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1 ALESSANDRA MARANI Tesi di diploma Corso triennale di formazione in Counseling a indirizzo biogestaltico della SIBiG, Scuola Italiana di BioGestalt®, riconosciuto da AssoCounseling (CERT- 0078-2012) Come la Consapevolezza diventa Arte relatori Alessandra Callegari e Riccardo Sciaky Milano, 18 aprile 2015 SIBiG – Scuola Italiana di BioGestalt®, di Brunella Di Giacinto - Via Fiamma 13, Milano - P. IVA 05228810965 Sedi didattiche: via Marcona 24, Milano; via Moroni 8, Sesto San Giovanni (MI); Case Sparse, Varallo Sesia (VC) – Coggiola (BI) E-mail: [email protected] - Sito web: www.biogestalt.it

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ALESSANDRA MARANI

Tesi di diploma

Corso triennale di formazione in Counseling a indirizzo biogestaltico

della SIBiG, Scuola Italiana di BioGestalt®, riconosciuto da AssoCounseling (CERT- 0078-2012)

Come la Consapevolezza

diventa Arte

relatori

Alessandra Callegari e Riccardo Sciaky

Milano, 18 aprile 2015

SIBiG – Scuola Italiana di BioGestalt®, di Brunella Di Giacinto - Via Fiamma 13, Milano - P. IVA 05228810965 Sedi didattiche: via Marcona 24, Milano; via Moroni 8, Sesto San Giovanni (MI); Case Sparse, Varallo Sesia (VC) – Coggiola (BI)

E-mail: [email protected] - Sito web: www.biogestalt.it

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INDICE

1 La scelta del tema

2 Consapevolezza

3 Combinazione tra BioGestalt e Arte

4 Processo creativo

5 Un po’ di storia

6 Che cos’è l’Arteterapia

7 Il setting

8 Varietà di contesti, funzioni e tecniche

9 Esperienze di Counseling Espressivo • Laboratorio con vari materiali • Esperienza con la creta • Laboratorio di creta ed elaborazione dei traumi

10 Conclusioni

11 Riferimenti bibliografici

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Dove va la mano là seguono gli occhi

Dove guardano gli occhi là si dirige la mente

Dove posa la mente là nasce l'emozione

Dove palpita l'emozione là si realizza l'essenza dell'arte

(Abhy Naya Darpana, Trattato Indiano sulla danza)

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La scelta del tema

Mi sono iscritta al corso di formazione in counseling biogestaltico avendo solo una vaga

idea di che cosa avrei incontrato. Certo e chiaro era che imparare ad aiutare gli altri mi

avrebbe portato ad aiutare me stessa per prima o, per meglio dire, prima si impara ad

aiutare e a prendere consapevolezza di sé e poi si può iniziare una relazione d’aiuto con

altri nella veste di counselor. Un anno prima di iscrivermi ho fatto un precorso di terapia

individuale con una counselor a indirizzo gestaltico, ho iniziato a conoscermi e a scoprire

lati sconosciuti di me: per me era difficile porre un’attenzione costante alle situazioni che

mi si presentavano quotidianamente. O vivevo là nel passato o là in fondo nel futuro, il

presente era l’automatismo delle azioni, dei movimenti, del vivere. Confusione su chi fossi

e dove stessi andando: questa la sensazione costante degli ultimi miei anni.

Man mano che ascoltavo le lezioni a scuola, leggevo libri, mi confrontavo con le compagne

e i compagni e i loro vissuti, con gli insegnanti e il loro sapere, mi sperimentavo in

situazioni nuove, più sentivo nascere in me qualcosa di molto profondo, nucleare, nuovo.

Quel nucleo, energico, emotivo, sensoriale, ricco di vissuti e di storia, intimo e unico,

trasmesso e percepito dall’ambiente, in contatto attraverso il corpo e i sensi, sono IO.

Provo a vedermi da fuori di me, come una persona guarderebbe un quadro, una scultura,

una danzatrice e si lasciasse avvolgere dalla musica che emana, una me che guarda sé in

questo lavoro creativo di esprimere l’esplicito e l’implicito, di prendere forme, colori, suoni,

movimenti e di trasmettere all’ambiente un’essenza. Mi sento come se osservassi tutto ciò

e vedessi l’essenza dell’artista che lo esprime. Io sono l’opera creativa e il suo autore. Ecco

perché ho intitolato questa tesi “Come la Consapevolezza diventa Arte”.

Quindi se l’arte è una produzione di eventi interiori tradotti in simboli, gesti, movimenti,

azioni, emozioni, scambi e non sempre nel senso del “bello” estetico, allora siamo tutti noi

delle opere d’arte e tutti artisti, perché tutto quello che è dentro di noi comunica

all’esterno qualcosa. Sperimentandomi anch’io in espressioni che vanno oltre il senso

estetico del bello e del giusto e del “si fa così”, e lasciando che l’istinto si esprima, ho colto

quanto sia importante per me utilizzare l’arte come canale di scoperta interiore, di insight,

di consapevolezza che attraverso la dimensione della parola a volte non è possibile far

maturare. Come per dire “devo toccare” per credere, devo provare per conoscere l’ignoto,

voglio esprimere il mio inconscio attraverso la manualità, i colori, il movimento primitivo.

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Nei tre anni di scuola ho scoperto che questo è il mio canale di espressione che meglio va

a integrarsi con la dimensione verbale.

Partendo da questo presupposto mi è venuto spontaneo vedere come le abilità delle

persone e in primis le mie, e in generale l’espressione più naturale e spontanea del proprio

Sé in ogni momento della giornata, della vita, siano delle espressioni artistiche esistenziali

e come ogni individuo le esprima nell’unicità della propria arte. Il counseling biogestaltico

è attento a questa forma di espressione, la aiuta, la sostiene, la evolve di continuo. Ecco

perché ogni sessione non è mai uguale a un altro incontro, non segue copioni tecnici ma

vive soprattutto sull’improvvisazione. E per me questa si manifesta sottoforma di arte. La

creatività è la disposizione a sviluppare e generare processi creativi, cioè processi di

trasformazione di elementi preesistenti ai quali conferire un senso, creando qualcosa di

nuovo: un quadro, un’idea, un comportamento o un punto di vista e soprattutto la

costruzione di noi stessi, le relazioni che abbiamo con il mondo.

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Consapevolezza

Vorrei spendere qualche parola sul concetto di consapevolezza e sul ruolo di questo

termine nel titolo della tesi.

La consapevolezza è la chiave del cambiamento che possiamo attuare in noi stessi. Se

prendo consapevolezza di chi sono, mi do la possibilità, oltre che di accettare, anche di

cambiare. Dentro di noi c’è un fiume di sensazioni che si possono definire piacevoli,

spiacevoli e neutre, ognuna delle quali però deve la sua esistenza alle altre e tutte insieme

giocano un ruolo importante nel determinare il corso dei nostri pensieri e delle nostre

azioni. Dare un nome alla emozioni tipo “rabbia”, “dolore”, “gioia” o “paura” ci aiuta a

identificarle con chiarezza. Le nostre sensazioni e le nostre emozioni non sono separate da

noi, noi siamo le nostre emozioni; ecco perché è importante riconoscerle e prenderne

consapevolezza. Ad esempio la paura nasce dentro di noi così come la consapevolezza che

attiviamo nel riconoscerla e nominarla: paura e consapevolezza si prendono cura una

dell’altra. Noi diventiamo tutt’uno con l’emozione e ci concediamo di lasciarla andare solo

quando siamo sicuri che è domata dalla consapevolezza che ridimensiona l’emozione e la

rende tollerabile. Il passo successivo è quindi quello di osservare in profondità che cos’è

quell’emozione, da che cosa nasce, come si sviluppa, e capire che cosa ci serve per

cominciare a trasformarla.

La consapevolezza consente all’individuo di sviluppare la capacità di auto-osservazione

necessaria per orientarsi nel mondo. Nell’approccio gestaltico la consapevolezza non

potrebbe esistere se non attraverso la responsabilità, cioè la capacità di risposta a un

evento, al superamento di un disagio, ovvero rispondere adeguatamente a una situazione

mettendo in campo le proprie risorse. Pertanto non si può essere responsabili di qualcosa

di cui non si è consapevoli e non si può rispondere a qualcosa che non sta succedendo nel

presente (cioè nel qui ed ora). La presentificazione del passato, del futuro o della fantasia

diventa il modo di identificare, rivivere o reinterpretare gli avvenimenti traumatici e gli

eventi di sensibile disagio vissuti in passato.

La BioGestalt ha come obiettivo, attraverso la sperimentazione, di far entrare l’individuo in

contatto con i propri sensi, portare l’attenzione su ciò che accade nel Qui e Ora e accettare

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il proprio Sé e il proprio sentire. Questa è la consapevolezza, una sorta di risveglio della

coscienza un’unione tra i livelli cognitivi – emozionale – sensoriale.

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Combinazione tra BioGestalt e arte

In questi tre anni di corso di formazione ho imparato a vedere “da un altro punto di vista”

le cose che accadono e i nomi che si danno alle cose, agli eventi che incontriamo nella

vita, ecco perché mi vorrei soffermare su come vedo io oggi il counselor biogestaltico (a

indirizzo gestaltico e bioenergetico) da un punto di vista “artistico”.

Il counseling di per sé è una relazione di aiuto tra due o più persone dove il counselor e il

cliente, o i clienti se si tratta di un gruppo di persone, sono entrambi gli artisti della

relazione. Il primo perché mette a disposizione dell’altro una capacità di ascolto attenta,

profonda, senza giudizio, senza critica, senza il senso estetico del “bello e del buono” e lo

fa con le modalità dell’approccio della Gestalt, in cui ogni seduta è un incontro diverso

dall’altro anche con lo stesso cliente, così come ogni opera d’arte è unica nel suo essere.

“Fare le persone” è come fare un quadro o comporre musica (Virginia Satir, 1967).

La relazione è il campo d’azione del cambiamento, è la trasformazione della forma in

un’altra forma, è la nascita di una consapevolezza. I clienti mettono in gioco un atto di

coraggio nello sperimentarsi, nel rischiare l’esposizione e la manifestazione di sé

nell’essere creativi, affermano se stessi in una celebrazione della vita, dello stare bene, del

sentirsi parte integrante dell’ambiente, dell’essere responsabili del proprio creato, cioè di

sé. La bioenergetica usa il corpo come mezzo di espressione dei processi energetici

dell’individuo, il quale è il proprio corpo e la cui energia espressa è l’impronta artistica di

sé nel mondo. Il corpo esprime l’implicito e l’inespresso di noi e attraverso l’arte di

sperimentarsi nel movimento e nell’utilizzo dei sensi si entra in contatto con una forma

creativa di consapevolezza e affermazione di sé.

L’approccio gestaltico è conosciuto anche per l’ampia gamma di tecniche utilizzate, che

comprende l’uso di diversi oggetti o materiali, oltre che forme di arte e di spettacolo. “Il

permesso di essere creativi”, come definito da Joseph Zinker (1973), è applicabile sia al

cliente che al terapeuta e fa della Gestalt uno strumento esperienziale, un approccio

comportamentale per muoversi verso sé.

L’essere creativi rientra nella normalità della natura umana in quanto l’individuo si adatta

spontaneamente al proprio ambiente. Sappiamo che l’individuo reagisce in un campo o in

una situazione specifica per conseguire il miglior risultato possibile, ma in alcuni casi

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l’interazione tra individuo e ambiente subisce degli intoppi: il fluire di figura-sfondo cambia

energia, qualcosa viene deviato rispetto alla sua originalità, e ciò provoca sofferenza e la

generazione di sintomi nuovi. La visione gestaltica vede il sintomo nuovo come

un’espressione creativa risolutiva del momento difficile. L’intervento del terapeuta è

proprio quello di sostenere il fluire dell’energia bloccata verso l’obiettivo originario,

mettendo il cliente nelle condizioni di sperimentarsi in schemi relazionali nuovi, alternativi.

Come sostiene Laura Perls (1971,1978,1989), gli interventi del terapeuta devono seguire

le tre “E”: existential, experiential and experimental (esistenziali, esperienziali e

sperimentali).

Il concetto di creatività nella terapia della Gestalt non comprende quindi solo il gioco e la

produzione artistica ma anche gli aspetti interpersonali, la possibilità di osare, l’interagire,

l’arricchirsi e nutrire le dinamiche relazionali tra terapeuta e cliente. Più entrambi sono

curiosi e disposti a sperimentare, più questo scambio creativo viene alimentato, più c’è la

possibilità di ottenere dei buoni risultati. Il processo di contatto tra individui e lo sviluppo

delle relazioni con stili e modi specifici di essere e di relazionarsi sono l’espressione

creativa nella relazione. Il terapeuta, prima di promuovere un lavoro creativo, deve saper

riconoscere le modalità sensoriali del cliente, cercare quindi la “buona forma” di

comunicazione scegliendo la modalità in lui più sviluppata: alcuni sono più portati a uno

sviluppo visivo (forme, colori, immagini, disegni), altri rispondono più ai segnali uditivi, altri

ancora sviluppano modalità spaziali (direzione, movimento e spazio), altri hanno una

particolare predisposizione per giocare con le parole e utilizzare metafore. In tutto questo

ovviamente non è possibile scindere la parte cognitiva da quella emotiva, come dice Burley

(1988, p. 133): “la creatività è un fenomeno che dipende dall’intero cervello umano, in

misura diversa a seconda dell’attività coinvolta, come comporre musica, scrivere, danzare

o dipingere”.

Riconoscere l’intreccio tra cognitivo ed emozionale aiuta il terapeuta a capire la relazione

tra figura e sfondo e l’emergere degli schemi di comportamento e di stati emozionali e il

modo in cui intervengono nel Qui e Ora dell’individuo, nella loro familiarità. Importante è

quindi attivare un processo di trasformazione dal familiare al nuovo, sviluppare una risorsa

(applicando i principi base della teoria della Gestalt), arrivare a un insight dando poi un

significato personale all’esperienza e acquisire uno stile proprio e originale.

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“La psicoterapia è un’arte, così come una scienza” dicono Laura Perls e Edward Rosenfeld

(1982), “l’intuizione e l’immediatezza dell’artista sono necessarie tanto quanto una

preparazione scientifica” . La Gestalt pone importanza alla capacità del terapeuta di intuire

la natura umana negli aspetti essenziali e processuali: cogliere un quadro ampio del

cliente, focalizzare l’attenzione su un particolare, portare in primo piano qualcosa di nuovo,

vederlo da punti di vista differenti, acquisire sensibilità per gli stati d’animo e nel rivestire i

panni dell’altra persona.

“È nel gioco che sia il bambino che l’adulto sono capaci di essere creativi e di usare l’intera

personalità, è nell’essere creativo che un individuo scopre il sé” (Winnicott, 1999), mentre

Perls affermava che “la creatività e l’adattamento sono tra loro in rapporto di polarità, il

che significa che sono reciprocamente necessari”.

Tutte le tecniche biogestaltiche studiate diventano nostre creazioni nel momento in cui le

agiamo in una relazione d’aiuto con un cliente: “come un pittore davanti a una tela o un

musicista davanti a una composizione”, approcciamo il cliente, lo ascoltiamo, lo

osserviamo, lo accompagniamo verso la propria consapevolezza. Utilizziamo il corpo

sperimentando movimenti, possiamo danzare, imitare, “essere” con il corpo un’emozione,

un senso, possiamo usare fogli, pastelli, colori, tessuti, creta, qualunque cosa che possa

sollecitare l’espressione del Sé.

La terapia della Gestalt utilizza anche le tecniche dell’esagerazione e dell’intensificazione,

la consapevolezza delle sensazioni corporee, la chiusura e il role playing (mettere in scena:

sogni, conflitti, problemi) oltre alla sedia vuota di Perls. Queste tecniche le ritroviamo

nell’utilizzo dell’arteterapia nella relazione d’aiuto, sia in sessioni individuali che di gruppo.

La filosofia del “come se”, una percezione della realtà diversa da quella di prima, le

tecniche di inversione dei ruoli in cui recitando si dà voce ai propri sentimenti le ritroviamo

nella drammaterapia; l’utilizzo della musica, oltre a rilassare, crea un senso di comunione

tra la verbalizzazione di sentimenti ed emozioni e un contatto profondo con se stessi in

esperienze prenatali; il movimento del corpo, che permette di esprimere rappresentazioni

dell’inconscio, nella danzaterapia diventa strumento utile per l’integrazione tra dimensione

psichica e fisica dell’individuo, in relazione con sé e con gli altri.

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Processo creativo

Ho considerato arte tutto quello che nasce da un movimento di trasformazione che

dall’interno viene esteriorizzato e, attraverso un processo di lavorazione (anch’esso forma

di arte), giunge a una consapevolezza. Questo processo, detto processo creativo, è ad

ampio raggio ed è ben adattabile non solo all’arteterapia in generale, ma nello specifico

anche alle relazioni d’aiuto di tipo biogestaltico, che prevedono un counselor conduttore

che è un artista, in quanto improvvisa l’utilizzo di tecniche relazionali, e i clienti che creano

il proprio sé; così la relazione d’aiuto, anche se segue delle regole generali di

funzionamento, non dà mai per definito o scontato alcun risultato.

Si possono distinguere in generale quattro fasi del processo: il training, l’improvvisazione,

la composizione e la rielaborazione. Il training è la fase iniziale nei laboratori di

arteterapia, in cui si inizia a prendere contatto con gli strumenti e i linguaggi e vengono

incoraggiate le proprie possibilità espressive. Nel counseling biogestaltico è la fase di

contatto tra il cliente e il terapeuta, nella quale si mettono in campo gli stili personali di

comunicazione, e i modi di relazionarsi di entrambi cominciano a interagire. La fase

dell’improvvisazione è data dall’interazione tra i due personaggi o tra varie persone nel

caso di un gruppo, in cui quello che viene acquisito durante il training inizia a essere

sperimentato, diventa più chiaro, più consapevolmente affinato nelle tecniche espressive.

La fase della composizione è la legittimazione del progetto espressivo: si individua un’idea,

la si esplicita e si ricercano i mezzi più adeguati per esprimerla. Spontaneità e

consapevolezza si intrecciano. La fase di rielaborazione è la fase di conclusione del lavoro:

l’esperienza viene condivisa, analizzata, riattraversata e celebrata.

Tutti gli elementi che entrano in connessione in questo processo sono complementari tra

loro, in dialogo costante tra il mondo interno e quello esterno, si squilibrano e si

riequilibrano di continuo. Tra questi riconosciamo in particolare: l’immaginazione, cioè la

capacità di giocare con le immagini non solo di fantasia, che porta a mondi alternativi alla

realtà, ma anche alle immagini speciali che si hanno per costruire la propria realtà.

L’ascolto interno, cioè la capacità di ascoltare i messaggi che arrivano dal nostro mondo

interiore, quali sentimenti, emozioni e guida interiore. La spontaneità legata all’azione del

corpo, all’immediatezza con cui si risponde a uno stimolo, l’energia vitale e più in generale

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la capacità di generare atti espressivi. In ultimo la produttività, cioè la capacità di andare

verso la trasformazione, il risultato, la consapevolezza.

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Un po’ di storia

L’arteterapia, intesa come disciplina organizzata, ha origini molto antiche se valutiamo il

rapporto tra guarigione e arte. Pensiamo agli uomini primitivi che disegnavano

istintivamente eventi, oggetti, scene di vita quotidiana, a quando tribù intere esprimevano

con la danza e con i suoni un rito, una credenza, una richiesta, lasciando che i corpi

esprimessero gioia, rabbia, paura, l’incontro con la morte. Essi si vestivano di maschere

colorate o si dipingevano i corpi con segni in cui ogni particolare esprimeva qualcosa di

profondo, un codice interiore, istintivamente cioè esplicitavano quello che sentivano,

dando forma a riti che curavano gli individui o le intere tribù. Alcuni studi portano a

pensare che gli antichi Egizi incoraggiassero le persone con disturbi mentali ad avvicinarsi

all’arte (Fleshman, Fryrear, 1981): il teatro per loro era la liberazione delle emozioni

represse e insieme alla musica diventava strumento catartico di guarigione.

I filosofi dell’antica Roma credevano che lo studio della letteratura potesse alleviare le

sofferenze, così come suonare i cembali e la musica in genere potessero eliminare la

malinconia e mettere le persone di buon umore, usando le arti per perseguire felicità e

salute.

Nel Medioevo le arti vennero sostituite da magia e da superstizioni utilizzate per guarire i

disturbi emozionali ritenuti opere demoniache. Nel Rinascimento, sempre in Europa, vi è

una trasformazione della concezione del rapporto tra arte e artista: se prima i medici

consigliavano di utilizzare musica e poesie per “guarire”, ora arte e artista diventano

mediatori e interpreti dei fattori emotivi e controllori delle reazioni emozionali stesse (cfr.

Ricci Bitti, 1988): all’artista viene riconosciuta un’importanza nuova e lo si considera dotato

di particolare sensibilità.

Nei due secoli successivi l’arte come strumento terapeutico si diffonde in particolar modo

in ambito psichiatrico. L’avvento della psicoanalisi all’inizio del ventesimo secolo porta un

incremento dell’utilizzo dell’arte in terapia: pensiamo a Freud e alla sua esplorazione

dell’inconscio attraverso i sogni. In generale veniva attribuito all’arte un potere regressivo

e veniva favorito il suo utilizzo con i soggetti psicotici, borderline e autistici. Poi con il

diffondersi delle teorie sulle relazioni oggettuali si è avuta un’evoluzione del pensiero

psicoanalitico e del processo artistico, con un avvicinamento della sfera emotiva al

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pensiero cognitivo. Gli archetipi universali studiati da Jung hanno contribuito alla diffusione

delle arti nel setting terapeutico: giunge a vedere la mente inconscia come fonte di salute

e trasformazione e quindi arte e creatività come strumenti di comprensione della natura

umana. Negli anni ‘20 Jacob Moreno diffonde lo psicodramma incoraggiando le

rappresentazioni artistiche al fine di elaborare sofferenze e raggiungere un maggiore

equilibrio, con l’uso di tecniche per incrementare l’autoconsapevolezza e le capacità di

insight.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’arteterapia si diffonde molto soprattutto nelle strutture

manicomiali e per curare i traumi da combattimento dei reduci. Oltre oceano Margaret

Naumburg (1966) sviluppa un modello psicodinamico improntato sulla relazione di

transfert tra paziente e terapeuta, fondamentale per una libera espressione artistica come

valida alternativa alla psicanalisi classica (con la quale si favorisce l’emergere

dell’inconscio). Nei disegni o nelle pitture di persone disturbate emotivamente Naumburg

vede problemi riferiti a certe polarità (vita-morte; maschio–femmina; padre-madre;

amore-odio): la produzione spontanea d’immagini diventa strumento utile per favorire la

comunicazione terapeutica. La Naumburg è stata considerata la pioniera dell’arteterapia,

che inizialmente lei stessa definiva “libera espressione artistica”, finché nel 1958 ne

propone una definizione mirata: arteterapia come processo, basato sulla consapevolezza

del cliente, che riconosce pensieri e sentimenti inconsci che raggiungono l’espressione in

immagini piuttosto che in parole. In seguito Edith Kramer (1971) si relaziona ai propri

clienti tramite i loro “prodotti” artistici intesi come contenitori di emozioni.

Vari i terapeuti che hanno apportato un contributo significativo all’arteterapia, aprendo la

strada a una migliore comprensione degli aspetti creativi della psicoterapia della Gestalt,

riassumibili in questi principi base: considerare il termine Gestalt come concetto estetico;

ricercare “una buona forma”, cioè una adeguata espressione comportamentale e artistica;

scoprire e accettare il proprio stile; trasformare e riconfigurare gli elementi familiari in

informazioni nuove; sperimentare comportamenti nuovi e inconsueti.

Janie Rhyne (1984), con il suo approccio Gestalt Art Experience, fornisce la guida

all’esplorazione delle qualità individuali attraverso l’approfondimento della percezione con

l’utilizzo di materiali artistici e la comprensione dei messaggi visivi che queste forme

trasmettono. La sua teoria è guidata dalla convinzione che la percezione è influenzata dai

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bisogni attuali, dalle esperienze e dalla personalità individuale. Il suo lavoro gestaltico si

impronta sull’attivare la memoria sensoriale attraverso il movimento e la consapevolezza

corporea e con materiali artistici.

Joseph Zinker (2002) richiama con forza l’importanza di abbandonare esercizi stereotipati

e ripetitivi per lasciare spazio alla creazione spontanea di esercizi su misura.

Erving Polster (1988) richiama l’analogia scrittore e psicoterapeuta, riconoscendo le

esperienze di vita del paziente come aspetti unici con qualità curative. Egli tende a

mettersi nei panni dello scrittore e a usare una serie di tecniche di drammatizzazione per

aiutare il paziente a riconoscere le meraviglie del suo racconto di vita.

Violet Oaklander (1988) presenta un approccio fenomenologico con bambini e adolescenti,

focalizzando l’attenzione sulle conseguenze del comportamento dei pazienti, dovute

all’utilizzo di materiali artistici come catalizzatori e non come mezzi fine a se stessi.

Elaine Rapp (1980) con il suo approccio espresso in Gestalt Art Therapy in una prospettiva

esistenziale, esplora la relazione tra l’individuo e il suo ambiente attraverso ampi

esperimenti con diversi materiali cui dare forma. L’autrice sostiene che la crescita creativa

può avvenire solo se la comunicazione con l’ambiente viene elaborata in modo

significativo.

Quanto alla storia del nome arteterapia, è composto da “arte” - parola derivata da una

radice indoeuropea are che significa “aggiustare, adattare” e poi dal greco artuein,

“articolare” e dal latino ars, “abilità, capacità di essere e di fare” - e da “terapia”, dal greco

therapeia, “cura, assistenza”. Inizialmente il termine si riferiva a cure prestate alle persone

rispetto a condizioni patologiche; poi con l’evoluzione dello stile di vita occidentale, che

prevede una maggiore presa di coscienza dell’individuo anche rispetto al tempo libero,

l’uso del termine si è esteso a una concezione più ampia e positiva della salute, intesa

come ricerca del benessere psicofisico e della realizzazione di sé.

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Cos’è l’arteterapia

L’Arteterapia è una disciplina, un intervento di aiuto e sostegno, che ha come fine la

ricerca del benessere e della crescita della persona e lavora attraverso l’espressione

artistica del non-verbale, di pensieri, vissuti ed emozioni. Essa utilizza le potenzialità che

possiede ogni persona di elaborare creativamente tutte quelle sensazioni che non si

riescono a far emergere con le parole e nei contesti quotidiani. Per mezzo dell’azione

creativa l’immagine interna diventa immagine esterna, visibile e condivisibile, e comunica

all’altro il proprio mondo interiore emotivo e cognitivo.

Attraverso l'espressione artistica è possibile incrementare la consapevolezza di sé,

fronteggiare situazioni di difficoltà e stress, elaborare esperienze traumatiche, migliorare le

abilità cognitive e godere del piacere che la creatività artistica porta con sé. Come

sosteneva Kramer (1971), l’arte usata come terapia è un mezzo di sostegno dell’Io,

un’espressione del Sé in grado di favorire lo sviluppo di un senso di identità al fine di

generare maturazione e integrazione.

Come per il counseling anche l’Arteterapia presta attenzione al processo artistico senza

interpretazione né giudizio estetico, poiché ogni espressione dell’anima è una

manifestazione autentica di un sentito profondo. Tutto quello che viene portato alla luce

del proprio vissuto viene poi trasformato, elaborato e compreso portando l’individuo a una

migliore relazione con se stesso e con l’ambiente.

L’arte, per la sua natura sensoriale, è un uso particolare di linguaggi corporei (sensazioni

visive, acustiche, tattili, olfattive, percezione e organizzazione dello spazio) e coinvolge

emozioni e processi cognitivi che trovano espressione attraverso la simbolizzazione.

Significa legare quindi la gestualità, l’espressività, l’immaginazione e le emozioni attraverso

esperienze di pittura, danza, musica esprimendo quello che a parole non renderebbe

l’ampio valore del contenuto interno della persona. Infatti, mentre le parole implicano una

concettualizzazione e la verbalizzazione di un disagio e, per esempio, possono mentire o

nascondere, le “creazioni” artistiche non mentono: come quando Lowen (1975) diceva “il

corpo non mente”, a proposito del lavoro bioenergetico. Le immagini artistiche, in

qualunque campo vengano espresse, sono immediate, autentiche, spontanee, arcaiche e

libere da barriere o strutture difensive.

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Fare arteterapia vuol dire entrare in relazione con sé durante il manifestarsi del proprio

mondo interiore, in un contesto sicuro, in cui un terapeuta entra in relazione con il singolo

e il gruppo di lavoro senza che nessuno agisca giudizi e commenti, ma stando nell’ascolto

attivo e nella sensibilità estetica capace di cogliere non “la bellezza”, il piacevole o meno

dell’opera creata, ma il comunicato, capace di comprensione e accettazione del significato

che porta l’individuo artista della propria opera. Le creazioni quindi non vengono

“interpretate” ma osservate, sentite e ascoltate, e il terapeuta aiuta l’artista a individuare il

messaggio non verbale che porta la sua opera.

Proviamo a pensare a quanto la scelta di un colore in un disegno possa esprimere rabbia

oppure il modellare la creta possa facilitare la regressione, o la musica possa esprimere

sentimenti che sfociano in un’attivazione o un rilassamento, o la danza possa condurre a

un’espressione libera di sentimenti ed emozioni attraverso il corpo, al di là delle

convenzioni, oppure il teatro possa permettere di impersonare ruoli o parti di sé o di altri.

Con tecniche e materiali diversi si stimola la conoscenza delle proprie risorse e, con l’aiuto

del terapeuta, si dà la possibilità di integrare delle parti di sé o di risolvere dei traumi

passati, portando l’individuo a un’evoluzione e una crescita personale.

Queste attività vengono svolte in spazi sicuri e, ovviamente, protetti dal segreto

professionale; ogni tipo di arteterapia richiede un setting particolare che si differenzia da

quello “tradizionale” delle sedute di counseling in cui terapeuta e cliente siedono uno di

fronte all’altro, ma segue le regole generali di tempo e spazio, rispetto, accoglienza e

accettazione.

Importante per il terapeuta è l’atteggiamento che deve tenere nel confronti di un singolo o

del gruppo e del processo creativo stesso: egli deve avere curiosità, cioè un interesse

genuino nel confronti dell’altro in quanto persona, al di là della relazione professionale.

L’altro quindi non è solo un cliente ma è un soggetto creativo con un potenziale di risorse

e di novità. Deve essere versatile, cioè cogliere il punto di vista dell’altro sospendendo il

giudizio, accettare l’inaspettato, saper stare nell’incertezza del risultato senza anticipare i

tempi di risoluzione del processo. Deve avere presenza, cioè la giusta distanza all’interno

del processo: partecipare pienamente al processo ma permettersi di essere osservatore

esterno della relazione.

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Il setting

Il setting in arteterapia deve essere un ambiente sicuro e protetto ma anche accogliente,

rassicurante e contentivo: aperto al punto giusto per ricevere l’espressione del cliente,

senza creare confusione, e chiuso al punto giusto per non mettere in pericolo il terapeuta,

come fosse una sorta di “pelle” che respira e si adatta al corpo della relazione tra i due (o

più di due in caso di gruppo). Un’area di gioco, adattabile a ogni terapia e alla tecnica

utilizzata. Il cliente ha a disposizione uno spazio dove le sue immagini mentali vengono

esternate, visualizzate all’esterno, così come il prodotto artistico diventa un ponte di

comunicazione tra lui e il terapeuta e tra le parti del sé, tra un mondo interno e uno

esterno.

Winnicott (1974) spiega che il setting in arteterapia è un luogo di gioco in cui l’adulto ha la

possibilità di fare come il bambino, entrando e uscendo da realtà e fantasia, tra realtà

soggettiva e oggettiva. Il setting è anche uno spazio temporale determinato, dentro il

quale si lavora, si percepisce, si condivide, si elabora e si prende consapevolezza. Si

distinguono quindi due tipi di setting: quello artistico e quello interno. L’artistico è il campo

dell’invenzione dell’esperienza sensoriale libera da condizionamenti direttivi e il cui scopo è

quello di preparare l’individuo alla scoperta e alla sperimentazione. Come si è già detto,

l’oggetto prodotto è quell’elemento che permette il cambiamento strutturale dell’Io di una

persona, la quale percepirà l’esperienza, secondo la lettura di Bollas (1987) e Winnicott

(1971), come “estetica” e non solo “rieducativa”, un’esperienza affettiva e cognitiva che

può restituire l’immagine del racconto originario della storia individuale del soggetto. Un

bisogno di carattere estetico che si avvicina ai cinque bisogni primari (secondo Maslow

(1970), padre della psicologia umanistica, sono quelli fisiologici, di sicurezza, di

appartenenza, di stima e affetto, di affermazione personale), “un impulso verso la

bellezza, la simmetria, la semplicità, la completezza e l’ordine”.

Il setting interno fondamentalmente è la relazione che si crea tra terapeuta e cliente. Il

primo deve occuparsi di aiutare l’altro a regolare il quadro interno per evitare aggiramenti

e resistenze, deve avere capacità di ascolto, sguardo attento, “dominare” la relazione,

avere un’accettazione incondizionata, incoraggiare a esprimere senza boicottaggi e

censure, percepire il non detto, le smorfie, il tono della voce, i silenzi, deve capire quando

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l’opera è finita per far affrontare il distacco da qualcosa che si sente profondamente

“proprio”. La competenza umana e professionale del counselor si interfaccia con

l’intenzione del cliente di relazionarsi con se stesso, uno scambio relazionale il cui fine è

che il cliente provi piacere e prenda consapevolezza di sé, riannodi dei legami sociali

partendo dal mondo che ha appena ri-creato e nel quale si è fatto un posto attraverso

l’espressione artistica.

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Varietà di contesti, funzioni e tecniche

L’arteterapia non è solo un processo finalizzato alla liberazione delle emozioni e fantasie

inconsce, ma l’interazione tra ambiente e materiali e il “fare” concretamente sollecitano

anche funzioni cognitive, coinvolgimento, permettono integrazione e costruzione del sé,

stimolando la ricerca di soluzioni. Il counseling espressivo consiste nella ricerca del

benessere psicofisico attraverso l’espressione artistica dei pensieri, delle emozioni e dei

vissuti, elaborando creativamente tutte quelle sensazioni che non si riescono a fare

emergere con la parola. Per mezzo di un’azione creativa - che sia un disegno, un

movimento, una danza, una musica - l’immagine interna diventa esterna, visibile e

condivisibile e comunica all’altro il proprio mondo interiore. È importante quindi vedere e

riconoscere quale tipo di tecnica o materiale utilizzare con clienti di età e “sintomi”

differenti, scegliendo quelle più utili e adeguate alla persona che di volta in volta si

incontra. Tra le varie arti utilizzabili nelle sedute di counseling riconosciamo: arti visive,

scrittura creativa, il teatro e arti drammatiche, la musica, la danza e il movimento e il

gioco.

Arti visive

Freud (1909) affermava che le arti visive erano più vicine all’inconscio per il fatto che la

percezione visiva è più arcaica dell’espressione verbale e cognitiva. Altri studi portano ad

affermare che hanno effetti positivi proprio perché fanno emergere i contenuti inconsci e

conflitti nascosti. Le arti visive simboleggiano i sentimenti in modo tangibile, utilizzandole

si riescono a fare emergere problematiche delle quali è difficile parlare (anche casi di

violenza e abusi). Ciascuna tecnica produce impatti differenti sui clienti, ognuna delle quali

può far emergere paure, conflitti, inconsci, preoccupazioni. Tra le più usate riconosciamo:

Modellare e scolpire: il creare forme dispone il corpo a rimettersi in forma. La lavorazione

della creta presuppone un coinvolgimento fisico e può essere utile per l’abbandono delle

tensioni corporee, il rilassamento emotivo e l’espressione di rabbia, aggressività e invidia.

Utilizzare l’argilla, per esempio, consente di sperimentare direttamente un processo

evolutivo di cambiamento senza per forza dover produrre un oggetto finito; inoltre la

manipolazione con il materiale malleabile permette agli individui di regredire e di ottenere

degli insight.

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Disegno: il disegno con i suoi contorni è simile al modellaggio per l’effetto psichico che

ottiene. Le immagini sono molto complicate rispetto alle parole che possono essere filtrate,

semplificate. Disegnare è qualcosa di magico, perché ha l’effetto del comparire, di

trasformarsi, in un continuo cambiamento in cui si sovrappongono forme e significati.

Esiste la tecnica del disegno in serie nel quale i clienti disegnano se stessi e i loro problemi

in una ripetizione quotidiana che permette di evidenziare la propria evoluzione. Oppure la

tecnica del disegno del contorno della figura umana che consiste nel disegnare il contorno

del proprio corpo e riempirlo poi di colori o fotografie, utile per l’autoriconoscimento.

Anche il counselor può utilizzare la tecnica del disegno durante una seduta per favorire un

processo di chiarificazione dei problemi del cliente.

Il collage invece può essere un approccio più facile per stimolare la creatività in quei clienti

che non si sentono in grado di eseguire un disegno a mano libera (utile per rinforzare

l’autostima). L’utilizzo di gessi, colori a cera e pitture presuppongono un contatto più forte

e intimo rispetto ai pennarelli. Linee, colori, forme, movimento, utilizzo dello spazio e

dettagli sono fattori molto importanti che un counselor deve osservare durante il processo

creativo del cliente.

Scrittura creativa

La scrittura creativa e la poesia permettono al cliente di entrare in contatto profondo con

sé raggiungendo una sintesi di integrazione di livelli di esperienza corporea, spirituale ed

emotiva. Inoltre con l’utilizzo di questi due strumenti creativi si mettono in contatto

l’emisfero sinistro del cervello (quello cioè caratterizzato dal pensiero pratico, volontario e

propositivo, che seleziona e analizza al fine di raggiungere gli obiettivi) e quello destro

legato al pensiero immaginativo, emotivo e sognatore, che senza progettualità associa

liberamente immagini. All’atto creativo sono necessari in questo caso sintesi e significato,

scopo e conoscenza, sogni, passioni, desideri, immaginazione, intuizioni e ricordi;

l’espressione di questi porta il cliente alla consapevolezza.

Danza e movimento

Gli obiettivi della danza e del movimento sono principalmente tre: a livello fisico per

liberare le tensioni e ampliare i movimenti del corpo; a livello psicologico per intervenire

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sulle modalità di espressione del sé e sui livelli di adattamento alla realtà; a livello sociale

per sviluppare le relazioni sociali tramite la partecipazione a un gruppo.

Utilizzare la danza e il movimento nel counseling ha il vantaggio di far acquisire maggiore

vitalità fisica, emozionale, intellettuale e spirituale; inoltre l’attuarsi di un cambiamento nei

movimenti corporei porta – ce lo insegna la bioenergetica - a un cambiamento nella vita

psichica dell’individuo e viceversa. Il processo creativo si sviluppa in uno spazio-tempo

creativo, un luogo in cui la libertà di espressione viene garantita da una protezione e in cui

la creatività viene esaltata. La danza viene cercata, riconosciuta, osservata e significata

attraverso passaggi precisi, spazi e tempi definiti tipici del setting preposto. Assistiamo alla

scissione tra parola che descrive e razionalizza e corpo che si perde e viene travolto

dall’emozione.

La fase di “riscaldamento” iniziale permette di mettere in comunicazione mente e corpo

quando le emozioni sono distanti dal corpo, quando si è troppo carichi di azioni,

preoccupazioni e aspettative. Il conduttore aiuta quindi a unire mente e corpo e a porre

attenzione viva al livello energetico della persona, invitandola a sperimentarsi con gesti

mirati al risveglio della percezione del sé. Una sorta di “ricordo” del corpo, della sua natura

conoscitiva, esplorativa e ludica in movimento. Segue una fase successiva di esplorazione

spontanea e di improvvisazione: ovvero un ascolto attento alle tematiche di movimento

direttamente connesse al corpo nello spazio, al corpo nell’emozione, alle immagini che lo

accompagnano, alle risonanze relazionali. La persona viene invitata a esprimere

liberamente ciò che emerge. Segue poi una fase di condivisione, cioè di verbalizzazione e

rielaborazione dell’esperienza avvenuta, riconoscendo i valori dell’opera creativa. Ogni

movimento del corpo è un indicatore di come è la persona nelle parti più intime di sé e

delle sue emozioni represse.

Musicoterapia

Lo scopo di utilizzare la musica in terapia è quello di sollecitare delle risposte fisiche,

mentali e spirituali, di creare e alterare stati emotivi, facilitare l’espressione di emozioni,

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ridurre lo stress e l’ansia. È un approccio alla persona con strumenti di comunicazione non

verbale, utilizzata non solo per interventi terapeutici ma anche per interventi educativi e

riabilitativi, atta a facilitare e a favorire la comunicazione, la relazione, la motricità e

l’apprendimento. A livello terapeutico la musicoterapia viene utilizzata per produrre effetti

regressivi, anche all’epoca prenatale; si ritiene infatti che tra madre e figlio, durante il

periodo di gestazione in cui il feto è in costante contatto con la presenza acustica e

sensoriale della mamma, esista un dialogo creativo su base sonoro-ritmico-motorio.

Questa relazione può essere considerata come modello di quelle che un individuo

intratterrà nella vita, nelle quali si svilupperanno le capacità di entrare in “partecipazione”

con le emozioni dell’altro e di modulare le proprie in funzione di una comunicazione

efficace.

La musicoterapia è sia attiva (suonare, far esprimere una rappresentazione dell’interno di

un soggetto attraverso l’emissione di suoni), sia recettiva (ascolto). L’incontro con i suoni,

prodotti e ascoltati, attiva un ascolto interiore fatto di connessioni con memorie antiche,

primitive, sensoriali, collegate a vicende che diventano immagini, “oggetti sonori”, e che

attraverso il corpo traducono la necessità di comunicazione di stati d’animo e di emozioni

dell’individuo: prima ancora della parola, in una rappresentazione immediata tra uomo e

mondo. Durante l’ascolto infatti si ricevono sollecitazioni senso-percettive che attivano

connessioni con il simbolismo, con pensieri inediti che, combinandosi tra loro in modo

creativo, danno vita all’espressività spontanea, autentica e diretta delle emozioni.

Drammaterapia

Il fulcro in base al quale si sviluppano le arti drammatiche sono le comunicazioni e i ruoli

che ogni individuo assume nella vita quotidiana. L’utilizzo dello psicodramma nel

counseling può essere d’aiuto per esempio a chi agisce in modo rigido e stereotipato e non

riesce a essere aperto e a esprimere direttamente i propri pensieri e sentimenti. Se lo

scopo principale della Gestalt è quello di far prendere consapevolezza all’individuo delle

proprie risorse e capacità per governare la propria esistenza, lo psicodramma gestaltico

nella sua natura esperienziale riflette la natura esistenziale della Gestalt. Alcune delle

tecniche più usate sono l’esagerazione, l’intensità, il role playing (mettere in scena sogni,

conflitti e problemi), diventando sempre più consapevoli dei messaggi del corpo e delle

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emozioni. Ricordiamo anche la tecnica della sedia vuota di Perls, che rientra nelle

esperienze esistenziali della Gestalt.

La pratica di queste tecniche e in generale dello psicodramma si basa sulla creazione

condivisa di uno spazio protetto e speciale, nel quale la realtà è una cornice, ovvero

accadono cose “non vere”, attingendo alla funzione mentale del “come se”: in questo

modo la percezione della realtà già vissuta produce effettivamente la percezione di una

realtà alternativa. Ciò significa che attraverso un atto immaginativo si dà vita e corpo a

situazioni reali di ogni giorno (storie, personaggi, sentimenti ed emozioni), rendendo

visibili e comunicabili aspetti del nostro mondo interiore, aspetti di noi nei ruoli sociali.

Come per la scrittura creativa, i partecipanti di un gruppo di drammaterapia inventano

storie che non per forza rispecchiano esperienze personali ma si compongono di

frammenti del proprio mondo interiore (percezioni, pensieri, emozioni e significati) e

creando qualcosa di nuovo permettono allo stesso tempo di poter dire “io sono” (la

possibilità di vedere sé) o “io non sono” (la possibilità di prendere le distanze). È un modo

di approcciarsi alle difese della persona senza che questa le aggiri consapevolmente,

permettendole di esprimere le emozioni senza esserne sommersa.

I partecipanti del gruppo diventano a turno attori, interpretano quindi un ruolo

immaginario, esternando le proprie risorse emotive, la propria memoria corporea e i propri

sentimenti, rendendo il processo creativo reale, vivo e produttivo (per usare un termine

degli elementi che compongono il processo creativo), cioè comunicativo agli altri

componenti del gruppo che in quel momento diventano un pubblico temporaneo. La

spontaneità, l’improvvisazione drammatica, sono elementi di esercizi alla prontezza e

capacità di rispondere agli stimoli esterni affidandosi all’intuito spontaneo del momento

senza la mediazione del pensiero.

La tecnica dello psicodramma è stata inventata da Jacob Moreno (1947), nel senso di

“presentare l’anima in azione”, ed è stata definita una scienza che esplora la verità

attraverso metodi drammatici nell’osservazione dei comportamenti infantili. Il processo

creativo qui, al contrario della drammaterapia, si sviluppa nell’assegnare a ogni

componente del gruppo un ruolo rappresentativo del proprio Io, scegliendo tra un auto-

dramma o un vero e proprio soliloquio, oppure attraverso la tecnica dello specchio, in cui

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un individuo diventa spettatore di un altro componente che recita la sua parte. Lo scopo è

quello di portare il cliente alla riflessione e alla ricerca di comportamenti alternativi in

situazioni analoghe nella vita di tutti i giorni.

Gioco

L’area del gioco è il terreno dove nasce la creatività e quindi dove si pratica l’arte. Il gioco

è un’invenzione infinita, nella quale si scambiano emozioni e azioni in uno spazio protetto

e di sostegno. Nell’ambito del counseling il cliente viene accompagnato alla ricerca di sé e

di nuovi modi che liberano la persona da fantasie irrazionali, da ingiunzioni persecutorie e

da tutto quello che impedisce la realizzazione di sé. Le attività proposte, che stimolano e

contengono nello stesso tempo, fanno vivere momenti magici in cui mente, corpo e cuore

sono felicemente integrati e la persona si percepisce integra, degna, capace, unica e

autorizzata a essere nel mondo così com’è. Per cui non solo si riattualizzano fenomeni

transazionali infantili (quando il bambino con i primi giochi si sperimenta nel mondo in

maniera autonoma dalla madre), ma si crea un vuoto fertile nutriente, in cui la persona

trasforma, crea e ricrea il mondo in un processo spontaneo prima riparatorio e poi

evolutivo. Gioco e arte consentono di mettere in contatto l’Io con il Tu (inteso come altro

da noi), le diverse parti della personalità di ognuno – adulto, genitore, bambino – con

quelle degli altri, attivando scambi adattativi e comunicativi.

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“Raramente le emozioni dell’individuo vengono verbalizzate;

molto più spesso esse sono espresse attraverso altri segni.

La chiave per comprendere i sentimenti altrui sta nella capacità

di leggere i messaggi che viaggiano su canali di comunicazione non verbale”.

Daniel Goleman, Intelligenza Emotiva, (1996).

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Esperienze di counseling espressivo

Laboratorio con vari materiali

Ho avuto l’occasione di partecipare al workshop intitolato “L’albero della Gratitudine”

tenuto da Enrico Catalano, psicologo e psicoterapeuta a orientamento gestaltico, e da

Simona Rao, psicologa e arteterapeuta. Ho scelto di raccontare questa giornata perché

l’intera esperienza racchiude tutto quello che finora ho detto sull’arteterapia: come

avvengono gli incontri di gruppo, come si lavora con la parte interiore e come la

consapevolezza possa aiutare a esprimere, attraverso la creazione spontanea, parti

inconsce di noi. Racconta così il mio vissuto esperienziale, prima volta per me in questo

genere di attività.

Il gruppo è composto da circa dieci persone tra uomini e donne di età diverse, a me

sconosciute. Il setting è una stanza abbastanza grande da permettere a ognuno di noi di

avere uno spazio a terra per lavorare e una parte piena di materiali a nostra disposizione.

L’accoglienza professionale mi ha messo a mio agio: ci viene spiegato come si svolgerà il

lavoro e ribadito il concetto che non siamo li per fare delle “opere d’arte” ma per lasciare

che la fantasia crei ciò che l’inconscio spinge verso l’esterno. L’obiettivo è quello di

“costruire” un albero che rappresenti la nostra gratitudine verso quello che di personale

ognuno di noi vuole esprimere. Per “costruire” s’intende “creare nella forma che meglio ci

si addice”, per cui si può scegliere tra disegnare a matita o a pennarello, dipingere con

tempere, fare collage, comporre in 3D, usando la vasta scelta di materiali a disposizione:

carta, tessuti, vetro, colle, pennarelli, tempere, matite, scatole, cartoncini, tubi di cartone,

legno e altro. Ognuno di noi lavorerà in silenzio e senza guardare i lavori altrui. Non ci sarà

nessun giudizio né commento ma semplicemente un feedback finale per chi lo volesse,

basato sulla condivisione di quanto vissuto durante il proprio lavoro artistico.

Veniamo invitati a metterci sdraiati su tappetini e cuscini in posizione comoda e rilassante,

e a tenere gli occhi chiusi con luci soffuse mentre Enrico con voce lenta, bassa e

accogliente ci guida in una meditazione da lui creata dal titolo “Percorso meditativo per

sperimentare la gratitudine” durante la quale ci porta a concentrarci sul respiro, a lasciare

andare tensioni del corpo e pensieri, a concentrarci mentalmente a rispondere alle

domande “Che cosa funziona oggi nella mia vita?”, “Di che cosa posso dirmi soddisfatto?

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Chi sono le persone che amo e quelle che mi amano? Quelle che più mi sostengono e

quelle che mi hanno sostenuto? Quelle che mi hanno reso migliore?”. E ancora: “Quali

doni ho ricevuto alla nascita? Con quali talenti sono venuto al mondo?”. Inoltrandoci

sempre di più nel tema da sviluppare, altre domande ci vengono suggerite: “Che cosa ho

imparato dalle esperienze che ho fatto?” Tutte ci portano a riflettere sugli insegnamenti e

sulla crescita che in certi casi ci hanno portato i dolori, le fatiche e le delusioni;

ringraziandoli ora, ci diamo l’opportunità di comprendere il senso profondo di ciò che

viviamo per aprirci.

Quando la meditazione guidata termina, ognuno di noi con i propri tempi riapre gli occhi e,

senza visualizzare un albero nello specifico, si accinge a prendere i materiali che più sente

“vicini” a sé, per il loro colore o consistenza. Io mi alzo e scorro la vasta gamma di

materiali e comincio a sentire che il mio albero sarà tridimensionale. Prendo il coperchio di

una scatola di cioccolatini come base e per renderla più neutra la ricopro con della carta

velina bianca; al centro faccio un foro largo quanto il tubo di cartone di un rotolo di

scottex ,che diventa il tronco del mio albero. Poi cerco qualcosa che possa completare il

tronco, che non sento debba rimanere color cartone; mi cade l’occhio sui tessuti e trovo

un pezzo di maglina bianca con dei fiori neri stile anni Settanta e una sciarpa che alterna

del tessuto trasparente di varie tonalità di rosa con degli inserti in lana che creano degli

anelli esterni. Capisco immediatamente che la maglina bianca a fiori neri rappresenta me

che, appoggiata alla base del tronco, sento che il primo ringraziamento che mi sorge

dentro è per me. Quella base sono io nei miei momenti di fiori e colori e di buchi neri

rappresentativi della depressione. La sciarpa avvolge il tronco e ogni anello di lana

rappresenta per me persone o animali che ho incontrato e che hanno segnato parte della

mia vita e che ringrazio per esserci stati, anche solo di passaggio. Sento poi che ho tanto

altro da ringraziare: i genitori, la famiglia, gli amici più intimi e cari, la buona salute, e in

generale le esperienze di vita positive che mi hanno riempito il cuore. Decido che queste

saranno la chioma dell’albero nell’insieme, ma che ogni parte dovrà essere ben definita per

cui stropiccio e appallottolo carta velina di colori diversi, ognuno dei quali rappresenta

genitori, famiglia, amici, ecc. Infine mi aiuto con bastoncini che lego all’estremità della

carta e inserisco dentro al tubo, al tronco. Il mio albero è completo.

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Durante la condivisione ognuno mostra agli altri la propria creazione e, se vuole, racconta

il senso del lavoro. Le nostre creazioni sono tutte diverse tra loro. Ogni albero parla di noi.

Guardo la mia opera, il mio “creato” e sento che mi appartiene, che riflette come uno

specchio parti di me profonde, intime, che non immaginavo. Mi piace vederlo ma un po’ mi

spaventa perché è un albero senza radici; la base dalla quale nasce questo albero sono io,

il tronco sono le mie esperienze, i miei vissuti, solo nella chioma trovo le persone e gli

eventi che dovrebbero invece aver creato le mie radici. Rifletto, osservo e mi ascolto e mi

porto a casa un pezzo in più di me che prima non conoscevo.

Figura1AlberodellaGratitudine

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Esperienza con la creta

Lo scopo dell’incontro, organizzato all’interno del corso di formazione in counseling al

quale ho partecipato, è quello di prendere confidenza con un materiale malleabile come la

creta e di lasciare che la nostra manualità ci permetta di entrare in contatto con una parte

interiore di noi, qualunque essa sia.

Il setting è un laboratorio open space, dove c’è un tavolo molto grande intorno al quale

sediamo, davanti a un pezzo di creta delle dimensioni di circa 15 x 15 cm, appena tagliata

da un blocco più grande. La creta è appoggiata su un’asse di legno poco più grande, che

serve per isolare il materiale dal tavolo. Al centro del piano di lavoro abbiamo ciotoline

d’acqua e strumenti per modellare. La conduttrice del gruppo è Brunella Di Giacinto,

counselor, affiancata da Riccardo Sciaky, psicoterapeuta, counselor e nostro docente nel

corso di formazione. Di seguito il racconto sull’esperienza.

“Inizio ad appoggiare le mani sulla creta e a occhi chiusi faccio attenzione alle sensazioni

che mi trasmette. È liscia, fredda, dura, quasi faccio fatica a darle forma, le dita non

affondano ma scivolano su di essa, lasciando piccoli dislivelli. Continuo per un po’ finché il

contatto si fa più caldo, più intimo. La creta si è ammorbidita e anch’io ho visualizzato che

ho voglia di modellarla secondo quello che più mi emerge in figura in questo momento:

l’amore. Ho voglia di rappresentare l’amore per me in questo momento.

Divido con le mani, quasi strappandolo, un pezzo di creta e poi un altro di uguali

dimensioni. L’amore che si fa in due. Arrotolo massaggiando il singolo pezzo sull’asse di

legno, facendolo scorrere tra le mani come se lo coccolassi. Creo due corpi cilindrici ben

piantati su basi singole che sembrano dei piedoni e si appoggiano uno all’altro

avvinghiandosi tra di loro. Sono talmente concentrata sul lasciare andare la mia fantasia

che, anche se ho gli occhi aperti, non vedo le altre compagne vicine a me, sento forse

ogni tanto qualche parola qua e là ma è più forte il suono del mio cuore che batte.

Appallottolo due teste di uguali dimensioni e spontaneamente a una do la forma del Cuore

e all’altra del Sole, con tanto di raggi mossi, un po’ ondulati, quasi ricci. Le teste non

hanno volto ma per me si stanno guardando. I corpi sono molto lisci, non ho lasciato

impronte delle dita, dei polpastrelli, delle unghie, ma a guardarli bene sento che manca

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qualcosa. Mancano gli arti superiori, quelli che io amo di più perché possono abbracciare,

accogliere e sostenere. Avvolgo intorno ai corpi un filo di materiale lungo e sottile, come

se fossero due braccia che si mischiano tra di loro. Si, così rappresenta l’amore per me in

questo momento: il Cuore è la parte emotiva, passionale, sentimentale e il Sole la parte

razionale, attenta, creativa.”

Quando tutte noi abbiamo terminato le nostre opere, senza parlare e commentare,

lasciamo le nostre postazioni per spostarci verso due posizioni più in là sulla nostra destra.

Ci sediamo quindi davanti alla creazione di un’altra compagna e con un altro, nuovo pezzo

di creta di dimensioni uguali al primo lavoriamo lasciando andare la fantasia in risposta

all’opera che la compagna ha lasciato in quella postazione. Possiamo decidere se

continuare l’opera, cioè se completarla secondo il nostro gusto, oppure lasciare che

l’istinto ci porti a creare una risposta a quello che vediamo, a quello che sentiamo

guardandolo. Io seguo il mio istinto e lascio di nuovo lavorare le mani sul materiale in

risposta a ciò che mi arriva.

Quando tutte abbiamo terminato le creazioni, ci guardiamo commosse ed emozionate.

Inizia il lavoro di spiegazione: ogni opera viene posta su un piedistallo più alto rispetto al

tavolo e viene fatta ruotare lentamente perché tutte la possano vedere. L’artista viene

invitata a raccontare la propria opera non solo in un modo oggettivo, spiegando il tipo di

manualità che ha adottato (lisciando, picchiettando, incidendo, pressando), ma

soggettivamente, parlando delle emozioni e sensazioni che ha voluto rappresentare. Si

possono lasciare andare le parole, i racconti, tutto nella massima sicurezza della libertà e

del rispetto reciproci.

Chi ha lavorato in risposta al mio lavoro ha così commentato: “Sono capitata davanti a

quest’opera ed esteticamente mi è piaciuta subito molto. Ho pensato che fosse bella. Mi

sono ascoltata e ho scelto di creare rispondendo a ciò che mi suscitava quella creazione.

Mi è arrivata l’immagine di una coppia, forse la compagna voleva rappresentare un

rapporto di coppia o il sentimento dell’amore. Vedevo una coppia avvinghiata, addirittura

sentivo che l’equilibrio della coppia era influenzato negativamente da questo

avvinghiamento, tanto che, secondo me, se staccavi una delle due parti, l’altra non stava

dritta in piedi da sola. Sentivo dipendenza, un rapporto non sano. La risposta che mi

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emergeva era quindi una trasformazione secondo la mia visione della coppia: sentivo il

Sole come la parte maschile e il Cuore come la parte femminile della coppia, volevo

mantenere i due simboli, la coppia, ma volevo portarli a essere indipendenti e liberi uno

dall’altro, liberi di fare, di andare nel mondo, ma consapevoli di voltarsi e ritrovare l’amato

lì. Legati dallo sguardo, sì, un legame di sguardi, ecco perché ho creato due entità che

sono una di fronte all’altra, non si toccano, sono vicini e si guardano (anche se non ho

creato occhi). Il gioco di sguardi è per me complicità, comprensione reciproca ovvero base

per la crescita di una relazione matura. Questo è il mio desiderio di coppia.”

Così uno dopo l’altro si incrociano i racconti ed è estremamente creativo ed

emozionante vedere come l’artista che è in noi è una parte così intima e unica, soggettiva

e inconscia. Credo che gran parte di noi sia stata illuminata dalle parole delle compagne e

mentre qualcuna è arrivata a un insight, altre hanno preso spunto per alcune riflessioni

interiori. Possiamo notare come nell’esempio riportato le due compagne abbiano una

visone e un sentito diverso sulla relazione di coppia. Ogni partecipante al gruppo ha così

avuto occasione di avere spunti di riflessione in ben tre occasioni specifiche durante tutta

la giornata di lavoro.

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Figura2Rappresentazionelibera"L'Amore"

Figura3Rappresentazioneinrispostaalprimolavoro“L’Amore”

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Laboratorio di creta ed elaborazione dei traumi

Il setting di questo laboratorio è lo stesso, il gruppo è di dieci persone, tutte donne di età

variabile tra i 30 e i 60 anni circa, e il conduttore è Riccardo Sciaky: Alcune persone si

conoscono, altre no, ma a parte il nome non viene richiesto di dire niente di sé. Il lavoro

questa volta è mirato a un tema specifico che ognuno porta, concentrandosi su un trauma

subìto.

A ognuna viene consegnato un foglio da compilare, con nome e cognome, età e altri dati

che seguono un piccolo testo che fa da traccia al lavoro che si andrà a fare con la creta. Il

primo punto è quello di concentrarsi su un evento traumatico specifico sul quale si

desidera lavorare, cercando di “isolare” una scena particolare dell’evento, come una sorta

di fotogramma che rappresenti il massimo della drammaticità dell’evento (segniamo sul

foglio alcune parole chiave che per noi meglio rappresentano la scena del trauma).

Partendo da questa immagine, istintivamente scegliamo tra le parole “impotente”,

“inadeguato”, “in colpa” e “in pericolo” quale tra queste sentiamo più rispondente a ciò

che abbiamo provato nel momento dell’evento. Chiudendo gli occhi e stando in ascolto di

quell’evento, in silenzio cerchiamo di percepire dove sentiamo fisicamente, nel corpo,

quella sensazione e quale emozione proviamo, scegliendo tra rabbia, tristezza e paura. Ci

viene chiesto di dare un valore da 0 a 10 per quantificare l’intensità del vissuto provato nel

rimettere insieme scena, giudizio, sensazione ed emozione. Rimanendo in silenzio e in

contatto con l’evento traumatico iniziamo a muovere le mani e le dita sulla creta.

Riporto il racconto dell’esperienza.

“Ho iniziato a lavorare la creta lasciando andare liberamente le dita, senza guardare, a

occhi chiusi. Il materiale era freddo e molto duro, per cui dovevo pigiare con forza; man

mano che passava il tempo (che non so quantificare perché ero immersa nel momento del

trauma che il conduttore del laboratorio mi aveva portato a ripensare), la creta si

scaldava, diventava un tutt’uno con le mie dita e quindi era più malleabile. La forza che ci

mettevo mi faceva male alle dita, soprattutto ai pollici che quasi tremavano: era una forza

spinta dalla rabbia, dall’angoscia. Mi è venuto anche da piangere e ho lasciato andare, non

mi sono preoccupata di chi era vicino a me perché ero con gli occhi chiusi, sentivo forse

altre compagne piangere e nessuno parlava. Continuavo a spingere le dita dentro al

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materiale, non avevo in mente un’immagine di quello che le mie dita stavano creando, ma

sentivo che dal blocco quadrato di creta avevo creato un piano largo, forse alto un paio di

centimetri. Sentivo che la forza fisica stava diminuendo, la rabbia e l’angoscia si erano un

po’ quietate, e che volevo vedere cosa avevo tra le mani.

Ho aperto gli occhi e ho avuto un tuffo al cuore: sembrava un mare in tempesta, nella

forma di un ventaglio vedevo onde alte, impetuose, irregolari e disordinate che si

spegnevano in una parte più stretta e liscia vicina a me. Ero frastornata e stanca, non

capivo che cosa rappresentasse di me, sentivo solo sentimenti confusi che non riuscivo a

mettere a fuoco. Finché a un certo punto vedo una piccola pallina di creta avanzata dal

mio blocco, tonda e liscia ma molto piccola, che si era evidentemente staccata durante il

lavoro ma era rimasta lì vicino sulla mia tavola di legno; la raccolgo e senza pensare la

ripongo nel centro delle onde. Ora un senso di tristezza profondo e di impotenza mi

invadono il cuore: quella pallina ero io da piccola, che spesso tra l’altro sognavo onde alte

di cui avevo paura. Ricordo quei sogni come se fossero di questa notte, io piccola immersa

nella mia solitudine.”

Quando anche tutte le compagne hanno finito veniamo invitate una alla volta a

condividere le sensazioni che ci ha dato questa esperienza; chi vuole, a sua discrezione,

può aggiungere riferimenti al proprio trauma subito o descrizioni di luoghi e di situazioni.

Con autenticità ognuna dice la propria verità. Importante ora è stare in contatto con le

emozioni che sono emerse, osservare se emergono immagini e insight.

La nostra creazione viene messa da parte e ci viene dato un altro blocco di creta delle

stesse dimensioni del primo. L’idea è quella di trasformare l’emozione del trauma in

qualcosa di positivo: una risorsa, un’immagine piacevole, qualunque cosa che possa

cambiare la sensazione iniziale.

Segue il racconto.

“Questa volta non riuscivo a tenere gli occhi chiusi; solo qualche volta mi aiutavo,

chiudendoli, per contattarmi e fare emergere il punto di forza, l’immagine o la sensazione

che mi avrebbero portato a modificare quella situazione traumatica. Un’immagine di come

sarebbero dovute andare le cose all’epoca, di cosa avrei voluto di diverso. Ho iniziato a

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lavorare la creta senza avere un’idea precisa di come rappresentare quello che mi stava

emergendo sempre di più, ma muovevo le dita con molta meno forza di prima: erano

quasi coccole, carezze, lisciavo il materiale anziché bucarlo con i polpastrelli, sentivo un

desiderio di stabilità e non di movimento irregolare e impetuoso come il mare di prima,

sentivo che procedevo in verticale invece che “sdraiare” la creta, credo stessi usando

anche tutto il palmo della mano e non solo le dita.

Non aveva un senso estetico quello che si stava creando tra le mie mani, ma sentivo

interiormente che mi stavo rappresentando, stavo mettendo il mio corpo nel mondo, la

mia esistenza. Io c’ero, e c’ero imponente, grossa, semplice così come stava venendo, ma

più coccolata. Emotivamente sentivo sicurezza, compagnia, amore, fiducia e gioia. Non

potevo dimenticarmi di prendermi cura della piccola pallina così, quasi del tutto

istintivamente, le dita hanno creato una sorta di ombelico nel quale ho posizionato la

pallina. La piccola me. La trasformazione era proprio questa: sentire una sorta di

compagnia, di amore, di fiducia che non mi lasciassero da sola ad affrontare la vita. Un

abbraccio sicuro, una presenza. Ricordo molta gioia finale e amore nel cuore nel

condividere poi con il resto del gruppo le nostre nuove “opere”.”

Annotiamo sul foglio che ci era stato dato all’inizio del lavoro il valore che ora diamo alla

potenza dell’emozione da cui siamo partiti. Condividiamo in gruppo e ci accorgiamo con

stupore che tutte hanno dato ora un “voto” notevolmente più basso di quello iniziale

all’emozione legata al trauma.

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Figura4rappresentazioneemotivadeltrauma

Figura5Trasformazioneemotivadeltrauma

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Conclusioni

Ogni parte di noi, ogni movimento, azione o non azione è un’espressione del nostro Sé,

tutti abbiamo abilità, risorse, punti di forza ai quali attingiamo, anche in modo

inconsapevole, nel corso della vita. Se non sussistono condizioni favorevoli alla loro

espressione, quindi se tali risorse sono inutilizzate, vengono ignorate o trascurate, si

atrofizzano e hanno ovviamente conseguenze serie per noi e il nostro ambiente. La

curiosità cede il posto all’indifferenza o alla paura, la versatilità con cui entriamo in

contatto con il mondo si trasforma in rigidità di pensieri e sentimenti, la presenza, cioè il

modo in cui viviamo le esperienze, può diventare esteriorità, assenza e infelicità. Se al

contrario coltiviamo queste risorse, le stimoliamo e sosteniamo, esse diventano più

frequentemente accessibili e concorrono a nostro sviluppo e rafforzamento. Se riusciamo a

conservare questo atteggiamento nella vita di tutti i giorni sviluppiamo un modo di stare al

mondo che ci conduce verso la piena realizzazione del nostro potenziale, a essere con noi

stessi e con gli altri in modo multiforme e coinvolgente. Lo scopo di usare l’arteterapia

nelle relazioni d’aiuto è proprio questo: resuscitare la propria dimensione creativa per

realizzare se stessi. Il termine “resuscitare” si usa proprio per indicare qualcosa che è già

stato vivo dentro ognuno di noi in quanto condizione primordiale dell’uomo.

Questo è dunque il mio obiettivo: coltivare il senso artistico, la creatività, l’immaginazione,

risvegliare il “gusto” di liberare le fantasie, sensibilizzarmi sulla bellezza, sul piacere,

godere delle mie ricchezze, della mia unicità, sviluppare il coraggio del “gioco”; in poche

parole, prendermi cura della mia anima a livello personale e svilupparla a livello

professionale nel counseling.

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