustizia.

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prio esserci e vogliono sottolineare più il loro carattere di opposizione al fascismo chela loro funzione di memoriali. Recentemente Peter Eisenman ha realizzato in una cit-tà carica di storia, di strutture significanti e di architettura come Berlino un monu-mento «senza significati», senza centro e senza bordi.54 Ma non è proprio questa ca-pacità destrutturante nei confronti degli spazi in cui normalmente vengono definitivalori e significati, e in cui altrettanto normalmente si legittimano selezioni e oblii, acostituire la condizione primaria per la vita futura dei luoghi della memoria? È azzar-dato affermare che il Lager-museo, in quanto monumento, porta la dispersione po-stmoderna dei luoghi storici al suo punto critico, dove l’esistente denuncia la propriacattiva coscienza? L’identità che in esso si costituisce è sempre un’identità problemati-ca, plurale, mutevole, oggetto di periodiche rinegoziazioni e di aspri confronti sul ter-reno della coscienza sociale e delle definizioni religiose o nazionali.55 Archivio cheracchiude in nuce tutta la nostra storia più recente, eterotopo chiamato a contestare e arovesciare tutti gli altri posizionamenti della cultura,56 il Lager ci ricorda come il mo-dello di razionalità strumentale su cui si è costituita la nostra idea di modernità, e innome della quale l’Occidente continua a giustificare le proprie scelte strategiche nelcontesto mondiale, non sia in linea di principio estranea a quel progetto di ingegneriasociale che aveva come obiettivo la produzione seriale della morte e lo sfruttamentosistematico delle risorse umane e materiali in vista del puro dominio.57

Pedagogia musealeÈ opportuno cercare di capire che cosa il Lager possa insegnare sul museo inteso

come pratica occidentale di collezionamento. Tutti i musei sono oggi un invito a get-tare sul passato, sulle tradizioni locali come sul concetto di cultura in generale, quellosguardo etnografico al quale ci hanno reso avvezzi i luoghi della memoria, con il loro ap-pello a fissare l’alterità radicale, il non assimilabile per antonomasia. Bisogna evitarel’illusione che il Lager-museo possa offrire una rappresentazione adeguata della tota-lità. Vi è sempre tensione tra la memoria come frammento, dettaglio, e l’intero irrico-

54 In Germania il Memoriale per l’assassinio degli ebrei d’Europa è stato oggetto di un forte dibattito in fase di definizione del progetto.Jürgen Habermas ha sostenuto l’idea del monumento in funzione dell’autocomprensione politica dei cittadini tedeschi, in quanto carat-terizzata in modo determinante dal rapporto storico con Auschwitz. Contro coloro che argomentavano l’impossibilità di innalzare unmonumento alla propria vergogna (Hermann Lübbe, Martin Walser), il filosofo francofortese ha sottolineato l’esigenza di un monu-mento che testimoniasse in modo esemplare la volontà e il messaggio dei suoi fondatori, ossia di quei «cittadini che risultano eredi direttidella cultura che rese possibile il misfatto» (cfr. J. Habermas, “L’indice ammonitore. I tedeschi e il loro monumento”, in Idem, Tempo dipassaggi, trad. it. di L. Ceppa, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 22-33).55 È sufficiente pensare alle reazioni suscitate dalla rivendicazione del carattere essenzialmente «ebraico» dello sterminio in un Paese co-me la Polonia, dove l’immagine degli eventi di guerra si è sempre caratterizzata in termini di «sacrificio nazionale» (più di cinque milio-ni di cittadini polacchi persero la vita per le misure di terrore e sterminio messe in atto dalle truppe tedesche di occupazione, la metà deiquali di origine ebraica: cfr. T. Bastian, Auschwitz e la «menzogna su Auschwitz». Sterminio di massa e falsificazione della storia, trad. it. di E. Grillo,Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 51; W. Laqueur (cur.), Dizionario dell’Olocausto cit., p. 554). Superfluo notare come in questa lettura«nazionale» abbia avuto un peso decisivo, oltre alla posizione ufficiale dello Stato socialista, la forte identità cattolica del Paese. Il 7 giu-gno 1979 Giovanni Paolo II definiva Auschwitz «il Golgota del mondo contemporaneo», avallando l’idea del martirio di Cristo qualesintesi simbolica del genocidio ebraico. Cinque anni dopo, il trasferimento di un gruppo di suore carmelitane in un edificio adiacente alperimetro di Auschwitz I apriva un conflitto destinato a trascinarsi per diversi anni, fra accordi disattesi, proteste ebraiche e posizioni dichiusura da parte della Chiesa polacca, fino all’intervento del Vaticano che nel 1989 ratificava l’accordo stipulato due anni prima a Gi-nevra fra le delegazioni delle due parti, che prevedeva lo spostamento del convento e la sua trasformazione in centro interconfessionaledi incontro e preghiera (cfr. J. E. Young, The Texture of Memory. Holocaust Memorials and Meaning, New Haven-London, Yale UniversityPress, 1993, pp. 144-147).56 Per il concetto di «eterotopia», cfr. M. Foucault, “Des espaces autres”, in Idem, Dits et Écrits. 1954-1988, vol. IV (1980-1988), Paris,Gallimard, 1994, pp. 752-762.57 Cfr. Z. Bauman, Modernità e Olocausto cit., pp. 37-38.

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struibile. Anche qui una certa tradizione «si inventa». Nonostante l’aura di autentici-tà che circonda l’oggetto della memoria, i Lager non possono nascondere il carattereselettivo della propria sistemazione. Se per il collezionista d’arte vale il principio che«si colleziona sempre il proprio io»,58 per il museo storico si può assumere la regola se-condo la quale è sempre una certa cultura che si colleziona, anche quando gli oggetticollezionati appartengono ad altre culture o, come nel nostro caso, rappresentanoqualcosa da cui la cultura prende esplicitamente le distanze. S’imporrebbe quindi an-che per i Lager quella riflessione sui criteri di collezionamento che James Clifford haimpostato in termini antropologici ed etnografici osservando come siano sempre con-tingenze locali e politiche a legittimare le varie forme di narrazione. Come ogni mu-seo, anche il Lager dovrebbe esibire la storia della propria «collezione».59

Tuttavia, considerare la configurazione attuale dei luoghi della memoria comeespressione di una relazione storica in corso, che non si limita a restituire una serie dieventi passati, ma registra le trasformazioni in atto nella nostra società, significa con-cepire il Lager-museo come un eterotopo caratterizzato da una spiccata qualità dialo-gica, dove lo spazio del lógos si apre fra lo spaesamento indotto dai luoghi – lo choc per-cettivo che ci costringe a un riassestamento delle nostre coordinate estetiche – el’apertura di nuovi significati nello spazio del museo. È qui in atto un conflitto (o unmovimento dialettico) molto simile a quello descritto da Martin Heidegger a proposi-to della portata veritativa dell’opera d’arte. Forse l’effetto estetico del Lager nasce pro-prio dal suo duplice funzionamento, come (a) “esposizione” (Aufstellung) di un mondo e(b) “produzione” (Her-stellung) della terra.

a) «Esporre» un mondo significa qui fondare o aprire un contesto di appartenenzastorico-culturale, esibire i tratti costitutivi che definiscono l’esperienza del mondopropria di una società o di una cultura. Le linee fondamentali della nostra esistenzastorica sono apparse negli ultimi anni sempre più strettamente intrecciate a una «cul-

58 J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, trad. it. di S. Esposito, Milano, Bompiani, 1972, p. 118.59 Cfr. J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, trad. it. di M. Marchetti, Torino, Bollati Boringhieri,19992, pp. 25-26, 249-55, 264; Idem, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, trad. it. di M. Sampaolo / G. Lomazzi, Torino, Bolla-ti Boringhieri, 1999, pp. 17-18. Per i Lager, il problema si rivela in tutta la sua portata se si pensa alle complesse vicende che hanno se-gnato negli anni del dopoguerra l’allestimento museale dei campi tedeschi e polacchi, o anche alla contrastata presa di coscienza, nel no-stro Paese, del ruolo svolto dalla Repubblica Sociale Italiana nella realizzazione del più grande crimine della storia moderna. Laddovesolo a fatica e con grande ritardo si è manifestata in Italia la necessità di un recupero e di una valorizzazione dei Lager presenti sul terri-torio, in Germania l’esigenza di un confronto con il passato, avvertita su un piano di coscienza nazionale, ha indotto a una precoce mo-numentalizzazione dei luoghi, senza che tuttavia fosse avviata una qualche riflessione su quanto era stato perduto con la distruzione del-l’ebraismo europeo. Se nella Repubblica federale si tendeva a concepire i campi alla stregua di cimiteri o luoghi in cui dovevano esseregenericamente ricordate le vittime della guerra, nella Germania democratica i Lager sono stati sottoposti a un significativo processo diideologizzazione e presentati come monumenti alla lotta al fascismo. La categoria della «vittima», in questo caso, passava decisamentein secondo piano rispetto a quella del «combattente» (cfr. V. Knigge, “Die Gedenkstätte Buchenwald seit 1989/90”, in AA.VV., Die Neu-konzeption der Gedenkstätte Buchenwald, Weimar, Stiftung Gedenkstätten Buchenwald und Mittelbau-Dora, 2001, p. 5). Dopo la Wieder-vereinigung la museografia dei luoghi della memoria ha dovuto affrontare problemi di non facile soluzione. Nei primi anni Novanta nonsono mancate accese discussioni. A titolo di esempio, si può ricordare la decisione degli amministratori di Buchenwald di recuperare co-me luogo di memoria l’area delle fosse comuni dello Speziallager sovietico, che ospitò tra l’agosto del 1945 e il febbraio del 1950 circa28.500 prigionieri tedeschi, per il 43 % dei quali è stato possibile verificare l’iscrizione al partito nazionalsocialista (cfr. P. Reif-Spirek / B.Ritscher (curr.), Speziallager in der SBZ. Gedenkstätten mit «doppelter Vergangenheit», Berlin, Links, 1999, pp. 140-141). È interessante osservarecome i responsabili della risistemazione abbiano tenuto a precisare l’opportunità di distinguere nettamente le due forme della memoria:quella dedicata alle vittime della violenza nazista nel complesso museale di Buchenwald e quella relativa al periodo dell’occupazione so-vietica nell’area adiacente al campo principale. La commissione di esperti istituita dal Ministero per la Scienza e l’Arte del Land dellaTuringia giunse alla conclusione che il KZ nazionalsocialista doveva costituire ancora il fulcro della rappresentazione museale, mentrela memoria dello Speziallager sovietico doveva essere garantita in subordine. I due luoghi dovevano, inoltre, restare nettamente distintida un punto di vista spaziale (cfr. ibidem, p. 253). Sulla diversità delle forme di rappresentazione della memoria rispettivamente in ambi-to tedesco, nei Paesi vittime dell’aggressione nazista e negli Stati alleati vincitori cfr. J. E. Young, The Texture of Memory cit.

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tura della memoria» entro la quale la pedagogia del Lager svolge un ruolo essenziale.Sono naturalmente in gioco, in questo caso, quei tratti di «discorsività» che HansBelting indica come decisivi per il futuro dei musei in generale e ai quali GianniVattimo assegna una specifica valenza sociale e comunicativa: i musei devono diven-tare soggetti collettivi realizzando uno «spostamento di accento dall’oggetto all’attivi-tà», cessando cioè di fare delle opere esposte il fulcro di un interesse prevalentementefeticistico e guardando invece ai «mondi possibili» che le opere stesse eventualmenteannunciano.60 Come luogo dedicato all’archiviazione e alla conservazione dei docu-menti, il Lager è anche un luogo di ricerca, di studio e di incontro.61

b) Quest’idea del museo come «centro di attività», che ci sembra strettamente cor-relata all’apertura, all’esposizione e all’intensificazione di orizzonti mondani di signi-ficato, è destinata a confrontarsi, in misura probabilmente unica nel caso del Lager,con la percezione di una permanente riserva, intraducibile nei termini di un qualsivo-glia significato culturale. In questo senso, Vattimo ha interpretato l’idea dell’operad’arte come Her-stellung della terra nel senso del suo «puntuale manifestarsi come qual-cosa che richiama sempre di nuovo l’attenzione». L’opera d’arte può essere messa inopera della verità solo in quanto i rimandi che costituiscono il mondo da essa apertopresuppongono un riferimento primario «all’altro dal mondo, che in Heidegger ha icaratteri della physis».62 Sono dunque i caratteri unheimlich, “perturbanti”, del Lager,gli elementi di una storia-natura benjaminianamente intesa come accumulo catastro-fico di rovine, ad agire sullo spettatore come strati mitici profondi e a mettere in moto– con il loro dinamismo solo apparente (è storia, ma è storia-natura), con l’immobilitàche li caratterizza in quanto divenire ciclico del sempre-uguale – il processo storicodell’interpretazione. Il richiamo alla mortalità racchiuso nella nozione di «terra» èdunque essenziale al fine di sottrarre la pedagogia del Lager alle tendenze edificantieventualmente favorite da un’affrettata identificazione del ricordo come vaccinazio-ne contro il ritorno del passato. A questo ritorno tutti siamo esposti. Per questo unapedagogia del Lager può essere soltanto una pedagogia della resistenza, una pedagogiache si astiene in linea di principio dalla celebrazione e si mantiene in prossimità essen-ziale con il proprio oggetto, mediante lo studio.

La consapevolezza dell’estrema diversificazione dei modi in cui si è svolto l’eventodello sterminio ha reso evidente negli ultimi anni la necessità di un’impostazione dicarattere «idiografico», tesa a valorizzare la storia di tutti i gruppi di vittime e dei lorospecifici destini. Nel quadro di una tale rielaborazione, si sono moltiplicati in ambitomuseale i percorsi espositivi dedicati alle singole comunità di deportati,63 ai «traspor-

60 Cfr. H. Belting, “Il museo: riflessione o sensazionalismo?”; G. Vattimo, “Il museo e l’esperienza dell’arte nella postmodernità”: en-trambi i saggi in F. Luisetti / G. Maragliano (curr.), Dopo il museo cit., rispettivamente alle pp. 209-224 e 13-21.61 Vattimo sottolinea come la funzione di raccolta di informazioni e documenti sia un tratto essenziale del museo postmoderno. Negli ar-chivi del Museo di Auschwitz vi sono alcune decine di migliaia di negativi di fotografie scattate ai prigionieri al momento del loro in-gresso nel campo o nel corso delle periodiche «selezioni», fotografie scattate clandestinamente dai membri del Sonderkommando neipressi delle camere a gas, quarantotto volumi con i certificati di morte di circa 70.000 prigionieri, documentazioni tecniche e planime-trie relative alla costruzione del campo, lettere e altri scritti di deportati e molto altro materiale destinato all’approfondimento e alla ri-cerca. Presso molti Lager vi sono oggi centri di documentazione, che mettono a disposizione moduli didattici e organizzano corsi sulladidattica dello sterminio. Le amministrazioni allestiscono mostre itineranti, rassegne, visite guidate, seminari e curano pubblicazioni (al-cune centinaia i titoli pubblicati a cura del Dipartimento per le pubblicazioni di Auschwitz). All’idea del Lager come centro di attività siricollega altresì la presenza ad Auschwitz di un ufficio informazioni presso il quale è possibile ottenere, anche per corrispondenza, noti-zie sulla sorte dei singoli deportati.62 G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985, p. 71.63 Il campo di Auschwitz I è di fatto un museo nel quale i singoli padiglioni sono dedicati alla memoria delle diverse nazioni.

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ti» provenienti dai diversi paesi, alla sorte dei singoli prigionieri nelle cosiddette «mar-ce della morte», alla specifica dimensione economico-produttiva dei centri concen-trazionari, ai movimenti di resistenza, a fatti particolari e ad autori identificabili di cri-mini: flessibilità della forma-museo, in grado di trasformarsi da veicolo di metarac-conti a contenitore di storie individuali.64

Giova qui sottolineare ancora una volta la logica richiesta da questo tipo di opera-zioni. Dove l’impulso primario è la volontà di conoscenza, il maximum informativo nondeve pregiudicare la portata estetico-simbolica dell’operazione; né d’altra parte si puòtollerare una rinuncia alla conoscenza a esclusivo vantaggio dell’elaborazione forma-le. Credo che nel caso della memoria dello sterminio il salvataggio dell’individualetrovi già nella relazione allegorica con la totalità infranta la sua fondamentale declina-zione estetica. Mi limito qui a considerare un particolare tipo di rapporto con la sin-golarità assoluta: quello che si determina in presenza dei nomi propri o dei ritratti fo-tografici. Questo rapporto può verificarsi anzitutto in una dimensione espositivo-mo-numentale, dove la stilizzazione formale è massima e la portata estetica del gioco piùscoperta. Nei cataloghi di nomi della Hall of Names allo Yad Vashem, della Pinkaso-va Synagóga di Praga o del Museo Monumento al Deportato di Carpi (fig. 3), così co-me nelle milletrecento fotografie di ebrei lituani della Tower of Faces di Washington(fig. 4) o nelle iscrizioni comparse anno dopo anno sul muro del Monumento italianoa Mauthausen, vi è un potenziale epistemologico che l’intenzione rappresentativa,più o meno esplicita, si limita a precisare, lungi dal sopprimere.65 Ma la stessa produt-tiva duplicità si può ritrovare in forme di scrittura che non sono legate alla monumen-talità di un singolo luogo o edificio, ma si collocano sul terreno specifico dell’indaginestorica. Penso a casi emblematici di «libri-monumento», come quelli di Liliana Pic-ciotto Fargion, di Italo Tibaldi, di Dario Venegoni, di Danuta Czech, scaturiti dall’in-tenzione asintotica di pronunciare tutti i nomi e raccogliere i destini rimasti senzaespressione.66

64 Quasi esemplare, in questo senso, l’esposizione permanente inaugurata a Buchenwald nel 1995: cfr. Konzentrationslager Buchenwald1937-1945. Begleitband zur ständigen historischen Ausstellung, Göttingen, Wallstein Verlag, 20002.65 A Birkenau, un luogo che difficilmente potrebbe essere classificato come «museo» in senso stretto, ha trovato posto nei locali della co-siddetta “Sauna” una collezione di fotografie tratte da album di famiglia di ebrei polacchi di Bedzin e Sosnowiec, ritrovate fra gli effettipersonali dei deportati. Nella penombra delle sale, sotto l’effetto straniante del grande pavimento riflettente che rovescia le immaginiappese alle pareti, il visitatore è invitato a seguire la vicenda dei singoli gruppi familiari e a ripercorrere le storie individuali, spesso rico-struibili nel confronto tra fotografie che ritraggono le persone in attività e situazioni diverse (figg. 5 e 6). Come in certi lavori di ChristianBoltanski, qui è chiaramente percepibile un contrasto fra l’installazione, caratterizzata da una monumentalità geometricamente svilup-pata, e il ritratto fotografico, nel quale si concentra tutta la dimensione emotiva del ricordo (cfr. H. Swiebocki, Auschwitz monumento allamemoria, in «Il presente e la storia», n. 65 / giugno 2004, p. 191; T. Swiebocka / T. Zbrzeska, “A Project for the Interior Arrangement ofthe Former Camp Bathhouse Building in Birkenau”, in T. Swiebocka (cur.), The Architecture of Crime. The “Central Camp Sauna” in AuschwitzII-Birkenau, trad. ingl. di W. Brand, Oswiecim, Auschwitz-Birkenau State Museum, 2001, pp. 195-200).66 Cfr. L. Picciotto Fargion, Il Libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 1991, 20022; I. Tibaldi, Compa-gni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I “trasporti” dei deportati 1943-1945, Milano, FrancoAngeli, 1994; D. Venegoni, Uomini, donne e bambi-ni nel Lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7.809 storie individuali, Milano, Mimesis, 2004. Quest’ultimo testo è altresì disponibile in retesul sito dell’ANED e della Fondazione Memoria della Deportazione (www.deportati.it), dove si trova anche la fondamentale, dettagliatacronologia di D. Czech, Kalendarium. Gli avvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz 1939-1945, trad. it. di G. Piccinini, a cura diD. Venegoni, 2002 (nella presentazione Lucio Monaco sottolinea la triplice valenza del libro: storica, archivistica e narrativa). Una por-tata per certi versi analoga a quella dei testi citati può essere attribuita alla ricostruzione filmica realizzata da Claude Lanzmann con ilsuo Shoah, vero e proprio film-monumento della durata di nove ore, montaggio di materiali costituiti da interviste a ex deportati, ex SS ecivili, alcune delle quali di insostituibile valore documentario e testimoniale (se ne veda la trascrizione in C. Lanzmann, Shoah, trad. it. diG. Cillario, Milano, Rizzoli, 1987). Sempre nell’ambito della testimonianza visiva, non sarebbe neppure da scartare l’ipotesi di una va-lenza estetica implicita nel progetto della Shoah Visual History Foundation di Steven Spielberg, che, con le sue forme invero piuttostostandardizzate, appare come una sorta di enorme museo in progress della memoria. La fondazione raccoglie a tutt’oggi più di 50.000video-interviste a sopravvissuti della Shoah da tutto il mondo (cfr. il sito: www.vhf.org). Annette Wieviorka ne ha evidenziato la dimen-sione «industriale» in un contesto di esplosione globale della testimonianza a partire dagli anni Novanta (cfr. A. Wieviorka, L’era del testi-mone cit., pp. 122-129).

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I musei presuppongono, e talora creano, una cornice volta adeterminare il senso delle loro inclusioni e delle relative esclusioni.Michel Foucault li concepisce, in analogia con gli archivi e le bi-blioteche, come metatesti che istituiscono e organizzano altri livel-li testuali, a loro volta implicati in una serie di relazioni e rimandi.Così come ogni libro moderno è un libro aperto alla serie infinitadei libri (in un rapporto essenziale con quanto è già stato scritto) eogni pittura moderna è pittura «da museo» (nata per rendere espli-cita la propria parentela essenziale con ciò che è già stato dipin-to),67 anche il Lager deve essere pensato come un luogo di raccoltadelle storie, un punto di convergenza delle testimonianze e dei lin-guaggi che intorno alla deportazione sono nati negli ultimi sessan-t’anni, uno spazio caratterizzato da una costitutiva vocazione me-tamorfica, da una permanente tendenza alla ridefinizione delleproprie funzioni. Nel Lager si produce interte-stualità:68 l’enorme mole degli scritti di memoriae delle testimonianze scritte e orali, per la qualenon esiste a tutt’oggi una bibliografia esaurien-te,69 trova in esso il proprio centro ideale. Librodei libri, archivio virtuale delle forme della testi-monianza, il luogo della memoria non si limita adaccogliere elementi linguistici precostituiti: li po-ne in essere, li costituisce come tali, crea nuovicontesti di esperienza e nuove modalità di orga-nizzazione della conoscenza storica. Al tempostesso, però, è un catalogo aperto, suscettibile diampliamenti e nuove combinazioni. Come ognimuseo, è anche metamuseo, in quanto vive da unlato delle serie di oggetti/documenti che vi sonoconfluite, mentre contiene dall’altro indicazionisu ciò che in esso rimane infinitamente aperto allepossibili integrazioni. Nessuno dei linguaggi cheentrano a far parte della cornice museale puòaspirare a dire l’indicibile, a descrivere ciò che peressenza si sottrae al gioco della finzione; l’esitofantasmagorico descritto da Foucault attraversatutto lo spazio della scrittura, delle memorie, delleimmagini. Ma qui l’immaginazione sperimentaanche la propria insufficienza di fronte alla valu-

67 Cfr. M. Foucault, “Un ‘fantastico’ da biblioteca”, in Idem, Scritti letterari, trad. it. di C. Milanese, Milano, Feltrinelli, 19963, pp. 136-139.68 Cfr. A. Huyssen, “Monument and Memory in a Postmodern Age” cit., p. 16.69 Cfr. però A. Devoto, Bibliografia dell’oppressione nazista fino al 1962, Firenze, Olschki, 1964; Idem, L’oppressione nazista: considerazioni e biblio-grafia 1963-1981, Firenze, Olschki, 1983. Per la storia dei deportati italiani cfr. A. Bravo / D. Jalla (curr.), Una misura onesta. Gli scritti di me-moria della deportazione dall’Italia 1944-1993, Milano, FrancoAngeli, 1994. Per il campo di Mauthausen il ministero degli Interni austriacoha dato avvio nel 2001 a un progetto di raccolta di testimonianze di deportati denominato MSDP (Mauthausen Survivors Documenta-tion Project), che comprende circa ottocento interviste raccolte in una ventina di Paesi (cfr. V. Frenkel, Conservare la memoria. Le interviste aideportati di Mauthausen, in «Il presente e la storia», n. 65 / giugno 2004, pp. 207-226).

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tazione di un oggetto estraneoalle regole della comunicazioneestetizzata. Ogni testimonianzaè in un rapporto «museale» contutte le altre testimonianze (epiù in generale con le diverseforme rappresentative accantoalle quali si «espone») e tuttaviaistituisce al contempo una rela-zione unica e insondabile con ilfondo dal quale tutte le testimo-nianze provengono.

Tutto questo resterà permolto tempo a disposizione de-gli uomini futuri, ma l’impattoche oggi i luoghi della memoriaesercitano (ancora o di nuovo)non è assicurato per sempre.Quando anche gli ultimi testi-moni oculari se ne saranno an-

dati, i campi avranno bisogno di testimoni secondari, o «mentali», come è stato dettocon espressione quanto mai esatta.70

70 A. Bravo, “Gli archivi dell’ANED piemontese e la loro importanza per la didattica”, in L. Monaco (cur.), La deportazione nei Lager nazisti.Didattica e ricerca storiografica, Milano, FrancoAngeli, 1999, p. 24.

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I fili della memoria che hanno guidato e continuano a guidare i nostri percorsivanno molto indietro nel tempo, ben più dei dieci anni che il volume cerca di riassu-mere. Nelle scuole italiane, e piemontesi in particolare, l’incontro di testimoni, direttie indiretti, con le classi e con studenti e insegnanti è tradizione pluridecennale, e così èavvenuto anche per le Scuole di Moncalieri (medie superiori e inferiori, un ambitoquest’ultimo purtroppo poco noto). Gli incontri più lontani hanno posto le basi meto-dologiche e conoscitive per il Progetto Memoria: per noi che scriviamo queste paginesi tratta di risalire a oltre vent’anni fa. Più precisamente, al 30 novembre 1984, quan-do un gruppo di studenti del Liceo Scientifico “Majorana” incontrò Leonella Bellin-zona, Anna Cherchi, Ferruccio Maruffi e, un mese dopo, Attilio Armando, QuintoOsano, Luigi Scala. Da quei momenti nomi come Flossenbürg, Ravensbrück,Mauthausen, Gusen, Sachsenhausen – e anche Fossoli, Bolzano – accanto a quellopiù noto di Auschwitz, sono entrati a far parte della formazione e della coscienza civi-le di gruppi inizialmente molto ridotti, poi più ampi di studenti e insegnanti. Testimo-ni, e anche studiosi e storici, hanno contribuito alla nostra lunga attività di ricerca,che come abbiamo detto soltanto negli ultimi dieci anni ha assunto, con il nome di“Progetto Memoria”, la configurazione di cui si occupa il libro. Ai nomi già fatti dob-biamo aggiungere, per i superstiti dei Lager, quelli di Lidia Beccaria Rolfi, di BeppeBerruto, di Pio Bigo, di Giorgio Ferrero, di Felice Malgaroli, di Marcello Martini, diAlbino Moret, di Quinto Osano, di Natalino Pia, di Alessandro Roncaglio, di Giulia-na Fiorentino Tedeschi, di Natalia Tedeschi, di Gino Valenzano, di Bruno Vasari; e inparticolare dei moncalieresi Orfeo Mazzoni e Antonio Temporini; e di tre deportati estudiosi stranieri, passati per l’inferno di Auschwitz: Rose e Maurice Goldmann, e ungrande amico di Primo Levi, Hermann Langbein. E poi dobbiamo ricordare quelliche abbiamo chiamato “testimoni di secondo grado”, a cominciare dai famigliari cuiabbiamo accennato nell’Introduzione:a essi aggiungeremo il nome di Nedelia Tede-schi, figlia di deportati e testimone diretta della persecuzione da cui fu investita, tra il1943 e il 1945, la Comunità ebraica di Torino. Con Nedelia commemorammo nel-l’Auditorium del Liceo i cinquant’anni della liberazione di Auschwitz, quando anco-ra questo evento non occupava lo spazio mediatico di cui dispone oggi (e non era sem-plice districarsi tra le polemiche di revisionisti e negazionisti).

E infine vogliamo sottolineare la discreta ma fedele presenza di Mario Pettinati,partigiano nelle Langhe, che ci ricorda, standoci accanto in ogni incontro a Monca-lieri, come deportazione e Resistenza siano strettamente legate, sul piano storico co-me su quello etico e ideale. Un legame più profondo si è naturalmente creato con i su-perstiti e i testimoni che hanno partecipato ai viaggi. Vogliamo qui tracciarne breve-mente le vicende di deportazione e i dati biografici, e a loro diamo la parola per ascol-tarne la testimonianza di memoria.

Capitolo IV - Testimoni e memorie

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Anna Cherchi era nata a Torino il 15 gennaio 1924. Data in affidamento, è vis-suta con la famiglia adottiva dei Penna fino al 1944, nella cascina « Ca’ ‘d bàs» (o«cascina Basso»), presso la frazione di Santa Libera, nel comune di Loazzolo (nel-la Langa, all’epoca provincia di Alessandria). Questo dato biografico, da lei comu-nicato a poche persone, contribuisce forse a spiegare la grande capacità comuni-cativa e il ricco calore umano che la caratterizzavano, e che erano tipici, come rac-contava in privato, della famiglia di accoglienza: famiglia contadina, in cui si re-spirava una forte ostilità al fascismo. Così dopo l’8 settembre la cascina diventa uncentro di assistenza e aiuto per i militari sbandati, e successivamente per le primeformazioni partigiane. Il 7 gennaio 1944 la casa è incendiata dai nazifascisti, Annaè arrestata ma riesce fortunosamente a fuggire, raggiungendo le formazioni parti-giane autonome, dove si trova il fratello Giuseppe («Basso»). Entra nella 22a Divi-sione Langhe, 6° Brigata Belbo, assumendo nei documenti il falso nome di “MariaBruni”. Il 19 marzo, durante un rastrellamento, si fa catturare dai nazifascisti perconsentire al resto del gruppo partigiano di mettersi in salvo. Portata a Torino, èinterrogata e torturata in Via Asti e all’Albergo Nazionale, quindi imprigionata al-le Carceri Nuove. Il 27 giugno è deportata a Ravensbrück dove viene immatrico-lata con il n. 44145. In luglio è trasferita, con altre nove italiane dello stesso convo-glio, al sottocampo di Schönefeld (Berlino), dove le viene assegnato il numero1721. Qui, insieme alle compagne, lavora alla produzione di parti di aereo dabombardamento. Alla fatica e ai ritmi massacranti di un lavoro schiavile si aggiun-ge, il 15 e il 16 gennaio 1945, un disumano esperimento pseudomedico subìto nelreparto “Patologia” del Lager di Sachsenhausen (da cui, per qualche tempo, dipe-se il sottocampo di Schönefeld), con l’estrazione, senza anestesia, di quindici denti,e il rinvio immediato al lavoro. Anna si salva certamente per la sua fibra forte, maanche grazie alla solidarietà delle compagne – un tema su cui insisteva sempre lasua testimonianza. Cessata la produzione alla fine di febbraio, il campo è evacuatoil 26 o 27 aprile 1945, e le deportate sono avviate verso Ravensbrück; ma sullastrada sono intercettate e liberate dai sovietici tre giorni dopo. Dopo un travaglia-to rientro in Italia, Anna Cherchi, in precarie condizioni di salute, lasciò la fami-glia di adozione e si trasferì a Torino, dove si sposò e lavorò come operaia alla FiatFerriere, dal 1949 al 1979. Soprattutto negli ultimi vent’anni la sua attività di testi-mone si è espressa in una presenza capillare e costante a incontri nelle scuole diogni tipo e a viaggi ai luoghi di memoria organizzati dall’ANED, dai singoli istitu-ti scolastici o dalla Regione Piemonte. Un impegno di testimonianza che assolvevacon serenità e sollecitudine anche nei momenti resi difficili da problemi di salutesempre più gravi. Anna Cherchi si è spenta a Torino nel gennaio 2006.

Immagini e parole di Anna Cherchi

Con quest’angoscia e questo dubbio nel cuore torno a ripetere che tuttavia ricordare bisogna; an-che se il ricordare costituisce ogni qualvolta un rinnovarsi di sofferenza, siamo convinte di poter farcapire al mondo l’immensità del male che l’uomo può fare all’uomo, e che da questo è nato il flagel-lo della deportazione, che è la più grande sofferenza e la più vasta strage che il mondo abbia maiconosciuto. A parte gli incubi che ancora oggi, e forse per sempre, ci perseguitano, essere ritornatedegli esseri umani è indescrivibilmente bello.

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Certo per comprendere il significato della parola libertà, bisogna esserne stati privati. Com-prendendo questo, un’altra cosa ho potuto comprendere: il perché milioni di uomini e donne si sonobuttati volontariamente in quella lotta senza temere la morte, disposti anche a rinunciare alla vitaperché volevano che rivivesse nuovamente ciò che meritava di vivere più a lungo di loro.1

Anna Cherchi lascia una testimonianza particolarmente viva e vicina a noi in unaserie di documentari e di film. A quelli allegati al presente volume, in formato DVD(per i quali rimandiamo anche all’Appendice VII. B, “Immagini della memoria”, pp.251-270) sono da aggiungere: Pane, pace, libertà (1943-1945), regia M. Calopresti, VHSPAL, 43’, 1994 (Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico); La guerraalla guerra, regia A. Gasco, VHS, 63’, 1995 (Istituto Piemontese per la Storia della Resi-stenza e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti”); Il fiore e il passero, regiaD. Cambiano / D. Giacometti, VHS PAL, 35’, 1995 (Quarta Rete TV s.r.l. / ConsiglioRegionale del Piemonte); I detenuti politici del Carcere delle Nuove di Torino, regiaF. Tagliente, VHS, 1999; Il viaggio, regia D. Cambiano, VHS, 50’, 1999 (Quarta ReteTV s.r.l.). Si veda anche la trascrizione dell’intervista filmata contenuta nel sitowww.testimonianzedailager.rai.it (con stralci video), senza indicazione di data, ma2001 (per cura di Carla Gacomozzi e Giuseppe Paleari).

Quanto alla parola scritta, vi sono ovviamente numerose interviste, ma difficil-mente rintracciabili perché riportate su stampa periodica o di fatto ancora inedite.Costituiscono comunque un sicuro punto di riferimento per la sua memoria autobio-grafica: Anna Cherchi, La parola Libertà. Ricordando Ravensbrück, a cura di L. Monaco,Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004; e le sue pagine “Deportazione al femminile”,in A. Cassara / E. Castelli / A. Lichtenstein (curr.), Voci della memoria. Testimonianza eracconto della deportazione, Roma, 2005 (allegato a L’Unità del 27.1.2005), pp. 20-25.

1 A. Cherchi, La parola Libertà cit., pp. 31, 24.

Natalia Tedeschi e Anna Cherchi al Memoriale di Ravensbrück (marzo 2001)

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Capitolo IV168

Natalia Tedeschi era nata a Genova il 19 giugno 1922. Trasferita a Torino, almomento dell’emanazione delle leggi razziali deve interrompere gli studi (1938).Con l’evoluzione della guerra, nel 1943 una parte della famiglia sfolla a Saluzzo;poi Natalia si rifugia con la madre, Bice Sacerdote, e la nonna, Celeste Muggia, aSampeyre e a Casteldelfino. Qui le tre donne sono arrestate dai tedeschi, su dela-zione di un italiano, il 28 marzo 1944, e imprigionate a Venasca e poi a Torino,quindi tradotte a Fossoli. Il 16 maggio sono deportate ad Auschwitz: il convogliocomprende 581 persone; ne saranno immatricolate 256 (186 uomini e 70 donne),mentre gli altri verranno immediatamente eliminati nelle camere a gas. Anche lamadre e la nonna saranno uccise all’arrivo. Natalia Tedeschi è immatricolata conil n. A 5404. Trasportata in seguito a Bergen Belsen, Dessau, Theresienstadt, vie-ne liberata in quest’ultima località. Vissuta a Torino, testimone schiva e riservata,Natalia ha seguìto con crescente attenzione le attività del Progetto Memoria, assi-curando la sua presenza nelle prime commemorazioni del 27 gennaio. È mancatanel marzo 2003.

Il racconto di Natalia TedeschiAuschwitz, marzo 1999 (Studentesse dell’ITCS “Marro”)

L’ebraismo, le mie radiciSono nata a Genova il 19 giugno 1922, sono cresciuta in una famiglia ebraica cre-

dente, ma non assidua e praticante. Anch’io non sono rigorosa nel seguire i numero-sissimi precetti della mia religione... Però la mia identità, la mia cultura, le mie origini,quelle le sento profondamente.

Quando sono arrivate le leggi razziali nel 1938, eravamo increduli. Ci chiedeva-mo: “Cosa ci possono fare? Non abbiamo fatto niente…” Invece ci hanno mandativia da scuola.

Mio fratello Cesare è riuscito ancora a laurearsi, e pensare che non era facile, nonsi doveva fallire nessun esame, altrimenti non si poteva più continuare.

Mio fratello Vittorio era iscritto a Economia e Commercio. Un giorno è tornato acasa e ci ha detto: “Io non continuo più perché avrò la vita corta. Lo so, lo sento chemorirò giovane.” (È poi mancato a Mauthausen. Il 25 aprile! Era nei partigiani ed èstato denunciato da un amico. Anche quell’amico è morto a Mauthausen.)

Io avevo iniziato il ginnasio, poi sono passata all’Istituto professionale “M. Leti-zia”, ma nel ’38, al primo anno di superiori, ho dovuto lasciare. Da un giorno all’altrosono rimasta a casa. Mia mamma mi ha ancora iscritta all’Istituto filologico in Viadelle Orfane, ma anche lì non mi è stato consentito di continuare.

La fuga e l’arrestoEravamo a Saluzzo, dove viveva una sorella di mia nonna. Eravamo lì, sfollati, per-

ché a Torino c’erano i bombardamenti. Ero con mia mamma e mia nonna. Due mieifratelli erano nei partigiani, l’altro era nascosto a Torino, in una soffitta di Via Belfio-re, dove il nostro amministratore gli portava da mangiare.

A Saluzzo alloggiavamo all’Albergo della Luna dove c’erano altri ebrei. Era un al-

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berghetto modesto: al piano terreno una reception, se possiamo chiamarla così, c’eraun bancone…, al primo piano una sala da pranzo e un corridoio con le camere e, so-pra, altri locali.

Un giorno scendo e sento dire: “Siamo venuti ad arrestare quella famiglia diebrei.” Sono tornata in camera e abbiamo cercato di raccogliere le cose essenziali perfuggire. Ancora oggi mi è rimasto questo incubo: dover fare in fretta le valigie e nonriuscire a raccogliere tutte le cose. Avevamo la stanza vicino alle scale che portavanoal piano superiore e da lì siamo fuggite e abbiamo chiesto ospitalità a una famiglia al-l’ultimo piano dell’edificio.

Oggi, a distanza di tempo, mi chiedo se le persone che sono venute ad arrestarciabbiano voluto darci questa possibilità. In effetti, abbiamo avuto il tempo di preparar-ci e loro avrebbero potuto benissimo trovarci. Non lo saprò mai.

La notte, per non mettere in pericolo le persone che ci avevano ospitato, abbiamotrovato un taxi e ci siamo fatte portare a Sampeyre, dove avevamo degli amici.

Adesso mi rendo conto che ci siamo messe in una situazione senza via d’uscita.Quando sono arrivati i partigiani a Sampeyre, ci siamo sentite al sicuro e anche lo-

ro ci hanno rassicurate, invece i tedeschi stavano risalendo la vallata. Noi ci siamospostate più su, verso il confine, a Casteldelfino, ma è stato anche peggio; forse fossi-mo state in una grande città avremmo potuto spostarci, anche solo da una zona aun’altra, ma là…

Quando sono arrivati i tedeschi, una guardia di finanza (il suo nome non lo di-menticherò mai) ci ha denunciato per cinquemila lire. Evidentemente gli facevanocomodo!

Nella notte ci hanno portato a Venasca. Stavamo nelle scuole pubbliche insieme atutti gli altri che i tedeschi avevano rastrellato ed eravamo libere di muoverci, ovvia-mente all’interno della scuola. Di notte, invece, ci portavano nelle celle della PubblicaSicurezza, dove dormivamo sui tavolacci, senza una coperta, tutti ammassati, uomi-ni, donne, vecchi e bambini. Siamo rimaste a Venasca tre o quattro giorni.

Una mattina ci hanno condotto a Torino, all’Albergo Nazionale che era sede delComando Tedesco, ci hanno interrogato e poi trasferito alle Carceri Nuove, dove sia-mo rimaste una ventina di giorni. Il ricordo più tremendo di quei giorni sono le cimi-ci che ci divoravano giorno e notte.

Poi ci hanno portato a Fossoli, e di lì ad Auschwitz.

AuschwitzIl mio trasporto è partito da Fossoli il 16 maggio del 1944, con 581 deportati. È sta-

to il convoglio più lungo di tutti, diviso poi a Innsbruck e giunto ad Auschwitz il 23maggio 1944. Alla liberazione i sopravvissuti erano 60.

Appena scesi sulla rampa ci hanno separato: gli uomini dalle donne, gli abili daidisabili. Io ero con mia mamma e mia nonna. Ci hanno divise e ho ancora l’impres-sione del braccio tremante di mia mamma che si stacca dal mio. Aveva quarantanoveanni! Ed è stata avviata alle camere a gas e ai forni con i vecchi, gli inabili e i bambini.

Il numero che mi hanno tatuato sul braccio è A 5404.Entrata nel campo di Auschwitz-Birkenau, dopo pochi giorni sono finita al Revier:

non si può dire che fosse un ospedale da campo, era piuttosto una sorta di lazzaretto.Avevo un’infezione alla caviglia, una gamba gonfia, spaventosa, piena di siero, di san-gue. Non potevo camminare. Non c’era medicazione… mi hanno messo un po’ di

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Capitolo IV170

carta e, comunque, era possibile cambiarla solo il martedì e il venerdì!All’ingresso in campo mi avevano detto: “Non andare al Revier, non andare!

Muori in campo, ma non entrare là.”Ogni mattina, tutte le mattine, passava Mengele e segnava col frustino chi doveva

andare alla selezione. Ma chi veniva scelto non andava a morire subito, era portato inuna baracca particolare, aspettava tre giorni, riceveva una supernutrizione, poi, dinotte, veniva mandato a morire. Wanda Maestro, di Torino, partigiana, è morta così.

Sono rimasta quaranta giorni al Revier, in completa immobilità. I primi dieci gior-ni li ho trascorsi su un tavolaccio vicino a un’altra prigioniera, forse olandese, che ave-va il tifo e si sporcava in continuazione. Eravamo completamente nude e con una solacoperta, che si può ben immaginare in quali condizioni fosse. Solo dopo dieci giorni cihanno dato una specie di camicione…

Uscita dal Revier mi sono lasciata andare, non avevo più voglia di vivere. Mi hasalvata un’amica. Quell’incontro è stato uno dei momenti fortunati nella mia espe-rienza drammatica. Era veneta, nove anni più vecchia di me, energica. Si chiamava (sichiama, è ancora viva) Enrichetta Polacco, ma era detta “Cea” (in veneto significapiccola, bambina); lei mi scuoteva: “Vergognete, te si cusì grasa e te voi morir? Vergognete, lave-te, movete, non lassarte andar. Non dovemo darghea vinta!”

Cea lavorava alle cucine, portava da mangiare al Revier e allora ha chiesto allaRosi, un’internata polacca che dirigeva il lavoro delle cucine, di prendere anche me alavorare con lei. È stata per me una fortuna. I primi tempi sono stati faticosi, ancheperché, essendo Cea piccolina e io molto alta, risultava difficile mantenere in equili-brio i pentoloni da 100 litri di zuppa che dovevamo trasportare. Con questo lavoro,però, non sono mai uscita dal campo, cosa che avrebbe comportato pericoli ben piùgravi. Mia cugina Giuliana, per esempio, doveva fare ogni giorno tre chilometri al-l’andata e tre al ritorno per andare a lavorare in una fabbrica e nelle condizioni in cuieravamo…

Trasportare il cibo non era invece un gran vantaggio per la nostra alimentazione:qualche volta si poteva raschiare sul fondo, ma erano occasioni rarissime. C’è inveceun ricordo terribile legato a quel mio lavoro: al Revier succedeva che nascessero deibambini e al mattino, arrivando, li vedevo sul davanzale della finestra, nudi, abbando-nati lì, morti o a morire, e li vedevo ancora muoversi ed era terribile, terribile…

Per me, inoltre, tornare al Revier era una sofferenza, un rivivere le condizioni disu-mane in cui ero stata.

Con Cea sono rimasta in campo a Birkenau e dal campo siamo uscite insieme, poil’ho persa di vista e non ho più saputo niente di lei. Solo al ritorno ci siamo ritrovate.

Da Birkenau a Bergen Belsen e poi a BuchenwaldQuando si annunciò l’avanzata sovietica verso Auschwitz, iniziarono i trasferi-

menti di prigionieri verso altri campi.Un giorno dell’ottobre ’44, a Birkenau, dove mi trovavo, ci fu un appello generale

durato dal mattino fino a notte. Ero malata, avevo la febbre alta e tutto quel giornodavanti alla baracca, sdraiata per terra, fu terribile. Dopo l’appello, fummo caricatesu un camion per essere trasferite, ma non sapevamo assolutamente dove e… c’eranoi forni crematori che funzionavano… cosa dovevamo pensare?

Comunque fummo trasportate sui camion, poi sul treno per un viaggio durato,credo, quattro giorni. Non ci hanno mai dato da bere, e la sete è terribile, s’impazzi-

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sce. Nel nostro vagone c’erano due SS o tre, mangiavano davanti a noi e noi abbiamochiesto che ci dessero la pelle del salame, la pelle… ma niente! Siamo poi scese aBergen Belsen disidratate, io credo di aver bevuto sei litri d’acqua. Pioveva, non c’era-no le baracche pronte per noi, così abbiamo dormito per terra, sotto la pioggia.

Dopo qualche tempo, un nuovo trasferimento: hanno scelto quelle più in carneper andare a lavorare in fabbrica a Dessau, vicino a Lipsia. Era un sottocampo diBuchenwald. Io ero stata scartata perché ero troppo magra, ma la mia amica Cea,che mi aveva già salvata quando mi ero lasciata andare, facendosi capire a gesti per-ché non sapeva neppure una parola di tedesco, ha chiesto a una Aufseherin, che inquel momento si vede non era così terribile e forse ha provato un po’ di pietà, di la-sciare con lei sua “sorella”, e la Aufseherin mi ha tolto dal gruppo che era stato scarta-to e mi ha messa nell’altro.

Siamo quindi andate a lavorare a Dessau presso la ditta Junkers-Flugzeug undMotorenwerke AG. Si lavorava 12 ore al giorno, dalle 6 del mattino alle 6 di sera odalle 6 di sera alle 6 del mattino. Nonostante questo la nostra condizione era legger-mente migliore, almeno non c’era la paura dei forni crematori. Là non c’erano. Si la-vorava a gruppi di venticinque, con cinque SS e i cani lupo di guardia. Ma dove maiavremmo potuto fuggire? Io ero al tornio, levigavo delle barre, era un lavoro faticoso,sempre in piedi. Ogni quattro ore avevamo un intervallo di dieci minuti; c’erano dellecassette e noi piombavamo a sedere sulle cassette e, sfinite, ci addormentavamo im-mediatamente.

Dessau: un segno di vitaUscendo dal campo, fuori del cancello (mi pare che fosse appoggiato proprio al

cancello), c’era un gelsomino, o forse era un altro fiore bianco; ogni giorno lo vedevopiù fiorito, era primavera, la primavera del 1945 e quel fiore mi dava l’idea della vitache resisteva, che andava avanti, era un ritorno alla vita. Quel fiore mi ha dato unagrande speranza… mi è rimasto in mente come qualcosa di bello e commovente.

Devo però dire che, forse perché ero giovane, io l’idea della morte non l’ho maiavuta. Eppure la morte ci sfiorava continuamente.

Theresienstadt: la liberazioneSono stata liberata il 6 maggio del 1945 a Theresienstadt, l’attuale Terezín, do-

v’ero stata molto malata, avevo il tifo petecchiale.Quarantotto ore prima che ci mandassero ai forni sono arrivati i russi. È stato un

caso fortunato, come del resto mi era già capitato ad Auschwitz, da dove il mio era sta-to l’ultimo convoglio a uscire, mentre dopo ci sono state le marce della morte che han-no visto decimare i prigionieri per strada. Altrettanto casuale è stata la guarigione daltifo petecchiale, senza una cura, perché non c’era niente. Quando sono arrivati i russiho avuto una pastiglia, una, non so di cosa, ed è stata l’unica cura.

Il ritornoDa Terezín siamo stati portati a Praga. Ero con un gruppo d’italiani.In sette o otto siamo andati alla Casa d’Italia, dove ci hanno dato un po’ di soldi; e

con quei soldi sapete cosa abbiamo comprato? Eravamo in condizioni pietose, con-ciate male, come potete immaginare, con i capelli rasati per i pidocchi, eppure abbia-mo comprato un rossetto. Era la vita che ricominciava. Pensate com’eravamo

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Capitolo IV172

belle! In quelle condizioni! Siamo poi state trasferite a Vienna e, di lì, in un campo diraccolta a Wiener Neustadt.

Le condizioni igieniche erano molto precarie. Non ricordo molto, solo che man-giavamo ceci con i vermi, le mosche ci cadevano nei piatti… Siamo rimaste circa qua-ranta giorni, ma poi siamo scappate perché avevamo paura dei russi: volevano cheandassimo a lavorare con loro di notte.

Siamo andate a Sopron, in Ungheria, poi dall’Ungheria, con tutti i mezzi di fortu-na possibili, siamo arrivate a Tirana e finalmente a Trieste, sempre con vari mezzi.

L’unico regalo che abbiamo ricevuto, da un capostazione, è stato un pomodoro, loricorderò sempre!

A Trieste siamo andate alla Comunità ebraica, dove ci hanno messo a disposizionedelle brande con delle lenzuola, ma noi abbiamo dormito per terra, non eravamo piùabituate al letto. A terra si dormiva così bene! A Postumia avevo addirittura dormitosul davanzale di una finestra! Abbiamo poi impiegato nove giorni per arrivare aMilano.

Da Trieste avevo mandato un telegramma al nostro amministratore per avvisaredel mio arrivo. La mia casa c’era ancora, ma io non lo sapevo, non sapevo chi avreitrovato.

C’era mio fratello Carlo, tornato dalla Svizzera dove si era rifugiato e dove si erasposato, con la moglie che aspettava un figlio al quale è stato dato il nome di Vittorio(morto a Mauthausen), e con l’altro fratello Cesare. Erano stati avvertiti dall’ammini-stratore. Avrebbero voluto venirmi a prendere, ma dove? Non lo sapevano.

Sono scesa a Porta Susa, ho preso il tram; la gente vedendomi in quelle condizionimi diceva: “Ma lei arriva da molto lontano…”, e io: “Arrivo dalla Polonia, campi diconcentramento.” Arrivata a casa, in Corso Regina Margherita, sono scesi tutti daltram a darmi la mano, a farmi gli auguri. Ho suonato il campanello di casa senza sa-pere se avrei trovato qualcuno.

Ho aspettato tanto a parlare perché la gente non voleva sapere, non voleva ascolta-re, era appena finita la guerra, si voleva vivere e non pensare più al passato.

E i miei, forse, non chiedevano per non riaprire una ferita.Ho cominciato a raccontare molti anni dopo, messa alle strette dal Centro di

Documentazione Ebraica (CDEC) di Milano. Oggi ho molti rimpianti. Vorrei saperetante cose, anche della mia famiglia, ma non ho più nessuno a cui chiedere. Nessuno,ed è un rimpianto grande.

Un viaggio*

Maria Clara Avalle

L’avevo incontrata per la prima volta nella sua casa di Corso San Maurizio a Tori-no, in occasione del viaggio ad Auschwitz che si stava preparando nella nostra scuolaper la primavera successiva, nel marzo 1999. Sapevo che era ritornata ad Auschwitzdopo la Liberazione, ora le chiedevo di accompagnare i nostri studenti nei luoghi ter-ribili della sua prigionia.

* Il ricordo di Natalia, scritto da Maria Clara Avalle, è apparso su Ha Keillah, n. 2 / aprile 2003, nissan 5763, p. 13, e viene qui pubblica-to per gentile concessione del suo Direttore, David Sorani.

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Mi apriva la sua casa con gioia, con quel sorriso luminoso che sempre accoglieva emetteva a proprio agio l’interlocutore. Le parlai dei miei studi, del mio lavoro e so-prattutto del mio interesse per la storia della deportazione, la sua storia, che ero lì perascoltare. Disse che era contenta di incontrare dei giovani, e nel rievocare quel suo in-dicibile passato si rammaricava di non avere più la memoria di un tempo. Tornai al-tre volte nella sua casa e diventammo amiche. Parlava lentamente, rivivendo le sensa-zioni più angosciose come il momento del distacco violento dal braccio tremante disua madre – poi avviata con la nonna alle camere a gas – ad Auschwitz, ancora cosìvivo in lei; o l’immagine del Dottor Mengele che “ogni mattina, tutte le mattine, pas-sava e segnava col frustino chi doveva andare alla selezione”.

Parlava con forza, con coraggio, con grande simpatia umana, sdrammatizzandoanche certe situazioni, come l’incontro in Lager con Enrichetta Polacco, “Cea”, dinove anni più vecchia di lei, che – come il Sergente Steinlauf dell’esercito austroun-garico, il quale esortava Primo Levi a lavarsi per non morire – scuoteva Natalia conqueste parole: “Vergognete, te sì cusì grasa e te voi morir? Vergognete, lavete, movete, no lassarte an-dar. No dovemo darghea vinta!” Quanto abbiamo riso quella volta! Natalia sapeva ridere emi faceva sentire che lei, dopo Auschwitz, era vissuta anche di un’altra vita.

Nata a Genova il 19 giugno 1922, era cresciuta in una famiglia ebraica ed era pro-fondamente legata alla sua cultura, alle sue origini. Quando venne nella nostra scuo-la, raccontò alle mie scolare adolescenti la sua incredulità di adolescente di fronte alleleggi razziali, che nel 1938 l’avevano cacciata da scuola. Parlò della sua famiglia e disuo fratello Vittorio, partigiano, morto a Mauthausen il 25 aprile 1945. Poi rievocò lasua cattura a Sampeyre, ci disse di Fossoli e degli altri campi in cui era stata oltre adAuschwitz, Bergen Belsen, Dessau, e poi la liberazione a Terezín il 6 maggio 1945 aopera dei soldati dell’Armata Rossa. Le studentesse ascoltavano attonite, in un gran-de silenzio; poche di loro riuscirono a parlare, e la ringraziarono soltanto per scritto.

Accettò di accompagnarci nel grande Lager polacco e la sua presenza fu per memolto importante. Non potrò mai dimenticare come fu vicina alle studentesse e laforza d’animo che dimostrò nella visita al campo. Porto nel cuore i giorni trascorsicon lei in albergo a Cracovia, a raccontarci le nostre vite, ad ascoltare, a scherzare, agodere in ogni istante della città.

Sentivo che era un privilegio averla incontrata, averla vicina, e cercavo di non per-dere nulla di quel dono inaspettato. Standole accanto, si coglieva la sua forza interio-re, la capacità di non arrendersi e di non perdere mai la speranza di ricominciare. Evoglio renderle omaggio, ora che non è più qui, rievocando un episodio della sua vitadi deportata, che un giorno mi raccontò e che rivela un poco il suo animo. Uscendodal campo di Dessau, vicino a Lipsia, fuori dal cancello della fabbrica dove lei, nellaprimavera del 1945, lavorava al tornio, c’era un gelsomino bianco che fioriva ognigiorno, e quel fiore – mi disse – “mi dava l’idea della vita che resisteva, che andavaavanti, era un ritorno alla vita. Quel fiore mi ha dato una grande speranza... mi è ri-masto in mente come qualcosa di bello e commovente.” Grazie Natalia!

Moncalieri, 28 marzo 2003

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Capitolo IV174

Pio Bigo è nato a Druento nel 1924; dopo la morte della madre, ragazzo, si spo-sta a Torino con i fratelli e il padre. Nel febbraio 1944 raggiunge le prime forma-zioni partigiane in Val di Lanzo; qui viene catturato durante i combattimenti dimarzo, legati alla repressione degli scioperi in Alta Italia. Imprigionato alle Carce-ri Nuove, il 13 marzo è trasportato con altri 246 compagni a Bergamo, e di qui,dopo una sosta di due giorni, a Mauthausen, in un convoglio che conta quasi 600deportati. Con la matricola 59719 è trasferito, dopo la quarantena, nei sottocam-pi di Gusen, Linz I e III, e di nuovo a Mauthausen, alla fine di novembre. La ra-gione del trasferimento è che è stato inserito in un grande trasporto perAuschwitz, comprendente 1.120 prigionieri; tra questi, 165 sono italiani. La Transportliste dispone i nominativi non in ordine alfabetico, ma distribuiti perspecialità professionali. Ci sono tra loro jugoslavi, francesi, ungheresi. Immatrico-lato nella cosiddetta Zentralsauna di Birkenau con il n. 201561, dopo una brevequarantena è deportato ad Auschwitz III-Monowitz, per lavorare nei cantieri atti-gui alla Buna. Il 17 gennaio 1945 il Lager viene evacuato, e Pio sfugge fortunosa-mente alla morte nella selezione dei più deboli attuata durante una sosta a Glei-witz (Gliwice). Dopo un terribile viaggio per ferrovia, su vagoni scoperti, sotto laneve, giunge a Buchenwald dov’è nuovamente immatricolato (n. 123377). Scam-pato ad altre selezioni, partecipa con i gruppi del Comitato di Resistenza alla libe-razione del campo (11 aprile 1945). Attivissimo e infaticabile testimone, ha ac-compagnato innumerevoli scuole in viaggi ai Lager. Vive a Piossasco (Torino).

Memorie e testimonianze di una vita da schiavoPio Bigo

Erano trascorsi ormai trentotto anni dalla fine dell’ultima guerra e prigionia neiLager nazifascisti in Germania, ero a fatica riuscito a rifarmi una vita normale; mi erosposato e mi ero formato una famiglia con un figlio, ma non ce l’avevo fatta a cancel-lare quella profonda ferita che nel passato mi avevano inferto.

Nel maggio del 1983, dietro invito della nostra Associazione, l’ANED di Torino, edi altri amici, ho deciso di accettare di ritornare sui luoghi della sofferenza e dell’offe-sa assieme a un gruppo di storici dell’Università di Torino e a molti insegnanti.Mauthausen, Dachau, Sachsenhausen, Buchenwald, Ravensbrück... l’impressione èstata più forte nei luoghi dove ero stato; solo al ricordare il passato di sofferenze e mal-trattamenti schiavili mi veniva l’angoscia, piangevo, non riuscivo a spiegare e a parla-re, mi vedevo davanti il quadro del passato.

Ricordo che il Professor Federico Cereja mi prese per braccio e passeggiando nelLager di Mauthausen mi faceva delle domande sul trattamento, sul modo di vita delpassato: riuscivo a stento a spiegare alcune sequenze di ricordi, ma poi subentrava lacommozione, e piangevo.

Fu quello il primo viaggio nei Lager della morte; negli anni seguenti, in compa-gnia dei miei cari amici e compagni di deportazione, riuscimmo a fare anche tre oquattro viaggi all’anno. Vi portavamo anche le nostre mogli: portavo Angela, mia mo-glie, perché potesse capire quello che suo marito da ragazzo aveva tragicamente vissu-to e passato.

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Gli insegnanti che in seguito ho conosciuto mi invitarono nelle scuole come testi-mone per parlare e spiegare ai loro studenti il passato.

Venne l’autunno dell’anno 1996; ero stato invitato dal Professor Lucio Monaco,conosciuto nei viaggi degli anni precedenti 1990, 1991, 1992, come testimone alLiceo “Majorana” di Moncalieri. L’aula era gremita di giovani studenti e studentesse,e feci una lunga spiegazione sulla vita nei Lager nazifascisti, sulle sofferenze, la fame,il deperimento, il trattamento sul lavoro, il lavoro schiavile, il genocidio degli ebrei.

A fine spiegazione gli studenti mi facevano delle domande su alcuni episodi: que-sto mi coinvolgeva dandomi occasione di offrire loro chiarimenti più profondi, affin-ché potessero rendersi conto e capire.

Nel marzo 1999 a Torino fu presentato il mio libro della memoria vissuta, curatodall’amico Lucio Monaco, Il triangolo di Gliwice. La Città di Moncalieri, con il SindacoCarlo Novarino e l’Assessore alla Cultura Mariagiuseppina Puglisi, organizzaronocon gli insegnanti una visita ai Lager di Auschwitz, Birkenau e Monowitz. Insiemecon un’altra superstite, Natalia Tedeschi, dovevamo accompagnare studenti e inse-gnanti, ma purtroppo il giorno della partenza fui costretto a rinunciare, a causa diuna broncopolmonite, e mi dispiacque davvero moltissimo.

Negli anni successivi continuai a partecipare agli inviti nelle Scuole di Moncaliericome testimone. L’organizzazione dei percorsi sulla memoria del passato si è amplia-ta e consolidata moltissimo, da allora, fino a quando il Sindaco e l’Assessore alla Cul-tura proposero e attuarono l’iniziativa, davvero straordinaria, di dare la cittadinanzaonoraria ai sei deportati che avevano accompagnato in quegli anni i viaggi della me-moria nei Lager. Questo fu eseguito il “Giorno della Memoria”, 27 gennaio 2002,presenti molto pubblico e parenti. Le sale erano piene zeppe, non c’era posto pertutti.

Fu così data la cittadinanza onoraria ad Anna Cherchi (Lager di Ravensbrück),Natalia Tedeschi (Lager di Auschwitz), Albino Moret (Lager di Mittelbau-Dora), Na-talino Pia (Lager di Mauthausen), Benito Puiatti (Lager di Dachau) e a me (che erostato a Mauthausen, Auschwitz e Buchenwald).

Devo dire che dopo anni di incontri e viaggi nei luoghi dell’offesa avevo preso unamaggiore confidenza, avevo fatto ormai una certa abitudine: riuscivo a spiegare eparlare del tragico passato senza emozionarmi e piangere, come succedeva all’inizio.Magari in quei posti ero commosso, ma rispondevo alle domande dei giovani studen-ti con positività.

Da allora quasi tutti gli anni ho accolto, oltre a quello della Regione Piemonte e dimolti istituti, anche l’invito delle Scuole di Moncalieri e ne ho conosciuto gli inse-gnanti: Lucio Monaco, Alessandra Matta, Adriana Mogna, Marcella Pepe, GabriellaPernechele, Carla Piana, Piero Cresto-Dina, Pier Luigi Cavanna, Dario Molino,Luigi Turco. Insieme con loro ho visitato così tutti i Lager e i sottocampi della miadeportazione: anche Linz, naturalmente Monowitz, e Gliwice, a cui siamo arrivatiripercorrendo la strada della “marcia della morte” del gennaio 1945.

Ricordo che in quei viaggi, con gli studenti, quando dovevo raccontare sul posto letragedie del passato mi sentivo a volte imbarazzato nello spiegare ai giovani avveni-menti così crudeli: è un compito non facile trasmettere queste conoscenze alle nuovegenerazioni, oggi abituate a vivere in democrazia, senza sofferenze brutali, ma l’hofatto nella speranza che non abbia a ripetersi mai più tanto tragico orrore, tanto tragi-co passato, quando l’uomo trattava come bestie altri uomini.

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Capitolo IV176

Così ricordo i viaggi della memoria di Moncalieri.Nel 2000, ai primi di aprile, visitammo i Lager di Melk, Mauthausen, Gusen,

Ebensee e il famoso (per me) Lager di Linz III. Ma questo è scomparso: dove c’era ilLager esiste una zona residenziale di palazzine! Eppure visitando quel posto riuscii ariconoscere dove esisteva la piazza dell’appello, ancora con qualche resto di recinzio-ne. Trovammo anche una lapide a ricordo del Lager, con il disegno di com’era costrui-to il campo: notai che era come lo ricordavo. Mi sono state fatte domande, e ho rispo-sto per esempio che dal luogo dove esisteva la piazza d’appello si vedeva il ponte ferro-viario e lo si vedeva ancora, certamente cambiato, ma la direzione era quella giusta.

Nel 2001, invalido per una frattura del femore, non ho potuto partecipare.Nel 2002, dal 27 febbraio al 3 marzo, abbiamo visitato i Lager di Buchenwald e

Mittelbau-Dora. Testimoni Albino Moret reduce di Dora, e Pio Bigo, reduce ancheda Buchenwald. Insieme abbiamo visitato il Museo, dove giacciono ancora poche co-se – mancano gli abat-jour fatti con pelle umana tatuata e altri oggetti che fino al 1995erano esposti (ora trasferiti, dicono, a Boston).

Il 2004 (dal 23 al 26 marzo) è stato l’anno del ritorno ad Auschwitz-Birkenau e aGliwice. Visitato il Museo di Auschwitz I nel mattino, il pomeriggio passammo aBirkenau, facendo un lungo giro oltre i Crematori II e III, arrivando poi ai resti deiCrematori IV e V e alla Sauna, completamente restaurata: il luogo della mia imma-tricolazione. La Professoressa Carla Piana, attrezzata con la telecamera, mi ha inter-vistato sui luoghi delle camere a gas e dei crematori; e specialmente alla Sauna, dovefacevano le immatricolazioni, mi ha fatto molte riprese quando spiegavo a tutti i fattidi cui ero stato testimone. Visitammo, quella volta, anche Gliwice dove durante unaselezione riuscii a salvarmi con un triangolo rosso francese. Dove esisteva il Lager orac’è una fabbrica di carbone coke; ai bordi di una strada che portava al Lager hannocostruito un monumento con il triangolo a ricordo delle tante vittime fucilatesul posto.

Ricordo la gradita sorpresa organizzata dagli studenti e dagli insegnanti la sera del25 marzo nel ristorante dell’albergo per la ricorrenza del mio ottantesimo complean-no. Giunti alla fine del pasto, in un attimo si alzarono in piedi insegnanti e studenti,mettendosi in fila nel corridoio: immediatamente arrivarono davanti a me ancora se-duto al tavolo, con il cameriere che mi posò sul tavolo una grande torta con la candelaaccesa, gridando “Auguri auguri!” per gli ottant’anni che compivo tre giorni dopo, il28 marzo 2004. Ero commosso, ho pianto di gioia, con studenti, studentesse e profes-sori attorno a me. Molti facevano foto: che bella serata indimenticabile! Ancora oggisono commosso, grazie!

Nel 2006 siamo tornati a Buchenwald e Mittelbau-Dora. Il 29 marzo, giunti nelLager di Buchenwald, abbiamo incontrato il Sindaco della Città di Weimar. Finita lacerimonia, c’è stata la visita al campo: ma certamente dopo tanti anni ne è rimastopoco, mi sono sentito spaesato. Faceva freddo: ho girato per ritrovare le tettoie dove,nel periodo che siamo giunti in tradotta sui vagoni merci scoperti da Auschwitz, cimettevamo al riparo dalla neve e dal freddo nell’attesa di passare alla doccia. Ma or-mai tutto è sparito. Poi però mi sono reso conto che si trovavano a fianco del locale do-ve c’erano le docce: allora ho individuato la scala che scendeva, ormai senza tettoia,verso il luogo dove mi ero rifugiato al riparo da freddo e neve aspettando di esserechiamato alla doccia. Questo mi ha fatto perdere tempo, solo pochi mi hanno seguìto.

C’incontrammo poi per la visita al forno crematorio, e lì ho dato le spiegazioni sul

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trattamento dei cadaveri. Visitammo il Museo, ma poi, tornati in albergo, la sera sonostato male e con rincrescimento non ho potuto accompagnare il gruppo alla visita delcampo di Dora.

Certamente capisco che molti dei deportati non sono tornati a visitare quei luoghi,e rifiutavano di parlare del passato, perché ricordare voleva dire soffrire, perché parla-re voleva dire ricordare e rivivere il tragico dramma. Molti sono morti senza raccon-tare, o almeno hanno un poco raccontato ai loro famigliari.

Ottobre 2006

Pio Bigo durante il viaggio di studio a Buchenwald e Dora (marzo 2002)

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Capitolo IV178

Giorgio Ferrero nasce a Vigone, in provincia di Torino, il 24 maggio1924 e dabambino si trasferisce con la famiglia a Torino, in una casa in Piazza Bengasi. Dall’estate del 1943 si rifugia con un gruppo di compagni in montagna, a BorgataSoprana, presso Garessio, al confine tra Piemonte e Liguria, e dopo l’8 settembrediventa partigiano (nome di battaglia: “Gino”) all’interno di una delle prime ban-de. È arrestato il 23.12.1943 in Val Salice, sulla collina di Torino, durante un’azio-ne finalizzata alla cattura di un ufficiale tedesco per lo scambio di prigionieri, e re-cluso alle Nuove nel reparto dei condannati a morte, da cui viene prelevato ognigiorno per dieci giorni e condotto all’Albergo Nazionale per subire gli interroga-tori. Il 13.01.1944 è caricato su un treno che parte dalla stazione di Porta Nuova elo porta al Lager di Mauthausen, dove arriva il giorno successivo ed è registratocon il numero di matricola 42885. Si tratta del primo trasporto da Torino perMauthausen (50 deportati, trasporto n. 18, secondo la ricostruzione di ItaloTibaldi nel libro già citato Compagni di viaggio). Dopo il periodo di quarantena, tra-scorso a Mauthausen, è assegnato al Kommando di Ebensee, dove rimarrà fino al-la liberazione del campo (6.05.1945) e oltre. A Ebensee e a Mauthausen è tornato molte volte: la prima già nel settembre del1945 insieme con i famigliari dei compagni caduti e poi come testimone con scola-resche in visita.Membro dell’ANED fin dalle origini dell’Associazione e Presidente della sezioneANPI di Orbassano, vive a Trana (TO).

Intervista a Giorgio FerreroMarcella Pepe

Il mio primo incontro con Giorgio Ferrero risale al lontano 1988, e l’occasione fu un’intervista cheun gruppo di mie allieve, in vista della preparazione al tema per il concorso indetto dal ConsiglioRegionale del Piemonte, chiese a quattro ex deportati allora poco più che sessantenni: Anna Cherchi,Pio Bigo, Giuseppe Berruto e, appunto, Giorgio Ferrero. Ebbi poi modo di conoscerlo meglio nella pri-mavera del 2003, durante il viaggio del Progetto Memoria a Mauthausen, Gusen, Ebensee (si veda ilCapitolo I § 7 “Memorie di pietra”), cui partecipò come testimone insieme con Natale Pia.

Prendendo in esame le registrazioni delle sue testimonianze conservate nell’Archivio Multimedialedel Progetto Memoria, mi sono però resa conto che dai numerosi interventi, pur molto interessanti, nonemergeva compiutamente la sua storia. È questa la ragione che mi ha spinto a chiedergli un colloquio.

Quale impressione hai avuto del viaggio fatto con noi nel 2003?Buona. È stato un bel viaggio; i ragazzi erano attenti e il viaggio era organizzato

molto bene. Mi ha colpito il fatto che la visita ai campi fosse la cosa principale, mentrein tutte le altre gite in Austria è Vienna il “pezzo forte” del programma. E poi i ragaz-zi non si limitavano ad ascoltare, ma “lavoravano”: mi ricordo che disegnavano ilMonumento italiano a Mauthausen, che fotografavano gli altri monumenti, che face-vano riprese con la videocamera...

Chi era Giorgio Ferrero prima della deportazione a Mauthausen e a Ebensee?Era un ragazzo antifascista, un sabotatore già prima di andare in montagna. Cor-

reggevo manifesti fascisti (ad esempio, scrivevo «Perderemo» al posto di «Vinceremo»)

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e infilavo nelle buche delle lettere o sui tram i volantini delle tipografie clandestine. E unpartigiano. Delle Brigate Garibaldi. Sono andato in montagna prima dell’8 settembre,in agosto, vicino a Garessio, dove occupavamo un vecchio castello disabitato. Dopo l’8settembre arrivarono da Savona e da Albenga soldati renitenti alla leva, perché sapeva-no che c’era un gruppo già formato. Poi arrivò il commissario da Torino.

Quando e come sei stato catturato dai fascisti?Ci hanno presi in cinque il 23 dicembre 1943: uno è morto subito; altri tre sono

stati deportati insieme con me a Mauthausen e a Ebensee, e sono morti là. Io sonol’unico sopravvissuto. È stato il nostro commissario che ci ha fatto arrestare... ci havenduto per la taglia. Natale e Capodanno li ho trascorsi alle Nuove, nel “braccio del-la morte”. Di pomeriggio mi portavano all’Albergo Nazionale per gli interrogatori:volevano sapere dei nomi... non ne ho detti! Quante botte ho preso! Alla fine dell’an-no mi hanno letto la condanna: la pena capitale. La mattina del 13 gennaio 1944 – sa-ranno state le tre – sono venuti a prelevarmi. Era notte; sento delle celle che si aprono,si apre anche la mia e penso: “Teh, stavolta è finita, non andrò neanche più all’Alber-go Nazionale... mi porteranno al Martinetto!” Invece mi hanno fatto scendere nelcortile, mi hanno caricato insieme ad altri su un camion, fino a Porta Nuova, poi su unvagone piombato. Destinazione Mauthausen. Siamo stati i primi italiani internati aMauthausen.

Racconta il tuo arrivo a Mauthausen.Era il 14 gennaio, di mattina presto. C’erano cinquanta centimetri di neve e face-

va molto freddo. Appena arrivati, ci hanno fatto andare subito a destra, nell’“angolodei lamenti”... Due ore di attesa: nel frattempo i Kapo ci chiedevano l’orologio o altrioggetti “che non ci sarebbero serviti più”, e in cambio ci promettevano aiuto in futu-ro. Infine riceviamo l’ordine di spogliarci nudi, nudi nella neve... poi ci mandano nel-le docce, dove veniva giù acqua bollente inframmezzata da getti di acqua gelata, e poialla tosatura e alla disinfezione... con polvere di conegrina [“candeggina”], chebruciava da matti sulle ferite! L’ultima procedura umiliante è stata quella di affibbiar-ci ciascuno una targhetta con un numero, da portare al braccio sinistro: da allora noieravamo quel numero, non avevamo più un nome e una personalità. Con una cami-cia di tela e un paio di mutande da infilare mentre percorrevamo di corsa il lungopiazzale dell’appello, siamo stati alloggiati nella baracca che avremmo occupato pertutta la durata della quarantena: ci dovevamo stare in 500-600 e dormivamo sul nudopavimento; l’affollamento era tale che, se per caso uno di notte si alzava per fare i suoibisogni nell’unico bidone che c’era, quando tornava non trovava più il suo posto... eallora erano urla e strepiti e, quindi, botte! Del resto la quarantena era studiata appo-sta per far apprendere i riti del Lager e l’obbedienza assoluta, per spersonalizzare.Ricordo che ci era spesso ripetuto: “Di lì siete entrati” – e veniva indicata la porta – “edi lì uscirete!”, ma questa volta il dito indicava il camino del forno crematorio. Dopola quarantena, che per me è stata di circa dieci giorni, si veniva assegnati a un Kom-mando di lavoro. Io sono stato mandato a Ebensee.

A Ebensee sei rimasto a lungo, vero?Sì, dagli ultimi giorni di gennaio del 1944 fino alla liberazione, il 6 maggio 1945,

e oltre.

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Capitolo IV180

Che tipo di lavoro svolgevi a Ebensee?Diversi lavori. Nei primi giorni ho dovuto abbattere alberi e caricare i pannelli del-

le baracche alla stazione: si era ancora nella fase iniziale della costruzione del Lager ec’era un’unica baracca-dormitorio, riservata ai “prominenti”; tutti gli altri, in man-canza di baracche per gli alloggiamenti, erano “provvisoriamente” sistemati nel piaz-zale dell’appello, esposti al freddo e alle intemperie. Già dopo tre o quattro giorni, pe-rò, ho lavorato come manovale nella Galleria A: i turni erano di 12 ore e, finito il tur-no, si lavorava ancora 3-4 ore all’edificazione del campo. Scavavo nella galleria, conl’acqua fino ai polpacci, poi caricavo i materiali su carrelli che svuotavo nella vallata:questo per circa sei mesi, fino a giugno, quando è successo un fatto che ha avuto comeconseguenza per me il cambiamento di lavoro. Una notte un minatore russo, chissà seper sabotare o per disattenzione, ha acceso la miccia in galleria senza avvertire e tuttisono saltati in aria: centinaia di deportati che lavoravano, i capisquadra, anche alcuneSS... La mattina dopo sono arrivato sul luogo del disastro e ho visto che stavano por-tando via morti e feriti. C’era anche l’ingegnere, che, preoccupato perché aveva unminatore in meno, mi ha chiesto se avevo conoscenze tecniche in materia di esplosivi,e così da manovale sono diventato minatore.

In cosa consisteva, precisamente, il lavoro di minatore?Dovevo mettere dinamite e tritolo dentro delle buche e accendere la miccia allon-

tanandomi poi il più in fretta possibile. All’inizio l’ingegnere m’insegnava il lavoro,poi, quando ha visto che avevo imparato, mi ha lasciato fare da solo. In un certo senso,l’ingegnere mi aveva preso a benvolere: mi faceva assistere al suo pasto notturno, nel-la sua baracca, e di tanto in tanto mi lanciava un pezzo di pane, come se fossi stato ilsuo cane (era un’umiliazione, ma era anche un favore, perché nessuno aveva un sup-plemento di cibo di notte); mi ha pure raccontato della morte dei suoi due figli sulfronte russo. Una notte, subito dopo la morte del secondo figlio, si è lasciato sfuggire inmia presenza un’esclamazione di sconforto: “Il nazismo ha sbagliato tutto! Non vo-glio più sentirne parlare.” Per svolgere il mio lavoro prendevo con me due prigionierie dicevo loro di aspettare fuori, di riposarsi mentre io preparavo la miccia e, prima diaccenderla, cercavo di metterci più tempo possibile. Questo era una specie di sabotag-gio, perché rallentava le operazioni; i due prigionieri lo capivano e, quando uscivodalla galleria, mi guardavano con un sorriso d’intesa. Sorriso... si fa per dire, perché inLager c’era poco da sorridere. L’ordine veniva dall’organizzazione clandestina delcampo, di cui facevo parte.

C’era quindi un’organizzazione clandestina di Resistenza nel Lager di Ebensee? Qual era il tuoruolo in essa?

C’erano gruppi di Resistenza clandestina di varie nazionalità, più o meno nume-rosi (del gruppo italiano c’ero solo io), in cui entravano perlopiù i “prominenti”, cioècoloro che avevano razioni supplementari di cibo e occupavano posti chiave comecuochi, infermieri o Kapo. E poi c’era un Comitato Internazionale cui partecipavanodelegati dei vari gruppi nazionali in misura proporzionale alla loro consistenza nume-rica; le riunioni si tenevano al Block 18 e si fecero più frequenti dalla primavera del1945. Il tutto naturalmente si svolgeva nella massima segretezza; non si conoscevanoneppure i nomi degli altri aderenti all’organizzazione. Io, per esempio, avevo comepunto di riferimento un francese, Jean Lafitte, ma non conoscevo nessun altro; le no-

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tizie gliele portavo al gabinetto, sedendo vicino a lui e parlando pianissimo, per paurache qualche altro prigioniero potesse sentire e fare la spia. C’era anche un amico del-la Val di Susa, anche lui “prominente”, che mi forniva dei pezzetti di ferro: io li avvol-gevo nella carta insieme all’esplosivo e confezionavo così delle bombe-carta, sempresu ordine dell’organizzazione clandestina. Siccome a ogni fine turno mi perquisiva-no, avevo un nascondiglio nella galleria dove mettevo queste bombe-carta, e poi qual-che altro membro dell’organizzazione che non conoscevo (ma doveva essere un ma-novale, perché i manovali non erano soggetti a perquisizione) le prelevava e le conse-gnava.

Quali erano le condizioni di vita nel campo?Pessime fin dall’inizio, ma peggiorarono nell’ultima fase, a partire dall’inverno

1944-1945, quando, per l’arrivo di numerosi trasporti, la popolazione del Lager salì aoltre 18.000 prigionieri. Il 90% dei deportati andava a lavorare senza cappotto, ma-glioni o guanti, e molti erano scalzi, veramente scalzi: senza calze e senza scarpe. Av-volgevano i piedi in un pezzo di carta ricavato dai sacchi di cemento, in uno straccio oin un pezzo di coperta, rischiando, se scoperti, di essere frustati. L’infermeria era stra-piena: fino a 4-5 malati stavano in un solo letto. La razione di cibo era stata ridotta, econsisteva in 1/2 litro di caffé senza zucchero al mattino, 3/4 di litro di brodaglia do-ve galleggiava qualche buccia di patata, a pranzo e, alla sera, in una pagnotta di circaun chilo da dividere in 6, se lavoratori, e in 9, se ammalati. La fame aveva trasformatoi prigionieri in veri e propri scheletri che camminavano, apatici, oppure con scatti dabelva feroce, pronti ad aggredire i compagni per qualche briciola di pane.

A che cosa devi, secondo te, il fatto di essere riuscito a sopravvivere all’inferno di Ebensee?Ci ho riflettuto sovente. Forse ce l’ho fatta perché mi sono sforzato di non accetta-

re la logica del Lager: non pensavo alla vita quotidiana del Lager, ma a quello che fa-cevo prima di entrarci, con gli amici, a scuola. Ad esempio, fantasticavo sognando unbel pranzo, ed era un po’ come farlo davvero. Mi aiutavano i ricordi e i sogni, ma miaiutavano anche la fede politica e l’esperienza, che mi serviva a evitare le botte o aprocurarmi qualcosa in più da mangiare. Una volta, però, mi sono sentito veramenteperduto: è stato nel marzo del 1944, quando mi si sono congelati i piedi e mi hannoportato a Mauthausen.

Questo è l’episodio di cui avevi parlato a Mauthausen ai nostri studenti proprio sul luogo dove sor-geva il Blocco 20, quello da cui i prigionieri russi tentarono la fuga nella notte del 2 febbraio 1945?

Sì, proprio quello: mi fa piacere che te ne ricordi. Però, nella primavera del 1944, il Blocco 20 era ancora un’infermeria speciale; so-

lo in seguito diventerà il “Blocco dei russi”, e il “Campo russo”, che si trova fuori del-la fortezza, diventerà infermeria. Io sono stato portato al Blocco 20, e ci sono rimastoper quattordici giorni. Mi hanno levato tutte le unghie dei piedi, per via del congela-mento, ed ero molto giù. Sono sopravvissuto solo grazie allo scrivano del blocco, unlussemburghese che mi ha dato medicinali e cibo. Non era un aiuto del tutto disinte-ressato: lui, infatti, voleva che io tornassi a Ebensee per portare notizie a suo fratelloche era prigioniero lì, e mi ha dato un biglietto da consegnargli. Anche il fratello dellussemburghese, poi, a Ebensee, mi ha aiutato, trovandomi un posto di Kapo ingalleria.

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Capitolo IV182

Vuoi raccontare come avvenne la liberazione di Ebensee, il 6 maggio 1945?Vorrei prima raccontare l’ultimo giorno, il 5 maggio. La mattina eravamo tutti al-

lineati sull’Appelplatz secondo i blocchi, come ogni giorno: eravamo più di 16.000, ecirca 6.000 ammalati che non potevano muoversi stavano nell’infermeria. Ma quellamattina fu tutto diverso: i prigionieri non vennero contati. Arrivò il ComandanteAnton Ganz, attorniato da SS con le mitragliatrici imbracciate, e nella folla dei de-portati la tensione cresceva, aumentavano mormorii e brusii. Finalmente Ganz co-minciò a parlare con insolita cordialità e disse che il fronte si stava avvicinando alLager, e che quindi il Lager avrebbe potuto essere bombardato: perciò era necessarioche andassimo tutti nelle gallerie, dove saremmo stati al sicuro. L’interprete tradussela proposta di Ganz in molte lingue e, a ogni traduzione, crescevano i brontolii, poi,sempre più alto e determinato, si levò un “NO!” espresso in tutte le lingue del Lager.Fu un grande momento: per la prima volta i prigionieri si erano rifiutati in gran nu-mero di obbedire alle SS e da quel momento smisero di essere dei prigionieri. Fummosopraffatti da un’ondata di gioia, che subito però si mutò in paura: “Come avrebbereagito Ganz?” – ci chiedevamo – “Avrebbe dato l’ordine di sparare e di spingerci conla violenza nelle gallerie, o avrebbe rinunciato?” Comunque non avevamo scelta: legallerie volevano dire morte sicura e, quindi, non avevamo nulla da perdere. Ganzstava immobile, pallido, silenzioso. Si consultò con le SS per alcuni istanti che a noiparvero interminabili e poi parlò, con voce tremante e rabbiosa, che cercava di con-trollare perché ci fosse un nesso con quanto aveva detto prima. Scegliendo lentamen-te le parole disse che non dovevamo andare nelle gallerie se non volevamo, che quel-l’idea era stata trovata unicamente nel nostro interesse, perché non ci fossero perditeinutili e che, se decidevamo di non andare nelle gallerie, lo facevamo a nostro rischio epericolo, e ne avremmo subìto le conseguenze. Nel pomeriggio i sorveglianti SS se neandarono, affidando il controllo del Lager al Volkssturm (“Milizia popolare”) e ad alcu-ni soldati della Wehrmacht. Ma noi deportati non eravamo ancora liberi: avevamoancora le armi dei nuovi sorveglianti puntate contro di noi; il filo spinato era ancorapercorso da corrente elettrica e temevamo sempre di veder tornare le SS. I prigionierilegati ai gruppi di Resistenza presero – non mi ricordo bene – mi pare sette pistole chealcuni addetti alle pulizie avevano sottratto in precedenza all’armeria e nascosto perquesta occasione, per organizzare la difesa se le SS fossero ritornate, e si assunsero ilcompito della gestione del campo, precipitato nel caos più totale. Bisognava impedirerazzie al magazzino viveri, per evitare che andasse perduto quel po’ che restava; biso-gnava occuparsi dell’approvvigionamento di viveri per più di 20.000 persone e trova-re dei volontari che si prendessero cura dei 6.000 ricoverati... E intanto il furore re-presso dei prigionieri si scatenava contro chiunque avesse collaborato con le SS...

I liberatori americani arrivarono alle 14.50 del 6 maggio: due carri cingolati man-dati in avanscoperta. Liberarono il campo e proseguirono per la loro guerra. Il giornodopo la liberazione il Lager era ancora, e sempre di più, nel caos.

Sei tornato subito in Italia, dopo la liberazione?No. Come ho detto prima, facevo parte dei gruppi di Resistenza, e questi gruppi si

occupavano di governare il campo lasciato a se stesso; sono rimasto anch’io nel cam-po fino all’arrivo del grosso degli americani e dei rifornimenti. Circa un mese. Ho as-sistito al seppellimento dei morti e ho insistito perché fossero almeno ordinati per na-zionalità. Poi sono andato all’ospedale di Salisburgo perché avevo la scabbia e la pol-

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monite. Sono arrivato a Torino alla fine di agosto, dopo un viaggio massacrante, suuna jeep fino al Brennero e poi sul rimorchio di un camion.

Qual è stato l’impatto con la tua città?A Porta Nuova, dove il camion ci ha scaricato, ho preso il tram per Piazza Benga-

si, dove abitavo. Sul tram sono andato in fondo: tutta la gente mi guardava, guardavagli stracci di divise americane che avevo addosso. Non vedevo l’ora di scendere persottrarmi a quegli sguardi. In Piazza Bengasi, vado verso casa ed entro perché la por-ta non era chiusa; mi vedo davanti una signora sconosciuta e impaurita dal mio aspet-to e penso subito al peggio, che i miei genitori siano morti. Ma poi la signora mi spie-ga che hanno venduto la casa e sono andati a stare a Nichelino. Li trovo finalmente,nella nuova casa, però non vedo neppure una mia fotografia alle pareti; non c’è piùnemmeno la mia camera, né il mio letto né il mio posto a tavola. Non avendo avutomai notizie di me, evidentemente avevano creduto che fossi morto.

Hai cercato di raccontare la tua esperienza nel Lager? È vero quello che dicono molti ex deportati,che nessuno voleva ascoltarvi?

Io non ho mai detto niente neppure ai miei genitori, per non addolorarli, ed evita-vo di uscire per non incontrare gente che mi facesse domande. Se avessi risposto rac-contando quello che veramente ho subìto e avessi descritto la realtà del campo di con-centramento, non mi avrebbero creduto. Del resto, altri erano i racconti che si voleva-no ascoltare appena finita la guerra, quelli dei combattenti: loro erano i vincitori, iomi sentivo un perdente, uno sconfitto.

Solo molto tempo dopo ho cominciato, spinto dall’Associazione, dall’ANED, a te-stimoniare.

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Capitolo IV184

Marcello Martini è nato a Prato nel febbraio del 1930. Quattordicenne, parte-cipa alla Resistenza (il padre, Mario, è comandante militare del CLN di Prato). Èarrestato a Montemurlo – dove la famiglia era sfollata – il 9 giugno 1944, rinchiusonel carcere fiorentino delle Murate, quindi deportato al campo di transito di Fosso-li il 13 giugno. Otto giorni dopo è trasferito a Mauthausen (trasporto n. 53 del-l’elenco di Italo Tibaldi, 21-26 giugno 1944: circa 470 persone; ne moriranno inLager 311, se non di più: si tratta di una delle più elevate mortalità calcolate pertrasporto, per quanto riguarda i deportati politici italiani). Qui è immatricolatocon il n. 76430. Poco dopo è inviato al sottocampo di Wiener Neustadt, ma il 19 di-cembre, dopo il rientro a Mauthausen, è trasportato in un altro sottocampo, quel-lo di Mödling-Hinterbrühl. Qui si lavorava sottoterra, nelle gallerie di un’anticaminiera di sale, per la Heinkel Werke AG: produzione di testate per missili V2,parti per l’aereo HE 216 (caccia notturno) e fusoliere per gli HE 162 (caccia a rea-zione). In aprile il Lager è sgomberato e i prigionieri (previa soppressione dei mala-ti) sono riportati a Mauthausen con una marcia durata otto giorni. Trasferito nelsettore della quarantena, Marcello Martini è liberato con l’arrivo dell’esercito sta-tunitense (5 maggio 1945).Ripresi gli studi, si laurea in chimica. Attualmente vive fra il Piemonte e laToscana.

Da qualche tempo Marcello Martini ha steso i ricordi delle sue vicende di deportato politico: poichéla sua presenza e la sua memoria ci hanno introdotto e poi accompagnato alla visita a Fossoli del2005, presentiamo il resoconto degli otto giorni di permanenza nel campo di smistamento, seguìto daquello del viaggio che lo porterà, insieme con i suoi 474 compagni di prigionia, a Mauthausen.

Le memorie di Marcello Martini, dalla partecipazione, con i famigliari, alle attività dellaResistenza fino alla deportazione e al ritorno in Italia, dopo la Liberazione, raccolte da ElisabettaMassera, verranno presto pubblicate in volume.

Fossoli 13-21 giugno 1944Marcello Martini

L’autobus su cui ci avevano fatto salire a Firenze si diresse verso Via Bolognese einiziò a salire verso Pratolino; superò il Passo della Futa e alle prime luci dell’alba rag-giungemmo Bologna, per proseguire per Modena, Carpi e finalmente giungemmo aFossoli.

Nel valicare gli Appennini in mezzo a boschi abbastanza solitari, in ognuno di noiprigionieri diventò sempre più forte la speranza di un attacco partigiano che ci libe-rasse. In fondo all’autobus e vicino all’autista c’erano militari armati di mitra, non ri-cordo se tedeschi o italiani, e inoltre il nostro mezzo era preceduto e seguìto da autopiene di soldati. Sarebbe stato quindi quasi impossibile, in caso di attacco, scampareal fuoco dei sorveglianti, ma si sa: sperare non è proibito! Purtroppo invece tutto filò li-scio e in mattinata fummo scaricati davanti al cancello di filo spinato del campo diraccolta e transito di Fossoli.

I miei ricordi di questo periodo sono piuttosto frammentari, forse per l’accavallar-

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si degli avvenimenti dei giorni precedenti, per il brusco passaggio da una tranquillavita in famiglia a quella di detenuto, solo, senza nessuna persona di cui fidarsi. Pensoche le ultime giornate trascorse avrebbero sconvolto chiunque, anche se adulto, figu-riamoci l’effetto che ebbero su un ragazzo di quattordici anni, che non aveva ancoradovuto subire personalmente la dura realtà della guerra.

I successivi tragici avvenimenti della mia deportazione hanno inoltre certamentecontribuito a sbiadire i dettagli del ricordo. Nella mia memoria Fossoli appare ancoraun’oasi felice, dove tutti i prigionieri e i carcerieri parlavano la stessa lingua, e dov’erapossibile muoversi senza rischiare continuamente percosse, o addirittura la vita.

All’arrivo a Fossoli fummo interrogati uno per uno, declinammo le nostre genera-lità, vuotammo il contenuto delle nostre tasche su un grande tavolone, e ci fu assegna-to un numero di matricola.

Ebbi subito conferma che il nuovo luogo di prigionia in cui mi trovavo era partico-larmente favorevole; mi ricordo infatti che m’interrogarono due o tre prigionieri poli-tici, e uno di questi quasi mi costrinse a dire che soffrivo per una punta d’ernia, perevitare che mi facessero lavorare; poi mi restituì tutto il contenuto delle tasche, facen-domi cenno di nasconderlo.

I miei averi erano costituiti da un portafoglio con documento di riconoscimento,duemila lire, una piccola roncola pieghevole, un temperino, un fazzoletto, lo spazzoli-no da denti e un tubetto di dentifricio. I due coltelli che portavo quasi sempre in tascami servivano per uno scopo ben preciso. Conoscevo infatti a memoria tutti i tipi di ae-rei italiani e tedeschi, e il mio passatempo preferito era quello di riprodurli in piccolascala, intagliando pezzetti di legno di recupero che giudicavo adatti per il tipo di aereoche volevo riprodurre. I miei modelli erano lunghi 6 o 7 centimetri: il più grande, ilquadrimotore Piaggio P 108, era lungo 12 centimetri; le ali e i piani di coda venivanoricavati dalla balsa delle scatole dei fiammiferi e dei formaggini, incollate alla fusolie-ra pazientemente intagliata; infine verniciavo mimeticamente, con gli acquerelli, l’ae-reo così completato.

Ricordo ancora che fummo rapati, ma non a zero, che ci fu dato ago e filo per cu-cire la striscia di stoffa bianca con il numero di matricola sulla giacca (io dovetti cucir-lo sul golf di lana blu), e infine fummo portati nella baracca in muratura che ci era sta-ta assegnata. Non ricordo assolutamente il numero di matricola che mi fu attribuito,mi sembra che iniziasse con un 2 e fosse di sole quattro cifre.

Ho un vago ricordo dell’interno della baracca: rivedo file di brande di tipo milita-re sia lungo le pareti della costruzione in mattoni sia nel centro dello stanzone. Sulfondo c’erano i gabinetti; dall’ingresso della baracca invece si accedeva direttamentea un vasto spiazzo. C’erano diverse costruzioni analoghe una accanto all’altra, manon ne saprei precisare il numero. Tutto il campo era circondato da filo spinato, piut-tosto fitto ma non elettrificato, con garitte e lampade a intervalli regolari che lasciava-no poche zone d’ombra durante la notte.

Il cortile confinava a sinistra con un altro recinto di filo spinato al di là del qualec’erano costruzioni in muratura dove alloggiavano altri prigionieri. Non ricordo par-ticolari cerimoniali di appello o ulteriori sistemi di controllo. Il capo del campo che miaveva interrogato al mio arrivo e i responsabili delle baracche erano tutti italiani e pri-gionieri politici; la verifica dei presenti era senz’altro eseguita ma non in manieratraumatica, così che non mi rimase impressa nella memoria. Nella prima baracca sul-la destra, oltre l’ingresso al campo, c’era una costruzione suddivisa in celle: era il car-

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cere del campo. Seppi poi che vi erano rinchiusi dei detenuti comuni che erano statitrasferiti lì forse da Parma o da Pavia perché il carcere mandamentale era stato colpi-to dai bombardamenti alleati. Anche i detenuti comuni furono deportati a Mauthau-sen, dove ebbi modo di conoscerli.

Uno dei ricordi più nitidi di questo periodo è il buon sapore del minestrone di risoche ci veniva distribuito a mezzogiorno: era caldo e abbondante e, dopo le forzata-mente ridotte porzioni casalinghe di minestre di piselli secchi e radicchio selvatico el’indefinibile brodaglia delle Murate, finalmente potei riempire lo stomaco con qual-cosa di piacevolmente saporito! Non ricordo com’erano le stoviglie o se venivano fattepiù distribuzioni di cibo e di pane; il mio ricordo si concentra su quello scodellone diriso, che consumavo seduto sulla branda a me assegnata e che finalmente saziava lafame di un adolescente!

Durante la breve permanenza a Fossoli avvennero alcuni episodi che però non ri-cordo in ordine cronologico; ma soprattutto ebbi i primi contatti con persone che giàconoscevo. L’avvenimento per me più importante fu il ricongiungimento con GuidoFocacci. Un giorno uscendo nello spiazzo antistante la baracca vidi concretamentel’esempio dell’Ecce Homo: un uomo cioè con la faccia tanto livida e gonfia da renderloquasi irriconoscibile, con una mano slogata, la sinistra, e la schiena ridotta a un inde-cifrabile geroglifico di colore bluastro. Queste erano le conseguenze di tre giorni ditorture nella Villa Triste di Firenze, inflitte dalla famigerata Banda Carità.1

Aver riconosciuto Guido e averlo accanto mi fecero sentire meno solo: finalmenteero con qualcuno che conosceva tutta la mia famiglia e anche se era molto mal ridottodal punto di vista fisico costituì per me un grande elemento di forza. Guido, nome dibattaglia “Tenente Colombo”, era un esperto pilota; aveva fatto parte delle formazio-ni degli Aerosiluranti, con i vecchi e lenti trimotori S79, e poi aveva pilotato i bombar-dieri pesanti quadrimotori Piaggio P109. Dopo l’8 settembre era entrato nella Resi-stenza, aveva conosciuto mio padre, era consulente aeronautico della sua formazionee aveva sovrinteso alla realizzazione del campo di lancio allestito nell’area controllatadal “Comandante Nicolai”, cioè mio padre.2

Avevo così fatto la sua conoscenza. Appassionato com’ero di aerei e di aviazioneero ovviamente fiero di conoscere in carne e ossa uno di quegli eroi alati che, ai mieiocchi di adolescente, compivano eroiche gesta, del resto ampiamente glorificate dallapropaganda fascista. Guido però mi raccontò il vero volto della guerra aerea, e dellaguerra in generale. Caddero così tutti i miti costruiti dalla propaganda fascista di cuiero, come tanti, imbevuto e mi resi conto di quanto tragico fosse dover mettere in pra-tica la dura legge di guerra: cioè colpire per non essere colpiti, e obbedire a ordini di-sumani nel nome di una presunta supremazia nazionale e “razziale”.

1 Reparto di polizia speciale comandato da Mario Carità, specializzato in torture ed efferatezze nei confronti di sospetti partigiani e an-tifascisti. Come altre formazioni militari poliziesche – la Koch, la X Mas, la Muti, la Nembo – si muoveva in autonomia dalle autoritàcostituite della Repubblica di Salò, ma in collegamento con alcuni grandi gerarchi fascisti e con il SD (Servizio di sicurezza) germanico.Fondata a Firenze, ebbe sede a Villa Triste fino al luglio 1944; poi si trasferì presso Rovigo e quindi (novembre 1944) a Padova, a PalazzoGiusti. Qui la Banda agì con particolare ferocia sino all’aprile 1945, torturando, uccidendo e facendo deportare membri dellaResistenza e del CLN regionale veneto. Con l’eccezione di Carità, ucciso in un conflitto a fuoco con gli angloamericani nel maggio1945, e dell’esecuzione di un suo collaboratore, gli altri componenti della Banda finirono amnistiati o assolti tra il 1946 e il 1951.Cfr. M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Milano, Mondadori, 2006, pp. 247-249 passim; la voce “Reparto servizi speciali Carità” diE. Gallo nel Dizionario della Resistenza, a cura di E. Collotti / R. Sandri / F. Sessi, Torino, Einaudi, 2001, vol. II (“Luoghi, formazioni, pro-tagonisti”), pp. 414-416.2 Il maggiore Mario Martini era comandante militare del CLN di Prato.

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Ebbi un’altra buona notizia, che mi giunse dal recinto femminile che confinavacon il nostro. Se ben ricordo le detenute erano soprattutto ebree; una di queste, checonosceva Focacci, mi diede notizie della mamma e di Anna, mia sorella, perché pro-veniva dal Carcere di Santa Verdiana3 e lì le aveva conosciute. Le notizie furono rassi-curanti: nessuna delle due era stata interrogata dalle SS. Questo significava aver qua-si certamente evitato le terribili torture i cui effetti erano ben visibili sul corpo diGuido.

Ricordo inoltre un altro particolare: durante la notte spesso mancava improvvisa-mente la corrente elettrica, quindi la recinzione era completamente al buio; le guar-die illuminavano come potevano, con torce elettriche, la loro zona di controllo; nellenotti senza luna o con il cielo coperto l’oscurità era quasi totale, e potevano quindi es-sere favorite le fughe. Un giorno mi si avvicinò un compagno di prigionia e mi chiesedi vedere i due coltellini a serramanico che avevo in tasca. Probabilmente rimase unpo’ deluso dalle loro dimensioni (la lama era lunga solo quattro o cinque centimetri),ma mi chiese egualmente di prestargliene uno, senza naturalmente dirmi che quellanotte stessa avrebbe tentato la fuga, approfittando della mancanza di corrente elettri-ca. Non ricordo nulla di lui, salvo che era molto alto e forse aveva un paio di baffi; lasua fuga comunque riuscì perché non lo vidi più in campo!

Esisteva anche la possibilità di corrompere una delle camicie nere addette alla sor-veglianza del reticolato, magari da parte di parenti o amici all’esterno. Questo si dice-va in campo.

Ricordo invece un’altra evasione conclusasi tragicamente: il fuggitivo fu ripreso epicchiato a sangue; e fu mostrato a tutti i prigionieri riuniti. Il poveretto, lordo di san-gue e in stato di semincoscienza, era sorretto da due nostri compagni, che poi lo tra-scinarono in una delle celle della prima baracca. Non so che fine abbia fatto, ma le al-ternative non erano molte, e di tutte la migliore era quella di essere deportato in Ger-mania.

Mi tornano in mente due persone arrestate e inviate al campo di Fossoli, pur ap-partenendo uno alle Brigate Nere, mi pare con il grado di maggiore, che chiamerò X;l’altro invece era un interprete delle SS di Milano. Il suo nome era N., era di originesvizzera, parlava correntemente sia l’italiano sia il tedesco, e approfittando della suaposizione poteva venire a conoscenza dei rari mandati di scarcerazione dei politici de-tenuti nel Carcere di San Vittore. Si recava allora immediatamente dalle loro fami-glie, facendosi consegnare denaro e preziosi perché proprio lui avrebbe avuto facoltàdi far liberare il famigliare arrestato.

Questi effettivamente usciva di prigione, ma il merito non era sicuramente di N.!Scoperto dalle SS, attuarono l’unico atto di giustizia che posso loro attribuire: lo inter-narono prima nel Carcere di San Vittore poi a Fossoli.

Il Maggiore X, alto e quasi calvo, aveva la tracotanza tipica del gerarca fascista;era stato sorpreso con le mani nel sacco mentre rubava a man bassa, certamente l’ave-va fatta proprio grossa per essere internato. Alcuni compagni mi dissero che quandoera arrivato indossava ancora la divisa fascista con la camicia nera. Il nero, si sa, pren-de molto facilmente la polvere… quindi fu necessaria una bella spolverata da parte

3 Carcere femminile di Firenze.

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dei compagni di prigionia, che però, distrattamente, si dimenticarono di togliere Xdalla camicia per batterla con coscienziosa serietà! Passarono così i giorni nel campodi Fossoli, ma stranamente non ci domandavamo quale sarebbe stato il nostro futuro!

Per quanto ricordo sembrava di vivere in una specie di limbo, sperando con otti-mismo eccessivo che la permanenza nel campo di Fossoli fosse la nostra condanna!

Il viaggio (21-24 giugno 1944)Rivivo la mia permanenza a Fossoli come una condizione di felice semitorpore; il

risveglio fu improvviso e doloroso.La mattina del 21 giugno fui chiamato insieme ad altri compagni e tutti fummo in-

quadrati sul piazzale antistante le baracche.Tutti avevano il loro bagaglio a eccezionedi me e di Guido: a Fossoli infatti era possibile ricevere dall’esterno pacchi con indu-menti e vettovaglie che arrivavano quasi integri ai destinatari; molti quindi avevanovaligie capienti con scorte di scatolame, che in seguito risultò molto utile.

Ricordo il primo episodio di violenza cui fui costretto ad assistere. Fino a quel mo-mento avevo visto solo le conseguenze di un pestaggio.

Il Maggiore F., ex ufficiale di cavalleria, fu violentemente strattonato da una SSperché doveva uscire più velocemente dalla baracca. Non posso dire che F. si sia ribel-lato, ma si svincolò dalla presa del soldato nazista, assumendo contemporaneamentel’atteggiamento di chi esige rispetto. Questo non poteva essere tollerato da chi ritene-va di appartenere alla “razza” superiore e quindi fu immediatamente colpito più vol-te dal mitra usato come clava, finché il caricatore ferì a fondo il cuoio capelluto di F.facendolo sanguinare abbondantemente. Solo la vista del sangue sembrò placare laSS, e F. poté raggiungere il nostro gruppo tamponandosi come meglio poteva l’ampiaferita con i fazzoletti prontamente messi a disposizione dai compagni.

Poco dopo arrivarono alcuni camion sui quali fummo fatti salire per essere portatialla stazione ferroviaria di Carpi, sotto cospicua scorta.

Un lungo treno composto da rossi carri bestiame ci attendeva sui binari! Divisi ingruppi di circa cinquanta prigionieri fummo fatti salire sui vagoni, dove rimanemmocon i portelloni aperti per diverse ore. Quante? A me parvero moltissime. A un certomomento vedemmo avvicinarsi al treno in sosta una colonna di carri e carretti zeppidi cassette di frutta che furono caricate su tutti i vagoni. I contadini della zona consa-pevoli di quanto ci attendeva provvedevano volontariamente a donare il frutto del lo-ro lavoro per evitare, o almeno limitare, i sintomi della fame e soprattutto della seteche avremmo patito durante il viaggio che stavamo per compiere. Il nostro vagone furifornito in abbondanza di ciliegie, pesche, albicocche che resero il nostro viaggio noncosì terribile come nelle intenzioni dei nostri aguzzini. Infatti non ci furono distribu-zioni di viveri o di acqua da parte delle SS per tutta la durata del viaggio; fortunata-mente molti compagni di carro bestiame avevano scorte di cibo con loro.

La domanda che tutti noi ci ponevamo era: “Dove ci stanno portando? Con qualescopo?” L’unica risposta che riuscivamo a darci era che ci avrebbero portato a lavora-re in Germania; non sapevamo nulla di più, ma ottimisticamente nutrivamo ancoraun po’ di speranza! Se ci facevano lavorare era segno che avevano bisogno di noi. Tut-ti conoscevamo le campagne di reclutamento della Todt,4 che erano continue e insi-

4 Organizzazione tedesca per il reclutamento (spesso forzoso o coatto) di lavoratori nei Paesi alleati della Germania o occupati dai nazisti.

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stenti; un discreto numero di giovani vi aveva aderito, preferendo scavare trincee piut-tosto che presentarsi al distretto militare RSI5 per fare il soldato in camicia nera. I la-voratori volontari Todt erano infatti esentati dal servizio di leva. Essere mandati a la-vorare non faceva dunque presagire alcuna tragedia. Il popolo italiano non era a co-noscenza dell’esistenza dei Lager nazisti! Come bestie da macello andavamo incontroalla morte assolutamente ignari del nostro destino.

Prima di lasciare il campo però una minaccia ci era stata fatta in modo molto espli-cito: per ognuno di noi che fosse fuggito sarebbero stati fucilati dieci degli altri! Anco-ra non ci rendevamo conto che le minacce delle SS potevano diventare realtà! Le orepassavano lente sul vagone fermo sotto il sole di fine giugno sul binario di Carpi. Deimiei compagni di viaggio rammento solo Guido, il Maggiore F. e un istriano, residen-te a Firenze, di nome K., piuttosto grosso e simpatico. K. parlava diverse lingue, tracui il tedesco; anche sua madre era stata arrestata e si trovava nel Carcere di SantaVerdiana insieme a mia madre e a mia sorella Anna. Gli altri compagni di viaggio so-no senza volto e senza nome.

Il mio trasporto fu il numero 53,6 portava in Austria 475 persone: queste informa-zioni le devo al lungo e paziente lavoro di ricerca del compagno di deportazione ItaloTibaldi, che ha dedicato tutte le sue energie al consolidamento della memoria e allascrittura della storia della deportazione italiana nei Lager nazisti.

Finalmente nel pomeriggio, quando il sole era ancora alto, con grande fragore iportelloni dei vagoni vennero chiusi uno per uno, e il gancio fu sigillato dall’esterno.Ci ritrovammo per un attimo in una quasi totale oscurità; eravamo attoniti e confusi,e a fatica potemmo di nuovo distinguere il contorno delle cose alla luce fioca che en-trava dall’unica apertura rettangolare posta in alto sul lato sinistro del vagone. Alla fi-nestra mancava la griglia di ferro, che era stata sostituita all’esterno da filo spinato.Questa apertura era l’unica sorgente di luce e di aria per il vagone in cui eravamo am-massati in cinquanta. Finalmente il treno si mosse, acquistò velocità e noi provammosollievo per quel po’ d’aria che entrava all’interno.

Guido e io eravamo entrambi seduti appoggiati alla parete di fondo del vagone. Ilmio amico era ancora dolorante, la mano sinistra era slogata e quasi insensibile, pro-babilmente a causa della compressione di qualche nervo dovuta alle torture subitedalla Banda Carità; tutto questo era particolarmente grave essendo Guido mancino.

Fra uno scossone e l’altro il treno si dirigeva verso Nord, mentre si approssimava lasera e la luce nel vagone si faceva sempre più fioca.

Nel fondo di una delle cassette di frutta fu trovata una lamina di ferro lunga circasessanta centimetri; probabilmente era stata nascosta lì per consentirci di far saltare ilgancio del portellone, introducendola nella fessura fra la porta e la parete del vagone.Non rammento però che ci sia stato alcun tentativo di provare a fuggire in questo mo-do: infatti sarebbe stato più agevole per tutti saltare dal pavimento del vagone dopoaver aperto lo sportello. Non ho però ricordi precisi; sicuramente ebbero luogo variediscussioni tra i favorevoli alla fuga e quelli che la ritenevano troppo pericolosa. Nonci fu quindi una decisione collettivamente condivisa. […]7

5 La Repubblica Sociale Italiana con sede a Salò e Verona.6 Com’è detto poco dopo, si tratta del numero d’ordine nell’elenco ricostruito da Italo Tibaldi in Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager na-zisti. I “trasporti” dei deportati 1943-1945, Milano, FrancoAngeli, 1994.7 Omettiamo la narrazione degli eventi successivi, lo svolgimento del viaggio nelle tappe principali e i tentativi di fuga.

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Finalmente, la sera del 24 giugno, il treno si fermò. I portelloni furono aperti e nel-la incerta luce dei lampioni che illuminavano la pensilina completamente deserta leg-gemmo il nome della nostra stazione d’arrivo: MAUTHAUSEN.

Revisione e cura del testo: Sara Di Francia e Lorena Vioglio (I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica)

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Frammenti di riflessione da un viaggio a FossoliStudenti dell’I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica

Queste note sono state scritte dopo una visita al campo di Fossoli e al Museo Monumento al Depor-tato di Carpi avvenuta nel novembre 2005. Per molti degli studenti si è trattato di un primo contattocon i luoghi della memoria. La lucida testimonianza di Marcello Martini, seguìta con grande attenzio-ne da tutti i partecipanti, è stata messa in relazione, nei giorni successivi, con le pagine di Se questo èun uomo nelle quali Primo Levi ha fissato il ricordo della sua breve permanenza nel campo.

Il giorno 28 novembre 2005 la classe III G della Sezione Scientifica dell’I.I.S.“Majorana”, insieme con alcuni partecipanti al Progetto Memoria, ha visitato il cam-po di concentramento e transito di Fossoli, nei pressi della città di Carpi, in provinciadi Modena. La visione dei resti del campo e la testimonianza dell’ex deportatoMarcello Martini in pochi minuti ci hanno permesso di immaginare la vita che i de-portati, sia ebrei sia politici, conducevano nel campo.

All’interno dell’unica baracca oggi ricostruita nella sua forma originaria, si trova ilplastico dell’intero campo. La ricostruzione non è del tutto esatta, perché le testimo-nianze dei deportati sono quasi tutte diverse. Questo ci ha fatto capire che l’esperien-za dei campi successivi (Auschwitz e Mauthausen) è stata così atroce, per alcuni, dacondizionare il ricordo di Fossoli e dei primi giorni della loro deportazione.(Valeria Cuzzumbo, Marta Pareschi, Valentina Pennini)

All’inizio il campo di Fossoli era destinato all’internamento di ufficiali e sottouffi-ciali dell’esercito britannico. In seguito assunse valore di campo di smistamento in cuivenivano imprigionati oppositori politici ed ebrei.

Sulla base delle memorie giunte fino a noi, possiamo dire che il campo era suddivi-so in tre parti: gendarmeria, settore destinato ai prigionieri politici e settore destinatoagli ebrei. Si hanno diverse testimonianze sulla composizione delle baracche, che aogni modo contenevano latrine, lavatoi e brande.(Monica Mosso, Judith Ccasa Caceres, Ilenia De Stefani)

A Fossoli è passato anche Primo Levi. Lo sappiamo dalle prime pagine del suo li-bro Se questo è un uomo, che tra le righe tiene nascosta la sofferenza di migliaia di uomi-ni. La parte più toccante di queste prime pagine è la descrizione della notte primadella partenza, perché tutti quanti si preparano nel modo che credono più opportu-no: le donne si prendono cura dei loro bambini e li preparano come se dovessero par-tire per una semplice vacanza con tutta la famiglia, altri invece pregano, bevono a di-smisura e fanno delle strane cerimonie con candele dappertutto. All’alba, le pochesperanze svaniscono del tutto, perché si viene a conoscenza che per ogni personamancante all’appello dieci saranno uccise. Alla fine dell’appello i seicento ebrei si ras-segnano a non essere più considerati persone, ma soltanto Stücke, cioè “pezzi”.(Valeria Cuzzumbo, Marta Pareschi, Valentina Pennini)

Una delle testimonianze che ci sono pervenute su Fossoli è quella di Primo Levi.Nel libro Se questo è un uomo, egli racconta l’esperienza della deportazione a partire dalsuo arrivo a Fossoli e si sofferma a descrivere l’ultima notte prima della deportazio-

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ne. L’ultima notte al campo è descritta come la preparazione a un comune viaggio:tutti preparano le valigie e le madri lavano i bambini. Comunque alla fine ognuno sicongeda dalla vita nel modo che preferisce, perché non sa cosa accadrà l’indomani.

Prima della partenza gli animi dei prigionieri sono abbattuti; nemmeno il fatto diessere chiamati “pezzi” li colpisce. Salgono sui vagoni ormai coscienti di ciò che li at-tende. Marcello Martini, che ci ha accompagnati durante questo viaggio della memo-ria, parla dell’esperienza a Fossoli come meno dolorosa rispetto alla detenzione nelLager di Mauthausen. Nonostante la sua esperienza di deportazione, egli non ha maiperso la voglia di vivere. Nel suo racconto verbale, a nostro parere, dà libero sfogo aisuoi sentimenti, ma li vela con una sottile ironia.(Monica Mosso, Judith Ccasa Caceres, Ilenia De Stefani)

Abbiamo avuto la fortuna di ascoltare direttamente le riflessioni e le emozioni diun ex deportato politico che ha vissuto in prima persona questa drammatica vicenda:Marcello Martini. Viene spontaneo cogliere analogie fra Levi e Martini, poiché inter-nati entrambi nel campo di transito di Fossoli. La nostra visita ci ha aiutati in parte acapire quella che poteva essere la condizione dei deportati. La permanenza inquesto campo non era che l’inizio di un viaggio verso il nulla, quando l’unica certezzaera la morte.

Levi con accurata sensibilità rappresenta gli ultimi giorni di persone e famiglie chesi congedarono dalla vita nel modo che era loro possibile: pregando, e trascorrendo lavigilia della partenza assaporando ogni dettaglio, per quanto fosse possibile. La pau-ra, la disperazione che Levi vide in sé e nei suoi compagni sono le stesse che noi abbia-mo scorto, sebbene celate dall’ironia, negli occhi di Marcello Martini.

Un aspetto comune ai loro racconti riguarda la violenza fisica subìta dai deportati:l’essere percossi, malmenati. Primo Levi afferma: «Come si può percuotere un uomosenza colpa?» Allo stesso modo, Marcello ricorda come i tedeschi non si facesseroscrupoli a picchiare un prigioniero che ai loro occhi non era altro che uno Stück.(Sara Sottolano, Chiara Sabbadini, Barbara Dominelli)

Leggendo le prime pagine di Se questo è un uomo dopo la visita al campo di Fossoli, ciappaiono più chiare le descrizioni degli avvenimenti e in particolare degli stati d’ani-mo dei prigionieri in attesa dell’esodo verso i Lager nazisti. È comune quel senso diangoscia, del non sapere inizialmente cosa potrà accadere. Primo Levi e MarcelloMartini sono stati arrestati in Italia (il primo perché ebreo e partigiano, il secondo per-ché, ancora ragazzo, aveva partecipato alla Resistenza in Toscana) e deportati, attra-verso Fossoli, rispettivamente ad Auschwitz e Mauthausen.

Per quanto riguarda le differenze, possiamo dire che diverso è il modo di esporre latestimonianza: Primo Levi assume toni più gravi e drammatici, mentre Marcello pun-ta maggiormente sull’ironia nel ricostruire ciò che gli è successo. Inoltre, nel racconta-re la propria storia, Marcello parla da un punto di vista più personale, Primo Levi de-scrive una situazione generale, rievocando la tensione e la drammaticità del momento.(Davide Ruga, Christian Terlizzi, Igor Ventura)

Molto toccante è stata la visita al Museo di Carpi, dove, oltre ai reperti del campo,sono incise sui muri delle frasi scritte da deportati che sapevano di dover morire. I di-pinti che si trovano nel Museo ci hanno colpite profondamente per la straordinaria in-

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terpretazione delle diverse situazioni da parte dell’artista. Le figure sono dipinte conassoluta schiettezza, ovvero senza mai celare la crudeltà utilizzata verso chi non haneanche più una propria dignità o identità. Nella “Stanza dei nomi” abbiamo avutocoscienza del grande (anche se questa è un’espressione alquanto limitativa) numero divittime innocenti: persone morte per i propri ideali o anche solo per la loro apparte-nenza a una “razza”.(Monica Mosso, Judith Ccasa Caceres, Ilenia De Stefani)

Una cosa che ci ha molto colpito sono le frasi scritte sui muri del Museo di Carpi;ce n’è una, in particolare, che pensiamo possa riassumere il pensiero di tanti deporta-ti: «È notte. Improvvisamente si sente la chiave che stride nella serratura. Ecco, è arri-vato ciò che aspettavo da molto tempo.» Per spiegare questa frase basti pensare che lamorte era molte volte vista come liberazione dal vivere in quel modo, ammesso che inquesto caso si possa parlare di vita.(Davide Ruga, Christian Terlizzi, Igor Ventura)

Le frasi incise sulle pareti del “Museo al deportato” di Carpi hanno la rara capaci-tà di trasmettere in modo diretto e rapido tutto ciò che i deportati provavano in queimomenti o sapevano di dover provare di lì a poco. La morte era il loro destino, un de-stino tragico cui coraggiosamente andavano incontro. La paura era tanta: ma chi nonl’avrebbe avuta in una situazione del genere? Chi avrebbe avuto la forza di guardareavanti in simili circostanze? Eppure loro hanno trovato la forza di mettere per iscrittosemplicemente quello che sentivano, affidando alla scrittura la memoria di quantosubìto.

E così, leggendo in silenzio tali parole, immaginiamo una madre che porge l’estre-mo saluto alla figlia («Figlia, ora tuo padre sarà anche madre per te»), un ragazzo chedesidera vivere («Ho solo vent’anni, devo morire, ma voglio vivere») o, ancora, un uo-mo che si augura la salvezza di due compagni («Oggi saranno fucilati cinque compa-gni su sette: spero che gli altri due si salvino»). Nazionalità diverse, culture opposte,ma tutti, nessuno escluso, vittime della stessa disumana ingiustizia: hanno affrontatola morte consapevoli di non aver commesso alcuna colpa, con la viva speranza chenessuno avrebbe mai dimenticato i loro nomi e le loro storie («Quando il tuo corponon sarà più, il tuo spirito rimarrà vivo nella memoria di chi resta»). La memoria diciò che è stato è risvegliata non tanto dallo studio dei reperti pervenuti direttamentedai campi (ciò è più che altro utile ai fini di una ricostruzione storica), quanto dalla let-tura delle parole dei deportati, parole ricche di emozioni, che sanno raccontare la sto-ria di chi le ha scritte con un’evidenza estrema.

In quel Museo rivivi in pochi attimi la vita di milioni di persone; i pensieri riporta-ti sulle pareti risuonano come veri e propri moniti, che invitano a non dimenticare, aimpedire che «il grembo fecondo da cui natura nacque» (Bertolt Brecht) possa diveni-re sterile.(Ilaria Biasato, Veronica Cicileo, Ingrid Stel)

Durante la nostra visita a Fossoli, non ci siamo resi conto di come quel campo fos-se sessant’anni fa, ma grazie alla testimonianza di Marcello ci siamo immedesimatinella sua esperienza e abbiamo compreso meglio come si viveva nei Lager.

Marcello ci ha resi partecipi di un suo pensiero circa la possibilità che un perso-

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naggio simile a Hitler possa tornare al potere in un futuro prossimo, visto che i giova-ni d’oggi sono alquanto vulnerabili.(Federico Vercellino, Aleksandr Feodosei, Lara Barberis)

Ancora una volta siamo stati messi davanti alla più grande catastrofe della storiamondiale, avvenuta a metà del XX secolo. Parlando con Marcello Martini, gli abbia-mo chiesto se secondo lui sarà possibile il ritorno di un Hitler. La sua risposta è statapiù o meno questa: «Hitler probabilmente tornerà, perché gli uomini – e in particola-re i giovani – sono schiavi dei beni materiali e finché saranno schiavi di marche, vesti-ti, gioielli e automobili saranno sempre succubi di qualcuno che venderà loro il suopensiero, ed essi lo seguiranno senza riflettere.»(Davide Ruga, Christian Terlizzi, Igor Ventura)

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Albino Moret era nato presso Treviso nel 1923; la famiglia si trasferì più tardi inPiemonte, a San Mauro Torinese, da dove Albino partì per la guerra sul fronte ju-goslavo. Fatto prigioniero nel settembre 1943 in Jugoslavia, dopo avere oppostoresistenza ai nazisti insieme ai suoi commilitoni del Battaglione “Exilles”, a con-clusione di un breve periodo d’internamento in uno Stalag (“campo di interna-mento militare”), fu avviato al Lager di Mittelbau-Dora (all’epoca, 1943, dipen-dente da Buchenwald) dove gli venne assegnato il numero di matricola 0155. Lasua lunga odissea dapprima in galleria, senza vedere la luce del giorno per mesi, epoi nel sottocampo di Ellrich, dove viene liberato nell’aprile 1945, è raccontatanel testo inedito che segue. Nel dopoguerra, ritornato a Torino, si è battuto appas-sionatamente per il pieno riconoscimento delle vicende dei militari deportati aDora, e delle responsabilità degli scienziati nello sfruttamento del lavoro schiavile.È mancato nel settembre 2003.

Dalla cattura alla liberazioneAlbino Moret

Sono Albino Moret, nato il 7 aprile 1923 a Cison di Valmarino, in provincia diTreviso, chiamato alle armi il 2 settembre 1942 al Distretto di Chivasso, destinato ne-gli Alpini e mandato nel Forte di Exilles, 3° Reggimento Alpini, Battaglione Exilles,33a Compagnia. Dopo un periodo di istruzione sono stato mandato a Pinerolo allaCaserma Berardi e di lì nei Balcani, precisamente in Montenegro (Visegrad, Priboj,Nova Varos, Pljevlja, Prijepolje, Foca, ecc.). Il giorno 8 settembre l943 mi trovavo aViluse (vicino alle Bocche di Cattaro) e fino al 16 settembre 1943 ho combattuto con-tro i tedeschi. Sono stato fatto prigioniero in un primo tempo e poi mandato aGravosa, vicino a Ragusa (Dubrovnik, Jugoslavia), poi nelle vicinanze di Sarajevo(Alipasimost); le date precise non me le ricordo. Quindi, su un carro bestiame, sonostato mandato in Germania; la prima tappa è stata fatta nelle vicinanze di Berlino inun Lager di cui non ricordo il nome. Poi mi hanno fatto proseguire fino a Königsberg,nella Prussia Orientale, dove ho fatto qualche giorno di sosta in quel Lager (Stalag);ero vestito ancora da alpino e ci avevano già portato via la gavetta, perciò il rancio lomettevo nel cappello da alpino.

Dopo qualche giorno, non avendo aderito alla Repubblica Sociale, mi hannomandato in un campo di smistamento chiamato Bad Sulza; in quel campo mihanno chiesto tutte le mie generalità, compreso il mestiere (facevo il modellatore in le-gno e metallo), e dopo qualche giorno, precisamente il 13 ottobre 1943, mi hanno in-viato al Lager Dora. Come ho sentito il nome Dora, tra me dicevo: “Ma questo è unnome italiano. Si vede che il comandante del campo ha sposato un’italiana.” InveceDora vuol dire: “Deutsche Organisation Reichsarbeit”, cioè “Organizzazione Tede-sca Lavoro del Reich”.

Mi ricordo che sono arrivato al Lager di Mittelbau-Dora (il Lager è ai piedi di unacollina) che pioveva, e il fango ci arrivava sopra le calcagna. Dopo la conta delle SS edei Kapo mi hanno mandato in galleria; a Dora non c’era ancora nessuna baracca al-l’infuori di qualche baracca rotonda dove c’erano i nostri carnefici. Dora è stato aper-to nell’agosto del 1943; nella collina di Dora prima c’erano dei cunicoli che venivano

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utilizzati dalle SS come magazzini di lubrificanti. Mi hanno lasciato il vestito militare,ma sul retro della giacca hanno scritto «KLB» (Konzentrationslager Buchenwald)perché Dora, fino a settembre 1944, era un sottocampo di Buchenwald, poi divenutoMittelbau-Dora, con 32 sottocampi,1 di cui il principale era Ellrich, dotato comeDora di forno crematorio.

Mi hanno dato un numero, lo 0155, e da quel momento non mi chiamavo piùAlbino Moret, ma 0155. Lo zero, perché? Perché noi, come militari, non potevamoessere messi con i politici; in base alla Convenzione di Ginevra avremmo dovuto esse-re prigionieri nei campi degli internati militari.

Alla fine del 1944 c’erano oltre 140 baracche, tra le quali il cinema, il bordello, lospaccio, ecc., tutta roba che serviva alle SS e ai Kapo.

Sono uscito dalla galleria per la prima disinfezione dopo quasi quattro mesi (unmio amico dopo otto mesi e mezzo). In galleria nei primi mesi era veramente un infer-no; se non eri più che sano diventavi pazzo tra i rumori, la fame, la sporcizia, la man-canza d’acqua e di luce, la puzza di cadavere e le botte. Mi hanno messo subito a fareil minatore con 1’Ammoniak-Kommando;2 credo che fosse il lavoro più infame cheDio abbia mai creato. Si lavorava in turni di 12 ore. Ho quasi sempre lavorato negliavanzamenti, cioè nell’apertura di nuove gallerie. Si sono costruite due gallerie princi-pali di circa due chilometri ciascuna, con altre gallerie trasversali, oltre sessanta, cheunivano le due gallerie principali; più di trenta chilometri di roccia perforata.

Nei primi mesi vedevi i compagni più deboli che cadevano mentre lavoravano. Neiprimi tre mesi in galleria sono morti oltre 5.000 uomini. Inizialmente, quando nonc’era ancora una vera organizzazione, i compagni morti venivano ammucchiati con-tro la parete; finito il turno di lavoro venivano presi, svestiti e portati all’inizio dellagalleria, dove venivano caricati sui camion e inviati a Buchenwald nei forni crematori.Mi è toccato questo ingrato compito più di una volta. Poi, quando Dora è diventatoun campo indipendente, c’erano gli addetti che se ne occupavano. Nella galleria c’erasolo un rubinetto di acqua potabile, ma quasi nessuno riusciva ad avvicinarsi; se non siaveva proprio la fortuna di lavorare lì vicino, noi deportati, per dissetarci e pulirci unpo’ la bocca dalla polvere della roccia, leccavamo le pareti della galleria (se le SS ci ve-devano ci davano dieci nerbate). Come servizi igienici ci mettevano delle file di bidonia seconda della lunghezza della galleria, e quando si chiedeva di andare a fare il pro-prio bisogno il Kapo dava dai due ai cinque minuti. Ne ho visti tanti finire dentro aibidoni.

In galleria le SS avevano le mascherine e si davano il cambio sovente. La primavolta che il ministro Speer è venuto in galleria è svenuto. Il nostro “alloggio” in galle-ria era formato da letti a castello, ma non sempre c’era posto per tutti; malgrado noifossimo minimo in tre o quattro per pagliericcio, ogni pagliericcio doveva avere unasola coperta. In un angolo c’era un mucchio di coperte che quasi camminavano da so-le! Sovente si trovava qualche compagno morto al fianco e allora la prima cosa da fareera quella di guardare se aveva un pezzo di pane nascosto tra la camicia e la pelle.

1 Si segnala che in altri testi, però, il numero dei sottocampi di Dora è 29, mentre sul sito ufficiale del KZ Mittelbau-Dora (www.dora.de,visitato nell’ottobre 2006) si citano circa 40 campi nel 1945.2 Il progetto di sistemazione di Dora fu appaltato all’inizio a una società Ammoniak (da cui il nome del Kommando citato da AlbinoMoret) consociata della IG-Farben. Dopo l’agosto 1944 la gestione passò alla Mittelwerk GmbH, una società a responsabilità limitata,controllata dalla SS con la partecipazione di Albert Speer. Si veda la voce su Mittelbau-Dora in www.deportati.it (visitato nell’ottobre2006).

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Anche in galleria esisteva la “borsa nera”: i deportati che riuscivano ad averedei sacchi di cemento li vendevano per un pezzo di pane; quello che li vendeva, se ve-niva scoperto, veniva impiccato, mentre a chi lo comprava venivano date dieci nerba-te. I sacchi venivano messi tra la camicia e la pelle per ripararsi dall’umidità. Una seraio e il mio amico Gino siamo riusciti ad andare nel piano più alto del letto a castello; ilpagliericcio era tutto bagnato dall’acqua che colava dalla galleria. Lì ci siamo messi acontare i pidocchi che avevamo addosso. Non si poteva stare seduti, perché come siera nel pagliericcio ci si doveva coricare. Quella sera a osservarci c’era un nostro com-pagno di Torino che allora era già fuori di testa; piangeva sempre e non ricordava ilsuo cognome. Il mio amico Gino aveva già contato oltre 400 pidocchi o cimici, men-tre io avevo superato i 375; in quel momento è arrivata una SS e ha incominciato a farroteare il nerbo di bue e l’amico di Torino ci ha rimesso un orecchio. L’ho poi rivisto aTorino, prima che morisse, e quando mi vedeva mi chiamava “Biro Dora” e piange-va. Abitava in Via Mazzini.

In galleria sono rimasto circa quattordici mesi e sono uscito per la disinfezione cin-que volte. Il nostro Ammoniak-Kommando, ogni settimana, ci dava un buono per labirra ma, in quelle poche volte che sono uscito e mi sono recato allo spaccio del Lager,di birra non sono mai riuscito a berne, era sempre finita.

Verso il settimo od ottavo mese, non ricordo più bene, mi è venuta una forte feb-bre. Allora sono andato al Revier, l’infermeria, e mi pare di esserci rimasto otto giorni.Sono stato fortunato, perché invece di mandarmi alla Boelcke Kaserne in Nord-hausen per la convalescenza, che era l’anticamera della morte, mi hanno mandato alBlock 18 (il Block degli italiani), dove c’era un Kapo con Stubendienst, “aiutanti” italia-ni. Lì ho conosciuto Gianni Araldi di Salsomaggiore; tornati a casa siamo diventaticome due fratelli. Ci sono stato solo dieci giorni: era troppo bello, ma poi sono stato ri-spedito in galleria a fare il minatore. In quei dieci giorni non mi pareva più di essereun prigioniero, tanto era diverso dall’esperienza in galleria. Intanto il lavoro in galle-ria andava avanti. Nel 1944 avevamo già scavato le due gallerie principali, lunghe cir-ca due chilometri, e le altre oltre sessanta gallerie trasversali, lunghe dai duecentocin-quanta ai trecento metri; alcune di queste gallerie trasversali sono state finite bene,tutte intonacate con temperatura costante per la costruzione dei missili V1 e V2. Allaguida di questa fabbrica missilistica c’erano scienziati tedeschi quali Wernher vonBraun, il generale Walter Dornberger e i collaboratori Walter Riedel, Ernst Steinhoffe Helmut Gröttrup. Von Braun è poi divenuto il padre della missilistica statunitense eHelmut Gröttrup di quella sovietica. L’unico che mi hanno fatto vedere e che ricordoè stato von Braun, come mi ricordo del ministro Speer; erano sovente in galleria, spe-cialmente nella fabbrica missilistica. Speer è venuto una volta a vedere gli avanza-menti della galleria e, come ho già detto, è svenuto a causa dell’odore dei cadaveri, deibidoni che servivano per fare i propri bisogni, della polvere di roccia, dei rumori, ecc.

Nei primi tre mesi in galleria i compagni più deboli morivano come mosche, ti ca-devano vicino mentre lavoravano e non si svegliavano più. L’alimentazione nelle gal-lerie era di un mestolo di caffé (acqua sporca) nella mezz’ora di pausa, un litro di zup-pa (al venerdì la zuppa era zuccherata), un pezzo di pane che pesava dai trecento aicinquecento grammi e venti grammi di margarina; alle volte una fettina di salame (al-l’esterno al sabato davano un pezzo di carne). Buona parte dei deportati aveva la dis-senteria, la scabbia o gli orecchioni. In galleria non hanno mai guardato se avevamo ipidocchi, a loro interessava che si andasse avanti con la produzione.

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Negli avanzamenti le SS avevano tutti la mascherina e cambiavano il turno soven-te. Anche il nostro maestro, che era un civile, aveva la mascherina in galleria. All’Am-moniak-Kommando dopo qualche mese c’erano solo quelli che erano in buona salu-te. Eravamo gruppi formati da quattro deportati, un civile, una guardia e un Kapoche guardava più avanzamenti. Ho cambiato diversi compagni; nei primi mesi erocon un caro amico, Giorgio Sibona, col quale avevo già fatto il servizio militare, conBeniamino Merlo e con un ragazzo di Fossano di cui non ricordo il nome (morto sullavoro, dopo tre mesi). Al posto del compagno di Fossano morto ci hanno mandato unaltro italiano, Lino Pignatari; allora, siccome io ero il più vecchio delle gallerie, mel’hanno messo assieme. Eravamo quattro alpini e, quando non potevamo parlare, cicapivamo solo con lo sguardo; se ti beccavano a parlare mentre lavoravi, eranonerbate.

Con Sibona e Pignatari sono stato fino verso settembre 1944, perché un giorno cihanno portati nel sottocampo di Ellrich: loro sono rimasti lì, mentre il sottoscritto do-po qualche giorno è tornato in galleria. Con me c’erano poi Beniamino Merlo, Bocciadi Salerno e Ivan di Stalingrado. Sono stato a Dora fino alla fine del 1944 o all’iniziodel 1945, poi sono stato trasferito nel sottocampo di Ellrich.

Devo raccontarvi due fatti avvenuti durante la mia permanenza in galleria. Nelmese di dicembre del 1943, dopo pochi mesi di Lager, un gruppo di italiani ha recla-mato che la zuppa era poca, dato il lavoro da minatore che si faceva. Il Kapo, un tede-sco, ha fatto il rapporto che gli italiani si rifiutavano di lavorare. Così, il giorno 15 di-cembre 1943, dopo il turno di lavoro, il comandante del campo ha radunato una cin-quantina di italiani e ci ha fatto un discorso di cui si capiva solo la parola “sabotag-gio”. Poi è arrivato il plotone di esecuzione: sei sono stati fucilati e uno, prelevato dalRevier in barella, è stato ucciso con un colpo di pistola. Mi ricordo che presenti conme c’erano Pignatari, Sibona e Morbi (l’amico ancora vivo).3

L’altro fatto è capitato al sottoscritto e a Sibona. Stavamo lavorando di notte. Era-vamo sul ponte e quella sera avevamo una perforatrice (pistola) che non aveva il pisto-ne ad aria; allora dovevamo mettere una tavola di legno sotto la perforatrice e spinge-re. Stavamo perforando la roccia con l’ultimo ferro, cioè quello di 4,20 m; sarà statoper la stanchezza o per il “troppo mangiare”, ci siamo addormentati, siamo caduti dalponte e il ferro si è rotto. È arrivato subito il Kapo che ci ha gridato “Sabotage! Alle ka-putt!”. Era l’inizio della settimana; quel giorno lì il mio amico aveva già preso diecinerbate perché l’avevano trovato con la carta del cemento addosso, cosa che per loroera “Sabotage”. Alla domenica, quando avrebbero dovuto impiccarci tutti e due, ab-biamo invece sentito dall’interprete i nostri numeri e abbiamo preso solo venticinquenerbate, di cui porto ancora i segni sulla spina dorsale. Al lunedì, dopo il turno di la-voro, sono andato alla disinfezione fuori dalla galleria; era la terza volta che uscivo,tutto contento perché ero pulito con la mia cresta in testa (a noi italiani della galleriatagliavano i capelli ai lati e lasciavano la cresta in mezzo, ai russi il contrario). Avevofatto pochi passi all’interno della galleria, non so ancora adesso che cosa ho fatto, ma

3 Sull’episodio riferito da Albino Moret altre fonti attestano che la protesta degli italiani, scaturita dalla richiesta di un vitto uguale aquello degli altri prigionieri, fu accompagnata altresì dal richiamo alla Convenzione di Ginevra, secondo cui i prigionieri di guerra nonpossono essere impiegati nella produzione di armamenti (cfr. H. Stein, Konzentrationslager Buchenwald 1937-1945. Begleitband zur ständigenhistorischen Ausstellung, Göttingen, Wallstein Verlag, 20002, p. 212).

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una delle SS mi ha colpito con il pugno di ferro e mi ha spaccato il labbro e i denti. Uncompagno francese che, come i cecoslovacchi, riceveva i pacchi dai famigliari, conuno spicchio d’aglio mi ha disinfettato e poi mi ha messo un cerotto di carta; anche lìporto ancora i segni.

Vi racconto alcuni fatti successi nelle gallerie del Lager Dora. Un giorno, dopo cheil civile che era con noi aveva messo tutte le cariche di dinamite nei fori fatti da noi de-portati sulla roccia, siamo usciti dall’avanzamento della galleria aspettando che il civi-le facesse brillare la dinamite per fare saltare la roccia. Mi sono seduto qualche istantee subito la guardia SS ha incominciato a inveire contro di me dandomi nerbate, calci albasso ventre e colpi di moschetto nello stomaco; io non ho fatto una piega, cioè non unlamento, non un grido, e questo a loro faceva male, non potevano gioire del male che tifacevano. Mi ricordo che un mio caro amico russo, Ivan, che lavorava poco distante, fi-nito tutto mi ha detto: “Albino dobra!” cioè “bravo”. Ho sempre avuto un carattere che,piuttosto di piegarmi, sarei morto. I miei amici di Lager italiani mi dicevano: “Ma nonle senti le botte, che non ti lamenti mai?” Ero troppo testone e sono ancora testone og-gi; cosa voglio, voglio, cioè la verità su questo maledetto Lager Dora.

Ogni trenta o quaranta giorni ci davano del tabacco per fare qualche sigaretta.Credetemi: quando arrivava il tabacco, i veri fumatori non capivano più niente; pren-devano la carta dei sacchi del cemento e la usavano come cartine per avvolgere il ta-bacco. Io non fumavo e la mia razione la davo al mio amico Gino che era un fumato-re accanito; aveva sei anni più di me ed era tanto amico di mio padre. Un bel giornomi accorsi che anche lui dava via la fetta di pane per il tabacco. Allora gli dissi: “CaroGino, il tabacco da me non lo prenderai più. Venderò anch’io il tabacco per il pane.”Lui diceva che non era vero, invece l’avevo proprio visto io; siamo stati qualche giornosenza parlarci, pur lavorando in coppia in galleria. Poi, alla fine, ho ceduto io e gli hodetto: “Senti Gino, io il tabacco te lo darò di nuovo, però la tua razione di pane la ten-go io.” Non era tanto soddisfatto, ma poi alla fine ha ceduto.

Delle due razioni di pane che ci davano facevamo sei pezzi, li avvolgevamo in unpezzo di carta e facevamo un pacchetto; quest’ultimo lo mettevo tra la camicia e lapelle. Mangiavamo quei pezzi di pane, uno al mattino, uno a mezzogiorno e uno allasera. Quando tiravo fuori quel pacchetto, era tutto nero, ricoperto di pidocchi. Siamoandati avanti così fino a quando abbiamo lavorato in galleria. Siccome eravamo dellostesso paese, San Mauro Torinese, quando è ritornato a casa Gino ha detto alla sua fi-danzata: “Se sono qui con te devo dire grazie ad Albino che non mi lasciava vendere ilpane per il tabacco.”

In galleria, appena arrivato, mi hanno dato in dotazione una gamella di ferro che,dopo poco tempo, si è tutta arrugginita. Questa gamella serviva per prendere il mez-zo litro di caffé, acqua sporca che però prendevo volentieri per bere un po’ di liquido,visto che in galleria non si poteva bere. La gamella serviva anche per prendere quelmestolo di zuppa; pure senza lavarla era sempre lucida perché anche l’ultima briciolaveniva tolta con le dita. Poi avevo il pesino per pesare il pane quando facevo la divisio-ne. Il pesino era nient’altro che un pezzo di legno con due piccoli ganci per poter pe-sare le fette di pane. Gamella e pesino si portavano sempre attaccati dietro la schiena.In galleria non bisognava mai mollare, salute permettendo, perché, credetemi, se simollava un momento era finita. Qualche sera, quando ci sentivamo un po’ più sereni(rare volte), cercavamo di farci forza l’uno con l’altro. Ricordo una sera che Gino, tut-to serio, mi disse: “Senti Albino, io non vado tanto in chiesa, ma se abbiamo la fortu-

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na di tornare a casa, partiamo da San Mauro a piedi e andiamo fino a Oropa.” Quan-do sono tornato io ci sono andato, ma non a piedi; anche lui è tornato, ma è morto inun incidente stradale.

Pensate la disperazione che c’era dentro di noi in quelle maledette gallerie.Invece con un altro caro amico, Lino, che è venuto a lavorare con me in galleria

quando è mancato l’amico di Fossano, alla sera ci raccontavamo la nostra vita militare.Lui mi diceva sovente: “Anche stasera siamo qua, chissà domani sera come sarà?” Siviveva alla giornata. Mi parlava sempre di andare al suo paese a bere il Lambrusco.Anche lui è ritornato, ma adesso non c’è più. Questi amici di prigionia che hanno sof-ferto con me nelle tremende gallerie del Lager Dora non potrò mai dimenticarli. AlLager Dora c’erano anche dei deportati che ogni tanto ricevevano dei pacchi di viveridai loro famigliari, quali i francesi e i cecoslovacchi. Il perché non l’ho mai saputo. Pernoi era un bene perché il giorno che loro avevano questi viveri qualche cucchiaiata inpiù di brodaglia del Lager finiva nella nostra pancia. Credetemi: la fame è brutta, mala sete è una cosa terrificante. Io la sete l’ho patita veramente e quando sono ritornatoa casa, di notte, per tanto tempo, ho avuto degli incubi; mia mamma, poverina, mi di-ceva che gridavo, che dicevo dei nomi di persone, chiedendo loro dell’acqua (forsecompagni di Lager). Dopo qualche giorno il mio letto è stato messo nella sua camera,così ero vicino a lei; mi metteva sempre dei bicchieroni d’acqua sul comodino da notte.

Ce ne sarebbero diversi di episodi da raccontare, successi nel Lager. In dotazioneho avuto gli zoccoli olandesi. Me li legavo con un pezzo di filo di ferro per non perder-li, perché sulle pietre della galleria non riuscivo ad abituarmi a portarli; oltretutto, do-po un po’ di tempo, si rompevano sotto, quindi pizzicavano la pelle e avevo sempre ipiedi insanguinati. Io, come tutti gli altri compagni di sventura che lavoravano facen-do i minatori e caricando il materiale sui vagoni ribaltabili, non ho mai avuto la possi-bilità di tagliarmi le unghie delle mani e dei piedi. Quelle delle mani, lavorando nellaroccia, si consumavano, ma per quelle dei piedi era una tortura.

I capelli e la barba ce li tagliavano quando andavamo fuori per la disinfezione (iosono uscito per la prima volta dopo circa tre mesi e mezzo). Quando sono tornato acasa il mio barbiere, con un paio di pinzette, per diverso tempo mi ha tolto i peli dellabarba che poi s’incarnivano nuovamente e formavano delle pustoline. Avevo i panta-loni legati con uno spago. Una notte ho visto indosso a un compagno francese, che eraappena morto, una bella cinghia; mi sono subito buttato su di lui per prenderla, ma inun momento ci siamo trovati in diversi a fare la stessa cosa. Il Kapo si è accorto di ciòe, dopo averci dato qualche nerbata, la cinghia se l’è presa lui. Sono riuscito però a re-cuperare un pezzo di pane del francese.

Il Lager Dora era diviso in due Lager, cioè le gallerie e l’esterno; quest’ultimo, persentito dire dai miei compagni, era veramente bello da vedere, non da starci: bordello,cinema, campi da calcio, orchestrina, giardini attorno alle baracche. Era un luogo do-ve, per la fabbrica missilistica, venivano molte autorità: Himmler, Goebbels e altri,con le rispettive signore; mi hanno anche detto di Hitler. Noi in galleria non vedeva-mo quasi mai nessuno; poi, se non c’era qualcuno che te lo diceva, a noi noninteressava.

Non ricordo bene se alla fine del 1944 o all’inizio del 1945, mi hanno trasferito de-finitivamente nel sottocampo di Ellrich, che si trovava dall’altra parte della collina; unLager con forno crematorio, un Lager di 6.500-7.000 deportati, mentre a Dora il nu-mero variava dai 16.000 ai 22.000 (c’erano deportati di diciassette naziona-

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lità). Appena arrivati a Ellrich abbiamo saputo da alcuni nostri compagni arrivati daDora dopo di noi che il crematorio che funzionava giorno e notte non bastava più abruciare tutti i cadaveri. Allora hanno fatto delle cataste di legno e i deportati li hannobruciati così. A Ellrich ho ritrovato l’amico Lino Pignatari, Boccia, Beniamino Merlo,De Taddeo e un nuovo amico, Sergio Gabbianelli, che dopo pochi giorni si è buscatodieci nerbate. Credetemi che dal fuoco sono caduto nella brace; lì si lavorava solo digiorno, dalle sei del mattino alle sei di sera. Lavoravo in un cementificio che era statobombardato dagli Alleati, quindi avevano bisogno di manodopera. Si partiva dalLager e dopo qualche chilometro si arrivava al cementificio. Eravamo 300-400deportati e si trattava di riempire i sacchi di polvere di cemento; eravamo quattro de-portati per sacco, due tenevano il sacco e due con la pala ci mettevano dentro la pol-vere di cemento. Facevamo turni di mezz’ora con alle calcagna continuamente SS oKapo: “Los, los!” gridavano tutto il giorno, “Schnell, schnell”, e se ti fermavi un momen-to erano nerbate. Con me c’è sempre stato Boccia di Salerno, più in gamba di me; miha veramente aiutato tanto, alle volte faceva mezz’ora di seguito al posto mio. Non cela facevo più, la galleria mi aveva ucciso, cercavo in tutti i modi di farcela, ma era du-ra. Dopo due o tre ore che lavoravi non vedevi più niente; allora di nascosto ti facevi lapipì in mano e ti pulivi gli occhi. Alla sera, quando si tornava al Lager in baracca, ottovolte su dieci non c’era l’acqua per lavarsi; lì i capo Block erano quasi tutti polacchi ese reclamavi erano nerbate o calci al basso ventre o dove capitava.

Il mio amico Algeri aveva fatto il minatore per sei mesi e poi era andato a stare be-ne; era con dei civili e faceva i pozzi artesiani. Morbi era in una baracca distante dalLager, anche lui se l’è cavata abbastanza bene. Ho tenuto duro fino alla metà di feb-braio del 1945, poi sono crollato. Un mattino, mentre andavo al lavoro incolonnatocon gli altri deportati del Lager e con le SS e i cani ai nostri fianchi, uscendo dal por-tone sono crollato a terra svenuto; credevo veramente che fosse arrivata la mia ora.Un mio compagno mi ha poi riferito che mi hanno preso a calci e tirato da una parte;eravamo in diversi per terra. Come sono usciti tutti, mi sono ripreso e rialzato. Ilcapoporta non era una SS, ma un maresciallo dell’aviazione tedesca. Gli altri li hannoportati via, non so dove, mentre a me il maresciallo ha fatto prendere la scopa e spaz-zare il corpo di guardia. Quando siamo rimasti soli, vedendo che ero italiano, mi hachiesto come mai mi trovavo lì e di dove ero. Io non ho osato chiedergli se era italiano,ma ho avuto il coraggio di chiedergli un po’ d’acqua; l’ho avuta e ho avuto anche unafettina di pane. Alla sera mi ha detto che il giorno dopo avrei di nuovo dovuto presen-tarmi al corpo di guardia alle ore sei per pulire. Il terzo giorno, in un momento cheera solo, mi ha detto che faceva servizio alla porta perché lui era venuto da Milano aifunerali di suo padre in un paese vicino ad Amburgo, e che aveva sposato una milane-se; aveva due figli ed era ingegnere alla Siemens a Milano. Sono stato a pulire fino al-l’inizio dell’aprile 1945. Questo maresciallo mi aveva salvato la vita, perché di nasco-sto c’era sempre un po’ di zuppa e qualche fettina di pane per me. Ero proprio allostremo delle forze, non ce la facevo veramente più, ma non era ancora la mia ora!

Verso i primi di aprile c’è stata l’evacuazione di Dora e dei suoi sottocampi. Si so-no formate diverse colonne di deportati che dovevano arrivare a Bergen Belsen; quel-li di Dora sono arrivati, mentre noi da Ellrich abbiamo raggiunto Malchow dopo cir-ca 1.572 chilometri, in parte a piedi e in parte su carri bestiame. Questa marcia di tra-sferimento è poi praticamente stata una “marcia della morte”; abbiamo perso molticompagni per la strada, era sufficiente restare indietro che ti sparavano in testa e ti

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buttavano al lato della strada. Una sera, era già buio, abbiamo subìto un mitraglia-mento, non sappiamo da chi; abbiamo avuto circa 300 morti. Allora le SS ci hannoprocurato dei badili, ci hanno fatto fare una grande buca e i morti li abbiamo buttatilì. Il mio amico Sergio Gabbianelli, che tra i morti aveva un suo amico di Jesi, ha avu-to il coraggio di chiedere alla SS se gli faceva tagliare una ciocca di capelli da portarealla mamma; gli è stato concesso. Passando per Ravensbrück siamo arrivati in un bo-sco dove siamo rimasti, mi pare, dodici giorni. Eravamo come delle capre perché, pertutti quei giorni, non abbiamo avuto niente da mangiare e mangiavamo erba e radici.

Un mattino non abbiamo più visto le SS: erano sparite. Si sentiva solo sparare. Al-lora, a gruppetti, c’era chi andava da una parte e chi dall’altra. Mi sono trovato vicinoa un cartello segnaletico con su scritto «SCHWERIN». Le strade erano piene di auto-mezzi tedeschi abbandonati e noi, come tanti animali affamati, razziavamo per man-giare. Molte donne tedesche (c’erano solo donne) ci facevano entrare e ci davano quel-lo che avevano; tante volevano anche fare l’amore, ma noi non eravamo più uomini, iopesavo 37 chilogrammi. Dopo quattro o cinque giorni gli americani hanno fatto un ra-strellamento e ci hanno invitati a salire sui loro camion; se non salivi ti facevano salireper forza! È stata una fortuna. Ci hanno portati in una caserma e lì, per un po’ di tem-po, ci davano le razioni di rancio. Tanti di noi, che non sono stati presi, sono morti peril troppo mangiare. Anche lì ho avuto un colpo di fortuna: durante la visita alla caser-ma da parte di truppe americane, il comandante mi ha visto con un altro mio compa-gno di prigionia in uno stato da far paura e ci ha chiesto se volevamo andare ad Am-burgo con loro; il comandante americano era figlio di italiani emigrati in America, diPompei. È stata la nostra fortuna. Ci hanno puliti tutti, medicati di tutte le pustole e fe-rite che avevamo addosso e vestiti come loro; non ci pareva vero, ci volevano molto be-ne. Io sono stato con loro fino a metà agosto 1945. Mi sono ripreso in maniera impres-sionante: quando sono andato con loro pesavo 37 chilogrammi, quando sono arrivatoa casa, il 30 agosto 1945, a San Mauro Torinese, ne pesavo 80. Non potevo dire cheavevo sofferto molto, perché non ti credevano. Ad aspettarmi c’era l’intero paese, per-ché io e l’amico Sibona eravamo gli unici di cui non avevano mai avuto notizie.

Quando sono tornato a casa dal Lager, per parecchio tempo mi sono chiuso in unguscio e assolutamente non volevo più sentire parlare della prigionia, volevo dimenti-care tutto, ma purtroppo è veramente una cosa impossibile dimenticare la tua giovi-nezza passata in quei posti terribili. Dopo circa venticinque anni ho ricevuto una let-tera dall’amico Araldi di Salsomaggiore, in cui mi diceva che aveva intenzione di ra-dunare il maggior numero possibile di ex deportati del Lager Dora. È stato fatto, e daquella volta, per più di vent’anni, ci siamo radunati a Salsomaggiore, compagni di La-ger dal Friuli alla Sicilia. All’inizio non eravamo in tanti, ma dopo qualche anno era-vamo circa settanta deportati più i famigliari: una bella festa, era diventata la famigliadi Dora. Tra i nostri amici c’era anche Carlo Slama, che ha scritto un libro sul LagerDora, Lacrime di pietra, c’era quel simpaticone di Ferraci (ora morto), che allora facevail venditore ambulante e sul telone del camion aveva scritto «La Belva di Buchen-wald». In mezzo a noi avevamo anche un resuscitato: era finito nel carretto che porta-va i morti al crematorio (poverino, soffriva di crisi epilettiche), l’avevano visto muover-si, era stato salvato e portato al Block 18, quello degli italiani; anche lui adesso è mor-to, l’amico Montanari di Fidenza. Adesso questi raduni non si fanno più perché siamorimasti in pochi vivi, ma noi amici stretti continuamente ci vediamo o ci sentiamo.

Noi deportati di Dora in Salsomaggiore abbiamo un nostro monumento; il

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Comune gentilmente ci ha dato un giardino denominato “KZ Dora” e lì noi abbiamofatto costruire questo monumento chiamato “Deportati nei campi di sterminio”. Tut-ti gli anni, dopo la Messa ai caduti, facevamo il corteo per le vie cittadine, con fanfaree majorettes e andavamo a posare le corone sui monumenti di Salsomaggiore.

Nel settembre del 1996 da Torino partì un pellegrinaggio al Lager Dora; avevanogià aperto parti delle gallerie. A quel viaggio volle partecipare un deportato diEbensee, l’amico Italo Tibaldi. Dopo la visita alle gallerie, Tibaldi mi disse: “Albino,dobbiamo fare il primo Convegno Internazionale sul Lager Dora.” Grazie al suo in-teressamento, a quello dell’amico Araldi e al Presidente dell’ANED, SenatoreGianfranco Maris, il Convegno è stato fatto a Salsomaggiore nell’ottobre del 1997.Ha avuto un grande successo e molte partecipazioni di studenti e storici, italiani estranieri, deportati e famigliari, oltre alla popolazione di Salsomaggiore, che a noi èsempre stata vicina. Grazie Italo! Anche questo Congresso rappresenta un pezzo distoria del Lager Dora, per troppi anni dimenticato.

Sono già stato al Lager Dora tre volte, ma la migliore è stata la visita del mese disettembre 1996. Hanno riaperto tratti di galleria, dove sono stato “sepolto” per circaquattordici mesi. È stata molto dura, credevo che mi mancasse il cuore da un momen-to all’altro ma, grazie agli amici che avevo attorno, mi sono ripreso abbastanza in fret-ta. Del campo Dora oggigiorno la miglior cosa è che sia stata riaperta una parte diquelle maledette gallerie, perché la storia del Lager Dora è stata lì sotto. Poi ci sonoancora i tre forni crematori, che funzionavano giorno e notte (la media era di circa 80cadaveri bruciati al giorno). Ci sono anche il locomotore (all’ingresso del Lager), quel-lo che trainava i vagoni con i missili fuori dalle gallerie, parte del Bunker, un museo,vari monumenti e tanta altra roba.

Sembra che poco alla volta le verità su Dora vengano a galla, perché Dora era unLager segreto e nessuno ne parlava, noi compresi, perché la gente non credeva chefossero successe cose così terribili; solo chi le ha vissute e ha avuto la fortuna di avere lasalute e un carattere forte può saperle. Molti di noi italiani eravamo sotto il serviziomilitare e per farci riconoscere come ex deportati in un campo di sterminio c’è volutomolto tempo. Tutto questo silenzio sul Lager Dora credo sia una questione politica,perché, terminata la guerra, gli scienziati tedeschi che erano al Lager Dora, dove sonostati costruiti i missili V1 e V2 lanciati su Londra nel 1944, se li sono presi l’America,la Russia e la Francia, che sono state le conquistatrici dello spazio. Questa è una veravergogna, perché anche la storia viene falsata. Io, riguardo alla verità su Dora, ho giàscritto a un mucchio di personalità; l’unico che forse mi è stato vicino è stato il Presi-dente della Repubblica, Onorevole Scalfaro, ma forse anche lui ha le mani legate. Mastate tranquilli che non mollo!

Non volevo scrivere niente sul Lager Dora, dove ho vissuto i momenti più terribilidella mia vita, perché non sono uno scrittore ma, grazie a una mia carissima amicache ha capito la mia prigionia, la Professoressa e Assessore al Comune di VerbaniaSilvia Magistrini, non ho potuto tirarmi indietro. Certo che ricordare tutto è duro;vorrà dire che, se ci sono tanti errori, mi perdonerete. Il primo impatto con il LagerDora è stato veramente brutto; vedendo tutte queste persone vestite a righe (zebrate)credevo di essere stato mandato in un penitenziario. A vent’anni non avevo mai vistouna cosa simile! Non mi ero sbagliato, anzi, è stato peggio: mi hanno messo subito afare il minatore in galleria, dove la luce l’ho vista raramente. Ero diventato un “sepol-to vivo”. Mi chiedevo: “Ma cosa avrò mai fatto di male per essere trattato

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così?” Non solo. Per diverso tempo eravamo bersagliati sia dai tedeschi, che ci taccia-vano di traditori, sia dai compagni deportati che ci consideravano dei fascisti; c’è vo-luto molto tempo per far capire ai compagni di Lager che se si era lì un motivo ci do-veva essere, cioè che non si aveva aderito alla politica di Hitler. Finalmente, quelli cheall’inizio ci trattavano male sono diventati dei veri amici. Io, che ero molto schizzino-so, ho imparato subito come si doveva vivere con gli altri e, credetemi, con il mio ca-rattere, non è stato per niente facile. Un accademico francese, forse si chiamava Fran-çois Denivad, diceva: “Spesso ho sognato di creare un’associazione senza presidente,senza tesoriere, senza iscrizione, senza patronato, i cui membri sapessero solamenteche sono membri, senza bisogno di scriverlo o di dirlo perché sono presenti (ci sono).”

In galleria purtroppo sono successe tante cose disgustose; tanti Kapo, per un pezzodi pane, approfittavano del deportato, ma per fortuna non tutti erano così. Non l’homai detto, ma la settimana che con il mio amico dovevo essere impiccato, e invece conun po’ di fortuna l’ho aggiustata con venticinque nerbate, è successo un episodio sgra-devole. Andavamo a prendere dei ferri da lavoro in un’altra galleria insieme al civile,quando il nostro Kapo tedesco, chiamato da noi italiani “il Bavoso”, sempre ubriacodi birra e facile a menare le mani e i piedi, ha preso in disparte il mio amico e, aperti ipantaloni, voleva farsi succhiare il pene. Il mio amico glielo ha morsicato facendologridare e scappando subito. Sono accorse le SS e il giorno successivo abbiamo visto ilKapo appeso alla gru, senza pantaloni. Hanno fatto bene! Le impiccagioni in galleria,

come le nerbate, avvenivano sempre didomenica: c’era una gru con una pu-trella e ne impiccavano dieci alla volta.

Durante l’ultimo viaggio al LagerDora, dove per la prima volta ho rivistoil posto dove sono rimasto sepolto vivoper circa quattordici mesi, uscendo dal-le gallerie una studentessa della Profes-soressa Marta Montevecchi mi ha det-to che noi deportati siamo “pezzi dimuseo ambulante”, e altri studenti michiedevano come mai ero sempre alle-gro. È vero, il mio carattere è semprestato forte al punto che, grazie alla salu-te, ho riportato in patria ossa e ceneridel mio corpo: così non hanno potutousarle per concimare i campi tedeschi.Noi deportati non siamo stati deglieroi, come qualche studente ci ha det-to, ma purtroppo i nostri anni migliorili abbiamo vissuti nei Lager.

Ci sono ancora tanti particolari che,scrivendo, non si possono raccontare,perché Dora era la galleria, cioè la sto-ria dei sepolti vivi, cosa che non si potràmai raccontare.

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Natale Pia (ma per tutti Natalino) è nato a Montegrosso d’Asti nel 1922. Il 17 di-cembre, ci tiene a precisare: perché se fosse nato due settimane dopo avrebbe cer-tamente evitato la prima delle due odissee che ha recentemente narrato nel suo li-bro autobiografico.1 Chiamato alle armi per la leva 1922, è assegnato come autistaal II Reggimento di Artiglieria del Corpo d’Armata, Divisione Ravenna, sul fron-te del Don. Sopravvive alla ritirata di Russia (della sua batteria scampano in quat-tro, sui 144 soldati che la componevano), partecipando allo sfondamento di Nico-lajewka. Rientrato in Italia, collabora all’organizzazione di gruppi partigiani, maè catturato in un rastrellamento a Vinchio d’Asti nel dicembre 1944; fra gli altricompagni di prigionia c’è Vittorio Benzi, il giovanissimo fratello della fidanzata.Incarcerati alle Nuove di Torino, vengono entrambi inseriti nel gruppo che è tra-sferito al campo di Bolzano e poco dopo, l’8 gennaio 1945, a Mauthausen, in unconvoglio di circa 500 persone. Immatricolato con il n. 115658, è trasferito aGusen dove rimane fino alla liberazione. Vittorio invece, da cui è stato separato,morirà a Gusen il 22 marzo. Nel dopoguerra Natalino, sempre vissuto a Monte-grosso d’Asti, è tornato precocemente e molto spesso sui luoghi della sua deporta-zione, con viaggi personali o insieme all’ANED, testimoniando nelle scuole e nellemanifestazioni commemorative.

Il racconto di Natalino PiaMauthausen, aprile 1998 (Studentesse dell’ITCS “Marro”)

Sono nato nel 1922 a Montegrosso d’Asti, sono partito militare nel 1941 e ho par-tecipato alla campagna di Russia. Dopo l’8 settembre, mi sono unito alle forze parti-giane. Il 2 dicembre 1944 sono stato catturato a Vinchio d’Asti e deportato aMauthausen, e in seguito trasferito a Gusen.

Ricordo che la prima volta che siamo entrati nel campo abbiamo visto una carrio-la carica di cadaveri destinati al crematorio, e ci pareva impossibile! Ma non si potevafare a meno di notare il fumo. Noi logicamente, allora, del crematorio abbiamo solosentito la puzza, perché se l’avessimo visto non saremmo qui. Nelle camere a gas ingenere finiva chi non riusciva a morire lavorando, e resisteva di più; bastava ancheavere la dissenteria e sporcare due o tre volte per terra… Anche chi aveva troppi pi-docchi finiva lì.

Mi ricordo quando andavamo a fare la doccia. In genere si ha un asciugamano,qualcosa, noi eravamo nudi, completamente. L’acqua arrivava a momenti bollente,altri gelata. Dopo la doccia si girava attorno alla stanza, dove c’erano gli addetti checon il rasoio ci depilavano dalla testa ai piedi e intanto cercavano anche nelle parti piùintime per vedere se c’era qualcosa di nascosto. Poi si usciva, sempre nudi, e senza lapossibilità di asciugarci; se uno aveva un pezzettino di carta o un pezzettino di straccioera considerato un sabotatore, con tutte le conseguenze. Nella camera attigua veniva-no disinfestati gli indumenti. Su di noi c’erano tanti pidocchi; quando uno aveva vo-

1 N. Pia, La storia di Natale. Da soldato in Russia a prigioniero nel Lager, a cura di Primarosa Pia, Alessandria, Joker, 2003, 20063.

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glia di scherzare (ma erano poche le volte!) giocavamo a chi ne tirava fuori di più.Le baracche sono come quelle di allora. Noi dormivamo in 200-250 nello stesso

spazio, i Kapo dormivano in tre o quattro per stanza. Quando siamo arrivati qui aMauthausen, dentro la nostra baracca non c’erano neanche i letti a castello, di conse-guenza alla sera per dormire ci mettevamo come delle acciughe. D’altronde, per dor-mire 250 persone in una stanza, per forza si doveva stare stretti! Ci facevano entrare acolpi di scudiscio. Per farci stare zitti ci picchiavano con gli zoccoli che ci avevano da-to in dotazione. Se uno aveva delle necessità durante la notte, doveva uscire per anda-re alle latrine, ma il problema era trovare di nuovo il posto al ritorno.

Nei letti a castello si dormiva in tre, a volte quattro, bisognava stare stretti… Negliultimi tempi però c’era più spazio, perché si diminuiva di peso. Quelli che morivanonon ci davano fastidio; a volte, egoisticamente, se avevamo un morto vicino cercava-mo di prenderci la sua razione di acqua. Ogni mattina, infatti, ci davano delle razionidi acqua per non farci disidratare: a loro l’acqua costava poco perché la prendevanodal Danubio, la facevano semplicemente bollire. Se riuscivamo ad avere dell’acqua inpiù era come avere qualcosa in più dentro.

Un giorno mi sono preso venticinque legnate per essermi riscaldato vicino a unalampadina, dopo aver lavorato tutta la notte. Il Kapo, un polacco, aveva visto che ave-vo finito il mio lavoro, faceva molto freddo, c’erano due lampadine e io ho messo lemani davanti per riscaldarmi. Mi ha chiamato, mi ha messo lì e mi ha dato venticin-que legnate. La gente del luogo ci vedeva, eccome! Anche perché si transitava per ilpaese e si arrivava alla stazione per raggiungere gli altri campi di lavoro. Prima lavo-ravo in officina, poi, gli ultimi mesi, sono passato a un settore in cui avevo il compito dipulire gli otturatori. Il lavoro più lungo per me è stato portare via il materiale lavoratoe trasportare il materiale da lavorare dai vagoni della ferrovia all’officina.

Anch’io mi stavo avviando alla morte: a volte, seduto per terra, non mi alzavo più edovevo far finta di fare qualcosa. Penso a gente che ha sofferto anche dieci mesi, peròha avuto la possibilità di avere qualcosa in più, per esempio lavorare al coperto… Ioposso dire che aver fatto la campagna di Russia mi ha aiutato molto, perché il corpo èriuscito a reagire. Non ho mai avuto qualcosa in più di altri, ma sono riuscito a so-pravvivere per quattro mesi e mezzo, invece tanti, per esempio mio cognato che aveva17 anni, non ce l’hanno fatta. Io avevo una costituzione già abituata alla fatica, e que-sto penso mi abbia aiutato. Ci voleva fortuna e determinazione per sopravvivere.Ho sempre detto ai miei amici di farsi forza. C’era gente in apparenza robusta, mache andava giù di morale nel giro di tre, quattro giorni.

Non era pensabile ribellarsi. Sui reticolati c’erano 2.000 volt, bastava che uno fos-se a due metri di distanza e già veniva bruciato. Bisogna poi considerare che, se unotentava in qualche modo di fuggire, tutti i compagni di prigionia ne avrebbero pagatole conseguenze; loro colpivano tutti gli altri e uno si sarebbe sentito responsabile. Inquel posto non distribuivano carezze, ma cose di cui è meglio non parlare! Se non èmai scappato nessuno, una ragione c’è; è troppo facile dire: “Perché non siete scappa-ti?” Quelli che hanno tentato sono rimasti nei reticolati.

Vedete, questo è il Monumento agli italiani, fatto con la pietra del campo. Dietro cisono le fotografie portate dai famigliari delle vittime. A me questo Monumento dicemolto, perché ricorda tutti i miei compagni, anche quelli che non ho conosciuto diret-tamente. Sono sempre dentro di noi. Purtroppo fra loro c’è anche mio cognato.

Qui la guerra è finita l’8 maggio. I primi liberatori sono stati gli americani, poi

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questo territorio, fino al Danubio, è stato ceduto ai russi quando c’è stata la spartizio-ne fra i vincitori. Sono tornato a casa dopo un mese, forse due. Per me è andata abba-stanza bene, perché sono stato portato in un altro campo militare al di là del Danubio,e non sono stato più riportato a Mauthausen, com’è successo ad altri che, per le lorocondizioni, sono stati rimandati qui. Sì, per curarli, ma curare una persona è facile,curarne diecimila è molto più difficile. Io invece in quel campo militare ero l’unico diMauthausen.

Tornare alla vita normale è stato molto difficile. Penso che sia difficile ancora oggi,da allora non è cambiato niente. Se ci hanno riconosciuti come invalidi di guerra perquello che abbiamo sofferto vuol dire che non abbiamo tolto niente dalla nostra men-te. Abbiamo dovuto accettare le cose e cercare in tutti i modi di ritornare alla vita, manoi siamo sempre là, ancora oggi. Voi, giovani, non crediate che queste cose, solo per-ché accadute tempo fa, non avvengano più; purtroppo sono molto vicine, possono ri-tornare, perciò, se possibile, cercate di far in modo che non avvengano di nuovo, sonocose che portano soltanto dolore e male.

Io torno qui con i giovani o anche da solo, non è la prima volta, per rendere omag-gio a quelli che sono rimasti, perché mi sento in dovere di farlo, glielo devo.

Margherita Benzi Pia e Primarosa Pia, madre e figlia, ci hanno accompa-gnato nei viaggi come famigliari di deportati. Margherita Benzi, moglie di NatalinoPia (mancata nel 2005), è sorella di Vittorio Benzi (1927-1945), giovane partigianodeportato a Mauthausen (matr. 115573) e deceduto a Gusen nel marzo del 1945: unasemplice lapide, tra le più vecchie, lo ricorda nella parte “privata”2 del Monumentoitaliano a Mauthausen. Primarosa Pia è figlia di Margherita e di Natale Pia. Oltre aVittorio, vanno ricordati gli altri zii: Biagio Benzi, deportato a Flossenbürg, e Giovan-ni Benzi, deportato a Bolzano, tutti partigiani coinvolti nel rastrellamento nella zonadi Nizza Monferrato del 3 dicembre 1944. Primarosa è curatrice del libro del padre,La storia di Natale, e della sua versione integrale on-line.3

2 Si veda il saggio di A. Matta, “Memoria ufficiale, memorie vive. Usi della monumentalità”, in particolare alle pp. 121-127 del presentevolume.3 Per il sito www.deportati.it.

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Viaggio della memoriaPrimarosa Pia

Il viaggio inizia là dove iniziava il loro, da quel troncone di binario, a Bolzano, can-didi bagagli abbandonati a ricordare chi non è tornato a recuperarli... poi il confine,verde paesaggio d’aprile, acque tranquille, linde casette color pastello, stucchi di ne-ve... “Forse così è l’Eden”, puoi pensare.

Ma dopo quel gomito di strada tra i boschi scopri che lassù puoi trovare l’inferno:la tua mente sa ciò che trovi, ma il tuo cuore trema, i passi percorrono i passi infinitidei dannati innocenti, due volte dannati.

Lo sguardo valuta l’estensione, la simmetria, l’ordine assoluto del disegno tragico...che ne sanno le tue scarpe morbide, il tuo maglione caldo, di quei geli, di quelle corsefrenetiche battuti e incalzati dai cani... quanto sono alti questi muri per chi è ridotto aun’ombra di se stesso?

Quali lamenti e gemiti, quale disperazione, quali incrollabili speranze nascoste traquei massi... una vita un masso... una vita un masso... una vita un masso... una vita unmasso... quante lacrime, quanto sangue fra quei legni consunti... nostalgia... frustra-zione... rabbia... dolore...

Chi è tornato non è mai uscito, chi vi entra ne resta prigioniero: la vita cambia se sisa capire... esiste l’inferno, esiste, l’ho visto con i miei occhi, l’ho calpestato con i mieipiedi, mi ha graffiato dentro la sua disperazione. «Se Dio esiste deve chiedermi scu-sa», sta scritto su quei muri... orgoglio, coraggio, capo eretto e consapevolezza... nonsi esce da quel disegno, da quel destino da altri disegnato, non c’è via d’uscita dallamacchina perfetta...

Espressioni smarrite, vestite di affettata indifferenza tra quei giovani, radici che maisono state così salde. “Mio nonno...” raccontano... e il loro cuore è aperto come un li-bro molte volte letto, abiti alla moda e pensieri consueti... “Come è potuto accade-re...” Sotto la fronte scorrono immagini attuali... “Come può accadere, ragazzo...”E il binario si perde in quelle gallerie di gelo, il fiato di mille e mille che non sanno ri-scaldare e non se ne possono andare.

In viaggio con Natalino Pia e gli studenti di MoncalieriFossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen, Hartheim, Ebensee

7 gennaio 1945-25 aprile 2005

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Benito Puiatti è nato a Prato di Pordenone nel 1923. Dopo il 1943, mentre unfratello è arrestato dai nazifacisti e l’altro è comandante partigiano nella DivisioneGL “Osoppo”, Benito, che è studente, vive con la madre ma fa parte di una rete diassistenza e informazioni coordinata con le formazioni partigiane. Il 2 dicembre1944 incappa in un’azione di rastrellamento nel paese, in seguito alla quale è in-carcerato a Pordenone e Udine, da dove è aggregato con altri compagni a un con-voglio di un centinaio di deportati. Partito da Trieste l’8 dicembre e giunto aDachau tre giorni dopo, Benito Puiatti è immatricolato con il numero 135506,quindi trasferito al sottocampo di Augsburg. Riportato a Dachau per malattia nelmese di marzo, vi rimane fino alla liberazione. Nel dopoguerra, dopo avere termi-nato gli studi (è ingegnere), è vissuto a Torino (attualmente a Pino Torinese).La sua testimonianza è stata inserita nell’Archivio della Deportazione Piemonte-se, ed è stato con Natale Pia uno dei due primi testimoni del nostro Progetto.

Ricordi di DachauBenito Puiatti

Quanto riporterò in questi appunti potrà non seguire qualche volta una giusta se-quenza temporale, ma ricordare dopo oltre mezzo secolo mi autorizza a sperare di es-sere perdonato. Stendere però queste note è per me un atto di riconoscenza verso co-loro che mi hanno voluto quale testimone oculare, per rendere noto quanto quellatragedia sia stata immensa e per sottolineare la necessità che essa non sia dimenticatadalle generazioni attuali e future.

Sono stato preso in rastrellamento il 2 dicembre 1944 senza motivi che potesserointeressare i nazifascisti. Infatti la mia adesione al movimento della Resistenza nonera ancora stata sancita ufficialmente, anche se mi erano affidati compiti di informa-zione sulla situazione locale ai diversi gruppi operativi. Questo anche per la situazio-ne familiare in cui mi trovavo, dopo la morte improvvisa di mio padre nel giugno pre-cedente, l’arresto con carcerazione, da parte dei nazifascisti, di mio fratello maggiorenella zona di Trieste, precisamente a Ronchi dei Legionari (zona particolarmentebersagliata per la presenza di formazioni partigiane jugoslave molto attive), e con l’as-senza dell’altro fratello, che in qualità di comandante nell’ambito delle formazionidella Divisione Osoppo doveva necessariamente stare latitante senza comunicare conla famiglia (mia madre e me). Questa situazione aveva creato uno stato di tensione epaura che non mi consentivano di far partecipe mia madre delle mie intenzioni.Conosciuto però il pensiero e la posizione di mio fratello nella Divisione Osoppo,concordai con lui la mia partecipazione alla Resistenza pur continuando a vivere infamiglia, anche se questa in ultima analisi si è dimostrata una scelta poco fortunata. Inquesta veste potei intervenire con più autorità nell’avvisare, consigliare ed equipag-giare (nei limiti concessi) le formazioni partigiane locali e in transito.

Abitavo in un comune del Pordenonese1 al confine con la provincia di Treviso, al-

1 Prato di Pordenone.

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lora conglobato nel “Litorale Adriatico”, territorio sotto il controllo delle autorità te-desche. Questa posizione geografica si prestava a puntate offensive da parte delleformazioni partigiane di diversa tendenza politica, per cui venivo a essere frequente-mente contattato. Così, per esempio, ospitai il comandante locale delle formazionigaribaldine e fortunosamente riuscii a metterlo in salvo da un’improvvisa incursionedi militari tedeschi. Altre incursioni improvvise ci sono state, ma la conoscenza delluogo e il continuo contatto fra noi locali ci hanno sempre aiutato a non cadere nellemaglie dei nazifascisti. Questo fino al 2 dicembre 1944, mattina tranquilla e non in al-larme per presenze o movimenti sospetti, quando improvvisamente da tutti i lati sonosbucati fascisti armati e nessuna possibilità di fuga si poteva intravedere.

Nonostante l’assicurazione di persone autorevoli sulla tranquillità del paese e degliabitanti, e addirittura di un ex commilitone del comandante fascista, nulla ha potutofarli recedere dal caricarci su un autocarro e, scortati da armati, proseguire in altripaesi per altri rastrellamenti. Ricordo qui, e mai dimenticherò, la disperazione di miamadre che, capita la gravità del fatto, si vedeva privata dell’ultimo figlio ancora pre-sente. Tentativi di fuga non erano possibili, tant’è che cercai un approccio con unodella scorta ma l’arma puntata contro m’indusse a non insistere oltre.

La partenza verso il carcere di Pordenone dopo un altro rastrellamento in un pae-se confinante avvenne verso mezzogiorno, con arrivo alle tredici. Quattro giorni do-po, incatenati come comuni delinquenti, scortati da fascisti, fummo trasferiti nel car-cere di Udine. Dopo tre giorni in questo carcere, caricati in vagoni merci sprangatinaturalmente dall’esterno, siamo partiti per Dachau.2

Qui cominciano le tragedie: non ancora la fame, date le scorte di casa, ma, essen-do in ogni vagone più di trenta persone, la situazione igienica diventò drastica sia pergli odori che per mancanza d’aria. Alcuni di noi furono colpiti da crisi di nervi e dasvenimenti.

Durante il viaggio, uno in possesso di un piccolo coltello riuscì ad aprire un picco-lo vano sulla testata del vagone. Uscendo da questa apertura e facendo leva sui respin-genti, qualcuno, con un balzo, è riuscito a raggiungere la scarpata, o meglio a fuggire,ma a uno è toccata la cattiva sorte di lanciarsi mentre il vagone transitava su un ponte.L’urlo che abbiamo sentito ci ha fatto desistere da ogni altro tentativo di fuga.

Al ritorno in patria abbiamo saputo che la fortuna era stata amica con alcuni, maaltri sono stati subiti ripresi. Dopo tre giorni di viaggio arrivammo a Dachau e, scorta-ti da nazifascisti, facemmo l’ingresso al campo dalla porta, ora famosa, su cui cam-peggiava la scritta

ARBEIT MACHT FREI3

naturalmente4 infissa su un cancello di ferro ben sprangato.

2 Cfr. I. Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I “trasporti” dei deportati 1943-1945, Milano, FrancoAngeli, 1995, p. 110.Benito Puiatti, numero di matricola 135506, ha fatto parte del trasporto 109 dell’elenco di Italo Tibaldi, partito da Trieste l’8 dicembre1944 e giunto a Dachau l’11 dicembre 1944 dopo aver fatto sosta a Gorizia e a Udine per completare il carico di prigionieri. Il numerodei deportati è compreso approssimativamente fra i 400 e i 450, di cui 100 furono caricati a Udine. Tra i 116 deportati identificati, nel1984 ne risultavano superstiti 24. Furono assegnate matricole dal n. 135181 al 135583. Il totale dei deportati può essere stimato intornoa 403, di cui circa un centinaio caricati a Udine.3 “Il lavoro rende liberi”, scritta che si trova all’ingresso di molti campi di concentramento, fra cui Dachau e Auschwitz I (campo princi-pale).4 In questo avverbio si rileva una traccia del distacco ironico tipico del nostro testimone, che coglie il grottesco della situazione: la parola“libero” all’ingresso di un luogo di prigionia. “Naturale” associazione per i nazisti…

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Il nostro convoglio era costituito di circa 150 prigionieri tutti italiani.5 Subito ab-biamo avuto la sensazione che la tragedia in cui eravamo coinvolti fosse più grande diogni immaginazione. Parecchi carri trainati da cavalli portavano casse accatastate di-sordinatamente non chiuse e, data la loro posizione sui carri, contenenti, come si po-teva intuire, più corpi in ognuna.6 A questi seguivano altri carri equipaggiati con ban-dine laterali: dalla parte posteriore penzolavano gambe, braccia, teste e altre parti delcorpo. Ma la magrezza di quegli arti e il colore grigiastro di quei corpi, seppure vistida un paio di decine di metri di distanza, davano da dubitare che fossero mortirecenti.

A noi appena arrivati, in attesa di inoltro e di immatricolazione, ancora con la pre-senza dei fascisti,7 venivano impartiti ordini incomprensibili e comandi a suon di scu-disciate da parte di una SS che in bicicletta si divertiva a intrufolarsi fra noi. Se poiqualcuno accennava a un benché minimo gesto di difesa quello si accaniva con un sa-dismo incomprensibile, credo, non solo a noi appena arrivati. Questo durò circa dueore, con un po’ di tranquillità quando quella SS se ne andò. Finalmente cominciò uncontrollo e l’immatricolazione.

Attraverso un percorso ben delimitato all’interno di una baracca in prossimità del-l’entrata siamo stati spogliati di tutto (vestiti, biancheria intima, portafogli e ogni altrooggetto personale) e, nudi, introdotti nella sala docce, che visto l’aspetto tetro sembra-va veramente una sala di morte (si è saputo poi che era stata approvata come cameraa gas ma mai usata perché considerata non idonea e sostituita da altre più adatte e an-che queste usate solo per il collaudo). Usciti all’esterno, nudi naturalmente, hannoproceduto alla disinfezione (a base di creosoto), quindi alla consegna di indumenti esiamo stati avviati alle baracche per l’alloggiamento. Faccio presente che i miei indu-menti consistevano in una camicia che copriva appena l’ombelico e in un paio di pan-taloni (forse mutande), mentre fui in grado di tenermi le scarpe e un paio di calze.

Le “baracche” (Blöcke), suddivise in due coppie di “stanze” (Stuben) equipaggiateognuna con posti letto su tre piani a castello per una capienza di 70-80, forse 100 per-sone, ospitavano in quel periodo circa 250 prigionieri. I servizi consistevano in due fi-le di circa dieci WC ognuna e un locale con due lavabo del diametro di circa un metroe mezzo, capaci di accogliere da 10 a 15 persone in tutto per una rinfrescata appenapossibile. Tutti noi del paese arrivati a Dachau (alcuni furono avviati ad altri campi)fummo alloggiati nella baracca 17, Block 1, Stube 1.

Qui la vita fu abbastanza tranquilla almeno per noi della prima Stube; infatti ilcapo Stube (austriaco internato fin dal 1934 per motivi politici e con numero di ma-tricola 8) fu prodigo di consigli e suggerimenti e attuava quegli accorgimenti che atte-nuavano i gravi disagi e spesso facevano risparmiare punizioni talvolta gravi. L’appel-lo al mattino, contemporaneo alla pulizia delle stanze, eseguito all’esterno in presenzadi SS, impiegava circa due ore, e sempre a petto nudo (da non dimenticare che l’abbi-gliamento personale era in linea di massima per tutti come il mio); il controllo pidoc-chi che lo seguiva prolungava non poco quella permanenza. Questo controllo poi,eseguito dalle SS, anche se preventivamente attuato dagli internati, considerata la si-

5 Cfr. supra, nota 2. La discordanza si può spiegare con il fatto che Puiatti circoscrive l’osservazione al gruppo proveniente da Udine.6 Cadaveri dei prigionieri deceduti nei Kommando più vicini erano portati in questo modo al campo per la cremazione.7 Dettaglio importante, raro nella memorialistica della deportazione.

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tuazione generale, portava quasi sicuramente a un esito positivo e, come effetto, aun’ulteriore permanenza all’esterno condita con numerose vergate. La conseguenzaera che il punito veniva ricoverato in infermeria, depennato dalla lista della Stube einviato nel Block di rigore. Del nostro gruppo uno (Gabriele Puiatti) subì tale tratta-mento, ma l’interessamento del capo Stube lo riportò da noi.

Questo periodo che, secondo la prassi, era l’attesa di richiesta di manodopera daparte dei sottocampi di Dachau, terminò l’8 gennaio 1945 con l’invio al sottocampodi Augsburg.8 Prima della partenza ci fu consegnata la classica divisa dei Lager: pan-taloni, giacchino e cappotto a righe grigie e azzurre e nessuna biancheria. Il trasportofu attuato con camion senza nessuna protezione e alcuni già debilitati da un lungo di-giuno, colpiti da infiammazioni alle vie respiratorie, furono ricoverati in infermeria;due del nostro gruppo non sono stati inseriti nei turni di lavoro.

Ad Augsburg fummo alloggiati in due capannoni della capienza di circa 1.500 pri-gionieri e subito furono stabiliti i turni di lavoro. Con pochi conoscenti fui assegnato alturno notturno (dalle 18 alle 6). E comincia così la tragedia per tutti noi (posso dire pernoi del turno notturno, ma non fu molto diversa per gli assegnati al turno di giorno).

La sveglia alle 14.30 era l’inizio della tortura che si protraeva fino alle 9.30 delmattino successivo. Prima fase l’appello, all’esterno del capannone, che veniva attua-to a furia di scudisciate, calci e pugni, più che a chiamata. Di norma l’uscita dal cam-po avveniva per il tramite di un cancello secondario troppo stretto per consentire ilpassaggio di cinque uomini allineati. Pertanto chi anticipava era colpito da SS posteall’esterno, gli altri invece subivano lo stesso trattamento dalle SS all’interno del can-cello. Unica possibilità di passare indenni era quella di mettersi al centro di tre prigio-nieri. Se poi ci avviavamo all’uscita principale, ciò era solo perché alcuni corpi penzo-lavano dalle traverse e a noi non era concesso piegare il capo per non sbattere contro ipiedi di quei poveri impiccati.

Durante il percorso per raggiungere il posto di lavoro, tre ore circa,9 scortati da SS,cani particolarmente addestrati erano sempre lì, pronti ad azzannare chiunque spor-gesse minimamente dalla colonna. Particolarmente tragici erano questi trasferimenti,sia per lo sforzo necessario per continuare il cammino, sia per le sofferenze causatedalla dissenteria e dalla perdita di liquido organico che trasformava i pantaloni in unalastra di ghiaccio, e per le percosse che questi mostri di sadismo infliggevano in conti-nuazione. Se poi capitava che qualcuno stremato dai patimenti finiva disteso a terra,intralciando il normale avanzamento della colonna, alle solite percosse si aggiungeva-no i morsi dei cani che terminavano solo con la ripresa del cammino di quel disgrazia-to. Quasi sempre però il prigioniero non era più in grado di camminare e veniva rac-colto dal carro che seguiva la colonna, da noi chiamato “raccolta cadaveri”.

L’unica solidarietà fra noi consisteva nel mettere in posizione intermedia nel grup-

8 Augsburg (Augusta) è una cittadina tedesca che dista circa 30 km da Dachau. Vi si trovavano alcuni Kommando di lavoro dipendenti daDachau; il sottocampo di cui parla l’autore è quello di Augsburg-Pfersee, come si ricava dal documento Arolsen della Croce RossaInternazionale, i cui deportati producevano, in una fabbrica a circa 10 km di distanza, componenti di aerei per l’industria bellicaMesserschmitt. Il numero di detenuti era mediamente di 1.500. Se consideriamo una permanenza media di 5 mesi, durante i suoi 38 me-si di esistenza (dal 14.2.1942 al 14.4.1945), “ospitò”, secondo un nostro calcolo, circa 11.000 deportati. I sottocampi di Dachau furono169.9 Nell’intervista realizzata per l’Archivio della Deportazione Piemontese l’autore parla di una distanza di circa 10-12 chilometri fra ilcampo e i capannoni della Messerschmitt.

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po dei cinque quello che sembrava il più debole. Il freddo poi contribuiva non poco apeggiorare la situazione. C’è da tener presente che al corredo assegnatoci mancavanocalze e scarpe. Le prime sostituite con pezzi di stoffa non sufficienti a coprire tutto ilpiede; le seconde costituite da un paio di zoccoli che aperti posteriormente non ripa-ravano molto dal freddo pungente di quei luoghi in quella stagione. L’accorgimentodi difesa adottato, per chi ci riusciva, consisteva nell’asportare del grasso dal mozzodei carrelli interni alla fabbrica e spalmarlo sui piedi (il grasso, nero per l’uso, finivaper rendere dello stesso colore la pelle dei piedi).

Il lavoro anche se in ambiente riparato, richiedeva uno spreco di energie che nonveniva certamente compensato dalle razioni di cibo giornaliero. Questo infatti consi-steva in circa 120 grammi di pane, 15-20 grammi di margarina o salame, un litro dibrodo di rape o altre verdure simili e una tazza di tè al mattino. In più c’erano i bom-bardamenti aerei che non permettevano quelle poche ore di sonno che restavano acompletare la giornata. Durante le ore di lavoro, alle SS si aggiungeva il fanatismo deisorveglianti civili che pretendevano il massimo rendimento quantitativo e qualitativo,da noi ormai miseri esseri dalla parvenza umana. Sì, perché facendo un’analisi dellanostra giornata risultavano:

- dodici ore di lavoro;- sei di cammino;- due per appelli e controlli;- vitto insufficiente;- tempo necessario per raggiungere il rifugio in caso di allarmi;- dosi abbondanti di colpi inferti con somma ferocia;- quasi nessun riposo.

Credo che un uomo non possa durare a lungo, anche nella pienezza della sua inte-grità fisica, in una simile situazione: polmoniti, pleuriti, tubercolosi, infezioni conse-guenti a ferite, inferte anche volontariamente, erano malattie assai gradite per sottrar-si a un tale inferno. La dissenteria e la perdita di liquidi organici con tutte le conse-guenze immaginabili erano calamità assai temute poiché in pochi giorni portavano ilprigioniero alla fine dei suoi patimenti. E anche a me è successo! Colpito fortunata-mente da pleurite con conseguente innalzamento della temperatura, mi presentai al-la visita medica. E qui incappai in una SS che con evidente manifestazione di gioiacominciò a colpirmi con calci, pugni e vergate con l’intento di farmi desistere dall’en-trare in infermeria. Il medico di turno con una decisione quasi incosciente, viste lemie condizioni, s’intromise per togliermi da quel pestaggio, ma la SS era in attesaprobabilmente di un mio ritorno; il medico però decretò il mio ricovero. Lì incontraiuno del paese che non mi riconobbe! Lo stupore mi portò a rispecchiarmi sul retro diuna porta. Capii perché non ero stato riconosciuto: io stesso non vedevo più in quel-l’essere magro, senza capelli, quello che ero pochi mesi prima.

Le condizioni igieniche, l’odore di cadavere che impregnava tutto l’ambiente, lasporcizia, il caos imperante, questo era l’infermeria. Il riposo però migliorò la mia si-tuazione fisica e psichica anche se il ricordo della mia immagine riflessa dal vetro miportò alla realtà e alla conclusione (per fortuna errata) che mai sarei uscito da quell’in-ferno. Infatti il peso controllato al momento del ricovero (35 kg circa), la pleurite mi-nacciante Tbc, il cuore affaticato con battito aortico (diagnosticato successivamentecome aneurisma), la possibilità di ripresa nulla visto il tipo di alimentazione, davano

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come sola possibilità di miglioramento la fine immediata della guerra. E qui lo scon-forto fu talmente grande che più nulla m’interessava. Attendevo solo la fine, convintoche non ci fosse altra prospettiva per me!

Ecco però che un piccolo miracolo si presenta sotto forma dell’arrivo di mio cugi-no, Carlo Puiatti, preso con me, il quale mi portò la lieta notizia che i ricoverati sareb-bero stati trasferiti al campo base di Dachau. Così avvenne infatti il 20 marzo 1945.

Anche se il trasporto fu come all’andata, noi eravamo convinti di arrivare in un au-tentico Eden. Forse un po’ lo fu. I sospetti Tbc godevano di un trattamento particola-re: vitto più abbondante, minestre più sostanziose e nessuna violenza. Purtroppo perme questo durò molto poco poiché al controllo medico fui dimesso e mandato alBlock 19. Qui eravamo alla mercé di uno di quei famigerati Kapo, che per acquisiremeriti dalle SS era particolarmente crudele nelle punizioni che somministrava: erava-mo continuamente picchiati nudi all’aperto, legati ai pali e picchiati. Se poi uno veni-va preso di mira, per quello era segnata una fine atroce. Nonostante questo il pericolodi morte era minore che ad Augsburg, purché si adottassero certe precauzioni: non in-contrare il Kapo, dormire in stato di allerta per non essere considerati morti e accata-stati in lettighe con altri cadaveri avviati ai forni crematori, non chiedere né medicinené il ricovero in infermeria, perché si veniva prelevati e “curati”, correva voce, coniniezioni di petrolio. In ultimo poi, sperare di non essere incluso in qualche trasporto.Si è saputo da “Radio Campo” che un trasporto di prigionieri (2.000-3.000), sembrarussi, equipaggiati per una lunga trasferta, non lontano dal campo fu passato per learmi e i cadaveri sepolti in fosse comuni.

Se l’esistenza era più tranquilla e meno faticosa, per la mancanza delle ore di lavo-ro e di cammino, i pericoli di morte erano più presenti. L’eliminazione fisica aDachau, anche se meno appariscente, era più reale per queste improvvise svolte dellasorte. Ritengo che la politica fosse quella di sfruttare l’individuo sino alla fine delle suepossibilità, rimandandolo poi al campo base per una eliminazione meno appariscen-te. È così che le SS costruivano i Kapo, quali bastoni per distruggere le ultime risorsefisiche del prigioniero ed eliminarlo in modo più tecnico.

In questo periodo (dalla data del rientro al campo base di Dachau, dal 20 marzo al10-12 aprile) vissi nel modo più anonimo possibile, non mettendomi in vista neppureper la “stecca” (eventuale aggiunta di minestra). Finalmente alcuni avvenimenti e lasolita voce di “Radio Campo” hanno fatto nascere la speranza di una vicina fine del-l’inferno.

I fatti: - sostituzione delle SS con militari della Wehrmacht, miglioramento nella qualità

e anche quantità del vitto, meno controlli, sparizione di alcuni Kapo, e naturalmente“Radio Campo” che dava per certo l’arrivo degli americani entro aprile;

- un mirato bombardamento aereo alla sola stazione ferroviaria (contrariamente aquelli a tappeto che distrussero Monaco e a quelli che subimmo ad Augsburg);

- un bombardamento indefinito, come un rimbombo, ha fatto dedurre che ci fosseun cannoneggiamento, pertanto l’esercito americano doveva essere molto vicino;

- un forte frastuono di autocarri (forse), considerato, con un raziocinio tutto spe-ranzoso, come una puntata di carri armati.

Fatti, questi, che fortunatamente furono ben interpretati. Poi finalmente una mo-tocarrozzetta con tre uomini armati, di cui uno posizionato in modo particolare, che

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fatto il periplo del campo uscì senza colpo ferire. La perplessità di tutti noi era eviden-te in quanto molti avevano riconosciuto militari americani. La certezza di alcuni por-tò la speranza a tutti e la gioia della libertà. Il terrore però di una rappresaglia aleggia-va un po’ dappertutto (da non dimenticare il telegramma di Himmler che ordinava ladistruzione col fuoco di tutto il campo), ma la gioia per quanto visto ci rendeva im-prudenti fino all’incoscienza.

Ormai la tragedia stava per finire. Dopo poche ore, circondato il campo dai carriarmati, avvenne la resa dei militari preposti alla sorveglianza e l’entrata dei liberatori.

Era il 29 aprile 1945, ore 16 circa.Cosa dire ora?La guerra è finita!!!L’inferno è terminato!!!La fame passerà!!!Il ritorno è vicino!!!

La nostra gioia era immensa, ma immensa era anche l’incredulità sui volti dei libe-ratori nel vedere quelle mostruosità. Mi ricordo di due americani che, circondati dal-la folla, a un certo momento mi si pararono davanti e guardandomi mi chiesero (me-glio mi fecero segno) di aprire la camicia e non seppero cosa dire nel guardare la miamagrezza.

Quelle ore non le dimenticherò mai, non solo per aver avuto salva la vita, ma an-che per aver capito che il passato era finito.

Quanto successe nei giorni seguenti è comprensibile solo pensando a quanto noiavevamo sofferto. Il capo del campo appeso a testa in giù ad altezza d’uomo al cancel-lo d’entrata sotto i colpi dei liberati, immagino fino alla morte. La ricerca per una me-ritata punizione dei Kapo, che spesso, ma inutilmente, cercavano di confondersi inmezzo alla confusione. Molti forse saranno riusciti nell’intento, ma altri seguironosenz’altro la sorte delle SS che ancora si trovavano nei loro alloggiamenti.

Aggiungo qui che la sera stessa della liberazione, presa coscienza della situazione,gli americani fecero distribuire una scatola di carne a tutti (circa 30.000) e una sostan-ziosa minestra di semolino. E questa è stata veramente la dimostrazione della nostrasalvezza e della potenza dell’America.

La fine di una guerra comporta sempre l’inizio di un’altra epoca, ma qui l’epocanuova era la necessità di riconquistare l’integrità fisica e psichica. Alcuni però, troppi,ormai stremati dalle sofferenze, non riuscirono a superare questo repentino cambia-mento. La fine li accolse almeno con la gioia nel cuore! Il controllo sanitario per tutti ela disinfezione, sia pur superficiale, del campo furono subito attuati per eliminare la-tenti epidemie. Qui per me ci fu un periodo di crisi, sia per la recrudescenza dellapleurite sia per un’infezione alla gola (angina) che dai primi di maggio si protrasse ol-tre la metà di giugno (18-20). Ma il trasferimento in un altro ambiente (caserme tede-sche adattate a ospedale) e le cure di medici e infermieri altamente professionali mihanno aiutato a riprendere le forze e permesso il rientro in patria. Questo avvenneper me il 25 giugno con l’arrivo a Bolzano e il 28 finalmente nella mia casa natale.

Devo aggiungere che il mio ritorno fu traumatizzante per tutta la gente del paese,perché, pur essendo stato preceduto da un prigioniero dello stesso campo, ero il primoesempio di quanto avevano sopportato i deportati in quei campi. Infine arrivarono lenotizie riguardanti gli altri rastrellati:

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- due deceduti ad Augsburg: Turiani Cesare (cl. 1914) e Pezzutto Giovanni(cl. 1925);

- uno, sembra, deceduto a Buchenwald: Puiatti Ivo (cl. 1924);- uno disperso: Puiatti Carlo (cl. 1928);- e, crudeltà della sorte, uno arrivato all’ospedale di Pordenone alle ore 2 del 2 ago-

sto 1945, deceduto alle ore 14 dello stesso giorno: Puiatti Carlo (cl.1923);- infine i ritornati: Puiatti Gabriele (cl. 1920), Rosolen Bruno (cl. 1922), Rosolen

Antonio (cl. 1923), Corazza Luigi (cl. 1926), Pezzutto Mario (cl.1928), Miccio Lauro(cl. 1923), Miccio Lucio (cl.1924), Puiatti Benito (cl. 1923).

Quali insegnamenti si possono trarre da simili tragici eventi?Molto tempo è passato prima che io mi decidessi a ritornare in quei luoghi, e poco

amavo parlarne, perché raccontare tali avvenimenti mi portava a uno stato di nervosi-smo e commozione che solo dopo alcuni giorni riuscivo a superare. Ma dopo un pri-mo ritorno sono un po’ cambiato, e qualche volta riuscivo a dire più di quanto io stes-so pensavo. Questo ritorno10 poi mi ha molto rafforzato nell’idea che fosse utile, istrut-tivo e necessario trasmettere questa esperienza e far conoscere alle generazioni attua-li e future come l’uomo può trasformarsi di fronte a ideologie che stravolgono il sensodel rispetto e dei diritti dell’uomo: e ogni nostra azione deve tendere a che questo nonavvenga mai più.

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1998)

10 Quello del viaggio del Progetto Memoria a Mauthausen e a Dachau del 1998 (si veda Capitolo I § 1, “Lo sterminio attraverso il lavoro”).

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Antonio Temporini, nato a Castellazzo Bormida (Alessandria) nel 1922, ha abi-tato a Moncalieri nel dopoguerra, fino alla morte avvenuta nel 2001. Di lui abbia-mo riportato nel precedente volume1 un’intervista che non riprendiamo perchéper il nuovo libro preferiamo attenerci alle sole testimonianze di superstiti accom-pagnatori nei viaggi di studio. Affidiamo però alla moglie, Luisa Bonelli, questabreve testimonianza da lei letta a Moncalieri nel “Giorno della Memoria” 2002.Militare di leva, sorpreso in Veneto dagli eventi dell’8 settembre, è arrestato pochigiorni dopo, rinchiuso a Peschiera del Garda e deportato il 20 settembre a Da-chau. Immatricolato con il numero 53899, viene però trasferito insieme a 61 com-pagni dello stesso convoglio al Lager di Sachsenhausen il 23 ottobre. Qui sarà nuo-vamente immatricolato con il numero 72496. È difficile seguire, anche per man-canza di riscontri documentari, una serie di spostamenti, in genere temporanei, inaltri Lager, quali risultano dalla testimonianza resa nel 1984 per l’Archivio dellaDeportazione Piemontese. Rientrato a Sachsenhausen, è liberato durante la mar-cia di evacuazione del campo.

“Sono stato prigioniero e bon.” Ricordo di Antonio TemporiniLuisa Bonelli

Oggi, essendo la “Giornata della Memoria”, voglio parlarvi di Temporini Anto-nio, mancato il 18 aprile 2001, deportato politico, arrestato nei pressi di Peschiera delGarda, inviato a Dachau il 25 settembre 1943 (n. di matricola 53899) e liberatol’8 maggio 1945.

La sua frase più ricorrente era: “Raccontare poco non era giusto. Raccontare il ve-ro, non si era creduti. Allora ho evitato di raccontare. Sono stato prigioniero e bon.”Era una frase vera.2 Lui non ha veramente mai raccontato le sue sofferenze, solo dopoessere stato cercato dalle scuole ha detto cose ai ragazzi perché capissero che la guerraera una cosa sbagliata. Infatti i suoi racconti più dolorosi erano raccontati alla moglie,come uno scambio consolidato. Neanche ai figli, per non fargli ereditare dolori e disa-gi. Gli sembrava un impegno troppo pesante, per una fragilità che perdura.

Ma ora è la moglie che vuole raccontare un aneddoto che lui non ha mai detto airagazzi delle scuole.

Un giorno, portando un pentolone vuoto nella cucina, con un giovane ragazzo, unsoldato tedesco disse al giovane: “Tu napoletano! Canta O sole mio”; lo fecero salire suuna cassa, e il ragazzo, anche se non sapeva e non poteva cantare per le condizioni didegrado e di fame, fu obbligato. Era giovane e bello, e loro gli diedero una spinta e lofecero cadere dentro il pentolone sul fuoco, che bolliva, e morì.

1 L. Monaco / G. Pernechele (curr.), Percorsi di memoria cit., pp. 75-81.2 La frase si trova anche nell’intervista effettuata da Lilia Davite il 24 febbraio 1984 nell’ambito della ricerca dell’Archivio della Depor-tazione Piemontese. Cfr. A. Bravo / D. Jalla (curr.), La vita offesa, Milano, FrancoAngeli, 1986, p. 57.

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Capitolo IV218

Temporini, quando ricordava questo episodio, piangeva come un bambino. Perqueste cose e tante altre la moglie vuole ricordare Temporini Antonio, bravo marito,padre esemplare. E si sentiva nei pochi racconti fatti ai ragazzi con il luccichio negliocchi, da cui Antonio ancora oggi aspettava una parola di conforto, un “poveretto” dicui qualcuno sarebbe già stato contento.

E sono giuste le frasi dette da Primo Levi: “Meditate che questo è stato: / Vi co-mando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via,/ Coricandovi alzandovi: / Ripetetele ai vostri figli.”

Da Moncalieri ai Lager nazisti: i deportati moncalieresiLucio Monaco

Tra il 1944 e il 1945 furono deportati in Lager quattro moncalieresi. Per tutti la de-stinazione fu il campo di Mauthausen; tre di loro non sopravvissero. In queste quattrostorie si trovano riassunti gli aspetti più significativi della deportazione “politica” (nonlegata, cioè, alle dottrine razzistiche nazifasciste) nell’area piemontese: la lotta nellefabbriche – specialmente la settimana di scioperi del marzo 19441 – e la guerra parti-giana.

I primi due deportati – Michele Sandrone e Pietro Paolo Bertoglio – furono arre-stati rispettivamente il 3 e il 4 marzo 1944, dopo i primi giorni di sciopero. I materialia disposizione per ricostruire la dinamica degli arresti sono pochi. Di MicheleSandrone, nato a Moncalieri nel 1916, si sa che lavorava alla Fiat-Materiale Ferrovia-rio: essendo stato arrestato fra i primi possiamo forse dedurre che era stato individua-to come uno degli organizzatori dell’agitazione. Pietro Paolo Bertoglio, già operaiocalderaio alle Officine di Savigliano (sua città natale, da dove si era trasferito, trenten-ne, a Moncalieri nel 1934) e poi alla Fiat (ma al momento dell’arresto lavorava inun’altra fabbrica), figurava da molti anni fra gli antifascisti “sovversivi” segnalati dallapolizia del regime. La sua avversione al fascismo aveva radici lontane – essendo statovittima di azioni squadriste anni prima – e costituì certo una ragione sufficiente perinserirlo nelle liste compilate dalla polizia (fascista) dopo il comunicato del capo dellaprovincia, Zerbino, che fin dal 1° marzo 1944 aveva minacciato, fra le altre misure re-pressive, anche la deportazione.

Incarcerati alle Nuove, Sandrone e Bertoglio (del secondo sappiamo, per testimo-nianza dei famigliari, che non gli era stato consentito di incontrare la moglie in carce-re) partirono il 6 marzo 1944 per Verona. Qui, insieme con un’ottantina di compagni,furono poi caricati su un treno proveniente da Firenze, via Fossoli. Il convoglio, che intutto assommava a 597 deportati, arrivò a Mauthausen l’11 marzo. I prigionieri, im-matricolati dal n. 56885 al 57481, furono avviati – dopo la cosiddetta “quarantena” –

1 Per la ricostruzione e l’analisi degli scioperi del marzo 1944 si vedano soprattutto il saggio di C. Dellavalle nel volume Gli scioperi del mar-zo 1944, Milano, FrancoAngeli, 1986, pp. 21-40 (raccolta degli interventi alla Tavola rotonda tenutasi a Torino, presso il Centro incon-tri della Cassa di risparmio, il 17 marzo 1984), e quello di L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, trad. it. di G. SajiaPanzieri, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 212 sgg.

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ai vari sottocampi di Mauthausen, nei quali il sistema nazista aveva distribuito unacomplessa e avanzata rete di produzione bellica a opera dei deportati-schiavi (realiz-zando così il previsto “sterminio attraverso il lavoro”, o Vernichtung durch Arbeit, caratte-ristico di questa fase della storia dei Lager).

Dalla certificazione della Croce Rossa Internazionale si ricava che Pietro PaoloBertoglio (matricola 56955) fu trasferito il 25 marzo a Ebensee: qui erano appenastati aperti i cantieri di un nuovo insieme di tunnel, il Kleine Steinbruch, ciò che ri-chiedeva un aumento dell’organico di lavoratori-schiavi. Il loro numero salì rapida-mente a più di 10.000, con tassi elevatissimi di mortalità a causa del trattamento disu-mano. Il 17 febbraio del 1945 Bertoglio risulta trasferito al sottocampo di Gusen – al-tro luogo di lavoro schiavile e di morte – dove però decedeva meno di un mese dopo, il12 marzo. Anche Gusen era diventato un campo enorme, con migliaia di prigionieri(15.000 nel 1945) e una mortalità molto alta (9.000 nello stesso periodo, senza conta-re i decessi immediatamente successivi alla liberazione). Sul registro dei morti di quelperiodo il decesso, avvenuto alle 6.20, è attribuito a “debolezza cardiaca e deperi-mento generale”.

Di Michele Sandrone (matricola n. 57392) è certo il trasferimento a Gusen, manon si conoscono (allo stato attuale delle ricerche) dettagli più precisi. Anche a lui toc-cò di morire in questo sottocampo il 30 marzo 1945, a poco più di un mese dalla libe-razione. La stessa sorte subì almeno il 60% dei 597 deportati giunti a Mauthausenl’11 marzo 1944 (ricerche quantitative più precise sono ancora in corso).

Gli altri due deportati moncalieresi, Rinaldo Sattanino (1926-1945) e OrfeoMazzoni (1924-1998), furono arrestati nell’ambito della loro militanza partigiana main tempi e luoghi diversi, anche se poi sarebbero stati accomunati dallo stesso traspor-to diretto a Mauthausen.

Rinaldo Sattanino (“Nando”), diciottenne, entra nella IX Divisione di Giustiziae Libertà, Brigata “Tamietti” (operante nell’Astigiano), nel giugno del 1944; catturatoa fine estate con altri compagni nella zona di Villafranca, viene portato a Torino, inVia Asti e quindi alle Carceri Nuove, dove rimane fino al 14 dicembre. In questa dataviene deportato, insieme ad altri prigionieri, al campo di concentramento e transito diBolzano. Qui resta fino al trasferimento a Mauthausen, con un convoglio ferroviariodi circa 500 deportati, partito da Bolzano l’8 gennaio 1945 e giunto a Mauthausen l’11gennaio. Anche Sattanino, che ha dichiarato la qualifica professionale di “tornitore”,dopo il periodo di cosiddetta “quarantena” è inviato (il 1° febbraio) al lavoro forzatonel sottocampo di Gusen, dove muore il 19 aprile 1945. Era stato immatricolato con iln. 115713.

Suo compagno di trasporto e di deportazione è stato Orfeo Mazzoni, combat-tente nella V e poi nella XV Brigata Garibaldi, arrestato in Val Varaita nell’ottobre1944, in concomitanza con l’eccidio di Masueria.2 Imprigionato prima a Saluzzo e

2 Per maggiori dettagli sull’eccidio di Masueria si veda La pagina. Dentro i fatti del Saluzzese, a. XI n. 38/304 (1989), che riporta un raccon-to di Orfeo Mazzoni.

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Capitolo IV220

poi alle Nuove di Torino, segue la sorte di Sattanino a Bolzano (dove fallisce un tenta-tivo di fuga collettiva, tramite un cunicolo scavato sotto la baracca) e quindi aMauthausen (matricola n. 115610). Dopo un breve trasferimento a Grein, il 20 feb-braio è assegnato al sottocampo di Gusen e vi rimane fino alla liberazione. Per anniinsegnanti e studenti di Moncalieri hanno potuto ascoltare la sua appassionata e sof-ferta testimonianza, che ha lasciato un segno profondo in chi lo ha conosciuto.Una sua testimonianza si trova depositata anche presso l’Archivio della DeportazionePiemontese.

Si ricorda infine il già citato Antonio Temporini, moncalierese di adozione (al-l’epoca residente nell’Alessandrino), deportato il 29 settembre 1943 da Peschiera aDachau, con il primo grande convoglio di massa di deportati italiani (circa 1.800 per-sone). Immatricolato con il n. 53899, fu successivamente trasferito a Sachsenhausen-Oranienburg (matricola 72496) e in altri sottocampi fino alla liberazione (maggio1945). Su questa sua vicenda, fra le più lunghe nella storia della deportazione italia-na,3 Temporini ha lasciato testimonianza nell’Archivio della Deportazione Piemonte-se e in incontri con gli studenti di alcune Scuole di Moncalieri.*

Alla memoria di Bertoglio, Sandrone e Sattanino è stata scoperta una lapide com-memorativa, posta nell’atrio del Palazzo Comunale di Moncalieri, il 25 aprile 2001.Vi sono riportate le seguenti parole:

«Meditate che questo è stato»(Primo Levi)

Pietro Paolo Bertoglio1894 – 12.3.1945 Mauthausen

Michele Sandrone1916 – 30.3.1945 Mauthausen

Rinaldo Sattanino1926 – 19.4.1945 Mauthausen

3 Sulla deportazione dal Piemonte e sull’Archivio della Deportazione Piemontese, cfr. fra l’altro il saggio già più volte citato di A. Bravoe D. Jalla, La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, FrancoAngeli, 1986. Si veda ancheE. Occhiena (cur.), Moncalieri ricorda…, Moncalieri, 1988, pp. 82-83.* Si ringraziano le famiglie Bertoglio-Calabrese, Mazzoni, Sattanino e Temporini.

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Adriano Sattanino, che vive a Moncalieri, è fratello di Rinaldo. Ha partecipatoai viaggi del Progetto Memoria del 2005 e del 2006. Nell’ultimo – quello aBuchenwald e Dora – è stato accompagnato dalla nuora Nadia e dalla nipoteFrancesca, e ha cominciato a parlare, ricordando la vita e la figura del fratelloRinaldo, morto partigiano a Mauthausen. I suoi ricordi sono stati raccolti nell’in-tervista che riportiamo qui sotto.

Un ragazzo di Borgo San PietroElisa Armentaro, Alessandra Gardino (I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica)

In occasione del viaggio del Progetto Memoria a Buchenwald e Dora nel marzo2006, abbiamo realizzato un’intervista ad Adriano Sattanino, fratello di Rinaldo, unodei quattro moncalieresi deportati nei campi di concentramento nazifascisti.

Lo scopo del nostro breve lavoro è quello di indagare sulla storia delle famiglie deideportati per capire il contesto socio-culturale che ha influenzato un ragazzo per cosìdire qualsiasi, portandolo alla scelta di diventare partigiano e opporsi al fascismo: perquesto abbiamo ascoltato la parola di Adriano che, attraverso la sua testimonianza di“secondo grado”, ci ha aiutato a ricostruire il panorama che si mostrava agli occhi diun bambino di nove anni durante la Resistenza.

Alla richiesta di parlarci di suo fratello Adriano ci racconta, con un po’ di timidez-za, che Rinaldo nasce nel 1926 a Moncalieri, in Borgo San Pietro, dove più tardi tro-va lavoro in una fabbrica di tornitori. Dopo l’8 settembre viene chiamato sotto le ar-mi, ma diserta e si rifugia nell’Astigiano da una zia, a Bricco Barrano, per poi spostar-si da un’altra a Tigliole. La situazione per lui si fa difficile perché i fascisti repubblica-ni di Salò bruciano le cascine di chi nasconde i disertori; quindi Rinaldo, sentite le vo-ci di diversi gruppi organizzati, si unisce ai partigiani di Asti. Più precisamente, graziealla documentazione fornitaci da Adriano, possiamo ricostruire che Rinaldo, con ilnome di battaglia “Nando”, entra nella IX Divisione GL (Giustizia e Libertà), Briga-ta “Tamietti”, il 1° giugno 1944.1

Nell’estate del 1944, tra il giugno e il luglio, Adriano lo va a trovare ma non vienea conoscenza dei contatti del fratello, che non gli dà informazioni sulle sue recentiscelte. Rinaldo combatte con i suoi compagni e nel novembre ’44 è catturato duranteun rastrellamento di partigiani a Ferrere d’Asti, vicino a Villafranca; prima detenuto

1 La IX Divisione GL agiva nella zona dell’Astigiano, tra il Monferrato e il Chierese. Comprendeva tre brigate, tra cui appunto la “Do-menico Tamietti”, poi ridotte a due, e contava tra i 590 e gli 800 combattenti, all’epoca di Rinaldo male armati. Parteciperà alla libera-zione di Torino (cfr. Le formazioni GL nella Resistenza, a cura di G. De Luna et alii, Milano, FrancoAngeli, 1985, pp. 406-7). Non abbiamorintracciato dati su Rinaldo Sattanino nella Banca Dati del partigianato piemontese (www.istoreto.it, ultimo nostro accesso ottobre2006); pertanto le nostre informazioni risalgono al documento n. 4280, in data 11.4.1946, del Ministero dell’Assistenza postbellica /Commissione regionale piemontese per la qualifica di partigiano. In tale documento, basato sul foglio notizie, su «testimonianze deimembri delle Formazioni» partigiane in questione, e su altri accertamenti, si dichiara la qualifica di «partigiano caduto» appartenentealla «XI Div. GL Brigata Tamietti» (ma “XI” è errore di battuta per “IX”) dal 1.6.1944 al 15.4.1945. Probabilmente “15” sta per “19”,data della morte a Gusen. La famiglia possiede anche il Brevetto di Partigiano caduto, n. 021350, del 25.4.1945, in cui il nome è scrittoin modo errato («Sottanino»).

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Capitolo IV222

in Via Asti a Torino, viene poi portato alle Carceri Nuove. Qui riceve i pacchi di vesti-ti e cibo portatigli dal padre, che non ha però il permesso di vederlo; pacchi che dopoun breve periodo sono rimandati indietro alla famiglia, cui la direzione del carcere co-munica che Rinaldo è stato “mandato in Germania a lavorare”; si perde quindi ognisua traccia. In realtà, a dicembre, Rinaldo viene caricato sul trasporto per Bolzano enel gennaio ’45 parte per Gusen.2 Altri percorsi che s’intrecciano, in modo significati-vo per noi del Progetto Memoria: è nello stesso trasporto di Natalino Pia e OrfeoMazzoni il quale, essendo suo vicino di casa, lo riconosce e tempo dopo testimonieràalla famiglia di aver perso sue notizie all’arrivo nel campo.

I parenti perdono completamente le sue tracce e per un anno Rinaldo viene consi-derato disperso, anche se i documenti della Commissione regionale piemontese per laqualifica di partigiano lo considerano “caduto”; le ricerche dei famigliari continuano,chiedendo informazioni anche ad altri deportati: uno di questi, che Adriano non riu-scirà mai a incontrare, rilascia a Roma la testimonianza di aver visto Rinaldo morire.La notizia della morte giunge ai famigliari circa un anno dopo, attraverso l’Ufficio diricerca delle persone scomparse di Arolsen, che è venuto in possesso dei documentiufficiali del campo centrale di Gusen attestanti la morte del giovane Sattanino il19.04.45 per dissenteria.3

Ricostruiti gli ultimi mesi di vita di Rinaldo, Adriano ci ha raccontato che la suatestimonianza è iniziata entrando a far parte dell’ANED4 e visitando i campi di con-centramento: la sua prima visita a Gusen è stata infatti in occasione del ventennaledella Liberazione (1965) con gli ex deportati Bolognesi, Calosso e Goria che portava-no le corone commemorative della Fiat. Lo spettacolo che gli si manifesta allora èquello di un campo in cui sono ancora presenti le baracche e il forno crematorio inmuratura; il Museo non è ancora stato costruito, quindi il Lager si trova pressappoconelle sue condizioni originarie. Durante la sua prima visita, Adriano ripercorre ilviaggio compiuto dal fratello: il treno, l’ingresso a Gusen e il procedere verso l’ignotoaffrontato da Rinaldo, ascoltando le testimonianze degli ex deportati.

Il suo ruolo di testimone di secondo grado andrà nascendo più tardi attraverso lacollaborazione attiva con le scuole nello studio del fenomeno concentrazionario: nesono esempio i viaggi del Progetto Memoria 2004-2005 e 2005-2006, cui Adriano hapreso parte accompagnando gli studenti delle Scuole Superiori di Moncalieri.

Collaborando in queste occasioni, con la sua figura, Adriano rappresenta la me-moria ancora viva nei parenti dei deportati. La sua riservatezza e il suo stare in di-sparte indicano il suo non volersi sostituire alla testimonianza diretta del fratello, ma ilsuo essere testimone di secondo grado, ovvero il portatore di un ricordo che rispetto

2 Più precisamente Rinaldo dovrebbe essere stato portato, con altri prigionieri, da Torino a Bolzano tra il 14 e il 15 dicembre; l’8 gennaio1945 fu avviato a Mauthausen con altri 483 compagni, arrivandovi l’11 gennaio. Cfr. D. Venegoni, Uomini, donne e bambini nel Lager di Bol-zano, Milano, Mimesis, 2005, e il saggio già citato nel corso del volume di I. Tibaldi, Compagni di viaggio (in cui compare il trasporto n. 115).3 Le fonti sono il Totenbuch di Gusen, elenco archivistico recuperato dagli americani dopo la liberazione del campo, e altri registri origi-nali (indicati nel documento inviato alla famiglia dalla Croce Rossa Internazionale / Ufficio di Arolsen). Abbiamo riportato le date co-me le ricorda Adriano, tuttavia i documenti Arolsen da noi consultati risalgono al 1964. La Commissione italiana per le Onoranze aicaduti, Delegazione di Vienna, si era messa in contatto con la famiglia nel 1953-1954.4 Per ricordare Rinaldo il padre si è iscritto all’ANED, seguìto anni dopo da Adriano.

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all’esperienza di Rinaldo è sì esterno, ma non per questo marginale. Il racconto delleesperienze che Adriano ha fatto negli ultimi momenti passati con Rinaldo ci aiuta aricostruire il clima denso e teso della Resistenza, facendo conoscere all’ascoltatorecontemporaneo il background della società antifascista che ha influenzato molti uo-mini nella scelta di diventare partigiani. La partecipazione di Adriano alle attività delProgetto Memoria sottolinea la centralità che assume la testimonianza, diretta e di se-condo grado, nel mantenimento della memoria, in quanto la visione soggettiva porta-ta dalle parole dei deportati si affianca all’oggettività della importante documentazio-ne archivistica conservata dalle famiglie.

Il borgo antifascistaLe origini della scelta di Rinaldo di unirsi ai partigiani vanno cercate nelle radici

politiche e sociali della sua famiglia e del suo luogo di origine.Rinaldo nasce in Borgo San Pietro, quartiere di Moncalieri noto per essere di tra-

dizione antifascista, anche se luogo della sede del Fascio. Pur avendo per obbligo latessera da balilla, nessuno dei Sattanino e dei loro amici s’iscrivono regolarmente alFascio tesserandosi, in quanto di famiglia antifascista. Rinaldo, come gli altri giovanidel borgo, avrebbe potuto aderire al fascismo, mosso dalla prospettiva di un accessofacilitato al lavoro – come dice Adriano: “Era facile seguire la Repubblica di Salò,aveva il Partito in fondo alla strada” – ma i ragazzi erano spesso eredi delle idee fami-liari sull’antifascismo: “Non si aveva lo spirito” per prendere la tessera.

Abbiamo cercato di ricostruire la situazione politico-ideologica del BorgoSan Pietro degli anni Quaranta: i ragazzi erano balilla e partecipavano alle manifesta-zioni fasciste il sabato pomeriggio, giocavano a calcio in una squadretta ufficiale la cuisede era nei locali del Fascio, punto di ritrovo dove s’incontravano per ballare e giocarea carte. Adriano ci ha consegnato due preziosi documenti, le fotografie che riproducia-mo qui. Abbiamo proceduto, grazie alla buona memoria di alcuni superstiti di queidue gruppi, da noi contattati, all’individuazione di quasi tutte le persone fotografate.

Nessuno dei partecipanti a queste manifestazioni sportive, però, dimenticava lapropria provenienza sociale e le proprie idee. A parte “il padre di uno che ci sgridavache dovevamo fare la tessera e andare a lavorare”,5 la maggior parte delle famiglie delborgo era mossa da sentimento antifascista. I genitori di Rinaldo avevano infatti ap-poggiato la sua scelta, preferendo, secondo quanto ci ha testimoniato Adriano, un fi-glio combattente nella Resistenza a un figlio che sostenesse il governo repubblichino.

Il clima sociale ed economico non era però dei più distesi, in quanto gli uomini dif-ficilmente potevano trovare lavoro se non tesserati: un esempio riportato da alcuni te-stimoni è l’arresto di un gruppo di operai colpevoli, agli occhi delle autorità, di averpreso parte ai massicci scioperi in fabbrica del marzo 1944.6

Tutti noi ragazzi del Progetto Memoria conserviamo il ricordo del 24 aprile 2005a Gusen, in cui un Adriano commosso assiste alla posa della installazione da noi rea-lizzata per ricordare il fratello Rinaldo e gli altri deportati moncalieresi Pietro Paolo

5 Chi parla è Otello Merighi, che compare insieme a Rinaldo nelle foto 1 e 2 alla pagina seguente.6 Informazione orale che andrebbe naturalmente controllata più accuratamente, anche se due deportati di Moncalieri, MicheleSandrone e Pietro Paolo Bertoglio, furono arrestati proprio in quell’occasione.

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Capitolo IV224

Bertoglio, Michele Sandrone e Orfeo Mazzoni, in occasione del sessantesimo anni-versario della Liberazione dei campi di sterminio. Parlando di quella importante gior-nata, Adriano si dice soddisfatto del nostro lavoro e dell’importanza che ricopre il ruo-lo di Moncalieri nell’azione del Progetto Memoria: “fa piacere” il grande impegnodell’ex Sindaco Novarino, dell’attuale Sindaco Bonardi, e la partecipazione assiduadell’Assessore Puglisi che “ci tiene, va nei campi e se le sente ’ste cose qua”. Adrianoconclude così la nostra intervista con un giudizio positivo sul Progetto Memoria e suisuoi partecipanti, siano questi giovani o autorità, annoverando la nostra città fra iComuni che più si prodigano per la Memoria con la “M” maiuscola, dicendo: “’nafuisa tant ’d Muncalè…”

2. La squadra di calcio del Fascio. In alto da sinistra: Rinaldo Sattanino, Vaira (portiere), Gianni Battistini, Mario Giordano (allenatore), Valter Bruzzi, Lucio Battistini(centro mediano), Angelo Lucchetta, Vincenzo Merigo (ala destra), Otello Merighi (ala sinistra), Sergio Vicentini.(La fotografia probabilmente è stata scattata a cavallo fra il1943 e il 1944 in Piazza Brennero, a Borgo San Pietro, di fronte al muro di cinta del “Gino Lisa”. Il “Gino Lisa” era un campo dell’aeronautica Fiat che comprendeva anche un piccolo aeroporto omonimo e che, nel primo dopoguerra, fu trasformato nella “Maggiora”, fabbrica di componentiauto della Fiat.)

1. Un gruppo di giovani di Borgo San Pietro. In ordine (in alto da sinistra): Rinaldo Sattanino, Dino Fissore, Livio Bianciotto, Giovanni Fissore, Dino Frisoni, Sandro Mina, Eusebio Crivello, Serafino Girola, Otello Merighi, Angelo Lucchetta. (Fotografia scattata in Borgo San Pietro prima del luglio 1943, forse nei pressi del deposito dell’aviazione.)

Il disegno mostra gli esiti della ricerca effettuata in Borgo San Pietro sulle radici di Rinaldo Sattanino. Grazie all’aiuto di alcuni amici d’infanzia di Rinaldo e di altri anziani abitantidel quartiere siamo riusciti a identificare tutti i giovani immortalati nella foto. Le silhouettes contenenti i nomi degli uomini sono volutamente in contrasto con il disegno di un Rinaldo giovane e immutato nel tempo, così come lo ricordaAdriano prima della partenza.Si ringraziano Adriano Sattanino, Otello Merighi, Sergio Vicentini, Annamaria Bonnin e Cristina Gili

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Ogni anno, con costanza e coerenza programmatica, sono state realizzate iniziati-ve culturali e didattiche che fossero occasioni di conoscenza e di approfondimento deifatti storici del Novecento che hanno sconvolto le coscienze del mondo, come il feno-meno concentrazionario nazifascista, o che hanno fondato la storia del nostro Paese,come il 25 aprile 1945.

Numerosi sono stati i momenti istituzionali con cui si è sottolineata l’importanzadella memoria di quei fatti, a ribadire costantemente l’attualità dei valori della demo-crazia e della dignità dell’uomo oltreché il rifiuto fermo della violenza.

I “Giorni della Memoria” sono stati occasioni per ricordare, ai giovani in partico-lare, i valori ispiratori di quelle libertà che essi hanno il privilegio di vivere e il doveredi custodire.

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche liberarono Auschwitz, il più grande campodi sterminio d’Europa, svelando al mondo l’orrore e l’unicità della più immane trage-dia del Novecento. Quella data, assurta a simbolo dell’Olocausto, è diventata la“Giornata della Memoria”. In Italia è stata promulgata da una legge firmata dalPresidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per ricordare la persecuzione e losterminio del popolo ebraico e dei deportati italiani, razziali, politici e militari, neicampi nazisti (legge 20 luglio 2000, n. 211).

Abbiamo ritenuto di richiamare l’attenzione degli adulti e dei giovani, ogni anno,sul diritto-dovere della memoria per arrivare a capire la Shoah e i crimini contro la li-bertà di pensiero e di parola e a riflettere sui delitti di una società evoluta e sulle aber-ranti teorie della superiorità “razziale”.

Occorre ricordare altresì che fu pagato un prezzo altissimo anche dai deportatimilitari e politici e furono decine di migliaia i partigiani, uomini e donne, uccisi neicampi di concentramento. Nelle nostre iniziative, e in particolare nel 2005 in occasio-ne del 60° anniversario della Liberazione, abbiamo sottolineato la continuità fra anti-fascismo, Resistenza e deportazione.

Crediamo che molti buoni motivi giustifichino il “Giorno della Memoria”.• La memoria è il mezzo più efficace per contrastare la tendenza a banalizzare e a ri-muovere dalla coscienza alcuni nodi cruciali del secolo scorso, quali la Resistenza e laShoah, poiché ci riconosciamo nei valori di libertà e democrazia della nostra Costitu-zione, i soli su cui è possibile costruire una coscienza autenticamente civile.• Bisogna essere consapevoli del significato di un progetto di annientamento e stermi-nio scientificamente studiato, calcolato e programmato e di come sia stata possibile lasua condivisione e accettazione da parte di milioni di persone.• È necessario ricordare le ragioni per cui si è combattuto e rintracciare i progetti percui i singoli si sono battuti, per non mettere tutti sullo stesso piano giustificandone labuona fede.

Capitolo V - I “Giorni della Memoria”. La commemorazione del 27 gennaio nella Città di MoncalieriMariagiuseppina Puglisi

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Capitolo V226

• La storia recente c’insegna inoltre che le tradizioni civili dei popoli vanno protette ecoltivate, altrimenti immiseriscono e muoiono cedendo il passo all’irrazionalità e allabarbarie.• È necessario quindi ricordare e testimoniare per il passato e per il presente affinchéla memoria produca gli anticorpi che ci costringano a fare i conti con ciò che è acca-duto e che accade. Oggi il pericolo non è passato: in Europa e nel mondo tornano in-quietanti e ripetuti segnali d’intolleranza, e dunque non deve scendere l’oblio sul pas-sato perché non prevalgano il silenzio, il qualunquismo, la complicità, l’estraneità enon si riproduca quel terreno fecondo che allora ha causato ciò che non deve piùripetersi.• Il “Giorno della Memoria”, pertanto, non deve essere rito o cerimonia ma occasionedi riflessione, il punto più alto della riflessione di una nazione e di un continente, e de-ve originare una memoria attiva, con contenuti che mettano in discussione il mondo ela società e rendano capaci di evitare i rischi dell’ufficialità e di dare un contributo al-la costruzione del futuro.• Il “Giorno della Memoria” deve essere anche un impegno a continuare perché, ine-vitabilmente, quando verranno a mancare i testimoni diretti, sui giovani sarà ripostala speranza di trasmettere la memoria storica dei racconti e delle testimonianze cheessi ci hanno lasciato.

Abbiamo condiviso tutti questi buoni motivi e sostenuto le scuole poiché crediamoche la formazione delle nuove generazioni sia strumento essenziale per il futuro delnostro Paese ed è anche nelle aule, attraverso lo studio, che i giovani possono e devonoapprendere a non essere intolleranti. Pensiamo, infine, che la memoria sia un dovereverso coloro che sono morti e verso i giovani cui si devono trasmettere la consapevo-lezza e la conoscenza del passato, perché possano conservare il patrimonio moralerappresentato dalla continuità della storia dell’uomo.

Mossi da tali intenti profondi abbiamo ritenuto importante realizzare, ogni anno,una programmazione differenziata che tenesse in considerazione anche le giovani ge-nerazioni e il loro bisogno di conoscere, apprendere e crescere, e ne vogliamo riporta-re qui un resoconto riassuntivo che è anche bilancio di un impegno realizzato.

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227I “Giorni della Memoria”. La commemorazione del 27 gennaio nella Città di Moncalieri

La commemorazione del 27 gennaio nella Città di Moncalieri

28 gennaio 2001

ore 10 – Vecchia Sala Consigliare – Palazzo ComunaleInterventi di Carlo Novarino (Sindaco di Moncalieri), Lucio Monaco (ProgettoMemoria), Mario Treves (Comunità ebraica) e Pio Bigo (ex deportato).

27 gennaio 2002

ore 10 – Real Collegio Carlo Alberto – Via Real Collegio 20Interventi di Carlo Novarino (Sindaco di Moncalieri), Mariagiuseppina Puglisi(Assessore alla Cultura), Ferruccio Maruffi (Presidente dell’ANED di Torino).ore 10.30Conferimento della cittadinanza onoraria ai testimoni: Pio Bigo, Anna Cherchi,Albino Moret, Natalino Pia, Benito Puiatti, Natalia Tedeschi. Interventi dei testimonie di Gianni Oliva (Assessore al Sistema Formativo della Provincia di Torino).ore 11.30Presentazione del volume Percorsi di memoria. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2001con interventi di Lucio Monaco e Marcella Pepe (Progetto Memoria).

27 gennaio 2003

ore 10 – Biblioteca Civica “A. Arduino” – Via Cavour 31Interventi di Lorenzo Bonardi (Sindaco di Moncalieri), Mariagiuseppina Puglisi(Assessore alla Cultura). Proiezioni di video dell’Archivio del Progetto Memoria suiLager di Auschwitz e Dora e del filmato Abitare la Buna (regia di Carla Piana). Dibatti-to con interventi di Natalia Tedeschi (superstite di Auschwitz-Birkenau), AlbinoMoret (superstite di Dora), Benito Puiatti (superstite di Dachau-Augsburg), CarlaPiana (video operatrice del CIVES).ore 21Proiezione del video-documentario Romani Rat (La notte dei Rom) con intervento del re-gista Maurizio Orlandi.

27 gennaio 2004

ore 9 – Teatro Civico “Matteotti” – Via Matteotti 1Apertura della giornata con un video sull’attualità di Auschwitz. Interventi diLorenzo Bonardi (Sindaco di Moncalieri), Mariagiuseppina Puglisi (Assessore allaCultura). Letture di brani tratti dalla letteratura della deportazione e proiezione didiapositive sul Lager di Auschwitz-Birkenau. Proiezione del film-documentario KZ diGiorgio Treves. Nel foyer del Teatro “Matteotti”, mostra Immagini e pensieri delle visite ailuoghi di Mauthausen e Auschwitz. Dedicato ai bambini dell’Olocausto curata e allestita daGiuseppe Basile.ore 11Proiezioni del video Con loro… nei campi (regia di Carla Piana), sui passi di Natalia

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Capitolo V228

Tedeschi e Albino Moret, e del documentario Gli Ebrei a Roma dal 1938 al 1944 realiz-zato dall’Archivio Centrale di Stato e dalla Shoah Foundation di Los Angeles.ore 21Spettacolo teatrale La moglie ebrea, di Bertolt Brecht, con la regia di Orlando Manfredi,interpretato da Alessia Donadio e Michele Guaraldo di Teatranzartedrama. Proie-zione del filmato di repertorio Quel viaggio…, girato da una SS su un trasporto di ebreie zingari verso Auschwitz-Birkenau nel maggio del 1944. Proiezione del film Train devie di Radu Mihaileanu. (In collaborazione con Piemonte Movie e AssociazioneNovecento).

26-27 gennaio 2005

26 gennaio 2005ore 18 – Biblioteca Civica “A. Arduino” – Via Cavour 31Saluto delle Autorità cittadine. Presentazione del libro di Anna Cherchi La parolaLibertà. Ricordando Ravensbrück. Interventi di Anna Cherchi, Gianni Oliva (Assessore alSistema Formativo della Provincia di Torino), Mariarosa Masoero (docente dell’Uni-versità di Torino), Ferruccio Maruffi (Presidente dell’ANED di Torino), Lucio Mona-co (Progetto Memoria e curatore del libro), Marcella Pepe (Progetto Memoria). Proie-zione del video-intervista ad Anna Cherchi a Sachsenhausen La necessità di sopravvivere(regia di Carla Piana).

27 gennaio 2005ore 9 – Cinema “King Kong Castello” – Via Alfieri 44Apertura della giornata con un video sulla tragedia dei bambini africani. Interventi diLorenzo Bonardi (Sindaco di Moncalieri) e Mariagiuseppina Puglisi (Assessore allaCultura). Letture sui temi della “Giornata della Memoria”. Intervento delle Scuoledel Progetto Memoria e proiezione del video-intervista ad Anna Cherchi a Sachsen-hausen, La necessità di sopravvivere (regia di Carla Piana). Proiezione del film La finestra difronte di Ferzan Özpetek. (In collaborazione con Piemonte Movie).

26-27 gennaio 2006

26 gennaio 2006ore 18 – Biblioteca Civica “A. Arduino” – Via Cavour 31Saluto delle Autorità cittadine. Presentazione del libro di Giuliana Tedeschi Questo po-vero corpo. Interventi di Giuliana Tedeschi, Gianni Oliva (Assessore alla Cultura dellaRegione Piemonte), Mariarosa Masoero (docente dell’Università di Torino), LucioMonaco (curatore del libro) e Marcella Pepe (Progetto Memoria).

27 gennaio 2006

ore 9 – Teatro Civico “Matteotti” – Via Matteotti 1Apertura della giornata con interventi di Lorenzo Bonardi (Sindaco di Moncalieri) eMariagiuseppina Puglisi (Assessore alla Cultura). Intervento delle Scuole del ProgettoMemoria e di Pio Bigo. Proiezione del video dell’Archivio del Progetto Memoria Paro-le e Segni oltre il Tempo. Mauthausen-Gusen (regia di Carla Piana). Spettacolo teatrale mul-timediale Fuga a due voci, a cura dell’Associazione Il Trapezio di Torino.

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229I “Giorni della Memoria”. La commemorazione del 27 gennaio nella Città di Moncalieri

Le attività realizzate per celebrare i “Giorni della Memoria” nella Città di Monca-lieri, a sei anni dalla legge istitutiva, fanno emergere la forte valenza formativa sottesae il lavoro progettuale delle scuole come uno dei suoi più significativi risvolti.

Esiste infatti un rapporto intrinseco, e necessario, tra il “fare memoria” e l’educa-re: i processi formativi si attivano consegnando ai giovani valori, significati, nuoveistanze di comprensione della Storia.

Due o più generazioni si collegano in tal modo, nel presente, nel passato e nel futu-ro, ed è per queste ragioni che si avvalora l’affermazione fondante della “Giornatadella Memoria”: chi non conosce il passato è condannato a ripeterlo e non ha futuro.

Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri (27 gennaio 2002)

Il conferimento della cittadinanza onoraria ai sei testimoni:da sinistra Natalino Pia, Anna Cherchi, Natalia Tedeschi, Carlo Novarino (allora Sindaco), Pio Bigo, Albino Moret,

Benito Puiatti, Lucio Monaco (Progetto Memoria)

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Capitolo V230

Immagini relative alla cerimonia del 27 gennaio 2002

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231

Primo Levi tra memoria e profeziaCarlo Ossola (Università di Torino)

Sento di avere in questa occasione il dovere della sobrietà: il dovere di quella equi-valenza che Primo Levi nelle sue pagine nette poneva fra giustezza della scrittura egiustizia della vita. Quel poco di equivalenza alla verità che è concesso all’esperienzaumana e che nella sua opera, come nella sua vita, era perfino più alto del dovere di te-stimonianza; da ciò quella scarnificazione del ricordo per attingere a una serenità chepotesse varcare il periodo stesso della vita di un uomo.

Sono fra due mesi ottant’anni dalla nascita di Primo Levi, che è nato nel 1919 ed èmorto nel 1987. Viene particolarmente importante questa dedica, questa presenzadella Città di Moncalieri a un’opera che è in mezzo a noi. Quando Primo Levi morìClaudio Magris scrisse queste parole: «Se questo è un uomo è un libro che reincontrere-mo al giudizio universale, offre un’immagine quasi volontariamente attenuata dell’in-famia che il testimone Levi racconta scrupolosamente, ciò che ha visto di persona, eanziché calcare le tinte sullo sterminio, come pure sarebbe stato logico e comprensibi-le, vi allude pudicamente, quasi per rispetto a chi è stato annientato dallo sterminiodal quale egli in extremis si è salvato. In questa tranquilla sovranità egli incarnava la re-galità sabbatica ebraica intrecciata alla sua confidenza di scienziato con la natura econ la materia di cui siamo fatti; ed è dunque questa religiosa autonomia della contin-genza temporale, quale che essa sia, l’unica che è concesso all’uomo di vivere.»

Capitolo VI - Intitolazione della “Sala dei Cento” a Primo Levi (Moncalieri, 28 maggio 1999)

L’Amministrazione Comunale ha sostenuto il Progetto Memoriacon diverse iniziative. Nel maggio del 1999 ha intitolato la “Sala deiCento” a Primo Levi ritenendo importante lasciare memoria.

È ben nota l’angoscia che ha attanagliato coloro che hanno vissuto ladrammatica esperienza della deportazione: il timore di non lasciare te-stimonianza né elementi di credibilità. Noi sappiamo che le nostre socie-tà esistono in quanto hanno radici, e le radici reggono sulla memoria.

Primo Levi ha avuto conoscenza diretta della più grande tragediadell’umanità e ha sentito l’urgenza e il richiamo del dovere di testimo-niare. Necessità ed efficacia promanano fortemente da lui e dalla suaopera. La sua eredità artistica e morale sono state sicuramente un forteimpulso allo sviluppo dei valori della convivenza e alle istanze democra-tiche della tolleranza.

Queste le motivazioni dell’intitolazione della “Sala dei Cento”, occa-sione per riflettere sulle conseguenze dell’intolleranza, della guerra, delrazzismo, dell’esclusione.

Mariagiuseppina Puglisi

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Capitolo VI232

Ebbene, questo ritratto di Claudio Magris ci porta nel cuore di quelli che sono i li-bri che hanno fatto Primo Levi, prima ancora dei libri che egli ha scritto: ci porta inquesta che doveva essere un’autobiografia intellettuale, la scelta delle proprie lettureche Giulio Bollati gli aveva chiesto per Einaudi. È presente all’inizio del libro (La ricer-ca delle radici), molti lo ricorderanno, una sorta di schema: in testa c’è Giobbe, l’uomogiusto che patisce ingiustamente; al fondo, i buchi neri dell’universo. La pazienzaumana e l’incomprensibile della vita: da Giobbe ai buchi neri; quattro linee di percor-so che si intitolano così: “la salvazione del riso” (egli che aveva così tanto patito),“l’uomo soffre ingiustamente”, “la statura dell’uomo” (da Marco Polo a Saint-Exupéry) e “la salvazione del capire”.

Credo che proprio perché posta al vertice del quadruplice percorso, come lo chia-merà Italo Calvino che fece la postfazione a questo libro, la “salvazione del capire” siaprobabilmente quella più cara a Primo Levi, più ancora che la stessa dignità dell’uo-mo, tante volte dall’uomo stesso calpestata. In effetti non aspettava molto dal cielo.Nel paragrafo intitolato “I buchi neri”, dedicato all’esperienza di Auschwitz, egli scri-veva: «Nel cielo non ci sono Campi Elisi, bensì materia e luce distorta compresse, di-latate, rarefatte in una misura che scavalca i nostri sensi e il nostro linguaggio.» Anchequesto voleva dire per Levi attraversare la materia dell’universo e porre domande piùimportanti delle risposte stesse. La “salvazione del capire” è anche in una scrittura chefaccia capire.

Un altro testimone della tristezza del genocidio della seconda guerra mondiale erasoltanto parzialmente caro a Levi, cioè Paul Celan. Perché, come egli disse, avevascritto in una maniera che spesso non si faceva capire e nella sua antologia cita unapoesia sola, quella diventata un po’ il punto di riferimento di coscienza per i giovaniche nella rinata Germania hanno frequentato per generazioni la scuola media, e cioè“La fuga di morte” di Celan, che è in realtà una sorta di ballata di cui desidero leggel’inizio e la fine:

«Nero latte dell’alba noi lo beviamo la sera / lo beviamo a mezzogiorno e al matti-no lo beviamo la notte / beviamo e beviamo / scaviamo una tomba nell’aria là non sigiace stretti. / Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive / che scri-ve all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete / lo scrive ed esce dinan-zi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini / fischia ai suoi ebrei fa scavare unatomba nella terra. / Ci comanda ora suonate nella danza. […]

[...] Nero latte dell’alba ti beviamo la notte / ti beviamo a mezzogiorno la morte èun maestro tedesco / ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo / la morte èun maestro tedesco il suo occhio è azzurro / ti colpisce con la palla di piombo ti colpi-sce preciso. / Nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete. / Aizza i suoimastini contro di noi ci regala una tomba nell’aria / gioca con i serpenti e sogna lamorte è un maestro tedesco / i tuoi capelli d’oro Margarete / i tuoi capelli di cenereSulamith.»

Questa poesia così terribile, che pure Celan per lo stesso scrupolo di Levi di unagiustezza al di sopra della giustizia rinnegò, pure era molto cara a Levi per un’altraragione: perché parlava con quella nettezza e con quella trasparenza che deve farsi in-tendere ai ragazzi delle scuole cui ha dedicato quasi tutte le prefazioni, le conferenze,il cammino della verità nel tempo. Il cammino della verità nel tempo che egli aveva

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233Intitolazione della “Sala dei Cento” a Primo Levi (Moncalieri, 28 maggio 1999)

patito anche come scrittore. Non bisogna dimenticare, ed è un punto che rimorde lanostra coscienza, non quella altrui. Se questo è un uomo uscì nel 1947 nella collana diFranco Antonicelli e fu – perché l’uomo è fragile e ha bisogno di dimenticare – fu inrealtà presto dimenticato. Del resto la Casa editrice di Franco Antonicelli cessò lepubblicazioni e soltanto con molta lentezza venne ripubblicato nel 1958; dovetteropassare altri undici anni.

Tuttavia Primo Levi non è l’autore di un solo libro e meno che mai del secondo,che è diventato ahimé un film, che è appunto La tregua: è anche un profeta del tempo.Proprio qui a Moncalieri sono state rappresentate, in forma di spettacolo teatrale, Lestorie naturali. Vorrei ricordare che in tempi di tecnologia della vita in mano a incon-trollabili istanze, già nel 1966 in Storie naturali Primo Levi pubblicò un racconto, che digran lunga precede quello che noi chiamiamo il metodo della clonazione. “Alcune ap-plicazioni del Mimete” è un dialogo immaginario fra due protagonisti, di cui uno hainiziato a clonare, duplicare la moglie: è tutto un apologo sulla incontrollabilità dellatecnologia, egli che ne aveva vissuto le applicazioni più perverse. È uno dei grandi te-mi testimonianza, ma anche di lucida profezia di Primo Levi. Tra i neologismi che lanostra sete di futuro incamera ogni giorno andrebbe ricordato questo così severamen-te ammonitorio, il mimete. Siamo tutti un po’ fatti di questo parossismo.

Ricorderò ancora Vizio di forma del 1971, Il sistema periodico del 1975, che è una ri-scrittura dei propri elementi autobiografici, e un libro prezioso di poesie, L’osteria diBrema, diventato poi – citando un verso che egli aveva tradotto – Ad ora incerta, che èuna delle più belle testimonianze di quanto possa la poesia stessa nonostante il moni-to di Adorno, “nessun verso più dopo Auschwitz”: ebbene, proprio per riparare queibuchi neri Primo Levi ebbe il coraggio della poesia. Altri titoli che sono stati tradottiin tutto il mondo: La chiave a stella, la paziente dedizione al lavoro di Faussone, chemolti ricorderanno e che consiglio caldamente ai giovani, Lilìt e altri racconti, e poi nuo-vamente il romanzo (questa alternanza fra il racconto breve e il romanzo lo caratte-rizza), Se non ora, quando?, gli articoli di critica e di riflessione sulla società, L’altrui mestie-re e poi I sommersi e i salvati.

So che dovrei parlare di letteratura, e non voglio andare oltre, però voglio anchericordare che Levi non avrebbe ammesso che si possa parlare di letteratura. C’è una“pagina sparsa”, ora raccolta in due ottimi volumi da Marco Belpoliti: è un interven-to del 1976 che s’intitola “Più realtà che letteratura”. Ecco, io credo che questo sia unelemento che lo contraddistingue: se ha fatto letteratura, è perché essa contenesse piùrealtà che non la cronaca, la memoria, l’autobiografia, il diario: perché contenesse eammonisse con più realtà, non con meno realtà, o magari con il desiderio di evasione.

Secondo elemento che vorrei ricordare da queste opere che chiedono ancora diessere rilette è la ragione per la quale io credo che giustamente una comunità civile,un Comune, dedichi un luogo collettivo, un luogo politico, a Primo Levi. Se fossi statoconsultato sull’interrogativo se eventualmente intitolare la biblioteca, un luogo di let-tura, o un luogo civile a Primo Levi, ebbene, credo che avrei risposto: questo luogo ci-vile. Egli, in un capitolo dell’Altrui mestiere che s’intitola “I padroni del destino” e che èveramente un monito per il nostro tempo (dico “monito” perché Primo Levi non ri-fuggiva dalla coscienza morale, anzi direi che nel finale della Ricerca delle radici, sui libriche l’hanno formato, si trova proprio un titolo come “Conclusione e ammonimen-to”), ebbene, in questo capitolo egli scrive: «Non siamo una specie stupida. Non sare-mo capaci di erodere le barriere poliziesche, e di trasmetterci da popolo a popolo la

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Capitolo VI234

nostra volontà di pace? Non potremmo, ad esempio, portare sul tavolo dei “vertici”internazionali una vecchia proposta, che s’spira al giuramento che Ippocrate avevaformulato per i medici? Che ogni giovane che intenda dedicarsi alla fisica, alla chimi-ca, alla biologia, giuri di non intraprendere ricerche e studi palesemente nocivi al ge-nere umano? È ingenuo, e lo so; molti non giureranno, molti spergiureranno, maqualcuno ci sarà pure che terrà fede, e il numero degli apprendisti stregoni diminuirà.La parola ci differenzia dagli animali: dobbiamo imparare a fare buon uso della paro-la. Menti più rozze delle nostre, mille e milioni di anni addietro, hanno risolto proble-mi più ardui. Dobbiamo far sentire più forte il mormorio che sale dal basso, anche neiPaesi in cui mormorare è vietato. È un mormorio che scaturisce non solo dalla paurama anche dal senso di colpa di una generazione. Dobbiamo amplificarlo. Dobbiamosuggerire, proporre, imporre poche idee chiare e semplici agli uomini che ci guidano,e sono idee che ogni buon mercante conosce: che l’accordo è l’affare migliore, e che alungo termine la buona fede reciproca è la più sottile delle astuzie.»

Non credo che ci sia bisogno di aggiungere altro. Leggo soltanto, per concludere,alcune delle poesie, due soltanto, di Primo Levi. Egli ebbe tale coscienza del fatto cheogni parola va appunto usata come fosse oro, va bilanciata dunque, va soppesata, cheanche le poesie sono di estrema rarefazione, e non c’è una parola in più, e non c’è nes-suna volontà di retorica, né di intrattenimento, né di sfogo. Anche pensando alla lette-ratura egli la pensava come qualche cosa che stava nella giustezza e dalla quale eraimpossibile aggiungere o togliere. Per questo credo durerà nel tempo non soltanto co-me testimone, ma anche davvero come colui che ha fabbricato l’opera oltre il tempo.

La poesia s’intitola appunto “L’opera”:

Ecco, è finito: non si tocca più.Quanto mi pesa la penna in mano!Era così leggera poco prima,Viva come l’argento vivo:Non avevo che da seguirla,Lei mi guidava la manoCome un veggente che guidi un cieco,Come una dama che ti guidi a danza.Ora basta, il lavoro è finito,Rifinito, sferico.Se gli togliessi ancora una parolaSarebbe un buco che trasuda siero.Se una ne aggiungessiSporgerebbe come una brutta verruca.Se una ne cambiassi stonerebbeCome un cane che latri in un concerto.Che fare, adesso? Come staccarsene?Ad ogni opera nata muori un poco.

Coscienza anche della poesia. E infine, per chiudere, quello che egli pensò del pro-prio tempo, e che voglio ricordare perché anche il nostro tempo pochi anni dopo por-ta lo stesso segno.

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235Intitolazione della “Sala dei Cento” a Primo Levi (Moncalieri, 28 maggio 1999)

“Dateci”

Dateci qualche cosa da distruggere,Una corolla, un angolo di silenzio,Un compagno di fede, un magistrato,Una cabina telefonica,Un giornalista, un rinnegato,Un tifoso dell’altra squadra,Un lampione, un tombino, una panchina.Dateci qualche cosa da sfregiare,Un intonaco, la Gioconda,Un parafango, una pietra tombale,Dateci qualche cosa da stuprare,Una ragazza timida,Un’aiuola, noi stessi.Non disprezzateci: siamo araldi e profeti.Dateci qualche cosa che bruci, offenda, tagli, sfondi, sporchi,Che ci faccia sentire che esistiamo.Dateci un manganello o una Nagant,Dateci una siringa o una Suzuki.Commiserateci.

Non è solo memoria quella di Primo Levi, rimane profezia.

Primo Levi testimone del nostro tempoAlberto Cavaglion (Ricercatore presso l’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza edella Società Contemporanea “Giorgio Agosti”)

Il mio intervento, dopo le bellissime parole del Professor Ossola, mi esime dal ri-percorrere l’itinerario di Levi scrittore. Vorrei esprimere gratitudine e riconoscenzaper questa iniziativa. Sono state numerose le iniziative che in questi ultimi anni si sonosuccedute per ricordare Primo Levi, ma è ormai da molto tempo che ci siamo accorti,dal numero di sale a lui dedicate, dal numero di scuole che oggi portano il suo nome,che era molto alto il consenso dei lettori comuni, proporzionalmente inverso al nume-ro di addetti ai lavori. Il lungo silenzio dei grandi critici che avvolse l’opera di PrimoLevi finché fu in vita è abbastanza impressionante, e credo abbia segnato non pocol’isolamento di questo scrittore, peraltro riservatissimo, ma certamente è abbastanzaimpressionante notare il divario che separa il silenzio di tanti anni e l’eccessivo rumo-re attuale.

Un grande critico letterario, Giacomo Debenedetti, che è fra l’altro autore del so-lo testo che nella storia di questo secondo dopoguerra forse possa stare alla stessa al-tezza di Se questo è un uomo, e cioè 16 ottobre 1943, ebbe a dire che gli ebrei non amanoné i periodi delle vacche magre né i periodi delle vacche grasse: auspicano “una cosagiusta”. Dopo tanti anni di vacche magre, non solo per ciò che riguarda Primo Levi,ma in generale per la storia della deportazione, che come sapete ha subìto per tantianni una sorta di inferiorità psicologica e poi di riflesso anche storiografica rispetto al-

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Capitolo VI236

la Resistenza, questo è indicativo, ma è altrettanto allarmante, e i segnali sono già sta-ti implicitamente sottolineati dal Professor Ossola con quell’“ahimé” riferito al film diRosi tratto da La tregua. Cerco di spiegarmi meglio. È diffuso nella società in cui vivia-mo il desiderio non di dimenticare, ma di consolare, o di far apparire l’esperienza con-centrazionaria meno drammatica e meno tragica di quello che sia effettivamente sta-ta. Primo Levi ha combattuto per tutta la vita contro un’interpretazione semplificatri-ce dell’esperienza concentrazionaria, e se noi proviamo a ripercorrere non solo igrandi libri dedicati alla deportazione, ma gli altri racconti, le pagine sparse che sonostate pubblicate in questi ultimi tempi, o la raccolta di interviste, ci accorgiamo che,pur avendo percorso una parabola di scrittura che dal 1963 in avanti (cioè dopo lapubblicazione de La tregua, fino a I sommersi e i salvati del 1987) apparentemente l’allon-tana dal racconto del Lager, in realtà ci accorgiamo che per tutta la vita, anche quan-do si mette a raccontare di fantascienza, Levi non ha mai smesso di “affliggerci”, per-ché la storia della deportazione – noi spesso oggi tendiamo a dimenticarlo – è una sto-ria di afflizione. È inutile illuderci, come molti film di questi ultimi tempi cercano difare, che sia necessario in qualche modo abbellirla, trasformarla liricamente. Non so-no storie, quelle che raccontano l’esperienza concentrazionaria, che possono in qual-che modo essere trasformate e rese più gradevoli. Con questo, come potete immagi-nare, non voglio negare che ci si possa esprimere con umorismo o anche ridere suesperienze fortemente tragiche. Stiamo parlando di uno scrittore che aveva un fortis-simo senso dell’umorismo, forse molto di più di altri uomini di teatro dei nostri tempi,che hanno insistito sull’umorismo ebraico. Levi aveva più di altri questa idea, che an-che dall’esperienza più tragica possa venire un’idea di comicità, nutrita naturalmentedi grande letteratura. Levi fu per molto tempo un uomo di consiglio, cui si rivolgeva-no, finché fu vivo, studenti, giovani laureati, giornalisti alle prime armi: non le grandifirme, non i grandi intellettuali, ma si rivolgevano a lui soprattutto quelli provenientidal mondo del giornalismo, molto spesso ricorrendo a lui come a un personaggio sim-bolico; di volta in volta poteva essere simbolo dell’ebraismo diasporico, del rapportoconflittuale con lo Stato d’Israele, con la politica italiana, con le crisi mediorientali; inquelle occasioni le grandi firme del giornalismo italiano sono andate per intervistarlo,ma le più belle interviste che noi oggi possiamo rileggere nel volume che Belpoliti hapubblicato sono interviste di giovani, di persone che si affacciavano timidamente almondo degli studi, e avevano intuito che dietro a Levi si nascondeva appunto “l’uomodi consiglio”, di cui parla Benjamin in un saggio molto famoso.

Per cui è anche molto simpatico che il ricordo di Primo Levi venga proprio dallasocietà civile e dal numero di lettori che si rivolgevano a lui epistolarmente o richie-dendo la sua testimonianza nelle scuole. Sapete benissimo che non vi è scuola dellanostra Regione che non abbia avuto un incontro con Primo Levi, finché era in vita;tanto frequenti queste iniziative, quanto timide le sue apparizioni pubbliche; qualcu-no in sala ricorderà le presentazioni dei suoi libri a Torino, anche in librerie famose;erano abbastanza divertenti per il monosillabico riserbo con cui Levi rispondeva alledomande dei presentatori, o del pubblico che partecipava, ricorrendo molto spesso altesto che aveva pubblicato per essere più fedele possibile, per non cadere in errori dimemoria. Era naturalmente un personaggio che rifuggiva dal palcoscenico e nonamava i riflettori né della televisione né dei mezzi di comunicazione di massa, pur es-sendo stato di gran lunga il più premiato degli scrittori del secondo dopoguerra. Cal-vino, Moravia non hanno avuto tanti premi Viareggio, tanti premi Strega, tanti Cam-

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237Intitolazione della “Sala dei Cento” a Primo Levi (Moncalieri, 28 maggio 1999)

piello, quanti ne ha avuti Levi. Fa piuttosto riflettere questa specie di risarcimentomorale che gli veniva dato simbolicamente, parallelamente al silenzio della grandecritica.

Il successo, Levi lo conobbe oltre oceano, negli ultimi anni della sua vita: Il sistemaperiodico, più dei primi libri, fu tradotto negli Stati Uniti e generò uno straordinariosuccesso americano, che di riflesso fu poi acquisito anche dalla cultura italiana – mastiamo parlando degli anni Ottanta. E poi soprattutto dopo la morte, dopo “quellamorte”, l’atteggiamento della cultura italiana è cambiato, anche perché in mezzo cisono tante altre questioni: l’ondata crescente del revisionismo, un ritorno a questi te-mi che lo stesso Levi in qualche modo aveva preparato con l’ultimo suo libro, che co-me molti di voi ricorderanno deve il suo titolo a un capitolo di Se questo è un uomo. “Isommersi e i salvati” è il titolo di un capitolo importantissimo del primo libro, che sistacca dal testo d’esordio come una costola e dopo quarant’anni genera un libro total-mente diverso, animato da ideali e da una concezione stessa della memoria e del rap-porto fra memoria-storia molto diverso dal libro di esordio. Vi è una visione del mon-do ne I sommersi e i salvati fortemente pessimistica rispetto all’ottimismo, nonostantetutto, di Se questo è un uomo. Vittorio Foa ha dato questa bella definizione di Se questo è unuomo: un libro ottimista, che segna il trionfo dell’umanesimo dantesco contro la barba-rie, un inno alla vita nonostante la tragica materia trattata.

Prima di concludere vorrei sottolineare due aspetti che mi sembrano molto impor-tanti. Levi è sempre stato per me, nonostante tutto, un autore anticonformista. È im-pressionante oggi osservare come al di sotto di questa prosa bellissima, “marmorea”,come ha detto Cesare Cases (formula che oggi viene talvolta utilizzata un po’ tropporetoricamente, un po’ troppo liturgicamente, scusate la franchezza), dentro questaprosa marmorea ci fosse una forza morale che ha saputo andare contro corrente in al-cuni momenti fondamentali della storia di questi nostri ultimi tre o quattro decenni.

Consentitemi soltanto due esempi che a me paiono clamorosi. Il primo è riferito aLa chiave a stella, testo già qui ricordato: l’inno al lavoro manuale contenuto in quel li-bro venne intonato in anni in cui la pigrizia era rivendicata come un diritto. Ho gran-de ammirazione per un giornalista oggi di successo come Enrico Deaglio perché hafatto una lucidissima autocritica di una recensione che pubblicò a La chiave a stella sul“Quotidiano dei lavoratori” del 1975. Trent’anni dopo su un altro giornale ha pubbli-cato, con molto senso autocritico, una lucida confessione di quello che allora non ave-va capito, cioè il valore positivo del lavoro manuale, il valore anche liberatorio che hala manualità. Per il secondo esempio bisogna fare un passo in avanti di sette anni e ar-rivare al 1982 quando venne pubblicato il romanzo storico, Se non ora, quando?, cheesce nell’estate della guerra in Libano, una guerra che lo Stato d’Israele compie in ag-gressione verso un altro popolo, mentre in Israele c’era un governo di destra che ave-va negato i princìpi ispiratori del sionismo socialista. Levi pubblica con Se non ora,quando? una straordinaria apologia del sionismo di sinistra, dove si racconta di ungruppo di partigiani che sopravvivono allo sterminio e immaginano la nascita di unoStato fondato sugli ideali del socialismo umanitario che, in quel momento, nel mo-mento in cui il libro usciva, erano fatalmente sconfitti dalla realtà; di qui il disagio chegenerò quel libro, almeno in una parte dell’opinione pubblica italiana.

Vengo rapidamente a una conclusione. Tutto questo discorso ci deve certamentefare riflettere su un problema fondamentale, che è quello dello scrivere dopoAuschwitz. Levi ha compiuto dal 1947, data della prima pubblicazione di Se questo è un

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Capitolo VI238

uomo, a I sommersi e i salvati un suo personalissimo percorso di scrittura, che lo ha porta-to a fare le obiezioni ad Adorno che sono già state ricordate, sul continuare a scriverele poesie, ma soprattutto ha fatto riflessioni molto importanti sulla possibilità dello“scrivere dopo Auschwitz”, in una cultura come quella italiana del secondo dopo-guerra che per molto tempo lo ha relegato in un angolino delle storie letterarie. Fino anon molti anni fa, quando si dovevano in qualche modo antologizzare i libri di Levi, lisi collocava nel genere della memorialistica, al massimo li si metteva all’interno delrealismo del dopoguerra senza particolari sottigliezze interpretative. Per molto tempofu posta a Levi questa specie di ricatto: “Se tu vuoi dimostrare di essere un vero scrit-tore devi misurarti con il romanzo; devi lasciar stare le testimonianze.” Dopo il 1963,questa specie di ricatto è molto percepibile nelle interviste. Se ripercorriamo tale pe-riodo attraverso le interviste e gli scritti sparsi, ci accorgiamo che a un certo punto,pubblicato il secondo libro, esaurita la sua testimonianza, la società italiana ha detto aLevi: “Bene, hai raccontato tutto quello che hai vissuto; adesso se vuoi dimostrare difare veramente Letteratura, devi darci il romanzo, devi cambiare, devi dimostrare ‘latua nobilitate’; e se sei un vero autore, misurati con la letteratura; quello che hai fattofino ad adesso non è letteratura.”

Questo è un problema fondamentale, perché in altre realtà, soprattutto nel mondofrancese, tale dilemma non è immaginabile: già all’indomani della fine della guerra,grandi scrittori si sono posti il problema dello “scrivere dopo Auschwitz”, vi è statauna riflessione critica di quegli stessi autori, e in generale del mondo intellettuale fran-cese. Questo spiega anche perché a un certo punto del suo percorso Levi abbia tenta-to varie strade: la fantascienza, ma anche paradossalmente il romanzo storico. Se nonora, quando? è molto meno sperimentale, come struttura, di Se questo è un uomo: è un ro-manzo storico ottocentesco, manzoniano nella sua struttura generale, quanto di piùdiverso da quello che per esempio in Francia un autore come Georges Perec stava ipo-tizzando come struttura narrativa alternativa.

Chiudo con un invito a non trascurare un tema che a me è molto caro: gli aspetti fi-losofici di Levi, soprattutto del primo libro. Molto spesso, anche nelle antologie, siparla dell’importanza storica dei suoi libri. Certamente è così: sono uno strumentostraordinario, ad esempio, per comprendere cosa è stata l’economia del Terzo Reich;sono opere di altissima letteratura, vi sono dei capitoli di straordinaria bellezza.

Non vorrei però che fosse trascurata la definizione stessa che Levi diede nella pre-messa di Se questo è un uomo, che non è una definizione storica, non è una definizioneletteraria, ma è una definizione etico-civile. Se questo è un uomo, dice, è «uno studio pa-cato di alcuni aspetti dell’animo umano». Sottolineo l’aggettivo “pacato”, che è lacifra di uno stile.

Tutta la prima parte dell’opera di Levi, soprattutto Se questo è un uomo e La tregua, aldi là del contenuto è un tentativo di spiegare filosoficamente, come se fosse un’operet-ta morale, il rapporto fra bene e male, tra felicità e infelicità umana, facendo luce suquegli aspetti della esperienza umana che Auschwitz aveva capovolto, ma che Levi,con l’idea della salvazione del capire che qui è già stata ricordata, in qualche modotentò per tutta la vita di decifrare.

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239

Capitolo VII - Appendici

A. Archivi della memoria

Guida all’Archivio MultimedialePier Luigi Cavanna, Marcella Pepe

A partire dall’anno scolastico 2001-2002, e fino al 2003-2004, gli studenti delLaboratorio Multimediale Interscolastico presso l’ITIS “Pininfarina”, guidati dai do-centi Marcella Pepe, Carla Piana, Agostino Gelfo e dal tecnico Fortunato Mesiano, sisono impegnati a costruire un Archivio multimediale del materiale audiovisivo giratodurante i viaggi di studio nei siti della deportazione.

La motivazione principale di tale lavoro risiede nella consapevolezza dell’impor-tanza della documentazione raccolta e nella convinzione dell’opportunità di metterlaa disposizione di ulteriori ricerche ed elaborazioni, intento che presuppone una cata-logazione sistematica e ordinata. I filmati del nostro Archivio, infatti, restituisconouna registrazione puntuale delle visite ai Lager – fra i più rilevanti del fenomeno con-centrazionario nazifascista – compiute in nove anni di viaggi del Progetto Memoria:chiunque dei partecipanti voglia rivivere la sua esperienza di viaggio a distanza di an-ni, o reperire sequenze di immagini per una ricerca personale, lo può fare semplice-mente visionando il materiale raccolto in videocassetta. Forse i filmati sono poco“professionali”, talvolta imperfetti dal punto di vista tecnico (del resto solo alcuni stu-denti hanno seguìto un corso specifico per teleoperatori presso il nostro Laboratorio),e sicuramente poco “oggettivi”, ma in ogni caso risultano interessanti, in quanto pro-pongono i luoghi “visti” dagli studenti-operatori, filtrati attraverso la loro sensibilità,animati dai compagni a loro volta impegnati ad ascoltare le parole dei testimoni, lespiegazioni dei docenti e delle guide, i discorsi commemorativi delle autorità, a scatta-re fotografie, a leggere testimonianze scritte…

L’elemento però che più d’ogni altro rende prezioso l’Archivio – e forse quelloispiratore della sua realizzazione – è la testimonianza degli ex deportati accompagna-tori nei viaggi: Pio Bigo, Natalia Tedeschi, Anna Cherchi, Albino Moret, Natale Pia,Giorgio Ferrero hanno raccontato la loro prigionia sui luoghi stessi in cui l’hanno vis-suta, e le telecamere hanno registrato sia le loro parole sia l’espressione dei loro voltinel pronunciarle. Le testimonianze qui raccolte, essendo documenti significativi e ine-diti, conferiscono dunque all’Archivio un valore documentario anche per lo storicoprofessionista.

Il complesso lavoro di schedatura e catalogazione, ancora in fase di completamen-to, è risultato utile e formativo dal punto di vista didattico, in quanto ha permesso aglistudenti coinvolti di riflettere “a posteriori” sull’esperienza del proprio viaggio e di co-noscere anche luoghi non personalmente visitati o testimoni non conosciutidirettamente.

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Capitolo VII240

Dopo una fase di preparazione costituita da lezioni di inquadramento storico, let-ture di approfondimento, lezioni teorico-pratiche di videoripresa documentaristica, illavoro di costruzione dell’Archivio nel suo aspetto pragmatico è stato così organizza-to: si è formato, per ciascun viaggio, un gruppo interclasse di studenti (la cui composi-zione è variata nel corso dei diversi anni scolastici) con un duplice compito: in un pri-mo momento, esaminare il girato, selezionando le immagini buone o almeno accetta-bili ed eliminando quelle brutte, mosse, sfuocate, insignificanti; in un secondo mo-mento, procedere alla scrittura della sceneggiatura tecnica al computer, numerandole inquadrature e indicandone la tipologia (ad es. campo medio, campo lungo, pano-ramica, dettaglio, totale, figura intera, mezzo busto, primo piano…), il contenuto (ades. panoramica sulle baracche, dettaglio della lapide, primo piano del testimone…),calcolando i tempi di ciascuna inquadratura e precisandone i momenti di inizio e fi-ne, riportando per iscritto i discorsi e, soprattutto, le parole dei testimoni.

La sceneggiatura tecnica è uno strumento indispensabile per chi vuole consultareil materiale audiovisivo, in quanto consente di ricostruire il contenuto delle videocas-sette e di ritrovare in esse la collocazione delle immagini che interessano, senza dover-le visionare per intero. Ultimo momento del lavoro è stato il semplice montaggio del-le inquadrature selezionate in videocassette chiamate MASTER per distinguerle daquelle originali, sotto la guida di Fortunato Mesiano (per i viaggi del 1999, 2000,2002) e di Carla Piana (per il viaggio del 2001).

Il risultato del lavoro è un’archiviazione completa dei seguenti viaggi:• viaggio del 1999 ai Lager di Auschwitz I, Auschwitz II-Birkenau, Auschwitz III-Monowitz e a Cracovia (testimone: Natalia Tedeschi);• viaggio del 2000 al Lager di Mauthausen e ai suoi sottocampi (Melk, Gusen, Linz,Hartheim, Ebensee) (testimone: Pio Bigo);• viaggio del 2001 a Berlino, Wannsee, Sachsenhausen e Ravensbrück (testimoni:Anna Cherchi, Natalia Tedeschi);• viaggio del 2002 ai Lager di Buchenwald e Dora (testimoni: Pio Bigo, AlbinoMoret).

Di ognuno sono disponibili presso l’ITIS “Pininfarina”, custodite nella Bibliotecadell’istituto:• videocassette SVHS originali, contrassegnate dall’etichetta con la scritta ORIGINAL;• videocassette VHS con il montaggio delle immagini selezionate, contrassegnate dal-l’etichetta con la scritta MASTER;• sceneggiatura tecnica sia in forma cartacea sia in forma multimediale (floppy disk eCD-Rom).

Per i viaggi successivi al 2002, l’Archivio è in via di riordino: per ora, esistono sol-tanto le riprese girate dagli studenti, conservate anch’esse in Biblioteca. Non sono sta-ti invece conclusi né il montaggio né la sceneggiatura tecnica, tranne che per le im-magini girate a Mauthausen e alla cerimonia di Gusen (2005), dedicata a posare nelMemoriale una installazione commemorativa dei deportati moncalieresi, opera deglistudenti del “Majorana”.

I materiali realizzati nel corso degli anni dal Laboratorio Multimediale utilizzan-do le immagini dell’Archivio sono anch’essi custoditi nella Biblioteca dell’ITIS“Pininfarina”.

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241Appendici

IndiciSi riportano gli indici delle videocassette originali esaminate, con l’indicazione essenziale del loro

contenuto e con la denominazione delle videocassette MASTER in cui sono state montate le immaginiselezionate. I tempi indicati nelle sceneggiature tecniche si riferiscono alle videocassette originali al finedi consentire il reperimento delle immagini per eventuali montaggi successivi.

Per i viaggi successivi al 2002 sono indicati soltanto le tappe del percorso e i testimoni presenti,tranne che per la parte riguardante le immagini girate a Mauthausen e a Gusen nel viaggio del 2005,corredate da una sceneggiatura tecnica, cioè dalla descrizione dettagliata del contenuto.

ARCHIVIO MULTIMEDIALE DEL VIAGGIO 1999Cracovia, Auschwitz I, Auschwitz II-Birkenau, Auschwitz III-Monowitz(a cura del gruppo di lavoro composto da Davide Brunetti, Michele Cavallaro, Raffaele Elia, GianniPassini, Marco Pastore, Alessandro Savino, Andrea Elia, Antonino Merlo e coordinato da MarcellaPepe e Fortunato Mesiano)

videocassetta riprese del viaggio montaggio sceneggiatura tecnica

SVHS ORIGINAL “POL 1”

SVHS ORIGINAL “POL 2”

SVHS ORIGINAL “POL 3”

SVHS ORIGINAL “POL 4”

da 0:11:03 a 0:13:37viaggio e Varsavia

da 0:00:35 a 0:51:26 visita guidata di Cracovia, del Ghetto ebraico, della fabbrica di Schindler (dettagli, inquadrature e discorsi)

da 0:01:10 a 0:45:33Auschwitz II-Birkenau(visita guidata del Lager, testimonianza di Natalia Tedeschi)

da 0:46:16 a 0:57:54Auschwitz III-Monowitz (inquadrature e discorsi)

da 0:58:15 a 1:18:17percorso della “marcia della morte”

da 0:00:10 a 0:52:32Auschwitz I (cerimonia ufficiale e museo);Auschwitz II- Birkenau (ritorno al campoper momenti di ripresa)

MASTER“POLONIA 1”VHS

MASTER“POLONIA 1” VHS

MASTER“POLONIA 1” VHS

MASTER“POLONIA 2” VHS

MASTER“POLONIA 2” VHS

MASTER“POLONIA 2” VHS

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

Page 246: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

Capitolo VII242

Attingendo materiali da questo Archivio sono stati realizzati:• il video I giovani e la memoria, SVHS, 1999, col., 17’, regia di Carla Piana, montaggio diFortunato Mesiano, produzione del Laboratorio Multimediale ITIS “Pininfarina”;• la prima parte del video Le forme della memoria, SVHS, 2000, col., 20’, regia di CarlaPiana, montaggio di Fortunato Mesiano, produzione del Laboratorio MultimedialeITIS “Pininfarina”;• parte del video Un giorno: 27 gennaio 1945. Memoria e testimonianze, DVD, 2006, col., 13’,regia di Francesco Martino.

ARCHIVIO MULTIMEDIALE DEL VIAGGIO 2000Melk, Mauthausen, Gusen, Linz III, Hartheim, Ebensee(a cura del gruppo di lavoro composto da Marco Bernazzi, Antonio Ciccia, Davide Di Dato, WalterFalasco, Giuseppe Faraci, Paolo Virgilio, Igor Vitale e coordinato da Agostino Gelfo e FortunatoMesiano)

Attingendo materiali da questo Archivio sono stati realizzati:• la seconda parte del video Le forme della memoria, SVHS, 2000, col., 20’, regia di CarlaPiana, montaggio di Fortunato Mesiano, produzione del Laboratorio MultimedialeITIS “Pininfarina”;• parte del video Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e Gusen DVD, 2006, col., 26’ 40”,regia e montaggio di Carla Piana, produzione del Laboratorio Multimediale ITIS“Pininfarina”;

videocassetta riprese del viaggio montaggio sceneggiatura tecnica

SVHS ORIGINAL “V1”

SVHS ORIGINAL “V2”

SVHS ORIGINAL “V3”

da 0:00:00 a 0:18:29Melk (visita dell’Abbazia e del forno crematorio, discorsi e letture di studenti)

da 0:18:35 a 1:13:08 Mauthausen e Linz III (testimonianza di Pio Bigo,letture di studenti)

da 0:00:30 a 0:35:52 Mauthausen (dettaglio inquadrature, letture di studenti, testimonianza di Pio Bigo)

da 0:35:56 a 0:53:57 Gusen e intervista di Carla Piana a Pio Bigo

da 0:21:51 a 0:26:58 Ebensee e testimonianza di Pio Bigo

MASTER“2000 (A)” VHS

MASTER“2000 (A)” VHS

MASTER“2000 (B)” VHS

MASTER“2000 (B)” VHS

MASTER“2000 (B)” VHS

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

Page 247: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

243Appendici

ARCHIVIO MULTIMEDIALE DEL VIAGGIO 2001Sachsenhausen, Berlino, Wannsee, Ravensbrück(a cura del gruppo di lavoro composto da Daniele Mirto, Enrico Pocchi, Andrea Rosmino, Marco Ta-sinato, Veronica Loscalzo, Roberta Mollo, Sonia Muzzolon, Roberto Acinapura, Serena Scalenghe,Sebastiano Varrica e coordinato da Carla Piana)

videocassetta riprese del viaggio montaggio sceneggiatura tecnica

SVHS ORIGINAL“SACHSENHAUSEN 1”

COPIA CANONCARLA PIANA VHS

SVHS ORIGINAL“SACHSENHAUSEN 2”

Sachsenhausen da 0:00:00 a 0:51:41inquadrature e discorsi

Berlinoda 0:00:13 a 0:12:47 immagini del viaggio, riprese della città, il Muro con muralesda 0:12:51 a 0:15:56 Anna Cherchi in pullmanverso Sachsenhausenda 0:16:05 a 1:07:09 dettaglio di immagini e discorsi di Anna Cherchi

Wannseeda 0:00:00 a 0:09:25Sala della Conferenza di Wannseeda 0:09:34 a 0:11:06fotografie con sovrimpressione della datadella visita

Sachsenhausenda 0:11:32 a 0:19:21 visita di Sachsenhausen, immagini di Natalia Tedeschiin visita solitaria

MASTER “ANNA ASACHSENHAUSEN”VHS

MASTER “ANNA ASACHSENHAUSEN”VHS

MASTER “ANNA ASACHSENHAUSEN”VHS

MASTER “ANNA ASACHSENHAUSEN”VHS

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

• parte del DVD-Video L’eco della memoria. Un testimone fra i giovani, 2006, col., 40’, regia emontaggio di Carla Piana e Francesco Martino, produzione del Laboratorio Multi-mediale ITIS “Pininfarina”; • nel 2000, Un viaggio nella memoria, CD-Rom, a cura di Francesco Martino, produzionedel Laboratorio Multimediale ITIS “Pininfarina”, tratto da una conferenza di Pio Bi-go al “Pininfarina”; • parte del video Un giorno: 27 gennaio 1945. Memoria e testimonianze, DVD, 2006, col., 13’,regia di Francesco Martino.

segue

Page 248: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

Capitolo VII244

Attingendo materiali da questo Archivio sono stati realizzati:• il video Con Anna e Natalia a Ravensbrück, CD-Rom, 2003, col., 11’ 08’’, regia e mon-taggio di Carla Piana, produzione del Laboratorio Multimediale ITIS “Pininfarina”;• il video La necessità di sopravvivere, DVD, 2005, col., 18’, regia e montaggio di CarlaPiana, produzione del Laboratorio Multimediale ITIS “Pininfarina”;• il CD-Rom Memoria e scritture, 2001, a cura di Francesco Martino, produzione delLaboratorio Multimediale ITIS “Pininfarina”.

videocassetta riprese del viaggio montaggio sceneggiatura tecnica

SVHS ORIGINAL“SACHSENHAUSEN 2”

SVHS ORIGINAL“RAVENSBRÜCK”

Ravensbrückda 0:19:22 a 0:22:46 le prigioni del Lager, il Museo di Ravensbrückda 0:22:53 a 0:24:01 i forni crematorida 0:24:02 a 0:24:21 Natalia Tedeschi al Lago di Ravensbrückda 0:24:22 a 0:29:30 incontro in Biblioteca fra Natalia Tedeschi e Anna Cherchi con studentida 0:29:31 a 0:56:45la cerimonia ufficiale (discorsi del Sindaco di Ravensbrück,della responsabile del Museo, di Marcella Pepe e del Sindaco Carlo Novarino

Ravensbrückda 0:00:00 a 0:44:35Anna Cherchi e Natalia Tedeschi nei locali del Museo (non montato)intervista ad Anna Cherchie Natalia Tedeschi (26’ ca.)

MASTER “ANNA ASACHSENHAUSEN”VHS

MASTER“RAVENSBRÜCK2001”VHS

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

Page 249: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

245Appendici

ARCHIVIO MULTIMEDIALE DEL VIAGGIO 2002Buchenwald, Dora, Weimar, Erfurt, Ulm(a cura del gruppo di lavoro composto da Andrea Rosmino, Veronica Loscalzo, Andrea Elia, RaffaeleElia, Serena Scalenghe, Roberta Mollo, Sonia Muzzolon, Roberto Acinapura, Cristina Crivello, Da-niele Graziani, Sebastiano Varrica e coordinato da Marcella Pepe, Carla Piana e Fortunato Mesiano)

videocassetta riprese del viaggio montaggio sceneggiatura tecnica

SVHS ORIGINAL“BUDO”

Buchenwaldda 0:01:09 a 1:00:58 dettaglio di inquadrature del Lager, spiegazioni della guidada 1:00:58 a 1:11:16 dettaglio di inquadrature, testimonianza di Pio Bigo nel Lager e nel Museo

Dorada 1:13:24 a 1:22:27testimonianza di Albino Moret in pullmanverso Dorada 1:22:27 a 2:13:40 dettaglio di inquadrature del Lager, spiegazioni della guida, cerimonia ufficiale (testimonianza di Albino Moret; discorsi delle autorità non completatinella sceneggiatura tecnica)

MASTER “BUDO”VHS

MASTER “BUDO”VHS

su CD-Rom, floppy, carta

su CD-Rom, floppy, carta

Attingendo materiali da questo Archivio sono stati realizzati:• il video Ricordo di Albino Moret (dal conferimento della cittadinanza onoraria alletestimonianze a Buchenwald e Dora), DVD, 2002, col., 16’ 30’’, regia di Carla Piana,montaggio di Fortunato Mesiano, produzione del Laboratorio Multimediale ITIS“Pininfarina”;• parte del DVD-Video L’eco della memoria. Un testimone fra i giovani, 2006, col., 40’, regia emontaggio di Carla Piana e Francesco Martino, produzione del Laboratorio Multi-mediale ITIS “Pininfarina”.

Page 250: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

Capitolo VII246

ARCHIVI MULTIMEDIALI DEI VIAGGI 2003, 2004, 2005, 2006

viaggio e testimoni riprese a riprese di cassetta (*)

2003 (Giorgio Ferreroe Natale Pia)

2004 (Pio Bigo)

2005 (Natale Pia)

Mauthausen e Gusen (120’)

Mauthausen: testimonianze e discorsi delle autorità (120’)

Ebensee (30’)

Mauthausen (60’)

Mauthausen (85’)

Mauthausen (immagini di copertura) (90’)

Auschwitz, Gliwice, Birkenaucon Pio Bigo (120’)

Auschwitz e Birkenau con H. Swiebocki; Auschwitz I, Birkenau, Gliwice con Pio Bigo (120’)

Birkenau sotto la neve e Buna con Pio Bigo; festa degli studenti a Pio Bigo per i suoi ottant’anni; Cracovia, il Ghetto, la Farmacia (120’)

Nonantola e Fossoli(30’)

Bolzano e Mauthausen(30’)

Daniele Mirto

Daniele Mirto

Daniele Mirto

Veronica Loscalzo

Annalisa Giavara

Marco Tasinato

Annalisa Giavara

Carla Piana

Carla Piana

Roberta Mollo

Roberta Mollo

“DANI 1” VHS(copia da Mini Dv)

“DANI 2” VHS(copia da Mini Dv)

“DANI 3” VHS(copia da Mini Dv)

“VERONICA” VHS(copia da Mini Dv)

“ANNA” VHS(copia da Mini Dv)

“TASI” VHS(copia da Mini Dv)

“AUGLIBIR 1” VHS(copia da Mini Dv)

“AUGLIBIR 2” VHS(copia da Mini Dv)

“AUGLIBIR 3” VHS(copia da Mini Dv)

MINI DV“NOFO”

MINI DV“BOMAU”

segue

Page 251: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

247Appendici

viaggio e testimoni riprese a riprese di cassetta (*)

2006 (Pio Bigo)

Mauthausen, Gusen, Hartheim, con particolare riferimento a: inquadrature a Mauthausen; spiegazionedella fuga dal Blocco 20; testimonianza di Natale Pia; letture di studenti; cerimonia ufficiale a Gusen; inquadrature della installazione realizzata dagli studenti del “Majorana”a ricordo dei cittadini moncalieresi morti a Gusen(30’)

Ebensee(30’)

Buchenwald e Dora, con particolare riferimento a:inquadrature dei luoghi; spiegazioni di guide e docenti; discorsi ufficiali delle autorità; testimonianze di Pio Bigo; letture di studenti(60’)

Buchenwald e Dora(60’)

Dora e intervista a Pio Bigo in albergo(60’)

Intervista a Pio Bigo in albergo(60’)

Roberta Mollo

Roberta Mollo

Marco Allio, Federico Lazzaroni,Danilo Pautasso e Sara Selva

Marco Allio, Federico Lazzaroni,Danilo Pautasso e Sara Selva

Marco Allio, Federico Lazzaroni,Danilo Pautasso e Sara Selva

Marco Allio, Federico Lazzaroni,Danilo Pautasso e Sara Selva

MINI DV“MAUGU”(nb: di una parte delle riprese di Mauthausen e Gusen esiste una sceneggiatura tecnica a cura di Marcella Pepe)

MINI DV“EBE”

MINI DV“BUCDO 1”

MINI DV“BUCDO 2”

MINI DV“BUCDO 3”

MINI DV“BUCDO 4”

(*) Le videocassette dei viaggi 2003-2004-2005-2006 contengono: inquadrature dei luoghi, spiegazioni di guide e di professori, discorsi ufficialidelle autorità, testimonianze degli ex deportati accompagnatori, letture di studenti. Le riprese non sono montate e non c’è una sceneggiatura tecnica.

Page 252: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

Capitolo VII248

Dagli Archivi del 2003 e del 2005 è stato tratto il materiale per la realizzazione digran parte del video Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e Gusen, DVD, 2006, col.,26’ 40”, regia e montaggio di Carla Piana, produzione del Laboratorio MultimedialeITIS “Pininfarina”.

Dall’Archivio 2006 è stato tratto il DVD La memoria condivisa, intervista ai parteci-panti dei viaggi della Memoria 2006, col., 16’ 30’’, regia e montaggio di FrancescoMartino, produzione del Laboratorio Multimediale ITIS “Pininfarina”.

Filmografia testimoniPier Luigi Cavanna

PIO BIGOCassette realizzate dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”:• SVHS ORIGINAL “V1” (viaggio 2000) • SVHS ORIGINAL “V2” (viaggio 2000) • SVHS ORIGINAL “V3” (viaggio 2000)• SVHS ORIGINAL “BUDO” (viaggio 2002)• VHS “AUGLIBIR 1” (viaggio 2004)• VHS “AUGLIBIR 2” (viaggio 2004)• VHS “AUGLIBIR 3” (viaggio 2004)• MINI DV “BUCDO 1” (viaggio 2006)• MINI DV “BUCDO 2” (viaggio 2006)• MINI DV “BUCDO 3” (viaggio 2006)• MINI DV “BUCDO 4” (viaggio 2006)

Video prodotti dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”• Le forme della memoria• Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e Gusen• L’eco della memoria. Un testimone fra i giovani• La memoria condivisa

CD-Rom• Un viaggio nella memoria (Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”)• Il ’900. I giovani e la memoria (classe 5 E Telec. dell’ITIS “Pininfarina”)

ANNA CHERCHICassette realizzate dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”:• SVHS ORIGINAL “SACHSENHAUSEN 1” (viaggio 2001)• VHS COPIA CANON CARLA PIANA (viaggio 2001)• SVHS ORIGINAL “SACHSENHAUSEN 2” (viaggio 2001)• SVHS ORIGINAL “RAVENSBRÜCK” (viaggio 2001)

segue

Page 253: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

249

Video:• Con Anna e Natalia a Ravensbrück (Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”)• La necessità di sopravvivere (Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”)• 44145 Anna (Liceo Scientifico “Majorana”)

CD-Rom prodotti dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”:• Memoria e scritture• Con Anna e Natalia a Ravensbrück

GIORGIO FERREROCassette realizzate dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”:• VHS “DANI 1” (viaggio 2003)• VHS “DANI 2” (viaggio 2003)• VHS “DANI 3” (viaggio 2003)• VHS “ANNA” (viaggio 2003)• VHS “TASI” (viaggio 2003)

Video prodotto dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS“Pininfarina”:• Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e Gusen

ALBINO MORETCassetta realizzata dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”:• SVHS ORIGINAL “BUDO” (viaggio 2002)

Video:• Ricordo di Albino Moret (Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”)• Matricola 0155. Un deportato inesistente (Michela Cane)

NATALE PIACassette realizzate dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”:• VHS “DANI 1” (viaggio 2003)• VHS “DANI 2” (viaggio 2003)• VHS “DANI 3” (viaggio 2003)• VHS “ANNA” (viaggio 2003)• VHS “TASI” (viaggio 2003)• MINI DV “NOFO” (viaggio 2005)• MINI DV “BOMAU” (viaggio 2005)• MINI DV “MAUGU” (viaggio 2005)• MINI DV “EBE” (viaggio 2005)

Video prodotto dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS“Pininfarina:• Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e Gusen

Appendici

Page 254: Testimoni luoghi memorie. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2006

Capitolo VII250

NATALIA TEDESCHICassette realizzate dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”:• SVHS ORIGINAL “POL 1” (viaggio 1999)• SVHS ORIGINAL “POL 2” (viaggio 1999)• SVHS ORIGINAL “POL 3” (viaggio 1999)• SVHS ORIGINAL “POL 4” (viaggio 1999)• SVHS ORIGINAL “SACHSENHAUSEN 1” (viaggio 2001)• VHS COPIA CANON CARLA PIANA (viaggio 2001)• SVHS ORIGINAL “SACHSENHAUSEN 2” (viaggio 2001)• SVHS ORIGINAL “RAVENSBRÜCK” (viaggio 2001)

Video prodotti dal Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”:• I giovani e la memoria• Con Anna e Natalia a Ravensbrück• Le forme della memoria• Un giorno: 27 gennaio 1945

CD-Rom:• Il ’900. I giovani e la memoria (classe 5E Telec. ITIS “Pininfarina”) • Memoria e scritture (Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”)• Con Anna e Natalia a Ravensbrück (Laboratorio Multimediale

dell’ITIS “Pininfarina”)

Rip

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B. Immagini della memoriaa cura di Carla Piana

Lavorare sulle testimonianze con le immagini e l’informatica

Come si è potuto vedere più sopra, nel resoconto analitico sui nove anni di viaggi,i risultati dei percorsi di studio e di testimonianza sono stati fissati anche attraverso glistrumenti più tipici del nostro tempo – l’immagine fotografica, il filmato, l’ipertestomultimediale – seguendo diverse strategie di realizzazione, e quindi con un quadrocomplessivo di risultati piuttosto variegato.

Alcune di queste realizzazioni si trovano nei materiali allegati al presente volume,le altre sono consultabili presso la Biblioteca dell’ITIS “Pininfarina” e dell’I.I.S.“Majorana”.

Gli istituti nella produzione video hanno lavorato autonomamente nello sforzo co-mune di valorizzare talenti individuali e capacità di rielaborazione personale diun’esperienza che riteniamo importante e significativa, ma tanto più fertile se diventacapace a sua volta di diffusione sia attraverso la tradizionale parola scritta sia attraver-so i linguaggi audiovisuali.

Naturalmente il cinema è entrato nel lavoro di preparazione come esempio dasmontare per comprendere tutte le valenze espressive e comunicative di cui lacinepresa e il lavoro di regia e montaggio sono capaci.

Per la nostra produzione tendiamo a usare generalmente la parola “video” nonsoltanto per il supporto usato – quello magnetico o digitale e non pellicola – ma ancheper la consapevolezza che parlare di film, ovvero di cinema, richiede una maggioredimestichezza con strutture narrative più complesse, frutto di un’esperienza plurien-nale da parte degli autori e di tutto lo staff di produzione.

Riteniamo utile proporre, a ulteriore illustrazione dei criteri didattici seguìti, unasintesi relativa all’attività del Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina” e leschede su alcuni dei video realizzati nel corso degli anni del Progetto Memoria. Essevalgono come documentazione di un percorso conoscitivo che si esprime, oltrechénella forma filmica, anche con la parola scritta e danno al lettore un’idea dei contenu-ti e dei princìpi ispiratori che hanno portato alla loro realizzazione.

Esperienze di un Laboratorio MultimedialeCarla Piana

Il Laboratorio Multimediale, proposto come parte integrante del Progetto Memo-ria del “Pininfarina”, si è dato come finalità alta quella di insegnare da un lato le com-petenze necessarie alla costruzione di un ipertesto, dall’altro quelle per la realizzazio-ne di un audiovisivo.

Proporre la creazione di un video significa sollecitare un gruppo di studenti acimentarsi con un’operazione volta a documentare le testimonianze raccolte durante

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i viaggi di studio, nella consapevolezza che la loro preziosità dev’essere valorizzata at-traverso una sintesi fra testimonianza individuale, studio del momento storico e po-tenzialità dei linguaggi audiovisuali.

A tali obiettivi progressivamente se ne sono aggiunti altri.Evidenziare quelle parole attraverso cui i testimoni ridavano vita anche ai loro

compagni di deportazione che con loro e in quei luoghi hanno sofferto senza riuscirea sopravvivere in condizioni al limite delle possibilità umane; riuscire a cogliere senti-menti ed emozioni che i testimoni si scambiavano tra loro e con i giovani che accom-pagnavano al fine di mettere a fuoco le motivazioni e le fatiche del loro continuo pel-legrinaggio (si rimanda per questo aspetto ai video Anna e Natalia a Ravensbrück e La ne-cessità di sopravvivere). Oppure documentare la modalità dei viaggi di studio, senza ri-nunciare a esprimere i propri pensieri; sottolineare che la visita ai campi era articolatain più momenti: uno di carattere collettivo di natura più ufficiale, segnato dalla pre-senza attenta e partecipe delle istituzioni a fianco degli studenti; un secondo di rivisi-tazione personale con i testimoni per momenti di riflessione più intima (si vedanoI giovani e la memoria; Le forme della memoria; Ricordo di Albino Moret; Parole e Segni oltre ilTempo. Mauthausen e Gusen; L’eco della memoria. Un testimone fra i giovani).

Naturalmente questi obiettivi non possono essere improvvisati, soprattutto se siusa per la prima volta uno strumento di comunicazione che ha una sua grammatica ecodici diversi sia da quelli familiari ai ragazzi sia da quelli acquisiti tradizionalmente ascuola.

Il lavoro svolto dall’insegnante coordinatore, a partire dalla preparazione di base,è stato quello di dare spazio agli studenti ogni volta che era possibile, ma anche di aiu-tarli materialmente a uscire dalle numerose difficoltà incontrate nel gestire tecnologiein trasformazione (il passaggio dall’analogico al digitale) e nel superare gli inconve-nienti propri delle tempistiche scolastiche quando ci sono laboratori in continuaristrutturazione. Per tale ragione i video, pensati con gli studenti nella fase dell’idea-zione, nello sviluppo dei soggetti e delle sceneggiature, sono stati montati spesso conl’aiuto dell’insegnante coordinatore, senza nulla togliere al valore complessivo del-l’esperienza didattica dell’uso dei nuovi linguaggi.

Sono da aggiungere alcune considerazioni sulla socializzazione dei vari momentidi lavoro per la produzione dei video all’interno del gruppo interscolastico durante iviaggi di studio.

Al gruppo video hanno partecipato, con funzioni diverse, studenti delle Scuole Su-periori di Moncalieri uniti dalla condivisione della finalità e del metodo di lavoro. Tut-tavia, dal momento che le riprese non erano improvvisate ma studiate in precedenza, eche non si lavorava con la logica dell’occhio invisibile che registra quanto accade ma siragionava in termini di inquadrature opportune (campi e controcampi, piani, dettaglie sequenze da alternare in fase di montaggio), di cavalletti per dare fermezza alla tele-camera e di microfoni per ottimizzare l’audio, spesso il gruppo video si è trovato nelruolo di terzo incomodo fra testimoni e studenti. Ruolo non sempre compreso da chi èestraneo alle problematiche legate a una costruzione filmica che vuole essere, come sidiceva, documentazione e rielaborazione di un’esperienza di studio. Questo fatto tal-volta ha suscitato l’idea che il gruppo video togliesse libertà di espressione ai testimoni,come se la spontaneità di immagini girate senza interazioni tra i soggetti interessati (re-gisti, teleoperatori, testimoni, studenti e insegnanti) consentisse di costruire la migliorecomunicazione possibile per documentare l’esperienza fatta nel suo insieme.

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A tale proposito sono state fatte ferventi discussioni durante i viaggi di ritorno inpullman che hanno portato a una maggiore consapevolezza di quanto lavoro ancorasi debba fare sui nuovi linguaggi che l’elettronica ha messo a disposizione: linguaggiimmediatamente leggibili in superficie dai fruitori di ogni età, ma non altrettanto co-nosciuti nei meccanismi della loro complessa elaborazione.

La socializzazione successiva che ha portato i video prodotti a essere proiettati inpubblico in diverse circostanze e a partecipare a rassegne qualificate – come “Antepri-ma Spazio Torino”, “Torino Film Festival”, “Filmare la Storia, “SantenaCorto-FilmFestival” – può attestare il raggiungimento dell’obiettivo di una decorosa effica-cia comunicativa, con la soddisfazione degli autori e dei testimoni la cui eco ha cosìraggiunto un numero imprevisto di spettatori.

Materiali prodotti:• Video SVHS I giovani e la memoria, 1999, col., 17’, realizzazione degli studenti delLaboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”, coordinati da FortunatoMesiano e Carla Piana; presentato a “Big 2000”;• Video VHS Compagni di un viaggio, 1999, col., 8’, regia di Emanuele Cassaro /Matteo Gai (L.S. “Majorana”); presentato a “Torino Film Festival 1999(Scuole)”;• Video SVHS Le forme della memoria, 2000, col., 20’, realizzato dagli studenti delLaboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina” coordinati da FortunatoMesiano e Carla Piana; presentato a “Sottodiciotto Filmfestival” e a “Torino FilmFestival 2000 (Scuole)”;• Video VHS Frammenti di memorie, 2000, col., 9’, regia di Emanuele Cassaro(L.S. “Majorana”); presentato a “Torino Film Festival 2000 (Scuole)”;• Video VHS 44145 Anna, 2001, col., 16’, regia di Michela Cane (L.S. “Majora-na”); presentato a “Anteprima Spazio Torino X 2001”;• CD-Rom multimediale Il ’900. I giovani e la memoria, 1999, Area di Progetto dellaclasse 5E Telecomunicazioni dell’ ITIS “Pininfarina” coordinata da FrancescoMartino e Marcella Pepe;• CD-Rom multimediale Un viaggio nella memoria, 2000, Laboratorio Multimedialedell’ITIS “Pininfarina”, a cura di Francesco Martino;• CD-Rom multimediale Memoria e scritture, 2001, a cura degli studenti del Labora-torio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina” coordinati da Fortunato Mesiano eCarla Piana;• DVD-Video / VHS Ricordo di Albino Moret, 2002, col., 16’ 30”, semplice girato del-la testimonianza di Albino Moret nel Lager di Dora e al Museo di Buchenwald, acura del Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”; presentato aMoncalieri in occasione del “Giorno della Memoria”, 27 gennaio 2003, rielabo-rato in forma digitale nel 2006;• DVD Matricola 0155. Un deportato inesistente, 2003, col., 14’ 56”, regia di MichelaCane, autoprodotto dalla regista; • CD-Rom / VHS Con Anna e Natalia a Ravensbrück, 2003, col., 11’ 08”, realizzatodagli studenti del Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”, con regia emontaggio di Carla Piana; presentato a Moncalieri in occasione del “Giorno del-la Memoria”, 27 gennaio 2004 e proiettato al concorso “Filmare la Storia (2004)”;

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• Video-SVHS Memorie di pietra, 2003, col., 8’, regia di Paolo Bommino (I.I.S.“Majorana” – Sezione Scientifica); proiettato al concorso “Filmare la Storia” delMuseo diffuso della Resistenza, della Deportazione, dei Diritti e della Libertà diTorino (22-30 giugno 2004);• DVD-Video Il Giorno della Memoria, 2004, col., 16’, realizzato da FrancescoMartino, Fortunato Mesiano e Carla Piana;• Video-SVHS Tracce, 2004, col., 3’, regia di Lorenzo Anania / Mario Mancuso(I.I.S. “Majorana” – Sezione Scientifica); presentato a “Sottodiciotto Film-festival”;• DVD-Video La necessità di sopravvivere, 2005, col., 18’, realizzato dagli studenti delLaboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”, con regia e montaggio diCarla Piana; presentato a Moncalieri in occasione del “Giorno della Memoria”,27 gennaio 2005, e al concorso “Filmare la Storia (2005)”;• DVD-Video Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e Gusen, 2005, col., 26’ 40”, rea-lizzato da Carla Piana con immagini tratte dall’Archivio Multimediale dell’ITIS“Pininfarina”; presentato a Moncalieri in occasione del “Giorno della Memoria”,27 gennaio 2006;• DVD-Video Un giorno: 27 Gennaio 1945. Memoria e testimonianze, 2006, col., 13’,realizzato nel Laboratorio Multimediale dell’ITIS “Pininfarina”, con la regia diFrancesco Martino, con immagini tratte dall’Archivio dei viaggi dell’a. s. 1998-1999 ad Auschwitz e dell’a. s. 1999-2000 a Fossoli-Carpi; presentato a “Filmare laStoria (2006)”;• DVD-Video La memoria condivisa, 2006, col., 16’ 30”, intervista ai partecipanti delviaggio 2006 a Dora e Buchenwald, realizzato nel Laboratorio Multimedialedell’ITIS “Pininfarina”, con regia di Francesco Martino, con immagini tratte dal-l’Archivio del viaggio dell’a. s. 2005-2006; presentato al “SantenaCortoFilm-Festival” (Sezione Scuola);• DVD-Video L’eco della memoria. Un testimone fra i giovani, 2006, col., 40’, realizzatodagli studenti del Laboratorio Multimediale dell’ ITIS “Pininfarina” (2000-2006),con regia e montaggio di Carla Piana e Francesco Martino;• DVD-Video KZ solo andata, 2006, col., 4’ 32”, regia di Micol Bonapace (collabora-zione di Ian Marc Bonapace).

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Compagni di un viaggioEmanuele Cassaro e Matteo Gai

Il film è stato girato il 28 marzo 1999 in Polonia, durante un viaggio effettuato nel-l’ambito del Progetto Memoria. Le immagini sono quelle che abbiamo scelto di ri-prendere all’interno del campo di Auschwitz II-Birkenau, ora diventato luogo dellamemoria e museo.

Abbiamo voluto realizzare non un documentario, consapevoli del fatto che giàmolti ne sono stati girati, e da persone più esperte e più documentate di noi, ma piut-tosto un cortometraggio che fosse in grado di fotografare le emozioni che ha suscitatoin noi quella visita.

Il nostro intento è stato dunque quello di riproporre allo spettatore il percorsocompiuto da coloro che erano destinati alla immediata eliminazione nelle camere agas, in particolare dai bambini, dal loro arrivo sui vagoni piombati al loro ingressonelle camere e nei forni; i nomi di alcuni di questi bambini, ricavati dal Libro della me-moria di Liliana Picciotto Fargion, accompagnano lo spettatore lungo il tragitto versola loro tragica fine, cercando di creare anche solo per un momento una unione spiri-tuale fra chi adesso vede queste immagini e coloro che le hanno vissute negli anni buidel nazismo e del fascismo.

Il film può essere idealmente diviso in due sezioni: la prima individua il percorsolungo i binari appena arrivati nel campo, la seconda quello compiuto dalle vittime al-l’interno dell’edificio del crematorio. Abbiamo scelto, per il secondo aspetto, le rovinedel Crematorio II di Birkenau. L’uso di dissolvenze a nero ha rappresentato la solu-zione più adeguata per trasmettere e mantenere il ritmo tranquillo ma non malinco-nico che abbiamo voluto dare al film; in ciò siamo stati aiutati anche dalla musicacomposta in Lager, e adatta, per le sue caratteristiche di durata, all’asimmetria delleimmagini e della lettura dei nomi, non filtrata dai rumori esterni.

La prima sezione si apre con l’immagine in soggettiva dei binari tramite i quali sientrava a Birkenau, accompagnata dalla musica di Olivier Messiaen (1908-1992),Quartetto per la fine del tempo (inverno 1940, Stalag di Goerlitz); la musica sfuma dopoqualche secondo per far spazio a un elenco di date e nominativi di bambini deportatidall’Italia e uccisi all’arrivo al campo, letto da alcuni dei partecipanti alla visita; que-sto elenco, parte di uno più lungo che durante la visita era stato letto sulle rovine delCrematorio II, come momento di raccoglimento e riflessione, è la vera colonna sono-ra del film che, alternata a momenti di silenzio, accompagna lo spettatore durante tut-to il tragitto percorso dalla telecamera. La sequenza dei binari è interrotta dalle im-magini in cui, sullo sfondo dell’entrata principale, due ragazze leggono alcuni nomi-nativi, facendo sì che la voce inizialmente fuori campo entri in campo per diventarequasi una presenza fisica e concreta. Con le due immagini che rompono lo scorreresui binari vogliamo rendere il reale contrasto fra il ricordo conservato da quei binari ela memoria di noi visitatori, presenza anacronistica ma non immune alle emozioni;proprio per questo i binari tornano in una seconda sequenza a rappresentare il ritor-no al passato, da noi lasciato per dare spazio al nostro ricordo.

Nella seconda sezione l’inquadratura mossa e traballante (soggettiva), che rispec-chia la nostra stessa vista di fronte a quei luoghi, si spinge fra le rovine delle camere agas e dei forni crematori. Le sequenze in movimento sono interrotte da tre inquadra-ture, progressivamente più lunghe e nitide, di un forno crematorio (il III di Birkenau,

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perfettamente uguale al II: è l’unica fotografia rimasta dell’edificio così com’era du-rante la sua attività). Le tre immagini rappresentano la progressiva consapevolezzadelle giovani vittime che si trovavano improvvisamente di fronte a una fine crudele einaspettata. Il sospetto, l’immagine sfuocata, diventa gradualmente certezza. La sog-gettiva passa allora dalla zona in cui si trovavano i forni veri e propri, coi resti dellestrutture, fino ai resti di una scala, indicando così il passaggio dalle fiamme alla libertàdel cielo. Il loro, il nostro viaggio è finito e dal cielo si passa alle fiaccole del ricordo,che vanno accese e tenute accese.

Compagni di un viaggio:fra emozioni, conoscenza e ragione. Nota sul percorso didatticoLucio Monaco

Il breve filmato Compagni di un viaggio è una delle realizzazioni del Progetto Memo-ria. È stato girato il 28 marzo 1999 all’interno del campo di Birkenau (Auschwitz II),durante il viaggio di studio a Cracovia, Auschwitz, Birkenau, Buna-Monowitz e altragitto della “marcia della morte” del gennaio 1945. La visita a Birkenau si era svoltacon l’intero gruppo di 75 studenti il 27 marzo 1999; il giorno dopo – su proposta degliinsegnanti coordinatori – un gruppo più ristretto di 12 studenti del Liceo “Majora-na”, insieme a insegnanti e studenti dell’ITIS “Pininfarina”, con le cui attrezzaturesono state effettuate le riprese, è tornato nel Lager con l’intento di realizzare non undocumentario, ma piuttosto un cortometraggio che fosse in grado di restituire, razio-

Discutendo le riprese di Compagni di un viaggio (Birkenau, marzo 1999)

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nalizzandole, come è importante fare, le emozioni del giorno prima (quando, fral’altro, era stata letta, sulle rovine del Crematorio II, una lista di nominativi di bambi-ni ebrei deportati dall’Italia). Si è pensato di ripercorrere, per poi riproporlo allo spet-tatore, il tragitto compiuto da coloro che erano destinati alla immediata eliminazionenelle camere a gas, in particolare dai bambini, come si è detto. Il ricorso alla ripresasoggettiva è apparso il più indicato, anche perché si riconnette, per allusione, all’iniziodi Nuit et brouillard di Alain Resnais.

Il montaggio delle riprese, che erano state accuratamente annotate, è stato effet-tuato interamente dagli studenti, e ha costituito un ulteriore momento di razionaliz-zazione, filtrata attraverso il codice filmico. Va notato che la realizzazione tecnica èstata eseguita con i soli mezzi a disposizione del Liceo (una centralina rudimentale).La qualità tecnica è stata così sacrificata a favore di un maggiore impegno (si lavoravanella scuola, senza limiti di tempo o economici) dal punto di vista della cura della sce-neggiatura e della resa del discorso. Sono emerse alcune idee nuove rispetto al proget-to inizialmente abbozzato, come l’elemento strutturale delle tre inquadrature fisse,progressivamente più lunghe e meno sfocate, di una foto storica del Crematorio III(identico, costruttivamente, al II). Anche la musica (di Messiaen) e la lettura dei nomidi bambini deportati sono state concepite per conferire unità strutturale.

L’intenzione di fondo, in ogni caso, è stata quella di lavorare didatticamente sul-l’intreccio fra dimensione emotiva e razionale: vorrei spendere qualche parola a que-sto proposito.

«La Shoah crea inquietudine e angoscia, due sentimenti ingestibili soprattutto daparte di chi è privo di autonomia culturale ed emotiva. È irriducibile a qualsivogliacondiscendenza. È il terrore allo stato puro che si cela dietro i discorsi razionalistici.»Queste parole di Claudio Vercelli (Ha Keillah n. 5 / dicembre 2000 [a. XXV-n.128]) sipossono applicare alle due forme di esperienza dell’evento, quella mediante i raccon-ti o le ricostruzioni documentarie, e quella attuata mediante la visita dei luoghi. Ora,riprendendo e integrando le considerazioni di Vercelli, ci sono due modi di farvi fron-te mediante meccanismi di rimozione: la negazione, oppure l’esorcizzazione attraver-so l’abbellimento o sublimazione immaginifica (ad esempio il film di Benigni può essereletto in questa chiave). Entrambi questi meccanismi sono strettamente legati a quelprocesso che Enzo Traverso, citato da Vercelli, descrive così: «La memoria diAuschwitz si offusca via via che all’evento storico viene sostituito un complesso mu-seale e visivo chiamato “Olocausto”, il quale rimuove ogni sforzo di rimemorazione,di riflessione e di comprensione critica, sostituendovi una crescente condensazioneemotiva. Il cuore diventa in questo caso il surrogato di un’introspezione critica del tut-to assente.»

La Shoah va contemporaneamente restituita alle sue cause e al suo tempo (e allenostre responsabilità), pur sapendo che questo non intacca il contenuto di angoscia edi forte tensione emotiva che la caratterizza.

Il filmato Compagni di un viaggio costituisce l’esperimento della rappresentazione diuna realtà oggettiva ma angosciante e di una esperienza emotiva, come quella dellavisita a Birkenau descritta sopra. Si è cercata così una strada per fare fronte al proble-ma del rapporto fra emozioni, conoscenza e ragione. Il nodo emotivo nato dalla visi-ta a quel settore di Birkenau (culminata come s’è detto nella lettura della lista di bam-bini, tenuta da due studentesse, sulle rovine del Crematorio) è stato risolto nella pro-

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posta di un’azione concreta, la sua ricostruzione a livello visivo (ripercorrendo partedella strada fino al crematorio) e verbale (la lettura dei nomi, scegliendo date e circo-stanze in modo che però costringesse l’ascoltatore a riflettere di fronte a dati apparen-temente neutri).

I problemi tecnici di ripresa hanno costituito un momento di piena estraniazione ri-spetto all’impatto emotivo, e così, più tardi, i problemi di montaggio e di associazionealla musica. Sono entrate in gioco categorie specifiche del linguaggio filmico (storyboard,campo lungo, soggettiva: grazie anche alle competenze di Carla Piana) e del discorso,diciamo così, estetico (citazione, allusione, elemento strutturale, linguaggio metaforico).In questo senso vanno considerati i riferimenti abbastanza evidenti a Resnais (Nuit etbrouillard) e a Lanzmann (Shoah) e l’uso della musica di Messiaen (elemento rischiosoperché Messiaen non era un deportato cosiddetto razziale, né politico, e per di più visseindisturbato a Parigi nel periodo della guerra. Ma all’epoca non vi erano altri testi mu-sicali reperibili che offrissero al tempo stesso un aggancio al mondo concentrazionario eun parallelismo fra testo, ripresa e struttura, le già citate asimmetrie).

Il risultato di questi due momenti successivi (emotività – costruzione razionale) è ilfilm, in cui certamente, al di là delle imperfezioni tecniche (si tratta comunque pursempre di una simulazione didattica), si possono ritrovare esplicitamente dichiarati al-cuni elementi che caratterizzano la Shoah: la sua insostenibilità, il fastidio che genera (siveda l’eccessiva lunghezza della ripresa, e il fatto che il filmato non vuole “piacere”), eal contempo il suo forte contenuto emotivo.

Siamo riapprodati alla dimensione emotiva, ma su un piano più elevato: questavolta nasce da un processo di consapevolezza e di collocazione in un tempo e in unospazio storico dati (“arrestato da fascisti”), e ricarica di significato un luogo di memoriache rischia, attraverso un eccesso di monumentalizzazione, di fuoriuscire dalla storia mi-tizzandosi. Il disordine delle emozioni si costituisce in patrimonio positivo di esperien-za interiore per chi ha lavorato a questo film, e forse anche, con un percorso omologo,per chi lo guarda.

Frammenti di memorieEmanuele Cassaro

Il film nasce dal desiderio di dare un’immagine alle parole e ai racconti di OrfeoMazzoni (1924-1998), partigiano, deportato e superstite di Mauthausen e Gusen,conservati in un filmato del 1990 (girato in occasione di un incontro con gli studenti delnostro Liceo). Vi abbiamo quindi innestato le immagini raccolte durante un viaggionei Lager austriaci effettuato nell’aprile 2000. Lo scopo del viaggio era – così comequello del film – di toccare con mano luoghi che prima non possedevano una dimen-sione fisica: l’obiettivo percorre punti esemplari, assunti simbolicamente ma che coin-cidono con i luoghi effettivamente vissuti da Orfeo Mazzoni e da lui menzionati du-rante l’intervista (la scala di Mauthausen, il portone di ingresso, il percorso dei nuoviarrivati, ciò che resta di Gusen oggi – il Memoriale di Belgiojoso – , la camera a gas).

Le due memorie – quella del vissuto di Orfeo e quella del rivissuto del nostro viag-gio (da qui il titolo) – si affiancano e si alternano nello scorrere del film, o si sovrap-pongono impiegando il racconto come guida delle immagini. La vita e la sofferenza inLager sono riassunte e rappresentate dalla soggettiva della “scala della morte”, che

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conduce alla cava di Mauthausen, accompagnata solo dalla musica di OlivierMessiaen, che diventa essa stessa il racconto universalizzante l’esperienza del depor-tato. Particolare attenzione, nella fase di montaggio, è stata posta al problema dei rit-mi narrativi. Il testimone procede su un doppio binario: il ritmo dei gesti e quello delracconto; a questa duplicità cerca di rispondere l’intero montaggio, che propone pa-rallelismi e simmetrie: talvolta più evidenti, come nella posizione del muro nelle sog-gettive in movimento dell’ingresso a Mauthausen, della “scala della morte” e del cor-ridoio del Memoriale di Gusen, talvolta più criptiche e affidate all’intuito dello spetta-tore. Viene così ottenuta una forte analogia di ritmo fra i due racconti: se video (i gesti,lo sguardo) e audio (le parole) si fronteggiano nel racconto del deportato, l’intero fil-mato acquisisce una sua dimensione video e una sua dimensione audio che si affian-cano e si completano.

Ultimo luogo simbolico, la camera a gas di Mauthausen, sottolineata dalle paroledi Mazzoni che ricordano la fragile precarietà dell’esistenza in Lager. L’occhio dellacinepresa viaggia nel locale, in analogia con una celebre sequenza di Alain Resnais,ma con un percorso diverso: parte dal soffitto e dalla luce per misurare l’angoscia del-le pareti che chiudono ancora oggi il visitatore in una morsa, fino a stringere sull’uni-co, fittizio ma inquietante contatto con l’esterno: l’infame spioncino, oltre il quale sipercepisce una presenza ancora viva, quella di un male ancora possibile.

Le forme della memoriaCarla Piana

Il video è il risultato conclusivo di un corso teorico-pratico sul rapporto fralinguaggio audiovisivo e ricostruzione storica, tenuto da Carla Piana all’interno delProgetto Memoria durante l’anno scolastico 1999-2000.

Duplice l’obiettivo del corso: da una parte quello di approfondire i temi del rap-porto fra storia collettiva e memoria degli ex deportati, fra riflessione personale dellostudente e le tesi delle varie interpretazioni storiografiche, il diverso impatto emotivofra la scrittura tradizionale e quella elettronica nella ricostruzione delle memorie degliex deportati; dall’altra quello di preparare gli studenti a realizzare un proprio filmatoal ritorno dal viaggio di studio a Mauthausen e ai suoi sottocampi alla luce della rifles-sione maturata. Attraverso una serie di esercitazioni pratiche, gli studenti hanno pre-so confidenza con le apparecchiature e le tecniche di videoripresa, i diversi metodi direalizzazione di una sceneggiatura, e di scrittura di uno storyboard. La complessità del-l’obiettivo prefissato, soprattutto per studenti abituati a una fruizione passiva dell’in-formazione audiovisiva, ha richiesto un lungo lavoro di messa a punto attraverso varieipotesi di montaggio, fino alla realizzazione di quello conclusivo nella piena consape-volezza del ruolo nuovo che le produzioni audiovisive di carattere storico vengono adassumere quando si rivolgono a un pubblico di studenti.

Il video, presentato al “Sottodiciotto Filmfestival”, ha ottenuto dalla giuria unamenzione per «la complessità del lavoro di studio e di divulgazione di contenuti e in-terrogativi storico-morali fortemente motivanti nell’ambito educativo».

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44145 AnnaMichela Cane

Realizzato durante una visita ai campi di concentramento tedeschi di Sachsen-hausen e Ravensbrück nell’ambito del Progetto Memoria, questo video è la testimo-nianza di una torinese, Anna Cherchi Ferrari, ex deportata nel Lager diRavensbrück, che, ritornata sul posto, ci ha raccontato parte di quello che ha vissuto.

Il video raccoglie alcuni suoi pensieri, espressi lasciando trasparire chiaramente leforti emozioni provate, ma con una certa serenità. Oltre ai terribili racconti più voltesentiti, emerge infatti un messaggio positivo: la bellezza della vita, che “merita di esse-re vissuta in qualunque modo essa si presenti”, e la riconoscenza nei confronti di tantecompagne che sono morte, ma che le hanno insegnato “come si doveva fare per so-pravvivere”.

Benché spesso Anna abbia sottolineato l’impossibilità, per chi non l’ha vissuta, dicomprendere fino in fondo l’esperienza del Lager nazista, si è cercato di dare un’ideadi ciò che si può ancora conoscere e uno spunto di riflessione sul fatto che coloro chehanno visto e vissuto non potranno mai raccontare tutto. A questa difficoltà della me-moria di districarsi fra passato, presente e passaggio di generazione vuole alludere laparte finale – del tutto inaspettata – che ripropone, oltre alle immagini già viste, rapi-de sequenze non viste, corrispondenti forse alle parti più profonde della memoria (diquella di Anna, e della nostra).

“Io spero che capiate cosa significava, cosa è significato il campo di sterminio.”(Anna Cherchi)

Anna e Natalia a RavensbrückCarla Piana

All’interno del Museo di Ravensbrück Anna Cherchi, ex deportata politica, eNatalia Tedeschi, ex deportata “razziale”, vengono intervistate nel 2001 da alcunistudenti del Progetto Memoria sul modo con cui hanno affrontato la responsabilitàdel testimoniare la propria esperienza nei campi di concentramento.

Il contesto particolare dà al dialogo un tono non tanto di intervista quanto di con-fidenza intima nel tentativo delle due testimoni di spiegare non solo ai giovani, ma an-che l’una all’altra, la diversità della loro esperienza concentrazionaria: ambiti in cuiva ricercata la diversa fatica a ripercorrere gli eventi per testimoniare, a guerra finita,le tragedie vissute.

Semplici inquadrature con campi medi, primi piani alternati a immagini del museoe a quelle degli studenti intenti all’ascolto consentono allo spettatore di concentrarsi suldialogo fra le due donne. Per Anna, superate le difficoltà iniziali (“da principio non vo-levo mettere in palcoscenico le sofferenze subite”), il parlare era diventato un dovere didare voce a chi non era più tornato e aveva sacrificato la vita per la libertà. Per Nataliail bisogno di silenzio per molto tempo aveva avuto il sopravvento, nella consapevolezzadi non poter capire e spiegare il senso della tragedia che aveva colpito tutta la sua fami-glia e il suo popolo e nel timore di non essere compresa nel dolore provato.

In seguito sulle parole di Natalia scorrono immagini del campo di Auschwitz II-Birkenau, dei forni crematori, del monumento eretto a memoria e dei resti dello

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sterminato numero di baracche presenti in quel Lager, cifra della dimensione del pri-mo campo di sterminio in cui Natalia fu reclusa.

La telecamera ritorna su Anna e sulle fotografie presenti nel museo, che lei osservamentre con voce sicura sostiene la convinzione che la forza del pensiero positivo puòcombattere la volontà di annientamento del sistema ed è stata capace di sconfiggereHitler, prima che sui campi di battaglia, nei Lager stessi.

L’immagine finale di Natalia che contempla pacatamente il Lago di Ravensbrücke una sua riflessione su ciò che l’aveva aiutata a sopravvivere vogliono esprimere lafunzione salvifica del pensiero e del ricordo come capacità di rielaborazione indivi-duale che permette di sfuggire non solo alla volontà di spersonalizzazione perseguitadagli aguzzini ma anche alla tentazione, comprensibile ma sterile, dell’oblio da partedei sopravvissuti.

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La necessità di sopravvivereCarla Piana

Il video vuole essere una semplice registrazione dell’esperienza di deportazione diAnna Cherchi nel Lager di Sachsenhausen, oggi luogo della memoria e museo.

Ripresa mentre entra nella piazza dell’appello, racconta di quando, come e perchéè stata fatta prigioniera, ma quasi subito passato e presente si sovrappongono e il suosguardo sul campo di oggi diventa spontaneamente quello più profondo impresso nel-la sua memoria.

Mentre si aggira per il museo, quasi a verificare con attenzione la veridicità delleparole della guida, la rievocazione dei suoi ideali giovanili è affidata a un canto parti-giano, Oltre il ponte, che indica ai giovani il male da combattere e il bene a cui tenersistretti. La telecamera segue Anna fino nel Blocco di Patologia dove le sue sensazionisono descritte attraverso una serie di campi medi, controcampi, primi piani e soggetti-ve che evidenziano quanto i suoi occhi siano, a questo punto consapevolmente, inten-ti a cercare la corrispondenza tra quello che era e quello che è il luogo del patire chesta per testimoniare ai suoi giovani amici.

Dopo aver espresso le sue rimostranze alla guida del Lager perché le trasformazio-ni museali stanno rendendo anonimo il luogo da cui è scomparsa persino la scritta“Laboratorio di Patologia medica”, subito inizia il suo racconto. Serena, determina-ta, ha la forza di trasformare la negatività del luogo e la drammaticità della sua espe-rienza in un fiume di energia positiva tesa a sottolineare il valore della solidarietà fra leprigioniere e la necessità di sopravvivere per sé e per gli altri, “perché la vita è bella emerita di essere vissuta in qualsiasi circostanza” e per non “darla vinta a queimostri…”.

Dopo essere stata circondata da studenti premurosi e attenti, esce dal Lager sotto-braccio a uno solo, a simbolo di una solitudine sempre presente, vissuta con orgoglio,ma perennemente rimessa in discussione per la sua instancabile volontà di testimo-nianza. Le note che accompagnano le sue immagini in solitaria, lungo il corso delfilm, sono quelle di In cerca di cibo, a evocare una sensazione strettamente legata al luo-go come lo sono le immagini di un tempo.

Come nota a margine, ci fa piacere qui ricordare che l’inserimento nel video delprototipo dell’aereo Messerschmitt, prodotto nella fabbrica dove Anna lavorava, èstato il frutto di una laboriosa ricerca giunta a buon fine grazie al contributo delfotografo Roberto Conte.

L’eco della memoria. Un testimone fra i giovaniCarla Piana

Il video ripercorre alcune tappe dei viaggi fatti con Pio Bigo nel 2000 a Mauthau-sen e al sottocampo di Linz; nel 2002 e nel 2006 al Lager di Buchenwald; nel 2004 adAuschwitz II-Birkenau, Auschwitz III-Buna e Gliwice.

Da tempo l’idea di documentare il cammino fatto da Pio attraverso sette campi diconcentramento è stata preparata e discussa dagli studenti del Laboratorio Multime-diale attraverso incontri sia ristretti sia assembleari, ma era necessario ripercorrere in-sieme tutto il suo viaggio di allora per raccogliere le impressioni sulle trasformazioni

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recenti dei luoghi e le diverse modalità con cui la memoria dei fatti accaduti è conser-vata e valorizzata a perenne monito delle generazioni future.

Le testimonianze di Pio in parte sono state già inserite in altri video e CD-Romprodotti dal Laboratorio Multimediale, segno di come la sua partecipazione e affezio-ne agli studenti abbia una lunga storia. Per questa ragione, e per non lasciare inArchivio molti momenti particolari del prezioso apporto dato da Pio alla crescita distudenti e docenti, gli insegnanti coordinatori del Laboratorio Francesco Martino eCarla Piana hanno realizzato un montaggio che vuole essere fedele ai progetti fatti in-sieme ai ragazzi presenti nel tempo al suo fianco. Da qui il titolo L’eco della memoria. Untestimone fra i giovani, perché al ricordo puntuale e preciso di Pio segue quello rimastoimpresso nei suoi ascoltatori, che a loro volta si sono impegnati e si impegneranno amantenere il ricordo di eventi che hanno drammaticamente segnato la nostra moder-nità. Le musiche scelte a commento delle immagini sono state composte da MassimoLajolo, responsabile del Laboratorio musicale dell’ITIS “Pininfarina”, dopo un’at-tenta valutazione delle richieste avanzate e dopo il lavoro di premontaggio.

Parole e Segni oltre il Tempo. Mauthausen e GusenCarla Piana

Il video ripercorre alcune tappe dei viaggi fatti a Mauthausen e Gusen nel 2000,nel 2003 e nel 2005 da insegnanti e studenti del Progetto Memoria con i testimoni PioBigo, Giorgio Ferrero e Natale Pia e documenta uno stare insieme per rievocare i vis-suti tragici proprio in quei campi di concentramento e sterminio di cui i giovani neiviaggi di studio vengono ad avere un’esperienza non soltanto teorica ma anche perso-

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nale ed emotiva. Le riprese fatte da studenti, di cui solo alcuni preparati all’uso del lin-guaggio delle immagini, hanno alternato momenti di documentazione diretta delletestimonianze e della visita a momenti opportunamente predisposti per dare formaalla struttura narrativa del video in precedenza pensato, studiato e preparato. Questodoppio impegno ha determinato anche le impurità di un audio che nelle riprese in di-retta risente inevitabilmente dei rumori dei lavori in corso nei campi durante la visita,oltreché della scarsa familiarità con l’uso del microfono. Le immagini iniziali propon-gono un sovrapporsi tra fotografie d’epoca e panoramiche sull’attuale piazzale d’in-gresso per rievocare situazioni, stati d’animo, rapporti di forza che hanno visto con-trapposti aguzzini e vittime. Nel racconto filmico, all’analisi delle lapidi posate lungoil perimetro del campo e a una panoramica sui monumenti eretti dalle Nazioni, seguela viva testimonianza degli ex deportati che ricostruiscono con precisione gli eventiconseguenti al loro internamento e le condizioni della loro quotidianità. Da qui il tito-lo Parole e Segni oltre il Tempo sovraimpresso alla enorme grata ferrata, che costituisce ilmonumento eretto dalla ex DDR, a significare che tanto maggiore è stata la determi-nazione dei regimi nazifascisti nel cancellare una umanità considerata inferiore odoppositrice tanto più il pensiero e l’azione di una umanità capace di resistenza e di eti-cità vuole stabilire degli argini materiali e simbolici alla violenza dell’uomo sull’uomo,a perenne monito per le giovani generazioni. Particolare attenzione è stata posta alledescrizioni del crematorio e della cava di granito di Mauthausen, dove sulle immaginiche scorrono vengono fatte risuonare dalla voce di studenti le parole contenute nei li-bri di memoria, allo scopo di rendere perenne il grido d’indignazione di chi in questiluoghi ha saputo mantenere una lucida consapevolezza delle aberrazioni umane euna capacità di compassione per i compagni di sventura.

Le musiche scelte a commento delle immagini non sono quelle ascoltate daiprigionieri nei Lager, ma vogliono riproporre suoni, rumori sicuramente presentiai prigionieri, al fine di rafforzare il contenuto emotivo del racconto. Particolarmentesignificativo risulta il capitolo dedicato a Gusen, in cui le immagini vogliono eviden-ziare una precisa volontà di dimenticanza, quasi che i luoghi dove la sofferenza uma-na ha toccato vertici indicibili possano essere superficialmente bonificati da giardini evillette ripopolate da famiglie borghesi. L’occhio della telecamera e le voci narrantifuori campo sottolineano i contrasti e le trasformazioni avvenute nel tempo (come lavilla risultante dalla ristrutturazione dell’edificio d’ingresso al campo), evidenziandocome lo stesso Memoriale di Belgiojoso, costruito intorno al forno crematorio, risultisoffocato dalla speculazione edilizia, quasi una presenza scomoda.

Le testimonianze di Pio Bigo (avvenuta nel 2000), di Natale Pia e Giorgio Ferrero(avvenute nel 2003) e la commemorazione del 25 aprile (avvenuta nel 2005) con la de-posizione di una corona e di un’installazione, opera degli studenti dell’I.I.S. “Majora-na” – Sezione Scientifica, sottolineano la volontà di perpetuare il ricordo di quelloche è stato. Confortante per tutti la presenza di insegnanti locali impegnati nella con-servazione del Memoriale e nella valorizzazione dei documenti d’epoca. Il filmato nelsuo insieme documenta anche il metodo di lavoro del Progetto Memoria. Le visite aicampi sono preparate con scrupolo e a un primo approccio orientativo e di testimo-nianze segue una loro rivisitazione più riflessiva e personale per sentire il respiro dellememorie e della Storia. Lo spazio dato alla presenza delle autorità di Moncalieri e delluogo ospite fra volti di studenti attenti e commossi vuole dimostrare come, lontani daforme retoriche, i giovani possano comprendere il valore di un legame tra scuola, ter-

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ritorio e istituzioni che prende forma concreta in un momento celebrativo volto a va-lorizzare la memoria come un impegno morale e civile fondamentale nel percorsoformativo dei giovani.

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Ricordo di Albino MoretCarla Piana

Il video consiste in una recente revisione digitale di un semplice montaggio delleimmagini girate nei Lager di Dora e al Museo di Buchenwald nel 2002. Nella nuovaversione DVD si è voluto dare risalto ad Albino e alla sua voce: dal conferimento dellacittadinanza onoraria da parte della Città di Moncalieri all’ultimo viaggio fatto con ilProgetto Memoria. La struttura narrativa è stata notevolmente arricchita pur mante-nendo l’impostazione originaria che lo voleva unico protagonista proprio nel momen-to in cui la sua recente scomparsa rendeva tutti noi, insegnanti e studenti, commossi enostalgici della sua capacità di testimonianza e della sua sempre giovanile vitalità. Laprima versione VHS è stata proiettata il 27 gennaio 2003 nell’ambito delle manifesta-zioni organizzate dalla Città di Moncalieri.

Matricola 0155. Un deportato inesistenteMichela Cane

Io sono Albino Moret, classe 1923. Ero militare nel Terzo Alpini.Io sono uno dei pochi militari finiti nei campi di sterminio.

L’idea di realizzare il film è nata dopo l’incontro con Albino Moret al Liceo Scien-tifico “Ettore Majorana” di Moncalieri, nell’ambito del Progetto Memoria. A questoprimo momento di conoscenza della storia della sua deportazione ha poi fatto seguitoil viaggio con lui e con Pio Bigo, che nel 2002 ci ha portato a visitare e conoscere lerealtà dei Lager di Buchenwald e di Mittelbau-Dora.

L’eccezionale possibilità che c’è stata offerta di tornare sui luoghi della deportazio-ne con i testimoni dei fatti, e in particolare di recarci in un Lager quasi sconosciuto aipiù con uno dei suoi pochissimi superstiti, mi ha motivato ulteriormente all’approfon-dimento della materia e al tentativo di tradurre in immagini, suoni e sensazioni la sto-ria di Albino.

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Il video si struttura in due parti distinguibili per tema, ritmo e contenuto.La prima parte è quella che più propriamente si può definire “documentario”; è

costruita sulle parole di Albino e raccoglie i suoi ricordi. Le immagini in bianco e nero e quelle dei luoghi sono state girate durante la visita

al Lager; queste supportano il racconto e sono finalizzate a permettere allo spettatoredi comprendere meglio gli spazi e l’ambiente, ad aiutarlo a entrare (per quanto possi-bile) nell’atmosfera lugubre delle gallerie segrete in cui i deportati costruivano le V1e le V2.

Le riprese dell’intervista sono successive al viaggio e risalgono a un incontro conAlbino avvenuto nella sua casa il 25 giugno 2002. In tale occasione eravamo presentisolo Albino, la telecamera e io. Seduti attorno al tavolo della cucina, in una situazionetranquilla e diretta, Albino ha testimoniato la sua esperienza.

Non si è trattato di un’intervista asettica: è stato un dialogo. L’inquadratura è par-ticolare, e la figura di Albino non è in posizione centrale rispetto allo schermo: la tele-camera si trovava infatti posizionata leggermente di lato, quasi a non voler material-mente costituire una barriera alla nostra lunga chiacchierata. Per lo stesso motivo nonho usato né treppiede né microfoni; questa scelta, benché comporti alcune imperfe-zioni tecniche sia nell’audio (si sente chiaramente, ad esempio, la pioggia proveniredalla finestra) sia nell’immagine (che risulta instabile e “rumorosa”), ha però consenti-to che le parole e il racconto si colorassero di una sfumatura familiare e concreta, di-retta nella sua immediatezza.

L’inquadratura non centrale non era stata preparata prima delle riprese, ma si ècreata sul momento, quasi involontaria. Tale inquadratura dà la sensazione della ne-cessaria presenza di un controcampo, che però non esiste. L’uso di campo e contro-campo evoca solitamente una situazione di dialogo. In questo caso specifico l’assenzadi un naturale controcampo dà forse la sensazione allo spettatore di trovarsi immersonella scena, quindi parte attiva del dialogo. La parte documentaria si chiude con ilmio ringraziamento ad Albino, che apre contemporaneamente la seconda parte delvideo, quasi un videoclip. Sulle note di Nel blu dipinto di blu, sentita e ripresa per caso inuna strada di Erfurt, le immagini di Albino compongono come in un puzzle il mio ri-cordo di lui, dolce e sorridente.

Il video è stato girato fra marzo e giugno del 2002, ma è stato montato, smontato erimontato diverse volte. In particolare nell’estate del 2003, mentre ero nuovamenteincollata al computer per rifinire il montaggio, ho saputo della malattia di Albino. Il16 settembre 2003 ho ricevuto per telefono la notizia della sua scomparsa. Sono statapresente al rosario, al funerale e fin dentro la Sala del Commiato del Tempio crema-torio di Torino. Tornata a casa, accendendo lo schermo del computer, mi sono resaconto che non avevo perso Albino, e che in qualche modo era ancora con me. Il suosguardo sorridente era rimasto, oltreché in me e nelle persone che hanno avuto il pri-vilegio di conoscerlo, anche sullo schermo, e sarebbe rimasto sempre; questa consape-volezza mi faceva sentire un po’ meno sola per la sua mancanza. Ho finito il montag-gio in quei giorni, con gli occhi lucidi. Rivedere Albino sullo schermo è per me risco-prire e ritrovare le emozioni e l’affetto che sentivo per lui, e in questo senso il mio lavo-ro non vuole essere altro che un omaggio alla persona straordinaria che amo definire“il mio terzo nonno”.

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Capitolo VII268

Memorie di pietraPaolo Bommino

La realizzazione del film ha affiancato il lavoro principale del Progetto Memoriadurante il viaggio del 2003, ovvero il rilievo, lo studio e la mappatura del Monumentoitaliano a Mauthausen. Nella prima parte (con la ripresa da destra a sinistra – in mododa rendere incomprensibile quanto scritto – delle parole riportate sulla parte “ufficia-le” del Monumento) si vuole indicare la difficoltà a percepire il Monumento come ar-chivio di vite vissute, di percorsi e storie individuali. La visita al Lager, riportata nelleimmagini successive e scandita, mediante il montaggio, dall’alternanza di immagini dideportati e sequenze sui luoghi del Lager (le docce, il crematorio, le baracche, il piaz-zale), mette in relazione i nomi e i volti con le loro vicende. Si è ricorso anche ai memo-riali costituiti dalle bacheche presenti in alcuni ambienti visitati, attigui al crematorio.Il percorso in tali depositi di memorie (con qualche ripetizione, per esempio delle im-magini di un padre e di un figlio) rende allora più comprensibile la scritta sulMonumento (ripresa, questa volta, da sinistra a destra). “Memorie di pietra” diventa-no così non soltanto il Monumento con le lapidi, ma anche lo stesso Lager con le suemura e i suoi edifici. La seconda parte introduce al tema del “passaggio del testimone”.Il superstite che accompagna gli studenti nella visita procede alla ripulitura e alla ri-scrittura della lapide che ricorda la morte del giovane cognato. In questa operazione èaiutato da alcuni studenti. Il senso simbolico delle sequenze è evidente: la necessità dirimediare al trascorrere del tempo, lo strumento del ricordo che passa da una genera-zione all’altra. Le scelte musicali sottolineano, in modo molto evidente nella parte fina-le, i passaggi e il senso di questo processo di riappropriazione del passato.

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Tracce. Un’esperienza didattica di uso del Kalendariumdi Danuta CzechLucio Monaco

Il Calendario di Danuta Czech è un’opera così complessa, pur nell’apparente sem-plicità della struttura cronachistica, che le applicazioni didattiche possibili risultanomoltissime. Fra i tanti esempi che potrei fare, in qualche modo un po’ irregolari, per-ché non appartengono al piano della ricerca storica o specialistica cui sembrerebbeessere confinato il ricorso a questo libro, sceglierei il più recente, quello legato al“corto” di 3’ che abbiamo intitolato Tracce.

Tracce è un lavoro svolto nel 2004, dopo una visita ad Auschwitz I e Auschwitz II-Birkenau (per la verità fu visitato anche Auschwitz III-Monowitz, ma qui le condizio-ni del tempo erano assolutamente proibitive e non fu possibile alcuna ripresa). Lascelta di un gruppo di studenti (al quarto anno di liceo scientifico) cadde sulla realiz-zazione di un film “cortissimo” (fra l’altro da presentare a una rassegna di quell’annoa Torino, nella sezione intitolata appunto “Incomincio da tre”, cioè da lavori di treminuti di durata); si trattava di montare una selezione appropriata di un materiale ab-bastanza consueto, cioè le riprese effettuate durante la visita. Scartate le riprese con letestimonianze di un superstite, che furono impiegate per un altro tipo di film, si scelsedi collegare sequenze che mostravano i due Lager così come oggi si presentano allosguardo del visitatore; con molti momenti, quindi, di ripresa soggettiva. Le sequenzescelte vennero legate in dissolvenza, con richiami analogici, secondo un ritmo che ri-sultò particolarmente adatto alla musica (il processo fu, in realtà, inverso): una musicainsolita, perché del tipo che si definisce comunemente (e banalmente) “classico”, madi un’autrice contemporanea (Teresa Procaccini, Moonlight per tre chitarre, op. 142,1997; le ragioni dell’associazione, proposta dagli studenti, sono esposte nella schedache si riporta più avanti).

In assenza di parlato, si sono quindi introdotti degli squarci, o frammenti, in qual-che modo argomentativi, per ricordare che cosa (alcune delle cose) succedeva in Lager,e quando. Gli assi portanti furono limitati a due: l’evocazione della macchina burocra-tica e la deportazione, certamente in-sopportabile, di bambini e di donne. Si scelseperò di lavorare sugli avvenimenti che erano accaduti ad Auschwitz negli stessi giorni,ma sessant’anni prima (quindi nel 1944). Solo il Kalendarium ovviamente permette unasimile precisione. Così, sono state inserite cinque didascalie, a circa mezzo minuto didistanza, che rievocano le immatricolazioni del 24 marzo 1944 (riguardanti alcunizingari, fra cui tre bambine) e del 25 marzo: queste ultime suddivise in tre momenti,due riguardanti trasporti dall’Olanda, con accenni ai temi della Resistenza e della so-lidarietà, e uno relativo alla deportazione degli zingari. L’ultima didascalia infine, inuna climax raggelante, ricorda la nascita di un bambino, immatricolato Z 10043, il20 marzo 1944 (e una carrellata soggettiva sulle latrine della quarantena, richiamoquasi istintivo a una sequenza di Nuit et brouillard, fa intuire quante potessero essere leprobabilità di sopravvivenza di un neonato a Birkenau).

Infine, nella sequenza che chiude il film (una fitta nevicata che vela la vista dell’in-gresso di Birkenau, ripreso dall’interno del campo, come a suggerire l’impossibilità diuscirne, oppure la presenza sospesa di migliaia di vittime), compare, a segno delloscarto temporale ma anche del coincidere degli avvenimenti – quegli eventi – di allora

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e la visita di questi due giorni, la data «Auschwitz 24-25 marzo 2006».Va notato che le didascalie sono state riprese testualmente dalla traduzione italia-

na del Kalendarium, senza commento; in modo da prestarsi, con la loro lapidarietà, auna discussione o un approfondimento che le utilizzi come punto di partenza.

Faceva parte del lavoro, come di consueto in questo tipo di attività di “laborato-rio”, la stesura di una scheda, che proponiamo qui di seguito.

TracceLorenzo Anania e Mario Mancuso

Come raccontare le centinaia di migliaia di vite intrecciatesi e sovrappostesi, perlunghi mesi o per poche ore, ad Auschwitz? Quanto resta di esse nei pochi segni oggivisibili e visitabili, sia nella forma-museo di Auschwitz I sia nella “retorica delle rovi-ne” di Birkenau?

I tre minuti del film vogliono ripercorrere le tracce di memoria superstiti mostran-do allo spettatore i luoghi dello sterminio, dalle latrine alle baracche agli Appelplätze.

L’unitarietà è data dalla compresenza di tre linguaggi differenti che compongonoil film. Il primo è quello delle immagini, dove la camera sembra seguire un normalepercorso di visita effettuato nel complesso di Auschwitz; partendo così dalla «stermi-nata metropoli» del “Campo Grande” (parole di Primo Levi, nel II capitolo de Latregua), la cui vastità è di tipo psicologico, si percorre l’allineamento oppressivo di spi-goli, muri, reticolati e strade. Il primo sbarramento è dato dallo zoom su un cartello dimorte: da qui in avanti prende avvio uno dei temi cardine di Tracce, riferito alla partepiù indifesa delle vittime del Lager, i bambini (le fotografie iniziali provengono dalmemoriale installato attualmente nella Zentralsauna di Birkenau).

Nella seconda parte la camera si sposta a Birkenau. Qui l’ampiezza dello stermi-nio è suggerita dalle linee di fuga che rievocano l’infinito, dai centri di controllo (zoomsulla torretta d’ingresso, da dove brillano due luci inquietanti), dall’oscurità dei giaci-gli, dove la luce penetra dall’esterno, ma attraverso contorni limitati e definiti. L’im-magine-icona dell’ingresso (vista dall’interno non tanto per consuetudine, ma persottolineare la consapevolezza che l’uscita non è possibile) è quindi riproposta in chiu-sura, ma attraverso una fitta cortina di simbolici fiocchi di neve, che evocano il silen-zio delle vittime. Al ritmo e alla sintassi delle immagini, che non sono frutto di sceltecasuali ( i tre minuti sono estrapolati da un’ora e mezzo di riprese), è stato affiancatoun discorso musicale analogo, nonostante il titolo della composizione principale(Moonlight di Teresa Procaccini) sembri estraneo. Non a caso il ritmo, caratterizzato dacontinui cambiamenti e oscillazioni, aderisce perfettamente alle sequenze video, eanche la scelta di un brano di una compositrice vuole essere un richiamo alla caratte-ristica di Auschwitz come Lager a forte presenza femminile.

Il terzo linguaggio è quello della parola scritta. Brevi e discontinue didascalie pro-pongono registrazioni di fatti avvenuti sessant’anni prima delle riprese e, anche se ap-parentemente slegati fra loro e slegati dalle immagini, vogliono invitare a riflettere.Riflettere sull’ordinaria, quasi banale routine della storia di Auschwitz, ricuperatadallo straordinario testo di Danuta Czech (Calendario degli avvenimenti nel campo diAuschwitz 1939-1945) alla cui memoria, in qualche modo, questo film vuole rendereomaggio.

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Mauthausen (aprile 2005)

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2007presso Comunecazione snc

Strada San Michele, 83 - Bra (Cn)