STEFANO LUCARELLI - UniBg di Etica... · 2019. 11. 18. · 1 STEFANO LUCARELLI CORSO DI ETICA E...
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STEFANO LUCARELLI
CORSO DI ETICA E POLITICA ECONOMICA
DUMCI A.A. 2019-2020
APPUNTI DI ETICA E POLITICA ECONOMICA
SECONDA PARTE
The problem of maintaining equilibrium in the balance of payments between countries has never been solved, since methods of barter gave way to the use of money and bills of exchange. […] [T]he failure to solve this problem has been a major cause of impoverishment and social discontent and even of wars and revolutions J. M. Keynes, ‘Post‐war currency policy’ [8 September 1941], in The Collected Writings of John Maynard Keynes, 1971–89. London and Cambridge: Macmillan and Cambridge University Press [henceforth CWK], vol. 25, p. 21.
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ASCESA E DECLINO DEL KEYNESISMO1
La politica economica e la politica economica dopo Keynes, dipendono moltissimo dalla struttura teorica
di riferimento:
nel corso della storia che va dal dopo-guerra sino ai nostri giorni, la politica economica dipenderà
sempre di più dalla possibilità di verificare empiricamente le relazioni ipotizzate dalle teorie
economiche.
Almeno fino a tutti gli anni ‘60 compresi, la maggior parte del dibattito di politica economica è giocato
su un’analisi di carattere logico-matematico
Il Keynes del 1936, e tutta la scuola di Cambridge almeno fino agli anni ’70, innova l’analisi tradizionale
sostenendo che le variabili da cui dipende la funzione del risparmio e le variabili da cui dipende la
funzione di investimento sono variabili diverse tra di loro:
i risparmi dipendono dal reddito ma gli investimenti, oltre che dal tasso d’interesse monetario di breve
periodo, fissato dalla Banca Centrale (prima indirettamente attraverso la fissazione della quantità
offerta di moneta, poi direttamente), dipendono anche dalle aspettative. Quindi il policy maker non può
più pensare di agire su un’unica variabile per riportare l’equilibrio, ma deve fare cose diverse:
le politiche monetarie espansive potrebbero fallire in caso di trappola della liquidità e allora bisognerà
agire sulle aspettative attraverso la domanda effettiva. Si dovrà quindi intervenire sulle politiche fiscali
e in particolare sulla spesa pubblica.
Nelle democrazie occidentali, l’istituzione che decide come utilizzare le risorse pubbliche, e come
reperirle è il Ministro del Tesoro insieme al Parlamento. Le coperture possono essere trovate
innanzitutto attraverso il gettito fiscale oppure, a gettito fiscale invariato, spostando l’allocazione delle
poste di bilancio.
Keynes nella General Theory aveva posto l’attenzione su uno strumento: il moltiplicatore. Se ipotizziamo
che ciascun settore industriale abbia un proprio moltiplicatore keynesiano, converrà assegnare
maggiori risorse ai quei settori che sono a monte della catena del valore e che hanno effetti moltiplicativi
maggiori sul reddito dell’intero sistema. Se si spostano risorse da spese improduttive a spese produttive,
si dovrebbe riuscire ad avere risorse maggiori per poter impiegare la spesa pubblica in modo efficace,
ossia in modo tale da migliorare le aspettative dal punto di vista degli imprenditori stessi.
L’ultima alternativa, che per Keynes è l’ultima spiaggia, è il deficit spending. La politica keynesiana, per
come descritta da Keynes, non è una politica che normalmente ricorre alla spesa in deficit, ma ricorre
1 Questi appunti devono molto all’attenzione e alla cura di Tommaso Bonnici e Silvia Monaci. Si basano infatti su una prima stesura da loro redatta nel II semestre 2018-2019 durante le mie lezioni di Politica Economica (corso di laurea triennale in Economia). Sono poi intervenuto con personali integrazioni e precisazioni (Stefano Lucarelli).
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ad essa solo in fasi del ciclo economico caratterizzate da una profonda depressione, per poi stoppare il
deficit in fasi caratterizzate da un ciclo economico ascendente.
Tra gli anni ‘40 e gli anni ‘50 si assiste ad un netto miglioramento delle statistiche nazionali, soprattutto
negli USA. Gli istituti di statistica nazionali iniziano a raccogliere molti più dati. Iniziano ad esserci i primi
lavori volti a giustificare proprio le forme funzionali ipotizzate da Keynes e dai suoi allievi. Il dibattito è
tale per cui alcuni economisti, in particolar modo Jhon Hicks, Alvin Hansen, Franco Modigliani e Milton
Friedman, tendono a convergere sull’idea che sia gli investimenti che i risparmi dipendano dal tasso di
interesse e dal reddito. Se entrambe le due funzioni possono dipendere dalle stesse variabiliallora il
quadro teorico su cui esercitare le riflessioni degli economisti può essere rappresentato dal modello IS-
LM. Si tratta di ciò che passerà alla storia come sintesi neoclassica la quale riconduce una teoria generale,
quella di Keynes, a un caso particolare del modello di EEG. Keynes viene quindi ridotto al caso della
trappola della liquidità.
Il modello IS-LM e la politica economica
Come ricavare la posizione e la pendenza della curva IS e della curva LM nel piano?
Il modello teorico prevede una serie di equazioni che devono essere svolte per passare dalla forma
strutturale alla forma ridotta del modello: oltre alle classiche funzioni keynesiane che definiscono
consumi, investimenti e reddito complessivo, si definiscono la domanda di moneta reale e l’offerta di
moneta reale:
𝑀𝐷𝑃= 𝐿 = 𝑒𝑌 − 𝑓𝑖 𝑀𝑆 =
𝑀
𝑃
La domanda di moneta reale viene fatta dipendere dal reddito con segno positivo e dal tasso di interesse
con segno negativo. Ricordiamo che l’offerta di moneta reale, nel modello keynesiano, è fissata dalla
Banca Centrale. Oltre a queste due funzioni introduciamo anche la condizione di equilibrio:
𝑀𝐷 = 𝑀𝑆
Per passare alla forma ridotta del modello risolviamo il sistema e facendo tutte le sostituzioni del caso
si trova una funzione che specifica il reddito 𝑌 e una funzione che esprime invece il tasso di interesse 𝑖
in dipendenza di 𝑌 e dell’offerta di moneta in termini reali. Si tratta proprio delle relazioni che
definiscono le curve IS e LM:
{
𝑌 =𝐶0 + 𝐼0 + 𝐺 − 𝑑𝑖
1 − 𝑐
𝑖 =𝑒
𝑓𝑌 −
1
𝑓
𝑀
𝑃
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Per risolvere questo modello dobbiamo ottenere sia il valore di 𝑌 che il valore di 𝑖, pertanto la forma
ridotta del modello sarà quella in cui abbiamo espresso 𝑌 sostituendo il valore di 𝑖 nella prima
equazione. Una volta ottenuto 𝑌 lo sostituiamo invece nella seconda equazione.
Le due variabili obiettivo 𝑌 e 𝑖 sono funzioni delle variabili esogene (e fra queste vi sono gli strumenti di
politica economica): la spesa pubblica 𝐺, l’offerta di moneta 𝑀, il livello dei prezzi 𝑃 e le due grandezze
incomprimibili 𝐶0 e 𝐼0. Oltre a queste grandezze sono poi presenti dei parametri che è possibile stimare
(c, d, e, f).
Se riscriviamo l’equazione che risolve il problema in 𝑌 chiamando 𝐴0 la somma dei consumi e degli
investimenti incomprimibili, definendo
𝛼 =1
(1 − 𝑐) +𝑒𝑑𝑓
𝑒 𝛽 =1
(1 − 𝑐)𝑓
𝑑 + 𝑒
otteniamo un’equazione immediatamente interpretabile in termini di politica economica:
𝑌 = 𝛼(𝐴0 + 𝐺) + 𝛽 (𝑀
𝑃)
Questa equazione ci dice che gli strumenti che il policy maker ha a disposizione sono la spesa pubblica e
l’offerta di moneta.
I modi attraverso i quali questi due valori si trasmettono sulla variabile obiettivo sono sintetizzati da
due coefficienti:
1. 𝛼, il moltiplicatore della politica fiscale, che mi dice come le manovre di spesa pubblica si
trasmettono sul reddito.
2. 𝛽, il moltiplicatore della politica monetaria, che mi dice come le manovre di politica monetaria
si trasmettono sul reddito.
Da cosa dipendono 𝛼 e 𝛽? Innanzitutto dipendono dalla propensione marginale al consumo (c): una
variabile di carattere psicologico, stimabile ma pur sempre dipendente dal modo di pensare degli agenti
economici. Per sapere cosa sono 𝑒, 𝑑 e 𝑓 dobbiamo ritornare al modello espresso in forma strutturale. 𝑑
è la propensione marginale ad investire, che ha a che fare con i mutamenti delle aspettative degli
imprenditori successive alle variazioni del tasso di interesse. 𝑒 ed 𝑓 sono invece i coefficienti che
spiegano la quota di domanda di moneta per scopi transattivi e scopi speculativi.
Questo modello è condizionato da un’ipotesi restrittiva in particolare:
i prezzi sono considerati fissi.
In generale l’andamento delle due curve è simmetrico: la IS dovrebbe
avere una forma decrescente all’aumentare del reddito, tale per cui a
riduzione del tasso di interesse il reddito aumenta sul mercato reale.
In un mondo non affetto dalla trappola di liquidità, gli investimenti
reagiscono infatti al tasso di interesse secondo una relazione inversa:
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la diminuzione del tasso di interesse fa aumentare gli investimenti. La relazione tra tasso di interesse e
reddito nella LM presuppone invece un andamento crescente della LM: ciò significa che un incremento
del tasso d’interesse produce un incremento del redito monetario.
Il tipo di analisi condotta rappresenta una situazione che lascia alla stima dei coefficienti, in particolar
modo di 1 − 𝑐, 𝑑,𝑒
𝑓, il compito di comprendere se ci troviamo in un caso keynesiano oppure in un caso
(neo)classico.
1° caso keynesiano estremo
In questo caso la curva IS è decrescente mentre la LM è orizzontale.
Pertanto il coefficiente riferito al tasso di interesse (𝑒
𝑓) è nullo: 𝑒
vale 0 oppure 𝑓 tende all’infinito. Una politica fiscale espansiva
genera allora uno spostamento della curva IS verso destra. Il tasso
d’interesse non aumenta e quindi non trasmette i suoi effetti al
reddito. In questo caso l’unica politica economica efficace è
proprio quella fiscale. Grazie alle politiche fiscali attuate si riesce
ad uscire dalla crisi e di conseguenza anche dalla trappola di liquidità: il tasso d’interesse torna quindi
a cresce al crescere del reddito e quindi la LM torna ad avere la classica forma crescente. Nel nostro caso,
dopo il punto 𝑌∗, continuando a fare una politica fiscale espansiva si ha un aumento del tasso di interesse
monetario perché quando il reddito cresce la domanda di liquidità per scopi transattivi aumenta, mentre
l’offerta di moneta rimane costante. Visto che il prezzo della moneta è rappresentato dal tasso di
interesse monetario, il tasso di interesse inizia a crescere. Dal punto di vista degli imprenditori ciò
comporta la presenza dell’effetto di spiazzamento: l’aumento della spesa pubblica da un lato migliora le
aspettative degli operatori e ne aumenta la propensione a investire, ma dall’altro, spingendo in alto il
tasso di interesse, dopo un certo livello del reddito complessivo (Y*), può ridurre gli investimenti privati.
Questo argomento viene introdotto da Milton Friedman (economista di punta della così detta scuola
monetarista di Chicago) per sostenere come la politica fiscale espansiva possa essere dannosa.
1° caso monetarista estremo
Il punto di vista dei monetaristi sulla forma della curva LM nel lungo
periodo è dato dal grafico qui riportato, dove 𝑌 è al livello
corrispondente al tasso naturale di disoccupazione, cioè al reddito di
pieno impiego. Quando la curva LM è verticale e viene attuata una
politica fiscale espansiva la curva IS sale e quindi si ha spiazzamento
completo: la politica fiscale diviene addirittura dannosa per il sistema
e viene pagata dalla società in termini di peggiori condizioni di
finanziamento causate dall’incremento del tasso di interesse
monetario.
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Nel caso keynesiano, in cui la curva LM è orizzontale, la politica fiscale ha efficacia piena mentre la
politica monetaria non ha efficacia in quanto l’abbassamento del tasso di interesse non fa reagire in
alcun modo la curva IS. Nel caso monetarista invece, in cui la curva LM viene rappresentata come
verticale, la politica monetaria espansiva è efficace perché provoca un chiaro aumento del reddito.
Quello che ci si chiede è se, trovandosi in una situazione di reddito di pieno impiego, l’incremento della
moneta in circolazione, che sposta la LM, possa creare le condizioni perché il livello del reddito aumenti
ulteriormente. Friedman si rende conto che la politica monetaria espansiva può essere in grado di agire
sul tasso di disoccupazione naturale del sistema mettendo in moto dei meccanismi strutturali sorretti
dal progresso tecnologico, ma l’indicazione di politica economica presente nei suoi insegnamenti è
quello di sostenere che la politica monetaria deve innanzitutto evitare situazioni di espansione poco
controllata. Di conseguenza la Banca Centrale deve controllare l’offerta di moneta e il tasso di crescita
di questa, assegnandosi un obiettivo: un tasso di crescita dell’offerta di moneta compatibile con il livello
di disoccupazione “naturale”.
2° caso keynesiano estremo
Vediamo adesso che cosa succede alla curva IS nel momento in cui le
variazioni del tasso di interesse non si riflettono sul reddito.
𝐸𝑞𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝐼𝑆: 𝑌 =𝐶𝑜 + 𝐼𝑜
1 − 𝑐+
𝐺
1 − 𝑐−
𝑑𝑖
1 − 𝑐
Se la curva IS è una retta verticale vi sono due possibilità: o 𝑑 vale zero,
quindi le variazioni del tasso di interesse non si trasmettono sugli
investimenti, oppure 1 − 𝑐 tende all’infinito, cioè la propensione
marginale al consumo è molto grande e crea una situazione in cui le scelte d’investimento non
considerano il tasso di interesse. La politica monetaria espansiva in questo caso non è efficace perché
gli spostamenti a destra della LM comportano un’assenza di reazione del reddito. Quindi la politica
economica efficace è solamente quella fiscale espansiva, la quale agisce direttamente sulla curva IS,
creando una situazione che però è caratterizzata da un leggero spiazzamento degli investimenti dovuto
dall’aumento del tasso di interesse. L’effetto di spiazzamento è minore quanto più è piatta la curva LM.
La sfida tra la scuola di Chicago (di stampo neoclassico) e la scuola del MIT di Boston (keynesiana)
comporta che gli uffici statistici di Chicago tendano ad utilizzare delle tecniche di stima volte a
dimostrare che la curva LM sia verticale, mentre gli istituti statistici del MIT tendano a specializzarsi su
tecniche econometriche che sostengono che la curva LM non sia verticale ma solo leggermente inclinata.
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La variabilità dei prezzi e il modello AS-AD
Abbiamo già detto che il modello IS-LM si basa in
particolare su un’ipotesi che dovrebbe essere
indebolita: l’idea che i prezzi siano fissi.
Consideriamo infatti il grafico qui riportato, dove si
considera il tasso di crescita dei prezzi (tasso di
inflazione) negli USA. Nel periodo storico cerchiato,
tra il 1950 e 1971, vediamo che l’inflazione rimane
stabile. Negli interessi degli economisti di quegli anni il problema dell’inflazione appariva trascurabile.
Dal 1971 in poi si verifica le cose cambiano: iniziano gli anni della stagflazione (stagnazione e inflazione
insieme), il livello dei prezzi aumenta eppure non si registrano crescite del PIL. È proprio in questo
periodo che i monetaristi diventano più ascoltati dai policy maker.
Il modello AS-AD viene rappresentato su un piano cartesiano in cui non si mettono più in relazione il
tasso di interesse e il reddito, bensì i prezzi e il reddito.
La curva AD è una curva di domanda aggregata che viene
rappresentata a partire dal modello IS-LM. Per capire la sua forma
vediamo cosa accade nel modello IS-LM quando variano i prezzi. In
seguito ad un calo dei prezzi, innanzitutto aumenta il potere di
acquisto e, in termini reali, 𝑀
𝑃 aumenta. Poiché aumenta l’offerta di
moneta, la LM si sposta verso destra, determinando un aumento
del reddito. Quindi, se si supera l’ipotesi di rigidità del livello dei prezzi nel modello IS-LM, una riduzione
del livello dei prezzi comporta, attraverso ciò che accade al livello dell’offerta di moneta, un incremento
del livello del reddito. L’inclinazione negativa della AD può essere
quindi spiegata sia dal fatto che la riduzione dei prezzi aumenta
l’offerta di moneta reale, sia dal fatto che il tasso di interesse deve
diminuire per mantenere in equilibrio il mercato monetario e ciò fa
aumentare gli investimenti, sostenendo il reddito.
Per rappresentare la curva AS si parte dall’analisi del mercato del
lavoro, in particolare dall’analisi di Franco Modigliani. Modigliani
sostiene che la curva di offerta abbia la forma riportata qui affianco perché ad un certo punto si incontra
una situazione di pieno impiego delle risorse e quindi la curva di offerta presenta un tratto verticale.
Questo dipende anche dall’analisi che dal punto di vista statistico Modigliani fa sull’andamento dei salari
in Italia, coinvolgendo Ezio Tarantelli. Insieme pervengono al seguente ragionamento: i salari variano
perché qualcuno chiede che varino o, in altre parole, perché qualcuno chiede un aumento dei salari in
seguito ad un aumento del costo della vita. Per questo motivo è necessario considerare la variazione dei
prezzi al tempo 𝑡 − 1, anche se ciò non basta. Dal punto di vista empirico occorre considerare che il
Y
P
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cambiamento delle condizioni materiali tra datori di lavoro e lavoratori impatta sul livello dei salari. La
seconda variabile rilevante per quanto riguarda il livello salariale è infatti la differenza tra il livello di
disoccupazione naturale e il livello di disoccupazione effettivo, osservabile al tempo 𝑡 − 1: i lavoratori
infatti sono più forti quando si è più vicini al pieno impiego (fabbriche con molti lavoratori che
rivendicano i propri diritti contro pochi datori). In altri termini, quanto più si è vicini al pieno impiego,
tanto più si riusciranno a strappare aumenti salariali più alti, e viceversa.
Va poi considerata anche la produttività del lavoro, misurata rapportando il reddito al numero di ore
lavorate. La relazione che sussiste è diretta: se aumenta la produttività del lavoro aumentano anche i
salari.
Infine c’è un’ulteriore variabile che misura la forza dei sindacati: le ore di sciopero, correlate
positivamente all’aumento dei salari (anche se oggi non è più significativa questa rivendicazione).
Questa ipotesi resta vera fino alla marcia dei 40 mila avvenuta nel 1980: è il momento in cui a scendere
in piazza non sono più gli operai, ma i dirigenti.
Nel momento in cui abbiamo un’equazione dei salari costruita su queste variabili, si può ricavare una
teoria dei prezzi legata a quella dei salari:
∆𝑊 = 𝑎∆𝑃𝑡−1 + 𝑃 + 𝑏(𝑢∗ − 𝑢𝑡−1) + 𝑣 (
𝑌
𝐿ℎ) + 𝑧(𝑆ℎ)
Quindi:
𝑃 = 𝑊𝑡 + µ𝑘
In questa equazione µ𝑘 è il mark-up e tiene in considerazione il potere di mercato detenuto dalle
imprese. La teoria economica dei prezzi compatibile con questa analisi empirica presuppone che non ci
si trovi in concorrenza perfetta, in cui i prezzi reagiscono ai salari in base al livello di concorrenza
presente nel sistema, ma è tale per cui le imprese sono in grado di fare pagare i loro incrementi di salario
aggiustando i prezzi. Questo secondo Modigliani e Tarantelli crea un circolo vizioso in cui i salari
aumentano e di conseguenza anche i prezzi, il cui aumento porta ad un ulteriore aumento dei salari e
così via. Questa situazione è l’origine del boom inflazionistico degli anni ‘70. Al crescere della
produzione, l’occupazione aumenta e la disoccupazione diminuisce: aumenta la forza contrattuale dei
lavoratori e di conseguenza i salari tendono ad aumentare. Ma questo, come abbiamo appena visto,
spinge le imprese ad aumentare i prezzi che sono stati stabiliti con la regola del mark-up, in quanto
esiste sempre una concorrenza monopolistica.
Esiste una relazione positiva tra il livello della produzione e il livello dei prezzi: ad ogni incremento della
produzione è associato un incremento dei prezzi che passa attraverso l’incremento dei salari. Quando
però si arriva al pieno impiego i prezzi continueranno a crescere mentre la produzione si ferma, ed è qui
che sorgono i problemi.
In questo modello si possono rianalizzare le politiche economiche viste nel precedente modello. Quando
aumenta l’offerta di moneta la curva AD si sposta verso l’alto e i prezzi aumentano: l’incremento
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dell’offerta di moneta aumenta le scorte monetarie reali e fa sì che il reddito aumenti, che a sua volta
induce incrementi salariali. Le imprese trasferiscono incrementi salariali sul livello dei prezzi e ciò
spiega perché una politica monetaria espansiva possa creare effetti inflazionistici. Inoltre l’incremento
della domanda può incontrare anche in questo modello situazioni di spiazzamento più ci si avvicina al
livello di piena occupazione. Ma quanto tempo passa prima che gli incrementi dei salari nominali
generino un incremento dei prezzi?
In altre parole, che tempi ci vogliono per passare dal breve al lungo periodo?
Iniziamo a vedere quali sono le differenze tra breve periodo e lungo periodo. Nel breve periodo il
capitale viene considerato come fisso e quindi non si considerano variazioni delle condizioni tecniche
della produzione. Le imprese possono fare profitti positivi nel breve periodo, mentre nel lungo periodo
i profitti realizzati divengono nulli. Inoltre nel lungo periodo si ha una situazione in cui è impossibile
porre barriere all’entrata: vi è una libera entrata di competitor potenziali in un mercato. Tra breve e
lungo periodo cambiano quindi delle condizioni qualitative. La variabile chiave per comprendere il
comportamento degli agenti nel breve e nel lungo periodo è stata introdotta da Keynes, il quale la
riferisce alle caratteristiche psicologiche degli operatori, ma solo la scuola di Chicago svilupperà in un
modo analitico una teoria delle aspettative: prima proponendo una teoria delle aspettative adattive, per
poi affermarsi nel dibattito teorico e di politica economica grazie alla teoria delle aspettative razionali.
La teoria delle aspettative adattive
L’introduzione di una particolare teoria delle aspettative che fa sì che il comportamento degli agenti
possa cambiare tra breve e lungo periodo, spiega la non stabilità della curva di offerta. Se una funzione
non è stabile nel tempo innanzitutto viene rappresentata nel breve e nel lungo periodo in due modi
differenti. Inoltre ciò significa che quando vengono fatti degli studi empirici, i risultati della stima sono
meno attendibili: una funzione che non è stabile nel tempo non può dare un coefficiente (cioè un indice
che descrive in media il modo in cui la variabile dipendente reagisce a variazioni di quella indipendente)
stabile. Si tratta di un problema che si collega con quella parte dell’analisi della politica economica che
riguarda il cambiamento del comportamento degli agenti economici.
Dal punto di vista delle equazioni, Milton Friedman e i suoi colleghi, riscontrano una differenza tra
l’aspettativa dei prezzi nel presente (Pet e l’aspettativa dei prezzi nel recente passato Pet-1).
𝑃𝑒t – 𝑃𝑒𝑡−1 = 𝛼 (𝑃𝑡−1 – 𝑃𝑒𝑡−1)
La differenza tra le aspettative al tempo 𝑡 e al tempo 𝑡 − 1 è una proporzione della differenza tra i prezzi
effettivi del periodo 𝑡 − 1 e prezzi attesi del periodo 𝑡 − 1. La seconda parte dell’equazione misura
l’errore commesso. Dagli errori commessi si impara, l’apprendimento dipende da proporzione 𝛼: se 𝛼 =
1 si incamera completamente l’errore nelle nuove previsioni che si faranno, pertanto si apprende dai
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propri sbagli in modo completo. Invece, se 𝛼 = 0, non si impara nulla dal passato. 𝛼 rappresenta quindi
la memoria del processo di apprendimento dagli errori.
Detto in parole povere, la teoria delle aspettative adattive ci dice che i prezzi attesi del periodo
precedente vengono aggiustati, nel periodo corrente, per un ammontare pari ad una frazione 𝛼
dell’errore commesso nel passato. Questa teoria, che nasce nel contesto della scuola di Chicago, segnerà
un nuovo terreno analitico di confronto. Anche le analisi degli economisti keynesiani dovettero tenerne
conto.
La novità che viene introdotta sul versante dei lavori empirici, consiste nel fatto che, per fare una stima
che abbia un fondamento teorico stabile, occorre a questo punto considerare i valori del passato. Quindi
bisogna introdurre dei ritardi temporali. L’equazione da cui parte l’analisi di Friedman presuppone che
si possano stimare i prezzi attesi nel seguente modo:
𝑃𝑒𝑡 = 𝑃𝑒𝑡−1 + 𝛼 (𝑃𝑡−1 – 𝑃𝑒𝑡−1)
Vengono portati al secondo membro i prezzi attesi nel periodo precedente.
Data la formulazione generale della teoria delle aspettative adattive, anche la teoria dell’offerta
aggregata dovrà essere rivosta, perché la funzione di offerta aggregata sarà una funzione del livello dei
prezzi attesi.
La grande novità è che, quando i prezzi effettivi divergono dai prezzi attesi, si possono manifestare effetti
reali. Attraverso questa possibilità, l’approccio monetarista concede che i risultati previsti dai
keynesiani abbiano riscontro nel breve periodo. È come dire che la teoria quantitativa della moneta vale
solo nel lungo periodo.
I salari reali effettivi si riducono a seguito di una politica fiscale espansiva, lo spostamento a destra della
curva di domanda aggregata spinge in alto i prezzi, ma i lavoratori non si accorgono dell’aumento dei
prezzi. Non credono di avere una perdita del loro potere di acquisto: pensano invece, a seguito
dell’incremento dei salari nominali, di avere un maggiore potere di acquisto. Sono vittima di un
fenomeno che viene chiamato illusione monetaria. Se c’è illusione monetaria, cioè se la ricchezza
nominale viene percepita come se fosse ricchezza reale (se non ci si rende conto dell’effettivo
movimento dei prezzi), ci possono essere effetti espansivi nel breve periodo. Però nel momento in cui i
prezzi verranno corretti (𝑃 = 𝑃𝑒) si annulleranno gli effetti espansivi sui consumi. Il sistema tornerà
sulla curva di offerta di lungo periodo, e sarà caratterizzato da un livello di reddito uguale a quello del
periodo precedente e da prezzi più alti.
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Dal punto di vista grafico il discorso può essere riformulato nel modo seguente:
𝑌𝑁 indica il livello del reddito corrispondente alla piena
occupazione (o meglio alla disoccupazione naturale). Nel
breve periodo la politica fiscale espansiva, rappresentata dalle
curve di domanda aggregata decrescenti e tratteggiate, spinge
in alto i prezzi facendo aumentare anche la produzione.
Addirittura è in grado di far aumentare la produzione, quanto
meno in termini monetari, più del livello di piena occupazione:
si passa infatti da 𝑌𝑁 a 𝑌2. L’illusione monetaria fa aumentare
il livello dei consumi, almeno fino a quando non ci si rende
conto che si è verificato anche un incremento dei prezzi generalizzato. Il sistema si sposta fino a 𝑌2 e
magari, in alcune particolari circostanze, genere anche effetti sull’occupazione, che però vengono
riassorbiti non appena l’errore di previsione viene individuato e corretto. Una delle frasi che diventa
chiave della divulgazione di questa teoria è: non puoi prendere in giro le persone per troppo tempo!
L‘efficacia delle politiche economiche. Il dibattitto fra monetaristi e keynesiani a proposito degli effetti
ritardati della politica fiscale.
Dal punto di vista delle considerazioni sull’efficacia della politica monetaria e fiscale nel contesto AS-AD
possiamo sintetizzare l’analisi sinora svolta nel modo seguente:
Curva di offerta Descrizione Y
determinato
Politiche di
stabilizzazione
Orizzontale Modelli keynesiani a prezzi fissi Dal lato della
domanda Efficaci
Inclinata
positivamente
Modelli di breve periodo
keynesiani e monetaristi con
aspettative
Dalla domanda e
dall’offerta
Effetti reali
temporanei
Verticale Modelli classici/monetaristi e di
medio/lungo periodo
Dal lato dell’offerta
(a livello naturale)
Inefficaci (effetti
solo sui prezzi)
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Il confronto fra monetaristi e keynesiani
conduce a risultati empirici, ottenuti
ricorrendo a metodologie econometriche
distinte, che comportano due analisi
diverse riferite al moltiplicatore della
politica fiscale:
1. 𝛼𝐾 è il modo in cui varia il
moltiplicatore delle politica fiscale
date le analisi empiriche dei
keynesiani.
2. 𝛼𝑀 invece è il modo in cui varia il moltiplicatore della politica fiscale per i monetaristi.
Il moltiplicatore fiscale dei keynesiani inizia a crescere subito, raggiunge il massimo nel periodo 𝑡2, per
poi calare da 𝑡2 a 𝑡4, rimanendo però superiore alla riga orizzontale, ovvero alla soglia in cui l’andamento
del moltiplicatore ha effetti significativi sul tasso di crescita del PIL.
L’andamento del moltiplicatore fiscale stimato dai monetaristi, invece, cresce poco nel breve periodo e
raggiunge il picco massimo in ritardo rispetto a quello dei keynesiani. Dopodiché inizia a decrescere e
si attesta ad una soglia inferiore al valore significativo per la crescita del PIL.
Il problema consiste nel fatto che, una politica fiscale espansiva formulata per correggere un andamento
recessivo può essere intrapresa in ritardo. Pertanto quella determinata politica, secondo la scuola
monetarista di Milton Friedman, può impattare negativamente sul comportamento degli agenti
economici. Il punto critico consiste quindi nell’intervenire nel momento corretto e non ritardo, in quanto
intervenire in ritardo potrebbe portare a risultati dannosi.
Vengono individuati tre tipi di ritardi:
● I ritardi esterni, ossia l’intervallo intercorrente tra l’attuazione del provvedimento e
l’iniziale manifestazione dei suoi effetti sulla variabile obiettivo. Come ritardo, in
generale, è più lungo per la politica monetaria (dipende dal meccanismo di
trasmissione).
● I ritardi interni, legati all’efficacia degli istituti di statistica, che a loro volta si
suddividono in due categorie:
o I ritardi di percezione.
o I ritardi di decisione.
Vediamo cosa accade se si verificano questi ritardi. Supponiamo che ci sia un crollo dei consumi
incomprimibili (la componente autonoma dei consumi). In 𝑡2 si ha un primo riconoscimento dello shock
da parte degli uffici di statistica, i quali lo comunicano al Ministro del Tesoro. In 𝑡3 l’autorità competente
riduce le imposte e solo in 𝑡4, sempre che i provvedimenti incomincino ad avere effetti, allora i consumi
ripartono. Se il problema viene percepito in 𝑡2, allora un’operazione anticiclica può divenire pro-ciclica.
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Se lo Stato interviene quando il sistema si sta correggendo da sé, la crisi viene amplificata proprio a
causa dell’intervento statale che disturba i meccanismi di trasmissione delle informazioni tra gli agenti
economici.
La relazione tra disoccupazione e inflazione: il confronto fra monetaristi e keynesiani sulla curva di Phillips
Il tema della relazione tra le politiche di controllo del livello dei prezzi e le politiche di ripresa
occupazionale è stato studiato inizialmente nel 1958 da Alban William Phillips lavorando sui dati del
Regno Unito. Phillips individua una relazione negativa e stabile tra il tasso di inflazione dei salari e il
tasso di disoccupazione: quando la disoccupazione tende ad aumentare, il livello dei salari tende a
diminuire e viceversa. L’esercizio empirico viene replicato nel 1960 da Paul Samuelson e Robert Solow
su dati statunitensi e la relazione di Phillips viene riconfermata. È interessante analizzare anche il
passaggio dallo studio di Phillips a quello successivo di Samuelson e Solow. Tra i due studi cambia
innanzitutto il periodo, infatti i due studiosi americani utilizzano un periodo più breve rispetto a quello
utilizzato da Phillips. Inoltre il tasso di crescita dei salari monetari viene sostituito con il tasso di
inflazione misurato come indice dei prezzi al consumo. Si tratta di una differenza sostanziale perché il
livello dei prezzi può essere misurato in modi diversi, ma non è detto che sia analogo studiare
l’andamento dell’inflazione considerando l’indice dei prezzi al consumo o i costi del lavoro. Fatto sta che
un tema studiato dal punto di vista statistico-descrittivo conduce ad una struttura teorica sintetizzabile
nella seguente equazione:
𝜋𝑡 = 𝜋𝑡𝑒 + (µ + 𝑧) − 𝛼𝑢𝑡
Questa equazione subirà delle modifiche derivanti dal dibattito tra monetaristi e keynesiani: infatti
l’analisi delle politiche possibili per individuare il mix migliore tra disoccupazione ed inflazione è
collegata con l’efficacia delle politiche espansive.
L’equazione indica che l’inflazione, misurata come indice dei prezzi al consumo, dipende:
Dall’inflazione attesa 𝜋𝑡𝑒.
Da alcune caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro come µ, il potere monopolistico
degli imprenditori, e 𝑧, il potere dei sindacati.
Da livello della disoccupazione con segno negativo, −𝛼𝑢𝑡.
Si tratta di una equazione dinamica (sono presenti i tassi di crescita del livello dei prezzi) che
rappresenta di fatto una trasformazione dell’offerta aggregata AS riscritta come relazione tra inflazione,
inflazione attesa e disoccupazione. Questa equazione mostra come un aumento dell’inflazione attesa
provochi un aumento dell’inflazione, in quanto se i lavoratori si aspettano un aumento del livello dei
prezzi chiederanno un salario nominale maggiore che a sua volta provocherà un aumento del livello
generale dei prezzi. Mostra anche come un aumento del mark-up, cioè del potere monopolistico delle
imprese, e dei fattori istituzionali che influenzano la determinazione dei salari, in particolar modo le
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pressioni sindacali rappresentabili da z, possano portare ad un aumento dell’inflazione. (In un contesto
di mercato di oligopolio o di concorrenza monopolistica, la pressione sul livello dei prezzi è maggiore
rispetto ad un mercato di concorrenza perfetta.)
Data l’inflazione attesa, un aumento del mark-up e di 𝑧 provoca un aumento dei salari e quindi del livello
dei prezzi. Data sempre l’inflazione attesa, un aumento della disoccupazione, visto che il coefficiente che
trasmette la variazione della disoccupazione su π è preceduto da un segno negativo, provoca una
riduzione dell’inflazione. Un aumento della disoccupazione comporta infatti una diminuzione del salario
nominale e quindi un minore livello dei prezzi.
Concentriamoci ora sulle aspettative. Né Phillips né Samuelson e Solow avevano preso in considerazione
le aspettative. Ancora una volta è la scuola di Chicago che introduce questa importante variabile
nell’analisi del trade-off tra inflazione e disoccupazione, mostrando come questa relazione non possa
essere stabile nel tempo. Supponiamo che le aspettative dei lavoratori si formino in modo adattivo: dato
un parametro 𝜃, tale che rappresenti una sorta di memoria dei prezzi passati; si crea così una relazione
tra i prezzi attesi oggi e i prezzi effettivi del passato. Possiamo allora scrivere:
𝜋𝑡 = 𝜃𝜋𝑡𝑒 + (µ + 𝑧) − 𝛼𝑢𝑡
Non si tratta più di stimare solo 𝛼, cioè il coefficiente che stabilisce in che modo la disoccupazione si
trasmette sull’inflazione, ma anche 𝜃, il quale indica come l’inflazione passata si trasferisca su quella
presente, tenendo conto della teoria delle aspettative adattive.
Supponiamo ora di trovarci nel 1958 quando Phillips scopre la sua relazione statistica. I lavoratori
osservano i prezzi che hanno un andamento ciclico come quello del PIL, ma con dei cicli contenuti
soprattutto se guardiamo alla storia che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1958. Si
osserva che a volte i prezzi crescono e a volte diminuiscono, ma in media ci si può attendere un’inflazione
nulla perché gli incrementi compensano i decrementi. È un punto fondamentale perché in questo caso
𝜃 è pari a zero. Di conseguenza la funzione da stimare è esattamente quella descritta da Philips:
𝜋𝑡 = (µ + 𝑧) − 𝛼𝑢𝑡
L’inflazione non dipende più dall’aspettative su di essa, ma dipende solamente da µ e 𝑧, che vengono
considerati come dati, e da 𝛼, la vera variabile che ci interessa.
Friedman però fa notare che se si guardano i dati dopo il 1958 le cose non stanno più così: un decennio
dopo quella data, la curva di Phillips originaria non sembra valere più!
Solo se vale la relazione della curva di Phillips, è sempre possibile individuare il rapporto tra variazione
della disoccupazione e variazione dell’inflazione. Si può quindi decidere facilmente che tipo di politiche
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attuare. Se ad esempio si dovesse avere un
problema di pressione inflazionistica eccessiva, si
può attuare una politica monetaria restrittiva per
controllare il livello dei prezzi sapendo già, grazie
alla curva di Phillips, quanto si dovrà pagare in
termini di aumento della disoccupazione.
Friedman con la sua intuizione, giocata sulla
teoria delle aspettative, smentisce tutto ciò.
Mette in luce come non ci sia un legame chiaro tra
politica monetaria e fiscale e che il rischio di fare confusione con questo mix di obiettivi è alto. Le sue
affermazioni sono supportate dai dati riportati nel grafico qui accanto, in cui vediamo rappresentati i
punti di correlazione tra il tasso di disoccupazione e quello di inflazione, calcolato come indice dei prezzi
al consumo, negli USA.
La curva di Phillips ha una forma quasi verticale perché è fissa al livello di pieno impiego. Di conseguenza
il tentativo di ridurre il livello della disoccupazione, non fa ridurre la disoccupazione ma fa solamente
aumentare il livello dei prezzi. Dunque lo Stato non può intervenire per ottenere un risultato
conveniente, nemmeno in termini elettorali, perché i dati dimostrano che l’unico risultato significativo
ottenibile è quello di una perdita del controllo del livello dei prezzi.
Il fallimento empirico della curva di Phillips dà vita ad un dibattito che può essere raccontato in modi
diversi. Uno di questi è incentrato sulle crisi petrolifere degli anni ’70, le quali provocarono un aumento
dei costi di produzione che a sua volta comportò un aumento dei prezzi applicati, un aumento del mark-
up (quindi un rincaro dei prezzi volto a sostenere i profitti degli imprenditori) e un aumento
dell’inflazione, data la disoccupazione.
La scuola di Chicago sostiene invece un altro insieme di nessi causali: è il nuovo modo di pensare le
aspettative da parte delle imprese e dei lavoratori insieme agli errori di una politica economica
keynesiana che conducono ad un’inflazione persistente. I lavoratori iniziano a pensare che l’inflazione
dell’anno precedente si ripeterà nell’anno in corso e quindi il valore di 𝜃 è ipotizzato più vicino a 1 che
a 0. I lavoratori si aspettano che l’inflazione nell’anno corrente sia uguale a quella dell’anno precedente.
t − t−1 = (+ z) − ut
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Questa equazione viene definita come curva di Philips modificata dalle aspettative.
Nel grafico accanto è rappresentata in verde la curva di Phillips nella versione di Samuelson e Solow. Il
punto in cui questa curva interseca l’asse orizzontale corrisponde al tasso naturale di disoccupazione e,
nell’approccio monetarista, quella curva viene considerata
vera solo nel breve periodo. Quando i lavoratori iniziano a
tenere conto del tasso di inflazione e ad adeguare i salari
proteggendo il proprio salario reale, si ha una curva di Phillips
verticale (in rosso), valida nel lungo periodo. Difatti le
aspettative di inflazione cambiano nel tempo e spostano la
curva di breve periodo verso l’alto ogni volta che i lavoratori
si rendono conto che i prezzi aumentano. Questo significa che
la curva di Phillips è instabile e genera, nel lungo periodo, a
livello del tasso naturale di disoccupazione, un andamento che possiamo descrivere con una retta
verticale. Le aspettative di inflazione cambiano nel tempo e di conseguenza la curva di Philips non può
più indicare una relazione stabile in quanto conta la differenza tra prezzi e prezzi attesi.
Dal punto di vista della politica economica, nel caso keynesiano, la curva di Phillips è inclinata
negativamente ed esiste un trade-off tra inflazione e disoccupazione. Lo spostamento lungo la curva, se
si ha, è solo causato da uno shock della domanda, mentre lo spostamento della curva può avvenire per
uno shock dell’offerta oppure per una politica dei redditi. Nel caso monetarista invece la curva è sempre
negativa, ma temporanea. La riduzione della disoccupazione può fare accelerare l’inflazione e lo
spostamento lungo la curva dipende da uno shock della domanda mentre lo spostamento della curva da
uno shock dell’offerta, ma anche dall’aggiustamento delle aspettative. Nel lungo periodo la curva però è
verticale e le politiche economiche possono controllare solo l’inflazione. Lo shock di domanda regola lo
spostamento lungo la curva, ma la curva non si sposta più perché il tasso di occupazione è fissato al suo
livello naturale.
La nuova macroeconomia classica e la teoria delle aspettative razionali
La stagflazione, quella situazione in cui l’incremento dell’inflazione è unito alla stagnazione economica,
a partire dal 1971, colpisce in modo significativo il mondo occidentale.
La teoria della aspettative adattive, proposta da M. Friedman e accolta negli anni ‘70 dai keynesiani,
almeno come terreno di confronto è costruita su una logica comportamentale backward-looking: c’è una
memoria degli agenti rispetto agli errori commessi nel passato, questo genera aspettative
sistematicamente errate e proprio questo errore determina la differenza tra breve e lungo periodo. Se
le aspettative vengono formulate, nel breve periodo, in modo errato allora c’è lo spazio affinché un
aumento nominale del livello dei prezzi non sia interpretato come perdita del valore reale delle “cose”
presenti nel sistema economico ma come un particolare successo che si ottiene in un determinato
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mercato: il prezzo cresce perché la domanda supera l’offerta e questo crea un effetto di breve periodo
che può essere effettivamente espansivo, giustificando quindi la possibilità di una politica economica
Gran parte dei fenomeni che caratterizzano l’economia negli anni ’70 sono in qualche modo
incompatibili anche con una teoria delle aspettative adattive. L’incremento del livello dei prezzi tende
ad essere sempre più frequente come se a seguito di alcune informazioni, che nel recente passato erano
concepite come informazioni che potevano essere interpretate in modo erroneo (dando quindi
legittimità ad una formazione delle aspettative di tipo adattivo) si generassero immediatamente gli
effetti di lungo periodo. Questo fa sì che si sviluppi a Chicago, tra gli allievi di Friedman, una discussione,
capitanata da Robert Emerson Lucas Jr. (premio Nobel per l’economia nel 1995), sul modo in cui
effettivamente gli agenti formano le proprie aspettative, una discussione anche dettata dall’esigenza di
spiazzare ulteriormente l’approccio keynesiano alla politica economica. Difatti il dibattito tra
monetaristi e keynesiani era giunto ad una situazione in cui comunque la politiche keynesiane nel breve
periodo potevano essere giustificate. L’approccio degli allievi di Friedman è invece quello di cercare di
costruire un modello teorico che, non solo sia in grado di dare una spiegazione empirica del fenomeno
della stagflazione, ma che sia anche in grado di pervenire ad indicazioni di politica economica che
neutralizzino le indicazioni provenienti dalla scuola keynesiana una volta per tutte.
L’intuizione principale consiste nel fatto che gli agenti economici, nel formare le proprie aspettative sul
livello dei prezzi, non guardino solo ai valori passati ma a tutte le informazioni disponibili che hanno. Se
fra le informazioni disponibili c’è un modello teorico robusto che dice che una politica monetaria
espansiva, nel lungo periodo, genera effetti inflazionistici gli agenti razionali, che conoscono questa
teoria, anticipano nel breve periodo le pressioni inflazionistiche. Un annuncio di politica fiscale
espansiva oggi, viene dunque considerato dagli agenti economici come il segnale per un incremento
della tassazione domani. Nella formazione delle aspettative quindi si prendono in considerazione anche
le informazioni che si hanno a disposizione e che sono rilevanti per poter prevedere ciò che accadrà.
Questa intuizione fa sì che:
1. Gli agenti economici siano descritti come dotati della stessa razionalità, la quale prevede la
massimizzazione dell’impiego delle informazioni che si hanno a disposizione.
2. Le aspettative siano definite come aspettative razionali (esatte in media): significa che non è
possibile compiere errori sistematici com’erano invece gli errori compiuti nella modellistica del
monetarismo alla Friedman 𝐸(𝑃𝑒)𝑡 = 𝑃𝑡.
3. Vale la presenza di un tasso naturale di disoccupazione, che non è detto sia equivalente ad una
situazione di piena occupazione in cui lavorano tutti gli agenti economici, bensì vale l’idea che vi
sia assenza di disoccupazione involontaria. Si definisce allora un tasso di disoccupazione
naturale quello compatibile con una situazione in cui il livello dei prezzi non accelera (NAIRU).
Ciò comporta che ci troviamo in una situazione molto prossima al modello monetarista à la
Friedman, dove la differenza principale sta nell’impossibilità di ottenere i risultati di breve
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periodo, ottenibili nel modello monetarista di prima generazione, perché l’ambiente in cui gli
agenti si muovono non è di tipo deterministico ma stocastico.
Tutto ebbe origine nel 1961, quando il giovane economista della scuola di Chicago John F. Muth, (una
promessa della professione che rimase eternamente tale), pubblicò su Econometrica un articolo sui
limiti dell’ipotesi di aspettative adattive proponendo una trattazione matematica alternativa. Nel lavoro
di Muth vi è uno shock subito noto a tutti gli agenti, ad esempio l’aumento del prezzo del petrolio.
Ciascuno dovrebbe tener conto di questa informazione, prevedendo le corrette conseguenze sul sistema
economico, cioè il rialzo del livello generale dei prezzi. Al contrario però l’ipotesi di aspettative adattive
comporta un aumento graduale, e non immediato, del livello generale dei prezzi. Muth costruisce invece
un’equazione dei prezzi attesi innovativa:
(𝑃𝑒)𝑡 = 𝐸[𝑃𝑡|𝛺𝑡−1] = 𝑃𝑡 + 𝜀
dove i prezzi attesi sono funzione della probabilità condizionata dei prezzi passati, data l’informazione
disponibile. Questo significa che i prezzi attesi sono uguali ai prezzi effettivi, al netto di un errore 𝜀 che
ha determinate proprietà. Nell’equazione precedente, l’insieme informazione 𝛺𝑡−1 comprende:
Il modello teorico dominante, cioè il più logico dal punto di vista della spiegazione del
funzionamento del sistema economico. In altre parole comprende l’insieme delle equazioni
strutturali che descrivono il sistema economico2.
Il valore dei parametri strutturali inclusi nel modello, cioè i coefficienti che si vanno a stimare.
Essi dipendono anche dal comportamento degli agenti economici a seguito della politica
economica stessa: di conseguenza questi parametri sono instabili. Sempre tornando alla
funzione del consumo, si conosce la propensione marginale al consumo in quanto viene
identificata sia dal modello stesso che dagli istituti di statistica. Se viene imposta una tassa,
oppure se c’è un dibattito su nuove imposte, che poi magari nemmeno si realizzano, il valore dei
parametri strutturali varia. Basta l’informazione. L’attesa di un cambiamento dell’aliquota
2 Questo era un punto fondamentale anche nel dibattito sul modello econometrico tra keynesiani e monetaristi: i monetaristi sostenevano che l’equazione da sottoporre a stima fosse la forma ridotta del modello teorico, mentre i primi sostenevano di dover lavorare con le equazioni strutturali che definiscono il modello. Proprio questo punto di vista viene ripreso dalla scuola di Chicago, contro i keynesiani. Infatti le equazioni strutturali che descrivono il sistema economico in questo mondo vanno al di là delle grandezze aggregate: la struttura del modello teorico è la microfodazione dei comportamenti retrostanti alle grandezze aggregate. Per esempio, per spiegare il comportamento della funzione di consumo bisogna conoscere il comportamento della funzione di consumo non a livello aggregato, bensì a livello dei singoli agenti economici. Allo stesso modo per quanto riguarda la funzione d’investimento e per la funzione di spesa pubblica. Quando si va ad ottenere quello che è il valore del moltiplicatore fiscale e monetario, in realtà si saranno stimati i modi in cui vengono definite quelle grandezze dall’agente rappresentativo, il quale però avrà una funzione da stimare che è sempre la stessa: difatti gli agenti non hanno comportamenti eterogenei ma omogenei. In questo approccio teorico, per esempio, il consumo, e in particolare la propensione marginale al consumo, non può essere stimata a partire dalla funzione aggregata, bensì va costruita a partire dal modo in cui decidono le loro scelte di consumo gli agenti economici. Il modo in cui razionalmente gli agenti economici prendono queste decisioni è quello stabilito da Robert Barro: si prende in considerazione la massimizzazione di un consumo permanente nel tempo che, dato il reddito disponibile anche in più periodi, cerca di distribuire omogeneamente questo reddito in tutti quanti i periodi.
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dell’imposta, anche in presenza di una politica fiscale espansiva, cambia il valore del parametro
strutturale. Si hanno i cosiddetti effetti di feedback.
Il valore delle variabili passate fino a 𝑡 − 1.
Le proprietà statistiche degli errori casuali che è possibile commettere. 𝜀 è una variabile
stocastica di cui è nota la media, che è nulla, la varianza, che è costante, e che gode della seguente
proprietà: gli errori nel tempo non sono serialmente correlati. Ciò comporta che la distribuzione
di probabilità degli errori ha le caratteristiche di una normale: è possibile dire quali son i valori
di sintesi di questa statistica in quanto si conoscono alcune proprietà degli errori che rendono
sempre possibile che la stima dei prezzi attesi possa essere condotta prevedendo degli stimatori
corretti.3
Ne consegue che le politiche economiche di stabilizzazione sono sempre inefficaci salvo in un caso:
siccome ci troviamo in un ambiente stocastico, l’unico modo di ottenere risultati efficaci dalla
politiche di stabilizzazione è la presenza di sorprese: eventi casuali come shock esogeni, catastrofi
naturali, l’introduzione di una nuova innovazione oppure manovre di politica economica non attese
e non annunciate. Quest’ultima situazione (politiche economiche non annunciate) nel momento in
cui si verifica avrà un effetto, per lo più temporaneo, solamente la prima volta che avviene: lo stesso
policy maker che ha sorpreso gli agenti economici mettendo in pratica una politica economica non
annunciata, la seconda volta che volesse farlo fronteggerebbe degli agenti economici già informati
sulle conseguenze della stessa politica, motivo per cui essa sarebbe completamente inefficace.
La critica di Lucas ai modelli econometrici
Una delle conseguenze della teoria delle aspettative razionali è che non è più possibile ragionare al di
fuori di un contesto strategico: quando si fa politica economica non si può più ragionare come se il
problema di politica economica fosse trattabile come un problema di controllo di ottimo o di
programmazione. Tutti i problemi di politica economica hanno infatti una natura strategica: nella
funzione obiettivo del policy maker, che nel modo tradizionale di fare politica economica poteva essere
ottimizzata individuando i pesi che il policy maker dava agli obiettivi, bisogna inserire una parte che mi
stabilisce la reazione di quelle politiche economiche messe in campo dagli agenti economici. Viceversa
nelle funzioni di comportamento degli agenti economici bisognerà mettere una parte della funzione che
mi spieghi il comportamento degli agenti economici a seguito delle scelte del policy maker. Ci troviamo
quindi in un sistema in cui abbiamo a che fare con curve di reazione. Ogni problema di politica
3 In realtà questo punto è quello più dibattuto perché non è detto che gli errori godano di quelle proprietà. Per esempio, soprattutto sui mercati finanziari, i prezzi delle attività finanziare hanno degli errori che non si distribuiscono sempre secondo una normale, ma seguono delle leggi (leggi di potenza) che mettono in discussione anche questa teoria di formazione delle aspettative
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economica diventa necessariamente un problema di teoria dei giochi, anche fra diversi policy maker (ad
esempio Banca Centrale e Governo).
Ipotizziamo di prendere in considerazione dei modelli così fatti e che quindi valga la critica di Lucas ai
modelli econometria tradizionali: la politica economica sia definibile come un sistema di teoria dei
giochi. In questo caso non è più possibile pensare che, stimando i parametri con un modello di
regressione lineare, quei parametri mi possano servire per fare simulazioni di politica economica: quei
parametri risultano infatti instabili. I modelli di regressione lineare però, non sono fatti per tenere in
considerazione questo problema: bisogna quindi cambiare il modo di stimare i fenomeni
Data questa premessa vediamo il modello di politica economica basilare di questo approccio teorico.
L’idea è che il prodotto possa scostarsi dal livello di steady state per due cause:
1. Perché c’è un disturbo inatteso.
2. Come sotto caso del precedente, per via di uno scostamento tra politica economica effettiva e
politica economica prevista, che però sorprende gli agenti economici. Questo significa che la
differenza fra l’offerta di moneta effettiva e quella attesa è diversa da 0.
𝑚𝑡 −𝑚𝑡𝑒 ≠ 0
Solo la parte imprevista della politica economica a ha effetti reali, il che significa che, il comportamento
del policy maker, può essere distinto tra una parte sistematica [𝑓(·)] della politica economica e una parte
casuale 𝜇𝑡, parte che può rappresentare una sorpresa per gli agenti economici.
𝑚𝑡 = 𝑓(·) + 𝜇𝑡
dove 𝜇𝑡 è white noise (un processo costituito da una successione di variabili aleatorie non correlate,
identicamente distribuite con media nulla e varianza costante). La politica prevista è l’aspettativa
razionale della policy rule:
𝑚𝑡𝑒 = 𝑓(·)
Il problema consiste quindi nella possibilità o meno di cambiare le preferenze del policy maker. Le
preferenze del policy maker possono essere cambiate con una delega (commitment): il governo delega la
gestione della politica monetaria ad un banchiere centrale oppure, se il modello viene riformulato in un
contesto leggermente diverso il policy maker può delegare indirettamente la politica monetaria attraverso
un ancoraggio della propria valuta ad una valuta estera di un Paese caratterizzato da una politica
monetaria credibile. Le proprie politiche monetarie vengono quindi fatte fissando un cambio fisso con una
valuta più disciplinata (es: dollarizzazione della politica monetaria nei paesi in via di sviluppo).
Esistono tuttavia diverse critiche (molto promettenti) a questa impostazione teorica che si devono a
diversi economisti. Fra questi una particolare attenzione meriterebbe Joseph Stiglitz. Non possiamo
entrare nel merito della sua importante innovazione teorica rappresentata dall’analisi dei fallimenti del
mercato e in particolare dei fallimenti derivanti dalla presenza di asimmetrie informative. Ci limitiamo a
suggerire una lettura della lectio magistralis che tenne in occasione del conferimento della laurea honoris
causa conferitagli dall’Università di Bergamo nell’a.a. 2003-2004 riportata in appendice a queste lezioni.
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IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE.
COME CAMBIA UN’ISTITUZIONE AL CAMBIARE DELLE TEORIE ECONOMICHE DOMINANTI
È importante fare delle considerazioni su una particolare istituzione di politica economica che viene
creata alla fine della seconda guerra mondiale all’interno degli accordi Bretton Woods: il Fondo
Monetario Internazionale, istituzione ancora oggi molto importante che rappresenta il risultato di un
compromesso innanzitutto posto in essere dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti e rappresenta un ottimo
esempio di trasformazione istituzionale all’interno della storia economica mondiale. Con il
cambiamento che ha caratterizzato il sistema monetario internazionale, dopo la dichiarazione di
inconvertibilità del dollaro nei confronti dell’oro del 1971, è cambiata anche la natura del Fondo
Monetario Internazionale e si è imposta una logica di funzionamento di questa istituzione che è distante
dall’idea originaria che aveva caratterizzato gli accordi di Bretton Woods. Secondo alcuni studiosi, fra
gli altri Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, il Fondo Monetario Internazionale con le
sue politiche strutturali, avrebbe agevolato i processi di crisi valutaria nei Paesi in cui è intervenuto.
Cosa doveva essere il Fondo Monetario Internazionale?
Yanis Varoufakis ne Il Minotauro globale (2008, p. 75) riporta le parole con cui Keynes dà il commiato
alla conferenza di Bretton Woods:
«Abbiamo dovuto svolgere simultaneamente le parti che competono all’economista, al finanziere, al politico, al giornalista, al propagandista, all’avvocato, all’uomo di stato e persino credo al profeta e all’indovino.»
I rappresentanti dei Paesi Alleati, e in particolare Harry Dexter White, rappresentante degli USA, e John
Maynard Keyne, rappresentante della Gran Bretagna, progettarono due istituzioni portanti: da una parte
il Fondo Monetario Internazionale e dall’altra la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo
che oggi viene semplicemente chiamata Banca Mondiale.
Cosa doveva esser il Fondo Monetario Internazionale? Avrebbe dovuto assolvere alle funzioni di
pompiere del sistema capitalista globale, cioè fungere da istituzione sempre pronta ad intervenire e ad
assistere qualsiasi Paese la cui casa prendesse fuoco, fornendo prestiti a condizioni rigorose in grado di
assicurare che qualsiasi deficit sarebbe stato corretto e che i debiti sarebbero stati ripagati e la Banca
Mondiale doveva essere una banca di investimento con il compito di incanalare gli investimenti in quei
Paesi devastate dalla guerra. L’idea era che per garantire la pace non bisogna avere un mondo in cui le
spinte mercantiliste rimangono vive. Un mondo in cui tutti vogliono esportare più degli altri, è un mondo
in cui si creano tensioni politiche. Questa è l’idea di Keynes soprattutto. Per fronteggiare questo, bisogna
che si vengano a creare degli equilibri che correggano gli squilibri nella bilancia dei pagamenti. Tant’è
che il piano che Keynes prepara in sette versioni diverse - proprio perché c’è una mediazione che deve
portare avanti e si gioca tutte le carte possibile – è un progetto di International Clearing Union. Il Fondo
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Monetario Internazionale è solo il piano B che viene approvato per perseguire l’obiettivo che vi ho
appena illustrato. Per comprendere questo bisogna capire il piano principale di Keynes.
Cosa poteva essere - e mai fu - il FMI. L’International Clearing Union.
International Clearing Union significa costruire delle condizioni per cui una situazione di squilibrio
commerciale si riporti in equilibrio. L’idea di Keynes consisteva in un meccanismo di emissione
monetaria in cui si emette direttamente una moneta internazionale, questa moneta non si deve riferire
a nessuno stato ed è anzitutto una moneta di conto. Si chiama Bancor perché fondamentalmente è una
moneta credito. Quando viene emesso il Bancor?
Bisogna emettere una moneta di conto che ha puri scopi transattivi. Perciò non deve essere accumulata,
non deve svolgere la funzione di riserva di valore: quando tu hai questa moneta la devi spendere. Qual
è la regola? La regola di creazione di questa moneta è fondata esattamente sul riequilibro degli squilibri
commerciali. Un Paese che ha una situazione di deficit può ottenere Bancor.
Cosa si fa con questi Bancor? Con questi Bancor può riattivare il commercio internazionale senza dover
chiedere in prestito sul mercato privato delle risorse. Finanziarie. L’International Clearing Union diventa
come una banca internazionale in cui l’emissione monetaria è finalizzata solo al riequilibrio delle bilance
commerciali con una moneta unica che deve avere una irreversibilità nei confronti dell’oro.
L’equilibrio definito in termini di saldi fra esportazioni e importazioni e il peso dello squilibrio deve
essere simmetricamente distribuito fra debitori e creditori. Se tu sei in una situazione in cui accumuli
dei Bancor che non riesci più a spendere (cioè se si è in surplus) sei costretto a pagare un tasso di
interesse nei confronti della International Clearing Union.
Il fatto di essere in surplus non è considerato un risultato positivo, ma è un risultato negativo se si guarda
agli equilibri commerciali globali, perché significa sostanzialmente che se tu sei in surplus, qualcun altro
sarà in deficit.
Questa situazione presuppone che non solo il Paese in deficit, superata un certa soglia di deficit dovrà
tenere conto di alcune indicazioni per riuscire ad uscire da questa situazione, ma anche il Paese in
surplus, deve impegnarsi a ridurre il surplus ed è costretto a trasferire una quota di questo surplus,
all’interno dell’International Clearing Union, attraverso il pagamento di un tasso di interesse.
Quindi il Bancor serve esattamente a sostenere il commercio internazionale in questa prospettiva.
Quando viene creato? Quando qualcuno ha bisogno di comperare qualche cosa. E quanto puoi chiedere?
L’ammontare di Bancor che puoi chiedere in prestito come Paese tiene conto della tua collocazione
all’interno dei sistema commerciale internazionale. Come si fa a misurare la collocazione all’interno del
sistema commerciale internazionale? Si vede quanto questo Paese esporta e importa. L’ammontare
dell’export e l’ammontare dell’import in toto, ti danno un riferimento relativo al peso commerciale che
questo Paese può ricoprire, quindi questa grandezza serve a stabilire quanti Bancor possono venire
assegnati a questo Paese.
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Nel momento in cui questo Paese ha dei Bancor, deve spenderli per acquistare le risorse che un altro
Paese offre. I Bancor allora vengono re-distribuiti in modo tale che il commercio internazionale possa
essere, nel medio-lungo periodo, caratterizzato da saldi commerciali che tendono al pareggio. Se
qualcuno ha dei surplus persistenti, maturano dei tassi d’interesse negativi sulle eccedenze, se qualcuno
ha un deficit, interviene un’altra istituzione che è una Banca Internazionale, che verrà chiamata nel piano
finale, Banca Internazionale per la Costruzione e lo Sviluppo, che stabilisce che la struttura economica
del Paese in deficit sia caratterizzata da una precisa politica di programmazione industriale. Questo era
il piano di Keynes.
Il FMI prima del 1971
La moneta internazionale che viene scelta a Bretton Woods è anche una moneta nazionale: è il dollaro
che rappresenta nel sistema di Bretton Woods, anzitutto, il riferimento unico nei confronti dell’oro. E
tutte le altre monete hanno un cambio fisso nei confronti del dollaro. Tante delle contraddizioni che
caratterizzeranno il sistema monetario internazionale dal 1944 al 1971 dipendono proprio da questa
duplice funzione del dollaro: moneta di riserva internazionale e moneta nazionale.
Questa decisione istituzionale, insieme al fenomeno dei petrodollari4, fa sì che la Banca Centrale
americana non abbia più controllo sul quantitativo di dollari immessi nel sistema.
Necessariamente questo sistema - quello di Bretton Woods scelto dopo l’abbandono del piano Keynes -
doveva essere caratterizzato almeno da uno squilibrio commerciale forte, quello del Paese che emetteva
la moneta. Infatti gli Stati Uniti maturano un deficit commerciale che diventa crescente e conduce alle
tensioni che porteranno poi insieme ad altri fattori politici, all’abbandono dei sistema dei grandi fissi.
Il sistema proposto da Keynes (l’International Clearing Union) non passa e i segni della sua sconfitta
stanno nella natura della moneta internazionale così come oggi è concepita: una moneta che non nasce
per essere internazionale, che essendo anche una moneta nazionale, non svolge solo una funzione
transattiva, svolge soprattutto la funzione di riserva di valore; ma il fatto che venga accumulata crea
delle tensioni sui saldi commerciali. Se tu non spendi la moneta in modo opportuno e invece accumuli
per fare prestiti privati ai Paesi che sono in deficit, crei un meccanismo di dipendenza duraturo tra le
economie che difendono la loro posizione di surplus commerciale, e Paesi in deficit.
(Con l’eccezione degli Stati Uniti che pur essendo in deficit possono coprire i propri debiti dal punto di
vista finanziario, con l’emissione monetaria dell’unica moneta internazionale che ha funzione di riserva
internazionale. Il sistema dell’Euro è molto lontano da questa logica).
Si arriva a questo sistema che poteva funzionare fin tanto che vi era l’esigenza di ricostruzione dei Paesi
europei e del Giappone al termine della seconda guerra mondiale; nel momento in cui questi Paesi
diventano competitivi sul piano dei mercati internazionali, non può che emergere una situazione in cui
4 Per gli interessati questo tema (al di fuori del nostro programma d’esame) può essere visto al seguente link
http://www.treccani.it/enciclopedia/petrodollari_%28Enciclopedia-Italiana%29/
http://www.treccani.it/enciclopedia/petrodollari_%28Enciclopedia-Italiana%29/
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il Paese che emette la valuta internazionale ha una posizione crescente di deficit commerciale. Perché
gli Stati Uniti possono essere un Paese che sostiene la sua crescita grazie alle esportazioni fin tanto che
gli altri Paesi hanno bisogno dei prestiti del piano Marshall che impiegano nell’acquisto dei beni e servizi
necessari alla loro ricostruzione. Ma nel momento in cui si ricostruiscono, si specializzano e diventano
competitivi nelle merci che hanno caratterizzato il modello di sviluppo fordista, che è partito dagli Stati
Uniti ma che poi trova anche varianti del modello stesso in Europa e nel mondo (come mette in luce la
scuola della regolazione francese) si creano esattamente delle dinamiche negative per gli Stati Uniti.
Il Fondo Monetario Internazionale diventa esattamente quella struttura istituzionale, che a seguito
dell’abbandono del progetto di International Clearing Union, dovrebbe garantire gli interventi necessari
ad accompagnare quel processo di allontanamento degli squilibri commerciali che non era più garantito
dal un sistema di cambi fissi in cui tutti i cambi sono ancorati al dollaro, valuta che svolge quindi la
funzione di moneta di riserva internazionale. Ora cosa succede effettivamente nella prima parte della
storia di Bretton Woods? Succede che effettivamente l’FMI, accompagna con una logica parzialmente
keynesiana il processo di riconversione industriale di alcuni Paesi, soprattutto dei Paesi africani in un
primo momento e di alcuni Paesi europei. Ecco cosa scrive a riguardo Stiglitz:
«Keynes non individuò soltanto una serie di imperfezioni nei mercati, ma spiegò anche perché un’istituzione come l’FMI poteva migliorare le cose. Esercitando pressioni sui paesi affinché mantenessero la piena occupazione e fornendo liquidità alle nazioni che, afflitte da un periodo di rallentamento dell’economia, non potevano permettersi di sostenere l’aumento espansivo della spesa pubblica, il Fondo monetario sarebbe riuscito a sostenere la domanda aggregata globale»5
Tuttavia l’FMI interviene sempre a seguito di processi decisionali che rispondono ad una struttura
politica molto sbilanciata: al suo interno i meccanismi di decisione sono commisurati alle quote di
capitale che i Paesi membri possiedono nello stesso FMI. E il Paese che ha da questo punto di vista la
maggioranza è quello che vale di più nelle decisioni. E il Paese più forte erano gli Stati Uniti. Motivo per
cui la scelta politica rispetto ai piani di aiuto sin da subito è condizionata dall’idea di sviluppo economico
mondiale che hanno gli Stati Uniti, che non devono essere analizzati come un Paese privo di dinamica
politica interna. Cambiano tante cose negli Stati Uniti dal ’44 al ’71. Cambiano parallelamente a quel
processo prima di annacquamento dell’approccio keynesiano (la sintesi neoclassica) e poi mano a mano
di sfiducia rispetto alle politiche keynesiane (la nuova macroeconomia classica della seconda scuola di
Chicago). L’idea di poter costruire meccanismi di sviluppo anche utilizzando le risorse del Fondo
Monetario Internazionale che si appoggiassero su politiche fiscali espansive interne, diventa sempre più
minoritaria anche al di fuori degli USA.
Si arriva al momento del superamento del sistema di Bretton Woods con un atteggiamento nei confronti
di questa istituzione che ne cambia la natura. In che modo? Ne cambia la natura proprio mettendo al
5 Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002, p. 200.
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centro l’impossibilità di costruire un meccanismo di aiuto finanziario che non sia vincolato al controllo
delle finanze pubbliche.
Il FMI dopo il 1971
Si ha dunque una grande rivoluzione interna nel meccanismo di funzionamento del Fondo Monetario
Internazionale che accade trasformando la logica con cui era stato pensato. Ne dà una descrizione molto
accurata Stiglitz nell’introduzione a La globalizzazione e i suoi oppositori, un libro molto bello pubblicato
nel 2002:
«Negli anni, l’FMI è cambiato profondamente. Nato su presupposto che i mercati funzionino male, ora sostiene con fervore ideologico la supremazia del mercato. Costituito sul convincimento che occorra esercitare una pressione internazionale sugli stati affinché adottino politiche economiche più espansive, aumentando per esempio le spese riducendo le imposte, oppure abbassando i tassi d’interesse per stimolare l’economia – oggi l’FMI tende a fornire i fondi solo ai paesi che si impegnano a condurre politiche volte a contenere il deficit, ad aumentare le tasse oppure ad alzare i tassi d’interesse e che pertanto conducono a una contrazione dell’economia. [...] Il cambiamento più determinante in queste istituzioni si è verificato negli anni Ottanta, quando Ronald Reagan e Margaret Thatcher predicavano l’ideologia del libero mercato negli Stati Uniti e nel Regno Unito. L’FMI e la Banca mondiale divennero i nuovi istituti missionari preposti a diffondere queste idee in paesi poveri e riluttanti che spesso avevano un disperato bisogno di prestiti e concessioni. »6
Oggi quindi le due funzioni principali del FMI sono le seguenti:
1) Monitorare le politiche monetarie commerciali dei Paesi membri; quindi il FMI ha una funzione
di sorveglianza, che avviene in questo modo: ogni anno una delegazione del Fondo analizza in
dati relativi all’economia e i problemi di ogni Paese, formula consigli e rende disponibile a tutti
i membri le proprie valutazioni; i Paesi aderenti si impegnano a modificare le proprie politiche
in base alle indicazioni ricevute in modo da armonizzare il tutto
2) Fornire aiuto finanziario a breve termine (3/5 anni) ai Paesi membri che attraversano crisi
economiche legate a gravi squilibri legati alla bilancia dei pagamenti. Il tasso di interesse che
viene applicato è inferiore ai tassi di mercato, ma superiore rispetto a quelli della Banca
Mondiale. I finanziamenti del Fondo dipendono dalle sole quote di sottoscrizione versate dai
Paesi aderenti a differenza della Banca Mondiale, la quale è finanziata dalla vendita di
obbligazioni ai governi. A guidare il Fondo sono i rappresentanti di tutti i Paesi membri che non
sono presenti nella misura di uno per ciascun Paese. Francia, Germania, Giappone, Gran
Bretagna, Stati Uniti, Cina e Arabia Saudita e Russia hanno un direttore esecutivo ad hoc. Per gli
altri Paesi ci sono dei direttori che rappresentano un certo numero di stati. Chi la le quote minori
ha una persona che ne rappresenta più di uno. Il potere di voto è proporzionale al contributo
versato e il Fondo è controllato esclusivamente dai Paesi più ricchi che sono Stati Uniti, Canada,
6 Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002, pp.11-12
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Giappone, Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia, Arabia Saudita che detengono
insieme il 51% dei voti.
Quindi il meccanismo che stabilisce il modo in cui si prendono delle decisioni è un meccanismo un
po’ lontano da quella che è la classica democrazia. Nel momento in cui il FMI ha rivoluzionato le
logiche d’intervento si assiste anche al dominio dei modelli teorici di riferimento che sono quelli
influenzati dal monetarismo di Friedman. Viene dato per scontato che la situazione di equilibro tra
domanda e offerta corrisponda al massimo grado di impiego dell’economia; se vi è disoccupazione,
questo dipende da uno squilibrio del mercato del lavoro esattamente come nel modello di equilibro
economico generale che abbiamo già visto. La disoccupazione è determinata da un eccesso di offerta
che le imprese non sono in grado di assorbire. Quindi è sufficiente una riduzione del salario
nominale per far sì che scompaia.
Le modalità di produzione e di accumulazione sono ininfluenti così come le modalità di
finanziamento dell’attività di investimento. E si costruiscono modelli di crescita che devono essere
seguiti dai Paesi che ricevono finanziamenti dal FMI, fondati tutti sull’idea che la crescita debba
essere trainata soprattutto dai capitali esteri e che questo comporti quindi una necessaria
privatizzazione dell’economie nazionali, una liberalizzazione dei prezzi quindi una riduzione
dell’intervento statale.
La distribuzione del reddito che ha origine da un mercato in cui ci sono dei prezzi flessibili farebbe
nascere nei lavoratori la voglia di lavorare. Quindi i problemi di squilibrio dal punto di vista dei
redditi deriverebbero dalla diversa volontà di impegno nel mercato del lavoro.
Questo a cosa conduce dal punto di vista delle azioni programmate dal FMI quando si chiede il suo
intervento? La cosa può essere divisa in 6 momenti .
1) Situazione di crisi che viene individuata. Il debito estero e il debito interno obbliga il Paese a
ricorrere a creditori istituzionali, come il FMI.
2) Il Fondo garantisce il finanziamento a particolari condizioni: il Paese si impegna ad adottare una
strategia economica finalizzata a raggiungere in 3 anni il riequilibrio dei conti con l’estero e dei
conti interni. L’obiettivo si suppone raggiunto quando si riduce il tasso di inflazione. Questa
condizione è ritenuta necessaria per permette un successivo sostegno.
3) Riequilibrio dei conti con l’estero: la svalutazione della moneta nazionale. Essa dovrebbe
favorire le esportazioni. Ma spesso in realtà di riduce in una riduzione dei costi delle materie
prime per le imprese straniere che operano dentro la nazione, perché già i prezzi dell’export
sono bassi e la diminuzione non favorisce la domanda. La moneta si svaluta talmente tanto da
indurrei i residenti a preferire la moneta estera, solitamente il dollaro (dollarizzazione delle
economie). Non è necessariamente uguale in tutti i luoghi. Nei Paesi in via di sviluppo genera
una immediata convenienza nell’acquisto di materie prime ma può generare uno spiazzamento
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competo del circuito monetario interno. La moneta estera domina le relazioni commerciali del
Paese. Anche i beni e i servizi non vengono più venduti come prima
4) La svalutazione rende più costosi i prodotti importati, questa cosa è l’altra faccia della medaglia
della perdita di valore della moneta. Se dipendi da materie prime tecnologie che devi pagare in
dollari avrai una dipendenza finanziaria maggiore, ciò implica un aumento dei costi di
produzioni nazionali e diventa difficile controllare il tasso di inflazione (condizione per i
successivi aiuti). Si rende necessario comprimere la componente interna dei costi di produzione
compensando anche l’incremento avuto dai costi di produzione che deriva dai costi delle
importazioni. I salari vengono abbattuti per compensare i costi delle materie prime : quanto
dipendi dall’estero, tanto i salari sono ridotti.
5) Riequilibro dei conti interni. L’inflazione deve essere ridotta e quindi attraverso la riduzione del
costo dei lavoro e di una liberalizzazione dei mercati che magari sono ancora invece
caratterizzati da interventi pubblici volti a cercare di introdurre dei cambiamenti sui prezzi
oppure a contenere i prezzi sui beni di prima necessità. Secondo un approccio neoliberista, una
maggiore complessità sarebbe invece la ricetta da prendere in considerazione perché la
riduzione dei prezzi dovrebbe contribuire al benessere sociale, di conseguenza diventa
necessario adottare politiche di privatizzazione dei servizi pubblici comprimere la spesa
pubblica, e in questo contesto vengono introdotti i piani di aggiustamento strutturale. I quali
negli anni ’90, nell’africa subsahariana, hanno causato un aumento ingente dei costi della sanità
e dell’istruzione che viene spesso ridotta a strutture private o ONG. Spesso con dei piani di
formazione di livello alto che sostengono esattamente queste logiche economiche. Le università
spesso sono i luoghi in cui si criticano le vecchie politiche keynesiane; è come se si orientasse la
popolazione ad accettare l’idea che le condizioni che sostengono la crescita economica non
possono che fondarsi sui precetti anti-keynesiani.
6) Se l’equilibrio interno ed esterno vengono più o meno ripristinati nell’arco dei 3 anni, anche al
prezzo di una recessione economiche, il Paese viene classificato come stabile, virtuoso e pronto
per un rilancio economico a buon mercato. Che si concretizza in luoghi di lavoro e figure che
partecipano a scelte politiche che molto spesso vengono proprio dai Paesi che hanno contribuito
a questo rilancio. Per cui le multinazionali dei Paesi che hanno anche all’interno dei FMI delle
quote maggiori, hanno beneficiato di questa situazione. Nel 1982 quando il Messico dichiarò di
non poter pagare più i propri debiti, il Fondo Monetario Internazionale intervenne in aiuto. Il
Messico però fu costretto ad attuare delle riforme che avevano come obiettivo primario
l’abbattimento di questi debiti. In particolare fu necessario ridurre la spesa pubblica,
privatizzando e svalutando la moneta, alzare i tassi d’interesse . eliminare i limiti delle barriere
per aprire i mercati. Secondo un rapporto del 96 che analizzava questo, si registrava un aumento
della povertà. In 11 dei rimanenti 15 Paesi la povertà era diminutiva meno del 2%. E le spese
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diminuivano. I tagli della sanità e la scolarizzazione hanno portato a mortalità infantile e la
diminuzione della scolarità Tutto ciò veniva confrontato con la logica keynesiana (anni 60-70)
che non arrivava a questi risultati. (inversione di tendenza). La svalutazione della moneta ha
portato ad una riduzione del potere di acquisto dei salari nell’ordine del 50-60% negli 11 anni .
Nel best seller, La globalizzazione e i suoi oppositori (2002), Stiglitz riassume le sue analisi traendone
giudizi politici precisi, fondati e molto duri soprattutto nei confronti del FMI:
«Sono d’accordo con l’FMI sul fatto che a volte i mercati danno prova di eccessivo pessimismo. Ma credo anche che in certe occasioni possano mostrare eccessivo ottimismo e che questi problemi non si verifichino soltanto sul mercato dei tassi di cambio. Ci sono altre imperfezioni dei mercati in particolare in quelli dei capitali, che richiedono interventi di vasta portata. Per esempio, è stata l’eccessiva esuberanza a far scoppiare la bolla del mercato immobiliare e borsistico in Thailandia – una bolla rinforzata, se non addirittura creata, dai capitali speculativi vaganti che affluivano all’interno del paese. All’esuberanza è seguito un pessimismo eccessivo quando la tendenza si è invertita bruscamente. Per meglio dire, questa inversione di tendenza nel flusso dei capitali speculativi è stata la causa alla base dell’eccessiva volatilità dei tassi di cambio. Se questo è un fenomeno paragonabile a una malattia, ha senso trattare la malattia e non soltanto le sue manifestazioni, cioè la volatilità dei tassi di cambio. Ma con la sua ideologia neoliberista, l’FMI ha facilitato il movimento dei capitali speculativi dentro e fuori dai paesi. Trattando direttamente i sintomi, immettendo cioè miliardi di dollari sul mercato, l’FMI ha di fatto peggiorato la malattia»7
Come antidoto alla distruttività dei movimenti di capitali, potrebbe forse essere di attualità proprio il
Piano di International Clearing Union proposto da Keynes e messo da parte a Bretton Woods:
l’istituzione di una moneta di conto internazionale, emessa da una Camera di Compensazione
sovranazionale in un contesto in cui ciascun Paese conserva entro i propri confini la valuta nazionale,
ma è intestatario anche di un conto corrente presso la Camera nella nuova moneta, che utilizza per
scambiare merci col settore estero. Ogni volta che il Paese A vende al Paese B un bene, la Camera
accredita il valore corrispondente in Bancor sul suo conto. Il credito di cui gode A, però, non è solo verso
B ma verso tutti i paesi registrati nella Camera. Così, il Paese A può utilizzare questo attivo per importare
un bene da un altro paese C. Alla fine, crediti e debiti dei paesi si compensano: il saldo contabile della
Camera è zero e la moneta internazionale letteralmente scompare. Può succedere che un paese finisca
le sue riserve in moneta internazionale perché in deficit strutturale di parte corrente (importazioni
cronicamente superiori alle esportazioni). In questo caso, deve pagare una multa e ripristinare la
competitività, comprimendo la domanda interna. Ma attenzione: nel sistema anche chi ha un avanzo
commerciale troppo elevato è soggetto al pagamento di una tassa – che non è altro che un tasso
d’interesse negati