Stabilità versus flessibilità nel diritto comunitario ... · Strumenti di diritto “leggero”...
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Stabilità versus flessibilità nel diritto comunitario: quale punto di equilibrio?* di Daniela Izzi
Sommario: 1. Ambito della ricerca: dal soft law del metodo di coordinamento delle politiche occupazionali all’hard law del metodo comunitario classico – 2. Il paradigma della flexicurity nella Strategia europea per l’occupazione: quale flessibilità e quale sicurezza? – 3. Stabilità versus flessibilità in entrata e in uscita, ovvero a proposito di contenimento della precarietà del lavoro a termine e di protezione nei confronti dei licenziamenti – 4. L’acquis communautaire in tema di stabilità del posto di lavoro – 4.1. La Corte di giustizia e i contratti di lavoro a tempo determinato – 4.2. La Corte di giustizia e i licenziamenti – 5. Conclusioni: tra soft e hard law, dove va l’Europa?
1. Ambito della ricerca: dal soft law del metodo di coordinamento delle politiche
occupazionali all’hard law del metodo comunitario classico
In un’epoca dominata dall’imperativo culturale della flessibilità – «formula
magica» evocata nel dibattito pubblico con una frequenza pari solo all’indeterminatezza
del suo significato (Caruso 2004, p. 11) – ma attraversata, anche, dalla diffusa
aspirazione sociale alla stabilità del lavoro, verso quale punto di equilibrio sta
spingendo l’Europa?
La rilevanza assunta nell’attuale fase del processo d’integrazione comunitaria
dalle fonti di soft law1, intervenute ad infrangere il monopolio tradizionalmente
esercitato dalla tecnica di armonizzazione dei sistemi normativi con una determinazione
che non lascia dubbi sulla loro progressiva ascesa, suggerisce di cominciare proprio da
qui la ricerca delle indicazioni utili per abbozzare una risposta a tale domanda. Al centro
dell’attenzione, più in particolare, dev’essere posto quel processo di carattere ibrido (a
metà strada, cioè, tra la cooperazione intergovernativa e la centralizzazione a livello
sopranazionale: v. Bano 2003, p. 59 e Ravelli 2006, p. 69) volto a determinare la
graduale convergenza delle politiche nazionali verso le finalità dell’Unione che, sotto il
nome di metodo aperto di coordinamento (MAC), pare ormai rappresentare l’archetipo
della nuova governance europea (così Lo Faro e Andronico 2005, p. 514).
* Il saggio è stato elaborato nell’ambito del progetto Prin 2004 “Sviluppo dell’occu pazione e tutela del posto di lavoro. La conciliazione possibile tra flessibilità e stabilità”, coordinato da M.V. Ballestrero. I primi risultati della ricerca sono stati presentati nel Convegno di studi svoltosi a Rovigo (24 e 25 febbraio 2006). 1 V. in tal senso il Libro bianco sulla governance europea adottato dalla Commissione europea il 5 agosto 2001, COM (2001) 428 def., p. 21.
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Ideato per assecondare esigenze regolative non soddisfabili dalle norme uniformi,
precettive ed eteronome prodotte mediante i classici strumenti di hard law, questo
metodo, definito “aperto” per sottolineare lo spazio di libertà di cui godono gli Stati
membri durante il suo svolgimento e l’importanza riposta nell’attiva partecipazi one alle
decisioni dei destinatari delle stesse2, costituisce l’intelaiatura giuridica della «strategia
coordinata a favore dell’occupazione» istituita ad Amsterdam, con l’inserimento nel
Trattato comunitario del Titolo VIII (artt. 125-130), e venuta concretamente alla luce
con il Consiglio europeo di Lussemburgo del novembre 19973. La finalità di tale
strategia, come chiarisce l’articolo di apertura del nuovo Titolo dedicato
all’occupazione, è di realizzare, tramite la «promozione di una forza lavoro compe tente,
qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti
economici», i fondamentali obiettivi indicati dall’art. 2 Tce: tra i quali, in particolare,
«un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e
della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati
membri». Entro quest’orizzonte teleologico 4, autorità comunitarie e singoli Stati sono
chiamati a cooperare secondo le modalità previste dalla sequenza procedurale di tipo
circolare scandita dall’art. 128 Tce e costellata da un insieme di atti riconducibili a
quell’universo eterogeneo di regole non giustiziabili e contenutisticamente non
stringenti racchiuso nel concetto di soft law5.
Strumenti di diritto “leggero” sono infatti, ripercorrendo le diverse tappe
istituzionali in cui si articola la Strategia europea per l’occupazione (SEO), gli
orientamenti elaborati dal Consiglio, su proposta della Commissione e in coerenza con
2 Secondo la «nuova “dottrina dell’integrazione” europea» (così ha battezzato l’insieme degli studiosi del MAC Barbera 2006, p. 9), il coinvolgimento nel processo deliberativo dei soggetti cui compete l’attuazione delle decisioni assunte, facendo venir meno quella netta separazione fra le fasi di produzione e di applicazione delle norme caratteristica del metodo comunitario classico, dovrebbe porre rimedio ai limiti mostrati da quest’ultimo in punto sia di legittimazione politica (per l’asserita insufficienza degli interessi rappresentati in sede di formazione delle regole: il cosiddetto deficit democratico) che di effettività (non bastando la previsione di sanzioni ad impedire la violazione di tali regole). Come attestato anche dalle più recenti analisi (v. Szyszczak 2006, p. 499; Ravelli 2006, p. 96 s. e 105; Barbera 2005, p. 352 s.), tuttavia, la valorizzazione del momento partecipativo promessa dal MAC ha sinora stentato a tradursi in realtà. 3 Fu in quel vertice straordinario sull’occupazione, infatti, che venne decisa, con largo anticipo rispetto alla data prevista per l’entrata in vigore dell’insieme del Trattato di Amste rdam, l’immediata nascita della strategia contemplata nel Titolo VIII, per questa ragione denominata anche “processo di Lussemburgo”. 4 Orizzonte che l’art. 127 Tce sente l’esigenza di sintetizzare richiamando in via esclusiva, per ben due volte, l’obietti vo di «un elevato livello di occupazione». 5 Per una ricostruzione di tale concetto con specifico riguardo al diritto comunitario v., oltre a Bano (2003), l’approfondito lavoro monografico di Senden (2004).
3
gli indirizzi economici generali stabiliti ai sensi dell’art. 99.2 Tce, per guidare le
politiche nazionali in materia d’occupazione; i piani predisposti dagli Stati membri alla
luce delle guidelines comunitarie (originariamente denominati piani d’azione nazionali
e riguardanti solo l’occ upazione; confluiti dal 2005 nei programmi nazionali di riforma
concernenti anche la politica economica); le raccomandazioni che il Consiglio può
rivolgere ai singoli Stati a seguito dell’esame sull’attuazione delle politiche nazionali
per l’occupazione; n onché, infine, la relazione comune di Consiglio e Commissione «in
merito alla situazione dell’occupazione nella Comunità e all’attuazione degli
orientamenti» scaturente dal suddetto esame e trasmessa al Consiglio europeo, che si
riunisce ogni primavera, in vista della formulazione delle conclusioni destinate a
costituire la base di riferimento per gli orientamenti del ciclo successivo.
Nel complesso del soft law prodotto nei diversi ambiti di applicazione del MAC6,
quello inerente alle politiche per l’occup azione rappresenterebbe più esattamente,
secondo qualcuno, «l’estremo hard»7; non sembra trattarsi, tuttavia, di una tesi
unanimemente condivisa, se è vero che non manca chi riferisce proprio ai frutti della
SEO l’osservazione (di per sé di carattere più g enerale) per cui «il soft law è una specie
di … elastico che si presta ad essere tirato come si vuole» (così Roccella 2006a, p.
112)8. Quale che sia il punto di vista preferibile, ad ogni modo, certo è che agli
orientamenti messi a punto per coordinare le politiche nazionali in materia
d’occupazione non possono disconoscersi quei connotati di flessibilità e scarsa
determinatezza tipici di un metodo di regolazione imperniato sulla fissazione di linee
guida anziché di dettagliate prescrizioni: il che, in qualche misura, rende di marginale
interesse la controversa questione della rispondenza della riforma del mercato del lavoro
realizzata dal d. lgs. 276/2003 agli inputs della Strategia europea per l’occupazione
(espressamente richiamata, addirittura, nell’arti colo di apertura dello stesso testo
6 Al Consiglio europeo di Lisbona (23-24 marzo 2000), ove fu ufficialmente coniato il termine “metodo aperto di coordinamento”, venne infatti decisa l’estensione del meccanismo sperimentato per le politiche occupazionali ad altre materie (inclusione sociale, previdenza, immigrazione, ambiente, sanità, istruzione, innovazione, società dell’informazione, fisco). 7 Ciò, come chiarisce Caruso (2005, p. 81), «sia per il rilievo costituzionale che la SEO riceve dalla sua cristallizzazione regolativa nel Trattato, sia per i concreti risultati registrati dopo la fase di avvio e assestamento». In senso analogo v. Leighton (2005, p. 63). 8 Sulla stessa lunghezza d’onda sembra assestata Saraceno (2005) secondo cui le parole contenute negli orientamenti, pur appartenendo ad un vocabolario comune, vengono di fatto adoperate dagli Stati membri per conseguire obiettivi diversi.
4
normativo)9, nonché le divergenze di vedute sulla matrice comunitaria di determinati
interventi legislativi posti in essere negli altri Stati dell’Unione 10.
Prima e assai più che il rapporto intercorrente fra gli orientamenti in materia di
occupazione e le misure adottate negli ordinamenti nazionali in “attuazione” degli
stessi, del resto, le vivaci dispute che attraversano la dottrina europea investono
l’effettiva natura e funzione del MAC: meccanismo virtuoso, secondo ta luni, capace di
offrire, grazie al superamento dei limiti mostrati dal metodo comunitario classico, un
insostituibile contributo alla costruzione dell’Europa sociale; meccanismo pericoloso,
secondo altri, che, ove non finisca per ridursi ad una “tigre di c arta” (avida divoratrice
di ingenti quantità di tempo e di risorse), potrebbe innescare una deriva deregolativa
dagli esiti devastanti per il futuro del cosiddetto modello sociale europeo11.
Per contrastare il rischio di una regulatory competition, valorizzando
l’indispensabile dimensione sociale del processo d’integrazione, da più parti (v.
Barbera 2005, p. 354 ss.; De Schutter 2005; Klosse 2005, p. 30 ss.) si propone
d’irrobustire il metodo di coordinamento facendo leva sui diritti fondamentali
“costituzi onalizzati” con l’inserimento nel nuovo Trattato della Carta di Nizza 12; mentre
qualcun altro, in vista di simile rafforzamento, invita a prendere in considerazione
l’ hard law (v., in termini diversi, Scharpf 2002 e Velluti 2005, p. 454 ss.), giungendo
così a rimarcare, di fatto, l’essenziale funzione tuttora svolta dall’armonizzazione
legislativa.
9 Tale rispondenza, fermamente sostenuta – com’è naturale – dagli studiosi che hanno ideato e messo a punto la cosiddetta riforma Biagi (v. Sacconi, Reboani, Tiraboschi 2004; Tiraboschi 2005, p. 155 s.), è invece rinnegata da ampia parte della dottrina, giuslavoristica (v. ad esempio Guarriello 2004, p. 383 s.) ma non solo (tra i politologi v., con riferimento al Libro bianco pubblicato dal Ministero del lavoro nell’ottobre 2001 ad illustrazione de ll’intervento riformatore in corso di preparazione, Ferrera e Sacchi 2005, p. 62). 10 Sui dubbi avanzabili, ad esempio, a proposito della coerenza con gli orientamenti SEO del contrat nouvel embauche francese v. De La Rosa (2005, p. 1217 s.). 11 Per una sintetica illustrazione degli opposti punti di vista dei sostenitori e dei detrattori del MAC v. Trubek e Trubek (2005, p. 351-356); un tentativo di valutazione della funzionalità di tale metodo nella difesa dei diritti sociali è approfonditamente svolto, invece, nel volume curato da De Schutter e Deakin (2005). 12 Come efficacemente spiegato da Lo Faro e Andronico (2005, p. 520 s.), l’abbinamento con i diritti fondamentali «appare così irresistibilmente attraente agli occhi di entusiasti e scettici del metodo aperto di coordinamento perché conferma le istanze di “unità nella diversità” valorizzate dai primi, attutendo al contempo i timori di diversità senza unità paventati dai secondi. E, in effetti, cosa c’è di più solido e rassicurante di un argine alle derive regolative costituito da un catalogo di diritti sociali fondamentali finalmente equiparati, in virtù del principio di indivisibilità, ai diritti civili e politici?»
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È proprio sul tradizionale terreno dell’ hard law, ove pure sono chiaramente
percepibili i segni dell’ammorbidimento regolativo realizzatosi nell’ultimo decennio 13 ,
che la ricerca sullo spazio riservato al valore della stabilità del lavoro dall’ordinamento
comunitario, evidentemente, deve proseguire. Qui, a fronte di misure legislative che –
con la sola eccezione della direttiva n. 99/70 sul lavoro a tempo determinato –
affrontano il problema del mantenimento dell’occupazione solo tangenzialmente e in
modo del tutto parcellizzato (come s’illustrerà infra, par. 4), un ruolo di primo piano ha
assunto, soprattutto negli anni più recenti, la giurisprudenza della Corte di giustizia: il
che spiega perché, nell’esame dell’ acquis communautaire sul tema in oggetto, sia
proprio la giurisprudenza a fare la parte del leone, tracciando le linee di un paesaggio
che risulterebbe altrimenti alquanto desolato.
Decisamente movimentato, al contrario, è il quadro che si presenta quando si cala
la domanda da cui si sono prese le mosse nel contesto del processo di coordinamento
delle politiche occupazionali delineato nel Titolo VIII del Trattato. Misurarsi con la
questione “stabilità versus flessibilità” significa infatti andare dritto al cuore di tale
processo, se è vero che l’idea di “flessibilità nella sicurezza” (o “flessibilità mite”,
secondo la denominazione introdotta da Caruso 2000) «costituisce la trama di fondo
dell’intera strat egia europea» (Barbera 2000, p. 150) e la più nitida espressione della sua
ispirazione nella filosofia della cosiddetta “terza via”: la quale, destreggiandosi (talora
goffamente) tra spinte neoliberiste alla deregolamentazione del mercato del lavoro e
volontà di difesa dei principi cardine del modello sociale europeo, si propone di
contemperare l’esigenza delle imprese di adattarsi flessibilmente ed efficacemente alle
trasformazioni dell’economia, per rispondere alle sfide della competizione globale, con
la garanzia ai lavoratori di una «ragionevole sicurezza, … ritenuta essenziale per il
benessere dei singoli e per la coesione sociale»14.
I termini nei quali deve realizzarsi il richiesto compromesso fra flessibilità e
sicurezza sono indicati solo genericamente, rimettendosene la puntuale determinazione
agli Stati membri e, in particolare, alle parti sociali, sul presupposto che un ruolo
13 Mediante le direttive di recepimento degli accordi collettivi europei che, per il contenuto prescrittivo relativamente “leggero” da cui sono caratterizzate, possono considerarsi fonti del diritto a metà strada tra l’ hard e il soft, com’è generalmente riconosciuto (v. per tutti Bano 2003, p. 67 -69). 14 Sulla scelta della “terza via” sottesa al la SEO v. Kenner (1999), Treu 2001 (in particolare p. 24, da cui è tratta la breve citazione riportata nel testo, p. 83 e p. 96), Caruso (2000, p. 143 s.), Perulli (2002, pp. 350-352).
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centrale spetti in proposito al metodo della concertazione (Treu 2001, p. 96)15.
L’innegabile tensione che percorre il model lo comunitario di flexicurity non approda,
infatti, ad una soluzione univoca e lineare: e proprio in ciò, verosimilmente, sta la
spiegazione del fatto che, dei quattro pilastri (occupabilità, imprenditorialità, adattabilità
e pari opportunità) sui quali – durante il quinquennio iniziale del processo di
Lussemburgo – sono stati imperniati gli orientamenti per l’occupazione, è stato il terzo
– quello che, com’è noto, individua appunto nella “flessibilità nella sicurezza” la chiave
per fronteggiare la necessità delle imprese e dei lavoratori di adattarsi alle
trasformazioni della produzione e dei mercati – ad aver suscitato le maggiori
discussioni.
Partendo dalla consapevolezza che sarebbe vano il tentativo di ricostruzione di un
modello unitario e compiuto di flexicurity, essendo lo stesso geneticamente predisposto
ad una pluralità di interpretazioni16, occorre adesso guardare più da vicino al contenuto
di questa fortunata formula, per comprendere in che modo e in quale misura il valore
della stabilità del lavoro trovi spazio al suo interno.
2. Il paradigma della flexicurity nella Strategia europea per l’occupazione: quale
flessibilità e quale sicurezza?
Come si addice ad un’idea rientrante nello stesso DNA della SEO, la
sollecitazione ad introdurre nei mercati del lavoro nazionali più flessibilità
accompagnata dalla garanzia di un adeguato standard di sicurezza attraversa il processo
di coordinamento delle politiche occupazionali, ormai prossimo al suo decimo
compleanno, come un imperterrito leitmotiv: il cui contenuto, peraltro, non è rimasto
completamente immutato nel corso del tempo.
Il paradigma della flexicurity ricorrente nelle guidelines sull’occupazione, infatti,
mentre ha subito semplici cambiamenti di collocazione topografica in corrispondenza
15 Per nulla casuale è la circostanza che in Olanda, Paese ove l’idea di flexicurity ha cominciato a farsi strada ben prima di essere sponsorizzata dalla SEO e che per questo ne è considerata da molti l’autentica patria, la legge sulla flessibilità e sicurezza entrata in vigore il 1° gennaio 1999 sia stata messa a punto col determinante contributo delle parti sociali, firmatarie in precedenza di un articolato accordo in materia (v. Wilthagen e Tros 2004, pp. 172-176). 16 Sui diversi percorsi seguiti dagli Stati membri nel tradurre in pratica la ricetta politica della flexicurity v., con riguardo rispettivamente alla Danimarca, all’Olanda e alla Germania, Madsen (2004), Van Oorschot (2004), Keller e Seifert (2004).
7
delle modifiche apportate a più riprese alla struttura del processo di Lussemburgo al fine
di rafforzarne l’efficacia e di intensificarne il nesso con il ciclo di programmazione delle
politiche economiche (previsto nel Titolo VII del Trattato), ha conosciuto alcune
variazioni contenutistiche in conseguenza dell’evoluzione politica vissuta dalla SEO,
ovvero delle diverse priorità d’azione sulle quali è stata via via focalizzata l’attenzione
delle istituzioni comunitarie e nazionali, senza che neanche da questo punto di vista,
comunque, come emergerà dal breve excursus qui effettuato, si siano mai registrati
autentici colpi di scena17.
Dopo il triennio (1998-2000) che ha visto l’avvio e l’entrata a regime del MAC
delle politiche per l’occupazione 18, triennio durante il quale le guidelines contenute nel
pilastro “adattabilità” sono rimaste ferme nel sollecitare una modernizzazione
dell’organizzazione del lavoro basata sull’introduzione, in via contrattualcollettiva, di
formule più nuove e flessibili di lavoro («al fine di rendere le imprese produttive e
competitive e di raggiungere il necessario equilibrio tra flessibilità e sicurezza»19),
nonché sull’introduzione, in via legislativa, di «tipi di contratto più flessibili» («per
tener conto del fatto che l’occupazione riv este forme sempre più diversificate», senza
rinunciare però ad assicurare ai lavoratori interessati da detti contratti una «sicurezza
sufficiente e … un migliore status professionale, compatibilmente con le necessità delle
imprese»), una secchiata d’acqua fresca è stata vigorosamente gettata sulla SEO, in
verità, dal Consiglio europeo di Lisbona (del 23 e 24 marzo 2000). Fissando all’Europa
l’ambizioso obiettivo di divenire, nell’arco di un decennio, «l’economia della
conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica
duratura accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione
e da una maggiore coesione sociale»20, il Consiglio di Lisbona ha richiamato infatti
17 Nel contesto di un processo politicamente aperto ma tendenzialmente impermeabile a bruschi scossoni, quale sembra esser stato sinora il processo di Lussemburgo, del resto, non stupisce che le differenze riscontrabili nelle indicazioni sulla “flessibilità nella sicurezza” susseguitesi da un ciclo all’altro assomiglino più a sfumature che a vistosi mutamenti di colore. 18 Rispettivamente, con la risoluzione del Consiglio del 15 dicembre 1997 concernente gli orientamenti in materia di occupazione per il 1998 e, entrato ormai in vigore il Trattato di Amsterdam, con la decisione del Consiglio del 13 marzo 2000 (2000/228/CE) concernente gli orientamenti in materia di occupazione per il 2000. 19 Tra i temi suggeriti alle parti sociali per la negoziazione compaiono l’annualizzazione dell’orario di lavoro, la riduzione del lavoro straordinario, lo sviluppo del part-time, l’accesso a formazione continua e interruzioni di carriera. 20 La citazione è tratta dalle Conclusioni della Presidenza di tale Consiglio europeo, par. 5.
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l’attenzione, assorbita fino a quel momento dalla preoccupazione di creare more jobs,
sulla necessità di promuovere anche better jobs.
Il risalto senza precedenti accordato in quest’occasione alla qualità del lavoro ha
alle sue spalle precise ragioni: oltre a rappresentare – nell’ottica di un mod ello sociale
propenso a considerare le aspirazioni professionali dei lavoratori – un valore di per sé,
la qualità del lavoro viene infatti ritenuta fattore propulsivo sia della crescita economica,
attraverso l’aumento della produttività delle imprese che è in grado di determinare, sia
dell’inclusione sociale, per la sua capacità di spezzare quel circolo vizioso tra
occupazioni di serie C, disoccupazione ed emarginazione sociale avente ripercussioni
evidentemente molto pesanti sui mercati del lavoro e i bilanci pubblici nazionali. Nella
misura in cui la qualità dell’occupazione riesce a incentivare la partecipazione al
mercato del lavoro dei soggetti che ne erano ai margini e ad impedire le transizioni dalla
vita attiva all’esclusione sociale, in definitiva, essa dovrebbe influire positivamente
sulla quantità di occupazione, il cui aumento resta al centro del programma definito a
Lisbona, come dimostra la fissazione, per la prima volta, di specifici targets di presenza
sul mercato del lavoro21.
La questione della qualità del lavoro, ripresa e sviluppata dall’Agenda per la
politica sociale varata al Consiglio europeo di Nizza (del dicembre 2000)22, condiziona
sensibilmente il tenore degli orientamenti per l’occupazione dei due cicli successivi al
vertice di Lisbona: dapprima, nel 2001, arricchendo con nuove puntualizzazioni il
contenuto delle guidelines del pilastro “adattabilità” 23 (e anche, sebbene meno
21 A Lisbona viene infatti affidato all’Unione europea l’impegnativo compito di conseguire, entro il 2010, un tasso di occupazione generale pari al 70% e un tasso di occupazione femminile pari al 60%. A questi obiettivi, sui quali il Consiglio europeo di Stoccolma (del marzo 2001) innesta una tappa intermedia (stabilendo che entro il 2005 il tasso di occupazione generale debba aver raggiunto il 67% e quello di occupazione femminile il 57%), si aggiunge poi, sempre a Stoccolma, quello di arrivare al 2010 con un tasso di occupazione degli anziani (cioè di persone in età compresa fra i 55 e i 64 anni) del 50%. 22 L’Agend a risultante dalla comunicazione della Commissione – COM (2000) 379 def. del 28 giugno 2000 – approvata al vertice di Nizza, dominata dalla sottolineatura dello stretto legame esistente tra la protezione sociale (considerata non zavorra ma elemento produttivo) e la forza economica dell’Europa, indica infatti la necessità di promuovere al tempo stesso la qualità del lavoro, la qualità della politica sociale e la qualità delle relazioni industriali. 23 Nella parte del terzo pilastro dedicata alla modernizzazione dell’organizzazione del lavoro (di cui si è già detto supra), in particolare, si afferma: con riferimento agli accordi tra le parti sociali, che devono puntare all’obiettivo «di rendere le imprese produttive e competitive, di raggiungere il necessario equilibrio tra flessibilità e sicurezza e di migliorare la qualità del lavoro» (corsivo di chi scrive), includendosi nell’esemplificazione dei temi da affrontare «la sicurezza del posto di lavoro»; con riferimento alle tipologie contrattuali flessibili che possono essere introdotte in via legislativa, invece, che devono comunque offrire agli interessati «una sicurezza adeguata e … un migliore status professionale,
9
marcatamente, quelle del pilastro “pari opportunità”) 24; l’anno seguente, ferme restando
le suddette acquisizioni, divenendo protagonista di uno degli obiettivi orizzontali, cioè
di portata generale, frattanto affiancati ai quattro pilastri della SEO25.
È nel contesto di questo nuovo obiettivo, tra l’altro, che vengono richiamate le
componenti essenziali della qualità del lavoro selezionate dalla Commissione nella
comunicazione del 20 giugno 200126 al fine di rendere più comprensibile, in concreto,
un «concetto relativo e al contempo pluridimensionale» come quello in oggetto e di
consentire, tramite il riferimento agli indicatori che accompagnano ciascuna
componente, la valutazione delle situazioni nazionali (cioè un difficile esercizio di
benchmarking nel campo della politica sociale: v. Ravelli 2006, p. 85 ss.). Illustrando i
dieci aspetti chiave da prendere in considerazione, concernenti sia le caratteristiche
specifiche del posto di lavoro che, più in generale, l’ambiente di lavoro e le condizioni
del mercato27, la Commissione ha chiaramente voluto «mettere un po’ di carne sulle
ossa» del discorso, sino a quel momento solo teorico, in tema di qualità del lavoro.
L’esperienza della SEO sin qui sviluppata, tuttavia, conferma la sfiducia nei confronti di
un’autentica svolta all’insegna dei better (e non soltanto more) jobs subito manifestata
da una parte della dottrina28. Nel percorso sulla qualità dell’occupazione compiuto nel
nuovo secolo dall’Europa si ritrovano, infatti, molti inciampi e cadute, come si cercherà
di mettere in evidenza (nel par. seguente) soffermando l’attenzione su quel cruciale
compatibilmente con le esigenze delle imprese e con le aspirazioni dei lavoratori» (corsivo ancora di chi scrive). 24 Nella parte del quarto pilastro concernente la conciliazione tra vita professionale e familiare, difatti, si invitano gli Stati membri a «fare in modo che le donne possano beneficiare di formule flessibili di organizzazione del lavoro, su base volontaria e senza che la qualità dell’impiego ne risenta» (il corsivo, anche in questo caso, evidenzia l’innovazione rispetto al passato). 25 Negli orientamenti per l’occupazione adottati con la decisione del Consiglio del 18 febbraio 2002 (2002/177/CE), infatti, il secondo obiettivo orizzontale (aggiunto ai 5 dell’anno precedente a seguito della sollecitazione in tal senso formulata dal Consiglio europeo di Stoccolma) è di «mantenere e migliorare la qualità del lavoro». 26 COM (2001) 313 def., intitolata Politiche sociali e del mercato del lavoro: una strategia d’investimento nella qualità e aperta dall’altisonante affermazione che «l’idea di base del modello sociale europeo è la qualità». 27 Nella categoria «caratteristiche del posto di lavoro» rientrano, in particolare, i seguenti profili: qualità intrinseca del lavoro; qualifiche, formazione lungo l’intero arco della vita e carriera professionale. Nella categoria «ambiente di lavoro e condizioni del mercato del lavoro» rientrano invece: parità di trattamento di uomini e donne; protezione della salute e della sicurezza sul lavoro; flessibilità e sicurezza; integrazione tramite il lavoro e accesso al mercato del lavoro; organizzazione del lavoro ed equilibrio tra sfera professionale e sfera privata; dialogo sociale e partecipazione dei lavoratori; diversificazione e non discriminazione; risultati economici generali e produttività (corsivo di chi scrive). 28 V. Goetshy (2001, p. 412) e Kenner (2003, p. 495 s.), dal cui scritto (p. 493) è tratta anche l’espressione riportata tra virgolette nella frase precedente.
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ingrediente della «sicurezza» (per usare la terminologia del processo di Lussemburgo;
ma si potrebbe anche parlare, rifacendosi alla letteratura sociologica, di job satisfaction)
rappresentato dalla stabilità del lavoro.
Nonostante le riserve che possono essere espresse a proposito dell’effettiva
valorizzazione, nel contesto del MAC delle politiche occupazionali, della dimensione
qualitativa del lavoro, ad ogni modo, non v’è dubbio che quest’ultima continui a
ricevere attenzione negli orientamenti adottati a seguito delle riforme messe a punto,
dopo il primo quinquennio di sperimentazione della SEO, per migliorarne l’efficacia –
essenzialmente tramite la semplificazione delle guidelines e la loro collocazione in una
prospettiva triennale – e irrobustirne sempre più marcatamente il legame con il processo
di coordinamento delle politiche economiche, fino a giungere, nel 2005, al varo da parte
del Consiglio di «linee direttrici integrate» in tema di macroeconomia, microeconomia e
occupazione, tutte con durata triennale29.
Negli orientamenti per il 2003 (la cui validità è stata estesa anche al 2004, in
sintonia con l’ottica di medio termine che si è scelto di abbracciare) 30, ove non si
ritrovano più i quattro pilastri articolati nella lunga serie di guidelines (nè gli obiettivi
orizzontali che li precedevano), il miglioramento della «qualità e produttività sul posto
di lavoro» costituisce infatti uno dei tre obiettivi generali e interrelati che traducono le
priorità indicate a Lisbona e che trovano svolgimento (soltanto) in dieci orientamenti
specifici. Negli orientamenti per l’occupazione 2005 -2008 che, grazie alla saldatura
realizzatasi nel frattempo tra il processo di Lussemburgo e il processo di Cardiff, come
s’è anticipato, formano un tutt’uno con gli indirizzi di massima per le pol itiche
29 Il processo di riforma che ha investito la SEO si articola in due fondamentali tappe: la prima, innescata dalla richiesta formulata dal Consiglio europeo di Barcellona (del 15 e 16 marzo 2002) di rafforzare e snellire la strategia in questione e di sincronizzare il calendario previsto per l’adozione degli orientamenti per l’occupazione con quello riguardante gli indirizzi di massima per le politiche economiche, concretizzatasi nelle scelte effettuate dal Consiglio europeo di Bruxelles (del 20 e 21 marzo 2003), chiaramente riflesse negli orientamenti di quell’anno; la seconda, maturata nel contesto del rilancio della strategia di Lisbona deciso – col rimettere al centro la crescita e l’occupazi one – dal Consiglio europeo tenutosi ancora a Bruxelles (il 22 e 23 marzo 2005), ove s’è proseguito il già intrapreso percorso di razionalizzazione dei processi di coordinamento delle politiche economiche ed occupazionali, optando per la presentazione in un insieme integrato degli indirizzi di massima e degli orientamenti relativi rispettivamente alle une e alle altre. 30 La decisione del Consiglio del 4 ottobre 2004 (2004/740/CE) si è infatti limitata a dichiarare mantenuti gli orientamenti per le politiche a favore dell’occupazione adottati con la decisione del Consiglio del 22 luglio 2003 (2003/578/CE).
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economiche definiti ai sensi dell’art. 99 TCE 31, lo stesso obiettivo compare poi, insieme
alle altre due priorità dell’agenda di Lisbona (la piena occupazione e il potenziamento
della coesione economica e sociale), in cima all’elenco dei suggerimenti rivolti agli
Stati membri (cioè nel diciassettesimo orientamento integrato, il primo in materia di
occupazione). L’integrale lettura di questi orientamenti, soprattutto se contestualizzata
nel clima che pare avvolgere gli ultimi atti prodotti nell’ambito della SEO, suscita
tuttavia più di un dubbio sulla circostanza che, in una fase caratterizzata dalla stentata
crescita economica e dalla consapevolezza dell’enorme distanza che separa l’Europa dai
targets occupazionali stabiliti per il 201032, la qualità del lavoro rimanga realmente al
top delle preoccupazioni delle autorità comunitarie33.
Quanto alla flexicurity che, oltre ad essere stata annoverata tra le componenti
essenziali della qualità del lavoro, costituiva il nocciolo del terzo pilastro, va detto che
nella seconda fase di vita della SEO essa, mentre continua a restare al centro delle
indicazioni sulla promozione dell’adattabilità, comincia a diversificare il proprio
contenuto rispetto al passato34.
Negli orientamenti del 2003, in particolare, per stimolare la capacità di lavoratori e
imprese di adattarsi ai cambiamenti (oggetto del terzo orientamento specifico), viene
suggerito agli Stati membri di sottoporre a revisione e, ove opportuno, riformare «gli
elementi eccessivamente restrittivi della normativa del lavoro che incidono sulla
dinamica del mercato del lavoro e sull’occupazione delle categorie che incontrano
difficoltà nell’accedere al mercato stesso», anticipandosi così, in qualche misura, quella
direttrice di ammorbidimento delle discipline lavoristiche (relative essenzialmente ai
31 Nonostante la diversità formale degli atti con cui gli uni e gli altri sono adottati: con decisione del Consiglio del 12 luglio 2005 (2005/600/CE) i primi, con raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 2005 (2005/601/CE) i secondi. 32 Tale consapevolezza emerge chiaramente anche dalla dichiarazione, contenuta nel secondo considerando della decisione del Consiglio del 12 luglio 2005, citata alla nota precedente, che gli obiettivi della strategia di Lisbona «rimangono lungi dall’essere conseguiti». 33 Sul cambiamento “climatico” ormai intervenuto rispetto al Consiglio europeo di Lisbona v., con puntuali riferimenti ai contenuti degli atti della SEO, Ravelli (2006, p. 85) e Roccella (2006b, p. 44 s.). Un segnale in senso opposto, tuttavia, sembra emergere nella relazione comune sull’occupazione 2005/2006 (p. 7), ove è stigmatizzato l’impegno ancora troppo modesto degli Stati membri, seriamente determinati ad accrescere i tassi d’occupazione, sul fronte della qualità del lavoro e della coesione sociale. 34 Secondo Roccella (2006b, p. 44) i termini di simile diversificazione, imputabile soprattutto agli stimoli provenienti dal rapporto redatto nel 2003 dall’ Employment Taskforce (di cui alla nota seguente), possono essere riassunti constatando l’ascesa «al primo posto (del)le politiche di flessibilità del mercato del lavoro, anche in relazione ai profili più controversi, quali quelli attinenti alle modalità di fissazione dei livelli salariali e alla disciplina dei licenziamenti». Di queste specifiche declinazioni della flessibilità si
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contratti di lavoro subordinato standard), ritenute troppo vincolanti per i datori di
lavoro, che troverà ampia espressione, qualche mese più tardi, nel rapporto della
Taskforce europea per l’occupazione presieduta dal l’ex primo ministro olandese Wim
Kok35. Nello stesso documento e sempre in tema di adattabilità, d’altro canto, compare
per la prima volta quella sollecitazione a migliorare la capacità di «anticipazione e
gestione costruttiva del cambiamento economico e della ristrutturazione» che verrà
costantemente ribadita da tutti i successivi atti del processo di Lussemburgo36, compresi
gli orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2005 -2008. Qui l’obiettivo di
«favorire al tempo stesso flessibilità e sicurezza occupazionale», abbinato a quello di
«ridurre la segmentazione del mercato del lavoro», è diventato protagonista di un
orientamento autonomo (il ventunesimo), mentre l’accrescimento dell’attitudine di
lavoratori e imprese ad adattarsi alle trasformazioni è compreso nella triade di azioni da
realizzare prioritariamente per perseguire le finalità stabilite a Lisbona: ma forse, anche
se non è ufficialmente dichiarato, soprattutto quella dell’aumento dell’occupazione 37.
Tirando le somme dall’esame della SE O che si è sinteticamente riferito, diventa
possibile, a questo punto, illustrare quali siano i significati dei concetti di flessibilità e
sicurezza ricorrenti nel soft law comunitario.
Cominciando dalla flessibilità, parola che – come ben sanno i sociologi – conosce
molteplici applicazioni in riferimento alla sfera del lavoro38, si deve constatare che
anche nell’ambito della Strategia europea essa risulta variamente declinata. Non v’è
tratterà comunque nel seguito (del presente par. e, per quanto riguarda i licenziamenti, anche in quello successivo). 35 L’ Employment Taskforce, composta da esperti di diversi Stati membri e istituita (su richiesta del Consiglio europeo di Bruxelles del marzo 2003) allo scopo di individuare la “via maestra” per il potenziamento delle capacità della SEO – fino a quel momento, in verità, rivelatesi scarse – di determinare un innalzamento dei tassi d’occupazione, ha presentato alla Commissione europea il rapporto Jobs, Jobs, Jobs – Creating more employment in Europe il 26 novembre 2003. Sul contenuto di questo rapporto si avrà modo di soffermarsi nel par. seguente. 36 Per la denuncia dell’insufficiente attenzione riservata a questo problema v. le relazioni comuni sull’occupazione di Consiglio e Commissione 2003/2004 (in particolare pp. 35 e 95), 2004/2005 (p. 13) e 2005/2006 (p. 15), nonché la raccomandazione del Consiglio del 14 ottobre 2004 (2004/741/CE, nella parte dedicata al Belgio). 37 Il sospetto che il contemperamento tra le opposte istanze racchiuse nel paradigma della flexicurity si sia tendenzialmente realizzato, negli ultimi anni, riducendo il peso dell’esigenza di sicurezza riceve conferma, almeno per quanto riguarda le politiche per l’occupazione nazionali, dall’osservazione contenuta nella relazione comune sull’occupazione 2005/2006 (p. 15) per cui, mentre il «cuore dell’adattabil ità sta nel trovare il giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza, in modo da ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, molti Stati membri affrontano questa priorità sottolineando l’aspetto della flessibilità per i datori di lavoro». 38 Per una sintetica ricognizione ed essenziali rimandi alla dottrina sociologica v. Caruso (2004, p. 13 s); sulla flessibilità come «espressione polisenso», da ultimo, anche Rusciano (2006, p. X s.).
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dubbio, anzitutto, dato l’accento ripetutamente posto sull’esigenza di a mmodernamento
dell’organizzazione del lavoro, che l’impegno richiesto agli Stati membri riguardi la cd.
flessibilità funzionale, cioè quella incidente sullo svolgimento del rapporto di lavoro.
Proprio in questa direzione, del resto, governi e parti sociali nazionali si sono attivati –
fruttuosamente, seppure in modo molto settoriale – sin dai primi anni del processo di
Lussemburgo, ricorrendo alla modulazione più flessibile dell’orario di lavoro (e
segnatamente all’annualizzazione dello stesso, con consegue nte riduzione degli
straordinari) come mezzo per «aumentare l’adattabilità all’andamento dell’attività
economica e quindi accrescere la sostenibilità dell’occupazione a lungo termine»,
secondo quanto si legge nel “Bilancio di cinque anni della Strategia eu ropea per
l’occupazione” 39.
La flessibilità che pare dominare la scena del processo di coordinamento delle
politiche occupazionali, riguardato nel suo intero sviluppo, è però quella cd. in entrata,
che punta sulla diversificazione delle tipologie contrattuali per rendere meno rigido e
standardizzato, e dunque più agevole, l’accesso al mercato del lavoro. Contratti di
lavoro part-time, contratti a termine e contratti di lavoro interinale sono le principali
entità che popolano quest’universo, rispetto al qua le – come emerge già dalle prime
relazioni comuni sull’occupazione 40 – i Paesi dell’Unione hanno mostrato in genere
grande interesse, seppure con profonde differenze dall’uno all’altro e in modo talora
squilibrato. Ciò spiega l’assidua presenza del tema del la flessibilità in entrata nelle
raccomandazioni rivolte dal Consiglio ai singoli Stati a seguito dell’esame dei piani
nazionali, ove ricorrono le sollecitazioni a potenziare l’utilizzo del lavoro a tempo
parziale e (da qualche anno a questa parte anche) del lavoro temporaneo, considerandosi
invece patologica la situazione di quei mercati nazionali in cui la diffusione del lavoro a
termine ha assunto proporzioni esagerate, tali da non lasciar dubbi sull’avvenuto
tradimento della linea della “flessibilità so stenibile” predicata dagli orientamenti per
l’occupazione 41.
39 COM (2002) 416 def., 17 luglio 2002, p. 15, ove tuttavia si registra la scarsa attenzione dedicata al tema dell’organizzazione del lavoro nel suo complesso. 40 Si fa riferimento, in particolare, alle relazioni del 2001 e del 2002. È sul duplice fronte dei sistemi flessibili di orario e dei contratti di lavoro non standard, in effetti, che si sono inizialmente concentrate, nell’ambito delle azioni suggerite nel pilastro sull’adattabilità, le iniziative degli Stati membri. 41 Ciò è chiaramente accaduto in Spagna e Portogallo, ove le percentuali di lavoro a tempo determinato superano tuttora, rispettivamente, le soglie del 30% e del 20%, a fronte di una media europea attestata nel periodo 2001-2003 intorno al 13% e giunta nel 2005, con riferimento agli ormai 25 Paesi dell’Unione, al
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Un discorso completamente diverso va fatto, invece, a proposito della flessibilità
cd. in uscita (l’altra faccia, accanto alla flessibilità in entrata, della cd. flessibilità
numerica o esterna), che chiama in causa i regimi di protezione dei lavoratori nei
confronti dei licenziamenti: un’autentica patata bollente, per la crucialità degli interessi
in gioco e le difformità di vedute presenti nell’Unione, non a caso accuratamente evitata
nei primi cicli della SEO e solo a seguito del rapporto Kok penetrata “in punta di piedi”
negli atti di quest’ultima (come si spiegherà nel par. seguente), restando peraltro del
tutto estranea agli orientamenti.
Forte impulso sembra aver ricevuto dallo stesso rapporto anche il tema della
flessibilità salariale (che costituisce, insieme alla flessibilità funzionale, il capitolo della
cd. flessibilità interna): dopo le caute indicazioni susseguitesi al riguardo nel
quinquennio iniziale del processo di Lussemburgo, infatti, le autorità comunitarie sono
passate a prese di posizione ben più nette, spingendosi addirittura al di là di quanto
richiesto in proposito dall’OCSE 42. Almeno su queste ultime due declinazioni della
flessibilità, dunque, è inevitabile constatare l’ev oluzione intervenuta nell’avvicendarsi
dei cicli di coordinamento delle politiche occupazionali.
Prendendo in considerazione, a questo punto, l’altro versante del paradigma della
flexicurity, va rilevata in primo luogo l’insistenza con la quale viene sott olineata
l’importanza di un’interpretazione dinamica, e non puramente statica, del concetto di
sicurezza, costretto a fare i conti con le rapide trasformazioni (economiche e produttive)
del mercato globalizzato: il che, a ben guardare, risulta in sintonia con la parola d’ordine
dell’adattabilità, intesa essenzialmente come capacità delle imprese e dei lavoratori di
affrontare il cambiamento in modo positivo43.
14,5%: v. il rapporto redatto nel 2006 dalla Commissione europea (in collaborazione con l’Eurostat) Employment in Europe 2006, Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, p. 41, dal quale risulta anche la vertiginosa crescita di contratti a termine (dal 6% al 26%) intervenuta nel nuovo secolo in Polonia. 42 È questo il giudizio espresso da Casey (2004, p. 337), nell’ambito di un discorso volto a mettere in evidenza l’influenza esercitata sulla SEO dalla Job strategy dell’OCSE: a tale scritto si rimanda per maggiori spiegazioni sui termini in cui è affrontato, da ciascuna delle due strategie, il tema della flessibilità salariale. 43 V., a conferma, la comunicazione della Commissione sulla qualità già citata alla nota 26 (p. 9), ove si afferma che la finalità chiave della politica di flessibilità e sicurezza consiste nell’«incoraggiare un atteggiamento positivo nei confronti del cambiamento sul posto di lavoro e in genere sul mercato del lavoro, garantendo ai lavoratori, che perdono il loro impiego o cercano un’alternativa a questo, un sostegno adeguato».
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Dalle spiegazioni in tema di sicurezza contenute in diversi atti della Strategia
europea44 si evince chiaramente, infatti, l’esigenza di aggiornare e ampliare tale
concetto, per consentirgli di «coprire non solo la protezione dell’occupazione ma anche
lo sviluppo della capacità delle persone di mantenere un’occupazione e di progredire
professionalmente». Nell’idea di sicurezza fatta propria da Consiglio e Commissione
rientrano quindi, più in particolare, oltre alla tutela contro i licenziamenti ingiustificati e
alla disponibilità di una rete di sostegno in caso di perdita del posto di lavoro, l’accesso
a misure di formazione, la garanzia dell’inesistenza di discriminazioni (legate al tipo di
contratto stipulato, ma non solo), un salario adeguato, buone condizioni di lavoro e il
diritto alla conservazione, in caso di mobilità professionale, delle posizioni
previdenziali maturate: cosicché, tenuto conto della coincidenza di gran parte di questi
elementi con i componenti essenziali della qualità di cui s’è detto supra, non si può fare
a meno di rilevare la stretta contiguità dei concetti di lavoro sicuro e lavoro di qualità.
Alla luce delle indicazioni appena riferite risulta evidente, allora, che quella volta
a mitigare e controbilanciare l’auspicata maggiore flessibilità è una sicurezza che,
sebbene dinamica e tendenzialmente incentrata sul mercato del lavoro (come sembra
facile desumere – fra l’altro – dall’accento posto sulle politiche attive dell’impiego
nell’ambito del discorso sull’occupabilità), non si esaurisce affatto in esso, investendo
anche il rapporto di lavoro. Preso atto dell’ampio significato attribuito al concetto di
sicurezza dalla SEO, tuttavia, sarebbe difficile negare che al suo interno vi siano aspetti
particolarmente enfatizzati, il cui peso è andato progressivamente aumentando, anzi, nel
passaggio da un ciclo all’altro.
È questo, senza dubbio, il caso della formazione professionale (intesa soprattutto
come formazione continua) che, pur trovando la propria naturale sedes materiae nel
pilastro sull’occupabilità, già negli orientamenti adottati il mese successivo al vertice
straordinario di Lussemburgo “invade” le guidelines in tema di adattabilità45, giungendo
44 Si fa riferimento, in particolare, alle relazioni comuni sull’occupazione del 2002 (p. 46) e del 2003/2004 (p. 94, da cui è tratta la citazione riportata fra virgolette nel seguito del testo), oltre che alla comunicazione della Commissione del 26 novembre 2003, Migliorare la qualità del lavoro: un’analisi degli ultimi progressi (COM 2003-728 def., p. 16) e al rapporto della Taskforce europea per l’occupazione (p. 28). 45 Cfr. Reboani (2000, p. 158). C’è da tener presente, tra l’altro, che «mentre all’atto del varo della SEO l’occupabilità era percepita fondamentalmente come il rimedio per i disoccupati, gradualmente il concetto si è esteso ed ora riguarda l’intero arco della vita», come si legge nella comunicazione della Co mmissione sul bilancio dei primi cinque anni di strategia europea già citata in nota 39: ma per precisazioni in ordine a quest’affermazione v. Roccella (2006b, p. 9 s.).
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qualche anno dopo ad essere indicata quale componente fondamentale della sicurezza
ed «elemento essenziale dell’equilibrio tra flessibilità e sicurezza» 46.
Analoga ascesa, d’altrond e, ha conosciuto la questione della lotta alla
segmentazione del mercato del lavoro indotta dalla crescente diffusione dei contratti di
lavoro (comunemente detti) atipici, tendenzialmente accompagnati da trattamenti meno
favorevoli di quelli goduti dai lavoratori tipici, come attestato da diverse rilevazioni
statistiche47 e, in gran parte, differenziati dal modello standard essenzialmente in
ragione della loro durata temporanea. Portato alla ribalta dal rapporto presentato dalla
Taskforce europea per l’occup azione48, il problema dell’esistenza di un mercato del
lavoro a due velocità, dov’è molto difficile riuscire a spostarsi dal circuito contrattuale
caratterizzato da precarietà e scarsa protezione sociale a quello del lavoro stabile e ben
tutelato, ha infatti ricevuto ampia considerazione nelle raccomandazioni e nelle
relazioni comuni sull’occupazione degli anni successivi 49, fino a diventare – con gli
orientamenti integrati 2005-2008, come s’è già accennato – parte integrante e
fondamentale dell’indicazione s ulla flexicurity50.
È questo, in effetti, nell’ambito del discorso sulla sicurezza svolto dalla Strategia
europea, uno snodo di cruciale rilievo. Senza nulla togliere all’importanza della
formazione quale arma di difesa, per i lavoratori, dai rischi della disoccupazione e del
confinamento nel circuito più debole del mercato, difatti, è innegabile che la possibilità
46 V. rispettivamente la comunicazione della Commissione del 14 gennaio 2003, Il futuro della strategia europea per l’occupazione “Una strategia per il pieno impiego e posti di lavoro migliori per tutti” (COM 2003-6 def., p. 14), e gli orientamenti per il 2003 già richiamati in nota 30 (la citazione è tratta dal dodicesimo considerando). 47 Si v. ad esempio la comunicazione della Commissione del 26 novembre 2003 richiamata in nota 44, ove si osserva che «sebbene i lavori a tempo parziale e a tempo determinato possano agevolare il primo ingresso nel mercato del lavoro e la partecipazione ad esso per alcune categorie di persone, i dati raccolti finora mostrano che chi lavora con queste forme di contratto rischia discriminazioni a livello di retribuzione e di pensione e ha minori opportunità di partecipare alla formazione continua e di migliorare le prospettive di carriera» (così a p. 16). 48 Tra gli impegni suggeriti da tale rapporto, in via prioritaria, a Stati membri e parti sociali v’è infatti quello di «assicurare che vi sia un’adeguata sicurezza per i lavoratori nel contesto di tutte le forme di contratto, in modo da prevenire l’emergere di mercati del lavoro a due velocità». 49 Meritevole d’essere specificamente ricordata è la relazione comune sull’occupazione 2005/2006, che incentra sul problema in questione la sollecitazione a progredire nel cammino di valorizzazione della qualità del lavoro, spiegando (a p. 10) che sono «indispensabili ulteriori passi avanti per quanto riguarda … il passaggio dall’impiego temporaneo a quello a tempo indeterminato e la scomparsa dell’impiego sottopagato e della segmentazione del mercato». 50 L’obiettivo sinteticamente fissato dal ventunesimo orientamento è, infatti, quello di «favorire al tempo stesso flessibilità e sicurezza occupazionale e ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, tenendo debito conto del ruolo delle parti sociali». Desta perplessità, tuttavia, il fatto che nella successiva illustrazione degli specifici aspetti sui quali occorre intervenire sia menzionata la questione del lavoro non dichiarato ma non quella, pure di centrale rilevanza, dei contratti atipici.
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di accesso ad un posto di lavoro contrattualmente stabile e assistito da adeguate garanzie
sotto il profilo normativo, retributivo e previdenziale rappresenti il nocciolo duro del
patrimonio di sicurezza cui aspira qualunque lavoratore: tanto più se atipico, data la
ricorrente associazione riscontrabile, nella cruda realtà del mercato, tra lavoro non
standard e lavoro dequalificato e precario (così, fra gli altri, Dore 2005, p. 49). La
semplice circostanza dell’assunzione con contratto a tempo indeterminato, d’altro canto,
non risulta sufficiente ad assicurare al lavoratore la disponibilità di quel patrimonio,
dipendente dall’insieme di condizioni che accompagnano lo svolgimento e la cessazione
del rapporto: ragion per cui sarebbe improprio instaurare un’automatica equazione tra
lavoro standard e lavoro stabile (in senso analogo Napoli 2002, p. 10 e Roccella 2006c,
p. 57).
Se si guarda alla sicurezza postulata dal paradigma comunitario della flexicurity
focalizzando l’attenzione sulla delicata dimensione della stabilità del lavoro, dunque,
finiscono per essere inevitabilmente due le direttrici lungo le quali va incanalata la
ricerca: trattandosi di verificare in che termini, nel soft law europeo in materia di
occupazione, venga preso in considerazione l’interesse dei lavoratori atipici, intrappolati
nel segmento debole del mercato, ad emanciparsi dai contratti precari, da un lato, e
quello dei lavoratori con un impiego a tempo indeterminato – e quindi potenzialmente
stabile – a godere di un’adeguata protezione rispetto al rischio di subire un
licenziamento ingiustificato, dall’altro.
3. Stabilità versus flessibilità in entrata e in uscita, ovvero a proposito di contenimento
della precarietà del lavoro a termine e di protezione nei confronti dei licenziamenti
Nonostante la correlazione, divenuta via via più evidente, tra la flessibilità in
entrata e l’infoltimento di un circuito di lavoro sottopro tetto di cui molti rimangono
prigionieri, la SEO non mostra alcun ripensamento rispetto all’incoraggiamento della
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prima51, riponendo evidentemente una certa fiducia nelle attitudini di job creation della
diversificazione delle tipologie contrattuali52.
Non tutte le forme di lavoro atipico, naturalmente, sono guardate con lo stesso
favore. Al vertice delle preferenze comunitarie si colloca, comprensibilmente, il lavoro
part-time, il cui sviluppo è stato sollecitato con forza sin dall’inizio del processo di
Lussemburgo, senza risparmiare energiche tirate d’orecchie ai Paesi ov’è scarsamente
diffuso53. Segue a ruota, ma solo da qualche anno a questa parte (ovvero dopo il
marcato accento posto su questa figura contrattuale dal rapporto Kok), il lavoro
temporaneo, ritenuto ottimisticamente in grado di coniugare al meglio l’esigenza di
stabilità dei lavoratori con quella di flessibilità delle imprese che li utilizzano54. In
ultima posizione, infine, il lavoro a termine che, per la sua natura intrinsecamente
provvisoria, al pari di un farmaco efficace ma dai pesanti effetti collaterali, viene
ritenuto benefico solo se assunto in dosi contenute, provocando invece gravi e
indesiderate conseguenze quando vi si faccia ricorso in modo massiccio ed
eccessivamente protratto nel tempo.
Dalla strutturale transitorietà e quindi, in buona sostanza, instabilità dei contratti
di lavoro a tempo determinato derivano le preoccupazioni della soverchiante,
spropositata diffusione che essi hanno avuto in qualche Stato dell’Unione
(segnatamente in Spagna e Portogallo, come già ricordato nel par. precedente) e, di
51 All’acquisita consapevolezza delle gravi ripercussioni – in termini di segmentazione del mercato del lavoro – che possono discendere dalla flessibilità in entrata, tuttavia, si deve la puntualizzazione sull’opportunità di «evitare la proliferazione delle forme contrattuali e preservarne l’omogeneità, al fine di agevolare il passaggio dall’una all’altra», inserita nella sollecitazione a rendere disponibile un’adeguata gamma di contratti di lavoro contenuta nella relazione comune sull’occupazione 2005/2006 (p. 16). 52 Nella comunicazione della Commissione sul bilancio del primo quinquennio di Strategia europea (già richiamata in nota 39) si constata infatti, basandosi presumibilmente sugli stessi dati dichiarati dagli Stati membri, che «in alcuni paesi la creazione netta di posti di lavoro è in parte attribuibile ad un aumento del lavoro flessibile (contratti di lavoro a tempo determinato, di lavoro temporaneo e a tempo parziale)», aggiungendosi che «tra i gruppi particolarmente interessati dal lavoro flessibile figurano i giovani e le donne che rientrano nel mercato del lavoro». 53 Si fa soprattutto riferimento a Spagna, Italia e Grecia, oltre che ai 10 Stati divenuti membri dell’Unione il 1° maggio 2004. L’espansione del part-time è ritenuta di primaria importanza, considerata la massiccia presenza di simili contratti, com’è noto, nei Paesi europei con tassi d’occupazione particolarmente elevati (come Olanda, Svezia e Danimarca). 54 In tal senso v. ad esempio la relazione comune sull’occu pazione 2003/2004, p. 72. Un interessante modello di coniugazione delle suddette esigenze è offerto dal contratto di lavoro tramite agenzia disciplinato dalla legge olandese sulla flexicurity del 1999, che prevede la successione di quattro fasi durante le quali si realizza il progressivo irrobustimento dei diritti dei lavoratori, fino a giungere – nell’eventualità (in concreto tutt’altro che frequente) del decorso di un biennio – alla sostanziale stabilizzazione del rapporto: in proposito v. Visser (2005, p. 145 ss.) e Wilthagen e Tros (2004, p. 174 s.).
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converso, l’apprezzamento per le iniziative di vario genere assunte dai governi
interessati al fine di limitare il ricorso a tali contratti55.
La percentuale di lavoratori a termine rispetto al totale del lavoro subordinato
costituisce d’altronde, insieme a quella dei lavoratori a tempo parziale, uno degli
indicatori del livello di flexicurity adottati dal Consiglio, sulla base della proposta della
Commissione di cui s’è già detto nel par. precedente, per la valutazione dei progressi
compiuti dai singoli Stati nel perseguimento dell’obiettivo multidimensionale della
qualità del lavoro. La semplice misurazione del grado di diffusione dei contratti a tempo
determinato, non corredata da quella di dati che rivestono fondamentale importanza per
la comprensione del fenomeno in oggetto, come l’incidenza quantitativa della
successione di tali contratti, la durata media di ciascuno di essi e del periodo trascorso
dai lavoratori «nel “purgat orio” della precarietà prima di accedere ad un’occupazione
stabile», suscita però forti riserve sull’attenzione accordata nel benchmarking previsto
dalla SEO all’esigenza di sicurezza dei lavoratori atipici 56: che nel caso del lavoro a
termine (diversamente dal lavoro part-time), oltretutto, sono in stragrande maggioranza
involontariamente atipici.
Se si aggiunge che l’indicatore in questione, “dimenticandosi” del principio di
parità di trattamento tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato stabilito
dalla direttiva n. 99/70, non richiede alcuna informazione neppure sulle condizioni che
accompagnano lo svolgimento dei contratti a termine57, diventa poi ancor più difficile
55 Per quanto riguarda il Portogallo, la relazione congiunta sull’occupazione 2003/2004 (p. 86) dà positivamente conto della scelta, effettuata dal codice del lavoro entrato in vigore nel 2003, di imporre limiti nell’utilizzazione dei contratti non permanenti; mentre il rapporto Kok (a p. 29) considera un passo nella giusta direzione gli incentivi finanziari previsti da un provvedimento governativo del marzo 2002 a favore delle imprese con meno di 50 dipendenti (o, quando si tratta di stabilizzare lavoratori disabili, anche con un numero superiore di dipendenti) che trasformano i contratti a termine giunti a scadenza in contratti a tempo indeterminato. Con riguardo alla Spagna, Paese che da circa tre lustri si aggiudica la maglia nera europea in fatto di precarietà del lavoro, il rapporto Kok (sempre a p. 29) apprezza invece la soluzione, introdotta in via sperimentale nel 1997 per incoraggiare la stipula di contratti permanenti e ripetutamente confermata dal legislatore, di ridurre l’indennità spettante in caso di illegittimità del licenziamento per ragioni oggettive ai lavoratori il cui contratto originario era a termine: di questa delicata ricetta, che realizza in buona sostanza uno scambio tra stabilizzazione del posto di lavoro e abbassamento del costo dell’eventuale licenziamento, si tratterà peraltro meglio nel seguito del paragrafo. 56 Una critica all’incompletezza di questo indicatore della flexicurity è già stata formulata da Ravelli (2006, p. 92), dal cui scritto è tratta l’espressione riportata tra virgolette. 57 Inascoltato è rimasto il suggerimento avanzato in tal senso dalla comunicazione della Commissione sul miglioramento della qualità del lavoro già citata in nota 44, che proponeva (a p. 28) di integrare l’indicatore della flexicurity con «informazioni sul livello al quale i lavoratori a tempo parziale e con contratti a tempo determinato beneficiano, in modo equivalente e proporzionato, della protezione sociale e dei diritti legali dei lavoratori a tempo pieno e con contratti a tempo indeterminato», dopo aver osservato (a p. 17) che «per promuovere un buon equilibrio tra flessibilità e sicurezza è particolarmente
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trovare, in un processo di coordinamento politico che vorrebbe fare del benchmarking il
suo principale strumento operativo, concreti riscontri della preoccupazione per una
flessibilità in entrata non a senso unico e, in ultima analisi, per le caratteristiche
qualitative – e non puramente quantitative – dell’occupazione.
Il problema della stabilizzazione dei lavoratori a termine trascurato in sede di
misurazione della flexicurity (come componente della qualità del lavoro) viene preso in
seria considerazione, tuttavia, quando si tratta di introdurre nell’agenda della Strateg ia
europea lo spinoso tema della flessibilità in uscita: con la conseguenza, per certi versi
paradossale, di andare a cercare in quest’ultima la compensazione agli inconvenienti
sociali provocati dalla flessibilità in entrata.
Dopo anni di assoluto silenzio del processo di Lussemburgo in ordine alla
prospettiva di ammorbidimento della disciplina dei licenziamenti, pure caldeggiata
dall’OCSE in quel Job Study del 1994 che è stato per lungo tempo considerato una sorta
di Bibbia della politica economica (cfr. Lettieri 2005, p. 153), è il rapporto redatto dalla
Taskforce europea per l’occupazione, come s’è già accennato (nel par. precedente), a
tentare con forza di metterla all’ordine del giorno di tale processo. Sotto l’influenza
delle teorie economiche che addebitano la vasta diffusione dei contratti non permanenti
all’eccessiva protezione assicurata, in punto di licenziamenti, ai titolari di contratti di
lavoro permanenti58, tale rapporto dedica infatti la prima delle sette sollecitazioni rivolte
a Stati membri e parti sociali all’esigenza di «esaminare e, ove necessario, adeguare il
livello di flessibilità previsto nei contratti standard per assicurarne l’attrattiva per datori
di lavoro e lavoratori»59: laddove rendere più flessibile la regolazione dei contratti
standard, come risulta chiaro dall’illustrazione del contenuto di tale sollecitazione,
significa sostanzialmente alleggerire le tutele previste con riguardo ai licenziamenti.
Più in particolare il rapporto Kok, pur ammettendo i vantaggi collegati alla
protezione dell’occupazione (capace fra l’altro di stimolare l’impegno dei lavoratori ed
incoraggiare i datori di lavoro ad investire nella formazione del loro personale),
suggerisce di ammodernare le discipline nazionali in argomento intervenendo su aspetti
importante garantire parità di accesso alla formazione, all’assistenza sanitaria e alle misure di protezione sociale anche ai lavoratori con contratti atipici». 58 In tal senso v., da ultimo, le osservazioni di Gautié (2005, p. 5) e Coats (2006, p. 30 s.). 59 Così a p. 27 del rapporto. Ma è solo per i datori di lavoro, in realtà, che va accresciuta l’attrattività dei contratti a tempo indeterminato, non essendovi dubbi sulla generalizzata preferenza ad essi accordata dai lavoratori.
21
come «periodi di preavviso, costi e procedure per i licenziamenti individuali e
collettivi» e, persino, sulla «definizione di licenziamento ingiustificato»60, allo scopo di
rendere meno gravoso, in termini di tempo e di spese, il recesso del datore di lavoro dai
contratti di lavoro di durata indeterminata ed evitare così, in ultima analisi, il ricorso a
contratti temporanei o il rifiuto di nuove assunzioni61. Un discorso, questo, certamente
“senza peli sulla lingua”, destinato a lasciare il segno nel succes sivo corso della
Strategia europea, ove peraltro è ripreso (ma non dagli orientamenti, come s’è anticipato
nel par. 2) nei toni prudenti e sorvegliati caratteristici del complesso dei suoi atti.
Nella relazione congiunta sull’occupazione 2003/2004, pratic amente aperta dalla
dichiarazione che «la valutazione generale e i messaggi politici della Taskforce per
l’occupazione sono condivisi dalla Commissione e dal Consiglio, essendo pienamente
in linea con gli orientamenti della SEO» (così a p. 5), le sollecitazioni formulate dal
gruppo d’esperti presieduto da Wim Kok vengono riproposte tutte alla lettera, senza
giungere però ad addentrarsi nella questione dei licenziamenti. La convinzione
dell’opportunità di introdurre maggiore flessibilità nei contratti di lav oro a tempo
indeterminato incidendo sulla disciplina del recesso traspare tuttavia dal richiamo
effettuato, a titolo d’esempio (a p. 34), ad alcune riforme varate in tal senso dagli Stati
membri: ovvero, più precisamente, l’elevazione della soglia dimensio nale (non più 5 ma
10 dipendenti) al di sopra della quale scatta la più rigorosa protezione del posto di
lavoro decisa in Germania nel dicembre 200362 e la riduzione dell’indennità spettante in
caso di illegittimità dei licenziamenti per motivi economici stabilita in Spagna per i
lavoratori assunti con un contratto specificamente volto ad incoraggiare l’occupazione a
tempo indeterminato (il contrato de trabajo para el fomento de la contrataciòn
indefinida o più semplicemente contrato de fomento del empleo, istituito in via
60 Il significato di quest’ultima indicazione non è del tutto trasparente: si può tuttavia supporre che la Taskforce europea per l’occupazione, non potendo mettere in discussione la necessità di giustificazione del licenziamento (indicata fra l’altro poche righe prima tra gli elementi costitutivi della nozione di sicurezza), inviti di fatto gli Stati membri a non andare tanto per il sottile nella configurazione delle ragioni che legittimano il recesso dal contratto del datore di lavoro. 61 A p. 27, più precisamente, si spiega che i «datori di lavoro devono essere in grado di adattare la consistenza del proprio personale risolvendo i contratti senza eccessivi ritardi o costi quando altre misure, come la flessibilità oraria o la riconversione professionale dei lavoratori, hanno raggiunto il loro limite», tenuto conto che regole «eccessivamente protettive sui contratti standard possono dissuadere i datori di lavoro dall’effettuare assunzioni … o indurli ad avvalersi di altre forme contrattuali, suscettibili di ricadute negative sulla capacità di accesso al lavoro dei soggetti meno avvantaggiati quali giovani, donne, disoccupati di lunga durata». 62 Sull’insieme di innovazioni apportate al Kündigungsschutzgesetz dalla legge del 24 dicembre 2003 v. Corti (2005) e Däubler (2005).
22
transitoria nel 1997 e ripetutamente confermato dalla legislazione successiva), il cui
regime giuridico è per il resto coincidente con quello dell’ordinario contratto di lavoro
senza termine di durata63.
Sebbene di ammorbidimento delle tutele in materia di licenziamento non si torni a
parlare (stando a quanto consta attualmente) in altri atti del processo di coordinamento
delle politiche occupazionali64, del resto, tale tema può ritenersi ormai saldamente
penetrato nel dibattito politico e nell’attività negoziale e parlamentare di diversi Paesi
dell’Unione: a cominciare appunto dalla Spagna ove, nel tentativo di contrastare
l’abnorme presenza di contratti di lavoro di durata temporanea (circa il 33% del totale),
la legge para la mejora del crecimiento y del empleo del 9 giugno 2006 (adottata per
dar seguito all’accordo sottoscritto un mese prima da governo e parti sociali) ha riaperto
i termini entro cui la decisione imprenditoriale di stabilizzare lavoratori a tempo
determinato è premiata (oltre che con consistenti sgravi contributivi: ma ciò solo per un
primo periodo) con la riduzione dell’indennità per l’eventuale licenziamento
ingiustificato caratteristica del contrato de fomento del empleo, riproponendo con
convinzione quello scambio tra affrancamento dalla precarietà e contenimento del costo
del licenziamento ricorrente nella legislazione spagnola dell’ultimo decennio 65.
La recedibilità ad nutum del datore di lavoro durante il cd. periodo di
consolidamento, corrispondente al primo biennio del rapporto di lavoro, costituisce
invece il tratto saliente del contrat nouvelle embauche introdotto nell’ordinamento
francese nel luglio 2005 dal governo appena insediato: un contratto di lavoro a tempo
indeterminato riservato alle imprese di modeste dimensioni (fino a 20 dipendenti), il cui
regime giuridico si è poi tentato di riproporre, nella sua essenza, per le assunzioni di
giovani lavoratori (d’età compresa fra i 16 e i 26 anni) da parte delle imprese di
63 In merito alle caratteristiche del contrato de fomento del empleo, quali risultanti dalla prima disposizione addizionale della legge 12/2001, v. Martín Valverde, Rodríguez-Sañudo Gutíerrez, García Murcia (2005, p. 420 ss.). Pare comunque opportuno ricordare che tale contratto, utilizzabile sia per l’assunzione di disoccupati che per la stabilizzazione di lavoratori precari, prevede un’indennità per licenziamento ingiustificato pari a 33 – anziché 45 – giorni di salario per ciascun anno di servizio, con il tetto massimo di 24 – anziché 42 – mensilità. 64 Almeno non apertamente: Roccella (2006b, p. 45) fa infatti notare la «sottolineatura, negli orientamenti integrati del 2005, della persistente esigenza di “riforme strutturali” del mercato del lavoro» (ed è ben noto agli “addetti ai lavori” come tale espressione rimandi ad interventi deregolativi sui licenzi amenti). 65 Sul provvedimento riformatore del 9 giugno 2006, che ha anche voluto contrastare la concatenazione abusiva di contratti a termine stabilendone la conversione in contratti a tempo indeterminato ogniqualvolta la durata del lavoro (anche discontinuo) giunga a superare i 24 mesi nell’arco di 30, v. Pedrajas Moreno e Sala Franco (2006). Il testo dell’accordo tripartito siglato il 9 maggio 2006 si trova pubblicato (in lingua italiana) in RIDL, 2006, III, p. 129 ss.
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maggiore consistenza, con quel famoso contrat première embauche che non ha mai
visto la luce a causa della forte mobilitazione sociale organizzata nei primi mesi del
2006 per contestarlo (sia di per sé che per il disegno di progressiva erosione della tutela
della stabilità del posto di lavoro ritenuto ad esso sottostante)66.
Di modificazione della disciplina sui licenziamenti si discute ancora
animatamente, inoltre, sia in Germania, ove la riforma varata qualche anno fa ha sortito
«l’esito piuttosto paradossale di scontentare quasi tutti» (Corti 20 05, p. 385, cui si
rimanda per l’illustrazione del dibattito tedesco, nel quale non mancano proposte di
interventi “al ribasso”), che nel nostro Paese, ove il fallimento delle iniziative
parlamentari e referendarie incentrate sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ha lasciato
immutato un assetto normativo attraversato da profonde tensioni e irrisolte difficoltà di
gestione giudiziaria, del quale si prospettano revisioni che contemplano limitazioni di
vario genere all’applicabilità del regime di tutela re ale del posto di lavoro67.
Dall’insieme di vicende (nazionali e sovranazionali) appena riferite può dunque
trarsi la certezza che il tema della flessibilità in uscita sia oggi in Europa più vivo che
mai, nonostante la marcia indietro recentemente innestata in proposito dall’OCSE, con
l’ammissione dell’assenza di una chiara correlazione inversa tra intensità della
protezione dell’impiego (misurata con riferimento alle discipline dei licenziamenti
individuali e collettivi e dei contratti di natura temporanea) e livello dell’occupazione 68.
All’accresciuta consapevolezza dell’irrilevanza dell’affievolimento delle tutele in
66 Sulle caratteristiche dei due contratti, da più parti considerati semplici tappe di un percorso che punterebbe alla precarizzazione di tutti i rapporti di lavoro (cioè, più in particolare, all’estensione generalizzata dell’iniziale biennio di libera licenziabilità dei dipendenti o all’intr oduzione di un unico contratto di lavoro da cui il datore può liberamente recedere, salvo il pagamento di un’indennità economica), v. Freyssinet (2006) e Renzi (2006). Sulla rivolta giovanile che ha impedito l’introduzione del Cpe (e, dal punto di vista dei contestatori, l’avanzamento nel suddetto percorso) v. invece Merlo e Sciotto (2006). 67 La proposta di un «sentiero a tappe verso la stabilità» avanzata da Boeri e Garibaldi (2006) prevede, ad esempio, che il meccanismo della reintegrazione divenga applicabile ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo solo dopo il compimento di un triennio di lavoro, mentre quella di Pallini e Leonardi (2006) abbina all’allungamento dei periodi di prova l’introduzione di un’«indennità economica di licenziamento», aggiuntiva rispetto al preavviso, a favore dei dipendenti delle imprese con oltre 15 lavoratori che rinuncino ad impugnare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In direzione diversa vanno invece le disposizioni in materia di licenziamento contenute nel disegno di legge sulla riforma del processo del lavoro recentemente presentato in Senato dagli onorevoli Salvi e Treu (v. in Atti parlamentari della XV legislatura, d.d.l. n. 1047 del 28 settembre 2006). 68 Così nell’ Employment Outlook pubblicato dall’OCSE nel 2004 (a p. 61, sviluppando spunti già contenuti in quello del 1999 ma rinnegati poi nel 2002). C’è da tenere presente, comunque, che la misurazione del grado di protezione dell’impiego è un’operazione complessa e che sull’attendibilità scientifica degli indicatori adoperati a tal fine dall’OCSE sono stati avanzati dubbi da più parti (v. ad esempio Gautié 2005, p. 4 e Casey 2004, p. 341 ss.).
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materia di licenziamento rispetto all’obiettivo di job creation si accompagna, semmai, la
valorizzazione delle attitudini della flessibilità in uscita nel contrasto al problema,
sempre più avvertito, della segmentazione del mercato del lavoro69.
L’idea che la semplificazione dei licenziamenti rappresenti la principale carta da
giocare in risposta alla duplice esigenza di stimolare nuove assunzioni e di contenere la
diffusione dei contratti di lavoro non permanenti, d’altronde, continua a circolare con
estrema disinvoltura nell’Unione europea 70, non di rado accompagnata dalla pretesa di
costituire addirittura l’espressione di una sorta di legge na turale, a dispetto della
mancanza di evidenti riscontri empirici (cfr. Del Punta 2001, p. 19 e Biagi e Tiraboschi
2000, p. 180) e delle contestazioni alla solidità dei suoi fondamenti scientifici sollevate
da più parti (v. Reyneri 2006, pp. 3-5). Il modello della flexible firm e la teoria
economica imperniata sulla contrapposizione tra insiders e outsiders (Lindbeck e
Snower 1988, divulgata da noi da Ichino 1996, con una spiccata enfatizzazione del
«ruolo dis-funzionale» dell’«esistenza di una disciplina li mitativa dei licenziamenti»:
Del Punta 2001, p. 17) non possono dunque considerarsi, nel loro complesso, affatto in
declino71.
Viene allora da chiedersi, in questo contesto, che fine abbia fatto la sicurezza dei
lavoratori presa in attenta considerazione dal paradigma della flexicurity messo al centro
della SEO e abbracciato ormai ufficialmente, con una vistosa virata rispetto alla
tradizionale ricetta di pura deregolazione, anche dall’OCSE. Secondo gli economisti che
ritengono necessaria l’iniezione nei co ntratti di lavoro standard di una dose di
flessibilità in uscita, e quindi una riduzione della protezione dell’impiego (o sicurezza in
69 Occorre peraltro precisare, a questo proposito, che l’incidenza della protezione dell’impiego sulla composizione strutturale dell’occupazione, cioè sulla riduzione delle opportunità dei soggetti meno avvantaggiati di uscire dalla disoccupazione e trovare un’idonea collocazione lavorativa, pur venendo sostenuta da più parti (v. ad esempio l’ Employment Outlook dell’OCSE richiamato nella nota precedente), resta circondata da non trascurabili dubbi (v. Regini 2001, p. 146 e, con riferimento all’esperienza dei Paesi europei di maggior successo sul fronte occupazionale, Roccella 2006b, p. 39 s.) 70 Basti pensare al già riferito contenuto del rapporto Kok, alle conclusioni cui pervengono diversi gruppi di esperti francesi incaricati di indagini in proposito dai pubblici poteri (v. Freyssinet 2006, p. 3) e, in casa nostra, alla ferma convinzione di Ichino (2005, p. 24) che «più il lavoro regolare è stabile, più è difficile per il disoccupato, il precario e l’irregolare uscire dalla loro posizione». 71 Per un’approfondita critica all’assunto, derivante dalle stesse teorie economiche, secondo cui la liberalizzazione dei contratti a termine migliorerebbe l’efficienza dell’impresa e contribuirebbe alla crescita dell’occupazione v. peraltro Zappalà (2006), che sottolinea come il controllo tradizionalmente esercitato sulla diffusione di tali contratti nel nostro Paese sia stato funzionale non solo all’interesse dei lavoratori alla stabilità ma anche a quello degli imprenditori alla razionalità dell’organizzazione del lavoro. Per ulteriori prese di distanza dalla convinzione sulle potenzialità di job creation dei contratti a tempo determinato v. Fuchs (2005, p. 139) e Nodari (2006, p. 542).
25
senso oggettivo), simili interventi dovrebbero trovare adeguata compensazione nel
rafforzamento delle tutele operanti sul mercato del lavoro, vale a dire nel potenziamento
degli strumenti di politica attiva del lavoro, da un canto, e di sostegno del reddito dei
disoccupati, dall’altro. Un cambiamento d’assetto, questo, che dovrebbe risultare “a
costo zero” per i lavoratori, se è vero (come spiega Gautié 2005, p. 8 ss.) che sulla
percezione individuale di sicurezza (o sicurezza in senso soggettivo) incidono non solo
la natura del contratto e la protezione esistente rispetto ai licenziamenti, ma anche le
previsioni circa le conseguenze (sul reddito e sulla ripresa della vita lavorativa)
dell’eventuale perdita dell’impiego: cosicché essa sarebbe sostanzialmente equivalente
nei Paesi con intense tutele nel rapporto di lavoro e scarse tutele sul mercato, come
l’Italia, e in quelli con più modeste tutele nel rapporto di lavoro e più forti tutele sul
mercato, come la Danimarca.
L’evocazione del modello di flexicurity danese, tanto celebrato dai sostenitori
della flessibilità in uscita e verso il quale paiono ormai convergere le simpatie
dell’OCSE (Gautiè 2005, p. 10 e Coats 2006, p. 36), non può tuttavia esser fatta “a cuor
leggero”. A parte le doverose precisazioni sulle «caratteristiche particolari e più o meno
irripetibili» di tale modello (Janssen 2006, p. 1) e sulle difficoltà della sua
riproposizione in differenti contesti nazionali, dato l’«elevatissimo livello
dell’imposizione fiscale» necessario per coprire il costo dei servizi e dei meccanismi di
sostegno del reddito messi a disposizione degli outsiders (Roccella 2006b, p. 40),
occorre infatti guardare con più serietà alla lezione sull’inestricabile nesso tra tutele nel
rapporto e tutele sul mercato da esso offerta: con la conseguenza di capire facilmente,
ogniqualvolta vengano proposti alleggerimenti delle regole sui licenziamenti non
preceduti da concreti interventi di rafforzamento del sistema degli ammortizzatori
sociali, che il richiamo a quest’ultimo costituisce in realtà solo un alibi per lo
smantellamento dell’apparato regolativo esistente (cfr. Balandi 2006, pp. 223 -225).
4. L’acquis communautaire in tema di stabilità del posto di lavoro
Seguendo la stessa duplice direzione nella quale si è sviluppata la ricerca sul
valore assegnato alla stabilità del lavoro dal soft law della Strategia europea per
l’occupazione (le prospettive di stabilizzazione offerte ai lavoratori precari, da un canto;
26
la tutela dal rischio di subire un licenziamento assicurata ai lavoratori standard,
dall’altro), occorre a questo punto concentrare l’attenzione sul più assestato orizzonte
dell’ hard law, significativamente arricchito – com’è noto – dall’opera interpretativa
della Corte di giustizia.
Il determinante contributo apportato dalla sua giurisprudenza alla definizione del
diritto comunitario del lavoro risulta ulteriormente amplificato assumendo quale
particolare angolo visuale il tema della stabilità del posto di lavoro. Con tale tema,
affrontato dalle fonti europee solo in termini limitati, i giudici di Lussemburgo si sono
infatti trovati a confrontarsi trasversalmente più volte: col risultato d’individuare, quasi
sempre facendo leva sul principio di parità di trattamento (nelle sue varie articolazioni,
cioè, a seconda dei casi, tra uomini e donne, tra cittadini di diversi Stati membri, tra
anziani e non), una serie di importanti paletti alla flessibilità in contrasto con gli
interessi dei lavoratori, quand’anche sorretta da pretesi o reali obiettivi occupazionali, e
di fornire così conferma alla centralità del ruolo svolto dalla Corte di giustizia nella
costruzione di quell’ acquis communautaire incisivamente definito la «cornice delle
regole sostanziali che … limitano le modalità attraverso cui può avvenire in Europa la
job creation» (Bruun 2001, p. 314).
Per quanto riguarda, anzitutto, l’affrancamento dalla precarietà dei lavoratori a
termine, la Corte non ha atteso l’adozione della direttiva n. 1999/70 (di attuazione
dell’accordo quadro concluso in materia dalle parti sociali europee), né la specifica
richiesta di chiarirne la portata in via pregiudiziale, per prendere posizione contro
l’utilizzazione abusiva dei contratti a tempo determinato, come risulta evidente dalle
pronunce (delle quali si dirà nel par. 4.1.) rese nel caso Alluè e, in qualche misura, anche
nei casi Tele Danmark e Jiménez Melgar: una giurisprudenza, questa, di carattere
certamente episodico, che tuttavia può essere considerata espressione, insieme a quella
– di consistenza monumentale – elaborata prima dell’adozione della direttiva n. 1997/81
(di attuazione dell’accordo quadro europeo in materia di lavoro a tempo parz iale) per
colpire le diffuse discriminazioni ai danni dei part-timers72, della volontà di difendere in
concreto la qualità del lavoro flessibile.
Un decisivo balzo in avanti nella difesa dell’aspirazione alla stabilità dei lavoratori
a termine (e nella «direzione di un miglior equilibrio tra la flessibilità dell’orario di
72 In quanto discriminazioni indirette nei confronti delle lavoratrici: v. Izzi (2005, p. 183).
27
lavoro e la sicurezza dei lavoratori»)73 si è comunque compiuto con l’accordo quadro
allegato alla direttiva n. 99/70 che, finalizzato al duplice obiettivo di «migliorare la
qualità del lavoro a tempo determinato, garantendo il rispetto del principio di non
discriminazione», e di «creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi
derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo
determinato», contiene nel suo preambolo la rilevante affermazione del riconoscimento
che «i contratti a tempo determinato sono e continueranno ad essere la forma comune
dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori», sebbene i contratti a termine
rispondano, «in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei
lavoratori». È sulla base di quest’accordo europeo che la Corte di giustizia, valorizzando
al massimo la portata dell’affermazione appena riferita, dapprima con la sentenza
Mangold (peraltro incentrata sulla violazione del divieto di discriminazione nel lavoro
in base all’età, come si spiegherà nel par. 4.1.) e poi con la sentenza Adeneler (della
quale si tratterà nello stesso par., insieme alle sentenze Marrosu e Sardinu e Vassallo,
anch’esse concernenti la direttiva n. 99/70), ha potuto proseguire fruttuosamente nel già
intrapreso cammino di contrasto della tendenza alla “stabilizzazione nella precarietà”
dei lavoratori a termine.
Nessun intervento di natura legislativa o giurisprudenziale si registra invece
rispetto all’analogo problema esistente per i lavoratori temporanei: la proposta di
direttiva sul lavoro tramite agenzia presentata dalla Commissione europea nel marzo
2002, dopo esser stata modificata nel novembre dello stesso anno74, continua infatti a
giacere dimenticata nei cassetti del legislatore sovranazionale ed è al momento difficile
prevedere se riuscirà mai a vedere la luce e tanto più se, prima di quell’ipotetica data,
potranno essere corrette le previsioni in essa contenute che paiono allontanare dalla
soluzione del suddetto problema (sul punto v. Zappalà 2003, in particolare pp. 89-92).
Per quanto attiene alla tutela del posto di lavoro dei dipendenti assunti a tempo
indeterminato, è noto che il diritto comunitario non contempla una disciplina di
protezione dai licenziamenti di carattere generale, limitandosi a stabilire in proposito
alcuni specifici divieti (si pensi alla direttiva n. 2001/23 sul mantenimento dei diritti dei
73 Come si legge nell’ incipit del preambolo dell’accordo quadro in questione, riecheggiando l’i dea di flexicurity al centro della SEO. 74 V. rispettivamente Com (2002) 149 def. del 20 marzo 2002 e Com (2002) 771 def. del 28 novembre 2002.
28
lavoratori in caso di trasferimento d’impresa, alla direttiva n. 1976/207 contro le
discriminazioni di genere nel lavoro e alla direttiva n. 1992/85 sulla tutela delle
lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo d’allattamento).
Un traguardo non marginale sembrava in verità essere stato raggiunto, da questo
punto di vista, con l’inserimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea dell’art. 30, ai sensi del quale «ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni
licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e
prassi nazionali»: un articolo, questo, per nulla scontato (v. Hunt 2003, p. 53) che, al di
là dell’apparente minimalismo del suo contenuto, non sarebbe destinato a restare privo
di conseguenze (come si spiegherà nel par. 5) qualora acquistasse forza vincolante. La
situazione di stallo in cui versa attualmente il Trattato costituzionale europeo
sottoscritto a Roma il 29 ottobre 2004 (con la speranza dell’entrata in vigore al 1°
novembre 2006) e, di riflesso, la Carta dei diritti fondamentali in esso trasfusa, tuttavia,
non consente affatto di considerare acquisito tale risultato. In simile contesto l’unica
garanzia esistente contro il rischio di un eccessivo ammorbidimento delle discipline
nazionali in materia di licenziamento, giustificato più o meno in buona fede dallo scopo
d’incentivazione delle assunzioni (secondo la logica illustrata nel par. precedente), resta
perciò quella – politicamente forte ma tecnicamente limitata, dato il suo particolare
fondamento antidiscriminatorio – costruita dalla Corte di giustizia nella sentenza
Seymour-Smith (di cui si dirà nel par. 4.2.).
A fronte delle crescenti trasformazioni delle imprese, in crisi o meno, collegate a
fenomeni di ristrutturazione e/o delocalizzazione delle attività produttive verso Paesi
con basso costo del lavoro, pare divenuta inoltre pressante l’esigenza di delineare, ad
integrazione della disciplina sui licenziamenti collettivi – di natura essenzialmente
procedurale – contenuta nella direttiva n. 1998/59, un quadro di regole condivise a
livello europeo sulle responsabilità pubbliche e private da chiamare in causa per
salvaguardare, ovviamente nei limiti del possibile, l’occupazione (cfr. in proposito Treu
2005, p. 412 s. e Roccella 2006b, p. 36). Al riguardo nessun passo conclusivo è stato
sinora compiuto, ma interessante è certo la proposta di regolamento per l’istituzione di
un Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione presentata dalla Commissione
nel marzo 200675 con l’intento di provvedere al finanziamento di i nterventi mirati di
75 V. Com (2006), 91 def. del 1° marzo 2006.
29
riqualificazione professionale a beneficio dei lavoratori colpiti da un licenziamento
collettivo derivante dai notevoli cambiamenti della struttura del commercio mondiale.
Non è tuttavia il discorso sull’ acquis communautaire che qui si sta svolgendo la sede
opportuna per approfondire questo argomento.
4.1. La Corte di giustizia e i contratti di lavoro a tempo determinato
La prima occasione nella quale la Corte di giustizia ha avuto modo di pronunciarsi
contro il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a termine risale al 1993 e ha tratto origine
dalla controversia instaurata nei confronti di due università italiane da un gruppo di
lettori di lingua straniera che lamentavano la violazione, a loro danno, del principio di
parità di trattamento tra cittadini di diversi Stati membri di cui all’art. 48 (ora art. 39)
del Trattato, contestando il limite di durata annuale imposto ai loro contratti di lavoro,
in linea generale, dalla normativa italiana (l’art. 28 del DPR n. 382/1980, che faceva
comunque salva la possibilità del rinnovo), mentre un’analoga limitazione non esisteva
per gli altri insegnanti universitari76. Tenuto conto dell’elevata percentuale di lettori
aventi cittadinanza straniera (per l’esattezza, all’epoca dei fatti, il 75% del totale), la
Corte non ha esitato a riconoscere la ricorrenza di una discriminazione indiretta sulla
base della nazionalità, sostenendo che «i contratti destinati a soddisfare esigenze
costanti inerenti all’insegnamento, quali si presentano nei casi delle l ingue il cui studio
sia obbligatorio o delle lingue notoriamente più richieste, vanno stipulati a tempo
indeterminato», come accade per gli altri insegnanti; e osservando che «il termine
massimo di un anno, con possibilità di rinnovo, … rappresenta per i lettori un fattore di
incertezza in ordine alla conservazione del rapporto di lavoro e si presta a consentire
abusi da parte dell’amministrazione nazionale» 77.
Dopo la sentenza Allué, è l’interpretazione della disciplina contro le
discriminazioni di sesso contenuta nella direttiva 1976/207 ad offrire alla Corte di
Lussemburgo l’opportunità di tutelare l’interesse (non alla stabilizzazione, ma almeno)
alla continuità dell’occupazione dei lavoratori a termine, affermando, nei casi Tele
76 È il caso affrontato da Cgce 2 agosto 1993, cause riunite C-259/01, C-331/91, C-332/91, Pilar Alluè e a. v. Università degli Studi di Venezia e Università degli Studi di Parma, in Racc., 1993, p. 4334 ss. 77 Così nei punti 16 e 18, rispettivamente, della motivazione. C’è da precisare che il riferimento della sentenza alla possibilità di abusi era tutt’altro che teorico, data la «prassi, riferita dalla Commissione, consistente nel subordinare il rinnovo contrattuale all’accettazione di una riduzione della retribuzione».
30
Danmark e Jiménez Melgar78, l’“illegittimità comunitaria” del licenziamento intimato
ad una lavoratrice a tempo determinato che, al momento dell’assunzione, non aveva
comunicato al datore di lavoro il proprio stato interessante e la conseguente
impossibilità di svolgere l’attivit à lavorativa per una parte rilevante della durata del
contratto e, rispettivamente, del mancato rinnovo di un contratto a termine motivato
dallo stato di gravidanza della dipendente.
Solo di recente, ad ogni modo, la Corte s’è trovata a confrontarsi con
un’operazione di flessibilizzazione della disciplina dei contratti a tempo determinato
posta in essere allo scopo di stimolare la crescita occupazionale ovvero, più
precisamente, di agevolare l’accesso all’occupazione di persone in condizioni di
debolezza sul mercato del lavoro. Ciò è avvenuto nel caso Mangold 79, a seguito di un
rinvio pregiudiziale avente il merito di toccare per la prima volta questioni di
straordinaria importanza per il diritto comunitario del lavoro come la natura della
clausola di non regresso – in particolare, quella contenuta nella direttiva n. 99/70 sui
contratti a termine, mai giunta fino a quel momento davanti ai giudici comunitari – e la
portata del divieto di discriminazioni sulla base dell’età sancito dalla direttiva n.
2000/78.
Oggetto di contestazione nel procedimento a quo era il vistoso abbassamento (da
58 a 52 anni) dell’età oltre la quale i contratti di lavoro a tempo determinato possono
essere conclusi senza restrizioni, realizzato nell’ordinamento tedesco, al fine di fav orire
l’inserimento professionale dei lavoratori anziani in stato di disoccupazione, da una
legge intervenuta a modificare quanto stabilito sul punto, un paio d’anni prima, in sede
di trasposizione della direttiva 99/70: un abbassamento considerato dalla parte ricorrente
in contrasto, per l’appunto, col divieto di reformatio in peius previsto nell’accordo
europeo attuato dalla suddetta direttiva, da un canto, e col divieto di discriminazioni in
ragione dell’età risultante dalla direttiva -quadro per la parità di trattamento nel lavoro,
dall’altro. È solo quest’ultimo profilo d’illegittimità ad aver ottenuto, nel contesto di
78Cgce 4 ottobre 2001, causa C-109/00, Tele Danmark v. Handels- og Kontorfunktionærernes Forbund i Danmark, in Racc., 2001, p. 6993 ss. e Cgce 4 ottobre 2001, causa C-438/99, Maria Luisa Jiménez Melgar v. Ayuntamiento de Los Barrios, ivi, p. 6915 ss. 79 Cgce 22 novembre 2005, causa C-144/04, Werner Mangold v. Rüdiger Helm, non ancora pubblicata in Racc. (ma reperibile nel sito www.curia.eu.int), preceduta dalle apprezzabili conclusioni dell’Avvocato generale A. Tizzano.
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una sentenza che non pare effettivamente meritare gran parte delle critiche ricevute80,
l’avallo dei giudici comunitari.
Secondo la Corte di giustizia, infatti, il particolare trattamento riservato ai
lavoratori anziani dalla disciplina tedesca sui contratti a termine non può trovare
legittimazione nel disposto dell’art. 6.1 della direttiva 2000/78 (che esclude il carattere
discriminatorio delle «disparità di trattamento in ragione dell’età … oggettivamente e
ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità
legittima», sempre che «i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e
necessari»), dal momento che, pur essendo indubbia la legittimità dell’obiettivo di
favorire l’inserimento professionale dei disoccupati d’età avanzata perseguito,
nell’interesse generale, dalla disposizione controversa, quest’ultima, «nella misura in
cui considera l’e tà del lavoratore … come unico criterio di applicazione di un contratto
di lavoro a tempo determinato, … indipendentemente da ogni altra considerazione
legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e dalla situazione personale
dell’interessa to», non supera positivamente il controllo sul rispetto del principio di
proporzionalità cui vanno assoggettate le giustificazioni delle disparità di trattamento81.
Il rigore col quale è stato condotto tale controllo mostra con chiarezza che i giudici
comunitari, nonostante i termini elastici in cui il divieto di discriminazioni in base
all’età è stato costruito dal legislatore sovranazionale (v., fra gli altri, Izzi 2005, p. 398
s.), non sono affatto disposti a prenderlo alla leggera: nemmeno quando, come nel caso
di specie, vengano in rilievo previsioni sicuramente in linea con l’obiettivo di favorire la
partecipazione alla vita professionale dei lavoratori anziani stabilito dalla SEO (come
s’è visto nel par. 2) ed espressamente ricordato nella motivazion e della sentenza (al
punto 7). Ai protagonisti di tale strategia la Corte sembra perciò voler ricordare che «le
politiche di invecchiamento attivo … non possono essere condotte in termini
80 Pur essendo vero che la Corte, nel riconoscere la forza giuridicamente vincolante della clausola di non regresso, avrebbe potuto fornire qualche spiegazione in più, data la molteplicità di domande e di ipotetiche risposte circolanti in proposito nella dottrina europea (cfr. Bonardi 2006, p. 270-272), non si condivide affatto l’idea (di Calafà 200 6, p. 225 s.) che la posizione assunta sul punto dalla Corte sia stata poco coraggiosa a causa del centrale rilievo da essa accordato al «perseguimento di risultati occupazionali previsti dal Trattato» (perché mai, altrimenti, tale coraggio sarebbe dovuto venir fuori, poche righe dopo, nel giudizio sul mancato rispetto del divieto di discriminazioni per età?); né la critica rivolta (da Bonardi 2006, p. 267 s.) al rifiuto della Corte di tener conto della previsione mirante a prevenire la successione di contratti a termine di cui alla clausola 5 dell’accordo quadro a fini d’interpretazione sistematica dello stesso (così facendo, infatti, si sarebbe compiuta una forzatura tanto evidente quanto, in concreto, inutile). 81 Si v. i punti 59-65 della motivazione della sentenza Mangold (la citazione è comunque tratta dal punto 65).
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socialmente credibili stringendo i lavoratori anziani nell’alternati va fra disoccupazione e
lavoro precario» (così Roccella 2006b, p. 30 s.): ovvero, per dirla in altri termini, che i
requisiti di qualità e sicurezza dell’occupazione non possono essere dimenticati neppure
nelle operazioni di job creation indirizzate ai meno giovani.
Va inoltre notato che la Corte, pur essendo alle prese con l’interpretazione della
normativa antidiscriminatoria di cui alla direttiva 2000/78, non ha esitato a richiamare la
direttiva 1999/70, valorizzandone la funzione di argine, nello specifico contesto del
lavoro a termine, alle declinazioni unilaterali della flessibilità. Proprio nel cuore della
motivazione di Mangold (al punto 64), infatti, i giudici comunitari tengono ad osservare
che una situazione nella quale tutti i soggetti che hanno raggiunto i 52 anni d’età (senza
riguardo all’esistenza e alla durata di un precedente stato di disoccupazione) possono
essere impiegati, fino al momento del loro pensionamento, con contratti a tempo
determinato rinnovabili liberamente rischia di escludere una consistente categoria di
persone «dal beneficio della stabilità dell’occupazione, la quale costituisce …, come
risulta dall’accordo quadro, un elemento portante della tutela dei lavoratori». Nel
contesto di un giudizio di violazione del diritto comunitario per discriminazione in base
all’età, ecco dunque ritagliato un piccolo, ma non trascurabile, spazio alla sottolineatura
della finalità di contrasto alla precarizzazione del lavoro sottesa alla direttiva sui
contratti a termine82.
Neppure un anno dopo Mangold, sono le questioni d’interpretazione pregiudiziale
di tale direttiva sollevate nel caso Adeneler83, e più in particolare quelle concernenti la
clausola dell’accordo quadro sulla prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di
contratti a tempo determinato, ad offrire alla Corte l’occasione di proseguire il suo
discorso a difesa della stabilità dell’impiego.
Sollecitata a chiarire – a partire dal dubbio d’illegittimità avanzato dai giudici
greci rispetto alla disposizione nazionale che autorizza il rinnovo dei contratti a termine
in presenza di una previsione legislativa o regolamentare in tal senso (e quindi in modo
generale ed astratto) – la nozione di «ragioni obiettive» che, ai sensi della clausola 5, n.
1 dell’accordo quadro, devono giust ificare siffatto rinnovo, la Corte incentra
82 Il fatto che in Mangold il ragionamento della Corte finisca col ruotare intorno a questa direttiva, pur senza addentrarvisi, è riconosciuto, ma in termini critici, anche da Sciarra (2006, p. 56). 83 Cgce 4 luglio 2006, causa C-212/04, Konstantinos Adeneler e a. v. Ellinikos Organismos Galaktos (ELOG), non ancora pubblicata in Racc. (ma reperibile nel sito www.curia.eu.int)
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apertamente la costruzione della sua risposta sulla considerazione dello scopo
dell’accordo e della clausola in questione, arrivando così a fornire un’indicazione di
fondo sicuramente non meno importante della specifica conclusione sulla necessità di
ragioni riferite «a circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata
attività»84. Nell’escludere «che una disposizione nazionale possa, di pieno diritto e
senza altra precisazione, giustificare contratti di lavoro a tempo determinato successivi»,
la Corte di giustizia afferma infatti (al punto 73 della motivazione) che ciò
«equivarrebbe a ignorare la finalità dell’accordo quadro, che consiste nel proteggere i
lavoratori dall’instabilità dell’impiego, e a s vuotare di contenuto il principio secondo il
quale i contratti a tempo indeterminato costituiscono la forma generale dei rapporti di
lavoro»: riconoscendo così valore di principio giuridico vincolante alla dichiarazione
sulla normalità dei contratti di durata indeterminata e l’eccezionalità dei contratti a
termine contenuta nel preambolo dell’accordo quadro, promossa a pieno titolo nella
categoria dell’ hard law.
Sempre facendo leva sull’esigenza di non «compromettere l’obiettivo, la finalità
nonché l’effet tività dell’accordo quadro», la Corte risponde alla domanda sul concetto
di successione dei contratti a termine, escludendo la “legittimità comunitaria” di una
disposizione – come quella contestata nel procedimento a quo – «che consideri
successivi i soli contratti di lavoro a tempo determinato separati da un lasso temporale
inferiore o pari a 20 giorni lavorativi», col risultato di consentire in sostanza «di
assumere lavoratori in modo precario per anni» e di permettere quindi
quell’utilizzazione abusiva d ei contratti in oggetto che la direttiva 99/70 mira appunto
ad impedire85.
La limitazione, così operata, del potere discrezionale di cui godono gli Stati
membri nel recepimento della direttiva sul lavoro a termine non potrà restare priva di
ripercussioni, evidentemente, sul diritto italiano, considerata la stretta somiglianza con
la disciplina greca censurata dalla Corte del disposto dell’art. 5, comma 3, del d. lgs.
368/2001. Anche l’affermazione, con valenza prescrittiva e non semplicemente
84 La citazione è tratta dal punto 69 della motivazione, ma è del discorso svolto nei punti da 58 a 75 che si sta qui trattando. 85 Così ai punti 83-86 della motivazione, mentre è nel punto 88 la spiegazione sul fatto che al «datore di lavoro sarebbe … sufficiente, al termine di ogni contratto di lavoro a tempo determinato , lasciare trascorrere un periodo di soli 21 giorni lavorativi prima di stipulare un altro contratto della stessa natura
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orientativa, del carattere eccezionale dei contratti a tempo determinato, d’altronde, è
destinata a condizionare l’assetto giuridico interno, rendendo impossibile contestare che
l’esclusione della loro piena fungibilità con i contratti a tempo indeterminato effettuata
– in continuità con l’impostazione precedente al d. lgs. 368 – dai nostri giudici (v., in
prospettive diverse, Aimo 2006, p. 462 ss. e Montuschi 2006, p. 109-112) costituisca
doverosa espressione dell’obbligo d’interpretazione conforme su di essi gravante.
All’ulteriore questione, formulata dai giudici greci, concernente la compatibilità
con l’accordo quadro europeo del divieto di conversione in contratto a tempo
indeterminato dei contratti a termine stipulati in successione (al fine di soddisfare
«fabbisogni permanenti e durevoli» del datore di lavoro) nell’ambito del settore
pubblico, la Corte fornisce una risposta che può essere meglio compresa alla luce di
quella resa un paio di mesi dopo nei casi Marrosu e Sardinu e Vassallo86, a seguito di
due rinvii pregiudiziali d’identico tenore effettuati dal Tribunale di Genova con
riferimento all’art. 36, comma 2, del d. lgs. 165/2001. Mentre in Adeneler, a fronte di
una legislazione nazionale che non prevedeva nessun’altra «misura effettiva per evitare
e … sanzion are l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato successivi» da
parte dei datori di lavoro pubblici, il suddetto divieto di conversione è ritenuto in
contrasto con l’accordo quadro, infatti, di segno tendenzialmente opposto è la
valutazione contenuta nelle sentenze di origine italiana, in considerazione del diritto al
risarcimento del danno contemplato dal d. lgs. 165 a favore del lavoratore abusivamente
impiegato, sul presupposto che l’adeguatezza di tale rimedio risulti accertata dai giudici
remittenti87.
per escludere automaticamente la trasformazione dei contratti successivi in un rapporto di lavoro più stabile». 86 Cgce 7 settembre 2006, causa C-53/04, Cristiano Marrosu e Gianluca Sardinu v. Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate e Cgce 7 settembre 2006, causa C-180/04, Andrea Vassallo v. Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate, non ancora pubblicate in Racc. (ma reperibili nel sito www.curia.eu.int). 87 Nei punti 55 e 56 della motivazione di Marrosu e Sardinu (come nei punti 40 e 41 della motivazione di Vassallo) la Corte afferma infatti che «una normativa nazionale … che prevede norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore a seguito del ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti o rapporti a tempo determinato sembra, prima facie, soddisfare gli obblighi» comunitari, pur spettando al giudice a quo «valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva dell’art. 3 6, n. 2, prima frase, ne fanno uno strumento adeguato a» prevenire e reprimere l’utilizzo abusivo dei contratti a termine.
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La stentata applicazione sinora ricevuta dalla misura risarcitoria di cui all’art. 36,
comma 2, del nostro testo unico sul lavoro pubblico88 non pare tuttavia consentire di
ritenere integrato, in linea generale, detto presupposto: cosicché, in mancanza di un
nuovo corso giurisprudenziale in proposito, la Corte di giustizia potrebbe essere
costretta a ritirare il lasciapassare accordato, sub condicione, al regime che esonera le
pubbliche amministrazioni dalla sanzione della trasformazione del contratto di lavoro
prevista per i datori di lavoro privati dall’art. 5 del d. lgs. 368/2001.
4.2. La Corte di giustizia e i licenziamenti
Le uniche due circostanze nelle quali i giudici di Lussemburgo hanno dovuto
misurarsi (naturalmente a distanza, dati i confini delle loro competenze) con regole
nazionali di limitazione del raggio d’operatività della tutela contro i licenziamenti,
trovandosi di fatto ad interferire con delicate scelte di politica sociale compiute dagli
Stati membri, hanno tratto origine da richieste d’interpretazione pregiudiziale della
disciplina comunitaria sulla parità tra lavoratori e lavoratrici: più precisamente, da
quelle sottoposte alla loro attenzione, nel corso degli anni ’90 e a distanza di oltre un
lustro, nei casi Kirsammer-Hack e Seymour-Smith89.
Nel primo di essi, sollecitata a pronunciarsi sulla portata indirettamente
discriminatoria (e, più in particolare, sul contrasto con gli artt. 1 e 5 della direttiva n.
76/207) di una disposizione – vigente in Germania – che escludeva dal regime di
protezione contro i licenziamenti illegittimi le imprese con non più di 5 dipendenti,
imponendo però di non conteggiare a tale fine i cosiddetti lavoratori minori (cioè quelli
con orario di lavoro non superiore a 10 ore settimanali o a 45 ore mensili), la Corte di
giustizia, dopo aver chiarito che il problema si sarebbe effettivamente posto solo
qualora si fosse dimostrata una concentrazione di donne nelle piccole imprese (anziché
negli impieghi minori, com’era stato dedotto dai giudici remit tenti), aveva comunque
affermato, con riguardo a tale evenienza, la ravvisabilità di una giustificazione obiettiva
88 V. quanto osservato da Guariso (2005, p. 167), in nota ad una delle rarissime decisioni che hanno riconosciuto al lavoratore interessato – come recita l’art. 36 del d. lgs. 165/2001 (riprendendo alla lettera l’art. 36 del d. lgs. 29/1993, come modificato dall’art. 22 del d. lgs. 80/1998) – il «diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative».
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dello svantaggio sproporzionato, considerata l’appartenenza della disposizione
contestata «a un complesso di misure intese a ridurre gli oneri gravanti sulle piccole
imprese, le quali rivestono un ruolo essenziale per lo sviluppo economico e la creazione
di posti di lavoro nell’ambito della Comunità» 90.
In Kirsammer-Hack la Corte aveva quindi rinunciato ad esercitare un sindacato,
alla luce del principio di proporzionalità, sulla giustificazione della (ipotetica, come s’è
visto) disparità di trattamento fra uomini e donne, lasciandosi probabilmente influenzare
dalla constatazione della relativa “normalità”, nel contesto europeo, di quella scelta di
applicazione selettiva (cioè solo alle imprese di una certa consistenza dimensionale)
delle tutele contro i licenziamenti che costituiva il mezzo – verosimilmente idoneo, ma
forse non necessario – adoperato dal legislatore tedesco per raggiungere l’obi ettivo,
indiscutibilmente legittimo, di sostegno delle piccole imprese. L’indulgenza manifestata
dalla Corte, in una serie di successive sentenze concernenti presunte discriminazioni
indirette nei confronti delle donne in materia previdenziale, rispetto alle ragioni di
politica sociale dedotte dagli Stati membri a giustificazione delle regole ad impatto
differenziato91, tuttavia, aveva contribuito ad accentuare oltre misura la percezione della
“pericolosità” del precedente Kirsammer-Hack.
L’indisponibilità della Corte ad accettare che l’effetto discriminatorio di
qualunque previsione limitativa della protezione rispetto al licenziamento potesse essere
neutralizzato dalla semplice invocazione dell’obiettivo di job creation è però emersa
con estrema chiarezza92, nella pronuncia Seymour-Smith.
Qui, a fronte del dubbio avanzato dai giudici britannici in ordine al contrasto col
divieto comunitario di discriminazioni indirette (ex art. 119 del Trattato o ex direttiva
76/207) della regola che condizionava la possibilità di impugnare il licenziamento al
superamento – meno frequente per le donne che per gli uomini, come parevano attestare
i dati statistici – di un periodo biennale di attività lavorativa, la Corte di giustizia, dopo
89 Cgce 30 novembre 1993, causa C-189/91, Petra Kirsammer-Hack v. Sidal, in Racc., 1993, p. 6185 ss. e Cgce 9 febbraio 1999, causa C-167/97, Regina v. Secretary of State for Employment, ex parte: Nicole Seymour-Smith e Laura Perez, in Racc., 1999, p. 623 ss. 90 Così, in sintonia con le argomentazioni della Commissione, nel punto 33 della motivazione di Kirsammer-Hack, prima del tentativo di rafforzare la propria presa di posizione col richiamo all’(allora) art. 118 A del Trattato (che richiedeva alle direttive in materia di salute e sicurezza dei lavoratori di non imporre «vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese»). 91 Per maggiori indicazioni su questa giurisprudenza v. Izzi (2000, p. 320) e Izzi (2005, pp. 179 e 181).
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aver riconosciuto l’incontrovertibil e legittimità dell’obiettivo d’incentivazione delle
assunzioni sottostante a tale regola (secondo quanto dichiarato dal governo
interessato)93, ha infatti proceduto ad una scrupolosa verifica sull’osservanza del criterio
di proporzionalità, arrivando alla conclusione che «semplici affermazioni generiche,
riguardanti l'attitudine di un provvedimento determinato a promuovere l'avviamento al
lavoro, non sono sufficienti» a dimostrarne l’idoneità e la necessità rispetto al
conseguimento dello scopo prefissato e ad escluderne, di conseguenza, il carattere
discriminatorio94. Pur spettando ai giudici a quo, naturalmente, pronunciare l’ultima
parola sulla discriminatorietà della disciplina interna oggetto di contestazione (che è
stata infine esclusa dalla House of Lords), l’osservazione della Corte sul fatto che la
discrezionalità di cui godono gli Stati membri nella definizione della politica sociale
«non può risolversi nello svuotare di ogni sostanza l'attuazione di un principio
fondamentale del diritto comunitario, quale quello della parità … tra i lavoratori e le
lavoratrici», ha certo mandato ai legislatori nazionali un preciso segnale: prontamente
colto, a quanto pare, dal governo del Regno Unito, se è vero che pochi mesi dopo la
sentenza Seymour-Smith il periodo di lavoro richiesto in quel Paese per l’ammissibilità
dell’impugnazione giudiziale del licenziamento è stato abbassato ad un anno 95.
Le ripetute conferme, nella successiva giurisprudenza della Corte96, del rigoroso
orientamento appena illustrato consentono di confidare ragionevolmente sulla sua tenuta
e di ritenere quindi improbabile, da parte dei giudici comunitari, l’avallo di eventuali
scelte di ammorbidimento delle discipline nazionali a tutela della stabilità del posto di
92 Anche se non tutti la pensano così, rilevando un sensibile scarto tra il coraggio della motivazione e la timidezza del dispositivo della sentenza: v. ad esempio Borelli (2005, p. 308) e Skidmore (2004, p. 62). 93 Dinanzi alla Corte, come risulta dal punto 70 della motivazione, il governo del Regno Unito ha difatti sostenuto «che il rischio, gravante sui datori di lavoro, di essere coinvolti in procedimenti per licenziamento senza giustificato motivo per via di lavoratori subordinati recentemente assunti costituisce un elemento che si presta a dissuadere dalle assunzioni, per modo che l'estensione della durata di occupazione richiesta per avvalersi della tutela contro il licenziamento sarebbe un elemento inteso a favorire l'assunzione dei lavoratori». 94 V. i punti 69-77 della motivazione. 95 Per puntuali indicazioni su questa modifica legislativa nonché sulla decisione resa dalla House of Lords v. Bowers (2005, p. 260 s.). La citazione fra virgolette è tratta dal punto 75 della motivazione di Seymour-Smith. 96 Si fa riferimento a Cgce 20 marzo 2003, causa C-187/00, Helga Kutz-Bauer v. Freie und Hansestadt Hamburg, in Racc., 2003, p. 2741 ss. e Cgce 11 settembre 2003, causa C-77/02, Erika Steinicke v. Bundesanstalt für Arbeit, ivi, p. 9027 ss., nelle quali s'è trattato di prendere posizione sulla natura indirettamente discriminatoria delle regole di accesso all'istituto tedesco del lavoro a tempo parziale per motivi di età.
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lavoro suscettibili di svantaggiare in modo particolare i lavoratori dell’uno o dell’altro
sesso.
Resta da vedere, tuttavia, se il medesimo rigore ispirerà anche le valutazioni che
potrebbero essere sollecitate, con riguardo al divieto comunitario di discriminazioni
basate (non sul genere ma) sull’età, a partire da misure limitative della protezione contro
i licenziamenti illegittimi ipoteticamente adottate dagli Stati membri col dichiarato
scopo di favorire nuove assunzioni: come sarebbe potuto pacificamente accadere, ad
esempio, con l’istituzione di un contratto a tempo indeterminato destinato
esclusivamente ai lavoratori più giovani e caratterizzato da un lungo periodo di libera
recedibilità del datore di lavoro quale il contrat première embauche (v. supra, par. 3).
Vero è che per le disparità di trattamento in ragione dell’età l’art. 6.1 della
direttiva 2000/78 prevede la singolare possibilità97 che «esse siano oggettivamente e
ragionevolmente giustificate … da una finalità legittima» e che nella lista
esemplificativa di differenziazioni non discriminatorie ivi riportata rientra «la
definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione …, di occupazione e di
lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i
lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento
professionale o assicurare la protezione degli stessi». Queste disposizioni, dunque,
potrebbero essere certamente invocate per escludere l’illegittimità di una riduzione
dell’operatività del regime generale di protezione dai licenziamenti quale quella
risultante, nel contesto di un evidente trade off tra (più) occupazione giovanile e (meno)
stabilità, dal mai nato contratto francese. Occorre però tener presente che, in sintonia
con il consolidato canone che impone di interpretare in senso restrittivo le deroghe al
fondamentale principio di parità di trattamento, il citato art. 6.1. non può essere
considerato una sorta di miracoloso passe-partout (in senso analogo Bonardi 2007) e,
soprattutto, che anche «i giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del
lavoro e di formazione professionale» ivi menzionati devono essere perseguiti con
mezzi appropriati e necessari.
Proprio nel valutare la proporzionalità dei trattamenti differenziati destinati dagli
Stati membri a lavoratori giovani o anziani col dichiarato scopo di agevolarne
l’inclusione nella vita attiva, la Corte di giustizia potrebbe tornare ad adoperare –
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dimostrando così di avere a cuore anche l’omogeneità del diritto antidiscriminatorio
dell’Unione – il severo metro di giudizio utilizzato in Seymour-Smith98. Un esito del
genere, dopo lo strict scrutiny effettuato in punto di proporzionalità nel caso Mangold,
cioè nell’unico precedente giurisprudenziale in tema di discriminazioni per età, non è
poi così difficile da immaginare.
5. Conclusioni: tra soft e hard law, dove va l’Europa?
L’attraversamento dei due metodi nei quali trova espressione la regolazione
europea compiuto in questa ricerca, seppure nei limitati termini imposti dall’oggetto
della stessa, ha consentito di verificare l’esistenza di numerose interferenze tra l’uno e
l’altro, indotte dalla parziale sovrapposizione delle materie rientranti (nei Titoli VIII e
XI del Trattato cioè) nella politica per l’occupazione e nella politica so ciale: non a caso,
il raccordo con gli obiettivi della SEO è esplicitamente dichiarato nel preambolo di
diverse direttive “lavoristiche” dell’ultimo decennio 99.
La presenza di tali interferenze, tuttavia, costituisce una base troppo fragile per
giungere ad affermare che la distinzione tra hard law e soft law si è ridotta ad «una linea
disegnata nell’acqua» (così Bruun 2001, p. 323), o è comunque assai meno marcata di
quanto non appaia a prima vista, considerato che l’ hard law risulterebbe in concreto
meno incisivo che sulla carta e il soft law, al contrario, in grado di provocare sostanziali
cambiamenti (v., anche per più approfondite spiegazioni, Trubek e Trubek 2005, pp.
356-361). Questa visione minimizzatrice delle differenze intercorrenti, in punto di
effettiva capacità vincolante, tra metodo di coordinamento aperto e metodo comunitario
classico trova deboli riscontri, in verità, nell’esperienza reale, dalla quale emerge invece
97 Singolare dal momento che, in linea generale, ogni giustificazione non legalmente predeterminata è estranea alla nozione di discriminazione diretta: v. Izzi (2005, p. 398 e 62 ss.). 98 Come già puntualmente osservato da Bonardi (2007), poco importa che le discriminazioni basate sull’età qui ipotizzate siano di tipo diretto mentre il precedente Seymour-Smith riguarda una discriminazione indiretta, giacché «se la valutazione di legittimità di una determinata giustificazione deve essere fatta in modo rigoroso per le disposizioni, i criteri e le prassi che possono essere indirettamente discriminatori, a maggior ragione» lo stesso rigore dovrà essere adottato «ove si tratti di giustificare una differenziazione di trattamento … direttamente fondata sul fattore vietato». 99 Si fa riferimento, in particolare, alla direttiva n. 1997/81 sul lavoro a tempo parziale (una tipologia contrattuale molto utile all’espansione dell’occupazione perseguita dalla Strategia europea, come risulta dal preambolo del relativo accordo quadro), alla direttiva n. 1999/70 sul lavoro a termine (che richiama la SEO sia nel suo preambolo che in quello dell’accordo quadro) e alla direttiva quadro sulla parità di trattamento n. 2000/78 (di cui si v. il 25° considerando).
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il consumato tradimento di quella promessa partecipativa che dovrebbe rappresentare il
principale punto di forza della SEO100, da un lato, e la valorizzazione giurisprudenziale
dei contenuti prescrittivi, pur non particolarmente stringenti, risultanti dalle direttive
volte all’attuazione di accordi quadro europei e quindi geneticamen te “leggere” 101,
dall’altro.
Prendendo atto della netta divaricazione che persiste tra il processo di
coordinamento delle politiche occupazionali e la tecnica di armonizzazione delle
politiche sociali, non s’intende affatto sostenere che il primo sia condan nato ad essere
nulla di più di un salotto intergovernativo ove si scambiano amabilmente chiacchiere
prive d’utilità, anche se una serie di circostanze potrebbe indurre, per il passato e il
presente, a simile conclusione102. Affinché una poderosa impalcatura come quella messa
in piedi dalla SEO non corra il rischio di ridursi a questo, occorre però evitare il
ripiegamento in se stesso di un metodo innovativo proprio in quanto “aperto” e trovare
la volontà politica di compiere almeno qualcuna delle impegnative scelte che già sono
state ritenute necessarie per realizzarne un significativo rafforzamento103.
È anche nel merito, e non solo sul piano metodologico, ad ogni modo, che la
Strategia europea dovrebbe correggere il suo tiro. Se è vero che la qualità del lavoro
rappresenta il terreno sul quale il modello sociale europeo «deve misurare la … propria
capacità di resistenza alle spinte deregolative» (Ravelli 2006, p. 87) e se è vero che gli
indicatori statistici «non sono utensili neutri esterni alla procedura» ma strumenti chiave
100 Sull’insufficiente grado di partecipazione dei soggetti interessati a tale processo (soprattutto parti sociali e parlamenti nazionali) si v., oltre alla dottrina citata alla nota 2, la chiara denuncia contenuta nel rapporto congiunto sull’occupazione 2005/2006 (pp. 7 e 11). 101 Più precisamente, è alla direttiva 99/70 e all’interpretazione datane dalla Corte di giustizia nel caso Adeneler (v. supra, par. 4.1.), che si sta alludendo. 102 Infatti, da un lato, i piani d’azione nazionale – o programmi nazionali di riforma, secondo l’attuale denominazione – sono documenti di carattere politico redatti dai governi, sostanzialmente “a porte chiuse”, allo scopo di mostrare l’allineamento degli Stati membri alle richieste della Comunità (v. Dell’Aringa 2003, p. 629) e caratterizzati quindi da una naturale dose d’insincerità (così Skidmore 2004, p. 72); dall’altro, la Commissione, nel suo riesame, tende ormai ad evitare di formulare critiche nei confronti dei singoli Stati, limitandosi perlopiù a ripetere quanto da essi dichiarato (v. Szyszczak 2006, p. 489). 103 Si fa riferimento, principalmente, alle proposte avanzate dalla Commissione per rendere più penetrante il contenuto degli orientamenti per l’occupazione, miseramente affondate nel corso del processo di consultazione (v. Watt 2004, p. 131 ss., con riguardo alle guidelines per il 2003), nonché al rifiuto del Consiglio – istituzione prettamente intergovernativa e non sovranazionale, come fanno notare Lo Faro e Andronico (2005, p. 517) – di accogliere il suggerimento, formulato nel Rapporto del gruppo di alto livello presieduto da W. Kok dal titolo Facing the challenge. The Lisbon strategy for growth and employment (Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 2004), di far ricorso alla tecnica sanzionatoria del naming e shaming, potenzialmente utile ma certo pericolosa per i governi in periodi di elezioni (come De La Rosa 2005, p. 1214).
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«la cui selezione rivela gli schemi operativi impliciti della politica europea» (Lyon-
Caen e Affichard 2005, p. 1081), come si può, infatti, accontentarsi di affidare la
misurazione di quella cruciale componente della qualità del lavoro che è la flexicurity
(come s’è spiegato nel par. 2) ad un indicatore che considera la cruda percentuale di
contratti a termine, trascurando qualunque informazione sulle garanzie offerte ai
lavoratori da tale tipologia contrattuale e sulle prospettive di stabilizzazione ad essi
aperte? Mentre ci si domanda che fine abbia fatto la sicurezza che dovrebbe
controbilanciare l’accresciuta flessibilità (in entrata) del lavoro, sorge la tentazione di
dare ragione, in qualche misura, a chi imputa alle preoccupazioni eminentemente
quantitative della Strategia per l’occupazione la responsabilità di sospingere il modello
sociale europeo verso la deriva americana (così Vos 2005, p. 367).
Nella consapevolezza (non della ineluttabilità di tale conclusione ma certo)
dell’esi stenza di questo rischio, non è difficile capire perché l’affermazione
giurisprudenziale del «principio» secondo cui il lavoro a tempo determinato è destinato
a restare un’eccezione rispetto alla regola del lavoro a tempo indeterminato, insieme al
riconoscimento dell’impossibilità di sacrificare qualunque aspirazione alla stabilità del
lavoro sull’altare della crescita occupazionale (v. supra, par. 4.1., a proposito
rispettivamente delle sentenze Adeneler e Mangold), consentano di tirare un respiro di
sollievo, contribuendo ad incentrare su un concreto interesse dei lavoratori, qual è (in
linea di massima) il carattere permanente del loro contratto, l’obiettivo dell’occupazione
di qualità propagandato con astratta insistenza (come illustrato nel par. 2) a partire dal
Consiglio europeo di Lisbona.
Alla “sensibilità sociale” della Corte di giustizia, assai più che ai fiumi di parole
scorsi sinora nell’ambito della SEO, si deve dunque la precisazione che nell’ideale dei
better jobs è compreso un preciso impegno contro l’indiscriminata precarizzazione del
lavoro: ovvero a tutela di una stabilità dell’occupazione che continua a trovare nel
contratto a tempo indeterminato il suo punto di riferimento privilegiato, pur potendo
rappresentare anche l’esito di percors i diversi104.
È di scontata evidenza, naturalmente, la constatazione che i giudici comunitari non
avrebbero potuto fornire indicazioni come quelle sopra ricordate in mancanza di fonti
104 Si pensi alla già ricordata disciplina olandese del lavoro temporaneo (v. supra, nota 54) e, più in generale, alla prospettiva di ricomposizione unitaria delle esperienze lavorative discontinue (non solo dei lavoratori interinali) già indicata anni addietro da Supiot (1999, p. 70 ss.).
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vincolanti che, a differenza degli orientamenti per l’occupazione sui qu ali è imperniato
il processo di Lussemburgo, sollevano ben definiti problemi di conformità da parte delle
legislazioni nazionali, la cui soluzione è suscettibile di provocare incisive conseguenze
su larga scala: basti pensare alle inevitabili ripercussioni sulla disciplina italiana dei
contratti a termine (e forse anche, in via d’interpretazione estensiva, su quella francese
del contrat nouvelle embauche)105 della spiegazione del concetto di “successione” dei
contratti a tempo determinato di cui alla direttiva 99/70 offerta dalla Corte su
sollecitazione dei giudici greci (v. supra, par. 4.1.).
Sta di fatto, peraltro, che l’ hard law comunitario non contiene, allo stato, tutte le
indicazioni che sarebbero necessarie per rispondere alle molte domande aperte a
proposito dell’individuazione del punto di equilibrio tra stabilità e flessibilità. Quando
sia richiesta (occasionalmente) di prendere posizione riguardo a qualche particolare
aspetto di tale questione, la Corte di giustizia è quindi costretta a muoversi con la
massima delicatezza possibile, sulle basi (spesso limitate, come è accaduto nel caso
Seymour-Smith: v. par. 4.2.) che ha a disposizione, in un contesto giuridico complicato
dalla «coesistenza di due approcci regolativi … la cui interazione resta assolu tamente
indeterminata» (Bano 2005, p. 836).
Un utile contributo alla limitazione della confusione che regna su alcune questioni
focali per la definizione del modello sociale europeo potrebbe essere apportato, con
l’entrata in vigore del Trattato costituz ionale, dalla Carta dei diritti fondamentali in esso
recepita ma fino ad ora, nell’incertezza che circonda le sorti del processo di
costituzionalizzazione dell’ordinamento dell’Unione, quasi completamente ignorata dai
giudici comunitari (v. Greco 2006, p. 531 e Bellavista 2006, p. 22). Rispetto
all’interrogativo da cui ha preso le mosse questa ricerca, in particolare, un punto fermo
potrebbe essere posto con il principio di necessaria giustificazione del licenziamento
stabilito dall’art. 30 di tale Carta: u n principio apparentemente incapace di arricchire in
modo significativo l’ acquis communautaire (come s’è già osservato nel par. 4), ma che
potrebbe invece svolgere una preziosa funzione di orientamento del dibattito sulle
105 Del contrat nouvelle embauche, particolare contratto a tempo indeterminato caratterizzato da un iniziale biennio di libera recedibilità (come già illustrato nel par. 3), è infatti possibile l’illimitata reiterazione, in caso d’interruzione prima della scadenza del termine biennale, una volta decorsi almeno 3 mesi dal momento dell’interruzione. Dubbi di legittimità sono sollevati in proposito da Renzi (2006, p. 532 ss.), anche in riferimento alla durata ragionevole del periodo di prova imposta dalla convenzione OIL n. 158/1982 sui licenziamenti individuali.
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riforme da varare attualmente in corso, sbarrando la strada alle proposte di sostituzione
della giustificazione del licenziamento con un’indennità economica circolanti in qualche
zona del vecchio continente (segnatamente in Francia e Italia)106. Con l’entrata in vigore
della Carta di Nizza e il rafforzamento dell’orizzonte giuridico entro cui è chiamata ad
operare la Corte di giustizia, potrebbe risultare un po’ più semplice, dunque, capire dove
va l’Europa.
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106 Si v., per la Francia, la proposta avanzata nella relazione preparata per il Conseil Française d’Analyse Economique da Blanchard e Tirole (2004, già tradotta in lingua italiana), criticata fra gli altri da Gautié (2005, pp. 5-8), e, per l’Italia, quella di Ichino (2005, p. 28 ss.).
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