Stampo Antimafioso 2015

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Cari lettori e care lettrici,Stampo Antimafioso vuole farvi gli auguri.

Ormai il giornalino di fine anno è diventato una tradizione. 2013, 2014 e ora Stampo 2015. Come per le scorse edizioni, questo speciale raccoglie i nostri migliori articoli dell’anno appena passato. Ci sono tutti i temi che più ci stanno a cuore da sempre: notizie dal nostro territorio, notizie dal nostro Paese e notizie dal movimento antimafia. Così un occhio osserva la realtà criminale; l’altro, invece, monitora i passaggi e le esperienze di cambiamento, alla ricerca di nuovi strumenti più efficaci.

Le pagine qui presentate raccontano un anno di lavoro sul nostro sito, www.stampoantimafioso.it. Non solo; sono anche un invito a continuare a camminare insieme. Un invito a mantenere e consolidare il rapporto che si è instaurato tra noi che ci impegniamo a scrivere e voi che scegliete di leggerci. È una vo-lontà quotidiana, rinnovata giorno per giorno; è, di fatto, la nostra missione: informarci e informarvi. Ci guidano in questo compito le parole del giudice Paolo Borsellino: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali, però parlatene”, prendendo sempre a modello Giuseppe Fava. Così scriveva infatti, negli anni Ottanta, sul Giornale del Sud: “Onestamente la verità, sempre la verità”.

L’informazione volontaria, si sa, ha sì il grande vantaggio dell’indipendenza e della libertà di pensiero ma sconta, nondimeno, il forte limite della gratuità. Diventa così più accidentato il percorso di un’inchiesta, per esempio. Ma questa difficoltà si può trasformare in opportunità di partecipazione e incontro. Stampo, come spesso accade nel mondo del volontariato, non conta grandi disponibilità economiche. Tuttavia, in questo 2015, siamo diventati più forti grazie al sostegno di amici cari che vogliamo qui ringraziare: l’associazione Bang, che organizzando il Progetto Legalità Brianza ha deciso di devolvere a noi e ad Addiopizzo il rica-vato del concerto di beneficenza di Brunori Sas; i gestori del locale Bluè di Cernusco sul Naviglio, ideatori dell’iniziativa di finanziamento Caffè Corretto, celebrata lo scorso 27 gennaio con una bella festa. Ma ci sen-tiamo in dovere di dare spazio anche al Piccolo Teatro e all’Università degli Studi di Milano che, dopo aver scommesso sullo spettacolo E io dico no. Ogni notte ha un’alba (regia di Marco Rampoldi, drammaturgia di Nando dalla Chiesa e Marco Rampoldi, con la collaborazione di Paola Ornati) hanno creduto e dato risalto all’impegno non solo di Stampo, ma anche di Unilibera e Wikimafia, avviando per il 2015/2016 un nuovo ciclo di quattro appuntamenti teatrali. Il primo - 5 centimetri d’aria - storia di Cristina Mazzotti e dei figli rapiti - è andato in scena a dicembre 2015, avendo dovuto addirittura aumentare le repliche previste a causa delle numerose richieste di prenotazione.

Queste sono meravigliose opportunità. Opportunità che abbracciano parole e azioni come partecipazione, impegno, solidarietà. Perciò, se anche voi credete che sul nostro lavoro si possa scommettere, aiutateci. Aiutateci a restare indi-pendenti. Andiamo avanti insieme. Bastano pochi semplici gesti: il passaparola, la condivisione di questo giornalino, una donazione dal sito, un invito nei circoli e nelle scuole a cui siete vicino.

Vogliamo salutarvi ricordando Elena Fava, figlia di Pippo Fava e sorella di Claudio Fava scomparsa poche settimane fa, perché mai si è risparmiata nel rivolgerci attenzione e apprezzamenti. Come ha scritto Riccardo Orioles “resta l’orgoglio di averla avuta qui”.

Buona lettura e buon 2016!La redazione di Stampo Antimafioso

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Indice

Tra Bergamo e Brescia, l’altra “Terra dei fuochi”

#MalaBrianza: Viaggio nella Brianza della ‘Ndrangheta

Fino Mornasco, tutto tace. O forse no?

Fino Mornasco. A quando lo scioglimento?

L’impegno morale verso l’amministrazione di Fino Mornasco

Il coraggio di mettersi in gioco: Libera Masseria

Processo La Svolta: le motivazioni della sentenza

Mafie in Liguria, nasce l’Osservatorio “Boris Giuliano”: cultura e informazione contro il silenzio e l’omertà

Andreotti assolto?

La mappa della mafia al Nord

La piazza virtuale e la piazza reale. Viaggio nel mondo dei Casamonica

Quando la criminalità organizzata è su Facebook. E ricorda Borsellino

La prima tesi di laurea in “antimafia” secondo Repubblica Napoli

Siani, a 30 anni dalla morte gli atti processuali online

Africo. Un paese tra ‘ndrangheta e rivolta

I rapporti di Cross per la Commissione parlamentare antimafia

Messico: quando la resistenza è donna

La “narcolonización” in Argentina

Spagna: organizzazioni criminali, riciclaggio e contatti con la politica

Pasquale Claudio Locatelli: il gioco dell’oca per un re del narco-traffico

È ora disponibile online Global Mafia!

Cecenia: le guerre, i crimini, i criminali e i traffici

Lituania, cos’è e come si muove la criminalità organizzata nel paese baltico

La guerra che stiamo perdendo

Movimento antimafia

Bologna, 21 marzo. Così è stata la bellissima giornata di Libera

Non solo camorra: vi presento il Tappeto di Iqbal

L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti

Quei giovani che a Milano raccolgono l’eredità di Giovanni Falcone

La Torre e dalla Chiesa: di padre in figlio, il coraggio di lottare

Di Matteo in Statale: strumenti di ieri e di oggi per la lotta alla mafia

Mai più soli: apre in Lombardia SOS Giustizia

Mariano Nicotra, imprenditore coraggioso: “No al pizzo, voglio essere libero”

Sud est Milano: Libera c’è

L’onda crescente dell’antimafia milanese

Lettera a Denise

L’Inferno e la Primavera. A proposito di lotta alla mafia

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Prodotto daStampo Antimafioso

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Redazione e collaboratori: Martina Mazzeo, Roberto Nicolini, Thomas Aureliani,

Valerio Berra, Luca Bonzanni, Ilaria D’Auria, Marco Fortunato, Matteo Furcas, Francesca Gatti, Davide Grossi,

Clemente La Porta, Mattia Maestri, Sara Manisera, Samuele Motta, Chiara Muzzolon, Stefano Paglia,

Adelia Pantano, Carmela Racioppi, Giorgia Venturini, Arianna Zottarel

Gli articoli contenuti in questo lavoro sono frutto del lavoro di Stampo Antimafioso nel 2015.

Cliccando sul titolo di ogni articolo si può visualizzare l’originale sul sito.

Il prodotto è distribuito con licenza Creative Commons Atribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0

Internazionale

Impaginazione: Roberto Nicolini; Copertina: Foto di Arianna Zottarel al quadro realizzato da Loredana Troia ed esposto in Piazza Politeama il 23 maggio 2014

Per info e segnalazioni:[email protected]

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Tra Bergamo e Brescia, l'altra "Terra dei fuochi"di Luca Bonzanni

A volte, certe coincidenze sono interessanti. E parecchio. Smonta-ta Expo, spenti i riflettori milanesi e tutti con gli occhi puntati sulla suburra romana, ecco invece la condanna per uno degli ex re del-le grandi opere lombarde. Arriva a Bergamo, si snoda attraverso Brescia e vede al centro Pierluca Locatelli, ex «imperatore» delle costruzioni, ex titolare di un co-losso (la «Locatelli» di Grumello del Monte, nel Bergamasco) da centinaia di operai, milioni di fat-turato e infinità di cantieri, ormai ex tutto. La data fatidica, quella della fine della sua corsa, è il 30 novembre 2011: dieci arresti intaccano me-diaticamente (il 2 dicembre 2011, ad esempio, il Corriere della sera, in un articolo a firma di Claudio Del Frate, titola «La Brebemi come una discarica») la BreBeMi, in manette finisce lo stesso Locatelli, e ci finisce soprattutto (per un al-tro motivo) Franco Nicoli Cristia-ni, allora vicepresidente Pdl del Consiglio regionale e già assessore all’Ambiente di Regione Lombar-dia. Per la «capitale morale» del paese, una bella botta. Le accuse dei magistrati, e in particolare del-la Direzione distrettuale antimafia bresciana, sono pesanti: una maz-zetta da 100mila euro recapitata da Locatelli a Nicoli Cristiani per sveltire l’iter per una discarica di amianto a Cappella Cantone (Cre-mona) e il presunto smaltimento illecito di rifiuti tossici sotto l’au-tostrada in costruzione (contesta-

Nero su bianco. Parlano le inchie-ste, i documenti, i verbali. L’ultima relazione annuale della Direzione nazionale antimafia racconta del distretto giudiziario bresciano come di un territorio dove la cri-minalità ambientale è aggressiva e manifesta, con condotte «non meno e anzi forse più pericolose di quelle cui tanta attenzione si è dedicata, consumatesi in territorio campano, se non altro perché nep-pure il bagliore dei fuochi levantisi verso il cielo ha potuto segnalare la presenza di qualcosa di terribi-le nelle viscere ella terra». Meno prosaicamente: un’altra «Terra dei fuochi». Rieccoci alla BreBeMi, allora. Au-tomobili che la frequentano? Po-che. Ombre? Tante. Il 4 novembre 2014, una manciata di mesi dopo l’inaugurazione, di fronte alla Commissione d’inchiesta parla-mentare sul ciclo dei rifiuti si svol-ge l’audizione di Roberto Pennisi, sostituto procuratore nazionale antimafia. Le sue parole sono pie-tre: «L’unico scopo al quale fino a questo momento è servita la Bre-BeMi è stato per interrare rifiuti. Spesso vado da Brescia a Napoli in ferrovia. La ferrovia corre paralle-lamente alla BreBeMi e io la vedo sempre vuota». Per quell’inchiesta (formata da due filoni distinti), un

“Lo scopo della BreBeMi? Interrare rifiuti”

to all’imprenditore, non al politi-co), in particolare nei cantieri di Fara Olivana con Sola (Bergamo) e Cassano d’Adda (Milano). Ma occorre fermarsi un attimo, inca-strare i tasselli del mosaico, trac-ciare il disegno di un quadro nero. La condanna a Locatelli, si diceva: quella giunta martedì 3 novembre 2015, infatti, riguarda un’altra sto-ria. Ma è da questa vicenda che è partito il lavoro d’indagine che ha portato a far luce sull’«autostrada fantasma» lombarda. Tra le gran-di opere affidate all’imprenditore c’era infatti la variante di Orzivec-chi, provincia di Brescia. Snodo cruciale della trama: l’impianto di Biancinella (a Calcinate, Berga-mo), di proprietà di Locatelli, in cui delle scorie di fonderia avreb-bero dovuto essere «purificate» prima di giungere al cantiere bre-sciano per essere impiegate nella realizzazione del manto stradale. Per i magistrati, non è andata pro-prio così: quelle scorie non sareb-bero state trattate adeguatamente. Impianto accusatorio sostanzial-mente confermato in Tribunale: sei anni la condanna inflitta dal giudice Vito Di Vita all’imprendi-tore per il traffico illecito di rifiuti, e condanne pure alla moglie e ad altri collaboratori di Locatelli. Un round importante, su cui peserà ora l’iter verso l’appello, ma fonda-mentale. Perché riconosce un dato di fatto: tra Bergamo e Brescia c’è una bomba ambientale.

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primo punto è stato segnato: sulla vicenda della discarica d’amianto, a ottobre 2014 è arrivato un pat-teggiamento per Nicoli Cristiani (due anni) e la condanna in rito abbreviato a Locatelli (due anni). La battaglia legale (rallentata da alcuni cavilli procedurali), ora, è tutta sullo smaltimento illecito di rifiuti (sotto accusa c’è l’ex impren-ditore edile, mentre l’ex politico è estraneo; la società Brebemi si è costituita parte civile). L’imprenditoria, la politica e an-che la pubblica amministrazione: sempre dinnanzi alla Commissio-ne sul ciclo dei rifiuti, la pm bre-sciana Silvia Bonardi ha riferito dell’esistenza di rapporti «ano-mali» tra Locatelli e alti dirigen-ti dell’Arpa (l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) di Bergamo. E, guarda caso, quel 30 novembre del 2011 in manet-te finì pure Giuseppe Rotondaro, dirigente dell’Arpa lombarda (ha patteggiato un anno e otto mesi). Manca solo la criminalità organiz-zata. E questo, forse, è un fattore particolare del contesto «ecocri-minale» bergamasco-bresciano: la ‘ndrangheta si vede poco, la sua presenza è solo sfumata, sono so-prattutto gli imprenditori a spor-carsi le mani. Qualche rapporto tra la «Locatelli» e le ‘ndrine, co-

pianeggiante, negli ultimi anni ecco sorgere degli strani rilievi. Tettonica delle placche? Materia per geologi? No, la causa è un’altra: i rifiuti. Non lo dice un visionario: lo sostiene il procuratore gene-rale di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, di fronte alla Commis-sione d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti, giunta da quelle parti per un’apposita missione tra il 15 e il 16 giugno 2015. «Monti-chiari è una zona pianeggiante, o perlomeno lo è stata dall’assesta-mento tettonico risalente a quan-do la nostra specie non era sulla terra – spiega il magistrato con una punta d’ironia –, fino ad alcu-ni anni fa. Attualmente, la pianura di Montichiari è un sito collinare. A parte i casi di vulcanismo, qui totalmente assenti, le colline non spuntano come funghi, e infatti si tratta di colline del tutto anoma-le, cioè di cumuli molto estesi di rifiuti, alcuni messi più o meno in situazione di attenzione, con qualche cautela». Contromisure? Nulla: «Non mi risulta che siano in atto studi o altro per una bo-nifica di Montichiari», sentenzia amaramente Dell’Osso. «Come è possibile?», è la domanda che sor-ge spontanea. Serve ripensare alle cave disseminate nella brughiera di Montichiari negli ultimi de-cenni: e dalle cave alle discariche (negli anni se ne sono succedute diciassette) e ai possibili illeciti connessi, il passo è breve.

Australian connection

La Valle Camonica e l’Australia. Le montagne e il deserto, i camo-sci e i canguri, il freddo e il caldo. Qualcosa in comune? Nemmeno l’emisfero, verrebbe da dire. Eppu-re, nel 2009, a Tomago, centro di nemmeno trecento anime disper-

munque, è emerso. Tocca riav-volgere il nastro almeno al 2006, quando l’azienda bergamasca è impegnata nei lavori per l’alta ve-locità Milano-Venezia a Melzo. Ottenuto il subappalto dalla «De Lieto» (la principale impresa ag-giudicataria), per alcuni lavori di movimento terra la «Locatelli» si avvale della «P&P», la ditta fa-cente capo a Marcello Paparo, ca-labrese di Isola di Capo Rizzuto trapiantato a Milano, successiva-mente arrestato nel 2009 su richie-sta della Dda meneghina. Durante quei lavori, la società di Paparo ha un problema non di poco conto: come aggirare le normative anti-mafia? Serve un consiglio, un sug-gerimento. A Romualdo Paparo, fratello di Marcello, glielo offre un geometra della «Locatelli» (i di-pendenti dell’azienda bergamasca non avranno conseguenze penali per intervenuta prescrizione): sui camion della «P&P», «schiaffa-ci due targhette “Locatelli”, no?». Come non averci pensato prima?

Dolci colline di rifiuti

Ci sono poi strane colline che spuntano dal nulla. Si prenda Montichiari, cittadina di 25mila abitanti a una ventina di chilome-tri di Brescia. Zona storicamente

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so nel Nuovo Galles del Sud, qual-cuno ha un’idea. E che idea. Perché lì, a Tomago, a due ore di macchi-na da Sidney, c’è praticamente solo un grande business: l’alluminio, e in particolare la fonderia della «Tomago Aluminium Company», giro d’affari miliardario. Gli scarti della lavorazione sono un’infinità, liberarsene non è facile. Tra set-tembre 2009 e febbraio 2010 ini-zia la traversata intercontinentale di quegli scarti, soprattutto celle elettrolitiche della fusione dell’al-luminio. Ventitrémila tonnellate, cifra esorbitante: via mare da Sid-ney a Porto Marghera, via tir (800 tir) da Venezia a Berzo Demo. Ma cosa c’è in quegli anni a Ber-zo Demo, paesino incastonato in quella valle che separa la provincia di Bergamo da quella di Brescia? La «Selca», società sorta negli anni Novanta, guidata dai fratelli Fla-vio e Ivano Bettoni, che nel 1998 ottiene una prima autorizzazione da Regione Lombardia per tratta-re rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi, autorizzazione che nel 2002 permette alla società di trat-tare fino a 150mila tonnellate an-nue. Coincidenze: chi è l’assessore regionale all’Ambiente dal 1995 al 2005? Franco Nicoli Cristia-ni, finito in manette per l’affaire Cappella Cantone. Oltre che dalla «Terra dei canguri», rifiuti da trat-tare arrivano anche da tutta Ita-lia, dall’Europa, persino dall’Asia. «Trattare i rifiuti», tuttavia, è un eufemismo. Benché si presentasse come «altamente specializzata», la

reale prassi adottata dall’azienda la illustra Pier Luigi Maria Dell’Os-so alla Commissione sul ciclo di rifiuti: «Questi rifiuti tossici non erano trattati adeguatamente, la Selca non ha mai avuto la dispo-nibilità di attrezzature. Inoltre, ri-sulta che rivendesse stabilmente i medesimi rifiuti tossici come ma-terie prime secondarie in dettaglio quali combustibili ad acciaierie e cementifici». Scorie non trattate, rifiuti abbandonati a se stessi, pro-babili sversamenti, emissioni fuori controllo. E falde acquifere inqui-nate, come rilevato dall’Arpa: par-ticolare non da poco, a due passi dall’azienda scorre il fiume Oglio, che fra Costa Volpino (Bergamo) e Pisogne (Brescia) va a formare il lago d’Iseo. Capita pure che sulla «Selca» si posino gli occhi della criminali-tà. Premessa fondamentale: dalla seconda metà degli anni Duemila (nel 2004, nel frattempo, la magi-stratura bresciana effettua il pri-mo sequestro di rifiuti), la società entra in crisi e nel 2010 arriva il fallimento. Per salvarla, a un certo punto, si interessa Guido Catapa-no, alla testa dell’omonimo grup-po imprenditoriale napoletano, secondo alcune fonti in odore di camorra, poi arrestato il 29 mar-zo 2011 insieme ad altre tredici persone per associazione a delin-quere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. E la storia dell’Au-stralia? Altre ombre, e per far luce si sta muovendo Dell’Osso: «Ho già avviato indagini sull’impresa

australiana, perché in Australia la ‘ndrangheta c’è, contrariamente a quello che gli australiani pensa-no». C’è anche nel Nuovo Galles del Sud, infatti. E da decenni: nel 1977, a Griffith, ad esempio, viene ucciso Donald Mackay, deputato del Nuovo Galles del Sud, primo omicidio eccellente della mafia ca-labrese in terra d’Australia. È una storia che si annuncia an-cora lunga e tortuosa, quella della «Selca». Sotto più fronti. In primis, quello ambientale, una ferita aper-ta e destinata a produrre effetti pesanti. Dal punto di vista giudi-ziario non si è certo messi meglio. I fratelli Bettoni sono stati rinviati a giudizio per falso e traffico inter-nazionale di rifiuti, ma la giusti-zia procede lentamente: la prima udienza, prevista per il 5 giugno di quest’anno, è stata rimandata al 27 ottobre e successivamente rinviata al 7 dicembre per un’incompati-bilità del giudice. Sullo sfondo, lo spettro ricorrente: la prescrizione (scatterebbe a metà 2017) e l’enne-sima storia d’impunità all’italiana. La ciliegina sulla torta: Giaco-mo Ducoli, curatore fallimentare dell’azienda, è indagato per disa-stro ambientale. Stando all’accu-sa, non avrebbe utilizzato con la dovuta «priorità» i fondi (circa 9 milioni di euro) a disposizione per la bonifica. Quei rifiuti, insom-ma, sembrano abbandonati a loro stessi. Un po’ come questa nuova «Terra dei fuochi».

Il Vostro articolo menziona la Società di Progetto Brebemi S.p.A. nell’ambito di vicende giudiziarie relative ad una discarica di amianto in provincia di Cremona e alla variante alla tangenziale di Orzivecchi, ancorché sia noto che tali vicende non riguardino in alcun modo la stessa Società. Non si comprende dunque l’affermazione “dieci arresti azzoppano la Brebemi”, di tutta evidenza non veritiera, fuorviante e gravemente lesiva dell’immagine della stessa Società. Non ci risulta inoltre che l’ex vicepresi-dente del Consiglio regionale della Lombardia, Franco Nicoli Cristiani, sia “finito in manette” per un presunto “affaire Brebemi”.

Inizia così la dichiarazione fattaci pervenire dal settore “Affari legali” della Società di progetto Brebemi spa in relazione all’arti-colo Tra Bergamo e Brescia, l’altra “Terra dei Fuochi”, pubblicato su StampoAntimafioso il 9 novembre 2015. Il testo integrale qui.

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#MalaBrianza: viaggio nella Brianza della ‘ndranghetadi Giorgia Venturini e Samuele Ghiozzi

La mattina che segue un’Operazione Antimafia è sempre una sorpresa. Un risveglio insolito. Un boato inaspettato. In poche ore scopri che il politico più in vista del paese viene accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. L’amico, quel imprenditore che tanto stimavi, fa affari con la ‘Ndrangheta. Mentre il bar, dove eri solito incontrare amici e compaesani, ac-coglie summit dei più influenti boss della zona. Quella mattina ti svegli ed è uno stupore nuovo. Lo stupore di chi scopre per la prima volta che la mafia bussa an-che a casa tua. Che, i vecchi luoghi comuni che han-no accompagnato generazioni passate, quelli che da sempre tracciano una linea invalicabile tra nord e sud, tra imprenditoria mafiosa e imprenditoria lombarda, oggi non hanno più fondamenta. E non basta che tu abbia letto libri o partecipato a convegni. Perché, di-ciamolo, nessuno è realmente preparato a scoprire che i luoghi della propria infanzia sono covi prediletti del crimine organizzato. Perlomeno, non in Brianza. Qua, vince ancora l’indifferenza. Ciò che è veramente inso-lito, però, è che di risvegli inaspettati ce ne sono stati parecchi. Di boati i cittadini brianzoli ne hanno sentiti molti. Ma ogni volta è uno stupore nuovo, come se finita l’influenza mediatica dell’Operazione preceden-te, tutto si azzeri. Il cittadino dimentica e aspetta che un’altra Operazione venga a risvegliare l’interesse. Tuttavia, c’è sempre qualcuno che reagisce diversa-mente. Non aspetta, si convince di averlo già fatto per molto tempo. Decide di osservare, di capire e di denunciare, a gran voce, che qualcosa sta cambian-do. Anche in Brianza. Prende coscienza. Noi, que-ste persone, abbiamo deciso di incontrarle. Politici, magistrati, giornalisti e cittadini che hanno vissuto e hanno fatto sì, seppur in tempi e in Comuni diversi della Brianza, che quella mattinata fosse possibile. E, a modo loro, hanno cercato e trovato soluzioni a un problema che ora è impossibile negare. Risultato? È una storia. La storia di un territorio fertile alla col-lusione mafiosa e alla corruzione. La storia di chi si è lasciato travolgere dai grandi affari della ‘Ndrangheta e di chi ha detto no. La storia della grandi Operazioni Antimafia. I suoi protagonisti e i suoi luoghi. La loro

storia, quella delle Locali e delle ‘ndrine della zona, e la nostra storia, quella del cittadino brianzolo. A volte storie che si intrecciano, a volte no. Viaggio nella Brianza della ‘Ndrangheta nasce da una di queste mattinate. Quella che ha coinvolti i nostri di Comuni. Noi, che seppur formati a dovere tra i ban-chi dell’università, non neghiamo di aver fatto parte di quella percentuale di cittadini che considera casa propria immune dalla mafia. Ma non ci sono territori immuni dalla mafia in Brianza, ora lo abbiamo capito. L’idea è, quindi, quella di ripercorrere, attraverso un viaggio, quei luoghi coinvolti nell’Operazione Infini-to del 2010 per capire, a distanza di anni, ciò che è cambiato. La voglia di sapere ci ha spinto a visitare beni confiscati, intervistare persone e fare ricerca per comporre tutti i pezzi di un puzzle degli anni in cui volevamo solo vedere, ma non osservare. E se si deve parlare di stupore, allora quello che ci ha regalato que-sto viaggio è, senza dubbio, la facilità con le quali le persone ci hanno accolto. Aperto le porte di casa, de-gli uffici e hanno iniziato a raccontare. La loro storia. La nostra storia.

5 puntate...

#1: Brianza, terra di ‘ndrangheta. La sfida di Salvatore Bellomo

#2: Desio, frazione di Melito Porto Salvo. Il coraggio di Lucrezia Ricchiuti

#3: Nella Giussano di Erminio Barzaghi, cosa è cambiato

#4: Seregno e le grandi operazioni antimafia

#5: #MalaBrianza SiCura

...e ancora

Brianza...il viaggio continua

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a cura di Marco Fortunato

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Fino Mornasco, tutto tace. O forse no?Nessuna novità “ufficiale” nella vicenda di Fino Mornasco, il co-mune su cui si erano accese le luci della stampa, anche a livello na-zionale, in seguito alla possibilità di un suo scioglimento per infil-trazioni mafiose da parte del Pre-fetto. Nell’ottobre scorso, infatti, erano state pubblicate delle inter-cettazioni con l’allora Presidente del Consiglio comunale Luca Cai-roli che affermava che il “santista” Luciano Nocera avrebbe procura-to voti per le elezioni regionali di Gianluca Rinaldin.Dopo questa vicenda l’ex Assesso-re al Commercio Cairoli, “vittima di un sistema malavitoso” secon-do il sindaco Giuseppe Napoli, ha presentato le sue dimissioni, ed è stato sostituito da Roberto Forna-siero. Ma Cairoli non è stato l’u-nico a smettere di far parte della Giunta comunale: pochi giorni dopo, infatti, si dimise Laura Bar-resi, assessore all’urbanistica: «Per me è diventato pesante, a livello umano, sopportare questa situa-zione» (e sostituita da Katia Arri-ghi). Oltre ad essi si dimise anche Riccardo Bianchi, componente della commissione quartiere di Socco, cugino proprio di Luca Cairoli.

Gli omicidi nella cintura attorno a Fino Mornasco

Luciano Nocera, colui che avrebbe il potere di dare voti ad un consi-gliere regionale, è inoltre indagato nell’ambito dell’indagine sull’omi-cidio di Ernesto Albanese, spac-ciatore al servizio dei clan, ucciso

barbaramente lo scorso giugno. Come ricostruito dai quotidiani, Albanese minacciò su Facebook di fare “i cartelli con Nome e Cogno-me come quelli dei Morti fino in Calabria». Barbaramente si dice-va. Sì, perché egli venne ucciso da trenta coltellate, e lasciato dissan-guare nei boschi vicino a Guanza-te. Venne seppellito il giorno se-guente in un cantiere, mentre altri “compari” ridevano e scherzavano ad una grigliata allestita a pochi metri dal luogo di sepoltura.Ma quello di Albanese non è l’u-nico omicidio che coinvolga la ‘ndrangheta nel comasco: e stra-namente tutti e cinque i casi sono localizzati nella cintura di comuni vicino proprio a Fino Mornasco.Il primo caso fu quello, nel 2008, di Franco Mancuso, ucciso a colpi di pistola da un killer, mai identifi-cato, giunto in motocicletta al bar “Arcobaleno” di Bulgorello frazio-ne di Cadorago e dove lo “freddò” mentre era seduto ad un tavolino. La sera dell’8 marzo 2008 venne rapito e ucciso Salvatore Deiana, i cui resti sono stati trovati pochi giorni fa in un bosco di Oltrona San Mamette, grazie alle rivelazio-ni di uno degli assassini, Giuseppe Monti (l’altro omicida è Franco Virgato) e di uno dei personaggi sopracitati: Luciano Nocera. An-che lui come Albanese venne uc-ciso a coltellate, in un bar a Verte-mate, e fu sepolto nudo nel bosco. Oltre a Salvatore, il 20 luglio 2012 sparì il fratello Antonio, del quale però non si hanno più tracce da allora. L’ultimo omicidio prima di quello di Guanzate avvenne il 27 aprile 2009, quando venne ucciso

Antonio Tedesco nel maneggio di Salvatore di Noto: Tedesco venne attirato nel maneggio di Bregnano con il pretesto di farlo diventare un “affiliato” del clan. Gli spara-rono e lo finirono a picconate, per poi seppellirlo a Bernate Ticino. Di questo omicidio si seppe solo quando il boss “pentito” di Gius-sano, Antonino Belnome lo rivelò agli inquirenti. Motivo dell’omici-dio era che Tedesco si era vantato di essere stato con la sorella del boss: gli altri affiliati lo uccisero per evitare che il boss stesso lo fa-cesse per “vendicare l’onore della famiglia”.

L’inchiesta di Klaus Davi

In questo clima si inserisce anche la video inchiesta di Klaus Davi, noto giornalista giunto lo scorso dicembre a Fino Mornasco per analizzare la situazione appena accennata. Da essa è emerso un quadro preoccupante del clima di omertà presente nel piccolo co-mune comasco: infatti su ben 100 commercianti, solo cinque hanno deciso di esporsi alle telecamere e dichiarare che loro non hanno mai pagato il “pizzo”. Di questi cinque, però, uno si è “ritirato”, chiedendo che le riprese che lo riguardano non venissero pubblicate.Nella sua inchiesta, oltre a sotto-lineare l’omertà che si respira a Fino Mornasco, Davi intervista Alessandro Tagliente, presidente della squadra di calcio Cadorago Elio Zampiero e che, anche trami-te la moglie, ha in gestione i due bar Bulldog. Secondo l’operazione “Arcobaleno”, Alessandro Taglien-te è «da sempre uomo di fiducia di Iaconis e suo socio in affari (e) influiva sulle decisioni delle am-ministrazioni comunali (…) met-tendo (…) a disposizione (…) il proprio tessuto relazionale costi-

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tuito da uomini politici, pubblici ufficiali, imprenditori».A proposito dei suoi rapporti con Bartolomeo Iaconis, boss ‘ndran-ghetista arrestato nell’operazione “I fiori della notte di San Vito” del 1994, afferma che ha «un ottimo rapporto perché è un’ottima per-sona. Quando comunque ho un amico non sto a chiedergli il certi-ficato penale. […] Quindi non sto facendo niente di male» doman-dandosi perché dovrebbe smettere di frequentarlo. Sostiene inoltre che non è vero ci sia racket a Ca-dorago e dintorni e che «siamo in uno Stato di polizia, è un attimo essere pregiudicati (…) quindi non c’è da vergognarsi.» Ammet-te di aver fatto propaganda per un assessore, sfruttando il fatto di essere un personaggio pubblico e benvoluto. Nel corso dell’intervi-sta si interroga inoltre su cosa sia la mafia: «Mi piacerebbe sapere cos’è la mafia. È una cosa che non so, non conosco, mi piacerebbe sapere cos’è». All’affermazione di Davi che anche Riina e Provenza-no si chiedono che cos’è la mafia, Tagliente risponde:«E non sono stupidi. Cos’è la mafia? (…) Forse si stava meglio quando la mafia, quella mafia che era veramente unita e giostrava un attimino tut-to» e che ora fanno più disastri i delinquenti singoli. A proposito dell’omicidio di Albanese si chie-de «chi ci dice che questi quattro sono mafiosi? […] ci vuole la con-danna definitiva prima di dire che sono mafiosi. (…) L’associazione a delinquere è pericolosa, non la mafia che magari vanno a man-giare un po’ di capra» Riguardo proprio ai filmati diffusi dalla Pro-cura, in cui gli ‘ndranghetisti si trovano a mangiare capretto, dice «secondo me è proprio un modo per stare assieme, credo eh, perché ripeto, io non so cos’è.»

Nel frattempo, continuano le inda-gini del Prefetto Bruno Corda su-gli atti del Comune, per valutare se esiste la possibilità di scioglimento. L’opposizione di Fino Mornasco, insieme a quella di Cadorago, ha organizzato per il 7 marzo una con-ferenza nel quale parlare del radi-

camento delle organizzazioni ma-fiose nel territorio comasco. Sarà l’occasione ideale per sviscerare i temi della legalità e della presen-za della ‘ndrangheta e analizzare come questi due Comuni possano svolgere un’azione coordinata per affrontare il fenomeno.

Fino Mornasco.A quando lo scioglimento?Hai paura della ‘ndrangheta? Temi di subire ritorsioni? Allora è giu-sto che un Primo Cittadino eviti di avere problemi e favorisca i clan. Purtroppo questo non è un pen-siero, a dir poco assurdo, del sotto-scritto, ma una semplice deduzione che deriva dal comportamento del Sindaco di Fino Mornasco Giusep-pe Napoli.

L’ordinanza della Giunta

Ma andiamo con ordine. A seguito delle lamentele di alcuni residenti per il “rumore” proveniente da un noto locale della zona, la Giunta Comunale emana un’ordinanza per chiudere un’ora prima i locali notturni. Fin qui tutto bene, anzi, il comportamento della Giunta è encomiabile. Quello che preoccupa, però, av-viene poche settimane dopo: l’en-trata in vigore dell’ordinanza viene posticipata di qualche mese. E il perché lo spiega lo stesso Napoli davanti ai Carabinieri pochi giorni dopo l’operazione Insubria, che ha svelato i nuovi assetti della ‘ndran-gheta nella provincia lariana e che attualmente vede imputato tra gli

altri il capo della Locale di Fino Mornasco, Michelangelo Chinda-mo, per il quale sono stati chiesti 20 anni di carcere. «È vero – ammette davanti ai Ros – il timore degli uomini dei clan “ha condizionato le mie scelte. Ho de-ciso di procedere con la nuova or-dinanza per paura. Ero terrorizza-to”. E prosegue: “non che ci fossero minacce esplicite […] ma temevo che mi sarebbe successo qualcosa se avessi leso gli interessi” di perso-ne note per essere vicine alla crimi-nalità calabrese.» Oggi, in un’intervista concessa al quotidiano “La Provincia”, Napoli ritratta le sue dichiarazioni ai Ros, affermando che non ha posticipato l’ordinanza per paura, ma per evi-tare possibili “ricorsi” dei gestori dello stesso bar.

“Vittima di un sistema malavitoso”

Nel corso del medesimo colloquio, quando chiedono al Sindaco Na-poli se percepisce la presenza del-la ‘ndrangheta nel suo Comune, la risposta è esemplificativa: «Sì, si coglie dalla ritrosia delle persone

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ad affrontare l’argomento. Inti-morisce solo nominare la parola ‘ndrangheta. Ieri l’altro un gior-nalista mi ha detto di essere stato in giro per il paese e nessuno ha voluto rilasciare commenti sulla vostra operazione Insubria». An-che Luca Cairoli, l’ex Presidente del Consiglio Comunale la pensa così su questa vicenda: «Il sindaco e io eravamo intimoriti.» Da queste dichiarazioni non emergono dubbi sui pensieri del sindaco. La ‘ndrangheta c’è ed è ben identificata. Esse però van-no in contraddizione con quan-to dichiarato pochi mesi prima, quando i giornali avevano appena pubblicato le intercettazioni tra Cairoli e Luciano Nocera. Infatti il sindaco aveva dichiara-to che Cairoli è stato «vittima di un sistema malavitoso» e lo stes-so Cairoli ha affermato: «mai mi sarei sognato che le persone con cui parlavo facessero parte della ‘ndrangheta». Lo stesso Sindaco, come riportato dal quotidiano “Il Giorno” a proposito di un suo colloquio con Klaus Davi (inchie-sta sull’omertà qui), aveva detto: «Questi dialoghi risalgono a più di quattro anni fa e Luca non sapeva che quella persona era legata alla ’ndrangheta, su questo ci metto la mano sul fuoco». Ammettendo che ciò sia vero, vuol dire che in poco tempo i due hanno ben capito con chi avevano a che fare, ma non hanno deciso di denunciare, bensì di assecondare i clan.

Il “puzzo del compromesso”

Nello stesso colloquio sopracci-tato, Napoli afferma: «In questi anni non nascondo di aver avuto paura. Ho ricevuto minacce an-

ch’io, ma ho sempre pensato che mollando l’avrei data vinta a chi vuole imporci il silenzio. In passa-to c’è chi ha messo la testa sotto la sabbia come lo struzzo, qui come altrove, noi abbiamo cercato di portare pulizia». Qui compare una seconda con-traddizione. Sì, perché il colloquio è del dicembre 2014, l’ordinanza “cancellata” è del 2013. Un anno dopo Napoli mente clamorosa-mente al giornalista. Molti am-ministratori nazionali, regionali e comunali parlano di “lotta alla mafia”, ma spesso, purtroppo, sono solo parole al vento. Due citazioni di un giudice che ha combattuto davvero la mafia, Paolo Borselli-no, possono far capire benissimo ciò che va fatto. «La lotta alla mafia, il primo pro-blema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distac-cata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e

quindi della complicità». «Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’or-dine a occuparsi esse solo del pro-blema della mafia […]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! […] Questo di-scorso non va, perché la magistra-tura può fare solo un accertamen-to giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uo-mo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovu-te conseguenze da certe vicinan-ze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti die-tro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato con-dannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto».

Il sindaco di Fino Mornasco Giuseppe Napoli (lista civica Progetto per Fino) dall’8-6-2009

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L’impegno morale verso l’amministrazione di Fino Mornasco«Mai mi sarei sognato che le perso-ne con cui parlavo facessero parte della ‘ndrangheta». Sono queste le parole dell’ex Presidente del Con-siglio Comunale di Fino Mornasco Luca Cairoli, durante un’intervista per il giornale “La Provincia” di Como il 12 dicembre dello scor-so anno, facendo riferimento alle intercettazioni che lo hanno vi-sto chiedere i voti per Gianluca Rinaldin a personaggi legati alla ‘ndrangheta e di cui vi abbiamo raccontato qui. Alla luce di quan-to traspare dalle intercettazioni presenti nell’informativa del Ros dei Carabinieri, del 2013, nell’am-bito dell’indagine “Insubria”, ap-pare quantomeno lecito dubitare della veridicità delle dichiarazioni dell’allora Presidente del Consiglio comunale del Comune comasco. Si legge infatti che iI Cairoli «è vitti-ma, ma sembra ben inserito nella cerchia calabrese, tanto da cercarne i voti per sostenere la candidatura di una collega di giunta, BARRESI Laura per le elezioni regionali del febbraio 2013. L’attività di intercet-tazione nei confronti di CAIRO-LI Luca ha evidenziato, tra l’altro, i suoi stretti legami con LAROSA Salvatore “Satana”, finalizzati anche al sostegno della campagna eletto-rale di BARRESI Laura». Quindi, stando a quanto emerso dalle investigazioni, anche a distan-za di qualche anno Cairoli chiese “sostegno elettorale” agli stessi per-sonaggi e ci si può chiedere, ancora una volta, se egli facesse riferimen-to a Salvatore Larosa e Luciano No-cera per una sua “ingenuità”.

“Hanno un impegno morale con noi”

La gravità della vicenda in que-stione emerge in maniera prepon-derante dalle intercettazioni dei Carabinieri. Sempre in relazione ai voti che la Barresi avrebbe dovuto cercare, Cairoli telefona al Sindaco Napoli per esprimere i suoi dubbi sul comportamento della collega:

«CAIROLI: mmmm, si… eh, cioè ieri… non è che… non ha ancora capitocos’è che deve fare questa qua eh,

NAPOLI: no…

CAIROLI:cioè ma deve raccogliere voti… non ha capito un cazzo, cioè lei pensa, eh la legalità e di qua e di là e di su e di giù, ho capito, ma la base, c’è che devi andare a prendere voti, quindi devi cominciare a chia-mare delle persone fulcro in alcuni posti, stringere le alleanze con que-ste persone, chiedergli una mano e, e, e muoversi, è questo quello che devi fare…»

Il commento dei Carabinieri è esemplificativo: «Le citate “perso-ne fulcro” vengono esplicitamente indicate negli appartenenti alla fa-miglia calabrese dei LAROSA, abi-tante nella frazione Socco di Fino Mornasco, famiglia che sembra ab-bia già reso servigi all’attuale giun-ta comunale» NAPOLI: tu figurati che gli ho det-to domani sera di andare a “PRO-GETTO PER FINO” perché…

iniziare a dirlo a loro dicendo: guardate, voi mi avete conosciuto, non so se… sapete come la pen-so, io mi candido per questi ideali qua chi, chi vuole, senza impegno mi dia una mano; e lei mi fa: e ma abbiamo una riunione con gli altri candidati; dico: cazzo ma Laura non è che… adesso la priorità non è quella, la priorità è far…

CAIROLI: se ti dico che ieri ha det-to: adesso devo raccogliere le firme, di qua e di la… gli ho detto: ma tu te ne devi fottere della raccolta fir-ma, la raccolta firme ma falla fare al partito tu devi andare a stringere le alleanze che ti servono per, per, per… perché poi si muovono per te per recuperare voti, perché non hai bisogno… adesso non è il mo-mento di recuperare voto per voto, adesso devi tro… le ho detto: la fa-miglia LAROSA di Socco, visto che comunque sono stati, sono vicini all’amministrazione e tutto quan-to, hanno un impegno morale con noi…

NAPOLI:ma non solo… anche con lei…»

Ancora una volta, il commento dei Carabinieri è inquietante: «In re-lazione all’affermazione compiuta dal CAIROLI circa l’effettivo gra-do di “vicinanza” elettorale già in passato dimostrata dai LAROSA, si osserva che, effettivamente, in occasione delle elezioni comuna-li del 2009, proprio nella frazione Socco, ove la citata “famiglia” risie-de, i due candidati hanno riportato un significativo successo elettorale (percentuali del 60,78 e del 21,26),

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verosimilmente sintomatico di un effettivo sostegno elettorale loro garantito dal “grande elettore” LA-ROSA.Lo stesso brano della conversazio-ne contiene inoltre un’ulteriore af-fermazione quanto mai significa-tiva, laddove il CAIROLI, facendo ancora riferimento ai LAROSA, afferma “hanno un impegno mo-rale con noi…”.Tale affermazione risulta oggettivamente dimostrati-va dell’esistenza di un vero e pro-prio patto che lega il politico ai LAROSA.»

Lo schieramento politico non fa differenza

È da mettere in evidenza che la

Barresi, nella tornata elettorale del febbraio 2013, non conquista i voti aspettati, ottenendo solo 15 voti nel medesimo seggio dove Cairoli, alle elezioni del 2009, ne aveva raccolti 45. Proprio per l’e-siguità dei voti raccolti, ed anche perché non facente parte della coalizione vincente (si presenta-va infatti con la lista facente capo a Umberto Ambrosoli), la Barre-si non venne eletta. I Carabinieri scrivono, però, che: « La vicenda dimostra che CAIROLI Luca si ritiene esperto conoscitore della macchina elettorale ed è convin-to di potere manovrare o conta-re su pacchetti di voti di famiglie calabresi. Le idee politiche non contano poiché CAIROLI ritiene di poter far convergere su BAR-

RESI Laura – che si presenta per il centro sinistra – i medesimi voti che erano confluiti nella prece-dente tornata elettorale regionale sul centro-destra di RINALDIN Gianluca.» Infine bisogna dire che i personaggi presenti in que-sta vicenda non sono indagati dall’Autorità Giudiziariae dunque non hanno commesso nessun re-ato. C’è un “però”. Si parla spesso a sproposito di “questione morale”, e i finensi sono liberi di votare e di ritenere “un buon Sindaco” chiun-que, ma c’è da chiedersi quanto il voto di ogni cittadino conti, e se non ci si trovi dinanzi a dinamiche “più grandi” in cui un gruppo di persone possa prendere le decisio-ni a nome della collettività.

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Il coraggio di mettersi in gioco: Libera Masseriadi Mattia Maestri

Cos’è il coraggio? “Non posso in-segnare ai miei figli a non fare, per paura, ciò che reputano giusto!”, disse l’avvocato Giorgio Ambrosoli a un conoscente. Il coraggio come virtù civile. il coraggio come forza del cuore. Il coraggio come valore dell’esempio. Esempio che hanno dato i volontari di Libera, della Ca-ritas e del Comune di Cisliano, che dal 13 maggio presidiano venti-quattro ore su ventiquattro la “Mas-seria”, un bene confiscato nel 2010 al clan Valle, una potente famiglia di ‘ndrangheta attiva nella zona sud ovest di Milano, in particolare a Vigevano. Una struttura immen-sa, formata da un ristorante-pizze-ria, da quattro appartamenti, da un grande terreno con piscina. “Presi-dio permanente di legalità”, così è stata chiamata la “difesa” del bene, frutto della decisione congiunta dell’amministrazione comunale con il sindaco Luca Durè, di Libera con il referente regionale Davide Salluzzo, e della Caritas con il re-sponsabile Zona 6 Don Massimo Mapelli.Ma perché dei cittadini decido-no volontariamente di presidiare un bene confiscato alla mafia? La storia, dopo la confisca nel 2010, riparte dal 13 ottobre 2014 quan-do la confisca diventa definitiva. A quel punto inizia a mettersi in moto il meccanismo farraginoso, e per certi versi controverso, del-la destinazione e assegnazione del bene. Dopo i quattro anni di ab-bandono, la “Masseria” continua a non avere un futuro. Non solo.

Il bene, dalla data di confisca defi-nitiva, comincia ad essere oggetto di furti e atti vandalici. Il ragiona-mento dei boss è molto semplice: nel momento in cui ciò che era di mia proprietà passa nelle mani del-lo stato, io te lo distruggo. A fronte di questi ingenti danni, le segnala-zioni con documentazioni fotogra-fiche fatte dal referente regionale di Libera Davide Salluzzo, vengono trasmesse dal presidente del Tri-bunale di Milano Livia Pomodoro al Procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario di Mi-lano, con la richiesta di protegge-re e sorvegliare questa imponente struttura. Anche l’amministrazione comunale di Cisliano, il 9 dicem-bre, si impegna per la causa: scri-ve all’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati (ANBSC), manifestandosi interessata all’asse-gnazione della “Masseria”, al fine di conservarla. La risposta fu il silenzio. Nessuno rispose. Così, il primo aprile del nuovo anno il Co-mune ci riprova. Passano altri venti giorni, e a Cisliano succede un fat-to straordinario. Viene indetto un Consiglio comunale aperto alla cit-tadinanza, e la risposta è sorpren-dente: partecipano quasi trecento persone. Politica vera, quella che ogni persona si aspetta di vivere nei propri territori. Si discute, si analizza, si vota. “Viene deliberato all’unanimità l’impegno del sinda-co per proteggere il bene confisca-to alla criminalità organizzata e per ottenere risposte dall’Agenzia”.Ma tutto ciò ancora non basta. La

soluzione estrema rimane il pre-sidio permanente per la legalità, che a distanza di dodici giorni dal suo avvio ottiene la prima gran-de vittoria: l’Agenzia autorizza nell’immediato, con una nota del 21 maggio, la possibilità di stipula-re un comodato d’uso gratuito per rendere immediatamente dispo-nibile il bene alla collettività. Per il futuro non c’è niente di certo. Si sta valutando la possibilità di uti-lizzare gli appartamenti, per dare le prime risposte alle emergenze abitative di Cisliano. Il comodato d’uso gratuito impegna il Comu-ne ad utilizzare la “Masseria” a fini sociali, e per questo motivo Davi-de Salluzzo spiega che avvieranno, insieme all’amministrazione, a Ca-ritas e a tutte le altre realtà associa-tive, “una progettazione partecipa-ta per rilevare le esigenze sociali e definire l’utilizzo del bene comune sottratto alla ‘ndrangheta”. Ora si continua sulla via tracciata. Uo-mini e donne, giovani e anziani, si danno il cambio per fare in modo che il luogo del malaffare non sia mai privo di facce oneste e libere. C’è chi non dorme a casa, ma con un sacco a pelo presidia un bene di tutti. C’è chi non studia in biblio-teca, ma utilizza gli spazi immensi che offre la Masseria per abbinare cultura e impegno civico. C’è anche il Sindaco Luca Durè che si mette quotidianamente al lavoro insieme ai volontari presenti. Un giorno ci sono le ragazze di Libera regiona-le e la notte i membri del presidio Sud Ovest. Un giorno i ragazzi

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dei presìdi milanesi e la notte c’è Andrea, il muratore di Cisliano dal cuore buono. Cittadini consa-pevoli e coraggiosi. Da Davide a Massimo. Da Elena a Daniela. Da Martina ad Antonio. Da Fabio ad Erica. Coloro che non partecipano alle tavole rotonde nei palazzi, ma che fanno antimafia sul campo. Coloro che non presentano dati e progetti utopistici nei convegni, ma che cercano di risolvere i pro-blemi reali dei territori in cui vi-viamo.

Questa vicenda offre l’opportunità di riflettere sul delicato tema dei beni confiscati. Per quale motivo i beni sequestrati e confiscati non possono essere riutilizzati subi-to, in attesa della confisca defini-tiva, che nella maggior parte dei casi arriva a compimento dopo anni? Perché lo Stato non riesce a proteggere gli immobili di sua proprietà sottratti alla criminalità organizzata? Perché dopo la confi-sca definitiva, appurato che lo Sta-to non invochi il suo interesse, il

bene non viene immediatamente assegnato al comune ove è sito, al fine di evitare atti vandalici e sa-botaggi? Perché, infine, dalla Leg-ge 109 del 1996 abbiamo fatto dei passi indietro nella gestione dei beni confiscati? Ecco, in attesa di queste doverose risposte, godia-moci queste donne e uomini co-raggiosi, che nel “Paese del dire” hanno scelto il “fare” responsabile e civile. E’ questo il significato del-la parola coraggio.

L’interno della Masseria. Foto di Unilibera Milano

L’esterno della Masseria. Foto di Unilibera Milano

UNA CRONISTORIA A CURA DEL COORDINAMENTO DI LIBERA IN

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Il bene “La Masseria” è situato a Cisliano (MI), in via Cusago, ed apparteneva al clan Valle.

13 ottobre 2014Il bene è confiscato in via definitiva. Iniziano gli atti vandalici e le distruzioni sistematiche della struttura.

5 dicembre 2014Il presidente del Tribunale di Milano Livia Pomo-doro scrive al Procuratore della Repubblica pres-so il tribunale ordinario di Milano, trasmettendo la segnalazione con documentazione fotografica fatta dal referente regionale di LIBERA Davide Salluzzo relativa agli atti vandalici e alla necessità di sorvegliare e presidiare il bene.

9 dicembre 2014 Il Comune di Cisliano scrive all’Agenzia Naziona-le dei Beni Sequestrati e Confiscati, manifestando la volontà di vedersi assegnata “La Masseria” in via definitiva, al fine di preservarla. Non ottiene alcuna risposta. • 1 aprile 2015: non avendo ri-cevuto risposta alla prima richiesta, il Comune scrive nuovamente all’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati, ribadendo la volontà di ottenere l’assegnazione del bene anche in via provvisoria, in modo da poterlo proteggere dalle devastazioni. Si stimano ad oggi danni alle strut-ture pari a circa 500mila euro. LIBERA manife-sta il suo supporto alla richiesta del Comune di Cisliano.

21 aprile 2015 Il Comune di Cisliano indice un Consiglio Co-munale aperto alla cittadinanza, in pizza, con l’or-dine del giorno dedicato alla criticità della “Mas-seria”. Partecipano oltre 200 cittadini accanto alle realtà associative del territorio. In quella sede si delibera all’unanimità l’impegno del sindaco per proteggere il bene confiscato alla criminalità or-ganizzata e per ottenere risposte dall’Agenzia.

13 maggio 2015, ore 10.00Il Comune di Cisliano, LIBERA e la Cooperativa IES della Caritas danno il via ad un presidio per-manente per la tutela e la salvaguardia del bene e invitano le realtà associative e la cittadinanza responsabile a partecipare.

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Processo La Svolta: le motivazioni della sentenzadi Luca Traversa

Il 7 ottobre 2014, come già docu-mentato, il Tribunale d’Imperia ha emesso una sentenza storica, che ha riconosciuto per la prima vol-ta l’esistenza della ‘ndrangheta nel Ponente ligure, radicata in due di-stinti locali, a Ventimiglia e Bordi-ghera.L’8 gennaio 2015 sono state rese note le motivazioni del provvedi-mento: 677 pagine, in cui i giudi-ci, che si sono equamente distri-buiti la fatica della stesura, hanno scrupolosamente documentato una lunga serie di episodi crimina-li, fornendo una nitida fotografia dell’associazione di tipo mafioso. E’ da apprezzarsi, in particolare, la solida argomentazione giuridi-ca che fonda gli aspetti più signi-ficativi della decisione (la prova del reato associativo, delle singole condotte di partecipazione ed il, mancato, “concorso esterno” di due imputati) e la paziente descrizione dell’operato dei singoli affiliati, a partire dal quale viene ricostruita con efficacia l’esistenza di un’orga-nizzazione criminale. In generale, può affermarsi che il Tribunale si è attestato su posizioni tradizionali, ampiamente condivise in dottrina e giurisprudenza; ha evitato qua-lunque interpretazione innovativa, con l’esplicito obiettivo di fornire un solido impianto alla decisione, idoneo a reggere il giudizio di ap-pello.La motivazione sviluppa tre temi fondamentali: 1) l’inquadramento dell’art. 416 bis: gli elementi strutturali della

fattispecie ed i problemi probatori che essa solleva; 2) il locale di Ventimiglia: l’associa-zione mafiosa guidata da Marcianò (capo A) ed i singoli delitti-fine; 3) il locale di Bordighera (capo A-bis): il sodalizio criminale dei Pellegrino-Barilaro e le varie con-dotte delittuose. Per quanto ri-guarda il primo aspetto, il Colle-gio passa in rassegna le più recenti pronunce della Suprema Corte, in tema di associazione mafiosa, che si sono soffermate sulla verifica del metodo mafioso (forza d’intimida-zione-assoggettamento-omertà). Il Tribunale di Imperia sposa l’in-terpretazione più tradizionale (cfr. da ultimo Cass., Sez V, 13 febbraio 2006, n° 19141, Bruzzaniti; Cass., Sez II, 24 aprile 2012, n° 31512, Barbaro), che esige un’esterioriz-zazione di tale metodo e la prova concreta della fama criminale del sodalizio. Viene invece respinto, perché non aderente alla lettera della norma, l’orientamento inno-vativo della Cassazione, che era emerso in alcuni procedimenti cautelari (Cfr. Cass., Sez. II, 11 gen-naio 2012, n° 4304, Romeo; Cass., Sez. I, 10 gennaio 2012, n° 5888, Garcea): partendo dal presupposto dell’unitarietà della ‘ndrangheta (recente acquisizione del processo calabrese Crimine), si consenti-va di trasferire il metodo mafioso dall’associazione tradizionale alle cellule figlie e di provare dunque, implicitamente, tale requisito, una volta dimostrato il collegamen-to del locale con la “Mamma”. Per

quanto concerne la consorteria di Ventimiglia, vengono documentati numerosi episodi delittuosi: l’usura subita da Alessandro D’Ambra (che dichiarò, in dibattimento, di avere paura delle conseguenze delle sue dichiarazioni) e da Gianni Trifo-glio (a cui Pino Gallotta disse “Se non paghi ti brucio la casa”); la ten-tata estorsione al costruttore Paro-di (la cui Suzuki Vitara fu colpita da otto colpi di fucile, per mano di Nunzio Roldi), finalizzata ad assi-curarsi una percentuale sul movi-mento-terra legato alla costruzione delle banchine del porto.Emergono inoltre stretti legami tra il gruppo di Ventimiglia e i clan della Calabria (Piromalli e Maz-zaferro in particolare). In un caso i Marcianò si recarono dalla tito-lare dell’Hotel Piccolo Paradiso di Vallecrosia, Carla Bottino, per in-durla ad omettere la registrazione di Piromalli Gianluca, Romagnosi Cosimo e Ciurleo Giuseppe, tre ‘ndranghetisti in visita al Nord. In un’atra occasione, i ventimigliesi ospitarono Domenico La Rosa, un sicario, venuto dalla Calabria per vendicare la morte di Vincenzo Priolo, freddato da un tal Vincenzo Perri. Quest’ultimo, dopo il delitto, si era dato alla fuga verso la Ligu-ria, sicché i compaesani di Ponente si erano attivati per risolvere la fac-cenda. “Papà, se lo troviamo qua, che non scenda più sotto. A questo bastardo lo dobbiamo fermare” di-ceva Vincenzo Marcianò al padre Peppino. Vengono inoltre descrit-ti intensi rapporti con la politica:

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Marcianò si era speso in particola-re per sostenere la candidatura alle Regionali del 2010 di Alessio Saso e Fortunella Moio ed aveva propi-ziato l’elezione di Armando Biasi a sindaco di Vallecrosia (dove aveva scelto addirittura, pare, i candida-ti della lista!). Punto di ritrovo tra politici e malavitosi era il ristorate “Le Volte”, dove si organizzavano frequenti cene elettorali: in queste occasioni, scrivono i giudici, si as-siste ad una “processione di perso-naggi di vario genere, pregiudicati di origine calabrese, persone co-muni, imprenditori, che si rivol-gevano all’ottantenne Marcianò per la soluzione di qualsiasi pro-blema”, dal recupero crediti alle raccomandazioni, passando per la richiesta di protezione.L’aspetto più controverso del pro-cesso riguarda l’affaire Marvon, una cooperativa sociale “di tipo B”, in mano al clan intemelio (come l’acronimo inequivocabilmen-te dimostra: Marcianò Allavena Roldi Vincenzo Omar Nunzio), cui vengono affidati in via diretta numerosi appalti pubblici. Gli in-quirenti contestano in particolare tre opere assegnate dal Comune di Ventimiglia, relative al Mercato Coperto e al rifacimento dei mar-ciapiedi di Lungo Roja e Corso Genova. Tali appalti vengono qua-lificati come “servizi”, mentre in realtà si tratta palesemente di “la-vori”. L’assegnazione diretta, senza gara, sarebbe dunque possibile, ex art. 125 d. lgs. 163/2006, solo per la prima opera (di valore inferio-re alla soglia consentita dei 40.000 euro), ma vietata per le altre due (ben più onerose). Anche il primo appalto, peraltro, era irregolare, poiché presentava la violazione: dell’art. 28, c. 2, d.p.r. 34/2000, che impone alle ditte assegnatarie il possesso di determinati certificati in tema di ambiente/beni cultura-

li, documenti di cui la Marvon era sprovvista. Nonostante le violazio-ni amministrative, il Collegio de-cide però di assolvere gli imputati Scullino (ex sindaco) e Prestileo (dirigente generale del Comune), dalla duplice accusa di abuso d’uf-ficio aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa. Per quan-to riguarda la prima imputazione, il fatto non costituisce reato poi-

ché le irregolarità, pur accertate, non erano sorrette dall’elemento soggettivo del dolo, ovvero dalla volontà di favorire esclusivamente l’interesse di un privato, a scapito del bene pubblico. Con riferimen-to al concorso esterno, la rigoro-sa giurisprudenza sul tema (cfr. Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, n° 33748, Mannino) esige la prova di un contributo concreto, speci-

Mafie in Liguria, nasce l’Osservatorio “Boris Giuliano”: cultura e informazione contro il silenzio e l’omertà

Il 13 giugno 2015 nasce dopo un anno di incubazione l’Osservatorio Bo-ris Giuliano sulle mafie in Liguria. E’ un portale web (mafieinliguria.it) dalla grafica accattivante ed al tempo stesso semplice e intuitiva, sud-diviso in sezioni. Due di esse sono specificamente dedicate ai maggiori processi per 416 bis celebrati nella nostra terra: Maglio 3, sulla ‘ndran-gheta a Genova, che ha visto tutti gli imputati assolti nel novembre 2012 per insussistenza del fatto, e La Svolta, sulle infiltrazioni nell’imperiese, che ha invece visto nell’ottobre dello scorso anno le prime condanne per associazione di stampo mafioso emesse in Liguria. E’ poi presente un’area “Approfondimenti”, contenente contributi di tipo più strettamente tecni-co-giuridico, nonché cronache o analisi su fatti e problematiche extra-li-guri; l’area “Archivio giudiziario”, con i file PDF integrali dei vari atti e sentenze; la “Rassegna stampa” dei contributi giornalistici sulla mafia in Liguria. Senza dimenticare le spettacolari vignette partorite da Stefano Rossi che contribuiscono ad alleggerire e rendere più piacevole il colpo d’occhio del sito. “La platea a cui ci rivolgiamo è per natura eterogenea” – spiega Luca, neo-responsabile dell’Osservatorio, gli occhi che brillano – “per questo abbiamo studiato differenti canali di comunicazione: le sen-tenze integrali per chi è più interessato, i nostri approfondimenti, la cro-naca, i fumetti e addirittura un’infografica attiva sulla mafia in Liguria”.

Una foto della serata di presentazione a Palazzo Ducale di Genova il 13 giugno 2015

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fico, consapevole e volontario che si configuri come condizione ne-cessaria per il rafforzamento o il mantenimento del sodalizio. Tutto ciò, ad avviso dei giudici, non era ravvisabile: Scullino e Prestileo non sapevano che dietro la Mar-von vi fosse la ‘ndrangheta. E veniamo alla terza parte del provvedimento, relativa a Bor-dighera, in cui viene ricostruita l’esistenza di un locale che, nel tempo, si è guadagnato una certa autonomia (ed anzi, emerge a più riprese l’insofferenza di Marcianò per la rumorosità dei proprio “cu-gini”). Vi è un primo problema: i capi del sodalizio della città delle palme sarebbero Francesco e For-tunato Barilaro, Michele Ciricosta e Benito Pepé, tutti assolti in pri-mo grado in Maglio 3 (l’inchiesta sorella della D.D.A. genovese), mentre nella Svolta il pm Arena contesta la partecipazione all’as-sociazione mafiosa a tre dei quat-tro fratelli Pellegrino (Maurizio, Giovanni e Roberto) e ad Anto-nino Barilaro. Come coniugare questi differenti esiti processuali? Il Tribunale risolve l’apparente in-congruenza con grande acume: il processo Maglio 3, celebratosi in rito abbreviato, non ha consenti-to un’approfondita istruttoria ed è culminato con l’assoluzione degli imputati con la formula dubitativa di cui all’art. 530, c. 2, c.p.p. (che si utilizza quando la prova manca, è insufficiente o contraddittoria). Diversamente, nella Svolta si è proceduto in rito ordinario, po-tendo così accertare, nel dettaglio, i numerosi delitti-fine commessi dagli associati (tali reati, peraltro, sono normalmente posti in essere dai meri partecipanti, non dai capi dell’organizzazione. Non deve sor-prendere che i capi del sodalizio, processati in Maglio 3, non com-mettano personalmente, poniamo,

un’estorsione; costoro si occupano prevalentemente di questioni or-ganizzative e politiche!). I Pelle-grino hanno, tutti, precedenti per traffico di droga e/o detenzioni di armi e sono considerati molto vicini alla cosca Santaiti-Gioffré di Seminara (RC). L’accusa docu-menta numerosi episodi crimina-li: la tentata estorsione a Gianni Andreotti, finalizzata ad acquisire l’agriturismo “Del Povero” (con tanto di pestaggio della vittima e una testimone oculare, Brunel-la Mocci, terrorizzata all’idea di dover raccontare ciò che aveva visto: “Quelli sono mafiosi…”); le minacce subite dagli Assessori Sferrazza e Ingenito, non troppo entusiasti di concedere l’autorizza-zione all’apertura di una sala gio-chi su cui avevano messo gli occhi i Pellegrino; altre minacce subite dall’ispettore di polizia Rocco Ma-gliano (Roberto Pellegrino: “Ti scanno, so dove abiti”), dal M.llo Cotterchio (da parte di Antonino Barilaro), dal giornalista Tenerel-li (Giovanni Pellegrino: “Se non scrivi cose giuste ti taglio le dita della mano”).

Poi vi sono gli incendi dolosi a danno della Tesorini e della Negro di Bordighera, due ditte di mo-vimento-terra concorrenti della Fratelli Pellegrino s.r.l.; ancora, l’assistenza offerta al latitante Car-melo Costagrande, ospitato e na-scosto nella città delle palme, fatto per il quale Maurizio Pellegrino era già stato condannato per favo-reggiamento personale aggravato; numerosi episodi di cessione di sostanze stupefacenti; infine cene e incontri elettorali, in particolare con Giovanni Bosio, il sindaco di Bordighera, ed Eugenio Minasso, già esponente di spicco di AN in Liguria. Con riferimento alle sin-gole condotte di partecipazione,

il Tribunale si esibisce in una dotta premessa, squisitamente giuridica, sposando la teoria della “compene-trazione organica”, elaborata nella citata sentenza Mannino. Solita-mente si distinguevano due modelli: il modello causalistico (secondo il quale la partecipazione consiste-rebbe in un contributo apprezzabile recato al sodalizio) e quello orga-nizzatorio (per cui basterebbe l’a-desione formale, la disponibilità ad agire); ma in realtà, come osserva correttamente il Collegio, il secondo modello esprime unicamente una massima d’esperienza, in virtù del-la quale all’affiliazione/disponibilità seguono necessariamente fatti e atti concreti. Nella vicenda de qua la partecipazione di numerosi imputa-ti al sodalizio mafioso era senz’altro ravvisabile.Infine, il Tribunale determina il trat-tamento sanzionatorio riservato agli imputati: 16 sono condannati per associazione mafiosa (oltre agli altri reati menzionati); 1 a titolo di tenta-tivo (A. Macrì, che si era prodigato per ottenere il “battesimo”, dichia-randosi pronto a qualsiasi opera-zione, ma aveva incontrato il rifiuto di Marcianò, che lo riteneva troppo esagitato e pericoloso); altri 10 per fattispecie meno gravi; solo 9 ven-gono assolti da ogni addebito, tra cui i due “colletti bianchi” di Venti-miglia. Seguono i risarcimenti alle parti civili (Comune di Ventimiglia € 600.000, Comune di Bordighera € 400.000, Regione Liguria € 300.000) e le confische a numerosi imputati (ex art. 416 bis, c. 7, c.p., la confisca obbligatoria delle cose pertinenti al reato, ed art. 12 sexies d.l. 306/1992, la confisca dei valori sproporzionati ed ingiustificati).

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Andreotti assolto?di Mattia Maestri

Il processo di Palermo, che ha visto imputato il sette volte Pre-sidente del Consiglio e ventidue volte Ministro della Repubblica Giulio Andreotti, è considerato il caso esemplare per quanto riguar-da le collusioni tra classe politica e Cosa Nostra. La vicenda Andreot-ti, infatti, oltre ad accertare le rela-zioni dell’imputato con esponenti di spicco della mafia siciliana, ha reso evidente un certo modo di fare politica “con le mani sporche”, come direbbe il filosofo america-no Michael Walzer. Il processo Andreotti si sviluppò secondo i canonici tre gradi di giudizio. Iniziato nel 1995, dopo che il Senato approvò la richie-sta di autorizzazione a procedere, pervenuta nel marzo 1993, si con-cluse nove anni dopo, il 15 ottobre 2004. La Corte d’Assise di primo grado assolse l’imputato “perché il fatto non sussiste”, nonostan-te fossero stati accertati in sede giurisdizionale i rapporti tra An-dreotti e i cugini mafiosi di Cosa Nostra Nino e Ignazio Salvo, e i rapporti amichevoli tra l’imputa-to e il banchiere Michele Sindona, mandante dell’omicidio di Gior-gio Ambrosoli ucciso l’11 luglio 1979. Il giudizio di primo grado fu in parte ribaltato dalla senten-za d’Appello, che provò la colpe-volezza di Andreotti per il reato di associazione a delinquere fino alla primavera del 1980 (tuttavia il reato nel 2003 fu prescritto in quanto dal 1980 passarono più di ventidue anni e sei mesi), mentre confermò l’assoluzione per quan-to riguarda il periodo successivo a tale data. Sia la difesa, sia la Pro-

cura di Palermo, fecero ricorso in Cassazione: l’imputato per cancel-lare quella rilevante colpevolezza, e ottenere nuovamente l’assoluzio-ne come in primo grado; i pubbli-ci ministeri, invece, per confer-mare la colpevolezza anche per il periodo successivo alla primavera del 1980. La Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004, rigettò entram-bi i ricorsi, confermando di fatto la sentenza della Corte d’Appello. In particolare vennero accertati e provati due incontri dell’imputato con l’esponente di spicco di Cosa Nostra Stefano Bontate, tenuti prima e dopo l’omicidio a Paler-mo del presidente della regione Sicilia (e compagno di partito di Andreotti) Piersanti Mattarella. Nel secondo incontro, Andreotti chiese spiegazioni a Bontate sull’o-micidio Mattarella, e il boss lo zittì semplicemente con una frase. Nel libro di Umberto Santino, L’allean-za e il compromesso. Mafia e poli-tica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, si legge la risposta di Bontate: “In Sicilia comandia-mo noi, e se non volete cancellare completamente la Dc dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sici-lia, ma anche quelli di Reggio Ca-labria e di tutta l’Italia meridiona-le. Potete contare soltanto sui voti del nord, dove votano tutti comu-nista, accettatevi questi”. Anche in quell’occasione Andreotti decise di non denunciare ciò che era a sua conoscenza in base ai propri rapporti diretti con Cosa Nostra. Rimase per tutta la vita in silenzio, negando ogni accusa, talvolta an-che con le più improbabili motiva-

zioni. Nonostante ciò, il senatore a vita Giulio Andreotti, fu sostenuto e appoggiato, direttamente e in-direttamente dalla quasi totalità della classe politica italiana. Tra-lasciando la piccola ala radicale che ribadiva la colpevolezza di Andreotti, la netta maggioranza di esponenti politici ha garantito, non solo solidarietà al collega, ma anche una riabilitazione politica e morale totale, nonostante la pre-scrizione per il reato di associa-zione a delinquere confermata an-che dalla Cassazione. Il processo Andreotti ha avuto il merito, non solo di far luce sui rapporti diretti della corrente andreottiana sicilia-na con Cosa Nostra, ma anche di porre interrogativi importanti al mondo politico, in particolare se sia lecito scendere a patti con la criminalità organizzata. Le reazio-ni di autorevoli esponenti politici inducono a pensare che questo metodo controverso di svolgere l’attività pubblica sia stato ‘per-donato’ al senatore a vita. Infatti, tutta l’ala centrista, moderata e popolare ha ampiamente espresso massima indulgenza nei confronti di Andreotti. Con le dichiarazioni di solidarietà e di appoggio incon-dizionato all’imputato per mafia, i politici che dominavano la scena hanno reso lecita l’attività pub-blica di un’intera classe dirigente democristiana siciliana. Dall’altra parte, esponenti politici di sini-stra non hanno preso una netta posizione di condanna. Tuttavia, si sono anche superati nell’esalta-re il comportamento processuale tenuto dall’imputato, “come un signore”. Come se fosse diventa-to anormale difendersi in aula da accuse così gravi. D’altra parte, il più acceso indiretto sostenitore era stato Emanuele Macaluso, di-rigente di spicco del vecchio Par-

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tito Comunista Italiano. Macaluso dedicò molte pagine alla vicenda Andreotti, e concluse le sue analisi affermando che la colpa di Andre-otti fu di aver accettato il «quieto vivere», che le sue responsabilità sono quelle, politiche, di aver cre-ato in Sicilia un blocco di potere che inglobava anche la mafia. Di fronte al problema etico-politi-co emerso dal processo Andre-otti, la classe dirigente abbassò la testa, non per fare un mea culpa necessario, ma per declinare un problema reale alla quasi mera invenzione dei pubblici ministeri. Com’è stato possibile tutto questo? Immediatamente dopo la senten-za d’Appello, un plotone di giorna-listi, intellettuali e politici, comin-ciò un’operazione di salvataggio mediatico dell’imputato Andreot-ti, attuando una sistematica misti-ficazione della realtà. L’opinione pubblica fu fortemente influen-zata dal parere quasi unanime di politici e media, che ribadivano a più riprese l’innocenza del senato-re a vita. Si aprì anche, negli anni, un dibattito pubblico tra gli inno-centisti e i colpevolisti, quest’ulti-mi in netta minoranza. Soltanto alcuni ‘eroici’ giornalisti, come Marco Travaglio, Giann Barba-cetto e Saverio Lodato, o storici, come Nicola Tranfaglia, Salvatore Lupo, Paolo Pezzino e Umberto Santino, o sociologi come Pino Arlacchi, studiarono le carte della Procura di Palermo e le motiva-zioni delle sentenze, arrivando ad una conclusione molto differente dalla proclamata assoluzione di Andreotti trasmessa ai cittadini dalla televisione e dai quotidiani nazionali. È credibile un Paese che cancella una verità storica e giudi-ziaria, tenendo il cittadino comu-ne all’oscuro di rapporti indicibili tra Giulio Andreotti e uomini po-tenti di Cosa Nostra? Come può

il singolo realizzare nel proprio io un pensiero critico sulla vicenda se gli vengono negati gli strumenti necessari per produrlo? Eppure, sul processo Andreotti, ha regnato la disinformazione totale: la prescri-zione scambiata per assoluzione; il reato commesso fino al 1980 scom-parso dalle televisioni e dai giorna-li; la classe politica impegnata nel festeggiare la propria riabilitazione morale. Chi ci ha rimesso, purtrop-po, è stato il cittadino. Da un lato, perché non ha potuto analizzare la vicenda per come è stata; dall’altro, perché il problema etico-politico è un tema sempre attuale, che la clas-se dirigente sembra proprio non voler prendere in considerazione. Il processo ad una delle figure più importanti del Novecento italiano,

poteva senza dubbio essere l’occa-sione giusta per fare i conti con la realtà, prima che con la storia. Infine, è dunque possibile fare po-litica commettendo dei reati? Se-condo la teoria filosofica realista, l’azione politica con le mani spor-che è necessaria. Si sa, la politica è compromesso. Ma fino a che pun-to ci si può spingere? Può essere identificato come compromesso politico un rapporto pluridecenna-le tra una specifica classe dirigente e Cosa Nostra siciliana? Anche se mancasse una rilevanza penale de-gli incontri accertati del senatore a vita con esponenti di Cosa Nostra, è possibile giudicare positivamen-te, eticamente e moralmente, l’atti-vità pubblica di Andreotti?

La mappa della mafia al NordLa mappa mostra le locali di ‘ndrangheta, i comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, i beni confiscati presenti nei vari comuni e gli atti intimidatori. La mappa fa riferimento principalmente al periodo 2009-2014. La situazione dei beni confiscati fa riferimento ai dati pubblici sul sito dell’Agenzia dei beni confiscati e sono aggiornati al 2012. L’elevata presenza di materiale e le sue difficoltà di elaborazione potrebbero rendere il lavoro parzialmente in-completo. Eventuali mancanze o errori verranno sistemati. Per segnalazioni scrivere a: [email protected]

Clicca sull’immagine per aprire la mappa

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La piazza virtuale e la piazza reale. Viaggio nel mondo dei Casamonica

di Luca Bonzanni

È una storia di connivenze, di omertà, di controllo del territo-rio. Una storia che sfocia persino nel cattivo gusto. In senso lette-rale: nel tripudio del kitsch, tra carrozze pacchiane ed elicotteristi «spargipetali» la targhetta «Alita-lia» appuntata al petto fino a poco tempo fa. Soprattutto, però, è una storia di paradossi. Paradossi grandi come il Colosseo, come la Città eterna, come le sue meraviglie infangate da consorterie di ogni risma: in vita, pur temuto da tutti, il nome di Vittorio Casamonica passava quasi inosservato agli occhi del-la grande opinione pubblica; da morto, e perciò innocuo, tutti ne parlano. Ai romani sarebbe basta-to semplicemente aprire gli occhi; al resto d’Italia, una sana voglia d’informazione. Famiglia di origine sinti, partita dall’Abruzzo e insediatasi a Roma negli anni Sessanta e Settanta, di-venuta più forte grazie al legame con i Di Silvio (altro piccolo im-pero della malavita capitolina), i Casamonica – quartier generale tra la Romanina, il Tuscolano, l’A-nagnina e Tor Bella Monaca – non sono di certo degli sconosciuti. Nella relazione conclusiva della scorsa legislatura – un esempio tra i tanti – la Commissione parla-mentare antimafia indicava il clan come «tradizionalmente dedito all’usura, all’estorsione, alla truffa, al riciclaggio, alla ricettazione e al traffico internazionale di stupe-facenti», nonché in contatto con

«famiglie mafiose calabresi (in particolare i Piromalli, i Molè e gli Alvaro, ndr) e siciliane». E poi, ovviamente, i legami con la Banda della Magliana, nello specifico con Enrico Nicoletti (il «Secco» reso celebre da Romanzo criminale), l’uomo che ripuliva i denari spor-chi di Enrico De Pedis e compari.

Bastava appunto avere lo scrupo-lo d’informarsi, di porsi qualche interrogativo sulla faccia oscura di Roma, ancor prima che a sug-gerire alcune risposte arrivasse la procura capitolina con lo tsunami di «Mafia Capitale».

La piazza virtuale

Altro paradosso. Gli affari è me-

glio farli nell’ombra, ovviamen-te: restare nel «mondo di mezzo» (copyright Massimo Carminati) e trafficare lontano da sguardi in-discreti. Nell’universo della rete, tuttavia, nessuno si nasconde. È internet, oggi, la nuova arena in cui manifestare il proprio potere, la piazza virtuale che completa la

piazza reale. Rosaria Casamonica, nipote di Vittorio, ha ben chiaro il proprio obiettivo: i giornalisti. «Dovete farla finita di parlar male di un defunto, il più pulito di voi c’ha la rogna. Andate a confes-sarvi, l’invidia è una brutta bestia. Prima di parlare pulitevi la bocca con la candeggina: questa è l’usan-za nostra, ma quale mafia», com-menta su Facebook, raccogliendo

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un tripudio di «like», di affetto, di solidarietà. Poche ore dopo, il pensiero è ribadito: «Smettetela di fare polemiche su un funerale. Giornalisti, vergognatevi: andate a scavare tutte le cose passate e le mischiate ai funerali. Che c’entra tutto questo? Anche voi siete cri-minali e mafiosi, perché giudicate quando non siete sicuri di quello che dite. Lui (Vittorio, ndr) è stato sempre un uomo umile e per que-sto tutti gli volevano bene». E or-mai virale è inoltre il video in cui il compianto Vittorio si destreggia al karaoke, caricato in rete da un altro membro del parentado. Di profilo in profilo, i Casamo-

ne, l’opinione pubblica e la poli-tica, nel mirino ci finiscono tutti. Lo sfogo è ormai un mantra. C’è poi chi augura al defunto di «stare nella gloria del paradiso» e pure chi sceglie formule meno sacre ma ben più risolute, liquidando il dibattito come «invidia e igno-ranza», ribandendo come «zio Vittorio» fosse semplicemente «il numero uno», «il re di Roma». «Senti come parlano», mormora online un altro Di Silvio, tra un link di Gomorra – La serie e una foto di un’auto di lusso: «Zio Vit-torio è morto e questi stanno a di’ dello spaccio, dell’usura, di questo e di quell’altro. Mi fanno schifo».

ze, Rolls-Royce, elicotteri, vigili ur-bani a dirigere il traffico.

Tra Romanzo criminale e Gomorra

Non mancano, tra gli amici delle due famiglie, i riferimenti a Ro-manzo criminale. C’è chi, ad esem-pio, aggiunge il suffisso «Er Libane-se» (al secolo Franco Giuseppucci) al proprio nome reale, rendendo poi omaggio a Vittorio Casamonica ed esprimendo il proprio cordoglio ai parenti dell’ormai ex «sovrano» di un grosso spicchio di capitale (che la giustizia non è mai riuscita a condannare per associazione a de-linquere di stampo mafioso, va spe-cificato). Dalla penna di Giancarlo De Cataldo (un magistrato, prima ancora che uno scrittore) e dai ciak di Michele Placido e Stefano Sol-lima al mondo reale, il passo – o meglio, l’infatuazione – è breve. E pensare che dal 14 ottobre sarà nei cinema Suburra, la nuova pellicola diretta da Sollima, tratta dall’omo-nimo noir scritto da Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, una sorta di «Romanzo criminale 2.0» in cui, guardacaso, si narra anche della fi-gura di Rocco Anacleti, «duca gi-tano», a capo di un potente mani-polo di nomadi. Un confine labile, che si assottiglia ancor di più se si sommano i link sulla serie televi-siva tratta da Gomorra. E riecco i paradossi: Gomorra, già, l’opera di Roberto Saviano, lo scrittore che da anni vive sotto scorta per le minac-ce subite dai Casalesi. Quegli stessi Casalesi spesso definiti alleati dei Casamonica.

La piazza reale. Luciano Casamonica,

«mediatore culturale» di Buzzi e Carminati

nica e i Di Silvio si chiudono in una strenua difesa del familiare, condividendo e commentando i link che raccontano quel funerale ormai sulla bocca di tutti. Un’o-monima della nipote del boss se la prende nuovamente con la stam-pa: «I giornalisti stanno a fa’ trop-pe cazzate, andate a vedere i fatti veri che stanno in mezzo a voi, non in mezzo a noi». La televisio-

Le polemiche, già: per farsi scudo, i Casamonica-Di Silvio «adotta-no» pure un «ideologo». Scorren-do i vari account, ecco spuntare a più riprese un post di Vittorio Sgarbi: «Il lutto è un fatto privato. C’è materiale solo per “Striscia la Notizia”. Che debba occuparsene il ministro dell’Interno è tragico-mico». Vien facile rispondere allo Sgarbi-pensiero: un fatto talmente privato che ha mobilitato carroz-

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Dunque, il parroco non ne sape-va nulla. Don Giancarlo Manieri, il titolare della chiesa dove si ce-lebrata la cerimonia, si è presto difeso: «Personalmente non cono-scevo il nome del boss dei Casa-monica». Un ritornello ricorrente, nella «piazza reale». Da tempo, però, la famiglia è nel mirino del-le forze dell’ordine. A inizi anni Duemila, il Centro operativo della Direzione investi-gativa antimafia di Roma mette gli occhi su alcuni interessi econo-mici di Michelle Venditti, nata nel-le Filippine e all’e-poca convivente di Consilio Casa-monica, figura di primo piano del gruppo. Partendo da alcune «ope-razioni sospette», gli inquirenti ini-ziano a scavare. Finisce che, di lì a poco, l’attività investigativa por-ta alla mappatura dell’intera consorteria: ne vien fuori un’intricata tela fatta di 324 soggetti imparentati fra loro, di cui 48 gravati da numerosi pre-cedenti penali, e pure un primo sequestro preventivo – scattato il 18 giugno 2003 – dell’ammontare complessivo di 85 milioni di euro (poco dopo, la Dia sospetta anche che alcuni capitali «ripuliti» siano stati fatti rientrare in Italia grazie ai vari «scudi fiscali»). Lo stillici-dio di arresti, indagini e processi non si arresta. È un libro aperto, quello che racconta della sfida tra i Casamonica e la giustizia. Da un lato, quindi, l’usura, le estorsioni e il riciclaggio; dall’altro il traffico di droga, con caratteri-

stiche senza dubbio interessanti: una struttura «sostanzialmente autosufficiente», annota la Dire-zione annuale antimafia nella re-lazione annuale del 2012, sia per l’approvvigionamento della «ma-teria prima» che nelle modalità di spaccio, con ruoli intercambiabili e una certa «orizzontalità» degli organigrammi, «senza alcun capo o organizzatore». Nell’area gover-

nata dai Casamonica, rimarcano i magistrati antimafia, il controllo delle strade è «sistematico», quel-le lingue d’asfalto diventano delle «enclave all’interno delle quali la polizia giudiziaria non riesce a svolgere i suoi compiti istituziona-li sia per il rischio di ritorsioni vio-lente, sia per la sussistenza di una rete di sorveglianza efficacissima, composta da punti di avvista-mento controllati da sentinelle». Insomma: un antistato nel cuore dello stato, una fetta della capitale che finisce sotto il ferreo regime di un gruppo criminale.Si spara anche, in alcuni casi. Re-centemente, il 21 gennaio 2008, la gambizzazione di Enrico Casamo-

nica è un campanello d’allarme; ad agosto nel 2013, anche Stefano Casamonica si ritrova il piombo nelle ginocchia; il mese successi-vo, è ancora il nome di Enrico Ca-samonica a finire sui giornali, altri proiettili e altre ferite alle gambe. Il resto è storia recente. Il cogno-me è ciclico tra le carte di «Mafia Capitale». Per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, il clan svol-

ge il fondamentale ruolo di «mediato-re culturale» nel-la gestione di un delicato «affare» inerente un cam-po rom a Castel Romano: quando il fondatore della «Cooperativa 29 giugno» e il «Ce-cato» incontrano le resistenze della popolazione no-made, ecco allora giungere l’inter-vento di Luciano Casamonica, che in cambio dell’in-t e r e s s a m e n t o avrebbe ricevuto

– si legge nell’ordinanza di custo-dia cautelare – un corrispettivo di 20mila euro al mese. Infine, l’incubo di un pomeriggio di fine estate. Un funerale sfarzo-so – non certo un caso isolato, nel mondo del crimine: tra i prece-denti più recenti c’è quello del boss Vito Rizzuto, sepolto a Montreal in una bara d’oro – e una ridda di polemiche che è rimbalzata sui media del globo intero. Ma qual-cosa – forse e finalmente – pare essere accaduto: Roma, l’Italia e il mondo si sono accorti dei Casa-monica. E del loro potere, ostenta-to in rete e silenzioso nelle strade.

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Quando la criminalità organizzata è su Facebook. E ricorda Borsellinodi Luca Bonzanni

C’è chi condivide link a favore di una maggiore moralità nelle isti-tuzioni. C’è chi si scaglia contro «Mafia capitale» e contro le collu-sioni tra politica e malaffare, mor-bo che dilania la Città eterna. C’è chi, infine, pubblica addirittura un’immagine per ricordare il sa-crificio di Paolo Borsellino e della sua scorta: era il 19 luglio, d’al-tronde, e quel post pareva dovero-so. Tutto giusto, verrebbe sponta-neo dire. Sacrosanto, anzi. Peccato che, una volta spento il computer o lo smartphone, la vita reale di questi «viveur della rete» sia ben diversa. È la «coerenza» ai tempi di Facebook, o forse ancora qual-cosa di più profondo, materia per psicologi e criminologi. L’ennesima riprova è recente, fre-sca, immediata. Il 22 luglio la Dda di Reggio Calabria chiude il cerchio e fa scattare l’operazione «Gambling»: ventotto ordinanze di custodia cautelare in carcere, tredici persone ai domiciliari, sva-riati obblighi e divieti di dimora e obblighi di firma, sequestri di undici società operanti all’estero e di quarantacinque aziende con sede in Italia, per un totale di 1500 punti commerciali «sigillati». Va-lore totale dei beni individuati dalla magistratura: due miliar-di di euro, briciola più o briciola meno. Uno stillicidio senza fine per sferrare un duro colpo agli af-fari della ‘ndrangheta nel mondo delle scommesse e del gioco d’az-

zardo online, con gli uomini del clan Tegano a recitare la parte del leone. E se ci si immerge nel mare magnum di Facebook e si digita-no alcuni dei nomi degli arrestati (molti profili sono «pubblici», con contenuti condivisi con l’intera rete e quindi nessuna restrizione di privacy), il viaggio è persino «istruttivo». L.B.G., residente in provincia di Bergamo, ad esempio, sarebbe secondo gli inquirenti il referente dell’organizzazione al Nord. Cate-rina Catalano, gip del capoluogo calabrese, nell’ordinanza lo trat-teggia come un personaggio dalle «spiccatissime competenze infor-matiche, che ne aggravano la pe-ricolosità sociale qualificata», uno che ha svolto funzioni «decisive e infungibili» per le sorti del grup-po. Quanto avrebbe guadagnato dall’affare? Stando all’impianto ac-cusatorio, e in particolare a una te-lefonata intercettata, L.B.G. si sa-rebbe messo in tasca un milione di euro in tre anni. Sul proprio profi-lo Facebook, non più di una venti-na di giorni prima di ritrovarsi le manette ai polsi, l’uomo si scaglia-va contro gli sprechi della politi-ca: ecco allora un link che mostra come alla mensa del Senato una tagliata di manzo costi appena 3 euro e 41 centesimi, oppure un post che invoca la sforbiciata agli stipendi dei parlamentari. E anco-ra, un video in difesa della scuo-la pubblica (chissà quante borse

di studio si potrebbero finanziare, con quei due miliardi sequestrati…) e un’immagine per scongiurare la chiusura del Parco dello Stelvio. Poi, però, non può mancare il link con-tro gli immigrati e il post con cita-zione mussoliniana. Tra gli «amici» dell’arrestato, virtuali ma anche rea-li, c’è il calabrese F.R., uno dei tanti destinatari dell’ordinanza di custo-dia cautelare in carcere nell’ambito della stessa operazione antimafia. Sull’account di L.B.G., F.R. inter-viene definendo il bergamasco un «compare», termine che nelle lo-giche di ‘ndrangheta è solitamente ben chiaro. Cliccando direttamente sul profilo di F.R., invece, a questo giro i link «seri» sono ben pochi, giusto qualcosina contro le banche, quindi ecco una sfilza di post dedi-cati a poker e gioco d’azzardo, certo più consoni al taglio dell’inchiesta della Dda reggina. A destare le ire dell’uomo c’è infine un’altra «grave» tematica: non la criminalità orga-nizzata, non la ‘ndrangheta che dal-la «sua» Calabria ha colonizzato l’I-talia, l’Europa, il mondo; Facebook alla mano, per F.R. il vero drama è rappresentato dai matrimoni gay… A.S., invece, è oggi un cittadino libe-ro. Il carcere lo ha conosciuto qual-che anno fa per un giro di estorsio-ni e usura nella zona del Lecchese. Vanta una parentela importante, pesante come un macigno: è nipote di Franco Coco Trovato, uno dei più importanti boss della ‘ndrangheta trapiantata in Lombardia, capace di fare dell’area tra Lecco e Milano (grazie al sodalizio con «Pepè» Fla-chi) una zona franca insanguinata da valanghe di omicidi, funestata da ingentissimi traffici di droga, stroz-zata da una tenacissima morsa usu-raria. Sul social network più famoso del mondo, anche A.S. non disdegna l’«impegno civile»: lotta alle pensio-ni d’oro, solidarietà agli esodati, post contro i vitalizi ai politici corrotti.

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Stesso tenore pure su un altro profilo «degno di nota»: quello di A.S. (omonimo nonché parente del precedente), uno tra i più spietati killer di ‘ndrangheta, braccio destro proprio di Franco Coco Trovato, passato anche dal 41bis e oggi uscito di prigione dopo essere stato col-pito dalla storica operazione «Wall Street» del 1993. Anche in questo caso, accanto a una sfil-za di link scherzosi o divertenti o che promuo-vono la sua nuova attività commerciale, non mancano quelli più «impegnati»: su tutti, un paio di messaggi in ricordo della Strage di via D’Amelio. Una metamorfosi degna di Kafka.

La prima tesi di laurea in “antimafia” secondo Repubblica Napolidi Martina Mazzeo

Ebbene sì. Secondo Repubblica Napoli, sabato 24 ottobre 2015, sottolineo: 2015, all’Università Suor Orso-la Benincasa di Napoli si sarebbe laureato il primo studente italiano (?!) in “antimafia”. Davvero? Quando ho letto la sorprendente notizia mi sono chiesta: e allora a Milano cosa si fa da sei anni a questa parte?!

Un paio di considerazioni. Innanzitutto congratulazioni al collega. Sincere, proprio perché so e sappiamo quanta fatica richieda una simile attività di studio. Dall’anno accademico 2008-2009, ossia da quando il professore Nando dalla Chiesa ha introdotto il corso di Sociologia della Criminalità Organizzata presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, si sono moltiplicate a centinaia le tesi di laurea sul fenomeno mafioso e sul movimento antimafia (senza virgolette… sarebbe come mettere tra virgolette “tesi di laurea”: è un’espressione strana? forse insolita? da maneggiare con prudenza? bah…). Io mi ci sono già laureata due volte in “antimafia”: che prodigio. Ho anche degli amici, che negli ultimi due anni, hanno affrontato lo studio del fenomeno mafioso con gli strumenti del diritto penale e processuale, parlando (pensate!) di legislazione e collaboratori di giustizia!! Come il collega che Repubblica presenta come “il primo”. Qui e qui e qui, almeno, trovate testimonianza di ciò che dico, documentazione raccolta negli anni.

Il problema, sia chiaro, non è lo studente laureato. Figuriamoci, che bello ci sia un altro futuro profes-sionista disposto a studiare, ad attrezzarsi. Il problema, semmai, è ancora una volta la stampa: che non si informa (paradosso) prima di scrivere, che non controlla, che non verifica, che non si pone domande, che non è curiosa, che distorce la verità usando male le parole (ah, le lezioni americane di Calvino…) che – insomma – non fa il suo dovere. “Carte mute, carte false”, scriveva dalla Chiesa nel 1987: “il pubblico non sa, non avverte (e non immagina) quante cose gli vengano taciute”. Forse è ora di cambiare l’andazzo.

Uno dei punti scommesse gestiti da L.B.G. finiti sotto sequestro preventivo

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Siani, a 30 anni dalla morte gli atti processuali onlinedi Adelia Pantano

Quest’anno il Festival di TRAME, svoltosi a Lamezia Terme, era stato dedicato a tutti i Giovani favolosi. In particolar modo a Giancarlo Siani, la sua Méhari verde esposta al pubblico durante i cinque giorni del-la manifestazione lo testimoniava. In occasione del trentesimo anniversario della sua morte, il giornali-sta Roberto Paolo ha voluto donare alla Fondazione TRAME l’archivio contenente gli atti del processo.Ospite durante una delle serate del festival, Roberto Paolo, giornalista del quotidiano Roma, aveva pre-sentato il suo libro “Il caso non è chiuso. La verità sull’omicidio Siani” (Castelvecchi editore, 2014). Un lavoro di ricerca che ha portato alla riapertura da parte della Procura di Napoli dell’inchiesta sul giova-ne giornalista ucciso dalla camorra.Durante l’incontro, Paolo aveva parlato di un mo-vente “camorristico-mafioso”, per sottolineare come nell’uccisione di Siani fosse coinvolta anche Cosa No-stra. In particolare i rapporti tra le due organizzazio-ni criminali, sarebbero stati mantenuti da Giovanni Brusca, colui che azionò il telecomando nella strage di Capaci. Brusca, il cui coinvolgimento sarebbe te-stimoniato da alcune conversazioni avute con il clan Nuvoletta di Marano, più volte si era recato a Napoli per “insegnare ai camorristi come sciogliere le per-sone nell’acido”. Secondo la tesi sostenuta da Paolo,

Giancarlo Siani sarebbe stato ucciso anche su pres-sione dei siciliani in seguito all’arresto di Valentino Gionta, il referente in Campania di Cosa Nostra. Pro-prio dopo l’episodio, il giovane Siani scrisse un arti-colo in cui affermava che “l’arresto di Gionta era stato il prezzo pagato dai Nuvoletta per giungere ad una pace con i Bardellino”. Parole queste, che non piac-quero agli stessi Nuvoletta, considerati degli “infami e che costarono la vita al giornalista.“Quello che si può trovare nell’archivio rappresenta il nucleo fondamentale a cui qualsiasi studioso, stori-co, giornalista, avvocato, studente, può attingere per comprendere qualcosa in più su come si sono svolti i fatti”, afferma il giornalista, che ha voluto ringraziare la fondazione TRAME per l’attenzione che quest’anno ha riservato a Giancarlo Siani. “I documenti pubbli-cati in questa prima fase sono forse i più importanti della storia processuale dell’omicidio Siani, – conti-nua Paolo – ma sono pur tuttavia solo una parte dei ventuno provvedimenti giudiziari che hanno costel-lato questa vicenda processuale durata oltre quindici anni. Altri documenti saranno aggiunti nel prossimo futuro.”

Gli atti processuali sono disponibili e consultabili sul sito del Festival TRAME e contengono:

• L’ordinanza di proscioglimento per Ciro Giuliano, Giorgio Rubolino, Giuseppe Calcavecchia e Alfonso Agnello, 22 dicembre 1988;

• L’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Gionta Valentino, Nuvoletta Lorenzo, Nuvoletta Angelo e altri, 23 ottobre 1995;

• Sentenza di primo grado contro mandanti ed esecutori del delitto Siani emessa dalla Corte d’Assise di Napoli, seconda sezione,14 aprile 1997

• Sentenza di secondo grado contro mandanti ed esecutori del delitto Siani emessa con data 7 luglio 1999 prima sezione dalla Corte d’Assise d’appello di Napoli, ,

• Sentenza di primo grado contro Ferdinando Cataldo. Corte d’Assise di Napoli, quinta sezione, pubblicata il 5 luglio 1999.

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Africo. Un paese tra ‘ndrangheta e rivoltadi Arianna Zottarel

“Africo è un punto nel mondo, ma sono questi punti con cui i grandi governi del mondo sono costretti a fare i conti. Sono questi paesini che fanno la storia”. Così Nando dalla Chiesa descrive il piccolo paese di Africo, in pro-vincia di Reggio Calabria, duran-te l’incontro organizzato per Bo-okcity alla Fondazione Corriere della Sera. Con lui sono presenti l’autore del libro, Corrado Stajano e Antonella Tarpino, scrittrice e giornalista. Africo è un libro uscito nel febbra-io del 1979. E’ una denuncia, una descrizione attenta di un paese di ‘ndrangheta. “Quello che diceva-no quando è uscito il libro” – spie-ga Nando dalla Chiesa – “ossia occuparsi di cose che non esistono più, era in realtà il nostro futuro. C’erano i sequestri di persona al Nord, e rimaneva la convinzione di qualcosa di arcaico. Il terrori-smo rimaneva l’emergenza di al-lora, ma in realtà il terrorismo è finito e la ‘ndrangheta è cresciuta”. Si trattava di una ‘ndrangheta ap-pena precedente al salto di qualità che l’avrebbe resa pochi anni dopo una delle organizzazioni più forti al mondo. “Quando è uscito il li-bro, nel ’79, ancora la ‘ndrangheta era un fenomeno molto giovane, anche come identità” – spiega dal-la Chiesa. Leggere ora Africo è quindi rive-dere quella realtà, riscoprirne le radici, capirne il peso della denun-cia. Corrado Stajano ha dovuto af-frontare un duro processo per ciò che aveva scritto; un processo da cui è uscito vincitore. “E’ stato un libro che è servito a difendere la li-

bertà di tutti nel raccontare la ma-fia. […] E’ stata una scelta quella di denunciare quello che non po-teva essere denunciato. Corrado Stajano sapeva quando ha scritto il libro che altri erano stati denun-ciati per aver osato raccontare e denunciare questo prete padrone di Africo, […] E’ entrato consape-volmente su un terreno difficilis-simo”, con uno scrupolo in grado di garantire la credibilità e la ve-ridicità di ciò che ha detto, così lo racconta Nando dalla Chiesa. “Il processo fu molto pesante” – racconta Stajano – “è difficile di-mostrare la mafia, mi veniva chie-sto di fare i nomi delle persone che mi avevano parlato, ma loro rischiavano la vita. […] Sono ri-uscito a far venire al processo un magistrato che spiegò la ‘ndran-gheta e aggravò la posizione di don Stilo che mi aveva querelato, un uomo molto potente. I giovani comunisti di Africo e della zona ionica appesero dei manifesti con scritto ‘per una volta la prepotenza non vince’ e per me fu una meda-

glia al valore”. Il lavoro di Corrado Stajano, come ci ricorda Antonella Tarpino “E’ un lavoro guida, un testo classi-co. […] E’ un libro su un paese che non c’è. Africo vecchio è un paese abbandonato, difficilissimo arrivarci, un paese dolente, rima-sto esattamente come era nel ’51 quando fu travolto dall’alluvione. […] Africo nuovo è un ammas-so di case anonime. E’ un paese senza identità, un non-luogo. Un non luogo su cui Stajano costrui-sce quello che uno scrittore come Calvino avrebbe potuto defini-re un libro paese, un libro che dà forma ad un paese con la sua sola scrittura, in questo senso è un classico, costruisce un’architettura letteraria; e lo fa con testimonian-ze vere. Sono storie che nascono ad Africo Vecchio, sulle pendici dell’Aspromonte. Ed è un paese che Corrado Stajano rinarra attra-verso le parole di un altro perso-naggio, Umberto Zanotti Bianco, il grande meridionalista, che defi-nisce Africo con queste parole: ‘un paese capace di incutere più pau-ra della morte’. E Stajano spiega benissimo cosa può incutere una paura di questo tipo; questa sen-sazione di precarietà esistenziale totale, che descrive questo paese emblema della povertà del Sud. […] E’ un testo contemporaneo, i suoi echi continuano a riscontrar-si in quelle zone”. Un eco molto importante, che deve continuare ad essere studiato, approfondito. Poiché è proprio la contempo-raneità la caratteristica chiave di questo libro. “La situazione ora si è aggravata perché le generazioni

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si specializzano sempre di più. Le capitali però rimangono sempre lì, in Calabria. Adesso c’è ignoranza, non conoscenza, sottovalutazione del fenomeno, soprattutto a livello politico” spiega Stajano. La ‘ndran-gheta è un problema italiano e mondiale. “Bisogna de-calabriz-zare questa situazione” ci ricorda Antonella Tarpino. “Il problema è sociale e molto vasto” – riprende Stajano – “e voglio citare quello che dice Ilda Boccassini, capo del-la direzione distrettuale antimafia di Milano: ‘spesso si parla di infil-trazione della ‘ndrangheta nell’e-conomia legale, e il termine for-nisce un’idea di una penetrazione di qualcosa di negativo all’interno di un tessuto sano, una sorta di at-

tacco dall’esterno nei confronti di una realtà che prova inutilmente a resistere. Va sfatata la pretesa pu-rezza del destinatario dell’aggres-sione, che non è una vittima. La realtà che emerge dalle indagini è ben diversa e per evitare che il lin-guaggio crei una realtà inesistente è bene fare chiarezza’ […] Per ca-pire perché è un problema così va-sto”. Questo perché, come ci spiega Nando dalla Chiesa, la ‘ndrangheta ha una “vocazione colonizzatrice: ‘ciò che è Calabria e ciò che lo di-venterà’, così come si legge in una intercettazione. E hanno questa consapevolezza. Al loro popolo raccontano la volontà di riscatto della Calabria, conquistando altri paesi. Si tratta di uno Stato in mar-

cia”. Questo libro infine ci mostra l’importanza dell’osservatore, “un uomo di cultura, perché non si può raccontare se non c’è una cultura dietro. La militanza civile, la capa-cità di leggere la realtà, la capacità di sorvegliare la lingua. Giorna-lista e scrittore allo stesso tempo”, come lo descrive dalla Chiesa. Ri-mane quindi una priorità: armarsi di conoscenza, per evitare quelle sviste che troppo spesso riscontria-mo nei giornali e nella conoscenza stereotipata dei cittadini. Andare a rispolverare i classici della let-tura antimafia, come Franchetti, Colajanni, Mosca, Dolci, Stajano, sono i primi passi per creare forti infrastrutture per la comprensione del fenomeno.

Stampo Antimafioso è, assieme a Wikimafia e Unilibera Milano, una delle attività nate sulla spinta e intorno al Corso di Sociologia della criminalità organizzata, tenuto presso la Facoltà di Scienze Politi-che, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano. Tra le altre reatà universitarie, dal 2014 è attivo l’Osservatorio sulla criminalità organizatta (CROSS - www.cross.unimi.it). Osservatorio che nel 2015 ha pubblicato il secondo e il terzo dei Rapporti trime-strali sulle aree settentrionali, prodotti per la Presidenza della Commissione Parlamentare antimafia.Ve ne consigliamo la lettura! Cliccate sull’immagine.

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Messico: quando la resistenza è donnadi Thomas Aureliani

Sono già passati due mesi da quando mi trovai in mezzo ad una fiumana di gente vestita di bianco, nel centro di Città del Messico. Spesso il trascorrere del tempo ti toglie le parole e offusca i ricordi, portandoti via anche le sensazioni che hai provato. A me è capitato il contrario. Quando esattamente 10 giorni dopo tornai in Italia non trovai la forza mentale di scrivere, anche se spesso ne sentivo la ne-

cessità. Ma le immagini rimango-no limpide ed i rumori e le voci ancora squillanti. Quel giorno di due mesi fa era il 10 maggio, Día de la Madre, un giorno speciale per tante donne messicane. Da pochi anni alcuni collettivi di familiari di vittime e desaparecidos si trovano davanti al monumento a la madre, e dopo aver percorso insieme il Paseo de la Reforma, giungono all’Ángel de

la Indipendencia. Qui si riunisco-no e raccontano le loro storie di sofferenze, ingiustizie e soprusi. Alle 10 del mattino il sole sulla ca-pitale si fa sempre più cattivo, ma tante madri, sorelle, figlie e mogli non si fanno intimidire dall’afa soffocante. Portano tutte una ma-glietta, una foto, uno striscione sulla quale è impresso il volto del proprio desaparecido, spesso ac-compagnato da una breve descri-zione personale, il colore degli oc-chi e dei capelli, gli anni che aveva quando qualcuno se lo portò via. Il fatto singolare è che molti dei familiari sanno esattamente chi sono i colpevoli, perché portano prove, raccolgono informazioni e sentono testimoni. Mentre le autorità brancolano nel buio ed evitano di indagare, a volte perché poco professionali e negligenti, spesso perché collusi o disinteres-sati. La marcia è un susseguirsi di cori cantati all’unisono. Il più ri-corrente è “vivos se los llevaron, vivos los queremos”, “vivi li porta-rono via, vivi li rivogliamo”. Ven-gono i brividi quando noti che a guidare il coro è una ragazzina che a stento arriva a 10 anni, il cui urlo così violento e dolce rimane scal-fito nei ricordi ancora oggi. Cerca suo padre con fierezza, e insieme alla madre e al fratellino espone la sua foto su un cartellone bian-co. Come lei centinaia di famiglie camminano e gridano: “Dónde están, dónde están nuestros hijos dónde están? “Dove sono i nostri figli?” si chiedono ripetutamente tante donne unite da una materni-tà collettiva. Non può essere altri-

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menti. Ormai è riconosciuto che la desaparición è un problema strut-turale del paese, dunque la lotta di una, è la lotta di tutte. Sono quasi 23 mila le persone scomparse dal 2007 ad oggi secon-do fonti del governo, ma molti atti-visti e familiari parlano almeno di 26 mila messicani spariti nel nulla. Non si tratta più dei desaparecidos come all’epoca della “guerra sucia”, la guerra sporca degli anni Ses-santa e Settanta, quando lo Stato faceva sparire le persone scomo-de, spesso leader sociali e attivisti politici “antisistema”, o personaggi legati a gruppi insorgenti. Oggi si sparisce in Messico perché sei una bella ragazza da sfruttare o vendere nel mercato del sesso, come proba-bilmente successe a Monica, figlia di Adela, che mi racconta i suoi ul-timi anni di ricerche. Dal 2004 ad oggi lei e suo marito Manuel non hanno smesso un giorno di cer-carla. Chiedo a Manuel una foto di Monica, e con orgoglio mi conse-gna una fototessera della ragazza allora ventunenne che conservo tutt’ora. Fu un gruppo mafioso atti-vo nella capitale a portarla via quel martedì 14 dicembre di 11 anni fa.

Ma in Messico oggi puoi spari-re anche perché sei un ingegnere, un biologo o un chimico. I cartel-li hanno bisogno di professionisti da usare per aumentare le capacità del proprio gruppo criminale. Per questo motivo sparì Matuzalem, ingegnere agronomo desaparecido per opera della polizia municipale di Torreón, e consegnato diretta-mente agli Zetas. Sua sorella Maria Antonia lo cerca dal 2009. La storia è simile per molte famiglie: spari-sce un familiare, aspetti 72 ore per-ché prima non si possono avviare le procedure di ricerca, salti da una procura all’altra e da un’autorità all’altra, ma alla fine niente. DESA-PARECIDO. Maria Antonia è posata nel rac-contare il calvario che sta vivendo da alcuni anni. I suoi studi univer-sitari di diritto e l’esperienza che si sta facendo sul campo l’hanno trasformata in una vera e propria esperta in materia. Mi racconta che oggi aiuta persone che stanno cercando i propri parenti su alcuni gruppi di Facebook e gira il Mes-sico con il collettivo di familiari di cui fa parte, FUUNDEM, a parlare della situazione dei desaparecidos.

Ma della sua storia personale ha parlato per la prima volta solo a Li-bera, nel 2013. “Non mi aprii mai, ma loro sono gli unici che mi die-dero fiducia, così raccontai”. I suoi occhi brillano quando parla del suo nipotino, figlio di Matuzalem. L’anno scorso ci passò insieme il compleanno, al santuario del Cri-stos de las Noas: “Entrammo nella cappella, ci sedemmo e gli dissi di parlare con Dio”, racconta piena di commozione. “Fai come se parlas-si con un tuo amico. Lui ti ascolta, digli quello che vuoi”. “Sicura che posso chiedere quello che voglio? Sicura?” incalza il ragazzino, che poi ammette: “Voglio che faccia ri-tornare mio papà”. Quando tornai a casa da questo breve ma intensissimo viaggio in Messico cercai spesso di assegna-re un’immagine a quell’esperienza, bloccandola in un’istantanea. Per molto tempo non ci riuscii. Oggi, dopo due mesi, ricomponendo il mosaico di quei giorni, appare sempre più nitido un volto di don-na. Il nuovo simbolo della resisten-za civile messicana.

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Il 10 dicembre del 2014 la Policia de Seguridad Aeroportual (PSA) argentina ha sequestrato circa 235 kg di cocaina e arrestato i mem-bri di un gruppo criminale che trafficava droga in Sud America e Europa: una vera e propria mul-tinacional narco, secondo le fonti giornalistiche argentine. Le inda-gini, durate due anni, hanno visto coinvolti cittadini argentini, bo-liviani, peruviani e paraguaiani; mentre i camellos, cioè coloro che trasportavano la droga in Europa (precisamente in Spagna) sono europei. Per ogni viaggio questi ultimi guadagnavano circa 5000 dollari. Alla testa dell’organizza-zione una donna boliviana che dal suo Paese guidava il gruppo narco. La cocaina entrava dalla Bolivia e giungeva a Buenos Ai-res, dove veniva dimezzata: metà per il mercato locale, l’altra metà destinata all’Europa. Casi come quelli appena citati sono aumentati considerevol-mente nell’ultimo decennio in Argentina, così come il consumo interno. Ma come è stato possibile ciò? I fattori che hanno portato l’Ar-gentina da Paese di transito se-condario a Paese sotto influenza dei narcos (prima colombiani e messicani e negli ultimi anni locali) sono da ricercare nelle condizioni economiche, sociali, geografiche, legislative e infine in alcuni orientamenti operati-vi delle organizzazioni criminali straniere. Partendo dalle condizioni socio-economiche va ricordato che ne-gli anni Novanta, sotto il governo

Menem, numerose imprese ven-nero chiuse e quelle statali (come la compagnia aerea e le poste) pri-vatizzate. Le privatizzazioni unite alle politiche neoliberali portaro-no al deterioramento dell’econo-mia argentina e alla corruzione in tutti i settori istituzionali. Queste gravi condizioni condussero la popolazione allo stremo: si affer-mò in questi anni il narcomenu-deo, ovvero la vendita di droga in strada. La situazione peggiorò ul-teriormente durante la crisi eco-nomica che colpì l’Argentina nel 2001. Molte persone emigrarono dalle zone rurali o dai Paesi limi-trofi a Buenos Aires e trovarono alloggio nelle villas miserias: qui, a causa delle precarie condizioni di vita, il traffico di droga si dif-fuse rapidamente. La criminalità organizzata, infatti, si diffonde ra-pidamente in questi insediamenti informali, simili alle favelas brasi-liane, poiché sono “territori vieta-ti” persino alle forze dell’ordine. Ogni membro dell’organizzazio-ne ha il suo ruolo predefinito, la sentinella che avverte di ogni movimento sospetto e il soldati-to. Quest’ultimo è solitamente un ragazzo tra i 13 e i 17 anni ed ha il compito di sorvegliare il bunker nel quale viene venduta la droga, come la cocaina, anche se ultima-mente si è diffuso sempre di più il paco: droga simile al crack, la-vorata a partire dagli scarti della pasta base di cocaina (PBC) mi-schiata con candeggina, topicidi, acido solforico e cherosene. Anche la condizione geografica ha giocato un ruolo fondamentale nell’aumento di droga. Non va di-

menticato che l’Argentina confina con Paesi come la Bolivia (pro-duttrice di foglie di coca), il Para-guay (produttore di marijuana) e il Brasile (Paese con un alto tasso di criminalità). Le province mag-giormente colpite sono: La Rioja, Salta, Jujuy, Mendoza e Tucumán dal lato nordovest e Entre Ríos, Chaco, Formosa e Santiago del Estero dal lato nordest. Le vie di entrata sono la ruta 34 (al confine con la Bolivia), la ruta 11 (confine con Paraguay) e la ruta 38 attra-verso le quali il trasporto avviene per via terrestre (camion, autobus a lunga percorrenza e automobili, ma anche persone) o per via ae-rea, utilizzando piccoli aerei pri-vati che atterrano nelle piste clan-destine o da cui viene lanciata la merce (pratica del bombardeo). Altra modalità molto diffusa è la via marittima; tra le principali entrate e uscite vi sono il porto di Buenos Aires e di Mar del Plata e il fiume Paraná. Quest’ultimo in particolare ha molte zone li-bere dal controllo delle forze di sicurezza e collega cinque paesi strategici per i narcos: Argentina, Uruguay, Brasile, Paraguay e Bo-livia. Una zona di frontiera molto critica è, anche, la Triple Frontera, dove confinano Argentina, Brasi-le e Paraguay. In questo luogo si verificano molteplici traffici, dal narcotraffico al traffico di armi, ma anche merci contraffatte e traffico di esseri umani. In tutte le zone di frontiera i controlli sono scarsi e questo non aiuta a contra-stare alla criminalità organizzata. Vi è poi un ostacolo a livello le-gislativo da tenere in considera-

La “narcolonización” in Argentinadi Filomena De Matteis

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zione: la ley 23.767 che crimina-lizza il possesso di stupefacenti. La maggior parte delle operazioni di polizia non inizia come risultato di un’indagine, bensì per la deten-zione di sostanze stupefacenti; ad essere fermati sono i consumatori, i piccoli spacciatori di strada o le mulas (coloro che trasportano la droga nascosta tra gli indumenti). Il sistema giudiziario, infatti, è sa-turo di casi simili; bisognerebbe, dunque, cambiare a livello inqui-rente. La polizia dovrebbe effettua-re indagini di lungo periodo per smantellare la rete che c’è dietro il traffico degli stupefacenti. Altra normativa che non viene ri-spettata è la ley 25.246, sul riciclag-gio di denaro: la UIF (Unità di in-formazione finanziaria) argentina non sanziona in modo adeguato i casi sospetti e non effettua i con-trolli necessari a contrastare que-sto crimine economico. I casi che hanno visto importanti operazioni antidroga sono pochi, anche a cau-sa del frequente coinvolgimento delle forze dell’ordine in rapporti di collusione. Gli episodi più ecla-

tanti si sono registrati a Córdoba e Rosario ed è proprio in quest’ulti-ma città della provincia di Santa Fe che ha preso potere il gruppo cri-minale Los Monos. Guidato dalla famiglia Cantero, questo gruppo oggi risulta così potente da poter-si permettere di costruire i propri beni immobili su terreni in posses-so di altre persone senza alcuna au-torizzazione, così come su terreni non edificabili, e con un immenso patrimonio ottenuto tramite le va-rie attività illecite. Nel febbraio del 2014 alcuni membri del gruppo criminale, insieme con insospet-tabili, furono indagati per associa-zione illecita. L’indagine mise in luce la fitta rete di relazioni per-sonali con imprenditori, poliziotti (gli agenti coinvolti furono otto) e calciatori, nonché la struttura della banda: il nucleo era costituito da Ariel Máximo Cantero (detenu-to), Ariel Cantero (padre dei due membri più giovani e attualmente latitante), Claudio Cantero (as-sassinato nel maggio del 2013) e Ramón Machuca (sul quale pende un mandato di cattura).

Le lacune legislative, la sua posi-zione geografica e gli eventi so-cioeconomici degli anni Novanta hanno portato i narcos colombiani prima e quelli messicani poi a pre-diligere l’Argentina come Paese nel quale fare “affari”. In particolare i narcotrafficanti messicani hanno iniziato qui il loro traffico illegale di efedrina, precursore chimico dal quale vengono elaborate le metan-fetamine. Questo traffico emerse nel 2008, con la scoperta del labo-ratorio di via Maschwitz (Buenos Aires): l’efedrina veniva importata dalla Cina o dall’India in Argenti-na, lavorata in quest’ultimo Paese e poi mandata negli Stati Uniti o in Europa, pronta per essere introdot-ta nel mercato. È dunque chiaro ora come cor-ruzione e impunità, laboratori di raffinazione e struttura orizzontale dei Los Monos, abbiano comporta-to l’evoluzione del narcotraffico in Argentina, rendendo quest’ultima un Paese sotto l’influenza dei nar-cotrafficanti.

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La criminalità organizzata in Messico. Tra cartelli della droga e forze di autodifesa. Quali sono le fazioni operanti più forti?

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Spagna: organizzazioni criminali, riciclaggio e contatti con la politicadi Sara Manisera

Se con la globalizzazione, le eco-nomie nazionali sono sempre più interconnesse le une alle altre, è anche vero che l’apertura dei mer-cati e lo sviluppo del commercio mondiale hanno permesso alle organizzazioni criminali di fare massicci investimenti nell’econo-mia legale, laddove le condizioni (legali ed economiche) risultano più favorevoli. Uno dei paesi in cui le organizzazioni di stampo mafioso hanno trovato una secon-da casa è la Spagna. Perché la Spagna? Anzitutto va ri-cordato che per quasi quarant’anni la Spagna ha vissuto sotto la dura repressione della dittatura franchi-sta, che ha impedito lo sviluppo di una criminalità locale, a eccezione dei Gallegos Lancheros in Galizia. La controversa transizione spa-gnola, avvenuta con la morte di Franco dal 1975, ha aperto spazi vuoti in cui si sono inserite le or-ganizzazioni criminali di diversa nazionalità: russe, cinesi, albanesi e italiane. In secondo luogo bisogna tener conto della posizione geografica della penisola iberica: snodo ne-vralgico per il transito di droga proveniente dall’America Latina e dal nord dell’Africa. E qui, dun-que, le organizzazioni criminali, con i propri affiliati, cercano di controllare territori strategici per il traffico di droga, di cocaina e hashish. Non è un caso che mol-ti narcos sudamericani, così come

latitanti italiani, si siano rifugiati per la latitanza e per i loro affari lungo la Costa Brava, in Galizia o a Tenerife. Basti pensare che già nel lontano 1983, Pasquale Pirolo, luogote-nente di Michele Zagaria e braccio destro di Antonio Bardellino nel settore del reimpiego dei capitali illeciti, veniva arrestato insieme a quest’ultimo a Barcellona. La lista degli arresti in territorio iberico, tuttavia, è lunga; secondo il gior-nalista e storico, Joan Queralt, au-tore del libro “La Gomorra di Bar-cellona”, dal 2000 al 2009 sono stati arrestati 65 affiliati alla Camorra, 24 in Catalunya e 41 nel restante territorio spagnolo. La pervasività delle organizzazioni mafiose ita-liane è documentata anche dalla relazione della Commissione par-lamentare d’inchiesta antimafia presieduta da Francesco Forgione dal 2006 al 2008, che accerta la presenza di clan camorristici attivi a Barcellona, Badalona, Valencia, Saragozza, Madrid, Toledo, Mala-ga, Marbella, Ceuta e Granada ma anche di ‘ndrine presenti a Barcel-lona, a Palma, Algeciras, Madrid e Malaga.

Non solo droga: riciclaggio di denaro, attività economiche e contatti con la politica locale

Se da una parte, dunque, la Spagna può essere considerata un vero e

proprio hub delle rotte della co-caina e rifugio ospitale per molti latitanti, è altrettanto vero che essa costituisce un mercato ine-splorato e di facile penetrazione, vista l’assenza nell’ordinamen-to penale spagnolo del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso (esiste solo il re-ato di “Organizaciòn Criminal”, introdotto dalla Ley Organica 5/2010) e di un regime peniten-ziario speciale in riferimento ai detenuti per reato mafioso che ha permesso loro il manteni-mento di relazioni con gli affiliati e la gestione degli affari dietro le mura del carcere.Inoltre esiste una legislazione in materia di perquisizioni par-ticolarmente garantista poiché le forze di polizia non possono svolgere perquisizioni durante le ore notturne. Queste condizioni giuridiche ottimali, unite all’as-senza di una severa legge sul ri-ciclaggio del denaro (la “Legge di prevenzione del riciclaggio dei capitali e del finanziamento del terrorismo” è stata introdotta solo nel 2010) hanno permesso alle organizzazioni criminali di compiere massicci investimen-ti nella penisola iberica, tanto è vero che nel 2006, in Spagna vi era la più alta concentrazione eu-ropea di banconote da 500 euro, usate dai criminali per la loro co-modità. I settori in cui la criminalità or-ganizzata ha reinvestito ingenti capitali – grazie alla presenza di una borghesia para mafiosa compiacente costituita da notai, avvocati, banchieri e brokers – sono quello immobiliare e turi-stico, quello della ristorazione, il settore ittico e della distribuzio-ne alimentare. Un esempio su tutti, la società creata a Barcel-lona a fine del 2002 da Raffaele

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Amato, La Mer Vacanze Immobi-liare S.L, intestata alla moglie El-melinda Pagano e finanziata con i soldi provenienti da una società offshore con sede nelle isole Ver-gini britanniche, il cui proprietario era Gaetano Pezzella titolare di una fabbrica di salumi e impresario at-tivo nel campo della produzione e della commercializzazione di pro-dotti alimentari, nonché addetto al riciclaggio di denaro sporco del clan degli Scissionisti. Il gruppo si avvaleva di un promotore finanzia-rio della Banque Monégasque de Gestion di Monaco e di un consu-lente di affari della società Moores

Rowland di Montecarlo. Nume-rose tuttavia sono le operazioni giudiziarie negli ultimi anni che dimostrano l’enormità del potere economico della mafia italiana; nel 2012 e nel 2013, rispettivamente con l’operazione Laurel VII e VIII, vengono sequestrati più di 175 ap-partamenti, 141 garage, 43 imprese tra hotels, negozi e ristoranti e 19 ville riconducibili al clan camor-rista di Giuseppe Polverino, arre-stato proprio in Spagna a Jerez de la Frontera, cittadina in cui viveva anche Raffaele Vallefuoco, latitante a sua volta da dieci anni. Credere che le organizzazioni cri-

minali di stampo mafioso si limi-tino solo alle attività economiche è piuttosto imprudente. L’operazione Pozzarro, ha accertato il tentativo del clan camorristico dei Nuvoletta di infiltrarsi nella politica locale di Adeje, cittadina situata nell’isola di Tenerife attraverso la candidatura di Domenico Di Giorgio, giovane avvocato e consigliere di Giuseppe Felaco, capoclan nelle Canarie. Di Giorgio, arrestato nell’operazione Pozzarro era inserito nella lista dei candidati del Partido Popular ed è stato persino fotografato insieme a Mariano Rajoy, leader del Pp e at-tuale primo ministro spagnolo.

Pasquale Claudio Locatelli: il gioco dell’oca per un re del narcotrafficodi Luca Bonzanni

Come nel gioco dell’oca, a volte si è obbligati a ricominciare da dove tutto era iniziato. Tornare indietro, perdere tutto, ripartire. Succede a molti, soprattutto a chi di strada ne ha fatta parecchia. Fin troppa. Per Pasquale Claudio Locatelli, conosciuto anche come «Mario di Madrid» o «Diabolik», quel giorno è arrivato. Un nome quasi anonimo, eppure estrema-mente pesante. Come le tonnella-te di droga spostate da una parte all’altra del globo, per intenderci.Pesante ma quasi sconosciuto, ap-punto. D’altronde, là dove tutto è iniziato, in Bergamasca, ai piedi della valle Imagna, quel cognome passa inosservato, diffuso com’è. E poi, si sa, certe cose sembra-no sempre succedere «lontano», paiono distanti ed estranee. Ma

quel Locatelli non è uno dei tan-ti: è l’«eroe dei due mondi» del narcotraffico. E ora, dopo una «carriera» iniziata all’ombra delle Mura venete e proseguita attra-verso oceani, prigioni, continenti diversi, quel Locatelli è tornato «a

casa». Estradato, per l’esattezza: il 7 agosto è stato rimpatriato in Italia dalla Spagna per scontare una con-danna definitiva a 26 anni di carcere emessa dal Tribunale di Milano per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefa-centi.

L’inizio di un romanzo criminale

Si parte dalla fine, ma questa è una storia che va raccontata dall’inizio. Una vicenda emblematica, significa-tiva, intensa. Locatelli nasce nel 1952 ad Almenno San Bartolomeo, paesi-no della provincia orobica: terra di lavoratori, dice la vulgata. Alcuni un po’ particolari, verrebbe spontaneo sentenziare riavvolgendo il nastro

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della vita di questo Locatelli. Gli studi interrotti presto (dopo la quinta elementare), il lavoro col padre falegname, gli anni trascor-si tra Ponte San Pietro, Brembate Sopra e Curno. E fin qui, niente di particolare. Già allora, tuttavia, s’intravedono i segni che qual-cosa, nel suo destino, sta già per cambiare: una personalità spic-cata, il carisma da leader, il desi-derio intenso della ricchezza che anche a Bergamo – nella «pro-vincia bianca» per eccellenza – è scoppiato con l’avvento del con-sumismo. Inizia «dal basso», la sua «carriera». All’incipit degli anni Ottanta, uno dei primi arresti: secondo le carte dell’epoca, è a capo della «banda delle Mercedes», gruppuscolo di bergamaschi (finisce in manette anche il fratello) dedito alla com-missione di furti di auto di grossa cilindrata, con la conseguente fal-sificazione di documenti e targhe e infine la rivendita, tanto in Italia che all’estero. Quisquilie, in fondo, se paragonate ai capitoli successi-vi del suo romanzo criminale.

Da Bergamo alla Costa Azzurra

Ma c’è qualcosa di più redditizio delle auto rubate: la droga, ov-viamente. Bergamo gli sta stretta, Locatelli sceglie di «emigrare» in Costa Azzurra. Coincidenze: ne-gli stessi anni in cui «Mario» si trasferisce in Francia per motivi di «lavoro», propria a Rota Ima-gna, in quella dolce valle ai cui piedi Locatelli è diventato uomo, il potentissimo clan Sergi mette a punto – grazie al fondamentale connubio con Roberto Pannunzi, figura fondamentale nelle dina-miche del narcotraffico globale paragonata da Roberto Saviano

proprio a Locatelli – la costruzio-ne della più grande raffineria di eroina del Nord Italia. Nel 1989, le manette scattano nuovamente ai polsi di Locatelli: nel marzo di quell’anno, nella sua villa di Saint-Raphaël, la gendar-meria francese trova quaranta chili di cocaina. Sulla Côte d’Azur, comunque, non è il solo italiano a incidere nelle trame mondiali del-la droga: solo nei primi mesi del 1989, le autorità francesi mettono le mani su quasi 500 chili di coca e cinque tonnellate di hashish. A gestirle c’è tutta la pluralità delle organizzazioni criminali italiane, ma soprattutto la camorra. In par-ticolare, è Michele Zaza – nome di spicco del clan Mazzarella – a tirare le fila dei traffici della mafia napoletana in quello spicchio di Francia; e anni dopo, il nome di Locatelli sarà affiancato proprio a quello del clan Mazzarella. La prigionia di «Diabolik» dura poco: qualche tempo dietro le sbarre poi, durante un trasferi-mento dal carcere di Grasse all’o-spedale (si era rotto un braccio), il 2 settembre tre uomini assaltano il cellulare della polizia francese e liberano Locatelli. La nuova tappa del suo peregrinare criminale lo porta in Spagna. Dove diventa a tutti gli effetti «Mario di Madrid».

Mario di Madrid

È nella penisola iberica che Loca-telli si afferma pienamente. Resta un «libero battitore», non è af-filiato ad alcuna organizzazione ma collabora con tutti: la camor-ra, la ‘ndrangheta, la Sacra corona unita e persino vecchi reduci della Banda della Magliana vengono af-fiancati al suo nome. L’affidabilità è la sua forza, i legami con il car-tello di Medellín e Pablo Escobar

la sicurezza. Per collegare i «due mondi» del narcotraffico, il Su-damerica dove si produce e l’Eu-ropa dove si consuma, «Mario» mette insieme una vera e propria flotta navale che gravita attorno a Gibilterra; come se non bastasse, annoteranno gli inquirenti tempo dopo, posa le mani su alcuni istitu-ti di credito, gestendo una banca a Zagabria e controllando la «Cassa Rurale di Ostuni», e investe anche nel mattone. La struttura della sua «impresa» è snella ma funzionale. In Zero Zero Zero, Saviano anno-ta con chiarezza: «Famiglia stretta e uomini a libro paga da tenere sotto perenne pressione e con-trollo, gerarchie blindate, omertà. L’impresa bergamasca, pur senza avere alla base alcun legame sto-rico, va sempre più assumendo i tratti dell’organizzazione mafiosa e con questo ne acquista anche la vincente impermeabilità». Sfugge agli inquirenti di tutto il mondo fino al 1994. Poi, a set-tembre, cade nella trappola. Un lavoro lungo, certosino, quasi fan-tascientifico, messo in piedi anche grazie al coordinamento tra di-verse autorità investigative. Inda-gini tra Stati Uniti, Spagna, Italia. Infiltrati, intercettazioni, rischi sempre altissimi. Addirittura, una finta banca creata appositamente in un paradiso fiscale. L’operazio-ne «Dinero» permette alla Dea, l’élite antidroga statunitense, di arrestare «Diabolik» (che in quel momento ha sulle spalle due con-danne da dieci e vent’anni inflitte-gli in Francia); il «contorno»: 30 milioni di dollari in contanti se-questrati, quattro navi con i sigilli e persino delle opere d’arte di in-discusso valore (un Rubens e un Picasso, ad esempio) recuperate dalla polizia. Ma la sua biogra-fia (parzialmente interpretata nel 2013 da Riccardo Scamarcio nel

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film francese Gibraltar) segnerà al-tre tappe.

Corsi e ricorsi, tessere nel mo-saico

Tutto (ri)torna. Dopo le manette in Spagna, presto Locatelli è rispedito in Francia. Ancora a Grasse, là da dove era fuggito nel 1989. Quan-do nel 1998 segue nel tribunale francese l’udienza che lo vede con-dannato a 18 anni di reclusione, le misure di sicurezza orchestrate dalle forze dell’ordine transalpine sono a dir poco imponenti: deci-ne e decine di agenti a scortare il trasferimento dal carcere al Palaz-zo di giustizia, un elicottero con tiratori scelti a sorvolare l’area, una dozzina di agenti armati di mitra all’interno dell’aula. Nel 2004 viene invece estradato a Napoli: incredi-bilmente, di lì a poco la Cassazio-ne lo scarcera. Locatelli non perde tempo, vola in Spagna; nel maggio del 2006, ad Alicante, è sorpreso con passaporto sloveno e 77mila euro in contanti, ma nuovamente un vizio di forma lo rimette a piede libero. Nel 2010, infine, gli uomini della Guardia di Finanza lo cattura-no per l’ennesima volta in Spagna. Seguono i soliti rimpalli burocrati-ci, e per l’estradizione «definitiva» tocca attendere i nostri giorni. In mezzo, tuttavia, Locatelli resta una figura fondamentale per capire il

funzionamento del narcotraffico mondiale.Tocca fare un passo indietro. È il 4 marzo 2008: una soffiata porta i carabinieri di Villa d’Almè, altro paesino bergamasco, a sequestrare la bellezza di 917 chili di hashish all’interno di un furgone in un ga-rage del capoluogo orobico. Di chi è quel box? Ecco un altro tassello che complica – o forse parados-salmente lo rende più chiaro – il mosaico: è di Gianfranco Benigni, ex sottoufficiale del Ros di Berga-mo, quello stesso raggruppamen-to dell’Arma (successivamente la sezione orobica è stata sciolta) già finito sotto processo per presunte irregolarità in diverse operazio-ni antidroga (col coinvolgimento anche dell’ex generale Giampaolo Ganzer, condannato in Appello e in attesa della Cassazione). Per l’hashish nel box, Benigni ha pat-teggiato tre anni e otto mesi. Ma c’è di più, ovviamente: la regia del carico, partito dalla Spagna e de-stinato a giungere (in parte) an-che a Napoli, sarebbe stata gestita – secondo gli inquirenti – da Lo-catelli, col coinvolgimento anche della compagna Loredana Ferraro, del fratello di lei Dario e di alcuni francesi. Di più: nel 2011 Benigni finisce nuovamente dietro le sbar-re, questa volta arrestato dal Grup-po operativo antidroga della Guar-dia di Finanza di Napoli. Il motivo? Secondo la Dda di Napoli, tra 2005

e 2006 Benigni sarebbe stato con-tattato da «Mario di Madrid» sino a diventarne uno stretto collabo-ratore: il compito inizialmente sa-rebbe stato semplice e secondario, giusto avere qualche contatto con gli ex colleghi, annusare l’aria in cerca di inchieste «calde» sul conto di «Mario»; col tempo, guadagnata la fiducia del boss, Benigni sarebbe diventato parte integrante dell’or-ganizzazione, gestendo in prima persona il trasporto dello stupefa-cente (hashish, in particolare) dalla penisola iberica all’Italia. Lo sfon-do dell’affare? Secondo i magistrati antimafia, un accordo tra Locatelli e il clan camorristico Mazzarella. Eccoli, allora, i corsi e i ricorsi della storia del crimine: dalla Costa Az-zurra degli anni Ottanta, ai giorni nostri. Da Michele Zaza a Pasqua-le Claudio Locatelli. Tutto cambia, niente cambia: «Diabolik», pur braccato dalle polizie di mezzo pia-neta, resta sempre in primo piano.O forse sì, qualcosa invece cambia: ora, dopo alcuni anni (di nuovo) nelle prigioni spagnole, «Mario» è rientrato in Italia, a Rebibbia. Deve scontare 26 anni e dire la sua in alcuni processi. Il narcotraffican-te dei due mondi è quindi tornato (quasi) a casa, là dove tutto è ini-ziato, ma con qualcosa di più sulle spalle: almeno un quarto di secolo da passare in carcere. A volte, an-che la giustizia vince.

È ora disponibile online il nostro documentario “Global mafia”Global Mafia riproduce diverse interpretazioni del sistema mafioso in Italia. Concentrando l’attenzione sull’attività della mafia calabrese, conosciuta come ‘Ndrangheta, il documentario cerca di spiegare la dimensione internazionale e globale che questa organizzazione criminale ha assunto nel tempo.

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La Cecenia è una Repubblica au-tonoma della Federazione Russa situata nel Caucaso, sul confi-ne con la Georgia. Storicamente contesa fra le varie potenze che la circondavano, i suoi abitanti han-no da sempre dovuto difendersi, coltivando una grande volontà combattiva e un forte sentimento etnico-patriottico.Da quando vennero sottomessi fra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento dall’allora Im-pero Russo, la resistenza del popo-lo ceceno contro l’invasore è una costante. Questa resistenza storica si manifesta in particolare durante lo sfaldamento dell’U.R.S.S. Negli ultimi mesi del 1991 il generale Dzochar Dudaev, approfittando degli intrinsechi sentimenti an-ticomunisti ceceni e della confu-sione regnante a Mosca, rovescia l’élite sovietica cecena e prende il potere a Grozny, la capitale della regione. Nasce così la Cecenia che nel 1993 dichiara unilateralmen-te l’indipendenza con il nome di “Repubblica cecena di Ichkeriya”. La scelta indipendentista crea però da subito una serie di pro-blematiche: incertezze economi-che e politico-istituzionali, infatti, favoriscono lo sviluppo di alcune attività illecite. Non solo, presto la Cecenia diventa un “porto franco” del terrorismo e della criminalità, grazie a un decreto – emanato dal neo-presidente ceceno Dudaev – dichiarante come prive di valore e

inapplicabili sul territorio ceceno quelle sentenze di condanna pro-nunciate dalle Corti dei Paesi che internazionalmente non avevano riconosciuto la Cecenia indipen-dente. Inoltre, una sorta di “guerra civile” non dichiarata fra le varie fazioni pro e contro Dudaev e l’embargo russo accentuano lo svi-luppo di mercati paralleli e illeciti e la forza delle organizzazioni cri-minali.La successiva “Prima Guerra ce-cena” (1994 – 1996) fra la neonata repubblica e la Federazione Russa favorisce il fiorire e il prospera-re delle organizzazioni criminali. Inoltre la chiamata al jihad da par-te del Gran Muftì – un’autorità re-ligiosa della Cecenia (che è a mag-gioranza mussulmana) – porta nel Caucaso centinaia di combattenti a rimpolpare le fila cecene. Ciò crea una situazione caotica i cui riverberi si sentono ancora oggi.Il conflitto viene “vinto” dai cece-ni; i quali però “perdono” la pace. Infatti il Paese diventa un “buco nero” in cui gli affari criminali prosperano più di prima. Dimen-ticata da Mosca, senza un effettivo controllo da parte dell’ammini-strazione del neoeletto presidente Maskhadov e pervasa da una gra-ve crisi economica seguita al con-flitto, in Cecenia si sviluppa una perdurante presenza di “signori della guerra”, che in varie zone si sostituiscono completamente all’autorità governativa e com-

Cecenia: le guerre, i crimini, i criminali e i trafficidi Samuele Motta

piono razzie e rapimenti. Forse anche grazie all’aiuto degli stessi servizi di sicurezza del Cremlino, la situazione si rende così fin da subito critica e instabile.La “Seconda guerra cecena” scoppia il 29 settembre 1999. L’appoggiarsi dei russi a frange minoritarie di “lealisti” delegit-tima le autorità elette e fomenta una vera e propria guerra civile. La forza e il pugno di ferro russo fanno sì che la “fase militare” del conflitto si chiuda in maniera vit-toriosa per gli uomini di Mosca già nel 2002; anche se la “lotta al terrorismo” si è protratta fino al 2009. Nel frattempo nel 2005 viene uc-ciso Maskhadov, l’ultimo espo-nente “storico” di rilievo dell’in-dipendentismo “laico” ceceno. Così la lotta viene lentamente catalizzata dalla fazione ultrare-ligiosa, composta da numerosi mujhaeddin giunti grazie alla chiamata al jihad in occasione di entrambi i conflitti e finanziata dai Paesi arabi del golfo. È in questo panorama condito da instabilità politica, conflitti etni-co-religiosi e guerra perenne che il territorio ceceno risulta esse-re uno dei luoghi più fertili per l’insorgere di ogni tipo di attività criminale.Il secondo intervento russo in Cecenia, infatti, oltre che come lotta al terrorismo di matrice islamica, viene presentato come una necessaria azione per elimi-nare un “nido” della criminalità organizzata,un rifugio da cui nu-merosi malavitosi già allora ge-stiscono tranquillamente affari in tutto il mondo.Questo perché la criminalità organizzata cecena è tra le più feroci ed efficienti. Chiamata Obšcina (che in russo significa “comunità”), trova nome e ori-

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gine nel movimento sovversivo fondato nel 1974 da Chož-Ahmed Nouchaev, uno studente univer-sitario. Strutturata su un modello gerarchico, simile a quello di Cosa Nostra, ha ottenuto con gli anni una reputazione di livello interna-zionale, essendo considerata la più coesa e pericolosa fra le organiz-zazioni criminali su base etnica. Infatti, sebbene in ambito russo la maggior parte dei sindacati del crimine sia plurietnica, parecchi gruppi di ceceni – insieme con azeri e georgiani (con cui hanno da sempre una stretta collabora-zione, data la vicinanza territoria-le) – si sono nel tempo spinti fino alla Siberia, controllando pian-tagioni di oppio un po’ ovunque sul territorio ex sovietico. Inoltre, grazie alla loro solida e strutturata rete di contatti tra le forze dell’or-dine, sono divenuti un partner più che efficiente negli affari per mol-ti altri gruppi criminali, come ad esempio quelli tagichi o uzbeki. Alcuni studi investigativi recen-ti hanno dimostrato che la sfera di influenza della mafia cecena si estende da Vladivostok a Vienna; ma si spinge un po’ ovunque in tutto il globo. Ad esempio sono presenti nella cosiddetta “triplice frontiera” fra Argentina, Brasile e Paraguay, dove traggono appog-gio dalla considerevole comunità mussulmana coinvolta nei traffici di sostanze stupefacenti e di armi dall’America all’Europa.Le attività cui si dedicano questi gruppi criminali sono di varia na-tura: la distribuzione di moneta falsa e l’appropriazione indebita, la ricettazione e il riciclaggio di denaro, il traffico illecito di clan-destini e di sostanze stupefacenti (acquisendo persino il monopolio in talune aree) e finanche quello di sostanze radioattive come il pluto-nio.

La principale attività rimane co-munque il traffico di droga. A nord e a sud del Caucaso, infatti, tran-sitano le partite di oppio, morfina base e hashish provenienti dalla “Mezzaluna d’oro” e in particola-re dall’Afghanistan. Esse arrivano dall’Iran o dal Turkmenistan, attra-versano il Mar Caspio e si dirigono, passando il Mar Nero, verso i Bal-cani e verso l’Europa. Questo per-corso, noto come “Rotta caucasica”, si connette con la “Rotta balcanica” o con la “Rotta baltica”, portando la droga a San Pietroburgo e negli Stati dell’Europa nord orientale e centrale. I tragitti che attraversa-no il Caucaso, oltre a raggiungere l’imponente mercato della Fede-razione russa, sono anche decisa-mente sicuri; infatti la mancanza di infrastrutture necessarie a pro-teggere i confini, le continue guerre o scontri e la scarsa cooperazione internazionale dei vari Paesi del-la regione rendono quest’area una ghiotta preda per i trafficanti.Il primato ceceno sembra indiscus-so anche nel traffico delle armi. Ovviamente la fioritura di questo commercio si deve alla situazio-ne presente e passata di continua tensione e conflitto della regione caucasica. Questo è un traffico im-portante, che in passato ha tratto vitalità dall’estrema facilità con le quale giungevano in Cecenia le armi dai depositi ex sovietici e dai Paesi del Medio Oriente e del Gol-fo Persico.Un terzo mercimonio importante

compiuto nell’area è quello del pe-trolio, grazie tanto alla vicinanza dei grandi centri petroliferi cau-casici – come quello di Baku in Azerbaigian – quanto al passaggio di una serie di oleodotti in Cece-nia. Infatti pare che la mafia cecena abbia costruito gran parte delle sue ricchezze iniziali proprio rubando dagli oleodotti il petrolio e riven-dendolo al mercato nero. Inoltre, il controllo dell’indotto illecito in-torno al petrolio attualmente costi-tuisce una fonte di arricchimento molto importante anche per i mi-litari russi, la polizia cecena filo-russa e gli uomini d’affari ceceni che dispongono di una buona rete di relazioni. L’affare del petrolio è redditizio persino a livello locale. I numerosi pozzi e le piccole raffi-nerie artigianali – detti “samovar” e costruiti e sfruttati illegalmente nei villaggi già dalla fine del primo conflitto – sono spesso oggetto del racket (consistente nell’autorizza-zione a usarli e nella protezione in cambio di benefici) da parte sia dei militari dei vari schieramenti sia dei gruppi criminali.Infine, un’altra attività che ebbe grande importanza durante i con-flitti, ma che comunque ne ha an-cora per via della situazione di indigenza in cui versa parte della popolazione è il mercato nero; in cui al tempo confluivano tutte le merci che venivano sottratte nel corso delle varie operazioni di “pu-lizia”, come le cosiddette “zacistki” o “zaciski” (rastrellamenti indiscri-

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minati contro la popolazione ci-vile in cerca di terroristi). Inoltre, durante i conflitti (specie nel se-condo) si sviluppò anche l’usan-za, soprattutto fra i militari russi, di ricercare il guadagno tramite la richiesta di un vero e proprio riscatto per le persone arresta-te o catturate nel corso di queste azioni e persino per il recupero dei cadaveri; tanto che si venne a creare addirittura un sistema per-fettamente rodato di tariffe. Tut-to ciò era nelle mani di “brigate criminali russo-cecene”. Queste rappresentavano la connessione e commistione di interessi e azioni fra forze legali (i militari) e quel-le illegali (i criminali), a tal punto che difficilmente si potevano di-stinguere le due sponde. Anche se affievolito, nel mercato nero tale binomio rimane.Il vuoto repressivo in Cecenia deriva da tre fattori distinti, ma perfettamente omologati e inter-secati fra loro. Il primo consiste nella volontà politica di compia-cere le organizzazioni criminali, da parte di uomini dello Stato – ceceno prima, russo ora – che con queste hanno profondi agganci, tanto che alcuni membri del go-verno centrale o delle ammini-

strazioni locali ne fanno parte. Il secondo nella corruzione perva-siva dell’apparato statale che ga-rantisce una certa malleabilità e reverenza verso determinati sog-getti. Il terzo fattore – forse quello determinante per il “buco nero” ceceno – risulta dalla distrazione dello Stato che, occupato a risol-vere questioni di sicurezza nazio-nale come il conflitto prima ed il terrorismo poi, lascia ampio mar-gine d’azione ai vari signori della guerra, sia criminali che militari.Il terrorismo è un elemento che non si può dissociare dal feno-meno criminale in Cecenia e nel Caucaso, soprattutto dopo il 2002. Infatti il terrorismo ceceno è andato presto associandosi a quello cosiddetto islamico (prin-cipalmente di stampo wahabita) sia per la chiamata al jihad pro-mossa in entrambi i conflitti, sia per il persistente malcontento so-cio-economico della popolazione che vede nelle istituzioni islami-che le uniche davvero salde e con disponibilità economiche (dati i finanziamenti che ricevono dai Paesi arabi).Il caso ceceno diviene quindi paradigmatico per evidenziare i rapporti fra organizzazioni cri-

minali e quelle terroristiche. In Cecenia, infatti, si è formato un conglomerato paramilitare, che è un utile supporto per condur-re azioni terroristiche, tanto dal-la parte dei jihadisti, quanto da quella dei nazionalisti russi. Le stesse entità criminali russe e isla-miche, che si sono politicizzate e legate al terrorismo, formarono da allora una sorta di “criminali-tà ibrida”, un mix tra criminalità organizzata e terrorismo, simile a quella che si può riscontrare nei Balcani o in Afghanistan. Ciò de-riva da una sempre più costante sovrapposizione fra le attività ter-roristico – insurrezionali e le vie del narcotraffico, il che crea una stretta connessione fra tali attività e il traffico di droga attraverso il quale esse probabilmente si ali-mentano.In ogni caso in Cecenia le orga-nizzazioni criminali autoctone non si schierano apertamente e definitivamente con nessuno dei diversi contendenti sul territorio, per potersi giovare al massimo negli affari di questa situazione di perpetua “no mans land”, così come fanno anche le diverse auto-rità federali, locali e militari.

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Contrasto alla criminalità organizzata: Europol c’èdi Monica De Astis

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Deboli istituzioni statali, corruzio-ne endemica e posizione geografica: sono queste le tre peculiarità della Lituania all’interno del panorama europeo

L’influenza storica russa

La debolezza delle sue istituzioni deriva dal suo percorso storico e dal difficile rapporto con lo “sco-modo” vicino russo. Già nel 1795, e quindi circa 500 anni dopo la sua nascita come Stato, la Lituania viene invasa dall’Impero Russo, subendo nel corso degli anni un forte processo di “russificazione”. La breve indipendenza nel 1920, seguita al Trattato di Mosca, vie-ne interrotta dalla firma del Patto Molotov-Ribbentrop e dalla suc-cessiva annessione della Lituana all’URSS nel giugno 1940. Solo nel 1991 lo Stato Baltico acquista la sua definitiva indipendenza. Tuttavia, in poco più di un ven-tennio, le istituzioni statali non si sono sviluppate al punto da creare un argine alla criminalità orga-nizzata, tanto che si è verificato, nel 2004, il primo caso di impe-achment in un Paese dell’Unione Europea. L’ex Presidente Paksas, infatti, è stato infatti rimosso dal suo incarico per abuso d’ufficio, violazione di leggi costituzionali e soprattutto rapporti con la crimi-nalità organizzata russa.Ma l’influenza russa non si è ma-nifestata solo nell’aver impedito per molti anni la creazione di isti-tuzioni statali autonome. Uno dei

Lituania, cos’è e come si muove la criminalità organizzata nel Paese balticodi Marco Fortunato

fattori preponderanti dello svilup-po della criminalità organizzata in Lituania è stata la permeabilità del-le frontiere durante gli anni della dominazione russa prima e sovie-tica poi. Non essendoci frontiere effettive, sul territorio della repub-blica baltica si è andata insediando una forte minoranza russa, in cui la componente “criminale” è numeri-camente rilevante. Essi sono arriva-ti anche a causa dell’azione repres-siva dell’Unione Sovietica: infatti fu una scelta del governo sovietico quella di spostare i criminali nelle maggiori città del Baltico, creando quindi contesti ideali per lo svilup-po di nuove organizzazioni illegali.Così negli anni ’60 iniziano a for-marsi i primi sodalizi crimina-li nel Paese, con la presenza dei “vory v zakone”, i “ladri nella legge” già presenti in Russia e che poi si espandono sul Baltico. Anche in Lituania questi gruppi si spendono nella gestione di intensi traffici ille-citi, come le transazioni in valuta,

il commercio di metalli preziosi, prostituzione e commercio di abiti contraffatti. Soprattutto la gestione del processo di privatizzazione, de-ciso a livello centrale dall’Unione Sovietica, ha garantito denaro alle organizzazioni criminali nella Re-pubblica Baltica. Un altro “merca-to” importante è rappresentato da quello dei beni di prima necessità: infatti, la disgregazione dell’Unio-ne Sovietica fa crescere nel Paese la domanda di beni essenziali come vestiti, scarpe e cibo.Una seconda fase inizia invece ne-gli anni Novanta, con la transizio-ne ad un’economia liberale e nuove opportunità per la criminalità or-ganizzata. Infatti questi anni posso-no essere identificati come gli anni di fondazione della maggior parte dei gruppi criminali, con un cam-bio dei reati commessi: si è passati dai traffici di valuta a reati finanzia-ri più elaborati, pur mantenendo il controllo sulla prostituzione. Oltre a ciò, si è registrato un aumento dei

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crimini violenti come furti d’auto, estorsioni e rapine. I gruppi cri-minali più attivi sono stati indi-viduati nelle più grandi città del paese, così come nelle contee di Biržai, Kėdainiai, Kupiškis, Pa-nevėžys, Šiauliai. La maggioranza di loro ha cominciato come rag-gruppamenti criminali uniti da interessi comuni o sulla base di un luogo comune di residenza. Così il gruppo criminale “Daktarai”, guidato da Henrikas Daktaras, è stato costituito a Vilijampolė, un sobborgo della seconda città più grande del paese, Kaunas.Si può parlare di “picco” del po-tere della criminalità organizzata nei primi anni Novanta anche per la sfida diretta allo Stato che que-sti gruppi hanno posto in essere. Tra il 1991-1993 sono stati molti i giornalisti, giudici e poliziotti in-timiditi con gli omicidi: ad esem-pio venne ucciso un giornalista del quotidiano “Respublika” che aveva raccontato come il gruppo criminale “Brigade” fosse dedito al riciclaggio di denaro; sono sta-ti uccisi anche 3 poliziotti di alto grado nella città di Panevėžys. Ol-tre a ciò una bomba è stata fatta saltare, alla fine del 1995, negli uf-fici del giornale “Lietuvos Rytas” dalla cosiddetta “Mafia di Kau-nas”.Dalla metà degli anni ‘90 si apre una terza fase per la criminali-tà organizzata. Invece di sfidare apertamente lo Stato, decide di spostarsi più sul versante econo-mico-finanziario.Questo cambio di strategia è sta-to pensato per differenti motivi. In primo luogo, in quegli anni il processo di privatizzazione stava volgendo al termine, dal momen-to che la maggior parte dei beni dello Stato erano stati trasformati in proprietà privata. Gli ex crimi-nali stavano diventando banchie-

ri e proprietari di aziende legitti-me e imprese. Per nascondere le precedenti attività illegali e per riciclare il denaro prodotto, sono state create delle imprese fittizie. La criminalità organizzata si tra-sforma in uno stadio qualitativa-mente superiore: diventa infatti più professionale, più sofisticata e più complessa. In secondo luogo la situazione economica in Litua-nia comincia a migliorare rapida-mente. Miglioramento facilitato dalla creazione e dallo sviluppo delle infrastrutture giuridiche e fiscali necessarie per un’economia di mercato funzionante. Infine, la trasformazione della criminalità organizzata si è verificata in rispo-sta alla riforme della polizia e alla sua sempre maggiore efficacia.Questa terza fase, che può essere definita di “maturazione”, è prose-guita con l’inizio del nuovo mil-lennio e con l’avanzare del proces-so di integrazione europea. Infatti la libertà di circolazione di perso-ne e merci ha favorito i contatti con i gruppi criminali di altri Pa-esi, provocando un vero e proprio fenomeno di criminalità transna-zionale. Questo ha comportato lo sviluppo di traffici transnazionali, come il contrabbando, il riciclag-gio di denaro, la tratta di donne ed il traffico di stupefacenti.A seguito di questa evoluzione, si può affermare che la criminalità organizzata in Lituania si sia evo-luta in una vera e propria organiz-zazione di stampo mafioso. Que-sto in quanto sono riscontrabili i quattro requisiti del modello ma-fioso, definiti dal professor dalla Chiesa: – controllo del territorio; – uso della violenza come regola-trice dei conflitti; – creazione di rapporti di dipendenza personali; – rapporti con la politica. I pri-mi due requisiti sono emersi nel tratteggiare i “cambiamenti” delle

organizzazioni criminali del Pae-se, il terzo si manifesta nella forte corruzione “endemica” del Paese, mentre il quarto è emerso in ma-niera evidente con l’impeachment del Presidente Paksas del 2004.

La corruzione

Per analizzare il fenomeno della corruzione in Lituania si può par-tire da un semplice dato statistico: un imprenditore su due ha usato tangenti. Secondo uno studio di Transcrime, “I criminali utiliz-zano la corruzione per infiltrarsi nell’economia legale dove investo-no i proventi delle proprie attività illecite e usano la corruzione per garantirsi il controllo delle risor-se disponibili (es. appalti, licenze, contributi).” Inoltre, da una ri-cerca effettuata da Transparency International, è emerso che, nel 2002, ben l’81% degli imprendito-ri intervistati ben l’80% ha sentito di richieste di tangenti da impren-ditori di loro conoscenza e più del 56% ha ammesso di aver ricevuto tali richieste personalmente.

Kaliningrad e la Rotta Baltica

Terza peculiarità della Lituania è la sua posizione geografica, situa-ta proprio al centro dell’Europa e confinante a sud con l’enclave russa di Kaliningrad. Per dare una prima idea della regione, basta ri-prendere le parole dell’Enciclo-pedia Treccani: «disoccupazione, diffusione dell’HIV, traffici illeci-ti, inquinamento e crimine sono stati i tratti distintivi della regio-ne tra il 1992 e il 1996». Il traffico principale della regione è quello di esseri umani, principalmente per essere sfruttati dal punto di vista lavorativo: tutto ciò senza

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che la comunità internazionale ed europea se ne interessi. Questo è possibile anche perché il 90% della popolazione della regione è immi-grata, e dunque non ha le possibi-lità di accedere ai servizi essenziali, come quello legale per far valere i propri diritti.Ma la Lituania è importante geo-graficamente anche perché è uno dei punti di snodo della cosiddetta Rotta baltica. Con questo termine si intende il percorso che viene se-guito nel traffico di stupefacenti, armi, sigarette, esseri umani (e al-tro) e che è diretto sia verso l’Euro-pa che verso la Federazione Russa, e dunque verso il mercato asiatico, attraversando le tre Repubbliche Baltiche.Sono molte le organizzazioni cri-minali che utilizzano questa rotta per fare affari illeciti. La principale è la criminalità organizzata russa, la Mafija. Ma, come detto, essa non è di certo l’unica: nei Paesi Baltici sono anche i gruppi criminali au-toctoni che usano questa rotta per i vari traffici. Tra di essi si distingue la criminalità organizzata lituana, definibile come organizzazione mafiosa, che la sfrutta grazie alla propria posizione geografica.Il traffico più importante che si sviluppa lungo la Rotta Baltica è senza dubbio quello di stupefacen-ti. Le possibilità di guadagno date da esso risultano essere un alto fat-tore di attrattiva, soprattutto per

i giovani, per entrare in uno dei gruppi criminali presenti in questi territori. La criminalità organizza-ta degli Stati Baltici ha ottenuto in-genti profitti svolgendo la funzione di facilitatore per quanto riguarda questo tipo di traffico, sia verso est che verso ovest. Ciò le ha permes-so di divenire un attore rilevante in questa attività dapprima in ambito regionale e poi internazionale.Un secondo traffico che segue questa rotta è quello di materiale radioattivo, in particolare uranio. L’uranio arricchito proviene dalla Russia, in particolare dalla peni-sola di Kola, ed è poi diretto verso i Paesi Baltici e verso la Norvegia; può inoltre provenire, insieme al mercurio rosso, dalla regione di Mosca, dalla Repubblica degli Ud-murti e dalla città di Arzamas, e diretto verso le Repubbliche Bal-tiche, verso l’Europa Centrale (Po-lonia, Ungheria, Italia) o verso In-dia, Pakistan ed Iran. Inoltre furti di uranio possono essere effettuati direttamente in Lituania (nell’ex centrale nucleare di Ignalina) e de-stinati ai Paesi dell’Asia Centrale come India, Pakistan e Iran. Altra attività illecita molto importante, e che vede la Lituania come Paese d’origine e non solo come Paese di transito, è quello di esseri umani. Essa infatti, come riportato anche dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, è uno dei prin-cipali Paesi di origine del traffico

di esseri umani, oltre ad essere un importante snodo di transito per il suo accesso alla zona Schengen e l’adesione all’Unione Europea. Le vittime della tratta o sono destinate al mercato tedesco dalla Lituania, attraverso la Polonia, o sono por-tate in Lituania dai Paesi ex-URSS.«Forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia… A me è venuta una fanta-sia, leggendo sui giornali gli scan-dali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La li-nea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, que-sta linea della palma, del caffè for-te, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…»Questa citazione di Sciascia non è affatto casuale. Infatti la stessa linea della presenza delle organiz-zazioni criminali e mafiose ha su-perato Roma, ha raggiunto e supe-rato il Nord Italia ed ha raggiunto anche il Mar Baltico. Anche nel Nord Europa è presente da più di cinquant’anni la criminalità orga-nizzata, e non proviene dall’Italia. Forse è più giusto dire che in Eu-ropa vi è una “linea” che proviene da Mosca e si espande verso ovest.

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Quando ti attaccano a casa tua fa male, malissimo. Ti senti vulne-rabile, debole, inerme. Oggi più che mai l’Occidente è questo, un insieme di entità, unite non si sa bene da cosa che si dimena nel buio del terrore portato dal nuo-vo nemico pubblico numero 1: lo Stato Islamico. Mai più di oggi questa costruzione artificiosa di ciò che siamo “noi” e di ciò che dovrebbe essere “l’altro” si trova in imbarazzo, nuda, di fronte a tan-ta violenza. La quotidianità scon-quassata dall’altro in casa tua. La cosa peggiore del mondo. Oggi, 14 novembre 2015 è iniziata una guerra, è innegabile. Ma non è la guerra dell’Occidente contro l’i-slamico invasore. Non è la guerra della cultura occidentale e demo-cratica contro quella barbarica del terrorista. È una guerra culturale. Una guerra che sta mietendo più vittime di ogni altra. È la guerra di chi parla senza conoscere, di chi etichetta senza sapere. È la guer-ra di chi non riesce a distinguere, una battaglia cieca di chi cerca di proteggersi attaccando. La “bana-lità del linguaggio”, parafrasando Hannah Arendt. Parliamo di tutto senza sapere, ci facciamo portatori di una bandiera senza averla mai tenuta in mano. Siamo politologi, esperti di relazioni internazionali e teologi allo stesso tempo. Re-suscitiamo i nostri ricordi delle lezioni di religione che a malape-na volevamo frequentare per ve-stirci da crociati e inneggiare alla guerra. Riabilitiamo mafiocrazie e dittature di ogni genere in nome della “suprema emergenza”, come fece Winston Churchill che iniziò

La guerra che stiamo perdendodi Thomas Aureliani

a giustificare i bombardamenti indiscriminati sulle città tedesche (e dunque sui civili) durante la minaccia nazista. Ci fregiamo di essere portatori di pace e speranza barricati dentro i muri della nostra vita borghese mentre d’estate ci culliamo nel mare macchiato del sangue dei migranti, mentre a qualche chi-lometro di distanza i mercanti di persone banchettano sui cadaveri di chi scappa dalla morte. Oggi più che mai l’Occidente è inerme di fronte a tutto questo. Si com-battono guerre che noi non ca-piamo, che non vogliamo capire e che dunque finiamo per giustifi-care. Abbiamo perso il vocabola-rio per dare il nome alle cose. Il terrorismo. Infido, sicuramente. L’esercizio della violenza meno vi-sibile e più devastante. Lo pratica-no senza ritegno oggi quelli dello Stato Islamico. O Al Qaeda. Ma nel nostro parziale libro di storia ci dimentichiamo che lo abbiamo praticato noi da sempre. In Italia ce lo ricordiamo bene, ed era un terrorismo di ogni colore che ha

profondamente mutato le sorti del nostro paese. Se lo ricorde-ranno bene gli abitanti delle città bombardante durante la Seconda Guerra Mondiale, era o non era violenza indiscriminata sulla po-polazione civile? Se lo ricordano benissimo i sopravvissuti di Hi-roshima e Nagasaki, i cui nonni hanno subito le bombe del più grande atto di terrorismo che la storia novecentesca ricordi. Però andava bene perché c’era la guer-ra, e perché loro erano i nemici.Purtroppo è una guerra che stia-mo perdendo, quella culturale. Su tutti i fronti. Ed in questi casi non resta che stare in silenzio. Un doveroso silenzio rispettoso delle vittime. Quelle di Parigi. Le vitti-me della guerra in Siria. Le vitti-me di tutte le guerre, dei soprusi e delle violenze che ci dimentichia-mo di menzionare quando ci fac-ciamo professori e interpreti della realtà che irrimediabilmente ci sfugge. Quindi silenzio. Almeno oggi.

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Bologna, 21 marzo. Così è stata la bellissima giornata di Liberadi Nando dalla Chiesa

Scritto sul “Fatto Quotidiano” di domenica 22 marzo

Al centro in prima fila ci sono i familiari del giudice Pietro Sca-glione e dell’agente di polizia Nino Agostino. Loro non mancano mai. Il 21 di marzo è data “loro”, appuntamento fisso per rinno-vare una domanda di giustizia. Il manifesto che ritrae l’agente il giorno del matrimonio con la mo-glie, anche lei vittima di assassini sconosciuti, è piazzato di fronte al palco. La piazza è strapiena e continua ad affollarsi su tutti i lati, anche dall’altra parte di via Indi-pendenza. Corrono e crescono le cifre. Cento, centocinquanta, due-centomila persone. E forse lo sono davvero, dietro le bandiere gialle, arancioni, viola, azzurre, di Libe-ra, alcune che portano stampato il viso di Lea Garofalo, la donna simbolo dei testimoni di giustizia. Sul palco Romano Prodi sembra stupito, ammirato da quel popo-lo variopinto, zeppo di giovani e giovanissimi; dirà durante la chiusura del pomeriggio che non esiste nulla del genere in Europa, e su nessuna causa. La folla che cresce sembra abbracciare per cer-chi concentrici sempre più larghi il recinto dove siedono i familiari delle vittime; sono loro il nucleo irriducibile del sentimento di giu-stizia su cui Libera ha costruito in vent’anni un autentico nuovo pez-zo di società civile. E’ soprattutto a loro che in piazza VIII agosto parla don Luigi Ciot-

ti. E’ alla loro approvazione che fa appello il leader di Libera quan-do, citando quel che papa France-sco ha appena detto a Napoli (“la corruzione puzza”), denuncia un parlamento veloce ad approvare la legge sulla responsabilità civile dei magistrati ma terribilmente tardo e riluttante a fare le leggi che servono contro il falso in bilancio, contro la prescrizione facile e soprattutto contro la corruzione. La corruzio-ne che spiana la strada alle mafie, tuona il prete torinese. La corru-zione che fa trovare alle mafie i comitati di accoglienza, altro che infiltrazioni. La corruzione che fa ridere delle disgrazie della gente, si tratti del terremoto dell’Aquila o di quello dell’Emilia. E’ a loro che par-la, denunciando chi vorrebbe cac-ciare i migranti dall’Italia “quando bisognerebbe cacciare i mafiosi e i corrotti”. I familiari lo seguono d’impeto con un applauso che sale come un’onda, e con loro applaude la piazza intera. Alla fine applau-dono anche le autorità sul palco. Bisogna saperlo guardare il recinto dei familiari. Vent’anni sono pas-sati dalla prima manifestazione. Il tempo è passato segnando molti

volti di rughe e imbiancando sen-za pietà un popolo di centinaia e centinaia di persone che ancora al 70 per cento è lì a chiedere verità e giustizia per i propri cari, come ha ricordato Margherita Asta, una madre e due fratellini uccisi a Piz-zolungo nell’aprile del 1985. Nel frattempo tanti nuovi parenti sono entrati in questo popolo. Perché le mafie hanno ucciso ancora. Ma an-che grazie a giovanissimi e giovani, figli di vittime antiche giunti pro-gressivamente all’età adulta o nipo-tini coscienti della propria storia. Prolungamento di una domanda di giustizia che per la prima volta non si ferma con l’uscita di scena di ve-dove o genitori. Alla fine sono loro a manifestare solidarietà ai parenti dei desapare-cidos messicani, giunti qui con una delegazione. Sono loro a inalbera-re le lettere scritte a una a una sui cartelli, componendo il messaggio da mandare in foto dall’altra parte dell’oceano: “Somos Todos Ayotzi-napa”. Per dire che il dolore non ha frontiere. Come le mafie, purtrop-po. Ma anche come la domanda di giustizia.

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Oblio. Oblio. Oblio. E poi un gior-no ti ritrovi sui giornali. “Barra: arrestato il boss latitante Luigi Cuccaro. La folla si riversa in stra-da per difenderlo”: così i titoli dei quotidiani nazionali all’indomani dell’arresto di uno dei tre fratelli Cuccaro, capi indiscussi della ca-morra a Barra, quartiere di Napo-li. Rimane ancora latitante Miche-le Cuccaro, mentre Angelo è stato arrestato lo scorso anno. La noti-zia starebbe nel fatto che la gente del quartiere è scesa in strada per cercare di strappare il camorrista dalle grinfie dei carabinieri. La ca-morra, come qualsiasi organizza-zione mafiosa, fa del consenso so-ciale uno dei suoi maggiori punti di forza. Quando si sente parlare di omertà e di silenzio, ci si sta ri-ferendo proprio a questo “regalo” dei cittadini alle mafie. Ma in que-ste ore, però, sta passando l’idea che tutto il quartiere di Barra si è schierato dalla parte della spietata camorra. E allora vi assicuro che non è così. Una bella storia reale ve lo dimostrerà. Immaginatevi dei ragazzi giova-ni, con una pallina rossa sul naso e tanta voglia di raccontare. In sottofondo una chitarra suona-ta da un gigante buono. A spraz-zi la voce dolce di un ragazzo. In mezzo, la legge dura della strada. La denuncia dell’illegalità. I tram-poli. La breakdance. Le poesie. Numeri da circo. Vi presento il Tappeto di Iqbal: una cooperativa

Non solo camorra: vi presento il Tappeto di Iqbaldi Mattia Maestri

sociale anticamorra che si occupa di pedagogia circense, con l’unico obiettivo di consegnare ai ragaz-zi del quartiere un futuro diverso da quello violento a cui probabil-mente sarebbero destinati. Barra è la zona con il maggior numero di minori in tutta Napoli, ma anche quella con uno dei più alti tassi di dispersione scolastica della regio-ne Campania. Mancano i servizi pubblici, i centri di aggregazione. Non esiste il cinema e nemmeno il teatro. E così Giovanni Savino, il presidente della Cooperativa “Il Tappeto di Iqbal” decide di co-struire l’arena del riscatto sociale. Nelle strade dove si trovano per terra i bossoli dei proiettili veri delle guerre tra clan, Giovanni con la compagna Monica, il fratello Bruno e l’amico Iacopo, insegnano la bellezza attraverso l’arte. La mu-sica, la recitazione, la danza sono tutti strumenti capaci di emanci-pare l’essere umano e di renderlo libero. Anche in terra di camorra.Non è un sogno. E’ coraggio. Im-pegno quotidiano. Dedizione. Amore per il prossimo. Oggi è una bellissima realtà che opera in uno dei quartieri più violenti d’Italia. E lo fa senza i riflettori di cui godo-no altre associazioni o altre zone, come Scampia per esempio. Senza l’aiuto dei media riescono comun-que da anni a percorrere lo stivale portando le loro storie vere. Sono passati anche da Milano, nel gen-naio 2014, e ve lo abbiamo raccon-

tato già allora. E proprio durante la permanenza nel capoluogo lombardo, il luogo dove loro si al-lenavano, la palestra della scuola Salvemini, è stato reso comple-tamente inutilizzabile. Distrutto da chi ha capito che il Tappeto di Iqbal si contrappone alle loro lo-giche criminali. Ma anche questo tentativo distruttivo dei camor-risti non smorza il sogno delle persone migliori del quartiere. Pochi mesi fa hanno prodotto il primo cd de Il Tappeto di Iqbal: “Figli di un La Minore”, che han-no portato in giro per l’Italia quest’inverno con uno spettaco-lo omonimo molto emozionan-te. Questi Figli di un La Minore si chiamano Marco, Pietro, Ciro, Michelangelo, ancora Ciro, Car-lo, Antonio e Angela. Quest’ulti-ma, mentre scrivo, è impegnata a Siena insieme a Marco, al Circo Mondo Festival in rappresentan-za del nostro paese. Così come tutti i giorni, Giovanni e i suoi ragazzi accolgono duecentoventi bambini al loro campo estivo, e attraverso il circo, la danza e lo sport insegnano valori e ideali forse fino ad ora per loro sco-nosciuti. “Ci siamo tutti i giorni io e mio fratello Bruno, a Barra; facciamo fare circo a duecen-toventi bambini, e nello stesso tempo il vicepresidente Marco Riccio, con Angela e Carlo, sono a Siena per rappresentare l’Italia al Circo Mondo Festival insieme a tanti altri popoli del mondo che invece vogliono riscatto, che odiano essere identificati come tutto un quartiere”, così il presi-dente Giovanni Savino esprime la sua rabbia per l’immagine che assume la gente di Barra nei po-chi momenti in cui viene citata. Sono straordinari questi ragaz-zi. Come straordinaria è la loro capacità di comunicare. Se ne è

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accorta anche Save The Children, una delle più grandi associazioni mondiali in tema di infanzia, che ha deciso di investire su questo territorio e soprattutto su questo gruppo di persone, donatori di sorrisi e speranza. A raccontarvi questa storia è un ragazzo del nord, rimasto incre-dulo e commosso un anno fa da-vanti a tanta bellezza. Accendete i riflettori su questa realtà, e non solo quando fa comodo per ri-empire le pagine dei giornali. È naturale che se si arresta un boss, i familiari protestino. Ed è anche frequente che parte della popola-zione si schieri con lui, perché al-trimenti non esisterebbero mafia e camorra. Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima. Ma se volete parlare di Barra qualche volta all’anno, parlate innanzitutto de Il Tappeto di Iqbal, una coope-rativa che lotta ogni giorno contro

la dispersione scolastica, che si im-pegna a portare i ragazzi a scuola, che tiene i giovani lontano dalla strada, luogo del reclutamento cri-minale. Una cooperativa sociale che unisce il circo all’educazione civile, che fornisce una seconda possibili-tà a chi si è già bruciato la prima.

Un esempio di come poter fare qualcosa per gli altri. Donare senza chiedere nulla in cambio. Semplice-mente amare. Sperando che qualcu-no si faccia vivo e bussi alla porta. Sperando che l’isolamento finisca. Sperando di uscire dall’oblio.

L’eucaristia mafiosa. La voce dei pretidi Martina Mazzeo

Giovedì 29 gennaio. L’editore Na-varra, in collaborazione con Wiki-mafia e la Scuola di Formazione Politica Antonino Caponnetto, or-ganizza a Milano la presentazione del primo libro di Salvo Ognibene, “L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti”. La location è delle più sug-gestive: 6Rosso, una libreria indi-pendente, intima e colorata, dietro Paolo Sarpi, la chinatown milanese. Oltre all’autore, stretto collaborato-re dei Siciliani, interviene Massi-miliano Perna. Modera la nostra Ester Castano. L’idea del libro nasce dopo il lavoro di tesi fatto da Salvo sul rapporto

tra chiesa e mafia. Sfogliando l’in-dice si spiega da sé il perché della seconda parte del titolo: “la voce dei preti”, infatti, è raccolta nelle numerose interviste che arricchi-scono il testo. Qual è il Dio dei mafiosi? Ester introduce Salvo: “La chiesa non è riuscita a essere sincera fino in fon-do, ci ha sempre parlato di un Dio buono, misericordioso. Il Dio del Vangelo. Il Dio vendicatore non ce l’ha mai raccontato e questa è stata in parte la forza della mafia, che è riuscita a plasmare, a ‘deviare Dio’, a propria immagine e somiglianza. Certi boss, come Bagarella che si

dichiaravano tanto potenti da po-ter decidere della vita e della morte delle persone, sono riusciti addi-rittura a identificarsi nella figura di Dio stesso”. Un’identificazione da delirio di onnipotenza che evi-dentemente si lega alla religiosità distorta dei mafiosi. Ma molti ecclesiastici, la storia ne è testimone, hanno delle responsa-bilità: legittimando impunemente i boss dei loro quartieri con fune-rali, matrimoni, feste patronali e processioni si sono piegati agli in-teressi mafiosi. “Una chiesa che è stata per anni silente e connivente sconta quindi una grossa responsa-

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bilità”. “Tuttavia, prosegue l’autore, c’è anche una chiesa che fa sentire un’altra voce, ed è quella che con fatica ha costruito una nuova pa-storale. Una pastorale antimafiosa che si ispira ai valori del Vangelo. Nel libro infatti ho cercato di rac-contare quei preti che si sono im-pegnati per costruire una morale civile antimafiosa, e hanno svolto il loro dovere di guida pastorale che si oppone alla mafia e a ogni forma di mafiosità”. Come dire: un conto è don Pino Strangio, parro-co di Polsi, intervistato nel libro e che compare anche nel documen-tario di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello,“Silencio”; un conto è don Giacomo Panizza, il cui im-pegno a Lamezia Terme è raccon-tato nel libro curato da Goffredo Fofi, “Qui ho conosciuto purgato-rio inferno e paradiso”. Per citare un altro caso, “Monsignor Penni-si, l’arcivescovo di Monreale – che è la diocesi più grande e più po-tente della Sicilia – ha emesso un decreto che impedisce a chiunque abbia avuto legami con la mafia di far parte di confraternite. Questo è un modo di incidere sul territo-rio”. Voci diverse, dunque. Salvo ha realizzato numerose in-terviste in tutta Italia con l’obiet-tivo di rilevare la percezione del clero nei confronti del fenomeno mafioso, per conoscerne l’orienta-mento e il grado di informazione. “Qui al nord ho trovato solo tan-ti silenzi e rifiuti. “Il Cardinale di Milano mi ha detto di non avere nessun tipo di rapporto su questi argomenti. Il vescovo di Reggio Emilia mi ha risposto di non es-sere un esperto in materia e che non poteva aiutarmi.Beh, io credo che la chiesa dovrebbe avere una sola posizione contro la mafia: do-vrebbe cioè contrastarla in quanto oppressione della libertà”.

Ma l’autore precisa: “Il libro non vuole essere un attacco alla Chie-sa ma uno strumento di aiuto. Oggi il clero, di fronte alla mafia, non può operare in base a diret-tive chiare perché il Vaticano non esprime una sua posizione. Ma il giorno in cui queste direttive ar-riveranno si avvicinerà la svolta. Non dimentichiamo che l’Italia è per l’83% un paese cattolico”.Massimiliano Perna proviene dalla Sicilia Orientale ed è stato testimone di molte feste patrona-li “in cui la spiritualità lascia spa-zio a comportamenti che sono tutt’altro che spirituali. La religio-ne può diventare uno strumento di potere, un’incredibile leva di consenso sociale. La mafia sfrut-ta questa occasione per diventare parte della tradizione, del folklo-re di certi paesi. Altra cosa invece è la fede: questa non credo che

sia manipolabile”. “A Cassibile, prosegue Perna, un prete gesti-va un CARA molto discusso ed è stato sotto processo con diverse imputazioni”. A Siracusa, invece, un prete ha messo a disposizio-ne dei migranti la sua canonica”. Esattamente come fece don To-nino Bello, vescovo di Molfetta, con i poveri e gli indigenti. Don Puglisi, don Diana, don Ciotti e tutti quei preti studiati e incontrati durante il seminario “L’Italia civile dei don” esprimo-no, con le loro azioni e le loro “prediche”, un identico messag-gio. Lo stesso con cui Salvo saluta i presenti: “Non possono esiste-re dei preti antimafiosi, possono esistere dei preti mafiosi ma non dei preti antimafiosi perché il Vangelo è antimafioso nella sua normalità, senza bisogno di eti-chette”.

Una foto della serata. Seduto a destra l’autore del libro Salvo Ognibene

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“Il 23 maggio è una data che ha segnato la storia della Repubblica, che ha segnato la storia delle co-scienze civili, che ha generato nuo-vi slanci all’interno del movimento antimafia”. È così che il professore Nando dalla Chiesa apre la sera-ta promossa dall’Università degli Studi di Milano, da Libera e dalla Scuola di formazione “Antonino Caponnetto” per la commemora-zione in vista del 23 maggio, giorno della strage di Capaci. L’incontro si tiene il 22 sera nella Sala Alessi di Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, ed è uno dei tanti eventi che sono stati organizzati a Milano per la ricorrenza della strage. Nelle poche parole di apertura si capisce già quali saranno i veri ospiti della serata: i giovani del movimento an-timafia milanese che hanno raccol-to l’eredità lasciata da Falcone per svolgere giorno per giorno la lotta alla criminalità organizzata. Quale metodo migliore per ricordare la figura di Falcone se non quello di mostrare come oggi i giovani por-tano avanti la lotta da lui iniziata? La sala si riempie a poco a poco e si percepisce forte l’emozione ne-gli sguardi delle persone, anche perché la serata è dedicata a Edda Boletti, storica esponente del mo-vimento antimafia milanese, re-centemente scomparsa. Al tavolo dei relatori, oltre a Nando dalla Chiesa, moderatore del dibattito, vi sono il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il presidente del Consiglio comunale di Milano Basilio Riz-zo, il magistrato Giuliano Turone,

la referente provinciale di Libera Lucilla Andreucci, Guido Fogacci della Scuola di formazione politi-ca Antonino Caponnetto ed infine Franco La Torre, figlio di Pio La Torre. Ognuno ricorda Falcone a modo suo. Viene menzionato il suo im-pegno, il suo rigore, la sua ironia. Turone, per esempio, ripercorre la sua storia professionale, dalla pri-ma indagine di mafia, affidatagli nel 1980 quando arriva all’ufficio istruzione della sezione penale di Palermo, fino alla strage di Capaci che spezzerà la sua vita interrom-pendo l’impegno rigoroso che Fal-cone profondeva nel contrastare il fenomeno mafioso. Fogacci ricor-da la brutalità delle accuse che il magistrato ricevette in vita da col-leghi, giornalisti e scrittori. Fu pro-prio Sciascia a coniare il termine “professionisti dell’antimafia” per indicare in maniera dispregiativa chi usava la lotta alla criminalità solo come strumento di potere per fare carriera. Affronta poi il tema della nuova lotta al fenomeno ma-fioso che, oggi, si gioca soprattutto ed anche al nord. La Torre ricorda invece il metodo investigativo di Falcone. Il magistrato aveva scon-volto i canoni fino allora utilizza-ti nelle indagini in quanto aveva la capacità di leggere la realtà da punti di vista differenti e soprattut-to perché alla base delle sue inve-stigazioni vi era uno studio vero e profondo del fenomeno mafioso. A mostrare però nel concreto quale sia l’eredità lasciata da Falcone, è

Lucilla Andreucci che, con gran-de entusiasmo, mostra quello che ogni anno numerosi giovani svol-gono all’interno di Libera, definen-do questo movimento un “pool antimafia sociale”. C’è un senso di appartenenza forte che spinge i giovani a sacrificarsi non per fini strettamente personali bensì col-lettivi. Falcone a questi giovani ha insegnato sicuramente il rigore, ma soprattutto a fare squadra. “Se questo paese ce la farà, e c’è ancora tanto da fare, è perché ci mettiamo in gioco tutti. Libera siamo noi.” La memoria di Falcone, ma anche quella di Pio La Torre, del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di Pa-olo Borsellino e di tanti altri, per Lucilla ha la capacità di infondere nei giovani motivazione e li stimo-la a non cadere in quello che, se-condo la referente di Libera, è uno dei peggiori mali del nostro paese: l’indifferenza. La parte più emozionante della serata è però la seconda, quando Nando dalla Chiesa invita a parlare numerosi giovani chiedendo loro di scegliere e leggere una frase del magistrato. Uno a uno si alzano e raccontano il significato che ha per loro la memoria di Falcone. Arian-na, Martina, Francesca, Dario, Valentina, Pierpaolo e Raffaella, ognuno con la propria formazione e ognuno impegnato in vario modo nella lotta alla criminalità orga-nizzata. C’è chi è alle prime armi, come Arianna, che si è da poco av-vicinata al mondo dell’antimafia o Francesca che è ancora una liceale,

Quei giovani che a Milano raccolgono l’eredità di Giovanni Falconedi Ilaria D’Auria

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ma già organizza assemblee nel suo liceo per discutere di mafia. Poi c’è chi già da qualche tempo se ne occupa e mostra i risultati ottenuti grazie al loro impegno quotidiano – Stampo Antimafio-so, WikiMafia, UniLibera Milano e l’Osservatorio Saveria Antiochia – e c’è chi come Raffaella dalla Calabria va a Pisa per seguire un

Master di contrasto della crimi-nalità organizzata. A chiudere la serata è il sindaco Giuliano Pisapia che ricorda come Milano, negli ultimi anni, abbia rialzato la testa e visto fiorire nu-merose associazioni. La prova della presa di coscienza è proprio riscontrabile, per il sindaco, nella presenza di questi numerosi gio-

vani attivi nel territorio milanese. La nostra città sta “costruendo gli argini” per contenere il fenomeno mafioso e la mafia a Milano “può essere sconfitta definitivamente proprio perché ci sono persone come Francesca, Valentina, Mar-tina, Lucilla, Raffaella…”

La Torre e dalla Chiesa: di padre in figlio, il coraggio di lottaredi Luca Bonzanni

«Questa è la mafia: la paura che passa di padre in figlio», scandi-sce Stefano Accorsi nelle battute iniziali de La nostra terra, film che narra le avventure di una biz-zarra cooperativa pugliese sorta sul terreno confiscato al potente boss locale. La realtà, tuttavia, è un’altra storia. Lo si è capito bene venerdì 22 maggio allo Spazio Melampo di Milano, dove la presentazione di Sulle ginocchia – Pio La Torre, una storia, libro scritto da Franco La Torre, figlio del deputato co-munista assassinato dalla mafia il 30 aprile 1982, ha raccontato del coraggio che invece può sconfig-gerla, quella paura. Di padre in fi-glio, a essere tramandati non sono timore e codardia: all’opposto, a passare di generazione in genera-zione è la volontà di sconfiggere il potere mafioso. E se il personag-gio interpretato da Accorsi pro-nuncia il suo discorso dal palco di un auditorium (vuoto, però), il pomeriggio milanese ha messo al centro chi contrariamente ha scelto il palcoscenico della vita

per praticare il proprio impegno. Preceduta dalla proiezione della pellicola diretta da Giulio Man-fredonia, la giornata – inserita nell’ambito della commemora-zione per il ventitreesimo anni-versario della Strage di Capaci – è proseguita con la conversazione tra Nando dalla Chiesa e Franco La Torre. «Un incontro tra perso-ne con tratti di storia comune, a partire dalle storie paterne», esor-disce dalla Chiesa. Già, le storie di Carlo Alberto e Pio: due mondi distanti ma intrecciati, differen-ti ma convergenti nel medesimo obiettivo. «Entrambi i nostri pa-dri, nell’immaginario collettivo, sono testimoni di un impegno civile grandissimo», risponde Franco La Torre, oggi compo-nente dell’ufficio di Presidenza di Libera, in un «ping pong» delica-to ma anche intenso: «Il filo rosso che li accomuna, seppur diversi, è il senso dello stato e del servi-zio per esso: la loro funzione si è esercitata attraverso il servizio. Mio padre non ha mai anteposto l’ambizione di carriera allo spirito

di servizio». In una sala gremita, la biografia del «padre» dell’associazione a delinquere di stampo mafioso è ripercorsa per intero, dagli studi di gioventù (figlio di contadini, s’iscrisse alla facoltà di ingegne-ria) alla carcerazione per dicias-sette mesi tra il 1950 e il 1951 («Lì visse esperienze traumatiche: il distacco dalla giovane moglie, la malattia e la morte della madre con l’ultimo saluto negato, la na-scita del figlio durante la prigio-nia, le angherie dei secondini», ricorda Franco), senza omettere i particolari più duri e difficili, spe-cie nel rapporto col partito. Per il Pci diede la vita, letteralmen-te; eppure, le delusioni non sono mancate: la freddezza durante l’anno e mezzo all’Ucciardone, il passo indietro dopo le Regionali siciliane del 1967 (in cui si regi-strò un arretramento rispetto alle recenti Politiche, per questo La Torre si dimise), certe diffidenze rispetto al suo attivismo contro la mafia. E poi, negli anni successivi a quel 30 aprile 1982, i tanti silen-

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zi. Troppi. E poi le assenze, la soli-tudine. Il disinteresse, addirittura: quello generalizzato di un’intera classe politica, che lo fa per «defi-cit culturale, per timore, e anche perché può trarre vantaggio dal disinteresse stesso. Ma un’organiz-zazione politica non può permet-terselo», ammonisce con vigore La Torre. Il rapporto tra padre e figlio è an-che fatto di contrasti, differenze, divergenze. «Entrambi abbiamo vissuto gli anni della contestazio-ne», osserva a tal proposito dalla Chiesa, «però i nostri genitori han-no rispettato le nostre scelte. Certo – sorride il sociologo -, poi capita che una sera d’estate tuo padre ini-zi a sfogliare davanti a te il Codice penale: questo è reato, questo pure, e così via…». «Pio era contrario al mio extraparlamentarismo – ram-menta Franco La Torre, in quegli anni simpatizzante di Potere ope-raio –: tutto però si doveva ricon-durre a un confronto aspro ma aperto». Qual era la chiave? «Il binomio responsabilità-libertà», puntualizza il figlio del deputato.

Non solo nelle scelte personali, ma anche e soprattutto nella vita pubblica: «L’una senza l’altra non ha ragione di esistere. La libertà si conquista attraverso un impegno, non è mai concessa, e si mantiene tramite il senso di responsabilità». C’è spazio per un viaggio nella sfe-ra più intima: quella onirica. La introduce dalla Chiesa: «Uno dei progetti di studio che più mi affa-scina riguarda i sogni dei familia-ri delle vittime. Qual è quello che ricordi di più?». Domanda non semplice, confessa La Torre con ironia, perché «i sogni o uno se li scrive subito oppure se li dimentica presto». Proseguendo nella discus-sione, la memoria invece riaffiora: «Periodicamente continuo a so-gnare mio padre: sono sogni che mi piacciono, non sono dramma-tici o paurosi. Per un certo periodo ho sognato situazioni in cui non si capiva se mio padre fosse effettiva-mente morto: tutti intorno non lo sapevano, ma lui lo sapeva, e vice-versa». A volte poi bisogna tirare un bilan-cio. Ed è difficile, perché bisogna

scavare nel profondo, accostando dolori e gioie. Il bilancio di un’esi-stenza intera, anzi di due esistenze: la propria, certo, e poi quella dei propri padri. «Abbiamo due storie parallele, tra delusioni e delitti, ma-fia e sogni. Ma entrambi possiamo dirci uomini fortunati», confessa non senza emozione dalla Chiesa, «con una vita felice e cognomi che raccontano di storie esemplari». Uomini soli, titola invece un libro di Attilio Bolzoni in cui le storie di Carlo Alberto e Pio sono anco-ra una volta accostate, insieme a quelle di Giovanni Falcone e Pao-lo Borsellino. Persone lasciate sole dalle istituzioni, da pezzi del parti-to, dallo stato. Che qualcosa sia ora cambiato? «Sì, sono felice, perché mio padre era un uomo felice ed è morto da uomo felice», confer-ma Franco La Torre. Sì, qualcosa è davvero cambiato: i figli di «uo-mini soli» sono ora «uomini felici». Perché di padre in figlio non si è trasmessa la paura, bensì il corag-gio. Il coraggio di continuare una battaglia interrotta troppo presto.

Leggi anche:

Falcone, la storia più dura. Una vita per un mondo meravigliosodi Luca Bonzanni

Milano, 23 maggio. Le 17.58 attese ai piedi dell’albero Falcone e Borsellino

Milano ricorda il Generale Carlo Alberto dalla Chiesadi Davide Grossi

Il 3 settembre 2015 Milano ha voluto ricordare il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo

Sesto si illumina di seradi Mattia Maestri

Venerdì 17 aprile si è tenuta una fiaccolata a Sesto San Giovanni per ricordare tutte le vittime di mafia

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Di Matteo in Statale: strumenti di ieri e di oggi per la lotta alla mafiadi Martina Mazzeo

Lunedì 26 gennaio. L’Università Statale di Milano ospita un incon-tro organizzato dall’associazione studentesca L’Alligatore. Gli stu-denti di giurisprudenza che com-pongono l’omonima redazione hanno fatto sedere allo stesso ta-volo alcuni importanti relatori per parlare di “strumenti di contrasto alla criminalità organizzata”. In or-dine di apparizione nell’ aula 208: Bernardo Petralia, procuratore aggiunto a Palermo; Bruno Gior-dano, giurista e docente presso la Statale; Antonino di Matteo, il pm impegnato nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia; Lirio Ab-bate, giornalista dell’Espresso e autore di fondamentali inchieste sul fenomeno mafioso, non ultime quelle su Mafia Capitale. La preside della facoltà di Giuri-sprudenza saluta e introduce l’in-contro. Si congratula con gli orga-nizzatori, che definisce “la crema dei nostri studenti perché sono così interessati ai temi di attualità che si sono impegnati a organizza-re questa iniziativa”. Iniziativa che è costata fatica e non poche diffi-coltà, come ammette uno dei re-dattori dell’Alligatore. Non man-cherà certo la soddisfazione, però, malgrado la fatica: l’aula è gremita, solo posti in piedi. Bruno Giordano, a cui va il com-pito di moderare, presenta da pri-mo Petralia. Il procuratore ricorda gli esordi della sua esperienza in magistratura a fianco di Giangia-

che la violenza non porta con-senso sociale”: hanno imparato la lezione stragista, ora stanno in silenzio corrompendo”. Ab-bate punta il dito su Roma, la cui amministrazione “è stata piegata per anni” dagli interes-si mafiosi: si veda, Mafia Capi-tale. Ma Roma, che conosce i protagonisti di quelle indagini, dimentica chi siano, dimentica BR e neofascismo. E i cittadini, allora, hanno imparato la lezio-ne? Chiude Abbate: “Usate la memoria, l’importante è che poi la tramandiate”. Interviene quindi Antonino Di Matteo. “Siete bombardati da notizie che raccontano una re-altà che non c’è, vi rappresen-tano i magistrati sovversivi che vogliono fare politica. Credo quindi che questi incontri si-ano utili a voi cittadini per re-

como Ciaccio Montalto, magi-strato milanese ucciso dalla mafia a Valderice, Trapani. E parlando di strumenti esalta l’introduzio-ne della legge Rognoni-La Torre, legge che riconosce l’associazione mafiosa e consente la confisca dei beni ai mafiosi. Un’innovazione rivoluzionaria. Altrettanto rivoluzionario stru-mento di lotta è la memoria, scandisce con forza Lirio Abbate. Nell’anniversario dell’assassinio

del giornalista Mario Francese, il cronista sotto scorta de L’Espresso rammenta che “Ricordare i sacri-fici di uomini e donne, servitori dello stato, e la morte di persone inermi, serve per non dimenticare errori che non devono essere più ripetuti”. “I mafiosi sanno adat-tarsi alla realtà che cambia, sanno

cuperare un rapporto di verità coi magistrati ma anche a noi, perché ci ricordano che lo sco-po del nostro lavoro è rendere un servizio alla collettività, la giustizia. Il nostro è un ruolo di servizio, non di potere“. E prose-gue: “Cosa nostra è l’unica orga-nizzazione criminale che per un

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biennio (1992-1993, ndr) ha fatto politica a suon di bombe”, chiosa il pm che da sempre si occupa di ma-fia siciliana. Ricorda le parole di Ciampi dopo le stragi – il timore di aver rischiato di subire un colpo di stato -, ricorda Andreotti sette vol-te presidente del consiglio, ricorda Cuffaro a capo della regione Sicilia eppure condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia. “Vi prego quindi di dimenticare lo ste-reotipo di una mafia che opera solo in Sicilia: Cosa nostra ha condizio-nato la politica nazionale ai suoi più alti livelli istituzionali. Ci sono sentenze definitive, che hanno cioè passato il vaglio della Cassazione, il cui contenuto vi sfuggirà in buona sostanza perché il potere in Italia, di fronte a certe acquisizioni giu-diziarie, è solito alzare il muro di gomma della confusione, dell’in-

differenza e del silenzio per attutire la verità“. Andreotti, per i più, in-fatti, risulta assolto. Non prescritto ma assolto. Basterebbe andare a ri-vedersi le prime pagine delle prin-cipali testate giornalistiche italiane. “Arrivai a Caltanissetta subito dopo le stragi e in direzione distrettuale antimafia mi trovai a interrogare Salvatore Cancemi, il collaboratore che aveva definito i dettagli ope-rativi delle stragi. Diceva: sarem-mo stati una banda di sciacalli se non avessimo avuto il sostegno di politici, imprenditori, professio-nisti… Le istituzioni, oggi, hanno la medesima consapevolezza di quanto sarebbe importante recide-re definitivamente questi rapporti? Solo così diventa possibile il salto di qualità ma credo che la risposta sia tuttora negativa”. E argomenta con durezza: “c’è chi contrappone

l’operato dei magistrati di oggi a quello dei magistrati di ieri, i magi-strati morti, e critica i magistrati di oggi con gli stessi “argomenti” con cui criticava i magistrati di ieri. Ma oggi, solo oggi, i magistrati di ieri vanno bene, non foss’altro che per attaccare i colleghi vivi”. E ritorna alla mente la lezione della storia che è da imparare, quella di cui ri-feriva Abbate. Le considerazioni di Di Matteo sono amare e suonano brutali. “La situazione è peggiorata rispetto a vent’anni fa. Un tempo i politici si riparavano dietro l’attesa della sen-tenza; oggi, malgrado sentenze de-finitive, certi politici non sono stati allontanati ma discutono di rifor-mare la Costituzione su cui anche Paolo Borsellino aveva giurato”. C’è ancora tanto da fare.

Mai più soli: apre in Lombardia Sos Giustiziadi Matteo Furcas

Inascoltati, lasciati soli, abbandona-ti alle loro difficoltà. Sono le vittime di usura ed estorsione, i testimoni di giustizia ma anche i familiari del-le vittime di mafia. Dall’otto giugno per tutte queste persone è attivo an-che in Lombardia SOS Giustizia, il servizio di Libera in collaborazione con la Camera di commercio per l’ascolto e l’accompagnamento alla denuncia. Abbiamo chiesto a Da-vide Salluzzo, referente di Libera in Lombardia, le motivazioni e gli sco-pi dietro all’iniziativa.

Da cosa nasce la necessità di aprire questo sportello? C’è stato un aumen-

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to di casi di persone in Lombardia che hanno subito estorsioni o usu-ra?

La necessità di avviare questo ser-vizio nasce da un dato di fatto: Libera è da sempre un punto di riferimento per quanti si trova-no coinvolti in problematiche di usura, estorsione, racket. Quan-do ancora non esisteva il nume-ro unico, le chiamate arrivavano ugualmente tramite altri canali, segnale del fatto che la Lombar-dia non è immune a questi temi. A fronte di ciò, e considerando il fatto che il servizio SOS Giustizia di ascolto e accompagnamento alla denuncia è uno dei pilastri dell’attività di Libera in Italia, si è strutturato il progetto per l’avvio del servizio anche qui.

In cosa consisterà l’aiuto agli im-prenditori? Sostegno psicologico o anche legale?

SOS Giustizia è un servizio di ascolto e accompagnamento alla denuncia: ascoltare, offrire vici-nanza senza giudizio alle vittime e sostegno in merito alla loro si-tuazione, nonché accompagnarle nei vari passaggi burocratici per la denuncia o per inoltrare la ri-chiesta di sostegno economico significa non lasciare solo chi ci chiama in cerca di aiuto. Non of-friamo sostegno legale, nel senso che non mettiamo a disposizione avvocati alle persone che ci con-tattano: il diritto alla difesa è un diritto costituzionale e in Italia vi è la possibilità di avere il patro-cinio gratuito o di chiedere un avvocato d’ufficio per quanti fos-sero in difficoltà economica. Allo stesso modo, le strutture sanitarie offrono il sostegno psicologico

gratuito qualora ve ne fosse la ne-cessità.

Come funzionerà la sinergia con la camera di commercio?

La sinergia con Unioncamere e le Camere di Commercio lombarde è un percorso comune iniziato all’inizio del 2014, percorso che ha portato all’apertura degli Spor-telli Legalità “Riemergo” presso sette Camere di Commercio (Mi-lano, Monza, Cremona, Pavia, Lecco, Lodi e Sondrio), mentre le altre cinque camere apriranno lo sportello nei prossimi mesi. Forti del rapporto diretto che le came-re hanno con gli imprenditori, i commercianti e i professionisti, gli Sportelli Legalità “Riemergo” sono punti di informazione e sen-sibilizzazione su usura, racket, testimoni di giustizia, familiari delle vittime di mafia, corruzio-ne: diffondono il numero unico di SOS Giustizia, forniscono in-formazioni sulle procedure am-ministrative e sulla normativa in materia, collaborano con noi nel promuovere il servizio sui ter-ritori. In altre parole creano con noi una rete di sostegno che sia più ampia possibile, coinvolgen-do anche attori istituzionali, delle forze dell’ordine e delle associa-zioni di categoria.

Quali sono (se ci sono) le partico-larità degli imprenditori lombardi vittime di usura o estorsione ri-spetto alle altre regioni?

Gli usurai e gli estorsori, così come le loro vittime, non hanno una geografia o una regione di appartenenza. La caratteristica che abbiamo riscontrato, non solo nei lombardi ma nelle vittime in

generale di simili fenomeni, è il fatto che non si rendono conto della loro reale situazione: non si percepiscono come vittime di un reato, anzi spesso vedono nell’u-suraio un “amico”, un sostegno, la persona che li ha aiutati nel mo-mento del bisogno.

Si può dire che la motivazione per l’apertura dello sportello sia l’effetto combinato della crisi economica e della penetrazione delle mafie?

La colonizzazione delle mafie in Lombardia – evidenziata con forza anche nelle relazioni della DDA – è ormai un dato di fatto impossibile da negare. Che in un periodo di crisi economica ci sia maggiore difficoltà di accesso al credito e le famiglie siano sempre più impoverite è lampante e que-sto ci pone la necessità di essere particolarmente vigili rispetto a quelle situazioni di povertà e dif-ficoltà dove le mafie riescono a trovare spazi con più facilità.

Lo sportello è stato aperto da poco, ma avete già ricevuto qualche chiamata?

Le chiamate e le segnalazioni ci sono sempre state; quando non era ancora stato strutturato il nu-mero unico, chi aveva necessità di contattarci lo faceva tramite i ca-nali di Libera oppure tramite gli sportelli SOS Giustizia di Torino e Modena, che avevano competen-za sulla nostra regione per questi casi. Adesso si può evitare questo passaggio e le chiamate iniziano ad arrivare direttamente al nume-ro di SOS Giustizia in Lombardia, dove si comunica direttamente con chi preparato e formato, sa ascoltare ed accompagnare.

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Mariano Nicotra, imprenditore coraggioso: “No al pizzo, voglio essere libero”di Marco Fortunato

Quella di Mariano Nicotra è la storia di un imprenditore che si è rifiutato di pagare il “pizzo” alle organizzazioni mafiose. Ma che si sente “dimenticato” dallo Stato, come altri suoi colleghi. Vittime due volte. Mariano “nasce” imprenditore, nell’azienda gestita a Messina dal padre Giuseppe, che tramanda al figlio questa passione e lo avvia all’attività sin da ragazzino. E que-sta è stata sin da subito una scelta di vita: una vita che vedeva alterna-tiva il diventare un criminale. “L’a-dolescenza a quei tempi non c’era. Si doveva scegliere subito la strada: o del lavoro o della delinquenza”. Il padre era un ottimo cottimista, aggiudicandosi diversi lavori e ini-ziando a farsi “un nome” nel cam-po edile “con un grande esempio di legalità, per quello che erano pure i tempi, perché all’epoca non era pen-sabile avere in famiglia uno “sbir-ro”, qualcuno che aveva il coraggio di denunciare”. Certo, perché fare impresa nella Sicilia del secondo dopoguerra era tutt’altro che sem-plice, ed era difficile tracciare un confine netto tra legalità e illega-lità, specialmente per un padre di famiglia con quattro figli. E dal padre imparò subito il me-stiere, standogli vicino nei vari la-vori. Tutto ciò lo portò nel 1989, a soli 22 anni, a diventare un im-prenditore autonomo. Mariano sa fare bene il suo lavoro e l’azienda cresce sempre di più “non avvalen-domi mai di raccomandazioni, né di agganci politici, di loschi affari o

di aggiudicazione con turbativa d’a-sta” ci tiene a precisare. L’impresa diventa “di fiducia” di molti enti, e rimane sempre “pulita” e non inda-gata quando altre aziende, presenti negli stessi cantieri, vanno sot-to processo. Il volume d’affari e le “commesse” aumentano, tanto da avere appalti pubblici anche dalle Ferrovie dello Stato.Sono le sue qualità, umane e im-prenditoriali, che aiutano l’azienda a crescere, “anche se le difficoltà ci sono state”. Sì, perché Mariano cre-sce in uno dei quartieri a più alta densità mafiosa della città, in cui c’era la guerra tra le cosche per il controllo di Messina, quando il boss Gaetano Costa aveva deciso di spartirsi la città con altri capi clan. E con qualcuno dei futuri af-filiati alla criminalità organizzata “andavamo a scuola assieme, gio-cavamo a nascondino, giocavamo a pallone”. Ma crescendo giunge il momento del distacco da questo gruppo: però è tutt’altro che faci-le, perché “possono anche fuorvia-re, perché un ragazzo lo immagina come un “mito”, come un riferimen-to da seguire e poi c’è chi (come Ma-riano, ndr) capisce che quella non è la strada da percorrere”. Crescendo così, però, ha imparato anche come funziona l’estorsione, come ti ten-gono sotto scacco l’azienda.Un punto di svolta importante si ha con quella che Mariano defini-sce “l’era del pentitismo”, dagli anni ’90 in poi. In questa fase le nuove leve, i nuovi affiliati cercano la ric-chezza, e diventano come dei “cani

sciolti”, che non guardano in faccia nessuno. È allora che le cose iniziano a peg-giorare, per Mariano e per la sua azienda. Nel ’95, infatti, subisce la sua prima tentata estorsione, dopo essersi aggiudicato una commes-sa per il recupero del patrimonio edilizio per ben 500 milioni di lire. I clan messinesi, dopo alcuni atti vandalici in cantiere, si presentaro-no nella persona di Francesco Pic-co, affermando che l’imprenditore avrebbe potuto contare su di lui per qualunque problema. La volontà era quella di far diventare Mariano Nicotra un imprenditore legato ai clan: infatti venivano chiesti 50 mi-lioni per “averlo lasciato in pace” negli anni precedenti, più 5 milioni per tutti gli appalti che si sarebbe aggiudicato nel futuro. La reazione di Mariano fu ineccepi-bile: andò subito dai Carabinieri a denunciare, e notò la loro incredu-lità nel vedere un imprenditore de-nunciare i clan, poiché solitamente era (o forse bisognerebbe usare “è”) l’Arma a doverne convocare uno per chiedere spiegazioni su questi contatti “sospetti”. L’appoggio dei Carabinieri fu completo, ed orga-nizzarono la consegna del denaro all’interno di un magazzino, dove intervennero ed arrestarono gli estorsori.Da quel momento la sua vita fu segnata: iniziò a subire minacce sempre più pesanti, non solo per-sonali ma anche nei confronti della famiglia. Ma le parole che Maria-no pronuncia sono esemplificative

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della persona che è e di ciò che ha passato: “Il mio non è stato un atto di eroismo. Il mio è stato un atto di egoismo. Perché per non essere ferito nel mio orgoglio, nella mia dignità di uomo e di imprendito-re, io, senza pensarci due volte, ho rischiato di mettere a repentaglio, e l’ho messa, la vita della mia fa-miglia, per una grande sete di cor-rettezza, di libertà. Quindi non mi reputo un eroe, ma un poco un egoista.” Ci si immaginerebbe che, a quel punto, gli amici, i vicini e i colle-ghi, si stringano attorno a lui per manifestare solidarietà e approva-zione per il suo comportamento. Ma non erano solo i clan, purtrop-po, a mostrare ostilità a Mariano. Dopo la denuncia ci fu una sorta di “ostracismo” nei suoi confronti anche da parte della cosiddetta so-cietà civile: “Tra tutto il quartiere, i miei colleghi c’era chi evitava di sa-lutarmi, chi salutava con la mano nascosta per non fare un torto al malavitoso di turno” fino ad ar-rivare alle persone che, entrando nello stesso bar dove l’imprendi-tore stava prendendo il caffè, di-cevano “Ma che puzza che c’è qui” o dandogli l’appellativo di “sbirro”. Mariano racconta, con un sorriso amaro, che, dopo che aveva par-cheggiato la sua macchina, attor-no ad essa c’era sempre posteggio: “Con il pretesto di buttare la spaz-zatura, anche a mezzanotte, i vicini scendevano a spostare la macchina dalle vicinanze della sua”. Tutto ciò lo portò a non poter più frequentare i locali dove era cresciuto, costringendolo a dover cambiare le sue abitudini, fino a doversi trasferire in un’altra citta-dina della provincia messinese. Il messaggio che passa è forte e chia-ro: sono i cittadini perbene, one-sti, quelli che vogliono cambiare le cose a doversi spostare, non i clan.

Un anno dopo questi fatti, nel 1997, ci fu un altro episodio mol-to più inquietante. Mentre lavo-rava per la provincia regionale di Messina, subì un’altra richiesta di estorsione, ma stavolta da un geo-metra del cantiere, e dunque da un

“rappresentante della provincia”. 15 milioni era la sua richiesta, pari al 5% della commessa. “Mai mi sarei potuto immaginare che anche tra le persone perbene… e lì inizi a pensare a quella famosa linea di demarcazione tra il bian-co ed il nero che è molto confusa… un signore, geometra, responsabile dei lavori, ebbe la sfacciataggine, l’atto ignobile, indegno sia come uomo che come rappresentante del-la provincia, per un tozzo di pane che gli era stato garantito, mi chie-se una percentuale sull’importo dei lavori che aveva avuto. Percentuale pari al 5%, quindi circa 15 milioni. Questo li voleva prima che venisse emesso il saldo di pagamento.”La reazione di Mariano fu, anco-ra una volta, esemplare. Si recò dai Carabinieri per denunciare e, d’accordo con essi, simulò il pa-gamento del “pizzo” all’estorsore, il quale venne immediatamente arrestato. Ma la cosa che lo la-sciò maggiormente con l’amaro in

bocca, è il fatto che il suo estor-sore abbia potuto usufruire del patteggiamento, istituzione che non significa ammissione di colpevolezza. “Ma cosa diventa la vittima in quel momento per lo Stato?” – si chiede con molta amarezza – “Nulla.” è costretto a rispondersi. “Ma continuo a lavorare, or-goglioso di quello che ho fatto. Non ho mai avuto indagini dalla Guardia di Finanza, multe per manodopera in nero. Mai.” Passo successivo avviene una decina di anni dopo. Nel 2008 si aggiudicò un lavoro per il co-mune di Messina, le “Case Ar-cobaleno” di Santa Lucia sopra Contesse. Dopo poco alcuni suoi soci gli dissero di essere sta-ti avvicinati dai clan per richie-ste di estorsione, e Mariano mise in chiaro, come se ancora ce ne fosse bisogno, che lui avrebbe denunciato. La risposta mafiosa non si fece attendere, con diver-si atti di intimidazione in poco tempo: il box di lavoro smon-tato, un escavatore incendiato e molti altri. Dopo tutto ciò, si presentarono a lui alcuni affiliati del clan Spartà per la richiesta “ufficiale” del pizzo.E Mariano, per l’ennesima volta, si recò dai Carabinieri per denunciare l’ac-caduto, facendo scattare l’opera-zione “Alexander”. I clan decisero di agire più pe-santemente contro di lui. 5 col-pi di pistola, alle 5.15, contro la sua vettura mentre tornava dalla colazione al bar, come sua abi-tudine. Un “atto forte, non per volermi uccidere, ma per vole-re dimostrare che in qualunque momento lo avrebbero potuto fare, e che “certe cose” non si fanno, e che bisogna dare un peso a chi comanda nella zona”. Da lì gli venne assegnata la scor-

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Sud Est Milano: Libera c’èdi Davide Grossi

Libera e i suoi volontari presidia-no il territorio del sud est Milano. Dopo due anni di lavoro, finalmen-te è nato un Presidio di Libera in quest’area. Il sud est Milano non è stato e non è tuttora un territorio immune alla criminalità organiz-zata e nella zona si trova ill dodici per cento dei beni confiscati alle mafie della provincia. La mancanza di un Presidio di Libera in un’area così segnata dalla presenza mafiosa era una grande lacuna, che oggi è stata colmata. Sabato 13 giugno, a Peschiera Bor-romeo, si è tenuta l’inaugurazione. Numerose associazioni del territo-rio, insegnanti in rappresentanza delle scuole e soci singoli, si sono riuniti per sottoscrivere il Patto del Presidio, che ne ha decretato la na-scita. In presenza della referente del Coordinamento di Libera Milano Lucilla Andreucci , gli aderenti al Patto hanno scelto come Referen-te del Presidio Leonardo La Rocca.

Dopo averlo sottoscritto, i nume-rosi presenti si sono riuniti presso la sala consigliare del Comune per assistere alla presentazione. Di cosa si occuperà il Presidio? Come ha affermato Leonardo La Rocca, si è deciso di concentrarsi su tre temi principali da affrontare durante il primo anno di vita. La questione principale verte sui beni confiscati alla criminalità organiz-zata. Su questo tema si farà da una parte un lavoro di studio e aggior-namento, volto ad approfondire la conoscenza della presenza mafiosa sul territorio, mentre dall’altra par-te si supporteranno le associazio-ni che vogliono riutilizzare i beni confiscati. La seconda questione è quella della formazione/informa-zione. Grande importanza verrà data alla formazione dei giovani nelle scuole e all’informazione per gli adulti. Il terzo tema è la scelta della vittima di mafia alla quale in-titolare il presidio.

Alla presentazione del Patto era-no presenti anche gli amministra-tori locali di sei comuni del sud est Milano (Peschiera Borromeo, Mediglia, Melegnano, San Donato Milanese, San Giuliano Milanese e Paullo) che hanno deciso di colla-borare alla causa della legalità. Nei loro interventi hanno evidenziato le difficoltà incontrate nel riutiliz-zo dei beni confiscati e la necessità di un rapporto di collaborazione tra società civile e politica. La nascita di un presidio è un mo-mento di felicità; tuttavia come ha ricordato Lucilla Andreucci, è solo l’inizio di un percorso duro che ha l’obiettivo di svegliare la coscienza della società civile. Anche Lorenzo Frigerio, Coordinatore nazionale di Libera Informazione, durante il suo intervento ha sottolineato l’im-portanza di un’antimafia sociale che sappia risvegliare la percezio-ne degli italiani. Frigerio ha anche evidenziato come le mafie agiscano

ta, anche se non ne era convinto, “mi avrebbe procurato dei danni. Perché era come avere scritto “io ho denunciato”. Chiunque avrebbe voluto ristrutturare casa, chiaman-do Mariano Nicotra, potrebbe pure pensare che mi fanno saltare casa.” Scorta che gli venne revocata nel giugno 2013, in quanto non sussi-stevano più pericoli per la sua per-sona. L’assenza di pericoli è però opinabile, visto che eventuali ritor-sioni possono tuttora verificarsi in seguito alle sue dichiarazioni del

dicembre 2014. Mariano poi, chiude l’intervista con un appello: “Non abbiamo bisogno di professionisti dell’anti-racket, abbiamo bisogno non solo di repressione, ma di tanta preven-zione: e la prevenzione si fa, uti-lizzo un termine forte, “usando” i testimoni di giustizia, le vittime di mafia che hanno tanta esperienza, per farli andare nelle scuole a parla-re. C’è bisogno di sensibilizzare, per far capire che oltre alla denuncia, (e dunque a essere onesti) ci può essere

la convenienza, magari che la Pre-fettura o le scuole si riforniscano nel tuo negozio, iscritto nell’elenco del consumo critico. Io voglio essere libero. Ho messo a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia per continuare ad es-sere una persona libera, con la ca-pacità da imprenditore di valutare l’affare migliore, ma restando sem-pre ligio alle regole.” Si può dire che chieda troppo?

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da molti anni all’interno del ter-ritorio del nord Italia attuando una colonizzazione e di come le loro attività siano favorite da un tessuto sociale troppo permissivo. Il 13 giugno di trentadue anni fa morivano per mano della mafia

tre carabinieri in quella che ver-rà tragicamente ricordata come la strage di via Scobar . Il primo atto ufficiale del neonato Presidio sud est Milano non può non esser il ricordo di Mario D’Aleo, Giusep-pe Bommarito e Pietro Morici.

Tanti sforzi e fatiche aspettano i ragazzi del Presidio e soltanto la collaborazione tra istituzioni, cittadini e associazioni potrà ga-rantire un futuro all’insegna della legalità e del bene comune.

L’onda crescente dell’antimafia milanesedi Matteo Furcas

Questo articolo è frutto del Labo-ratorio di Giornalismo Antima-fioso introdotto presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano, per cui Stampo svolge funzione di tutorship.

Di mafia al nord c’è ancora tanto bisogno di parlare. Da parte delle istituzioni e da parte della società civile. Sono loro a dover indicare la via per il passaggio fondamentale dalla negazione e dall’indifferen-za alla consapevolezza. A Milano il fronte antimafioso è sempre più attivo e coinvolto. Dalla ricerca universitaria alla cultura, dalle as-sociazioni al giornalismo. E negli ultimi anni si è mosso qualcosa anche nell’amministrazione della città. Mercoledì 22 aprile si è te-nuto alla Casa dei Diritti di Mila-no il secondo incontro di “Libera le tesi”, iniziativa organizzata dal presidio universitario della Stata-le con il patrocinio del Ministero dell’Istruzione (MIUR) e della Fondazione Falcone per diffon-dere al pubblico alcune tesi dei laureati in Sociologia della Crimi-

nalità Organizzata. Cosa è stato fatto a Milano? Qual è stato il ruolo della società ci-vile? Queste le domande a cui si è cercato di rispondere durante l’incontro, con il contributo del giornalista del Fatto Quotidiano Mario Portanova e di Lorenzo Frigerio, coordinatore di Libera Informazione. Ma i protagonisti di “Libera le tesi” sono stati natu-ralmente gli studenti, che hanno potuto presentare le loro tesi di laurea. La prima a prendere la parola è Martina Mazzeo, che ha racconta-to nella sua tesi l’esperienza gior-nalistica di Stampo Antimafioso. Il sito è una delle tante ramifica-zioni sviluppatesi dal contesto universitario per diffondere la cultura e le conoscenze necessarie per contrastare adeguatamente le organizzazioni mafiose: nell’anno accademico 2008-2009 Nando dalla Chiesa introduce presso la Facoltà di Scienze Politiche il cor-so di Sociologia della Criminali-tà Organizzata. Da qui un effetto a cascata di iniziative. Negli anni successivi si sviluppa quel “mol-tiplicatore pedagogico” teorizza-to dal professor dalla Chiesa: la

diffusione di conoscenza e con-sapevolezza che porta al fiorire di effetti culturali e civili. Stam-po Antimafioso è uno di questi. Nasce come blog autofinanziato. Trae le sue energie dal capitale umano dell’università per porta-re in supporto della sua missione informativa il metodo scientifi-co proprio della ricerca, il rigo-re nella selezione di chi scrive e cosa viene scritto. Il risultato? Un giornalismo “lento”, approfon-dito perché frutto di conoscenze e libero dalle necessità dei siti di informazione di essere sempre sul pezzo, pena i pochi clic. Quanto creato non rimane confinato tra i muri universitari. Grazie a Stam-po Antimafioso i risultati delle ri-cerche vengono diffusi alla citta-dinanza di Milano e di tutta Italia. Ed era proprio questo l’obiettivo di “Libera le tesi”.Quali sono state le fonti per Mar-tina Mazzeo? Un dossier sulle mafie in Lombardia a cura di Libera Informazione, intitolato “Ombre nella nebbia”, e il libro di Mario Portanova “Mafia a Mila-no”, uscito nel 1996 e aggiornato nel 2011. Ed è proprio nella “casa” dei libri che ha preso vita un’altra

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iniziativa, quella descritta da Va-lentina Valentini nella sua tesi di laurea. L’associazione “Saveria An-tiochia – Osservatorio antimafia” mette a disposizione di docenti, studenti e cittadini una biblioteca specializzata e un centro studi e documentazione. Libri, periodici, atti giudiziari, atti di Commissioni parlamentari e di altre istituzioni e associazioni possono essere libera-mente consultati. Perché non basta solo progettare un futuro libero dalla criminalità, è fondamentale conservare una memoria ricca e solida.A un futuro positivo potrebbe con-tribuire una sana gestione ammi-nistrativa. L’ultima tesi è presentata da Dario Parazzoli. La complessità del fenomeno mafioso rende insuf-ficiente la sola repressione da parte dello Stato, perché il sistema ammi-nistrativo è uno dei principali am-bienti colpiti. Le amministrazioni possono prevenire, a partire dalla rottura di quel rapporto tra poli-

tica e organizzazioni mafiose che a causa dei benefici reciproci non verrà mai spezzato volontariamen-te. Con dei costi altissimi, a causa del dispendio maggiore per quegli appalti consegnati alla criminalità organizzata e del costo della re-pressione. Occorre quindi partire dall’anello più debole, il politico. E farlo dai Comuni. Milano è stata la prima a istituire una Commissio-ne antimafia, che ha già ottenuto risultati concreti grazie ai propri strumenti. In primis la mappatura degli eventi “spia” che segnalano un’attività mafiosa, a partire dagli incendi. Poi i controlli sui cantie-ri e gli appalti di Expo. Un grosso lavoro viene poi compiuto da un ufficio in Provincia che controlla tutti i database del comune per ve-rificare incongruenze nelle attività commerciali. Senza dimenticare la trasparenza delle procedure: con la pubblicazione di tutti gli atti degli appalti, non c’è soltanto il control-lo del Comune ma anche quello

dei concorrenti che hanno perso la gara e possono accorgersi delle anomalie. Tutto questo forma un grosso nucleo di prevenzione e di intervento prima ancora che inter-venga la magistratura. Il movimento antimafia milanese gode di buona salute e continua a crescere. Lo spartiacque del 2010 con l’operazione “Crimine Infini-to” ha reso impossibile una volta per tutte negare la presenza della criminalità organizzata al nord. La rottura del silenzio e del cono d’ombra hanno reso l’opinione pubblica più consapevole. Ma per proseguire in questo percorso oc-corre una “continuità nella com-petenza”, come l’ha definita Mario Portanova. E può solo arrivare da esperienze come quelle milanesi, con il loro contributo di crescita culturale e civile. Per alimentare quella massa critica fondamentale per il contrasto alle mafie.

Siamo associazione partner del progetto MafiaMaps, l’applicazione sul fenomeno mafioso che verrà lanciata a marzo 2016!

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Ciao Denise, vorrei dirti tante cose ora, ma non penso di averne il coraggio. Cosa potrebbe dir-ti un ragazzo del Lago di Garda, trapiantato a Milano, senza risul-tare banale e retorico? È difficile. Molto. Ma il desiderio di espri-mere sentimenti ed emozioni è il risultato che scaturisce nel cuore di quel ragazzo, quando si inte-ressa a queste storie. Come la tua Denise. Anzi, come la vostra, De-nise e Lea. Si, perché scrivendo a te, cara Denise, è come scrivere anche a Lea, la tua mamma, colei che ti ha donato la vita e che ti ha protetto fino a quando ha potuto. Con le sue uniche forze. Con la sua tenacia. Con il suo coraggio. Ecco, vorrei che però fosse chiara una cosa. Quando si affiancano a queste storie le parole “coraggio”, “tenacia”, “amore”, non si vuole essere retorici o amanti della no-biltà da tastiera. È vero, qualcuno potrebbe sempre pensare che è troppo facile fare i “belli e cari” dopo. Ma durante? E prima? Giu-sta osservazione, direi. Ma come descrivere meglio della parola “coraggiose” due donne, unite indissolubilmente dall’amore re-ciproco, che si ribellano alla pro-pria famiglia e ad una mentalità e cultura che come un macigno ti opprime dalla nascita? Ma so-prattutto, come può un ragazzo del nord capire cosa voglia dire nascere e crescere in un paese sperduto nell’Aspromonte? Sem-plicemente non lo può capire. Pur avendo anch’egli la mafia “in casa” da quarant’anni, non può mini-mamente immaginare una vita, o anche solo un pezzettino di essa,

in quei luoghi così intessuti di valori ancestrali devianti. Valori snaturati a proprio piacimento. Luoghi nei quali l’onore e il ri-spetto hanno significati differenti da quelli che si usano in altre la-titudini e in altri mondi. Quindi chi decide dove un uomo o una donna debba nascere? Se a Mila-no o a Beirut, se a Gaza o a Peti-lia Policastro? Forse il destino. E a volte quest’ultimo è crudele. Ti sottopone a delle interminabili sofferenze. Quelle che un ragazzo del Lago di Garda non può com-prendere. E poi? E poi ci siete voi, Lea e Denise. Che avete cercato di sov-vertire quel destino ingiusto a cui eravate destinate. L’amore della tua mamma nei tuoi confronti, Denise, era troppo grande per poterti immaginare donna di una casa di spaccio, silenziosa e compiacente. Perché quella, vita non è. Significa soltanto nascere e galleggiare per decenni, in attesa che qualcuno ti prenda e ponga fine alle tue sofferenze. Quindi la ribellione. Forte e decisa. Non di un uomo “pentito”, che decide di collaborare. Ma di una donna, soltanto testimone di un mondo criminale che non le appartie-ne e che non vuole condividere. Si chiama Lea, dal greco Leon e dal latino Leo, che significa “Le-onessa”. Penso che, mai come in questo caso, il nome sia decisa-mente appropriato. Perché dopo aggressioni e intimidazioni, una leonessa entra nella caserma dei Carabinieri. A Petilia Policastro, in provincia di Crotone. “Io sono Lea Garofalo, soltanto Lea Garo-

falo”. I muri tremano, e come loro la famiglia Cosco. Sicuramente non sarò io, Denise, a raccontarti la tua storia. Anzi, penso che questa storia sia qua-si soltanto tua. Non oso imma-ginare cosa significhi svegliarsi nel cuore della notte e assistere all’incendio della vostra macchi-na. Non oso immaginare cosa si-gnifichi assistere alle aggressioni alla tua mamma. Non oso imma-ginare cosa si provi nel cambiare identità, cambiare città e vivere nel terrore. Non lo so. E quasi mi sento colpevole e privilegiato nel-lo stesso tempo. Colpevole perché non c’ero e non ho potuto aiutar-ti. Privilegiato perché questa sof-ferenza non so che sapore abbia. Ma, nonostante tutto questo De-nise, voglio dirti due cose. Innan-zitutto Scusa. Scusa a nome dello Stato che non è riuscito a proteg-gere la tua mamma. Scusa a nome di quel magistrato che revocò la vostra protezione dopo la morte di tuo zio. Scusa per quella soli-tudine subita per anni. Scusaci se non vi siamo stati vicino quando ne avevate bisogno. Scusaci se abbiamo inconsapevolmente per-messo che tua madre fosse uccisa, e che il suo corpo fosse oltraggia-to, bruciato e fatto a pezzi. Infine grazie. Grazie per quello che avete compiuto. Grazie per aver creduto lo stesso nello Stato, anche dopo i suoi errori. Grazie per aver dato l’esempio a tutte quelle persone, donne e figlie, che ogni giorno subiscono quello che avete subito voi. Grazie per il tuo coraggio. Nessuno potrà mai capire cosa significhi accusare in

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un’aula giudiziaria il padre, colpe-vole di aver ucciso la madre. Gra-zie per gli insegnamenti di amore e onestà che hai prodotto alla tua giovanissima età. Dopo aver visto il film, che spero sia entrato in tante case italiane, anche di Petilia Policastro, mi trovo qui a scrivere queste semplici righe. Che sono il frutto di anni di sentimenti rabbiosi messi in fila, uno accanto

all’altro. Ero presente al funerale. Ero presente alle fiaccolate. C’ero, si. Ma quando pensavo di scrivere, le dita si immobilizzavano. Rigide e impotenti. Imbarazzate. Perché era sempre la stessa domanda: “Cosa potrebbe dirti un ragazzo del Lago di Garda, trapiantato a Milano, senza risultare banale e retorico?”. Forse niente. Forse tanto. Non lo so. Oggi riesco a scriverti e ne ap-

profitto. Mi basterebbe solo sapere che tu sia cosciente di non essere sola. In qualunque parte d’Italia o del mondo tu sia, non sei sola Denise. E ci sarà sempre una par-te d’Italia che ti chiederà scusa e ti ringrazierà. Perché il coraggio siete voi. Lea e Denise. Leonesse. Senza cognomi.

L’inferno e la primavera. A proposito di lotta alla mafiadi Pierpaolo Farina

Ci sono momenti in cui ti chiedi se ne vale davvero la pena. Per-ché passi l’ideale, ma fai davve-ro molta fatica a restarci fedele o quanto meno difenderlo quando viene quotidianamente insozzato da persone che, a differenza tua, con l’antimafia da salotto ci fanno soldi e carriera, mentre tu stai a risparmiare anche i 50 centesimi perché di compromessi non ne vuoi fare e quindi soldi in quanto clientes non ne vuoi avere da que-sto o quell’ente pubblico. Lavori anni per il tuo piccolo so-gno, dimenticandoti la differenza tra il giorno e la notte, tra Natale e Capodanno, arrivando a passare per pazzo perché uno lo hai pas-sato addirittura a finire di scrive-re la voce di Totò Riina invece di stappare bottiglie e svagarti con gli amici e poi… Poi arrivano loro, quelli che usa-no l’antimafia come strumento di

Potere, e in quattro e quattr’otto mandano a monte mesi di lavo-ro rigorosamente non retribuito, tuo e dei tuoi folli compagni d’av-ventura, perché nell’immaginario collettivo chiunque non si occupi di fenomeno mafioso in maniera superficiale e dilettantesca fa par-te della “mafia dell’antimafia”. Non conta nulla la tua storia personale e quello che hai fatto: sei colpevole a prescindere, perché se cerchi di capire e di vedere, e di far capire e far vedere, automaticamente c’è qualcosa che non va in te e non lo stai facendo perché ci credi, ma perché ci guadagni qualcosa. Giuseppe Prezzolini, quasi un se-colo fa (correva l’anno 1921) scri-veva nel suo “Codice della Vita Italiana”: “L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, cre-pano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non

fanno nulla, spendono e se la godo-no.” Ecco, l’antimafia la mandano avan-ti i professionisti, ma chi fa la bella figura sono i carrieristi. La diffe-renza è questa. Ma quello che mi faceva infuriare non era tanto il carrierista, quan-to l’essere accomunato a lui, al suo arrivismo, alla sua totale ignoran-za e deficienza. Questa era la cosa che mi faceva infuriare più di tut-te, oltre a farmi male, perché noi non facciamo quello che facciamo per farci dire “bravi” da qualcuno ma perché noi alla mortalità del fenomeno mafioso in tutte le sue espressioni ci crediamo per davve-ro. Da qualche tempo, però, proprio con il moltiplicarsi degli scandali e anche l’esperienza di dolorose de-lusioni umane sul piano persona-le, sono giunto a una conclusione: non ha più senso stare a perdere tempo a rodersi il fegato per que-sta gente. Non ha più senso dargli un’importanza che non meritano e parlare di loro, perché è un’inu-tile perdita di tempo. E di cose ne abbiamo fin troppe da fare, perché mentre noi stiamo a scannarci su questa o quella questione nel mo-vimento antimafia, Loro, i mafiosi, se la spassano allegramente e fanno tutto quello che vogliono a spese nostre, della nostra libertà e della

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nostra vita. D’ora in avanti dobbiamo sfor-zarci di andare oltre i muri che incomprensioni e modi di vedere hanno innalzato negli anni, fare rete tra le parti migliori del mo-vimento antimafia e isolare i car-rieristi e in generale tutti quelli che cercano un posto al sole nella lotta alla mafia senza fare una be-neamata mazza dalla mattina alla sera. Io ho sempre pensato alla lotta alla mafia come ad un campo dove ci sono una varietà infinita di fiori, ognuno è unico, con il suo baga-glio di esperienze e da ciascuno di questi fiori arrivano altri semi, che faranno nascere altri fiori e così, per via incrementale, ad un campo arido, magari pieno di er-bacce, viene restituita la bellezza. Perché noi lottiamo per difendere la bellezza, in tutte le sue forme. E perché non sia reso vano il sacri-ficio di chi ha pagato con la vita la

difesa della libertà e della demo-crazia di questo paese. Il problema è che moltissime per-sone decidono di non sbocciare, vuoi per inconsapevolezza, vuoi per indifferenza, vuoi per paura. E qui sta la tragedia, sfioriranno anche loro, ma senza essere mai sbocciati. E la mafia vince laddo-ve i fiori smettono di sbocciare. Perché non possiamo pensare di essere autosufficienti, di bastare a noi stessi, di essere i più bravi: noi abbiamo bisogno di quella biodi-versità, di quella moltitudine di esperienze. Quindi bisogna far sì che sempre più persone “sbocci-no”, il che significa che dobbiamo fare in modo che si possano im-padronire di ogni ramo del sapere e acquistino consapevolezza. In “Le città invisibili” Italo Calvi-no scriveva che: “L’inferno dei viventi non è qualco-sa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo

tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diven-tarne parte fino al punto di non ve-derlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconosce-re chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dar-gli spazio.” Ecco, per me prioritario non è pensare ora come ora all’inferno, ma a tutto ciò che “inferno non è” e farlo durare, e dargli spazio. Solo così si combatte l’inferno. Solo così sempre più fiori potran-no sbocciare. Solo così potremo salvare la bellezza che ci circonda e che Loro vogliono distruggere. In tutti quei momenti in cui mi chiedo se ne valga davvero la pena, penso alla Primavera che verrà e mi do subito la risposta: ne vale sempre la pena.

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