Sistemi elettorali a confronto

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SISTEMI ELETTORALI A CONFRONTO di Alessandro Corneli

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Descrizione dei sistemi elettorali compatibili

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SISTEMI ELETTORALI A CONFRONTO

di Alessandro Corneli

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Indice

Premessa

Capitolo 1

Italia: si vota

1. Lo scioglimento delle Camere

2. “Porcellum” o brutto anatroccolo?

3. “Porcellum”: come funziona

4. Le elezioni del 9-10 aprile 2006

5. I tentativi di riforma

Capitolo 2

La democrazia rappresentativa

1. A che servono le elezioni

2. Sistema rappresentativo e società post-industriale

3. L’indice di distorsione

4. L’incidenza dei collegi

5. I metodi di ripartizione

6. Metodo d’Hondt e metodo Niemeyer

Capitolo 3

Evoluzione del sistema elettorale in Italia

1. Il dibattito in Italia

2. I precedenti storici

3. Le elezioni durante la Prima Repubblica

4. La riforma elettorale del 1993

5. Le elezioni del 1994

6. Le elezioni del 1996

7. Le elezioni del 2001

8. Sistema elettorale e istituzioni

9. Falsa neutralità dei sistemi elettorali

10. Il bipartitismo imperfetto

11. Scende in campo Veltroni

12. Il referendum sulla legge elettorale

13. Il centrodestra e il maggioritario

14. Le polemiche dopo il voto e il governo Prodi II

15. Una accusa infondata

16. Conclusione

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Capitolo 4

Il sistema elettorale del Regno Unito

1. Il sistema parlamentare

2. Le elezioni del 1997 e del 2005

3. I problemi aperti del sistema elettorale

Capitolo 5

Il sistema elettorale della Francia

1. Bicameralismo imperfetto e sistema elettorale

2. Dalla IV alla V Repubblica

3. Le elezioni del 2002 e del 2007

Capitolo 6

Il sistema elettorale della Spagna

1. La transizione alla democrazia

2. Governo e sistema elettorale

Capitolo 7

Il sistema elettorale della Germania

1. Un sistema misto?

2. I principi costituzionali e l’elezione del Bundestag

3. Il conteggio dei voti

4. Le elezioni politiche dal 1949 a oggi

Capitolo 8

Il sistema elettorale degli Stati Uniti

1. Il sistema presidenziale

2. L’elezione del Presidente

3. Le elezioni primarie

4. La distribuzione dei poteri

5. Le e-election al tempo di Internet

6. Le ultime elezioni

Conclusione

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Premessa

La conclusione anticipata della Legislatura non indebolisce ma rafforza la

democrazia. La parola torna agli elettori, come vogliono la Costituzione e il buon

senso in un sano sistema democratico. La dissoluzione della maggioranza politica

emersa nel 2006 non lasciava alternative. Il Presidente della Repubblica, Giorgio

Napolitano, e il Presidente del Senato, Franco Marini, hanno agito con rapidità, nel

pieno rispetto formale e sostanziale della Costituzione, per verificare se esistesse

un’alternativa parlamentare al governo Prodi. È un bene prezioso che, nei momenti

delle decisioni fondamentali della vita politica di un Paese democratico, le più alte

Istituzioni dello Stato seguano la via della legge e della coscienza senza ascoltare

richiami di parte. Questi comportamenti sono un contributo importante al

riavvicinamento tra cittadini e istituzioni.

Circa cinquanta milioni di elettori, in Italia e all’estero, saranno chiamati ad

eleggere il nuovo Parlamento. Lo faranno con la stessa legge elettorale con cui si

svolse la consultazione del 9-10 aprile 2006. Una legge approvata nel dicembre 2005

con i soli voti dell’allora maggioranza di centrodestra, e per questo violentemente

criticata dalla sinistra come un estremo tentativo per evitare la sconfitta elettorale.

Invece proprio quella legge voluta dal centrodestra ha permesso al centrosinistra di

vincere, seppure con uno scarto minimo. Una legge definita “Porcellum”.

Da quel momento, la sinistra ha cercato di addebitare al “Porcellum” tutte le

difficoltà cui è andato incontro il governo Prodi durante tutti i venti mesi della sua

esistenza. In realtà, le difficoltà del governo dipendevano dalla eterogeneità della

coalizione che lo sosteneva, una coalizione elettorale – l’Unione – messa insieme

proprio con l’obiettivo di conquistare il premio di maggioranza previsto dalla legge

elettorale. Risultato: lo scontro tra due “ammucchiate”.

Questa volta, il prossimo aprile, questa stessa legge produrrà l’effetto opposto

perché il premio di maggioranza andrà alla “lista” e non alla “coalizione”. Senza

cambiare la legge che infatti prevedeva, e prevede, che il premio di maggioranza

venga assegnato “alla lista o alla coalizione”. Recita infatti l’Art. 2 della legge:

“Qualora la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di

voti validi espressi ai sensi del comma 1 non abbia già conseguito almeno 340 seggi,

ad essa viene ulteriormente attribuito il numero di seggi necessario per raggiungere

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tale consistenza. In tale caso l’Ufficio assegna 340 seggi alla suddetta coalizione di

liste o singola lista” (corsivo nostro).

Nel 2006 si utilizzò il versante-coalizione o “proporzionalista” del “Porcellum”; nel

2008 si utilizzerà il versante-lista o “maggioritario”. Se non ci saranno ripensamenti e

colpi di scena, infatti, i due soggetti che si contenderanno il consenso degli elettori

saranno il “Popolo della libertà”, con il candidato-premier Silvio Berlusconi, nella cui

unica lista hanno deciso di confluire Forza Italia e Alleanza Nazionale, cioè i due

maggiori partiti del centrodestra, e il Partito Democratico, con il candidato-premier

Walter Veltroni, nato dalla fusione dei due maggiori partiti del centrosinistra, i Ds e

la Margherita.

La sterzata verso un bipolarismo bipartitico, conseguente sia alle difficoltà

incontrate dai governi di coalizione sia alle polemiche contro la “Casta”, è stata data

da Berlusconi con il discorso “del predellino” del 18 novembre 2007 e da Veltroni

con la decisione ufficializzata il 19 gennaio 2008 che il Pd, con qualsiasi sistema

elettorale, sarebbe andato “da solo”.

Con ciò sono anche venute meno, salvo in qualche residua polemica politica, le

critiche fatte alla legge elettorale vigente, che si è dimostrata capace sia di

promuovere ammucchiate e frammentazione, sia di accorpare e semplificare. Un

merito che non le era stato finora riconosciuto, ma che sposta l’attenzione sulla

responsabilità delle singole forze politiche, sulla loro capacità di “interpretare” le

leggi elettorali che, esaminate senza pregiudizi, non sono e non possono essere

egualmente soddisfati per tutti, partiti grandi, medi e piccoli, diffusi in modo

abbastanza uniforme su tutto il territorio nazionale oppure concentrati su parti di esso.

Il dibattito sulla legge elettorale, che si intensificato negli ultimi sei mesi, un po’

anche in modo strumentale, a mano a mano che le difficoltà del governo Prodi

aumentavano e si rafforzava la prospettiva del voto anticipato, ha avuto il merito di

rendere chiaro proprio questo: che le leggi elettorali non possono soddisfare tutti i

partiti allo stesso modo. Per questo motivo, nei capitoli che seguono, oltre a

ripercorrere il dibattito in Italia e illustrare i diversi sistemi elettorali, si è ritenuto

utile offrire un sintetico panorama degli altri sistemi di recente evocati come modelli

da adottare in tutto o in parte.

Questa analisi ha tuttavia permesso di mettere in evidenza anche un altro aspetto: la

capacità dei sistemi elettorali di modificare il quadro politico, o viceversa di

consolidarlo in un certo assetto, è innegabile; ma essi devono essere considerati in

relazione al sistema istituzionale, ovvero al modo in cui i poteri supremi dello Stato –

anzitutto il Legislativo e l’Esecutivo – sono organizzati dalla Costituzione. Senza

dubbio, una parte delle difficoltà del sistema-Italia degli ultimi quindici anni

dipendono dal fatto che le due riforme della legge elettorale, nel 1993 e nel 2005, non

hanno intaccato il sistema istituzionale.

Una legge elettorale può favorire più la rappresentanza che la governabilità, o

viceversa; ma poi bisogna vedere quali sono i reali poteri del Parlamento, del

Governo, del Premier, del Capo dello Stato, ecc. La legge elettorale “Porcellum”

potrà dare nel 2008, diversamente dal 2006, una chiara maggioranza alla Camera e al

Senato, ma è evidente che per mettere in sistema-Italia nelle migliori condizioni per

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potere sviluppare tutte le sue potenziali, sarà necessario mettere subito mano alla

riforma della Costituzione.

Ultima notazione. Le maggiori forze politiche dell’intero schieramento hanno

compiuto uno sforzo per sradicare il sistema dei partiti dalla palude in cui era finito. I

cittadini-elettori devono aiutarli attraverso l’esercizio del loro fondamentale diritto di

partecipare al voto. Diritto che si trasforma in dovere, perché è dovere di ciascuno

contribuire alle decisioni di tutti, e nessuno deve lasciare che altri decidano al suo

posto.

I capitoli che seguono rappresentano uno sforzo di chiarezza sempre appoggiato sui

dati oggetti, i risultati elettorali, esaminati con metodo comparativo. Ma in questa

Premessa è consentito prendere posizione di parte. Fu proprio Silvio Berlusconi,

all’indomani del voto del 9-10 aprile 2006, a proporre alla sinistra, incredula della

vittoria conquistata con 24 mila voti di scarto alla Camera, e subito euforica nella

convinzione che, con una maggioranza di due seggi al Senato, avrebbe governato per

l’intera Legislatura, ad offrire la collaborazione per riscrivere alcune “regole”. Questa

offerta fu rifiutata da Romano Prodi, che volle conquistare tutte le più alte cariche

dello Stato, che si appoggiò ai partiti dell’ala sinistra dell’Unione, rendendo succube

e prigioniera, e quindi anche complice, la parte moderata dell’alleanza, approfittando

di extragettiti tributari le cui premesse risalivano alla buona impostazione del

precedente governo di centrodestra, schiacciando tutti i cittadini sotto un aumento

indiscriminato della pressione fiscale, nascondendo dietro il dito di liberalizzazioni

simboliche e non influenti un disastroso lassismo di fronte a una ripresa

dell’inflazione, la più alta dal 2002, che, come si sa, colpisce maggiormente i ceti più

poveri, quelli stessi che la coalizione di centrosinistra aveva promesso di volere

aiutare.

Di fronte a tanta arroganza, prima Berlusconi e poi gli altri leader del centrodestra

hanno perseguito un obiettivo primario: liberare l’Italia dal governo Prodi, un

governo che fa del male al Paese. Questo obiettivo è stato perseguito con fermezza,

senza cedere alle lusinghe e ai tranelli della sinistra che, all’ultimo, ha tentato in tutti i

modi di sostenere la tesi “prima le riforme, poi il voto”, facendo così scoprire quale

fosse la sua vera intenzione: dilazionare le riforme per conservare il potere.

In questa campagna elettorale, il Partito Democratico di Veltroni, la cui nascita è in

sé una cosa positiva poiché spinge alla semplificazione, cercherà di far dimenticare

che Romano Prodi è il suo Presidente, che Romano Prodi ha diretto un governo

sostenuto fino all’ultimo voto di fiducia dallo stesso PD, che il PD, se vincesse, non

cederebbe ai ricatti dei piccoli partiti (parola di Veltroni); ma chi difenderà il PD da

se stesso? Esso è composto da quegli stessi uomini che erano insieme nel 1994, nel

1996, nel 2001 e nel 2006, e che in gran parte erano prima, andando a ritroso, nei DS,

nel PDS e nel PCI: c’erano fisicamente, come lo stesso Veltroni, come Massimo

D’Alema e tanti altri. C’erano, soprattutto, nella Prima Repubblica.

Infine una questione: se nelle elezioni del 9-10 aprile 2006 l’Unione avesse

conquistato al Senato, anziché due seggi in più, otto o dieci, garantendosi una

tranquilla navigazione, sarebbe egualmente nato il Partito Democratico, facendo

appello a Veltroni? E, se fosse nato, avrebbe rotto l’alleanza con i partiti dell’ala

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sinistra dell’Unione? La storia non si fa con i “se”, ma la politica sì. Chi può essere

certo che se il governo Prodi avesse avuto una sufficiente maggioranza anche al

Senato, coloro che oggi si presentano come i bipolaristi/bipartitisti della chiarezza e

senza compromessi, si sarebbero dissociati? Veltroni sarebbe rimasto a fare il

sindaco di Roma, curando più le manifestazioni “minculpop” che le strade, le scuole,

gli ospedali, i servizi sociali, la sicurezza. Sulla sicurezza si svegliò di colpo quando,

ormai già leader del Partito Democratico, un grave fatto di sangue sconvolse la

Capitale; e impose un decreto al Governo che, come si sa, fu poi lasciato cadere: una

bella anticipazione del modo in cui Veltroni governerebbe il Paese.

Non appartengono all’ala estrema della sinistra, quella oggi attaccata da Veltroni,

bensì all’ala moderata e governativa, l’uno alla componente ex-DS e l’altro alla

componente ex-Margherita-DL, cioè il presidente della regione Campagnia e il

sindaco di Napoli, confluiti entrambi nel PD, che hanno distrutto l’immagine

dell’Italia nel mondo.

Noi crediamo ancora nel progetto rivoluzionario di Silvio Berlusconi e crediamo

che, con una maggioranza più omogenea e un programma più limitato e mirato,

riprenderà e perfezionerà quel progetto due volte interrotto. Per questo invitiamo gli

elettori italiani a dargli una larga e convinta fiducia.

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Capitolo I

Italia: si vota

1. Lo scioglimento delle Camere

Il 6 febbraio scorso, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dopo aver

sentito i presidenti della Camera, Fausto Bertinotti, e del Senato, Franco Marini,

esercitando il potere conferitogli dall’Art. 88 della Costituzione, ha deciso di

sciogliere anticipatamente quel Parlamento che era stato eletto appena due anni prima,

il 9-10 aprile 2006.

In quelle elezioni, la coalizione elettorale di centrosinistra – l’Unione – aveva

prevalso per soli 25.224 nel voto per la Camera sul territorio nazionale, ma di 130.308

se si aggiungo i voti ottenuti nella Valle d’Aosta e nella Circoscrizione Estero. Grazie

alla legge elettorale, aveva ottenuto il premio di maggioranza e, quindi, 340 deputati

su 630, saliti a 348 con gli eletti nella Circoscrizione Estero e in Valle d’Aosta. Al

Senato, invece, la coalizione elettorale di centrodestra – la Casa delle libertà – aveva

ottenuto 428.179 voti in più sul territorio nazionale e aveva conquistato 153 seggi

contro 148, vantaggio ridotto a 234.273 voti considerando quelli della Valle d’Aosta,

del Trentino-Alto Adige e della Circoscrizione Estero. Complessivamente, alla Cdl

erano andati 156 seggi e all’Unione 159. Questo perché, a differenza della Camera, il

premio di maggioranza al Senato è stato calcolato su base regionale anziché su base

nazionale.

Poiché la Costituzione prevede il bicameralismo perfetto, vale a dire che Camera e

Senato hanno gli stessi poteri, e poiché il Governo deve avere la fiducia di entrambe le

Camere, si capì subito che, con 3 soli voti di maggioranza al Senato (ridotti a 2 perché

il presidente, Franco Marini, per consuetudine non vota), la vita del governo Prodi

sarebbe stata dura e sarebbe dipesa molto spesso dal voto dei 6 senatori a vita, come

infatti più volte è accaduto, sollevando perplessità e polemiche sull’opportunità che

senatori non eletti potessero decidere la sorte del governo.

Il 25 gennaio, il 33° voto di fiducia è stato fatale al Governo, battuto per 161 a 156.

Sono seguite le dimissioni e l’affidamento di un incarico esplorativo al presidente del

Senato, Franco Marini, per verificare la possibilità di dare vita ad un governo

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“finalizzato” all’approvazione di una nuova legge elettorale. Fallito in pochi giorni

questo “doveroso” tentativo, il presidente Napolitano, pur rammaricandosi, ha sciolto

le Camere e il Governo, cui spetta questo compito, ha fissato la nuova consultazione

per il 13-14 aprile. Era quello che il centrodestra chiedeva con crescente forza

dall’autunno 2007 e che parte del centrosinistra riteneva ormai inevitabile, anche se

Massimo D’Alema aveva giudicato un “atto irresponsabile” interrompere la

Legislatura prima del voto sul referendum (avente per oggetto una modifica della

legge elettorale e ritenuto legittimo dalla Corte Costituzionale) e dell’approvazione di

una nuova legge elettorale.

2. “Porcellum” o brutto anatroccolo?

L’Unione non ha mai avuto dubbi: le difficoltà del governo Prodi derivavano dalla

legge elettorale, la Legge 21 dicembre 2005, n. 270, approvata dal solo centrodestra

con il perverso scopo di evitare una sconfitta elettorale data per scontata in base ai

sondaggi. Per di più sostanzialmente (non certo formalmente) illegittima in quanto le

“leggi sulle regole del gioco” devono (o dovrebbero) essere approvate con una larga

maggioranza. Argomento, quest’ultimo, pericoloso nelle mani della sinistra, che nel

2001, con i suoi soli voti, aveva modificato addirittura un Titolo della Costituzione,

introducendo un parziale federalismo. Ed è evidente che una legge costituzionale

avrebbe più titolo di una legge ordinaria, qual è quella elettorale, a richiedere una

maggioranza qualificata.

Ma nella sua critica alla legge elettorale, la sinistra aveva potuto giovarsi di critiche

analoghe venute dallo stesso centrodestra anche prima della sua applicazione, quando

il suo principale ideatore, il leghista Roberto Calderoli, l’aveva definita “una porcata”,

da cui l’appellativo di “Porcellum” alla stessa legge, analogamente al “Mattarellum”,

con cui era stata definita la legge elettorale del 1993 con la quale, abbandonando il

precedente sistema proporzionale, si era introdotto per tre quarti il maggioritario, e poi

si era votato nel 1994, nel 1996 e nel 2001.

In particolare, durante la registrazione della trasmissione televisiva Matrix, al

conduttore Enrico Mentana, Calderoli disse si essere poco orgoglioso della legge

elettorale: “L’ho scritta io, ma è una porcata. Una porcata fatta volutamente per

mettere in difficoltà una destra e una sinistra che devono fare i conti col popolo che

vota” 1.

In effetti, questa legge è riuscita a mettere in imbarazzo sia la destra sia la sinistra.

Ma solo in apparenza. E non perché era strano che la sinistra criticasse una legge con

cui aveva vinto o la destra si rammaricasse di una vittoria che avrebbe conquistato se

fosse rimasto in vigore il “Mattarellum”. Piuttosto perché, a conti fatti, questa legge ha

consentito di portare alla luce due questioni che da più parti non si voleva portare alla

luce:

1 Cfr. La Repubblica, 15 marzo 2006.

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- con il rispetto del principio proporzionale, appena corretto da soglie di

sbarramento facilmente superabili, ha consentito a tutti i partiti, partitini e

partitelli di dire e fare quello che volevano dal momento che, sotto il regime

elettorale a spinta maggioritaria del “Mattarellum”, non avevano tratto la forza

necessaria per accorparsi;

- con il premio di maggioranza alla coalizione vincente ha risolto il problema

della governabilità. La difficoltà sorta al Senato è derivata, tecnicamente, dal

fatto che il premio è stato attribuito su base regionale anziché nazionale, ma

politicamente e sostanzialmente dal fatto che il corpo elettorale è risultato

diviso a metà e al Senato ha avuto più seggi, l’Unione, che aveva ottenuto meno

voti.

È perciò evidente che il “Porcellum” può funzionare benissimo quando dalle urne

esce una netta maggioranza a favore di una parte, che in tal modo può contare su un

sufficiente margine di seggi per governare. In caso di pareggio di voti, nessun sistema

elettorale può rimediare.

A questo punto rilevare un aspetto della legge che, nelle elezioni del 2006, è stato

trascurato. La legge, infatti, prevede che il premio di maggioranza vada assegnato

“alla lista o alla coalizione” che prende più voti (alla Camera su base nazionale; al

Senato in ogni regione dove raggiunga il 55% dei seggi).

Nel 2006, al premio di maggioranza concorsero due coalizioni: a sinistra l’Unione e

a destra la Casa delle libertà. Praticamente, tutte le formazioni politiche si schierarono

con l’una o l’altra parte. Alla fine, alla Camera l’Unione mise insieme il 49,805% dei

voti e la Cdl il 49,740%.

Ciò che non poteva fare il “Porcellum” era dare compattezza e omogeneità alle due

coalizioni, in pratica due cartelli elettorali creati per conquistare il premio di

maggioranza. Ed è su questo punto che tale legge ha mostrato, a scoppio ritardato, la

sua nascosta virtù. Ha dimostrato che la governabilità non dipende dai numeri, ma

dalla coesione e dalla omogeneità politica della coalizione.

Il governo Prodi, frutto di un cartello elettorale, non ha retto alla prova; ma non a

causa delle legge elettorale bensì a causa della disomogeneità delle forze politiche che

lo sostenevano. La prova? Due prove:

- la prima è che un precedente cartello elettorale di centrosinistra, formato sotto

la legge elettorale “Mattarellum”, guidato dallo stesso Prodi, vincitore nel 1996,

fallì dopo poco più di due anni a causa della defezione di una parte di un socio

della coalizione;

- la seconda è che Walter Veltroni, diventato segretario del nuovo Partito

democratico, appena sciolte le Camere dal presidente Napolitano, ha detto che il

Pd sarebbe andato da solo al voto, dimostrando che la governabilità dipende

dalla compattezza e omogeneità della forza politica che sostiene il Governo.

Se, alla prima applicazione nel 2006, il “Porcellum” aveva “autorizzato” le due

ammucchiate, in vista della seconda applicazione, il 13-14 aprile prossimi, ha prodotto

l’effetto opposto: a sinistra, il Pd andrà da solo e gli altri faranno quello che vorranno;

a destra, Forza Italia e Alleanza Nazionale daranno vita, come ha detto Silvio

Berlusconi l’8 febbraio, a una sola lista, quella del “Popolo della libertà”. E questo

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perché il “Porcellum” prevede l’attribuzione del premio di maggioranza non solo alle

coalizioni ma anche alle liste. Liste che si prefigurano assai più omogenee e compatte,

sia a destra sia a sinistra.

Potrebbe essere la favola del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno. Adesso si

prefigura lo scontra tra un partito che a sinistra si presenta come socialdemocratico e

riformatore, ed è accreditato del 30-35% dei voti, quindi “a vocazione maggioritaria”,

come ha sostenuto fin dall’inizio il suo segretario, Veltroni, e un partito, a destra,

accreditato del 40-45% dei voti, anch’esso a vocazione maggioritaria. Un forte passo

verso la semplificazione del quadro politico, verso la stabilità della Legislatura e verso

la governabilità. Perché quando due partiti, da soli, superano insieme il 70% dei voti,

il sistema si può definire realmente bipolare e quindi anche in grado di sostenere una

riforma della Costituzione per riequilibrare gli ambiti dei poteri dei diversi organi

costituzionali (Parlamento, Governo, Presidenza della Repubblica, Corte

costituzionale, ecc.)

Queste considerazioni, confortate dai fatti, fanno completamente decadere le accuse,

soprattutto da parte della sinistra, nei confronti del “Porcellum”, ed anzi ne mostrano

la strumentalità al fine di nascondere – ma ormai è acqua passata – la vera causa della

debolezza del governo Prodi. Non solo: va dato atto a Silvio Berlusconi si essere stato

il primo, nonostante la sconfitta elettorale e l’ipotesi di errori o addirittura irregolarità

nei conteggi dei voti, a difendere il sistema elettorale in vigore.

Viste oggi, a Camere sciolte, le reiterate richieste di cambiamento della legge

elettorale da parte della sinistra, appaiono come tentativi di rinviare la crisi del

governo Prodi, di dividere l’opposizione mostrando all’uno o all’altro diverse ipotesi

di riforma elettorale, mentre nella sostanza l’Unione stessa è stata incapace di

prospettare all’opposizione, in modo unanime, un modello di riforma elettorale.

3. “Porcellum”: come funziona

Vediamo in dettaglio le regole del “Porcellum”, cioè della Legge 21 dicembre 2005, n.

270 che ha reintrodotto il meccanismo proporzionale, ma senza voto di preferenza, ed

ha previsto l’attribuzione di un premio di maggioranza: per la Camera in sede

nazionale alla coalizione che ottiene più voti portando i suoi seggi, ove non

conquistati, a 340, e per il Senato alla coalizione che ha ottenuto più voti in sede

regionale, stabilendo per ogni Regione che almeno il 55% dei seggi siano attribuiti

alla coalizione vincente.

Questi dunque, in dettaglio, i punti principali della legge che ha sostituito il

“Mattarellum” del 1993 e si può definire “proporzionale con premio di maggioranza”,

e con la quale si è votato il 9-10 aprile 2006:

- Abolizione dei collegi uninominali: l’elettore, con la legge precedente, poteva

votare su due schede per la Camera dei Deputati e una scheda per il Senato; mentre la

parte proporzionale alla Camera veniva espressa con la seconda scheda, dando la

possibilità di scegliere una lista, al Senato si procedeva a un recupero su base

regionale fra i non eletti all'uninominale. Con il nuovo sistema l’elettore si limita a

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votare, su due schede, solo per delle liste di candidati, senza la possibilità, come si

verificava in passato prima del referendum o come avviene per le elezioni europee, di

indicare preferenze. L’elezione dei parlamentari dipende quindi completamente dalle

scelte e dalle graduatorie stabilite dai partiti, ovvero dai loro organi centrali.

- Premio di maggioranza: viene attribuito alla lista o alla coalizione vincente un

minimo di 340 seggi alla Camera dei Deputati, se non arriva a tale soglia, mentre

conserva i seggi in più eventualmente ottenuti. La Camera conta complessivamente

630 seggi. Da notare che i 12 seggi assegnati alla Circoscrizione Estero sono

contemplati a parte, come anche il seggio della Valle d'Aosta, e non entrano nel

calcolo per l’assegnazione del premio di maggioranza. Per quanto riguarda il Senato,

il premio di maggioranza è attribuito su base regionale, e viene assegnato alla lista o

alla coalizione vincente in modo da assicurarle in ogni singola regione almeno il 55%

dei seggi; il restante 45% dei seggi viene assegnato alle altre liste o coalizioni. Non è

previsto il premio di maggioranza in Molise, Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige e

Circoscrizione Estero.

- Capo della forza politica: è la denominazione prescelta per identificare il

candidato premier proposto dalla lista o dalla coalizione.

- Soglie di sbarramento: per partecipare alla ripartizione dei seggi alla Camera, ogni

lista o coalizione deve ottenere almeno il 10% dei voti nazionali; per quanto concerne

le liste non collegate, la soglia minima viene ridotta al 4%. Le liste collegate

influiscono nella ripartizione dei seggi assegnati a una coalizione se superano il 2%

dei voti; ad esse si aggiunge la più votata tra le liste al di sotto di questa soglia. Al

Senato, le soglie da superare sono a livello regionale, e sono rispettivamente: 20%,

8% e 3%.

4 - Le elezioni del 9-10 aprile 2006

Con questa legge gli italiani si recarono al voto il 9-10 aprile 2006. Da notare che,

sotto la pressione del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che

sosteneva la necessità di dare tempo al nuovo Governo di affrontare prima dell’estate

la situazione economica – descritta grave – e l’opportunità di evitare il cosiddetto

ingorgo istituzionale, in quanto il suo mandato presidenziale sarebbe scaduto a

maggio, la Legislatura fu accorciata di circa mese e la data della consultazione fu

fissata per il 9 e 10 aprile, ritornando così alla prassi di votare in due giorni, la

domenica e il lunedì successivo fino alle ore 14. Sul piano strettamente politico,

questo breve anticipo ha frenato il recupero di consensi del centrodestra, innescato

soprattutto da una intensa campagna elettorale del premier Silvio Berlusconi,

impedendo di sfruttare l’afflusso dei dati positivi circa la ripresa economica in atto da

alcuni mesi e soprattutto il consistente aumento delle entrate fiscali che sarebbe

emerso poco dopo il voto. Forse trascurabile, ma la cattura del superlatitante

Bernardo Provenzano, avvenuta il giorno successivo alla chiusura delle urne, non

poté essere sfruttata dal Governo come un prezioso e simbolico successo.

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Il risultato, dopo alcune incertezze e relative polemiche, decretò la vittoria della

coalizione di centrosinistra (l’Unione) alla Camera per poco più di 24 mila voti e,

grazie al successo ottenuto nella Circoscrizione Estero (per la prima volta hanno

votato anche i cittadini italiani residenti all’estero), essa ottenne una strettissima

maggioranza anche al Senato, come sopra ricordato in dettaglio.

Prima di esaminare i risultati, è opportuno fare alcune precisazioni. Anzitutto la

prospettiva del premio di maggioranza da attribuire o alla lista o alla coalizione spinse

entrambi i poli a mettere insieme, sotto la stessa bandiera, il maggior numero possibile

di partiti allo scopo di conquistare la maggioranza assoluta dei voti. In secondo luogo,

le soglie previste di sbarramento spinsero alcuni partiti più piccoli a fondersi allo

scopo di superare, alla Camera, lo sbarramento del 2%. In terzo luogo, alla Camera,

DS, DL-Margherita e Movimento repubblicani europei si presentarono con un solo

simbolo, L’Ulivo, rendendo impossibile conteggiare i voti ottenuti singolarmente da

ciascuno di questi tre partiti, identificabili solo attraverso il voto ottenuto al Senato.

La seguente tabella relativa al voto per la Camera è perciò fortemente disomogenea

rispetto a quelle che verranno presentate negli altri capitoli di questo saggio e, per

quanto riguarda il calcolo dell’indice di distorsione (di cui si parlerà in dettaglio più

avanti), il risultato risulta stravolto dal premio di maggioranza: paradossalmente,

nonostante l’assegnazione del premio, esso è nettamente inferiore a quello

determinato sotto la precedente legge elettorale, sia perché il sistema proporzionale

abbassa detto indice, sia soprattutto perché le due coalizioni hanno ottenuto

praticamente lo stesso numero di voti. La suddivisione che è possibile fare è perciò

solo di tipo territoriale.

Elezioni politiche del 9-10 aprile 2006 - Camera

Partiti Voti in cifra

assoluta

Voti ottenuti

in

percentuale

Media voti per

ottenere un

seggio

Seggi

ottenuti

Seggi teorici in

base ai voti in

% (circa)

Differenza in

numero di seggi

(circa)

Italia 39.298.497

- Unione – Prodi 19.002.598 49,80 58.889 340 307 + 33

- CdL – Berlusconi 18.977.843 49,74 68.512 277 306 - 29

Valle d’Aosta 78.657

- Unione 34.167 43,43 1

- CdL 13.372 17,0 0

Estero 975.414

- Unione 459.454 47,10 65.630 7 6 + 1

- CdL 369.952 37,92 92.488 4 5 - 1

- Altri 146.008 14,8 146.008 1 1 -

Totale Unione 19.496.219 348

Totale CdL 19.361.167 281

Totale Altri 146.008 1

Totale Camera 100,0 630 64 : 2 = 32

Media nazionale 62.378

Indice di distorsione: 32 x 100 : 630 = 5,07

Poiché, a livello di percentuale, Unione e CdL sono risultate separate da appena lo

0,06% dei voti, il numero di seggi che avrebbero dovuto conquistare, se fosse stato

applicato un rigoroso sistema proporzionale con tutto il territorio compreso in una

Page 15: Sistemi elettorali a confronto

unica circoscrizione elettorale, sarebbe stato lo stesso, rispettivamente 307 (308 con il

seggio della Valle d’Aosta) e 306. Grazie al premio di maggioranza, l’Unione ha

avuto 340 seggi e la CdL 277. In questo modo la nuova legge ha ottenuto, per la

Camera, l’obiettivo della governabilità, assicurando alla coalizione vincente un ampio

margine di maggioranza.

I problemi sono sorti al Senato poiché il premio di maggioranza è stato attribuito

all’interno di ogni singola regione, escluse quelle indicate dalla legge. Nella tabella

che segue sono stati effettuati alcuni accorpamenti.

Elezioni politiche 9-10 aprile 2006 - Senato

Partiti Voti in cifra

assoluta

Voti ottenuti

in

percentuale

Media voti per

ottenere un

seggio

Seggi

ottenuti

Seggi teorici in

base ai voti in

% (circa)

Differenza in

numero di seggi

(circa)

Italia 35.262.679

- Unione – Prodi 16.725.401 48,96 113.009 148 147

- - Ds 5.977.347 17,50 96.408 62 52 + 10

- - Margherita 3.664.903 10,73 93.971 39 32 + 7

- - Rifondazione 2.518.361 7,37 93.272 27 22 + 5

- - Insieme con l’U. 1.423.003 4,17 129.363 11 12 - 1

- - Italia dei valori 986.191 2,89 246.547 4 8 - 4

- - Rosa nel pugno 851.604 2,49 - 7 - 7

- - Udeur 477.226 1,40 159.075 3 4 - 1

- - Altri Unione 826.433 2,41 413.216 2 7 - 5

- CdL - Berlusconi 17.153.978 50,21 112.117 153 151

- - Forza Italia 8.202.890 24,01 105.165 78 72 + 6

- - Alleanza Nazionale 4.235.208 12,40 103.297 41 37 + 4

- - Udc 2.309.442 6,76 109.973 21 20 + 1

- - Lega Nord 1.530.667 4,48 117.743 13 13 -

- - Altri CdL 875.771 2,57 -

- Altri fuori coalizione 282.236 0,83 -

Valle d’Aosta 73.315

- Unione 32.553 44,16 1 1 -

- CdL 13.779 18,68 -

- Altri fuori coalizione 27.383 37,14 -

Trentino-Alto Adige 602.845

- Unione 359.688 62,69 71.937 5 4 + 1

- CdL 189.955 33,10 94.977 2 2 -

- Altri fuori coalizione 24.073 4,19 - 1 - 1

Estero 975.414

- Unione 426.544 48,47 106.636 4 3 + 1

- CdL 369.952 37,92 369.952 1 2 - 1

- Altri fuori coalizione 120.389 13,67 120.389 1 1 -

Totale Unione 17.544.186 158

Totale CdL 17.727.664 156

Totale Altri 454.081 1

Totale Senato 315

Media nazionale 56:2=28

Indice di distorsione: 28 x 100 : 315 = 8,88

Anche per il Senato, come si può verificare nella tabella relativa, l’indice di

distorsione è assai poco significativo. Tuttavia, grazie al proporzionale e al premio di

maggioranza, sono evidenti i vantaggi conseguiti dai partiti maggiori (più seggi e con

Page 16: Sistemi elettorali a confronto

meno voti mediamente necessari per conquistare un seggio: la media nazionale è

comunque poco significativa). Clamorosa l’esclusione dal Senato della Rosa nel

Pugno nonostante gli oltre 850 mila voti conquistati. Viceversa, l’Alleanza Lombarda

per le Autonomie, con soli 70 mila voti, ha ottenuto un seggio mentre la CdL, per

conquistare un solo seggio nella Circoscrizione Estero, ha utilizzato quasi 370 mila

voti, più del triplo della media nazionale. Decisivo è risultato il voto all’estero che ha

permesso all’Unione di raggiungere quota 158, cioè 2 seggi in più della CdL2. Come è

noto, al Senato siedono i senatori a vita: di diritto gli ex presidenti della Repubblica

(Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi) e di nomina

presidenziale gli altri 5, rimasti in 4 dopo l’elezione di Giorgio Napolitano al

Quirinale (si tratta di Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Sergio Pininfarina e Rita

Levi Montalcini). Con l’elezione a Presidente del Senato di Franco Marini, l’Unione

ha dovuto rinunziare al suo voto, pertanto la sua maggioranza è scesa a 2 senatori.

5. I tentativi di riforma

Immediate le polemiche sulla legge elettorale “Porcellum” dopo la proclamazione dei

risultati poiché l’Unione si rese subito conto di dovere affrontare una situazione

sempre aleatoria al Senato – nonostante le dichiarazioni ottimistiche di Romano Prodi

e di altri leader – mentre nel centrodestra ci si rammaricava del fatto che, se fosse

stato mantenuto il “Mattarellum”, avrebbe vinto.

È inutile nasconderselo. Non esiste un sistema elettorale che sia nella stessa misura

equo per tutti i partiti. E non solo perché ogni sistema produce una più o meno

accentuata distorsione nel momento in cui trasforma i voti in seggi, favorendo i partiti

maggiori e l’aggregazione o quelli minori e la frammentazione. Ma perché un sistema

elettorale è necessariamente rigido e quindi diventa stretto quando si producono dei

rilevanti spostamenti nell’elettorato per cui i vantaggi o svantaggi che esso produce di

per sé si amplificano, e la sua eventuale riforma diventa più difficile. Come ha

dimostrato la storia recente dei modelli alternativi proposti e tutti bocciati ora da

alcuni e ora da altri partiti.

Per comprendere tutto ciò, occorre ricordare che il sistema elettorale è il

meccanismo in base al quale i voti attribuiti ai singoli partiti si trasformano in seggi.

Le elezioni hanno due obiettivi: uno periodico e concentrato in uno o più giorni, che è

quello di eleggere i rappresentanti, ma l’altro, duraturo e in fondo principale, è quello

di far sì che si formi una maggioranza parlamentare in grado di sostengano un

governo, che poi, giorno per giorno, guidi sistema-Paese.

Da qui una questione fondamentale: le elezioni servono primariamente ad eleggere i

rappresentanti dei cittadini, e quindi, logicamente, ne devono esprimere nel modo più

fedele (e proporzionale) gli orientamenti politici; oppure servono primariamente a

creare le condizioni per l’esistenza di un governo stabile ed autorevole? Ovvero: che

cosa privilegiare tra rappresentatività e governabilità?

2 Di fatto, 159, almeno per il tempo in cui il sen. De Gregorio ha votato per l’Unione prima di abbandonarla.

Page 17: Sistemi elettorali a confronto

Ne discende una fondamentale distinzione: i sistemi elettorali proporzionali

privilegiano la rappresentatività di tutti partiti di una certa consistenza, stabilendo una

corrispondenza abbastanza fedele tra numero di voti e numero di eletti; i sistemi

elettorali maggioritari, invece, si preoccupano primariamente di dare a un partito (o a

una coalizione) una netta maggioranza così da assicurare stabilità al governo da essa

espresso, anche a costo di sovra-rappresentare alcuni partiti in termini di seggi e di

sotto-rappresentarne altri.

In teoria, un sistema elettorale proporzionale perfetto sarebbe quello che attribuisse

ad un partito che, ad esempio, avesse ottenuto il 40% dei voti, il 40% dei seggi, e a

uno che avesse ottenuto il 18% dei voti, il 18% dei seggi. Ma questo potrebbe portare

ad un Parlamento frammentato e quindi a governi deboli e di breve durata.

Questa perfetta proporzione tuttavia non si registra mai sia perché i partiti,

soprattutto se numerosi, ottengono percentuali di voto decimali, mentre i seggi restano

interi (non si può assegnare un terzo di seggio), sia perché la popolazione viene divisa

in collegi elettorali, o circoscrizioni, cioè porzioni di territorio a ciascuna delle quali è

assegnato un certo numero di seggi. Diventa così impossibile attribuire i (pochi) seggi

disponibili ai (molti) partiti con divisioni senza ottenere dei resti talvolta consistenti.

In un sistema elettorale maggioritario, il problema non si pone: i resti vanno perduti

(anche se ciò si può correggere) e ci si preoccupa solo di avere una forte maggioranza

di governo.

Ne segue, inevitabilmente, che qualsiasi sistema elettorale presenta un effetto

distorsivo nella trasformazione dei voti in seggi. Alcuni sistemi avvantaggiano i partiti

maggiori, altri quelli minori. Un sistema che accontenti gli uni e gli altri non esiste. È

perciò pura demagogia affermare che esiste un sistema realmente equo. In genere, un

sistema elettorale – o u modello proposto in alternativa – è messo sotto accusa da

parte di chi ne risulta (o ne risulterebbe) svantaggiato.

L’attuale legge elettorale italiana, il “Porcellum”, cerca una sintesi tra le due

legittime esigenze della rappresentatività e della governabilità attraverso la formula

“sistema proporzionale con premio di maggioranza”. Come si sia arrivati a questa

soluzione verrà raccontato più avanti, nel capitolo storico-politico relativo alle vicende

italiane. Qui basti dire che, applicata a livello di coalizione, ha fallito, ma a causa della

disomogeneità della coalizione di sinistra; se il 13-14 aprile prossimi verrà applicata a

livello di lista potrà, invece, soddisfare entrambe le esigenze.

In breve, le alternative che nel corso degli ultimi mesi erano state proposte, se

andavano bene ad alcuni non andavano bene ad altri. Questo non per la specifica

malizia dei proponenti, ma per la natura intrinseca di qualsiasi sistema elettorale.

Esaminiamole:

a) Modello “Vassallum”

“Vassallum” o “Veltronellum” è il sistema di legge elettorale messo a punto dai

costituzionalisti Sebastiano Vassallo e Stefano Ceccanti, che il segretario del Partito

democratico, Walter Veltroni, fece proprio nell’autunno 2007, pur non essendo stato

approvato da nessun organo del partito e anzi suscitando, tanto nell’area di sinistra

Page 18: Sistemi elettorali a confronto

quanto in quella di destra, una serie di obiezioni: in particolare da Rifondazione e dai

piccoli partiti dell’Unione, dall’Udc (favorevole al modello tedesco apprezzato anche

da elementi del Pd), ma in parte anche da An e dalla Lega.

Sebbene mai definito in tutti i dettagli, il “Vassallum” si presenta come un mix di

sistema elettorale tedesco e spagnolo, quindi è proporzionale, ma nell’applicazione

esso prefigura un forte effetto maggioritario.

Anzitutto il “Vassallum” prevede, analogamente al sistema tedesco, che la metà dei

deputati siano eletti in collegi uninominali (vince il seggio chi ottiene più voti, ovvero

la maggioranza relativa) e l’altra metà su base di lista a livello circoscrizionale.

Dal modello spagnolo, il “Vassallum” ricava l’indicazione per circoscrizioni ridotte

(in Spagna la media è di 7 deputati per ogni circoscrizione), che in Italia potrebbero

coincidere con le province, mentre dal modello tedesco ricava lo sbarramento al 5%

necessario per l’inserimento nel calcolo per l’assegnazione dei seggi.

L’elettore avrebbe a disposizione un solo voto, valido sia per il seggio attribuito con

l’uninominale, sia per l’assegnazione dei seggi su base proporzionale e

circoscrizionale. I migliori perdenti del voto uninominale si aggiudicherebbero i seggi

spettanti al partito in base alla quota proporzionale e, se non bastano, si prendono in

considerazione i candidati delle liste circoscrizionali.

L’effetto congiunto delle circoscrizioni ridotte e dello sbarramento, avrebbe un

effetto bipartitico, nel senso che i due maggiori partiti – supposto che partano da una

base elettorale compresa tra il 30 e il 35% dei voti – conquisterebbero la gran parte

dei seggi. Non si esclude che un solo partito potrebbe conquistare la maggioranza

assoluta, soprattutto se il numero complessivo dei deputati venisse considerevolmente

abbassato dall’attuale livello di 630.

Oltre ai due maggiori partiti nazionali, nettamente favoriti da questo sistema

elettorale, trarrebbero benefici quei partiti fortemente concentrati su specifiche

porzioni di territorio, dove potrebbero conquistare un discreto numero di seggi

all’uninominale. Penalizzati, invece, i partiti medio-piccoli ma diffusi in modo

abbastanza omogeneo su tutto il territorio nazionale.

L’effetto globale del “Vassallum” sarebbe quello di una drastica riduzione della

frammentazione dei partiti, ovvero un pluripartitismo moderato intorno ad una

bipolarizzazione formata dai due maggiori partiti nazionali.

Sotto questo aspetto, la situazione italiana potrebbe finire per assomigliare sia a

quella spagnola (due grandi partiti e rappresentanza dei partiti concentrati su parti del

territorio) sia a quella tedesca, con due partiti maggiori e 3-4 partiti medio-piccoli.

Nel caso in cui uno dei due partiti maggiori non consegua la maggioranza assoluta

dei seggi, potrebbe costituirsi una maggioranza formata da questo partito e un solo

alleato minore, quindi abbastanza omogenea, e pertanto anche in grado di garantire la

governabilità, oltre che la stabilità di legislatura (soprattutto se venisse introdotta

parallelamente la norma della “sfiducia costruttiva”) e preserverebbe il principio di

alternanza poiché sarebbe più facile per gli elettori premiare o punire il partito di

governo uscente: cosa più difficile quando si tratta di giudicare una coalizione

numerosa.

Page 19: Sistemi elettorali a confronto

Sul piano strettamente politico, la proposta “Vassallum” fu giudicata il prodotto

(vero o auspicato) di un’intesa sottobanco tra Veltroni e Berlusconi per sbarazzarsi

dei rispettivi irrequieti alleati, e quindi avversata sostanzialmente da tutti gli altri

partiti. Ma le obiezioni più forti vennero dall’interno dell’Unione e dello stesso

Partito democratico (D’Alema rilanciò il modello tedesco), tanto che lo stesso

Veltroni ribadì che, in cima alle sue preferenze, i sarebbe stato il modello francese.

Parallelamente alle prese di posizione dei diversi leader politici a favore di questo o

quel modello, in Commissione Affari Costituzionali del Senato, procedevano i lavori

per la messa a punto di una riforma della legge elettorale sotto la guida dello stesso

presidente della Commissione, Enzo Bianco.

b) La bozza Bianco

La bozza Bianco rappresenta un passo indietro rispetto al bipolarismo del

“Vassallum” , ma in sede di dibattito parlamentare avrebbe potuto inclinare sia verso

il modello tedesco, allontanandosi ancora di più dal “Vassallum”, sia verso il modello

spagnolo, recuperandolo. La bozza riflette le esigenze, contrastanti, dei diversi partiti,

per cui ha ricevuto una serie di veti.

Sul piano tecnico:

- la metà dei seggi viene assegnata con il maggioritario uninominale che

garantisce un buon successo dei due partiti maggiori;

- l’altra metà viene assegnata con liste circoscrizionali bloccate e decise dalle

segreterie dei partiti, non essendo previsto il voto di preferenza;

- lo sbarramento del 5% su scala nazionale e del 7% in almeno 5 collegi

garantisce i partiti fortemente concentrati sul territorio mentre il conteggio dei

voti su base circoscrizionale (senza il recupero dei resti su base nazionale)

favorisce anche nella parte proporzionale i partiti maggiori, abbandonando i

partiti medio-piccoli a una sotto-rappresentazione in termini di seggi.

Sul piano politico generale:

- la proposta Bianco seppellisce il bipolarismo coatto di coalizione, reso

inoperante dalla semplice facoltà di dichiarare in modo non vincolante

l’alleanza che i partiti stipulerebbero dopo il voto. Quindi, sostanzialmente,

mani libere per la formazione delle alleanze dopo il voto, cioè in funzione del

voto: questo spiega il giudizio negativo di An e dei piccoli partiti specie della

sinistra;

- riduce drasticamente la prospettiva dell’affermazione di un “centro”

consistente perché rafforza i due partiti a “vocazione maggioritaria”: da qui il

giudizio negativo dell’Udc;

- penalizza fortemente i piccoli partiti, ma salva le prospettive di Rifondazione

e, in parte, della Lega (concentrata su una porzione di territorio): da qui la

rivolta dei piccoli partiti dell’Unione.

Punto critico:

- il numero delle circoscrizioni. La proposta bianco ne prevede 32, contro le 26

attuali. Ciò significa che in ogni circoscrizione si conteranno in media 1,5

Page 20: Sistemi elettorali a confronto

milioni di voti validi e questo abbassa, di fatto, la soglia al 2-3%, garantendo la

rappresentanza parlamentare a tutti i partiti in grado di superare detta soglia,

eventualmente ricorrendo a presentarsi in un’unica lista. La conseguenza è che,

con 32 circoscrizioni, la frammentazione non verrebbe ridotta in modo

sostanziale, ma verrebbe solo diminuita la rappresentanza parlamentare dei

partiti più piccoli e medi;

- nel dibattito parlamentare, il numero di circoscrizioni sarebbe potuto

diminuire, con la conseguenza di conservare la frammentazione; oppure

sarebbe potuto aumentare, riducendo drasticamente la frammentazione secondo

l’esempio spagnolo. Le circoscrizioni grandi, avendo a disposizione più seggi,

favoriscono la rappresentanza anche dei partiti minori. Una eventuale riduzione

dei numero complessivo dei deputati avrebbe accentuato gli effetti favorevoli

ai due partiti maggiori.

Se così si può dire, la bozza Bianco ha avuto il merito di chiarire quanto fossero

profonde le divisioni, soprattutto all’interno della sinistra, in merito alla riforma

elettorale. Il giudizio positivo formulato sulla proposta da Rifondazione comunista ha

infatti rotto la solidarietà tra i partiti più piccoli dell’Unione e ha forse permesso

anche a Veltroni di chiarirsi le idee su chi, all’interno del suo stesso Partito

democratico, strumentalizzava la questione della riforma elettorale per opporsi alla

sua leadership. Pertanto la bozza Bianco ha accelerato la fine del governo Prodi e ha

contribuito, di fatto, allo scioglimento anticipato delle Camere da affrontare con la

legge in vigore, il “Porcellum”.

c) I modelli stranieri

Spesso evocati, i modelli stranieri di legge elettorale (francese, spagnolo, tedesco)

saranno analizzati nei capitoli seguenti. Qui questi ricordare che un sistema politico

non nasce, e soprattutto non vive, per decreto, ma è il frutto di una lunga evoluzione

storica e culturale. Il bipartitismo o la stabilità governativa hanno senza dubbio

bisogno di essere sostenuti da regole, ma le loro radici devono essere più profonde.

La stessa alternanza, sicuramente positiva, per funzionare deve rinunziare ad essere

una alternanza destruens, nel senso che chi vince si preoccupa anzitutto di cancellare

ciò che hanno fatto gli avversari sconfitti, e deve diventare construens. Solo in questo

modo, nella vita della società civile ma soprattutto in quella delle istituzioni dello

Stato, si potrà allargare e consolidare la cultura del civil servant imparziale di cui la

prassi partitocratrica ha quasi cancellato l’esistenza nella Pubblica Amministrazione

del nostro Paese.

Esiste un rapporto organico tra sistema elettorale e sistema istituzionale, intendendo

con questa seconda espressione l’organizzazione dei poteri dello Stato. Il primo deve

essere funzionale al secondo. Modificare il solo sistema elettorale, come è avvenuto

nel 1993, non ha portato i frutti sperati per il semplice motivo che l’impianto

costituzionale è rimasto lo stesso. Ma non è stata un’operazione inutile. Il sistema è

stato comunque scosso e l’opinione pubblica ne è consapevole.

Page 21: Sistemi elettorali a confronto

A questo punto, prima di analizzare i diversi effetti sul sistema politico prodotti

dalle diverse leggi elettorali applicate in Italia dal dopoguerra ad oggi, è necessario

esaminare un po’ più a fondo i meccanismi dei diversi sistemi elettorali più diffusi,

anche per capire meglio il rapporto esistente tra sistema elettorale, sistema

istituzionale e peso specifico di ogni cultura politica nazionale, frutto di storia,

tradizioni, consuetudini e, naturalmente, interessi.

Page 22: Sistemi elettorali a confronto

La democrazia rappresentativa

1. A che servono le elezioni

La democrazia moderna si fonda sul principio della rappresentanza: perciò si definisce

democrazia rappresentativa e si differenzia dalla democrazia antica, come quella

greca, che era una democrazia diretta, in cui le decisioni politiche e le leggi erano

approvate direttamente dai cittadini riuniti in assemblea. Se ne conserva un aspetto

sotto forma di referendum, nel caso in cui la volontà espressa dai cittadini abbia lo

stesso effetto dell’approvazione di una legge come avviene, in Italia, con il

referendum abrogativo (l’abrogazione è una legge che ne abolisce un’altra). Insieme

ad altri tipi di referendum, come quelli confermativi o quelli consultivi, la democrazia

diretta svolge principalmente un ruolo di freno rispetto alle possibili degenerazioni di

quella indiretta, come l’assemblearismo, il trasformismo e la partitocrazia3.

In alcuni casi, la scelta da parte dei cittadini del Capo dello Stato (ad esempio in

Francia, ma non negli Stati Uniti), o del presidente di Regione, Provincia, Comune,

può apparire una forma di democrazia diretta. In realtà lo è solo in parte poiché,

effettuata questa scelta, che comunque è limitata ai candidati predisposti o

sponsorizzati dai partiti, essi non prendono parte successivamente alle decisioni di

quegli organi così eletti.

Il momento centrale della democrazia rappresentativa è la consultazione elettorale,

mediante un voto personale, libero e segreto. Per mezzo delle elezioni, i cittadini 3 L’assemblearismo è quel particolare sistema politico in cui l’assemblea degli eletti concentra praticamente in sé tutti i

poteri: legislativo, esecutivo e talvolta anche giudiziario. Tutte le decisioni vengono prese a maggioranza, ma le

maggioranze sono spesso variabili. In genere essa esprime un “comitato esecutivo” (una specie di governo) che deve

però limitarsi a dare esecuzione alle sue deliberazioni. Il trasformismo si verifica quando l’assemblea degli eletti, invece di restare sostanzialmente fedele agli schieramenti

politici indicati dagli elettori con la preferenza accordata ai diversi partiti, dà vita a maggioranze variabili che si

aggregano intorno a leader o progetti politici. In pratica rappresenta un vero e proprio tradimento del voto popolare.

La partitocrazia si ha quando le decisioni politiche vengono sostanzialmente prese dai partiti per cui l’assemblea degli

eletti si riduce a una camera di registrazione di una volontà formatasi al suo esterno. Era questa una delle principali

accuse rivolte alla degenerazione del sistema parlamentare italiano durante la cosiddetta Prima Repubblica. Ma bisogna

ammettere che, in una certa misura, parlamentarismo e partitocrazia vanno insieme, seppure secondo un rapporto

variabile da Paese a Paese e in funzione delle circostanze. Il freno maggiore alla partitocrazia è dato da un potere

esecutivo (governo) dotato di ampi poteri.

Page 23: Sistemi elettorali a confronto

scelgono i loro rappresentanti, ai quali affidano diversi poteri: il potere di governare; il

potere di fare le leggi; il potere di dare o togliere la fiducia al governo; il potere di

eleggere alcune cariche dello Stato.

Strumento essenziale della vita democratica è poi il partito politico, che convoglia

su di sé e sui suoi candidati i voti dei cittadini. Ragioni storiche ma anche ragioni

tecniche di natura legislativa – come la legge elettorale – spiegano l’esistenza, nei vari

Paesi, di un panorama politico sostanzialmente bipartitico oppure multipartitico,

nonché il passaggio tendenziale, e talvolta ciclico, dall’uno all’altro.

Le elezioni non hanno solo lo scopo di eleggere i rappresentanti dei cittadini: questo

è, in sostanza, un momento particolare che si svolge in uno o due giorni, in uno o due

turni. L’obiettivo vero è quello di consentire la formazione di un governo che

corrisponda alla volontà degli elettori e che guidi il sistema-Paese, giorno per giorno,

fino alle elezioni successive. Perché, più che eleggere qualche centinaio di deputati, i

cittadini votano per avere un governo, e l’elezione di una Camera (sistema

monocamerale) o di due Camere (sistema bicamerale, a sua volta paritario o non

paritario) resta funzionale a questo obiettivo.

Lo stesso atto del votare persegue due scopi: la rappresentanza e la governabilità.

Talvolta sono raggiunti entrambi, ma in altri casi questo non avviene: e ciò sia per

fattori politici di ordine generale, sia per effetti specifici della legge elettorale e della

distribuzione del potere tra gli organi costituzionali.

Ciò che si intende con il termine rappresentanza è la rappresentanza politica, cioè di

un orientamento a contenuto ideologico e programmatico di portata generale che si

ritiene valido per tutti, per cui non si tratta di una rappresentanza di interessi

particolari, espressi ad esempio, in passato, dai partiti “contadini” (di sinistra) o

“agrari” (di destra). Infatti la Costituzione italiana esclude il cosiddetto mandato

imperativo, cioè l’elezione di un deputato obbligato a rappresentare e difendere

determinati interessi: ogni deputato rappresenta l’intera Nazione. Per questo motivo,

l’eventuale passaggio di un deputato da un partito all’altro non comporta la sua

decadenza dal mandato, come senza conseguenze sulla natura del regime parlamentare

sono eventuali passaggi di interi partiti dalla maggioranza all’opposizione o viceversa,

o scissioni di partiti.

In Italia si è discusso se questo sia accettabile nel caso in cui gli elettori abbiano

eletto una coalizione e un leader e dopo un po’ si ritrovino con un’altra coalizione e un

altro leader. In questo caso, infatti, si avrebbe una doppia fiducia: quella degli elettori

e quella del Parlamento. Per coerenza, se gli elettori scelgono una coalizione e un

leader, dovrebbero essere chiamati a votare nel caso in cui quella coalizione venisse

modificata, per acquisizione o perdita di altre forze, o cambiasse il leader. Infatti il

regime parlamentare è fondato sulla rappresentanza nel senso che i cittadini si

limitano ad eleggere i loro rappresentanti i quali però, una volta eletti, sono sottoposti

alla Costituzione e ai Regolamenti parlamentari. Ma se gli elettori, con il loro voto,

automaticamente danno il potere a una coalizione e indicano il capo del governo, da

un lato limitano il potere di nomina del Presidente del Consiglio da parte del Capo

dello Stato, e dall’altro lato vengono a condividere con il Parlamento il potere di dare

la fiducia al Governo. Nell’un caso e nell’altro, un cambiamento nella coalizione di

Page 24: Sistemi elettorali a confronto

maggioranza e/o di premier dovrebbero provocare un automatico scioglimento della

Camera, ma questo dovrebbe essere sancito a livello costituzionale.

La rappresentanza degli interessi (oggi politico-territoriali, in passato professionali o

corporativi in senso stretto) avviene, invece, nella cosiddetta Camera Alta, tipica degli

Stati federali (come gli Stati Uniti o la Germania), dove i membri di questa assemblea

rappresentano gli interessi degli Stati, o Regioni o Länder di provenienza e/o hanno

competenze su specifiche materie. Il Senato degli Stati Uniti, ad esempio, è formato

da due senatori per ogni Stato; il Bundesrat della Germania è formato dai

rappresentanti eletti dalle assemblee dei Länder. La Costituzione italiana ha previsto

l’elezione dei senatori su base regionale, ma poiché il Senato ha gli stessi poteri della

Camera (bicameralismo paritario), esso ha assunto un carattere politico nazionale, di

cui tutte le forze politiche riconoscono ormai l’anacronismo, non solo per la

duplicazione del lavoro legislativo, che talvolta si prolunga in rinvii del testo da una

Camera all’altra fino ad avere un testo condiviso, ma per l’esigenza di dare migliore

rappresentanza alle istanze locali. Infatti, l’avere mantenuto questo carattere nazionale

al Senato ha provocato un costante aumento di richiesta di autonomia da parte delle

Regioni, il cui progressivo riconoscimento, non compensato da una precisa

ripartizione dei poteri, ha provocato un aumento di conflittualità tra lo Stato e le

Regioni. E lo stesso processo si è riprodotto a livelli inferiori. Le modifiche dei

sistemi elettorali per Comuni, Province e Regioni è stato un tentativo di dare

riconoscimento a questi interessi, che ha bisogno di trovare un assetto organico sul

piano istituzionale per evitare gli inconvenienti di blocchi decisionali (si pensi alla

Tav o all’emergenza spazzatura).

Parallelamente è un fatto noto che ogni istituzione tende alla autoconservazione e

quindi è restia a modificare i propri poteri, nel senso di ridurli o di coordinarli. Perciò

si assiste a una continua competizione tra le cosiddette istituzioni alte – parlamento,

governo, presidenza della repubblica, corte costituzionale, ecc. – per difendere la

propria area di potere e, possibilmente, aumentarla, soprattutto quando, come avviene

con la Costituzione italiana, le rispettive competenze vanno a sovrapporsi. La brevità

della durata media dei governi, specie nel periodo della Prima Repubblica, ha in un

primo momento accresciuto i poteri dei partiti, poi ha delegittimato il Parlamento,

provocando un aumento di potere della Presidenza della Repubblica e della Corte

costituzionale mentre è aumentato parallelamente il potere delle Regioni, dotate di un

proprio parlamento e di un proprio governo.

2. Sistema rappresentativo e società post-industriale

I tempi politico-psicologici tra un’elezione e l’altra si sono accorciati rispetto ai tempi

legali previsti dalle leggi. Si assiste, infatti, con riflessi anche in campo istituzionale, a

una accelerazione degli eventi e a una pressione crescente delle attese. Non è raro il

caso che, poco tempo dopo un voto anche netto a favore di un partito o di una

coalizione o di un leader, i sondaggi rivelino un rapido mutamento dell’orientamento

Page 25: Sistemi elettorali a confronto

dell’opinione pubblica al punto che, se si svolgesse una nuova consultazione, i

risultati sarebbero diversi.

L’ipotesi-limite di una democrazia permanente, resa praticabile dagli strumenti

telematici, affiora sempre più spesso, ma se viene ipotizzata per verificare la volontà

della maggioranza su questioni molto specifiche, finora riservate al meccanismo dei

referendum, essa trova un ostacolo logico nella ovvia riflessione che determinati

organi – il parlamento, il governo, il capo dello stato, i capi delle amministrazioni

locali – non possono essere sostituiti a ritmo frenetico sulla base di emozioni

momentanee né le loro decisioni possono essere altrettanto freneticamente soverchiate

dalle manifestazioni della volontà popolare.

Nell’epoca in cui i confronti elettorali erano principalmente ideologici, e la società

stessa, con la sua struttura dominata dal settore industriale in espansione, si presentava

semplificata e in un certo senso spaccata, le scelte elettorali era fortemente polarizzate.

Ma a partire dagli anni ’70 del Novecento, l’esplosione del terziario, sempre più

permeato dalle tecnologie informatiche, ha frantumato una immagine (e in parte anche

una realtà) della società divisa in classi contrapposte e questo si è tradotto in una

spinta alla frammentazione della rappresentanza politica con il declino dei grandi

partiti ideologici di massa e l’emergere prima di partiti di nicchia con progettualità

mirata (un esempio per tutti: i Verdi) e forte connotazione identitaria (come nel caso

dei partiti nazional-regionali), e successivamente in un generale orientamento verso

l’adesione ai grandi partiti – vecchi, rinnovati o nuovi – non per ragioni ideologiche

ma per i contenuti programmatici, soprattutto di ordine economico, che erano in grado

di esprimere e veicolare attraverso forme rinnovate di comunicazione politica.

Così, gradualmente, nel voto si esprime sempre più un giudizio sul programma

realizzato dal partito (o dalla coalizione) uscente, si valuta la credibilità del progetto

del partito (o della coalizione) che ambisce a sostituirsi al governo, si manifesta una

propensione più o meno accentuata al cambiamento e all’alternanza, spesso

considerata un valore in sé, e si attribuisce particolare rilievo al ruolo del leader (del

partito o della coalizione). Ciò è dimostrato dall’influenza che sul voto, limitandoci

allo scacchiere europeo, hanno esercitato personalità come quelle di Margaret

Thatcher, Helmut Kohl, Felipe González, José Maria Aznar, Silvio Berlusconi e lo

stesso Romano Prodi. Per questo si parla di voto-sanzione, di voto-indirizzo o di voto-

delega, variamente influenzati dal voto-emotivo che si manifesta in presenza di eventi

traumatici a ridosso del voto. Parallelamente emerge la consapevolezza del beneficio

che si ottiene dalla stabilità governativa per un periodo congruo: per questo, ad

esempio, si parla di governo di legislatura.

L’interdipendenza tra sistema elettorale e sistema istituzionale risulta evidente

quando si esamina il problema della durata del mandato, cioè della durata di una

legislatura. In genere è fissa e rispettata per i capi di stato elettivi; meno lo è per i

parlamenti. Nel Regno Unito, la legge prevede che la durata di una legislatura sia al

massimo di cinque anni, ma il primo ministro può chiedere lo scioglimento della

Camera dei Comuni quando lo ritiene più opportuno. In Spagna e in Germania la

durata della legislatura è di quattro anni, ma il Presidente del Governo (in Spagna) e il

Cancelliere (in Germania) possono procedere a elezioni anticipate. In Francia lo

Page 26: Sistemi elettorali a confronto

scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale è deciso dal presidente della

Repubblica, dopo essersi consultato con il primo ministro e con i presidenti

dell’Assemblea nazionale e del Senato (Art. 12 della Costituzione). Da notare che il

presidente della Repubblica francese condivide con il primo ministro la funzione di

capo dell’Esecutivo (esecutivo bicefalo), presiedendo il Consiglio dei ministri, e

soprattutto è eletto direttamente dai cittadini. In Italia, come è noto, la decisione spetta

al Capo dello Stato, sentiti i presidenti dei due rami del Parlamento (Art. 88).

Non c’è bisogno di sottolineare quanto sia importante l’attribuzione di questo potere

a uno o ad un altro organo. Eccetto che in Italia, limitando il confronto ai principali

Paesi democratici, questo potere spetta quindi al capo del governo poiché il governo

deve avere la fiducia del Parlamento. In Francia, il primo ministro è nominato dal

presidente della Repubblica, ed è obbligato a dimettersi in seguito a una mozione di

censura approvata dall’Assemblea nazionale a maggioranza dei suoi membri. Di fatto,

le sue dimissioni dipendono dal suo rapporto con il presidente della Repubblica

(quando entrambi appartengono alla stessa maggioranza politica), che però non può

nulla quando il primo ministro, appartenente a una diversa maggioranza politica, gode

dell’appoggio dell’Assemblea nazionale. Quando si verifica questa situazione

(definita di coabitazione), il presidente della Repubblica non può sciogliere

l’Assemblea nazionale. Ciò si è verificato nel caso della coabitazione: un presidente di

sinistra (François Mitterrand) per due volte ha dovuto nominare un primo ministro di

destra (Jacques Chirac e Édouard Balladur) in seguito alle elezioni politiche che

avevano determinato una maggioranza di centrodestra; e un presidente di destra

(Chirac) ha dovuto nominare un primo ministro di sinistra (Lionel Jospin). Perciò, se

sotto un aspetto la Francia è una repubblica semipresidenziale, sotto un altro aspetto è

allo stesso tempo una repubblica semiparlamentare.

Il potere di scioglimento mette in evidenza il rapporto esistente tra sistema elettorale

e sistema istituzionale in quanto le elezioni servono non solo a selezionare i

rappresentanti degli elettori, che in tal modo partecipano alla direzione della politica

nazionale, ma soprattutto a consentire la formazione di un governo che dia attuazione

alla politica nazionale. In origine, quando il potere esecutivo era nelle mani di un

sovrano e del suo gabinetto, il potere di scioglimento era riservato al re che se ne

serviva di fronte ad un parlamento riottoso (ad esempio, Art. 42 della Costituzione

francese del 1830). Successivamente, ridimensionato il potere esecutivo reale, un

primo ministro poteva chiedere elezioni anticipate per avere una maggioranza

parlamentare più consistente o più docile. In tempi più recenti, l’anticipo delle elezioni

è stato prevalentemente determinato dalla impossibilità del Parlamento di garantire

una maggioranza durevole al governo, sia a causa di un risultato elettorale

particolarmente equilibrato sia a causa della frammentazione e della litigiosità dei

partiti.

In Germania, delle 16 consultazioni elettorali svoltesi finora, solo 3 sono state

anticipate (di circa un anno). Nel Regno Unito, dal 1945 al 2005, delle 17

consultazioni elettorali, solo 4 hanno dato vita a legislature che sono arrivate al

termine massimo di 5 anni: la durata media è infatti di 3 anni e mezzo. In Spagna,

delle 8 consultazioni elettorali dal 1979 al 2004, la metà è avvenuta al termine del

Page 27: Sistemi elettorali a confronto

quadriennio, l’altra metà dopo circa tre anni, con una media, fino al 2004, di una

consultazione ogni 37 mesi.

Il caso della Francia è particolare. Per quanto riguarda la IV Repubblica (1946-

1958), le elezioni legislative sono state solo 3, rispettando sostanzialmente la prevista

durata quinquennale, ma nello stesso periodo si sono succeduti 24 governi di durata

variabile, da 1 giorno a 16 mesi: l’impossibilità di trovare una maggioranza stabile

nell’Assemblea si rifletteva nel continuo avvicendarsi di governi. Con l’avvento della

V Repubblica fondata da Charles de Gaulle nel 1958, si sono avute, incluse le ultime

elezioni legislative di giugno 2007, 13 consultazioni elettorali, di cui 7 della durata

prevista di cinque anni, con la media di una consultazione ogni 45 mesi: quindi una

notevole stabilità, ma si sono avuti comunque 32 governi.

Per valutare la stabilità del sistema politico francese, bisogna ricordare che in

Francia l’elezione che conta è quella presidenziale, per cui la successione dei primi

ministri è dovuta talvolta a cause politiche oggettive, come i risultati delle elezioni

presidenziali o legislative, ma talvolta è dovuta a scelte di opportunità che devono

essere fatte risalire al presidente della Repubblica. Quanto ai presidenti, si sono avute,

inclusa l’ultima dell’aprile-maggio 2007, 13 elezioni con 6 presidenti (Charles de

Gaulle due volte, Georges Pompidou, Valéry Giscard d’Estaing, François Mitterrand

due volte e Jacques Chirac due volte, ma con il secondo mandato ridotto da 7 a 5 anni

in seguito a modifica costituzionale; infine il neoeletto Nicolas Sarkozy). La

permanenza media all’Eliseo è stata di oltre nove anni (circa 116 mesi): ed è

sostanzialmente questa la cifra che misura la stabilità del sistema politico francese. Per

quanto riguarda la Francia, sono state prese in considerazione le elezioni presidenziali

e legislative di aprile-giugno 2007; il numero di governi è stato calcolato come quello

dei primi ministri, che talvolta sono succeduti a se stessi attraverso sostanziali rimpasti

più che governi nuovi. Per la Spagna sono state incluse le elezioni previste per il 9

marzo 2008 al termine di un regolare quadriennio.

Paese Numero

elezioni

Durata media

legislatura

(in mesi)

Numero

governi

Durata media

governi

(in mesi)

Regno Unito: dal 1945 al 2005 17 42 18 42

Spagna: dal 1979 al 2008 9 38 10 (1) 75

Germania: dal 1949 al 2005 16 43 7 (2) 87

Francia: dal 1946 al 1958 3 50 24 6

Francia: dal 1958 al 2007 12 48 19 30

Italia dal 1948 al 1994 11 49 47 (3) 11

Italia dal 1994 al 2006-8 5 33 9 (4) 18

Italia dal 1994 al 2006-8 5 33 7 23

(1) Per la Spagna, quanto al numero dei governi, si considera la successione dei Presidenti del

Governo successivi alle elezioni dell’1 marzo 1979 anche se hanno formalmente guidato, ma

succedendo a se stessi, più di un governo: 23 mesi Adolfo Suárez, 19 mesi Leopoldo Calvo-

Sotelo, 162 mesi Felipe González, 96 mesi José Maria Aznar; José Louis Zapatero, vincitore

delle elezioni del marzo 2004, ha portato a termine il mandato quadriennale.

Page 28: Sistemi elettorali a confronto

(2) Lo stesso vale per la Germania: i calcoli si riferiscono al numero di cancellieri con esclusione

dell’attuale, Angela Merkel, alla guida del Paese dalla fine del 2005.

(3) Per l’Italia abbiamo considerato solo i governi successivi alle elezioni politiche del 18 aprile

1948.

(4) Per il periodo della cosiddetta Seconda Repubblica, il numero di governi e la loro durata

media cambiano se si considerano in modo unitario i governi D’Alema I e D’Alema II nella

legislatura 1996-2001 e i governi Berlusconi II e Berlusconi III nella legislatura 2001-2006

grazie alla loro continuità; oppure se si considerino separati, come viene indicato nella

penultima riga. Il calcolo include il governo Prodi II dimessosi nel gennaio 2008 ma che

resterà in carica fino all’insediamento del nuovo Parlamento e del nuovo Governo,

probabilmente entro maggio 2008.

Negli Stati Uniti, invece, il problema della durata media dei mandati non si pone

poiché il sistema politico, ispirandosi al principio della divisione dei poteri, che non

comporta l’istituto della fiducia parlamentare nei confronti del governo, prevede una

durata fissa per le diverse cariche elettive. Ogni quattro anni si elegge il Presidente,

rieleggibile consecutivamente una sola volta; ogni due anni si rinnova completamente

la Camera dei Rappresentanti e si rinnova un terzo dei membri del Senato. Il

Presidente è il capo dell’Esecutivo, dotato di ampi poteri; il suo governo non deve

presentarsi al Congresso per ottenere la fiducia, ma su una vasta serie di

provvedimenti che comportano spese, nomine o particolari iniziative in campo

internazionale, occorre l’autorizzazione della Camera o del Senato o di entrambi i

rami del Congresso. Quando il partito del Presidente ha anche la maggioranza in

entrambi i rami del Congresso, l’Esecutivo non trova ostacoli; ma quando ciò non

avviene si instaura una continua dialettica tra Casa Bianca e Congresso che può

portare a maggioranze bipartisan oppure può paralizzare, in alcuni campi, l’Esecutivo.

Il caso americano qui non ci interessa poiché non è previsto il potere di scioglimento

del Congresso. Ma si può notare che, in assenza dell’istituto della fiducia, le elezioni

americane di medio termine, cioè quelle che si svolgono a metà tra un mandato

presidenziale e l’altro, consentono all’Esecutivo di tastare il polso dell’opinione

pubblica: sono come un voto di fiducia al Governo espresso dai cittadini anziché dai

loro rappresentanti. Di questo voto la Casa Bianca tiene sempre molto conto anche

perché spesso anticipa il risultato delle successive elezioni presidenziali.

Riassumendo, i sistemi elettorali-istituzionali, dal punto di vista della durata del

mandato, si dividono in sistemi con mandati a tempo determinato e in sistemi con

mandati a tempo indeterminato nel senso, in questo secondo caso, che una legislatura

può essere interrotta prima della sua scadenza naturale e la durata del governo dipende

dalla conservazione della fiducia del Parlamento. La convinzione che la durata

naturale della legislatura e la stabilità del governo siano valori positivi per la società, è

stata espressa, in Italia, con la formula governo di legislatura, resa popolare a partire

dalla campagna elettorale del 1996, e si è manifestata in varie proposte per introdurre

nell’ordinamento costituzionale alcuni meccanismi di salvaguardia della stabilità

politico-governativa. Ancora nulla di questo è stato realizzato perché se è

comprensibile che chi vince voglia restare al potere almeno per tutto il periodo di

tempo previsto, è altrettanto comprensibile che chi ha perso, vedendo in vari modi

Page 29: Sistemi elettorali a confronto

(con elezioni parziali o di altra natura, o con sondaggi, o con l’appoggio di dati

oggettivi relativi, ad es. all’andamento dell’economia) modificarsi l’orientamento

politico dei cittadini e registrandone lo spostamento a proprio favore, chieda una

consultazione elettorale anticipata in nome dell’esigenza di armonizzare il cosiddetto

Paese reale con il Paese legale.

Proprio in funzione dell’adozione di questi meccanismi, che riguardano l’assetto

istituzionale, emerge il rapporto con la legge elettorale, poiché si ritiene da molti che

un Parlamento semplificato, cioè dove siano rappresentati pochi partiti, sia a sua volta

un fattore di stabilità. Con la conseguenza che si discute di riforma della legge

elettorale e, insieme, di riforma delle istituzioni.

Mentre le istituzioni della democrazia rappresentativa moderna sono nate in periodo

pre-industriale o all’alba dell’industrializzazione, hanno attraversato abbastanza

indenni l’epoca dell’industrializzazione grazie al supporto delle ideologie, il passaggio

alla fase post-industriale vede accelerare fortemente i mutamenti sociali e culturali per

cui abbiamo istituzioni (parlamento, governo, istituto della fiducia e dello

scioglimento, ruolo del capo dello stato, ecc.) concepite per un tempo e una realtà che

sono cambiati. Si è quindi formato uno iato tra i tempi delle istituzioni e delle loro

scadenze e i tempi della società e delle sue attese. Un adeguamento dei primi ai

secondi è necessario e indispensabile, e uno dei suoi passaggi obbligati è proprio

quello del meccanismo elettorale. Non a caso, infatti, se ne discute con crescente

intensità in Italia da un quindicennio e anche in altri Paesi si è già provveduto (in

Israele o in Giappone), o si pensa di provvedere (in Germania) a qualche cambiamento

del sistema elettorale. I laburisti, nel Regno Unito, prima della vittoria del 1997, si

dichiaravano intenzionati a modificare il sistema, aprendolo al principio

proporzionale: ma non l’hanno fatto per quello che riguarda l’elezione della Camera

dei Comuni, avendo in essa ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi; ma questo non

ha impedito che il terzo partito continuasse ad aumentare i propri consensi popolari,

pur continuando ad essere sotto-rappresentato in Parlamento, e che crescesse anche la

rappresentanza dei partiti regional-nazionali.

Infine, anche negli Stati Uniti, le controverse elezioni presidenziali del 2000 hanno

ridato argomenti a chi vorrebbe modificare il sistema elettorale: alcuni chiedono che il

Presidente sia eletto direttamente dai cittadini, eliminando il meccanismo del voto

indiretto, cioè della scelta dei delegati che in qualche caso potrebbero eleggere alla

Casa Bianca il candidato che ha ottenuto meno voti popolari; altri ricominciando a

guardare al sistema proporzionale, che tuttavia sconvolgerebbe il panorama bipartitico

americano e travolgerebbe sia il presidenzialismo sia il principio della separazione dei

poteri.

Se un po’ dappertutto è avvertita l’esigenza di adattare alla società post-industriale

istituzioni e meccanismi che hanno più di due secoli, in Italia l’esigenza è avvertita in

modo più acuto. Dalla tabella sopra riportata, infatti, si vede che, in termini di durata

media della legislatura e dei governi, il nostro Paese presenta i numeri peggiori. Se

perciò è essenziale trovare una legge elettorale che dia risultati chiari e maggioranze

ben definite e omogenee, è anche necessario ammettere che bisogna modificare le

istituzioni, a partire dal bicameralismo paritario, proseguendo con un potenziamento

Page 30: Sistemi elettorali a confronto

dei poteri del capo del governo e assegnando a questo, come avviene negli altri Paesi,

il giudizio e il potere di sciogliere le Camere, mettendo a punto nello stesso tempo

clausole che salvaguardino la stabilità governativa.

Non dimentichiamo, infatti, che se dal voto del 13-14 aprile prossimo emergerà una

maggioranza più omogenea, i poteri del Governo sorretto da questa maggioranza non

cambieranno: saranno gli stessi (pochi) previsti dalla Costituzione e da tutto il sistema

istituzionale vigente.

3. L’indice di distorsione

Sulla dialettica tra le istituzioni, da cui alla fine deriva l’efficienza dello Stato, poiché

tutte in modo diretto o indiretto traggono la loro origine e legittimità del voto

popolare, influisce non solo la più o meno precisa attribuzione di poteri fissata dalla

Costituzione, ma anche la legge elettorale.

Questo ci consente di esaminare l’altro aspetto del criterio di rappresentanza della

volontà politica dei cittadini perché tutti i sistemi elettorali distorcono, in misura

diversa, questa volontà. Infatti, qualsiasi sistema elettorale deve trasformare,

escludendo i casi di elezione diretta ad una carica (come l’elezione popolare del

presidente francese), il numero di voti ottenuti da ciascun partito in un numero di

seggi.

In teoria sarebbe logico che un partito che ottiene il 40% dei voti abbia il 40% dei

seggi. Ma questo non avviene mai per due ragioni tecniche concomitanti e per una

ragione politica, cui si è già accennato. La prima ragione tecnica è che il territorio

nazionale viene diviso, dal punto di vista elettorale, in circoscrizioni o collegi, e

l’assegnazione dei seggi avviene su queste basi per cui si formano, per ogni partito,

dei resti, che solo in parte vengono recuperati; la seconda ragione tecnica è che

bisogna individuare un metodo di calcolo per assegnare su base circoscrizionale questi

seggi e i diversi metodi escogitati e messi in pratica favoriscono o i partiti maggiori o i

partiti minori in quanto i seggi sono numeri interi e i quozienti elettorali no.

Quanto alla ragione politica, che sta a monte delle soluzioni tecniche, la scelta è tra l

sistema proporzionale e il sistema maggioritario. Il primo tende a consentire che

anche i partiti più piccoli, beninteso oltre un certo livello, possano avere eletti alcuni

rappresentanti: in questo senso la rappresentanza parlamentare è grosso modo

proporzionale al numero dei voti ottenuti da ciascun partito. Il secondo tende invece a

consentire il chiaro successo, in termini di seggi, di un partito (o di una coalizione di

partiti) allo scopo di assicurargli nell’assemblea una consistente maggioranza che, di

regola, è una garanzia di stabilità, cioè di durata, per i governi.

Le combinazioni tra sistemi e metodi di calcono sono, come è facile comprendere,

numerose, cui si aggiungono diversi altri artifizi, i principali dei quali sono la soglia di

sbarramento e il premio di maggioranza. Con la prima, si tende ad escludere dalla

rappresentanza i partiti più piccoli e a scoraggiare la presentazione di formazioni

destinate a disperdere voti (ma talvolta queste formazioni vengono presentate in modo

volontario o per togliere voti ad un partito più grande e affine o per aggirare alcune

Page 31: Sistemi elettorali a confronto

regole elettorali o per sfruttarle meglio). Con la seconda, si dà al partito o alla

coalizione vincente un numero supplementare di seggi, che non hanno un corrispettivo

proporzionale in voti, allo scopo di assicurare all’uno o all’altra una confortevole

maggioranza parlamentare.

Il risultato di questo intreccio di obiettivi e di mezzi è che, rispetto a un ipotetico

sistema elettorale che consentisse di attribuire ai partiti un numero di seggi

esattamente proporzionale alla percentuale di voti ottenuti, si ha invece uno

scostamento, che si può misurare. È quello che abbiamo fatto in questa ricerca

comparata, definendolo indice di distorsione, che aumenta rispetto a un ipotetico

punto di partenza uguale a 1. Bisogna però intendersi subito: un alto indice di

distorsione non equivale a un giudizio negativo su un determinato sistema elettorale

poiché la bontà di esso deve tenere conto delle finalità perseguite (rappresentanza e/o

governabilità) e soprattutto perché deve essere contestualizzato nella situazione

storico-politica di ciascun Paese, tenendo anche conto del peso della tradizione.

Questo indice di distorsione, assolutamente empirico ma significativo perché

applicato in modo uniforme, si ottiene moltiplicando per 100 il numero dei seggi che

si sono avuti in più o in meno rispetto a una ripartizione proporzionale teoricamente

perfetta (ovviamente diviso per metà) e dividendo questo risultato per il numero di

tutti i seggi a disposizione: 630 per la Camera.

Ad esempio, nel 1976, i seggi guadagnati (dalla DC e dal PCI) erano stati

complessivamente 31 e quelli persi (dagli altri partiti) erano stati complessivamente

27 (la differenza dipende dal fatto che, per questo secondo calcolo, le cifre sono state

arrotondate per eccesso o per difetto). La loro somma è 58 che, divisa per 2, dà 29. Ne

deriva che nel 1976 l’indice di distorsione fu pari a 4,60 (29 x 100 : 630 = 4,6).

Nelle elezioni del 1994, svoltesi con il nuovo sistema elettorale – il “Mattarellum” –,

questo indice ebbe un’impennata. Cinque partiti ne beneficiarono, soprattutto del

centrodestra e in particolare la Lega Nord, mentre fortemente penalizzati furono i

partiti di centrosinistra e il Patto Segni che si presentò fuori dalle alleanze. L’indice di

distorsione passò a 19,73.

Nelle successive elezioni del 1996, a causa delle maggiori aggregazioni di stampo

bipolare e con maggiore consapevolezza (o astuzia) del funzionamento del sistema, i

partiti beneficiati furono quattro e l’indice di distorsione si ridusse al 10,95%. Sempre

nel 1996, il beneficio andò a un solo schieramento politico, quello della sinistra,

mentre il centrodestra fu penalizzato in termini di seggi perché la Lega Nord corse da

sola. Eppure, il totale dei voti dello schieramento Ulivo-Progressisti, fu di 16.227.983

voti, pari al 43,3%, risultando inferiore al totale dei voti dello schieramento Polo-Lista

Pannella-Sgarbi, che raccolse 16.475.191 voti, pari al 44%; ma in seggi il primo ne

conquistò 324 contro i 246 del secondo.

Un risultato che può sorprendere quando si esaminano serie di risultati elettorali

lungo alcuni decenni è che i sistemi elettorali possono funzionare bene per un certo

periodo – bene nel senso che perseguono l’obiettivo ad essi assegnato – ma poi non

sono in grado di bloccare eventuali deviazioni. In altre parole, i sistemi elettorali sono

un freno o uno stimolo, e quindi hanno una importanza che non si può sottovalutare,

ma non sono il motore del sistema politico nel suo complesso, che dipende dalla

Page 32: Sistemi elettorali a confronto

dinamica intrinseca delle sue istituzioni e dai mutamenti dell’opinione degli elettori, a

sua volta influenzata sia da fattori oggettivi sia da fattori imponderabili o imprevisti.

Il punto da verificare nelle analisi è quello della armonia o disarmonia tra sistemi

elettorali e sistemi istituzionali, i quali si influenzano reciprocamente, talvolta

favorendo la prima e talvolta favorendo la seconda. Perciò è importante che vi sia

omogeneità di obiettivi tra sistema istituzionale e sistema elettorale. Poi, qualsiasi

sistema politico è soggetto ad evoluzione, a crisi, a adattamenti. Senza contare il fatto

che tutti i sistemi elettorali sono nati come elitari, cioè riservati ad un gruppo ristretto

di cittadini che avevano determinati requisiti per essere ammessi a votare, ma tutti

hanno poi subito gli effetti dell’allargamento del suffragio, della massificazione e, non

ultimo, del ruolo crescente dei mass media, a loro volta con efficacia molto diversa se

concentrati sulla comunicazione a mezzo stampa (libri, giornali, opuscoli, manifesti),

a mezzo radio, a mezzo televisione o a mezzo internet. Lo studio di queste influenze

esula dalla presente analisi, ma deve essere tenuto presente.

4. L’incidenza dei collegi

Escludendo dalle presenti considerazioni l’ipotesi del collegio unico nazionale, in cui

tutto il territorio coincide con una sola circoscrizione, bisogna richiamare l’attenzione

su un ulteriore fattore di distorsione che deriva dalla delimitazione dei collegi o delle

circoscrizioni, che è particolarmente evidente nel sistema maggioritario con collegi

uninominali (di solito con circa 100 mila abitanti ciascuno), ma che è importante

anche nel sistema proporzionale.

La delimitazione dei collegi è un atto, allo stesso tempo, amministrativo e politico.

È amministrativo in quanto si prendono in considerazione degli elementi oggettivi

(popolazione e sue variazioni rilevate periodicamente con i censimenti, ampiezza del

territorio anche in base a considerazioni storiche, ecc.), ma è anche politico nella

misura in cui le concrete decisioni tecnico-amministrative (in Italia demandate al

ministero dell’Interno) possono essere influenzate da considerazioni politiche.

In alcuni paesi, come il Giappone, fino alle più recenti nuove delimitazioni dei

collegi, era ben netta la distinzione tra collegi rurali e collegi urbani. Nei primi, estesi

territorialmente ma con scarsa popolazione, avevano un peso rilevante i notabili che

erano in grado di condizionare il voto degli elettori. Il risultato era che, con pochi voti,

un collegio rurale era spesso vinto da un notabile conservatore legato al Partito

Liberaldemocratico. I collegi urbani, invece, avevano un numero di elettori più elevato

in un’area ristretta così che, per ottenere il seggio in palio, occorrevano più voti, e

anche se i partiti di sinistra riuscivano a conquistare la maggioranza in questi collegi

meno sensibili al potere dei notabili, i seggi conquistati erano meno numerosi in

rapporto alla popolazione complessiva. Nell’Italia della Prima Repubblica, su una

delimitazione sostanzialmente equa dei collegi, si innestava il meccanismo delle

preferenze correlato al clientelismo che permetteva un dominio abbastanza stabile

delle élite locali.

Page 33: Sistemi elettorali a confronto

La delimitazione dei collegi incide sempre più a mano a mano che cresce il tasso di

urbanizzazione. Si consideri, ad esempio, un agglomerato urbano che conti un milione

di elettori e lo si divida in 10 collegi. Il modo concreto (topografico) di divisione non

è indifferente. Supposto che gli elettori conservatori siano più numerosi nell’area del

centro storico e in una o due zone periferiche tendenzialmente esclusive, e gli elettori

progressisti siano più numerosi nei quartieri limitrofi a quelli centrali e nelle periferie-

dormitorio, una suddivisione a spicchi, partendo dal centro geometrico, farebbe sì che

in quasi tutti i collegi gli elettori conservatori resterebbero minoritari. Seguendo i

confini storici dei quartieri, scorporando un quartiere ed aggregandone una parte ad un

altro, si possono prefigurare, almeno a grandi linee, determinate maggioranze. La

divisione di un’area urbana di 300 mila elettori in tre collegi può comportare un

tracciato di confini elettorali che predisponga una maggioranza conservatrice o

progressista.

Il problema, poco evidente e soprattutto poco portato all’attenzione della pubblica

opinione, è importante, specie nel sistema elettorale uninominale con un numero

elevato di collegi territorialmente estesi ma poco popolosi, mentre nel sistema

proporzionale la suddivisione incide particolarmente sulle grandi aree urbane. È infatti

evidente che, specie in una grande città con più collegi, spezzare un quartiere

popoloso omogeneo dal punto di vista politico può significare far perdere a un partito

un seggio sicuro.

Ha scritto al riguardo il costituzionalista Paolo Biscaretti di Ruffia: «Giova

rilevare… la notevole importanza che assume… la delineazione concreta dei vari

collegi elettorali, sia che ci si serva di enti territoriali preesistenti con cui essi si

facciano coincidere, sia che essi vengano tracciati ex-novo soltanto per tali finalità. La

questione assume, poi, un valore ancora maggiore per quelli uninominali: nei quali

una certa configurazione, invece d’una altra, può influire in modo decisivo sull’esito

della votazione (facendo sorgere tutta una tecnica al riguardo: particolarmente

sviluppata negli Stati Uniti, ove si è appunto designato col vocabolo di

Gerrymandering l’abuso della tecnica stessa, da parte dei governanti, per fini di

partito»4.

Questo termine deriva dal nome del governatore Gerry del Massachussetts, che tra i

primi aveva applicato tale tecnica nel 1812, dando ad un collegio l’insolita forma di

una salamandra. Il Biscaretti ricorda: «Da noi, ad es., basti por mente ai diversi criteri

seguiti nel tracciare gli 8 collegi uninominali senatoriali di Roma (dividendo la zona

urbana a spicchi: in modo che in ognuno dei medesimi un’ampia zona centrale si

accompagnasse ad un’appendice di suburbio) ed i 6 di Milano (uno al centro e gli altri

distribuiti in due cerchie man mano protendentisi verso la periferia)»5.

Per quanto riguarda l’Italia, dopo l’approvazione della legge elettorale del 1993, la

delimitazione dei collegi fu stabilita con il decreto legislativo 20 dicembre 1993, n.

536, in attuazione dell’art. 7 della legge 4 agosto 1993, n. 277 (“Mattarellum”),

approvato dal Consiglio dei Ministri il 18 dicembre 1993. La delimitazione fu

elaborata da una Commissione, nominata dai Presidenti delle Camere, composta dal 4 Paolo Biscaretti di Ruffia, Diritto costituzionale, Jovene Editore, Napoli 1989, p.309. 5 Ibid. Loc.cit., Nota 57.

Page 34: Sistemi elettorali a confronto

presidente dell’Istat, che la presiedeva, e da dieci docenti universitari o altri esperti in

materie attinenti ai compiti che la Commissione era chiamata a svolgere. In buona

sostanza è un’operazione che avviene sotto la supervisione del Governo.

Un’accurata analisi della delimitazione dei collegi potrebbe forse evidenziare, anche

se sarebbe difficile dimostrarlo, una volontà di sfruttare questa opportunità per

condizionare gli esiti elettorali in numerosi collegi. Benché non si tratti di una

peculiarità italiana, si deve tenere conto di questo problema anche in vista di una

eventuale futura riforma elettorale in modo da fissare criteri il più possibile oggettivi e

relativi controlli.

Non interessa invece in questa sede esaminare gli aspetti del finanziamento della

politica in generale e delle campagne elettorali in particolare, sia dei partiti sia dei

singoli candidati; né la regolamentazione dei mezzi e dei modi della propaganda

elettorale; né delle cause di incompatibilità. Questi sono tutti aspetti che devono

rientrare in una normativa elettorale, ma implicano il rispetto di princìpi costituzionali

e di altre disposizioni di legge che sono indipendenti dal meccanismo elettorale

prescelto.

5. I metodi di ripartizione

I moderni sistemi elettorali sono democratici, in quanto si fondano sul principio della

sovranità popolare, e sono liberali, in quanto si fondano sul pluripartitismo (due o più

partiti) e garantiscono una effettiva libertà di voto agli elettori. Il loro obiettivo è

quello di selezionare un certo numero di funzionari pubblici (presidenti, senatori,

deputati, sindaci, consiglieri, governatori, ecc.) i quali, costituendo la classe politica,

sono legittimati dal voto ad esercitare i poteri che la legge attribuisce alle istituzioni e

agli uffici di cui vengono messi a capo.

Un aspetto importante del processo elettorale è il meccanismo di selezione dei

candidati, che può essere prevalentemente affidato alle strutture di partito o può essere

prevalentemente gestito in modo autonomo da gruppi di cittadini-elettori. Il sistema

elettorale influisce sul meccanismo di selezione dei candidati. Con la progressiva

estensione del diritto elettorale (attivo: cioè votare; passivo, cioè essere votati), dopo

una fase di predominio dei partiti fortemente strutturati che si ispiravano a ideologie

forti, si assiste a uno slittamento verso un sistema misto in cui il potere dei partiti

come strutture centralizzate si indebolisce e si combina da un lato con nuove forme di

aggregazione locale del consenso – si pensi ai sindaci o ai governatori che controllano

il territorio – e dall’altro lato con le iniziative autonome dei cittadini e degli aspiranti

candidati favoriti da un più facile accesso ai mass media. Le elezioni presidenziali

americane di questo 2008 sono state già ribattezzate e-lection per l’importanza assunta

dal siti web che in gran parte sono anche interattivi.

Il controllo che si può esercitare sulla comunicazione politica quando questa è

veicolata, ad esempio, da due o tre soli canali televisivi o radiofonici nazionali che

agiscono in regime di monopolio, è ben diverso da quello che si può realizzare in

presenza di centinaia di emittenti televisive e radiofoniche. La tecnologia ha infranto il

Page 35: Sistemi elettorali a confronto

predominio statale o di pochi grandi gruppi sulla comunicazione. L’accesso a internet

è aperto a tutti e a costi bassissimi. Questo vale non solo per gli elettori ma anche per i

candidati. Da ciò una tensione tra l’interesse degli organi centrali dei partiti a

controllare le candidature e il loro interesse, come partiti politici, ad avere candidati

che portino consensi conquistati sul territorio. Quindi l’interesse ad un sistema

elettorale che, a seconda della forza del partito, preferisce un controllo sulle liste e

sulle candidature oppure preferisce un contributo dal basso, ad esempio attraverso il

voto di preferenza.

I meccanismi elettorali non sono estranei a questa realtà. Un partito che ha scarsa

presa sul territorio preferisce proporre agli elettori la propria immagine complessiva –

diremmo il suo marchio – e considera secondario il nome del candidato, che in genere

impone. Viceversa un partito che ha una forte presa territoriale (al riguardo non sono

indifferenti le posizioni conquistate in occasione delle elezioni amministrative o

comunque locali) non può trascurare l’apporto dei singoli candidati o famosi o con un

apparato clientelare. Questo non vale per il candidato-premier.

Nel sistema elettorale uninominale maggioritario a un solo turno, dove il seggio va

al candidato che nel collegio ottiene il maggior numero di voti, resta aperto il

problema se convenga puntare su un candidato ben radicato nel collegio oppure

sull’immagine del partito. Se l’elezione avviene in due turni, è opportuno scegliere il

candidato che al secondo turno può raccogliere più voti dagli elettori dei partiti affini.

Nel sistema proporzionale, si tende a sommare il richiamo del candidato con

l’immagine del partito, attingendo così da due bacini, quello ideologico e quello

clientelare. Gli elettori possono votare una lista predeterminata, ovvero con i candidati

sistemati in un ordine immodificabile, oppure possono dare la loro preferenza a uno o

più candidati. Una delle accuse rivolte in Italia alla degenerazione partitocratrica è

stata quella di avere abusato del voto di preferenza, fino a generare il fenomeno del

voto di scambio tra candidati (e poi anche tra partiti per superare eventuali soglie di

sbarramento).

Da rilevare, per evitare confusioni, che la distinzione tra sistema presidenziale e

sistema parlamentare è indipendente dal meccanismo elettorale. Ad esempio, sia negli

Stati Uniti sia nel Regno Unito (per la Camera dei Comuni) il sistema elettorale è di

tipo maggioritario, ma nei primi la forma di governo è presidenziale mentre nel

secondo è parlamentare, nella variante di governo di gabinetto o premierato.

Ricordiamo che più che nei confronti del sistema elettorale, la forma di governo

(presidenziale o parlamentare) incide sulla differenziazione tra la funzione esecutiva

(governare) e la funzione legislativa (fare le leggi). La prima si avvicina al principio

della separazione dei poteri, ma di fatto tra i poteri esistono sempre dei collegamenti

anche in vista di superare i loro eventuali contrasti per non cadere nella paralisi

istituzionale. La più o meno accentuata separazione dei poteri (soprattutto nel caso

americano ma in parte anche nel caso francese) trova la propria forza nel fatto che il

Presidente e il Congresso, negli Stati Uniti, e il Presidente e l’Assemblea Nazionale,

in Francia, sono eletti in modo indipendente dallo stesso corpo elettorale, che

considerano come il loro referente principale.

Page 36: Sistemi elettorali a confronto

Se negli Stati Uniti dovesse sorgere un contrasto insanabile tra Presidente e

Congresso, alla fine sarebbe questo secondo ad avere la meglio purché raggiunga una

maggioranza qualificata. Anche nel cosiddetto semipresidenzialismo francese della V

Repubblica, che si può anche definire semiparlamentarismo, e dove i collegamenti tra

i poteri sono più accentuati, benché al Presidente della Repubblica siano conferiti più

poteri che non in un regime parlamentare, in caso di conflitto portato alle estreme

conseguenze, si avrebbe la prevalenza del Parlamento.

Il carattere precipuo del parlamentarismo è che il Parlamento diventa l’organo di

elezione e di legittimazione degli altri organi supremi dello Stato: il Capo dello Stato,

il Governo, ecc. Che sia monocamerale o bicamerale, e in questo secondo caso a

bicameralismo perfetto (le due Camere hanno gli stessi poteri) o imperfetto (funzioni

diversificate e attribuzione a una sola Camera del potere di dare la fiducia al

Governo), il Parlamento diviene, seppure per delega popolare, il vero depositario

della sovranità e la sua attività (politica generale) viene periodicamente sottoposta al

giudizio degli elettori. Ma la dialettica politica porta, in determinate circostanze, a

spostare il baricentro del potere su altri organi, purché e finché non sorgano conflitti

insanabili. Nel Regno Unito, in Germania e in Spagna, il capo del governo è il perno

intorno a cui ruota il sistema politico. In Italia, la tradizionale debolezza del Governo,

quando si unisce alla debolezza del Parlamento, porta ad esaltare il ruolo di altri

organi, primo tra tutti quello del Capo dello Stato, il cui interventismo si è

periodicamente accentuato dando origine a un vero e proprio presidenzialismo

strisciante. Ma altre istituzioni possono prendere il sopravvento e condizionare l’intero

sistema politico-istituzionale.

Come si è detto, tutti i sistemi elettorali presentano un indice di distorsione. In

teoria, questa distorsione si eviterebbe – o si ridurrebbe a un valore minimo – se si

ricorresse al collegio unico nazionale: tutti i voti confluiscono in un unico contenitore

e ai partiti si assegnano seggi in proporzione ai voti ottenuti. Due sono gli ostacoli

principali all’adozione di questo meccanismo. Il primo è che esso attribuisce un potere

enorme alle strutture centrali dei partiti che possono confezionare un’unica lista di

candidati per tutto il Paese: non a caso questo sistema è stato adottato dai regimi

totalitari che presentavano un simulacro di democrazia. Si potrebbe ricorrere al voto di

preferenza, ma – secondo ostacolo – con il rischio di perdere o ridurre a ben poco il

collegamento tra i singoli candidati e il loro radicamento sul territorio, che pure è

importante per raccogliere consensi.

La trasformazione dei voti in seggi nel sistema maggioritario è semplice: vince il

seggio del collegio il candidato che conquista la maggioranza assoluta o relativa dei

voti. Tale maggioranza può essere conquistata in un solo turno elettorale oppure in

due turni. Nel Regno Unito, l’elezione è a turno unico e il seggio va a chi conquista

più voti. Così, ad esempio, il partito A può conquistare il seggio di un collegio con

100mila elettori ottenendo per il suo candidato, poniamo, solo 30mila voti, nessun

altro candidato degli altri diversi partiti raggiungendo tale cifra; e potrebbe ripetere

questo risultato in molti altri collegi. In Francia, viene eletto al primo turno chi ottiene

la maggioranza assoluta; ma in genere si è eletti al secondo turno (ballottaggio). Come

Page 37: Sistemi elettorali a confronto

è noto, l’effetto distorsivo del sistema maggioritario è piuttosto elevato, ma l’obiettivo

perseguito è quello di ottenere una chiara maggioranza in grado di governare.

Si sostiene che il maggioritario a un solo turno tende a favorire i partiti più

fortemente caratterizzati dal punto di vista ideologico mentre il maggioritario a due

turni tende a favorire, nel ballottaggio, i candidati meno estremisti in grado di attirare i

voti dei candidati esclusi.

Il sistema elettorale proporzionale, o di lista, si è sviluppato dopo il maggioritario,

su pressione dei grandi partiti di massa costituitisi alla fine del XIX secolo, ma

legittimati, con l’estensione del suffragio elettorale, soprattutto nel corso del XX

secolo. La domanda-chiave di questo sistema è: privilegiare i partiti più grandi o

cercare di favorire la rappresentanza di tutte le forze politiche che siano significative

dal momento che, ad esempio, non si possono assegnare 3,6 o 4,2 seggi ad un partito?

Per dare una risposta soddisfacente a questo problema, particolarmente acuto nel caso

di pluripartitismo spinto, sono stati elaborati diversi metodi, tra cui il più noto è quello

d’Hondt.

6. Metodo d’Hondt e metodo Niemeyer

Nell’ambito del sistema elettorale proporzionale, nei collegi plurinominali, e in

presenza di multipartitismo, diventa fondamentale il meccanismo di conteggio dei voti

in funzione della loro trasformazione in seggi, poiché non accade che la percentuale

dei voti dei partiti corrisponda in modo perfetto all’assegnazione a ciascuno di essi di

un numero di seggi proporzionale. Sarebbe questo il caso, tutto teorico, che in una

circoscrizione fossero da assegnare, ad esempio, 10 seggi e che tre soli partiti in gara –

A, B, C – conquistassero esattamente e rispettivamente il 50%, il 30% e il 20% dei

voti: in questo caso avrebbero, rispettivamente, 5, 3 e 2 seggi senza resti.

In pratica questo non accade. Ci sono molti partiti che si spartiscono i voti e pochi

seggi da assegnare. Il metodo d’Hondt (adottato in Italia durante la Prima Repubblica)

consente una trasformazione in seggi abbastanza proporzionata alle percentuali di voti

ottenute dai diversi partiti, ma favorisce leggermente i partiti maggiori. Se viceversa si

vogliono favorire i partiti più piccoli, si ricorre al metodo Niemeyer, adottato ad

esempio in Germania, dove ha contribuito a ridurre il peso dei due maggiori partiti

(vedi capitolo relativo).

Il metodo messo a punto dal matematico belga Victor d’Hondt nel 1878 si definisce

anche proporzionale corretto, nel senso che, premiando i partiti maggiori, e

soprattutto il più votato, tende a contenere la frammentazione partitica.

Per applicare questo sistema si dividono i totali di voti delle liste per 1,2,3,4,5... fino

a raggiungere il numero di seggi da assegnare in un dato collegio, attribuendo poi i

seggi in base ai risultati in ordine decrescente dei quozienti fino ad esaurimento dei

seggi da assegnare.

Per comprendere il funzionamento, si può ricorrere ad un esempio, ipotizzando che

in un collegio si presentino cinque partiti: Blu, Rosso, Verde, Giallo, Bianco, e

ipotizzando che in quel collegio si debbano assegnare 10 seggi.

Page 38: Sistemi elettorali a confronto

Supponiamo che questi siano i risultati per i partiti indicati con un colore e che i voti

validi siano complessivamente 102.800:

- Blu: 35.568 voti (34,6%)

- Rosso: 30.017 voti (29,2%)

- Verde: 18.812 voti (18,3%)

- Giallo: 10.074 voti (9,8%)

- Bianco: 8.327 voti (8,1%).

Si crea una tabella in cui vengono divisi i voti raccolti da ciascun partito per 1, 2, 3,

ecc.: in questo caso, fino a 10 perché 10 sono i seggi da assegnare (ma nell’esempio

proposto basterebbe fermarsi al quarto divisore):

Divisori Blu Rosso Verde Giallo Bianco

1 35.568 30.017 18.812 10.074 8.327

2 17.784 15.008 9.406 5.037 4.163

3 11.856 10.005 6.270 3.358 2.775

4 8.892 7.504 4.703 2.518 2.081

5 7.113 6.003 3.762 2.014 1.665

Si identificano i 10 numeri (quozienti) più grandi, evidenziati in grassetto nella

tabella, corrispondenti ai 10 seggi. Il risultato è che la lista Blu ottiene 4 seggi, la lista

Rossa 3 seggi, la lista Verde 2 seggi, la lista Gialla 1 seggio; nessun seggio per la lista

Bianca, il cui quoziente massimo (8.327) è inferiore al decimo quoziente utile (8.892).

Risulta che la dispersione percentuale dei voti è minore nelle liste che hanno ottenuto

più voti. Infatti, per la lista Blu, per conquistare un seggio sono bastati mediamente

8.892 voti (cioè 35.568:4=8.892), mentre per la lista Rossa ne sono occorsi 10.005 e

10.074 per la lista Gialla.

Il fenomeno distorsivo, già evidente e che gioca a favore dei partiti maggiori,

diventa più evidente se, anziché limitarsi a un solo collegio, si sommano i dati a

livello nazionale. Per mostrarlo, ricorriamo ad un caso reale, quello delle elezioni

svoltesi in Italia nel 1976 per la Camera.

Partiti Voti ottenuti

in percentuale

Seggi ottenuti

Media voti

per ottenere

un seggio

DC 38,7 263 54.240

PCI 34,4 229 55.111

PSI 9,6 57 62.129

PSDI 3,4 15 85.832

PRI 3,1 14 81.046

PLI 1,3 5 95.631

MSI-DN 6,1 35 64.047

Radicali 1,1 4 98.150

Estrema sinistra 1,5 6 92.663

Media nazionale 58.158

La tabella mostra come, a livello nazionale, i due partiti maggiori (DC e PCI) hanno

avuto un seggio con un numero di voti inferiore alla media nazionale, mentre ai partiti

Page 39: Sistemi elettorali a confronto

più piccoli ne sono occorsi molti di più. Se alla DC, per un seggio, sono bastati

mediamente 54.240 voti, ai Radicali ne sono occorsi 98.150. Rispetto all’esempio

ipotetico, la ragione è evidente: in Italia, i primi due partiti hanno fortemente

distanziato gli altri in termini di percentuali di voti. Ovviamente questo calcolo è fatto

sommando tutti i dati delle circoscrizioni per cui è su base nazionale che l’effetto

distorsivo del metodo d’Hondt si può cogliere in pieno.

Come si vede, con questo metodo, i partiti che raggiungono una consistenza

elettorale anche molto ridotta (un po’ più dell’1% su base nazionale), riescono

comunque ad avere alcuni eletti. Il fenomeno si riduce se viene fissata una soglia di

sbarramento: se fosse stata fissata al 2%, tre partiti non avrebbero avuto eletti; se fosse

stata fissata al 5%, i partiti senza eletti sarebbero stati cinque. Semplificazione? Senza

dubbio; ma anche una fetta di elettori non rappresentati.

Per tornare all’esempio che illustra il metodo d’Hondt, con una ripartizione teorica

rigorosamente proporzionale, la lista Blu avrebbe dovuto ottenere 3,4 seggi, la lista

Rossa 2,9 seggi, la lista Verde 1,8 seggi, la lista Gialla 0,9 seggi e la lista Bianca 0,8

seggi. Ma è evidente che i seggi non si possono dare se non per unità intere e il

metodo d’Hondt permette di procedere ad una assegnazione che è grosso modo

proporzionale alla percentuale di voti conquistati da ciascun partito.

Immaginiamo, per fare la controprova, una situazione con due partiti preponderanti,

il primo che raccoglie il 44% dei voti e il secondo il 38% dei voti. Dividendo

arbitrariamente i voti residui fra altri tre partiti e ipotizzando che i voti validi siano

87.800, avremo questa tabella, da cui risulta che i due partiti maggiori conquistano 9

seggi su 10.

Divisori Blu Rosso Verde Giallo Bianco

1 38.632 33.364 8.000 5.000 2.804

2 19.316 16.682 4.000 2.500 1.402

3 12.877 11.121 2.666 1.666 934

4 9.658 8.341 2.000 1.250 701

5 7.726 6.672 1.600 1.000 560

Questo esempio dimostra un’altra cosa: anche in un sistema pluripartitico, quando

due partiti attraggono il 70% o più degli elettori, si ottiene praticamente lo stesso

risultato che con il sistema elettorale maggioritario. In questo caso risulta

determinante il sostanziale bipartitismo. Questo è ciò che accade in Spagna e che è

accaduto per alcuni decenni in Germania; ma quando, in questo secondo Paese, si è

verificata una proliferazione di partiti in grado di superare, eventualmente tramite

accordi, la soglia di sbarramento, concomitante con un allontanamento degli elettori

dai due partiti principali, la logica proporzionale è emersa. Non solo: è stata

assecondata con la sostituzione, nel 1985, del metodo Niemeyer al metodo d’Hondt.

Il metodo Niemeyer favorisce i piccoli partiti e per spiegarlo ricorriamo ad un

esempio, ipotizzando una circoscrizione dove siano risultati 36.900 voti validi

distribuiti tra 4 partiti – A, B, C, D – che si contendono 31 seggi.

Supponiamo che i partiti abbiano avuto i seguenti voti:

- Partito A: 18.900 voti

Page 40: Sistemi elettorali a confronto

- Partito B: 12.900 voti

- Partito C: 1.900 voti

- Partito D: 3.200 voti.

Si moltiplicano i voti di ciascun partito per il numero di seggi da attribuire (31) e poi

si dividono i risultati per il numero complessivo dei votanti (36.900), assegnando a

ciascun partito un numero di seggi uguale alla parte intera del quoziente (evidenziata

qui di seguito in grassetto). Si avrà:

- Partito A: 18.900 x 31 = 585.900 : 36.900 = 15,878

- Partito B: 12.900 x 31 = 399.900 : 36.900 = 10,837

- Partito C: 1.900 x 31 = 58.900 : 36.900 = 1,596

- Partito D: 3.200 x 31 = 99.200 : 36.900 = 2,688.

Se si sommano le parti in grassetto (intere) dei quozienti, risultano in tal modo

assegnati 28 seggi su 31: 15 al partito A, 10 al partito B, 1 al partito C e 2 al partito D.

restano da assegnare 3 seggi. Si prendono allora le quattro cifre decimali dei quozienti

(878 – 837 – 596 – 688) e si assegnano i 3 seggi disponibili alle tre più alte: in questo

esempio, al partito A, al partito B e al partito D. Quest’ultimo partito, che è piccolo

rispetto ai primi due, viene premiato con un seggio. Complessivamente, il partito A

ottiene 16 seggi, il partito B 11 seggi, il partito C 1 seggio e il partito D 3 seggi.

Risparmiando conteggi dettagliati, e anche più laboriosi, con il metodo d’Hondt si

sarebbe avuto un risultato un po’ diverso: 17 seggi al partito A (1 in più), 11 seggi al

partito B (invariato), 1 seggio al partito C (invariato) e 2 seggi al partito D (1 in

meno). Cioè: vantaggio al partito più grosso a spese di uno più piccolo.

Nella tabella che segue sono sintetizzati i modelli elettorali esaminati nella presente

ricerca, ma le varianti adottate nei singoli Paesi sono molto numerose. I principali

Paesi che adottano il maggioritario sono: Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Francia,

India. Tra quelli che adottano il proporzionale più o meno corretto: Germania, Austria,

Belgio, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Spagna, Svezia, Turchia, Brasile.

Modello Collegio Descrizione

maggioritario a un

turno o

first-past-the-post

uninominale vince il candidato che ottiene più voti anche

senza ottenere la maggioranza. Es: Regno Unito,

Stati Uniti.

maggioritario a due

turni o majority

uninominale vince il candidato che al primo turno ottiene la

maggioranza assoluta o al secondo turno quella

relativa. Es: Francia.

misto misto uninominale e

plurinominale

in Italia dal 1994 al 2001: maggioritario per ¾ e

proporzionale per ¼. In Giappone: 300 deputati

eletti con il maggioritario in collegi uninominali

o plurinominali e 180 eletti con il proporzionale.

proporzionale o di lista plurinominale gli elettori scelgono i candidati tra quelli proposti

dalle singole liste dei partiti che ottengono seggi

in proporzione ai voti. In alcuni casi sono

previste soglie di sbarramento per la ripartizione.

Es: Italia (dal 1946 al 1992 e dal 2005 ma con

premio di maggioranza), Spagna.

proporzionale corretto misto uninominale e una parte dei seggi viene eletta con il

Page 41: Sistemi elettorali a confronto

plurinominale maggioritario in collegi uninominali e una parte

in collegi plurinominali, con il proporzionale che

determina il numero totale di seggi,

eventualmente con sbarramento. Es: Germania.

Page 42: Sistemi elettorali a confronto

Capitolo 2

Evoluzione del sistema elettorale in Italia

1. Il dibattito in Italia

L’Italia, nella sua storia unitaria, ha sperimentato un po’ di tutto: il sistema elettorale

maggioritario e quello proporzionale, nel sessantennio precedente il fascismo; il

maggioritario con premio di maggioranza e collegio nazionale unico, con il ruolo

dominante del PNF (Partito nazionale fascista), introdotto con la Legge Acerbo nel

1923; il proporzionale (in regime di suffragio universale), dalle elezioni del 1946 per

l’Assemblea Costituente a quelle del 1992 (con l’applicazione del premio di

maggioranza nel 1953, che però non venne attribuito), cioè durante la cosiddetta

Prima Repubblica; quindi, per le elezioni del 1994, del 1996 e del 2001, un sistema

misto, per tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale; infine, nelle elezioni

del 2006 è tornata al sistema proporzionale con premio di maggioranza, su base

nazionale per la Camera e su base regionale per il Senato: lo stesso sistema che verrà

applicato alle prossime elezioni del 13-14 aprile 2008.

I due sistemi elettorali adottati nella cosiddetta Seconda Repubblica hanno

aumentato la durata media dei governi ma soprattutto hanno consentito l’alternanza.

Tuttavia questa, che è senza dubbio un progresso sulla strada della pienezza della vita

democratica di un Paese, non deve essere attribuita principalmente, come si fa di

solito, al nuovo sistema elettorale, bensì al fatto che, dopo la fine della Guerra Fredda

alla fine degli anni ‘80, sono cadute le preclusioni verso l’accesso al governo che

gravavano su alcune forze politiche. Tutti i partiti, per di più modificati in varia

misura dalla vicenda di Tangentopoli, sono diventati potenzialmente governativi, e poi

di fatto lo sono stati. Questa è la vera novità, o se si vuole la vera differenza, tra la

Prima e la Seconda Repubblica, per cui si può sostenere che l’alternanza tra due

coalizioni si sarebbe potuta verificare anche senza il cambiamento della legge

elettorale nel 1993. Viceversa si deve ammettere che sia la nuova legge elettorale del

1993 sia quella del 2005 hanno spinto i partiti verso forme di aggregazione, alleanza,

desistenza che nel periodo precedente erano quasi sempre trascurate poiché gli accordi

tra i partiti si concludevano dopo le elezioni e non prima, almeno in apparenza.

Nel corso delle ultime quattro elezioni, per due volte, nel 1994 e nel 2006, la

coalizione vincente alla Camera si è trovata al Senato o senza una propria

Page 43: Sistemi elettorali a confronto

maggioranza o con una maggioranza risicatissima. Non solo: in questo arco di tempo

di 17 anni si sono avuti, formalmente, 9 governi, compreso il Prodi II caduto nel

gennaio scorso. Se la durata media dei governi è raddoppiata rispetto ai governi della

Prima Repubblica, non si può dire che sia stata raggiunta una stabilità soddisfacente

né governativa né parlamentare: 20 mesi in media sono sempre pochi. Per questo, fin

dall’inizio, non sono mancate critiche prima al sistema elettorale del 1993, che aveva

prodotto un bipolarismo di coalizione ma senza avvicinare la prospettiva del

bipartitismo, poi al sistema elettorale del 2005, che dopo le elezioni del 9-10 aprile

2006 ha costretto il governo Prodi a dare le dimissioni, poi rientrate, una prima volta il

21 febbraio 2007 e una seconda e definitiva volta il 25 gennaio scorso.

Il 24 febbraio 2007, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ritenne

opportuno spiegare pubblicamente i motivi che lo avevano indotto a rinviare alle

Camere il dimissionario governo Prodi per verificare se esso godesse ancora della

fiducia prescritta dalla Costituzione. In particolare disse: “Ho ritenuto altresì che non

ricorrano le condizioni per un immediato scioglimento delle Camere, sia alla luce di

una costante prassi istituzionale sia in considerazione di un giudizio largamente

convergente, benché non unanime, sulla necessità prioritaria di una modificazione

del sistema elettorale vigente” (corsivo nostro).

Il fatto che il governo Prodi, costituitosi sulla base dei risultati delle elezioni

politiche del 9-10 aprile 2006, fosse stato costretto alle dimissioni dopo appena 281

giorni, dopo avere più volte fatto ricorso al voto di fiducia per fare approvare alcuni

provvedimenti ed essere caduto, il 21 febbraio, su una mozione riguardante la politica

estera, fu imputato alla sua ristrettissima maggioranza risultata dall’applicazione della

nuova legge elettorale approvata il 21 dicembre 2005 che aveva consentito alla

coalizione dell’Unione di ottenere una larga maggioranza in seggi alla Camera,

avendo usufruito del premio di maggioranza attribuito sul piano nazionale, mentre al

Senato, dove il premio era stato assegnato su base regionale, aveva avuto 159 eletti

contro i 156 della Casa delle Libertà, ridotti a 158 perché il nuovo presidente del

Senato, Franco Marini, come da prassi, fin da subito aveva rinunziato a votare.

Si è così creata una situazione che vede la sopravvivenza del governo – che

secondo la Costituzione deve avere la fiducia di entrambi i rami del Parlamento –

dipendere dal voto dei senatori a vita: tre di diritto, cioè gli ex presidenti della

Repubblica Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, e

quattro di nomina presidenziale, cioè Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Rita Levi

Montalcini e Sergio Pininfarina. Una dipendenza contestata da diversi esponenti

dell’opposizione di centrodestra che, senza negare ai senatori a vita, ma non eletti

attraverso il voto popolare, il diritto di votare, hanno sollevato una questione di

opportunità, almeno quando si tratta di un voto di fiducia da cui dipendono le sorti

del governo poiché in questo caso si potrebbe verificare una divergenza tra

l’orientamento politico del voto popolare che ha eletto un certo numero di senatori e

quello del Senato comprensivo dei senatori a vita, con una specie di “arruolamento”

di questi senatori sia nella maggioranza sia nell’opposizione. Con in più la

particolarità che il Regolamento del Senato prevede che una votazione che finisca in

parità deve essere considerata come un voto negativo.

Page 44: Sistemi elettorali a confronto

Le parole del presidente Napolitano hanno avuto l’effetto di spingere il Presidente

del Consiglio, Romano Prodi, nel discorso di replica sulla fiducia al Senato (28

febbraio 2007), e in quello di replica pronunziato alla Camera (2 marzo 2007), di

porre come obiettivo politico prioritario la riforma della legge elettorale nonché di

procedere anche ad alcune modifiche della Costituzione per ciò che riguarda la forma

di Stato (in senso federale) e la forma di Governo (principalmente aumentando i

poteri del capo del governo). Prodi ha anche indicato nel Parlamento e nelle

Commissioni la sede più idonea per discutere e approvare tali riforme sulla base di

una larga intesa tra tutte le forze politiche, altrimenti, ha detto successivamente, “non

se ne fa nulla”.

Affermazione, quest’ultima, abbastanza equivoca poiché il nulla, in questo campo

non esiste: o resta in vigore l’ultima legge elettorale approvata dal Parlamento, quella

con cui si è votato il 9-10 aprile 2006, oppure potrebbe passare il referendum

abrogativo di una parte di essa, che prevede essenzialmente l’attribuzione del premio

di maggioranza esclusivamente a una singola lista (e non anche a una coalizione) e

l’abolizione delle candidature in più di un collegio. A complicare le cose è stata da

più parti accreditata l’intenzione del Capo dello Stato – per la verità mai espressa

formalmente – di non volere sciogliere l’attuale Parlamento fino a quando non ci sarà

una nuova legge elettorale largamente condivisa.

Ora, non solo la legge elettorale, che è una legge ordinaria (non costituzionale) non

necessità di una maggioranza qualificata per essere approvata, ma il Presidente della

Repubblica non potrebbe in ogni caso sottrarsi allo scioglimento anticipato delle

Camere qualora risultasse impossibile, dopo alcuni tentativi, trovare un governo in

grado di ottenere la maggioranza in entrambe. Il nostro sistema politico è

parlamentare e non presidenziale.

In concreto, quel “non se ne fa nulla” ha prevalso in un altro senso, e cioè che nei

successivi undici mesi quella “prioritaria” riforma della legge elettorale non è stata

fatta e, dopo le definitive dimissioni, al presidente Napolitano non è rimasto che

applicare la Costituzione e sciogliere le Camere.

Tuttavia la prima crisi del governo Prodi II (quella del febbraio 2007) ha accelerato

il dibattito sulla riforma elettorale, ma in realtà già da molto tempo si discuteva in

Italia sulla necessità di ripensare la legge elettorale. Anzi, si può dire fin dai primi

anni di vita della Prima Repubblica, poiché diversi studiosi, prima, e alcuni politici,

poi, ritenevano che il sistema elettorale proporzionale scelto il 5 febbraio 1948, e

successivamente applicato alle diverse consultazioni elettorali fino a quella del 1992,

fosse la principale causa della partitocrazia, ovvero dello spostamento del vero

potere decisionale politico dal Parlamento, come prevede la Costituzione, ai partiti

politici. Altri ritenevano che il particolare indebolimento del potere esecutivo

(Governo), voluto dall’Assemblea Costituente per reazione al regime fascista,

riducesse di molto l’efficacia dell’azione governativa, aprendo spazi alla

partitocrazia. Lo stesso Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, dimettendosi

anzitempo dalla carica, il 25 aprile 1992, aveva auspicato una riforma costituzionale

per porre freno alla partitocrazia e per dare all’Esecutivo maggiori poteri. Invito

caduto nel vuoto sebbene il dibattito avesse già prodotto un primo risultato con

Page 45: Sistemi elettorali a confronto

l’approvazione, per via referendaria, il 9 giugno 1991, della possibilità di esprimere

un solo voto di preferenza nelle elezioni della Camera, chiara manifestazione della

volontà popolare di mettere un freno alla partitocrazia. Era questa la strada imboccata

da Mario Segni ed altri, che ritenevano possibile correggere le degenerazioni del

sistema politico partendo da una riforma della legge elettorale, ritenuta causa prima

della piramide di corruzione che fu poi riassunta nella parola Tangentopoli.

Le dimissioni di Cossiga seguivano infatti di due mesi l’inizio di quella operazione

giudiziaria definita Mani Pulite, iniziata il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario

Chiesa. Nel volgere di poco tempo, le inchieste e i processi pubblici provocarono non

solo la disgregazione del pentapartito (cioè l’alleanza di governo tra Dc, Psi, Psdi, Pri

e Pli) ma anche una forte ripresa del discorso riformistico, che ebbe la più

significativa manifestazione nel referendum popolare promosso da Mario Segni ed

altri, per la riforma del sistema elettorale del Senato, che il 18 aprile 1993 fu

approvato a stragrande maggioranza, inducendo il Parlamento ad approvare, il 4

agosto 1993, una legge elettorale, sia per il Senato sia per la Camera, per tre quarti

maggioritaria e per un quarto proporzionale. Fu questa una soluzione di

compromesso, che dal nome del proponente, Sergio Mattarella, fu definita

“Mattarellum”, e che fu applicata la prima volta nelle elezioni politiche del 27 marzo

1994 e successivamente nelle elezioni del 21 aprile 1996 e del 13 maggio 2001.

La nuova legge elettorale del 1993 non ha però trovato mai un consenso unanime.

Due le accuse principali: l’avere provocato una frammentazione del sistema dei

partiti e il non avere risolto in modo definitivo il problema della stabilità governativa.

Sul primo punto si tornerà ampiamente nel testo. Quanto al secondo, si può

ammettere che – nonostante l’eccezione rappresentata dalla continuità della

permanenza di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi tra il 2001 e il 2006 – la vita media

effettiva dei governi è stata di circa 20 mesi: un po’ più della durata media di 11 mesi

dei governi della Prima Repubblica, ma non certo paragonabile a quella dei principali

Paesi democratici europei: Regno Unito, Germania, Francia, Spagna.

Se la causa di questa instabilità, che nuoce alla credibilità delle istituzioni, alla vita

economica e all’efficienza della Pubblica Amministrazione, sia esclusivamente o

principalmente addebitabile al o ai sistemi elettorali fin qui sperimentati, sarà oggetto

delle considerazioni svolte nel corso di questo lavoro. Ma fin da ora esprimiamo la

convinzione che il solo cambiamento dei sistemi elettorali non è sufficiente a

trasformare il sistema politico se non avviene parallelamente un cambiamento del

sistema istituzionale. Ora, in Italia, dal 1993, è stata cambiata due volte la legge

elettorale, ma non è stato cambiato il sistema istituzionale, se si eccettua la parziale

riforma del Titolo V della Costituzione approvata dal governo di centrosinistra nel

2001. Cambiare la prima senza cambiare il secondo, senza riconoscere e stabilire il

loro rapporto di interdipendenza funzionale, non giova alla performance del sistema.

Di fatto, nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, solo il sistema elettorale

è stato cambiato con la conseguenza che le istituzioni fissate nella Costituzione del

1947 sono rimaste quelle della Prima Repubblica mentre il sistema elettorale è stato

cambiato. Solo un miracolo avrebbe potuto impedire gli inconvenienti che si sono

verificati (dalla relativa perdurante instabilità governativa ai meccanismi escogitati

Page 46: Sistemi elettorali a confronto

per aggirare il sistema elettorale stesso e per finire alla difficile maggioranza in un

ramo del Parlamento, lasciando da parte la limitatezza dei poteri del Governo ).

A complicare la discussione sulla riforma del sistema elettorale si è aggiunta la

falsa convinzione che i sistemi elettorali possano essere come neutri e quindi possano

essere graditi da tutti in modo uguale. In realtà nessuna legge è più politica della

legge elettorale perché, come si è detto, qualunque sistema elettorale presenta un

effetto distorsivo nel trasformare i voti in seggi parlamentari, e quindi favorisce alcuni

partiti e ne sfavorisce altri. In genere, esiste un conflitto oggettivo tra le esigenze dei

partiti più grandi e quelle dei partiti più piccoli, tra quelli che hanno una presenza

diffusa e abbastanza omogenea sul territorio nazionale e quelli che sono più presenti

in alcune aree (il problema non si pone solo per la Lega Nord ma anche per la sinistra

nelle cosiddette “regioni rosse”). Infatti, un accordo non si è trovato.

2. Precedenti storici

Ricordiamo brevemente che dal 1861, anno della proclamazione del Regno d’Italia,

fino al 1921, si sono svolte 19 consultazioni elettorali politiche: in media, una ogni 38

mesi scarsi. Le prime elezioni politiche, su base censitaria (legge 17 marzo 1848 e

successive estensioni), si svolsero il 27 gennaio 1848. Iscritti al voto erano 428.696

elettori, pari all’1,9% della popolazione (di 21,5 milioni di abitanti). Votarono

239.583 elettori, pari al 57,2% degli aventi diritto. Il 22 gennaio 1882 il Parlamento

abbassò il limite di età degli elettori, da 25 a 21 anni, e allargò la base elettorale a

poco più di 2 milioni di persone. Nuova riforma elettorale il 25 maggio 1912 con

estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi, compresi gli analfabeti che

abbiano raggiunto il trentesimo anno di età: gli aventi diritto al voto passano così a

oltre 8,6 milioni di persone. Il sistema elettorale resta maggioritario uninominale.

Il 21 giugno 1923, la Camera approvò, con 223 voti favorevoli e 123 contrari, la

nuova legge elettorale (promulgata il 18 novembre), presentata da Giacomo Acerbo

che prevedeva il collegio unico nazionale per il sistema maggioritario e il premio di

maggioranza in base al quale la lista che avesse ottenuto il maggior numero di voti

avrebbe avuto i due terzi dei seggi (356) mentre i restanti 179 seggi sarebbero stati

assegnati su base proporzionale alle liste di minoranza. Con questa legge, e in un

clima politico assai pesante, le elezioni si svolsero il 6 aprile 1924. Gli iscritti alle liste

erano 12.067.275, al voto presero parte 7.614.451 elettori, pari al 63,1%. La lista

“Blocchi nazionali”, comprendente il Partito nazionale fascista, il Partito liberale ed

altri minori, ottenne il 66,5% dei voti e complessivamente 375 seggi su 535. Da notare

che i due partiti socialisti e il partito comunista raccolsero complessivamente il 14,6%

dei voti.

Nelle successive elezioni del 1929 e del 1934, gli elettori potevano votare, con voto

non segreto ma palese, SI o NO per approvare la lista dei deputati designati dal Gran

Consiglio del Fascismo: la scheda con il SI era tricolore, quella col NO era bianca, per

cui erano manifesti i comportamenti dei singoli elettori al seggio. Alle elezioni del 24

marzo 1929 presero parte 8.661.820 elettori e il SI ottenne 8.517.838 voti. Alle

Page 47: Sistemi elettorali a confronto

elezioni del 25 marzo 1934 presero parte 10.041.997 elettori e il SI ottenne

10.026.513 voti.

Il 19 gennaio 1939 fu soppressa la Camera dei Deputati che venne sostituita dalla

Camera dei Fasci e delle Corporazioni, composta da consiglieri nazionali non elettivi,

nominati per decreto in base alle cariche ricoperte in organismi politici o corporativi.

Questa Camera fu soppressa, dopo la caduta del fascismo, il 2 agosto 1943.

Con il decreto luogotenenziale 1 febbraio 1945, n. 23, fu riconosciuto il diritto di

voto alle donne, che parteciparono in discreto numero alle prime elezioni

amministrative, svoltesi dal 10 marzo al 7 aprile 1946, e poi alle prime elezioni

politiche, quelle del 2 giugno 1946, con cui fu scelta la forma di Stato repubblicana e

furono eletti i 556 membri dell’Assemblea costituente incaricata di redigere la nuova

carta costituzionale. Il sistema elettorale adottato fu quello proporzionale. Nella

tabella seguente sono riportati i risultati delle elezioni del 2 giugno 1946. Nella quarta

colonna sono indicati i seggi che un partito avrebbe avuto se la loro assegnazione

fosse stata direttamente proporzionale ai voti conseguiti.

Elezioni 2 giugno 1946 – Assemblea Costituente

Partito % voti Seggi

ottenuti

Seggi teorici

in base alla

% di voti

Differenza

Democrazia cristiana – DC 35,21 207 196 + 9

Partito socialista italiano di unità proletaria - PSIUP 20,68 115 115 -

Partito comunista italiano – PCI 18,93 104 105 - 1

Unione democratica nazionale – UDN (liberali) 6,78 41 38 + 3

Fronte dell’Uomo qualunque – UG 5,27 30 29 + 1

Partito repubblicano italiano – PRI 4,36 23 24 - 1

Blocco nazionale della libertà – BNL (monarchici) 2,77 16 15 + 1

Partito d’azione – Pd’A 1,45 7 8 - 1

Movimento per l’indipendenza della Sicilia - MIS 0,74 4 4 -

Concentrazione democratica repubblicana 0,42 2 2 -

Partito sardo d’azione – PSd’Az 0,34 2 2 -

Partito dei contadini d’Italia 0,44 1 2 + 1

Movimento unionista italiano 0,31 1 2 - 1

Partito cristiano sociale 0,18 1 1 -

Fronte democratico progressista repubblicano

(alleanza di partiti di sinistra in Valle d’Aosta)

0,09 1 0 + 1

Altri 1,79 0 10 - 10

Totale 100 556 30:2=15

Indice di distorsione: 15 x 100 : 556 = 2,69

L’indice di distorsione risulta molto basso a causa della concentrazione dei voti sui

tre maggiori partiti, che insieme raccolsero il 74,82% del totale (il PSIUP si denominò

in seguito PSI). Se le elezioni del 1946 appaiono sotto la logica dell’antifascismo,

quelle successive del 1948 si svolgono sotto il segno della più dura contrapposizione

ideologica: l’anticomunismo della DC contrapposto al socialcomunismo del Fronte

popolare. Il fattore reale della radicalizzazione bipolare, nonostante l’applicazione del

Page 48: Sistemi elettorali a confronto

sistema elettorale proporzionale, portò alla concentrazione dei voti su quelli che

appaiono, ante litteram, i due poli.

Anche in questo caso, per capire gli ulteriori sviluppi politici, istituzionali ed

elettorali italiani, è opportuno riportare i risultati, limitandoci a quelli della Camera,

cui partecipavano i cittadini che avevano compiuto 21 anni.

Elezioni politiche del 18 aprile 1948 - Camera

Partito % voti Seggi

ottenuti

Seggi teorici

in base alla

% di voti

Differenza

Democrazia cristiana – DC 48,51 306 278 + 28

Fronte democratico popolare – FDP 30,98 183 178 + 5

Unità socialista – US (futuro PSDI) 7,07 33 40 - 7

Blocco nazionale – BN 3,82 18 22 - 4

Partito nazionale monarchico – PNM 2,78 14 16 - 2

Partito repubblicano italiano – PRI 2,48 9 14 - 5

Movimento sociale italiano – MSI 2,01 6 11 - 5

Südtiroler Volkspartei – PPST-PPTT 0,47 3 3 -

Partito sardo d’azione – PSd’Az 0,24 1 1 -

Partito dei contadini d’Italia 0,37 1 2 - 1

Movimento nazionale democratici socialisti 0,21 0 1 - 1

Cristiano sociale 0,28 0 1 - 1

Unione movimenti federalisti 0,20 0 1 - 1

Blocco popolare unionista 0,14 0 1 - 1

Partito comunista internazionalista 0,08 0 0 -

Altri 0,37 0 2 - 2

Totale 100 574 63:2=31,5

Indice di distorsione: 31,5 x 100 : 574 = 5,48

Si nota subito che l’indice di distorsione è quasi raddoppiato, nonostante il sistema

proporzionale, e ad averne beneficiato di più fu la DC, cioè il partito che ebbe un netto

vantaggio in termini di voti, distanziando tutti gli altri partiti e conquistando la

maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, che invece non avrebbe probabilmente

avuta, o l’avrebbe avuta con un minimo scarto, se il sistema fosse stato rigorosamente

proporzionale poiché avrebbe avuto 278 seggi, esattamente la metà di 574. In minore

misura ne beneficiò il FDP mentre tutti i restanti piccoli partiti furono penalizzati in

termini di seggi per effetto del sistema d’Hondt. E questo si ripeterà, a partire dalle

elezioni del 1953, a vantaggio di DC e PCI, i due partiti maggiori, e a svantaggio di

tutti gli altri. (Da ricordare che nel 1948 la DC ottenne la maggioranza assoluta dei

seggi anche al Senato).

Il risultato bipartitico dipese dal fatto che la forte polarizzazione ideologica ebbe

quasi un effetto di tipo maggioritario. I due partiti maggiori (in realtà due poli o

raggruppamenti) raccolsero insieme il 79,49% dei voti. Una situazione bipartitica

dalla quale nei decenni successivi ci si è gradualmente allontanati.

Page 49: Sistemi elettorali a confronto

3. Le elezioni durante la Prima Repubblica

Nella tabella seguente vengono riportati i dati di tutte le elezioni politiche svoltesi in

Italia con il sistema proporzionale, ricordando che nelle elezioni del 1953, per le quali

era stato introdotto il premio di maggioranza per le forze collegate, non fu raggiunto il

quorum richiesto, e quindi il premio non scattò. Violenta, in quella occasione, fu la

polemica contro quella che venne definita legge truffa, ma che era un tentativo di

saldare intorno alla DC, di cui si prevedeva un calo di consensi rispetto al 1948, i

partiti alleati centristi (PSDI, PLI e PRI). In fondo, in condizioni comunque diverse, e

con partiti rinnovati, è quanto si è tentato di ottenere, ma questa volta a vantaggio di

entrambi gli schieramenti, con la riforma elettorale del 1993.

Nelle tabelle che seguono sono state mantenute le sigle con cui i partiti si

presentarono in volta in volta alle consultazioni elettorali, accorpandole in alcuni casi

(PSIUP/PSI, UDN/BN/PLI, US/PSDI). Talvolta è capitato che lo stesso partito si sia

presentato con sigle diverse. Così, ad esempio, il PCI compare, per la Camera, con la

propria sigla dalle elezioni del 1946 a quelle del 1987, eccetto che nel 1948 quando si

presentò insieme al PSIUP (poi PSI) nel FDP (Fronte democratico popolare); nel 1992

si presentò come PDS (Partito democratico della sinistra). Nel 1968, il PSI e il PSDI si

presentarono uniti come PSU (Partito socialista unificato), poi tornarono a dividersi.

Per quanto riguarda il Senato, valgono le stesse precisazioni, cui è da aggiungere che

nelle elezioni del 1968 e del 1972 il PCI e il PSIUP si presentarono uniti. Abbiamo

invece raggruppato sotto la voce Monarchici i diversi partiti monarchici, sommando

percentuali e seggi. Dal 1972, i voti monarchici (o parte di essi) confluirono sul Msi-

Dn.

Page 50: Sistemi elettorali a confronto

Le elezioni della Costituente del 1946 e della Camera dei Deputati dal 1948 al 1992

Partito 1946 1948 1953 1958 1963 1968 1972 1976 1079 1983 1987 1992

% S % S % S % S % S % S % S % S % S % S % S % S

Dc 35,2 207 48,5 305 40,1 263 42,3 273 38,3 260 39,1 266 38,7 266 38,7 263 38,3 262 32,9 225 34,3 234 29,7 206

Psiup /Psi 20,6 115 12,7 75 14,2 84 13,8 87 9,6 61 9,6 57 9,8 62 11,4 73 14,3 94 13,6 92

Pci 18,9 104 22,6 143 22,7 140 25,3 166 26,9 177 27,1 179 34,4 227 30,4 201 29,9 198 26,6 177

Pds 16,1 107

Fdp 31,0 183

Pci-Psi 0,1 1

Psiup 4,4 23 1,9 -

Dem.Prol. 1,5 6 1,5 7 1,7 8

Pdup 1,4 6

Rif.com 5,6 35

Us/Psdi 7,1 33 4,5 19 4,6 22 6,1 33 5,1 29 3,4 15 3,8 20 4,1 23 2,9 17 2,7 16

Psu 14,5 91

Pd’Azione 1,4 7

Dem.rep. 0,4 2

Pri 4,3 23 2,5 9 1,6 5 1,4 6 2,0 9 2,9 15 3,1 14 3,0 16 5,1 29 3,7 21 4,4 27

Pri-Pr 1,4 6

Radicali 1,1 4 3,5 18 2,2 11 2,6 13 1,2 7

Comunità 0,6 1

Verdi 2,5 13 2,8 16

Udn/Bn/Pli 6,7 41 3,8 19 3,0 13 3,5 17 7,0 39 5,8 31 3,9 20 1,3 5 1,9 9 2,9 16 2,1 11 2,9 17

Monarchici 2,7 16 2,8 14 6,9 40 4,8 25 1,7 8 1,3 6

Uomo Qua 5,2 30

Msi-Dn 2,0 6 5,8 29 4,8 24 5,1 27 4,5 24 8,7 56 6,1 35 5,3 30 8,8 42 5,9 35 5,4 34

Msi-Sic. 0,7 4

Pcs 0,1 1

Mui 0,3 1

Svp 0,5 3 0,5 3 0,5 3 0,4 3 0,5 3 0,5 3 0,5 3 0,5 4 0,5 3 0,5 3 0,5 3

Ass.Trieste 0,2 1

Grup.prog. 0,1 1

P. contad. 0,4 1 0,3 1

Psd’A 0,3 2 0,2 1 0,1 - 0,3 1 0,4 2

Uv 0,1 1 0,1 1 0,1 1 0,1 1 0,1 1 0,1 1 0,1 1

Liga Ven. 0,3 1 0,8 - 0,4 1

Lega 0,5 1 8,6 55

La Rete 1,9 12

Lega ref. 0,8 -

Federalisti 0,4 1

Altri 1,7 1,3 - 2,2 - 0,5 - 0,8 - 1,0 - 0,2 - 1,8 - 2,0 - 2,1 6 4,7 5

Totale 556 574 590 596 630 630 630 630 630 630 630 630

Page 51: Sistemi elettorali a confronto

Le elezioni del Senato dal 1948 al 1992 Partito 1948 1953 1958 1963 1968 1972 1976 1979 1983 1987 1992

% S % S % S % S % S % S % S % S % S % S % S

Dc 48,1 131 39,9 113 41,2 123 36,3 129 38,3 135 38,1 135 38,9 135 38,3 138 32,4 120 33,6 125 27,3 107

Fdp 30,8 72

Pci-Psi 1,4 6 0,7 2 0,2 1

Pci-Psiup 30,0 101 28,1 94

Dem.Prol. 1,1 - 1,5 1

Rif.com. 6,5 20

Psi-Psdi 15,2 46

Pci 20,2 51 21,8 59 25,4 84 33,8 116 31,5 109 30,8 107 28,3 101

Pci-Sicilia 0,2 1

Pci cont 0,4 3

Pds 17,1 64

Psi 11,9 26 14,1 35 14,0 44 10,7 33 10,2 29 10,4 32 11,4 38 10,9 36 13,6 49

Us 4,2 8

Psdi 4,3 4 4,4 5 6,3 14 5,4 11 3,1 6 4,2 9 3,8 8 2,4 5 2,6 3

Pri 2,6 4 1,1 - 0,8 - 2,2 2 3,0 5 2,7 6 3,4 6 4,7 10 3,9 8 4,7 10

Pri-Pr 1,4 -

Us-Pri 2,7 4

Psdi-Pri 0,1 -

Ps-Psdi-Pr 3,1 10

Dc-Pri 0,8 3 0,1 1

Sc.cr.Fo.ed 0,7 4

Radicali 0,8 - 1,3 2 1,8 1 1,8 3 0,5 -

Verdi 2,0 1 3,1 4

Pli 5,4 7 2,8 3 3,9 4 7,5 19 6,8 16 4,4 8 1,4 2 2,2 2 2,7 6 2,2 3 2,8 4

Pl-Psdi-Pri 1,1 2

Monarchici 1,8 4 7,1 16 4,9 7 2,1 3 1,1 2

Msi-Dn 0,8 1 6,1 9 4,4 8 5,3 14 4,8 11 9,1 26 6,6 15 5,7 13 7,3 18 6,1 16 6,5 16

Svp 0,4 2 0,4 2 0,5 2 0,4 2 0,5 2 0,3 2 0,5 2 0,5 3 0,5 3 0,5 2 0,5 3

Adn 0,1 1

Psd’a 0,3 1 0,2 1 0,4 1

Uv 0,1 1 0,1 1 0,1 1 0,1 1 0,1 1 0,1 1

Lib. 0,4 3

Grup.prog. 0,1 1

Liga.Ven 0,3 1 0,9 - 0,4 1

Lega Alp 0,4 1

Lega 0,4 1 8,2 25

Rete 0,7 3

Federalisti 0,5 1

Als 0,3 1

Lega ref. 1,0 -

Lista Mol. 0,1 1

Per la Cal. 0,4 2

Altri 2,5 - 3,4 - 2,6 - 0,9 - 1,1 - 0,8 0 0,6 - 2,4 - 2,5 - 2,5 5 3,0 -

Totale 237 237 246 315 315 315 315 315 315 315 315

Page 52: Sistemi elettorali a confronto

Anche se riprenderemo più avanti questo argomento, è da notare che, nell’arco di

poco più di quaranta anni, il panorama politico italiano presenta, al di là dei fenomeni

di accorpamento o scissione, una generale tendenza alla frammentazione, ben visibile

nell’addensamento dei numeri nei primi e negli ultimi anni del periodo, a partire

soprattutto dalla fine degli anni ‘70. Prima di Tangentopoli, il fatto politico più

traumatico avvenne nel 1978, quando fu rapito e ucciso Aldo Moro ma,

contrariamente alle aspettative, la DC non ne subì le conseguenze sul piano elettorale:

nel 1979 perse appena lo 0,4% rispetto alle elezioni del 1976. Più sensibile fu invece il

regresso del PCI, che iniziò una discesa che dal 34,4% del 1976 lo precipitò al 16,1%

nel 1992: ovvero perse oltre la metà dei voti in quattordici anni.

Rileviamo questi dati perché una delle accuse portate alla riforma elettorale del 1993

è stata quella di avere provocato una frammentazione del sistema dei partiti: in realtà,

invece, questa frammentazione era iniziata da almeno un decennio. A conferma che i

movimenti di base hanno una loro larga autonomia rispetto ai sistemi elettorali.

4. La riforma elettorale del 1993

Sebbene si attribuisca all’operazione Mani Pulite la quasi completa demolizione del

sistema politico-partitico della Prima Repubblica, se si prende come data di inizio di

questa l’arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio 1992, bisogna riconoscere che non solo

la crisi del sistema veniva denunziata da tempo come già in atto, ma anche che alcune

misure correttive erano state effettuate. In particolare, ci riferiamo al referendum sul

finanziamento pubblico dei partiti (risalente addirittura all’11 giugno 1978), il cui

risultato era stato poi aggirato; e al referendum del 9 giugno 1991 sulla riduzione del

numero di preferenze per l’elezione della Camera dei Deputati, che puntavano a

ridurre la degenerazione partitocratica.

Dopo l’avvio di Tangentopoli, l’opinione pubblica restò sconvolta nell’apprendere

la vastità del sistema di collusioni tra potere politico e potere economico. Su questa

onda emotiva si svolse il referendum del 18 aprile 1993 di nuovo sul finanziamento

pubblico dei partiti e sulla modalità di elezione del Senato. Sulla spinta di

quest’ultimo referendum fu approvata, il 4 agosto 1993, la riforma della legge

elettorale che dette origine a un sistema misto in base al quale il 75% dei deputati

sarebbero stati eletti in collegi uninominali con il sistema maggioritario e il restante

25% dei seggi sarebbero stati attribuiti con il sistema proporzionale e voto di lista.

Questo sistema – definito “Mattarellum” dal politologo Giovanni Sartori – è stato

applicato alle elezioni politiche del 1994, 1996 e 2001 e ha avuto i seguenti principali

effetti:

- ha creato il bipolarismo (sotto forma di due coalizioni o poli elettorali principali);

- non ha ridotto il numero dei partiti (come si auspicava), ma lo ha fatto aumentare,

creando però una categoria speciale di partiti, i partiti ad utilità marginale, in

grado di determinare, anche con pochi voti, l’assegnazione di un seggio nei collegi

elettorali uninominali all’una o all’altra coalizione;

Page 53: Sistemi elettorali a confronto

- non ha generato una vera e propria stabilità né di legislatura (la prima è stata

interrotta dopo poco più di due anni e comunque la media è rimasta quella della

Prima Repubblica) né governativa poiché si sono succeduti 9 governi dal 1994:

Berlusconi I, Dini, Prodi I, D’Alema I, D’Alema II, Amato, Berlusconi I,

Berlusconi II, Prodi II, anche se la loro durata media è risultata quasi doppia

rispetto a quella dei governi della Prima Repubblica: da 11 a 20 mesi;

- non ha facilitato la riforma della Costituzione (forma di Stato e forma di Governo)

che pure era stata annunziata nei programmi elettorali delle due coalizioni nel

1994, nel 1996 e nel 2001. Il centrosinistra ha approvato una riforma parziale nel

2001, quella Titolo V della Costituzione, entrata in vigore; il centrodestra ha

approvato un’ampia riforma costituzionale nel 2005, che però non è stata

confermata per via referendaria;

- ha rafforzato fenomeni striscianti di presidenzialismo (interventismo vero e proprio

con Oscar Luigi Scalfaro; presenzialismo sui contenuti con Carlo Azeglio Ciampi;

stimolo riformista con Giorgio Napolitano);

- ha fatto proliferare numerose proposte di riforma del sistema elettorale di fronte

alla insoddisfazione per gli effetti disattesi;

- pur realizzando l’alternanza (al Governo) non è riuscito a radicare nell’opinione

pubblica la legittimità della vittoria dell’uno o dell’altro schieramento, ciò che ha

indebolito il ruolo e il prestigio del Parlamento con conseguente aumento del

potere di altri organi: Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale, Consiglio

superiore della magistratura, Authority.

Sintomo di questa insoddisfazione per la riforma elettorale del 1993 fu il referendum

del 21 maggio 2000 che prevedeva l’abolizione del voto di lista per l’attribuzione del

25% dei seggi con il metodo proporzionale. In caso di vittoria del sì, non si sarebbe

comunque passati a un maggioritario generalizzato per tutti i 630 seggi della Camera

(sul modello del sistema maggioritario secco o all’inglese dove il seggio viene

assegnato al candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti), ma sarebbero stati

eletti i 155 “migliori secondi”. Il fine perseguito da questo referendum non era quindi

di premiare le coalizioni in quanto tali, ma di penalizzare i partiti che avessero deciso

di correre da soli. Quel referendum restò senza efficacia perché non fu raggiunto il

quorum di votanti previsto per la sua validità (metà degli aventi diritto al voto più

uno), e le elezioni politiche del successivo 13 maggio 2001, svoltesi secondo il

“Mattarellum”, ebbero l’effetto previsto di penalizzare le formazioni che si erano

presentate fuori dalle alleanze/coalizioni elettorali, ma non quello di avvicinare i

diversi partiti di queste, riducendone il numero e comprimendone la tendenziale

conflittualità, e quindi senza ostacolare la loro propensione ad assumere posizioni

marginali (e talvolta ricattatorie) come espressione di una precisa volontà di

mantenere la propria identità, che può trovare migliore espressione con un sistema

elettorale fondato sul principio proporzionale.

All’epoca della presentazione di quel referendum, vennero calcolati gli effetti che la

sua eventuale approvazione avrebbe prodotto sui risultati delle precedenti elezioni

politiche del 1996 per la Camera: l’Ulivo avrebbe avuto 17 seggi in più, il Polo

avrebbe avuto 14 seggi in più; viceversa Lega Nord e Partito di rifondazione

Page 54: Sistemi elettorali a confronto

comunista avrebbero avuto ciascuno 16 seggi in meno. Applicando la stessa

simulazione al voto delle elezioni regionali del 16 aprile 2000, ma considerando due

coalizioni diverse (e cioè, da un lato, la Casa delle Libertà, formata dai tre partiti del

Polo più la Lega, e dall’altro lato l’Ulivo più Rifondazione), la CdL avrebbe vinto in

365 collegi contro i 264 dello schieramento opposto6.

Abbiamo voluto ricordare queste simulazioni per confermare come il sistema

elettorale incida sulla ripartizione dei seggi, fermo restando il numero assoluto dei voti

che ciascun partito o coalizione riporta. In altre parole, qualsiasi sistema elettorale

distorce, in maggiore e minore misura, quello che sarebbe in teoria il risultato perfetto,

ovvero la conquista di un numero di seggi esattamente proporzionale al numero di voti

ottenuto, posto che la rappresentatività sia il principale obiettivo di una legge

elettorale e non anche la governabilità.

A ulteriore commento degli effetti della legge elettorale del 1993 si può ribadire che

nessun sistema elettorale è taumaturgico; le sue eventuali virtù non riescono del tutto

a rimediare ai vizi eventuali del sistema complessivo degli organi costituzionali e

politici; in qualche caso i suoi difetti possono sommarsi a quelli del sistema

istituzionale e politico; infine, nessun accorgimento legislativo riesce ad eliminare del

tutto gli effetti della volontà dei partiti politici quando escogitano soluzioni per

strumentalizzare ai loro fini un sistema elettorale anche pensato per conseguire

obiettivi opposti. Se la legge elettorale del 1993 era stata pensata per ridurre il numero

dei partiti, questo è invece cresciuto, ma ciò non ha impedito che, nel 1996 e nel 2001,

si producesse una netta maggioranza parlamentare a favore di una coalizione. La

quale, però, non ha evitato crisi di governo tanto che nella Legislatura seguita alle

elezioni del 1996 si sono succeduti i governi Prodi, D’Alema I, D’Alema II, Amato II;

mentre nella Legislatura seguita alle elezioni del 2001 al governo Berlusconi II è

succeduto il Berlusconi III. Si deve comunque ammettere una certa tendenza a una

maggiore stabilità, in parte da attribuire alla legge elettorale, dimostratasi capace di

produrre maggioranze di coalizione a fini elettorali, e quindi antecedenti il voto, ma

incapace di indurre omogeneità nelle coalizioni stesse, che è un problema politico e

non di legge elettorale.

Le forze politiche guardano con attenzione alla legge elettorale: per aggirarla o

sfruttarla nel modo più conveniente. Appare allora chiaro che partiti più o meno

equivalenti in forze, quindi tutti sottoposti ad un medesimo effetto distorsivo, possono

trovare un accordo sulla legge elettorale o sulla sua modifica; ma quando il panorama

prevede alcuni pochi grossi partiti e un numero elevato di piccoli partiti diventa

difficile trovare un accordo perché qualsiasi sistema elettorale prescelto non può

soddisfare contemporaneamente le esigenze degli uni e degli altri.

5. Le elezioni del 1994

6 Simulazione riportata da Il Giornale il 7 maggio 2000.

Page 55: Sistemi elettorali a confronto

Per comprendere gli effetti del cambiamento del sistema elettorale, esaminiamo ora in

dettaglio due elezioni della Prima Repubblica, effettuate con metodo proporzionale,

per poi analizzare le consultazioni svoltesi con il “Mattarellum”. Prendiamo quella del

1976, svoltasi due anni prima del rapimento e della uccisione di Aldo Moro, che segnò

anche la punta massima raggiunta dal PCI e quasi prefigurò una situazione tendente al

bipartitismo; e quella del 1992, l’ultima effettuata con il sistema proporzionale.

Elezioni politiche del 20 giugno 1976 – Camera Partiti Voti ottenuti Voti in % Media voti per

ottenere un

seggio

Seggi

ottenuti

Seggi

teorici in

base ai voti

in %

(circa)

Differenza in

numero di

seggi (circa)

DC 14.418.298 38,71 54.061 263 244 +19

PCI 12.622.728 34,37 55.606 227 216 +11

PSI 3.542.998 9,65 62.157 57 60 - 3

PCI-PSI-PdUP 26.748 0,07 26.748 1 - +1

PSDI 1.237.270 3,37 82.484 15 21 - 6

PRI 1.134.936 3,09 81.066 14 19 - 5

PLI 478.335 1,30 95.667 5 8 - 3

MSI-DN 2.245.376 6,11 64.153 35 38 - 3

Partito radicale 394.212 1,07 98.553 4 7 - 3

Democrazia proletaria 556.022 1,51 92.670 6 9 - 3

SVP 184.390 0,50 63.130 3 3 -

Altri 85.960 0,23 0 1 -1

Totale 36.727.273 630 58 : 2 = 29

Media nazionale 58.297

Indice di distorsione: 29 x 100 : 630 = 4,60

Elezioni politiche del 5 aprile 1992 – Camera

Partiti Voti ottenuti Voti in % Media voti per ottenere un

seggio

Seggi ottenuti

Seggi teorici in

base ai voti

in %

(circa)

Differenza in numero di

seggi (circa)

DC 11.640.265 29,66 56.506 206 186 +20

PDS (ex PCI) 6.321.084 16,11 59.075 107 101 +6

PRF 2.204.641 5,62 62.989 35 35 -

PSI 5.343.930 13,62 58.086 92 85 +7

PSDI 1.064.647 2,71 66.540 16 17 -1

PRI 1.722.465 4,39 63.795 27 27 -

PLI 1.121.264 2,86 65.956 17 18 -1

MSI-DN 2.107.037 5,37 61.971 34 34 -

Lista Pannella 485.694 1,24 69.384 7 8 -1

Lega Nord 3.396.012 8,65 61.745 55 54 +1

Federazione Verdi 1.093.995 2,79 68.374 16 17 -1

La Rete 730.171 1,86 60.847 12 12 -

SVP 198.447 0,51 66.149 3 3 -

Federalismo - Pensionati 154.621 0,39 164.621 1 2 -1

Lega autonomia veneta 152.301 0,39 152.301 1 2 -1

Vallée d’Aoste 41.404 0,11 41.404 1 1 -

Altri 1.469.297 3,74 0 23 -23

Totale 39.247.275 100 62.297 639 63:2=31,5

Media nazionale

Indice di distorsione: 31,5 x 100 : 630 = 5

Page 56: Sistemi elettorali a confronto

Si noterà facilmente come l’indice di distorsione, a venti anni di distanza tra le due

consultazioni, sia rimasto quasi invariato e sostanzialmente basso: rispettivamente pari

a 4,6 e 5. Ma si noterà anche un fatto importante: ancora con la legge elettorale

proporzionale si assiste a una fuga dai due partiti maggiori, DC e PCI/PDS, che

scendono dal 73,08% al 45,77% complessivo dei voti, pari al 27,31% degli elettori

che si spostano su altri partiti, vecchi o nuovi. In altre parole si produce una

frammentazione: i partiti che inviano rappresentanti alla Camera passano da 11 a 16

mentre i voti dispersi, cioè andati a partiti che non hanno avuto eletti, passano da

meno di 100 mila a quasi 1,5 milioni: chiaro sintomo di disaffezione e di incertezza.

Lo stesso accade per il Senato dove si passa da 11 a 18 partiti rappresentati.

Questo fatto è molto importante poiché dimostra che la frammentazione non è insita

nel sistema elettorale (allora proporzionale), ma dipende da cause propriamente

politiche: si può solo dire che il sistema proporzionale, quando queste cause si

manifestano, non è in grado di opporsi alle loro conseguenze. Non è quindi corretto

attribuire alla nuova legge elettorale del 1993 la responsabilità della frammentazione

del sistema dei partiti.

Esaminiamo adesso le tre consultazioni elettorali svoltesi con il sistema misto, per

tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale: quelle del 1994, del 1996 e del

2001. Il fatto da tenere presente è che Mani Pulite ebbe l’effetto di distruggere il

pentapartito, cioè l’alleanza tra DC, PSI, PSDI, PRI e PLI, nonché quasi

completamente i partiti stessi, che o rinunziarono a presentarsi con il simbolo

tradizionale o si presentarono con altro simbolo o confluirono in altri partiti. Ma

questo non fu l’effetto del cambiamento della legge elettorale, bensì della ricaduta

sull’opinione pubblica delle vicende di Tangentopoli. La nuova legge elettorale, che

per la Camera assegnava 155 seggi con il proporzionale e 475 seggi con il

maggioritario spinse i vari partiti ad aggregarsi in coalizioni. In particolare si

formarono due coalizioni di centrodestra, una coalizione di centrosinistra, una

coalizione di sinistra:

- Polo del Buon Governo (centrodestra), presentatosi nell’Italia del Centro-Sud,

formato da Forza Italia, MSI-Alleanza Nazionale, Centro Cristiano Democratico

(CCD), Polo Liberal-democratico, Unione di Centro (UdC), Lista Pannella-

Riformatori;

- Polo delle Libertà (centrodestra), presentatosi nell’Italia del Nord, formato da

Forza Italia, Lega Nord, CCD, CdU, Lista Pannella-Riformatori;

- Patto per l’Italia (centrosinistra), formato dal Partito Popolare Italiano (PPI) e dal

Patto Segni;

- Progressisti (sinistra), formato da PDS, PRC, Federazione dei Verdi, Partito

Socialista Italiano, Movimento per la Democrazia-La Rete, Alleanza Democratica,

Cristiano Sociali, Rinascita Socialista, Indipendenti di sinistra;

- Si presentarono fuori dalle alleanze: Lista Pannella-Riformatori (dove non si

presentò il Polo delle Libertà), SVP, Lega d’Azione Meridionale, Vallée d’Aoste.

Page 57: Sistemi elettorali a confronto

Come si può vedere dalla tabella seguente, 19 partiti ebbero deputati eletti, 3 in più

rispetto alle elezioni del 1992: la frammentazione aumentò, ma relativamente, e

comunque non si può attribuire alla nuova legge elettorale che, ponendo come

obiettivo primario la conquista dei seggi uninominali, spinse alla formazione delle

alleanze, dando vita a un tripolarismo (centrodestra, centrosinistra e sinistra), poi

ridottosi a bipolarismo nelle elezioni del 1996 e del 2001. [I dati sul numero assoluto

di voti e sulle percentuali sono ricavati dal voto proporzionale].

Elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 – Camera

Partiti Voti ottenuti Voti in

%

Media voti per

ottenere un seggio

Seggi

ottenuti

Seggi

teorici in base ai voti

in %

(circa)

Differenza in

numero di seggi (circa)

Forza Italia 8.136.135 21,01 80.555 101 132 -31

Alleanza Nazionale 5.214.133 13,47 47.836 109 85 +24

Lega Nord 3.235.248 8,36 27.651 117 53 +64

CCD 27

UdC 4

Polo Liberal-Democratico 2

Totale Polo Lib. e B.G. 16.585.516 42,83 46.070 360 270 +90

PDS 7.881.646 20,36 72.308 109 128 -19

PRC 2.343.946 6,05 60.101 39 38 +1

Federazione dei Verdi 1.047.268 2,70 95.206 11 17 -6

PSI 849.429 2,19 60.673 14 14 -

Mov. per la Dem.-La Rete 719.841 1,86 119.973 6 11 -5

Alleanza Democratica 456.114 1,18 25.339 18 7 +11

Cristiano Sociali 5

Rinascita socialista 1

Indipendenti di sinistra 10

Totale Progressisti 13.298.244 34,34 62.433 213 216 -3

PPI 4.287.172 11,07 129.914 33 70 -37

Patto Segni 1.811.814 4,68 139.370 13 29 -16

Totale Patto per l’Italia 6.098.986 15,75 132.586 46 99 -53

Lista Pannella-Rif. 1.359.283 3,51 226.547 6 22 -16

SVP 231.842 0,60 77.280 3 3 -

Vallée d’Aoste 1 -

Lega d’Azione Meridionale 59.873 0,15 59.842 1 1 -

Altri 1.087.149 2,81 0 19 -19

Totale 38.720.893 100 61.461 630 181:2=90,5

Indice di distorsione: 90,5 x 100 : 630 = 14,36

Il grande perdente di questa consultazione fu il Patto per l’Italia che nella quota

maggioritaria conquistò solo 4 seggi su 475 contro i 42 nella quota proporzionale con

la conseguenza che si divise: parte si alleò, nelle elezioni successive, con la sinistra, e

parte con la destra. Il sistema maggioritario, benché applicato per tre quarti, aveva

conseguito uno dei suoi risultati: aveva dato ad uno schieramento, quello di

centrodestra, una netta maggioranza in termini di seggi (360 su 630), assicurando la

governabilità, beninteso in linea teorica poiché si trattava di una maggioranza formata

da una coalizione che, infatti, dopo pochi mesi, si ruppe poiché la Lega ritirò il suo

appoggio al primo governo Berlusconi.

Page 58: Sistemi elettorali a confronto

Ad avvantaggiarsi del nuovo sistema fu il Polo: basta guardare la colonna del

numero medio di voti necessari per conquistare un seggio, confrontandolo con quelli

dei Progressisti e del Patto per l’Italia. Forza Italia, pur avendo conquistato più di 8

milioni di voti, fu sottorappresentata in termini di seggi: funzionò, come si dice in

gergo, da portatore d’acqua ai candidati della Lega, di AN e degli alleati CCD, UDC.

Complessivamente il Polo conquistò 296 seggi nel maggioritario e 64 nel

proporzionale. Leggermente più equilibrati i Progressisti, che ottennero 164 seggi nel

maggioritario e 49 nel proporzionale.

Come è noto, le cose andarono diversamente al Senato dove il Polo conquistò 156

seggi su 315 e dei restanti 159 i Progressisti ne ottennero 122, il Patto per l’Italia 31

mentre 6 seggi andarono a liste minori. L’attribuzione su base regionale fu decisiva in

quanto il Polo non poté trasformare pienamente con logica maggioritaria il peso del

suo 42,73% di preferenze. Il governo Berlusconi ottenne la fiducia grazie al voto di

alcuni senatori a vita. In ogni caso, la crisi del Governo non fu dovuta alla sua

posizione minoritaria in Senato ma alla crisi che si produsse tra le sue componenti

politiche, in particolare la rottura tra la Lega e Forza Italia, sulla quale influì in misura

notevole il disaccordo sulla riforma della legge elettorale regionale, cui la Lega dava

molta importanza per accelerare la spinta federalistica.

6. Le elezioni del 1996

Al di là delle ragioni specifiche di questa rottura, volendo mantenere il discorso entro i

limiti delle considerazioni elettorali, la nascita di un disagio tra queste due forze

politiche era plausibile. La Lega poteva rivendicare una specie di diritto di

primogenitura nell’avere denunziato la crisi della Prima Repubblica: se la sua prima

uscita elettorale, nel 1987, aveva fruttato lo 0,5% dei voti e un deputato, nel 1992

l’8,6% di voti raccolti, pari a 3,4 milioni, e i 55 deputati eletti l’avevano fatta balzare

al livello di quarto partito italiano. L’entrata in scena di Forza Italia (fondata il 18

gennaio 1994) per le elezioni del 1994 bloccò l’espansione della Lega sul piano dei

consensi, che anzi si ridussero anche se di poco, e a poco valse il successo in termini

di seggi che ne fece il primo partito italiano: 117 contro i 109 di Alleanza Nazionale e

PDS e i 101 di Forza Italia. Dal punto di vista leghista, e in ordine al prioritario

obiettivo federalistico, si può comprendere che la stessa motivazione anticomunista

che aveva spinto Silvio Berlusconi a scendere in campo apparisse come un’operazione

conservatrice, quindi distante dai propositi innovativi del partito di Umberto Bossi.

La conseguenza della crisi, sul piano politico, fu la formazione del governo di

Lamberto Dini e la preparazione delle nuove elezioni, alle quali la sinistra, battuta nel

1994, si predispose unendo le proprie forze con gran parte di quelle che si erano

presentate nel Patto per l’Italia, mentre la rottura nel Polo si confermò con la decisione

della Lega di correre per proprio conto. Il risultato era scontato perché il nuovo

sistema elettorale avrebbe penalizzato chi si fosse presentato al di fuori dei due

schieramenti. Nel 1994 era toccato al Patto per l’Italia; nel 1996 toccò alla Lega, che

Page 59: Sistemi elettorali a confronto

pur aumentando considerevolmente i propri voti – passò al 10,1% – precipitò da 117 a

64 seggi alla Camera.

In occasione delle elezioni del 1996, i partiti si organizzarono meglio – dal loro

punto di vista – per sfruttare la nuova legge, in particolare attraverso il meccanismo

dello scorporo, ideato per consentire ai partiti sconfitti nei collegi uninominali di

recuperare voti (e seggi) nella parte proporzionale. Poiché nel conteggio dei voti da

detrarre al candidato vincente non rientrano quelli di liste associate che non hanno

superato la soglia del 4%, ogni coalizione favorì la presentazione di liste, destinate

alla sicura sconfitta, al solo scopo di raccogliere voti da sottrarre al meccanismo di

scorporo. Questo malcostume, denominato delle liste civetta, spiega l’elevato numero

di partiti e quindi l’apparente crescita di frammentazione del sistema dei partiti. Lo

schieramento di sinistra fu più abile nell’organizzazione della presentazione delle liste

e nei collegamenti tra le liste stesse, come mostra la seguente tabella.

Elezioni politiche del 21 aprile 1996 – Camera

Partiti Voti ottenuti Voti in

%

Media voti per

ottenere un

seggio

Seggi

ottenuti

Seggi

teorici in

base ai voti

in %

(circa)

Differenza in

numero di

seggi (circa)

PDS 7.894.118 21,1 50.603 156 133 + 23

PRC 3.213.748 8,6 91.821 35 54 - 19

Per Prodi 2.554.072 6,8 38.120 67 43 + 24

Lista Dini 1.627.380 4,3 67.807 24 27 - 3

Verdi 938.665 2,5 0

Verdi e altri collegati 44

Totale sinistra 16.227.983 43,3 49.932 325 273 + 47

Forza Italia 7.717.149 20,6 62.700 123 130 - 7

Alleanza Nazionale 5.870.491 15,7 63.123 93 99 - 6

CCD-CDU 2.189.563 5,8 72.985 30 37 - 7

Pannella-Sgarbi 702.988 1,9 0 12 - 12

Totale centrodestra 16.475.191 44,0 66.972 246 277 - 31

Lega Nord 3.776.354 10,1 64.006 59 64 - 5

Fiamma Tricolore 339.351 0,9 0 5 - 5

Altri 691.307 1,7 0 -10

Totali 37.484.398 100,0 54.499 630 630 98 : 2 = 49

Indice di distorsione: 49 x 100 : 630 = 7,77

Rispetto alle elezioni del 1994, quelle del 1996 presentano un indice di distorsione

più basso, segno dell’adattamento dei partiti alla nuova legge elettorale allo scopo di

trasformare i voti nel più alto numero di seggi possibile. La sinistra, come detto, si

dimostrò più abile a sfruttare le pieghe del sistema tramite alleanze che le

consentirono di avere, in media, un seggio con quasi 50 mila voti, al di sotto della

media nazionale, mentre la destra ebbe bisogno di molti più voti. Ma i fattori decisivi

furono due e di carattere di scelta politica, che è ovviamente a monte della legge

elettorale.

Il primo fattore fu di tipo ideologico, risalente quindi a scelte politiche. Due terzi

dei voti che erano andati al Patto per l’Italia confluirono nell’alleanza di sinistra, sia

come Lista Dini sia come L’Ulivo (o Per Prodi). Il resto formò il CCD-CDU alleato

Page 60: Sistemi elettorali a confronto

con FI e AN. Nonostante questo, il totale dei voti della sinistra risulta di poco

inferiore al totale dei voti della destra, se a questa si sommano i voti della lista

Pannella-Sgarbi che non riuscì a fare eleggere nessun deputato. Quanto a Forza Italia,

perse voti rispetto al 1994 (circa 400 mila), sia per assenteismo sia per un modesto

riflusso verso la Lega che aumentò in voti e percentuale, ma non in seggi a causa dei

mancati collegamenti.

Proprio l’atteggiamento della Lega fu il secondo e decisivo fattore. La sua

decisione di presentarsi da sola, se si pensa al fatto che poco tempo dopo si riavvicinò

al Polo contribuendo alla vittoria del 2001 e ai governi della scorsa Legislatura, è

risultata strategica per il centrodestra. Infatti, se fosse stata mantenuta l’alleanza, il

centrodestra avrebbe avuto nel 1996 una vittoria ben più ampia di quella del 1994, sia

alla Camera sia al Senato e questa continuità politica avrebbe probabilmente dato la

spinta decisiva al passaggio alla Seconda Repubblica anche sul piano istituzionale.

Non deve invece sorprendere il fatto che la Lega, pur presentandosi da sola, abbia

avuto un numero di seggi proporzionato al suo peso elettorale: questo a causa della

sua concentrazione geografica che le permise di conquistare 39 seggi nel

maggioritario e 20 nel proporzionale.

Per quanto riguarda il voto del Senato, la spaccatura del centrodestra consentì al

centrosinistra di poter contare su una maggioranza di 170 seggi (su 315), di cui 152

per la sola formazione dell’Ulivo.

7. Le elezioni del 2001

Le elezioni del 1996 avevano portato all’alternanza, un principio da tutti auspicato

come segno di maturità politica, ma quanto alla stabilità il risultato fu ambiguo. Se la

Legislatura durò praticamente per quasi tutto il quinquennio previsto, non si realizzò

l’altrettanto auspicato governo di legislatura che avrebbe dovuto durare sotto la guida

del candidato-premier della coalizione vincente. Al governo Prodi I, infatti, successero

i governi D’Alema I, D’Alema II e Amato II.

Il fatto è che la legge elettorale del 1993 aveva spinto i partiti dell’uno e dell’altro

schieramento ad aggregarsi in vista di conquistare la maggioranza in Parlamento, ma

aveva creato il bipolarismo, ovvero una doppia partitocrazia: una per ciascuno

schieramento. Con una doppia conseguenza: all’interno della maggioranza, i partiti

tendevano a divaricarsi, contendendosi il potere per allargare la propria base di

consenso da raccogliere alle prossime elezioni, esattamente come accadeva alle

coalizioni della Prima Repubblica; all’interno dell’opposizione, invece, i partiti

tendevano ad avvicinarsi o riavvicinarsi, smussando le proprie differenze, in vista di

formare un blocco vincente alle successive elezioni.

Questo significa che la nuova legge elettorale aveva intaccato la superficie del

sistema politico e non era entrata in profondità. L’idea dell’alternanza quinquennale

piaceva, e soprattutto piaceva alla parte vincitrice che poteva programmare la sua

azione di potere su un arco di cinque anni. Ma non piaceva altrettanto l’idea che uno

stesso leader guidasse per altrettanto tempo il governo. La Prima Repubblica aveva

Page 61: Sistemi elettorali a confronto

abituato ad avvicendamenti serrati a Palazzo Chigi, sia per soddisfare le ambizioni dei

leader sia per aggiustare i mutevoli rapporti di forza tra i partiti della coalizione

nell’arco di una stessa Legislatura. Gli avvicendamenti alla guida del governo, con

rotazioni negli incarichi ministeriali, erano un valvola di sfogo. La rinunzia a tutto

questo non era facile da digerire. Così, nella sinistra al potere, si ebbero scissioni e

crisi di governi. La stessa cosa, anche se in misura molto più contenuta, si sarebbe

verificata durante la successiva legislatura, e a farne le spese sarebbe stata la destra.

Nella quale, invece, dopo la sconfitta del 1996, anomala rispetto all’orientamento

politico della maggioranza degli elettori, la Lega ritrovò gradualmente l’intesa con gli

altri partiti del Polo e fu costituita la Casa delle Libertà. In questo clima, il 13 maggio

2001, si svolsero per la terza volta le elezioni politiche con il “Mattarellum”, che

dettero la vittoria al centrodestra, confermando l’alternanza e accentuando un po’ la

stabilità del sistema.

In queste elezioni del 2001 si verificò, a spese della sinistra, cioè che era accaduto

alla destra nelle elezioni del 1996. Il Partito di rifondazione comunista (PRC), che già

aveva provocato la crisi del governo Prodi I nel 1998, si presentò da solo: in tal modo,

nella quota maggioritaria, l’Ulivo e alleati conquistarono solo 189 seggi contro i 246

che avevano vinto nel 1996. Inoltre, Lista Di Pietro, Democrazia Europea e Lista

Pannella-Bonino, potenziali alleati della sinistra, non raggiunsero il quorum del 4% e

non ottennero seggi. Ancora una volta il sistema aveva imposto la sua logica: vince

l’alleanza più ampia ma vengono soprattutto penalizzate le forze che si presentano da

sole cercando una terza via.

Elezioni politiche del 13 maggio 2001 – Camera

Partiti Voti ottenuti Voti in

%

Media voti per

ottenere un

seggio

Seggi

ottenuti

Seggi

teorici in

base ai voti

in % (circa)

Differenza in

numero di

seggi (circa)

Forza Italia 10.923.431 29,4 61.712 178* 185 - 7

Alleanza Nazionale 4.463.205 12,2 45.044 99 76 + 23

CCD-CDU 1.194.040 3,2 29.841 40 20 + 20

Lega Nord 1.464.301 3,9 48.728 30 24 + 6

Totale CdL 18.044.977 48,7 52.002 347 306 + 41

DS 6.151.154 16,6 45.203 137 105 + 32

Margherita 5.391.827 14,5 64.130 80 91 - 11

Girasole 805.340 2,2 50.280 8 14 - 6

Comunisti italiani 620.859 1,7 61.199 9 11 - 2

Lista Di Pietro 1.443.725 3,9 0 24 - 24

Totale Ulivo e alleati 14.412.905 38,9 56.968 234 245 - 11

PRC 1.868.659 5,0 169.828 11 31 - 20

Democrazia europea 888.269 2,4 0 15 - 15

Pannella-Bonino 832.213 2,2 0 14 - 14

Nuovo PSI 353.269 0,9 58.808 3 6 - 3

SVP 200.059 0,5 66.686 3 3 -

Fiamma Tricolore 143.963 0,3 0 2 - 2

Altre liste 618.896 1,6 15 10 +5

Totali 37.363.210 100,0 58.925 613* 190:2=95

Indice di distorsione: 95 x 100 : 630 = 15

* In realtà 167 perché 11 seggi conquistati con le liste civetta non furono attribuiti

Page 62: Sistemi elettorali a confronto

Le profonde divisioni della sinistra, emerse durante cinque anni di gestione del

potere, furono in ogni caso la principale causa della sua disfatta. Ma all’interno dei

risultati complessivi della sinistra, accanto alle perdite secche in voti e in percentuale

subita da DS e PRC, rispetto alle elezioni precedenti, si deve rilevare la crescita della

Margherita quasi allo stesso livello dei DS, risultando distanziata di poco più di 750

mila voti. Ciò ha aperto una dialettica nella sinistra: quale partito vi avrebbe avuto

l’egemonia? I DS o la Margherita, fatta da ex radicali, e moderati ed ex democristiani

orientati a sinistra?

Saremmo tentati di dire che la storia si ripete. Non sfugge, infatti, il confronto con il

risultato delle prime elezioni, quelle del 1946, quando, a parti rovesciate, il PCI arrivò

di poco dietro al PSI (allora PSIUP): 18,93% contro il 20,68%. I comunisti di Palmiro

Togliatti non potevano ammettere di non essere il primo partito della sinistra e agirono

in due tempi: il primo fu quello della fusione, che portò al Fronte Popolare

Democratico ma anche alla sconfitta del 1948, necessario però per impadronirsi della

macchina organizzativa, propedeutica al secondo tempo, la conquista dell’egemonia.

Prese quindi l’avvio di una lunga gara che ben presto volse a favore del PCI e ne fece

la vera e propria opposizione, costringendo il PSI ad avvicinarsi sempre più al centro,

fino alla sua integrazione nella formula governativa del centrosinistra. Formula che

non nuoceva al PCI, che cominciò ad attirare sempre più voti fino al culmine del

34,4% (ad appena 4,3% dalla DC) raggiunto nelle politiche del 1976.

Questa stessa tattica sembra ripetersi in questi anni, e soprattutto dopo le elezioni del

2001. Nella sinistra sconfitta, i DS, sentendo il fiato sul collo della Margherita, ma

anche avvertendone la debolezza in quanto è una federazione di partiti dalle origini

diverse, hanno di nuovo puntato sulla fusione, propedeutica alla conquista delle

strutture e quindi all’egemonia. Da qui, le resistenze da parte della Margherita, almeno

per un certo periodo, che a sua volta avrebbe voluto, in questa alleanza a due, avere il

ruolo di guida, facendo leva sulla propria immagine di moderazione e sulla direzione

di marcia verso il centro.

Riprenderemo gli sviluppi di questa interessante gara dopo avere analizzato le

elezioni politiche del 2006 che hanno riportato la sinistra al potere, anche se un po’

avventurosamente, e grazie a una nuova legge elettorale e al voto, per la prima volta,

degli italiani residenti all’estero. Ma anche alla fusione tra DS e Margherita con la

nascita del Partito democratico.

Ritorniamo al voto del 2001 per verificare in quale misura, anche questa volta, il

sistema abbia distorto la volontà degli elettori nel trasformare i voti in seggi. Bisogna

però tenere presente che 11 seggi della Camera, su 630, non sono stati assegnati a

Forza Italia a causa dell’applicazione delle regole sulle cosiddette liste civetta. Il

calcolo dell’indice di distorsione è stato comunque fatto sulla base di 630 seggi della

Camera, risultando uguale a 15. Possiamo così riassumere i valori dell’indice di

distorsione nelle tre elezioni svoltesi con il “Mattarellum”, riportati nella seguente

tabella e confrontati con l’indice delle elezioni del 1976, scelte tra quelle che si

svolsero con il sistema proporzionale.

Page 63: Sistemi elettorali a confronto

Anno Sistema elettorale Indice di distorsione

1976 proporzionale 29 x 100 : 630 = 4,60

1994 mattarellum 90,5 x 100 : 630 = 14,36

1996 mattarellum 49 x 100 : 630 = 7,77

2001 mattarellum 95 x 100 : 630 = 15

Non meraviglia che gli indici delle elezioni svoltesi con il sistema maggioritario (per

tre quarti) risultino superiori poiché questo notoriamente produce una più forte

distorsione. L’indice relativamente basso del 1996 si spiega facilmente con il fatto che

i due schieramenti principali ebbero quasi lo stesso numero di voti; cosa che non si

verificò né nel 1994 né nel 2001.

Poiché questo sistema elettorale è stato archiviato alla fine del 2005, si può dire che

esso, impostato su tre quarti di maggioritario e su un quarto di proporzionale, ha avuto

l’effetto di produrre una netta maggioranza politica per uno schieramento (sempre alla

Camera, due volte su tre al Senato), ma ha poi riprodotto questo effetto all’interno di

ciascuno schieramento, generando quella che si potrebbe chiamare instabilità da

bipolarismo, per la semplice ragione che ha operato non su un sistema

sostanzialmente bipartitico, ma su un sistema che è rimasto caparbiamente

multipartitico.

Per questo motivo non è mai cessato il dibattito sul sistema elettorale, ritenendolo la

causa del fenomeno, e sfociato, alla fine del 2005, in una nuova riforma: il

proporzionale con premio di maggioranza, con il quale si sono svolte le elezioni

politiche del 9-10 aprile 2006. Ma prima di passare all’esame del nuovo sistema e dei

risultati delle ultime elezioni è necessario insistere su altri aspetti del sistema

elettorale, che valgono per qualsiasi modello venga prescelto.

8. Sistema elettorale e istituzioni

Sebbene nessun sistema elettorale abbia virtù taumaturgiche nei confronti

dell’eventuale cattivo funzionamento delle istituzioni dello Stato, esiste una

correlazione tra sistema elettorale e sistema istituzionale inteso come funzionamento

concreto degli organi dello Stato. Più precisamente si deve parlare di correlazione tra

sistema elettorale e sistema politico, di cui le istituzioni e i soggetti protagonisti

(governo, parlamento, partiti, ecc.) sono espressione formale: ciò che i

costituzionalisti indicano con i termini, rispettivamente, di costituzione materiale e

costituzione formale.

Il sistema fissato dalla Costituzione italiana del 1948 è, per quanto riguarda la forma

di governo, di tipo parlamentare. Nel Parlamento si concentra la sovranità effettiva

grazie al voto-delega, ma un sistema elettorale che favorisce il bipolarismo tende a

cambiare la natura del voto-delega in voto-indirizzo e in voto-sanzione, come si dirà

più avanti.

Page 64: Sistemi elettorali a confronto

Al Parlamento italiano possono accedere solo i candidati che sono stati presentati

dai partiti politici (Art. 49 della Costituzione7). Ne segue che i partiti occupano un

ruolo centrale e necessario nel sistema politico-costituzionale. Una nuova legge

elettorale, fatti salvi i princìpi costituzionali, dovrebbe essere l’occasione per definire

con maggiore precisione la loro natura, caratteristiche e funzioni senza intaccare il

principio di libertà di manifestazione del pensiero (Art. 21 della Costituzione8).

Alcune costituzioni hanno articoli dettagliati sui partiti, loro natura e funzione,

facilitandone la disciplina legislativa e contenendone la tendenza ad essere pervasivi

in tutte le istituzioni dello Stato.

Su questa base, fin dai primi anni della Repubblica, si è sviluppata la critica, anche

da parte di autorevoli costituzionalisti, nei confronti della cosiddetta partitocrazia,

partendo dalla constatazione empirica che le decisioni di rilevanza politica nazionale

venivano prese nei partiti e, in seno a questi, dove più e dove meno, nei loro organi

direttivi centrali. Di per sé questo fenomeno non è patologico: in Inghilterra, patria

della democrazia parlamentare, le strutture centrali dei partiti sono diventate molto

forti; un partito può costringere alle dimissioni il suo leader anche se è primo ministro

in carica e ha vinto le elezioni (è successo con Margaret Thatcher e poi con Tony

Blair); negli Stati Uniti, invece, i partiti sono molto meno strutturati, sono

essenzialmente macchine elettorali che si attivano in vista delle elezioni, anche se da

qualche tempo si sta manifestando una tendenza ad europeizzare la dialettica politica.

In Italia, con il termine partitocrazia si è intesa soprattutto la pratica di consentire ai

partiti di occupare tutte le posizioni di potere nelle strutture dello Stato o ad esso

comunque riferibili, secondo un sistematico criterio spartitorio-clientelare che ha

finito per radicare pratiche corruttrici che hanno coinvolto l’ambito pubblico e

l’ambito privato. Anche la Pubblica Amministrazione, che dovrebbe essere immune

da indulgenze verso il potere politico dovendo attenersi all’applicazione della legge, è

stata attratta da questo criterio nella sua orbita, a livello centrale e locale. Con la

conseguenza che la sfiducia dei cittadini nei confronti dei partiti si è estesa – e ciò è

risultato molto più grave – anche allo Stato. Nel 2007 è esplosa, seppure per breve

tempo, la polemica contro la “Casta”.

A parte questi aspetti chiaramente degenerativi, che sul piano del meccanismo

elettorale si traducevano nel cosiddetto voto di scambio e nella (costosa per i

candidati) caccia al voto di preferenza, ciò che interessa qui mettere in evidenza è il

rapporto tra sistema elettorale e sistema istituzionale.

Questo vuol dire che non si può affrontare il tema del sistema elettorale senza

affrontare anche quello degli obiettivi che vengono posti alle istituzioni dello Stato e

quindi alla politica. Il principale di questi obiettivi formali, ma con implicazioni

sostanziali, anche perché è spesso preso in considerazione quando si parla di riforma

elettorale, ponendolo come uno degli scopi di questa, è quello della stabilità,

intendendosi con questo termine una discreta durata media della vita dei governi, fino

7 “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a

determinare la politica nazionale”. 8 “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di

diffusione”.

Page 65: Sistemi elettorali a confronto

all’ipotesi di governo di legislatura, la cui assenza in Italia viene considerata un

elemento di debolezza del sistema-Paese nella competizione internazionale.

A questo tipo di stabilità viene attribuito un valore positivo, ma questo non è sempre

vero. Ad esempio, il Giappone ha avuto, in questo dopoguerra, un elevato numero di

governi (42 con 26 premier diversi), ma questa formale instabilità si è accompagnata,

almeno per i primi tre decenni, a una sostanziale stabilità di indirizzo politico (grazie

all’incontrastato predominio del Partito Liberaldemocratico che esprimeva i premier)

che gli ha consentito di raggiungere alti traguardi in termini di sviluppo, specie se si

considerano le condizioni in cui versava alla fine della guerra. Lo stesso vale, grosso

modo, per l’Italia, grazie al lungo predominio esercitato dalla DC. La Germania ha

avuto una grande stabilità politica (8 cancellieri con l’attuale in carica che hanno

guidato continuativamente uno o più governi), che senza dubbio ha contribuito anche

alla sua ripresa economica postbellica. Da alcuni anni, tuttavia, anche la Germania, è

afflitta da problemi simili a quelli che hanno altri Paesi con governi meno stabili.

Più che la stabilità formale, intesa come permanenza dello stesso governo e/o dello

stesso leader per un discreto periodo di tempo, conta quindi la stabilità sostanziale,

che è quella che è propria della società nella sua struttura che la protegge dai

mutamenti superficiali. Ci riferiamo alla stabilità sostanziale che caratterizza paesi

come gli Stati Uniti o il Regno Unito, nonostante l’alternarsi al potere dell’uno o

dell’altro partito. Tralasciamo il caso americano che presenta presidenzialismo e

fissità delle scadenze elettorali.

Alcune costituzioni prevedono lo scioglimento anticipato automatico del Parlamento

in determinate circostanze. La maggior parte delle costituzioni dei paesi democratici

lega lo scioglimento anticipato all’impossibilità del Parlamento di assicurare la fiducia

a un governo. In genere si sostiene che, nei regimi parlamentari, il potere di

scioglimento, attribuito a un altro organo (il Capo dello Stato o il Capo del Governo),

costituisca una forma di deterrenza nei confronti della rissosità delle assemblee elette

poiché i deputati che sfiduciano un governo corrono il rischio di non essere rieletti.

Ma in genere non si può dire che questa deterrenza funzioni. Anche perché la

decisione di sciogliere anticipatamente il Parlamento non viene presa contro tutti i

partiti in esso presenti, ma in genere contro alcuni partiti per favorirne altri che sono

d’accordo per lo scioglimento anticipato in quanto sperano di trarne vantaggio.

A parte il fatto che è difficile immaginare come un organo (ad es. il Capo dello

Stato) possa realmente contrapporsi all’organo che lo ha eletto (il Parlamento) e che lo

può mettere sotto accusa e giudicare (ma non per l’atto di scioglimento), una vera

deterrenza può esistere solo quando il primo organo e il secondo traggono la propria

legittimità in modo indipendente, come è nel caso francese in cui sia il Presidente

della Repubblica sia l’Assemblea Nazionale sono eletti direttamente dai cittadini ma

in contesti diversi. Nel caso britannico, il potere di scioglimento in mano al premier

può funzionare talvolta più per mantenere docile il proprio partito che contro il partito

avversario.

Pertanto, quando si parla di potere di scioglimento delle Camere nel caso italiano e

in quelli analoghi, non bisogna immaginare un reale potere autonomo del Capo dello

Stato. Questi non può che muoversi in sintonia con una parte consistente delle forze

Page 66: Sistemi elettorali a confronto

politiche e soprattutto resta obbligato allo scioglimento quando falliscono i tentativi di

dare vita ad un governo con una maggioranza parlamentare.

9. Falsa neutralità dei sistemi elettorali

Quando si parla di sistema elettorale deve essere ben chiaro che qualsiasi modello o

riforma elettorale avvantaggia alcune forze politiche e ne danneggia altre e si

incrocia con il dinamismo proprio dei diversi partiti. Se fosse possibile escogitare un

sistema realmente neutro, in breve tempo tutte le forze politiche si metterebbero

d’accordo per adottarlo. Il fatto che si discuta sulla riforma e non si trovi un accordo

dimostra che la posta in gioco è molto alta e nessuna forza politica vuole rischiare di

approvare un nuovo sistema che potrebbe danneggiarla.

Nel caso italiano, dopo la riforma elettorale del 1993, analizzando i suoi effetti, è

emerso il paradosso della moltiplicazione dei cosiddetti partiti di utilità marginale.

Quei partiti, cioè, che potendo controllare segmenti di elettorato, potevano

determinare, alleandosi o non alleandosi con i partiti maggiori, la conquista dei

determinanti seggi nei collegi uninominali, ottenendo per sé stessi, in contropartita,

seggi nella quota proporzionale, purché superassero la soglia di sbarramento del 4% a

livello nazionale.

In teoria, i partiti maggiori potrebbero allearsi per approvare un sistema elettorale

che, con un’alta soglia di sbarramento, mettesse fuori gioco i partiti minori. Ma la

contemporanea gestione del potere da parte di uno schieramento, composto sia di

grandi sia di piccoli partiti, ha impedito questa soluzione, come hanno dimostrato i

dibattiti avvenuti per tutto il 2007. A rigore, tuttavia, nemmeno questa sarebbe una

soluzione in quanto si può arrivare ad un Parlamento dove sono rappresentati due o tre

o quattro soli grandi partiti, ma senza eliminare il rischio che all’interno di ciascuno di

essi si formino correnti e si producano scissioni, moltiplicando ex post il numero dei

partiti: cacciati dalla porta con un’alta soglia di sbarramento, potrebbero rientrare dalla

sinistra.

Si obietta: con un’opportuna riforma dei Regolamenti parlamentari si potrebbe dare

riconoscimento di “gruppo parlamentare” solo ai partiti che si sono presentati alle

elezioni. È vero, ma in primo luogo questo non impedirebbe a singoli eletti di passare

nel “gruppo misto” (e, a monte, di essere stati eletti come “indipendenti” nelle liste di

un dato partito); in secondo luogo, i cittadini eleggono i loro rappresentanti tra i

candidati presentati dai partiti, ma non eleggono direttamente i partiti o i gruppi

parlamentari; una volta eletti, i parlamentari rappresentano, come si sa, la Nazione e

non hanno mandato imperativo. L’unico modo efficace per tenere compatti i gruppi

sarebbe quello di non dare alcun tipo di finanziamento e di non consentire l’accesso

alle “tribune elettorali” televisive ai nuovi eventuali partiti in occasione delle

successive elezioni.

Vogliamo dire che la semplificazione del panorama dei partiti può essere indotta

artificialmente dal sistema elettorale, ma non dura se non ha profonde radici politiche.

Queste sono più influenzate quando sono consistenti i poteri del Governo in quanto

Page 67: Sistemi elettorali a confronto

intorno al partito al potere si formano sia un’area di consenso sia un’area di dissenso

allorché si tratta di giudicarne l’operato con il voto. Invece, se a presentarsi di fronte

agli elettori è una coalizione, il giudizio di questi si esprimerà in modo frammentato,

ciascuno pensando che, dando più voti al proprio partito, la direzione di marcia della

coalizione ne risulterà influenzata. È stata questa la logica della Prima Repubblica,

applicata sia nel periodo del centrismo sia in quello del centrosinistra e del

pentapartito.

Bisogna quindi distinguere tra un bipartitismo reale, formato da due partiti

fortemente omogenei anche se non monolitici, e un cripto-bipartitismo, che si verifica

quando i due partiti sono di fatto contenitori di numerosi piccoli partiti. In ogni caso,

la contrapposizione tra due grandi forze politiche, alle quali, proprio perché sono

grandi e rappresentative di una complessa e sfaccettata realtà sociale, culturale e

territoriale, non si può chiedere la compattezza di un piccolo partito monotematico,

consente agli elettori di esprimere un giudizio più chiaro e soprattutto più efficace.

Il punto è che il fattore distorsivo – che in parte favorisce o l’aggregazione o la

frantumazione dei partiti – è anche frutto della storia complessiva di un Paese e della

sua stessa tradizione elettorale. Tuttavia la costituzione materiale, cioè la dinamica

delle forze sociali con le relative espressioni politico-partitiche, opera incessantemente

ed è essa che, alla fine, impone una modificazione del sistema elettorale e dello stesso

sistema istituzionale. La fedeltà britannica al maggioritario uninominale è sorretta

senza dubbio dal fatto che esso consente ai due partiti più forti di mantenere la loro

egemonia, pur alternandosi al potere, e quindi risponde al loro interesse, ma anche è

sostenuta dal timore diffuso presso l’opinione pubblica dei rischi imprevedibili

connessi a un cambiamento. Il maggioritario uninominale a un turno, ad esempio, è

rimasto solo per l’elezione della Camera dei Comuni, mentre è stato fatto spazio al

proporzionale e a sistemi misti per le altre consultazioni elettorali.

La fedeltà tedesca al suo sistema elettorale deriva dall’interesse dei due partiti

maggiori, che si alternano al potere, a mantenere in uno stato di inferiorità i partiti

minori, ad evitare che si costituisca una terza forza equipollente e a spingere le minori

ad accettare l’alleanza con una delle due maggiori, accontentandosi di questo risultato.

Ma dopo la riunificazione del 1990 il panorama partitico ha cominciato a frastagliarsi

a causa dei cambiamenti indotti a livello sociale che si sono tradotti in una progressiva

riduzione del consenso per i due partiti maggiori, i quali, dopo il voto del 2005, hanno

preferito dar vita alla Grande Coalizione governativa forse nella speranza che questa li

rilegittimi e freni la tendenza alla frammentazione. Si vedrà alle prossime elezioni.

In linea generale, il maggioritario è adottato dai sistemi politici in cui domina un

partito (caso giapponese) o dominano due partiti (casi britannico e americano, e

sempre più il caso francese) o dove si vuole forzare un multipartitismo di partenza

almeno in un bipolarismo, sperando che alla fine sfoci in un bipartitismo (è questo, a

grandi linee, e attraverso un percorso tortuoso, il caso italiano con la riforma del

1993). Il caso tedesco dimostra che un sostanziale bipartitismo può essere conservato

anche con il sistema elettorale proporzionale, purché adeguatamente protetto sia con

accorgimenti nel sistema stesso (sbarramento al 5%) sia con accorgimenti in altre sedi

istituzionali (ad es. con il “voto di sfiducia costruttivo”). Ma se il numero dei partiti

Page 68: Sistemi elettorali a confronto

(oltre i due maggiori) in grado di superare la soglia del 5% aumenta, come sta

avvenendo anche perché quello sbarramento è superabile grazie a alleanze/fusioni pre-

elettorali, allora la legge elettorale non è più una difesa efficace. La predominanza di

due partiti non è solo effetto del sistema elettorale bensì ne è anche causa: è il suo

principale sostegno fino a quando non avvengono profondi rivolgimenti che

travolgono sia il sistema politico sia il sistema elettorale.

10. Il bipartitismo imperfetto

Nell’Italia della Prima Repubblica, dopo la caduta del Fascismo, ci fu una

convergenza dei partiti di massa (democristiano, comunista e socialista) a favore del

proporzionale sia per tradizione storica, contraria al sistema maggioritario legato al

periodo liberale, sia perché ciascuno dei tre partiti voleva trasformare, senza perdite di

seggi, tutto il consenso di voti raccolti. Inoltre quel sistema consentiva la

sopravvivenza di partiti minori ma con profonde radici storiche (repubblicani, liberali)

che sarebbero diventati satelliti dei maggiori. La DC manifestò, in qualche momento,

tendenze maggioritarie, ma nel senso di attribuire un premio di maggioranza al partito

(cioè a se stessa) o alla coalizione (da essa guidata) vincente: non correva alcun

rischio, infatti, ma solo la possibilità di ulteriori guadagni di seggi in nome della

stabilità. L’operazione fu condotta in modo confuso e fallì nel 1953.

Mentre nel 1946 i socialisti presero più voti del comunisti (20,6% contro 18,9%), la

scissione socialista che avvenne nel 1947 con la formazione del Partito

socialdemocratico favorì l’emergere dell’egemonia del PCI a sinistra che culminò nel

1976 quando il PCI raccolse il 34,4% dei voti contro il 9,6% del PSI. Proprio nel

1976, la somma dei voti raccolti dai due partiti maggiori, cioè la DC e il PCI,

raggiunse il 73,1% del totale: allora c’erano le condizioni strutturali per un passaggio

al maggioritario in quanto i tre cosiddetti partiti laici (PRI, PLI e PSDI) raccolsero

insieme il loro minimo, appena il 7,8%. Con il maggioritario si sarebbe potuti passare,

teoricamente, anche al principio dell’alternanza, all’epoca tuttavia negato per la

collocazione ideologica e internazionale del PCI, tanto che il politologo Giorgio Galli

parlò di bipartitismo imperfetto, cioè non in grado di diventare effettivo. Quindi il

passaggio fu mancato per una ragione politica, non dipendente dal sistema elettorale.

Che cosa impedì questo passaggio verso quella che alcuni consideravano una

democrazia più matura, cioè una democrazia bipartitica e dell’alternanza?

Probabilmente proprio il fatto che l’area di sinistra (cioè PCI, PSI e formazioni di

estrema sinistra) raccolse complessivamente il 46,6% dei voti e superò per la prima

volta l’area centrista (cioè DC più i tre partiti laici) che raccolse il 46,5%. Si profilò

così la possibilità che la sinistra diventasse maggioranza nel Paese, conquistando

democraticamente il potere. Il PCI batté questa strada, che nel 1979 sembrò praticabile

in quanto l’area di sinistra raggiunse il 47% dei voti e quella centrista scese al 45,8%.

Ma il PCI iniziò proprio allora a calare: dal 34,4% del 1976 passò al 30,4% nel 1979,

al 29,9% nel 1983, al 26,6% nel 1987 per poi crollare al 17,1% nel 1992 mentre la DC

resisteva al 27,3% (Tangentopoli era iniziata da pochi mesi, precisamente dal febbraio

1992).

Page 69: Sistemi elettorali a confronto

Il punto è che il picco bipartitico del 73,1%, raggiunto insieme da DC e PCI nel

1976, che avrebbe potuto costituire le basi per un passaggio al maggioritario e

all’alternanza, nel 1992 era precipitato al 44,4%. Indipendentemente dal sistema

elettorale, che era rimasto lo stesso, si era modificata la base politica e sociale. Si

imponeva quindi una scomposizione/ricomposizione del panorama politico italiano.

L’egemonia democristiana nell’area di centro (con allargamenti a sinistra e a destra)

era venuta meno ed ora veniva colpita da Tangentopoli; ma anche l’egemonia

comunista nell’area di sinistra (con espansioni verso il centro) era venuta meno.

Questi dati sono configurabili nella seguente tabella, che include anche gli sviluppi

successivi.

Anno Area

sinistra

marxista

in %

Di cui

Pci/Pds/Ds

Di cui

PSI

e altri

% Pci

/Pds/Ds

su Area

sinistra

Centro

orientato

a sinistra

DC Centro

orientato a

destra +

destra

Di cui

FI

1946 39,6 18,9 20,68 47,7 6,2 35,2 14,8

1948 31,0 Voto unificato FDP 2,5 48,5 8,6

1953 35,3 22,6 12,7 64,0 6,1 40,1 15,7

1958 36,9 22,7 14,2 61,5 6,0 42,3 13,1

1963 39,1 25,3 13,8 64,7 7,5 38,3 13,8

1968 41,0 26,9 14,1 65,6 8,0 39,1 11,6

1972 38,6 27,1 11,5 70,2 8,0 38,7 12,6

1976 45,5 34,4 11,1 75,6 7,6 38,7 7,4

1979 41,6 30,4 11,2 73,0 9,3 38,3 7,2

1983 42,8 29,9 12,9 69,8 11,3 32,9 11,7

1987 42,6 26,6 16,0 62,4 11,7 34,3 8,0

1992 35,3 16,1 19,2 45,6 11,1 29,7 16,9

1994 29,0 20,3 8,7 70,0 15,7 46,3 21,0

1996 29,7 21,1 8,6 71,0 13,6 44,9 20,5

2001 24,2 16,6 7,6 68,5 23,2 55,5 29,4

2006* 26,3 17,4 8,9 66,1 26,6 49,7 23,7

* Percentuali calcolate sul voto per il Senato

Di questa perdita di egemonia nelle rispettive aree si rese conto per primo il PCI di

Achille Occhetto, che dette inizio al proprio rinnovamento anche in funzione del

dopo-Guerra fredda. La DC, invece, nonostante le picconate dell’allora Presidente

della Repubblica, Francesco Cossiga, che criticava la partitocrazia e chiedeva una

riforma della Costituzione per dare maggiori poteri al Governo, andò verso la propria

dissoluzione e frammentazione. Fu indubbiamente la scarsa lungimiranza della DC,

unita dalla crisi del PSI colpito da Tangentopoli insieme ai partiti laici, a ridare al

nuovo PCI, nel frattempo diventato PDS (Partito democratico della sinistra), la

possibilità di un recupero di egemonia, ma nel contesto di un sistema elettorale aperto

al maggioritario (legge del 1993): questo lo condusse a sfiorare la vittoria del 1994,

bloccata dalla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi con la creazione di Forza Italia,

ma poi alla vittoria del 1996 e infine alla conquista di Palazzo Chigi nel 1998.

Page 70: Sistemi elettorali a confronto

Ciò spiega anche la progressiva conversione dell’ex PCI al maggioritario: perché

esso gli consente di (e gli conviene per) esercitare l’egemonia su una serie di medie,

piccole e piccolissime formazioni che hanno bisogno della (pur residua) massa di

manovra elettorale dei DS (ex PDS) per ottenere alcuni seggi nella quota

proporzionale e così sopravvivere, come sopra abbiamo illustrato.

11. Scende in campo Veltroni

Preso in questa logica, il partito dei DS è stato costretto ad accentuare la sua scelta

verso il maggioritario. Ma ciò lo ha messo in rotta di collisione con i suoi alleati di

convenienza, e lo ha precipitato in un dilemma: dissolversi in un contenitore unico di

stampo riformista, eventualmente camuffato in partito del premier per mantenere

l’egemonia; oppure essere l’animatore di animare un’alleanza disomogenea ma in

grado di conquistare la maggioranza in Parlamento. È stata questa seconda opzione a

prevalere con la formazione, all’inizio del 2005, dell’Unione, che ha consentito la

vittoria elettorale nel 2006.

I risultati a dir poco deludenti del governo così formato, in veloce perdita di

consensi presso l’opinione pubblica, ha consigliato un rapido ritorno all’altra opzione.

Così è venuta la spinta alla fusione di DS e DL (Margherita) nel PD (Partito

democratico), attraverso l’offerta a Walter Veltroni di guidare la nuova formazione.

Con il discorso del Lingotto a Torino, il 27 giugno 2007, Veltroni ha accettato la

nomination, ma ha voluto che venisse confermata da una consultazione della base

(elezioni primarie svoltesi il 14 ottobre successivo), da cui è uscita la sua nomina a

Segretario del nuovo partito il 27 ottobre.

Fin da subito Veltroni ha concepito il nuovo soggetto politico come “a vocazione

maggioritaria”, cioè, sostanzialmente, un partito socialdemocratico e riformista in

grado di conquistare, grazie anche ad un opportuno sistema elettorale, la maggioranza

assoluta dei seggi. Per questo motivo si è dichiarato pronto a discutere con tutte le

forze politiche l’approvazione di una nuova legge elettorale che, sostanzialmente,

accantonasse la logica delle coalizioni onnicomprensive (o “coalizione coatte” come

venivano anche indicate).

Frutto di questa intenzione, concretizzatasi anche in una serie di incontri di Veltroni

con tutti i leader dei partiti del centrosinistra e del centrodestra, tra cui quello

considerato il più importante, con Silvio Berlusconi, il 30 novembre 2007, è stato il

progetto genericamente definito come “proporzionale con sbarramento”, che poi si è

tradotto nel “Vassallum”, un mix di sistema spagnolo e sistema tedesco.

Berlusconi però non aveva atteso l’invito di Veltroni in quanto il 18 novembre, in

piazza San Babila, a Milano, salito sul predellino di un’automobile, aveva annunziato

la nascita del “Popolo della libertà”, un nuovo movimento per riunire tutti i moderati,

interpretato come assorbimento di Forza Italia, ed eventualmente di altri partiti o

gruppi, in un più vasto “Popolo della libertà” (PDL). Si trattava di un chiaro

contributo verso la semplificazione del quadro politico e il superamento delle

coalizioni coatte.

Page 71: Sistemi elettorali a confronto

La parallela iniziativa di Berlusconi e di Veltroni fu interpretata come espressione di

una vera e propria intesa politica a spese dei rispettivi alleati. Non mancarono infatti

reazioni di questo segno, con espressioni verbali anche piuttosto forti, ma più a

sinistra che a destra anche perché mentre Veltroni dichiarava sempre più apertamente

che i governi fondati su coalizioni non potevano essere esposti al ricatto dei piccoli

partiti, Berlusconi concentrava i suoi sforzi in un obiettivo primario: far cadere il

governo Prodi “che produce danni al Paese”, chiedendo in questo la collaborazione di

tutti gli alleati e di chi, a sinistra, ascoltando la propria coscienza, avesse condiviso

tale valutazione politica; e poi andare alle elezioni subito, anche con la legge elettorale

in vigore, il “Porcellum”, mai espressamente condannata dallo stesso Berlusconi, ed

anzi difesa.

Per Veltroni il sentiero si faceva sempre più stretto. A mano a mano che affermava

con crescente determinazione che un governo, per essere efficiente e credibile, doveva

poggiare su una maggioranza omogenea e non essere ricattato dai piccoli partiti,

vedeva crescere l’opposizione di Prodi che si pronunziava a favore di una legge

elettorale che non penalizzasse i piccoli partiti. Se questo consentiva a Prodi di

conservare l’appoggio dell’ala sinistra dell’Unione, questa stessa ala aumentava le

critiche verso i progetti riformistici di Veltroni, spingendo poi quest’ultimo ad

irrigidire la propria posizione, fino a dichiarare a Orvieto, ai microfoni di SkyTg24, il

19 gennaio 2008, che “quale che sia il sistema elettorale, il Partito democratico si

presenterà con le liste del Partito democratico”, aggiungendo: “Chi ha a cuore le sorti

della democrazia italiana deve fare altrettanto dall’altra parte”.

L’affermazione “il PD andrà da solo” era il segnale della fine della coalizione di

centrosinistra, già pronunziato alla Camera, il 16 gennaio, dal ministro della Giustizia,

Clemente Mastella, con l’annunzio delle proprie dimissioni, seguito qualche giorno

dopo dalla comunicazione del ritiro del suo partito, l’Udeur, dalla maggioranza,

preludio alla caduta del governo Prodi.

Il resto è noto ed è stato già raccontato all’inizio del volume. C’è solo da aggiungere

che il progetto di riforma elettorale più “veltroniano”, cioè il “Vassallum”, aveva

incontrato una ferma opposizione da parte della maggioranza dei partiti di sinistra e

anche all’interno dello stesso PD, e che opposizioni ancora più diffuse aveva

incontrato la “bozza Bianco”. Era quindi a tutti chiaro che né l’Unione era in grado di

presentare all’opposizione una proposta unanime di riforma né il solo Veltroni poteva,

nel Parlamento eletto nel 2006, fare avanzare una proposta in grado di raccogliere una

larga maggioranza di consensi. Il “doveroso” tentativo di Franco Marini, condotto in

modo corretto sia dal Presidente della Repubblica sia dal Presidente del Senato, era

quindi condannato al fallimento e ad aprire la strada alle elezioni anticipate.

Ma un punto era stato chiarito: a confrontarsi non sarebbero più state due coalizioni

onnicomprensive. Il terreno era stato sgombrato da Berlusconi con il “Popolo della

libertà” il 18 novembre 2007 e da Veltroni con “il PD andrà da solo” il 19 gennaio

2008. Prima di questo chiarimento, tuttavia, si era inserita la questione del

referendum, cui adesso è necessario fare cenno.

12. Il referendum sulla legge elettorale

Page 72: Sistemi elettorali a confronto

Nessuno può togliere dalla testa di Mario Segni e degli altri referendari che le

modificazioni alla legge elettorale possono cambiare il sistema politico italiano. Ma,

come abbiamo visto, da soli i sistemi elettorali incidono solo fino ad un certo punto.

Comunque incidono anche perché, al di là degli obiettivi espliciti, ci sono quelli

impliciti, che seguono una propria logica.

La logica dell’istituto referendario è inequivocabilmente maggioritaria: vince il SI o

vince il NO. Questa logica è più importante del richiamo alla manifestazione diretta

della volontà popolare. Abituandosi a votare in modo alternativo nelle consultazioni

elettorali, i cittadini si abituano a votare per due partiti. I referendum, in poche parole,

sono propedeutici al modello elettorale maggioritario uninominale anglosassone. Non

importa – e qui bisogna dare ragione a Segni – quanto tempo ci vorrà. La direzione è

tracciata. Per cui l’iniziativa trasversale – che cioè ha attraversato i partiti dei due poli

– avviata il 24 ottobre 2006, che ha raccolto 820.916 firme, volta ad abrogare alcune

parti del “Mattarellum”, va in questa direzione e poco conta che il referendum stesso,

dichiarato legittimo dalla Corte costituzionale il 16 gennaio 2008, fissato dal Governo

per il 18 maggio 2008, sia stato automaticamente posposto di un anno a causa dello

scioglimento anticipato delle Camere. Vediamo perché.

a) I tre quesiti

Sono tre i quesiti referendari sulla legge elettorale: il primo riguarda il premio di

maggioranza per la lista più votata alla Camera, il secondo il premio di maggioranza

per la lista più votata al Senato e il terzo l'abrogazione delle candidature multiple.

Le attuali leggi elettorali di Camera e Senato prevedono un sistema proporzionale

con premio di maggioranza. Tale premio è attribuito su base nazionale alla Camera dei

Deputati e su base regionale al Senato. Esso è attribuito alla “singola lista” o alla

“coalizione di liste” che ottiene il maggior numero di voti. Consentendo alle liste di

coalizzarsi per conquistare il premio, si è aperta la strada alla formazione di due

grandi coalizioni in cui sono confluiti numerosi partiti, vecchi e nuovi, aumentando la

frammentazione complessiva.

In caso si approvazione dei due primi quesiti referendari, il premio di maggioranza

verrebbe attribuito solo alla lista singola che abbia ottenuto il maggior numero di voti

e non più alla coalizione. Un effetto secondario ma non irrilevante dell’approvazione

sarebbe che, abrogando la norma sulle coalizioni, verrebbero anche innalzate le soglie

di sbarramento in quanto, per ottenere una rappresentanza parlamentare, le liste

debbono raggiungere un consenso del 4 % alla Camera e 8 % al Senato. Le minoranze

più rilevanti non verrebbero penalizzate, soprattutto quelle concentrate sul territorio.

Resterebbe invece invariata la norma che prevede l’indicazione del “capo della forza

politica” (il candidato premier) e il programma elettorale.

Facile prevedere gli effetti: i partiti sarebbero spinti, fin dalla fase pre-elettorale, a

costruire raggruppamenti in una prospettiva realmente bipartitica. Purché – è bene

ricordarlo – vengano modificati i Regolamenti parlamentari onde evitare che alcuni

Page 73: Sistemi elettorali a confronto

eletti in una lista possano poi uscire da questa e formare gruppi parlamentari (di fatto:

partiti) autonomi.

Il terzo quesito riguarda l’abrogazione delle candidature multiple, cioè il fenomeno

in base al quale il leader della coalizione (o di una lista) o i suoi esponenti di maggiore

spicco si presentano come capolista in diverse circoscrizioni, decidendo dopo il voto a

quali collegi rinunziare, facendo così eleggere il primo dei non eletti. È chiaro che

questa norma rafforza i poteri delle segreterie dei partiti e, non essendo previsto il

voto di preferenza, impedisce agli elettori di scegliere. Di fatto, i leader dispongono

del destino degli altri candidati. La cosa non è positiva in senso assoluto, ma bisogna

tenere conto del fatto che i partiti, non più a sfondo ideologico, meno presenti in modo

capillare sul territorio, più identificati dagli elettori attraverso i mass media, cercano

comunque di mantenere una struttura gerachizzata. Il fenomeno è in continua

evoluzione per cui non è possibile qui fare il punto. Sta di fatto che alle elezioni del

2006, circa un terzo dei parlamentari sono stati scelti, attraverso le rinunzie, da chi era

già stato eletto.

b) Pro e contro il referendum

I partiti, ma in questi caso anche singoli esponenti, si sono divisi sul referendum. Da

una parte i fautori del “prima il referendum, poi la legge elettorale”; dall’altra parte i

sostenitori della legge elettorale “per evitare il referendum”. In realtà le due posizioni

ne nascondevano, trasversalmente, una terza, quella del desiderio di rinviare le

elezioni anticipate. Alla fine, l’impossibilità di fare la legge elettorale ha aperto la

strada al referendum, bloccata poi dalla crisi di governo e dallo scioglimento

anticipato delle Camere.

Alcuni hanno sperato in una bocciatura dei quesiti da parte della Corte

costituzionale. Ad esempio, il verde Pecorario Scanio, apodittico: “Il referendum è

incostituzionale e non verrà ammesso al voto”9. Soprattutto Clemente Mastella: “Nel

momento in cui il referendum sulla legge elettorale sarà indetto, ci sarà la crisi di

governo”. Promessa mantenuta con cronologica precisione, grazie anche

all’intervento della Magistratura.

Adesso sappiamo che voteremo con il “Mattarellum”, ma sappiamo anche che il

primo quesito referendario è stato di fatto approvato poiché lo stesso “Mattarellum”

prevede che il premio di maggioranza vada “alla lista o alla coalizione”. Alla Camera

e al Senato, quindi, il premio di maggioranza verrà assegnato alla lista (quella di

Veltroni o quella di Berlusconi) che avrà ottenuto più voti, non essendo prevedibile

che una terza lista possa batterle.

c) La sentenza della Corte

Nelle motivazioni della sentenza con cui la Corte ha ammesso i quesiti referendari, i

giudici hanno lanciato un “avvertimento” al Parlamento che è stato così interpretato

9 Cfr. La Repubblica, 27 aprile 2007.

Page 74: Sistemi elettorali a confronto

da alcuni leader politici: la legge elettorale vigente (il “Mattarellum”) rischia

l’incostituzionalità in quanto, nel prefigurare l’assegnazione del premio di

maggioranza alla coalizione vincente, non fissa un limite minimo di seggi conquistati

per ottenere questo premio. Questo significa che se, per ipotesi, dieci coalizioni si

presentassero e la vincente risultasse sostenuta solo dal – poniamo – 20% (o anche

meno) degli elettori, a questa, secondo la legge in vigore, andrebbe il premio di

maggioranza. Situazione senza dubbio paradossale, ma non si capisce perché

dovrebbe anche essere incostituzionale. Ragionando astrattamente, infatti, nulla vieta

che una legge elettorale, in un contesto partitico estremamente frastagliato, possa

attribuire alla formazione più votata, anche se ottiene una bassa percentuale, di

disporre di una maggioranza assoluta di seggi per poter governare. Alcuni leader

politici, sostenitori della linea “prima si fa la legge elettorale, poi si vota”, hanno

utilizzato questo avvertimento della Corte per dire: attenzione, se si va a votare con la

legge in vigore, il risultato potrebbe essere impugnato per incostituzionalità.

Si è replicato in vari modi. Si è detto che l’incostituzionalità della legge avrebbe

messo in imbarazzo l’ex Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che

l’aveva promulgata. Si è poi notato che, con questa legge, si erano svolte le elezioni

del 9-10 aprile 2006: sarebbero quindi da impugnare? Sul piano formale, conta poco

che le due coalizioni che si confrontarono, sfiorarono entrambe il 50% dei voti.

Allora l’avvertimento della Corte riguarda non tanto la legge in vigore quanto la

legge che sarebbe uscita dal referendum o qualsiasi futura modifica della legge

elettorale, sollecitando l’opportunità di inserire una condizione: il premio di

maggioranza si attribuisce alla lista più votata purché superi un certo limite, ad

esempio il 30 o il 35% dei voti. Se lo consegue, tutto fila liscio. Ma se nessuna lista –

caso possibile – raggiunge il 35%? In questo caso, seguendo il ragionamento della

Corte, il premio non viene assegnato, con la conseguenza di cadere in un sistema

proporzionale puro: ogni partito ottiene un numero di parlamentari proporzionale,

grosso modo, al numero di voti. Esattamente come nella Prima Repubblica,

affondando bipolarismo, alternanza e governabilità. Il problema esiste ed era

necessario accennarvi. Si vedrà come andranno le prossime elezioni e quali

conseguenze avranno sia sul sistema elettorale sia sul sistema istituzionale.

13. Il centrodestra e il maggioritario

Al lento avvicinamento del principale partito della sinistra alla logica maggioritaria si

contrappone una più decisa propensione per il maggioritario nell’area di centrodestra,

emersa con le elezioni del 1994, ma già in crescita con le elezione del 1992, come

mostra la precedente tabella. La sua prevalente preferenza per il maggioritario era, di

fronte all’opinione pubblica, un elemento distintivo di contrapposizione con la Prima

Repubblica. Nonostante la breve durata della sua prima esperienza al governo, la

conferma di una larga adesione popolare pur nella sconfitta del 1996, e la certezza di

essere sempre più maggioranza nel corpo elettorale, specie a partire dalle elezioni

europee del 1999, pur con vari tentennamenti il centrodestra ha iniziato una

conversione verso il proporzionale purché corretto dallo sbarramento, ed

Page 75: Sistemi elettorali a confronto

eventualmente rafforzato con un premio di maggioranza. Conversione concretizzatasi

nella legge elettorale del 2005 (“Porcellum”) ma che, come abbiamo visto, pur nella

impostazione proporzionale (premio alla coalizione), include una alternativa

maggioritaria (premio alla lista). Bisogna vedere come si è arrivati a questo punto.

Le elezioni amministrative, europee e regionali, svoltesi dopo il 2001, e cioè,

rispettivamente, nel 2003, nel 2004 e nel 2005, avevano fatto registrare una costante

flessione del centrodestra e un avanzamento, in termini percentuali (e di seggi) dei

partiti di centrosinistra. Sul piano dell’orientamento politico, questi risultati erano da

attribuirsi più a una certa delusione degli elettori – trasformatasi in diserzione dalle

urne più che in travaso di voti verso i partiti di centrosinistra – che non alla capacità di

creare consenso della sinistra, peraltro a lungo litigiosa e divisa dopo la sconfitta alle

elezioni politiche del 2001.

Più significativo è però il fatto che, all’interno della Casa delle Libertà, siano

prevalse le pulsioni identitarie dei diversi partiti (AN, UDC e Lega), secondo una

logica proporzionalistica, che hanno avuto ripercussioni negative sulla realizzazione

del programma di governo e sono culminate nelle dimissioni, il 20 aprile, di

Berlusconi, dopo il risultato delle elezioni regionali del 3-4 aprile 2005, pur avendo

tutti i partiti affermato di volere che egli restasse alla guida del governo, come è infatti

accaduto con la formazione in pochi giorni del governo denominato Berlusconi-bis, in

realtà il Berlusconi III.

La prova di questa interpretazione si può desumere dalla seguente tabella che riporta

i voti assoluti riportati dalla Casa delle Libertà (FI, AN, UDC, Lega) e dai partiti

dell’Unione (DS, PRF, Comunisti italiani, Margherita, Italia dei Valori (Di Pietro),

Verdi, Democratici europei) confrontandoli con i voti riportati dagli stessi partiti nelle

stesse Regioni interessate nelle elezioni politiche del 2001.

La scelta del confronto con i risultati delle elezioni politiche deriva dal fatto che la

campagna per le elezioni regionali aveva assunto un chiaro aspetto di giudizio politico

sui (quasi) primi quattro anni del governo di centrodestra e anche perché, a livello di

dibattito nazionale, specie nelle trasmissioni televisive, erano stati i temi nazionali a

prevalere. Subito dopo il voto, inoltre, i partiti di sinistra hanno dato una

interpretazione politica, e di portata nazionale, all’esito del voto, chiedendo le

dimissioni del governo Berlusconi.

Elezioni regionali del 3-4 aprile 2005

Regione CdL 2001 CdL 2005 Differenza Unione 2001 Unione 2005 Differenza

Piemonte 1.702.319 1.143.993 - 558.326 1.331.169 1.234.354 - 96.815

Liguria 493.889 435.601 - 58.288 570.524 492.352 - 78.172

Lombardia 3.436.894 2.606.687 - 830.297 2.502.421 2.126.354 - 376.067

Veneto 1.656.218 1.365.521 - 290.697 1.209.148 1.144.108 - 65.040

Lazio 1.726.656 1.522.198 - 204.458 1.623.860 1.628.486 + 4.626

Campania 1.629.223 1.057.523 - 571.700 1.462.373 1.896.664 + 434.291

Puglia 1.204.723 1.151.405 - 53.318 1.107.621 1.165.536 + 57.915

Em.Romagna 1.121.575 889.231 - 232.344 1.698.671 1.585.714 - 112.957

Toscana 935.788 678.254 - 257.534 1.472.433 1.336.921 - 135.512

Marche 432.343 333.635 - 98.709 517.794 799.793 + 281.999

Umbria 235.720 170.357 - 65.363 317.978 319.109 + 1.131

Abruzzo 408.330 317.976 - 90.354 382.198 455.307 + 73.109

Calabria 493.600 446.634 - 46.965 499.033 662.722 + 163.689

Page 76: Sistemi elettorali a confronto

Totali 15.068.948 12.119.015 - 2.949.933 14.313.025 14.392.113 +147.571

Se si esaminano i dati, si rileva che la sconfitta in tutte le regioni (eccetto che in

Lombardia e Veneto) della CdL è derivata dal fatto che quasi tre milioni di elettori del

centrodestra (e in gran parte elettori di FI) non sono andati a votare, perché delusi, e

sono “rimasti alla finestra”, ma non sono passati alla sinistra, la quale, infatti, ha

ottenuto meno di 150.000 voti in più di quanti ne aveva ottenuti alle elezioni politiche

del 2001. Se alle politiche del 2001 era stata la sinistra ad avere pagato il prezzo di un

certo assenteismo da parte del suo elettorato deluso per come essa aveva gestito la

vittoria del 1996, non è stata però nemmeno in grado di recuperarlo del tutto, come

mostrano le perdite secche in due regioni dove tradizionalmente domina, come la

Toscana e l’Emilia-Romagna. Con l’eccezione di tre regioni dove l’Unione ha

registrato incrementi forti, portando via voti al centrodestra, cioè Campania, Calabria

e Marche, che poi risulteranno decisine un anno dopo alle politiche del 2006.

In altre parole, l’Unione è rimasta sulle posizioni del 2001, mentre solo il forte

astensionismo della CdL (di elettori di FI) ha causato la vittoria della prima e la

sconfitta della seconda. Astensionismo significava comunque capacità di recupero, a

condizione che gli elettori della CdL registrassero, nel periodo compreso tra le

elezioni regionali e le elezioni politiche, un adeguato grado di soddisfazione nei

confronti della maggioranza che avevano eletto nel 2001. Un recupero che, come si è

visto nelle elezioni del 9-10 aprile 2006, non era impossibile.

Nel frattempo, già prima delle elezioni regionali, ma dopo i risultati negativi per il

centrodestra delle elezioni europee del 2004, era stata rilanciata dal centrodestra la

discussione sulla riforma del sistema elettorale, facendo emergere l’ipotesi del

“Nespolum” (dal nome del proponente, il senatore Nespoli di AN), ovvero di una

correzione del “Mattarellum”. Pur restando il sistema per tre quarti maggioritario e per

un quarto proporzionale, il nuovo progetto ipotizzava che i due voti, anziché espressi

in due schede separate, confluissero in un’unica scheda, in cui la scelta del simbolo di

un partito (proporzionale) si sarebbe trasferita anche a livello di coalizione

(uninominale). Questo perché il centrodestra aveva verificato che la somma dei voti

raccolti nella parte proporzionale risultava superiore ai voti raccolti nell’uninominale,

facendogli perdere in questo comparto alcuni seggi. Scontata la netta opposizione del

centrosinistra a questa riforma. A dimostrazione ulteriore che un sistema elettorale

avvantaggia una parte e svantaggia un’altra.

Il dibattito sulla riforma del sistema elettorale, legato agli interessi veri o presunti,

presenti o futuri, dei singoli partiti, ha mostrato in alcuni di questi la propensione a

tornare al sistema proporzionale; meno numerosi, in questa fase, sono apparsi coloro

che avrebbero voluto togliere la quota proporzionale e passare al sistema

maggioritario integrale; non è mancato chi ha sostenuto che il sistema misto (¾ di

candidati eletti con il sistema maggioritario e ¼ eletti con il sistema proporzionale)

aveva dato, tutto sommato, una buona prova, favorendo l’alternanza nelle tre

occasioni in cui era stato sperimentato – politiche del 1994, del 1996 e del 2001 –

anche se si è osservato che fattori esterni di tipo squisitamente politico (come la

desistenza ben organizzata e disciplinata), hanno favorito il successo del meccanismo.

Page 77: Sistemi elettorali a confronto

Sullo sfondo di questi avvenimenti e di queste riflessioni sul sistema elettorale e più

in generale politico italiano, nell’aprile 2005, Silvio Berlusconi lanciò l’idea di un

partito unico dei moderati o del centrodestra: “Il partito unico va avanti. chi non ci sta,

chi non è d’accordo, va per conto suo… Se è un’idea che vale, avrà le gambe per

andare. E io penso che abbia le gambe per andare”10.

Tra queste parole, risalenti all’aprile 2005, il “discorso del predellino”, del 18

novembre 2007, e la decisione della lista unica tra FI e AN dell’8 febbraio 2008, c’è

evidente continuità. Per cui la reazione di Veltroni – “è un maquillage elettorale” – a

questa ultima decisione vale sul piano della polemica elettorale ma non su quello dei

fatti.

C’è quindi un filo ininterrotto che collega l’esperienza di governo del centrodestra

tra il 2001 e il 2006, la riforma elettorale del dicembre 2005 e la decisione di chiedere

elezioni anticipate da svolgere sempre con il “Porcellum”, utilizzando però il premio

di maggioranza a favore di una lista e non di una coalizione. Un filo che sorregge

anche le vicende politiche seguite al voto del 2006, alle quali accenniamo brevemente.

14. Le polemiche dopo il voto e il governo Prodi II

Il governo Prodi II, insediato il 17 maggio 2006, dopo avere ottenuto la fiducia al

Senato grazie al voto dei senatori a vita, è caduto una prima volta il 21 febbraio 2007

(per l’astensione di 2 senatori dell’Unione e di 1 senatore a vita, il voto contrario di un

senatore di diritto e l’assenza per malattia di un altro senatore di diritto). Le

dimissioni, date lo stesso giorno, sono state accolte con riserva da Napolitano che il 24

febbraio le ha formalmente respinte, invitando il presidente del Consiglio a

ripresentarsi alle Camere per la fiducia, che poi ha ottenuto. Con l’occasione, il Capo

dello Stato sollecitò in modo esplicito una riforma della legge elettorale, dicendo: “Ho

ritenuto altresì che non ricorrano le condizioni per un immediato scioglimento delle

Camere, sia alla luce di una costante prassi istituzionale sia in considerazione di un

giudizio largamente convergente, benché non unanime, sulla necessità prioritaria di

una modificazione del sistema elettorale vigente” (corsivo nostro). Con queste parole,

il presidente Napolitano riaprì un dibattito che era iniziato già con la riforma

approvata dal centrodestra alla fine del 2005, che la sinistra aveva accusato di essere

stata pensata per evitare la sconfitta o per rendere ingovernabile il Paese.

Il risultato di quasi parità al Senato è sembrato dare ragione a queste critiche, ma su

questo punto specifico Silvio Berlusconi ha successivamente rivelato che era stato il

presidente Ciampi a volere l’attribuzione del premio di maggioranza su base

regionale, in ottemperanza alla norma costituzionale, anziché su base nazionale come

avrebbe voluto il centrodestra. L’ex presidente Ciampi ha smentito. Probabilmente, se

il premio di maggioranza non fosse stato attribuito su base regionale, la Corte

costituzionale avrebbe bocciato la legge, facendo restare in vigore il “Mattarellum”.

Per questo la maggioranza di centrodestra modificò il progetto originario di legge e

10 Cfr. Corriere della Sera, 29 aprile 2005.

Page 78: Sistemi elettorali a confronto

decise di attribuire il premio di maggioranza al Senato su base regionale, pur sapendo

che questo avrebbe avvantaggiato la sinistra, come poi è accaduto. Infatti è stato

calcolato quale sarebbe stato l’esito del voto per il Senato se il premio di maggioranza

fosse stato attribuito su base nazionale, tenendo conto del fatto che la CdL aveva

ottenuto oltre 400 mila voti in più dell’Unione:

- con lo sbarramento al 2%, la CdL avrebbe vinto con 169 seggi contro 145;

- con lo sbarramento al 4%, la CdL avrebbe vinto con 173 seggi contro 141.

Questo significa che al Senato la CdL avrebbe avuto una forte maggioranza. Poiché

l’Unione aveva vinto alla Camera, e aveva incassato il premio di maggioranza, si

sarebbe avuta una strana situazione: quella che entrambe le coalizioni avevano vinto.

Se non ci fosse il bicameralismo perfetto, tale situazione sarebbe stata meno grave di

quanto potrebbe apparire. In Germania, ad esempio, il Bundestag e il Bundesrat

possono avere maggioranze diverse, ma è solo il primo che dà la fiducia al governo

del Cancelliere; il secondo, rappresentando i Länder, svolge altre funzioni.

Tutto ciò conferma una volta di più che sistema elettorale e sistema istituzionale

devono essere coerenti e reciprocamente funzionali. Quello che è accaduto in Italia

con le elezioni del 2006 non è dipeso tanto dalla legge elettorale quanto dalla

spaccatura a metà del corpo elettorale, ovvero dalle libere scelte degli elettori, non

dalla legge elettorale. Applicando al Senato il premio di maggioranza su base

regionale, la volontà dei cittadini è stata rispettata in termini di seggi in quanto,

nell’area di applicazione, la CdL, avendo avuto più voti (428.577), ha anche ottenuto

più seggi (153 contro 148). La bilancia complessiva si è volta a favore dell’Unione a

causa dei seggi della Val d’Aosta (1), del Trentino-Alto Adige (5 a 2) e Circoscrizione

Estero (4 a 1) per complessivi 159 seggi contro 156.

Ripetiamo: con l’elettorato spaccato quasi esattamente a metà, è difficile che con il

sistema proporzionale uno schieramento prevalga sull’altro in modo netto in termini di

seggi, salvo che non si ricorra, come è stato fatto, al premio di maggioranza. Ma se

questo non viene applicato in modo omogeneo, tutto può succedere. Al Senato non è

stato applicato in modo omogeneo, perché su base regionale anziché nazionale, cui si

aggiunge la diversa base elettorale in quanto al Senato, per il limite maggiore di età, si

sono avuti 3,2 milioni di voti in meno (e una maggioranza a favore della CdL).

Ricordiamo, a questo riguardo, che anche nel 2001, indipendentemente dalle

coalizioni formali che determinarono la netta vittoria della CdL in termini di seggi, i

due schieramenti ottennero presso a poco gli stessi voti. Anche allora l’elettorato

risultò diviso in parti quasi uguali. Se non si fosse trattato di due schieramenti,

ciascuno composto da diversi partiti di consistenza molto diversa, ma di due partiti, la

cosa più logica sarebbe stata di adottare il maggioritario uninominale a un turno. Ma il

punto è proprio questo: come trovare un sistema che, volendo avere i benefici del

maggioritario in vista della governabilità e non volendo rinunziare a alla

rappresentatività di tutti i partiti grazie al proporzionale, riesca a facilitare

un’evoluzione verso il bipartitismo.

Il corpo elettorale ha comunque mostrato un movimento verso il bipartitismo

sostanziale. Infatti è stato progressivamente abbandonato il voto-delega, tipico della

Prima Repubblica, concesso ai partiti che possono poi fare la politica e le alleanze che

Page 79: Sistemi elettorali a confronto

vogliono; si è infatti passati a un voto-indirizzo, tipico nelle consultazioni del 1994 e

del 1996, in cui è stata scelta una coalizione per le linee generali che essa prometteva

di attuare; infine si è passati, nella logica dell’alternanza, al voto-sanzione con cui gli

elettori giudicano l’azione del governo (di coalizione ma considerato in modo

unitario) che ha esercitato il potere per un’intera legislatura: questo è avvenuto con le

consultazioni del 2001 e del 2006. Senza trascurare il fatto che c’è sempre in agguato

il voto emotivo, legato ad eventi dell’ultimo momento, a battute felici o infelici dei

leader, ecc.

Contano però, alla fine, i numeri e le circostanze. Ad esempio, sulla base dei risultati

delle elezioni europee e regionali del 2005, quando i due partiti maggiori – FI e DS –

raccolsero insieme circa il 40% dei voti, risultò chiaro che quei voti erano troppo

pochi per fondare il bipartitismo. Se, in tali circostanze, si volesse adottare un sistema

uninominale, questi due partiti farebbero il pieno dei seggi, lasciando però troppo

sotto-rappresentata in Parlamento la maggioranza degli elettori. L’uninominale

funziona quando i due partiti maggiori hanno ciascuno circa il 35% dei voti.

Fu forse sulla base di queste considerazioni che, dopo il risultato delle elezioni del

3-4 aprile 2005, Silvio Berlusconi lanciò l’idea del partito unico del centrodestra o dei

moderati, anche se poi fu deciso a favore di una modifica in senso proporzionale con

premio di maggioranza. Premio “alla coalizione” applicato nel 2006, ma da ciò che

poi vi è visto, il premio è stato attirato dalla “lista”: infatti con questa stessa legge, il

prossimo 13-14 aprile, sarà dato a una lista. Le recenti decisioni di Berlusconi e di

Veltroni si sono mosse in questa seconda alternativa prevista dalla stessa legge.

15. Una accusa infondata

Prima di passare brevemente in rassegna i sistemi elettorali di alcune grandi

democrazie, visti nella loro concreta funzionalità, poiché alcuni di essi sono stati

proposti anche per l’Italia, eventualmente modificati, è necessario sgombrare il

campo da un equivoco. Le due leggi elettorali del 1993 e del 2005 sono state accusate

di avere provocato una frammentazione del sistema dei partiti della Prima

Repubblica. Questo non è vero e lo si può abbastanza facilmente verificare dalle

tabelle riassuntive delle elezioni per la Camera e il Senato svoltesi dal 1948 in poi.

La tendenza alla frammentazione partitica risale infatti a ben prima della crisi del

1992-1993 e della modificazione della legge elettorale. Infatti comincia in tempi

lontani (1947) con la scissione dei socialdemocratici dal PSI, prosegue con la rottura

dell’alleanza tra PCI e PSI dopo le elezioni del 1948, va avanti con la nascita del

PSIUP (12 gennaio 1964), poi del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista e

maoista, il 16 ottobre 1966), la formazione per espulsione dal PCI del gruppo del

Manifesto (1969), la ripresa di autonomia del PSDI nel 1971 dopo la parentesi della

riunificazione con il PSI. Aggiungiamo la formazione del Partito Radicale (dal 1955),

la nascita della Federazione delle liste verdi nel novembre 1986 per culminare con la

costituzione del Partito della Rifondazione comunista nel 1991 mentre alla fine del

Page 80: Sistemi elettorali a confronto

1989 si era costituita ufficialmente la Lega Nord. Tralasciamo altre formazioni

minori, come ad esempio La Rete di Leoluca Orlando (21 marzo 1991).

Questa frammentazione – ecco il punto – è avvenuta prima della crisi del

pentapartito (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI) provocata dalle inchieste di Mani Pulite e

prima della riforma della legge elettorale del 1993 che trovò applicazione la prima

volta nelle elezioni politiche del 1994.

Stando ai dati elettorali, è impossibile imputare la frammentazione dello spettro

politico alle due leggi elettorali che si sono succedute a quella proporzionale della

Prima Repubblica. Sempre restando ai fatti, si nota anche che la concentrazione della

turbolenza, fino al 1992-1993, si è registrata in prevalenza nell’area di sinistra. La

disgregazione del pentapartito è stata una conseguenza dell’operazione Mani Pulite

ed era abbastanza logico che da essa si originassero diverse formazioni con i tentativi

di nuove aggregazioni (PPI, CCD, CdU, Patto Segni, UDEUR, UDC), di tentativi di

simboliche sopravvivenze (nuclei liberale-libertario, repubblicano, socialista), o di

rinnovata identità (Comunisti italiani, Verdi, Radicali, SDI, Socialisti italiani,

Democrazia cristiana).

Attribuire quindi alle due leggi elettorali che hanno preso il posto della vecchia

legge proporzionale della Prima Repubblica la frammentazione politica attuale è

infondato. Le cause sono politiche. E non bisogna dimenticare alcuni fatti decisivi.

Anzitutto adesso non c’è più preclusione all’accesso al governo nei confronti di

nessuna forza politica: e questo significa incoraggiare la sopravvivenza o la nascita di

partiti, anche piccoli, che possono aspirare ad un ministero e a qualche

sottosegretariato. Non a caso il governo Prodi II è diventato il più pletorico in

assoluto della storia repubblicana con i suoi 103 membri. In secondo luogo, nella

Prima Repubblica una parte delle forze politiche era esclusa per principio da questa

partecipazione (sinistra comunista, estrema sinistra e destra moderata, salvo brevi

eccezioni, ed estrema). All’interno dell’area governativa – il pentapartito – la durata

media breve dei governi consentiva una rotazione negli incarichi governativi e quindi

accontentava tutti per cui nei partiti maggiori le diversità si esprimevano attraverso le

“correnti”, veri mini-partiti, il cui dinamismo trovava sfogo nelle periodiche crisi di

governo.

La legge elettorale del 1993, per la forte dose di maggioritario, dette una spinta alla

logica bipolare, tradotta in due alleanze multipartitiche contrapposte, ma esposte alla

logica ricattatoria di piccoli partiti detentori di quella frazione di consensi in grado di

fare pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra nei singoli collegi. Logica

che diventa ancora più forte all’interno della coalizione che va al governo e che non

ha più lo sfogo delle crisi mediamente annuali con cui risolvere le proprie turbolenze.

Non è un caso che, essendo più forte la tradizione di frammentazione a sinistra, nella

legislatura 1996-2001 la sinistra abbia messo in fila quattro governi e tre premier

(Prodi, D’Alema, Amato) e nella legislatura in corso abbia messo in crisi Prodi prima

dopo soli otto mesi e poi, definitivamente, dopo meno di venti mesi.

Quanto detto trova una corrispondenza nei dati, che qui di seguito riassumiamo. Per

misurare la tendenza alla frammentazione del sistema dei partiti, l’unico riscontro

oggettivo è dato dalla loro capacità di avere degli eletti al Parlamento. Il calcolo

Page 81: Sistemi elettorali a confronto

risulta più facile per le elezioni svoltesi fino al 1992 con il sistema proporzionale. Nel

computo dei partiti rappresentati vengono considerati anche quelli della Valle

d’Aosta e del Trentino-Alto Adige. Per i 3 “partiti maggiori” di questo periodo si

intendono la DC, il PCI e il PSI. I dati si riferiscono ai partiti che hanno ottenuto

seggi alla Camera e a titolo di comparazione, nell’ultima colonna, viene indicato il

numero di partiti con seggi al Senato.

Anno Numero

partiti

che hanno

ottenuto seggi

% voti dei

3 partiti

maggiori

% voti

degli

altri partiti

Numero seggi

dei 3 partiti

maggiori

Numero

seggi degli

altri partiti

Numero

partiti al

Senato

1948 10 79,4 20,5 489 141 14

1953 9 75,4 24,6 481 149 18

1958 12 79,2 20,8 507 123 11

1963 10 77,4 22,6 513 117 13

1968 9 80,5 19,5 543 96 8

1972 9 75,4 24,6 506 124 9

1976 11 82,7 17,3 547 83 11

1979 12 78,5 21,5 525 105 10

1983 13 74,2 25,8 496 134 13

1987 14 75,2 24,8 505 125 16

1992 16 59,4 40,6 405 225 18

Come risulta da questa tabella, una discreta stabilità si registra fino alle elezioni del

1972, poi la frammentazione già in atto sul piano politico comincia a trovare un

riscontro anche in ambito parlamentare poiché nuovi partiti riescono a fare eleggere i

loro rappresentanti. Si tratta di un crescendo di frammentazione che culmina con 16

partiti nel 1992, tanto che i tre maggiori partiti precipitano complessivamente al

59,4% dei voti. Ma ciò avviene – questo è il punto da tenere presente – sempre sotto

la legge elettorale proporzionale della Prima Repubblica.

Le elezioni del 1994, 1996 e 2001 si svolgono non solo nell’ambito della nuova

legge elettorale, per tre quarti maggioritaria e per un quarto proporzionale, ma

soprattutto sull’onda della disgregazione del pentapartito provocata dalle inchieste di

Mani Pulite, che a sua volta produce da un lato coalizioni in vista di conquistare i

seggi uninominali e dall’altro lato agevola la proliferazione di partiti marginali,

vecchi e nuovi, talvolta identificati con il leader di maggiore prestigio. Il picco di 20

partiti che riescono a fare eleggere deputati alla Camera nel 1994 è il frutto dello

sconvolgimento politico-giudiziario del 1992-1993 più che della nuova legge

elettorale poiché nelle elezioni del 1996 e del 2001 si ritorna ad una media di partiti

rappresentati che è grosso modo la stessa dell’ultimo quindicennio della Prima

Repubblica. Si riduce un po’ la massa di voti raccolta dai principali partiti, che si

presentano spesso raggruppati sotto sigle unificanti: Progressisti, Polo per le libertà,

Polo del buon governo, L’Ulivo, Casa delle Libertà. Le ultime elezioni, quelle del

2006, svoltesi con una legge elettorale ancora diversa (proporzionale con premio di

maggioranza) portano paradossalmente a risultati complessivi analoghi a quelli del

Page 82: Sistemi elettorali a confronto

1996, a dimostrazione che un diverso meccanismo elettorale di per sé non sconvolge

gli orientamenti degli elettori, come mostra la seguente tabella.

Anno Numero partiti

che hanno

ottenuto seggi

% voti dei

3-4 partiti

maggiori

% voti degli

altri partiti

Numero seggi

3-4 partiti

maggiori

Numero

seggi

Altri partiti

Numero

partiti al

Senato

1994 20 65,7 34,3 436 194 11

1996 13 67,5 32,5 527 103 9

2001 9 72,4 27,6 609 29 9

2006 13 67,2 32,8 428 189 12

Da un confronto tra le due ultime tabelle e i due periodi relativi emerge un dato:

l’area dei partiti “minori”, escluso il picco del 1992 causato soprattutto dal collasso

del PCI (26,6% dei voti nel 1987 contro il 16,1% del PDS nel 1992), è globalmente

cresciuta di poco più del 10% in quasi sessant’anni. Se a prima vista essa sembra

trovare impulso dalle leggi elettorali del 1993 e del 2005 poiché la logica bipolare,

favorita dalla legge del 1993 a causa della quota maggioritaria, e dalla legge del 2005

a causa del premio di maggioranza, rende compatibili la frammentazione partitica e

l’alternanza tra schieramenti, di fatto questo incremento corrisponde allo

smottamento di voti dall’ex PCI tanto è vero che si riverbera in una proliferazione

quasi del tutto concentrata a sinistra. Scaricare la presente difficile governabilità sul

“Porcellum” è quindi una violenza al ragionevole esame dei fatti.

È comunque un fatto difficilmente confutabile l’esistenza di un nucleo di elettori,

che va da un quinto a quasi un terzo del totale, che non si riconosce nei partiti

maggiori e sorregge la frammentazione, tanto nella Prima come nella Seconda

Repubblica, venendo a costituire una specie di tratto peculiare della realtà italiana,

refrattario alle influenze delle leggi elettorali. Se non si smuove questo fattore reale e

profondo di instabilità, non si potrà realizzare quella modernizzazione delle

istituzioni indispensabile al sistema-Paese.

16. Conclusione

Il professore Roberto D’Alimonte ebbe a chiedersi come mai in Francia il governo

governasse con il 33% dei voti e in Gran Bretagna con il 35%, e ne ha attribuito il

merito ai rispettivi sistemi elettorali. Senza dubbio questo è in parte vero, ma è

altrettanto vero che quei due governi sono in grado di governare perché i due

Esecutivi (monocefalo o premierato nel Regno Unito e bicefalo in Francia come

semipresidenzialismo) sono dotati di vasti poteri, e sono questi a tenere unite le

rispettive maggioranze parlamentari, la cui consistenza è agevolata, ma solo

agevolata, dalla legge elettorale, che consente poi un giudizio preciso da parte degli

elettori. Il tutto si fonda su un consenso più ampio, secondo il quale il capo

dell’Esecutivo determina la politica del governo, difesa da una maggioranza

omogenea, e non è costretto, come in Italia, a fare mediazione quotidiana tra ministri

che, rispondendo ai diversi partiti della coalizione, fanno – comprensibilmente –

Page 83: Sistemi elettorali a confronto

politiche che rispondono agli interessi e agli orientamenti delle rispettive basi

elettorali, rafforzando la frammentazione politica.

Berlusconi e Veltroni hanno deciso di interpretare la legge elettorale “Porcellum”

nella sua già prevista implicazione maggioritaria, ma questo presuppone che siano

anche convinti di andare oltre il risultato delle prossime e elezioni, e decisi a

modificare le istituzioni, cioè a fare una riforma costituzionale chiara e snella.

Se questo avverrà, paradossalmente il “Porcellum” scenderà dal banco degli

imputati e sarà considerato come lo strumento che ha consentito la vera svolta dalla

crisi del 1992-1993. Aprendo la campagna elettorale, il 9 febbraio 2008, a Milano,

Berlusconi è stato chiarissimo nel fare comprendere i suoi obiettivi quando ha

definito il PDL e il PD i “pilastri” del sistema politico italiano che si sta costruendo.

In particolare ha detto: “Bisogna spiegare agli elettori che i voti al di fuori del

bipolarismo rappresentato dalle due grandi colonne è pericoloso, sprecato e inutile

perché i piccoli partiti hanno la forza di ostacolare i progetti. Ai cittadini dobbiamo

spiegare di non sprecare il loro voto per formazioni che non possono garantire il

governo del Paese”. Aggiungendo che se anche il Partito Democratico manterrà ciò

che ha dichiarato, di correre cioè da solo alle elezioni, “è importante sapere che il

voto che si dà al di fuori di questi due pilastri sono voti inutili e pericolosi”.

Page 84: Sistemi elettorali a confronto

Capitolo 3

Il sistema elettorale del Regno Unito

1. Il sistema parlamentare

La forma di governo del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (UK) è

parlamentare. Da oltre 130 anni l’assetto bipartitico fa sì che le elezioni esprimano

quasi sempre un partito con una propria maggioranza parlamentare. Da quasi un

secolo, due sono le formazioni dominanti, il Partito Laburista e il Partito

Conservatore. Il primo è stato per anni il maggiore rappresentante politico del

movimento operaio britannico (Trade Unions), non è particolarmente centralizzato e

risente, nella definizione della linea politica, delle tensioni esistenti tra le diverse

componenti del movimento sindacale. Il secondo, associa una decisa scelta liberista

in campo economico alla difesa dei valori tradizionali e religiosi. I referenti

tradizionali del Partito conservatore sono la borghesia industriale e finanziaria del

Paese, la Chiesa anglicana e i superstiti ceti agrari, ma negli anni Ottanta, grazie a

Margaret Thatcher, hanno allargato i consensi anche tra i ceti medi urbani e

l’elettorato operaio.

Nei due decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, Laburisti e

Conservatori raccoglievano insieme il 90% dei voti. Dagli anni Settanta in poi questa

impressionante percentuale è diminuita fino al 75% dei voti utili. Questa flessione si

deve alla crescita di formazioni politiche alternative: in primo luogo il Partito

Liberaldemocratico, che nel 1983 arrivò a ottenere un quarto dei voti espressi

dall’elettorato britannico. Poi alcune formazioni e movimenti nazionalisti che, fuori

dall’Inghilterra vera e propria, ottengono consenso: come i nazionalisti scozzesi che

hanno ottenuto, dal governo laburista del primo ministro Tony Blair, la costituzione

di un Parlamento scozzese, a Edimburgo, seppure con poteri limitati; il Partito

nazionalista gallese e il Partito unionista dell’Irlanda del Nord, fortemente radicati

nelle comunità di riferimento.

Mentre i movimenti autonomisti riscuotono successo solo nelle regioni geografiche

in cui hanno avuto origine, il Partito Liberaldemocratico gode di un diffuso consenso

Page 85: Sistemi elettorali a confronto

in tutto il paese. Qui entra in gioco il sistema elettorale, di tipo maggioritario

uninominale a turno unico, che non consente a questa terza formazione una

rappresentanza politica proporzionale ai voti. Infatti, secondo il plurality system,

l’elezione dei membri del Parlamento avviene sulla base della maggioranza semplice

dei voti ottenuti da un candidato all’interno del collegio uninominale: chi arriva

primo, tra tutti i candidati, conquista il seggio e gli avversari non ottengono alcuna

quota di rappresentanza. Ciò significa che in Gran Bretagna esiste attualmente un

sistema tripartitico a livello elettorale che diventa però bipartitico a livello

parlamentare a causa della sistematica penalizzazione del terzo partito indotta dal

sistema elettorale.

Capo dello Stato è, dal 6 febbraio 1952, la regina Elisabetta II. Il primo ministro,

nominato dal sovrano, è il leader del partito di maggioranza quale esso risulta nella

Camera dei Comuni (House of Commons). Il sistema parlamentare del Regno Unito

si configura come bicameralismo debole, cioè asimmetrico, in quanto la Camera dei

Comuni esercita maggiori poteri rispetto alla Camera dei Lord, ormai ridotti a ben

poco.

La Camera dei Comuni, composta da 650 (ma il numero varia, seppure di poco, da

consultazione a consultazione in base alla popolazione e ai collegi) rappresentanti

eletti per cinque anni, a meno che non venga sciolta prima della naturale scadenza

della legislatura su iniziativa del Premier; svolge compiti di stesura e approvazione

delle leggi; sostiene l’azione del governo (attraverso il gruppo del partito di

maggioranza) e si adopera (tramite l’opposizione) per controllarne l’operato.

La Camera dei Lord è composta da 1200 membri. I quattro quinti tra di loro hanno

ereditato il seggio in Parlamento, vi sono 24 vescovi e altri pari di Gran Bretagna.

Nessuno di loro è eletto dal popolo. La Camera dei Lord esercita esclusivamente un

potere di veto temporaneamente sospensivo della legislazione varata dai Comuni e di

moderazione dell’attività dei parlamentari eletti.

I poteri della Camera dei Comuni nei confronti dell’esecutivo sono basati su quella

che i britannici chiamano teoria del mandato partitico. In sostanza, è opinione/prassi

dei partiti e del popolo che la formazione politica che ha ottenuto la maggioranza dei

voti abbia contestualmente ricevuto un preciso mandato per realizzare il proprio

programma. Sul piano operativo, la teoria del mandato si traduce nella lealtà del

partito di maggioranza al governo e nel suo disciplinato appoggio alle proposte di

legge, che di fatto vengono approvate nove volte su dieci. Anche l’opposizione

risulta coinvolta in questa sorta di gentlemen agreement, assumendo di fatto, in tempi

normali, quasi sempre una posizione non pregiudizialmente ostile nei confronti del

governo. Il governo esercita un potere ampio e discrezionale su ogni aspetto della

vita civile, debolmente vincolato dall’azione dell’alta burocrazia pubblica e dei

circoli culturali universitari, che una regolare alternanza dei due maggiori partiti ha

sottratto agli eccessi di colonizzazione e lottizzazione.

La scelta del premier è diretta conseguenza del voto dei cittadini. Entro poche ore

dalla proclamazione del risultato elettorale, il sovrano nomina premier il leader del

partito di maggioranza. Il potere di scioglimento dei Comuni, un tempo prerogativa

del sovrano, è da più di un secolo nelle mani del premier che, forte della sua

Page 86: Sistemi elettorali a confronto

maggioranza, sceglie il momento più opportuno per tornare davanti agli elettori,

purché entro i cinque anni di durata massima della legislatura. Normalmente ciò

accade prima della fine della legislatura, per approfittare di un momento

politicamente positivo per la maggioranza, o per interrompere un rapporto negativo

tra Governo e Comuni, oppure, ma è un caso molto raro, per punire eventuali

scorrettezze dei deputati del partito di maggioranza. La logica dell’alternanza è così

forte che la legge, tramite il Ministers of the Crown Act del 1937, riconosce un

preciso status con diritti e doveri al capo dell’opposizione, potenzialmente capo del

futuro governo, e gli corrisponde uno stipendio a carico del bilancio pubblico.

Data la notevole stabilità e coesione dei governi britannici dell’ultimo quarto di

secolo, l’opinione pubblica, forte della sua omogenea e consolidata cultura politica e

della moderazione di fondo, che anima soprattutto i comportamenti delle élite del

paese, sembra accettare come naturali e inevitabili le forti distorsioni provocate dalla

regola maggioritaria nel sistema della rappresentanza e dalla centralizzazione del

potere.

2. Le elezioni del 1997 e del 2005

Per comprendere il significato della seguente tabella, ricordiamo che sotto la voce

“Altri” sono compresi una ventina di partiti, alcuni significativi solo a livello locale,

senza nessun seguito nazionale, per i quali ha poco senso teorizzare quanti seggi

avrebbero avuto in caso di ripartizione proporzionale, ma il cui valore viene

comunque calcolato con un significato puramente statistico, risultando irrilevante dal

punto di vista politico generale. Perciò se ne calcola un altro (corretto), limitatamente

ai tre maggiori partiti votati su scala nazionale, ed è quello che deve essere preso in

considerazione in un quadro comparativo:

Elezioni del 1° maggio 1997 – Camera dei Comuni

Partito Voti popolari Voti in % Seggi ottenuti con

il sistema

maggioritario

vigente

Seggi che si

sarebbero

ottenuti in

proporzione ai

voti (circa)

Differenza

(circa)

Laburisti 13.518.167 43,2 418 285 + 133

Conservatori 9.600.943 30,7 165 202 - 37

Lib Dem 5.242.947 16,8 46 111 - 65

Altri 2.903.770 9,3 30 61 - 31

Totale 31.265.827 100 659 266:2 = 133

235:2=117,5

Indice di distorsione: 133 x 100 : 659 = 20,1

Indice di distorsione (corretto): 117,5 x 100 : 629 = 18,6

Con un anno di anticipo rispetto alla scadenza del quinquennio, ritenendo il

momento abbastanza favorevole, Tony Blair è andato al giudizio delle urne, pur

Page 87: Sistemi elettorali a confronto

avendo ancora addosso gli strascichi delle polemiche generate dalla sua decisione di

partecipare alle operazioni militari, insieme agli Stati Uniti, per abbattere il regime di

Saddam Hussein in Iraq.

Il Partito Laburista ha vinto e ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi alla

Camera dei Comuni, ma perdendo voti e seggi rispetto al 2001. Come si può notare

nella sottostante tabella, l’indice di distorsione (corretto) è rimasto sostanzialmente

stabile mentre la forte perdita in cifra assoluta dei voti registrata dai laburisti (pari a

3.961.984 voti), contro una perdita di voti dei conservatori pari a 828.345 e un

guadagno dei Lib Dem pari a 739.098, ha comunque fatto conservare ai laburisti la

maggioranza assoluta in termini di seggi.

Elezioni del 5 maggio 2005 – Camera dei Comuni

Partito Voti popolari Voti in % Seggi ottenuti

con il sistema

maggioritario

vigente

Seggi che si

sarebbero

ottenuti in

proporzione ai

voti (circa)

Differenza

(circa)

Laburisti 9.556.183 35,2 356 228 + 128

Conservatori 8.772.598 32,3 197 208 - 11

Lib Dem 5.982.045 22 62 142 - 80

Altri 2.855.066 10,5 31 64 - 33

Totale 27.165.892 100 646 252:2 = 126

219:2=109,5

Indice di distorsione: 126 x 100 : 646 = 19,5

Indice di distorsione (corretto): 109,5 x 100 : 625 = 17,5

Questa maggioranza laburista di soli 32 seggi, rispetto alla maggioranza assoluta di

324 seggi, considerato il dissenso crescente verso la leadership di Blair, ha indotto il

Partito Laburista a imporre a Blair di lasciare il posto di Premier nel corso della

Legislatura allo scopo di recuperare consensi prima delle prossime elezioni. Questo

conferma che il sistema maggioritario è adatto per eleggere una maggioranza

politica, ma la stabilità governativa dipende dalla volontà del partito di maggioranza,

che è inversamente proporzionale all’effettiva leadership del premier, che nel corso

del tempo può cambiare. Ad ulteriore conferma che il vero potere politico

decisionale risiede nel gruppo ristretto di comando di ciascun partito per cui solo

quando c’è pieno sostegno del partito al Premier quello britannico può essere definito

premierato. Nella sostanza, resta il sistema del partito che vince le elezioni ai cui

interessi sono subordinati quelli del Premier.

3. I problemi aperti del sistema elettorale

Il sistema elettorale britannico è considerato il più efficace per proteggere il

bipartitismo e garantire la governabilità. Non è del tutto vero. E, in ogni caso, questo

sistema si applica solo per l’elezione della Camera dei Comuni. Infatti, dopo la

Page 88: Sistemi elettorali a confronto

riforma del 1997, nel Regno Unito si svolgono cinque tipi di elezioni (generali,

locali, regionali, europee e per il sindaco e l’Assemblea di Londra e alcune altre

grandi città) con sei diversi sistemi elettorali. Prima della riforma si svolgevano tre

tipi di elezioni (generali e locali con il sistema maggioritario ed europee con il

sistema proporzionale). Blair ha introdotto un sistema misto o ibrido per l’elezione

dell’Assemblea dell’Irlanda del Nord e per le nuove assemblee di Scozia e Galles in

base al principio che della devoluzione, cioè del diritto di legiferare su determinate

questioni.

L’immagine di un Paese elettoralmente bipartitico, polarizzato intorno ai Laburisti

e ai Conservatori, è quindi inesatta e la riforma di Blair ha preso atto di una crescente

tendenza alla frammentazione e alla rilevanza del voto locale e nazionalistico. Da qui

l’apertura al sistema proporzionale e alle formule ibride. Solo nelle elezioni generali,

quelle per la Camera dei Comuni, è ancora valido il sistema maggioritario

uninominale a un turno che consente alle elezioni di esprimere quasi sempre un

partito con una propria maggioranza parlamentare.

Dal 1918, in tre occasioni (1923, 1929 e 1974) nessun partito conquistò la

maggioranza dei seggi, dando vita al cosiddetto hung parliament (o parlamento

impiccato o parlamento di minoranza). I relativi governi di minoranza (tutti e tre

laburisti) durarono rispettivamente 10, 22 e 7 mesi. In altre tre occasioni, la

maggioranza fu strettissima (a favore dei Laburisti): 5 seggi nel 1950, 4 seggi nel

1964 e 3 seggi nel 1974. Questo significa che, di per sé, nemmeno il maggioritario

garantisce sempre una maggioranza né una maggioranza ampia: è accaduto 6 volte su

24.

Nella seguente tabella sono riassunti i risultati delle elezioni dal 1945 al 2005. (In

grassetto le maggioranze assolute conquistate dai Conservatori o dai Laburisti):

Anno Conservatori Laburisti Liberaldemocratici Altri

% voti seggi % voti seggi % voti seggi % voti seggi

1945 39,7 210 47,7 393 9,0 12 3,6 25

1950 43,3 297 46,1 315 9,1 9 1,5 4

1951 48,0 321 48,8 295 2,6 6 0,7 3

1955 49,6 344 46,4 277 2,7 6 1,3 3

1959 49,4 365 43,8 258 5,9 6 1,0 1

1964 43,3 303 44,1 317 11,2 9 1,4 1

1966 41,9 253 47,9 363 8,5 12 1,7 2

1970 46,4 330 43,0 287 7,5 6 3,2 6

1974 37,8 297 37,2 301 19,3 14 5,8 14

1974 35,7 276 39,3 319 18,3 13 6,7 13

1979 43,9 339 36,9 268 13,8 11 5,4 13

1983 42,4 397 27,6 209 25,4 23 4,6 17

1987 42,2 375 30,8 229 22,6 22 4,4 18

1992 41,9 336 34,4 271 17,8 20 5,8 17

1997 30,7 165 43,2 418 16,8 46 9,3 20

2001 31,7 166 40,7 412 18,3 52 9,4 20

2005 32,3 198 35,2 356 22,0 62 10,5 30

Page 89: Sistemi elettorali a confronto

Da questa tabella si rileva:

- delle 17 elezioni svoltesi dal 1945 al 2005, solo quattro si sono tenute alla scadenza

quinquennale. La durata media di una legislatura è infatti di tre anni e mezzo;

- in un solo caso, nelle elezioni del febbraio 1974, nessuno dei due maggiori partiti

ottenne la maggioranza assoluta dei seggi; le elezioni furono quindi riconvocate a

ottobre;

- con l’eccezione del governo conservatore eletto nel 1970, l’elettorato ha mostrato

una netta preferenza per le alternanze lunghe, confermando una o più volte un partito

al governo per la convinzione che anche una sola legislatura non dia tempo bastante

per realizzare compiutamente un programma e valutarne i risultati;

- la crescita, a partire dalla metà degli anni ’70, dei Liberaldemocratici, in termini

percentuali e di seggi. Se ci fosse il sistema proporzionale, il Regno Unito

presenterebbe una situazione tripartita;

- l’elettorato del Partito Liberaldemocratico ha portato via voti sia ai Conservatori

sia ai Laburisti, ma sembra prevalentemente in osmosi con i secondi anche nella

prospettiva di un’alleanza di governo nel caso di elezioni che non diano la

maggioranza assoluta ai Laburisti o ai Conservatori o nella prospettiva di un

passaggio al sistema proporzionale che renderebbe inevitabili le coalizioni;

- forse questa prospettiva può indurre gli elettori britannici a non rinunziare alla

certezza e alla stabilità proprie di un governo di un solo partito e con una chiara

maggioranza, garantite di più dal sistema elettorale maggioritario.

Un esame più dettagliato delle ultime tre elezioni politiche, quelle del 1997 in cui i

Laburisti posero fine alla lunga egemonia dei Conservatori durata 17 anni, e quelle

del 2001 e del 2005, tutte convocate prima del termine naturale della Legislatura,

consente di mettere a fuoco un altro dato: la sempre minore forza di attrazione

esercitata dai due maggiori partiti: nel 1997 raccoglievano insieme il 73,9% dei voti,

scesi al 72,4% nel 2001 e crollati al 67,5% nel 2005, cioè al di sotto del limite di

sopravvivenza del bipartitismo.

Partiti 1997 2001 2005

Voti % Seggi Voti % Seggi Voti % Seggi

Laburisti 43,2 418 40,7 412 35,2 356

Conservatori 30,7 165 31,7 166 32,3 198

Lib Dem 16,8 46 18,3 52 22,0 62

Altri 9,3 30 9,7 28 10,5 30

Totale 100 659 100 658 100 646

Non si pensi che alle elezioni si presentino poche liste dal momento che i seggi

sono spartiti quasi completamente tra due partiti. Alle elezioni del 1997, ben 48 liste

ottennero più di 500 voti ma solo 8 partiti conquistarono seggi; nel 2001,

rispettivamente 44 e 7; nel 2005, 57 e 9. Siamo quindi di fronte a una spinta verso la

frammentazione, quantomeno verso un tripartitismo a livello nazionale: spinta che

appare evidente nelle elezioni europee che si svolgono con il sistema proporzionale.

Elezioni per il Parlamento europeo

Page 90: Sistemi elettorali a confronto

Partito 1979 1984 1989 1994 1999 2004

Conservatori 51 38,8 35 28 35,7 26,7

Laburisti 33 34,7 40 44 28,0 22,6

Liberaldemocratici 13 19 6 17 12,6 14,9

Partito Indipendenza UK 1 6,9 16,1

Verdi 1 15 3 6,2 6,3

Partito nazionalista scozzese 2 2 3 3 2,6 1,4

Plaid Cymru (Galles) 1 1 1 1,8 1,0

Altri 0 3,5 1,0 3,0 6,2 11,0

Dalle elezioni europee, svoltesi con il sistema proporzionale, risulta chiara la forte

contrazione del bipartitismo poiché i due maggiori partiti, che nel 1979

raccoglievano l’84% dei voti, sono scesi al 49,3%: una tendenza che si può ritenere

in buona misura indipendente dalla percentuale particolarmente bassa dei votanti

(pari al 37,6% nel 2004).

Nell’insieme, quindi, il sistema politico britannico è in evoluzione e pone sotto

tensione il sistema elettorale. I dati elettorali confermano che qualsiasi sistema

elettorale costituisce un freno o uno stimolo alla frammentazione o alla aggregazione,

ma non può bloccare gli orientamenti di fondo dell’elettorato che, altrimenti, reagisce

o con l’astensionismo o premiando le posizioni più radicali o in entrambi i modi.

Page 91: Sistemi elettorali a confronto

Capitolo 4

Il sistema elettorale della Francia

1. Bicameralismo imperfetto e sistema elettorale

Secondo quanto dispone l’articolo 24 della Costituzione del 1958, il Parlamento

francese è bicamerale, composto dall’Assemblea Nazionale (577 membri) e dal

Senato (322 membri). Si tratta di una forma di bicameralismo imperfetto in quanto,

benché il potere legislativo sia ripartito tra le due camere, l’Assemblea Nazionale ha

un ruolo preponderante poiché è solo davanti ad essa che il governo è responsabile

politicamente e, in caso di conflitto con il Senato riguardo l’adozione di una legge,

spetta all’Assemblea l’ultima parola. Il motivo principale di questa preminenza

dell’Assemblea Nazionale nei riguardi dell’altra camera risiede nel diverso modo in

cui sono eletti i parlamentari: i senatori sono eletti per 9 anni a suffragio indiretto da

un collegio elettorale ristretto costituito su base dipartimentale (il dipartimento è

assimilabile grosso modo alla provincia italiana) e comprendente deputati e

rappresentanti locali; i deputati, invece, sono eletti per 5 anni a suffragio universale

diretto.

Passando ad analizzare in dettaglio il sistema elettorale con cui viene eletta

l’Assemblea Nazionale, si rileva anzitutto che i 577 deputati sono eletti a scrutinio

uninominale maggioritario a doppio turno nel quadro di circoscrizioni elettorali

ritagliate all’interno dei dipartimenti.

La ripartizione dei seggi tra i vari dipartimenti è fatta proporzionalmente alla

popolazione residente, tenendo conto che ogni dipartimento deve eleggere almeno 2

deputati e che in nessun caso la popolazione di una circoscrizione elettorale può

essere superiore o inferiore del 20% rispetto alla popolazione media delle

circoscrizioni del dipartimento.

Le elezioni si tengono la domenica. Per essere eletti al primo turno, i candidati

devono ottenere la maggioranza assoluta dei voti espressi purché questi siano pari

almeno a un quarto degli elettori iscritti nella circoscrizione. Se questo non succede,

si procede a una seconda tornata elettorale la domenica successiva. Al secondo turno

possono accedere solo i candidati che hanno ottenuto un numero di suffragi non

inferiore al 12,5% degli aventi diritto. Questo sbarramento era, nella originale legge

Page 92: Sistemi elettorali a confronto

elettorale del 1958, pari al 5% ma, nel quadro di una politica tendente a orientare la

rappresentanza parlamentare in senso bipolare, fu innalzato al 10% nel 1966 e al

12,5% nel 1976. Qualora un solo candidato superi lo sbarramento, gli viene

affiancato al secondo turno il secondo classificato; se nessuno ha superato la soglia

del 12,5%, sono comunque i due candidati più votati ad affrontare il ballottaggio. La

legge consente esplicitamente che al secondo turno un candidato possa ritirarsi dalla

competizione elettorale indicando ai suoi elettori il candidato sul quale far

convergere i loro voti.

Il rinnovo integrale dell’Assemblea Nazionale avviene in via di principio ogni

cinque anni, salvo il potere del Presidente della Repubblica di scioglierla

anticipatamente (art. 12 della Costituzione), sentito il Primo ministro.

Da rilevare il tentativo del legislatore francese di rendere fissa la durata della

legislatura: ciò che d’ora in poi sarà più facile in quanto il mandato del Presidente

della Repubblica è stato ridotto da 7 a 5 anni. Il fatto però che l’elezione del

Presidente preceda di circa un mese l’elezione dell’Assemblea fa della prima

consultazione il fattore trainante della seconda, come si è visto nel maggio 2002 con

la rielezione di Chirac e nel giugno successivo con la netta vittoria del partito del

Presidente, l’UMP, Unione per la Maggioranza Presidenziale, che ha ottenuto la

maggioranza assoluta, segno della volontà dei francesi di mettere fine ai periodi di

coabitazione (presidente di uno schieramento politico e governo espressione di una

diversa maggioranza politica). Lo stesso è accaduto nel 2007 dopo l’elezione alla

presidenza di Nicolas Sarkozy.

2. Dalla IV alla V Repubblica

La storia elettorale della Francia è contrassegnata da una netta prevalenza del sistema

elettorale maggioritario per le consultazioni politiche. Infatti, dopo la parentesi della

Quarta Repubblica (1946–1958) in cui predominò il sistema proporzionale, con

l’ultimo rivolgimento istituzionale del 1958 si è tornati al modello maggioritario,

uninominale a doppio turno, voluto dal generale Charles de Gaulle poiché riteneva

che il sistema elettorale proporzionale fosse una tra le cause più importanti

dell’instabilità politica dei governi della Quarta Repubblica e del prevalere di quello

che egli definiva “il regime dei partiti”. Senza stabilità governativa, sosteneva de

Gaulle, nessuna politica nazionale di lungo respiro poteva essere elaborata e attuata,

e la Francia avrebbe perduto posizioni in un mondo dominato dalla competizione

sempre più accesa.

De Gaulle non si limitò alla legge elettorale. Anzi, questa fu un mezzo per

proteggere e rafforzare un più profondo cambiamento delle istituzioni, quel modello

che viene definito semipresidenzialismo, ovvero dell’Esecutivo bicefalo e a quasi

mezzo secolo di distanza il giudizio è generalmente positivo. A ciò si deve

aggiungere che, combinati insieme, semipresidenzialismo e legge elettorale

maggioritaria hanno ridotto la tradizionale frammentazione del sistema partitico

francese e lo stanno spingendo verso il bipartitismo.

Page 93: Sistemi elettorali a confronto

La IV Repubblica, in 11 anni e mezzo di vita, dal 1946 al 1958, aveva avuto 20

primi ministri: socialisti, radicali, democristiani o indipendenti. Durata media dei

governi: sette mesi. Le cose sono cambiate: escludendo il governo di transizione di

de Gaulle, dall’inizio del 1959 al 2007, cioè fino allo svolgimento delle ultime

elezioni presidenziali e di quelle politiche, in 48 anni si sono succeduti 18 governi

della durata media di circa 37 mesi.

E’ però interessante rilevare che la durata media di vita dei governi scende a 24

mesi durante i 14 anni della presidenza del socialista François Mitterrand, a conferma

della minore compattezza, o della maggiore turbolenza, dello schieramento di

sinistra. Viceversa la durata media dei governi sotto un presidente di centrodestra

risulta pari a 46 mesi. Questo significa che il medesimo sistema elettorale produce

effetti diversi a seconda delle forze politiche sottostanti.

La stretta relazione tra sistema semipresidenziale e sistema elettorale ha fatto sì che

la consultazione elettorale che conta veramente è quella presidenziale che,

risolvendosi al secondo turno di ballottaggio, spacca l’elettorato. Non solo: con la

riduzione del mandato presidenziale da 7 a 5 anni, la durata del mandato

presidenziale e quello dell’Assemblea coincidono. Poiché l’elezione del Capo dello

Stato precede di un mese circa l’elezione dell’Assemblea, la prima esercita un effetto

trainante sulla seconda e assicura al presidente eletto una maggioranza presidenziale

che sostiene il Primo ministro scelto dallo stesso Presidente, e che resta in carica,

sostanzialmente, fino a quando opera in sintonia con la politica presidenziale oppure

fino a quando il Presidente decide di bruciarlo come un fusibile per proteggersi e

ridare slancio alla sua maggioranza.

È però da notare che l’elettorato francese è restio ad abbandonare le proprie scelte

tradizionali, che manifesta nel primo turno, sia delle presidenziali sia delle

legislative. Al secondo turno, per le presidenziali la scelta è solo tra due candidati,

mentre nelle legislative la scelta è spesso più ampia: qui giocano le desistenze, ma

alleanze locali consentono comunque anche partiti minori di eleggere qualche

rappresentante di bandiera. Tuttavia, esaminando la tabella (semplificata) dei risultati

delle elezioni legislative dal 1958 al 2007, si può notare che nel periodo lungo di un

cinquantennio sta emergendo il bipartitismo. A sinistra, il Partito socialista ormai non

ha più rivali, perché il Partito comunista è sceso al di sotto del 5% e l’estrema sinistra

non supera il 4%, per cui il Ps può contare su un quarto degli elettori. A destra, il

partito gollista, o neogollista, che si coagula intorno al proprio candidato

presidenziale, riesce a contare su circa il 40% degli elettori, ha messo fuori gioco il

tradizionale alleato centrista e nel 2007 ha visto ridursi quasi a un terzo l’estrema

destra del Fronte Nazionale che dal 9,9% del 1986 era arrivata al 15,3% nel 1997. Se

due partiti, da soli, si avvicinano al 70% dei voti, si può dire che il bipartitismo abbia

messo solide radici. Nella tabella seguente si può constatare questa tendenza alla

semplificazione bipartitica anche se persiste una certa frantumazione, che si riduce in

termini di voti e soprattutto di seggi al secondo turno.

Elezioni legislative durante la V Repubblica – Assemblea Nazionale – 1° turno

Gruppi 1958 1962 1967 1968 1973 1978 1981 1986 1988 1993 1997 2002 2007

Ecologisti 2,0 1,1 1,2 0,4 11,0 6,9 4,4 3,25

Page 94: Sistemi elettorali a confronto

Estrema

sinistra

1,2 2,0 2,2 4,0 3,2 3,3 1,2 1,5 0,4 1,7 2,6 2,7 3,41

Comunisti 18,9 21,9 22,5 20,0 21,4 20,6 16,1 9,7 11,2 9,1 9,9 4,9 4,29

Socialisti 15,5 12,4 18,9 16,9 21,2 26,3 38,3 32,8 37,6 20,2 27,9 26,6 24,73

Centrosinistra 5,8 5,0 3,28

Centrodestra 15,0 10,4 17,4 12,1 16,7

23,9

42,9

44,6

40,5

44,1

36,2

43,8

7,61

Destra 20,0 11,5 2,47

Apparentati

centrodestra

3,9

Apparentati

destra

2,3 5,5 8,4 7,2 2,37

Gollisti 20,6 33,7 33,0 38,0 24,6 22,8 39,54

Estrema

destra

2,6 0,8 0,6 0,1 0,5 0,8 0,3 9,9 9,9 12,9 15,3 12,2 4,29

3. Le elezioni del 2002 e del 2007

Dopo le elezioni presidenziali del maggio 2002, che hanno portato alla rielezione di

Jacques Chirac, si sono svolte nel giugno successivo le elezioni per il rinnovo

dell’Assemblea Nazionale, che hanno dato i seguenti risultati:

Elezioni legislative del 2002

Partiti Percentuale di voti

ottenuti al 1° turno

Seggi ottenuti con il

sistema vigente

maggioritario a due

turni e sbarramento

Seggi che si sarebbero

avuti rispettando

proporzionalmente i

voti ottenuti (circa)

Differenza

(circa)

UMP e apparentati 33,30 370 192 + 178

UDF e apparentati 4,83 29 28 + 1

PSF e apparentati 23,94 153 138 + 15

PCF e apparentati 4,95 21 28 - 7

Verdi 4,47 4 26 - 22

FN 11,23 65 - 65

Altri 17,28 100 - 100

Totale 100,00 577 577 388:2=194

Indice di distorsione: 194 x 100 : 577 = 33,62

Si nota facilmente l’indice di distorsione particolarmente elevato perché in Francia

continua a sussistere un consistente pluripartitismo fortemente caratterizzato sul

piano ideologico. Ma nelle ultime elezioni legislative del 10-17 giugno 2007, dopo la

vittoria di Sarkozy alle presidenziali, la tendenza al bipartitismo si è accentuata, il

sistema ha premiato due soli partiti (UMP e PS) e ha penalizzato tutti gli altri,

specialmente i centristi. Rispetto ai risultati del primo turno, ci si aspettava un bottino

più consistente per l’UMP; invece gli elettori hanno voluto riequilibrare quel

successo. Se il partito del Presidente può contare comunque sulla maggioranza

assoluta, l’opposizione non è stata schiacciata. È invece scomparso dall’Assemblea il

Fronte Nazionale, dopo i successi registrati consecutivamente dal 1986. Anche il

Partito comunista è stato fortemente ridimensionato, scendendo sotto il 5%. L’indice

di distorsione si è ridotto.

Elezioni legislative del 2007

Partiti Percentuale di voti

ottenuti al 1° turno

Seggi ottenuti con il

sistema vigente maggioritario a due

Seggi che si sarebbero

avuti rispettando proporzionalmente i

Differenza

(circa)

Page 95: Sistemi elettorali a confronto

turni e sbarramento voti ottenuti (circa)

UMP e apparentati x 44,38 344 256 + 88

UDF e apparentati x 7,61 3 44 - 41

PSF e apparentati x 28,01 208 161 + 47

PCF e apparentati x 7,7 15 44 - 29

Verdi x 3,25 4 19 - 15

FN x 4,29 - 24 - 24

Altri 4,75 3 25 - 22

Totale 100,00 577 577 266:2=133

Indice di distorsione: 133 x 100 : 577 = 23

Questa tendenza verso il bipartitismo può essere attribuita alla costanza con cui è stato

applicato il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, ma si deve rilevare come i

suoi effetti si siano manifestati solo nel lungo periodo per cui, in presenza di

circostanze eccezionali, la frammentazione potrebbe ricomparire, ma più

probabilmente sul versante del centrodestra che non su quello del centrosinistra

(mentre in Germania si sta verificando l’opposto) perché l’area di centrodestra, tutti

compresi, è largamente maggioritaria e coinvolge circa il 60% dell’elettorato.

Sembra quindi confermato che il sistema elettorale francese stia producendo una

forte bipolarizzazione intorno al partito neogollista e al partito socialista, ma al prezzo

di una esclusione o forte compressione dalla rappresentanza di circa il 30% degli

elettori e di una sovra-rappresentazione dei due partiti maggiori. Il primo turno

rappresenta ancora, ma in misura decrescente, una Francia frastagliata; il secondo

turno equivale quasi a un uninominale secco, cioè maggioritario a un turno, come in

Gran Bretagna. Resta da vedere se nel medio periodo gli elettori non più rappresentati

o eccessivamente sottorappresentati persisteranno in un voto di fedeltà o confluiranno

fin dal primo turno nelle fila dei due partiti maggiori, i quali sono spinti a presentare

nelle singole circoscrizioni i candidati più suscettibili di attirare questi consensi al

secondo turno. Il mantenimento del primo turno serve sempre più a contrattare le

desistenze in vista del secondo turno nei pochi giorni di intervallo, poiché questo si

svolge a una settimana di distanza dal primo. L’affluenza al voto (elezioni 2002) tra il

primo e il secondo turno si mantiene abbastanza vicina (64,4% contro 60,3% nel

2002; 60,55% contro 59,99% nel 2007).

Sul piano politico, infine, il sistema elettorale voluto da de Gaulle ha fatto quasi

sparire il centro, come ha confermato la sconfitta del partito del centrista François

Bayrou alle elezioni legislative, nonostante il buon risultato riportato alle elezioni

presidenziali. Sempre sullo stesso piano, si può osservare che questo sistema, in quasi

mezzo secolo, ha fatto registrare una ben più lunga permanenza del centrodestra al

potere: 34 anni di controllo della presidenza della Repubblica contro i 14 dei

socialisti; 32 anni e mezzo alla guida del governo contro 15 anni e mezzo della

“gauche”. Record che vanno aumentati, per il centrodestra, di altri 5 anni dopo i

risultati delle elezioni presidenziali e politiche del 2007.

Page 96: Sistemi elettorali a confronto
Page 97: Sistemi elettorali a confronto

Capitolo 5.

Il sistema elettorale della Spagna

1. La transizione alla democrazia

La Spagna è, insieme alla Grecia e al Portogallo, uno dei paesi dell’Europa

occidentale approdati (o riapprodati) alla democrazia negli anni ’70 del secolo

scorso. La sua transizione dal regime franchista è stata considerata un modello di

evoluzione pacifica, continua e consensuale, e come tale intensamente studiato e

ormai ben conosciuto. Le principali tappe di questa transizione sono state scandite da

diverse tornate elettorali nazionali, inaugurate dal referendum del 1976 sulla “legge

di riforma politica” e proseguite negli anni successivi con l’elezione di un primo

Parlamento costituente (1977), con il referendum sulla nuova Carta fondamentale del

1978 e con le elezioni legislative del 1979 e del 1982 che hanno stabilizzato la

transizione.

La Costituzione del 1978 delinea una monarchia parlamentare, e stabilisce alcune

precauzioni per bloccare derive assemblearistiche e consentire la crescita di una

democrazia governante. L’accorgimento principale è quello che individua la figura

del Presidente del Governo, il premier, come “elemento centrale del potere

esecutivo” (art. 98). Il presidente è il principale attore del governo: tocca infatti a lui

scegliere i ministri dopo aver ricevuto la fiducia dalle Cortes, dinanzi a cui ha

esposto il suo programma politico. È quindi possibile rintracciare una connotazione

presidenzialista o di premierato nel rapporto Premier-Cortes, in particolare nella

specifica possibilità del presidente di chiedere lo scioglimento delle Camere.

Le due Camere non hanno gli stessi poteri. La Camera alta, il Senato, è composta

in parte da rappresentanti eletti secondo criteri proporzionali su base regionale e in

parte da membri che vengono designati dai poteri territoriali. Il Senato dispone solo

di un veto sospensivo e quindi gli è preclusa la strada dell’autonoma iniziativa

legislativa. Esso si presenta sostanzialmente come una camera di riflessione che può

presentare emendamenti, che però la Camera bassa può ignorare. La Camera bassa,

Camera dei deputati, composta di rappresentanti eletti dal popolo, deve accordare

fiducia al premier, obbligato a illustrare ai deputati il suo programma politico al

momento della nomina, ma non può sfiduciare il capo dell’esecutivo a meno di non

Page 98: Sistemi elettorali a confronto

poter proporre un’alternativa politica valida (cioè dotata dei numeri sufficienti) al

governo del presidente (clausola della fiducia costruttiva).

2. Governo e sistema elettorale

Il nome del premier è proposto dal monarca ed eletto dall’Assemblea nazionale (Las

Cortes generales) costituita dal Senato (Senado) e dal Congresso dei deputati

(Congreso de los diputados). I membri del Senato sono 256: di cui 208 sono eletti dal

popolo e i rimanenti 48 direttamente scelti dalle assemblee regionali. Restano in

carica per quattro anni, quanto dura quasi sempre la legislatura. I rappresentanti del

Congresso dei deputati sono 350. Le candidature vengono proposte tramite la

presentazione di liste elettorali e i candidati sono eletti con il sistema proporzionale.

La legge elettorale proporzionale, che prevede uno sbarramento (molto alto per i

partiti nazionali – 10,2% – ma diverso, e cioè nettamente più basso, per i partiti

regionali), che però non scatta quasi mai poiché in genere in ogni distretto solo due

partiti ottengono il mandato, ha esercitato un’influenza positiva per la Spagna. Ma la

decisiva spinta per l’avviamento del sistema politico entro i binari di una democrazia

maggioritaria, bipolare e dell’alternanza, dunque di maggiore stabilità e

governabilità, l’ha offerta la maturazione dei partiti a vocazione maggioritaria: i due

partiti più grandi, PP, Partito Popolare, e PSOE, Partito Socialista, ottengono di solito

più dell’80% dei consensi. La tendenza è illustrata nella seguente tabella.

Ann

o

Pp Psoe Pp+Psoe Altri

% Segg

i

% Segg

i

% Segg

i

% Segg

i

1979 35,

0

168 30,

5

121 65,

5

289 34,

5

61

1982 26,

4

107 48,

3

202 74,

7

309 25,

3

41

1986 26,

2

105 44,

0

184 70,

2

289 29,

8

61

1989 25,

1

101 39,

8

175 64,

9

276 35,

1

74

1993 34,

5

138 39,

0

159 73,

5

297 26,

5

53

1996 38,

8

156 37,

6

141 76,

4

297 23,

6

53

2000 44,

5

183 34,

1

125 78,

6

308 21,

4

42

2004 38,

3

148 43,

3

164 81,

6

312 18,

4

38

La Spagna rappresenta dunque un caso di razionalizzazione riuscita del governo

parlamentare. La legge elettorale proporzionale è congegnata per ridurre il numero

delle forze politiche, accettando la sovra-rappresentazione dei partiti maggiori, e così

Page 99: Sistemi elettorali a confronto

permettendo per numerose legislature governi fondati su un solo partito

maggioritario. La soluzione è stata trovata nell’elevato numero dei distretti elettorali

(52) che, avendo di conseguenza un limitato numero di seggi in palio, premiano solo

i partiti maggiori. In particolare, nei 34 distretti in cui si eleggono meno di 7 deputati,

i relativi seggi sono di fatto conquistati solo dai due maggiori partiti nazionali: si

tratta di circa il 40% di tutti i seggi. Negli altri 18 distretti, nei quali si esprime il 60%

delle Cortes, sono in palio 7 o più seggi.

In questo modo è stata eretta una barriera all’instabilità governativa, rafforzata da

un secondo istituto, costituito dalle regole di finanziamento pubblico e di accesso ai

mass media nettamente sfavorevoli alla frammentazione perché basate sui seggi

effettivamente conquistati anziché sui voti ottenuti dai partiti. A ciò si aggiunge il

fatto che il Parlamento è privo dello strumento della sfiducia, essendo vincolato alla

formazione di un governo alternativo da opporre a quello eventualmente contestato.

Nella seguente tabella vengono riportati i dati relativi alle ultime elezioni del 14

marzo 2004 (Camera). Si noterà il valore medio dell’indice di distorsione:

Elezioni politiche del 14 marzo 2004 - Camera

Partiti Percentuale di voti

ottenuti

Seggi ottenuti con il

sistema vigente

(proporzionale con

sbarramento e

tendenzialmente

maggioritario)

Seggi che si sarebbero

avuti rispettando

proporzionalmente i

voti ottenuti (circa)

Differenza

(circa)

Partito socialista 42,6 164 150 + 14

Partito popolare 37,6 148 131 - 17

CiU 3,2 10 11 - 1

IU 5,0 5 18 - 13

ERC 2,5 8 9 - 1

EAJ-PNV 1,6 7 5 + 2

CC 0,9 3 3 -

BNG 0,8 2 3 - 1

CHA 0,4 1 1 -

EA 0,3 1 1 -

NaBai 0,3 1 1 -

Altri partiti 4,8 0 17 - 17

Totali 100 350 350 66 : 2 = 33

Indice di distorsione: 33 x 100 : 350 = 9,4

Page 100: Sistemi elettorali a confronto

Capitolo 6

Il sistema elettorale della Germania

1. Un sistema misto?

Proporzionale alla tedesca con sbarramento del 5%: una formula ripetuta spesso e

con ammirazione. Osservato da vicino, però, il sistema utilizzato in Germania per

eleggere la Camera bassa del Parlamento federale, il Bundestag, è più complesso di

quanto si immagini. Non è un proporzionale puro, ma fa convivere due diversi

meccanismi: il maggioritario relativo e il proporzionale.

L’attuale sistema elettorale tedesco è figlio della Costituzione del 1949, quella che

accompagnò la nascita della Repubblica federale tedesca, ma anche frutto

dell’evoluzione legislativa scaturita dalle esperienze maturate nei decenni

precedenti. Dopo la fine della II Guerra mondiale, passarono tre anni prima che fosse

messa a punto una nuova legge elettorale. Profonde erano le differenze di posizione: i

socialdemocratici erano per il proporzionale, i liberali per il maggioritario

uninominale a un turno e i cristiano-democratici per il maggioritario corretto.

L’accordo fu possibile grazie all’introduzione della clausola di sbarramento del 5%.

Da allora la legge elettorale ha subito diverse modifiche. Tra le più recenti, nel

1985 è cambiato il metodo di conteggio per l’assegnazione dei seggi, reso più

favorevole ai piccoli partiti, e il diritto di voto è stato esteso anche ai tedeschi

residenti all’estero. Per le prime elezioni della Germania riunificata, il 2 dicembre del

1990, sono state adottate regole eccezionali: l’intero territorio è stato diviso in due

grandi zone elettorali, una Ovest e una Est, in ognuna delle quali lo sbarramento del

5% è stato applicato in maniera separata. Ciò per consentire a due partiti dei nuovi

cinque Länder – i Grüne (verdi), e PDS, i comunisti eredi della SED, il Partito

socialista unitario della ex Repubblica democratica tedesca – di poter essere ammessi

al Parlamento federale.

2. I principi costituzionali e l’elezione del Bundestag

Page 101: Sistemi elettorali a confronto

Il sistema di votazione per il Bundestag (Parlamento federale) prevede l’elezione di

656 deputati, con mandato di 4 anni. Il Parlamento è affiancato nella sua attività

legislativa e di controllo dal Bundesrat (Camera delle Regioni). La legge prevede che

la metà dei membri (328) venga eletta a maggioranza semplice in collegi

uninominali, mentre l’altra metà, avvalendosi del proporzionale, viene eletta sulla

base di liste regionali.

La scheda elettorale è perciò divisa in due sezioni: sul lato sinistro l’elettore sceglie

col “primo voto” (Erststimme) il suo candidato (sulla scheda i candidati sono

elencati, dall’alto verso il basso, a seconda della percentuale assoluta riportata da

ciascun partito alle votazioni precedenti); sul lato destro, col “secondo voto”

(Zweitstimme), quello assegnato col sistema proporzionale, la preferenza viene data

al partito. A quest’ultimo spetta la formazione delle liste regionali dei candidati,

nelle quali, il partito può collocare in posizioni privilegiate alcuni candidati di cui si

voglia facilitare l’ingresso in Parlamento. Per la determinazione delle percentuali dei

voti ottenute da ciascun partito e, dunque, per la distribuzione dei seggi, vengono

presi in considerazione i risultati della Zweitstimme, il che spiega perché il sistema

venga generalmente considerato proporzionale. È interessante notare che non c’è una

piena corrispondenza tra primo e secondo voto e che la difformità aumenta di

elezione in elezione.

I candidati di ciascun collegio vengono scelti con votazione segreta dai membri del

partito o da una loro delegazione. Lo stesso avviene per i candidati delle liste

regionali. In questo caso la posizione sulla scheda è fondamentale. Se un partito che

ha ottenuto 15 seggi in una regione se ne aggiudica 10 per via diretta, cioè con la

vittoria dei candidati nei collegi uninominali, dalla lista regionale verranno

estrapolati solo cinque nomi. Se poi i vincitori nei collegi corrispondono ai primi

dieci della lista regionale, andranno in Parlamento per via indiretta (Zweitstimme) i

successivi cinque. Analogamente, in caso di morte di un deputato o di una sua

rinuncia all’incarico, lo sostituirà il primo tra gli esponenti politici non eletti della

lista regionale.

Nel sistema elettorale tedesco il pari peso politico di ciascun voto, sancito dalla

Costituzione, viene disattesa, o quantomeno limitata, per tre motivi: l’elezione col

maggioritario della metà dei deputati con la Erststimme; la clausola di sbarramento

del 5%; e i cosiddetti “mandati in eccesso”. In tutti e tre i casi la volontà delle

minoranze, e quindi il peso dei loro voti, viene di fatto circoscritta o annullata da

quella della maggioranza, ottenendo un effetto distorsivo, anche se limitato.

L’intero territorio della Repubblica federale è diviso in 328 collegi. Per assicurare

che il voto degli elettori abbia uno stesso peso è necessario che essi siano il più

possibile omogenei in quanto a consistenza numerica. Attualmente il valore medio è

di poco più di 220 mila abitanti per collegio.

La clausola di sbarramento del 5% costituisce sin dal 1949 (allora soltanto a livello

locale, poi, dal 1953, anche a livello nazionale) uno dei cardini della legislazione

elettorale tedesca. Per tutti questi anni essa ha garantito una buona stabilità nei

rapporti politici all’interno del Parlamento nazionale e nei consigli regionali,

assicurando così il funzionamento della democrazia in Germania. Se da una parte

Page 102: Sistemi elettorali a confronto

essa ha evitato la frammentazione del sistema partitico e limitato la formazione di

partiti minori, dall’altra non ha impedito l’ingresso in Parlamento di nuove forze

politiche. Un esempio per tutti, quello dei Verdi (Die Grünen), che nel 1983 col 5,6%

hanno conquistato per la prima volta uno spazio nel Bundestag, rompendo il

tripolarismo CDU/CSU-PD-FDP.

La clausola non è rigida. Il limite di non partecipare all’assegnazione dei seggi

parlamentari nel caso non si sia raggiunto il 5% dei voti può essere infatti superato

laddove una forza politica riesca a ottenere almeno 3 mandati elettorali diretti (i

cosiddetti Grundmandate). Nel 1994 la PDS (i comunisti dell’Est, eredi della SED) è

entrata in Parlamento vincendo in 4 collegi di Berlino Est, nonostante a livello

federale avesse ottenuto soltanto il 4,4% dei voti.

Infine, se un partito per via diretta, vale a dire con il primo voto, maggioritario, nei

seggi uninominali, ottiene più seggi di quanti la percentuale riportata col secondo

voto gliene attribuirebbe, questo partito può conservare tali seggi che vengo definiti

in eccesso (Überhangmandate). Di fatto, questa regola costituisce una limitata

correzione maggioritaria a un sistema sostanzialmente proporzionale. Una sorta di

premio di maggioranza, ma anche un modo per limitare, aumentando la

discrezionalità dei cittadini, il potere decisionale dei partiti in materia di scelta dei

candidati. Va da sé che una tale eventualità comporta l’aumento del numero dei

deputati. Nel 1994, ad esempio, sono stati 16 i mandati in eccesso totalizzati, molti di

più rispetto ai 6 del ’90 e ai 5 del ’61. Alle elezioni del settembre ’98 la cifra è scesa

a 13, tutti ottenuti dai socialdemocratici della SPD, il partito del cancelliere Gerhard

Schröder; nel 2002 sono stati 5 e nelle elezioni del 2005 sono stati 16, di cui 9

conquistati dalla SPD e 7 dalla CDU. In ogni caso, e nonostante le polemiche

suscitate da chi sostiene che questi voti aggiuntivi costituiscono un elemento di

disturbo e di alterazione del sistema proporzionale o un piccolo premio di

maggioranza, il meccanismo sopravvive e costituisce un correttivo, a favore dei

partiti maggiori, del sistema di ripartizione Hare/Niemeyer che premia quelli minori.

A conti fatti, sono i partiti più grossi a trarre un vantaggio.

3. Il conteggio dei voti

In genere se ne parla poco, eppure il metodo adottato per il conteggio dei voti è di

primaria importanza, poiché da esso dipende la traduzione dei voti in seggi.

Utilizzarne uno piuttosto che un altro può determinare slittamenti nei risultati

elettorali. Quella del contare è un’operazione complessa, tanto più se il sistema in

vigore è di tipo proporzionale. Con il maggioritario le cose sono semplici: una volta

sommati i voti ottenuti da ciascun candidato, vince in ciascun collegio colui che ne

ha ottenuti più d’ogni altro o, in caso di maggioritario assoluto, chi ha riportato il

50% delle preferenze più un voto.

In Germania il conteggio dei secondi voti, quelli che determinano l’assegnazione

dei seggi in Parlamento, è stato effettuato per quasi 40 anni, dal 1949 al 1985, con il

procedimento d’Hondt che, come è noto, privilegia i partiti più forti. Ma nel 1985 è

Page 103: Sistemi elettorali a confronto

stato abbandonato a favore del sistema Niemeyer, un metodo di calcolo che, al

contrario, avvantaggia i partiti numericamente minori. I seggi da assegnare su tutto il

territorio nazionale vengono moltiplicati rispettivamente per il numero dei secondi

voti ottenuti da ciascun partito e poi divisi per la somma di tutti i secondi voti

ottenuti dai partiti in lizza per l’assegnazione dei mandati. Ogni forza politica otterrà

tanti seggi quanti ne risultano dal quoziente ottenuto. I seggi avanzati vengono

ridistribuiti tra i vari partiti in base ai resti decimali di ciascuno. Sarà poi compito di

ogni forza politica procedere alla suddivisione, sempre con lo stesso metodo, su base

regionale dei mandati ottenuti a livello federale. A dimostrazione della differenza tra

i due procedimenti, un esempio applicato teoricamente ai risultati delle elezioni

votazione del 1983 dai quali si vede il limitato vantaggio che con il nuovo metodo

ricavano i partiti più piccoli:

Metodo Totale seggi Cud/Csu Spd Fdp Verdi

D’Hondt 496 244 191 34 27

Niemeyer 496 243 190 35 28

4. Le elezioni politiche dal 1949 a oggi

Dal 1949 nella Repubblica federale tedesca si è votato 16 volte per il rinnovo del

Bundestag. Soltanto in tre casi, nel 1972, nel 1983 e nel 2005, c’è stato uno

scioglimento anticipato del Parlamento, mentre a dicembre del 1990 le elezioni

furono indette prima della naturale scadenza del mandato parlamentare in seguito alla

riunificazione delle due Germanie. Da soli questi dati testimoniano la stabilità della

politica tedesca agevolata dal sistema elettorale.

Questi sono i risultati delle ultime elezioni politiche del 2005 caratterizzate dal

fatto che, contrariamente alle previsioni, la coalizione di centrodestra tradizionale

(CDU/CSU + FDP) non ha conquistato quella maggioranza assoluta che sembrava a

portata di mano. Così, dopo una lunga trattativa, i due partiti maggiori hanno dato

vita al governo di Grande Coalizione, presieduto da Angela Merkel.

Elezioni politiche del 2005 - Bundestag

Partito % “primo

voto” (al

candidato)

% “secondo

voto” (al

partito)

Seggi

ottenuti

Seggi teorici in

base a una

ripartizione

proporzionale

Differenza

(circa)

SPD 38,4 34,2 222 211 + 11

CDU 32,6 27,8 180 170 + 10

CSU 8,3 7,4 46 45 + 1

FDP 4,7 9,8 61 60 + 1

Verdi 5,4 8,1 51 50 + 1

Linke 7,9 8,7 54 53 + 1

Altri 2,7 3,9 - 24 - 24

Totale 614 612 50:2=25

Indice di distorsione: 25 x 100 : 614 = 4,07

Page 104: Sistemi elettorali a confronto

Queste ultime elezioni ha fatto parlare di crisi del bipartitismo, che il sistema

elettorale non avrebbe saputo proteggere. Lo si ricava dalla seguente tabella che

presenta la serie storica dei risultati dei due maggiori, la CDU/CSU e la SPD:

Anno Cdu/Csu Spd Cdu/Csu +

Sdp

Fdp Verdi Estrema

sinistra

1949 31,0 29,2 60,2 11,9 5,7

1953 45,2 30,8 76,0 9,5 2,2

1957 50,2 31,8 82,0 7,7

1961 45,4 36,2 81,6 12,8

1965 47,6 39,3 86,9 9,5

1969 46,1 42,7 88,8 5,8

1972 44,9 45,8 90,7 8,4

1976 48,6 42,6 91,2 7,9

1980 44,5 42,9 87,4 10,6 1,5

1983 48,8 38,2 87,0 7,0 5,6

1987 44,3 37,0 81,3 9,1 8,3

1990 43,8 33,5 77,3 11,0 3,9 2,4

1994 41,4 36,4 81,4 6,9 7,3

1998 35,2 40,9 76,1 6,2 5,1

2002 38,5 38,5 77,0 7,4 8,6 4,3

2005 35,2 34,2 69,4 9,8 8,1 8,7

Come si vede, a metà degli anni ’70 (elezioni del 1972 e del 1976), le due maggiori

formazioni raccoglievano oltre il 90% dei voti; poi è iniziato un lento declino e nelle

ultime elezioni del 2005 sono scese al di sotto del 70% mentre tre altri partiti si sono

consolidati in una fascia che va dall’8% a quasi il 10%, complessivamente il 26,6%,

ovvero più di un quarto dell’elettorato. Il residuo 4% va a formazioni minori, tra cui

alcune di estrema destra.

A risultare più intaccata da questo fenomeno è l’area di sinistra: la SPD è stata

spostata verso il centro dalle due formazioni dei Verdi e della nuova formazione

Linke, dove sono confluiti i socialdemocratici dell’Est (ex comunisti della PDS) e

un’ala dissidente di sinistra della SPD.

L’area del centrodestra è rimasta articolata su tre formazioni (CDU, CSU e FDP),

che dopo il picco del 1961, quando raccolse il 68% dei voti, dopo la riunificazione è

rimasta stabilmente al di sotto della soglia del 50%.

Se poi si confronta il “primo voto” (maggioritario per i singoli candidati) con il

“secondo voto” (dato alla lista predisposta dal partito), si nota anche come si stia

riducendo il consenso al partito in quanto tale per quanto riguarda i partiti

tradizionali di massa (CDU, CSU, SPD) mentre si rafforza per i partiti minori. I

primi appaiono molto dipendenti dal prestigio del loro leader; i secondi, invece, si

consolidano grazie al profilo contenutistico. Per cui si può dire che il fattore

ideologico si stia spostando dai partiti di massa ai partiti di nicchia. Sembra evidente

che questo cambiamento rifletta quello dell’elettorato, che da un lato subisce l’effetto

della “fine delle ideologie” politiche tradizionali e dall’altro lato si spezzetta in

nicchie elettorali con ideologie alternative con valenza identitaria (liberismo forte,

Page 105: Sistemi elettorali a confronto

ecologismo, alternativa radicale al capitalismo). E già si vedono i primi sintomi di

partiti a base etnico-religiosa.

Senza dubbio il sistema elettorale frena la trasposizione di questi cambiamenti sul

piano della rappresentanza nel Bundestag, ma non li impedisce. A conferma del fatto

che sono i movimenti politici di base che alla fine determinano la funzionalità delle

istituzioni.

Page 106: Sistemi elettorali a confronto

Capitolo 8

Il sistema elettorale degli Stati Uniti

1. Il sistema presidenziale

Il sistema politico degli Stati Uniti è profondamente diverso da quelli esaminati nei

capitoli precedenti, ma più per quanto riguarda la forma di governo, essendo esso di

tipo presidenziale e non parlamentare, che non per quanto riguarda il sistema

elettorale, che è maggioritario come nel Regno Unito.

La democrazia presidenziale americana si fonda sul principio della separazione dei

poteri il base al quale il Parlamento (denominato Congresso, formato dalla Camera

dei Rappresentanti – e dal Senato) non può sfiduciare il Presidente, cioè il Governo o

potere Esecutivo; parallelamente, il Presidente non può sciogliere il Parlamento. Non

esiste, in altre parole, un rapporto di fiducia tra queste due istituzioni che traggono la

propria legittimità in modo indipendente dal voto popolare. Il potere Esecutivo,

inoltre, è monocratico (o monocefalo, a differenza dal sistema francese della V

Repubblica che ha un esecutivo bicefalo, formato dal Presidente della Repubblica e

dal Primo ministro), che nel prototipo americano riveste anche le funzioni di Capo

dello Stato. Altra caratteristica del sistema politico americano è la durata fissa delle

cariche: quattro anni per il Presidente (rieleggibile una sola volta), due anni per i

deputati, cioè i membri della Camera dei Rappresentanti, e sei anni per i senatori.

Il modello americano attuale è il risultato della prassi e dell’interpretazione che nel

corso di oltre due secoli sono state costruite sull’assetto dei poteri delineato nella

prima Costituzione scritta dai Padri fondatori nel 1787. In essa trovò posto per la

prima volta un complesso di reciproci controlli fra Esecutivo presidenziale e

Congresso che escludeva qualsiasi rapporto fiduciario (il “voto di fiducia” tipico del

modello parlamentare). Di qui l’esistenza di due poteri, esecutivo e legislativo, che

coesistono senza poter liberarsi l’uno dell’altro, eccetto il caso dell’impeachement

mediante il quale il Presidente viene messo sotto accusa ed eventualmente rimosso.

La Costituzione del 1787 fu scritta dai coloni inglesi, prendendo spunto dal

modello politico della madrepatria, in un momento in cui esso andava modificandosi

Page 107: Sistemi elettorali a confronto

radicalmente verso il sistema parlamentare. I coloni cristallizzarono quanto avevano

importato dalla terra d’origine, con opportune e peculiari modifiche che fecero della

democrazia americana una forma di governo originale, considerata oggi come la più

liberale del mondo occidentale. Al Presidente e al Congresso i coloni affiancarono la

Corte suprema, per tutelare i diritti dei singoli Stati e, infine, sancirono che la

Costituzione potesse essere modificata solo mediante uno speciale procedimento tale

da coinvolgere i singoli Stati in quanto richiedeva il consenso di tre quarti di essi. I

meccanismi democratici americani sono rimasti pressoché immutati, nonostante i

numerosi emendamenti aggiuntivi o esplicativi (come ad esempio quello che ha

limitato al massimo a due i mandati presidenziali consecutivi).

Quello statunitense è un sistema politico essenzialmente bipartitico, imperniato,

cioè, su due partiti concorrenti alla maggioranza assoluta dei seggi nelle assemblee

elettive, che consente al vincente di legiferare da solo e al perdente di nutrire la

realistica aspettativa di poter vincere nella successiva competizione elettorale. I due

partiti dominanti sono il Partito democratico (DP, Democratic Party) e il Partito

repubblicano, (GOP, Grand Old Party). Insieme, a ogni elezione, ottengono di solito

più del 95% dei voti espressi dagli elettori per designare i loro rappresentanti alle

varie cariche elettive. Le sporadiche apparizioni di un terzo partito sono state

incapaci di consolidarsi, ma hanno talvolta influito sull’esito del confronto tra i due

maggiori. In ogni caso l’affermazione di partiti terzi sono rese difficili dai

regolamenti elettorali dei diversi Stati che hanno creato notevoli ostacoli procedurali

a partiti o a candidati terzi, scoraggiandoli dal partecipare alla competizione. In anni

recenti, alle presidenziali del 1992, il miliardario texano Ross Perot ottenne il 19%

del voto popolare e la sua partecipazione alla corsa per la Casa Bianca ebbe l’effetto

di togliere voti principalmente al candidato repubblicano George H.W. Bush,

favorendo la vittoria del candidato democratico Bill Clinton. Nelle successive

presidenziali del 1996, Perot dimezzò i propri consensi ma i voti che sottrasse al

candidato repubblicano facilitarono comunque la rielezione di Clinton. Nelle

presidenziali del 2000 e 2004, invece, i candidati terzi hanno raccolto rispettivamente

il 4 e l’1% dei voti, ma nella prima questa partecipazione ha favorito la prima vittoria

di George W. Bush.

Per l’elezione di deputati e senatori, il sistema elettorale statunitense è il

maggioritario uninominale a turno unico. Il numero dei deputati eletti alla Camera

dei Rappresentanti è proporzionale alla popolazione residente in ciascuno dei 50 Stati

federati, mentre quello dei senatori è fissato in 2 senatori per ciascun Stato, a

prescindere dall’estensione e della popolazione. Il Presidente viene eletto ogni

quattro anni da un Collegio nazionale di delegati, a loro volta eletti nei singoli Stati

per liste contrapposte e con votazioni maggioritarie a turno unico. La consultazione

elettorale, nel sistema americano, viene adottata anche in due altri importanti ambiti

della vita pubblica: la selezione dei candidati dei partiti nel corso delle elezioni

primarie, dei magistrati (procuratori distrettuali) e dei funzionari di polizia (sceriffi

di contea).

La competizione tra Partito democratico e Partito repubblicano viene definita

unidimensionale (a causa della convergenza sugli stessi pochi temi) e centripeta (cioè

Page 108: Sistemi elettorali a confronto

mirante a conquistare le fasce centrali incerte dell’elettorato). Per questo motivo il

confronto interpartitico tende a concentrarsi, durante la campagna elettorale, sui

valori espressi dalla cultura politica dominante, mantenendo il consenso intorno al

regime democratico e depotenziando il più possibile i conflitti presenti nella

complessa società statunitense. La tendenza centripeta insita nel meccanismo

bipartitico ha il merito di conservare il consenso al sistema politico ma presenta la

controindicazione dell’alta percentuale di non votanti. Circa il 40% dei potenziali

elettori non partecipano al processo elettorale.

Il carattere unidimensionale e centripeto della competizione tra i due partiti

mantiene molto basso il profilo ideologico di entrambi. A ciò contribuisce anche la

loro struttura organizzativa essendo anzitutto il risultato di coalizioni eterogenee di

gruppi diversi a base locale (statale), portatori di domande politiche anche in

contrasto tra di loro. La completa autonomia dell’Esecutivo dal Congresso evita al

Presidente e alle segreterie dei partiti di stabilire controlli sul comportamento politico

dei gruppi parlamentari. Da ciò traggono vantaggio i cosiddetti partiti parlamentari,

ossia le maggioranze che si formano in seno alla Camera e/o al Senato su vari temi,

spesso anche per affermare la loro autonomia nei confronti del Presidente.

2. L’elezione del Presidente

Perno del sistema politico è, di fatto, l’elezione del Presidente. Il lungo cammino

verso la Casa Bianca si snoda lungo tutti e 50 gli Stati dell’Unione (più il Distretto di

Columbia e i territori americani a statuto speciale) che, attraverso il meccanismo

delle consultazioni primarie e poi nell’elezione vera e propria, sono chiamati ad

esprimersi due volte sull’uomo da candidare alla presidenza degli Stati Uniti.

Il meccanismo elettorale statunitense è complesso. La prima fase ufficiale è la

tornata delle cosiddette elezioni primarie che si svolgono da gennaio a marzo. Il

sistema delle primarie consente ai partiti di scegliere i delegati che, inviati da ogni

Stato alle Convention nazionali, tenute ogni 4 anni tra luglio e i primi di settembre,

eleggeranno i loro candidati alla presidenza e alla vice presidenza americana. Per

aggiudicarsi la nomination ogni candidato deve convincere i delegati del singolo

Stato a votarlo. I delegati sono assegnati ad ogni Stato dell’Unione in base al numero

degli abitanti: più numerosa è la popolazione di uno Stato, maggiore è il numero dei

delegati assegnati. Per ottenere il favore dei delegati durante le primarie, ogni

candidato ne sponsorizza un gruppo che, in cambio, si impegna a sostenere la sua

elezione alla Convention del partito. I cittadini, chiamati ad esprimere il proprio

parere nelle primarie, accordano la propria preferenza al candidato prescelto,

ufficializzando, in base alle percentuali conquistate, l’elezione del gruppo di delegati

che hanno deciso di appoggiarlo. A questo voti popolari si aggiungono quelli dei

cosiddetti “superdelegati”, espressi in ogni Stato dai membri del Congresso e dalle

strutture dei partiti.

Le percentuali di voto accordate al singolo candidato servono a stabilire quanti

delegati ciascuno di loro potrà vantare alla Convention del partito di appartenenza

Page 109: Sistemi elettorali a confronto

(democratico, repubblicano) durante la quale verrà scelto ufficialmente l’aspirante

alla carica di presidente degli Stati Uniti. Nel corso delle Convention i delegati

scelgono il cosiddetto ticket presidenziale, cioè una proposta complessiva incentrata

sul candidato alla presidenza, su un candidato alla vicepresidenza proposto dal primo

e una piattaforma programmatica, sapientemente costruita nel corso della pre-

campagna elettorale in funzione degli interessi emergenti sui vari temi. A questo

proposito è interessante evidenziare che, all’inizio del lungo percorso verso la Casa

Bianca, i singoli candidati non hanno ancora un programma preciso, se non per

grandi linee. Il programma ufficiale, che poi viene fatto proprio dal ticket alle

Convention, viene strutturato in itinere, secondo le diverse istanze che emergono

dall’elettorato. Si tratta di un meccanismo abbastanza estraneo all’ambito europeo

ma che consente, anche per la costante presenza e influenza dei media, un continuo

contatto tra i leader politici e l’opinione pubblica.

È dopo lo svolgimento delle Convention estive che si avvia la seconda fase, cioè la

campagna elettorale vera e propria nella quale i due ticket (propriamente: “pacchetti

elettorali”) contrapposti si fronteggiano. Questa fase culmina in novembre quando i

cittadini si pronunciano di nuovo, Stato per Stato, in ossequio alla natura federale

degli Stati Uniti, eleggendo 538 grandi elettori (il loro numero è pari alla somma dei

membri della Camera dei rappresentanti e del Senato) che materialmente eleggono il

nuovo presidente. Poiché i grandi elettori sono formalmente vincolati a sostenere il

candidato al quale sono abbinati per mandato popolare, si tratta di un’elezione

popolare sostanzialmente diretta ma differita quanto alla sua formalizzazione. Il

meccanismo è lo stesso delle elezioni primarie. Di solito il cittadino che vota ignora i

nomi dei grandi elettori, ma trova invece sulla sua scheda elettorale i nomi dei

candidati alla presidenza e alla vicepresidenza. I grandi elettori assegnati a ciascuno

Stato non sono ripartiti fra i candidati alla presidenza con criterio proporzionale, ma

con criterio maggioritario: i loro voti vanno tutti al candidato-presidente che prende

più voti nello Stato. Ciò comporta la possibilità, seppure rarissima, che risulti eletto

un presidente che abbia ricevuto meno voti popolari del suo rivale. La logia è che in

questo modo viene salvaguardato il principio federale che è un forte antidoto

all’espansione della natura ideologica del conflitto politico che emergerebbe se

questo assumesse una dimensione nazionale unitaria. Il voto avviene il primo martedì

dopo il primo lunedì di novembre. Quest’anno sarà il 4 novembre 2008.

3. Le elezioni primarie

I partiti politici americani non hanno un’attività continua paragonabile a quella dei

loro omologhi europei, dipendente dal rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo.

I cittadini americani si iscrivono al partito Democratico o a quello Repubblicano in

occasione delle primarie, le quali rappresentano un momento alto di partecipazione

politica. Benché sia ammessa la possibilità di aspiranti indipendenti alla presidenza,

non è mai accaduto che un’elezione americana sia stata vinta da un candidato

outsider, cioè fuori dai due grandi schieramenti, democratico e repubblicano.

Page 110: Sistemi elettorali a confronto

Le primarie, che si svolgono nei singoli Stati con modalità diverse, possono essere

chiuse (closed primaries) o aperte (open primaries). Alle primarie chiuse, che sono la

maggioranza, possono votare solo coloro che si sono iscritti a un partito politico.

L’iscrizione in questo caso è obbligatoria. Alle primarie aperte, invece, possono

esprimere la loro preferenza per un candidato sia gli iscritti al partito, sia gli iscritti

ad altre formazioni politiche come pure gli indipendenti.

In alcuni Stati le primarie sono sostituite dai cosiddetti Caucus. Il termine è

originario delle tribù indiane e significa “consiglio della comunità”. Si tratta di

assemblee locali che si svolgono in scuole, teatri, perfino in case private. Solo gli

iscritti a un partito hanno diritto di partecipare. Nel corso della riunione, gli

intervenuti discutono sulla linea politica del partito e alla fine votano per il candidato

più gradito. La votazione avviene talvolta in maniera inconsueta. A volte facendo un

passo avanti nella sala della votazione al nome del candidato favorito, a volte

semplicemente esprimendo verbalmente la preferenza. È il peso della tradizione.

Le primarie e i caucus si tengono spesso di martedì. Quando per un’unica data si

svolgono più elezioni, si ha ciò che gli americani chiamano Super Tuesday, o super

martedì elettorale. È importante per i candidati ottenere buoni risultati nei super

martedì, non solo per aggiudicarsi un alto numero di delegati, ma anche per creare

quello che si chiama il momentum favorevole, un buon trend nell’opinione pubblica,

da sfruttare negli appuntamenti elettorali successivi. Oggi si tende a concentrare al

massimo questi appuntamenti, anche per ottenere la maggiore risonanza mediatica

possibile. E per fare confluire fondi ai candidati.

Sotto questi aspetti, i partiti americani sono leggeri e articolati su base locale; solo

in occasione delle elezioni presidenziali assumono una provvisoria struttura

nazionale. Visti dall’Europa, i partiti americani sono pragmatici o scarsamente

ideologici; ma questo è vero fino ad un certo punto.

La ragione fondamentale per cui i partiti americani non si sono strutturati

centralisticamente secondo il modello europeo dipende dalla natura veramente

federale degli Stati Uniti e, forse ancora di più, da una effettiva (anche se non totale)

separazione dei poteri. Grazie a questi due elementi, nessun partito può sperare di

impadronirsi di tutto il potere. Da qui nasce però la prassi dello spoil system, in base

al quale ogni nuova Amministrazione nomina circa 4mila funzionari di sua fiducia.

4. La distribuzione dei poteri

Il Presidente resta in carica quattro anni e, come avveniva per i sovrani costituzionali

ottocenteschi dell’Europa, tutto il potere esecutivo è nelle sue mani. Inoltre egli guida

la politica estera del paese e comanda le forze armate, nomina i pubblici funzionari,

compresi i magistrati federali e i giudici della Corte suprema. Quest’ultima è il

vertice della funzione giurisdizionale e organo che decide i conflitti fra singoli Stati,

fra gli Stati e la Federazione, nonché la conformità alla Costituzione delle leggi

statali e federali. E’ composta da 7 giudici nominati a vita.

Page 111: Sistemi elettorali a confronto

Il presidente pronunzia ogni anno, a gennaio, davanti al Congresso, il Discorso

sullo stato dell’Unione. La consuetudine di questo discorso è una riproduzione

dell’annuale Discorso della Corona che il sovrano britannico pronunzia all’inizio

della sessione della Camera dei Comuni.

Il Congresso, come si è detto, non può sfiduciare il Presidente, e quindi il governo

composto da ministri e sottosegretari di nomina presidenziale, ma può metterlo in

stato d’accusa (impeachement) su proposta della Camera dei Rappresentanti e su

decisione del Senato, a maggioranza di due terzi, nel caso in cui egli abbia compiuto

veri e propri reati. La messa in stato d’accusa comporta la perdita dell’ufficio

presidenziale e non esonera dall’affrontare le proprie responsabilità in sede

giudiziaria ordinaria. Il procedimento è stato avviato in diverse occasioni ma non si è

mai concluso con la condanna del presidente. Il presidente Andrew Johnson, nel

1868, si salvò dalla condanna per due soli voti e, in tempi più recenti, Richard Nixon,

travolto dallo scandalo Watergate, si dimise evitando che scattasse contro di lui il

meccanismo dell’impeachement. Bill Clinton, sottoposto a giudizio in Senato, fu

assolto nel 1999. L’istituto dell’impeachement non si è mai trasformato da istituto di

responsabilità penale in strumento di accusa politica, e questo ha consentito di

mantenere il principio della separazione dei poteri tra Congresso e Presidente.

Per esercitare i suoi poteri di nomina, il Presidente ha tuttavia bisogno del parere

favorevole del Senato, la parte del Congresso che rappresenta i singoli Stati che,

essendo di investitura popolare, si divide anch’essa in due gruppi politici:

Democratici e Repubblicani. Dell’approvazione del Senato il Presidente ha bisogno

anche per ratificare i trattati internazionali. Poiché ogni due anni la Camera dei

Rappresentanti è interamente rinnovata e il Senato lo è per un terzo, gli equilibri

politici del Congresso sono soggetti a cambiamento nel corso di uno stesso mandato

presidenziale quadriennale.

Le due elezioni, presidenziali e congressuali, pur avvenendo nello stesso momento,

sono assolutamente separate. Ciò può dare luogo a quella situazione politica che gli

americani chiamano del governo diviso. Può cioè accadere infatti che mentre il

Presidente eletto appartiene al Partito democratico, i Repubblicani controllino una o

entrambe le Camere del Congresso, o viceversa. La situazione, come è stato già

spiegato, non crea generalmente una impasse politica grave e, dal secondo

dopoguerra, è diventata molto frequente. Il governo diviso ha caratterizzato entrambi

i mandati del presidente Bill Clinton (1993-1996, 1997-2000) e attualmente quello di

George W. Bush dopo le elezioni del novembre 2006. I politologi americani non

attribuiscono il verificarsi del governo diviso al caso, ma a una precisa tendenza

dell’elettorato a bilanciare il potere presidenziale con una maggioranza congressuale

di segno politico diverso. Tale tendenza testimonierebbe una particolare propensione

dell’elettorato all’equilibrio e un costante rifiuto di scivolare in un confronto di tipo

ideologico anche se le due ultime elezioni presidenziali, con la vittoria di George W.

Bush (nel 2000 e nel 2004), hanno mostrato, almeno fino alle elezioni solo

congressuali del 2006, una propensione nell’elettorato a stabilire una maggiore

coerenza tra Presidenza e Congresso, ciò che darebbe al voto americano una

coloritura ideologica maggiore che in passato.

Page 112: Sistemi elettorali a confronto

Il Presidente, capo dell’Esecutivo, non può proporre direttamente al Congresso

disegni di legge, nel rispetto del principio di separazione dei poteri, ma può avanzare

proposte in maniera indiretta, attraverso i membri del Congresso del suo partito.

Ferma restando la non ingerenza tra i poteri, il Presidente può a sua volta opporre il

veto su un disegno di legge approvato dal Congresso, rifiutandosi di firmarlo e

rimandandolo al Congresso per una rilettura ed eventuale correzione. Solo se il

Congresso approva di nuovo la legge con una maggioranza di due terzi, il Presidente

è costretto a ratificarla.

Il sistema democratico negli Stati Uniti si basa dunque sulla tensione esistente tra i

due poteri, l’esecutivo (il Presidente) e il legislativo (il Congresso). La relazione tra i

due poteri non si è mai del tutto stabilizzata e si assiste al ciclico prevalere ora

dell’uno ora dell’altro. Per buona parte del ‘900, fino all’inizio degli anni ’70, si è

assistito a una progressiva preminenza del Presidente sul Congresso per poi declinare

a vantaggio di un recupero del secondo, e poi di nuovo una ripresa del ruolo della

Casa Bianca. Il riequilibrio è avvenuto nel contesto di una crescente conflittualità tra

i due poteri, alimentata dal fatto che negli ultimi decenni la maggioranza

congressuale è stata spesso diversa da quella del partito del Presidente.

Si nota comunque che, negli ultimi anni, il Congresso si è trasformato in un

organismo più dinamico e più sensibile alle sollecitazioni provenienti dai vari

elettorati e dai gruppi di pressione che sostengono i parlamentari, o lobby. A tale

cambiamento ha contribuito l’abolizione della anzianità di mandato (seniority), che

fino agli anni Settanta era il criterio di base per l’accesso alla presidenza delle più

importanti Commissioni congressuali. Dopo l’abolizione della seniority, l’accesso al

circuito delle commissioni si è notevolmente allargato offrendo a un maggior numero

di parlamentari la possibilità di dialogare con l’elettorato. Ma la maggiore libertà di

iniziativa di cui godono deputati e senatori nel rispondere alle domande della base

elettorale ha anche reso il Congresso meno capace di esprimere una progettualità

coerente e unitaria, che si è concentrata nella Casa Bianca.

Occorre comunque ribadire il carattere maggioritario della democrazia statunitense

poiché i poteri del Presidente rimangono comunque estesi, centralizzati e

condizionanti. Non essendo previsto il meccanismo della sfiducia che caratterizza le

democrazie parlamentari europee, il Governo è protetto dall’eccessiva volubilità del

Congresso. Tra le conseguenze degli attentati terroristici dell’11 settembre, la lotta

preventiva contro il terrorismo ha favorito la messa a punto di leggi sempre più a

carattere nazionale e sotto l’impulso dell’iniziativa presidenziale. Finché durerà

questa emergenza, la tendenza proseguirà; ma è probabile che, passata questa, il

sistema americano cercherà un nuovo equilibrio.

5. Le e-lection al tempo di Internet

Nella campagna presidenziale del 1992 la Rete serviva ancora ai candidati

semplicemente per consultare la loro posta elettronica e comunicare direttamente con

gli elettori. Uno strumento sperimentale, di avanguardia e poco usato. Già nel 1996,

Page 113: Sistemi elettorali a confronto

tuttavia, i candidati alla presidenza e molti candidati al Congresso lanciarono la

propria pagina Web, corredata di foto, link ai siti elettorali e, per la prima volta, la

possibilità di finanziare il proprio candidato per via telematica. La campagna

presidenziale del 2000 è svolta in buona parte in Rete. Più di un terzo degli elettori

hanno usato Internet per conoscere i programmi dei candidati e i risultati delle

primarie nei singoli Stati. Ricerche condotte in occasione di quella competizione

hanno rivelato che chi usa Internet è interessato a ottenere il massimo di informazioni

sui candidati. Circa un quarto dei navigatori chiede che le informazioni elettorali

diffuse in rete siano accurate e complete. Inoltre, la possibilità, praticamente garantita

a tutti, di creare un sito Web, offre agli utenti il modo di avere informazioni politiche

da fonti non dichiaratamente di parte, accrescendo la loro fiducia di potere esprimere

un voto utile e giusto. La tendenza continuata a crescere negli anni successivi.

Per questi motivi il Web è diventato per gli aspiranti alla presidenza ciò che fu la

televisione per John Fitzgerald Kennedy nel 1960: una carta che, sfruttata in maniera

intelligente, tende ad esercitare un peso rilevante. Il bilancio elettorale prevede voci

specifiche dedicate al mantenimento e all’aggiornamento dei siti elettorali, curato da

staff il cui lavoro è più frenetico di quelli che seguono i candidati nei tour attraverso

il paese.

La campagna elettorale per le presidenziali del 2008 è stata già ribattezza e-lection

per sottolineare il ruolo fondamentale conquistato dal Web. I candidati 2008 hanno

capito che la via per la Casa Bianca passa dal Web. È stato via web che la Clinton,

Giuliani, Obama e Huckabee hanno annunciato la loro decisione di correre per la

presidenza. E sempre via web che, principalmente, raccolgono fondi, la cui gran

parte è proprio destinati alla comunicazione via web, l’unico dei media che sia

interattivo. Barack Obama, ad esempio, ha inviato, via internet, a milioni di

potenziali elettori, sms personalizzati e filmati che possono essere a loro volta girati

ad altri. A loro volta, simpatizzanti o avversari mettono in rete i propri contributi, che

confluiscono in “You Tube Debate”, sito organizzato per prima dalla CNN, e

diventato vero simbolo della campagna presidenziale 2008. Gli elettori hanno inviato

all'emittente le loro video-domande, la tv si è limitata a selezionarle per poi mandarle

in onda a sua volta, alla presenza dei candidati. I quali si sono trovati così non solo

davanti ai riflettori televisivi di una diretta nazionale, ma anche davanti alla

perentorietà di domande poste in termini espliciti, senza mediazioni di sorta.

Naturalmente, via web i candidati si lanciano reciproche accuse, spesso organizzate

in siti concepiti appositamente per gettare fango sul nemico. Non è un declino del

ruolo della tv, ma di sicuro la condiziona. Per cui Internet appare come il vero valore

aggiunto di questa campagna: e anche in questo settore gli Usa aprono la strada. Un

sondaggio di “Pew Internet & American Life Project” ha rilevato che nelle elezioni

di mid-term del novembre 2006 sono stati 60 milioni gli elettori che si sono informati

e scambiati opinioni online. E circa 60 milioni o poco più di voti sono necessari per

conquistare la Casa Bianca.

La campagna elettorale in Rete offre alcuni importanti vantaggi ai candidati.

Innanzitutto la pubblicità. Negli Stati Uniti la diffusione di Internet è altissima. Ogni

dichiarazione dei candidati, ogni atto pubblico finisce immediatamente in Rete e

Page 114: Sistemi elettorali a confronto

automaticamente sottoposto alla verifica di gran parte dell’elettorato. Secondo i

politologi statunitensi, questa nuova opportunità offerta agli elettori ha notevolmente

contribuito a calibrare atteggiamenti e programmi dei candidati nella fase delle

consultazioni primarie. Internet ha decisamente amplificato il processo, tutto

americano, di formazione in itinere del programma politico di un candidato, ossia nel

corso delle prove elettorali, allargando notevolmente la base di confronto dei

politici..

Un altro vantaggio elettorale della Rete è la cosiddetta disintermediazione. Ciascun

candidato può scavalcare il presentatore televisivo o l’apparizione scomoda in una

trasmissione politicamente sfavorevole, scegliendo di affidare le proprie

dichiarazioni direttamente a Internet, sicuro che queste avranno la stessa diffusione e

potranno essere recuperate più volte e in qualsiasi momento.

In conclusione, benché molto lontano dall’esperienza europea, tanto che il

riferimento all’effetto distorsivo del sistema elettorale americano è puramente

indicativo a causa della complessità del meccanismo stesso, da un lato, e soprattutto

dallo stabile bipartitismo, dall’altro lato, l’illustrazione del modello statunitense resta

importante per la sua capacità di combinare stabilità, innovazione e costante

attenzione agli orientamenti dell’opinione pubblica.

Ciò che molto interessa i politologi è l’effetto sul voto, sui partiti e sulle istituzioni

delle accelerate trasformazioni antropologiche dell’elettorato americano a causa del

forte aumento della popolazione di origine ispanica, portatrice di valori diversi

rispetto a quelli tradizionali anglosassoni. Non si può sapere, al momento, se

prevarrà, come accaduto finora, una logica di integrazione con scarsi riflessi sul

sistema istituzionale, e quindi anche su quello elettorale, o se in un periodo più o

meno lungo i diversi gruppi tenderanno a differenziarsi, producendo una serie di

partiti con caratteristiche ideologiche più marcate, eventualmente a base etnica e/o

religiosa, intaccando lo storico bipartitismo.

Dopo le primarie del super martedì 5 febbraio 2008, in campo democratico la scelta

per il candidato alla presidenza del Partito democratico – che avverrà a Denver dal 25

al 28 agosto – sarà tra un afroamericano, Barack Obama, e una donna, Hillary

Clinton: una novità assoluta. Sarà importante vedere come reagirà l’intero elettorato

il 4 novembre e, nel caso di un arrivo di uno dei due alla Casa Bianca (ma potrebbero

anche formare il ticket presidenziale), se e quali saranno le conseguenze sul piano

istituzionale.

6. Le ultime elezioni

Nelle due tabelle che seguono vengono riportati i dati riassuntivi relativi alle ultime

due elezioni presidenziali, quelle del 2000 e del 2004. Da notare che, dopo le elezioni

del 1992 e del 1996, sembra rientrato il fenomeno della presenza del terzo candidato.

Riportiamo inoltre i risultati delle elezioni per la Camera dei Rappresentanti e per il

Senato del 2006.

Page 115: Sistemi elettorali a confronto

Elezioni presidenziali del 2000 Candidato Voti popolari in

assoluto

Voti popolari in % Voti elettorali Stati conquistati

George W. Bush

(Repubblicano)

50.460.110 47,9% 271 30

Albert Gore

(Democratico)

51.003.926 48,4% 266 20 (+ District)

Ralph Nader

(Indipendente)

2.883.105 2,7% 0 0

Patrick Buchanan

(Riformista)

449.225 0,4% 0 0

Altri 620.892 0,7% 0 0

Totale 105.417.258 100% 538

Elezioni presidenziali del 2004 Candidato Voti popolari in

assoluto

Voti popolari in % Voti elettorali Stati conquistati

George W. Bush (Repubblicano)

62.040.610 50,7% 286 31

John Kerry

(Democratico)

59.028.111 48,3% 2512 19 (+ District)

Ralph Nader

(Indipendente)

463.653 0,4% 0 0

Altri 760 0,6% 0 0

Totale 122.293.332 100% 538

Elezioni del 7 novembre 2006 – Camera dei Rappresentanti

Partito Seggi Voti

2004 2006 +/- % Voti In % +/-

Democratici 202 233 + 31 53,6 39.673.226 52,0 + 5,4

Repubblicani 232 202 - 30 46,4 34.748.277 45,6 - 3,6

Indipendenti 1 0 - 1 0 501.632 0,7 + 0,1

Altri 0 0 0 0 1.305.803 1,7 - 1,9

Totale 435 435 0 100 76.228.938 100 0

Indice di distorsione: 1 x 100 : 435 = 0,2

Elezioni del 7 novembre 2006 – Senato (33 seggi in palio)

Partito Tipologia Seggi in totale Voti popolari

Uscenti Eletti Non in

gara

2004 2006 +/- Voti %

Democratici 17 22 27 44 49 + 5 33.134.651 53,8

Repubblicani 15 9 40 55 49 - 6 26.127.486 42,4

Indipendenti 1 2 0 1 2 + 1 878.486 1,4

Libertari 0 0 0 0 0 0 600.991 1.0

Verdi 0 0 0 0 0 0 402.800 0,7

Altri 0 0 0 0 0 0 408.335 0,7

Totale 33 33 67 100 100 0 61.552.749 100

Da questi dati risulta che l’indice di distorsione, riferito ovviamente alla sola

Camera, nonostante il sistema maggioritario, è quasi nullo. Infatti, il Partito

democratico, in base alla percentuale di voti ottenuti, avrebbe dovuto conquistare 233

seggi: esattamente quelli vinti. Il Partito Repubblicano ha ottenuto un seggio in più

Page 116: Sistemi elettorali a confronto

rispetto a quanto gli sarebbe spettato secondo un pieno rispetto della percentuale.

Agli altri, messi insieme, sarebbe spettato un solo seggio. Perciò l’indice di

distorsione risulta essere appena lo 0,2. Un indice di distorsione così basso deriva dal

fatto che il sistema bipartitico americano è costituito da due partiti che prendono

praticamente la totalità dei voti e sono pressoché equivalenti. Ne segue che il sistema

elettorale maggioritario produce forti distorsioni quando o ci sono più partiti o c’è un

partito che prevale nettamente e schiaccia tutti gli altri.

Page 117: Sistemi elettorali a confronto

Conclusione

1. Riteniamo che l’illustrazione dei diversi sistemi elettorali, con cenni a quella dei

rispettivi sistemi istituzionali in cui si incardinano, abbia fornito numerosi elementi

per valutare in modo dinamico l’entità della loro diversa incidenza nel trasformare i

voti in seggi. Abbiamo anche sottolineato le motivazioni politiche e la dinamica

politica che ha caratterizzato l’applicazione concreta dei modelli elettorali, e

crediamo che ciò abbia permesso di individuare il peso che gli orientamenti politici,

legati a eventi di diversa natura, esercitano sui sistemi elettorali e istituzionali, da cui

sono certamente condizionati, ma che a loro volta condizionano.

Questo ci ha permesso anche di esaminare la trasformazione qualitativa del voto,

cioè la sua natura, legata agli eventi sociali, politici e ideologici che attraversano

leggi e istituzioni e premono su di entrambi.

Da un lato esiste un legame tra sistemi elettorali e natura del voto, che può essere

(anche se quasi sempre è una mescolanza):

- voto-indirizzo: intendendo con tale espressione un voto che viene dato dagli

elettori affinché la parte vincente realizzi un programma ben definito anche dal

punto di vista ideologico;

- voto-delega: intendendo con tale espressione la volontà degli elettori di affidarsi a

un partito in cui ripongono la propria fiducia;

- voto-sanzione: intendendo con tale espressione il giudizio degli elettori, positivo o

negativo, sulla forza politica (partito o coalizione) uscente.

Dall’altro lato, il cambiamento della natura del voto produce all’interno di ciascun

Paese una pressione sul sistema elettorale. Se si passa da un voto-delega a un voto-

indirizzo, emerge una spinta affinché il sistema elettorale sia congegnato in modo da

consentire questo passaggio, ad esempio dal proporzionale al maggioritario, anche

attraverso fasi intermedie.

2. In base a questi criteri riassunto alcune caratteristiche dei Paesi esaminati

attraverso i loro sistemi istituzionali ed elettorali in due tabelle, tenendo presente la

forte differenza tra il sistema istituzionale – ma non elettorale – degli Stati Uniti

(fondato sulla separazione dei poteri e quindi sull’assenza del voto di fiducia che lega

Parlamento e Governo, ciò che esclude la possibilità della durata variabile delle

legislature).

Page 118: Sistemi elettorali a confronto

La particolarità del sistema americano, insieme ad un bipartitismo su cui di solito

converge la stragrande maggioranza dei voti degli elettori, rende in questo caso assai

poco significativo il calcolo dell’indice di distorsione. A riprova del fatto che il

sistema elettorale, da solo, cioè considerato avulso dal sistema istituzionale, ha un

effetto limitato.

Nella prima delle due tabelle abbiamo sintetizzato alcuni dati sui diversi sistemi

elettorali esaminati allo scopo di mettere in evidenza sia il fattore distorsivo sia gli

eventuali cambiamenti nella natura del voto, limitatamente alle particolari

consultazioni prese in esame poiché, come ad esempio si è visto dettagliatamente nel

capitolo riguardante l’Italia, l’applicazione dello stesso sistema elettorale produce

indici di distorsione diversi a causa del comportamento delle forze politiche. Detto

indice, ricordiamo, è puramente empirico ma, applicato con lo stesso criterio ai

diversi sistemi elettorali, fornisce elementi comparativi di riflessione. Paese Sistema elettorale Effetto distorsivo Tipo di voto

Italia: 1946 Proporzionale 2,6 (B) Prevalenza di voto-delega

Italia: 1948 Proporzionale 5,4 (M) Prevalenza di voto-indirizzo

Italia: 1976 Proporzionale 4,6 (B) Prevalenza di voto-delega

Italia: 1992 Proporzionale 5,0 (B) Mix di voto-delega e voto-sanzione

Italia: 1994 Maggioritario 75%

Proporzionale 25% 14,3 (A) Prevalenza del voto emotivo con

residui di voto-delega e apparizione di

voto-indirizzo

Italia: 1996 Maggioritario 75%

Proporzionale 25% 7,7 (M) Mix di voto-sanzione e voto-indirizzo

con residui di voto-delega

Italia: 2001 Maggioritario 75%

Proporzionale 25% 15,0 (A) Prevalenza di voto-indirizzo con forte

presenza di voto-sanzione

Italia: 2006 Proporzionale con premio di

maggioranza 5,0 (B) Mix di voto-sanzione e voto-indirizzo

Regno Unito: 1997 Maggioritario a collegio

uninominale e un solo turno 18,6 (A) Prevalenza di voto-indirizzo

Regno Unito: 2005 Maggioritario a collegio

uninominale e un solo turno 17,5 (A) Mix di voto-indirizzo e di voto-

sanzione

Francia: 1997 Maggioritario uninominale a

due turni 28,5 (AA) Mix di voto-sanzione e di voto-

indirizzo

Francia: 2002 Maggioritario uninominale a

due turni 33,6 (AA) Prevalenza di voto-indirizzo sul voto-

sanzione

Francia: 2007 Maggioritario uninominale a

due turni AA Prevalenza di voto-indirizzo con

presenza di voto-delega

Spagna: 2000 Proporzionale ma con effetti

maggioritari 10,0 (M) Prevalenza di voto-delega

Spagna: 2004 Proporzionale ma con effetti

maggioritari 9,4 (M) Mix di voto emotivo e di voto-

sanzione

Germania: 1994 Proporzionale corretto 3,7 (B) Prevalenza del voto-delega

Germania: 1998 Proporzionale corretto 6,1 (M) Elementi di voto-sanzione con

elementi di voto-indirizzo

Germania: 2002 Proporzionale corretto 3,9 (B) Mix di voto emotivo e di voto-sanzione

Germania: 2005 Proporzionale corretto 4,0 (B) Prevalenza di voto-sanzione

Stati Uniti Maggioritario uninominale a un solo turno. Primarie.

0,2 (Camera 2006)

Alternanza di voto-indirizzo e voto-sanzione secondo le circostanze

Dalla tabella sopra riportata si ricava che l’indice di distorsione può essere, dal

punto di vista quantitativo, di tre tipi:

Page 119: Sistemi elettorali a confronto

- basso: inferiore al valore 5 (indicato con B);

- medio: da oltre 5 fino a 10 (indicato con M);

- alto : da oltre 10 a 20 (indicato con A);

- altissimo: oltre 20 (indicato con AA).

È facile notare che i valori bassi e medi corrispondono tendenzialmente ai sistemi

elettorali proporzionali o proporzionali corretti mentre i valori alti e altissimi

corrispondono tendenzialmente ai sistemi elettorali maggioritari.

Se si prende il caso delle tre elezioni politiche italiane svoltesi con il

“Mattarellum”, si nota subito un netto aumento dell’indice di distorsione rispetto alle

precedenti elezioni svoltesi con il sistema proporzionale. I due valori alti, nel 1994 e

nel 2001, e un valore medio, nel 1996, dimostrano che i sistemi elettorali

interagiscono strettamente con le forze politiche, il loro numero, le loro decisioni in

tema di coalizione.

Si può supporre che l’indice elevato (14,3) registrato nel 1994 fosse la conseguenza

del disorientamento delle forze politiche sconvolte da due anni di Tangentopoli. Due

anni dopo, l’indice cala (7,7) e si sposta nella categoria media perché la maggior

parte delle forze politiche ha capito come riuscire a sfruttare al meglio il nuovo

meccanismo elettorale e anche perché la fase calda di disaffezione verso i partiti

politici è passata. L’indice torna a crescere nel 2001 (15), cioè al termine di un’intera

legislatura, e la causa deve essere individuata nella decisione di numerose forze

politiche con forti caratterizzazioni ideologiche (Rifondazione comunista, Lista Di

Pietro, Democrazia europea) di presentarsi da sole, reagendo alla logica del sistema

che richiede alleanze elettorali, e rispondendo al bisogno (soggettivo) di conservare

una propria identità.

Il ritorno al proporzionale nel 2006, corretto con premio di maggioranza, produce

un immediato abbassamento del valore dell’indice di distorsione, riportandolo al

livello della Prima Repubblica, ma in condizioni strutturali diverse: praticamente tutti

i partiti hanno aderito all’uno o all’altro schieramento ed entrambi gli schieramenti

hanno ottenuto quasi gli stessi voti per cui l’effetto distorsivo calcolato sul numero

finale dei seggi è stato provocato solo dal premio di maggioranza.

Anche all’interno di un sistema elettorale stabile e collaudato, come quello tedesco,

l’indice di distorsione cambia, ma si mantiene in un campo di oscillazione ristretto. I

cambiamenti sono imputabili al mutamento della natura del voto, ma anche a un

primo manifestarsi di frammentazione partitica, che si presenta come allontanamento

dai due principali partiti. Il valore medio del 1998 (6,1) è stato determinato da un

voto-sanzione che nel caso particolare ha sanzionato negativamente la CDU, la sua

lunga gestione del potere, le difficoltà dovute alla riunificazione che il cancelliere

Kohl aveva sottovalutato o, agli occhi degli elettori, volontariamente sminuito, e

comunque ai suoi effetti sul piano economico, oltre ad alcuni specifici scandali.

La Spagna presenta valori medi, al confine con quelli alti perché il suo sistema

proporzionale è fortemente corretto al punto da trasformarsi, sia per la limitatezza e

l’alto numero dei collegi sia per il consolidarsi del bipartitismo, in un sistema quasi

maggioritario.

Page 120: Sistemi elettorali a confronto

Non sorprendono i valori alti del Regno Unito: il punto è ormai di vedere fino a

quando il sistema maggioritario potrà resistere per l’elezione della Camera dei

Comuni dal momento che è circondato dai sistemi misti nelle altre elezioni e dal

proporzionale per quelle europee.

La Francia mostra indici elevatissimi perché, come è stato spiegato nel capitolo

relativo, il sistema elettorale esercita una fortissima pressione verso la

semplificazione, ma non si deve dimenticare che l’elezione che conta in quel Paese è

quella presidenziale.

3. Limitarsi a considerare l’indice di distorsione, come si è detto più volte, non basta

perché il sistema elettorale fa parte dell’intero sistema istituzionale e della logica che

lo sostiene. In breve, le logiche possibili sono due:

- la prima tende a creare un Parlamento che rappresenti il più fedelmente possibile i

rapporti di forza tra i partiti. Il sistema elettorale più adeguato è quello

proporzionale, che può essere congegnato in modo da favorire i partiti più forti

(caso dell’Italia durante la Prima Repubblica) o quelli minori (caso tedesco dopo

il cambio del metodo di ripartizione): ma sempre entro valori limitati. Chi ne fa –

o ne potrebbe fare le spese – è la stabilità governativa, come mostra l’esperienza

della IV Repubblica francese. Il proporzionale personalizzato tedesco l’ha

garantita; il proporzionale italiano no;

- la seconda tende esplicitamente a garantire la stabilità governativa. Risultato

indubbiamente conseguito nel Regno Unito ma che non sembrerebbe conseguito

nella Francia della V Repubblica, dove però bisogna ricordare che la stabilità vera

è garantita dal Presidente della Repubblica. Notevole stabilità è registrata in

Spagna, ma si è detto che il suo sistema è proporzionale più di nome che di fatto.

4. I diversi sistemi elettorali sono stati presi in considerazione anche riguardo la

questione se favoriscono oppure ostacolano la frammentazione partitica. Su questo

punto non è possibile dare una risposta netta e definitiva. È vero che il maggioritario

mantiene un sostanziale bipartitismo nel Regno Unito, ma non impedisce che altri

partiti – quello Liberaldemcratico anzitutto – continuino ad aumentare il bottino di

voti: questo significa che la prospettiva di non trasformare i voti in seggi non

scoraggia gli elettori; anzi, sembra stimolarli. Lo stesso si può dire per la Germania,

dove l’adesione ai due maggiori partiti tradizionali è molto diminuita e, accanto ad

essi, si sono consolidati ben quattro partiti medi. Viceversa, almeno finora, è

l’attaccamento degli elettori americani al bipartitismo a sostenere la legittimità e la

validità del sistema elettorale maggioritario. La spinta alla frammentazione in Italia,

infine, come è stato sopra dimostrato, non è una prerogativa della Seconda

Repubblica e delle sue leggi elettorali del 1993 e del 2005.

5. Nella tabella che segue sono riportati i dati relativi al numero di elezioni e di

governi, a partire dalla data indicata. Per la Francia sono state indicate anche le

elezioni presidenziali: il mandato presidenziale era di 7 anni fino alle elezioni del

Page 121: Sistemi elettorali a confronto

2002 per le quali, e le successive, era stato ridotto a 5 anni. Nell’ultima colonna è

indicata la durata media delle presidenze.

Paese Numero

elezioni

Durata media

effettiva della

Legislatura

Numero governi o mandati

presidenziali

Durata media

governi

Italia

(da aprile 1948)

15 46 mesi

(su 60 previsti)

56 governi (di cui 41 a guida DC e

15 non DC) con 23 premier diversi

15 mesi

Italia (da

aprile 1948 a

marzo 1994)

11 49 mesi

(su 60 previsti)

47 governi (oltre i 9 governi del

periodo provvisorio)

11 mesi

Italia (da

marzo 1994)

5 33 mesi

(su 60 previsti)

9 governi (o 7 se si considerano

uno stesso governo il D’Alema I e

il D’Alema II, e il Berlusconi II e il

Berlusconi III)

18 mesi

(o 23 mesi)

Regno Unito

(da luglio 1945)

17 42 mesi

(su 60 previsti)

18 governi (9 a guida laburista e 9

a guida conservatrice) e 11 premier

diversi

42 mesi

Francia

IV Repubblica

3 50 mesi

(su 60 previsti)

24 governi 6 mesi

Francia

V Repubblica

13 45 mesi

(su 60 previsti)

32 governi (23 di centrodestra e 9

di centrosinistra) e 19 premier

diversi

30 mesi

Francia

V Repubblica

Presidenti

9 6 diversi presidenti (de Gaulle,

Pompidou, Giscard, Mitterrand,

Chirac, Sarkosy)

116 mesi

(escluso

Sarkosy)

Spagna

(dal 1979)

9 38 mesi

(48 previsti)

10 governi con 5 diversi Presidenti

del Governo (di cui Gonzales dal

1982 al 1996 e Aznar dal 1996 al 2004)

75 mesi

(dal 1982)

Germania

(dal 1949)

16 43 mesi

(su 48 previsti)

8 governi (5 a guida CDU, di cui 2

di Grande Coalizione, e 3 a guida

SPD) e 8 premier diversi

87 mesi

Stati Uniti

Presidenti (da

Truman 1945)

15 24 mesi per la

Camera

(su 24

previsti); 72

mesi per il

Senato;

elezioni a

scadenza fissa)

11 diversi presidenti (di cui 6

repubblicani per finora complessivi

36 anni alla Casa Bianca e 5

democratici per complessivi 28

anni alla Casa Bianca)

Coincidono con i

mandati

presidenziali

Da questa seconda tabella si ricava che, a parte la Francia per quello che riguarda le

elezioni presidenziali, la durata media della legislatura è sempre inferiore a quella

teoricamente prevista. Solo l’Italia presenta valori inferiori ai 40 mesi, ma per il

nostro Paese questa media vale solo a partire dal 1994. Anzi, dal 1948 al 1994,

l’Italia ha avuto il valore più alto. In ogni caso la durata espressa in mesi deve essere

raffrontata a quella teorica: 46 mesi su 60 non vale più di 43 su 48. È comunque

chiara la tendenza comune all’autoconservazione delle assemblee elettive. Per il

Regno Unito, i 5 anni, cioè 60 mesi, sono un limite massimo, ben diverso da un

limite fisso, che la legge prescrive per gli altri Paesi. Per quanto riguarda gli Stati

Uniti, la stabilità dipende dalla durata fissa delle scadenze elettorali mentre

l’efficacia del Governo dipende dall’omogeneità tra la maggioranza che ha eletto il

Page 122: Sistemi elettorali a confronto

Presidente e quella del Congresso. Le elezioni di medio-termine offrono

all’Esecutivo l’opportunità di adeguarsi agli orientamenti dell’opinione pubblica.

Sotto l’aspetto della stabilità governativa, l’Italia della Prima Repubblica presenta

un alto numero di crisi, ma queste sono avvenute sia all’interno del partito dominante

(DC), sia all’interno della coalizione di cui quel partito faceva parte (centrismo,

centrosinistra, pentapartito). Il valore medio è migliorato nella Seconda Repubblica.

Non c’è comunque confronto con la durata media dei governi del Regno Unito,

della Germania e della Spagna. A cui si può aggiungere la Francia se si prendono in

considerazione, come si deve se si guarda alla sostanza e non alla forma, i presidenti

della Repubblica.

6. Il punto è adesso di trovare un collegamento tra sistema elettorale, indice di

distorsione e stabilità governativa (e della legislatura). Bisogna ammettere che una

relazione univoca non c’è.

Tuttavia esiste un parallelismo tra sistema elettorale maggioritario, alto o altissimo

indice di distorsione, lunga durata della legislatura e lunga vita media dei governi

(premierato nel Regno Unito e semipresidenzialismo, nonché Stati Uniti con il loro

vero e proprio presidenzialismo).

Altro parallelismo è quello tra sistema proporzionale corretto, basso o medio indice

di distorsione, lunga durata della legislatura e lunga vita media dei governi

(Germania, Spagna).

Sperimentando sistemi elettorali diversi, oscillando fortemente quanto a indice di

distorsione, l’Italia ha mantenuto solo una discreta durata media della legislatura, ma

non quella dei governi: valore che si abbassa a causa dell’interruzione dell’ultima.

Forse da questo si ricava una conclusione semplice: che gli allineamenti si

ottengono quando c’è coerenza tra sistema istituzionale e sistema elettorale: ciò che

solo in Italia non c’è. O almeno non c’è stato finora. Per cui la ricetta è semplice:

mettere a punto un sistema istituzionale su basi diverse da quello che fu elaborato nel

1946 e 1947 dall’Assemblea Costituente e affiancare ad esso una legge elettorale che

lo rafforzi e non lo indebolisca.

7. In Italia, delle tre istituzioni fondamentali – Parlamento, governo, Presidenza della

Repubblica – solo questa ultima è stata espletata fino al termine del mandato di 7

anni con due sole eccezioni, quella di Giovanni Leone (eletto il 29 dicembre 1971 e

dimessosi il 15 giugno 1978, sei mesi prima della scadenza) e quella di Francesco

Cossiga (eletto il 3 luglio 1985 e dimessosi il 28 aprile 1992, due mesi prima della

scadenza), poiché il terzo caso, quello di Antonio Segni, non si può calcolare come

decisione politica in quanto egli si dimise nel 1964 per ragioni di salute.

Proprio la stabilità e la durata di questa carica, che comporta poteri sostanziali di

intervento politico non secondari e non occasionali, se per alcuni è assurta a fattore di

equilibrio mentre per altri ha ulteriormente squilibrato il sistema politico-

istituzionale, ha comunque manifestato, in forme e modi diversi, una tendenza

all’interventismo nella dinamica politica. Tendenza che si è estesa ai presidenti di

Page 123: Sistemi elettorali a confronto

Camera e Senato e, sotto alcuni aspetti sostanziali, anche alla Corte costituzionale e

al Consiglio Superiore della Magistratura.

Del resto, un Parlamento debole e occasionalmente delegittimato, governi in rapida

successione e dotati di scarsi poteri, un sistema dell’alternanza mal digerito, non

potevano che esaltare il potere di quegli altri organi che sono al riparo dalle elezioni,

dai voti di fiducia e dagli indici di distorsione.

Per questo è necessario affrontare in una prospettiva globale sia la riforma della

Costituzione sia la coerenza della legge elettorale con detta riforma.

8. Anche se esula dai fini di questa trattazione, si può affermare che il meccanismo

della rappresentanza politica è ormai acquisito in quasi tutto il mondo, ma il fatto che

si svolgano in quasi tutti i Paesi delle elezioni non significa che queste siano una

manifestazione di vera e propria democrazia liberale, cioè pluralistica e garantistica.

Dove la liberaldemocrazia è consolidata, sparite o fortemente attenuatesi le

contrapposizioni ideologiche, il voto-delega e il voto-indirizzo cedono il passo al

voto-sanzione (o voto-bilancio) nei confronti del soggetto politico che fino alle

elezioni ha esercitato il potere.

Il risultato paradossale è che la vittoria va a un soggetto politico in quanto il

concorrente è stato bocciato. La competizione politica, che necessariamente si

manifesta anche nella ricerca del consenso da parte dei suoi protagonisti, finisce per

apparire fine a se stessa. L’insorgenza della reazione alla “Casta” è stata forse dovuta

all’impressione che le due coalizioni onnicomprensive avevano sacrificato la

progettualità alla sola conquista del potere, che gli scandali - la cui verifica

giudiziaria è sempre troppo spostata nel tempo – tendono a tradurre in occupazione

di posizioni di rendita e di prestigio piuttosto che realmente direttive.

Poco più di dieci anni fa, il sociologo francese Pierre Bitoun, in un saggio intitolato

Voyage au pays de la démocratie moribonde (Albin Michel, Paris, 1995), si

chiedeva: “E se i nostri eletti non rappresentassero più che se stessi?”. Posto che le

elezioni non sono più tra sistemi opposti e alternativi (ideologici), e la scelta è tra un

bilancio prevalentemente positivo/negativo sul soggetto politico uscente, il concetto

originario di rappresentanza tende a sfumare. Partiti o coalizioni come contenitori,

leader carismatici, messaggi che tendono a mettere in evidenza gli aspetti negativi

dell’avversario più che i propri positivi e propositivi, cosa sempre più facile perché

nella società dell’insoddisfazione è agevole sommare, anche occasionalmente, le

ragioni dello scontento, generano un abbassamento del livello della comunicazione

politica.

I sistemi elettorali non possono sostituire la credibilità sostanziale di una classe

politica: se questa non c’è, essi attribuiscono la titolarità di un potere vuoto o

inefficiente. In Italia si è parlato, lungo tutto il 2007, di crisi della politica intesa

come crisi del sistema politico. Una legge elettorale, da sola, non basta a risolvere

questa crisi. Occorre la determinazione della classe politica, almeno di quella parte di

essa più responsabile e consapevole.

Abbiamo visto come il “Porcellum”, dopo avere manifestato i suoi effetti per essere

stato interpretato in senso proporzionale (premio alla coalizione) e quindi causa della

Page 124: Sistemi elettorali a confronto

frammentazione partitica e della formazione di “coalizioni coatte”, essendo in vista

delle prossime elezioni interpretato in senso maggioritario (premio alla lista), è

potenzialmente capace di produrre una forte semplificazione. La cosa importante è

che questa auspicata semplificazione non cada nell’autocompiacimento, ma si

traduca in una larga volontà di modificare rapidamente il sistema istituzionale.

APPENDICE

Le elezioni politiche del 2008

Il 13-14 aprile 2008, dopo alcune incertezze dell’ultimo momento causate dalla

riammissione, da parte del Consiglio di stato, di un partito, la Dc di Giuseppe Pizza,

alla fine si è votato con lo stesso sistema elettorale applicato alle elezioni del 2006, ma

con uno scenario aggregativo diverso: da una parte il Partito democratico (PD) di

Walter Veltroni, che presentava nelle proprie liste alcuni candidati del Partito radicale,

alleato con l’IDV di Antonio Di Pietro; dall’altra parte, il Partito delle libertà (PDL) di

Silvio Berlusconi, formato da ex Fi ed ex An, alleato con il Partito per le Autonomie

di Antonio Lombardo e collegato sul programma con la Lega Nord. A questi due

schieramenti, che proponevano come candidato premier, rispettivamente Veltroni e

Berlusconi, si sono aggiunti altri partiti ciascuno dei quali proponeva un proprio

candidato premier, i più importanti dei quali erano l’Unione di Centro di

Pierferdinando Casini, Sinistra-L’Arcobaleno che proponeva Fausto Bertinotti, e La

Destra di Francesco storace che proponeva Santanchè. Questi i risultati non

comprensivi del voto degli italiani all’estero:

Elezioni politiche del 13-14 aprile 2008 – Camera

Partiti Voti ottenuti Voti in

%

Media voti per

ottenere un

seggio

Seggi

ottenuti

Seggi

teorici in

base ai voti

in %

(circa)

Differenza in

numero di

seggi (circa)

PD 12.092.998 33,2 57. 211 204 + 7

IDV 1.593.675 4,4 28 27 + 1

Totale c Veltroni 13.686.673 37,5 239 230

PDL 13.628.865 37,2 272 229 + 43

Lega Nord 3.024.522 8,3 60 51 + 9

MpA 410.487 1,1 8 7 + 1

Totale x Berlusconi 17.063.874 46,8 340 288

La Sinistra L’Arcobaleno 1.124.418 3,1 19 - 19

Unione di centro 2.050.319 5,6 36 34 + 2

La Destra 885.229 2,4 15 - 15

M.E.D.A. 16.449 0,0

PLI 103.760 0,3

PS d’A 14.856 0,0

Partito socialista 355.581 1,0 6 - 6

Ass. Difesa della vita 135.578 0,4 2 - 2

Page 125: Sistemi elettorali a confronto

Sinistra critica 167.673 0,5 3 - 3

Per il bene comune 119.420 0,3 2 - 2

Il Loto 1.799 0,0

L’intesa Veneta 2.388 0,0

P. di alternativa comunista 2.049 0,0

P. comunista dei lavoratori 208.394 0,6 4 - 4

Union fur Sudtirol 12.836 0,0

Lega per l’Auton All Lomb. 14.003 0,0

Liga Veneta Repubblica 31.353 0,1

Movimento P.P.A. 945 0,0

Lista dei grilli parlanti 66.844 0,2

Un.Dem. per i consumatori 91.486 0,2

Totale 100,00 615

Indice di distorsione: 115 x 100 : 615 = 18,69

Rispetto alle elezioni del 2006, si registra un balzo dell’indice di distorsione,

passato dal 5,07 al 18,69. La cosa non meraviglia poiché ha funzionato il

meccanismo sostanzialmente maggioritario della soglia di sbarramento – 4% alla

Camera e 8% al Senato – che ha permesso solo a 6 partiti di ottenere eletti. D’altra

parte, la spinta alla semplificazione del quadro politico era diventata una necessità

ammessa da tutti. A ciò si aggiunga l’assegnazione del premio di maggioranza di cui

ha beneficiato l’alleanza che aveva presentato Silvio Berlusconi come candidato

premier.

Il voto al Senato nel 2008, diversamente da quanto era accaduto nel 2006, non si è

risolto nel cosiddetto pareggio perché la coalizione di Berlusconi ha conquistato il

premio di maggioranza in diverse regioni che ha strappato alla sinistra, e quindi ha

potuto ottenere un buon margine in termini di seggi. In dettaglio, e sempre

escludendo i senatori eletti all’estero:

Elezioni politiche del 13-14 aprile 2008 – Senato

Partiti Voti ottenuti Voti in

%

Media voti per

ottenere un

seggio

Seggi

ottenuti

Seggi

teorici in

base ai voti

in %

(circa)

Differenza in

numero di

seggi (circa)

PD 116

IDV 14

Totale c Veltroni 130

PDL 144

Lega Nord 25

MpA 2

Totale x Berlusconi 171

UDC 3

SVP 2

SVP Per le autonomie 2

Vallée d’Aoste 1

Totale 309

Se si considerano anche i seggi ottenuti nella Circoscrizione Estero, si hanno i

seguenti risultati: Partito Seggi Seggi

Page 126: Sistemi elettorali a confronto

Camera Senato

PD 217 118

IDV 29 14

Totale c Veltroni 246 132

PDL 276 147

Lega Nord 60 25

MpA 8 2

Totale x Berlusconi 344 174

UDC 36 3

SVP 2 2

SVP insieme per le auton. 2

Auton. Lib. democratiche 1

Vallée d’Aoste 1

Mov. Ass. It. All’estero 1 1

Totale 630 315

La maggioranza alla Camera è di 316 seggi e al Senato di 158, ma al Senato ci sono

anche 6 senatori a vita che hanno pieno titolo a partecipare alle votazioni.

Liste : Estero Partiti Voti % Seggi

PARTITO DEMOCRATICO 331567 32,728 6

IL POPOLO DELLA LIBERTA' 314357 31,029 4

MOV.ASSOCIATIVO ITALIANI ALL'ESTERO 83585 8,250 1

UDC 81450 8,039

ASS.ITAL.SUD AMERICA 61610 6,081

DI PIETRO ITALIA DEI VALORI 41589 4,105 1

PARTITO SOCIALISTA 31774 3,136

LA SINISTRA L'ARCOBALENO 28353 2,798

LA DESTRA - FIAMMA TRICOLORE 14609 1,442

L'ALTRA SICILIA PER IL SUD 9122 0,900

SINISTRA CRITICA 5973 0,589

CONSUMATORI CIVICI ITALIANI 4640 0,458

VALORI E FUTURO 4457 0,439