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Teologia Fondamentale I semestre prof. Giuseppe TANZELLA-NITTI Anno Accademico 2005/2006 I. La Rivelazione II. La trasmissione della Rivelazione nella Chiesa III. La Rivelazione cristiana in rapporto con le religioni [Note delle lezioni del docente: vietata la riproduzione]

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Teologia Fondamentale

I semestre prof. Giuseppe TANZELLA-NITTI

Anno Accademico 2005/2006

I. La Rivelazione

II. La trasmissione della Rivelazione nella Chiesa

III. La Rivelazione cristiana in rapporto con le religioni

[Note delle lezioni del docente: vietata la riproduzione]

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Abbreviazioni:

TF = Teologia Fondamentale

AT = Antico Testamento

NT = Nuovo Testamento

CTF = Corso di teologia fondamentale, a cura di W. Kern; H. Pottmeyer, M. Seckler, 4 voll., Queriniana, Brescia 1990

DTF = Dizionario di teologia fondamentale, a cura di R. Latourelle e R. Fisichella, Cittadella, Assisi 1990

NDTB = Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a cura di P. Rossano, G. Ravasi, A. Girlanda, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988

Alcuni consigli pratici per lo studio del corso

— Si rende necessario lo studio approfondito di un buon manuale di TF, da scegliere fra quelli presentati nella bibliografia associata al programma del corso.

— Se durante il corso si incontrano importanti difficoltà nello studio della materia parlare per tempo con il docente senza attendere la conclusione delle lezioni

— Leggere e riflettere sui testi offerti nella Antologia di Testi associata al programma del corso. La lettura attenta di questa Antologia costituisce parte importante della preparazione del corso

— Anticipare lo studio degli argomenti che saranno svolti a lezione, guardandone prima i contenuti. Ciò facilita la comprensione della lingua italiana.

— I testi della sacra Scrittura citati a lezione vanno ripresi nello studio personale. Inoltre, è necessario sapersi orientare nei libri della sacra Scrittura, sapendoli collocare nel loro contesto storico e nella loro cronologia in rapporto alla storia della salvezza.

— Ricordare, come buona regola, che si è compreso davvero un tema quando si è grado di spiegarlo ad altri.

La peculiarità dello studio della teologia

— L'uomo conosce ascoltando l'essere: la parola che proviene dalle cose fuori di sé (itinerario cosmologico) e la parola che risuona nell’interiorità della propria coscienza (itinerario antropologico). Ma l'uomo può conoscere anche ascoltando la Parola di Dio. La teologia si caratterizza come ascolto della Rivelazione, cioè della parola di Dio rivelata, e dunque si propone come una rilettura, alla luce di questa nuova parola, delle conoscenze che l’uomo possiede su se stesso e sul cosmo.

— Questa implica affrontare il tema del rapporto fra il Dio dei filosofi e degli scienziati ed il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe... Nel confrontarsi con questo rapporto (cosa che accompagna di fatto tutto il pensiero filosofico e teologico) occorre evitare due errori: ritenere

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che la ricerca umana di Dio (filosofia, religione e, in parte, pensiero scientifico che punta verso un Assoluto) non abbia nulla a che vedere con quanto Dio rivela su di Sé, oppure ritenere che quanto Dio rivela sia per noi significativo solo nella misura in cui venga incontro alla nostra ricerca e alle nostre aspettative.

— La teologia è una disciplina assai peculiare, unica, a motivo della particolarità del suo “oggetto”, trattandosi di un discorso (lógos) su Dio (Théos). Di Dio non si può parlare, studiare o insegnare senza essere consapevoli della natura trascendente ed insieme personale di tale oggetto.

• La trascendenza dell'oggetto del proprio studio fa sì che ci si accosti alla parola rivelata con rispetto, non come qualcosa da interpretare e da possedere, ma qualcosa dal quale siamo interpretati e siamo posseduti. Ciò implica disposizioni di umiltà e di apertura costante di fronte al mistero.

• La natura personale di Dio implica che quanto Lo riguarda non possa essere conosciuto dall'uomo senza un rapporto personale: la teologia, a differenza di altre discipline che possono nominare la parola (storia delle religioni, filosofia, letteratura, ecc.), non può trattare il suo tema se non in un modo impegnativo e coinvolgente. La natura personale di Dio implica inoltre che ogni conoscenza di Lui passi anche attraverso l'incontro, il dialogo, la contemplazione, la fiducia, l’abbandono, la preghiera.

• La dimensione esistenziale della conoscenza di Dio implica anche una peculiare relazione fra parola scritta e non scritta. L’ascolto ha priorità sul rapporto col testo, la cui struttura intima è ancora quella di riprodurre un ascolto mediante una lettura. Lo studio e la conoscenza della parola di Dio scritta vengono poi illuminate dall'incontro esistenziale con la parola di Dio non scritta, e rafforzati dalla testimonianza di chi ce ne trasmette il contenuto. Implica, ancora, di fronte ad un oggetto/soggetto così peculiare, che per conoscere occorre vivere ciò che si crede di conoscere, e che per comprendere occorre amare.

— Chi desidera studiare o fare teologia deve desiderare, di fronte a Dio, di essere santo. Una scuola di teologia deve formare dei santi. La teologia prima di farsi a tavolino e in biblioteca, deve potersi fare in ginocchio.

Lettura consigliata: H.U. Von Balthasar, Teologia e santità, in , Morcelliana, Brescia 19854, pp. 200-229

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INTRODUZIONE GENERALE AL TRATTATO DI TEOLOGIA FONDAMENTALE

1. Finalità, oggetto e metodo della Teologia Fondamentale

La dizione è relativamente recente. Essa compare per la prima volta nella cost. di Pio XI, Deus Scientiarum Dominus (1931). Il Concilio Vaticano II non menziona questa disciplina. Se ne parla invece per la prima volta in modo diffuso e sistematico nel documento della Congregazione per l'Educazione Cattolica, La formazione teologica dei futuri sacerdoti (22.2.1976). In questo documento, che dedica alla nostra disciplina i nn. 107-113, si afferma fra l'altro: «Tutte le materie teologiche suppongono come base del loro procedimento razionale la teologia fondamentale, che ha per oggetto di studio il fatto della rivelazione cristiana e la sua trasmissione nella Chiesa: temi questi che stanno al centro di ogni problematica sui rapporti fra ragione e fede. La teologia fondamentale verrà studiata come disciplina introduttiva alla dogmatica e anzi come preparazione, riflessione e sviluppo dell'atto di fede (il “Credo” del Simbolo), nel contesto delle esigenze della ragione e dei rapporti tra la fede, le culture e le grandi religioni» (nn. 107-108).

La cost. di Giovanni Paolo II, Sapientia christiana (29.4.1979), che riforma gli studi teologici, la presenta come disciplina obbligatoria, nel primo anno di teologia successivo al biennio filosofico, subito dopo la Sacra Scrittura e prima della Teologia Dogmatica, specificando che, in riferimento a tale disciplina, debbano essere svolte anche questioni circa l'ecumenismo, le religioni non-cristiane e l'ateismo (cfr. art. 51). Nel suo contenuto essa costituisce un ambito tradizionale non solo dell'insegnamento teologico, ma anche della comprensione e della trasmissione della Rivelazione, sebbene tale ambito sia stato indicato nel corso della storia, come vedremo, con nomi diversi.

Testo della CEC, 22.2.1976, nn. 107-110

Testo della Fides et ratio, n. 67

La TF è una disciplina situata nel fondamento ed alla frontiera del discorso teologico. Essa vi giace nel fondamento perché il suo oggetto primario, la Rivelazione, è il punto di partenza di ogni riflessione teologica. E lo è in modo diverso rispetto a quanto non lo sia la Sacra Scrittura, perché la TF si occupa della Rivelazione nel suo insieme: comprensione, intelligibilità, origine, trasmissione, insegnamento autentico ecc., dunque al di là ed in modo più generale di quanto non riguardi il testo scritto e la sua esegesi. Si tratta anche di una disciplina situata alla frontiera del sapere teologico, perché essa deve anche dare ragione della credibilità della Rivelazione e dunque, attraverso di essa, l'intera teologia si pone in rapporto con la ragione filosofica, con l'antropologia, con la storia, con la cultura. La TF entra in rapporto con quasi tutte le scienze umane e talvolta anche con alcune scienze naturali. Ciò ha condotto alcuni autori a vedere nella TF l'esempio di una teologia in contesto o, anche, di una teologia contestuale.

Oggetto della Teologia Fondamentale

La Rivelazione, oggetto primario della TF, ha caratteri ben precisi: si tratta di un mistero ed insieme di un evento. È perché appartiene al mistero di Dio la decisione di rivelarsi, e dunque la ragione ultima della rivelazione come comunicazione di Dio all'uomo, sia quella del suo amore creatore che, ancor più, quella della sua condiscendenza nella storia della salvezza. Ma la Rivelazione è soprattutto un mistero perché è tale la fonte da cui tutto ciò dimana, cioè l'eterna vita immanente di comunione personale del Dio uno e trino. La Rivelazione è anche perché si tratta di un fatto, di una serie di fatti, che irrompono nella storia e nella cultura umana,

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e che sono stati e sono ancora sotto gli occhi di ogni essere umano. Nella Rivelazione, mistero ed evento sono inseparabili: Dio dona all'uomo il suo mistero nella storicità e nella concretezza dell'evento; la logica, il significato dell'evento si colgono pienamente solo alla luce del mistero di Dio e del suo amore condiscendente.

In modo più completo, il riferimento al destinatario della Rivelazione — ovvero l'uomo, che valuta e comprende alla luce della sua ragione scientifica e filosofica, ma che si presenta anche con una dimensione religiosa costitutiva — estende l'oggetto primario della TF alla Rivelazione e alla sua credibilità. L’inseparabilità di questi due elementi all’interno di un unico oggetto è proprio ciò che conferisce a questa disciplina la sua specificità nel panorama della teologia sistematica. A differenza degli altri trattati, la TF non si occupa solo di ciò che noi crediamo, ma anche del perché noi lo crediamo. Tale credibilità non va intesa solo come difesa del contenuto della Rivelazione (apologetica), ma anche, e forse ancor prima, come atto del credente che si dirige verso il proprio intelletto, verso le proprie conoscenze, per una maggiore intelligenza della Rivelazione stessa (fides quaerens intellectum).

Al di là della discussione sul valore, divisione ed attribuzione dei diversi motivi o criteri di credibilità — miracoli, profezie, criteri interni al soggetto, prove storiche, credibilità della Chiesa, centralità della persona di Gesù Cristo e della sua credibilità, ecc., inclusa la loro contemporanea ricomprensione come “segni di salvezza” — la TF contemporanea preferisce presentare la credibilità della Rivelazione non come qualcosa di estrinseco o giustapposto, ma come una proprietà della Rivelazione stessa. Facendo un'analogia con quanto accade nella comunicazione/rivelazione personali, ciò equivale a dire che la credibilità di chi rivela e si rivela, non andrebbe cercata/fondata su elementi esterni al soggetto in questione, su referenze offerte da estranei, ma partendo da ciò che il soggetto dice, da come e perché lo dice. Questo modo di presentare la Rivelazione, pone la TF nella condizione di cogliere e di proporre il mistero cristiano (progetto di Dio sull'uomo e sul mondo e le verità in esso contenute) in tutta la sua unità e coerenza, e di mostrarlo al mondo come ragionevole, intelligibile e credibile.

Nell'oggetto vi è allora implicato necessariamente un terzo elemento: la . Essa è necessaria per accogliere la Rivelazione e comprenderla in quanto mistero; essa è anche lo scopo, la causa finale verso cui si muove la presentazione della credibilità della Rivelazione. I modi di intendere l'associazione fra e non sono stati univoci nel corso della storia. La Apologetica classica vedeva la credibilità come uno stadio previo alla fede, il cui atto veniva visto come risultato o punto di arrivo di un’analisi teologico-razionale (concezione analitica della credibilità e dell'actus fidei). La teologia di tradizione riformata, specie con Karl Barth, ha visto nella fede il superamento dialettico della ragione e della storia (concezione dialettica della credibilità). La TF cattolica contemporanea cerca una sintesi capace di mostrare una credibilità della fede che sappia fare appello alla ragione, ma allo stesso tempo non trascuri la luce e la coerenza che acquista tutto il complesso delle argomentazioni di credibilità, quando queste sono considerate da una ragione credente all'interno della Rivelazione e non fuori di essa.

Un quarto elemento in rapporto strettissimo con la Rivelazione è la . Si tratta di un rapporto dinamico: da una parte la Chiesa si presenta come la comunità di coloro che hanno accolto nella fede la Parola di Dio, cioè i convocati (gr. klhtoiv, ejkletoiv) dalla Parola; dall'altra, questi la vivono e la annunciano e, pertanto, la trasmettono nella storia. La Chiesa si trova, grazie alla missione dello Spirito Santo, nel prolungamento della Rivelazione. La Chiesa fa cogliere l'esistenza, nella Rivelazione, della presenza di una , nel senso di tradere, consegnare, trasmettere. Senza Rivelazione non c'è Chiesa, ma anche, sebbene non nello stesso senso, senza Chiesa non c'è Rivelazione. La Chiesa fa presente la Parola in ogni epoca consentendole di continuare ad interpellare e convocare ogni uomo al quale si annuncia il mistero di Dio e del suo amore condiscendente. Anche in questo caso, il modo di concepire il rapporto fra Chiesa e Rivelazione ha subito nel corso della storia alcuni mutamenti. Oggi il suo studio non può prescindere dai temi dell'ecumenismo e del rapporto fra cristianesimo ed altre religioni.

La TF coinvolgerà pertanto i seguenti temi/aree:

— La Rivelazione

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— la Chiesa, generata dalla Rivelazione, custode e soggetto della sua trasmissione

— la fede quale condizione dell’uomo che accoglie la Rivelazione divina

— la credibilità associata alla Rivelazione.

All'interno dell'oggetto della TF dovrebbero ancora essere considerate due aree tematiche. La prima è la . Essa riguarda la TF sia come , specie nei suoi aspetti che presentano l'uomo come un essere naturaliter religiosus e aperto alla rivelazione di Dio, sia come rapporto fra la rivelazione cristiana e le religioni della terra. Quest'ultimo aspetto sta però dando luogo ad un ambito di riflessione autonomo, denominato , che dovrebbe giungere però al termine di un cammino di studio e di riflessione dogmatica, e che presenta due versanti: uno tipico della teologia della rivelazione, l'altro spettante alla soteriologia. La seconda area è l’, cioè la valutazione critica di come possiamo conoscere una Rivelazione divina, l'intelligibilità del suo effettivo contenuto e come questa conoscenza si ponga in relazione con le altre forme di conoscenza. L'epistemologia teologica attraversa di fatto in modo trasversale tutte le precedenti aree. La sua discussione appartiene secondo alcuni autori al corso di Introduzione alla Teologia, mentre per altri (scuola tedesca, scuola di Milano) apparterrebbe a pieno titolo alla TF. La trattazione dell’ateismo e quella dell’importante fenomeno dell'indifferentismo religioso meritano anch’esse una collocazione in un trattato di TF, anche se non vi è unanimità di pareri, a seconda delle diverse impostazioni metodologiche, su dove e come bisognerebbe parlarne.

Sono possibili in realtà molti modi di dividere l'oggetto della TF, ma ciascuno di essi convergerà presto o tardi sull'asse Rivelazione-credibilità, riconoscendo poi nello studio della Rivelazione l'entrata in gioco dei temi della Chiesa e della fede1.

Le relazioni interdisciplinari della Teologia Fondamentale attivate dalla Rivelazione, suo oggetto primario

A motivo del suo oggetto, la TF è aperta a una serie di articolazioni ed implicazioni che la pongono in relazione anche con altri trattati. Le principali implicazioni sono le seguenti:

• nel generare la fede, la Rivelazione dà origine anche ad un sapere specifico, cioè la teologia;

• in quanto evento, la Rivelazione si pone in rapporto con la storia e, attraverso di essa, con i temi dell'accesso storico a Gesù di Nazaret, della storicità dei Vangeli, con la manifestazione storica del progetto religioso ed ecclesiale che ha in Gesù il suo fondatore;

• in quanto legata ad una cultura, ad una lingua, ad un popolo, la Rivelazione deve porsi in relazione con l'ermeneutica, con l’esegesi; in quanto raccolta anche su un testo scritto, con la critica storico-letteraria; in linea ancor più generale, con il tema dell'inculturazione della parola divina e della fede;

• essendo la Rivelazione diretta agli uomini di ogni epoca, studiando le forme del suo annuncio ed i motivi della sua credibilità, la TF deve conoscere bene il suo destinatario, fare appello alla sua situazione storico-culturale, essere consapevole delle concezioni dell'uomo dominanti nella società, e quindi porsi in relazione con l'antropologia; dal punto di vista più strettamente teologico, questa articolazione giungerà fino alla teologia pastorale;

1 Secondo una certa proposta sistematica, l'oggetto della TF sarebbe costituito delle sue tre parti

classiche, Religione, Rivelazione, Chiesa, associate dallo scandire di tre domande fondamentali: è afferrabile-percepibile (Vernehmbar)? (cioè quale sia il senso della religione); è veramente accaduto (ergangen)? (cioè la presentazione della Rivelazione e della sua credibilità); è realmente presente come parola autentica capace di continuo appello (gegenwärtig)? (cioè la trasmissione della parola nella Chiesa e la testimonianza della Chiesa). Cfr. H.J. VERWEYEN, Gottes Letztes Wort. Grundiß der Fundamentaltheologie, Potmas, Düsseldorf 1991.

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• poiché la risposta del credente alla Rivelazione dà origine alla Chiesa, e la Chiesa stessa diviene soggetto della trasmissione della parola divina nel tempo, fino a strutturarsi gerarchicamente e carismaticamente proprio in ordine a perpetuare la salvezza legata a tale parola, la TF si pone in stretta relazione con l’ecclesiologia;

• in quanto studio della continuità fra il progetto ecclesiale di Gesù Cristo e la pluralità delle confessioni cristiane attuali, la TF coinvolge anche il tema dell'ecumenismo;

• poiché la Rivelazione riguarda il rapporto fra Dio e l'uomo, la TF deve tener conto della religiosità come fenomenologia che appartiene all cultura umana in quanto tale, e spiegare come la religione cristiana soddisfi ed insieme trascenda questa fenomenologia; ciò la pone in relazione con la storia e la filosofia della religione;

• in quanto , la Rivelazione cristiana deve potersi confrontare con le altre religioni che reclamano anch'esse di essere rivelate (giudaismo, islamismo, induismo, ecc.) e la TF deve pertanto mostrare in cosa consista la specificità della religione cristiana; questo dà luogo ad una .

La presenza di diverse metodologie ed impostazioni nel loro sviluppo storico

Ricordando la duplice dimensione della Rivelazione come mistero e come evento, una prima osservazione metodologica è che, in quanto mistero, la Rivelazione reclama per il suo studio il metodo dogmatico: studio della Scrittura, sotto la guida del Magistero, nella fede della Chiesa. Il metodo dogmatico muove dalla fede e si dirige verso l'intelligenza della fede. Ma in quanto evento, lo studio della Rivelazione deve interagire anche con altre discipline: storia, filosofia, antropologia, psicologia, filosofia della religione, etnologia, critica letteraria, ecc., ciascuna delle quali reclamerebbe una propria metodologia. Riunendo questi rapporti sotto una prospettiva unitaria, il modo con cui la TF dialoga e si confronta con essi, viene indicato col termine metodo apologetico. La maggiore importanza oggi attribuita alle tematiche di tipo linguistico, semantico, ermeneutico, anche riguardo il ruolo che la teologia dovrebbe occupare fra le altre forme di conoscenza, ha suggerito ad alcuni autori di dover parlare, accanto alle prospettive metodologiche dogmatica ed apologetica, anche di una terza prospettiva metodologica, quella epistemologica.

I due metodi dogmatico ed apologetico non vanno visti in alternativa dialettica, né possono separare l'oggetto della TF. Tanto una teologia quanto una teologia , parlano ambedue della stessa fede e dello stesso contenuto, l'una con un discorso rivolto ad intra, l'altra con un discorso rivolto ad extra. Non esistono due discorsi diversi, uno rivolto ai credenti e uno ai non credenti: esistono solo due procedimenti diversi. Il metodo od il procedimento apologetico, in particolare, non è mai svolto prescindendo dalla fede, perché abbiamo sempre a che fare con una disciplina teologica. Si tratta di comprendere le ragioni della fede e saperle spiegare a chi non crede, muovendo dalla fede verso l'universalità della ragione.

Il tema dell'oggetto e del metodo della TF ha subito un'ampia e profonda discussione a cavallo del Concilio Vaticano II e non è stata una questione di facile soluzione. Nella seconda metà di questo secolo si è passati dal classico trattato di Apologetica, centrato sulla difesa della religione cristiana e del carattere divino della sua rivelazione, ad una vera e propria Teologia Fondamentale, centrata sull'esposizione propositiva del contenuto della Rivelazione e del suo appello salvifico. Essa comprende anche l'Apologetica, ma come una sua parte. Si fa riferimento tanto al metodo apologetico come a quello dogmatico, cercando di integrarli.

Nell'attuale panorama della TF vi è una certa varietà di programmi e di impostazioni. Buona parte degli autori di area tedesca, ad es., continuano ad elaborare modelli che possono considerarsi sviluppi di quella che fu in fondo la struttura classica del trattato, articolato come demonstratio religiosa - demonstratio christiana - demonstratio catholica, sebbene si parli oggi di monstratio, piuttosto che di demonstratio, poiché, come osservato, non si tratta di supportare la fede mediante argomentazioni fornite dall’esterno, ma esporre, appunto, il contenuto della Rivelazione ed il suo appello salvifico. Nelle impostazioni di molti autori soggiacciono e si compongono varie proposte: una che fa leva sull'attesa della Rivelazione e privilegia i motivi di

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credibilità interni al soggetto (Blondel); una che sottolinea l'apertura trascendentale di ogni uomo alla Rivelazione, talvolta anche a spese del suo contenuto categoriale (Rahner); un'esposizione che privilegia la trattazione dogmatica della Rivelazione, fortemente cristocentrica, poi utilizzata come chiave interpretativa per sciogliere i maggiori nodi dell'antropologia filosofica (Latourelle).

Due possibili itinerari metodologici

Tanto nell'ordine dell'esposizione come nella metodologia, si riconoscono in fondo due possibili strade da percorrere. L'una adotta una prospettiva teologale, che partendo dalla Rivelazione, dalla ricchezza del mistero di Dio, si dirige quindi verso l'uomo; la discussione della Rivelazione è realizzata basandosi sulla logica interna della Parola di Dio, le categorie per comprenderla vengono prese dalla Rivelazione stessa e non da altre fonti, e si cerca poi di studiare la sua relazione organica con la Chiesa ed il suo Magistero. L'altra strada adotta una prospettiva antropocentrica, che prende le mosse dalla situazione antropologica della creatura umana come creatura aperta alla Rivelazione; si comincia più facilmente parlando della fede e, sempre dalla prospettiva dell'uomo e della loro rilevanza esistenziale, vengono poi discusse la possibilità stessa di una rivelazione soprannaturale, la sua conoscibilità, intelligibilità, la capacità e possibilità di un discorso su Dio servendosi di parole umane; successivamente si discute il contenuto oggettivo della Rivelazione ricorrendo essenzialmente al metodo dogmatico.

Questa diversità di metodi e di percorsi si riflette anche nella diversa scelta del punto di partenza per tutta la trattazione. Se ricordiamo i quattro elementi centrali nell’oggetto della TF — Rivelazione, credibilità, fede e trasmissione della Chiesa — è interessante notare che vi sarebbero dei motivi ragionevoli per cominciare la trattazione da uno qualsiasi di essi:

• Una trattazione che cominciasse dalla Rivelazione si presenterebbe fin dall’inizio segnata da un metodo spiccatamente teologico; essa porrebbe l’accento sulla iniziativa divina, sulla gratuità del suo messaggio, sulla sua eccedenza rispetto ad ogni aspettativa o domanda umana.

• Partendo invece dalla credibilità, si percorrerebbe un cammino ascendente, di carattere più marcatamente fenomenologico e antropologico, la cui finalità sarebbe riconoscere la Rivelazione come Parola adeguata, ragionevole, attraente, conforme alle aspirazioni della natura umana.

• Attribuire una certa priorità alla fede, equivarrebbe a partire da una prospettiva antropologica, con la differenza che, in questo caso, la fede verrebbe ora vista come condizione previa per riconoscere ed accogliere la Rivelazione; questo itinerario dovrebbe ugualmente preoccuparsi di offrire poi un raccordo fra pensiero religioso o fede filosofica — interpretate come apertura dell’uomo alla Rivelazione — e la fede teologale propriamente detta.

• Un avvio della trattazione della TF dalla realtà della Chiesa, infine, sottolineerebbe che la Rivelazione ci viene consegnata sempre all’interno di una tradizione, all’interno di un contesto ecclesiale che ne media necessariamente non soltanto la trasmissione, ma anche la comprensione. I canoni della testimonianza e dell’ascolto rivestirebbero allora un ruolo centrale, senza dei quali non avrebbe senso accostarsi alla Rivelazione come testo scritto.

Concentrazione cristologica della Teologia Fondamentale

Nel centro della TF vi è come oggetto la Rivelazione in quanto rivelazione. Il suo soggetto è il Dio uno e trino. La Rivelazione è dunque comunicazione, più precisamente autocomunicazione, o anche automanifestazione di Dio all'uomo, autocomunicazione che sappiamo essersi realizzata pienamente nel Cristo, Verbo di Dio fatto uomo. Il mistero del Cristo, Logos diventato carne (Gv 1,14) è al centro di ogni discorso teo-logico ed è dunque al centro della TF. Il fatto che Dio stesso sia venuto incontro all'uomo nella logica dell'Incarnazione ed il fatto che la pienezza dell'autocomunicazione di Dio all'uomo si dia nel

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Cristo, condizionano completamente la TF nel suo contenuto e nel suo metodo. Vediamone alcune implicazioni:

• in primo luogo aiuta a comprendere che la Rivelazione non è solo conoscenza di un contenuto oggettivo, ma anche rivelazione di un soggetto che è una Persona; l'autocomunicazione di Dio non è solo un dono in cui ci viene offerta la conoscenza del mistero della sua vita e dei suoi disegni salvifici, ma è il dono di Se stesso, il dono della sua vita al mondo;

• Rivelatore e Rivelazione si richiamano a vicenda, il suo autore e il suo contenuto sono inseparabili;

• l'accoglienza della Rivelazione è l'accoglienza di una persona; la fede non è solo fede in un contenuto, ma soprattutto fede in una persona;

• la Rivelazione come mistero e la Rivelazione come evento sono fra loro inseparabili come lo sono in Cristo il mistero della sua Incarnazione ipostatica — il mistero di Dio che nella sua Parola dona Se stesso — e l'evento storico di Gesù di Nazaret;

• la credibilità della Rivelazione e la credibilità della fede sono, di fatto, la credibilità di una persona, quella di Gesù Cristo.

2. Breve prospetto storico del trattato sulla Teologia Fondamentale

L'idea centrale di quella che oggi chiamiamo TF ha la sua origine più profonda in una domanda che ha sempre accompagnato, in modo più o meno esplicito o riflesso, tutta l'evangelizzazione cristiana. È la domanda del credente sulla sua situazione di credente. Qual è il significato della Rivelazione con cui Dio mi interpella e della fede con cui sono invitato a rispondergli? Qual è questo significato di fronte alla conoscenza che ho del mondo, di me stesso, della storia degli altri uomini? «La Teologia Fondamentale è così una riflessione sistematica e scientifica a partire da quell'attitudine spontanea che, in un modo o nell'altro, sorge in ogni credente. Si tratta dell'atteggiamento teologico basilare: quello della fede che cerca di capire (fides quaerens intellectum) o, se si preferisce, dell'intelligenza del credente che si interroga, diviene riflessiva, nel tentativo di integrare quello che sa con quello che crede»2. Si tratta dunque di un dialogo fra la ragione e la fede di ogni cristiano in quanto credente, che si prolungherà poi nel dialogo fra la fede cristiana e la ragione di chi ancora non crede.

Questa idea centrale ha subito diverse articolazioni lungo la storia del pensiero teologico e della cultura, costituendo così gli antecedenti storici della TF, qui intesa nel suo senso più ampio. Fra gli elementi che hanno indotto e condizionato storicamente lo sviluppo di un'apologetica o di una teologia fondamentale vi sono state le differenti situazioni della Chiesa nei confronti dell'ambiente circostante, le diverse esigenze incontrate dall'evangelizzazione, la presenza di eresie ed errori dottrinali, lo sviluppo delle conoscenze umane positive, le mutate situazioni antropologiche, culturali, sociali.

In ogni caso, si incontrano associate all'annuncio della Rivelazione cristiana sempre due dimensioni: la difesa della fede di fronte alle critiche di chi non crede ed il rafforzamento della fede di coloro che già credono.

Nella Sacra Scrittura

Nella stessa Sacra Scrittura vi sono tracce che fanno pensare ad una vera e propria TF. I Vangeli ne sono in fondo l’esempio più importante. Vi troviamo espressioni nelle quali essi

2 C. IZQUIERDO, Teología Fundamental, Eunsa, Pamplona 1998, p. 25.

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vengono indicati come documenti scritti per consolidare la fede dei credenti, per testimoniare la ragionevolezza della propria adesione a Cristo:

«Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,1-4);

(Gv 20,30-31).

I Vangeli si presentano come un annuncio nuovo ed inaudito, l’annuncio che Dio, il Dio che nessuno ha mai visto e che ha creato ogni cosa, si è reso visibile ed accessibile in Gesù di Nazaret, che è il Cristo-Messia, perché è Lui ad averlo rivelato (Gv 1,1-18). A questo annuncio salvifico, che convoca e genera una Chiesa, si chiede di rispondere con l’adesione della fede: fede nella filiazione divina del Cristo ed in ciò che Dio rivela per mezzo di lui. La ragionevolezza dell'assenso di fede viene affermata da Cristo stesso con riferimento esplicito alle sue opere (Gv 10,37-38); in generale, è a questa logica che rispondono i miracoli di Gesù (Gv 2,11; Gv 11,40-42). I Vangeli sono scritti nella Chiesa, in stretta relazione col mandato ricevuto di dover trasmettere al mondo gli insegnamenti di Gesù Cristo (Mt 28,18-20). Il messaggio evangelico contiene pertanto i quattro elementi di una TF: Rivelazione, credibilità, fede e ruolo della Chiesa.

Elemento essenziale dell’annuncio evangelico è il modo con cui gli Apostoli parlano della resurrezione di Gesù. Il NT contiene importanti discorsi degli Apostoli, la cui struttura consiste nell’esposizione del mistero di Cristo, morto e risorto, e contemporaneamente nel mostrare agli ascoltatori la ragionevolezza di accogliere questa fede, la sua rilevanza per il mondo, la sua consonanza con le aspirazioni dell'uomo; si menzionano le prove oggettive delle profezie, dei miracoli e delle apparizioni del risorto: At 2,22-41; At 10,34-43; At 17,22-31; 2Pt 1,16-19. In particolare, tutta la Prima lettera di Pietro, in modo speciale la sua introduzione (cap. 1), contiene gli elementi essenziali di quello che potremmo chiamare un trattato di TF.

Nelle opere dei Padri

I libri del NT contengono gli elementi propri di una TF, sostanzialmente la presentazione del messaggio cristiano congiunto alla sua credibilità, ma non costituiscono un esempio di letteratura apologetica strictu sensu. Essi sono un'esposizione della fede prima che una sua difesa. Sarà nelle opere dei Padri, specie quelli del II e III secolo e prima dell'Editto di Costantino (313), ove l'esposizione del contenuto della Rivelazione, il suo appello ad ogni uomo, prenderanno la forma esplicita di una Apologetica (apo-logos, parlare davanti, in favore di), cioè una difesa di tale contenuto di fronte a chi lo fraintendeva, lo avversava o lo disprezzava.

Una simile difesa assume due forme principali. Una volta consumato il distacco dall'ebraismo dopo il parziale fallimento di ricondurre la fede del popolo di Israele al riconoscimento del Messia promesso, i cristiani si dovranno difendere dalle accuse di settarismo e di colpevole disprezzo della legge mosaica. Nei confronti dell'ambiente greco-romano, quando i cristiani saranno un gruppo socio-religioso ormai distinto dagli Ebrei e sufficientemente numeroso ed organizzato da poter essere bersaglio delle accuse dell'ambiente pagano circostante, dovranno difendersi dalle accuse di ateismo, di irreligione verso le autorità civili costituite, di pratiche ritenute magiche o aberranti (antropofagia) perché non conosciute con chiarezza.

Sono note in proposito le opere dei cosiddetti . Queste opere hanno a volte la forma del dialogo, altre volte quella della difesa indirizzata alle autorità civili. La loro struttura è quella di una della religione fondata da Gesù di Nazaret. I Dialoghi si rivolgono normalmente ad interlocutori colti per affrontare i grandi temi del rapporto fra cristianesimo e pensiero filosofico, cristianesimo ed ebraismo, ecc. Nei confronti dell'ambiente pagano si insiste sulla : il cristianesimo si riconduce alla rivelazione di Dio ad Abramo, l'unico Dio creatore del cielo e

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della terra, cui tutti gli uomini retti possono avere accesso, e non è una nuova setta ebraica, come sostenuto dai pagani. Con gli interlocutori ebrei si sottolinea invece la : il cristianesimo è il compimento delle Scritture, è vero perché di Cristo parla l'AT. È assai significativo notare che negli Atti degli Apostoli si contengono entrambe le strutture argomentative: gli apostoli parlano nelle Sinagoghe agli ebrei; mostrando che Gesù è il Messia promesso; ma parlano anche nell'Agorà, affermando che il Dio che annunciano e che ha inviato al mondo suo Figlio, risuscitandolo poi dai morti, è lo stesso Dio che ha creato il mondo ed il genere umano.

Fra le opere più importanti della letteratura apologetica vanno ricordate le due Apologie e il Dialogo con Trifone di san Giustino, la Legatio pro christianis di Atenagora, la Lettera a Diogneto di autore ignoto, Ad Autolicum di Teofilo di Antiochia, l'Apologeticum di Tertulliano. Riveste particolare importanza per estensione e profondità il Contra Celsum di Origene e, per il rapporto fra filosofia e teologia, la Preparazione al Vangelo e La prova del Vangelo di Eusebio di Cesarea, gli Stromati ed il Protreptico di Clemente di Alessandria. Il genere apologetico sussiste anche dopo l'editto di tolleranza della religione cristiana nell'Impero romano, sotto forme di opere che ribadiscono la specificità del cristianesimo di fronte alle varie forme di gnosi e alle eresie. Fra le opere apologetiche di sant'Agostino ricordiamo il De vera religione e il De utilitate credendi, ma la sua visione più completa sul ruolo del cristianesimo nella storia e nella cultura è contenuta nell'opera De civitate Dei.

Testo di Teofilo di Antiochia, Ad Autolicum, III, 9.14-15

Testo della Lettera a Diogneto

L’Apologetica e le forme di teologia fondamentale dell'epoca medievale

Trascorso ormai molto tempo dall'irrompere storico del cristianesimo e dai fatti riguardanti Gesù di Nazaret ed i suoi primi discepoli, si comincia ad affacciare una nuova preoccupazione di ordine teologico-fondamentale: quella di mostrare la continuità della fede cristiana con le sue origini. In epoca medievale si fa allora strada il concetto di auctoritas — la Scrittura, le definizioni magisteriali e la dottrina dei Padri della Chiesa — come prova di questa continuità, contro il possibile affermarsi di errori.

Il sorgere dell'Islam e la persistenza del confronto con l'ebraismo orientano buona parte della letteratura apologetica del medioevo. Essa conosce sia il genere polemico (sant’Isidoro di Siviglia e san Pier Damiani contro gli Ebrei) sia quello del dialogo e dell'esposizine ordinata della fede (Raimondo Martì, Raimondo Lullo).

Il contesto prima scolastico e poi universitario del medioevo condurrà la teologia ad importanti forme teologico-fondamentali: l'auctoritas, sia essa biblica o patristica, deve ora confrontarsi con la ratio. Ci si occupa dei preambula fidei, delle dell'esistenza di Dio, del rapporto fra fede e ragione, della conoscibilità del soprannaturale e dei suoi rapporti con la natura. La fides diviene sempre più consapevole del suo obbligo di quaerere intellectum. Prima sant'Anselmo e poi san Tommaso d'Aquino sono i maggiori interpreti di questa esigenza, che oggi collocheremmo anch'essa nell'ambito della TF. Una delle opere più note in tal senso sarà la Summa contra Gentiles (1269-1273) di san Tommaso d'Aquino.

La riforma protestante ed il risorgere degli studi umanistici

Un importante cambio di prospettiva lo si ha in seguito all'irrompere della Riforma protestante (tesi di Wüttemberg, 1517; scomunica di Lutero, 1521). A partire dalla crisi luterana, la presentazione del contenuto della Rivelazione, della fede e della credibilità deve tener conto ora di tre nuove problematiche:

• la domanda cui deve rispondere l'Apologetica non è più solo , ma anche ;

• a partire dalla separazione dei protestanti si fa strada una diversa concezione della Rivelazione in rapporto con le sue fonti, cioè i rapporti fra Tradizione, Scrittura e Magistero;

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• i protestanti sostengono una diversa concezione della fede e del rapporto fra la ragione e la fede.

Questo stato di cose favorirà due importanti riflessioni in campo cattolico: la progressiva formazione del trattato teologico De Ecclesia e la necessità di individuare le vere fonti della conoscenza teologica (Melchior Cano, De locis theologicis, 1563).

I progressi nelle conoscenze geografiche, poi culminati con la scoperta delle Americhe (1492), conducono ad una prima riflessione sul ruolo della religione cristiana nel contesto della religiosità dei popoli (Marsilio Ficino, De christiana religione, 1474, Luis Vives, De veritate fidei christianae, 1543; fra i riformatori Hugo Grozio, De veritate religionis christianae, 1621). Allo stesso tempo, non mancheranno opere aventi come finalità la difesa della religione contro lo scetticismo e l'incipiente ateismo (i frammenti per un’apologetica o Pensieri, di Blaise Pascal, 1658).

La struttura del trattato in epoca moderna

Alla fine del XVI secolo va delineandosi una struttura dell'Apologetica cattolica in tre passi: De Religione - De Vera Religione - De Ecclesia Christi, che possono anche esprimersi come Demonstratio religiosa - demonstratio christiana - demonstratio catholica. L'esempio più antico lo troviamo nell'opera di Pierre Charron, Des trois vérités (1594). La difesa della verità della Chiesa (De vera Ecclesia) viene tradizionalmente affidata alla dimostrazione di tre vie: la via historica (la Chiesa come legittima espressione della Chiesa storicamente fondata da Cristo), la via notarum (la Chiesa quale unico soggetto che possiede in pienezza le note di unità, santità, cattolicità ed origine apostolica) e la via empirica (la Chiesa come miracolo morale). Nel XVII secolo, ormai nel quadro della progressiva differenziazione di tutte le discipline teologiche dovuta all'abbandono dello schema delle Summae, si potrà parlare di . Questa disciplina comprende insieme le tria demonstrationes, più il trattato de locis theologicis.

Nei secoli XVII e XVIII l'esposizione e la difesa della fede si trova in mutate condizioni filosofiche e culturali, soprattutto in riferimento alle critiche alla religione rivelata mosse dall'Illuminismo e dall'affermarsi del deismo, entrambi impegnati a ridurre la religione nell'ambito della ragione (Toland, Voltaire, Reimarus, Tindal, ecc.). Assume particolare importanza l’imporsi dell’idea di una religione che, per essere davvero universale ed umana, dovrebbe prescindere da ogni rivelazione. Le religioni rivelate, secondo gli illuministi e i deisti, sono degenerate in ideologie e sono state responsabili delle divisioni fra gli uomini: la ricomposizione sarebbe possibile solo mediante l’accesso razionale ad un Dio riconosciuto dalla ragione di tutti.

Ma la difesa circa la possibilità di una vera rivelazione divina, operata nei confronti del deismo, così come la difesa della religione cattolica nei confronti dell'ateismo, vengono entrambe concepite, tranne poche eccezioni, come una sorta di dimostrazione razionale portata sullo stesso terreno degli avversari, e dunque sviluppata con strumenti logici, filosofici o storici condivisi anche dai non credenti. Il metodo teologico-fondamentale resta alquanto estrinsecista (ricerca di prove esterne, oggettive). In epoca seicentesca, questa volta in opposizione allo scetticismo e all’indifferentismo libertino, era stata l'opera di Blaise Pascal ad insistere maggiormente sulla natura personalista ed esistenziale del cristianesimo. Il suo fu un vero e proprio progetto di Apologetica della religione cristiana, rimasto incompiuto e poi raccolto nelle edizioni dei suoi Pensieri.

Nel Settecento fino al primo Ottocento, la trattazione apologetica risente del modo di comprendere il rapporto fra fede e ragione, specie dovuto alla crescente influenza di Kant e al successivo imporsi dell'idealismo. In Kant i motivi che possono giustificare la ragionevolezza di un assenso di fede o una conoscenza naturale di Dio vengono spostati nel solo ambito della ragion pratica. La fede in una rivelazione divina è ammissibile solo nell'esperienza immanente al soggetto.

Con l'idealismo e le correnti del romanticismo, la ragione assorbe i caratteri della trascendenza e li fa propri, volendo tutto giustificare, anche la religione, nel proprio sistema di

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pensiero. Si fa strada una che termina con l'assorbire i misteri del cristianesimo (Fichte, Schelling, Hegel) o col proporli come forma più avanzata del sentimento religioso umano, espressione di un universale senso di dipendenza da un Assoluto (Schleirmacher). Nella sua fase più avanzata, l'idealismo condurrà ad elaborazioni di carattere storicista che tenteranno di la religione cristiana in termini naturali o, comunque, ricondurla in un quadro immanente. L'assolutezza del cristianesimo viene allora compresa come il punto di arrivo di tutta la fenomenologia religiosa universale, sebbene il fine cui tenda in realtà tutto il processo sia l'affermazione storica della Ragione o dello Spirito.

Gli sviluppi del XIX secolo

Nel XIX secolo si verificano alcuni fatti rilevanti che condizionano la riflessione ed il metodo della Teologia Apologetica, non potendosi ancora parlare di una Teologia della Rivelazione. Fra questi ricordiamo i seguenti:

• il radicalizzarsi della separazione fra fede e ragione, della comprensione della ragione in termini cartesiani, separata dalla fede o di fronte alla fede, dovuta al progressivo affermarsi della filosofia kantiana e della visione religiosa dei riformatori;

• il sorgere dell'ateismo positivo (Feuerbach, Marx, Engels, Nietzsche);

• la critica ai Vangeli e alla storicità di Gesù di Nazaret (Strauss, Bauer, come sviluppo di quanto già prima avviato da Reimarus);

• le nuove prospettive recate dalle scienze naturali e dalla psicologia (Darwin, Freud);

• la riconduzione della religione ad esperienza soggettiva sganciata da riferimenti di carattere normativo (modernismo, preparato dall'idealismo e dal romanticismo).

In questa epoca si assisterà a diversi modi di reagire della teologia. Due tentativi non saranno riconosciuti idonei dal magistero della Chiesa: una certa difesa di uno spazio razionale alla religione contro la critica kantiana, che finirà però col condividerne le categorie epistemologiche (Hermes); ed una reazione all'idealismo che si sforzerà di ricondurre la fenomenologia dello spirito hegeliano in un sistema di matrice cristiana, a spese della trascendenza e dell'indisponibilità del mistero (Günther). Anche la svalutazione della ragione nei confronti della fede (Bautain, Bonnetty) sarà giudicata non conforme alla vera dottrina cattolica (condanna del fideismo e del tradizionalismo), perché la ragione è anch'essa una vera fonte di conoscenza.

Vanno menzionate altre impostazioni destinate ad avere una maggiore e più importante influenza. La scuola tedesca, specie con Sebastian von Drey (1777-1853), nella ricerca dei criteri di verità del cristianesimo, sposta l'accento sulla coerenza della Rivelazione nel suo insieme e sul suo carattere storico. Blondel (1861-1949) elabora il metodo dell'immanenza, allo scopo di mettere in risalto le aspettative del soggetto e la sua apertura alla Rivelazione salvifica come completamento della propria ricerca esistenziale (L'Action, 1893; Lettera sull'apologetica, 1896). John Henry Newman (1801-1890) svilupperà con grande vena apologetica la via historica nella difesa della dottrina della Chiesa cattolica (Lo sviluppo dela dottrina cristiana, 1845) e suggerirà un approccio alla fede il quale, pur poggiandosi sui giudizi della ragione, non può essere ricavato da essa (Grammatica dell'assenso, 1870).

Il termine del XIX secolo e l'inizio del XX assisterà all'accendersi di un confronto serrato — ed in parte riduttivo per la teologia — fra la neoscolastica ed il pensiero dei modernisti e dei razionalisti. La neoscolastica insisterà sull'analisi razionale dell'atto di fede; sui motivi di credibilità esterni, come le profezie ed i miracoli, intendendo così bilanciare l'enfasi data da altre correnti teologiche a quelli interni; la ricomposizione della frattura fra fede e ragione, ma anche la ricerca di nuove sintesi non verranno favorite anche a motivo del sussistere di una comprensione “ancillare” del ruolo della filosofia nei confronti della teologia. Occorrerà attendere la fine del XX secolo per poter assistere alla comparsa di analogie sponsali,

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mariologiche e incarnazioniste (sebbene ne esistevano precedenti anche nel XIX secolo, ad es. con M.J. Scheeben), che sostituiranno con gradualità il modello ancillare.

Il XIX secolo vedrà interventi del Magistero le cui dichiarazioni interesseranno il futuro oggetto della TF. Fra questi:

• Pio IX Qui pluribus (1846), sui rapporti tra fede e ragione ed il tema dei motivi di credibilità della fede;

• Concilio Vaticano I, costituzione Dei Filius (1870): si affrontano in opportuni capitoli le principali tematiche della TF: De Revelatione - De Fide - De Fide et Ratione. L’esposizione della natura della Rivelazione cristiana e quella della fede vengono condotte sullo sfondo di un preciso chiarimento contro gli errori del razionalismo e del fideismo. Ne emerge una visione necessariamente più concettualista della Rivelazione, che il Vaticano II completerà (ed in parte supererà) con la sua visione storico-salvifica.

• Pio X, Pascendi (1907): si chiariscono gli errori del modernismo sul tema della Rivelazione, sul rapporto fra natura e grazia, sulla natura della fede, sul pericolo di sovrastimare gli aspetti soggettivi della fede e dell’esperienza religiosa a spese dell’oggettività del deposito rivelato.

Contesto culturale del XX secolo

Il contesto culturale del XX secolo chiama la TF a dar ragione del contenuto e delle istanze salvifiche della Rivelazione di fronte ad un panorama piuttosto complesso, ma anche promettente, che si presenta come l'esito finale della modernità. Fanno parte di questa scena: l'affermarsi di un indifferentismo che non sa di essere indifferente; un esistenzialismo ateo dallo sbocco nichilista; la persistenza di un certo scientismo che propone una interpretazione compiuta del mondo e dell’uomo prescindendo da Dio; una società con un forte grado di secolarizzazione e di ignoranza religiosa contratta dopo aver già conosciuto una prima evangelizzazione del Cristo; l'affermarsi di un materialismo edonista e superstizioso in vasti strati sociali. Ancora, le sfide provenienti da un contesto sociale multireligioso e multirazziale dovuto principalmente alla globalizzazione dell'informazione e alle migrazioni dei popoli, dal sorgere delle sette interne alla cristianità, dei movimenti che si riconducono a religioni e filosofie orientali, delle varie forme di gnosi contemporanee, dal multiforme fenomeno religioso-culturale del New Age. Non pochi autori segnalano l'entrata in una nuova epoca, denominata , nella quale l'indifferenza verso Dio, la rinascita di una sorta di allegro politeismo e l'assunzione della divinità ad oggetto di gioco e di consumo soggettivista, sarebbero fra gli elementi più caratterizzanti.

Questa contingenza storico-culturale spiega perché tutti i maggiori teologi del XX secolo hanno avuto una accentuata produzione apologetica ed una visione della teologia che non si preoccupasse solo dell’esposizione dogmatica del mistero cristiano, ma contemplasse anche lo sforzo per renderlo credibile di fronte al crescente indifferentismo e alla crescente secolarizzazione. Autori rappresentativi in tal senso sono stati Karl Adam, Romano Guardini, Karl Rahner, Hand Urs von Balthasar, Henri de Lubac, Jean Danielou, ma anche personaggi che non furono teologi in senso stretto, come Joseph Pieper, Paul Claudel, Georges Bernanos, Gabriel Marcel, e vari altri.

Il contributo del Concilio Vaticano II e del magistero successivo alle tematiche della Teologia Fondamentale

Sebbene nei documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), come già osservato, non vi sono riferimenti alla teologia fondamentale in quanto disciplina teologica, la dottrina conciliare è proprio ciò che ha maggiormente contribuito a determinare la . Fra gli elementi ed i contributi più significativi in tal senso ricordiamo:

• in primo luogo la dottrina esposta nella dichiarazione conciliare Dei Verbum, specie per quello che riguarda la forte prospettiva cristocentrica data alla Rivelazione e alla storia della salvezza,

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e per gli insegnamenti relativi alla natura della Rivelazione, ai rapporti fra Scrittura, Tradizione e Magistero;

• la visione dei rapporti fra Chiesa e mondo contemporaneo delineata nella Gaudium et spes, meritevole di aver sviluppato un'antropologia che trova le sue risposte compiute nell'esposizione del mistero del Cristo;

• il decreto Ad Gentes sull'attività missionaria della Chiesa;

• le dichiarazioni Dignitatis Humanae, Unitatis Redintegratio e Nostra Aetate che toccano i temi della coscienza religiosa e del rapporti della fede cattolica con le altre confessioni cristiane e con le altre religioni.

Nel periodo post-conciliare, rivestono un certo interesse i documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede Mysterium Ecclesiae (24.6.1973) e Donum Veritatis (24.5.1990), l'enciclica di Paolo VI Evangelii nuntiandi (8.12.1975), l'esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Catechesis tradendae (16.10.1979) e le sue encicliche Redemptor hominis (4.3.1979) e Redemptoris Missio (7.12.1990). Ricopre infine un ruolo assai importante per i rapporti fra Rivelazione e pensiero filosofico, e dunque anche per la TF, l'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio (14.9.1998).

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I. LA RIVELAZIONE

1. Religione, mistero di Dio e Rivelazione

a) La religiosità come costante antropologica fondamentale

La creatura umana è un essere “naturaliter religiosus”

La creatura umana può essere definita a ragione un essere naturaliter religiosus. La religiosità accompagna lo sviluppo di tutta la cultura umana come una costante antropologica fondamentale.

L’antropologia si è chiesta (F. Facchini). Vi sono state varie proposte a riguardo. C'è chi ha interpretato la religiosità umana in termini , come un passaggio da un'assenza di Dio, al feticismo-totemismo (culto della natura, degli animali e delle cose), all'idolatria, all'antropomorfismo ed infine ad una idea di divinità trascendente. Oppure un'evoluzione dalla magia, alla religione, all'ateismo, quale risposta dell'uomo maturo. Vi sono stati tentativi di interpretare la religiosità in termini , ove le varie idee di divinità accompagnano l'evoluzione storico-sociale degli uomini dalla caccia, all'agricoltura, alla pastorizia, alle società organizzate. Pare invece più corretto un'approccio fenomenologico, che cerca di capire quando e perché appare il senso religioso nella storia umana. In questo caso il soggetto della ricerca non è l'uomo in quanto soggetto di evoluzione o di trasformazioni, ma l'uomo in quanto uomo.

La paleoantropologia conferma la presenza di una fenomenologia di tipo religioso fin dall'epoca preistorica. Pur non consentendo di riconoscere la religiosità come un sistema globale e organizzato di credenze, gli studi sui reperti umani più antichi mostrano sempre simbolismi di carattere sacrale, nelle sepolture, nelle raffigurazioni artistiche, nelle forme rituali. A partire dall'epoca paleolitica (100.000 a.C.) le manifestazioni del simbolismo religioso si fanno chiare. «L'emergenza dell'homo religiosus non è un evento tardivo nella preistoria. Il senso del sacro appare piuttosto una dimensione costitutiva dell'essere umano nel suo atteggiamento di fronte a realtà e a forze più grandi di lui e si ricollega alla capacità di pensiero e comunicazione simbolica, antica quanto l'uomo» (Facchini).

Aspetti della fenomenologia del sacro

Nell'etimologia del termine religio vi possono essere due radici: una riconducibile al verbo religere che, in opposizione a negligere, indicherebbe l'atto di fare attenzione, osservare, compiere diligentemente il dovere (Cicerone); l'altra si rifà al verbo religare, che indicherebbe il legame fra l'uomo e la divinità oggetto di riverente adorazione (Lattanzio, sant’Agostino). Ambedue mettono in un luce rispettivamente l'aspetto soggettivo ed oggettivo del termine.

È opportuno distinguere, come temi che non si identificano, la percezione del sacro, gli atti propri della religiosità, e la concettualizzazione della nozione di Dio. L'esperienza del sacro è stata considerata a ragione (M. Eliade). La religiosità si presenta nella storia dell'umanità come un insieme organizzato di credenze, prima fra tutte quella di una vita ultraterrena, assieme all'idea di remunerazione o di castigo per il bene o il male compiuti. La religione rimanda dunque ad un legame con il divino, a una dipendenza da un Assoluto, che la ragione filosofica può cercare di tematizzare attarverso la nozione di , Altro dall'uomo, depositario di risposte cosmologiche ed esistenziali sull'origine ed il senso del mondo e della vita umana.

Nella sua opera De natura deorum, un autore classico come Cicerone (106-43 a.C.) riferisce che la nozione di Dio — o meglio degli dèi — fu accolta fin dalla più remota antichità nell'animo umano a motivo di quattro fattori: il desiderio di conoscere cose future; la gratitudine e la meraviglia per le cose benefiche che riceviamo dalla natura; la presenza di fenomeni

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atmosferici sconvolgenti capaci di causare sentimenti di timore e di inferiorità; l'ordine mirabile che si riscontra nel cosmo ed in particolare nel cielo stellato.

Esistono legami evidenti fra religiosità e rapporto dell'uomo con la natura. Quest'ultima fa percepire all'uomo la sua contingenza ed i suoi limiti, suscitando sentimenti di timore e di insicurezza, ma anche favorisce la contemplazione, l'esperienza dei fondamenti della realtà, l'esperienza estetica che porta al sorgere di domande ultime. Vi sono legami precisi con le varie fasi della vita umana, come la nascita, l'entrata nella vita adulta, il lavoro e la sussistenza, il matrimonio, la vecchiaia, la morte. Vi sono infine legami fra religione e prassi etico-sociale della comunità umana sia in merito all’origine divina di ciò che viene proposto come legge etica, sia per il ruolo che le relazioni che la legge stabilisce determinano nell'organizzazione sociale.

Studiare la fenomenologia della religiosità umana è compito dell'antropologia culturale, dell'antropologia filosofica, e della filosofia della religione. Ci interessa qui richiamare solo quegli aspetti della religiosità umana che si collegano con una certa apertura dell'uomo ad un rapporto personale con l'Assoluto, e che coinvolgono pertanto anche una certa apertura ad una rivelazione della divinità.

Nel nucleo della fenomenologia religiosa si riconoscono alcune importanti categorie. Quella del sacrum, come concettualizzazione di qualcosa che trascende la portata umana, qualcosa che è di pertinenza solo del numen, cioè un soggetto , fonte della sacralità. Il sacrum si manifesta nella natura, e in certa misura anche nell'uomo, mediante ierofanie. La presenza del sacro conduce l’uomo a sperimentare sul piano soggettivo un sentimento di venerazione, di timore; egli si trova di fronte ad un mysterium che è contemporaneamente tremendum et fascinans. Se il secondo aggettivo fa più facilmente riferimento all’aspetto della venerazione e della contemplazione che le manifestazioni del sacro sempre implicano, il primo si riferisce piuttosto alla dimensione etico-remunerativa quasi sempre associata al riconoscimento del sacro.

Appartengono all'esperienza religiosa, generalmente intesa, le seguenti esperienze, comuni ad ogni essere umano:

• In rapporto alla natura: la percezione della propria contingenza, espressa a volte in termini di inferiorità e di debolezza nei confronti dei fenomeni naturali, di cui si teme la forza sovrastante, ma si ammira anche la grandiosità; eventi dei quali l’essere umano non è arbitro, in rapporto alla propria vita fisica e alla propria sopravvivenza: ricchezza o scarsezza dei frutti della terra, salute o malattia, ecc.

• un senso di dipendenza e di attesa, che nasce dall'incapacità di dare una spiegazione ai perché ultimi circa la propria esistenza, e su come essa possa perdurare oltre la morte; successivamente, in modo più riflesso, tali perché ultimi riguarderanno anche l’origine del mondo e il suo destino;

• la localizzazione, nella sfera della trascendenza, di un divino-Assoluto nel quale risiedono le risposte a quei perché ultimi; proprio perché chiamato a soddisfare a quegli interrogativi, l’Assoluto deve collocarsi in una sfera radicalmente diversa da quella umana, e dunque come o . L’orizzonte di conoscenza e di vita che appartiene propriamente al divino viene denominato mistero.

La religiosità si può e si deve distinguere dalla magia. La prima si manifesta come il riconoscimento cosciente ed effettivo di una realtà assoluta, il sacro e il divino, dalla quale l'uomo sa di essere esistenzialmente dipendente; nella seconda, l'idea di magia, vi è invece la volontà di rendere il divino obbediente all'uomo e da questi manipolabile. La religione coglie il divino come qualcosa di indisponibile e lo venera; la magia tende a possedere il divino come fonte di conoscenza e di potere, qualcosa da gestire a suo piacimento.

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Lo statuto teologico dell'esperienza religiosa

(San Tommaso d’Aquino). Nel fenomeno religioso esiste dunque una dimensione dialogica e personale. La divinità interviene nella vita dell'uomo in vari modi: la religione non si struttura solo come il luogo della aspirazioni umane verso il divino, ma coinvolge anche le forme di corrispondenza o di risposta del divino a queste aspirazioni. Il rapporto con Dio, l'ordo ad Deum, non riguarda solo l'aspetto di dipendenza costitutiva, ma assume la forma di un vero e proprio rapporto di redenzione: nel cuore del fenomeno religioso l'uomo sperimenta una vera e propria ansia di salvezza. Questo desiderio di salvezza proviene da almeno due fatti:

• L'essere umano si percepisce come unità di una dimensione corporale che lo accomuna al resto del creato e di una dimensione spirituale responsabile della sua emergenza e della sua trascendenza, che invece ne fa un essere unico. Egli nota un acuto divario fra la condizione trascendentale del suo spirito (attività intellettiva, volontà, libertà, desiderio di amore imperituro) e la condizione caduca, finita e corruttibile della sua dimensione corporale. Se da un lato intravede la plausibilità dell'immortalità dell'anima (convinzione su cui vi è una larga convergenza filosofico-antropologica), dall'altro resta profondamente insoddisfatto per le sorti del corpo, cioè in definitiva per le sorti di tutta la persona, come unità delle due dimensioni materiale e spirituale. A ciò si potrebbe aggiungere l'enigma circa il senso della sofferenza e delle prove della vita.

• Inoltre l'uomo soffre la dicotomia fra il bene che desidera fare, percepito dalla sua coscienza morale, ed il male in cui si sente intrappolato; fra l'altruismo come aspirazione del suo ragionare teorico e l'egoismo come misura del suo operare pratico: . L'uomo si sente in definitiva fatto per amare, perché nota che solo dare amore e ricevere amore può renderlo felice, ma si ritrova allo stesso tempo incapace di dare a questa sua aspirazione sia una pienezza etica, sia un'eternità nel tempo: il suo amore è imperfetto, debole, mortale.

Tutto ciò fa sì che la domanda sull'Assoluto non sia guidata solo dalla ricerca della verità sull'origine delle cose, sulla propria dipendenza esistenziale e su quella della natura. La domanda sul divino come luogo delle risposte agli interrogativi umani assume anche il carattere di un'invocazione che cerca una risposta. La vita umana, che nella sua struttura più essenziale è vita relazionale, ricerca del dialogo come luogo dove si dona e si riceve, si muove verso la divinità anche nella ricerca di un volto. Nella domanda su Dio l'uomo si rende conto cha la ricerca delle cause e dei fondamenti è ancora insufficiente: l'uomo chiede a Dio anche il senso delle cose, quale sia il significato della sua vita. L'uomo desidera una salvezza personale e si aspetta che questa salvezza sia identificabile con un persona, con un soggetto capace di amare.

La nozione antropologica di religione si apre pertanto con naturalezza verso una dimensione personale e salvifica, sfociando in una nozione tipicamente teologica: «l'essenza della religione non consiste semplicemente in una situazione dell'esistenza o in uno stato della coscienza; ma nel reale trascendere verso Dio nell'orizzonte del problema della salvezza e nel coraggio di percorrere un cammino nella prassi corrispondente» (Seckler).

La religione non può essere definita soltanto a partire dalle manifestazioni dell'Assoluto nella nostra esistenza o dalle sue funzioni in rapporto a noi; la sua definizione implica anche una prassi salvifica che cerca la redenzione, e nei limiti del possibile la trova, in quella e per quella realtà che teologicamente viene chiamata Dio. Questo è anche il motivo perché l'adempimento di una certa prassi personale e la richiesta di un corrispondente comportamento etico, al di là dell'attività cultuale sic et simpliciter, svolge un ruolo importante in ogni fenomeno religioso.

b) Natura della religione e apertura dell’uomo alla rivelazione

La presenza delle rivelazioni nel fenomeno religioso

La nozione del divino, come abbiamo visto, risulta associata alla categoria del mistero. Lo stesso tentativo di concettualizzare l’Assoluto come qualcosa di infinito, trascendente,

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totalmente altro dall'uomo, pone questa nozione al di sopra di ogni concetto umano, qualcosa di fronte alla quale la ragione deve tacere. Per poter accedere a questo Assoluto occorre che sia l'Assoluto stesso a rivelarsi, e ciò spiega il perché e l’importanza del fatto rivelatorio in ogni religione. Il modo in cui la ragione indica l'esistenza del mysterium e la religione lo segnala come sacrum, sono aspetti di un moto ascendente dall’umano verso il divino; il fatto rivelatorio si presenta invece come un moto discendente di Dio verso l’uomo.

L'irruzione del divino nella storia e nel mondo dell'esperienza umana, cioè ogni ierofania, è in parte già una manifestazione rivelatrice della presenza del sacro. Una è in fondo presente già nella stessa esperienza religiosa in quanto tale: l’essere umano del divino perché il divino gli viene incontro, o almeno ne percepisce la presenza, la causalità sulle cose, in qualche forma. Se così non fosse, l’esperienza religiosa sarebbe qualcosa di totalmente soggettivo, confinato solipsisticamente nella psicologia umana, un inganno senza alcuna apertura all’Essere, al fondamento, all’Assoluto.

Il termine significa la manifestazione di qualcosa di nascosto e misterioso. Con esso si intende una comunicazione di Dio all'uomo, comunicazione che la religione considera tanto più necessaria quanto più grande è la distanza che separa l'umano dal divino. Dio comunica all'uomo in diversi modi: attraverso l’esperienza interiore, simboli, segni nascosti negli animali o nelle piante, fenomeni naturali, attraverso la parola di intermediari quali fondatori o profeti, o mediante illuminazioni dirette. La rivelazione può essere collegata alla sacralità del luogo o alla sacralità della persona.

Tali rivelazioni avvengono mediante esperienze ed eventi di tipo essenzialmente naturale, ma anche storico, letterario, cultuale, attraverso i quali si ritiene che il divino si comunichi e manifesti il suo volere, svelando parte del suo mistero e colmando così la distanza che lo separa dall'uomo. In molti di questi segni si cerca di offrire uno spazio di intervento al divino, lasciando al margine il controllo della volontà umana (come ad esempio nel gettare le sorti oppure nei sogni). Nel fatto rivelatorio l'iniziativa può essere divina oppure umana, se è l'uomo a cercare i segni del divino e a interpretarli. La presenza di questa categoria è così radicata nel fenomeno religioso che non deve sorprendere il rintracciarne alcuni elementi perfino in alcune pagine dell’AT: la presenza di Dio si manifesta attraverso fenomeni atmosferici o straordinari; comunica la sua volontà attraverso sogni, visioni o per mezzo di sorteggi, e soprattutto si serve di intermediari e profeti.

E’ frequente far risalire ad una rivelazione divina la presenza di una legge o di una prassi salvifica che assicuri all'uomo un insieme di criteri di ordine etico-morale utili alla vita sociale, incluso la prescrizione di prassi di tipo cultuale, ecc. La memoria storica del contenuto rivelato è frequentemente affidata alla redazione di libri, ricevuti dalla comunità come sacri.

Nelle religioni filosoficamente più strutturate, il contenuto rivelatorio riguarda principalmente la comunicazione di una chiave di interpretazione del mondo, inaccessibile alla semplice ragione. Nel loro carattere più generale, esse si presentano pertanto come delle gnosi. All’interno di una gnosi, non importa tanto la rivelazione della natura e della vita personale di Dio (rivelazione che può essere di fatto assente, come accade in quasi tutto il mondo extrabiblico): ciò che importa è solo la manifestazione del suo volere. La divinità non compare come qualcosa di accessibile all’uomo, ma piuttosto come custode gelosa del mistero.

Rivelazione e fede si richiamano a vicenda nella fenomenologia del fatto religioso

La portata noetica dei segni associati ad una rivelazione divina fa necessariamente riferimento ad una sfera sovrarazionale ed implica pertanto una certa opzione esistenziale del soggetto. Per accogliere il significato di ciò che la divinità rivela occorre superare il limite della propria esperienza diretta, occorre credere ad una volontà diversa dalla propria. Entra così in gioco il ruolo della fede religiosa, quale (W. Kasper). Qui si vuole solo mettere in luce che rivelazione e fede, anche solo sul piano fenomenologico di cosa sia la religione, sono concetti che si richiamano a vicenda. La fede non viene vista come la semplice accettazione emozionale di qualcosa che supera la ragione o che non si può provare, ma implica piuttosto

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un comportamento, un coinvolgimento esistenziale nel contesto sacrale, un affidamento alla volontà divina. Se è vero che la fede teologale, come risposta e adesione personale dell’uomo al Dio di Israele, Dio di Gesù Cristo, che si rivela, può e deve essere distinta dalle “credenze presenti nelle varie religioni” generalmente intese, è anche vero che “la religione”, in quanto fenomeno umano di ricerca e di riconoscimento dell’Assoluto implica una certa “fede” nel senso prima indicato. La religione reca necessariamente con sé una dimensione relazionale, fra il soggetto e il divino, fra il soggetto e i membri della comunità, a motivo dell’istanza universale del divino, sebbene esistano prassi religiose che possano favorire o inibire tale dimensione.

Un ultimo elemento riguarda il rapporto fra religioni naturali e religioni rivelate. Da un punto di vista classico, col primo termine si indicano quelle fenomenologie religiose nelle quali la divinità farebbe conoscere la sua presenza e la sua volontà essenzialmente mediante i fenomeni della natura, mentre con il secondo ci si riferisce a quelle tradizioni religiose nelle quali si è in presenza di mediazioni storiche, di libri sacri o testimonianze documentali. Nel primo caso il rapporto con la divinità assume una dimensione tendenzialmente più soggettiva ed implicita, mentre nel secondo caso è più oggettiva ed esplicita, fino ad assumere una rilevanza storica. Va segnalato che tale distinzione non può mai assumere questi contorni così netti. In primo luogo va osservato che la nozione di rivelazione è associata alla stessa esperienza religiosa e che anche la percezione del divino attraverso la natura è, essa stessa, una forma di rivelazione. Di fatto, non esistono religioni ove il rapporto con la divinità si affidi a canoni puramente naturali: vi è quasi sempre una “riflessione” su questi dati naturali, un’interpretazione affidata a mediatori, che si elabora e si trasforma in una tradizione di tipo storico. Inoltre, anche le religioni rivelate, come quella ebraico-cristiana, riconoscono una manifestazione di Dio attraverso la natura come parte irrinunciabile del loro contenuto. Infine, la presenza di mediatori e profeti è presente sia nelle religioni chiamate un tempo “naturali”, sia in quelle tradizionalmente indicate come “rivelate”: la differenza fra rivelazioni di tipo storico-pubblico ed illuminazioni di tipo privato a volte è meno definita di quanto si pensi.

Di fatto, tutte le religioni sono fondate sulla fede, ma si diversificano per il modo con il quale esse la giustificano: a motivo dell’azione di fenomeni naturali soggetti ad una maggiore o minore dose di interpretazione da parte dei singoli o della comunità; grazie all’autorità di mediatori o veggenti protagonisti di una illuminazione sapienziale riservata a pochi, mediante un'irruzione di Dio nella storia attraverso il compimento di opere sotto gli occhi di tutti, ecc.

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2. Introduzione alla nozione di Rivelazione

Nella tradizione religiosa giudeo-cristiana, la nozione di Rivelazione, come tale, è frutto della riflessione teologica su concetti biblici diversi, che individuano un’area di significato ampia e polivalente. Con essa si indica in primo luogo la comunicazione libera e gratuita di Dio, del suo mistero salvifico, all'uomo. Vi possiamo riconoscere alcune importanti articolazioni:

• Questa comunicazione è anche una donazione, poiché nel rivelarsi, Dio offre all'uomo qualcosa di inaccessibile alla sola ragione, cioè il mistero della sua vita intima e della sua volontà;

• questa auto-comunicazione e auto-donazione si danno nella storia ed attraverso la storia;

• nell’economia neotestamentaria, rivelazione, comunicazione e donazione di Dio hanno il loro culmine e la loro chiave interpretativa nel mistero del Verbo incarnato;

• Dio stesso è tanto il soggetto come l’oggetto della Rivelazione: la Rivelazione è infatti frutto della sua libera iniziativa, e ciò che ci viene manifestato ed offerto è il suo mistero personale, quello di un amore compiuto ed immanente nella vita intra-trinitaria, e quello di un amore ad extra, in favore dell'uomo;

• in questa manifestazione di Dio, dimensione oggettiva e dimensione personale del rivelatore-rivelato sono inseparabili, così come lo sono nella risposta umana l'accettazione del contenuto e l'accoglienza della persona rivelante.

Al concetto di Rivelazione si accede pertanto attraverso molteplici versanti. Esso risulta collegato a concetti biblico-teologici come: manifestazione, comunicazione, ascolto, dono, salvezza, mistero, parola, Vangelo, annuncio, testimonianza, luce, vita.

a) Modalità e contesti della Rivelazione di Dio nell'Antico Testamento

Nell'AT non esiste un termine tecnico per indicare la nozione teologica di Rivelazione. Il vocabolo rivelare o scoprire (=galah) è utilizzato quasi sempre all'interno di testi con genere letterario di tipo apocalittico (annuncio di eventi futuri sconvolgenti), spesso in connessione con l'annuncio del , rivelazione definitiva di Dio e compimento finale della sua giustizia.

La comunicazione di Dio all'uomo e la condiscendenza di Dio in favore dell'uomo vengono espresse dall’AT in vari modi:

• L'AT non conosce una visione diretta di Dio, ma ne riconosce la prossimità all'uomo attraverso una certa manifestazione della sua presenza, cioè mediante teofanie. Le teofanie coinvolgono spesso fenomeni naturali sconvolgenti e straordinari (roveto ardente, temporale, altri fenomeni: cfr. Es 3, 1-6; Es 19,16-18; Es 24,16-17, ecc.), ma a volte anche più delicati, come quando Dio fa sentire la sua presenza nella brezza leggera (cfr. 1Re 19,11-13).

• Il Dio di Israele , né si deve fare di Lui alcuna immagine o rappresentazione. Sull’invisibilità di Dio, fra i molteplici passi biblici, è assai significativo l’episodio di Esodo 33,18-23.

Testo di Esodo 33,18-23

Riguardo la precisa intenzione di non ammettere visioni dirette di Dio, nella teofania del Sinai, la traduzione dei LXX di Es 24,10 rende in greco il versetto originale ebraico come .

• Dio rivela mediante visioni essenzialmente allegoriche che interpretano o predicono la realtà; l'AT conserva riferimenti culturali classici per descrivere la conoscenza del volere della divinità, come ad esempio l'uso di sogni (Gen 20,3; Gen 28,11-15; 37,5-10; capp. 40 e 41; 1Sam 28,6). Frequenti nella rivelazione ai patriarchi (ne ritroveremo traccia nel NT, per esempio in Matteo),

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il ricorso ai sogni descresce e viene visto con certa diffidenza dai profeti, i quali distingueranno accuratamente fra sogni inviati ai profeti autentici e quelli dei falsi profeti che mentono (Ger 23,25-32; Is 28,7-13). L'AT non propone mai tecniche divinatorie magiche, come ad esempio l'epatoscopia.

• Una manifestazione singolare del Dio di Israele è la discesa/presenza della sua gloria (Es 16,10; Nm 14,10), associata ad una esperienza del numinoso, ma che non appartiene al genere della . La gloria di Dio (kabod Jahvè) si presenta come una nube che ricopre la tenda che Mosè aveva preparato durante l’Esodo. Riveste anche un significato teofanico la presenza di una colonna di fuoco che guida il cammino del popolo nel deserto e che staziona vicino alla tenda (Es 33,10). Dio si manifesta anche attraverso , una figura che lo rappresenta, spesso in forma antropomorfa (cfr. anche Gen cap. 18 e 32,25-31). La Rivelazione mediante teofanie è frequente nel libro della Genesi, ma soprattutto nel libro ell'Esodo (3,14; 19,16-20; 24,16-18; 40,34-38).

Testo di Esodo 19,16-20

• Dio rivela mediante il ministero profetico (qui inteso in senso ampio), il cui compito è, fra l’altro, annunciare il corso della storia, che Jahvè orienta secondo i suoi piani salvifici; l'esperienza fondamentale in proposito resta la manifestazione di Dio al suo popolo mediante la liberazione dal paese d'Egitto, di cui è chiamato a fare costante e riverente memoria (Dt 4; Sal 78, Sal 136);

Tuttavia, il modo principale con il quale il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, comunica con l'uomo e gli manifesta ciò che Egli è e ciò che Egli vuole è

• quello della parola: l'espressione parola di Dio (=dabar Jahvè) è la maniera più comune, ed allo stesso tempo più importante e solenne, con cui l'AT descrive la comunicazione ed il manifestarsi di Dio al genere umano. Una delle espressioni più frequenti con cui l'uomo, il profeta, reagisce alla percezione della presenza divina è: . Esemplare l'episodio di 1Sam 3,1-10. Attraverso la sua parola, Dio introduce progressivamente l'uomo nella sfera della sua intimità, nella conoscenza di Sé, fino al dono supremo della sua parola fatta carne. A differenza del pensiero greco, più attento alla conoscenza mediante la visione e la concettualizzazione dell'idea, per Israele il modo principale di conoscere è ascoltare la parola: a partire da essa, tutto il resto sarà un riconoscere 3.

Testo di 1Samuele 3,1-10

Anche nel caso delle teofanie e delle visioni profetiche, la cosa più importante non è tanto vedere Dio, quanto ascoltare la sua parola (cfr. ad es. Es 16,10-11 e la teofania sinaitica). Il rapporto fra il modo di rivelarsi nella parola e quello che si dà ad esempio nei sogni, nelle stesse teofanie e negli altri segni della presenza divina in generale, è tale che tutti questi ultimi puntano verso l'ascolto della parola, ad esempio introducendola con solennità. Il popolo di Israele non riconosce la volontà del suo Dio interpretando i segni esterni (tuono, temporale, osservazione del cielo, ecc.), ma attraverso l'ascolto di ciò che dice. Non possiamo escludere nemmeno che il ricorso linguistico alla menzione di particolari segni esterni tipici del linguaggio religioso — come ad esempio lo ritroviamo nelle teofanie del monte Sinai: fumo, fuoco, trombe, terremoto, ecc. — sia espressione dell'intenzione dell'autore di far comprendere e riprodurre in

3 «Per i greci comprendere, conoscere, significava “vedere-dentro”, capire dopo aver guardato. Il

conoscere è il vedere dello Spirito. Ad esso corrisponde quel che è visto: l’idea, l’eidós, la verità nella figura della alétheia, del non-nascondimento. Per i greci la visione dello spirito era considerata il perfezionamento dell’attività umana. Contemplare la divinità era lo stato della beatitudine. Nell’Antico Testamento, invece, il “conoscere” è riferito alla sfera dell’udire: si comprende dopo aver ascoltato la parola, o la chiamata. A differenza di quanto riscontriamo tra i greci, qui la comprensione non è rapportata ad un’idea senza tempo, bensì ad una esperienza storica, alla persona, alla sua parola e al suo volere. Di conseguenza conoscere qui significa anche prendere conoscenza, ma per arrivare ad un ri-conoscimento. Qui il conoscere diventa il modo dell’incontrare, dello stare insieme nella comunione di vita.» (H. FRIES, Teologia Fondamentale, Queriniana, Brescia 1987, pp. 137-138).

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coloro cui si dirige i sentimenti e l'esperienza provata dal protagonista della rivelazione divina nell'avvicinarsi al Dio di Israele, alla solennità della Sua parola.

La parola di Dio viene rivolta ai patriarchi, ad Abramo, a Mosè, ai profeti. L'espressione dabar Jahvè compare 242 volte nell'AT. Il suo significato è più ricco di quello del termine nelle lingue moderne: esso comprende sia l'aspetto noetico che quello dinamico. La parola di Dio non comunica solo un contenuto, né soltanto informa: essa è sempre anche una parola efficace che opera ciò che dice. Istruttivo in proposito il noto passo di Isaia 55,10-11, che ammette anche una lettura alla luce della missione del Verbo incarnato. La parola di Dio crea, guida la storia, compie prodigi, salva, assicura lo svolgersi provvidente degli eventi del creato. È una parola impegnativa che reclama attenzione ed adesione, che muove l'uomo all'azione e gli fornisce la forza per compiere ciò che chiede. È soprattutto una parola fedele, capace di riunire in un unico atto di lealtà verso il mondo e verso l'uomo tanto le leggi del cosmo, come la storia del popolo eletto. È infine una parola non soltanto rivolta all'uomo, ma anche affidata all'uomo perché la trasmetta e la viva.

La manifestazione di Dio attraverso la sua parola, conoscerà nell'AT diverse tappe: una rivelazione patriarcale, centrata soprattutto attorno alla Parola-vocazione rivolta ad Abramo; una rivelazione mosaica, caratterizzata principalmente dalla potenza di una parola capace di liberare dalla schiavitù e dalla consegna della parola della legge; una rivelazione profetica, nella quale la parola divina continua a mantenere viva la speranza nelle sue promesse; una rivelazione sapienziale, nella quale la preghiera è ora il luogo di una parola che diviene colloquio fra Dio e l'uomo

b) La Rivelazione nel Nuovo Testamento

Nel cuore del concetto di rivelazione presente nel NT, ed in continuità con quanto l'AT aveva affermato sulla parola di Jahvè, vi è ora la consapevolezza che «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).

Il concetto di Rivelazione nel NT appare tutto segnato dall'economia della Parola fatta carne, quale suprema e più perfetta comunicazione di Dio all'uomo, che ha in sé i caratteri della condiscendenza, della donazione, della potenza salvifica, e che riunisce in sé tanto l'aspetto oggettivo-contenutisco, quanto l'aspetto soggettivo-personale: Cristo non rivela solo mediante la sua dottrina, ma anche attraverso il mistero della sua stessa persona.

I termini che nel NT appaiono maggiormente implicati nell'idea di sono ancora quelli collegati con la nozione di : predicare e predicazione, insegnare, proclamare il Vangelo, evangelizzare, testimoniare la parola, accoglierla, viverla.

Sinottici

I termini che descrivono l'azione rivelatrice di Cristo sono essenzialmente (khruvssein) ed (didavskein). Cristo si presenta come Maestro che predica e Dottore che insegna; ma egli rivela qualcosa di Dio soprattutto qualificandosi come Figlio inviato dal Padre: (Mt 11,27). Egli è il Messia definitivo nel quale si compie la promessa fatta ad Abramo e ai suoi discendenti (Lc 4,14-21) e si ratifica una nuova ed eterna alleanza (Lc 22,20).

Testo di Luca 4,14-21

Cristo, con il suo evento terreno, l'avvento del regno di Dio e quanto occorre fare per entrarvi; i cuori, i veri sentimenti dell'uomo, rivelando all'uomo smarrito cosa debba fare per salvarsi; Gesù di Nazaret che è giunto il momento opportuno della conversione, dell'orientamento a Dio con tutto il cuore. È questo : la buona novella viene annunciata ai poveri (Mt 11,5) ed il Messia annunciato esercita il suo ministero di pace e di riconciliazione (Lc 4,14-21). Attraverso il suo insegnamento in parabole e la loro spiegazione, permette a chi lo ascolta

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di conoscere i misteri del regno dei cieli (Mt 13,10-12; Lc 8,9-10). L'autorità della sua parola è in continuità con quella di Dio (Mt 7,28-29; Mc 1,22; Mt 24,35), la sua dottrina è in continuità autorevole con la legge divina (Mt 5,17-48).

Dunque, in accordo con i sinottici, Cristo è rivelatore e rivela «in quanto proclama la buona notizia (eujaggevlion) del regno dei cieli e insegna con autorità la parola di Dio. In definitiva egli rivela perché è Figlio che conosce la vita intima del Padre. Il contenuto essenziale della rivelazione è la salvezza offerta agli uomini nell'immagine del regno di Dio annunciato ed instaurato da Cristo (...) I tempi sono compiuti: in Gesù Cristo il Regno di Dio è presente e attivo. Il Cristo è nello stesso tempo colui che annuncia il Regno e colui nel quale il Regno si realizza» (Latourelle).

Atti degli Apostoli

In questo libro del NT si insiste sulla nozione di testimonianza (martuvrion) e su quello di predicazione (khvrugma). Nell'Ascensione, il Cristo affida loro il seguente mandato: (At 1,8). In modo particolare essi sono testimoni della Resurrezione di Gesù. Gli Apostoli hanno il compito di annunciare pubblicamente la buona novella mediante la predicazione (At 8,5; 8,35; 10,42). Oggetto di questo insegnamento, nella luce del Cristo risorto, è tutto ciò che riguarda Gesù Cristo, la sua realtà di Salvatore e Messia promesso, morto per i nostri peccati, risuscitato ed assiso alla destra del Padre. Si annunzia parimenti l'economia del Regno di Dio che lui ha instaurato (battesimo, remissione dei peccati, azione sacramentale in genere), e la cui realizzazione storica egli ha affidato alla Chiesa. Il loro è un servizio alla parola (At 6,4). La proclamazione del Vangelo da parte degli Apostoli è accompagnata e confermata da segni salvifici (At 4,30; 5,16; 8,6-8) e, soprattutto, dall'azione costante dello Spirito.

Il corpus paolino

Il concetto di Rivelazione in san Paolo si muove su due terreni principali:

— Gesù Cristo come del senso della precedente rivelazione mosaica;

— la riflessione teologica attorno al binomio fondamentale Vangelo-Mistero (eujaggevlion < musthvrion): il Vangelo è la rivelazione del mistero del Padre in Cristo.

La legge mosaica era vista da Israele sotto un velo, simboleggiato dal velo che copriva il volto di Mosè. È il Cristo ad avere svelato la volontà di Dio ed il senso in cui andava vissuta quella legge, cioè per mezzo dello Spirito (2Cor 3,12-18). Esiste dunque una della rivelazione divina, dall'economia dell'AT a quella del NT. Dio chiamando Paolo (Gal 1,16) e con lui ogni altra cosa. La rivelazione definitiva che Israele aspettava e che esprimeva con i generi apocalittici, è ora l'attesa della manifestazione definitiva di Gesù (cfr. 2Ts 1,7; 1Cor 1,7).

Testo della 2Corinzi 3,12-18

Pur essendo stato protagonista di un'esperienza mistica più volte riferita, Paolo non attribuisce a tale esperienza il senso primario di una rivelazione ricevuta: la per antonomasia resta Cristo e il suo mistero. Quella esperienza è rivelatrice perché gli ha concesso di giungere alla conoscenza di Cristo. Ciò che conduce alla fede non è una visione né una rivelazione in senso psicologico, ma la predicazione, una parola che rivela e che trasforma.

Non alla dinamica dell'azione rivelatrice, bensì al contenuto della Rivelazione fa riferimento l'asse vangelo-Mistero: la predicazione, il Vangelo di Paolo, è l'annuncio del mistero del Cristo (Rm 16,25; Col 1,25-26; Ef 1,9-13; Ef 3,5-6).

Egli vuole attrarre l'attenzione sull'esistenza di un arcano mistero divino, ora annunziato dal (Rm 16,25-26). Il contenuto di questo messaggio, di cui Paolo di sente ministro in mezzo ai pagani (cfr. Ef 3,9-10; Col 1,27), può riassumersi dicendo che Dio Padre (Ef 1,9-10). Sviluppo esplicito di questo disegno divino sono il solenne inno cristologico della Lettera ai Colossesi

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(Col 1,13-20), dove Paolo lo qualifica ancora come un (Col 1,26), e l'analogo inno della Lettera agli Efesini (Ef 1,3-12).

Fanno parte di questo disegno il fare in Cristo di tutti i popoli un solo popolo (Col 3,9-11; Ef 2,16-18) e della Chiesa un solo Corpo (Col 1,18; Ef 1,22-23), perché tutti sono stati eletti nel Figlio e chiamati ad essere conformi alla sua immagine (Col 1,28; Ef 1,4-5; cfr. Rm 8,29); ed anche il far comprendere a tutti quale sia la grandezza e la sublimità di tale chiamata (Ef 1,18-19 e 3,17-19). Si tratta di un disegno salvifico, gratuito, frutto unicamente della benevolenza condiscendente del Padre, cui si dirige il ringraziamento e la lode dell'Apostolo (Col 1,12; Ef 1,3).

Al centro di tale mistero vi è dunque il Cristo stesso, il ruolo da Lui avuto nella creazione (cfr. Ef 1,4-5; Col 1,16-17; cfr. anche Eb 1,3), nella redenzione operata per mezzo del suo sangue (cfr. Ef 1,7; Col 1,14) e nella nuova creazione che questa comporta (cfr. Ef 1,10-11; Col 1,20). Proprio perché Cristo Gesù è egli stesso , quel mistero di salvezza non soltanto si rivela e si compie per mezzo del Cristo, ma Cristo stesso, nella sua persona, è questo mistero (Col 2,2), Lui (Col 2,3). Questa sapienza è la logica della croce, una logica dettata dallo spirito e perciò eccedente, superiore ad ogni logica umana (cfr. 1Cor 1,18-25).

Appartiene anche la corpus paolino l’idea che quanto ci è stato rivelato da Dio in Cristo, una volta consegnato agli apostoli formi un deposito (paraqhvkh), un contenuto destinato ad una fedele trasmissione (paradosi") affinché sia vissuto integralmente. Sono note le esortazioni dell’apostolo a Timoteo perché custodisca con l’aiuto dello Spirito il deposito di verità e di dottrina a lui affidato (1Tm 6,20; 2Tm 1,12-14). Inoltre, Paolo esorta la Chiesa a conservare le tradizioni da lui trasmesse (1Cor 11,2), sia quelle apprese di parola, sia quelle conosciute per iscritto (2Ts 2,15), evitando quei comportamenti che se ne distaccano e fuggendo i falsi profeti che predicano una dottrina diversa dal vangelo (Gal 1,9-12; 2Ts 3,6).

Il Vangelo di Giovanni

Richiamando con una struttura ed un linguaggio semita che distanzia il Logos divino dai caratteri del Logos greco, per porlo in continuità con i caratteri del dabar Jahvè, il prologo del quarto Vangelo costituisce un solenne riepilogo della concezione giovannea della rivelazione.

Il Figlio è il , la vita e la salvezza portata dal Figlio . (Gv 1,14.18). La radicalità di questa azione rivelatrice viene rintracciata anche nell'uso originale giovanneo della formulazione (EgwŸ ejimiv), che esprime la solenne pretesa del rivelatore, quella di porsi in continuità visibile con la presenza invisibile di Dio in mezzo al suo popolo.

La rivelazione operata dal Cristo consiste soprattutto nella testimonianza che il Figlio rende al Padre. Solo il Figlio conosce il Padre perché è stato inviato da Lui (Gv 6,46; 7,29; 8,55; 16,27; 17,8). Egli conosce il Padre come il Padre conosce lui, perché lui e il Padre sono una cosa sola (Gv 10,15.30; 17,21.23). Cristo rivela una conoscenza fontale, quella che lui ha presso Dio stesso: (Gv 3,11); (Gv 8,38); (Gv 8,26.40). Il Figlio rivela l'amore che il Padre ha per il mondo (Gv 3,14-17) e dialoga con Lui all'interno di un piano di salvezza e di comunione che coinvolge tutto il genere umano (Gv 17). In Giovanni, Gesù rivela la vita intima di un Dio in tre persone, il dono dello Spirito, e fa conoscere tutto questo agli apostoli come ad amici (Gv 15,15).

Nel linguaggio di Giovanni, i vocaboli che esprimono il carattere rivelatorio di Gesù e della sua dottrina sono parola (lovgoı), vita (zwhv), verità (ajlhvqeia), luce (fw`ı), gloria (dovxa). Tutti questi termini vengono sostantivati nella persona del Cristo: Egli è verità, vita, luce, gloria e parola del Padre. Cristo è il testimone per eccellenza: nel mistero della sua persona, Egli rende testimonianza alla verità, alla luce, alla parola che conduce alla vita eterna. In Giovanni va configurandosi una singolare epistemologia: credere è anche un conoscere, un

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conoscere da credenti: uno stretto nesso lega fede e conoscenza (cfr. Gv 6,69). La fede è l’inizio del conoscere, il conoscere è il perfezionamento della fede4.

In Giovanni è presente con forza particolare anche il tema dell'accoglienza della rivelazione, specie nell'uso dei termini ascoltare (58 volte) e credere (98 volte). Ne è conferma anche il tono alquanto drammatico che accompagna l'esposizione del suo prologo: (Gv 1,5.10-11).

San Giovanni si colloca egli stesso nel flusso di questa testimonianza. Egli attesta di aver ascoltato, visto, toccato il Verbo della vita (1Gv 1,1-4); è il testimone oculare dell'evento supremo della Croce (Gv 19,35-37); testimonia che il Padre ha inviato il suo Figlio come Salvatore del mondo (1Gv 4,14).

Il libro dell'Apocalisse

Il libro che chiude il NT viene denominato esso stesso, prendendo spunto dalle sue parole iniziali: (Ap 1,1). In esso troviamo categorie e modalità di rivelazione in continuità con il linguaggio profetico ed apocalittico già presente nell'AT: visioni di grande effetto narrativo, angeli interpreti, simbolismi numerici. Lo scenario è però dominato dalla grande figura di Cristo redentore e giudice, Alfa e Omega, l'unico in grado di aprire i sigilli del libro della storia e, dunque, l'unico capace di rivelare in modo definitivo e compiuto.

Nello svelare , Dio si presenta ancora una volta come Signore di una storia cosmica che dirige secondo la sua giustizia ed il suo volere. Il libro dell'Apocalisse ha avuto una grande influenza nella di tutti i tempi contribuendo alla comprensione della rivelazione come storia di salvezza: ciò che nella rivelazione mosaica era essenzialmente memoria ed attesa ed in quella profetica interpretazione degli avvenimenti presenti e futuri, nell'Apocalisse cristiana diviene compimento definitivo nell'escathon della Gerusalemme celeste.

Rivelazione interiore ed azione dello Spirito

Vi è infine una ulteriore categoria che attraversa tutti i libri del NT, quella della . Dopo la solenne confessione cristologica di Pietro a Cesarea di Filippo, Gesù stesso afferma di Pietro (Mt 16,17). E ancora, Gesù nel vangelo di Giovanni: (Gv 6,65; cfr. 6,43-44). Si parla di una rivelazione concessa ai piccoli (Mt 11,25) e vi sono vari contesti nei quali si comprende che la parola predicata esternamente viene compresa e fatta propria mediante un’illuminazione interiore, un’azione dello Spirito, un dono di Dio (cfr. At 16,14; 2Cor 4,6).

Nella scrittura esiste una riconosciuta azione dello Spirito Santo nel cuore e nel’intimo dei credenti, nonché una certa associazione fra Spirito e parola. Ciò fonda in certo modo una corrispondenza fra Spirito Santo e rivelazione interiore. Nel linguaggio biblico dell'AT, quando si parla della parola di Dio che viene diretta agli uomini, essa assume frequentemente i caratteri dell'alito, dello Spirito di Dio: Dio che parla, che agisce, che realizza con la potenza del Suo Spirito.

Con la nozione di non si vuole indicare tanto la comunicazione di un contenuto, quanto il dono di una disposizione che consente di accogliere la parola e riconoscerla come significativa. Se nell’ordine oggettivo la Rivelazione-predicazione ha una certa priorità sulla rivelazione interiore, nell’ordine soggettivo è quest’ultima ad avere priorità perché la parola annunciata trovi un cuore ben disposto (cfr. Mt 13,18-23). Sebbene non costituiscano due rivelazioni diverse ma

4 «Ne deriva che credere e conoscere non sono antitetici, ma tra loro relazionati, in quanto si

rapportano alla stessa e medesima cosa: alla verità divina diventata manifesta in Gesù. Esiste un conoscere che crede ed un credere che conosce. La conoscenza rimane nell’orizzonte della fede. Nel conoscere la fede giunge a se stessa. Il conoscere è un elemento strutturale della fede. Ma non significa un mero “prender-conoscenza”, per passare poi alla teorizzazione. La conoscenza è una relazione compiuta verso la realtà. La sua figura — non ancora raggiunta ed irragiungibile — è la conoscenza del Padre mediante il Figlio» (H. FRIES, Teologia Fondamentale, Queriniana, Brescia 1987, p. 139).

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due momenti o dimensioni dell’unica rivelazione divina, rivelazione esteriore ed interiore possono darsi in momenti separati: si può ascoltare la parola senza accoglierla interiormente, oppure avere le disposizioni adeguate per accogliere ciò che ancora non si conosce.

Alla parola ascoltata esteriormente deve corrispondere l'azione interiore dello Spirito, al dono del Vangelo si affianca il dono della grazia. Il dono della grazia è sì dono dello Spirito, ma anche presenza del Cristo. Riferendosi a Cristo e alla sua presenza in noi mediante la fede, si chiede Agostino: (Tractatus in Ioann. XXVI, 7).

Appartiene anche al genere della rivelazione interiore e all’azione dello Spirito il riferimento alla presenza di nella Chiesa nascente. La Chiesa del NT si presenta sotto la graduale azione rivelativa dello Spirito: ha i suoi profeti e riceve rivelazioni (cfr. 1Cor 14,29-33), ma qualunque cosa vogliano dire questi termini, tutto si svolge nell'ordine, nel rispetto dell'autorità e di una tradizione già ricevuta. Dal punto di vista dell’uso lessicale, nella Chiesa dei primi secoli il termine Rivelazione è più vicino, in generale, a quello di tradizione, talvolta a quello di ispirazione, che non a quello di Vangelo o kérigma.

c) La Rivelazione nei Padri della Chiesa

I Padri della Chiesa non si propongono di elaborare una riflessione teologica sul concetto di Rivelazione. Lo stesso termine viene scarsamento utilizzato in ambiente greco anche a motivo della sua possibile valenza gnostica: sarà Tertulliano ad impiegare per primo in modo sensibile i termini latini revelare e revelatio. Sarà Gerolamo il primo a chiarire con autorità che i cristiani hanno ricevuto il termine apokavluyewı dalla Sacra Scrittura e non dagli scrittori greci. I Padri sono consapevoli che in Cristo Gesù si è data una svolta determinante nel rapporto fra Dio e l'uomo ed in ciò che l'uomo può conoscere di Dio. Per indicare la totalità della rivelazione datasi in Cristo si comincia ad utilizzare in senso globale il termine Vangelo. Le categorie del pensiero patristico sono generalmente le stesse della Scrittura: carattere storico della comunicazione di Dio agli uomini, carattere universale della salvezza, centralità di Cristo in questa economia salvifica, ecc. Approfondimenti sistematici appaiono laddove ci si propone di combattere una particolare eresia.

I principali temi circa la natura e le implicazioni della Rivelazione che emergono nelle opere dei Padri sono i seguenti.

La continuità fra le due alleanze dell'AT e del NT

La novità del Vangelo non vuol dire rottura con la rivelazione fatta ai Patriarchi e ai profeti, ma la conduce a pienezza e la compie definitivamente. Il piano divino di salvezza e la continuità fra i due Testamenti vengono presentate progressivamente con le categorie di (Padri Apologeti, Clemente di Alessandria) e di (Ireneo, Origene) divine. Il rapporto fra il Primo ed il Nuovo Testamento viene visto da alcuni nel senso del passaggio dalla parzialità alla pienezza, dall'enigma alla soluzione, dalle tenebre alla luce, ma soprattutto dalla promessa al compimento. Sulla pedagogia divina della Rivelazione scriveranno anche san Basilio, san Gregorio di Nissa, sant'Agostino. La piena corrispondenza fra i due Testamenti veniva negata sia da coloro che sottovalutavano la novità evangelica (eresie giudaizzanti), sia da coloro che la esaltavano facendo del Dio di Gesù Cristo un Dio diverso da quello che si era rivelato nell'economia veterotestamentaria (Marcione). Nel primo caso la produzione patristica si concentra nell'esegesi dell'AT (p.es. Giustino, Dialogo con Trifone), nel secondo si dirige a respingere con forza ogni opposizione fra un Dio creatore e un Dio redentore, fra Logos e salvezza (Ireneo, Adversus Haereses).

Testo di s. Ireneo, Adversus haereses, IV, 32

La continuità/corrispondenza fra l'AT e il NT può essere ben riepilogata dalla nota espressione agostiniana , fatta propria dalla costituzione conciliare Dei Verbum (n. 16).

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Il rapporto fra pensiero filosofico e messaggio cristiano

L'identico carattere di continuità viene considerato anche in rapporto alla manifestazione di Dio nella natura, categoria comune sia al pensiero greco classico che stoico. La filosofia stessa viene vista con il ruolo di una , quasi un'alleanza stabilita con i pagani sul modello di quella offerta al popolo eletto (Giustino; Clemente di Alessandria: Stromata, Protrepticus). Anzi, il cristianesimo è la filosofia, la vera conoscenza.

L'ineffabilità del Dio veterotestamentario viene messa in relazione con la visibilità del Verbo fatto carne, ricavandone tutta la portata rivelatoria. Il Dio apparso nella carne viene presentato come un condiscendente mistero di pietà. Dio continua ad essere in Se stesso un mistero inaccessibile, ma tutto ciò che sappiamo realmente di questo mistero ci viene solo da Cristo. Solo Cristo è . Essi rispondono così al razionalismo di Eunomio, secondo il quale l'essenza divina, ormai rivelata nel NT non presentava alcun mistero, e a quella dei docetisti gnostici i quali, negando la vera umanità di Cristo, ne compromettevano anche il suo significato di reale rivelazione di quanto appartiene al mistero di Dio.

Il cristianesimo può rivolgersi così a tutte le culture, assumendo ed illuminando ciò che in esse apparteneva implicitamente alla verità cristiana. È l'itinerario seguito da Giustino, Clemente di Alessandria, Origene. In questa riflessione, che si sviluppò specialmente in ambiente culturale greco, così come nella lotta contro la gnosi, la Rivelazione viene vista prioritariamente, ma non esclusivamente, sotto l'aspetto di una conoscenza. Il suo carattere storico e la sua dimensione salvifica vengono affrontate in un momento successivo.

Centralità di Cristo sul piano storico-salvifico

Il ruolo fondamentale dell'Incarnazione non riguarda solo l'aspetto ermeneutico ai fini della comprensione del mistero di Dio. Esso coinvolge e trascina dietro di Sé tutta la storia. Il fatto stesso dell'Incarnazione costituisce la piena e definitiva mediazione salvifica, la più grande che la storia può conoscere.

Tutte le opere salvifiche di Dio possono essere lette come opere di Cristo: tutto, dai Patriarchi ai profeti, e prima ancora l'intera creazione, parla di lui e punta verso di lui. Nel mistero del Verbo incarnato sono contenute le risposte ultime e definitive sul senso del mondo e dell'uomo. Prospettiva sviluppata particolarmente da sant'Ireneo e sant'Atanasio.

La Rivelazione implica anche la trasmissione di un deposito

I Padri concepiscono la Rivelazione come un tutto, non come una serie di conoscenze e informazioni separate. Ciò fa sì che la Rivelazione debba essere difesa, rettamente interpretata, fatta salva in tutte le sue molteplici implicazioni, trasmessa integra alle generazioni successive. Essa riguarda pertanto anche un contenuto, un deposito, sebbene collegato ad una testimonianza viva. Criterio di fedeltà a questo contenuto è l'insegnamento ricevuto dagli Apostoli. Il collegio dei dodici ed il suo insegnamento vengono sempre più visti come regula fidei e la fedeltà al loro Vangelo come responsabilità di una trasmissione che coinvolge tutta la Chiesa. L'appello ad una tradizione apostolica e ad una lettura ed interpretazione pubbliche della Scrittura si fa importante in chiave anti-gnostica. La regola di fede (Tertulliano).

Così un noto testo di san Vincenzo di Lerins (IV secolo) sull'immutabilità del contenuto del deposito ricevuto: «Cosa è il deposito? È quello che da te è creduto, non ciò che tu hai trovato; quello che hai ricevuto, non ciò che hai da te escogitato; non frutto dell’ingegno, ma della dottrina, non appropriazione privata, ma tradizione pubblica (...) del quale non sei autore, ma devi essere custode»5. L'opposizione all’idea di nuove rivelazioni successive all’epoca apostolica fu una costante degli insegnamenti dei Padri contro le eresie gnostiche.

5 SAN VINCENZO DI LERINS, Commonitorium, 22 (PL 50,667); cfr. SANT’IRENEO DI LIONE, Adversus

Haereses, III, 1 e 15 (PG 7,844 e 917)..

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Allo stesso tempo non va dimenticato che la Rivelazione, la conoscenza del messaggio di salvezza, non va visto come qualcosa di cristallizzato. In qualche modo la prossimità dell'evento del Cristo e la presenza viva dello Spirito fanno della vita della Chiesa una rivelazione continua, cioè una parola divina costantemente rivolta all'uomo.

d) La comprensione della Rivelazione divina nella Teologia Medioevale

Con la teologia medioevale comincia una riflessione sistematica su alcuni aspetti della Rivelazione. Questa viene trattata con categorie preferibilmente filosofiche, piuttosto che storico-salvifiche. Vi sono due temi principali che attirano l'attenzione dei teologi: il rapporto fra ciò che conosciamo mediante la rivelazione e ciò che la ragione potrebbe conoscere con le sue forze, e le modalità di azione del carisma dell'ispirazione. Va acquistando anche progressivamente interesse lo studio del rapporto fra Rivelazione e Chiesa.

Rivelazione e Scrittura

Se nell'epoca patristica la nozione contemporanea di Rivelazione era più vicina alla nozione di Tradizione, in epoca medievale tende ad identificarsi con la nozione di Sacra Scrittura. Solo dalla Scrittura, in sostanza, riceviamo la comunicazione che Dio fa di Se stesso. Essa diviene la regula fidei del discorso teologico, sebbene sempre letta nella Chiesa e con i Padri. Sono gli apostoli ad aver ricevuto la parola divina per : alla Chiesa tocca il compito di esporla. Si perde dunque parte del suo aspetto dinamico e l'accento si sposta sul contenuto oggettivo della Parola: quando se ne discute qualche aspetto soggettivo, esso riguarda quasi esclusivamente il carisma profetico e, in generale, il tema dell'ispirazione. Inoltre va considerato che tutta la cultura del tempo ruotava attorno alla Bibbia e che vi era una quasi totale identificazione fra Scrittura e conoscenza dei cristiani. Nella teologia monastica (san Bernardo) si conserva maggiormente la dimensione interiore della Rivelazione, il suo collegamento con l'esperienza spirituale. In termini più generali, il collegamento fra conoscenza di Dio che si rivela e amore di Dio sarà presente in tutta la teologia, anche nella Scolastica (Bonaventura, Tommaso d'Aquino).

Rivelazione e ragione

Con l'entrata della filosofia aristotelica in ambiente cristiano torna di attualità il tema del rapporto fra conoscenza filosofica e conoscenza teologica di Dio, già comune ai Padri, ma non più sviluppato nell'alto medioevo. È in generale tutto il tema del ruolo della ragione che viene alla ribalta. Fra Rivelazione e razionalità si instaura un certo confine gnoseologico: la Rivelazione è soprattutto quell'insieme di conoscenze inaccessibili alla ragione. Non si tratta di una separazione fra fede e ragione — nel pensiero di san Tommaso si assiste tutto sommato ancora ad una certa armonizzazione —, ma sì di un impoverimento del concetto di Rivelazione, anche dovuto al fatto che, al parlare della Rivelazione, il problema gnoseologico predomina nettamente su tutti gli altri.

Rivelazione e ispirazione

Si studia la natura della profezia, riconoscendone un aspetto propriamente conoscitivo ed uno proclamativo. San Tommaso interpreta la conoscenza profetica come una luce divina che permette al profeta di formulare un giudizio più profondo sulla realtà delle cose. Il carisma dell'ispirazione degli agiografi è ad esso inferiore, in quanto essi non sono sempre abilitati a conoscere tutta la portata e le implicazioni di ciò che scrivono, ma solo a trasmettere un contenuto divinamente ispirato. Per san Bonaventura i termini rivelazione, ispirazione ed illuminazione sono quasi sinonimi. L'insegnamento di Cristo è visto come una illuminazione per tutta l'umanità. La dimensione oggettiva della Rivelazione viene piuttosto chiamata dottrina evangelica o verità salvifica.

Alcuni spunti dalla dottrina di san Tommaso d'Aquino sulla Rivelazione

• Il fine della Rivelazione è la salvezza dell'uomo; poiché la salvezza dell'uomo è la partecipazione alla stessa vita intima di Dio — cosa assolutamente gratuita e superiore alle

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forza della natura umana — era necessario che la Rivelazione nascesse da un'iniziativa divina e fosse pertanto assolutamente gratuita.

• La rivelazione di alcune verità di tipo naturale, pur non è essendo necessaria per conoscere quelle verità, diviene di fatto moralmente necessaria al considerare lo stato degli uomini dopo la colpa originale. Le verità conoscibili naturalmente vengono rivelate da Dio allo scopo di renderle note a tutti, in modo spedito e senza mescolanza di errore.

• La Rivelazione viene vista secondo una grande struttura gerarchica, con tre grandi tappe attraversate dall'umanità, quella che dalla rivelazione ai progenitori si estende fino ai patriarchi, quella mosaica e profetica e, infine, quella realizzata da Cristo; queste tre tappe manifestano una crescente condiscendenza divina ed una crescente profondità nella rivelazione del mistero della vita intima di Dio.

• La Rivelazione è vista come un grado di conoscenza di Dio. La fede e la Rivelazione sono ordinate alla visione di Dio nella vita beatifica. Al lumen fidei necessario per conoscere ed accogliere la Rivelazione in via, corrisponderà un lumen gloriae necessario per godere della visione di Dio in patria. Vi è nell'uomo un triplice grado di conoscenza di Dio: nel primo ci si eleva verso Dio mediante le cose create; nel secondo Dio discende verso l'uomo col dono della Rivelazione; nel terzo verremo elevati a vedere perfettamente ciò che ci è stato rivelato.

• Ai profeti e agli apostoli Dio ha proposto direttamente la sua verità, mentre a noi la propone con la mediazione della Chiesa. La Chiesa interpreta infallibilmente la Scrittura e propone autorevolmente ciò che è rivelato, cioè quanto dobbiamo credere. Punto di congiunzione fra la Scrittura e l'interpretazione autorevole della Chiesa è lo Spirito Santo. Se la Scrittura è regula fidei, la Chiesa ne è la regula infallibilis.

• La Rivelazione ha due dimensioni, una esteriore ed una interiore. L'appello interiore della parola di Dio è necessario in quanto il nostro cuore non si volgerebbe a Dio se Dio non l'attirasse a Sé. L'appello alla fede è triplice: quello dell'insegnamento e dell'annuncio del Vangelo, quello dei segni che confermano la predicazione, come i miracoli (dimensione esteriore), e infine quello dell'ispirazione dello Spirito (dimensione interiore).

e) Natura e forme della Rivelazione nell'insegnamento del Magistero dela Chiesa fino al Concilio Vaticano II

Il Magistero della Chiesa in epoca patristica non ebbe necessità di chiarire o di occuparsi in modo diretto del concetto di Rivelazione, quanto piuttosto di combattere le eresie in campo cristologico e trinitario. In epoca medievale i rapporti fra Rivelazione e Scrittura o fra Rivelazione e Chiesa, sebbene teologicamente non ancora ben definiti, non erano mai stati visti in chiave conflittuale. È a partire dal Concilio di Trento quando il tema della Rivelazione comincia ad essere necessariamente trattato in modo più approfondito.

La crisi protestante e il Magistero di Trento

Fra le principali affermazioni dei riformatori che influenzavano la concezione della Rivelazione vi era il principio della sola Scriptura che negava l'esistenza di una Tradizione non scritta, vincolante per la fede dei credenti. Inoltre, l'interpretazione della Scrittura sarebbe stata garantita dall'azione dello Spirito Santo su ciascun credente, senza necessità di una mediazione autorevole da parte della Chiesa.

Alla posizione dei riformatore intende rispondere il Concilio di Trento. Anche se non si offre una definizione esplicita di Rivelazione, quest'ultima può essere identificata in termini generali con il Vangelo globalmente inteso. Finalità del Concilio, in questo specifico ambito, fu chiarire i due errori prima menzionati.

«Il Santo Concilio di Trento, avendo sempre davanti agli occhi l'intenzione di conservare nella chiesa, eliminando gli errori, la stessa purezza del Vangelo che, dopo essere stato precedentemente promesso dai Profeti nelle Sacre Scritture, è stato reso noto dapprima per bocca

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di Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, poi dai suoi apostoli cui egli ha affidato la missione di annunciarlo a ogni creatura quale fonte di ogni verità salutare e di ogni regola dei costumi; e considerando che questa verità e questa regola morale sono contenute nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte che sono giunte fino a noi, o ricevute dagli apostoli per bocca di Cristo o trasmesse come di mano in mano dagli apostoli a cui lo Spirito Santo le aveva dettate; il Concilio, dunque, secondo l'esempio dei Padri ortodossi, riceve tutti i libri, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, poiché lo stesso Dio è autore dell'uno e dell'altro, così come le tradizioni che concernono sia la fede che i costumi, in quanto provengono dalla stessa bocca di Cristo o dettati dallo Spirito santo e conservati nella Chiesa cattolica con una continua successione: il Concilio li riceve e li venera con lo stesso rispetto e la stessa pietà» (Decretum de libris sacris et traditionibus recipiendis, DS 1501).

Il termine Rivelazione non viene impiegato, ma si parla di un Vangelo annunciato dai profeti, promulgato da Cristo e predicato dagli apostoli, come unica fonte di verità salvifiche concernenti la fede e la morale. Queste verità salvifiche (Vangelo) sono contenute in libri scritti e tradizioni orali. La Chiesa accoglie con pari devozione non solo l'AT e il NT, ma anche le tradizioni insegnate da Cristo o dallo Spirito Santo, scritte o trasmesse.

In accordo con quanto i luterani volevano sottolineare, anche la posizione cattolica non trascurava l'azione dello Spirito nei credenti. In un commento di uno dei Padri conciliari, quello del cardinale Cervini, si affermerà infatti che vi sono tre principi nella nostra fede: i libri sacri della Sacra Scrittura, il Vangelo che Cristo promulgò ma non scrisse, ed infine lo Spirito Santo il quale, non potendo restare il Figlio di Dio visibilmente per sempre con noi, rivela nel cuore dei fedeli i segreti di Dio ed insegna alla Chiesa la verità tutta intera.

Ai fini di una migliore comprensione di quanto accadde all'epoca della Riforma, va inoltre osservato che la nozione di così come noi la conosciamo nella teologia moderna e contemporanea, non era ancora ben fissata: si parlava piuttosto di , con la minuscola. Va anche osservato che il principio luterano di sola Scriptura viene oggi inteso in modo alquanto diverso dalla teologia protestante e che la comprensione del rapporto esistente fra testo e interpretazione (fra testo e contesto), ha subito col tempo un notevole sviluppo storico, anche sotto la spinta della filosofia ermeneutica del Novecento. Qualcosa di analogo si deve dire a proposito della nozione di Tradizione, diversa da quella di traditiones comune all’epoca del Concilio di Trento.

Il Concilio Vaticano I fra razionalismo e modernismo

Nell'epoca precedente al Vaticano I, le due maggiori correnti filosofico-culturali del momento, il razionalismo e l'idealismo, davano luogo a conseguenze non indifferenti sul modo di concepire la Rivelazione. La prima, specie nelle sue risonanze materialiste, metteva in dubbio la possibilità ed il fatto stesso di una rivelazione soprannaturale, coadiuvata da una comprensione riduttiva della conoscenza. Una delle tentazioni dell'idealismo era invece quella di vedere il cristianesimo come un momento particolare — ed in fondo provvisorio — di uno sviluppo storico più ampio; ma lo stesso idealismo staccava la realtà di Cristo dalla storia, trasformandolo nel propotipo di uomo morale (Kant, Hegel), e la stessa Rivelazione era vista come una gnosi suscettibile di essere assimilata alle leggi dello Spirito hegeliano.

Dopo aver ricordato che esiste una conoscibilità di Dio a partire dalle cose create (per ea quae facta sunt) — che non viene denominata — il Concilio Vaticano I afferma che

«tuttavia è piaciuto alla sapienza e alla bontà di Dio rivelare (revelare) al genere umano per un'altra via, e soprannaturale, Se stesso e gli eterni decreti della sua volontà; è ciò che dice l'Apostolo: dopo aver a più riprese e in numerose forme già parlato un tempo ai Padri e ai Profeti, Dio in questi ultimi giorni, ci ha parlato nel Figlio» (Dei Filius, cap. 2, DS 3004).

Si pone l'accento sui seguenti concetti: la Rivelazione è un fatto, datosi nella storia; è una parola di Dio rivolta all'umanità, distinta dalla testimonianza di Dio offerta dalla creazione; la Rivelazione è un dono gratuito, dovuto alla libera iniziativa di Dio. Oggetto della Rivelazione è un certo contenuto oggettivo (), ma anche il mistero personale di Dio (). L'inserimento esplicito del passo della lettera agli Ebrei ricorda che la Rivelazione è un dialogo personale,

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rivolto da Dio agli uomini e che ha per culmine l'incarnazione della sua Parola. Anche se la prospettiva con cui viene presentata la Rivelazione è pur sempre quella di una conoscenza (anche in relazione agli errori da chiarire), il legame fra Rivelazione e salvezza è inequivoco.

Riguardo le verità di ordine naturale contenute nella Rivelazione, il Concilio propone la dottrina tomista secondo la quale tale rivelazione sarebbe moralmente necessaria affinché queste verità (DS 3005).

Vengono inoltre riproposte le medesime parole del Concilio di Trento per ribadire che il contenuto della Rivelazione è costituito da libri scritti e da tradizioni le quali, (DS 3006).

Il Concilio stabilisce anche una stretta corrispondenza fra Rivelazione e deposito della fede: (DS 3070).

La teologia posteriore al Vaticano I utilizzò le affermazioni del Concilio quasi esclusivamente in chiave dialettica contro gli errori dominanti, contribuendo così a diffondere un'immagine della Rivelazione sbilanciata verso un certo estrinsecismo, più attenta al suo contenuto veritativo che al suo Soggetto; il rapporto fra fede e ragione viene presentato circoscrivendolo all'ambito puramente intellettuale e gli elementi della fede visti in un quadro di riferimento scolastico. In realtà, l'analisi storica mostrerà che il Concilio Vaticano I non ebbe questa visione della Rivelazione e della fede, anche se il suo linguaggio e le sue argomentazioni definitorie furono certamente coniate alla luce dei chiarimenti dottrinali che si proponeva di realizzare.

A cavallo del cambio di secolo, il movimento modernista introdusse nuovi condizionamenti sul terreno della comprensione della Rivelazione e della fede. Pur animato dal desiderio di avvicinare la fede cristiana alle esigenze culturali del momento, il modernismo finì per identificare l'idea di con quella di esperienza religiosa; la nozione di rivelazione come deposito e contenuto oggettivo veniva rifiutata in favore di nozioni più dinamiche, aperte allo sviluppo storico ed alla ricchezza dell'esperienza personale. I documenti del Magistero in questo periodo successivo al Vaticano I (il decreto Lamentabili, l'enciclica Pascendi, il giuramento antimodernista contenuto nel motu proprio Sacrorum antistitum) mettono in luce ulteriori aspetti del concetto di Rivelazione. Proprio a motivo degli errori da chiarire, i documenti antimodernisti pongono in risalto il carattere oggettivo e trascendente della Rivelazione. Nell'enc. Pascendi, al parlare della fede, si dice che è l'assenso con il quale crediamo essere vero, sull'autorità di Dio stesso, (DS 3542). La Rivelazione appartiene dunque al genere della parola e alla specie della testimonianza. Come testimonianza personale, essa reclama l'adesione della fede, altrettanto personale, ma non meramente fiduciale e sentimentale.

Tuttavia, la teologia cattolica del tempo non era sufficientemente matura per raccogliere in modo costruttivo le provocazioni del modernismo e recuperare gli elementi validi presenti in quel movimento mediante un nuova sintesi personalista, cosa che avverrà alla fine della prima metà del XX secolo.

f) La natura e le caratteristiche della Rivelazione secondo la costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II Dei Verbum

La costituzione dogmatica Dei Verbum, promulgata il 18.XI.1965, è la più ampia trattazione magisteriale sulla natura della Rivelazione. Il periodo storico-dottrinale più sereno favorisce una esposizione equilibrata della dottrina, senza la necessità di dover rispondere in primo luogo ad errori o deviazioni. Di fatto, però, la costituzione ebbe una storia assai complessa. Lo schema iniziale proposto ai Padri, De Fontibus Revelationis, che si muoveva nella linea di una difesa apologetica nei confronti degli errori contemporanei, fu sensibilmente modificato fino a cambiare del tutto l’impostazione iniziale della prima redazione. Non si trattava più di presentare come e perché una serie di modi di intendere la Scrittura, la Tradizione e lo stesso Magistero della Chiesa dovessero considerarsi erronei, quanto piuttosto di esporre in modo organico la Rivelazione cristiana, il suo messaggio di salvezza indirizzato al mondo, centrandone la coerenza e le credibilità sul mistero del Verbo incarnato e del suo mistero pasquale.

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Il cambio di prospettiva più significativo è che la Rivelazione non viene più discussa solo nel suo aspetto oggettivo di contenuto, ma soprattutto nel suo aspetto personalista di auto-comunicazione del Dio vivo all'uomo, per invitarlo a partecipare alla comunione trinitaria. Così facendo, la nozione di Rivelazione riacquista un forte carattere cristocentrico, capace di assicurare ed esplicitarne l’aspetto personalista, il suo carattere storico ed il suo contenuto eminentemente salvifico6. La risposta della fede a questa comunicazione divina non si muove solo sul piano della conoscenza, ma su quello di tutta la persona, poiché sia la Rivelazione divina che la risposta umana sono un rapporto da persona a persona.

Circa la natura e l'oggetto della Rivelazione, il testo più significativo per densità e contenuto è quello del n. 2:

«Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile per il suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé (ut eos ad societatem secum invitet in eamque suscipiat). Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi (fit gestis verbisque intrinsece inter se connexis), in modo che le opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la dottrina e la realtà significate dalle parole (doctrinam et res verbis significatas), e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità poi, sia di Dio, sia della salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione» (n. 2).

Questo brano conciliare contiene importanti elementi che, nel costituire un progresso nella comprensione del dono della Rivelazione, si ricollegano in alcune tematiche alle categorie biblico-patristiche. Fra i contributi più interessanti vi sono i seguenti:

• L'esplicito collegamento fra Rivelazione ed offerta salvifica del mistero di Dio, che consiste nell'invito rivolto agli uomini a partecipare alla vita intima della Trinità. Contenuto della Rivelazione e finalità della Rivelazione sono due categorie che non si possono dissociare (l’espressione fu esplicitamente preferita alla precedente ).

• Il carattere sacramentale della Rivelazione. Esso è manifestato dalla reciproca compenetrazione delle parole e delle opere. Dio rivela intervenendo nella storia e, parlando, rivela il senso degli avvenimenti. La parola fu preferita dai Padri alla parola perché più personale, perché le opere con le quali Dio rivela sono avvenimenti causati da un agente personale. Si realizza così un superamento di una certa concezione manualistica che aveva facilmente sostenuto come (cfr. C. Pesch, Praelectiones dogmaticae, 1924). Il fatto che alla coppia gestis verbisque segua nella Dei Verbum immediatamente quella doctrinam et res verbis significatas, sottolinea che non può esservi opposizione fra l’idea di una Rivelazione-conoscenza e quella di una Rivelazione-avvenimento. Legata al carattere sacrametale di una Rivelazione compiuta con parole ed opere vi è la sacralità della stessa storia, che può ragionevolmente dare espressione alla Rivelazione come . L’apertura della Rivelazione sulla storia sarà collegata, nel n. 8, all’azione dello Spirito Santo: «Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto (...). Lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta la verità».

• La collocazione del mistero del Cristo al centro della Rivelazione, la cui esposizione precede quella circa la conoscenza naturale di Dio. Cristo non solo conduce la rivelazione alla sua pienezza, ma Egli è questa pienezza: della Rivelazione è insieme mediatore e compimento. La prospettiva biblica neotestamentaria secondo la quale predicare la parola è predicare Gesù viene così soddisfatta: non si può separare Cristo dal Vangelo. Questa identificazione apre la

6 Cfr. H. DE LUBAC, La Rivelazione divina e il senso dell’uomo, o.c., pp. 24-50.

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strada ad una migliore comprensione della specificità del cristianesimo: essa è l’unica religione il cui fondatore si propone come via, verità e vita personificate.

• Il carattere personale e testimoniale della Rivelazione, messo in evidenza dall'utilizzo delle categorie della parola e del dialogo come nozioni-chiave attorno alle quali spiegare la natura della Rivelazione (seguito da una visione personalista della fede: cfr. n. 5).

In merito ai contenuti qui richiamati dalla Dei Verbum, si possono considerare le riflessioni teologiche svolte in epoche precedenti da altri autori:

Testo di J.S. von Drey (1838)

Testo di K. Rahner (1939)

Testo di R. Guardini (1940)

Testo di H. De Lubac da Cattolicismo (1938)

Testo di J. Ratzinger da Fede, Verità, Tolleranza (2003)

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3. La Rivelazione che Dio fa di Se stesso e del mistero del suo amore salvifico: la tradizione e l’esperienza religiose del popolo di Israele

A differenza del trattato sul , dove si sviluppa il contenuto dell'immagine di Dio associata alla Rivelazione giudeo-cristiana, il trattato di Teologia Fondamentale è principalmente interessato alle modalità di questa Rivelazione, alle sue fasi storiche, alle grandi categorie bibliche che ne risultano coinvolte.

Nella costituzione Dei Verbum, la Rivelazione vetero-testamentaria viene inquadrata in un breve sguardo panoramico che abbraccia tutta la storia della salvezza, dalla creazione fino alla nascita di Gesù Cristo, considerandola pertanto, nel suo insieme, preparazione della Rivelazione evangelica:

«Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di Sé (perenne Sui testimonium), e inoltre, volendo aprire la via della soprannaturale salvezza (viam salutis supernae), fin dal principio manifestò Se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò nella speranza della salvezza, ed ebbe assidua cura del genere umano (et sine intermissione generi humani curam egit) per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene. A suo tempo chiamò Abramo per fare di lui un grande popolo, che dopo i patriarchi ammaestrò per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscessero come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stessero in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via al Vangelo» (n. 3).

In questo riepilogo possiamo distinguere alcuni contenuti ben definiti:

— una testimonianza perenne che Dio dà di Se stesso attraverso la creazione;

— una rivelazione primitiva fatta ai progenitori del genere umano;

— una caduta dei progenitori;

— un atteggiamento divino condiscendente, dopo l'esperienza della caduta dell'uomo, costituito da una promessa di redenzione, da una cura provvidente, da una intenzione salvifica di condurre alla vita eterna coloro che praticano il bene;

— la costituzione di un popolo eletto nella discendenza di Abramo;

— una rivelazione della sua volontà salvifica per mezzo di Mosè e dei profeti collegata ad un insegnamento circa il riconoscimento del vero Dio e finalizzata ad accogliere il Salvatore promesso.

Il modo con cui Dio si rivela nell'AT appare principalmente collegato alle seguenti grandi categorie bibliche, alcune delle quali attraversano l’intera storia salvifica e non sono pertanto identificabili come sue semplici tappe:

Rivelazione o manifestazione di Dio attraverso l'opera della creazione. Il Dio di Israele, conosciuto dal suo popolo come Signore e Dio dell'alleanza, è anche il Creatore del cielo e della terra: tutte le cose parlano di lui. È il messaggio sviluppato particolarmente dalla letteratura sapienziale (Salmi, Giobbe, Siracide, Sapienza), oltre a quanto trasmesso nelle note narrazioni della Genesi. Espressione ben definita di tale consapevolezza è il costante riferimento al Dio di Abramo e di Israele come a .

Rivelazione nelle benedizioni e nella promessa. La benedizione e la promessa divine sono due categorie che abbracciano tutta la Scrittura: Gen 1,28; Gen 9,1; Gen 12,1-3; Gen 14,19; Gen cap. 49 (benedizioni di Giacobbe ai dodici figli); Gb 42,12; Is 61,9, ecc. La

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promessa messianica si estende dal Protoevangelo genesiaco fino al ministero profetico, per entrare poi nel NT, per collocarsi su uno speciale piano di solennità e di gratuità.

Rivelazione nell'alleanza. Sebbene Dio offra all'uomo una sorta di patto già in Adamo ( Gen 2,16-17) e stipuli con Noè un'alleanza di tipo cosmico, promettendo la cura provvidente di le creature dopo il diluvio ( Gen 9,11), è sostanzialmente con Abramo che ha inizio una rivelazione di Dio come soggetto di un'alleanza con l'uomo. A partire da quel momento la categoria dell'alleanza si afferma in modo stabile nel linguaggio biblico, specialmente durante l'esperienza dell'Esodo e in collegamento con la consegna della Legge, per assumere poi una dimensione più spirituale ed interiore nell'epoca dei profeti.

Rivelazione nella preghiera e nella lode, attraverso una parola sapienziale. Dio viene incontro all’uomo fino a conversare con lui. L’uomo prega e Dio gli risponde. Dio stesso ispira all’uomo le parole della lode e della preghiera e si rivela in questa parola. Abramo e Mosè parlano con Dio e lo pregano (Gen 18,16-33; Es 33,11). I giusti di Israele rivolgono a Dio preghiere ferventi e accorate (Tobia, Ester, ecc.). Dio accoglie la preghiera dei profeti e risponde rivelandosi nel fuoco che consuma il sacrificio (cfr. 1Re 18,30-39) L’uomo scioglie a Dio la sua lode nei Salmi, facendosi voce dell’intero creato e in certo modo rispondendo a Dio che rivela nel creato.

Rivelazione nei profeti. Analogamente a quanto detto per l'alleanza, sebbene l'idea del profeta come uomo di Dio (cfr. Gen 20,7) o l'annuncio di eventi futuri è presente anche prima dell'esperienza salvifica dell'Esodo, è a partire da Mosè che si ha una rivelazione di Dio attraverso il ministero profetico, realizzata da uomini che parlano in nome di Dio. Sarà comunque a partire dalla seconda deportazione che il ministero profetico rappresenterà la principale forma di comunicazione della Parola di Dio.

Tenendo presente il testo della Dei Verbum, n. 3, possiamo riconoscere, grosso modo, tre grandi epoche o tappe della rivelazione veterotestamentaria:

• una rivelazione primitiva;

• una rivelazione che si sviluppa a partire dall’elezione di un popolo e dall'offerta di una alleanza salvifica legata all'osservanza di una legge;

• una rivelazione collegata al ministero dei profeti in mezzo al popolo eletto.

La consapevolezza di una rivelazione/manifestazione di Dio nel cosmo e la rivelazione di Dio nela preghiera acccompagnano con continuità tutte queste tappe.

a) La rivelazione primitiva nel contesto delle “narrazioni delle origini”

Il contenuto della è rappresentato dalle risposte che la Rivelazione fornisce a quell'insieme di domande fondamentali sull'origine del mondo e dell'uomo, e sui rapporti fra Dio, il mondo e l'uomo, che hanno accompagnato fin dai suoi albori il pensiero umano e che vengono comunemente indicati come il problema delle origini. Si è soliti collocare il contenuto di tale rivelazione negli insegnamenti presentati dall'autore ispirato nei primi capitoli del libro della Genesi, sebbene se ne tratti estesamente anche nei libri sapienziali e nella letteratura profetica. Il testo sacro parla di una rivelazione primitiva i cui destinatari furono i nostri progenitori e, successivamente, tutta l'umanità fino ad Abramo.

Confortato dall'ispirazione divina, il popolo di Israele mette per iscritto la propria tradizione orale in un momento storico-culturale nel quale l'umanità possedeva già molte altre tradizioni sul problema delle origini, che costituivano l'elemento portante di ogni specifica cultura7. La narrazione delle origini presentata dalla Scrittura, pur utilizzando elementi propri

7 L'esistenza di questo interrogarsi è proprio ciò che dà origine alla cultura umana, fondando così il

rispetto dovuto a ogni cultura: «(...) al di là di tutte le differenze che contraddistinguono gli individui e i

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del linguaggio di tradizioni già esistenti, ha una propria specificità che la distanzia da qualsiasi altra narrazione del genere.

Elemento centrale di questa rivelazione primitiva è la posizione della creatura umana, collocata all'apice della creazione visibile, come soggetto di una speciale dignità, quella di essere immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-31). Fin dall'inizio l'uomo è presentato come interlocutore di Dio, creato capace di riconoscere la parola di Dio e chiamato a metterla in pratica

Dio si rivela all'uomo con i caratteri di una solenne trascendenza, ma anche con un'immagine paterna e provvidente: crea e differenzia l'universo in modo tale da potervi accogliere l'uomo, lo pone in una situazione di felicità, consentendogli sia la piena realizzazione della sua umanità relazionale e sessuata, sia di porsi in rapporto intelligente e libero con il mondo; gli affida un compito e lo mette in condizioni di assolverlo (Gen 2,8-9.15.18-23).

Appartiene anche all'essenza di questa rivelazione primitiva la narrazione di un peccato originale, una disubbidienza a Dio mossa dalla superbia ed istigata da un'altra creatura, il demonio, di cui i nostri progenitori si resero personalmente colpevoli (Gen 3,1-6). Questa colpa originale cambiò i rapporti dell'uomo con Dio da una situazione di amicizia e di intimità ad una situazione di separazione, mutò la collocazione originaria dei progenitori e stravolse la relazione fra l'uomo e la donna, così come quella fra loro e la natura (Gen 3,14-20). La popolazione della terra e la relativa diffusione del genere umano ha inizio in questo stato di natura decaduta (Gen 3,20; 5,1ss). Il peccato originale ha come conseguenza storica una progressiva corruzione morale dell'umanità (Gen 4,8; 6,5). La riflessione teologica colloca l’essenza del peccato originale in una messa in sospetto della bontà paterna divina, e dunque la drammatica rottura della pienezza di una relazione paterno-filiale, che conduce ad operare scelte non più filiali, scelte dettate da una superbia che tradisce la fiducia e l’autorità paterna di Dio. La redenzione realizzata dal Verbo incarnato si realizzerà con i caratteri dell’obbedienza-affidamento, manifestativi della piena restaurazione di una vera filiazione8.

Anche dopo la caduta, l'uomo non cessa di essere interlocutore di Dio (Gen 3,9-10; 4,9; 6,13ss). Dio continua a rivolgersi a lui, gli rivela la sua volontà, non gli nega i doni dela sua Provvidenza. Assume una grande importanza, in questo contesto, la rivelazione di una lotta costante tra la stirpe della donna ed il serpente, che terminerà con la sconfitta di quest'ultimo (Gen 3,15). La persona umana resta oggetto di speciale dignità, non avendo perso il sigillo della propria somiglianza divina, e Dio resta soggetto di una speciale fedeltà nei suoi confronti (Gen 4,1; 4,10; 5,1-3; 9,5-7).

Infine, la narrazione del diluvio universale, se da un lato rivela un Dio la cui santità gli impedisce di tollerare la corruzione dell'umanità (Gen 6,6-7), dall'altro lo presenterà come soggetto di una solenne benedizione-alleanza con Noè, con i caratteri della misericordia, del perdono e della fedeltà (Gen 9,12-17). Dio si prende stabilmente cura dell'umanità; il patto stipulato con Noè e la sua discendenza assume più la forma di un dono unilaterale esteso al piano cosmico della creazione, che quella di un vero e proprio patto con esigenze morali che l'uomo debba ottemperare.

La Dei Verbum esprime in modo necessariamente sintetico il lungo racconto di tempo che lega la narrazione delle origini alla vocazione di Abramo. E lo fa in modo estremamente rispettoso di tutta la storia religiosa dell’umanità che precedette la formazione del popolo eletto. Vi leggiamo infatti: «Dopo la loro caduta [dei progenitori], con la promessa della redenzione, li

popoli, c'è una fondamentale comunanza, dato che le varie culture non sono in realtà che modi diversi di affrontare la questione del significato dell'esistenza personale. E proprio qui possiamo identificare una fonte del rispetto che è dovuto ad ogni cultura e ad ogni nazione: qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell'uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri: il mistero di Dio» (GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione all'O.N.U., 5.10.1995, n. 9).

8 Cfr. G. LAFONT, Dio il tempo e l’essere, Piemme, Casale Monferrato 1992.

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risollevò nella speranza della salvezza ed ebbe costante cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene» (n. 3).

Volendo riepilogare i caratteri essenziali di questa rivelazione primitiva9, dovremmo dire che Dio manifestò all'uomo non solo la sua potenza creatrice ma, soprattutto, il suo amore per l'uomo stesso, al quale offrì una partecipazione all'intimità divina: la comunione beatificante con lui. Accanto a questo invito vi era la richiesta di fiducia in Dio, di corrispondere alla sua bontà, richiesta rappresentata in modo paradigmatico dall’esistenza di una prova. Il senso di tale prova non era quello di esigere una contropartita ai doni divini, bensì da un lato, il rispetto di Dio per la libertà dell'uomo e, dall'altro lato, la manifestazione dello stesso amore divino che è all'origine dei suoi doni: l'amore che vuole non solo donare ma anche far possibile che l'uomo meriti con la sua libertà, con il suo amore verso Dio, i suoi stessi doni.

Il contenuto della Parola di Dio nella rivelazione primitiva è sollecitato da un confronto con le altre fonti di conoscenza che tentano di mettere a fuoco il problema delle origini: dalle scienze naturali alla storia naturale, dalla paleoantropologia all’antropologia culturale, dalla fenomenologia della religine alle storia delle religioni.

Il confronto con le scienze naturali e la storia naturale (cosmologia, geologia) è possibile solo chiarendo un’opportuna ermeneutica del “discorso sulle origini”, distinguendo a quali domande intende rispondere la Rivelazione e a quali le scienze. Al tempo stesso, le conoscenze provenienti dalle scienze contribuiscono ad una corretta ermeneutica della parola di Dio.

Il confronto con l’antropologia e la filosofia della religione trova un certo terreno di dibattito nella comparsa storica del monoteismo e del politeismo. In particolare, Un approccio di tipo essenzialmente storico, come quello iniziato da W. Schmidt (The Origin and Growth of Religion, 1930), suggerisce che tutte le culture religiose potrebbero ricondursi ad un monoteismo originario, esplicito o implicito, cioè alla credenza in un unico Essere Superiore con manifestazioni analoghe da popolo a popolo. A questo monoteismo originario corrisponderebbe una certa rivelazione primitiva con le medesime costanti in tutti i popoli. Un approccio di tipo sociologico-evolutivo, rappresentato ad esempio da Durkheim (Le forme elementari della vita religiosa, 1912), considera il monoteismo ed i suoi contenuti caratteristici come il punto d'arrivo di un'evoluzione avente come inizio l'animismo e il totemismo e che col crescere dell'organizzazione sociale si rivolge ad una divinità sempre più precisa e unitaria, dal contenuto legale e morale più trascendente. Tuttavia, il passaggio dal politeismo al monoteismo potrebbe essere oggetto anche di una lettura storica e non solo psicologica.

In realtà, non esistono prove apodittiche in favore dell'una o dell'altra interpretazione. Dal punto di vista del loro raccordo con la rivelazione primitiva veterotestamentaria, la prima sottolineerebbe una certa qual conservazione del suo contenuto, mentre la seconda porrebbe l'accento sul degrado dell'umanità e la sua conseguente faticosa ricostruzione di quel contenuto originario.

Il confronto con le scienze e la storia naturali pone a volte il problema della cronologia coinvolta dalle narrazioni riportate dalla Rivelazione. Tuttavia, il lunghissimo tempo trascorso fra la comparsa dell'uomo sulla terra e la fissazione per iscritto della rivelazione primitiva non deve destare sorpresa. Occorre considerare che il lungo cammino dell'homo sapiens dalla preistoria alla storia è perfettamente compatibile con la situazione di lento sviluppo storico nel quale vennero a trovarsi i nostri progenitori dopo il peccato originale e che l'autore ispirato può aver messo per iscritto, proprio perché ispirato, molto più di quanto la memoria storica umana fosse in grado di conservare. Inoltre, un giudizio sul significato storico che assume un certo intervallo di tempo (come ad esempio quello che intercorre dall'apparizione dell'homo sapiens alla venuta di Gesù Cristo) è sempre relativo all'estensione globale del fenomeno in considerazione. Ma questa estensione ci è di fatto ignota poiché non conosciamo il termine

9 Cfr. F. OCÁRIZ, A. BLANCO, Teologia Fondamentale, Roma 1997, pp. 15-16.

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della storia. La pienezza della rivelazione datasi nell'evento del Cristo potrebbe essere sia l'apice cronologico di un lungo processo storico evolutivo che ha già visto trascorrere la sua frazione più lunga, sia il vertice morale di un cammino storico destinato ad estendersi ancora moltissimo tempo nel futuro.

b) La creazione come rivelazione cosmica della Parola

Alla testimonianza che il mondo e le sue creature danno dell'esistenza di un Creatore non è riservato, in senso stretto, il termine Rivelazione. Il Magistero della Chiesa, almeno fino all’enciclica Fides et ratio (1998), aveva preferito impiegare termini come manifestazione, attestazione, testimonianza. Esistono tuttavia dei motivi per considerare il mondo creato come parte dell'economia globale della Rivelazione. Vediamone alcuni:

• la creazione viene presentata dalla Scrittura come effetto della Parola di Dio; così nel racconto della Genesi (Gen 1,3.6.9, ecc.) ed in vari luoghi dei libri sapienziali: (Sal 32,6.9);

• la Scrittura menziona esplicitamente la possibilità di conoscere l'esistenza di Dio partendo dalla considerazione delle cose create: Sap 13,1-9; Rm 1,18-20; At 14,15-17; At 17,26-27;

• la creazione è capace di rivelare qualcosa del suo autore, perché la Scrittura invita gli uomini a dare gloria e lode a Dio attraverso la contemplazione delle sue opere; così il Sal 19: (Sal 19,1-2); o il libro di Isaia: (Is 40,25-26). Su questo punto cfr. anche Sal 104, Gb capp. 38 e 39, Sir capp. 42 e 43;

• infine il NT presenterà Gesù Cristo, parola di Dio fatta carne e pienezza delle Rivelazione, come Logos mediatore del piano creativo di Dio e senso della creazione stessa: Gv 1,1-3; Col 1,1-18; 1Cor 8,6; Eb 1,2-3).

A questo proposito, non va dimenticato che la fede nel fatto che l'universo sia effetto di una parola divina, espressione di razionalità e portatore di significato, ha avuto storicamente e continua ad avere importanti conseguenze sul piano filosofico, anche in rapporto al pensiero scientifico.

Posizione della rivelazione cosmica di Dio nella fede di Israele: creazione e salvezza

Nell'esperienza religiosa del popolo di Israele posta per iscritto la rivelazione di un Dio come Creatore e la sua conoscibilità attraverso le opere della creazione non è fra i primi contenuti ad essere tematizzati o sviluppati. Costituisce piuttosto una consapevolezza di fondo, qualcosa su cui si riflette in genere a partire dall'alleanza, dal significato che questa ha per l'uomo, il cui peso nella formazione storica del popolo eletto è più grande di quello avuto dalla rivelazione di un Dio che fosse anche Creatore. Israele presuppone la comprensione del mondo in quanto creato e accede ad una fede nella creazione quasi come conseguenza della sua fede nel Dio liberatore, ricomprendendo così la creazione in relazione alla stessa alleanza10. Per la mentalità degli ebrei, la dipendenza totale del mondo da Dio non ha bisogno di essere creduta, perché appartiene già al loro modo di pensare: Dio è il Creatore (cfr. 2Mac 1,24-25; Gdt 9,12). Tuttavia i rapporti fra creazione ed alleanza restano assai stretti: la fede in Dio creatore sostiene i momenti in cui l’alleanza viene messa alla prova da vicende storiche avverse e se il ruolo dell’alleanza fu determinante per la formazione religiosa di Israele, quello della fede in un Dio creatore lo fu certamente per la formazione religiosa del genere umano considerato nel suo insieme.

10 «L’esperienza originaria di Israele, di cui l’Esodo è una versione emblematica, è quella del Dio

salvatore e liberatore. Da quest’esperienza storica di salvezza Israele è “risalito” alla fede in Dio creatore per affermare che Dio crea, sostiene, fa vivere il mondo al fine di di poter comunicare la sua salvezza agli uomini. In altre parole, sinteticamente, possiamo dire: Jahvè è salvatore e, per realizzare la sua salvezza, egli crea e fa vivere il mondo. La creazione è vista in un orizzonte soteriologico» (A. BONORA, Cosmo, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a cura di P. Rossano, G. Ravasi, A. Girlanda, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 328).

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Una corretta posizione della fede nella (o della rivelazione della) creazione va valutata anche ricordando come l'affermazione che il Dio di Israele attraversi di fatto tutta la Scrittura. Essa è come un ritornello costante nelle sue pagine (Es 20,11; Ne 9,6), in particolare nel libro dei Salmi (cfr. Sal 23,1-2; 88,12; 113,15; 146,6; ecc.). Nel NT Gesù stesso utilizzerà questa medesima espressione per rivolgersi al Padre: (Mt 11,25; Lc 10,21; cfr. At 14,15 e 17,24). Si tratta in fondo di una rivelazione primitiva, come lo lascia intravedere un episodio della vocazione di Abramo. Subito dopo aver lasciato la terra di Ur dei Caldei per dirigersi nella terra di Canaan per comando del di cui non conosce il nome, quando incontra Melchisiedek re di Salem ambedue si riconosceranno adoratori dell'unico Dio proprio mediante un riferimento di carattere cosmologico al (Gen 14,19).

Le opere di Dio nel creato mantengono però una stretta relazione con le opere salvifiche, con l'alleanza, con la storia della salvezza nel suo insieme. Nel Sal 89 Dio crea e salva, perché egli è lo stesso Dio che agisce nel cosmo e nella storia. Siamo di fronte ad una corrispondenza fra parola creatrice e parola profetica: la parola che ha creato tutte le cose è la medesima parola che interpreta il significato della storia e ne guida il corso degli eventi verso il suo compimento salvifico. Il Sal 136 ci assicura inoltre che esiste un linguaggio comune capace di annunciare le meraviglie di Dio nella creazione e le opere di Dio nella storia della salvezza; esiste una musicalità capace di ritmare una lode a Dio ed una lode a Dio , una lode per ed una , intercalando ciascuna di queste lodi con una sola incessante giustificazione: 11.

Il creato muove l'uomo alla gloria e alla lode di Dio

L'osservazione del cielo, luogo arcaico della trascendenza, ma per Israele anche, indissociablimente, opera creata da Dio, muove l'uomo a dare gloria a Dio. È il ritmo del noto Salmo 8:

quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli. Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; Gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare. O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra»

Insegnamenti analoghi saranno proposti dal Siracide (Sir 42,23-24 e 43,9-10), da Isaia (40,25-26) e dai salmi di lode della creazione, come ad es. il Sal 104. Nel riferirsi a Dio come a , si vuole indicare la sua unicità, l'universalità dell'estensione della causalità e del dominio di Jahvè su tutto ciò che esiste. Egli garantisce la stabilità del mondo e ne governa con saggezza le leggi naturali, segno della sua fedeltà e del suo amore per gli uomini, mediante le quali ogni

11 Risulta di grande interesse il fatto che la liturgia della Chiesa abbia da lungo tempo applicato

queste medesime parole al ministero degli apostoli. Nella liturgia delle ore, così come nel salmo responsoriale della Messa dedicata agli apostoli, , e che è proprio il loro annuncio evangelico, l’annuncio cioè di quella sapienza nascosta nel mistero (cfr. 1Cor 2,7), la cui capacità di interpellare e di essere compresa da ogni uomo viene ora paragonata all’universalità con cui il firmamento stellato, il sole e la luna possono stare sotto gli occhi di tutti.

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cosa è soavemente condotta verso il suo fine (Prv 3,19-20; Sap 11,20-21; Is 61,11). Rivolgere lo sguardo al cielo come base di un argomento che conduca all'esistenza dell'Unico Dio è operazione intellettuale di una certa originalità, se si tiene conto del contesto culturale in cui nasce e dei destinatari ai quali si dirige. Dall'osservazione del cielo e dei suoi fenomeni, il mondo greco e mesopotamico aveva desunto l'esistenza e l'azione di più dèi: pur non ignorando il ricco contesto cosmogonico di cui l'essere umano è spettatore (cfr. Sal 8; Sir 43, 1-2.9-10; Gb 9,9-10 e 38,31-33; Bar 3,34; Is 40,25-28), quando Israele osserva il cielo non moltiplica gli dèi, ma adora l'Unico Dio creatore del cielo e della terra.

Dalla conoscenza delle creature alla conoscenza del Creatore

Nel libro della Sapienza troviamo l'affermazione di una via di conoscenza che dalle creature può ricondurre al loro creatore, perché esse gli assomigliano, cioè lo rivelano:

«Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere. Ma o il fuoco o il vento o l'aria sottile o la volta stellata o l'acqua impetuosa o i luminari del cielo considerarono come dei, reggitori del mondo. Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza. Se sono colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati. Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l'autore. Tuttavia per costoro leggero è il rimprovero, perché essi forse s'ingannano nella loro ricerca di Dio e nel volere trovarlo. Occupandosi delle sue opere, compiono indagini, ma si lasciano sedurre dall'apparenza, perché le cosa vedute sono tanto belle. Neppure costoro però sono scusabili, perché se tanto poterono sapere da scrutare l'universo, come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?» (Sap 13,1-9).

Il Salmo 14 chiamerà stolto, cioè insensato, l'uomo che nega positivamente l'esistenza di Dio, perché questa viene considerata oggetto adeguato dell'intelligenza umana.

La conoscenza di Dio a partire dalle cose create ha accompagnato tutta la cultura umana, e non è un'esclusività della rivelazione giudeo-cristiana. Essa appartiene al pensiero filosofico classico e moderno e ne esistono delle tracce anche nella religiosità naturale precedente alla riflessione filosofica vera e propria. I Padri della Chiesa hanno parlato volentieri dell'esistenza di due libri per conoscere Dio: il libro della Scrittura ed il libro della Natura.

«Sia il tuo libro la pagina divina che devi ascoltare; sia il tuo libro l'universo che devi osservare. Nelle pagine della Scrittura possono leggere soltanto quelli che sanno leggere e scrivere, mentre tutti, anche gli analfabeti, possono leggere nel libro dell'universo» (Sant'Agostino, Enarr. in Ps. 45,7)

Nella tradizione filosofica-culturale cristiana questa ascesa dal creato al Creatore viene indicata col nome di Argomento Cosmologico. A seconda delle epoche e degli autori, tale argomento riprende ed impiega prove classiche di tipo metafisico (concatenazioni causa-effetto, riflessione sulla contingenza, argomenti a partire dall’osservazione di finalismo nella natura) o vi affianca osservazioni di tipo fenomenologico. Si riconosce l'esistenza di un cammino esterno (cosmologico) e di un cammino interiore (antropologico-esistenziale). La presentazione e la discussione di queste argomentazioni, sebbene oggetto di viva critica filosofica, hanno resistito lungo i secoli e possono ritrovarsi in tutto il cammino della teologia, dalla patristica fino ai nostri giorni.

Nell'epoca contemporanea esiste la necessità di tenere vive, al centro della sapienza filosofica e della cultura, le domande ultime che si riferiscono all'origine del tutto, al senso del mondo e dell'uomo. L'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio (1998) fa esplicito riferimento al non solo più come testimonianza o manifestazione di Dio, ma quale (n. 19). In tutto il documento di sottolinea l'importanza della rivelazione di Dio nel creato come base di dialogo con il pensiero filosofico ma anche come grande implicita base di dialogo e di confronto fra le religioni della terra. Il libro della natura è destinato a rappresentare in futuro il grande terreno di incontro del dialogo interreligioso.

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Il creato rivela i giusti rapporti fra l'uomo e Dio

Nel libro di Giobbe assistiamo ad un elemento di grande interesse. Il richiamo alla contemplazione della creazione ha come importante effetto quello di , suscita fede e abbandono nella sua paternità provvidente, dispone l'uomo ad accogliere ciò che viene da Dio anche quando la ragione non lo comprende. Giobbe si convince di dover accettare i patimenti dovuti alla sua condizione creaturale quando Dio, mostrandogli la creazione, gli domanda con solennità Ubi eras?

Dillo, se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio? (...) Ti sono state indicate le porte della morte e hai visto le porte dell'ombra funerea? Dillo, se sai tutto questo!» (Gb 38,4-7.17-18)

Il protagonista della narrazione accetta questo rimprovero e lo riconosce pienamente ragionevole: (Gb 40,4).

La persona umana, creatura rivelatrice di Dio

Dunque l’universo, come abbiamo visto, è effetto della parola stessa di Jahvè (Sal 32,6; cfr. Prv 3,19), è la voce di una parola cosmica che annuncia e narra la gloria del suo Creatore (Sal 19,1-7). Nel salmo 19 troviamo legate insieme la lode a Dio per la creazione dell’universo e quella per la sublimità della legge morale e salvifica consegnata ad Israele: legge cosmica e legge morale sono unite in una medesima lode alla sapienza divina:

«I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Non è linguaggio e non sono parole di cui non si oda il suono, per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola» (Sal 19, 1-5).

E ancora: «La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice. Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi. Il timore del Signore è puro, dura sempre; i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell'oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante (Sal 19,8-11).

Questo insegnamento si collega ad un altro importante : la testimonianza che il Creatore dà di Sé attraverso le sue opere coinvolge anche la creazione della persona umana, uomo e donna. Anzi, in essa, la manifestazione di Dio nelle creature trova come il suo apice: La solennità di tutto il racconto genesiaco (Gen 1,26-27) colloca la persona umana nella posizione di chi maggiormente può rivelare Dio, l'uomo e la donna ne sono immagine e somiglianza. Accanto alla contemplazione della creazione materiale, la considerazione della persona umana (spiritualità, libertà, trascendenza sul resto della creazione) è essa stessa una strada per riconoscere l'esistenza di Dio (cfr. Sal 8, 4-8): E lo è l’esistenza di una legge morale, iscritta nel cuore dell’uomo, che giudica le sue opere spingendolo a compiere il bene e ad evitare il male (cfr. Rm 2,14-16).

c) La Parola dell'Alleanza

Nella storia delle religioni il caso di un'alleanza fra un popolo monoteista e la sua divinità suprema non ha precedenti al di fuori della religione di Israele: (Dt 4,7). Assieme all'esperienza della liberazione, la consapevolezza della sua alleanza con Jahvè — di cui la liberazione è in fondo una conseguenza — è una delle esperienze religiose costitutive di Israele e, pertanto, una delle parole più significative della rivelazione veterotestamentaria. In tutto l'AT il tema dell'alleanza risulta strettamente collegato al tema dell'elezione e a quello della consegna della legge. Nello sviluppo storico verso il NT, dove la categoria dell'alleanza continuerà ad essere

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presente in modo essenziale, tanto l'alleanza come la legge vengono progressivamente comprese nella loro dimensione interiore e personale.

In senso generale, il termine alleanza indica un indica un patto bilaterale fra due persone, stabile nel tempo, stipulato con un carattere di solennità davanti a Dio e al popolo; nella sua prassi vi troviamo spesso un pasto comune, un banchetto, associato ad un atto di culto, ovvero ad un sacrificio, che diviene un modo per sanzionare il carattere sacro dell'alleanza stessa. In senso specifico, a giudicare dal contesto storico-lessicale dell’AT, l’impiego che la Scrittura fa del termine (berith) — la cui radice è simile a quella di (biritu), e alla parola (birit) — potrebbe rimandare anche ad un accordo di vassallaggio fra un re ed un suo vassallo, e dunque essere compatibile con una certa asimmetria fra le parti in causa12. Anche seguendo questa lettura, sta comunque di fatto che l’idea che una divinità, la cui immagine, anche nell’esperienza di Israele, trascende quella di un re terreno, abbia l’iniziativa di stipulare un’alleanza con un popolo, non cessa di essere una novità singolare nel panorama delle religioni. La traduzione offerta dai LXX impiega quasi sempre il termine diaqeke, mettendo in luce soprattutto l’aspetto di mediazione e di unione, optando solo raramente per spondhv, che significa “comunità di mensa”, sebbene venga usato al plurale nel greco classico proprio per indicare patti, accordi, ed anche tregua o armistizio.

L'immagine del Dio dell'Alleanza

Il fatto che Jahvè sia protagonista di un'alleanza con gli uomini rivela l'immagine di Dio amorevole, rivolto all'uomo, desideroso di porsi in dialogo con lui. Allo stesso tempo un Dio potente, Signore della storia e del mondo perché capace di compiere ciò che promette; un Dio assolutamente fedele alle sue promesse, capace di attendere e di perdonare, di punire per convertire e salvare; un Dio Santo, perché allearsi con Lui implica per l'uomo vivere una legge e rispettare una dirittura morale.

Il Dio dell'alleanza è un Dio , soggetto di bontà e misericordia (hesed). Egli conserva l'alleanza perché conserva la misericordia verso il suo popolo: (N. Glueck). Una delle dimensioni della misericordia è dunque la fedeltà, cioè la sua proprietà di conservarsi stabile nel tempo, di essere leale al patto stipulato. La fedeltà-verità di Dio (emet) è sperimentata da Israele proprio nel contesto della sua misericordia-lealtà in rapporto all'alleanza. Molti dei termini che esprimono hanno come radice rhm, che rimanda al seno materno (rehem), ai sentimenti propri di una madre che genera e protegge. Una locuzione riepilogativa della natura e delle disposizioni del Dio dell'alleanza è quella frequentemente proposta dall'AT: (Es 34,6, cfr. anche Na 1,3; Gl 2,13; Sap 15,1; Sal 86,15; Sal 103,8, ecc.).

La disposizione di Dio verso l'uomo (alleanza) e verso il mondo (creazione alla luce dell'alleanza) rappresenta di fatto il cuore della rivelazione biblica, la (A. Deissler). «Il fondamento che rende possibile tale disposizione di Dio sono la sua trascendenza sul mondo e la sua assoluta personalità e libertà. Esse formano il mysterium tremendum biblico su cui prende il suo inaudito rilievo e il suo splendore estasiante il mysterium fascinosum di Dio che si piega verso l'essere creato»13.

L'alleanza fra Dio e gli uomini che l'AT ci presenta, non è assimilabile con i concetti di alleanza orizzontale realizzata fra gli uomini. È sempre un dono gratuito di Dio. Questa gratuità si manifesta nell'iniziativa che Dio ha nell'alleanza, nel suo collegamento con doni altrettanto gratuiti come le benedizioni e l'elezione dei suoi destinatari (Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, David, Maria), nel fatto che queste scelte divine corrispondono spesso a criteri che invertono le umane aspettative (donne sterili che partoriscono, diritti di primogenitura modificati, elezione dei deboli o dei più giovani). È significativo che nell'epoca dei profeti, quando il

12 Cfr. A BONORA, Alleanza, in NDTB, pp. 21-35; A. LEPORE, La berit nella duplice accezione di

obbedienza e di comunione, 42 (2001), pp. 867-890. 13 A. DEISSLER, L'autorivelazione di Dio nell'Antico Testamento, in , a cura di J. Feiner e M. Löhrer,

Queriniana, Brescia 19805, vol. III, pp. 309-310.

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termine berith assunse nel linguaggio profano un carattere accentuatamente legale, di natura contrattuale, il suo uso verrà alquanto limitato, proprio per salvaguardare la trascendenza di Dio. Alla fedeltà del dono di Dio, alla sua iniziativa che elegge e sceglie, corrisponde anche la fedeltà dell'uomo: è assai spesso quella di personaggi isolati e non dell'intero popolo, quella di un piccolo resto che rappresenta il popolo ed intercede per esso: Noè, Abramo, Mosè, Elia, Giona, David... Nel NT ritroviamo la fedeltà di Maria e di Giovanni al momento della fuga e dello sconcerto recati dal dramma della Croce.

Le alleanze con Noè e con Abramo e i suoi discendenti

Facendo astrazione dal primitivo rapporto con Dio dei nostri progenitori — in qualche modo anch’esso riconducibile alla categoria dell’alleanza — è con la figura di Noè che la Rivelazione introduce in modo solenne tale categoria. Nel contesto del nuovo ordine cosmico immediatamente successivo al diluvio universale, l'alleanza di Dio con Noè assume il carattere di una grande benedizione che sancirà la fedeltà del cosmo all'ordine stabilito da Dio. Noè non è chiamato a compiere promesse esplicite in questo patto. L'idea che l'umanità non debba ora più percorrere i cammini della corruzione e della malvagità, causa del castigo divino, resta solo implicita in tutto il contesto (Gen 9). Dei tre figli di Noè, Sem è soggetto di una particolare benedizione paterna.

È tuttavia con la vocazione di Abramo quando l’alleanza si radica, e le sue promesse e le sue esigenze si fanno progressivamente più esplicite. L’Alleanza viene collegata alla sua elezione come capostipite di un grande popolo. Il contesto non è tanto quello di un accordo reciproco quanto quello di un comando, di una scelta che avrà delle importanti conseguenze14. Dio elegge Abramo e promette di fare di lui un grande popolo nel quale saranno benedette tutte le famiglie della terra:

«Il Signore disse ad Abram: vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,1-3)

L'impegno assunto da Abramo di dirigersi verso la terra indicatagli da Dio, diviene poi esplicito impegno di adorazione di generazione in generazione, ed impegno di praticare la circoncisione come segno dell'alleanza:

«Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: “Eccomi: la mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò. E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re. Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne; sarò il vostro Dio”. Disse Dio ad Abramo: “Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra di voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell'alleanza tra me e voi» (Gen 17,4-11)

Il giuramento-promessa-elezione-alleanza di Dio con Abramo viene dunque rinnovato e confermato in più occasioni (cfr. Gen 15,5-6; 17,1ss; 22,15-18). Abramo obbedisce al comando del Signore e gli dimostrerà la sua obbedienza altre volte, in modo particolare nella drammatica prova che lo vide disposto a sacrificare suo figlio Isacco (Gen 22,1-18). L'alleanza divina viene rinnovata con Isacco (Gen 26,2-5) e con suo figlio Giacobbe (Gen 28,12ss; 35,9-12), sempre con i caratteri di un giuramento-benedizione-elezione. Rivelandosi ad Isacco, Dio loda Abramo

14 Come ricorda Danielou, «il carattere privilegiato di Israele non dipende affatto da una superiorità

naturale... esso appartiene al settore della elezione e si riallaccia ad una decisione storica di Jahvè. L’origine di Israele dipende unicamente dalla vocazione di Abramo... il popolo di Israele non appartiene al mondo della creazione, all’ordine naturale. Appartiene all’ordine della storia sacra, al disegno della salvezza» (J. DANIELOU, Au commencement. Gènese 1-11, ed. du Seuil, Paris 1963, pp. 103-104).

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per aver obbedito alla sua voce ed osservato tutto ciò che gli aveva prescritto, i suoi comandamenti e le sue leggi (Gen 26,5). L’eco di tale promessa attarverserà tutto il NT, introdotto dalle parole del Magnificat: (Lc 1,54-55).

L'alleanza sinaitica con Mosè ed il suo solenne contesto religioso e salvifico

Ma il contesto biblico più profondo e più solenne della rivelazione di Dio come Dio dell'alleanza è quello dell'Esodo. Con la sua rivelazione a Mosè e la liberazione di Israele dalla schiavitù dell'Egitto, le promesse divine progrediscono verso il loro compimento e si collocano in continuità con i giuramenti fatti ad Abramo, Isacco, Giacobbe (Es 2,24; Lv 26,42). Il contenuto dell'alleanza-promessa si arricchisce con l'impegno di introdurre Israele in una terra promessa e, soprattutto, l'alleanza viene associata alla consegna della legge: gli israeliti si impegneranno a vivere il Decalogo solennemente consegnato da Jahvè, e Jahvè si impegnerà a spianar loro il cammino verso Canaan (Es capp. 19-24). L'alleanza stipulata fra Dio e il suo popolo è ratificata dal banchetto sacrificale della cena pasquale che precede l'uscita dall'Egitto (Es 12,1-14) e, nel contesto della grande teofania che accompagna la consegna della legge, da un pasto consumato sul monte Sinai (Es 24,10-11).

Così riepiloga il Deuteronomio il valore della legge nell'alleanza sinaitica:

«Questi sono i comandi, le leggi e le norme che il Signore vostro Dio ha ordinato di insegnarvi, perché le mettiate in pratica nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso; perché tu tema il Signore tuo Dio osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così sia lunga la tua vita. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto» (Dt 6,1-3).

La legge può considerarsi come figlia primogenita dell’alleanza e resta sostanzialmente legata a due dati basilari: l’amore su cui si fonda e la santità verso cui indirizza (R. Fisichella). Ma la Legge stessa resta un dono di Dio: essa è per Israele fonte di libertà e segno distintivo che lo caratterizza come popolo di Dio davanti a Dio. L'osservanza della legge non è un mezzo o una controparte per guadagnarsi il rapporto con Dio, ma piuttosto la strada per poter vivere questo rapporto (E. Hamel). La legge legata all'alleanza è accolta da Israele veramente come , come una manifestazione della sua bontà e misericordia:

«La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice. Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi. Il timore del Signore è puro, dura sempre; i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell'oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante» (Sal 19,8-11)

La consegna delle legge mosaica costituisce una importante specificità della Rivelazione giudeo-cristiana, che colloca il popolo eletto in una condizione di assoluta singolarità rispetto agli altri popoli e, di conseguenza, colloca l'immagine di Jahvè in una condizione di assoluta singolarità (trascendenza e santità) rispetto alle immagini divine delle altre religioni. Come avvenuto con Abramo, l'alleanza fra Dio e il suo popolo verrà rinnovata più volte da Mosè e dal suo successore Giosuè. Così dopo l'episodio del vitello d'oro e la distruzione delle prime tavole della legge (Es cap. 34) e dopo l'entrata nella terra promessa (Gs cap 24).

Sempre nel contesto dell'alleanza con Mosè riveste un ruolo assai importante la rivelazione del nome di Dio (Es 3,7-15). Jahvè può dirsi a ragione 15. Il senso semita della radice hajah indica il verbo nella sua dimensione dinamica; nel suo significato più genuino — oltre all'offerta di intimità rappresentata dal — il nome di Dio JHWH vuole significare il fatto

15 «Il nome Jahvè è interamente il nome dell'alleanza. In esso Dio non vuole indicare innanzitutto la

sua essenza metafisica, bensì quela disposizione della sua esistenza che egli si è data come persona assolutamente libera in disponibilità di sé, decidendo di rivolgere il suo sguardo agli uomini — qui dapprima Israele — e di stabilire con essi un rapporto personale che la rivelazione chiama “alleanza”» (A. DEISSLER, L'autorivelazione di Dio nell'Antico Testamento, o.c., pp. 313).

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che Dio è presente stabilmente accanto ad Israele ed in favore di Israele: . Se il nome di Dio è nel cuore della natura di Dio in quanto rivolta all'uomo, nel cuore di questa natura vi è il desiderio di essere vicino all'uomo e con l'uomo, per sempre. Non sorprende che nel NT il nome di Dio fatto uomo, Gesù — cioè Jahvè è salvezza o Jahvè salva — sia in continuità con il nome biblico divino dell'alleanza.

Lo sviluppo storico dei contenuti associati all'alleanza

David si farà protagonista di un rinnovo dell'alleanza di Jahvè con il popolo eletto (2Sam 7). Anche in questo caso risaltano i caratteri della gratuità, sia per il modo con cui avviene l'elezione di David (1Sam 16,10-12), sia per la sproporzione fra ciò che David offrirà e ciò che Dio gli prometterà. A partire dal regno di David, le promesse-benedizioni divine si collegano esplicitamente ad una dinastia, appunto quella di David. È la promessa di un discendente nel quale il regno di Israele non avrai mai fine e sarà stabile per sempre. La rivelazione di Dio e la sua nuova benedizione vengono poste in continuità con la liberazione dall'Egitto e la costituzione di Israele come popolo di Dio (2Sam 7,22-25).

Con il ministero profetico di Geremia e di Ezechiele nel periodo dell'esilio babilonese, torna alla ribalta il tema dell'alleanza, ma con la promessa di una alleanza nuova, interiore, legata all'adempimento della legge nel proprio animo ed al rinnovamento dei cuori (Ger 31,31-33; Ez 36,26-27). Anche in questi contesti non mancano i caratteri della gratuità divina: è Jahvè che scriverà questa legge nei cuori, è Jahvè che rimuoverà un cuore di pietra per donare un cuore di carne ed infondere nei suoi eletti il suo stesso Spirito.

testo di Ezechiele 36,26-27

d) La Parola sapienziale

Come testimoniato dai contenuti della rivelazione divina relativi all’Esodo e alla Alleanza, parte importante della rivelazione del Dio di Israele ha come oggetto e contesto quella della vita morale. La dimensione morale della Rivelazione, rintracciabile anche in varie pagine della Genesi o dei Profeti, si esprime tuttavia in modo particolare nei libri sapienziali. Al di là della deuterocanonicità di alcuni di essi —il Siracide e il Libro della Sapienza, che la tradizione cristiana ha però accolto e fatto propri— è possibile individuare una rivelazione divina attraverso una parola o una tradizione sapienziale. Tale tradizione pare sorgere dalla confluenza di due fonti: a) il valore dell’esperienza di vita morale umana e b) il frutto di una riflessione teologica sulla creazione e sui doni divini (fra i quali la stessa santità della vita morale). Si tratta di un duplice versante che rende la tradizione sapienziale particolarmente adatta allo studio del rapporto fra la natura e la grazia, fra la creazione e l’alleanza, fra l’etica virtuosa e la santità morale frutto della grazia divina16.

In certa misura, le due precedenti fonti hanno un certo ordine cronologico. «Nella sapienza antica, l’accento era posto sull’acquisizione della sapienza attraverso una ricerca diligente condotta sul mondo dell’esperienza. Con l’andare del tempo tuttavia si è andato sviluppando sempre più un altro aspetto della sapienza, che pur senza rinnegare il ruolo dell’esperienza umana, considerava la sapienza come mistero che Dio stesso aveva immesso nella creazione. Perciò ogni sapienza è dono di Dio, che in una autorivelazione attiva chiama tutti gli uomini e le donne alla vita»17.

16 «E’ soprattutto per opera dei sapienti che la rivelazione entra tematicamente in dialogo con la

ragione e l’esperienza e il patrimonio culturale comune ai popoli circostanti. E’ molto interessante osservare che la Bibbia conosce non solo l’ascolto esplicito della parola di Dio, ma anche l’ascolto delle cose, dell’uomo, dell’esperienza e della ragione. E alla fine anche tutto questo è considerato parola di Dio» (B. MAGGIONI, Rivelazione, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, p. 1367).

17 B. CHILDS, Teologia biblica, Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 213.

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Attraverso la parola sapienziale, la Rivelazione divina pare giungere all’uomo ed esprimersi secondo tre grandi ambiti:

— la rivelazione nella preghiera e per mezzo della preghiera;

— la rivelazione della condotta morale che occorre seguire per vivere in pienezza la propria umanità, ovvero il progetto creatore di Dio nei confronti dell’uomo

— la rivelazione delle risposte ai grandi temi della vita umana: la vita, la morte, il male, ecc..

La tradizione sapienziale va considerata come una modalità coerente ed unitaria di trasmissione della Parola divina: essa non si identifica con la legge e, almeno per una certa parte dei libri in questione, vanta una antichità paragonabile a quella di altre tradizioni storiche di Israele. Essa manifesta che la Parola di Dio può comprendersi anche ascoltando le cose. Tale ascolto necessita raccoglimento e riflessione, anzi la parola stessa che viene ascoltata procede da tale riflessione. A differenza del profeta, al sapiente non viene consegnata o affidata una parola, ma gli viene richiesto l’impegno della meditazione e della ricerca, per trovare ciò che Dio vuol dire agli uomini: (Qo 1,13). (Prv 24,32). E la parola sapienziale conosce la stessa dinamica di libertà e di conversione propria di ogni parola di Dio rivolta all’uomo: di fronte alla rivelazione di Dio nelle sue opere e nella coscienza di colui che riflette, l’uomo può anche indurire il proprio cuore e non prestare ascolto alla voce di Dio che gli parla.

Con il passare del tempo si assiste tuttavia ad un certo “sviluppo” dell’idea di sapienza, non solo nel senso che la riflessione teologica completa e chiarisce quanto acquisito dall’esperienza di vita, ma anche perché la sapienza, pur non perdendo in universalità, comincia a legarsi prevalentemente ad Israele e alla Città Santa. Secondo la tradizione più recente del Siracide, la sapienza trova la sua abitazione e il luogo del suo riposo in Gerusalemme (Sir 24,11), essa è stata data ad Israele perché la custodisca, come parte del patto voluto da Dio con il suo popolo. Una sapienza che, come nel cap. 3 del profeta Baruc, appare in Israele e ha vissuto in mezzo agli uomini (cfr. Bar 3,38).

Dio si rivela nei contenuti del suo dialogo con l’uomo

L’uomo è chiamato fin dall’inizio della sua creazione al suo dialogo con Dio. Egli è capace di ascoltarne la voce e di rispondergli. Tale dialogo prende le forme della riflessione sapienziale e della preghiera. Dio comunica all’uomo le parole del suo dialogo con Lui, ciò che Egli vuole che l’uomo gli chieda, ciò che contribuisce alla santità e alla salvezza dell’uomo, ma anche ciò che concorre a condurre una vita retta e onesta, vissuta nella lode e nel rispetto del suo Creatore.

Nell’incontro con l’uomo che lo prega, Dio si rivela giusto e misericordioso (Gen 18,16-32; Es 34,5-8), desideroso di scendere fino al livello dell’uomo a conversare con lui (cfr: Es 33,11). Nella preghiera dei Salmi, la parola di Dio diventa parola dell’uomo: l’uomo manifesta la sua fede in Dio giusto e provvidente, al quale chiede protezione e conforto; al tempo stesso, pregandolo, l’uomo loda Dio insieme con tutto il creato e Dio si rivela come magnanimo, sapiente, glorioso. La preghiera rivela la fede dell’uomo nella fedeltà di Dio, e l’amore di Dio che ha compassione dell’umiltà e della contrizione dell’uomo.

«Ho sperato: ho sperato nel Signore ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido. Mi ha tratto dalla fossa della morte, dal fango della palude; i miei piedi ha stabilito sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi. Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, lode al nostro Dio. Molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore. Beato l'uomo che spera nel Signore e non si mette dalla parte dei superbi, né si volge a chi segue la menzogna. Quanti prodigi tu hai fatto, Signore Dio mio, quali disegni in nostro favore: nessuno a te si può paragonare. Se li voglio annunziare e proclamare sono troppi per essere contati. […] Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano, dicano sempre: "Il Signore è grande" quelli che bramano la tua salvezza. Io sono povero e infelice; di me ha cura il Signore. Tu, mio aiuto e mia liberazione, mio Dio, non tardare» (Sal 39,2-6.17-18)

Come nel Salmo 50, la preghiera diviene un luogo di rivelazione del valore morale delle azioni dell’uomo, perché Dio si rivela nella coscienza dell’uomo e lo muove alla conversione.

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La tradizione sapienziale della vita morale

La parola “sapienziale” è rivelazione di una specifica condotta morale, che esorta ad usare correttamente i beni della terra, ad impostare le relazioni fra gli uomini ispirandosi sia alla giustizia che alla carità, ad adempiere gli obblighi del proprio stato. Fra questi, rivestono importanza gli obblighi dei genitori verso i figli e dei figli verso i genitori (cfr. Sir 3,2-6.13-13 e 7,27-28; Prv 6,20-22). Significativo anche il richiamo, specie Libro dei Proverbi, al dovere di lavorare bene e con responsabilità, fuggendo la pigrizia e la stoltezza. Si biasima la figura del pigro, che considera il lavoro sempre troppo faticoso, non meritevole di sacrificio e di diligente applicazione, e finisce così in una situazione di penuria e di disprezzo da parte della società (cfr. Prv 6,6-11; 24,30-34 e 26,12-15). Riprovevole anche la figura dell'intrigante, che si dedica con soddisfazione a seminare zizzania fra le persone, allo scopo di trarne un qualche vantaggio personale, avendo poi come risultato il rapido e catastrofico precipitare della situazione: (Prv 6,15, cfr. 6,12-14).

Si può così delineare un vero e proprio ideale biblico di sapienza, che ha poi gradatamente elaborato tutti gli elementi di un vero umanesimo. Il concetto di sapienza coinvolge tanto la preoccupazione per una prassi attenta ai fatti terreni, quanto una elevata nozione della dignità umana e della sua promozione. I libri sapienziali dichiarano che la sapienza ha inizio con una confidente e riverente obbedienza a Dio: (Prv 1,7), o anche (Sal 110,10; cfr. Gb 28,28). Ma essi indicano anche che questo è solo il punto di partenza. Il raggiungimento di una simile virtù implica infatti una crescente disponibilità a partecipare della sapienza di Dio stesso da parte di coloro che vi si applicano. Nell'obbedienza a Dio si può allora comprendere, quasi per esperienza, che l'intera realtà è pervasa di un significato sapiente e profondo, la cui grandezza eccede la piena comprensione da parte dell'intelletto umano (cfr. Sal 103,24; Prv 3,19; Sir 42,21).

La sapienza può essere ottenuta solo come dono gratuito elargito da Dio stesso (cfr. Sap 8,21; Sir 1,10). Egli ha reso agli esseri umani il grande onore di costituirli custodi dell'intera creazione (cfr. Sal 8,3-8), ma ciò implica che essi possono rimanere all'altezza del loro compito soltanto nella misura in cui restano uniti alla stessa sapienza di Dio (cfr. Sap 9,1-2.17-18). Il dono della sapienza va chiesto con fervore a Dio (cfr. Sap 9,4-6.10-17; Sir 39,5): già solo richiederlo pone in maggiore intimità con Lui (cfr. Sap 7,27) e trasmette una incrollabile sicurezza di vivere in perenne comunione con Lui (cfr. Sap 15,3; Sal 16,8-11; 48,3.15 e 72,23-28). In breve, ottenere la sapienza coincide col pieno sviluppo della propria dignità (cfr. Sir 25,10), come viene attestato dai numerosi esempi, tratti dalla storia della salvezza, che i libri della Scrittura riportano (cfr. Sap c. 10; Sir cc. 44-50).

Tanto nella vita di relazione con gli altri, come nella vita personale, si riconoscono nella Parola sapienziale i tratti caratteristici delle virtù morali, giustizia, prudenza, fortezza e temperanza. Si tratta, in definitiva, della rivelazione di cosa rappresenti la saggezza. La rivelazione sapienziale si iscrive a pieno titolo nel rapporto fra rivelazione e salvezza, anzi lo esplicita. La vita morale dell’uomo, infatti, edificata sui comandamenti della Legge ma aperta ad una progressiva esplicitazione/completamento mediante le virtù umane e morali, è capace di condurre all’unione con Dio, è vita secondo Dio e, dunque, vita che conduce alla salvezza. La ricerca della Sapienza è essa stessa ricerca di Dio, possedere la Sapienza è vivere secondo Dio. Per questo motivo, la sapienza va cercata più di ogni altra cosa e, possedendola, si raggiunge lo scopo della propria esistenza.

«La Sapienza si è costruita la casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso gli animali, ha preparato il vino e ha imbandito la tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: "Chi è inesperto accorra qui!". A chi è privo di senno essa dice: "Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate la stoltezza e vivrete, andate diritti per la via dell'intelligenza» (Prv 9,1-6)

«Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, tendendo il tuo orecchio alla sapienza, inclinando il tuo cuore alla prudenza, se appunto invocherai l'intelligenza e chiamerai la saggezza, se la ricercherai come l'argento e per essa scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio, perché il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca esce scienza e prudenza. Egli riserva ai giusti la sua protezione, è scudo a coloro

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che agiscono con rettitudine, vegliando sui sentieri della giustizia e custodendo le vie dei suoi amici. Allora comprenderai l'equità e la giustizia, e la rettitudine con tutte le vie del bene, perché la sapienza entrerà nel tuo cuore e la scienza delizierà il tuo animo» (Prv 2,1-10)

«"A voi, uomini, io mi rivolgo, ai figli dell'uomo è diretta la mia voce. Imparate, inesperti, la prudenza e voi, stolti, fatevi assennati. Ascoltate, perché dirò cose elevate, dalle mie labbra usciranno sentenze giuste, perché la mia bocca proclama la verità e abominio per le mie labbra è l'empietà. Tutte le parole della mia bocca sono giuste; niente vi è in esse di fallace o perverso; tutte sono leali per chi le comprende e rette per chi possiede la scienza. Accettate la mia istruzione e non l'argento, la scienza anziché l'oro fino, perché la scienza vale più delle perle e nessuna cosa preziosa l'uguaglia"» (Prv 8,4-11.32-36)

La parola sapienziale e la rivelazione del senso dell’esistenza umana

Alla tradizione sapienziale biblica appartiene anche la riflessione sui temi centrali dell’esistenza, come il modo con cui affrontare la vita e la morte, il giusto valore da dare alle cose, la riflessione sul male e il travaglio dell’uomo che ne cerca risposta. Ma anche la rivelazione della vera natura dei sentimenti umani, conoscendo i quali è possibile orientare la propria vita emotiva, che diviene conoscenza di se stessi. La sapienza invocata dagli uomini saggi sta (Prv 14,8) in mezzo all'agitarsi delle cose, e dunque nel (cfr. Prv 28,26). Le numerose “regole di vita” presenti nei Proverbi e nel Siracide vogliono mettere in guardia l’uomo dalle seduzioni della vita e renderlo padrone dei suoi sentimenti.

Il libro del Qohelet si occupa di descrivere in modo realistico e perfino pessimistico la condizione della persona umana riflettendovi sopra: partendo dell’esperienza comune a tutti, sottolineerà la finitezza della creatura umana e la caducità di tutte le cose (cfr. Qo 2,1-11), lasciando implicito l’invito a cercare qualcosa di stabile e di più alto. Le grandi domande esistenziali dell’uomo vengono tutte a galla: il senso della vita e dell’attività che l’uomo svolge, il destino terreno del giusto e quello dell’empio, la ricerca costante della felicità, che termina per restare sempre frustrata. L’uomo percepisce l’infinita distanza che lo separa da Dio e dalla vera conoscenza di tutte le cose, rassegnandosi in una finitezza che non degenera però mai in disperazione, ma resta costitutivamente aperta al dono di Dio, l’unico a possedere le risposte che l’uomo inutilmente cerca. Si tratta di una riflessione che si colloca nel solco di altre riflessioni sapienziali extrabibliche, con un sua propria prospettiva religiosa, quella di un silenzio di Dio che pure si crede presente e si confessa creatore del mondo.

La domanda sul senso del male trova ampio spazio nel Libro di Giobbe, la cui non appartenenza diretta al popolo ebreo mette ancora più in luce il parallelo fra la rivelazione sapienziale e le domande che il giusto di ogni tempo si rivolge, cercandovi una risposta. Al male fisico, al di là della tentazione del pessimismo e della disperazione, si potrà rispondere lasciando agire la Provvidenza di Dio, purché si accetti con umiltà la prova della propria condizione umana e si resti capaci di riconoscere la presenza di Dio nel creato.

La Parola sapienziale fra Rivelazione e ragione

La tradizione sapienziale è in grado di legare la Rivelazione di Jahvè ad una ricerca e adorazione di Dio realizzate a partire dal creato, dalla natura e dai grandi temi dell’esistenza umana. Trattandosi di realtà sono sotto gli occhi di tutti, essa possiede pertanto importanti virtualità di dialogo fra le diverse tradizioni religiose della terra. Il legame fra il Dio di Israele e la tradizione sapienziale —una tradizione cui gli uomini potrebbero in certo modo accedere anche senza una conoscenza esplicita della rivelazione consegnata ad Israele— non è che un risvolto dell’accordo fra la parola rivelata nella storia e quella rivelata nella creazione. La rivelazione di Dio nella Sapienza appartiene alla logica del rapporto fra fede e ragione, come messo in luce dalla Fides et ratio, in particolare ai nn. 16-21.

«Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse» (n. 16).

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«Nella rivelazione di Dio ha potuto scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell'uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l'orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel “ timore di Dio ”, del quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo» (n. 18)

«I grandi inni sapienziali affrontano la questione ontologica della natura della razionalità universale del mondo, che i greci analizzavano in termini di Logos. Forse la migliore tradizione di questa riflessione si trova in Prv 8, in cui la sapienza è descritta come collaboratrice di Dio sin dall’inizio, che gioisce per la sua opera (cfr. Prv 8,22 ss). Questo passo solleva l’intera questione della sapienza come mediatrice dell’autorivelazione di Dio nel mondo»

Di fatto, è il legame fra tradizione sapienziale e riflessione sulla creazione, o meglio, il ruolo mediatore della sapienza in quanto tale nell’opera della creazione, a giustificare che si possa parlare davvero della sapienza come mediatrice della rivelazione di Dio nel mondo: «La sapienza diventa strumento in base al quale gli approcci di Israele alla realtà divina, molto diversi tra loro — tramite la rivelazione divina da un lato e l’esperienza umana dall’altro — possono essere armonizzati in maniera profonda, evitando di eliminarsi a vicenda. Non può dunque sorprendere il fatto che la sapienza fornisca strumenti nuovi per rapportare lo spirito umano a quello divino»18.

e) La Parola Profetica

La conservazione e l'approfondimento della Parola dell'Alleanza consegnata sul Sinai si realizza principalmente mediante la Parola Profetica. Profeta (nabi) è , . Le religioni extrabibliche conoscevano la figura del profetismo, ma essa era principalmente legata ai caratteri della chiaroveggenza, agli oracoli, alla possessione estatica o anche alla magia. L’idea di un richiamo morale, della memoria storica di un rapporto con la divinità o di una mediazione salvifica verso la divinità stessa è assai poco sviluppata: il profetismo extrabiblico non è tanto in relazione con la parola di Dio, quanto con l’ordine cosmico e la decodificazione delle sue leggi. Nella versione dei LXX, il termine nabi viene tradotto con profhvth", un concetto legato all’idea della proclamazione di una conoscenza, e non con manti", vocabolo riservato alla chiaroveggenza magica in quanto tale, e che i LXX faranno corrispondere all’ebraico qosem (mago). Ancor prima del profetismo in senso stretto Abramo, e soprattutto Mosè, possono essere considerati anche loro come Profeti poiché hanno adempiuto alla vera missione di un profeta, quella di parlare in nome di Dio (Dt 34,10).

Il rapporto fra il profeta e la parola di Dio

Dio manifesta al profeta i suoi disegni attraverso visioni, sogni, comunicazioni di immagini e di idee. Tuttavia queste manifestazioni puntano tutte alla consegna di una , che fa del profeta il protagonista di un'esperienza unica, quella di sperimentare la forza con cui la Parola si rivela e si impone: «Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: “non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nele mie ossa; mi sforzavo di contenerlo ma non potevo» (Ger 20,7.9; cfr. Am 6,7-8). Sono i momenti della vocazione del profeta quelli che metteranno maggiormente in luce la forza della parola divina, le sue esigenze, l'efficacia e la potenza con cui essa è capace di dirigere la storia (cfr. Ez 2; Gn 1; Ger 1, ecc.).

Il profeta possiede dunque una relazione assai speciale con la Parola di Jahvè: la Parola è in lui (Ger 5,13), è stata collocata nella sua bocca (Ger 1,9; 5,14), gli viene data come nutrimento (Ez 3,1-3), con un'energia ed un'efficacia che non dipendono da lui (Ger 1,4-10.18-19); la parola è stata ricevuta non per essere custodita in privato ma per essere trasmessa al

18 Ibidem, p. 214.

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popolo (Ez 7,1). Egli ha ascoltato direttamente la sua parola (Is 8,11; Ger 11,21; Ez 2,2), ed è come la bocca di Jahvè (Ger 15,19).

La personalità ed il ministero del profeta

Il profeta è un uomo di Dio e con la sua stessa vita offre una testimonianza religiosa di fedeltà alla Parola. Egli è mosso dalla Parola di Dio verso una predicazione che privilegia tre contenuti19:

— manifestare al popolo la conoscenza di Jahvè;

— fare memoria della fedeltà dell’alleanza;

— esortare al compimento della legge divina.

La sua personalità, totalmente condizionata dal rapporto con la parola divina, può così sintetizzarsi:

• Il profeta può considerarsi un esperto di Dio. Egli trasmette al popolo eletto la conoscenza di Jahvè non come contenuto di una dottrina concettuale astratta, ma come testimone vivo di una esperienza. Egli sperimenta la gratuità e l’intimità della chiamata divina (Am 7,14-15; Os 2,16), testimoniando la potenza della gloria di Dio (Ez 1,26-27) e il fascino della sua santità (Is 6,1-8). La sua prossimità a Dio è tale che egli ha assistito al consiglio di Jahvè (1Re 22,19-23; Ger 23,18.22),

testo di Isaia 6,1-8

• Il profeta è inviato per ricordare al popolo l’amore divino manifestato nell’elezione e nell’alleanza e di esortarlo ad essere fedele al patto stabilito con Dio. La coscienza monoteista del popolo di Israele viene rafforzata proprio da questa parola e non lascia più spazio a dubbi. Il ministero profetico si fa particolarmente pressante nelle epoche di corruzione e di crisi (Elia, Amos, Osea, Geremia, Giona), durante le prove della deportazione e dell’esilio (Ezechiele, Isaia, Daniele), al momento di intraprendere la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e restaurare il culto e la legge dopo il ritorno in patria (Neemia, Aggeo, Zaccaria, Gioele, Malachia).

• Il ministero del profeta assurge ad un vero e proprio compito morale di denuncia dell’iniquità, cosa che non di rado gli costerà il prezzo della propria vita. È mediante la parola dei profeti che Dio condanna la frode (Ger 22,13; Am 8,4-8; Mic 6,10), l’usura (Am 2,8), le ingiustizie verso i poveri, gli schiavi, gli indifesi (Is 3,15; Am 4,1-8; Ger 34,8-22):

Il profeta, memoria ed annuncio della storia

Un'ulteriore particolarità della parola profetica è il suo legame con la storia. La parola di Dio viene rivolta al profeta in un momento preciso della storia: (Zac 1,1; cfr. Ger 1,1-3; Am 1,1). Ne troveremo una eco nel NT al momento della predicazione del Battista: «Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,1-2).

Ma della storia il profeta diviene quasi la memoria vivente. Tutte le tappe decisive della storia di Israele sono precedute dalla parola: la creazione, il diluvio, la vocazione di Abramo, la continuità della sua discendenza in Isacco, la vocazione di Mosè e la liberazione dal paese

19� Cfr. R. FISICHELLA, La profezia come segno della credibilità della rivelazione, in “Gesù

Rivelatore”, a cura di R. Fisichella, Piemme, Casale Monferrato 1988, pp. 212-216.

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d'Egitto, la peregrinazione fino alla terra promessa, l'elezione dei re e dei profeti, la divisione del regno di Israele, la deportazione a Babilonia ed il ritorno in patria, la rovina di Gerusalemme, la comparsa del Messia. Tuttavia, attraverso la parola profetica Dio non solo annuncia la storia, ma anche la causa, la dirige e la interpreta. Il progresso nella conoscenza di Dio e dei suoi disegni verso il suo popolo è indissolubilmente legato agli avvenimenti della storia di Israele, avvenimenti che la parola di Dio annuncia, realizza, interpreta (R. Latourelle).

Attraverso la storia Dio guida il suo popolo, ma anche lo punisce e lo purifica mediante le difficoltà e le sciagure che deve affrontare, spesso presentate in modo paradigmatico quali conseguenza dell’infedeltà al vero Dio e della dimenticanza del suo amore. Compito del profeta è ostendere il senso di questa storia perché divenga pedagogia e consenta al popolo di convertirsi. ne offre un esempio la preghiera del profeta Daniele (cfr. Dan 9,3-19):

«Mi rivolsi al Signore Dio per pregarlo e supplicarlo con il digiuno, veste di sacco e cenere e feci la mia preghiera e la mia confessione al Signore mio Dio: "Signore Dio, grande e tremendo, che osservi l'alleanza e la benevolenza verso coloro che ti amano e osservano i tuoi comandamenti, abbiamo peccato e abbiamo operato da malvagi e da empi, siamo stati ribelli, ci siamo allontanati dai tuoi comandamenti e dalle tue leggi! Non abbiamo obbedito ai tuoi servi, i profeti, i quali hanno in tuo nome parlato ai nostri re, ai nostri prìncipi, ai nostri padri e a tutto il popolo del paese. A te conviene la giustizia, o Signore, a noi la vergogna sul volto, come avviene ancor oggi per gli uomini di Giuda, per gli abitanti di Gerusalemme e per tutto Israele, vicini e lontani, in tutti i paesi dove tu li hai dispersi per i misfatti che hanno commesso contro di te. Signore, la vergogna sul volto a noi, ai nostri re, ai nostri prìncipi, ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro di te; al Signore Dio nostro la misericordia e il perdono, perché ci siamo ribellati contro di lui, non abbiamo ascoltato la voce del Signore Dio nostro, né seguito quelle leggi che egli ci aveva date per mezzo dei suoi servi, i profeti. Tutto Israele ha trasgredito la tua legge, s'è allontanato per non ascoltare la tua voce; così si è riversata su di noi l'esecrazione scritta nella legge di Mosè, servo di Dio, perché abbiamo peccato contro di lui. […] Tutto questo male è venuto su di noi, proprio come sta scritto nella legge di Mosè. Tuttavia noi non abbiamo supplicato il Signore Dio nostro, convertendoci dalle nostre iniquità e seguendo la tua verità. […] Ora ascolta, Dio nostro, la preghiera del tuo servo e le sue suppliche e per amor tuo, o Signore, fà risplendere il tuo volto sopra il tuo santuario, che è desolato. Porgi l'orecchio, mio Dio, e ascolta: apri gli occhi e guarda le nostre desolazioni e la città sulla quale è stato invocato il tuo nome! Non presentiamo le nostre suppliche davanti a te, basate sulla nostra giustizia, ma sulla tua grande misericordia. Signore, ascolta; Signore, perdona; Signore, guarda e agisci senza indugio, per amore di te stesso, mio Dio, poiché il tuo nome è stato invocato sulla tua città e sul tuo popolo».

La promessa messianica e la progressiva interiorizzazione della legge e dell’alleanza

Infine, sarà proprio mediante i profeti che Dio rivelerà al suo popolo in modo sempre più esplicito la promessa di un Messia e l'annuncio di una futura salvezza (2Sam 7,1-16; Sal 2; Sal 110; Is 55,1-5; Is capp. 40-55; Mi 5,1-3; Ez 34,11-16.23-25).

La memoria della verità-fedeltà di Dio nell'alleanza sinaitica confluisce verso la predicazione di una nuova ed eterna alleanza (cfr. Is 55,3; Is 61,8):

«Ecco, verranno giorni — dice il Signore — nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, un’alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele, dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, die il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,31-34).

La salvezza viene ora compresa come purificazione dal peccato e come capacità di adempiere la legge di Dio; l’annuncio dell’epoca messianica, insieme con la promessa di eterna stabilità per Israele, puntano verso la rivelazione progressiva di uno stato di nuova e definitiva intimità di Dio con il suo popolo e con tutti i popoli della terra (Ez 36, 23-28; Ez 37,26-28; Mi 4,1-5). Questa definitiva presenza di Jahvè in mezzo al suo popolo è particolarmente esplicita in Ezechiele:

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«Poiché dice il Signore Dio: "Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutte le regioni. (..) Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare"» (Ez 34,11-12.15).

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4. L'incarnazione del Verbo in Cristo ed il suo mistero pasquale, compimento e pienezza della Rivelazione

La migliore introduzione alla centralità del Verbo incarnato nell'economia di tutta la parola divina è rappresentata dal solenne Prologo del vangelo di san Giovanni, letto alla luce delle sue risonanze veterotestamentarie:

e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli rende testimonianza e grida: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,1-18)

Si considerino, come spunti di commento, due fra i moltisimi testi in proposito, uno di sant'Agostino, in cui ne evidenzia le differenze con il Logos dei filosofi platonici, ed uno di san Giovanni della Croce, in cui presenta Gesù Cristo come parola definitiva totale ed esauriente di tutto ciò che il Padre abbaia mai voluto dire agli uomini.

testo da Le Confessioni, lib. VII, cap. 9;

testo da Subida al Monte Carmelo, lib. II, cap. 22, nn. 4-5

La centralità cristologica della Rivelazione è così esposta dalla Dei Verbum:

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Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio (ut intima Dei enarraret). Gesù Cristo, dunque, Verbo fatto carne, mandato come "uomo tra gli uomini", "parla le parole di Dio" (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera della salvezza affidatagli dal Padre. Perciò Egli, vedendo il quale si vede il Padre, con il fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di Sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua resurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito Santo, compie e completa la Rivelazione (Revelatione complendo perficit) e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana, dunque, in quanto è alleanza nuova e definitiva, non passerà mai e non è da aspettarsi nessun'altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo» (n. 4)

La Rivelazione divina ha nell'evento del Cristo la sua pienezza, tanto nel modo di realizzarsi come nella portata del contenuto. Cristo è la parola definitiva e più perfetta che Dio dirige all'umanità. Non soltanto perché, in quanto parola incarnata, è la parola più condiscendente pronunciata da Dio in favore dell’uomo, ma anche perché essa è la parola che interpreta, decodifica e rivela il vero senso di ogni altra parola pronunciata da Dio. In Cristo, la parola divina trova non solo la sua pienezza noetica (cioè la più alta rivelazione del suo contenuto concettuale), ma anche la sua pienezza ermeneutica (cioè la rivelazione del suo vero significato e del suo senso). Si tratta di una centralità che abbraccia tutto l’orizzonte storico-salvifico, perché interessa tutte le grandi categorie della rivelazione biblica, dall’elezione alla promessa, dall’alleanza alla legge, dalla creazione alla redenzione.

Questa singolarissima posizione del Cristo nell'economia della Rivelazione fa sì che in lui si realizzi ciò che la filosofia chiamerebbe un universale concretum: una conoscenza ed una salvezza normative, di carattere universale, si compiono nella concretezza e nella cornice visibile di un evento storico determinato. L'ineffabilità, l'inconoscibilità e l'universalità di Dio si concretano misteriosamente nella storia e nel tempo nel mistero del Cristo. Ciò che per il pensiero filosofico resterebbe un paradosso, cioè la coincidenza di e di diviene la legge fondamentale dell'economia della Rivelazione. Il prologo del Vangelo di Giovanni è il sunto solenne di questa economia: (Gv 1,18).

a) Cristo, pienezza della parola creatrice, centro e fine della storia del cosmo

Ciò che Dio manifesta attraverso la creazione, manifestazione che conserva una stretta relazione con la Parola, raggiunge anch'essa una sua pienezza nell'evento e nel dono dell'Incarnazione. Sebbene in modo meno intuitivo rispetto a quanto avviene nel compimento della parola dell'alleanza e della parola profetica, la Scrittura presenta Cristo-Gesù come pienezza anche della parola creatrice. A parte i testi che parlano del ruolo del Figlio, fatto visibile nella natura umana, come causa esemplare della creazione (Gv 1,3; Eb 1,2; Col 1,16; 1Cor 8,6), la pienezza in Cristo della parola creatrice si manifesta almeno sotto quattro aspetti:

— la creazione sussiste in Cristo ed è stata fatta in vista di Cristo: la manifestazione di Dio attraverso il cosmo è una certa preparazione dell'incarnazione della parola divina, e quindi preparazione di Cristo;

— l'umanità di Cristo è pienezza della creazione, è la realtà creata più perfetta e più rivelatrice della grandezza di Dio;

— in Cristo si rende già possibile la logica di una nuova creazione, che egli inaugura e conduce misteriosamente al suo compimento escatologico mediante la sua resurrezione gloriosa.

— la storia della creazione ha raggiunto nel mistero dell’Incarnazione un suo punto focale, una , in quanto a partire da Cristo è possibile leggere il senso cui la storia tende, interpretare il suo passato e comprendere la logica del suo futuro.

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Questo collegamento in Cristo fra la pienezza della parola creatrice e la pienezza della Redenzione non porta ad una necessaria connessione fra creazione ed Incarnazione, né toglie gratuità alla realtà della redenzione; essa pone solo in evidenza che, nell'unica economia storica che conosciamo, quella segnata dal nostro peccato di origine, fra creazione ed Incarnazione debba esistere una corrispondenza già prevista nei piani di Dio. L'averci scelti, creati ed eletti nel Suo Figlio unigenito, porta con sé la disponibilità gratuita della S.S. Trinità a restaurare in noi, proprio mediante l'umanità creata del Verbo, l'immagine divina offuscata dal peccato, e a rivelare per noi, proprio nella missione visibile del Dio fatto uomo, quale ne fosse tutta l'originaria bellezza. Così lo spiega sant'Atanasio:

«Perciò, dovendo fare questa esposizione [l'incarnazione del Verbo], conviene che prima parliamo della creazione dell'universo e di Dio suo creatore, affinché si possa comprendere adeguatamente che il rinnovamento di esso è stato compiuto dal Verbo che lo creò all'inizio. Infatti, non si vedrà alcuna contraddizione se il Padre ha operato la salvezza dell'universo in colui per mezzo del quale lo ha creato» (De Incarnatione Verbi, n. 1)

Una storia della salvezza che chiami in causa la logica dell'Incarnazione del Verbo e le sue conseguenze sul piano della creazione prima dello sviluppo di una storia di peccato e di redenzione, non introduce alcuna necessità nella volontà divina, ma vuole solo porre in luce la coerenza logica del suo disegno, la fedeltà di Dio a Se stesso, ai suoi liberi piani di amore, alle sue promesse; mette in rilievo la logica della rivelazione che vi è associata, quella di un amore infinito, perché amore di misericordia e di perdono20.

La creazione sussiste in Cristo ed è stata fatta in vista di Cristo

Uno dei luoghi biblici di maggior interesse riguardo il ruolo del Cristo nella creazione è quello dell'inno raccolto nella Lettera ai Colossesi 21. Questa pagina ci presenta Cristo nel cuore del progetto divino della creazione e della salvezza secondo un triplice coinvolgimento: e, ancora, (Col 1,16). Vi è una certa somiglianza con una analoga formula di fede presente nella 1ª Corinzi: (1Cor 8,6).

Affermare che tutte le cose sono state fatte in vista di lui, pare rivelare che la creazione punti verso l'umanità del Verbo come si punta verso un apice, verso la sua espressione più perfetta. Il carattere dinamico di questa espressione è presente nel greco (eivı aujtovn), che il latino della Neovolgata traduce con in e l'accusativo: omnia in ipsum creata sunt. Ci troviamo di fronte ad un'indicazione di unità e di coerenza di tutto il piano divino, di come la persona dell'Uomo-Dio sia capace di esprimere e rivelare in Sé tale coerenza: è il mondo ad essere per Cristo e non Cristo per il mondo.

Dal punto di vista teologico ciò implica l'affermazione della di Cristo, cioè la presenza del mistero del Verbo incarnato già nell'alba della creazione divina. La Scrittura afferma che Colui che rende visibile ciò che in Dio è arcano e invisibile, (Col 1,17) ed (Col 1,15). Con queste espressioni non si afferma che egli sia stato creato per primo, né che sia il principio temporale da cui abbia avuto origine la serie di tutte le creature; si afferma piuttosto la sua peculiarità, una sua preminenza quale mediatore universale di tutto ciò che è chiamato in essere con la creazione. Il Cristo predicato da Giovanni preesiste alla creazione perché (cfr. Gv 1,1; 1Gv 1,1); perché l'amore che lega questo Figlio a Dio suo Padre (cfr. Gv 17,5.24). Anche per Pietro, testimone con Giovanni della gloria del Tabor, Egli (1Pt 1,20).

20 Si consideri in proposito una pagina dell’enciclica di Giovanni Paolo II, Dives in misericordia:

«Se, infatti, la realtà della redenzione, nella sua dimensione umana, svela la inaudita grandezza dell’uomo, qui talem ac tantum meruit habere Redemptorem, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci consente, direi, nel modo più empirico e “storico”, di svelare la profondità di quell’amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fin dal “principio” scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria» (n. 7)

21 Cfr. E. LOHSE, Le lettere a Filemone e ai Colossesi, Commentario Teologico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1979, pp. 108-130.

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La posizione del Cristo come senso finale dell'opera divina della creazione fa sì che il mistero della sua Incarnazione non sia celebrato solo in riferimento a (Gv 1,1-3), ma anche in ciò che sarà alla fine (1Cor 15,28; Col 3,11). Nel progetto della creazione, solo lui può essere, in qualche modo, nel principio e nella fine, nell’Alfa e nell’Omega, come indicato dalla visione apocalittica dell’Agnello (Ap 1,8; 21,6). La sua mediazione nel principio è tale che (Gv 1,3), perché Egli (Eb 1,2-3). La sua mediazione nella fine si manifesta nel suo ruolo di giudice e, come vedremo poco più avanti, in quello di erede finale di una creazione redenta e ricapitolata in Lui. Riferendosi a questa peculiare posizione del Verbo incarnato, Massimo il Confessore suggeriva che per cercare la verità dell'uomo e delle cose non bisognava guardare indietro, ma avanti, per trovare così quale fosse il vero punto di partenza del piano divino:

«Cercando il suo fine, l'uomo incontra il suo principio, che è là, dove si trova il fine... Non bisogna, come ho già detto, cercare il principio indietro, ma bisogna rilevare il fine che è in avanti, per conoscere il principio nascosto nel fine; quel fine che l'uomo non ha saputo intravedere al principio»22.

L'umanità di Cristo, pienezza della creazione

Se tutto è stato fatto in vista di Cristo, la realtà creata dell'umanità del Verbo si presenta allora come l'opera divina più perfetta. La Lettera ai Colossesi lo esprime dicendo che (Col 2,9). Nel corpo glorioso di Cristo si ricapitola e si rivela tutto il mondo divino, a cui appartiene la natura increata della sua Persona divina, ma anche tutto il cosmo, cui appartiene la sua natura umana creata, poiché la pienezza della divinità abita in lui corporaliter, nella concretezza della sua corporeità. Non si tratta di una pienezza cosmologica, come nella tradizione greca, dove il cosmo costituisce il corpo stesso della divinità, bensì di una pienezza soteriologica, che esprime compiacimento, pace, riconciliazione.

La Scrittura aveva già presentato una certa capitalità dell'uomo sulla creazione. Egli viene collocato al vertice dell'opera divina dei sei giorni, creatura più perfetta perché immagine di Dio e capace di riassumere in sé la coesistenza delle due dimensioni spirituale e corporale, quasi una sintesi di tutto il mondo creato. Così lo aveva espresso il Concilio Lateranense IV: «[Credo in unum Deum] Creator omnium visibilium et invisibilium, spiritualium et corporalium: quia (...) de nihilo condidit creaturam, spiritualem et corporalem, angelicam videlicet et mundanam: ac deinde humanam, quasi communem ex spiritu et corpore constitutam» (DS 800). «Unità di anima e corpo — dirà sette secoli dopo la Gaudium et spes — l'uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi, attraverso di lui, toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore» (n. 14).

Una tale capitalità viene assunta e portata a pienezza in chiave cristocentrica, perché Cristo viene predicato non solo come vera e perfetta immagine del Padre, ma anche come immagine del vero uomo di cui il primo Adamo era figura (Rm 5,14). In lui non è più una sintesi di spirito e materia a venire espressa, bensì l'unione ipostatica ed inconfusa di una Persona divina con una natura umana corporale e spirituale: (Simbolo pseudo-Atanasiano, DS 76).

Il significato rivelatorio dell'umanità del Verbo incarnato è dunque quello di chi, svelando il volto dell'uomo perfetto nei piani di Dio, esprime in modo perfetto anche tutta la creazione, della quale l’uomo era stato messo a capo. Questa pienezza non viene esercitata solo mediante la sua divinità, cioè per mezzo della sua mediazione creatrice quale Verbo generato prima di ogni cosa, ma ora anche mediante la sua vera e perfetta umanità.

La nuova creazione in Cristo

Cristo, nel quale sono state fatte tutte le cose, diviene per noi mediatore universale anche di una nuova creazione, quella inaugurata con la sua resurrezione gloriosa. Si tratta di un rinnovamento che è mistericamente già dato, già presente nella Chiesa come segno e

22 SAN MASSIMO IL CONFESSORE, Quaestiones ad Thalassius, 59 (PG 90,631).

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sacramento universale di salvezza, ma non ancora realizzato, perché impegnerà il corpo mistico di Cristo in un’economia sacramentale che durerà fino alla fine dei tempi.

La corrispondenza fra la prima creazione e la nuova creazione è ben simboleggiata dalla domenica di Pasqua, alba della Chiesa e primo giorno della creazione genesiaca. Avendo come riferimento l’umanità trasfigurata di Cristo risorto, la nuova creazione non distrugge, ma trasforma la creazione precedente. Fra le due nozioni vi è certamente discontinuità, ma anche continuità: è la ricostruzione di un ordine originario del quale ora si scopre quale fosse il vero senso. All’idea di una nuova creazione vi sono associati essenzialmente due contenuti:

— la sottomissione definitiva di tutto il creato a Cristo, con speciale riferimento alla vittoria sulla morte;

— una ricapitolazione universale che ha come finalità riordinare, instaurare e condurre tutte le cose al Padre nello Spirito.

Per quanto riguarda il primo contenuto, la Scrittura afferma che Cristo è stato (Eb 1,2; cfr. Rm 8,17); tutte le cose sono state destinate a questa sottomissione (Ef 1,22) perché occorre che alla fine della storia (1Cor 15,28). Primogenito di coloro che risuscitano dai morti, con la sua resurrezione ottiene un primato cosmico che ha il senso della vittoria sulla morte. Si tratta di una capitalità marcatamente salvifica, che si estende sul corpo di cui Egli è il capo (kefalhv), cioè la Chiesa (Col 1,18).

Manifestazione e garanzia definitiva di questa sottomissione del creato, che ha il carattere di una riappacificazione universale, è dunque la sua resurrezione gloriosa, i cui frutti salvifici si rivelano già ora nella vita dei credenti:

(Ef 2,6-7);

«Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con Lui nella gloria» (Col 3,1-4).

È in forza della sua resurrezione che Egli può far vivere nel suo Corpo mistico le primizie di questa nuova economia-alleanza, capacitandolo a riconsegnare al Padre una creazione rinnovata nello Spirito (Fil 3,20-21; 1Cor 15,28; Rm 9,5; Col 3,11; Ef 4,6). Quest’ultima, attende con impazienza una trasfigurazione finale, in cui la vittoria sulla corruzione della morte sarà estesa ad ogni creatura, e sarà definitivamente rivelata e portata a pienezza l’immagine di una filiazione universale (Rm 8,19-22).

Il secondo contenuto associato alla , quello della ricapitolazione, come è noto, ha il suo brano scritturistico principale nel prologo della Lettera agli Efesini:

«[Egli] ci ha fatti conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in Lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,9-10).

Il sostantivo ricapitolazione (ajnakefalaiwvsiı) comprende il termine kefavlaion (cima, capitolo) oppure kefalhv (capo), e la preposizione ana (=ri) che indica di nuovo oppure verso l'alto. Pertanto, nell'espressione biblica (ajnakefalaiwvsasqai tav pavnta ejn tw` Cristw`) convergono i due significati di ridare un capo ed erigere, probabilmente non in modo alternativo, ma indicando ambedue le cose in uno stesso accadimento23. Si vuol significare che in Cristo:

23 Cfr. H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, o. c., p. 90.

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— sono contenute, ricapitolate a modo di riassunto, tutte le cose, in primo luogo le opere salvifiche di Dio;

— in Lui tutte le cose sono restaurate o instaurate, cioè fondate;

— ma anche il fatto che in Cristo ogni cosa ritrova un capo o deve essere posta sotto la sua sovranità; cioè, vi si contiene anche quell’idea di sottomissione universale che abbiamo già esplicitato.

Questa ricapitolazione universale del Cristo ha un'influenza cosmica: essa comprende le cose che sono (Col 1,16; cfr. Ef 1,11), quelle del secolo presente e quelle del secolo futuro (Ef 1,21).

Cristo, centro del tempo, entra nella storia ma trascende la storia

Per comprendere la nozione teologica di una , occorre riflettere che questa non dipende solo dallo scorrere cronologico degli eventi temporali, ma soprattutto dalla modalità con cui Dio irrompe nella storia. Non si può comprendere la verità del tempo ignorando che esso ha una struttura sacramentale, cioè misterica.

Nel Cristo, pienezza della Rivelazione, si potrà dunque leggere anche una pienezza del senso di tutta la storia. In questi termini ne parlano infatti il libro dell'Apocalisse, nel quale il Cristo glorioso viene indicato come l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine, Colui che era, che è e che viene (Ap 1,8; 21,6), e la lettera agli Ebrei, che ci presenta un sacerdozio eterno, capace di esercitare una mediazione definitiva perché eternamente attuale (Eb 13,8).

Che rapporto c'è fra la natura cronologico-progressiva del tempo e la pienezza dei tempi recata dal mistero di Cristo, quale evento salvifico che si manifesta e si compie in un luogo e in un tempo determinati? Nello studio di questo rapporto va tenuto presente che il mistero del Verbo incarnato entra nella storia con la concretezza temporale dell'annunciazione a Maria, della sua vita umana in Israele al tempo del re Erode, della sua passione e morte sotto Ponzio Pilato, ma allo stesso tempo la trascende, come la trascende il corpo glorioso di Gesù, che risorge dai morti e ascende alla destra del Padre.

Nel linguaggio del NT il termine tempo viene indicato con crovnoı (corrispondente al termine ebraico eth) oppure con kairovı (corrispondente all'ebraico zemán). Il primo indica un tempo quantitativo, cioè la semplice durata temporale, mentre il secondo indica un tempo qualitativo, cioè un tempo opportuno, propizio, come lo è un tempo specialmente salvifico. Con l'evento dell'Incarnazione, Cristo compie la pienezza dei tempi, sia sotto l'aspetto qualitativo che quantitativo. Il compimento qualitativo è testimoniato dalle parole di Gesù nel Vangelo di Marco all'inizio della sua vita pubblica: (Mc 1,15); è ugualmente pienezza dei tempi quella che corrisponde all'economia del disegno salvifico del Padre (eijı oijkonomivan tou` plhrwvmato" twvn kairw`n) di ricapitolare in Cristo tutte le cose (Ef 1,10). Il compimento quantitativo è presente nell'insegnamento paolino che (Gal 4,4).

Cristo, compimento qualitativo e pienezza cronologica della storia

Affermare che in Cristo il tempo raggiunge la sua pienezza qualitativa vuol dire che, in Lui, Dio ci ha detto tutto, perché nel suo Figlio fatto carne Dio ha detto Se stesso. In Cristo si dà il compimento della promessa, l'alleanza definitiva, e dopo di Lui non c'è da attendere nessun'altra rivelazione divina. In Lui l'offerta e la risposta divine divengono le più grandi possibili. Il silenzio di Cristo Gesù sulla croce, morto per amore nostro, è la parola definitiva del Padre all'uomo e al mondo. La missione dello Spirito non avrà per compito aggiungere altre parole alla Rivelazione, ma condurre alla profondità della verità la Parola consegnata in Cristo: per questo, la missione dello Spirito è rendere costantemente presente il rapporto che il Figlio ha col Padre (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6), mettere sulla bocca dei credenti la parola del Figlio (1Cor 12,3), e ripetere alla Chiesa-Sposa, fino alla fine dei tempi, (Ap 22,17.20).

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Ma il Verbo fatto carne reca con Sé anche una pienezza cronologica, cioè quantitativa, della storia. Questo non vuol dire che il tempo e la storia si siano conclusi 20 secoli fa, ma piuttosto che la storia successiva all'evento terreno del Cristo non guarda a Lui come ad un passato, bensì come ad un continuo presente. Cristo, che (Eb 13,8), grazie alla redenzione compiuta nel suo sangue, diventa presente in ogni epoca e contemporaneo ad ogni uomo che viene alla vita. Ogni uomo, nel mistero della sua vita, della sua debolezza e della sua morte, ha come compagno di viaggio Gesù e il suo mistero perché (Gaudium et spes, 22).

La prospettiva sacramentale del tempo cristiano è pienamente in accordo con la sacramentalità della Chiesa il cui fine è appunto rendere presente il Cristo in ogni epoca, mediante l'attualità della predicazione della Parola e l'attualità salvifica dei sacramenti. Avendo sempre con sé Cristo ed essendo il Suo mistico corpo, la Chiesa è insieme nel tempo e fuori del tempo, attualizzando con la sua vita l'eterno presente del suo Sposo-Salvatore (Ef 1,22-23). Tale tensione fra presente e futuro è paradigmaticamente riassunta nel sacrificio della S. Messa. L'Eucaristia celebrata sui nostri altari non è un sacrificio diverso da quello compiuto da Cristo sulla croce, né coinvolge un diverso sacerdote o una diversa vittima. La Messa riattualizza e ri-presenta nel tempo il medesimo sacrificio salvifico del Venerdì Santo, illuminando tutta la storia precedente e successiva con l'attualità di quella salvezza. L'autore della lettera agli Ebrei mette in luce con straordinaria chiarezza la sovra-temporalità e la perenne attualità del sacrificio di Cristo: «Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi (ejpiŸ sunteleiva tw`n aijwvnwn = nella consumazione dei secoli), è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,24-26). La nuova alleanza, a differenza dell'antica, è eterna, e si compie in un sangue che non è asperso su Israele, ma è versato per tutti.

Il tempo che ci separa dalla Parusia non è tempo di progresso, ma tempo di compimento escatologico. Alla fine dei tempi si raggiungerà in modo manifesto ciò che una volta per tutte ci è stato già dato e ciò che Cristo ha già conquistato con la sua morte e resurrezione. La novità della Parusia non sarà novità essenziale. La nuova creazione non dipende da altro mistero che da quello del Cristo (Ap 21,5-6). I cieli nuovi e la terra nuova non appartengono ad una nuova economia salvifica, ma sono la pienezza escatologica dell'era messianica; sono lo stato di una creazione riappacificata con il Padre da Cristo, nel suo sangue (Col 1,20); sono la condizione di una creatura già concepita che deve venire alla luce (Rm 8,22-23); sono la situazione di un mondo già ricapitolato in Cristo, che deve essere ricondotto al Padre dal Figlio nello Spirito (Ef 1,9-10); sono le primizie di uno Spirito che ci è stato già dato e che ci appartiene come caparra della nostra eredità (Ef 1,13-14).

b) Cristo, compimento della parola dell'alleanza

Una nuova ed eterna alleanza

Nell'evento dell'Incarnazione, l'idea e l'offerta di una Alleanza fra Dio e gli uomini trovano la massima espressione concepibile. Dio non solo viene incontro all'uomo ma si unisce a lui, assumendo la natura umana creata. Il luogo del NT ove si espone in modo particolare tale pienezza è la Lettera agli Ebrei. La logica di questo documento è ribadire la superiorità di questa nuova alleanza nella superiorità del sacerdozio di Cristo, l'unico capace di soddisfare pienamente la lode ed il culto dovuto a Dio. Il suo sacrificio mediatore viene messo in relazione esplicita e diretta con la nuova alleanza profetizzata da Geremia:

«Ora invece egli ha ottenuto un ministero tanto più eccellente quanto migliore è l’alleanza di cui è mediatore, essendo questa fondata su migliori promesse. Se la prima infatti fosse stata perfetta, non sarebbe stato il caso di stabilirne un’altra. Dio infatti, biasimando il suo popolo, dice: “Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele e con la casa di Giuda un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri, nel giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto; poiché essi non son rimasti fedeli alla mia alleanza, anch’io non ebbi più cura di loro, dice il Signore. E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa

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d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: Conosci il Signore! Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro. Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati”. Dicendo però alleanza nuova, Dio ha dichiarato antiquata la prima; ora, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a sparire» (Eb 8,6-13)

Come il nome di Jahvè era per antonomasia nome dell'alleanza salvifica, così quello di Gesù, il cui significato è , ne eredita tutta la forza del contenuto.

L’offerta dell’alleanza sinaitica aveva come risultato porre il popolo eletto in una nuova relazione con Dio, quella di una filiazione: (Dt 14,1-2; cfr. Es 4,21-23; Dt 8,5). La consapevolezza di questa filiazione viene riconfermata nel rinnovo della promessa di salvezza fatta a Davide (2Sam 7,14) ed acquista nella letteratura sapienziale i caratteri della bontà, della generosità e della misericordia (Sir 23,1, 51,10; Sap 2,16), per raggiungere poi toni di grande tenerezza nei profeti (Ger 31,20; Os 11, 3-4). È tuttavia nel NT dove viene offerta ai credenti l'intimità di una vera e propria adozione filiale, partecipazione della filiazione naturale del Figlio di Dio fatto uomo, fondata sulla compartecipazione del suo stesso Spirito (Rm 8,23; Gal 4,4-6).

L'alleanza veterotestamentaria veniva sancita dall'effusione del sangue. È il sangue dell'agnello pasquale senza difetti, che nella vigilia della prima Pasqua assicurava la salvezza dallo sterminatore e preannunciava l'inizio dell'Esodo (Es 12,5-7 e 12,21-24); è ancora il sangue asperso sul popolo nei rinnovi dell'alleanza sinaitica realizzati lungo la peregrinazione nel deserto (Es 24,6-8). L’alleanza realizzata da Cristo, assume il carattere di una riconciliazione nel suo sangue e viene detta (Lc 22,20; 2Cor 5,18-21; Col 1,19-20). La forza di tale alleanza sta nella capacità di rinnovare-riconciliare tutta la creazione e di fare dell’uomo stesso una nuova creatura. Cristo Gesù è l’Agnello immolato al centro della visione apocalittica di Giovanni, che conserva i segni del suo sacrificio e che, nel fare nuove tutte le cose, rinnova lo status del rapporto fra Dio e gli uomini (Ap 21,4-5).

L'intera categoria del sacrificio, di cui l'effusione del sangue è segnale pregnante, trova nella parola fatta carne un nuovo motivo di pienezza e di compimento. Sacrificio esterno, ma anche interno, come lo era fin dall'inizio la richiesta morale di vivere la legge associata all’alleanza. Lo sottolinea, ancora una volta, uno dei temi portanti della Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 10,1-24):

— il vero sacrificio non è quello associato all’antica legge, ma la croce di Cristo; a tale sacrificio corrisponde una nuova legge, l’unica che ha il potere di condurre alla perfezione (Eb 10,1);

— è il sacrificio del proprio corpo, non quello di capri o di agnelli (Eb 10,5-8);

— coloro che sono santificati da questo sacrificio, vengono ad esso associati, lo vivono nelle loro vite, ottenendo così il perdono dei peccati, una purificazione del cuore, capace di guidare un operare morale retto e sincero (Eb 10,19-24).

In maniera simile anche l'analogia sponsale, tipica dell'offerta dell'alleanza nell'AT, violare la quale era considerato per il popolo di Dio infedeltà e prostituzione (Es 20,5; Is 43,4; Is 49,15; Is 54, 7-10; Ger 31,20; Os 2,21-25), trova nel Cristo la sua piena significazione. Cristo è il vero sposo della Chiesa, uno sposo che incarna tutto l'amore del Dio Israele verso il suo popolo e rivela fino a quale estremo l'amore condiscendente di Dio era capace di spingersi (Ef 5,22-32). In definitiva, l'alleanza fra Dio e il suo popolo è ora così stretta come è stretta l'unione fra il Cristo e il suo medesimo corpo che è la Chiesa (1Cor 12,12-13.27).

In Cristo, dunque, non è solo la forma, ma anche il contenuto stesso dell'alleanza a raggiungere la sua pienezza, cioè la verità-fedeltà di Dio, la sua misericordia e il suo perdono, la sua giustizia e il suo amore per gli uomini (Gv 3,16-17). Dando al mondo il suo unico Figlio, Dio dona Se stesso.

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Cristo pienezza e compimento delle promesse legate all’elezione e all’alleanza

Cristo manifesta nella sua persona e nella sua opera di redenzione la cifra di quella eredità promessa di cui era depositario il popolo eletto, superandone le attese. Il NT ci rivela che la nostra eredità è ora la stessa del Figlio (Rm 8,17), anzi il Figlio stesso, insieme col quale riceviamo tutto il resto, perché Colui che non ha esitato a risparmiare per noi il suo unico Figlio, si è impegnato a darci insieme a Lui ogni altra cosa (Rm 8,32). Si tratta di un compimento e di una eredità meritataci grazie al suo mistero pasquale: (Eb 9,15).

Nell'economia dell'alleanza veterotestamentaria era presente la promessa di una numerosa discendenza, estesa quanto le stelle del cielo, nella quale sarebbero stati benedetti tutti i popoli della terra. Con la sua redenzione universale, il Cristo dà compimento definitivo a questa promessa mediante la formazione del nuovo popolo di Dio, unendo nel sacrificio del suo sangue ogni razza, stirpe e nazione. La Lettera agli Efesini parlerà del mistero compiutosi nel Cristo di riunificare i due popoli (eredi della promessa e gentili) in un solo popolo (Ef 2,10-22; cfr. anche Col 3,9-11), fino a radunarli in un unico corpo che è il suo stesso Corpo, cioè la Chiesa (Ef 1,22-23; Col 1,18; 1Pt 2,9-10). La portata di questo disegno unificante è assolutamente universale perché tutti, senza eccezione alcuna, sono stati creati ed eletti figli nel Figlio per formare il nuovo Israele, secondo una discendenza ove la circoncisione che ne sancisce l’appartenenza sarà quella del cuore.

«Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo. Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (Ef 2,10-18)

L'esperienza della liberazione, così fortemente connessa alla coscienza di Israele come popolo ed alla sua alleanza con Jahvè, diviene ora esperienza di perdono e liberazione dal peccato e dalla morte. Cristo, Verità in persona, libera dall'ignoranza e dall'errore (Gv 8,31). Nelle lettere ai Romani e ai Galati, è liberazione dalla schiavitù di un'osservanza estrinseca della legge, per orientarsi definitivamente verso una nuova legge che può realizzarsi solo nella libertà dell'amore. Esperienza di perdono e di liberazione per coloro che il peccato aveva condotto a non essere più il popolo di Dio,

Il sacerdozio levitico e la speciale relazione che esso implicava fra una parte del popolo e Dio, viene ora assunto e trasfigurato nel nuovo sacerdozio della nuova legge, esteso a tuttto il popolo di Dio, partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo: (Cfr. anche Lumen gentium, n. 9).

Infine, sebbene la promessa di un Redentore non entrasse direttamente nell'economia dell'alleanza, in Cristo questa promessa si compie in un modo inaspettato per Israele, con la presenza stessa di Dio in mezzo al suo popolo. È Dio stesso questo Redentore, è il Padre a caricare sulle spalle del suo unico Figlio i peccati di tutti gli uomini.

In una delle sue Catechesi battesimali, s. giovanni Crisostomo riepiloga in modo sintetico le opere e la logica dell’antica allenaza, guidata da Mosè, condotte ora in pienezza nelal nuova alleanza, realizzatasi in Cristo Gesù:

testo di s. Giovanni Crisostomo, Catechesi battesimali, VII, 23-27

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Cristo rivela la pienezza della legge nel precetto della carità

Cristo porta a compimento e a perfezione la legge sotto molteplici aspetti. In primo luogo aggiunge alla legge sinaitica la grazia interiore necessaria per viverla. La giustizia di cui il Decalogo si faceva memoria, non era pienamente percorribile dall'uomo peccatore, ma diviene ora un cammino possibile grazie all'esempio di Cristo e al dono interiore dello Spirito: «Ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi» (Rm 8,3-4). La nuova legge non è solo insegnamento, ma anche grazia per compierla. Secondo l'espressione di san Tommaso: (S. Th. I-II,106,1,c). Si realizza pertanto la profezia di una nuova legge posta nel cuore dell'uomo, quella di un cuore nuovo che agisca sotto l'azione dello Spirito di Dio (Ger 31,31-34; Ez 36,27; cfr. Rm 8,14-15; Gal 5,18).

Al solenne contesto del Decalogo viene affiancato il solenne annuncio delle beatitudini evangeliche (Mt 5,1-12; Lc 6,20-22); Cristo viene non ad abolire l'antica legge, ma a darle compimento (Mt 5,17), viene ad indicarne un'osservanza secondo uno spirito di autenticità e sincerità di fronte a Dio e non agli occhi degli uomini (discorso della montagna), proclamandolo con un'autorità che lo pone sullo stesso piano di Jahvè (Mt 7,28-29). Cristo stesso si pone come fonte e termine del giudizio operato dalla legge: il giudizio di benedizione o di condanna, di accoglienza o di rifiuto non ha per riferimento una norma astratta, ma (Mt 25,40.45).

La centralità del Cristo nell'economia della nuova legge viene vista dal NT sotto la luce delle virtù teologali, della fede, ma in primo luogo della carità. È per la fede nel Cristo che siamo salvi, senza la quale l'osservanza legalista non avrebbe significato, poiché il senso di tutta la legge era quello di una preparazione al Vangelo: sotto questo riguardo, la legge termina col Cristo (Lc 16,16; Rm 10,3). Nel vocabolario giovanneo, ciò che Dio chiede agli uomini come inizio e riepilogo del loro agire morale è (Gv 3,14-18; 5,24; 6,29; ecc.).

La vera osservanza della legge trova la sua pienezza in un unico precetto, quello della carità (Gal 5,13-14). Ma se tutta la legge può riassumersi in una sola parola, ciò è possibile perché Cristo, parola unica e definitiva del Padre, ha la capacità di riassumere in Sé la legge come sua legge: (Gal 6,2). Nel rivelare il primato della carità (Mt 22,34-40; Lc 10,25-28), Cristo insegna la necessità di vivere la legge in modo interiore, con sincerità di fronte a Dio, e non secondo una giustizia estrinseca legata alle opere legali (Mt 5,20). È questo ciò che conduce al vero compimento della legge morale e rende coloro che la adempiono perfetti (tevleioi) come lo è il Padre celeste (Mt 5,48). In Cristo si può comprendere che la legge ha un carattere filiale, perché la legge dei figli è quella dell'amore e non del timore (1Gv 4,18). La nuova legge evangelica può viversi solo nella libertà della carità: è questa la perfezione della legge massimamente conforme con l'immagine divina nell'uomo, immagine di cui il Cristo è il vero restauratore24.

Una riflessione morale sul messaggio cristiano mostra dunque che carità e libertà convergono: è il senso dell'affermazione agostiniana o di quella tomista . Il NT le vede ambedue collegate alla condizione filiale ed alla presenza dello Spirito (2Cor 3,17; Rm 5,5; Rm 8,2.14-15.21-23.29).

c) Cristo, Sapienza di Dio

L’insegnamento morale e sapienziale trasmesso dalla rivelazione veterotestamentaria giunge in Cristo maestro anch’esso al suo compimento. La predicazione di Gesù rivela la “via” di una prassi di vita che conduce alla vera sapienza, e con essa all’incontro con Dio. Di più, Egli stesso è questa via e la sede da cui promana ogni norma di comportamento sapiente. Egli è

24 Sant'Agostino si chiederà nel suo Commento al Vangelo di Giovanni: «E' l'amore che ci fa

osservare i comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore? Ma chi può mettere in dubbio — proseguirà — che l'amore preceda l'osservanza? Chi infatti non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti» (82,3).

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(cfr. Mt 12,42, Lc 11,31) e ciò giustifica perché bisogna tendere a Cristo con una forza maggiore di quella che il giusto dell’AT poneva nel tendere alla sapienza.

Già nel cap. 3 del profeta Baruc, e in accordo con una progressiva specificazione del legame fra Israele e sapienza, un lungo elogio della Sapienza divina era sfociato nel dichiarane la sua abitazione in Gerusalemme e la sua apparizione in mezzo agli uomini (cfr. Bar 3,13-38):

«Se tu avessi camminato nei sentieri di Dio, saresti vissuto sempre in pace. Impara dov'è la prudenza, dov'è la forza, dov'è l'intelligenza, per comprendere anche dov'è la longevità e la vita, dov'è la luce degli occhi e la pace. Ma chi ha scoperto la sua dimora, chi è penetrato nei suoi forzieri? […] Non se n'è sentito parlare in Canaan, non si è vista in Teman. I figli di Agar, che cercano sapienza terrena, i mercanti di Merra e di Teman, i narratori di favole, i ricercatori dell'intelligenza non hanno conosciuto la via della sapienza, non si son ricordati dei suoi sentieri. Israele, quanto è grande la casa di Dio, quanto è vasto il luogo del suo dominio! […] Ma colui che sa tutto, la conosce e l'ha scrutata con l'intelligenza. E' lui che nel volger dei tempi ha stabilito la terra e l'ha riempita d'animali; lui che invia la luce ed essa va, che la richiama ed essa obbedisce con tremore. Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; egli le chiama e rispondono: "Eccoci!" e brillano di gioia per colui che le ha create. Egli è il nostro Dio e nessun altro può essergli paragonato. Egli ha scrutato tutta la via della sapienza e ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo, a Israele suo diletto. Per questo è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini» (Bar 3,13-15.22-24.32-38).

Sebbene il titolo cristologico (1Cor 1,24) si andrà affermando soprattutto in epoca post-neotestamentaria, il NT contiene passi importanti che consentono di associare il Verbo incarnato alla pienezza della sapienza divina, attribuendogli alcuni dei caratteri che l’AT associava tipicamente alla sapienza. Nell’inno cristologico della Lettera ai Colossesi troveremo un riferimento a Cristo come (Col 1,15), Lui, il primogenito in cui sono state create tutte le cose (cfr. Col, 1,16-18), analogamente a quanto affermato della sapienza di Dio (cfr. Sap 7,26 e 9,9; Pr 8,22-25; Sir 1,4 e 24,9), Lui nel quale ogni cosa trova sussistenza (cfr. sap 1,7). Tuttavia, il NT non realizza alcuna identificazione esplicita fra Cristo e la Sapienza, sia perché vuole così evitare di associare direttamente al Verbo incarnato quelle note subordinazioniste che la sapienza veterotestamentaria possedeva nei confronti di Jahvè, sia perché intende mostrare che il Verbo incarnato supera la sapienza alla quale il giusto dell’AT aspirava.

Molte parabole e discorsi di Gesù si inseriscono nella tradizione sapienziale di Israele, come riportata, ad esempio, dal libro del Siracide. L’invito ad assumere il giogo soave e leggero di Cristo, fonte di pace, espresso in Mt 11,28-30, ricorda lo stesso invito rivolto dal Siracide: «Avvicinatevi, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola. Fino a quando volete rimanerne privi, mentre la vostra anima ne è tanto assetata? Ho aperto la bocca e ho parlato: "Acquistatela senza denaro. Sottoponete il collo al suo giogo, accogliete l'istruzione. Essa è vicina e si può trovare» (Sir 51,23-26). «Ascolta, figlio, e accetta il mio parere; non rigettare il mio consiglio. Introduci i tuoi piedi nei suoi ceppi, il collo nella sua catena. Piega la tua spalla e portala, non disdegnare i suoi legami. […] Seguine le orme e cercala, ti si manifesterà; e una volta raggiunta, non lasciarla. Alla fine troverai in lei il riposo, ed essa ti si cambierà in gioia » (Sir 6,23-25.27-28). Possono inoltre stabilirsi dei paralleli fra il “banchetto” che la sapienza imbandisce per coloro che la accolgono (Pr 9,1-6; Sir 24,19-21) e il banchetto eucaristico in cui Gesù Cristo si dà Egli stesso in nutrimento ai suoi discepoli. Il fatto, poi, che la liturgia della Chiesa abbia attribuito alla B.V. Maria i noti passi di Prv 8 e Sir 24 va interpretato nell’ottica di una certa inseparabilità fra il Verbo incarnato e colei nella quale l’Incarnazione si realizza, essendo Maria Sede della Sapienza perché Madre del Verbo fatto uomo.

Ma in Cristo si compie soprattutto una che sorpassa ogni conoscenza umana e che dona, a chi sa accoglierla, la comprensione perfetta dei piani di Dio sulla creazione e sull’uomo, divenendo sapienza salvifica. Sapienza che può essere riconosciuta e accolta solo grazie all’azione dello Spirito. Chiaro ed esplicito, in proposito, l’insegnamento paolino sull’insufficienza della sapienza umana, che nel contesto della 1Corinzi non indica la sapienza dell’AT ma l’arguzia di una ragione incapace oltre l’umano, il sensibile, perché accecata dalla propria autosufficienza:

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«Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto ? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,20-25)

Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio. Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria» (1Cor 2,1-7)

In Cristo troveranno la loro pienezza le virtù morali predicate dalla tradizione sapienziale dei Proverbi e del Siracide, troveranno compimento i contenuti della preghiera di Salmi, si realizza la novità paradossale con cui Dio stesso ha voluto, nel Verbo Incarnato, assumere su di Sé la finitezza e la caducità lamentata dal Qohelet. Infine, in Cristo riceveranno risposta le domande sul senso della sofferenza umana e del dolore innocente poste dal Giobbe. Giobbe stesso verrà presentato come figura di Gesù Cristo, come accade nel commento morale all’omonimo libro di Gregorio Magno e nelle riflessioni esegetiche di Antonio Rosmini, per fare solo due esempi25.

d) Cristo, pienezza e compimento della parola profetica

Nell'AT il ministero profetico era l'esperienza vivente di uno speciale rapporto con la parola divina, si presentava come testimone della legge e della santità di Dio, manifestava un singolare rapporto con il Dio della storia. In Cristo la parola profetica raggiunge la sua pienezza in ciascuno di questi aspetti. Il mistero del Dio fatto uomo porta a compimento quanto annunciato dai Patriarchi, dalla preghiera di Israele e dai Profeti, in modo particolare la promessa messianica di cui il profetismo dell'AT si era fatto annunciatore ed interprete. Ma Gesù-Cristo è anche il profeta perfetto, il vero Maestro, non solo colui che riceve la parola di Jahvè per trasmetterla al suo popolo, ma la Parola stessa di Jahvè fatta carne. Cristo non parla agli uomini in nome di Dio, ma è Dio stesso che parla loro con parole umane. In Lui troverà la sua pienezza anche il rapporto fra profetismo e storia: come la storia di Israele veniva preannunciata ed interpretata dai suoi profeti, così la storia universale trova l'annuncio definitivo del suo senso escatologico nel mistero pasquale di Gesù di Nazaret.

Cristo è la parola stessa di Jahvè fatta carne

Ma in Cristo il ministero profetico cessa di essere una mediazione con la Verità per divenire l'offerta della verità in persona (Gv 14,6). La sua mediazione è la più immediata possibile perché così la realizza l'unione ipostatica del Dio fatto uomo. In Cristo tutta la Rivelazione si ricapitola in lui come Rivelatore.

Nel mistero dell'Incarnazione la parola non viene consegnata ad un profeta come nutrimento e forza dirompente di annuncio divino, ma si incarna (Gv 1,14). A rendersi visibile non è una parola divina generica, ma la Parola preesistente, quella che è in principio e per mezzo della quale è stato fatto il mondo (Gv 1,1-3).

25 Cfr. in particolare SAN GREGORIO MAGNO, Moralia in Job, II, 39 ss. Il riferimento rosminiano è

messo in luce da G. LORIZIO, Teologia della rivelazione ed elementi di cristologia fondamentale, in , vol. II: “I Fondamenti”, Città Nuova, Roma 2005, pp. 67-68.

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È il Padre stesso che rende testimonianza al Figlio nelle solenni teofanie del battesimo e soprattutto in quella della trasfigurazione: è una testimonianza maggiore di quella resa da Dio a Mosè, perché — proprio in quest'ultima teofania — essa si colloca al centro e al culmine della rivelazione della legge e dei profeti (Mt 17,5). L'autorità con cui Cristo insegna è la stessa autorità di Dio, sia per le espressioni usate, sia per l'oggetto coinvolto, cioè la legge, il sabato, il Tempio (Mt 5,22.28.ecc.; Gv 8,51-58). Cristo è più di Giona (Mt 12,41), più di Salomone (Mt 12,42), più del tempio di Gerusalemme (Mt 12,16). L'unicità e l'autorità della sua parola confluiscono di fatto nella rivelazione esplicita della sua divinità, nel suo essere Dio ed essere una sola cosa con il Padre. Se Gesù non è un profeta, la sua vita si presenta essa stessa come una profezia, una profezia del Padre, cioè la parola del Padre rivolta agli uomini, parola storica che ha in sé i tratti del definitivo e del compimento26.

Cristo conduce a pienezza i contenuti associati alla parola consegnata ai Profeti

Cristo è quel cui era associata la promessa messianica, fin dal lontano preannunzio mosaico (Dt 18,15.18) attraverso tutta la letteratura profetica. Così ne parlano i suoi contemporanei (Mt 21,45: un profeta; Gv 7,40: il profeta che deve venire) e così lo attendono in relazione al ministero del Battista (Gv 1,15.21). Gesù si comporta come un profeta: insegna, interpreta le Scritture, svela avvenimenti futuri, compie miracoli, esorta il popolo alla fedeltà all'alleanza, annuncia la misericordia ed il giudizio di Dio. Anche se Gesù non ha mai applicato a Sé la qualifica di profeta, perché non si situava come un profeta fra gli altri, le folle ed i singoli lo consideravano tale (Mt 21,10-11; Mc 6,15; Gv 4,19). Di fatto si compiono in lui le profezie del Servo di Jahvè (Isaia), quelle di un pastore universale nel quale Dio stesso pasce il suo popolo (Ezechiele), quella di un regno stabile, di discendenza davidica, che non avrà mai fine (Samuele-Natan), quelle relative all'inaugurazione di un nuovo regno ove la legge è vissuta nel cuore dell'uomo (Geremia) e regna la concordia e la pace (Isaia), ma soprattutto la profezie relative alla venuta del Messia (=Cristo, Unto) figlio di Davide (Salmi, profeti in genere).

Cristo è il compimento della promessa messianica

Sarà Gesù stesso ad applicare a Sé in modo solenne la profezia messianica di Isaia all’inizio della sua vita pubblica:

«Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”» (Lc 4,16-21).

Così ne parla Filippo a Natanaele: (Gv 1,45). Alla samaritana che afferma , Gesù in persona risponderà: sono io che ti parlo» (Gv 4,25-26). La confessione cristologica di Pietro e quella di Marta (Gv 11,27: ) sono altrettante confessioni messianiche.

Cristo è il definitivo interprete della storia

Il rapporto fra profezia e storia assume in Cristo un rilievo speciale essendo Egli il vero interprete della storia. Se la parola profetica aveva come caratteristica quella di annunciare ed interpretare la storia di Israele secondo i piani salvifici di Jahvè, nella parola fatta carne questi piani avranno il loro definitivo svelamento. La sua profezia sulla storia ha il carattere di una parola eterna, più stabile del cielo e della terra (Mt 24,35). L'evento della sua Incarnazione è il compimento qualitativo di tutta la storia (Mc 1,15). Tutta la scena del mondo, creato, caduto e redento, trova la sua definitiva interpretazione salvifica nel mistero pasquale del Cristo morto e risorto. L'uomo ed il cosmo trovano nel Cristo il loro esegeta completo e più profondo. Tutta la

26 Cfr. R. FISICHELLA, La profezia come segno della credibilità della rivelazione, o.c., pp. 219-226.

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storia successiva al suo evento pasquale sarà guidata in modo irresistibile dalla grazia della sua croce e resurrezione e dall'invio del suo Spirito nel mondo.

Il ruolo di Gesù, giudice della storia, emerge nei discorsi escatologici dei sinottici (Mt, cc. 24-25; Mc c. 13; Lc 21,5-36). Il suo giudizio profetico coinvolge l'intero universo, le cose visibili e invisibili. È la figura del Figlio dell'Uomo, giudice dell'umanità, presentata dai discorsi escatologici dei sinottici e dalle visioni del Redentore del Libro dell’Apocalisse. La storia deve aprirsi alla sua rivelazione definitiva: sull'accoglienza o sul rifiuto di Gesù, Figlio inviato dal Padre, sarà giudicato il mondo. È Lui il Dio che torna nell'ultimo giorno, di fronte al quale i pensieri e le opere di tutti saranno svelati.

e) Il mistero pasquale di Gesù Cristo, morto e risorto, apice della Rivelazione

Gesù ha portato a compimento la Rivelazione con la sua incarnazione, nella pienezza dei tempi, e mediante la sua intera vita terrena. Ogni gesto, parola, azione o segno del Cristo sono sempre rivelatori. Tuttavia, la parola ed il gesto testimoniale per eccellenza sono quelli del suo , gli eventi cioè, ed insieme il mistero, della sua passione, morte e resurrezione.

Il carattere unitario e indissociabile del mistero pasquale di Gesù-Cristo

Tutta la narrazione evangelica si presenta come una grande preparazione della narrazione dei fatti avvenuti a Gerusalemme. L'intera predicazione apostolica non sarà altro che l'annuncio della morte e resurrezione di Cristo come compimento di ciò che Dio ha voluto comunicare/donare all'umanità e la loro importanza decisiva per la salvezza dell'umanità. Nella predicazione di san Paolo, il mistero pasquale di Cristo verrà esposto in tutta la sua dimensione meta-storica, compimento di un disegno taciuto ed ora rivelato/realizzato, dalla portata assolutamente cosmica.

La missione evangelizzatrice degli apostoli è consistita fin dall’inizio nel presentare in modo vivo ed esistenziale il mistero pasquale del Cristo, cioè l'annuncio che Gesù era morto per i nostri peccati ed era risorto dai morti (At 10,39-43). Essi affermano di non poter tacere quello che hanno visto ed ascoltato (At 4,20), quello che hanno contemplato e che le loro mani hanno toccato, il Verbo della vita, vita eterna che era presso il Padre e che si è resa visibile a noi (1Gv 1,1-4). La densità di significato e di energia salvifica del mistero pasquale è tale che san Paolo può dichiararsi soddisfatto di (1Cor 2,2).

Il Verbo incarnato, pienezza della Parola del Padre, rivela con la sua stessa presenza tutto ciò che il Padre ci ha comunicato: come abbiamo già visto, in Lui convergono la pienezza noetica ed ermeneutica della Rivelazione. Ma la pienezza della rivelazione divina risiede nella parola crocifissa e risorta, non nella semplice parola incarnata. È nella passione, morte e resurrezione di Gesù che si raggiunge:

— la cifra esplicita della condiscendenza del Dio di Israele;

— la rivelazione definitiva del progetto salvifico del Padre;

— la parola capace di meritare il dono stabile e duraturo dello Spirito.

Nel mistero pasquale incontriamo dunque sia la pienezza ermeneutica della Rivelazione, perché la sapienza della croce offre il principio supremo per interpretare il senso di ciò che Dio ha da dirci; sia la sua pienezza noetica, perché la croce e la resurrezione di Cristo rivelano una volta per tutte la cifra di cosa significasse per Dio creare ed amare nel suo Figlio la creatura fatta a immagine e somiglianza Sua.

Il pensiero della teologia dei riformatori, seguendo l'intuizione iniziale di Lutero, ha sottolineato come nell'impotenza, debolezza e nascondimento di Dio sulla Croce si contenga in realtà la più grande ed abissale rivelazione divina, la rivelazione della sua più grande potenza, quella della sua capacità di annullarsi (kenosi) in favore dell'uomo. Prende così corpo ciò che,

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nella teologia della Rivelazione, si chiama theologia crucis. Tale rivelazione verrà vista talvolta in opposizione alla theologia gloriae, fino a ritenere che il vertice della Rivelazione lo si tocchi nel paradosso dell'annullamento e, per la ragione, nello scandalo della contraddizione (Moltmann, Barth).

Il pensiero cattolico ha recentemente operato un certo recupero dei valori positivi contenuti in una simile theologia crucis (ad es. von Balthasar), senza per questo vederla in opposizione con la prospettiva che vede nella risurrezione il definitivo compimento della logica divina di rivelazione e di salvezza. Occorre in proposito mantenere fermi due punti. In primo luogo morte e resurrezione di Cristo, ai fini della teologia della rivelazione, sono inseparabili: è la divinità di Gesù definitivamente manifestata nella sua resurrezione che fa comprendere tutta la profondità della rivelazione nello scandalo della croce. Senza resurrezione la croce resta stoltezza e ciò che Dio vorrebbe comunicare all'uomo, incompiuto. Il pensiero di san Paolo, che non fa sconti allo scandalo e al paradosso della kenosi della croce (cfr. 1Cor, capp. 1 e 2) è, su questo punto, esplicito (cfr. 1Cor, cap. 15). In secondo luogo, molte delle categorie bibliche che innervano la Rivelazione, dalla creazione alla salvezza, dalla fedeltà di Dio alla sua alleanza con gli uomini, dalla filiazione divina al realismo delle promesse associate a tale filiazione, non troverebbero il loro pieno compimento se non nella risurrezione di Gesù. Al tempo stesso, è il sacrificio della croce a costituire, da un punto di vista oggettivo, la cifra compiuta dell’amore divino per l’uomo e dell’amore dell’uomo per Dio, ovvero l’amore del Dio-uomo Gesù Cristo per Suo Padre-Dio.

Anche il rapporto fra rivelazione e fede, che inizialmente potrebbe apparire privilegiato sottolineando lo scandalo della croce e l'abbandono della morte, perché capaci di svelare la sincerità dell'opzione per un Dio fedele che non tradisce, trova in realtà un legame altrettanto forte nella risurrezione, poiché è nella resurrezione che il cristiano è chiamato a credere sulla parola di pochi testimoni, e non semplicemente nella morte di Gesù sulla croce, realizzatasi sotto gli occhi di tutti. Resta però vero che l'articolazione dei due momenti della vita umana del Verbo incarnato, morte e resurrezione, conservano un diverso rapporto con la storia: la morte può essere da essa circoscritta, mentre la resurrezione, pur attraversandola, la trascende. In ogni caso, il mistero pasquale di Gesù deve considerarsi nella sua logica unitaria, solo mantenendo ferma la quale si può comprendere appieno la sua portata rivelativa e soteriologica, il suo appello per la fede ed il suo valore di fondamento per la credibilità.

La credibilità della fede è la credibilità di Cristo e del suo mistero pasquale

Quanto affermato a proposito del mistero pasquale del Verbo incarnato non può non condizionare anche il modo di intendere la della Rivelazione. La credibilità è quell’insieme di condizioni oggettive e soggettive che rendono significativo e sensato, ragionevole appunto, l’atto della persona che risponde affermativamente all’offerta di salvezza di un Dio personale che si rivela in Cristo. Nell’orizzonte della fede cristiana, questo atto è un atto di adesione e di accoglienza alla persona di Gesù di Nazaret, perché Gesù riassume nella sua persona sia l’offerta della Rivelazione, sia i motivi della ragionevolezza dell'accoglierla. La credibilità della Rivelazione o della fede è dunque la credibilità di Cristo. Massimo il Confessore presentava Cristo come l'icona vivente dell'amore di Dio, l'unica capace di rivelare questo amore e di muovere a corrispondervi:

«O mistero più misterioso di tutti: Dio stesso è divenuto uomo per amore […]; egli ha preso su di sé, senza mutarsi, la capacità di patire della natura umana per salvare l'uomo e donare se stesso a noi uomini come modello delle virtù e come icona vivente dell'amore e della benevolenza verso Dio e verso gli altri, icona che ha il potere di muoverci alla risposta che dobbiamo dare»27.

Giovanni riconosce nel Cristo e nel suo mistero salvifico l’amore di Dio per il mondo (Gv 3,16); come conclusione dell’esperienza personale che egli ha fatto di Lui, afferma: (1Gv 4,16). I samaritani diranno alla donna che ha parlato loro di Gesù: (Gv 4,42). Porsi alla sequela di

27 SAN MASSIMO IL CONFESSORE, Epistolae, XLIV (PG 91,643).

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Gesù è per Giovanni il risultato di una frequentazione, di una convivenza con Lui, di un (Gv 1,39; 1,45-46).

La teologia contemporanea ha operato una certa riconversione cristocentrica dei classici motivi di credibilità della fede. Il Concilio Vaticano II ha confermato questo orientamento parlando piuttosto di ed identificandoli sostanzialmente con Cristo e la Chiesa: Cristo quale segno primario e la Chiesa in quanto segno di Cristo28. Le profezie ed i miracoli traggono significato precisamente dal loro .

Già nella profezia raccolta da Isaia, l'Incarnazione veniva indicata come il segno che Dio darà agli uomini (Is 7,10-14). Nell’economia dei segni di credibilità, Gesù Cristo costituisce in persona il motivo di credibilità per eccellenza. Egli offre in Se stesso il segno che Lui è veramente ciò che dice di essere29. Le profezie e i miracoli costituiscono di fatto una costellazione di segni che puntano verso Cristo e trovano in Lui la loro piena significanza. I miracoli hanno certamente una funzione strumentale nei confronti dell'opzione della fede ma, da soli, non la determinano: essi sono riconosciuti nella misura in cui vi sono le disposizioni adeguate per riconoscere la verità di Gesù, quella del suo essere e della sua missione. Gesù offre una testimonianza credibile con la globalità della sua persona e non solo con l'utilizzo di segni miracolosi e straordinari. Si comprende tutto il peso del rimprovero raccolto dal vangelo di Giovanni: «Se non fossi venuto e non avessi parlato loro non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato (...) Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio» (Gv 15,22.24).

Ma nell'economia dei segni, nel proporre Se stesso come segno risolutivo, Cristo si riferisce essenzialmente ad un segno per eccellenza, quello del suo mistero pasquale:

«Allora, alcuni scribi lo interrogarono: “Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno”. Ed egli rispose: “Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona profeta. (...) La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più di Salomone» (Mt 12,38-39.42).

Alla richiesta dei Giudei di dare un segno che giustifichi il suo modo di agire con autorità nel tempio, Gesù risponderà ancora con il segno della sua morte e resurrezione: il suo corpo è il tempio della nuova alleanza che sarà edificato in tre giorni (cfr. Gv 2,18-22). È in forza di questo segno supremo che Egli ha la capacità di muovere i cuori e di attirare a Sé tutte le cose (Mt 27,54; Gv 12,32).

Il segno del mistero pasquale di Cristo viene qualificato dai Vangeli come un segno di amore, come un sacrificio vicario consumato per amore, come una sorgente di salvezza in favore di chi tale salvezza l'aveva persa (Gv 3,16; 12,32; 15,13). L’amore come segno fontale e radicale, capace di suscitare fiducia e abbandono, si mostra sommamente conveniente alla stessa natura della persona umana. La capacità di dare e di ricevere amore costituisce infatti per l'uomo la sua esperienza esistenziale fondamentale, qualcosa che condiziona in modo determinante la sua felicità e la sua piena realizzazione. Ciò aiuta a riflettere sul fatto che proprio il criterio risolutivo di credibilità dato da Dio all’uomo sia segnato dall’economia dell’amore, e che la credibilità della fede poggi sulla struttura antropologica della credibilità dell’amore30. Al tempo stesso, l’appello e il riconoscimento di questo segno necessitano l’umiltà dell’uomo che sappia leggere nella propria coscienza l’inadempienza di una corrispondenza e di un amore dovuti al Creatore, e che, proprio per questo, sa vedere con gratitudine l’adempimento operato da gesù Cristo in suo favore.

28 Sulla tematica si veda R. LATOURELLE, Cristo e la Chiesa, segni di salvezza, Cittadella, Assisi

1971. Cfr. J.L. ILLANES, La dimensione cristologica della teologia fondamentale, in , a cura di G. Tanzella-Nitti, Armando, Roma 1996, pp. 97-111, spec. 105-111.

29 Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, Cittadella, Assisi 1986, p. 427. 30 Cfr. H.U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1977.

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Più che di ragioni per credere in Cristo, occorrerebbe parlare di un’unica ragione di questa fede. Questa ragione è Cristo stesso: la credibilità del cristianesimo è in definitiva la credibilità di Gesù31. Nel credere in Cristo, il credente crede lo stesso fondamento della sua fede. Nell'apologetica tradizionale questa centralità cristologica era meno marcata, non perché non si parlasse della sua Persona, ma perché si sottolineava preferibilmente la sua funzione mediatrice. In una prospettiva cristocentrica, le opere di Gesù sono significative per la fede non solo perché manifestano, attraverso il compimento di miracoli, la presenza viva di Dio; esse sono sommamente significative soprattutto perché sono capaci di esprimere un’umanità attraente e credibile: sempre incline alla misericordia e al perdono, dove coesistono dolcezza e fortezza, carità e giustizia, dove il distacco dai beni materiali è vissuto assieme al loro uso retto, e l’amore più appassionato assieme alla castità più perfetta. L’uomo riconosce in questa umanità ciò a cui si sente chiamato e ciò che vorrebbe vivere, la risposta alle sue domande, ai suoi desideri, alle sue ansie più profonde. Una prospettiva cristocentrica della credibilità della fede, infine, fa anche cogliere anche tutta l’importanza della testimonianza e della coerenza in ogni evangelizzazione, in quanto la credibilità di Cristo deve potersi prolungare nella credibilità dei cristiani.

31 Cfr. J.L. ILLANES, Razones para creer en Cristo, in 21 (1989) 827-846.

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5. Lo Spirito Santo e la sua missione nella Chiesa nell'economia della Rivelazione trinitaria.

La Rivelazione divina, autocomunicazione di Dio al mondo che giunge alla sua pienezza nel Verbo diventato carne, può essere compresa solo in una cornice trinitaria che faccia riferimento anche al ruolo e alla missione dello Spirito Santo. Il rapporto fra Rivelazione e persona dello Spirito Santo coinvolge due grandi ambiti: da un lato, la sua relazione con la rivelazione che il Padre ha portato a compimento nel Figlio, dall'altro la sua relazione con la Chiesa, frutto e insieme custode della parola rivelata.

a) Lo Spirito Santo nella logica della Rivelazione divina

Finora abbiamo parlato dello Spirito quasi esclusivamente in rapporto alla dimensione interiore della Rivelazione, alla sua accoglienza nel cuore dell'uomo. Ma lo Spirito Santo è protagonista della Rivelazione divina a più livelli.

• La parola della Rivelazione ha in primo luogo un'articolazione trinitaria: essa è pronunciata nel silenzio del mistero del Padre, rivelata al mondo dal Figlio e nel Figlio, resa presente nella storia ed interiorizzata dal dono dello Spirito.

• Lo Spirito Santo, , viene considerato in certo modo Autore della Sacra Scrittura, responsable dell'ispirazione che ne ha condotto alla formazione e alla sua trasmissione.

• Lo Spirito, che nella vita trinitaria immanente procede dal Padre e dal Figlio, nell'economia storica della missione del Figlio è protagonista del dono dell'Incarnazione, che si realizza anche per mezzo Suo, fonte e ragione di ogni dono divino nell'ordine della creazione.

• Lo Spirito è presente nel mistero pasquale di Gesù Cristo: Egli è certamente lo Spirito che fa risorgere Gesù e se ne può vedere anche il collegamento con il compimento, sulla croce, dell’amore del Figlio verso il Padre, della missione-parola consegnata dal Padre al Figlio, fino al suo tradidit spiritum.

• Già nelle promesse di Gesù, la missione dello Spirito in ordine alla Rivelazione coinvolge uno speciale rapporto con il , gli Apostoli; tale missione guida in modo efficace la formazione e lo sviluppo della Chiesa, comunità convocata dalla parola per il servizio e la diffusione della parola stessa.

• Lo Spirito Santo, la cui presenza invisibile ha accompagnato tutta la storia della salvezza, inaugura con la Pentecoste una missione visibile che sgorga dalla pienezza del mistero pasquale del Figlio e che ha come finalità dichiarata la custodia, l'approfondimento e la perenne ri-presentazione nel tempo della parola rivelata e dei suoi frutti di salvezza.

• Lo Spirito Santo arricchisce la Chiesa di quei doni e carismi che assicurano l'indefettibilità della sua missione, quella di rendere presente la Rivelazione salvifica nel tempo, attraverso un'economia sacramentale che struttura la Chiesa visibilmente e la vivifica invisibilmente.

Lo Spirito Santo possiede una logica di rivelazione che le è propria, non è Gesù in , né si limita a mostrarlo, ma insegna a vivere secondo Gesù e dopo l’evento terreno di Gesù. Ha senso affermare che Dio continui a comunicarsi al mondo nello Spirito, proprio perché è nello Spirito che la Rivelazione resta aperta attraverso la vita della Chiesa. Lo Spirito porta a termine, completa, un'opera che non è solo Sua, né gli appartiene esclusivamente, perché è opera di Dio realizzata nel Suo Figlio, ma della quale è vero Soggetto nell'economia sacramentale del tempo della Chiesa. Come il Verbo è in Cristo la parola di Dio fatta carne per venire ad abitare

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in mezzo agli uomini, così lo Spirito è nella Chiesa la parola che fonda la comunione degli uomini con Dio e fra di loro32.

Lo Spirito e la Parola

Nello studio del rapporto fra lo Spirito Santo e la Rivelazione presente nel NT, non si può prescindere dalle grandi categorie veterotestamentarie collegate allo Spirito di Jahvè. Sono tali, ad esempio, il vento come espressione della potenza divina, lo spirito come soffio e alito vitale, fonte di vita per l'uomo e l'intera creazione. In relazione ai profeti, lo Spirito di Jahvè ha caratteristiche assai simili, quasi interscambiabili, a quelle della parola: sceglie i profeti, scende su di loro, ne guida il ministero con energia, li trasporta da un luogo all'altro di Israele. Lo Spirito è inoltre Spiritus creator, possiede cioè una relazione speciale con la creazione.

Se è vero che il Padre rivela mediante il Figlio, (sant'Ignazio di Antiochia), è ugualmente vero che la Rivelazione non potrebbe compiersi se non per mezzo dello Spirito: Lui, che presenziava la prima parola all'origine della donazione di Dio nella creazione (Gen 1,2), esprimerà l'ultima parola creata che la Chiesa pronuncerà al suo Sposo che viene (Ap 22,17). Lo Spiritus creator è lo Spiritus Dominum et vivificantem . Egli ha ispirato la parola messa per iscritto e vivifica quella parola non scritta che è la vita stessa dei fedeli, senza della quale la lettera resterebbe sterile.

Ma lo Spirito non si confonde con la parola. Quanto lo caratterizza non ricalca automaticamente le proprietà della parola in quanto tale. Quest'ultima può indicarsi e circoscriversi, mentre lo Spirito resta ineffabile; la parola penetra quasi dal di fuori, mentre lo Spirito vivifica quasi dall'interno, senza che si veda; la parola manifesta una direzionalità ed un destinatario preciso, mentre lo Spirito discende effondendosi e si espande; la parola rivela facendosi comprendere, lo Spirito rivela trasformando33.

La Rivelazione si compie dunque mediante il Figlio e lo Spirito; si esprime così simultaneamente la sua visibilità e la sua ineffabilità, il suo venire incontro all'uomo ed il suo restare delle sue previsioni o rappresentazioni: se il Figlio è immagine, lo Spirito supera ogni possibile immagine; se il Figlio è parola pronunciata, lo Spirito è impulso e mozione che non può tradursi in parole. Il Figlio esprime meglio l'exitus di Dio incontro alla creatura, lo Spirito ne guida più chiaramente il reditus nel seno della vita trinitaria34.

La Parola divina donata al mondo è certamente quella del Suo Verbo, cioè il Figlio, ma tale parola viene proferita e donata a motivo dell'amore gratuito divino, e la condiscendenza della Rivelazione ha perciò nella processione dello Spirito d'amore il suo modello e la sua norma. Come lo Spirito chiude le due processioni trinitarie esprimendo nella sua persona la comunione eterna del Padre e del Figlio, così mediante la sua missione temporale nel mondo, egli muove i credenti all'accoglienza interiore della parola, per generare una nuova comunione, quella fra la creatura e la Trinità, facendo accedere i figli adottivi alla comunione che essi possono avere, col Padre, nel Figlio naturale.

Possiamo dire che il Figlio è la parola del Padre e che lo Spirito non ha altra parola che quella del Figlio. La Parola rivelata è in primo luogo parola del Padre, e la pienezza di questa

32 Cfr. G. SAUTER, L'origine della Chiesa dalla parola e dallo spirito di Dio, in CTI, III, p. 231 e 237. 33 Cfr. J. GUILLET, Thèmes bibliques. Etudes sur l'espression et développement de la Révélation,

Aubier, Paris 1950, p. 254. 34 «Così il Padre, mediante l'azione congiunta del Verbo e dello Spirito, come due braccia di

amore, si rivela all'umanità e l'attira a sé. Il movimento d'amore con il quale il Padre si svela agli uomini per mezzo del Cristo e il ritorno di questo amore che gli uomini gli porgono con la fede e la carità, sembrano immersi nel flusso e nel riflusso d'amore che unisce il Padre al Figlio nello Spirito. La Rivelazione è una azione che impegna contemporaneamente la Trinità e l'umanità, che intreccia un dialogo ininterrotto tra il Padre e i suoi figli riscattati con il sangue del Cristo. Essa si svolge sul piano dell'avvenimento storico e sul piano dell'eternità. Si inaugura mediante la parola e si compirà nella visione, nell'incontro faccia a faccia» (R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, o.c., p. 514).

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parola rivolta all'uomo si presenta nella missione visibile del Figlio, cioè come prolungamento nella storia di quella processione con la quale il Padre, all'interno della vita trinitaria, dice il Figlio. Ma essa è anche Parola pronunciata nello Spirito, cioè per Amore, e questo già nella vita trinitaria immanente, dove la parola generata risponde all'amore generante in un dialogo eterno d'amore.

b) Lo Spirito Santo e la Rivelazione nella costituzione Dei Verbum

I riferimenti al ruolo dello Spirito nell'economia della Rivelazione presenti nella Dei Verbum sono numerosi. Vediamone i principali.

— Il suo invio al mondo viene presentato come ciò che, in continuità con il mistero pasquale del Figlio, compie e e completa la Rivelazione: «Perciò egli [Cristo], vedendo il quale si vede anche il Padre, con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa resurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa (complendo perficit) la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina» (n. 4).

— La sua missione invisibile nei cuori è necessaria per accogliere con fede la Rivelazione e giungerne ad un'intelligenza sempre più profonda: «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Affinché poi l'intelligenza della rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni» (n. 5).

— Gli Apostoli trasmisero ai loro successori non solo ciò che videro e conobbero mediante la loro esperienza diretta del Cristo, ma anche ciò che fu loro suggerito dallo Spirito Santo, ed è sotto l'ispirazione dello Spirito Santo che apostoli ed evangelisti misero per iscritto i libri del NT: «Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca, dal vivere insieme e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito santo, quanto da quegli apostoli e uomini della loro cerchia, i quali, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, misero in iscritto l'annunzio della salvezza» (n. 7).

— Tale trasmissione (tradere) continua a compiersi nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo: (n. 8).

— La parola della Rivelazione è stata messa per iscritto con l'ispirazione dello Spirito Santo, che, anzi, ha affidato lui stesso tale parola agli apostoli assieme a Cristo, ed è grazie alla sua luce di verità che tale parola può essere conservata, esposta e diffusa: «Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito divino; la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, viene trasmessa integralmente dalla sacra tradizione ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano» (n. 9).

— L'esistenza di un'unica azione dello Spirito Santo fa della Sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero della Chiesa qualcosa che può sussistere solo nel loro insieme, qualcosa di inscindibile: «È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere, e che tutti insieme, ciascuno secondo il loro proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime» (n. 10).

c) Lo Spirito Santo e i Dodici: Rivelazione ed epoca apostolica

Come in Cristo giungono a pienezza le maggiori categorie del rapporto fra l'uomo e Dio rivelate nell'AT (alleanza, amore sponsale, filiazione, ecc.), così, grazie all'azione dello Spirito,

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nella Chiesa trovano compimento molte delle categorie bibliche una volta associate al popolo eletto:

• nella Chiesa si realizza quell'epoca messianica in cui Dio effonderà il Suo Spirito su ogni carne (cfr. At 2,14-17);

• i sono i nuovi fondamenti sui quali, come per i patriarchi delle antiche tribù dei figli di Giacobbe, si edificherà il nuovo Israele (cfr. Mt 19,28);

• la comunità dei battezzati, adoratori del Padre in Spirito e verità (cfr. Gv 4,21-24), sostituirà con l'offerta della propria preghiera e con il sacrificio della loro vita intera il culto che il popolo di Israele tributava a Dio nel tempio di Gerusalemme (cfr. Rm 6,13; 8,26-27; 12,1; 1Pt 2,4-5.9).

Tuttavia, in modo diverso da quanto accaduto per , il ed ammettono uno sviluppo sacramentale, un già ma non ancora, che troverà il suo pieno compimento solo in prospettiva escatologica, non come raggiungimento di una novità del tutto inedita, ma come pienezza di quanto già conquistato una volta per tutte dal Figlio. Tale prospettiva risolve e supera il problema, cui accenneremo più avanti, se l'originario messaggio cristiano prevedesse o meno una nuova fondazione ecclesiale estranea all'ebraismo: lo Spirito è in ogni caso protagonista di una nuova fondazione, quella che avviene nel cuore di chi, ebreo o pagano, accoglie la parola e decide di entrare nella logica e nella vita del Regno di Dio, la cui legge è appunto quella dello Spirito.

È attorno alla missione dello Spirito Santo che il tempo della Rivelazione si articola con il tempo della Chiesa e può affrontarsi il tema della chiusura del suo contenuto35. Come già più volte osservato, il mistero pasquale di Cristo tributa alla Rivelazione un aspetto di compiutezza: non c’è da attendere alcuna nuova rivelazione prima del ritorno glorioso di Cristo (cfr. Dei Verbum, 4). Ma a questa compiutezza appartiene in modo speciale e irripetibile la Chiesa dell’epoca apostolica. Nell’economia della Rivelazione, la testimonianza degli apostoli è assolutamente unica, sia per l’elezione ricevuta, sia per la frequentazione con il Cristo, che ha trasmesso a loro ciò che non ha trasmesso ad altri (At 1,3; At 10,39-43). Gli apostoli hanno partecipato, mediante la loro esistenza accanto a Cristo, alla pienezza del Verbo fatto carne. È questo il motivo per cui si è soliti affermare che il contenuto della Rivelazione si sia formalmente concluso con la morte dell'ultimo degli apostoli (cfr. decr. Lamentabili, DS 3421). Non perché i dodici apostoli, espressamente scelti ed inviati da Gesù, abbiano aggiunto qualcosa di proprio nel compimento della parola divina, ma piuttosto perché essi, con le loro vite, hanno partecipato della pienezza di Cristo, sono state le pietre di fondamento di una rivelazione consegnata in modo esistenziale, attraverso la frequentazione, l'esempio, la testimonianza.

L'azione dello Spirito di guidare verso , sebbene accompagnerà l'intera storia della Chiesa, è stata già presente in modo del tutto particolare nella vita degli apostoli, testimoni dell’esperienza della Pentecoste: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-14).

d) Lo Spirito e la Chiesa: Rivelazione e Tradizione ecclesiale

La consapevolezza dell’unicità della testimonianza apostolica e la sua importanza per l’intera economia della Rivelazione ha progressivamente favorito, nella Chiesa primitiva, la consapevolezza dell’esistenza di un contenuto di verità da trasmettere con assoluta fedeltà. Ne sono testimoni gli stessi scritti del NT. Nelle sue lettere a Timoteo (1Tm 6,20; 2Tm 1,14), san Paolo fa riferimento ad un deposito (paraqhvkh) che deve essere conservato. Giuda parla nella sua lettera (v. 3) di una fede che è stata trasmessa ai credenti una volta per tutte (nel senso di semel pro semper tradita). La stessa idea è presente in 2Ts 2,15: , e in 1Cor 11,2: . Fra i Padri

35 Cfr. C. IZQUIERDO, Teología Fundamental, o.c., p. 101.

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sant’Ireneo parlerà nel III secolo ormai dell'esistenza di una regula fidei; il Concilio II di Nicea (anno 787) insegna implicitamente che la Chiesa è custode e non autrice del deposito rivelato (cfr. DS 602-603).

L’insistenza originaria ed apostolica sul contenuto oggettivo-veritativo della Rivelazione non impoveriva la ricchezza del suo significato esistenziale-salvifico. L’esortazione alla conservazione del deposito, ad esempio, è indissociabile nelle lettere apostoliche del NT dall’esortazione morale a condurre un comportamento, una vita, una testimonianza, degna della vocazione ricevuta. Se poi si richiede fedeltà ad un deposito, è perché è questo ciò che conduce alla salvezza.

Come la missione degli Apostoli si pone in continuità con la missione del Figlio, inviato nel mondo dal Padre, così la missione della Chiesa si pone in continuità con la missione degli Apostoli. (Tertulliano, De praescriptione hereticorum, 37,1). La trasmissione da parte degli Apostoli di quanto essi hanno ricevuto direttamente da Gesù costituisce la grande ; la trasmissione di questo medesimo contenuto da parte della Chiesa, nel tempo, costituisce la (cfr. CCC, n. 83) o, semplicemente, la . L'oggetto di tale trasmissione, come vedremo, è assai ampio: «Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa e all’incremento della fede del popolo di Dio. Così la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è e tutto ciò che essa crede» (Dei Verbum, n. 8). Lo Spirito Santo, con la sua missione, dà in certo modo origine alla , la mantiene aperta, lasciando così aperta la stessa Rivelazione, non secondo la sua dimensione constitutiva, ma secondo la sua dimensione declarativa, nel duplice aspetto di annuncio e di interpretazione della Parola.

Un punto di fondamentale importanza nella logica divina di questa fedeltà/trasmissione, è considerare che la tensione esistente fra la necessità di trasmettere un deposito immutabile nel tempo e la inevitabile complessità e libertà della storia, può essere composta solo dalla presenza dello Spirito e dall'azione dei suoi carismi. E’ infatti lo Spirito Santo che guida alla conoscenza della verità tutta intera, rende i discepoli testimoni credibili della Parola, assicura indefettibilità della missione della Chiesa, garantisce infallibilità del suo insegnamento in ordine alla salvezza delle anime. Il fatto ancora che il progresso nella comprensione della Rivelazione e la sua diffusione in contesti storici e geografici sempre nuovi richiedano in primo luogo i doni con cui lo Spirito illumina l'intelletto, la santità del popolo di Dio e dei suoi pastori, la testimonianza di un Vangelo vissuto e non solo insegnato, chiama ancora in causa il ruolo dello Spirito, fonte di santificazione e di unità della Chiesa.

Riassumendo, lo Spirito Santo fonda la possibilità di una trasmissione-tradizione della Parola, ne garantisce l’efficacia salvifica, compone la tensione fra la fedeltà alla parola-verità ricevuta e l’apertura della parola-annuncio sulla storia e sulle vicende del mondo. Egli compare come il grande protagonista della trasmissione viva ed autentica della Rivelazione da parte della Chiesa.

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6. Approfondimento teologico sulla natura della Rivelazione ebraico-cristiana

a) Rivelazione e fenomenologia della parola

Il fatto che la Rivelazione divina si realizzi con parole ed opere e sia dominata dall'economia della , che è l'entrata nel mondo e nella storia del suo Verbo immanente giustifica che si possa parlare della Rivelazione come , più precisamente, di (Selbst-Mitteilung Gottes in dem Wort). Dio, rivelando, non informa ma si comunica, si dona: (san Bernardo di Chiaravalle). Ciò suggerisce un approfondimento teologico sulla natura della Rivelazione usando come analogia la fenomenologia della parola. Alcune delle conseguenze dedotte sono collegabili alla parola in quanto tale, altre sono collegate alla parola in quanto proferita da Dio.

La fenomenologia della parola come incontro e dialogo

Come ogni parola, la parola divina

• E’ libera e gratuita. È con questi caratteri che si manifesta l'iniziativa di Dio nella creazione, nella scelta e nell'elezione di Abramo e del suo popolo, nelle promesse e nell'offerta dell'alleanza.

• E’ sempre rivelatrice del soggetto: nella parola è chi la pronuncia a manifestarsi e a donarsi. Con la sua parola, Dio rivela il mistero della sua “vita personale” e dona all’uomo il suo invito ad entrare in comunione con Lui. In particolare, la parola di Dio non è mai una parola “qualsiasi”: è sempre una parola di amore. Tutta la forza dirompente di questo amore si manifesta nella Parola fatta carne e nel suo mistero pasquale.

• Tende a stabilire un dialogo, un incontro. L'uomo non può restare indifferente di fronte alla Rivelazione: la riconosce significativa per la sua condizione esistenziale, se ne sente interpellato. La stessa creatura umana è stata voluta in ordine a questo dialogo: la sua dignità più profonda è quella di essere interlocutore di Dio e dalla sua apertura a tale dialogo dipende il vivere conforme alla sua natura e la sua stessa felicità.

• Reclama una risposta libera e personale come lo è la parola che interpella. Ciò spiega il carattere libero e personale della fede e la responsabilità dell’uomo di fronte al dono della vita (rivelazione nella creazione) e agli eventi della storia della salvezza, in primo luogo l’evento di Gesù di Nazaret.

• Rappresenta un certo “esporsi”, un certo rischio, quello associato ad un’intimità che si offre e si svela e, per questo, può essere anche fraintesa o rifiutata, oppure ignorata. Qui giace il mistero del peccato come rifiuto della Rivelazione divina, il contrasto fra la luce e le tenebre, come esposto dal Prologo del Vangelo di Giovanni nel contesto dell’incarnazione della Parola.

• La verità della parola è associata all'idea di testimonianza: il valore noetico della parola dipende dalla sincerità e dall'autorità di chi la pronuncia, perché nella sfera dei rapporti personali il criterio per conoscere e trasmettere la verità non è solo l'evidenza, ma anche, appunto, la testimonianza.

L'incarnazione della Parola manifesta e fonda tale fenomenologia al suo massimo grado e la esprime in un modo massimamente comprensibile per l’uomo.

La dimensione personalista della parola: la Rivelazione come testimonianza ed esperienza

La testimonianza è una categoria costitutiva della Rivelazione. La Scrittura descrive l'attività rivelatrice della Trinità sotto forma di testimonianze reciproche: la testimonianza che il Figlio rende al Padre, quella che il Padre rende al Figlio, quella che lo Spirito renderà al Figlio in tutto obbediente al Padre. Gli apostoli e la Chiesa si collocano nel flusso di tale testimonianza fino a farne un tutt'uno con l'annuncio del mistero pasquale. Essi sono testimoni

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di tutto ciò che Cristo ha fatto e ha insegnato, ma sono testimoni soprattutto di ciò che hanno vissuto insieme a Lui, cioè della verità della sua persona. Questo implica che anche la Chiesa, come vedremo, nel custodire e nel trasmettere questa parola non può prescindere dalla testimonianza: ciò che essa crede, per essere trasmesso, deve essere anche vissuto. La testimonianza non è qualità giustapposta, espediente tattico che condiziona il successo o l'insuccesso dell'annuncio, ma è parte integrante dell'annuncio stesso: ciò che si proclama al mondo è una vita e non un messaggio astratto; più precisamente, la vita di Cristo presente nel cristiano, la vita di Cristo visibile e operante nella Chiesa.

Quando si considera che il contenuto della Rivelazione — cioè il mistero di Dio che si autocomunica e si dona all'uomo per salvarlo — deve essere trasmesso ed insegnato, emerge un riferimento ad una nuova categoria: quella dell'esperienza. E ciò almeno per due motivi. In primo luogo si può annunciare ed insegnare con efficacia solo ciò di cui si ha esperienza e di cui si è fatto l'esperienza. Il modo di conoscere il mistero che si annuncia e si trasmette è condizionato dalla esperienza della fede e dell'amore, perché si può in modo adeguato solo ciò che si è saputo accogliere, ciò che si ama. In secondo luogo, chi evangelizza, non si propone la semplice ricezione di un contenuto da parte di chi ascolta, ma egli desidera riprodurre nel discepolo le condizioni di un'esperienza, l'esperienza del Cristo; e questo proprio perché si possa parlare di un'autentica trasmissione di conoscenza. La nozione di esperienza comprende qui sia la sua dimensione soggettiva-personale, sia una certa dimensione oggettiva-universale. Essa è infatti qualcosa di comunicabile, in qualche modo comprensibile ed universale come lo sono le grandi domande dell'esistenza, pur restando al tempo stesso qualcosa di personale ed incomunicabile limitatamente alla sua dimensione soggettiva.

Anche l'esperienza segna in modo profondo la logica della Rivelazione. Essa è lo strumento per accedere alla sua storicità e riconoscere la fedeltà-verità di Dio; viene sollecitata dal realismo dell'Incarnazione, dalla concretezza di ciò che gli occhi degli apostoli hanno visto e di ciò che le loro mani hanno toccato; accompagna la stessa evangelizzazione perché lo Spirito conferma l'annuncio salvifico degli apostoli con segni tangibili.

b) Il rapporto fra Rivelazione e salvezza

Lo scopo della Rivelazione è messo in luce dalla Dei Verbum quando afferma che (n. 2). La finalità della Rivelazione è dunque la salvezza. Non è possibile dissociare la Rivelazione dal suo fine. Dio rivela il mistero della sua vita per invitare l’uomo a prendervi parte. E l’uomo comincia a prendervi parte quando accoglie la Rivelazione. La Rivelazione (Giovanni Paolo II, Discorso dell’Angelus, 5.11.1995).

La Rivelazione è ordinata alla salvezza: essa è infatti orientata a suscitare la fede e la fede è la condizione della salvezza. Parola, fede e salvezza sono collegate ad esempio nel mandato battesimale di Marco: (Mc 16,16); nella nota riflessione giovannea sulla missione del Figlio: (Gv 3,16); nella dottrina paolina sulla salvezza mediante la fede:

Dio, rivelando Se stesso e i piani della Sua volontà, salva. La Rivelazione non solo indica la strada della salvezza, ma porta con sé la salvezza. Questa efficacia salvifica della Parola è un aspetto della dinamicità operativa della parola divina, la quale non soltanto annuncia, ma realizza ciò che annuncia (Is 55,10-11; Eb 4,12; Rm 1,16). Nel Vangelo di Luca sono (Lc 11,28). Dio si rivela per donare Se stesso come sorgente di vita e, quindi, nell’economia di una storia di peccato e di redenzione, come fonte di salvezza. La Rivelazione non è rivelazione , ma .

Nel NT, nel Vangelo di Giovanni in particolare, si assiste ad una singolare correlazione fra concetti che si riferiscono alla rivelazione divina — come luce, parola, verità — e concetti quali vita o salvezza (Gv 1,4; 9,5; 12,35-36; 14,6; cfr. anche Mt 4,16; Mt 5,14; Lc 1,79; Lc 8,16; 1Tm 4,3; 2Tm 2,18; Tit 1,14). Già solo accogliere la parola è qualcosa che trasforma l’uomo, lo rende beato e lo pone in comunione con la vita eterna. La corrispondenza rivelazione-salvezza è specialmente evidente nella relazione che l’uomo ha con la persona del Cristo: accogliere la sua parola è accogliere la salvezza, perché Lui solo ha parole di vita di eterna (Gv 6,68; cfr. Gv 6,54).

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Porre la finalità di quest’azione divina condiscendente nella salvezza dell’uomo non equivale a dare all’agire divino un motivo diverso dalla Sua stessa Gloria, poiché accettando liberamente la Parola della Rivelazione e partecipando alla vita divina, l’uomo sta glorificando Dio. Dunque, finalità della Rivelazione è la salvezza dell’uomo per la Gloria di Dio: (Ef 1,4-6.12.14).

Affermare che la finalità della Rivelazione sia la salvezza dell'uomo per la gloria di Dio equivale a porne necessariamente in luce la dimensione trinitaria: questa finalità si compie mediante l'opera del Padre, del Figlio e dello Spirito — in primo luogo mediante le missioni della seconda e della terza Persona — e tale finalità consiste nella comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito come figli nel Figlio, per mezzo dello Spirito.

Dove è maggiore la rivelazione/compimento della salvezza, maggiore e più esplicita è la rivelazione trinitaria. La rivelazione della S.S. Trinità è infatti, specialmente, rivelazione pasquale: quanto più si approssima il momento del supremo evento salvifico, tanto più esplicito si fa l’insegnamento di Cristo sulle relazioni delle Persone divine, fino a toccare nel discorso pasquale di addio l’36. È proprio riferendosi al suo sacrificio redentore che Cristo rivela la sua eterna origine da un Dio che non chiama Creatore, ma Padre (cfr. Gv 16,28); si manifesta come Figlio inviato al mondo ed in procinto di tornare a Colui da cui procede (cfr. Gv 14,19-20; Gv 3,16); lega il compimento della sua missione visibile all’invio dello Spirito Santo nel mondo (cfr. Gv 16,7), per poi rivelare che alle missioni invisibili del Figlio e dello Spirito Santo sarà affidato il compito di trasmettere e custodire i frutti eterni di questa salvezza (cfr. Gv 14,26; Gv 20,22-23; Mt 28,19-20).

La conoscenza del mistero trinitario, possibile mediante la fede e la carità, costituisce il termine della santificazione-salvezza della creatura intesa come rivelazione che il Dio uno e trino compie di Sé nel mistero della grazia. Ciò fa sì che si possa parlare non solo di una Rivelazione trinitaria in una storia oggettiva, ma anche di una rivelazione trinitaria realizzata in una storia personale ed in un'esistenza soggettiva, quella dei cristiani che vivono la vita della grazia. Le virtù teologali, la dinamica della vita propria dei figli di Dio, la presenza dello Spirito nell'anima in grazia, la docilità allo Spirito, l'incorporazione a Cristo, la riproduzione della vita e del mistero di Cristo in noi, sono altrettanti modi di conoscere il Dio rivelato, mediante una conoscenza che si perfeziona nell'amore e trova nell'amore la sua fonte attualizzante. Dio si rivela all'uomo mediante la vita della grazia e l'uomo in grazia rivela Dio mediante la testimonianza e le virtù che quella vita suppone. La centralità della carità come luogo della Rivelazione di Dio alla creatura e luogo della rivelazione di Dio agli altri è uno dei temi conduttori di tutta la Prima Lettera di san Giovanni.

c) Il rapporto fra Rivelazione e storia: natura storica della Rivelazione e valore rivelativo della storia

Fra Rivelazione e storia esiste un singolare rapporto:

— la Rivelazione si compie attraverso la storia, mediante l’irrompere salvifico di Dio negli avvenimenti e per mezzo degli avvenimenti;

— allo stesso tempo, la Rivelazione è in qualche modo soggetta alla storia, perché si manifesta con i tratti di uno sviluppo storico, cioè di una storia della Rivelazione;

— inoltre, la natura storica della Rivelazione e la dimensione profetica di una storia interpretata dalla Rivelazione, implicano che ad una pienezza della Rivelazione debba corrispondere anche un compimento della storia, ponendo la questione del rapporto fra Cristo e il tempo.

Un chiarimento di tale rapporto suscita alcune importanti domande su questioni centrali per la teologia della Rivelazione:

36 GIOVANNI PAOLO II, Lit. Enc. Dominum et vivificantem, 18.5.1986, n. 9.

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• La storia rivela per il solo fatto di essere storia?

• Il contenuto della Rivelazione è completamente (ed inevitabilmente) immerso nel flusso del divenire storico?

La Rivelazione come storia: la prospettiva di Pannenberg

Alla prima domanda ha cercato di rispondere W. Pannenberg (La Rivelazione come storia, 1961), il quale ha sostenuto che , che tutta la storia è cioè storia sacra, un grande avvenimento salvifico. Questa concezione avrebbe a prima vista alcuni vantaggi: è in accordo con il carattere universale della Rivelazione (la storia, come la Rivelazione, è sotto gli occhi di tutti) ed è conforme con l’idea che grazie alle missioni ad extra del Figlio e dello Spirito, Dio stesso è entrato nella storia, specie con l'assunzione della natura umana da parte del Verbo incarnato, giustificando così il fatto che non esista più una storia meramente profana. Al tempo stesso, però, la prospettiva di Pannenberg manifesta alcuni importanti limiti. Se intesa in una cornice hegeliano-storicista, l’identificazione rivelazione=storia conduce facilmente ad una identificazione più radicale del tipo realtà=storia=rivelazione37. In tal modo si dovrebbe affermare che la pienezza di rivelazione si avrebbe solo nell’escathon, e che il vero senso degli avvenimenti si conoscerà solo alla fine dei tempi quando tutti insieme contribuiranno a chiarire definitivamente il contenuto del tutto, cioè della Rivelazione divina solidale con l'intera storia del mondo. Tale concezione trascinerebbe con sé il duplice rischio di non spiegare bene perché la pienezza di rivelazione si sia già data nel Cristo e di finire con lo storicizzare Dio stesso. Qualsiasi teologia della storia deve tener conto che «né la resurrezione di Cristo né l’incarnazione del Figlio di Dio possono essere il risultato del divenire storico; sono invece e unicamente un’irruzione assolutamente gratuita di Dio, come Dio, nella storia. L’una e l’altra sono autofondanti, ossia portano in se stesse il fondamento della loro realtà e verità»38.

La prospettiva dogmatica più coerente, presente nella Scrittura e ripresa poi dalla Dei Verbum, sta invece nell’affermare che la storia rivela quando essa è unita alla parola. È questo il senso dell’affermazione conciliare che (n. 2). Senza la parola che annuncia gli eventi storici e ne svela il significato rivelatorio e salvifico, la storia, di per sé, non rivelerebbe nulla. Questa connessione parola-storia è paradigmaticamente visibile nella storia di Israele: è il ministero profetico che fa comprendere al popolo di Dio il senso della sua liberazione e del suo esilio, dei doni che riceve da Dio e delle punizioni. Senza questo ministero, la storia di Israele sarebbe la storia di una delle tante migrazioni dei popoli dell’antichità. Nei miracoli compiuti dal Cristo si nota la stessa corrispondenza: la parola svela il senso dell’evento miracoloso e l’evento conferma, con il suo effettivo accadere, l’autenticità della parola (cfr. Mt 9,6-7).

Come la storia rivela

Nel rapporto fra Rivelazione e storia occorre allora affermare i seguenti punti:

• il potere rivelatorio della storia dipende dall’azione, interpretativa e dinamica, della Parola;

• la natura storica e progressiva della Rivelazione consiste nel suo tendere a Cristo come pienezza della Rivelazione e centro della storia; dopo l’evento pasquale del Cristo morto e risorto, la storia della Rivelazione si sviluppa in una economia nuova, quella di un presente che, per mezzo dello Spirito, riattualizza e fa approfondire ciò che in Cristo ci è stato rivelato e dato una volta per tutte;

• la natura storica della Rivelazione consiste anche nel suo essere frutto della libertà: libertà di Dio che rivela e libertà dell’uomo che accoglie la parola divina; senza libertà non c’è storia; se

37 Ci si troverebbe cioè assai prossimi al suggerimento di Hegel nella Fenomenologia dello Spirito:

. Alla affemazione classica che verum et unum convertuntur si aggiunge l’idea che l’unum si compie come risultato evolutivo di un processo storico.

38 J. ALFARO, La teologia di fronte al magistero, in , a cura di R. Latourelle e G. O’Collins, Queriniana, Brescia 19822, p. 416.

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la concezione della storia è quella di un ineluttabile e deterministico sviluppo degli eventi (storicismo hegeliano), ad una storia così non può associarsi nessuna rivelazione significativa, né può essere una simile storia la dimensione attraverso la quale la Rivelazione possa compiersi;

• il senso della storia giace fuori della storia stessa: «la storia acquista senso e significato soltanto in rapporto ad un giudizio ultimo, che è precisamente la chiusura e il fine della storia. Lo scopo del mistero messianico è il mistero della partecipazione alla vita intima di Dio stesso, che non è storia, ma eternità»39.

La rivelazione oltre la storia: la prospettiva di Bultmann

Un tentativo di risposta indiretta alla seconda domanda è quello operato da Bultmann. Il rapporto fra Rivelazione e storia non deve destare preoccupazione in quanto l'esistenza di una continuità storica nella parola della Rivelazione non sarebbe necessaria: la Rivelazione, secondo Bultmann, ha una tale attualità esistenziale da non aver bisogno di fondarsi su fatti avvenuti tempo addietro. Essa fa appello alla vita presente di ogni uomo ed acquista significato nella misura in cui la si riconosce interiormente capace di questo appello. Il procedere del tempo ha separato e separa inevitabilmente il Gesù della storia dal Cristo della fede ed è ormai impossibile operare fra i due una ricomposizione. Ma questa separazione non costituisce un problema ai fini del messaggio della Rivelazione. La Rivelazione è sempre un parola pronunciata al presente, un mediante il quale Dio si rivela al destinatario di quel messaggio, invitandolo ad accoglierne la salvezza.

Se la posizione di Bultmann può avere avuto il pregio di rivalutare la valenza esistenziale e la perenne contemporaneità della parola di Dio, fino a farne una regola della sua esegesi (interpretazione esistenziale), ha il grave difetto di annullare la storicità della Rivelazione e quindi delle opere di Dio, staccando la fede da ogni legame con la ragione. Nella sua visione si elimina del tutto la dimensione oggettiva della Parola, assorbendola completamente in una dimensione soggettiva; e ciò non solo più perché la Rivelazione viene accolta nel soggetto, ma perché viene , creata in certo modo da colui che la annuncia e da colui che la riceve. Conoscere ciò che effettivamente Gesù di Nazaret abbia detto e predicato non avrebbe paradossalmente più alcun significato per la salvezza degli uomini... La prospettiva bultmaniana ricorda dunque da vicino la visione della Rivelazione propria del modernismo, ove gli aspetti esistenziali paiono occultare del tutto i suoi contenuti oggettivi e storici.

Le garanzie di una Rivelazione nella storia

Per affrontare correttamente il problema di come la natura storica della Rivelazione, certamente immersa nel flusso della storia e delle sue leggi, sia compatibile con la perenne validità del suo contenuto veritativo occorre non perdere di vista due fatti di cui Dio stesso è il garante:

• il Dio la cui parola è sempre fedele e norma di verità stabile è il medesimo Dio che dirige la storia secondo i suoi piani di salvezza;

• Dio stesso assicura la fedeltà dell’interpretazione e della trasmissione della Sua Parola nel tempo mediante una speciale assistenza (carisma dell’infallibilità). «La Chiesa, che è la Sposa del Cristo, possiede la sua parola come un deposito che essa continuamente medita e assimila alla luce dello Spirito. Senza questo Magistero divinamente istituito e senza questa assistenza speciale dello Spirito, noi saremmo d’accordo che sarebbe impossibile concepire una dottrina, anche di origine divina, che sfugga alle fluttuazioni della storia»40.

L'enciclica Fides et ratio (14.9.1998) contiene molteplici spunti di riflessione sul rapporto fra Rivelazione e storia. Si segnala l'ambiguità dello come sistema filosofico inadatto alla

39 J. Lacroix, cit. da H. DE LUBAC, La Rivelazione divina e il senso dell’uomo, o.c., p. 46. 40 R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, o.c., p. 412.

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comprensione della verità della Rivelazione (n. 87), ma si offre anche un riepilogo positivo di tale rapporto (nn. 11-12).

Testi dalla Fides et ratio, nn. 87, 11 e 12.

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II. LA TRASMISSIONE DELLA RIVELAZIONE

La consegna della Rivelazione alla Chiesa ed il compito della Chiesa di fare presente nel tempo la parola salvifica di Dio, pongono il tema della trasmissione della Rivelazione. La natura stessa della storia, in particolare la tensione esistente fra l’aspetto evolutivo e mutevole di questa e l’aspetto stabile e compiuto della parola che si deve trasmettere, pongono il tema dell’autenticità della trasmissione, introducendo pertanto la questione del ruolo e della natura di un Magistero. Inoltre, tanto la trasmissione della parola, come l’autenticità di questa, devono essere viste alla luce del contenuto scritto della Parola, cioè della Sacra Scrittura.

Un esempio vivo di come la Chiesa ed i sui pastori ebbero fin dall'inizio la consapevolezza dell'importanza salvifica della fedeltà di questa trasmissione e di cosa essa implicasse, ci è offerto dal di Paolo agli anziani (vescovi o presbiteri) di Efeso, prima di imbarcarsi per Gerusalemme a Mileto:

«Da Milèto mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio. Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!”. Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave» (At 20,17-38).

1. Rivelazione e Chiesa

Rivelazione e Chiesa hanno il medesimo fine, cioè la salvezza degli uomini. Fra Rivelazione e Chiesa esistono delle strette e reciproche implicazioni: la Rivelazione realizza, rende possibile la Chiesa, ma in un certo senso, la Chiesa rende possibile la Rivelazione: la mette per iscritto, la incarna nella vita, la trasmette al mondo. Tuttavia la principale delle due implicazioni causali è quella che vede nella Rivelazione la causa della Chiesa. Il rapporto è in qualche modo analogo a quello fra Eucaristia e Chiesa: la Chiesa è fatta dall'Eucaristia, ma anche la Chiesa fa l'Eucaristia.

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a) La Chiesa è convocata e generata dalla Parola

La Chiesa è in stretto rapporto con la Rivelazione attraverso il suo speciale rapporto con la Parola: essa è la comunità di coloro che hanno creduto alla Parola, è convocata dalla Parola, la trasmette, la custodisce, ne garantisce l’autenticità: (sant'Agostino).

Fin dall’inizio della sua missione visibile nel mondo il giorno di Pentecoste, la Chiesa viene indicata di fatto come l’assemblea (ejkklhsiva) dei credenti, di coloro che hanno risposto ad una chiamata-vocazione (klhvsi") che hanno ascoltato ed accolto la parola. I cristiani sono infatti i chiamati (klhtoi) o gli scelti (ekkletoi), termini che derivano dal verbo convocare (ekkalevin). I cristiani, gli appartenenti alla Chiesa, sono coloro che vengono (Rm 1,6), (Rm 8,28), i vincitori insieme all’Agnello Redentore della visione apocalittica, (Ap 17,14).

La Chiesa nasce dalla predicazione di Cristo e degli Apostoli

È Cristo stesso che convoca la Chiesa mediante le sue parole, la sua predicazione, i suoi gesti, i miracoli che confermano la sua parola e la fanno accogliere nella fede. Egli è il buon Pastore che chiama le sue pecorelle una ad una, e le pecorelle del suo gregge ascoltano e riconoscono la sua voce (Gv 10,3-4.16). Il mandato ricevuto dal Padre è quello di dare ai suoi discepoli le parole ascoltate dal Padre, parole che essi hanno accolte, e di santificarli così nella verità (Gv 17,6-19). La convocazione della Chiesa da parte della parola è rappresentata specialmente dall'invito ad entrare nel Regno e a viverne le esigenze.

«Il Signore Gesù, infatti, diede inizio alla sua Chiesa predicando la buona novella, cioè la venuta del regno di Dio da secoli promesso nelle scritture. (...) La parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato in un campo (cfr. Mc 4,14): quelli che la ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32) hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29)» (Lumen gentium, 5).

L'origine della Chiesa sta dunque in primo luogo nella predicazione di Cristo, nella formazione di un discepolato che ne segue gli insegnamenti e che, dopo la sua ascensione al cielo, legherà la predicazione e l'accettazione di questi insegnamenti all'amministrazione del battesimo (cfr. Mt 28,19-20). Il battesimo diviene il momento sacramentale-confessionale che dà forma all'incorporazione nella sua Chiesa.

La generazione della Chiesa da parte della parola si fa evidente specie nella narrazione degli Atti degli Apostoli: alla Chiesa si aggregano coloro che ascoltano la loro parola, cioè la predicazione apostolica. Gli apostoli convocano e generano la Chiesa mediante la forza salvifica della Parola: l’estensione della Chiesa viene spiegata dicendo che (At 12,24; 13,48-49; 17,11; 19,20). Nella predicazione paolina, l’entrata di coloro che accolgono la parola nella comunità dei credenti viene paragonata ad una vera e propria generazione spirituale: (1Cor 4,15; cfr. 2Cor 3,3).

La parola che convoca e genera è principalmente quella del mistero pasquale che si rende presente nella comunione attorno alla liturgia eucaristica

Ma tale predicazione-convocazione ha nella celebrazione eucaristica il suo vertice. Quanto gli apostoli annunciano non è solo una dottrina — quella per entrare nel Regno — ma un fatto: Gesù Cristo è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra salvezza. Questo fatto, già riconosciuto nel nucleo del kerigma apostolico è ri-presentato sacramentalmente nel banchetto eucaristico, memoriale della passione, morte e resurrezione di Cristo. L’eucaristia assumerà progressivamente, in dipendenza delle diverse circostanze politico-sociali e di luogo in cui potrà essere celebrata, il carattere di una testimonianza pubblica di fede, di un nuovo e perenne annuncio al mondo del Cristo risorto (). La cena eucaristica, che si presenta fin dall’inizio collegata all’annuncio-riproposizione della parola, è convocazione dei battezzati e segno della comunione fraterna, quella nel Corpo di Cristo, cui sono chiamati coloro che si convertono. I catecumeni, anch’essi convocati dalla parola-eucaristia, ascolteranno la lettura e

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l’esposizione delle Scrittture, ma dovranno attendere il battesimo prima di poter prendere parte alla frazione del pane.

Dalla predicazione nasce così la comunione, dal kérigma la koinonía, ovvero la communio. La comunità dei convocati si identifica per la loro comunione fraterna. La parola accolta e messa in pratica genera unità, permette così una partecipazione comune a Cristo, alla stessa fede, agli stessi beni. L'Eucaristia non può non essere al centro della Chiesa nascente perché di questa unità-partecipazione-comunione ne é il cuore stesso, per il suo riferimento diretto a Cristo: mensa della parola e mensa del pane sono legate dalla medesima liturgia41. La riunione domenicale , con tutto ciò che essa implicava per la cultura ebraica in cui essi si muovevano inizialmente, vuole mantenere un collegamento esplicito , e sarà il primo atto comunitario dei cristiani dalla progressiva rilevanza sociale.

Già la riflessione teologica interna al NT, specie con Paolo, è consapevole del fatto che la vera e più profonda che ha convocato e generato la Chiesa è la Croce, il mistero pasquale della morte e resurrezione di Gesù. La Chiesa è stata , si aggrega specialmente attorno all'annuncio della resurrezione (At 10,34-43; 20,28; Ef 2,14-22; Ef 5,25-27; Col 1,18-20). Il nuovo popolo di Dio nasce dalla parola che Dio ha pronunciato con la morte e la resurrezione del Suo Figlio (cfr. 1Pt 2,4-10). Anche in Giovanni è la Croce ad attrarre tutto e tutti verso di sé (Gv 12,32).

Riepilogando, possiamo affermare con René Latourelle che «Chiesa e rivelazione, Chiesa e parola sono due realtà indissolubilmente unite e che si vivificano reciprocamente. La Chiesa è contemporaneamente quella che convoca e quella che è convocata. Nata dalla parola è al servizio della Parola e segno della parola. La Sposa ha ricevuto la parola dallo Sposo e non potrebbe dimenticarla. Vive di questa parola nell’attesa del ritorno dello Sposo»42.

Il rapporto fra la Chiesa e la fede di Israele

La convocazione-predicazione di Cristo mostra i tratti, specie nel Vangelo di Matteo, di una convocazione-rinnovamento del popolo di Dio, il popolo di Israele, perché si prepari ad accogliere la salvezza; salvezza che, attraverso questo popolo ed in continuità con le promesse fatte ai Padri, è rivolta a tutte le genti. Questo disegno di (Mt 10,6) è comune al modo di presentare la predicazione e l'azione di Cristo in tutto il NT e segna in modo evidente anche l'atteggiamento della Chiesa primitiva narrato negli Atti degli Apostoli. Gli Apostoli frequentano il tempio di Gerusalemme e vi insegnano la dottrina di Gesù. San Paolo in tutti i suoi viaggi missionari comincia predicando nelle sinagoghe e, giunto prigioniero a Roma, riunisce immediatamente la comunità ebraica lì presente. Sarà a partire dall'inasprirsi del rifiuto dei Giudei quando la predicazione apostolica assumerà i caratteri della convocazione di un Nuovo Israele.

Il rapporto fra la predicazione di Gesù e degli apostoli e l'intenzione di rinnovare in primo luogo la fede in Israele ha suggerito ad alcuni l'ipotesi che non vi fosse in Cristo alcuna volontà intenzionale di fondare una Chiesa come società religiosa che sostituisse Israele (G. Lohfink). Se da un lato è forse vero che tale fondazione non ha assunto i caratteri di un atto formale e che la coscienza dei primi cristiani di stare formando una comunità nuova, distinta da quella israelita, ammetta una certa gradualità storica (non leggeremo mai ecclesia nel Vangelo di Luca, ma solo negli Atti; nel NT sarà assai rara l'espressione Chiesa di Cristo, ma si parlerà invece di Chiesa di Dio), il messaggio di Gesù e la sua eredità apostolica sono tuttavia inequivoci. Pur all'interno di categorie veterotestamentarie (cena pasquale, preghiera nel tempio, richiamo alla conversione di Israele), Gesù chiama e forma un gruppo di discepoli perché siano testimoni di come si stia realizzando in Lui, col suo sacrificio redentore, un'alleanza nuova, un'apertura universale a tutte le genti, di cui è adesso Egli stesso e non più Israele, il principale artefice e mediatore.

41 Cfr. K. KERTELGE, La realtà della Chiesa nel Nuovo Testamento, in CTF, III, pp. 130-131. 42 R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, o.c., p. 486.

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b) La Chiesa rende presente la Parola. La Chiesa come segno della Rivelazione

La missione della parola incarnata continua nella missione della Chiesa perché è attraverso di essa che il Cristo, in unione con l'azione interiore dello Spirito, continua ad interpellare gli uomini di ogni generazione e a chiamarli alla salvezza. La missione della Chiesa nasce dalle missioni del Figlio e dello Spirito Santo e ne è il loro prolungamento invisibile nel mondo. Cristo consegna la sua parola agli apostoli e ai suoi successori: (Lc 10,16). La Chiesa non può sottrarsi a questo compito perché (Rm 10,16; cfr. tutto il contesto: vv. 13-17).

La Chiesa rende presente la parola mediante la predicazione e la testimonianza

La testimonianza è una categoria costitutiva dell’intera Rivelazione: quest'ultima si struttura come la testimonianza fedele di Dio nelle sue opere di salvezza, dalla creazione, all’alleanza e alle sue conseguenze; come testimonianza che il Figlio rende al Padre; come testimonianza che lo Spirito rende al Figlio; come testimonianza degli apostoli e dei discepoli alla parola ricevuta dal Cristo. Questa stretta corrispondenza implica che allo stesso modo con cui la Rivelazione si costituisce nella testimonianza e con la testimonianza, essa non può essere trasmessa prescindendo da questa medesima categoria. Se la Rivelazione fosse consistita in una dottrina filosofica, in una sorta di sapienza umana da trasmettere alla stregua delle scuole elleniste o stoiche, essa avrebbe richiesto dei maestri e dei predicatori. Ma la Rivelazione consiste invece in un intervento salvifico di Dio nella storia, in un messaggio consegnato in momenti e luoghi determinati, giunto a pienezza attraverso l'esempio vivo della persona de Cristo e, pertanto, essa richiede dunque dei testimoni, prima che dei maestri. «La Rivelazione cristiana implica pertanto l'opera redentrice di Cristo e allo stesso tempo la testimonianza che di Cristo danno alcuni uomini che sono stati suoi testimoni. In questo senso si può affermare che la Chiesa è fondata sull'opera di Cristo e sulla testimonianza degli Apostoli»43.

Oltre ai numerosi riferimenti al valore della testimonianza presenti nel Concilio Vaticano II, dedicano speciale risalto a tale categoria Paolo VI nella Evangelii nuntiandi (8.12.1975) e Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio (7.12.1990). Predicazione e testimonianza sono due aspetti inscindibili, come lo sono i gesti e le parole nella Rivelazione. La Chiesa può fare presente in modo credibile la parola solo se la sua confessione è accompagnata dalla coerenza delle opere (cfr. Evangelii nuntiandi, nn. 21 e 41-42).

«[La buona novella] deve essere anzitutto proclamata mediante la testimonianza. Ecco: un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità d'uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglienza, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono. Ecco: essi irradiano, inoltre, in maniera molto semplice e spontanea, la fede in alcuni valori che sono al di là dei valori correnti, e la speranza in qualche cosa che non si vede, e che non si oserebbe immaginare. Allora con tale testimonianza, senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della Buona Novella. Vi è qui un gesto iniziale di evangelizzazione. Forse tali domande saranno le prime che si porranno molti non cristiani, siano essi persone a cui il Cristo non era stato mai annunziato, battezzati non praticanti, individui che vivono nella cristianità, ma secondo principi per nulla cristiani, oppure persone che cercano, non senza sofferenza, qualche cosa o Qualcuno che essi presagiscono senza poterlo nominare» (Evangelii nuntiandi, n. 21)

La predicazione della Chiesa non può essere sostituita dalla sola parola scritta. La forza convocante della parola dipende anche dalla vita di chi predica: (Evangelii nuntiandi, 41). Se si annuncia una parola capace di cambiare la vita di chi ascolta, bisogna innanzitutto mostrare che è stata capace di cambiare la vita di chi predica44.

43 C. IZQUIERDO, Teología Fundamental, o.c., p. 108. 44 «Questa esigenza di una predicazione autenticata dalla vita si deduce anche dal fatto che

l’essenziale del messaggio cristiano è la rivelazione dell’amore di Dio attraverso l’amore del Cristo. E’ dal mistero dell’amore infinito manifestato nel Cristo che la predicazione deve avere inizio. Ora, come

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La Chiesa, motivo di credibilità e segno di salvezza della Rivelazione

Nel rendere presente la parola, la Chiesa si propone nel suo insieme come un grande e perenne motivo di credibilità della Rivelazione. Già la predicazione dei Padri segnalava ai pagani la dottrina e la vita della Chiesa come segno della credibilità della fede. L’ idea della Chiesa quale motivo di credibilità viene ribadita dal Magistero del Vaticano I (DS 3013-3014); il Concilio Vaticano II ne parlerà più volentieri nei termini di un segno di salvezza, in costante riferimento a Cristo che di tale salvezza è il segno per antonomasia.

Contribuiscono in modo decisivo a fare della Chiesa segno credibile della Rivelazione il mandato evangelico da essa ricevuto di estendersi su tutta la terra, al di là di ogni geografia territoriale razziale, con la stessa estensione salvifica della Parola di Cristo che raggiunge ogni uomo creato a immagine e somiglianza di Dio; la sua preoccupazione per ogni uomo; la sua universalità come è universale l’amore del suo fondatore per gli uomini. 45. Nonostante la massa dei peccatori di cui essa è composta, la Chiesa si propone al mondo con i segni della carità, della fecondità, del perdono, dell’unità, dell’amore ad ogni uomo e rimanda la giustificazione della sua energia, della sua permanenza e della santità dei suoi frutti alla sua origine divina.

Si tratta di un segno non dimostrativo, ma indicativo, attrattivo: la Chiesa rimanda a qualcosa e a Qualcuno che la trascende, Qualcuno che essa può continuare ad indicare nonostante le limitazioni e le colpe degli uomini che la compongono. Segno non estrinseco, perché il Figlio e lo Spirito sono realmente presenti in lei e nei suoi mezzi di salvezza. La Chiesa è capace di segnalare il mistero, indirizzarvi chi ad essa si avvicina e rivelarlo a chi ne ascolta il messaggio con cuore retto. E lo fa con più forza anche quando dovesse riconoscere gli errori od i limiti di una passata condotta dei suoi figli46.

introdurre l’amore di una persona senza un contagio d’amore? Come aprire gli uomini all’amore che si offre se non a contatto di colui che è già acceso d’amore? Occorre che l’amore di Cristo abbia già invaso il cuore dell’apostolo perché le anime vedano nel predicatore il Dio che è amato e che ama. Occorre che la parola ascoltata susciti la riflessione dei discepoli di Emmaus: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli ci parlava per via spiegandoci le Scritture?”» (R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, o.c., p. 472).

45 Cfr. ibid., pp. 484-485. 46 «Emerge così chiaramente la funzione decisiva della testimonianza come via di credibilità

ecclesiale che non si riduce né ad una credibilità puramente esterna ed estrinseca — rischio dell’apologetica ecclesiologica classica — né ad una credibilità puramente interna e soggettiva — rischio frequente per compensare la precedente —, ma che pone la sua attenzione in una comprensione della credibilità come invito — a volte interno a volte esterno — alla fede, a causa del suo carattere globale ed integrante. In effetti, in questa credibilità della testimonianza ecclesiale si intersecano la dimensione esterna, frutto della connessione storica con la testimonianza apostolica fondante della Chiesa; la dimensione interiorizzata, sorta dall’esperienza ecclesiale della testimonianza vissuta; e la dimensione interiore ed interiorizzatrice grazie alla testimonianza dello Spirito che è colui che anima e santifica la Chiesa» (S. PIÉ I NINOT, La Chiesa come tema teologico fondamentale, o.c., pp. 162-163). Fra i riferimenti teologici più significativi in proposito, il documento della CTI, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, 7.2.2000.

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2. La Chiesa custode della Rivelazione e soggetto della sua trasmissione: la nozione di Tradizione ed i suoi rapporti con la Sacra Scrittura

Nell’introdurre il tema della trasmissione della Rivelazione, così si esprime la Dei Verbum:

«Dio, con la stessa somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo signore, nel quale trova compimento tutta la rivelazione del sommo Dio, ordinò agli apostoli di predicare a tutti, comunicando loro i doni divini, come fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, il vangelo che, prima promesso per mezzo dei profeti, egli ha adempiuto e promulgato con la sua bocca. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca, dal vivere insieme e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito santo, quanto da quegli apostoli e uomini della loro cerchia, i quali, sotto l'ispirazione dello Spirito santo, misero in iscritto l'annunzio della salvezza Gli apostoli, affinché il Vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come successori i vescovi, ad essi affidando il loro proprio posto di magistero. Questa sacra Tradizione e la sacra Scrittura dell’uno e dell’altro testamento sono come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia com’è» (n. 7)

In questo numero della Dei Verbum emergono dunque quattro elementi principali:

— l’esistenza di un Vangelo di salvezza come unica fonte del messaggio trasmesso dalla Chiesa (cfr. Concilio di Trento, DS 1501);

— la necessità di una sua trasmissione nella storia;

— l'introduzione di un concetto chiamato , che nella sua prima accezione vuol qui indicare ;

— il problema di come salvaguardarne la purezza e la fedeltà e, pertanto, il ruolo del ministero apostolico ed episcopale in questo annuncio-trasmissione.

Ma qual è l'oggetto della trasmissione? La stessa Costituzione affermerà nel numero successivo che:

«Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa e all’incremento della fede del popolo di Dio. Così la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è e tutto ciò che essa crede» (n. 8).

Ciò che si deve trasmettere a tutte le generazioni, dunque, ha la sua unica fonte in ciò che Cristo ha rivelato in pienezza e ha comandato agli apostoli di predicare e insegnare con l’assistenza dello Spirito. Il suo oggetto è tutta l’intera realtà della vita cristiana. Il soggetto di tale trasmissione è poi la Chiesa stessa, la quale trasmette il Vangelo nel senso più ampio del termine, come parola e come vita.

a) La nozione di Tradizione nella Costituzione Dei Verbum ed il suo rapporto con la Scrittura

Con il termine Tradizione, utilizzato in senso ampio, si indica proprio questa intera trasmissione, ciò che la Chiesa ha ricevuto da Cristo, ciò che crede e ciò che vive. Con un utilizzo del termine Tradizione in senso stretto, si indica la trasmissione orale di qualcosa che non sia necessariamente scritto nei testi sacri. Nella sua etimologia latina vi sono i concetti del trasmettere e del consegnare (tradere).

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Nei nn. 7-8 della Dei Verbum possiamo riconoscere cinque modi, reciprocamente integranti, di accedere alla nozione di Tradizione47:

— quanto è stato rivelato da Dio;

— il Vangelo promesso ai profeti e promulgato dal Cristo, quale fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale;

— il mandato di trasmettere tale Vangelo, fedelmente eseguito dagli apostoli nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni;

— la predicazione apostolica messa per iscritto nei libri ispirati;

— tutto quanto fu trasmesso dagli apostoli e che contribuisce alla condotta santa e all’incremento della fede del popolo di Dio, nella dottrina, nella vita, nel culto.

La Tradizione ha un contenuto specifico: gli apostoli trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra, dalla frequentazione e dalle opere del Cristo, sia ciò che avevano imparato per opera dello Spirito Santo. Natura e modalità di questa trasmissione sono la predicazione orale, gli esempi, le istituzioni, l’annuncio posto per iscritto con l’ispirazione dello Spirito santo.

La Tradizione, infine, manifesta i caratteri tipici della Rivelazione nel suo insieme: la prospettiva personalista del suo Autore e dei suoi destinatari (dal Padre, al Figlio, alla Chiesa, a tutti gli uomini); la centralità cristologica (Cristo dà compimento a ciò che ha ricevuto dal Padre e lo consegna a sua volta agli apostoli); la gratuità dell’iniziativa divina (nasce dalla disposizione benigna di Dio); la sua storicità (progredisce e viene trasmessa nel tempo con la vita e nella vita); e la sua diretta finalizzazione alla salvezza, non senza una certa tensione escatologica (si trasmette un messaggio salvifico nell’attesa di terminare il pellegrinaggio terreno).

La Tradizione ci si presenta come una realtà viva, dinamica, aperta sulla storia. Per ben comprenderla occorre pensare che la tradizione esprime la capacità con cui, nel tempo, la Chiesa Sposa del Verbo contempla la Parola, assimila la Parola e, come conseguenza, sa parlarne sempre meglio al mondo. Nella Tradizione si realizza così tanto l’idea della fedeltà come quella di progresso:

«Questa Tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce (proficit) nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano (experiuntur) delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità. La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a pienezza le parole di Dio» (n. 8)

I motivi di questo approfondimento della Parola possono essere vari. Alcuni si presentano con un carattere apparentemente negativo, come ad esempio la lotta contro le eresie, le dispute teologiche o le difficoltà incontrate dall’evangelizzazione. Altri vi contribuiscono con un carattere positivo, primo fra tutti l’azione dello Spirito nella Chiesa, specie attraverso il dono del carisma dell’infallibilità nelle sue varie manifestazioni, nonché il progresso della teologia.

Dunque all'interno della Tradizione, considerata nel suo senso più ampio come trasmissione della Rivelazione, la Sacra Scrittura rappresenta il documento preminente. I libri sacri hanno una funzione unica e imprescindibile per individuare la parola che salva e, pertanto nell'individuare ciò che deve essere trasmesso. Come affermato dalla Dei Verbum: (n. 11). Gli scritti del NT, ad esempio, sono venuti incontro fin dall'inizio al bisogno di criteri normativi

47 Cfr. R. FISICHELLA, La Rivelazione, evento e credibilità, o.c., pp. 122-125.

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manifestato dalla tradizione apostolica. Ne è un caso emblematico la decisione del primo concilio di Gerusalemme, come riportato dagli Atti degli apostoli. Dopo i discorsi di Pietro e di Giacomo, il collegio dei dodici decide di fissare per iscritto quali tradizioni della legge giudaica dovessero vivere i pagani, affinché a questi non venissero richieste prescrizioni innecessarie e la Chiesa nascente si sviluppasse in conformità con gli insegnamenti ricevuti dal Signore (cfr. At 15,22-35)

La Scrittura dunque favorisce la trasmissione fedele della tradizione apostolica, ma al tempo stesso risulta da essa dipendente. Infatti, la vita e la parola non scritta precedono cronologicamente la Scrittura ed è alla tradizione apostolica che ci si rivolse per conoscere quali fossero i libri ispirati. Inoltre, i libri sacri furono riconosciuti e venerati precisamente perché erano gli strumenti che trasmettevano quella Tradizione e la custodivano nel tempo.

Va infine notato che, nella sua sintesi dottrinale, il Catechismo della Chiesa Cattolica parlerà di una grande Tradizione (con maiuscola) apostolica, distinguendola dalle tradizioni (con minuscola, plurale):

«La Tradizione di cui qui parliamo è quella che viene dagli Apostoli e trasmette ciò che costoro hanno ricevuto dall'insegnamento e dall'esempio di Gesù e ciò che hanno appreso dallo Spirito Santo. In realtà, la prima generazione di cristiani non aveva ancora un Nuovo Testamento scritto e lo stesso Nuovo Testamento attesta il processo della Tradizione vivente. Vanno distinta da questa le “tradizioni” teologiche, disciplinari, liturgiche o devozionali nate nel corso del tempo nelle Chiese locali. Esse costituiscono forme particolari attraverso le quali la grande Tradizione si esprime in forme adatte ai diversi luoghi e alle diverse epoche. Alla luce della Tradizione apostolica queste “tradizioni” possono essere conservate, modificate oppure anche abbandonate sotto la guida del Magistero della Chiesa» (CCC, n. 83).

b) Criteri e luoghi di riconoscimento della Tradizione

Quando si considera la Tradizione nel suo senso stretto, cioè come trasmissione di una parola consegnata dalla Rivelazione ma non scritta nei libri sacri, sorge il tema del suo riconoscimento. Occorre cioè poter dire quale siano quelle cose che non sono riportate dalla Scrittura e quali siano i luoghi ove esse sono state raccolte per essere trasmesse fino a noi. Non va dimenticato che soggetto della Tradizione, anche in questo senso più stretto, è la Chiesa stessa nel suo insieme, non il singolo credente, e pertanto i criteri e i luoghi di riconoscimento della Tradizione non potranno mai mancare di un riferimento ecclesiale: un singolo credente può essere soggetto della Tradizione solo nella misura in cui è unito a tutta la Chiesa.

Criteri fondamentali

In un suo famoso testo, san Vincenzo di Lerins segnalava tre criteri fondamentali per il riconoscimento della Tradizione: 48. Si tratta pertanto

— dell’universalità,

— dell’antichità e

— dell’unanimità o consenso .

In tempi a noi più vicini, anche grazie al contributo di teologi come Newman, si è cercato di approfondire questa criteriologia e, se possibile, di aggiornarla. Esistono evidenti difficoltà, come ad esempio il fatto che il sia a volte il consenso di pochi scrittori autorevoli, i quali hanno consegnato alla storia le loro riflessioni; inoltre, resta estremamente difficile stabilire se una certa dottrina sia stata insegnata veramente da tutti i Padri della Chiesa. Nel riconoscimento della Tradizione, la teologia contemporanea cerca nel legame col mistero del Cristo, col

48 Commonitorium, 2 (PL 50,639).

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messaggio centrale del suo mistero pasquale, col mandato dell’amore vicendevole come legge fondamentale del cristiano, il criterio-guida per giudicare l’appartenenza al Vangelo di una determinata dottrina, di un insegnamento o di una prassi. Ciononostante, il cosiddetto resta di fatto, pur nella sua semplicità, uno strumento di irrinunciabile valore.

I luoghi fondamentali

I luoghi fondamentali ove cercare il contenuto della Tradizione sono:

— il Magistero della Chiesa,

— l’insegnamento dei Padri,

— la Liturgia,

— ed infine il comune sentire dei fedeli.

I Padri della Chiesa sono stati sempre considerati come testimoni privilegiati della Tradizione, in particolar modo per la loro prossimità ai tempi apostolici, la loro difesa del dogma e il loro rapporto con la Scrittura. Oltre a quanto asserito nella Dei Verbum, 8, spunti di interesse su questo ruolo dei Padri sono contenuti in un documento della Congregazione per l'Educazione Cattolica49. La teologia ha visto una speciale autorità nei Padri che verificano le quattro note classiche: dottrina ortodossa, antichità, santità ed approvazione della Chiesa. Il Concilio di Trento aveva raccomandato di non proporre interpretazioni della Sacra Scrittura che andassero contra unanimem consensum Patrum (cfr. DS 1507); il Concilio Vaticano I ha affermato che quel medesimo unanime consensus Patrum nell’interpretazione dei testi biblici poteva considerarsi un insegnamento infallibile (DS 3307).

Sulla importanza dei padri, specie coloro il cui insegnamento discende in linea di discepolato dagli apostoli, si consideri un testo di s. Ireneo di Lione

Testo da Eusebio, Historia Ecclesiastica, V, 20.5-7

Riguardo il ruolo della Liturgia va ricordato il tradizionale principio lex orandi lex credendi. La liturgia è il luogo del dogma vissuto. Non è la liturgia a creare il dogma, ma è ciò che si crede e si è ricevuto a configurare la prassi liturgica. Quest'ultima, pertanto, deve sempre trasmettere con fedeltà la fede della Chiesa per non dare origine a prassi o insegnamenti erronei.

Sul Magistero e sul sensus fidei dei fedeli, ritorneremo nelle prossime sezioni.

Sull’identità ed il riconoscimento della grande Tradizione apostolica, si consideri ancora un noto ed espressivo testo di s. Ireneo

Testo da Adversus Haereses, III, 3,1-3 e 4,1

c) Unità, distinzione e interdipendenza fra Scrittura e Tradizione: il problema della sufficienza formale e materiale della Scrittura

Al parlare della Tradizione, si indica con la terminologia la tradizione che trasmette il contenuto della Scrittura e la sua retta interpretazione. Questa può essere se trasmette qualcosa che vi è contenuto esplicitamente, se solo implicitamente. La necessità di una simile tradizione manifesta l'insufficienza formale della Sacra Scrittura: la Scrittura, da sola, non trasmette l'intera parola della Rivelazione né la sua piena intelligibilità.

49 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Lo studio dei Padri della Chiesa nella formazione

sacerdotale, 10.11.1989, nn. 18-24.

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Si parla poi di quando si vuole indicare che la tradizione trasmette qualcosa che non è in alcun modo presente nel testo scritto. L'esistenza di una manifesterebbe allora l'insufficienza materiale della Sacra Scrittura. Come si vedrà, l'esistenza di una simile tradizione è in qualche modo un problema teologico aperto, benché lo studio del rapporto fra Tradizione e Scrittura lo si debba fare solo alla luce della loro inscindibilità e reciproca vincolazione.

Per chiarire l’unità, la distinzione e l’interdipendenza fra Scrittura e Tradizione è necessario approfondire sotto varie prospettive il loro rapporto.

La testimonianza biblica

La stessa Scrittura ci offre qualche spunto, interno ad essa, sul suo rapporto con la Tradizione:

• La tradizione orale precedette la fissazione del testo scritto: Gesù stesso non scrisse nulla, ma insegnò con parole e opere, e gli evangelisti si preoccuparono di porre per iscritto (At 1,1).

• La fissazione del testo scritto non è stata sostituita dalla trasmissione orale del Vangelo: ciò si vede dal fatto che i singoli vangeli, e gli scritti del NT in genere, hanno un carattere parziale rispetto all’intera predicazione apostolica. Ciascun libro ha una finalità limitata e ben precisa. Inoltre, viene esplicitamente detto che (Gv 20,30). Va comunque chiarito che affermare che ciascun libro scritto contenga un aspetto parziale della predicazione apostolica, non vuol dire che l’insieme di tutta la Scrittura, includendovi anche l’AT, non contenga in qualche modo la base implicita di tutta la Rivelazione.

• Si parla esplicitamente di una parola orale trasmessa dagli apostoli, che deve essere messa in pratica: (2Ts 2,15); identico concetto in 2Tm 1,13 e 1Tm 1,16. Paolo, a sua volta aveva confrontato oralmente il suo vangelo con quello predicato dagli apostoli a Gerusalemme, (Gal 2,2).

• Esiste una precisa necessità di interpretare rettamente la Scrittura; questo compito non può essere evitato e deve essere affidato a chi ha autorità per farlo: (2Pt 1,20). San Pietro parla della necessità di interpretare rettamente le lettere di Paolo (2Pt 3,16) e Paolo stesso parla di alcuni che travisano i suoi scritti.

La testimonianza dei Padri della Chiesa

Quando, a partire dalla fine del II secolo, si fa strada l’idea di una Tradizione in senso stretto (cioè non come trasmissione generica in senso ampio del Vangelo ricevuto), i Padri sottolineano i seguenti aspetti:

• il contenuto di una tradizione non scritta riguarda soprattutto l’interpretazione delle Sacre Scritture. Fuori della Chiesa la Scrittura non può essere rettamente interpretata; si tratta di una interpretazione-tradizione pubblica e manifesta a tutti, in opposizione a quanto sostenuto dagli gnostici, circa l’esistenza di una tradizione occulta per soli iniziati;

• la conservazione di questa retta tradizione viene associata principalmente all’assistenza dello Spirito Santo;

• il ricorso agli scritti dei Padri della Chiesa delle epoche precedenti è visto come necessario per conservare la retta interpretazione ed i retti criteri (a partire dal IV secolo circa). È significativo che in questo ricorso autoritativo risultava quasi inscindibile il riferimento al loro ministero episcopale (per la maggior parte di essi) e quello alla loro competenza nel comprendere ed insegnare il contenuto della Scrittura.

Il dato biblico e la testimonianza dei Padri starebbe dunque a dimostrare l'insufficienza formale della Scrittura. Riguardo al tema di una sua possibile insufficienza materiale vari Padri affermano che non tutta la predicazione apostolica è stata scritta, ma ne esiste una parte

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trasmessa soltanto oralmente. Ritengono ad esempio ricevuti dalla Tradizione apostolica e non contenuti nella Scrittura il culto e la liturgia che si riferiscono alla celebrazione dei sacramenti; alcune prassi sacramentali con contenuto dottrinale, come il battesimo dei bambini, la validità del battesimo amministrato da eretici, ecc.; alcuni aspetti riguardanti la preghiera della Chiesa, come l'adorazione dello Spirito Santo, culto dei santi, preghiere per i defunti, culto delle immagini.

La teologia medievale non si propone di affrontare formalmente questo argomento. Si nota tuttavia, come in Tommaso d'Aquino, una stretta corrispondenza fra Chiesa e Scrittura: (In Io. ev., 21,25, lect. 6), ma le verità delle fede sono contenute (S. Th. II-II, 5, 3, ad 2um). Per tale retto intendere, ci si rivolge ai Padri come ad un argomento di autorità. Il significato teologico di questa corrispondenza Scrittura-Chiesa è in fondo, in termini contemporanei, il reciproco coinvolgimento di Scrittura, Tradizione e Magistero. Riguardo la sufficienza materiale della Scrittura, Tommaso ritiene che nella Scrittura vi sia tutto ciò che è necessario alla salvezza ed alla strutturazione della Chiesa. Le cose trasmesse e non scritte, se toccano l’essenza di qualche sacramento, riguarderanno allora sacramenti che non sono necessari alla salvezza (cfr. In IV Sent. d. 23, q. 1, a. 1).

Concilio di Trento

La Patristica e la teologia, laddove avevano sostenuto la sufficienza della Sacra Scrittura, lo avevano fatto solo riguardo il suo aspetto materiale, mai riguardo il suo aspetto formale. A partire dalla riforma protestante si sosterrà per la prima volta la sufficienza formale della Scrittura, la cui retta interpretazione era stata riconosciuta fino ad allora alla tradizione ecclesiale. Da questo momento la comprensione delle Scritture viene dichiarata di competenza dei singoli credenti, grazie ad un’assistenza individuale e privata che lo Spirito offre ogniqualvolta ci si incontra con il testo sacro.

Il Decreto redatto nella IV sessione del Concilio di Trento (8.4.1546) espone i punti principali della dottrina cattolica in contrasto con la posizione dei riformatori:

«Il Santo Concilio di Trento, avendo sempre davanti agli occhi l'intenzione di conservare nella Chiesa, eliminando gli errori, la stessa purezza del Vangelo che, dopo essere stato precedentemente promesso dai Profeti nelle Sacre Scritture, è stato reso noto dapprima per bocca di Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, poi dai suoi apostoli cui egli ha affidato la missione di annunciarlo a ogni creatura quale fonte di ogni verità salutare e di ogni regola dei costumi; e considerando che questa verità e questa regola morale sono contenute nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte che sono giunte fino a noi, o ricevute dagli apostoli per bocca di Cristo o trasmesse come di mano in mano dagli apostoli a cui lo Spirito Santo le aveva dettate; il Concilio, dunque, secondo l'esempio dei Padri ortodossi, riceve tutti i libri, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, poiché lo stesso Dio è autore dell'uno e dell'altro, così come le tradizioni che concernono sia la fede che i costumi, in quanto provengono dalla stessa bocca di Cristo o dettati dallo Spirito santo e conservati nella chiesa cattolica con una continua successione: il Concilio li riceve e li venera con lo stesso rispetto e la stessa pietà» (Decretum de libris sacris et traditionibus recipiendis, DS 1501).

Il Concilio di Trento ribadisce che la fonte delle verità salvifiche e della morale () è il Vangelo inteso in senso ampio, come predicazione apostolica. Ci troviamo di fronte ad una realtà viva, non identificabile con i testi scritti. Tutto ciò è potuto arrivare fino a noi grazie all’opera dello Spirito Santo.

Si afferma che i mezzi attraverso i quali ci viene trasmesso il Vangelo sono la Scrittura e le tradizioni non scritte, attestando perciò la chiara insufficienza formale della sola Scrittura a garantire tale trasmissione. Finalità del Concilio non è chiarire la sufficienza materiale della Scrittura. Non si dichiara se tutto il Vangelo è trasmesso nei libri sacri o nelle tradizioni non scritte in modo indifferente (parallelamente) o se parte in un modo e parte nell’altro (complementarmente). Una prima redazione del decreto diceva partim... partim..., ma nella versione finale si legge et... et..., ed il motivo del cambiamento non venne specificato.

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Da tutto il decreto emerge l’importanza di un ancoraggio oggettivo alla tradizione apostolica come norma di veridicità e si esclude pertanto ogni interpretazione di tipo soggettivo.

Il rifiuto del da parte di Lutero e dei suoi seguaci merita però alcune precisazioni. La concezione della Tradizione all’epoca della Riforma non godeva della medesima profondità teologica di cui è testimone l’epoca contemporanea, specie dopo gli studi di carattere storico del secolo scorso e, soprattutto, dopo il magistero del Concilio Vaticano II. Nel riferirsi alla Tradizione, Lutero aveva pertanto una visione necessariamente riduttiva; egli intendeva riferirsi principalmente a quello che oggi chiameremmo, al plurale, tradizioni, nelle quali vedeva un ostacolo per la comprensione e la trasmissione dell’autentico messaggio cristiano, perché sovrastrutture legate alle prassi istituzionali e giuridiche. Il fatto che la parte cattolica si appellasse proprio al principio di tradizione per sostenere un tema chiave del disaccordo, come fu quello della dottrina sulle indulgenze, non contribuì a chiarire la situazione. Ai nostri giorni, il criterio della sola Scriptura così come venne proclamato da Lutero non trova riscontro nella teologia protestante, dove si riconosce ormai come innegabile il ruolo di una tradizione storico-religiosa nella formazione, nella consegna e nell’interpretazione della Scrittura lungo i secoli.

Il rinnovamento concettuale della teologia del XIX secolo

Anche se alcuni teologi posteriori a Trento avevano avuto alcune incertezze se parlare della Scrittura e della Tradizione come di due fonti diverse, nelle epoche successive si fa sempre più strada l’idea che si tratti di due nozioni che non possano essere considerate indipendentemente (M. Pérez de Ayala, Melchior Cano, Bellarmino e altri), ridimensionando pertanto il problema della sufficienza materiale del testo scritto. Tuttavia è con il rinnovamento teologico del XIX secolo (Franzelin, Scheeben, Newman) e soprattutto con la Scuola di Tubinga, particolarmente J.A. Möhler, che va chiarendosi teologicamente la stretta corrispondenza ed interdipendenza fra Scrittura e Tradizione, anche grazie ad una rinnovata concezione ecclesiologica la quale, senza negare l’aspetto gerarchico-strutturale, torna a dare attenzione all’aspetto pneumatico-carismatico. Importanza fondamentale a riguardo la avrà l’opera di Möhler L’unità della Chiesa (1825).

«La Tradizione è l’espressione dello Spirito Santo che anima la comunità dei fedeli (...) Il problema se la Tradizione e la Scrittura siano coordinate o subordinate, non può essere neppure posto, perché si fonda su presupposti falsi. Non vi è contrasto fra l’una e l’altra. Tutto questo discorso si basa sull’idea che la Tradizione e la Scrittura corrano come due linee parallele. Ma la realtà non è così e ce lo dimostra la storia. Esse si sono fuse, procedendo attraverso i secoli l’una nell’altra e vivendo in intima unità. (...) La Chiesa cristiana non è basata sulla Scrittura. Infatti il cristianesimo viveva nell’anima del Signore — e nell’anima dei suoi apostoli ripieni di Spirito Santo — ancor prima di diventare concetto, discorso, lettera. Perciò noi asseriamo: prima della lettera vi è lo Spirito; chi ha lo Spirito vivificante comprenderà senz’altro la lettera, che ne è la espressione (...) Fuori della Chiesa, la sacra Scrittura non può essere compresa. Ed eccone la ragione: dove è lo Spirito, vi è anche la Chiesa; dove è la Chiesa vi è lo Spirito»50.

Fra le idee principali che vanno affermandosi vi è quella che la Tradizione non costituisca solo la trasmissione di un deposito, ma un approfondimento, uno sviluppo un contenuto testimoniale che la Chiesa trasmette con la sua stessa vita. Inoltre, l’Autore che rende possibile questa testimonianza viva è lo stesso Spirito che assicura l’integrità del deposito: condurre alla verità tutta intera implica non solo la sua fedele custodia ma anche farne approfondire e progredire nella storia tutta la sua capacità di convocare e di salvare.

Il contributo del Concilio Vaticano II

La discussione teologica del XX secolo precedente al Concilio Vaticano II suggeriva vari modi di interpretare il rapporto fra Scrittura e Tradizione:

50 J.A. MOEHLER, L’unità della Chiesa, Città Nuova, Roma 1969, pp. 67 e 69.

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• Tesi della sufficienza materiale della Scrittura (Geiselmann). Si interpreta il passaggio dal del Concilio di Trento all’ come dimostrazione del fatto che il ruolo della Tradizione sarebbe solo esplicativo-interpretativo e non esisterebbe pertanto una Tradizione costitutiva per le verità di fede;

• Tesi delle due Fonti (Lennerz). Si afferma una distinzione materiale fra Scrittura e Tradizione anche per ciò che riguarda le verità di fede; Scrittura e Tradizione non contengono da sole tutta la Rivelazione, ma solo una parte di essa (partim... partim...); esisterebbe allora anche una Tradizione costitutiva e non solo una interpretativa;

• Tesi della sufficienza relativa della Scrittura (Beumer). Tutte le verità rivelate trasmesse mediante la Tradizione hanno il loro fondamento nella Scrittura, sebbene non tutte siano deducibili rigorosamente da essa

La Dei Verbum parla della Tradizione e della Scrittura come di un unico deposito della Rivelazione. Se esiste fra loro distinzione è perché la Scrittura è parola di Dio ispirata, mentre la Tradizione è la parola umana che trasmette la parola di Dio:

(...) ne risulta così che la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza» (n. 9)

La questione della sufficienza materiale della Scrittura non verrà dunque volutamente dalla Dei Verbum, in quanto si chiarisce che Scrittura e Tradizione non possono essere considerate separatamente, ma vanno comprese in un costante e reciproco riferimento che coinvolgerà necessariamente anche la funzione del Magistero (cfr. n. 10):

Sul rapporto Scrittura-Tradizione possiamo riassumere i seguenti punti:

• Unità. Essa dipende da vari fattori come

— la comune origine da Dio, perché Dio ispira la Scrittura e Dio stabilisce in Cristo, con l’assistenza dello Spirito, una tradizione apostolica; — il comune fine, cioè la salvezza degli uomini; — il comune contenuto, il Vangelo, cioè la predicazione apostolica.

• Distinzione. Si tratta di realtà anche distinte

— perché l’una è parola divina, l’altra è parola umana, sebbene arricchita dalla garanzia dell’assistenza divina, attraverso la funzione del Magistero; — perché l’una ha la struttura di un testo fissato, mentre l’altra ha la struttura di un messaggio vivo, che esplicita nella storia e con le leggi della storia, ciò che il deposito (cioè la Scrittura e la Tradizione stessa) contiene.

• Interdipendenza. Esse sono interdipendenti

— per come il deposito si è formato: la Tradizione, che interpreta la Scrittura, è anche precedente alla Scrittura; — per come il deposito viene riconosciuto autentico: la Tradizione consegna il canone, ma al tempo stesso la Scrittura è fondamento ultimo per confrontare la veridicità di ciò che si trasmette; — per la loro funzione nella vita della Chiesa: la Tradizione esiste primordialmente per interpretare rettamente la parola di Dio scritta (tradizione finalizzata alla Scrittura), ma la parola di Dio scritta, senza la vita vissuta della Chiesa, resterebbe lettera morta (Scrittura finalizzata alla tradizione viva).

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Rapporto fra Scrittura e Tradizione riguardo la sufficienza del contenuto materiale della Sacra Scrittura: considerazioni conclusive

Possiamo riepilogare quanto visto dicendo che la Tradizione trasmette cose non scritte ma comunque nella Scrittura. Pare corretto dire che quelle verità di fede che non appaiono contenute neanche implicitamente nella Scrittura (ciò che anteriormente abbiamo chiamato Tradizione costitutiva), vi sono ugualmente contenute se consideriamo la Scrittura in quanto interpretata dalla Tradizione, cioè come due cose intrinsecamente legate. La questione circa l’esistenza di una tradizione costitutiva in senso forte, e quindi l'affermazione di una insufficienza materiale della Scrittura, non è una questione di principio, ma una questione di ricerca storica.

Le eventuali implicazioni dottrinali di concrete tradizioni apostoliche non scritte (come ad esempio il battesimo amministrato da eretici) possono considerarsi di fatto contenute ancora nella Scrittura interpretata dalla Tradizione (in questo caso, vi corrisponderebbe l’interpretazione della Tradizione circa tutte le implicazioni della volontà salvifica universale, quale contenuta nella Scrittura). In ogni caso, sta di fatto che il termine resta estremamente ampio, ed è pertanto lecito considerare verità contenute nella Scrittura ed interpretate dalla Tradizione come .

Va infine tenuto presente che la proclamazione da parte del Magistero della Chiesa di verità di fede non contenute nella Scrittura o non direttamente deducibili da essa, non si è mai basata sul solo argomento di Tradizione, ma ha anche offerto passi scritturistici che potevano offrire una certa lettura a conferma del dogma. Si tratta di una lettura non della sola Scrittura, ma della Scrittura interpretata dalla Tradizione.

Le relazioni fra Sacra Scrittura e Tradizione nel dialogo ecumenico

Abbiamo già osservato che il principio della originariamente avanzato dalla Riforma di Lutero ha subito nel tempo, specie in epoche recenti, un certo ridimensionamento. Anche alla luce della nozione di grande Tradizione e della sua differenza con altre tradizioni variamente intese e vissute lungo la storia della Chiesa, fra cattolici e luterani esiste oggi un sostanziale consenso sui seguenti punti:

• la preminenza della Sacra Scrittura non esclude la funzione di una qualche forma di ministero docente, né la presenza di tradizioni che trasmettano e tengano viva la fede della Chiesa;

• non vi sono tradizioni di origine apostolica storicamente verificabili che non siano anche contenute, in qualche modo, nella Sacra Scrittura;

• non tutte le singole dottrine credute sono contenute letteralmente nella Scrittura, ma tutte possono dedursi da essa.

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3. Rivelazione e Magistero: indefettibilità della Chiesa e infallibilità del Magistero

a) La funzione del Magistero della Chiesa in rapporto alla Rivelazione

La funzione del Magistero in rapporto alla Rivelazione va compresa in primo luogo come un servizio alla parola rivelata in ordine alla salvezza delle anime. Essa rende possibile armonizzare la tensione fra fedeltà al deposito rivelato e trasmissione della parola in modo adeguato alle necessità ogni epoca. Tale armonia, infine, non potrebbe darsi senza la presenza e l'azione dello Spirito Santo nella Chiesa.

Autorità della successione apostolica

Abbiamo già visto che l’epoca apostolica costituisce un momento irripetibile della economia della Rivelazione. La Chiesa è perfettamente consapevole fin dalle sue origini di questa unicità e riconosce alla parola degli apostoli, cioè ai dodici uomini scelti da Gesù perché lo accompagnassero nel suo ministero (Mc 3,13-19; At 1,21), il carattere di una speciale autorità. Già nella primitiva comunità cristiana, tutti (At 2,42). Fondamento di tale autorità è il loro essere stati testimoni della resurrezione di Cristo (At 2,32; At 1,21-22). Gli apostoli, a loro volta, si preoccupano di stabilire dei loro successori, dando origine a ciò che chiamiamo .

Nella struttura gerarchica della Chiesa, la cui origine radica nel mandato apostolico rivolto da Gesù ai dodici e nel mandato petrino, questa successione apostolica si realizza mediante il sacramento dell’ordine episcopale. Così lo riepiloga la Lumen gentium:

«Questa missione divina affidata da Cristo agli apostoli dovrà durare fino alla fine dei secoli perché il Vangelo da trasmettere è per la Chiesa principio della sua vita in ogni tempo. Poiché la Chiesa è una società gerarchicamente organizzata, gli apostoli si preoccuparono di istituire dei successori. (...) perché la missione ricevuta venisse continuata anche dopo la loro morte, lasciarono ai loro immediati collaboratori, come per testamento, il compito di consolidare e di completare l’opera che avevano iniziato» (n. 20)

Finalità dell'istituzione di tale successione è la custodia viva del Vangelo, ancora una volta intesa come fonte unica della Rivelazione da tramettere:

(Dei Verbum, n. 7)

I Vescovi, in unione con il romano Pontefice quale capo del loro Collegio, sono dunque il soggetto della funzione magisteriale della Chiesa. Questo magistero si presenta con una autorevolezza di tipo carismatico-sacramentale, in continuità con l’autorità di Cristo stesso. La Dei Verbum parla di questa funzione associandovi (charisma certum veritatis) (n. 8), trasmesso ai successori degli apostoli. L’interpretazione del deposito della Rivelazione compiuta dal Magistero, viene perciò chiamata , nel significato di e . A questa garanzia vi è collegato il carisma dell’infallibilità, di cui parleremo più avanti, il cui dono mira a difendere la purezza del contenuto salvifico della Rivelazione e che viene esercitato in modo organico dalla Chiesa, Magistero ed intero popolo di Dio.

In rapporto alla Rivelazione, la funzione del Magistero implica due chiarimenti, uno riguardo l’oggetto dell’insegnamento magisteriale, l’altro riguardo la relazione fra Magistero e Parola di Dio.

Oggetto, forme e modi di esercizio del Magistero ecclesiale

Abitualmente si indica l’oggetto del Magistero con l’espressione patristica res fidei et morum. Di fatto però, poiché la funzione del Magistero è trasmettere la parola che conduce alla salvezza, faranno parte del suo insegnamento anche quelle verità la cui affermazione si rende

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necessaria per comprendere, esporre o difendere proprio quel contenuto salvifico. Ciò può condurre il Magistero ad insegnare:

— sia verità formalmente rivelate, ovvero quelle verità insegnate esplicitamente dalla Scrittura, o che possono derivarsi da esse. Esse costituiscono l’oggetto primario del Magistero;

— sia verità non formalmente rivelate, ovvero verità non presenti direttamente come tali nella Scrittura, ma la cui affermazione si rende necessaria per comprendere il Vangelo consegnato da Gesù Cristo; questi ultimi insegnamenti, che costituiscono l’oggetto secondario del Magistero, sono ordinariamente riconducibili alla Tradizione intesa in senso ampio e, dunque, non sono estranei alla Rivelazione e in alcuni casi è possibile anche metterne in luce il fondamento biblico.

Esempi del primo gruppo di verità sono: gli articoli del Credo, i dogmi cristologici dei Concili dei primi secoli, la presenza reale e sostanziale di Cristo nell'Eucaristia, la dottrina circa l'esistenza del peccato originale, la fondazione della Chiesa da parte della esplicita volontà di Cristo, il legame dell'istituzione dei sacramenti con la volontà salvifica di Cristo, il carattere sacrificale della Santa Messa, ecc.

Esempi del secondo gruppo sono: la liceità del battesimo amministrato ai bambini, l’adorazione dovuta all’Eucaristia anche dopo la celebrazione della S. Messa; insegnamenti di carattere morale come l'illiceità della contraccezione (insegnamento che va affermato per una corretta comprensione del ruolo dell'amore umano e della vita umana nei piani di Dio) e l'illiceità dell'eutanasia; insegnamenti di carattere dogmatico ed ecclesiale, come la riserva dell'ordinazione sacerdotale ai soli uomini (per la corretta comprensione del simbolismo antropologico e sacramentale legato al sacerdozio di Cristo), la legittimità della celebrazione di concili, la proposta al popolo di Dio della vita e dell’esempio dei santi canonizzati come modelli da seguire e dei quali si attesta in modo certo la beatitudine eterna.

Appartengono tuttavia al secondo gruppo anche alcuni insegnamenti di carattere filosofico, come la conoscenza naturale di Dio, l'esistenza della libertà personale, l'immortalità dell'anima umana, ecc. Il progresso teologico potrebbe condurre a riconoscere appartenenti all'oggetto primario del magistero delle verità di fede considerate inizialmente parte del suo oggetto secondario.

Le forme di esercizio del Magistero della Chiesa sono sostanzialmente due: Magistero (sia esso universale oppure no), e :

— il Magistero ordinario semplicemente inteso consiste nell'insegnamento del romano Pontefice e dei Vescovi, quando questi esercitano l'ordinaria cura pastorale del gregge loro affidato; abitualmente, gli insegnamenti corrispondenti non vengono proposti con un particolare tenore di universalità o di irreformabilità: se lo posseggono, è perché tali insegnamenti partecipano di verità che già godono di quelle caratteristiche;

— il Magistero ordinario viene chiamato ordinario ed universale quando i Vescovi che guidano le porzioni del popolo di Dio loro affidate, in unione con il romano Pontefice capo del collegio episcopale, sebbene dispersi sulla terra, convergono insieme su un particolare insegnamento o dottrina da proporre al popolo di Dio; tale sintonia/convergenza dovrebbe essere valutata su base storica (prospettiva diacronica) e non solo in base alla contemporaneità dei vari interventi (prospettiva sincronica). Il Magistero ordinario ed universale impiega di solito un linguaggio non definitorio, il che non vuol dire che il contenuto insegnato non possa essere giudicato come qualcosa di definitivo, ma semplicemente che il tenore verbale e contestuale dell’insegnamento non assume, in linea generale, un linguaggio definitorio.

— Magistero solenne, chiamato anche straordinario, quando i Vescovi in unione col romano Pontefice proclamano un particolare insegnamento o una dottrina mediante un atto collegiale, come ad es. quelli formulati in un Concilio ecumenico, e quando il romano Pontefice propone anche da solo delle definizioni ex cathedra, cioè appellandosi esplicitamente al suo mandato petrino. Normalmente è in questo tipo di Magistero che si impartiscono insegnamenti con atti

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definitori, atti cioè nei quali il linguaggio impiegato definisce il contenuto della dottrina che deve essere creduta dai fedeli.

Quando nella forma di Magistero , il romano Pontefice o i singoli pastori intendono proporre al popolo di Dio qualche insegnamento, anche se non in modo definitivo e/o irreformabile (in caso contrario è infatti assai più congruente che lo facciano ricorrendo ad una forma di Magistero solenne, oppure ordinaria ed universale), i fedeli devono aderirvi con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto, trattandosi di insegnamenti la cui finalità, in attesa di eventuali nuovi approfondimenti, resta sempre il bene e la salvezza delle anime (cfr. Donum veritatis, nn. 23-24). Vedremo più avanti che relativamente alle forme di esercizio solenne oppure ordinario ed universale, il Magistero della Chiesa gode di un carisma certo di infallibilità. Tale carisma non è invece associato alla semplice forma di Magistero ordinario, ma ciò non esime i fedeli, come appena osservato, dall'osservare gli insegnamenti proposti in quest'ultima forma.

Quando al modo con cui gli insegnamenti del Magistero sono indicati al popolo di Dio, questi possono essere impartiti specificando che si tratta di insegnamenti irreformabili e da ritenere pertanto come definitivi, oppure non specificando questa particolarità. È importante riconoscere che molti insegnamenti da ritenere come definitivi non sono necessariamente proposti con atti di Magistero solenne e straordinario – e dunque possono avere una forma anche non definitoria – ma attraverso atti di Magistero ordinario universale, specie mediante documenti pontifici che mettono in luce appunto l'universalità di tale dottrina, ratificandone la vincolazione per il popolo di Dio (ad es. la grave illiceità dell'aborto e della contraccezione, l'ordinazione sacerdotale riservata ai soli uomini, ecc.).

Assenso del popolo di Dio ai corrispondenti insegnamenti magisteriali

La Congregazione per la Dottrina della Fede ha promulgato il 29.6.1998 un documento dal titolo Inde ab ipsis primordis. Riproponendo il testo della Professio fidei richiesta a coloro che assumono un ufficio , il documento espone le modalità con cui i fedeli devono aderire alle varie forme di esercizio del Magistero, offrendo in proposito numerosi riferimenti di ragione teologica. I principali contenuti della Professio fidei e le principali considerazioni teologiche che ne stanno alla base possono così riassumersi in tre progressivi articoli o comma che seguono l’esposizione del Simbolo niceno-costantinopolitano:

— Nel primo comma si afferma: . Si tratta dunque di forme di esercizio che, come vedremo, godono del carisma dell’infallibilità; esse corrispondono all’oggetto primario del Magistero, cioè ad insegnamenti formalmente rivelati (anche se non presenti nel Simbolo). A tali insegnamenti il popolo di Dio deve prestare un assenso di fede teologale: il loro rifiuto non sarebbe perciò compatibile con una piena comunione nella Chiesa cattolica e cadrebbe dunque nella censura di eresia. In questo caso l'assenso del fedele è fondato sulla fede nell'autorità della parola di Dio rettamente interpretata nella Chiesa (doctrina de fide credenda).

— Nel secondo comma si afferma: . Con tali insegnamenti si vogliono indicare in linea generale quelle verità che appartengono all’oggetto secondario del Magistero, cioè verità non formalmente rivelate, ma necessarie per comprendere la Rivelazione. In questo caso l'assenso è fondato sulla fede nell'assistenza dello Spirito Santo al Magistero ecclesiale (doctrina de fide tenenda): non si tratta di fede teologale in senso stretto, ma di fede nella Chiesa in quanto soggetto di una specifica missione e carismi di origine divina. Alla negazione di tali verità corrisponde una posizione di rifiuto di verità di dottrina cattolica e causa pertanto anch’esso la perdita della piena comunione con la Chiesa cattolica.

— Nel terzo comma che segue l’esposizione del Simbolo si afferma: . Si tratta di insegnamenti che vanno seguiti dal popolo di Dio anche se, come nel caso presente, non sono proposti con una forma di esercizio del Magistero solenne, né lo sono in modo definitivo. Il sostenere tesi contrarie a questo terzo tipo di insegnamenti può essere qualificato come erroneo; nel caso si tratti di insegnamenti di tipo prudenziale, la posizione contraria può qualificarsi temeraria, pericolosa e, in ogni caso, .

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Possiamo osservare che, in linea generale, al primo comma appartengono insegnamenti che abbiamo riconosciuto appartenenti all’oggetto primario del Magistero, mentre al secondo e al terzo comma vi appartengono insegnamenti dell’oggetto secondario del Magisterio. Inoltre ai primi due comma corrispondono ragionevolmente insegnamenti promulgati in modo definitivo (anche se non sempre con linguaggio definitorio), mentre al terzo comma corrispondono insegnamenti proposti in modo non definitivo.

Il citato documento elenca infine alcune esemplificazioni. Al primo comma corrispondono gli articoli di fede del Credo, i dogmi cristologici e mariani, la dottrina circa l’esistenza del peccato originale, l’istituzione dei sacramenti da parte di Gesù Cristo e la loro efficacia salvifica, l’infallibilità del magistero del romano Pontefice, la natura peccaminosa di quanto si oppone direttamente alle prescrizioni del Decalogo, ecc. Si tratta cioè di verità esplicitamente presenti nella Rivelazione, o da essa deducibili in base all’insegnamento della Chiesa, e formulate in modo definitorio con atti del Magistero solenne. Tali verità riguardano tutte l’oggetto primario del Magistero. Per quanto riguarda gli insegnamenti corrispondenti al secondo comma, il documento cita la dottrina circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini, la dottrina sulla illiceità dell’eutanasia, della prostituzione e della fornicazione, la legittimità dell’elezione del romano Pontefice, le canonizzazioni dei santi, ecc. Si tratta di insegnamenti generalmente formulati in modo definitivo (anche se non definitorio) dal romano Pontefice e/o riconducibili al Magistero ordinario e universale dei Vescovi. Per quanto riguarda le esemplificazioni relative al terzo comma, «si possono indicare in generale gli insegnamenti proposti dal Magistero autentico ordinario, in modo non definitivo, che richiedono un grado di adesione differenziato, secondo la mente e la volontà manifestata, la quale si palesa specialmente sia dalla natura dei documenti, sia dal frequente riproporre la stessa dottrina, sia dal tenore della espressione verbale».

Il Magistero e la Parola rivelata

Riguardo il suo rapporto con la parola divina, va chiarito che il Magistero non si sostituisce alla fonte della Rivelazione, come erroneamente rimproverato ai cattolici dalla teologia dei riformatori, ma ha come unica funzione quella di servirla ed esporla:

«L’ufficio poi di interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale Magistero, però, non è al di sopra della parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio. È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere, e che tutti insieme, ciascuno secondo il proprio modo, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla Salvezza delle anime» (Dei Verbum, n. 10).

L'aspetto di servizio alla Parola non è una novità del Vaticano II, ma è una dottrina conforme a quanto era già stato affermato a Trento e nel Vaticano I. In questi due precedenti Concili, infatti, al parlare dell'autorità del Magistero in merito alla corretta interpretazione della Sacra Scrittura, non erano mai state usate espressioni che potessero far pensare ad una autorità sulla Scrittura, bensì espressioni che riguardavano l'autorità della Chiesa sul singolo fedele che, con la sua lettura individuale, si collocava erroneamente fuori della Chiesa. Con tale autorità, i singoli non vengono legati servilmente ad una interpretazione assolutista del Magistero, bensì legati alla potenza salvifica della Parola, la cui azione dipende in misura non piccola dalla fedeltà della sua trasmissione/interpretazione. Il Magistero non è dunque norma assoluta della Scrittura, ma norma da essa normata.

Questo del Magistero alla Scrittura è in definitiva un nuovo modo di vedere il Magistero della Chiesa in quanto parte integrante della Tradizione, senza essere per questo ad essa assimilato o con essa identificato, perché della Tradizione il Magistero ne è l’organo di interpretazione autentica. La successione apostolica è la forma sacramentale della Tradizione e della sua presenza unificatrice (Ratzinger).

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Il magistero ecclesiale fra epoca apostolica e post-apostolica

Nessuna può tuttavia ignorare che l’epoca apostolica — come già osservato più volte — costituisce un momento unico ed irripetibile dell’economia della Rivelazione. Se è vero che gli Apostoli trasmisero il loro compito pastorale e magisteriale ai Vescovi loro successori, è anche vero che essi non poterono trasmettere a nessuno la loro peculiarità di essere gli ultimi autori del depositum fidei.

Questa eccezionalità del ruolo apostolico ha suggerito a qualcuno l’idea di una vera e propria discontinuità fra epoca apostolica e post-apostolica, fra Chiesa degli Apostoli e Chiesa dei Vescovi, avanzando la tesi che tale discontinuità sarebbe di fatto assai maggiore della continuità che la tradizione apostolica pure possiede. Uno dei principali fautori di questa posizione è stato il teologo valdese Oscar Cullmann. Egli ha sostenuto che, una volta fissato il canone delle Scritture alla fine del IV sec. con il Sinodo di Ippona e il Concilio di Cartagine, il principio di Tradizione avrebbe perso la sua ragion d’essere, cioè quella di consegnare alla Chiesa la Parola di Dio scritta. Una critica più generale ed ancora più acuta è stata quella di Emil Brunner (Das Missverständnis der Kirche, 1951), che ha visto nello sviluppo della Chiesa post-apostolica , dove la norma ed il diritto hanno erroneamente sostuituito il carisma e l'azione dello Spirito.

La posizione cattolica, invece, pur cosciente della peculiarità dell’epoca apostolica, sottolinea assai più la continuità che non la discontinuità, e non considera il principio di Tradizione concluso con la fissazione del canone. Di fatto, poi, la fissazione del canone non corrisponde a un preciso momento storico, a partire dal quale la Chiesa considera concluso il compito della tradizione orale. Il processo di riconoscimento dei libri autenticamente ispirati, per separarli da quelli che non lo erano, è stato uno sforzo che ha accompagnato la Chiesa fin dai suoi primi passi, perché esistono riconoscimenti ufficiali, autoritativi e vincolanti, anche in epoca apostolica. Chiesa apostolica e Chiesa post-apostolica sono la stessa Chiesa, la Chiesa di Cristo.

In realtà, l'accentuare di più la discontinuità o la continuità corrisponde a due concezioni ecclesiologiche diverse. La prima, di radice protestante, tende a vedere la Chiesa come la comunità dei salvati e limita l’efficacia dei mezzi salvifici al solo evento del Cristo, di cui solo gli apostoli furono testimoni. La salvezza può venire solo direttamente da Dio: non esisterebbe nella Chiesa un’economia sacramentale-salvifica propriamente detta. La seconda, cioè la concezione cattolica, vede la Chiesa come , come (Lumen gentium, n. 1). Essa è mediatrice efficace di salvezza perché è Cristo che continua a salvare per mezzo di essa, in continuità misterica con il suo evento terreno.

b) Infallibilità e indefettibilità della Chiesa

La comprensione del concetto di infallibilità poggia su quello di indefettibilità della Chiesa e trae da esso la sua giustificazione.

Alla nozione di (dal lat. non deficio, non vengo mai meno, ma anche non mi dissolvo, non perdo consistenza) sono associati almento tre contenuti:

• l'idea della stabilità nell’identità (stabilità di chi rimane sostanzialmente uguale e fedele a se stesso),

• l'idea di permanenza nel tempo,

• una persistenza nell'essere finalizzata a ricoprire un preciso ruolo escatologico.

Tutte queste caratteristiche sono predicabili in riferimento all'unica Chiesa fondata da Cristo. L'ultima di esse, la sua persistenza finalizzata ad un compimento escatologico, manifesta che l'indefettibilità è voluta così da Dio in ordine al fine cui la Chiesa è stata ordinata.

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L'indefettibilità della Chiesa è dunque una perfezione partecipatale da un Soggetto divino e non significa perfezione assoluta51.

Il carattere indefettibile della Chiesa trova riscontro nel NT e dipende dalla volontà fondazionale di Cristo. Una delle sue presentazioni più esplicite è quella collegata alla confessione petrina: (Mt 16,18). Cristo stesso prometterà agli Apostoli di accompagnare la loro missione fino alla fine dei tempi (Mt 28,18-20) ed annuncia l'invio dello Spirito Santo per sempre, a perenne testimonianza e garanzia di verità (Gv 14,17.26). In questa medesima luce potrebbe leggersi la parabola del grano e della zizzania, nella quale si presenta l'universalità di un Regno destinato ad essere presente fino al compimento escatologico dei tempi (cfr. Mt 13,24-30.36-43). La qualifica infine dell'economia sacramentale affidata da Cristo alla Chiesa come economia di una nuova ed eterna alleanza, esplicita nell'istituzione dell'Eucaristia, rimanda con naturalezza allo stesso concetto di indefettibilità.

I Padri, sant'Agostino in modo particolare, hanno commentato il carattere perennemente stabile della Chiesa, specie in chiave apologetica. 52. La teologia medievale non utilizzava il concetto di , ma accedeva a quello di indefettibilità attraverso la categoria di fidei firmitas, collegata all' della dottrina. Il Magistero precedente al Vaticano II ha segnalato l'indefettibilità della Chiesa preferibilmente nei suoi aspetti visibili-istituzionali, mentre il Concilio Vaticano II lo farà in attenzione al suo fondamento cristologico e alla sua natura misterica. Trattandosi di una realtà storica immersa nel divenire storico, la Lumen gentium chiarirà che l'indefettibilità della Chiesa, il suo , è comprensibile solo alla luce di una particolare assistenza divina:

«Tra le tentazioni e le tribolazioni del cammino la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio, promessale dal Signore, affinché per la umana debolezza non venga meno la perfetta fedeltà, ma permanga degna sposa del suo Signore, e non cessi, sotto l'azione dello Spirito santo, di rinnovare se stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto» (Lumen gentium, n. 9).

Parte essenziale di questa indefettibilità è la sua capacità di custodire la Rivelazione nella sua integrità e purezza: (Dei Verbum, n. 7). Il concetto di indefettibilità introduce pertanto con naturalezza quello di . In rapporto all'insegnamento del contenuto della Rivelazione ed alla sua corretta comprensione, l'infallibilità è pertanto una manifestazione di indefettibilità sul piano della conoscenza, dell'espressione e della predicazione della Parola di salvezza come fine proprio della missione della Chiesa. L'indefettibilità della Chiesa nel proporre e nel garantire i mezzi di salvezza ricevuti da Cristo è compatibile con la debolezza dei suoi membri, in quanto è la missione della Chiesa ad essere indefettibile, mentre i singoli cristiani che la compongono non sono né infallibili né indefettibili.

c) Infallibilità della Chiesa in docendo

In riferimento alla confessione, all'insegnamento e all'interpretazione dell'autentico significato delle verità salvifiche, questa indefettibilità si presenta come infallibilità in credendo e in docendo: la Chiesa non può sbagliarsi nell'insegnare ciò che propone come necessario alla salvezza e la Chiesa medesima, quale popolo di Dio, non può errare quando crede e confessa in modo unanime ciò che si riferisce a tale medesima salvezza. È importante operare alcune precisazioni sulla nozione di infallibilità, distinguendola da altre nozioni.

L' è qualcosa che caratterizza in primo luogo un soggetto nella sua intenzionalità di professare qualcosa; essa è un dono dello Spirito che le consente di non professare mai ciò che è falso come fosse vero o viceversa, e solo in secondo luogo caratterizza il contenuto di quanto viene professato. Infallibile vuol dunque dire in prima istanza , cioè non dire mai il falso prendendolo per vero53. L’infallibilità non è la né lo , ma la garanzia, presente in un soggetto

51 Cfr. P. RODRÍGUEZ, La indefectibilidad de la Iglesia, 10 (1978) 235-267, p. 250. 52 SANT'AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, CIII, 2,5 (PL 37,1354). 53«[L'infallibilità] non può certo comportare un graduale rafforzamento della verità. Anzi, si può

persino soggiungere che le istanze magisteriali abilitate a giudicare infallibilmente, nella presentazione di

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autorevole, che un certo insegnamento viene riconosciuto appartenente alla Rivelazione oppure ad un insieme di conoscenze vere che servono per comprendere rettamente la Parola di Dio.

La nozione di infallibilità non va identificata né confusa con quelle di (nel senso di definizione di una verità) e di . Questa due ultime si riferiscono al contenuto della dottrina proposta. Inoltre, va tenuto presente che e non sono necessariamente sempre associate: una dottrina può essere formulata in modo definitorio (normalmente associato a forme di esercizio solenne del magistero), ma alcune dottrine che non vengono promulgate in tono definitorio, possono tuttavia ugualmente costituire un insegnamento (cioè definitivo), perché anche un atto non definitorio può proporre un insegnamento in modo definitivo. Infine, non vuol dire . Alcuni insegnamenti il cui soggetto magisteriale gode del carisma dell'infallibilità, proposti anche in modo definitivo, non per questo non ammettono, quando ciò non sia esplicitamente escluso, un certo sviluppo dogmatico, ermeneutico e/o terminologico.

Manifestazioni di infallibilità della Chiesa in docendo

Sebbene il dono dello Spirito sia elargito a tutto il popolo di Dio, senza del quale non sarebbe possibile , e quindi secondo la pienezza della legge rivelataci da Cristo, tale dono conosce un modo specifico di comunicarsi attraverso il sacramento dell'ordine, la cui finalità, nei suoi diversi gradi e nelle sue diverse forme di esercizio individuale e collegiale, è pascere il popolo di Dio per condurlo senza errori alla salvezza eterna. Esiste dunque una infallibilità propria del Magistero della Chiesa in quanto Magistero, espressamente associata alla sua funzione di predicazione e di insegnamento. L'infallibilità della Chiesa partecipa della eterna fedeltà e verità di Dio. È infallibilità partecipata, comunicata e limitata a particolari condizioni. Le modalità di tale infallibilità magisteriale in docendo sono riepilogate dal noto n. 25 della costituzione Lumen gentium:

«Quantunque i singoli Vescovi non godano della prerogativa dell'infallibilità, quando tuttavia anche dispersi per il mondo, ma conservanti il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, nel loro insegnamento autentico circa materie di fede e di morale s'accordano su una dottrina da ritenersi come definitiva propongono infallibilmente la dottrina di Cristo. E questo è ancora più manifesto quando, radunati in Concilio ecumenico, sono per tutta la Chiesa dottori e giudici della fede e della morale; e alle loro definizioni si deve aderire in una sottomissione di fede. (...) Di questa infallibilità il romano pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli che conferma nella fede i suoi fratelli (cfr. Lc 22,32), proclama con un atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale».

È facile riconoscere in questa pagina conciliare un'infallibilità associata a due delle tre forme di esercizio del Magistero già incontrate: quello solenne e quello ordinario universale. Nel primo caso ci troviamo di fronte al magistero dei Concili Ecumenici riuniti attorno al romano Pontefice oppure al magistero del romano Pontefice quando definisce ex cathedra, in virtù del suo ufficio di capo del collegio episcopale e pastore della Chiesa universale. Nel secondo caso, l'infallibilità in docendo si applica al magistero ordinario universale dei Vescovi dispersi per il mondo, nel loro compito di pascere la Chiesa particolare loro affidata, ma sempre in quanto collegio episcopale che succede al collegio apostolico, e dunque investito nel suo insieme della sollecitudine pastorale per la Chiesa universale.

un determinato asserto, non decidono più formalmente sulla sua verità, perché questa è già decisa dal fatto che l'asserto in parola è contenuto nella Rivelazione. Ciò che avviene al momento in cui il carisma dell'infallibilità s'impegna, sempre alle precise condizioni cui è vincolato, è unicamente questo: la Chiesa (nei suoi Concili, o nel Papa che parla ex cathedra) decide in quel determinato caso che quella data verità è contenuta nella Rivelazione, dichiara che quella data parola da lei annunciata è una parola di Cristo» (L. SCHEFFCZYK, La verità delle proposizioni ed il , in , a cura di K. Rahner, Paoline, Roma 1971, pp. 172-173).

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Caratteristiche e importanza del Magistero ordinario universale

È importante riflettere sul fatto che la manifestazione più usuale e comune dell'infallibilità della Chiesa la si ha nella forma di esercizio del magistero ordinario universale. Per questo motivo il magistero ordinario universale, e non soltanto il magistero solenne, va ascoltato con diligente attenzione ed obbedienza. Si tratta di una infallibilità che, a differenza di quella esercitata dai Concili o dalle dichiarazioni del romano Pontefice ex cathedra, non ha normalmente una forma definitoria, né fa necessario ricorso ad espressioni di una particolare solennità. Non è infrequente che il romano Pontefice raccolga in modo ufficiale e qualificato l'insegnamento del magistero ordinario universale sotto forma di documenti, quali sono ad esempio alcune encicliche, le esortazioni post-sinodali o altri documenti preparati da organi ecclesiali e da lui controfirmati, confermando l'universalità e l'apostolicità di un determinato insegnamento. Si pensi ad esempio gli insegnamenti sul rapporto fra verità e coscienza nella Veritatis Splendor, la non liceità della contraccezione nell'Humanae vitae, la grave immoralità dell'aborto nella Evangelium vitae, la non validità dell'ordinazione sacerdotale conferita alle donne nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis. Non si tratta di pronunciamenti del Papa ex cathedra, ma di atti che raccolgono un insegnamento universale dei Pastori della Chiesa, il cui soggetto gode dunque del carisma dell'infallibilità. Ricordiamo che il consenso unanime dei pastori non va inteso in modo puramente sincronico, ma può anche abbracciare con lo sguardo l'unanimità delle varie epoche come garanzia di collegamento con la dottrina apostolica.

Il Magistero ordinario del Papa e dei Vescovi, anche quando non si presenta con i caratteri espliciti dell'universalità e della collegialità, quando cioè non può essere considerato magistero ordinario universale, è un insegnamento ugualmente impartito con autorità. L'autorità del magistero della Chiesa non dipende dalle sole circostanze che lo rendono infallibile, né va assorbito nell'infallibilità. Così lo ricorda ancora la Lumen gentium:

«I vescovi quando insegnano in comunione col romano pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accordarsi col giudizio dal loro vescovo dato a nome di Cristo in materia di fede e di morale, e aderirvi col religioso ossequio dello spirito. Ma questo religioso ossequio della volontà e dell'intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano pontefice, anche quando non parla ex cathedra, così che il suo supremo magistero sia con riverenza riconosciuto, e con sincerità si aderisca alle sentenze che egli esprime, secondo che fa conoscere la sua intenzione e la sua volontà, che si palesano specialmente sia dalla natura dei documenti, sia dal frequente riproporre la stessa dottrina, sia dal tenore della espressione verbale» (Lumen gentium, n. 25).

Infine, tanto il Papa, quanto i Vescovi, nell'esercizio del loro Magistero, non aggiungono nulla alla Rivelazione, né ricevono alcuna rivelazione privata:

«Perché la rivelazione sia penetrata esattamente e sia espressa in termini adeguati, il romano pontefice e i vescovi in virtù del loro ufficio e secondo l'importanza della cosa, prestano la loro vigile opera usando di mezzi convenienti; però non ricevono una nuova rivelazione pubblica come appartenente al divino deposito della fede» (ibid.).

Sul Magistero del romano Pontefice

La Chiesa apostolica ha conosciuto una specificità dell'ufficio petrino. Nelle liste dei dodici apostoli raccolte dal NT, Pietro è menzionato sempre all'inizio, in Mt con l'aggettivo esplicito di primo (cfr. Mc 3,16-19; Mt 10,2-4; Lc 6,14-16; At 1,13). Secondo Paolo e Luca, il risorto apparve a lui per primo (cfr. 1Cor 15,5; Lc 24,34). Il solenne contesto del potere delle chiavi in Mt 16,18, anche quando accettato come redazione posteriore, non contemporanea al ministero di Gesù, non può non testimoniare a favore di un luogo privilegiato attribuito a Pietro da parte della comunità apostolica di Gerusalemme.

Nella costituzione Pastor Aeternus, il Concilio Vaticano I aveva definito l'infallibilità del magistero pontificio:

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«Il romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo l'ufficio di pastore e di maestro di tutti i cristiani per la sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardo alla fede e ai costumi deve essere tenuta da tutta la Chiesa, per l'assistenza divina a lui promessa nel beato Pietro, gode di quella infallibilità della quale il divin Redentore volle dotare la sua Chiesa nel definire una dottrina riguardo alla fede e ai costumi; perciò tali definizioni del romano pontefice sono irreformabili di per sé, non per il consenso della Chiesa (Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiae irreformabiles esse)» (DS 3074).

Come si noterà, l'espressione riferentesi alle definizioni del romano pontefice è la medesima che sarà raccolta più tardi testualmente dalla Lumen gentium, n. 25:

«Di questa infallibilità il romano pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli che conferma nella fede i suoi fratelli (cf. Lc. 22, 32), proclama con un atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale. Perciò le sue definizioni giustamente sono dette irreformabili per se stesse e non per il consenso della Chiesa, perché esse sono pronunziate con l'assistenza dello Spirito santo, promessagli nel beato Pietro, per cui esse non abbisognano di alcuna approvazione di altri né ammettono appello alcuno a un altro giudizio. Infatti allora il romano pontefice pronunzia la sentenza non come persona privata (non ut persona privata sententiam profert), ma quale supremo maestro della Chiesa universale, singolarmente insignito dal carisma dell'infallibilità della stessa Chiesa, espone o difende la dottrina della fede cattolica».

Il Concilio Vaticano II si colloca pertanto nella medesima linea di definizione del Vaticano I. Sull'ufficio del romano Pontefice in rapporto al collegio episcopale sono contenuti spunti di interesse nell'enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint (25.5.1995).

Testo di Giovanni Paolo II, Ut unum sint, nn. 94-95

Le affermazioni del Vaticano I, ancor prima di essere riprese un secolo più tardi dal Vaticano II, furono oggetto di vivace discussione specie da parte della teologia di tradizione riformata e non di rado travisate, ritenendo che i cattolici ponessero gli insegnamenti del Papa al di sopra del Vangelo stesso. Non va dimenticato che il tema ed il contesto di tutto il documento è quello dell'infallibilità . Su proposta di alcuni Padri conciliari (Guidi, Ulhatorre, Martin) fu respinto il titolo preferendovi quello di . Ad essere infallibile, perché indefettibile, è la Chiesa, non la persona del Papa in quanto tale. Il Romano Pontefice è infallibile in quanto soggetto di insegnamento magisteriale e, dunque, sotto questo aspetto egli concreta e realizza nella sua persona quella infallibilità-indefettibilità salvifica della Chiesa medesima. Inoltre, va osservato che l’esercizio di una tale infallibilità, se visto come atto non formalmente collegiale, è una forma di magistero di fatto poco frequente, collegato ad insegnamenti proposti ex cathedra, e quindi concernente un numero molto limitato di casi.

All'epoca del Concilio Vaticano I, il destinatario implicito della frase fu probabilmente il gallicanesimo il quale, nel suo tentativo di stabilire i presupposti dogmatici di una chiesa francese indipendente da Roma, affermava proprio che il giudizio del Papa non poteva considerarsi definitivo se non ratificato dal consenso della Chiesa. Con l'espressione conciliare non deve però intendersi che esista un magistero del Papa dispensato dal porsi in sintonia — proprio nell'esercizio della sua sollecitudine per la Chiesa universale — con le necessità, il sentire e la vita stessa della Chiesa (cosa che risulterebbe di per sé illogica e contraddittoria); deve intendersi solo il fatto che le decisioni del romano Pontefice, la cui giustificazione ultima resta sempre il bene e la salvezza del popolo di Dio, non siano soggette ad un atto giuridico-formale di ratifica e di consenso da parte della comunità ecclesiale54.

Il vero soggetto dell'infallibilità è in fondo sempre Dio, infallibilità che in Pietro risulta partecipata, comunicata e limitata. Si tratta di un'assistenza particolare perché questi non si inganni né inganni altri in merito all'insegnamento in actu del Vangelo. Nella ricerca e nell'approfondimento della verità il romano Pontefice, così come tutti i Vescovi, si avvalgono dei mezzi abituali: lo studio, l'informazione, la riflessione, la preghiera, la santità di vita. Si dovrebbe

54 Cfr. H. FRIES, Teologia Fondamentale, Queriniana, Brescia 1987, pp. 657-658.

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allora dire con Bulgakov che l'infallibilità è per la Chiesa un dovere, il dovere di cercare e vivere una tale sintonia con lo Spirito, frutto della santità di vita, dalla quale scaturisce la verità delle cose insegnate e professate.

Testo di J.H. Newman da Lo sviluppo della dottrina cristiana (1845)

In merito al primato del Romano Pontefice, va segnalato che nell’Enciclica Ut unum sint (2.5.1995) Giiovanni Paolo II aveva esortato studiosi e teologi ad approfondire quale fossero le forme di esercizio di tale Primato durante il primo millenio dell’era cristiana, cioè prima dello scisma della Chiesa d’Oriente (cfr. n.95). La CDF redasse come conclusione di un primo studio, svolto in sinergia con un Congresso teologico opportunamente convocato, il documento denominato Il primato del Successore di Pietro nel Mistero della Chiesa. Considerazione della Congregazione per la Dottrina della Fede (pubbl. in OR, 31.10.1998), per il commento del quale si chiesero successivamente commenti qualificati a vari esperti della materia55.

d) Il sensus fidei del popolo di Dio e l'infallibilità in credendo

La costituzione Lumen gentium parla al n. 12 dell'infallibilità in credendo del popolo di Dio:

«La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l'unzione dello Spirito santo (cfr. 1Gv 2,20.27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà che gli è particolare mediante il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo, quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi. Infatti, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente si conforma, accoglie con la parola degli uomini ma, qual è in realtà, la parola di Dio (cfr. 1Ts 2,13), aderisce indefettibilmente “alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi” (Giuda, 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella vita».

L'espressione sensus fidei era conosciuta dalla patristica e dalla scolastica e la Chiesa ne aveva fatto menzione in vari suoi documenti. Nella proclamazione dei dogmi dell'Immacolata Concezione e dell'Assunzione di Maria si fa riferimento al comune sentire della fede del popolo di Dio. Origine di questa infallibilità in credendo è il medesimo Spirito Santo, garante dell'infallibilità in docendo. Il riferimento teologico più diretto è quello della dottrina dei doni dello Spirito Santo, grazie ai quali i fedeli cristiani seguono e riconoscono con facilità, con istinto soprannaturale, ciò che si riferisce alla verità divina, alla virtù e al bene. Con il termine consensus fidelium si vuole indicare, in un certo qual senso, il risultato collettivo del sensus fidei, posseduto in modo personale anche da ogni singolo credente. Trattandosi di senso della fede risulta chiaro che esso sarà più vivo ed operante quanto più intensa la partecipazione dei fedeli alla vita della grazia. Sono esempi di questo consensus fidelium, espressione di una infallibilità in credendo, il culto eucaristico fuori della Santa Messa, le preghiere di intercessione presso i santi, l'efficacia dei suffragi per i fedeli defunti, la venerazione delle reliquie e delle immagini sacre (aspetti in alcuni casi successivamente suffragati anche dall'insegnamento esplicito del Magistero).

Occorre chiarire che l'infallibilità in credendo non è un tipo di partecipazione dei fedeli all'infallibilità in docendo del Magistero, perché quest'ultima si realizza mediante un sacramento — l'ordinazione episcopale — diverso dal battesimo. I due aspetti sono organicamente presenti nell'unico Corpo mistico di Cristo, ma sono formalmente distinguibili. I reciproci rapporti fra insegnamento del magistero e consensus fidelium sono tali che quest'ultimo, come afferma il Concilio, si realizza . Nella dichiarazione della CDF Mysterium Ecclesiae (24.6.1973) si precisa inoltre che

«per quanto, dunque, il sacro Magistero si avvalga della contemplazione, della condotta e della ricerca dei fedeli, il suo ufficio non si riduce, però, a ratificare il consenso da loro già espresso; anzi,

55 Testo e commenti in CDF, Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, LEV, Città

del Vaticano 2002. Commenti di: R. Pesch, R. Minnearath, P. Rodríguez, F. Ocáriz, P. Goyret, A.M. Sicari, N. Bux.

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nell'interpretazione e nella spiegazione della parola di Dio scritta o trasmessa, esso può prevenire ed esigere tale consenso» (n. 2).

Tanto le tre manifestazioni dell'infallibilità in docendo, quanto l'infallibilità in credendo, non costituiscono infallibilità diverse di cui è dotata la Chiesa, ma aspetti dell'unica infallibilità del corpo di Cristo, partecipazioni dell'unica infallibilità assoluta, quella di Dio somma Verità.

e) Estensione dell'infallibilità del Magistero

L’espressione impiegata dalla Dei Verbum n. 10 al parlare dell' è del tutto analoga e corrispondente a quella utilizzata anteriormente dalla Lumen gentium n. 25 al parlare dell':

«Il quale Magistero, però, non è al di sopra della parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio» (Dei Verbum, n. 10).

«Questa infallibilità, della quale il divino Redentore ha voluto provvedere la sua Chiesa quando essa definisce la dottrina della fede e della morale, si estende tanto quanto il deposito della divina rivelazione, che deve essere scrupolosamente custodito e fedelmente esposto» (Lumen gentium, n. 25)

Se l'oggetto del Magistero della Chiesa è fedelmente custodire e rettamente esporre il contenuto della Rivelazione in ordine alla salvezza dell'umanità, ed essendo il carisma dell'infallibilità finalizzato a proteggere il medesimo bene, cioè la salvezza di tutti gli uomini, è ragionevole ritenere il Magistero goda del carisma dell'infallibilità sull'intero oggetto del suo insegnamento, cioè sia quando insegni materie che appartengono al suo oggetto primario sia quando lo faccia col suo oggetto secondario. Se si insegna qualcosa per condurre gli uomini alla salvezza — ed è appunto questo l'oggetto proprio del Magistero, cioè la corretta trasmissione della Rivelazione —, tale insegnamento gode del carisma di verità assicurato dallo Spirito. Ciò che la Chiesa insegna autorevolmente, come insegnamento su un oggetto che le è proprio, la Chiesa lo insegna infallibilmente.

Di fatto, all'interno di questo oggetto proprio, quello dell'esposizione del contenuto salvifico della Rivelazione, la tradizione della Chiesa non ha mai operato alcuna distinzione per definire su quali parti di esso l'insegnamento del Magistero godesse oppure no del carisma dell'infallibilità. Tale carisma è sempre stato collegato al soggetto del Magistero, cioè alle varie forme o modalità con cui lo si esercita, non al tipo di cose insegnate. L'espressione non deve essere intesa come un ritaglio che delimiti l'infallibilità ad una parte del deposito rivelato. In realtà, essa indica simultaneamente tanto l'oggetto del Magistero (cioè tutto ciò che conduce alla salvezza) quanto l'estensione della sua infallibilità e, pertanto, non indica una separazione interna all'oggetto delle cose insegnate. Se si insegnassero cose riguardanti temi diversi, non saremmo di fronte al Magistero della Chiesa, ma alle opinioni di singoli autori privati su oggetti che non si riferiscono alla salvezza degli uomini.

Un ulteriore elemento di riflessione sta nel considerare che l’oggetto del Magistero è alquanto ampio, più di quanto si possa a prima vista pensare. Esso, unitamente nel suo oggetto primario e secondario, comprende infatti tutto ciò che serve a il contenuto del Vangelo. Esistono dunque temi, verità, definizioni, i quali non appartengono alla Rivelazione, neanche implicitamente, ma sono nondimeno necessari per custodirla ed esporla come dovuto. Ora, la Chiesa gode del carisma dell'infallibilità nel suo insegnamento su tale più ampio oggetto, come ricordato dalla Mysterium Ecclesiae:

(n. 3).

Un classico esempio di tale ampliamento riguarda l'insegnamento del Magistero circa la legge morale naturale. Ne parla in modo esplicito, riferendosi a molteplici documenti ad essa precedenti, l'Enciclica Humanae vitae:

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«Nessun fedele vorrà negare che al Magistero della Chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale. È infatti incontestabile, come hanno più volte dichiarato i Nostri Predecessori, che Gesù Cristo, comunicando a Pietro e agli Apostoli la sua divina autorità ed inviandoli ad insegnare a tutte le genti i suoi comandamenti, li costituiva custodi ed interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale, essa pure espressione della volontà di Dio, l'adempimento fedele della quale è parimenti necessario alla salvezza» (n. 4).

Un analogo riferimento ad una visione amplia dell'oggetto del Magistero, lo troveremo ad esempio nel proemio della dich. Gravissimus educationis del Concilio Vaticano II riguardo l'autorità del Magistero della Chiesa circa gli insegnamenti che riguardano i diritti all'educazione della gioventù.

Se una tale estensione dell'oggetto dell'infallibilità può porre alcune questioni circa i rapporti fra definizioni magisteriali, linguaggio filosofico e cultura, essa è d'altra parte pienamente coerente con la stessa teologia della Rivelazione. Se appartengono alla Rivelazione — perché appartengono alla Tradizione — tutte quelle cose che servono per rettamente interpretare e comprendere il messaggio evangelico nel suo insieme, è logico che anche su tali cose il Magistero goda del carisma dell'infallibilità, così da rettamente insegnare ciò che il Vangelo annuncia per la salvezza degli uomini. Newman aveva già opportunamente segnalato che, una volta riconosciuta la Rivelazione come qualcosa suscettibile di sviluppo e di approfondimento, è ragionevole pensare che la garanzia dell'infallibilità possa estendersi a tutto quanto renda possibile un simile sviluppo o derivi da esso56.

56 «Se allora, dunque, vi sono certe verità importanti, certi doveri e certe osservanze, che

discendono in modo naturale e legittimo dalle dottrine originariamente professate, è affatto ragionevole includere questi risultati nella idea della Rivelazione stessa e considerarli parti di essa. E se la Rivelazione non è solo vera, ma garantita come vera, è ragionevole giudicare a priori che anche quelle verità verranno a fruire del privilegio dell’infallibilità» (J.H. NEWMAN, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Il Mulino, Bologna, 1967, p. 89).

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4. Immutabilità e sviluppo del dogma

a) Il dogma e la sua immutabilità

Fin dall’inizio della missione evangelizzatrice della Chiesa vi è stata la necessità di fissare in qualche modo alcuni contenuti della Rivelazione la cui confessione veniva considerata di primaria importanza per la salvezza. La fede creduta con il cuore doveva potersi concretare anche in una formulazione pubblica: (Rm 10,10).

Il primo contesto proprio nel quale la comunità credente incontra la necessità di tale fissazione è quello della preparazione-amministrazione del sacramento del battesimo (catechesi e professioni di fede). Si assiste così ad un passaggio dal kerigma al dogma. Espressione di questo passaggio-fissazione sono i simboli della fede redatti nei primi secoli. Essi organizzano in modo sistematico ed esplicitano alcune delle confessioni di fede già contenute nello stesso Nuovo Testamento (cfr. Mt 16,16; Gv 1,1-18; 1Cor 15,3-5; Fil 2,6-11; Col 1,15-20; 1Tm 3,16, ecc.).

Nel suo significato più generale, il termine dovgma vuol dire dottrina, insegnamento; in termini più stringenti, decisione, prescrizione. Il NT utilizza più volte l'espressione dovgmata, riferendosi ad esempio alle prescrizioni della legge mosaica (Col 2,20; Ef 2,15) o alle decisioni degli apostoli e degli anziani a Gerusalemme (At 16,4). Utilizzato assai più tardi nel lessico teologico (Melchior Cano, 1563; Chrismann, 1792), il concetto di cominciò ad indicare nel linguaggio ecclesiastico la presenza di verità definite ed irreformabili, tratte dal contenuto della Rivelazione divina. Così Chrismann nella Regula Fidei Catholicae et collectio Dogmatum Credendorum (1792): . Nella cost. Pastor Aeternus del Concilio Vaticano I troviamo per la prima volta un riferimento ufficiale al contenuto del dogma come (DS 3011; cfr. alla luce di DS 3020). È significativo osservare, alla luce di quanto già precedentemente studiato, che tale affermazione del Vaticano I contiene tutti gli elementi necessari per riconoscere che un determinato insegnamento (un , appunto) venga proposto in modo infallibile.

Come si può vedere dal primitivo impiego dei Simboli della fede, la Chiesa ha sempre avuto dei dogmi, anche quando non li chiamava con questo termine. Risulta chiaro che il ricorso ad insegnamenti o formulazioni di contenuto precisato e ben fissato è pertanto legato al mandato ricevuto dalla Chiesa in ordine alla salvezza; l’impiego di dogmi è legato alla Rivelazione prima ancora che alla Chiesa, e se è legato a quest’ultima lo è perché la Chiesa dipende in tutto dalla Parola di Dio.

Poiché intende esprimere delle verità che appartengono al mistero di Dio ed ai suoi piani di salvezza, il dogma si presenta sempre come qualcosa di inesauribile. Esso farà perciò ricorso anche ad un linguaggio analogico, senza per questo esaurirsi in un linguaggio simbolico fine a se stesso, non più adeguato ad indicare la realtà che persiste al di là del simbolo e dal simbolo viene manifestata. Sempre per il suo peculiare rapporto con il mistero di Dio, l'interpretazione del dogma non si presenta mai come un problema meramente intellettuale, ma come una realtà che coinvolge simultaneamente teoria e prassi: le verità divine possono essere comprese rettamente nella misura in cui ci si dispone al dono dello Spirito e si vive secondo lo Spirito57.

Contenuto veritativo e storia

La questione della natura dogmatica del contenuto della fede (fides quae) si intreccia con la questione stessa della verità e, soprattutto, con quella del rapporto fra verità e storia. La filosofia ermeneutica contemporanea ha giustamente insistito sul fatto che ogni conoscenza, e quindi anche ogni approccio a contenuti tenuti per veri, lo si ha all'interno di un linguaggio, di

57 Si tratta di un criterio rintracciabile anche nel documento della COMMISSIONE TEOLOGICA

INTERNAZIONALE, L'interpretazione dei dogmi, o.c., nn. 2767-2769.

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una tradizione, di una serie di simboli e riferimenti specificatamente culturali. Nel caso della rivelazione giudeo-cristiana, il rapporto con la storia non si presenta però in modo conflittuale o dialettico. La stessa Rivelazione si compie nella storia e per mezzo della storia e nella persona di Cristo, parola incarnata e centro della Rivelazione, pienezza della verità e compimento della storia, confluiscono insieme. Inoltre, in rapporto al suo destinatario storico, la Rivelazione si giova di tutta la virtualità e ricchezza associate allo stesso concetto di Tradizione. Al procedere della storia, il ricorso all'ermeneutica per l'interpretazione delle formule dogmatiche resterà, comunque, sempre necessario. Occorrerà evitare due errori: quello di un realismo ingenuo che pretenda di porre di fronte ad una verità cristallizzata in formulazioni esaurienti e culturalmente asettica, e quello di un processo ermeneutico che rimandi indefinitamente sempre al di là di se stesso, o che risulti circolarmente chiuso in se stesso, incapace di far accedere ad asserti veritativi e stabili, perché incapace di rimandare ad un contenuto che lo trascenda.

Il dogma ha dunque un contenuto veritativo: esso indica e trasmette una vera conoscenza di natura definitiva, sebbene suscettibile di esplicitazione ed approfondimento. Il chiarimento del contenuto veritativo ed oggettivo dei dogmi fu dovuto principalmente al Magistero antimodernista. Fra gli errori dei modernisti vi erano infatti quelli di ridurre il dogma in chiave immanentista, considerandolo una mera spiegazione-fissazione dell’esperienza religiosa personale oppure una prescrizione vincolante per il suo carattere pratico, non per quello conoscitivo (cfr. DS 3422, 3426). Più recentemente, Fides et ratio (14.9.1998) ha ricordato la necessità di impiegare in teologia una filosofia sempre aperta , capace di muoversi dal fenomeno al fondamento, di saper indicare l'esistenza di una verità stabile al di là del flusso della storia, del mutevole impiego del linguaggio, dell'apparenza dei fenomeni (cfr. nn. 82-83, 96-97).

Immutabilità del dogma

È pertanto lecito parlare di una immutabilità dei dogmi proposti dalla Chiesa. Ciò perché il significato stesso delle formule dogmatiche rimane sempre vero e coerente, anche quando è maggiormente chiarito o meglio compreso (cfr. CDF, Mysterium Ecclesiae, 24.6.1973, n. 5). Un riepilogo sintetico di cosa debba intendersi per tale immutabilità è quello proposto dal documento Mysterium Ecclesiae:

«Devono quindi i fedeli rifuggire dall’opinione che le formule dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità determinatamente, ma solo nelle sue approssimazioni cangianti (...) e che le stesse formule, inoltre, manifestano soltanto in modo indefinito la verità, la quale deve essere continuamente cercata attraverso quelle approssimazioni. Chi la pensasse così non sfuggirebbe al relativismo dogmatico e falsificherebbe il concetto d’infallibilità della Chiesa, relativo alla verità da insegnare e ritenere in modo determinato. Un’opinione del genere è in aperto contrasto con le dichiarazioni del Concilio Vaticano I, il quale, pur consapevole del progresso della Chiesa nella conoscenza della verità rivelata, ha tuttavia insegnato: “Ai sacri (...) dogmi deve essere sempre mantenuto il senso dichiarato una volta per tutte dalla santa madre Chiesa, e mai è permesso allontanarsi da quel senso col pretesto ed in nome di un’intelligenza più progredita”. Esso ha inoltre condannato la sentenza secondo la quale potrebbe accadere “ai dogmi proposti dalla Chiesa si debba talvolta dare, in base al progresso della scienza, un senso diverso da quello che la Chiesa ha inteso ed intende”» (n. 5)

Appare chiaro da queste considerazioni, che includono la dottrina del Vaticano I, che il tema-chiave è costituito dal termine , come parametro che ne misura l'irreformabilità e la sua conservazione nel tempo. Una formulazione classica circa l’importanza di attribuire alle sentenze dogmatiche sempre il medesimo senso è quella di san Vincenzo di Lerins, riportata e fatta propria dal Vaticano I:

«Crescano pure, quindi, e progrediscano largamente e intensamente (multum vehementerque proficiat), per ciascuno come per tutti, per un sol uomo come per tutta la Chiesa, l’intelligenza, la scienza e la sapienza, secondo i ritmi propri a ciascuna generazione e a ciascun tempo, ma esclusivamente nel loro ordine, nella stessa credenza, nello stesso senso e nello stesso pensiero (in eodem dogmate, eodem sensu, eademque sententia)» (Commonitorium, 23: PL 50,668)

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Ritroviamo una considerazione analoga in un passaggio del discorso introduttivo di Giovanni XXIII ai lavori del Concilio Vaticano II, dal quale emergono sia il concetto di immutabilità che quello di progresso:

«Bisogna che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l’epoca nostra richiede. Una cosa è, infatti, il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo della loro enunciazione, sempre però nel medesimo senso e significato» (AAS 54 (1962) 792; cfr. Gaudium et spes, n. 62).

In rapporto all'infallibilità della Chiesa, come precedentemente accennato, non è corretto parlare di infallibilità , ma piuttosto di infallibilità . I dogmi non sono delle proposizioni misteriose di fronte alle quali la ragione si pone in modo diverso da come farebbe rispetto ad altri asserti autorevoli e certamente veri. Esso soggiace a tutte le condizioni e agli sviluppi di un qualsiasi asserto veritativo: interpretazione, approfondimento, sviluppo, legami contestuali, ecc. Quando si parla di di un dogma, si intende la necessità della conservazione stabile e inequivoca del suo contenuto di verità, senza alterazioni del senso e del significato che esso trasporta. In non pochi casi ciò richiede anche la rigida immutabilità di alcuni termini chiave per la comprensione e la trasmissione di tale contenuto (la presenza di tre Persone distinte in un'unica natura divina, di due nature nell'unica persona del Verbo incarnato, l'esistenza del peccato come violazione della legge di Dio, ecc.); altre volte, l'immutabilità e l'irreformabilità del dogma può ammettere un certo sviluppo terminologico.

Nel momento in cui un certo dogma di fede viene formulato, i termini, le categorie ed i concetti da esso utilizzati sono sufficienti ad esprimere il contenuto veritativo che si voleva lì esplicitare. Tuttavia, ciò non esclude che, in quella stessa epoca, quelle medesime verità non si potessero esprimere con altre parole, né che, col progredire dell’intelligenza della Chiesa sulla Parola di Dio, quelle medesime verità non si possano esprimere in epoche successive con formulazioni nuove, che esplicitando e rendendo ancor più comprensibile quella medesima Parola, insegnino tutta la verità contenuta nelle formulazioni precedenti.

b) Lo sviluppo dogmatico della Chiesa

L’esistenza di un progresso dogmatico (multum vehementerque proficiat...) dell’insegnamento del Magistero ecclesiastico può in prima istanza evincersi da due fatti: a) il numero dei dogmi definiti cresce lungo la storia della Chiesa; b) le medesime formulazioni dogmatiche vanno arricchendosi di nuove esplicitazioni magisteriali. Ci si confronta dunque con il tema dello sviluppo del dogma.

L’insieme dei dogmi può aumentare, non perché la Chiesa aggiunga qualcosa di nuovo alla Rivelazione, della quale essa è custode e non autrice, bensì perché una serie di verità già contenute nella Rivelazione vengono ora proposte in modo infallibile come verità rivelate. È come se la Chiesa, proprio dovendo promulgare e sottolineare il messaggio salvifico nelle mutate condizioni culturali e storiche, si veda nella necessità di illuminare e mettere a fuoco determinati aspetti di un panorama che essa già possiede nel suo deposito, in modo completo.

Le formulazioni dogmatiche sono poi oggetto di sviluppo per la stessa natura storica e viva della Tradizione, della quale il Magistero — pur distinguendosene — è parte integrante ed istanza interpretativa autoritativa, quale forma misterico-sacramentale della Tradizione stessa. I principali fattori di sviluppo del dogma sono pertanto i medesimi fattori di sviluppo della Tradizione. Oltre alla necessità di dover chiarire errori e combattere eresie — fattore storicamente piuttosto determinante — i motivi del progresso dogmatico sono in fondo quelli contenuti nel già citato passo della Dei Verbum:

«Questa Tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce (proficit) nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano (experiuntur) delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità. La Chiesa,

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cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a pienezza le parole di Dio» (n. 8)

La presenza dello Spirito come presenza viva e guida di tutti questi fattori fa sì che lo sviluppo dogmatico non sia mai il solo risultato di un approfondimento deduttivo-razionale, ma venga in qualche modo causato dall'attività dello Spirito ed associato ai doni che Egli comunica incessantemente alla sua Chiesa. Non di rado, ad esempio, è la vita dei santi ad illuminare aspetti della Rivelazione rimasti in penombra, e a spingere poi il Magistero a definirli in modo autorevole.

Nella sua opera Lo sviluppo della dottrina cristiana (1845), J.H. Newman elenca sette criteri utili per distinguere, nel corso dello sviluppo della storia, il vero di una dottrina da una sua corruzione. Lo sviluppo dottrinale autentico ha come caratteri58:

— La permanenza di un unico : il soggetto conserva cioè la sua identità, nonostante alcuni cambi esterni che possono verificarsi.

— La continuità nei principi. La dottrina deve sempre restare coerente con se stessa; esistono principi-guida che non entrano mai in contraddizione e che consentono lo sviluppo delle idee lungo la storia.

— Il potere di assimilazione. È la capacità di coinvolgere ed inglobare ciò che è diverso, rimodellandosi, ma restando sempre se stessi. Il nuovo, la storia, non vengono viste come qualcosa che occorre combattere, ma qualcosa in cui ci si può muovere (oggi chiameremmo qyuesto criterio ).

— La presenza di una coerenza logica, spesso scoperta a posteriori, fra i principi ed i frutti che ne derivano.

— L'anticipazione di sviluppi futuri, specie sotto forma di intuizioni ed predizioni, contenuti come semi precoci nella realtà presente.

— Uno sviluppo che non rifiuta il passato, ma sa apprezzarlo e ricondurvisi continuamente come garanzia di vera continuità storica.

— La presenza di un vigore perenne e di una continua capacità di rinnovamento che mai viene meno.

Testo da Lo sviluppo della dottrina cristiana (1845)

Lo sviluppo dogmatico della Chiesa non riguarda solo l’aspetto pastorale o quello dell’evangelizzazione: esso non è dettato solo dal desiderio si rendere il messaggio di Cristo più comprensibile a popoli diversi o in tempo diversi. Si tratta di un vero e proprio approfondimento nella verità. I nuovi dogmi si illuminano a vicenda ed illuminano i precedenti, dando coerenza ed unità a tutto il mistero cristiano, aiutando a scoprirne significati prima inespressi o addirittura nascosti. «Un asserto dogmatico, dunque, è un enunciato che si addentra nel mistero: perciò esso ha sempre bisogno di essere ulteriormente e progressivamente reinterpretato. La sua verità immutabile non consiste nell’impossibilità di ripensarlo e di perfezionarlo, ma nella necessità che ogni ulteriore suo sviluppo sia normato dal suo significato originale, che resta valido attraverso tutta l’evoluzione posteriore»59.

Testo di M.J. Scheeben da I misteri del cristianesimo (1865)

58 Cfr. J.H. NEWMAN, Lo sviluppo della dottrina cristiana, tr. it.: Il Mulino, Bologna 1967, pp. 181-

220. 59 Z. ALSZEGHY - M. FLICK, Lo sviluppo del dogma cattolico, Brescia 1969, p. 137.

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c) Formulazioni dogmatiche e loro rapporto con la filosofia ed il linguaggio

In collegamento con la questione dell'immutabilità del dogma e del suo rapporto con l'ermeneutica e la storia, sorge anche il tema della dipendenza delle formulazioni dogmatiche da una particolare terminologia linguistica adoperata da una determinata tradizione di pensiero o utilizzata da una certa cultura. Trattandosi di formulazioni che fanno ricorso a concetti e categorie umane, i dogmi della Chiesa si pongono necessariamente in rapporto con la filosofia, con le culture dei diversi popoli, con il linguaggio umano. L'inevitabilità, ma anche la fecondità di questo rapporto, vengono messi in luce in una pagina della enciclica Fides et ratio (n. 66):

«La teologia dogmatica, per parte sua, deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero del Dio Uno e Trino e dell'economia della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto, in forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni concettuali, formulate in modo critico e universalmente comunicabile. Senza l'apporto della filosofia, infatti, non si potrebbero illustrare contenuti teologici quali, ad esempio, il linguaggio su Dio, le relazioni personali all'interno della Trinità, l'azione creatrice di Dio nel mondo, il rapporto tra Dio e l'uomo, l'identità di Cristo che è vero Dio e vero uomo. Le stesse considerazioni valgono per diversi temi della teologia morale, dove è immediato il ricorso a concetti quali: legge morale, coscienza, libertà, responsabilità personale, colpa ecc., che ricevono una loro definizione a livello di etica filosofica. È necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create, del mondo e dell'uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più, essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo concettuale e argomentativo. La teologia dogmatica speculativa, pertanto, presuppone ed implica una filosofia dell'uomo, del mondo e, più radicalmente, dell'essere, fondata sulla verità oggettiva».

Esistono dunque due aspetti della questione: a) il ricorso alla filosofia, ad una qualche forma di conoscenza naturale di Dio e di alcune verità fondamentali che riguardano ilmondo e l’uomo, sono necessarie per l'intelligibilità della Rivelazione (cfr. anche Fides et ratio, nn. 36, 83); b) questo ricorso alla filosofia implica un discernimento.

Rapporto con la filosofia

Sebbene le formulazioni dogmatiche, in quanto espresse con parole umane, siano immerse nella storia, una prima riflessione da fare è segnalare il tentativo fatto dal Magistero di collegare il più possibile tali formulazioni ad una philosophia perennis che si collochi ad un livello meta-storico, perché legata all’essere, ai suoi trascendentali, a quegli aspetti immutabili della natura umana, del suo rapporto con le cose e con Dio. Questo tentativo può considerarsi in parte riuscito, come testimoniato dal fatto che lungo quasi venti secoli si incontri nelle definizioni del Magistero la ricorrenza di concetti quali natura, persona, sostanza, anima, virtù, peccato, vita, morte, redenzione, salvezza, e altri ancora, capaci di indicare un contenuto certamente stabile e non ambiguo, non di rado coniato in modo originale, in relazione alle necessità delle espressioni della fede.

Discernimento dei vari sistemi filosofici

Fin dall’origine della missione evangelizzatrice della Chiesa, non tutti i sistemi filosofici e non tutte le categorie di pensiero sono stati considerati adeguati a trasmettere il messaggio cristiano. I Padri della Chiesa e, prima di loro, gli autori dei libri del NT, hanno utilizzato dei concetti che ritenevano capaci di esprimere il mistero cristiano e ne hanno rifiutato altri perché non assicuravano la medesima capacità, anche se erano forse più accessibili o di più facile comprensione.

La teologia all’interno della sua missione di servizio al Magistero e a tutto il popolo di Dio, è chiamata ad approfondire il contenuto del dogma in modo conforme al contenuto della Rivelazione. Pertanto essa ha il compito rendere tale contenuto sempre più intelligibile, come fides quaerens intellectum, sia assumendo e facendo proprie quelle riflessioni che la persona umana — immagine della natura divina e creatura capace di parlare del suo Creatore — ha elaborato con una ragione filosofica originatasi a latere della rivelazione biblica, sia generando un'autentica riflessione filosofica interna alle categorie della Rivelazione e della fede. Nel suo lavoro di discernimento, la teologia accetta quei contenuti in molte elaborazioni filosofiche che

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hanno preceduto il cristianesimo, o anche lo hanno seguito, ma al tempo stesso rifiuta altri sistemi filosofici come inadeguati a comprendere o a spiegare il mistero cristiano, coadiuvata in tal compito dai necessari orientamenti del Magistero. Fra questi ultimi, assume una grande importanza la dottrina presentata nell'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio, una delle cui finalità dichiarate è appunto il discernimento della filosofia adeguata ad esprimere e trasmettere il contenuto della Rivelazione cristiana. Si vedano in proposito i capp. V, VI e VII. In merito al rapporto fra verità e storia — uno dei nodi principali del messaggio dell'enciciclica — leggiamo:

«La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l'assolutezza e l'universalità della verità con l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono. Come ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono difendibili. L'applicazione di un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica, invece, è in grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi espressa, che va oltre questi condizionamenti. Con il suo linguaggio storico e circoscritto l'uomo può esprimere verità che trascendono l'evento linguistico. La verità, infatti, non può mai essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa» (n. 95).

Rapporto con il linguaggio

Per esprimere il contenuto della Rivelazione, pur alla luce del progresso storico-dogmatico cui la comprensione e la trasmissione della Parola di Dio soggiace, il Magistero della Chiesa può segnalare a volte la necessità di conservare alcuni termini specifici. Appartiene alla tradizione plurisecolare della Chiesa impiegare spesso, a questo proposito, un lessico tratto da lingue “morte”, ovvero non più soggette a cambi di interpretazione, come lo sono il latino e il greco classico. Ciò non esime, anche in questo caso, dall’utilizzo di una corretta ermeneutica, ma il contenuto del termine appare meglio protetto da indebite interpretazioni.

Nella enciclica Humani generis (12.8.1950), Pio XII ha ricordato che la legittima pretesa di rendere il dogma più comprensibile non deve condurre all’abbandono immotivato di termini che conservano un importante legame con la fede del popolo di Dio (cfr. DS 3881-3883)

«Tutti sanno che le espressioni di tali concetti, usati sia nelle scuole sia dal magistero della Chiesa, possono venir migliorate e perfezionate; è inoltre noto che la Chiesa non è sempre stata costante nell’uso di quelle medesime parole. È pure chiaro che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque effimero sistema filosofico; ma quelle espressioni e quei termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma, senza dubbio non poggiano su un fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principi e nozioni dedotte da una vera conoscenza del creato» (DS 3883).

In quella stessa enciclica, come farà quasi 50 dopo Fides et ratio, si difende l'impiego della metafisica e si esorta a non allontanarsi senza motivo dal metodo, dalla dottrina e dai principi di Tommaso d’Aquino (DS 3892-3894).

In una formulazione dogmatica forma e contenuto sono distinguibili (si possono cercare cioè forme sempre più adeguate per veicolare il medesimo contenuto), ma non sono mai del tutto indipendenti (occorre conservare cioè delle forme, perse le quali si perderebbe anche il contenuto). Il fatto che il mistero di Cristo sorpassi ogni possibilità di espressione e che la sua perenne novità sia affidata all'azione ineffabile dello Spirito, non implica che le forme di espressione siano solo dei rivestimenti esterni, intercambiabili a piacimento perché di natura meramente simbolica. Nelle professioni di fede la terminologia linguistica può giungere a divenire una vera e propria incarnazione della parola e, pertanto, qualcosa dove forma e contenuto, evento linguistico e mistero significato divengono inseparabili.

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Per quanto riguarda gli insegnamenti con i quali, in materia dogmatica, il Magistero istruisce il popolo di Dio, va tenuto presente che una comunità di fede è anche una comunità costruita sull'unità delle parole, quelle che identificano la propria confessione60. Pertanto, il Magistero può talvolta esortare a mantenere alcune precise espressioni linguistiche, anche se non esplicitamente presenti nei Simboli tradizionali della fede. Si pensi ad esempio al termine e al termine . Al parlare della consacrazione del corpo e del sangue di Cristo, Paolo VI esortò a non sostituire il termine con altre parole (transignificazione, transfinalizzazione, ecc.) che non indicavano pienamente, se considerate isolatamente, il contenuto del dogma eucaristico (cfr. Mysterium fidei, 3.9.1965; Il credo del popolo di Dio, 30.6.1968). Un caso analogo, ugualmente istruttivo, è quello riguardante una dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede circa l'utilizzo del termine :

«La Chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la morte, di un elemento spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale che l'io umano sussista, pur mancando nel frattempo del complemento del proprio corpo. Per designare un tale elemento, la Chiesa adopera la parola anima, consacrata dall'uso della Sacra Scrittura e della Tradizione. Senza ignorare che questo termine assume nella Bibbia diversi significati, essa ritiene tuttavia che non esista alcuna ragione per respingerlo, e considera, inoltre, che è assolutamente indispensabile uno strumento verbale per sostenere la fede dei cristiani (lettera Recentiores Episcoporum Synodi, 17.5.1979).

Ciò non vuol dire che non possa esserci progresso dogmatico nella comprensione di queste o di altre verità di fede, ma tale progresso deve essere in grado di conservare ed esprimere pienamente il contenuto di quanto già si crede, senza sminuirlo o alterarlo, e in aggiunta apportare nuove luci che migliorano l’intelligenza della fede.

d) L'interpretazione delle formule dogmatiche

Dalla storicità delle formulazioni dogmatiche deriva, come abbiamo visto, la necessità di una loro certa interpretazione. Preposte a tale interpretazione sono la teologia ed il Magistero, con diverse rispettive funzioni. Compito della teologia è interpretare ed approfondire in modo scientifico il contenuto del dogma e, nei suoi aspetti storico-ermeneutici, l’insegnamento del Magistero in quanto parte della Tradizione viva della Chiesa. A sua volta, però, il compito del Magistero è interpretare il dogma in modo autentico, cioè autorevole.

Alcuni criteri ermeneutici

Una corretta interpretazione dell’insegnamento della Chiesa non può prescindere da alcuni importanti criteri ermeneutici:

— interpretare ogni singola verità di fede all’interno e nel contesto generale dell’intera Rivelazione (analogia fidei);

— interpretare le varie formulazioni all’interno del contesto storico-dottrinale nelle quali si sono originate;

— interpretare le formulazioni alla luce di quali siano stati i loro destinatari e tenendo conto di quali errori dottrinali tali dichiarazioni si sono proposte di chiarire o di correggere.

Tenere presente la contestualità delle formule dogmatiche non vuol dire però che esse sono (o furono) valide solo all’interno di quel particolare contesto storico-dottrinale nel quale si originarono: si tratta di una contestualità ermeneutica, non veritativa. Il loro valore, una volta colto il senso del contenuto trasmesso da tali formulazioni, diviene extra-contestuale.

Dal punto di vista storico, il ruolo del contesto è stato particolarmente evidente nello sviluppo della dottrina sulla fra Padre e Figlio, dal Concilio di Antiochia (anno 264) al Concilio

60 Su tutta la tematica in questione si veda COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE,

L'interpretazione dei dogmi, o.c., nn. 2794-2798.

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di Nicea (anno 325). In tempi assai più recenti, un esempio interessante è quello della evoluzione del concetto di dal magistero anteriore al Concilio Vaticano II fino alla dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II61.

Operatività dell'analogia fidei

Il citerio dell'analogia fidei può essere a sua volta ulteriormente esplicitato62:

— coerenza cristologica e cristocentrica delle formulazioni dogmatiche, perché il Verbo fatto carne, rivelatore e rivelato, è il centro della Rivelazione medesima;

— apostolicità, perché il contenuto della fede è stato trasmesso una volta per tutte ed occorre continuare rinnovarne la memoria interpretandolo alle luce delle sue origini apostoliche;

— cattolicità, come esigenza e criterio di universalità, non solo sincronica ma anche diacronica, circa il contenuto di ciò che è stato creduto sempre, da tutti;

— presenza nella lex orandi del popolo di Dio, perché la liturgia, in modo particolare la prassi sacramentale con al centro il sacrificio eucaristico, è il luogo teologico vivente ed unificante della fede ella Chiesa.

Valore e limiti del criterio antropologico

Un criterio di carattere antropologico, interpretare cioè un insegnamento della Chiesa alla luce del suo significato per l'uomo, è certamente presente all'interno di ogni processo ermeneutico che non perda di vista il destinatario ultimo dell'insegnamento e dell'annuncio salvifico. Tale criterio, tuttavia, non può essere quello determinante:

«(...) Anche il “criterio antropologico” svolge un ruolo importante oggi nell'interpretazione. Con tale affermazione non si vuole ovviamente dire che l'uomo stesso, certi suoi bisogni od interessi, o persino anche le tendenze della moda, possono essere la misura della fede e dell'interpretazione dei dogmi. Ciò è già escluso dal fatto che l'uomo è per se stesso una questione non risolta, per la quale Dio solo è la risposta integrale. Solamente in Gesù Cristo il mistero dell'uomo è chiarito: in lui, l'Uomo nuovo, Dio ha pienamente rivelato l'uomo all'uomo, gli ha rivelato la sua vocazione più sublime. L'uomo non è dunque la misura, ma il punto di riferimento dell'interpretazione della fede e anche dei dogmi. Egli è anche il cammino della Chiesa nella spiegazione dei sui dogmi»63.

Conclusione

Contribuisce infine a fare chiarezza sulle questioni qui trattate, il ricordare che il mandato evangelico affidato dal Cristo alla sua Chiesa consiste, nella sua essenza, nella trasmissione (tradere) della verità e non nell’adattamento delle formulazioni alle necessità culturali dell’annuncio. La priorità della trasmissione sull'interpretazione è in fondo una richiesta avanzata in modo intrinseco dalla finalità salvifica dell'annuncio stesso.

61 Cfr. F. OCÁRIZ, Sulla libertà religiosa. Continuità del Vaticano II con il Magistero precedente. in 3

(1989) 71-97. 62 Cfr. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, L'interpretazione dei dogmi, o.c., nn. 2780-2785. 63 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, L'interpretazione dei dogmi, o.c., n. 2800.

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5. Rivelazione e verità: comunicabilità e comprensione umana di una Rivelazione divina

a) Rivelazione e verità rivelata

La fenomenologia della comunicazione verbale mostra che ad ogni parola è associato un contenuto veritativo. Nel caso della Parola di Dio non ci troviamo di fronte ad una semplice trasmissione di informazione veritativa, ma ad un comunicare la verità mettendo in rapporto vivo con la verità. Questa convergenza fra Parola e Verità è ben espressa dalla persona del Cristo, pienezza della rivelazione e pienezza della verità. Il tema del Cristo come Verità-Luce e come testimone della verità è particolarmente presente negli scritti di san Giovanni (Gv 8,31-32.40-47; 17,17-19; 18,36-38). La verità è la persona del Cristo, ciò che fa riferimento alla sua missione, alla testimonianza del Padre, alla fede, all'accoglienza della sua parola. La verità è conoscere e vivere di Lui (1Gv 3,18-19; 1Gv 2,4-6); osservare i suoi comandamenti è condizione per restare nella verità (1Gv 2,4); la verità che Gesù insegna ha il potere di liberare (Gv 8,32). Affermare che la Rivlazione divina comunichi la verità ponendo in rapporto vivo con la verità, non è se non un modo diverso di affermare che la finalità della Rivelazione è la salvezza.

Il linguaggio del NT eredita certamente il concetto di verità presente nella tradizione dell'AT, che la collegava alla fedeltà di Dio, alla stabilità della sua volontà salvifica, alla sua onnipotenza. Il suo significato originario reso dal termine ebraico emet è tuttavia più ampio e più profondo di quanto non indichino i termini veritas o ajlhvqeia, confinati dalla cultura greca e latina principalmente all'aspetto nozionale conoscitivo. Il rapporto fra l'uomo e Dio instaurato con la Rivelazione riguarda sia il piano soggettivo della persona sia quello oggettivo di un contenuto veritativo. Questo secondo piano non può però essere trascurato: la parola possiede sempre, necessariamente, anche un valore noetico. La parola di Dio, come ogni parola, è portatrice di un significato e trasmette un contenuto.

L'ambito del rapporto fra Parola e verità non è limitato al piano intellettuale, ma la sua dimensione intellettuale vi è certamente contenuta al suo interno. Si pensi ad esempio allo stretto legame presente nel NT fra Vangelo e insegnamento (didachv), al fatto che il ministero di Cristo di presenti come quello di un Maestro, di un predicatore e di un dottore. Le parole che Gesù consegna ai suoi discepoli devono essere messe in pratica. Sono come il fondamento di una casa, consentono loro di riconocere i segni dei tempi, se osservate conducono all'intimità con Dio ed alla retribuzione finale, devono essere trasmesse fedelmente ed insegnate a tutte le genti. Si tratta di un insegnamento oggettivo, che permette ai discepoli di sapere ciò che devono fare e di interpretare il mondo alla luce dei piani divini.

Dimensione soggettiva ed oggettiva, così come aspetto eterno ed aspetto storico presenti nella nozione di verità, risultano ugualmente presenti in modo non contraddittorio nella Rivelazione, riflesso dell'armonia non conflittuale del rapporto fra Rivelazione e storia, centrato in Cristo. Ciò costituisce una certa sfida per il pensiero filosofico. Nel pensiero classico, presente in buona parte anche nella teologia scolastica, la nozione di verità poteva essere interpretata in modo piuttosto fissista: essa veniva concepita soprattutto come adaequatio rei et intellectus. Allo stesso tempo, il pensiero moderno e contemporaneo, più attento all'antropologia e alla storia, ha cercato una nozione di verità maggiormente proiettata sulla realtà del divenire, su ciò che il passato possiede come implicito ed il futuro manifesterà come esplicito. La rivelazione cristiana compone positivamente questa tensione poiché il Dio-verità, fonte di stabilità e di fedeltà assoluta, è anche soggetto di una storia salvifica che svela nel tempo il suo amore alle creature. La pienezza della verità data nell'Incarnazione dovrà esplicitarsi nella storia mediante la missione con cui il Cristo ricapitola in Sé tutte le cose. Pienezza cristologica e pienezza escatologica sono simultaneamente fonte di verità divina.

La teologia protestante ha spesso rimproverato alla teologia cattolica di dimenticare che la Rivelazione si presenta come la autocomunicazione di Dio stesso e non come la consegna di una gnosi intellettuale (Althaus, Bultmann). Una certa apologetica cattolica aveva forse corso il rischio di spersonalizzare la Rivelazione ed il concetto stesso di verità, vedendovi solo un insieme di nozioni da conoscere e trasmettere. Questa critica è solo in parte giustificata. In

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primo luogo, la dottrina della Dei Verbum non lascia più dubbi sulla ricchezza e sulla natura profondamente personale della Rivelazione. In secondo luogo, occorre evitare di ridurre la Rivelazione esclusivamente ai suoi aspetti esistenziali-salvifici. Se la Rivelazione fosse solo ed esclusivamente storia, evento, esperienza personale di salvezza, come vorrebbero appunto molti teologi riformatori, si finirebbe con lo svuotare la Rivelazione stessa, impedendo ogni discorso veramente intelligibile e comunicabile su Dio, sull'uomo, sul mondo. Certamente nella Rivelazione Dio dona Se stesso, ma il Verbo, in cui la verità di questa donazione si esprime, è anche Sapienza e verità che comunicano il senso oggettivo di tutte le cose. L’esperienza della fede è assolutamente necessaria perché la Rivelazione sia consegnata dall’autore ispirato al popolo di Dio, e perché essa venga poi accolta, vissuta e trasmessa: la Rivelazione, però, non si esaurisce in ciò che costituisce l’esperienza del soggetto che la riceve o la trasmette.

Esiste dunque una sorta di tensione fra valenza esistenziale e contenuto noetico, veritativo della parola. L'errore genetico dei riformatori stava nel ridurre tutta la Rivelazione al primo aspetto: ciò che importa non è tanto conoscere ciò che Cristo ha detto, o chi il Cristo sia in Se stesso, quanto il fatto che Cristo mi abbia salvato (Lutero). Questa prospettiva è particolarmente evidente nella proposta di esegesi esistenziale avanzata da Bultmann e nel suo progetto di demitizzare il cristianesimo, separando il Cristo della fede dal Gesù storico, il kerigma dal mito.

b) La possibilità della mediazione di una parola umana ed il ruolo di una conoscenza naturale di Dio

L'esistenza di una mediazione umana nella rivelazione divina è patente a più livelli: la Scrittura utilizza parole umane, Dio si rivela attraverso la storia degli uomini, attraverso la parola dei profeti. Anche nella sua pienezza, che è l'evento del Verbo incarnato, la Rivelazione continua ad avvalersi di una mediazione umana, appunto la vera umanità di Cristo. Gesù Cristo esercita la sua perfetta mediazione ut homo: (1Tm 2,5).

La presenza di questa mediazione pone il problema di come sia possibile parlare in modo significativo di Dio. Tenuto conto della trascendenza di Dio, del suo essere dall'uomo, come è possibile che il mistero di Dio si riveli e venga offerto all'uomo tramite una mediazione umana, senza trasformarsi per questo in mero discorso umano? Evidentemente questo problema si pone a più livelli: linguistico (le parole umane si danno con le limitazioni dei concetti, della cultura e della storia), filosofico (Dio come Assoluto e Incondizionato), teologico (il Dio di Israele è il Santo).

Il tema del è vasto quanto l'intera storia della filosofia. Il pensiero che ritiene possibile parlare di Dio lo fa abitualmente ricorrendo a tre orientamenti: soluzione apofatica (platonismo e neoplatonismo, filosofia del linguaggio, teologia evangelica, teologia del silenzio e della morte di Dio); soluzione dialettica e analogica (Aristotele, Tommaso, Hegel, ...); soluzione dossologica (teologia mistica, preghiera, silenzio adorante). Sono vie che i grandi interpreti del pensiero cristiano, come furono ad esempio Agostino e Tommaso d'Aquino, hanno percorso in modo non alternativo e, soprattutto, mai limitandosi solo alla prima prospettiva, quella apofatica.

Il problema suscita due questioni importanti

• chiedersi quale significato abbiano, ai fini della comprensione della Rivelazione divina, una conoscibilità naturale di Dio e l'accesso ad alcune verità naturali che la ragione possa conoscere con certezza;

• vedere se esiste una giustificazione interna alla Rivelazione stessa circa la possibilità di parlare di Dio, ascoltarlo e comprendere ciò che Egli vuole comunicare all’uomo.

Ragione filosofica naturale ed intelligibilità della Rivelazione

La prima questione coinvolge il rapporto fra filosofia e teologia: ci si chiede che rapporto vi sia fra una parola di Dio scritta nel ed una parola di Dio consegnata nella , con categorie teologiche, quale sia il rapporto fra creazione ed alleanza/salvezza. Nella comprensione di tale

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rapporto vanno evitati due atteggiamenti radicali, fra loro opposti. Il primo è ritenere che una conoscenza naturale di Dio non abbia alcun valore per la Rivelazione cristiana, a causa della sua novità ed eccedenza, a causa della sua indubbia dimensione di scandalo rispetto a quanto la ragione chiede o si attende. Il secondo è imbrigliare e confinare il contenuto della Rivelazione, l'immagine di Dio in modo particolare, all'interno di categorie puramente filosofiche come unica garanzia di una sua comprensione compiuta.

Ci limitiamo qui a segnalare che vi sono sufficienti indicazioni, sia all'interno della Scrittura che negli insegnamenti del magistero della Chiesa, per ritenere che una conoscenza naturale di Dio, così come l'accesso della ragione umana ad una serie di verità naturali, siano indispensabili ai fini della comprensione della Parola di Dio rivelata. I luoghi classici dell'insegnamento ecclesiale sono il Concilio Vaticano I (DS 3004), l'enciclica di san Pio X, Pascendi (DS 3475) cui farà seguito il giuramento antimodernista (DS 3538). L'intera tematica trova un ampio sviluppo nell'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio (14.9.1998): pur consapevole della differenza — ed in qualche modo dell'irriducibile tensione — fra un'immagine di Dio intravista dal cammino filosofico e quella consegnata da una Rivelazione che non può prescindere dalla logica della croce e dello scandalo (cfr. n. 23), vi si afferma che l'accesso della ragione alle verità fondamentali sulla natura creata e su Dio risultano necessarie per una piena comprensione del contenuto trasmesso dalla Rivelazione (cfr. nn. 36, 83)

La nozione di Dio come causa prima, come fondamento dell'essere, come origine fontale del senso e risposta ai perché ultimi delle cose, sebbene assai meno ricca dell'immagine di Dio offertaci dalla Scrittura, risulta indispensabile perché quell'immagine possa appunto poggiarsi su un soggetto che la ragione può riconoscere sensato e intelligibile. Il riferimento costante della Scrittura al ha proprio il ruolo di collegare ciò che Dio sta rivelando su Se stesso, sulla sua volontà salvifica e sulla sua vita intima, con quel carattere universale di causa prima, guida provvidente e causa finale di tutte le cose. Ciò che Dio rivela, in quanto legato ad una nozione già nota (cioè la nozione di Dio accessibile alla ragione naturale), rende la personalità del soggetto rivelante intelligibile all'uomo. Affermava in modo preciso già san Basilio: (Epistolae, 235, 1: PG 32,872B). Il chiaroscuro con cui la sacra Scrittura presenta l'attività della ragione umana che si interroga sulle cose e su Dio non deve condurre ad interpretazioni minimaliste di tale conoscibilità, ma comprendersi alla luce dei rispettivi contesti: polemica anti-idolatrica (Sap 13), corruzione dovuta al peccato (Rm, capp. 1-2), superbia della ragione (1Cor, capp. 1-2).

Parola di Dio e parole umane

In merito alla seconda questione suscitata, una giustificazione interna alla Rivelazione che si possa parlare di Dio con parole umane si fonda su alcuni concetti chiave:

— unità e corrispondenza fra parola creatrice e parola storica;

— condizione della creatura umana come immagine e somiglianza di Dio;

— economia della Rivelazione come incarnazione della Parola divina in una vera natura umana.

Lo stesso Dio che rivela all'uomo il mistero della sua vita e lo invita alla comunione con Lui, ha creato anche il mondo. Le realtà terrene, a partire dalle quali può esprimersi il nostro linguaggio in modo significativo, partecipano in modo finito dell'essere di Dio e delle sue perfezioni, partecipazione che si dà massimamente nella creatura umana. Esiste una analogia entis che lega le creature al Creatore e che consente di risalire dalle cose create a Dio come dagli effetti alla loro causa (Sap 13,1-5; Rm 1,18-20). Esiste un medesimo linguaggio capace di esprimere con continuità la lode a Dio per l'opera della creazione e per l'opera della salvezza (Sal 136). Parole come essere, vita, paternità, verità, bellezza, fedeltà, amore, possono predicarsi di Dio e delle creature e, se predicate di Dio, ci fanno conoscere analogicamente realtà vere di Lui, proprio a partire da ciò che queste parole significano per gli esseri creati.

L’importanza dell’analogia come espressione della corrispondenza fra parola creatrice e parola storico-profetica va al di là del dibattito sulla insufficienza di un sapere concettuale. In

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qualunque modo possano o debbano trasmettersi la nostra conoscenza dell’essere o la nostra conoscenza di Dio (comunicazione di esperienza, conoscenza simbolica o metaforica, sapere atematico, ecc.) l'universalità e la comunicabilità di questo sapere, se proviene dal reale e vuole orientare altri verso il reale, poggerà sempre, in ultima analisi, su una analogia entis. Il cammino filosofico di questa conoscenza analogica di Dio è quella della metafisica dei trascendentali dell'essere e della triplice via tomista di affermazione, negazione ed eminenza. Si considerino in proposito i seguenti due testi di san Tommaso d'Aquino:

«Noi possiamo nominare una cosa a seconda della conoscenza intellettuale che ne abbiamo (...). Dio non può essere veduto da noi in questa vita nella sua essenza, ma è da noi conosciuto mediante le creature per via di causalità, di eminenza e di rimozione. Conseguentemente, può essere da noi nominato con termini desunti dalle creature; non però in maniera tale che il nome, da cui è indicato, esprima l’essenza di Dio quale essa è, (...) perché la sua essenza è al di sopra di tutto ciò che noi possiamo concepire o esprimere a parole» (Summa Theologiae, I q. 13, a. 1, resp. e ad 1um).

«Nessun nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature. Ma neanche in senso del tutto equivoco, come alcuni hanno affermato. Perché in tal modo niente si potrebbe conoscere o dimostrare intorno a Dio partendo dalle creature (...). E ciò sarebbe in contrasto sia con i filosofi, i quali dimostrano molte cose su Dio, sia con l’Apostolo, il quale dice “le perfezioni invisibili di Dio si rendono visibili perché comprese attraverso le cose create” (Rm 1,20). Si deve dunque concludere che tali termini si affermano di Dio e delle creature secondo analogia, cioè proporzione» (ibidem, a. 5, resp.).

La teologia dei riformatori, tranne alcune eccezioni, ha rifiutato la possibilità di tale conoscenza analogica di Dio partendo dal creato ed ha cercato di fondare la possibilità e l'intelligibilità della Rivelazione unicamente sul dono della grazia. (K. Barth). Tuttavia, tale prospettiva non risolve in realtà il problema, in quanto, sebbene aiutati dalla grazia, la nostra comprensione di Dio continuerà ad esprimersi con le parole del nostro linguaggio, perché le uniche disponibili.

Per Barth, di Dio si può dire soltanto ciò che Dio stesso dice di Sé, cioè solo la sua Parola, il Cristo. Eppure, anche in questo caso non si potrà mai prescindere dalla necessità dell'analogia dell'essere: «se il Cristo può utilizzare tutte le risorse dell'universo creato per farci conoscere Dio e i costumi divini, è perché la parola creatrice ha preceduto ed è il fondamento della parola rivelatrice, ed è perché l'una e l'altra hanno come principio la stessa Parola interiore di Dio. La rivelazione del Cristo suppone la verità dell'analogia»64.

La capacità che l'uomo ha di accogliere e comprendere la parola divina giace poi nello stesso nucleo della sua natura, l'essere cioè interlocutore di Dio, perché creato a immagine e somiglianza del Creatore. La capacità di comprendere l'invito a partecipare della vita stessa di Dio e a corrispondervi liberamente appartiene al nucleo più profondo della struttura ontologica della persona umana. Con parole simili, ciò equivale a dire che l'uomo è stato chiamato all'esistenza per amore ed è capace di riconoscere l'amore:

«L'aspetto più sublime della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio. Se l'uomo esiste, infatti, è perché Dio lo ha creato per amore e, per amore, non cessa di dargli l'esistenza; e l'uomo non vive pienamente secondo verità se non riconosce liberamente quell'amore e se non si abbandona al suo Creatore» (Gaudium et spes, n. 19).

All'interno dell'orizzonte creaturale deve pertanto esistere un modo sensato di parlare di Dio, di comprendere in modo non equivoco ciò che Egli rivela. Se così non fosse, la creatura umana sarebbe radicalmente frustrata, perché incapace di raggiungere il fine iscritto nella sua natura dal suo Creatore.

64 R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, o.c., p. 425.

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Si comprende infine che il fondamento della possibilità di poter parlare di Dio per mezzo di una mediazione umana e con parole umane poggia in ultima analisi sulla realtà dell'Incarnazione del Verbo, sulla cui centralità abbiamo più volte discusso nelle precedenti sezioni del programma. La novità, la singolarità e perfino lo scandalo dell'incarnazione non possono condurre esclusivamente ad una teologia dialettica, perché l'incarnazione del Verbo è il motivo della corrispondenza fra parola creatrice e parola storico-profetica, nonché la prova più diretta che la Parola divina voglia dirigersi alla creeatura umana nel modo a lei più accessibile.

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III. LA RIVELAZIONE CRISTIANA IN RAPPORTO CON LE RELIGIONI

La società in cui oggi viviamo si presenta, a motivo delle più numerose e dirette capacità di relazione fra i singoli e i popoli, come una sociatà multietnica e multireligiosa. È in tale contesto che assume oggi una crescente importanza il tema del del dialogo inter-religioso. Questo tema investe

— aspetti teologici (il rapporto fra cristianesimo e reglioni non cristiane);

— aspetti antropologici e storico-culturali (cosa è una religione);

— aspetti filosofici (cosa sia la verità e se sia possibile raggiungere una verità in materia di religione);

— aspetti sociologici (presenza di diverse religioni in una società, in aumento o in declino, con il loro specifico bagaglio spirituale e culturale);

— aspetti politici (rapporto fra gli stati nazionali e le diverse etnie e religioni, anche in base alle differenti concezioni esistenti del rapporti fra religione e stato civile)

In ambito propriamente teologico, il rapporto del cristianesimo con le altre religioni viene oggi anche chiamato . Quest'ultimo, sebbene nasca all'interno dell'ambito teologico-fondamentale, tende oggi a costituirsi come disciplina propria. È compito della TF dar ragione della singolarità di Cristo come mediatore e pienezza della Rivelazione nel panorama interreligioso, mentre la dovrebbe dirigere la sua attenzione al significato e al valore delle religioni non cristiane in rapporto ai piani di Dio e, quindi, anche all'interno della storia della salvezza. La tematica coinvolge dunque due dimensioni, sebbene fra loro comunicanti: quella della teologia della Rivelazione e quella della soteriologia.

Svilupperemo le nostre considerazioni, che resteranno necessariamente limitate, principalmente attorno alla prima delle due precedenti dimensioni. Affronteremo brevemente i seguenti temi:

• una visione di insieme sull'originalità della Rivelazione cristiana nel panorama delle fenomenologie di rivelazione associate alle tradizioni filosofico-religiose extrabibliche;

• l'unicità e l'orginalità della mediazione di Cristo se paragonata ad altre mediazioni conosciute nelle religioni dell'umanità;

• i principali contenuti del documento della CTI Il cristianesimo e le religioni (1996) ed alcuni loro possibili sviluppi metodologici;

• i punti dottrinali riepilogati nella dichiarazione della CDF Dominus Iesus quali elementi irrinunciabili della fede cristiana;

• il rapporto fra cristianesimo e religione in merito al tema dell'incultazione della fede.

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1. La singolarità della Rivelazione giudeo-cristiana ed i suoi tratti caratteristici in rapporto alle tradizioni extrabibliche

Prima di considerare alcuni elementi di , è opportuno riepilogare alcuni tratti caratteristici della Rivelazione ebraico-cristiana, già incontrati nella Parte I. Sebbene la categoria di non sia esclusiva, come già visto, della religione cristiana, ma abbia collegamenti con la fenomenologia religiosa in genere, va osservato che, nel panorama delle religioni, la rivelazione cristiana si propone con caratteri assolutamente specifici ed originali. Chi non volesse parlare della superiorità del fenomeno cristiano, ha fondamenti oggettivi per poter parlare della sua unicità. Una serie di caratteri che identificano tale unicità fanno sì che anche quelle componenti linguistiche, cosmologiche o antropologiche che il cristianesimo condivide con altre rivelazioni od esperienze religiose, vengano riproposte e reinterpretate sotto una luce del tutto originale. Vediamo alcuni di tali caratteri, in parte già incontrati nelle precedenti sezioni.

La Rivelazione è parola, evento, storia: essa si compie nella storia e attraverso la storia

A differenza di quanto avviene nelle altre tradizioni religiose, nel corso della esperienza religiosa di Israele i fenomeni rivelatori del divino e della sua volontà sono sempre meno collegati alla sacralità del cosmo e della natura per divenire soprattutto parola e storia. Parole e storia fra loro connesse, una parola che si fa storia ed una storia che rivela perché unita alla parola. Il legame con l'oggettività della storia non impedisce alla parola divina di rivelarsi anche nell'interiorità del soggetto che la accoglie. Rivelazione esteriore e rivelazione interiore sono due dimensioni di un'unica rivelazione e di un'unica parola.

Saranno soprattutto gli eventi storici, guidati dall'onnipotenza divina, a manifestare l’azione e la volontà del Dio di Israele, come testimoniato dallo sviluppo e dalla memoria di una storia della salvezza (esempi paradigmatici della continua riproposizione di questa memoria in Dt 4,9-40; Gs 24,14-29; At 7,2-50). È pertanto originale anche la concezione della storia che permette una simile rivelazione. La storia ha un inizio e si dirige verso un termine; la storia è portatrice di significato; il Dio di Israele è Signore della storia. «Al contrario della filosofia orientale, del pensiero greco e dei misteri ellenici che non accordano nessun posto alla storia o lo fanno solo in qualche caso, la fede cristiana è essenzialmente confrontata con “eventi” che sono “successi”. La Scrittura ritraccia fatti, presenta persone, descrive istituzioni. In altri termini, il Dio della rivelazione cristiana non è solo il Dio del cosmo ma il Dio di interventi, di irruzioni inattese nella storia umana; è un Dio che viene, che interviene, che agisce e che salva»65.

Esiste di conseguenza anche un rapporto originale fra rivelazione e cosmo: la maggioranza delle rivelazioni religiose extra-bibliche si davano nella sacralità della natura, la cui fenomenologia ciclica, chiusa nel suo eterno ritorno, consentiva solo una nozione di storia immersa nei cicli naturali e priva di significato innovativo. Quelle manifestazioni di sacralità cosmica che persistono nella Rivelazione giudeo-cristiana, vengono purificate ed utilizzate all’interno di una logica originale, che è quella di una storia salvifica: l’azione divina irrompe nel ciclo chiuso della religiosità naturale e lo utilizza per i propri fini con lo scopo di riattualizzare periodicamente l’evento salvifico66. In questa ottica si colloca ad esempio la sacralità del sabato, che ripropone il ricordo dell’opera creatrice di Dio. La storia diviene pertanto sacramento: essa è capace di rivelare ed anticipare efficacemente ciò che ancora non è in pienezza e che, per essere pienezza, deve trascendere la contingenza della storia67.

La Rivelazione, perché “storica”, ha un carattere dinamico che va dalla promessa al compimento

In relazione con il suo legame con la storia, la Rivelazione giudeo-cristiana si presenta come un movimento cha va dalla promessa al compimento, dall'attesa all'incontro,

65 R. LATOURELLE, Rivelazione: Tratti specifici della rivelazione cristiana, in DTF, 1043. 66 Cfr. J. DANIELOU, Dio e noi, Paoline, Alba 1967, pp. 30-35. 67 Spunti di riflessione assai significativi in proposito possono rintracciarsi nella lettera di GIOVANNI

PAOLO II, Dies Domini, 31.5.1998, spec. nn. 1-18.

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dall'annuncio profetico all'evento. La dinamica dialogica fra AT e NT rappresenta la sua innervatura storica più intima. Una storia di rivelazione così fatta manifesta l'impegno dela fedeltà di Dio, ma richiede anche l'impegno della libertà dell'uomo.

«Sebbene sia certo che l'AT, compreso alla luce del Vangelo, acquisisce un senso nuovo, esso a sua volta, conferisce al NT una densità e uno spessore temporale quale non potrebbe avere da solo. Non si potrebbe comprendere il NT senza il discorso, sempre presente in trasparenza, dell'AT. Senza la chiave ermeneutica dell'AT, alcuni passaggi del NT, come la cena pasquale, il calice del sangue dell'alleanza nuova ed eterna, resterebbero ancora nella penombra. Camminando insieme ai discepoli di Emmaus, Cristo ha inaugurato un'era nuova dell'esegesi: egli è in persona l'esegeta dell'AT di cui è l'esito e il compimento»68.

Questo disegno congiunto della prima e della nuova alleanza costituiscono un unico disegno divino e caratterizzano pertanto .

Nella Rivelazione del mistero, Dio rivela Se stesso e si auto-comunica all'uomo. È nel rivelare/donare Se stesso che Dio rivela anche il senso dell'uomo e del mondo

La Rivelazione è prima di tutto l'offerta e l'auto-comunicazione di Dio stesso, non un principio di comprensione del cosmo, né un'autocomprensione dell’uomo.

Nella rivelazione biblica il mistero non rappresenta l’orizzonte del nascondersi di Dio all’uomo ed il limite dell’umano conoscere, ma piuttosto l’ambito ricchissimo dell’autocomunicazione di Dio e del suo rivolgersi all’uomo: il mistero cessa di essere qualcosa di sottratto all’uomo, come frequente nella dinamica divino-umana dei fenomeni rivelatori associati alla maggior parte delle religioni, per divenire qualcosa che gli viene offerto69. Il contenuto di quest'offerta non è una , cioè una conoscenza assunta a sistema, oppure semplicemente una regola di vita, bensì la vita personale di Dio stesso. Il Dio di Israele rivela al suo popolo la sua vita intima fino a dischiudere, nella rivelazione neotestamentaria, il contenuto del mistero trinitario. Ciò che Dio offre all'uomo non sono solo i dettami della sua volontà, ma l'invito ad entrare in comunione con Lui. La richiesta di accogliere questa parola coinvolge come è logico una sfera ultra-razionale, ma la fede che Dio chiede all’uomo per accedere a questa sfera non è mero abbandono fiduciale. La fede di Israele è chiamata a specchiarsi negli interventi di Dio nella storia e nella fedeltà di Dio alle sue promesse.

La Rivelazione non è una parola attorno all'uomo, ma attorno a Dio. La sua finalità non è spiegare il mondo o l'uomo, ma spiegare all'uomo chi è Dio. Essa non si presenta mai come una gnosi, tipica forma associata ai fenomeni rivelativi. Questa inversione di orizzonte condurrà anche alla conoscenza di verità sull'uomo e sul mondo, ma come effetto di quanto Dio rivela intorno a Se stesso. La Rivelazione, dunque, non nasce entro l'orizzonte chiuso della creaturalità umana, né ha come fine stimolare l'uomo perché, riflettendo su di sé, cerchi nel perimetro del proprio essere i motivi ultimi delle sue scelte esistenziali; essa si presenta soprattutto come manifestazione di cose nuove per l'uomo; cose che, nell'imporsi storicamente alla sua coscienza personale, lo interpellano. Attraverso la creazione e poi attraverso la storia della salvezza, la Rivelazione chiede all'uomo di collocarsi di fronte a Dio e di fronte alle cose perché, solo così, può comprendere se stesso70. La Rivelazione non è una antropologia camuffata da teologia, ma una vera e propria Teo-logia, un discorso su Dio. In essa l'uomo non può interpretare Dio, ma deve lasciarsi interpretare da Lui.

È Rivelazione nell'economia della Parola Incarnata: essa raggiunge la sua pienezza nel Dio fatto uomo

Il contenuto dell'offerta e la misura della condiscendenza toccano il loro apice nell'Incarnazione del Verbo. In Cristo si ha (Rm 16,25; cfr. Col 1,25-27). Tutto ciò che Dio

68 R. LATOURELLE, Rivelazione: Tratti specifici della rivelazione cristiana, in DTF, 1047. 69 Cfr. W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1985, p. 180. 70 Cfr. J.L. ILLANES, Incidenza antropologica della teologia, in 84 (1981), p. 327.

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rivela ed offre all'uomo si esprime in modo compiuto nella persona del Verbo fatto carne. Nel Dio fatto uomo viene colmata in modo radicale e definitivo la distanza fra il tentativo umano di conoscere ciò che appartiene alla sfera del divino e l'eminenza del contenuto stesso del mistero. La Parola di Dio è offerta con parole umane. Cristo è l'universale concretum. La persona del Cristo si propone come contenuto e forma della Rivelazione. Cristo è a un tempo il mistero rivelatore e il mistero rivelato, il mediatore e la pienezza della Rivelazione. Egli non solo porta e rivela la salvezza di Dio, ma è nella sua persona la norma e il contenuto di questa salvezza.

L'incarnazione del Verbo caratterizza tutta una perché assicura che la parola divina può consegnarsi attraverso parole umane. La vera umanità del Verbo assicura che tutte le dimensioni dell'umano esprimersi possono essere assunte dalla parola divina ed utilizzate per rivelare il mistero di Dio. Appartiene ancora a questa economia il fatto che quanto Dio voglia rivelare si realizzi attraverso una prassi di vita, una condizione filiale, una situazione esistenziale.

La Rivelazione è inaudita e sovrabbondante: pertanto, è essa stessa a dover offrire il principio ermeneutico della propria interpretazione.

La Rivelazione offre molto di più di quanto l'uomo cerchi e, soprattutto, con categorie che spesso superano la logica umana. È la rivelazione della gelosia di Dio per le sue creature, l'offerta di una alleanza che pone Dio e l'uomo sullo stesso piano, l'impegno divino di voler riparare in prima persona il peccato dell'uomo, lo scandalo della croce, il paradosso di perdere la vita per ritrovarla, la logica di un regno ultramondano dove regnare è servire. Per poter comunicare un contenuto così eminente, la Rivelazione deve fornire anche il criterio ermeneutico fondamentale per essere interpretata: questo criterio è l’agire storico-salvifico di Dio, mosso dalla sola libertà dell’amore ed a cui l’uomo può corrispondere solo nella libertà e nel dono di sé. L’azione rivelatrice di Dio, pertanto, non può essere predetta, né commisurata con categorie umane, perché ciò che Dio rivela eccede ciò che il pensiero naturale cerca.

La Rivelazione biblica si presenta come condiscendenza (sugkatavbasiı) di Dio verso l’uomo (Dei Verbum, n. 13), autentico dono di grazia che precede ogni iniziativa ascendente religiosa di ricerca di Dio, ma supera anche ogni offerta discendente conosciuta da qualsiasi altra rivelazione extra-biblica. Proprio perché è stato il Dio di Israele a volersi rivelare e a farsi conoscere dal suo popolo, Paolo potrà annunziare ad Atene ciò che le altre religioni adorano senza conoscere.

2. Unicità ed originalità della mediazione del Cristo in un contesto interreligioso

Un secondo aspetto che merita di essere considerato quale premessa al rapporto fra cristianesimo e religioni riguarda la singolarità della mediazione di Gesù-Cristo. Le modalità con cui si manifesta la mediazione di Gesù Cristo pongono infatti il cristianesimo in una condizione di assoluta originalità rispetto alle altre religioni. Negli altri fenomeni religiosi, la mediazione fra l'umano ed il divino è destinata a dissolversi una volta compiuta la sua missione. La mediazione proposta non ha la finalità di legare ad alcuno, bensì quella di fornire una soluzione spersonalizzata agli enigmi dell'uomo ed alle sue ansie di salvezza. Il destinatario della mediazione non ha alcuna personalità concreta cui debba conformarsi, ma una serie di regole da assolvere, non esclusa quella dell'annullamento della propria personalità in una legge cosmica anonima, per poter raggiungere grazie ad esse la propria felicità. Ne è classico esempio il caso del Buddismo:

«In ultima analisi, egli [Buddha] dice solo ciò che fondamentalmente ognuno potrebbe dire. Egli mostra una strada che, anche senza di lui, sussiste col valore di una legge cosmica. La persona stessa del Buddha non è parte essenziale di quel che è propriamente religioso; essa si estingue (...). In verità non c'è nessuna identità persistente. L'apparenza di realtà persistente, se l'uomo vuole arrivare alla liberazione, deve venire rimossa strato a strato, mentre egli, teso

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nell'aspirazione, dice a ciascuno di essi: “non è questo” — e non per cogliere alla fine un ultimo nucleo essenziale, ma per riconoscere che in linea di principio niente c'è, e così dissolversi»71.

Nel cristianesimo esistono certamente mediazioni destinate a scomparire col tempo, come avviene per la missione profetica, o per l'avvicendarsi del ministero degli apostoli. Tutte queste mediazioni sono però finalizzate all'unica mediazione che resta, quella del Cristo, e tutte sono finalizzate a perpetuarne l'attualità. Né il profeta né l'apostolo hanno qualcosa di proprio da annunciare: il cristiano non è di Paolo o di Apollo, perché solo Cristo è stato crocifisso per lui e solo nel suo nome è stato battezzato (cfr. 1Cor 1,11-13). Soltanto Cristo è Via, Verità e Vita (cfr. Gv 14,6): Egli non mostra la via, non conduce alla verità, non dà la vita, ma è in Se stesso tutto ciò come fonte e causa di salvezza. La mediazione di Cristo rivela e salva legando a Sé, per questo è una mediazione inseparabile dalla stessa persona di Gesù:

«Poiché Cristo è a un tempo il mistero rivelatore e il mistero rivelato, il mediatore e la pienezza della rivelazione, ne segue che egli occupa nella fede cristiana una posizione assolutamente unica che distingue il cristianesimo da tutte le religioni, compreso l'ebraismo. Il cristianesimo è l'unica religione la cui rivelazione si incarna in una persona che si presenta come la verità viva e assoluta. Altre religioni hanno fondatori, ma nessuno di questi (Buddha, Confucio, Zoroastro, Maometto) si è proposto come oggetto della fede dei suoi discepoli. (...) Gesù pone gesti, proclama un messaggio, introduce nel mondo una qualità di vita e di amore mai viste, mai immaginate, mai vissute e fa sorgere il problema della sua reale identità»72.

Si può dunque affermare che la Rivelazione cristiana è una forma dalla quale non può venir separato il contenuto, così come la Redenzione è un'azione inseparabile dalla persona che l'ha compiuta. Cristo è costantemente la categoria che determina l'essere, l'agire e la teoria di tutto ciò che è cristiano. Con espressione di Romano Guardini, la persona di Gesù è . Si comprende perché il rapporto fra Cristo e il cristiano non si esaurisca in una sfera intellettuale, ma implichi una vera incorporazione. L'Eucaristia ci indica paradigmaticamente in quale rapporto il credente deve stare a Cristo: non davanti a lui, ma in lui73. Questa in-esistenza, testimoniata dall'insistenza di tutta la teologia paolina a pensare ed agire in Christo Iesu, è realizzata mediante la fede e i sacramenti, vissuti come fatto esistenziale-misterico. Il sacramento diviene perciò il modo con cui il cristiano appartiene al mistero di Cristo (cfr. CCC 1115).

3. Il documento della CTI (1996)

Lo studio del rapporto fra cristianesimo e religioni si confronta immediatamente con la fede nell'Incarnazione del Verbo, affermazione che condiziona in modo determinante ogni possibile sviluppo teologico successivo. Il recente documento della CTI (1996), cui riferiremo principalmente quanto qui esposto, pone subito in luce la questione centrale da risolvere, in tutta la sua radicalità:

«La maggiore difficoltà del cristianesimo si è sempre focalizzata nell'“incarnazione di Dio”, che conferisce alla persona e all'azione di Gesù Cristo le caratteristiche di unicità e di universalità in ordine alla salvezza dell'umanità. Ma come può un avvenimento particolare e storico avere una pretesa universale? Come si può avviare un dialogo interreligioso, rispettando tutte le religioni e senza considerarle in partenza come imperfette e inferiori, se riconosciamo in Gesù Cristo, e soltanto in lui, il Salvatore unico e universale dell'umanità? Non si potrebbe concepire la persona e l'azione salvifica di Dio a partire da altri mediatori, oltre a Gesù Cristo? (...) La rinuncia a tale pretesa è considerata essenziale perché il dialogo possa essere fruttuoso: questo è senza dubbio il punto più importante con cui dobbiamo confrontarci» (nn. 18 e 93).

71 R. GUARDINI, L'essenza del cristianesimo (1938), Morcelliana, Brescia 1993, pp. 19-20. 72 R. LATOURELLE, in DTF, p. 1046. 73 Cfr. R. GUARDINI, Il Signore, Vita e Pensiero, Milano 19645, p. 459.

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a) Il paradigma dei modelli esclusivista, inclusivista e pluralista: limiti e possibilità

Allo scopo di impostare il problema nei suoi aspetti più generali, buona parte della riflessione teologica, e con essa il citato documento, utilizza un riferimento tripartita, comunemente indicato come modello esclusivista - modello inclusivista - modello pluralista. A questi tre modelli corrisponderebbero tre prospettive: ecclesiocentrica - cristocentrica - teocentrica. Si tratta di una divisione concettuale utile, ma non priva di ambiguità. Le tre prospettive, ad esempio, sono facilmente viste in modo dialettico e auto-escludente, incapaci pertanto di cogliere relazioni di carattere . Inoltre, la prima triade indica un rapporto fra il cristianesimo e le altre religioni, la seconda indica invece tre differenti modi di lettura interni al cristianesimo stesso.

Un modello ecclesiocentrico-esclusivista imposterebbe il rapporto con le altre religioni negando possibilità di salvezza e di verità fuori della Chiesa, interpretando in modo letterale e riduttivo la formulazione extra Ecclesia nulla salus. Tale espressione merita alcune precisazioni. La sua origine risale ai primi secoli ed in ambito patristico indicava un monito rivolto a quei fedeli che, un certo tempo dopo aver ricevuto il battesimo, si allontanavano dalla dottrina e dalla pratica cristiana. Ad essi veniva ricordato che fuori della Chiesa, in cui erano nati alla vita della grazia come cristiani, non c'era per loro salvezza. Una interpretazione riduttiva ed assoluta di tale affermazione non corrisponderebbe allo sviluppo dogmatico del rapporto Chiesa-salvezza, né ad una corretta autocomprensione del mistero della Chiesa, popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito, che si estende certamente al di là dei suoi confini visibilis. Può bastare ricordare in proposito la dottrina della Lumen gentium (n. 16):

«Quelli che non hanno ancora ricevuto il vangelo, in vari modi sono ordinati al popolo di Dio. Per primo, quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cf. Rm. 9,4-5), popolo, in virtù della elezione, carissimo per ragione dei suoi padri: perché i doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento (cf. Rm. 11,28-29). Ma il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nei giorno finale. E Dio stesso non è lontano dagli altri che cercano un Dio ignoto nelle ombre e nelle immagini, poiché egli dà a tutti vita e respiro e ogni cosa (cf. At 17,25-28), e come salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvi (cf. 1Tm. 2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio; e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta».

Il primo modello viene dunque escluso, non tanto come risultato di un ragionamento teologico, ma come effetto insito nelle sue stesse premesse terminologiche: quelle di una visione riduttiva del mistero della Chiesa.

Il secondo modello si sforza invece di comprendere le religioni non cristiane lasciando invariata la confessione cristologica nella divinità del Verbo incarnato, come pienezza e mediatore di tutta la Rivelazione, cioè dell'auto-comunicazione di Dio all'uomo nell'evento storico di Gesù di Nazaret. Compito della teologia che assume tale modello è spiegare, dopo un'operazione di discernimento, come le altre religioni possano essere nel mistero di Cristo, quello della sua capitalità sulla creazione e sulla redenzione. Tale modello, oggi generalmente condiviso dalla gran maggioranza della teologia cattolica, non costituisce una soluzione già pronta alla domanda prima formulata in tutta la sua radicalità — come, cioè, mantenere il cristocentrismo in un contesto interreligioso — ma indica una prospettiva, una pista, un ambito metodologico, nei quali cercare una risposta o suggerire alla teologia le strade da percorrere.

Il terzo modello, quello pluralista, vorrebbe in un certo senso rappresentare già una prima risposta: la centralità di Cristo andrebbe abbandonata ed il dialogo fra le varie religioni del mondo potrebbe procedere in prospettiva teocentrica, su sentieri in parte inediti. L'evento di Gesù di Nazaret potrebbe ancora essere , attribuendogli non più certo l'esclusività e la pienezza della mediazione rivelativa e salvifica, ma un posto privilegiato, quello della

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mediazione più alta fra tutte quelle storicamente possibili, o quello di un soggetto col rapporto con Dio più stretto fra tutti quelli instaurabili. Ma l'evento di Gesù potrebbe essere considerato anche , e dunque la teologia fondamentale e delle religioni dovrebbe aprirsi alla possibilità di rivelazioni o mediazioni superiori o radicalmente diverse. Si tratta di prospettive che trovano rispondenza in una parte della teologia evangelica (ad es. Troeltsch e Tillich per il pluralismo normativo, Hick per quello non normativo).

Il nocciolo della proposta pluralista sta dunque in una sorta di rivoluzione copernicana in ambito religioso: ogni confessione dovrebbe cessare di ruotare attorno al proprio fondatore-mediatore — il cristianesimo attorno a Cristo — per cominciare a ruotare tutti attorno al di un nuovo teocentrismo capace di integrare le istanze delle diverse tradizioni religiose. Va segnalato che a questa proposta soggiace una certa precomprensione del tema della verità, nonché del rapporto fra annuncio e dialogo. In una gnoseologia non più legata ad un quadro metafisico, come si auspica, affermazioni di carattere irreformabile non sarebbero più possibili neanche in ambito religioso; visto che nessuno è depositario di una verità della quale non si può essere certi, cadrebbe la forza dell'annuncio ed il cammino più logico sarebbe quello di cercare insieme una verità che ancora nessuno possiede.

Il tema della unicità o della singolarità del Cristo, pienezza della Rivelazione, nel contesto del rapporto fra le diverse religioni si struttura dunque come problema del confronto fra il modello inclusivista e quello pluralista. Questo confronto va fatto, pur con tutte le contestualizzazioni ermeneutiche o antropologiche che si vogliano, sempre alla luce del dato biblico, pena la perdita dello statuto della discussione. Compito della teologia è verificare la conformità di ciascuna delle soluzioni suggerite col dato rivelato e mostrare l'eventuale contraddizione interna di alcune posizioni. Osserviamo incidentalmente che se una discussione teologica concentrata sul rapporto fra i due modelli inclusivista e pluralista (lasciando cioè da parte quello ecclesiocentrico) può considerarsi più proficua, il prezzo da pagare è quello di aver condizionato il linguaggio teologico a spese di una insufficiente espressione della natura della Chiesa, rinunciando a far entrare in gioco, o per lo meno lasciando più in ombra, i suoi rapporti con Cristo e quindi con Dio.

b) Inadeguatezza teologica della prospettiva pluralista

Il modello pluralista-teocentrico avanza a difesa della sua posizione una serie di piste argomentative; quasi tutte operano un processo di del ruolo di Gesù Cristo allo scopo di superare la posizione cristocentrica, ritenuta pregiudiziale ai fini del dialogo interreligioso. Ne riferiamo brevemente alcuni cenni assieme a dei rilievi critici74.

Un primo gruppo di considerazioni riguarda l'ambito ermeneutico. L'universalità o l'assolutezza di Gesù Cristo andrebbero drasticamente ridotte perché dipendenti dall'enfasi del linguaggio religioso (iperbolico, apocalittico, messianico...) proprio della cultura ebraica, o da un naturale rafforzamento del messaggio della prima comunità credente, operato ai fini di assicurare un maggiore impatto nel nuovo annuncio salvifico. Determinante ai fini dell'amplificazione degli attributi cristologici, resterebbe l'utilizzo di paradigmi propri della filosofia greca, primo fra tutti quello riferentesi al ruolo del Logos platonico e neo-platonico.

Un secondo gruppo di argomentazioni opera una serie di separazioni fra ciò che si potrebbe predicare di Gesù in modo e ciò che appartiene invece ad un linguaggio di portata . Di fatto queste dimensioni — concreta ed universale — non sussisterebbero più simultaneamente nel medesimo soggetto: una loro erronea composizione è proprio ciò che avrebbe portato ad assumere un'incorretta prospettiva cristocentrica, dalla quale occorrerebbe oggi distaccarsi in favore di un modello pluralista. Così agisce una nuova separazione fra il Gesù della storia ed il Cristo della fede, oppure fra Gesù-Cristo e il Logos-Verbo di Dio: se i

74 Per uno sviluppo in sede critica, cfr. J. DUPUIS, Gesù Cristo incontro alle religioni, Cittadella,

Assisi 1989 e Universalità del cristianesimo. Gesù Cristo, il Regno di Dio e la Chiesa, in , a cura di M. Farrugia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, pp. 19-57; più brevemente IDEM, Unicità e universalità, DTF, o.c.

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primi termini della coppia rimandano ad un concreto, i secondi rimandano ad un universale, il quale — è questo il punto centrale — non si vede perché dovrebbe manifestarsi o riconoscersi totalmente in quel concreto. Il Cristo cosmico, come il Logos, potrebbero avere altri modi di rivelare Dio o di rivelarsi, di incarnarsi, di mediare, di salvare, anche diversi da quello storicamente datosi in Gesù di Nazaret, il quale, evidentemente non esaurirebbe la portata di queste prerogative.

Una variante di queste è operare una drastica separazione fra lo Spirito di Dio e il Cristo-Verbo incarnato. Al primo, ineffabile, imprevedibile, universale nelle sue manifestazioni, spetterebbe una priorità rivelativa e salvifica. Poiché è lo Spirito ad aver determinato l'incarnazione del Verbo e guidato la missione di Gesù di Nazaret, allo stesso modo Egli potrebbe guidare e/o aver già guidato altre importanti manifestazioni salvifiche di Dio. L'interpretazione è suscettibile di una formulazione in chiave storica: in prospettiva escatologica si segnerebbe un passaggio dall'economia del Verbo, più storico-concreta, a quella dello Spirito, decisamente più universale, unificante e totalizzante.

Sebbene alcune delle precedenti riflessioni potrebbero trovare, non senza difficoltà, punti di appoggio in singoli dati biblici, nel loro insieme le premesse che vogliono giustificare l'adozione di una posizione pluralista non paiono riconducibili al contenuto della fede cristiana. Come segnalato dal citato documento della Commissione Teologica Internazionale, siamo di fronte ad una semplificazione storica, epistemologica e teologica che muta drasticamente la comprensione della propria fede e risulta incompatibile con la Rivelazione letta all'interno della tradizione75.

Il kerygma apostolico si presenta fin dall'inizio come unità della dimensione salvifica universale del Cristo e della vicenda storica di Gesù. Non siamo di fronte ad una sovrapposizione indebita di due concetti diversi: 76. Se nel linguaggio religioso questo annuncio può essere debitore al pensiero ebraico o a quello greco, nella sua sostanza esso si presenta come una novità che sconvolge le attese messianiche ebraiche ed i canoni del pensiero greco. A vent'anni di distanza dalla resurrezione di Gesù, Paolo lo testimonia in modo sorprendentemente esplicito (cfr. 1Cor 1,22-25; At 16,32-33). Gli apostoli percepiscono il peso inaudito della parola che è stata loro affidata: se la salvezza poteva essere un'aspettativa dei loro interlocutori, il modo con cui si afferma che essa si è ora data, risulta totalmente inedito. «Il messaggio evangelico che anima gli Apostoli di Cristo, appare come il compimento di ciò che i popoli, in modo frammentario ed oscuro, già posseggono. Che questa pienezza della luce emerga come evento storico — morte e resurrezione di Cristo — è appunto la difficoltà ed il tormento della predicazione»77. L'universalità della redenzione non è il risultato di un'associazione categoriale, ma viene proclamata come un fatto, il della passione, morte e resurrezione di Gesù.

Gli effetti di una separazione di Gesù-Cristo dal Verbo o dallo Spirito condurrebbero poi a negare aspetti precisi dei dogmi trinitario e cristologico, o dell'economia della salvezza, tutti solidamente fondati sul dato biblico. Se è vero che la Persona increata del Verbo sussiste prima dell'evento storico di Gesù di Nazaret, è però vero che la persona di Gesù è la persona del Verbo: il Verbo divino non si impossessa di un corpo come di una cosa transitoria, restando aperto a molteplici possibili unioni, ma si incarna. Altre possibili manifestazioni del Verbo nella storia o nelle dimensioni spazio-temporali della creazione non possono essere staccate da Gesù Cristo, che è il modo personale con cui il Verbo è entrato nella storia e nel creato. Ed è nella precisa umanità assunta dal Verbo, quella generata da Maria Vergine, che Gesù Cristo ha patito e sofferto per la nostra redenzione. L’unicità dell’incarnazione, contro la possibilità di molteplici incarnazioni, dipende anche dalla radicalità di quanto è stato chiesto da Dio Padre

75 Cfr. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Il cristianesimo e le religioni, nn. 97-99. «Né una

limitazione della volontà salvifica di Dio, né l'ammissione di mediazioni parallele a quella di Gesù, né un'attribuzione di questa mediazione universale al Logos eterno non identificato con Gesù risultano compatibili con il messaggio neotestamentario» (ibid., n. 39).

76 J. DUPUIS, Universalità del cristianesimo. Gesù Cristo, il Regno di Dio e la Chiesa, o.c., p. 27. 77 H.U. VON BALTASAR, Il tutto nel frammento (1963), Jaca Book, Milano 1990, pp. 146-147.

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alla umanità di Gesù di Nazaret, ovvero il suo sacrificio fino all’effusione del sangue. La tematica resta senz'altro suscettibile di approfondimenti, ma alla luce del dato rivelato il Logos destinato ad incarnarsi ed il Logos incarnato sono la stessa realtà: negarlo porterebbe ad offuscare il significato dell'essere personale, non solo nell'ordine creato, ma all'interno della vita trinitaria.

Similmente, Cristo e lo Spirito non sono protagonisti di due economie parallele nella storia della salvezza. Anche lo Spirito, come il Logos, ha una sua azione previa all'evento storico di Gesù, un'azione che coinvolge in modo diretto la stessa creazione, ma un'azione non disgiunta da quella pienezza di autocomunicazione di Dio all'uomo e al creato che è, appunto, l'Incarnazione. I tratti con cui la missione dello Spirito viene descritta dalla Scrittura in relazione alla missione del Figlio sono troppo forti per essere fraintesi. L'effusione piena dello Spirito giunge dopo la Pasqua, come frutto della croce; Cristo invia insieme al Padre il Spirito. «Lo Spirito Santo dirige tutti gli uomini verso Cristo, l'Unto; Cristo, a sua volta, li dirige verso il Padre. Nessuno va al Padre se non attraverso Gesù, perché egli è la via (Gv 14,6); però è lo Spirito Santo che guida i discepoli alla verità intera (Gv 16,12-13). La parola “guiderà” (oJdhghvsei) include la “via” (oJdoŸı): quindi lo Spirito guida per la via che è Gesù, il quale conduce al Padre»78. Ogni cristologia pneumatica non può prescindere da una cristologia del Verbo incarnato79.

Alla posizione pluralista va infine mossa una critica di carattere filosofico, sullo stesso terreno che essa cerca di vitalizzare, quello del dialogo ecumenico ed interreligioso. Essa rileva come fattori fondamentali per il dialogo — che interessano evidentemente tutte le parti in causa — relativizzare la propria istanza di verità, rinunciare ad un certo numero di affermazioni teologicamente acquisite e modificare il proprio metodo in ordine ad accogliere meglio le istanze avanzate dagli altri interlocutori. Qui giace il senso di quel coraggio, prima menzionato, di compiere una vera e propria . Orbene, sono proprio questi i fattori che compromettono il dialogo. Nel momento in cui per dialogare si annulla la pretesa di verità di tutti, il dialogo cessa, perché nessuno ha più nulla da dire80. Il vero dialogo va invece condotto conservando la propria specificità e prendendo sul serio la verità dell'altro. Ciò richiede certamente un maggior sforzo speculativo e maggiore rettitudine di coscienza di fronte a se stessi, agli altri, e in definitiva di fronte a quel Dio che si cerca di conoscere e di servire. Solo con queste disposizioni si può promuovere un vero dialogo interreligioso, basato sull'amore alla verità e non sulle regole del consenso o del mercato.

c) La comprensione del rapporto fra cristianesimo e religioni alla luce di una teologia cristocentrico-inclusivista

Quali sono dunque le piste di dialogo interreligioso che andrebbero esplorate all'interno di un modello cristocentrico-inclusivo? Una di esse è senza dubbio la teologia dei . Quanto partecipa della verità e dell'adorazione del vero Dio, anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa, appartiene al Verbo, al mistero del Suo rapporto con la creazione.

Teologia dei semi del Verbo

La presenza dei riflessi o dei semi del Verbo divino nelle religioni non cristiane, nella filosofia e nella cultura, in quanto espressioni sincere della ricerca della verità, fu messa in luce fin dalle origini del cristianesimo e vanta una certa tradizione patristica. San Giustino, esponendo la sua dottrina sul Verbo divino, si dirigeva nel II secolo al mondo greco-romano affermando che 81. Analogamente, Clemente di Alessandria considerava la filosofia una preparazione al Vangelo, così come l'AT fu per gli ebrei una preparazione alla venuta di Cristo.

78 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Il cristianesimo e le religioni, n. 59. 79 Sul'inseparabilità Cristo-Verbo e Cristo-Spirito insiste anche l'enciclica di GIOVANNI PAOLO II,

Redemptoris missio, p. es. nei nn. 6 e 53. 80 Aspetto, questo, ben messo in luce da J. MORALES, La teología de las religiones, 30 (1998) 753-

777. 81 Seconda Apologia, XIII,4.

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Ireneo parlerà di un Logos che ha accompagnato la storia degli uomini preparando l'incarnazione. Il Concilio Vaticano II ha fatto propria questa prospettiva: nella costituzione Lumen gentium si afferma che la Chiesa riconosce come (n. 8). Nella dichiarazione conciliare Ad gentes, riferendosi a coloro che operano in terra di missione, si afferma:

«[Essi] debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti. (...) Debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono (...) affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ed insieme devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l'autorità di Dio Salvatore» (n. 11).

Così, in un noto passo della dichiarazione Nostra Aetate:

«La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è "via, verità e vita"» in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa ed in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose (2Cor 5,18-19)» (n. 2).

Nell'enciclica Redemptoris missio, Giovanni Paolo II sottolinea il carattere di questi semi di verità e di bene: (n. 6). Di fatto, «quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l'azione dello Spirito, per operare lui, l'uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale» (n. 29). Sul piano storico-salvifico, ciò implica che ogni uomo che raggiunge di fatto la salvezza, egli si salva, lo sappia o no, mediante la grazia ed i meriti di Cristo. Una dovrà pertanto cercare di esplicitare il loro carattere cristocentrico, non solo alla luce della Rivelazione, ma servendosi anche di una teologia comparata, della storia e della filosofia delle religioni.

Già nell'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (6.12.1975, n. 53), Paolo VI aveva elencato esplicitamente alcuni dei valori positivi delle religioni non cristiane, precisando al tempo stesso che tali valori positivi sono in relazione con la sincerità della ricerca personale. Oltre al valore di contenere, appunto, , egli elenca fra gli altri: il fatto di esprimere la vita dello spirito di milioni di persone ed incarnare la loro ricerca di Dio; la capacità di educare alla riflessione e muovere alla preghiera; il fatto di costituire un'autentica preparazione al Vangelo.

L'ottimismo di fondo che permea la fede cristiana circa la possibilità di trovare i semi del Verbo in ogni ricerca autentica della verità, che ha nella religiosità la sua espressione esistenziale-vincolante, mantiene una stretta relazione con ciò che abbiamo chiamato . Proprio perché la parola creatrice e la parola profetica sono pronunciate dal medesimo Verbo nel medesimo Spirito, la natura umana mantiene sempre e dovunque la capacità di accedere al vero partendo dalla considerazione della propria creaturalità e dalla creaturalità del mondo. Pertanto, anche il dialogo che i cristiani desiderano instaurare con i non credenti sarà sempre segnato dalla consapevolezza di questa metafisica latente, sempre alla portata di ogni uomo che sa riflettere libero da condizionamenti ideologici. Ancorato sul realismo dell'essere, mai tale dialogo potrà assumere il carattere dell'intolleranza e dell'ideologia.

Convergenza fra cristologia ed antropologia

Una seconda pista è quella che riflette sulla . Si tratta cioè di mettere in luce come l'evento terreno di Gesù Cristo, crocifisso e risorto, contiene in sé un appello significativo per ogni uomo. Il mistero della vita e della morte, la sofferenza del giusto innocente, la legge della carità e del perdono, raccolgono in Cristo le aspirazioni di tutta l'umanità, così come sono state in parte esplicitate o rappresentate nelle varie religioni. Indipendentemente dalle differenze di razza, religione o cultura, ognuno può riconoscere nella storia di Cristo la propria storia,

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partecipare attraverso il lavoro, l'amore per gli altri, la sofferenza e la morte al , quel mistero pasquale col quale lo Spirito Santo dà a tutti la possibilità di entrare in contatto82.

Nessuna persona umana può sentirsi estranea a questo annuncio, perché il cristianesimo dichiara che 83. Cristo, dunque nel suo mistero tutta l'umanità84 Egli non è soltanto la via per andare al Padre (cfr. Gv 14,5-6), ma anche la via per andare a ciascun uomo85. Grazie a questa fondamentale corrispondenza fra il progetto divino sull'uomo e Cristo, 86 ed è consapevole che sulla strada che porta a Lui essa può incontrare ogni popolo ed ogni cultura, perché 87. Partendo dalla persona e dalla dottrina di Gesù di Nazaret, ogni uomo è allora capace di scoprire, come in controluce, ciò che appartiene alla dignità della persona umana e ciò che la umilia, ciò che contribuisce alla sua pienezza e ciò che la corrompe.

La pista della convergenza fra Cristo e l'uomo, con l'inclusione di ogni uomo nella logica del suo mistero salvifico, si connette con la , esplicitandone però la valenza cristologica. Anche in questo caso si tratta di una riflessione di ampia tradizione biblico-patristica. Se ogni uomo è stato creato in Cristo ed ogni uomo è destinato a conformarsi alla sua immagine, è ragionevole pensare che ogni sano anelito di verità sull'uomo, di pienezza o di compimento presente nelle varie religioni, abbia un implicito legame con la condizione filiale di Cristo, filiazione-incorporazione alla quale siamo tutti chiamati a partecipare.

Inclusivismo come “rilettura”: un programma metodologico

Il modello cristocentrico-inclusivo, l'unico ragionevolmente percorribile da una teologia rispettosa del dato rivelato, contiene al suo interno un implicito programma metodologico: la teologia cristiana dovrebbe sforzarsi di le altre tradizioni religiose all'interno della propria storia della salvezza. Il verbo non vuol dire solo riportare all'interno del proprio confine, né più banalmente contenere, come si contiene un oggetto che può essere conglobato fino ad esserne assorbito, trasformato o stravolto. Il suo significato più profondo non può prescindere dall'idea di . Ciò che viene incluso deve allora essere anche e necessariamente compreso. Ciò implica riconoscere un ruolo a tutto quanto viene incluso, senza penalizzarne per questo l'identità: sul binomio la teologia cristocentrica gioca la sua partita decisiva.

Così inteso, il , come criterio e cammino metodologico, diverrebbe allora un'indicazione di veridicità: la tradizione religiosa che ha la capacità di includere, cioè comprendere nel senso di le altre, partecipa dell'unica verità in modo maggiore. Il cristianesimo, essendo la religione rivelata che afferma di trovarsi proprio in queste condizioni, deve allora raccogliere la sfida di saperlo esplicitare dal punto di vista teologico. A ben pensarci è la stessa storia della salvezza a fornirci un esempio emblematico di come agirebbe un simile , quando essa ci presenta la lettura del primo Testamento alla luce del Nuovo, permettendoci così di comprenderlo senza penalizzarlo. La dinamica promessa-compimento non toglie nulla alla prima alleanza, perché se questa perdesse la sua identità si perderebbe inevitabilmente anche la specificità della nuova.

82 Cfr. Gaudium et Spes, n. 22. (CCC, n. 521; cfr. nn. 519-520). 83 Gaudium et spes, n. 22; cfr. GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, n. 6; Redemptor hominis,

nn. 8, 13. 84 «Non una venuta solo transeunte, non un puro passaggio attraverso l'umano per poi perdersi

nuovamente nel mistero: il Figlio di Dio resta con noi. Divenendo uomo egli è entrato in comunione esistenziale con noi, e questa comunione permane in quanto egli si è impegnato per l'umanità. In lui, Dio sta dalla nostra parte» (R. GUARDINI, L'esistenza del cristiano, Vita e Pensiero, Milano 1985, p. 236).

85 GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis, n. 13. «Non si tratta dell'uomo astratto, ma reale, dell'uomo concreto, storico. Si tratta di ciascun uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. (...) L'oggetto di questa premura è l'uomo nella sua unica ed irripetibile realtà umana, in cui permane intatta l'immagine e la somiglianza con Dio stesso» (ibid.).

86 Ibid., n. 18. 87 Gaudium et spes, n. 41.

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È significativo osservare in proposito che un criterio di inclusività potrebbe agire, appunto come tentativo di , anche muovendo dall'ebraismo verso il cristianesimo, ma originando conseguenze assai interessanti. Un simile tentativo lo troviamo nell'episodio narrato da Luca nel cap. 5 degli Atti dopo l'arresto di Pietro e degli altri apostoli. Attraverso le parole di Gamaliele (cfr. At 5,35-39), l'ebraismo cerca di il movimento sorto attorno a Gesù di Nazaret all'interno di quel fenomeno di messianismo dal colore religioso-politico frequente a partire dal II sec. aC., e poi specialmente durante il periodo della dominazione romana. Ma il discorso di Gamaliele, e con lui la lettura ebraica del cristianesimo, per trovare un fondamento ed una coerenza interna alla propria tradizione religiosa, si appella alla storia e chiede ad essa una verifica di quanto sta accadendo: (At 5,38-39). Sebbene ciò ci venga trasmesso attraverso la narrazione di Luca, è sintomatico che nel momento in cui, in un dialogo fra ebraismo e cristianesimo, l'ebraismo impieghi un criterio di inclusività si trovi a dover fare i conti con la storia e quindi, implicitamente, a doversi aprire alla possibilità della verità del cristianesimo, se vuole essere coerente fino in fondo con se stesso.

Sarebbe possibile un analogo itinerario anche nei confronti dell'islamismo? Fermo restando che il rapporto fra ebraismo e cristianesimo è assolutamente unico nel panorama del diaologo interreligioso, si può tuttavia affermare che, sebbene una lettura inclusiva dell'Islam da parte del cristianesimo non sia cosa immediata, esiste certamente un tentativo dell'Islam di all'interno della tradizione giudeo-cristiana, nella comune origine da Abramo e nel particolare ruolo — di carattere intermedio e provvisorio rispetto a Maometto — attribuito a Gesù di Nazaret. Ora è questa autocomprensione dell'Islam che andrebbe condotta fino in fondo, fino a trarne le estreme conseguenze nel suo confronto con la storia. Dal canto suo, il cristianesimo dovrebbe dar ragione di come un simile fenomeno religioso possa essersi originato ed avere il coraggio discernere le sue eventuali istanze positive separandole da quelle certamente estranee alla Rivelazione.

Il modello inclusivista indica forse più di quanto si possa a prima vista pensare. Esso ribadisce che la via da percorrere nella ricerca teologica è certamente quella di mantenere l'unicità e l'universalità della mediazione di Cristo, ma i modi di percorrerla sono pur sempre affidati allo Spirito. Più in generale, il rapporto fra cristianesimo e religioni dovrebbe saper cogliere le prospettive cristiane ecclesiocentrica, cristocentrica o teocentrica come prospettive comunicanti e non indipendenti. Proprio la dinamicità di tale articolato rimando, dalla Chiesa a Cristo nello Spirito al Padre, può aiutare a meglio riconoscere la ricchezza del ruolo dello Spirito, l'unico capace di scrutare le profondità di Dio ed i suoi segreti (cfr. 1Cor 2,10-11), l'unico che conosce gli itinerari dell'umanità, di tutta l'umanità, sulle vie che conducono a Cristo.

4. I punti di riferimento dottrinali del documento della CDF Dominus Iesus (2000)

La Dichiarazione della CDF Dominus Iesus (6.8.2000) non intende sviluppare una specifica teologia, bensì sottolineare alcune affermazioni di carattere dogmatico poggiandosi sulla corrispondente autorità dei diversi documenti del Magistero cattolico che essa cita e richiama inserendoli nel contesto contemporaneo. Essi sono, in primo luogo le dichiarazioni cristologiche dei primi secoli, i documenti del Concilio Vaticano II e l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris Missio (1990). Per gli aspetti ecclesiologici viene citata inoltre anche l’enciclica Ut unum sint (1995) e per quelli filosofici l’enciclica Fides et ratio (1998). Il documento della CTI Il cristianesimo e le religioni (1996) non viene esplicitamente citato, ma si possono riconoscere nel testo della Dominus Iesus le principali argomentazioni teologiche lì sviluppate, che vengono qui impiegate a sostegno delle affermazioni dottrinali esposte. Di quel documento si assume, come schema della stessa esposizione, la divisione tripartita dei modelli esclusivista inclusivista e pluralista del dialogo inter-religioso.

In apertura il documento presenta un conciso ma denso riepilogo (cfr. n. 4) quali sono le principali verità della fede cattolica che, nel contemporaneo clima di relativismo gnoseologico e religioso, verrebbero oggi considerate come superate. Esse sono:

— il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo

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— la natura della fede cristiana, se paragonata alla credenza propria delle altre religioni

— il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura

— l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth

— l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo

— l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo

— la mediazione salvifica universale della Chiesa

— l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa

— la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo.

A conferma tali punti fermi, oggi convertiti in oggetto di discussione o di aperta negazione, vengono ricordati i principali documenti del Magistero che li affermano in modo autorevole. Data la natura dottrinale (concepita anche come base per eventuali provvedimenti disciplinari) del documento, l’aspetto declarativo prevale su quello teologico-argomentativo.

Pienezza e definitività della Rivelazione in Cristo

Si ricorda che in Gesù Cristo vi è la pienezza della rivelazione di Dio. tale rivelazione è definitiva e non ammette nuove economie che la superino. Tale “definitività” è fondata sulla divinità del soggetto, la persona di Gesù Cristo, Verbo incarnato. A tale divinità di deve che il mistero pasquale rappresenti l’apice e il compimento della Rivelazione e della salvezza.

«Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo. Deve essere, infatti, fermamente creduta l'affermazione che nel mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, il quale è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), si dà la rivelazione della pienezza della verità divina» (n. 5)

«È quindi contraria alla fede della Chiesa la tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, che sarebbe complementare a quella presente nelle altre religioni. La ragione di fondo di questa asserzione pretenderebbe di fondarsi sul fatto che la verità su Dio non potrebbe essere colta e manifestata nella sua globalità e completezza da nessuna religione storica, quindi neppure dal cristianesimo e nemmeno da Gesù Cristo. [...] la fede esige che si professi che il Verbo fatto carne, in tutto il suo mistero, che va dall'incarnazione alla glorificazione, è la fonte, partecipata, ma reale, e il compimento di ogni rivelazione salvifica di Dio all'umanità, e che lo Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo, insegnerà agli Apostoli, e, tramite essi, all'intera Chiesa di tutti i tempi, questa “verità tutta intera” (Gv 16,13)» (n. 6)

Natura delle fede e carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura

Si desidera quindi chiarire la specificità della fede teologale, la cui dimensione personalista è ultimamente fondata sulla fides per Christum e in Christum, in rapporto all’esperienza religiosa o alla nozione di fede religiosa generalmente intese:

«Deve essere, quindi, fermamente ritenuta la distinzione tra la fede teologale e la credenza nelle altre religioni. Se la fede è l'accoglienza nella grazia della verità rivelata, “che permette di entrare all'interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza” (Fides et ratio, 13) la credenza nelle altre religioni è quell'insieme di esperienza e di pensiero, che costituiscono i tesori umani di saggezza e di religiosità, che l'uomo nella sua ricerca della verità ha ideato e messo in atto nel suo riferimento al Divino e all'Assoluto (cfr. ibidem, 30-31). Non sempre tale distinzione viene tenuta presente nella riflessione attuale, per cui spesso si identifica la fede teologale, che è accoglienza della verità rivelata da Dio Uno e Trino, e la credenza nelle altre religioni, che è esperienza religiosa ancora alla ricerca della verità assoluta e priva ancora dell'assenso a Dio che si rivela. Questo è uno dei motivi per cui si tende a ridurre, fino talvolta ad annullarle, le differenze tra il cristianesimo e le altre religioni» (n. 7)

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In collegamento con questa differenza e specificità circa la nozione di fede, vi è la distinzione e la specificità dei libri della Sacra Scrittura, ispirati da Dio, rispetto agli altri testi religiosamente custoditi da vari popoli e culture:

«Si avanza anche l'ipotesi circa il valore ispirato dei testi sacri di altre religioni. Certo, bisogna riconoscere come alcuni elementi presenti in essi siano di fatto strumenti, attraverso i quali moltitudini di persone, nel corso dei secoli, hanno potuto e ancora oggi possono alimentare e conservare il loro rapporto religioso con Dio. [...] La tradizione della Chiesa, però, riserva la qualifica di testi ispirati ai libri canonici dell'Antico e del Nuovo Testamento, in quanto ispirati dallo Spirito Santo (cfr: Concilio di Trento, DH 1501; Concilio Vaticano I, DH 3006). [...] Tuttavia, volendo chiamare a sé tutte le genti in Cristo e volendo comunicare loro la pienezza della sua rivelazione e del suo amore, Dio non manca di rendersi presente in tanti modi “non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo lacune, insufficienze ed errori” (Redemptoris missio, 55) Pertanto, i libri sacri di altre religioni, che di fatto alimentano e guidano l'esistenza dei loro seguaci, ricevono dal mistero di Cristo quegli elementi di bontà e di grazia in essi presenti» (n. 8)

Inseparabilità fra economia del Figlio ed economia dello Spirito Santo

Sullo sfondo delle considerazioni sviluppate dal documento della CTI, la dichiarazione Dominus Iesus afferma la non praticabilità di una separazione fra l’economia salvifica del Figlio, Verbo incarnato, e quella dello Spirito Santo (cfr. nn. 9-12). Sebbene lo Spirito Santo abbia le sue strade per condurre i popoli e i singoli alla salvezza, strade che in larga misura noi non conosciamo e probabilmente non consoceremo mai, ciò che certamente sappiamo è che queste strade conducono a Cristo e non ad altri mediatori, né possono svilupparsi secondo economie salvifiche diverse da quella realizzatasi nel mistero pasquale di Gesù Cristo, morto e risorto.

«È pure contrario alla fede cattolica introdurre una separazione tra l'azione salvifica del Logos in quanto tale e quella del Verbo fatto carne. Con l'incarnazione, tutte le azioni salvifiche del Verbo di Dio si fanno sempre in unità con la natura umana che egli ha assunto per la salvezza di tutti gli uomini. L'unico soggetto che opera nelle due nature, umana e divina, è l'unica persona del Verbo. Pertanto non è compatibile con la dottrina della Chiesa la teoria che attribuisce un'attività salvifica al Logos come tale nella sua divinità, che si eserciterebbe “oltre” e “al di là” dell'umanità di Cristo, anche dopo l'incarnazione» (n. 10)

«C'è anche chi prospetta l'ipotesi di una economia dello Spirito Santo con un carattere più universale di quella del Verbo incarnato, crocifisso e risorto. Anche questa affermazione è contraria alla fede cattolica, che, invece, considera l'incarnazione salvifica del Verbo come evento trinitario. Nel Nuovo Testamento il mistero di Gesù, Verbo incarnato, costituisce il luogo della presenza dello Spirito Santo e il principio della sua effusione all'umanità non solo nei tempi messianici (cf. At 2,32-36; Gv 7,39; 20,22; 1 Cor 15,45), ma anche in quelli antecedenti alla sua venuta nella storia (cf. 1 Cor 10,4; 1 Pt 1,10-12). [...] Inoltre, l'azione salvifica di Gesù Cristo, con e per il suo Spirito, si estende, oltre i confini visibili della Chiesa, a tutta l'umanità. Parlando del mistero pasquale, nel quale Cristo già ora associa a sé vitalmente nello Spirito il credente e gli dona la speranza della risurrezione, il Concilio afferma: “E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale” (Gaudium et spes, 22). [...] In conclusione, l'azione dello Spirito non si pone al di fuori o accanto a quella di Cristo. Si tratta di una sola economia salvifica di Dio Uno e Trino, realizzata nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio, attuata con la cooperazione dello Spirito Santo ed estesa nella sua portata salvifica all'intera umanità e all'universo» (n. 12).

Unicità e singolarità della mediazione di Cristo

Gesù Cristo, in forza della sua persona divina, non può essere considerato un mediatore tra gli altri (cfr. nn. 13-15). Altre possibili mediazioni, se queste conducono al vero Dio, allora partecipano dell’unica mediazione di Cristo, che in Lui si dà in pienezza.

«Deve essere, quindi, fermamente creduto come verità di fede cattolica che la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero

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dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio. Tenendo conto di questo dato di fede, la teologia oggi, meditando sulla presenza di altre esperienze religiose e sul loro significato nel piano salvifico di Dio, è invitata ad esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza. In questo impegno di riflessione la ricerca teologica ha un vasto campo di lavoro sotto la guida del Magistero della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, infatti, ha affermato che “l'unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, che è partecipazione dell'unica fonte” (Lumen gentium, 62). È da approfondire il contenuto di questa mediazione partecipata, che deve restare pur sempre normata dal principio dell'unica mediazione di Cristo: “Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari” (Redemptoris missio, 5). Risulterebbero, tuttavia, contrarie alla fede cristiana e cattolica quelle proposte di soluzione, che prospettassero un agire salvifico di Dio al di fuori dell'unica mediazione di Cristo» (n. 14).

L’inseparabilità fra Cristo e la Chiesa, fra Regno di Dio e la Chiesa da lui fondata

Si considerino i seguenti passaggi del documento, che mirano a chiarire l’inseparabilità fra Cristo e la Chiesa, fra il Regno da lui predicato e la comunità di testimoni e discepoli da lui fondata.

«Come il capo e le membra di un corpo vivo pur non identificandosi sono inseparabili, Cristo e la Chiesa non possono essere confusi ma neanche separati, e costituiscono un unico “Cristo totale”. [...]. Perciò, in connessione con l'unicità e l'universalità della mediazione salvifica di Gesù Cristo, deve essere fermamente creduta come verità di fede cattolica l'unicità della Chiesa da lui fondata. [...] I fedeli sono tenuti a professare che esiste una continuità storica — radicata nella successione apostolica — tra la Chiesa fondata da Cristo e la Chiesa Cattolica» (n. 16).

«“Non possono, quindi, i fedeli immaginarsi la Chiesa di Cristo come la somma — differenziata ed in qualche modo unitaria insieme — delle Chiese e Comunità ecclesiali; né hanno facoltà di pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che, perciò, debba esser soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e comunità” (Mysterium ecclesiae, 1). Infatti “gli elementi di questa Chiesa già data esistono, congiunti nella loro pienezza, nella Chiesa Cattolica e, senza tale pienezza, nelle altre Comunità” (Ut unum sint, 14). “Perciò le stesse Chiese e comunità separate, quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non recusa di servirsi di esse come strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è stata affidata alla Chiesa Cattolica” (Unitatis redintegratio, 3)» (n. 17).

Una delle conseguenze più importanti dell’inseparabilità fra Chiesa e Regno e di Dio sta nel fatto che gli aspetti universali ed escatologici attribuiti dalla Rivelazione al Regno di Dio e al suo annuncio salvifico sono già presenti in nuce nella Chiesa. Essa è sulla terra germe del Regno di Dio, ne possiede i mezzi di salvezza, la logica di universalità e di segno per l’intero umanità.

«Affermare l'inscindibile rapporto tra Chiesa e Regno non significa però dimenticare che il Regno di Dio, anche se considerato nella sua fase storica, non si identifica con la Chiesa nella sua realtà visibile e sociale. Infatti, non si deve escludere “l'opera di Cristo e dello Spirito fuori dei confini visibili della Chiesa” (Redemptoris missio, 18). Perciò si deve tener anche conto che “il Regno riguarda tutti: le persone, la società, il mondo intero. Lavorare per il Regno vuol dire riconoscere e favorire il dinamismo divino, che è presente nella storia umana e la trasforma. Costruire il Regno vuol dire lavorare per la liberazione dal male in tutte le sue forme. In sintesi, il regno di Dio è la manifestazione e l'attuazione del suo disegno di salvezza in tutta la sua pienezza” (ibidem, 15)» (n. 19).

Per questo,

«[...] sarebbe contrario alla fede cattolica considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto a quelle costituite dalle altre religioni, le quali sarebbero complementari alla Chiesa, anzi sostanzialmente equivalenti ad essa, pur se convergenti con questa verso il Regno di Dio escatologico» (n. 21).

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La necessità della Chiesa alla salvezza e la verità come via verso la salvezza

In primo luogo va ricordato che la necessità della Chiesa alla salvezza discende dalla congiunta considerazione dell’unicità e dell’universalità della mediazione di Cristo e dello stretto rapporto fra Cristo e la Chiesa. Quest’ultima partecipa però al mistero di Cristo: la sua funzione è di applicarne i frutti, non limitarli o precluderli. per questo, già la Lume gentium (cfr. n. 16) aveva ricordato, non senza fondamento biblico e lunga tradizione teologica, che coloro i quali, senza loro colpa, non conoscono Cristo possono raggiungere la salvezza preparata dall’unico e vero Dio.

In secondo luogo, la Chiesa, la sua predicazione e la sua santificazione sono necessarie perché l’esistenza di semi del Verbo presenti anche fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica non vanifica la sua missione voluta da Gesù Cristo. Infatti, i semi di rivelazione e di salvezza che possono esistere anche al di là dei confini visibili della Chiesa cattolica, se sono semi del Verbo, allora appartengono alla Chiesa cattolica e mediante il suo ministero devono essere condotti ad una piena maturazione. Per la Chiesa, predicare Cristo è un dovere e, per le genti, ricevere l’annuncio del mistero pasquale è un diritto.

«Innanzitutto, deve essere fermamente creduto che la “Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo è il mediatore e la via della salvezza; ed egli si rende presente a noi nel suo Corpo che è la Chiesa” (Lumen gentium, 14). [...] La Chiesa è “sacramento universale di salvezza” (Lumen gentium, 48) perché, sempre unita in modo misterioso e subordinata a Gesù Cristo Salvatore, suo Capo, nel disegno di Dio ha un'imprescindibile relazione con la salvezza di ogni uomo. Per coloro i quali non sono formalmente e visibilmente membri della Chiesa, “la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo” (Redemptoris missio, 10)» (n. 20).

Ogni sincera ricerca della verità conduce alla salvezza, ma la Chiesa deve essere consapevole di avere ricevuto in affidamento la verità consegnatale da Gesù Cristo:

«In effetti, Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4): vuole la salvezza di tutti attraverso la conoscenza della verità. La salvezza si trova nella verità. Coloro che obbediscono alla mozione dello Spirito di verità sono già sul cammino della salvezza; ma la Chiesa, alla quale questa verità è stata affidata, deve andare incontro al loro desiderio offrendola loro» (n. 22 e CCC 851).

Nelle sue pagine conclusive, il documento puntualizza che il dialogo inter-religioso non è il fine ultime della Chiesa, perché questa è chiamata a proclamare la verità rivelata definitivamente da Gesù Cristo:

«La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali né tanto meno a Gesù Cristo, che è Dio stesso fatto Uomo, in confronto con i fondatori delle altre religioni. La Chiesa infatti, guidata dalla carità e dal rispetto della libertà, dev'essere impegnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal Signore, ed a proclamare la necessità della conversione a Gesù Cristo e dell'adesione alla Chiesa attraverso il Battesimo e gli altri sacramenti, per partecipare in modo pieno alla comunione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo» (n. 22).

5. L'apertura ad una filosofia universale nel quadro del dialogo interreligioso

L'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio, pur non entrando nel merito del dialogo interreligioso, offre importanti riflessioni sulla esistenza di una fra filosofia, religione e cultura. Ogni essere umano è naturaliter aperto alla ricerca della verità. La cultura, ogni cultura, rappresenta il cammino di questa ricerca, che risulta però strutturata attorno ad interrogativi di carattere religioso (cfr. n. 1)

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Una volta registrata la non percorribilità di un modello pluralista teocentrico, perché in disaccordo con la singolarità e l'unicità della mediazione di Cristo, il dialogo interreligioso procederebbe, come abbiamo appena visto, con il tentativo della teologia di rileggere le altre religioni all'interno di un modello inclusivista cristocentrico. In conformità con il metodo teologico, si partirebbe dal dato rivelato per prendere poi in esame il contenuto normativo presente nelle altre religioni sotto forma di testi sacri o di altre forme di rivelazione divinamente ispirata. Ma l'esistenza di una circolarità fra religione/cultura e filosofia suggerisce, che accanto a questo procedimento ed in certa misura previamente ad esso, il confronto fra cristianesimo e religioni si potrebbe sviluppare anche con una metodologia di ordine storico-filosofico.

Si tratterebbe di enucleare quale insieme di verità filosofiche, cioè universali, siano contenute alla base delle varie tradizioni religiose. La convergenza fra filosofia e religione dovrebbe infatti assicurare che tale opera di delucidazione sia in fondo sempre possibile, sebbene col necessario aiuto delle scienze storiche. La natura filosofica dei contenuti cercati impone che essi mantengano un necessario collegamento con il reale, concedendo che ciò possa anche avvenire attraverso interpretazioni non sempre omogenee ed equipollenti, ma pur sempre riconducibili, in ultima analisi, all'esperienza della comune natura umana di cui si partecipa. Diverse forme di razionalità, possibili all'interno di popoli e culture diverse, non saranno infatti mai totalmente incommensurabili, perché esse richiedono il consenso di uomini che partecipano della medesima esperienza, in un mondo che è sotto gli occhi di tutti.

In ogni tradizione religiosa, le grandi domande filosofico-religiose sull'origine e sul tutto, sullo scopo del mondo e sul senso della vita, devono possedere una qualche corrispondenza con la ricerca di una verità filosofica che rispetti i canoni della razionalità e dell'universalità. L'opera purificatrice che l'analisi filosofica compie sulla religione (cfr. Fides et ratio n. 36; Gaudium et spes, n. 7) agirebbe dunque come fattore di chiarificazione. Non si tratta di mettere in sospetto la religione o di sottoporla al vaglio del sapere critico, ma di enucleare l'universalità delle verità filosofiche che vi soggiacciono, per cominciare un dialogo sulla base di contenuti che certamente partecipano, se sono autentici, dell'unità della verità.

Va osservato che la tradizione ebraico-cristiana consente al pensiero filosofico di realizzare una simile operazione, sotto molteplici prospettive:

— il Dio di Israele si rivela come il Dio di tutto e di tutti, Creatore del cielo e della terra, soggetto di un particolare legame con la storia;

— la Rivelazione reclama una convergenza fra la Parola di Dio e la verità delle cose ed assicura che esiste un cammino percorribile, quello della conoscenza naturale di Dio, che muove dalla fede verso l'universalità della ragione;

— l'appello alla ragione è stato un carattere decisivo della prima evangelizzazione, nell'incontro con la filosofia del mondo greco-romano.

Sono questi dei requisiti che riguardano il Dio di Israele, ma che conservano tutta la loro validità anche quando riferiti al Logos cristiano. Uno dei temi di fondo della Fides et ratio è stato ribadire proprio tale universalità della verità cristiana, che si apre al confronto con l'universalità dell'essere e della ragione.

Valutazioni analoghe riguarderebbero il terreno della storia, ove il cristianesimo è divenuto oggetto di analisi della ragione critica nelle sue varie forme, dall'illuminismo all'ateismo positivo, dal razionalismo all'idealismo. Le sue fonti documentali sono passate al vaglio della critica storico-letteraria. Con ciò non intendiamo dire che le altre religioni della terra debbano necessariamente attraversare lo stesso esercizio di razionalità che la storia del pensiero occidentale ha riservato al cristianesimo, spesso in circostanze che non avevano alcuna intenzionalità costruttiva; intendiamo solo dire che esse potrebbero, forse dovrebbero, avere analoghe occasioni di poter esplicitare, in dialogo critico con la filosofia, le ragioni universali che sostengono la verità del loro credo.

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Svolta in termini costruttivi, una simile analisi comparata delle religioni non avrebbe il carattere di un confronto dialettico, ma porrebbe piuttosto le basi di un autentico dialogo, perché aiuterebbe ciascuna di esse a dirigersi verso una verità riconoscibile nel mondo e nella storia, come parte irrinunciabile della verità del proprio Dio. Il cristiano si presenta in proposito come persona naturalmente aperta a questo dialogo, perché sa che il Dio in cui egli crede è anche il termine di un cammino ascendente che ogni uomo è in grado di percorrere, sia partendo dall'intima voce della propria coscienza, sia risalendo dalla natura creata al Creatore. Un dialogo interreligioso che prescindesse a priori da questo ponte verso l'universalità della ragione potrebbe certamente percorrere il cammino della cooperazione sociale o forse anche quello dell'opportunità politica, ma non starebbe percorrendo la strada che porta all'unico Dio.

Osserviamo infine che, a motivo della circolarità fra filosofia e religione, chiedere alle grandi religioni della terra di enucleare quell'insieme di verità filosofiche universali presenti al loro interno, vuol dire chiedere loro di saper mostrare un chiaro raccordo con la religiosità naturale. Essendo ogni essere umano naturaliter philosophus et naturaliter religiosus, una religione rivelata non solo non può contraddire quanto la religiosità naturale si attenderebbe, ma deve soddisfarlo. Un esempio del cammino, insieme metafisico ed antropologico, qui brevemente accennato, può ritrovarsi nella Grammatica dell'assenso di Newman. Nelle pagine conclusive che si riferiscono all'assenso in materia religiosa88, il teologo di Oxford utilizza la nozione di religione naturale col significato di retta filosofia, allo scopo di mostare che una religione rivelata deve essere in grado di dar ragione dell'una e dell'altra. La coscienza è il cuore della religiosità ed è anche il centro dell'incontro con la verità. Tanto l'amore alla verità come il senso della religione sono preparazione alla Rivelazione89.

6. Cristianesimo e culture: l'Incarnazione come modello di inculturazione della fede

Un riflesso del rapporto fra cristianesimo e religioni lo si incontra quando si pensa che la parola divina, la cui rivelazione storica è stata consegnata al popolo ebraico, si è incarnata in una specifica cultura ed è stata poi fissata/trasmessa col contributo del contesto culturale greco-romano, deve necessariamente porsi in relazione, ai fini dell'evengelizzazione, con altri popoli e culture. Affrontare il tema del rapporto fra Rivelazione e cultura è inevitabile: la Parola di Dio viene affidata ad un popolo che possiede precisi canoni linguistici, intellettuali e culturali; nel suo processo formativo essa entra in rapporto con altre culture (mesopotamiche, egiziana, assiro-babilonese, greca, ecc); oltre a ciò, quando la rivelazione cristiana viene proclamata sotto forma di annuncio, la parola trasmessa non può prescindere dalla cultura dell'interlocutore a cui viene diretta.

a) Cultura, religione, cristianesimo

Un primo modo di accostarsi al tema è quello di chiarire, in sede generale, i rapporti fra cristanesimo e cultura/religione. Il cristanesimo è solo una religione? Il contesto linguistico, antropologico, ecc. che ha reso possibile la Rivelazione, costituisce, all'interno di questa, una precisa cultura?

Una prima considerazione è che il fenomeno religioso rappresenta in qualche modo il di ogni cultura. Di fatto, la cultura di un popolo si struttura nella storia attorno alle domande esistenziali che fanno riferimento all'enigma dell'uomo e del cosmo e ne cercano risposta nel mistero del sacro e della trascendenza, nel mistero di Dio:

88 J.H. NEWMAN, La grammatica dell'assenso (1870), Jaca Book - Morcelliana, Milano 1980, pp.

253-305. 89 «Uno dei poteri più importanti della religione naturale nel preparare la nostra intelligenza alla

religione rivelata è nel sentimento d'attesa della Rivelazione che essa crea. È un desiderio appassionato che, in un animo religioso, apre la via a prevederla» (ibidem, p. 262). Nella sua opera Un'idea di Università (1852) Newman aveva associato in modo analogo il concetto di religione, di cui si difende la presenza nella formazione universitaria, a quello di vita virtuosa.

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«(...) al di là di tutte le differenze che contraddistinguono gli individui e i popoli, c'è una fondamentale comunanza, dato che le varie culture non sono in realtà che modi diversi di affrontare la questione del significato dell'esistenza personale. E proprio qui possiamo identificare una fonte del rispetto che è dovuto ad ogni cultura e ad ogni nazione: qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell'uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri: il mistero di Dio»90.

Ogni autentica cultura resta dunque costitutivamente aperta alla trascendenza ed è disponibile, in linea di principio, a confrontarsi con un contenuto di carattere religioso e, eventualmente, ad accoglierlo come risposta al proprio interrogare. Quando questa apertura viene meno, l'autentico interrogare sull'uomo e sul mondo è stato assai probabilmente rimosso, per essere sostituito da una forma di ideologia. Il dialogo fra il cristianesimo e la cultura o le culture umane si muove dunque nel solco della valenza religiosa di ogni cultura.

Esiste però una differenza fra la religiosità propria di ogni fatto autenticamente culturale e la Rivelazione cristiana, cioè una differenza fra e cristianesimo. La differenza sta in ciò che potremmo chiamare , proprio del contenuto della Rivelazione. Grazie al carattere eccedente dell’offerta divina rispetto all'orizzonte delle domande poste dall'uomo, la religione cristiana non può essere considerata, come le altre religioni, un fatto totalmente culturale: essa non è una religione fra le altre. Se la religione è un moto ascendente dell'uomo a Dio, la Rivelazione cristiana irrompe nella storia come un moto con-discendente di Dio verso l'uomo91. La di tale differenza è rappresentata, appunto, dal fatto dell'Incarnazione:

«Tocchiamo qui il punto essenziale per cui il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni, nelle quali si è espressa sin dall’inizio la ricerca di Dio da parte dell’uomo. Nel cristianesimo l’avvio è dato dall’Incarnazione del Verbo. Qui non è soltanto l’uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene in Persona a parlare di sé all’uomo ed a mostrargli la via sulla quale è possibile raggiungerlo»92.

Il cristianesimo non è solo ricerca di Dio, ma soprattutto rivelazione ed autocomunicazione di Dio stesso nel Verbo fatto carne, secondo una logica totalmente donata. Orbene, proprio per questo, il cristianesimo si trova nella condizione di poter riconoscere e valorizzare le istanze di verità contenute in tutte le altre religioni. Proprio perché non si identifica con un fatto completamente culturale, il cristianesimo si trova nella condizione di potersi unire ad una cultura, a tutte le culture. Esso le riconosce come espressioni di quelle richieste di senso mediante le quali l’uomo cerca di ascendere fino a Dio, e di quella venerazione del sacro con cui l’uomo riconosce che Dio sta donando qualcosa all’uomo. Nell’esprimere la pienezza e la sovrabbondanza del dono che Dio fa di Se stesso in Cristo, la religione cristiana fa proprie quelle richieste ed assume, superandola ed interpretandola, la logica di quei doni. In tal modo, il mistero dell'Incarnazione del Verbo costituisce la base e la condizione di possibilità di ogni inculturazione della fede.

b) L'incarnazione del Verbo, modello di inculturazione della fede

“Verbum scriptum” e “Verbum incarnatum”

Nel processo di formazione della Sacra Scrittura, il mistero dell'Incarnazione viene presentato dal magistero della Chiesa come un'analogia significativa per comprendere il rapporto fra la forma umana dell'espressione biblica ed il contenuto divino che essa trasmette. Nel n. 13 della cost. conciliare Dei Verbum incontriamo questa affermazione:

«Nella Sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta l'ammirabile condiscendenza della eterna Sapienza, “affinché apprendiamo l'ineffabile benignità di Dio e quanto egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo parlare”. Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini,

90 GIOVANNI PAOLO II, Allocuzione all'O.N.U., 5.10.1995, n. 9. 91 Cfr. G. COTTIER, La culture du point de vue de l’anthropologie, in 87 (1989), 405-425. 92 GIOVANNI PAOLO II, Tertio millennio adveniente, 10.11.1994, n. 6.

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come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile agli uomini».

Riprendendo il concetto di , proposto da Giovanni Crisostomo e ricollegandosi ad un'idea già presente nella Divino afflante Spiritu (Pio XII, 1943), la Dei Verbum stabilisce dunque un'analogia fra la Sacra Scrittura, considerata nel suo insieme, ed il mistero dell'unione ipostatica, fra Verbum scriptum e Verbum incarnatum93. Mettere per iscritto la parola di Dio è già, in qualche modo, 94. 95.

Parola incarnata e annuncio del Vangelo

Questa analogia sussiste anche al momento di considerare il rapporto fra la Rivelazione in quanto annuncio della fede e la particolare cultura che accoglie il messaggio evangelico. Occorre cioè , usando un espressione utilizzata con frequenza negli insegnamenti di Giovanni Paolo II, sulla base del fatto che 96. Farsi uomo, per il Verbo divino, ha implicato calarsi in un certo luogo, in un certo tempo, in un certo contesto storico-culturale, assumendone su di Sé tutte le particolarità. Senza , nel senso più pregnante del termine, non vi sarebbe stata alcuna preparazione all'Incarnazione, né vi sarebbe stata l'Incarnazione stessa. Il legame con una determinata cultura, quella ebraica, non costituisce un limite, ma rappresenta il modo attraverso il quale il Verbo partecipa della storia del mondo e si unisce all'intera umanità. È attraverso la sua umanità di ebreo figlio di Maria, che Gesù di Nazaret si è potuto unire in certo modo ad ogni uomo. Come la cultura ebraica è stata capace di l'umanità del Verbo, così ogni cultura può e deve essere resa capace di incontrarsi con la parola evangelica ed accoglierla.

Il riferimento all'Incarnazione, in merito ai problemi posti dall'inculturazione, torna utile anche ai fini di ciò che abbiamo chiamato la . Le culture, 97. Come Cristo ha assunto un'umanità in tutto uguale alla nostra, eccetto il peccato, così le culture dovranno, per poter esprimere la Parola, essere purificate da quegli elementi introdotti dall'errore, dall'ignoranza o dal peccato che offuscano la loro capacità di rivelare la dignità umana ed una religiosità aperta alla trascendenza. Ignorare questa realtà si tramuterebbe in ottimismo naturalista, facendo ricadere la cultura in uno stato di pericolosa chiusura rispetto alla vera religione, alla trascendenza e santità del mistero divino, e dunque rispetto alla fede.

Allo stesso tempo, come già segnalato, il cristianesimo trascende ogni cultura specifica, come la persona divina del Verbo trascende l'umanità creata alla quale si è voluto legare. Il Verbo eterno entra nel mondo ma non è del mondo. Il linguaggio umano è adatto ad esprimere il mistero divino ma non ad esaurirlo. Ciò è vero anche da una prospettiva esistenziale: ogni cristiano vive nella sua cultura e della sua cultura, ma con la sua fede la giudica, la sorpassa, la eleva98.

93 Su questa analogia, cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Pont. Commissione Biblica

sull'Interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 23.4.1993, nn. 6-8. Sul tema, cfr. M.A. TÁBET, Ispirazione, Condiscendenza e Incarnazione nella teologia di questo secolo, in 8 (1994) 235-285.

94 GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Pont. Commissione Biblica, n. 6. 95 J. ALFARO, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Queriniana, Brescia 1986, p. 83. 96 «La cultura non è solo soggetto di redenzione e di elevazione; ma può essere anche fautrice di

mediazione e di collaborazione. Infatti, Dio, rivelandosi al popolo eletto, si è servito di una particolare cultura; lo stesso ha fatto Gesù Cristo, Figlio di Dio: la sua incarnazione umana è stata anche un'incarnazione culturale» (GIOVANNI PAOLO II, Incontro con i docenti universitari e con gli uomini di cultura a Coimbra, 15.5.1982, , 5 (1982/2) 1690-1705, n. 5).

97 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Fede e inculturazione, 3-8.10.1988, 134 (1989), I, 158-177, n. 5.

98 Un esempio paradigmatico di questo rapporto è il noto passo della Lettera a Diogneto: «I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. (...) Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini, e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo

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Come la persona del Verbo attrae la sua natura umana nella sfera dell'eternità e della vita divina, così le culture che si aprono alla fede vengono inserite in una logica nuova, quella della vita dello Spirito: 99. Lo Spirito di Cristo deve poter raggiungere ogni manifestazione di quella particolare cultura, con quella pienezza con cui la sua umanità risponde in ogni sua parte all'azione personale del Verbo.

La posizione dell'Incarnazione del Verbo nel rapporto tra fede e cultura richiama in certo modo l'esemplarità dell'Incarnazione del Verbo in merito al rapporto fra grazia e natura, o a quello fra fede e ragione. La cultura, come la ragione e la natura, mantengono nell'incontro con la fede cristiana la loro autonomia eppure, allo stesso tempo, riconoscono in essa il loro senso, il compimento del loro tevloı. La loro autonomia è reale come è perfetta l'umanità di Cristo, ma il loro ordinamento ad essere dalla fede è simile al modo con cui l'umanità di Cristo sussiste unita alla persona del Verbo. È questa che dà significato a quella umanità, e al lungo lavoro del cosmo e della storia che l'hanno preparata, per noi e per la nostra salvezza, su questa terra.

la carne. Dimorano sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con la loro vita superano le leggi» (n. 5)

99 GIOVANNI PAOLO II, Slavorum apostoli, 2.6.1985, n. 21.