Soresina, M., Mozart Come Dante. Il Flauto Magico, Un Cammino Spirituale, Bergamo, 2011

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Malia Soresìna Mozart come Dante Il Flauto magico: un cammino spirituale Moretti &VitaU

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Interpretación de Die Zauberflöte de Mozart

Transcript of Soresina, M., Mozart Come Dante. Il Flauto Magico, Un Cammino Spirituale, Bergamo, 2011

Malia Soresìna

Mozart come Dante Il Flauto magico: un cammino spirituale

Moretti &VitaU

Più di cinque secoli separano Mozart da Dan-te. Cosa possono avere in comune? Apparen-temente nulla, se non la genialità. Tuttavia il Flauto magico presenta straordinarie analogie con la Divina Commedia, a cominciare dalla prima scena, che vede Tamino, il protagonista, fuggire davanti a un serpente proprio come Dante davanti alle tre bestie. Maria Soresina, non nuova a paralleli arditi, accompagna il lettore, scena dopo scena, a sco-prire, grazie al costante rimando al poema dan-tesco, il significato spirituale di questo capo-lavoro di Mozart. Si vedrà allora che il Flauto magico non è una fiaba, come in genere viene detto, ma la rappresentazione di un cammino iniziatico. Mozart, come Dante, usa simboli quali il pas-saggio attraverso il fuoco e l'acqua. Mozart, come Dante, insegna un cammino che conduce a Dio senza mediazione ecclesiastica: Tamino vi giunge guidato da Pamina, Dante da Beatrice, entrambe immagine della scintil-la divina, l'eterno femminino che ci trae verso l'alto. Mozart, come Dante, era animato da una forte passione politica e dalla speranza in un'immi-nente vittoria della ragione sull'oscurantismo e sulla superstizione: «allora la terra sarà un pa-radiso» in cui regneranno la tolleranza e l'amo-re tra gli uomini.

In copertina: Karl Friedrich Schinkel, scenografia per il Flauto magico, Berlino 1816.

Moretti&VUaU editori Cras iterabipjus aequor

IL TRIDENTE 84

Campus

m

Maria Soresina Mozart come Dante : Il Flauto magico-, un cammino spirituale Bergamo: Moretti & Vital i , [2011]. 192 p. ; 21 cm. ( Il Tridente. Campus ; 84 )

CDD (ed. 21 . ) : 782.1

ISBN 978 88 7186 508 9

1 Mozart, Wolfgang Amadeus; Die Zauberflòte

I. Soresina, Maria

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Composizione tipografica: Bauer Bodoni (copertina); Simoncini Garamond (interno)

Stampa; Digital Print, Segrate (MI), Novembre 2011

Maria Soresina

Mozart come Dante Il Flauto magico-, un cammino spirituale

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Moretti&Vitdi

Sommario

Considerazioni introduttive 13

La vicenda 14

Un cammino e un duplice obiettivo 17

Una lingua comprensibile a tutti 19

Il libretto 21 A proposito del film «Amadeus» 27

Illuminismo e massoneria 30 La religiosità di Mozart 34 Il Flauto magico 40

Atto I 43

Scena 1: La «bestia» 43

Scena 1: Le tre damigelle 45

INTERMEZZO DANTESCO: LE TRE DONNE BENEDETTE 45

INTERMEZZO DANTESCO: IL RISVEGLIO 46

Scena 2: Papageno 47

Scene 3-4: Il ritratto 49 Scena 5: Il ratto di Vamina 51

Scena 6: La Regina della Notte 53

Scena 8: Flauto d'oro e campanelli d'argento 56

Scena 8:1 tre fanciulli 59

Scene 9-11: Monostatos 60 Scene 12-14: L'arrivo di Papageno e il duetto sull'amore 63

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Scena 15: La conversione di lamino 64

INTERMEZZO DANTESCO: CAMBIARE IDEA 66

INTERMEZZO DANTESCO: LA CONVERSIONE 69

Scena 15: Tantino suona il flauto 71

INTERMEZZO DANTESCO: UN VIAGGIO AGLI INFERI 71

Scene 16-17: Vapageno, Pamina e la verità 75 Scena 18: Spirito e Materia, e la presunta misoginia 76

Scena 18: Monostatos. L'amore e la libertà 80

Scena 19: ¥ amina, Lamino e la punizione di Monostatos 86

Atto II 89

Scena 1: «Egli è un uomo!» 89

Scene 2-6: Inizio delle prove 91 Scene 7 e 10: Monostatos 95 Scena 8: La Regina vuole vendetta 97

Scena 12: La risposta di Sarastro 100

INTERMEZZO DANTESCO: LA VENDETTA 103

Scene 13-19: La prova del silenzio 107 Scena 15: Papageno, Papagena e la critica

del ritualismo massonico 108 Scene 16-18: «Mangiate e bevete allegramente... ma tacete!» 112

INTERMEZZO DANTESCO: RELIGIONE E CASTITÀ 113

Scena 21: L'ultimo addio 114 Scene 22-23: Differenze tra Papageno e Lamino 117

INTERMEZZO DANTESCO: LA CONDANNA DI BRUNETTO 119

Scene 23-25: Appare Papagena 120

Scene 26-27:1 tre fanciulli angelici e Pamina 122

INTERMEZZO DANTESCO: BEATRICE PARLA AGLI ANGELI 123

Scena 28: Fuoco, acqua, aria e terra 124 INTERMEZZO DANTESCO: IL PASSAGGIO ATTRAVERSO

I QUATTRO ELEMENTI 129

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Scena 28: Una donna viene iniziata 130

INTERMEZZO DANTESCO: BEATRICE 134

Scena 28: Il flauto 137

INTERMEZZO DANTESCO: TIUSUMANAR 140

Scena 28: «Trionfo! Trionfo! Tu, nobile coppia!» 143

Scena 29: «Pa Pa-Pa... » tanti piccoli Papageni 145

Scena 30:1 raggi del sole respingono la notte 152

L'aspetto politico 157 INTERMEZZO DANTESCO: LA LUPA 159

L'aspetto religioso 161

Hote 167 179

A Caterina,

mia figlia, che mi ha insegnato a non avere paura del mare.

Considerazioni introduttive

Ascolta questo flauto di canna che si lamenta; esso narra la storia della separazione. ^

Il poema Mathnaioi del grande Rumi inizia cantando il dolore per la separazione dell'anima dalla sua patria celeste e lo struggente desiderio di ritornarvi. Il flauto è il simbolo di questa nostalgia, le dà la voce.

È fuoco e non vento il suono del flauto ... È fuoco d'Amore caduto sul canneto?

Cinque secoli dopo, e in tutt'altra parte del mondo, lo stesso «fuoco» risuona di nuovo attraverso un flauto: il Flauto magico di Mozart esprime infatti esattamente la stes-sa nostalgia, dà voce alla medesima speranza. E all'amore, perché il Flauto magico è una storia d'amore. Non però come in genere viene inteso. La donna, l'Amata, c'è: si chia-ma Pamina, ma non è che un simbolo. E la Sophia dei filo-sofi, l'Anima, Beatrice, Laura o uno dei tanti nomi dati alla scintilla divina celata dentro ciascuno di noi, o a quella parte di essa rimasta in cielo. Il desiderio che ci spinge a cercarla è amore, perché l'amore è, come spiega Platone, la tensione verso qualcosa che non si possiede. O che si è perduto.

Il Flauto magico insegna il cammino che ci conduce a ritrovarla, un cammino che è sempre stato descritto come

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lungo, difficile, pericoloso. E lei poi ci guiderà verso il vero oggetto del nostro amore. Lei è r«eterno femminino» che «ci trae verso l'alto»,^ oltre la vita e la morte, verso il mondo degli dèi, del trascendente, del metafisico, verso Dio e verso noi stessi.

E la via del ritorno alla «patria celeste», ma l'espressio-ne può trarre in inganno, ed è meglio chiarire subito: non si tratta di un evento che si realizzerà dopo la morte. I veri Maestri non si sono mai occupati dell'eventuale vita dopo la morte, ma hanno insegnato come arrivare alia «vita», all'autentica vita, alla vita felice, prima della morte, qui, suUa terra.

Mozart immagina che le varie fasi di questo cammino - ma soprattutto l'ultima, che vede il ritorno di Tamino, guidato dall'Amata, all'origine divina - avvengano tramite il suono del flauto, questo strumento antichissimo che le varie mitologie dicono inventato vuoi da Osiride, vuoi da Atena, in ogni caso da una divinità, e i cui «accenti squar-ciano i nostri veli», come dice ancora il grande Rùmì.'

La vicenda

Chi è Tamino? Mentre nei paesi di lingua tedesca il Flauto magico è ogni anno l'opera che registra il maggior numero di rappresentazioni, in Italia viene eseguita rara-mente. Dato che la vicenda è poco nota, sarà opportuno iniziare raccontandola.

Quando si alza il sipario si vede un uomo (si saprà poi essere il principe Tamino) che, inseguito da un enorme serpente, fugge gridando «Aiuto, aiuto!» e sviene. Il ser-pente viene ucciso dalle tre damigelle della Regina della Notte, la quale appare e incarica Tamino di liberare sua

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figlia Pamina, rapita e prigioniera di un demone potente e maligno, Sarastro. Tamino, innamoratosi di Pamina aven-do visto un suo ritratto, parte accompagnato da Papageno, uno strano tipo, tutto coperto di piume, che cattura uccelli per la Regina della Notte e il cui unico desiderio è quello di trovare una moglie. A entrambi viene dato uno stru-mento magico: a Tamino un flauto d'oro e a Papageno dei campaneUini d'argento. Non conoscendo la strada, viene loro promessa la guida di tre fanciulli angelici, che tuttavia compariranno solo più tardi.

I due partono, ma nel regno di Sarastro arrivano separati: Papageno trova subito Pamina, incatenata dagli schiavi di Sarastro, in particolare dal loro capo, il moro Monostatos, che tenta sempre di sedurla e che scappa alla vista di Papageno.

Tamino invece, guidato dai tre fanciulli, arriva in uno spiazzo davanti a tre templi (della saggezza, della ragio-ne, della natura). Un sacerdote gli spiega che Sarastro, il sommo sacerdote di Iside e Osiride, non è affatto cattivo, come le «donne» gli han fatto credere.

Dopo varie vicissitudini, Tamino e Pamina finalmente si incontrano davanti a Sarastro, il quale ordina che i due uomini (Tamino e Papageno) vengano condotti nel tempio delle prove per purificarsi.

II secondo atto comincia con una riunione dei sacerdoti sul destino di Tamino e Pamina.

Tamino e Papageno iniziano la prova del silenzio. Pamina dorme in un giardino. Monostatos si avvicina

per baciarla, ma viene interrotto dall'apparizione della Regina della Notte che ordina alla figlia di uccidere Sarastro e le consegna un pugnale. Monostatos, che ha assistito alla scena, tenta di avere Pamina ricattandola. Al suo rifiuto la vorrebbe uccidere, ma viene fermato da Sarastro.

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A Papageno, il quale durante la prova del silenzio conti-nua a parlare e a comportarsi da buffone, appare una brut-ta vecchia che afferma di essere la sua sposa. Prima che riesca a dire il proprio nome, un tuono la fa scomparire. Rimasto solo, Papageno canta il suo desiderio di avere una compagna. Gli appare di nuovo la vecchia che, dopo esser riuscita a fargli promettere di amarla e di rimanerle fedele, si trasforma in una giovane vestita come lui, che però gli viene subito sottratta dai sacerdoti. Papageno è disperato e decide di impiccarsi. Dal suicidio lo salvano i tre fanciulli angelici, suggerendogli di utilizzare i campanellini magici. Papageno li suona ed ecco che appare, finalmente sua, la bella Papagena. Insieme progettano una vita felice con tanti bambini.

Seguendo il suono del flauto, Pamina raggiunge Tamino, ma lui, per non rompere il silenzio, non le rivolge la parola. Sentendosi abbandonata, Pamina vuole togliersi la vita con il pugnale datole dalla madre. La salvano i tre fanciulli, che la conducono da Tamino, il quale sta per iniziare la prova del fuoco. A Pamina è concesso di accompagnarlo e affron-tare i passaggi attraverso il fuoco e l'acqua insieme a lui.

Monostatos intanto si è alleato con la Regina della Notte e, ottenuta la promessa di avere in cambio sua figlia Pamina, la introduce nel tempio insieme alle tre damigelle, ma tutti quanti sprofondano in un baratro.

«I raggi del sole respingono la notte» canta Sarastro solennemente. La didascalia dice: «l'intera scena si trasfor-ma in un sole». Tamino e Pamina vengono accolti trionfal-mente dal coro dei sacerdoti. Cala il sipario.

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Un cammino e un duplice obiettivo

Assistendo a una rappresentazione del Flauto magico è quasi impossibile non rimanere incantati sia dalla bellezza della musica, sia dall'atmosfera fiabesca e magica che con-nota questo Singspiel sin dalle prime scene: il serpente, le misteriose fanciulle che lo uccidono, la Regina della Notte con la storia della figlia rapita da un demone malvagio. Il fascino del Flauto magico è dovuto anche all'aura di miste-ro che lo pervade e alla ricchezza di significati più o meno celati che vi si possono leggere.

Così è per tutti i capolavori, perché gli artisti si espri-mono con un linguaggio figurato, attraverso allegorie e simboli, per cui il piìi delle volte non comprendiamo tutti i risvolti delle loro opere, ma ne percepiamo, magari incon-sciamente, la profondità del respiro, la bellezza e, soprat-tutto, avvertiamo che dicono qualcosa che ci riguarda. In effetti è proprio così, perché gli autori dei capolavori sono sempre grandi uomini, uomini liberi, capaci di innalzarsi al di sopra del loro tempo, capaci di attingere a ciò che è universale ed eterno, ma capaci anche - e questo è fonda-mentale - di intrecciarlo con le vicende terrene, e parlarci della vita, della nostra vita, per usare le parole di Dante, e del cammino da compiere se si vuole arrivare alla felicità.

Tale cammino è stato indicato, fin dai tempi più remo-ti, non solo dai testi sacri di tutte le culture, ma anche da poeti, filosofi, mistici: personaggi quasi sempre invisi alle varie religioni istituzionali, che li hanno perseguitati, messi al rogo, crocifissi. Ma il loro luminoso messaggio è giunto sino a noi e finché durerà questo mondo continuerà a risuonare nei nostri cuori per ricordarci che non fummo fatti per viver come bruti, né per essere infelici.

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Dante è esplicito: ha composto il suo poema per «toglie-re dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato della felicità».^ Mozart non è da meno: nel Flauto magico, «l'opera in cui annuncia il suo credo artistico e spi-rituale»/ risuona ripetutamente la parola Glùck (felicità) e due volte (alla fine del primo atto e in un momento signi-ficativo del secondo) viene intonata una radiosa promessa:

Dann ist die Erd' ein Himmelreich Und Sterbliche den Gòttern gleich.

Allora la terra sarà un regno celeste e i mortali uguali agli dèi.

Nonostante l'apparente omogeneità dei due versi, penso che si riferiscano a due obiettivi differenti e che tale distin-zione offra una straordinaria chiave di lettura, in grado di risolvere le tante apparenti contraddizioni. L'obiettivo del primo verso - che la terra diventi un paradiso - è eviden-temente terreno, e potremmo quindi definirlo «politico». Due anni prima era scoppiata la Rivoluzione francese che aveva acceso in molti cuori la convinzione che stesse ini-ziando una nuova era di giustizia sociale e di libertà. Ma il sogno era ben presente già prima: tutto il Settecento (il secolo dei Lumi) è pervaso da questo ideale. Penso in par-ticolare all'inno II trionfo dell'amore di Friedrich Schiller, del 1782, che presenta una notevole consonanza con i due versi del Flauto magico. La splendida strofa che apre e chiude l'inno, e all'interno del quale viene ripetuta altre tre volte, recita:

Selig durch die Liebe Gòtter - durch die Liebe Menschen Gòttern gleich! Liebe macht den Himmel

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Himmlischer - die Erde Zu dem Himmelreich.

Beati attraverso l'amore dèi - attraverso l'amore gli uomini uguali agli dèi! L'amore rende 0 cielo più celestiale - la terra un regno celeste.^

L'idea che la meta degli uomini sia di diventare «ugua-li agli dèi» è invece peculiare delle tradizioni religiose, e quindi possiamo definire questo un obiettivo «spirituale». Man mano che esamineremo le singole scene, e soprattutto alla fine, quando si potrà gettare uno sguardo d'insieme sull'intera vicenda, apparirà chiara l'opportunità di tale distinzione.

E poi c'è l'amore, lo strumento attraverso il quale è pos-sibile raggiungere entrambi gli obiettivi e che, nella poesia di Schiller, ha origine e finalità divine: nasce dal canto di Orfeo e «conduce al Padre della Natura», ovvero a Dio.

Una lingua comprensibile a tutti

Il Flauto magico è stato scritto per un teatro popolare, per la gente semplice che lo frequentava e che da subito lo ha amato e compreso senza bisogno di erudite chiose. Certo, anche il famoso Salieri ha capito che si trattava di un'opera eccezionale e, da musicista, avrà potuto apprez-zarne le raffinatezze stilistiche prettamente musicali, ma non è per lui che è stato scritto: non è perché lo compren-desse lui che Mozart ha scelto di usare la lingua tedesca.

Quello della lingua è un aspetto fondamentale, di cui si

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sottovaluta spesso la portata. La scelta di scrivere in una lin-gua che capissero tutti accomuna Mozart e Dante. Entrambi hanno rotto le consuetudini: il primo avrebbe dovuto usare l'italiano per un'opera lirica, il secondo scrivere in latino. «Si direbbe» scrive Massimo Mila «che le ambizioni artisti-che e mondane non abbiano più senso per questo Mozart ingenuamente veggente dell'ultimo anno di vita. [. . .] Ora lo occupa una specie di ideale etico, un messaggio universale da consegnare all'umanità».^ Per questo ha usato il tedesco, ed è lo stesso motivo per cui Dante ha scelto il «volgare»: per essere compreso da tutti, persino dalle donnette (le mulierculé)}^ Entrambi non volevano restringere a un'esi-gua élite la possibilità di capire i loro capolavori, perché in essi indicano a un'umanità sofferente, ingabbiata e infelice, il cammino che conduce alla libertà e alla gioia.

Il parallelo con la Divina Commedia attraverserà come un filo rosso tutta la presente esposizione dell'opera mozar-tiana, fungendo da chiave di lettura. Il poema dantesco ha un impianto teologico e dottrinale che un'opera musicale non potrebbe in nessun modo avere, soprattutto per l'esi-guità del testo che non a caso viene indicato con un dimi-nutivo: «libretto». Il confronto con la Divina Commedia che narra, come vedremo, la stessa storia, ovvero insegna lo stesso cammino, ci aiuterà a chiarire alcuni passaggi ritenuti finora incomprensibili, nonché il ruolo e il significato dei vari personaggi.

Come per tutti i capolavori, anche sul Flauto magico di Mozart è stato scritto moltissimo, con interpretazioni diverse. Trattandosi di un'opera musicale, la grande mag-gioranza dei commenti è dovuta a musicisti e musicologi. Io mi guarderò bene dall'addentrarmi in questo campo. La mia lettura intende mettere in luce gli aspetti spirituali ed è basata essenzialmente sul libretto.

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Il libretto

Tutti considerano il Flauto magico un capolavoro, ma solo per quanto riguarda la sublime musica, mentre sul libretto sono da sempre piovute critiche pesantissime, e non solo da parte di musicologi: «E un'accozzaglia di banalità massoniche adattate al gusto barocco»^ scrive per esempio Marguerite Yourcenar; Massimo Mila parla di «innegabile rozzezza»^^ e lo definisce «squinternato»^^ e «bambinesco»; "* Abert lo ritiene rozzo, primitivo e banale; ^ HUdesheimer «sconclu-sionato», ^ tanto per citare alcune tra le voci più autorevoli. Solo pochi comprendono che in quest'opera «la musica di Mozart non si inserisce, estranea e distaccata, in un'impal-catura infame, ma sposa intimamente [...] una costruzione verbale e letteraria che le è congeniale». ^

Il libretto del flauto magico è estremamente semplice, lontano dalle eleganti rime di Lorenzo Da Ponte (l'autore delle opere «italiane» di Mozart) e ancor più dagli aulici versi del Metastasio che fanno da libretto alla Clemenza di Tito. Va però detto che il disappunto dei critici non riguarda tanto lo stile, quanto la vicenda, contrassegnata da incongruenze e capovolgimenti che possono sembrare sconcertanti, assurdi, ma che invece hanno, come vedre-mo, un senso profondo.

Se così non fosse dovremmo anche noi stupirci, come Massimo Mila, del fatto che «il librettaccio dell'estroso teatrante Schikaneder gode di estimatori illustri», ^ come Johann Wolfgang Goethe, il quale ne ha addirittura scritto un seguito: Der Zauberflóte zweiter Teil {La seconda parte del Flauto magico), rimasto incompiuto.^^ Di Goethe quasi tutti riportano la seguente frase: «Ci vuole piià cultura per riconoscere il valore di questo libretto che non per negarlo»,^" parole che trovano conferma nel fatto che tra

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coloro che hanno apprezzato il libretto ci sono alcuni tra i più grandi filosofi tedeschi, come Herder, Schopenhauer (che lo riteneva «pieno di significati e d'importanza»)^^ e Hegel, che scrive: «Si può spesso sentir dire che il testo del Flauto magico è troppo lamentevole, benché questo testo, di così poco conto, sia da annoverare fra i più notevoli libretti d'opera. Dopo tanta produzione stolta, assurda e piatta, Schikaneder ha qui colto il punto giusto».^^ Anche Beethoven, come scrive Hermann Abert, «preferiva [il Flauto magico^ a tutte le altre opere mozartiane, mostran-do così almeno di non rifiutarne il libretto».^^

Di fronte a questi giudizi positivi quasi tutti i critici rimangono increduli e perplessi. Il fatto è che in genere i critici, a differenza dei filosofi, dei poeti, degli artisti e dei semplici, non hanno dimestichezza con il linguaggio simbolico, cui il Flauto magico fa ampio ricorso, e che è ineludibile per chi voglia diffondere un messaggio di ordi-ne spirituale.

Autore del libretto è Emanuel Schikaneder. Così recita il frontespizio, ma sul fatto che il testo sia stato scritto vera-mente da lui o, più precisamente, solo da lui, sono stati da sempre sollevati dubbi. Schikaneder era attore, cantante (nella prima esecuzione del Flauto magico ricopriva il ruolo di Papageno), e soprattutto un geniale impresario teatrale, famoso sia in Austria che in Germania e apprezza-to anche a corte. Nel 1789 aveva preso in gestione il gran-de complesso residenziale che comprendeva il Theater auf der Wieden, per il quale Mozart scrisse quest'opera.

Sembra ormai accertato che almeno una parte del libretto, soprattutto nel secondo atto, sia opera di Karl Ludwig Giesecke, esimio scienziato, professore di mine-ralogia (c'è persino un metallo che porta il suo nome, la

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giesekite), con la passione per il teatro, per cui collaborò con la compagnia teatrale di Schikaneder sia come attore e cantante (nella prima esecuzione del Flauto magico cantava in un ruolo minore), sia come librettista. Nel 1818 avrebbe confidato a un amico di essere l'autore di quasi tutto il libretto, mentre Schikaneder avrebbe scritto solo le parti di Papageno e Papagena. Non tutti i critici diedero però credito a questa testimonianza. La questione è comunque ancora irrisolta, e temo lo sarà per sempre.

Benché non vi siano «prove», oggi gran parte degli stu-diosi ritiene che vi abbia collaborato lo stesso Mozart, e che a lui siano da ricondurre «l'essenziale del testo, l'alto afflato etico e il simbolismo massonico». "* E del tutto errata l'idea che egli componesse acriticamente le musiche su testi che gli venivano proposti. Al contrario: ha sempre scelto lui, e con grande cura, i temi delle sue opere, proponendo il soggetto e polemizzando sui testi anche quando si trattava di opere in italiano, come riferisce lo stesso Lorenzo Da Ponte. ^ A maggior ragione ne avrà discusso con i suoi amici Schikaneder e Giesecke per un'opera che gli stava particolarmente a cuore, e che era nella sua madrelingua. Anni dopo Schikaneder parlò del Flauto magico come di «un'opera che ho scrupolosamente studiato da capo a fondo col povero Mozart», *" e ciò è confermato da alcune lettere di quest'ultimo che raccontano di giornate intere passate a lavorare con Schikaneder nel Gartenhaus, il padi-glione all'interno del grande giardino del teatro.

Che Mozart apprezzasse il libretto è dimostrato anche da una lettera - una lettera assai importante su cui tornere-mo - nella quale racconta alla moglie che per spiegare a un «imbecille» il senso delle scene solenni «attirò la sua atten-zione», come giustamente sottolinea Jacques Chailley,

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«non su "un certo si bemolle", ma su "certe parole"».^^ Anche Giovanni Carli Ballola e Roberto Parenti, autori di uno dei migliori studi su Mozart usciti in Italia, vedono in questa lettera lo «sdegno mozartiano contro l'ottusa capacità di comprensione del testo nei suoi valori più alti e simbolici» precisando che «si intuisce una convinta ade-sione ai messaggi del contenuto, là dove parla della "scena solenne" all'inizio del secondo atto». ® Quindi non si può sostenere che Mozart, «in uno stato di crescente rassegna-zione», componesse la musica, su un libretto «considerato del tutto inadeguato»:^^ è evidente che lo apprezzava, come lo hanno apprezzato tanti grandi filosofi, scrittori e musicisti che hanno visto nel Flauto magico una rara, profonda unione tra testo e musica.

Sulla questione vorrei dare anche voce a un autorevole uomo di teatro, Giorgio Strehler, che scrisse:

Si parla e si è parlato tanto dell'eterogeneità del libretto del Flauto e lo si è considerato sempre come un fattore negativo dicendo che - per nostra fortuna - Mozart risolse questo «coacer-vo di stupidaggini ed incongruenze» in una unità musicale senza precedenti. Ma io non sono mai riuscito a leggere le pagine di Schikaneder come un materiale bruto al quale Wolfgang Amadeus Mozart ha quasi malgré lui donato ali e suono. A me, il libretto del Flauto Magico è sempre apparso una straordinaria matrice di teatro, una grande invenzione poetica. [ . . . ] E poi, quanto c'è di Schikaneder o, ammettiamolo per ipotesi, di Gieseke, e quanto c'è di Mozart, nel libretto del Flauto? Perché non ammettere la pre-senza, nel suo teatro in musica, del letterato Mozart? Gli interventi mozartiani sulla materia letteraria delle sue opere sono continui e spesso documentati. [ . . . ] Da parte mia affermerei che nel libretto del Flauto c'è posto per tutti: Schikaneder, Wieland, Gieseke, ma prima di tutti c'è W.A. Mozart, non «maestro di musica» ma «maestro di lettere». Non esistono qui documenti di questo lavo-ro perché esso è l'oscuro lavoro di sempre della creazione di un artista segreto quant'altri mai; ma io non ho dubbi nell'affermare

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che quanto c'è di alto, di luminoso, di umano, fatti e concetti, situazioni e avvenimenti, momenti e parole, nel Flauto Magico, appartengono anche e soprattutto a Mozart.^®

Quali fonti del libretto vengono indicate soprattutto due opere. La prima è Lulu, oder die Zauberflòte {Lulu, o il flauto magico) di August Jacob Liebeskind,^^ che appar-ve solo due anni prima del Flauto magico, nel 1789. Le analogie si riducono tuttavia all'impianto iniziale: Lulu è un principe (come Tamino), ci sono una buona fata e un mago malvagio, una figlia rapita che Lulu libererà, e un flauto magico, che però viene usato per incantare il mago malvagio, ovvero con modi e finalità ben diverse dall'ope-ra mozartiana. Schikaneder e Mozart ne hanno sicuramen-te tratto qualche elemento, ma hanno fatto tutt'altra cosa.

La seconda fonte è rappresentata dall'allora celebre romanzo filosofico e massonico Séthos dell'abate Jean de Terrasson, pubblicato a Parigi nel 173 L ^ A questo scritto era peraltro già ispirato il dramma eroico in cinque atti Thamos, Kònig in Aegypten {Thamos, re in Egitto) del barone Tobias Philipp von Gebler, per il quale Mozart scrisse due cori nel 1773. Questo incontro rappresentò per il diciassettenne musicista il primo e importante contatto con la massoneria, di cui Gebler era uno dei principali esponenti.

Al di là dell'assonanza tra i nomi Thamos e Tamino, il 'Flauto magico contiene ben due riprese testuali e molti elementi tratti dal Séthos: Séthos è un principe che deve sottostare a una serie di prove iniziatiche tra cui la cattura di un drago e il passaggio attraverso l'acqua e il fuoco. Dal Séthos potrebbe essere derivata l'idea dell'ambientazione egizia, benché l'interesse per i culti misterici, e in partico-

lare per quelli dell'antico Egitto, fosse allora assai diffuso, e vivo soprattutto negli ambienti massonici.

Fonti ispiratrici dell'opera sono state senza dubbio anche due grandi opere dell'antichità: L'asino d'oro di Apuleio, che nell'ultimo capitolo descrive l'iniziazione del protagoni-sta Lucio ai misteri di Iside, e Viside e Osiride di Plutarco. Come scrive Alfons Rosenberg, sostenitore della «indub-bia» partecipazione di Mozart alla stesura del libretto, «nel Flauto magico si fondono in un nuovo insieme assai singo-lare ma unitario le tradizioni di quattromila anni di storia del pensiero dell'umanità: miti dell'Asia, fiabe e leggende europee, verità pagane e cristiane, speranze e aspettative del XVIII secolo».33

Mozart era un uomo dalla profonda e raffinata cultu-ra, coltivava rapporti di amicizia e di corrispondenza con gli scrittori e gli scienziati più autorevoli del suo tempo, aveva a disposizione una «selezionata biblioteca»^"^ perso-nale, leggeva molto e in varie lingue e aveva ben radicate idee proprie. «Mozart è il musicista che conosce non solo Metastasio, Fénelon e le Mille e una notte, ma anche I dolo-ri del giovane Werther di Goethe e le opere di Wieland; il musicista che non solo legge il testo chiave del teatro illumi-nistico francese. Le mariage de Figaro, ma se ne appassiona al punto da sceglierlo personalmente come libretto ideale per un suo teatro di critica e di osservazione psicologica; il musicista che non si chiude in una sua delimitata profes-sionalità di Kapellmeister, ma segue il teatro di prosa, vi conosce i testi di Shakespeare, di Lessing e di SchiUer». ^

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A proposito del film «Amadeus»

A questo punto non posso non aprire una breve paren-tesi per lamentare i danni che ha fatto all'immagine di Mozart il film Amadeus del 1984, che lo ha presentato come una specie di buffone di corte, geniale ma sempli-ciotto e ignorante. Quella pellicola non rende giustizia, peraltro, nemmeno a Salieri.

A dire il vero, regista e sceneggiatore hanno in fondo solo esasperato un aspetto già presente nelle varie biogra-fie, soprattutto quelle più antiche, che presentano Mozart non proprio così ma quasi, basandosi, fra l'altro, sul lin-guaggio sboccato delle lettere alla cuginetta o dando cre-dito a quanto scriveva, per esempio, Karoline Pichler nella sua autobiografia uscita postuma nel 1844 in cui raccon-tava come una volta r«Orfeo tedesco» avesse interrotto la sua esibizione al pianoforte «cominciando, come spesso faceva quando gli prendeva l'estro di fare il buffone, a sal-tare sui tavoli e i divani, a miagolare come un gatto e fare una capriola dopo l'altra come un bambino scatenato».^^ Mi sembra inaccettabile partire da dati opinabilissimi come questi per scrivere, come fa Wolfgang Hildesheimer, autore di una delle più diffuse biografie su Mozart:

Poniamoci la seguente domanda: ci saremmo trovati bene noi in sua compagnia? La sua estrema e spesso addirittura sconcertante disinibizione ci avrebbe messo a nostro agio, o a disagio? E forse non sarebbe nemmeno stato un'indefinibile ma sempre emergente eccentricità a paralizzarci o a ridurre al silenzio la nostra tavolata di fronte a questo ospite sorprendente, elemento di disturbo e in fondo lui stesso disturbato. [ . . . ] Forse si trattava qui di qualcosa di più tangibile, di più vistosi segni di una trasandatezza alla quale non gli valeva più la pena di disabituarsi, se pure ne fosse stato cosciente. Forse di mattina non si lavava nemmeno più le mani? Forse aveva le unghie sporche, si comportava male a tavola o

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sputava parlando? Chissà, forse di lui avremmo detto: «Sarà sicu-ramente un genio, ma è un tipo insopportabile».'^

«Insopportabile» è un discorso del genere, e non basta farcirlo di «forse» e punti interrogativi. E ignobile e riprovevole soprattutto perché non corrisponde alla real-tà, come risulta da una più recente e accurata analisi dei documenti. Ma già allora sarebbe bastato usare come fonte anziché le tardive dichiarazioni della Signora Pichler, le lettere di Mozart, come quella del 17 marzo 1781 al padre in cui, descrivendo la situazione presso l'arcivescovo di Salisburgo, scriveva:

I due signori camerieri particolari siedono a capotavola. Io ho almeno l'onore di sedere davanti ai cuochi. [ . . . ] A tavola si fanno scherzi sciocchi e grossolani; con me non scherza nessuno, perché non dico una parola, e se proprio devo dire qualcosa lo faccio sempre con la massima serietà. Non appena ho finito di mangiare, me ne vado per la mia strada.'®

Ciò dimostra quanto Mozart fosse ben lontano dall'ap-prezzare volgarità e stupidi scherzi, ma sembra in contrad-dizione con le «volgarità» di alcune sue lettere e compo-sizioni. Con grande imbarazzo i critici dicono, usando un termine scientifico, che Mozart era affetto da «coprolalia». Va detto che questo modo di esprimersi egli lo usava solo all'interno di determinati rapporti familiari, soprattutto nelle lettere alla Bdsle (cuginetta), mentre ben diverso era il tono con cui scriveva al padre. A mio avviso non era né volgare, né patologico. Direi che era molto «austriaco» o, più precisamente, dell'Austria di una volta, e quindi difficile da comprendere oggi e altrove. Dopo la morte di Mozart la moglie Constanze distrusse tantissime lettere e documenti che riteneva sconvenienti, ma non «le lettere

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alla cugina», giudicate da lei «decisamente di cattivo gusto ma molto spiritose».^^

Non c'è alcuna «doppia vita»' ° in tutto ciò: il genio che ha scritto quella sublime musica e il giovane che è capace di ridere e scherzare non solo sono compatibili, ma sono due aspetti reciprocamente imprescindibili. E molto diffu-sa l'idea romantica che il grande artista debba essere infe-lice. È un po' come l'analoga idea che una medicina, per essere efficace, debba avere un cattivo sapore. Non è così: quella musica così dolce, lieve, traboccante di vera gioia e di immensa serenità poteva essere scritta soltanto da chi fosse capace di ridere e scherzare; da chi, nonostante le traversie della vita, fosse felice; e, soprattutto, da chi fosse libero, in tutti i sensi: libero di mostrare insofferenza verso le rigidità di un assurdo galateo, libero di esprimere la pro-pria originalità anche usando termini che potevano essere giudicati «decisamente di cattivo gusto». Anche questo è un sintomo della sua genialità.

Il film di Forman si basa, come è noto, sull'omonimo testo teatrale di Peter Shaffer, autore della sceneggiatu-ra del film, che si era ispirato, oltre che alla biografia di Hildesheimer, anche al brevissimo dramma Mozart e Salieri di Aleksandr Puskin del 1830, che dà credito alle dicerie circa un presunto avvelenamento di Mozart. Salieri viene qui presentato come un musicista talmente roso dall'invidia e dalla rabbia perché il «divino genio» non «illumina» lui, ma «la mente d'uno sfaccendato incosciente, d'un vaga-bondo, d'un demente»"*^ (cioè Mozart), da arrivare all'omi-cidio. Sono fantasie basate su voci infondate.

La storiografia pili recente è non solo meglio docu-mentata ma anche, penso, piiì libera. Nel 1920 Hermann Abert, per fare un esempio, parlava dell'«assoluto disin-

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teresse di Mozart per la politica. Anche gli allettanti ideali dell'imminente rivoluzione, libertà, uguaglianza, progresso, non avevano presa su di lui; di queste che egli considerava astratte teorie egli non sapeva che farsene».' ^ Basta leggere il testo del Flauto magico o le sue lettere per rendersi conto che ciò non è vero.

Oggi nessuno scrive più cose del genere, né nei paesi di lingua tedesca, né in Italia. Penso all'importante studio di Lidia Bramani dal titolo Mozart massone e rivoluziona-rio, che mette subito in chiaro la portata del pensiero di Mozart e la sua visione politica rivoluzionaria, quindi non politically correct per l'epoca. Attenzione: non per l'epoca di Mozart, bensì per quella posteriore, in cui venivano scritte queste biografie e in cui era già in atto la restaura-zione. E allora mi chiedo se Georg Nikolaus Nissen, che sposò la vedova di Mozart e che nel 1828 scrisse forse la prima vera biografia, oppure Otto Jahn, autore (nel 1856) di un'importante biografia, poi rielaborata, tra il 1919 e il 1924, dal grande musicologo Hermann Abert, non abbiano preferito presentarlo come apolitico piuttosto che «macchiarlo» attribuendogli idee o ideologie imbarazzan-ti. Con ciò non voglio insinuare che fossero in malafede. Certamente lo vedevano così, perché in fondo ciascuno vede sempre solo quello che vuole vedere.

Illuminismo e massoneria

La storia non è un susseguirsi di giorni sempre uguali: vi sono secoli bui ma anche secoli luminosi, in cui si accende un desiderio di innovazione, un fervore creativo, un rifio-rire delle arti e del pensiero. Tale fu quello che non a caso fu chiamato il secolo dei «Lumi». L'eccezionale sviluppo

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delle scienze alimentava la fiducia nella possibilità di reali cambiamenti - si pensi solo all'impatto che ebbe l'inven-zione della macchina a vapore - e nuovamente prese voce la mai sopita aspirazione a un mondo migliore e felice, un mondo in cui regnassero giustizia, fratellanza, libertà: i valori che diventeranno poi il vessillo della Rivoluzione francese, che fu l'esito di quella straordinaria stagione, ma ne segnò anche la fine.

Tra i frutti dell'utopia illuminista va certamente anno-verata la massoneria. Gli adepti parlano di origini anti-chissime, ma la massoneria settecentesca non ha nulla a che fare con i culti misterici greci o egizi, né con le corporazioni medievali dei costruttori di cattedrali, anche se da lì prende il nome. Nemmeno però con le ben note degenerazioni di fine Novecento. Era una seria e nobile associazione di uomini - le donne furono ammesse molto più tardi - sinceramente mossi dal desiderio di un pro-gresso personale e sociale. In tutta Europa vi aderirono le personalità più illustri del mondo culturale e scientifico, numerosi aristocratici e persino alcuni regnanti, nonché alti prelati sia della Chiesa anglicana (la prima Loggia fu istituita nel 1717 in Inghilterra), sia di quella cattolica.

Contrariamente a un'opinione diffusa, né l'illumini-smo né la massoneria predicavano l'ateismo. Semmai il «deismo». In Francia come in Germania nessuno dei filosofi illuministi negò mai l'esistenza di Dio, r«Essere Supremo», il «Grande Architetto dell'Universo» come veniva chiamato in ambito massonico. La massoneria, alla quale potevano affiliarsi uomini di tutte le fedi, non aveva una propria «dottrina», bensì un'idea alta e aperta di Dio e una posizione critica nei confronti di ogni chiusura e intol-leranza. Quindi era anticlericale, ostile soprattutto alla Chiesa cattolica. Non però al cristianesimo, benché non si

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qualificasse come «cristiana». Se si leggono, per esempio, i testi degli inni massonici musicati da Mozart, si vedrà che esaltano la fratellanza, la gioia, glorificano il Creatore, rin-graziano l'imperatore Giuseppe, ma il nome di Cristo non compare mai. Emblematico è il testo della cantata K619, composta da Mozart nell'estate 1791 mentre lavorava al Flauto magico-, «Voi che onorate il creatore dell'immenso universo, che lo chiamiate Geova, o Dio, che lo chiamiate Fu, o Brahma, ascoltate!». Illuministi e massoni miravano al risveglio di una religiosità intima e profonda, rispettosa della libertà di coscienza, esente da superstizioni e pregiu-dizi. E questo è precisamente, come vedremo, il messaggio del Flauto magico.

Alla massoneria aderirono, come detto, anche alcuni rappresentanti autorevoli del mondo cattolico, che evi-dentemente ne condividevano gli ideali. Ideali che tuttavia non piacevano alla Curia romana: nel 1738 Clemente XII promulgò la bolla In eminenti apostolatus con cui vietava, pena la scomunica, a tutti i fedeli cristiani, laici o religiosi, di iscriversi alle società massoniche, o anche solo di fre-quentarne le riunioni. Tale scomunica venne ribadita da Benedetto XIV nel 1751 e da altri cinque papi nel corso dell'Ottocento.

Anche la filosofia illuminista è stata ripetutamente stigmatizzata dalla Chiesa, che ha messo sempre all'Indice tutti gli scritti degli illuministi. Nell'enciclica Inscrutabile Divinae del 1775 Pio VI la definisce «morbo pestilenzia-le», «filosofia piena d'inganni» e di «perfide stravaganze». Nel Settecento chi professava tali idee era quasi sempre colpito da condanne e scomuniche, perseguitato, incarce-rato, spesso costretto a espatriare o a celarsi dietro pseu-donimi (come Montesquieu e Voltaire) o dietro un finto conformismo.

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Logge massoniche vennero aperte anche nel cattolico Impero austro-ungarico: la prima a Praga e poi, nel 1742 (quindi dopo la scomunica papale) a Vienna. Regnava allo-ra l'imperatrice Maria Teresa, che non aveva in simpatia la massoneria, ma, dato che in essa era molto attivo (e ancor prima di tale data) il consorte, duca Francesco I di Lorena, non intervenne con decreti censori se non dopo la morte di lui, avvenuta nel 1765.

Alla morte dell'imperatrice (1780) salì al trono il figlio Giuseppe II, sovrano illuminato, non sfavorevole alla mas-soneria (se non alle correnti rosacrociane e misteriosofiche), alla quale tuttavia impose, nel 1786, di ridurre a sole due le Logge nella capitale imperiale. A essa più ostile fu suo fratello, Leopoldo II, succedutogli nel 1790, ma va detto che nel frattempo era scoppiata la Rivoluzione francese, la quale fece tremare le case regnanti di tutta Europa e nella cui origine molti - la Chiesa soprattutto - videro l'ope-ra della massoneria. Va forse anche ricordato che Maria Antonietta, la sfortunata regina di Francia, era sua sorella.

Leopoldo regnò per soli due anni, e nel 1792 gli suc-cedette il figlio, Francesco II, che «sostituì al sospetto col quale il padre aveva guardato alla massoneria una dichia-rata ostilità»."'^ Questa, molto sinteticamente, la situazione generale.

I Mozart avevano aderito alla massoneria: Wolfgang nel dicembre 1784, suo padre Leopold nell'aprile dell'anno successivo. «La forza con cui trasmise anche al padre il suo entusiasmo dimostra la profondità della partecipazione interiore e della convinzione con la quale aderiva alla mas-soneria, la cui dottrina venne ad avere per lui un significato religioso».'''^ Tutti i biografi concordano che «fino alla morte la massoneria è stata per lui una cosa seria».''^ Molto

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è stato scritto, e con opinioni divergenti, su quale fosse, tra le varie correnti (Rosacroce, Illuminati di Baviera, Fratelli asiatici, ecc.), quella più vicina a Mozart. Non entro nel merito di questa disputa, anche perché gli ideali di fraterni-tà e tolleranza, che costituiscono le ragioni profonde della sua adesione alla massoneria, erano presenti ovunque.

Pare - la notizia proviene da una lettera scritta dalla moglie molti anni dopo la morte di Mozart - che a un certo momento egli coltivasse il progetto di fondare una nuova società segreta che si sarebbe dovuta chiamare «Grotta». «Non è improbabile» scrive l'Abert «che certe cose nella sua loggia non lo convincessero e che per questo meditasse piani di riforma».''^ Purtroppo nulla sappiamo di quali fossero le sue intenzioni, né dei principi morali che avrebbero dovuto ispirare la nuova società.

La musica rivestiva un ruolo assai importante nella vita delle Logge massoniche e al «fratello» Mozart furono com-missionate numerose composizioni - sia vocali, sia stru-mentali - per le diverse cerimonie e occasioni celebrative. I testi, che HUdesheimer definisce «tanto enfatici quanto pieni di buone intenzioni ma molto melensi»,''^ inneggia-no alla gioia (parola chiave dell'illuminismo tedesco), alla fratellanza, alla pace, alla libertà. Ideali che Mozart non vedeva promossi né realizzati dalla Chiesa, ma piuttosto dalla massoneria.

La religiosità di Mozart

Un problema assai dibattuto è quello della religiosità di Mozart, soprattutto quello della sua piij o meno assi-dua, più o meno convinta adesione alla Chiesa cattolica.

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La grande maggioranza dei critici lo ritiene sinceramente cattolico, nonostante dopo la morte del padre non la frequentasse più (tanto che il giorno della sua morte fu impossibile trovare un prete per l'estrema unzione), nono-stante gli screzi e l'odio per l'arcivescovo di Salisburgo (il 9 maggio 1781 scrisse al padre: «odio l'arcivescovo fino alla frenesia»),''® nonostante le critiche nei confronti dei preti, per i quali usava sempre il termine spregiativo di F f a j f e n e nonostante «la totale assenza, nel carteggio, di riferimenti a Cristo, alla Vergine, alla Chiesa e ai suoi carismi salvifici»."'^

In genere si sottolinea il fatto che dalla Chiesa cattolica Mozart non sia mai uscito formalmente, senza tener conto che tale prassi era allora impensabile: ancor oggi chi sente di non appartenerle si limita in genere a non frequentarla; ed è proprio ciò che fece Mozart. Basterebbe leggere le biografie degli intellettuali dell'epoca per comprendere quanto sia assurdo pretendere una sua uscita formale dalla Chiesa.

Hermann Abert adduce come «prova» della fedeltà di Mozart alla Chiesa cattolica la circostanza che «uno dei suoi migliori amici, Bullinger, era prete».^° Anche se aveva un amico prete, Mozart era senza dubbio anticlericale, ma ciò non significa che non fosse profondamente religioso e sinceramente cristiano. Purtroppo - temo più per mala-fede che per ignoranza - molti tendono a confondere U cristianesimo con il cattolicesimo, come se extra Ecclesiam non vi fosse la possibilità di essere dei buoni cristiani. Troppo spesso ho incontrato frasi che in sintesi dicono: Mozart era profondamente religioso, quindi era «cattoli-co», ovvero un fedele figlio di Santa Madre Chiesa. ^ La sua adesione alla massoneria viene allora vista come «un segno di omologazione "umanistica" all'epoca».^^ Non sono d'accordo. Semmai può essere considerata segno di

conformismo ai desideri paterni la frequentazione, benché scarsa, delle chiese, che erano «per lui, più che non luogo di culto, luogo dove si trovava un organo».^^

Più onestamente il noto teologo cattolico Hans Kung scrive: «Un "credente ligio alla Chiesa" [. . . ] Mozart non fu in nessun caso. Per la Chiesa come istituzione gerarchi-ca, che favoriva in molti modi la superstizione e tollerava un clericalismo decadente, egli, che credeva negli ideali massonici dell'amore per l'umanità e dell'illuminismo, ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, non aveva alcun interesse».^''

Penso che non si possa comprendere la posizione reli-giosa di Mozart né il significato della sua adesione alla massoneria se non si tiene conto del contesto politico, sociale e intellettuale dell'Austria di quegli anni sulle que-stioni che riguardano la religione.

Nel secolo successivo l'insigne storico francese Jules Michelet scriveva: «Si crede conoscere il secolo XVIII, e non si è mai vista una cosa essenziale che lo caratteriz-za. Quanto più la superficie, gli strati superiori, furono civili, colti, inondati di luce, tanto più ermeticamente si chiuse al disotto la vasta regione del mondo ecclesiastico, del convento, delle donne credulone», dei «tenebrosi macchinatori» che «diffondono la paura».^^ Chi viveva allora lo sapeva bene. Altrimenti sarebbe difficilmente comprensibile l'odio feroce che nel secolo dei Lumi si nutrì nei confronti della Chiesa, del clero e soprattutto dei gesuiti, termine ancora oggi indicato nei dizionari come sinonimo di ipocrita. E non solo nella lingua italiana. Il tedesco Heuchler (ipocrita, impostore), sinonimo di gesu-ita, risuona con grande enfasi alla fine del Flauto magico per indicare il nemico finalmente sconfitto. Fu proprio

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intorno ai gesuiti, accusati di sfruttamento disumano degli schiavi nelle colonie, di abusi e di arricchimenti illeciti che si sviluppò, negli anni in cui visse Mozart, una vera e pro-pria «guerra» tra la Chiesa e i Paesi cattolici, tanto che nel 1773 papa Clemente XIV si vide costretto a sopprimere la Compagnia di Gesù, dopo che questa era stata espulsa dal Portogallo, dalla Spagna, dalla Francia, dal ducato di Parma e dal Regno delle Due Sicilie e osteggiata dall'im-peratrice Maria Teresa d'Austria. Il papa morì l'anno suc-cessivo e corse voce che fosse stato avvelenato da membri di tale congregazione.

AUa fine del 1780, alla morte di Maria Teresa, salì al trono suo figlio Giuseppe II, di idee illuministe e amico della massoneria, che regnò fino al 1790. Da subito attuò una politica ecclesiastica passata alla storia col nome di «giuseppinismo». Nel 1781 emanò l'Editto di Tolleranza {Toleranzpatent) che mise fine alle discriminazioni e alle persecuzioni religiose in tutto l'Impero, abolì la tortura e la pena capitale, garantì a tutte le confessioni, compresi gli ebrei, libero esercizio di culto e diritti civili; soppresse inoltre gli ordini religiosi che non avevano attività d'inse-gnamento o di assistenza ospedaliera e fece chiudere cen-tinaia di conventi. L'obiettivo era quello di trasferire gran parte dell'attività ecclesiastica sotto il controllo dell'auto-rità statale, come avvenne, per esempio, con l'istituzione del matrimonio civile.

E lecito chiedersi come possa conciliarsi il credo cattoli-co dell'imperatore con una politica così ostile alla Chiesa. Il fatto è che gli ideali dell'illuminismo erano penetrati anche all'interno del mondo cattolico: tra i principali esponenti tedeschi viene annoverato il vescovo von Hontheim che nel 1763 pubblicò, sotto lo pseudonimo di Febronius, un libro che proponeva una riforma ecclesiastica intesa a ridimen-

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sionare il potere della Curia romana e del papa. Nonostante fosse stato da subito inserito nell'Indice dei testi proibiti e nel 1778 von Hontheim fosse stato costretto a ritrattare pubblicamente le sue idee, il libro ebbe grande risonanza e un notevole successo, non solo tra sacerdoti e vescovi ma anche in ambiente laico, dato che proprio al «febronianesi-mo» si ispirò la politica anticlericale di Giuseppe II.

Nel 1782 papa Pio VI si recò personalmente a Vienna per cercare di convincere l'imperatore a recedere dai prov-vedimenti presi, ma non ottenne nulla. I tempi di Canossa erano ormai passati e un nuovo vento spirava in Europa, anche se è vero che vi sarà la «restaurazione» e gran parte della legislazione giuseppina sarà abolita nel 1849. Noi però stiamo mettendo a fuoco l'atmosfera che si respirava negli anni in cui Mozart viveva a Vienna, e che coincidono esattamente con U regno di Giuseppe II: Mozart vi si tra-sferì infatti nel 1781, lasciando l'impiego, impostogli dal padre, presso l'odiato principe arcivescovo di Salisburgo Hieronymus von Colloredo, al servizio del quale era entra-to sedicenne nel 1772.

Nella Vienna di quegli anni era dunque in corso una guerra fredda dell'Impero contro la Chiesa: se non si tiene conto di questo, non si possono capire la religiosità di Mozart e il valore di vero e proprio schieramento che assunse la sua sincera, totale adesione alla massoneria.

«Se si vogliono conoscere i sentimenti religiosi di Mozart nella loro forma più sana ed elevata, occorre rivolgersi alla Zauberflòte»^^ sostiene l'autorevole musicologo inglese Edward Dent che, dopo aver tracciato un interessante confronto tra il «cattolico» Requiem e quest'opera «mas-sonica», scrive: «Il senso di libertà e di grandezza è ciò che difetta alla musica sacra di Mozart; anche nel Requiem si

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vede che, in taluni momenti, invece di esprimere primige-nie, elementari emozioni religiose, egli cerca di riprodurre un'atmosfera ecclesiastica corretta e convenzionale».^^ La musica sacra da lui composta è sempre stata criticata in vari modi. Soprattutto è stato scritto che si tratta di musica «più da concerto che da chiesa», che non tiene conto dell'aspetto liturgico e «in cui l'interesse artistico dell'occasione offer-ta dalla struttura rituale sembra svincolato dall'interesse religioso che dovrebbe ispirare l'opera musicale dedica-ta». ® Il teologo Sequeri parla di «evidenze musicologiche dell'incapacità di Mozart ad entrare nella sobrietà e nella compunzione richieste dallo stile sacro». ^ In altre parole: «Mozart compone sempre nello stile dell'"opera mondana", anche quando scrive "musica di chiesa"»,^'' la quale è per-ciò ritenuta talmente inadeguata che si arrivò a considerare «una vera e propria "provocazione"» l'esecuzione di una sua messa «nel contesto di una vera celebrazione eucaristica presieduta da Giovanni Paolo 11». '

Si può criticare la musica di chiesa di Mozart oppure considerare la questione da un punto di vista diametralmen-te opposto, come fa Massimo Mila che scrive: «Il teatro di Mozart - e non le Messe - finisce per essere la sua vera musi-ca religiosa. D'una religione che è la religione dell'uomo».''^

Va anche detto che Mozart non amava per niente scri-vere musica di chiesa: «Se si eccettua la Messa incompiuta in do minore, iniziata nel 1782, e il breve mottetto Ave verum corpus, composto a Baden il 17 giugno 1791 per il suo amico maestro di cappella StoU [. . .] egli non aveva pili scritto musica sacra dall'epoca in cui aveva lasciato, con grande gioia, Salisburgo e il suo arcivescovo».' ^ Poi il Requiem, commissionato da quel personaggio misterioso che tanto inquietò l'ormai gravemente malato Mozart.

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Il Flauto magico

Il Flauto magico è la rappresentazione di un rito d'ini-ziazione. Massonico? Così lo ritiene gran parte dei critici, adducendo a comprova di ciò elementi quali, per esempio, la presenza quasi ossessiva del numero tre. Ora, non dubi-to che tale numero svolga un ruolo importante all'interno delle logge massoniche, ma il tre è il numero sacro per eccellenza in tutte le tradizioni religiose. Anche la Divina Commedia è strutturata sul numero tre. Inoltre è naturale che, dovendo descrivere un rito d'iniziazione, Mozart si sia ispirato a quello che conosceva. Non è con il ricorso alla numerologia o alla ritualistica che si può dimostrare l'essenza massonica del Flauto magico. Assai più signifi-cativo mi sembra sottolineare l'afflato etico, l'ideale di fratellanza, l'anelito verso un mondo migliore: i valori dell'illuminismo che Mozart ha senza dubbio condiviso con la massoneria.

All'interno delle logge c'era chi riteneva l'opera ispirata fedelmente ai principi massonici, ma c'era anche chi la criticava. Circolava persino la voce che Mozart fosse morto (è morto, come si sa, due mesi dopo la prima esecuzione) avvelenato dai massoni, indignati perché avrebbe diffuso i loro segreti. Sono ipotesi deliranti, messe in circolazione da ambienti e personaggi antimassonici. Sul tema della massoneria le posizioni sono purtroppo spesso basate più sulle convinzioni e le passioni di chi scrive che non su una disanima seria e obiettiva dei documenti. Non è il caso del già citato libro di Lidia Bramani che, nonostante l'eloquente titolo {Mozart massone e rivoluzionario), ritiene che «l'arte di Mozart si offre come un apporto autonomo alla dottrina massonica» " e che «Mozart si aprirà una via personale, non assimilabile a un'area precisa».^^

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Della massoneria Mozart condivideva gli ideali e i prin-cipi essenziali, ma c'è almeno un aspetto sul quale, come si evince dall'opera, dissentiva: l'immagine della donna. «Una donna che non teme la notte e la morte è degna e viene iniziata» cantano gli armigeri in una delle scene pili intense del Flauto magico-, una prospettiva impensa-bile nell'ambiente massonico dell'epoca. E non solo in quell'ambiente. E non solo allora.

Il Flauto magico è essenzialmente la rappresentazio-ne del cammino spirituale dell'uomo, lo stesso, identico cammino che secoli prima aveva descritto Dante. Certo, la Commedia ha un impianto filosofico e teologico che qui non c'è, né ci potrebbe essere, ma in tutti i punti-chiave vi è una sorprendente corrispondenza, e allora il confronto col poema dantesco, molto più complesso e completo, può aiutare a comprendere il messaggio dell'opera di Mozart.

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Atto I

Atto l scena 1 - La «bestia»

Le indicazioni scenografiche parlano di un paesag-gio roccioso, con qualche albero, e un tempio rotondo. Compare un giovane (Tamino) vestito con uno «splendido abito da caccia giapponese». Qualcuno scrive «giavanese». In ogni caso vuol dire che viene da lontano, dall'Oriente. Ha in mano, e su questo particolare è stato scritto molto, «un arco, ma senza freccia». Probabilmente significa che non è in grado di difendersi. E ne avrebbe invece bisogno, perché è inseguito da un enorme serpente. Le prime paro-le che risuonano sulla scena sono: «Aiuto! Aiuto!». Poi sviene.

Fin dall'inizio c'è una precisa corrispondenza con la Divina Commedia. Anche Dante scappa per paura di una bestia (la lupa) e anche Dante chiede aiuto, a Virgilio:

«Miserere di me», gridai a lui,

e più avanti:

«Vedi la bestia per cu' io mi volsi: aiutami da lei famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».^^

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Qui è doveroso chiedersi: che eroi sono mai questi? E la domanda è importante soprattutto per Tamino, poiché il Flauto magico viene quasi sempre presentato come una fiaba. Ma nelle fiabe l'eroe uccide il drago; non scappa e non sviene. Dovremmo già capire che non si tratta di una fiaba, e domandarci il perché di questa scena. Ecco allora che la Divina Commedia, che nessuno ha mai considerato una fiaba, ci viene in soccorso. In entrambi i casi il prota-gonista non è in grado di affrontare la bestia, ma assai più significativo è che entrambi chiedono aiuto.

La richiesta di aiuto è il primo, ineludibile passo in ogni cammino spirituale di tipo iniziatico, come insegna anche lo Yoga: è il modo più semplice e più chiaro per esprimere la consapevolezza della propria insufficienza e il bisogno di una guida. Questo tipo di percorso spirituale non può, infatti, essere compiuto senza la guida di un maestro, di un guru, come si dice in India.

Secondo un antico detto, «quando il discepolo è pronto, il maestro arriva». Ma cosa significa essere «pron-ti»? Significa proprio questo: aver visto (o intravisto) la «bestia» (che è dentro di noi, ovviamente) e aver capito di non essere in grado di vincerla da soli; significa quindi essere disposti a farsi discepoli.

Solo interpretando così la richiesta di aiuto da parte di Tamino si può comprendere questa prima scena - altrimen-ti davvero assurda - in cui l'eroe scappa e sviene invece di uccidere il drago, come normalmente fanno gli «eroi». Soprattutto dobbiamo chiederci come mai il libretto del Flauto magico si dissoci dal testo da cui più di ogni altro ha tratto ispirazione, il Séthos di Terrasson, dove l'eroe, Séthos, cattura il drago. Evidentemente Mozart voleva raccontare una storia diversa: la storia di un uomo che, alla luce dei valori correnti allora - e a maggior ragione

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di quelli d'oggi - , non può certo essere considerato un «eroe», dato che non solo non uccide il drago ma diven-terà, come vedremo, un ubbidiente discepolo di Sarastro.

Atto I scena 1 - Le tre damigelle

Tamino sviene. A questo punto entrano in scena tre damigelle che, con una lancia, uccidono il serpente.

INTERMEZZO DANTESCO: LE TRE DONNE BENEDETTE

Anche Dante, benché in modo diverso, viene salvato da tre donne.In un lungo passaggio {Inferno II, 52-114) Beatrice spiega a Virgilio che una donna gentil, identi-ficata con Maria, vedendo Dante in grave pericolo, si è rivolta a Lucia, e questa a sua volta a lei, che è subi-to scesa al Limbo per chiedergli di soccorrere colui che l'aveva tanto amata. Le tre donne benedette non uccidono la bestia, né lo farà Virgilio, che proporrà invece a Dante un altro viaggio, la discesa nell'Inferno. Il significato profondo di ogni viaggio attraverso gli Inferi è quello di conoscere se stessi. Il primo passo è imparare a vedere e combattere il male all'interno di sé. Le tre bestie che Dante si trova di fronte, invece - come anche il serpente di Tamino - rappresentano sì il male, ma un male oggettivato come esterno a noi. Ci piace vederlo così, dare sempre ad altri la colpa delle nostre infelicità... ma così facendo non ne verremo mai a capo.

Dopo aver ucciso il serpente le tre damigelle si soffermano ad ammirare Tamino, e ciascuna vorrebbe rimanere da sola

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con lui: «Io rimango», «Io veglio su di lui», «Io lo proteggo», con tale insistenza che c'è chi ha scritto che «sono talmente smaniose verso quell'uomo passato di 11, che ci si può solo congratulare con lui d'essere svenuto per tempo». ®

Nessuno ha notato invece la pertinace presenza della parola ich (io) che compare - quasi sempre all'inizio - in ciascuno dei nove (tre volte tre) versi delle petulanti dami-gelle, le quali concludono poi, all'unisono, con un triplice «Ich! Ich! Ich!» (Io! Io! Io!). Il loro terzetto è delizioso, ma loro cantano una contro l'altra: questo è il regno deir«io», il regno dell'egoismo. Quindi questo mondo che, per quanto riguarda le prime scene, viene da tutti visto come positivo, ha già, a guardar bene, le sue ombre.

Allontanatesi le tre damigelle, Tamino si sveglia: «Dove sono? [ . . . ] Che luogo ignoto è questo?». Poco piìì avanti dirà: «Come abbia fatto a smarrirmi quaggiù proprio non riesco a capirlo».^^

INTERMEZZO DANTESCO: IL RISVEGLIO

Anche Dante si è «smarrito» e usa parole quasi uguaM: «Io non so ben ridir com'i' v intrai, tant'era pien di sonno»J^ Quindi anche Dante si «sveglia». Questo è infatti H momento che segna il risveglio, il momento in cui ci si accorge di aver smarrito il senso della vita, il momento in cui ia mezzo all'angoscia piià nera, quando il mondo sembra esserci crollato addosso, quando ogni cosa ci opprime e nulla è in grado di darci sollievo e men che meno gioia, ci chiediamo: «ma cosa sto facen-do?». In quel momento il sonno non c'è più e c'è la volontà di ritrovare la via, di ritrovare noi stessi. In quel momento una profonda umiltà pervade l'animo e si è in grado di chiedere aiuto.

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Atto I scena 2 - Fapageno

Papageno è il personaggio che sta più a lungo sulla scena e che canta il maggior numero di arie. Ciò si spiega in parte col fatto che nelle prime esecuzioni questo ruolo era interpretato da Schikaneder. All'epoca - e Mozart non faceva eccezione - si componeva a misura dei cantanti che avrebbero ricoperto i diversi ruoli, e Schikaneder era non solo un attore e cantante di successo, un vero maestro nell'arte di destare simpatia nel pubblico, ma anche l'im-presario. Ed era anche l'autore del libretto. Comunque, indipendentemente dal peso del factotum Schikaneder, la massiccia presenza di Papageno è dovuta anche al fatto che si tratta di un personaggio fondamentale. Se non ci fosse lui, non si potrebbe capire Tamino: gran parte deU'insegna-mento scaturisce infatti dal confronto tra i due.

Papageno entra in scena con «sulle spalle una grossa uccelliera, che gli arriva fin sopra la testa e nella quale si trovano diversi uccelli; tiene inoltre con entrambe le mani un flautino di Pan, zufola e canta». L'indicazione sceno-grafica non parla del suo abito, ma proprio in questa scena Tamino si chiede se egli sia un uomo, per via delle piume che lo ricoprono. Papageno viene infatti definito «uomo-uccello» anche perché alcune sue frasi hanno senso solo se riferite a un uccello, per esempio quando dice: «Vorrei strapparmi tutte le penne». ^

Nella sua prima aria si presenta come «uccellatore», molto abile a catturare ogni tipo di volatile, «sempre alle-gro», «felice e contento». L'unico cruccio è che vorrebbe avere una rete per catturare anche le ragazze. Prima parla di dozzine di fanciulle, ma poi pensa con dolcezza alla più cara, che «si addormenterebbe al mio fianco, e io la culle-rei come un bambino».

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Tamino lo saluta e gli chiede chi sia.

Papageno: Chi sono? (tra sé) Che domanda stupida! (forte) Un uomo come te. E se ora chiedessi a te: chi sei tu?

Tamino: Allora ti risponderei che sono di sangue princi-pesco.

Papageno: Troppo diffìcile per me. Devi parlare in modo pili chiaro, se vuoi che ti capisca!

Tamino: Mio padre è un sovrano che regna su molte terre e uomini; perciò vengo chiamato Principe.

Il fatto che l'eroe sia un principe ha sollevato compren-sibili perplessità in chi voleva vedere in Mozart un paladi-no dei valori della Rivoluzione francese. Nelle sue opere precedenti non aveva celato la simpatia per gli ideali di uguaglianza, né si era astenuto dal criticare i privilegi della classe aristocratica: basti pensare all'aria «Se vuol ballare Signor contino» delle Nozze di Figaro o al Don Giovanni, dove all'inizio Leporello canta: «Voglio far il gentiluomo, e non voglio più servir».

La messa in berlina di quella società dalla doppia morale è ricorrente nelle sue opere, che infatti non furono accolte favorevolmente dall'aristocrazia viennese che fre-quentava i teatri.

Non è così per il Flauto magico. Qui l'ideale di ugua-glianza sociale traspare solo dal fatto di aver scritto per un pubblico popolare poiché, se si guarda alla vicenda, l'eroe è un principe. Da un lato c'è chi ha rilevato, con disappun-to, che «alla fine sono ancora solo gli aristocratici, principe e principessa, che vengono accolti, e le vecchie differenze di ceto permangono, solo provviste di nuove etichette»;^^ dall'altro lato c'è chi, con soddisfazione, ha letto l'intera

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vicenda come un invito alla restaurazione dell'antico ordi-ne monarchico voluto da Dio7^

Papageno non sa né dove si trovi, né che al di là dei monti vi sono altri paesi, né come sia nato, né chi fossero i suoi genitori, tanto che i critici vedono in lui un'incarna-zione del «buon selvaggio» idealizzato da Rousseau. Vive «mangiando e bevendo, come tutti gli uomini». Il cibo gli viene fornito, in cambio degli uccelli che cattura, dalla Regina della Notte. Tra le tante domande più o meno legit-time, più o meno curiose che ha suscitato questo libretto, vi è anche questa: «Che cosa se ne fa la Regina della Notte di tutti questi uccelli? Vengono spennati e arrostiti [. . .] o le servono per le sue acconciature?»,^"' quasi si trattasse di una Crudelia De Mon ante litteram.

Su quanto Papageno dice qui della Regina della Notte tornerò poco più avanti, quando parlerò di questo perso-naggio.

La scena si conclude con Papageno che si gloria di avere strangolato il serpente.

Atto l scene 3-4 - Il ritratto

Tornano in scena le tre damigelle, che redarguiscono Papageno per essersi gloriato di un'impresa non compiuta da lui, e lo puniscono chiudendogli la bocca con un luc-chetto. Poi consegnano a Tamino un ritratto della figlia della loro sovrana dicendogli: «Se questi lineamenti non ti sono indifferenti, allora felicità, onore e gloria saranno il tuo destino». In questa frase c'è qualcosa che non quadra: vada per la felicità, ma perché le damigelle gli promettono onore e gloria? Perché non amore?

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La breve quarta scena è costituita dall'aria di Tamino che osserva il ritratto:

Questa immagine è di incantevole bellezza, quanto ancora occhio non ha mai visto. Io sento come questa immagine divina riempia il mio cuore d'un sentimento nuovo. Non so come definirlo, ma lo sento bruciare qui come fuoco: che tale sentimento sia l'amore? Sì, sì, è proprio l'amore.

Dall'amore nasce il desiderio di trovarla, stringerla al petto, «e poi sarebbe eternamente mia».

Hermann Abert ritiene «l'amore alla vista di un sempli-ce ritratto un vero e proprio assurdo fiabesco che solo la musica sa rendere credibile all'occhio dello spettatore».^' In realtà l'innamoramento alla vista di un ritratto è un topos abbastanza frequente nel mondo delle fiabe. In me questa scena ha evocato il ricordo di un antico mito, quello di Narciso. Il bellissimo giovane vede riflessa nell'acqua la propria immagine, crede che si tratti di un altro, se ne innamora e lo desidera tanto da cadere nell'acqua e mori-re. Accanto alla fonte nascerà un fiore che porterà il suo nome.

Questi stupendi racconti sono stati spesso distorti, pre-sentati come insulsaggini pagane e sostanzialmente non compresi. Ma, come giustamente scriveva Plutarco, «il mito non è altro che il riflesso di una realtà trascenden-te».^'' In questo caso si tratta di una straordinaria imma-gine poetica dell'uomo alla ricerca di se stesso, ricerca che comporta una morte e una rinascita su un piano più elevato di coscienza, rappresentato dal fiore. Che così vada inteso lo si può arguire dalla profezia fatta da Tiresia alla

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nascita di Narciso: il bimbo avrebbe raggiunto la vecchia-ia, se non avesse mai conosciuto se stesso7^

I miti che raccontano il lungo cammino che porta al conoscere se stessi partono spesso, come per Narciso e Tamino, dalla visione di un volto verso il quale si è attratti da una forza irrazionale e immensa che non si può chiama-re diversamente che «amore». I miti dicono che non lo si riconosce còme proprio, ma io penso che nel labile, fugace momento di quella visione vi sia l'intuizione che quel volto rappresenti non un oggetto d'amore, bensì il soggetto, la nostra vera natura, la libertà, la bellezza, la felicità. Penso anche che tutti abbiano avuto, nei passaggi delicati della propria vita, una simile esperienza. Solo che in genere la si mette a tacere, perché accoglierla fa paura.

Pamina non è una fanciulla di cui Tamino si innamora - o, meglio: lo è solo nel senso letterale - ma, esattamente come Beatrice per Dante, rappresenta lo spirito, il Sé, la scintilla divina, la Daena zoroastriana che, infatti, ha la forma di una bellissima fanciulla, ma che in realtà è il nostro Io trascendente, che va ritrovato se si vuole avere non solo «felicità», ma anche «onore e gloria».

Atto I, scena 3-11 ratto di Pamina

La lunga scena parlata in cui si racconta del ratto di Pamina è di quelle che nelle rappresentazioni vengono in genere tagliate, ma che sono fondamentali per compren-dere la vicenda.^^ Tornano le tre damigelle e raccontano a Tamino come un demone potente e malvagio, che ha «il potere di mutarsi in ogni forma immaginabile», abbia rapito Pamina.

Il resoconto del fatto ricorda - e lo sottolineano quasi

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tutti i commenti - il ratto di Persefone: «Un bel giorno di maggio sedeva tutta sola nel salubre boschetto di cipressi, che era sempre il suo luogo di soggiorno preferito. Il mal-vagio entrò strisciando non visto, origliò di nascosto, e...». Il resoconto si interrompe. Il nome del «malvagio» (sarà Sarastro) non viene ancora pronunciato.

Tamino esprime il timore che il malvagio l'abbia già... Anche qui il discorso rimane interrotto: uccisa? violentata? Dalla risposta delle damigelle sembra piìi probabile questa seconda ipotesi: «Non oltraggiare la virtù dell'incantevole bellezza. Nonostante tutte le pene che l'innocenza patisce, essa è sempre uguale a se stessa. Né la coercizione, né le lusinghe riescono a condurla sulla strada del vizio».

Esaminiamo quanto dicono. Una frase è rivelatrice: «sie ist sich immer gleich» (essa è sempre uguale a se stessa); è evidente che non può trattarsi di una fanciulla, bensì dello spirito, della scintilla divina che è in noi e che - quella sì -rimane «sempre uguale a se stessa». E solo lei rimane poi «eternamente» {ewig) con noi. ^

Dopo aver avuto queste notizie su Pamina, Tamino si sente pronto ad affrontare il demone potente e malva-gio: «Pamina sia salvata! Il malvagio cada per mano mia: lo giuro sul mio amore, sul mio cuore!». Anche qui c'è un preciso parallelo con la Divina Commedia: all'inizio del secondo canto dcìVInferno Dante è colto da dubbi e timori, per sciogliere i quali Virgilio gli racconta di come Beatrice sia scesa dal cielo per chiedergli di soccorrerlo. Dopo questo discorso, ovvero solo dopo aver avuto queste notizie su Beatrice, Dante si sente pronto ad affrontare il viaggio attraverso l'Inferno.

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Atto l, scena 6 - La Regina della Notte

Dirò subito che trovo ridicolo il termine «Astrifiammante», usato spesso addirittura come nome proprio, il quale, universalmente accolto nei testi italiani, dovrebbe tradurre l'aggettivo sternflammende che accom-pagna alcune volte il sostantivo Kónigin (regina) e che significa «scintillante di stelle».

La Regina della Notte è senza dubbio il personaggio piià enigmatico dell'opera, e un'aura di mistero l'avvolge sin dalla seconda scena, quando Tamino chiede a Papageno se abbia «già avuto la fortuna di vedere questa dea della notte». «Vedere? Vedere la Regina scintillante di stelle?» prorompe due volte uno scandalizzato Papageno: «Quale mortale può vantarsi di averla mai vista? Quale occhio umano potrebbe guardare attraverso il suo velo intessuto di nero?».

Ora però, annunciata da un violento, impressionante accordo, da un triplice tuono e da un triplice «Sie kommt» (ella giunge) pronunciato dalle tre damigelle, la Regina appare, e canta la prima delle sue due famosissime arie, caratterizzate da una «girandola ubriacante di vocalizzi»®" e da vertiginosi acuti. Si rivolge a Tamino chiamandolo «mio caro figlio» ed esprime tutto il suo dolore - è la parte più toccante - per il rapimento della figlia di cui rievoca la scena:

Ancora vedo il suo tremare [.. .] il suo trepidare impaurito, i suoi timidi sforzi. Ho dovuto vedermela rapire. «Ah, aiuto!» - è tutto ciò che disse -ma invano fu il suo implorare, poiché il mio aiuto era troppo debole.

Abbiamo visto sopra come il ratto di Pamina ricordi quello di Persefone: qui il dolore della madre corrisponde a quello di Demetra. La Regina tuttavia reagisce diversamen-te e con risolutezza chiede a Tamino di andare a liberarla:

Tu, tu, tu andrai a liberarla, tu sarai il salvatore della figlia; e se ti vedrò vincitore, allora sarà eternamente tua.

Ora, mi chiedo (ed è una domanda che stranamente nessuno si pone): quali garanzie le dà Tamino, che davanti al serpente era scappato, alla fine addirittura svenuto, di poter affrontare e vincere un demone evidentemente più potente di lei e delle sue damigelle che hanno ucciso il ser-pente come se niente fosse? Nessuna. Cosa le fa dunque pensare che questo giovane «innocente, saggio, pio» - ma certamente non coraggioso e men che meno gagliardo -possa riuscire in tale impresa?

Quasi a voler sottolineare l'assurdità della situazio-ne, nella scena successiva Tamino si dichiarerà «troppo debole» per riuscire a liberare Papageno (non da qualche demone, ma solo del lucchetto che gli chiude la bocca) e, affinché la cosa non passi inosservata, ripeterà la frase ben quattro volte. Ed è una frase quasi identica a una detta ora dalla Regina:

Lei dice: Denti meine Hilfe war zu schwach (poiché il mio aiuto era troppo debole);

Lui dirà: Weil ich zu schwach zu helfen bin (poiché sono troppo debole per aiutare).

Il Flauto magico è pieno di situazioni paradossali come questa, che non vanno sottovalutate dicendo che si tratta

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di una fiaba, anche perché spesso - come in questo caso -costituiscono la chiave per capire che si parla di tutt'altro. Se Mozart e Schikaneder avessero voluto raccontare una fiaba, avrebbero certamente fatto ammazzare il serpente da Tamino, poi sarebbero venute le damigelle a mostrargli il ritratto di Pamina, poi la Regina della Notte gli avrebbe, a ragione questa volta, chiesto di liberarla, ecc.

Un altro elemento che dimostra che non si tratta di una fiaba è il radicale cambiamento che subisce la Regina della Notte. Qui è un'angosciata dolcissima madre, mentre nella seconda aria (Atto II, scena 8) apparirà come una perfida furia vendicativa. Questo ribaltamento rappresenta, agli occhi di tutti, l'aspetto più sconcertante, e lo è, infatti, per-ché nelle fiabe i personaggi sono sempre caratterizzati fin dall'inizio. Fino a pochi anni fa veniva spiegato col fatto che, mentre Schikaneder e Mozart lavoravano già al Flauto magico, era andata in scena in un altro teatro di Vienna l'opera Raspar il fagottista ovvero la cetra magica di Perinet e Mùller, che era talmente simile, da obbligarli a rivedere il libretto. Poiché il primo atto era già stato scritto e i tempi erano stretti, si sarebbe modificato solo il secondo atto, creando quest'ibrido. È una tesi che non sta in piedi, anche perché all'epoca non vi era la mania dell'originalità che c'è oggi: le Zauberopern (opere dal soggetto «magi-co») erano diffusissime, «le rielaborazioni di un medesimo argomento ad opera di autori diversi non erano certo una rarità»®^ e si usava addirittura comporre opere diverse sullo stesso libretto. Inoltre, come argomenta lo studioso Komorzynski, «tenuto conto della ricchezza di particolari che caratterizza le sue lettere, Mozart avrebbe sicuramente scritto qualcosa se il suo lavoro fosse stato condizionato, e in misura così determinante, dal Fagottista»^

Oggi la critica più attenta respinge tale spiegazione,

senza peraltro fornirne un'altra. Per uscire dall'imbarazzo alcuni negano che vi sia un ribaltamento, vuoi vedendo in lei «fin dall'inizio una pericolosa simulatrice» nella cui rete cade il povero Tamino®^ (i vocalizzi acuti rivelerebbero «il carattere gelido e inquietante del personaggio»),vuoi ritenendo più che «giustificati la rabbia, lo sdegno e il desi-derio di vendetta» espressi nella seconda aria, ^ dato che si tratta di una madre che ha perso quanto aveva di piii caro. Questi tentativi di negare il capovolgimento - giudicando la regina «cattiva» già nel primo atto o «buona» anche nel secondo atto - non sono convincenti. Il capovolgimento c'è, e, come vedremo, non riguarda solo la Regina della Notte. Bisogna capire che cosa significa, e non chiudere la faccenda come fa Hermann Abert quando scrive: «Non dimentichiamo che si tratta di una fiaba, le cui leggi non sottostanno al pensiero logico».®'

Atto I, scena 8 - Flauto d'oro e campanelli d'argento

Nel suo bellissimo film sul Flauto magico Ingmar Bergman ha adottato un espediente che forse, da un punto di vista scenografico, non è da tutti apprezzato, ma che dimostra quanto profondamente egli avesse capito il mes-saggio che Mozart aveva voluto trasmettere con quest'ope-ra: le frasi importanti, quelle che contengono, appunto, il messaggio, appaiono scritte su cartelli.

Il primo cartello compare in questa scena. Le tre damigelle tolgono il lucchetto dalla bocca di Papageno e lui canta: «Ora Papageno chiacchiera di nuovo!». «Sì, chiacchiera pure» gli risponde la seconda damigella «ma non mentire più!». A questo punto tutti i presenti in scena cantano (ed è il testo del cartello):

Se tutti i bugiardi ricevessero un tale lucchetto sulla bocca,, invece di odio, calunnia, rabbia nera, vi sarebbero amore e fratellanza!

Non è una «sparata»,^^ anche se come «messaggio» può sembrare banale, puerile. Sono parole semplici, ma rivela-no una delle esigenze fondamentali di Mozart come artista e come uomo: quella della verità.

La parola che in genere viene tradotta con «fratellanza» è Bruderbund, che in realtà significa unione, associazione, patto tra fratelli, e che «rimanda in modo assolutamente chiaro e inequivocabile alla sfera di un siffatto insegna-mento morale: la massoneria».

Subito dopo le damigelle si rivolgono a Tamino e gli consegnano un «flauto d'oro», dono della loro Regina, dicendo tra l'altro:

Il flauto magico ti proteggerà, ti sosterrà nelle maggiori sventure. Con questo puoi essere onnipotente e tramutare le passioni umane.

Sono parole che fanno luce su ciò che il flauto rappre-senta, come lo sono anche quelle che subito dopo vengono intonate dall'intero gruppo dei presenti:

Oh, un tale flauto vale più di oro e corone, perché con esso s'accrescono la felicità degli uomini e la contentezza.

Il termine che viene tradotto con «contentezza» o «sod-disfazione» è Zufriedenheit, che in tedesco ha un portato

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molto più profondo, dato che contiene la parola Frieden (pace): è l'essere in pace con se stessi.

Non c'è nulla di idilliaco in questa «felicità»: non viene prospettato un quadretto bucolico come forse intenderem-mo noi oggi e, soprattutto, non si tratta della felicità di chi suona il flauto, bensì della «felicità degli uomini», di tutti, dell'umanità. Per capire bisogna tener conto degli anni in cui ciò è stato scritto: siamo nel 1791, quando da poco era stato proclamato il fino ad allora inaudito «diritto» alla felicità. Era uno degli obiettivi della Rivoluzione fran-cese, ma già nel 1776 La Dichiarazione di Indipendenza americana indicava i tre «diritti inalienabili» di tutti gli uomini: «Life, Liberty anà the pursuit of Happiness» (la vita, la libertà e il perseguimento della felicità). L'Articolo 1 della Costituzione francese del giugno 1793 recita: «Lo scopo della società è la felicità comune». La Costituzione italiana, molto più recente, parla ancora di «libertà» e di «uguaglianza», ma la «felicità» è scomparsa dalle aspira-zioni di tipo politico. Lo conferma anche il fatto che la «Happiness» della Dichiarazione americana viene ormai tradotta con «benessere», che non è la stessa cosa.

Accrescere «la felicità degli uomini» presuppone maga-ri non proprio una rivoluzione, ma certamente una radica-le trasformazione della società, che tuttavia è irraggiungi-bile senza una precedente trasformazione personale. Ed è, come vedremo, per quest'ultima che è necessario il flauto.

Una delle domande che quasi tutti si pongono è perché questo dono così positivo provenga dalla perfida Regina della Notte. Non risponderò come Mila che, dopo essersi posto proprio questa domanda, conclude: «Non preoc-cupiamocene troppo»,^^ ma tornerò stili'argomento più avanti.

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Quando Papageno saluta per andarsene, le damigelle lo trattengono chiedendogli di accompagnare il principe «al castello di Sarastro», il «malvagio» di cui viene qui fatto per la prima volta il nome. «Che se ne vada al diavolo, il Principe. La mia vita mi è cara!» protesta Papageno. Allora viene dato anche a lui uno strumento magico: dei campanelli d'argento. Con questi si lascia convincere.

Atto I, scena 8 - I tre fanciulli

Prima di poter partire c'è tuttavia ancora un problema da risolvere:

Tamino: Però, belle damigelle, diteci... Papageno: Dove si può trovare il castello? Le damigelle: Tre fanciulli, giovani, belli, benevoli e saggi

aleggeranno intorno a voi sul vostro cammino. Saranno le vostre guide, seguite soltanto il loro consiglio.

Dicevo all'inizio che un cammino iniziatico come que-sto non può essere intrapreso senza una guida. A Dante era subito apparso Virgilio, ma a Tamino è apparso Papageno: poco credibile come guida uno che dice bugie tanto da dovergli tappare la bocca con un lucchetto. Uno che «chiacchiera» non può essere una guida spirituale. Poi sono comparse le tre damigelle seguite dalla Regina della Notte la quale, nonostante la sua potenza, chiede aiuto a Tamino: neanche lei può fungere da guida.

Ogni storia si sviluppa diversamente, ma i passaggi essenziali del percorso iniziatico non possono mancare. E infatti: ecco la guida! Sono «saggi» e «aleggeranno», scen-

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dono dal cielo, sono spiriti. Nonostante le parole siano poche - come è inevitabile in un'opera lirica - le informa-zioni fondamentali ci sono tutte.

I fanciulli per il momento non si vedono: qui vengono solo nominati, ma questa è l'ultima scena ambientata nel regno della Notte e con la prossima ci si trova già in quello di Sarastro. Del lungo cammino per giungervi non viene detto nulla.

Una delle tante domande che si pongono i critici è come mai questi fanciulli, i cui consigli saranno, come vedremo, a favore di Sarastro, vengano promessi come guida ai due viandanti a partire dal regno della Notte. Una possibile risposta, avanzata da Jan Assmann, è che appartengano a entrambi o a nessuno dei due mondi, ovvero che si tratti di un'entità superiore. ®

Atto X scene 9-11 - Monostatos

La scena si trasforma: in una «lussuosa stanza egizia» tre schiavi parlano tra loro e sono contenti sia perché Pamina è riuscita a fuggire, sia perché il loro capo, Monostatos, verrà per questo punito con la morte. Odiano questo «moro che ascolta tutto di nascosto»; lo chiamano «aguz-zino», «grasso pancione», «diavolo spietato». La loro gioia dura però poco, perché Monostatos è riuscito a riacciuf-farla e le grida: «La tua vita è perduta. [ . . . ] Il mio odio ti rovinerà!». Lei non ha paura della morte, anzi dice di preferirla alla sua attuale condizione, e sviene. Monostatos manda via gli schiavi: «Ora via! Ora via! Lasciatemi solo con lei». Il motivo per cui vuole essere lasciato solo con la ragazza è intuibile.

Tutto sembra procedere come ci si aspettava: il regno

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di Sarastro appare proprio demoniaco, abitato da perso-naggi come questo grassone crudele e libidinoso. In realtà, come vedremo, è un regno illuminato, ma per il momento r«inganno» viene mantenuto anche nelle scene successive. Così, per esempio, nella scena 14 Pamina mette in guardia Papageno: «Se Sarastro dovesse scorgerti qui [ . . . ] la tua morte sarebbe un martirio senza limiti», mentre la Regina della Notte è definita «la madre più tenera».

Monostatos viene presentato come talmente odioso che onestamente non riesco a capire i commentatori che lo trovano «simpatico» e arrivano addirittura a sostenere che fosse simpatico a Mozart. ^ Va forse anche aggiunto che nel libretto Monostatos è inequivocabilmente indicato come un «moro», un «nero». Piìì avanti, procedendo con l'analisi del testo, comprenderemo il motivo di tale scelta, che non è certo dettata da razzismo. Peraltro Mozart era amico e fratello di Loggia dell'africano Angelo Soliman, che viveva allora a Vienna alle dipendenze del principe von Liechtenstein come precettore del figlio. Soliman era molto colto ed era amico non solo di Mozart ma anche di Haydn e di Ignaz von Born ed era assai stimato dall'impe-ratore Giuseppe IL Aveva sposato una vedova viennese e non fu mai oggetto di discriminazione razziale. E assurdo pensare - come qualcuno ha fatto - che sia ispirato a lui il personaggio di Monostatos. Comunque, che ci siano degli schiavi nel regno solare di Sarastro e, soprattutto, l'idea che debba essere un «nero» questo servo perfido e ripu-gnante ha indignato i paladini del politically correct, e non solo loro, tant'è vero che non viene praticamente mai rap-presentato come tale. «Non si capisce come questo mago saggio e benefico potesse servirsi d'un tal pendaglio da forca»^^ si chiede per esempio Massimo Mila, che tuttavia più avanti scrive: «Le parole del povero Monostatos, che

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in sostanza rivendica anche per un brutto nero il diritto d'amare una donna bianca, ci trovano pienamente con-senzienti»;^^ e infatti parla di «innegabile razzismo». "* «Il misero moro» lamenta anche Hildesheimer «resta escluso da ogni benevolenza, persino la generosa morale massoni-ca si arresta di fronte a lui».^^

Altri autori, rimanendo attaccati al senso letterale, senza capire che si tratta di allegorie, di metafore, di sim-boli che alludono a tutt'altro, si scagliano contro Sarastro. Attila Csampai, uno dei più noti e autorevoli critici musi-cali tedeschi, muove un pesante attacco: «Sarastro è l'assai realistica raffigurazione del politico moderno, illumina-to, borghese dell'epoca postrivoluzionaria, un George Washington per esempio, che nel Nord degli Stati Uniti proclamava i diritti dell'uomo, mentre nel Sud possedeva 216 schiavi, senza trovare in ciò nulla di immorale».

Secondo il noto psicanalista junghiano Erich Neumann, Sarastro rapisce Pamina «solo per se stesso e vittima della propria sensualità», ma questo «scopo originariamen-te egoista di Sarastro è divenuto inconscio e spostato su Monostato la cui presenza nella cerchia di Sarastro acquista così, e soltanto così, significato».^^ L'ipotesi di Neumann potrebbe rappresentare una soluzione, ma implica una negatività di Sarastro, che è del tutto inaccet-tabile e certamente non nelle intenzioni di Schikaneder o di Mozart.

Mentre Neumann vede Monostatos come «figura-ombra di Sarastro», ® altri lo hanno interpretato come «ombra di Pamina»:^^ la sua libidine non sarebbe altro che l'espressio-ne dei «desideri di Pamina proiettati su di lui». "®

Non amo queste pur suggestive interpretazioni psica-nalitiche: sarà, nelle prossime scene, il testo del libretto stesso a svelarci il significato di Monostatos.

Atto I, scene 12-14 - L'arrivo di Papageno e il duetto sull'amore

Durante la scena 11 si intravede Papageno che, dall'ester-no, guarda attraverso la finestra e vede Pamina. Ora entra, e la scena è spassosissima: Papageno e Monostatos si spa-ventano uno dell'altro, ed entrambi dicono, balbettando dalla paura: «Que-sto è il dia-vo-lo, si-cu-ra-men-te!» e scappano. Ma Papageno, con il suo sano buon senso, si riprende subito: «Esistono uccelli neri nel mondo, perché non anche uomini neri?». Rientra e racconta a Pamina di come un principe si sia innamorato di lei. L'amore è U leitmotiv di questa lunga scena parlata che termina con un delizioso duetto:

Vogliamo gioire dell'amore, viviamo solo grazie all'amore. [. . .] Esso dà sapore alla nostra vita. [... ] Uomo e donna, e donna e uomo, raggiungono la divinità.

Queste ultime parole, che appaiono sul secondo «car-tello» nel film di Bergman, sono davvero importantissime. E l'amore che genera l'unione, qualsiasi unione, poiché all'amore fu dato, come recita un bel verso di Dante, «di due potere un fare». °^ Ciò che unisce Mann und Weib, l'uomo e la donna, è solo un simbolo, una splendida metafora di quella forza che ci mette le ali e ci consente di volare in alto, fino al divino. Qui non viene detto che uomo e donna raggiungono la felicità, bensì che raggiungono la «divinità», il trascendente, la Verità che rende liberi, l'Uno.

Questo non è «un duetto di elogio del matrimonio e della vita coniugale» ,come scrive Mila, tanto è vero

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che per far capire che non si tratta né di matrimonio, né dell'amore sensuale, Mozart e Schikaneder hanno avuto l'idea geniale di farlo cantare da due personaggi che non sono una coppia di amanti.

Dante incontra Beatrice sulla vetta della montagna del Purgatorio ed è insieme a lei che da lì potrà salire di cielo in cielo fino a Dio. Beatrice non era però sua moglie, e nemmeno la sua amante.

Il Flauto magico è segnato, come forse nessun'altra opera, dalla presenza di opposti: ci sono la Regina della Notte da una parte e Sarastro, che rappresenta la luce, il sole, dall'altra, ci sono il femminile e il maschile, ma anche il serio (Tamino) e il faceto (Papageno), e poi ci sono il divi-no e l'umano e, naturalmente, il bene e il male. Questo per quanto riguarda la vicenda e i personaggi. Ma nell'opera vi è anche una perfetta fusione tra la sacralità degli antichi misteri egizi e la comicità viennese, per cui è una commedia divertente con battute da teatrino popolare, ma anche la seria rappresentazione di un cammino iniziatico.

Atto X scena 0 - ha conversione di Tamino

La nuova scena è pervasa da un alone di mistero, e i musicologi notano che ora «l'atmosfera musicale è di natu-ra quasi religiosa».Entrano i tre fanciulli con Tamino:

I tre fanciulli: Questa strada ti conduce alla meta, tuttavia, giovane, dovrai vincere da uomo. Perciò ascolta il nostro insegnamento: sii tenace, paziente e sappi tacere.

Tamino: Graziosi fanciulli, ditemi se riuscirò a salvare Pamina.

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I tre fanciulli: Non compete a noi rivelarti questo. Sii tenace, paziente e sappi tacere. [ . . . ]

Tamino: La lezione di saggezza di questi fanciulli sia impressa per sempre nel mio cuore.

Effettivamente le parole sono nobili e sagge, ma a cosa servirebbero le tre virtìi raccomandate, soprattutto la terza (il saper tacere), se il compito fosse quello di liberare una ragazza dal malvagio che l'ha rapita?

I tre fanciulli escono di scena e Tamino osserva il luogo. Egli si trova davanti a tre templi. Su quello centrale campeggia la scritta «Tempio della Saggezza», e su quelli laterali «Tempio della Ragione» e «Tempio della Natura». Sono le parole-chiave dell'illuminismo, e tipico dell'illu-minismo è anche U commento di Tamino, il quale non ne loda la bellezza, ma - come è stato da molti sottolineato -il fatto che la loro costruzione sia dovuta a «intelligenza, lavoro e talento». Il musicologo Georg Knepler ritiene che si tratti della «prima volta che la parola "Arbeif (lavoro) viene pronunciata in un'opera». ®"" «Dove regna l'attività e l'ozio se ne va, il vizio non riesce a conseguire il predomi-nio» commenta ancora Tamino che tuttavia, nonostante queste considerazioni positive, conclude con: «Trema, vile malvagio! Salvare Pamina è il mio dovere». Tamino bussa alla porta del primo tempio, poi a quella del secondo, ma entrambe le volte una voce gli intima: «Indietro!». La porta del terzo tempio, quello centrale, gli viene invece aperta da un vecchio sacerdote.

II loro lungo colloquio (cantato) è una delle scene piìi importanti per capire H significato dell'opera. Il sacerdote chiede: «Cosa cerchi in questo santuario?». Qui ci si aspet-terebbe come risposta: «Pamina», oppure «Sarastro». E invece il nostro eroe risponde: «Il possesso di amore e

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virtù». Poco più avanti Tamino chiede al sacerdote se in questo Tempio della Saggezza regni Sarastro. Alla risposta affermativa, decide di andarsene: «Sì» dice «voglio andar-mene, felice e libero, e non vedere mai il vostro tempio! [ . . . ] Sarastro abita qui. Ciò mi è più che sufficiente!». Non ha senso: Tamino era partito alla ricerca del regno di Sarastro e con l'intento di affrontarlo per liberare Pamina, e ora che ha la conferma di essere arrivato nel posto giu-sto, cioè dove vive Sarastro, se ne vuole andare. A questo punto si può considerare il dialogo una delle tante assurdi-tà del «librettacelo dell'estroso teatrante Schikaneder», ®^ oppure ci si può soffermare e cercare di capire quale signi-ficato possano avere queste parole.

INTERMEZZO DANTESCO: CAMBIARE IDEA

Anche nella Commedia c'è una scena in cui Dante vuole tornare sui suoi passi e rinunciare alla coraggiosa impresa:

E qual è quei che disvuol ciò che volle e per novi pensier cangia [cambia] proposta, sì che dal cominciar tutto si tolle,

tal mi fec io 'n quella oscura costa, perché, pensando, consumai la 'mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta.

Qui viene fornita una, seppur succinta, spiegazione dello stato d'animo che determina quel comporta-mento a prima vista assurdo: la rinuncia di Tamino, le titubanze di Dante non sono indizio di viltà. Non sono pusillanimi i nostri eroi, al contrario: ci vuole una grande forza d'animo per affrontare questo cammino. Il timore è quindi non solo giustificato, ma necessario.

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Ciò che rende significativo il parallelo tra le due opere non sta tanto nella coincidenza tra le azioni, quanto nel fatto che tali azioni avvengano sempre - lo vedremo infatti piìì volte - nello stesso momento del percorso. Qui il tentennamento viene espresso in entrambi i casi immediatamente prima del varcare la «porta» che segna l'inizio del viaggio interiore: per Dante la porta dell'Inferno, per Tamino quella del Tempio della Saggezza.

Tamino vuole andarsene e quindi - è implicito - rinun-ciare all'impresa. Il sacerdote gli dice: «Se tu ami la tua vita, allora parla, resta qua!». Di nuovo parole che non hanno senso se si rimane legati al significato letterale, secondo cui avrebbe dovuto dire: «Se tu ami Pamina, allora parla, resta qua!». E invece usa la parola «vita», non certo per dire che se non restasse nel tempio lo attenderebbe la morte. No: il sacerdote intende «vita» esattamente come Dante, per U quale la vita, la vera vita, la dolce vita è quella del Paradiso, dove arriverà, ma non dopo la morte. Dante, Mozart e tutti coloro che hanno percorso questo cammino insegnano la via per trovare la «vita» prima della morte.

Tamino resta e inveisce contro Sarastro: «Lo odio [. . . ] E un mostro, un tiranno!». Con una semplice domanda («Puoi dimostrare quanto affermi?») il sacerdote lo mette di fronte a un'altra realtà o, meglio, a una diversa lettura della stessa realtà, dato che non nega che Pamina sia stata rapita.

Quando poi Tamino accenna al dolore della Regina della Notte, il sacerdote parte con la prima delle tante bordate misogine che compaiono in quest'opera: «Ti ha dunque incantato una donna? Una donna fa poco e chiacchiera molto, e tu, ragazzo, credi alle dicerie? Oh, se Sarastro potesse spiegarti il movente della sua azione».

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Poco dopo succede qualcosa di straordinario, ovvero il grande cambiamento: «Quando cadrà il velo?» chiede angosciato Tamino. «Quando la mano dell'amicizia ti condurrà nel santuario per un legame eterno» risponde il sacerdote. Forse si può scorgere qui un cenno autobio-grafico, non solo di Mozart, ma anche degli altri autori dell'opera, ovvero un riferimento al loro ingresso nella massoneria.

Il sacerdote esce di scena e lascia da solo il giovane disperato: «Oh notte eterna! Quando svanirai? Quando U mio occhio troverà la luce?».

AUa fine dell'opera Tamino sarà inondato di luce: «L'inte-ra scena si trasforma in un sole» dice il libretto. Ma affinché quella luce, che è luce di Verità (che possiamo chiamare anche Dio), luce che ci consente di vedere oltre il velo, si mostri, è necessario che nel profondo del cuore risuo-ni quel fervente, quasi disperato grido: «Quando il mio occhio troverà la luce?». Come dice Dante, il desiderio di vedere, di capire, deve diventare assoluto, totale:

hume è là sù che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace}^''

Il grande cambiamento è avvenuto: la «conversione» di Tamino. Ora si capisce quanto sia assurdo chiedersi come mai la Regina della Notte da «buona» diventi «cattiva», e ancor più assurdi gli espedienti ideati per risolvere tale enigma. Non è lei che cambia! Peraltro la musica lo deno-ta chiaramente: i vocalizzi caratterizzano entrambe le sue arie. Ciò che cambia è l'idea che Tamino si è fatto di lei. Lei è in fondo solo un riflesso: tutto si svolge attraverso gii occhi di Tamino, o meglio nella mente di Tamino.

Per capire il processo mentale che determina il salutare.

radicale, cambiamento di opinione qui avvenuto ci viene di nuovo in soccorso la Divina Commedia.

INTERMEZZO DANTESCO: LA CONVERSIONE

La salita del Purgatorio dura tre giorni; quando giunge la notte, Dante si addormenta e sogna:

Mi venne in sogno una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i pie distorta, con le man monche, e di colore scialba.

Io la mirava; e come 'I sol conforta le fredde membra che la notte aggrava, così lo sguardo mio le facea scorta [sciolta]

la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco d'ora, e lo smarrito volto, com'amor vuol, così le colorava}'^'^

La donna è balbuziente, brutta, orrenda, ma lo «sguardo» di Dante la rende bella e desiderabile, tanto che non riesce a staccarsi da lei. A questo punto inter-viene una donna santa che dice: «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?». Allora Virgilio, che rappresenta la ragione, va verso la femmina balba, le strappa i vestiti e mostravami 7 ventre; quel mi svegliò col puzzo che n'uscìa. ' Dante è ritornato a vedere le cose come sono realmente: ha distrutto l'immagine mentale men-zognera.

Questo sogno non è altro che un'esemplificazione del discorso filosofico - anzi, di modernissima ana-lisi psicologica - che Virgilio aveva fatto nel canto precedente, e che riguardava la nascita dell'amore e del desiderio. In sintesi spiegava che all'origine del desiderio c'è sì un oggetto reale, il quale però viene da

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noi convertito subito in un'immagine mentale: ed è di questa che ci innamoriamo. ^® Dal sogno risulta poi chiaro che spesso l'immagine mentale non corrispon-de minimamente alla realtà. La «conversione» consiste nel liberarsi delle nostre immagini mentali che il pili delle volte sono pregiudizi, opinioni, idee o ideali che non nascono da un nostro pensiero autonomo, ma sono proposti o, peggio, imposti dal di fuori (da geni-tori, insegnanti, dai «modelli» propinati da televisione e pubblicità), oppure generati - e sono i più pericolosi, perché in questi è piìi difficile scorgere l'origine ete-ronoma - da una reazione a ciò che ci viene imposto.

Dante era un grande conoscitore della psiche umana e, analizzando il sogno raccontato, si può scoprire un altro aspetto, non irrilevante, e cioè che alla creazione di queste immagini mentali illusorie partecipa anche la ragione. Per questo sono estremamente difficili da estirpare. È solo dopo l'intervento della donna santa che la ragione (Virgilio) si desta e Dante apre gli occhi e vede, finalmente, le cose come sono.

Nel Flauto magico il ruolo della donna santa è chiara-mente ricoperto dal sacerdote, le cui parole («E tu credi alle dicerie?») scuotono Tamino. D'ora in avanti non dirà più che Sarastro è un «mostro», ma non sostituisce subito un'immagine mentale con un'altra, ma si chiede: «Quando il mio occhio troverà la luce?», il che significa che è pronto per iniziare la ricerca di quella luce che è Verità.

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Atto I, scena 15 - Tamino suona il flauto

Alla domanda angosciata di Tamino voci misteriose rispondono: «Presto, o mai più!». A questi «invisibili»^^^ Tamino osa domandare nuovamente se Pamina sia ancora in vita. «Pamina vive ancora!» rispondono, e Tamino sente il desiderio di esprimere la sua felicità e la sua gratitudine suonando il flauto.

Attirati dal suono, animali feroci d'ogni specie si avvici-nano per ascoltarlo. Il riferimento è senza dubbio al mito di Orfeo, il quale suonava però la lira. Come osserva Jan Assmann, «vi è una differenza decisiva tra la lira e il flauto [.. .] ed è che suonando il flauto non si può cantare. Il flau-to non accompagna la parola, ma si pone al suo posto». ^ Con riferimento alla mitica gara tra Apollo e Marsia, Assmann conclude che «la lira è uno strumento apollineo, il flauto dionisiaco». ^

Quale significato può avere questa scena? Si potrebbe ipotizzare che sia stata inserita per divertire il pubblico con gli attori travestiti da animali; oppure, più seriamente, che gli autori abbiano voluto evocare il mito di Orfeo. Sì, ma perché? Credo che ci sia un motivo molto profondo legato all'evocazione di questo mito: Orfeo, infatti, non è noto solo per la musica che incantava gli animali, ma soprattutto per il suo viaggio agli Inferi. Per comprendere che cosa significhi tale viaggio ci può nuovamente tornare in soccorso Dante.

INTERMEZZO DANTESCO: UN VIAGGIO AGLI INFERI

«A te convien tenere altro viaggio»^^^ dice Virgilio. «Altro» rispetto a quello che avrebbe voluto fare Dante - la salita diretta del coUe, verso la luce del sole

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che ne illuminava la vetta - e che non gli era stato possibile intraprendere perché tre bestie gli avevano sbarrato la strada. Ualtro viaggio consisterà nel visitare l'Inferno.

Durante questo cammino vi saranno ogni tanto dei demoni che cercheranno di sbarrare loro la strada, ma Virgilio troverà sempre qualche formula tipo «vuoisi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non diman-dare» ' per farli retrocedere. Perché non utilizza una formula simile per rendere inoffensive le tre bestie? E una domanda che nessuno si è mai posto. Eppure è importante, e la risposta è semplice: perché le tre bestie, che in qualsiasi modo le si voglia intendere rap-presentano comunque il male, vengono viste e affron-tate da Dante come qualcosa di esterno a lui, mentre l'unico mezzo per vincere il male è quello di imparare a vederlo all'interno di sé. Ualtro viaggio proposto da Virgilio è infatti un viaggio interiore, al centro della terra, in interiora terrae come dicevano gli alchimisti, usando questa metafora per esprimere lo scendere nel profondo di se stessi.

I vari personaggi che Dante incontrerà in Inferno non sono che la personificazione del male, di tutto il male che può annidarsi nel cuore dell'uomo. In essi egli si specchierà: «Perché cotanto in noi ti specchi?»^^^ gli chiederà infatti un dannato conficcato nel lago ghiacciato sul fondo dell'Inferno. Egli vuole vedere e riconoscere il male nel suo cuore, nella sua mente, e, dove lo riconosce, lo affronta, come dimostra l'episodio di Filippo Argenti - un personaggio di cui non esiste traccia nei documenti dell'epoca, contro il quale Dante si scaglia con una crudeltà che rasenta il sadismo, contento solo quando lo vede affondare nella

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palude. È vero, è un «nemico» di Dante; non però in quanto esponente dei guelfi neri, come viene unanime-mente presentato dai commentatori, bensì in quanto personificazione dei lati oscuri della sua anima: l'ira e l'orgoglio. L'episodio di Filippo Argenti è emblemati-co di tutto il viaggio attraverso l'Inferno, che consiste essenzialmente nel guardare a una a una, dentro di sé, tutte le facce che il male può assumere. «T ti conosco, anche se sei tutto sporco di fango» gli dice Dante. Certo che lo conosce: sono i suoi «peccati»! Non a caso, quando invece si trova tra gli avari o tra gli usu-rai, guarda i peccatori e dice: «non ne conobbi alcun».

La scena in cui Lamino, varcata la porta, è solo e suona il flauto, e «bestie selvagge di ogni specie» si avvicinano a lui mi sembra una splendida rappresentazione allego-rica di un viaggio agli Inferi. Lo suggerisce il richiamo a Orfeo. E un'esperienza ineludibile in questo tipo di cammino iniziatico. E interessante notare che Lamino non scende in Inferno come Orfeo e come Dante, ma compie questa prova seguendo l'esempio di Lucio, il protagoni-sta àéX'Asino d'oro di Apuleio, opera sopra citata tra le fonti del Flauto magico. Prima di poter essere iniziato ai misteri di Iside e Osiride Lucio dice: «Io arrivai ai confini della morte, posai il piede sulla soglia di Proserpina».^^^ Proserpina è la regina degli Inferi e la «soglia» rappresenta l'ingresso a questo regno sotterraneo, al quale Lucio non scese, come non scenderà Lamino.

Dopo il grido con cui disperatamente ha espresso il desiderio di vedere la luce, dopo che ha saputo che Lamina è viva, suona il flauto, sprofondandosi in sé alla ricerca dell'amata, e gli appaiono bestie feroci. Esse sono raffigurazioni del male, come lo era il serpente davanti

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al quale era fuggito: sono i mostri che affiorano talvol-ta dall'inconscio, che ci angosciano e che vorremmo far tacere. Dobbiamo invece affrontarli prima o poi, invece di continuare a cercare fuori di noi le cause delle nostre insod-disfazioni e delle nostre sventure. Ora Tamino è pronto, li attira col suo canto perché li vuole vedere da vicino, li vuole conoscere e domare.

E sconcertante e deprimente vedere come i critici non riescano mai a sollevarsi al di sopra della sfera sentimenta-le - come se nella vita di un uomo (o di una donna) non ci fosse altro, come se artisti e poeti di tutti i tempi non aves-sero cantato che quello - senza mai sospettare che le figure femminili siano allegorie o simboli. Così su questa scena Hermann Abert scrive: «Per il momento invero ciò che conta per Tamino è il sapere che Pamina è in vita, gli inse-gnamenti degli iniziati ancora non lo toccano». ^^ E invece proprio qui, in questa scena, che gli insegnamenti degli iniziati lo toccano, e profondamente! Certo, in un'opera così breve, che per di piìi deve anche lasciare spazio a Schikaneder per le sue battute e divertire il pubblico, è più difficile penetrare al di là del velo di allegorie e meta-fore e cogliere i significati. Per dire le stesse cose Dante ha usato migliaia di versi, mentre qui tutto è condensato in una breve scena, ma i riferimenti mitologici e il linguaggio simbolico parlano chiaro: Tamino è riuscito a far risalire dall'inconscio il groppo che lo tormentava, a guardarlo, conoscerlo e dominarlo (le bestie sono mansuete e non gli fanno piià paura). Ora canta:

Quanto è potente il tuo suono magico perché, dolce flauto, sentendoti gioiscono persino gli animali feroci. Ma...

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Tamino interrompe il canto per lamentare: «Ma Pamina resta lontana». Suona alcune note sul flauto. «Pamina, ascolta, ascoltami!». Riprende a suonare. «Invano». Suona ancora e canta: «Dove? Ahimè, dove ti troverò?». Poi, da lontano, sente lo zufolo di Papageno.

Atto I scene 16-17 - Papageno, Pamina e la verità

Anche Papageno e Pamina sentono il suono del flau-to di Tamino e corrono verso di lui, ma interviene Monostatos che li blocca e li vorrebbe incatenare. A questo punto Papageno suona i campanelli d'argento e gli schiavi, compreso Monostatos, iniziano a ballare e bal-lando escono di scena. Scrive Mozart nelle sue lettere che questa era una delle scene piià amate dal pubblico, tanto che doveva sempre essere bissata. E una scenetta deliziosa, piace molto anche al mio nipotino, ma ritenerla «uno dei punti più alti dell'opera, forse il più alto» perché «è qui che si coglie il senso ultimo del Flauto magico» - che, per Mila, sarebbe «la rivincita degli umili, dei poveri diavoli come Papageno»^^^ - vuol dire, a mio parere, non aver assolutamente compreso... «il senso ultimo del Flauto magico». Massimo Mila insiste: «Trattare con compati-mento questo episodio come una concessione edonistica al gusto popolare di Schikaneder e del suo teatro di barriera, e prendere sul serio soltanto il rataplan del prossimo arri-vo di Sarastro e la pompa sacerdotale del suo canto, vuol dire esporsi al rischio di fraintendere il senso dell'opera, quello che è additato dai valori artistici e non annidato nelle intenzioni». Quindi Mila sa che le «intenzioni» di Mozart non stavano affatto dalla parte di Papageno! Per quanto riguarda i «valori artistici» sembra quasi che Mila

non li riconoscesse nelle arie di Sarastro o di Tamino, che non si rendesse conto che l'opera è grande proprio perché ha diverse voci.

Ma ecco che da lontano si sente il «rataplan», ovvero il coro inneggiante a Sarastro. Papageno è terrorizzato (vorrebbe essere un topolino per potersi nascondere) e chiede: «Bambina mia, cosa diremo ora?». «La verità! Quand'anche fosse un crimine», risponde Pamina. La verità era per Mozart un valore assoluto e irrinunciabile, come risulta dalle sue lettere e da come condusse tutta la sua vita. Qui ci si accorge immediatamente della differenza di statura tra i due, e la grande dignità di Pamina risalta ancor più al confronto con la pusillanimità dell'altro.

Atto l, scena 18 - Spirito e Materia, e la presunta misoginia

Entra Sarastro su un carro trainato da sei leoni, «sim-bolo anch'essi, nel loro numero ternario di coppie, di chis-sà quali alti significati massonici»^^^ scrive ironicamente Massimo Mila. Il significato simbolico (non massonico) del leone è antico ed è collegato al sole perché è il più potente fra gli animali, come il sole lo è fra gli astri, ma anche per via della sua criniera dorata che sembra raffigurarne i raggi. Qui siamo infatti nel regno del Sole contrapposto a quello lunare della Notte.

La scena è breve ma carica di parole assai significative. Per comprenderle dobbiamo prima di tutto chiederci chi è Sarastro e che cosa rappresenta. In genere viene indicato come U capo dei sacerdoti di una setta modellata su quelle massoniche. «Mentre Sarastro è un re-sacerdote, la regina della notte ha una dignità più alta: è una dea» ^^ scrive

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Pietro Citati senza chiedersi come una dea possa essere meno potente di un re-sacerdote. E. evidente che anche Sarastro è un dio. Qui, infatti, il coro dei fedeli inneggia a lui con parole che a tanti sono sembrate eccessive: «Er ist unser Abgott», letteralmente «Egli è il nostro idolo, al quale tutti si consacrano», ma Abgott contiene la parola Gott (dio) e così può anche essere tradotto.

Per la comprensione dei personaggi è fondamentale una lunga scena parlata del secondo atto, ^^ nella quale la Regina della Notte spiega a Pamina l'origine del dissidio tra lei e Sarastro: «Con la morte di tuo padre» le dice «ho perso tutto il mio potere». Dal suo discorso si evince che il potere di Sarastro è determinato dal possesso di un «set-templice Cerchio Solare» che, prima di morire, il padre di Pamina consegnò «agli iniziati», e che Sarastro porta sul petto. A lei e alla figlia lasciò invece «tutti i tesori» che possedeva, raccomandandole di affidarsi alla guida di uomini saggi.

Qui sorgono varie domande: se era lui a possedere il Cerchio Solare, perché la Regina parla di «mio» potere? Avrebbe senso solo se il padre di Pamina e lei costituivano un'unità. E poi: se, come penso, si tratta di divinità, com'è possibile che il padre di Pamina sia «morto»? A mio avvi-so il vero significato di questi personaggi è da ricondurre a quello straordinario evento presente nelle teogonie di tutte le tradizioni, ovvero alla divisione in due dell'Unità primordiale all'inizio dei tempi, prima della creazione del mondo. Nel 'Timeo di Platone la prima cosa creata dal Demiurgo sono Urano e Gea (cielo e terra). E la Bibbia inizia con le parole: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Cielo e terra sono Spirito e Materia. Così è anche nella tradizione indù: Dio per manifestarsi diventa Purusha

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e Prakriti (Spirito e Materia). Interessante, poi, è che spes-so l'Unità primordiale è caratterizzata da una Trinità, e non a caso nella numerologia sacra il Dio trascendente è connotato sia dall'Uno che dal Tre.

Anche nel Flauto magico all'inizio c'è una trinità: il padre, la madre e la figlia. La morte del padre raffigura, a mio avviso, la scissione dell'Unità in due parti: lo Spirito (Sarastro col Cerchio Solare) e la Materia, la Terra, rap-presentata dalla Regina della Notte, che infatti possiede «tutti i tesori».

Nelle varie tradizioni i racconti sono diversi ma sempre riconducibili a questo schema. In particolare penso che Mozart e Schikaneder si siano ispirati allo zoroastrismo (o mazdeismo), caratterizzato da un dualismo piìi accentuato che prevede la disfatta finale del principio «negativo». Così riteneva anche Dario Del Corno che scriveva: «allorché Sarastro proclama: "Die Strahlen der Sonne vertreiben die Nacht", "1 raggi del sole scacciano la notte", è la rivelazio-ne solare dello Zoroastrismo che ispira le sue parole». Alcuni anni prima della redazione del Flauto magico era stata pubblicata in Francia XAvesta, il testo sacro dello zoroastrismo, che suscitò molto scalpore e che si può supporre fosse noto a Mozart attraverso le logge massoni-che. Fra l'altro il nome «Sarastro», che evidentemente si richiama a Zarathustra/Zoroastro, confermerebbe questa derivazione. Dallo zoroastrismo potrebbe anche essere nata l'idea - presente tuttavia in numerose altre tradizioni -di una fanciulla (Pamina) come immagine del proprio Sé, il doppio celeste che lì prende il nome di Daena.

Interpretando Sarastro e la Regina della Notte quali rappresentanti dei due principi primordiali, si risolvono molte «incongruenze» del libretto: soprattutto la presunta

misoginia. Le tante frasi in cui viene detto che la donna deve sottomettersi all'uomo «non sono» scrive Chailley «delle tirate antifemministe piazzate là senza ragione, ma il fondamento stesso dell'opera».^^^ A condizione, tutta-via, che le si interpreti in senso spirituale, perché è solo in una visione spirituale che la Materia deve sottostare allo Spirito. E questo il significato di quanto, proprio qui, Sarastro dice a Pamina: «Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui ogni donna tende a uscire dalla propria sfera d'azione». Se questa frase, come altre analo-ghe, fosse riferita ai rapporti tra uomo e donna, avrebbe ragione Hildesheimer a scrivere: «La prevenzione nei con-fronti delle "femmine" [. . . ] nel Flauto magico ci dà since-ramente ai nervi». ^^ Ma non era questo il pensiero né di Mozart né di Schikaneder, e basterebbe pensare al duetto cantato poco prima, nella scena 14, dove quel ripetuto «donna e uomo e uomo e donna» sottintende chiaramente una parità tra i sessi; per non parlare della rivoluzionaria iniziazione di Pamina. Molti critici, sapendo bene che gli autori del libretto erano tutt'altro che misogini, e in considerazione che simili frasi vengono pronunciate solo da Sarastro e dai suoi sacerdoti, vedono in esse la volontà degli autori di polemizzare contro le logge massoniche esclusivamente maschili. E assai probabile che questo ele-mento ci sia, e ne parleremo più avanti, ma non riguarda, a mio avviso, frasi come quella di Sarastro sopra riportata.

Qui i termini «uomo» e «donna» fanno parte del lin-guaggio simbolico e si riferiscono all'ambito spirituale dove ha senso il rapporto sproporzionato che viene auspicato: è la Materia che «tende a uscire dalla propria sfera d'azione» e invadere quella spirituale non riconoscendone la supe-riorità. Una superiorità proclamata non solo da tutte le religioni, ma anche da tutti i grandi Maestri, Gesù compre-

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so, che hanno sempre predicato: «Lo Spirito deve guidare i vostri cuori», ovvero esattamente quanto - decodificando il linguaggio simbolico - viene detto qui. Occorre tuttavia aggiungere che non è la Materia a essere cattiva, invidiosa e a volersi appropriare di un ambito (quello della vera real-tà, della «vita») che non le appartiene: l'errore del credere che l'essenza sia il mondo materiale, e non lo Spirito che tutto pervade, è esclusivamente umano.

Atto I, scena 18 - Monostatos. L'amore e la libertà

Dopo questa necessaria premessa analizziamo le altre frasi di questa scena importante. Pamina, in ginocchio, confessa di aver tentato di fuggire. Tuttavia, a propria giustificazione, dice che «il malvagio moro pretendeva amore». A questo punto è bene soffermarsi su chi sia e che cosa rappresenti Monostatos, figura che tanto ha scanda-lizzato i sostenitori del politically correct, anche giustamen-te, se si rimane legati alla lettera che parla di «schiavi» e di un «negro» nel ruolo del cattivo.

A mio avviso Monostatos rappresenta la Chiesa, o, più precisamente, il clero cattolico. E un'ipotesi che già compare talvolta nelle prime interpretazioni politiche, e soprattutto in quelle massoniche, anche se non spiegano come mai il clero cattolico dovrebbe essere al servizio della massoneria o del gran Maestro Ignaz von Born, che si celerebbero dietro la figura di Sarastro, cosa che invece viene ad avere senso nel caso in cui Sarastro rappresenti Dio, perché la Chiesa è - o almeno pretende di essere - al servizio di Dio.

Man mano che procederemo nella lettura del libretto scopriremo altri particolari che avvalorano tale decifrazio-

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ne, come anche il motivo per cui Monostatos è un «nero». Intanto va detto che non solo la massoperia era decisamen-te anticlericale, ma lo era anche Mozart, il quale, pur rima-nendo ufficialmente cattolico, aveva pessimi rapporti con la Chiesa. Come risulta dalla corrispondenza col padre, ciò era dettato da un'esigenza profonda: la fratellanza, la bontà, la bellezza, l'amore universale non erano per lui vuote parole, bensì ideali che cercava di vivere concreta-mente, e che non vedeva realizzati nella Chiesa, per cui se ne allontanò sempre più, soprattutto dopo la morte del padre nel 1787.

Uno degli elementi comprovanti la mia lettura è il nome: Monostatos. Significa: colui che ha una sola posi-zione. Nell'estate 1791, dunque contemporaneamente al lavoro sul Flauto magico, Mozart compose la cantata K619. Il testo, del massone Ziegenhagen, inizia con queste paro-le: «Voi che onorate il creatore dell'immenso universo, che lo chiamiate Geova, o Dio, che lo chiamiate Fu, o Brahma, ascoltate!». Potremmo definirlo sincretismo, ma il termine è a mio avviso riduttivo: qui si tratta di una visione aperta, che abbraccia l'anelito verso Dio dell'intera umanità. E la stessa che risuona nell'Iside e Osiride di Plutarco:

Non ci sono dèi diversi per popoli diversi, né dèi barbari e dèi greci, né tanto meno dèi settentrionali e dèi meridionali. Come il sole e la luna e il cielo e la terra e il mare sono di tutti, anche se prendono nomi diversi, così anche le religioni e i modi di chiamare le divinità sono diversi da popolo a popolo a seconda delle singole tradizioni, e però tutti si riferiscono a una sola ragione prima, quel-la che ha dato ordine a questo mondo, e a una sola provvidenza che lo dirige. ^

Chi invece sostiene che un determinato nome dato a Dio sia l'unico vero, l'unico giusto, l'unico che conduca alla salvezza... è un «Monostatos».

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«Piace credere» scriveva Dario Del Corno «che proprio a Plutarco essi [Mozart e Schikaneder] si siano ispirati nell'idea di fondo dell'opera. Quest'idea è la fede in un nuovo mondo, che vinca il regno delle tenebre» .L ' in -flusso che il testo di Plutarco ha esercitato sugli autori del flauto magico non è quindi limitato all'ambientazione egizia o al fatto che le divinità acclamate siano Iside e Osi-ride, ma è molto più profondo. Uno dei valori principali di questo ideale «nuovo mondo» è l'assoluta apertura nei con-fronti di tutte le fedi, proclamata non solo da Plutarco, ma anche da Apuleio Asino d'oro, dove la dea Iside dice come tutto il mondo la veneri con riti e nomi diversi. ^

Il Flauto magico è la rappresentazione di un cammino verso Dio che, per quanto possa suonare imbarazzante o sconcertante, viene compiuto nel nome di Iside e Osiride, non in quello di Cristo. Il motivo di tale scelta non credo sia riconducibile a un «voler far rivivere il rituale d'inizia-zione degli antichi Misteri», ^ e ancor meno a un voler sostituire una confessione con un'altra. A mio avviso tale scelta è dettata dalla convinta adesione a quell'apertura, presente nelle opere di Plutarco e Apuleio ma anche pecu-liare della massoneria, che allarga il campo del divino a tutti i nomi e a tutte le fedi del mondo.

La stessa apertura verso le altre religioni è presente anche in Dante, il quale scriveva in un periodo in cui tali aperture erano assai pili rischiose. Nella Commedia tro-viamo non solo pagani e persino musulmani (Avicenna, Averroè e il «feroce» Saladino) nel Limbo e un antico troiano in Paradiso, ma addirittura un verso che recita: o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifissoP^ non-ché una preghiera ad Apollo, al quale Dante si rivolge chiamandolo padre e divina virtùP^ Non sono dettagli,

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e men che meno dettagli insignificanti: sono espressione di quell'amore capace di abbracciare il mondo intero che vibra nei grandi capolavori. E sono, al tempo stesso, l'espressione di un disagio e di un dissenso nei confronti di ogni Chiesa che proclami la propria via come l'unica capa-ce di condurre alla salvezza. Mozart l'ha raffigurata sotto le vesti dell'odioso Monostatos; Dante, che viveva negli anni in cui la Chiesa organizzava crociate contro gli infedeli e roghi contro gli eretici, sotto quelle della lupa, la quale non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo 'mpedisce che l'uccideP^ ovvero che uccide chiunque voglia intraprende-re un personale, diverso, cammino verso Dio.

Se questo triangolo - composto da Sarastro, Monostatos e Pamina - viene letto come quello costituito da Dio, il clero e l'anima, il messaggio appare evidente: il clero, infatti, si dichiara al servizio di Dio e si intromette nel dia-logo tra l'anima e Dio, proponendosi come interlocutore o mediatore. Il clero delle varie religioni - ma di quella cattolica in particolare - non può ammettere che l'anima parli direttamente con Dio: la vuole controllare.

In questa luce le parole di Pamina «Signore, io volevo sfuggire al tuo potere. Tuttavia la colpa non è mia! Il mal-vagio moro pretendeva amore. Per questo, Signore, sono fuggita da te!» acquistano un significato chiaro e riflettono una situazione che ben conosciamo: quante volte il disagio nei confronti della Chiesa e del suo clero ha condotto ad allontanarsi e a negare la dimensione spirituale!

La risposta di Sarastro è davvero enigmatica. Egli dichia-ra di conoscere molto bene il cuore di Pamina e di sapere che lei ama «un altro». Tutti sappiamo che ama Tamino, ma perché definirlo «un altro»? Altro rispetto a chi? Poi

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conclude; «Non ti voglio costringere all'amore, ma non ti do la libertà». Anche qui: costringere ad amare chi? Non c'è grande possibilità di scelta: o si riferisce a Monostatos o a se stesso. Che si tratti di Monostatos lo sostiene «ChaiUey, il quale traduce disastrosamente "Je ne te force pas à aimer Monostatos! In genere però si ritiene che alluda a se stesso e quasi tutti stigmatizzano questo amore tardivo che rasenta la pedofilia, perché vedono in Sarastro l'anziano sacerdote che «s'era invaghito di quella bella ragazzina»^^^ e «aveva cercato di costringer [la] airamore»; ^*" Massimo Mila scrive invece: «Che Sarastro fosse innamorato della cara Pamina non è affatto fuor di luogo, e spiega il tono appassionato, vibrante. [ . . . ] Sarastro è già fin troppo un personaggio tutto d'un pezzo, un monocorde emblema di saggezza e di virtù, perché gli si debba togliere anche que-sta piccola nota distintiva d'avere un poco amato la tenera Pamina». ^ Partendo da questo presunto amore sono state scritte le cose più assurde. Csampai, per esempio, arriva a pensare che Sarastro speri che «l'odiato giovane rivale» non superi le prove, più volte definite come un pericolo mortale, ovvero che muoia.

Sarastro sa bene che Pamina è destinata a Tamino, dato che lui stesso lo ha comunicato ai sacerdoti all'inizio del secondo atto. Il problema non è tanto il fatto che lui ami Pamina (stando alla mia interpretazione non ci sarebbe comunque nulla di peccaminoso: anche il Dio dantesco vagheggia [...] l'anima semplicetta)quanto che vor-rebbe essere amato da lei. E anche questo è normale: Dio vuole essere amato, non temuto. Ma ciò non ha nulla a che fare con la libidinosa attrazione che purtroppo spesso gli uomini anziani provano per le ragazzine. D'altra parte, come poteva Mozart rappresentare Dio se non come un uomo anziano? Secoli di iconografia cristiana hanno cre-

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ato indiscutibili canoni raffigurativi. Così parlar conviensi al vostro ingegno, che è in grado di apprendere solo da ciò che percepiscono i sensi - scrive Dante - per cui anche la Bibbia piedi e mano attribuisce a Dio. Però aggiunge: e altro intendeCerto, il Flauto magico non è la Bibbia, ma usa lo stesso linguaggio figurato... e altro intende!

Ora, per come si sviluppa la vicenda nell'opera mozartia-na, del regno di Sarastro Pamina sembra all'inizio conoscere solo Monostatos, che vuole anche lui essere amato e per ottenere quello che difficilmente si può definire amore, ma piuttosto obbedienza e sottomissione, ricorre alla violenza, al ricatto, all'intimidazione. Questa è stata per secoli - e ancora nel Settecento - la politica della Chiesa. Esattamente il con-trario di quanto dice Sarastro: «Zar Liehe will ich dich nicht zwingen» (non ti voglio costringere all'amore).

E aggiunge: «Dock geb ich dir die Freiheit nicht» (ma non ti do la libertà). Perché non le concede la libertà? La libertà che Dante va cercando e che troverà solo alla fine del Paradiso non è certo qualcosa che si può concedere! Va conquistata. Come Beatrice anche Pamina dovrà attendere che l'uomo di cui lei è la parte divina dell'anima - non l'uomo di cui si è innamorata - abbia compiuto quel percorso di purificazione e di conoscenza di sé che solo rende possibile l'unione e la libertà. Anche qui vi è una coincidenza particolarmente significativa col poema dantesco, in quanto tale concetto viene espresso nello stesso momento del percorso: le parole di Sarastro, che sottintendono un desiderio di libertà da parte di Pamina, sono pronunciate immediatamente prima delle prove, alla fine delle quali Tamino e Pamina potranno unirsi; e il famoso verso libertà va cercando viene pronunciato da Virgilio nel primo canto del Purgatorio: immediatamente prima che Dante inizi il percorso di purificazione alla fine del quale potrà unirsi a Beatrice.

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Atto I, scena 19 - Vamina, "Xamino e la punizione di Monostatos

Delicata e struggente è la scena in cui i due amanti si incontrano. Una circostanza sottolineata da tutti i commen-ti è che Pamina, nonostante non abbia mai visto Tamino, nemmeno in un ritratto, sia la prima a riconoscerlo.

Forse è il caso di spendere due parole sui loro nomi che sono effettivamente nomi egizi, anche se avrebbero dovuto essere «Pamin-o» e «Tamin-a», perché «Pa- e Ta- sono, nella lingua egiziana, gli articoli maschile e femminile, mentre Min è il nome di una delle divinità. I nomi Pamin e Tamin significano "U/la appartenente a Min"». "'' Le desinenze «o» e «a» echeggiano invece lo stile italiano.

I due si abbracciano, ma subito interviene Monostatos che li separa brutalmente, per poi rivolgersi a Sarastro:

Il tuo schiavo giace ai tuoi piedi, fai punire l'audace profanatore. Pensa a quanto è sfacciato il ragazzo! Con l'astuzia di questo strano uccello [Papageno] ti voleva rapire Pamina, ma io sono riuscito a rintracciarlo. Tu mi conosci! - la mia sorveglianza...

«Merita che la si cosparga di allori» lo interrompe Sarastro. Ma il «premio» saranno settantasette frustate sotto i piedi. La foUa inneggia a Sarastro, il «saggio divino che premia e punisce con equità».

Dai commenti si leva un coro contro «questo tratta-mento incivile di appioppare pesanti pene corporali». Attila Csampai è indignato dalle frustate comminate «del tutto arbitrariamente e senza motivo» a Monostatos che in fondo «ha agito su incarico di Sarastro e avrebbe semmai

meritato riconoscenza. Punire ingiustamente i subalterni non è solo, e da sempre, un efficiente mezzo usato da tutti i despoti per procurarsi rispetto, ma è qui anche una rea-zione ai sentimenti proibiti dell'oppresso moro che poco prima aveva disatteso l'assoluto e rigido divieto d'amore che la misogina casta sacerdotale aveva imposto non solo a se stessa, ma anche ai suoi schiavizzati subalterni». Csampai chiude la sua filippica contro Sarastro chieden-dosi: «Ma ha un'anima quest'uomo?».

Anche Jan Assmann, noto egittologo e autore di uno dei più bei libri sul Flauto magico, arriva a chiedersi «se nel mondo di Sarastro i mori siano considerati uomini a tutti gli e f f e t t i » .Le letture psicanalitiche vedono raffigurato in Monostatos il mondo dei desideri inconsci di Sarastro, che quindi giustamente li reprime: è un modo per darsi ragione di scene come questa. Tra i commenti che ho letto, ne ho trovato solo uno che ritiene «adeguata» tale punizione, in considerazione del fatto che «il cattivo moro ha tentato più volte di violentare Pamina, persino mentre era svenuta».

A mio parere non è questa la colpa per la quale viene punito Monostatos, bensì un'altra, di cui nessuno parla, che nessuno neppure nota, nonostante sia proprio l'azione per la quale Monostatos si aspetta lodi e ringraziamento da parte di Sarastro: l'aver separato - proprio in questa scena - gli amanti. «Che sfacciataggine! Separatevi subito, questo è davvero troppo!» aveva gridato Monostatos men-tre li divideva, per rivolgersi immediatamente dopo, con le parole sopra riportate, a Sarastro.

Qui la divisione può essere letta in diversi modi: c'è la volontà di impedire che l'uomo si unisca al proprio Sé, che trovi Dio dentro se stesso, oppure, rimanendo sul piano letterale, di separare uomo e donna, di ostacolare il

loro amore. Le Chiese hanno sempre fatto l'uno e l'altro. Quanto dolore inutile, quante profonde ferite e storture dell'anima hanno causato le assurde regole imposte dalle religioni!

Tamino e Papageno vengono incappucciati e condotti nel «Tempio delle Prove» per purificarsi. D coro intona:

Quando virtù e giustizia cospargeranno di gloria il grande cammino, allora la terra sarà un regno celeste e i mortali uguali agli dèi.

In alcune edizioni invece di «den grossen P/ad» (il gran-de cammino) si legge «der Grossen Pfad» (il cammino dei grandi). Credo sia più corretta la prima lettura, perché si tratta del cammino dell'Uomo, il cammino insegnato da Cristo che tutti dovrebbero percorrere.

Atto II

Atto II, scena 1 - «Egli è un uomo!»

Il secondo atto è connotato da un'ambientazione egizia: «La scena è un palmeto, tutti gli alberi sono argentei, le foglie d'oro, diciotto seggi di foglie. Su ogni seggio sta una piramide. [. . .] Sarastro e altri sacerdoti entrano con passo solenne, ciascuno con un ramo di palma in mano. Una marcia con strumenti a fiato accompagna la processione». Massimo Mila, come tanti altri, pensa «a una simbologia massonica».Trovo molto sensata l'osservazione di Hans-karl Kòlsch che «palme d'argento con foglie d'oro non esistono da nessuna parte del mondo» e che quindi «si tratta di un mondo altrettanto irreale quanto quello della Regina della Notte»,

Avendo sempre presente la Divina Commedia, noto che i seggi sono costituiti da foglie, come da petali sono costituiti i seggi «altrettanto irreali» della candida rosa che Dante vede alla fine del Paradiso, sui quali, tuttavia, non sono seduti sacerdoti, ma beati, perché il suo è un viaggio nell'Aldilà.

In una lunga scena parlata Sarastro spiega agli «iniziati, servitori dei grandi dèi Osiride e Iside» che il ventenne Tamino, figlio di un re, "*® «brama con cuore virtuoso qualcosa che noi tutti dobbiamo conseguire con fatica e

solerzia. In breve, questo giovane vuole strappare da sé il suo velo notturno e gettare lo sguardo nel santuario della somma Luce». I sacerdoti si informano sulle virtii di Tamino. Poi Sarastro chiede loro se lo ritengano degno. In seguito alla loro risposta positiva Sarastro li ringrazia «in nome dell'umanità» e continua con parole troppo elevate per potersi riferire all'ammissione di un giovane in una setta massonica: qui è in gioco il futuro dell'umanità, la lotta tra il «pregiudizio» da una parte e «Saggezza e Ragione» dall'altra.

Poi il tono cambia e Sarastro parla di Pamina: «Gli dèi hanno destinato al leggiadro giovane la dolce e virtuosa fan-ciulla; questa è la ragione per cui l'ho strappata alla superba madre». «La spiegazione» obietta Erich Neumann «non è affatto convincente, soprattutto sapendo che anche la Regina della Notte ha promesso la fanciulla a Tamino». E vero. Comunque suUa madre di Pamina il giudizio di Sarastro è durissimo: «Questa donna si crede grande, e spera di incantare il popolo con l'inganno e la superstizio-ne, e di distruggere il nostro solido Tempio». Molti hanno voluto leggere in questa frase un'allusione all'imperatrice Maria Teresa, di cui era nota la politica antimassonica. Qui non posso non essere d'accordo con Massimo Mila che prorompe: «Ma era morta da undici anni!».^^°

AUa fine del lungo monologo di Sarastro un sacerdote esprime perplessità suUa capacità di Tamino di superare le dure prove perché, dice, «E un principe». «Noch mehr - er ist Mensch!» (Di più - egli è un uomo!) risponde Sarastro. E un ribaltamento di valori esplicito, e voluto, rispetto all'inizio del primo atto quando, alla domanda di Tamino su chi egli fosse, Papageno aveva risposto «Ein Mensch wie du» (Un uomo come te), mentre Tamino si era defi-nito orgogliosamente un principe, lasciando intendere che

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un principe è piìi di un uomo. Qui, nel regno di Sarastro, Tamino dovrà imparare che un uomo è più di un princi-pe. In entrambi i casi il termine usato è Mensch, stupenda parola che purtroppo non ha un corrispettivo nella lingua italiana: Mensch è l'essere umano senza alcuna specifica-zione di genere.

A conclusione, Sarastro, accompagnato dal coro dei sacerdoti, intona un inno a Iside e Osiride.

Atto II, scene 2-6 - Inizio delle prove

Dopo la breve scena 2 che vede i due neofiti (Tamino e Papageno) soli, al buio, con Papageno terrorizzato, entra-no alcuni sacerdoti:

Sacerdote: Stranieri, cosa cercate o esigete da noi? Cosa vi spinge a penetrare nelle nostre mura?

Tamino: Amicizia e amore. Sacerdote: Sei pronto a combattere per esse con la vita? Tamino: Sì! Sacerdote: Anche se ti toccasse in sorte la morte? Tamino: Sì! Sacerdote: Principe! Sei ancora in tempo per ritirarti -

ancora un passo avanti e sarà troppo tardi. Tamino: La dottrina di saggezza sarà la mia vittoria,

Pamina, la dolce fanciulla, il premio. Sacerdote: Ti sottoporrai a qualsiasi prova? Tamino: Qualsiasi.

Tamino ha ormai cambiato rotta e Pamina non è più la fanciulla da salvare, ma è diventata il «premio» per una vit-toria che non è contro Sarastro. Alla luce di quanto veniva

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detto all'inizio dell'opera questo dialogo è assurdo, ma in ogni caso dovremmo chiederci perché mai dovrebbe essere necessario «combattere», per di più mettendo a rischio la propria vita, per ottenere amicizia e amore. Non ha senso. Ha senso solo se in gioco è la salvezza della propria anima.

L'altro sacerdote si rivolge poi a Papageno.

Sacerdote: Vuoi anche tu combattere per ottenere l'amore per la saggezza?

Papageno: Combattere non è cosa che fa per me. In fondo non chiedo nemmeno la saggezza. Sono un uomo semplice {Naturmensch), che si accon-tenta di dormire, mangiare e bere; e se poi potessi una volta riuscire a catturarmi una bella femminuccia...

Sacerdote: Quella non la otterrai mai, se non ti sottoporrai alle nostre prove.

Papageno: In che cosa consiste questa prova? Sacerdote: Nel sottometterti a tutte le nostre leggi, e a non

temere nemmeno la morte. Papageno: Rimango scapolo.

La battuta fa ridere, giustamente, ma avrebbe senso que-sto discorso se si trattasse di una «moglie»? No. «Prove», se vogliamo chiamarle così, sono previste non solo nella massoneria, ma in tutti i cammini iniziatici, e non sono per niente «stupide» come scrive Csampai, che ritiene «l'intero provificio una farsa [. . . ] per giustificare l'elitaria pretesa di potere di Sarastro». ^^ Si tratta di una sacrosanta disciplina, indispensabile per signoreggiare se stessi, per dominare le proprie pulsioni, le proprie paure. E però necessario com-prendere che qui non è in gioco trovare una moglie o una compagna: né per l'uno, né per l'altro.

Il sacerdote informa poi Papageno che Sarastro ha in

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serbo per lui una fanciulla che «nei colori e negli abiti è perfettamente uguale» a lui, e si chiama Papagena. La potrà vedere, «ma fino allo scadere del tempo non scam-biare nemmeno una parola con lei». Poco piti avanti, nella scena 6, con l'assoluto buon senso che lo caratterizza, Papageno chiederà: «Ora ditemi, miei cari signori, se gli dèi mi hanno destinato una Papagena, perché mai per ottenerla devo correre tutti questi pericoli?». Ha ragione Papageno, o meglio: avrebbe ragione se... se si trattasse di una moglie.

Basterebbe semplicemente chiedersi come mai Papagena, di cui non viene detto che è stata rapita, si trovi nel regno di Sarastro; si comprenderebbe allora che questa fanciulla, che gli dèi o Sarastro (che così si rivelano essere la stessa cosa) hanno in serbo per lui, non può che essere la sua controparte spirituale. Dalle parole del libretto risulta fin troppo evidente l'influenza, anche in questo caso, della dottrina zoroastriana, secondo la quale la Daena è l'ar-chetipo celeste: ogni individuo viene creato a sua perfetta somiglianza, proprio come Papageno è «perfettamente uguale» a lei «nei colori e negli abiti», e anche nel nome.

Alla fine di questa lunga scena parlata i sacerdoti impon-gono ai due «un salutare silenzio» e intonano un canto:

Proteggetevi dalle insidie delle femmine: questo è il primo dovere dell'alleanza! Qualche uomo saggio si lasciò incantare, sbagliò, e non se lo aspettava. Alla fine si vide abbandonato, la sua fedeltà ripagata con scherno ! Invano si torse le mani, morte e disperazione furono la sua ricompensa.

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Il musicologo Wolf Rosenberg ritiene che «lo schia-mazzare contro le donne dev'essere stato assai snervante per Mozart, e ci si chiede come mai non abbia protestato almeno in questo caso». ^^ Appunto: come mai non ha protestato? A mio avviso perché il libretto gli andava bene così.

Interessante è l'espressione «morte e disperazione» {Tod und Verzweiflun^, parole che echeggeranno fra poco anche nella famosa aria della Regina della Notte. L'invettiva è rivolta contro di lei, ovvero contro i beni terreni che non mantengono mai la promessa di felicità, e che conducono chi si lascia da loro incantare a morte (spi-rituale) e a disperazione. L'ammonimento dei sacerdoti è infatti rivolto - come viene in genere inteso - per mettere in guardia dall'imminente comparsa delle sue damigelle.

La brevissima scena 4 vede i due eroi soli, con Papageno che si lamenta dell'oscurità e osserva: «Questo è proprio strano, ogni volta che i signori ci abbandonano, non si riesce più a vedere proprio niente». «Il doppio senso è facile da comprendere»^^^ commenta giustamente Jacques Chailley.

Subito dopo entrano in scena, prepotenti, le tre dami-gelle, che riescono a terrorizzare Papageno, al quale Tamino continua a ricordare, invano, l'obbligo del silen-zio. Nei confronti delle damigelle Tamino usa qui il ter-mine spregiativo Weiber (femmine), lo stesso usato poco prima dai sacerdoti, mentre nella terza scena del primo atto chiedeva: «Wer sind diese Damen?» (chi sono queste damigelle?). Anche questo è un segno dell'avvenuto cam-biamento.

Le damigelle si rivolgono a Tamino: «Sei perduto! [ . . . ] Si sente bisbigliare delle false intenzioni di questi sacerdo-ti! [ . . . ] Si dice che chi fa giuramento nella loro congrega,

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va di colpo dritto all'inferno». Anche in questo caso con-cordo col commento di ChaiUey: «Sono termini che sem-brano emanati dal Sant'Uffizio romano». A precipitare in inferno, tra «tuoni, lampi e boati», saranno tuttavia loro.

Atto II, scene 7 e 10 - Monostatos

Ci avviciniamo alle scene più drammatiche dell'opera. È notte. In un «pergolato di fiori e rose» dorme Pamina, mentre «la luna illumina il suo volto». Entra Monostatos: «Quale uomo rimarrebbe freddo e insensibile a una simile vista?» dice tra sé e sé. «La ragazza mi farà ancora perdere la ragione. Il fuoco che arde in me finirà per consumarmi». Dopo essersi guardato intorno per assicurarsi che non ci sia nessuno, dice ancora: «Se sapessi di essere tutto solo e che nessuno mi ascolta, oserei ancora una volta». Segue la sua aria:

Ognuno prova le gioie dell'amore, accarezza, amoreggia, abbraccia e bacia, e io dovrei evitare l'amore, perché un nero è brutto! Non ho forse anch'io un cuore? Non sono anch'io di carne e sangue? Vivere sempre senza una donna sarebbe davvero un fuoco infernale.

Ho già detto che, a mio avviso, Monostatos rappresenta il clero e in queste scene ne trovo un'ulteriore conferma. Soprattutto si capirà finalmente perché è un «nero»: «Bianco è bello! Io la devo baciare. Perciò, luna, nascon-diti!» canta ancora Monostatos, e avrebbe ragione Ivan Nagel quando scrive che «in questo "Bianco è bello" c'è

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più compartecipazione ai sentimenti degli oppressi che non nel "Black is beautiful" di Malcolm X»; ^^ avrebbe ragione se si trattasse di oppressi, ovvero se si trattasse di un «negro». Ma già qui uno dovrebbe chiedersi: perché mai un negro dovrebbe «evitare l'amore»? Chi ha mai detto che dovrebbe «vivere sempre senza una donna»? Queste frasi hanno senso solo se riferite ai preti, non certo ai negri. E che di preti si tratti risulta ancora più chiaro da quanto Monostatos dice nella scena 10. Pamina lo respinge e lui, «pieno di rabbia» le grida: «No? E per-ché? Perché porto il colore di uno spettro nero?». Qui è d'obbligo citare il testo tedesco: «Weil ich die Furbe eines schwarzen Gespenstes trage?». Ora, il verbo tragen significa certamente «portare», ma anche «indossare», per cui, se trovassi questa frase al di fuori di ogni contesto e non vedessi sulla scena un moro con un vestito variopinto, senza dubbio tradurrei: «Perché vesto con il colore di uno spettro nero?».^^^

Naturalmente bisogna tener conto della duplice chia-ve di lettura: Pamina-donna, che è il senso letterale, e Pamina-anima, il senso allegorico. L'aria della scena 7 sopra riportata si riferisce a Pamina-donna e allude, penso, ai preti che vestono di nero, devono «evitare l'amore» e «vivere sempre senza una donna». La scena 10 si riferisce invece a Pamina-anima. Tra le due c'è l'importantissima scena 8 - sulla quale ovviamente torneremo - con la cele-bre aria in cui la Regina della Notte chiede a Pamina di uccidere Sarastro. Monostatos ha sentito tutto e pensa di avere adesso in mano un'arma per costringere Pamina a cedere: il ricatto. Il significato letterale riguarda sempre ancora Pamina-donna, ma la scelta delle parole rivela in modo abbastanza chiaro che il riferimento è a Pamina-anima. Disperata, guardando il pugnale che ha in mano, la

fanciulla si chiede: «Che devo fare, ora?». «Affidarti a me» le risponde Monostatos. «Basta che io dica una sola parola a Sarastro, e tua madre verrebbe [. . .] affogata. [. . .] Hai una sola via per salvare te e tua madre: [. . .] Amare me!».

La Chiesa si interpone nel dialogo tra l'anima e Dio, vuole che l'anima le si affidi e la ami, perché essa sola è autorizzata a parlare con Dio, e Dio l'ascolta e le ubbidi-sce. Nella Divina Commedia Dante fa dire a papa Bonifa-cio Vili: «Lo del poss'io serrare e diserrare»,cioè sono io, il papa, a decidere chi va in Inferno e chi in Paradiso, perché ho le chiavi con le quali posso chiudere o aprire la porta del cielo. Poi Dante sbugiarda il papa, dato che incontra in Inferno la persona cui Bonifacio aveva garanti-to l'assoluzione. Inoltre incontrerà in Purgatorio un'intera schiera di «scomunicati», che secondo la Chiesa sarebbe-ro ovviamente dovuti stare in Inferno. Il clero di tutte le religioni si è sempre considerato il rappresentante di Dio suUa terra, e ha sempre usato Dio come uno spauracchio, proprio come fa Monostatos.

Al risoluto «Mai!» di Pamina, Monostatos alza il pugna-le su di lei per ucciderla, ma - e qui passiamo alla breve scena 11 - interviene Sarastro. «Signore» dice Monostatos «io sono innocente ! Si congiurava per la tua morte, perciò volevo vendicarti». Da notare l'uso del verbo ràchen (ven-dicare), sul quale torneremo.

Atto II, scena 8 - La Regina vuole vendetta

La scena 8 è di fondamentale importanza, non solo per la celeberrima, meravigliosa e terribile aria della Regina della Notte, ma anche per le preziose informazioni che lei fornisce alla figlia e che in parte sono già state anticipate.

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«Madre! Madre mia!» esclama Pamina non appena, svegliandosi forse per il fragore del tuono che ne ha accom-pagnato l'apparizione, vede la Regina davanti a sé. L'affetto con cui «le cade fra le braccia» è tale che bisognerebbe forse tradurre «Mamma». La Regina è invece fredda:

Regina: Dov'è il giovane che ti ho inviato? Pamina: Ahimè, madre, lui è perso per sempre al mondo e

agli uomini. Si è votato agli iniziati. Regina: Agli iniziati? Figlia infelice! Ora mi sei strappata

per sempre. Pamina: Strappata? Fuggiamo, cara madre! Con la tua

protezione posso affrontare qualsiasi pericolo. Regina: Protezione? Cara figlia, tua madre non ti può piìi

proteggere. Con la morte di tuo padre ho perso tutto il mio potere.

Pamina: Mio padre... Regina: Ha voluto consegnare agli iniziati il potente set-

templice Cerchio Solare che ora Sarastro porta sul petto. Quando gliene chiesi ragione disse: «Donna, è giunta la mia ora: tutti i tesori che pos-sedevo sono tuoi e di tua figlia». - «E il Cerchio Solare che tutto consuma?» lo interruppi; «E destinato agli iniziati» rispose. «Sarastro lo saprà amministrare da uomo, come ho fatto io finora. E ora non una parola di più; non indagare su cose che sono incomprensibili allo spirito femminile. Il tuo dovere è di affidare te e tua figlia alla guida di uomini saggi».

Pamina: Cara madre, devo trarre la conclusione che anche il giovane è perso per sempre per me?

Regina: Perso, a meno che tu, prima che il sole colori la terra, non lo convincerai a fuggire attraverso queste stanze sotterranee. Il primo chiarore del

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giorno deciderà se si sarà dato interamente a te o agli iniziati.

Pamina: Cara madre, non potrei amare il giovane come iniziato altrettanto teneramente che adesso? Mio padre stesso era legato a questi uomini saggi. Parlava sempre con entusiasmo di loro, lodava la loro bontà, la loro intelligenza, la loro virtù. Sàrastro non è meno virtuoso.

Regina: Cosa sento! Tu, mia figlia, puoi difendere le infami ragioni di questi barbari? Puoi amare un uomo simile, che lavora ogni istante, insieme al mio nemico mortale, solo a preparare la mia rovina? Vedi questa spada? È stata affilata per Sarastro. Tu lo ucciderai e consegnerai a me il potente Cerchio Solare.

Pamina: Ma carissima madre! Regina: Non una parola!

Qui finisce il lungo dialogo parlato e inizia la famosa aria, straordinaria da un punto di vista musicale e agghiac-ciante per quanto riguarda il senso delle parole:

La vendetta dell'inferno arde nel mio cuore, morte e disperazione divampano intorno a me! Se Sarastro non sentirà per mano tua i dolori della morte, allora non sarai più mia figlia, mai più. Sii ripudiata in eterno, sii abbandonata in eterno, distrutti siano in eterno tutti i vincoli della natura, se Sarastro non spirerà per mano tua! Udite, dèi della vendetta! Udite il giuramento della Madre!

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Questo rapporto conflittuale tra madre e figlia ha dato adito a varie interpretazioni psicologiche e psicanalitiche. Secondo Erich Neumann la scena «rivela il carattere ter-ribile della Grande Madre la quale, come "Madre divo-rante" non è mai pronta a lasciar libera la figlia». Il suo «"amore" è espressione di una volontà di potenza che non permette alla vita della figlia di raggiungere l'indipendenza e la usa per i propri scopi. [. . .] La terribile dea non è inte-ressata in alcun modo all'individualità e alla personalità della figlia» e pretende «obbedienza assoluta». ^^

Non nego che tali aspetti siano presenti nei rapporti tra madri e figlie, ma ritengo che qui si debba abbandonare il senso letterale, terreno, e considerare l'ambito spirituale al quale queste figure fanno riferimento.

Atto II, scena 12 ~ La risposta di Sarastro

L'aria delia Regina delia Notte, con i suoi vocalizzi e i vertiginosi acuti dai quali «emerge un odio diabolico»^^^ è tra i brani più conosciuti dell'opera. Assai meno nota è l'aria di Sarastro che la segue e che è costruita musicalmen-te in contrapposizione a essa: «un luminoso mi maggiore si contrappone volutamente al cupo re minore, il Lied tedesco all'aria i t a l i ana» , l a nota piìi alta di lei è un «fa» e la più bassa di lui è di nuovo un «fa», ma alla distanza abissale di quattro ottave. «La musica ancor più di quanto faccia il libretto»^^^ concorre a estremizzare l'opposizione tra questi due ambiti, quello delle Tenebre, del Male, dell'Odio e quello della Luce, del Bene, dell'Amore. Come scrive Abert: «li confronto con l'aria precedente lascia chiaramente intendere quale fosse per Mozart il mondo della realtà e quale il mondo delle vuote speranze». ^^

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«Der Halle Rache kocht in meinem Herzen» (La ven-detta dell'inferno arde nel mio cuore): così inizia l'ag-ghiacciante aria con cui la Regina non solo della Notte, ma evidentemente anche degli Inferi, chiede alla figlia di uccidere Sarastro. L'aria termina poi con un'invocazione ai Kachegótter (gli dèi della vendetta). La parola chiave è Rache (vendetta), ed è a questa che risponde Sarastro, che inizia dicendo: «In queste sacre sale non si conosce la vendetta».

Nel breve dialogo parlato che precede la sua aria, a Pamina che gli chiede di non punire sua madre, Sarastro dice: «So tutto. So che vaga nelle stanze sotterranee del Tempio e trama vendetta contro me e l'umanità». Il seppur breve accenno air«umanità» ribadisce ancora una volta l'ambito di riferimento, che va ben al di là di una vicenda amorosa o del futuro della massoneria. '

«Vedrai - continua Sarastro - come mi vendico nei confronti di tua madre». Riporto integralmente il testo dell'aria che ritengo un vero e proprio manifesto del pen-siero di Mozart, delle sue piCi ardenti speranze:

In queste sacre sale non si conosce la vendetta. E se un uomo è caduto, l'amore lo riconduce al dovere. Allora camminerà, alla mano dell'amico, soddisfatto e lieto verso una terra migliore.

In queste sacre mura, dove l'uomo ama l'uomo, non può stare in agguato un traditore, perché si perdona al nemico. Chi non gioisce di tali insegnamenti, non merita di essere un uomo.

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Fa davvero male vedere come quest'aria sublime, in cui risuona per ben tre volte la parola Mensch, venga travisata e irrisa da alcuni commentatori. C'è chi scrive: «Quando Sarastro dice che "se un uomo è caduto, l'amore lo ricon-duce al dovere" dimentica i settantasette colpi di frusta comminati al povero Monostatos».^® Per HUdesheimer Sarastro è «in tutto e per tutto un personaggio di carta-pesta, protagonista di una specie di falso dramma mistico; [ . . . ] non credibile nemmeno come ideale umanitario. Se nelle sue "sacre soglie la vendetta è sconosciuta" [. . . ] som-ministra settantasette colpi sulle piante dei piedi al malva-gio schiavo moro per aver osato insidiare Pamina».^*^ E Csampai: «In quest'aria Sarastro non dice affatto la verità, perché alla fine si vendica della Regina». ^^ Alcuni critici hanno da ridire sul fatto che, dal punto di vista musicale, le due strofe siano perfettamente identiche, ma, come scrive Abert, ciò corrisponde a una scelta precisa, e cioè di dare a quest'aria «la forma più chiara e semplice possibile», in contrasto con i «salti» e i «guizzi selvaggi» di quella della Regina della N o t t e . « È , riprodotta in suoni,» scrive ancora l'Abert «l'immagine massonica di due amici che, uniti per mano, sono in camrpino verso "un paese migliore". [ , . , ] Tutta l'aria è come l'eco mozartiana del vangelo della fratellanza universale e forse la più perfetta espressione musicale che questo tema, tanto caro ai suoi contemporanei, abbia mai avuto». ^

Il deciso rifiuto della vendetta e la grandezza e nobiltà del perdonare sono temi ricorrenti nelle opere di Mozart. E il soggetto dell'ultima sua opera. La clemenza di Tito, ma risuona già nel primo Singspiel, Die EntfHhrung aus dem Serail {Il ratto dal serraglio), che termina con parole molto simili a quelle pronunciate da Sarastro:

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Nulla è tanto odioso quanto la vendetta; al contrario, essere umanamente buoni, e perdonare disinteressatamente, è proprio solo delle anime grandi! Chi non riesce a riconoscere questo, lo si guardi con disprezzo

INTERMEZZO DANTESCO: LA VENDETTA

Anche Dante si opponeva al circolo vizioso e nefa-sto della vendetta, e la cosa è rimarchevole se si tiene conto che all'epoca questa pratica assurda e lontana dal dettato evangelico non solo era considerata «dove-rosa» per il codice d'onore, ma anche permessa dagli statuti comunali. Sul suo atteggiamento personale può far luce il caso di Geri Del Bello, cugino di suo padre, ucciso negli anni in cui Dante nacque e che nessuno della famiglia vendicò, nonostante la «mancata ven-detta pesasse come un'onta su tutta la dinastia, e anche Dante dovette sentirne piià tardi le conseguenze».^^^

A parlare di questo lontano cugino è Dante stesso che costruisce l'episodio immaginando che sia solo Virgilio a vederlo in una delle bolge infernali minacciar forte col dito indicando Dante, il quale poi spiega come la violenta morte che non li è vendicata ancor [...] fece lui disdegnosoy^ Come sempre, l'Inferno dante-sco non è che la raffigurazione dei nostri stati d'animo.

A parte questo episodio, nella Commedia la «ven-detta» che serpeggia come una minaccia per tutto il poema è quasi sempre quella divina, da alcuni invo-cata, da altri temuta. L'ultima volta che la parola vi compare è quando Beatrice dichiara:

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La spada di qua su non taglia in fretta né tardo, ma' ch'ai parer di colui che disiando o temendo l'aspetta

In altre parole: la spada della vendetta divina sem-bra essere troppo lenta per chi la desidera (contro altri, naturalmente), troppo sollecita per chi la teme. Il testo dice solo che non è così, ma forse vuole sottinten-dere che la «vendetta di Dio» non esiste, o meglio: non esiste nella forma truce della nostra immaginazione.

Assai interessanti sono i versi precedenti. I beati avevano lanciato un grido, di cui Dante non era riu-scito a cogliere il senso delle parole. Beatrice gli aveva spiegato:

se nteso avessi t prieght suoi, già ti sarebbe nota la vendetta che tu vedrai innanzi che tu muoiP^

Qui vengono dette due cose: la prima è che se Dante avesse inteso il contenuto deUa preghiera dei beati saprebbe in che cosa consisterà la vendetta di Dio; la seconda è che lui vedrà tale vendetta prima di morire. Ora, dato che i beati hanno lanciato il grido immedia-tamente dopo una pesante invettiva contro i moderni pastori, la critica ha ritenuto che la vendetta divina potesse consistere in una punizione nei loro confronti. Così è sempre stato interpretato: «la giustizia divina castigherà i prelati corrotti»^^'' scrive, per esempio, il Sapegno. Quindi i critici hanno cercato di individuare, tra gli avvenimenti storici di quegli anni, qualche epi-sodio abbastanza funesto da poter essere interpretato come vendetta divina: alcuni hanno pensato alla morte di Bonifacio Vili, altri a quella di Clemente V.

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L'ipotesi di un regno di Dio in cui «non si conosce la vendetta», per usare le parole diSarastro, non ha mai sfiorato i critici danteschi, e non solo loro. L'idea che l'intervento divino contro gli empi e i malvagi debba consistere in una punizione, e che questa debba esse-re il più possibile cruenta, è radicata profondamente nel nostro immaginario, forse a causa delle numerose asserzioni dell'Antico Testamento, quali: «La spada del Signore è piena di sangue», ^ o «Manderò contro di voi la fame e le belve, che ti distruggeranno i figli; in mezzo a te passeranno la peste e la strage, mentre farò piombare sopra di te la spada. Io, il Signore, ho parlato».

Nonostante quello di Cristo fosse un messaggio di perdono e di amore, si è continuato a pensare a Dio come a un vendicatore che punisce, e ie chiese si sono riempite di terrificanti immagini di tormenti eterni. L'idea di un Dio che ama tutti gli uomini - il nucleo essenziale dell'annuncio evangelico - è stata accolta nel passato soprattutto dagli gnostici e da alcune sette ereticali.

E da Dante, che in un mondo in cui venivano organizzate crociate e innalzati roghi contro uomini e donne bollati come infedeli o eretici per poter essere, in nome di Cristo, uccisi, anziché amati come fratelli, ha gridato forte, e in una lingua comprensibile a tutti, che la «vedetta di Dio» non è altro che perdono e amore: per «vendicarsi» del peccato di Adamo Dio ha inviato suo Figlio. ^^ La cosa ha suscitato non poche perplessi-tà: «Che il Padre consideri la Crocifissione del proprio Figliolo unigenito come vendetta [ . . . ] né i Padri né i Dottori hanno detto ed è arditezza tale che soltanto l'Alighieri poteva permettersi»"® scrive per esempio

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Giovanni Papini. Ma la grandezza dell'intuizione dantesca sta nella motivazione: Dio non ha inviato suo Figlio per caricarlo, come un capro espiatorio, di tutte le colpe passate e future, ma per far l'uom sufficiente a rilevarsicioè per rendere l'uomo capace di sollevar-si. Sono parole che suonano così simili al «se un uomo è caduto, l'amore lo riconduce al dovere» di Mozart!

Tuttavia non è questa la «vendetta» divina annun-ciata da Beatrice, quella che Dante vedrà prima di morire. Certo, si può pensare che si tratti di una minaccia vaga, ma io ritengo che Dante avesse in mente qualcosa di preciso: il suo poema.

Nei primi secoli il cristianesimo veniva chiamato odòs, che significa «via», perché quella che aveva insegnato Cristo era una via. Ma ora la diritta via era smarrita, la lettura del Vangelo proibita,proibita la sua traduzione nelle lingue moderne, che fu permessa solo nel 1758 (due anni dopo la nascita di Mozart). Quindi era di nuovo necessario un intervento divi-no, una nuova «vendetta»: la «dettatura» del poema sacro,^^^ la Commedia che Dante vedrà completata prima di morire, e che ripropone lo stesso messaggio d'amore, insegna la stessa via necessaria per far l'uom sufficiente a rilevarsi, in piedi, consapevole della sua responsabilità, della sua dignità di essere «uomo», della sua divinità.

In questo caso non è tanto la Commedia a far luce sul Flauto magico, quanto, al contrario, il testo dell'opera mozartiana a chiarire il significato di un passaggio diffi-cile del poema dantesco. Emerge in ogni caso l'affinità profonda tra questi due capolavori.

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Atto II, scene 13-19 - La prova del silenzio r

Le scene dalla 13 alla 19 costituiscono di fatto un'unica lunga scena che vede Tamino e Papageno affrontare, in modo palesemente e pesantemente diverso, la prova del silenzio. Fin dall'inizio Papageno non riesce a tener la bocca chiusa e, al povero Tamino che continua a fargli segno di tacere, ribatte: «Con me stesso potrò ben par-lare; e anche noi due possiamo parlare tra di noi: siamo maschi!». Non ha capito proprio niente.

Papageno si comporta da buffone, suscitando l'ilarità del pubblico. Sono le scene più divertenti dell'opera, ma, visto il contesto in cui sono inserite, rappresentano, a detta di molti, una parodia dei riti massonici. A questo punto è doveroso chiedersi Ìl motivo per cui sono state ideate.

Una prima risposta - che non è banale anche se può sembrarlo - è che Mozart voleva divertire il pubblico. Questo era il suo modo di fare musica, la caratteristica di tutta la sua produzione: la leggerezza. D fatto di trattare argomenti nobili e sacri in modo gioioso e giocoso non implicava che non fossero per lui seri e radicati profonda-mente nel suo animo.

Una seconda risposta è che il contrasto con Papageno poteva servire a far risaltare la serietà di Tamino, o, come pensa qualcuno, ^^ a segnare la cesura tra i cosiddetti Piccoli Misteri, ai quali partecipa anche Papageno, e i Grandi Misteri, ai quali non sarà più ammesso.

Una terza risposta è, come accennato sopra, che si volesse mettere in scena una critica nei confronti del ritua-lismo massonico. Alcune battute, come quella sui diciotto anni di cui parleremo fra poco, sembrerebbero confermar-lo, anche se il vero, grave rimprovero che Mozart muove alla massoneria in quest'opera riguarda l'esclusione delle

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donne, più che il ritualismo, al quale in fondo Tamino sottosta senza protestare. Pertanto concordo con Jan Assmann quando scrive: «Ci si potrebbe aspettare che gli scherzi irrispettosi di Papageno, che costituiscono una continua parodia del rituale, compromettano la sacra serietà dell'azione, ma avviene un miracolo: il rituale sop-porta la parodia e non perde nulla della sua serietà».

Durante la prova del silenzio entrambi, ma con modali-tà del tutto diverse, riceveranno la visita della loro «anima gemella»: sono le scene 15 e 18.

Atto II, scena - Papageno, Papagena e la critica del ritualismo massonico

«Nemmeno una goccia d'acqua ti dà questa gente, per non parlare d'altro» si lamentava Papageno alla fine della scena precedente. Ed ecco che da una botola sale «una donna vecchia e brutta con un grande bicchiere d'acqua su un vassoio». E una lunga scena parlata ma, dato che è assai divertente, viene sempre eseguita integralmente. Dopo aver bevuto e scambiato alcune battute, Papageno le chiede quanti anni abbia e la risposta sorprendente è: «Diciotto anni e due minuti». Papageno ripete: «Diciotto anni e due minuti?» perché gli sembra di non aver capito bene, e poi le chiede se abbia un amante. «Ma certo!» ribatte la vecchia, sotto le cui sembianze si nasconde Papagena. Alle successive domande specifica che . il suo amante ha dieci anni piìi di lei, che si chiama Papageno e che si tratta proprio di lui. All'ultima domanda del ter-rorizzato Papageno: «Ma dimmi, tu come ti chiami?», la donna riesce solo a dire «Mi chiamo» perché un fragoroso tuono la fa scappare.

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Il numero diciotto era uno dei numeri cui la masso-neria attribuiva un significato importante. Ricordiamo che l'inizio solenne del secondo atto era caratterizzato da diciotto sacerdoti per i quali erano predisposti diciotto seggi sovrastati da diciotto piramidi. La risposta della vecchia è pertanto stata giudicata una presa in giro del ritualismo massonico. E vero, la battuta sul numero diciotto lo è, ma guardiamo la scena: chi la pronuncia? Papagena e Papageno, e quindi è coerente con tutte le pre-cedenti buffonate. Di più: fa parte della continua parodia del rituale che caratterizza la figura di Papageno. Allora dobbiamo chiederci il perché di queste scene irriverenti e chi o che cosa rappresenti la figura di Papageno. Da parte di Schikaneder potrebbe essere, come qualcuno ha sostenuto,una sorta di bonaria e autoironica vendetta per essere stato estromesso dalla massoneria a causa della licenziosità del suo comportamento. Non però da parte di Mozart, che senza dubbio nutriva un sincero rispetto per la sacralità dei numeri e dei rituali massonici. Non escluderei che in queste scene egli abbia voluto rappre-sentare - allo scopo di criticarh - i tanti bravi viennesi che in quegli anni dileggiavano la massoneria e i suoi cerimo-niali che non conoscevano e non comprendevano. Vi sono parole di Mozart che mi sembrano confermarlo. L'8 otto-bre 1791, al ritorno da una delle prime rappresentazioni, parlando di una persona di cui non fa il nome, ^^ scriveva alla moglie:

Lui, l'onnisciente, ha fatto a tal punto il bavarese che non mi è stato possibile rimanere, altrimenti avrei dovuto dargli del somaro. Sfortunatamente, ero là dentro [nel palco] quando è cominciato il secondo atto, dunque alla scena solenne [quella connotata dal numero diciotto]. Lui ha preso tutto in burla; all'inizio ho avuto abbastanza pazienza da voler richiamare la sua attenzione su alcu-

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ne parole, ma lui rideva di tutto. Allora per me è stato troppo; l'ho chiamato Papageno e me ne sono andato. Non credo però che quell'imbecille abbia capito.

Per Mozart dare del «Papageno» corrispondeva a dare dell'imbecille. Che poi sul letto di morte abbia voluto che gli cantassero l'aria di Papageno non toglie nulla al fatto che il suo giudizio su questa figura (non sull'aria da lui composta ! ) fosse negativo.

Nonostante l'inequivocabile chiarezza di questa cita-tissima lettera, molti commentatori ritengono Papageno non solo il vero eroe del Flauto magico, ma addirittura la figura nella quale Mozart si identificava. Tra questi anche Massimo Mila che, a proposito della scena in cui Papageno, suonando i campanelli d'argento, fa danzare Monostatos, scrive:

E questo uno dei punti più alti dell'opera, forse il più alto, dove la virtù benefica della musica viene celebrata non attraverso il nobile flauto di Tamino [ . . . ] ma attraverso uno strumento popo-laresco da baraccone. [ . . . ] È qui che si coglie il senso ultimo del Flauto magico, e veramente profondo, non già perché sia astruso e grave, ma semplicemente perché, nella sua spontaneità sorgiva, è celato dietro il pomposo apparato delle intenzioni massoniche: è la rivincita degli umili, dei poveri diavoli come Papageno, della gentarella viennese che la domenica affolla il Prater aggirandosi tra la musica dei baracconi e delle giostre. Macché Sarastro, macché saggezza superiore, macché rivelazione! La mente di Mozart può magari essere con loro; ma il cuore di Mozart è con Papageno.

E ancora:

Noi sappiamo che il cuore di Mozart batte all'unisono con quello di Papageno. Sappiamo che la vera massoneria di Mozart non è quella, in cui lui credeva di credere, degli iniziati, ma è quella in cui crede con tutta spontaneità e naturalezza, dei poveri diavoli, della gentarella comune, dei bravi viennesi. ®®

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Quando poi arriva a scrivere «Papageno e Papagena siamo tutti noi»/^^ mi sembra di sentir^ la voce di Mozart che gli ribatte: «Papageno sarà Lei!». Il suo «macché Sarastro, macché saggezza superiore» corrisponde perfetta-mente alle parole del bavarese che prendeva «tutto in burla» e non capiva la serietà delle scene solenni. L'interpretazione di Massimo Mila non è condivisibile. Condivido invece l'opinione di Edward Dent secondo cui «Tamino può essere forse considerato come lo stesso Mozart»/^*^ e quella di Arnold Schònberg il quale, profondamente convinto dell'importanza che questo cammino di iniziazione spiri-tuale rivestiva per Mozart, scriveva: «Il posto di Mozart era dalla parte di Sarastro e dei suoi sacerdoti». ^^

La simpatia per Papageno ha fatto anche altre vittime illustri, come Attila Csampai che arriva a sostenere che non solo il cuore di Mozart, ma anche quello di Pamina batteva per Papageno: «Solo loro due sarebbero la coppia ideale, che potrebbe superare le barriere sociali. [ . . . ] Ma nel regno di Sarastro una simile relazione non è nemmeno pensabile».^^^ Effettivamente nel secondo atto, che si svol-ge tutto nel regno di Sarastro, i due non si incontrano più, e Csampai commenta: «Quale illustre moglie del futuro successore di Sarastro (Tamino), Pamina non potrà più rivolgere la parola a persone di rango inferiore. Ma lei non ha meritato un simile destino, perché prima di essere costretta, attraverso intimidazioni e torture psicologiche, ad adeguarsi, Pamina custodiva nella sua anima la speranza in un'umanità migliore, illuminata e realmente emancipata, che lei avrebbe potuto realizzare insieme a Papageno». ^

Volitically correct. Peccato che il testo dell'opera lo contraddica.

Ili

Atto li, scene 16-18 - «Mangiate e bevete allegramente... ma tacete!»

Di tutt'altro segno rispetto alla visita di Papagena è quella di Pamina nella scena 18, preceduta dalle due brevissime scene 16 e 17. Nella prima arrivano i tre fan-ciulli angelici «su una macchina volante coperta di rose». Riportano, su incarico di Sarastro, gli strumenti magici ài due neofiti, ma portano anche «una bella tavola imban-dita» ed esortano i due a non disdegnare le vivande: «Mangiate e bevete allegramente!». No, non sono diven-tati «dèmoni tentatori», ' anche se suona davvero strano un simile invito da parte di chi dovrebbe fungere da guida spirituale.

Il termine tedesco tradotto con «allegramente» è froh, un'altra delle parole-chiave dell'opera. E interessante seguire le modifiche che subisce l'uso di questa breve paro-la durante lo svolgersi della vicenda, quasi partecipasse al cambiamento di valori e prospettive che la caratterizza. Nel primo atto Papageno si presenta come froh und lustig (felice e allegro) e Tamino vuole andarsene froh und frei (felice e libero) senza entrare nel Tempio di Sarastro. Alla fine però, insieme a Pamina, entrerà froh nel Tempio e froh sarà addirittura il passaggio attraverso «la tetra notte della morte». ^

Dicevo che froh è una parola-chiave del Flauto magico, ma è anche una parola-chiave dell'illuminismo tedesco e di tutta la cultura di lingua tedesca di quegli anni. Subito viene in mente infatti un altro froh, quello che risuona entusiasta ed entusiasmante nella Nona di Beethoven:

Vroh, wie seine Sonnen fliegen Durch des Himmels prdcht'gen Pian,

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Laufet, Brùder, cure Bahn, Frendig, wie ein Held xum Siegep.

Felici , come i suoi soli volano

attraverso la sp lendente volta del cielo,

percorrete , fratel l i , la vostra strada,

gioiosi, come un eroe verso la vittoria.

È lo stesse cammino: un cammino da percorrere gioio-samente, gustando le cose belle e buone della vita, senza digiuni e mortificazioni. E un cammino che conduce a Dio consentendo di godere non solo di cibi e bevande, ma anche delle gioie dell'amore.

INTERMEZZO DANTESCO: RELIGIONE E CASTITÀ

E lo stesso cammino indicato da Dante che, nel Convivio, scriveva: «Non torna a religione pur queUi che a santo Benedetto, a santo Angustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d'abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, ché Dio non volse religioso di noi se non lo cuore». ^^ Questo era un pensiero talmente inaccettabile da chi predicava la castità (salvo poi comportarsi in maniera diversa), che per secoli il Convivio potè circolare solo senza questa frase, censurata daWlfidex lihrorum expurgandomm.

Più o meno in tutte le tradizioni sono presenti questi due volti: i grandi Maestri che insegnano una via da per-correre con gioia, e le caste sacerdotali che, proprio nel nome di quei Maestri, impongono rinunce e sacrifici. E Dio diventa qualcosa di cui avere paura, non qualcuno verso cui correre «gioiosi, come un eroe verso la vittoria».

Ma sia chiaro, e lo vedremo tra un po' con Tamino:

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la via che conduce alla gioia è dura e difficile, molto più dell'altra, perché richiede il coraggio di guardare fino in fondo dentro se stessi, richiede disciplina e responsabilità; non c'è nessuno che ti assolva, nessuno che prenda su di sé i tuoi peccati.

La prova del silenzio non è per nulla in contrasto con l'apertura al godimento dei sensi. In questo cammino non sono infatti i sensi a dover essere controllati, bensì la mente. Tuttavia, nonostante l'invito a mangiare e bere, solo Papageno si getta sulle leccornie portate dai tre fan-ciulli. Tamino preferisce suonare il flauto.

Attirata dal suono arriva Pamina, ed è una scena davve-ro straziante. Tamino non le rivolge la parola, né le spiega il motivo del suo tacere, che lei interpreta come mancanza d'amore, per cui si sente offesa, umiliata. Piange, ma né le lacrime, né le struggenti suppliche e nemmeno il suo proposito di «trovare pace nella morte» riescono a indurre Tamino a parlarle, ovvero a infrangere la prova - a questo punto durissima - del silenzio. E sarà proprio grazie al superamento di questa prova ch'egli infine conquisterà non solo Pamina, ma la «vita» e la libertà.

Atto II, scene 20-21 - L'ultimo addio

«Diciotto sacerdoti, disposti in forma di triangolo, ovvero sei su ogni lato» (a dimostrazione di quanto fossero seri e importanti per Mozart questi simbolismi numero-logici) intonano un inno a Iside e Osiride che annuncia come imminente la gloriosa vittoria finale del sole suUa notte; bald (presto) - altra parola-chiave dell'opera - «il nobile giovane sentirà nuova vita». Cinque secoli prima

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Dante scriveva la sua prima opera, Vita Nuova, per rac-contare la stessa esperienza.

Nella scena 21 viene introdotto Tamino e poco dopo Pamina, che chiede dove sia il suo innamorato. La rispo-sta di Sarastro: «Egli ti aspetta per darti l'ultimo addio» suona come una cattiveria ingiustificata, dato che non può non sapere che i due staranno insieme per sempre. E infatti subito dopo, quando Pamina, angosciata, si rivol-gerà a Tamino dicendo: «Non dovrò, mio caro, vederti più?» sarà Sarastro a risponderle: «Voi vi rivedrete, felici (froh)\». A questo punto vari commentatori ritengono che «ultimo addio» non vada inteso nel senso comune in cui tutti, anche Pamina, lo intendono - e cioè: «per l'ultima volta perché non vi rivedrete mai piìi» - bensì: «è l'ultima volta che vi dite addio perché sarete uniti definitivamen-te» ® dopo le difficili e pericolose provexhe Tamino deve ancora superare per essere «degno di noi», come cantano i sacerdoti.

Tuttavia non è l'espressione «ultimo addio» ad avere creato problemi, quanto l'incongruenza nella successione delle scene, tanto che piìi volte si è provveduto a «spostare o addirittura eliminare questo brano», ^^ nonostante sia musicalmente molto bello. Avevamo lasciato Pamina in lacrime a causa del silenzio di Tamino. Quella scena (la 18) terminava con Pamina che cantava: «Se non senti la brama dell'amore, allora avrò pace nella morte!», ma solo nella scena 27 tenterà di mettere in atto il suo proposito. L'edizione cinematografica di Ingmar Bergman anticipa il tentativo di suicidio a subito dopo la scena 18, come è logico che sia, ed elimina la scena 21. Non è l'unico a far così, perché lo svolgimento della vicenda previsto dal libretto è del tutto insensato, come rileva la quasi totalità dei critici chiedendosi come mai Pamina non abbia appro-

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fittato di questa occasione (la scena 21) per interrogare Tamino sui motivi del suo silenzio, e «perché tenti anco-ra, dopo questo incontro tutto sommato consolatorio, di togliersi la vita». ®''

Il tentativo di suicidio che, come vedremo più avanti, ha una sua ragion d'essere, sembra davvero incomprensi-bile se si pensa che qui Tamino le dice: «Credimi, provo lo stesso ardore, sarò eternamente il tuo fedele». Secondo Jan Assmann «la spiegazione di queste incoerenze è chia-ra come il sole: in questo terzetto le persone non parlano l'uno con l'altro, [ . . . ] bensì ognuno esprime, cantando, i propri pensieri. Il parlare non ha qui una funzione comu-nicativa, ma solo espressiva. Pamina non sente le rassicu-razioni amorose di Tamino».^"^

Massimo Mila, invece, critica questo passo dell'opera in quanto troppo «compassato e regolare per un momen-to così fatale. [ . . . ] Pensiamo a Verdi, che fuoco e che fiamme avrebbe tirato da una situazione di questo genere, due innamorati costretti alla separazione, per opera di una potenza superiore che li aUontana». ®^ Tutto preso dalla compassione per la povera Pamina Mila s'indigna non solo contro Sarastro, il quale «aumenta il suo affanno dicendole che Tamino l'attende per "l'ultimo addio"», ®^ ma soprattutto contro Tamino che «crede ciecamente, da vero SS, agli ordini superiori di Sarastro». ®'*

Simili commenti si possono scrivere quando si rimane attaccati al senso letterale, e non si vede altro. Tutto risul-ta invece chiaro se si considera Pamina la parte spirituale dell'anima, per l'unione con la quale Tamino non è ancora pronto.

Verso la fine del terzetto Sarastro dice ripetutamente «die Stunde schldgt» (suona l'ora). Non vi è alcuna indi-cazione cronologica, ma vari autori ritengono che si tratti

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del mezzogiorno perché «dodici è, pare, l'ora simbolica dell'inizio dei lavori in massoneria».^® ,Vi è però un altro punto dell'opera in cui viene indicato chiaramente pro-prio il mezzogiorno. Si tratta della scena 14 del primo atto, dove Papageno incontra per la prima volta Pamina, che gli chiede quanto sia alto il sole, e Papageno risponde: «Presto {bald) sarà mezzogiorno». Nel frattempo sono successe talmente tante cose che è impossibile sia ancora mezzogiorno.

In un cammino spirituale il mezzogiorno ha una forte rilevanza simbolica. Anche per Dante che, entrato in Inferno la sera, giunto alle rive del Purgatorio all'alba, ini-zia la salita verso i cieli a mezzogiorno.

Atto II, scene 22-23 - Differenze tra Papageno e Tantino

Papageno, rimasto solo, cerca disperatamente il suo compagno, ma quando «arriva alla porta, attraverso la quale è stato portato via Tamino» una voce esclama: «Indietro!». Poi risuona un tuono e dalla porta si vedono divampare lingue di fuoco. La stessa scena terrificante si ripete davanti alla porta da cui Papageno era entrato. Il messaggio è chiaro: egli non può procedere sulla strada intrapresa da Tamino per il semplice fatto che non ha superato la prova del silenzio. Però non può nemmeno tornare indietro: questo non è mai possibile in un cam-mino iniziatico, in cui ogni acquisizione, quand'anche parziale, è conseguita per sempre, perché non si tratta di una grazia, ma di una conoscenza.

Entra un sacerdote che si rivolge a lui dicendo: «Mensch!». Qui non ha senso tradurre «uomo», come in

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genere viene fatto. Così, col punto esclamativo, a inizio frase, corrisponde all'italiano «Diamine!». Con ciò non voglio insinuare che Papageno non sia Mensch quanto Tamino. Abbiamo visto l'altissimo valore che ha per Sarastro l'essere Mensch: «Chi non gioisce di tali inse-gnamenti [la fratellanza, il perdono, la solidarietà, l'ami-cizia, anzi l'amore fra gli uomini] non merita di essere un uomo». Ora, si può forse sostenere che Papageno non viva questi valori? No di certo: li vive e li condivide anche lui. Eppure dal contesto sembra emergere che solo Tamino sia degno di essere Mensch, e che tale condizione debba essere conquistata. E Papageno? Vediamo come si svolge il suo colloquio col sacerdote:

Sacerdote: Diamine! Avresti meritato di vagare per sempre nei tenebrosi abissi della terra; gli dèi benigni ti condonano tuttavia la punizione. Però non pro-verai mai il piacere celestiale degli iniziati.

Papageno: Va be', c'è tanta gente come me. Adesso il piacere maggiore sarebbe per me un buon bic-chiere di vino.

Sacerdote: Non hai nessun altro desiderio in questo mondo?

Papageno: Per ora no. Sacerdote: Verrai servito. (Esce.)

Su una cosa Papageno ha sicuramente ragione: la gran-de maggioranza delle persone è proprio come lui, anche se magari non tutti sono altrettanto genuini e sinceri. Con le sue debolezze, le sue paure, quel suo gloriarsi di meriti non suoi, quel lamentarsi sempre e i suoi desideri terra-terra è assai più vicino a noi dell'austero, rigoroso Tamino. In un questo senso si può anche condividere Massimo Mila quando scrive che «Papageno e Papagena

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siamo tutti noi». "^ Non però quando scrive che «il cuore di Mozart batte all'unisono con quello di Papageno».^^^ Sono convinta che Mozart amasse questo suo personag-gio, ma non si può dimenticare la lettera in cui usa il nome «Papageno» come un insulto, per dire somaro, imbecille. Il motivo di questo giudizio negativo è evidente: mentre lo scopo essenziale dell'opera è dimostrare la necessità e il valore di un cammino spirituale, Papageno non ha alcun interesse per un tale cammino. Soprattutto non ne ha desiderio.

INTERMEZZO DANTESCO: LA CONDANNA DI BRUNETTO

La questione è sottile, e forse può far luce il paral-lelo con un personaggio dantesco nei confronti del quale vi è la stessa apparentemente inspiegabile con-traddizione tra simpatia e condanna*: Brunetto Latini. Si pensi all'accorato stupore che risuona in quel «Siele voi qui, ser Brunetto?»e al dolore di Dante nel vedere in Inferno la cara e buona imagine paterna del suo amato maestro. * ^

L'Inferno dantesco è tradizionalmente visto come un luogo dell'Aldilà dove le persone sono punite secondo la famosa legge del contrappasso. A ben vedere però le pene rappresentano i vari stati d'animo che caratteriz-zano la nostra vita: la bufera che trascina Francesca è H suo lasciarsi andare alla passione, il ghiaccio in cui è conficcato il conte Ugolino è la freddezza nei rapporti intraumani che rende possibile il tradimento.

Qual è il peccato di Brunetto? Perché Dante lo ha messo in Inferno? Se fosse per la sodomia, peraltro non attestata, avrebbe potuto metterlo tra i sodomiti del Purgatorio. A mio avviso l'errore di Brunetto è esattamente quello di Papageno: non avere desiderio

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di infinito. È il contentarsi dei beni terreni quand'an-che nobili come la fama per il suo Tresor, la sua più importante opera letteraria;

«Sieti raccomandato il mio Tesoro nel qual io vivo ancora, e più non cheggio»?^^

«Non chiedo altro». Brunetto chiude con questo appello il suo discorso. Sono più o meno le stessè parole espresse da Papageno, al quale tuttavia viene subito dopo in mente un altro desiderio: «una fan-ciulla o una donnetta». E un passo avanti rispetto al bicchiere di vino, ma è sempre un bene terreno. Il giudizio di Dante sull'amore per i beni terreni è inequivocabile, tanto che arriva a ritenere giusto che chi ama questi beni più di Dio si addolori senza fine, ovvero stia in inferno per l'eternità:

Bene è che sanza termine si doglia chi per amor di cosa che non duri etternalmente, quello amor si spogUa?^^

Altrettanto inequivocabile è il giudizio che, nono-stante l'affetto e la simpatia, Mozart dà su Papageno.

Atto JJ, scene 23-23 - Appare Papagena

Rimasto solo Papageno beve il bicchiere di vino rosso che è comparso, e ciò lo trasporta in una condizione esta-tica: «Ho una strana sensazione al cuore! Vorrei... deside-rerei... sì, ma cosa?». Suona i campanellini e canta - ed è un'aria deliziosa, lunga tre strofe, che iniziano sempre con queste parole :

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Una fanciulla o una donnetta desidera Papageno per sé! , Oh, una tale dolce colombella sarebbe la felicità per me!

Alla fine compare la brutta vecchia già apparsa nella scena 15. Le frasi che rivolge a Papageno sono esilaranti, ma insensate:

- Papageno, ti consiglio di non esitare. Dammi la tua mano, altrimenti sarai per sempre incarcerato qui.

- Il tuo cibo sarà solo pane e acqua. Dovrai vivere senza amici, senza amiche e rinunciare per sempre al mondo.

A questo punto il buon Papageno pensa che sia meglio una vecchia piuttosto che restare solo e le promette di rimanerle sempre fedele, aggiungendo - rivolto al pub-blico - «fintanto che non ne troverò una più bella». Nel momento in cui lo giura, la vecchia si trasforma in una giovane vestita esattamente come lui. Lui la vorrebbe abbracciare, ma ecco intervenire il solito sacerdote che la allontana dicendole: «Egli non è ancora degno di te». E a Papageno che li segue impone di ritirarsi. Molto corag-giosamente Papageno si ribella: «Prima di ritirarmi dovrà inghiottirmi la terra!», che è esattamente ciò che accade in una scena di grande effetto.

Come già nelle precedenti scene 3 e 6 del secondo atto, viene qui nuovamente ribadito il concetto che Papageno non è ancora «degno» di questa compagna a lui destinata.

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Atto II, scene 26-27 -1 tre fanciulli angelici e I?amina

Da questo momento in poi non vi saranno più battu-te parlate: ogni parola sarà messa in musica. Ciò viene interpretato come il passaggio a una maggiore solennità. Scendono dal cielo i tre fanciulli angelici e intonano un breve corale, le cui parole esprimono tutta la fiduciosa spe-ranza di Mozart. Di nuovo, come già nell'inno cantato da:i sacerdoti nella scena 20, risuona tre volte la parola-chiave halà (presto):

Presto splenderà, per annunciare il mattino, il sole sulla via dorata. Presto svanirà la superstizione, presto vincerà l'uomo saggio. O dolce quiete, scendi quaggiìì, entra di nuovo nei cuori degli uomini; allora la terra sarà un regno celeste e i mortali uguali agli dèi.

Massimo Mila vede espresso in queste sublimi parole un «concetto di cui Schikaneder doveva essersi fatto uno slo-gan ideologico, desumendolo da chissà quali sottoprodotti della pubblicistica set tecentesca»s i stupisce del fatto che grandi intellettuali come Goethe, Hegel, Schopenhauer abbiano lodato questo libretto e si chiede cosa mai ci abbia-no trovato. Hanno trovato versi che esprimono l'angoscia di chi sa vedere H dolore del mondo e crede (o almeno spera) in un futuro migliore, e - si badi bene - non per sé, ma per l'umanità.

I tre fanciulli vedono Pamina disperata, «vicina alla paz-zia», e le rivolgono la parola. Lei dice loro di voler morire,

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di volersi uccidere con U pugnale datole dalla madre «per-ché l'uomo che non potrò mai odiare ha potuto abbando-nare la sua amata». Quando i fanciulli le assicurano che anche lui la ama, lei si stupisce che le abbia «nascosto i suoi sentimenti» e chiede: «Perché non ha parlato con me?». Abbiamo già visto le ragionevoli obiezioni mosse dai critici per il fatto che tra la scena in cui Tamino non le rivolgeva la parola, niotivo per cui lei spera di trovare «pace nella morte», e questa, in cui vuole mettere in atto il proposito di suicidarsi, c'è la rassicurante scena 21 in cui Tamino le dichiara il suo amore e Sarastro le prospetta un futuro felice. Volersi suicidare ora sembra non avere alcun senso.

INTERMEZZO DANTESCO: BEATRICE PARLA AGLI ANGELI

Questa scena così strana e piena di incongruenze ha - e la cosa potrebbe stupire - un corrispettivo quasi identico nella Divina Commedia-, anche Beatrice si lamenta del poco amore di Dante parlando con degli angeli. Ovviamente non può meditare il suicidio, ma un'aura di morte spira intorno a entrambe le figure.

Siamo nel canto XXX del Purgatorio, uno dei più belli e commoventi del poema: quello in cui, dopo tanta attesa e tanto cammino, appare finalmente Beatrice. L'incontro acquista però subito un tono drammatico perché lei redarguisce aspramente Dante. Rivolgendosi poi agli angeli spiega, insistendo per ben due terzine sul fatto di essere morta, i tanti motivi del suo rimpro-vero, tra cui il poco amore nei suoi confronti. «Questi si tolse a me, e diessi altrui»,^^^ e non servì a nulla, dice, apparirgli nel sogno o in altro modo: ormai non gli importava nulla di me, «sìpoco a lui ne calsel»?^^

Come già osservato in altra occasione, ciò che rende interessanti e significativi questi paralleli non è tanto

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l'analogia delle parole pronunciate, quanto il fatto che avvengano nello stesso momento del cammino.

In questo caso i nostri eroi incontrano o vedono le rispettive amate immediatamente prima dell'unione definitiva, quando tale unione non è loro ancora con-sentita, perché non sono ancora pronti, non ancora degni di ciò. In entrambe le vicende le due donne si lamentano poi, parlando a figure angeliche, del pòco amore dimostrato dai loro due innamorati, evocando, entrambe, la morte: Pamina desiderandola. Beatrice ricordandola. Subito dopo, nella Commedia^ Dante verrà condotto verso Beatrice e potrà attraversare i cieli insieme a lei, mentre nel Flauto magico Pamina verrà condotta verso Tamino e potrà affrontare le prove insieme a lui.

Il senso letterale verte, in entrambi i casi, sull'amo-re. Le poche battute di Pamina non lasciano adito a dubbi che di quello si tratti, mentre il lungo discorso di Beatrice purgatorio XXX, 103-145) fa intendere in modo chiaro che è in gioco ben altro: la salute, ovvero la salvezza dell'anima di Dante. Quello che le sta a cuore è che Dante non volga

/ passi suoi per via non vera, imagini di ben seguendo false, che nulla promession rendono intera.

Atto II, scena 28 - Fuoco, acqua, aria e terra

Questa lunga e complessa scena è il cuore del Flauto magico, «il pezzo piij straordinario di tutta l'opera»,^^^ come scrive Massimo Mila. Data la sua importanza non

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tralascerò nemmeno una virgola, a iniziare dall'allestimen-to scenico, descritto nei minimi dettagli:

La scena si trasforma in due grandi montagne; in una c'è una cascata, che si sente scrosciare e rintronare; l'altra sputa fuoco; ogni montagna ha un'inferriata traforata al di là della quale si vedo-no fuoco e acqua; là dove brucia il fuoco, l'orizzonte dev'essere rosso vivo, mentre dove c'è l'acqua vi è una nebbia nera. Le quinte sono rocce, e ciascuna si chiude con una porta di ferro. Tamino ha un abbigliamento leggero ed è senza sandali. Due uomini con una corazza nera entrano con Tamino. Sui loro elmi arde il fuoco; gH leggono la scritta luminosa che appare su una piramide posta nel mezzo, in alto, vicino all'inferriata.

I due uomini vengono indicati nel libretto come die Geharnichten, che significa «i corazzati» {Harnisch è la corazza dei cavalieri medievali). Generalmente in Italia vengono chiamati «armigeri», e anch'io mi adeguo a que-sta tradizione. Qualcuno preferisce «armati». Massimo Mila usa il termine tedesco, dato che ritiene «armati» (ma lo stesso si potrebbe dire per «armigeri») «termine ine-satto [ . . . ] per tradurre la parola t e d e s c a » e ha ragione perché non portano armi.

Con la corazza nera e il fuoco sopra l'elmo incutono un certo timore, ma sono in ogni caso personaggi positivi del regno di Sarastro. Fra le varie ipotesi formulate per spiega-re la particolarità del fuoco sopra gli elmi trovo convincen-te quella avanzata da Edward Dent, il quale ritiene che gli autori si sarebbero ispirati al Séthos. In quel romanzo che, come vedremo, è la fonte principale di tutta questa scena, i protagonisti «esplorano l'interno di una piramide serven-dosi di lampade che recano sul capo come caschi».^ ^

Qui è inevitabile parlare della musica, perché per que-sta scena Mozart ha creato qualcosa di grandioso, «il pezzo

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più straordinario di tutta l ' o p e r a » , « u n o fra i momenti più alti di tutta la produzione mozartiana»:^un brano lento e maestoso in cui due melodie procedono in paral-lelo e in contrappunto. Fin qui non ci sarebbe nulla di strano. Ciò che rende questo momento eccezionale è che le due melodie non sono sue, ma prese una dal Kyrie della Missa S. Henna di Heinrich von Biber del 1701, l'altra da un corale luterano: una cattolica, l'altra protestante-. «Non si può fare a meno di chiedersi: perché un corale luterano?»^^° si domanda Massimo Mila, proponendo come risposta un'ipotesi avanzata da Jacques Chailley, sulla quale anch'io concordo pienamente: «La massone-ria - scrive quest'ultimo - comportava ufficialmente la credenza in Dio, il "Grande Architetto dell'Universo", ma si rifiutava di prendere partito tra le differenti confes-sioni, venerando in modo uguale, sotto il nome di "Libri della Legge sacra", la Bibbia, il Corano, i Veda e diversi libri sacri di altre religioni. Se si tiene conto che questo corale protestante, traduzione letterale di un versetto di un salmo ebraico, si svolge adattato a un testo antico pagano [ . . . ] sul fondo orchestrale di un Kyrie cattolico, si ottiene un esempio davvero straordinario di sintesi, alla quale ci invita, ben prima dell'ecumenismo della seconda metà del XX secolo, l'ammirevole musica di Mozart, che si trova così ad illustrare, volontariamente o no, un'idea cara alla massoneria: quella dell'unione dei culti e dei dogmi, al di là dei loro particolarismi, in una sorta di super-religione filosofica quale si sforzava di essere». ^^

È la stessa apertura presente anche nella Divina Commedia dove, nel proporre gli esempi di virtù (le sette virtù cardinali e teologali) Dante abbina ogni volta a un santo cristiano o a una figura dell'Antico Testamento anche un personaggio pagano.

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Ma ecco il testo scritto sulla piramide, intonato con grande solennità dai due armigeri sulle note del corale luterano:

Colui che percorre questa strada piena di difficoltà si purifica attraverso fuoco, acqua, aria e terra; se saprà vincere il terrore della morte si innalzerà dalla terra verso il cielo. Illuminato sarà allora in grado di consacrarsi interamente ai Misteri di Iside.

Il testo è preso quasi alla lettera dal romanzo Séthos di Jean de Terrasson. Jacques Chailley riproduce il facsimile dell'originale, che recita:

Quiconque fera cette mute seul, et sans regarder demère lui, sera purifié par le feu, par l'eau et par l'air; et sii peut vaincre la frayeur de la mort, il sortirà du sein de la terre, il reverra la lumière, et il aura droit de préparer son ame à la révélation des mystères de la grande déesse Isis?^^

Chiunque farà questa strada da solo, e senza guardars i indietro,

sarà pur i f icato attraverso il fuoco, l ' a cqua e l 'ar ia ; e se r iuscirà a vin-

cere la paura del la morte , uscirà dal seno del la terra, r ivedrà la luce,

e avrà al lora il dir itto di preparare la sua an ima alla r ivelazione dei

mister i deUa grande dea Iside.^^^

È lo stesso cammino di Dante, il quale «dal seno della terra» esce infatti a riveder le stelle, e poi dovrà «preparare la sua anima» (la lunga salita del Purgatorio) per essere degno di ricevere la «rivelazione dei misteri», che avverrà in Paradiso.

Il passaggio attraverso i quattro elementi fa parte di una tradizione antichissima legata anche ai misteri di Iside. «Io arrivai ai confini della morte, posai il piede sulla soglia di

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Proserpina, e poi tornai indietro passando attraverso tutti gli elementi» " dice Lucio quando viene iniziato ai misteri della grande Dea, la quale così gli aveva parlato:

«Io, madre di tutte le cose, signora di tutti gli elementi, princi-pio di tutte le generazioni nei secoli [ . . J ; io, la cui potenza, unica se pur multiforme, tutto il mondo venera con riti diversi, con diversi nomi».^^^

La dea elenca poi i nomi con cui i vari popoli la chia-mano, e conclude:

«E infine i popoli che il sole nascente rischiara coi suoi primi raggi, [ . . . ] gli Etiopi e gli Egizi, d'antica sapienza, solo questi mi onorano con le cerimonie che mi son proprie, e mi chiamano col mio vero nome di Iside regina».^^^

È lo stesso concetto che abbiamo visto espresso nell'Is/Je e Osiride di Plutarco, lo stesso abbraccio che ingloba tutte le fedi del mondo e ne accetta i diversi riti: un messaggio che Mozart condivideva e che senza dubbio voleva trasmettere.

Tamino dovrà ora superare le prove del passaggio attra-verso il fuoco prima e l'acqua poi, ma siccome gli armigeri hanno nominato i quattro elementi, molti si sono chiesti come mai non venga descritto un passaggio di Tamino anche attraverso la terra e l'aria. Jacques ChaUley individua il passaggio attraverso la terra nella permanenza negli oscuri sotterranei del Tempio per la prova del silenzio, e - molto meno convincente - il passaggio dell'aria nella scena 17 in cui Tamino suona il flauto, che è uno strumento «à vent»p'^ cioè a fiato, ma, anche considerando che il termine tecnico per tali strumenti è «aerofoni», non mi pare si possa far passare quella scena per un passaggio iniziatico attraverso l'elemento aria.

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INTERMEZZO DANTESCO:

IL PASSAGGIO ATTRAVERSO I QUATTRO ELEMENTI

Anche in questo caso c'è un preciso parallelo con la Divina Commedia-, anche Dante deve passare attra-verso il fuoco e l'acqua e, per di più, esattamente come nel flauto magico: prima il fuoco, poi l'acqua.

Nell'ultimo cerchio del Purgatorio i lussuriosi (che sono grandi poeti del suo tempo) ardono nel fuoco. Dopo aver parlato con loro, Dante vorrebbe salire, ma non c'è alcun passaggio: il fuoco circonda tutta la cor-nice e anche Dante dovrà attraversare questo fuoco. Contrariamente a Tamino - che coraggioso esclama: «La paura della morte non mi trattiene dall'agire da uomo» ed è pronto a entrare subito nella montagna di fuoco - Dante è bloccato, terrorizzato dalla paura, pensando agii umani corpi già veduti accesip-"^ Non dimentichiamo che all'epoca era uno «spettacolo» comune vedere uomini e donne bruciare vivi (in nome di Cristo!) nelle piazze delle nostre città.

La scena, nonostante la situazione drammatica, è davvero gustosa, con Virgilio che non sa più cosa inventarsi per convincerlo che si tratta di un fuoco spirituale, che non uccide, che non gli brucerebbe nemmeno un capello. Niente da fare. Solo quando dirà: «tra Beatrice e te è questo muro»p-'^ Dante troverà il coraggio di entrare. È vero che ne uscirà vivo e con tutti i suoi capelli, ma l'esperienza sarà dolorosissima, tanto che dirà: «in un bogliente vetro gittata mi sarei per rinfrescarmi»}^'^

Il passaggio attraverso l'acqua avviene poco dopo con l'immersione nel Lete, un fiumicello che all'inizio Dante aveva ardentemente desiderato attraversare senza poterlo fare. Stando al di qua del fiume, egli

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vede dapprima Matelda {Purgatorio XXVIII), poi una strana e complessa processione {Purgatorio XXIX) e infine {Purgatorio XXX) gli appare Beatrice, che lo redarguisce - ne abbiamo già parlato - obbligandolo a confessarsi {Purgatorio XXXI). L'emozione gli fa perdere i sensi. Quando rinviene si trova immerso nell'acqua del fiume e lo attraversa; ne esce infatti sulla sponda opposta, in cui c'è Beatrice.

I passaggi attraverso il fuoco e attraverso l'acqua sono due momenti importanti e significativi, cui Dante dedica ampio spazio. Non hanno solo una funzione purificatrice, ma segnano in entrambi i casi l'ingresso in un luogo diverso, in una dimensione superiore, con-notata da una maggiore sacralità: uscendo dal fuoco Dante si trova nel Paradiso Terrestre, uscendo dall'ac-qua potrà finalmente unirsi a Beatrice.

Anche nella Commedia non c'è un'indicazione esplicita relativa al passaggio degli altri due elementi, ma la tradizione millenaria che ne sancisce la necessità viene rispettata: Vlnferno è il racconto dell'attraver-samento dell'intero globo terrestre (terra) e, prima di poter vedere Dio, Dante passerà, con Beatrice, per tutti i nove cieli della cosmologia tolemaica (aria).

Atto II, scena 28 - Una donna viene iniziata

L'impavido Lamino è pronto ad affrontare queste prove, presentate come assai pericolose:

La paura della morte non mi trattiene dall'agire da uomo, dal proseguire suUa strada della virtià.

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Apritemi le porte del terrore, io tento con gioia [froh] l'audacQ cammino.

A questo punto si sente da lontano la voce di Pamina: «Tamino fermati! Ti devo vedere». Tamino è stupito e contento: «Buon per me! Ora lei può accompagnarmi, ora non ci divide più nulla, quand'anche ci fosse desti-nata la morte!». Gli armigeri cantano le stesse parole e partecipano alla gioia di Tamino. Massimo Mila com-menta: «Ecco avvenire un miracolo: l'umanizzazione dei "Geharnischten", che pur catafratti nella loro antipatica armatura di pizzardoni, [ . . . ] ora si rivelano due bonaccio-ni». ^^ Non è l'unico a percepire qui una cesura: nel film di Bergman, per esempio, si tolgono l'elmo, mostrandosi bonari e sorridenti. Ma ecco che, dopo queste espressioni di gioia, pronunciano insieme a Tamino con grande len-tezza e solennità la frase certamente più audace e rivolu-zionaria dell'opera:

Una donna, che non teme la notte né la morte, è degna e viene iniziata.

Il primo verso è costituito solo da parole monosillabi-che e, cosa rara, forse unica, in corrispondenza di ognuna c'è il segno « f p » (fortepiano) in modo da essere cantate assai accentuate e ben staccate una dall'altra; il secondo verso viene invece ripetuto, ed entrambe le volte con una lunga pausa dopo la parola «degna». Insomma: la musica trasforma la frase in un'affermazione perentoria che non lascia adito a fraintendimenti. E infatti, a giudizio di tutti, una presa di posizione sbalorditiva, soprattutto se si consi-dera che persino nelle logge massoniche, frequentate dalle persone più aperte e all'avanguardia di allora, la chiusura nei confronti delle donne era totale, tanto che Ignaz von

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Born poteva scrivere: «Noi escludiamo le donne. [ . . . ] Il servizio che permettiamo loro di svolgere nella nostra massoneria consiste nel fissare i fiocchi sulle nostre deco-razioni e grembiuli».^'^

Subito dopo due brevi battute accompagnano l'incon-tro che sancisce l'unione eterna dei due amanti:

«Tamino mio! Oh quale felicità!» «Pamina mia! Oh quale felicità!».

Qui la musica è di una dolcezza infinita. «Per la prima volta splende sulla loro unione il pieno sole della felici-tà» commenta Abert, che continua: «Ciononostante il sentimento, pur sotto l'urgenza degli imminenti pericoli, resta immune da ogni passionalità terrena. Tutto il canto, soprattutto quello di Pamina, appare come trasfigurato eppure ricolmo di toccante interiorità. Mai si erano uditi finora nell'opera toni di un'affettuosità così spontanea».^^^

Di fondamentale importanza sono le parole che lei rivolge a Tamino prima di entrare con lui attraverso la porta che conduce alla prova del fuoco. Tamino le aveva indicato: «Qui ci sono le porte dei terrore, che mi minac-ciano pericoli e morte». Pamina gli risponde dicendo dap-prima che sarà lei a guidarlo, lei che a sua volta è guidata dall'amore. Nella seconda parte parlerà del flauto e ne racconterà l'origine. E di questo parleremo più avanti.

In ogni luogo • io sarò al tuo fianco.

Io stessa ti conduco, l'amore mi guida! (Lo prende per mano.)

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«Una cosa simile non si è mai vista» assicura Jan Assmann, meravigliandosi non tanto, o non solo, del fatto che venga iniziata una donna, e nemmeno - cosa da molti ritenuta eccessiva - che sarà addirittura lei a guidarlo, quanto della circostanza che a passare attraverso le prove di iniziazione sia una «coppia». Assmann è un esperto di misteri egizi e sa bene che in questo genere di riti il neofita dev'essere rigorosamente solo, come peraltro è indicato anche nel Séthos di Terrasson: «Quiconque fera cette mute Seul» inizia il brano sopra riportato. Quindi Mozart si dissocerebbe non solo dal testo della sua fonte principale, ma anche dalla prassi prevista dai rituali massonici. Chi ha seguito fin qui la mia interpretazione avrà intuito che Mozart segue fedelmente la tradizione e Tamino è solo nel suo cammino.

Per fare chiarezza bisogna distinguere due momenti diversi. In primo luogo, quando gli armigeri dicono che può essere iniziata «una donna» - attenzione: non dicono Pamina! - fanno una dichiarazione di carattere generale, con la quale Mozart e Schikaneder esprimono con forza e determinazione il loro disappunto per il fatto che non solo la Chiesa cattolica, ma anche la massoneria, escludesse le donne dal cammino intellettuale e spirituale. Questa è la loro vera, seria denuncia nei confronti delle logge masso-niche e della società nel suo complesso. Si noti che l'in-dignazione di Mozart per la discriminazione delle donne non risuona solo qui, ma anche nelle altre sue opere, dove le figure femminili sono spesso eroine che si ribellano al conformismo e alle convenzioni sociali che le relegano in uno stato di subordinazione e passività.

In secondo luogo, in questo episodio troviamo con-ferma del fatto che Pamina non è una donna reale, bensì la controparte divina di Tamino, come Beatrice lo è per

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Dante. È interessante che anche Massimo Mila osservi che «quest'opera popolare e bambinesca ci ricorda l'altezza della Divina Commedia-, Pamina sembra Beatrice quan-do [. . .] gli risponde con semplicità: "Io sarò dovunque al tuo fianco; io stessa ti g u i d e r ò L e i guida, e lui si lascia guidare, perché lei è r«eterno femminino» che «ci trae verso l'alto»,^^^ come dicevamo all'inizio, verso Dio e verso la nostra felicità.

INTERMEZZO DANTESCO: BEATRICE

Ora che siamo giunti ai momenti cruciali del per-corso di iniziazione, i paralleli con la Divina Commedia si fanno sempre più serrati. Le analogie tra Pamina e Beatrice sono straordinarie. Determinante, in entrambi i casi, è il passaggio attraverso il fuoco e l'acqua anche se, come abbiamo visto, Dante si unirà a Beatrice subi-to dopo, Lamino a Pamina prima di tali prove.

Da un punto di vista tradizionale è nel giusto Dante, perché alla propria parte celeste ci si può unire solo a prove ultimate. Mi sono chiesta come mai Mozart, che certamente conosceva tale cammino, abbia anticipa-to l'unione dei due. Anche in questo caso la Divina Commedia mi suggerisce una possibile spiegazione: Dante si unisce a Beatrice alla fine del Purgatorio, non alla fine del poema perché la meta non è l'unione con Beatrice, ma l'unione con Dio, al quale lo con-duce Beatrice. Lra i due eventi c'è l'intera cantica del Paradiso, che fa parte - ed è una parte essenziale - del cammino che porta alla conoscenza di sé.

Ora, un'opera musicale è breve, e quindi penso che Mozart abbia anticipato il congiungimento dei due proprio per evidenziare il lasso di tempo necessario per portare a compimento il cammino e, soprattutto, per

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sottolineare che la meta non è l'incontro con Pamina, ma quello con Dio, al quale lo conduce Pamina.

Vi è poi un'ulteriore, straordinaria coincidenza con la Commedia: l'avvicendamento nella guida. Lì c'era Virgilio e poi Beatrice, qui i fanciulli e poi Pamina. Quando si raggiunge il proprio Sé, qualsiasi altra guida decade automaticamente: non c'è piti bisogno né di un guru, né della «ragione», simboleggiata da Virgilio.

Dopo l'incontro con Beatrice nella Commedia avviene la salita attraverso i cieli. Nel Flauto magico questa manca. C'è però l'aspetto essenziale di quella salita: il fatto che a guidare sia la donna, guidata a sua volta dall'Amore. Abbiamo visto le parole inequivoca-bili di Pamina, ma l'Amore è chiamato in causa anche da Beatrice, fin dal suo primo apparire: «Amor mi mosse, che mi fa parlare»'^^'' dice a Virgilio nel secondo canto à^lnferno.

Dio è l'amor che move per eccellenza, ma penso che qui sia inteso anche l'amore per Dante. Dimentichiamo però Bice Portinari e quella inesistente storia d'amore inventata - anche se a fin di bene - dal Boccaccio, che banalizza e porta così in basso l'altissimo ideale che pervade l'intera opera di Dante. Boccaccio ha avuto un'idea geniale rivelando che Beatrice era una donna reale, riuscendo così a fermare ricerche che avreb-bero potuto condurre a scoprire il portato eretico di questo personaggio, con la conseguente distruzione del poema. Ma oggi non ha alcun senso tenere in piedi l'infondata e fuorviante identificazione con Bice Portinari, e possiamo liberamente indagare sul signi-ficato di Beatrice. Come abbiamo già avuto modo di dire, una simile figura è presente in molte tradizioni

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antiche: dallo zoroastrismo (la Daena) allo gnosticismo anche islamico, dal manicheismo (il Syzygos) al catari-smo. E il gemello celeste, la parte trascendente dello spirito, un angelo custode che guida verso la Luce, verso la libertà, e che viene quasi sempre simboleggia-to al femminile.

Questa parte celeste, che Dante chiama Beatrice, ama la parte deUo spirito che è invece incarcerata nel corpo e nell'anima, e anela al ricongiungimento con essa. E questo Vamore che mosse Beatrice SL parlare a Virgilio per chiedergli di guidare Dante nel lungo, difficile cammino di purificazione, perché il ricongiun-gimento delle due parti dello spirito può avvenire solo quando l'anima è perfettamente pura. La stessa cosa succede nel Flauto magico e dà senso alle frasi tipo «Egli non è ancora degno di te», assurde se riferite a una donna.

Ora, dato che «quella Beatrice beata [ . . . ] vive in cielo con li angeli», ^^ ella è «in» Dio, e quindi l'amore che la muove proviene da Dio, è espressione di Dio: Dante sale di cielo in cielo guardando negli occhi di Beatrice, ma lei guarda in Dio!

Pamina si trova nel regno di Sarastro, quindi anche lei è «in» Dio; anche lei è il gemello celeste di Tamino; anche lei è mossa da amore, da quell'energia che move il sole e l'altre stelle^'^ muove l'universo intero e ogni singolo filo d'erba; quell'energia che possiamo chiama-re Dio, ma che è così dolce chiamare «amore».

Dante e Mozart sono arrivati a partecipare di questo amore, altrimenti non avrebbero potuto scrivere opere tanto profonde e tantomeno indicare la via che a esso conduce. Ma non c'è disprezzo o condanna dell'amore terreno: non c'è in Dante, non c'è in Mozart, non c'è

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in Gesù Cristo né in alcuno dei Maestri che sono per-venuti all'Amore con la A maiuscola. Al contrario, c'è grande simpatia, tenerezza, rispetto e sincero apprez-zamento per il sentimento umano, terreno dell'amore, che è comunque sempre «amore». Ma l'amore che spinge Dante verso Beatrice, Tamino verso Pamina, e viceversa, è altra cosa.

Atto II scena 28 - Il flauto

La seconda parte del discorso di Pamina è dedicata al flauto, strumento che nel corso di queste prove assumerà un ruolo fondamentale:

Incomincia a suonare il flauto magico; che possa proteggerci nel nostro cammino. Lo intagliò mio padre, in un'ora magica, dall'anima più profonda della quercia millenaria tra fulmini e tuoni, tempesta e nubifragio.

Qui è necessario aprire una piccola parentesi. All'inizio del primo atto, quando il flauto viene dato a Pamino, viene specificato che esso è d'oro. Pertanto molti ritengono che si tratti di una svista da parte degli autori. Anche Giorgio Strehler, in occasione di una messa in scena dell'opera, si è chiesto se il flauto sia d'oro o di legno. AUa fine ha optato «per un flauto di legno, rivestito di carta dorata [.. .] strap-pata qua e là [per] lasciare intrawedere la sua "anima" di legno».^''" Capisco che, dal punto di vista scenografico, i due materiali sono visti come alternativi, ma da un punto di vista simbolico la quercia «millenaria» e l'oro rimanda-no entrambi allo stesso tempo primordiale, all'età dell'oro.

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C'è anche chi ipotizza che l'indicazione di due materiali diversi per un unico strumento voglia alludere al carattere «androgino» del ilauto e a una sua capacità di riunificare elementi contrastanti: «maschile e femminile, solare e luna-re, [. . .] Eros e Logos»

Dopo aver nuovamente esortato Tamino a suonare il flauto, «che ci guidi nell'orrendo cammino», Pamina canta per prima, poi subito si aggiungono alla sua la voce di Tamino e poco dopo quella degli armigeri:

Noi camminiamo (voi camminate) grazie al potere del suono Lieti [froh] attraverso la tetra notte della morte!

Per chi ha seguito fin qui lo svolgersi dell'azione, quello che segue è davvero emozionante: tutto tace, suona solo il flauto con un lieve, sommesso accompagnamento dell'or-chestra. E un brano lungo, stupendo. SuUa scena «si vedo-no incedere Tamino e Pamina» mentre «Tamino suona il suo flauto». Stando alle indicazioni scenografiche (per nessun'altra scena sono così numerose) si dovrebbero sen-tire «crepitio di fiamme e ululato di vento, a volte anche il roco rimbombo di un tuono». Non so come fu realizzato ciò nelle prime esecuzioni, ma per fortuna, dato che non vi è alcuna indicazione nella partitura, oggi non si sente che il suono semplice, essenziale, divino del flauto.

«Quando escono dal fuoco si abbracciano e restano al centro della scena» cantando:

Abbiamo camminato attraverso le fiamme di fuoco, abbiamo combattuto coraggiosamente il pericolo. Il tuo suono ci sia di protezione nei flutti dell'acqua, così come lo fu nel fuoco.

m

Di nuovo, come nella scena precedente, si sente solo la dolce melodia del flauto mentre <4i si vede scendere e dopo un certo tempo risalire; immediatamente si apre una porta; si vede l'ingresso a un tempio illuminato a festa. Un silenzio solenne. Questa visione deve rappresentare il più perfetto splendore».

Del breve finale che segue parlerò piìi avanti. Prima vorrei soffermarmi sul verbo wandeln che anch'io, come tutti, ho tradotto con «camminare». Va però segnalato che il significato principale di tale verbo è «trasformare, tramu-tare». Chi cercasse su un dizionario la traduzione in tede-sco del verbo «camminare» non troverebbe mai wandeln, che raramente è usato in questo senso. Penso quindi che se Mozart e Schikaneder si servono di questo verbo dal duplice significato è per dire anche, e soprattutto: «Noi ci trasformiamo grazie al potere del suono» e «Ci siamo tra-sformati attraverso le fiamme di fuoco».

Tali passaggi comportano non solo - come nella Commedia - una purificazione, ma anche una vera e profonda trasformazione. Questa trasformazione non è un semplice cambiamento. Quante volte abbiamo voluto cambiare qualche aspetto del nostro carattere o le situazio-ni intorno a noi. Per riuscirci è sempre stato necessario uno sforzo della volontà. Un nobile sforzo della volontà. Ma la trasformazione è tutt'altro, perché comporta il tacere della nostra volontà. È un processo alchemico, di quell'alchimia sacra che faceva parte dei bagaglio culturale sia massonico, sia mozartiano, che vedeva la trasmutazione del piombo in oro come simbolo di una trasformazione interiore, di un cammino dalle tenebre alla luce.

A dire n vero un cambiamento c'era già stato, ed era stata la conversione in Atto I, scena 15. Quando Tamino si era reso conto che quello che credeva il suo pensiero

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era fondato su «dicerie» altrui, era sorta in lui la volontà di conoscere la verità; con un consapevole impegno aveva messo da parte le opinioni su Sarastro e la Regina della Notte e aveva iniziato a guardare dentro di sé: solo in se stessi è infatti possibile trovare l'indicazione di cosa fare, e come. Significativamente anche tale introspezione era collegata al suono del flauto. Lì eravamo all'inizio del cammino, ora siamo quasi alla fine, e anche qui c'è un pre-ciso riscontro con il poema dantesco che, come sempre, ci fornisce la spiegazione.

INTERMEZZO DANTESCO: TRASUMANAR

Anche Dante subisce una trasformazione verso la fine del suo cammino. Dopo il passaggio attraverso il fuoco e l'acqua Dante si unisce a Beatrice e con lei si inoltra nel Paradiso Terrestre e, dopo varie vicissitudi-ni, giungono davanti a due corsi d'acqua:

Eufratès e Tigri veder mi parve uscir d'una fontana, e, quasi amici, dipartirsi pigri}'^^

Qui il Paradiso Terrestre dantesco corrisponde in parte a quello biblico: «Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quat-tro corsi». ' ^ Di questi quattro corsi due si chiamano proprio Eufrate e Tigri. Pieno di meraviglia, Dante chiede a Beatrice:

«Che acqua è questa che qui si dispiega da un principio e sé da sé lontana?»

Uno dei due fiumi è quello in cui lo aveva immerso Matelda, il Lete, il noto fiume dell'oblio della mitolo-

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già greca; per l'altro, di cui dovrà bere l'acqua, Dante conia un nome nuovo, Eunoè,,che viene tradotto «memoria del bene». I due fiumi sono quindi portatori di significati opposti: oblio e memoria. La cosa straor-dinaria è che essi sgorgano dalla stessa sorgente, come da «un fiume» nascevano i quattro fiumi del Paradiso Terrestre biblico.

Il messaggio che queste immagini vogliono trasmet-tere è che all'origine vi è un unico principio da cui nascono le molteplici diversità e tutti gli opposti. Ma il contesto suggerisce - nella Divina Commedia è inequi-vocabile - che a questo principio si può tornare. Con parole e figure diverse le varie tradizioni insegnano che se l'uomo desidera la salvezza o la liberazione, la felicità e la libertà, deve tornare all'origine, oltre quel Paradiso da cui è stato cacciato.

Cristo ha indicato una via: la croce. Si tratta di un simbolo antico e universale, il cui significato è deduci-bile dal fatto che è costituita da quattro bracci che col-legano il centro ai quattro punti cardinali. «Il centro della croce» scrive René Guénon «è il punto nel quale si conciliano e si risolvono tutte le opposizioni».^''^ E un simbolismo presente in tutte le tradizioni, dall'eso-terismo islamico al taoismo secondo cui «il saggio per-fetto è quello che è pervenuto nel punto centrale». "*' Vi si perviene però solo dopo aver conosciuto le tante dicotomie di questo nostro mondo segnato dall'ombra di quell'albero del giardino di Eden che non a caso porta nel nome la coppia di opposti più inquietante: il bene e il male.

Quel punto, in cui i due fiumi hanno principio, è il «centro». La Divina Commedia, che non a caso inizia con le parole «Nel mezzo», ci dice che è possibile tor-

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nare a quel principio, all'unità originaria, nel centro in cui si comprende l'illusorietà di tutte le opposizioni. Da lì, e solo da lì, è possibile salire a le stelle e trasu-manar ' ^ come dice Dante, risorgere ed essere «elevato in cielo»^"' come Gesù o «entrare nel tempio» come Tamino e diventare «uguali agli dèi».

«Innumerevoli popoli, anche di civiltà evoluta, hanno cercato ripetutamente questo centro e lo hanno trovato in vari luoghi»^"' scrive Rykwert, o hanno cre-duto di trovarlo, perché questo «luogo in cui terra e cielo s'incontrano»^^" non è in alcun «luogo»: è dentro di noi, dentro ciascuno di noi. Solo che va cercato, e quando lo si trova si vede che gli opposti nascono da un'unica fonte, tutti, anche quello tra bene e male. Allora non si è più spinti di qua, di là, e ogni dualismo si rivela una trappola.

Resta ancora una domanda: che cosa rappresenta il flauto? Qui sono tutti d'accordo: il flauto rappresenta la musica. Ma se «la magia dei suoni che va sotto il nome di "musica" dev'essere riconosciuta come il dono di una divinità, anzi, come la sua stessa sacra voce», ^^ è neces-sario chiedersi come mai sia la cattiva Regina della Notte a dare a Tamino questo strumento divino. Certo, se si giudica la Regina della Notte come il principio del male, non ha alcun senso, ma se la si vede come raffigurazione del mondo materiale allora il senso c'è, e non può essere che lei a darglielo, poiché l'arte, la musica, la poesia sono strumenti umani, sono strumenti che nascono qui, in questo nostro, mondo terreno e «materiale». L'uomo, per usare una bella espressione di Florenskij, «con i colori del relativo deve disegnare l'assoluto»,^^^ e ci riesce, perché con questi strumenti umani è da sempre stato in grado

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di condurci là dove la mente non può giungere, di dire quello che altrimenti è indicibile: trasumanar significar per verba non si poriaP^ non è possibile spiegare con parole il mistero di una simile trasformazione, l'ingresso in un ambito divino, che può avvenire solo, come dicevo, quan-do si riesce a far tacere la propria volontà e si arriva a dire: «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà». '

Atto II scena 28 - «Trionfo! Trionfo! Tu, nobile coppia!»

Alla fine della lunghissima e complessa scena 28 abbia-mo visto che Tamino e Pamina giungono all'ingresso di un tempio illuminato a festa, ed esclamano:

Oh dèi! Quale momento! Ci è concessa la felicità di Iside.

Poi interviene il coro:

Trionfo! Trionfo! Tu, nobile coppia! Tu hai sconfitto il pericolo! La benedizione di Iside è ora tua! Venite, entrate nel tempio!

È una scena talmente grandiosa che sembra quella fina-le, «e non è detto che molti spettatori a questo punto non si alzino dalla poltrona», commenta Massimo Mila, che poco dopo aggiunge un'osservazione che condivido pie-namente: «che l'opera non finisca a questo punto confer-ma la nostra opinione che, in fondo, e magari in maniera inconscia, le vere prove non sono quelle del cerimoniale massonico, bensì quelle della vita attraverso cui deve

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passare l'uomo per conquistare duramente la felicità».^^^ Certo, è il cammin di nostra vita che Mozart mette in scena, non però «in maniera inconscia», bensì con assoluta con-sapevolezza.

Le parole del coro sembrerebbero non lasciare dubbi: quasi tutti infatti vedono nel «trionfo della coppia» (inten-dendo una coppia di amanti) il significato principale-dell'opera, un significato che sarebbe annunciato già nelle prime battute. UOuverture apre con una serie di accordi forti, netti, distanziati. I critici discutono ancora oggi se siano tre o cinque (lo schema è A-bB-cC, dove la maiusco-la indica la nota lunga, la minuscola la breve). Da un punto di vista armonico gli accordi sono tre, ma ritmicamente sono cinque, perché il secondo e il terzo vengono ribattuti. Dunque sono tre e anche cinque. Siccome il tre e il cinque rappresentano, nella simbologia massonica, rispettivamen-te l'iniziazione maschile e quella femminile, questi accordi significherebbero l'unione dei due aspetti. Ma al «trionfo della coppia» (di amanti) arriva anche chi ritiene, come Jacques Chailley, che gli accordi sono solo cinque, dato che tale numero è la somma del due e del tre che, nella numerologia tradizionale, simboleggiano rispettivamente il femminile e il maschile. ^^

Tutto questo è vero. È vero che l'unione tra maschile e femminile, tra uomo e donna, risuona già nelle prime battute àdV Ouverture e rappresenta il leitmotiv principale dell'opera, ma non si tratta, a mio avviso, di una coppia di amanti, bensì di una coppia di opposti: maschile e fem-minile è la coppia di opposti cui il Flauto magico affida la comprensione del mistero del ritorno all'origine che Dante assegna ai due fiumi dell'oblio e della memoria.

AUa luce di questa interpretazione, appare chiaro il

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motivo per cui la splendida aria del primo atto «uomo e donna e donna e uomo raggiungono la divinità» viene fatta cantare da Pamina e Papageno che non sono una coppia di amanti. Non lo sono neanche Pamina e Tamino. Oltre alle assurdità cui conduce il vederli come tali, possiamo citare Edward Dent: «Quando rileggiamo con cura il libretto, ci rendiamo conto che essi non hanno in pratica alcuna scena d'amore». ^^ Ma quella forza, quell'energia che ci ricondu-ce all'unità originaria e ci porta a «raggiungere la divinità» come la vogliamo chiamare se non «amore»?

Atto II scena 29 - «Pa Pa-Pa...» tanti piccoli Papageni

Le esigenze teatrali imponevano - come peraltro nelle odierne soap opera - continui cambi di scena, per cui il trion-fo di Tamino viene interrotto e appare Papageno. All'inizio è solo e chiama: «Papagena! Papagena! MogHettina!». Niente, non c'è. Dice allora: «Ho chiacchierato - e questo era un male, perciò me lo sono proprio meritato». E notevole, anzi notevolissima, questa presa di coscienza da parte di Papageno, questo riconoscere il proprio errore e assumere su di sé la responsabilità di quanto gli è accaduto. A mio avviso è proprio per questo che si meriterà Papagena, che tuttavia ancora non compare.

Disperato, Papageno decide di porre fine al suo dolore impiccandosi. La sua aria è piuttosto lunga: dapprima chiede se ci sia qualche altra fanciulla pronta a impieto-sirsi di lui, ma nessuna risponde; decide allora di contare fino a tre... silenzio assoluto. Infine si appresta a mettere in atto il suo piano, ma in quel momento intervengono i tre fanciulli angelici: «Fermati Papageno e ragiona;

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si vive una volta sola, e questo ti basti». Poco dopo gli suggeriscono di suonare i suoi campanellini. «Che stupi-do!» esclama Papageno. «Ho dimenticato questo oggetto magico!». Effettivamente al suono del carillon comparirà Papagena. Sembra quindi che siano proprio questi stru-menti magici a richiamare le figure femminili, perché anche Pamina si era presentata davanti a Tamino, ben-ché non desiderata in quel momento, non appena questi aveva iniziato a suonare il flauto. A questo punto c'è la deliziosa e celeberrima scenetta in cui i due si avvicinano l'uno all'altra con un lunghissimo «Pa Pa-Pa» «Pa Pa-Pa» che termina poi coi loro due nomi. Dopo alcune battute amorose i due cantano:

Entrambi: Quale gioia sarà, se gli dèi penseranno a noi, e al nostro amore doneranno dei figli, dei così cari piccoli bambinetti!

Papageno: Prima un piccolo Papageno ! Papagena: Poi una piccola Papagena! Papageno: Dopo ancora un Papageno! Papagena: Dopo ancora una Papagena! Entrambi: Papageno! Papagena!

Papageno! Papagena!

In questa scena incantevole è nascosto, a mio avviso, un messaggio. La mia è un'ipotesi audace, della quale sono però assolutamente convinta: i tanti piccoli Papageni che nasceranno alludono alla reincarnazione. Ritengo infatti che il fondamento spirituale di tutta l'opera sia quella visione filosofica e sapienziale che comprende la credenza nella reincarnazione e che faceva parte del pensiero illumi-nista e massonico.

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Nel corso dei millenni della sua storia l'uomo ha cerca-to di dare risposta alle domande che io assillavano, come a quella - forse la piti angosciante - su che cosa succeda dopo la morte. E così tutte le civiltà hanno elaborato fin dai tempi piti remoti affascinanti e terrorizzanti racconti sull'aldilà, con descrizioni dettagliate di quei luoghi da cui nessuno è mai tornato.

Può stupire che, nonostante le notevoli distanze nel tempo e nello spazio, vi siano in tali racconti temi e imma-gini ricorrenti, come, per esempio, la presenza di una barca e di un fiume da attraversare.

Ma l'elemento comune che più di ogni altro caratterizza le visioni dell'aldilà, e che è presente fin dai miti più anti-chi in tutte le culture, è l'idea che dopo la morte l'anima debba sottostare a un giudizio: un giudizio, ovviamente, su come la persona si è comportata mentre era in vita, e in base al quale verrà premiata o punita.

Il compito di giudicare o di «pesare» l'anima è sempre demandato a dèi o a demoni, ma i criteri di tale giustizia sono assolutamente umani. E umanissimo è quel misto di invidia e voglia di rivalsa che sta dietro il bisogno di un tale giudizio, che nasce dal desiderio che almeno nell'aldilà vi sia «giustizia», che chi ha operato violenze e soprusi venga punito.

Le varie religioni ne hanno subito capito l'utilità e sulla pretesa di gestire l'aldilà - alimentando speranze, ma soprattutto generando paure - hanno costruito il loro pote-re e la loro ricchezza.

L'esigenza era comunque reale e forte, tant'è vero che è presente in tutte le religioni e in tutte le visioni dell'al-dilà, dalle più antiche fino a oggi. Con alcune importanti differenze. Anzi, con una sola differenza veramente fonda-mentale: quella tra i sistemi che prevedono il giudizio della

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singola persona, e i sistemi che contemplano la reincarna-zione. Entrambi soddisfano l'esigenza di avere «giustizia» neU'aldUà, ma in modo radicalmente diverso: nei primi il male viene punito con un inferno eterno, mentre nei secon-di il male viene espiato attraverso tante vite.

La differenza tra i due sistemi è profondissima, ed è fuorviante limitarla, come in genere si fa, alla circostan-za della reincarnazione, esaltando questo elemento ch€ è presente, ma è strumentale e quindi marginale e non rappresenta in nessun caso il senso ultimo, che è, semmai, la liberazione dalla catena delle rinascite, ma soprattutto quella fusione con il divino che in Oriente viene chiamata nirvana.

La differenza più importante è che tale liberazione sarà ottenuta da tutti, mentre l'altro sistema prevede sì un para-diso, e quindi una possibile salvezza, ma anche un inferno, ovvero una dannazione eterna.

La credenza nella reincarnazione, caratteristica dell'in-duismo e del buddhismo, era diffusa anche in Occidente. La si trova in Pitagora, in Platone e nel neoplatonismo, e vi credevano gli Esseni. In ambito cristiano era presente nei primi secoli (vi credeva per esempio Origene) fino a quando, nel 553, il II Concilio di Costantinopoli la con-dannò come eretica. La Chiesa ormai potente non poteva tollerare una dottrina che le togliesse uno strumento così prezioso come l'inferno.

Nonostante la condanna quella dottrina non scompar-ve, ma continuò (e continua) a circolare: vi credettero i catari, gli eretici medievali che vennero sterminati, e secoli pili tardi venne a far parte delle credenze all'interno della massoneria. Massoni e convinti assertori dell'idea reincar-nazionista furono alcuni grandi filosofi dell'illuminismo

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tedesco come Lessing o Herder. E Goethe, la cui poesia Canto degli spiriti sopra le acque non lascia dubbi:

Des Menschen Seele L'anima dell'uomo gleicht dem Wasser: è simile all'acqua: Vom Himmel kommt es, dal cielo viene, zum Himmel steigt es, al cielo sale, und wieder nieder e di nuovo scendere zur Erde mujl es, sulla terra dovrà, ewig wechselnd. ^^^ eternamente cambiando. ^^

Il valore dei sistemi dottrinali che contemplano la rein-carnazione sta nella loro visione della vita, che traspare dagli scritti di Platone e del neoplatonismo, come dai testi sacri dell'induismo. Se si crede che l'anima immor-tale passi attraverso numerose vite si attribuirà meno importanza alla propria individualità. Questo non è causa di dolore, al contrario! Liberati dalla preoccupazione egoistica di salvare la propria anima personale, si è mag-giormente pronti a lasciar andare - per usare la splendida immagine di Raimon Panikkar - il nostro essere «goccia» per diventare «acqua». * ® Penso che quando Gesìi diceva: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà»,^^^ inten-desse proprio questo: «chi vuol salvare il proprio essere goccia, la perderà» perché la goccia prima o poi svanisce, si rompe, si perde, non c'è più. Chi invece «perderà la propria vita» - cioè il proprio essere goccia - «la salverà» perché diventerà acqua. E l'acqua è infinita ed eterna! Ed è fonte di gioia! Ma sia chiaro che per salvare la vita si deve diventare acqua non dopo la morte, ma adesso! I grandi filosofi, i poeti, gli artisti e i veri Maestri, compreso Gesìi Cristo, hanno sempre insegnato come arrivare alla «vita», all'autentica vita e all'autentica gioia prima della morte e qui, sulla terra.

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Scomparsa l'idea di un inferno eterno, la morte non fa più paura e, in assoluta sincerità, si può scrivere:

La morte (a ben guardare) è l'ultimo, vero fine della nostra vita, da qualche anno sono entrato in tanta familiarità con quest'amica sincera e carissima dell'uomo, che la sua immagine non solo non ha per me più nulla di terrificante, ma mi appare addirittura molto tran-quillizzante e consolante! E ringrazio il mio Dio di avermi concesso la fortuna di avere l'opportunità [...1 di riconoscere in essa la chiave della nostra vera felicità.^®

Così scriveva Mozart, e aveva solo trentun anni. L'indicazione «da qualche anno» viene da tutti intesa come un riferimento alla sua adesione alla massoneria, la cui visione escatologica rassicurante faceva evidentemente parte del suo mondo di idee e di ideali.

A proposito di questa lettera Hermann Abert scrive: «La fede nell'immortalità dell'anima viene qui espressa non secondo i principi dogmatici della Chiesa, ma in una sorta di slancio mistico, quale forse si ritrovava in alcuni circoli delia massoneria di allora. Mozart infatti non parla qui della vita eterna, della "Vita venturi saeculi" nel senso della Chiesa cattolica, ma della nostra "vera felicità". Sintomatico è anche il fatto che manca ogni allusione al giudizio divino». ^^

Tornando al duetto dei due Papageni, è ben strano che per tutti i loro numerosi bambini sia previsto sem-pre lo stesso nome: il nome dei genitori, Papageno, pur avendo già incontrato il suo gemello celeste, dovrà ancora tornare sulla terra. Non è una punizione: la vita è bella! Ma «l'amore per la saggezza», «il piacere celestiale degli iniziati» non gli interessano, non è pronto né desideroso di intraprendere il cammino che conduce a questa felicità e alla libertà.

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Solo così ha senso la sua altrimenti incomprensibile assenza nella scena finale. Talmente incomprensibile che quasi tutte le edizioni non si attengono alle prescrizioni del libretto, facendo entrare in scena, nel tripudio genera-le, Papageno e Papagena, e talvolta anche una schiera di piccoli Papageni.

Quello che Mozart mette in scena non è tanto un rito d'iniziaziofie - che non sarebbe sufficiente a giustificare l'assenza di Papageno - quanto il cammino spirituale descritto sopra, che ha come meta la fusione con Dio cui approda l'illuminato: Tamino. La clamorosa assenza di Papageno sta a significare che lui non ha raggiunto tale meta, non ancora. E il futuro pieno di Papageni non allude a un suo riprodursi, ma al fatto che dovrà tornare ancora pili volte sulla terra.

Vi è tuttavia nell'opera, e proprio in questa scena 29, una frase che sembra smentire la mia ipotesi, ed è quando i tre fanciulli angelici intervengono per far desistere Papageno dal suicidio dicendogli: «Si vive una volta sola». E una frase popolare (è anche il titolo di un valzer di Strauss), sebbene sia nota come citazione da Goethe, '' e Goethe credeva certamente nella reincarnazione. Non c'è contraddizio-ne, perché è pur vero che ogni vita è unica e irripetibile. Purtroppo spesso la sciupiamo, e mi viene in mente la bella filastrocca di Gianni Rodari sulla «tanta gente» che «la vita la butta via e mangia soltanto la buccia».^''^

A commento del duetto che stiamo esaminando, Hermann Abert scrive: «I "cari piccoli figlioletti" che essi intendono regalare al mondo, s'incaricheranno di dimo-strare che l'alto ideale di Tamino e Pamina resta appunto un ideale, non diventerà cioè mai realtà pura e semplice».^^^ Tornando ai versi di Rodari sembra evidente che, secondo Abert, tra i due protagonisti sia Tamino quello che, perso

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dietro ai suoi alti, ma vani, ideali, finisce per mangiare solo la buccia della vita. Non è così: il Flauto magico si conclu-de - lo vedremo nella prossima scena - con l'alto ideale di Tamino che diventa una realtà! Quella è la «vera vita» come dice Dante,^^^ la vera realtà, come dicono i Maestri di tutte le tradizioni: l'altra è maya, illusione.

Auo II scena 30-1 raggi del sole respingono la notte

«Dalle due botole salgono il moro e la Regina con tutte le sue damigelle; tengono in mano delle fiaccole nere». Monostatos chiede alla Regina di mantenere la parola e concedergli Pamina in sposa. «E la mia volontà» lo ras-sicura la Regina «mia figlia sarà la tua sposa!» . A questo punto si sentono cupi tuoni e uno scrosciare d'acqua che li terrorizzano, ma non tanto da farli desistere dall'impresa:

Monostatos: Ora sono nelle sale del Tempio. Tutti: Lì li vogliamo assalire:

eliminare dalla terra i bigotti col fuoco e con la spada potente.

Ancora una volta risuona ora il termine Rache (vendet-ta), ma è la loro ultima parola: «A te, grande Regina della Notte, offriamo la nostra vendetta» cantano le tre damigel-le e Monostatos.

Poi la scena cambia. Le indicazioni dicono: «Si sente un accordo fortissimo, tuono, fulmine, tempesta. Immediatamente l'intera scena si trasforma in un sole. Sarastro sta più in alto; Tamino e Pamina, entrambi in abiti sacerdotali. Accanto a loro i sacerdoti egizi su ambo

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i lati. I tre fanciulli tengono in mano dei fiori». Con le seguenti poche battute l'opera si conclude:

Monostatos, la Regina e le tre damigelle: Annientato, distrutto è il nostro potere,

noi tutti inabissati in una notte eterna. (Sprofondano.)

Sarastro: , I raggi del sole respingono la notte, distruggono il potere carpito dagli ipocriti.

Coro dei sacerdoti: Salve a voi, consacrati! Siete passati attraverso la notte. Grazie, grazie a te, Osiride, grazie, grazie sia reso a te, Iside! Ha vinto la forza e incorona per premio la bellezza e la saggezza con una corona eterna!

Il libretto si chiude così, senza alcuna ulteriore indi-cazione scenografica. Le direttive del libretto riguardo al finale non vengono quasi mai rispettate. Come ho già detto, in genere vengono fatti entrare in scena Papageno e Papagena, ma assai piìi grave è che spesso viene fatto allontanare Sarastro, proprio perché si ritiene che sia il trionfo della coppia il senso profondo dell'opera. Così è anche nel pur pregevolissimo film di Bergman, dove non solo Sarastro si allontana alla fine mentre tutti gli dico-no «Addio», ma annuncia tale proposito già nella prima scena del secondo atto. Nei sottotitoli italiani si legge: «Io, quindi, abdicherò a favore di Pamina e Tamino». Questa rinuncia da parte di Sarastro nel libretto non c'è.

Nella sua versione del Flauto magico il grande Peter Brook prevede nella scena finale la presenza di tutti: anche

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della Regina della Notte e di Monostatos che, contraria-mente alle parole che cantano, non vengono per niente «inabissati». Suppongo che Peter Brook abbia pensato che il perdono rappresenti da un punto di vista spirituale un finale più elevato.

A mio avviso ogni modifica delle indicazioni del libret-to significa una cosa sola: che non lo si è capito. Non si è capito il motivo per cui deve essere assente Papageno, e di-questo abbiamo parlato, ma nemmeno quello per cui deve scomparire la Regina della Notte.

Talvolta ho l'impressione che davanti a romanzi, film 0 opere come il Flauto magico, in cui i personaggi sono simbolici e rappresentano principi, i lettori (anche quelli più raffinati ed esperti come i critici) restino come intrap-polati in una specie di sala degli specchi prendendo quei personaggi per uomini e donne reali. Da un lato è giusto, e anche piacevolissimo, commuoversi e palpitare per le sorti di quella madre infelice, ma non ci sono solo le ragioni del cuore: queste opere vanno lette anche con la mente, ovve-ro va compreso che cosa i vari personaggi rappresentano.

Giunti alla fine si scorgono con maggiore chiarezza 1 diversi fili dell'ordito intorno a cui si svolge la trama. Fondamentali sono i due fili di cui ho parlato nelle prime pagine - quello politico e quello religioso - che percorro-no l'opera dall'inizio alla fine, colorando in modo diverso i personaggi, e soprattutto conferendo all'intera vicenda due significati distinti. Il motivo per cui spesso si rimane confusi dalla complessità e contraddittorietà dei messaggi, finendo per ritenere il libretto un guazzabuglio incom-prensibile, è dovuto, a mio avviso, alla mancata percezione di questo duplice binario, nonostante tale duplicità sia, a guardar bene, chiaramente espressa nell'opera:

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Dann ist die Erd' ein Himmelreich Und Sterbliche den Gottern gleich.

Allora la terra sarà un regno celeste e i mortali uguali agli dèi.

La terra sarà un paradiso quando regneranno virtù e giustizia, quando la quiete e la pace entreranno nel cuore degli uomini, quando svanirà la superstizione. Questo è il filo conduttore politico e illuminista. Essere, invece, «uguali agli dèi» è un'aspirazione di tipo religioso, spiri-tuale. Il doppio registro (politico e spirituale) è presente anche nella Commedia, e credo che si debba leggere in questo senso il fatto che nel poema venga conferita a Dante la corona (regale) e la mitra (sacerdotale).^^^ Abbi-namento presente anche qui: con la parola «corona», sim-bolo regale per eccellenza, si chiude l'opera mentre sulla scena Tamino è vestito in «abiti sacerdotali».

Entrambi gli obiettivi appartengono al patrimonio culturale ed etico della massoneria, e per entrambi si può rintracciare un parallelo pregnante con la Divina Comme-dia, che è senza dubbio un itinerarium mentis in Deum ma anche un appassionato manifesto politico di speranza e di protesta, perché, come scrivono giustamente Carli Ballola e Parenti, «in Mozart, come in ogni altra utopia espres-sa nelle forme solenni dell'arte - dal Paradiso di Dante alia Tempesta di Shakespeare - , la Speranza futuribile si accompagna alla Protesta nei confronti del presente».^''^

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L'aspetto politico

Alla luce di quanto appena affermato, analizziamo dapprima l'aspetto politico. Le ultime parole dei prota-gonisti non lasciano dubbi: la vittoria di Sarastro consiste nell'aver distrutto il «potere» che evidentemente esercita-vano la Regina della Notte e Monostatos, ovvero ciò che essi rappresentano. La loro sconfitta e scomparsa segna il realizzarsi di quella promessa di rinnovamento, di gioia, di libertà che col primo atto della Rivoluzione francese (il ter-rore era di là da venire) sembrava possibile e vicina - e che nell'opera è ripetutamente espressa attraverso la parola-chiave bald (presto): «presto» svanirà la not te , «pres to» vi sarà una «nuova vita», ^^ «presto [. . . ] splenderà il sole per annunciare un nuovo giorno, presto scomparirà la superstizione».^^^

Non si tratta di una vittoria del Bene sul Male, come in genere viene detto, ma della luce della ragione sull'oscu-rantismo. Il testo del Flauto magico è chiarissimo: U nemico da vincere non è il «male», ma VAberglauben (la superstizione), il Vorurteil (U pregiudizio), il potere dei Heuchler (gli impostori, gli ipocriti). I gesuiti? Che fosse-ro ostili alle confraternite massoniche è notorio, e infatti sono numerosi i commenti più antichi che interpretano quest'ultima scena, in cui i personaggi «neri» (la Regina della Notte e Monostatos) vogliono assaltare il Tempio di

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Sarastro, come allusione ai gesuiti che vorrebbero smantel-lare la massoneria.

Penso tuttavia che, più che contro i gesuiti, la critica sia rivolta alla Chiesa in generale. Non al singolo prete che può anche essere, come abbiamo visto, un buon amico di Mozart, ma alla Chiesa come istituzione che si oppo-ne al progresso e alla cultura, diffondendo non la fede {Glauben), ma una sua contraffazione: VAberglauben, la-superstizione. Aberglauben era la parola-chiave, il cardine delle accuse che, da parte di tutta la cultura illuminista, e anche della massoneria, venivano rivolte alla Chiesa romana. Su questo i critici di lingua tedesca sono espliciti: «L'Aberglauben rappresenta la Chiesa con i suoi dogmi e la pretesa di cieca obbedienza».^^^ «Che con la Regina della Notte sia intesa qui la religione cattolica nelle sue istituzioni ecclesiastiche non necessita quasi di spiegazio-ne». " Nel dissidio tra la Regina della Notte e Sarastro «il pubblico di fine Settecento vedeva chiaramente l'allusione al conflitto tra Chiesa e lUuminismo». ^^

La Chiesa veniva accusata non solo di diffondere la superstizione, ma anche di ostacolare chiunque volesse intraprendere, come Tamino, un cammino spirituale diver-so, che prescindesse dalla sua mediazione. In passato era arrivata a uccidere chi osava tanto, e a questo fa riferimento il proposito della Regina e di Monostatos di «eliminare dalla terra i bigotti (cioè gli iniziati) col fuoco e con la spada», ovvero coi roghi e con le crociate, strumenti utilizzati per secoli dalla Chiesa per eliminare le persone che avevano un credo diverso, anche all'interno del cristianesimo. Ancora verso la fine del Settecento, il secolo dei Lumi, vi furono in Europa, anche in Germania, roghi per stregoneria. Pochi, ma ci furono.

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INTERMEZZO DANTESCO: LA LUPA

Cinque secoli prima di Mozart, Dante muoveva le stesse accuse alla Chiesa. I gesuiti non c'erano ancora, ma tra gli ipocriti chi incontra in Inferno? Frati, frati godenti?'"^ I papi del suo tempo - anche Bonifacio Vili, che all'epoca del suo immaginario viaggio nell'al-dilà era ancora vivo, e persino Clemente V che non era nemmeno ancora stato eletto papa - li destina tutti all'Inferno, tra i «simoniaci»

che le cose di Dio, che di hontate deon essere spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate?''''

Non si tratta di qualche caso isolato, di qualche papa indegno o solo delle alte cariche: la condanna degli uomini di Chiesa da parte di Dante è pressoché totale. Il suo Inferno è pieno non soltanto di papi e cardinali, ma anche di semplici chierici, soprattutto nel girone degli avari. ^^ L'accusa di vedere in vesta di pastor lupi rapacf^ viene messa in bocca nientemeno che all'apostolo Pietro, e Beatrice stigmatizza chi dal pulpito racconta favole per cui le pecorelle [...] tornan del pasco pasciute di vento-?^^

Non disse Cristo al suo primo convento: "Andate, e predicate al mondo ciance"; ma diede lor verace fondamento. ^^^

La differenza tra verace fondamento e ciance è la stessa che corre tra Glauhen e Aberglauhen.

In Dante c'è anche un'altra accusa alla Chiesa: quella di non consentire a nessuno di percorrere un cammino

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religioso diverso. Come aveva già compreso il grande Ugo Foscolo, ^^ è alla Chiesa che Dante allude con la lupa che non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto 10 'mpedisce che l'uccide. ^^^

Queste parole dicono ciò che la Chiesa ha fatto per secoli: ha ucciso i catari, i valdesi, i beghini, i Fratelli del libero spirito, gli apostolici (solo per citare alcune delle «eresie» del tempo di Dante). Ha ucciso persino-quei frati francescani, i cosiddetti «spirituali», che desideravano seguire strettamente la Regola del loro fondatore.

E come in Mozart così anche in Dante risuona forte la voce della speranza. La speranza che tutto questo abbia fine. In Mozart la speranza è affidata alla vicenda di Tamino, che percorre una sua personale via verso la conoscenza della verità e verso la libertà, o, meglio: è affidata a questo Singspiel, il Flauto magico. In Dante la speranza che la terra possa essere un para-diso è affidata a figure enigmatiche: il veltro e il cinque-cento diece e cinque^^ sulle quali sono state avanzate le ipotesi più svariate e che a mio avviso rappresentano 11 suo poema, la sua Commedia^^^ le cui «armi» sono sapienza, amore e virtute?^^

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L'aspetto religioso

L'altro filo conduttore è quello religioso, spirituale: quello che vede nella vicenda di Tamino il racconto di un cammino iniziatico, un cammino verso Dio. Nonostante la spesso sbandierata fedeltà di Mozart alla Chiesa cat-tolica, questo cammino avviene, come quello di Dante, senza alcuna mediazione ecclesiastica, senza sacramenti e persino, divergendo sotto tale aspetto da Dante, senza mai nominare Cristo. Il messaggio spirituale che il Flauto magico ci vuole trasmettere è quello, peculiare della masso-neria, di estrema apertura nei confronti di tutte le religioni e di tutti i nomi che a Dio sono stati dati.

L'amore è uno dei temi principali dell'opera, ma non si tratta dell'amore tra uomo e donna. Se di questo si trat-tasse, perché mai dovrebbe essere assente dalla scena del trionfo finale l'altra coppia? Non è «amore» quello che Papageno prova per la bella Papagena? Certo che lo è! Ma l'amore che viene celebrato nel Flauto magico è l'amore per l'umanità, lo stesso che risuona nell'ode Alla Gioia di Schiller, che appartiene alla cultura di quegli anni (l'ode è del 1785):

Seid umschlungen, Millionen. Diesen Kuji der ganzen Welt!^^^ Siate abbracciati, milioni. Questo bacio al mondo intero F®®

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La cultura illuminista esaltava la «ragione», ma non negava Dio. Certo non lo cercava nelle chiese. Come dico-no le parole di Schiller:

Ahnest du den Schòpfer, Welt? Such' ihn ùberm Sternenzelt! Uber Sternen muss er wohnen.

Vagheggi il creatore, mondo? Cercalo al di sopra del cielo stellato! Oltre le stelle deve abitare.

«Lo sfolgorante finale è [ . . . ] la vittoria delle forze mas-soniche del bene» ®^ scrive Massimo Mila. Non è così. In nessun punto dell'opera viene detto che quello di Sarastro è il regno «del bene»: è il regno della luce! «Quando il mio occhio troverà la luce?» chiedeva l'angosciato Tamino all'inizio del suo cammino, e vorrei far notare l'esattezza del termine: Tamino non chiede di «vedere» la luce, ma di trovarla, perché quella non è una luce che si vede, ma una luce che consente di vedere, di vedere la verità, di vedere le cose come realmente sono - a cominciare da se stessi. E la luce intellettual, piena d'amore^'^^ di cui parla Dante. Non è una grazia o un bene che si possa perdere peccando. Qui siamo in tutt'altro orizzonte di senso: si tratta di cono-scenza, e una conoscenza, una volta acquisita, si possiede per sempre. E la conoscenza della verità di cui parla il Vangelo di Giovanni: «Se rimanete nella mia parola - dice Gesù - conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».^^^

Quella verità, che sembra giungere di colpo, come sùbi-to lampo,^'^^ come un fulgore che percuote la mente, ^^ per usare le parole di Dante, come quando appare il primo raggio di sole all'alba e «immediatamente l'intera scena si trasforma in un sole», quella certezza è il coronamento del lungo, faticoso cammino per conoscere se stessi. Il primo

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passo richiede il coraggio di guardare fino in fondo il male che alberga nel proprio cuore, nella propria mente, ma la conoscenza di sé consiste soprattutto nel riconoscere l'ele-mento divino nella propria anima, nel prendere coscienza della propria sostanziale identità con Dio.

«Divenire il Brahman» è la meta indicata dai testi sacri indù, ma, nonostante la proibizione divina (non dimen-tichiamo che è stato proprio il voler essere «come Dio» il motivo della cacciata dal giardino di Eden), '' questo desiderio è sempre stato vivo anche nel cristianesimo, soprattutto nelle scuole di tipo gnostico, ispirate al neopla-tonismo, che vedevano nel messaggio di Cristo non tanto l'aspetto del divino che si fa umano quanto l'indicazione della strada che può condurre i «mortali» a essere «ugua-li agli dèi», obiettivo che sembra trascendere la natura umana, ma che invece la realizza.

Il finale segna la sconfitta della Regina della Notte. Ripercorrendo la vicenda del suo rapporto con Tamino -lasciando da parte quello con la figlia - non possiamo non tener conto del fatto che è stata lei a dargli il flauto magico, lei a mostrargli il volto di Pamina e a inviarlo verso il regno di Sarastro per liberarla.^^^ Queste considerazioni rendono ancora piìi ingarbugliata la situazione: ma allora era buona la Regina della Notte? Se così fosse, la sua miserevole fine non sarebbe giusta. Dal punto di vista politico rappresen-ta l'oscurantismo che diffonde la superstizione e quindi è bene che scompaia. Ma dal punto di vista spirituale?

Nei capitoli precedenti abbiamo detto che rappresenta la Materia, la Madre Terra. Lei ci dà la vita e ci nutre, ci dà la musica, le arti e la parola, lei ci dà le albe, i tramonti, U cielo stellato, il profumo dei boschi, il suono del mare, e l'amore. Suoi sono tutti i colori dell'universo perché

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suoi sono - come viene detto nel Flauto magico - «tutti i tesori». E impossibile non amarla. E tuttavia le religioni del mondo l'hanno quasi sempre presentata in modo più o meno negativo. Nell'ipotesi migliore le sue meraviglie sono maya, illusione. E se nel dire «come in cielo così in terra»^^^ Gesìi Cristo sembra mettere i due poli sullo stes-so piano, nel versetto precedente ha messo ben in chiaro che il «Padre nostro» è «nei cieli», ^^ per non parlare di quando dice: «Il mio regno non è di questo mondo». ^^ Questo dualismo viene accentuato nelle religioni e filoso-fie che contemplano la reincarnazione, e che costituisco-no, a mio avviso, l'ideologia di base del Flauto magico. Ci tengo a ribadire che non si tratta di un contrasto tra Bene e Male. Nella dottrina cattolica l'inferno è il regno del Male, ma nelle dottrine gnostiche e reincarnazioniste, anche cristiane, l'inferno non esiste e i due poli sono Spirito e Materia. Non è una differenza da poco, né solo terminolo-gica: l'ambito di Bene e Male è morale, quello di Spirito e Materia ontologico.

Alcuni miti raccontano del drammatico momento in cui la Materia catturò e imprigionò particelle di Spirito, o di Luce, come spesso viene detto. Da allora lo scopo è recuperarle, liberarle e tornare alla condizione originaria, l'apocatastasi. Ciò non significa che la Materia non esi-sterà più (nessuno ha mai sostenuto che la Materia - ma nemmeno quella con la m minuscola - cesserà di esistere), bensì che alla fine dei tempi non avrà più alcun «potere» sullo Spirito: non a caso con le sue ultime parole la Regina della Notte lamenta proprio la perdita del suo «potere».

Alla fine dei tempi. Per il momento particelle di Luce, scintille divine, o comunque le si voglia chiamare, sono ancora imprigionate nella Materia. Il problema è che l'uomo - dicono sempre questi miti - non ne è consape-

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vole, ha dimenticato la propria origine celeste, e tende a identificarsi col suo corpo e a considerare questo mondo come l'unica realtà. Ma non è così: l'essenza è lo Spirito che pervade tutto. E il desiderare solo beni terreni, come insegnano tutti i Maestri, conduce a «morte e disperazio-ne» {Tod und Verzweiflun^.

Quando la Regina della Notte racconta della morte del padre 'di Pamina evoca - ne abbiamo parlato - quegli antichi miti cosmogonici che narrano della rottura, irri-mediabile, di un'armoniosa Unità primordiale, un'Unità perduta per sempre. Tuttavia dicono anche che l'uomo la può ritrovare, anzi, la deve ritrovare.

Dante e Mozart indicano la strada che a essa conduce. Lo fanno con un linguaggio poetico, utilizzando quei sim-boli geometrici cui si ricorre, fin dai tempi più antichi, per evocare il trascendente. Negli ultimi versi del suo poema Dante vede Dio come tre cerchi, mentre nell'ultima scena del Flauto magico appare un triangolo: l'Unità raggiunta alla fine del cammino è una Trinità.

I tre cerchi rappresentano il Padre, il Figlio e l'Amore che tra essi spira. Lo stesso si potrebbe dire del triangolo che apparirebbe nell'ultima scena dell'opera mozartiana se le indicazioni del libretto venissero rispettate. Lo spettatore vedrebbe allora Sarastro che «sta più in alto» e i due eroi ai suoi lati, un po' piìi in basso. Ripensando ora ad alcune scene dell'opera, ritengo che i personaggi possano essere visti anche così, cioè come H Padre, il Figlio - Dio e l'Uomo - e l'Amore che tra essi spira.

Volendo invece vedere Lamino e Pamina come coppia, che è il senso letterale, è interessante notare come questo triangolo sia rovesciato rispetto a quello originario: lì si trattava di una coppia con una figlia, qui di una coppia con un padre. Graficamente questi due triangoli formano

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uno dei più antichi e universali simboli sacri: il cosiddet-to sigillo di Salomone, che per Mozart doveva rivestire una notevole importanza, se è vero che, come riferiscono alcuni studiosi, lo «soleva apporre accanto alla firma».^^^ Raffigura, dicono gli esperti, il mistero dell'uomo creato a immagine di Dio, ma anche l'incontro tra il divino che scende, si manifesta, si incarna, e il nostro trasumanar.

Come dicevo, questo «triangolo» non viene quasi mai-rappresentato, ma noi, fedeli al libretto, cerchiamo di imma-ginarlo, al centro di una scena luminosa come il sole, mentre la musica - quella musica -h un riso de l'universo, come quando Dante sentiva cantare "gloria!" tutto 'Iparadiso

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Note

^ Jalal àlDìn Rumi, Mathnawi, traduzione di Gabriele Mandel Khan. Bompiani, Milano 2006,1, 1. Rispetto a questa edizione, che mantiene per il flauto il termine persiano ney, ho preferito «flauto di canna», che è il suo significato e che compare in altre traduzioni. 2 Idem, I, 9-10. ^ Johann Wolfgang von Goethe, Faust, 12110-11.

Jalàl alDin Rumi, Mathnawi, cit., I, 11. ^ Il Flauto magico è un Singspiel, composizione caratterizzata daU'al-ternarsi di arie e parti parlate, non recitativi cantati come nelle opere italiane. La parola Singspiel non ha un corrispettivo nella nostra lin-gua, per cui continuerò a usare il termine «opera», pur sapendo che non è del tutto corretto. ^ Dante Alighieri, Epistola XIII (a Cangrande della Scala), in Opere di Dante Alighieri, a cura di Predi Chiappelli, Mursia, Milano, 1978, p. 920. ^ Alfons Rosenberg, Die Zauberflòte, Prestel Verlag, Mùnchen 1964, p. 220. Traduzione dell'autrice. ® Traduzione e corsivi dell'autrice. ' Massimo Mila, Lettura delFlauto magico, Einaudi, Torino 2006, p. 27. 10 Cfr. Dante Alighieri, Epistola XIII, 31.

Marguerite Yourcenar, Pellegrina e straniera, Einaudi, Torino 1990, p. 89.

Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 5. Idem, p. 56.

" Idem, p. 182. Cfr. Hermann Abert, Mozart, Il Saggiatore, Milano 1994-1995, voi.

II, p. 657. Wolfgang Hildesheimer, Mozart, Rizzoli, Milano 1982, p. 335.

167

^ Italo Alighiero Chiusano, Emanuel Schikaneder, il librettista, in Die Zauberflòte, Edizioni del Teatro alla Scala, Milano 1995, p. 130.

Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 228. Esiste una traduzione italiana di Maria Teresa Galluzzo: Johann

Wolfgang Goethe, Il Flauto magico - Die Zauberflòte, Novecento Edi-trice, Palermo 1986.

Wolfgang Hildesheimer, Mozart, cit., p. 343. Citato in Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 228. Georg WOhelm Friedrich Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1967,

p. 1058. 2' Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 657.

Alfons Rosenberg, Die Zauberflòte, cit., p. 54. 25 Cfr. Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, Bruno Monda-dori, Milano 2005, pp. 2 e 79. 2'' «Eine Oper, die ich mit dem seligen Mozart fleifiig durchdachte». Il discorso di Schikaneder è pubblicato in «Maske und Kothurn», Anno I, Graz-Kòln 1955, p. 360. 2 Jacques ChaiUey, La Flùte enchantée. Opéra magonnique, Robert Laffont, Paris 1991, p. 304. Traduzione dell'autrice. 2® Giovanni Carli BaUola e Roberto Parenti, Mozart, Rusconi, Milano 1990, p. 165. 29 Cfr. Wolf Rosenberg, Mozarts Rache an Schikaneder, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflòte. Texte - Materialien - Commentare, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1982, p. 258. Traduzione dell'autrice.

Giorgio Strehler, Problemi interpretativi del Flauto Magico, in Mozart-Schikaneder, Il Flauto Magico, Rizzoli, Milano 1975, pp. 206-207.

August Jacob Liebeskind, L«/«, o il flauto magico. Donzelli, Roma 2000. 2 Jean de Terrasson, Sethos storia o vita tratta da monumenti inediti

dell'antico Egitto tradotta da un manoscritto greco, Ed. Vincenzo Fer-rarlo, Milano 1820.

Alfons Rosenberg, Die Zauberflòte, cit., p. 152. Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, cit., p. 1.

' ' Giovanni Carli Ballola e Roberto Parenti, Mozart, cit., p. 177. ^ Citato in Wolfgang Hildesheimer, Mozart,àt., p. 295. " Idem, pp. 306-307.

Wolfgang Amadeus Mozart, Lettere, Ugo Guanda Editore, Parma 1981, pag. 174.

Wolfgang Hildesheimer, Mozart, cit., p. 121. 40 Idem, p. 299.

168

Aleksandr Puskin, Mozart e Salieri, Einaudi, Torino 2006, p. 5. Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 253. Alberto Basso, L'invenzione della gioia. Musica e massoneria nell'età

dei Lumi, Garzanti, Milano 1994, p. 436. Aloys Greither, Mozart, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1962, p. 70.

Traduzione dell'autrice. Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 72. Ibidem. Wolfgang.Hildesheimer, Mozart, cit., p. 341. Wolfgang Amadeus Mozart, Lettere, cit., p. 181.

"" Giovanni Carli Ballola e Roberto Parenti, Mozart, cit., p. 182. Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 29. È la tesi che ricorre in tutta l'opera di Pierangelo Sequeri, Eccetto

Mozart. Una passione teologica. Glossa, Milano 2006. 52 Idem, p. 45. ' ' Wolfgang Hildesheimer, Mozart, cit., p. 393.

Hans Kiing, Mozart. Tracce della trascendenza, Queriniana, Brescia 1992, p. 18. ® Cfr. Jules Michelet, La strega, Einaudi, Torino 1980, pp. 174-175.

Edward J. Dent, Il teatro di Mozart, Rusconi, MOano 1994, pp. 354-355.

Idem, p. 355. Cfr. Pierangelo Sequeri, Eccetto Mozart, cit., p. 6. Corsivo di Sequeri.

59 Idem, p. 10. Idem, p. 9. Idem, p. 3. Massimo Mila, Mozart. Saggi 1941-1987, Einaudi, Torino 2006,

pp. 169-170. Edward J. Dent, Il teatro di Mozart, cit., p. 352.

6"' Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, cit., p. 32. 65 Idem, p. 33. 66 Inferno I, 65-90. 67 Inferno II, 124. 68 Joachim Herz, Zur Konzeption der Wiener «Zauberflòten»-Insze' nierung von 1974, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflóte. Texte..., cit., p. 242. 69 Atto I, scena 2. '^°Infernol, 10-11.

Atto I, scena 14. Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauberflóte» oder Die Folgen

169

der Aufklarung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberfldte. Texte..., cit., p. 23.

Così per esempio Johann Valentin Eybel, citato in Emil Karl Bliimml, Ausdeutungen der Zauberflòte, Mozart-Jahrbuch 1, 1923, pp. 115-121.

Hermann Wolfgang von Waltershausen, Zur Dramaturgie der «Zau-berflòte», in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflòte. Texte..., cit., p. 220. ^ Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 672.

Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi, Milano 1979, p. 77. " Cfr. Ovidio, Le Metamorfosi, libro III, w . 339-510.

Va dato atto a Riccardo Muti di non averla tagliata, eseguendo l'opera integralmente, nel dicembre 1995, alla Scala di Milano. ^ Sono le parole con cui si chiudono sia l'aria del ritratto, sia l'aria della Regina della Notte nella prossima scena.

Massimo MUa, Lettura del Flauto magico, cit., p. 96. ^ Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 653. ^ Cfr. Egon von Komorzynski, Entstehung der «Zauberflòte», in Wolf-gang Amadeus Mozart, Die Zauberflòte. Texte..., cit., p. 155.

Come Walter Felsenstein, citato, per confutarlo, in Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauberflòte» oder Die Folgen der Aufldàrung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflòte. Texte..., cit., p. 17.

Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 97. Cfr. Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauberflòte» oder Die Fol-

gen der Aufldàrung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflòte. Texte..., cit., p. 17. ^ Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 654.

Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 101. Jan Assmann, Die Zauberflòte. Oper undMysterium, Fischer, Frank-

furt am Main 2008, p. 66. Traduzione dell'autrice. Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 101. Cfr. Jan Assmann, Die Zauberflòte, cit., p. 126.

^ Cfr. Wolf Rosenberg, Mozarts Rache an Schikaneder, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflòte. Texte..., cit., pp. 258-259.

Massimo MUa, Lettura del Flauto magico, cit., p. 105. Idem, p. 141. Idem, p. 105. Wolfgang HUdesheimer, Mozart, cit., p. 346. Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauberflòte» oder Die Folgen der

Auflzlàrung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflòte. Texte..., cit.,pp. 32-33.

170

^ Erich Neumann, La psicologia del femminile, Astrolabio, Roma 1975, p. 85.

Ibidem. Cfr. Francesco Attardi, Viaggio intorno al Flauto Magico, Libreria

Musicale Italiana, Lucca 2006, pp. 89-90, ^^ Rainer Riehn, «Die Zauherflòte» oder Mozart, der dialektische Kompo-nist, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauherflòte. Texte..., cit., p. 245. 101 Dante Alighieri, Rime, CVI, V.14.

Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 109. Cfr. Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 112. Georg Knepler, Wolfgang Amadé Mozart. Annàherungen, Hen-

schel Verlag, Berlin 1991, p. 398. Traduzione dell'autrice. Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit,, p. 228. Inferno II, 37-42. Faradiso XXX, 100-102. Furgatorio XIX, 7-15.

109 Cfr. Purgatorio XIX, 16-33. 110 Cfr. Purgatorio XVIII, 22-33. 111 La Confraternita della Rosacroce era anche nota «con l'appellati-vo de "Il Congresso degli Invisibili", gli "Unsichtbaren": sì, proprio quegli Unsichtbaren ai quali Tamino si rivolge nel Flauto magico». Francesco Attardi, Viaggio intorno al Flauto Magico, cit., p. 196. '12 Jan Assmann, Die Zauberflòte, cit., p. 69. 115 Ibidem.

Inferno 1,91. 115 Inferno III, 95-96 e Inferno V, 23-24. 11" Inferno XXXII, 54. 1" Apuleio, Metamorfosi (L'asino d'oro), libro XI, 23, Mondadori, Milano 1989, p. 457. 118 Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 685. 119 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 123. 120 Idem, p. 124. 121 Idem, p. 125. 122 Pietro Citati, La luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo, Mondadori, Milano 1998, p. 375. 123 Cfr. Atto II, scena 8. 12"' Plutarco, Iside e Osiride, cit., p. 22. 125 Jacques Chailley, La Flute enchantée, cit., p. 102. 12'' Wolfgang Hildesheimer, Mozart, cit., pp. 346-347.

171

^^ Plutarco, Iside e Osiride, cit., pp. 129-130. 128 Idem, pp. 21-22.

Cfr. Apuleio, Metamorfosi (L'asino d'oro), libro XI, 5. Cfr. Jan Assmann, Die Zauberflóte, cit., p. 287. Purgatorio VI, 118-119.

152 Cfr. Paradiso I, 13-33. Inferno I, 95-96.

i'"* Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 126. 135

Stefan Kunze, Il teatro di Mozart. Dalla Finta semplice al Flauto magico, Marsilio, Venezia 1990, p. 727.

Massimo MHa, Lettura del Flauto magico, cit., p. 126. 1'® Cfr. Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauberflóte» oder Die Fol-gen der Aufklàrung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflóte. Texte..., cit., p. 37.

Cfr. Purgatorio XXVI, 85-88. 140 Cfr. Paradiso IV, 40-45. l' i La scoperta è dell'egittologo Siegfried Morenz, citato in Jan Assmann, Die Zaubeifldte, cit., p. 329n. 1*2 Jan Assmann, Die Zauberflóte, cit., p. 144. i'' Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauberflóte» oder Die Fol-gen der Aufk.làrung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflóte. Texte..., cit., pp. 12-13. i '* Jan Assmann, Die Zauberflóte, cit., p. 144. i"*' Cfr. Hanskarl Kòlsch, Wolfgang Amadeus Mozart. Das Ràtsel seiner Zauberflóte, Books on Demand, Norderstedt 2009, p. 88. Traduzione dell'autrice. i'"' Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 130.

Hanskarl Kòlsch, Wolfgang Amadeus Mozart, cit., p. 91. Cfr. Francesco Attardi, Viaggio intorno al Flauto Magico, cit., p.

271, dove viene detto che il libro sui Misteri degli Egizi di Ignaz von Born «parla dei figli dei re [ . . . ] che raggiunta l'età di vent'anni erano degni di essere iniziati». i'* Erich Neumann, La psicologia del femminile, cit., p. 83.

Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 131. l'I Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauberflóte» oder Die Fol gen der Aufklàrung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflóte. Texte..., cit., p. 23. 1 2 Wolf Rosenberg, Mozarts Rache an Schikaneder, in Wolfgang Ama-deus Mozart, Die Zauberflóte. Texte..., cit., p. 258.

172

Jacques Chailley, La Flùte enchantée, cit., p. 250. Idem, p. 246. Ivan Nagel, Autonomie und Gnade. Ì]ber Mozarts Opern, DTV/

Barenreiter, Miinchen/Kassel-Basel-London 1991, p. 77. Traduzione dell'autrice.

Su questa base già nel passato qualcuno ha visto nel colore di Monostatos un'allusione all'abito non tanto dei sacerdoti, quanto dei gesuiti, ostili alla massoneria. Così, per esempio, Jean e Brigitte Mas-sin, W. A.Mozart, Club fran^ais du Livre, Paris 1959, p. 1149. 1 5 7 X X V I I , 103.

Erich Neumann, La psicologia del femminile, cit., p. 86. 159 Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 695. '^Ibidem. 1 1 Roberto Brusotti, L'eros, la morte e il demoniaco nella musica di Mozart, Il melangolo, Genova 1997, p. 164.

Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 696. Wolf Rosenberg, Mozarts Rache an Schikaneder, in Wolfgang Ama-

deus Mozart, Die Zauherflòte. l'exte..., cit., p. 256. ^^ Wolfgang Hildesheimer, Mozart, cit., p. 352.

Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauherflòte» oder Die Fol-gen der Aufklàrung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauherflòte. l'exte..., cit., p. 35. i'' Cfr. Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 695.

Idem, p. 696. Gottlieb Stephanie, Die Entfùhrung aus dem Serail, atto III, aria

2la. Traduzione dell'autrice. Indro Montanelli, Dante e il suo secolo, Rizzoli, Milano 1964, p.

202. 1™ Inferno XXIX, 26.

Inferno XXIX, 31-34. 172 Paradiso XXII, 16-18. 175 Paradiso XXII, 13-15. 174 La Divina Commedia a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1968, voi. Ili, p. 274. 175 Isaia 34, 6. Le citazioni bibliche sono tratte dall'edizione GEI 2008. 176 Ezechiele 5,17. 177 Cfr. Paradiso VII, 25-120. 17® Giovanni Papini, Dante vivo. Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1933, pp. 274-275. 179 Paradiso VII, 116.

173

180 jvjgj ^229 il Concilio di Tolosa decretò la proibizione per i laici di possedere copia della Bibbia.

Cfr. Purgatorio XXIV, 52-54 e Paradiso XXV, 1. Per esempio Jan Assmann. Jan Assmann, Die Zauberflòte, cit., p. 286.

18'' Cfr. Andrea Chegai, Per pochi a per tutti. Considerazioni sui livelli del Flauto magico, in 11 Flauto magico, Programma di Sala, Teatro La Fenice di Venezia, 1999, p. 112. 1® Hermann Abert suppone si tratti dell'amico Schwingenschuh. Cfr. Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 648 n. 186 Wolfgang Amadeus Mozart, Lettere, cit., p. 7. 18 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., pp. 123-124. 188 Idem, p. 166.

191. 1'° Edward J. Dent, Il teatro di Mozart, cit., p. 362. l'I Arnold Schònberg, Stile e idea, Rusconi e Paolazzi, Milano 1960, p. 75.

Attila Csampai, Das Geheimnis der «Zauberflòte» oder Die Fol-gen der Aufklàrung, in Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauherflóte. Texte..., cit., p. 24. 193 Idem, p. 26. i''* Cfr. Giovanni Carli BaUola e Roberto Parenti, Mozart, cit., p. 151. 195 Cfr. Atto II, scena 28. i"' Friedrich Schiller, An die Freude. Testo parzialmente usato nell'ul-timo movimento della Sinfonia n. 9 di Ludwig van Beethoven.

Dante Alighieri, Convivio, IV, XXVIII, 9. 198 Cfr. Jan Assmann, Die Zauberflòte, cit., p. 199. 199 Stefan Kunze, Il teatro di Mozart, cit., p. 754.

Jan Assmann, Die Zauberflòte, cit., n. 201. 201 Ibidem. 202 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 157. 205 Ibidem. 20'' Ibidem. 205 Idem, p, 161. Cfr. anche Francesco Attardi, Viaggio intorno al Flauto Magico, cit., p. 346. 206 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 191, 207 Idem, p. 166. 208 Inferno XV, JO. ^onnfernoXV, 83.

Inferno XN, 119-120. 211 Paradiso XV, 10-12.

174

Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 169. Purgatono XXX, 126.

214 Cfr. Purgatono XXX, 133-135. 215 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 173. 216 Ibidem. ™ Cfr. Edward}. Dent, Il teatro di Mozart, cit., p. 319. 21® Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 173. 219 Francesco Attardi, Viaggio intorno al Flauto Magico, cit., p. 329. 220 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 177. 221 Jacques Chailley, La Flùte enchantée, cit., pp. 285-6. 2^Udem,p. 151. 223 Traduzione dell'autrice. 224 Apuleio, Metamorfosi (L'asino d'oro), libro XI, 23, cit., p. 457. 225 Idem, libro XI, 5, p. 431. 226 Idem, libro XI, 5, p. 433. 227 Cfr. Jacques ChaiUey, La Flùte enchantée, cit., p. 148. 228 Purgatorio XXVII, 18. 229 Purgatorio XXVII, 36. 250 Purgatorio XXVII, 49-50. 251 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 180. 252 Cfr. Francesco Attardi, Viaggio intorno alFlauto Magico, cit., p. 272. 255 Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 707. 254 Jan Assmann, Die Zauberflóte, cit., p. 283. 255 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 182. 256 Johann Wolfgang von Goethe, Faust, 12110-11. 257 Inferno II, 72. 258 Dante Alighieri, Convivio II, II, 1. 259 Paradiso XXXIII, 145. 240 Cfr. Giorgio Strehler, Problemi interpretativi del Flauto Magico, in Mozart-Schikaneder, Il Flauto Magico, cit., pp. 216-217. 241 Alfons Rosenberg, Die Zauberflóte, cit., p. 118.

Purgatorio XXXm, 112-114. 245 Genesi!, 10. 244 Purgatorio XXXIII, 116-117. 245 René Guénon, Il simbolismo della croce, Luni, Milano 1998, p. 58. 246 Cfr. Idem, pp. 58-59. 247 Paradiso I, 70. ^^^ Marco 16,19. 249 Joseph Rykwert, L'idea di città, Einaudi, Torino 1981, p. 232. 250 Ibidem.

175

^^ Walter Friedrich Otto, Le muse e l'origine divina della parola e del canto, Fazi, Roma 2005, p. 25. ^^ Pavel A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusco-ni, Milano 1998, p. 193. 253 Paradiso I, 70-71. 254 Luca, 22, 42. 255 Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 185. 256 Cfr. Jacques Chailley, La Flùte enchantée, cit., pp. 92-93. 257 Edward J. Dent, Il teatro di Mozart, cit., p. 366. 258 Johann Wolfgang von Goethe, Gesang der Geister ùber den Was- ' sern, in Gedichte. 259 Traduzione dell'autrice. 260 Cfr. Raimon Panikkar, Mito, simbolo, culto, Jaca Book, Milano 2008, pp. 303-325. 261 Luca 9,24. 262 Wolfgang Amadeus Mozart, Lettere, cit., p. 252. 265 Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 31. 264 Johann Wolfgang von Goethe, Clavigo [1774], Atto I, scena 1. 265 Gianni Rodari, J bravi signori, in Filastrocche in cielo in e in terra, Einaudi, Torino 1972, p. 145. 266 Hermann Abert, Mozart, cit., voi. II, p. 709. 267 Cfr. Faradiso XXXII, 59. 268 Cfr. Furgatono XXVII, 142. 269 Giovanni Carli Ballola e Roberto Parenti, Mozart, cit., p. 207. 2™ Atto I, scena 15. 271 Atto II, scena 20. 272 Atto II, scena 26. 273 Hanskarl Kòlsch, Wolfgang Amadeus Mozart, cit., p. 120. 274 Jan Assmann, Die Zauberflòte, cit., p. 173. 275 Idem, p. 174. 276 Cfr. Inferno XXIII, 91-108. 277 Inferno XIX, 2-4. 278 Cfr. Inferno VII, 37-48. 279 Paradiso XXVII, 55. 280 Cfr. Paradiso XXIX, 104-107. 281 Paradiso XXIX, 109-111. 282 Cfr. Ugo Foscblo, Discorso sul testo della Commedia di Dante, UTET, Torino 1979, pp. 542-549, 283 Inferno I, 95-96. 284 Cfr. Inferno I, loi e Purgatorio XXXIII, 43.

176

Cfr. Maria Soresina, Le segrete cose. Dante tra induismo ed eresie medievali, Moretti & Vitali, Bergamo 2002, pp. 140-144. 286 Inferno I, 104.

Friedrich Schiller, An die Freude. Il testo di quest'ode è stato par-zialmente usato nell'ultimo movimento della Sinfonia n. 9 di Ludwig van Beethoven, assurto, a ragione, a inno dell'unione europea.

Traduzione dell'autrice. Massimo Mila, Lettura del Flauto magico, cit., p. 194.

290 Paradiso XXX, 40.

292 Paradiso XXX, 46. 2» Cfr. Paradiso XXXIII, 140-141.

Cfr. Genesi ò. 2® Osservazione che devo a un suggerimento di Mira Contu. 296 Matteo 6, 10. 297 Matteo 6, 9. 298 Giovanni 18, 36. 299 Francesco Attardi, Viaggio intorno al Flauto Magico, cit., p. 159.

Cfr. Paradiso XXVII, 2-5.

177

Bibliografia

La presente bibliografia è limitata alle opere consultate.

Tutte le citazioni del Flauto magico sono tratte dalla seguente edizione e la traduzione è dell'autrice:

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflòte. Oper in zwei Aufzùgen. Dichtung voti Emanuel Schikaneder, Philipp Reclam Jun., Stutt-gart 1962.

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Altre opere di Mozart citate:

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179

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