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n. 04 de La Terra Trema vini, cibi, cultura materiale Territori LE VENE APERTE DEL GIAMBELLINO Narrazioni NON PARLIAMO DI CIBO Culture materiali INTERAZIONE CULTURALE Agricolture LAMBRUSCO PROFONDO primavera 2017

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n.04

de La Terra Trema vini, cibi, cultura materiale

Territori

LE VENE APERTE DEL GIAMBELLINO

NarrazioniNON PARLIAMO

DI CIBO

Culture materiali

INTERAZIONECULTURALE

AgricoltureLAMBRUSCOPROFONDO

primavera 2017

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EDITORIALE E FOTOGRAFIA di Laura M. Alemagna

IN QUESTO NUMEROTerritoriLe vene aperte del Giambellino

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ConflittiLa Zad di Notre Dame des Landes

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AgricoltureLambrusco profondo

7

AgricoltureNicolini, vignaiolo aspro e autentico

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Culture materialiInterazione culturale

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Rapporti di produzioneQuando le mucche avevano una tana

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NarrazioniNon parliamo di cibo

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PRIMAVERA 2017

Trimestrale di vini, cibi e cultura materialeanno 2, numero 4, primavera 2017registrazione del Tribunale di Milano n.139 del 12/05/2016.

A causa delle leggi sulla stampa risalenti al regime fascista, la registrazione presso il Tribunale evita le sanzioni previste per il reato di "stampa clandestina".

Questa pubblicazione è soggetta alla Creative Commons Licence CC BY-NC-ND 3.0 IT.

Rispetto, sostegno e diffusione per le autoproduzioni culturali e gli spazi occupati e autogestiti.

Editore Associazione di promozione sociale Antares, Frazione Castelletto 17, 20080, Albairate (Mi).

NELLE NOSTRE MAPPE

emiliano e con lui l’insieme rizomatico che lo compone: le vigne, la casa, la cantina, i fagiani tra i campi, la sua rete di vignaioli di prossimità, noi. È mappa il racconto su strati di storia di Simonetta Lorigliola e Lorenzo Monasta, è mappa Giorgio Nicolini, orso e contadino, custode di un patrimonio culturale smisurato. È mappa la storia che ha portato l’orso a La Terra Trema. Sono cartografie dell’esperire quelle tracciate da Giobbe che lo portano a confrontarsi con La Zad, è mappa la risolutezza contadina e cittadina insieme di questa battaglia per il territorio condotta a ridosso dell’Atlantico. È una mappa meravigliosa e articolata il Giambellino, essere polimorfo, casa, strada, quartiere, città, continente. Luogo in esteso che vale mille e una esplorazioni, che rischia di vedere compromesse le peculiarità sue più intense per una trasmutazione sovrannaturale, non del tutto umana. Ancora. Segna di continuo i passi Annino Mele nel suo racconto, segna il suo percorso settimanale Giulia Spada, ed è una mappa del desiderio quella che spinge perché che il loro raggio si allarghi all’infinito.Traccia il suo percorso tra scaffali, contratti, stakeholder e lifestyle eataliani Wolf Bukowski; lo fa Wu Ming 2 addentrandosi in una profonda ricognizione delle pagine di Insurrezione Naturale. È un privilegio poter delineare le proprie mappe? È un lusso dovuto a ognuno? È un piacere comunemente ricercato?Sì, è un privilegio tracciare queste carte e sì, è un lusso che ognuno dovrebbe concedersi.Saturi di indicazioni a procedere, tutto quanto intorno a noi è già stato esplorato, fotografato, ortofotografato, mappato nel virtuale e no, da Dodeca 2360 portate a piedi o su macchine, da GPS, da sensori, satelliti, droni. Sarebbe il caso di cominciare a cambiare le regole e a prendersi gioco di queste tracce, viene in mente un’isola, Moana, ombelico onirico del Mediterraneo. Le mappe mentono sempre, i veri posti non sono mai, ha già scritto Herman Melville, sì, ci sono mappe bugiarde e bisogna saperci giocare, lo spiegano tra longitudini e latitudini i vecchi Cantalamappa raccontati da Wu Ming, ancora ammasso di carni, fogli, ricordi, scatti, sapori, ancora un continuo farsi mappa.Contraddiciamo l’abitudine di farci guidare, perdiamoci nelle nostre mappe. Walking down the street I’m the lady – ah -Showing off my map of Tasmania (…)My map is symbolicIt get drunk a lotHey, does that make it an alcoholic?(Map of Tasmania, Amanda Palmer & The Young Punx)

Direttore responsabile Laura M. Alemagna.

Redazione Paolo Bellati, Alice Selene Boni, Andrea Bottalico, Claudio Madella, Gabriele Moscatelli, Veronica Scotti .

Hanno collaborato Marco Basileo, Giobbe, Wolf Bukowski, Simonetta Lorigliola, Davide Marconcini, Annino Mele, Giulia Spada, Wu Ming 2.

Fotografie Laura M. Alemagna, Jacopo Loiodice, Massimiliano Goitom, Claudio Madella, Lorenzo Monasta.Ringraziamo quant* animano La Base.

Illustrazioni Andrea Rossi.

Progetto grafico e impaginazione Claudio Madella.

Stampato da Graphidea srl, Via Fara, 35, Milanosu carta CyclusOffset 100gr, cert. FSC-C021878.

info: [email protected]

www.laterratrema.org

Non sbagliava Totò, Totò non sbagliava mai, nelle vesti di mariuolo e pirata quando ten-ta il colpo intorno a una cartina minusco-la: E me la chiami mappa questa? Questa non

è una mappa, è una mappina! C’è, nella radice, una vicinanza strategica tra carte geografiche, mappe e mappine. E Totò non sbagliava. Mappae, tovaglia o tovagliolo o manteles, canovaccio, secondo alcuni, comunque questione domestica, privata, quotidiana e soprattutto sapido.Con questa qualità intima delle mappe e con questo tipo di valore che ci sembra di avere a che fare oggi, nell’atto di costruire questa nuova annata de L’Almanacco de La Terra Trema; con la possibilità di costruirle, disegnarle e tesserle, in base alla nostra stessa esperienza, in base alle nostre tavole. Abbiamo imparato a confrontarci e comportarci come corpi/territori, come persone/luoghi e le nostre prossimità sono di carne e carta, di pelle e terra, a tracciare il solco con penna o aratro (lo ricordava quel pellegrino di Mattia Pellegrini, su queste pagine lo scorso autunno) a segnare il passo da camminatori col bastone. È un corpo tracciato su mappa quello di Denny Bini, vignaiolo

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TERRITORI

LE PERIFERIE SONO CONTINENTI TURBINOSI, LUOGHI COMPLESSI E VITALI DOVE IL PIÙ DELLE VOLTE IL PIACERE DI VIVERE ARDE FORTE GRAZIE A POLITICHE DI AUTOSOSTEGNO CONCEPITE TRA LE STANZE DI PICCOLI APPARTAMENTI, NELLE STRADE, NELLE PIAZZEtesto di Laura M. Alemagna, foto di Jacopo Loiodice

PRIMAVERA 2017

LE VENEAPERTEDEL GIAMBELLINO

“Oh!La voglia di amare

Mi scoppia nel cuoreSoli si muore”Soli si Muore

Nella versione di Teho Teardo & Blixa Barlgeld

Piazza Tirana è un cuore vivo e via Angelo Inganni è il dardo che lo trafigge, è arteria pulsante mai doma, mai ferma, mai quieta.Attraversi Giambellino e Lorenteggio e cammini su strati di storia puramente milanese, di emigranti in Francia, di fami-glie e singoli d’ogni dove, strabordanti meridionali, arabi e arabe, rom, latinos. Dialoghi impenetrabili, bambini nei pas-seggini, volti scavati, botteghe d’ogni tipo, clacson. Mestizaje. E poi progetti e parole e verbi che incombono, rammendare,

riqualificare, risanare.La Mensa Comune Autogestita del Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio è immersa qui, all’interno dei locali, occupati della Base. La Mensa funziona a pranzo due volte a settimana, il martedì e il giovedì, ma è un crogiuolo sempre attivo, doposcuola ai bambini, assemblee, iniziative, picchetti, lo sportello di solidarietà.L’ingresso è indicato da segni spartani, guarda bene e la trovi. È ancora presto, dentro si lavora tra tavoli e fornelli. Le stanze sono inon-date di luce, calda, accogliente, tutto riflette, le bottiglie piene d’acqua, le stoviglie, le pareti bianche, i disegni sulle piastrelle intorno al lavandino, un’aragosta colorata. Calor.Il profumo rinfranca e conduce.- Lasagne al Forno.- Causa Rellena.Un piatto italiano, uno peruviano, come Janet che cucina lì, il più delle volte con Benjamin, suo marito, oggi con Teresa che arriva dallo Sri Lanka.Da una casa arrivano fumanti le teglie di lasagne. Agli occhi un via vai ovattato, concentrato, continuo e una trottola minuscola che gattona tra le stanze e i tavoli e delle volte ti guarda.

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PRIMAVERA 2017

LA FILIERA È QUELLA DELLE BOTTEGHE DI QUARTIERE,

ITALIANE, SUDAMERICANE, ARABE. È QUELLA DEI BANCHI DEL MERCATO

RIONALE E SETTIMANALE, LA CARNE, SE POSSIBILE,

SEMPRE HALAL.

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TERRITORI

DALLE FINESTRE DELLE CASE SUI LAVORI PARTONO RICHIESTE E CONSIGLI, QUALCUNO SBIRCIA, QUALCUNO BISBIGLIA. POMODORO CUORE DI BUE, M'ARRACCUMANNE.

Causa Rellena è un piatto a base di patate e di pollo, accompagnato da una cupola di riso bianco e da una salsa piccante huancaína composta dal cuore fresco di rocoto e poi ricotta, leche, pane secco. Aji amarillo, aji panca, aji mono. Ahi.La Mensa funziona lì da ottobre. Ogni piatto è gratuito per chi non può permettersi un’offerta, si richiede un aiuto in cucina in cambio.La filiera è quella delle botteghe di quartiere, italiane, sudamericane, ara-be. È quella dei banchi del mercato rionale e settimanale, la carne si cerca di fare che sia sempre halal. Intorno al 2015 qualcosa di simile era già stato accennato, era sempre la Base, Base di Solidarietà Popolare, ma si trovava negli spazi di via Emanue-le Odazio, un vecchio bar affacciato sul mercato rionale di Lorenteggio. Il Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio si muoveva anche lì, tra storie annose e mai sopite, tra questioni abitative impellenti, occupazioni e sfratti, lezioni di italiano e doposcuola, feste nel parco. Per Milano e chi la viveva e la vive in urgenza sono anni senza politiche sociali adeguate, Aler fuori controllo, appartamenti malati di amianto, 13 mila sfratti, 23 mila persone in attesa dell’assegnazione di una casa, 10 mila case vuote. Tutto è un buco nero incontenibile.In quegli spazi la questione del cibo e della sua accessibilità contorta co-minciano a delinearsi. Sotto agli occhi il quotidiano spreco tra i banconi del mercato. Si decise di intervenire intercettando commercianti disponi-bili e si cominciò a raccogliere quanto veniva quotidianamente scartato.Free Food Program Giambellino. Ridistribuzione del cibo raccolto in chiusu-ra dei mercati e pranzi popolari, autogestiti e gratuiti.Ma vennero gli sgomberi e altre menate.Il Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio con forza selvatica non si ammansisce, d’altra parte le urgenze e le istanze che lo animano e muovo-no non sono per nulla risolte.Nuove occupazioni nascono, anche a scopo abitativo, e nel quartiere si fanno spazio nuove famiglie in nuovi spazi. La Base si sposta.Da qui a decidere di tornare a ragionare sulle questioni del cibo la strada è breve. Molte delle case occupate sono a oggi piccole e fredde, il gas d’uso domestico delle volte non è attaccato e la voglia è anche di creare spazio aperto e condiviso, riparo, socialità. E poi c’è una pratica raccontata nelle assemblee settimanali del comitato multiforme: in Ecuador e in Perù nel sangue è forte l’abitudine alla mutualità e si chiama pollada ed è prassi ricorrente di mutuo aiuto e autogestione messa in atto nelle comunità locali. “Cuando pienses en volver aquí están tus amigos, tu lugar y tu mujer y te abrazarán dirán que el tiempo no pasó y te amarán con todo el corazón (…)”Pollo fritto, qualche euro messo in cassa da ognuno, musica, danze e cuori festosi. Uniti si vince.Il comitato si nutre e cresce nel confronto, ha fatto suo questa porzione di vita sudamericana.Le migrazioni portano con sé non solo lacrime e speranza, non solo corpi e sogni, ma anche modi di vedere il mondo, modi di vivere, modelli culturali.Così si muove la storia in divenire della Mensa Comune Autogestita del Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio in via Manzano 4. Si muove avanti e non si ferma.

La primavera è all’orizzonte, appena fuori si torna a preparare il terreno per l’orto de La Base. Sarà sinergico, le braccia sono giovani e preparate, le idee chiare, si delinea la spirale tra terra e paglia. Dalle finestre delle case sui lavori partono richieste e consigli, qualcuno sbircia, qualcuno bisbi-glia. Pomodoro cuore di bue, m'arraccumanne.Dentro, nel pieno del pranzo, le voci si sono fatte più forti e concitate.Ogni tavolo un mondo. Ricordi di avventure giovani e felici nelle balere milanesi, paragoni tra papas rellenas assaggiate e troppi pizzoccheri nel piatto al tavolo di due belle signore.Io mangio come un uccellino.Altrove parole latine e italiane si mischiano, sguardi seri, pensieri, serenità e fatica.La mensa ha una frequentazione variegata, ci sono gli e le occupanti, c’è soprattutto un’umanità aperta e variegata, Perù, Ecuador, Sud Africa, Ma-rocco, Italia, Giambellino.Qui vivremo bene.Il consiglio è di passare a mangiare a la mensa e alla Base, di prepararsi a mondonguito a la italiana e di ascoltare il racconto di chi anima quelle stanze.In gioco c’è la storia di un quartiere, fatta di vite, non per altro, sospesa in uno stato d’indeterminatezza e così i suoi abitanti. Incombono gli sgom-beri, incombono gli spostamenti di massa di chi vi risiede, incombe il sen-so oscuro di riqualificazione, incombono minacce e manganelli, incombe la rabbia, la resa sociale, la guerra tra chi non ha niente.

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CONFLITTIPRIMAVERA 2017

NEGLI ANNI LA LOTTA DEI CONTADINIBRETONI SI È ESTESA, NON SOLO NEINUMERI.

C'è una piccola area nel nord ovest della Francia che si è salvata dall'industrializzazione dell'agri-coltura e che ancora conserva il paesaggio rurale tradizionale, il bo-cage, un insieme di piccoli appezza-

menti contornati da alberi, fossi, piccoli specchi d'acqua e boschi. Una zona fredda piovosa a due passi dall'Atlantico, dedita soprattutto all'alleva-mento. È la Zad di Notre Dame des Landes, un territorio di duemila ettari dove, dagli anni Settanta, è previsto un aeroporto internazionale originariamente pensato per il Concorde. Il vin-colo di quest'area ha fatto sì che lo sviluppo delle imprese agricole cominciato in Europa in quegli anni si sia fermato dando modo agli agricoltori bretoni della zona di cominciare a resistere a que-sto progetto, occupando gli appezzamenti lasciati dalle imprese tradizionali per darle a giovani agri-coltori senza terra che volevano iniziare a colti-varle. Pascoli, prati stabili, stalle, cascine salvati dallo sviluppo industriale si sono trasformati in una grande area “hors-cadre”, uno spazio di vita con una economia agricola informale dove oggi risiedono centinaia di persone che hanno svilup-pato progetti agricoli, laboratori di produzione e

trasformazione di carni, latte, cereali con panifi-cio, mulino, birrificio; spazi conviviali e sociali, biblioteca, una casa per i bambini, addirittura una radio (pirata) e altro ancora.L'intuizione iniziale è stata vincente: non si di-fende un territorio senza i suoi abitanti. In Fran-cia i terreni agricoli sono assegnati da consorzi privati che, in accordo con le direttive pubbliche e le associazioni di categoria, li danno in affitto alle imprese agricole. Sono favorite ovviamente quelle grandi ed economicamente redditizie, il che porta a una progressiva industrializzazione dell'agricol-tura, alla trasformazione del paesaggio rurale in grandi estensioni monocolturali e al conseguente svuotamento delle campagne.Negli anni la lotta dei contadini bretoni si è estesa, non solo nei numeri. È partita dall'opposizio-ne al progetto di cementificazione del territorio contro l'aeroporto, le strade di accesso, collegamen-to e servizio, le fasce di rispetto da dove altri abitanti sarebbero stati espulsi. Si è aggiunta la lotta contro le grandi imprese capita-liste e lo sviluppo del latifondo, impedendo che le imprese agri-cole collaborative con la società costruttrice (che gestisce anche molte autostrade nazionali) pren-dessero in uso temporaneo e gra-tuito gli appezzamenti per ingran-dire la loro superficie agricola fino all'inizio dei lavori di costruzione

LA ZAD DI NOTRE DAME DES LANDES

dell'aeroporto. Ha poi appoggiato l'occupazione di terreni e fattorie via via abbandonate o vendu-te dagli altri agricoltori sotto pressione, o dietro compenso, all'impresa costruttrice. Gli agricoltori in lotta, riuniti sotto varie sigle come la “Copain 44”, hanno aiutato nella co-struzione di case e cabannes di legno (e qui biso-gna lodare l'abilità di carpentieri e carpentiere locali, capaci di costruire fino a grandi hangar con legname di recupero). Non solo i grandi trattori sono serviti a trasportare e sollevare tut-to questo materiale, ma i paysans hanno messo a disposizione i vecchi mezzi e i macchinari perché i giovani agricoltori potessero cominciare le loro attività con aratri, frese, falciatrici, imballatrici, mungitrici. Ma non è finita qui. Settimanalmen-te contadini che vivono nei dintorni della Zad (perché a difendere il territorio non c'è solo chi ci vive, ma contadini da tutta la regione) vengo-no sul posto per partecipare alla coltivazione dei terreni, e tutto ciò che sulla Zad viene prodotto, viene poi messo a disposizione nel “non-merca-to” settimanale dove ognuno porta ciò che ha coltivato e prende ciò di cui ha bisogno, libera-mente. Utopia? No, realtà. Non un'isola felice, ma un luogo di lotta, dove vivere diventa gesto politico, resistenza, pratica quotidiana non ri-conducibile alle leggi di mercato o al dominio dell'uomo sulla natura. Così la Zad si è conqui-stata uno spazio nel cuore di tanti sostenitori vicini e lontani, che hanno portato il loro ap-poggio con gruppi di solidarietà in tutte le città della Francia. Manifestazioni sul posto, carova-ne verso le città vicine, un festival annuale, tutti con decine di migliaia di partecipanti. Grazie ai paysans, agli abitanti-occupanti, ai soste-nitori è stata possibile la resistenza allo sgombero, alla distruzione delle case e all'assedio durato tre mesi, dove viveri e intere case in legno, costruite un po' in tutta la Francia e poi smontate, sono arrivate pezzo pezzo sulla Zad in spalla, sui sen-tieri che la polizia non poteva controllare. Sono memorabili le decine di trattori incatenati a cir-condare e difendere le cabannes, i blocchi delle strade e gli scontri con i mezzi della polizia, im-potenti contro le macchine agricole. Se percor-rete quelle strade oggi troverete a testimoniare la lotta la rue des barricades, ancora rimasta tale e dove alcune delle barricate sono rimaste abitate. Quando, alla fine del tentativo di sgombero, le forze di polizia se ne sono andate, hanno lascia-to dei blocchi in cemento per chiudere l'accesso alla Zad. Tre giorni ci sono voluti per rimuover-le: due e mezzo per decidere se toglierle o meno, e poche ore per spostarle da dove erano con i trattori. Ora fanno parte delle barricate difensi-ve degli Zadisti. Nous sommes là, nous serons là.

NON SI DIFENDE UN TERRITORIO SENZA I SUOI ABITANTIdi Giobbe

foto di zad.nadir.org

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LAMBRUSCOPROFONDO

Denny Bini - Podere Cipollav. Ruozzi 1/3, 42123 Coviolo (RE)

AGRICOLTURE PRIMAVERA 2017

LA RIVOLUZIONE DI DENNY É QUELLA DI AVER CONCEPITO PER UN VINO STORICO UNA STORIA NUOVA CHE NON HA PAURA DI INVECCHIARE di Laura M. Alemagna e Paolo Bellatifotografie di Jacopo Loiodice

Era il 2004 e creavamo, prima di tutto su noi stessi, le premesse per questa storia decennale che è La Terra Trema, attraversando le stan-ze della casa di Almilcare Alberici vignaiolo a Boretto, le bottiglie di Lambrusco e di Fogarina accata-state, le sale dell’Osteria Lido Enza a Brescello, le chiatte sul fiume, le rane fritte e l’amara constatazione

che quelle dell’Enza non le avremmo mai assaggia-te. Risuonavano le letture di Veronelli, di Soldati e Camporesi.Ma un’idea forte di Emilia c’era ben prima e aveva plasmato sguardo e udito, Emilia rossa, partigia-na, punk e melodica, Emilia paranoica, rozzemilia, CCCP, (…) piatta monotona moderna attrezzata benservita consumata (…) e tutti sono onesti e tutti sono pari e tutti hanno le palle democratico-popolari (…) provincia industrializzata provincia terzializza-ta provincia di gente squartata.C’era un’idea di paesaggio, pianura, traversata come un deserto d’anime, c’è un’ebbrezza della dispersione che diventa qualcosa di positivo. Ti accorgi di poter amare il mondo con il suo “di-sponibile quotidiano”, così come è, per quello che è, e non per come dovrebbe essere. C’era questa provincia appianata, nelle immagini di Ghirri e Ligabue (Antonio), nelle pagine di Tondelli, Celati, Zavattini. C’era Reggio nell’Emila, dei Fratelli Cervi e di Prospero, contadino nella metropoli, c’erano i suoi ricordi di un militante delle Brigate Rosse. C’era Prospero Gallinari, oggi sepolto nel cimitero di Coviolo.Questa porzione d’Emilia abbiamo voluto che fos-se la nostra meta.Ci aspettava Denny. Azienda Agricola Bini Denny, Podere Cipolla, a Coviolo (Reggio Emilia).La prima volta che Denny ha partecipato a La Ter-ra Trema è stata nel 2009, era un giovanissimo vi-gnaiolo sconosciuto ai più, faceva vino da qualche anno e la nostra fiera feroce era tra le primissime iniziative pubbliche su cui si affacciava.Da quella volta Denny è tornato da noi ogni anno e oggi è un vignaiolo conosciuto e affermato in

Italia e nel mondo. La sua esperienza e i suoi vini sono tra i più interessanti del territorio Reggiano.Denny è maturato professionalmente, si è fatto contaminare, ha lavorato, ricercato e sperimenta-to moltissimo. Ha iniziato con quello che aveva, mezzo ettaro in affitto, una grande conoscenza del territorio, un trascorso come batterista in un gruppo punk, un nonno contadino e gli studi all’istituto agrario di Reggio Emilia. Denny è cre-sciuto con noi, noi con lui, abbiamo camminato su strade contigue e parallele, spesso ci siamo ri-trovati insieme, questo ci ha legato molto a lui e alla storia che rappresenta. Da Milano a Reggio viaggiamo sull’autostrada A1, parallela al nastro di asfalto scorre la ferrovia dell’ Alta Velocità, i Frec-cia Rossa ci superano a 200 e più chilometri all’o-ra. Cemento, asfalto e metallo tagliano la pianura padana, è un susseguirsi. Usciamo al casello di Reggio Emilia, all’orizzonte ci accolgono i tre via-dotti di Santiago Calatrava, acclamata archistar. Appariscenti, di acciaio bianco e cemento armato. Tre ponti costati 40 milioni di euro, simbolo della riqualificazione urbanistica del territorio sventrato dal TAV. Tre ponti che ci accompagneranno per quasi tutti i no-stri spostamenti nella campagna reggiana, visibili all’orizzonte, in fondo ai campi, tra una casa e una casci-na. Con Reggio alle spalle, Coviolo è subi-to dopo, lì.La cantina di Denny l’agguantiamo subito,

imboccando una traversa della provinciale, all’in-terno di un complesso agricolo che una coppia di amici, Massimo e Catiana, ha preso in affitto per farne un agriturismo non appena avrà finito i la-vori di ristrutturazione.Un fiero casale padronale, un fienile, l’aia, la stal-la, la rimessa per i carri, i pioppi che svettano. Massimo ha offerto a Denny in affitto la vecchia stalla e Denny l’ha ristrutturata trasformandola in una piccola cantina. Semplice e bellissima. Sopra, il vecchio fienile, è diventato magazzino e ufficio del Podere Cipolla. Denny ci accoglie, ricci e sorrisi, con lui uno stuo-lo rosso e arancione di splendide galline ovaiole, galli, galletti e faraone che scorrazzano e cantano tra aia, pollaio e vigne intorno. La casa si trova a poche centinaia di metri da lì e a breve distan-za ci sono anche i suoi vigneti. I nonni materni di Denny, Renato e Maria Pia, erano contadini come si era contadini nelle generazioni passa-te, un’azienda agricola reggiana con dieci ettari di terreno per coltivare prevalentemente uva da conferire alla cantina sociale e una inviolabile parte da utilizzare per il vino da fare in casa. Poi trenta vacche, per il latte da conferire a Coviolo al caseificio sociale.Là dove c’era il caseificio oggi ci sono villette.Lorella, madre di Denny, non ha continuato l’attività agricola, e suo padre, Floriano, faceva tutt’altro. I nonni, una volta smesso, hanno af-fittato parte dei terreni di proprietà.Terminata la scuola di agraria Denny ha comin-ciato a lavorare come cantiniere per una grossa azienda locale. Piano piano matura in lui l’idea di lavorare da solo, così si convince e chiede al non-no mezzo ettaro di prato in affitto. Ara, traccia e pianta lì le sue prime viti.

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PRIMAVERA 2017

EMILIA SUR LÌ: C’È FERMENTO IN EMILIA! L’Emilia è terra di lunga tradizione e storia stratificata e complessa. Ci sono passati popoli, esperienze si

sono sovrapposte, lingue si sono amalgamate. Eppure, come ogni altro campanile del nostro Paese, ha peculiarità e carattieristiche uniche, distintive. Il limite settentrionale del Po con le sue fertili pianure e le grasse terre. La dritta e antica strada voluta dal Console Emilio Lepido che attraversata verso sud porta tra campagne ondulate, sullo sfondo le vette degli Appennini. Valli scoscese esposte ai venti e al sole, ricche d’acque di torrenti impetuosi, di calcari, argille, sabbie e conchiglie preistoriche. Colline punteggiate dalla vite, di mille e forse più varietà differenti: Lambrusco e le sue infinite mutazioni e Ortrugo, Spergola, Pignoletto e tutti gli altri. E poi lo spirito cooperativo emiliano; la voglia di stare insieme e condividere conoscenze e competenze; la giovialità e convivialità che qui hanno un sapore più vero, uno spirito spontaneo innato e quasi incontenibile. Emilia Sur Lì non poteva nascere altrove, mettendo insieme vignaioli da Piacenza a Bologna, passando per Parma, Reggio e Modena. Il nome è un manifesto programmatico con quella matrice territoriale e quella storpiatura del francese che ricorda tanto i dialetti che si parlano qui. Sono più di venti gli artigiani che si sono messi insieme, accomunati dalle medesime pratiche in vigna e in cantina. Non è ammesso l’uso di chimica di sintesi, vietati i lieviti selezionati e le rifermentazioni sono possibili solo grazie ai propri mosti. Oltre alla conduzione biodinamica e biologica dei terreni, a distinguere i vignerons di Emilia Sur Lì è la tipologia di vini prodotti: i classici, storici, tradizionali frizzanti emiliani rigorosamente rifermentati in bottiglia, naturalmente. Quelli col fondo, quelli un po’ torbidi, quelli snobbati nei decenni dell’avvento, della diffusione e del monopolio dell’autoclave.È chiaro l’intento di rappresentare e presentare il proprio territorio senza filtri, senza trucchi, senza belletti. Solo terra, uva e uomini che portano in cantina un sapere secolare che qui è restato nella polvere delle strade bianche, nella muffa delle cantine, nella penombra delle osterie di paese, nei calli e nei sorrisi larghi di questi valorosi custodi del sacro fuoco che non si sono mai arresi alla cieca e vuota adorazione delle ceneri. Ragasol! Emilia Sur Lì vi aspetta il 2 giugno alla grande festa campestre dei vini emiliani naturali rifermentati in bottiglia.Sempre in fermento, sempre in movimento. www.emiliasurli.com

PER FARE IL LAMBRUSCO RIFERMENTATO NON CI VUOLE TANTA TECNOLOGIAUna delle caratteristiche di quasi tutti i vini di Denny è la rifermentazione in bottiglia, un me-todo tradizionale che rischiava di scomparire a fa-vore dell’autoclave. Denny invece ha invertito la rotta. L’uva da lambrusco passa nella diraspatrice e poi viene messa in cisterna a macerare. A secon-da del tipo di lambrusco si concede macerazioni un po’ più lunghe o un po’ più corte. Il Ponente 270 (grasparossa, salamino, sorbara, montericcio e malbo gentile) rimane a macerare circa una set-timana, il Libeccio 225 (solo grasparossa) fa due settimane. Il Ponente 270 è un classico lambrusco, il Libeccio 225 è una visione più personale, è una visione di lambrusco. Per il bianco frizzante Levan-te 90 (malvasia, moscato e spergola) un solo gior-no di macerazione sulle bucce. Per il lambrusco rosato Rosa dei Venti (Grasparossa) qualche ora di macerazione e poi si svina tenendo solo il mosto di sgrondo fiore (il mosto separato dalle bucce per caduta senza pressatura). Assaggi, sedimentazioni e travasi e pochi mesi dopo, tra gennaio e febbraio, vanno in bottiglia.Una volta le vendemmie avvenivano più tardi, a ottobre. La prima fermentazione si fermava con l’arrivo del freddo. Rimettendoli in bottiglia in inverno, con ancora dei residui zuccherini, con l’innalzarsi delle temperature, nei mesi successi-vi, ripartiva la fermentazione e si ottenevano dei

LAMBRUSCO GRASPA ROSSA, MALBO GENTILE E ANCELLOTTAAll’inizio conferisce alle cantine sociali, poi co-mincia a vinificare le sue uve grazie alle solleci-tazioni di Marco Rizzardi dell’Azienda Agricola Crocizia (un pioniere, un riferimento del riscatto qualitativo e artigianale dei vini tra Parma e Reg-gio). Dopo le prime vinificazioni Denny prende fiducia, il lavoro gli piace e regala grosse soddisfa-zioni, i vini sono apprezzati, decide di sostituire la parte di ancellotta con altre varietà di lambrusco (salamino, sorbara e montericcio) e da lì a poco rilancia piantando su un altro mezzo ettaro lam-brusco, malvasia e un poco di spergola.Così ho incominciato a divertirmi!La campagna che ospita i vigneti di Denny è bella e a pochi chilometri da Reggio Emilia, nel Parco Periurbano del Modolena e Quaresimo, è un territorio di pregio naturalistico, reso ricco di acqua dal torrente Modolena e pieno di glo-riose realtà agricole, messe in piedi da un ca-parbio manipolo di giovani agricoltori biologici, biodinamici, con grande sensibilità ambientale e sociale e lanciati verso una ragionatissima di-versificazione produttiva: dal miele al parmigia-no, dal vino alle verdure, dai legumi ai cereali, dalle mucche ai maiali, dai polli ai tacchini. Nei pressi dei vigneti di Denny ci sono le vigne e la sede dell’Azienda Agricola Biologica e Biodina-mica La Collina. Un’esperienza agricola storica, con una forte connotazione sociale. Comunità di accoglienza e fattoria didattica, un’impresa socia-le di rara efficienza, la prima a fare biologico e biodinamico in zona. I terreni in queste campa-gne sono fertili, di pianura, limoargillosi superfi-cialmente e a cinquanta centimetri di profondità ghiaia, sabbia e sassi di fiume. Denny ci mostra il suo primo mezzo ettaro, poi gli altri tremila me-tri, messi a vite qualche anno dopo e poco più di mezzo ettaro piantato cinque anni fa. Infine, l’ul-timo campo, arato da poco, pronto per accogliere nuove barbatelle. Malbo gentile e i lambruschi grasparossa, saIamino, sorbara e montericcio, i bianchi malvasia, moscato e spergola.I filari e le viti sono ben distanti uno dall’altro, cordone speronato con potature corte e un nu-mero contenuto di gemme, si cerca anche di li-mitare lo sviluppo vegetale che in queste varietà è già consistente. A filari e anni alterni pratica sovescio con semina di avena, sulla e pisello che lascia andare in fioritura e poi trincia e interra. Rame e zolfo unici trattamenti.

I RIFERMENTATI IN BOTTIGLIA NEL TEMPO,

COME TUTTI I GRANDI VINI, SI AUTOPROTEGGONO,

CAMBIANO COLORE, AROMI, SAPORI E GUSTO.

vini frizzanti. Oggi le vendemmie si fanno prima, il freddo viene più tardi e così c’è il rischio che la fermentazione arrivi fino in fondo consumando tutti gli zuccheri. I vignaioli che vogliono fare la rifermentazione in bottiglia si attrezzano tenen-do da parte un poco di mosto preventivamente raffreddato, quasi congelato, per poi aggiungerlo quando imbottigliano, in modo da garantirsi gli zuccheri necessari alla rifermentazione che per-mette di ottenere vini frizzanti. Denny per con-servare questa parte di mosto usa una cisterna da latte. Sta sperimentando anche un vino rosso fer-mo, il Maestrale 315, col malbo gentile. Da queste parti questo vitigno è stato utilizzato sempre come uva da taglio per rafforzare il lambrusco perché dà colore, tannino e alcool. A Denny quest’uva è sempre piaciuta per le sue ca-ratteristiche, struttura, acidità e buccia gli facevan ricordare uve per vini d’invecchiamento di altre zone d’Italia, così ha deciso di provare. Dopo va-rie sperimentazioni, mosso, passito ha iniziato col fermo, prima in acciaio, poi in vecchie barrique usate di quarto/quinto passaggio lasciandolo nel legno 1-2 anni fino ad arrivare con la vendemmia del 2015 a sperimentare le botti grandi, tonneaux, e il risultato sembra di grande interesse. Denny vuole lasciarlo lì ancora un poco, la strada sem-bra quella giusta e non vediamo l’ora di provarlo. Denny non si fa mancare niente. Produce poche bottiglie (8 mila) ma fa tanti vini diversi. Il passito Tramontana 360 ottenuto da uve di malbo gentile chiude la produzione del Podere Cipolla. I grappoli raccolti restano quattro mesi ad appassire in cas-settine di plastica all’aperto nell’ex fienile, sopra la cantina. Diraspatura manuale, acino ad acino a gennaio. Macerazione in acciaio per quaranta giorni, torchiatura manuale e poi affinamento per nove mesi in una botticella di rovere tipo da ace-to balsamico da cento litri. Un mese in bottiglia e l’ultima perla di Denny Bini a novembre è pronta per essere apprezzata e fa la sua prima uscita pro-prio a La Terra Trema.Attenzione in campagna, basse rese, lunghe mace-razioni, vinificazioni tradizionali, vini che possono anche invecchiare.

UN LAMBRUSCO PUÒ INVECCHIAREQuesta è una delle prime smentite che i produttori come Denny elargiscono al mondo delle certezze del vino. Era impensabile fino a qualche anno fa. Se si diceva lambrusco si pensava a un vino da bere entro l’anno successivo alla vendemmia ed è vero ancora oggi, ma solo per i vini fermentati in auto-clave dove si mettono in bottiglia vini sterili, filtra-ti e microfiltrati, vini che non possono evolvere, ma solo conservarsi per un breve tempo. Il rifer-mentato in bottiglia è un vino che finisce in botti-

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AGRICOLTURE

glia fermo, per rifermentare ci vuole un vino vivo, che contenga microelementi dinamici che permet-tano oltre alla rifermentazione un’evoluzione in crescita e conservazione nel tempo. I rifermentati in bottiglia nel tempo, come tutti i grandi vini, si autoproteggono, cambiano colore, aromi, sapori e gusto. Evoluzioni più o meno lunghe e durature a seconda delle annate e del tipo di vino.Con l’industrializzazione dei processi produttivi, con l’arrivo dell’autoclave e altre tecnologie enolo-giche e agricole, si riusciva e si riesce a fare grosse quantità più rapidamente uniformando il prodot-to finale frutto di uve provenienti da centinaia di produttori differenti. Piccoli e grandi produttori, chi lavora meglio o peggio, conferiscono tutta la produzione ai grandi marchi cooperativi che con-fezionano un prodotto omologato per gli scaffali dei supermercati di tutto il mondo. L’istituzionalizzazione delle cooperative sociali merita una riflessione breve, ma intransigente, perché soprattutto in questo territorio sono state di importanza emblematica, funzionavano bene e hanno permesso a micro aziende a conduzione familiare di uscire dallo sfruttamento e dalla po-vertà, mettendosi insieme hanno sviluppato un processo autentico di mutuo aiuto. Oggi quel di-spositivo organizzativo si è trasformato, nella mag-gior parte dei casi ha preso forma di colossi indu-striali con logiche prettamente imprenditoriali e di sfruttamento, senza attenzione per la tradizione e il rispetto ambientale. Il bisogno di mutuo aiuto, di sottrazione dal grande mercato organizzato, di mettersi insieme per costruire identità e proget-tualità resta ancora forte e necessario. Nell’ultimo abbondante decennio, in Emilia, è capitato che un bel movimento di piccoli vignaioli sia riuscito a fare rete e a sviluppare le proprie aziende e un’i-dentità comune.Vittorio Graziani di Modena insieme a Camil-lo Donati e Marco Rizzardi di Parma (tra i primi vignaioli a tornare a fare i rifermentati in bottiglia e a fare una viticoltura artigianale e sensibile alle metodologie produttive tradizionali, ma anche in-novative) sono stati quelli che hanno spinto per far squadra, per mettersi insieme e fare qualcosa insieme alla nuova generazione di vignaioli emi-liani. Insieme hanno ragionato su una sorta di disciplinare, chiamando a raccolta appassionati e vignaioli che lavorano in un certo modo, con una certa idea di viticoltura e di enologia: agricoltura biologica, biodinamica, naturale, certificata o non certificata, lieviti indigeni, nessuna filtrazione, ri-fermentazione in bottiglia con i propri mosti senza aggiunta di rettificati, zuccheri e robe varie.Si son messi intorno a un tavolo e hanno comin-ciato a ragionare sul proprio lavoro, su come riu-scire a valorizzarlo appieno, costruendo sinergie e relazioni. Una delle iniziative più significative e fe-lici ideata e organizzata da questo gruppo è Emilia Sur Lì, una giornata di festa dedicata alla scoperta del mondo della rifermentazione naturale in botti-glia e all’incontro con i suoi produttori.

IL BISOGNO DI MUTUO AIUTO, DI SOTTRAZIONE DAL GRANDE MERCATO ORGANIZZATO, DI METTERSI INSIEME PER COSTRUIRE IDENTITÀ E PROGETTUALITÀ RESTA ANCORA FORTE E NECESSARIO.

- Denny guarda che veniamo a trovarti!- Bene, prenoto in un posto! In qualche modo Denny ci aveva avvertiti, sarem-mo finiti satolli a bordo tavolo, fatti duri di cucina reggiana e vini (tutti) del Podere Cipolla.Denny ci porta a Cadelbosco di Sopra in un bel ristorante a gestione familiare, un posto storico gestito da persone competenti e cordiali. Il Favo, era un podere tipico di quelle zone, la famiglia che ora gestisce il ristoro era già lì, erano tutti contadini. Negli anni Novanta Rosanna e Giu-liano si danno alla ristorazione, coinvolgendo poi i figli. La sala prende il posto della vecchia stalla, restaurata secondo l’uso di queste parti, gli arredi sono semplici e rustici, sulle pareti storie di agricoltura e di caccia scritte da vecchi arnesi di lavoro.La cucina casalinga tipica reggiana non fati-chiamo ad apprezzarla, anzi, ci strega. Salumi affettati della zona, parmigiano reggiano e aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia, gnocco fritto mai mangiato così buono, erbazzone con bietole, frittatine, prosciutto crudo, coppa cotta, pancetta e parmigiano ed è solo antipasto. Den-ny è agguerrito e parte con le bollicine, Levante 90, Malvasia dell’Emilia Frizzante 2015 e conti-nua con Rosa dei Venti Lambrusco dell’Emilia Frizzante Rosato Secco 2015. Cappelletti Reggia-ni in Brodo. Ravioli al radicchio rosso e noci con crema di aceto balsamico. Tortelli di Zucca. Ri-sotto al Radicchio rosso e Fonduta di formaggi. E arrivano i signori Libeccio 225, Lambrusco

Grasparossa Friz-zante Rosso Secco 2014 e Ponente 270, Lambru-sco Frizzante Rossso Sec-co 2014 che f i n i s c o n o anche a con-dire i cappel-letti nel piat-to. Filetto di Manzo ai fer-ri. Spiedone di chianina. E entra il Maestrale 315, 2013, vino fermo in

terra mossa che apre nuove strade tutte da spe-rimentare.Un carrello strabordante di dolci ci asfalta, defi-nitivamente. Zuppa Inglese, Torta casalinga con ricotta, cioccolato e pastafrolla, Torta con crema al cioccolato e nocciole. Tramontana 360, vino passito 2012 ci stampa un sorriso in volto che non leveremo più per qualche ora. Tramontiamo.Torniamo in cantina, galline e galletti ci scruta-no, stiamo bene e lo hanno chiaro anche loro. Lasciamo Denny, col desiderio di tornare presto.Quell’idea di cultura emiliana che avevamo, rete amicale e consortile, feconda e consorziale, si rafforza di più. Sia chiaro, non a quella immen-sa, massificante e accentrante delle cooperative ci si riferisce, ma a quella meno affollata ma co-munque cospicua dote di emiliani ed emiliane, esploratori, che hanno saputo parlarsi, tramare e costruire quel territorio in altro modo, percor-rendola, Zavattini con Ligabue, Tondelli, Guat-telli, CCCP, Ghirri e Celati. Ascoltando Denny, guardando alle sinapsi materiali che questa rete locale sta fortificando salta all’occhio questo, una consapevolezza piena, di cultura e territorio, una cognizione di causa lucida e appagante, poesia pura, poiesis, creazione.

Reggio EmiliaSasso

Reggio Emilia

Coviolo

RivaltaDue Maestà

Denny Bini

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NICOLINI, VIGNAIOLO ASPRO E AUTENTICOIN TERRA DI CONFINI E MESCOLAMENTI NASCONO I SUOI VINI DI TERRITORIO, LONTANI DA OGNI ARTIFICIO E MODAIOLO AMMICCAMENTO di Simonetta Lorigliolafoto di Lorenzo Monasta

PRIMAVERA 2017

Coup de foudre. Il grande anarchenologo assaggia, si stupisce e - come era suo costume in questi casi- parte subito alla volta di Muggia, per conoscere l’autore di quella Malvasia.È Rossana, moglie di Giorgio, donna diretta, colta e sensibile a ricordare con sentimento e commozione il primo e i successivi incontri con Veronelli: “È arrivato qui e mi è sembrato di conoscerlo da sempre. Parlava di vini, ma anche di letteratura, storia, poesia. Seduti sotto la pergola passavamo il tempo in chiacchiere preziose, e di grande umanità. Ha dato la svolta all’azienda, è vero. E non lo scorde-remo mai. Ma io ricordo soprattutto la grande umanità, la nobiltà della persona. Dopo Veronelli, nessuno nel mondo del vino ha saputo essere critico erudito e imparziale, perso-nalità straordinaria e grande uomo, come lui è stato”.La Malvasia di Nicolini riceve il Sole di Veronelli nel 2003. In azienda il telefono comincia a squillare. Un autorevole importatore invia quella Malvasia in Giappone, dove ha (an-cora oggi) grande successo.I clienti e le richieste lentamente au-mentano. A fasi alterne, e non senza fatica, l’azienda cresce.

Sei a Muggia, piccola perla di storia e architettura veneziana, a torto misconosciuta. Abbarbicata in cima all’Adriatico, rimane appoggiata sull’estremo lembo orientale della provincia più pic-cola e meticciata d’Italia, quella di Trieste.Per capire in che terre siamo, per cogliere suggestioni ultralibre-sche di storia, cultura e geologia basta assaggiare, con l’attenzio-ne che meritano, i vini di Giorgio Nicolini.Le sue vigne, la sua cantina e la sua abitazione, senza soluzione

di continuità, sono sul cocuzzolo di una collina, sopra il borgo urbano, tutto veneziano, sapientemente conservato, sentito e vissuto dagli abitanti. In alto, sorge Muggia vecchia, già insediamento romano e medievale. In località Fontanella, tra stradine strette, tortuose e villette di varia foggia, perlustra bene e lo troverai. Non cercare insegne, cartelli o specchietti per le allodole. Quelli, con Ni-colini, non hanno nulla a che fare. Lui è un vignaiolo che non insegue nessuna moda e nessun dettame di marketing. Ha trovato la sua strada negli anni, piano piano.Le vigne erano di famiglia e le seguiva suo padre, Livio. Giorgio faceva un altro lavoro, elettricista qualificato e con funzioni di responsabilità nella locale municipalizzata (ora spa, nelle derive delle privatizzazioni salvatutto; Trieste è l’unico comune in regione a non avere l’acqua pubblica). Aiutava il padre nel tempo libero, in campagna e in cantina. E anche nella gestione delll’osmiza. Osmica, a dirla tutta, poichè parola e grafia sono slo-vene, e derivano da osem (otto, in sloveno): tanti giorni durava una licenza speciale (tuttora esistente) che l’imperatrice Maria Teresa d’Austria conce-deva ai vignaioli per far vendita diretta del loro vino, in casa.Qui era Impero multiculturale fino al 1918. Altro che italianità.

L’INCONTRO CON LUIGI VERONELLI“Non ho cominciato con un obiettivo preciso” dice Giorgio, “per me era na-turale stare qui, accudire il vigneto che era stato di mio nonno, continuare a fare il vino. Mi piaceva stare in vigna, mi è sempre piaciuto il contatto con la terra”. Nel 2003 la svolta. Ossia l’incontro con Luigi Veronelli. Il vino di Nicolini era molto poco, era buono e in pochi lo conoscevano. Per la mag-gior parte veniva venduto sfuso, e solo una piccola parte andava in bottiglia.Una di quelle bottiglie, la Malvasia, arrivò a Veronelli tramite uno dei suoi più vicini collaboratori, Marc Tibaldi, che a Trieste aveva vissuto e aveva di recente conosciuto Nicolini.

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FRONTIERE

Nicolini Loc.Fontanella 26/a, 34015, Muggia, Trieste

www.nicolinitrieste.com

Nel 2009 Giorgio va in pensione, è ancora gio-vane e può dedicare più tempo alla vigna. De-cide di investire in un miglioramento della cantina, nell’acquisto di un piccolo nuovo trattore. Ci vogliono risorse, e le liquidazioni di Giorgio e Rossana sono destinate a quello.

DI PADRE IN FIGLIODa qualche anno l’azienda conta su un ap-porto importante e costante, quello di Euge-nio, Nicolini junior. È lui a caricare il furgoncino e a percorrere l’A4 che ogni anno, da molti anni, lo porta a Milano, a La Terra Trema. Appuntamento ormai imprescindibile.Vediamo Eugenio in vigna, in un sabato mattina di feb-braio, cielo azzurro e sole tiepido, a lavorare. Non è un chiac-chierone, ma ha spalle larghe e portamento sicuro. La sua passione per la terra gliela leggi in faccia, la sua sincerità nell’impegno sta tutta nella larghezza tersa del suo sorriso.Con il suo nome, dall’etimologia densa e felice (ευ "bene" e γενης “nato”: la buona origine, la buona stirpe) va in bottiglia un piccolo diamante dell’a-zienda, il Moscato.Un Moscato fermo e secco, come si trova in diverse parti dell’Istria. Da quest’anno quel vino conta sull’apporto di vigne vecchie cento anni di mo-scato bianco istriano, da un vigneto che Eugenio ha preso in affido, a ca-vallo del confine. Storia, memoria e territorio, di cui le vecchie vigne sono sempre materiali testimoni. Le sentirai nella solida ed elegante potenza di questo Moscato 2016 (assaggiato dalla botte), nei suoi profumi di bianco-spino e cedro; in bocca si fa affusolato e penetrante, regalando aromatiche lunghezze di piccola gioia.Tre i rossi dell’azienda, entrambi ereditati dai vigneti familiari. La Piccola nera, che nasce dal vitigno omonimo, misterioso e poco diffuso. Così come il Borgogna, nome e storia che si perde nei fumi del tempo. “Forse”, dice Giorgio, “è un parente del Franconia”. E l’assaggio confermerebbe l’ipotesi. Infine, l’immancabile Refosco.

LE COSE E I VINI AUTENTICINonostante gli investimenti e i miglioramenti qualitativi, l’azienda non lievita a dismisura. Giorgio sa quale deve essere la giusta dimensione. E il troppo non lo interessa.L’estensione, oggi, si attesta intorno ai 2 ettari e mezzo.C’è una vera cantina, bene organizzata, sotto la casa. C’è un luogo destinato all’assaggio e all’accoglienza. Ma questa non è una di quelle aziende in cui si batte cassa e cartellino ad accogliere comitive.Qui tutto è lento e misurato. Senza salamelecchi. Se chiami, se possono, ti ricevono. In modo semplice e diretto.“Sono un orso”, dice Giorgio di sè, bonariamente e con un filo di orgoglio. Ma il suo carattere ruvido rimanda immediatamente alla materialità irrego-lare delle cose autentiche. L’osmica è chiusa da qualche anno. Peccato. Il tavolo sotto la pergola era un must il 25 aprile, anniversario della Liberazione, dopo la consueta visita alla Risiera di San Sabba a sentire il coro partigiano, in quel che fu l’unico cam-po di sterminio italiano, nella città di Trieste. Per noi pochi eno-dissidenti triestini era tappa d’obbligo quel brindisi al futuro, in senso pienamente veronelliano. E poteva essere solo in quel luogo, con la Malvasia di Nicolini, a “celebrare la vita”.Però ha fatto bene a chiudere, e ne spiega le ragioni: “Mi si stringeva il cuore

LA SUA PASSIONE PER LA TERRA GLIELA LEGGI IN FACCIA, LA SUA SINCERITÀ NELL’IMPEGNO STA TUTTA NELLA LARGHEZZA TERSA DEL SUO SORRISO.

a dar via il vino in quel modo, a persone - spesso ragazzi- che affollavano la mescita fino a tarda ora con il solo scopo di assumere grandi quan-tità di alcol, senza pensare a quel che beveva-no. Molto raramente capitava qualcuno che pensasse a quel che aveva nel bicchiere e con cui scambiare due parole sul tema”.

VITOSKA, VINO METAMORFICOGigi Brozzoni definisce i vini di Nicolini “con-

tadini”, rifacendosi alla nota frase di Veronelli: “Il peggior vino contadino è migliore del miglior

vino industriale”. Queste parole furono dette per nobilitare il lavoro non seriale di chi, in piccole e

faticose produzioni, cerca l’espressione - anche ru-stica - di un territorio senza ricorrere a comodi artifici

enologici. I vini di Nicolini sono vivi, sempre in movimento. Lo stesso vino,

assaggiato in differenti momenti, può essere diverso. Ne è testimone so-prattutto la sua Vitovska (bianco autoctono del Carso, da uve omonime), di per sé un vino metamorfico, che trova la sua stabilità soltanto dopo molti anni, anche se questo quasi nessuno l’ha capito e lo pratica, salvo rari casi. Eppure una Vitovska, accudita e vinificata degnamente, ti parlerà davvero di sè dopo cinque, sette o anche dieci anni. Una sfida, che andrebbe raccolta.

TERRA, TERRITORIO, METICCIAMENTOIn ogni modo, l’assaggio dei vini di Nicolini parla sinceramente di un ter-ritorio. Accóstati alla sua Malvasia e ascolta la sua bella, suadente e decisa mineralità, la sua sapidità rotonda e soave, che subito ti catapulta sui ter-reni argillosi dell’Istria. Perchè Muggia è già Istria, come ben spiegano i geologi. È l’inizio di quella parte dell’Istria caratterizzata dalla presenza di marne e terreni argillosi, chiamata Istria gialla. Ma la vera differenza la fanno le uve, una parte, che provengono da vigne centenarie: da lì derivano la concentrazione e quel patrimonio sensoriale che rende questa Malvasia un pezzo da novanta.La scelta di accostarla alla botte di rovere, anche nuova, non può natural-mente domare il suo carattere e, anzi, se ne fa portavoce. L’assaggio, dell’annata 2016, preso dalla botte, conferma tutto, pienamente. Quella di Nicolini è una Malvasia tutta muggesana, ossia d’Istria, così come il suo nome recita: malvasia istriana. Di colore giallo oro, ti sorride, solare, dal calice. E abita a mille miglia dalla Malvasia (grande, quando è grande) eterea e geometrica prodotta sul Carso, il calcareo altipiano sopra Trieste, a poca distanza da qui.

COSÌ VICINO, COSÌ LONTANOD’altra parte i confini, da queste parti, sono questione ordinaria. Ma anche complessa e spinosa poichè hanno parlato la brutta lingua dell’ideologia nazionalista e fascista. E il sano orgoglio di chi non l’ha mai mandata giù. Perchè i confini (tutti) non sono linee da spostare, ma limiti da superare.Queste, sarebbero altre storie, è vero. Ma anche le stesse: se non ci fosse stato attraversamento, commistione, meticciamento oggi non esisterebbero i vini di Nicolini. E noi non potremmo godere, nell’assaggio, la gioia dello sconfinamento.

Trieste

Nicolini

Trieste

Noghere

Lazzaretto Muggia

SLOVENIJA

Risiera di San Sabba

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PRIMAVERA 2017

INTERAZIONE CULTURALE

gendo una celebrità vuota e sconnessa, ma senza celebrare di contro la propria margina-lità, scambiata per attestato di vero antago-nismo. Cosa possono imparare, questi sog-getti, dai ribelli dell'enologia? E perché mai la loro formula magica – se esiste - dovrebbe funzionare in un altro contesto, che non ha nulla da spartire con la terra, i lieviti, le bot-tiglie e il palato?Nossiter e Beuvelet dedicano un intero capi-tolo a illustrare come la parola cultura – un tempo riferita soltanto al lavoro dei campi – si sia staccata dal suo significato originario, ormai denotato dal termine specifico agricol-tura, per designare invece un'attività intel-lettuale e simbolica. Nel far questo, incappa-no anche in luoghi comuni pericolosi, come quando sostengono che "è stata l'agricoltu-ra, cioè la sedentarietà, a far nascere la civiltà umana". Con buona pace di popoli nomadi e cacciatori-raccoglitori che si ritroverebbero così fuori dalla Storia, meno umani e meno civili dei loro simili con la zappa in mano. Se a reclamare l'attenzione degli artisti per gli artigiani del vino, ci fosse solo l'antico legame tra cura della terra e cura del sapere, l'invito di questo libro suonerebbe pretestuo-so. Ma il nocciolo del ragionamento non si basa sull'etimologia. I produttori di cultura dovrebbero guardare ai viticultori per alme-no tre motivi. Primo, perché il ruolo dell'artista consiste – secondo gli autori - nella "ricerca delle for-me di senso, di speranza e di sopravvivenza di una civiltà". Sopravvivenza che oggi si pone in termini più biologici che cultura-

Insurrezione culturale, il terzo libro di Jonathan Nossiter, scritto in-sieme a Olivier Beuvelet, è stato letto e recensito come un sequel su carta di Resistenza naturale, il do-cumentario che lo stesso autore dedicò ai produttori di vino "non allineati", ribelli alle certificazioni DOC, contrari alla chimica, ri-spettosi del suolo e dell'uva, fedeli

a un'etica comune ma senza regole scritte. In realtà il libro è molto più di questo, seb-bene contenga numerose storie di vignaioli in rotta con gli esperti dell'agro-industria. Nossiter ce le racconta come esempi virtuo-si, non senza ostacoli e cadute, all'interno di una proposta più vasta e ambiziosa, rivolta a tutti gli "attori culturali" che si pongono la domanda della propria sopravvivenza. L'idea è che costoro avrebbero molto da imparare dagli artigiani contadini del vino naturale. "Dieci anni fa", spiega Nossiter, "a chi si batteva per il vino inteso come espressione culturale e artigianale, l'avvenire sembrava altrettanto fosco di quanto oggi il futuro ap-pare incerto ai sostenitori della cultura tout court." Contro ogni previsione, quel pugno di viticultori artigianali è riuscito a svilup-pare una rete internazionale, dove "il vino naturale è una realtà economica solida, este-tica e politica", che vede ingrossarsi le fila dei protagonisti, passando in Francia da cento a duemila e in Italia da venti a cinquecento produttori. La loro battaglia sembra indicare una pista anche a scrittori, cineasti e artisti che vogliano vivere del loro mestiere, rifug-

li, contemplando da vicino l'eventualità di un'estinzione della specie umana. Di fron-te a quest'angoscia, il contadino si ritrova a fronteggiare problemi "da artista", mentre l'artista deve interrogarsi, "da contadino", sul rapporto tra gli umani e l'ambiente. Il secondo aspetto riguarda il valore della cultura. "L'artista contemporaneo", leggia-mo nel libro, "sa che il suo lavoro non ha più alcuna esistenza pubblica al di fuori di ciò che gli è riconosciuto come valore com-merciale, a sua volta puramente aleatorio".Questa situazione sarebbe il risultato del progressivo allontanarsi dell'artista moder-no dalla figura dell'artigiano. Se in origine le belle arti erano considerate "meccaniche", fu quando diventarono "liberali" – cioè in-tellettuali – che i loro protagonisti si videro

SE IN ORIGINE LE BELLE ARTI ERANO CONSIDERATE "MECCANICHE", FU QUANDO DIVENTARONO "LIBERALI" – CIOÈ INTELLETTUALI – CHE I LORO PROTAGONISTI SI VIDERO PROMOSSI NELLA SCALA SOCIALE.

IL LIBROJonathan Nossiter, Olivier BeuveletINSURREZIONE CULTURALEDeriveApprodi, 2016pp. 240, 16 euro

L’ESPERIENZA DEGLI ARTIGIANI CONTADINI DEL VINO NATURALE COME POSSIBILITÀ DI RIGENERAZIONE CULTURALE? UNA ESPLORAZIONE MINUZIOSA DELLE TESI DI JONATHAN NOSSITER E OLIVIER BEUVELETdi Wu Ming 2, foto di Claudio Madella

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CULTURE MATERIALI

promossi nella scala sociale. Da allora il pro-cesso non si è più fermato, complici gli stessi artisti. Con l'avvento di "un certo postmo-dernismo [...] della forma considerata so-stanza", Nossiter e Beuvelet ritengono defi-nitivo il divorzio tra l'arte e i suoi contenuti, simile a quello tra il vino e la sua etichetta. Una bottiglia non viene più apprezzata per il liquido che contiene, ma per i nomi, i mar-chi, le certificazioni e le parole che ci sono scritte (o non scritte) sopra. Il terzo motivo che accomuna contadini e artisti è una piaga che minaccia le campa-gne come le librerie, le vigne quanto i teatri: quella della monocultura e dell'attacco alla biodiversità.A queste tre analogie vorrei aggiungerne un quarta, che in qualche modo le riassume. Proviamo a rovesciare il problema: invece di ricercare somiglianze tra produttori di vino e di cultura, chiediamoci piuttosto per quale motivo ci sembrano tanto diversi. Per rispondere, dobbiamo chiamare in causa la distinzione tra forma e sostanza. È in base a quella che cataloghiamo diversi modi di tra-sformare la materia, a seconda di quanta li-bertà si esprime nell'atto di dare forma a una certa sostanza. Il castoro incastra i tronchi a formare la diga perché "glielo impone la sua natura"; il contadino coltiva le piante – non le "fa" - perché può intervenire sulle condi-zioni della loro crescita, ma è comunque vin-colato dalla "forma della pianta"; l'artigiano è più libero, ma deve comunque attenersi a criteri di funzionalità, perché l'oggetto che produce abbia una forma utile; l'artista, infi-ne, può sbizzarrirsi a inventare la forma che preferisce, conquistando uno spazio di liber-tà nel mondo della necessità fisica. Eppure, qualunque artista conosca il suo mestiere, sa che la realtà non funziona in questo modo. Lo scultore sa che ogni blocco di pietra o di legno ha diversi punti di rottura e caratteri-stiche che lo costringeranno, via via che il lavoro procede, a modificare i suoi piani e ad adattarli alla materia. Il romanziere, quando racconta una storia, sa bene che non otter-rà mai "quello che aveva in testa", ma che i personaggi e le situazioni lo porteranno in direzioni inattese. Il compositore sa che il medesimo spartito può portare a esecuzioni molto differenti, così come il cuoco conosce bene la differenza tra una ricetta e i suoi ri-sultati. Dove sta la forma? Non sarebbe me-glio dire che essa non pre-esiste da nessuna parte, come spirito in attesa di farsi carne, ma si genera nel rapporto tra un individuo e l'ambiente, grazie ai movimenti, alle capaci-tà e alle caratteristiche di entrambi?La diga del castoro, la pianta del contadino, il manufatto dell'artigiano e l'opera dell'ar-tista sono tutti esempi di questo coinvolgi-mento, tra un attore e il suo mondo, nel qua-le entrambi crescono e si trasformano. Un romanziere coltiva le "sue" storie, come un giardiniere i "suoi" gerani e un mollusco la sua conchiglia. Ecco perché non dovremmo più sorprenderci, di fronte all'idea di espor-tare il modello dei viticultori naturali dalla penombra delle cantine ai laboratori di regi-sti, pittori e cantastorie. Ma per farlo, occor-re domandarsi in che cosa consista un simile modello. Tra le righe, non certo sistematiche, di Nossiter e Beuvelet, mi pare di averne rin-tracciati tre elementi fondamentali.Il primo è l'importanza del gesto che produ-ce rispetto al prodotto finito. Se, come dice Mead, "ogni oggetto è un atto collassato",

occorre rimettere l'atto in primo piano. Il secondo sono le relazioni, senza le quali quel gesto rimarrebbe incompiuto. Il terzo è l'autenticità, non nel senso di "origine con-trollata", ma come accordo tra la sincerità soggettiva, grazie alla quale l'individuo trova sé stesso, e il comportamento oggettivo, dove egli misura quel che sente vero e giusto nel rapporto con gli altri. Quest'ultimo punto è sicuramente il più controverso dei tre. Da un lato, perché gli autori non lo definiscono mai in maniera precisa; dall'altro perché, così fa-cendo, si ritrovano spesso a schiacciare l'au-tenticità su concetti scivolosi come tradizione o su una concezione tutta ideale della Natu-ra. Nel campo dell'arte, quando si parla di autenticità, si fa sempre riferimento all'au-tore, o per indicare che un'opera è davvero sua ("un Picasso autentico"), oppure per in-tendere che essa esprime in maniera diretta e urgente la soggettività di chi l'ha creata. Gli altri due elementi dell'insurrezione naturale – il gesto e le relazioni – mi sembrano anda-re invece in una direzione opposta, quella di sottrarre importanza all'autore di un pro-dotto culturale, per concentrarsi invece sul come lo produce e con chi. Ritengo quindi che l'autenticità – passando dalle bottiglie ai libri, cioè ai prodotti di cui mi occupo – do-vrebbe intendersi come caratteristica colletti-va, non individuale. Un romanzo è autentico se viene scritto, letto, discusso e distribuito mettendo al centro la storia che contiene e la comunità che intorno a essa si riunisce, le altre storie che mobilita, le domande che pone. Direi che è tanto più autentico quanto più l'autore implicito che ci parla attraverso le sue pagine non evoca l'individuo reale che le ha scritte, ma la collettività che le ha rese possibili. Vediamo ora come si potrebbero declinare, sul tavolo di uno storicultore, gli altri due punti del modello contadino.Il gesto di cui parlano Nossiter e Beuvelet consiste nel "rispettare la natura dei suoli e la natura dell'uva senza ricorrere al mondo fittizio della chimica". È un atto di emanci-pazione che "trasforma le motivazioni mer-cantili in motivazioni esistenziali, sociali, politiche ed economiche". È una mossa che riconcilia etica ed estetica, perché il giudizio (estetico) sul prodotto non può prescindere dal giudizio (etico) sulla sua produzione. In-fine, è un ritorno alla materia, all'esperienza, allo spirito d'osservazione e all'attenzione per il fenomeno: il vino non nasce da regole astratte imposte su una materia inerte, ma dal rapporto tra un individuo, con le sue abi-lità, e una vigna, con le sue caratteristiche. Provando a tradurre tutto questo nel campo della letteratura, potremmo dire che anche qui è necessario considerare come "parte dell'opera" tutti quegli aspetti che, di solito, vengono relegati dai critici nell'ambito della sociologia. Com'è stato scritto, questo testo?

Chi ha collaborato? Quali altri libri chiama in causa? A quali si ispira? Come si apre al contributo dei lettori? Come li coinvolge? Si tratterebbe di considerare il libro come atto centrale di una lunga performance, riportan-do la scrittura alla sua funzione primitiva, quando essa serviva a registrare un'esperien-za, più che a rappresentare una realtà. Risco-prire una dimensione artigianale significa mettersi al servizio di una storia, non della propria soggettività (o delle richieste di un editore). "Tornare allo spirito di osserva-zione", per un narratore, non vuol dire per forza raccontare "storie vere", o sposare gli stilemi del realismo, ma domandarsi in che rapporto sta quello che scrive con quello che sperimenta ogni giorno. E domandarsi anche quali esperienze potrebbe fare per raccontare meglio. Pier Vittorio Tondelli invitava gli esordienti a "raccontare quel che conosco-no". Molti hanno frainteso la proposta, li-mitandosi a scrivere romanzi intorno al pro-prio ombelico, invece di cogliere lo stimolo a conoscere altro, per comprendere che l'in-formazione, senza esperienza, troppo spesso ci consola con l'illusione di conoscere. Detto in altri termini, se voglio scrivere un noir che ha per protagonista un poliziotto italiano, devo domandarmi che cosa so della polizia in Italia e fino a che punto invece rischio di se-guire uno stereotipo, un format prestabilito. Poi la vicenda che racconto può anche essere surreale, e contemplare viaggi nel tempo, ma deve tenere conto del rapporto tra il mondo e la materia con la quale la impasto. Infine, sulla questione delle relazioni, mi pare che quanto precede già delinei una prospet-tiva. Quella cioè di una letteratura sociale che non si rivolge a un pubblico prestabili-to, individuato con sondaggi e campagne di marketing, ma che crea una comunità e la alimenta con incontri dal vivo, collaborazio-ni, scambi a distanza e nuove storie. Evitan-do però di cristallizzare quella comunità, di mettersi al servizio delle sue esigenze – come nel vecchio modello dell'intellettuale orga-nico – perché altrimenti questa si trasforme-rebbe in "pubblico di riferimento" e il narra-tore nel suo propagandista. Per concludere, mi pare che l'idea di un dia-logo tra viticultori contadini e "artigianisti" di vari ambiti culturali sia stimolante e pro-ficua. A patto però di non farsi dominare da una preoccupazione che spesso si avverte, tra le pagine di Insurrezione culturale: quella del recupero. "L'autenticità è fragile in un mon-do in cui ogni gesto rischia di essere oggetto di un recupero da parte dello spettacolo." Gli autori citano Guy Debord "che ha lottato fino al suicidio contro il rischio di essere re-cuperato dal sistema che criticava". Proprio quel suicidio dovrebbe costituire un monito, non tanto sull'immane potere dello spetta-colo recuperante, quanto sul potenziale mor-tifero dell'ossessione recuperofoba. Non met-terò in crisi il sentimento dell'amore solo perché il Capitale me lo ruba e lo mette a valore in una pubblicità di cioccolatini. Piut-tosto, mi chiederò cosa differenzia l'amore che provo da un amore a misura di spot. E cercherò di dire quella differenza, di trovare parole nuove, di raccontare perché il mio "Ti amo" ha lo stesso suono di quell'altro, ma si riferisce a una realtà differente. Il recupero si combatte con la radicalità di azioni e pensie-ri, non con la caccia ai venduti, che sempre si conclude in un'auto-assoluzione o in un disperato nichilismo.

UN ROMANZIERE COLTIVA LE "SUE" STORIE, COME UN GIARDINIERE I "SUOI" GERANI E UN MOLLUSCO LA SUA CONCHIGLIA.

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QUANDO LE MUCCHE

AVEVANO UNA TANA

ANNINO MELE E GIULIA SPADA APRONO LO SGUARDO SULL’INCONSOLABILE ABOMINIO DELLA PRODUZIONE NEGLI ALLEVAMENTI INTENSIVI DELL’INDUSTRIA ALIMENTARE. UNA CONSIDERAZIONE AMARA CHE PORTA A RAGIONARE PROFONDAMENTE SULLE LIBERTÀ E LE RECLUSIONI DI OGNUNO di Annino Melee Giulia Spadaillustrazioni di Andrea Rossi

PRIMAVERA 2017

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Annino Mele da Mamoiada (Nuoro) nasce nel 1951.Pastore. Dal 1987 affronta la dannazione dell’ergastolo con fine pena al 99/99/9999. Attualmente detenuto nel carcere di Opera, ha scritto, da solo o a quattro mani: Il passo del disprezzo; Sos camminos della differenza; Mai. L’ergastolo nella vita quotidiana; La sorgente delle pietre rosse; e con Giulia Spada Quando si vuole, Boschi, banditi, progetti e carceri, edito da Sensibili alle foglie nel 2016, da cui è tratto questo articolo.

*Andrea Rossi, sketcher urbano e di campagna, vive tra Milano e il nascondiglio dei giganti.ilnascondigliodeigiganti.artstation.com

"Venendo da te, ho visto una cosa terribile. Ave-vo davanti un camion enorme con un cartello altrettanto enorme che diceva: Trasporto ani-mali vivi. In realtà a me sembrava un supercarce-

re in movimento con delle sbarre altissime dalle quali, superando con la mia piccola macchina potevo vedere tutte ammassate delle povere mucche che non sembravano avere nemmeno lo spazio per respirare. Altro che trasporto animali vivi. Sarebbe stato più giusto precisare "traspor-to animali da morte". "Un nostro vicino di pascolo, scherzando, mi diceva di fare attenzione alle nostre mucche per-ché entrando nel suo podere potevano salire fin sugli alberi di pere per saziarsi con questi ottimi frutti che producevano i suoi alberi. Altre volte, sempre scherzando diceva che in caso di intem-perie o freddo, le mucche potevano andare a tro-vare riparo nelle tane dei conigli...Le nostre mucche erano piccole, di vera razza sarda, ma a noi andavano bene così. Allevavano degli ottimi vitelli, la resa era concentrata quasi

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RAPPORTI DI PRODUZIONE

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esclusivamente sulla carne e i nostri vitelli an-davano al macello oltre l’anno di vita, quando diventavano vitelloni. Dalla mandria tutti gli anni separavamo circa tre o quattro mucche che individuavamo come le migliori per nutrire la prole e ricavare anche per noi del latte. Per al-cuni mesi perciò venivano allontanate dal resto della mandria e transumate in un pascolo dove potevamo tagliare per loro l’erba fresca per tutta l’estate. Che bel ricordo di quelle mucche che si riusciva a mungere al massimo per cinque litri di latte, lasciandogliene altrettanti cinque per nu-trire il suo vitello, che restando chiuso nel recin-to cresceva senza sentire troppo la mancanza del latte che gli veniva sottratto. Quindi cinque litri per quattro, portavo a casa tutte le mattine venti litri di latte che oltre al fabbisogno della nostra famiglia, mia madre riusciva a venderne a coloro che preferivano il latte vaccino a quello della pe-cora. Certo, tu eri così piccolina da essere quasi invisibile quando succedevano queste cose, ma sarebbe bene ricordarle più spesso". Da anni riceviamo le informazioni dagli alleva-menti di mucche da latte che arrivano a produr-re anche quaranta, cinquanta e a volte sessanta

litri. Certo, la resa di queste mucche è ben di-versa di quella delle mucchine talmente piccole che salivano nell’albero di pero per mangiarsi le ottime pere del vicino di pascolo. Oggi viene perpetrato un assurdo crimine da parte degli allevatori o meglio agenti delle multi-nazionali, come preferiamo chiamarli, che spac-ciano contaminazione a danno degli esseri uma-ni, e allo stesso tempo veri e propri torturatori di quelle povere bestie costrette a sopportare quelle mammelle talmente pesanti che provocano sof-ferenze alla schiena, agli arti posteriori, dolori che per essere superati o addirittura prevenuti vengono trattati con dei farmaci. Sommiamo queste medicine a quelle che si aggiungono al latte prodotto e otteniamo così una mucca a for-ma di banco farmaceutico. Noi scriviamo partendo da una personale espe-rienza della natura e possiamo dirvi che mai né poi mai in natura sottoponevamo una mucca alla mungitura quando era gravida. Oggi nelle stalle delle multinazionali la mucca viene mun-ta fino all’ultimo istante del nuovo parto, quindi dentro quel latte oltre ai medicinali ci finiscono ormoni che vengono consumati stabilmente da-gli acquirenti. Ma è sui giovani che ci poniamo dei problemi: provate a fare una ricerca seria per

scoprire quali danni questi ormoni provocano in un adolescente. Prendete in considera-

zione la precocità sessuale dei giovani: da dove arriva? Siamo certamente ciò che

mangiamo… Noi una volta che la be-stia era gravida si smetteva di mun-gerla, e veniva impedito di nutrirsi anche alla prole che dopo i tre mesi per l’agnello e cinque per il vitello erano entrambi capaci di nutrirsi pascolando.

LA MUCCA PRODUCEVA IL LATTE QUANDO ERA

TRANQUILLA, NELLE PAUSE DI PASCOLO: LEI SI SDRAIAVA

TRANQUILLA E RUMINAVA CONTINUAMENTE QUEL CHE

BRUCAVA, O L’ERBA CHE GIORNALMENTE TAGLIAVAMO

E COLTIVAVAMO SENZA CONSUMI ALCUNI.

"Ma io me lo ricordo quando andavo in giro per le campagne, da piccola. C’erano tante mucche disseminate per il territorio, alcune in piedi a ruminare con la coda che oscillava rit-micamente per scacciare gli insetti, altre sdra-iate e mi chiedevo sempre come avrebbero fatto a tirarsi su…""La mucca produceva il latte quando era tran-quilla, nelle pause di pascolo: lei si sdraiava tranquilla e ruminava continuamente quel che brucava, o l’erba che giornalmente tagliavamo e coltivavamo senza consumi alcuni. Guarda-la oggi la mucca: imprigionata nelle sofisticate stalle non sa neppure cosa significhi ruminare, e poi cosa rumina? I mangimi serviti con contor-no di farmaci". Noi, oltre ad essere per la chiusura delle carce-ri come sosteniamo nel nostro libro Quando si vuole siamo per la chiusura di ogni carcere co-struito per imprigionare e torturare le bestie. Per questo siamo dell’idea che bisogna abbattere tutte le strutture carcerocentriche, riprendendo-ci la natura, riportando il bestiame al suo luogo naturale, riscoprire il pascolo brado, riscoprire il mangiare sano, respingere tutti i tentativi di confondere anche noi nell’avere paura di con-sumare carne, latte, pesce o tanto altro perché pericolosi. È vero oggi il cibo è diventato un pericolo, così pure l’aria che respiriamo, per questo ci vuole una nuova coscienza: lottiamo per riprenderci il diritto di mangiare quel che vogliamo, quel che ognuno di noi si sente, e abbattiamo i mostri che producono tumori, inquinamenti, disoccupazione, emarginazioni. Torniamo al naturale torrare a su connota, come dicevano i nostri vecchi. Sarà dura è vero, ma è l’unica strada percorribile se vogliamo salvarci dall’autodistruzione.

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È il decimo compleanno di Eataly. Per festeg-giarlo non parliamo di cibo. Non nomi-niamo neppure il nuovo Spaghetto Eataly, "cibo del futuro" secondo La Stampa, "servito in tutti i loro ristoranti" a partire dal giorno

dell'anniversario. "La ricetta è semplice: pasta con pomodorini datterino condita a crudo con olio extravergine. La novità è non cuocere più la salsa, per assapo-rare meglio «l’essenza degli ingredien-ti»" (27/01/2017). Il motto del piat-to, declamato dal menù, avverte: "è difficile essere semplici"; il prezzo è 8 euro e 50 centesimi.Non parliamo degli spaghetti, prodotti dal pastificio Afeltra (proprietà di Fa-rinetti), né dei datterini di Finagricola, cooperativa che Il Mattino del 20 ottobre 2014 definisce "Fiat del Sud" nonché "im-pero agricolo a Battipaglia" con numeri "da orgoglio nazionale". (Com'è pure quella storia del piccolo produttore?) Non parliamo del vino, e tantomeno del Vino Libe-ro. La sua (parziale) libertà da solfiti era pubblicizzata da Eataly con tanta... libertà, da averle procurato il fastidio di un provvedimento dell'Antitrust: "l’utilizzo dell’espressione vino libero [...] in mancanza di ulteriori specificazioni, lascia erroneamente intendere che il vino promosso in vendita sia totalmente libero da sostanze chimiche, indu-cendo in errore il consumatore circa le effettive caratteristiche del vino e il re-ale contenuto dei solfiti in esso presenti" (Autorità garante della concorrenza e del mercato, provvedimento n. 25980 del 13 aprile 2016). Solfiti o meno, il Vino Libero di cui non parliamo è commercializzato da Fontanafredda srl, azienda che Farinetti ha comprato dalla Fondazione Monte Paschi di Siena in due diverse tranches, nel 2008 e nel 2012. Nel 2014, dopo alcune domande insistenti di una giornalista televisiva sulle condizioni di lavoro in Eataly, Fontanafredda si mobilita e raccoglie, in dife-sa del padrone, le firme dei dipendenti. Su www.vinolibero.it si trova il link al video di quella che viene chiamata "aggressione": l'intervistatrice ripete le proprie domande a un Farinetti che non risponde sul punto, dà sulla voce e si sbraccia con movimenti che trasudano, quelli sì, aggressività trattenuta. I sindacati gialli colgono l'occasione per esibire canina fedeltà: “UILA-UIL respinge sindacalmente questi metodi e non può che dire bene di Fontana-fredda [...] Ogni giorno, nei nostri uffici, affrontiamo situazioni davvero drammatiche e, proprio per questo motivo, riteniamo che quello che è av-venuto sia un fatto gravissimo." FAI-CISL rilancia, proponendo una cam-pagna aziendalsindacale di promozione: "Episodi come quello verificatosi martedì fanno male all’azienda e, a ricaduta, ai lavoratori. Dobbiamo tutti insieme ribaltare la situazione e dare eco nazionale alla vicenda”. Ecco, non parliamo di tutto que-sto, ma solo di mattoni. Immobili. Real Estate. Soldi con fondamenta. È dalla giunta torinese che Ea-taly ottiene l'immobile per il suo primo store: l'ex stabilimento Carpano, al Lingotto. Sindaco è Chiamparino, e la città si sta pre-parando alle Olimpiadi invernali - una macchina di distruzione di territorio e denaro pubblico, degno antecedente dell'Expo milanese. Il bando comunale per l'assegna-zione dell'immobile vede un solo partecipante: Eataly. Quello che l'azienda vi realizzerà, e che aprirà nel 2007, non sarà solo un risto-rante, e neppure un supermercato di lusso, ma un "parco enogastro-nomico" - qualsiasi cosa ciò vo-glia, o non voglia, dire. In cambio della ristrutturazione il canone di affitto è zero, e la concessione dura sessant'anni. Analoghe sintonie col potere poli-tico, negli anni successivi, si con-cretizzano a Bologna in due diversi edifici di proprietà pubblica (un ex cinema e un ex mercato alimen-

tare, entrambi in pieno centro), e a Firenze. Dove, a fronte di promesse occupazionali subito disatte-

se, Farinetti ottiene dal comune il cambio di destinazione d'uso dell'immobile. Sindaco,

allora, è Matteo Renzi. A Bari, nel 2013, la "licenza di commercio

più veloce del mondo" viene rilasciata a Eataly dal sindaco Emiliano, oggi sfidan-te di Renzi e leader di piddini che fin-gono di essere un po' meno di destra degli altri. Forse è in quel momento, di-ciamo attorno alla metà dei dieci anni che festeggiamo, che matura il salto di qualità. Eataly è risultata utile agli amministratori per valorizzare un edifi-cio, o una zona cittadina, contribuendo così alla speculazione immobiliare, vera

tipicità italiana (altro che spaghetti col pomodorino). Perché, allora, non coinvol-

gerla direttamente in trasformazioni urbane in grande stile?

La prima è Expo 2015, grande eventopera che sblocca la costruzione di autostrade inutili e apre

alla cementificazione di terreni non ancora imper-meabilizzati, consegnando le scelte urbanistiche ai priva-

ti - dopo aver drenato soldi pubblici in quantità impressionan-te. La seconda è quella che cresce a Bologna attorno a Fico (Fabbrica italiana contadina), expo eterno che aprirà il 4 ottobre 2017 in immobili del valore di 55 milioni di euro, concessi dal Comune per 40 anni a Farinetti, Coop e soci. Abbiamo promesso di non parlare di cibo, quindi non evochiamo neppure la prospettiva che le classi delle elementari, invece di andare in una fattoria, in una cantina o in laboratorio di pasta fresca... siano educate all'alimentazione nella Disneyland del cibo (così chiamavano il parco i promotori stessi, prima di avvedersi del ridicolo). Prospettiva orribile ma vera e incombente: Fico non è ancora aperto, e già gli istituti di due regioni (Emilia Romagna e Campania) possono partecipare ai concorsi "Aspettando FICO... nella scuole". No, non diciamo altro: accenniamo piuttosto ai terreni che aumentano il proprio valore per la prossimità al Fico, alla contemporanea riduzione dello stock di edilizia residenziale pubblica nel quartiere popolare lì accanto, a pro-getti che si alternano veloci come i frutti sulla bobina di una slot machine ma che sono tutti, uniformemente, grigio cemento. Cemento che cala su terreni liberi, in alcuni casi ancora coltivati. Un quartie-rino nuovo di zecca; no, piuttosto un centro commerciale, un parco diverti-menti (sì, un altro!); oppure un hotel. E ancora: ogni allargamento di strada, autostrada, tangenziale ormai da anni, a Bologna, è motivata dal Fico. E mentre tutto precipita in un (in)gorgo di mobilità tossica e di malta cementizia, i ragazzi delle scuole cosa impareranno al Fico? La "sostenibilità". Già, certo. Avevate dubbi?

Il feticcio, il pretesto del cibo tra-sforma edifici, poi città, e Farinetti è il suo frontman e ideologo. Ma non basta. Il recente accordo tra Fico e l'Enit, ente governativo di promozione del turismo, consen-tirà "il consolidamento del Brand Italia", la diffusione del "modello di lifestyle italiano” e la promo-zione dell'"italianità nel mondo". (Comunicato stampa ENIT del 15/2/2017). Tradotto dal fuffese, significa che la prospettiva dei farinettiani è di porre il Paese intero a servizio del turismo incoming e dell'export agroalimentare. E questo implica: salari bassi, città che espellono gli abitanti incompatibili con l'ar-redo dei migliori caffè, cemento quale conseguenza inevitabile, infrastrutture a misura di ricchi turisti e non di pendolari mode-sti, imposizione del decoro trami-te l'uso reiterato e generoso del manganello. Ecco dunque il menù di compleanno di Eataly, e dell'E-atalya intera. I festeggiamenti si profilano eterni. A meno che non vi si ponga termine, per dare inizio a una miglior festa.

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SUI DIECI ANNI DI EATALY C’È MOLTO DA METTERE A FUOCO,

A PARTIRE DAI DISPOSITIVI POLITICI ED ECONOMICI CHE HA DOMATO E CAVALCATO

testo di Wolf Bukowskifoto di Massimiliano Goitom

PRIMAVERA 2017 NARRAZIONI

NON PARLIAMO DI CIBO