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Stefano Beccastrini IL GELATO DI SISTER SUSIE LA PROFESSIONE INFERMIERISTICA SULLO SCHERMO DEL CINEMA Alla memoria di Marco Noferi, bravo infermiere Il ruolo dell’infermiere è anche quello umano di vedere l’uomo nella malattia anziché la malattia nell’uomo Giorgio Cosmacini Anche se lo spessore professionale del “mestiere dell’infermiere” (non casualmente definito, fino a pochi anni fa, “paramedico”) è stato a lungo scarsamente percepito dall’opinione pubblica, abituata a considerare il medico, come ebbe a scrivere Giorgio Bert in un delizioso libretto di vari anni fa intitolato Giochiamo al dottore, quale “… il principale e quasi il solo tecnico della salute, mentre coloro che lo coadiuvano appaiono come figure sfuocate e secondarie…”, va riconosciuto al cinema, soprattutto a quello americano, il merito di aver dedicato, già a partire dagli anni Trenta, un’attenzione non banale, seppure talvolta un po’ retorica e sempre declinata al femminile, a questo professionista della salute. Già nel 1936 William Dieterle, il cineasta tedesco- americano che fu il maggiore specialista di Biopic (Biographical Picture, film biografici) della Hollywood classica, realizzò un film, L’angelo bianco, sulla vita e l’opera di Florence Nighingale, che della figura dell’infermiera moderna può essere considerata la promotrice. Cinque anni prima William Wellman, un veterano di Hollywood, aveva realizzato Night Nurse, storia di un’infermiera (interpretata dalla sua attrice prediletta, Barbara Stanwych) che sventa il complotto di un losco medico a danno dei due bambini da lei assistiti. Il film, che uscì in Italia dopo quello di Dieterle, circolò da noi col medesimo titolo di esso e cioè, ancora, L’angelo bianco. Nella mente poco fantasiosa dei distributori italiani, infatti, nel titolo di un film sul lavoro di un’infermiera deve per forza comparire la parola “angelo”. Così Vigil in the Night, 1940, di George Stevens (altro veterano di Hollywood), storia di due infermiere eroicamente impegnate nel combattere un’epidemia di difterite, divenne in Italia Angeli della notte e il bel Sister Kerry, 1946, di Dudley Nichols (noto soprattutto quale sceneggiatore) - che tratta della storia vera di Elizabeth 1

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Stefano Beccastrini

IL GELATO DI SISTER SUSIELA PROFESSIONE INFERMIERISTICA SULLO SCHERMO DEL CINEMA Alla memoria di Marco Noferi,bravo infermiere

Il ruolo dell’infermiere è anche quello umanodi vedere l’uomo nella malattia anziché la malattia nell’uomoGiorgio Cosmacini

Anche se lo spessore professionale del “mestiere dell’infermiere” (non casualmente definito, fino a pochi anni fa, “paramedico”) è stato a lungo scarsamente percepito dall’opinione pubblica, abituata a considerare il medico, come ebbe a scrivere Giorgio Bert in un delizioso libretto di vari anni fa intitolato Giochiamo al dottore, quale “… il principale e quasi il solo tecnico della salute, mentre coloro che lo coadiuvano appaiono come figure sfuocate e secondarie…”, va riconosciuto al cinema, soprattutto a quello americano, il merito di aver dedicato, già a partire dagli anni Trenta, un’attenzione non banale, seppure talvolta un po’ retorica e sempre declinata al femminile, a questo professionista della salute. Già nel 1936 William Dieterle, il cineasta tedesco-americano che fu il maggiore specialista di Biopic (Biographical Picture, film biografici) della Hollywood classica, realizzò un film, L’angelo bianco, sulla vita e l’opera di Florence Nighingale, che della figura dell’infermiera moderna può essere considerata la promotrice. Cinque anni prima William Wellman, un veterano di Hollywood, aveva realizzato Night Nurse, storia di un’infermiera (interpretata dalla sua attrice prediletta, Barbara Stanwych) che sventa il complotto di un losco medico a danno dei due bambini da lei assistiti. Il film, che uscì in Italia dopo quello di Dieterle, circolò da noi col medesimo titolo di esso e cioè, ancora, L’angelo bianco. Nella mente poco fantasiosa dei distributori italiani, infatti, nel titolo di un film sul lavoro di un’infermiera deve per forza comparire la parola “angelo”. Così Vigil in the Night, 1940, di George Stevens (altro veterano di Hollywood), storia di due infermiere eroicamente impegnate nel combattere un’epidemia di difterite, divenne in Italia Angeli della notte e il bel Sister Kerry, 1946, di Dudley Nichols (noto soprattutto quale sceneggiatore) - che tratta della storia vera di Elizabeth Kerry, infermiera australiana interpretata da Rosalind Russell, la quale mise a punto un metodo riabilitativo per il recupero degli arti inferiori dei bambini paralitici .e riuscì a diffonderlo nel mondo nonostante l’ottusa opposizione di medici incapaci d’accettare l’idea che un’importante scoperta fosse stata fatta da una “paramedica” - divenne uno stucchevole L’angelo del dolore.

Comunque, al di là dei brutti titoli affibbiati in Italia a tali film, possiamo dire che il cinema americano ha cominciato abbastanza precocemente a superare lo stereotipo delle infermiere e degli

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infermieri quali passivi esecutori dei comandi dei medici. Ha saputo continuare a farlo fino a tempi recenti e recentissimi. Per esempio, con Il paziente inglese, 1996, di Anthony Minghella, melodrammatica storia di un’infermiera canadese (l’interprete è l’intensa Juliette Binoche) la quale, in tempo di guerra e senza la guida di alcun medico, cura e assiste con capacità e dedizione, in uno sperduto ma assai romantico casolare toscano, un soldato gravemente ferito e tutto fasciato di bende. E, ancora per esempio, con il film di Martin Scorsese, assai bello, di Martin Al di là della vita, 1999 (il titolo originale, ancora una volta, è più significativo: Bringing out the Dead, che significa gergalmente “tirare fuori il paziente dalla morte in cui sta andando”). Il film narra la drammatica esperienza di Frank Pierce (l’interprete è Nicolas Cage), un infermiere di New York che fa i turni di notte in un’ambulanza di pronto intervento, perfettamente attrezzata per garantire forme di terapia d’emergenza in quei casi in cui non ci sia tempo per condurre di corsa il paziente al Pronto Soccorso più vicino. Frank è bravo, sia tecnicamente che umanamente, e proprio perciò ormai afflitto - dopo una serie di pazienti che nella morte, nonostante le sue cure, ci sono fatalmente finiti - da una grave forma di burn out. .

Si è parlato finora del cinema americano, meno distratto di altri nei confronti della figura e del lavoro degli infermieri e delle infermiere. Tuttavia, Italia a parte (ove hanno imperversato turpi film semipornografici quali L’infermiera di notte o L’infermiera nella corsia dei militari, entrambi di tal Mariano Laurenti, e altra robaccia del genere), anche il cinema europeo ha talora saputo occuparsi, con accesa sensibile e profondo rispetto, della professione infermieristica. Due esempi per tutti: Fiamme di passione, 1938, di Carol Reed (ma il titolo originale era, più sobriamente, Bank Holiday, che significa grosso modo “domenica di agosto”) e Alle soglie della vita, 1958, di Ingmar Bergman.

Protagonista del primo è una brava infermiera inglese che si prende una domenica di meritato riposo estivo sul mare ma non sa togliersi dalla mente una paziente recentemente assistita ma disgraziatamente morta durante il parto. Lascia la spiaggia e torna presto in città nonché, quasi colta da un improvviso presentimento, corre a far visita al giovane vedovo, giusto in tempo per

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salvarlo dal suicidio. Personaggio di rilievo del secondo è un’infermiera che, assai più del medico di reparto, sa offrire non soltanto assistenza terapeutica ma vero conforto e consiglio, ossia vera “cura”, alle donne ricoverate nell’istituto ostetrico-ginecologico in cui ella lavora. Vale la pena di ricordare infine - prima di tracciare il profilo di Susie Monahan, una “infermiera cinematografica” di significativo rilievo - quella particolare tipologia di infermiere ospedaliere che sono, ma soprattutto sono state, le suore: moderna incarnazione d’una secolare tradizione di assistenza religiosa ai miseri e agli infermi. Sul tema, ricorderemo soltanto tre film. Il primo è Anna, 1952, di Alberto Lattuada, ove una notevole Silvana Mangano impersona una donna la quale, dopo una vita contraddittoria e dissipata tra amori sinceri e legami viziosi, sceglie alfine di diventare una suora-infermiera presso l’ospedale Niguarda di Milano. Il secondo è Storia di una monaca, 1959, del cineasta austro-americano Fred Zinnemann, particolarmente attento ai moti morali dell’animo umano. Narra di suor Lucia (una dolce e brava Audrey Hepburn) la quale, dopo aver lavorato in un ospedale psichiatrico belga, poi in un ospedale del Congo, infine sui fronti della II guerra mondiale, abbandona il velo e la professione per unirsi, durante l’occupazione nazista del Belgio, alla Resistenza. Il terzo è Bianco, rosso e…, 1972, ancora di Alberto Lattuada. Narra di suor Germana (Sophia Loren), alle prese con un giovane comunista (Adriano Cementano) che occupa abusivamente un posto-letto nel reparto ospedaliero di cui lei è caposala. Purtroppo, Lattuada non era più quello di Anna e la Loren non era la Mangano.

Ma veniamo alfine, avviandosi a concludere degnamente questo breve testo sul cinema e la professione infermieristica, a Susie Monahan (l’attrice è la brava Audra Mc Donald). Ella è una infermiera di colore, operante presso un ospedale oncologico americano nel viene quale ricoverata Vivian Bearning, una severa docente universitaria, una profonda studiosa della poesia metafisica inglese del ‘600 e in particolare di John Donne, una donna di eccezionale intelligenza e di forte carattere (l’attrice è una toccante Emma Thompson). Vivian è ammalata di un carcinoma ovarico e l’oncologo, nel comunicarle alquanto bruscamente, nella scena iniziale del film, la triste diagnosi le ha prospettato una strategia terapeutica più utile alla ricerca medica che al sollievo delle sue condizioni di salute. Ella, quasi sfidando il destino, ha accettato. Il film è La forza della mente, 2001 - il titolo originale è, però, Wit, cioè “spirito” o, persino, “arguzia” - regia di Mike Nichols (uno di quei cineasti hollywoodiani che, pur non eccelsi, posseggono una robustezza narrativa e una sensibilità etica che sono ormai diventate merce rara nel cinema italiano). Susie - mentre i tanti medici dell’ospedale, dal primario al ricercatore ai tirocinanti, sono interessati più all’andamento della sperimentazione farmacologica su Vivian che a comprendere e sostenere il suo dramma non soltanto di ancor giovane donna terribilmente ammalata e destinata a una morte precoce ma ancor prima, e forse ancor peggio, di colta intellettuale abituata alla propria indipendenza e costretta invece a farsi oggetto di studio e di manipolazione da parte di altri, in quel luogo dalle regole spesso incomprensibili e forse persino irrazionali che è un ospedale - è l’unica operatrice sanitaria del reparto a saper costruire con lei un dialogo reale e assai ricco, una vera e reciproca

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comunicazione. Ella chiama Vivian “Cara”, la tratta con dolce premura, presta sollecita attenzione alla sua persona e non soltanto scientifico interesse alle sue cellule cancerose. Alla fine, sarà proprio l’infermiera, resa forte dall’intima conoscenza dei sentimenti e delle idee della paziente (con cui ha parlato a lungo, di cui si è presa continua cura, a cui ha tenuto la mano nelle notti insonni e dolenti, insieme alla quale ha persino mangiato del gelato nel corso di una sera angosciante per la paziente, ormai consapevole della prossimità della fine), ad opporsi vittoriosamente al tentativo dei medici di praticare sul corpo di Vivian, ormai avviato ad abbandonare per sempre questo mondo ma ancora interessante per la medicina a fini di ricerca, pratiche di crudele accanimento terapeutico.

Era stata proprio Susie, del resto, a parlare per prima a Vivian, usando il linguaggio di tutti i giorni e non il medichese, dell’inesorabile avanzare del suo male e della prospettiva ravvicinata della sua morte: “Cosa vorresti che facessimo se il tuo cuore dovesse fermarsi?” “Lasciate che si fermi” “Allora lascialo scritto. Non spetterebbe a me dirti queste cose, spetterebbe ai medici, ma loro non si arrendono mai e ti convincerebbero a firmare il modulo in cui li autorizzi a praticarti ogni tipo di terapia”. Chissà se Margaret Edson, autrice del dramma teatrale da cui il film è tratto, aveva letto il libro di Elsa Kuhse, direttrice del Centre for Human Bioethics della Momash University (Australia), intitolato Prendersi cura. L’etica e la professione di infermiera. In esso, a proposito delle scelte da compiere nei momenti estremi della vita dei pazienti, si afferma “…l’esclusione delle infermiere dalla decisione non costituisce…(per i pazienti stessi)…un buon servizio…(in quanto)…le infermiere si prendono cura dei pazienti in maniera continua…(mentre)…i medici vedono i pazienti solo per un breve momento…Ma allora perché dovrebbe essere il medico, anziché l’infermiera, a prescrivere – o a rifiutarsi di prescrivere – ordini di non rianimazione o a decidere quanto controllo del dolore o del sintomo sia sufficiente per un paziente sofferente e in punto di morte?”. Personalmente, credo proprio che lo avesse letto.

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