Sociologia e conflitti

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CapItolo I

I pensatorI soCIalI ClassICI, Il ConflItto e la guerra

Dall’ottimismo ottocentesco alla catastrofe della ‘grande guerra’ Nel pensiero sociologico delle origini e dei ‘padri fondatori’ difficil-

mente si riscontra un interesse autonomo a formulare una teoria del conflitto sociale1 e della guerra, né si individuano con chiarezza filoni di studio o ‘scuole’ al riguardo. Tutt’al più è possibile ricostruire macro li-nee di approccio che permettono di attribuire significazioni coerenti alle posizioni in argomento, collocandole però all’interno di più ampie teo-rizzazioni sulla società e sul divenire sociale. Infatti ognuno degli auto-ri qui ricordati (ma potremmo menzionarne anche molti altri) esami-na il conflitto sulla base della propria angolazione teorica, in relazione ai propri interessi conoscitivi, allo ‘spirito del tempo’ e al proprio coinvol-gimento negli eventi conflittuali di cui è stato testimone; conseguente-mente i diversi contributi si muovono all’interno di un continuum mol-to ampio.

La sociologia, come è noto, si propone e si afferma come forma par-ticolare di conoscenza in un periodo in cui un clima sociale fiducioso, nutrito di aspettative di un futuro migliore, a loro volta alimentate dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, rendeva possibile iniziare un pro-cesso di reinterpretazione e di ridefinizione della società alla luce dei problemi sociali emergenti, delle istanze di emancipazione sempre più diffuse e pressanti e delle nuove esigenze che andavano prendendo for-ma. In questo clima sono stati in molti a credere nella possibilità di rea-lizzazione di una società ‘perfetta’, senza violenza e senza contraddizio-ni in cui guerra e conflitto potessero essere solo un ricordo.

1 Ovviamente fa eccezione il pensiero di Karl Marx.

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8 Maria Luisa Maniscalco

Rilevanti esempi in tal senso possono essere considerati Karl Marx e Auguste Comte; l’uno teorico della moderna società capitalistica, l’al-tro della società industriale; sia pure da background cognitivi profon-damente diversi e da posizioni diametralmente opposte, erano entram-bi fiduciosi messaggeri di una fuoriuscita della società dalle logiche del conflitto e della guerra. Se Marx considerava la violenza ‘ostetrica del-la storia’, secondo un suo noto detto, è pur vero che è stato un convinto sostenitore del fatto che l’assunzione del potere da parte del proletaria-to avrebbe prodotto una rottura definitiva rispetto al passato, eliminan-do il carattere conflittuale costitutivo dei rapporti socio-economici di tutte le società storicamente esistite. Comte, a sua volta, con dichiarata certezza, affermava l’incompatibilità della guerra con l’evoluzione delle popolazioni civili e con il progresso della scienza e della tecnica e, quin-di, la relativa scomparsa delle sue cause. In sintesi, rivoluzione cruenta (Marx) e lenta trasformazione culturale e strutturale (Comte) avrebbe-ro dovuto produrre lo stesso esito della scomparsa dei conflitti armati.

Molti altri autori convinti che l’avvento della società industriale – e dell’emergere con essa di un dominio della razionalità sulle passio-ni – avrebbe avuto come effetto l’eliminazione della guerra (come, per esempio, l’evoluzionista Herbert Spencer il cui pensiero qui non viene però analizzato2) non hanno prestato reale attenzione alle dinamiche del conflitto, al suo possibile camuffarsi, trasformarsi, e all’eventualità che uno studio attento avrebbe potuto contribuire ad approntare stru-menti per la realizzazione di situazioni più pacifiche o comunque con-correre a una sua gestione costruttiva. Questa convinzione è invece ben presente in tutti teorici della peace research, cioè in quegli studiosi con-temporanei che, come vedremo, analizzano la struttura e la dinamica dei conflitti con il fine di contribuire alla pace.

2 Herbert Spencer (1820-1903) concepiva come sbocco al processo sociale in atto sia la costituzione, a livello internazionale, da parte degli stati avanzati, di una confederazione dalla quale le guerre sarebbero state bandite, sia l’emer-gere, a livello individuale, di personalità dagli elevati principi morali e dotate di capacità di autocontrollo, in grado perciò di organizzarsi in società in cui la libertà di azione individuale e il contenimento dell’aggressività assicurassero la coincidenza delle esigenze pubbliche con quelle private.

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Fiduciosi nella forza della razionalità e nell’avanzare della società in-dustriale, i primi sociologi tendevano a ‘liquidare’ la guerra e il conflitto violento come un retaggio di altre epoche che l’evoluzione storica e una diversa mentalità avrebbero progressivamente azzerato, in maniera per così dire automatica. La pace all’interno della società e tra gli stati sareb-be stata l’effetto ‘naturale’ di una diversa organizzazione della vita e del-la società. La storia, come è noto, smentì clamorosamente le loro previ-sioni utopiche per lasciare spazio alle riflessioni di quanti – più o meno riluttanti – vedevano nella guerra e nella violenza un elemento inelimi-nabile della realtà umana.

Gli autori che li hanno seguiti, i grandi ‘padri’ della sociologia – Dur-kheim, Pareto, Simmel, Weber – si sono trovati a vivere una più matu-ra consapevolezza circa l’ambiguo destino della ragione, dello sviluppo della società industriale e della modernità; elaborarono infatti un pen-siero fortemente segnato dalla loro posizione all’interno di un mondo europeo ormai in crisi, dalla situazione che osservavano e che ricono-scevano e dal contesto intellettuale nazionale in cui operavano. Distan-ti uno dall’altro – negli approcci, negli interessi conoscitivi, nella webe-riana relazione di valore – sono accomunabili da un’accettazione che definirei quasi ‘naturalistica’ del conflitto che viene assunto come un dato di fatto (normale o patologico che sia, per utilizzare categorie dur-kheimiane), cioè come una componente ineliminabile della vita socia-le. Dalla sfiducia di Pareto nei confronti del pacifismo alla concezione di Weber della lotta per il potere come oggetto principale della politi-ca, all’attenzione di Simmel per le dinamiche conflittuali e per il ruolo che giocano nel definire la struttura dell’interazione, contrapposizioni e violenza si configurano nel pensiero sociologico di quel tempo (con qualche eccezione di cui Durkheim è l’esempio più noto) come parte es-senziale della società e suo motore ineliminabile. Ciononostante, e sep-pure consapevoli della crisi che stava attraversando la società europea e delle gravi tensioni che la laceravano, si trovarono in un certo senso im-preparati di fronte alla tragedia della prima guerra mondiale.

Coinvolti nella catastrofe di quel terrificante conflitto, pur cercando di non rinunciare alla loro identità di uomini di scienza, vissero a pie-no la guerra e ne furono profondamente presi; si dedicarono (con più o meno equilibrio) a sostenere la causa nazionale. Con la sola eccezione

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dell’italiano Pareto (più ironico, disincantato e, in un certo senso, ‘co-smopolita’) la scelta patriottica sembrò, al francese e ai tedeschi, sia pure con enfasi diversa, quasi uno sbocco naturale, una presa di posizione ob-bligata e, perciò, in un certo senso irriflessa. Forse anche per questo, a confronto dell’elevatezza e dell’ampiezza delle teorizzazioni elaborate in altri campi e in gran parte prima del 1914,3 il loro discorso sulla guerra risulta piuttosto fragile da un punto di vista scientifico. Paradossalmen-te fu proprio la via indicata da Pareto, con la sua critica corrosiva nei ri-guardi delle potenzialità civilizzatrici della ragione e del progresso scien-tifico-tecnologico, a tracciare una linea che negli anni vedrà dolorosi ri-scontri e, non meno pessimistici, contributi di approfondimento.

Le analisi e le posizioni degli autori presentate in questa parte sono, come già detto, strettamente collegate agli interessi conoscitivi del tem-po, risentono fortemente del clima culturale dell’epoca e del coinvolgi-mento personale di ciascuno. Incentrate su un discorso macrosociolo-gico, metodologicamente orientato alla ricostruzione storica e all’osser-vazione soggettiva di fattori socioculturali e di caratteristiche di conte-sto che si ritenevano alla base dell’aggressività di una determinata co-munità nazionale, erano fortemente intrise (come era d’altronde atten-dibile) di assunti di valore.

Pur con questi limiti, ognuno degli autori qui presentati porta la ric-chezza del proprio contributo all’analisi dei fenomeni conflittuali. Una rilettura critica delle argomentazioni centrali di questi classici sui con-flitti e sulla guerra può gettare una luce su questioni ancora oggi presen-ti negli studi in argomento. In altri termini, gli studi più recenti dedicate ai temi del confronto violento tra gruppi e collettività, pur presentando forti elementi di novità, non sono del tutto fuoriusciti dall’alveo com-plesso e frastagliato segnato da questi primi autori in cui hanno trova-to modo di riflettersi, sia pure in forma embrionale, molte delle proble-matiche che hanno attraversato il secolo ventesimo: la violenza di mas-sa, la spinta propulsiva dei nazionalismi, i processi ricorrenti di deuma-nizzazione del nemico.

3 Max Weber costituisce un’eccezione dal momento che la sua opera Wirtschaft und Gesellschaft (Economia e società) fu pubblicata dopo la sua morte nel 1922 a cura di sua moglie Marianne.

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I sociologi ricordati in questa prima parte del capitolo si interessano alla guerra, intesa in senso tradizionale come conflitto armato tra stati sovrani, e al conflitto sociale, di carattere rivoluzionario o non. Le loro diverse risposte e le loro – talvolta discutibili – prese di posizione aiuta-no a comprendere come sia facile giungere, sotto il duplice impulso del-la paura e del narcisismo di gruppo, allo scontro violento, abbandonan-do ogni sensibilità e ogni capacità di identificarsi con gli altri. Appare evidente come la diffusa razionalizzazione sociale, l’aumento del benes-sere e l’evoluzione scientifica non avessero affatto ‘raffreddato’, nono-stante alcune letture utopiche, il tono delle relazioni tra gruppi e tra sta-ti, inaugurando invece un trend storico in cui progresso tecnologico e coinvolgimento di massa hanno segnato in maniera sempre più cruen-ta i conflitti armati.

Auguste Comte e la ‘scomparsa’ della guerraAuguste Comte (1789-1857) situa la riflessione sulla guerra all’in-

terno della sua teoria evolutiva dei tre stadi (teologico, metafisico, posi-tivo) che hanno caratterizzato la storia dell’umanità.4 Come primo im-portante punto di riflessione ne risulta che le finalità e le modalità del-le guerre mutano significativamente in relazione ai cambiamenti delle condizioni sociali, economiche e politiche; nel suo modello ognuno dei tre stadi evidenzia caratteri propri che influenzano incisivamente le di-sposizioni del tempo nei confronti della guerra.

Lo stadio teologico, caratterizzato da una netta preponderanza della dimensione emotiva e da un pensiero guidato dalle idee religiose, rap-presenta l’ambito che più degli altri favorisce l’attività bellica. Le pas-sioni ‘forti’ – volontà di potenza, terrore, ira – tipiche di questo stadio trovano piena manifestazione negli atteggiamenti e nei comportamenti degli uomini dediti alle armi. Esaminando i tre sistemi che, a loro volta, costituiscono lo stato teologico, Comte rileva che il politeismo presen-ta forti legami con la guerra predatoria e offensiva. La guerra costituiva per le popolazioni antiche l’attività principale dal punto di vista sia eco-

4 Comte sviluppa e conferma la legge dei tre stadi nel Cours de philosophie positive pubblicato dal 1830 al 1842 (tr. it. 1979) seguendo le linee che aveva già precedentemente esposto negli Opuscules del 1820-1826.

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nomico, sia politico e il politeismo si configurava come un tipo di cre-denze adeguato a un tempo di caos e di incertezze. Secondo Comte, lad-dove regnano queste condizioni e la giustificazione logica degli eventi può essere difficoltosa, l’imperscrutabilità delle divinità e il loro volere capriccioso può rappresentarne una valida giustificazione.

Il passaggio allo stadio metafisico è stato accompagnato da un com-plesso processo di transizione dalla guerra offensiva a quella difensiva. Il passaggio non è senza significato: attesta infatti la perdita o comunque il declino della guerra come attività economica. Anche in questa con-tingenza il ruolo della religione – e specificamente il monoteismo – è stato rilevante. Comte definisce l’avvento del monoteismo come il pri-mo grande tentativo dell’umanità di elaborare un sistema razionale e pa-cifico. Per quanto riguarda l’Europa l’espansione e l’istituzionalizzazio-ne del cristianesimo ha costituito un elemento di estrema rilevanza per l’evoluzione della condotta bellica dalla caduta dell’impero romano a tutto il medioevo. In maniera graduale, ma costante, secondo Comte, la Chiesa riuscì a imporre il primato spirituale su quello temporale, modifi-cando contemporaneamente anche il comportamento e l’atteggiamento dei credenti nei confronti delle pratiche quotidiane e della guerra.

A livello politico, la Chiesa volse la propria azione al contenimento delle attività belliche che venivano considerate come una diminuzione dell’influenza religiosa sulla politica. Per il sociologo e filosofo francese anche le crociate non rappresentano un’eccezione a questo orientamen-to di fondo; esse, a suo parere, furono vissute come logica – doverosa – conseguenza della tutela per quell’atto di devozione di rilevante valore che è il pellegrinaggio. Anche se non obbligatorio, come per il musul-mano, il viaggio nei luoghi santi era una pratica fondante per i cristiani del tempo. L’origine delle crociate sarebbe così da ricercarsi nel timore di comportamenti ostili nei confronti dei pellegrini cristiani e dei luoghi santi, in seguito a un cambiamento ai vertici del potere musulmano.

Durante tutto il medioevo l’azione della Chiesa a favore del passag-gio dalla guerra offensiva a quella difensiva è stata rinforzata da una situazione politica caratterizzata dall’esigenza di risolvere il problema della salvaguardia delle terre conquistate. In questo periodo, come è noto, l’autorità temporale si decompose in sovranità territoriali frazio-nate, con una pluralità di centri di potere che si sovrapponevano in un

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complesso sistema di gerarchie. Con il feudalesimo e i forti legami per-sonali tra il signore e i vassalli, l’attività militare prevalente si restrinse alla difesa del proprio territorio, anche se non mancavano dispute circa i confini di quest’ultimo. Sebbene come già detto prevalentemente di-fensiva, la guerra continuava a mantenere una certa centralità nella vita delle popolazioni e con essa la violenza. Comte sostiene che per giun-gere a un significativo movimento di rifiuto della guerra si dovettero produrre mutamenti sociali favorevoli all’estinzione della mentalità che sosteneva atteggiamenti di timore reverenziale, di soggezione/deferen-za caratterizzanti le relazioni sudditi-sovrani; in altri termini il movi-mento di emancipazione dalla minorità dell’individuo doveva emergere con chiarezza e affermarsi. In questo processo, la riforma protestante ha giocato un importante ruolo. Ancora una volta il sistema teorico com-tiano fa riferimento alla religione come importante elemento di trasfor-mazione socioculturale. Sia pure come conseguenza inintenzionale, per utilizzare una categoria mertoniana (Merton, 1957), la riforma produs-se una mentalità innovatrice a cui si deve anche il cambiamento di ap-proccio al problema della guerra; l’individualismo e l’autonomia della coscienza individuale erano antitetici alla mentalità militare della disci-plina e dell’eterodirezione. Auguste Comte parla chiaramente di ‘anti-patia naturale’ del protestantesimo per qualsivoglia attività bellica, fat-ta eccezione per le guerre intraprese con lo scopo di far trionfare il nuo-vo spirito filosofico (il che potrebbe intendersi, in termini più recenti, come guerre di liberazione da un’oppressione culturale).

Comte mette in guardia sul pericolo di scambiare l’ardore cruento delle guerre di religione con una predilezione per la guerra; si tratta in realtà di conflitti civili per la difesa di un principio e, in quanto tali, non invertono il trend di lungo periodo del declino dello spirito bellico. È interessante notare che egli colloca proprio in questo periodo l’origine delle guerre rivoluzionarie (in cui conflitto civile interno e guerra ester-na si sovrappongono) in quanto la difesa di un principio ritenuto fon-damentale per la vita sociale coinvolge attivamente tutti gli uomini per quanto pacifiche possano essere le loro inclinazioni.

In un profondo processo di trasformazione degli assetti societari, i guerrieri perdono parte delle loro funzioni, per divenire semplici stru-menti; in questa fase sono i giuristi ad acquisire importanti status all’in-

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terno della sfera politica. Questi, provenienti da una educazione essen-zialmente metafisica, ben rappresentano lo spirito del tempo. Il decli-no della guerra, iniziato in quel periodo, trova il suo sbocco finale nello stadio positivo che lentamente, ma inesorabilmente, ha sostituito quello metafisico; lo stadio positivo è caratterizzato da una preponderante at-titudine della popolazione alla pace e alle attività pacifiche. Comte indi-vidua soprattutto nello ‘spirito dell’industria’ un elemento importante contro la guerra, per la caduta di interesse per la vita militare che pro-duce. L’industria porta alla scomparsa dei motivi economici che sono all’origine di molte guerre – ne rappresenta un’equivalente funzionale – e crea condizioni sfavorevoli allo sviluppo di un ethos guerresco in senso stretto. L’evoluzione politica dal diciottesimo secolo in poi, nono-stante le lotte a cui pure ha dato vita, con il pragmatismo economico e un orientamento favorevole al compromesso, rappresenterebbe una si-gnificativa testimonianza del predominio dell’interesse per l’attività in-dustriale sugli interessi di potenza. La concezione comtiana della società industriale si lega strettamente all’idea che la guerra fosse diventata ana-cronistica: a suo avviso le guerre commerciali, le attività belliche colle-gate al colonialismo5 e le crisi rivoluzionarie, seppure ne testimoniano la permanenza, segnano la fine del predominio teologico-militare.

Concludendo, il modello elaborato da Comte, sia pure con tutti i li-miti utopici che presenta, fa emergere alcuni interessanti spunti di ri-flessione: innanzitutto la guerra, come attività di gruppo, svolge funzio-ni economiche (come strumento per procacciarsi risorse), sociali (come mezzo per educare ad attività regolari), politiche (come fonte di affer-mazione di potere) che in alcune situazioni si configurano raggiungibili esclusivamente, o comunque in maniera più agevole, solo tramite essa; in secondo luogo la guerra, per affermare a pieno il suo potere, necessita di una mentalità a essa adeguata, diffusa in tutta la società. Comte, nella sua enfasi di profeta della pace, non poteva certo prevedere le capacità

5 Comte fu molto contrario al colonialismo europeo; riteneva estremamente nocivo imporre i propri modelli culturali e il proprio dominio con la forza delle armi. Era convinto che la politica imperialistica non solo avrebbe ritardato il naturale processo di pacificazione, ma sarebbe stata foriera di disastri nei paesi colonizzati e per i colonizzatori.

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di morfogenesi e di trasformazione che la guerra e l’ethos militare han-no dato prova di possedere.

Infine, per rendere un qualche riconoscimento all’‘inventore’ del ter-mine sociologia, va ricordato che se la sua utopia pacifista, come ogni utopia, ha rivelato la sua fallacia a confronto con la realtà degli eventi che si sono succeduti, un’altra sua profezia ha avuto una sorte miglio-re. Comte prevedeva che i conflitti tra i popoli dell’Europa occidentale – che definiva l’avanguardia dell’umanità – sarebbero scomparsi; questa previsione ha trovato nel processo di unificazione europea, iniziato cir-ca un secolo dopo la sua scomparsa, una soddisfacente realizzazione.

Karl Marx: il conflitto come motore della storia Karl Marx (1818-1883), altro figlio dell’Europa industriale, sia pure

con altri presupposti scientifici e con tutt’altro intento, condivideva l’ot-timismo di Comte sul tema della possibile emancipazione dell’uomo che, liberato dalle catene della sua millenaria schiavitù, avrebbe portato finalmente a dare vita a una pacificata società degli uguali. Forte della sua vis polemica e del suo spirito rivoluzionario, Marx ha inaugurato un’im-portante tradizione sociologica di studi sui conflitti (in special modo sui conflitti rivoluzionari e sulle guerre civili) all’interno della società mo-derna, abbandonando la dimensione esclusivamente filosofica che li ave-va caratterizzati per secoli. Ha indirizzato infatti la sua analisi verso le di-mensioni concrete delle basi materiali della società che generano e dan-no forma ai rapporti tra gli uomini, alle ingiustizie e allo sfruttamento.6

La sua teoria della società, del conflitto e della rivoluzione è incardi-nata in un’antropologia materialistica per la quale l’uomo è un essere che ha fondamentalmente bisogno di cibo, vestiario, abitazione; il che por-ta a rendere la produzione dei beni necessari alla soddisfazione di que-sti bisogni la base e la trama della vita sociale. Va però considerato che la creazione di beni materiali non è illimitata, in quanto risulta condizio-nata dalle diverse forze produttive, cioè da tutto ciò che, in un dato con-testo, concorre alla loro realizzazione: dalle ricchezze naturali delle ma-

6 Le idee fondamentali del pensiero di Karl Marx sono esposte già chiara-mente nel Manifest der Kommunistischen Partei pubblicato in tedesco a Londra nel 1848 (Manifesto del partito comunista, tr. it., 1953).

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terie prime alle abilità e alla conoscenza, dagli impianti e dalle tecnolo-gie ai diversi modi di organizzare il lavoro. Marx sottolinea come nella storia è stato riscontrato che le capacità produttive variano sensibilmen-te nel tempo e da società a società e, generalmente, tendono ad aumen-tare con il crescere del progresso tecnico e scientifico. Ne consegue che, a una determinata fase di sviluppo storico delle forze produttive, corri-sponde un determinato tipo di rapporti di produzione, cioè di rappor-ti stabiliti dagli uomini per assicurare un’organizzazione in grado di for-nire i beni necessari. Tali rapporti, che investono un ampio insieme di elementi, comprendenti fondamentalmente la proprietà e la ripartizio-ne dei redditi, ma non soltanto, sono per loro natura contraddittori e ge-nerano conflitti tra gruppi portatori di interessi divergenti che, in linea di massima, si suddividono in sfruttatori (classe dominante) e sfruttati (classe dominata).

La sfera economica – forze produttive e tutto ciò che concorre alla produzione – è la base della società e della politica; i singoli individui, i gruppi e le istituzioni trovano nella struttura economica l’origine pro-fonda del loro essere e della loro organizzazione collettiva. A loro volta la politica e lo stato sono tematizzati come fenomeni secondari – sovra-strutturali – rispetto ai fenomeni economici e sociali considerati invece essenziali, strutturali e strutturanti. Marx considera il potere politico – e quindi lo stato – come l’espressione dei sottostanti rapporti di forza eco-nomici e sociali: esso è lo strumento con cui la classe dominante attiva e mantiene il proprio dominio, realizzando lo sfruttamento dei sottopo-sti. Nel dispiegare le sue analisi e le sue riflessioni cerca in ogni occasione di rintracciare anche nei conflitti propriamente politici l’espressione di profondi contrasti tra gruppi sociali, portatori di interessi antagonistici; in altri termini in tutto l’insieme degli scritti di Marx, il primato dell’ele-mento sociale ed economico è ricorrentemente sottolineato. Infatti tutta la sua riflessione sociologica è incentrata sulla classe e sulla lotta di classe. La classe come soggetto storico e la lotta di classe come modalità di inte-razione sono al centro del divenire storico in generale e del capitalismo in particolare. Non si può comprendere la società e la sua evoluzione se non ci si riferisce al funzionamento del suo sistema economico e delle re-lative classi in contrapposizione. Come la sua analisi descrittiva, anche il suo modello di spiegazione della dinamica della realtà sociale e del mu-

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tamento storico si basa sulla struttura economica: dal suo funzionamen-to e dalle contraddizioni che genera si creano le condizioni che portano al conflitto e, quindi, alla rivoluzione, cioè a un cambiamento profondo e violento. Questa struttura economica, sia pure inizialmente creata da-gli attori sociali per far fronte ai loro bisogni primari, finisce poi per im-porsi a essi dall’esterno, assumendo connotati oggettivi che rendono dif-ficile la comprensione del suo carattere comunque storico, contingente e creato dagli stessi attori sociali e dalle forze di produzione che essi muo-vono. Ciò rende meno automatico il processo di ‘naturale’ sovvertimen-to delle condizioni di sfruttamento che la configurazione dei rapporti di produzione pro tempore consolidata genera; questo sovvertimento ne-cessita di un elemento volontaristico e di una maturazione nella coscien-za della classe sfruttata. Marx reputa antagonismi e conflitto come il vero ‘motore’ della storia (anzi, nelle sue parole, la storia di ogni società è storia della lotta di classe, cioè in altri termini della guerra civile) e ne teorizza un macro-modello secondo il quale il conflitto fondamentale, primario, va fatto risalire alla contraddizione tra le forze e i rapporti di produzione. Gli attori di questo conflitto sono due classi antagoniste: la classe dominante che detiene i mezzi di produzione e la classe sfrutta-ta che è solo forza lavoro. Il modo di produzione cambia sotto la spin-ta dello sviluppo tecnologico, della divisione e della specializzazione del lavoro, ma lo sfruttamento messo in atto dalla classe dominante alie-na la classe subalterna da quel modo di produzione. Questo processo la porta a prendere, sia pure faticosamente, coscienza della propria situa-zione, cioè della propria posizione di classe, dello sfruttamento a cui è sottoposta ma, anche, della forza storica che rappresenta; la progressi-va crescita nella consapevolezza (nei termini di Marx il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé7) conduce inevitabilmente alla rivoluzione.

7 Marx parla di ‘classe in sé’ per indicare l’aggregato oggettivo di indivi-dui che occupano la stessa posizione nel sistema produttivo, e di ‘classe per sé’ quando si riferisce a un insieme di individui che agiscono come un attore storico, consapevole e in grado di coordinare le proprie azioni. Nel primo caso si tratterebbe di un insieme di individui coinvolti in un conflitto latente o in una situazione di oppressione/sfruttamento strutturale; nel secondo di un at-tore collettivo dotato di coscienza dei propri bisogni ed esigenze e in grado di instaurare relazioni cooperative o conflittuali con altri attori.

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Lo schema del divenire storico elaborato da Marx non ha mai escluso la presenza di altri gruppi sociali, ma non prevedeva che essi potessero presentare ruoli significativi, tanto meno quello di ‘terzo’ che può atte-nuare il livello di scontro.

L’andamento del conflitto da lui delineato segue dinamiche di pola-rizzazione e spiralizzazione; infatti la lotta di classe tende verso la sem-plificazione e i diversi gruppi sociali sono naturalmente portati a coagu-larsi intorno ai due maggiori antagonisti.

Nella società capitalistica a lui coeva (dove l’elemento tecnologi-co e l’accumulazione delle ricchezze conoscono le espressioni storica-mente più elevate) la contrapposizione tra le due classi vedeva come protagonisti la borghesia capitalistica e il proletariato: la prima autrice del sistema capitalistico, il secondo a esso soggetto. Questa situazione se da una parte era simile a quelle riscontrabili in ogni tempo e luogo, dall’altra presentava caratteri di assoluta novità.

La borghesia infatti, contrariamente alle altre classi dominanti che l’avevano preceduta, non poteva mantenere il suo dominio senza ri-voluzionare costantemente gli strumenti di produzione e quindi i rap-porti di produzione e l’insieme dei rapporti sociali. Ma le diverse com-ponenti del sistema produttivo non si modificano con lo stesso ritmo, creando profonde contraddizioni sulle quali si radica il conflitto essen-ziale. Inoltre, secondo Marx, il regime capitalistico è capace di produr-re sempre di più, ma, a dispetto dell’aumento progressivo di ricchezza, fa crescere anche la miseria della maggioranza. Lo sviluppo delle for-ze produttive avrebbe perciò costituito la molla necessaria per il movi-mento storico; tramite la pauperizzazione crescente, avrebbe condotto all’esplosione rivoluzionaria e all’avvento, per la prima volta nella sto-ria, di una società non antagonistica.

Secondo Marx la borghesia aveva svolto un’importante funzione storica, ma questa funzione stava passando al proletariato. Il proletaria-to, classe in sé, avrebbe quanto prima assunto la consapevolezza della classe per sé e avviato un processo rivoluzionario di cambiamento pro-fondo e risolutivo.

Questa sua convinzione gli derivava anche dall’esperienza storica che si trovò a vivere; Karl Marx partecipò intensamente agli eventi del pe-riodo tra il 1848 e il 1851 che furono caratterizzati in Europa da profon-

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di e significativi rivolgimenti.8 Condivise attivamente gli avvenimenti in Germania, ma, da profondo conoscitore della cultura e dei rivoluzionari francesi, dedicò grande attenzione anche agli eventi di quel paese. Inol-tre, essendo fermo sostenitore del carattere internazionale della rivolu-zione, si sentiva molto coinvolto nella crisi francese. Coglieva in quei fatti un’ulteriore tappa del processo storico rivoluzionario: nella rivoluzione in atto vedeva emergere il protagonismo del quarto stato dopo la vittoria del terzo; dalla rivoluzione del 1789 contro l’aristocrazia si stava passan-do alla rivoluzione contro la borghesia, dalla sovversione dello stato mo-narchico alla sovversione dell’ordine sociale borghese nel suo insieme.

Come si è accennato, Marx riteneva che il giorno in cui il proletaria-to avrebbe assunto il potere si sarebbe verificata una rottura definitiva rispetto al passato: il carattere antagonistico presente in tutte le società fino ad allora esistite sarebbe scomparso. Nella sua prospettiva conflit-tuale la soluzione delle contraddizioni e delle ingiustizie sociali – e del-le relative tensioni strutturali – risiedeva nella rivoluzione (necessaria e inevitabile) e nell’eliminazione, anche violenta, di una delle due parti. Appare evidente che, se pure in termini non esclusivamente filosofici, affiora a fondamento di questo modello il mito della violenza fondatrice antico quanto ricorrente in una pluralità di cosmogonie.

La rivoluzione per realizzarsi deve coniugare momento oggettivo e momento soggettivo: non è mai il prodotto esclusivo di condizioni og-gettive, ma necessita anche di condizioni soggettive di conoscenza, con-sapevolezza, volontà e capacità di lotta. Marx segna così le linee di una pedagogia della rivoluzione che avrà lunga vita.

Èmile Durkheim: ‘patologia’ bellica e dovere di resistenzaÈmile Durkheim (1858-1917), studioso dell’integrazione sociale,

iniziò a riflettere, in maniera approfondita e appassionata, sul proble-ma ‘guerra’ quando vi si trovò inesorabilmente coinvolto sia come fran-cese, sia a livello familiare (suo figlio André, il marito di sua figlia Ma-rie, e cinque suoi nipoti erano sotto le armi), sia infine come maestro,

8 Karl Marx scrisse sugli avvenimenti del periodo due significativi testi: il primo nel 1850, Die Klassenkämpfe in Frankreich von 1848 bis 1850 e il secondo nel 1852, Der achtzehnte Brumaire des Louis Napoleon.

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in quanto molti dei suoi allievi trovarono la morte in battaglia. Spirito pacifico e pacifista Durkheim odiava la guerra per educazione e convin-zione; fino a poco prima della deflagrazione bellica era stato tra quanti avevano promosso le idee pacifiste, internazionaliste e antimilitariste.

Scoppiato il conflitto, il suo forte impegno patriottico fu profuso in favore della difesa della Francia; si manifestò e si sviluppò come tensio-ne intellettuale alla comprensione delle cause della guerra e della sua pos-sibile evoluzione. In quel confronto tra cultura e civilizzazione (Kultur e Zivilisation) che infiammò l’Europa, il sociologo francese intendeva con-tribuire alla difesa del proprio paese – che a suo vedere era anche la difesa della civiltà in generale – nella sua qualità di uomo di scienza, sostenendo il morale del popolo francese con studi e considerazioni ‘oggettive’. Con-vinto da sempre che una società può conservare struttura e coerenza solo a condizione che i suoi membri si riconoscano in una credenza comune, fortemente avvertita, cercò di assicurare ai cittadini del suo paese fede e motivazioni adeguate a far fronte e a respingere l’attacco nemico. Aveva infatti compreso che la guerra sarebbe stata lunga e aspra, che avrebbe ri-chiesto il supporto di tutta la popolazione e che la ‘tenuta’ della resistenza sarebbe stata fondamentale. Ricorrendo ai suoi strumenti metodologici, Durkheim riteneva ‘patologici’ l’ostentata volontà di potenza e quel gusto del sacrificio (che si mescolava con una passione distruttiva) manifestati dal popolo e dai governanti tedeschi; la civiltà, a suo avviso, è la pace se-condo natura, mentre non erano ‘normali’ l’assalto della barbarie e quella sconfinata volontà di devastazione. Ma definire contro natura, patologi-ca, la situazione bellica non esonerava, secondo Durkheim, dal porsi alcu-ne fondamentali domande: come era stato possibile far crescere nel cuore dell’Europa una volontà di dominio così delirante e una passione distrut-tiva così violenta? A chi attribuire le responsabilità della guerra? Per quali motivi la guerra era stata voluta? Come resistere al vento devastante della barbarie e vincere? Per rispondere a queste fondamentali domande, Dur-kheim iniziò un percorso di analisi e riflessione che costituisce il suo con-tributo originale allo studio del fenomeno bellico.9

9 Durkheim in collaborazione con altri autori elaborò diversi opuscoli, tra-dotti in più lingue e fatti rapidamente circolare, che sintetizzano il suo pensiero in argomento.

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Questo contributo, sia pure eccentrico rispetto agli interessi di ricer-ca di Durkheim, trovò nella sua produzione scientifica un radicamen-to e un orientamento che offrono ai suoi scritti sulla guerra significato e spessore che vanno oltre la contingenza.

Il primo passo del suo impegno pubblicistico bellico è consistito in un’analisi di documenti diplomatici per ricostruire minuziosamente i diversi (talvolta goffi) e convulsi tentativi della diplomazia internazio-nale di bloccare l’escalation conflittuale dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914; il suo fine è stato quello di comprendere dove e perché si era verificata una desistenza che aveva fatto fallire il processo di ne-goziazione multilaterale avviato. In altri termini intendeva individuare chi aveva voluto la guerra.10 Di fronte a questo interrogativo, l’opzione durkheimiana è chiara: non si può negare l’esistenza di molteplici cau-se profonde e pregresse (condizioni economiche, demografiche ed etni-che, risvegli nazionalistici e diffuso malessere sociale), ma affinché que-ste producessero l’accensione di un conflitto di tale portata, azzerando l’efficacia di azioni negoziali e di mediazioni pacificatrici, c’è stato biso-gno dell’intervento della precisa volontà di un attore. E questo attore, i ‘fatti’ parlano da soli, era la Germania.

Individuato il ‘colpevole’, stabilita la responsabilità della Germa-nia, Durkheim proseguì nella sua analisi per individuare una causa più profonda che, al di là dei motivi contingenti, aveva scatenato il conflit-to, cioè aveva reso i governanti e la popolazione tedesca così determi-nati nel tentare l’avventura bellica. Seguendo il suo metodo, la ricerca fu indirizzata verso l’individuazione di un ‘fatto sociale’ da porre alla base del suo processo esplicativo.11 Questo ‘fatto’ Durkheim lo rintrac-ciò nella mentalità tedesca, un insieme di idee, di sentimenti e di un si-

10 Il primo opuscolo, dal titolo Qui a voulu la guerre? Les origines de la guerre d’après les documents diplomatiques, fu pubblicato già nei primi mesi del 1915 e tradotto in sette lingue, compreso l’italiano (Durkheim, Denis, 1915). Nel 1916 gli opuscoli furono raccolti in un volume dal titolo Lettres à tous les Français (Durkheim, Lavisse, 1916).

11 Durkheim, come è noto, differenzia le cause di un fenomeno dalle funzio-ni che esso svolge; ritiene che la causa di un fenomeno sociale vada ricercata in un fenomeno sociale antecedente, anche se ammette che, a proposito dei feno-meni sociali, l’imputazione causale non è sempre agevole (Durkheim, 1895).

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stema pratico che ben esprimeva l’imperialismo tedesco, fattore di lun-go periodo, a sua volta coerentemente collegato con una specifica filo-sofia dello stato. La definizione di questa filosofia dello stato è affidata da Durkheim alla ricostruzione del pensiero di un autore, Heinrich von Treitschke, giudicato particolarmente rappresentativo della mentalità allora ampiamente diffusa in Germania. Nella sua opera infatti si ritro-vavano tutti quei principi a cui si rifacevano, nell’intraprendere le ope-razioni belliche, la diplomazia e lo stato maggiore tedeschi; persino gli intellettuali nel sostenere le ragioni della guerra richiamavano, più o meno esplicitamente, le tesi di Heinrich von Treitschke.

Questa tesi configurava lo stato come un’entità posta al di sopra della morale, al di sopra delle leggi internazionali, al di sopra della società ci-vile. Lo stato veniva considerato eminentemente nei termini di potenza e per questa ragione, per i suoi fini, legittimato ad adottare i mezzi che reputava più adeguati; come potenza lo stato era visto come un’autorità suprema e poteva ammettere i soli limiti che negoziava. Lo stato è quin-di una sorta di divinità, di totem di gruppo sciolto da ogni limite e vinco-lo. Per la loro intrinseca mancanza di potenza gli stati piccoli, deboli, in fondo non sono veri stati e non possono essere considerati tali. Rispetto alla società civile, pluralistica, conflittuale e antagonistica, lo stato svolge il supremo ruolo di principio regolatore, facendo valere esigenze di uni-tà, ordine, disciplina. Uno stato così concepito non è una mera astrazio-ne concettuale; esprime forti e profondi sentimenti diffusi nella colletti-vità; è un recettore di pulsioni collettive di potenza che per giustificarsi hanno attribuito alla nazione tedesca ogni superiorità (di razza, di cultu-ra…) e hanno forgiato vari miti (derivazioni, direbbe Pareto) per espri-mere questa superiorità.

Una comunità, attraversata da siffatti sentimenti collettivi e rappre-sentata dallo stato trova nella guerra una condizione fondamentale per la sua esistenza; con la guerra si stabilisce, attraverso la forza, la verità dei diritti. La guerra inoltre realizza unione e comunicazione tra gli in-dividui, li fonde in un corpo unico. Per questo, secondo Heinrich von Treitschke, se la guerra implica idealismo politico, la pace è solo mate-rialismo. La pace è pericolosa perché favorisce egoismo e rilassatezza. Sulla base di questa mentalità, secondo Durkheim, è agevole compren-dere le dinamiche belliche tedesche; l’invasione del Belgio in spregio ai

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trattati internazionali, giustificata dallo stato di necessità (la Francia si preparava a fare altrettanto e bisognava scoraggiarla – una guerra pre-ventiva, si direbbe oggi) è collegabile anche alla scarsa considerazione per i piccoli stati teorizzata da Heinrich von Treitschke. Ugualmente lecito, in questa concezione dello stato, è terrorizzare le popolazioni ci-vili perché in guerra l’unico criterio valido è ottenere la vittoria (Dur-kheim, 1915).

Di fronte a tale sfida Durkheim non ha dubbi: il dovere di tutti è re-sistere; facendo ricorso agli strumenti della conoscenza scientifica, ana-lizza, spiega, esorta. Con particolare devozione e competenza si impe-gna in una battaglia per sostenere i francesi e i loro alleati (gli opuscoli vengono tradotti in sette lingue) nella dura impresa di contrastare l’im-perialismo tedesco e per controbattere efficacemente, dati alla mano (sulla consistenza delle forze in campo, sulla situazione dell’economia, sulla qualità delle alleanze e sul sistema di relazioni), l’aggressiva e men-zognera propaganda tedesca.

In un notevole sforzo di analisi Durkheim riesce a comprendere la novità del conflitto che all’inizio aveva esordito come un conflitto ot-tocentesco, ma che era diventato progressivamente diverso. La novi-tà della guerra che si stava combattendo esigeva nuove tattiche e nuove strategie e soprattutto richiedeva un coinvolgimento e un ruolo attivo dei non combattenti; mentre le guerre precedenti erano state combat-tute da una frazione limitata della popolazione e potevano risolversi a seguito di un avvenimento puramente militare (per esempio una disfat-ta), quella in corso, con la mobilitazione di massa, rendeva difficile l’an-nientamento dei combattenti. Questi potevano cedere terreno, indie-treggiare, ma solo per resistere e riorganizzarsi.

L’esempio veniva dai piccoli paesi: le forze belghe, dopo l’eroica re-sistenza nei confronti dell’avanzata tedesca, avevano ripiegato in ter-ritorio francese, occupando alcune posizioni al fronte; quelle serbe, a loro volta, si erano ricompattate, concentrandosi verso il mare e con-tinuando a combattere. Sviluppandosi la guerra su un teatro operati-vo immenso, diventava difficile per chiunque distruggere, trasferire o rinchiudere in un campo di concentramento armate di così rilevanti dimensioni. Inoltre anche nei territori occupati dalle truppe straniere, come la Serbia, il Montenegro, il Belgio, i governi continuavano in qual-

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che modo a operare, mantenendo il comando degli eserciti. Ne conse-gue, secondo Durkheim, che in siffatti scenari di guerra un successo o un insuccesso militare non potevano essere decisivi nel determinare le sorti del conflitto, mentre l’idea di resistenza assumeva una rilevanza inedita: la vittoria sarebbe stata di chi meglio avrebbe resistito. Questa situazione chiamava in gioco tutta la popolazione di cui era necessario il concorso allo sforzo economico, bellico e morale; combattendo, aven-do pazienza (che è il coraggio dei non combattenti) e spirito di sacrificio sarebbe stato sicuramente possibile ottenere il risultato.

Il pacifista Durkheim si trovò così, suo malgrado, coinvolto in una battaglia difficile e dolorosa – vi perse anche suo figlio André – che cer-cò di combattere al meglio con le armi della ragione e della scienza. A lui dobbiamo alcune indicazioni su cui forse vale la pena ancora oggi ri-flettere; ogni conflitto radica in condizioni pregresse che operano a di-versi livelli: frustrazioni economiche, impulsi espansionistici, squilibri demografici, malessere sociale, ma lo scatenarsi di un confronto violen-to, che comporta drammatiche distruzioni di vite e di beni, è frutto di una precisa volontà di uno o più attori che scelgono deliberatamente la guerra come giudizio della storia.

Le caratteristiche delle guerre – nelle modalità di combattimento, nella durata, nel coinvolgimento dei diversi attori – sono strettamente connesse al grado di sviluppo culturale e tecnologico delle società che le combattono; nei conflitti è inoltre diventato sempre più rilevante il ruolo delle popolazioni civili, sia come attori ai diversi livelli, sia come opinione pubblica. Dalle sue riflessioni emerge già con chiarezza la ri-levanza della resistenza civile, cioè della capacità di una popolazione di opporsi all’invasore con mezzi violenti e nonviolenti. Quest’ultima di-mensione sarà a sua volta un punto centrale delle teorizzazioni della pe-ace research.

Max Weber e lo ‘scontro’ tra le cultureCompletamente diversa è la posizione di Max Weber (1864-1920),

da sempre coinvolto nella passione nazionalistica e fautore convinto di una politica di potenza per la Germania; vocazione tedesca, senso dell’onore, devozione al destino e patriottismo culturale restarono in lui immutati nonostante il trascorrere degli anni, il tumultuoso avvi-

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cendarsi degli eventi e i molti lutti che lo colpirono.12 Una vena profe-tica, con quel tanto di passione e di emotività che segnano ogni ‘profe-zia’, fondava e dava senso a tutte le sue affermazioni politiche e alla sua più generale idea del conflitto.

Fin da giovane Weber era stato fortemente consapevole che la Ger-mania avrebbe dovuto necessariamente affrontare il problema crucia-le del suo ruolo mondiale ed era ugualmente consapevole che nessuno avrebbe riconosciuto pacificamente questo ruolo; si era perciò ben pre-sto convinto della necessità di una politica di potenza intelligente e de-terminata. a un certo punto gli sembrò che solo attraverso il conflitto la Germania avrebbe potuto reclamare e ottenere quella posizione prima-ria che le spettava per le doti del suo popolo, per il valore della sua cul-tura e per la forza della sua economia di cui era particolarmente fiero. Questa convinzione determinò significativamente il suo coinvolgimen-to nella guerra e ne fondò il rammarico per non poter combattere. We-ber non era un guerrafondaio, ma non vedeva altra alternativa degna di essere perseguita: la Germania non poteva sottrarsi alla sua ‘responsabi-lità’ storica, a quello che riteneva fosse il suo dovere di fronte alle gene-razioni future. Alla vittoria bellica della Germania sarebbe stata legata la sopravvivenza della Kultur tedesca, minacciata dall’ulteriore diffusio-ne del processo di Zivilisation che trovava nello spirito della concorren-za inglese la sua più dinamica espressione. Prese così parte a quel mo-vimento di mobilitazione intellettuale del mondo accademico tedesco che, alla vigilia del conflitto mondiale, era assolutamente compatto nel-la difesa della legittimità – o meglio ancora della necessità – di un pre-ciso coinvolgimento armato della Germania.

Ripercorrendo le posizioni weberiane è possibile per alcuni aspet-ti trovare una risposta tedesca alla primaria domanda che si era po-sto il francese Durkheim: come era stato possibile far crescere nel cuo-re dell’Europa una volontà di dominio così forte e determinata? Qua-li ne erano le radici e le ragioni profonde? Ma, per meglio comprende-re questa ‘risposta’, occorre a sua volta leggerla alla luce di una più ge-

12 Nel 1915, a poca distanza di tempo uno dall’altro, Weber perse sui campi di battaglia suo fratello Karl, il cognato Hermann Schäfer, marito di sua sorella Lili (che si suicidò qualche tempo dopo), e l’amico Emil Lask.

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nerale concezione weberiana del conflitto e del potere che fonda ed è a sua volta fondata dalla sua passione per il destino della Germania e dalla convinzione che essa fosse investita da una missione universale. Infat-ti, come molti intellettuali dell’epoca, Weber nutriva una profonda con-vinzione che la Germania fosse espressione di un popolo ‘eletto’ e che, in quanto tale, fosse detentrice di un destino eccezionale.

Weber parla di conflitto nei termini di lotta (Kampf), intesa come un agire sociale orientato all’imposizione della volontà dell’attore contro la volontà e la resistenza di una o più controparti. Collega la lotta all’idea di potere e individua tre ambiti diversi (politico, sociale ed economico) come arene conflittuali. Nel campo della politica la posta in gioco è for-se la più rilevante; essa consiste nel potere conteso dai diversi gruppi o partiti. Nel settore economico il conflitto può interessare le dinamiche salariali, il credito e le merci, ma non per questo va considerato meno oneroso e rilevante. Infine, anche l’ordinamento sociale rappresenta un contesto in cui gli attori si scontrano; la posta in gioco può essere il pre-stigio sociale o l’affermazione di universi valoriali contrastanti e di stili di vita, di modelli di comportamento e, più in generale, di culture diffe-renti o antagoniste.

Per Weber il conflitto non è da considerarsi un’eccezionalità patolo-gica del sistema di interazione ai diversi livelli; al contrario ne rappre-senta un elemento permanente che ne assicura la vitalità, immettendo dinamicità nella società e operando come un ‘filtro’ selezionatore per il personale politico più adatto, per l’impresa più efficiente, per i ceti più meritevoli di prestigio e, infine, per le nazioni più degne di influire sul-la politica mondiale.

Queste sue posizioni trovano il loro significato più profondo in un più generale quadro interpretativo della realtà sociale e del divenire sto-rico (sempre presente, seppure mai approfondito e problematizzato in maniera esplicita) segnato da una visione darwiniana e nietzschiana della lotta per la vita (Kampf ums Dasein) che ricomprende al suo in-terno anche la marxiana lotta delle classi e che può declinarsi in diverse forme, pur rimanendo nella sostanza fondamentalmente identica. Fin dagli esordi del suo impegno intellettuale Weber dichiarò chiaramente la sua vocazione al destino della Germania e il suo patriottismo cultura-le, collocandoli in un frame di riferimento in cui è ben presente il darwi-

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niano concetto di sopravvivenza dei più adatti.13 La lotta per il potere tra le classi e gli individui gli sembrava l’essenza, il dato costante della poli-tica interna, mentre la competizione, anche violenta, tra gli stati veniva considerata la condizione naturale del sistema internazionale. Il suo mo-dello conflittuale è applicato infatti, con un approccio di scala, dal livello micro a quello macro; la lotta tra gli individui, i gruppi e le classi segna lo spazio interno, mentre lo stato nazionale rappresenta l’organizzazio-ne tipica per l’affermazione della potenza della collettività organizzata in forma politica a livello internazionale. Nel confronto di potenza tra gli stati, le guerre sono un’espressione ‘normale’; non possono essere con-siderate una sopravvivenza di epoche passate (e in quanto tali, comtia-namente, superabili), né tanto meno una negazione dell’impegno verso la cultura; piuttosto rappresentano una forma, tra le altre, della lotta per la vita e coinvolgono nel loro destino anche la cultura. I popoli vincitori, dominanti, tendono a imporre la propria cultura. Il dominio culturale è un’espressione, tra le altre, del dominio tout court.

Ulteriore riferimento importante per la comprensione della Machtpo-litik weberiana, di cui la lotta è espressione essenziale, è rappresentato dal politeismo, cioè dalla pluralità dei valori tra loro incompatibili; gli universi valoriali sono in eterna competizione, non si compongono in forma armonica in quanto ogni sfera valoriale vive una sua logica e una diversa legittimazione dei suoi mezzi. Rifacendosi alla sua teoria della progressiva separazione delle sfere della vita, concettualizzata attraver-so i suoi studi di sociologia delle religioni,14 sostiene che ogni sistema di valori comporta una finalità specifica e un senso suo proprio: la morale

13 La sua nota e controversa conferenza del 1895, “Nationalstaat und die Volkwirtschaftspolitik” (“Stato nazionale e politica economica”, tr. it. in Weber, 1970), anticipa temi, a sfondo darwiniano, che permangono nel suo orienta-mento per tutta la vita.

14 Allo studio delle etiche religiose di più culture occidentali e orientali e ai relativi rapporti con la struttura sociale e l’economia Weber dedicò diversi lavori a partire dal 1904-1905, data di pubblicazione del famoso saggio sull’etica protestante (Die protestantische Etik und der Geist des Kapitalismus). I suoi stu-di sulla religione sono stati poi raccolti e pubblicati nel 1920-1921 in tre volumi dal titolo Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie.

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dei guerrieri non può essere certo quella dei filosofi e dei santi. Inoltre ogni comunità nazionale sviluppa il proprio sistema valoriale e si rico-nosce in certe opere: un confronto o una gerarchia sono pressoché im-possibili. In un celebre passo della sua conferenza a Monaco nel 1918, “Wissenschaft als Beruf ”, affermò con enfasi: ‹‹Come si possa fare per decidere “scientificamente” tra il valore della cultura tedesca e di quella francese, io lo ignoro. Anche qui c’è un antagonismo tra divinità diver-se, in ogni tempo›› (Weber,1966: 66-67).

Questo suo generale framework conflittuale di lettura della vita – la realtà sociale è un mondo di divinità che lottano tra loro – ha teso a far concepire a Weber come ridotta la portata dell’opposizione tra pace e guerra, tra lotta di potenza tra gli stati e rivalità o conflitti economici tra gruppi, classi, popoli; come molti suoi contemporanei, il sociologo te-desco legava saldamente la dimensione della potenza politico-miltare allo sviluppo economico di uno stato.

Non solo: in aperto contrasto con quanti ritenevano gli interessi eco-nomici ‘passioni’ pacificanti, Weber sosteneva che la violenza non ces-sa di essere tale perché mascherata da competizione economica. In ogni caso si tratta di riconoscere chi riesce a sopraffare l’altro, a impadronir-si a proprio favore dello spazio utile, vitale (Lebensraum), e delle risor-se disponibili. Weber sembra disconoscere l’importanza della differen-za tra forme violente e non violente di conflitto; è fermamente convin-to che, sotto apparenze pacifiche, la lotta continui anche durante il tem-po di pace, facendo comunque le sue vittime. In altri termini, la guerra è parte integrante del divenire drammatico della storia e ne rappresenta una modalità ineludibile.

Nel momento storico che si trovava a vivere, Weber riteneva che la politica di potenza fosse senza dubbio lo scopo da perseguire da par-te della Germania, anche perché considerava questo tipo di politica la condizione indispensabile, si è già detto, per la difesa e la diffusione del proprio modello di cultura; in altri termini gli interessi di potenza erano visti inseparabili dagli interessi culturali. In questo senso il conflitto che si andava combattendo era un Kultur-krieg che investiva i reciproci pa-trimoni culturali: i modelli di coesione sociale, l’idea di stato e di liber-tà. Con le sue argomentazioni Weber definisce con chiarezza dimensio-ni e caratteristiche dei conflitti tra le culture: si tratta di una declinazio-

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ne della sua concezione del politeismo dei valori e della loro inconcilia-bilità. Ne consegue che ogni sistema culturale lotta per la sua conserva-zione e riproduzione. Di fronte alle generazioni che sarebbero venute, la Germania, in quanto grande potenza, sarebbe stata responsabile del futuro della cultura dell’umanità.

Diventare, attraverso la guerra, una potenza mondiale era quindi in-dispensabile per essere un popolo libero, per dominare il proprio desti-no e per non essere asserviti ad altri popoli e a culture estranee. Il pro-blema del giusto equilibrio tra lo stato, come suprema organizzazio-ne politica, e la nazione, come comunità linguistica e culturale, è sem-pre stato molto presente in Weber che considerava rischioso annettere gruppi etnici diversi e con identità nazionali molto forti; proponeva in-vece l’unità della nazione tedesca affinché questa potesse svolgere al me-glio la propria politica di grande potenza e influire sul corso della storia universale. Considerava la nazione tedesca fondamentalmente un po-polo di cultura, mosso da ideali,15 e ne auspicava un’influenza mondia-le; potere politico e influenza culturale erano da Max Weber concepiti come strettamente collegati.

Postulava inoltre l’assoluta continuità tra nazione e individuo: il de-stino della Germania era anche il destino di ogni singolo tedesco. Pa-radossalmente, il teorico dell’individualità e dell’azione sociale, lo stu-dioso considerato tra gli ascendenti più importanti dell’individualismo metodologico, richiamava e reclamava un concetto olistico di società intesa come unità che si batte e combatte all’unisono.16 Non a caso elo-gia il senso del dovere, la capacità di obbedire e di conformarsi spon-taneamente, come una virtù tipicamente, anzi esclusivamente, tedesca. Questa disposizione dello spirito tedesco fonda e dà forza all’intera na-zione, la cui identità va preservata a ogni costo. Le affermazioni di We-ber arrivano su questi punti a raggiungere toni terribili, come quando sostiene che non è la pace, né la felicità che occorreva procurare alle ge-

15 Più volte Weber ha teso a evidenziare il fatto che i motivi economici non sono stati determinanti nel far intraprendere il conflitto alla Germania.

16 In questo Weber si mostrava sensibile all’avversione diffusa nella cultura politica tedesca per le divisioni interne, caratteristica sulla quale ha richiamato l’attenzione Elias nel suo studio sui tedeschi (1989).

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nerazioni future, ma la lotta eterna per conservare ed edificare il pro-prio carattere nazionale.17

Weber ci consegna dunque una cruda concezione del conflitto: esso è perenne e pervasivo in ogni dimensione dell’interazione. In questa concezione confluiscono diverse componenti del suo pensiero: una pri-ma darwiniana (la lotta ‘biologica’), una seconda nietzschiana (la ricer-ca della grandezza), una terza politeistica (il pluralismo dei valori in eterna contesa), una quarta economica (la persistente insufficienza di beni materiali e l’insopprimibile povertà) e infine una quinta marxiana (ogni classe ha il suo interesse in contrasto con quello delle altre classi e anche con l’interesse nazionale). In questo complesso intreccio di op-zioni valoriali e di modelli teorici, è difficile stabilire se e quanto sia stata questa concezione a infiammare il suo nazionalismo o se invece la pas-sione per la Germania e le contingenze storiche abbiano condizionato il suo approccio ai fenomeni conflittuali. Resta comunque il fatto che at-traverso le argomentazioni weberiane è possibile osservare dall’interno un’escalation conflittuale e le motivazioni bellicistiche di un’epoca che ha segnato significativamente la storia del continente europeo.

Georg Simmel: la guerra come possibilità di ‘guarigione’ Fortemente coinvolto nel nazionalismo tedesco fu anche Georg Sim-

mel (1858-1918) che condivise con Weber e altri accademici l’esigenza di offrire il proprio impegno intellettuale alla causa nazionale, nella ra-dicata convinzione che per il buon esito del conflitto fosse necessario preservare, in patria e come al fronte, uno stato d’animo fiducioso e di-sposto al sacrifico. Egli partecipò in prima persona a quell’incredibi-le clima di euforia esplosa nell’agosto 1914 che si manifestò principal-mente come entusiasmo per la guerra. Questa infatti fu vissuta come un Existenz-kampf; i nemici della Germania erano visti particolarmen-te determinati nei loro propositi rivolti non già come negli altri conflitti al conseguimento di singoli obiettivi di guerra, quanto piuttosto all’an-nientamento di quelle particolari possibilità di sviluppo – materiali e spirituali – tipiche della nazione tedesca che tanto li inquietava. Come

17 Queste e altre simili affermazioni di Weber sono più volte ripetute nei suoi Politische Schriften (1921).

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per Weber, questo scontro si manifestava apocalittico, cioè in grado di svelare chi avesse il diritto alla sopravvivenza come potenza e, per que-sto, a influenzare la storia dell’umanità.

Simmel era convinto della sostanziale diversità della radice culturale tedesca all’interno della realtà europea; mentre sosteneva che le identi-tà francesi e inglesi si erano costruite e si costruivano in modo autore-ferenziale, l’identità tedesca si presentava più complessa e tendeva an-che al suo opposto.18 La sua costitutiva assenza di forma stabile era tale da assicurare la possibilità di realizzare agevolmente le più diverse po-tenzialità dell’essere e di liberare tutte le capacità di sviluppo, ma nello stesso tempo ne aveva determinato una ‘solitudine’ all’interno dei po-poli europei e preoccupava gli avversari. Come Weber, Simmel è molto esplicito su questo punto: il popolo tedesco combatte non solo per as-sicurarsi la sopravvivenza fisica ed economica, ma anche – e soprattut-to – per tutelare la sua più alta istanza spirituale e ideale. Queste con-vinzioni non potevano che rendere particolarmente crudele il conflitto; cosa che in effetti fu.

Riguardo al coinvolgimento di Simmel, l’entusiasmo è però da ri-portarsi, almeno in parte, anche a elementi di valutazione più ampi e più articolati. Così da un lato c’era la condivisione dei grandi temi svi-luppati dalla pubblicistica di guerra tedesca che leggeva il conflitto come evento epocale, che sottolineava il motivo di continuità della guerra del 1914 con quella del 1870 e che esprimeva compiacimento per l’esplosio-ne di una sentita integrazione sociale, scaturita a seguito dell’inizio del-

18 Il tema dell’ambivalenza trasversale a tutta l’opera simmeliana esprime, a proposito del carattere dei tedeschi, un’ interessante osservazione, individuan-do gli italiani come polo opposto, ma indispensabile al completamento dello spirito tedesco. ‹‹L’intera storia dello spirito tedesco prova […] che l’ideale del tedesco è il perfetto tedesco – e contemporaneamente il suo contrario, il suo al-tro, il suo completamento. Di qui l’ancestrale anelito tedesco verso l’Italia, non soltanto per la bellezza e lo spettacolo delle terre, ma anche per la vita italiana che è il più possibile opposta a quella tedesca e che la maggior parte di noi ha ri-conosciuto non sebbene, ma proprio per questo come l’unica adatta a sé, quella unicamente possibile per sé. E non si trattava di nature ibride, quanto piuttosto di nature autenticamente profondamente tedesche›› (Simmel, 2003:73-74).

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le ostilità, dal momento che questa integrazione rappresentava un fat-tore di netta discontinuità nei confronti dell’estrema conflittualità tipi-ca del tessuto sociale tedesco nel periodo precedente.19 Dall’altro però emergevano, come si vedrà, considerazioni collegate ai suoi interessi scientifici; non si tratta quindi solo di una partecipazione emotiva al cli-ma di mobilitazione spirituale dominante, ma anche di una riflessione scaturita dalla maturazione della sua critica sociologica alla modernità, all’imperante codice monetario e al processo di rarefazione del senso.

Quando si accinse a scrivere sulla guerra mondiale, negli anni tra il 1914 e il 1917,20 Simmel aveva già trattato le tematiche del conflit-to sociale, sviluppando le sue argomentazioni – secondo l’usuale ten-denza all’analisi dei fenomeni sociali intesi come forme d’interazione – nei suoi scritti di sociologia, in particolare nel cap. IV della Soziolo-gie (1908), intitolato però “Der streit”, cioè il contrasto. La tesi di fondo elaborata da Simmel è che il conflitto va considerato una forma di so-ciazione; nessun gruppo, a suo avviso, può essere completamente armo-nico, dal momento che mancherebbero in esso struttura e possibilità di sviluppo. I gruppi necessitano di armonia come di disarmonia, di asso-ciazione e di dissociazione e i conflitti al loro interno non sono affatto da considerarsi esclusivamente come fattori di disgregazione. La forma-zione e le dinamiche dei gruppi sono il risultato di processi dell’uno e dell’altro tipo: fattori ‘negativi’ e fattori ‘positivi’ contribuiscono a strut-turare le relazioni nei gruppi e tra i gruppi. Il conflitto può inoltre svol-gere, come la coesione, importanti funzioni; il conflitto con altri gruppi, per esempio, contribuisce a costituire e a rafforzare l’identità del grup-po e ne preserva i confini nei confronti dell’ambiente sociale circostan-te. In altri termini Simmel aveva già maturato una riflessione adeguata

19 Sull’inclinazione di lungo periodo del popolo tedesco alla violenza nella lotta politica e alla guerra si interroga, come si vedrà, anche Elias. Valgono per Simmel le stesse osservazioni formulate per Weber circa l’adesione a una cultu-ra politica che teme le divisioni interne.

20 La produzione di Simmel sulla guerra si articola principalmente in quat-tro tra saggi e discorsi che raccoglie e pubblica nel 1917 in un libretto (Simmel, 1917).

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sulle forme di interazione conflittuali21 e su altre tematiche che vedeva-no comunque il conflitto centrale, come, per esempio, per il contrasto insanabile tra vita e forma da lui teorizzato come drammatica costanza di ogni espressione umana e per l’analisi della crisi della cultura moder-na; i suoi scritti per la guerra, ancor più che per gli autori precedente-mente analizzati, presentano un intimo legame con tutta la produzione scientifica e per alcuni aspetti ne costituiscono la ripresa e il conseguen-te approfondimento.

Nella prima fase delle riflessioni simmeliane sul conflitto mondiale, le considerazioni sono organicamente connesse all’analisi della mobili-tazione spirituale che chiama alla trasformazione interiore; di fronte alla grandiosità della sfida, la solidarietà sociale basata sullo scambio di re-ciproche utilità funzionali compie un salto di qualità, facendo emergere una nuova concezione di totalità sovraindividuale. In questa particolare contingenza, secondo Simmel, il legame tra individuo e totalità va molto oltre il concetto di dedizione e abbraccia non solo i contemporanei, ma investe anche le generazioni future. Con l’emozione e la vertigine di chi assiste all’alba di una nuova era, di chi avverte il magma incandescente dei processi sociali di novazione, Simmel descrive la possibile nascita di un ‘uomo nuovo’; dal fuoco e dal ferro della guerra sembra emergere una diversa spiritualità, un’unione che fa ben sperare: la Germania, afferma, ‹‹è di nuovo gravida di grandi possibilità›› (Simmel, 2003: 70).

Simmel non nasconde a se stesso e ai suoi connazionali le devastazio-ni che stava producendo la guerra, la perdita di imprese, di attività, la di-struzione di beni oltre che, naturalmente, di vite ed è consapevole dell’im-poverimento che ne sarebbe conseguito anche in caso di vittoria. Né si fa molte illusioni sul lascito di odio della guerra che sicuramente avrebbe reso lungo e difficoltoso il periodo della ricostruzione. Considera però il risvolto positivo della perdita del benessere e della ricchezza: questa per-dita avrebbe potuto rappresentare un’occasione importante per cambia-re l’andamento della cultura e uscire da quello che definisce un dilagan-te ‘mammonismo’, cioè dal culto del denaro e del valore esclusivamente

21 In questa parte del testo non vengono presentate le analisi simmeliane sul conflitto come forma di sociazione che verranno analizzate con la presentazio-ne del pensiero di Lewis Coser.

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pecuniario delle cose. Riprendendo i temi a cui aveva dedicato l’intensa riflessione delle pagine di Filosofia del denaro (Simmel, 1900), evidenzia come, con l’avvento della modernità, l’intera vita dello spirito fosse stata colonizzata dal denaro che si era trasformato in una divinità; l’adorazione del denaro e del risultato di ogni iniziativa esprimibile in denaro, al di là di concrete, soggettive, bramosie, aveva fatto compiere un salto di quali-tà alla penetrazione dei valori monetari. Era, a suo avviso, avvenuta la tra-sformazione del codice monetario in un’ideologia trasversale che colora-va la concezione del mondo, la politica, le istanze etiche ed estetiche. Uno dei mali fondamentali di cui soffriva la cultura moderna era da indivi-duarsi nell’avanzamento della cultura delle cose e nell’arretramento della cultura delle persone, cioè nello sviluppo di un soffocante materialismo a discapito della vita dello spirito. Allo sviluppo della tecnica, all’aumento del benessere e delle ricchezze non si era affatto accompagnata una pro-porzionale evoluzione dello spirito umano.

Con toni che ricordano le posizioni weberiane parla del tempo di pace come periodo di rilassatezza, di indulgenza, in cui era andato perduto il senso adamantino dell’essenziale e in cui era possibile far convivere ciò che era interiormente morto con ciò che era vivo, ciò che era sterile con ciò che invece aveva potere germinativo. Anche nel mondo della cultura, come della scienza, la ricchezza e l’indulgenza del tempo di pace aveva-no, a suo dire, generato un’eccedenza di ‘prodotti’, spesso inutili, una spe-cializzazione insensata, un sovraffollamento; da ambito di pochi, pieni di abnegazione e di ‘sacro fuoco’, era diventato terreno di molti, animati da diverse motivazioni, non ultime quelle superficiali della vanità. Se questi, tra gli altri, erano i sintomi di una cultura malata, la guerra rappresenta-va l’esito acuto della crisi a cui però poteva far seguito la guarigione. Uti-lizzando una metafora biblica, suggerisce che attraverso un grande movi-mento di separazione delle tenebre dalla luce, dell’essenziale dal superfluo era possibile far emergere dal relativismo e dall’indistinzione del tempo di pace i reali valori della comunità, come decantati, purificati, esaltati dal sacrificio. La guerra, secondo Simmel, fa sopravvivere solo ciò che ha po-tere germinativo. Il conflitto in atto, con la sua tremenda realtà, si presen-tava perciò anche come occasione di riconciliazione, nel senso che la vita poteva recuperare se stessa dallo stato di estraniamento a cui era giunta e ricongiungere l’individuo alla totalità; totalità che, come nel caso di We-

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ber, è la Germania. Una Germania però nuova, diversa di cui Simmel cre-de di intravedere il profilo. Se Simmel avesse avuto la possibilità di vive-re le vicende dei decenni a seguire probabilmente avrebbe riorientato i contenuti della sua meditazione sulla guerra.

Vilfredo Pareto e lo ‘spettacolo’ della guerraRispetto agli autori precedentemente ricordati, l’italiano Vilfredo

Pareto (1848-1923) analizzava gli eventi bellici che si trovò a vivere e a commentare (la guerra di Libia del 1911-1912 e la prima guerra mon-diale) in maniera più disincantata, sicuramente priva di slanci naziona-listici e di ottenebranti sentimenti di appartenenza.22 Residente in Sviz-zera dal 1900, non ricoprendo alcun incarico in Italia e sentendosi in un certo senso libero da vincoli e da doveri, osservava con curiosità critica lo svolgersi vorticoso degli accadimenti. Lucido e ironico, ma comun-que appassionato osservatore, avvertì con acuta consapevolezza che ci si trovava di fronte a un cambiamento epocale; il conflitto avrebbe cam-biato profondamente la realtà: niente sarebbe stato come prima, anche se, non va sottovalutato, Pareto fu sempre convinto che il mondo cam-biasse molto più nella forma che nella sostanza.

La logica dei sentimenti,23 alla base dell’impianto teoretico di spiega-zione dell’agire sociale, guida le sue riflessioni sui fenomeni bellici che

22 Pareto amava l’Italia di un amore deluso e amaro insieme, sebbene nascon-desse questo sentimento sotto le asperità del carattere; un’attenzione costante e una velata preoccupazione per le vicende del nostro paese emergono chiaramen-te non solo da tutta la sua pubblicistica, ma anche dal suo ampio epistolario.

23 Pareto ricerca accuratamente i fondamenti ‘non logici’ dell’agire indivi-duale e collettivo e li individua nei ‘residui’, pulsioni interiori di cui cerca di teorizzare le manifestazioni principali, dividendoli in sei classi principali. A dar forma alla società però sono fondamentalmente le due prime classi di residui antagonistiche tra loro: l’‘istinto delle combinazioni’ e la ‘persistenza degli ag-gregati’. I residui oltre che fondare l’agire si manifestano anche in elaborazioni concettuali (le cosiddette derivazioni) che, a loro volta, pur non superando una verifica sperimentale, non di meno sostengono e rinforzano l’agire. D’altra par-te, secondo Pareto, l’accettazione e l’efficacia di una teoria non dipende dal suo essere rispondente a criteri di verifica scientifica, ma dall’essere in sintonia con i sentimenti prevalenti in un dato momento storico (Pareto, 1916).

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rappresentano l’ennesimo banco di prova della teoria della società ela-borata proprio come risposta all’inadeguatezza dei modelli basati sulla razionalità strumentale. Pareto è un critico severo e puntuale delle teo-rizzazioni di Saint Simon, Comte, Spencer che, in sintonia con il modo di sentire comune degli europei del diciannovesimo secolo, sosteneva-no uno sviluppo della società proiettando sul futuro desideri e speran-ze di pace e progresso. Attraverso un processo di razionalizzazione cre-scente, secondo questi autori, conflitto intra-statale e guerra tra gli sta-ti, quali mezzi di sopravvivenza e di imposizione della propria volontà, sarebbero stati sostituiti con strumenti di negoziazione pacifici. Pareto su questo punto non ha cedimenti né perplessità: la ragione ha poca ri-levanza nel determinare le linee dell’agire collettivo; sono i sentimenti, gli interessi, e le ideologie che esprimono entrambi, unitamente al ci-clo di circolazione delle élite, che danno forma alla ciclicità dei feno-meni sociali.

Pareto analizza i fatti bellici a lui contemporanei le cui cause pro-fonde erano, a suo avviso, da ricercarsi nella rottura dell’equilibrio po-litico europeo sotto la pressione dei residui e degli interessi delle popo-lazioni che si erano strutturati in maniera così antagonistica da travol-gere le spinte e i desideri di pace24 e da vanificare le speranze di quanti erano convinti che il consolidarsi del diritto e dei sentimenti di giusti-zia e i legami di solidarietà internazionale del proletariato non avreb-bero permesso lotte fratricide. Altrettanto fallace si dimostrò l’opinio-ne di quanti erano certi che la potenza distruttiva raggiunta dagli arma-menti ne avrebbe impedito l’effettivo utilizzo. Le prime avvisaglie di tali mutamenti sono da lui riscontrate a proposito della guerra di Libia del

24 Pareto era un buon conoscitore dei movimenti per la pace e delle dottrine pacifiste del tempo. Nel 1889 partecipò a Roma a un Convegno per la pace pre-sentando una relazione (“L’Unione doganale come mezzo inteso a migliorare le relazioni politiche ed a renderle pacifiche”) in cui si fece sostenitore di quel pacifismo economico che rintracciava nel protezionismo un agente primario di conflittualità tra gli stati in quanto idoneo a spingere gli stessi a procacciarsi con la conquista quanto non ottenuto con il commercio. La sua relazione è ora in Pareto, 1974. Per un’analisi delle posizioni di Pareto sui movimenti pacifisti, vds. Maniscalco, 1985.

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1911-12 e illustrate attraverso una ricostruzione pignola delle ‘deriva-zioni’ (cioè delle motivazioni e delle giustificazioni addotte) che accom-pagnarono e in un certo senso ‘velarono’ la metamorfosi subita dai sen-timenti pacifisti e internazionalisti. Infatti la guerra di Libia assunse su-bito la forma di una guerra di conquista con alla base sentimenti e inte-ressi espansionistici coloniali, ma fu razionalizzata attraverso una serie di argomentazioni tese a soddisfare il senso di giustizia, il desiderio di ottenere riparazioni per le offese subite – vere o presunte che fossero – che si mescolavano e prendevano vigore da un risvegliarsi nella popo-lazione italiana di sentimenti ‘religiosi’25 e patriottici. L’insieme di tutti questi fattori contribuì ad attribuire alla conquista del territorio libico il significato di una missione civilizzatrice.

Pareto individua come componenti essenziali dell’allora situazione di fondo conflittuale tre elementi: una forza espansionistica di determi-nate popolazioni e la conseguente rivalità tra di esse; una disparità nel-le ‘religioni’, cioè nelle visioni del mondo e nelle ideologie; una diffe-renza nelle istituzioni politiche. In altri termini si trattava del contrasto tra germanesimo e slavismo espresso da popolazioni con grande for-za di espansione, tra militarismo aristocratico ed emergente democra-zia sociale a cui si mescolavano gli interessi particolari di diversi stati. Nel complesso panorama politico del tempo questa situazione lo indus-se ad approfondire l’incidenza degli interessi che, combinandosi con al-cune classi di residui (cioè con alcune tipologie di sentimenti), avrebbe-ro posto in conflitto la plutocrazia militare tedesca, la burocrazia zarista e la plutocrazia demagogica anglo-francese. Il potenziale contrasto tra società in cui dominavano gli impulsi degli ‘istinti delle combinazioni’ (residui della classe prima), e che quindi erano più dinamiche e orien-tate al mutamento, e società più conservatrici per una predominanza di

25 Pareto utilizza l’aggettivo ‘religioso’ in riferimento ai sentimenti delle masse con un senso più vicino a quello durkheimiano di ‘sacro sociale’ che come attributo di un senso di appartenenza a una religione istituzionalizzata. Sul rapporto tra società moderna e religione si sono interrogati tutti i grandi sociologi europei, ‘padri fondatori’ della disciplina, il cui apporto al tema della secolarizzazione, sebbene abbondantemente scandagliato, andrebbe rianalizza-to alla luce delle nuove trasformazioni in atto nello spazio europeo.

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residui della seconda classe (‘persistenza degli aggregati’) in determi-nate condizioni, sotto la pressione di spinte egemoniche, avrebbe sicu-ramente portato a un conflitto. Interessi e sentimenti infatti formava-no una miscela esplosiva, per cui il pangermanesimo e il panslavismo, come due ‘Inghilterre’ (se la Germania avesse ancora potuto sviluppa-re la sua potenza navale), non avrebbero potuto convivere.26 Se infatti si fosse trattato solo di interessi, essendo essi conciliabili e transigenti, for-se sarebbe stato possibile evitare il conflitto e risolvere i problemi nego-ziando; gli antagonismi però avevano coinvolto anche i residui, infuo-cando le emozioni che a loro volta si esprimevano in potenti espressio-ni ideologiche o, nei suoi termini, in derivazioni.

La situazione era resa a esito unico – il conflitto – dalle caratteri-stiche degli attori in campo; sostiene infatti che, se popoli deboli e con scarse pulsioni all’autoaffermazione, sebbene avversari, possono convi-vere senza confliggere, gli antagonismi tra popoli ansiosi di estendere il proprio dominio e disposti, anzi desiderosi, ad accettare i sacrifici di una guerra non sono componibili. Spinte nazionalistiche e compulsivi desideri di supremazia svolsero un ruolo di primo piano nell’influenza-re il corso degli eventi; dietro i grandi ideali del secolo ventesimo Pare-to individuava una brama di dominio incontenibile che spingeva alcu-ni popoli a estendere oltre misura la propria influenza. Era quindi ine-vitabile che la conflittualità sfociasse in uno scontro armato duro, com-plicato e prolungato, con un dopoguerra problematico, gravido di esiti negativi e rischiosi, in un certo senso fautori e matrice di nuovi conflit-ti. Su questo ultimo punto torneremo in seguito e restando al proble-ma della lunghezza del conflitto, contrariamente alle opinioni di quan-ti pensavano che la guerra sarebbe stata di breve durata, anche a causa della distruttività dei mezzi bellici, Pareto, forte del suo sapere econo-mico, ebbe fin dall’inizio l’acuta consapevolezza che le risorse materiali di cui erano dotate le parti in conflitto erano tali da sostenere a lungo lo sforzo bellico, conferendo ai belligeranti grande autonomia e possibili-tà di resistenza. Inoltre, a dare ulteriore forza al conflitto, in campo ve-

26 ‹‹Allo stesso modo che non c’era posto nella regione mediterranea per Roma e per Cartagine, non c’è ora luogo, nel mondo, per due Germanie, per due Russie, per due Britannie›› (Pareto, 1980: 631-632).

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nivano schierate opposte ‘religioni’; i tedeschi, nota Pareto in un artico-lo del 1915, in questo senso sono speciali, i migliori: brandiscono la fede nella Kultur come un’arma. Credono fermamente nella missione a cui sono chiamati come popolo eletto e superiore; l’enfasi ‘religiosa’ nella propria vocazione al dominio del mondo rende l’avversario non solo un nemico, ma anche l’‹‹eretico, lo scomunicato, il miscredente, il bestem-miatore della santa Kultur, reo di lesa maestà divina. Occorre non solo vincerlo, bensì spegnerlo, distruggerlo›› (Pareto, 1980:638-639).

A Pareto, attento e sensibile osservatore dei movimenti della co-scienza collettiva, oggi si direbbe dell’opinione pubblica, non sfuggi-va un elemento di debolezza dei popoli democratici e dei relativi gover-nanti, più dipendenti dai voleri dei cittadini, più interessati a questioni di politica interna che di politica estera, più inclini agli interessi e alla demagogia,27 meno convinti nella vis ideologica e più attratti dalle sire-ne dell’umanitarismo. Eppure un impiego adeguato della forza armata presuppone una fede: la forza dipende dalla potenza di un ideale. Senza il valore energetico dei miti, la forza diventa violenza cieca, mera distru-zione, e non potenza di costruzione di nuovi assetti sociali.

Riguardo alle sue opinioni sul dopoguerra, formulava due scenari entrambi poco rassicuranti: nel caso in cui la guerra si fosse conclusa con tutte le forze alla pari non si sarebbe potuto, a suo avviso, parlare di pace, ma di una tregua più o meno stabile. Anche nel caso di una vit-toria schiacciante di una delle due parti, la pace non sarebbe stata sta-bile. Qualora avessero vinto gli Alleati, si chiede Pareto, come sarebbe stato possibile ridurre la Germania all’impotenza? Non avrebbero po-tuto la sofferenza e l’umiliazione della sconfitta rafforzare i sentimenti patriottici e nutrire un sentimento di rivalsa? E, qualora avessero vinto gli Imperi Centrali, come sarebbe stato possibile pensare di distrugge-re l’immenso impero britannico, impedendo una sua ricomposizione e una strategia di rivincita resa quanto più efficace e temibile dal possibile concorso degli Stati Uniti d’America? In termini diversi potremmo dire che era consapevole che il ciclo della violenza sostenuto dalle rivalità di

27 Il tema della plutocrazia demagogica è ricorrente in molti scritti di Pareto ed entra tra le componenti principali del suo modello della trasformazione del-la democrazia (Pareto, 1921).

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potenza non si era ancora concluso e che avrebbe potuto dar luogo ad altri sanguinosi confronti. L’acume politico di Pareto ha reso profetico il suo pessimismo.

In sintesi Pareto negli eventi bellici del secondo decennio del ‘seco-lo breve’ trova conferma alle sue teorizzazioni del fondamentale ruo-lo svolto dai sentimenti nella storia e nella società. A suscitare il terri-bile amore per il ‘campo di Marte’ sono, per usare una sua terminolo-gia, le ‘maree’ dei sentimenti che si muovono sotto il sottile velo della razionalità e che si intrecciano a vario modo con gli interessi. La guer-ra di massa è letta e interpretata come un evento che per scatenarsi ha assoluto bisogno della spinta di forze sociali emozionali che però, una volta sollecitate, sono pressoché ingovernabili. Per questo motivo e in ogni frangente l’esaltazione dei sentimenti patriottici gli apparve peri-colosa ai fini del mantenimento della pace; così pure nelle relazioni in-ternazionali i passi non sufficientemente avveduti in funzione della po-litica interna.

Un’ultima notazione sulle considerazioni paretiane è di sicuro rilie-vo e riguarda la definizione di una guerra come ‘giusta’, esigenza sem-pre più avvertita nelle popolazioni democratiche. Una volta che desi-deri e interessi hanno portato i governanti a intraprendere una guerra, il problema che si pone loro, sostiene Pareto, è di trovare per essa una giustificazione accettabile agli occhi dell’opinione pubblica. La giustifi-cazione deve essere o per lo meno apparire razionale e soprattutto deve porsi in sintonia con i sentimenti prevalenti nella popolazione; ove pos-sibile, la responsabilità del conflitto deve venire addossata ad altri. In al-tri termini gli è ben chiaro che la guerra giusta molto spesso non è altro che una guerra presentata e comunicata bene. Sotto questo aspetto Pa-reto sembra essere il più attuale tra i sociologi che vissero il primo con-flitto mondiale.