Tartarughe marine

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Gianna Gambini, sentimentale. Caterina è una ragazza in lieve sovrappeso che si trova immersa in un mondo adolescenziale popolato da ragazze “murena” e giovani squali, pronti ad attaccarla e calpestarla, senza mai voltarsi indietro per porgere delle scuse. Lei, giovane e insicura tartaruga marina, ha un’unica arma di difesa: nascondersi nel suo guscio per evitare gli attacchi dei nemici. Il pericolo di cadere la sfiora in varie occasioni, ma con la sua lieve ironia, Caterina riesce a non farsi trascinare nel fondo del baratro, in un percorso di formazione mai del tutto compiuto. Tra amori poco limpidi e legami facilmente dissolubili, la protagonista cresce, fino a raggiungere le soglie dell’età adulta

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GIANNA GAMBINI

TARTARUGHE MARINE  

 

 

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TARTARUGHE MARINE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-592-2 Copertina: Immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Settembre 2013 Stampato da

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A Luana

Ringrazio Lucio per la realizzazione dell’immagine di copertina e Alice per la pazienza e i lunghi pisolini estivi ingessati…

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Dura serata, questa. Difficile da affrontare indenne. Nessuna notizia interessante al telegiornale, nessun disastro naturale o fatto di cronaca sconvolgente che catturi l’attenzione dei presenti. Rischio davvero troppo, rischio che la loro necessità di conoscere di più sul mondo che li circonda si catalizzi su di me. Proprio io che vorrei essere invisibile, proprio io che vorrei diventare trasparente come un vetro, una di quelle vetrine dei negozi del centro così ben pulite che se non fai attenzione ci sbatti contro. Fortuna che pensano di conoscermi come le loro tasche, pensano che non meriti altre domande se non “Hai studiato per domani?” oppure “Com’è andato il compito di matematica?”. A dire il vero non è che mi dispiacciano questo tipo di domande, anzi. A scuola me la cavo, diciamo pure che sono brava. Mai deluso le loro aspettative in ambito scolastico. Quasi mai un insuccesso, mai un’incomprensione con i prof, tantomeno biechi tentativi di inganno per saltare le lezioni. Mi piace studiare e non me ne devo vergognare, avrebbe detto il buon vecchio Vasco. Ultimamente, però, la mia nuova attività prende troppo spazio nella mia testolina: benché non sia una schiappa con i conti, tenere sempre a mente le calorie consumate è un impiego full time. Meccanismo semplicissimo: meno calorie ingurgito, più grasso se ne va, ovvero meno grassi inquinano il mio corpo, più sarà facile sopravvivere tra gli adolescenti-squalo e tra tutte le altre specie. Sì, perché gli adolescenti si dividono in varie tipologie: ci sono i pesci rossi che vivono la loro condizione di transito verso la vita adulta come intrappolati in una vaschetta sferica da cui scrutano i comportamenti del prossimo,

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tenendosene ben alla larga; talvolta più pesci rossi condividono una stessa vaschetta e diventano così un gruppo di asociali, ma nella convivenza con i loro simili si incattiviscono, perché vedono il male e la perdizione in tutto ciò che della loro sfera non fa parte. Dalla parte opposta del grado evolutivo dei teenager ci sono gli squali, cioè coloro che il mondo se lo fagocitano a morsi, con denti affilati e crudeli e sono sempre così affamati che, per soddisfare il loro bisogno di cibo sanguinolento, prestano poca attenzione ai danni che provocano. Hanno così fame di vivere, primeggiare e spaccare il sederino a tutto e tutti che ignorano i sentimenti degli altri, così come se ne fregano di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. La specie che chiude il cerchio tra le altre due mi rappresenta a pieno titolo: prima che elaborassi la teoria subacquea dell’adolescenza, l’avrei definita forse generazione “albatros”, influenzata dalle ali bellissime e allo stesso tempo ridicole del celeberrimo uccello cantato da Baudelaire. Oggi, dopo aver visto il meno letterariamente celebre Nemo, ho capito che la definizione più appropriata è adolescenti tartarughe: le tartarughe marine migrano veloci verso i mari più caldi e limpidi, così come alcuni di noi a volte si muovono agili e indisturbati verso la vita che si offre loro, ma è sufficiente un ostacolo, un pericolo anche inesistente, che siamo pronti a nasconderci dentro alla corazza per non uscirne se non dopo secoli. Sapete qual è il peggiore dei pericoli per le tartarughe? Esatto, gli adolescenti squalo. Sì, perché finché uno di loro non interviene a turbare il sereno percorso delle tartarughe, la loro sopravvivenza appare quasi felice…. Ma non appena uno squalo si presenta all’orizzonte, nella tartaruga sopraggiunge un senso di malessere e inadeguatezza che può attenuarsi solo con il rifugio nel suo carapace. Fino a qualche anno fa, i tempi delle medie per intendersi, non mi sentivo né tartaruga, né tantomeno squalo, ero io e tanto mi bastava per vivere tranquillamente. Crescendo, però, le opinioni degli altri hanno cominciato a toccarmi, a colpirmi e poi a cambiarmi. Quello che gli altri vedevano in me non erano più affari loro, stavano diventando anche affari miei. C’è stato un momento in cui ho capito cos’è che agli altri non piaceva di me: il mio biglietto da visita. Se un biglietto da visita è anonimo, finisce nel mobiletto del corridoio insieme agli altri, ma se addirittura è poco gradevole finisce dritto dritto nella pattumiera. E così mi è sempre accaduto: dalla stretta di mano, alla pattumiera in un attimo. Con i miei amici d’infanzia no, con loro era

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diverso: vedevano la Caterina nascosta sotto i chili di troppo e poco interessava loro se c’era da attraversare un po’ di ciccia per scoprirla. I nuovi arrivati a far parte della mia vita, invece, vedevano solo i chili di troppo e non avevano alcun interesse a scoprire cosa ci fosse dietro. Non so come mai non me ne sia accorta prima, non so perché fino a un certo punto, a un momento esatto non abbia avuto chiaro questo concetto. Forse ciò che caratterizza l’ingresso nell’adolescenza è la presa di coscienza: la presa di coscienza che esiste la morte, la presa di coscienza che non tutto è eterno e immutabile e soprattutto la presa di coscienza di noi e del nostro corpo. Fino a una certa età il nostro corpo è insignificante, né maschile, né femminile, bello per tutti, perché ogni bambino è bello a suo modo. Poi improvvisamente capiamo che il corpo è nostro e che lo possiamo sfruttare in mille modi, piacevoli o meno, distruttivi o costruttivi. Certo è che quando siamo consapevoli che possiamo fare del nostro biglietto da visita ciò che vogliamo, non sempre siamo in grado di scegliere per il meglio. E stasera mi ritrovo a fare lo stesso giochetto di prestigio: far scomparire quelle calorie assassine che mia mamma deposita nel piatto. E non è un gioco da ragazzi come sembra, richiede abilità pratiche e teoriche. Soprattutto quando il telegiornale fornisce notizie banali e noiose anche per chi di solito lo aspetta, con la stessa trepidazione con cui io aspetto una nuova puntata di Beverly Hills 90210. Due sguardi da ingannare, ma posso comunque farcela. Ad aiutarmi, come accade spesso, arriva la mia assistente: signore e signori ecco a voi la splendida gatta Castagna! Aiutante perfetta, sebbene il suo sovrappeso potrebbe in parte tradire il suo compito: ripulire ciò che dal mio piatto finisce magicamente sotto il tavolo. È ottima con carne, salumi, pesce e alcuni formaggi, un vero disastro con i carboidrati. Probabilmente segue anche lei una poco efficace dieta iperproteica, per cui deve tenersi alla larga da pane, pasta, schiacciate, eccetera, eccetera. Anche stasera missione compiuta, anche stasera ho risparmiato qualche caloria. Un passo in più verso gli squali, un secondo in meno celata dentro il mio guscio.

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I Il corridoio che porta dalla mia classe al bagno durante l’intervallo è sempre più simile al percorso che conduce il condannato a morte verso il patibolo: gruppi di due, tre pesci rossi se ne stanno vicini alla porta delle loro aule con sguardo scrutatore e moralizzatore, mentre nel disimpegno dei bagni attende il branco. Abiti alla moda, talvolta firmati, spesso ridicoli più che sexy, riga nera sulle palpebre, rosso sangue sulle labbra: ecco la squaletta tipo. Va per la maggiore la sigaretta tra l’indice e il medio e la scarpa col tacco. L’argomento delle loro conversazioni spazia dalla moda ai gruppi in auge in questo periodo: Boyzone, Spice Girls… Qualche femmina della specie si spinge oltre, parla delle sue esperienze più o meno reali in ambito amoroso-sessuale. Il gioco è semplice: la ragazza squalo fa, o meglio dice di fare con il suo fidanzatino, tutto ciò che per le altre è tabù. Mangiano e parlano. Mischiano infantili fette di pane con la Nutella ad adulte confessioni hard. Indossano minigonne a prova di coscia longilinea e ingurgitano la pizza unta e piena di grassi dell’omino dei panini. E io passo osservandole. Il loro cibo è ciò che mi colpisce di più. Come fanno, mi chiedo, come diavolo fanno a riempirsi di robaccia e assomigliare lo stesso a divette del cinema? Una volta anch’io potevo mangiare una ripiena senza avere i sensi di colpa per il mese successivo, fino a qualche tempo fa anch’io affondavo il cucchiaino nella Nutella goduriosa… ora però è tutto diverso. Ora azzanno la mia mela e ogni giorno, prima di gettarla nel cestino, controllo che ci sia un pochino di polpa intorno al torsolo: solito meccanismo, una caloria meno, un passo in più verso il traguardo. C’è sempre qualcuno che si avvicina con il sacchetto delle M&M’s e ti dice: ne vuoi una? No, bastardo! Certo che non la voglio! Ma lo vedi o no che sono già un incrocio tra l’ippopotamo della Pampers e la Mamy di Via col vento? La necessità di cambiare è sempre stata lì in un angolo. La volontà di essere una Caterina diversa ha convissuto con la

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mia inerzia da anni. La convinzione che modificare il mio corpo avrebbe migliorato anche la mia psiche ingarbugliata vacilla ogni giorno di più. Il momento esatto in cui voler cancellare un po’ di me è diventato la chiave di tutto non lo ricordo. O forse ne ricordo così tanti di momenti che non mi va di raccontarli. Può capirmi forse chi una vita piena di ciccia l’ha vissuta, può capirmi soltanto chi sa cosa vuol dire essere troppa. Fin quando ho attribuito agli altri la causa delle mie difficoltà, non ho saputo imboccare la mia strada… e se ora ho trovato anche solo un viottolo scosceso da percorrere è perché ho capito che io e solo io sono l’artefice di me stessa. Non è un’utopia umanistica questa, non è un pensiero tardo illuminista, è solo una consapevolezza acquisita guardandomi intorno. Ciò che mi provocava un dolore sordo e irriducibile non erano le battute dei branchi di squali, non erano le risatine dei ragazzi che mi rifiutavano a priori, era la cognizione di non essere adeguata, di non andare bene a me stessa, di non essere in grado di uscire dal guscio intrappolata in una persona che ancora nessuno aveva scoperto. Quando mia mamma si è accorta che tentavo di recuperare una linea ormai perduta, ha pensato che fosse una forma di stupido conformismo; per lei non è necessario avere un corpo da urlo. Mi seccava ammettere che proprio io che andavo fiera della mia originalità intellettiva, io che non mi facevo abbagliare da mode e tendenze culturali adolescenziali, volessi inseguire il diktat “bella a ogni costo”. In un certo senso avevo e ho tutt’oggi un’immagine da rispettare e mi sembrava che dimagrire significasse abbattere in parte questa immagine. Odio tutto ciò che è imposto dai media: odio i Take That, odio i Boyzone, detesto gli attori che passano in video solo perché di moda, non sopporto gli urletti delle mie coetanee al solo nominare Massimo Di Cataldo e Nek… Che c’entra, canticchio anch’io sotto la doccia “Laura non c’è, è andata via….”, anch’io ho gli occhi per vedere che Robbie William è un bel ragazzo, ma ho imparato a capire la differenza tra fenomeni meteorologici passeggeri e correnti stabili e durature. Anche questo mio distacco dalle notizie di Cioè o di Novella 2000 mi ha reso un bersaglio ottimo per la cattiveria di alcuni colleghi teenager: il fatto che ami leggere, che ami certi autori piuttosto che altri, che preferisca i grandi cantautori ai minuscoli cantanti ha reso il solco tra me e loro molto più profondo e difficilmente guadabile. Lentamente, con apparente non curanza ho

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iniziato a eliminare: cibo, ma soprattutto pregiudizi. Essere più magra richiedeva comunque una certa capacità intellettiva e io sapevo che potevo essere in grado di ottenere ciò che volevo se solo avessi usato il cervello. Non volevo dimagrire per essere come tutte le altre, volevo togliere ciccia per liberare Caterina dal suo bozzolo. C’è un problema però, una questione che con i chili persi non so risolvere: quando incontrerò la mia essenza, saprò riconoscerla?

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II “Io Pocahontas me la farei…” cantava sul palco la band… La piazza era gremita, era strapiena di persone, tutte ascoltavano distrattamente i gruppi esordienti locali, più o meno famosi, che introducevano il concerto. Alcuni sorridevano al pensiero di Pocahontas distesa nuda sul letto. È come essere in mezzo al mare, pensavo, è come essere su una barca lontana dalla riva, il mare non ha più confini. Le persone mi circondavano e non riuscivo a vedere i contorni di quella piazza che, anche se nominata Grande, solitamente sembrava una piccola conchiglia abbandonata dalla marea per le vie della città. Arezzo per noi giovani non sempre offre grandi attrattive, è una città bellissima, ma troppo grande per essere un paese e davvero piccola se confrontata alle grandi realtà europee. Quella sera era tutto diverso: enorme appariva la piazza e Arezzo assomigliava a una metropoli. Le luci, i colori, i suoni e il mormorio incessante delle persone avevano trasformato la mia cittadina provinciale con la sua baby piazza ornata di ristorantini discreti e tradizionali, nel centro moderno e vivo di una città mitteleuropea. Diversa ero soprattutto io: alcuni amici intorno, qualche chilo in meno e una strana luce negli occhi. È vero, stava per realizzarsi un desiderio, avrei ascoltato dal vivo la voce del mio idolo, ma certo c’era dell’altro che mi eccitava. L’aria era elettrica. Sentivo che qualcosa sarebbe cambiato. Non temevo gli sguardi degli altri, anzi, per la prima volta proprio degli altri facevo parte. Da poco frequentavo un nuovo gruppo di ragazzi, non potevo certo definirli veri e propri amici, ma condividevo con loro alcuni interessi. A questa comitiva quella sera si erano unite alcune mie compagne di classe, lì più per partecipare a un evento che non per amore della musica che avrebbero ascoltato. Tra loro c’erano un paio di pesci rossi che continuavano a convivere nella loro misera sfera e un’altra tipa che definirei più murena, che squalo, per la flessuosità della sua silhouette, ma anche per il suo alto grado di velenosità. Il suo era certo uno dei veleni più letali e attira-prede che esistano: chiaramente le prede per una fanciulla altro non possono essere che i ragazzi. La formula chimica del suo siero era la seguente:

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ostentare semplicità e fragilità per attirare il prescelto e poi sferrare colpi diabolici. “Sai io sono una ragazza semplice e riservata”, era solita dire, per poi raccontare un attimo dopo le avventure del suo albero genealogico al completo. Per lei semplicità era sinonimo di vestirsi sportiva o meglio, di coprire qualche lembo di pelle con micro t-shirt che avessero ben stampate sopra le firme di case di moda quali Nike, Adidas, eccetera eccetera. L’attenzione della componente maschile del gruppo si concentrava chiaramente sulla murena, ma tra loro c’era anche chi sembrava non curarsi troppo della semplice ragazza indifesa. Marco, ecco chi era questo qualcuno. L’avevo conosciuto per caso qualche giorno prima e, benché non fossi abituata ai colpi di testa, devo dire che incrociare il suo sguardo mi aveva regalato un’insolita scossa elettrica alla spina dorsale. Niente occhi azzurri da principe fiabesco, neanche capelli fluenti color oro, ma uno sguardo nero e deciso, limpido, che non lasciava spazio a compromessi o falsità. Che fosse di poche parole l’avevo capito subito, dal modo in cui ci eravamo presentati: “Sei?”, la prima parola che mi rivolse. Rimasi un po’ spiazzata, ma dopo aver pensato che non poteva dare i numeri (non potevo averlo colpito fino a quel punto), capii che era un modo per chiedere il mio nome. Con un grande sforzo riuscii a tenere a bada la mia parte “stupidina” che tentava di fuoriuscire ogni volta in cui avevo a che fare con un ragazzo appetibile, e scambiammo quattro chiacchiere su amici in comune, interessi, programmi per le serate successive. È inutile dire che lo trovassi bello a suo modo, ma soprattutto distante dai ragazzi con cui avevo avuto a che fare, nel suo totale disinteresse nel fare colpo, nel suo essere se stesso a tutti i costi. Senza sovrastrutture, ecco com’era. Sembrava non sentire la necessità di imitare qualcuno o di mostrare ciò che non era; ad alcuni sarebbe apparso sgarbato, rustico forse, ma io mi ci rispecchiavo. Così come accadeva con i compagni dell’infanzia, con lui non mi veniva voglia di nascondermi, non mi sentivo inadeguata e non avvertivo il bisogno di essere migliore: nei pochi minuti che trascorsero da quando aveva chiesto chi fossi a quando ci salutammo mi ero dimenticata di essere ‘troppa’ e sinceramente non mi era accaduto spesso. Per un attimo, quando lo salutai, mi invase quasi un senso di abbandono: temevo che interrompere quell’incontro avrebbe significato far crollare il castello di carta che avevo costruito nella mia testa. Sapevo che se avessi lasciato a Marco il tempo di riflettere e di guardarsi un po’ intorno, mi avrebbe

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dimenticato in un batter d’occhio. L’istinto mi spingeva a voltarmi, ma il mio cervello non trovava nessuna scusa plausibile per tornare sui miei passi. L’esperienza tratta dalle grandi commedie americane con immancabile lieto fine mi suggerì di fermarmi e di aspettare che lui mi chiamasse, mi stringesse tra le sue braccia facendomi roteare in aria (con la collaborazione della forza di gravità che avrebbe momentaneamente diminuito la sua attrazione) e che mi chiedesse di trascorrere con lui il resto della sua vita. Dopo aver oltrepassato di alcuni metri i confini della realtà, tornai in me e finsi di cercare qualcosa nella borsa, interrompendo il mio percorso verso la fermata dell’autobus. “Ora mi chiama”, pensavo, “ora mi chiede di tornare indietro” e invece sentii una mano che mi sfiorava l’avambraccio, facendomi sobbalzare. Era Marco. Mi aveva raggiunto! Mi chiese se avessi voluto un passaggio verso casa, tanto non aveva alcun impegno importante. Dimenticarmi tutti i buoni consigli dei miei genitori fu un attimo: mai salire in macchina con chi non conosci, era una frase che in quel momento mi sembrava di non aver mai sentito. Da quel momento mi attese una sorpresa dietro l’altra: eravamo troppo simili, così simili da farmi credere davvero alle due metà della stessa mela. Entrai nella sua due cavalli bordeaux, che doveva aver conosciuto tempi migliori, in silenzio e, questa volta sì, ero imbarazzata e confusa. Così come avrei fatto io, inserì una musicassetta ancor prima di accendere il motore: oltre le nuvole, sopra le nuvole, fosse possibile ancora un minuto più in là… e come una bambina stupida accompagnai la voce di De Gregori con la mia con questa terra ai miei piedi, più buia e più nera a vederla da qua… Marco, con una voce poco intonata, ma caldissima, proseguì insieme a me e al mio amico Francesco ma un giorno il giorno tornerà… Ci guardammo e ridemmo… Che fortuna, pensai, niente Spice Girls... Che fortuna, deve aver pensato lui visto il suo sguardo sorpreso, niente Take That… Parlammo delle nostre canzoni preferite, Pilota di guerra era la sua, ma io preferivo di gran lunga Pezzi di vetro. Aveva la ferma convinzione che Il ragazzo fosse stata scritta per lui, così schivo e restio a tirare fuori i suoi sentimenti… Sorridendo gli ricordai che non aveva né capelli rossi, né tantomeno occhi blu, come il protagonista del componimento. Insieme ci dicemmo che avremmo potuto partecipare al concerto in Piazza Grande, di cui peraltro avevamo già acquistato i biglietti… Improvviso mi assalì il bisogno di non abbassare totalmente la guardia e precisai che non sarei stata lì da

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sola, ma con alcuni amici, che peraltro conosceva anche lui. Di nuovo silenzio in macchina, ma tante parole nella mia testa. Parole di biasimo per una stupida adolescente indecisa che aveva sempre paura di oltrepassare i limiti, di svelarsi troppo, di trovarsi improvvisamente senza armatura. Era sempre accaduto così… Se qualcuno non mi interessava veramente, lo lasciavo avvicinare, gli permettevo anche di scavalcare quelli che solitamente chiamo i confini di sicurezza, mentre se un ragazzo poteva essere Lui mettevo un freno agli eventi, ne deviavo il corso naturale. All’orizzonte si presentava il vialetto che conduceva al condominio dove vivevo con i miei; non mi andava che mi vedessero con lui, quindi gli chiesi di scendermi un paio di isolati più avanti. Come se avessi premuto rewind sul display della mia mente, tornarono davanti ai miei occhi le immagini dell’ultima ora trascorsa con Marco e un’implacabile voglia di scendere da quell’abitacolo si impadronì di me. Come avevo potuto abbandonare le armi così arrendevolmente? Cercai le chiavi nella borsa che era finita ai miei piedi, il motore si spense e così anche la musica, alzai la testa e a un millimetro dai miei c’erano i suoi occhi, a un millimetro dalle mie c’erano le sue labbra, così vicine che potevo percepirne il fremito. Impossibile capire chi dei due colmò quella breve distanza. Impossibile controllare le mie emozioni in quel momento. Non era il primo bacio che ricevevo, ma era l’unico che mi aveva fatto fluttuare un palmo sopra il terreno. Poi non ci fu più neanche una parola tra di noi, solo un suo gesto di saluto, un sorriso e la mia faccia attonita da baccalà che seguiva impotente la due cavalli pronta a scomparire dietro la cunetta. Sicuramente lui era un po’ criptico e io un po’ lenta, ma in quella situazione ci avevo capito ben poco. Un punto fermo però ce l’avevo: il concerto, lì l’avrei rivisto di sicuro. Buio in piazza. Prima silenzio, poi qualche grido e qualche applauso da parte del pubblico. Una luce a pioggia al centro del palco rendeva visibile una sagoma nera seduta su una sedia con una chitarra in spalla. Poche inconfondibili note e poi “L’uomo che cammina sui pezzi di vetro, dicono ha due anime e un sesso di ramo duro e un cuore…”. Groppo in gola e lacrime agli occhi dall’emozione: voce e chitarra amplificata dalla leggera eco della piazza mi trasportarono in un’atmosfera surreale. Ci sono dei momenti in una vita che restano impressi per sempre come un’incisione in una tavoletta di argilla e ciò che ne ricordiamo non sono tanto le immagini, quanto i suoni, gli odori,

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i brividi. E quello che attraversò la mia pelle e arrivò a risvegliare uno stormo di farfalle nella mia pancia fu proprio un brivido di quelli lì: le mani di Marco circondarono la mia vita e il suo petto solido si accostò alla mia schiena come fossimo due pezzi di uno stesso puzzle. Mi irrigidii: avrebbe percepito che sotto la mia maglietta c’era qualche chilo in più, forse si sarebbe allontanato, forse… ma era tutto così perfetto, l’atmosfera era talmente onirica che decisi di fregarmene dell’esteriorità e di tutti gli stupidi canoni di bellezza imposti. Avvicinò la sua bocca al mio orecchio e accompagnò sottovoce il suono che usciva dagli enormi amplificatori “ti potresti innamorare di lui, forse sei già innamorata di lui, cosa importa se ha vent’anni…” e sfiorava il mio collo con le sue labbra mentre cantava. Tremavo. Tremavo per l’emozione, tremavo dalla voglia di voltarmi e baciarlo e tradire anche De Gregori pur di fuggire da tutti quegli occhi indiscreti per essere sola con lui e con il suo corpo che mi trasmetteva un calore inaspettato. Il mago della lampada sembrava essersi messo in testa di esaudire tutti i miei desideri: il principe azzurro (che non aveva un cavallo bianco, ma una due cavalli e per l’occasione si era dimenticato le vesti ufficiali per indossare una maglietta con l’immagine di Braccio di Ferro), una serata fantastica e la consapevolezza che qualcuno poteva apprezzarmi per ciò che ero. Restammo così per altre tre o quattro canzoni, ma poi arrivarono i pezzi un po’ più ritmati e coloro che erano seduti nella platea iniziarono ad alzarsi per seguire anche con i movimenti la musica, così che divenne più complicato vedere il palco. Non ho mai acquistato un biglietto per sedermi in platea a un concerto, ho sempre pensato che stare seduti come mummie davanti a chi ti propone la sua musica fosse quasi una mancanza di rispetto, senza contare che la platea di solito costa il doppio e per me e i miei coetanei è sempre complicato trovare i soldi da spendere. Fatto sta che i fans borghesi giunsero sui miei sogni con la delicatezza con cui un elefante impazzito avrebbe attraversato una sala piena di bicchieri di cristallo. «Raga chi mi fa salire sulle spalle? Voglio vedere che succede sul palco!». Rimasi stupita per due motivi: mi sembrava quasi impossibile che la murena, impegnata a mostrare le sue doti da palestrata, si fosse accorta che c’era anche un palco, inoltre credevo che i maschi del mio gruppo si fiondassero su di lei come schegge impazzite. Invece nessuno si mosse, quasi intimiditi, o increduli, non seppi capire.

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«Allora raga, daaai!!!!» continuò lei con la voce da bimba imbronciata. «Marco, mi aiuti? Dai, con quei pettorali non ti peserà mica un fringuello come me?!». Prima la murena posò il suo sguardo stillante veleno su di me, poi fu Marco a guardarmi, poi furono tutti i miei amici a guardare Marco con un briciolo di disapprovazione e lui: «Vieni su!». La mia compagna di classe si avvicinò e lo baciò sull’angolo sinistro della bocca, poi lui si piegò e la fece salire seduta sulle spalle. Mentre tutto ciò avveniva lei affondò il colpo di grazia: «Cate, mica ci sono problemi?» risatina falsa. «Tanto a te non ti reggeva… ». Che soddisfazione deve aver provato con quella battuta da comico di bassa fama! E che macigno sulla mia testa! Mi voltai immobile verso il palco in mezzo a una folla saltellante e giurai a me stessa che un episodio del genere non si sarebbe mai più ripetuto nella mia vita. Non ce l’avevo né con lei, né con Marco: la rabbia era tutta rivolta verso la mia stupidità e soprattutto verso la mia odiosa, terribile ciccia. Ormai la mia testa era altrove, non ascoltavo neanche più le canzoni, il mio essere sembrava diventato impermeabile a quella musica così capace in altre occasioni di trasmettermi sensazioni incomparabili. Non mi allontanai, non volevo che gli altri percepissero il mio stato d’animo, che peraltro doveva essere ben visibile dal mio sguardo. Chi mi conosce sa bene che difficilmente i miei occhi mentono, anzi spesso tradiscono ciò che esprimono le parole: non so fingermi tranquilla, quando uno schiacciasassi mi ha ridotto in poltiglia. Sulle note finali di Buffalo Bill e con alcuni irriducibili che gridavano Francesco!, nonostante avesse già regalato al suo pubblico due bis, ci allontanammo dalla piazza per avviarci verso le nostre case. Mentre Marco mi salutava con due bacetti anonimi sulla guancia, dopo aver ormai gettato nel cestino quei momenti di idillio, la murena mi prese a braccetto, squillante, tutto pepe, come al suo solito. «Cate, le due versioni di latino per lunedì, mica le hai fatte?». No, e se anche le avessi fatte, col cavolo che te le farei copiare, brutta svampitella dei miei… «Non ancora» risposi. «Senti, mi chiami domani appena le hai finite, così passo da te e vado in copisteria a fare una fotocopia… Lo sai, siamo a fine anno e non vorrei ritrovarmi latino per settembre, sennò addio conquiste estive!».

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Sai cosa me ne importa a me delle tue avventure sessuali estive! Finta verginella da strapazzo! Mi sa tanto che il mio telefono domani sarà rotto, anzi morto! «Ok, ci sentiamo». E con le mani in tasca guardavo le pietre che scorrevano sotto i miei passi da ippopotamo. Questa sono io. Non so se buona, stupida o ipocrita, comunque incapace di ferire gli altri, anche solo a parole. Con il pensiero, però, quella è tutta un’altra storia… Un’altra specie dei fondali marini minaccia la tranquillità delle povere tartarughe: le murene. Proprio così, quando una delle centinaia di tartarughe che popolano i fondali adolescenziali aveva avuto il coraggio di sporgersi appena fuori dal suo guscio, una perfida e sinuosa murena l’ha attaccata alle spalle e ha sferrato un colpo quasi letale, se non fosse che le tartarughe sono notoriamente longeve e dure a morire. Ecco qua il riassunto della serata appena trascorsa. Se De Gregori avesse abbandonato quella maledetta piazza dopo quattro o cinque pezzi questa serata sarebbe stata un sogno a occhi aperti, ma con i “se” non si va certo da nessuna parte. Ho ancora i brividi per le sue parole e le sue carezze e ho ancora il mal di stomaco per la rabbia. Tutto perfetto. Tutto migliore di come io stessa avrei potuto immaginare. Tutto distrutto dalla mia indistruttibile compagna di vita: la ciccia. Qualche minuto fa, appena sono rientrata in casa, mi sono guardata allo specchio: è un gioco che faccio spesso, mi osservo per capire qual è l’immagine che vedono gli altri guardandomi. Risultato: una catastrofe. Cosa speravo di ricavare dal mio principe azzurro? Una promessa di matrimonio? Prima forse dovrei sperare che si addormentasse lui per cento lunghi anni, ovvero il tempo necessario per ottenere qualche risultato in una beauty farm. Capelli color topo increspati dall’umidità, sembrano sormontati dalla stessa nebbia che sorvola il lago di Lock Ness, guance piene e l’accenno di trucco che avevano appena uscita di casa è fuggito via lontano. Il mio corpo cilindrico… che dire? Potevo pretendere qualcosa di diverso dalla conclusione della serata? Io che credevo che a qualcuno potesse interessare il mio aspetto interiore, sono una povera illusa. Io che pensavo che vestirsi con i jeans e una maglietta blu, semplice, potesse essere un buon compromesso per non essere troppo in vista, ma tuttavia piacevole, sono solo un’antiquata ragazzina

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fuorimoda. Ecco l’immagine che deve aver avuto Marco appena mi ha visto. Tutto sommato è un ragazzo coraggioso: ci ha provato nonostante il poco invitante spettacolo che devo aver offerto. Certo che poi non potevo reggere il confronto. Certo che poi non poteva reggermi proprio: rischiava minimo la fuoriuscita di un’ernia, se avesse sollevato me sulle spalle invece della magrissima Barbara. Eh sì, la bella murena si chiama Barbara ed è una degli squali che popolano i bagni della mia scuola. Stasera era con me perché il resto del branco le ha dato buca: il concerto di De Gregori era un evento importante, ma mai come la partecipazione dei Take That al Festivalbar di Italia Uno… Conclusioni della serata: in primo luogo, nonostante un superlativo Francesco, forse avrei fatto meglio anch’io a restarmene a vedere il Festivalbar seduta sul divano con Castagna. In secondo luogo, un episodio come quello che ho appena vissuto non si ripeterà mai più. Non voglio mai più essere umiliata per colpa del mio aspetto: è la prima e unica promessa che mi faccio e posso giurare su quello che ho di più caro che la manterrò. È una vita che mi sento uno schifo e a un certo punto devo pur trovare il coraggio di dire: ora basta! Questo è il “certo punto”. «Ehi Cate, tu sei come la Fanta, non sei bona, ma sei tanta!!!!» mi diceva sempre uno dei bimbi che frequentavano le scuole elementari con me e tutti ridevano, tanto che più che una loro amichetta ero quasi un fenomeno da baraccone… E poi c’era la maestra che ogni volta che nell’intervallo azzannavo la mia bella schiacciata unta e bisunta mi rimproverava per non aver scelto una merenda più sana: che cattiva la maestra, pensavo, possibile che ce l’abbia sempre con me? Invece, forse quell’anziana un po’ scorbutica cercava solo di salvarmi dalle umiliazioni future. Anche se era stata lei stessa a infliggermi un colpo fatale quando avevo solo dieci anni: recita di Natale, la maestra ci affida un copione degno di Fellini in cui la parte della Madonna ha un numero infinito di battute difficilissime, chi le avesse imparate meglio a memoria avrebbe ottenuto la parte. Nacque la guerra fra le otto bambine che popolavano la classe: ognuna voleva essere lei la Madonna. E io quel pomeriggio incatenai mia mamma alla scrivania e la obbligai a risentirmi tutte le battute per un numero imprecisato di volte, tanto che lei sarebbe dovuta andare subito a confessarsi visti i cattivi pensieri che inevitabilmente deve aver nutrito nei confronti della sacra famiglia. La parte la sapevo tutta e

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bene, quasi non dormii la notte dall’ansia di fare la Madonna. Era chiaro che la parte sarebbe stata mia. Arrivo in classe, preghierina, la mia maestra era un’integralista cattolica, e via al casting. Eravamo in quattro a contendersi l’ambito ruolo, le altre avevano sventolato bandiera bianca alla partenza. La prima si era dimenticata subito la seconda battuta, mentre Cristina non ricordava proprio la battuta finale, quella in cui Maria ringrazia Dio per il dono ricevuto. Sara sapeva quasi tutto, ma aveva avuto qualche incertezza a colloquio con l’arcangelo Gabriele; io invece ripetei le battute come se fossi Sofia Loren, con lo stesso pathos che ci avrebbe messo lei, magari con qualche chilo in più. E infatti il problema fu proprio questo, la Madonna cicciona non si poteva proprio vedere, disse la maestra, era un controsenso, con tutti gli stenti che aveva sofferto! Allora la scelta ricadde sull’acciughina Cristina che gongolante fece la Madonna nella recita di Natale davanti a tutti i genitori e al parroco del quartiere. E io? Per fortuna quella mattina avevo una brutta tonsillite con febbre a trentanove, altrimenti sarei stata… un pastore! Anche quel giorno dissi basta, ma il fatto che l’aspetto fisico fosse fondamentale in ogni ambito fu solo una lieve intuizione, oggi è una certezza assoluta.

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III

«Beh, visto che non ci sono concerti in vista, potrò pure mangiare qualcosa, no? Nessun fanciullo deve sollevarmi. E non ho neanche un promesso sposo con cui oltrepassare la soglia di casa mentre mi tiene tra le sue braccia, o sbaglio?». Autoironia, la mia arma vincente. «Che stupida! Esci?». Inconfondibile, mai più di tre parole di fila. E dire che all’inizio questo suo economizzare sul vocabolario mi piaceva tanto… «Programmi?». Mi ero adeguata anch’io, perché sprecare fiato? «Giretto in macchina, musica, due parole tra amici e che ci va ci vuole!». Non riuscivo a dirgli di no, era più forte di me, proprio non ce la facevo. «Alle nove». «Aggiudicato, dietro al parcheggio Eden, sai di là c’è il bar e stasera ci sono tutti, è rientrato anche Fede dalle vacanze a Creta. Chissà che festeggiamenti dopo il primo trenta a ingegneria!». «E tu, gli esami?». «C’è tempo a settembre… No stress, ok, amica?». «Che studente fasullo…. Ok, niente prediche. A stasera». Erano passati più di due mesi dal sabato sera del concerto. Erano passate undici settimane per l’esattezza. Avevo preso l’abitudine di pesarmi ogni domenica mattina con un solo, ostico obiettivo: perdere almeno mezzo chilo a settimana. Se ho un pregio è il seguente: quando metto tutto l’impegno per realizzare un fine, prima o dopo, destino permettendo, i risultati arrivano. E con il peso avevo stupito me stessa: per un periodo avevo disintegrato più di un chilo ogni sette giorni, mille orribili grammi superflui. La risolutezza era però andata a farsi friggere con Marco. Non è il mio fidanzato, pensai quella sera del concerto, non usciamo neanche insieme, quindi non ho perso niente. E non avrei avuto neanche niente da perdere se ci fossimo rivisti. Decisi di non forzare le tappe, dopotutto, se anche avessi voluto chiamarlo, non conoscevo neanche un suo recapito. Seppi, nella settimana successiva al

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concerto, che aveva visto qualche volta la bella murena, ma la storia non aveva avuto alcun seguito (chiaramente qualche squalo aveva pensato bene di spifferarmi tutto). Studiavo, benché l’anno scolastico fosse ormai agli sgoccioli. Studiavo soprattutto come eliminare calorie. Niente più schifezze, era una regola che rispettavo già dall’inizio dell’inverno. Mai più dolci, neanche una fettina la domenica dopo pranzo. Alzarsi da tavola sempre con un pochino di fame (così diceva sempre mia nonna, fonte poco attendibile visto che non è mai scesa sotto gli ottanta chili). Basta con i carboidrati, se non dopo un’intensa attività fisica. Pizza solo una sera a settimana e rigorosamente senza mozzarella. Via libera a frutta e verdura, accompagnate da proteine magre. In effetti, ero un’ottima nutrizionista in teoria e lo stavo dimostrando anche con la pratica. Quella che stava giungendo con giornate roventi, si presentava un’estate interessante. Nuovi amici, una libertà acquisita, che non speravo neanche, con l’arrivo dei diciassette anni e voglia di cambiare dentro, ma soprattutto in superficie. Mentre tentavo di avvolgermi nel telo da bagno con la maestria di una diva del cinema americano ormai in pensione, il telefono continuava a squillare e mia mamma urlava dalla cucina di andare a rispondere. Corsi in direzione telefono lasciando orme bagnate sul pavimento, scivolando qua e là come una pattinatrice sul ghiaccio, presi la cornetta e mentre tentavo di dire ‘pronto’, la mia voce fu spezzata dal mio sederino che piombava improvvisamente a terra, a causa di una virata troppo avventata. «Scusi, è che… sono caduta… Chi parla?». «Speravo che mi sentissi volentieri, ma non credevo certo di farti questo effetto…». Che figura di… Marco. E che c’entrava ora lui, quando ormai tutto era archiviato? E che loquacità stasera, aveva già pronunciato più parole di quante mai ne avessi sentite uscire dalla sua bocca. La sua bocca, per un momento mi tornò in mente: carnosa, morbida, invitante… e la mia parte stupidina ebbe il sopravvento sulla Caterina intelligente e misurata. «No, è che sono uscita dalla doccia, avevo i piedi bagnati e il pavimento era scivoloso…».

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«Sei nuda?» chiese Marco schietto e diretto come al solito, mentre le mie guance diventavano incandescenti. «Non esattamente, ho un asciugamano intorno al seno… ma…». «Allora salgo!». Risatina stupida, a quanto pare neanche lui riusciva a controllare lo sciocchino che era in lui. Ripresi in mano la situazione e soprattutto recuperai un po’ di lucidità: «Dimmi, posso esserti utile in qualche modo?». Questa frase era uscita acida come uno yogurt scaduto da un mese, conseguenza diretta di una ferita non ancora del tutto cicatrizzata. «Sì, aprendo la porta senza prima vestirti…». «Smettila». «Mi scusi signorina. Volevo solo chiederti se ti andava di scendere appena potevi. Un giro in macchina, un po’ di musica, quattro chiacchiere». Feci due calcoli, erano quasi le venti e trenta e se fossi uscita sarebbe stata un’ottima occasione per saltare la cena… Poi, in fondo, Marco mica lo avevo dimenticato… «Va bene, Marco. Dammi qualche minuto. Ci vediamo nel piazzale dietro la cunetta». Riagganciai con un po’ di amaro in bocca, sapevo che stavo calpestando un pezzo di orgoglio e che stavo tritando a fette sottili la mia dignità, ma stentavo ad ammetterlo. «Mamma, era Giorgia. Chiedeva se posso andare al Mordi e fuggi con lei. I suoi sono fuori con i colleghi e non ha voglia di prepararsi la cena!» dissi a mia madre senza guardarla in faccia. «Senti se vuol cenare qui… tanto quello che sto preparando basta anche per lei!». «Dai mamma, non siamo più alle elementari… Ci vediamo dopo!». Chiusi velocemente la conversazione, non sono mai stata una volpe con le bugie. «Non tornare tardi e mi raccomando, mangia!». Eccola là con la frase che ora andava per la maggiore in casa mia! Come se fossi denutrita! Quanto mi infastidiva dover recitare per non far preoccupare mia mamma: ciò che davvero non capivo era perché dovesse non condividere il fatto che avevo deciso di perdere almeno una parte di quella zavorra che mi pesava fin dalla tenera età. Il sillogismo “mangia quindi sta bene, quindi non avrà mai problemi di salute” era una salda convinzione nella testa di mia madre, che riteneva il benessere

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psicologico un elemento trascurabile. Dopotutto avevo perso soltanto cinque chili dall’inverno e non ero neanche a metà del mio percorso. Ogni passo che mi avvicinava alla due cavalli bordeaux, di cui peraltro distinguevo già il tettuccio, era un passo verso la resa. Perché non avevo detto di no a quell’appuntamento inaspettato? Probabilmente perché in cuor mio sapevo che se volevo un uomo, non potevo pretendere che fosse solo mio, almeno fino a che non avessi conquistato un aspetto un po’ più gradevole e leggiadro. Per i primi minuti in auto dei due chi parlò di più fu sicuramente Marco, che si limitò a salutarmi e a chiedermi come stavo. Nessun riferimento al nostro ultimo incontro, nessun accenno al concerto o agli amici e alle amiche in comune, anche il povero De Gregori era scomparso dalla macchina, rimpiazzato dall’Uomo col megafono della nuova leva Silvestri. Se non avessi infranto quel tabù, non sarei stata me stessa, quindi, a costo di sembrare infantile, lasciai fuoriuscire ciò che avevo dentro, senza preavviso, né per Marco, né per me. «Forse sarebbe meglio se stessi zitta, anzi di sicuro, ma se non parlo tanto vale che scenda di macchina e me ne torni a casa. Per prima cosa rispondimi a una domanda? Perché rivedersi? Voglio dire perché rivedersi ora e non due settimane fa…». Marco fece per dire qualcosa con la faccia di chi ha una scusa pronta da servire . «Aspetta, ricordati che io so già la risposta e non sono una stupida». «Avevo paura di ferirti, mi sembravi offesa al concerto… io però mica c’entravo nulla… quella non mi piaceva neanche solo che non potevo passare da coglione con i miei…». «No, Marco» lo interruppi sorridendo ironica. «Ritenta…». Avrei voluto dire che era l’ultima possibilità che ero pronta a offrirgli, altrimenti non mi avrebbe più rivisto, ma non osai rischiare tanto. «Senti Caterina. Da dove cavolo comincio…». «Prova dall’inizio…». «Ascolta, io non sono più un bambino, ho vent’anni e a voi ragazzine piace scherzare con il fuoco, non a tutte è vero, ma Barbara… dai, hai visto anche te come ci provava apertamente… Che faccio, dico di no? Poi ormai che il gioco era iniziato, dovevo centrare l’obiettivo, capisci?». Sarebbe stato meglio se non avessi capito qual era l’obiettivo da centrare, invece purtroppo l’avevo ben chiaro. Rimasi in silenzio, era lui che doveva continuare. Fine anteprimaContinua...