Sul fondamento, ovvero il non-luogo della comunità politica … · 2017-04-30 · nella Fondazione...
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Resumen
La relazione si propone di affrontare il tema del fondamento della comunità
politica in Kant attraverso la problematizzazione del concetto di luogo. Sarà innan-
zitutto sinteticamente ripercorsa l’effettiva trattazione del tema della comunità poli-
tica all’interno del corpus delle opere kantiane, ovvero il luogo o i luoghi della sua
effettiva elaborazione. Tale ripercorrimento intende analizzare il tema del fonda-mento della comunità politica, ovvero del politico in senso complessivo, che trova
nella Fondazione della metafisica dei costumi un suo contesto di elaborazione para-
digmatico per quanto spesso misconosciuto o sottovalutato rispetto alla sua collo-
cazione all’interno del “sistema” kantiano. In tale opera sarà in particolare analiz-
zato il concetto di regno dei fini (Reich der Zwecke). Attraverso un’analitica disa-
mina dei suoi elementi terminologici e concettuali costitutivi, si intende inquadrare
tale nozione quale compiuto fondamento della comunità politica, che travalica ogni
luogo fisico, al tempo stesso che apre ogni possibile spazio morale, inteso come
spazio della normatività insieme etica e giuridica, e fonda ogni possibile agire poli-
tico che intenda non sottrarsi all’imperativo della ragione pura pratica.
Palabras clave: Kant, comunidad política, acción política, fundamento, lugar,
fin en sí, imperativo categórico, reino de los fines
LOGOS. Anales del Seminario de MetafísicaVol. 42 (2009): 37-60
ISSN: 1575-686637
Sul fondamento, ovvero il non-luogo
della comunità politica
About the ground -that is, about the no-place- of political community
Alberto PIRNI
(Università di Genova - Scuola Superiore Sant’Anna - Pisa)
Recibido: 26/06/2008
Aceptado: 14/07/2008
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Abstract
The lecture intends to face the question about the ground of political communi-
ty in Kant, discussing mainly the concept of place. In order to accomplish this task,
we’ll cover synthetically the effective inquiry about this question in the kantian
works’ corpus, namely, the place or the places of this research. Such a path intends
to analyse the subject of the ground of political community, that is, of politics in a
large sense, which has a paradigmatical context of development in the Groundingof the Metaphysics of Morals, which position inside the kantian “system” has often
been misunderstood and undervalued. We’ll analyse in this work especially the
concept of the kingdom of ends [Reich der Zwecke]. Through an analytical exam of
the terminological and conceptual elements that make it up, we expect to frame this
notion as an accomplished ground of political community, which goes beyond every
physical place and simultaneously opens every possible moral field, as field of both
ethical and juridical regulation, and grounds every possible political action that
doesn’t try to escape of the pure practical reason’s imperative.
Keywords: Kant, political community, political action, grounds, place, end in
itself, categorical imperative, kingdom of ends
Il lettore e l’interprete del pensiero politico di Kant che intenda preliminarmen-
te orientarsi su quanto pubblicato dal filosofo* è solito concentrare la sua attenzio-
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* Le opere di Kant saranno citate secondo l’Akademie-Ausgabe: Kant's Gesammelte Schriften, hrsg.
von der Preußischen (Deutschen) Akademie der Wissenschaften, Reimer (de Gruyter), Berlin, 1900 ss.
Alla sigla dell'opera seguirà, in caratteri romani, il numero del volume e, in caratteri arabi, il numero
della pagina di tale edizione, seguita a sua volta, laddove esistente, dal numero della pagina della tra-
duzione italiana di riferimento. Le sottolineature, ove non diversamente indicato, sono di Kant. La
segnalazione della traduzione italiana ha valore puramente indicativo, in quanto la versione dei testi
kantiani è spesso modificata da chi scrive.
Anfang: Muthmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, Bd. VIII, pp. 107-124; Anthrop.:Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Bd. VII, pp. 117-333 [Antropologia pragmatica, trad. di G.
Vidari, riv. da A. Guerra, Bari, Laterza 19943 (1969)]; Briefe: Briefwechsel, Bd. X-XII [Epistolariofilosofico. 1761-1800, a cura di O. Meo, il melangolo, Genova, 1990]; Collins: MoralphilosophieCollins, Bd. XXVII, pp. 237-473; Diss.: De mundi sensibilis ac intelligibilis forma et principiis(Dissertatio), Bd. II, pp. 385-420 [La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, in I. Kant,
Scritti precritici, a cura di A. Pupi, pref. di R. Assunto, Roma-Bari, Laterza, 19902 (1982) pp. 419-
461]; Feyerabend: Naturrecht Feyerabend, Bd. XXVII, pp. 1317-1394; Gemeinspruch: Über denGemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis, Bd. VIII, pp. 273-
314 [Sul detto comune: “questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”, in I. Kant,
Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 123-161]; GMS:
Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Bd. IV, pp. 385-464 [Fondazione della metafisica dei costu-mi, a cura di N. Pirillo, Laterza, Roma-Bari, 1992]; KrV: Kritik der reinen Vernunft, 2. Auflage (1787),
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ne su un gruppo di scritti editi a partire dal 1790 – Critica della facoltà di giudizio(1790), Sopra il detto comune (1793), Per la pace perpetua (1795), Metafisica deicostumi (1797) – nonché sui numerosi saggi di filosofia della storia e del diritto che
accompagnano pressoché l’intero arco di compiuta articolazione della svolta tra-
scendentale, a partire dal 1784, con l’Idea per una storia universale dal punto divista cosmopolitico e lo scritto sull’Illuminismo, per culminare, nel 1798, con Ilconflitto delle facoltà.
In questo ambito di studi, un interesse di gran lunga inferiore suscita uno scrit-
to che in realtà doveva fin dal titolo mettere sull’avviso circa la sua centralità
(anche) filosofico-politica. Alludo alla Fondazione della metafisica dei costumi(1785), opera nota soprattutto in quanto costituisce una prima compiuta elaborazio-
ne della speculazione morale kantiana, ma che si inserisce in un arco temporale,
compreso fra il 1783 e il 1786, estremamente prolifico per il filosofo di Königsberg
e particolarmente significativo per il tema che si intende qui affrontare. Sono que-
sti gli anni in cui Kant puntualizza le sue dottrine di filosofia della storia e della
politica, di filosofia del diritto, di antropologia, oltre a continuare le lezioni di filo-
sofia della religione. La Fondazione della metafisica dei costumi, al centro di que-
sto complesso periodo, può essere inquadrata come una sorta di “cartina di tornaso-
le”, ovvero come un luogo speculativo che fa reagire tra loro e contiene in forma
differente – eppure non divergente – pressoché tutti i nuovi elementi concettuali che
quel corpus di scritti coevi proietta all’interno del criticismo e che troveranno in
seguito, nei lavori degli anni ’90, una loro più distesa elaborazione.
Non sarà ovviamente possibile, nel presente contesto, tentare di verificare com-
piutamente tale tesi, sulla quale, pur in forma ancora parziale, ci si è dedicati altro-
ve1. Ci si propone qui infatti un compito più circoscritto, ma non per questo più age-
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Bd. III, pp. 1-552 [Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riv. da V.
Mathieu, Laterza, Roma-Bari, 19916 (1981)]; KU: Kritik der Urteilskraft, Bd. V, pp. 165-486 [Criticadel Giudizio, trad. it. di A Gargiulo, riv. da V. Verra, Laterza, Roma-Bari, 19926 (1982)]; Idee: Idee zueiner allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, Bd. VIII, pp. 15-32 [Idea per una storiauniversale dal punto di vista cosmopolitico, in I. Kant, Scritti di storia ..., cit., pp. 29-44]; LP: LogikPölitz, Bd. XXIV, pp. 497-602; Metaph. L2: Metaphysik L2, Bd. XXVIII, pp. 525-609; MdS: DieMetaphysik der Sitten, Bd. VI, pp. 203-494 [Metafisica dei costumi, trad. it. di G. Vidari, riv. da N.
Merker, Laterza, Roma-Bari, 19996 (1983)]; Mrongovius II: Moral Mrongovius II, Bd. XXIX, pp. 593-
642; Powalski: Praktische Philosophie Powalski, Bd. XXVII, pp. 91-235; Rel.: Die Religion innerhalbder Grenzen der blossen Vernunft, Bd. VI, pp. 1-202 [La religione entro i limiti della sola ragione, a
cura di M.M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari, 1985]; Rth: Rationaltheologie Pölitz, Bd. XXVIII, pp.
989-1126 [Lezioni di filosofia della religione, a cura di C. Esposito, Bibliopolis, Napoli, 1988]; Streit:Der Streit der Fakultäten, Bd. VII, pp. 1-116 [Il conflitto delle facoltà, a cura di D. Venturelli,
Morcelliana, Brescia, 1994]; VE: Eine Vorlesung Kants über Ethik. Im Aufrage der Kantgesellschaft,hrsg. von P. Menzer, Berlin, Heise 1924 [Lezioni di etica, a cura di A. Guerra, Laterza, Roma-Bari,
19983 (1971)]; WL: Wiener Logik, Bd. XXIV, pp. 785-940 [Logica di Vienna, a cura di B. Bianco,
Franco Angeli, Milano, 2000].1 Mi sia qui consentito il rinvio a A. Pirni, Kant filosofo della comunità, ETS, Pisa, 2006.
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vole. La riflessione sul fondamento (Grund) della comunità politica nel pensiero di
Kant, che si intende ora avviare senza ovviamente la pretesa di poter esaurire, inten-
de innanzitutto contribuire a riequilibrare l’attenzione del lettore ed interprete kan-
tiano a favore degli scritti di “filosofia morale”, a mio parere decisivi per la piena
comprensione del Kant “filosofo politico”. Quello qui proposto intende dunque
essere un percorso di ricollocazione, ovvero di individuazione di luoghi altri di ela-
borazione del pensiero politico kantiano – accanto a quelli maggiormente sondati
sotto questo profilo – che si crede costituiscano anticipazioni fondative della medi-
tazione più esplicita che il filosofo consegna a tale ambito della sua riflessione.
Intorno a tale percorso si articola l’intento complessivo di mostrare, all’interno della
prospettiva kantiana, una circolarità che si crede virtuosa. Mentre la dimensione
politica, per potersi comprendere nella sua istanza fondativa, rimanda alla dimen-
sione morale, quest’ultima, per potersi compiutamente costituire come fondamento
della prima sul piano non solo teorico ma anche della concreta prassi, implica a sua
volta il rinvio alla sfera giuridica, intesa come orizzonte di fondo e complessiva
condizione di possibilità dell’esplicarsi dell’agire politico all’interno di ogni conte-
sto determinato.
1. La radice comune di etica e diritto e la centralità della Fondazione
Lo scritto del 1785 intendeva offrire una prima parte dell’intera «metafisica dei
costumi», che contenesse i principi generali e fondativi di essa. La «metafisica dei
costumi», richiamando la definizione elaborata nell’Architettonica della ragionpura, contiene «i principi che determinano a priori e rendono necessario il fare e ilnon fare [Tun und Lassen]» Essa è dunque «propriamente la morale pura, a base
della quale non c’è un’antropologia (una condizione empirica)» (KrV, III 544, B
869-870 [514])2.
Kant ribadisce questa definizione nella Prefazione della Grundlegung, ritenen-
do ora di «estrema necessità» la compiuta elaborazione di quella che chiama una
filosofia morale pura (eine reine Moralphilosophie). L’opera, nelle intenzioni del-
l’autore, si colloca dunque ad un livello metaetico, di «fondazione» appunto di quel
dominio della filosofia che egli chiama la scienza delle «leggi della libertà» (GMS,
IV 387 [55]); essa, secondo le parole dell’autore, «non è che la ricerca e la determi-
nazione del principio supremo della moralità» (GMS, IV 392 [61]), ovvero la deli-
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2 Rispetto all’espressione «Tun und Lassen», in Kant ricorrente, può essere notata una implicita allu-
sione alla prima opera di argomento morale di Christian Wolff, Vernüfftige Gedancken von derMenschen Thun und Lassen, zu Beförderung ihrer Glückseligkeit [1720] – ora in Ch. Wolff,
Gesammelte Werke, hrsg. von J. École, J.E. Hoffmann, M. Thomann, H.V. Arndt, Olms, Hildesheim-
New York, 1976, Vol. IV, Tomo I – dal filosofo di Königsberg sicuramente conosciuta e studiata.
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neazione del principio fondamentale di una dottrina del comportamento che ricavi
le sue prescrizioni non da un’autorità politica o religiosa ma dalla sola ragione che
l’uomo possiede in se stesso.
L’opera si configura quindi come momento teoretico preliminare a quella
Metafisica dei costumi che Kant – dopo averne concepito il progetto fin dalla metà
degli anni ’60 e dopo averla annunciata più volte ai suoi corrispondenti – riuscirà a
terminare solo nel 17973. Non è questo il luogo per cercare di comprendere le com-
plesse motivazioni che hanno causato un così protratto differimento del progetto4.
È invece opportuno focalizzarsi sull’intelaiatura teoretico-argomentativa che sog-
giace al progetto medesimo e che – in maniera per altro prevedibile, eppure scarsa-
mente tematizzata – collega strettamente tra loro Fondazione della metafisica deicostumi e Metafisica dei costumi.
Com’è noto, quest’ultima opera si compone di due parti dedicate rispettivamen-
te ai Principi metafisici della dottrina del diritto e ai Principi metafisici della dot-trina della virtù. In estrema sintesi, mentre la prima parte indaga il realizzarsi dei
principi dell’eticità nelle istituzioni che governano la convivenza tra esseri ragione-
voli, la seconda concerne la realizzazione degli stessi principi nel soggetto agente,
attraverso la stabilizzazione di atteggiamenti caratteriali e comportamentali di
fondo quali le virtù. In base alle esigenze sistematiche di Kant, la Fondazione, occu-
pandosi di determinare le strutture e modalità in cui si articola la ragione nell’inte-
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3 Kant dichiara più volte ai suoi corrispondenti di stare lavorando alla stesura di una «metafisica dei
costumi»: si veda innanzitutto la lettera a Johann Heinrich Lambert del 31 dicembre 1765, in cui com-
pare per prima volta il progetto di scrivere un’opera dal titolo Principi metafisici della filosofia prati-ca (Briefe, X 56 [44]). Confermano tale intento le successive lettere a Johann Gottfried Herder del 9
maggio 1768 – nella quale, tra l’altro, compare la prima attestazione del termine «metafisica dei costu-
mi» – («credo di essere finalmente giunto a qualcosa di considerevole nell’ambito della morale.
Attualmente sto lavorando ad una metafisica dei costumi [...]. Spero di riuscire a terminare questo
lavoro già quest’anno, se la mia salute sempre malferma non mi sarà di impedimento» (Briefe, X 74
[54])) e di nuovo a Lambert del 2 settembre 1770 (Briefe, X 97 [58]). Tuttavia, una prima sicura inter-
ruzione della stesura è documentata già nella famosa lettera a Marcus Herz del 7 giugno 1771 (Briefe,
X 123 [62]), e ulteriormente confermata da quella a lui indirizzata databile verso la fine del 1773
(Briefe, X 145 [78]), in cui Kant afferma di essere attualmente occupato a comporre quell’opera che
egli allora riconduceva al titolo I limiti della sensibilità e della ragione e che solo nel 1781 vedrà la
luce nella forma della Critica della ragion pura. Bisogna attendere la lettera indirizzata a Mendelssohn
del 16 agosto 1783 (Briefe, X 346-347 [128]), per apprendere che Kant si è finalmente messo a scri-
vere quella che all’epoca chiamava «la prima parte» della sua «morale» e che sarà pubblicata nel 1785
con il titolo di Fondazione della metafisica dei costumi. Comunque Kant, sebbene in quegli anni impe-
gnato su moltissimi altri “fronti” teoretici, non abbandonò mai il progetto originario, come si evince
ancora dalla lettera a Heinrich Jung-Stilling, databile dopo il 1° marzo 1789 (Briefe, XXIII 495 [176]).4 Su questo punto si vedano innanzitutto L.W. Beck, A Commentary on Kant’s Critique of PracticalReason, University of Chicago Press, Chicago – London, 1960, spec. pp. 5-18; B. Ludwig, Einleitung,
in I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, Meiner, Hamburg, 19982 (1986), spec. pp.
xiii-xxvi.
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ra sua dimensione pratica, si trova dunque al di qua o al di sopra della distinzione
tra diritto ed etica esplicitamente tematizzata e sviluppata nella Metafisica deicostumi, per concentrarsi sulla definizione e fondazione appunto dei principi che
saranno applicati in entrambi quegli ambiti della ragion pura pratica.
Sottolineare tale specificità dell’opera del 1785 non significa per altro sostene-
re che l’autore non avesse già in mente la famosa distinzione tra moralità e legalità,
tra «legislazione interna» e «legislazione esterna», ovvero, in ultima istanza, tra
etica e diritto, che sarà appunto alla base della tarda Metafisica dei costumi. Questa
distinzione è infatti presente nel quaderno relativo al Corso di diritto naturale del
semestre estivo del 1784, pubblicato con il titolo Naturrecht Feyerabend, tenuto da
Kant nello stesso periodo in cui stava ultimando la Fondazione della metafisica deicostumi, che inizierà a scrivere nell’autunno del 1783 per terminare, appunto, nel-
l’estate del 17845.
La stessa distinzione era già ravvisabile nel Corso di etica degli anni 1775/80,
in cui Kant, commentando il manuale di Baumgarten a proposito della nozione di
obligatio, distingue fra obligationes internae ed obligationes externae (VE, 41 [39];
Collins, XXVII 272)6. Questo divario è per altro presente anche nella Fondazione,
là dove Kant differenzia l’azione morale, che è compiuta per dovere (aus Pflicht) inquanto dettata dalla pura intenzione, dall’azione conforme al dovere (pflichmäβig),
compiuta per una conformità solo esteriore alla legge – che deriva o da un’inclina-
zione naturale o dal timore della punizione – e pertanto dotata di valore semplice-
mente legale (GMS, IV 390, 397-398 [59, 69-70]). Nello stesso contesto del Corsodi etica del 1775/80 viene inoltre esplicitamente posta sia la distinzione che l’affi-
nità di origine di etica e diritto.
La differenza tra diritto ed etica non risiede nella natura dell’obbligazione, ma nei moti-
vi adottati per adempierla. [...] Cioè l’etica prende in considerazione tutte le obbligazio-
ni senza esclusione, a patto che il loro motivo sia interno; essa le considera, cioè, in base
al dovere, [...] senza badare all’elemento coattivo. Il diritto, invece, considera l’adem-
pimento dell’obbligazione non in quanto esso avviene per dovere, ma in quanto dipen-
de da una coazione (VE, 40 [38]; Collins, XXVII 271-272).
L’etica e il diritto si distinguono dunque per la motivazione con la quale le stes-
se azioni sono compiute: la retta intenzione o la coercizione. Tuttavia, in ognuno dei
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5 «<La> legalità è <la> conformità [Übereinstimmung] dell’azione con il dovere, senza considerare se
esso sia o meno il fondamento di determinazione [Bestimmungsgrund] dell’azione medesima. <La>
moralità è la conformità dell’azione con il dovere, in quanto quest<’ultimo> è il fondamento di deter-
minazione dell’azione medesima» (Feyerabend, XXVII 1327).6 Tali differenziazioni erano per altro frequentemente tematizzate da Kant nei corsi di filosofia mora-
le. Cfr. Mrongovius II, XXIX 611-619; Powalski, XXVII 131-133, passim. Cfr. anche Feyerabend,
XXVII 1326.
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due ambiti, la ragione comanda nello stesso modo; la «natura dell’obbligazione»
resta identica sia per i doveri giuridici che per quelli di virtù.
La nozione di obbligazione (Verpflichtung) ritorna significativamente
nell’Introduzione alla Metafisica dei costumi, che può essere considerata come una
ripresa e, allo stesso tempo, uno sviluppo della trattazione metaetica inaugurata
dalla Fondazione. Nella Sezione IV dell’Introduzione, parlando dei «concetti comu-
ni alle due parti della metafisica dei costumi», Kant definisce l’obbligazione come
«la necessità propria di un’azione libera sotto un imperativo categorico [kategori-schen Imperativ] della ragione» (MdS, VI 222 [24]).
Sono opportune, a questo proposito, due considerazioni. Va innanzitutto sotto-
lineato che l’autore ribadisce qui la doppia appartenenza dello stesso concetto di
obbligazione ai diversi ambiti di etica e diritto dei quali la Metafisica dei costumi si
occuperà diffusamente. D’altra parte, non può passare inosservato il fatto che Kant,
a proposito dell’obbligazione, parli di imperativo categorico, il quale rende neces-
saria – e quindi obbligatoria – un’azione altrimenti libera, cioè solo soggettivamen-
te possibile.
Dunque la nozione di imperativo categorico, che riceve un’imprescindibile trat-
tazione nella Fondazione e viene ripresa nella Critica della ragion pratica, legitti-
ma il suo campo di applicazione sia a livello dell’eticità che a quello del diritto.
L’imperativo categorico – in senso generale – è innanzitutto una obbligazione
incondizionata che, in quanto tale, si trova al di sopra della distinzione fra legisla-
zione interna e legislazione esterna. Al pari dell’etica, dunque, anche il diritto
«comanda» categoricamente – sebbene si distingua da essa poiché contempla la
minaccia della coazione – e non in modo «tecnico» o «pragmatico». I doveri che il
diritto mi impone in quanto uomo e in quanto cittadino di uno Stato non sono tali
da consentire una mia valutazione sull’opportunità della mia obbedienza ad essi o
sui vantaggi che potrei ricavarne: comandano in modo assoluto, sono leggi nel
comune senso del termine. Nell’ambito giuridico non si ragiona e non si agisce
quindi al livello dell’imperativo ipotetico, bensì secondo l’imperativo categoricodel diritto7.
Kant allude significativamente alla formulazione sintattica dell’imperativo
nell’Introduzione alla dottrina del diritto presente nella Metafisica dei costumi, làdove definisce la «legge universale del diritto»: «Agisci esternamente in modo che
il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno secondo una
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7 Quest’ultima espressione è di Höffe. Si vedano, al proposito, i seguenti saggi: O. Höffe, Kant’s Principleof Justice as Categorical Imperative of Law, in Y. Yovel (ed.), Kant’s practical Philosophy reconsidered,
Kluwer Academic Publishers, London, 1989, pp. 149-167; Id., Kategorische Rechtsprinzipien. EinKontrapunkt der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1994, spec. pp. 11-29 e 126-149; Id., KategorischeRechtsimperativ. “Einleitung in die Rechtslehre”, in O. Höffe (Hrsg.), Immanuel Kant. MetaphysischeAnfangsgründe der Rechtslehre, Akademie Verlag, Berlin, 1999, pp. 41-62.
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legge universale» (MdS, VI 231 [35])8. È d’altra parte possibile reperire un riferi-
mento esplicito alla declinazione giuridica dell’imperativo categorico in almeno
altri quattro contesti dell’opera del 17979.
La Fondazione della metafisica dei costumi, trattenendosi in particolare sulla
nozione di imperativo categorico, fornisce dunque alla speculazione kantiana una
nozione decisiva, che verrà dall’autore stesso applicata sia nell’ambito dell’etica
che in quello del diritto. Questa caratterizzazione della Fondazione – insieme alla
sua posizione all’interno del sistema morale di Kant – vanno tenuti costantemente
presenti anche se l’opera, nel suo svolgimento, sembra occuparsi quasi esclusiva-
mente dell’aspetto morale ovvero fondativo e – se letta in continuità con la secon-
da Critica, di soli tre anni posteriore – sembra perdere di vista il progetto origina-
rio, la compiuta articolazione della metafisica dei costumi.
2. L’imperativo categorico e il suo esito comunitario: il regno dei fini
Com’è noto, l’opera si sviluppa in tre parti, tre «passaggi» che intendono gui-
dare il lettore dalla «conoscenza razionale comune della moralità» alla «metafisica
dei costumi» e da quest’ultima alla «critica della ragion pura pratica». Rispetto al
nostro tema, ci si tratterrà qui sulla Seconda Sezione, che ospita appunto la tratta-
zione del concetto di imperativo categorico.
L’intero dibattito contemporaneo su tale nozione continua ad orientare le sue
riflessioni a partire da un famoso libro di Paton10. Prescindendo da una più detta-
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8 Per una documentato inquadramento della posizione del diritto all’interno del sistema kantiano sono
da tenere presenti gli studi di S. Goyard-Fabre, La philosophie du droit de Kant, Vrin, Paris, 1996,
spec. pp. 17-60; Id., Philosophie critique et raison juridique, PUF, Paris, 2004, spec. pp. 64-70 e 120-
149.9 Nella «Nota generale sugli effetti giuridici derivanti dalla natura della società civile», che si trova al
centro della Sezione Prima – dedicata al «diritto statuale» – della Parte Seconda della Rechtslehre,
Kant determina il valore universale dell’«imperativo categorico della giustizia penale (che l’uccisione
illegale di un altro deve essere punita con la morte)» (MdS, VI 336-337 [171]). Ma Kant parla dell’im-
perativo categorico in riferimento al diritto penale anche in MdS, VI 331 [164-165]. In un secondo
contesto, più precisamente nella «Conclusione» dell’Appendice della medesima Parte Seconda, con la
quale si chiude l’intera Rechtslehre, l’autore si sofferma sul «dovere giuridico incondizionato» di
obbedire a chi si trova in possesso del supremo potere esecutivo e legislativo sul popolo; dovere che
si presenta nella forma di un «imperativo categorico»: «Obbedite (in tutto ciò che non è contrario al
senso morale interno) all’autorità che ha il potere sopra di voi» (MdS, VI 371 [215]). In un ulteriore
contesto (Rechtslehre, § 49) Kant considera l’«imperativo categorico» tramite il quale la ragione pone
il dovere di tendere al massimo accordo possibile della costituzione di ogni Stato con i principi del
diritto stesso (MdS, VI 318 [148]).10 H.J. Paton, The Categorical Imperative. A Study in Kant’s Moral Philosophy, Hutchinson, London,
19655 (1947). Fra gli studi più recenti di inquadramento complessivo dell’opera cfr. Chr. Horn – D.
Schönecker (Hrsg.), Groundwork of the Metaphysics of Morals, de Gruyter, Berlin – New York, 2006;
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gliata analisi delle diverse formule presentate da Kant11, in questa sede ci si concen-
trerà sul culmine ovvero sull’esito teoretico-concettuale dell’intera trattazione del-
l’imperativo categorico: il concetto di regno dei fini (Reich der Zwecke).
Nel corso della Seconda Sezione l’autore ha articolato e precisato il principio diuniversalizzazione e il concetto di uomo in quanto fine in sé nel contesto delle prime
due formule dell’imperativo. In seguito, con il principio dell’autonomia, ha racchiu-
so in un’unica formula i risultati delle prime due, precisando la capacità autolegi-
slatrice da un punto di vista universale. La nozione di regno dei fini «deriva» da e
contiene il punto di vista dell’autonomia12, e dunque contempla ed invera in sé tutte
le altre formule dell’imperativo categorico13. È una sorta di sintesi ulteriore e per-
ciò inglobante che, come si chiarirà, completa e corona la dimensione individuale
dell’imperativo innalzandola quella sovra-individuale e comunitaria. Ma in che
senso il regno dei fini può essere compreso come una struttura comunitaria?
L’analisi della definizione del concetto permette credo di esplicitare tale assunto:
Per regno intendo il collegamento sistematico [systematische Verbindung] di diversi
esseri ragionevoli mediante leggi comuni [durch gemeinschaftliche Gesetze]. Ora, poi-
ché le leggi determinano i fini in quanto alla loro validità universale, se si astrae dalle
differenze personali degli esseri ragionevoli e anche dall’intero contenuto dei loro fini
privati, si potrà concepire una totalità di tutti i fini [ein Ganzes aller Zwecke] (tanto
degli esseri ragionevoli in quanto fini in sé, quanto dei fini propri che ognuno può pre-
figgersi) in sistematica connessione [in systematischer Verknüpfung], ossia un regno dei
fini possibile sulla base dei principi suddetti (GMS, IV 433 [116]).
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J. Timmermann, Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen, 2004 (ed. ingl.: Kant’s “Groundwork of the Metaphysics of Morals”. A Commentary,
Cambridge University Press, Cambridge, 2007).11 Rimando ancora ad A. Pirni, Kant filosofo della comunità, cit., spec. pp. 28-36.12 Concordo su questo punto con Ch.M. Korsgaard (Creating the Kingdom of Ends, Cambridge
University Press, Cambridge. 1996, pp. 22-24), mentre mi discosto dall’interpretazione di J.E. Atwell
(Ends and Principles in Kant’s Moral Thought, Nijhoff, Dordrecht-Boston-Lancaster, 1986, pp. 152-
153), che sostiene la diretta derivazione del regno dei fini dalla seconda e terza formula. Il concetto di
uomo come fine è indubbiamente presente e fondamentale, ma esso non emerge ad un primo approc-
cio. Afferma infatti al proposito Kant: «Il concetto di ogni essere ragionevole che deve considerare se
stesso, per mezzo di tutte le massime della sua volontà, come legislatore universale, per giudicare da
questo punto di vista sé e le sue azioni, conduce ad un concetto molto fecondo connesso al primo, cioè
al concetto di un regno dei fini» (GMS, IV 433 [116]). Secondo Paton (The Categorical Imperative,
cit., p. 130), le formule dell’autonomia e del regno dei fini, «preparando il terreno per l’argomento
dell’ultima parte del libro», ovvero stabilendo principi che saranno in seguito connessi ai concetti di
libertà e di mondo intelligibile, «costituiscono il principale cardine intorno al quale ruota l’argomen-
tazione della Fondazione».13 Che il regno dei fini contenga in sé le tre formule degli imperativi è una tesi sostenuta anche da
Schnoor. Ma ritenendo che tale nozione sia scarsamente elaborata da Kant, la sua analisi non prose-
gue oltre. Si veda Ch. Schnoor, Kants kategorischer Imperativ als Kriterium der Richtigkeit desHandelns, Mohr, Tübingen, 1989, spec. pp. 47-48.
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Il regno rappresenta dunque una comunità di esseri ragionevoli posti in collega-mento sistematico (systematische Verbindung) gli uni rispetto agli altri mediante
leggi comuni (gemeinschaftliche Gesetze), una totalità (Ganzes) in cui ciascuno di
essi, obbedendo liberamente alla legge che si è dato – che è contemporaneamente
condivisa da ogni altro – prescinde dalla propria particolarità e quindi riconosce
tutti gli altri nella loro autonomia.
Soffermandosi innanzitutto sull’aggettivo «sistematico» (systematisch), si può
notare che esso ricorre per ben due volte in un periodo di poche righe e collegato a
due termini quasi sinonimi come Verbindung e Verknüpfung14. Il regno dei fini si
presenta in primo luogo come una connessione, un’unione sistematica, ovvero
come «un tutto», una totalità organizzata e coerente al suo interno. Questa totalità
implica in sé, collegandoli in modo sistematico e non casuale, «diversi [verschiede-ner] esseri ragionevoli»; diversi, cioè molteplici e, allo stesso tempo, dotati di par-
ticolarità individuali.
Per altro, se la totalità di tutti i fini può essere pensata astraendo «dalle differen-
ze personali degli esseri ragionevoli e anche da ogni contenuto dei loro fini priva-
ti», ciò non significa negare tali fini. Significa invece porli all’interno di una pro-
spettiva teleologica e sistematica evitando così di assolutizzarli e di ridurre la tota-
lità ad una «rapsodia» disorganica e disarticolata (KrV, III 538-539, B 860-861
[509-510]). Ogni essere ragionevole non può pretendere di perseguire i propri fini
in modo assoluto, senza limitazioni, e di essere, nonostante ciò, posto in collega-
mento sistematico con gli altri esseri ragionevoli. D’altra parte, proprio perché
ragionevole, non può decidere di rinunciare a tale collegamento, poiché esso gli
viene comandato dalla ragione. Il problema è qui solo dell’ordine della subordina-
zione: al primo posto starà il riconoscimento del regno dei fini come unità teleolo-
gico-morale all’interno della quale l’essere ragionevole deve trovare la propria col-
locazione. La totalità di tutti i fini che può così formarsi conterrà quindi tutti gli
esseri ragionevoli in quanto fini in sé e “restituirà” ad ognuno di essi la legittima-
zione al perseguimento di fini propri nella misura in cui questi ultimi siano compa-
tibili con la legge morale.
Se la terza formula «conduce» al regno dei fini, quest’ultimo – afferma Kant –
«è possibile secondo i principi suddetti», ovvero esattamente in base alle tre formu-
le dell’imperativo che racchiude ed invera in sé. Infatti, la legge universale di cui
parla la prima formula dell’imperativo – «agisci solo secondo quella massima che,
al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale» (GMS, IV 421
[101]) – non è altro che una legge universalmente valida, comune, cioè condivisibi-
le da ogni essere razionale. La seconda formula considerava la natura razionale,
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14 Per altro le espressioni «collegamento sistematico» e «leggi comuni» vengono riprese dopo poche
righe oltre la definizione citata. «Con ciò sorge un’unione sistematica di esseri ragionevoli mediante
leggi oggettive comuni, ossia un regno che [...] può essere detto regno dei fini» (GMS, IV 433 [116],
sottolineature mie).
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ovvero l’umanità come fine in se stesso, e comandava di trattare l’umanità di ogni
essere razionale sempre anche al tempo stesso come scopo e mai solo come sempli-
ce mezzo (GMS, IV 429 [111]). Il regno dei fini intende porsi come il luogo nou-
menico in cui tale imperativo viene attuato, è il regno di tutti gli esseri razionali che
considerano se stessi e ogni altro come fine in sé, come Kant precisa nelle righe
immediatamente successive al passo citato15. Da ultimo, in conformità alla terza
formula, il regno dei fini è anche ciò che permette di concepire la volontà come uni-versalmente legislatrice (allgemein gesetzgebend)16. In particolare il membro(Glied) del regno dei fini, colui che legifera, rende universalmente valevole l’impe-
rativo, la norma morale e, allo stesso tempo, si sottopone alla legge che si è prescrit-
to, è colui che si pone dal punto di vista dell’autonomia.
Se è il punto di vista dell’auto-legislazione universale quello comune ad ogni
agente morale, allora l’autonomia implica in sé un dovere ulteriore, quello che Kant
definirebbe un «bisogno della ragione» che non può essere disatteso: l’attingimen-
to di una prospettiva comunitaria; la consapevolezza della vicinanza con ogni altro
essere ragionevole, con il quale costitutivamente condividiamo i medesimi interro-
gativi e le stesse ansie di risposta in relazione alla necessità di agire, qui ed ora.
3. La fondazione della comunità giuridico-politica
Il regno dei fini, in quanto culmine della trattazione dell’imperativo categorico,
costituisce dunque innanzitutto il fondamento della dimensione comunitaria che è
sottesa all’agire del singolo soggetto ragionevole nel suo complesso. Tale prelimi-
nare strutturazione non esaurisce tuttavia l’ampiezza semantica e contenutistica
della nozione. Al regno dei fini deve infatti essere riconosciuta la stessa duplicità
fondativa che anima l’intento kantiano di redigere una Fondazione della metafisicadei costumi. Detto in altri termini, il regno dei fini riesce a costituire il fondamento
comunitario dell’agire per entrambi gli ambiti in cui si articola il progetto di una
metafisica dei costumi, ovvero sia per il «dominio» (KU, VI 74 [10])17 dell’etica sia
per quello del diritto e, conseguentemente, della politica18.
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15 «Infatti [nel regno dei fini] gli esseri ragionevoli sono tutti sottoposti alla legge secondo cui nessu-
no deve mai trattare se stesso o gli altri semplicemente come mezzi, ma sempre in pari tempo come finiin sé» (Ivi).16 «[...] un essere razionale appartiene come membro [Glied] al regno dei fini quando vi si trovi, bensì,
come legislatore da un punto di vista universale, ma anche, al tempo stesso, sia sottomesso lui stesso
a queste leggi. Vi appartiene, per contro, come capo supremo [Oberhaupt] se, essendone legislatore,
non è sottomesso alla volontà di nessun altro» (Ivi).17 «I concetti hanno un loro campo, in quanto sono riferiti ad oggetti […]. La parte di questo campo,
in cui è possibile per noi la conoscenza, è un territorio […]. La parte del territorio, in cui questi con-
cetti sono legislativi è il dominio di essi e della facoltà di conoscere corrispondente».18 Come è noto ai suoi interpreti, l’interesse di Kant per la dimensione comunitaria non nasce nel con-
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Per compiere un passo in avanti in direzione della giustificazione di tale tesi,
con particolare riferimento all’ambito giuridico-politico, è opportuno, per così dire,
fare un passo indietro e partire dal contesto nel quale quest’ultimo ambito proble-
matico si affaccia per la prima volta all’interno del criticismo.
3.1. L’idea del politico
Sostenere la possibilità di ravvisare nella Fondazione della metafisica dei costu-mi i segnali e le tracce argomentative del progetto che si concluderà solo con l’ope-
ra del 1797 non significa affermare che l’autore non si fosse esplicitamente occupa-
to del problema giuridico-politico negli anni precedenti la stesura della Fondazionemedesima. Fra le carte non pubblicate da Kant è anzi possibile reperire un grande
numero di annotazioni e riflessioni sulla politica che sostanzialmente accompagna-
no l’intero itinerario speculativo del filosofo, dagli anni sessanta fino alla fine degli
anni novanta19. Per altro, come noto, nella Sezione della Dialettica trascendentaledella prima Critica intitolata Delle idee in generale, tramite il ricorso all’idea direpubblica platonica può essere affermato che la dimensione politica entra “uffi-
cialmente” a far parte del sistema della filosofia trascendentale e come una parte di
esso sarà trattata negli anni successivi.
Una costituzione caratterizzata dalla massima libertà umana secondo leggi che consen-
tono che la libertà di ciascuno possa coesistere [zusammen bestehen kann] con quella
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testo della filosofia pratica, anche se indubbiamente è in quest’ultimo che se ne rinviene lo sviluppo
più articolato. L’interesse comunitario può infatti essere documentato almeno a partire dalla TerzaAnalogia dell’esperienza rinvenibile nella prima Critica, laddove Kant parla di «azione reciproca» in
quanto commercium (KrV, III 182, B 260 [181]); mi sono trattenuto su questo tema, che per altro com-
pare già nella Dissertatio (Diss., 390-391 [424-426] e 406-407 [445-446]) in A. Pirni, Kant filosofodella comunità, cit., spec. pp. 63-64. Tra gli studi più recenti sul tema comunitario che tengono pre-
sente tale origine mi limito a segnalare quello di A. Braz, Kant et la communauté: une philosophie auxantipodes du monologisme, in «Philosophica», 2004, pp. 21-41. A conferma della molteplicità di pos-
sibili “attraversamenti” del pensiero kantiano lungo il tema comunitario, Braz sviluppa la sua tesi par-
lando di «comunità di fatto» fondata sul concetto di imperativo ipotetico kantiano, mentre il riferimen-
to al regno dei fini, palesemente evitato prima (cfr. ad es. p. 31), giungerà solo al termine di un per-
corso che ha inteso ricondurre la forma comunitaria “ipotetica” alla Critica del giudizio. Il percorso
che si intende qui sviluppare, a partire dalla centralità della Fondazione e del concetto di imperativo
categorico, valorizza invece da subito il regno dei fini quale esito comunitario dell’imperativo catego-
rico e, conseguentemente, quale fondamento della comunità giuridico-politica elaborata in base al
comando della ragion pura pratica.19 Le Riflessioni kantiane sulla filosofia politica sono reperibili nei volumi XV/2 (HandschriftlicherNachlass II: Anthropologie II, Hrsg. von E. Adickes), e XIX (Handschriftlicher Nachlass VI:Moralphilosophie, Rechtsphilosophie und Religionsphilosophie, Hrsg. von E. Adickes und F. Berger)
dell’Akademie-Ausgabe. Per un’analisi delle riflessioni kantiane relative al periodo pre-critico si
vedano: W. Busch, Die Entstehung der kritischen Rechtsphilosophie Kants 1762-1780, de Gruyter,
Berlin, 1979; F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant, Laterza, Roma-Bari, 1996, spec. pp. 13-61.
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degli altri […] è quanto meno un’idea necessaria [eine nothwendige Idee] che si deve
porre a fondamento [zum Grunde] non solo del primo disegno di una costituzione poli-
tica, ma anche di tutte le leggi, e in cui si deve, da principio, prescindere dagli ostacoli
presenti, che probabilmente non derivano inevitabilmente dalla natura umana, quanto
piuttosto dall’inosservanza delle idee messe al bando [ächten] in materia di legislazio-
ne (KrV, III 247-248, B 373 [248]).
Tale idea, che di “platonico” mantiene solo il nome, si costituisce in Kant come
principio che rende possibile la coesistenza, lo stare insieme di più esseri ragionevo-
li, ovvero legittima l’esistenza di una comunità di soggetti politici. Il principio è rap-
presentato da una legislazione che consente il massimo grado di libertà di ognuno
compatibilmente alla libertà di ogni altro: unicamente su questo principio dovrebbe
fondarsi lo Stato, superando gli ostacoli che potrebbero porsi al momento dell’attua-
zione. Rispetto a questi ultimi, il filosofo illuminista crede anzi che essi nascano non
tanto dalla natura umana – alla quale non è precluso alcun miglioramento, sia a livel-
lo etico che politico – ma proprio dall’inosservanza di quel principio.
A conferma della maturazione fondativa negli scritti degli anni ’80 dei concetti
politici che l’autore svilupperà compiutamente solo negli anni ’90, delineando il
principio fondamentale della forma di Stato repubblicana, Kant pone qui le basi di
quello che nella Metafisica dei costumi indicherà come il sommo bene politico(MdS, VI 354-356 [193-195]). Quest’ultimo non è altro che la prospettiva della pace
perpetua, «l’ideale di un collegamento giuridico [Ideal einer rechtlichenVerbindung] degli uomini sotto leggi pubbliche» (MdS, VI 355 [194]) che dovreb-
be strutturarsi nella forma di un «repubblicanesimo di tutti gli stati insieme ed in
particolare», ovvero una «repubblica federale mondiale»20. La repubblica è per
Kant la migliore forma di Stato, in quanto garantisce ad ogni cittadino la «massima
libertà secondo leggi» ed implica una coesistenza libera e pacifica fra tutti gli esse-
ri ragionevoli21.
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20 Quest’ultima espressione è di Giuliano Marini. Si vedano: G. Marini, Tre studi sul cosmopolitismokantiano, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 1998, spec. pp. 25-70; Id., Per unarepubblica federale mondiale: il cosmopolitismo kantiano, in G.M. Chiodi, G. Marini, R. Gatti (a cura
di), La filosofia politica di Kant, Franco Angeli, Milano, 2001, pp. 19-34; Id., La filosofia cosmopoli-tica di Kant, a cura di N. De Federicis e M.C. Pievatolo, Laterza, Roma-Bari, 2007, spec. pp. 137-213;
231-271. Per un inquadramento dell’interessante prospettiva interpretativa articolata da Marini e, più
in generale, dello sviluppo in ottica cosmopolitica della nozione di repubblica in Kant, mi permetto di
rinviare alle considerazioni articolate in A. Pirni, Kant e il “problema cosmopolitico”. Riflessioni apartire da un recente studio di Giuliano Marini, in «Teoria», XXI (n.s.), 1, 2001, pp. 121-132; Id.,
Virtù e cosmopolitismo in Kant, in «Studi Kantiani», XVIII (2005), pp. 99-115; Id., Le virtù del cosmo-politismo e il cosmopolitismo delle virtù, in P. Becchi – G. Cunico – O. Meo (a cura di), Kant e l’ideadi Europa, il melangolo, Genova, 2005, pp. 315-332.21 Cfr. U. Sassenbach, Der Begriff des Politischen bei Immanuel Kant, Königshausen und Neumann,
Wünzburg, 1992, spec. pp. 113-167. Secondo la documentata interpretazione dell’autore, lo Stato
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A ulteriore conferma del medesimo assunto può essere richiamato un altro
luogo della tarda produzione del filosofo. Oltre che in un breve passaggio della
Dissertatio del 177022, Kant ricorre all’«idea di repubblica platonica» anche nel
saggio più tardo Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, che
fu pubblicato come Seconda Sezione dell’opera Il conflitto delle facoltà (1798)23.
In questo saggio si incontra un brano che sembra la diretta prosecuzione del discor-
so affrontato nella Critica della ragion pura.
L’idea di una costituzione che s’accordi col diritto naturale degli uomini, per cui quelli
che obbediscono alla legge devono anche, nella loro unione, legiferare, è a fondamento
di ogni forma di Stato, e la comunità [das gemeine Wesen] che, conforme all’idea, pen-
sata secondo concetti puri, si chiama un ideale platonico (respublica noumenon), non è
una vuota chimera, ma la norma perenne di ogni costituzione civile in genere, ed allon-
tana ogni guerra (Streit, VII 90-91 [173]).
Quello che interessa Kant dello Stato platonico è la sua determinazione forma-
le, la sua esemplarità archetipica e non, naturalmente, il suo contenuto effettivo,
rispetto al quale l’autore interviene in modo autonomo24. E proprio sotto questo
aspetto l’ultimo passo presentato sviluppa e prosegue quello della Sezione Sulleidee in generale. Ciò che là era stato identificato come il principio della massima
libertà possibile rispetto a quella di ogni altro essere ragionevole, entra qui a far
parte del «diritto naturale degli uomini», che si specifica ulteriormente. In base a
tale diritto, gli uomini non nutrono più soltanto la legittima aspettativa di essere gui-
dati da un governo, e quindi da leggi, che lo riconoscano e lo rispettino, ma – in
quanto soggetti politici – sono chiamati anche a legiferare, almeno indirettamente,
eleggendo cioè loro rappresentanti in seno all’organo legislativo. Più che la questio-
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repubblicano si configurerebbe all’interno della speculazione kantiana come l’«anello di congiunzio-
ne» fra la ragion pura pratica e la politica pratico-empirica. Con un intento non del tutto dissimile,
Mario D’Addio, in anni non recenti, ha invece interpretato la presenza dell’idea di repubblica plato-nica come «premessa speculativa» del pensiero politico di Kant e momento di collegamento fra due
diverse prospettive (utopica e realistica) presenti nel suo pensiero. Si veda M. D’Addio, Kant e larepubblica platonica, in «Il pensiero politico», 9, 1976, pp. 472-480. Fra le più lucide prosecuzioni di
questa prospettiva di ricerca mi limito qui a segnalare il lavoro di A. Pinzani, «Il concetto kantiano di
repubblica tra ideale e realtà storica», in M. Moneti Codignola – A. Pinzani, Diritto, politica e mora-lità in Kant, Bruno Mondadori, Milano, 2004, pp. 7-36.22 «Massimo di perfezione si chiama, al nostro tempo, l’ideale – l’idea di Platone (come per esempio
la sua idea di repubblica) –» (Diss., II 11 [87]).23 Sulla presenza dell’idea di repubblica platonica nel Conflitto delle facoltà e sul rapporto fra tale
nozione e quella di chiesa invisibile, si veda D. Venturelli, Il Conflitto delle facoltà di I. Kant e l’ideadi università, in I. Kant, Il conflitto delle facoltà, a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia, 1994,
pp. 9-47, spec. pp. 9-11 e 41-42.24 Tematizza con grande lucidità questo aspetto G. Duso, Il carattere ideale della costituzione repub-blicana in Kant, in G.M. Chiodi, G. Marini, R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Kant, cit.,
pp. 35-44.
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ne della rappresentanza politica, che meriterebbe un’analisi specifica non affronta-
bile in questo contesto25, importa qui sottolineare il diritto di voto che, in quanto cit-
tadino, l’essere ragionevole acquisisce in quanto sottoposto alla legge che comanda
di partecipare concretamente alla fase legislativa.
Questa argomentazione si pone in consonanza con quella che Kant aveva deli-
neato a proposito della nozione di autonomia all’interno della Fondazione. È que-
sto il «terzo principio pratico» secondo il quale la volontà dell’agente morale non è
semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata
essa stessa legislatrice da un punto di vista universale. La volontà è autonoma nel
senso che prescrive a se stessa una legge di validità universale. Una legislazione
così ottenuta può essere considerata propria e, al tempo stesso, universale. Proprio
in tale duplice valenza risiede la categoricità del comando, che obbliga «liberamen-
te», escludendo cioè tanto interessi personali che costrizioni imposte da altri. È
quindi possibile la moralità dell’azione in quanto sottomissione volontaria e libera
alla legge da noi stessi istituita (GMS, IV 431-433 [114-116]).
Tale prospettiva può essere colta anche nel passo del Conflitto delle facoltàsopra riportato. L’autonomia morale articolata nella Fondazione diviene qui auto-nomia politica: anche in uno Stato posso, come cittadino, «obbedire liberamente»
ad una legge che debbo considerare «mia», in quanto anche da me resa possibile
grazie alla partecipazione – diretta o indiretta che sia – alla fase legislativa, tramite
l’esercizio del voto.
Seguendo il delinearsi di questo percorso, sarà proprio con la Fondazione dellametafisica dei costumi e, in particolare, nel contesto della definizione del regno deifini che Kant svilupperà questa medesima prospettiva giuridico-politica nell’ottica
di un approfondimento conseguente a quell’idea della «massima libertà secondo
leggi» presentata nella prima Critica, ovvero nella direzione di una compiuta fon-dazione della sfera giuridico-politica, che terrà presente, al tempo stesso, il riferi-
mento alla totalità sistematica di tale libertà e il principio discriminante tra le pos-
sibili realizzazioni di quell’idea della ragione.
3.2. Il regno dei fini come comunità giuridica e politica
Ma in che modo ed entro quali limiti la nozione di regno dei fini può essere
compresa come la compiuta fondazione della comunità giuridico-politica in Kant?
Aiuta ad individuare alcuni elementi per una possibile risposta a tale domanda
richiamarsi in particolare al doppio campo di applicazione della stessa nozione di
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25 Sul tema rimando ai contributi particolarmente efficaci di M. Lalatta Costerbosa, Eguaglianza e cit-tadinanza in Kant, in «Studi Kantiani», XII, 1999, pp. 115-139 e di A. Braz, O conceito de cidadaniaem Kant: Uma solução para o conflito entre Estados, in «Revista portuguesa de Filosofia», 61/2,
2005, pp. 397-414.
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imperativo categorico elaborata nella Fondazione. Non va infatti dimenticato che il
regno dei fini implica l’articolazione di un’ultima formula dell’imperativo: «Agisci
in base alle massime di un membro legislatore universale in vista di un regno dei
fini semplicemente possibile» (GMS, IV 439 [123-124]). Come tale anche il regnodei fini si riferisce sia all’ambito etico che a quello giuridico, si pone “a monte”
della normazione sia etica che giuridica e ne legittima l’esistenza26.
Questa stessa tesi necessita tuttavia di essere ulteriormente esplicitata, riferen-
dosi innanzitutto a quanto l’autore dice nel contesto della Fondazione. Nel regnodei fini ogni membro deve trattare tutti gli altri membri con rispetto e, d’altra parte,
deve esigere tale rispetto anche per sé. Tutti i membri del regno dei fini, in quanto
esseri ragionevoli, posseggono la duplice caratteristica di essere da una parte fini in
sé, dall’altra agenti capaci di porsi dei fini propri. Rispettare l’altro essere ragione-
vole in quanto fine in sé implica dunque anche rispettare la sua libertà d’azione,
ovvero tenere in considerazione e – nei limiti del possibile – incentivare i tentativi
di sviluppo e perfezionamento della sua libertà intellettuale, delle disposizioni e
qualità morali a lui donate dalla natura, anche e soprattutto nel momento in cui que-
ste si realizzano, si traducono in azioni concrete.
Ma proprio a questo livello – cioè dal problema morale di trattare gli esseri
ragionevoli sempre anche come fini – sorge, si origina il problema giuridico-politi-co di determinare i limiti entro i quali il rispetto della libertà di azione di una per-
sona è legittimo e non danneggia l’esercizio della libertà di un’altra persona. Qui si
pone il problema del diritto.
Tale nucleo teoretico viene da Kant esplicitamente presentato nell’Idea per unastoria universale dal punto di vista cosmopolitico, testo del tutto coevo alla
Fondazione27. Il titolo della Quinta Tesi del breve e importante scritto recita infat-
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26 Potrebbero concordare con queste affermazioni altri interpreti che, più o meno esplicitamente,
hanno sostenuto la tesi del doppio ambito di applicazione del regno dei fini, seppure con altri argo-
menti. Mi riferisco a D. Pasini, Diritto società e stato in Kant, Giuffrè, Milano, 1957, spec. pp. 49-56;
D. Pasini, Das Reich der Zwecke und der politisch-rechtliche Kantianische Gedanke, in Funke G.
(Hrsg.), Akten des 4. Internationalen Kant-Kongresses, de Gruyter, Berlin-New York, 1974, pp. 675-
691; Id., Il ‘mondo dei fini’ ed il pensiero giuridico-politico kantiano, in A. Rigobello (a cura di),
Ricerche sul ‘regno dei fini’ kantiano, Bulzoni, Roma, 1974 (ma 1975), pp. 87-130; G. Fassò, Storiadella filosofia del diritto, il Mulino, Bologna, 1968, spec. pp. 387-410; P. Quattrocchi, Comunità reli-giosa e società civile nel pensiero di Kant, Le Monnier, Firenze, 1975, spec. pp. 146-157; Id., L’idealedella comunità umana come determinazione costitutiva del regno dei fini, in A. Rigobello (a cura di),
Ricerche sul ‘regno dei fini’ kantiano, cit., pp. 191-213; Ch. Taylor, Kant’s Theory of Freedom, in Id.,
Philosophy and the Human Sciences (Philosophical Papers, Vol. II), Cambridge University Press,
Cambridge, 1985, pp. 318-337.27 Giova a questo proposito ricordare che la Fondazione, pubblicata nel 1785 a Riga, presso l’editore
Hartknoch, fu composta da Kant fra l’inverno del 1783 e l’estate del 1784 (cfr. la lettera del 16 ago-
sto 1783 a Mendelssohn: Briefe, X 346-347 [128]). E proprio nell’autunno del 1784 – precisamente
nel fascicolo di novembre – la Berlinische Monatsschrift pubblica lo scritto Idea di una storia univer-sale dal punto di vista cosmopolitico.
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ti: «Il massimo problema per il genere umano, alla cui soluzione la natura locostringe, è il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmen-te il diritto» (Idee, VIII 22 [34]). Tale società civile dovrà essere caratterizzata dalla
«massima libertà e quindi [da] un generale antagonismo dei suoi membri» unito alla
«più rigorosa determinazione e assicurazione dei limiti di tale libertà, così che essa
possa coesistere con la libertà degli altri». Solo in questa società – che si chiarisce
essere «una costituzione civile perfettamente giusta» – può essere raggiunto il
supremo intento (Absicht) della natura, lo sviluppo di tutte le facoltà umane. La sta-
tuizione di essa si configurerà quindi come il «supremo compito» (höchsteAufgabe), ovvero come il «massimo scopo» (gröβten Zweck) (Anfang, VIII 110
[104]) affidato dalla natura al genere umano.
Non può non essere ravvisata una sostanziale continuità teoretica fra la nozione
di società civile e l’idea di repubblica platonica presentata nella Dialettica trascen-dentale della prima Critica e definita come «una costituzione caratterizzata dalla
massima libertà umana secondo leggi che consentono che la libertà di ciascunopossa coesistere con quella degli altri» (KrV, III 247, B 373 [248]).
È opportuno precisare che la libertà di cui parla qui Kant non è altro che la
libertà esterna, che riguarda i rapporti interpersonali fra esseri ragionevoli in quan-
to persone giuridiche. La determinazione dei limiti di tale libertà, come detto, costi-
tuisce l’oggetto del diritto. Il lettore di Kant, per trovare la definizione compiuta del
concetto di diritto, è solito rivolgersi alla Metafisica dei costumi, precisamente
all’Introduzione della Rechtslehre. E qui in effetti ne viene presentata la definizio-
ne forse più rigorosa28. Tuttavia Kant aveva già teorizzato una soddisfacente defi-
nizione nel Corso di diritto naturale tenuto nel semestre estivo del 1784, negli stes-
si mesi in cui stava ultimando la stesura della Fondazione: «Diritto è la limitazione
della libertà, in base alla quale essa può esistere con ogni altra libertà secondo una
regola universale» (Feyerabend, XXVII 1320).
Merita di essere sottolineato che in questo stesso contesto, nello spazio di poche
pagine, Kant propone altre due definizioni del concetto di diritto, che si distinguo-
no tutte fra loro29. Sebbene debba essere tenuta presente l’opportunità didattica
della reiterazione dei concetti fondamentali – non si dimentichi che il testo ora
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28 «Il diritto è dunque l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accor-
darsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà» (MdS, VI 230 [34-35]). Cfr.
anche Gemeinspruch, VIII 289-290 [137].29 Con la pretesa di offrire una definizione «tecnica», il diritto viene infatti definito all’interno del
Titolo I del testo (De norma actionum liberalium et in genere) come «la limitazione di ogni partico-lare libertà alle condizioni sotto le quali può esistere una libertà universale» (Feyerabend, XXVII
1334). Poco oltre l’autore ritorna sul tema, offrendo una definizione che sostanzialmente ritiene riepi-
logativa delle precedenti e che invece inserisce elementi nuovi: «Il diritto non è altro che la legge del-
l’uguaglianza [Gleichheit], dell’azione [Wirkung] e reazione [Gegenwirkung] della libertà, attraverso
la quale la mia libertà concorda con quella universale» (Ivi, p. 1335).
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riportato è stato ricavato da un quaderno di appunti presi a lezione – questo fatto, a
mio parere, induce a pensare che Kant si trovasse in questi anni in una fase di
profonda meditazione del problema dell’edificazione di una comunità giuridica,
ovvero di uno Stato di diritto.
Ma, d’altra parte, a cosa si riferisce Kant quando parla di «regola universale» o
di «legge universale della libertà» (MdS, VI 230 [35]) a proposito del diritto? Si
riferisce al principio pratico che ne fonda la legittimità. Perché deve essere legitti-
ma la limitazione della mia libertà? Perché tale limitazione mi è comandata dalla
ragione pratica nella forma di un imperativo categorico. Devo limitare la mia libertà
affinché essa possa coesistere con quella di ogni altro essere ragionevole, in quan-
to la ragione comanda a tutti e ad ognuno di sottoporsi alla legge secondo la quale
«nessuno deve mai trattare se stesso o gli altri semplicemente come mezzi, ma sem-
pre allo stesso tempo come fini in sé» (GMS, IV 433 [116]), come Kant afferma nel
contesto della definizione del regno dei fini. In questo modo si origina quell’accor-
do reciproco, quell’unione sistematica di esseri ragionevoli che condividono lo stes-
so concetto di diritto.
È quindi lo stesso imperativo categorico, così come viene presentato nel conte-
sto del regno dei fini, a costituire la fondazione del diritto, a legittimarlo nel suo
nucleo originario di limitazione della libertà, che si comprende come necessaria
condizione di quel rispetto che è dovuto ad ogni essere ragionevole in quanto per-sona. Allora nel medesimo contesto in cui la morale “conduce” al problema del
diritto, Kant sviluppa anche la sua ideale soluzione: solo in una dimensione in cui
ognuno tratta l’altro sempre anche come fine in sé è posto il fondamento della
libertà giuridicamente possibile.
La speculazione si trova qui su un piano in cui interiorità ed esteriorità si lega-
no insieme e si saldano “sistematicamente”. Il rispetto morale che si deve alla
libertà interna dell’altra persona fa tutt’uno con il rispetto che si deve all’esplicazio-
ne di tale libertà, alle azioni dell’altra persona, che si collocano in un mondo di rela-
zioni sociali, ovvero nell’ambito della comune esteriorità, della comunità politica in
quanto sfera pubblica, nella quale l’azione individuale è sottratta alla dimensione
dell’auto-referenzialità e si apre fino a comprendere in essa – e a dover rispettare –
ogni possibile “altro”. Sistematicamente collegato al problema del rispetto che io
devo alla libertà dell’altro uomo si trova pertanto il problema di determinare i limi-
ti al di là dei quali quello stesso rispetto si trasforma in ingiustizia nei miei confron-
ti, il termine oltre il quale io stesso non vengo più considerato dall’altro uomo un
fine in sé, ma un semplice mezzo a disposizione del suo arbitrio. Qui la morale si
applica al diritto, diviene morale giuridica e fonda la legittimità stessa del diritto.
Riportando il discorso nei termini della Fondazione, si potrebbe affermare che
ogni membro dello Stato – come ogni membro del regno dei fini – è inserito in una
«[...] totalità di tutti i fini (tanto degli esseri ragionevoli in quanto fini in sé, quanto
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dei fini propri che ognuno può prefiggersi)» (GMS, IV 433 [116]). Ogni individuo,
che si sottoponga alle leggi fondamentali del regno dei fini – ovvero: i) divenire un
autonomo legislatore, ii) rispettare l’altro anche sempre come fine –, mentre agisce
per il proprio benessere, agisce ugualmente anche per quello degli altri e per quel-
lo del tutto.
La comune sottomissione all’imperativo categorico da parte di tutti i membridel regno dei fini legittima l’esistenza del diritto e quindi di uno Stato giusto e, d’al-
tra parte, costituisce quello spazio pubblico in cui ognuno è chiamato a riconoscere
la validità della legge come ciò che coordina ed informa di sé le quotidiane relazio-
ni sociali di esseri ragionevoli. La particolare connotazione di comunità articolata a
proposito del regno dei fini, quell’«unione sistematica di esseri ragionevoli median-
te leggi oggettive comuni» ritorna dunque a più riprese là dove Kant si intrattiene
su tematiche filosofico-politiche, al punto che si può sostenere che tale nozione
determini la vera “fondazione” della teoresi politica kantiana.
4. Il non-luogo della comunità politica: incompiutezza e possibilità
La dimensione comunitaria così ricavata rimane per altro connessa ad una
costante tensione problematica. Non va infatti dimenticato o misconosciuto il fatto
che Kant, poco dopo averne articolato la definizione, aggiunge in una laconica
parentesi che il regno dei fini è «in verità solo un ideale» (GMS, IV 433 [116]). Tale
affermazione sembrerebbe prima facie allontanare la possibilità effettiva, per il
regno dei fini, di offrirsi quale stabile fondazione della comunità giuridico-politica,
avvicinando per converso l’impressione che tale concetto sia da Kant elaborato
quale mero “auspicio della ragione”. Quest’impressione dev’essere rigettata, anche
se la precisazione posta dall’autore richiede di essere riportata al quadro interpreta-
tivo fin qui offerto. L’indicazione kantiana rappresenta anzi la possibilità di inqua-
drare più compiutamente il regno dei fini, ridefinendo la tesi fino a qui sostenuta in
un senso più ampio e completamente interno alla dimensione del criticismo.
Al fine sgombrare il campo interpretativo da possibili zone d’ombra è bene
esplicitare appieno tale difficoltà, ricordando che il regno dei fini viene in differen-
ti contesti qualificato sia come idea30, sia come idea pratica31 sia, appunto, come
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30 «Anche se il regno della natura, al pari del regno dei fini, fosse pensato come unito sotto un capo
supremo e per questo motivo il secondo non restasse più una mera idea [blo?e Idee] ma ottenesse
realtà effettiva, quell’idea ne ricaverebbe un vigoroso movente ma non un incremento del suo valore
intrinseco; giacché, nonostante ciò, questo legislatore unico e illimitato dovrebbe essere rappresenta-
to come tale da giudicare il valore degli esseri ragionevoli solo secondo la loro condotta disinteressa-
ta prescritta a loro stessi meramente a partire da quella idea» (GMS, IV 439 [124]).31 «La teleologia considera la natura come un regno dei fini, la morale considera invece un possibile
regno dei fini come un regno della natura. Nel primo caso il regno dei fini è un’idea teoretica per la
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ideale32. Sono questi ultimi, come noto, termini tecnici e chiave del criticismo, che
il filosofo di Königsberg definisce con grande accuratezza nella Critica della ragionpura e di cui risulta opportuno ora ricordare i principali profili concettuali.
Kant si intrattiene sulle nozioni di idea, idea pratica e di ideale nella Dialetticatrascendentale della prima Critica. In particolare, nella sezione del primo libro
della Dialettica intitolata Delle idee in generale, per offrire una definizione di idea,
Kant prende le mosse dal significato del termine presente in Platone per elaborarlo
autonomamente (KrV, III 246, B 370 [246-247]).
Ognuno [...] vede che, quando gli sia proposto un uomo come modello di virtù, ha tut-
tavia sempre presente solo nella sua propria testa il vero originale, con cui paragona il
preteso modello, e alla cui stregua soltanto l’apprezza. Ora questo originale è l’idea
della virtù [...] Ogni giudizio sopra il valore o disvalore morale è infatti possibile sol-
tanto mediante questa idea; e perciò essa sta necessariamente a fondamento [zumGrunde] di ogni approssimazione alla perfezione morale, per quanto anche gli impedi-
menti, il cui grado non è determinabile, propri dell’umana natura, possano tenercene
lontani (KrV, III 247, B 371-372 [247-248]).
Kant chiarisce dunque il concetto di idea qualificandola come un exemplum di
perfezione non ricavabile dall’esperienza, un modello che eccede ogni copia e, allo
stesso tempo, la norma in base alla quale è possibile giudicare e valutare ogni esem-
pio di perfezione che è dato nell’esperienza33. È modello di perfezione in confor-
mità del quale all’essere ragionevole è richiesto non tanto di conoscere, quanto di
agire: l’idea costituisce così il fondamento di ogni nostro approssimarci ad essa tra-
mite l’agire, di ogni nostro tentativo di realizzarne appieno il contenuto di perfezio-
ne. Torneremo tra poco su questo punto.
Sviluppando ulteriormente il discorso, nella sezione intitolata Delle idee trascen-dentali viene introdotta specificamente la nozione di idea pratica della ragione:
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spiegazione di ciò che esiste. Nel secondo è un’idea pratica mediante la quale può diventare reale, tra-
mite il nostro fare e omettere, ciò che qui non esiste, e lo può in conformità di questa stessa idea»
(GMS, IV 436 [121]).32 «Infatti gli esseri ragionevoli sono tutti sottoposti alla legge secondo cui nessuno deve mai trattare
se stesso o gli altri semplicemente come mezzi, ma sempre allo stesso tempo come fini in sé. Dal che
deriva una unione sistematica di esseri ragionevoli mediante leggi oggettive comuni, ossia un regno
che, per il fatto che queste leggi hanno per scopo il rapporto reciproco di questi esseri come fini e
mezzi, può essere detto regno dei fini (il quale, in verità, è null’altro che un ideale)» (GMS, IV 433
[116], l’ultimo corsivo è mio).33 Kant ribadisce tali caratteristiche anche più oltre (KrV, B 377 e 383 [250 e 254]) e in molti altri luo-
ghi. Cfr. Refl. n. 2835-2837, XVI 536-540; Rth, 1058 [187]; LP, 565; WL, XXIV 906 [179-180];
Metaph L2, XXVIII 577; Anthrop., 120 [620]. Mi sono specificamente trattenuto sul tema in A. Pirni,
L’idea platonica e la destinazione pratica del conoscere nella Critica della ragion pura di Kant, in«Studi Urbinati», LXXI-LXXII (2001-2002), pp. 767-790.
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l’idea della ragion pratica può sempre essere data realmente, anche se solo parzialmen-
te in concreto, anzi essa è la condizione indispensabile di ogni uso pratico della ragio-
ne. […] Ond’è che l’idea pratica è sempre altamente feconda e, rispetto alle azioni reali,
inevitabilmente necessaria [unumgänglich nothwendig]. In essa la ragion pura ha perfi-
no la causalità di produrre realmente ciò che il suo concetto contiene […] (KrV, III 254,
B 385 [254-255]).
L’idea, nella sua valenza pratica, è inevitabilmente necessaria; può e deve eser-
citare un costante influsso sulla realtà esistente, riuscendo in ciò a causare la pro-
duzione del suo concetto nella realtà. La funzione specifica dell’idea pratica è dun-
que quella di intervenire e presiedere alla modifica della realtà in senso migliorati-
vo, approssimandola indefinitamente alla perfezione morale. L’indeterminatezza di
cui la nozione di idea sarebbe dotata risulta perfettamente coerente e addirittura
imprescindibile laddove essa si specifica come idea pratica. A questo livello, infat-
ti, l’indeterminatezza non sarebbe null’altro che l’espressione del carattere di uni-versalità della legge morale che l’idea pratica implica in sé. Poiché l’idea «dà la
regola», deve strutturarsi in modo da consentire a tale regola di valere «sempre ed
in ogni luogo». Rispetto a questa esigenza risulta funzionale pensarla come indeter-
minata e proprio per questo diviene istanza normativa universalizzabile a livello
formale, al pari dell’imperativo categorico.
La trattazione del concetto di ideale subentra poco oltre, sempre all’interno
della Dialettica trascendentale. Ad una prima analisi, l’affinità concettuale fra ideae ideale sembra evidente. Entrambe le nozioni racchiudono un maximum di perfe-
zione ed entrambe si presentano alla ragione come norma o criterio in base al quale
giudicare gli esempi di perfezione34. È tuttavia possibile individuare significativi
caratteri di distinzione, accanto a quelli di indubbia somiglianza. Nella sezione inti-
tolata Dell’ideale in generale Kant definisce in questi termini il concetto di ideale:
«[...] io dico ideale [Ideal] [...] l’idea [...] in individuo, cioè come una cosa partico-
lare, determinabile o addirittura determinata soltanto mediante l’idea» (KrV, III
383, B 596 [366]). L’ideale è un’idea che contiene tutte le determinazioni della sua
perfezione in un modello individuato e preciso35. L’idea è concetto della ragione
che si caratterizza per la sua universalità ed indeterminatezza: come non esiste una
compiuta realizzazione dell’idea, così non esiste neppure un adeguato pensiero di
tale realizzazione. L’ideale consente di evitare quest’ultima conseguenza; infatti,
grazie alla sua determinatezza, offre la pensabilità della realizzazione dell’idea.
Inoltre, costituendosi come modello mentale di una «cosa particolare» (einzelnes),
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34 Cfr. KrV, III 248, B 373 [249] e KrV, III 383-385, B 597 [366-367].35 Kant cerca di chiarire questo assunto poco oltre, utilizzando ancora una volta un riferimento con-
cettuale desunto dall’ambito morale: «La virtù e con essa la sapienza umana, in tutta la loro purezza
sono idee. Ma il sapiente (dello stoico) è un ideale, cioè un uomo, che esiste solo nel pensiero, ma cor-
risponde pienamente all’idea della sapienza» (KrV, III 384, B 597 [366-367]).
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permette di riconoscere in esempi realmente esistenti altrettante approssimazioni
alla sua perfetta realizzazione.
Ma Kant sviluppa ulteriormente il discorso, introducendo ulteriori precisazioni:
«Come l’idea dà la regola [die Regel], così l’ideale [...] serve da archetipo [dientzum Urbilde] alla perfetta determinazione della copia» (KrV, III 366, B 597-598
[367]). Mentre l’ideale pone il modello di perfezione completamente determinato,
l’idea offre la regola, ovvero guida le modalità operative di realizzazione dell’idea-le grazie al carattere di obbligatorietà che la regola in quanto tale possiede.
Quest’intera prospettiva concettuale è implicitamente richiamata da Kant nel
contesto della nozione di regno dei fini, nel momento in cui essa è qualificata come
idea, come idea pratica e come ideale. L’applicazione di tali determinazioni per-
mette anzi di cogliere ed esplicitare la nozione di regno dei fini in tutte le sue valen-
ze. In quanto idea, esso si costituisce come criterio in base al quale giudicare l’a-
zione e la condotta di ogni agente morale rispetto ad ogni altro. Non si dimentichi
infatti che ogni membro del regno dei fini deve essere trattato sempre al tempo stes-
so come fine oltre che come mezzo. Inoltre, in quanto idea pratica, esso acquisisce
il rango di concetto «inevitabilmente necessario» per la ragione nel suo uso pratico;
può e deve divenire reale per effetto del nostro agire e tramite l’influsso che tale
idea esercita su di esso. Infine, in quanto idea e idea pratica, anche il regno dei fini
«dà la regola», ovvero implica l’ultima formula dell’imperativo categorico com-
prensiva di tutte le precedenti36.
Il regno dei fini era per altro stato qualificato da Kant anche come ideale. A que-
sto punto risulta chiara la specificità di tale definizione. Esso è un ideale perché è
l’idea della moralità in individuo, in una esemplificazione paradigmatica, «comple-
tamente determinata», ovvero sottostante, come l’ideale trascendentale, al princi-
pio della determinazione completa. Il regno dei fini dunque, al pari dell’ultima idea
della ragione – l’ideale appunto –, prodotta per dare una suprema unità a priori alle
diverse conoscenze della ragione, anche da questo punto di vista si legittima come
una prospettiva ultima ed onnicomprensiva dell’intera trattazione dell’imperativo
categorico, che riesce a costituire un’unità a priori delle possibili azioni dei diversi
soggetti morali37. Esso è una totalità le cui parti – in questo caso i membri – risul-
tano collegati in maniera sistematica fra loro. L’idea della moralità pensata come
realizzata in individuo non sarebbe altro che l’ideale del regno dei fini.
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36 «Agisci in base alle massime di un membro legislatore universale in vista di un regno dei fini sem-plicemente possibile» (GMS, IV 439 [123-124]).37 È curioso notare come la qualificazione di ideale a proposito del regno dei fini non sia stata sostan-zialmente mai problematizzata dagli interpreti. Tale mancanza è ancor più evidente in uno studio spe-cifico come quello di Claude Piché (Das Ideal: Ein Problem der Kantischen Ideenlehre, Bouvier,Bonn, 1984). L’autore distingue all’interno della filosofia pratica kantiana ben quattro forme di idea-le – l’ideale del sommo bene, della felicità, della santità e della saggezza – e, mentre utilizza il testodella Fondazione della metafisica dei costumi a proposito dell’ideale della felicità (pp. 131-138), nonnomina neppure il regno dei fini.
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Si può dunque conclusivamente sostenere che il regno dei fini, se in quanto ideaoffre la regola, la modalità operativa, ovvero l’imperativo categorico, in quanto
ideale costituisce un archetipo di perfezione precisamente individuato – la comu-
nità degli esseri ragionevoli – la cui realizzazione ci è comandata in modo assolu-
to, sia a livello dell’interiorità, come comunità etica e corpus mysticum, che a quel-
lo dell’esteriorità, ovvero sul piano giuridico-politico.
Rispetto a quest’ultimo piano, e alla peculiare declinazione del regno dei finicome fondazione della comunità giuridico-politica, possono essere sviluppate alcu-
ne considerazioni ulteriori. Innanzitutto, rifacendosi ancora alle definizioni sopra
ricavate, mentre, in quanto idea, il regno dei fini si pone a fondamento (zumGrunde) di ogni tentativo di approssimazione ad esso sul piano dell’effettiva e pun-
tuale implementazione del concetto di diritto da parte di ogni singolo Stato, in quan-
to idea pratica ne è la causa prima e strutturale che esprime la regola (formale) del
reciproco rispetto della libertà altrui nella sua validità universale. Infine, in quanto
ideale, costituisce il modello al quale tendere, l’archetipo di ogni possibile comu-
nità giuridica reale, nella quale la libertà ed i fini propri di ogni essere ragionevole
sono resi compossibili e, pur nel rispetto di ognuno in particolare, sono armonizza-
ti e ricondotti ad un’uniformità di regole che garantisce la coesistenza di ognuno
con ogni altro, ovvero la condivisione dello stesso spazio e dello stesso tempo da
parte di più esseri ragionevoli38.
Nel costituirsi e nel poter essere compreso, allo stesso tempo, come fondamen-to, causa e modello della comunità giuridico-politica, il regno dei fini apre intorno
e a partire da sé una prospettiva ed uno spazio (Raum) di normatività che travalica
ogni possibile luogo fisico (Ort). In quanto idea della ragione il regno dei fini è
infatti dotato di realtà oggettiva (objektive Realität) – ovvero del carattere di non
controvertibilità razionale che legittima la possibilità ma non la garanzia dell’espe-
rienza di tale peculiare realtà – eppure non di wahre Realität, di realtà, appunto,
effettiva, analoga a quella oggettuale e fenomenicamente esperibile.
È dunque un non-luogo ma, al tempo stesso, racchiude in sé la possibilità infi-
niti luoghi, differenti ma potenzialmente anche toto cielo divergenti dalle effettive
spazialità fenomenico-politiche esistenti. Il regno dei fini si comprende dunque
come un luogo sui generis, decisamente altro rispetto ad ogni possibile spazio rea-
lizzabile dall’uomo nella sua concreta prassi e ideale al punto da non poter essere
eguagliato da nulla di realmente esistente, che tuttavia non può non orientare e quin-
di, in ultima istanza, fondare ogni possibile agire politico che intenda non sottrarsi
all’imperativo della ragione pura pratica.
È un non luogo, che però, al tempo stesso, individua per ogni essere ragionevo-
le una Stelle, un posto ben definito entro il quale ognuno, in maniera apparentemen-
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38 Mi sono trattenuto specificamente su questo tema in A. Pirni, La sfida della convivenza, in
«Fenomenologia e Società», XXX, 2007, n. 4, pp. 98-105.
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te paradossale, deve sentirsi chiamato a prendere posizione (Stellungsnahme) e a
collocare il proprio agire: il luogo della consapevolezza di trovarsi in un’«unione
sistematica» con ogni possibile essere ragionevole «mediante leggi oggettive comu-
ni». In questo spazio, al tempo stesso fisso eppure fluido, razionalmente definibile
ed indefinitamente interpretabile nella prassi, ognuno è chiamato alla propria
responsabilità per sé e per ogni altro che è coinvolto nella medesima destinazione
pratica del proprio agire. Qui la consapevolezza di quel regno diventa concretamen-
te operante, fonda la possibilità dell’agire in direzione del suo promuovimento e
causa l’effettiva azione conforme all’imperativo categorico, aprendo al tempo stes-
so la costitutiva e condivisa speranza che quel non luogo, in un qualche tempo e in
un qualche spazio, si trasformi nel suo contrario.
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