Solo per scelta

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Eugenio Bianchi, giallo

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EUGENIO BIANCHI

SOLO PER SCELTA

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SOLO PER SCELTA Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-427-7 In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Aprile 2012 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Io trascorro la mia vita in quella solitudine per noi tanto penosa nella gioventù,

ma così gradita negli anni della maturità.

Albert Einstein

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1 Montesangiorgio, un piccolo paese come tanti, sui primi contrafforti montagnosi. A poco più di mezz’ora di guida dalla costa, con il suo bravo castello circondato da case che resistono da secoli alle intemperie, quasi formassero una coorte di legionari messi lì a proteggere il mastio. Con le strade di acciottolato e tratti di antiche mura tutto intorno, interrotte dalle due antiche porte ad arco e da qualche concessione all’espansione del paese in tempi recenti. Alle spalle le montagne coperte di boschi con tanti castagni, forse la maggiore attrattiva per coloro che vogliono scappare dalla città. E sono in tanti, soprattutto in estate e in autunno, a venire quassù, magari solo per una domenica, magari solo per una passeggiata durante la quale sfuggire alla calura estiva della costa in mezzo al bosco oppure per raccogliere un po’ di castagne agli inizi dell’autunno. Un paese in cui ci si conosce tutti a parte i “forestieri”, quelli che vengono a passare qualche settimana o qualche fine settimana nelle villette che sono state costruite poco fuori del paese, raggruppate in una specie di piccolo villaggio satellite. Quelli entrano ed escono dalla vita di tutti i giorni lasciando solo vaghe tracce nella memoria dei paesani, anche se contribuiscono non poco al magro bilancio della comunità. Magari qualcuno di loro viene riconosciuto dal negoziante quando va a fare la spesa, se sono anni che continua a tornare lì, ma per la gran parte degli abitanti i forestieri restano degli estranei. È un posto tranquillo, Montesangiorgio, un posto che viene citato sulle cronache dei giornali locali solo quando c’è la fiera della castagna ai primi di novembre. Quel giorno di Luglio, però, fuori dal piccolo negozio che era allo stesso tempo una tabaccheria, una profumeria e un’edicola, la locandina del giornale non poteva essere ignorata. E come si faceva? C’era il nome del paese scritto a lettere cubitali. E sotto, un po’ più in piccolo - ma mica tanto - c’era la notizia: “Donna sospettata di duplice omicidio.” «Mo come, Giorgio! Possibile che avessi solo dieci copie del giornale? Mo non potevi fartene lasciare qualcuna in più?»

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«Cosa sapevo io, che c’era una roba del genere? Mica posso vederli prima, i titoli! Il furgone arriva che io ancora non ho aperto e mi lascia locandina e giornali davanti alla serranda. E ringrazia che siamo d’estate e qualche copia in più la ordino sempre! Lo sai quante ne vendo d’inverno? A parte quelle che devo tenere da parte per il municipio e per il bar, ne vendo cinque! Mica sono tutti dei letterati in questo paese! «E allora, adesso come faccio?» «Ti vai a prendere un caffè al bar e non hai neppure bisogno di leggerlo il giornale: ti basta stare a sentire i commenti.» E di sicuro al bar, dentro e fuori, i commenti fioccavano. Gli uomini giravano lentamente il cucchiaino nella tazzina del caffè cercando un soddisfacente compromesso fra il non lasciare che il caffè si raffreddasse troppo e il desiderio di tirarla un po’ più lunga e ascoltare qualche commento senza mostrare di essere troppo interessati. Era forte la curiosità ma, nei commenti, prevaleva l’irritazione; quella storia non avrebbe portato niente di buono, al massimo qualche giornalista ficcanaso e rompiscatole avrebbe girato qua e là facendo domande e scocciando tutti. «Va’ là che a me non mi vengono a far perdere tempo! Troppo hanno da scarpinare se vogliono trovarmi su per la costa del monte!» «E io voglio vedere come fanno a farmi le loro domande col rumore che fa il mio trattore! Penseranno mica che smetto di lavorare per star dietro a loro?» «Io vorrei solo sapere a chi diavolo gli è saltato in mente di mandare quelle lettere anonime! Mo che testa deve avere uno che fa delle robe del genere?» «Uno… o una?» «Te dici che…?» «Io non dico niente. Se una lettera è anonima non si può sapere chi l’ha scritta. Può essere un uomo come può essere una donna.» E la discussione riprendeva daccapo. Ma non solo lì. Perché il bar, a Montesangiorgio, era il posto degli uomini. Le donne avevano altri luoghi deputati al pettegolezzo: il mercato, il negozio di alimentari, la parrucchiera e, soprattutto, il forno. Lì c’era Nunzia, la fornaia, a tenere banco: una massa di riccioli rossi, occhi verdi, bocca carnosa e forme generose che lei amava mettere in evidenza con abiti attillati e scollature generose.

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«Ma te, Nunzia, sei proprio sicura che la metteranno dentro, la straniera?» «Io non sono sicura di niente. Con quello che combinano i giudici, di questi tempi i delinquenti sono quelli che rischiano di meno. Di sicuro la persona che ha scritto quelle lettere voleva fare un favore a questo paese senza dover passare un mucchio di guai.» «Però sul giornale c’è scritto che il magistrato non ha voluto dire niente. E poi c’è scritto anche che nelle lettere ci sono solo indizi. Che vuol dire, secondo te?» «Vuol dire che il magistrato non aveva voglia di parlare con i giornalisti. Si vede che è uno che non vuole farsi pubblicità. Oppure, magari è vecchio e brutto e non vuole vedere la sua foto sui giornali.» «Sul giornale dicono che neppure il maresciallo ha voluto fare commenti.» «E ci credo! Se avessimo dovuto aspettare che si muovesse lui, a quest’ora quella starebbe preparando le valige per scappare chissà dove. Magari a cercarsi un altro pollo da spennare. Ma mi sapete dire cosa ci trovano gli uomini in una come quella?» «Si vede che ci sa fare.» «Poco ma sicuro! Se pensate che era riuscita a incastrare il povero Bruno, uno che una donna fissa in casa non la voleva intorno neppure morto!» «E magari è morto proprio perché aveva intorno quella lì!» «Eppure io non ci credo che sia stata lei ad ammazzare Bruno. E anche se fosse stata lei quella volta, questa volta mi sembra che non c’era nessun motivo per ammazzare il professore.» «Séh! Continua pure a credere che quella di Bruno sia stata una disgrazia! Proprio come è sempre stato convinto il maresciallo. Sei proprio ingenua!» Erano talmente impegnate nei loro pettegolezzi, le donne del paese, che non si accorsero che Suntina era arrivata fin sulla soglia del negozio e, nel sentire quello che stavano dicendo, era immediatamente tornata verso il centro della piazza. Mentre camminava verso casa una rabbia bruciante faceva arrossare le guance dell’anziana donna. La tentazione di tornare indietro e ricacciare in gola a quelle megere le infamità che andavano spargendo era forte ma sapeva che non lo avrebbe mai fatto. Da una vita intera si era rassegnata a soffocare lo spirito combattivo che l’aveva animata quando era una ragazzina. Da una vita intera

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continuava a ricordare a se stessa che era proprio stato il suo spirito ribelle la causa di tutti i suoi guai e di quelli di suo figlio. Non aveva voluto dare ascolto ai suoi genitori e aveva voluto sposare Giovanni contro il loro parere, sorda anche alle parole delle sue più care amiche. Era stata dura, una volta finita la guerra, continuare a vivere in un paese dove quasi tutti la evitavano e la guardavano con disprezzo. Aveva dovuto ringraziare il cielo che a nessuno fosse venuto in mente di far scontare a lei le violenze subite, negli anni precedenti, da Giovanni, il manganellatore più entusiasta fra gli squadristi del fascio. Ma per anni aveva dovuto fare i conti con una barriera invisibile che si era alzata fra lei e il resto del paese. Una barriera contro cui, per anni, era andato a scontrarsi anche Bruno, suo figlio. Dal diario di Roberto Ottobre - anno 1 A te piaceva scrivere lettere, Eleonora, e ti dispiaceva di non avere nessuno con cui scambiare un po’ di corrispondenza. Hai avuto solo quel breve periodo in cui Stefano era militare e lui ti scriveva così raramente e solo per farti contenta. Era più comodo il telefono. E sempre per restare in contatto con lui, più recentemente ti eri quasi abituata alle e-mail anche se tu non sei mai riuscita a innamorarti della tecnologia. Per te il computer era solo uno strumento di lavoro; a casa non ci volevi stare neppure un minuto davanti a quello schermo e a quella tastiera. Le mail non avevano quella concretezza tangibile che ti davano le lettere che ti sembravano più reali anche se erano comunque parole, a volte vere a volte solo la maschera di una bugia. Però alla tecnologia del computer e alle mail ti sei dovuta arrendere quando Stefano se ne è andato così lontano. Quante volte quella tecnologia ti ha permesso di vedere sul monitor, in tempo reale, tuo figlio che stava dall’altra parte del mondo? Ti ci sei rassegnata come ti eri rassegnata a vedermi sparire per qualche giorno ogni volta che andavo in giro in moto. Ma le lettere per te sono sempre state il modo “vero” di comunicare con qualcuno. Migliori della conversazione, dicevi, perché permettevano di pesare le parole e dare loro il senso

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desiderato anche se della conversazione si perdeva la parte visiva. E allora ho pensato che potrei cominciare a scriverti delle lettere per continuare a raccontarti quello che mi succede. Una specie di diario per corrispondenza. Ne scriverò un po’ usando il computer e un po’ usando la penna; dipenderà da dove mi troverò. Perché ho deciso di scriverti? Già! Forse perché non riesco ad accettare quello che è successo e in questo modo mi illudo di averti ancora qui con me. O forse perché scrivendo mi dimentico per qualche attimo di tanti dubbi che mi vengono in mente in ogni momento del giorno. Dubbi sul senso di una vita che comunque continua perché si fa fatica a troncarla con le proprie mani, dubbi sul mantenere un ricordo un po’ sporcato un po’ offuscato, dubbi sul dover comunque mantenere dei rapporti con il mondo là fuori senza il quale comunque risulta difficile sopravvivere. Lo so che non avrò una risposta - e neppure saprei dove spedirtele, le cose che scriverò - ma a me piace pensare che, comunque, questa cosa non ti lascerebbe indifferente. E quindi cominciamo da adesso e da qui. Perché ho deciso di venire a vivere in questa casa prefabbricata, tutta in legno, in mezzo a questo bosco di castagni? Non era molto più semplice rimanere a vivere in città e accettare di condurre una tranquilla esistenza da pensionato che va a passeggiare nel parco o si iscrive a qualche circolo in cui poter trovare altri coetanei coi quali condividere un po’ di tempo? Non so perché ho preso questa decisione ma potrei dire semplicemente che sono fatto in questo modo. E magari mi piace complicarmi la vita. E in ogni caso la prima risposta che mi viene in mente è che non sopportavo più di vivere in quell’appartamento dove ogni cosa mi riportava te alla mente. Ecco perché l’ho venduto così com’era, mobili compresi. Mi sono portato via ben poco, solo cose che non contribuiscano a farmi tornare indietro con i ricordi. E poi mi erano diventati insopportabili anche gli sguardi di quelli che vivevano nel palazzo, quegli sguardi nei quali forse avrei dovuto leggere solidarietà e invece leggevo solo compassione. E sentirmi compatito non rientra nei miei piaceri quotidiani. Per cui meglio cambiare radicalmente. Da sei mesi sono in pensione. Lo sai. Non ho aspettato i fatidici sessantacinque anni, me ne sono andato quattro anni prima. E credo di aver fatto la cosa giusta. Ci pensavo già da un po’ ma la decisione definitiva è arrivata un giorno in cui mi sono reso conto che mi stavo lamentando dei miei alunni nello stesso modo in cui, una decina di anni

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fa, si lamentavano alcuni colleghi che io consideravo completamenti andati. Niente di particolare, per carità! Le solite cose. “Come sono cambiati questi giovani d’oggi! Non hanno più interessi e dello studio non gliene frega niente. Praticamente fai lezione a un gregge di pecore. Potresti raccontargli le storie di Topolino invece della Divina Commedia e loro manco se ne accorgerebbero.” Mi sono fermato un momento a riflettere su quello che stavo dicendo ed è stato come guardarsi allo specchio una mattina e, di colpo, accorgersi che non sei più tu. Di certo non ero più quello che pochi anni fa faceva delle battute sarcastiche sui colleghi più anziani ogni volta che se ne uscivano con quelle considerazioni. Sono andato a cercare Franco Tintori, un mio collega che ha una quindicina di anni in meno di me e ha già sulle spalle un buon numero di anni di insegnamento. Lui è uno che dialoga molto con gli studenti, anche con tanti che non sono suoi alunni. Qualche collega insinua spesso che, più che altro, dialoga con le alunne e che loro sembrano molto sensibili al fascino da superstite dell’epoca hippy che lui si porta appresso. Una delle mie colleghe un po’ più acide lo definisce spesso il prototipo del maschio afflitto dal complesso di Peter Pan, solo perché ha passato la quarantina, è ancora scapolo e ancora non ha rinunciato ai capelli lunghi e a un abbigliamento discretamente informale. A me sono sempre piaciuti la sua serena capacità di analisi e il suo humour sottile. C’è chi sostiene che abbiamo la stessa capacità di dimenticarci, di tanto in tanto, che esiste un mondo reale intorno a noi ma forse sono solo invidiosi. Voglio dire: perché dovremmo sempre stare ad avvilirci perché gli stipendi sono quello che sono, i politici sono quello che sono e la professione che abbiamo scelto ci concede ben poche soddisfazioni? Non dico che non ci si debba pensare per niente, dico solo che, di tanto in tanto, fare finta per qualche ora che questo mondo non esista può aiutare a non infilarsi dritti dritti nella depressione. L’ho trovato nella saletta a fianco della biblioteca immerso nella lettura di un saggio di Popper. «Come ti sembrano i nostri alunni?» gli ho chiesto. «In che senso?» ha chiesto lui. «Nel senso dell’impegno, della voglia di apprendere, della capacità di capire, insomma, in parole povere: ti sembrano meglio o peggio di quelli di una decina di anni fa?»

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Ci ha pensato su un po’ prima di rispondermi. Lui non è mica come me che sparo immediatamente le mie opinioni senza stare lì a pensarci troppo. «Non mi pare che ci siano grosse differenze: gli studenti sono sempre gli stessi perché comunque la scuola è sempre la stessa. E guarda che non mi riferisco alla scuola italiana, parlo della scuola in genere. Pensa come sarebbe più facile trovarsi davanti delle facce interessate se i nostri studenti fossero tutti dei pensionati che non sanno come riempirsi la giornata. Come possiamo sperare che ragazzi di sedici, diciotto anni siano interessati alle equazioni o alla Divina Commedia quando le loro menti stanno inseguendo l’ultimo amore che si sentono scoppiare dentro oppure la speranza di un nuovo telefonino o di un nuovo scooter? Non ci possiamo fare niente: sanno che devono studiare se vogliono trovare un lavoro e guadagnarsi da vivere ma i loro interessi sono quasi tutti fuori dalla scuola. Anche perché c’è una realtà nuova che contribuisce a distoglierli dallo studio: come fai ad avere voglia di passare pomeriggi sui libri quando in tv vedi il calciatore di successo che non ha un briciolo di cultura ma ha tutto quello che può desiderare dal denaro? E per le ragazze puoi spostare l’obiettivo dal calcio allo sculettamento in televisione ma il risultato resta il medesimo. Il massimo che ci possono concedere è quel poco di attenzione che basta a farli tirare avanti. Per avere l’attenzione e l’interesse che tu vorresti da loro dovresti essere un mago, uno di una bravura fuori dall’ordinario. Non dico che non ci sia nessun insegnante del genere ma sono delle eccezioni. Esattamente come gli studenti a cui piaccia davvero venire a scuola.» Insomma, come temevo, lui mi ha confermato che gli studenti non sono cambiati quanto sembrava a me. Sono i tempi che cambiano e, probabilmente, io non sono più attrezzato a sufficienza, per lo meno non lo sono da insegnante, per affrontare questi cambiamenti soprattutto perché in questi ultimi anni i cambiamenti avvengono un po’ troppo in fretta. E allora ho fatto la scelta più logica. La scuola sopravvivrà anche senza di me, e da qualche parte un altro insegnante, che magari sta aspettando da anni un posto definitivo, brinderà al raggiungimento della tranquillità economica.

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Novembre - anno1 La casa è ormai completata. È stata una bella esperienza metterla su con le mie mani. Potevo chiedere al fornitore di mandarmi una squadra di operai che me la consegnassero pronta e rifinita, ma perché spendere tutti quei soldi quando avevo un mucchio di tempo a disposizione? E poi mi è sempre piaciuto fare le cose da me, tu lo sai bene, Eleonora. Ho chiesto aiuto a un paio di amici per qualche giornata quando c’era bisogno di essere almeno in due o in tre per montare le parti più pesanti ma per il resto non è stato così difficile. E poi a insegnare in un istituto tecnico si trovano sempre dei colleghi che sanno di idraulica o di elettricità per cui non mi sono trovato ad affrontare problemi insolubili. E tra i motociclisti, grazie al cielo, ci sono ancora quelli legati alla vecchia tradizione che ti fa sentire parte di un gruppo ristretto e se chiedi loro una mano non si tirano indietro. Soprattutto se tu c’eri quando erano loro ad aver bisogno. Non ti piacerebbe vivere in questa casa, ne sono sicuro. Tanto per cominciare l’arredamento è quanto di più essenziale si possa immaginare: con la piantina della casa ho fatto un giro in un grande supermercato di mobili a prezzi popolari e ho comprato solo le cose indispensabili. Mobili che sia facile tenere puliti e che si possano riempire senza sprecare spazio. Forse ai mobili ti ci potresti anche abituare ma alla vicinanza della gente credo che proprio non sapresti rinunciare. A te è sempre piaciuta l’occasionale chiacchierata con la vicina, la sensazione di stare in mezzo alla gente, il contatto con gli altri. Io posso passare giorni senza vedere nessuno e magari accontentarmi dello scambio di messaggi su qualche forum in internet. Siamo sempre stati così diversi, noi due. Qui potrò avere tutta la tranquilla solitudine che desidero; la casa più vicina è a quasi un chilometro di distanza e mi pare che sia abitata solo d’estate, e più o meno alla stessa distanza ma nell’altra direzione ci sono le prime case del paese, ed è esattamente quello che volevo. Però sono sicuro che ti piacerebbe il posto; la casa è in mezzo a un bosco di castagni con la montagna alle spalle. L’ho piazzata un po’ indietro rispetto alla strada principale ma non proprio nel mezzo del terreno che ho comprato per una cifra relativamente modesta. Il proprietario di questo castagneto quasi non ci credeva. A quanto pare i castagni non sono più considerati un investimento. Troppo lavoro per raccogliere i frutti e prezzi troppo bassi quando li vendi all’ingrosso.

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Però, fra la raccolta e la vendita al pubblico, qualcuno che ci guadagna ci deve essere se è vero che in città un cartoccio di caldarroste costa ormai una fortuna. Recintare la mia proprietà mi è costato un bel po’ - quasi quanto fare arrivare l’acqua, l’energia elettrica e il telefono - ma volevo tenere lontana la solita invasione di fanatici del picnic che invadono il bosco ogni fine settimana. Ti dà una sensazione strana pensare di affrontare una vita diversa a questa età. Certo, la mia vita era già cambiata quando te ne sei andata e quello è stato sicuramente un mutamento radicale, ma anche l’allontanarsi dalla città per andare a vivere in solitudine non è cosa da poco. Capisco che non sto andando a vivere nel deserto e che comunque basta poco più di una mezz’ora per arrivare a tutte le comodità che la città può offrire, ma questa situazione mi costringerà comunque a rivedere tutte le mie abitudini. Perché ho scelto di venire a ritirarmi in questo posto isolato, lontano dalla città e dalla gente? Non sto cercando di escludere totalmente il genere umano dalla mia vita, ma voglio averci dei contatti solo quando lo desidero, e qui sono sicuro che le cose andranno esattamente come voglio io. Per quanto riguarda i pasti potrei dirti che sono diventato un mago del microonde ma in realtà cerco di usarlo il meno possibile. Ormai ho imparato a preparare qualcosa di semplice da mangiare, anche se naturalmente siamo ad anni luce dalle cose che cucinavi tu, ma sai che io non mi sono mai creato dei problemi con il cibo. Se poi voglio gustarmi qualche pietanza cucinata a dovere, giù in paese ci sono un paio di ristoranti dove ancora ti portano in tavola dei piatti con i sapori tradizionali e non ti fanno spendere neppure tanto. Basta evitare i fine settimana e i giorni festivi quando dalla città arrivano a frotte. Il forno di Nunzia «Avete sentito? Cesco è riuscito a vendere il terreno!» Nunzia, la fornaia, era molto soddisfatta di avere una notizia fresca fresca. Era ormai la fine di ottobre e la stagione morta era appena cominciata. Di lì a poco ci sarebbe stato solo da sperare in qualcosa di straordinario per trovare un argomento di discussione che non avesse a

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che fare con i capricci del meteo oppure la televisione e i suoi programmi. Succedeva ben poco di insolito a Montesangiorgio. Durante l’estate si poteva almeno fare qualche pettegolezzo sui villeggianti ma poi, finita la stagione, il paese ricadeva nella sua vita quotidiana priva di qualsiasi fatto nuovo. «Non ci posso credere! Si sa mica chi l’ha preso?» «Cesco è passato ieri da qui. Dice che è uno di città.» «Sarà il solito fesso che non sa dove buttare i soldi. Pensano di fare un investimento magari costruendo un villaggio vacanze e poi la metà delle villette gli resta sul gozzo.» «Questo dovrebbe essere uno che è andato in pensione da poco. Mi pare che Cesco abbia detto che era un maestro… un insegnate… qualcosa del genere.» «Ah bèh! Allora vedrai che ci mette poco a rimetterlo in vendita. Quanti ne abbiamo visti da queste parti di questi di città che pensano di riempirsi le giornate con qualche passatempo? Dopo un paio d’anni si accorgono di aver fatto una cazzata, si stufano e spariscono. Questo poi non deve essere neppure tanto giovane se è in pensione. Figurati se avrà voglia di raccogliere castagne o tenere un po’ pulito il terreno! Quelli son lavori che costano fatica, lo sappiamo bene noi!» «Però intanto Cesco si è tolto un bel pensiero! Saranno ormai cinque anni che cercava di vendere.» «Ah questo è sicuro! Ti ha detto anche quanto gli hanno dato?» «Figurati se me lo diceva! Però c’aveva un’aria soddisfatta! Vedrai che c’ha preso un bel po’ di soldini.» «Sono proprio curiosa di vederlo questo qui!» «Cesco dice che potrebbe anche venire a stare quassù. Dice che gli è sembrato di capire che vuole costruire una casetta. Però non è sicuro di avere capito bene.» «Di sicuro Cesco aveva già altro per la testa, magari pensava a come sputtanarsi quei soldi.» «Come vuoi che se li sputtani? A donne! Finirà che si trova una di quelle straniere che aspettano solo il coglione che se le prende in casa in cambio di una scopata ogni tanto. Ormai quelle arrivano dappertutto. Non ne abbiamo una anche qui?» «Certo che quella si è sistemata adesso: la casa, un lavoro ogni tanto e i soldi dell’assicurazione. Se lo veniva a chiedere a me il lavoro lo prendeva nella schiena! Mo si vede che nessuno voleva andare a fare

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l’aiuto in cucina al ristorante! Io mi chiedo che cosa ci trovano gli uomini in queste straniere. Guarda la povera Irene! Quel bastardo del marito non ha avuto neppure il coraggio di dirglielo in faccia. Sparito nel nulla! E poi salta fuori che s’è trovato un’altra all’estero e non è più tornato! Il fatto è che gli uomini sono tutti dei maiali e pure coglioni. Basta che una gli faccia intravedere la possibilità di un po’ di sesso e perdono la testa! E si fanno portare via anche le mutande!»

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2 Il maresciallo Domenico De Vita non era proprio di buonumore quella mattina. Erano passate da poco le otto e già gli era toccato mettere a dura prova la sua pazienza per non mandare a quel paese i quattro giornalisti che avevano cercato di ottenere con una telefonata qualche informazione da aggiungere a quelle poche di cui disponevano. Non aveva nessuna intenzione di rimanere nel suo ufficio a sopportare l’imminente invasione di quei ficcanaso per cui si alzò di scatto dalla scrivania e si avviò verso la porta della caserma. Mentre passava davanti al piantone si fermò solo un attimo per dargli le istruzioni: «Vado a fare un giro d’ispezione. Chiamatemi solo se crolla il municipio o se rapinano la banca coi bazooka.» Salì sulla campagnola e si diresse fuori dal paese. Aveva intenzione di starsene fuori tutta la mattina, visto che comunque non c’era molto da fare. Avrebbe incontrato il magistrato nel pomeriggio e aveva già preparato tutto quello che gli sarebbe servito. Aveva ormai raggiunto la sessantina, il maresciallo, e non vedeva l’ora di andarsene in pensione. Essere trasferito in quel paese, quindici anni prima, gli era sembrata una punizione immeritata ma poi aveva cominciato ad apprezzarne la calma, il carattere degli abitanti e soprattutto la quasi totale assenza di criminalità. Il massimo che gli poteva capitare era una lite fra vicini o un furto in una cascina semiabbandonata. E tutto aveva continuato ad andare avanti in quel modo fino a pochi giorni prima. Se avesse potuto mettere le mani sull’autore di quelle lettere anonime gli sarebbe piaciuto fargli passare la voglia di scrivere a forza di calci nel culo. Il maresciallo rallentò l’andatura della campagnola: stava percorrendo un pezzo di strada completamente in ombra e la frescura che gli arrivava dai finestrini aperti era veramente deliziosa. Si rese conto che, senza accorgersene, aveva preso la strada che portava alla casa del professor Rastelli. Continuò in quella direzione e andò a fermarsi davanti al cancello. Ovviamente non c’era segno di vita e il vialetto che portava alla casa cominciava a essere coperto di foglie. Ricordava ancora il primo incontro con quello strano personaggio, cinque anni prima. Era

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primavera e il professore si era stabilito in quella casetta già da qualche mese quando lui aveva pensato di andare a fargli visita. Quando aveva suonato al cancello e si era qualificato non c’erano stati commenti al citofono; il cancello si era aperto lentamente e lui aveva portato la campagnola sullo spiazzo davanti alla casa. L’uomo indossava una tuta da meccanico e le sue mani erano piuttosto sporche. «A cosa devo questa visita? Ho commesso qualche infrazione?» «Nessuna infrazione. Diciamo che mi piace sapere qualcosa delle persone che vivono da queste parti. Lo so che non è una prassi comune ma non credo che i miei superiori ci troverebbero molto da ridire. In paese non la si vede quasi mai e così…» «Se Maometto non va alla montagna…» «Più o meno.» «Se non le dispiace vorrei finire di regolare le valvole. Penso che possiamo parlare anche se continuo a lavorare. Prenda quella sedia e si accomodi; non mi piace avere gente in piedi intorno quando lavoro. Se le va una birra si serva dal frigorifero che c’è dentro al garage.» Il maresciallo aveva resistito alla tentazione della birra e si era seduto mentre l’uomo era tornato a darsi da fare intorno a una moto dall’aspetto piuttosto imponente. Lui non era un esperto ma il marchio Harley Davidson era conosciuto dappertutto e quello doveva essere il modello di punta della produzione. «Bella moto! Non è pesante da manovrare?» «Prima di questa ho sempre avuto delle Guzzi e mi pare che anche voi ne abbiate. Non sono proprio leggere nemmeno quelle e in ogni caso sì, questa è abbastanza pesante ma ha un sistema che assomiglia a una retromarcia. È stata la sola ragione che mi ha convinto a cambiare.» «Forse le Guzzi ce le hanno giù in città ma non mi sembra di averne vista nessuna simile a questo bestione. Ci fa parecchia strada?» «Venti, trentamila chilometri all’anno. Dipende da come mi gira.» «È un mucchio di strada da fare da solo.» «E chi le ha detto che io vada in giro da solo?» «In paese dicono che lei non sembra avere nessuna… compagnia qui con lei e dicono anche che non abbia molti amici.» «In paese farebbero meglio a farsi gli affaracci propri. Non l’ho mai sopportata la gente che ficca il naso negli faccende degli altri. Guardi che non mi riferisco a lei. Lei fa il suo mestiere e, visto che ormai è qui, cercherò di non farle perdere troppo tempo: sono un insegnante in

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pensione, non ho legami familiari, non ho un lavoro in nero e di conseguenza come è ovvio pago tutte le tasse che devo pagare. Ho venduto l’appartamento che avevo giù in città e sono venuto a stare in questo posto perché non mi va di avere gente intorno. Per essere più precisi, sono fermamente deciso a scegliermi da me le persone con cui voglio stare e i momenti in cui ci voglio stare insieme. Non credo che questo sia illegale o mi faccia diventare un pericolo sociale per la comunità.» «Guardi che nessuno si è permesso…» «Vorrei proprio vedere! Ma poi perché sto ad arrabbiarmi con lei? In fondo lei ha ragione a voler sapere con chi ha a che fare sul suo territorio. E allora, tanto per completarle il quadro, le dico che sono venuto a stare quassù perché volevo passare in pace gli anni che mi restano da vivere senza trovare discussioni con nessuno e questo terreno mi garantisce una certa lontananza dal vicino più prossimo. Mi piacciono le moto e mi piace la musica, tutta la musica, e qui posso mandare lo stereo a tutto volume senza che qualche vicino se ne debba lamentare. Rispetto gli altri finché gli altri mi rispettano. Mi piace viaggiare in moto ma mi sono comprato un camper per potermene andare in giro anche quando comincia a fare freddo sul serio oppure nevica. Come le ho detto non ho legami di nessun genere e questo mi permette di andare e venire quando più mi fa piacere. Desidera sapere altro?» «L’offerta di quella birra è ancora valida?» L’uomo aveva accennato a un sorriso. «Si serva.» Il maresciallo era rimasto a parlare con il professore per quasi un’ora. Era convinto che molte delle cose che si dicevano in paese fossero solo delle esagerazioni, in qualche caso addirittura pure cattiverie, ma voleva cercare di sapere qualcosa in più su quell’uomo sicuramente particolare. Non poteva dire di avere ottenuto grandi risultati; appena la conversazione cominciava a scivolare su argomenti personali l’uomo cambiava argomento. E anche la sua opinione sulla gente del paese non sembrava destinata a essere modificata dagli sforzi del carabiniere che ci teneva a convincerlo che in fondo i suoi compaesani erano brava gente che lavorava duro e che poteva contare su ben pochi svaghi. Gli fece anche notare che, se si fosse fatto vedere al bar una sera ogni tanto, a poco a poco avrebbe potuto diventare uno di loro. Ci aveva provato

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sul serio ma non aveva avuto un gran successo; il professore non aveva nessuna intenzione di integrarsi nella vita del paese. Ed era rimasto fermo nel suo atteggiamento per tutti gli anni che aveva trascorso in quella casetta concedendosi solo pochissime eccezioni, visto che con qualche residente del piccolo paese aveva stretto un’amicizia piuttosto solida. Dal diario di Roberto Dicembre - anno 1 Finalmente è arrivata la neve! A sentire i discorsi della gente, erano giorni che l’aspettavano tutti: qualcuno con un po’ di timore qualcun altro con speranza. Io l’aspettavo con un misto di curiosità e preoccupazione: non l’ho mai vissuto un inverno in montagna e mi chiedo se saprò organizzarmi anche per le eventuali emergenze. Questa mattina, quando ho aperto la finestra, mi sono trovato in un mondo di fiaba. Sembrava proprio l’illustrazione di uno di quei bigliettini d’auguri natalizi. La neve copriva ogni cosa e, con la coda dell’occhio, ho colto la rapida fuga di una lepre che probabilmente si era avvicinata alla casa in cerca di qualcosa da mangiare. Ha lasciato una traccia di piccole buche che segnavano i suoi saltelli rapidi. Non sono riuscito a trattenere un sorriso amaro al pensiero di come tu, se fossi qui, saresti combattuta fra il piacere dello spettacolo che offre la natura e la preoccupazione di rimanere bloccata in questa casa magari per qualche giorno. Dopo colazione mi sono vestito a dovere e ho cominciato a distribuire un po’ di cibo per gli animali sulle mangiatoie che avevo già preparato. Ne ho messe un paio sugli angoli estremi del terreno verso il bosco, abbastanza alte perché i daini possano arrivare al cibo, e alcune all’interno del recinto per gli animali più piccoli che riescono a superarlo abbastanza facilmente passandoci sotto. Sono sicuro che la lepre che ho visto questa mattina non sia sola: ce ne devono essere un paio di famiglie con parecchi piccoli leprotti. Ne ho visti alcuni nei giorni scorsi sorvegliati dalla mamma. Sistemate le mangiatoie mi sono avviato lungo il fianco della montagna. Da quando sono venuto a stare quassù le passeggiate nel bosco sono diventate una

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piacevole abitudine. Ti stupiresti, Eleonora, a vedere quanto cammino negli ultimi tempi. Ricordi come cercavi sempre di convincermi a fare lunghe passeggiate e io trovavo sempre qualche scusa per evitare di accompagnarti? Evidentemente sto cambiando tutte le mie abitudini o magari tu diresti che sto abbandonando alcune mie brutte abitudini. I primi tempi sono stati piuttosto duri: mi ritrovavo col fiatone dopo appena una decina di minuti. Poi, col tempo, ho imparato a regolare il mio passo e la respirazione e adesso riesco a camminare anche per un paio d’ore senza avere bisogno di fermarmi. A volte mi porto il player mp3 e lascio che la musica mi accompagni e allo stesso tempo mi isoli ancora più dal resto del mondo. Oggi però volevo gustarmi in pieno il silenzio ovattato che la neve aveva portato con sé e ho rinunciato a qualsiasi colonna sonora. Gli unici suoni erano un occasionale frullo di ali o il precipitare improvviso di un po’ di neve da qualche ramo più leggero. Nel pomeriggio ho fatto una puntata in città e ho provveduto a colmare una grave mancanza nella mia organizzazione casalinga: mi sono comprato un piccolo trattore con un paio di accessori fra cui un tagliaerba che mi servirà più avanti e un piccolo spazzaneve a turbina che mi servirà subito. Mica posso pensare di poter spalare tutta la neve che scenderà questo inverno!

* * * A volte essere un pensionato e vivere così isolato fa perdere la nozione del tempo: ogni giorno può sembrare festivo e ogni domenica può sembrare un giorno qualunque. Non ci sono più gli orari di lavoro a scandire lo scorrere dei giorni e così mi capita di andare in paese e magari capire che è domenica perché trovo i negozi chiusi. Ma in fondo cosa importa? Non essere vincolati allo scorrere regolare dei giorni lavorativi e di quelli festivi è un po’ come trovarsi perennemente in vacanza. In più posso rimanere a casa oppure montare in sella alla moto o mettermi alla guida del camper e partire come più mi piace. Devo tenere d’occhio il calendario solo per non perdermi qualche raduno oppure per farmi trovare in casa se qualche amico che viene da lontano ha accettato la mia offerta di ospitalità. Di tanto in tanto qualcuno mi chiede come sia possibile che non mi pesi la solitudine nella quale mi sono rifugiato e mi guarda interdetto quando io rispondo che la solitudine mi piace. Questa solitudine mi piace. È una solitudine

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comoda, una finta solitudine che posso interrompere in qualsiasi momento: posso andare a fare colazione nel bar del paese al mattino oppure a pranzare in un ristorante o a farmi una birra al pub giù in città ed ecco che non sono più solo. Ci sono momenti in cui ci si può sentire soli anche al centro di una piazza affollata: la solitudine è una condizione mentale più che fisica. Quando, grazie alla tecnologia delle comunicazioni e al mio computer, entro in collegamento con qualche “amico” dall’altra parte dell’Oceano Atlantico oppure in qualche paese scandinavo, ecco che non sono più solo perché ho qualcuno con cui dialogare quasi come se fosse qui, nella mia stanza, di fianco a me. Ci vuole solo un po’ di pazienza per leggere quello che ha scritto e digitare la mia risposta. E negli ultimi giorni mi ritorna in mente una cosa che ha scritto Jodi Picoult in un suo libro: “se incontrate dei solitari, qualsiasi cosa vi raccontino, non è perché amano la solitudine. È perché hanno cercato di amalgamarsi col mondo prima, e la gente continua a deluderli”. Non sono così sicuro che questa considerazione valga per tutti. Non sono così sicuro che tutta la gente mi abbia deluso o continui a deludermi: se imparo a non giudicare dalla prima impressione e a non limitarmi a considerare “gente” quei pochi coi quali entro in contatto, se allargo i confini della “gente” trovo ancora uno sparuto gruppo di persone che non deludono perché sono coerenti con quello che esternano. Forse che gli idealisti che inseguono il loro concetto di giustizia non fanno parte della gente? Cosa importa se verranno emarginati e magari schiacciati dalla maggioranza che non la pensa come loro? E anche quella maggioranza, non è forse coerente con la propria visione del mondo? Se i miei connazionali, come tanti in tanti altri paesi, si lasciano rincoglionire dalla televisione evidentemente è perché sono soddisfatti di questa loro condizione e quindi non mi sembra giusto provare una profonda delusione per questo. L’amore per la cultura non è qualcosa che si può imporre per legge e lo stesso vale per il rifiuto di quegli spettacolini da poco che godono di una larga popolarità. Grazie al cielo siamo ancora liberi di sceglierci le amicizie e le compagnie così come siamo liberi di scegliere se guardare la televisione oppure andare a fare una passeggiata. Per evitare le delusioni basta scegliersi accuratamente le une e le altre. Non me ne sto da solo alla periferia di un paesino perché l’umanità mi ha deluso, lo faccio perché per me è una condizione più serena che mi

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permette di apprezzare appieno le occasioni in cui mi incontro con altre persone che grosso modo la pensano come me.

* * * Esco e mi fermo davanti alla casa. Il buio è diverso e il silenzio regna sovrano. È notte fonda e il cielo è una immensità luminosa di milioni di puntini brillanti. È diverso il cielo di quassù, diverso da quello della città dove si fa fatica a individuare le stelle per colpa delle tante luci che velano gli occhi. E dopo pochi secondi mi rendo conto che non sono circondato dal silenzio. Basta rimanere immobili a occhi chiusi e una moltitudine di suoni arriva da tutto intorno: c’è il canto degli usignoli, c’è il battito d’ali degli uccelli notturni e ci sono i rumori lontani di qualche auto di passaggio o di un aereo lassù, in alto. Mi lascio conquistare per un po’ da questo cielo immenso e buio che non è per niente buio, da questo chiarore che viene diffuso dalla neve tutto intorno a casa e da questo silenzio così chiassoso e poi seguo l’improvvisa decisione di un momento e mi porto chitarra e amplificatore fuori, all’aperto, e mi metto a rincorrere le note di “The great gig in the sky” dei Pink Floyd perché è la musica che mi pare più giusta per un momento come questo. Faccio un po’ di fatica all’inizio perché le dita non gradiscono la brezza gelida che soffia dalla montagna ma poi anche loro si sciolgono e si inseguono la melodia lungo le corde e il manico della chitarra. È bello pensare che la sentiamo solo io e gli animali intorno: gli esseri umani a quest’ora dormono al caldo, sotto le coperte con le finestre e le imposte ben chiuse per lasciare fuori la notte e il freddo e per escludere, almeno per qualche ora, le preoccupazioni del doversi guadagnare da vivere per sé e la propria famiglia. Io sono fortunato: posso starmene qui a godermi un momento magico solo per me. Il futuro non è qualcosa di cui io debba avere paura. Casomai qualcosa a cui pensare con curiosità, senza aspettarsi chissà cosa. La mia vita me la sono vissuta e tutto quello che mi è concesso di vivere e godere da adesso in poi è un di più che va assaporato al meglio.

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Il forno di Nunzia «Allora Nunzia? Niente di nuovo sul forestiero che ha comprato la terra di Cesco? » «Macchè! Mi ha detto la Irene che si è fatto una bella casa mo che non dà confidenza a nessuno. Scorbutico peggio di un riccio spinoso! » «Ma almeno l’hai visto? » «Sì che l’ho visto! È venuto tre o quattro volte a prendere il pane. Ho provato a farci un po’ di conversazione ma lui niente! Sembra quasi che faccia fatica a risponderti! Prende il pane, paga e via che va sulla sua moto! Chiedete anche alla Concetta e alla Caterina che erano qui la prima volta che è venuto. » «E com’è? Bello, brutto, giovane, vecchio? Io l’ho visto un paio di volte passare per il paese mo era in moto e col casco come fai a capire che faccia c’ha? » «Oddio… vecchio non mi sembra. Se è vero che è in pensione, deve esserci andato presto. Io direi che ha poco più di cinquant’anni. E penso che per qualche donna potrebbe anche essere un tipo interessante.» «Per qualche donna? Dai Nunzia, non fare la misteriosa. Tu ci faresti un pensierino?» «Abbassa la voce che Erminio può sentire! Geloso com’è poi finisce che mi fa un mucchio di storie.» «Va bene, abbassiamo la voce ma te ci faresti un pensiero?» «Bè, brutto effettivamente non è… e poi c’ha quell’aria un po’ scorbutica che qualche volta c’ha il suo fascino! E poi c’ha ‘sti capelli grigi lunghi che sembra un attore degli anni passati.» «Ho capito, te lo faresti sul bancone se solo non ci fosse tuo marito!» «Mo il marito ce l’ho e quindi… te dici che ci resterà per molto da solo in quella casa? Secondo me prima o poi una che gli fa scordare la solitudine la trova!» «Certo che una che cerchi una sistemazione potrebbe provarci… brutto non è, qualche soldino da parte ce lo deve avere che sennò come faceva a comprare il terreno e metter su la casa? E poi, se c’ha anche la pensione… se anche c’ha un carattere un po’ scontroso basta avere un po’ di pazienza.» «Come se fosse l’unico uomo scontroso che c’è in giro! Certe volte a Erminio gli tirerei dietro un matterello! C’abbiamo così poco tempo libero e quelle poche volte che potremmo andare a fare un giretto fuori

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lui c’ha sempre qualche scusa! Giusto una settimana di vacanza all’anno sono riuscita a farmi fare. Te pensa che non voleva portarmi a Sharm perché diceva che il sole mi poteva far male alla pelle. Gli interessava molto della mia pelle! Lo so io cos’era che gli dava fastidio: prendere l’aereo. Mo va’ là che adesso che ho rotto il ghiaccio forse il prossimo anno riesco a farmi portare alle Maldive!»

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3 Mentre percorreva l’ultimo tratto di strada che portava agli uffici del tribunale, il vice commissario Mori ringraziava mentalmente l’avvocato Campana, suo coetaneo e appassionato motociclista, che l’aveva convinto ad acquistare uno scooter per muoversi in città. In realtà Campana aveva insistito parecchio per convincerlo a comprarsi una moto ma Mori non aveva nessuna intenzione di mettersi a fare il centauro. Lo scooter comunque si era rivelato una vera mossa vincente per muoversi nel traffico intasato delle ore di punta. Quella mattina poi sembrava che tutti i mezzi di trasporto si fossero concentrati sul percorso che lo portava agli uffici del tribunale dove doveva incontrare un magistrato. Per la verità sembrava che tutti gli imbranati del circondario si fossero dati appuntamento sul quel tratto di strada. Riuscì comunque a evitare di farsi travolgere dall’auto dell’ultrasettantenne che aveva deciso di entrare in strada con l’accortezza di un kamikaze, frenò giusto in tempo per evitare di tamponare la signora che, evidentemente, aveva avuto una improvvisa illuminazione davanti a un negozio di frutta e verdura e mandò a quel paese con tutto il fiato che riuscì a trovare il fighetto col braccio mollemente sporgente dal finestrino della Mercedes cabrio che aveva deciso che i semafori erano un elemento trascurabile nella segnaletica stradale ed era passato col rosso tagliandogli la strada. A parte questi episodi riuscì a districarsi abbastanza agevolmente e arrivò a destinazione in un tempo decisamente limitato. Era nervoso quella mattina. Avrebbe dovuto occuparsi di una storia di missive anonime e l’idea non lo allettava per niente. Lui era abituato ad affrontare indagini più serie ma il magistrato non aveva voluto sentire scuse. Nelle lettere si ipotizzava un duplice omicidio e il magistrato voleva avere la certezza che fossero solo il parto di una mente bacata. Mori aveva già dato un’occhiata “in via non ufficiale” al fascicolo e propendeva più per l’ipotesi del mitomane ma gli sarebbe comunque toccato passare qualche giorno a fare delle verifiche sul contenuto di quelle lettere. Decise di provare ad addolcire la mattinata con una brioche alla crema e un buon cappuccino. Quando

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entrò nel bar si rese conto che forse aveva esagerato. La sera prima aveva deciso che quella mattina avrebbe incontrato il magistrato appena possibile e poi si sarebbe fermato nel suo ufficio per potere mettere un po’ di ordine sulla scrivania ormai inondata di fascicoli ammucchiati alla rinfusa. Ora capiva che gli sarebbe stato molto difficile entrare nel palazzo del tribunale visto che mancava ancora una buona mezz’ora all’arrivo del personale. Poteva solo sperare che il magistrato che doveva incontrare fosse altrettanto mattiniero quanto lo era stato lui. Nell’attesa si sarebbe concesso una colazione particolarmente lenta. Simona, la barista, aveva avuto un sussulto nel vedere la figura del poliziotto stagliarsi al di là della vetrata del bar. Erano settimane che faceva di tutto perché lui le dedicasse un po’ di attenzione. Sì, lo sapeva che fra loro due c’era una notevole differenza di età ma quegli occhi scuri e quell’aria a metà fra il trasandato e il noncurante insieme a un sorriso vagamente ironico che aleggiava spesso sul volto l’avevano conquistata dal primo momento che l’aveva visto. E adesso lui era lì, davanti alla porta del bar. “Non ci credo! Madonna, questa è l’occasione giusta! Me lo sentivo che oggi doveva succedere qualcosa di speciale! Dai dottor Mori spingi quella porta e vienimi a sorridere qui davanti al bancone che poi ci penso io. Sono giorni che aspetto di vederti passare da qui ma tu vai e vieni e stai sempre con qualche magistrato! Dai entra e vieni a fare colazione che oggi è la giornata buona e una Simona così non l’hai mai vista.” E Mori spinse la porta ed entrò nel bar proprio come lei stava desiderando. «Siamo mattinieri oggi, Dottor Mori!» «Buongiorno Simona. Ma lei a che ora si alza?» «Abbastanza presto. Cosa le preparo?» «Cappuccino e brioche, grazie.» «Perché non prova una fetta di torta invece della solita brioche? Abbiamo un nuovo pasticcere che ci fornisce delle crostate favolose. Ne ha appena portata una all’albicocca che è ancora calda.» «Vada per la torta.» «Si sieda, le porto tutto al tavolo.» Con il sorriso sulle labbra Simona riuscì a nascondere la sua soddisfazione quando vide il poliziotto andare a sedersi a un tavolino fuori dalla vista di chi passava davanti alla vetrina del bar.

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“Aspetta che ti arrivo a fianco con questi dieci centimetri di tacchi e questa minigonna che mi sono messa questa mattina e poi voglio proprio vedere se riesci a restare indifferente, poliziotto mio. Se non ti accorgi di me neppure questa volta vuol proprio dire che le donne proprio non ti interessano!” Mantenendo sempre il volto sorridente portò il vassoio con la colazione al tavolo di Mori. «La crostata ha davvero un profumo delizioso ma credo proprio che la fetta sia un po’ troppo grossa. Perché non si siede e mi aiuta a finirla? Come fa a stare su quei tacchi per tutta la giornata?» Li aveva notati! E allora doveva avere notato anche la mini e quel po’ po’ di gambe che c’erano fra i tacchi e la gonna. «Veramente ho un paio di scarpe comodissime nello sgabuzzino. Stavo per metterle quando è arrivato lei. E comunque qui lavoro solo fino alle due.» «E poi?» «Vado a casa a studiare.» «Università?» «Sì, economia del turismo. Mi mancano ancora un paio di esami e poi la tesi. Sono discretamente fuori corso ma lavorare e studiare non mi risulta facile.» «Studiare e lavorare non è mai stato facile. Da dove viene, Simona? Il suo accento non è esattamente di queste parti.» «Neppure il suo mi sembra. No, vengo dal fondo della Puglia. E lei da dove viene?» «Dalla punta dello stivale: Calabria.» Con grande disappunto di Simona, un uomo a bordo di uno scooter si fermò davanti alla porta del bar. Maledicendo mentalmente il nuovo arrivato la ragazza andò velocemente nello sgabuzzino che serviva anche da spogliatoio, cambiò velocemente le scarpe coi tacchi tornando ai sandali che portava abitualmente, indossò l’ampio grembiule che arrivava ben sotto le ginocchia e andò a sistemarsi dietro al bancone. L’uomo si fermò un attimo sulla porta e sul volto gli si aprì un sorriso. «Dottor Mori! Come siamo mattinieri! Qualche caso interessante in vista?» Mori faticò non poco a trattenere un gesto di insofferenza. «Buongiorno Martini. Niente di particolare. La solita routine.» «È vero che dovrà occuparsi lei del caso della rumena pluriomicida?»

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«Mi è stato detto che dovrò occuparmi di lettere anonime e questo è tutto quello che le posso dire.» «Ma l’unico caso di lettere anonime di cui siamo a conoscenza è quello della rumena.» «Per quello che so io quella donna non è stata ancora incriminata di nulla quindi lei dovrebbe andarci cauto prima di definirla “pluriomicida”. E poi pensavo che ormai dovrebbe conoscermi abbastanza per risparmiarsi certe domande.» «La speranza è sempre l’ultima a morire, dottor Mori.» «Temo proprio che la sua speranza, per quel che mi riguarda, non abbia grandi prospettive di vita lunga.» «Non vuole proprio darmi una mano? Non le chiedo mica di violare dei segreti di ufficio! Mi basterebbe sapere chi ha intenzione di interrogare.» «Evidentemente io e lei, Martini, abbiamo un diverso concetto della correttezza professionale di un poliziotto e quindi lei è sfortunato. Mi risulta che lei abbia cercato di avere informazioni… diciamo così… esclusive anche dal dottor Sepe che è il magistrato incaricato di questa inchiesta e ho saputo che il suo tentativo di ottenere qualche informazione da uno dei suoi assistenti non abbia avuto molto successo.» «Io cerco solo di fare il mio mestiere.» «Allora cerchi di farlo senza interferire col mio.» Mori si alzò e andò a pagare alla cassa e mentre Simona sentiva crescere la rabbia dentro di sé, girò le spalle al giornalista e si avviò verso l’ingresso dell’edificio. Non riusciva proprio a sopportare quell’uomo in situazioni normali, figuriamoci all’inizio di una giornata impegnativa che sembrava essere cominciata così bene con il sorriso e quel paio di gambe spettacolari della graziosa Simona. Dal diario di Roberto Gennaio anno 2 È tardi Eleonora, quasi l’una. L’anno nuovo è appena cominciato e io sono qui, davanti al finestrino del camper a guardare fuori mentre il

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televisore alle mie spalle manda in onda il solito spettacolo di capodanno. Sono qui a constatare che il capodanno lo trovo insulso. Tutta quella gente che si abbraccia e si bacia pensando che da domani tutto sarà diverso… sì, lo so: sono un vecchio orso brontolone. In fondo lo sono sempre stato. Niente a che vedere con la donna che mi aveva accettato a condividere la sua allegria, la sua voglia di vivere e la sua disposizione a stare in mezzo alla gente. Avevamo in comune solo il piacere di viaggiare e scoprire posti nuovi anche se io avrei preferito farlo in moto e tu invece proprio non ne volevi sapere di passare tutto quel tempo in sella. Per il resto non potevamo essere più diversi. Eppure siamo riusciti a stare insieme per quasi trent’anni. Poi tu… vabbè, meglio lasciar perdere. Fuori dal camper i fuochi d’artificio che stanno illuminando il cielo si specchiano nell’acqua raddoppiando la loro brillantezza. Sono riuscito a parcheggiare su uno spiazzo a picco sul mare e riesco anche ad avere una bellissima vista su un pezzetto della costiera sorrentina. Avrei potuto accettare l’invito di Achille e dei suoi amici motociclisti ma proprio non me la sentivo di passare la serata seduto a tavola a mangiare fin troppo e a bere fino a svegliarmi poi con un mal di testa feroce. Il problema con loro è che non puoi dire di no. Il problema è che non si riesce a fargli capire che loro hanno come minimo una decina d’anni in meno di me e ancora riescono a smaltire tutto quello che mangiano e bevono senza avere problemi con lo stomaco. E allora molto meglio raccontare una balla, inventarsi un problema al motore del camper e magari farsi sentire domani pomeriggio quando saranno svegli e sobri. Domani mattina dovrò togliermi abbastanza presto da qui, prima che qualche vigile un po’ zelante venga a farmi notare il cartello di divieto di sosta per i camper. Ma magari domani mattina anche i vigili potrebbero non avere tanta voglia di mettersi al lavoro presto e comunque io da tempo non ho più bisogno di dormire tanto.

* * * Non è stato facile il ritorno a casa. Per fortuna tengo sempre una pala fra gli attrezzi del camper. Un paio d’ore ad aprirmi un varco fino a riuscire ad aprire la porta del garage e poi un’altra ora a liberare dalla neve con il trattorino e lo spazzaneve il passaggio che porta dalla casa alla strada provinciale. Due settimane via da casa e mi sono

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ritrovato con più di mezzo metro di neve che ostruiva tutto. Sono state due settimane piacevolissime con i primi giorni passati tra cene e bevute insieme agli amici campani e poi la solita amica solitudine a farmi compagnia mentre attraversavo la Basilicata seguendo strade poco frequentate. Ho avuto fortuna: poca neve e temperatura quasi mite. Poi la Puglia e il Gargano. Dovrò ritornarci in estate e prendere a noleggio una barca; la vista della costa dal mare deve essere un vero spettacolo. È strano Eleonora; è cambiato anche il mio modo di guidare. Adesso non mi importa più di arrivare presto. E se quando sono in moto devo comunque arrivare in qualche posto dove ci sia un campeggio oppure un posto per dormire, col camper non ho neppure questo vincolo. Mi basta trovare uno spazio libero fuori dalla sede stradale ed eccomi sistemato per la notte. Forse me la prendo tanto comoda perché non so neppure io dove voglio arrivare, mi basta andare in giro, lasciarmi assorbire dalla guida e dal paesaggio che mi scorre davanti e di fianco. Il guaio è che i ricordi non te li lasci dietro così facilmente come la vista di un villaggio o di una montagna. Pensi di averli superati e invece ritornano prepotenti a reclamare una parte della tua mente. E il ricordo di quel giorno è sempre lì a mescolarsi con il ricordo di altri momenti passati insieme a te. Forse perché proprio quel giorno io non c’ero e continuo a pensare che se ci fossi stato le cose sarebbero andate diversamente. Un controsenso, non credi? Un vero controsenso per uno come me che ha sempre creduto che la nostra vita sia dominata dal capriccio del destino. E se anche fossi stato lì quel giorno magari le cose sarebbero andate diversamente ma la conclusione avrebbe potuto essere comunque la stessa.

* * * Tenere in ordine, mantenere un minimo di pulizia, pensare a cosa mangiare: era molto più semplice la mia vita quando c’eri tu, Eleonora. In teoria dovrei avere tantissimo tempo a disposizione e invece, non so perché, la fine della giornata mi arriva addosso sempre troppo in fretta. A volte mi sembra che riuscissi a fare molte più cose quando avevo la scuola a portarsi via buona parte delle mie giornate. Mi accorgo che c’è un lievissimo velo di polvere sui mobili e allora mi metto a pulire e di lì a poco mi rendo conto che è ora di preparare il pranzo. Forse dovrei cercarmi una donna che venga a dare una

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sistemata ogni tanto ma mi sembra uno spreco di soldi. Non sono mai stato un amante dell’ordine, lo sai bene Eleonora. Non è un problema lavare quei pochi piatti e tegami alla fine di ogni pasto ma è un po’ più difficile riuscire a capire cosa mettere nella lavatrice e quale lavaggio scegliere. E ancor più difficile riuscire a evitare che resti qualche superficie coperta dalla polvere anche se mi era sembrato di aver pulito dappertutto. Però è la scelta che ho fatto io e la mia libertà comunque ha un prezzo che devo pagare. E se devo essere sincero non mi sembra neppure un prezzo così alto. Ho solo dovuto constatare che avevo ragione quando dicevo che una donna sola se la cava molto meglio di un uomo nelle incombenze più comuni. Per te era tutto normale: pulire, preparare il pranzo o la cena, mandare la lavatrice e stirare. Non mi pare che tu, Eleonora, avessi appeso in cucina l’elenco delle cose da fare giorno per giorno per tenere in ordine la casa. Eppure la casa era sempre in ordine perfetto. E io invece mi sono dovuto arrendere all’evidenza e adesso c’è una lavagnetta appesa al muro con l’elenco delle incombenze che mi toccano giorno per giorno. La decisione l’ho presa quando mi sono reso conto che non avevo neppure una maglietta pulita da indossare mentre il cesto dei panni sporchi ormai scompariva sotto la massa di lenzuoli e capi di vestiario che aspettavano di essere messi in lavatrice. E per fortuna che la lavanderia non costa molto e quindi pantaloni e camice li faccio lavare e stirare da loro. Ma per il resto mi è toccato impormi un minimo di programmazione. L’ostacolo più difficile da superare - lo devo ammettere - è stata la mia profonda pigrizia che mi ha sempre fatto posporre a un tempo futuro qualsiasi piccolo lavoretto si rendesse necessario. E tu non perdevi occasione per farmelo notare. Adesso mi capita così spesso di guardare la lavagnetta e pensare che quel lavoretto lì lo posso anche fare più tardi. Poi mi accorgo che è arrivata sera e il lavoretto non l’ho fatto e che domani mi toccherà dedicargli un po’ di tempo che invece avevo pensato di utilizzare in un altro modo e allora mi sono reso conto che non posso rimandare perché poi mi ritroverei con una tale quantità di cose da fare tutte insieme che ci perderei giorni prima di essermi rimesso in pari. E non credere che non mi costi uno sforzo da poco mettere a tacere quella vocina dentro di me che mi suggerisce di rimandare. Sì, lo so, posso immaginare la tua faccia con un sorriso ironico che si diverte a vedermi costretto ad ammettere che la mia profonda pigrizia non mi aiuta a vivere meglio.

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Il forno di Nunzia «Nessuna novità sul forestiero, Nunzia?» «Oh, dico! Son mica un carabiniere io! Se le cose non le sento qui dentro o da qualcuna di voi mica me le posso inventare! C’ho mica tutta ‘sta fantasia! E poi, se il forestiero vuole stare lontano da noi si vede che pensa di essere superiore. E uno che ragiona in quel modo lì, per me, può anche sparire che non lo vado a cercare di sicuro! Ma ci abita davvero in quella casa? E ci abita da solo?» «Ci abita sì. Non ci sei mai passata vicino? Guarda che non è mica brutta! Tutta di legno, sembra una di quelle casette sulle montagne svizzere. E sembra proprio che ci stia solo lui.» «Ho saputo che il maresciallo è andato a trovarlo, ma sua moglie non è riuscita a tirargli fuori molto. Solo che gli piace andare in giro in moto e suonare la chitarra. E che si è scelto quel posto proprio perché così non dà fastidio a nessuno se fa casino con la musica.» «Ecco vedi? Te l’ho detto che sembra uno di quei musicisti degli anni ‘60! Ma non ha una famiglia?» «Dice che ha un figlio che è una specie di scienziato dall’altra parte del mondo. Però neanche il maresciallo ha capito se sia vedovo o separato. Di sicuro in quella casa ci vive solo lui.» «Vedrete che non ci metterà molto a trovarne una che ci vada a stare. Un uomo non dura molto da solo senza una donna.» «Dì, Nunzia! Potrebbe provarci la Irene. Lui non sarà così giovane ma se è uno che ha un po’ di soldi magari lei si sistema. E magari, se ha qualche problemino col cuore, ci pensa lei a farlo partire del tutto e tenersi l’eredità! Se ci si mette di brutto, non c’è uomo che riesca a resistere a quelle due tette e quel culo che si ritrova!» «C’avevamo già pensato ma bisogna che troviamo l’occasione giusta. Certo che se non ci riesce la Irene non lo so come è messo quell’uomo!» «Se state parlando del forestiero qualcosa ve la posso dire anche io.» «To’, ve’ chi c’è! La Delina! Novità?» «Il forestiero ormai è diventato un cliente fisso nella mia lavanderia. Mica che porti molta roba! Jeans soprattutto e quasi tutti neri. E poi qualche camicia, mo mi sa che ne mette ben poche!» «E te ci sei riuscita a farlo chiacchierare un po’?»

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«Mica molto! Le prime volte mi ha detto di stirare pantaloni e camice e poi basta. L’ultima volta mi ha portato dei jeans che erano sporchissimi e mi ha detto che era scivolato con la moto dove c’era erba e fango. Io ho provato a farmi raccontare qualcosa ma lui ha detto solo che era stato per colpa della strada sporca di neve su nel trentino e che era stato fortunato a non farsi male. Allora io gli ho chiesto come fa ad andare in moto con ‘sto freddo e lui mi ha raccontato che c’è un raduno in Germania che lo fanno in mezzo alle montagne e che ci arrivano un mucchio di motociclisti da tutta l’Europa. Dice che sono sei o settemila e pensate che molti dormono nelle tende piantate sulla neve.» «Certo che ce n’è di gente matta in giro! E anche lui se fa delle robe così alla sua età mica deve essere molto normale!» «Comunque se si fa stirare i jeans e le camice vuol dire che una donna non ce l’ha, no?» «Così sembrerebbe.»

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4 L’ingresso di Mori nel bar fu sottolineato da un attimo di silenzio. Era la tipica reazione dei frequentatori ogni volta che un forestiero metteva piede nel loro “territorio”. Da quando poi era scoppiata la storia delle lettere anonime, qualsiasi estraneo veniva guardato con un misto di sospetto e di insofferenza. Il poliziotto si concesse un attimo per guardarsi intorno con calma. Il locale era esattamente come se l’era aspettato, simile alle migliaia di bar piazzati nel centro di un qualsiasi paesino italiano: qualche tavolino, un bancone, un videopoker. Ma i frequentatori abituali non avevano bisogno di altro. Si avvicinò al bancone e, dopo avere ordinato un caffè, chiese: «Mi sa dire come si arriva alla casa del professor Rastelli?» «Giornalista?» «No.» «E allora perché le interessa la casa di un morto?» «Curiosità.» Il barista appoggiò il caffè sul banco e, mentre gli voltava le spalle fingendo di avere altro da fare, mugugnò: «Se la faccia dire dal vigile che sta in piazza la strada per la casa del professore. I curiosi hanno già rotto i coglioni abbastanza con questa storia.» Il silenzio adesso era assoluto e gli sguardi indirizzati verso Mori non erano per niente amichevoli. Mentre girava il cucchiaino nella tazzina una voce alle sue spalle chiese «Curiosità o interesse professionale?» Mori si girò sorpreso verso l’uomo che aveva fatto la domanda. Non molto alto di statura, capelli grigi cortissimi e un fisico asciutto, un volto come tanti se non fosse stato per gli occhi di un grigio strano. Aveva un sorriso ironico stampato in faccia e lo guardava dritto negli occhi. «Dovrà scusare la scortesia del mio amico Sisto ma lui i giornali li legge poco. E poi la sua faccia non c’è molto spesso sui giornali, dottor Mori.»

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«E lei come la conosce, la mia faccia, signor…?» «Mi chiami pure Gusto. Io ricordo bene le facce di chi incontro. Non mi aspetto che lei ricordi tutte le facce che si vede davanti ma io e lei ci siamo incontrati un paio di anni fa. C’era di mezzo un tizio che diceva di aver comprato con la mia mediazione delle piantine che non sono proprio legali da coltivare. Fortunatamente quella volta sono riuscito a dimostrare che io gli avevo venduto solo il granturco da seminare e non le piantine che lui coltivava nel mezzo del campo sperando che il granturco fosse abbastanza alto da nasconderle. Ma questa è una storia passata. Mi scuserà se glielo chiedo, ma che cosa spera di trovare nella casa del professore? E ce le ha le chiavi per entrare?» «No, speravo di trovare qui in paese qualcuno che le avesse. Mi pare di aver capito che aveva una… compagna, mi sbaglio?» «Vero. E lei potrebbe essere una degli eredi visto che il figlio è lontano e si è fatto la sua famiglia. Sempre che non scappi fuori un testamento lasciato a qualcuno.» «Vedo che lei si tiene molto aggiornato su questa cosa.» «Mi piace seguire la cronaca locale. Allora, non ce lo vuol dire cosa spera di trovare nella casa del professore?» «Diciamo che mi piacerebbe farmi un’idea un po’ più precisa della persona e penso che mi aiuterebbe molto vedere il posto in cui abitava. E poi vorrei parlare anche un po’ con le persone di qui che l’hanno conosciuto.» «Be’, per quello non ci vorrà molto. Mica aveva tanti amici da queste parti! Ne aveva molti di più sparsi in giro per il mondo. In compenso stava sulle balle a molti, qui in paese. Comunque, se vuole vedere la casa, ce l’accompagno io. Non ho le chiavi per farla entrare, ma almeno potrà girarci intorno visto che ho quelle del cancello e del garage.» Mori pagò il caffè e si diresse verso la propria auto preceduto da Gusto che salì su una vecchia Vespa e andò a piazzarsi sul lato della strada aspettando che lui si accodasse. Quando arrivarono davanti alla casa del “professore” Gusto si accostò all’auto del poliziotto. «Se spera di potersi fare delle idee precise andando in giro a far domande, le dico subito che si sta illudendo. Nessuno le dirà nulla. Gli unici da cui potrà avere qualche informazione siamo io, il dottor Pericoli e forse Matteo, il ragazzo del benzinaio. Ma su Matteo non ci

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farei troppo conto. Troppo coinvolto sul fronte della gnocca locale, non so se mi capisce!» «Non molto, lo confesso.» «Prima o poi ci farei una chiacchierata anche con lui, se fossi in lei. Senta dottor Mori, a me il professore piaceva. Era uno che ci si poteva andare d’accordo. Bastava capirlo. Se c’è qualcosa che non quadra nella sua morte mi piacerebbe dare una mano. Io su questo paese so molte cose. La gente già pensa che io sappia parecchio ma nemmeno se lo immagina, le cose che so io. E meglio così, meglio che non sappiano. A qualcuno potrebbe dare fastidio.» «Non capisco dove voglia arrivare…» «Glielo dico subito. Lei dovrà interrogare un po’ di gente, giusto?» «Diciamo di sì.» «Ecco, diciamolo. Allora, prima di interrogare qualcuno lei si faccia una chiacchierata col sottoscritto. Vedrà che le domande le verranno più facili. E magari anche più giuste.» «E cosa si aspetta in cambio di questa sua… collaborazione?» «Io? Niente! Mi aspetto solo che lei scopra cosa è successo davvero. Perché questa è una cosa che mi dà fastidio. Io di questo paese so tutto e pensavo di sapere tutto anche sulla morte di Roberto e invece adesso sembra che ci siano chissà quali misteri dietro alla sua fine. E mi dà un fastidio della madonna. Ecco perché le sto mettendo a disposizione tutto quello che so. E le ripeto che è parecchio.» «Penso che la sua conoscenza potrebbe anche tornare utile ma come faccio a essere sicuro che lei non mi racconta balle?» «Deve solo fidarsi.» «Allora incominci a dirmi qualcosa del professor Rastelli.» «A prima vista Roberto poteva sembrare scorbutico e anche parecchio antipatico. Però io dicevo che era come le castagne: se si riesce ad aprire il riccio spinoso e si toglie anche la buccia amara si scopre qualcosa di veramente buono. Secondo me la vita gli doveva aver tirato qualche brutto scherzo, qualcosa che aveva a che fare con la moglie, ma lui non ne voleva proprio parlare. Non era uno che andava in cerca di conforto. Era uno che cercava la pace della solitudine.» «Mi scusi, ma uno che cerca la solitudine non si imbarca in una relazione amorosa con una donna solo pochi mesi dopo essersi sistemato in una casa nuova lontana dal mondo.»

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«Relazione amorosa? Se si riferisce alla rumena, non ne sarei mica così sicuro!» «Vuol dirmi che non c’era niente fra quei due?» «Di sicuro c’era amicizia ma non c’era una relazione come dice lei. Io non ci metterei la mano sul fuoco perché ho imparato che non si può mai essere sicuri di niente però…» «Però quello che ha scritto le lettere anonime sembra sicuro che invece ci fosse.» «Quello o quella? Perché non potrebbe essere una donna a scrivere quelle lettere? Magari una donna gelosa? Vede, un uomo solo, un po’ avanti con gli anni ma ancora in discrete condizioni fisiche e apparentemente benestante, può anche suscitare un certo interesse in qualche donna. Magari una che cerchi di sistemarsi oppure una che voglia provare a dare un po’ di… diciamo così… animazione a una vita un po’ noiosa.» «Non mi aspettavo di trovare un sociologo in un bar di paese.» «Ma quale sociologo! Mi piace guardarmi attorno e scoprire un po’ la gente del mio paese. In ogni caso si tolga dalla testa l’idea della relazione amorosa. Le garantisco che non ci sono state donne nella vita del professore in questo paesino. Non nel senso che intende lei.» «Eppure, come dice lei, poteva avere una certa attrattiva…» «Oh sì, quella ce l’aveva ma proprio non la usava. Le dirò di più: adesso che ci penso le donne erano un argomento che non lo interessavano proprio. Anche quando lo stuzzicavamo un po’ lui cambiava argomento. Moto, musica, viaggi - in moto e col camper - lunghe passeggiate nel bosco e le serate nel garage del dottore ma di quelle faremo in tempo a parlare un’altra volta. Queste erano tutte le cose che lo interessavano. E adesso mi dice chi sarà il primo che interrogherà?» «Avevo appunto pensato al dottore, quello che è stato chiamato appena hanno trovato il cadavere.» «Il dottor Pericoli? Allora si sieda perché ci sarà da dire parecchio. Dovremo tornare indietro di parecchi anni per capire qualcosa di quell’uomo ma cercherò di non metterci troppi particolari. Bisogna ritornare a qualche anno prima della guerra, quando ancora era il figlio del medico condotto e frequentava il liceo giù in città. Si era innamorato perso di Rebecca, una ragazza di un paio d’anni più giovane di lui. L’unica figlia di una delle famiglie più ricche del

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circondario. La famiglia del dottore però non vedeva di buon occhio quella passione del figlio e questa cosa non faceva che rinforzarla ancor di più, anche perché sembrava proprio che la ragazza lo ricambiasse. Le sembrerà strano che una famiglia benestante non fosse entusiasta del possibile matrimonio del figlio con l’unica erede di una vera e propria fortuna. E tenga presente che la ragazza oltretutto era un vero splendore. Bellissima, riservata, intelligente ed educata. Che cosa si può volere di più? Il difetto grosso della ragazza era di essere di famiglia ebrea mentre il medico condotto era fra i più accesi sostenitori del fascismo, tanto è vero che era stato per un paio d’anni il federale del paese e sembrava proprio che sarebbe arrivato in alto, almeno nella regione. Quando il regime fascista promulgò le leggi razziali il mondo crollò per i due innamorati. La famiglia di lei decise di fuggire da dei parenti svizzeri e una notte sparirono dal paese. Il ragazzo cercò di seguirli a distanza di un paio di giorni ma il padre lo fece fermare dai suoi “camerati” e in pratica lo chiuse in casa sorvegliato a vista notte e giorno. Alla fine della guerra Pericoli sperò che Rebecca, il suo grande amore, si facesse viva e gli dicesse che sarebbe tornata. Invece il tempo passava e di Rebecca nemmeno l’ombra. Appena laureato Pericoli si mise in testa di andarla a cercare e riuscì a contattare quei parenti svizzeri di cui lei gli aveva parlato. Scoprì così che nessuno della famiglia era arrivato in Svizzera. Il ragazzo si mise a fare ricerche dappertutto e trovò le prime tracce a Fossoli. Quello però era stato un campo di transito e allora Pericoli allargò le sue ricerche ai campi di sterminio in cui erano stati spostati quelli passati da Fossoli. E purtroppo, quando la speranza di un miracolo sembrava crescere, trovò le tracce di Rebecca e della sua famiglia a Ravensbruck, l’ultimo campo che gli era rimasto da controllare. Ma non si diede per vinto. Continuò a cercare finché non trovò un superstite che aveva condiviso con la famiglia di Rebecca tutto il calvario della deportazione e poi del campo di sterminio. E davanti alla sua testimonianza dovette arrendersi. Tornò qui, a Montesangiorgio, alla casa che i suoi avevano abbandonato precipitosamente quando suo padre aveva capito che il fascismo era al capolinea e che in paese c’era parecchia gente che aspettava da tempo l’occasione per saldare i conti. Ma nessuno aveva dei conti in sospeso con lui perché tutti sapevano dei suoi contrasti col padre e lui riprese possesso della casa e riuscì a ottenere la condotta di medico che era stata di suo padre fino a qualche anno prima. Da quel giorno ha sempre

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vissuto da solo. Tre volte a settimana la rumena va a fare le pulizie della casa ma per il resto il dottor Pericoli vive fedele al ricordo del suo unico amore e probabilmente è l’unica persona che è profondamente rispettato da tutto il paese e sul quale nessuno si azzarda a dire malignità.» «Un uomo come ne sono rimasti pochi, mi par di capire.» «Lo tratti bene. Non ne troverà altri come lui in giro.» FINE ANTEPRIMA. CONTINUA... Se ti diletti a scrivere recensioni, puoi leggere questo e-book gratuitamente con l'iniziativa CORREVOCE. Vai su www.0111edizioni.com e leggi come fare.