SIlvano Fausti Luca 1-11

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SOMMARIO 1. AFFINCHÈ TU RICONOSCA LA SOLIDITÀ DELLE PAROLE CON CUI FOSTI ISTRUITO (1,1-4) 2. ANNUNCIO DELLA NASCITA DI GIOVANNI: “LE MIE PAROLE SI COMPIRANNO NEL LORO MOMENTO” (1,5-25) 3. ANNUNCIAZIONE: “AVVENGA A ME SECONDO LA TUA PAROLA” (1,26-38) 4. VISITAZIONE: “E BEATA COLEI CHE HA CREDUTO” (1,39-45) 5. GRANDIFICA L'ANIMA MIA IL SIGNORE (1,46-56) 6. GIOVANNI È IL SUO NOME (1,57-66) 7. BENEDETTO IL SIGNORE... (1,67-80) 8. LA NASCITA DI GESÙ: “SI COMPIRONO I GIORNI” (2, 1-7) 9. FU PARTORITO OGGI PER VOI UN SALVATORE (2,8-20) 10. ORA SCIOGLI... (2,21-38)

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SOMMARIO

1. AFFINCHÈ TU RICONOSCA LA SOLIDITÀ DELLE PAROLE CON CUI FOSTI ISTRUITO

(1,1-4)

2. ANNUNCIO DELLA NASCITA DI GIOVANNI: “LE MIE PAROLE SI COMPIRANNO NEL LORO MOMENTO”

(1,5-25)

3. ANNUNCIAZIONE: “AVVENGA A ME SECONDO LA TUA PAROLA”

(1,26-38)

4. VISITAZIONE: “E BEATA COLEI CHE HA CREDUTO”

(1,39-45)

5. GRANDIFICA L'ANIMA MIA IL SIGNORE

(1,46-56)

6. GIOVANNI È IL SUO NOME

(1,57-66)

7. BENEDETTO IL SIGNORE...

(1,67-80)

8. LA NASCITA DI GESÙ: “SI COMPIRONO I GIORNI”

(2, 1-7)

9. FU PARTORITO OGGI PER VOI UN SALVATORE

(2,8-20)

10. ORA SCIOGLI...

(2,21-38)

11. NELLE COSE DEL PADRE MIO BISOGNA CHE IO SIA

(2,39-52)

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12. CHE DUNQUE FAREMO?

(3,1-20)

13. TU SEI IL FIGLIO MIO

(3,21-38)

14. FU TENTATO: “SE SEI FIGLIO DI DIO”

(4,1-13)

15.OGGI SI È RIEMPITA QUESTA SCRITTURA NEI VOSTRI ORECCHI

(4,14-30)

16. LA SUA PAROLA ERA CON AUTORITÀ

(4,31-32)

17. E GESÙ SGRIDÒ: “ESCI DA LUI”

(4,33-37)

18. LI SERVIVA

(4,38-39)

19. BISOGNA CHE IO EVANGELIZZI

(4,40-44)

20. LASCIATO TUTTO, SEGUIRONO LUI

(5,1-11)

21. SIGNORE! SE VUOI PUOI PURIFICARMI!

(5,12-16)

22. UOMO, SONO RIMESSI A TE I PECCATI TUOI

(5,17-26)

23. NON SONO VENUTO A CHIAMARE I GIUSTI BENSÌ I PECCATORI A CONVERSIONE

(5,27-32)

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24. I TUOI DISCEPOLI MANGIANO E BEVONO

(5,33-39)

25. SIGNORE È DEL SABATO IL FIGLIO DELL’UOMO

(6,1-5)

26. DISTENDI LA TUA MANO! E LA SUA MANO FU RISTABILITA

(6,6-11)

27. PRESCELSE DODICI E, DISCESO INSIEME CON LORO, STETTE

(6,12-19)

28. BEATI VOI... AHIMÈ PER VOI!

(6,20-26)

29. AMATE I NEMICI VOSTRI

(6,27-31)

30. SARETE FIGLI DELL’ALTISSIMO

(6,32-35)

31. DIVENTATE MISERICORDIOSI

(6,36-38)

32. NON C’È DISCEPOLO SOPRA IL MAESTRO

(6,39-42)

33. OGNI ALBERO DAL PROPRIO FRUTTO CONOSCIUTO

(6,43-45)

34. CHIUNQUE ASCOLTA E FA

(6,46-49)

35. MA DI’ UNA PAROLA E SIA GUARITO IL FIGLIO MIO

(7,1-10)

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36. GIOVINETTO, A TE DICO: DESTATI!

(7,11-17)

37. SEI TU COLUI CHE VIENE, OPPURE ATTENDIAMO UN ALTRO?

(7,18-23)

38. MA FU GIUSTIFICATA LA SAPIENZA DA TUTTI I SUOI FIGLI

(7,24-35)

39. DUE DEBITORI AVEVA UN CREDITORE

(7,36-50)

40. E I DODICI CON LUI E ALCUNE DONNE

(8,1-3)

41. FECE FRUTTO CENTUPLO

(8,4-8)

42. A VOI È STATO DATO DI CONOSCERE I MISTERI DEL REGNO DI DIO

(8,9-10)

43. IL SEME È LA PAROLA DI DIO

(8,11-15)

44. GUARDATE DUNQUE COME ASCOLTATE

(8,16-18)

45. MIA MADRE E MIEI FRATELLI

(8,19-21)

46. CHI DUNQUE È COSTUI?

(8, 22-25)

47. E LO SCONGIURAVANO CHE NON IMPONESSE LORO DI ALLONTANARSI VERSO L’ABISSO

(8,26-39)

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48. CHI È COLUI CHE MI HA TOCCATO?

(8,40-56)

49. LI INVIÒ A PROCLAMARE IL REGNO DI DIO E A GUARIRE

(9,1-6)

50. CHI È COSTUI?

(9,7-9)

51. PRESI I CINQUE PANI, LI SPEZZÒ

(9,10-17)

52. IL CRISTO DI DIO... IL FIGLIO DELL’UOMO

(9,18-22)

53. SE QUALCUNO VUOLE VENIRE DIETRO ME...

(9,23-27)

54. QUESTI È IL FIGLIO MIO: ASCOLTATELO

(9,28-36)

55. PREGAI I TUOI DISCEPOLI E NON POTERONO

(9,37-43a)

56. METTETE DENTRO GLI ORECCHI QUESTE PAROLE

(9,43b-45)

57. ENTRÒ IN LORO UNA DISCUSSIONE

(9,46-48)

58. CHI NON È CONTRO VOI È PER VOI

(9,49-50)

59. INDURÌ IL VOLTO PER ANDARE A GERUSALEMME

(9,51-56)

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60. BEN MESSO PER IL REGNO DI DIO

(9,57-62)

61. ECCO IO INVIO VOI

(10,1-16)

62. GIOITE INVECE CHE I VOSTRI NOMI SONO SCRITTI NEI CIELI

(10,17-20)

63. SÌ, PADRE

(10,21-22)

64. BEATI QUEGLI OCCHI CHE GUARDANO CIÒ CHE VOI GUARDATE!

(10,23-24)

65. AMERAI

(10,25-28)

66. E A ME CHI È VICINO?

(10,29-37)

67. SEDUTA, ASCOLTAVA LA SUA PAROLA

(10,38-42)

68. PADRE

(11,1-4)

69. PER LA SUA SFACCIATAGGINE DARÀ A LUI QUANTO ABBISOGNA

(11,5-8)

70. CHIEDETE: IL PADRE DAL CIELO DARÀ LO SPIRITO SANTO

(11,9-13)

71. GIUNSE SU DI VOI IL REGNO DI DIO

(11,14-26)

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72. BEATI QUANTI ASCOLTANO LA PAROLA DI DIO E CUSTODISCONO

(11,27-28)

73. IL SEGNO DI GIONA

(11,29-32)

74. DISCERNI CHE LA TUA LUCE NON SIA TENEBRA

(11,33-36)

75. AHIMÈ PER VOI! SARA CHIESTO CONTO A QUESTA GENERAZIONE

(11,37-54)

76. GUARDATEVI DAL LIEVITO DEI FARISEI

(12,1-12)

77. LA SUA VITA NON È DALLE COSE CHE HA

(12,13-21)

78. NON ANGUSTIATEVI. IL PADRE VOSTRO SA CHE AVETE BISOGNO

(12,22-34)

79. UOMINI IN ATTESA DEL LORO SIGNORE

(12,35-48)

80. COME NON SAPETE DISCERNERE QUESTO MOMENTO?

(12,49-59)

81. SE NON VI CONVERTITE, TUTTI COSÌ PERIRETE!

(13,1-5)

82. LASCIALO ANCORA PER QUEST’ANNO!

(13,6-9)

83. DONNA, SEI STATA SLEGATA DALLA TUA INFERMITÀ

(13,10-17)

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84. A CHI È SIMILE IL REGNO DI DIO?

(13,18-21)

85. CI SONO ULTIMI CHE SARANNO PRIMI E CI SONO PRIMI CHE SARANNO ULTIMI

(13,22-30)

86. UNA CHIOCCIA!

(13,31-35)

87. C’ERA UN UOMO IDROPICO

(14,1-6)

88. CHIUNQUE SI INNALZA SARA UMILIATO E CHI SI UMILIA SARA INNALZATO

(14,7-11)

89. CHIAMA POVERI, STORPI, ZOPPI E CIECHI, E SARAI BEATO

(14,12-14)

90. SIA RIEMPITA LA MIA CASA!

(14,15-24)

91. NON PUÒ ESSERE MIO DISCEPOLO

(14,25-35)

92. CONGIOITE CON ME, TROVAI LA PECORA MIA, LA PERDUTA

(15,1-7)

93. CONGIOITE CON ME, TROVAI LA MIA DRACMA, CHE PERSI

(15,8-10)

94. BISOGNAVA FAR FESTA E RALLEGRARSI

(15,11-32)

95. CHE FARÒ?

(16,1-9)

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96. NON POTETE ESSERE SCHIAVI DI DIO E DI MAMMONA

(16,10-15)

97. L’ADULTERIO

(16,16-18)

98. ORA QUI LUI È CONSOLATO, TU INVECE TRAVAGLIATO

(16,19-31)

99. AGGIUNGICI FEDE

(17,1-10)

100. GESÙ, SIGNORE, ABBI PIETÀ DI NOI

(17,11-19)

101. QUANDO VIENE IL REGNO DI DIO? DOVE?

(17,20-37)

102. BISOGNA PREGARE SEMPRE

(18,1-8)

103. O DIO, SII PROPIZIO A ME, IL PECCATORE

(18,9-14)

104. CHI NON AVRÀ ACCOLTO IL REGNO DI DIO COME UN BAMBINO, NON ENTRERÀ IN ESSO

(18,15-17)

105. ANCORA UNA SOLA COSA TI MANCA

(18,18-30)

106. ESSI NIENTE COMPRESERO

(18,31-34)

107. CHE VUOI CHE IO TI FACCIA?

(18,35-43)

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108. OGGI LA SALVEZZA VENNE IN QUESTA CASA

(19,1-10)

109. LAVORATE FIN CHE VENGO

(19,11-28)

110. IL SIGNORE DI LUI HA BISOGNO

(19,29-40)

111. VISTA LA CITTÀ, PIANSE

(19,41-44)

112. LA MIA CASA SARÀ CASA DI PREGHIERA

(19,45-48)

113. CON QUALE AUTORITÀ FAI QUESTE COSE?

(20,1-8)

114. UN UOMO PIANTÒ UNA VIGNA

(20,9-19)

115. RENDETE CIÒ CHE È DI CESARE A CESARE E CIÒ CHE È DI DIO A DIO

(20,20-26)

116. DIO NON È DI MORTI, MA DI VIVENTI

(20,27-40)

117. DAVIDE DUNQUE LO CHIAMA SIGNORE; E COME È SUO FIGLIO?

(20,41-44)

118. VIDE UNA VEDOVA

(20,45-21,4)

119. NON RESTERÀ PIETRA SU PIETRA CHE NON SARÀ DISTRUTTA

(21,5-24)

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120. ALLORA VEDRANNO IL FIGLIO DELL’UOMO

(21,25-27)

121. VEDETE IL FICO

(21,28-33)

122. ATTENTI A VOI STESSI

(21,34-38)

123. SI AVVICINAVA LA FESTA DEGLI AZZIMI. E CERCAVA L’OPPORTUNITÀ PER CONSEGNARLO

(22,1-6)

124. PREPARATE PER NOI LA PASQUA

(22,7-13)

125. QUESTO È IL MIO CORPO

(22,14-20)

126. IO IN MEZZO A VOI SONO COME COLUI CHE SERVE

(22,21-30)

127. LA TUA FEDE NON VENGA MENO

(22,31-38)

128. NON LA MIA VOLONTÀ, MA LA TUA

(22,39-46)

129. QUESTA È LA VOSTRA ORA

(22,47-53)

130. NON SONO

(22,54-62)

131. IO SONO

(22,63-71)

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132. TU SEI IL RE DEI GIUDEI?

(23,1-12)

133. CROCIFIGGILO!

(23,13-25)

134. SE NEL LEGNO VERDE FANNO QUESTO, CHE AVVERRÀ NEL SECCO?

(23,26-32)

135. OGGI CON ME SARAI NEL PARADISO

(23,33-43)

136. PADRE, NELLE TUE MANI AFFIDO IL MIO SPIRITO

(23,44-49)

137. IL SABATO COMINCIAVA A RISPLENDERE

(23,50-56)

138. NON È QUI, MA È RISORTO

(24,1-12)

139. “DAVVERO È RISORTO IL SIGNORE E FU VISTO DA SIMONE”. COME FU RICONOSCIUTO DA LORO NELLO SPEZZAR DEL PANE

(24,13-35)

140. SONO IO, IN PERSONA! PALPATEMI E GUARDATE

(24,36-49)

141. MENTRE EGLI LI BENEDICEVA, DISTÒ DA LORO

(24,50-53)

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1. AFFINCHÈ TU RICONOSCA LA SOLIDITÀ DELLE PAROLE CON CUI FOSTI ISTRUITO

(1,1-4)

11 Poiché molti posero manoa riordinare un raccontosu quelle cose che si compirono tra noi,2 come trasmisero a noicoloro che dal principio furono testimoni oculari e servitori della Parola,3 parve anche a me,avendo seguito da vicinodall’iniziotuttocon cura,di scrivere per ordinea te, ottimo Teofilo,4 affinché tu riconoscala solidità delle parolecon cui fosti istruito.

l. Messaggio nel contesto

Il Vangelo di Luca è rivolto a cristiani della terza generazione, provenienti dal paganesimo. Distanti da Cristo nello spazio e nel tempo, non l’hanno visto quando è venuto né hanno conosciuto coloro che lo videro. Inoltre, il suo ritorno comincia a sembrare più lontano di quanto il desiderio e l’impazienza abbiano fatto credere. Da qui l’urgenza di rispondere a due problemi: come accedere a un passato sempre più remoto e come procedere verso un futuro sempre più lontano? In altre parole, che significato ha la sua venuta, che senso ha il suo ritorno? Come la memoria di quei fatti è significativa “oggi” per un domani di salvezza? Che c’entra Gesù con la mia vita concreta, che si misura con i suoi problemi quotidiani in una situazione di male in cui lui non è più presente e non è ancora tornato? La sua venuta e il suo ritorno non si vanno perdendo in un orizzonte sempre più indeterminato? Qual è il rapporto tra il suo passato glorioso, il nostro presente buio e il nostro futuro di salvezza? Come la sua venuta e il suo ritorno sono in grado di qualificare ancora oggi la nostra vita cristiana?Luca si pone esplicitamente il problema della storia: cogliere “oggi” l’identità di un passato e la sua rilevanza per un futuro significativo per il presente.Luca è cosciente che l’uomo è un “animale storico”. Di natura “eccentrico”, con il suo centro fuori di sé, è sospeso tra il già e il non ancora. Limitato e trasgressore del suo limite, è ansia di realizzazione e corsa verso la propria identità, ricerca di sé intorno a sé, davanti a sé e dietro di sé. Unico animale che sa di morire, si sente in una solitudine che lo individua e lo attanaglia, gli toglie respiro e lo uccide. Senza passato e senza futuro, non può esistere. Cerca di sfuggire al nulla mediante la relazione e il confronto con tutto ciò che c’è su due coordinate, quella dello spazio e quella del tempo. La prima lo

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ancora al suo mondo presente, persone, fatti e ambienti; la seconda lo situa in un dialogo sapiente col passato, che si fa sua memoria e lo spinge a una responsabilità verso il futuro, che si fa progetto. L’uomo senza storia è uno smemorato che non sa chi è, un punto gettato nel vuoto, incapace di riconoscersi e di farsi riconoscere.Il passato è mediato dalla parola/ricordo, che si deposita nella sua memoria. Questa a sua volta gli dà identità e possibilità di esistere, di comunicare e di costruire un futuro. La storia si può leggere come il tentativo costante dell’uomo di rompere il suo limite costitutivo.È l’avventura di chi, cercando se stesso, cerca sempre altro, ed è ricerca continua d’Altro. Avventura bella, ma frustrante, perché consapevole della certezza che muove la ricerca stessa: il limite, appunto. È un dato oggettivo che si traduce in angoscia, perché inaccettabile e da superare, nella sicurezza di un limite sempre più grosso, fino a quello ultimo che tutto divora.Ma allora la storia è un faticoso e coatto rimontare la china, sapendo di scivolare sempre giù, proprio alla fine della salita? Insufficienza radicale a se stesso, desiderio impossibile d’Altro, troppo grande per bastare a se stesso (Pascal), l’uomo è costituzionalmente infelice, crudelmente lanciato in una ricerca di sé che lo risucchia nel fondo del pozzo per trovare la propria immagine? La sua storia sarebbe un girotondo continuo, in cui si tasta disperatamente il muro cieco di una massiccia torre circolare, senz’altra gioia che tenersi ogni tanto per mano, senz’altra speranza che sperare inutilmente o attendere di morire? E la puzza dei cadaveri nel mezzo offre a tutti un insopportabile fetore! Il serpente si morde la coda, il tempo mangia ciò che genera, tutto è chiuso in un gorgo infernale, reso insopportabile dal desiderio impossibile di romperlo. E il desiderio impossibile si fa paura e la paura vertigine e sollecitudine a provocare l’arrivo di ciò che si teme.In realtà la morte è l’unica attesa realistica dell’uomo. Ma alla sua attesa, indeducibile da essa, si contrappone la promessa di Dio. È promessa di un mondo “buono”, aperto sul cielo, totalmente diverso, che non sappiamo pensare né osiamo sperare. Dio si è accostato all’uomo, promettendogli innanzitutto la “salvezza”. Perché questa venisse positivamente compresa, è stata necessaria una lunga educazione, che passa attraverso il dono di salvezze insperate e la negazione di altre desiderate.Il punto d’arrivo di questa pedagogia di Dio è portare alla fiducia in lui, in modo da accogliere da lui quella salvezza che noi, con la mente oscurata dalla menzogna antica, neanche potevamo immaginare.Con la storia di Israele Dio si è dissodato un pezzo della nostra terra, vi ha seminato la sua parola e l’ha coltivata. Essa è lentamente cresciuta ed è diventata un grande albero, dai frutti maturi: “un albero di vita, che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni” (Ap 22,2).Il faticoso lavoro di Dio è giunto ora a compimento: in un punto e in un tempo precisi, egli stesso ha aperto una breccia nel muro della nostra storia. Caduta l’ultima pietra che faceva da velo, si è dischiusa una via di uscita dalla perdizione.Ma nessuno se ne è accorto. Sul momento neanche i più vicini! L’opera di Dio, piccola e puntuale - come ogni realtà - è rimasta soffocata dal frastuono di tutta la grande storia. Luca vuol prendere ogni uomo e condurlo per mano a quell’apertura: è la storia di Gesù, luogo in cui è stato abbattuto il muro. Attraverso “questa” porta, con tutte le sue ferite e delusioni, con tutta la sua disperazione e angoscia, l’uomo esce dalla prigione della morte e si affaccia alla luce della vita.Quello di Luca è un Vangelo “storico”: si fa carico della storia dell’uomo concreto e la apre alla salvezza, prima promessa e ora realizzata in Gesù. Lui è il centro del tempo, l’oggi eterno di Dio per il mondo. Attraverso lui, “oggi la salvezza è entrata in questa casa” (19,9).Nel prologo Luca dà le sue credenziali di “storico della salvezza”. Parla di “quelle cose che si compirono tra noi”, trasmesse da “testimoni oculari”, divenuti “servitori della Parola”.Il racconto ordinato che molti ne hanno fatto, è utilizzato con cura da Luca perché il lettore, Teofilo, possa rendersi conto della solidità degli insegnamenti ricevuti.

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2. Lettura del testo

v.1: “quelle cose che si compirono tra noi”. Si tratta della storia di Gesù. La fede cristiana non è basata su sogni, progetti, ideali di vita o sapienza arcana - su tutto ciò che l’uomo si costruisce per salvarsi. Dio non è muto: è entrato in comunicazione con l’uomo. Il suo silenzio è finito in una parola di promessa. Ora, in Gesù, si è compiuta, si è fatta carne. Così la comunicazione ha raggiunto il suo fine: la comunione con lui.Luca racconta i fatti della vita di Gesù come compimento tra “noi” di quella promessa. Si tratta di un “noi” ecclesiale, aperto a tutti gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Le “cose” di cui si parla si collocano in un periodo preciso di storia e sono a loro volta una storia precisa, che va dall’apertura del cielo nel battesimo alla sua chiusura nell’ascensione. Questo pezzetto di tempo è la finestra che Dio si è aperto sull’umanità, il suo affacciarsi per salvarla, il suo “oggi” eterno al quale tutti chiama. Da lì ci parla e ci si comunica, da lì usciamo dalla schiavitù della morte alla comunione di vita con lui. È il centro del tempo, verso cui, sotto il segno della promessa, tutto il passato porta; è la “memoria nuova”, da cui tutto il futuro ha la sua sorgente di vita.Queste “cose” esulano dall’attesa nostra come il sole tropicale dalle attese dei pinguini in zone polari. L’uomo infatti non può attendersi se non ciò che già conosce dagli altri e applica a sé: il non senso, la paura, l’ingiustizia e il vuoto su cui troneggia la morte. Queste “cose” sono comprensibili solo alla luce dell’AT, partendo dalla promessa di Dio e dall’esperienza della sua fedeltà.

v. 2: “come trasmisero a noi coloro che dal principio furono testimoni oculari e servitori della Parola”. “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,14). Così scrive Giovanni. I primi discepoli sono “testimoni oculari”, hanno visto con i loro occhi la Parola di vita. È un’esperienza unica e irripetibile. Ma questa beatitudine dei primi discepoli (cf. 10,23s) è, mediante loro, destinata a tutti. Gli anni che essi hanno trascorso con Gesù sono quel periodo di storia in cui è stato rotto il muro e ha fatto irruzione nella casa dell’uomo la salvezza di Dio. Attraverso la loro testimonianza veniamo condotti anche noi nel luogo da dove entra la luce. I discepoli sono coscienti della loro funzione unica per tutta l’umanità: sono depositari del dono che appaga il desiderio di tutti gli uomini. Non possono vivere in pace se non lo comunicano. La loro gioia non c’è senza la nostra; la luce non basta loro se non rischiara anche la tristezza di noi, che stiamo con loro. Conoscendo il desiderio del Padre, sono diventati “servitori della Parola” per i fratelli, perché la gioia invada tutta l’umanità e la gioia nostra sia perfetta. Lo stesso amore del Figlio li spinge (2Cor 5,14) ad annunciare e “trasmettere” la loro esperienza di salvezza. Ciò che hanno visto, udito e toccato, è l’opera definitiva di Dio, il “compimento”. Non c’è più nulla da aspettare da parte dell’uomo, perché da parte di Dio nulla di più è possibile fare: ha fatto l’impossibile, ha dato se stesso!Il mezzo di trasmissione è la parola, il racconto che urge loro dentro da comunicare. La Parola fattasi carne sotto i loro occhi e divenuta loro vita, ora torna sulla loro bocca come parola che attende di farsi carne in chi ascolta. Noi, attraverso la loro testimonianza, veniamo portati all’“oggi” di Dio, e ne vediamo il volto in Gesù. “Mostrami, Signore, il tuo volto”, è il grande desiderio dell’uomo, specchio

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di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza. Mostrami il tuo volto, perché io possa trovare me stesso in esso ed essere salvo. Vediamo questo volto nel racconto dei testimoni oculari. La loro parola, entrando nelle mie orecchie e nel mio cuore, diventa “ricordo” di salvezza: “porta-al-cuore” della mia vita, al centro della mia esistenza, l’oggi stesso di Dio. Nell’obbedienza a questo ricordo, anch’io rispecchio il volto di Dio che vado cercando, ed è il mio stesso volto, conformato e trasfigurato nel suo! Nell’ascolto e nel ricordo aderente agli eventi primitivi, nella fede e nella contemplazione adorante, nell’obbedienza e nel discernimento operante, c’è la comunione e la gioia perfetta di vita: il cristiano vive del suo Signore e il Signore vive nella sua testimonianza. Il destino della storia è affidato alla fedeltà responsabile del credente, sacramento di salvezza nel mondo. Responsabilità veramente grande e tremenda.Consapevoli di questa responsabilità, si capisce perché “molti posero mano a riordinare un racconto su quelle cose” (v. 1) e anche perché Luca conscio dell’importanza di tale racconto, si senta ispirato a farne uno in modo accurato e ordinato.

v. 3: “parve anche a me... : di scrivere per ordine a te, ottimo Teofilo”. Solo un “racconto di seguito”, ordinato, può rendere visibili i lineamenti della vita di Gesù. Luca li contempla, descrivendoli tratto tratto nel loro sviluppo, nel loro concatenamento, nei loro rapporti e in tutte le loro sfumature e connessioni, perché il lettore possa ricordare e riprodurre in sé quel volto di Dio che nessuno ha mai visto e che Gesù stesso per primo ci ha disvelato. Il cristiano, in ginocchio davanti al Vangelo, presta attenzione a ogni parola per non perdere nessun particolare. Amare è conoscere l’amato nella sua oggettività, con cura anche puntigliosa, senza mischiarlo coi propri psicologismi, preconcetti e ideologie, per accettarlo così com’è e ci viene rivelato. Il suo volto si scrive e si incide nel mio cuore (cf. 2Cor 3,3) e diventa mio ricordo costante. Ricordo sconvolgente, totalmente nuovo, progetto di vita nuova.L’uomo agisce in base alla memoria, in forza di ciò che gli sta a cuore. Al credente sta a cuore la Parola; nei suoi confronti ha lo stesso atteggiamento di colei in cui la Parola si è fatta carne: “serbava tutte queste cose nel suo cuore” (2,51). Suo modello è Maria, la quale, sia che capisca sia che non capisca, accoglie la Parola, la deposita con cura nel cuore e accresce quel tesoro dal quale poi trarrà a tempo opportuno luce e vita. Ma già la trattiene e la ammira, con stupore, adorazione e gioia.Nella comunità e nel singolo cristiano, quando si trascura il racconto dei testimoni oculari, il volto di Dio rimane necessariamente oscuro e la sua rivelazione viene sostituita da false immagini - idoli e ideologie in cui non c’è salvezza! Nascono forme di cristianesimo difformi da Cristo, che non hanno nulla a che fare con la verità di Gesù (cf. Ef 4,20s.).Fuori dal racconto e dal ricordo, non c’è comunione con coloro che hanno visto Cristo e quindi neanche con colui che essi hanno visto.“Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno!” (Gv 20,29). Mediante l’ascolto della parola di chi ha visto, anche noi possiamo affidarci al Signore ed entrare in comunione con lui. Nel racconto possiamo vederlo e amarlo. Si avvera anche per noi la grande beatitudine: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (10,23). I testimoni oculari ci prestano i loro occhi.Tra i “molti” che hanno steso un racconto (v. 1), è certamente da annoverare Marco, dal quale Luca, oltre che la struttura letteraria di un cammino dalla Galilea a Gerusalemme, prende abbondante materiale: dei 661 versetti di Marco, 350 sono sostanzialmente ripresi da Luca. Oltre Marco, utilizzò una fonte di detti, in comune con Matteo, e una fonte sua propria, che raccoglie tradizioni scritte od orali che lui stesso ha verificato (fonti “Q” e “L”).Tra questi “molti” sono probabilmente da ammettere altri tentativi, che la chiesa non ha riconosciuto come canonici, cioè normativi per la fede.

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Con quale criterio la chiesa ha riconosciuto Luca come canonico a preferenza di altri, e con quale autorità Luca pretende di rientrare tra quelli riconosciuti?Due sono i criteri della canonicità o normatività del racconto di fede che l’autore deve rispettare. Un terzo, indipendente da lui, è la vidimazione del fatto che li ha rispettati. Il primo è fondarsi sull’autorità dei “testimoni oculari”, senza fantasie o invenzioni, secondo la verità di Cristo che è in Gesù (Ef 4,20s). Il secondo è confermare la “solidità delle parole con cui fosti istruito”: il taglio e lo sviluppo interpretativo dei fatti non sono che un’intelligenza e un rendersi conto sempre più ordinato, preciso e adeguato di ciò che già è stato trasmesso nella fede della chiesa. “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, ecc., lo farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco” (1Cor 3,1lss). Già prima del giudizio, c’è un fuoco che giudica e discerne tra ciò che è vero e ciò che è falso. E questo è il terzo criterio, quello decisivo della normatività: è l’accettazione da parte della chiesa stessa. Essa ritiene come canonico un testo perché, nella forza dello Spirito che la guida, ci si ritrova e ci si rispecchia. Lo Spirito la abilita a portare il peso delle parole di Gesù, la guida nella “verità tutta intera”, facendole ricordare tutto ciò che lui ha detto (Gv 14,26).

“Teofilo”. È il destinatario del racconto di Luca. “Teofilo” significa “amato da Dio” o “amante di Dio”. È figura del discepolo che, ricevuto l’annuncio, sa di essere “amato da Dio” e desidera con tutto il cuore diventare anche lui “amante di Dio”. Luca si rivolge quindi al cristiano che vuol diventare adulto, fermo e maturo, conscio della sua responsabilità davanti al mondo e alla storia. Lo vuol condurre, passo dopo passo, a compiere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: dopo averlo ascoltato mentre spiega la parola già nota, lo riconoscono nello spezzare del pane, cambiano direzione al loro cammino e si ritrovano in un’unica comunità di esultanza con gli undici che l’hanno visto e acclamano: “Davvero il Signore è risorto e si è fatto vedere a Simone” (24,34).

v. 4: “affinché tu riconosca la solidità delle parole con cui fosti istruito”. Luca è l’unico evangelista che dice espressamente di non aver visto Gesù. Si trova nella situazione del lettore “Teofilo”. Per questo ricorre a chi lo ha visto, accettando la necessità della mediazione storica, che è la tradizione. La fede non è un affare privato e soggettivo! Il suo intento è quello di giungere, lui insieme al suo lettore, attraverso gli occhi di chi ha visto, fino alla contemplazione del volto amato. È una conferma, che fonda e corona la fede già ricevuta, perché conosca il suo debito verso il passato e il suo compito verso il futuro.Questa conferma è per chi vuol informarsi più a fondo su ciò che già sa e desidera confrontarsi di continuo con la sua realtà di uomo ormai temporalmente e culturalmente distante dalle origini e da un vicino ritorno del Signore. Luca intende capire con noi che cosa significa vivere l’oggi eterno di Dio e la sua salvezza in “questo” tempo, immerso in una storia di perdizione.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera b. Mi raccolgo davanti al testo immaginando come Luca stesso, prima di me, si è raccolto su altri racconti per studiarli, confrontarli ed assimilarli.c. Chiedo al Signore ciò che voglio: desidero avere nella lettura del Vangelo lo stesso amore e passione per Gesù che ha spinto Luca a scriverlo.

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d. Punti su cui riflettere:- importanza della Parola, che in Gesù tutta si compie (Sal 119)- motivo della testimonianza evangelica (1Gv 1,14)- importanza dell’annuncio per giungere alla fede (Rm 10,9-17).

4. Passi utili

Sal 119; 1Gv 1,14; Rm 10,8-17.

2. ANNUNCIO DELLA NASCITA DI GIOVANNI: “LE MIE PAROLE SI COMPIRANNO NEL LORO MOMENTO”

(1,5-25)

5 C’era nei giorni di Erode, re della Giudea, un sacerdote di nome Zaccaria della classe di Abia, e la sua donna era delle figlie di Aronne, e il suo nome era Elisabetta.6 Ora entrambi erano giusti davanti a Dioe andavano irreprensibiliin tutti i comandamentie le prescrizioni del Signore;7 e non avevano un figlio,perché Elisabetta era sterileed entrambi erano avanzati nei loro giorni.8 Ora avvenne:mentre egli svolgeva il servizio sacerdotale nel turno della sua classe davanti a Dio9 secondo l’usanza dei servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di offrire l’incenso dentro il tempio del Signore,10 e tutta la moltitudine del popolo stava a pregare fuori nell’ora dell’offerta dell’incenso.11 Ora fu visto da lui un angelo del Signoreche stava a destra dell’altare dell’offerta dell’incenso;12 e fu turbato Zaccaria alla vista, e un timore cadde su di lui.13 Ora disse a lui l’angelo:Non temere, Zaccaria,perché fu esaudita la tua supplica,

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e la tua donna Elisabetta genererà un figlio per te e chiamerai il suo nome Giovanni.14 E sarà gioia per te ed esultanza,e molti gioiranno della sua nascita.15 Sarà infatti grande al cospetto del Signore,e non berrà affatto vino e bevanda inebriante, e sarà riempito di Spirito santo ancora dal grembo di sua madre,16 e molti dei figli di Israelevolgerà verso il Signore loro Dio;17 ed egli avanzerà davanti al suo cospetto con lo spirito e la potenza di Elia, per rivolgere il cuore dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti, per preparare al Signoreun popolo ben disposto.18 E disse Zaccaria all’angelo:Da che cosa conoscerò questo? Io infatti sono vecchioe la mia donna avanzata nei suoi giorni! 19 E rispondendo l’angelo gli disse:Io sono Gabriele,che sono presente al cospetto di Dio e fui inviato per parlare a te ed evangelizzarti questo.20 Ed ecco:sarai mutoincapace di parlare,fino al giorno in cui ciò avverrà, proprio perché non credesti alle mie parole, che si compiranno nel loro momento.21 E il popolo era in attesa di Zaccaria,e si stupivanoper il suo indugiare nel tempio.22 Ora, uscito, non poteva parlare loro,ed essi riconobberoche una visioneaveva visto nel tempio;ed egli faceva loro dei segnie rimaneva muto.23 E avvenne,quando furono compiuti i giorni dei servizio liturgico,che se ne andò a casa sua.24 Ora, dopo quei giorni,concepì Elisabetta la sua donna,e si occultava cinque mesi dicendo:

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25 Così per me ha fatto il Signore nei giorni in cui guardò giù per togliere la mia vergogna tra gli uomini!

l. Messaggio nel contesto

Luca si rivolge a dei convertiti dal paganesimo. Essi ignorano la storia della salvezza. Perciò, prima di parlare di Gesù, che ne è il frutto maturo, parla delle sue radici: la promessa fatta ad Israele. L’intento è presentarne al destinatario le chiavi essenziali di lettura. Gesù infatti è il compimento della promessa di cui Dio ha fatto depositario Israele a favore di tutti i popoli. Per tutti la salvezza non viene da altri alberi se non da quello che lui si è piantato e coltivato in Palestina. In quest’albero è inserito ogni credente, di tutti i tempi e di tutti i luoghi (cf. Rm 11,17s). Luca, attraverso queste figure emblematiche dell’AT - padre e madre vecchi, un figlio “impossibile”, ma donato - introduce il lettore a comprendere le caratteristiche fondamentali dell’azione di Dio nel mondo, come le ha rivelate a Israele. Così anch’egli è in grado di riconoscere e accogliere le modalità del suo intervento nella storia. È una miniatura sapiente, un racconto policromo centrato sul tempio, che fa da sintesi catechetica per comprendere il modulo di fondo della storia della salvezza: è Dio che compie la sua promessa, proprio quando l’uomo la ritiene impossibile. È il nocciolo della fede, che ogni israelita ha succhiato con il latte materno. Il lettore pagano non può ignorare queste cose, perché sono le costanti dell’esperienza di fede nel Dio della storia: come furono indispensabili per Israele, così lo sono anche per il cristiano, se vuol cogliere l’azione di Dio e del suo Cristo.

2. Lettura del testo

v. 5: “C’era nei giorni di Erode, ecc.”. In un solo versetto ci sono sei nomi propri, con indicazione di persone, di tempo e di spazio. L’azione di Dio non è al di fuori della storia umana e non ne costituisce un’altra con persone create apposta. Cade invece nel tessuto normale degli avvenimenti profani, in un luogo preciso, in un tempo preciso e con persone precise. Dio prende questo mondo così come è, e in esso realizza la sua promessa. Innanzitutto interviene in un piccolo angolo oscuro del mondo: in “Giudea”, presso un popolo che si è scelto. La ragione di questa scelta è nel suo stesso mistero: “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri” (Dt 7,7). La predilezione unica ed immotivata per Israele è segno della predilezione altrettanto immotivata e unica che il Padre ha per ciascuno dei suoi figli.La datazione del tempo è quella profana, desunta da Erode, il potente locale di turno. Ma chi conta agli occhi di Dio e con cui egli intesse il dialogo, il terreno dove depone e fa crescere la sua promessa, non è Erode, bensì una coppia di persone modeste, altrimenti ignote.L’uomo è un sacerdote. Si sottolinea la sua appartenenza al popolo della promessa, per indicare che Dio mantiene quanto ha promesso. Il suo nome “Zaccaria” significa “Dio si è ricordato”. Il suo nome dichiara il motivo per cui Dio interviene: Dio interviene perché si ricorda della sua promessa, del suo amore e della sua misericordia.Appartiene alla classe di “Abia”, che significa “Dio è padre”. Questo è il motivo per cui Dio non può non ricordarsi, poiché “mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (Sal 27,10). Lui infatti mi ha formato e non può dimenticarsi di me (Is 44,24; Sal 139): anche se una donna si dimenticasse del suo bambino e non si commovesse per il frutto delle sue viscere, lui non può

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dimenticarsi mai di me (Is 49,15). Anche sua moglie è di stirpe sacerdotale e si chiama “Elisabetta”, che significa “Dio è uno su cui si può giurare”, oppure: “Dio è la mia fortuna, la mia sazietà” Sarà la prima che si delizierà a costatare il compimento della promessa che Dio aveva giurato a Israele.

v.6: “Ora entrambi erano giusti”. Questa coppia di persone è figura del vero Israele: sono giusti davanti a Dio. Giusti della giustizia che deriva dalla legge e che il fariseo Paolo riconosce come propria prerogativa (Fil 3,6.9). Tale giustizia tuttavia non dà salvezza: non dà la gioia di una vita, non dà diritto alla promessa.

v. 7: “e non avevano un figlio”. Infatti sono senza figli. Luca non dice “erano giusti, ma non avevano figli”, bensì “e non avevano figli”. Infatti non c’è contrapposizione tra essere giusti e non avere futuro (= figlio). Nonostante ogni convenienza o ragionamento contrario, l’esperienza mostra che il giusto non ha miglior sorte degli altri (cf. 23,47). Anzi, è più sfortunato e pare che, normalmente, le buone azioni non restino impunite. Può non sembrare consolante, ma non è vero che il giusto porta l’ingiustizia, il mite la violenza, l’innocente il sopruso? Come le notti seguono i giorni, così le tribolazioni seguono le buone azioni! (Marco l’Asceta). Per sé al giusto, nonostante ogni parvenza contraria, non spetta il bene, bensì il male su questa terra. L’unico bene che gli spetta di sicuro è la promessa di Dio, che gli fa dono della sua amicizia e gli dà futuro. Ma quando? Dio si è forse dimenticato della sua promessa? Così si lamenta spesso il giusto (cf. Sal 44; 74; 79; 80, ecc.). Sotto le figure di Zaccaria ed Elisabetta c’è il dramma di Giobbe, il dramma di ogni speranza umana: “essere giusti” è doveroso, ma non dà felicità e vita. È la “sterilità” dell’uomo, incapace di produrre la propria salvezza. Dio gliel’ha promessa non solo perché è incapace di procurarsela, ma anche perché, se se la procurasse, non sarebbe dono. Solo il dono è salvezza. Dio interverrà nei vani tentativi del giusto solo dopo che questi avrà riconosciuto la propria impossibilità. Per questo i due sono presentati ormai “avanzati nei giorni” e sterili. Costante nell’azione di Dio è agire in base alla sua fedeltà e al ricordo del suo amore verso di noi, non in base alla nostra fedeltà e al nostro ricordo. Lui porta a compimento la sua promessa, non i nostri tentativi. La sterilità di questi serve a rivelare il carattere assoluto di dono. Per questo agisce solo quando l’uomo dichiara la propria impossibilità. Dio è infatti il “salvatore” e la sua azione da sempre è quella di dare futuro a chi non ne ha.Zaccaria ed Elisabetta concludono la storia di sterilità comune ai patriarchi di Israele fin dall’inizio. In essi rivive e si consuma il dramma del padre Abramo e dei primi padri (cf. Gn 18,1-15; 25,21ss; 30,22ss; Gdc 13,1ss; 1Sam 1,1ss), il dramma di tutto il popolo che, dopo tanti secoli dalla promessa, non è ancora riuscito a produrre il salvatore. L’uomo è sterile di fronte alla salvezza. Gli è impossibile procurarsi l’unico essenziale. Dio ama spingere fino in fondo questa situazione, non per sadismo, ma per condurre l’uomo a riconoscere l’impossibile di cui ha bisogno. Proprio dell’impossibile l’uomo ha bisogno, perché è né più né meno che bisogno di Dio! Solo così può riconoscerlo come dono ed è capace di accogliere quel Dio che gli dona proprio l’impossibile, cioè se stesso.La fede, che accetta la salvezza, è anzitutto fiducia in Dio, non nelle cose che promette: insieme alle sue promesse, egli compromette se stesso con noi.

vv. 8.9.10: “dentro il tempio”. Presentati i protagonisti, ora si presenta il luogo. Il racconto di Luca inizia e finisce nel tempio, dimora di Dio. Tutta la vita dell’uomo, lo sappia o no, è ordinata a Dio: diversamente è ordinata al nulla. Egli è il centro della struttura dell’uomo, il cui spazio ha come ombelico il tempio, il cui tempo ha come fine la festa, la cui azione ha come norma la legge. Il tempio è il luogo della vita, della festa e della legge. L’uomo tende verso Dio, come oggetto ineliminabile del suo desiderio. Non può farne a meno, anche se è cosciente di non poterlo raggiungere.

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Il tempio - vita, festa e legge - è il luogo dove l’uomo riconosce Dio come Dio, centro della propria esistenza; insieme è anche il luogo dove riconosce se stesso come uomo, limitato e mortale e riconcilia la tensione tra il suo desiderio infinito e la sua realtà finita, mediante la lode e la benedizione. Nel tempio l’uomo loda e benedice Dio, riconoscendo che da lui è tutto, e riporta tutto alla sorgente da cui è scaturito. Nella benedizione e nella lode tutto trova ricomposizione: lo spazio ha il suo centro, il tempo la sua pienezza, l’azione la sua norma. L’uomo stesso vede il senso proprio e di tutte le cose, si scopre fine di tutto, che in lui torna alla fonte della vita, e diventa “liturgo” della creazione, nel canto di gioia di chi sa che tutto è per lui e lui per Dio. Tutto ciò che c’è è suo dono d’amore per lui (cf. Gn 1): tutto il creato è solo l’anello nuziale, segno del dono di sé che gli farà nel Figlio. L’uomo riconosce che tutto viene da Dio, che gli dà ogni bene. Per questo suo bene-dare lo bene-dice. Dietro il dono, riconosce la mano e il volto del donatore e bene-dice colui che bene-dà. Nella benedizione sta il senso non solo del creato, del quale si scopre l’origine come dono per l’uomo, ma anche dell’uomo, il quale si sente amato e colmato di ogni bene. In questa benedizione Dio stesso è capito nella sua ragion sufficiente: è amore e dono, tutto inclinato verso l’uomo. Senza la benedizione dell’uomo tutto è maledetto: il creato da dono decade in oggetto di possesso, si stacca dalla sua sorgente e diventa bubbone infetto di morte; l’uomo, invece che amato, si sente minacciato da ogni parte, sospeso nel nulla e operatore di morte; Dio stesso viene ricoperto della maschera menzognera del suo nemico e diventa un Dio da maledire, principio di ogni male e di ogni sacrificio.Nella benedizione e nella lode tutto recupera senso. La lode di Dio attraverso tutto il creato è il fine dell’uomo: per essa l’uomo gioisce della gioia stessa di Dio attraverso tutte le sue creature.

v. 11: “ Ora fu visto da lui un angelo, ecc.”. Dio interviene nella storia mediante il suo “angelo” che significa “annunciatore”. Interviene attraverso “la parola”, servendosi di uno che la annuncia. Dio, che con la potenza della creazione ha fatto il suo partner, può comunicare con lui solo mediante l’impotenza della parola. La parola è sempre impotente, perché può essere accolta o rifiutata. Essa è comunicazione e comunione, interpellazione e provocazione della libertà: rende l’uomo “responsabile”, “capace di rispondere” a Dio che si è fatto suo interlocutore. In questo dialogo con lui l’uomo si costituisce come persona e viene generato figlio di Dio. L’uomo infatti è generato da ciò che ascolta, formato dalla parola cui presta orecchio e risponde. Con questa parola Dio stesso bussa al cuore dell’uomo per unirsi a lui. La promessa è la sua proposta di amore.Infatti, se il creato è l’anello, la parola di promessa è il diadema nuziale di colui che sarà lo sposo!Nell’AT gli angeli sono i “servi” dei Signore, esecutori della sua parola a favore dell’uomo (Sal 103,20). Sono la rivelazione stessa di Dio in quanto parla all’uomo, si prende cura di lui e si mette al suo servizio. Può sembrare strano, ma è vero: mentre in tutte le religioni l’uomo si sente al servizio di Dio e gli sacrifica la vita, in Israele è Dio che si pone al servizio dell’uomo, fin dalla creazione e dall’esodo. Servire infatti significa in concreto amare. Dio è tutto servizio per l’uomo: se all’inizio gli ha dato la vita, alla fine darà per lui la propria vita! Il servizio vero dell’uomo a Dio è accettare questo Dio servo, riconoscere il suo amore e benedirlo. La tentazione diabolica è rifiutarlo, magari per indegnità (cf. Gv 13,8).Chi accetta questo Dio e ascolta la sua parola, diventa l’uomo nuovo, a immagine e somiglianza di Dio che è amore, dono e servizio.

v. 12: “fu turbato”. La vista dell’angelo suscita turbamento e timore in Zaccaria. La prima reazione di fronte all’irruzione del divino è sempre di paura. L’uomo si scopre piccolo davanti all’immenso. Dio si differenzia dall’idolo perché non è a immagine dell’uomo, a suo peso e misura. È distanza abissale e perturbante, che ci scaglia in uno spazio senza limiti, con la percezione del totalmente Altro, del Santo. Nasce il timor di Dio, principio di sapienza (Sal 111,10; Pr 1,7, ecc.). Se è vero che il

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timore di Dio senza amore è imperfetto, è certo che l’amore di Dio senza timore è nullo. Infatti non riguarderebbe il tre volte grande e santo, ma un idolo qualunque. L’incontro con lui provoca sbigottimento e confusione. Sono sconvolti gli equilibri di una vita calcolata sull’orlo del possibile, tutta al di qua dell’impossibile, abisso di cui è desiderio e paura, bisogno e rifiuto, mancanza e ripulsa.

v. 13: “Non temere”. Sono le prime parole dell’angelo a Zaccaria. La paura davanti alla santità di Dio, oltre che segno che siamo realmente davanti a lui, è anche segno del nostro peccato (cf. Gn 3,10). Viene dalla menzogna originaria del serpente, che presenta un Dio di morte, despota e invidioso (Gn 3,4s). L’uomo ignora che tutta la sua grandezza è amore e servizio verso la sua debolezza. Il ritornello di Dio in cerca dell’uomo impaurito che lo sfugge è: “Non temere”. Solo a Mosè, che lo ignorava e quindi non aveva paura davanti al roveto ardente, dice di temere, perché si renda conto di trovarsi alla sua presenza (Es 3,3-5)!La paura sterminata di tale incontro è controbilanciata da una rassicurazione illimitata: la sua grandezza non è contro di noi, ma per noi (Rm 8,31ss). Siccome l’amore trova o rende uguali, Dio immenso si farà piccolezza estrema, così non lo temeremo più.

“fu esaudita la tua supplica”. Non si dice, se non qui e indirettamente, che Zaccaria abbia pregato. Certamente agli occhi di Dio la sua stessa situazione è già preghiera: il bisogno del figlio è sentito come richiesta dal cuore del Padre. Bisogna però che il figlio preghi perché sappia ricevere il dono: non c’è dono senza desiderio! In greco la stessa parola “preghiera” (déésis) indica anche “bisogno”: il bisogno muove la preghiera come desiderio del dono. L’uomo è di sua natura bisogno di Dio, perché creato a sua immagine e somiglianza. Per questo è essenzialmente supplica: solo nel suo volto trova il proprio. Senza invocazione di Dio, l’uomo è senza volto, imprecazione per una mancanza indebita.

“la tua donna Elisabetta genererà un figlio per te”. La promessa di Dio è dare futuro a chi non ne ha, dare senso a chi ne è privo. La storia della salvezza germina in piena fecondità proprio in chi è sterile. Questi è in grado di recepire il dono come dono. L’impossibile rivela che l’azione è di Dio. È lui che agisce e solo lui! Prima che sia costatato l’impossibile, Dio non agisce, perché sarebbe inutile. Non c’è chiusura o lontananza che non possa essere aperta o avvicinata da lui che vi porta la sua salvezza. Anzi, l’abisso di miseria rivela meglio la sua grazia.

“e chiamerai il suo nome Giovanni”. Il frutto di Zaccaria ed Elisabetta, come quello di ogni storia umana, anche se prodotto da questa terra, è sempre dono del cielo. Giovanni significa “dono di Dio”. Nel suo dono (Giovanni), perché lui si ricorda (Zaccaria) della sua paternità (Abia), Dio porta a compimento il suo giuramento (Elisabetta). I semplici nomi, oltre al racconto stesso, dicono le caratteristiche essenziali dalla fede ebraico-cristiana.

v. 14: “sarà gioia per te ed esultanza”. Fine dell’azione di Dio è la gioia dell’uomo. La gioia è il profumo di Dio, segno della sua presenza. Luca, chiamato anche “evangelista della gioia”, sottolinea di continuo questo aspetto.

v. 15: “Sarà infatti grande al cospetto del Signore”. Vengono enumerati i motivi di tale gioia (vv. 15-17). Il valore dell’uomo è l’occhio dell’altro. Uno esiste nella misura in cui è amato e visto dall’altro, perché il cuore va dove va l’occhio e l’occhio dove porta il cuore. Per ogni uomo lo spazio vitale è l’occhio dell’altro, che gli dà o gli toglie il respiro.

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La grandezza di Giovanni è assoluta: al cospetto di Dio. La verità dell’uomo è lo sguardo di Dio su di lui (cf. Sal 139), che lo trova molto bello (Gn 1,31), tanto bello da esserne sedotto, fino a dirgli con passione: “Mi hai rapito il cuore”. Distogli da me i tuoi occhi, il tuo sguardo mi turba (Ct 4,9; 7,6).

“e non berrà vino... sarà riempito di Spirito santo”. Significa tre cose:a) Sarà “nazireo”, consacrato a Dio (cf. Gdc 13,5-7; 16,17): da qui la sua grandezza e la sua forza.b) Non sarà grande per vertigini o ubriacature artificiali e la sua parola non sarà ispirata da ebbrezza o desideri umani, come i falsi profeti, ma da Dio, dalla sua promessa e dal suo Spirito. Di questo sarà pieno fin dal seno materno, perché fin dal principio conoscerà il Signore (cf. 1,39ss).c) Giovanni non è il messia. Bere vino è la festa tranquilla e conviviale di chi, da tempo nella terra promessa, gode del suo ultimo frutto. Giovanni, come tutto l’AT, non è ancora arrivato; a differenza di Gesù, lo sposo atteso, che quindi mangia e beve (cf. 5,33ss; 7,34). Per questo tra i nati da donna non c’è nessuno più grande di Giovanni; però il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui (7,28).

vv. 16.17: “e molti dei figli d'Israele volgerà verso il Signore, ecc.”. Giovanni cammina davanti al cospetto del Signore e precede il suo volto, come l’ultimo profeta che ne parla. Poi lui stesso si manifesta. È l’ultimo che viene nella forza di Elia, padre dei profeti che l’hanno atteso e annunciato. In lui la profezia di Israele giunge alla sua conclusione: l’ultima stella annuncia gli albori del giorno del Signore (Ml 3,1ss). La sua missione sarà quella di concludere l’azione profetica, predicando l’abbandono del male, la conversione al Signore e la prontezza ad accoglierlo.

“per rivolgere il cuore dei padri verso i figli, ecc.”. Spia del peccato è la rottura tra padri e figli: il cuore del padre non è più verso il figlio, non gli comunica più la parola (cf. Dt 6,20ss), il cuore del figlio non è più verso il padre, si ribella e non obbedisce. Rotta la trasmissione dell’alleanza che va di padre in figlio, cade la parola della promessa. Il passato non ha più futuro; il presente resta senza radice e senza frutto.La conversione reciproca padre-figlio riconcilia l’uomo coi passato e col futuro, possibilità di tradizione e di ascolto della parola di salvezza. Tutta la storia di Israele ha la sua continuità nell’“Ascolta, Israele” che il padre trasmette al figlio, rendendolo partecipe della stessa promessa. In questo ascolto, continuamente richiamato dai profeti, sta la disposizione del popolo ad accogliere il messia.

v. 18: “Da che cosa conoscerò questo? Io infatti sono vecchio”. Di fronte alla promessa di Dio c’è sempre inadeguatezza da parte dell’uomo. L’unica adeguatezza è la fede in lui che può e vuole fare l’impossibile. La fede ne misura la realizzabilità partendo non dall’uomo, ma da Dio. Diversamente c’è il riso autosufficiente dell’incredulità (cf. Gn 18,11-15; Es 3,11; 4,10-13; Gdc 7,2ss). La promessa impossibile evidenzia il limite ed è provocazione a superarlo.Solo davanti all’impossibile che Dio offre si può parlare di fede.

v. 19: “fui inviato per parlare a te” . Qual è la prova che Dio parla? Non ce n’è altra se non che lui parla. Solo se lo ascolti ne sperimenti la verità, diversamente no. Come se dicessi a un affamato: “Vieni al banchetto”. Se lui ascolta, sperimenta la verità del mio invito. Se non mi crede, non la sperimenta, anche se è vera. La parola di Dio è “Gabriele”, che significa: “Forza di Dio”. Egli è mandato a noi per recarci la buona notizia, che ha la forza di convertirci a credere.

v. 20: “sarai muto”. La parola si autogiustifica, senza credenziali esterne. L’unica credenziale è negativa: chi non l’ascolta, resta muto! Chi non ha fede e non accetta la testimonianza di Dio, non può

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esprimersi nella sua verità di figlio. L’uomo senza fede resta radicalmente inespressivo e inespresso davanti al proprio limite; muto e senza senso.Ma l’incredulità non blocca la forza della promessa. Questa mutezza termina nel dono che ugualmente viene dato, anche se rifiutato. Il silenzio si scioglierà in lode quando si riconoscerà che Dio ha ugualmente mantenuto le sue parole, che si compiranno nel loro momento.Zaccaria, memoria muta, è figura dell’uomo chiuso, di Israele dal cuore non convertito e del silenzio profetico che ha preceduto il Cristo. Tale silenzio resta la prova definitiva davanti all’incredulità e sarà tolto quando, in Cristo, tutta l’umanità avrà riconosciuto il compimento dell’amore di Dio per noi.

vv. 21.22: “E il popolo era in attesa di Zaccaria, ecc.”. Il popolo attende una spiegazione da Zaccaria, che non può darla perché non ha creduto. All’uscita dal tempio non può pronunciare la consueta benedizione sul popolo. Con questa benedizione, mancata per infedeltà, si apre il Vangelo. Si concluderà con tre benedizioni nel tempio, quando la promessa sarà compiuta (cf. 24,50-53).

vv. 23.24.25: “concepì Elisabetta”. Tornato a casa Zaccaria, Elisabetta concepì e tenne nel nascondimento la realizzazione della promessa che si svelerà solo nell’incontro col messia. L’AT si manifesta nella sua verità quando si incontra con il NT: quod in vetere latet, in novo patet. Elisabetta si sente come colei in cui Dio opera secondo la sua parola, togliendole la vergogna di non aver futuro.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera b. Mi raccolgo immaginandomi nel tempio di Gerusalemme.c. Chiedo ciò che voglio: inserirmi mediante la fede nella promessa di Dio a Israele.

d. Punti nevralgici della fede biblica su cui riflettere:- l’azione di Dio è nella storia concreta- Dio ama i piccoli (Dt 7,7; Lc 10,21)- Dio è fedele, si ricorda di noi (Is 49,15; 43,1-7)- la mia giustizia non mi salva (Fil 3)- la promessa è dell’impossibile (Gn 18,1-15; 25,21ss; 30,22ss; Gdc 13,1ss; 1Sam 1ss)- la fede è fiducia in chi promette, non nelle cose promesse (Gn 22)- Dio come centro della struttura dell’uomo (Gn 1,27)- la lode e la benedizione di Dio sono salvezza dell’uomo- Dio agisce con la parola: ci fa suoi interlocutori- turbamento davanti a lui- non temere- tutto è dono di Dio- vivere al suo cospetto- conversione- la fede è circa l’impossibile- mutezza/sordità di chi non crede- la promessa si realizza oltre la nostra fede.

4. Passi utili

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Oltre i già citati, è utile riprendere qui la storia della sterilità e della promessa nell’AT: Gn 18,1-15; Gdc 13,1-25; 1Sam 1,1-28.

3. ANNUNCIAZIONE: “AVVENGA A ME SECONDO LA TUA PAROLA”

(1,26-38)

26 Ora al sesto mesefu inviato l’angelo Gabriele da parte di Dioin una città della Galilea di nome Nazaret 27 davanti a una verginepromessa sposa a un uomo di nome Giuseppe della casa di Davide,e il nome della vergine: Maria.28 Ed entrato davanti a lei, disse:Gioisci,graziata,il Signore con te! 29 Ora ella a questa parola fu tutta turbata e discorrevadonde mai fosseun saluto simile.30 E disse l’angelo a lei:Non temere, Maria,trovasti infatti graziapresso Dio.Ed ecco:31 concepirai in ventree genererai un figlioe chiamerai il suo nomeGesù.32 Questi sarà grandee Figlio dell’Altissimo sarà chiamato,e il Signore Dio darà a lui33 il trono di David suo padre,e regnerà sulla casa di Jacob per i secoli,

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e dei suo regno non ci sarà fine.34 Ora Maria disse all’angelo:Come sarà questopoiché uomo non conosco?35 E rispondendo l’angelo le disse:Lo Spirito santo calerà su di te, e potenza dell’Altissimo adombrerà te, e perciò colui che nascerà sarà chiamato santo,Figlio di Dio.36 Ed ecco:Elisabetta tua parenteanch’essa concepì un figlio nella sua vecchiaia, e questo è il sesto mese per lei che è chiamata sterile;37 perché non sarà impossibilepresso Dionessuna parola.38 Ora disse Maria:Eccola serva dei Signore: avvenga a mesecondo la tua parola!E s’allontanò da lei l’angelo.

l. Messaggio nel contesto

Al mattino, a mezzogiorno e a sera, per tre volte al giorno, suonano le campane. È l’Ave Maria. Il saluto dell’angelo scandisce l’inizio, il centro e la fine del giorno. L’Angelus e l’Ave Maria fanno dell’annunciazione il racconto della Scrittura più noto e ripetuto. La vita cristiana porta nel suo cuore e ha come principio e come fine l’incarnazione del Verbo. Tutta centrata su questo mistero, è una continua attualizzazione “oggi” del “sì” che ha attratto Dio nel mondo.Maria è figura di ogni credente e della chiesa intera. Ciò che è avvenuto a lei deve accadere a ciascuno e a tutti. Il “sì” dell’uomo che accoglie e genera il Verbo, da cui tutto ha principio, è il fine stesso della creazione. La scena precedente si svolgeva nel tempio; ora nella “casa”, perché Dio ha finalmente trovato la “casa” di cui il tempio è figura.Il mistero può essere colto sotto vari aspetti, secondo che si consideri Maria come tipo del credente, apice del mondo, resto d’Israele, realizzazione della promessa, ecc. Il modo più adeguato è quello di collocarsi, con un colpo d’ala, dalla parte stessa di Dio. È l’incontro che lui ha cercato da tutta l’eternità, il momento in vista del quale iniziò il tempo, coronamento del suo sogno d’amore, premio del suo lavoro, ricompensa alla sua fatica. Finalmente dalle profondità della sua creazione che si è allontanata da lui, s’innalza un “sì” capace di attirarlo. E lui viene, si unisce e si compromette per sempre.Quale fu la gioia di Dio nel poter dire a Maria: “Gioisci”. Lo sposo finalmente, dopo tanti drammi, trova la sposa del suo cuore. Prima era triste, ma ora finalmente ha termine la sua sofferenza: è

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abbracciato da chi ama. La sua offerta trova mani che l’accolgono e le grandi braccia del mondo comprendono, concepiscono e stringono ciò senza cui l’uomo non è uomo. L’Amore è amato: ha trovato una casa dove abitare e la casa dell’uomo non è più deserta. L’incarnazione ha un carattere “passionale”: rivela la passione di Dio. È l’inizio delle nozze tra lui e l’umanità, il principio di un amore che sarà più forte della morte (Ct 8,6).Il racconto inizia con l’angelo “mandato” (= apostolo) e termina con l’angelo che parte. L’angelo è la presenza di Dio nella sua parola annunciata. La nostra fede nella sua parola accoglie lui stesso e ci unisce a lui: è il natale di Dio sulla terra e dell’uomo nei cieli. La Parola si fa carne in noi, senza lasciarci più e l’angelo può andare ad annunciarla ad altri, fino a quando il mistero compiutosi in Maria sarà compiuto tra tutti gli uomini. La salvezza di ogni uomo è diventare come Maria: dire sì alla proposta d’amore di Dio, dare carne nel suo corpo al suo Verbo eterno, generare nel mondo il Figlio.

2. Lettura del testo

v. 26: “Ora al sesto mese”. Il compimento è in gestazione già nel tempo della promessa. Anche se questa precede, i due sono in continuità e in parte contemporanei. Attesa e dono convivono sempre, fino al pieno riconoscimento. Inoltre il numero 6 richiama il giorno della creazione dell’uomo. L’annuncio al sesto mese indica che Dio entra nel giorno dell’uomo, facendosi suo contemporaneo e aprendogli il suo oggi eterno. “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna” (Gal 4,4). Nell’incarnazione il tempo raggiunge la sua pienezza, ricolmo dell’eterno che ora contiene.

“l'angelo Gabriele”. La forza della parola di Dio che ha portato a perfezione il ricordo della sua promessa in Zaccaria ed Elisabetta, porta ora a compimento la promessa stessa. Non si dirige verso la Giudea, luogo degli eredi della promessa, bensì verso la “Galilea”, regione infedele: la “Galilea delle genti” (Mt 4,15). La promessa segue l’erede fin nella terra della sua infedeltà.In Galilea raggiunge un paese insignificante, Nazaret. Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono (Gv 1,46)? Dio tiene conto di ogni lontananza e predilige ciò che è religiosamente squalificato e umanamente insignificante. Il privilegio dei lontani e dei piccoli fa parte dell’essenza misteriosa di Dio, che è misericordia. Essa vale in realtà per ogni uomo, lontano da lui e piccolo davanti a lui! Solo visitando il figlio più lontano, il padre ha abbracciato tutti i suoi figli! Prima il suo amore resta insoddisfatto.

v. 27: “davanti a una vergine”. Prima Dio si era rivolto a una coppia di anziani dando successo ai loro vani tentativi di avere un figlio. L’annuncio a Zaccaria serve appunto a far comprendere che lui, e solo lui, dà un futuro e salva. Ora invece si rivolge a una “vergine”, a una che ha rinunciato ad ogni sterile tentativo. E si dona a lei come suo figlio, per far comprendere che il futuro e la salvezza dell’uomo viene solo da lui ed è lui stesso. Il compimento supera ogni attesa!La verginità di Maria pone infatti la domanda circa la paternità.Paternità significa origine e natura, significa identità: chi è veramente il figlio donato a Maria? Paternità e parola vanno insieme: il padre dà il nome e dice la parola che fa crescere il figlio come persona libera. La questione della paternità di Gesù si apre con l’accoglienza della parola (v. 38), è dichiarata dalla sua obbedienza al Padre (2,49) e trova risposta alla fine del suo cammino di giusto che sulla croce si consegna al Padre (23,46).La verginità di Maria indica innanzitutto che ciò che nasce da lei è puro dono. Il futuro, in lei offerto a tutto il mondo, è grazia e dono di Dio, è anzi Dio stesso come grazia e dono. La verginità indica

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inoltre la condizione alla quale Dio può donarsi. La capacità dell’uomo di concepire l’umanamente inconcepibile non è quella delle coppie sterili dell’AT, dove è dato successo ad un’azione umana senza successo. Tale capacità è la verginità, la rinuncia ad agire. In Maria infatti non c’è alcuna azione umana. Dio solo agisce. Dall’altra parte trova solo obbedienza e accoglienza, senza alcuna azione di disturbo. La verginità indica quindi l’attitudine più alta dell’uomo: la passività e la povertà totale di chi rinuncia all’agire proprio per lasciare il posto a quello di Dio. È la fede. Questo vuoto assoluto è l’unica capacità in grado di contenere l’Assoluto. Solo il nulla può concepire totalmente colui che è tutto. Per questo è nulla.Maria realizza il mistero della fede: accettare Dio com’è. È figura di ogni uomo e di tutta la chiesa che, nella fede, concepisce l’inconcepibile: Dio stesso. Maria, vergine madre, è “termine fisso d’eterno consiglio”, proprio per la sua verginità che la rende capace di generare Dio. Questo è per ciascuno di noi e per tutta la storia umana, il punto d’arrivo: è la fede pura che attira in noi il Salvatore. Frutto di una storia di “impotenza” sperimentata, fino alla rinuncia ad essere capaci, la fede rompe i limiti di ogni incapacità umana per renderci capaci di Dio.

“promessa sposa a un uomo di nome Giuseppe della casa di Davide”. La genealogia, così preziosa in Israele, tramanda di padre in figlio la promessa di Dio. Attraverso le generazioni i padri vivono nell’attesa dei figli e i figli dell’attesa dei padri. Alla casa di Davide, che aveva costruito una casa al Signore - che è poi Maria - il Signore aveva promesso una casa definitiva in cui abitare. Ma non è l’uomo che costruisce la dimora a Dio, bensì Dio che si fa casa a colui che gli dona casa (cf. 2Sam 7). C’è corrispondenza tra figlio e casa, tra casa e casato. Il nome dello sposo è “Giuseppe”, che significa “possa Dio aggiungere”. Attraverso Maria Dio aggiungerà a lui se stesso come figlio. “Maria” infatti, il nome della sposa, significa “altezza, sommità, eccellenza”. Per la sua bassezza e la sua umiltà abissale essa sarà madre del Figlio dell’Altissimo, in cui ogni uomo troverà casa.

v. 28: “Gioisci, ecc.”. È l’unico saluto di Dio che inizia così. In genere troviamo “non temere”. Il timore è il preannuncio della sua visita, la gioia il profumo che lascia. Il saluto dell’angelo è analogo alla promessa di Sof 3,14-17. Gioisci perché è giunto il momento promesso, rallegrati come Dio stesso si rallegra, partecipa alla sua gioia. È il grido di gioia dello sposo, come quello di Adamo alla vista di Eva. Finalmente si compie il desiderio del suo cuore: congiungersi con chi, da sempre desiderato e fuggitivo, finalmente lo desidera e gli si fa incontro. La gioia di Dio è piena, perché può finalmente gioire delle sue creature (Sal 104,31). E Maria può dire non solo: “La mia gioia è nel Signore” (Sal 104,34), ma addirittura: “II Signore è la mia gioia”. Il suo vuoto è stato colmato, l’assenza si è fatta presenza.

“il Signore con te”, le dice l’angelo (cf. Gdc 6,12). L’uomo da sempre ha desiderato essere con Dio. Ogni religione nasce da questo desiderio. Ma Dio abita in luogo inaccessibile. Non può quindi restare che come “desiderio” impossibile dell’uomo la sua “stella”, che necessariamente gli manca. Ora invece l’infinitamente lontano si è fatto vicino, l’eterno entra nel tempo, l’altissimo si è curvato, l’immenso si è concentrato e fatto piccolo per essere abbracciato e concepito. Siccome l’uomo non può essere con Dio, Dio ha deciso di essere con l’uomo. Perché la gioia di Dio, che è amore, è di essere con l’amata.Per questo Maria è chiamata “colmata-di-grazia”, o, meglio, “graziata”. Il termine non ha connotazione morale, ma ontologica, ed è l’opposto di “disgraziata”. È colei che non è più disgraziata, perché Dio le ha fatto grazia di salvarla dal vuoto, facendole grazia di se stesso. “Graziata” è come il suo nome. Il mio nome vero infatti è l’amore che Dio ha per me.

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v. 29: “tutta turbata, ecc.”. A questa parola resta “turbata” e si domanda che cosa significa questo saluto. Anche il lettore partecipa al turbamento. È invitato a chiedersi che cosa significa: “Gioisci! il Signore è con te!”. In che modo il Signore è con me, mi ha graziata e mi ha fatto grazia di sé, così che possa gioire? Sarà ciò che spiega l’angelo Gabriele, parola potente di Dio, nei versetti seguenti.

v. 30: “Non temere, ecc.”. Con queste parole l’angelo prepara la rivelazione del grande mistero. Ciò che Mosè, pur desiderandolo, neanche poté vedere, se non di spalle (Es 33,18ss) - Dio è Dio e lui solo è Dio! - qui viene donato all’uomo come suo figlio, suo se stesso e futuro pieno. Il desiderio inaudito di Mosè è qui esaudito ben oltre ogni possibile desiderio stesso, in modo impossibile. Maria ha trovato presso Dio una grazia ben più grande di quella che Mosè aveva osato chiedere; ha trovato tanta grazia da essere pregna di tutta la grazia.

v. 31: “concepirai, ecc.”. Quel Dio che non poteva essere raggiunto o visto, nemmeno pensato o immaginato, tu lo concepirai e lo abbraccerai; lo genererai e lo chiamerai per nome. Questa è la grazia concessa da Dio alla verginità di Maria: concepire l’inconcepibile, generare colui dal quale tutto è stato fatto, dare nome al Nome, l’innominabile.“Gesù” è il Nome: la grazia e la salvezza di Dio, Dio che è per noi grazia e salvezza!

v. 32: “ Questi sarà grande”. Non solo agli occhi di Dio, come il Battista (1,15), ma anche agli occhi degli uomini. Sarà infatti il “Figlio dell’Altissimo”, l’altezza stessa di Dio chinato sull’uomo.

v. 33 “regnerà, ecc.”. In lui fiorisce l’albero morto del passato, si riempie il tempo vuoto dell’attesa, arriva il futuro promesso a Davide.

v. 34: “Come sarà questo?”. Maria, a differenza dell’incredulo Zaccaria, non si chiede come sia possibile, ma come avverrà. Sa che Dio opera l’impossibile nella storia umana, vuole solo capire il “come”, per regolarsi e disporsi alla sua azione.

“uomo non conosco”. Se lo conoscesse, ciò che nascerebbe da lei non sarebbe da Dio, ma dall’uomo. L’osservazione di Maria sulla sua verginità serve a introdurre il discorso successivo, che spiega come avviene l’azione impossibile di Dio.

v. 35: “Lo Spirito santo calerà su di te”. Dio opera l’impossibile donando all’uomo il suo Spirito. Il nuovo principio di vita e di azione in Maria non è più quello dell’uomo vecchio - Maria infatti ha rinunciato ad agire! - ma quello di Dio. Lo Spirito che aleggiava sul caos primordiale, che copriva il monte e l’arca dove fu data e custodita la Parola, ora entra in azione in modo nuovo e definitivo. Con la creazione Dio fece il mondo distinto da sé e si creò il luogo dove farsi una casa; con il dono della legge si fece un popolo per sé e si edificò la casa stessa dove abitare; ora porta a compimento il suo disegno: entra in questa casa per dimorarvi stabilmente. Così l’uomo, creato a immagine e somiglianza sua, finalmente ritrova se stesso, e, nella stanza dove fu generato, là dove lo concepì sua madre (Ct 8,2.5), si ricongiunge con il volto sospirato (Ct 1,2). Infatti colui che nascerà nel grembo della vergine sarà “santo” e “Figlio di Dio”, Dio stesso. Quello Spirito che covava la notte della creazione, che fu ombra sul Sinai e nuvola sulla tenda e poi nel tempio, avvolgerà pure Maria, vera arca dell’alleanza, nuovo tempio che contiene la luce di Dio.

“potenza dell'Altissimo adombrerà te”. Dio si fa nube per potersi mostrare ai nostri occhi: la sua presenza è oscura per la nostra mente. Solo la fede sa che in questa tenebra è la luce, tenebrosa perché

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troppo luminosa, di Dio che viene ad abitare in noi. Egli deve velarsi per svelarsi: nessuno può vedere la luce se un oggetto non gli fa da ostacolo! Egli si oscura per adattarsi al nostri occhi, che nella fede si aprono per vederne il riverbero.

v. 36: “Elisabetta tua parente, ecc.”. A Maria, come a ogni credente, viene dato un segno per capire l’azione di Dio: guardare la storia di Israele, compendiata nella vicenda di Elisabetta. Solo lì, dalla sua promessa e non da una premessa umana, si coglie l’azione di Dio.

v. 37: “non sarà impossibile presso Dio nessuna parola” (Gn 18,14; Ger 32,27). Dio, come si vede dalla storia sacra, lascia fare a noi il possibile e fa dell’impossibile il suo lavoro quotidiano a favore dell’uomo.

v. 38: “Ecco la serva del Signore”. Nel “ricordo” di questa esperienza storica dell’azione di Dio nei patriarchi e nei profeti Maria è preparata a credere alla Parola. Così può dire: “Ecco la serva”. Maria si chiama serva perché totalmente disposta a obbedire, a lasciar spazio alla parola, a lasciarla vivere e crescere in sé fino a riempirle tutta la vita. In questo “ecco” di Maria, la serva di Dio, sta l’“ecco” di Dio, vero servo dell’uomo. Finalmente la sua disponibilità trova risposta, il suo cuore trova un “sì” pieno. Il “sì” della serva accoglie l’eterno “sì” di Dio all’uomo.All’amore di Dio che lo cercava, nella disobbedienza e nella fuga Adamo aveva risposto: “Mi sono nascosto!” (Gn 3,10). Ora, in Maria, l’umanità stessa risponde: “Eccomi” a colui che da sempre ha detto “eccomi, eccomi”, a chi non lo cercava (cf. Is 65,1). Dio esulta di gioia incontenibile. Amore da sempre respinto, ora si sente accolto. Amore da sempre non amato, ora si sente amato. Da millenni, anzi dall’eternità, aveva atteso questo momento in cui la sua creatura gli facesse grazia di dire: “Eccomi”, in modo da poterla riempire di se stesso.Dio è “avvento”: necessariamente viene all’uomo, perché è amore amante. L’uomo è “attesa”: necessariamente tende a lui, perché è bisogno di essere amato. Per questo, quando l’uomo lo attende e dice: “Eccomi”, Dio non può non venire. Così si unisce a lui in un’unica carne: è l’oggi della salvezza.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la casetta di Maria a Nazareth.c. Chiedo ciò che voglio: considerare rivolta a me la parola detta a Maria e gioire della grazia di Dio.

d. Punti su cui riflettere:- promessa e compimento- la verginità di Maria- gioisci- piena di grazia, il Signore è con te- concepirai- lo Spirito santo calerà su te- ecco la serva del Signore - avvenga a me secondo la tua parola.

4. Passi utili

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Sof 3,14-17; 2Sam 7.

4. VISITAZIONE: “E BEATA COLEI CHE HA CREDUTO”

(1,39-45)

39 Ora sorta Mariain quei giorni andòverso la montagnacon frettaverso una città di Giuda,40 ed entrò nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta.41 E avvenne che,quando Elisabetta udì il saluto di Maria, sussultò il feto nel suo grembo, e fu riempita di Spirito santo Elisabetta42 ed esclamò con voce grande e disse:Benedetta tu tra le donne,e benedetto il frutto dei tuo grembo!43 E donde a me questo,che venga la madre dei mio Signore verso me?44 Ecco infatti:quando arrivò la voce dei tuo saluto ai miei orecchi, sussultò di esultanzail feto nel mio grembo.45 E beatacolei che ha credutoche ci sarà un compimento alle cose a lei dette da parte dei Signore.

1. Messaggio nel contesto

Mediante Maria, fattasi obbedienza alla Parola, Dio visita il suo popolo e il suo popolo lo riconosce. Questo riconoscimento è il termine del suo piano, fine della sua fatica (cf. 19,44; 13,34), compimento della storia della salvezza (cf. Rm 11,25-36).Il mistero della visitazione è l’anticipo di questo avvenimento escatologico, in cui sarà usata misericordia a tutti coloro che erano rinchiusi nella disobbedienza (Rm 11,32). È la gioia finale dell’incontro, tanto ostacolato e tanto sospirato, tra sposo e sposa, di cui parla il Cantico. La visita del Signore è il senso della storia personale e universale. Ma chi sa discernerla?

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Elisabetta è gravida di due millenni di attesa, Maria porta in sé l’Eterno atteso. Nel loro incontro è l’abbraccio tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra la promessa e il compimento. Due donne, segno di accoglienza, si salutano. Nella loro reciproca accoglienza è riconosciuto colui che è Accoglienza. L’incontro avviene per iniziativa di colei che è beata poiché ha creduto all’adempimento della parola del Signore: Maria va da Elisabetta, segno che ha dato colui al quale “nulla è impossibile” (1,36s). Il NT va a riconoscere nell’AT il dono precontenuto come promessa dell’impossibile. Solo in questa visita e frequentazione dell’AT il NT capisce la realtà di cui è compimento. Per questo Luca introduce accuratamente il suo lettore di origine pagana nella storia di Israele, della quale offre nei primi capitoli come un riassunto. Al di fuori della promessa dell’AT è impossibile “riconoscere” il dono di Dio che è venuto a visitarci. Solo il Battista è in grado di indicarlo.Legge e promessa sono come le mani che, attraverso Israele, Dio ha creato perché l’umanità possa tenderle verso di lui e accoglierlo. Un dono che non trova mani per riceverlo e sostenerlo, cade e si perde. Maria, visitando Elisabetta, riconosce la verità di ciò che capita in lei; la chiesa, ricorrendo all’AT, comprende ciò che ha concepito. E in Maria e nella chiesa Israele vede la visita che il Signore gli ha fatto. È un grande mistero, questo riconoscimento: segna il passaggio dalla promessa al compimento, dono della piena conoscenza del Signore.

2. Lettura del testo

v. 39: “Maria in quei giorni andò verso la montagna”. Maria va “in fretta” a visitare Elisabetta. Non certo mossa da ansia o incertezza, ma da gioia e premura. Non va per curiosità o per accertamento; crede a ciò che le è stato detto circa sua cugina. Va’ per slancio di amicizia. A Zaccaria che non crede e chiede un segno, Dio non ne dà, se non l’essere muto e inespressivo. A Maria invece, che crede, sarà accordato il vero segno nel riconoscimento di Elisabetta. Se non si crede, il dono di Dio non può essere accolto, qualunque segno si dia.Come Maria va verso i monti di Giudea, così il lettore etnico-cristiano di Luca visita con gioia e con premura le montagne della benevolenza di Dio e frequenta l’AT che gli fa riconoscere e comprendere il dono che gli è stato fatto. In questo incontro con l’AT si avvertirà, attraverso un sussulto di gioia, la presenza di una parola non ancora venuta alla luce. Si vedrà l’attesa di ciò che neanche si osava attendere, si vedrà la promessa di Dio indeducibile da ogni premessa umana; si vedrà l’impossibile di cui l’uomo ha bisogno. In ogni frequentazione cristiana dell’AT ci sarà l’esultanza: si riconosceranno e si abbracceranno desiderio e desiderato, amante e amato. Se non si ricorre all’AT, nessuno ci dice e ci spiega ciò che Dio ci ha donato in Gesù. Il dono stesso di Dio è ritenuto impossibile, quindi non è desiderato e tanto meno amato. Cos’è il desiderato, se nessuno lo desidera, l’amante se nessuno lo ama? È la tragedia di Dio sulla terra - passione crocifissa di un amore non amato e di un desiderio non desiderato. Ma è anche la tragedia dell’uomo, che resta necessariamente desiderio e amore senza oggetto, vuoto che concepisce il nulla.È da notare che Elisabetta e Maria sono parenti, come coloro che portano nelle viscere. Uomo e Dio, attesa e atteso sono della stessa carne! La storia di Israele ci attesta questa parentela stretta, che si consumerà sulla croce.

v. 40: “ed entrò nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. Il saluto ebraico è shalòm, pace! Maria augura, promette e porta a questa casa la pace, segno della visita del Signore. Oltre il saluto, chi è accolto “benedice” chi lo accoglie. “Dice-bene” di colui che, accogliendolo, gli “dà il bene” di condividere con lui il tetto e il pane. L’ospite in Israele è sacro e l’ospitalità è una benedizione. In essa si lascia fluire il bene ricevuto, riconoscendone la sorgente inesauribile. Dando il dono donato, ci

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si inserisce nel circolo vitale di Dio. La non ospitalità è maledizione: non donare e non accogliere è negare colui che sta all’origine di ogni dono e accoglienza, è escludersi dalla vita.Maria, per la sua fede nella Parola, porta in sé la beatitudine di quel dono che è Dio stesso. Elisabetta trasalisce: riconosce in lei la realtà di ogni promessa. Cessa l’attesa, cessano i preparativi. Inizia la gioia e risuona il grido dell’arrivo dello sposo. È nel NT, cioè in Maria, che Israele sussulta, esulta e si ritrova.D’altra parte Maria, come già detto, è anche segno del Nuovo Testamento che necessariamente ricorre all’Antico per capire il dono che porta in grembo. Per questo si può dire che l’AT è eterno in Cristo. L’essenza di un dono promesso è sempre nella promessa di chi l’ha donato. La promessa di un dono si traduce non nel suo possesso, ma nella sua fruizione. La promessa della terra non si traduce mai in possesso della terra, ma in terra della promessa - pena l’esserne scacciati.Se si può dire che l’Antico Testamento è chiaro nel Nuovo, si può anche dire che il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico. Per questo non possono non frequentarsi per riconoscersi: come l’azione di Dio in Elisabetta resta nascosta a tutti e si rivela solo nell’incontro con Maria, così l’azione di Dio in Maria resta nascosta a tutti e si rivela solo nell’incontro con Elisabetta.

v. 41: “sussultò il feto nel suo grembo”. Alla presenza di Maria, sussultano le viscere di Elisabetta. I due bambini si riconoscono prima delle rispettive madri, che pur si conoscevano bene! C’è un riconoscimento viscerale tra promessa e compimento, di cui i rispettivi portatori si accorgono dopo. L’azione di Dio che promette e adempie ci fa trasalire nel profondo. Da questo la riconosciamo. Non è però un sussulto “soggettivo”: è di Giovanni, il figlio promesso a Israele sterile! Questo incontro è il punto di arrivo della comune storia di Dio e dell’uomo.Esso è prima vissuto nell’esultanza oggettiva delle viscere e poi celebrato dal cuore e dalla bocca delle due donne.Il principio della visita di Dio è la fede, l’obbedienza alla Parola, che porta a confrontarsi con la storia che Dio ha realizzato con Israele: questa fede deve superare le fatiche di Zaccaria: giustizia e sterilità, resistenza e inespressività davanti alla promessa incredibile, che pure si realizza. Ma ha pure le caratteristiche di Maria, che corre sulla montagna della Giudea per aiutare Elisabetta e sapere da lei ciò che Dio ha operato. Dopo questa fatica avviene l’incontro pieno di gioia.Questo racconto anticipa la pentecoste: lo stesso Spirito che là riempirà gli apostoli, qui riempie Elisabetta. L’incontro con il Signore è alla fine sempre questo dono dello Spirito, riconoscibile dai frutti.

v. 42: “Benedetta tu tra le donne, e benedetto il frutto, ecc.”. Per questo grande dono Elisabetta grida a gran voce la sua gioia incontenibile che si esprime in una duplice benedizione. Innanzitutto benedice Maria, la donna prefigurata in Giaele e in Giuditta (cf. Gdc 5,24ss; Gdt 13,18) che avevano annientato e vinto il nemico. Maria, con la sua obbedienza alla Parola, ha annientato e vinto l’antico nemico che ha avvelenato tutta l’umanità. E poi benedice il frutto delle sue viscere, radice di ogni benedizione. Maria è l’arca dell’alleanza. Essa porta il frutto della discendenza di Eva che schiaccia la testa al serpente (Gn 3,15).In lui tutta la creazione torna benedizione e vita, perché è vinto colui che l’aveva fatta cadere nella maledizione.

v. 43: “E donde a me questo, ecc.”. Al grido di benedizione per il dono ricevuto, si accompagna il senso di meraviglia: come mai a me questa grazia? La visita del Signore, se è del Signore, evidenzia la nostra indegnità. Invece di orgoglio, provoca umiltà. La verità di Dio, l’Altissimo, illumina la nostra bassezza. Ma tale constatazione, invece di deprimerci, ci rende contenti e capaci del dono: ne fa

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brillare il carattere immeritato e ne fa vedere la sublimità proprio dalla profondità del demerito. Ciò che si merita non è dono! Dio non può che essere immeritato perché è amore. Se l’amore ha una misura, è la non amabilità dell’amato. L’umiltà e la gioia accompagnano sempre la conoscenza e l’amore di Dio. Sono il suo biglietto da visita.

v. 44 “sussultò di esultanza il feto”. Il sussulto che permette il riconoscimento è narrato due volte: prima come fatto (v. 41) e poi come conoscenza dei fatto. Non basta che avvenga la visita del Signore. Bisogna che chi è visitato la riconosca.Lui infatti ci visita sempre. Nel suo amore folle ci viene incontro di continuo, anche se non ce ne accorgiamo e per questo non lo amiamo! Egli ci visita nelle viscere della nostra profondità, in quel punto che si è riservato per sé. È indispensabile per noi accorgerci di ciò che lì avviene. Il nemico non può entrare in questo luogo, dove noi siamo noi stessi e Dio è più noi di quanto lo siamo noi stessi. Questo luogo è la nostra finestra su di lui, la nostra origine, la sorgente da cui scaturisce il nostro ruscello di vita! Ma, anche se non può entrare in questo luogo, il nemico fa di tutto per tenermene fuori, perché io resti fuori di me, senza coscienza e immemore di lui. Entro nel mio vero io attraverso il “ricordo” costante del Signore e l’attento ascolto del cuore, delle sue gioie e delle sue resistenze. Così mi rendo cosciente della sua presenza ed esplodo nella gioia della lode e della benedizione. Per questo i padri dicevano che il gigante dei peccati è l’oblio.

v. 45: “E beata colei che ha creduto, ecc.”. Elisabetta infine chiama beata Maria perché ha creduto nell’adempimento della parola dei Signore. È la prima beatitudine, quella fondamentale: la fede nella promessa, che permette al Signore di vivere “oggi” nel credente che lo ascolta. Nel Vangelo di Giovanni è anche l’ultima beatitudine, pronunciata dal Risorto: “Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20,29). Se Maria, che non aveva visto, non avesse creduto, non ci sarebbe colui che gli apostoli hanno visto e quindi creduto. La sua fede, senza aver visto, rende visibile ciò che viene creduto. Tipico del dinamismo della fede è che l’ascolto precede la vista. Diversamente, anche se si vede un morto risorgere, non si crede (16,29-31). La Parola va accolta come essa veramente è, quale “parola di Dio che opera in voi che credete” (1Ts 2,13). Nulla ostacola di più Satana che quest’accoglienza della Parola (cf. 8,12). È per questa fede che è generato il Salvatore.Un’altra donna disse a Gesù di Maria: “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte”. Ma Gesù rispose: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (11,27s). Se la maternità di Maria è causa della sua beatitudine, la fede è causa della sua maternità. In un inno orientale, Maria è chiamata “la Tutta-orecchio”: la sua maternità, prima che nel ventre, è nell’orecchio che accoglie con fede la Parola.La sua beatitudine di madre di Dio è condivisa da ogni credente che ascolta e fa la Parola (8,21; 11,27s).Questa fede è il principio del riconoscimento di ogni visita del Signore, che diversamente passa inosservata.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera, come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Maria che va sui monti della Giudea ed entra nella casa di Elisabetta.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscere la visita del Signore.

d. Punti su cui riflettere:

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- Elisabetta e Maria- chiesa e Israele- compimento e promessa- Nuovo e Antico Testamento- gioia del riconoscimento della visita del Signore- benedetta tu tra le donne- benedetto il frutto- beata te che hai creduto.

4. Passi utili

Gdc 5,24ss; Gdt 13,18.

5. GRANDIFICA L'ANIMA MIA IL SIGNORE

(1,46-56)

46 E disse Maria:Grandifica l’anima mia il Signore,47 ed esultò il mio spirito in Dio, mio salvatore,48 perché guardò giù sulla bassezza della sua serva.Ecco infatti:da ora mi diranno beata tutte le generazioni,49 perché fece a me grandi cose il Potente,e santo il suo nome;50 e la sua misericordia di generazione in generazione per quanti lo temono.51 Fece potenza coi suo braccio: disperse gli orgogliosi nel pensiero del loro cuore,52 abbatté potenti dai troni e innalzò tapini,53 affamati riempì di beni e ricchi mandò via vuoti,54 si prese Israele, suo servo,ricordandosi della sua misericordia,55 come parlò ai nostri padri,ad Abramo e al seme suo per sempre.56 Ora dimorò Maria

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con lei circa tre mesi,e ritornò alla sua casa.

1. Messaggio nel contesto

Il Magnificat, con il quale la chiesa conclude ogni giorno i vespri, è il canto di coloro che hanno sperimentato oggi la salvezza. È un cantico di lode, sul tipo di quello di Anna (1Sam 2), che vede la realizzazione della promessa. Esprime la beatitudine di chi ha riconosciuto l’azione di dio in suo favore; prorompe dal cuore di chi ha accolto il suo Signore. È un inno personale e insieme universale e cosmico. Maria è la bocca della figlia di Sion, di tutta l’umanità e di tutta la creazione che vede compiersi la promessa di Dio, più grande di ogni fama (Sal 138,2).È il canto nuovo che prorompe dall’uomo nuovo. L’azione di Dio culmina nel canto dell’uomo. Perché canta chi ama e l’amore riposa solo quando è amato. L’arrivo di tutta la storia sarà un canto di gioia senza fine.Questo canto, anticipato da Maria, è il frutto maturo dell’ascolto di fede, in cui si svela compiutamente il senso della creazione e della storia.Il Magnificat è un compendio di storia della salvezza, che descrive l’azione di Dio - esatto contrappunto di quella umana - attraverso un centone di citazioni e allusioni bibliche. La prima parte è il rendimento di grazie di Maria per ciò che Dio ha compiuto in lei (vv. 46-50), dandone i motivi (vv. 48-49). La seconda parte estende a tutti gli uomini l’azione che Dio in lei ha compiuto, descritta con sette affermazioni (vv. 51-56).Il canto di Maria, occasionato dalla beatitudine proclamata da Elisabetta, ha la stessa melodia delle beatitudini (6,20-26).

2. Lettura del testo

v. 46: “Grandifica l'anima mia il Signore”. La constatazione del dono ricevuto, proclamata dalla cugina, pone Maria in solitudine assoluta davanti al donatore stesso, ricevuto come dono. E per lui canta, senza neanche rispondere a Elisabetta. L’occhio nuovo, ossia il cuore nuovo, le dà il motivo del canto nuovo. L’occhio del vecchio Adamo fece Dio piccolo, vedendolo meschino, invidioso e cattivo (Gn 3,1ss); quello di Sara lo irrise come incapace del prodigio della vita (Gn 18,10-15); quello di Israele considerò “raccorciato” il suo braccio, inetto a salvare (Nm 11,23). L’occhio di Maria invece “fa grande” Dio (“magnificare” = far grande) e lo vede come generoso amante, elargitore di ogni bene, capace di dare la vita, dal braccio potente, vittorioso su ogni male. L’uomo s’era fatto di Dio un idolo a sua immagine e somiglianza, in un continuo rimpicciolimento di lui che, inevitabilmente, diventa un rimpicciolimento di sé - fino al nulla di sé. Maria invece gli dà la grandezza del suo nome. Lo riconosce come Dio e si scopre piena di lui. Ognuno lo riceve nella misura in cui lo “magnifica” e lo magnifica nella misura in cui cede posto alla sua altezza, abbassandosi.Maria, quindi, lo magnifica non perché sia vanitoso e desideri essere riconosciuto nelle sue prerogative, ma perché accogliere la sua grandezza è la nostra verità.Se Maria, invece di lodarlo, si fosse esaltata, sarebbe diventata all’istante come Lucifero, come chiunque si appropria del dono ricevuto.Il dono più grande che Dio ci fa, il primo di tutti, è considerarlo grande, grande e per noi. Questo suscita in noi una magnanimità umile, che ci rende atti ad accoglierlo.

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v. 47: “ed esultò il mio spirito, ecc.”. La conseguenza dell’aver fatto grande Dio è l’esultanza. Maria non si compiace di sé e neanche del dono ricevuto o della salvezza, ma del donatore e salvatore stesso; in lui esulta e danza. Questo gioire della grazia di Dio è l’alto destino dell’uomo. Tutti i doni che egli ci elargisce sono finalizzati a farci partecipi del piacere del suo cuore: sono semplici segni dei suo amore, gioielli che l’amato dà all’amata, perché di lui gioisca.

v. 48: “guardò giù sulla bassezza, ecc.”. Si dice il motivo del dono. Non la sua pietà o bontà, non la sua sublimità umana o religiosa ha attirato l’occhio di Dio. Egli è l’altissimo e può guardare solo verso il basso: come fa grazia all’umile, così resiste a chi sta in alto (1Pt 5,5).Il motivo del dono è quindi la sua umiltà (dal latino humus = terra, stessa radice di “uomo”!), il suo essere terra terra, piccola, “tapina”. Maria è come il nulla, che solo è in grado di ricevere il tutto. L’amore e il dono sono tali nella misura in cui non sono meritati. Dio, che è amore e dono, può essere accolto nella coscienza del proprio demerito. Maria è il primo essere umano che riconosce la propria piccolezza e distanza da lui, in modo pieno e assoluto. Per questo Dio può darsi a lei in modo pieno e assoluto. Il merito fondamentale di Maria è sapere di non meritare. In lei è superata ogni ansietà religiosa e sete di perfezione; c’è la pace perfetta di chi riconosce la propria verità come infinita nullità. Ma senza disperare, perché questa, e solo questa, è in grado di contenere l’infinita verità di Dio.Giustamente la chiesa proclama Maria esente dal peccato originale; infatti è libera dalla menzogna antica che impedisce quell’umiltà fiduciosa, che dovrebbe essere tipica della creatura (cf. Sal 131).Maria si proclama “schiava” e “umile”. La sua umiltà non è però quella “bella virtù” che porta ad abbassarsi, magari per non cadere o essere esaltato da altri. Non è neanche una virtù, ma la verità essenziale dell’uomo che è humus, umile, terra. Lei la riconosce e accetta, così che Dio sia l’unico grande.

“mi diranno beata tutte le generazioni, ecc.”. Tutti gli uomini si congratuleranno con lei non per la sua umiltà, ma perché Dio ha guardato alla sua bassezza. Egli ha manifestato il suo amore nella sua non amabilità. Il motivo stesso del magnificare il Signore e del danzare in lui è il suo sguardo posato su di lei. Questo è il centro di tutto. L’occhio è l’organo del cuore. La profondità del suo amore è proporzionale all’infinita distanza da lui che Maria riconosce: nel suo abisso si manifesta in modo pieno l’essere di Dio. Tutte le generazioni gioiranno d’ora in poi con lei della sua stessa gioia di Dio. In lei infatti l’abisso, il nulla dell’uomo, si è rivelato capace di concepire Dio, il dono dei doni.

v. 49: “perché fece a me grandi cose, ecc.”. Nella sua piccolezza Dio, dopo aver guardato, ha operato - il suo sguardo opera! - “per lei” cose grandi. Ha anzi operato la cosa più grande che possa fare colui che è onnipotente nell’amore: donare se stesso. Dio è chiamato col nome di “Potente”, “colui che può”. E cosa può colui che può? Può l’impossibile, perché nulla gli è impossibile (v. 37), neanche il vero impossibile: donare se stesso, totalità infinita, a una creatura sempre limitata e finita. Per questa sua opera è “santo il nome suo”: la sua santità, l’assoluta sua alterità, si manifesta sulla terra. Il suo nome è ora “santificato come in cielo così in terra”, riconosciuto e glorificato tra gli uomini come gli spetta. È Dio stesso che santifica il proprio nome sulla terra, guardando, rivelandosi e donandosi al tapino. Si compie la prima richiesta che Gesù ci ha insegnato nella sua preghiera.

v. 50: “e la sua misericordia, ecc.”. Maria sintetizza in una sola parola tutti gli attributi di colui che già ha chiamato: Signore, Dio, Salvatore, Potente, Santo. Il nome per il quale sarà conosciuto e sperimentato per tutte le generazioni, il suo nome per sempre, perché è suo da sempre, è “misericordia”. Misericordia traduce le parole ebraiche hesed e rahamim, compassione e uterinità. L’essenza di Dio è amore che non si può non amare, perché siamo suoi figli. E non può non amarci

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nel nostro male, perché questo non fa altro che alimentare la compassione delle sue viscere materne. Questa è la sua santità, la sua diversità (cf. 6,36 con Lv 19,2), rivelata pienamente alla nuova Eva. Guarirà così l’occhio cattivo della prima Eva, che l’aveva considerato geloso ed egoista. Quest’esperienza sarà fatta da tutti coloro che “temono” Dio, che tengono Dio in conto di Dio, lo considerano tale nella loro vita concreta.

vv. 51-54: “fece potenza, ecc.”. Maria descrive la storia biblica della salvezza in sette azioni di Dio, che raddrizzano le deviazioni dell’uomo. La descrive con verbi al passato, perché in ciò che le è avvenuto si è già adempiuta la promessa di Israele. È il canto di come Dio ha agito e agirà per sempre.La sua misericordia non è sterile: la sua compassione è azione che abbatte i limiti invalicabili dell’uomo.La prima constatazione di chi fa grande Dio è sperimentare il suo “braccio”. Egli lo stende come nell’esodo (cf. Dt 5,15) e salva chi è perduto. Lui solo è Dio, forte e vittorioso su ogni male. Conoscere il suo braccio è liberazione da quel male profondo che è credere che il male sia più forte del bene, che il male sia “potente”, che il male sia Dio. È come considerare che Dio sia male. È la vittoria fondamentale sull’inganno originario e sulla disperazione che ne consegue.

“disperse gli orgogliosi, ecc.”. Come libera il perduto, così disperde gli orgogliosi. Smonta i sofismi di cui è caduto vittima il cuore dell’uomo che, non fidandosi di Dio, ha fatto da Dio a se stesso. Così anche il superbo, trovandosi perduto, può diventare umile ed essere salvato. Dalla mano potente di Dio è salvato l’umile ed è vinta la stoltezza del cuore orgoglioso. È capovolto il destino dell’uomo, rivoluzionata la sua esistenza di male e di sofferenza, di dominio e di oppressione, di schiavitù e di sudditanza. Sono abolite le ingiustizie, i troni e le idolatrie che lo asservono. L’uomo vero, nella sua realtà di tapino, si innalza nella sua dignità di amato da Dio.L’affamato è sazio e il sazio ridotto a fame. Ma anche il sazio, ridotto a fame, è posto nella condizione di poter essere da Dio saziato.Oltre che in senso materiale, tale azione va intesa anche in senso spirituale. saziata la fame insaziabile dell’uomo che è fame di Dio, di essere come lui. Ogni falsa sazietà invece sarà ridotta a fame genuina, perché diventi non più fame di idoli, ma della verità.Così anche le mani, necessariamente vuote, di chi opera l’empietà - essa non riempie la mano del mietitore che l’ha seminata né il grembo di chi raccoglie i suoi covoni! (Sal 129,7) - potranno finalmente tendersi per accogliere il dono.Nell’esperienza di vuoto, oggi così diffusa, e nel frantumarsi dell’idolo che non paga e si sbriciola tra le mani, non è forse da riconoscere che l’uomo si trova sempre alla presenza di colui davanti al quale ogni idolo crolla (cf. 1Sam 5)?

“si prese Israele, suo servo, ecc.”. Maria sa di portare in sé il compimento della promessa: Dio finalmente si prende cura del suo popolo, come già nell’esodo, quando “lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari” (Dt 32,10).

v. 55: “come parlò ai nostri padri , ecc.”. Ciò che si compie in Maria è la stessa promessa fatta ad Abramo. Essa, che ha creduto alla Parola, vede realizzata in sé tutta la storia dalla promessa al compimento escatologico, aperto a tutti; nella sua discendenza, infatti, che è Gesù (Gal 3,16), saranno benedette tutte le stirpi della terra (Gn 12,3b).

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera, come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Maria in casa di Zaccaria.c. Chiedo ciò che voglio: gioire di Dio.

d. Punti su cui riflettere:- grandificare Dio- esultare in lui- la bassezza di Maria- le azioni di Dio e le deviazioni dell’uomo.

4. Passi utili

1Sam 2; Sal 34; 138; 146.

6. GIOVANNI È IL SUO NOME

(1,57-66)

57 Ora per Elisabetta si compì il tempo di partoriree generò un figlio.58 E ascoltarono i vicinie i suoi parenti che il Signore aveva fatto grande la sua misericordia con lei.59 E avvenne che nel giorno ottavovennero per circoncidere il bambinoe lo volevano chiamarecoi nome di suo padre, Zaccaria.60 E rispondendo sua madre disse:No, ma verrà chiamato Giovanni!61 E dissero a lei:Non c’è alcuno della tua parentela che si chiami con un nome così!62 Ora chiedevano con cenni a suo padre come avrebbe voluto che fosse chiamato.63 E chiesta una tavolettascrisse dicendo:Giovanniè il suo nome!

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e si stupirono tutti.64 Ora si aprì la sua bocca all’improvvisoe la sua lingua,e parlava benedicendo Dio.65 E fu timore su tutti i loro vicini,e in tutta la montagna della Giudea si discuteva di tutte queste parole,66 e (le) posero tutti quanti udivanonel loro cuore dicendo: che mai sarà questo bambino? E infatti la mano dei Signore era insieme con lui.

1. Messaggio nel contesto

Il centro del racconto è la questione circa il nome da dare al frutto della promessa fatta a Zaccaria. Il nome indica la persona, il suo unico e irripetibile valore. Uno esiste se e come è chiamato dagli altri: è una relazione, di cui il nome è espressione. Il vero nome dell’uomo è dato solo da Dio. Uno è se stesso nella sua relazione con lui: fatto da lui e per lui, è chiamato da lui con un nome ineffabile di amore, che lo fa esistere come è, a sua immagine e somiglianza. Davanti a lui ha il proprio volto. Alla brezza del giorno Dio scendeva a conversare con Adamo (Gn 3,8). Allora egli era se stesso, senza nascondimenti, paure o maschere, e cresceva nel proprio nome, il “tu” di colui che lo chiama e lo fa esistere come “io”. Ma poi, dopo il peccato, si nascose al proprio nome e al proprio volto. Divenne fuga e paura. Obbedendo alla menzogna del serpente, perse la sua identità e la fece consistere nei suoi terrori. Per questo si dice nell’Apocalisse che al vincitore sarà data “una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap 2,17; cf. 3,12; 19,12; Is 62,2; 65,15; 56,5). Il salvato riceve nuovamente il mistero profondo del proprio io, secondo la sua immagine particolare di Dio.Al di là di quello singolo, c’è un nome comune, quasi cognome di tutta la famiglia umana. Quello falso è il nostro essere figli del serpente (3,7), disgraziati figli dell’ira (Ef 2,3), generati dalla parola di menzogna cui abbiamo prestato ascolto (cf. Gv 8,43s). In Giovanni invece ci viene presentato il nostro vero cognome: Giovanni significa “dono, grazia e amore di Dio”. Il suo amore che mi fa grazia di tutto è la mia verità e natura di uomo: sono suo dono d’amore. Il primo dono di Dio a me sono io stesso; l’ultimo è lui in persona, che nel suo amore diventa me stesso più di quanto lo sia io. Il grande mistero del mio nome sarà pienamente svelato solo alla fine nelle nozze con Dio. Allora ciascuno riceve quel nome che nessuno ha mai supposto: Dio stesso che si dona e si identifica con lui in Cristo, facendo un’unica carne.

2. Lettura del testo

v. 57: “si compì il tempo di partorire, ecc.”. La nascita non è mai un caso, anche se spesso sembra esserlo, e in parte lo è. Non “siamo nati per caso, e dopo saremo come se non fossimo stati” (Sap 2,2a). L’uomo non viene dal nulla e non va al nulla: non è “fumo il soffio nelle sue narici”, la sua vita non “si dissiperà come aria leggera”, il suo nome non “sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà” di lui (Sap 2,2b-4). Il venire alla luce è sempre il “compimento” di un disegno di amore. Di questo Luca

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vuole rendere cosciente il cristiano che viene dal paganesimo e concepisce la vita sotto il dominio del fato, con la spada di Damocle che gli pende sul capo, fino a quando le Parche recideranno il tenue filo della vita, sospesa nel nulla eterno. Il Signore mi ha disegnato con amore sul palmo della sua mano (Is 49,16), fin “dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome” (Is 49,1), prima di ogni altro. “Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre” (Sal 139,13).Mi sei più madre di mia madre: mi hai formato tu stesso nel suo grembo, il tuo re e per sempre, perché il tuo cuore da sempre e per sempre palpita per me. “Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio” (Sal 139,14). L’uomo è il prodigio dell’amore di Dio, che gli dice: “Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo!” (Is 43,4).Solo se guardiamo alla vera roccia da cui siamo stati tagliati, alla cava da cui siamo estratti (Is 51,1) cogliamo la nostra dignità. Siamo “una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma” del nostro Dio (Is 62,3). L’uomo non riceve il suo nome dalla relazione che ha con la morte, la paura e il male che ne consegue: ha invece come nome quello che la bocca del Signore ha indicato. La nascita è il compimento di una promessa: un dono. Non solo alla sterile vecchiaia dei genitori. Il primo dono che Dio fa all’uomo è il suo io, il suo vero nome. E questo per farlo destinatario del dono di sé, che si darà a lui come suo nome, quando sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Dio gioisce dell’uomo “come gioisce lo sposo per la sposa” (Is 62,5) e i due formano alfine un solo nome in Gesù: tutti siamo uniti in lui (Gal 3,28).

v. 58: “E ascoltarono i vicini e i suoi parenti che il Signore aveva fatto grande la sua misericordia con lei”. Ogni vita è un “grandificarsi” dell’amore del Signore, la cui “tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 145,9). Se non è concepita così, diventa un debito inestinguibile, una colpa ineliminabile: la colpa di esistere, espiabile solo con la morte. Dio, invece che datore, è esattore di vita e questa diventa una prigione senza uscita. Si maledice il giorno della nascita; “circondati di veleno e di affanno”, la mano di Dio è volta e rivolta contro di noi tutto il giorno (Lam 3,1ss). Chi invece “ascolta” nella vita il “magnificarsi della sua misericordia”, può dire: “la mia gioia è nel Signore” (Sal 104,34) e “io gioisco pienamente nel Signore” (Is 61,10). Questo è il motivo profondo per cui i parenti e i vicini “congioiscono” con Elisabetta. Ogni nascita è un ampliarsi del cerchio del dono e della danza della vita.

v. 59: “nel giorno ottavo vennero per circoncidere, ecc.”. All’ottavo giorno il bambino fu “circonciso”. La circoncisione era divenuta in Israele il segno dell’alleanza. Il rito ha origini religiose molto remote.Nel cristianesimo è scomparsa, sostituita dal battesimo nel Signore. Questo è un patto unilaterale, per cui Dio si immerge per amore in tutta la perdizione e maledizione dell’uomo, per essergli vicino e riscattarlo. E l’uomo si battezza, si immerge a sua volta in quest’amore di Dio in Cristo, più profondo e più forte della morte stessa.Nel rito di circoncisione il padre impone il suo nome al figlio. Come la madre è tale perché lo genera, così il padre è tale perché lo chiama. La prima rappresenta il legame di necessità, che dà la vita. Il secondo rappresenta più il legame di libertà: entra in rapporto con lui con la presenza accettata e con il dialogo che lo fa esistere come un “tu” col suo nome. Se la vita come corpo è generata dalla madre, la vita come persona è generata dalla parola che media la realtà. Questo dovrebbe fare il padre.

v. 60: “No, ma verrà chiamato Giovanni”. Sia la madre che il padre sono solo progenitori: fanno le veci di Dio, che è insieme madre e padre, necessario principio di vita e sorgente di libertà. Per questo il figlio non porterà il nome del padre nella carne, ma di chi lo ha fatto in forza della sua parola di promessa. Il nome del figlio viene direttamente da Dio, perché ogni persona è dono, grazia e amore

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suo. È significativo che sia la madre, che pur rappresenta la necessità, a riconoscere questo nome di libertà. I figli sono innanzitutto figli di Dio, anche per la madre. Diversamente restano un’infelice appendice legata alla natura, incapaci di rispondere al loro nome. I figli sono come frecce che si staccano dall’arco e raggiungono il loro fine (cf. Sal 127,4).

v. 61: “Non c’è alcuno della tua parentela, ecc.” È vero che non c’è nessuno della parentela che porta il nome di Giovanni. Dopo Adamo nessuno porta più il proprio nome. Tutti siamo figli del serpente (3,7), figli di ira (Ef 2,3). Dal veleno mortale saremo guariti guardando il serpente innalzato (Gv 3,14; cf. Nm 21,4-9!). Contemplando Gesù sulla croce, vedremo la verità e cesserà l’inganno che ci ha privati del nostro vero nome.

v. 62: “Ora chiedevano con cenni a suo padre, ecc.”. Il padre resta muto fino a quando non sarà dato il nome vero.Se a Zaccaria parlano con segni, significa che non solo è muto, ma anche sordo. È “muto” proprio perché è stato “sordo” alla parola di Dio, non ha creduto alla sua promessa. Questa sordità-incredulità è la causa dell’inespressività dell’uomo.

v. 63: “E chiesta una tavoletta, ecc.”. Anche se muto, Zaccaria può tuttavia scrivere il vero nome su una tavoletta, obbedendo alla parola di Dio che l’angelo gli aveva comunicato. Zaccaria è figura di Israele: anche se muto per la sua incredulità, fa conoscere il vero nome dell’uomo attraverso la promessa della Scrittura.Davanti a questo nome inatteso “si stupirono tutti”. Quale meraviglia per tutti scoprire la propria identità.

v. 64: “ora si aprì la sua bocca, ecc.”. Ora la bocca di Zaccaria può aprirsi, come si apre il cielo nel battesimo di Cristo (cf. 3,21). Si scioglie la sua lingua inceppata nell’incredulità. Ora può “bene-dire” colui che dà ogni bene. Il silenzio diventa canto di lode.

v. 65: “E fu timore, ecc.”. Il timore di Dio comincia ora a invadere le persone e a diffondersi per i monti della Giudea.È quel timore, inizio di sapienza (Sal 111,10), proprio dell’uomo che comincia a sapere l’essenziale. Prima gli era nascosto perché lui se ne era nascosto.

v. 66: “nel loro cuore”. Le parole si diffondono e si piantano nel cuore di coloro che ascoltano (cf. 9,44). Se non vengono portate via subito, mettono radici, crescono e fruttificano (8,12ss).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo, immaginando la scena della circoncisione del Battista.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere il mio vero nome.

d. Punti su cui riflettere:- nascita come compimento- nascita come “grandificarsi” della misericordia di Dio.- il mio vero nome.

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4. Passi utili

Is 43,1-7; 49,16; Ap 2,17.

7. BENEDETTO IL SIGNORE...

(1,67-80)

67 E Zaccaria, suo padre,fu riempito di Spirito santo, e profetò dicendo:68 Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché guardò giù e fece riscatto per il suo popolo,69 e risvegliò un corno di salvezza per noi, nella casa di Davide suo servo70 - come parlò,per bocca dei suoi profeti di un tempo -71 salvezza dai nostri nemicie dalle mani di tutti quanti ci odiano,72 per fare misericordia con i nostri padri e ricordarsi della sua santa alleanza,73 giuramento che giurò verso Abramo, nostro padre, di dare a noi,74 strappati dalla mano dei nemici, di servire senza paura,75 in pietà e giustizia al suo cospetto per tutti i nostri giorni.76 E ora tu, bambino,profeta dell’Altissimo sarai chiamato:correrai infatti innanzi al cospetto del Signore77 per preparare le sue vie, per dare la conoscenza di salvezza al suo popolo nella remissione dei loro peccati,78 per le viscere di misericordia del nostro Dio,nelle quali guarderà giù a noi un’aurora dall’alto,79 per apparire a quanti

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siedono in tenebre e ombre di morte, per dirigere i piedi nostri verso una via di pace.80 Ora il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, ed era nei deserti fino ai giornidella designazione sua verso Israele.

1. Messaggio nel contesto

Il Benedictus è, come il Magnificat, un centone di citazioni bibliche esplicite e implicite. Con questo inno Luca ribadisce per il lettore non giudeo la lezione già data nel Magnificat: come leggere la storia con occhi di fede, secondo la promessa fatta ad Abramo (cf. vv. 55.73).È un canto di benedizione per il passato e di profezia per il futuro. Nella prima parte (vv. 68-75) Zaccaria benedice non per suo figlio, ma per colui davanti al quale egli cammina; ringrazia per il Messia, già donato. Nella seconda (vv. 76-79) profetizza la funzione di suo figlio, che sarà precursore di colui che sorgerà come il sole. È un inno liturgico, che benedice Dio per il suo dono promesso e ora realizzato. Indirettamente mostra il rapporto tra Nuovo e Antico Testamento, come parola di benedizione per il compimento e di profezia per la promessa. Ciò che finora è avvenuto - la nascita di suo figlio e il concepimento di Gesù - è visto nella loro reciproca relazione alla luce di tutta la storia della salvezza. Questi fatti, piccoli e inosservati da tutti, nascondono, per chi sa leggerli nello Spirito, la “visita” di Dio che porta a compimento il suo disegno di amore.Nella liturgia è il canto che conclude le lodi del mattino. Preghiera del sole che sorge, dà inizio al nuovo giorno, il giorno senza fine, l’oggi della “visita” di Dio (vv. 68.78) che nella sua “misericordia” (vv. 72.78) dona la salvezza (vv. 69.71.77), liberando dalle “mani dei nemici” (vv. 71.79), togliendo i peccati (v. 77) e illuminando le ombre di morte (v. 79), per farci servire a lui in santità e giustizia (vv. 74.75) e camminare nella via della pace (v. 79). Così Dio mantiene la sua promessa (vv. 70.72.73). Hanno parte di spicco la fedeltà di Dio alla sua promessa di salvezza e un invito al lettore a conoscerla meglio per aderirvi sempre di più.

2. Lettura del testo

v. 67: “E Zaccaria, suo padre, fu riempito di Spirito santo, ecc.”. Lo Spirito apre la bocca di colui che era stato reso muto per la sua incredulità. Come la sua mutezza fu segno della mancanza di fede, così ora il suo canto è segno della fede che lo mette nel coro dei salvati.Zaccaria “profetò”. La profezia non consiste nel predire il futuro, ma nel dire la parola di Dio, vedendo la realtà come lui la vede.Essenzialmente è un “ricordo” della parola già detta, come promessa prima e poi come compimento in Gesù, che lo Spirito rende attuale in noi. Dice Gesù: lo Spirito santo “vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26); “per il momento non siete capaci di portarne il peso”, perché è lui la forza che “vi guiderà alla verità tutta intera” e “vi annuncerà le cose future” (Gv 16,12s). La verità tutta intera è Gesù stesso, che contiene il futuro pieno dell’uomo. La profezia è completa nel “ricordo” (= riportare al cuore, al centro della propria persona) dell’uomo Gesù, in cui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).

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La profezia è quindi comprensione di Gesù, alla luce dello Spirito.

v. 68: “Benedetto, ecc.”. La prima parola che suscita in noi lo Spirito è di benedizione e di lode. In Israele si benedice il nome di Dio per tutte le cose, perché esso si svela in tutti i nomi. È lo Spirito che ci dà questa vista, la capacità di vederlo come origine e presenza di amore in tutto. La lode si differenzia dal semplice ringraziamento, perché ha come oggetto proprio non i doni, ma il Donatore: dice bene di colui che dà ogni bene. Nasce quando dietro i doni si vede la mano, il volto e il cuore di chi li porge e in essi dona se stesso. Si gode che Dio sia Dio, si è contenti che lui sia lui, si partecipa alla sua gioia e al suo piacere. Gioire di Dio, tipico della lode, è il vertice della creazione, il destino più alto possibile cui l’uomo è chiamato: ci fa come lui. La lode è la vita del mondo. Nell’uomo che loda, liturgo del creato, brilla la luce e la gioia di Dio stesso che si espande come dono in tutto e tutto è riportato alla luce e alla gioia di Dio. È per la lode che il mondo sussiste e viene ricongiunto alla propria sorgente. Il contrario della lode - benedizione e vita del creato - è il possesso, che chiude tutto nella maledizione e nella morte. Chi possiede non solo non vede il volto e la mano del Donatore, ma neanche il dono: lo rapisce. È il peccato di morte di Adamo.È importante notare che prima c’è la lode - lo spirito rivolto a Dio - e poi i motivi della lode. Infatti, senza la luce del suo volto, non si scoprono i motivi della lode. Se tengo gli occhi fissi a terra, non vedo il sole, anche se le cose sono illuminate. Anzi, rischio di scambiarle per la luce e mi aggrappo ad esse, facendone oggetto di possesso.Si loda non uno qualunque o una forza impersonale, ma il “Dio d’Israele”, cioè di Giacobbe, del singolo e del popolo, che è entrato in comunione con l’uomo, rivelandosi a lui e intessendo con lui una storia comune. Egli è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo (Sal 95,7). Noi siamo suoi e a lui apparteniamo e di lui posso dire una cosa impensabile ed esaltante: “Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene” (Sal 16,2). Infatti non ha disdegnato di chiamarsi mio fratello (Eb 2,11), venendo incontro all’inaudito desiderio da lui posto in me: “Oh se tu fossi un mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare” (Ct 8,1). Lodiamo il Dio che si è impegnato con noi, sposandoci nella buona e nella cattiva sorte.Il motivo primo e ultimo (cf. v. 68) della lode è che lui ha visitato, alla lettera “guardò giù”. Fin da subito dopo il peccato Dio scende, allo spirare della brezza, per visitare dolcemente l’uomo. Ma questi da sempre si nasconde chiudendosi nella sua angosciosa paura, fuggendo e allontanandosi sempre più dalla sua luce. Dio, come amico e ospite, viene a visitare Abramo e Sara, promettendo e dando loro un futuro (Gn 18,1-15; 21,1s). Poi scende e visita il suo popolo, schiavo in Egitto e lo libera (Es 3,7-8.16). Successivamente lo visiterà nella carestia, dandogli pane (Rt 1,6). Innumerevoli sono le visite di Dio e il suo accorrere al grido del suo popolo, per salvarlo in tutte le situazioni (cf. tutto il Sal 107).Si dice che Dio “guardò giù”, al passato. Non perché ora abbia smesso, ma perché da sempre ci visita in ogni situazione e “oggi” in modo particolare. Ci visitò nell’Eden dandoci come anello nuziale tutto il creato. Ci visitò nel deserto, dandoci il diadema nuziale, la sua parola che salva. Ci ha visitato definitivamente nel suo Figlio, dandoci tutto se stesso e unendosi a noi in una sola carne.La benedizione scaturisce dalla coscienza di questa visita che ci fa scoprire il suo amore per noi che vince ogni paura (cf. Gn 3,1; 1Gv 4,18). Così possiamo capire realmente che “il mio diletto è per me ed io per lui” (Ct 2,16) e dire, alfine, pieni di gioia: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me” (Ct 6,3). Come ci ha visitati, così sempre ci visiterà (cf. v. 78 al futuro). Lui sta sempre alla porta e bussa: “Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).La sua visita è un “fare riscatto”: affranca l’uomo schiavo, che ha perso la libertà. L’uomo, infatti, immagine e somiglianza di Dio, lontano da lui è lontano da sé, schiavo di infiniti padroni di morte; nella sua visita è restituito a se stesso. Creato dal suo amore per essere suo partner, senza di lui è

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perduto nell’inessenzialità e nell’inidentità, senza la sua altra parte; davanti a lui torna ad essere ciò che è.

v. 69: “e risvegliò un corno di salvezza, ecc.”. La visita, che ci riscatta a noi stessi, è opera del suo “corno di salvezza”, che ha “risvegliato”. Il corno è simbolo di potere. Prima era abbassato, sotto il peso di una storia di male. Ora si è innalzato, vivo e vittorioso sui nemici. Qui Zaccaria sta parlando del germoglio di Jesse, figlio promesso alla casa di Davide (2Sam 7). Il motivo di lode è sempre e solo Cristo Gesù: con lui, in lui e per lui si eleva ogni benedizione a Dio, come con lui, in lui e per lui Dio ci dà ogni bene e se stesso come nostro bene. Se il motivo della benedizione è la visita di Dio, che apre e chiude l’inno, il frutto di tale visita è la salvezza, la cui descrizione in termini di compimento-promessa riempie buona parte dell’inno stesso.

v. 70: “come parlò, ecc.”. In Gesù si compiono le cose dette “nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi” (24,44). Tutti i portatori della parola di Dio sono vissuti nell’attesa del suo oggi, per vedere il suo volto e udire la sua voce (10,23s). Di lui hanno parlato dall’antichità, mostrando come Dio avrebbe compiuto il disegno di amore. Allora solo i profeti, che Dio aveva ispirato col suo Spirito, hanno potuto parlarne come desiderio: ora noi tutti abbiamo la beatitudine di vederlo e udirlo!

v. 71: “salvezza dai nostri nemici, ecc.”. Ciò di cui i profeti hanno parlato è sempre la “salvezza”. È in essa che l’uomo conosce Dio. Essa implica innanzitutto un aspetto negativo: “salvezza dai nostri nemici”. Sono tanti i nostri nemici! Viviamo avvolti dalla paura; l’aria stessa ci è nemica. Ma certamente il primo nemico è Dio stesso. Secondo la menzogna del serpente, egli è un despota invidioso, che ci toglie la vita e fa tremare.In Gesù vedremo il vero volto di Dio, che è amore, tenerezza, compassione e servizio: egli si immerge in tutti i nascondigli del nostro male, se ne fa carico, e dà per noi la vita. La sua croce è la distanza che Dio ha posto tra sé e l’idolo. Il dio nemico è l’idolo suggerito dalla menzogna del serpente. Da questa falsa sua immagine nasce sia la ribellione atea in nome dell’uomo, sia la religiosità servile in nome di Dio. Religione e ateismo e nihilismo hanno la stessa radice: la falsa immagine di un dio nemico, da affermare, da negare o da trascurare. Se Dio è negativo o non c’è, devo provvedere io a me stesso e salvarmi. Da qui nasce l’egoismo, la paura della morte e l’ansia di vita, con ogni alienazione e schiavitù a tutti i livelli: psicologico, economico, politico e religioso. Se il primo nemico è satana stesso, che prestò la sua maschera a Dio, le varie alienazioni e schiavitù sono gli altri nemici dell’uomo, dai quali il Signore è venuto a salvarci. L’ultimo nemico a essere vinto è il più temuto: la morte (1Cor 15,26). La paura di essa è la mano del nemico “che della morteha il potere” e che “nel timore della morte” tiene gli uomini “soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14).Senza paura di Dio, la morte, nostro limite assoluto, non ci avrebbe fatto paura. L’avremmo accettata come contatto con l’Assoluto, ricongiungimento con la nostra sorgente. Nella paura di Dio, invece, abbiamo centrato tutto su di noi; il nostro limite è da sfuggire, perché negazione stessa della nostra vita. Ed è proprio nell’illusione di sfuggire alla morte, per sentirsi vivo - l’ansia della vita è la trappola della paura della morte - che l’uomo cerca di possedere e fagocitare tutto, travolgendolo nel proprio vortice di distruzione.

v. 72: “per fare misericordia, ecc.”. La salvezza di Dio è “fare misericordia”, rendere operante il suo amore per noi. Questa misericordia è rivolta, oltre a noi, pure ai “nostri padri”, ai quali fu promessa. Con la venuta di Gesù è salvato anche il passato: salva con noi le nostre radici, perché tutto l’albero della stirpe umana possa portare frutti di vita.

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Il “far misericordia” è il fine di tutta l’azione di Dio, perché “misericordia” è il suo nome. Per questo non può mai dimenticarsi di essersi impegnato con l’uomo con “l’alleanza sua santa”: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (Sal 27,10).

v. 73: “giuramento che giurò, ecc.”. Il patto è tra due contraenti. Se uno non ne osserva le clausole, decade. L’uomo ha sempre rotto l’alleanza con Dio. Per questo l’alleanza “santa”, propria di Dio che è misericordia, qui viene chiamata “giuramento”. Il giuramento è un impegno unilaterale: anche se noi veniamo meno ai nostri impegni, Dio no. Ha giurato a se stesso di essere fedele alla propria promessa. Qualunque male facciamo, egli non ritirerà mai il suo favore e la sua fedeltà non verrà mai meno (Sal 89,35ss).

v. 74: “strappati dalla mano, ecc.”. Il giuramento consiste nel donarci di servirlo come si deve (v. 75). Ma prima, siccome nessuno può servire due padroni (16,13), bisogna essere strappati via dalla mano dei nemici (vv. 71.79). La liberazione dai nemici porta alla libertà dalla paura, che è la vera sudditanza a loro. Solo in questa libertà si può servire Dio. Spesso si parla nella Scrittura di timor di Dio come principio della sapienza (Pr 1,7; 9,10; 15,33; Sal 111,10; Sir 1,14). Temere Dio nella Bibbia significa regolare il proprio agire su di lui, tenendo conto di chi è lui. Ma lui è amore potente per noi. Per questo il suo timore è libertà da ogni schiavitù, principio di una vita saggia, vero culto a Dio.

v. 75: “in pietà e giustizia, ecc.”. Questo culto di Dio si esprime nella “pietà e nella giustizia”, in una vita che lascia trasparire la gloria stessa del suo volto. È la santificazione del suo nome sulla terra, che si compie nell’uomo libero, che, “a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore”, è trasformato “in quella medesima immagine, di gloria in gloria secondo l’azione dello Spirito del Signore” (cf. 2Cor 3,17s). L’uomo pio e giusto sta “al cospetto” di Dio, al contrario di Adamo che se ne allontanò e si perse (Gn 3,11). Così ritorna al proprio fine, che è il suo principio, ed è finalmente se stesso in modo definitivo.

v. 76: “E ora tu, bambino, ecc.”. Dopo aver benedetto Dio per Cristo, ora Zaccaria parla di suo figlio, che ha occasionato l’inno. La realtà di Giovanni, come quella dell’Antico Testamento e dell’uomo secondo la promessa di Dio, è comprensibile solo partendo da Cristo. Solo ora Zaccaria si rivolge a suo figlio e ne dice il senso: essere “profeta dell’Altissimo”, camminargli davanti al volto, per “preparare le sue vie”, secondo quanto viene indicato (cf. 1,14-17). Sarà il profeta ultimo e definitivo, che precede la venuta del Signore per il suo giudizio (Ml 3,1ss) e la sua salvezza (Is 40,3).

v. 77: “per dare la conoscenza di salvezza, ecc.”. Giovanni dà la vera “gnosi”: la conoscenza della salvezza, l’esperienza del salvatore, che avviene “nella remissione dei peccati”. Solo qui si conosce il Signore (cf. Ger 31,31-34). Infatti il nome di Dio, la conoscenza che noi ne abbiamo, è Gesù, che significa “Dio salva”, perché “salverà il popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21).Il peccato è la nostra verità, di cui il Battista ci fa prendere coscienza sulle rive del Giordano. Non c’è altro luogo per incontrare Dio. Solo nella nostra miseria reale conosciamo la sua realtà di misericordia.Il peccato è come una fossa nella terra. Più è estesa e profonda, più acqua contiene. La nostra conoscenza di Gesù è proporzionale alla coscienza dei nostro peccato. Lui è amore e dono oltre misura e come tale lo si conosce solo nel perdono.

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v. 78: “per le viscere di misericordia”. Nel perdono conosciamo le viscere di misericordia del nostro Dio da cui esso scaturisce; scopriamo la nostra sorgente: l’amore materno e uterino di Dio, che non può non amarci di amore eterno, necessario e gratuito, perché lui è così.L’inno ora ritorna di nuovo a Gesù. All’inizio si disse che in lui Dio ci visitò (v. 68), ora che ci visiterà nella sua misericordia. Giustamente Luca è detto lo scriba mansuetudinis Christi. Il centro del suo Vangelo è 6,36: la misericordia del Padre che brilla sul volto del Figlio.Gesù è paragonato all’“aurora dall’alto”, simbolo divino di luce nuova e vittoriosa sulla notte, inizio del giorno di Dio (cf. Is 60,1; 2Pt 1,19).

v. 79: “per apparire, ecc.”. Questo sole appare a coloro che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte (cf. Sal 107,10.14; Is 9,1), ossia a ogni uomo, prigioniero del nemico, gettato nel buio del carcere e preda del terrore della morte. Illuminati da questa luce, diventiamo noi stessi luce, come dice Is 60,1: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce”. In questa luce possiamo ora “dirigere i piedi nostri verso una via di pace”, che prima ci era ignota. Chi non la conosce è “come un mare agitato che non può calmarsi e le cui acque portano su melma e fango. Non v’è pace per gli empi, dice il mio Dio” (Is 57,20).

v. 80: “Ora il bambino cresceva, ecc.”. Ci viene sinteticamente presentata la vita del Battista: come gli antichi profeti (Gdc 13,24s) si forma e cresce nel deserto, il luogo dove Dio ha condotto e formato il suo popolo, nutrendolo con la sua parola e il suo pane, guidandolo con la sua luce.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Immagino Zaccaria che, appena dato il nome al figlio, cessa di essere muto ed esplode nel canto.c. Chiedo ciò che voglio: il dono di benedire Dio e riconoscere la sua visita in Gesù.

d. Punti su cui riflettere:- la profezia cristiana- la lode- visita e salvezza di Dio- i nostri nemici- peccato, perdono e conoscenza di Dio.

4. Passi utili

Salmi 91-100; Gv 14,26-31; 16,7-15.

8. LA NASCITA DI GESÙ: “SI COMPIRONO I GIORNI”

(2, 1-7)

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21 Ora avvenne in quei giorni:uscì da Cesare Augusto un decreto, di iscrivere tutta l’ecumene.

2 Quell’iscrizione prima avvennegovernando la Siria Quirino.3 E andavano tutti per iscriversi,ciascuno verso la propria città.4 Ora salì anche Giuseppedalla Galilea, dalla città di Nazaret, verso la Giudea, verso una città di Davide la quale è chiamata Betlem, essendo lui della casa e della famiglia di Davide,5 per essere iscritto con Maria, la sua promessa sposa,che era incinta.6 Ora avvenne che, essendo essi là,si compirono i giornidel suo partorire,7 e partorìil figlio suoil primogenitoe lo fasciòe lo sdraiòin una mangiatoiapoiché non c’era posto per loro nel deposito.

l. Messaggio nel contesto

“Si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini” (Tt 3,4). In questa scena siamo chiamati a contemplare la filantropia di Dio, fatto per noi carne in suo Figlio. La scena di un Dio che si è fatto piccolo e indifeso, per essere accolto dalle nostre mani, è un preludio già della croce. La sua nascita rivela un carattere “passionale”; manifesta la sua passione per l’uomo, la sua simpatia estrema per lui, che l’ha spinto a condividere la sua condizione. Il problema della fede cristiana è accogliere la carne di Dio che si è fatto solidale con la nostra debolezza: “Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio” (1Gv 4,2). Essa ci rivela quel Dio che nessuno mai ha visto (Gv 1,18). La scena, compimento dell’annunciazione, è costruita come un contrappunto tra la potenza umana che si autoesalta, si dilata e si consuma in un censimento mondiale, il primo della storia, e l’impotenza di Dio che si umilia, si restringe e si concentra in un bambino.Se il Figlio di Dio fosse venuto con potenza, nel fulgore della sua gloria, certamente non si sarebbe esposto al rifiuto. Tutti l’avremmo accolto e necessariamente. Ma non sarebbe stato Dio, bensì un idolo.Si ritiene che Dio, mistero tremendum et alliciens, sia di “grandezza enorme” “splendore straordinario” e “terribile aspetto” (Dn 2,31). Queste per sé sono le caratteristiche dell’idolo, comuni a tutte le

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religioni. Dio sta piuttosto dalla parte del sassolino che abbatte l’idolo (Dn 2,34). Il segno per riconoscerlo sarà diverso (v. 12): la sua grandezza enorme sarà quella del piccolo, il suo splendore affascinante quello del bimbo fasciato, il suo aspetto tremendo quello di un corpo tremante nella mangiatoia.S. Ignazio pone il criterio discriminante della fede nei due vessilli: il vessillo del nostro re è “povertà, umiliazione e umiltà” (cf. il Magnificat). Quello della “ricchezza, vanagloria e superbia” è di satana. Questa prima presentazione che Luca fa di Gesù, che ha colpito tanto s.Francesco, è normativa per la nostra fede: è la porta d’ingresso per entrare nella casa dove lui abita e poterlo conoscere.Certamente un Dio piccolo si espone al rifiuto. È la vulnerabilità dell’amore, che non può non rispettare la libertà. Ma a quanti lo accolgono così com’è, dà il “potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).

2. Lettura del testo

vv. 1-3: “Ora avvenne in quei giorni: uscì da Cesare Augusto un decreto, di iscrivere tutta l’ecumene”. Si parla del primo censimento, che Cesare Augusto fece su tutta la terra abitata, sottoposta al suo dominio. Facciamo alcune considerazioni su questo contesto storico della nascita di Gesù.

Primo. La salvezza non è un’idea fuori dello spazio e del tempo: è una storia con fatti ben precisi e databili.

Secondo. Il censimento è l’atto che consacra l’occupazione militare, dandole la definitiva struttura politica ed economica: i sudditi venivano contati per riscuoterne le tasse (potere economico) e averli disponibili per la guerra. Il censimento è la consumazione e l’autoesaltazione del potere dell’uomo sull’uomo. Questo è “il primo” di tutto l’universo, che la nostra storia conosce! Quest’iscrizione è come la scrittura che si oppone alla sacra Scrittura: ci rivela il potere dell’uomo.

Terzo. Il messia entra e nasce in questa storia di male, non in un’ipotizzabile o realizzabile storia migliore!

Quarto. Entra in questa storia di potere e di male come colui che serve (22,27), come povero che non ha dove posare il capo (9,58; cf. 2Cor 8,9). Per guidare i nostri passi nella via della pace, alla ricchezza sostituì la povertà, al potere il servizio, alla superbia l’umiltà. Così si oppone radicalmente al potere del male e lo vince, creando in sé lo spazio del regno di Dio; cambia i criteri dominanti. Proprio per questa sua nascita in povertà, impotenza e umiltà è messia liberatore e Figlio di Dio.

Quinto. Dio appare in questa storia nel momento stesso in cui il male raggiunge il suo apice e tutto ormai sembra irrimediabilmente posto nelle sue mani. La notte più fonda prelude al sorgere della stella del mattino: è vicina l’aurora. Proprio quando Gesù dirà: “Questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre” (22,53) sarà l’ora stessa in cui Dio si donerà nelle mani dell’uomo e compirà il suo disegno di salvezza. Il momento opportuno, il kairós della salvezza, è quello più inopportuno e improbabile. Così sarà anche della seconda venuta: quando sarà il massimo male, l’anticristo, allora tornerà il Figlio dell’uomo.

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Sesto. “Perché le genti congiurano, perché invano cospirano i popoli” contro il Signore e il suo messia (Sal 2,1; cf. At 4,25s)? Che senso ha l’agitarsi e il tumultuare della storia contro Dio, in che rapporto sta con la sua salvezza? La storia non è sfuggita al suo controllo e tutto ciò che avviene serve per compiere ciò che la sua mano e la sua volontà avevano preordinato che avvenisse (At 4,28).La gran macchina del censimento mondiale, quest’apparato enorme di potere che si organizza, non fa altro che adempiere un dettaglio del piano di Dio: far nascere il messia a Betlem.In un momento di debolezza l’aveva promesso a un uomo, Davide, e non poteva mancargli di parola (Mi 5,1; 2Sam 7)! Che bellezza di disegno in Dio, se così cura un particolare! Quanto sono piccoli i più grandi avvenimenti umani, davanti al minimo dettaglio del suo disegno! Certamente Dio non vuole questa storia di male. Ma, avendoci fatti liberi, non vuole impedircelo. Però resta Dio, ed è sovranamente libero di servirsi con gran fantasia e in modo mirabile di tutto per mostrare la sua fedeltà e il suo amore (cf. Sal 136).

vv.4-5: “Ora salì anche Giuseppe dalla Galilea, ecc.”. Giuseppe e Maria obbediscono alle leggi di questa storia. Proprio nell’obbedienza ai capricci del potere di un Cesare, si compie un capriccio del disegno di Dio. In che termini questa obbedienza è richiesta nel piano di salvezza? Dove non è lecita? È un problema che ha occupato la chiesa fin dal principio. Essa trova una linea di soluzione nel comportamento libero di Gesù: egli non si è schierato né con gli zeloti che volevano abbattere il potere, né con i collaborazionisti e pur tuttavia verrà ucciso come messia inutile per i primi e come sovversivo per i secondi. In realtà sceglie la solidarietà coi fratelli in obbedienza al Padre. Il cristiano vive in questo mondo di male e obbedisce alle sue leggi con libertà, dove non viene contraddetto lo Spirito di Gesù. Solo qui si pone l’aut-aut del martirio, perché è meglio obbedire a Dio che agli uomini (At 4,19). Ovviamente la soglia di questo aut-aut dipende dalla coscienza storica della fede stessa.

v. 6: “si compirono i giorni”. In obbedienza all’editto di Cesare Augusto, Maria e Giuseppe si trovano là dove “si compiono i giorni del parto”, nel luogo dove deve realizzarsi la promessa del Signore.

v. 7: “partorì il figlio suo, il primogenito, ecc.”. Questo fatto insignificante, e non il grande primo censimento universale, è il centro del mondo. Chi l’avrebbe detto allora che la storia si sarebbe divisa in “prima” e “dopo” questa nascita? Il Creatore si dona alla sua creatura, come figlio nel suo Figlio che si fa nostro fratello. Il fine dell’uomo è raggiungere Dio. Essendo questo impossibile, nel suo amore ha pensato di raggiungere lui stesso l’uomo. In questa semplice espressione: “partorì il figlio suo”, che è il Figlio stesso di Dio di cui si parla in 1,32, sta nascosta la più grande sorpresa, la gioia più sconvolgente di Dio e dell’uomo. Quale fu l’estasi di Maria nel trovarsi la carne di Dio tra le braccia, nel vedere, udire, toccare e abbracciare in questo piccolo bambino l’infinito! La contemplazione ci porta a identificarci con Maria e “toccare” il bambino. Siamo invitati a una conoscenza “manuale” del Signore, posto nelle nostre mani. La conoscenza del tatto è la più profonda: è comunione piena di profumo e di gusto. È la stessa che si verifica nella deposizione dalla croce e nel dono del suo corpo dato per noi nella cena. L’Altissimo si è fatto piccolo, l’Onnipotente bisognoso, la Parola infante, l’Immortale mortale, la gioia senza fine vagito di un bambino, pur di essere accolto e abbracciato da noi. È il mistero dell’amore di Dio, che nulla teme e si espone ad ogni piccolezza e umiliazione per raggiungere l’amato.Questo figlio è chiamato “primogenito” a pieno diritto. È il primogenito di tutte le creature (Col 1,15), “primogenito fra molti fratelli” (Rm 8,29), che saranno ormai figli di Dio dietro a colui che non si è vergognato di chiamarsi loro fratello (Eb 2,11).Già dall’inizio del II secolo è documentabile la tradizione della sua nascita in una grotta. L’inizio richiama la fine del suo cammino tra noi. La sua vita terrena è chiusa nel mistero di queste due grotte,

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dall’umiltà della terra all’umiltà della terra. Qui avvolto in fasce, là in una sindone, qui deposto nel legno della greppia, là dal legno della croce.La tradizione popolare, prendendo lo spunto da Is 1,3, pone accanto a Gesù l’asino e il bue. Sanno riconoscere il loro padrone, a differenza degli uomini, che non sanno riconoscere il loro Signore. Qui Gesù nasce tra le bestie, là finirà tra i malfattori.Maria lo “fasciò”: Dio è bisognoso dell’uomo. Si è affidato alle sue mani, fragile e indifeso, avvolto di tenerezza qui, e di morte alla fine.

“e lo sdraiò”. È la parola che si usa per sdraiarsi e mangiare, secondo il costume orientale. Però si sdraia non a un tavolo, come colui che mangia, ma nel posto di ciò che è mangiato, nella mangiatoia. Il pane degli angeli, il cibo disceso dal cielo, che dà la vita, è deposto nel luogo dove mangiano le bestie. Dio si dona come vita e cibo all’uomo peccatore. Infatti non c’è altro posto che la mangiatoia per lui nel katályma. Questo stesso termine uscirà in 22,11, quando nell’ultima cena darà se stesso in cibo ai discepoli.Da questi piccoli dettagli appare il carattere “passionale” della natività di Gesù. Dio, che è amore e accoglienza, è bisogno di amore e accoglienza. Ma non trova posto tra noi se non in un luogo di bestie, e nella mangiatoia. Difatti troverà ospitalità proprio nel nostro peccato e nel nostro bisogno, da cui è venuto a salvarci. E chi lo accoglierà lì, nella sua lontananza e tristezza, nella sua stoltezza e durezza di cuore, nella sera del giorno che sempre declina, lui lo accoglierà e diventerà suo cibo. Allora, come a Emmaus, potrà sparire dagli occhi, perché avrà raggiunto il suo fine: essere col discepolo come suo pane.Giustamente si dice che Luca è “iconografo”. Dipinge infatti con cura, sin dalla nascita, i tratti di Gesù, “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), perché il discepolo, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, possa venir trasformato in quella medesima immagine (2Cor 3,18).Qui ci dà i primi segni fondamentali: umile, insignificante, bisognoso, accolto nel luogo dove mangiano le bestie. Viene nella nostra verità, perché ci ama. Si espone al rifiuto. Ma è ugualmente sempre lì, come dono senza condizioni.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo, vedendo la grotta dove Gesù è nato.c. Chiedo ciò che voglio: una conoscenza intima del mio Signore, che per me ora è nato, per poterlo maggiormente amare e seguire con tutta la riverenza possibile.d. Guardo le persone, vedo quello che fanno, ascolto ciò che dicono ricavandone frutto.

Da notare:- il decreto di Augusto e l’andata a Betlem- si compirono i giorni- Maria partorì il figlio suo- lo fasciò- lo sdraiò- in una mangiatoia- non c’è posto per loro.

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4. Passi utili

Sal 33; At 4,23-28; Dn 2,31-35.

9. FU PARTORITO OGGI PER VOI UN SALVATORE

(2,8-20)

8 E c’erano pastoriin quella regione,che bivaccavanoe vegliavanole veglie della nottesul loro gregge.9 E un angelo del Signorestette su loro,e la gloria del Signore lampeggiò intorno a loro, e temettero un timore grande. 10 E disse loro l’angelo:Non temete!Ecco, infatti,evangelizzo a voiuna grande gioia,la quale saràper tutto il popolo:fu partoritooggi per voiun salvatore,che è il Cristo Signore, nella città di Davide.12 E questo per voi il segno:trovereteun bambinofasciato,sdraiatoin una mangiatoia.13 E all’improvviso ci fu con l’angelouna moltitudine dell’esercito dei cielo, che lodava Dio dicendo:14 Gloria negli altissimi a Dio, e sulla terra paceagli uomini di benevolenza.15 E avvenne che,

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quando si allontanarono da loro verso il cielo gli angeli, i pastori parlavano l’un l’altro:Andiamo dunque fino a Betlem e vediamo questa parola che è accaduta, che il Signore ha notificato a noi.16 E andarono in frettae scoprironoe Mariae Giuseppee il bambinosdraiatonella mangiatoia.17 Ora visto, notificaronocirca la parolache fu detta lorocirca il bambino.18 E tutti quanti udironosi stupironocirca quanto si parlavada parte dei pastori verso loro.19 Ora Maria conservava tutte queste parolecomparandole nel cuore suo.20 E ritornarono i pastoriglorificandoe lodando Diosu tutto quantoudirono e viderocome fu detto a loro.

l. Messaggio nel contesto

Il centro dei primi due capitoli è la conoscenza “tattile” di Dio che ha Maria nel generare, fasciare e deporre il suo figlio primogenito nella mangiatoia. La scena ci è data da contemplare ripetutamente per tre volte di fila, con le stesse parole: il fatto storico, unico, accaduto duemila anni fa, è prima narrato (vv. 6-7), poi annunciato come “segno” (v. 12) da leggere che dà significato a tutta la storia (v. 11-12), e infine verificato dai pastori (v. 16). Attraverso il racconto che per prima Maria ha fatto e che Luca - pastore diventato a sua volta annunciatore - ha trasmesso a noi, anche noi siamo chiamati a contemplare e toccare con lei lo stesso Verbo della vita. Così, come i primi pastori, diventiamo a nostra volta annunciatori della Parola: “Fu partorito per voi oggi un salvatore che è il Cristo Signore”. Lo stesso annuncio, di bocca in bocca, attraverso i pastori diventati evangelisti, trasmette a noi il compimento della promessa di Dio. Nell’obbedienza di fede a questo annuncio, veniamo condotti anche noi alla salvezza. L’oggi della nascita del Salvatore si realizza ovunque è annunciato e creduto, come presso i pastori che si mettono in cammino per andarlo a vedere. Dopo le parole dell’angelo, si apre il cielo e gli uomini possono assistere alla liturgia celeste che si svolge sopra questo bambino. A

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questa liturgia celeste, dischiusa dall’annuncio che ne dà l’interpretazione, corrisponde una liturgia terrestre, di povera gente obbediente alla Parola che corre a vedere un povero bambino, del quale crede “ciò che il Signore ha notificato” (v. 15). Essi, dopo aver sperimentato ciò che è stato loro detto (vv. 17-20), a loro volta lo annunciano (vv. 17-18). In questi pastori, primi ascoltatori che a loro volta si fanno annunciatori, si profila la chiesa. Essa nasce dall’annuncio, ne verifica l’oggi di salvezza e la ritrasmette agli altri con l’annunzio. È una chiesa di poveri e ultimi, come l’annunciato stesso. In forza della fede, essa riconosce, annuncia, glorifica e loda Dio che si è rivelato nell’impotenza di Gesù.

2. Lettura del testo

v. 8: “E c’erano pastori in quella regione”. Sono i protagonisti di tutto il brano. Come i primi discepoli da pescatori diverranno pescatori di uomini, così è da scorgere in questi pastori coloro che poi saranno i pastori nella chiesa di Dio. Sono i primi che hanno creduto alla Parola, hanno trovato il bambino, lo riconoscono come salvatore e lo annunciano. I pastori appartengono a un’infima categoria sociale religiosa. Proprio per questo sono abilitati a riconoscere l’Agnello nel bambino.

v. 9: “E un angelo del Signore, ecc.”. La nascita del Salvatore deve essere svelata dall’angelo. Angelo significa: “Colui che annuncia”. Attraverso lui ci viene la buona notizia del Dio che si è donato a noi. È necessario l’annuncio perché la nascita di Dio in mezzo a noi non può essere dedotta da nessun ragionamento né prodotta da nessuno sforzo umano. Nessun’altra premessa, se non la promessa di Dio, è in grado di farci conoscere il dono di Dio. Con la nostra ragione, certamente non cercheremmo in quella direzione: noi cercheremmo un Dio grande, tremendo, potente e glorioso, il dio della nostra paura (Gn 3,10). Qui un Dio piccolo, tremante, impotente, che si offre come cibo nella mangiatoia degli animali.Era necessario che si rivelasse e ci desse i criteri per riconoscerlo. Questa rivelazione è fatta ai pastori. “Dio infatti ama parlare con i semplici” (Pr 3,23 Vg.): non si rivela ai prudenti e ai sapienti (10,21), ma “ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28). Lui stesso, perché ricco di amore per noi, si è fatto povero per noi per arricchirci della sua povertà (2Cor 8,9). Per vederlo bisogna essergli vicini. Chi può riconoscere nella sua piccolezza di Agnello “il Pastore grande delle pecore” (Eb 13,20) se non dei piccoli pastori? Il cammino che essi fanno per scoprire l’Agnello, li costituirà a loro volta pastori e angeli, servi della parola che annunciano. Ai credenti d’Israele Dio si rivolge con la parola dell’annuncio (= angelo); ai gentili si rivela con la stella, simbolo della luce della ragione, che porta a Gerusalemme dove viene loro data la Parola (cf. Mt 2,1-12). L’annuncio è determinante comunque per riconoscerlo.

v. 10: “evangelizzo a voi una grande gioia, la quale sarà per tutto il popolo”. Il vangelo, la grande gioia messianica, è data a pochi e, mediante questi, a tutto il popolo. È l’economia dell’incarnazione, cui Gesù e il vangelo sottostanno: l’universale è mediato dal singolare, la parte è sacramento del tutto. La creatura è limitata nello spazio e nel tempo. La sua condizione di limite si supera nella trasmissione dell’annuncio, che dilata lo spazio della comunità fino agli estremi confini della terra e apre il tempo all’eternità.

v. 11: “fu partorito oggi per voi un salvatore”. È il centro dell’annuncio, che porta ancora a quell’“oggi” chi lo sente. È l’enigma di Luca: come può “oggi” nascere un passato; come può nascere “oggi” colui che è senza principio e senza fine? L’oggi di cui si parla è quello eterno di Dio, donato a noi nella vita di Gesù. L’annuncio ce lo presenta, la fede ci fa entrare in esso. La Parola ci attualizza

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all’evento. Sette volte nel Vangelo di Luca si parla di quest’oggi. Stiamo attenti a non indurire il cuore, non cadere nella disobbedienza e, finché dura quest’oggi, affrettiamoci a entrare in quel riposo (Eb 4,11; cf. Eb 3,7-4,11). Il nocciolo, più che la nascita storica di Gesù, descritta precedentemente, è il racconto/annuncio di essa. Esso risuona ancora oggi. Chi l’accoglie con fede viene condotto coi pastori a vedere che “oggi” è nato per lui il Salvatore, come è stato detto.Luca sviluppa più l’annuncio che il fatto. Non perché questo sia trascurabile - sono i fatti a salvarci, non l’interpretazione - ma perché l’importante è che noi giungiamo “oggi” al fatto mediante l’obbedienza di fede nell’annuncio.C’era una volta nel deserto una carovana che marciava verso occidente. Una voce risuonò dall’alto: “Se andate verso occidente, questa stessa sera cadrete di spada per mano dei predoni. Se invertirete marcia, troverete a oriente una grande oasi, dove si farà festa”. Tutti udirono la voce. Gran parte la irrise: “Assurde allucinazioni del deserto!”. Molti rimasero perplessi, divisi tra desiderio e timore. Pochi dissero: “Vediamo se è vero”. I primi, gli increduli, continuarono a camminare verso occidente e caddero trucidati dalla spada dei predoni. I secondi, gli intellettuali, rimasero paralizzati dal dubbio se fosse sensato o no ascoltare una voce dal cielo. Calò la sera, morirono e furono preda degli avvoltoi grandi del deserto. Gli ultimi ascoltarono la voce, e fecero festa.L’annuncio è efficace solo per chi lo ascolta e cambia direzione. È guida alla realtà annunciata. Per chi non ascolta, è efficace all’incontrario.Dio opera sempre quello che dice la sua parola: anche e soprattutto l’impossibile, suo contenuto specifico. Ma è la nostra obbedienza di fede che ci mette in moto per vedere la verità di ciò che dice. Chi disobbedisce può sempre dire: “Vedi che non è vera la Parola?”L’annuncio non riguarda la salvezza, un’idea astratta dell’uomo, bensì un salvatore, una persona concreta. Questo salvatore non sarà solo il Messia, l’inviato di Dio, ma Dio stesso, il Signore. Impossibile: “oggi è nato Dio!”.

v. 12: “questo per voi il segno: troverete un bambino”. (cf. Is 7,14; 9,5). L’annuncio ci racconta la nascita di Gesù - anticipo della sua morte e di tutta la sua vita - come “segno”: la carne del Nazareno, la sua storia concreta, è il segno definitivo della salvezza che Dio ha offerto e offre oggi e sempre a ogni uomo che capisce e accoglie l’annuncio. Il “bambino” è il segno stesso di Dio. Per capire che è lui, all’anselmiana definizione come “colui del quale non si può pensare nulla di più grande”, è da contrapporre quella evangelica: Dio è colui del quale non si può pensare nulla di più piccolo. Infatti “il più piccolo tra voi, questi è il più grande” (9,48), Dio stesso. La grandezza dell’amore consiste nel farsi piccolo per lasciar spazio a tutti e proprio la sua piccolezza estrema dimostra la grandezza di chi si fa solidale con tutti, cominciando dall’ultimo. Il bambino di Betlem non diventerà mai grande, ricco, sapiente e potente. Crescerà solo nella sua piccolezza. La sua nudità, sulla croce, sarà solo più grande.Su questo presepe tutto il cielo celebra la sua liturgia celeste. Si solleva il lembo del manto di Dio: vediamo la sua gloria, che a lui viene resa sulla terra. Nella fede terra e cielo si specchiano in un’unica festa. È giunta finalmente la pace promessa agli uomini, a tutti gli uomini, perché egli li ama. Qui è il luogo dove si compie la volontà di Dio “come in cielo, così in terra”. Tolta ogni distanza tra Dio e uomo, la sua altezza si è abbassata perché lo possiamo raggiungere, la sua grandezza si è concentrata nel bambino perché lo possiamo abbracciare.

v. 15: “Andiamo e vediamo”. Seguendo l’annuncio i pastori intraprendono il cammino di fede, esemplare per ogni credente, che li porterà a glorificare e lodare Dio per tutto quello che hanno udito e visto, come era stato detto loro (v. 20). Senza obbedienza non si può ovviamente verificare l’oggetto dell’annuncio. Ad essa i pastori si incoraggiano l’un l’altro: “Andiamo” e “vediamo” questa parola che è “accaduta” e il Signore ha “notificata a noi”. L’annuncio muove i piedi per vedere il fatto che la

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parola ha reso noto. Prima c’è l’udire, poi l’andare, poi il vedere. L’annuncio trova la sua verifica nell’obbedienza della fede e questa ha la sua origine nella parola annunciata con cui il Signore ha fatto conoscere il fatto salvifico. La certezza che tale parola comporta è indeducibile con ragionamenti: è un’apertura del cuore che il Signore opera (At 16,14), una trafittura che accompagna l’annuncio (At 2,37); perché “la parola di Dio è viva, efficace” (Eb 4,12) e porta ad accoglierla “non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete” (1Ts 2,13).Tutti possiamo giungere a questa fede, perché siamo fatti a immagine di Dio, e la sua Parola in noi trova subito risonanza. Bisogna però superare le resistenze e schiavitù della menzogna che ritarda e lega la nostra accoglienza della Parola, in modo che andiamo e vediamo ciò che abbiamo conosciuto.

v. 16: “E andarono in fretta”. I pastori, che vanno senza indugio, sono modelli di fede. Essa porta speditamente alla scoperta di ciò che è già avvenuto. Il fatto, anche se rivelato dall’annuncio, senza fede resta nascosto. Solo questa lo fa scoprire.

v. 17: “Ora visto, notificarono circa la parola che, ecc.”. I pastori “vedono” la realtà di ciò che il Signore ha fatto loro conoscere. Ed è tanto importante che non possono trattenersi dal renderlo noto agli altri. Chi crede, sperimenta che è vero ciò che crede. Se credo a chi mi dice: “Il pranzo è pronto” e vado a mangiare, vedo, se è vero, che è vero ciò che mi ha detto. I pastori hanno ricevuto l’annuncio, hanno creduto e hanno visto; ora annunciano a loro volta. Ciò che gli angeli hanno fatto in cielo, i pastori continuano a farlo sulla terra: diventano angeli, mediatori della parola, per portare altri a vedere ciò che Dio ha promesso.Si profila la dinamica missionaria della chiesa: l’annuncio porta all’ascolto, l’ascolto alla visione. A sua volta, chi ha visto porta ad altri l’annuncio, perché attraverso l’ascolto giungano alla visione e quindi ancora all’annuncio, “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).

v. 18: “E tutti... si stupirono”. La prima reazione al loro annuncio è meraviglia. È il primo gradino di un cuore che si apre ad accogliere qualcosa di nuovo, per lui incredibile. È la prima reazione positiva, di colpo accusato, nei confronti dell’annuncio di “tutti” quelli che ascoltano.

v. 19: “Ora Maria conservava tutte queste parole”. Maria viene presentata come il credente che, pur conoscendo bene i fatti, non può mai prescindere dalla parola ascoltata. Essa contiene sempre misteri più profondi da vedere. Per questo conserva queste parole, le serba con sé come un tesoro intimo nel suo cuore - dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore (12,34) - e le confronta, le medita e le incontra (cf. 1,66; 2,51). Tutto il Vangelo presenterà queste parole da ascoltare, accogliere, conservare, incontrare, misurare, comprendere, combinare fra loro, in una crescita continua che fa germinare la pienezza del dono, i misteri stessi del regno di Dio (8,10). La nostra visione viene dall’ascolto di queste parole e sarà sempre frammentaria, “come in uno specchio, in maniera confusa”. Solo alla fine sarà ricomposto nel nostro cuore quel volto che vedremo faccia a faccia (1Cor 13,12).

v. 20: “glorificando e lodando Dio”. Nei pastori che ritornano “glorificando Dio” vediamo la prima comunità degli Atti che si riunisce dopo l’ascensione, quando si chiude il cielo che qui si apre. La loro vita diventa un “ritorno” (parola quasi esclusiva di Luca, 22 volte nel Vangelo e 11 negli Atti, contro le sole 5 volte in tutto il resto del NT). È il ritorno dell’uomo a se stesso, il ritorno al Padre, compiuto nel cammino di Gesù, il Figlio che ci è venuto incontro.I pastori hanno udito e creduto, quindi hanno visto ciò che hanno udito. Diventeranno a loro volta “Angeli”, annunciatori di questa gioia che è per tutto il popolo. È il cammino al quale Luca vuol

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portare il suo lettore: da un ascolto sempre più ordinato e attento a una visione sempre più profonda del volto di Dio, da comunicare ai fratelli.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera, come al solito.b. Mi raccolgo immaginando i pastori e seguendoli nel loro cammino.c. Chiedo ciò che voglio: credere e obbedire all’annuncio per sperimentarlo e comunicare ciò che ho sperimentato.d. Contemplo la scena, vedendo e ascoltando.

Da notare:- l’annuncio ai pastori- i pastori si incoraggiano ad andare a vedere- verifica dell’annuncio e annuncio della propria esperienza.

4. Passi utili

Sal 19; 147,12-20; 1Gv 1,1-4.

10. ORA SCIOGLI...

(2,21-38)

21 E quando furono compiutiotto giorni per circonciderlo, allora fu chiamato il nome suo Gesù,come chiamato dall’angeloprima che fosse concepito nel ventre.22 E quando furono compiutii giorni della loro purificazione, secondo la legge di Mosè, lo condussero a Gerusalemme per presentarlo al Signore,23 come è scrittonella legge del Signore,che ogni maschio che apre la vulva, santo per il Signore sarà chiamato,24 e per dare in sacrificio, secondo quanto è detto

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nella legge dei Signore, una coppia di tortore o due pulcini di colomba.25 Ed ecco:c’era un uomo a Gerusalemme, di nome Simeone,- e quest’uomo era giusto e pio,in attesa della consolazione d’Israele -e lo Spirito era santo su di lui,26 e gli era stato rivelato dallo Spirito santo,che non avrebbe visto la morte prima di vedereil Cristo dei Signore.27 E venne nello Spirito al tempio, e, mentre i genitori introducevano il bambino Gesù per fare con luisecondo quanto è costume della legge,28 allora egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dioe disse:29 Ora sciogli il tuo servo, o padrone, secondo la tua parola in pace,30 perché videro i miei occhi la tua salvezza,31 che preparastiin faccia a tutti i popoli,32 luce per illuminare le nazioni e gloria del tuo popolo, Israele.33 Ed erano il padre suo e la madre suameravigliati di quanto si diceva di lui.34 E li benedisse Simeone e disse a Maria sua madre:Ecco: egli è quiper la caduta e per la risurrezione di molti in Israele, e per segno contraddetto35 - e la tua stessavita trapasserà una spada! - in modo che siano rivelatii ragionamenti di molti cuori.36 E c’era Anna profetessa,figlia di Fanuele,della tribù di Aser,- avanzata in molti giorni, avendo vissuto con un uomo per sette anni dopo la sua verginità37 e vedova fino a ottantaquattro anni

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e non abbandonava il santuario, con digiuni e suppliche rendendo culto notte e giorno.38 E, sopraggiunta in quell’ora stessa,celebrava Dioe parlava di luia tutti quanti attendevano il riscatto di Gerusalemme.

l. Messaggio nel contesto

Dopo la presentazione del pastore ai pastori, del Salvatore, Cristo e Signore agli umili, c’è quella ufficiale di Gesù al popolo cui fu data la legge (vv. 22.23.24.27.39), il tempio (vv. 22.27.37) e la profezia (vv. 25.26.27.28.34). Il tempo che intercorre tra l’annuncio a Zaccaria e la presentazione al tempio è di 490 giorni, 70 settimane. Si compie il tempo predetto da Daniele, che segna il passaggio dalla promessa-attesa alla realizzazione-compimento (Dn 9,24).Legge, tempio e profezia sono le tre figure di colui che doveva venire. Egli è Parola fatta carne, Gloria di Dio e suo stesso volto. La sua prima venuta a Gerusalemme segna la soglia del passaggio dall’economia dell’attesa a quella del compimento. Termina il corso della notte, trepida attesa del giorno, e comincia il corso del sole.L’umile entrata di Gesù al tempio, che compie la parola della legge, è da ricollegare alla terribile visione di Ml 3 sulla visita definitiva del Signore e del suo giudizio. Ora possiamo chiamare per nome il Nome (v. 21), in colui che compie la legge (vv. 22-24): nella forza dello Spirito, Simeone riconosce il Signore e profetizza, dopo aver cantato la gioia dell’attesa compiuta. Ora, Simeone, figura dell’AT e di ogni uomo, può morire in pace. La paura della morte è vinta, perché c’è la memoria di un Dio bambino che morirà. La memoria mortis non fa più paura e si trasforma in una ars vivendi nella pace, perché finalmente è possibile trovare Dio nel proprio limite (vv. 25-35). C’è infine il riconoscimento da parte di Anna, la vedova che trova lo sposo di Israele (vv. 36-38).

2. Lettura del testo

v. 21: “E quando furono compiuti otto giorni per circonciderlo, ecc.”. La circoncisione marca l’appartenenza al popolo che si è impegnato con Dio a riconoscerlo come Dio. A tale alleanza Israele, come ogni uomo, è sempre stato infedele. Ma non per questo Dio viene meno alla sua parola. D’altra parte, se l’uomo è venuto meno, anche lui è impossibilitato a mantenere il proprio impegno, perché un contratto è tra due parti libere, di cui una lo rifiuta. Dio, nel suo amore, soddisfa lui stesso l’inadempienza della controparte: Gesù, vero Dio, sarà anche il vero Israele. Egli è insieme il “sì” dell’uomo a Dio, che in lui riceve finalmente risposta, e lo stesso “sì” incondizionato ed eterno di Dio all’uomo. È l’unico “sì” totale di ambedue.

“il nome suo Gesù”. Più che sulla circoncisione, Luca porta l’attenzione sul “nome”. Nessuno ha mai visto Dio. Nessuno l’ha mai conosciuto né tanto meno nominato. È il Nome innominabile, origine di ogni nome! “Dimmi il tuo nome”, domanda Giacobbe (Gn 32,30); “Mostrami la tua gloria”, chiede Mosè (Es 33,18); “mostrami il tuo volto”, supplicano innumerevoli salmi. Vedere il volto di Dio è la salvezza dell’uomo, che ritrova il suo volto. Dire il nome di Dio è ritrovare il Nome che sostanzia ogni

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nome: è trovare quel “tu” che fa esistere ogni “io”. Il desiderio di tutte le religioni è dare un volto e un nome a Dio.Ora possiamo nominare Dio, perché lui si è fatto concepire e si è donato a noi. Quello che è il più grande desiderio dell’uomo, trova ora soddisfazione. Che sorpresa dare il nome a colui che dà il nome a tutto, chiamare per nome colui che dal nulla ha chiamato tutte le cose e le ha fatte esistere! Chiamare per nome una persona significa che essa esiste per me e io per lei: è l’esistere uno per l’altro, entrare in comunione. Ora, mediante questo nome, si stabilisce il rapporto definitivo tra Dio e l’uomo: l’uomo esiste per Dio perché Dio esiste per l’uomo. Inizia il dialogo e l’esistenza nuova.Il nome di Dio per l’uomo non può essere che “Gesù”, cioè “Dio salva”, sia perché nominare Dio è la salvezza dell’uomo, sia perché l’uomo è perduto e può conoscere Dio solo come colui che lo salva.Quel Dio che ci faceva paura, perché santissimo, può essere nominato in ogni luogo di perdizione e di disperazione, perché è Salvatore. Non occorre essere giusti e santi, perché nessun uomo è giusto davanti a Dio. Gli unici a chiamare Gesù per nome sono, oltre ai demoni, i lebbrosi (17,13), il cieco (18,38) e il malfattore (23,42). Dio è per noi perduti e lontani da lui, perché si chiama Gesù, Dio-con-noi e Salvatore. Luca lascia intravedere la dolcezza del poter chiamare Dio per nome, la soavità, la potenza e la luminosità di questo nome, Gesù.Ma quale gaudio anche per Dio, essere finalmente chiamato per nome dall’uomo. Colui che è amore, ha la gioia di essere chiamato da colui che ama. Il nome di Gesù è la dulcis memoria dell’uomo. Per capire questo nome, è utile leggere il Sal 119, mettendolo al posto del sostantivo “parola” e sinonimi: è tutta una variazione sul tema della dolcezza e luminosità di tale nome.

v. 22: “lo condussero a Gerusalemme per presentarlo al Signore”. Il Signore visita il suo tempio. Giorno tremendo per l’uomo (cf. Ml 3), inadempiente nei suoi confronti. Ma viene con la debolezza di un bambino e non per giudicare l’inosservanza della legge, bensì per sottoporsi egli stesso come uomo all’obbedienza al Padre cui abbiamo disobbedito. Viene a pagare il nostro debito, offrendosi a colui che tutto ha offerto. Non è che Dio esiga il sacrificio dell’uomo alla propria maestà: questa è la menzogna di Adamo e di tutte le perversioni religiose! Presentandosi a lui, l’uomo è restituito a se stesso. Ogni primogenito è suo. Non nel senso che lui lo voglia per sé, ma che lui lo dona. Dio non è una sorgente che ingoia acqua! È datore di vita. Presentarlo a lui significa riconoscere da lui il dono della vita e in lui la vita stessa come dono, per potervi attingere in abbondanza.

vv. 25-28: “Simeone... lo accolse fra le braccia, ecc.”. Simeone, che significa “Dio ha ascoltato”, è l’uomo che “ascolta la parola di Dio” ed è giusto e pio. A lui lo Spirito promette di vedere il messia del Signore, la consolazione di Israele (cf. Is 40,1; 32,1), l’adempimento della parola di Dio.Tre volte si nomina lo Spirito santo in rapporto a Simeone. Come in tutti i profeti, lo Spirito era “su di lui”. Per questo è uno che ascolta la Parola, mette Dio al primo posto ed è proteso ad accogliere la consolazione. Lo Spirito gli testimonia che non avrebbe visto la morte prima di aver contemplato colui che dona a chi lo vede di non gustare la morte in eterno. Diretto da questo Spirito viene a incontrarlo. Può finalmente abbracciarlo. Le braccia di Simeone sono le braccia secche e bimillenarie di Israele che ricevono il fiore della vita. La sua voce è un grido di gioia, soffocata da un’attesa lunghissima, che finalmente esplode: un grido pacato e incontenibile, il dilagare di un fiume che rompe l’argine, il fiato di tutta l’umanità, trattenuto nella paura mortale, che ora si rilassa.

vv. 29-31: “Ora sciogli il tuo servo, o padrone, ecc.”. È il canto che si prega a compieta, punto d’arrivo della liturgia del giorno. Nella notte che cala si innalza l’inno di vittoria sulla notte. L’uomo, tenuto schiavo in vita per paura della morte - in una vita insufficiente e angosciata - ora è sazio di vita. Può ritirarsi soddisfatto dal banchetto. Ha visto il Salvatore. Ora lo sciogliersi della vita può avvenire

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in pace. L’ineluttabile, che prima angustiava, può ora avvenire nella gioia. La paura della morte - la paura stessa di Dio che è vita! - si dissolve come nebbia al sole. Ora l’uomo vecchio, al limite dei suoi giorni, non è più ghermito dalle ombre della morte, ma abbraccia nelle sue ossa secche colui che dà la vita. Solo l’incontro con lui può sanarci dal veleno della morte. L’evento, prima tragico perché distruzione di tutto, ora diventa nostalgia di un ritorno.Gli occhi di Simeone non vedono più le tenebre davanti a sé, ma l’aurora della vita, “la salvezza” di Dio (v. 30). Solo chi incontra Gesù salvatore può morire in pace, e quindi vivere anche in pace. È la sorpresa di uno che, affamato davanti a una porta chiusa, dietro alla quale immagina un abisso di tenebra, all’aprirsi della porta vede una sala illuminata, con uno splendido banchetto imbandito. Alza tranquillo il piede, scioglie il passo e partecipa alla festa.La salvezza è preparata da Dio “in faccia a tutti i popoli” (v. 31). Non è solo per Israele. È una luce per tutte le genti che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte (1,79; cf. Is 42,6; 49,6). Questa è la gloria di Israele (v. 32), che santifica il nome di Dio e riverbera sul proprio volto la gloria del suo volto.

v. 33: “Ed erano il padre suo e la madre sua meravigliati, ecc.”. Con stupore Maria e Giuseppe, come ogni lettore del Vangelo, ascoltano il canto di Simeone.

v. 34: “egli è qui per la caduta e la risurrezione, ecc.”. Simeone, l’AT giusto e timorato di Dio, che attende e riconosce il Messia, è anche in grado, mosso dallo Spirito, di predirne a Maria il destino. Gesù è comprensibile ancora oggi a noi solo a partire dall’AT.Il bimbo sarà insieme causa di caduta e di risurrezione per le moltitudini di Israele. Porta infatti una salvezza inaccettabile per tutti. Scandalo e follia, è un “segno contraddetto”, che contraddice ogni pensiero dell’uomo. Per questo tutti gli sono contro, si scandalizzano di lui e cadono. I discepoli per primi. Ma lui è salvatore di tutti coloro che sono caduti. È qui adombrato il mistero della morte e risurrezione del Signore, che come spada attraverserà il cuore di ogni discepolo e di tutta la chiesa, di cui Maria è figura. Questo mistero vivrà di continuo nella storia del discepolo che ripercorre il suo stesso cammino dalla croce alla gloria.

vv. 36-38: “E c’era Anna profetessa, ecc.” Anna (= favore di Dio) di Fanuele (= volto di Dio) della tribù di Aser (= buona fortuna) ha per grazia di Dio la buona fortuna di vederne il volto in Gesù e riconoscerlo. È molto avanzata negli anni. Vedova dalla giovinezza, è figura sia d’Israele che di tutta l’umanità che ha perso lo sposo e vive una vita vuota, esiliata dal volto del suo desiderio. Ma non lascia mai il tempio e continua ad attendere e cercare, con digiuni e preghiere, con dolore e desiderio, notte e giorno. L’incontro avviene in quell’“ora” in cui Simeone predice la croce, l’ora della contraddizione. È qui che Dio si presenta definitivamente al suo popolo, offrendosi in contemplazione a tutti (cf. 23,48).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il tempio.c. Chiedo ciò che voglio: la gioia di chiamare Gesù per nome e di incontrarlo, (con timore e amore).

d. Punti su cui riflettere:

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- la circoncisione- il nome suo Gesù- la presentazione al tempio- l’incontro con Simeone- il canto di Simeone- il segno contraddetto- l’incontro con Anna.

4. Passi utili

Es 3,13-15; Sal 119; Ml 3.

11. NELLE COSE DEL PADRE MIO BISOGNA CHE IO SIA

(2,39-52)

39 E quando ebbero finitoquanto è secondo la legge del Signore,ritornarono nella Galileanella loro città, Nazareth. 40 Ora il bambino cresceva e si fortificavariempiendosi di sapienza e la grazia di Dio era su di lui.41 E andavano i suoi genitoriogni anno a Gerusalemme nella testa di Pasqua. 42 E quando fu di dodici anni,saliti essisecondo l’uso della festa43 e finiti i giorni,mentre essi ritornavano,resistette Gesùil figlio/servoa Gerusalemmee non seppero i suoi genitori.44 Ora, pensando che egli fossenel cammino con gli altri, fecero il cammino d’un giornoe lo cercavano tra parenti e conoscenti;45 e, non trovatolo, ritornarono a Gerusalemme,

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cercandolo.46 E avvennedopo tre giorniche lo trovarono nel santuario seduto in mezzo ai maestri e li ascoltava e li interrogava.47 Ora erano fuori di sé tuttiquanti lo udivanoper la intelligenza e le sue risposte.48 E vistolo, furono colpitie disse a lui sua madre:Figlio,perché facesti a noi così?Ecco:il padre tuo e iotravagliati ti cercavamo.49 E disse a loro:Perché dunque mi cercavate?Non sapevate chenelle cose del Padre mio bisogna che io sia? 50 Ed essi non compresero la parola che disse loro.51 E discese con loroe andò a Nazarethed era subordinato a loro.E sua madre conservavatutte le parole nel suo cuore.52 E Gesù progredivain sapienzae in staturae in graziapresso Dio e uomini.

1. Messaggio nel contesto

Con la presentazione dell’atteso a Israele, destinato a presentarlo a tutti i popoli, Luca termina d’introdurre il lettore nell’AT. Anche lui ora è in grado di accogliere, vedere, abbracciare e lodare Dio, identificandosi con le figure di Maria, dei pastori, di Simeone e di Anna.Di Gesù sappiamo già che è il Figlio di Dio (1,32-35), Figlio dell’Altissimo (1,32), salvatore (v. 11), Cristo Signore (v. 11), luce delle genti e gloria di Israele (v. 32), il contraddetto e la spada (vv. 34.35), la consolazione e la redenzione di Israele (vv. 25.38). Ora si racconta come tutto ciò si rivelerà nel corso della sua vita narrata nel seguito del Vangelo. Essa si svolgerà come un pellegrinaggio a Gerusalemme, dove la sua “sapienza” lo porta e lo trattiene necessariamente, per essere Figlio in obbedienza al Padre. Il racconto anticipa il “viaggio pasquale” di Gesù. Luca, dopo aver delineato la

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preistoria attraverso le linee portanti della promessa, traccia con vigorosa prospettiva un disegno del suo futuro, rivelandoci la follia della sua sapienza, che lo porterà all’impotenza che ci salva. I tre giorni di smarrimento a Gerusalemme sono il preludio della sua morte e risurrezione.A questa rivelazione folgorante del mistero di Gesù nel tempio, fa da cornice il mistero della sua vita umile e quotidiana di Nazaret, sua scuola di sapienza. Il tema dominante è la sapienza, nominata all’inizio e alla fine (vv. 40.52) e descritta nel mezzo (vv. 46.47): è la sapienza del Figlio, opposta a quella di Adamo e che consiste nell’obbedienza al Padre (v. 49). Lo intratterrà tre giorni a Gerusalemme, per rispondere alle Scritture. Il mistero di Gerusalemme è racchiuso in quello di Nazareth, come senso nascosto e cuore di ogni quotidianità.

2. Lettura del testo

vv. 39-40: “E quando ebbero finito quanto secondo la legge, ritornarono nella Galilea, nella loro città, Nazareth, ecc.”. Con la presentazione e il riconoscimento di Gesù è terminata l’economia della Legge. Non perché non sia più valida, ma perché finalmente è stata portata a compimento. Caduto l’ultimo diaframma che blocca l’uscita, la galleria è transitabile. Gesù fa il contrario di quanto ha fatto Adamo, e anche Israele: ascolta il Padre e gli obbedisce. Così compie l’economia della legge data al servo disobbediente e inaugura l’economia della grazia, propria del Figlio obbediente al Padre.In questa economia nuova Gesù torna a Nazareth e vi rimane trent’anni. È una generazione, una vita, riscatto di ogni generazione e di ogni vita nella sua quotidianità.Nazareth, come ogni altro mistero, non è nascondimento, bensì rivelazione di Dio. I Vangeli nulla o quasi ci dicono di questi trent’anni, come i libri nulla o quasi dicono della vita quotidiana di tutti gli uomini. Lì il Signore ha imparato: a essere abbracciato e baciato, allattato e amato, a toccare e parlare, a giocare, camminare e lavorare, a condividere i minuti, le ore, le notti e i giorni, le feste, le stagioni, gli anni, le attese, le fatiche e l’amore dell’uomo. Nel silenzio, nel lavoro, nell’obbedienza alla parola, in comunione con Maria, Giuseppe e i suoi parenti, Dio ha imparato dall’uomo tutte le cose dell’uomo. Il mistero di Gesù a Nazareth è il grande mistero dell’assunzione totale della nostra vita da parte di Dio: ci ha sposato in tutto, facendosi un’unica carne con ogni nostra situazione concreta. Nazareth è il mistero che redime la creaturalità dall’insignificanza del suo limite. Nel limite del tempo incontriamo l’eterno, nel limite dello spazio troviamo l’infinito.Il silenzio di Nazareth è il mistero più eloquente di Dio. Gesù cresce, si fortifica e si riempie di “sapienza” sotto la “cháris” di quel Dio al quale ogni uomo si era sottratto fin dal principio.

vv. 41-42: “quando fu di dodici anni, saliti essi secondo l’uso alla festa, ecc.”. Tre volte l’anno le celebrazioni richiamano a Gerusalemme i pellegrini: a Pasqua, a Pentecoste e ai Tabernacoli. Chi è lontano può andarci una sola volta. Gesù si inserisce nell’obbedienza della sua famiglia alla legge del Signore e va a celebrare la sua Pasqua. Era già stato al tempio 12 anni prima per essere offerto a Dio (2,22). Ora ritorna. Fino a 13 anni il bambino è minorenne, figlio dei suoi genitori che l’hanno ricevuto in dono. Devono insegnargli la parola che lo rende figlio di Dio, unico Padre. Dai 12 ai 13 anni c’è il tirocinio definitivo e poi diventa “adulto”, “figlio della legge”, tenuto, come i suoi genitori, a conoscere e compiere la volontà di Dio.L’uomo diventa la parola che ascolta. Questa ha il potere di generarlo a una vita pienamente umana, dopo che la madre l’ha generato come infante. L’ascolto della parola di Dio rende l’uomo libero e responsabile, capace di entrare in dialogo con lui. Il grado di maturità e di libertà è dato dal conoscere e compiere la volontà di Dio. Qualcuno non è mai adulto e libero, rimane sempre piccolo, in dialogo solo coi propri bisogni.

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Gesù adempie l’obbligo del pellegrinaggio con un anno di anticipo, mosso dallo stesso desiderio che lo spingerà a Gerusalemme per mangiare la sua pasqua (cf. 22,15; 12,50). Tutta la sua vita sarà una “salita”, un pellegrinaggio. Nel suo cammino viene riportata davanti al volto di Dio tutta l’umanità, misera, fuggiasca e perduta, che lungo il suo cammino ha incontrato.

v. 43: “resistette Gesù, il figlio-servo, a Gerusalemme”. Finiti i giorni della Pasqua, Gesù non torna indietro. Gli altri dovranno tornare indietro per incontrarlo. La Pasqua è per gli uomini una fugace presentazione a Dio per ritrarsi indietro. Gesù invece, “il servo”, “resistette” in Gerusalemme. Persevera là dove gli altri subito fuggono perché è il paîs, il servo obbediente. Ma il mistero del suo resistere a Gerusalemme, non è riconosciuto dai suoi. Solo dopo la sua risurrezione, e solo dopo che avrà loro spiegato tutto, sarà finalmente riconosciuto allo spezzare del pane (24,35).

v. 44: “e lo cercavano, ecc.”. I suoi non possono non pensare che lui sia nel “cammino con gli altri”, come le donne al sepolcro cercheranno tra i morti colui che è vivo (24,5). Ma le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri (Is 55,8). Gesù non si trova tra i “parenti” secondo la carne, perché i suoi parenti “sono coloro che ascoltano la parola di Dio” (8,21). Non si trova neanche tra i “conoscenti”, perché il suo mistero, che solo il Padre conosce, è nascosto a coloro che sanno e rivelato agli “infanti” (10,21).

v. 45: “e non trovatolo, ecc.”. È lo smarrimento di chi non trova colui che non può non cercare, l’angoscia delle donne al sepolcro, che non trovano il corpo del Signore. Non lo si ritrova finché lo si crede nello stesso cammino degli altri che si allontanano da Gerusalemme, nella fuga da Dio che costituisce la parentela di ogni carne. Per trovarlo bisogna “invertire il cammino”, “far ritorno” là dove lui solo ha resistito, convertirsi al suo stesso cammino verso Gerusalemme, dove alla fine lo si trova.

vv. 46-47: “lo trovarono nel santuario”. Il figlio perduto è “ritrovato” “dopo tre giorni” nel “santuario”, nella gloria di Dio, “seduto”, ormai arrivato al termine della fatica, che solennemente ammaestra nella parola di Dio coloro che della Parola erano i maestri. Lui, il servo che resiste tre giorni a Gerusalemme, è la sapienza che interroga e dà risposta alla promessa di Dio. Il crocifisso risorto è risposta a tutte le Scritture: di lui hanno parlato la legge, i profeti e i salmi (24,44), del suo esodo hanno dialogato Mosè ed Elia (9,30s.).Gesù è per noi la parola viva del Vangelo che ascolta e interroga la promessa dell’AT, dando una risposta piena di sapienza che stupisce tutti. Quella ricerca senza risultato dei tre giorni, quell’interrogativo senza risposta della passione - Gesù che tace e non risponde nulla! - trova risposta in questo dialogo del Risorto con la promessa di Dio.

v. 48: “e vistolo, furono colpiti, ecc.”. Al vederlo i suoi rimangono “colpiti” (cf. 24,22) e gli raccontano tutto il dolore della perdita e l’ansia della ricerca. Come i discepoli di Emmaus, non hanno ancora capito che “bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria” (24,26). Pure il discepolo è associato al suo cammino; per questo lo trova solo convertendosi verso Gerusalemme.

v. 49: “Perché dunque mi cercavate? Non sapevate, ecc.”. Gesù non rimprovera per la ricerca. Rimprovera per il modo, proprio di quelli che “non sanno” e non capiscono il disegno del Padre. Qui Gesù nomina per la prima volta il “Padre”, al quale si rivolgerà direttamente nell’inno di lode perché si fa conoscere agli “infanti” (10,21s) e nella consegna di sé che farà sulla croce (23,46).

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La prima e ultima parola di Gesù è “Padre” (qui e 23,46). La paternità di Dio fa da inclusione a tutto il Vangelo; Gesù è venuto a liberare in noi la parola “Abbà”, per riportarci, nell’obbedienza e nell’amore, alla conoscenza della verità che salva (cf. 10,21 s; 11,1s). Lui “deve” occuparsi delle cose del Padre, perché è il Figlio che ascolta e risponde a ciò che il Padre ha detto. Le “cose del Padre” rappresentano la sua volontà, in cui il Figlio obbediente abita di casa, fino ad essere lui la Parola del Padre.Nel suo pellegrinaggio, definitivamente concluso presso il Padre che ascolta e al quale risponde, è aperto a noi il cammino che ci porta verso la gloria dalla quale ci eravamo allontanati.Del mistero del Figlio che resiste a Gerusalemme hanno parlato tutte le Scritture: lui le ha ascoltate ed esse in lui trovano risposta. La promessa fatta a Israele è compiuta. La “sapienza” di Gesù, nuovo Adamo, non è quella del sospetto e della paura, del nascondimento e della fuga, ma del “resistere” nell’ascolto, interrogando e rispondendo pienamente a quanto udito: è il servo-figlio obbediente, che si abbandona con fiducia al Padre, ne compie la parola, ne è la Parola perfettamente eseguita e per questo è come il Padre che conosce e ama. In lui anche a noi è dato accesso all’intimità del dialogo ineffabile Padre-Figlio, rivelato agli infanti (10,21).

v. 50: “Ed essi non compresero, ecc.”. I suoi non compresero il fatto. È ancora lungo il cammino. Siamo solo all’alba del giorno.

v. 51: “E discese con loro, ecc.”. A differenza di Samuele in Silo (1Sam 2,11), Gesù non resta a Gerusalemme nel tempio. Ritorna a Nazareth, nel normale cammino degli uomini. Lì incontrerà tutti i perduti e raccoglierà tutta l’umanità per riportarla presso il Padre.La sua vita quotidiana, la sua storia concreta, sarà ormai il nuovo tempio, luogo della rivelazione di Dio. Gesù è ormai per sempre presso di noi e presso il Padre, l’unico nostro fratello e suo figlio unico.

“E sua madre conservava, ecc.”. Maria, che ancora non capisce, è modello della chiesa: “Custodisce attraverso il tempo” (questo è il significato di diatereîn) questi detti, come un seme che crescerà. Dopo aver portato il Figlio nell’utero, ora lo porta nel cuore e diviene realmente madre (cf. 8,21; 11,28), come la chiesa. Questa gestazione spirituale del cuore, tende a formare la statura piena del Cristo ( cf. Ef 4,13), quando per lui Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).Maria è tratteggiata in questi due capitoli (cf. anche 8,19ss e 11,27s) come l’ideale del credente. Nel suo modo di rapportarsi alla Parola, si vede traccia del metodo catechetico antico. Come lei anche il catecumeno non comprende subito il grande mistero dei tre giorni di Gesù col Padre. E come lei custodisce nel cuore le parole, le impara a memoria, anche se la loro comprensione ancora gli sfugge. In questo ricordo costante della Parola accolta, il cuore progressivamente si illumina nella conoscenza del Signore.Da questo punto Maria quasi scompare dalla scena; viene sostituita dalle folle e dalle varie persone che sono chiamate a ripercorrerne l’esperienza per diventare come lei, figura e madre di ogni credente.

v. 52: “E Gesù progrediva, ecc.”. L’evangelista conclude annotando che Gesù “progrediva in sapienza e in statura e in grazia presso Dio e uomini”. Ora sappiamo qual è la sua “sapienza”: compiere la volontà del Padre e resistere a Gerusalemme. La sua “statura” è quella che assumerà crescendo nel cuore dei credenti fino alla consegna definitiva del Regno al Padre. La sua “grazia” è il suo essere insieme presso il Padre e presso di noi.

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo, immaginando il cammino da Nazareth a Gerusalemme e il tempio.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere e compiere la volontà del Padre.

d. Punti su cui riflettere:- quotidianità di Nazareth e sapienza.- Gesù servo/figlio- resistere tre giorni a Gerusalemme- Gesù ascolta e interroga- essere nelle cose del Padre.

4. Passi utili

Sal 40; 84; Lc 8,19-21; 11,27-28.

12. CHE DUNQUE FAREMO?

(3,1-20)

3 1 Ora nel quindicesimo anno del governo di Tiberio Cesare, essendo governatore della Giudea Ponzio Pilato, e tetrarca della Galilea Erode, e Filippo, suo fratello, tetrarca della regione dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene,2 sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa, cadde la parola di Dio su Giovanni, figlio di Zaccaria,nel deserto.3 E andò in tutti i dintorni dei Giordano, annunciando un battesimodi conversionein remissionedei peccati,4 come è scritto nel libro delle parole di Isaia il profeta:Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via dei Signore, fate diritti i suoi sentieri;5 ogni burrone sarà riempitoe ogni monte e colle abbassato,

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e saranno le cose storte dirittee le impervie lisce,6 e vedrà ogni carnela salvezza di Dio.7 Diceva dunque alle folle che uscivanoper essere battezzate da lui: Rampolli di vipere, chi suggerì a voi di fuggire dall’incombente ira?8 Fate dunque frutti degni di conversione,e non cominciate a dire tra voi: Padre abbiamo Abramo! Dico infatti a voi che può Dioda queste pietre suscitare figli ad Abramo.9 Ora già anche la scure sta alla radice degli alberi: ogni albero dunque che non fa frutto bello è reciso e gettato nel fuoco.10 E lo interrogavano le folle dicendo:Che dunque faremo?11 Ora rispondendo diceva loro:Chi ha due tuniche faccia parte a chi non ha; e chi ha dei cibi faccia similmente.12 Ora vennero anche pubblicano per essere battezzatie dissero a lui:Maestro, che faremo?13 Ora egli disse loro:Niente di più fate oltre la vostra consegna.14 Ora lo interrogavano anche soldati, dicendo:Che faremo poi noi?e disse loro:Nessuno vessate né calunniate e contentatevi delle vostre paghe. 15 Ora attendendo il popoloe ragionando tutti nei cuori loro circa Giovanni se per caso non fosse lui il Cristo,16 rispose a tutti Giovanni dicendo:Io con acqua vi battezzo; ora giunge il più forte di me, di cui non sono in gradodi sciogliere il laccio dei sandali:lui vi battezzerà

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in Spirito santo e fuoco!17 E il suo ventilabro nella sua manoper ripulire la sua aiae raccogliere il grano nel suo granaio,e la pula invece consumeràcon fuoco inestinguibile.18 Con molte e diverse cose consolandoevangelizzava il popolo.19 Ora Erode il tetrarca,rimproverato da lui per Erodiade, la donna di suo fratello, e per tutte le cose cattive che fece Erode,20 aggiunse anche questo a tutte: rinchiuse Giovanni in prigione!

1. Messaggio nel contesto

Giovanni è il prototipo dell’uomo che Dio si è preparato per stare davanti al suo volto, che è Gesù, e per aprirne agli altri la via di accesso. È la persona pronta ad accogliere il Signore che viene. Sintesi vivente dell’AT, in lui vediamo la caratteristica fondamentale di tutta la storia d’Israele: l’attesa. Frutto di una fede assoluta nella promessa, è la condizione indispensabile per il compimento. Dio ha tanto tardato a compiere la sua promessa, perché aspettava di essere “atteso” da qualcuno. Se non è atteso, non può venire; e, se viene, è come se non fosse venuto. Chi attende “tende a” ciò che ancora non c’è. Giovanni è tutto proteso verso il futuro di Dio e chiama gli uomini a rompere i loro equilibri per volgersi ad esso. Egli è “eccentrico”: ha il suo centro fuori di sé; il pondus del suo cuore sta nella promessa di Dio. Questo sbilanciamento costituisce la caratteristica fondamentale dell’uomo in cerca del suo volto perduto: creato a immagine e somiglianza di Dio - sua icona vivente troppo grande per bastare a se stesso, ma anche troppo piccolo per soddisfare il suo bisogno, necessariamente l'“homme dépasse l'homme” (Pascal). Per questo solo in Dio può trovare se stesso, ed essere salvo.Il primo annuncio di Giovanni è la salvezza universale (vv. 1-6). A condizione però di volgersi a Dio (vv. 7-14). Diversamente si è perduti, perché è giunto il momento decisivo. Il giorno del Signore, la venuta di Cristo, introduce la storia nel suo senso ultimo (vv. 15-17). La predicazione di Giovanni è chiamata “consolazione” e “vangelo” (v. 18) e il suo destino sarà identico a quello di colui che egli precede (vv. 19-20). Il centro della sua predicazione è Is 40, dove si consola il popolo che ormai sta per essere liberato dalla schiavitù e lo si esorta a preparare la via del ritorno dall’esilio alla patria della libertà. La predicazione di Gesù invece sarà Is 61 (cf. 4,18ss), dove si proclama giunto l’“oggi”, in cui questo ritorno avviene. Giovanni e Gesù stanno tra loro come AT e NT, come promessa e compimento, come legge (cf. 3,3-17) e grazia (cf. 4,22). Attraverso Giovanni, Luca vuol condurre il cristiano ad accogliere il Signore che viene. Si può dire che nella figura di Giovanni viene sbalzato un abbozzo di “antropologia cristiana”: si descrive come si deve comprendere l’uomo in rapporto al Cristo, il quale viene per donargli la sua vera identità di figlio di Dio.

2. Lettura del testo

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vv. 1-2a: “Ora nel quindicesimo anno del governo di Tiberio Cesare, ecc”. . Si parte dalla storia universale profana per concentrare lo sguardo su quella del popolo di Dio. La sua parola accade in questa nostra storia concreta, senza più distinzione tra sacro e profano. La funzione di Israele non sarà sequestrare per sé la salvezza, bensì offrirla a tutte le genti.Si nominano sette personaggi, pagani e giudei, per indicare attraverso il numero 7 la completezza della storia, non importa se pagana o giudea, perché ambedue sono un’unica realtà (cf. Ef 2,14). La parola di Dio è rivolta a tutti, religiosi o meno: “ogni carne” è chiamata alla conversione per vedere la salvezza (v. 6).

v. 2b: “Cadde la parola di Dio su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto”. In tale contesto di male - molti di questi personaggi riappariranno in un meccanismo ben congegnato come attori-autori della passione del Signore! - scese su Giovanni la parola di Dio destinata a tutto il mondo. Il luogo in cui tale parola accade non sono i palazzi delle persone appena nominate, bensì il “deserto”. È il luogo vuoto e inabitabile dove l’uomo trova la verità propria e di Dio. Solo il suo silenzio è terreno adatto per accogliere la sua parola. Il deserto richiama l’esperienza fondamentale dell’esodo, l’uscita dalla non-identità e dalla schiavitù verso la libertà e il servizio di Dio. In esso si è formato il popolo, divenuto tale nelle comuni difficoltà superate, nella comune meta agognata, nell’ascolto della stessa parola e nella condivisione dallo stesso cibo. Nel deserto non c’è nulla che uno possegga più dell’altro: si è necessariamente uguali, senza bagagli ingombranti. Ciò che hai in più ti appesantisce e, se non è buttato o condiviso, può diventare motivo di divisione e di disavventure. Nessuno possiede più terra di quella rovente che gli brucia sotto i piedi e che cerca di lasciare al più presto per uscirne. Si cammina insieme verso qualcosa che unisce e non c’è più niente o niente ancora che divide. Si è tutti necessariamente fratelli, poveri in uguale misura e ricchi solo della solidarietà e della speranza comune verso cui camminare per non soccombere.L’unica sicurezza del deserto - non per il nomade, che ne fa la sua dimora stabile, ma per chi non ha rinunciato a cercare una patria! - è il futuro. Per questo è necessario camminare insieme, uscire da ciò che può imprigionare il piede e significare morte, seguire la direzione giusta.Giovanni abita nel deserto per indicare che lo stato continuo di vita dell’uomo è quello dell’esodo: deve uscire costantemente da ogni schiavitù e camminare verso la promessa di Dio, senza alcun’altra garanzia che la sua fedeltà. Nel deserto cielo e terra sono ugualmente vuoti, tesi di silenzio. Nulla distrae. In questo “nulla” di ciò che c’è, può risuonare ed essere udita la parola nuova e creatrice. Il deserto è in sintesi la via di Dio, il contrario di quella dell’uomo che da esso rifugge. Preferisce infatti i sepolcri d’Egitto, la fuga dalla libertà.Nella dimensione personale, deserto significa uscire da sé, “disertare” dalle proprie false identità, svuotarsi del passato con le sue vertiginose paure e abbandonarsi al novum. Questo esodo interno fa dell’uomo un essere “esodico”, in cammino verso il proprio futuro.

v. 3: “E andò in tutti i dintorni del Giordano, annunciando un battesimo, ecc.”. Giovanni percorre la regione del Giordano, soglia della terra promessa. Questo dato geografico è anche teologico: lo qualifica come ultimo profeta prima del compimento.Egli predica un battesimo. Essere battezzati significa immergersi, andare a fondo. Il battesimo rappresenta il destino di ogni realtà umana, che comunque affonda e viene inghiottita dall’abisso da cui è stata tratta. Il battesimo indica questo riconoscimento del limite proprio della creatura che si riconosce mortale. All’accettazione della propria morte simbolica, espressa nell’immersione nell’acqua, si aggiunge il desiderio di una rinascita, raffigurata dall’emersione. Il battesimo è quindi accettazione della morte e insieme sua contestazione nel desiderio di vita. È segno tipico della condizione dell’uomo: egli solo riconosce di non essere Dio, perché mortale, ma anche desidera essere

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come lui, cioè immortale, perché creato a sua immagine e somiglianza. Giovanni chiama ad un battesimo di conversione. Non è semplicemente un rito. Implica davvero un cambiamento di mentalità e di vita.Questa conversione è ordinata alla “remissione dei peccati”. L’uomo non può espiare il peccato - è irreparabile da parte sua! - e neanche deve espiarlo. Il nostro Dio infatti intende liberarci da ogni male e da ogni colpa, bandendo ogni immagine sadica di lui e ogni forma di masochismo da parte nostra. Il male non va espiato: è perdonato da colui che ci ama. Dio è amore, quindi dono. Il male è vinto dal perdono, super-dono eminente del suo amore per noi, in modo che là dove abbondò il peccato, sovrabbondi la grazia (Rm 5,20).L’importante è riconoscere davanti a lui il proprio peccato. Peccare significa in ebraico “fallire il bersaglio”, “mancare il fine”. L’uomo è peccatore perché, per la suggestione del serpente, ha fallito il proprio fine, deviando da Dio. Bisogna distinguere bene il senso del peccato da quello della colpa. Il peccato è oggettivo, ed è nei confronti di Dio. Se ne esce col suo perdono. La colpa invece è soggettiva; è un senso di fallimento nei propri confronti, che induce a un’espiazione, che non redime mai. Se ne può uscire solo con un corretto senso del peccato, in una esperienza di Dio come amore che perdona.Non è un caso che nel nostro tempo, scomparso il senso di Dio e del peccato, è sempre più grande il senso del limite e della colpa. Il limite stesso è avvertito come colpa! Talora si arriva addirittura a una diffusa colpa di vivere, che porta a un’angoscia mortale.

v. 4: “ Voce di uno che grida nel deserto: preparate, ecc.”. Giovanni, conformemente al suo nome (cf. 1,13.60), predica la grazia e la consolazione di Dio. Usa le parole di conforto che il libro di Isaia rivolge al popolo, schiavo in Babilonia e ormai dimissionario da ogni desiderio di libertà (cf. Is 40). È un grido che si alza in quel luogo della verità dell’uomo che è il deserto. Ed è un grido umano, una “voce”, ma non ancora una parola. “Tra noi uomini c’è distinzione tra voce e parola, in quanto si può ammettere una voce che non significa nulla essendo separata dalla parola (... ). Allo stesso modo, se il Salvatore, secondo un certo aspetto, è la Parola, io penso che Giovanni differisce da lui in quanto è la voce rispetto a Cristo che è la Parola. Del resto è lo stesso Giovanni a indurmi a pensare questo, perché risponde chi egli sia a coloro che lo interrogano: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Perché l’intelletto possa afferrare la parola significata dalla voce, occorre che prima sia percepita la voce: ed ecco Giovanni nasce prima di Cristo. Noi infatti percepiamo la voce prima della parola. Giovanni poi indica Cristo, così come la parola è significata dalla voce” (Origene, In Johan., II, 32). La voce dà corpo alla parola, la parola dà senso alla voce. Così ciascuno di noi, come il Battista, deve essere voce la cui parola è Cristo. Tutta la storia umana è un vociare e un gridare senza senso, che trova in Gesù, parola eterna di Dio, il proprio senso e la propria vita.Questo grido intende “preparare la via del Signore”, la via del ritorno alla libertà, patria del desiderio, dove l’uomo è di casa.Questo grido invita anche a “fare diritti i suoi sentieri”, cioè i sentieri di Dio. Come!? Sono forse le vie di Dio storte o tortuose come quelle dell’uomo? Certamente la via di Dio è diritta (Sal 18,31) e anche attraverso il mare. Solo che le sue orme rimangono invisibili (Sal 77,20). Per questo l’uomo non la conosce e quindi la perde o va storto su questa via (cf. Is 55,8). Raddrizzare la via significa smettere di “delirare”, per camminare diritti e spediti nel solco della sua promessa, senza tergiversare di continuo nel dubbio e perderci nell’inessenziale.

v. 5: “ogni burrone, ecc.”. I “burroni” riempiti sono le ineguaglianze e le ingiustizie appianate. Sono anche le depressioni, gli abissi di disperazione in cui si trova il popolo che non spera più. L’abisso di

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ingiustizia sia colmato dalla misericordia dell’uomo (v. 11) e l’abisso della disperazione dalla misericordia di Dio. Ciò che più ci blocca nel cammino è la sfiducia che il bene che Dio ci promette sia possibile (cf. 1,18.20). La fede, primo dono della misericordia di Dio, colma questo burrone, dando la certezza che avviene ciò che è impossibile all’uomo. Essa infatti non misura la possibilità di Dio partendo da quella dell’uomo, ma misura la possibilità dell’uomo partendo da quella di Dio. Ciò che è possibile a un mio amico, è possibile anche a me per mezzo suo.Alla depressione si contrappone l’esaltazione, la presunzione e l’orgoglio: sono i “monti” e i “colli” (Is 2,11ss). Questi sono da rendere bassi e umili, in modo da diventar “tapini”, come Maria (1,48). Dio infatti guarda i superbi da lontano e resiste loro, mentre è vicino agli umili e fa loro grazia (Sal 138,6; 1Pt 5,5).L’umiltà è la verità dell’uomo, che è terra (homo, humilis e humus hanno la stessa radice!) e in questa sua verità l’uomo incontra Dio che solo in essa gli viene incontro per salvarlo.

v. 6: “e vedrà ogni carne la salvezza di Dio”. Si sottolinea l’universalità della salvezza. Usando “carne” invece di “uomo”, l’autore sottolinea che si rivolge a ciascuno proprio nella sua fragilità, debolezza, limite, peccato e morte. A ognuno che sperimenta la precarietà del suo essere uomo e la peccaminosità del suo non esserlo, è data la salvezza di Dio.

v. 7: “Rampolli di vipere, ecc.”. Giovanni si rivolge alle folle, per convertirle e farne il popolo di Dio. Ciò che Mt 3,7 dice dei farisei e dei sadducei, qui si dice di tutti: “rampolli di vipere”, figli del serpente, generazione velenosa. Tutti noi siamo figli non di Dio, bensì “per natura meritevoli d’ira” (Ef 2,3). Obbedendo alla menzogna del serpente antico, consideriamo Dio come cattivo e resistiamo al suo amore ignorato. Diventiamo suoi nemici, figli del padre della menzogna (Gv 8,43s).A questa generazione del serpente si contrappone la generazione dei figli di Dio, che seguono Gesù nella sua missione: su costoro il veleno del serpente non ha più potere (cf. 10,19). Per questo alla fine dell’opera di Luca, Paolo viene morso da un serpente velenoso e, contro ogni aspettativa, non ne ha alcun danno (At 28,3ss).

v. 8: “Fate dunque frutti degni di conversione”. Per sfuggire all’ira incombente, è necessaria la conversione, non a parole ma coi fatti. Che non si avveri quanto dice il profeta: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto” (Mc 7,6s = Is 29,13). I frutti degni della conversione sono quelli dell’albero buono della misericordia di Cristo in cui siamo inseriti (cf. 6,43). Non giova una religiosità di tradizione e di consuetudine (cf. Gv 8,31-59). Non giova essere figli di Abramo secondo la carne! Bisogna esserlo secondo lo Spirito, obbedendo alla Parola, come ha fatto lui, padre di tutti coloro che hanno fede. Comunque Dio sa suscitare dei figli di Abramo anche dalle pietre.Lui sa sciogliere la durezza del nostro cuore, chiuso nella sfiducia e nella superbia, tutto intento ad aggrapparsi e avvelenare quanto tocca e farne un cuore di carne, pieno della sua vita.

v. 9: “la scure sta alla radice degli alberi”. Alludendo forse a Is 10,33s, si smonta la sicurezza di una religiosità, che non regge al giudizio di Dio (cf. Ger 7,1-7; 26,1-19). È la religiosità di cui parla Giuda 4, a proposito degli “empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio”. Consiste in una fede senza opere, che Giacomo chiama demoniaca (Gc 2,14-26). Mentre “una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27).Solo dopo aver parlato della salvezza “per ogni carne”, Luca parla del giudizio. Egli è lo scriba mansuetudinis Christi. Cristo è salvezza per tutti e non giudica nessuno. Infatti, dice il Signore: “Dio

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non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17) e ancora: “Io non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna” (Gv 12,47). La condanna è semplicemente quella di non accettare la parola di salvezza. La condanna non viene dal Signore, ma dalla nostra empietà (cf. Sap 1,16).Il richiamo al giudizio è un pressante appello ad accogliere la salvezza: aprire gli occhi sulla realtà negativa in cui ci si trova, è un appello a uscirne.Il Battista stesso, svelando senza maschere il male e chiamando alla conversione, insegna a tutti come “fuggire dall’incombente ira” (v. 7) del giorno del Signore, dalla quale non c’è via di scampo (cf. Am 5,18s).

v. 10: “Che dunque faremo?”. La reazione delle folle è esemplare: “Che fare?”. La domanda suppone riconoscimento dell’errore di ciò che si fa, ignoranza di cosa fare, disponibilità ad accogliere l’indicazione di Dio per tradurla in pratica. È la stessa domanda delle folle il giorno di Pentecoste (At 2,37), che porterà in un solo giorno altri tremila ad aggiungersi alla “comunità di coloro che erano salvati” (At 2,48). È la domanda per iniziare l’itinerario di conversione battesimale.Il Battista propone, in sintesi, l’itinerario profetico classico di conversione: la fraternità nella giustizia e nella solidarietà. Gesù completerà questo cammino al c. 6, proponendo come modello se stesso, il Figlio che vive la misericordia del Padre.

v. 11: “ Chi ha due tuniche, ecc.”. Quella che Giovanni propone non è la “giustizia distributiva” umana, la quale avviene, a spartizione già operata, secondo il principio “a ciascuno il suo”. Questa consacra l’ingiustizia. La giustizia dell’AT ha come presupposto la paternità di Dio, e quindi la fraternità tra gli uomini. Per questo, ciò che tu hai e tuo fratello non ha, non è tuo, ma da condividere. È negata l’economia dell’accentramento e del possesso. Israele, dall’Egitto in poi, è vissuto nell’economia del dono. Quando cade nell’economia del possesso, perde il dono della terra e imbocca la via dell’esilio. Da qui il rito di offrire a Dio le primizie donate e condivise con chi non le ha (cf. Dt 26,1-11; Is 58,6-10).

vv. 12-13: “Vennero anche pubblicani per essere battezzati, ecc.”. I pubblicani, appaltatori di tasse - e per conto di un dominatore straniero! - erano un po’ la maschera del peccato. Essi trasgredivano sotto tutti gli aspetti il codice del dono. Erano odiati non solo come chiunque esiga tasse, ma anche come quelli che mantenevano in vita il sistema di oppressione straniero. Pure loro sono disponibili alla conversione. Sembrano anzi i primi disponibili (cf. 7,29.34; 15,1; 18,9ss; 19,Iss). Giovanni fa una proposta minimale, che pare non cambiare la loro situazione. Luca suppone, senza pudiche menzogne, che il cristiano viva in un sistema di iniquità e in questo è chiamato a esercitare il possibile di misericordia. Non si possono dividere i buoni dai cattivi (Mt 13,24ss)! Luca è anche più ardito e capovolge i criteri di bontà (cf. 18,9ss): non siamo giusti, bensì graziati e giustificati e chiamati a lasciar trasparire, in questa situazione di male, la grazia sua. Per questo Gesù è amico dei pubblicani e dei peccatori (cf. 5,29; 7,29.34; 15,1 ... ) e narra, dopo le parabole della misericordia, quella dell’amministratore infedele, il quale dice: “So io che cosa fare” (16,4). Infatti, scoperta la propria infedeltà, comincia a usare misericordia, e dona ciò che non è suo: riattiva il circolo del dono, che aveva interrotto con i suoi imbrogli, instaurando l’economia del possesso! Zaccheo sarà colui che realizza la parabola (19,1ss).

v. 14: “Ora lo interrogavano anche soldati, ecc.”. Il soldato, al servizio delle armi che uccidono, è il terminale del potere di morte. Rappresenta il controsenso più palese che produce l’uomo nella sua

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paura della morte: ne diventa schiavo e servo, al suo soldo, assoldato. È il caso di stravolgimento più lampante che il peccato produce: per difenderci dalla minaccia, costruiamo e ingigantiamo all’infinito la minaccia stessa, dandole corpo ed esecuzione (cf. Eb 2,14s). Al soldato Giovanni raccomanda di non maltrattare. Un soldato che non fa del male e non compie, a nome proprio o collettivo (che è peggio!), razzie o estorsioni, che razza di soldato è? Sembra già vicino al centurione che, invece di maltrattarlo, ama il popolo, costruisce la casa di preghiera e ha una fede tale che Gesù dice di lui: Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande” (7,9). Un altro centurione riconoscerà in Gesù il giusto (23,47) e un altro ancora avrà un ruolo importante nel secondo libro di Luca (At 10,1ss). Con la sua predicazione Giovanni tocca il tema dei soldi e dei soldati - il capitale su cui conta il potere del male.Non sembra corretto pensare che qui si proponga una morale minimale, un’etica professionale realistica, in contrapposizione al discorso di misericordia di 6,27-38. È meglio intendere quanto il Battista dice come un preparare la via davanti al volto del Signore (1,76s). La sua predicazione forma un “popolo ben disposto” (1,17) ad accogliere la rivelazione di 6,27-38.

v. 15: “Ora attendendo il popolo, ecc.”. Dopo l’ascolto della predicazione del Battista, si parla del popolo in attesa. Colmata ogni depressione e spianata ogni esaltazione, eliminata ogni dimissione e pretesa, ogni ingiustizia e violenza, il popolo crede e spera la sua salvezza. A chi non spera e non crede, Dio non può donare ciò che ha promesso.

v. 16: “lui vi battezzerà in Spirito santo e fuoco”. La promessa di Dio non va decurtata. Sta sopra ogni attesa dell’uomo. Questa deve continuamente diventare più grande, per essere attesa “di Dio”. La funzione dei Battista è quella di mantenererla sempre aperta, per non ridurre il dono e la gloria di Dio a livello di una semplice speranza umana, sia pure di solidarietà e di giustizia. Quanti falsi messianismi in tutti i tempi! Come è difficile quella fede che tiene l’uomo disponibile alla sorpresa del Dio semper maior! Giovanni spiega che lui non innalza l’uomo a Dio. Semplicemente lo immerge nella sua verità, nell’acqua del suo limite e della sua morte, nella sua creaturalità, in attesa che venga “il più forte”. Costui lo immergerà nello “Spirito santo”, nella vita stessa di Dio. Questa e non altra è la salvezza dell’uomo: partecipare alla vita di Dio, al fuoco della sua luce.“Non sono in grado di sciogliere il laccio dei suoi sandali”: ci dice Giovanni di Gesù. I due non sono sullo stesso piano. Gesù dirà: Io vi dico, tra i nati da donna non c’è nessuno più grande di Giovanni; però il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui” (7,28). Si sottolinea la differenza tra AT e NT, che è quella tra promessa e compimento.

v. 17: “E il suo ventilabro nella sua mano”. Connesso con il tema dei fuoco ritorna il tema del giudizio, con allusione a Ml 3,19s e Is 66,24 (cf. anche Is 30,24; 41,14s). Il senso non è quello di condanna, bensì quello di rivelazione della realtà di male per portare l’uomo alla conversione. È lo stesso intento dei vv. 7-9.

v. 18: “Consolando evangelizzava”. Sulla linea del testo iniziale, che è ripreso dal Libro delle Consolazioni di Isaia (Is 40-55), la predicazione di Giovanni è chiamata “consolazione” ed “evangelizzazione”, annuncio della buona notizia al popolo. Giovanni è sulla stessa linea degli angeli che annunciano il Salvatore ai pastori (2,10) e dei successivi discepoli che annunceranno il Salvatore ai giudei e ai gentili.

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vv. 19-20: “rinchiuse Giovanni in prigione”. Il Battista è figura e trasparenza di colui che attende. Il motivo per cui viene imprigionato e poi ucciso è l’adulterio del re. In questo adulterio del capo del popolo si può vedere quello del popolo stesso, che da sempre ha ripudiato il suo Sposo e Signore.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo sulle rive del Giordano, con le folle che vengono dal Battista.c. Chiedo ciò che voglio: la conversione per il perdono dei peccati.

d. Punti su cui riflettere:- deserto- battesimo- conversione- perdono- peccato- che fare- giustizia come fraternità.

4. Passi utili

Is 1,1-20; 40,1-31; Ger 7,1-7; Dt 26,1-11.

13. TU SEI IL FIGLIO MIO

(3,21-38)

21 Ora avvenne,mentre era stato battezzato tutto il popolo e Gesù battezzato era in preghiera:fu aperto il cielo22 e discese lo Spirito santocon aspetto corporeocome di colomba su di lui, e una voce dal cielo venne:Tu sei il Figlio mio, l’amato,in te mi compiacqui!23 E lui, Gesù, stava iniziandoa circa trent’anni,essendo figlio, come si pensava,24 di Giuseppe, di Eli - di Mattat, di Levi, di Melchi, di Innai, di Giuseppe -

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25-26 di Mattatia, di Amos, di Naum, di Esli, di Naggai - di Mat, di Mattatia,27 di Semein, di Iosek, di Ioda - di Ioanam, di Reza, di Zorobabel, di Salatiel,28-29 di Neri - di Melchi, di Addi, di Cosam, di Elmadam, di Er - di Gesù,30 di Eliezer, di Iorim, di Mattat, di Levi - di Simeone, di Giuda, di Giuseppe,31 di Ionam, di Eliacim - di Melea, di Menna, di Mattatia, di Natan, di Davide -32-33 di Iesse, di Obed, di Booz, di Sala, di Naasson - di Aminadab, di Admin,34 di Arni, di Esrom, di Fares, di Giuda - di Giacobbe, di Isacco, di Abramo,35 di Tare, di Nacor - di Seruk, di Ragau, di Falek, di Eber, di Sala -36-37 di Cainam, di Arfacsad, di Sem, di Noè, di Lamek - di Matusalem, di Enoch,38 di Iaret, di Malei, di Cainam - di Enos, di Set, di Adamo, di Dio.

1. Messaggio nel contesto

Giovanni è in carcere, Gesù nel Giordano. Il Battezzatore è immerso nella prigione, il Salvatore imprigionato nell’acqua. Il battesimo è il luogo comune tra Gesù, Giovanni e tutti gli uomini; è la verità di ogni uomo: la morte! Nel suo battesimo però si apre il cielo e la lunga generazione di figli del serpente (v. 7) è ricondotta alla sua condizione di figli di Dio (v. 38), perché colui che è sceso e risalito dall’abisso è il Figlio, pieno dello Spirito santo.I vv. 21-22 sono il centro del c. 3. Gesù si mischia tra la gente, in fila con coloro che riconoscono la loro creaturalità e peccaminosità, accettando il loro limite e la loro morte. L’immersione nell’acqua, quasi liquida tomba prenatale (cf. Ger 20,17), è il ritorno all’abisso che attende ogni uomo. Sarà pure il termine, qui anticipato, di tutto il cammino terreno di Dio in ricerca dell’uomo perduto. È il gesto di amore di chi, non conoscendo peccato, si è fatto per noi maledizione e peccato (2Cor 5,21). Mentre Adamo affogò nella morte per essersi innalzato nella disobbedienza, Gesù si annega nell’obbedienza al Padre che l’ha mandato a cercare ciò che era perduto (19,10): per questo si abbassa nella solidarietà con l’uomo malato di morte, e trova Adamo nel luogo dove si era nascosto. “C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato finché non sia compiuto!” (12,50). Sul capo di Gesù, immerso nell’abisso, c’è il peso di tutte le generazioni che l’hanno preceduto e sono morte per la lontananza dal Padre. Sono 76 generazioni, con lui 77! E per lui, che sta sul fondo come ultimo anello della catena, tutte sono finalmente agganciate al cielo. Nella sua obbedienza, Adamo disobbediente che generò tutti nella disobbedienza, torna ad essere, con tutti i suoi figli, “di Dio” (vv. 23-38). Gesù è il nuovo Adamo, il giusto obbediente, la creatura nuova che Dio aveva creato fin dal principio. In Luca il battesimo, a differenza dagli altri sinottici, è descritto come già avvenuto. Infatti si rivolge ai credenti che già sono stati battezzati in Cristo. Richiama loro alla mente la scelta battesimale, perché non se ne dimentichino e ne perdano i frutti. Il battesimo rappresenta la scelta di fondo del Figlio che conosce il Padre: la solidarietà con tutti i fratelli perduti, in una simpatia estrema che lo condurrà alla croce.

2. Lettura del testo

v. 21: “mentre era stato battezzato tutto il popolo e Gesù battezzato era in preghiera, ecc.”. Si parla del battesimo, già avvenuto, del popolo e di Gesù insieme. Luca non concentra l’attenzione sul fatto, ma su ciò che segue. Innanzitutto ricorda che Gesù pregava. È un tema che Luca sviluppa lungo tutta la sua opera. L’illuminazione, già donata nel battesimo a ogni credente, si accende e si mantiene nella preghiera. Essa realizza il rapporto nuovo che c’è con Dio, rapporto di Figlio e Padre (l0,21s 11,lss): è il luogo dell’esperienza dello Spirito santo, vita e amore di Dio (cf. At 1,14; 2,1; 4,31), dono

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infallibilmente connesso ad essa (11,13). Pregare è tornare davanti a Dio. Adamo, perso perché nascosto a colui di cui è immagine, viene finalmente restituito a se stesso, ritrova il proprio volto e la propria origine. La preghiera è il respiro della vita di figlio di Dio in cui il battesimo ci ha posto. Senza la preghiera la nostra figliolanza divina, invece di crescere e svilupparsi fino alla sua misura piena, si atrofizza e cade su se stessa.

“fu aperto il cielo”. È il risultato della preghiera, sul quale è direttamente richiamata l’attenzione. Il cielo si era chiuso sulla terra per la disobbedienza di Adamo che aveva chiuso il suo cuore a Dio. Come il suo cuore si era aperto al male e all’inimicizia, così il cielo si era aperto alle acque del diluvio per sommergere ogni male e inimicizia (Gn 7,11). Il grande desiderio del profeta era che Dio squarciasse il cielo, suo vestito e suo velo (cf. Sal 104,1s) e mostrasse all’uomo il suo volto benigno: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). Ora è esaudito questo desiderio. Nell’obbedienza di Gesù, il cielo si è aperto sulla terra. La sua vita terrena, contenuta tra il battesimo e l’ascensione, è la finestra di Dio sul mondo. La testimonianza dei discepoli servirà a portare, mediante l’annuncio, tutti gli uomini a questa luce di Dio.

v. 22: “e discese lo Spirito santo, ecc.”. Dal cielo scese l’acqua che inghiottì il mondo (Gn 7) e il fuoco che divorò Sodoma e Gomorra (Gn 19); ma venne anche la legge, la manna e le quaglie, la Parola e il cibo di vita.Ora quel Dio, la cui delizia è stare con i figli degli uomini (Pr 8,31) - per questo scendeva a passeggiare nel giardino alla brezza del giorno (Gn 3,8)! - discende definitivamente tra noi nella persona dello Spirito santo, il Dono di Dio. Spirito significa “vita”, santo significa “di Dio”. La vita stessa di Dio è donata all’uomo! È il soffio predetto da Ez 37, che anima e muove le ossa aride, ricco di sapienza e d’intelligenza, di consiglio e di fortezza, di conoscenza e di timore del Signore (Is 11,2; cf. Sap 7,22ss). Non sai di dove viene e dove va (Gv 3,8). Rimane invisibile, ma ne senti la voce e ne riscontri gli effetti nei suoi frutti. Cambia radicalmente la nostra vita egoista, triste, insofferente, malevola, cattiva, infedele, dura e schiava, in capacità di amore, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e libertà (Gal 5,22).

“con aspetto corporeo”. Questo Spirito non è impalpabile. Scende su Gesù in forma corporea. In lui infatti “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). L’espressione è riferibile al battesimo di ogni credente: diviene abitazione dello Spirito santo, suo tempio e riverbero visibile della gloria. Il battezzato è realmente incorporato a Cristo (1Cor 6,15; 12,12), diventa tempio di Dio e dello Spirito santo, sua dimora (cf. 1Cor 3,16; 6,19s; Ef 2,21s; 1Pt 2,5). Il corpo di Gesù è rivelazione piena di Dio. Quel Dio che nessuno ha mai visto (Gv 1,18), lo vediamo, lo tocchiamo, lo contempliamo nel Verbo di vita (1Gv 1,1ss) che ha detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30); “chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9): in lui realmente la vita di Dio si è resa visibile, ha preso forma corporea. Ma ogni cristiano nel battesimo diventa “corporalmente” teoforo, portatore di Dio, a somiglianza di Cristo. Infatti “noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,18). La dignità del corpo umano è in rapporto allo Spirito che l’abita e l’anima.

“come di colomba”. La figura corporea di questo Spirito - oppure la sua discesa? - è come quella di una “colomba”. Questo aleggiare della colomba sul neobattezzato, richiama quello dello Spirito di Dio sulle acque del caos primordiale (Gn 1,2). È anche un’allusione a Noè, il padre dei salvati dall’acqua, che attende con trepidazione il ritorno della colomba che gli annunzia la fine del diluvio (Gn 8,8-14). È

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pure un richiamo, in tono minore, all’azione potente di Dio che, nell’esodo, con ali di aquila, aveva sollevato e portato il suo popolo in libertà oltre il Mar Rosso (Es 19,4). Oltre che figura della nuova creazione, della salvezza universale e dell’esodo, la colomba è anche simbolo di Israele, sposa di Dio.Ma la colomba, che di continuo tuba il suo amore in ogni stagione, è immagine della fedeltà di Dio che da sempre canta il suo canto di amore per l’uomo, in attesa di risposta. Ora scende sul nuovo Israele, sulla sposa. E questa diviene la colomba che finalmente fa sentire allo sposo la sua voce, compiacendo al suo desiderio (cf. Ct 2,14).L’allusione principale sembra quella a Noè, salvato dall’acqua, e alla promessa di salvezza universale che Dio fa a lui. È la salvezza universale che si evidenzia soprattutto nel libro di Giona, il cui nome in ebraico significa appunto “colomba”.

“e una voce dal cielo venne”. È la voce definitiva di Dio, di quel Dio che non aveva volto, perché nessuno ne aveva ascoltato la voce.

“Tu sei il Figlio mio, l'amato, ecc.”. Questa voce di Dio esprime la Parola, che è il suo Figlio obbediente. La Parola eterna di Dio risuona nel tempo: su Gesù è sceso lo Spirito, in lui il Padre riconosce il Figlio. Gesù, il servo obbediente, annegato nell’obbedienza, si rivela il Figlio, il Messia liberatore intronizzato secondo il Sal 2,7. È “l’amato” figlio unico del suo cuore, come Isacco votato al sacrificio dell’obbedienza e per questo principio del nuovo popolo (cf. Gn 22,2). È il servo di Is 42,1s, oggetto del compiacimento di Dio. È il Messia cantato da Davide, sua figura: “Mi fece uscire dalle grandi acque mi trasse al largo, mi liberò, perché oggetto della sua benevolenza” (2Sam 22,17.20). In questa voce dall’alto risuonano in modo allusivo tutti i titoli di Gesù, che, proprio mentre, immerso ed emerso dall’abisso, sta in preghiera e riceve lo Spirito, dà corpo alla Parola del Padre: è il Figlio unico, il Cristo salvatore, il servo obbediente che nel suo sacrificio sarà principio del nuovo Popolo.

v. 23a: “a circa trent'anni”. Con questa semplice espressione si descrive tutta la vita di Nazareth. La scelta del battesimo è il segreto di Dio; pensato dall’eternità e maturato in trent’anni di ascolto, sarà annunciato nel breve tempo che porta alla croce.

vv. 23-38: “essendo figlio, come si pensava, di Giuseppe, di Eli, ecc.”. L’uomo era staccato dalla sua origine e senza futuro: non più figlio di Dio, ma del serpente, non più figlio di compiacimento, ma d’ira. Ora l’Adamo disobbediente, che si era nascosto a Dio, ritorna a lui nell’obbedienza di Gesù. Tra Gesù, proclamato dal Padre “Figlio mio”, e Adamo, che ritorna a essere chiamato “di Dio” (v. 38), c’è tutta la distanza di 76 generazioni, l’infinita lontananza di tutte le generazioni che hanno abbandonato Dio. Nell’abbandono obbediente di Gesù al Padre, tutto è riportato a Dio. Per questo Gesù si pone come servo di tutti e ultimo di tutti. L’ultimo anello della catena di tutti gli uomini - saldati tra di loro dal male e dalla disobbedienza comune! - porta su di sé la disobbedienza dei fratelli e li rinsalda al Padre con la sua obbedienza. Nel battesimo di Gesù tutta l’umanità è battezzata, salvata. Su di lui, immerso nell’acqua, sta il peso di tutte le 76 generazioni, fino ad Adamo! Ora, se Dio vuol vedere il suo Figlio prediletto, non può vederlo che attraverso tutti gli uomini, perché si è posto sotto tutti! Senza Gesù, le generazioni sono 76 e senza Dio. Con Gesù, sono 77 e unite a Dio. Gesù è il nuovo Adamo. Come nel vecchio ogni uomo si staccò da Dio, così in lui si ricongiunge al Padre e trova salvezza. Nel battesimo Gesù ha fatto propria la storia di peccato dell’umanità. Le acque del suo battesimo sono il caos, l’abisso di tutti i “non-figli”, dei quali si parla nella genealogia. Gesù scende fino in fondo nelle acque dell’ira, del diluvio, nel male di tutti gli uomini imprigionati nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia (cf. Rm 11,32): su di lui riposa la colomba di Noè, che annuncia la salvezza per una terra riemersa dal diluvio.

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3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo con Gesù in preghiera dopo il battesimo, vicino al Giordano.c. Chiedo ciò che voglio: comprendere nello Spirito il dono del mio battesimo che mi fa figlio, in solidarietà con tutti, insieme con Gesù.

d. Punti su cui riflettere:- il battesimo- la preghiera- lo Spirito- come colomba- Tu sei il Figlio mio- le 76 generazioni.

4. Passi utili

Sal 2; Is 42; Gn 22.

14. FU TENTATO: “SE SEI FIGLIO DI DIO”

(4,1-13)

4 1 Ora Gesù, pieno di Spirito santo, ritornò dal Giordano ed era condotto nello Spirito santo nel deserto2 per quaranta giornitentato dal diavolo.E non mangiò nulla in quei giornie condottili a termineebbe fame.3 Ora disse a lui il diavolo:Se sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane.4 E rispose a lui Gesù:È scritto che non di pane solo vivrà l’uomo.

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5 E, portatolo in alto,mostrò a luitutti i regni dell’ecumene in un istante di tempo.6 E disse a lui il diavolo:A te darò questo potere tutto quantoe la gloria loro,perché a me è stata consegnata e la do a chi voglio.7 Tu dunque, se adori al mio cospetto, sarà tua ogni cosa.8 E rispondendo Gesù disse a lui:È scritto:Il Signore Dio tuo adoreraie a lui solo renderai culto.9 Ora lo portò a Gerusalemmee lo pose sopra il pinnacolo del tempioe disse a lui:Se sei Figlio di Dio, gettati giù da qui,10 è scritto infatti:agli angeli suoi ordinerà circa te di custodirti bene11 e nelle mani ti alzeranno, che non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede.12 E rispondendo gli disse Gesù:È detto:Non tenterai il Signore Dio tuo.13 E condotta a termineogni specie di tentazione,il diavolo si allontanò da luifino al suo momento.

1. Messaggio nel contesto

Il racconto nella tradizione evangelica serviva per illustrare il messianismo di Gesù, con il suo rifiuto di prendere il potere politico (cf. moltiplicazione dei pani: Mc 6,45; Gv 6,15), di fare un segno divino che costringesse tutti a credergli (cf. 11,16; Mc 8,11) e di seguire una via umana (satanica) che evitasse la croce per ottenere il Regno (cf. Mc 8,31-33). Probabilmente si rifà a confidenze di Gesù che spiega ai suoi discepoli come anche lui ha incontrato le loro stesse tentazioni e resistenze fin dal principio. Nei Vangeli il racconto assume un valore programmatico più ampio, che abbraccia tutto il ministero di Gesù e il suo significato salvifico alla luce di tutta la storia della salvezza.Dopo il battesimo, che corrisponde al passaggio del Mar Rosso, Gesù ripercorre nel deserto il cammino di Israele; ma, mentre tutto il popolo cadde nella prova e morì, egli la supera definitivamente e apre l’ingresso alla terra promessa, al Regno. Oltre a quest’allusione a Israele, si può fare un accostamento

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ad Adamo, “figlio di Dio” disobbediente, che, dopo la prova e la caduta, dal paradiso finì nel deserto; lui, il nuovo Adamo, partendo dal deserto, vince la prova e riporta nel paradiso l’uomo perduto (cf. 23,43).Le tentazioni, modulate su quelle di Israele, sono storicamente da connettere con il battesimo. Questo costituisce la scelta fondamentale del Cristo: la solidarietà coi fratelli, in obbedienza al Padre. Le tentazioni presentano i costi di questa scelta, sotto forma di lotta contro la scelta contraria. Questa, ovvia e comune a tutti, consiste nel ricercare il potere di qualsiasi tipo, a fin di bene. Ma ciò è contrario alla solidarietà coi fratelli e quindi disobbedienza al Padre! Questo testo ci mostra quanto pecchiamo a fin di bene; ce lo mostra per convertirci e giustificarci. Il discernimento non è un genere che abbonda sul mercato. Tante volte, per amor di Cristo, facciamo scelte contrarie alle sue. La scelta di vita costa tutta la vita; siamo quindi sempre esposti a cadere e cadiamo spesso. Le tentazioni non sono da relegare solo all’inizio del ministero di Gesù. Esso fu tutto tentazione e lotta, fino alla fine.Mentre Marco accentua l’aspetto di Gesù come nuovo Adamo e Matteo quello di nuovo Israele, Luca presenta il Cristo nella sua vittoria pasquale sul nemico, satana. Questa vittoria la vediamo realizzata negli esorcismi, nei miracoli stessi e nella passione. Si spiega così chi è il “Figlio” di cui Dio si compiace: è il Figlio obbediente alla sua parola, che con l’obbedienza ha vinto il male e creato nella storia uno spazio libero dal suo potere, nel quale tutti gli uomini possono essere salvati.Le stesse tentazioni in cui Israele è caduto, invece di ineluttabile luogo di perdizione, diventano promessa di salvezza a causa di colui che le ha vinte. Quel nemico, che fu all’opera al tempo di Israele, è all’opera ancora adesso nella vita della chiesa. Ma il suo dominio sull’uomo è stato rotto e vinto da Gesù. In lui il credente passa attraverso la breccia ed entra nell’“oggi” della salvezza. Gesù che ha vinto, vince ancora “oggi” nella fede del discepolo che lo ascolta per essere salvato.Le tentazioni costituiscono il tessuto della vita quotidiana cristiana: sono la lotta necessaria contro il male e i costi stessi del bene. Hanno un valore positivo: sono segno che si è nel mondo, ma non del mondo e si appartiene a Cristo Signore (cf. Eb 12,8; Gc 1,2; 1Pt 1,6ss; 2Cor 12,10; Mt 5,11s). Il diavolo che tenta l’uomo ha dapprima un solo potere: rubargli la Parola (8,12), in modo che non obbedisca a Dio. È quanto tenta di fare anche con Gesù. Ma se uno obbedisce, la Parola attecchisce nel suo cuore e porta frutti di salvezza. Per questo il diavolo lo tenta poi mediante la tribolazione, perché si scoraggi e cada nella sfiducia (8,13). Se non riesce a scoraggiarlo, cammin facendo cerca di soffocare la parola di Dio, fomentando preoccupazioni per la ricchezza e i piaceri, suoi alleati nel sedurre l’uomo alla disobbedienza (8,14).

2. Lettura del testo

v. 1: “Ora Gesù, pieno di Spirito santo, ecc.”. Su Gesù in preghiera dopo il battesimo è scesa la pienezza dello Spirito e in questo Spirito viene condotto per il deserto. Qui si forma il popolo che, uscito dalla schiavitù dell’Egitto, è in cammino verso la terra promessa. Luogo del già e del non ancora, della nostalgia di passato e della sfiducia nel futuro, è arido, invivibile, insidiato dal nemico (tutto è nemico nel deserto!). Ma bisogna attraversarlo, avendo come guida la parola di Dio e come provvista la sua fedeltà. Il deserto è figura della vita stessa del battezzato, con tutti i pericoli e le paure attraverso i quali lo Spirito lo conduce: “Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,14; cf. Gal 5,18). Se Gesù è pieno di Spirito santo, “dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia” (Gv 1,16): il suo Spirito riempie anche noi, che siamo e camminiamo in lui, solidali con lui nella lotta e nella vittoria.

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v. 2: “per quaranta giorni tentato dal diavolo”. È un’allusione ai 40 anni della generazione del deserto, a tutta la vita che è insidiata dal divisore che ci vuol separare da Dio e dalla sua promessa. “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione, inizia la bella istruzione del Siracide (Sir 2,1ss). Il diavolo è colui per la cui invidia entrò la morte nel mondo (Sap 2,24), colui che insinuò nel cuore di Adamo il sospetto e la sfiducia in Dio, lo portò a disobbedire e a chiudersi a lui (Gn 3). È il vero protagonista del male: contro di lui è la lotta e la vittoria di Cristo. È il dio di questo mondo (2Cor 4,4), il principe di questo mondo (Gv 12,31; 14,30: 16,11), nelle cui mani è posto ogni potere sulla terra (4,6). Secondo Ap 13,2, il drago (diavolo) ha dato alla bestia (l’impero romano) “la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande”. La radice con cui il male può impiantarsi nell’uomo e produrre i suoi frutti velenosi è l’egoismo, che ha il suo terreno nella diffidenza prodotta dalla menzogna che ha portato a non ascoltare Dio. Così, da suoi figli, siamo diventati figli dell’omicida e del menzognero fin dal principio, del diavolo, che si fa nostro padre (Gv 8,44).

“ebbe fame”. Le tentazioni hanno come esca le tre fami fondamentali dell’uomo, in relazione rispettivamente alle cose, alle persone e a Dio. Presentano la possibilità di garantirne la soddisfazione mediante il possesso - le cose con l’avere, le persone coi potere, Dio col volere -, invece che mediante il dono. Ogni peccato ripete quello di Adamo: impadronirsi del dono, staccandolo dalla sua sorgente.

v. 3: “Se sei Figlio di Dio, ecc.”. Gesù è venuto per mostrare al mondo il volto del Padre, vivendo da figlio. È tentato nella sua missione di mostrarsi “Figlio di Dio”. Ma non è in questione il fine, bensì i mezzi.Gesù non si mostra Figlio facendo miracoli a suo vantaggio; non piega Dio all’esigenza fondamentale dell’uomo. Il pane, segno della vita, è il primo bisogno dell’uomo, indigente di tutto. Piegare Dio alla propria vita o la propria vita a Dio? Il pane o la sua volontà, l’uomo o Dio? Questa è la falsa alternativa, che Gesù respinge come prima tentazione. Da essa nasce ogni falsa religione che sacrifica l’uomo a Dio e, di risvolto, ogni ateismo, che sacrifica Dio all’uomo. In tutti e due i casi l’uomo è perduto, perché perde la sua identità, che è essere immagine di Dio. Ma questa alternativa è falsa. Non è questione di alternativa, bensì di priorità. Sorgente e rubinetto non sono in alternativa, bensì in derivazione. È la tentazione prima e continua dell’uomo, quella di non credersi “creatura” di Dio e considerarlo come antagonista e concorrente.

v. 4: “E rispose a lui Gesù: È scritto, ecc.”. La forza con la quale Gesù vince la tentazione è il ricorso alla Scrittura. Nell’obbedienza alla parola di Dio si sperimenta che il primo pane, sorgente di vita, è Dio stesso nel suo amore. E questo non è in alternativa al pane; ne è anzi il principio. Aver suggerito questa alternativa falsa fu l’astuzia del nemico per rovinare l’uomo. Gesù dice: “Non di solo pane vivrà l’uomo”; che vuol dire: “anche di pane”. Ma il pane primo è obbedire a Dio e fidarsi di lui. Questo dà alla vita la sua luce e il suo senso.Ciò non esclude l’altro pane, ma viene prima, come il fine viene prima dei mezzi, la meta prima del cammino. Con questa priorità è superata l’alternativa diabolica: o Dio o l’uomo. L’uomo è da Dio e per Dio, perché Dio stesso è per l’uomo e non gli sottrae nulla, anzi gli dà tutto, perché è sua creatura! Così Gesù vince la menzogna che sta all’origine del sospetto e della diffidenza, e riporta l’uomo all’obbedienza. Quando poi moltiplicherà il pane (cf. 9,10ss), non cadrà in questa tentazione. Lui, parola di Dio, si farà pane per tutti, non mediante il privilegio del miracolo, bensì mediante la solidarietà coi fratelli in obbedienza al Padre. Per il retroterra biblico di questa tentazione cf. Dt 8,2-4; Es 16,2-9; Nm 11,4-10; 1Cor 10,6.Superata la falsa alternativa, è stabilito il fine, principio e fondamento da cui tutto viene e verso cui tutto tende: Dio e la sua parola non si pongono più in antagonismo mortale con l’uomo, bensì in

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rapporto di priorità vitale col resto. Quando nel “Padre nostro” preghiamo per il pane, riconosciamo che il nostro pane è da lui, ed è alfine lui stesso, nostra vita.

vv. 5-7: “E, portatolo in alto, ecc.”. È la tentazione di ottenere il Regno - tutti i regni della terra! - con i mezzi di potere, scambiando il pensiero di Dio con quello dell’uomo. Il Regno spetta al Figlio. Ma lo ottiene non perché adora il potere, bensì proprio perché ne è libero; e questo lo innalza fino alla croce. Proprio lì inaugura il Regno (cf. 23,42s). Questa tentazione è circa i mezzi, nell’uso dei quali si esprime la stupidità e l’idolatria dell’uomo: la stupidità quando i mezzi non sono della natura del fine, l’idolatria quando i mezzi sono posti come fine. Nell’uso dei mezzi si esprime la vera alternativa: stupidità o conoscenza di Dio, idolatria o timor di Dio.Si pecca di stupidità quando non si capisce che il seme è della natura dell’albero e non si sa distinguere tra la strategia di satana e quello di Dio. S. Ignazio, nella meditazione dei due vessilli, dà il criterio fondamentale per distinguere il potere del male da quello della croce: satana agisce portando dal desiderio della ricchezza al potere e alla superbia; Cristo agisce portando dal desiderio della povertà all’umiliazione e all’umiltà. Usare i mezzi del nemico significa lavorare per lui, il cui fine è far usare all’uomo tali mezzi, che producono il male.Si pecca di “idolatria” quando i mezzi diventano fine e le creature tengono il posto di Dio - l’idolo infatti in sé non è nulla (cf. 1Cor 8,4). Questo avviene quando si assolutizza qualunque realtà al di sotto di Dio: la legge, l’ordine, la proprietà, il lavoro, la produttività, il consumo, il piacere, il benessere, la libertà, la scienza, il partito, lo stato, la chiesa, le varie ideologie, ecc. I mezzi, anche quelli buoni, diventano negativi se assolutizzati; costituiscono un universo di valori maligni perché impazziti e senza fine, che amministrano la vita dell’uomo per la morte e gli impediscono la libertà del Regno. L’uomo non è mai ateo: è solo idolatra e assolutizza i propri bisogni per paura, costruendo un mondo ben diverso dal regno di Dio! Per questo satana dice con ragione che tutto è nelle sue mani e lo dà a chi vuol seguire i suoi consigli. L’uomo, che ha perso Dio, non è in una zona neutra di libertà e di decisione: ha ingombrato la sua distanza da Dio con le sue paure e i suoi bisogni, divenuti suoi idoli e obiettivi, sui quali organizza tutta la propria esistenza.Oggi si avverte più che mai questa situazione di organizzazione “cosmica” del male: eliminato Dio, il suo vuoto infinito è stato riempito dall’angoscia del nulla e dalle varie brame che, invece di saziarsi, si autoalimentano all’infinito. L’uomo, perso colui di cui è bisogno, assolutizza i bisogni che ha come animale. Questi diventano idoli implacabili! Il mezzo, divenuto fine, stravolge ogni cosa nel suo contrario più simile: il vero nell’utile, il giusto nel vantaggioso, il bene nel piacere, il bello nel funzionale, il buono nell’interesse, l’amore nell’egoismo... la vita nella morte. Si può arrivare a porre come fine il nulla - il male assoluto al posto di Dio! Si cade nel nihilismo e nel fatalismo: ogni ribellione sembra inutile, il male è necessario e il nulla inevitabile. Al massimo si cerca il minor male. Comunque lo si compie sempre, ed esso cresce fino a riempire del suo vuoto ogni spazio di vita.

v. 8: “Il Signore Dio tuo adorerai”. Solo se si adora Dio, e solo Dio, l’uomo può vincere questa situazione di male. L’uomo è ciò davanti a cui sta: egli diventa il proprio fine, ciò che adora. Se adora e teme Dio in tutte le cose, realizza se stesso, immagine e somiglianza di Dio, in tutte le cose. Se non adora e non teme Dio, perde se stesso in tutte le cose che adora e teme. Principio della saggezza è il timore del Signore (Sal 111,10). Quando nel Padre nostro chiediamo a Dio che venga il suo regno e che sia santificato il suo nome, gli chiediamo di vincere questa tentazione. L’adorazione e il timore di Dio - di un Dio non strumentale, ma che resti Dio (cf. la tentazione seguente!) - è il regno di Dio sulla terra, perché è la libertà dell’uomo da ogni idolo. La risposta di Gesù è da collegarsi a Dt 6,13.

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vv. 9-11: “Ora lo portò a Gerusalemme, ecc.”. A Gerusalemme, cuore della terra promessa, dove si compie la lotta decisiva tra Cristo e satana, si pone anche la tentazione definitiva: provocare Dio con il miracolo per vedere se “il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7). È la tentazione radicale della fede: invece di fidarsi delle sue promesse, si esige un intervento secondo la sua promessa (cf. Sal 91,11s), per essere sicuri che lui è veritiero! È la tentazione più diabolica e camuffata del giusto: dov’è Dio, il tuo Dio?... Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (cf. Sal 42; 22; ecc.). È la tentazione che capovolge il rapporto uomo-Dio: invece di obbedire a lui, io, che già gli ho obbedito, pretendo ora che lui obbedisca a me. Dopo essermi piegato a lui, lo piego a me: per questo anzi mi piego a lui! La mia religiosità e giustizia, è mezzo per dare la scalata a Dio e mettermi al suo posto. La sua parola, invece che provocazione a me perché gli obbedisca, la rivolgo come mia provocazione a lui, perché la compia. Come Adamo, al centro metto ancora e sempre il mio io: tutto, Dio e la sua parola, deve servire a me, alla mia salvezza. “Salvi se stesso”, sarà il tragico triplice ritornello della tentazione quanto mai reale e assurda che risuona ai piedi della croce (23,35.37.39)!In fondo si serve Dio per servirsi di lui; lo si provoca nella sua promessa perché non ci si fida di lui. Il vero Dio viene trattato da idolo, il Dio vivente deve piegarsi ed essere soddisfazione obbediente dei miei bisogni umani! (cf. Dt 6,16; Es 17,1-7; Nm 20,2-13; 1Cor 10,9; il miracolo dell’acqua, la tentazione dello Spirito). Il credente può tentare e provocare Dio in due modi opposti (cf. D. Bonhoeffer, Creazione e caduta. L’ora della tentazione, Brescia 1977, 130s):a) Con la sicurezza o presunzione religiosa: accetto la grazia di Dio e la sua promessa, dimenticando però la sua santità e giustizia. Dio è buono! quindi mi attribuisco il perdono già prima del peccato, e faccio della sua bontà il pretesto per la mia dissolutezza (Gd 4). Sono figlio di Dio; con Cristo in croce sono al sicuro, senza pericoli o lotte! Quindi posso fare tutto, anche ciò che porta alla perdizione! La libertà e la grazia è paravento per il peccato; la sua santità e giustizia è profanata. Da questa radice nasce la pigrizia nella preghiera, nell’obbedienza alla Parola e nel servizio ai fratelli. Perdo il timor di Dio. Praticamente lo disprezzo e lui finisce per non contare più nulla nella mia vita concreta.Mi indurisco contemporaneamente nel peccato e nella religiosità ipocrita. Il Dio benevolo è diventato l’idolo della mia falsa indulgenza con me stesso, senza santità. Così santifico e giustifico il mio peccato. L’orgoglio spirituale mi ha portato a sfidare Dio e vincerlo, usandolo come conferma del mio male!b) Con la disperazione e la sfiducia di salvarsi: rispetto la legge, la giustizia e la santità di Dio. Perdo invece di vista la sua promessa e la sua grazia. Vivo senza gioia, perché Dio non è stato, non è e non sarà mai con me. È la tentazione della croce. Posso giungere alla disperazione, alla ribellione, alla bestemmia, al suicidio... oppure procurarmi il segno della sua bontà mediante una santità e giustizia da me voluta a dispetto di Dio, con i caratteri dell’autodistruzione (ascesi e attivismo) o mediante pratiche religiose intese a darmi un segno che Dio è con me perché io sono con lui.

v. 12: “Non tenterai!” (Dt 6,16). Dio va obbedito, non tentato. Non deve esibirsi nei segni che chiedo per la mia sfiducia nella sua santità o la mia disperazione nella sua bontà.La mia vita è salva solo se si rimette a lui, alla sua giustizia che grazia, alla sua bontà che santifica. Mentre io non posso che giustificare il peccato o condannare il peccatore, Dio condanna il peccato e giustifica il peccatore. Così salva la sua bontà e la sua santità. Questo chiedi a Dio quando gli dici: “Sia fatta la tua volontà”.

v. 13: “E condotta a termine ogni specie di tentazione”. Gesù porta a compimento ed esaurisce in sé ogni tentazione che chiude a Dio. Forse c’è un’allusione a Gn 3,6, quando Eva vide che il frutto era “buono da mangiare”, “gradito agli occhi” e desiderabile per acquistare saggezza” (cf. le tre concupiscenze di 1Gv 2,16): i tre aspetti del frutto corrispondono forse ai tre tipi di tentazione che

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Gesù stesso supera. Egli vive e vince tutto il male dell’uomo, creando nel mondo lo spazio di libertà dal Maligno.

“il diavolo si allontanò da lui fino al suo momento”. È l’ora della passione, in cui Gesù dirà: “Questa è la vostra ora, l’impero, delle tenebre” (22,53) e sarà l’ora opportuna della salvezza per noi. Tutta la vita di Gesù è inclusa in questa lotta con satana, tra il battesimo e la croce.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù nei deserto di Giuda. c. Chiedo ciò che voglio: Comprendere quali siano i mezzi che Gesù ha usato per mostrare che lui è Figlio di Dio e quali ha scartato come tentazioni.

d. Punti su cui riflettere:- nel deserto quaranta giorni- tentato dal diavolo- ebbe fame- se sei Figlio di Dio- non di solo pane- a lui solo renderai culto - non tenterai il Signore- ogni specie di tentazione.

4. Passi utili

Sal 91; 95; Gn 3; Dt 8,2-4; Es 6,2-8; Dt 6,13; Es 32; Dt 6,6.

15.OGGI SI È RIEMPITA QUESTA SCRITTURA NEI VOSTRI ORECCHI

(4,14-30)

14 E ritornò Gesùnella potenza dello Spirito in Galilea,e la fama uscìper tutta la regione su di lui.15 Ed egli insegnava

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nelle loro sinagoghe glorificato da tutti. 16 E venne a Nazareth,dove era stato allevato ed entròsecondo la sua usanza nel giorno dei sabati nella sinagoga e si levò per leggere.17 E fu consegnato a luiil volume dei profeta Isaia e, aperto il libro, trovòil luogo dove era scritto:18 Lo Spirito del Signore su di me,a causa di questo mi unse: per evangelizzare i poveri; ha mandato meper annunciare ai prigionieri la remissione e ai ciechi la vistaper mandaregli affranti in remissione,19 per annunciareun anno gradito al Signore.20 E avvolto il volume,ridandolo al servo,sedette;e gli occhi di tutti nella Sinagoga stavano fissati su di lui.21 Ora cominciò a dire loro:Oggisi è riempita questa Scrittura nei vostri orecchi.22 E tutti testimoniavano per lui e si meravigliavanodelle parole di graziache uscivano dalla sua bocca, e dicevano:Non è figlio di Giuseppe costui?23 E disse loro:Certamente direte a me questa parabola: Medico, cura te stesso!Quanto udimmo avvenuto a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!24 Ora disse:Amen dico a voi:Nessun profeta è accolto

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nella sua patria!25 Ora in verità dico a voi: molte vedove erano nei giorni di Elia in Israele, quando fu chiuso il cielo per tre anni e sei mesi, quando fu carestia grande su tutta la terra,26 e a nessuna di loro fu mandato Elia, se non in Sarepta di Sidone a una donna vedova;27 e molti lebbrosi eranoin Israele al tempo di Eliseo profeta, e nessuno di loro fu purificato,se non Naaman il Siro.28 E furono pieni tutti di iranella sinagogavedendo tali cose;29 e, levatisi, lo scacciaronofuori della città,e lo condusserofino all’abisso del monte, su cui la loro città era edificata, per buttarlo giù.30 Ora egli, passando in mezzo a loro,camminava.

l. Messaggio nel contesto

Nelle tentazioni, abbiamo visto i mezzi che Gesù rifiuta per mostrare di essere Figlio di Dio; ora vediamo quali usa: l’annuncio della parola di fraternità che vive, da Nazareth al Giordano e dal Giordano alla croce.Nella potenza dello Spirito inizia il suo ministero e inaugura l’anno giubilare in cui si vive la paternità di Dio nella fraternità fra gli uomini: è l’ingresso nella terra promessa. Egli si presenta come compimento della “parola di grazia”, che porta la benedizione di Dio e realizza la promessa (vv. 16-19). L’evangelista vuol far incontrare il suo lettore con questa parola di grazia annunciata “oggi”, (vv. 20s). Essa ha la sua radice nel passato - la promessa di Isaia e le figure di Elia e di Eliseo - e si attualizza “oggi”, nell’oggi eterno di Dio che si è realizzato una volta per tutte in Gesù e si attualizza sempre ogniqualvolta la Parola è annunciata nel suo nome.La Scrittura trova il suo compimento nell’orecchio di chi ascolta Gesù che l’annuncia (v. 21): ciò che essa promette si annuncia come realizzato in lui e l’ascolto della sua parola, in quanto detta da lui, ne è il pieno compimento nella fede, che fa accadere “anche qui” oggi ciò che lui ha fatto a Cafarnao allora (v. 23).

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Infine, il mistero di Gesù, respinto dai suoi e accolto altrove (vv. 22-30), anticipa il suo destino di rifiuto e di “segno contraddetto” (2,34ss), che però sarà luce che illumina le genti e mostra al mondo la gloria di Israele (2,30ss). L’inizio del ministero di Gesù ne contiene anche la fine.Gesù ci appare fin dall’inizio più che scriba e profeta: non solo spiega la parola di Dio, ma l’attualizza. Quest’attualizzazione non consiste nell’adattarla al proprio tempo, ma nel “renderla attuale”: traduce in atto quanto la Parola dice e, nell’obbedienza, rende la sua vita attuale, contemporanea ad essa. Egli è l’ascoltatore che la compie, il perfetto ascoltatore in cui la parola di Dio trova la sua esecuzione piena. Egli, il Figlio obbediente, è il compimento di ogni parola.Così, anche per noi, attualizzare la Parola significa ascoltare il vangelo. L’obbedienza ad esso ci rende attuali all’oggi di Dio, odierni a Gesù, il Figlio, nel quale la storia di ogni Adamo trova compimento. L’annuncio della parola di grazia ha il potere di farsi obbedire e di rinnovare nell’ascolto la nostra realtà vecchia secondo la promessa.A Dio è piaciuto salvare il mondo con l’annuncio evangelico (1Cor 1,21). La parola, mezzo debole e strumento di comunione libero, è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16).In questo discorso inaugurale abbiamo la spiegazione autentica del ministero di Gesù: quale il fine (l’essere figli del Padre nell’essere fratelli tra noi), quale il mezzo (l’ascolto della parola del Padre), come agire (nella forza dell’amore, che è lo Spirito di Dio), quando agire (oggi) e per chi (per chi ascolta).

2. Lettura del testo

v. 14: “E ritornò Gesù nella potenza dello Spirito, ecc.”: Gesù, a differenza di Giovanni, non resta nel deserto; torna tra i suoi per liberarli. La potenza dello Spirito con cui agisce si manifesterà nell’“autorità” e nella “potenza” della sua parola che vince il male (v. 36). La fama su di lui - ciò di cui ogni uomo ha fame e che Gesù cercherà di evitare con cura - si diffonde.

v. 15: “Ed egli insegnava”. Il suo insegnamento passerà dalla sinagoga alla strada (v. 43) e si completerà nella casa (5,17ss). Sono i tre luoghi in cui si annuncia il vangelo: nella sinagoga, che è Israele, per la strada, che è la missione, e nella casa, che è la chiesa. L’attività di Gesù è itinerante e instancabile: vuol raggiungere l’uomo in tutte le sue situazioni. Non si dice cosa insegna; l’insegnamento è lui stesso, parola di Dio, che si rivela compiendo quello che dice. Il risultato del suo insegnamento è la sua “glorificazione” da parte di tutti. Questa parola indica l’onore da rendere a Dio. È una glorificazione iniziale, che ben presto cesserà, già nel primo racconto che segue.

v. 16: “E venne a Nazareth, ecc.”. Luca, pur sapendo che Gesù ha iniziato altrove il suo ministero (cf. v. 23), ne pone l’inizio a Nazareth, tra i suoi. Respinto dai suoi, la sua parola trasmigrerà e fruttificherà altrove. Anche noi, lettori cristiani, fin dal principio siamo chiamati ad identificarci con i suoi, a entrare nella sinagoga e ascoltare colui che è venuto per tutti e compie la promessa di Dio nell’orecchio di chi ascolta.Il suo insegnamento è di “sabato”, perché la sua parola dischiude all’uomo il giorno di Dio. In esso si entra attraverso l’ascolto e l’obbedienza a lui, ascoltatore perfetto del Padre (cf. Eb 3,7-14).Si dice che nella sinagoga, nel “giorno dei sabati”, Gesù “sorse” a leggere, a riconoscere le parole scritte; si allude al fatto che il Cristo risorto legge e fa riconoscere nella sinagoga il significato della parola data a Israele (cf. 24,25-27.44-47).

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v. 17: “E fu consegnato a lui, ecc.”. Il libro, chiuso per chi sa leggere e aperto per chi non sa leggere (cf. Is 29,11) è finalmente nelle mani di chi può aprirlo e leggerlo; lui infatti “lo apre” e “lo chiude”, lo legge e lo attualizza: “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli” (Ap 5,9). La parola di Dio resta sigillata e incomprensibile al di fuori di Cristo, che la realizza. Resta infatti una promessa incompiuta, quindi un enigma incomprensibile, perché se Dio promette anche compie.

vv. 18-19 “Lo Spirito del Signore su di me, ecc.”. Gesù legge la promessa di Is 61, che annuncia l’anno giubilare definitivo in cui la terra, dono del padre ai suoi figli, è ridistribuita tra i fratelli. Questa è la condizione per restare nella promessa, diversamente non c’è che la via dell’esilio (cf. Lv 25,8ss). Tutta la sua attività è presentata alla luce di questo testo (cf. 7,22). Lui realizza l’anno sabbatico definitivo, compimento di tutta la creazione in Dio e di Dio nella sua creazione. La paternità si vive in concreto nella fraternità: la fede in Dio diventa giustizia nuova tra gli uomini. Per questo l’anno giubilare è fondamentale nella legislazione di Israele. La chiesa degli Atti si autocomprende come il vero Israele, che realizza l’anno giubilare (cf. At 2,42-48; 4,32-37).

v. 20: “avvolto il volume, ecc.”. Gesù “chiude” il libro. Con lui, che si è alzato. apre, proclama e si siede, è chiuso il tempo della promessa e si apre il tempo della realtà: il tempo finalmente è compiuto (cf. Mc 1,15)! Gli occhi ormai sono fissi su di lui, nel quale la Parola si fa carne e il libro si fa storia.

v. 21: “Oggi si è riempita questa Scrittura nei vostri orecchie”. La parola di Gesù non è un commento alla promessa di Dio. È il “vangelo”, la buona notizia che è venuto tra noi colui che la realizza. Gli uditori di Gesù si trovano davanti a colui che compie ogni promessa. La Scrittura si compie proprio “oggi” e “negli orecchi” di chi la ascolta. Tutto il Vangelo di Luca sarà un ascolto della sua parola, che ci rende contemporanei a lui: nell’obbedienza della fede, entriamo nella salvezza.Gesù è l’ascoltatore perfetto che compie la volontà del Padre: la sua parola in lui si fa realtà e vita, suo oggi. A sua volta, chi ascolta Gesù e fa la sua parola, si trova a vivere nello stesso oggi e diventa della sua famiglia (8,21). Gesù nel suo annuncio potente, realizza la salvezza, che si rende contemporanea a chiunque l’ascolta.La Parola, detta una volta per tutte, esiste sempre e ovunque è ascoltata ed eseguita, come una musica scritta esiste sempre e ovunque è eseguita.

v. 22: “ E tutti testimoniavano per lui e si meravigliavano, ecc.”. La parola di Gesù è chiamata “parola di grazia”. In lui la grazia e la benevolenza di Dio si sono rese visibili e operanti. Ma c’è uno scandalo insuperabile, che avrà come frutto la croce. Tale scandalo non sarebbe stato minore neanche se avessero saputo che colui che credevano di conoscere non era il Figlio di Giuseppe, bensì il Figlio di Dio! Anzi, lo scandalo sarebbe stato ancora maggiore (cf. 22,70s).Quel Dio che aveva promesso di salvare l’uomo perché lo ama, lo ha salvato assumendo la sua stessa carne. Non gli è bastato dare la sua salvezza: ha dato se stesso come salvatore, unendosi alla sua creatura. Questo l’uomo non lo può comprendere; ma è il disegno di Dio, che, essendo amore, vuol liberamente unirsi all’amato. L’uomo può accettarlo solo nella fede, tenendo gli occhi meravigliati fissi su Gesù, compimento perfetto della parola del Padre.

vv. 23-27: “fallo anche qui, nella tua patria!”. Invece di aprirsi nella fede e lasciarsi coinvolgere nel dono di Dio, i suoi si chiudono su ciò che conoscono di lui e lo pretendono.La conoscenza e pretesa della carne impediscono la fede. Questa è obbedire a Dio e seguirlo per conoscerlo, non è conoscerlo e addomesticarlo per farsi obbedire. Tale pretesa inoltre va contro l’essenza di Dio che è dono. Nessun dono può essere preteso, diversamente è distrutto.

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Il rifiuto di Gesù è lo stesso dei profeti, che hanno potuto operare solo là dove non c’era pretesa dell’intervento di Dio. Lì il dono ha trovato mani per essere accolto (cf. 1Re 17,7-16; 2Re 5,1-14). Si prefigura la croce e la salvezza offerta a tutti, perché “vedrà ogni carne la salvezza di Dio” (3,6).

v. 28: “pieni tutti di ira”. Gesù era pieno di Spirito santo; i suoi sono “pieni di ira”. Questa impedisce loro di accettare il dono. La durezza di cuore più cattiva è quella originata da pretesa religiosa.

v. 29: “lo scacciarono fuori”. Gesù viene respinto dai suoi. Nell’inizio è già il pronostico del finale. Ci si avvia alla sua tumultuosa eliminazione, fuori dalla città, che il Vangelo racconta, e alla ripulsa del suo annuncio narrata dagli Atti (cf. At 18,6).Nei “suoi” di Nazareth, più che Israele, sono da vedere “i suoi” di ogni tempo, e in concreto la chiesa stessa dei gentili alla quale Luca si rivolge (cf. Rm 11,16-26). Il modo in cui si rivela e scandalizza oggi noi, è identico a quello di allora a Nazareth. È lo stesso “oggi” da accogliere o rifiutare.

v. 30: “passando in mezzo a loro, camminava”. Gesù attraversa miracolosamente la folla dei nemici. Non resta preda della cattiveria degli uomini. È un presagio della risurrezione di colui che continua il suo cammino in mezzo a noi, beneficando e risanando tutti coloro che stanno sotto il potere di satana, perché Dio è con lui (cf. At 10,38).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo nella sinagoga di Nazareth, di sabato.c. Chiedo ciò che voglio: capire il mezzo apostolico di Gesù: la Parola. Quale parola (Dio è Padre e noi fratelli), come agisce (nella forza dello Spirito), cosa fa (la fraternità reale) e quando (oggi) e per chi (per chi ascolta).

d. Punti su cui riflettere:- Gesù apre, legge e chiude la Scrittura.- il significato dell’anno giubilare- oggi si compie questa parola- non è costui il figlio di Giuseppe?- scandalo della fede nella carne di Gesù- pretese e reazione negativa.

4. Passi utili

Sal 24; Lv 25; At 2,42-48; 4,32-37.

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16. LA SUA PAROLA ERA CON AUTORITÀ

(4,31-32)

31 E scese a Cafarnaocittà della Galilea,e stava a insegnare loronei sabati,32 ed erano sconvoltidel suo insegnamento,perché la sua parolaera con autorità.

l. Messaggio nel contesto

Dopo l’inaugurazione dell’“oggi” della salvezza e prima dell’esorcismo, Luca ci parla dell’autorità della parola di Gesù.Dal contesto si capisce che questa autorità consiste nel potere che essa ha di compiere quanto dice, di farsi obbedire e di liberare dal male. Luca intende dire al lettore che anche lui, che non ha visto il Signore, può sperimentare “oggi” il potere della sua parola ed essere liberato dal male mediante l’obbedienza all’annuncio. In esso infatti è presente Cristo e tutto il suo potere di salvezza. Questo breve brano ci offre una teologia narrativa di ciò che sta alla base del cristianesimo: l’annuncio opera ciò che dice, la salvezza del Signore. Ma solo l’obbedienza della fede ne conosce la verità. La parola di Dio è sempre efficace: chi obbedisce, la conosce positivamente, cogliendo i frutti che promette; chi disobbedisce, la conosce negativamente, restandone privo.

2. Lettura del testo

v. 31: “e stava a insegnare loro nei sabati”. Gesù svolge la sua attività proprio di sabato. Giorno di riposo al termine della creazione, è Dio stesso come principio e fine di tutto il creato, che solo in lui raggiunge il suo riposo. Nel sabato l’universo attinge alla sorgente da cui è zampillato. La venuta di Gesù è l’aurora del sabato definitivo, il giorno senza tramonto, l’ottavo giorno della festa senza fine, l’“oggi” in cui l’eternità di Dio ha fatto irruzione nel tempo dell’uomo. Finalmente l’uomo - e in lui tutto il creato - raggiunge il riposo di Dio, si ricongiunge ed entra in comunione con lui. Sarà giorno pieno quando Cristo, vero sole, sarà al culmine e avrà vivificato ogni cosa sotto di sé. Allora Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Ma già ora tutta la storia è illuminata da questo sole ed è sempre un unico sabato in cui la parola di Dio opera con autorità.

“stava ad insegnare”. L’imperfetto rafforzato significa che l’azione non è ancora finita: ha insegnato, insegna e insegnerà sempre. Luca intende portare il lettore, che non ha visto Gesù, a conoscerlo e sperimentarlo nel suo annuncio, perché, obbedendo ad esso, ne diventi l’icona vivente, come lui è immagine del Padre. Il suo volto è visibile oggi in chi obbedisce alla sua parola. Essa ci insegna chi è lui, attraverso ciò che “fece e insegnò” (At 1,1). Il racconto della sua vita, la sua storia, è per noi

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l’insegnamento definitivo. Ci fa udire e vedere Dio nella sua manifestazione corporale: in lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). La parola di Dio, fattasi carne in Gesù, è tornata Parola nell’annuncio del vangelo, in attesa di rifarsi carne, nostra carne, oggi, nell’obbedienza della fede. Alla parola esterna che udiamo con l’orecchio, corrisponde sempre la parola interna, che, ascoltata nel cuore, lo muove. Dio, come ogni uomo quando comunica con un altro, usa la parola. Questo è infatti il mezzo con cui si comunica se stesso all’altro, se l’altro ascolta. Così nell’ascolto di Gesù, entriamo in comunione con lui, e raggiungiamo la salvezza, il sabato, l’oggi di Dio.Per questo Paolo dice: “Non mi vergogno del vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16). La potenza della salvezza è infatti affidata alla debolezza dell’annuncio, la sapienza di Dio alla stoltezza della parola della croce. Dio non ricorre ad altri mezzi di potere o di sapienza umana, che svuoterebbero la croce di Cristo, potenza e sapienza di Dio (cf. 1Cor 1-3). L’annuncio di questa croce - svuotamento di Dio che, nel suo amore per noi, è uscito di sé per venirci incontro - porta il credente a conoscere e sperimentare Dio nella potenza del suo amore. La kenosi continua di Dio è quella di affidarsi alla semplice parola. In essa, come quando fu visto nella carne, esprime il suo amore per noi e si espone al pericolo di essere rifiutato e annientato. Ma, a chi l’accoglie, dà il “potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). La parola di Dio infatti porta alla comunione con lui che parla, a condizione che sia ascoltata come parola di Dio (cf. 1Ts 2,13). Nell’Eucaristia il Signore è presente come cibo e bevanda, nell’annuncio è presente come luce e forza: luce che rompe le tenebre dell’ignoranza, forza che vince il male da essa generato. Per questo Luca include questo brano sulla potenza della parola di Gesù tra l’annuncio e l’esorcismo.

v. 32: “ed erano sconvolti del suo insegnamento”. L’atteggiamento giusto davanti alla Parola è la meraviglia. La meraviglia è madre della sapienza: per essa il cuore si apre ad accogliere ciò che è nuovo e bello, vero e amabile. È diversa dalla curiosità, madre della scienza: per essa la mente si chiede il perché (cur!), in modo da conoscere un oggetto per smontarlo, rimontarlo, impadronircene e usarlo a proprio vantaggio. Se nella meraviglia si è invasi dall’altro, nella curiosità si invade l’altro. Il primo atteggiamento esprime l’amore, l’accoglienza e si rivolge al mondo dei fini, del buono e del bello; il secondo esprime l’egoismo e l’appropriazione, e si rivolge al mondo dei mezzi, dell’utile e del comodo. La reazione contraria alla meraviglia è chiamata da Marco e Matteo “durezza di cuore”. Questa segna le tappe dell’antievangelo. In Luca questa durezza di cuore è tradotta con la reazione di “rabbia” (cf. 4,28; 6,11; 11,53; 15,28). Quando si accosta all’altro per usarlo, il cuore diventa duro, calcificato e morto, e non sa più pulsare per l’altro; chiuso nel proprio utile, è mosso dall’ira e allunga la mano solo per impadronirsi di ciò che gli serve, per stritolare ciò di cui si serve. Cristo verrà ucciso da questo atteggiamento ostile (cf. 11,53). Nel vangelo c’è uno stupore tutto particolare e nuovo, perché ci si trova davanti alla novità assoluta. Non è lo stupore che si prova davanti agli scribi, che pur dicono la verità di Dio. È lo stupore di trovarsi davanti a Dio stesso.

“perché la sua parola era con autorità”. Nella Bibbia la parola aramaica “autorità” (shaltan, da cui sultano) indica l’autorità stessa di Dio. La parola di Gesù ci mette faccia a faccia con la potenza di Dio. Quel Dio, che con la sua parola aveva creato il mondo e con la sua promessa aveva annunciato la salvezza, ora, fattosi egli stesso parola per noi, entra in comunione con noi e ci salva definitivamente. Tutto il potere del Dio creatore e salvatore sta nella parola di Gesù. Ascoltandola, ancora “oggi” è possibile compiere un nuovo esodo e diventare creature nuove. Questa Parola ancora oggi ci ricrea e vince il male: “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio, ecc.” (Eb 4,12ss): entra nel cuore dell’uomo, lo mette a nudo, lo giudica, lo muove a conversione e lo giustifica. Ad essa si reagisce difendendosi come gli indemoniati, oppure anestetizzandosi con l’oblio, il gigante dei peccati! Si può dire come Acab a Elia che gli svela il suo peccato segreto: “Mi hai

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dunque colto in fallo o mio nemico” (1Re 21,20), ma anche sgomentarsi come Giosia (2Re 22,11ss), o riconoscere, come Davide: “Ho peccato contro il Signore” (2Sam 12,13).Essa rivela i garbugli e i sofismi dei cuori (2,35), li sgonfia e li sperde (1,51). Trafigge il cuore (At 2,37) e porta alla compunzione con la domanda: “che fare?” (3,10.12.14; At 2,37). Quando la Parola viene annunciata, Dio “apre il cuore”, perché si obbedisce (At 16,14). Nell’obbedienza essa è “lampada per i miei passi” (Sal 119,105) e il Signore si fa “luce alla mia lampada” (Sal 18,29). Essa illumina e dilata il cuore: “Corro per la via dei tuoi comandamenti, poiché hai dilatato il mio cuore” (Sal 119,32). Diventa dolce, più del miele per la mia bocca (Sal 119,103); si fa vita (Sal 119,50; cf. vv. 107.116 ... ) e gioia del cuore (Sal 119,111), forza e salvezza (Sal 119,41-45.89-96 ... ).Il racconto del Vangelo ci pone innanzi alla Parola che ha questa autorità, ci mette faccia a faccia con Gesù. L’obbedienza alla sua parola ci porta a sperimentare “oggi” la sua realtà, ci rende contemporanei a lui.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi nella sinagoga di Cafarnao, di sabato.c. Chiedo ciò che voglio: accogliere nella fede l’autorità della sua parola.

d. Punti su cui riflettere:- Gesù insegnava- erano sconvolti del suo insegnamento- la sua parola era con autorità.

4. Passi utili

Sal 119; 1Re 21,1ss; 2Re 22,lss(11-13); 2Sam 12,1-14; Eb 4,12; Is 55,9-11; Rm 1,16; 10,8-17; 1Cor 1,21; At 16,24.

17. E GESÙ SGRIDÒ: “ESCI DA LUI”

(4,33-37)

33 E nella sinagoga c’era un uomocon uno spirito di demonio immondo, e gridò a gran voce:34 Ah! che a noi e a te, Gesù Nazareno?Sei venuto a perderci?So di te chi sei; il Santo di Dio!

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35 E lo sgridò Gesù dicendo:Sii imbavagliatoed esci da lui!E gettandolo il demonio nel mezzo, uscì da lui,avendogli per nulla nociuto.36 E venne paura a tutti e conferivano l’un l’altro dicendo:Che parola questa,che con autorità e potenza comanda agli immondi spiriti ed escono?37 Ed usciva l’eco su di luiin ogni luogo dei dintorni.

l. Messaggio nel contesto

La parola di Gesù è efficace: vince il male. Gli esorcismi sono la continuazione della sua vittoria su satana, riportata nelle tentazioni. Ora, nella sua azione, si estende agli altri; poi, nella sua passione, raggiungerà il cosmo intero: la sua croce sarà la lotta e la vittoria definitiva sul nemico.A differenza dei miracoli, gli esorcismi avvengono fra molte resistenze; si presentano sempre più difficili nel seguito del Vangelo. Prima di perdere definitivamente, il nemico si impegna con tutte le forze.Gli esorcismi contengono il più alto annuncio evangelico: la buona notizia che il male dell’uomo è vinto. Per questo Luca ne pone uno all’inizio del ministero di Gesù, come atto programmatico, incluso tra la duplice annotazione sul potere della sua parola (vv. 32 e 36). Indica il frutto primo e maturo di questa parola: la riduzione al silenzio e la messa in rotta (“taci ed esci!”) del male.Il Vangelo presenta la verità, per altro assai palese, che l’uomo non è libero. È invece abitato, talora posseduto e devastato, dal male. Ne ascolta la voce, lo esegue, vi si avviluppa e imprigiona dentro come un baco da seta nel suo bozzolo. Ha bisogno quindi di esserne liberato per uscirne e volare nella luce.Gli esorcismi rappresentano l’attività principale di Gesù e danno il senso di tutta la sua azione: è venuto nel mondo per liberare l’uomo schiavo del male.La lotta avrà il suo culmine sulla croce, dove si scateneranno contro Gesù tutte le forze avverse e saranno vinte nella sua morte da sconfitto per amore. È una lotta continua di tutta la vita, sempre più dura e senza quartiere; il male, messo alle corde, reagisce con tutta la sua violenza prima di perdere. L’esorcismo fondamentale della vita cristiana è il battesimo, che ci associa per tutta la vita al combattimento e alla vittoria della croce.Ma cos’è questo spirito del male? Cerchiamo di capirlo dalla descrizione che ne fa il Nuovo Testamento. Si manifesta come ladro della Parola (8,12), ha il suo volto visibile nell’idolo della ricchezza che seduce (8,14. 18-24s; 16,13; Ef 5,5; 1Tm 6,10), entra nel cuore di Giuda (22,3), negli esorcismi è descritto come colui che possiede e tortura l’uomo. È chiamato satana, il diavolo (l’accusatore, il divisore), il forte (11,21), il maligno (Mt 13,19), il tentatore (4,2); il leone (1Pt 5,8), l’omicida fin dal principio, perché “padre della menzogna” (Gv 8,44); è il principe di questo mondo (Gv 14,30), ha il suo regno (11,17s), può addirittura dire con sincerità: “Tutto è posto nelle mie mani” (4,6). Secondo Gn 3, fin dal principio ha suggerito all’uomo la falsa immagine di Dio e lo fa

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disobbedire, lo fa nascondere da lui e glielo fa temere. Così l’uomo, allontanandosi da Dio, perde se stesso: ha vergogna e disistima di sé, si copre e si aliena da sé, dagli altri e dalla natura; fallisce la propria vita, sacrificandola agli idoli, che lo riducono a loro immagine e somiglianza: muto, cieco, sordo, senza gusto, incapace di muoversi e di realizzarsi (cf. Sal 115= 113b, 4-8). Da depositario della gloria di Dio, si spezza, si dissocia e si frantuma nei vari idoli, viene abitato e devastato dalle tenebre e si identifica coi propri cocci, con la legione del male che gli fa male (cf. 8,30). Persa la fiducia nell’amore di Dio, l’uomo deve badare a se stesso. Diventa egoista, perché tutto intento a salvare se stesso (cf. 23,35.37.39). Proprio così fallisce miseramente e fa ogni male. E si tratta di un male senza fondo, abissale all’infinito, come è infinito Dio da cui l’uomo si allontana. Questo male si solidifica, esteriorizza e organizza in istituzioni e reti malefiche, vere macchine moltiplicatrici di iniquità, di cui l’uomo, dopo averle costruite, si fa semplice ingranaggio. Si pensi alle stesse istituzioni positive, per tacere delle negative, che hanno la tendenza a diventare il contrario di ciò per cui sono nate. Per il male che l’uomo paventa, egli si mette a servire ad esse, invece che servirsene; si guardi per esempio la famiglia, la fabbrica, la scuola, gli ospedali, il capitale, il benessere, la casa, la città, i mass media, ecc. Anche la chiesa e lo stato ne sono sempre insidiati! Si pensi solo alla beffa: ciò che più inquina sono i detersivi (per tacere il resto!); ciò che più minaccia la sicurezza sono i sistemi di difesa; chi più froda il fisco sono stati i capi della finanza; negli affari più insidiosi e loschi per la società, troviamo i servizi segreti. C’è anche chi ha sostenuto che senza scuola aumenta il livello di cultura, senza medici cresce il livello di salute pubblica. I politici poi amano addirittura essere chiamati benefattori, non di se stessi, ovviamente, ma degli altri (22,25).Tutto questo male non è necessario. È frutto della perversione dell’intelligenza dominata dalla paura: invece del vero, cerca l’utile; invece del bene, il piacere; invece dell’amore, l’interesse. Questo perché l’uomo, che ha perso Dio, si sente angosciato dal suo nulla. Per questo fagocita tutto, nella volontà di possedere e mangiare ogni cosa buona, bella e desiderabile (cf. Gn 3,6; 1Gv 2,16). La natura stessa, dono di Dio, fatta oggetto di possesso, si stacca dalla sua sorgente e, morendo, rende la vita impossibile all’uomo. L’ultimo risvolto del male è proprio quello della natura, “sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa”, cioè l’uomo (Rm 8,20). Essa “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto”, nell’attesa impaziente che all’uomo venga resa la sua immagine di figlio di Dio (Rm 8,22.19). La morte stessa, senza il peccato, non sarebbe un male, ma solo il passaggio alla vita. È solo per il peccato che la morte avvelena tutta la vita (cf. 1Cor 15,56; Sap 2,24). Gesù è venuto a liberare l’uomo da tutte le forme di male, personale e sociale, semplice e strutturale, morale e naturale, fin dalla morte stessa. Il male, da potenza cosmica che schiavizza, è riportato alla responsabilità dell’uomo liberato da Gesù. Invece di obbedire alla suggestione del nemico, può obbedire alla parola del Signore. Questa gli riaffida, gli restituisce la sua dignità di padrone del creato. Gesù è il Salvatore. La salvezza non è un ornamento dell’anima bella. È salvezza dell’uomo come tale, che senza Cristo è perduto e non si realizza, al di là di ogni pretesa del contrario.Il senso profondo dell’esorcismo è rendere l’uomo a se stesso, e quindi a Dio di cui è immagine, liberandolo da quel male che gli fa perdere Dio e quindi se stesso. Il male, vero tiranno, temuto e ipnotizzante, paventato e inevitabile, viene defatalizzato. All’uomo è resa la speranza. Ora non agisce più per il “male minore”, ma per “il maggior bene”, che è la “maggior gloria di Dio”; e la gloria di Dio è l’uomo vivente (Ireneo). Quel male forte e sottile, che avvolge e penetra l’umanità avvelenandone la vita, che fa paura e incanta, scompare come le tenebre all’apparire del sole.

2. Lettura del testo

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v. 33: “E nella sinagoga, ecc.”. Si parla di un uomo che ha uno spirito di demonio impuro. L’uomo vive e agisce secondo lo spirito che ha. Gesù agisce nello Spirito santo; l’uomo invece nello spirito “impuro”. “Impuro” è tutto ciò che ha attinenza con la morte e si contrappone a Dio, che è vita e gioia senza alcuna impurità. Nonostante la sua presenza nella sinagoga - lo spirito impuro non doveva di per sé escludere dalla comunità di chi ascolta la parola di Dio? - questo uomo è lontano da Dio: relegato nell’ombra, vive e agisce secondo lo spirito di morte. Questa impurità, questa morte, presente anche nella sinagoga, resta nascosta, ma si rivela davanti alla santità di Gesù ed esplode in un grande grido. Anche Gesù farà un grido analogo quando si consegnerà al Padre (23,46). Sarà il grido di vittoria trattenuto fino alla fine! Qui invece è il grido di terrore di chi vuoi terrorizzare: il forte non può più sfuggire al nemico più forte di lui: istintivamente grida, per terrore e per terrorizzare, se possibile.

v. 34: “Ah!, che a noi e a te, Gesù Nazareno, ecc.”. Lo spirito impuro confessa la sua totale estraneità e inimicizia con colui che è pieno di Spirito santo. Non c’è nulla in comune tra i due: Cristo ha lo Spirito di verità e di vita, il demonio lo spirito di menzogna e di morte. È interessante notare che il male intuisce perfettamente il bene, esattamente come suo opposto e suo mortale nemico. Dopo un primo moto di meraviglia, questa è anche la nostra reazione immediata davanti alla Parola: la menzogna che è in noi resiste alla verità. Ci sentiamo terrorizzati e ci nascondiamo, come Adamo da Dio (Gn 3,10). Capita ogni volta che leggiamo il Vangelo!Il tragico è che ci alleiamo col nemico, gli prestiamo voce e ci identifichiamo con lui, ritenendo nemico Dio. Siamo come un paziente che si identifica con il suo male e considera nemico il medico che lo vuole guarire: per sfiducia si allea con la malattia e ritiene estranea a sé la salute, allontanando chi gliela porta, perché rovina la sua faticosa anche se falsa identità. Il demonio parla al plurale, dicendo: noi, e ha una conoscenza sovrumana di Gesù. Sa chi è: “il Santo di Dio!”.È un tentativo magico di prendere possesso di Gesù pronunciandone il nome e il segreto? Ci vuoi altro contro colui che è la Parola! È dichiarazione disperata di una coscienza che sa la verità, ma col cuore vuole il contrario? Conoscere il bene e la verità, ma volere il contrario, questa scissione tra mente e cuore, tra verità e bene, è la rottura stessa mortale che il demonio ha portato all’uomo.Come mai preferisco il “mio” male, che capisco come tale e voglio, al “tuo” bene, che pure capisco e non voglio, perché me lo doni? Certamente gli indemoniati devono essere curati da quel male profondo che impedisce loro di volere il bene. Ed è la disperazione, causata dalla menzogna che il bene non sia per loro. I demoni hanno fede: i demoni credono, e tremano (Gc 2,19). Il bene lo conoscono, ma li terrorizza! La pena del dannato suppone questa fede ed è conoscere la verità con l’intelligenza, sperimentandone la privazione col cuore.È interessante pensare che, come il male riconosce e in qualche modo smaschera Gesù, così la semplice presenza di Gesù e della sua parola potente smaschera e sconfigge il male. Al mattino il sole che sorge dissolve la tenebra e lacera il velo che copre la realtà.

v. 35: “Sii imbavagliato ed esci da lui, ecc.”. Gesù impone il silenzio, dicendo al singolare: “Sii imbavagliato”. Dissocia il male dal malato e zittisce non il malato, bensì il male. L’amore per il malato - è venuto apposta per lui (5,31s) - lo rende estremamente duro e implacabile col male. Gesù si rivolge direttamente al male, non identificandolo col paziente, anzi tagliandolo via immediatamente da lui con la lama della sua parola. Lo vince riducendolo al silenzio, facendo cessare la parlata maligna, che va dal grido di dispiacere davanti al bene al canto incantatore davanti al male. Il potere del male sta sempre nella menzogna: se tace la menzogna, finisce il male.Davanti a Cristo e alla sua parola, l’uomo, posto nel male, avverte la difformità da essa. Ma questa parola stessa lo pone nel bene - il bene è stare davanti a Dio! (cf. Sal 73,28) - e lo rende conforme a sé. Per quanto Adamo si sia sottratto a Dio, questi lo cerca, lo incontra e lo pone di nuovo davanti al

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proprio volto, restituendolo a se stesso. Fuggono l’errore e la falsità, e resta nel mezzo della sinagoga l’uomo libero e incolume. Quel male che sembrava fatale, che aveva preso il posto di Dio, scompare davanti al suo volto che è Gesù, sua parola fatta carne. La semplice lettura del Vangelo è l’esorcismo più potente, luce che vince in noi progressivamente ogni tenebra. Il demonio se ne va con fracasso, ma senza nuocere!

v. 36: “Che parola questa, ecc.”. Il motivo dello stupore che coglie tutti non è il fatto, in sé già grande, bensì l’origine del fatto. Lo stupore è concentrato non tanto sull’accaduto, quanto sulla “parola”: essa, “in autorità e potenza, comanda agli immondi spiriti ed escono”.È lo stupore stesso dell’ascoltatore del Vangelo, che sperimenta la liberazione attraverso la potenza della parola di Gesù: vede “oggi” compiersi questa parola che ascolta, ed entra nel sabato di Dio.

v. 37: “E usciva l’eco su di lui, ecc.”. Lo stupore si diffonde e l’eco di questa parola risuona in ogni luogo come segno di speranza e attesa: è una parola capace di vincere il male. Quest’eco giunge ora fino a noi, ovunque è annunciato il Vangelo.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la sinagoga di Cafarnao.c. Chiedo ciò che voglio: avvertire in me la resistenza del male quando leggo la Parola, e chiedere di essere liberato.

d. Punti su cui riflettere:- lo spirito immondo- che a noi e a te?- sei venuto a perderci?- so chi tu sei- sii imbavagliato ed esci- l’uscita rumorosa e innocua del demonio- il potere della Parola sul demonio.

4. Passi utili

Lc 8,6-39; 9,37-43; 13,10-17.

18. LI SERVIVA

(4,38-39)

38 Ora, levatosi dalla sinagoga,

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entrò nella casa di Simone.Ora la suocera di Simoneera preda di una febbre grande, e gli domandarono per lei.39 E accostatosi sopra di lei,sgridò la febbre,e la lasciò!Ora subito, levatasi,li serviva.

1. Messaggio nel contesto

Il Primo miracolo è così irrilevante e così breve che rischia di passare inosservato. All’inizio ci si aspetterebbe qualcosa di più spettacolare. La sua piccolezza - il più piccolo del Vangelo - ci costringe a riflettere non tanto sull’entità del miracolo, quanto sul suo significato. È infatti un segno, che indica qualcosa d’altro. L’insignificanza del segno - una semplice guarigione da febbre - concentra tutta l’attenzione sul suo significato, posto nel finale: “li serviva”. All’inizio del Vangelo abbiamo quindi un piccolissimo segno e un grandissimo significato, che fa da chiave interpretativa per tutti i miracoli che seguono. Se allo stolto si indica la luna, lui ti guarda la punta del dito. Cerchiamo allora, oltre la punta del dito, il grande luminare che illumina la notte. Se la potenza della sua parola vince oggi il male (cf. brano precedente), una volta liberati dal male, si è finalmente liberi per il bene, che è il “servizio”. Questo servizio, con il quale conclude il racconto del miracolo, è il programma messianico di Gesù: renderci come lui, che è tra noi “come colui che serve” (22,27).

2. Lettura del testo

v. 38: “dalla sinagoga entrò nella casa, ecc.”. La scena si sposta dalla sinagoga alla casa, la casa di Simone, dove sua suocera è in preda a una gran febbre. Sono gli altri a pregare Gesù per lei. Questa mediazione è comune a molti miracoli.

v. 39: “accostatosi sopra di lei, ecc.”. Gesù si china su di lei - ogni miracolo sarà frutto del chinarsi su di noi di colui che da ricco che era, si è fatto povero per arricchire noi con la sua povertà (2Cor 8,9) - sgrida la febbre, come al v. 35 aveva sgridato lo spirito impuro, e questa la lascia.

“levatasi, li serviva”. Qui è il significato di tutto il miracolo e di tutti i miracoli. Il fatto che essa serva non vuol dire soltanto che è guarita dal male fisico. Indica una guarigione ben più profonda: è realmente liberata da quella febbre e spirito del male che impedisce di servire e costringe a servirsi degli altri per essere serviti. Può finalmente servire, come Gesù, che dice di sé: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (22,27). È - utile notare che la traduzione CEI “Cominciò a servirli” non è corretta. È da tradurre: “li serviva”, all’imperfetto, che indica non solo l’inizio, ma anche la continuazione indeterminata di tale servizio. “Servizio” è un termine carico di significato nel NT: Gesù è il “servo” di Dio e dei fratelli, il giusto che, per amore, si fa carico del peso della debolezza di tutti. Se il servirsi degli altri è principio di reciproca schiavitù, servire gli altri è principio di liberazione. Non c’è alternativa: il primo è espressione dell’egoismo, il secondo di amore. Nel servizio l’uomo diventa se stesso e rivela Dio di cui è immagine e somiglianza.

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Con la parola “servire” la chiesa primitiva intende il concreto amore fraterno “non a parole, né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1Gv 3,18). Questa è la caratteristica specifica e fondamentale di Gesù, lasciata in eredità ai suoi discepoli prima di morire (cf. 22,24-27; Gv 13,1-17). Questa donna è il prototipo dei credente. Liberata per il servizio ricevuto da Gesù, è libera per liberare, cioè per servire gli altri. Si inserisce così nella vita di Dio, che è amore e servizio. La liberazione che Gesù porta non raggiunge il suo scopo nella retta professione di fede che ne fanno i demoni (cf. vv. 34.41 e Gc 2,19), bensì nel servizio, che assimila l’uomo a Dio nella sequela di Cristo.Anche tutti gli altri miracoli andranno letti come interventi che Gesù compie per portare questa liberazione profonda. La suocera di Pietro è il primo frutto maturo del vangelo: incarna lo Spirito di Gesù ed è tipo di tutti coloro che ne seguiranno la parola. È il vangelo vivo, dove sentiamo il buon profumo di Cristo (cf. 2Cor 2,14ss).La vera portata di questo miracolo per lo più passa inosservata. Il motivo è che siamo abituati a leggere i miracoli di Gesù come portenti e segni del “potere divino”. Gesù rifiuta tali segni (cf. 11,16.29). Noi siamo incapaci di riconoscere Dio nella piccolezza e nell’umiltà (cf. 17,21), caratteristiche del servizio e privilegio degli ultimi, che per questo... sono costretti a servire! Ma è proprio in queste realtà infime che Dio è presente con la sua forza. Agostino diceva giustamente che, se la potenza di Dio ci ha creati, la sua impotenza ci ha salvati. Per questo Matteo, dopo il ciclo narrativo dei primi miracoli, ne dà la chiave interpretativa dicendo che così “si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17). È proprio il Gesù servo, che si addossa il nostro male, che ci libera. Il mistero del servizio è lo stesso dello scandalo della croce, che ci vuol portare a riconoscere la grazia di Dio nell’umiltà del servo che muore in croce. La testata d’angolo è la “pietra scartata” (20,17). Infatti “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato, e ciò che è nulla, per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28). Così questa donna - le donne contavano così poco nella cultura ebraica che non erano tenute a vivere secondo la legge e non erano in grado di testimoniare - per di più vecchia, malata e... suocera, è la prima che, guarita dalla febbre che intacca lo spirito di ogni uomo (cf. 22,24), vive e testimonia lo Spirito nuovo di Gesù, che ha vinto il mondo e fa cieli nuovi e terra nuova.Il miracolo avviene nella “casa” di Simone. La casa è uno dei simboli della chiesa. Chi in essa veramente conta, quali occhi dobbiamo avere per leggere la storia della chiesa, verso chi guardare per imparare il vangelo, quali sono i nostri maestri nella fede? Anche alla fine del suo ministero Gesù chiamerà solennemente i discepoli a osservare una povera vedova che “dà tutta la sua vita” (21,4), per imparare da lei la lezione fondamentale.Queste persone insignificanti, che “naturalmente” devono servire, sono la presenza viva e costante del Signore in mezzo a noi, i nostri maestri di vita. Che il Signore ci dia occhi nuovi ed evangelici per vedere la realtà!

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo andando dalla sinagoga di Cafarnao alla casa di Pietro.c. Chiedo ciò che voglio: essere liberato dalla febbre e servire.

d. Punti su cui riflettere:- la casa di Simone- la suocera di Pietro- la gran febbre- gli domandarono per lei

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- si accostò sopra- sgridò la febbre- levatasi, li serviva.

4. Passi utili

Lc 22,24-27; 17,7-10; 20,45-21,4; Gv 13,1-17; 1Cor 1,26-29.

19. BISOGNA CHE IO EVANGELIZZI

(4,40-44)

40 Ora, calando il sole,tutti quanti avevano malati di varie malattie, li conducevano da lui. Ora egli, a ognuno di loro imponendo le mani, li curava.41 Ora uscivano anche demoni da molti,gridando e dicendo:Tu sei il Figlio di Dio!E sgridando non permetteva loro di parlare, perché sapevanoche lui era il Cristo.42 Ora, venuto giorno,uscito,andò in un luogo deserto, e le folle lo ricercavano, e giunsero fino a lui e lo trattenevanoche non andasse via da loro.43 Ora egli disse loro:Anche per le altre città bisogna che io evangelizzi il regno di Dio,perché per questo fui mandato.44 E stava a proclamarenelle sinagoghe della Giudea.

l. Messaggio nel contesto

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Si completa il primo abbozzo del volto di Gesù: gli uomini lo vedono come il salvatore, i demoni lo gridano Figlio di Dio e lo conoscono come Cristo. Gesù, da parte sua, si proclama come l’evangelizzatore del regno di Dio, spinto da una misteriosa necessità: “Bisogna che io evangelizzi”.È un sommario, sintesi teologica del “giorno” di Gesù. In questo giorno programmatico vediamo la sua azione, che nella sera ha il compimento, nella notte attinge alla sua sorgente, per dilagare altrove in un nuovo mattino. La sera della croce non è il fallimento, ma la pienezza gloriosa di tutta l’opera salvifica di azioni e miracoli; la notte della morte non è l’annullamento, ma comunione col Padre, sorgente della vita, che dilaga vittoriosa nel giorno nuovo.Questa presentazione di Gesù, prima della chiamata dei discepoli, rende più plausibile la loro risposta.La cornice del racconto è il buio della notte, tra il termine di un giorno e l’inizio di un altro, dal calar del sole al sorger della luce. È il tempo indisponibile per l’uomo. Tutto piomba nelle tenebre; cessa ogni attività umana che lì confluisce e si placa. La notte è simbolo della morte, notte definitiva, tempo assolutamente indisponibile, che anche Gesù conoscerà, dall’oscurarsi del sole il venerdì di pasqua al suo sorgere nuovo il mattino dopo il sabato.Il fatto strano è che la sua azione si svolge proprio al buio. Infatti, se di giorno aveva operato qualcosa, di sera opera un’infinità di prodigi in favore di “tutti gli uomini” che accorrono a lui, che “si prende cura di ciascuno” (v. 40).Ciò significa che Gesù agisce definitivamente alla fine del suo giorno: è infatti la sua croce che salva tutti e ciascuno. Egli ci salva nella nostra notte mediante la sua notte, ci visita nel nostro male mediante la sua croce.Se la prospettiva del giorno dell’uomo è la sera, l’oscurità e la morte, la prospettiva di Dio in Cristo è la vittoria sulla notte e sulla morte.La notte è il luogo della verità dell’uomo, che riconosce il proprio nulla. Ma è anche il luogo della verità di Dio, che dal nulla fa tutte le cose. Come fu il luogo della creazione, così è il luogo della salvezza nella fede. Dio infatti agisce proprio quando l’uomo, impossibilitato, rinuncia ad agire e dice: “Ora basta, Signore!” (1Re 19,4). Poiché “nulla è impossibile a Dio” (1,37).

2. Lettura del testo

v. 40: “Ora, calando il sole, ecc.”. Luca, a differenza di Marco, non parla della notte. La indica come il tempo fra il calar del sole e il venire del giorno dopo (cf. v. 42). Sottolinea così la vittoria del giorno sulla notte. Il cristiano vive ormai definitivamente nel giorno dopo il sabato, l’“oggi” della risurrezione e della vittoria di Cristo, l’ottavo giorno che non conosce più tramonto. La notte infatti è stata sconfitta, perché è venuta la “sua ora” (anticipata in 4,1-12.13) proprio nel momento più buio, che va dall’agonia nell’orto alla croce (cf. 22,53; 23,44). Questo sole che cala è quasi il Cristo crocifisso che si china sulle nostre notti e le illumina tutte.

“quanti avevano malati di varie malattie, li conducevano da lui”. Spesso il malato è condotto da Cristo, o Cristo è condotto dal malato mediante la preghiera. È sottolineata la mediazione e la corresponsabilità dei fratelli nella salvezza di tutti. Tema caro a Luca, cosciente della mediazione ecclesiale.

“a ognuno di loro imponendo le mani, li curava”. Gesù si accosta a “ciascuno” dei malati. Il malato non è un numero, un caso. Gesù si occupa del malato, non del male! E guarisce imponendo le mani. Altrove si dice che “tocca” (5,13). La mano è segno della potenza e dell’azione. Gesù è la potenza di

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Dio in azione che si tende, si posa e tocca l’uomo malato. Questo contatto, quasi identificazione col malato, è la salvezza stessa. Dove c’è comunione col Signore, è vinta la forza del male.Non si dice propriamente che Gesù “guariva” bensì “curava”. Si sottolinea la causa della guarigione: non è una forza cieca o magica, bensì la cura, il rispetto, l’amore e il servizio di Gesù (questo indica la parola greca therapeúein, che Luca usa spesso). In qualche modo si allude già al fatto che siamo salvati a caro prezzo, mediante il servizio di colui che si è posto in mezzo a noi come servo (22,27) per portare il peso del nostro male.

v. 41: “Ora uscivano anche demoni, ecc.”. Come al giungere del sole fuggono le tenebre, dove giunge Cristo il male si mette in fuga, riconoscendo nella propria sconfitta la sua identità. Da questo si capisce che la fede non è solo sapere chi è lui, ma adesione del cuore all’annuncio della salvezza (cf. Rm 10,8-10). Al demonio, evidentemente, manca questa. Conoscere il bene e non amarlo è propriamente la dannazione, la scissione lancinante tra mente e cuore, tra conoscenza ed esperienza. Gesù “sgrida” i demoni: sgrida il male, non il malato. Dissocia, come sempre, l’intima associazione, quasi identificazione, che si opera tra male e malato. E “non permette” che i demoni lo proclamino: accetta che gli uomini proclamino la sua verità, ma non accetta che sia il male a proclamarlo, anche se ne è costretto.Perché la sua verità è libertà e salvezza e va quindi proclamata con la mente e col cuore. Se no è dannazione. Si intravvede anche traccia del segreto messianico di Marco, che non permette la proclamazione della gloria prima della croce. Sarebbe un assecondare le tentazioni!In questo capitolo si nota una progressione nella rivelazione di Gesù, che realizza quanto predetto nei primi due capitoli: è il Santo di Dio (v. 34; cf. 1,35), il Figlio di Dio (v. 41a; cf. 1,32.35), il Cristo (v. 41c; cf. 1,32).

v. 42: “Ora, venuto giorno, ecc.”. Mentre Marco presenta la preghiera notturna di Gesù, Luca si scosta da lui per sottolineare che, con la sua vittoria sulle malattie e sul male, inizia il nuovo giorno: liberati dalla schiavitù, inizia l’esodo e il popolo lo segue. Non è ancora una sequela priva di ambiguità, anche se dettata da buona volontà. Mentre i suoi lo cacciano via, questi ne vanno in cerca e vogliono trattenerlo, perché non se ne vada via da loro.

v. 43: “bisogna che io evangelizzi”. Questa è però una tentazione, quasi un voler sequestrare la salvezza. Gesù si sottrae, perché la salvezza non è possesso di alcuni, ma dono per tutti.Gesù dice che “bisogna” che lui evangelizzi. Tale parola (cf. 2,49; 9,22; 12,12; 13,14; 13,33; 15,32; 18,1; 19,5; 22,7.37; 24,44 e altre 17 volte negli Atti) indica la volontà salvifica del Padre, rivelata nelle Scritture, alla quale Gesù aderisce con libertà fedele fino alla morte. Questa volontà alla quale aderisce è specificata ora come “evangelizzare”, portare la “buona notizia del regno di Dio”. È la prima volta che “regno di Dio” esce in Luca. Ricorrerà altre trentasette volte. Non viene spiegato in che cosa consiste. Più che la definizione, Gesù offre progressivamente l’esperienza di esso come un pazientissimo puzzle (paziente da parte sua!). Luca comunica al suo lettore la medesima esperienza che ne fecero i discepoli, fino a identificare tutte le linee del regno di Dio con il volto finalmente riconosciuto di Gesù. L’espressione “regno di Dio”, per noi enigmatica, era molto chiara per gli uditori di Gesù: essi conoscevano bene quanto noi il significato del regno dell’uomo, regno di ingiustizia, di oppressione, di male, di peccato e di morte (cf. 1Sam 8); ma conoscevano bene anche la promessa di un regno di Dio come esatto capovolgimento di quello dell’uomo. La sua prima caratteristica è quella di essere “di Dio”, diverso da quello dell’uomo e a lui indisponibile. Non viene né per azione né per evoluzione né per rivoluzione umana. Solo per desiderio, aspirazione e umile invocazione: “Venga il tuo regno” (11,2). È la signoria di Dio, che restituisce l’uomo a se stesso,

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vincendone le malattie, il male e la morte. E quel Regno che con Gesù è già presente e agisce in mezzo a noi, ma in un modo discreto, che non attira l’attenzione (cf. 17,20s).Questo regno di Dio si identifica proprio con lui, lo spazio di libertà che Dio ha donato agli uomini. Per questo i discepoli continueranno l’azione di Gesù annunciandolo e testimoniandolo “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).Gesù annuncia la buona notizia del regno di Dio - è inviato apposta dal Padre - a tutte le “altre” città. Grande è per Luca la preoccupazione per gli “altri”, i lontani.La missione di salvezza di Gesù, alla cui luce la chiesa legge la propria, è universale: non può diventare appannaggio privato di qualcuno.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi di sera a Cafarnao e al mattino dopo nei dintorni più solitari.c. Chiedo ciò che voglio: comprendere il significato della sera e della notte, della croce e della morte, come luogo della grande azione di Dio.

d. Punti su cui riflettere:- al calare del sole Gesù guarisce “tutti” i malati- la sconfitta dei demoni e la loro fede- il ritiro in luogo deserto- bisogna che io evangelizzi.

4. Passi utili

Come Dio agisce nella notte: Gn 1,1ss; Es 12,1-14.42; 1Re 19,9-12; Ger 32,23-33; Lc 22,39-46.

20. LASCIATO TUTTO, SEGUIRONO LUI

(5,1-11)

51 Ora avvenne, mentre la folla si riversava su di lui e ascoltava la parola di Dio, lui stava lungo il lago di Genesaret.2 E vide due barche che stavano lungo il lago. Ora i pescatori, andati fuori da esse,lavavano le reti.3 Ora, andato dentro una delle barche,che era di Simone, domandò a lui

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di condurre fuori da terra un po’.Ora, seduto,dalla barca insegnava alle folle.4 Ora, quando cessò di parlare,disse a Simone:Conduci fuori al largoe calate le vostre reti per la cattura!5 E, rispondendo, Simone disse:Maestrofaticando tutta la notte prendemmo nulla. Ma sulla tua parola calerò le reti!6 E, facendo questo, presero dentrouna moltitudine grande di pesci.Ora si strappavano le loro reti.7 Ed accennaronoai soci dell’altra barca di venire a con-cepire con loro. E vennero e riempirono ambo le barche fino a sommergerle.8 Ora visto, Simon Pietroricadde alle ginocchia di Gesù dicendo:Esci via da me,poiché sono uomo peccatore, Signore!9 Paura infatti strinse luie tutti quelli con lui,per la cattura dei pesciche avevano concepito.10 Ora ugualmente anche Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo,che erano compagni di Simone.E disse a Simone Gesù:Non temere!Da ora uominipescherai per la vita.11 E, ricondotte le barche sulla terra,lasciato tutto,seguirono lui.

1. Messaggio nel contesto

Marco, ponendo la chiamata subito all’inizio del Vangelo (1,16-20), mostra come essa sia il principio della vita cristiana. Luca, facendo precedere il discorso inaugurale, l’osservazione sulla potenza della

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sua parola e il racconto dei suoi effetti salvifici, non solo motiva la risposta, ma anche ne mostra gli aspetti ecclesiali. I discepoli sono già sulla barca da dove Gesù parla; si trovano al largo, dopo una nottata di fatica inutile e sperimentano, nell’obbedienza alla sua parola, l’abbondanza dei frutti. La comunità cristiana è chiamata a confrontarsi con Gesù e obbedire alla sua parola per ottenere i frutti della benedizione promessa. Si richiama così a “Teofilo”, il lettore cristiano, come la notte della fatica sterile del discepolo, che pure ha con sé Gesù sulla barca e ne sente la parola, finisca quando obbedisce alla sua parola. Allora, come Maria, concepisce (vv. 7.9; cf. 1,38). La sua sterilità, il suo stesso peccato riconosciuto e la lontananza dal Signore, sono il luogo non del suo fallimento, ma della sua chiamata.È un po’ una riflessione teologica sulla chiamata già avvenuta per approfondirne il significato. Si notano inoltre già differenziazioni di ruoli all’interno della chiesa e una certa organizzazione: di due barche è scelta una, Pietro la conduce al largo, riceve l’ordine, raduna i compagni per tirare le reti e riceve alla fine l’incarico della missione, alla quale pure gli altri saranno associati. Gesù non è più solo. Con lui ci sono degli uomini “chiamati” a continuare la sua missione. Luca vede qui già prefigurata e voluta dal Gesù terreno quella che poi sarà la chiesa postpasquale, senza soluzione di continuità.Nasce così il popolo di “ascoltatori”, che seguono Gesù. L’ascoltatore perfetto del Padre è ora ascoltato e la benedizione promessa da Dio scende sulla terra. I cc. 5 e 6 descrivono il cammino di Israele nell’ascolto della Parola, mentre i cc. 7 e 8 piuttosto quello dei pagani. È comunque una riflessione spirituale sulla chiamata già avvenuta per tutti. Al centro di questi capitoli troviamo da una parte la rivelazione del Dio di misericordia mediante le parole, accessibile ai giudei che già hanno dimestichezza con la Parola (6,20-49); dall’altra parte troviamo la medesima rivelazione mediante le azioni di Gesù, che realizza tale misericordia e mostra in concreto il volto di Dio rivolto ai pagani, ai piccoli, ai peccatori (c. 7).Il tutto è per portare il lettore all’obbedienza alla parola di misericordia già udita, che porta frutti di salvezza per tutti. Questo brano richiama per molti aspetti l’annunciazione. La chiamata di Maria è la stessa del discepolo. Alla sua verginità corrisponde la nostra sterilità, il nostro peccato riconosciuto; nell’obbedienza alla Parola anche noi concepiamo come lei. in modo che il corpo del Figlio giunga alla sua misura piena, abbracciando tutti i fratelli perduti. Gesù all’inizio è il maestro, la cui parola è da ascoltare (v. 5), ma in questo ascolto egli diviene il Signore (v. 8), il Santo che chiama il peccatore alla grazia e lo invia a chiamare altri alla stessa salvezza.

2. Lettura del testo

v. 1: “Ora avvenne, mentre, ecc.”. La folla si riversa su Gesù per ascoltare la “parola di Dio” in riva al mare. Gesù “sta” presso la riva, di fronte a questo popolo pronto per l’ascolto e per l’esodo: è come il pastore che raduna le pecore per condurle al pascolo.

v. 2: “E vide due barche, ecc.”. La sua parola ormai non viene più offerta dalla riva, bensì da una delle due barche ormeggiate, dopo l’esperienza di una nottata di fatica che vedremo essere stata inutile.

v. 3: “Ora, andato dentro una delle barche, ecc.”. Gesù ha scelto una barca, quella di Simone, e gli chiede di scostarsi dalla riva. Su di essa solennemente si siede, in atteggiamento da maestro, e insegna. Mentre sulla riva era in piedi per andare altrove, qui è seduto. Questa barca è figura della chiesa, piccola comunità che galleggia sull’abisso e compie l’esodo. Essa è già il punto di arrivo della sua missione; per questo si siede e da lì si rivolge agli altri che ancora stanno sulla riva. Il fatto che Gesù

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scelga una barca rientra nelle necessità dell’economia dell’incarnazione. Non poteva stare su due barche! Ma da quest’unica barca si rivolge a tutti e da lì tutti ascoltano la sua parola, perché lì lui stesso è ascoltato e c’è larga benedizione di frutti. È l’esperienza della chiesa di Luca, che nell’obbedienza al suo Signore e Maestro, è consapevole di passare dalla sterilità alla testimonianza efficace del suo Signore, sacramento davanti al mondo della sua presenza salvifica.

v. 4: “Conduci fuori al largo e calate le vostre reti”. Pietro riceve da Gesù l’incarico di guidare al largo la barca. Il verbo è al singolare: “conduci”. L’incarico di pescare, la missione stessa, è comune a lui agli altri. Gesù infatti dice al plurale: “Calate le vostre reti”. Unica missione e fatica comune per tutti, come unica guida e conduzione per tutti. Nella pesca è raffigurata la missione apostolica che inizia ora, in obbedienza alla parola del Signore, e che giungerà molto al largo, fino agli estremi confini della terra. Le reti che gli apostoli calano, dice suggestivamente Ambrogio nel suo commento a questo passo, sono l’annuncio fatto di intreccio di parole, slarghi di discorso e profondità di risposte che prendono nelle loro maglie e non perdono coloro che ne sono presi. Ed è giusto che gli strumenti della pesca apostolica siano le reti: infatti non fanno morire chi vi è preso, ma lo conservano in vita, lo traggono dagli abissi alla luce e dal profondo conducono alla superficie chi vi era sommerso”.

v. 5: “Maestro, faticando tutta la notte, prendemmo nulla. Ora, sulla tua parola, ecc”. Quante volte avevano calato le reti inutilmente! Quella stessa notte non avevano preso nulla. Per un pescatore non pescare è “il” fallimento. Ne va della sua identità. È come per l’uomo non essere uomo. L’ordine di Gesù, rivolto a dei pescatori di professione, appare un po’ offensivo, oltre che insensato: non conoscono bene il loro mestiere e non è forse di notte che si pesca? Dovranno comprendere che non è per forza e per volontà propria che agiscono, e che l’azione è fruttuosa proprio di giorno, perché obbediscono al sole che è sorto per rischiarare coloro che prima erano nelle tenebre e nell’ombra di morte (1,78s). Gesù non è solo il maestro da imitare. È la stessa Parola feconda, il Signore che opera quanto dice.Questo invito provocatorio e incompetente alla pesca diurna è analogo all’ordine ricevuto da Filippo, primo evangelista, che cala la rete “al largo”: contro ogni buon senso e programmazione, riceve l’ordine di alzarsi e avviarsi verso mezzogiorno sulla strada che va da Gerusalemme a Gaza e che “è deserta!” (8,26). È inutile e stupido pescare di giorno, come evangelizzare dove non c’è nessuno. La vana fatica notturna indica l’inutilità di tutti gli sforzi umani fatti per volontà propria per instaurare il regno di Dio. Perché è di Dio! Anche Mosè aveva tentato di salvare il suo popolo quando era potente. Dio gli ordinò di fare ciò che prima lui stesso aveva voluto, quando ormai era impotente e non lo voleva più. Nella risposta di Pietro si avverte qualcosa quasi di mezzo tra l’obiezione di Zaccaria, che vede l’impossibilità che qualcosa avvenga, e la risposta di Maria, che accetta che avvenga secondo la sua parola (1,38). C’è sotto la domanda: ma come è possibile?... L’obbedienza alla parola del Signore, di cui hanno sentito e visto la potenza, è l’unico motivo per sperare l’impossibile che essa promette a chi obbedisce. La fede non ha altro appoggio.

v. 6: “una moltitudine grande di pesci”. Come in Gv 21,6, si indica un’esperienza post-pasquale, che la chiesa ha già compiuto e compie di continuo: ogni volta che obbedisce alla parola del Signore, sperimenta la realtà della sua promessa. Solo nell’obbedienza di fede la Parola è efficace e la promessa di Dio si realizza. Per questo l’essenziale è giungere a quest’obbedienza di fede. Essa porta il frutto infallibile e traboccante di questa pesca, che eccede ogni aspettativa e capacità umana: le reti quasi si rompono perché incapaci di contenere la realizzazione della promessa che è superiore a ogni fama (Sal 138,2). Ma nulla va perso! (cf. Gv 21,11b).

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v. 7: “ai soci dell’altra barca”. La barca di Pietro, che ha pescato nell’obbedienza alla parola di colui che in tale obbedienza è affogato, contiene non solo Pietro, ma probabilmente anche Andrea (i verbi sono al plurale!). Ma, oltre la sua, c’è anche un’altra barca associata alla pesca, che ne condivide le fatiche per “concepire” (cf. anche v. 9). La stessa parola è usata per Maria che “con-cepisce” (1,31) il frutto dell’obbedienza alla Parola. Ambedue sono “riempite”, simbolo della benedizione di Dio, fino ad affondare; ma non affondano. È un’immagine della chiesa che, portando i fratelli perduti alla salvezza, in realtà concepisce il Figlio che si è fatto ultimo di tutti. Solo quando l’ultimo sarà salvo e Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28), sarà concepito il Figlio nella sua statura piena (Ef 4,13).

v. 8: “sono uomo peccatore, Signore!”. Nell’obbedienza Pietro scopre la potenza effettiva di colui che opera ciò che dice: cade alle ginocchia di Gesù, il Signore e si scopre “uomo peccatore”. Luca sa che si scoprirà ancora più peccatore in futuro (cf. 22,33s.54-62), ma che la fedeltà del suo Signore lo convertirà (cf. 22,32.61s). Sarà per grazia che lui confermerà nella fede i fratelli. Ma il recipiente di questa grazia è la scoperta che fa qui: il proprio peccato. Davanti alla verità di Dio e al suo dono di misericordia, l’uomo scopre la propria verità. Si sente lontano - per questo gli dice di allontanarsi da lui - e si vede perduto: sa di non essere quello che deve essere e si sente indegno. Non c’è rivelazione di Dio senza coscienza del proprio peccato: la sua infinita altezza si conosce contemporaneamente alla nostra infinita bassezza, e solo da questa!

v. 9: “Paura infatti strinse lui”. Il timore che prende tutti è l’humus in cui fiorisce la coscienza di Pietro. Dove non c’è timore, stupore e senso del peccato, non si sta alla presenza di Dio, ma solo di un idolo, maneggevole, a propria immagine e somiglianza.

v. 10: “Ora ugualmente anche Giacomo e Giovanni, ecc.”. Vengono nominati ora Giacomo e Giovanni, che in questo stupore, da semplici soci della pesca (v. 7) diventano “konónoí”, compagni, che hanno in comune la stessa esperienza del Signore e del suo dono. Formano un unico corpo con un unico Signore, generati come fratelli dalla stessa Parola cui obbediscono.Gesù dice a Simone: “Non temere”, come l’angelo a Zaccaria (1,13) e a Maria (1,30), cioè: “abbi fede”. Sono le parole con le quali Dio si rivolge all’uomo sconvolto dalla sua presenza.Pietro riceve la sua missione mentre si riconosce peccatore e viene chiamato ancora Simone (cf. Gv 21,15-19). La sua missione non decadrà neanche per il suo peccato. Anzi, siccome la “conoscenza della salvezza” c’è solo nella remissione dei peccati (1,77), il suo itinerario di scoperta del perdono nel peccato e della fedeltà nell’infedeltà sarà tipico di ogni credente. Simone diventerà Pietro e riceverà l’incarico di confermare nella fede i suoi fratelli proprio quando avrà consumato fino in fondo la propria esperienza di debolezza. La sua vera vocazione, dove viene chiamato per ben due volte: “Simone, Simone” e poi subito dopo Pietro, sarà proprio allora (cf. 22,31-34). Non per le sue qualità sarà “pietra”, garanzia di stabilità, ma proprio perché Simone si scopre una frana continua che, in ogni sua scivolata, mette a nudo la Pietra, la fedeltà del suo Signore. Di questa sarà testimone per sempre tra i fratelli.

“uomini pescherai per la vita”. La missione di Pietro, che ha fatto esperienza della misericordia del Signore che lo ha pescato dal peccato, consisterà nel “pescare uomini”. L’umanità intera è immersa nel mare, nell’abisso della perdizione, separata da Dio e in braccio alla morte. Pietro, insieme a coloro che con lui formano la comunità, pescherà gli uomini dall’abisso per salvarli. “Pescare” significa qui propriamente nel testo greco: “catturare vivi”; è il verbo usato nella Bibbia greca per indicare coloro che in una battaglia vanno salvati dalla morte e lasciati in vita (cf. Nm 31,15.18; Dt 20,16; Gs 2,13; 6,25; 2Sam 8,2; 2Cr 25,12; 2Mac 12,35). Ciò che Gesù ha fatto e farà con tutti, compresi i discepoli

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nella barca (8,22ss), cioè l’azione di salvare dall’abisso, sarà la “pesca” alla quale i discepoli stessi saranno associati, in favore di tutti gli uomini. Saranno infatti suoi testimoni fino agli estremi confini della terra (At 1,8), continuando la stessa sua missione di inviati del Padre “a salvare ciò che era perduto” (19,10).La barca è già una realizzazione di questo regno di salvati, un sacramento, segno efficace di salvezza per il mondo, fino al suo ritorno.Qui si esplicita l’autocoscienza della chiesa dopo la morte di Gesù: essa si sente inviata a chiamare tutti gli uomini all’obbedienza alla Parola che salva, testimoniando essa stessa questa obbedienza che l’ha salvata.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera, come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi sul lago e sulla barca di Pietro.c. Chiedo ciò che voglio: obbedire alla sua parola, ascoltare la sua chiamata ad essere salvato e annunciare questa salvezza agli altri.

d. Punti su cui riflettere:- la folla sta a riva per ascoltare Gesù- Gesù entra nella barca di Pietro- cala le reti- nella tua parola calerò le reti- il gran frutto concepito- allontanati da me peccatore- sarai pescatore di uomini- lasciato tutto, lo seguirono.

4. Passi utili

Sal 16; 23; Gn 12,1-9; Es 3,1-12; Nm 9,15-23; 1Sam 3; Is 6,1-8; Ger 1,4-12; Gv 21,15-19.

21. SIGNORE! SE VUOI PUOI PURIFICARMI!

(5,12-16)

12 E avvenne, mentre egli era in una città,ed ecco un uomo pieno di lebbra; vedendo Gesù,caduto sul volto,

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lo pregò dicendo:Signore!Se vuoi,puoi purificarmi!13 E stendendo la manolo toccò, dicendo:Voglio!Sii purificato!E subito la lebbra s’allontanò da lui! 14 Ed egli comandò a lui di non dirlo a nessuno;Ma, allontanandoti,mostrati al sacerdote,e porta per la tua purificazionecome prescrisse Mosè,in testimonianza per loro.15 Ora circolava sempre piùla parola su di lui,e convenivano folle numeroseper ascoltareed essere curate dai loro mali.16 Ora egli stavaretrocedendo nei desertie pregando.

1. Messaggio nel contesto

Pietro si era dichiarato “uomo peccatore” (v. 8). Gesù, invece di allontanarsi da lui, lo chiama a vita nuova. Infatti “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi” (v. 31s). Ora Gesù non è più solo. Ha chiamato altri con sé, perché ascoltino la sua parola di misericordia (6,27-38). Così diventeranno “figli dell’Altissimo” (6,35) come lui, l’ascoltatore perfetto del Padre che va ascoltato (cf. 9,35).In questo cammino di ascolto che ora si apre, Luca presenta due itinerari che si illuminano a vicenda.Il primo è per Israele, il popolo nato dall’ascolto, che conosce il proprio peccato di non ascolto che porta alla morte. In questa parte (5,12-6,49) vengono modulati i temi fondamentali cari ad Israele: purificazione, peccato, perdono, banchetto messianico e sabato definitivo, offerti al nuovo popolo che ascolta la rivelazione del Dio di misericordia, compiuta da Gesù con i fatti (5,12-6,19) e le parole (6,20-49).Il secondo è per tutti. Ha come principio la stessa parola che Gesù realizza in favore di pagani poveri e peccatori. Essa è come un seme che cresce e fruttifica, facendoci famigliari del Cristo, credi della stessa promessa di Israele (7,1-8,21).L’uomo diventa ciò che ascolta; l’ascolto della parola di Dio è il fondamento del regno di Dio. Ma l’uomo è incapace di ascoltare, è morto e peccatore per la sua disobbedienza.Come Dio aveva chiamato dal nulla tutte le cose, così Gesù chiama dalla morte alla vita: egli è la Parola vivente di grazia e di misericordia che rinnova l’uomo. Basta che sappia di essere peccatore come Pietro e invochi con il lebbroso: “Se vuoi, puoi purificarmi”. A questa invocazione Gesù

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risponde necessariamente: “Lo voglio”. Questa è la sua volontà sulla terra, la stessa del Padre celeste “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4).In questo brano si descrive questo cambiamento che produce l’incontro con Gesù.La comunità che legge vede nel lebbroso la propria esperienza di purificazione operata nel battesimo: il passaggio dall’uomo vecchio nel peccato e nella morte, all’uomo nuovo nella grazia e nella vita nuova. Si realizzano le “parole di grazia” che escono dalla bocca di Gesù e che portano la “buona notizia” della salvezza di Dio (4,22). Questa salvezza è per “ogni carne” (3,6), anche quella più devastata dalla morte.Con questo racconto inizia una serie di considerazioni sul passaggio dalla “legge” al “vangelo”, che per l’israelita è il fattore determinante della fede in Gesù Cristo Signore.La legge evidenzia il peccato e la morte, l’esclusione dalla santità e dalla vita; è la condizione di chi invoca la salvezza. Il vangelo è la buona notizia che Dio in Gesù giustifica il peccatore, lo libera dalla morte e gli dona una vita nuova. Sullo sfondo del racconto sta il miracolo di 2Re 5, rievocato da Gesù (4,27) per dire che la sua salvezza è per gli esclusi. Infatti “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (5,31). Come a dire che dalla salvezza si escludono solo quelli che usano la legge per presumersi giusti.

2. Lettura del testo

v. 12 : “in una città”. L’incontro del lebbroso con Gesù avviene in “una città”. Il successivo miracolo avvenne in “uno dei giorni” (v. 17). Vengono date le coordinate di spazio e di tempo del racconto di ciò che si verifica nell’“oggi” (v. 26) di chi lo ascolta. Infatti ciò che è avvenuto in “una” città, può e deve avvenire in ogni città; ciò che è avvenuto in “uno” dei giorni di Gesù, può e deve avvenire ogni giorno, qui e ora, per chi lo ascolta. Per sé un lebbroso non può stare in città: se ne starà solo, abiterà fuori dall’abitato (Lv 13,46). Ma forse, da Caino in poi, la città è abitacolo di lebbrosi solitari tutti inscatolati.

“pieno di lebbra”. L’uomo che si presenta a Gesù è pieno di impurità e di morte. È esattamente il contrario di lui, che uscì dal Giordano “pieno di Spirito santo” (4,1), cioè della vita di Dio. La lebbra è il vestito di colui che nel battesimo verrà rivestito di Cristo. La lebbra fa di lui un morto civile e religioso, che la legge esclude dalla società e dal culto. È il sommamente “impuro”, perché nella sua carne sfatta si manifesta l’avanzare della morte, che in modo visibile e inesorabile mangia la vita. Vedi tutte le prescrizioni che contro di lui prevede Lv 13. Se qualcuno gli si avvicina inavvertitamente, deve allontanarlo gridando: “immondo, immondo”. L’unica legge che il lebbroso è tenuto ad osservare è quella di escludersi dal consorzio umano e da ogni legge (cf. Lv 13,45). Pietro, quando cerca di allontanare Gesù, è proprio perché davanti a lui scopre la lebbra del proprio peccato.

“Vedendo Gesù, ecc.”. Il lebbroso vede Gesù come Gesù, che significa “il Signore salva”. Per questo si prostra e lo supplica. Se Levi sarà il primo che Gesù vede (cf. 5,27), il lebbroso è il primo che vede lui! Ciò che ci abilita a vedere il Salvatore e il Signore non è la nostra giustizia o santità, non la legge osservata, ma la nostra lebbra e il nostro male, che la legge non fa che evidenziare. Non ci accostiamo a Dio perché giusti e mondi, ma perché ingiusti e immondi, bisognosi di giustizia e di santità. Gli unici a chiamare Gesù per nome saranno proprio i lebbrosi (cf. 17,13), seguiti dal cieco (cf. 18,38) e dal malfattore (cf. 23,42).Gesù è infatti il Salvatore; il nostro male è l’unico titolo valido per accostarci a lui.

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“Signore! Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ogni uomo, immagine di Dio, è bisogno essenziale di lui. La sua miseria è supplica oggettiva a colui che è misericordia. Il lebbroso, come Pietro (v. 8), si prostra davanti a Gesù e ne riconosce il mistero di “Signore” e Salvatore. Il lebbroso può incontrare Gesù perché lui per primo gli è venuto incontro, gli si è fatto talmente vicino da prendere su di sé la sua lebbra. Isaia 53,3-5 descrive il volto del servo di JHWH come quello di un lebbroso, “percosso da Dio”. L’unico giusto si è fatto “maledizione per noi” (Gal 3,13) e “peccato in nostro favore” (2Cor 5,21), per esserci vicino e poter essere riconosciuto nella sua realtà di “JHWH salva”. Con il lebbroso, vediamo in Gesù quel volto di Dio che è tenerezza e compassione, che nessuno ha mai visto e dal quale riceviamo grazia su grazia. La sua supplica è fatta con fede semplice e assoluta, consapevole che il luogo della salvezza è la perdizione. Alla preghiera di Naaman il Siro, il re aveva risposto: “Sono forse Dio per dare la morte o la vita?” (2Re 5,7). Il lebbroso riconosce in Gesù il potere stesso di Dio.

v. 13: “stendendo la mano lo toccò, ecc.”. Gesù “stende la mano” verso di lui. È il segno dell’intervento salvifico di Dio (cf. Es 4,4; 7,19). Se il lebbroso lo vede e va a lui con l’occhio, Gesù viene a lui con la sua misericordia e stende la mano; quegli si prostra, lui lo tocca; quegli lo supplica, lui esaudisce. È importante il fatto che lo “toccò”. In Gesù l’uomo è realmente toccato da Dio salvatore. Questo contatto non avviene sulla base della bontà o dei meriti secondo la Legge. Per sé la Legge induce quasi ad allontanarsi da Dio, facendone vedere la lontananza. Il contatto è opera della sua grazia che tende la mano e tocca.Gesù tocca l’intoccabile: sfonda barriere e leggi, e raggiunge l’uomo nella sua debolezza. Ma chi tocca l’immondo, diventa immondo! Difatti Gesù con questo tocco si identifica con noi e si carica della nostra lebbra. Noi, che non possiamo toccare Dio dall’alto della nostra giustizia, veniamo toccati da lui nell’abisso del nostro male, nel quale è venuto a visitarci. Se il figlio cade nel pozzo, il padre scende per estrarlo. Gesù andrà “nei deserti” e finirà fuori delle mura (Eb 13,12), come il lebbroso.

“Voglio! Sii purificato!”. Gesù dichiara al lebbroso la sua volontà di salvarlo. È la stessa di Dio in cielo, che lui esegue sulla terra (cf. 5,32; 19,10), perché tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (1Tm 2,4). Solo Dio può salvare e lo vuole. Per questo ci è venuto incontro in Gesù. Quante cose noi vogliamo, ma non possiamo; oppure possiamo, ma non vogliamo! In Gesù Dio invece si rivela come identità tra potere e volere, per ciò che riguarda la nostra salvezza.Naaman il Siro, dopo sette immersioni nel Giordano, ne uscì con la carne fresca e nuova come quella di un bambino (2Re 5,14). È come l’esperienza battesimale: al tocco e alla parola di grazia di Gesù, il male scompare e l’uomo diventa nuovo. Il contatto con lui sana l’uomo, lo purifica dal peccato e dalla morte, la vera lebbra che lo esclude da Dio e dagli altri. Da morto per il peccato, si scopre vivo per Dio in Cristo; da peccatore si sente giustificato in lui (cf. Rm 6,8-11). La purificazione del battesimo è analoga a quella dalla lebbra: come il lebbroso non è più lebbroso, così realmente il peccatore non è più tale, se accoglie il dono di Cristo.Gesù non ha annullato la Legge - che è giusta! - e non ha rilasciato il lebbroso con la sua lebbra, dichiarando semplicemente superata la legge della separazione. In altre parole Dio cura il malato e non la malattia: non giustifica il peccato, ma il peccatore! Noi invece nel trascurare la legge, nel non tener conto della santità e della giustizia, vanifichiamo il vangelo stesso, dichiarando pura la lebbra e giustificando il peccato! Oggi è molto diffuso questo modo di vedere che non discerne più il bene dal male e che distrugge il senso della salvezza stessa! Dio invece odia il male, perché ama l’uomo che ne soffre.

v. 14: “Ed egli comandò a lui di non dirlo a nessuno”. Gesù impone al salvato il silenzio. È una traccia del segreto messianico, tipica di Marco, che Luca conserva. Questo rivela, sul piano storico,

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che Gesù non ricerca la pubblicità (questo distingue l’uomo religioso da quello mondano!). Sul piano teologico, rivela che quanto avviene sarà comprensibile solo dalla croce, quando sarà tolto ogni segreto. Ma solo per chi avrà fatto l’esperienza della propria lebbra e dell’incontro col volto di colui che l’ha assunta su di sé.

“mostrati al sacerdote, ecc.”. Gesù invia l’ex-lebbroso ai sacerdoti, tutori della legge, perché costatino, secondo la legge, che ciò che la legge non può fare, è avvenuto: mondare l’uomo dalla morte. Analogamente, nel brano successivo, gli scribi e i farisei costateranno “teologicamente” il perdono di Dio sulla terra, che nessuna legge può dare. La legge infatti può solo condannare il peccatore.Così tutti siamo messi sull’avviso di una presenza sconvolgente: c’è uno più grande di Mosè e della legge stessa. D’ora in poi il sacerdote non sarà più il custode della legge, che distingue tra puro e impuro. Nascerà il popolo sacerdotale, di persone purificate, che in Gesù hanno libero accesso a Dio.Nel racconto del lebbroso è cancellato il sospetto di Adamo che Dio sia geloso e si contrapponga a lui nella sua santità. È presentato un Dio che tocca l’uomo nella sua miseria, un Dio la cui tenerezza si espande su tutte le creature (cf. Sal 103,8; 145,8s) nella misura del loro bisogno. L’unica misura dell’amore è il bisogno dell’amato; la grandezza della misericordia è quella della stessa miseria.

v. 15: “Ora circolava sempre più la parola su di lui, ecc.”. La Parola si diffonde da quella città tutt’intorno; di orecchio in bocca e di bocca in orecchio, giunge fino agli uditori più lontani che sono i lettori del Vangelo di Luca, che siamo noi, ora!... Tutti da ogni città, noi compresi, sono invitati ad accorrere a lui per la forza centrifuga di questa parola su di lui che si diffonde. Nelle molte persone che accorrono “per ascoltare ed essere curate dai loro mali”, è da vedere tutta la folla di coloro che, udito il racconto, riconoscono, con la propria lebbra, il potere e la volontà che Gesù ha di liberarli e accorrono a lui per fare la stessa esperienza del lebbroso.È interessante l’accostamento tra “ascoltare” la parola di Gesù ed “essere curati”. L’ascolto della sua parola, il racconto del Vangelo, è la potenza stessa di Gesù che guarisce chi accorre a lui con la coscienza e la fede del lebbroso.

v. 16: “Ora egli stava retrocedendo nei deserti e pregava”. Gesù si ritira definitivamente nei deserti, come il lebbroso (Lv 13,45s). Ma non è solo: è presso il Padre in preghiera. Noi ci possiamo accostare a lui ed essere guariti solo mediante l’ascolto della parola potente di colui che, in comunione con il Padre, intercede per noi.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera, come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la città e il lebbroso che grida.c. Chiedo ciò che voglio: Signore, se vuoi, puoi purificarmi.

d. Punti su cui riflettere:- Il lebbroso- Signore, se vuoi, puoi purificarmi- Gesù stende la mano e lo tocca- Lo voglio: sii purificato- subito la lebbra si allontanò da lui

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- non dirlo a nessuno- circolava la parola- ascoltarlo ed essere guariti- stava nei deserti in preghiera.

4. Passi utili

2Re 5; Lv 13; Is 53,1ss; Sal 146

22. UOMO, SONO RIMESSI A TE I PECCATI TUOI

(5,17-26)

17 E avvenne,in uno di quei giorni,che lui stava a insegnaree stavano seduti farisei e maestri della legge, i quali erano venutida ogni villaggio della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme, e c’era una potenza del Signore perché lui guarisse.18 Ed ecco degli uominiche portano su un letto un uomo che era paralizzato, e cercavano di portarlo dentro e di porlo al suo cospetto.19 E, non trovando come portarlo dentroa causa della folla,saliti sul tetto,attraverso le tegolelo calaronoinsieme al lettuccioin mezzodavanti a Gesù.20 E, vista la loro fede, disse:Uomo,sono rimessi a tei peccati tuoi!21 E cominciarono a ragionaregli scribi e i farisei dicendo:Chi è costui,che proferisce bestemmie?

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Chi può rimettere peccati, se non solo Dio? 22 Ora riconosciuti Gesùi ragionamenti loro,rispondendo disse a loro:Perché ragionate nei cuori vostri?23 Cosa è più facile:dire: ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: destati e cammina?24 Ora, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha potere sulla terra di rimettere i peccati,disse al paralitico:A te dico: destati!e, sollevato il tuo lettuccio, cammina verso casa tua.25 E, all’istante, levatosi al cospetto loro,sollevato ciò su cui giaceva, s’allontanò verso casa sua, glorificando Dio.26 Ed estasi prese tutti quanti,e glorificavano Dioed erano pieni di timore,dicendo:Vedemmo paradossioggi!

1. Messaggio nel contesto

Questo brano, che inizia con “uno di quei giorni” e finisce con “oggi”, ci presenta in altro modo l’esperienza di riconciliazione portata da Gesù in uno dei suoi giorni, che la comunità cristiana rivive oggi nella remissione dei peccati, glorificando Dio.L’uomo, avviluppato, imprigionato e immobilizzato dai suoi mali, fallimenti e sensi di colpa, è finalmente liberato. Qui Gesù dichiara il perché del miracolo e di ogni sua azione in nostro favore: ci vuol far sapere che in lui è presente sulla terra il potere stesso di Dio, l’unico potere del Dio di misericordia: perdonare l’uomo e rifarlo nuovo. Perdonare è miracolo più grande che far risuscitare: il risuscitato muore ancora; il perdonato ha sperimentato un amore più grande di ogni male e della stessa morte.Oggi, invece del perdono del male c’è la sua giustificazione, il far finta che non ci sia. Questo è il male peggiore, che chiude definitivamente nei sensi di colpa. senza via d’uscita. Con buona pace della psicologia, non c’è alternativa, per chi avverte il male che c’è, tra perdono o senso di colpa.Il brano termina con la meraviglia, anzi l’“estasi” dell’uomo nuovo, che di continuo vive e prende coscienza del grande dono ricevuto nel battesimo: il perdono, che vince la paralisi del peccato. In questo la “gloria” di Dio (gloria = dóxa) diventa incredibile, paradossale (= pará-doxa!). Questo perdono è esteso a tutti e richiama quello che Gesù alla fine del Vangelo impetrerà presso il Padre per

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coloro che lo stanno crocifiggendo (cf. 23,34). La sua paralisi sul letto della croce sarà l’amore che ci libera dalla paralisi del peccato al quale la legge ci inchioda.Dopo la chiamata, l’uomo peccatore, pieno di morte e di lebbra (v. 12), diventa pieno di vita e di Spirito santo; da paralitico e immobilizzato che era, può camminare e andare verso la sua casa. Nei brani seguenti vedremo come, da “seduto” nel proprio egoismo, seguirà Gesù (v. 27ss); passerà così dal digiuno alla gioia del banchetto nuziale (vv. 33-39); giungerà quindi al sabato di Dio (6,1-5) e la sua mano sarà guarita per accogliere il dono della vita (6,6-11).Il tema dominante di tutto questo cammino è quello della riconciliazione e del perdono. È un preludio alla rivelazione del Dio di misericordia di 6,27-38. Lo sfondo è quello dell’irriconciliazione, della morte e del peccato. La legge, lungi dal togliere il male dell’uomo, lo evidenzia. È la sua funzione di “pedagogo” (Gal 3,24): convince tutti di peccato e tutti porta a Cristo, in modo che “dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20; 7,7).La legge, per sé, sarebbe la via di Dio (cf. Sal 119). Ma questa via diventa un letto di contenzione per l’uomo impossibilitato a camminare. Se il peccato è come la paralisi, la legge è come il letto - il luogo dove il peccato è contenuto e compreso come tale. Funzione indispensabile, per distinguere il bene dal male e desiderare la liberazione da questo. Tutto il brano si svolge all’interno della “casa”, dove Gesù sta, insegna e guarisce: è figura della chiesa, al cui centro c’è il Signore. Questa casa è quella che ha “come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (Ef 2,20). In lui anche noi, insieme con gli altri, mediante il battesimo, veniamo “edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,22; cf. 1Pt 2,4). La fede ci introduce in questa casa di perdono, di guarigione, di cammino e di lode (cf. 24,47ss). Alla sinagoga, luogo della legge, è subentrata questa casa, che fa camminare ogni uomo verso la “sua” casa - dove sta di casa - dalla quale da sempre è fuggitivo ed esule (cf. 15,13.28; Gn 3,8ss.).

2. Lettura del testo

v. 17: “in uno di quei giorni”. Come “in una città” (v. 12) corrisponde a “in ogni luogo” implicito nei vv. 15.17, così “uno di quei giorni” di Gesù corrisponde all’“oggi” del v. 26, il momento presente di chi ascolta la Parola (cf. 4,21). Quanto è accaduto in una città accade ovunque si accorre a Gesù per ascoltarne la parola ed esserne curati (v. 15); quanto è accaduto un giorno, accade “oggi” e ogni giorno, nel tempo della chiesa, che nell’ascolto si rapporta oggi e sempre a “uno dei giorni” di Gesù e ne viene attualizzata. Per questo Luca negli Atti descriverà due miracoli analoghi (At 3,1ss; 9,32ss).La scena si svolge nella casa in cui Gesù si trova, insegna e guarisce, dove le folle accorrono per “ascoltare ed essere curate” (v. 15).

“stavano seduti farisei e maestri della legge”. Anche dove Gesù insegna, farisei e scribi “stanno seduti” (cf. v. 27). Sembra circondato da un nugolo di questi giusti e maestri che giungono da “ogni villaggio della Giudea, della Galilea e da Gerusalemme”. È una genia che germina dappertutto, ed è di casa, seduta, anche dove non dovrebbe. L’accesso a Gesù è impedito proprio da loro, che stanno “seduti” come maestri della legge. La loro presenza servirà a dichiarare “teologicamente” il potere nuovo che c’è sulla terra.Mentre il loro è un potere di distinzione tra bene e male, mediante la legge che approva il giusto e condanna il peccatore, ora c’è il potere di Dio, quello di riconciliazione che perdona il peccatore... e anche il giusto, se si riconosce peccatore (vedi il c. 15). Mentre noi siamo abili nel condannare il peccatore, perché amiamo il peccato, Gesù ama e accoglie i peccatori, perché odia e rifiuta il peccato. Non è un medico che cura il male e uccide il malato; cura invece il malato e uccide il male.

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“c’era una potenza del Signore perché lui guarisse”. La potenza (dynamis) di Dio guarisce e perdona. È la forza della misericordia del Padre (Cf. 6,36), che vediamo all’opera in Gesù, mentre si prende cura dell’uomo e lo guarisce dai suoi mali.Il potere di Dio è a servizio dell’uomo. Proprio perché amore, ha sulla terra il volto del servo (Cf. 22,27). Come l’egoismo è “servirsi”, l’amore è servire l’altro.

v. 18: “un uomo paralizzato”. La paralisi è simbolo del peccato, che immobilizza l’uomo. Egli, di sua natura, è ciò che ancora non è, ha il suo fine fuori di sé. Per questo deve camminare “verso la sua casa”, se vuol raggiungere il proprio volto.Il paralitico rappresenta l’umanità incapace di muoversi verso il proprio fine, fallita perché immobilizzata, uccisa dal peccato che le impedisce di raggiungere la propria casa.

“cercavano di portarlo dentro”. Egli deve essere portato a Gesù da altri. Rappresentano la chiesa, testimone di Cristo a tutto il mondo (At 1,8), che annuncia a tutti la conversione e il perdono dei peccati (24,47). Mediante la sua fede porta gli altri a Cristo Signore.Una fede che non si fa carico dell’altro non è ancora tale. Gesù ha aperto e indicato nella fraternità il cammino al Padre comune; dove non c’è solidarietà responsabile del fratello, non c’è ancora conoscenza del Padre e del suo amore per tutti i figli suoi: la chiesa non raggiunge il numero “legale” di comunità di fratelli (ne mancano nove su dieci), se l’unico lebbroso guarito che torna a celebrare l’eucaristia non si sente responsabile degli altri nove (Cf. 17,17).La chiesa è la casa dove Gesù ancora parla e guarisce. Essa è formata da coloro che, avendo ascoltato la sua parola ed essendone stati guariti, sono in grado di testimoniare “oggi” tale salvezza di Dio a tutti gli uomini. Ma questi “credenti” che portano il paralitico, incontrano difficoltà a entrare nella casa per condurlo “davanti a Gesù”.L’accesso è impedito da un serrato accerchiamento di farisei e scribi. È forse allusione alla legge che chiude al vangelo chi in essa si rinchiude? È forse allusione alle difficoltà che incontrò da parte della legge l’ingresso degli esclusi, i peccatori e i pagani, nella chiesa (Cf. soprattutto At 15,1-35, part. v. 5)?Certamente è difficile per ogni uomo cogliere il perdono incredibile di Dio e vivere di esso come uomo nuovo. È tuttavia da notare che Gesù è in mezzo agli scribi e ai farisei, come il vangelo è al centro della Legge. Ciò che costituisce la difficoltà per raggiungerlo, è anche il luogo dove incontrarlo. Lì è contenuto come la noce nel suo guscio. Difatti la Legge stessa è indispensabile per capire il dono di Dio (Cf. Rm 7,7-13). Gli scribi e i farisei fanno capire il significato di ciò che accade, anche se non l’accettano (v. 21). Non è un caso! La Legge infatti è santa e giusta, e vuole che siamo santi e giusti: “Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2). Non potendo farci tali, perché siamo immondi e peccatori, ci fa riconoscere la nostra lebbra e la nostra paralisi, il nostro essere seduti e impossibilitati a camminare e quindi ci pone in condizione di comprendere e accettare la guarigione. In questo senso la legge stessa è il “pedagogo”, che porta a Cristo (Cf. Gal 3,24), il quale ci dona ciò che essa ci fa desiderare mostrandocene la mancanza.

v. 19: “lo calarono, ecc.”. Non c’è altro modo per raggiungere “la potenza di Dio che guarisce” che calare dal tetto, superando ogni barriera. Dal punto di vista umano, la barriera della Legge è invalicabile e nessun uomo può raggiungere la salvezza che sarebbe la giustizia della Legge. Può essere superata solo dall’alto, dalla grazia di Dio, che ci fa entrare al centro della legge, dove si trova Gesù, l’unico giusto che riconcilia tutti con Dio. La Legge è Dio al centro dell’uomo, ma noi fuggiamo da lui! Con Gesù invece l’uomo è al centro di Dio, sua legge di amore! Anche Pietro vide

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scendere dal cielo la tenda che conteneva ogni animale immondo (Cf. At 10,lss); ma lui non ne osava prendere, fino a quando Dio gli rivelò: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano” (At 10,15). Il peccatore sta al centro della chiesa, davanti a Gesù salvatore, non in forza della legge, ma proprio perché calato dall’alto, dalla grazia stessa di Dio che così vuole. La Legge che lo tiene immobile, è il letto che serve per calarlo “in mezzo”, davanti a Gesù!

v. 20: “vista la loro fede”. Gesù vede ciò che supera tutte le barriere: la fede dei portatori, la “loro” fede. Credenti riconciliati possono e devono portare l’uomo a Gesù e si fanno carico delle difficoltà che ci sono per incontrarlo nella casa dove lui sta, il cui accesso è sempre ostruito dalla legge... dei buoni!

“ Uomo, sono rimessi a te i tuoi peccati”. È la parola potente di perdono che salva. Il peccato è il fallimento dell’uomo. Egli, per paura e sfiducia, si è allontanato da Dio e si è nascosto a colui del quale è immagine. Ha così perso il proprio volto. Non è più se stesso. È alienato da Dio, quindi da sé, dagli altri e dalla natura stessa (Cf. Gn 3). Il peccato è porre l’io al posto di Dio: si rompe il rapporto vitale con lui, si perde la sorgente del proprio io e si scopre la propria radicale autoinsufficienza. “Stupitene, o cieli, inorridite come non mai... Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (Ger 2,12s). Da qui nasce la paura della morte e l’ansia della vita, l’accentramento su di sé e il tentativo, inutile e disperato, di salvarsi a tutti i costi: è l’egoismo, origine di tutti i mali. Così inizia la storia umana, come un crescendo di nascondimento, di non riconciliazione e di male a tutti i livelli. Il perdono dei peccati è riconciliazione con Dio, quindi con sé, quindi con gli altri e infine con la creazione stessa. Sì, perché l’uomo non la serve più come schiavo, ma ne usa a proprio servizio. È cambiato infatti il suo atteggiamento verso di essa: da fine, divinizzata e idolatrata, diventa mezzo e segno, dono di un amore ricevuto e dato. La morte stessa è vinta; essa non avvelena più la vita, perché non rappresenta più il nostro limite assoluto che ci distrugge, bensì l’incontro con l’amore assoluto da cui scaturiamo. È importante notare che il perdono è unilaterale. Per questo è difficile da accettare, perché noi gli preferiamo l’espiazione, pur di fare qualcosa. È come un morire per nascere a vita nuova. In esso infatti il rapporto non torna come prima: si pone a un livello di amore maggiore di quello che c’era prima del peccato (Cf. 7,36-50). Se l’amore è dono, nel peccato sperimentiamo il per-dono, cioè il superdono di un amore più grande e certamente gratuito, perché non meritato. Così si toglie all’amore ogni ambiguità, facendone vedere il carattere di grazia e dono non dovuto. Un amore che non perdona non è amore. Per questo Dio si rivela pienamente come dono di amore nel perdono: infatti “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò le loro iniquità” (Ger 31,34).Colui che è perdonato diventa creatura nuova: il suo rapporto vitale con Dio non solo è ripreso, ma è più grande di prima, perché si scopre più amato. Infatti “là dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20). Così si supera il circolo vizioso di colpa/espiazione che blocca l’uomo nella paralisi dell’autodistruzione, perché “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” e “davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri” (1Gv 3,19.20), fino a quando sperimenteremo che l’amore perfetto avrà scacciato ogni timore (cf. 1Gv 4,17s).

v. 21: “Chi è costui, che proferisce bestemmie?”. La legge non perdona, bensì evidenzia il peccato e fa costatare all’uomo la perdizione e il fallimento. Il perdono, opera esclusiva di Dio, è una “bestemmia” per qualunque legge, perché è contro la sua essenza. È utile notare che ci sono leggi di vario tipo, laico e religioso, ateo o meno; ogni cosa e creatura che assolutizziamo, in campo sociale o personale, fisico o psicologico, assume il valore di Dio, un dio impersonale, un idolo che detta legge

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spietata nei vari ambiti della vita umana. L’uomo non è mai ateo. È piuttosto idolatra. Soltanto Lucifero non è né ateo né idolatra, bensì espressamente egolatra; l’uomo invece è sufficientemente stupido per esserlo, ma non sufficientemente intelligente per riconoscerlo. Il fariseo, religioso o laico, chiuso nella sua reale (?) o presunta giustizia, sapendo ignora, confessando nega, testimoniando smentisce (Pier Crisologo, Sermo 50,3-6). È l’unico in grado di capire, confermare e testimoniare la novità assoluta del perdono, indeducibile dalle sue premesse. Appunto per questo preferisce ignorare, negare e smentire ciò che lo mette in questione. Non accetta il dono di Dio e resta intrappolato nelle sue sterili discussioni interiori, che Gesù innesca e svela. Egli, in quanto “segno” della misericordia di Dio, contraddice ogni male ed è da esso contraddetto (cf. 2,33s). L’uomo esce da questa contraddizione interiore, che Gesù mette a nudo, solo se accetta il suo dono, l’amore e il perdono di Dio, offerti per grazia, da colui che è amore. Questa rivelazione è la guarigione dal peccato originale stesso e pone l’uomo in un gradino più alto dell’Eden: il suo giardino diventa il cuore di Dio, dove si accorge di abitare per sempre. Cade il sospetto e la paura di lui, origine di ogni peccato e nasce l’uomo nuovo, il nuovo Adamo che non solo rispecchia finalmente il suo volto, ma si identifica con lui in unione di amore.

v. 23: “è più facile dire: ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: destati e cammina?”. Queste parole alludono al battesimo, in cui l’uomo risorge e cammina in novità di vita, perché ha accolto il dono di Dio. Il dilemma che Gesù presenta è facile da risolvere, soprattutto per i farisei: è più difficile perdonare il peccato. Anzi, è impossibile e blasfemo presumerlo da parte di un uomo. Per un lettore pagano invece è assurdo e impossibile che un paralitico cammini. Comunque Gesù fa le due cose impossibili: guarisce il corpo e perdona il peccato. Il fatto visibile, per sé più facile, è segno di quello invisibile. Gesù compie ciò che è assurdo per il pagano e blasfemo per il fariseo e per tutti impossibile.

v. 24: “il Figlio dell’uomo ha potere sulla terra di rimettere i peccati”. Il miracolo difficile della guarigione è compiuto per mostrare il miracolo ben più grande dell’impossibile riconciliazione. Come dice: “destati!” a chi è paralitico e questi si alza, così la sua parola di perdono risuscita il cuore morto e risveglia un uomo nuovo. Qui Gesù dichiara apertamente per l’unica volta il senso di tutti i suoi miracoli: sono segni esterni della riconciliazione che lui ha portato. Sono i meravigliosi frutti di un albero ancor più meraviglioso, che ora Gesù ha piantato “sulla terra”. Sono insieme i frutti dell’albero della vita e della conoscenza, prima impossibili da gustare insieme (cf. Gn 3,24). Con lui è presente “sulla terra” la forza stessa di Dio che sana, il potere che rimette i peccati. L’uomo si è fatto simile a Dio davvero, perché Dio si è fatto Figlio dell’uomo, radice di ogni bene. Caro salutis cardo!

“destati! e, sollevato il tuo lettuccio, cammina verso casa tua”. È l’ordine di Gesù al paralitico immobile e muto. Il letto, che ti teneva e ti portava nel tuo male simbolo del male stesso, pur essendo un bene - ora tu stesso, guarito, lo porti. Tu che prima giacevi paralitico in esso, ora lo porti sulle tue spalle come un giogo leggero. Così puoi “camminare verso la tua casa”, quella verso cui non avevi mai camminato, ma che è la tua, perché è la casa del Padre con cui sei riconciliato nel perdono. Inizia così il ritorno dell’uomo a se stesso, al proprio volto da cui era fuggito.

v. 25: “E, all’istante, levatosi, ecc.”. Alla parola “destati” il paralitico “all’istante” (cf. 8,55.44.47) “si leva”. Sono le due stesse parole usate per la risurrezione di Gesù. Colui che è stato posto davanti agli occhi di Gesù come paralitico, ora è in grado di camminare davanti agli occhi di tutti e di andare verso la sua casa “glorificando Dio” e portando quel letto che gli ricorderà sempre il male da cui è stato salvato.

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È l’esperienza del battezzato, che ha incontrato lo sguardo e la parola di Gesù: è stato perdonato, è risorto a vita nuova e può camminare verso Dio davanti a tutti, cantando la sua riconoscenza e portando liberamente ciò che prima portava lui come prigioniero. Ora porta il letto, perché realmente non è più peccatore: è veramente giusto perché giustificato, pieno di grazia perché graziato; ora cammina davvero secondo la via di Dio.

v. 26: “ Vedemmo paradossi oggi”. Al canto del singolo fa eco il canto corale della chiesa che si allarga a tutti gli uomini. Anche costoro, presi da “estasi” (cf. 8,56), sono posti fuori di se stessi e da ogni loro prospettiva e lodano Dio dicendo: “Vedemmo paradossi oggi”. L’accento è posto sul finale “oggi”, che richiama: “uno dei giorni” del versetto iniziale. Noi viviamo “oggi” “uno dei giorni di Gesù”: il giorno della riconciliazione. Il brano si riferisce all’esperienza attuale di riconciliazione nella comunità che ha ascoltato la parola del Signore e ne è stata guarita. La storia del paralitico si fa storia del lettore stesso: in ciò che vede e sperimenta, nell’ascolto di Gesù che perdona, è giunto l’“oggi” in cui “vede cose paradossali”, che mai avrebbe supposto. Ora la dóxa di Dio che tutti cantano “glorificandolo”, diventa pará-doxa: nell’abisso del perdono Dio stesso, che è dóxa, gloria d’amore senza fine, va oltre se stesso e diventa “pará-doxa”.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la casa di Cafarnao dove Gesù insegna e tutti accorrono.c. Chiedo ciò che voglio: accogliere ora il perdono di Gesù e guarire dalle mie paralisi.

d. Punti su cui riflettere:- Gesù che insegna e guarisce- il paralitico- i suoi portatori scoperchiano il tetto- ti sono rimessi i tuoi peccati- costui proferisce bestemmie- il potere del Figlio dell’uomo sulla terra- andò a casa sua- vedemmo paradossi oggi.

4. Passi utili

Sal 32; 51; 103; Is 1,10-19; 54,1-10; Ger 31,31-34; Ez 36,24-32; At 3,1-10; 9,32-35.

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23. NON SONO VENUTO A CHIAMARE I GIUSTI BENSÌ I PECCATORI A CONVERSIONE

(5,27-32)

27 E dopo queste cose, uscì e guardò un esattore di nome Levi seduto all’esattoria, e disse a lui:Segui me!28 E lasciata indietro ogni cosa,levatosi,seguiva lui.29 E fece un’accoglienza grande Levi a luinella sua casa, c’era molta folla di esattori e di altri i quali erano sdraiati con loro.30 E borbottavanoi farisei e i loro scribi, dicendo ai suoi discepoli:Perché mai con gli esattorie peccatorimangiatee bevete?31 E rispondendo Gesù disse loro:Non i sani hanno bisogno di medico, bensì quanti stanno male.32 Non sono venuto per chiamare i giusti, bensì i peccatori a conversione.

l. Messaggio nel contesto

Il racconto narra due fatti: Gesù chiama Levi (vv. 27-28) e mangia con i peccatori (vv. 29-30; cf. 7,34; 15,1; 19,7). Il perché è spiegato con un suo detto che dichiara la sua missione proprio come chiamata dei peccatori al banchetto del Padre (vv. 31-32).Levi è “seduto”, come i giusti farisei (cf. v. 17) e si “leva” come il paralitico alla voce del Signore. La sua chiamata è la sesta opera potente di Gesù in Luca. Allude alla nuova creazione, che giunge al sesto giorno: la creazione dell’uomo nuovo, che entrerà poi nel settimo giorno - il banchetto e la festa di vita con Dio. Si nota un itinerario di riflessione sull’esperienza battesimale che il discepolo ha già alle spalle. Dopo l’esorcismo (4,31ss) e il miracolo del servizio (4,38s), c’è la chiamata “al largo” sul mare (vv. 1ss): si ripensa alla vocazione cristiana già avvenuta di cui si avvertono i dubbi, l’infruttuosità e l’indegnità; essa ritrova la sua forza primigenia nell’obbedienza alla parola del Signore Gesù. Segue il

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racconto del lebbroso mondato: si ripensa alla purificazione battesimale, quando, obbedendo alla chiamata di Gesù e toccati da lui che ci assimila a sé, siamo divenuti creature nuove, purificate e piene di vita là dove prima eravamo pieni di lebbra e di morte. Questa novità “paradossale” di vita è una remissione dei peccati, una riconciliazione, la fine della paralisi e la ridonata capacità di camminare verso casa (vv. 17ss). Ora si esplicita la condizione di questa chiamata: riconoscersi peccatore, lebbroso e paralitico. Come il pescatore Pietro è chiamato mentre si riconosce peccatore (v. 8), così ogni peccatore è chiamato e perfino ogni giusto, a condizione però che non si senta tale (v. 3 1 s).Dopo la chiamata e la risposta, ci troviamo nella “casa”, verso cui va il peccatore riconciliato. È la nostra stessa casa che finalmente accoglie e ospita il Signore e in cui si banchetta insieme. È dove noi, prima esuli, siamo di casa e viviamo con lui e lui con noi, noi per lui e lui per noi, secondo il comando di Dt 6,4ss. La novità di vita che il battesimo comporta verrà descritta con quattro simboli: il banchetto (vv. 28-32), lo sposo (v. 33ss), il vestito nuovo (v. 36) e il vino nuovo (vv. 37ss). Sono i segni della venuta del sabato definitivo, inaugurato da Gesù nell’oggi di Cafarnao (cf. 4,21). Noi vi entriamo nell’oggi della riconciliazione (cf. 5,26), che ci introduce nel banchetto messianico, la festa comune dell’amore di Dio e dell’uomo che finalmente si uniscono. È la gloria che fa nuovo il mondo.Questo banchetto è una chiara allusione all’eucaristia. Una volta mondati e riconciliati per il battesimo, giungiamo alla casa in cui siamo commensali con il Signore: ospitiamo colui che ci ha accolti, consumiamo insieme il cibo e viviamo l’uno dell’altro come l’uno per l’altro. Ma con l’ex-peccatore Levi ci sono a mensa altri peccatori! Il fatto offre l’occasione per rispondere a un interrogativo della chiesa di Luca e di sempre: come comportarsi coi peccatori? Escludere o ammettere alla mensa coloro che consideriamo non perfetti? Ricordando l’atteggiamento di Gesù verso i peccatori, la chiesa prende coscienza di non essere un’accolta di puri che esclude gli impuri. È invece una fraternità di purificati e assolti, aperta ai peccatori. Gesù ci ha purificati e assolti quando eravamo impuri o peccatori (cf. Rm 5,6ss) e si è invitato a banchetto con noi (cf. 19,5). Così la chiesa, sul suo esempio, evita di diventare una setta di puri, separati farisei e scopre quale deve essere il suo atteggiamento verso i peccatori: invece di oggetto di esclusione diventano termine di missione, perché tutti si convertano e siano salvati.Sono “fratelli” per i quali Gesù è venuto e ai quali siamo mandati. L’esclusione diventa missione, perché tutti si convertano e camminino verso la casa del Padre. Il cristiano è cosciente di vivere in un mondo di peccato. Si sente egli stesso un peccatore che vive di perdono e misericordia. Per questo accoglie i fratelli, come si sente anche lui accolto dal suo Signore.

2. Lettura del testo

v. 27: “guardò Levi”. È la prima persona del Vangelo della quale si annoti che Gesù la guarda (al v. 20 vede “la loro fede”). Lo spazio vitale dell’uomo è lo sguardo dell’altro. Lo accoglie o lo rifiuta, gli lascia o gli toglie il respiro, lo ama o lo giudica: l’uomo vive o muore dello sguardo dell’altro. L’occhio è organo del cuore, sua manifestazione efficace: l’occhio buono fa buono. l’occhio cattivo fa cattivo; l’uno fa vivere, l’altro morire. Per questo, alla fine di ogni opera di creazione, la Genesi conclude: “E Dio vide che era buona” e, dopo la creazione dell’uomo, afferma: “E Dio vide che era cosa molto buona” (Gn 1,31). Il suo occhio, cioè il suo cuore, è la sorgente di tutto. Col primo sguardo Dio ha fatto l’oggetto del suo amore; con lo sguardo di Gesù, dopo lunga ricerca, lo trova: ora finalmente, in lui, incontriamo l’occhio e il cuore di colui che ci ama come siamo. E siamo perché ci ama. Dice s. Francesco: “Quantum unusquisque est in oculis tuis, tantum est et non amplius”. Il mio essere è essere percepito, o, meglio, visto da lui! Il suo occhio trova riposo solo quando incontra i più lontani, piccoli e peccatori, perché l’occhio va dove il cuore l’ha preceduto. Gesù vive ciò che narra di

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Dio, anzi, narra ciò che vive come Dio, quando parla della donna, del pastore e del padre che hanno perso rispettivamente la dracma, la pecora e il figlio (c. 15). Come è la Parola della bocca del Padre, così è la luce del suo occhio che ne lascia trasparire il cuore. È venuto in cerca di ciò che era perduto (19,10) e non può non vederlo quando lo incontra (cf. 19,5b); è venuto apposta per incontrarlo e deve rimanere a casa sua (19,5b), come deve essere nelle cose del Padre suo (cf. 2,49). Il Padre è infatti di casa solo presso il figlio più lontano.Levi ci viene descritto mentre è “seduto” a contare i suoi soldi. È la situazione di peccato, la paralisi dalla quale la grazia lo salverà. Anche Pietro fu chiamato a seguirlo quando si riconobbe peccatore (v. 8). All’obiezione e perplessità dei peccatori che lo incontrano e lo vogliono allontanare da sé perché indegni (cf. v. 8), Gesù risponde perentoriamente con l’invito ad avvicinarsi definitivamente a lui nel suo cammino.

“Segui me”. La sua proposta rende capaci di risposta. Come la prima parola di Dio ha chiamato dal nulla tutte le cose, così la sua parola ultima e definitiva chiama a una nuova vita di intimità con lui. Con la prima, che è l’Alfa, il Padre pose il mondo e l’uomo fuori di sé; con l’ultima, che è l’Omega, lo riporta in sé, nel Figlio del suo amore che è il principio e il fine di tutto. Questa Parola ci fa esistere come uomini liberi, suoi figli e interlocutori, proprio dicendoci di “seguire” il Figlio. L’essenza del cristianesimo non è una dottrina o una illuminazione, ma la persona di Gesù. La fede è un paio di piedi per andare dietro a lui nel cammino verso il Padre, un paio di orecchi e di occhi per udirlo e vederlo, in modo da seguirlo, un paio di mani per “toccarlo”. L’occhio che incontra il suo sguardo è la nostra fede, il piede che segue le sue orme è la nostra speranza, le mani che lo toccano nell’ultimo fratello sono la nostra carità.La parola di Gesù “segui me” è la nuova parola creatrice. Essa restituisce l’uomo a se stesso e lo riporta al cospetto di colui del quale è immagine e somiglianza. Per questo l’uomo non può seguire un altro uomo, ma solo Dio e la sua parola. Infatti conosciamo bene dove porta il cammino dell’uomo! Il cammino di Gesù invece porta altrove. Lui è la via, la verità e la vita: la verità che si è fatta via per venirci incontro e portarci alla sua vita. Per questo lo seguiamo.

v. 28: “lasciata indietro ogni cosa, levatosi, seguiva lui”. Levi abbandona tutto, quindi “si leva” (= risorge) per seguirlo. Lasciar tutto è la condizione per seguirlo. Decisione radicale, ma indispensabile. A un bivio non si possono seguire due strade: “Guai al peccatore che cammina su due strade” (Sir 2,12). Levi lascia la propria via di menzogna e di morte, che lo tiene seduto e immobile, simile al suo idolo che ha piedi e non cammina (cf. Sal 115,7). Il suo non è un atto stoico di rinuncia. È frutto della “grande gioia” di chi ha scoperto il tesoro nel campo, di chi ha trovato la “perla preziosa” (cf. Mt 13,44ss); è l’essere stati conquistati da Cristo Gesù (Fil 3,12). Levi si alza e lo segue per conquistarlo, perché è stato conquistato da lui. La sua via diventa anche la nostra, fino a quando lui stesso non si fa nostra vita.Mentre di Pietro e degli altri si dice che “lo seguirono” (5,11), qui, secondo molti codici, si dice che “lo seguiva”. Là si indica l’azione netta, nel suo inizio; qui, con l’imperfetto, si indica un’azione continuata e progressiva. La sequela di Levi, che pure ha un inizio netto come quella di ogni altro, è anche un cammino dinamico, dapprima forse meno agile. Lo stacco dal male e l’adesione al Signore è un crescendo continuo.Sicuramente anche il paralitico, dopo la guarigione, avrà camminato con qualche incertezza; certo non con quella forza e disinvoltura che gli darà l’esercizio. L’uomo, dove non arriva volando, arriva zoppicando. Peraltro, come è certo che non vola, è sicuro che zoppica! Luca introduce così il tema seguente, quello del pasto con i peccatori.

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v. 29: “fece un’accoglienza grande Levi a lui nella sua casa”. Levi ha ora trovato la sua casa dove accogliere il Signore. Inizia il ricevimento: il Signore che lo chiama, viene invitato e, da invitato, diviene colui che lo accoglie e lo accoglie proprio nell’essere da lui accolto. Mangiano insieme. Mangiare è quell’atto necessario alla vita che i fratelli fanno insieme, perché appunto hanno in comune la stessa vita. Il regno di Dio è paragonato spesso a un banchetto. È la realizzazione del banchetto escatologico, l’incontro stesso con Dio (cf. Is 25,6-10). È qui adombrato il banchetto eucaristico, dove si consuma la nostra commensalità con Dio e diventiamo una famiglia unica con lui. Gesù ammette a questo banchetto esclusi e peccatori. La sua comunità conviviale non è riservata ai “puri”. Anzi, proprio questi rifiutano di parteciparvi e brontolano.

v. 30: “E borbottavano i farisei” (cf. 7,36ss; 11,38; 15,ls.28ss). Se Gesù fosse un peccatore, nulla da eccepire: sta con i suoi simili! Ciò che scandalizza i farisei di tutti i tempi è che Gesù è giusto; quindi non è giusto che condivida il cibo con i peccatori! Che diritto hanno questi di sedere alla mensa insieme ai giusti? I farisei non possono capire, in quanto giusti, che la salvezza è dono dell’amore di Dio e non merito dell’uomo. L’amore meritato infatti non è più amore, bensì “meretricio”!L’amore è sempre dono. Il giusto che vuole guadagnarlo con la sua giustizia, ed esclude gli ingiusti senza meriti, mostra di trattare Dio come prostituto. Questo è l’unico peccato che è direttamente contro di lui che è amore, quindi dono e grazia. Ciò che salva il giusto non è il “suo” amore per Dio, ma l’amore gratuito di Dio per lui. Gesù mangia con i peccatori, condivide con loro la vita e rivela il suo amore gratuito. Il principio della salvezza non è il nostro digiuno per lui, bensì il suo mangiare con noi. Siamo salvi perché lui ci viene incontro e condivide la nostra vita. La commensalità col Signore quindi, più che frutto della salvezza, ne è il principio. L’eucaristia infatti è l’azione stessa con la quale Dio salva il mondo. Come ne è il coronamento, così è anche il principio della salvezza.Questo vuol dire che, come il medico cura i malati e non i sani, così la commensalità col Signore, vera medicina di vita, è per i peccatori che accolgono il suo invito a convertirsi, e non per i giusti.Gesù non solo mangia, ma anche “beve” insieme, a differenza del Battista che digiuna e non beve vino (cf. 1,15). È giunto il tempo della misericordia divina, il dono della terra promessa, dove ormai l’uomo gioisce nel riposo e nella festa.La domanda dei farisei non è posta a Gesù, ma ai discepoli. Questo sta a indicare che questa domanda era posta ai discepoli all’interno della comunità. Essa era forse tentata da tendenze farisaiche, con il pericolo di diventare una setta di puri, dimenticando di essere una comunità aperta a tutti, fatta di peccatori perdonati proprio quando erano ancora peccatori (cf. Rm 5,6ss).I discepoli rispondono alla questione ricorrendo al Gesù storico. Questo è il metodo corretto di risolvere i problemi che si pongono nella comunità: la risposta viene illuminata da ciò che il Signore ha fatto e detto. Per questo ne custodiamo gelosamente il ricordo, come norma di vita. La sua vita è via per la nostra vita.

v. 31: “Non i sani hanno bisogno di medico, ecc.”. In questa prima parte del suo detto Gesù dichiara la verità dell’uomo, malato e peccatore e la verità di Dio, che è medico (cf. Sal 103,3s; Os 6,1; 7,1; Is 19,22; 30,26; 61,1; Ger 17,14; 30,17; 33,6).

“Non sono venuto per chiamare i giusti, bensì i peccatori a conversione”. Dove c’è il medico si accolgono i malati per guarirli; dove c’è Dio si accolgono i peccatori per donare loro una vita nuova. Avviene un capovolgimento: gli esclusi dal banchetto sono gli invitati, destinatari della missione di Gesù; quelli che ritengono di averne diritto, proprio perché e finché lo ritengono, ne sono esclusi. Questo non è capriccio, ma necessità: Dio infatti è amore e i giusti se ne escludono perché lo distruggono volendo comperarlo. Tutto il c. 15 di Luca è rivolto ai giusti perché riconoscano questo

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loro grande peccato e, sentendosi peccatori, possano finalmente accogliere la misericordia. È il messaggio dei libro di Giona, vertice di tutti i profeti. Il paradosso è che, mentre il peccatore va verso il Padre che gli offre il banchetto, il giusto se ne allontana, anche se il Padre esce a invitarlo (15,25ss).Per questo anche la chiesa, vincendo le tendenze farisaiche, deve considerarsi una comunità di disgraziati che sono graziati dal Signore. Se partecipano alla sua grazia, non possono fare a meno di esercitare grazia nei confronti degli altri disgraziati. La chiesa continua la stessa opera di salvezza del suo Signore di cui vive e mangia. Contro facili tentazioni di lassismo (cf. Rm 6,1), si aggiunge che il peccatore è chiamato “a conversione”, non a continuare a peccare. Questa conversione è possibile perché il Signore per primo si è convertito a noi peccatori, ci ha mostrato il suo volto e ci ha donato se stesso. Qui le radici della nostra vita trovano la loro linfa. È interessante notare che nel c. 5 si parla sette volte di peccati e di peccatori: sette volte siamo amati e perdonati dal Signore che nel battesimo ci ha chiamato all’intimità di vita con lui e al suo banchetto. È quindi chiaro anche quale deve essere il nostro atteggiamento verso i peccatori: mangiare e vivere con loro, se no non possiamo vivere con noi stessi. Ora lo possiamo, in forza di colui che, pur non conoscendo peccato, fu fatto peccato in nostro favore (2Cor 5,21).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Levi seduto alla gabella e poi in casa sua.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscermi peccatore, amato e chiamato a convertirmi alla grazia del Signore da ricevere e da accordare.

d. Punti su cui riflettere:- guardò un esattore- segui me- lasciata ogni cosa, lo segue- Gesù mangia con gli esattori e peccatori- non sono venuto a chiamare i giusti bensì i peccatori a conversione.

4. Passi utili

Sal 139; 145; 147; Giona; Is 25,6-12; 55,1ss; 2Cor 5,21; Gal 3,13.

24. I TUOI DISCEPOLI MANGIANO E BEVONO

(5,33-39)

33 Ora quelli dissero a lui:I discepoli di Giovannidigiunano spesso

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e fanno preghiere,similmente anchequelli dei farisei:i tuoi, invece,mangianoebevono!34 Ora Gesù disse a loro:Forse potetefar digiunarei figli del talamomentre lo sposo è con loro?35 Ma verranno i giorni in cui sarà tolto via da loro lo sposo, allora digiuneranno in quei giorni.36 Ora diceva anche una parabola a loro:Nessuno strappada un vestito nuovo una pezza per rappezzare un vestito vecchio; se no certamentee si strapperà il nuovoe la pezza nuovanon armonizzerà col vecchio.37 E nessuno gettavino giovane in otri vecchi, se no certamente il vino giovane romperà gli otri, ed esso stesso si spanderàe gli otri saranno persi.38 Ma:vino giovanein otri nuovibisogna gettare!39 E nessuno,bevuto il vecchio, vuole il giovane; dice infatti:Il vecchio è buono!

l. Messaggio nel contesto

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Gesù ha compiuto sei opere: con la sua parola ha vinto il nemico, principio di decreazione e origine del male (4,31ss); ha poi guarito la suocera (4,38s) e resa feconda la sterilità dei discepoli (5,1ss); ha mondato il lebbroso (5,12ss) e rimesso in piedi il paralitico (5,17ss); infine ha alzato Levi il peccatore (5,27ss). È l’esperienza della nuova creazione che si è compiuta nel battesimo. Essa culmina nel peccatore riconciliato e restituito a se stesso. Ma la creazione nuova non finisce il sesto giorno. Ha il suo compimento nel settimo, in cui Dio stesso entra in comunione di vita con l’uomo. Luca, che inizia con la proclamazione dell’anno giubilare (4,16ss), che avviene dopo sette settimane di anni! - descrive sette sabati di attività di Gesù (4,16ss; 4,31ss; 6,1ss; 6,6; 13,10ss; 14,1ss; 23,54ss). La sua attività è la perfezione del sabato, compimento di tutta l’opera di Dio in Dio: nella storia di Gesù Dio è perfetto nelle sue opere e le sue opere sono perfette in lui.Il battezzato vive in quest’anno giubilare, che si realizza “oggi” nell’orecchio di chi ascolta la sua parola (cf. 4,21). Obbedendo alla sua parola, vive del cibo di Dio e partecipa al banchetto escatologico (Is 25,6-10). Dio è suo cibo e sua vita: è il giorno delle nozze, del vestito nuovo e del vino nuovo!Questo brano serve a far prendere coscienza al battezzato del suo stato nuovo di vita. Esso è descritto nei termini più trasparenti all’esperienza umana: cibo e vestito, necessari alla vita; amore e vino, necessari perché tale vita sia umana.Il brano è giocato sulle contrapposizioni digiunare-pregare, mangiare-bere e vecchio-nuovo, che hanno il loro fulcro nell’assenza/presenza dello sposo. Con questi termini si esprime il passaggio dall’economia antica della legge e della promessa a quella nuova del vangelo e del compimento. Inizia l’era del banchetto messianico. Se il mangiare indica la vita, le nozze, il vestito e il vino nuovo indicano la qualità di questa vita nuova.Si può leggere in questo brano una risposta della prima comunità dei credenti alle tendenze farisaico-battiste sorte al suo interno. Esse rischiavano di snaturare il significato profondo del vangelo. A questi problemi, posti ai suoi discepoli, risponde Gesù direttamente con il suo comportamento e con la sua parola.

2. Lettura del testo

v. 33: “I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere... i tuoi invece, mangiano e bevono”. L’obiezione è mossa dai farisei e dai loro teologi (cf. v. 30), che inglobano nella loro posizione anche i discepoli del Battista. I farisei sono legati alla legge, questi ultimi alla promessa. Tutti rivolti al passato i primi e al futuro i secondi, non possono accorgersi del “presente”, l’“oggi” in cui Dio dona la salvezza. Per questo “digiunano e supplicano”, sono cioè al presente morti e privi di salvezza.È utile richiamare il significato del digiuno. Se il cibo è vita, il digiuno ne è la privazione: è morte. Come pratica religiosa è una presa di coscienza della creaturalità e del proprio limite: l’uomo ha la vita, ma anche la perde; non è lui la vita, ma solo la riceve da Dio. Essa non è nelle sue mani. Con il digiuno l’uomo riconosce la vita e i beni della vita come cosa non propria, come dono. Questo è il fondamento di un rapporto corretto con Dio, con se stessi, con gli altri e con le cose. È il gesto più alto di libertà della creatura, che consiste nel riconoscere la propria verità senza mentire.Similmente la “supplica” (déésis), che è la forma prima di preghiera, è sempre invocazione di qualcosa che non si possiede e di cui si ha bisogno.Unita spesso al digiuno, esprime la fame e la sete di Dio. La mancanza essenziale dell’uomo, che il digiuno esprime con il corpo, la supplica l’esprime con lo spirito. Sono quindi due espressioni fondamentali dell’uomo, unico animale che è bisogno di vita e di Dio, perché unico animale cosciente del proprio limite e in cerca di senso.

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Nel vangelo digiuno e supplica sono superati nel banchetto e nel rendimento di grazie. Ciò che prima era a livello di bisogno, ora è a livello di soddisfazione: al digiuno subentra il pane e il vino, al lamento della supplica la danza delle nozze! Questo è il contenuto stesso della “buona notizia”: il Signore si è donato a noi definitivamente in Gesù. In questa luce si capisce perché i discepoli “non digiunano e non supplicano”, ma sostituiscono ogni pratica religiosa col “mangiare e con il bere”, con l’eucaristia, lode perfetta per il dono ricevuto dal Padre e a lui riportato come sorgente. La salvezza non è più pretesa di un passato o attesa di un futuro; è dono presente di cui godere e ringraziare; è novità di vita e pane che si mangia, è pienezza di amore e vino che si beve. Ciò che il passato indicava e il futuro prometteva, è qui ora in Gesù. I suoi discepoli, invece di “digiunare e pregare”, “mangiano e bevono”. Se è chiara la contrapposizione digiunare/mangiare, non è altrettanto evidente quella supplicare/bere. L’uomo è sete di Dio; la supplica esprime questa sete. Gesù la soddisfa pienamente (cf. Gv 4,10; 7,37) con il suo corpo e il suo sangue. Inoltre il vino e la sua ebbrezza sono simbolo dello Spirito, dono del quale la supplica esprime il bisogno (cf. 11,13; At 2,15ss). Quindi alla preghiera di bisogno, si sostituisce la gioia e il ringraziamento per l’esaudimento.

v. 34: “lo sposo è con loro”. Gesù dice il motivo di questa sazietà ed ebbrezza di vita concessa ai discepoli. Non si tratta di un banchetto qualunque: è il banchetto in cui si celebra l’unione tra Dio e l’uomo. In Gesù l’umanità consuma le nozze con Dio, lo sposo. Le nozze sono uno dei simboli preferiti nell’AT per esprimere il rapporto tra l’uomo e quel Dio che gli ha dato come primo comandamento: “Ascolta!... amami” (cf. Dt 6,4s; vedi Gn 1,27 e Gn 2 riletto da Gv 19,25-37; il Cantico dei cantici; Osea; Ez 16; Is 61,10-62,12; Ap 22,17). Questa immagine molto umana ci permette di conoscere cosa sia Dio per l’uomo e l’uomo per Dio. Dio è passione per l’uomo, lo ama e cerca di unirsi a lui. L’amore porta a unirsi e identificarsi con l’amato. Così, in Gesù, Dio si unisce e si identifica con l’uomo, perché ogni uomo possa a sua volta amarlo “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5) e identificarsi con lui in Cristo.La natura dell’uomo può essere capita solo se si considera la passione che Dio ha per lui, come quella dello sposo per la sposa (cf. Ef 5,32). Questo amore lo costituisce e gli dà la sua essenza, la sua esistenza e la sua smisurata dignità. Solo così si comprendono quei desideri profondi dell’uomo che lo fanno troppo grande per bastare a se stesso (Pascal): ci hai fatti per te, Signore, ed è inquieto il nostro cuore fino a quando non riposa in te (Agostino). Solo ponendo il capo sul petto di Dio, l’uomo è appagato in ogni sua inquietudine. La sposa, senza sposo, non è sposa - e viceversa. Sono due termini correlativi. Così l’uomo e Dio, visti da parte dell’uomo, sono correlativi e l’uno è se stesso per l’altro. È immagine esterna dell’interdipendenza trinitaria, danza d’amore all’interno di Dio! L’uomo è se stesso solo nel suo rapporto con Dio. Senza di lui è insoddisfazione essenziale: è un’essenza monca, pura concavità vuota.Prima di Gesù l’uomo viveva nell’economia dei digiuno e della supplica. Ora, in lui vive nell’economia dei cibo e dell’ebbrezza, della vita e dell’amore senza fine. Dio è qui e si è unito a lui!

v. 35: “sarà tolto via da loro lo sposo”. Privati dello sposo, i discepoli sentiranno di essere privati della loro vita e digiuneranno davvero. Sarà la tristezza, lo smarrimento e la perdizione del venerdì santo. La chiesa ricorderà col digiuno questa tenebra, che si dissolverà nel fulgore di Pasqua. Ma ancora lo sposo se ne andrà nel giorno dell’Ascensione (cf. 24,51; At 1,9). Sarà di nuovo assente, non strappato via e ucciso, bensì portato in alto e distaccato da noi. Ci sarà quindi una nuova forma di digiuno: bisognerà colmare questo distacco seguendo lo stesso cammino che lo sposo ha percorso per incontrarlo e stare per sempre con lui (1Ts 4,17), nostra vita, nascosta ormai nei cieli in Dio (Col 3,3). In questo senso l’esistenza cristiana è un vero digiuno - assenza e lontananza di Dio dal mondo - e si fa carico di tutta la storia umana per portarla, attraverso l’annunzio e la sequela, all’incontro con lo sposo.

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Questo incontro ha il suo principio nell’ascolto della sua parola e il suo fine nella visione della sua bocca. Ma tale fine è già anticipato sacramentalmente nel banchetto eucaristico, dove viviamo di lui che si è spezzato per noi come pane di vita quotidiana, in attesa dell’incontro definitivo.

v. 36: “un vestito nuovo, un vestito vecchio”. Nell’Eden l’uomo aveva coperto la propria insufficienza radicale con foglie di fico. Dio stesso gli fece delle tuniche animali provvisorie (Gn 3,21), in attesa di dargli il suo vero vestito, definitivo. Il vestito è segno della corporeità. Il discepolo, per il battesimo, forma un corpo solo con Cristo (1Cor 12,12s): si è rivestito di lui (Gal 3,27), l’uomo nuovo, creato secondo Dio in giustizia e santità (Ef 4,24), che si rinnova di gloria in gloria a immagine del suo creatore (Col 3,10). “Faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19). Questo vestito nuovo è quindi l’uomo nuovo e sono anche i cieli nuovi e la terra nuova, vero “vestito di Dio” che lui ha mutato (cf. Sal 102,26s). Infatti il mondo vecchio è passato: ora ce n’è uno diverso, che lascia trasparire il suo fulgore e che ci viene donato dallo sposo che consuma il suo amore per noi nella nudità della croce (cf. 23,34).Per il battezzato è indispensabile prendere coscienza di questa novità di vita. per non fare operazioni inutili e dannose, quali “strappare una pezza da un vestito nuovo” e “rappezzarla su un vestito vecchio”. Non si può cercare di combinare il vecchio col nuovo, ostinarsi a vestire l’uomo vecchio che è sotto la condanna della legge, rattoppandolo con novità evangeliche. Non si farebbe altro che rovinare il vangelo e mettere in risalto la lacerante contraddizione dell’uomo. Non ci sono compromessi o rattoppi possibili. Ciò che è vecchio va buttato: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22ss). Ciò che è vecchio rappresenta il caos da cui Cristo ci ha cavato con le sue sei opere: lo spirito del male e la febbre che rende inabili a servire; la sterilità della pretesa e la pienezza di lebbra, la paralisi del corpo e il peccato dello spirito. Ora, creature nuove, “mangiamo e beviamo”, vivendo e dissetandoci di Dio in Cristo: siamo luce e amore, fecondità e vita, capaci di camminare in libertà verso l’incontro definitivo. Se il battezzato non comprende questa esigenza e cerca compromessi, mantenendo il vecchio e rappezzandolo col nuovo, non solo si strapperà di più anche il vecchio - come dice Mc 2,21 -, ma, innanzitutto, rovinerà e strapperà il nuovo stesso e, invece di rimediare all’insufficienza del vecchio, la renderà più visibile con la stonatura dell’accostamento: infatti il nuovo “col vecchio non sinfonizzerà”.Luca ha presente tutte le polemiche della chiesa primitiva circa il rapporto legge-vangelo, vecchio-nuovo. È ormai un punto acquisito. Il ricordo serve ora a incoraggiare il credente perché abbracci la pienezza di vita nuova che gli è stata donata nel battesimo, senza incoscienza o eventuali rigurgiti di passato.

v. 37: “Vino giovane, otri vecchi”. Se il vestito richiama il corpo, il vino richiama lo spirito. Il vestito è nuovo, perché c’è “il vino nuovo”. Essendo nuovo lo Spirito, deve esserlo anche l’otre, l’uomo che lo contiene. “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo... tempio dello Spirito santo che è in voi e che avete da Dio?” (1Cor 6,15.19). Il vino indica propriamente lo Spirito come amore: è l’amore dello sposo (cf. Ct 1,2). È il vino eccellente, donato alla fine in misura abbondante da Gesù, che rende festoso un banchetto nuziale senza gioia e senza amore (cf. Gv 2,1-12). Questo amore esige un modo nuovo di vivere: non va messo “in otri vecchi”. Se no “romperà gli otri e si spanderà e gli otri saranno persi”. Come nel caso del vestito, chi vuole conservare ambedue, perde l’uno e l’altro, perché non si può camminare per due vie o inseguire due lepri.

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v. 38: “Ma vino giovane in otri nuovi bisogna gettare”, cioè in uomini nuovi, che camminano secondo lo Spirito e ne portano i frutti (cf. Gal 5,22).

v. 39: “Il vecchio è buono!”. Chi ha assaggiato il vino vecchio, non vuole quello giovane, poiché dice che il vecchio è migliore. Questo detto risponde ironicamente ai dubbi e alle perplessità del discepolo ancora incerto, che si comporta secondo il buon senso “ovvio” e che non osa fare il passo: chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che perde, ma non sa quel che trova! Per questo è attaccato al vecchio, perché gli è noto e teme l’avventura della libertà e si giustifica pensando che il vecchio sia meglio del giovane, il passato meglio del futuro... la morte meglio della vita! È una sapienza mondana, che nasce dalla sfiducia e ha il suo principio nella diffidenza nei confronti di Dio. È una prudenza stolta che ci fa tenere la mano chiusa nel pugno di mosche che possediamo, invece di aprirla per accogliere il dono di Dio. Il vino migliore è proprio quello nuovo, appena offerto da lui (cf. Gv 2,10). Quello vecchio è acido, andato a male.Apri la tua bocca, la voglio riempire (Sal 81,11).È un invito a superare la falsa sapienza dell’ovvio, che è sempre rivolta al passato, nel coraggio del nuovo che è ignoto.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando, come nel brano precedente, il banchetto in casa di Levi.c. Chiedo ciò che voglio: gioire della presenza dello sposo e vivere la novità di vita del suo amore.

d. Punti su cui riflettere:- il digiuno dei farisei e dei discepoli del Battista- i discepoli di Gesù mangiano e bevono- lo sposo è con loro- sarà tolto lo sposo- rovinare il vestito nuovo per fare una pezza per il vestito vecchio- vino nuovo in otri vecchi- vino nuovo in otri nuovi- il vino nuovo è meglio del vecchio.

4. Passi utili

Sal 45; Is 58,1ss; Pr 9,1-6; Sir 24,18-21; Cantico; Ez 16; Is 62,lss; Os 2,1ss; Ap 21-22.

25. SIGNORE È DEL SABATO IL FIGLIO DELL’UOMO

(6,1-5)

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6 1 Ora avvennein un sabato:egli passava attraverso seminati e i suoi discepoli sgranavano e mangiavano le spighe sfregando con le mani.2 Ora alcuni dei farisei dissero:Perché fateciò che non è lecitonei sabati?3 E rispondendo loro disse Gesù:Neanche questo avete letto, quanto fece Davide, quando ebbe fame lui e quelli con lui,4 come entrò nella casa di Dioe, prendendoi pani della proposizione, mangiò e diede a quelli con lui, anche se non è lecito mangiarnese non ai soli sacerdoti?5 E diceva loro:Signore è del sabatoil Figlio dell’uomo!

1. Messaggio nel contesto

Il mondo, ricreato dalle sei opere di Gesù, trova ora il suo compimento nel sabato. L’uomo, rinato nel battesimo, vive una vita qualitativamente diversa, che si nutre nel “mangiare e bere” al banchetto nuziale quel cibo che fa l’uomo nuovo. Perché l’uomo è il cibo che mangia!Come 5,1-28 è una presa di coscienza del battesimo, che rigenera l’uomo e lo rimette in piedi davanti a Dio, così 5,29-6,11 è una presa di coscienza del nuovo cibo che gli è stato dato per la sua vita nuova. Nella commensalità con Gesù, lo sposo, il battezzato entra nel sabato (cf. Eb 3,7-4,13) e in esso vive della pienezza del di Dio.Il centro del brano è: “Il Figlio dell’uomo è signore del sabato”. Gesù introduce l’uomo nel banchetto messianico, gli dà il nutrimento sabbatico (l’eucaristia) e lo trasferisce oltre il settimo giorno, nella pienezza di gloria e di vita di Dio stesso. Non a caso il tema dominante in 5,29-6,11 è il cibo, inteso come banchetto nuziale in 5,29ss, come mangiare di sabato in 6,1ss e come donare/ricevere una vita salvata in 6,6ss.Questa scena ci presenta i discepoli di Gesù che mangiano il grano nuovo di sabato.Gesù aveva detto al paralitico di andare “a casa sua” (5,24): è la casa del peccatore che accoglie Gesù e banchetta con lui (5,27-32). Iniziano le nozze (5,33-39), e questa casa, da “casa” del peccatore, diventa “casa di Dio” (6,4), in cui Davide, figura di Cristo, “prende” i “pani”, ne “mangia” e ne “dà” a

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coloro che sono con lui (chiara allusione all’ultima cena). La vera casa dell’uomo è il perdono in cui l’uomo accoglie nella sua vita il Signore: così anche il Signore lo accoglie nel suo sabato, vive con lui e gli dà se stesso. Questo brano parla del compimento inaudito del sabato. Il sabato irraggiungibile è Dio stesso: mentre la Legge ne suscita l’appetito, ma lascia digiuni, Gesù, il signore del sabato, dando se stesso, dà all’uomo di vivere di esso. Viviamo di Dio, nostro pane di vita!La libertà dalla Legge che ne consegue non è la sua abolizione, bensì il suo compimento. Se prima la Legge indicava la strada verso Dio, ora l’uomo vive di Dio stesso e per Dio, e sul suo volto brilla la gloria del sabato.Apri la tua mano! Dio la riempie di sé.

2. Lettura del testo

v. 1: “Ora avvenne in un sabato”. Il sabato, festa dell’uomo e riposo di Dio, ricordo della liberazione e compimento della creazione, è in Israele segno del tempo finale, quando l’uomo, alla venuta del Signore, riconciliato con lui, si sarebbe riconciliato con sé, con gli altri e con la natura stessa.Questo è il terzo dei sette sabati di Gesù che Luca ci presenta (4,16; 4,31; 6,1 6,6; 13,10; 14,1; 23,54). Il giorno di Pasqua, quello stesso unico giorno in cui il Signore risorge e i discepoli lo sperimentano presente-assente nel pane, è chiamato “il primo giorno dopo il sabato” (24,1): è l’ottavo giorno, l’oggi eterno di Dio, il sabato definitivo.Alcuni codici invece di “un sabato”, leggono “in un secondo primo sabato”, espressione difficile da intendere.

“egli passava attraverso seminati”. A differenza di Marco, qui Gesù è presentato da solo, nel suo incedere di sabato tra il grano. Egli fa quasi corpo unico con il rigoglio di vita che scaturisce al suo passaggio. In lui la nostra “terra ha dato il suo frutto” e Dio ci ha benedetti, ha fatto risplendere su di noi la luce del suo volto, in modo che conosciamo sulla terra la sua via e ne sperimentiamo la bellezza (Sal 67,7.2.3). Lui stesso si era paragonato al chicco di grano che, seminato, porta messe abbondante (Gv 12,24). Il suo passaggio ci è descritto come nel Sal 65: “Tu visiti la terra e la disseti: al tuo passaggio stilla l’abbondanza, le valli si ammantano di grano, tutto canta e grida di gioia”.

“i suoi discepoli sgranavano e mangiavano le spighe”. In questo secondo primo sabato i discepoli si nutrono di Cristo (eucaristia). Questo gesto dei discepoli richiama anche l’interpretazione patristica che paragona il campo alla Scrittura, la pula alla lettera, il grano a Cristo. Per questo è necessario lavorare con cura la lettera per potersi nutrire della parola di vita. È il lavoro paziente al quale Luca porta il suo lettore, perché prenda coscienza del dono di Dio e ne usi in abbondanza. Il sabato è già stato donato, ma non tutti sanno sgranarlo e mangiarne, comprenderlo come tale e viverne. Spesso si vive nell’incoscienza del dono di Dio. Bisogna invece giungere alla silenziosa consapevolezza dei discepoli che mangiano col Signore, senza ormai più chiedergli nulla, perché “sanno che è il Signore” (Gv 21,12).

v. 2: “ciò che non è lecito nei sabati”. I farisei osservano il sabato e lo attendono. Ma non sanno che è già arrivato e tanto meno ne vivono. Legati giustamente alla legge del sabato con le sue 40 proibizioni meno una, non se ne accorgono. Tutti intenti a cercare Dio, non si lasciano da lui trovare; restano nella legge e nello sforzo di raggiungerlo, senza vedere che, ciò che a noi è impossibile, lui l’ha già fatto: ha colmato le distanze.

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La legge che vieta di lavorare per procurarsi il cibo di sabato, vieta pure di mangiare delle nuove spighe prima che siano offerte a Dio (Lv 23,14). Ma ora l’uomo vive proprio di ciò che la legge gli vietava; gli è offerto da Dio stesso in Gesù.

v. 3: “quanto fece Davide”. Gesù risponde rifacendosi a Davide. Lo nominerà di nuovo in 20,41, per mostrare la superiorità del suo discendente, il messia, rispetto a lui. Davide è attesa e figura del messia stesso: quanto fu da lui aspettato e prefigurato, in Gesù è realizzato. La trasgressione di Davide (1Sam 21,1-7) è segno della singolare trasgressione dei tempi messianici: non solo verranno mangiati dei pani consacrati a Dio, ma Dio stesso sarà il pane sacro che viene donato. Il corpo del Signore del sabato si è fatto frumento di vita!

v. 4: “prendendo, mangiò e diede”. Questa trasgressione che avviene di sabato è paragonata a quella di Davide, che entrò “nella casa di Dio”, aprendola agli altri che erano con lui. Così Gesù ci apre la casa di Dio, che è diventata nella riconciliazione la nostra casa (5,24.29), dove noi accogliamo lui e consumiamo con lui il banchetto nuziale (5,29ss). Lì il nuovo Davide “prende” i “pani della proposizione, ne “mangia” e “dà” (termini eucaristici che in parte ritroviamo in 22,19). È la vera manna, il cibo messianico che non si poteva cogliere di sabato. È il nuovo cibo del nuovo popolo che ormai mangiamo in questo “secondo” sabato, che è il vero “primo” sabato per importanza: è il giorno del Signore, la domenica, della quale il primo sabato era solo prefigurazione. Questo cibo fa di noi un popolo sacerdotale, in comunione di vita con Dio, e permette a tutti noi di compiere ciò che prima solo ai sacerdoti era concesso. Prima solo loro potevano mangiare il pane offerto a Dio, figura di quel pane offerto da Dio al quale “oggi” tutti siamo ammessi.

v. 5: “Signore è del sabato il Figlio dell’uomo”. Questo è il motivo per cui noi viviamo di Dio: in Gesù è presente il sabato di Dio e, se il sabato è il giorno di Dio, lui è il Signore del sabato. Infatti egli è il “Figlio dell’uomo”, quella figura divina intravista da Dn 7,13, che non solo riconcilia l’uomo con Dio (5,24), ma gli dà anche una nuova casa: la stessa “casa di Dio”, il sabato di Dio, di cui si nutre e vive nel pane che in Gesù gli è donato. Ciò che nessuna legge gli avrebbe mai consentito, permesso o promesso, Dio lo dona all’uomo nel Figlio dell’uomo: gli dona se stesso come sua vita. Da qui nasce la libertà cristiana. Chi vive di questo sabato, vive di Dio e per Dio e non sta più sotto alcuna legge; non perché la trasgredisce, ma perché l’ha adempiuta tutta. Infatti nel pane ricevuto-donato vive il comando dell’amore, che nessuna legge è in grado di far compiere (Dt 6,5). Nessuna legge può fare amare!L’uomo finalmente può amare Dio e vivere di lui, assimilandosi a lui in questo pane sabbatico nella sua casa.Attraverso il Signore del sabato, il sabato di Dio è donato a ogni uomo: si può finalmente raggiungere il riposo del settimo giorno, simbolo della risurrezione dell’ultimo giorno (cf. Apocalisse di Mosè XLIII, 3). La vita è rinnovata nella libertà e nella gioia di amare, piena dei frutti di Dio.Il sabato e la legge non sono trasgrediti, ma compiuti e finiti, come la fatica del cammino cessa nel riposo della meta. La meta, irraggiungibile da ogni cammino, ci è venuta incontro nel Figlio dell’uomo, Signore del sabato.A questa luce si capisce come sia un ottimo commento l’aggiunta al racconto che fa un manoscritto: “Lo stesso giorno, vedendo qualcuno lavorare in giorno di sabato, gli disse: Amico, beato te se sai quello che fai, ma se non lo sai, sei un maledetto e un trasgressore della Legge”.

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che cammina attraverso i campi di grano.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere il dono del Figlio dell’uomo, che mi vuol dare la sua stessa vita divina.

d. Punti su cui riflettere:- sabato- Gesù passa attraverso i campi di grano- i discepoli colgono e mangiano le spighe- cosa fece Davide?- il Figlio dell’uomo è Signore del sabato.

4. Passi utili

Sal 65; 67; 1Sam 21,1-7; Gn 2,1-3; Es 31,12-17; Is 58,13s.

26. DISTENDI LA TUA MANO! E LA SUA MANO FU RISTABILITA

(6,6-11)

6 Ora avvennein un altro sabato: egli entrò nella sinagoga e insegnava.E c’era un uomo lìe la sua mano, quella destra, era inaridita.7 Ora lo osservavano gli scribi e i fariseise nel sabato avrebbe guarito, per trovare di accusarlo.8 Ora egli sapeva i ragionamenti loro.Ora disse all’uomo,quello che inaridita aveva la mano:Déstatie poniti nel mezzo!E levatosi stette.9 Ora disse Gesù a loro:Interrogo voi,se è lecito nel sabato

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fare bene o male,salvare o perdere una vita?10 E guardando in giro tutti lorodisse a lui:Distendi la tua mano!Ora egli fecee fu ristabilita la sua mano.11 Ora essi furono riempiti di demenzae discutevano l’un l’altro che avrebbero potuto fare a Gesù.

1. Messaggio nel contesto

Con Cristo l’uomo è autorizzato a “mangiare” di sabato. Anzi, nell’eucaristia vive del sabato, perché il Figlio dell’uomo, Signore del sabato, ha imbandito il banchetto in cui lui stesso “prende” il “pane” e lo “dà” ai discepoli (cf. brano precedente). Mangiare è vivere: l’uomo vive di Dio perché mangia di lui. In questo brano si dimostra come, mangiando del sabato, l’uomo può anche operare conformemente ad esso: avendo un principio vitale nuovo, è in grado di compiere azioni nuove.La mano dell’uomo, prima arida e chiusa nel possesso, ora si apre e riceve la linfa vitale per operare secondo il cibo che ha preso. Questo l’ha assimilato a Gesù, che opera di sabato come il Padre; “quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5,19).L’uomo ora non è più escluso dalla vita e dall’opera del sabato; il Figlio dell’uomo, signore del sabato, è venuto a incontrarlo. Le sue mani inchiodate al legno del nostro male schiodano la nostra mano paralizzata dal peccato. Siamo finalmente liberi per agire come Dio, in obbedienza alla sua parola. Così ritorniamo suoi collaboratori. La nostra opera ritorna a essere “demiurgica”, associata alla sua, per riportare al suo fine, che è lui stesso, tutto il creato che da lui ha avuto principio.

2. Lettura del testo

v. 6: “un altro sabato, nella sinagoga”. Siamo al quarto sabato (cf. brano precedente) dell’attività di Gesù che Luca ci descrive. Il sabato, tempo di Dio e Dio stesso come fine di ogni tempo, è il principio di tutta la creazione, dal quale la creazione stessa è esclusa a causa del peccato. Siamo nella sinagoga, luogo dell’ascolto della legge, dell’obbedienza a Dio.L’uomo si trova in questo tempo e in questo luogo che, in qualche modo, rappresentano le coordinate del suo desiderio: raggiungere Dio nell’obbedienza alla sua parola.

“C’era un uomo lì e la sua mano, quella destra, era inaridita”. In questo tempo e in questo luogo, l’uomo non può agire, perché disobbediente fin dal principio.Le caratteristiche essenziali dell’uomo sono descritte nella Bibbia mediante l’occhio, il cuore e la mano. L’occhio è l’intelligenza per vedere il vero; il cuore è la volontà, per amare il bello; la mano è la libertà, per attuare il bene. Mediante la mano l’uomo realizza il proprio volto, secondo la verità, bellezza e bontà che ha visto con l’occhio e desidera col cuore. Ma, anche se l’occhio può in qualche modo intravvedere e il cuore desiderare, la mano resta inaridita, incapace di muoversi. L’uomo non può vivere del sabato: avendo teso la mano verso il frutto della disobbedienza (cf. Gn 3,1ss), gli è

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rimasta chiusa nel possesso e senza vita. È morta a causa del morso del serpente, resa secca dal veleno della sua bocca.

v. 7: “lo osservavano gli scribi e i farisei”. Quest’uomo ha i suoi guardiani, che lo osservano e lo custodiscono nella gabbia: gli scribi e i farisei. Con la spada splendida e affilata della Legge, sono simili ai cherubini che impediscono l’accesso all’Eden (cf. Gn 3,24). I primi sono quelli che “sanno” la Legge, i secondi quelli che la “vogliono”.L’intelligenza e la volontà religiosa custodiscono l’uomo nel carcere, mostrandogli la propria stupidità e inadempienza; acuiscono la sua pena, richiamandogli alla mente ciò che dovrebbe fare e che in realtà trasgredisce. Questi custodi gelosi del sabato, che giustamente pongono come fine dell’uomo un Dio irraggiungibile, dichiarano morto l’uomo che non lo raggiunge e uccideranno Gesù, il Dio che ha raggiunto l’uomo.L’uomo dalla mano inaridita rappresenta gli stessi scribi e farisei, incapaci di operare secondo ciò che conoscono e desiderano. Essi infatti cercano sicurezza contro la paura originaria di Dio e la trovano nel sottomettersi, senza riuscirci, a colui che temono. Non riusciranno a capacitarsi quando, in Gesù, Dio si rivela come amore, misericordia e tenerezza: non è più l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo; non è più l’uomo per Dio, ma è Dio per l’uomo. Perché Dio è amore. E l’amore consiste nell’amare l’altro più di sé. È paradossale, ma vero, il fatto che Dio ama l’uomo più di sé: “Dio infatti ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Per questo scribi e farisei sono tutt’occhi per denunciare con intransigenza il capovolgimento che la legge subisce.

v. 8: “egli sapeva i ragionamenti loro”. Gesù, parola di Dio, conosce bene questi ragionamenti traversi del cuore umano, che l’uomo stesso bene non conosce e mai esprime a parole.Sono radicati nella menzogna originaria del serpente, padre della menzogna e omicida fin dal principio (Gv 8,44). Attraverso l’orecchio di Eva egli ha messo nel cervello dell’uomo un tarlo roditore: il sospetto di non essere amato da Dio, di non poter essere al suo centro. Da questo nasce il cattivo uso della Legge, come sforzo dell’uomo di porre Dio al centro di tutto e tutto sacrificare a lui pur di conquistarlo. Questa menzogna ci impedisce di comprendere il vangelo e di dare ascolto alle parole del Signore (Gv 8,43). E ci fa figli del diavolo, perché l’uomo diventa la parola che ascolta.Il Signore svela (2,35) e conosce (5,22; 6,8) gli sragionamenti del cuore, anche quelli dei discepoli (9,46.47; 24,38). Sono elucubrazioni pensate e non dette, che paralizzano la mano per la vita, ma la rendono abile nel dare morte. Gesù, come risposta, si rivolge e parla direttamente all’uomo serrato nella sua paralisi.

“Déstati e poniti nel mezzo!”. Gesù gli dice: “Risorgi” (= “déstati!”), perché nella sua mano opera la morte. Ma come può risorgere quest’uomo? Eseguendo il suo comando di porsi “nel mezzo” della sinagoga e del sabato. Fuori metafora, la risurrezione dell’uomo e lo scorrere della vita nelle sue mani avviene dall’incontro con Gesù, la cui parola potente lo fa scoprire al centro di Dio. In Gesù Dio si rivela non più come il centro dell’uomo, ma come colui che ha messo l’uomo al proprio centro.Tutta la rivelazione si può riassumere con le parole di Giovanni: “Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16);Allora avviene che Dio, non più per paura, ma per amore, torna ad essere al centro dell’uomo che ha scoperto di essere al centro di Dio. Prima la Legge era morte, perché imponeva l’irraggiungibile: nessuno infatti può amare se non è amato. Ora invece si può vivere secondo la Legge: l’uomo può amare Dio e il prossimo, perché si sente amato da Dio.La sua mano torna buona e può agire come Dio, che è amore.

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v. 9: “fare bene o male, salvare o perdere una vita”. La domanda di Gesù riguarda il senso stesso della legge, fare il bene e evitare il male. Esso trova la sua pienezza nel comando dell’amore (Rm 13,10). Ma l’uomo è impossibilitato a viverlo, perché ha prestato orecchio al nemico che gli ha detto che Dio non lo ama. Per questo la distanza che Dio ha posto tra se stesso e la nostra immagine di lui è la croce, segno estremo del suo amore. Chi guarda la croce del Figlio dell’uomo guarisce dal veleno mortale del serpente (cf. Gv 3,14s).La domanda di Gesù ha una risposta evidente. Resta però elusa dal silenzio. Questo silenzio, voluto e inevitabile, è la nostra durezza di cuore (cf. Mc 3,5).L’uomo, posto nella Legge, lascia inevasa l’istanza fondamentale della Legge stessa e non risponde all’interrogativo da cui dipende “salvare o perdere la vita”. È in realtà questione di vita o di morte aprire la mano.

v. 10: “E guardando in giro tutti loro”. Il silenzio mortale dell’uomo è riempito dallo “sguardo circolare” di Gesù, che vede tutt’intorno. Al suo occhio non sfugge neanche un grado del male dell’uomo. Lo vede tutto. Così gli entra nel cuore, gli fa compassione e se ne fa carico (cf. 10,33). Fino alla feccia ne sorbirà (cf. Sal 75,9) e lo porterà su di sé nel suo giudizio, per non condannarci (23,9).

“Distendi la tua mano”. A questa sua parola l’uomo poteva rispondere: “È impossibile!”. E avrebbe avuto umanamente ragione. La fede invece - e la sua situazione disperata! - gli fa ritenere possibile un ordine impossibile, e rende così possibile l’impossibile. In obbedienza alla parola, fa ciò che gli è stato ordinato, e la mano si muove e si stende.

“e fu ristabilita la sua mano”. (in greco apekatestáthe, “fu ricostruita com’era al principio”). Commentando questo passo, Ambrogio dice: “Il Signore impregna del salutare frutto delle buone opere quella mano che Adamo aveva allungato per cogliere i frutti dell’albero proibito, in modo che essa, inaridita per la colpa, sia guarita per le buone opere”. Ora l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, obbedendo alla parola di Gesù che lo pone al centro del sabato e della sinagoga - di Dio e della Legge - e gli dice di stendere la mano, ha la mano rifatta nuova. L’uomo viene restituito alla sua origine: può vivere (cf. brano precedente) e quindi agire di sabato, come Dio. Perché è suo figlio. La nostra azione ritorna, dall’obbedienza al padre della menzogna, all’obbedienza al Padre della verità e della vita.Cosa può operare la mano nuova dell’uomo? Può, allo stesso modo del Figlio, operare come il Padre e fare ciò che vede fare da lui (cf. Gv 5,17-21). È una vera apocatastasi dell’uomo.Nell’incontro con Gesù, nell’obbedienza alla sua parola che ci ha posti nel mezzo e ci chiede ciò che pare impossibile, siamo finalmente guariti dal tremendo male di non poter fare il bene che approviamo e di fare il male che detestiamo (Rm 7,14ss).La Legge, pur giusta, uccide. Il dono del Signore Gesù dà la vita senza misura.

v. 11: “riempiti di demenza”. Chi non obbedisce, invece di essere ripieno dello Spirito che fa nuove le cose e dona vita, si riempie di dissennatezza furiosa e omicida, pieno di morte come il lebbroso di 5,12. La sua dissennatezza non origina parole, ma solo un discorrere occulto e tenebroso. La paura della morte diventa principio dei suoi ragionamenti traversi. Essi taglieranno la vita di Gesù e appenderanno alla traversa del palo la Parola di vita.

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi di sabato nella sinagoga, con Gesù e la gente.c. Chiedo ciò che voglio: aprire la mano per accogliere il dono di Dio. Aprire il mio cuore al desiderio di lui che si vuoi donare come mia vita.

d. Punti su cui riflettere:- di sabato nella sinagoga- la mano destra inaridita- gli scribi e i farisei osservano- poniti nel mezzo- stendi la tua mano- la mano fu ristabilita.

4. Passi utili

Is 59,1ss; 9,7-10,4; Ez 37,1-14.

27. PRESCELSE DODICI E, DISCESO INSIEME CON LORO, STETTE

(6,12-19)

12 Ora avvennein quei giorni:uscì egli verso il monte a pregare,e stava pernottando nella preghiera di Dio.13 E quando venne giornoconvocò i suoi discepoli, - e prescelti da loro dodici, che chiamò anche apostoli:14 Simone, che anche chiamò Pietro, e Andrea, suo fratello,e Giacomo e Giovannie Filippo e Bartolomeo15 e Matteo e Tommasoe Giacomo d’Alfeoe Simone, chiamato Zelota,16 e Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota che divenne traditore -

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17 e, disceso insieme con loro, stette su un luogo pianeggiante,e c’era molta folla di suoi discepoli e moltitudine grande del popolo, da tutta la Giudea e Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone18 che vennero per ascoltare luie per essere guariti dalle loro malattie; e i tormentati da spiriti impurierano curati.19 E tutta la folla cercavadi toccare lui,poiché da lui usciva una potenza e guariva tutti.

1. Messaggio nel contesto

Come Mosè salì sul Sinai e discese per comunicare al popolo la Legge, così Gesù sale sul monte e discende per portare la rivelazione ultima di Dio, la nuova Legge. Ma, tra la comunione con Dio sul monte e la sua discesa al piano, Luca pone la scelta dei dodici apostoli. Sono quelli che avranno la funzione di rendere per sempre attuale la parola del Signore, trasmettendola in modo normativo alla chiesa che si fonda sulla loro testimonianza oculare ineliminabile (cf. 1,2). Mediante la loro bocca, tutti gli estremi confini della terra udranno la sua parola, risuonata per la prima volta ai piedi del monte. All’elezione dei Dodici in alto, corrisponde il prendersi cura di tutti in basso. Infatti è sceso per comunicare la Parola e guarire l’uomo. In quest’opera gli apostoli sono associati a lui, presente in mezzo a loro. Come l’antico, così il nuovo Israele è un popolo formato dall’ascolto della Parola, depositario del discorso di rivelazione, che viene subito dopo.Guarita la mano destra, l’uomo può accogliere ciò che deve fare per essere figlio dell’Altissimo (vv. 35s). Ora c’è la chiamata di quel nucleo che poi chiamerà gli altri, continuando l’opera di Gesù. Sono poche persone, dodici, ma inviate a tutti, appunto alle dodici tribù del popolo di Dio.La creazione dei Dodici è la settima azione potente di Gesù, dove si compie e trova riposo tutto il suo lavoro: è il mondo nuovo, l’umanità che nell’ascolto entra nel giorno di Dio e raggiunge il suo riposo. I Dodici sembrano piccola cosa di fronte alla vastità del mondo al quale sono inviati. Ma è stile costante di Dio operare tutto attraverso poco (cf. Gdc 7,1-8). La sua azione è sempre sacramentale: in un piccolo segno d’amore, dona una realtà infinita, se stesso come amore. Questa sacramentalità, per cui l’infinito opera nella piccolezza, è necessaria perché Dio è infinito e l’uomo finito, ma fatto per l’infinito. Ma è anche necessaria per rispettare la libertà dell’uomo che Dio ama e dal quale vuole essere amato in libertà. Il piccolo non si impone: solo si propone e può essere accolto o meno.Non bisogna mai dimenticare l’efficacia reale e infinita del piccolo segno, né a livello personale né a livello ecclesiale. Si cadrebbe in deliri di onnipotenza, vecchi come il peccato di Gn 3!La chiamata all’apostolato, mattino della piccola chiesa che sta sorgendo (cf. 12,32), nasce dalla notte di preghiera di Gesù. Come a dire che la chiamata che fonda la chiesa nasce dalla sua comunione con il Padre fin dentro la notte, cioè dall’obbedienza e dall’amore a lui fino alla morte. Ed è una chiamata alla stessa comunione, fine di ogni apostolato.

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2. Lettura del testo

v. 12: “uscì egli verso il monte a pregare, e stava pernottando nella preghiera di Dio”. Prima della scelta degli apostoli, c’è tutta una notte trascorsa nella preghiera di Dio. La preghiera, come fu la forza di Gesù, primo apostolo, per conoscere e compiere la volontà del Padre (cf. 22,42), così è l’origine di ogni azione e scelta apostolica (cf. At 1,24ss; 6,4). Questa preghiera è frutto di un esodo (“uscì”). Il servizio di Dio è possibile dopo l’uscita dalla servitù degli idoli. Difatti si specifica che è “la preghiera di Dio”, non una qualunque. Ci sono preghiere che non sono di Dio, bensì dei propri idoli - come quando lo preghiamo esponendo i nostri desideri con poca sollecitudine di ascoltare i suoi. Perversione che succede spesso o quasi sempre. Inoltre questa preghiera non si svolge su un monte qualsiasi, un luogo solitario posto verso l’alto, ma “sul” monte, allusione al luogo della rivelazione di Dio. Questa preghiera, separata dagli uomini e vicina a Dio, si compie “di notte”. Nella notte, quando il nulla avvolge tutte le cose, non c’è alternativa al sonno, mimesi della morte, che la vigilanza e la comunione con Dio. La notte è il fallimento o la verità dell’uomo: o ci si abbandona al vuoto della morte o nelle braccia di Dio, sorgente di vita.La preghiera è l’unica forza per superare la notte. E l’uomo conosce molte notti. Anche e soprattutto di giorno. Mentre di notte le sente e le sogna, di giorno le produce e le realizza.

v. 13: “quando venne giorno, convocò i discepoli, ecc.”. Il giorno della chiesa spunta dalla notte di Gesù in comunione col Padre. La chiamata ad ascoltare il Signore ed essere suoi discepoli è per tutti gli uomini. L’ascolto è il comune denominatore dell’offerta di tutto Dio a tutti. Chi lo accoglie diventa suo figlio (cf. Gv 1,12), identificato a Gesù, il Figlio che ascolta. Fermo restando che nessuno può porre altro fondamento al di fuori di quello che già è posto, cioè il Signore Gesù (cf. Col 2,7; 1Cor 3,11), egli “presceglie” tra i discepoli “dodici”, come 12 furono i patriarchi di Israele, per essere le “colonne” (Gal 2,9) che fondano (Ef 2,20) il nuovo popolo. La funzione degli apostoli consiste nell’essere testimoni della risurrezione; si esige che abbiano conosciuto il Gesù terreno e siano già stati chiamati da lui e a lui associati (At 1,21s). Essi stanno sul monte, uniti al Signore innalzato, da cui parte ogni missione. La loro funzione è unica e irripetibile e pure si continua di generazione in generazione, come quella dei patriarchi: essi costituiscono il primo anello di una catena di altri anelli, che garantisce che questi, uniti a loro, siano saldati a Cristo. Costituiscono l’anello di congiunzione tra Gesù e il tempo successivo. Sono il principio di quella mediazione storica di testimonianza che ci porta fino a Gesù e di cui Luca è particolarmente cosciente.Marco, giustamente, spiega che i Dodici sono stati fatti “per essere con lui”, in un’intimità di vita col Signore che qualifica la loro missione (Mc 3,14).“Essere con lui” è il movente e il contenuto della missione (cf. 1Gv 1,1ss). Questa porterà ogni uomo alla salvezza, che è appunto “essere con lui”, come situazione anticipata della gioia definitiva (cf. Gv 15,1ss; 1Ts 4,17). Nel fatto che i Dodici vengono scelti per l’apostolato è da vedere, oltre l’intenzione di Gesù di fondare la chiesa, una certa differenziazione di carismi e funzioni nell’unica chiamata al discepolato (vedi ad es. 1Cor 12,1ss).

vv. 14.15.16: “Simone e Giuda Iscariota, che divenne traditore”. È l’elenco dei patriarchi, coi quali siamo in comunione. Mediante loro, “la nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,3). Ci sono tutti abbastanza sconosciuti nei loro tratti particolari, tranne un poco il primo e l’ultimo. Sono comunque scelti tra gente semplice, sono pescatori o peccatori, certo gente in attesa di un qualche cambiamento. Per questo sono disponibili a seguirlo. Diversamente questa attesa andrà creata, perché chi è sazio va a dormire. A loro sarà affidato il grande compito storico di fare il passo dalla promessa al compimento, da Israele alla chiesa, dal giudaismo al cristianesimo, dalla legge al

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vangelo da annunciare a tutte le genti. Noi avremmo affidato tali compiti religiosi, con enormi implicanze teologico-filosofiche di inculturazione, a gente meno sprovveduta! Ma Dio non guarda ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza (cf. 1Sam 16,7)! La formazione dei Dodici è semplicemente divina. Nessun allenatore penserebbe a mettere insieme una squadra di questo tipo.Notare, contro facili rimozioni, che Giuda è sempre ricordato come “uno dei Dodici”. Contro la tentazione di cancellarlo dalla lista, è quasi il suo cognome, riservato a lui! Questo sta a mostrare due cose. Primo: l’amore e la chiamata di Dio sono irrevocabili, per lui come per Israele e per tutti! Secondo: la struttura portante della chiesa è intrinsecamente zoppicante fin dal principio, sempre aperta al tradimento e al rifiuto del Signore. Giuda e Pietro ne sono le figure emblematiche. In questo il nuovo Israele non è per nulla diverso dal primo (cf. Rm 11,16ss). È figura di ogni uomo.

v. 17: “e, disceso insieme con loro, stette in un luogo pianeggiante”. A differenza di Matteo, Luca fa “scendere Gesù” dal monte, come Mosè, per portare al popolo la nuova legge. È la condiscendenza di Dio verso quel popolo che non poteva salire a lui (cf. Es 19,12s). Il suo discorso è “in un luogo pianeggiante”, umile e modesto come tutta la rivelazione di Dio in Gesù: in lui il fuoco e il terremoto e il vento impetuoso si fanno brezza soave, come aveva previsto il padre dei profeti (1Re 19,11ss); l’aquila (Es 19,4; Dt 32,11) si fa chioccia (13,34).Ai piedi del monte, Gesù che insegna e guarisce con la sua parola, è associato agli apostoli: sarà sempre con loro nella loro testimonianza, mediante il suo Spirito.Mentre di solito “folla” si contrappone a “popolo” come individuo a persona, qui i discepoli di Gesù sono una “folla immensa”. Invece la “moltitudine numerosa”, che accorre a Gesù, è chiamata “popolo”. I discepoli sono folla, e la moltitudine popolo. Davanti a lui cadono le barriere!In Luca si vedono tre cerchi di persone, concentrici su Gesù: gli apostoli, ascoltatori vicini a lui e associati al suo stesso annuncio, i discepoli, ascoltatori che hanno obbedito alla Parola, e la moltitudine, che vuol giungere a questo ascolto ed essere guarita. Tutti insieme sono l’unico popolo di figli che Dio ama.

v. 18: “vennero per ascoltare lui e per essere guariti”. Il motivo che spinge verso Gesù è il bisogno di ascolto e di guarigione. Come la parola del serpente portò il male e la morte, così la parola di Dio guarisce e dà la vita. C’è stretta connessione tra ascolto e guarigione, come tra disobbedienza e morte (cf. Dt 11,26-32). Per l’ascolto del serpente “il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte” (Rm 5,12), che ha raggiunto tutti gli uomini. Se la disobbedienza ha portato tutti i mali, l’obbedienza porta ogni benedizione. La Parola guarisce da quel male radicale che è la menzogna, il suo ascolto salva dalla sfiducia che genera la disobbedienza.L’uomo diventa ciò che ascolta. Nell’ascolto di Gesù, ascoltatore perfetto del Padre, diventa come lui, figlio del Padre.

v. 19: “la folla cercava di toccare lui, poiché da lui usciva una potenza”. Uomini e bestie che si fossero accostate al monte Sinai avrebbero dovuto essere lapidati; nessuno doveva toccare il luogo santo da cui scendeva il ministero della legge, che condanna e uccide (Es 19,12s; 2Cor 3,9). Ora invece Gesù, che scende dal monte, compie il ministero dello Spirito che “dà vita” (2Cor 3,6-8): chi lo tocca è salvo. “Toccare” Gesù è entrare in contatto con “la potenza” stessa di Dio che salva, perché “dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia” (Gv 1,16).Si parla di toccare il Signore e della guarigione che ne deriva, immediatamente prima del discorso di rivelazione. Luca intende dire al suo lettore che anche lui può toccare e sperimentare la potenza di Gesù: nell’annuncio dei Dodici, pure lui ne accoglie la parola. Essa “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16; cf. 1Cor 1,18). Infatti “è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la

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stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21), poiché la “parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio” (Eb 4,12), capace di penetrare il cuore dell’uomo e recidere la menzogna che lo tiene prigioniero.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il Signore sul monte, dov’era in preghiera notturna, e poi mentre scende verso il lago con gli apostoli.c. Chiedo ciò che voglio: la grazia di sapere che, attraverso la testimonianza ininterrotta dei Dodici nella chiesa, ascolto il Signore stesso e la sua parola che salva.

d. Punti su cui riflettere:- la preghiera notturna di Gesù- la scelta dei Dodici- la discesa al piano- ascoltare ed essere guariti- toccare Gesù- la potenza che esce da lui.

4. Passi utili

Sal 16; 23; Gn 12,1-8; Es 3,1-12; Gdc 6,1-24; 1Sam 3; 16,1-13; 1Re 19,1ss; Is 6,1ss; Ger 1,4-12; Mc 3,13ss.

28. BEATI VOI... AHIMÈ PER VOI!

(6,20-26)

20 Ed egli, sollevati i suoi occhi verso i suoi discepoli diceva:Beati i poveriperché vostro è il regno di Dio.21 Beati quanti avete fame ora,perché sarete saziati. Beati quanti piangete ora, perché riderete.22 Beati sietequando vi odieranno gli uomini e quando vi escluderanno, e insulteranno

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e bandiranno il vostro nome come cattivoa causa dei Figlio dell’uomo.23 Rallegratevi in quel giorno e danzate;ecco infatti:la vostra ricompensa è molta nel cielo.In questo modo infatti facevano ai profeti i loro padri.24 Invece:ahimè per voi, i ricchi,perché ricevete la consolazione vostra!25 ahimè per voi, che ora siete pieni,perché avrete fame!ahimè per (voi), che ora ridete,perché vi affliggerete e piangerete!26 ahimè, quando di voi bene diranno tutti gli uomini:in questo modo infatti facevano ai falsi profeti i loro padri.

1. Messaggio nel contesto

È la “buona notizia” che Gesù ha dato ai poveri, ai quali e per i quali annuncia il compimento della promessa. È il giudizio di Dio sul mondo: rivela il suo modo di valutare la realtà, opposto al nostro, e il suo modo di salvarci, così diverso da quello che noi pensiamo. Le Beatitudini costituiscono il manifesto del regno di Dio. I vv. 27-38 le specificano, le fondano, particolarmente il v. 36, centro del vangelo, che pone come principio di tutto la misericordia. Questa diventa la nuova legge, codice di vita nuova per chi accoglie il Regno. Ad essa sono legati i frutti di vita e la salvezza stessa (vv. 39-49).Questo proclama del Regno è quanto Gesù ha realizzato nella sua vita, culminata nella sua passione-risurrezione per noi. Le beatitudini per i poveri e le lamentazioni per i ricchi non vanno lette in chiave moralistica, quasi dicessero ciò che “deve fare” l’uomo. Dicono piuttosto cosa fa e come agisce Dio nella storia umana. Nella discesa dal monte, Mosè rivelò cosa doveva fare l’uomo; ora, nella discesa al piano, Gesù rivela cosa fa Dio stesso. Luca attualizza questa rivelazione per la sua chiesa e ne fa il fondamento del nuovo popolo in ascolto.Cosa fa Dio nel mondo, qual è il suo intervento? È importante saperlo, per poterlo ascoltare, accogliere e portare frutto! L’intento del proclama è rivelarci il volto di Dio in Cristo, perché lasciamo trasparire sul nostro la gloria stessa del suo, che è quello del Figlio obbediente. La chiave di lettura di tutto il discorso al piano è cristologica-teologica: la vita e l’opera di Gesù manifesta il vero volto di Dio che nessuno mai ha visto (cf. Gv 1,18). Nel suo mistero di morte/esaltazione vediamo come Dio dona il Regno. Nella sua passione Gesù odiato, bandito, insultato, respinto e diffamato solidarizza con i poveri e si identifica con loro, lui che già prima era povero (9,58), affamato (4,2). Nella sua risurrezione realizza in prima persona la beatitudine, identificando a sé tutti i poveri, nella sazietà del banchetto messianico e nel riso di vittoria.Il discorso di Luca è comprensibile solo ai discepoli. La Parola è rivolta a un “voi” ecclesiale, formato da quei “piccoli” ai quali è stato rivelato nello Spirito il Mistero della conoscenza e dell’amore mutuo Padre/Figlio (10,21s). È una parola indirizzata a chi, scoperto il tesoro, vuole viverne in pienezza i frutti, disposto ad abbandonare tutto ciò che è d’impedimento a questo. Dal punto di vista storico.

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Gesù si rivolge a quei poveri reali di tutti i tipi dei quali si è preso cura. Il suo “prendersi cura” di ogni miseria è il “suo” segno messianico (cf. 7,21-23). Sazierà col suo pane questi affamati (9,10-17), ed asciugherà con la sua consolazione le loro lacrime (7,11-17).Questi “poveri”, interlocutori diretti di Gesù, in Luca diventano i discepoli, impersonati da “Teofilo” che desidera conoscere il Signore che già ama. Anche noi ascoltiamo la stessa parola perché, nell’obbedienza a lui, veniamo trasferiti e rapiti in Dio, trasformati in lui, “oggi” eterno di Dio, in cui è offerta la salvezza a tutti i perduti.È da notare il tempo presente della prima beatitudine e della prima lamentazione. “Già ora” il Regno è dei poveri e “già ora” i ricchi se ne escludono con un surrogato di consolazione. Le altre due beatitudini/lamentazioni sono al futuro semplice: sono rispettivamente i frutti/surrogati del Regno che matureranno nel futuro. Ciò significa che con Gesù la storia presente è definitiva, ma non chiusa: è anzi definitivamente aperta verso il suo termine di salvezza. Questa tensione presente-futuro, tra un “ora” e un “dopo”, è lo spazio stesso della storia, luogo di decisione dell’uomo per accogliere la libertà di Cristo.L’ultima beatitudine/lamentazione indica una situazione futura, ma che ben presto diventerà attuale, nel tempo della persecuzione. Allora sarà per il discepolo il suo presente di compartecipazione o meno alla passione del Signore.Le beatitudini si possono comprendere solo conoscendo che Dio è amore per tutti i suoi figli. La sua giustizia è togliere a chi ha e dare a chi non ha, in modo che si viva in concreto la fraternità. Il nostro concetto di giustizia: “a ciascuno il suo”, più che sulla giustizia di Dio che è amore, si fonda sull’ingiustizia umana e ne codifica l’egoismo che la origina.È utile notare che la distinzione poveri/ricchi è di facile lettura all’esterno. Difficilissima ne è la lettura all’interno del cuore dell’uomo: solo la Parola che vi penetra dentro discerne in noi tra la beatitudine e l’ahimè, recidendo dolorosamente in noi il male dal bene. È ingiusto fare delle beatitudini una lettura solo intimistica. È però stolto farne una “classista”, che vede solo il male fuori di sé e demonizza l’“altro da me” come nemico. In realtà ognuno di noi è combattuto tra l’avere, il potere e l’apparire da una parte e la chiamata del Signore alla povertà , al servizio e all’umiltà dall’altra.

2. Lettura del testo

v. 20: “Gesù, sollevati i suoi occhi”. Gesù non parla dall’alto. La sua cattedra è trovarsi più in basso dei suoi ascoltatori. Questi sono quelli del v. 17: gli apostoli che sono scesi con Gesù dal monte, la folla dei discepoli e la moltitudine di popolo, qui chiamati “suoi discepoli” sui quali “solleva gli occhi”, come se fossero più in alto di lui. Effettivamente si è abbassato sotto di loro. Inoltre l’atteggiamento di “levare gli occhi” è tipico della preghiera verso Dio! Forse per indicare a noi dove possiamo vedere la sua presenza, dopo il suo abbassamento.

“Beati i poveri”. Se dico: “Beato te”, intendo dire “mi congratulo, mi felicito con te, ti faccio i miei complimenti per una cosa buona che ti è capitata”. Le beatitudini sono delle “felicitazioni”. I poveri di cui si parla non sono solo dei “poveri” in contrapposizione ai “ricchi”. Mentre ricchi sono quelli che hanno il tanto superfluo con poca fatica, poveri sono quelli che hanno il poco necessario con molta fatica (è il senso del latino pauper, la cui radice è comune con paucum = poco). Il termine greco ptochoí da cui “pitocchi” indica gli “indigenti”, quei poveri che mancano del necessario. Sono a un livello inferiore. Mentre i poveri, anche se poco, hanno qualcosa, i pitocchi non hanno niente: sono nullatenenti. La parola “pitocco” indica uno stato morale derivante da una situazione economica: non avendo concretamente nulla, il pitocco, per quanto si dia da fare, resterà sempre con nulla, e non potrà

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che vivere di dipendenza e di sottomissione. Non è persona! La parola greca ptochós deriva infatti da un verbo che significa “nascondersi”, “rannicchiarsi su se stessi per timore”.Gesù si congratula con costoro e fa loro le felicitazioni, perché a loro è donato il Regno. Dio compie in loro favore la sua promessa (cf. Is 61,1). Non perché siano bravi e abbiano quella povertà spirituale (= umiltà) che rende l’uomo gradito a Dio. Sono poveri reali che hanno fame e piangono. La loro beatitudine consiste nel fatto che Dio interviene in loro favore, perché è suo dovere difendere il povero. Infatti è padre e ama tutti i suoi figli. Il suo amore, non i loro meriti, lo fa intervenire in loro favore.È necessario comprendere che l’amore si misura non dal merito ma dal demerito, non dall’amabilità ma dalla non amabilità, non dalla qualità ma dal bisogno. Diversamente non se ne capisce la sorgente, che è il cuore di Dio Padre, che ama ciascuno secondo il suo bisogno. Un amore secondo il merito diventa “meretricio”, desiderio e possesso, invece che grazia, dono e vita. I poveri sono quelli che, per definizione, sono nel bisogno. Per questo Dio interviene.Luca, rivolgendo ai discepoli questa beatitudine, suppone che siano realmente poveri. È l’evangelista che più insiste sulla povertà come espressione di dono e misericordia: cf. 3,11; 5,11.28; 6,30; 7,5; 11,41; 12,33a; 14,13.33; 16,9.13; 18,22; 19,8; At 2,44; 4,32.34; 9,36; 10,2.4.31. La chiesa madre di Gerusalemme era di “anawim”, di poveri di Dio, che dovettero essere soccorsi dalla solidarietà dei fratelli (At 11,29s; 24,17; 1Cor 16,1, ecc.). Anche la chiesa di Corinto era in prevalenza di poveri (1Cor 1,26ss). Questi sono vicini a colui che da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà (2Cor 8,9).La povertà nell’AT era piuttosto una maledizione o uno scandalo. Solo secondariamente e più tardi fu vista come condizione che porta a confidare umilmente in Dio e nel suo intervento. Nel NT, alla luce della croce, la povertà assume un significato totalmente positivo. Nel suo aspetto di bisogno, dipendenza e disonore, porta, attraverso l’umiliazione, all’umiltà e alla fiducia in Dio. Al contrario la ricchezza, attraverso l’autosufficienza, la sazietà e il riso di autocompiacimento, porta alla vanagloria, alla superbia e alla fiducia in sé.

“perché vostro è il regno di Dio”. È il motivo della beatitudine. È una bestemmia convalidare con queste parole di Gesù 1’“alienazione religiosa” e la funzione consolatoria del paradiso, utile a mantenere l’ingiustizia sulla terra. Il fatto che Dio è povero e per i poveri, è motivo per lottare contro l’ingiustizia e ogni male che viene dalla sete di possesso e di potere. Il modo di questa “lotta” ce lo indica il messianismo povero e umile di Gesù, che si prende cura di chi sta male (cf. 7,22s). Che il Regno sia donato ai poveri, è l’esperienza stessa della chiesa di Luca: la parola è accolta dai poveri, e l’ascolto li rende tali, se prima non lo erano (19,1ss; At 2,45; 4,32ss). Pure le persecuzioni, promesse come beatitudine imminente nel v. 22, hanno contribuito a raggiungere questa povertà non solo affettiva, ma anche effettiva. Essa porta all’ascolto e alla sottomissione a Dio, alla speranza in lui e all’attesa del suo intervento.Il regno di Dio significa il bene di tutti i beni, la somma dei desideri, delle attese e delle promesse di Dio. È il capovolgimento che Dio fa del regno dell’uomo, che noi facciamo e conosciamo bene! È l’oggetto primo della preghiera al Padre, come dono da invocare (11,2b). Perché il “regno di Dio” è “di Dio”: è la luce della sua misericordia, della sua giustizia e della sua pace. È Gesù stesso, che in sé lo ha pienamente compiuto attraverso il mistero della croce dove è stato vinto il male.

v. 21a: “Beati quanti avete fame ora, ecc.”. Si intende la fame reale, del povero che non ha da mangiare, non quella spirituale di Am 8,11s, propria del ricco ingiusto! È la fame di Lazzaro (il nome significa: “Dio è mio aiuto”!) “bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco” (16,21), la fame dei poveri nel deserto che Gesù ha saziato (9,17), la fame che lui stesso ha scelto di condividere (4,2). Il povero, nelle culture di sussistenza, è colui che non ha da mangiare e non può

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materialmente saziarsi. La fame è la sua situazione costante: è un male endemico, che la comunità di Luca certamente conosce, come tutti i poveri del mondo. Infatti si rivolge ai discepoli che “ora” hanno fame. Si connota così la situazione attuale del discepolo: il Regno è già suo, ma il presente si contrappone ad un futuro di sazietà, ora solo promessa. Quando sarà questo futuro? Certamente, su un piano escatologico, è da porre già dopo la morte personale, per il singolo povero (16,19ss; 23,43), e dopo la fine del cosmo, a un livello generale, per tutto il mondo dei poveri. Come la meta a cui si tende è già operante all’inizio del cammino, così la promessa di sazietà dirige e qualifica il cammino storico presente. È il fine da Dio voluto per questo mondo, la sua volontà attuale e definitiva su di esso. Chi la capisce, ascolta e fa “ora” questa sua volontà. Il discepolo ha infatti la mano guarita: può operare come Dio, ed è chiamato a farlo subito.Il futuro di sazietà, contrapposto al presente di fame, crea uno spazio di tensione. È il campo di libertà e di responsabilità di chi si impegna in favore dei poveri, in obbedienza a Gesù che per primo l’ha fatto. La storia stessa, questo tempo intermedio pieno di povertà, fame e pianto, è il luogo stesso in cui il credente è chiamato a esercitare la misericordia come Gesù. È su questa terra che si getta il seme dell’albero del Regno, non su un’altra ipotetica e migliore. Il presente è quindi lo spazio dell’impegno di fede del credente, che ascolta e fa la Parola (8,21; 11,27s). Così obbedisce al suo Signore ed entra nel suo “oggi” (Eb 3,7-4,14).

v. 21b: “Beati quanti piangete ora”. Il pianto è la manifestazione di dolore del povero affamato che, colpito da tutte le altre afflizioni, grida senza rimedio e piange. Il pianto denota l’impotenza davanti al male, l’essere schiavi e insieme ribelli e incapaci di uscirne. Poveri, affamati e piangenti sono in realtà un’unica categoria di persone. Anche Gesù piangerà (19,41), però non su di sé, ma per Gerusalemme. Sarà un pianto di misericordia per chi lo uccide, capace di asciugare ogni lacrima.

“riderete”. Non si intende tanto il riso di gioia continuo della situazione definitiva, ma il riso di sorpresa, esplosione incontenibile che si prova nel momento stesso della liberazione, in cui la situazione si capovolge (cf. Sal 126,2).

v. 22: “Beati siete quando vi odieranno gli uomini, ecc.”. Questa beatitudine, al futuro sulla bocca di Gesù, è diventata attuale per la chiesa di Luca. Il discepolo è associato al destino di passione del suo maestro (Gv 15,18-21). Il mondo ama ciò che è suo (Gv 15,19) e odia i discepoli perché non sono del mondo (Gv 17,14-16).

“a causa del Figlio dell’uomo”. Tutto questo male viene ai discepoli per l’amore che portano a Gesù. Motivo di beatitudine è partecipare al suo mistero di persecuzione e di morte, con la certezza di partecipare alla vita (Fil 3,10s) di colui che amano. Infatti sono stati conquistati da lui (Fil 3,12) che è la loro vita (Fil 1,21ss). Nella persecuzione sono associati nel modo più profondo alla sua missione di salvezza. Paolo dice: “Compio in me quello che manca alla passione di Cristo” (Col 1,24).

v. 23: “Rallegratevi in quel giorno, ecc.”. Associati al Risorto che è il Crocifisso, i discepoli sentono di essere con lui e in lui sulla via della gloria del Padre. Questo è già un motivo di gioia attuale: non c’è più tensione tra un “ora” di lutto e un “allora” di gioia. Proprio “quel giorno”, che è l’ora del lutto e della persecuzione, diventa l’ora della gioia promessa dal Signore. Si gioisce e si fa festa di danza, perché la persecuzione è la garanzia che si è con lui (cf. At 5,41; Gc 1,2ss; 1Pt 1,6-9; Eb 12,4-13). Nella cosiddetta “piccola pentecoste” (At 4,23ss.), durante una persecuzione i discepoli capiscono di essere associati alla passione del Signore, e che ciò che avviene a loro è lo stesso mistero suo che continua in loro (vedi anche 2Cor 11,1-12,10).

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v. 24: “Invece: ahimè per voi, i ricchi.... ecc.”. C’è una contrapposizione esplicita: “invece”. Le felicitazioni per i poveri si fanno compianto per i ricchi. Vengono chiamati “voi” per simmetria con le beatitudini che sono rivolte al “voi” dei discepoli. In realtà il cuore “padronale” è sempre almeno in agguato anche nel discepolo.“Guai” non è il grido di vendetta e di esultanza del vinto che si fa vincitore! Non c’è ricco peggiore del povero arricchito; non c’è vincitore più crudele del vinto che si prende la rivincita! È invece un lamento di compianto, che Gesù rivolge ai ricchi, per avvertirli di un male di cui non si rendono conto. Come si rallegra con i poveri, così si contrista per i ricchi. Infatti ama anche loro e vuol portarli alla conversione; sono tutti suoi fratelli, figli del “suo” Padre, che è unico per tutti! La conversione è possibile anche ai ricchi che incontrano Gesù (cf. Zaccheo in 19,1ss).I beni sono un dono di Dio. Il “possederli” invece di “donarli” è chiudere il cuore alla misericordia verso i fratelli ed escludersi dal circolo della misericordia del Padre. L’uso corretto dei beni è indicato da Luca soprattutto al c. 16, dopo le parabole della misericordia (c. 15). Il male delle ricchezze non consiste nel fatto che siano cattive. Tutte le cose sono buone, “dono” di Dio all’uomo. Il loro “possesso” è cattivo perché le nega come dono. I beni posseduti non richiamano più il Donatore, e sono tagliati fuori dalla loro sorgente. Il dono sostituisce il Donatore, le cose diventano Dio, il loro possesso fine della vita, il loro accumulo surrogato di “consolazione”. Per questo rendono miopi sul vero senso della vita e delle cose stesse e chiudono l’uomo nell’idolatria.Il povero spera necessariamente che qualcosa cambi, il ricco invece spera che nulla cambi. Sta chiuso nella presunta autosufficienza, aperto solo all’avidità di beni, che ha sostituito l’adorazione di Dio.

v. 25: “ahimè per voi, che ora siete pieni.... ecc.”. Il ricco è sazio di quella pienezza che fa cessare ogni ricerca e porta alla stoltezza (12,20). “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono” (Sal 49,13.21). A questa illusoria sazietà “ora” risponde la penuria di dopo, propria di chi non usa la ricchezza, sempre “disonesta” in quanto accumulata, per procurarsi amici che lo accolgano nelle dimore eterne (16,9.19-31). L’uso naturale dei beni, che sono doni, è usarli come dono. Solo così portano al fine, che è amare e donare tutto a Dio e ai fratelli. Ogni altro uso è contro la natura delle cose e porta alla distruzione del creato. Infatti tutte le cose vanno usate tanto quanto aiutano a conseguire il fine per cui siamo creati. Ogni altro uso non è onesto.

v. 25b: “ahimè per voi, che ora ridete, ecc.”. La sazietà porta al sorriso di autocompiacimento. Di esso è piena la bocca dello stolto, che si compiace di se stesso e si sente autosufficiente (12,19). Come la povertà, attraverso il bisogno e l’umiliazione, porta all’umiltà e alla comunione con colui che è mite e umile di cuore (Mt 11,29), così la ricchezza, attraverso la sazietà, porta all’autosufficienza e alla vanagloria (v. 26). Questa impedisce la fede: “Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,44). Dio resiste ai superbi e agli umili fa i suoi doni.

v. 26: “ahimè, quando di voi bene diranno, ecc.”. Ora non si parla forse più tanto dei ricchi, quanto di coloro che cercano di sfuggire all’odio e alla persecuzione che incontra chi segue il Signore e la sua parola. Sono quanti cercano riconoscenza e lode e, invece di servire la verità, se ne servono a proprio vantaggio e la volgono e rivolgono come vogliono.È l’atteggiamento dei falsi profeti (Is 30,9ss; Ger 23,17ss); ed è l’atteggiamento dei farisei, che “amano la gloria degli uomini più di quella di Dio” (Gv 12,43). Per questo non possono accettare Gesù, che è la gloria che viene da Dio (cf. Gv 5,44). È l’atteggiamento di “protagonismo” (= ipocrisia) dal quale i

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discepoli devono guardarsi (cf. 9,46; 12,1; 20,45ss; 22,24-27) e che facilmente li tenta. Contro di essi, tra i tanti avvertimenti, mette in guardia la parabola sulla scelta dei posti (14,7-11).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando un piano, nel declivo del monte, e Gesù che si pone in basso a predicare, alzando gli occhi sui discepoli.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere le frodi di satana e guardarmene, conoscere e amare la vera vita che Gesù propone.

d. Punti su cui riflettere:fermarmi su ogni parola, vedendo come Gesù l’ha vissuta.

4. Passi utili

Sal 126; 49; 113; 1Sam 2,1-10; Is 61,lss; Lc 1, 46-55; At 2,42-48; 4,32-37; Mt 5,142.

29. AMATE I NEMICI VOSTRI

(6,27-31)

27 Ma a voi dico,che ascoltate:amatei vostri nemici,bene fatea quanti odiano voi,28 beneditequanti maledicono voi,pregate intornoa quanti calunniano voi.29 A chi ti colpisce sulla guancia,porgi anche l’altra;a chi prende a te il mantello,anche la tunica non negare;30 a chiunque chiede a te,dà;e a colui che prende le cose tue, tu non richiedere.31 E come volete

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che facciano a voi gli uomini, fate loro similmente.

l. Messaggio nel contesto

Nelle beatitudini/lamentazioni abbiamo visto il comportamento di Dio, che è grazia e misericordia per i poveri. Ora vediamo il comportamento di quegli uomini che hanno accolto la sua grazia e la sua misericordia. Dietro ogni imperativo si legge in filigrana un indicativo, che mostra come Dio in Gesù mi ha amato. Sono parole strettamente autobiografiche: lui per primo ha fatto ciò che ha detto, Questo brano ha la funzione di richiamare alla mente come Dio ama me, in modo che io, riconoscendomi peccatore graziato, faccia di questa grazia la fonte della mia vita nuova.Il brano quindi rivela chi è Dio per me, chi sono io per lui e chi devo essere per gli altri.In primo luogo mi fa conoscere chi è Dio per me. In Gesù mi si rivela il volto di un Dio che mi ama, mentre sono suo nemico; mi fa del bene mentre lo odio; mi benedice, mentre lo maledico; intercede per me, mentre lo uccido; purché io sia salvo, è disposto a subire ogni male da me; lo spoglio e lui mi riveste della sua nudità; mi dona anche ciò che non oso chiedergli e non richiede indietro ciò che gli ho rubato. Veramente il suo amore per me gli ha fatto percorrere ben più di due miglia: una strada infinita! Lui è tutta con-discendenza verso il mio abisso.In secondo luogo, in questo suo amore verso di me, mi rivela chi sono io per lui: infinitamente amato, anche se suo nemico, odiatore, maldicente, rinnegatore, violento, spogliatore, petulante, indigente e ladro. Proprio verso di me, che sono in questa situazione, lui riversa il suo amore e mi grazia con la sua misericordia. Conoscere Dio nello Spirito è sperimentare e sapere l’amore di Dio verso di me peccatore, in Cristo. Questa è la salvezza.Solo in terzo luogo queste parole mi rivelano chi devo essere io per gli altri: fratello come Gesù, il Figlio. Ciò che lui ha fatto per me, diventa per me un imperativo, perché io sia quel che sono. Il volto di Cristo, il Figlio, è il mio vero volto. Da homo homini lupus, divento homo homini Deus, come lui. Questa è la mia vocazione di figlio di Dio, alla quale il suo amore mi chiama e mi abilita. Nella misura in cui conosco il suo volto, vengo trasformato nella sua immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione del suo Spirito (2Cor 3,18).In queste parole quindi vedo da una parte la storia di Dio in Gesù, nel suo amore verso di me; dall’altra la storia mia e di chiunque, che, guarito dall’inimicizia verso Dio, è chiamato a guarire dall’inimicizia verso tutti.Il discorso è riservato ai discepoli. È una catechesi sul nocciolo della vita cristiana: l’amore di misericordia, unico amore possibile in un mondo di male, unica forza capace di vincerlo. L’amore dei nemici è proprio e solo di chi ha conosciuto Dio nello Spirito di Gesù, il Figlio. Questo amore si estende a tutti gli uomini, e rivela l’essenza di Dio.Il brano si articola in una strofa di quattro comandi: “amate”, “bene fate”, “benedite” e “pregate” per i nemici (vv. 27-28), seguiti da quattro amplificazioni che dicono come vincere il male col bene (vv. 29-30), per concludere con il principio generale dell’amore: “come volete che facciano a voi gli uomini, fate loro similmente” (v. 31). Si suppongono uditori credenti che hanno già capito e accolto il Regno. È il punto centrale del loro ascolto, la pietra di paragone della loro fede: chiamati al dono di una vita nuova, purificata e capace di camminare (rispett. 5, 1-11; 5,12-16; 5,17-26), commensali di Gesù, abilitati a vivere di Dio e ad agire come lui (rispett. 5,27-32; 5,33-6,5; 6,6-11), ora accettano la sua azione come fondamento e sorgente della propria vita. È la vita nuova in Cristo, la vita nello Spirito del Figlio, che il credente vive in relazione al “mondo” e a coloro che ancora ignorano di essere suoi fratelli e lo considerano nemico. Quest’amore del nemico è l’arma con cui il credente vince il male nel

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mondo, ed è il principale mezzo di diffusione del cristianesimo (molto più efficace di tutte le crociate), che sortiscono l’effetto contrario.La mia inadempienza nei confronti di questa parola del Signore mi mostra il mio peccato e il mio bisogno di perdono, quanto ancora sono suo nemico e devo sperimentare il suo perdono su di me.

2. Lettura del testo

v. 27: “Ma a voi dico, che ascoltate”. Il “ma” suppone che ora Gesù si rivolga non più ai ricchi di cui parlava immediatamente prima, bensì ai “pitocchi” del v. 20 che qui vengono chiamati “voi che ascoltate”. La povertà è in connessione coll’ascolto e in contraddizione con la ricchezza. Come la povertà rende ascoltatori e l’ascolto rende poveri, così la ricchezza rende sordi e la sordità porta ad ogni sorta di idolatria, tra le quali quella dei beni è la prima. Questi “voi” sono gli apostoli, i numerosi discepoli e tutto il popolo di ascoltatori (vv. 17-18), che accettano il Regno e sono chiamati ad affrontare persecuzioni, odio, bando, insulti e diramazione a causa del Figlio dell’uomo.

“A voi dico”. È una solenne dichiarazione di Gesù il Kyrios, il Signore stesso che parla ai suoi (cf. v. 46).

“amate i vostri nemici”. Gesù, in un crescendo, chiede di amare i nemici, fare il bene, bene-dire e pregare per loro.Il comandamento dell’amore riguarda innanzitutto il nemico. L’esperienza primordiale del credente è quella di essere stato amato da Dio quando era ancora suo nemico (Rm 5,64 1). Non si parla di amore reciproco, di amicizia (philía). Questa o è uno scambio egoistico di sentimento interessato, o è risposta all’agápé, a un amore che si espone per primo, senza contraccambio e senza riserve, fino a dare la vita. L’amore del nemico è necessariamente agápé, della stessa qualità di quella che ha Dio per noi. Dice Giovanni che in questo consiste l’amore: non noi abbiamo amato Dio, ma lui ci ha amati “per primo” e ha dato per noi suo Figlio (1Gv 4,10). In questo dono “riconosciamo e crediamo” il vero volto di “Dio che è amore” (cf. 1Gv 4,16). L’amore del nemico è la verifica se realmente siamo da lui. Chi non ama il nemico non conosce Dio. L’amore del nemico è il nocciolo pratico del cristianesimo, che altrove si esprime come “perdono” (cf. vv. 36-38; Mt 6,11s. 14s; 18,21-35).È un amore di misericordia che sa perdonare tutto e farsi carico di ogni lontananza. È un amore “ricreatore”, più forte dell’amore stesso che ha creato: non solo fa il bene dove non c’è, ma addirittura dove c’è il suo contrario, ed è capace di creare valore e bontà dove c’è disvalore e cattiveria. Se amare è come generare un figlio, perdonare è come risuscitare un morto. Quest’amore di misericordia è la spia per vedere se abbiamo accolto la salvezza di Dio. Chi non perdona, non è perdonato (Mt 6,15).L’amore del nemico significa odio dell’inimicizia e del peccato. Gesù ama i peccatori perché odia il peccato e conosce il male che ne deriva al malfattore, prima vittima. Noi al contrario ci adiriamo col malfattore e lo odiamo, perché siamo suoi conniventi e concorrenti: amiamo il male e non conosciamo il bene. Non perdonare e non amare il nemico significa non avere ancora conosciuto il perdono e la salvezza. Se non amiamo i nemici, siamo addirittura nemici di Dio stesso, che li ama in quanto suoi figli, e figli bisognosi! Il maggior male è il non-amore del nemico: ignorarlo o considerarlo estraneo è tagliarsi fuori da Dio che è misericordia.Per nemico qui si intende il non credente. Nei vv. 27-31 si parla dei rapporti che la comunità ha con il resto del mondo. Ma si può intendere anche ogni uomo. Il nemico è l’altro, che, istintivamente, dopo il peccato, è percepito così o perché mi fa male, o perché non mi concede il suo bene, o perché non ha nulla da darmi L’inimicizia proviene in realtà dal mio egoismo, che me lo fa considerare in funzione

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mia, come uno che “mi” danneggia o non “mi” vuole servire o non “mi” può servire affatto. Non lo considero mio fratello, ma mio piedistallo. Dio stesso fu suggerito all’uomo come nemico: è l’inganno primordiale che ci ha resi nemici gli uni gli altri e nemici a noi stessi.Il Vangelo suppone che la situazione reale dell’uomo sia di inimicizia e di perdizione, dove ognuno pensa al “particular suo” a scapito dell’altro.Qui si dice: “ama il nemico”, e altrove: “ama il prossimo tuo” (10,27). Non si è lontani dalla verità se si pensa che il primo concorrente sia il “prossimo”, colui che ti è più vicino. Il nemico lontano in genere è meno detestabile del prossimo vicino! Gn 3-11, tracciando un grafico delle componenti profonde della storia umana come regressione nel caos, fa una lettura disincantata della situazione umana in termini di inimicizia.Questa regressione verso un male sempre peggiore può essere rotta solo da un far grazia agli altri come Dio ha fatto grazia a noi in Cristo (Ef 4,32). L’amore del nemico, o “per-dono”, è lo Spirito che ricrea un mondo perduto. L’uomo vive o muore del perdono che l’altro gli accorda o gli rifiuta. L’essere accettato incondizionatamente è la condizione perché l’uomo possa essere libero e risorgere dal male.

“bene fate a quanti odiano voi”. L’amore non è solo un atteggiamento interiore di misericordia. Come ogni amore, si esprime più nei fatti che nelle parole e consiste nel far parte all’altro dei propri beni e di se stesso.Come la fede non c’è senza le sue opere, così l’amore del nemico non c’è senza un “fare”, con creatività e fantasia. È difficilissimo saper fare “del bene” al nemico. Non si tratta di un bene qualunque, magari a denti stretti, che lo indispettisca e mostri la nostra superiorità nei suoi confronti. In questo senso è vero che la peggior vendetta è il perdono! Si tratta di un bene che sia tale “per lui”, non per noi. Il bene che facciamo al nemico, se nasce dal moralismo, porta al suo indurimento e alla nostra stupida esaltazione. Ma l’amore, come sa dare un cuore nuovo, sa anche dare occhi e intelligenza nuovi, capaci di discernere nello Spirito qual è il bene dell’altro.

v. 28: “benedite quanti maledicono voi”. Dio non solo ci ha amati e ci ha fatto del bene quando eravamo suoi nemici, ma ci ha addirittura benedetti. Il “bene-dire” di Dio è in realtà il suo “bene-dare”, perché egli “dice” ed “è fatto” (cf. Gn 1). Noi diciamo bene di lui, cioè “lo benediciamo”, proprio quando vediamo che lui ci “dà-ogni-bene”, nonostante ogni nostro pensare o dire male di lui. La benedizione nostra a lui è risposta alla sua misericordia operativa nei nostri confronti. Nella Bibbia la benedizione per sé ha come termine solo Dio, perché da lui ci viene ogni bene: è risposta di lode e ringraziamento. Come benediciamo Dio, ora benediciamo il nemico stesso. Questi infatti ci dà il sommo bene di essere come Dio, il quale ama i nemici! Il bene maggiore ci viene proprio dai nemici! Da qui si capisce come il Signore possa tollerare un mondo dove c’è il male e come questo sia ormai il luogo del massimo bene.

“pregate intorno a quanti calunniano voi”. Chi ci abbassa e rinnega davanti agli uomini, noi lo innalziamo e lo confessiamo davanti a Dio; chi ci avvolge di parole cattive davanti agli uomini, noi lo avvolgiamo di parole buone davanti a Dio: davanti a lui parliamo bene e intercediamo per chi parla male di noi e ci denigra.Così il Signore ci ha insegnato, facendolo per primo nei nostri confronti quando pregò il Padre per i suoi crocifissori (23,34). Con questa preghiera il Signore Gesù ci ha salvati. Facendo altrettanto, anche noi siamo associati alla sua opera di salvezza rivolta a tutti. La preghiera per il nemico è l’ultimo livello di amore, che passa attraverso le mani (“fate”) e la bocca (“dite”) per raggiungere ora il cuore (“pregate”). Esige infatti un cuore puro, perché davanti a Dio non si può mentire.

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v. 29: “A chi ti colpisce sulla guancia, ecc.”. Il nemico, oltre che percuoterti nello spirito (odio, maldicenza, calunnia), colpisce anche il tuo corpo, come con Gesù (22,63-65; Is 50,6). La sua risposta a questa violenza fu la libertà di assumerla e portarla. Il male non si vince dando il contraccambio. Viene solo raddoppiato. Lo si vince con il bene (Rm 12,21), disposti a subire ulteriore male, pur di non farlo. Questa è l’unica forza capace di vincerlo. Il giusto sa di “dovere” portare l’ingiustizia: “Come le notti seguono i giorni, così i mali seguono le buone azioni” (Marco l’Asceta). Il costo più duro per chi fa il bene è costatare la sua inefficacia e sconfitta. È lo scandalo-vittoria della croce, di chi si rimette totalmente a Dio e fa il bene senza alcun interesse, per semplice obbedienza e amore al Padre. È così capace di portare tutto il male, anche la morte, e di stimare questo “una grazia” (1Pt 2,19).

“a chi prende a te il mantello, ecc.” Il male si manifesta anche come spoliazione del necessario e dell’indispensabile esterno e interno: “il mantello e la tunica”. Gesù non tenne gelosamente nulla per sé, si spogliò di tutto per noi e ci rivestì con la sua nudità (23,34b). Noi siamo chiamati almeno a “non impedire” tale spoliazione con il nostro rifiuto.

v. 30: “a chiunque chiede a te, dà, ecc.”. Dio è amore e dona a quanti aprono la mano e chiedono. È dono assoluto, senza riserva o considerazioni di merito: Gesù ha donato tutto se stesso “per me” (Gal 2,20; 1Tm 1,15) peccatore. Vivere di questo dono è la radice della nostra capacità di donare a chiunque. Il prezzo della vita è la gratuità.

“a colui che prende le cose tue, tu non richiedere”. Dio non solo dà a chi chiede: dona tutto se stesso anche ad Adamo, il quale voleva rubarne solo l’effige! Se il peccato di Adamo fu rubare ciò che era stato donato, la vittoria di Cristo fu donare ben oltre ciò che era stato rubato: si consegnò volontariamente nelle mani di coloro che lo presero (9,44). Questo è il motivo per cui non richiediamo ciò che ci vien portato via.

v. 31: “E come volete che facciano a voi gli uomini, fate loro similmente”. I miei diritti sugli altri sono trasformati in miei doveri verso gli altri: è la grande rivoluzione. Il passaggio dall’egoismo all’amore. Tutti sono sensibili a sé e ai propri diritti, pochi sono sensibili agli altri e ai loro diritti fino a farne propri doveri! Questa è la regola aurea, che sintetizza come principio generale quanto detto sinora. In forma negativa era già noto: “Ciò che dispiace a te, non farlo a nessun altro. Questa è tutta la legge: il resto è commento” (Hillel). Ma per osservare tale regola negativa basta non far nulla. In Gesù la formulazione è positiva: si suppone un’attività e creatività proprie dell’amore. L’egoismo ti fa porre “te stesso” al centro di tutto: tu sei il sole e gli altri ti devono ruotare attorno! L’amore ti fa porre “l’altro” al centro. È il decentramento tipico dell’amore, che irradia luce e calore. Questo porta chi ama a una forma di ex-stásis. Se amo, il mio bene è fuori di me: è l’altro che amo. E mi realizzo unendomi a lui con il servizio. Così l’uomo supera la menzogna del proprio “io” e diventa come Dio, estasi di amore.Ovviamente, per vivere queste parole, si suppone il dono dello Spirito e un cuore nuovo, purificato dalla conoscenza del Signore nel suo perdono (Ger 31,31ss.). La nostra capacità di vivere queste, parole e di rispecchiare il volto del Signore dipende dal grado di conoscenza di Dio che abbiamo nello Spirito di Gesù.

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il piano sul declino del monte che scende al lago, come nel brano precedente.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere come Dio ama me, peccatore e suo nemico, e come io, non amando il nemico, odio il Signore che è morto per lui come per me.d. Mi fermo su ogni espressione, vedendo come Gesù l’ha vissuta nei miei confronti e come io la vivo nei confronti degli altri.

4. Passi utili

Il brano fa parte della prima catechesi battesimale, che ritroviamo come parenesi anche in tutte le lettere di Paolo (cf. Rm 12-15; 1Cor 13; Gal 5-6; Ef 4-6; Col 3-4).

30. SARETE FIGLI DELL’ALTISSIMO

(6,32-35)

32 E se amate quanti amano voi,qual è la vostra grazia?Finanche i peccatoriamano quelli che li amano.33 E se bene fate a quanti bene fanno a voi,qual è la vostra grazia?Anche i peccatori fanno lo stesso!34 E se prestate a quanti da cui sperate prendere,qual è la vostra grazia?Anche peccatori a peccatori prestano per ricevere altrettanto.35 Invece:amate i vostri nemici, e bene fatee prestate nulla sperando indietro,e sarà la mercede vostra moltae sarete figli dell’Altissimo perché egli è usabile verso gli sgraziati e i cattivi.

1. Messaggio nel contesto

Si motiva l’imperativo di amare i nemici dato nel brano precedente. Nei vv. 32-34 si mostra come solo così si manifesta la cháris (= grazia) di Dio sperimentata nel battesimo. Nel v. 35 si dice il fine di

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questo amore (essere figli dell’Altissimo) e la sua sorgente (colui che è usabile verso gli sgraziati e i cattivi).L’amore dei nemici è lo stesso di cui abbiamo beneficiato anche noi, mentre seguivamo ancora “quello spirito che opera negli uomini ribelli”, che ci aveva ridotti “per natura meritevoli di ira, come gli altri”, “senza speranza e senza Dio in questo mondo” (Ef 2,23.12). Infatti proprio allora “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati (...) per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Gesù” (Ef 2,4-7).Essere per gli altri come Dio è per noi: questo è il modello e la sorgente del nostro agire con “grazia” verso gli altri. Noi ci graziamo a vicenda, come Dio ha graziato noi in Cristo (Ef 4,32).Il fondamento di ogni etica è “essere come Dio”. Fondamento dell’etica cristiana è essere come Dio si è rivelato per noi in Gesù, pieno di grazia e di misericordia. Questa imitazione di Dio non è più un’impresa impossibile e disperata, il cui tentativo è riservato a pochissimi eletti. È accessibile a tutti i disgraziati, perché, mediante la misericordia e la grazia ricevuta, partecipiamo ormai tutti della natura stessa di Dio che è grazia e misericordia. Uno ama solo se è amato e come è amato: nessuno può dare ciò che non ha ricevuto! Ora Dio ci ama, senza riserve, anche e soprattutto dove non siamo amabili. Quindi anche noi, perché amati e accettati, possiamo accettare e amare noi stessi come siamo; e così possiamo accettare e amare gli altri come sono, senza riserve. Anche e soprattutto dove maggiore è l’indigenza di amore! Abbiamo infatti sperimentato che, “quale è la sua grandezza, tale è anche la sua misericordia” (Sir 2,18).Il cammino dell’uomo è conoscere se stessi, quindi accettare se stessi e infine dimenticarsi per accettare l’altro. Ora mi conosco veramente nell’amore che Dio ha per me; in esso mi accetto e ad esso mi abbandono, dimenticandomi e aprendomi all’altro con lo stesso amore che Dio ha per me.

2. Lettura del testo

v. 32: “E se amate quanti amano voi, qual è la vostra grazia?”. L’amore non è condizionato dalla risposta dell’altro, anche se la desidera ed è in grado di suscitarla. Infatti non è uno scambio, ma un dono; non è un do ut des, un aiuto reciproco interessato, ma un puro interesse all’altro! L’amore è sempre immotivato e incondizionato. Diversamente si tratta di egoismo, commercio e spoliazione reciproca. Per questo si esplica in pieno quando amiamo chi non ci ama, addirittura chi ci odia.Questo amore è della stessa sorgente dell’amore di Dio. Lui è amore di misericordia, che prende l’iniziativa e porta riconciliazione là dove c’era divisione e inimicizia. Solo questo amore è in grado di creare un mondo nuovo, salvandolo dalla distruzione in cui l’egoismo l’ha precipitato.Amando il nemico viviamo la “grazia” (cháris) sperimentata nel battesimo. Dio ci ha amati per primo (1Gv 4,19), quando eravamo ancora disgraziati e nemici (Rm 5,6); per questo anche noi amiamo per primi gli sgraziati e i nemici, lasciando trasparire la stessa grazia.L’amore di Dio si è fatto carico di ogni nostro male e odiosità. Il nostro limite, proprio ciò che noi detestiamo di noi stessi, è il luogo dove sentiamo il bisogno di essere accolti. La nostra non amabilità è bisogno di amore e sua misura. Come una fossa per l’acqua, così il male per l’amore: più è grande e profondo, più ne può contenere. Se amiamo quelli che ci amano e non amiamo quelli che non ci amano, che “grazia” abbiamo? Significa che non abbiamo ancora conosciuto la grazia dell’amore di Dio, che ci ha amati per primo, quando noi non lo amavamo. Se aspettiamo di essere amati prima di amare, nessuno amerebbe, perché nessuno farebbe il primo passo. Non esisterebbe l’amore.

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È vero che uno non può amare se non è amato. La “grazia” che abbiamo sperimentato nel battesimo è appunto questo sentirci amati da colui che ci ama senza riserve, in tutta la nostra non amabilità. Per questo siamo capaci di amare.

“Finanche i peccatori amano quelli che li amano”. Come l’amore dei nemici è tipico dei giustificati, così l’amore di scambio è tipico dei peccatori. Amare uno che mi ama e perché mi ama, significa che non lo amo se non mi ama. Vuol dire che non amo l’altro, ma l’essere amato da lui. In realtà amo solo me stesso e la gratifica che l’altro mi dà di sentirmi amato. L’amore, come la vita, non ha altro prezzo che quello della gratuità. L’amore “meritato”, se mi viene concesso, non è più amore, ma “meretricio”, perché non è gratuito; se non mi viene concesso, resto deluso perché l’ho meritato!Questo tipo di amore è peccaminoso e fallimentare perché, per quanto appaia bello, piacevole e utile, non salva dal male e non crea alcun valore, è anzi radice di male e spoliazione reciproca di valore. Ha le caratteristiche contrarie a quelle descritte in 1Cor 13: è sempre interessato, incostante e iroso, si appropria di ogni bene dell’altro e scarica ogni male su di lui; è in ricerca costante di stringere tutto ciò che è amabile, desiderabile e concupibile e rigetta l’altro e i suoi bisogni. È éros, il braccio destro di thánatos, il contrario dell’agape che dà libertà e vita. Commercio e ricerca di se stessi, non rende felice chi lo dà e chi lo riceve. Dura finché c’è da spogliare l’altro; cessa quando l’altro non ha più nulla da dare. Non si fa carico del male e non libera dalla morte. È anzi la bocca velenosa che morde e paralizza all’istante, per poi uccidere e risucchiare nella morte ogni vita.

v. 33: “E se bene fate a quanti bene fanno a voi, qual è la vostra grazia? Anche i peccatori, ecc.” Fare del bene a chi ci fa del bene e perché ci fa del bene non è amore. È uno sdebitarsi! Vale quanto detto al versetto precedente. Fare del bene a chi ci fa del bene è un principio immobilizzante, che impedisce l’iniziativa: nessuno si muoverebbe per primo. Il bene che eventualmente si facesse sarebbe interessato. Volgere il bene a proprio vantaggio si chiama egoismo: invece di servire e amare 1’a1tro, mi servo del bene e dell’amore dell’altro.Ogni azione compiuta in tale ottica non è dono di amore, ma solo “ricatto”, esca per accalappiare l’altro. Si è ben lontani dalla “grazia” ricevuta da colui che ci ha dato ogni bene senza contraccambio alcuno! È vero che nessuno può saltare oltre la propria ombra e che il male dell’egoismo è attaccato all’uomo come la sua ombra. Ma ormai ci siamo volti in cammino verso il sole e l’ombra l’abbiamo lasciata alle nostre spalle. Questo fare il bene, dice Gesù, è dei “peccatori”. Del bene resta solo l’involucro vuoto: dentro c’è ricatto, rapina e morte.

v.34: “E se prestate a quanti da cui sperate prendere, ecc.”. Il dare con “interesse” è la distruzione in radice del donare. In questa economia di interesse ogni azione, invece di essere un dono che mette in comunione con l’altro, è un investimento per avere indietro di più, una semplice trappola per ingabbiarlo e spogliarlo, un pegno di morte! Non rivela assolutamente la “grazia” di colui che ci ha fatto dono di tutto, dalla creazione alla legge, da noi stessi a se stesso. Tutto ciò che Dio ha fatto nella creazione e nella salvezza, non è stato per intrappolarci e “prendere” qualcosa da noi, bensì per darsi a noi, fino alla morte di croce, perché noi avessimo parte a ogni suo bene e a lui stesso.Il “dare con interesse” è peccaminoso e fallimentare. È proprio ciò che i peccatori fanno con i peccatori, rendendosi la pariglia, in un cerchio chiuso, ma sempre più largo, di morte.Come c’è un amare e un fare del bene, così c’è anche un dare che non esce dall’economia di morte: è quello dei peccatori che non conoscono il dono e la grazia di Dio. Quindi, come c’è un amore che nutre l’egoismo e un fare il bene che si volge in ricatto, c’è anche un dare per interesse, per avere di più.

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v. 35: “Invece: amate i vostri nemici, ecc.”. Riprende l’insegnamento dei vv. 27-30, che ora sono stati motivati. Attraverso l’esemplificazione del suo contrario, ora abbiamo capito che l’amore è amare chi non ci ama, ci fa del male e ci toglie il nostro. Questo amore non è nutrito dalla speranza di una ricompensa terrena. Rimane senza condizioni, senza riserve e senza alcuna speranza di contraccambio.Proprio per questo la nostra “mercede” sarà “molta”. Perché questo agire senza compenso semina una pianta che produce il frutto più grande e più desiderabile, quello che ci rende come Dio!

“sarete figli dell’Altissimo, ecc.”. La nostra ricompensa o gratifica non è quella fallimentare che distrugge l’amore, il bene, il dono, e volge la vita in sapore di morte. Non è neanche la buona coscienza o l’orgoglio soddisfatto. È il dono più sublime, che è insieme ricompensa, perché frutto della grazia ricevuta e donata.Mediante la misericordia diventiamo realmente come Dio. La nostra vita diventa trasparenza della sua grazia, il suo nome è finalmente santificato in noi che qui sulla terra compiamo la sua volontà.

“egli è usabile verso gli sgraziati e i cattivi”. È chiaro che noi amiamo solo chi ci ama, facciamo del bene solo a chi ci fa del bene, diamo solo a chi rende con interesse. È chiaro che il nostro amore è meretricio, il nostro bene è egoismo, il nostro dare è esigere. Noi non sappiamo amare: siamo disgraziati e cattivi. Ma lui ci ha amati: è stato buono e disponibile, si è lasciato usare e abusare, ci ha servito e ha lasciato che ci servissimo di lui come e quanto abbiamo voluto, fino alla morte. Abbiamo così sperimentato la sua “grazia” che ci ha fatto vivere. Questa è la nuova sorgente della nostra esistenza! Per questo, in quanto amati, sappiamo amare, in modo da diventare, invece di “homo homini lupus”, “homo homini Deus!”.Nell’amore dei nemici giunge a maturazione e fruttifica lo Spirito di Dio ricevuto nel battesimo, che ci ha resi come colui che è grazia, misericordia e disponibilità senza limiti.Invece di sforzarci inutilmente di amare i nemici, dobbiamo chiedere a Dio di conoscere e sperimentare il dono della sua cháris e del suo amore per noi, sgraziati, cattivi e suoi nemici. Questa è la radice dell’albero buono che necessariamente porta il frutto dello Spirito: amare come siamo amati.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il piano sul declivo del monte che scende al lago, come nel brano precedente.c. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore di conoscere il suo amore per me, suo nemico. Gli chiedo perdono di non amare i nemici. È il grande peccato che mi rende diverso da Lui.d. Considero come Gesù ha vissuto quanto dice nei miei confronti e come io lo vivo nei confronti degli altri.

4. Passi utili

Sal 103; 1Sam 26; Rm 5,6-11; 1Gv 4,7-21

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31. DIVENTATE MISERICORDIOSI

(6,36-38)

36 Diventate misericordiosi,siccome (anche) il Padre vostro è misericordioso37 e non giudicatee non sarete affatto giudicati;e non condannatee non sarete affatto condannati;assolvetee sarete assolti;38 datee sarà dato a voi:una misurabellapigiatascossasovrastraripantedaranno verso il grembo vostro,perché con la misuracon la quale misuratesarà rimisurato a voi.

l. Messaggio nel contesto

Il desiderio dell’uomo è “diventare come Dio” (Gn 3,5). Origine di ogni male è anche il desiderio che Dio colma di ogni bene. Il male non consiste nel voler diventare come lui, ma nel non aver capito come è lui. Per l’inganno del serpente , che suggerì una falsa immagine di Dio, l’uomo ha sbagliato la via per realizzarsi. Ora, dopo la rivelazione del suo volto in Gesù, è possibile capire la via per diventare come lui. Lv 19,2 esprime il fondamento di tutta la legge: siate santi come io sono santo. Ora qui si mostra come la santità, il proprio specifico di Dio, è la sua misericordia. Il v. 36 è il culmine della rivelazione di chi è Dio per noi. È il tema di tutto il Vangelo di Luca, che ne è uno sviluppo continuo attraverso “i fatti e i detti” del Signore (At 1,1).A questo versetto, che parla del Padre, seguono poi delle sentenze che non riguardano più i nemici, ma i fratelli. Sono quattro regole chiare, pilastri che reggono la vita all’interno della comunità. In essa viviamo rapporti nuovi di amore reciproco, che però sono sempre insidiati dal male. Per questo, anche all’interno della comunità, l’amore non perde mai il suo carattere di misericordia. Anche il male, che la venuta del Signore non ha abolito - vero enigma della storia! - ha una sua funzione “positiva”: è il luogo in cui si riversa la misericordia. Così l’uomo si realizza come Dio. Solo alla fine della storia il male sarà tolto, quando tutto il suo abisso sarà ricolmo di misericordia, come l’acqua riempie il mare. Il male Dio non lo vuole, né lo tollera, né lo permette. Esso c’è perché non può non rispettare la nostra libertà. Però, nella sua fantasia di amore, ne fa un bene maggiore. Infatti la miseria sta alla misericordia come la fossa all’acqua: più è grande, più ne contiene.

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La misericordia è assoluzione nel giudizio, giustificazione nella condanna, perdono nel peccato. Il nostro dare misericordia è in realtà il nostro stesso riceverne: per essa siamo incorporati in Gesù, il Figlio, ed entriamo nel circolo senza fine della vita stessa di Dio. Già qui sulla terra.Queste prescrizioni, più che un codice di azione, sono un modo nuovo di essere, che lascia trasparire la cháris dell’amore di Dio “riversato nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).Il giudizio e la salvezza sono operati “oggi” da noi nell’esercizio di questa misericordia: il giudizio e la salvezza mia sono legati al giudizio e alla salvezza che io accordo all’altro nel perdono negato o concesso.Presso gli uomini, se si perdona, si perdona a uno perché è già pentito: il pentimento precede il perdono. Presso Dio il perdono precede il pentimento: ci si può pentire, perché si è già perdonati. Quindi anche noi facciamo come lui se perdoniamo non solo chi è pentito, ma soprattutto chi non lo è affatto, perché l’esperienza di un amore più grande lo conduca al pentimento.

2. Lettura del testo

v. 36: “Diventate misericordiosi, siccome (anche) il Padre vostro è misericordioso”. Questo versetto di Luca rifà il verso a Lv 19,2, che dice: “Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo”. “Santità” significa “separazione, alterità, diversità”. Dio è santo per definizione. La sua specificità è proprio questo suo essere separato, altro e diverso da qualunque altro. Egli è l’unico! Ora qui ci si rivela che la sua specificità e unicità, la sua alterità e diversità, è la misericordia.Essa esprime l’essenza di Dio, ciò per cui lui è santo, totalmente diverso da noi: “Poiché, quale è la sua grandezza, tale è la sua misericordia” (Sir 2,18). Mt 5,48, nel passo parallelo, parla di “perfezione”, poiché la perfezione di ogni qualità di Dio la troviamo proprio nella misericordia.In Israele è un attributo di Dio (Es 34,6; Dt 4,31; Gio 4,2) da imitare. Nel Sal 136 essa ci è presentata come la chiave di lettura di tutta la creazione e di tutta la storia passata e presente. L’esperienza fondamentale di Dio, dal momento che siamo nel peccato e nel male, è quella di misericordia che perdona e salva. È lì che tutti conosciamo il Signore (1,77; Mt 1,21; Ger 31,34). È importante notare che la misericordia si esercita nel male reale ed è l’unico amore possibile in una situazione di male quale è la nostra. Inoltre, grazie a questo male (!) si rivela una forma più alta di amore, in grado di colmare l’abisso più profondo.La misericordia non è un semplice rimedio, un “minor male” o “meno peggio”, ma il massimo bene: il male, che sembra sfuggito di mano alla potenza di Dio, è raggiunto e cambiato nel suo contrario dalla misericordia. Ciò che non compie con la potenza della sua mano libera di agire, Dio lo compie con l’impotenza della sua mano inchiodata per amore alla croce!La misericordia non abbassa l’ideale dell’amore, come noi temiamo e desideriamo! Gli dà invece una dimensione che, senza il peccato, sarebbe insospettabile: felix culpa! Se infatti l’amore si esprime nel dono, la misericordia si esprime nel perdono, che significa “super dono”, di modo che, “dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20). La profondità della valle è l’altezza stessa del monte!Il peccato diventa luogo della rivelazione di Dio come Dio, nella sua santità: la misericordia. Con essa Dio manifesta pienamente il suo amore eccessivo e folle per noi (“manikòs éros”, dice Cabasilas). Non che il male sia necessario e sia bene peccare. È assurdo (Rm 3,8; 6,1-2.15)! Ma Dio sa servirsene per dare sfogo alla grandezza del suo amore e rivelarlo a noi senza equivoci.L’aggettivo che Luca usa qui per “misericordioso”, è oiktírmon, che indica l’espressione esterna della misericordia, sia come compassione che come intervento. Applicato a Dio, in tutto il NT è usato solo

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qui e in Gc 5,11. In genere la misericordia è indicata con la parola éleos, che è il sentimento interno di commozione, o splánchna (= viscere), che indica il luogo e la sorgente di tale amore, il cuore. I LXX traducono in genere il biblico hesed con éleos (quasi 400 volte), mentre oiktírmon (e derivati - circa 80 volte) traduce l’ebraico rahamim, che indica il ventre, l’utero.“Padre misericordioso” significa padre materno. La qualità di Dio padre è di essere madre. In quanto padre, ama liberamente ed entra in rapporto con noi mediante la parola: ci dà il nome e ci fa crescere adulti e responsabili. In quanto madre, ci ama visceralmente, ed entra con noi in un rapporto di necessità biologica, dandoci vita, casa e cibo. Se la madre fa nascere, il padre lascia vivere e genera la libertà. L’amore di Dio è quindi insieme necessario come quello della madre e libero come quello del padre.Questo “padre misericordioso” è chiamato “vostro”, per indicare, in obliquo, la fraternità che scaturisce da questa paternità uterina. Gesù lo chiama “vostro”, in contrapposizione a “mio”, perché la sua e la nostra figliolanza non si pongono sullo stesso piano, come non lo sono la fonte e il ruscello.I due versetti seguenti, prima ancora che linee di comportamento, sono lineamenti del volto di questo Padre misericordioso. Costituiscono in qualche modo una definizione operativa di Dio, di quel Padre misericordioso che Gesù ci ha rivelato e come il quale, proprio in quanto figli, dobbiamo diventare.

v. 37: “e non giudicate e non sarete affatto giudicati”. Al di là di ogni formazione religiosa, la prima immagine che l’uomo ha di Dio è di uno che “giudica”.Come la luce dà contorno all’ombra, così il bene infinito mette in rilievo il nostro limite e il nostro peccato, e chi si sente limitato e peccatore, si sente automaticamente giudicato. L’immagine di un Dio che giudica con severità è l’ultimo idolo che Gesù riesce a togliere, mediante la sua croce, dove lui, il giusto, porta il male di noi ingiusti. La sua croce è l’unico “giudizio” possibile al Figlio che è uguale al Padre della misericordia.Molto sbaglia chi giudica l’altro. L’errore sta non tanto nel fatto che il giudizio dell’uomo è fallace, perché “l’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1Sam 16,7). L’errore consiste proprio nel giudicare, perché giudicare è usurpare il potere di Dio: ci si mette al suo posto e si pone il proprio io come misura di tutto, al posto di Dio. Giudicare inoltre è non conoscere Dio, che è misericordia (esemplare il c. 4 di Giona!). Il mio giudicare il fratello che pecca è più grave di qualunque suo peccato, anche dell’omicidio: lo uccido come figlio del Padre e non riconosco il Padre che lo accetta come figlio. Quindi se giudico sono giudicato, come uno che si pone al posto di Dio, che non lo conosce e anzi che lo nega nella sua essenza di misericordia. Se non giudico, invece, conosco il suo giudizio di salvezza. E la mia vita ne diventa trasparenza. Inoltre è interessante che, come non siamo chiamati ad essere buoni, ma misericordiosi, così non siamo chiamati ad essere giusti, ma solo a non essere giudici. È più facile, ed è più sublime! La misericordia, facile perfezione del peccatore, ci assimila a Dio, e “copre una moltitudine di peccati” (1Pt 4,8).Qui non si proibisce tanto il giudizio falso, imperfetto o avventato, che certamente è male. Chi conosce infatti il cuore dell’uomo da poterlo giudicare adeguatamente? Si esclude invece il giudizio “giusto”. È esattamente questo giudizio giusto che ci condanna, come la legge giusta.

“e non condannate e non sarete affatto condannati”. Mentre il giudicare si compie dentro il cuore, il condannare invece esegue all’esterno il giudizio consumato all’interno. Se del primo abbiamo tutti un tremendo potere, del secondo abbiamo potere in misura della nostra autorità. La paura e la fuga da un Dio pensato come punitore fu la nostra vera condanna. Dio l’ha abolita sulla croce di Gesù, che è grazia per tutti. Egli invece di giudicare giustifica, e invece di condannare condona. Noi viviamo perché siamo stati “graziati”, e per questo “graziamo” gli altri (cf. Ef 4,32): io stesso vivo o muoio del perdono che concedo o nego, come l’altro vive o muore del perdono che gli concedo o gli nego. Dio

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per primo me l’ha concesso, facendomi vivere. Ora la vita e la morte mia e dell’altro è legata alla grazia che dono o rifiuto. Siamo realmente corresponsabili di Dio, gestendo nella storia il suo capitale di misericordia. Vedi la parabola del fattore infedele e misericordioso, che, dopo le parabole della misericordia del c. 15, dice: “Ora so cosa fare” (16,3s). Se io condono, salvo me stesso e salvo l’altro; se non condono, condanno me stesso e anche l’altro all’esclusione da tale grazia (Mt 18,21-35). Sono come un rubinetto che ha il potere di dare o togliere l’acqua di vita, la cui sorgente è Cristo. Il giudizio finale di salvezza/perdizione è operato non da Dio ma da me; non in un tempo indeterminabile e nascosto, ma ora, nel rapporto quotidiano col fratello! Questa è la misericordia di Dio: lascia a noi peccatori il giudizio su di noi, ed è lo stesso giudizio che pronunciamo sugli altri!

“assolvete e sarete assolti”. Noi riteniamo irrimediabilmente perduto il dono che ci era stato fatto, di essere come Dio (Gn 1,27), perché l’avevamo voluto rubare (Gn 3,1ss). Invece ci è stato per-donato, cioè più ampiamente donato sulla croce di Gesù. In lui abbiamo invece del giudizio la giustificazione, invece della condanna la grazia, invece del peccato l’assoluzione. Se ci lasciamo giudicare da lui, siamo giustificati; se ci lasciamo riprendere da lui, siamo graziati; se ci lasciamo incontrare da lui, siamo assolti. Per questo, se siamo suoi fratelli, che devono “diventare” misericordiosi come il Padre, il nostro atteggiamento verso gli altri non può che essere di assoluzione.È importante notare che l’assoluzione per il cristiano non è come quella civile, in cui si dichiara l’innocenza o l’insufficienza delle prove di colpevolezza: l’assoluzione è dal male, realmente, coscientemente e deliberatamente compiuto! È proprio il peccato che deve essere perdonato! Siamo assolti non in quanto non colpevoli, ma in quanto colpevoli senza attenuanti.L’unica condizione per essere perdonati da Dio è quella di perdonare gli altri (Mt 6,14s; 18,21-35). Non perché Dio rimangi il suo perdono; ma perché se noi non perdoniamo, dimostriamo di disprezzare e buttare via il dono, di non conoscere e non vivere dell’amore del Padre. Per questo Luca pone questo amore e perdono come origine del nostro amore e perdono nei riguardi del fratello (11,4).

v. 38: “date e sarà dato a voi”. Come l’amore si realizza nel fare e nel dare (vv. 27-30), così l’assoluzione e il perdono interiori si esprimono nel dono esteriore. Non si dice cosa dare. Si dice solo di “dare”, indicando con ciò un atteggiamento di dono e di espropriazione che fa da contrappunto al cieco egoismo, che punta a rubare e appropriarsi di tutto. Si richiama il corpo di Gesù, dato per noi. È un amore operoso, che non calcola ciò che è suo (1Cor 13,5). Nella misura in cui si dà al fratello si riceve da Dio, così come nella misura in cui si riceve da Dio si dà al fratello. Il mondo dei nostri rapporti concreti entra nella dinamica trinitaria, che è un’economia di dono. Come non si specifica cosa dare, neanche si dice cosa si riceve. Ma sembra proprio superfluo, oltre che impossibile, specificare cosa si riceve! Si riceve infatti di essere come Dio: si riceve Dio stesso, che è amore e dono.

“una misura bella, pigiata, scossa, ecc.”. Il discorso su cosa si riceve prende la mano all’autore e c’è un’esaltazione dell’abbondanza del dono: Dio non conosce misura! L’unica misura è quella che noi gli offriamo: lui ci dona secondo il nostro grembo, ossia secondo le nostre viscere di misericordia, ampliando così senza fine la capacità di donare e di ricevere misericordia.

“perché con la misura con la quale misurate sarà rimisurato a voi”. L’unico metro di misura del dono che riceviamo è la nostra capacità di donare. Dio rinuncia a “misurare” come a giudicare. Siamo misurati e giudicati da noi stessi, secondo l’amore nostro verso gli altri.

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il piano sul declino del monte che scende al lago, come nei brani precedenti.c. Chiedo ciò che voglio: ciò che Gesù mi comanda: diventare misericordioso come il Padre, non giudicare, non condannare, assolvere e dare.d. Peso ogni parola. Vedo come Gesù l’ha vissuta nei miei confronti. Lo scarto tra lui e me è il luogo dell’invocazione di perdono e della richiesta di umiltà e di fiducia (attenti alla sfiducia!).

4. Passi utili

Sal 136; 117; Giona 4; Ger 31,31-34; Os 11; Mt 18.

32. NON C’È DISCEPOLO SOPRA IL MAESTRO

(6,39-42)

39 Ora disse loro anche una parabola: forse può un cieco guidare un cieco? Forse entrambinon cadranno dentro nella fossa?40 Non c’è discepolo sopra il maestro;ora chiunque, per quanto ben preparato, sarà come il suo maestro.41 Ora perché guardi la pagliuzzanell’occhio dei tuo fratello, mentre la trave,quella nel tuo proprio occhio, non consideri?42 Come puoi dire al tuo fratello:fratello, lascia:estraggo la pagliuzza dal tuo occhio! senza vederetu stesso la travedel tuo occhio?Ipocrita!Estrai prima la trave,quella nell’occhio tuo,e allora osserverai la pagliuzza,quella nell’occhio dei fratello tuo, per estrarla!

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1. Messaggio nel contesto

Il “comandamento” di 6,36, sintesi di tutto il discorso sulla misericordia, è l’unica strada “maestra” per la salvezza. Contro possibili e facili deviazioni, viene ora confermato con una serie di similitudini. Chi insegna diversamente è una guida cieca (v. 39), un falso maestro (v. 40); chi agisce diversamente, criticando il male altrui e non vedendo il proprio, è un ipocrita (vv. 41-42). Il comandamento dell’amore di misericordia, esposto dettagliatamente nei vv. 27-38, è l’unica via di salvezza perché ci fa diventare ciò che siamo: “figli dell’Altissimo”.Chi abbassa il tiro, perché la ritiene troppo perfetta, è un cieco che guida alla perdizione. Chi ritiene di conoscerne una più perfetta, è un falso maestro che insegna cose tanto elevate quanto inutili.Altre pretese vie di salvezza, che possono essere, oltre che religiose, psicologiche, economiche o politiche, in realtà non fanno che danneggiare l’uomo. La misericordia è il massimo bene perché è quell’amore che sa realisticamente conoscere e farsi carico del male.La misericordia impedisce la stoltezza e la presunzione di criticare gli altri. La critica va esercitata solo verso se stessi, per conoscere il proprio male e la misericordia di cui si è indigenti. Così si entra in possesso del “tesoro buono” (v. 45). Il discepolo vive di questo tesoro, che è la cháris di Dio che ha sperimentato, e ne rende partecipi gli altri. Solo il cuore convertito dalla e alla misericordia può salvare dal male. L’uomo è nato per amare ed è fallito perché non ama: il suo desiderio essenziale non può fiorire, perché è bacato. La misericordia può liberarlo, perché sa volgere in bene il male. Se l’amore di Dio ha creato tutto dal nulla, la sua misericordia salva tutto dal male, peggio del nulla.

2. Lettura del testo

v. 39: “Forse può un cieco, ecc.”. Cieco è colui che non ha la luce degli occhi. Ciò che Gesù ha appena detto sulla misericordia è il centro della parola di Dio e guida dell’uomo (cf. v. 36; Sal 119,105; 18,29; Pr 6,23). Chi è questo cieco che vuol fare da guida agli altri? Ai tempi di Gesù era il fariseo, che sperava la salvezza dalla propria conoscenza e osservanza perfetta della legge. Per Luca è il cristiano che giudica, condanna, non assolve e non dona. È uno che non ha sperimentato la grazia e pretende di guidare gli altri sulle vie della giustizia, in cui si ritiene esperto. Si può trattare di singoli ciechi che vogliono guidare la comunità, o della comunità stessa, che non illumina più il mondo cui è inviata, perché, invece di salvarlo, lo giudica: è luce diventata tenebre (11,35), sale insipido (14,34).Caratteristica del cieco è non potersi muovere, pur avendo l’apparato locomotorio in ordine. La realtà gli si volge contro e gli fa male. Così chi non ha misericordia ignora il senso della vita e non sa orientarsi: vi si muove dentro alla cieca e vi sbatte contro facendosi male. Come la luce fu il principio della creazione, così la misericordia è il principio della ricreazione, talmente potente da riportare al bene addirittura ciò che è male.La cecità fondamentale è non ritenersi bisognosi della misericordia del Padre. Dice Giovanni: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). Cieco è il discepolo che non ha sperimentato la misericordia di Dio verso di lui in Gesù, descritta nei vv. 27-38. Per questo il suo agire è senza misericordia e conduce alla perdizione sé e quanti entrano nel raggio di azione della sua cattiveria. I ciechi sono quindi “i giusti” secondo la legge. Sono come Paolo, “irreprensibile”, che deve convertirsi alla grazia di Gesù (Fil 3,3-14). Caduto a terra e divenuto cieco, avrà un segno visibile della sua cecità interiore e del suo bisogno di guida (At 9,8).

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In realtà nessuno di noi può fare da guida a un altro: siamo tutti ciechi, sgraziati e cattivi. Alla salvezza ci guida solo il maestro della misericordia: egli è la verità, che è scesa tra noi e si è fatta nostra via per condurci alla vita. Ma a sua volta, come lo specchio riverbera il sole, così ciascuno di noi può essere luce per l’altro nella misura in cui è colpito dal raggio di misericordia. Il discepolo che accoglie la benevolenza e la cháris di Dio in Gesù, è capace di testimoniarla “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).

v. 40: “Non c’è discepolo sopra il maestro, ecc.”. Gesù ci ha insegnato cosa fare. Invece di seguire la sua parola e il suo esempio, per dimenticanza, stupidità e presunzione, il discepolo è tentato di seguire altre vie che pensa più perfette. Confuso dalle tenebre, crede di essere illuminato. Ma sa che come la luna non può avere più luce del sole, così lui non può saperne più del suo maestro. Per la comunità di Luca questa presunta luce maggiore forse consisteva in pretese rivelazioni personali o in conoscenze esoteriche che potevano offrirsi come alternative o completive e più perfette vie di salvezza. Anche oggi come allora, l’uomo è specialista nell’inventare vie di salvezza spirituali, psicologiche, economiche, politiche e sociali, magari facendo un fritto misto di tutto: il New Age c’è sempre, in ogni epoca! Ma inutilmente, perché la salvezza altro non è che la misericordia del Padre nella “carne” di Gesù. È un fatto, non un’ideologia o un’illuminazione! Tutto il resto coadiuva alla salvezza o meno, nella misura in cui porta o meno il sigillo di questa misericordia. La tentazione più forte dell’uomo, che necessariamente cerca salvezza, è quella di non fidarsi di Dio e di inventare vie nuove proprio perché è mosso da quest’antica sfiducia. La tentazione di “salvare se stesso” e di non accettare la salvezza come misericordia del Padre nella miseria reale, è il triplice ritornello ripetuto a Gesù in croce (23,35.37.39).Discepolo illuminato è colui che sa ciò che l’unico maestro ha fatto e detto, e cerca di fare altrettanto. È colui al quale egli ha lavato i piedi, facendosi suo schiavo di misericordia. Conscio di questo, fa lo stesso ai fratelli (Gv 13,17), donando il dono ricevuto e riflettendo la luce che lo ha illuminato.Questo versetto è un monito a conoscere bene il maestro, per essere un discepolo ben preparato, simile a lui. Ascoltando la sua parola, diventa come lui, figlio dell’Altissimo.Bisogna guardarsi bene dal fare aggiunte o interpretazioni al vangelo, al di là o al di sopra di quanto Gesù ha rivelato. Pur con tutta la pretesa di intelligenza, è semplice arroganza da discepolo stolto e ingannato.Il detto di Gesù: “Non c’è discepolo sopra il maestro” assume il suo significato pieno se si tiene presente che ai tempi di Gesù la scienza non era ricerca di cose nuove - in questo caso il discepolo scrive sempre una pagina in più del suo maestro! - ma trasmissione orale di cose antiche, conoscenza della tradizione che contiene la sapienza accumulata dai predecessori. In questo caso, ovviamente, nessuno conosce del passato più di quanto gli è stato trasmesso. Questo si applica in modo particolare alla conoscenza di Dio, perché Gesù è proprio colui che ci ha rivelato il Padre che nessuno mai ha visto (Gv 1,18).Quanti disperanti e disperati tentativi fa l’uomo nel cercare altre vie di salvezza! Sembra di vedere un naufrago in mare, che attende inutilmente scialuppe di salvataggio che non arrivano mai, mentre rifiuta gli elicotteri che gli sono stati mandati!

vv.41.42a: “Pagliuzza / trave”. Anche senza pretendere di conoscere nulla di meno o nulla di più di quanto Gesù ha detto, c’è ancora un modo sottile di essere “falso maestro”: proprio ripetendo esattamente quanto lui ha detto, ma applicando il discorso agli altri invece che a se stessi! Invece che per giudicare se stessi (v. 42a), si usa la verità di misericordia per giudicare gli altri che ne mancano (v. 41). È un errore istintivo e comune a tutti. Il risultato immediato è quello di premere l’interruttore e spegnere la luce della misericordia. La salvezza subito si tramuta in condanna altrui da parte mia e

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quindi in condanna di me, che, proprio perché condanno, risulto senza misericordia! In questo modo la Parola che dovrebbe salvare, opera solo danni, perché, invece di lasciarmi convertire, l’ho usata come rappresaglia contro l’altro. La Bibbia è un libro che mi serve per battermi il petto, non per picchiarla in testa all’altro.Le domande di Gesù, retoriche e perentorie, rivelano il ridicolo della pretesa. Sarebbe come se, in un inverno polare, una persona totalmente nuda, ma col cordoncino del cappello in testa, dicesse a una persona tutta impellicciata, ma col cappello senza cordoncino: “Non vedi che ti manca il cordoncino del cappello?”. Se io, “giustamente”, avendo ragione, giudico il fratello, il male di cui lo condanno, per quanto grave, è una “pagliuzza” rispetto al male che io faccio criticandolo e giudicandolo. Se critico e condanno, il mio cuore è senza misericordia: sono un albero cattivo e spinoso dai frutti velenosi e marci.Il mio occhio deve sempre essere rivolto ai 10.000 talenti condonati a me, non ai 100 denari che l’altro mi deve (Mt 18,23ss). Se guardo il mio debito, non sono più cieco: vedo la misericordia usata verso di me. Questa luce è in grado di illuminare la piccola tenebra dell’altro. Ma se guardo il male dell’altro, giudico e condanno con lui anche me, perché “con la misura con la quale misurate sarà rimisurato a voi” (v. 38b; cf. Mt 7,2). Così cadiamo, per colpa mia, tutti e due nella fossa. Io in quella del condannare e l’altro in quella dell’essere condannato. Quando giudico, sono responsabile, oltre che della mia, anche della perdita del fratello che non trova misericordia! Avviene come ai due debitori di Mt 18,23ss: ambedue finiscono in prigione per la mancanza di misericordia del fratello creditore. Il vero peccato non è tanto il male che si compie, quanto la mancanza di misericordia che ne impedisce il riscatto. Il mio giudizio senza misericordia di una colpa grave è sempre più grave della colpa stessa. Chi vede la pagliuzza altrui, ha una trave. E chi ha una trave nell’occhio è morto!

v. 42b: “Ipocrita, ecc.”. Alla critica, in cui si usa la verità per trionfare sull’altro, si deve sostituire l’autocritica. Così ci si scopre, al pari degli altri, bisognosi di misericordia. Questa ci toglie la cecità e ci mette in grado di togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello allo stesso modo in cui è stata tolta la nostra trave: infatti la misericordia guarisce il male altrui e salva dal proprio! Se agisco diversamente, non ho conosciuto Dio. Ho nell’occhio una “trave”, che mi impedisce di vedere; sono cieco, chiuso nelle tenebre di una presunta giustizia senza grazia. Sono “ipocrita”! Con questa parola Gesù stigmatizza il grande peccato: quello di Adamo, che volle mettersi al posto di Dio, lo stesso del fariseo, che gli fa cercare la propria gloria e l’autosalvezza. “Ipocrisia” non significa “finzione”, bensì “protagonismo”. È il tentativo di cercare il primo posto in tutto e farsi centro di tutto: è mettere l’io al posto di Dio. L’ipocrita nel teatro greco era il protagonista che rispondeva al coro. Luca ci dà un’illustrazione “pura” di questo peccato nel fariseo che si ritiene giusto - e lo è! - e ringrazia Dio... disprezzando il peccatore (18,9ss). È un richiamo al discepolo perché, identificandosi coi fariseo, si riconosca peccatore col pubblicano e, come lui, esca giustificato dalla misericordia di Dio.Questo versetto proibisce la critica e la esclude come via alla correzione fraterna. È piuttosto lo zelo di donna Prassede. Correggerò me stesso, invece dell’altro! L’unica correzione possibile dell’altro, in modo che non si indurisca nel male, è il mio occhio buono di perdono e di misericordia. Ma tutto questo viene dalla conoscenza del mio male e dall’accettazione che Dio mi offre. Se l’altro si sente assolto o graziato, può camminare. Diversamente si chiude nel male e io ne sono responsabile. Anche Matteo, prima di ogni correzione fraterna (Mt 18,15ss), pone l’accettazione incondizionata (parabola della pecora smarrita: Mt 18,12ss). Agire diversamente è essere guide cieche di altri ciechi che filtrano il moscerino e ingoiano il cammello (Mt 23,24). Giudicare gli altri e giustificare se stessi è il grave peccato di cecità che impedisce di conoscere il proprio male e di conoscere Dio. Questa duplice conoscenza è data nella misericordia. Al discepolo è chiesto di estromettere la propria trave che lo rende cieco: non deve credersi giusto e non bisognoso di misericordia! Così è guarita in radice la

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pianta cattiva. Allora è in grado di togliere il bruscolo dall’occhio del fratello. Non con un’operazione oculistica complicata, bensì semplicemente con il suo occhio buono: vede buono e fa buono, comunicando un’esperienza di bontà. L’altro è da me graziato come io sono stato graziato! Il mio occhio verso l’altro è lo stesso di Dio verso di me!Importante notare il paradosso reale della misericordia: la grandezza del peccato che scopro in me sarà il titolo, quasi il merito alla misericordia di Dio. Più uno è peccatore, più è degno di amore misericordioso. E, come ho sperimentato Dio nei miei confronti, sono io nei confronti dell’altro.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il piano sul declino del monte che scende al lago, come nei brani precedenti.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere la mia cecità nel non capire il valore della misericordia e la mia ipocrisia nel voler farne a meno. Capire la perversità dei miei giudizi “giusti” sugli altri.

d. Punti su cui riflettere:- cieco che guida un cieco- ipocrita- pagliuzza/trave.

4. Passi utili

Sal 32; 2Sam 12,1-13; Mt 18; Lc 18,9-14.

33. OGNI ALBERO DAL PROPRIO FRUTTO CONOSCIUTO

(6,43-45)

43 Infatti non c’è albero belloche faccia frutto marcio, né albero marcioche faccia frutto bello.44 Poiché ogni albero dal proprio frutto è conosciuto:non dalle spineraccolgono fichi,né dai rovivendemmiano uva!45 L’uomo buonodal buon tesoro dei cuore

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produce il buono; e il cattivodal cattivoproduce il cattivo.Dall’abbondanza del cuore parla la sua bocca!

l. Messaggio nel contesto

Nei vv. 39-42 sono state dette le caratteristiche dei falsi maestri: ciechi alla misericordia (v. 39), pretenziosi (v. 40), giudici severi verso gli altri e benevoli verso di sé (v. 41), che non si credono bisognosi di perdono (v. 42). Ora si dice la pianta da cui germinano questi mali: il cuore dell’uomo, la cui bontà o cattiveria si conosce dai suoi frutti. La bontà o meno del frutto è il criterio per discernere della bontà o meno dell’albero. Questo viene detto perché si impari a giudicare e condannare non gli altri dalle loro opere, bensì se stessi, ed essere così disposti ad accettare l’assoluzione e il condono di Dio, in modo da fare ugualmente con gli altri.La nostra cattiveria verso gli altri è la mancanza di misericordia: è il germoglio marcio del nostro albero cattivo. Il male fondamentale è l’occhio cieco che non vede il proprio male e non sente il bisogno della misericordia. L’occhio cieco esprime un cuore tenebroso, senza bontà. E questo cuore, come vede, così anche agisce male: ha una mano piena di frutti dal sapore di morte. C’è una stretta connessione tra occhio/cuore/mano: il principio dell’azione buona o cattiva è il cuore pieno o meno di misericordia; e il principio della misericordia nel nostro cuore è l’occhio, sua finestra, che ne riconosce il bisogno e ne accoglie la luce.Principio del bene è quindi il nostro occhio/cuore aperto sul nostro male e intenerito dalla misericordia ricevuta.Questa misericordia salva dal male e crea il bene. Ho conosciuto un uomo che era sordo a ogni parola cattiva, mentre aveva l’udito sensibile a ogni cosa buona: in lui il male si spegneva e il bene lo illuminava. Aveva una sensibilità selettiva.Il cuore cattivo, invece, sente solo il male; lo sente male e germina il peggio, vittima parassita del male e suo moltiplicatore.Il problema serio del discepolo è riconoscersi come pianta cattiva dai frutti marci. Questa sincerità gli permette di non essere cieco sulla propria cecità (cf. Gv 9,41). Chi vede con sincerità se stesso, vede il proprio male e il bisogno che ha di misericordia. È l’unica condizione per la guarigione. Gesù, misericordia del Padre, opera il giudizio di far vedere i ciechi e rendere ciechi i vedenti (Gv 9,39). Davanti a lui l’uomo può scoprire il proprio peccato senza paura e senza vergogna, perché si vede perdonato. Il cieco, finalmente guarito, vede la propria miseria colmata dalla sua misericordia. Conosce se stesso come amato infinitamente da Dio e Dio come colui che infinitamente ama; conosce se stesso come peccatore e Dio come suo salvatore. Sulle gemme della sua infiorescenza di male vede innestato l’albero buono che fa fare frutti buoni.Riconoscere il mio cuore cattivo, che ha tesorizzato un grande capitale di male di vivere, è l’innesto stesso che mi fa albero buono; mi mette in comunione con lui che perdona e coi fratelli che quindi perdono. Questo brano ci richiama a “discernere” e a vivere con verità la nostra menzogna davanti a Dio, esponendo senza paura al suo occhio la nostra timorosa nudità. Dai nostri frutti di morte, possiamo riconoscerci facilmente come legno cattivo. Così siamo disposti ad accogliere il suo perdono e accettiamo l’innesto dell’unico legno buono: l’albero della misericordia del Padre, la croce del suo

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Figlio donato per noi. La conoscenza del mio peccato in questa luce mi rende finalmente solidale col Padre e con i fratelli.

2. Lettura del testo

v. 43: “Infatti non c’è albero bello, ecc.”. Ciò che faccio scaturisce da ciò che sono, il frutto è della qualità dell’albero. Come il fico non si sforza di fare fichi non può fare altro! - così è inutile che mi sforzi di fare frutti buoni, se sono cattivo. Il problema è di che legno sono. Esiste infatti pianta e pianta: albero che fa morire e albero che fa vivere.La menzogna del serpente fece mangiare dell’albero della potenza di Dio (Gn 3,6ss), che divenne per noi legno di morte. La Parola di verità, innalzata sulla croce, divenne per noi albero di vita, che guarisce da ogni male e dà sempre frutti buoni (Ap 22,1s). All’albero di morte si contrappone quello di vita. Ma, paradossalmente, unico è il legno, perché la croce è insieme il nostro peccato e la sua misericordia! Prima dava fiori di male e frutti marci di morte: paura, vergogna che spinge a nascondersi, nudità, deresponsabilizzazione, dominio e spine e cardi - alienazione da Dio, da sé, dagli altri e dalle cose (cf. Mc 7,21ss; Rm 1,29ss; Gal 5,19ss).Ora fiorisce in grazia e misericordia e fruttifica nei doni dello Spirito del Signore asceso al cielo.Chi osserva la “pagliuzza” (kárphos), non ha tale “frutto” (karpós). Perché questo frutto, che ci rende simili a Dio (cf. vv. 35.36) è la misericordia stessa. Essa è donata a chi, vedendo la “trave” nel proprio occhio e sapendo di essere cieco, invoca su di sé la misericordia di Dio.

v. 44: “Poiché ogni albero dal proprio frutto è conosciuto, ecc.”. Dalle mie azioni conosco di essere del legno della pianta antica, che dà frutti di morte. Chiaramente non faccio il frutto del “fico” (cf. 13,6-9), l’albero che fa ombra alla casa; infatti non ho una casa dove abitare, fino a quando sono fuori dalla misericordia di Dio. Per me la Parola è caduta tra le “spine” - preoccupazioni, ricchezza e piaceri (8,14) - che mi impediscono di vivere del suo dono. Non abito nella sua promessa e vivo piuttosto nella mia terra di alienazione, che produce spine e triboli (Gn 3,18!). Sono ancora nel mondo della disobbedienza, nei suoi criteri e affanni. Dalle mie spine non crescerà il fico.Ma neanche l’“uva”. L’uva e il vino rappresentano la pienezza del dono della terra promessa, l’atto consumato dell’abitare in essa con pace, laboriosità, abbondanza, amore e gioia. L’uva non può infatti venire dal “rovo”. Questa parola in Luca è sempre in riferimento a Mosè (20,37; At 7,30.35). Il roveto ardente (Es 3,2) fu il luogo della rivelazione di JHWH che culmina nella legge. La salvezza definitiva non si può cogliere neanche dalla legge. Questa rivela le opere della carne e, invece di dare salvezza, dichiara la perdizione.L’uva, la vita nella sua pienezza, si raccoglie solo e in abbondanza dal sangue di Cristo: esso è il dono totale della misericordia di Dio, “la nuova alleanza” (22,20), dove tutti possono riconoscere chi è il Signore (Ger 31,31-34). Lui infatti è “la vite vera” (Gv 15,1ss): solo chi è unito a lui può portare frutto di vita e di gioia, perché “senza di me non potete fare nulla” (Gv 15,5).I fichi e l’uva - i frutti di chi abita nella terra di Dio - sono i doni dello Spirito: non scaturiscono dalla nostra giustizia, ma dalla sua grazia per noi sgraziati e maturano sull’albero della sua misericordia, la croce di Gesù.Questo verso ci porta, per mezzo dell’esame dei nostri frutti, a riconoscere la necessità dell’innesto in noi del “germoglio di Iesse” (Is 11,1-10; 4,2). Vivere il comando del Signore dei vv. 27-38, cioè dare frutti buoni, sarà il risultato naturale di questo innesto.

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v. 45: “L’uomo buono dal buon tesoro del cuore, ecc.”. Il principio della bontà o meno non sta nelle cose, ma nel “cuore”. Se esso è stato “bonificato”, farà frutti di misericordia, e saprà volgere in bene il male. È infatti pieno della cháris di Dio in Cristo e vive di questo tesoro, che è il “buon tesoro del cuore”. Diversamente rimane un capitale di nequizia, accresciuto dalle azioni subite e moltiplicato da quelle fatte. La vita diventa sempre più una spartizione di dividendi di cattiverie, che cresce con progressione geometrica; ognuno aumenta in essa le sue azioni e i suoi interessi.Il problema, anche qui, non è quello di fare frutti buoni invece che cattivi: il mio cuore non può che produrre rovi e spine. Il problema è quello di ricevere, in cambio di quello di pietra, un cuore di carne (Ez 36,26) in cui è scritta la sua legge di misericordia (Ger 31,33s).

“Poiché dall’abbondanza del cuore parla la sua bocca”. Il primo frutto del cuore non sono le opere, ma le parole. La bocca precede la mano e la parola l’opera, rendendola disumana, umana o divina.La parola di misericordia deve entrarmi dall’orecchio nel cuore e sanarlo. Allora avrò occhio buono e parola buona, e farò frutti di misericordia. La lingua è come il timone dell’uomo e ne guida tutti i rapporti; può far vivere o morire e ne uccide più della spada; con essa l’uomo comunica con l’altro e lo accoglie o erige un muro e si nega (Gc 3,1-4,12).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la stessa scena dei brani precedenti.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere il male che è in me e riconoscere in esso la misericordia di Dio.

d. Punti su cui riflettere:- albero e frutto- quali sono i miei frutti marci- conoscere bene i miei sentimenti e le sue parole.

4. Passi utili

Sal 80; Is 5,1-7; Ez 36,24-32; Mc 7,14-22; Gal 5,19-23.

34. CHIUNQUE ASCOLTA E FA

(6,46-49)

46 Ora perché mi chiamate:Signore! Signore!e non fatequanto dico?

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47 Chiunque viene verso mee ascolta le mie parolee le fa,vi mostrerò a chi è simile:48 è simile a un uomoche, costruendo una casa, scavòe approfondìe pose fondamenta sulla pietra:ora, giunta una piena,irruppe il fiumecontro quella casa, e non ebbe forza di scuoterla, perché fu ben costruita.49 Chiunque inveceha ascoltatoe non ha fatto,è simile a un uomoche costruì una casa sopra la terra senza fondamenta, contro cui irruppe il fiume e subito crollò, e fu la rovina di quella casa grande.

l. Messaggio nel contesto

In questa parabola si mostra come la salvezza dipenda dall’obbedienza alla parola di misericordia che Gesù ha dato nei vv. 27-38. È la rivelazione definitiva e completa di Dio: l’ascolto “fattivo” della sua parola è salvezza e vita, la disobbedienza ad essa è rovina (cf. Dt 30,15-20).Quanto Gesù ha detto non è un consiglio. Chi lo ascolta e fa quanto ha ascoltato, si costruisce una casa dove può abitare stabilmente, senza pericoli; chi non gli obbedisce, si costruisce una casa che gli crolla addosso e lo seppellisce nella sua rovina. Nell’obbedienza alla parola di misericordia si gioca il senso definitivo della vita!La salvezza non è solo il riconoscere Gesù come “il Signore”. È anche fare ciò che lui, il Signore, ha fatto e comandato: essere come lui, del quale siamo immagine e somiglianza.Si sottolinea l’aspetto pratico della rivelazione: se la parola ci fa conoscere Dio, l’obbedienza ci trasforma in lui (cf. v. 36). L’uomo diventa la parola cui obbedisce. Il volto di Dio in Gesù è indicativo del nostro vero volto; è quindi un imperativo per raggiungere la salvezza, che è il nostro volto vero di figli. Il discorso ai piedi del monte non solo propone qualcosa di giusto, ma difficile o impossibile per noi; non solo denuncia il nostro peccato e la necessità di essere salvati; non solo annuncia la mentalità nuova da avere; indica anche e soprattutto l’esigenza che scaturisce dal dono della vita nuova, radicata in Gesù: aderire a lui è essere uomini nuovi, che portano il “sapore” di lui in tutte le dimensioni della loro vita.Luca richiama al lettore “Teofilo” ciò che già ha appreso nel battesimo: gliene mostra la solidità, perché in esso fondi, in modo sempre più cosciente, la costruzione della sua casa. Così non gli crollerà

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addosso! Il materiale della catechesi battesimale sulla misericordia, svolto nei vv. 27-38, viene dalla tradizione della chiesa primitiva. Se ne trovano tracce nella seconda parte di tutte le lettere di Paolo. È la rivelazione piena della volontà di Dio che Gesù ha annunciato e vissuto.

2. Lettura del testo

v. 46: “Ora perché mi chiamate: Signore! Signore! e non fate quanto dico?”. La prima parola che nasce dall’abbondanza del cuore della comunità cristiana è: “Signore, Signore!”. È l’acclamazione di fede dei battezzati, che nella forza dello Spirito hanno aderito a Gesù, riconoscendolo come loro Signore (1Cor 12,3; Rm 10,9). È nel suo nome, infatti, che sono stati battezzati. Ma questo Signore, appunto perché Signore, esige l’ascolto e l’obbedienza concreta. In questa esclamazione stupita e gioiosa di fede, il credente riconosce l’autorità di Gesù e la sua cháris come fondamento della propria esistenza. Nasce una vita nuova, coerente con ciò che si professa, non per pretesa, ma per dono. Il credente che l’ha sperimentato e ne vive, opererà secondo esso. Se prima del battesimo eravamo sgraziati, chiusi nella disobbedienza, ora siamo graziati e abilitati all’obbedienza: in lui siamo uomini nuovi, capaci di vita nuova (Rm 6,1-23). Una fede che si arresta alla conoscenza e non diventa esperienza trasformante, sarebbe una fede diabolica (Gc 2,19): un delirio di onnipotenza, in cui si pretende di essere come Dio, per il quale ciò che è detto è fatto. Noi invece perché creature, siamo limitate nello spazio e nel tempo. Possiamo e dobbiamo lentamente crescere, camminando verso una verità, che prima è detta e poi viene fatta, nella ripetitività di gesti che ne scandiscono il faticoso costruirsi. Da qui l’insistenza neotestamentaria su una vita nuova che risponda al nuovo modo di essere, in una lenta crescita dal capire al fare, dall’orecchio/vista al cuore e dal cuore alle mani. Non è moralismo, bensì la necessità naturale derivante dallo scarto tra verità e realtà nell’uomo, suo limite essenziale, che gli impone di agire, oltre che capire; perché dire e fare in lui non si identificano. Vedi in questa direzione particolarmente Gc 2,14; 1Gv 2,3ss; 3,18.23ss.Ortodossia/ortoprassi, fede/opere costituiscono una falsa alternativa, perché il fare è della qualità dell’essere (operare sequitur esse) e i frutti nascono necessariamente dalla Parola, se accolta con fede. L’agire, oltre che verifica della fede, ne è anche inveramento: la fa esistere e passare dall’orecchio/occhio alle mani. L’agire con misericordia indica che davvero la Parola è stata accolta in un cuore bello e buono e produce frutto (8,15.21).

v. 47: “Chiunque viene verso me e ascolta le mie parole e le fa, ecc.”. Qui, come nel l’episodio di Marta e Maria (10,38ss), non si contrappone il fare all’ascoltare, l’azione alla contemplazione, bensì un ascoltare le proprie preoccupazioni che porta ad agire con criteri e finalità proprie, a un ascoltare il Signore che porta ad agire con lui e per lui. Gesù parla di: “chi viene verso me”, cioè del discepolo venuto “per ascoltare ed essere guarito” (v. 18). Tale ascolto è la sorgente della sua azione ormai guarita dal male, se non accade quanto dice Gc 1,22-25! Realmente l’ascolto di Gesù è ascolto del “Signore”: la sua parola esige di essere obbedita. Lui è il fine della nostra azione e quanto ha detto e fatto ne è il criterio (10,37). Nell’obbedienza alla Parola, noi la “facciamo” e diventiamo come lui, perché lui diventa la nostra vita (Dt 30,20). La condizione del discepolo perfetto è descritta nelle tre espressioni di Gesù seguenti.

“Venire verso me”, “ascoltare le mie parole”, “farle”. “Venire verso” Gesù significa fare di lui il polo del proprio agire, il centro della propria vita: è quell’essere conquistati da lui (Fil 3,12) che mette in moto il cammino del discepolo. È l’azione prima del Padre (At 16,14), che ci mette con il Figlio per

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salvarci: “nessuno può venire a me se non lo attira il Padre” (Gv 6,44). È l’inizio della sequela, in cui il Padre fa ascoltare la parola del Figlio.Infatti lo si segue per “ascoltare” le sue parole. Quel Dio che non ha volto (l’unico volto a sua immagine e somiglianza sarebbe l’uomo che lo ascolta), ha però voce. Questa voce è diventata anche volto in Gesù, il Figlio obbediente. Nell’ascolto di lui, noi stessi ne riflettiamo il volto e torniamo a essere suoi figli.Il figlio è colui che “fa” la parola del Padre. La stessa parola che fece il mondo, se è ascoltata e obbedita, ha anche la capacità di fare un mondo nuovo, il mondo dei figli! Se nel creare il mondo non abbiamo avuto alcuna responsabilità - non ci potevamo essere! - ora siamo associati a una responsabilità più alta: ricreare il mondo come suo Figlio, nell’obbedienza a lui. Siamo concreatori della storia, la casa dell’uomo! Come la disobbedienza fu principio di decreazione, così l’obbedienza alla sua parola di misericordia è principio della creazione nuova.Come si vede, si pongono in successione ordinata i piedi (“venire verso me”). gli orecchi (“ascoltare”) e le mani (“fare”). Dell’occhio e del cuore, che sono il centro esterno/interno di ogni passione/azione, ha già parlato nei vv. 39-45.

v. 48: “una casa sulla pietra”. Il paragone è tra coloro che ascoltano e fanno e tra coloro che ascoltano e non fanno. L’oggetto di tutto il discorso è sempre la parola di misericordia. Ascoltarla e farla è costruire una casa.La “casa” è il luogo dove l’uomo abita e vive. Fuori non può abitare e vivere, se non appunto come uno che è fuori posto, insicuro e scoperto. L’unico luogo vivibile per l’uomo, dove si sente di casa, è dove è accolto. La casa di uno è quindi la misericordia dell’altro.Fare la parola di misericordia è costruire casa. Senza misericordia nessuno si sente accolto e di casa presso nessuno: la vita è impossibile, perché ci manca ciò di cui tutti ci sentiamo bisognosi, appunto perché limitati. Per questo si dice che l’agápé, o amore di misericordia, “edifica” (1Cor 8,2), cioè costruisce la casa dell’uomo. Si dice pure che bisogna “edificarsi” a vicenda nella carità, costruire l’uno all’altro l’unico luogo respirabile. È l’ospitalità e l’accoglienza che solo l’altro può darmi, in un circolo di misericordia reciproca, dove ognuno si sente accolto nel proprio limite e nella propria solitudine invalicabile. Diversamente nessuno può vivere. Per questo si parla anche di chiesa come edificio o casa (simbolo materno) e di edificazione dell’unico corpo di misericordia di Cristo, in cui tutti fraternamente viviamo (1Ts 5,11; 1Pt 2,5-7; 1Cor 3,10ss; Ef 4,12.16). Edificare l’altro vuol dire dargli quella casa che è l’amore, dove uno si sente a suo agio. La vera casa dell’uomo, dove l’uomo dimora con Dio e Dio con lui, è proprio quest’amore reale e fattivo: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Dio si è fatto in Gesù una casa tra gli uomini, dove è stato accolto totalmente, perché in lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). L’ha aperta a tutti, donando in lui casa a ogni uomo e allargando la promessa fatta a Davide (2Sam 7,11). Lì tutti abbiamo accoglienza. Altrove siamo stranieri. Anche l’apostolo Paolo aprirà la sua casa a tutti: è il maestro dell’agápé (At 28,30s).Il fare questa parola di misericordia è costruire una casa stabile, perché fondata sulla roccia che è Cristo (1Cor 10,4). Per questo bisogna “scavare” e “approfondire” la parola di misericordia, per penetrare sempre più a fondo nel mistero di Gesù. Bando alla superficialità (cf. 8,13), che costruisce case frettolose ma rovinose per chi le abita e per chi è ospitato. Bisogna scavare, fino a cementare il fondo della nostra vita alla “pietra”, far aderire il nostro cuore a Cristo. Lui è il fondamento sicuro: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11).Così la nostra casa non crolla al sopraggiungere della “piena” delle acque: siamo in grado di resistere tanto alle prove e alle tribolazioni quotidiane (8,13), quanto, soprattutto, alla grande piena della morte,

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allo scatenarsi degli inferi, al giudizio finale. Ascoltare e fare la parola di misericordia - riceverla e donarla - è essere uniti indissolubilmente a Gesù, morto e risorto (cf. Mt 25,31ss).Luca qui sottolinea il fare più che l’ascoltare, cioè il dare misericordia più che il riceverla. Dà infatti per scontato che già nel battesimo l’abbiamo ricevuta. È nel farla che vedo se vivo del dono ricevuto, o se l’ho buttato. Chiaramente l’ascolto è sempre la radice.

v. 49: “una casa sopra la terra”. Ascoltare senza fare significa disobbedire. Vivere nella disobbedienza è come costruirsi una casa sulla terra, senza fondamento. Apparentemente abitabile, in realtà è una trappola mortale, sia per chi l’ha costruita sia per i suoi ospiti. La casa di chi vive senza misericordia non è fondata sulla pietra che è Cristo, parola di Dio e forza dello Spirito; è appoggiata sulla terra, sul pensiero dell’uomo, sulla fragilità del proprio io. Se la roccia è solida, forte e compatta come l’amore, la terra è invece friabile, molteplice e divisa come l’egoismo. Una vita fondata sull’egoismo è una costruzione che non regge né alle difficoltà presenti, né tanto meno alla crisi futura. È come l’albero cattivo, che necessariamente fa frutti di morte e di grande rovina. Dato che mi sento egoista e sono cosciente di aver costruito sulla sabbia, mi chiedo giustamente: “Che fare?”. Null’altro, se non “convertirmi e farmi battezzare, ecc. “ (cf. At 2,38). Ma io già sono stato battezzato e dai miei frutti mi sento ancora albero cattivo!... Per questo Luca richiama a Teofilo l’esperienza battesimale della misericordia di Dio e lo istruisce in ciò che già conosce, in modo che viva pienamente l’adesione a Cristo, sua roccia di salvezza. Diversamente incorre nella grande rovina di colui sul quale crolla la casa faticosamente costruita: tutto ciò che costruisce gli ricade addosso. Le sue azioni, invece di una casa vivibile, gli costruiscono una tomba sotto cui seppellirsi vivo.Il discorso di Gesù si apriva con la parola: “Beati” (v. 20) e termina ora con la parola: “Rovina”. Queste due parole fanno quasi un’inclusione di tutto il discorso di Gesù, che richiama l’inizio e la fine del salmo 1, riassuntivo di tutto l’insegnamento biblico sulla sapienza. Ora la vera sapienza è apparsa sulla terra e ha aperto la bocca: ascoltare e fare o meno la sua parola è questione di sapienza e salvezza (“beati”) o di empietà e perdizione (“rovina”).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando, come nei brani precedenti, il piano sul declino del monte che scende al lago.c. Chiedo ciò che voglio: andare a Gesù, ascoltare la sua parola e farla.

d. Punti su cui riflettere:- chiamare “Signore! Signore!” e non fare- andare verso Gesù- ascoltare e fare- casa fondata sulla pietra- stabilità- ascoltare e non fare- casa sulla terra- piena del fiume- crollo e grande rovina.

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4. Passi utili

Sal l; Dt 30,15-20; 1Cor 3,9-17; Gc 1,22-25.

35. MA DI’ UNA PAROLA E SIA GUARITO IL FIGLIO MIO

(7,1-10)

7 1 Dopo che ebbe riempito

tutti i suoi dettidentro gli orecchi dei popolo, entrò in Cafarnao.2 Ora, un servo di un centurioneche stava male,stava per finiree gli era caro.3 Ora, avendo udito di Gesù,mandò da luialcuni anziani dei giudei,domandando a luiche venisse a salvare il suo servo.4 Ora essi, avvicinatisi a Gesù,lo pregavanocon sollecitudine dicendo:È degnoche gli faccia questo:5 ama infatti la nostra nazionee lui stesso ci costruì la sinagoga.6 Ora Gesù andava con loro.E già quando egli non era lontano dalla casa, il centurione mandò amici dicendo a lui:Signore, non disturbarti!Non sono infatti sufficiente che entri sotto il mio tetto;7 per questo neanche me stessoritenni degnodi venire presso di te.Ma di’ una parola

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e sia guarito il mio servo/figlio.8 Poiché anch’io sono uomo posto sotto autorità, con soldati sotto di me,e dico a questo: va’,e vae a un altro: vieni,e vienee al servo mio: fa’ questo, e fa.9 Ora, ascoltate queste cose,Gesù lo ammirò,e, voltosi alla follache lo seguiva, disse:Dico a voi:neanche in Israele trovai tale fede!10 E, ritornati in casa,gli inviati trovaronoil servo che era sano.

l. Messaggio nel contesto

Nei cc. 5-6 Luca, dando per scontato cos’è la fede, si rivolge a Israele per mostrare lo specifico della fede in Gesù: egli è il Figlio, rivelatore definitivo di Dio come Padre di misericordia. L’obbedienza alla sua parola porta la salvezza. Il cammino di Israele è un percorso obbligato per tutti: anche il pagano deve inserirsi nella promessa a lui fatta (cf. Rm 11,16-24), se vuole produrre quei frutti di misericordia donati-richiesti in 6,27-38. Questi versetti infatti rappresentano il cardine di tutto il Vangelo di Luca, scriba mansuetudinis Christi, che porta la salvezza di Israele a tutti i popoli.Ora comincia l’itinerario per chi proviene dal paganesimo; e si inizia spiegando cos’è per Israele la fede, in modo da renderla accessibile anche a lui. La fede consiste nel credere alla potenza della Parola (vv. 1-10), che vince la morte (vv. 1 l17) e si esprime come risposta di amore verso colui che perdona (vv. 36-50). Al centro sta la figura del Battista (vv. 18-35) mentre si confronta con Gesù: egli è il punto di convergenza del cammino di fede sia di Israele che del pagano, perché chiama tutti alla conversione e all’attesa di Gesù (3,6).Il c. 7 inizia con il racconto di un centurione pagano, figura del pagano Abramo che, per la sua fede, diventò padre di tutti i credenti e depositario della promessa. Dietro l’episodio c’è la storia della missione fruttuosa tra i pagani, ai quali è passata la salvezza dei giudei (cf. At 18,6; 28,28). Non si tratta di un semplice fatto storico, che gli Atti ci descrivono con grande attenzione (cf. soprattutto i cc. 10-15). Si tratta innanzitutto di una necessità teologica: se Dio è misericordioso, necessariamente ama i nemici e fa del bene senza interesse e perdona i disgraziati. Gesù che guarisce il figlio-servo del centurione pagano, risuscita il figlio della povera vedova e perdona la peccatrice è il primo che fa quanto ha detto in 6,27-38. Egli, come Figlio dell’Altissimo, non può non rivolgersi ai pagani (nemici), ai piccoli (figlio morto di una povera vedova) e ai peccatori. Gli esclusi diventano figli privilegiati della sapienza (v. 35) di quel Dio che è misericordia. In questi racconti del c. 7, Gesù realizza l’immagine di un Dio disponibile e buono verso tutti (6,35). Egli è il volto del Padre, che

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rivela il mistero profondo rimasto nascosto nei secoli e svelato proprio ora nel Figlio (Rm 16,25s; cf. Col 1,26s). In lui il Dio ricco di misericordia ha visitato il suo popolo (v. 16), costituito da lontani, piccoli e peccatori.Il cammino di Israele parte dalla fede nella parola di Gesù: “Sul tuo detto calerò le reti” (5,5) e passa attraverso il senso del peccato: “Esci via da me, poiché sono uomo peccatore, Signore!” (5,8). Analogamente anche il cammino del pagano parte dalla fede nella potenza della sua parola e passa attraverso il senso della propria insufficienza. Gesù stesso presenta il centurione come modello di fede per tutti, - noi compresi -, e ne resta addirittura “ammirato” (v. 9)! Questo militare ha il suo gemello in At 10, con il quale si aprirà ai gentili la porta della chiesa.Mentre nel racconto della peccatrice (vv. 36-50) si esplicitano i frutti e le radici della fede - l’amore verso Gesù come risposta all’amore ricevuto - qui si descrive cos’è e come nasce la fede: è fiducia assoluta nella potenza salvifica della parola e nasce gradatamente. Parte dall’estremo bisogno (v. 2) di uno che sente parlare di Gesù (v. 3a) e che spera che lui venga e intervenga (con la mediazione di Israele: vv. 3b-5); costata che lui è disponibile e viene (v. 6a); passa attraverso il senso di insufficienza e indegnità (vv. 6b-7a); arriva infine alla sua maturità piena nell’espressione: “Di’ una parola e sia guarito il mio servo/figlio” (v. 7).In queste tappe del centurione pagano, il lettore di Luca, proveniente dal paganesimo, riflette il proprio percorso di fede nella potenza della parola del Signore che l’ha salvato.È importante sottolineare come il miracolo si compia in assenza di Gesù, per la fede di un pagano nella potenza della sua parola, udita solo indirettamente tramite mediatori israeliti. È la situazione dei pagani che giungono alla fede dopo Pasqua ascoltando la Parola, mediata da Israele. Se Gesù ha annunciato la salvezza ai poveri con la sua parola, ora si vede che essa è efficace e opera anche in sua assenza, per chi l’accoglie con fede, in umiltà e fiducia.

2. Lettura del testo

v. 1: “Dopo che ebbe riempito tutti i suoi detti”. Il comando di misericordia di 6,27ss resterebbe per l’uomo una parola vuota, se Gesù non l’avesse riempita: è lui stesso la pienezza della rivelazione, Parola piena del Padre, che si compie negli orecchi di chi ascolta (4,21).

“entrò in Cafarnao”. Ora Gesù si dirige verso Cafarnao, città di confine, per rivelare e realizzare la stessa parola con chi sta ai margini del popolo. È l’inizio dell’attività missionaria destinata ai lontani. Da questo punto Gesù non entrerà più in una sinagoga, se non in 13,10, dove si riassume la sua opera di salvezza in mezzo a Israele.

v. 2: “un centurione”. Il centurione è un pagano, comandante subalterno delle truppe di occupazione. È quindi il nemico per eccellenza, che appartiene alla categoria dei peccatori. Occupa nell’esercito un grado intermedio. Non così basso da suscitare commiserazione, non così alto da suscitare animosità o ammirazione, sta a quel giusto livello medio, sufficiente a suscitare l’esecrazione di tutti. Egli però ci è descritto come buono verso i giudei e verso i subalterni - vuol bene ed è benvoluto.È la figura del pagano ben disposto ad accogliere la salvezza, come il centurione di At 10. A Luca sta a cuore sottolineare che non si è accetti a Dio in base al sangue o alla razza, bensì in base al timor di Dio e all’amore del prossimo (cf. At 10,35).

“un servo, che stava male, stava per finire e gli era caro”. Il bisogno estremo di questa persona cara - al v. 7 è chiamato col nome di “figlio” - sta all’inizio della fede. La fede nasce dallo star male e dallo star per finire. È la situazione di ogni uomo che, in quanto limitato, da sempre “sta male” perché da

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sempre “sta per finire”: è essenzialmente finito e bisognoso di salvezza. La costatazione del male e del limite è il principio stesso della fede: essa nasce dal bisogno di star bene al presente, e di non finire, nel futuro. L’uomo è l’unico animale che ha coscienza della propria finitudine. Tale coscienza è il suo limite angosciante e la sua grandezza esaltante, radice della sua paura di morire e del suo desiderio insaziabile di vivere. Tale coscienza fa esplodere in lui la contraddizione di essere troppo grande per bastare a se stesso (Pascal) e lo induce a essere quel bisogno essenziale al quale risponde la fede: l’uomo si sente un vuoto che solo Dio può colmare.C’è un falso pudore nel non riconoscere i propri bisogni! La pena è lo star peggio e finire in anticipo, col buio disumano di una coscienza anestetizzata.

v. 3: “Ora avendo udito di Gesù”. Il centurione ha sentito parlare di Gesù (in At 10,3ss ha prima una visione). La fede infatti viene dall’udito (Rm 10,17). È quindi mediata dalla parola altrui. L’unico modo di conoscenza storica, che fa accedere a un fatto avvenuto di cui non sono stato testimone, è proprio l’ascolto di chi è stato testimone ed annuncia: attraverso la sua memoria e la sua parola io accedo alla verità, così com’è e la sperimento (cf. 1Gv 1,1ss).

“Mandò da lui alcuni anziani dei giudei”. Come la conoscenza di Gesù viene dagli altri mediante l’ascolto, così anche l’accesso a lui è mediato da altri. È caratteristica di Luca questa “missione di anziani (in greco presbiteri) dei Giudei” che fanno da ponte fra Gesù e il pagano. La funzione di Israele è di essere sacramento di salvezza per i pagani, perché ogni carne veda la salvezza di Dio (3,6). La gloria di Israele è illuminare i pagani (2,32). Luca, come già Paolo, riflette teologicamente sul rapporto Israele/gentili, in modo da rendere conto del perché la salvezza da Gerusalemme debba raggiungere gli estremi confini della terra. Ciò che in At 10-15 è descritto in forma conflittuale, qui ci è presentato già nella sua soluzione finale, idilliaca: buono il pagano, buono il centurione, caro il servo, buoni i capi dei giudei, buoni i rapporti tra tutti!Questa buona mediazione tra Gesù e i gentili è figura di Paolo stesso, maestro di agápe, che parlerà loro di Gesù, intercederà presso di lui per loro e li porterà a sperimentare la potenza della sua parola di salvezza. È proprio attraverso la fede di Israele che il pagano ha accesso alla promessa di Dio. Questa infatti è unica per tutti! Da qui la coscienza missionaria della chiesa in Luca. Fra l’altro il pagano non va a Cristo. Non può: non è degno! È Cristo che vuole andare a lui e ci arriva con la potenza della sua parola, nella mediazione di Israele.

vv. 4-5: “È degno che gli faccia questo”. La disponibilità del pagano a ricevere il dono di Dio - il suo essere “degno” secondo i giudei, proprio mentre lui si sentirà “indegno” (v. 6) - è il suo timor di Dio, espresso dal fatto che ha costruito la sinagoga. Il centurione di At 10 esprime la stessa disponibilità mediante l’elemosina, opera religiosa di misericordia per eccellenza (At 10,2). Il timor di Dio è inizio della sapienza (Sal 111,10; Pr 1,7; Sir 1,16). Temere Dio significa tenerne conto nelle proprie azioni concrete, improntandole a umiltà e misericordia. La sua misericordia lo rende disponibile ai bisogni dei fratelli e disponibile a riconoscere il proprio bisogno davanti a Dio.

v. 6: “Ora Gesù andava con loro”. Gesù si accompagna, senza obiezioni, a coloro che intercedono per il pagano e va verso di lui.

“Signore, non disturbarti, ecc.”. Il pagano, mosso dal bisogno, gli aveva mandato a chiedere di venire. Ora, vedendo che è disponibile a venire, lo prega di non venire: è indegno di accoglierlo! È colto da un senso profondo di rispetto. Senza questo non c’è fede in Dio: ci si troverebbe di fronte a un idolo, noto e domestico.

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v. 7: “Ma di’ una parola, ecc.”. Il senso d’indegnità non distrugge, anzi, alimenta la fede nel suo potere di salvezza. Il desiderio di salvezza, vista la disponibilità di Dio in Gesù, diventa fiducia incondizionata nella sua parola. Il centurione ha quella fiducia nella parola di Cristo alla quale Luca vuol portare il suo lettore: la certezza di sperimentare la sua potenza anche in sua assenza. È la fede della chiesa. Il centurione, che non può andare da Gesù, non gli chiede neanche più di venire: crede nell’efficacia della sua parola. Ecco il punto d’arrivo della fede del centurione: mosso dal bisogno estremo, avendo ascoltato da altri su Gesù, cosciente dell’impossibilità di accedere a lui, ricorre alla mediazione altrui e, informato che lui viene, percepisce insieme la propria miseria e la sua misericordia: da questo incontro nasce la fede illimitata nella sua parola. Questo è il luogo dove il bisogno dell’uomo incontra la sua potenza.

v. 8: “Poiché anch’io, ecc.”. È una specie di parabola della Parola, che va e viene, è data e accolta, detta ed eseguita. La parola obbedita del superiore porta all’esecuzione, anche sul piano umano. La parola del Kýrios non può che essere obbedita, e opera ciò che dice, perché tutto le è sottomesso. Se non è obbedita, quella del superiore del centurione porta all’esecuzione del trasgressore. Quella del Signore dei signori non porta ad alcuna esecuzione di chi disobbedisce. La pena è l’inesecuzione stessa: lo star male di chi non obbedisce e la dolorosa attesa del Signore di misericordia che è paziente e non ritira mai la sua benedizione.

v. 9: “Gesù lo ammirò”. Il centurione è l’unica persona che Gesù “ammira”, come l’incredulità dei suoi in Mc 6,6 è l’unica capace di stupirlo: c’è fede presso gli estranei e non presso i vicini! Il centurione è portato alla folla come modello di quella fede che dovrebbe essere in tutti.

v. 10: “trovarono il servo che era sano”. Chi fu incaricato dal centurione di mediare per la salvezza, costata che questa è avvenuta. Ma per la fede “immediata” del centurione in Gesù, che neanche ha mai visto! Se la parola di Gesù è un seme, la fede è il terreno che lo accoglie e su cui cresce la pianta. Senza fede la potenza del seme resta improduttivo.L’episodio del centurione serve a ravvivare nel lettore la sua fede: la Parola è certamente efficace, ma solo per chi ha fede. “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23), perché nulla è impossibile presso Dio (1,37). Chi crede ha la possibilità stessa di Dio, la cui potenza è liberata dalla fede dell’uomo che l’accoglie. Chi non ha tale fede, può sempre, con il padre del sordomuto, invocare: “Credo, aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù e i suoi che entrano in Cafarnao.c. Chiedo ciò che voglio: la fede nella parola di Gesù, che opera in me quello che ha operato allora, se la accolgo con fede.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- il centurione- la mediazione dei giudei- Signore, non sono degno

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- efficacia della parola- ammirazione di Gesù per la fede- miracolo in assenza di Gesù.

4. Passi utili

Sal 33; 119; 147; Is 55,10-11; Gv 4,46-53.

36. GIOVINETTO, A TE DICO: DESTATI!

(7,11-17)

11 E avvenne in seguitoche andò verso una città chiamata Nain, e andavano con lui i suoi discepoli, e molta folla.12 Ora quando si avvicinò alla porta della città,ecco che era accompagnato un morto unigenito figlio di sua madre,ed essa era vedova,e una folla considerevole della città era con lei.13 E vistala, il Signoresi commosse su di leie disse a lei:Non piangere!14 E, avanzato,toccò la bara- ora i portatori stettero -e disse:Giovinetto,a te dico:destati!15 E sedette sopra il mortoe cominciò a parlaree lo diede a sua madre.16 Ora spavento prese tuttie glorificavano Dio dicendo:un profeta grande fu destato tra noi,e visitò Dio il suo popolo.17 E questa parola su di lui uscì

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nell’intera Giudea e in tutto il paese circostante.

1. Messaggio nel contesto

Il centurione pagano, che crede nell’efficacia della parola del Signore anche in sua assenza, ci ha fatto vedere cos’è la fede per noi che non abbiamo visto il Signore: sapere che lui ci salva mediante la sua parola di promessa. Cristo infatti salva mediante la parola (cf. Rm 1,16; 1Cor 1,18-25; Eb 4,12s) tutti coloro che l’accolgono. Ora si mostra perché possiamo aver tale fede: sia perché lui si commuove al nostro male e ci visita con la sua presenza, sia perché lui è il “Signore” e la sua parola è efficace, capace di salvarci anche dalla morte. Egli è la misericordia che incontra la nostra miseria e realizza quanto detto da Zaccaria: la bontà misericordiosa del nostro Dio, che viene a visitarci dall’alto come un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte (1,78s).Nella sezione precedente si parlava del cammino di fede dell’israelita attraverso temi tipici per Israele: perdono, banchetto, sabato. Ora si parla del cammino di fede di ogni uomo, partendo dalla speranza comune a tutti: il desiderio impossibile di salute e di vita, che sempre viene infranto dal potere della morte. Ogni uomo, con i suoi problemi di fondo, si confronta ora con la promessa fatta ad Israele.Gesù ha appena proclamato il Regno, promesso la beatitudine ai poveri, affamati e piangenti (6,20-21) e comandato la misericordia. Ora sazia la fame del più povero tra tutti: un morto, l’estremamente povero, digiuno di vita. Ora usa grazia e misericordia verso il più piccolo tra tutti, l’estremamente piccolo, un bimbo morto, figlio unico di madre vedova! Gesù fa per primo quanto ha espresso come esigenza del Figlio di Dio: ama i nemici (= pagani 7,1-10), si prende a cuore i piccoli (7,11-17) e accoglie i peccatori (7,36-50). Questi tre episodi incorniciano l’autorivelazione di Gesù e indicano il suo tipo di messianismo: realizza la promessa, il giudizio e la salvezza di Dio, secondo la necessità della sua misericordia.È un racconto kerigmatico, un invito del credente al non credente, perché partecipi alla lode di Dio in colui che, senza esserne per nulla pregato, è venuto a vincere la morte. Il racconto è esclusivo di Luca, che narra due risurrezioni nel Vangelo (qui e 8,40-56) e due negli Atti (9,36-42; 20,7-12). C’è lo sfondo veterotestamentario della risurrezione operata da Elia (1Re 17,17-24) e da Eliseo (2Re 4,32-37).La risurrezione dai morti, che per Israele è un’attesa escatologica, esce totalmente dalla speranza pagana (cf. At 17,32). Il desiderio di vincere la morte - costitutivo dell’uomo! - non può mai tradursi in speranza reale per l’uomo, perché è brutalmente spezzato dalla morte. La risurrezione è indeducibile da qualsiasi premessa, impossibile per qualsiasi pretesa e attesa umana: è deducibile solo dalla promessa di Dio, possibile solo come dono inatteso della sua potenza misericordiosa.Più che la potenza di Gesù, il racconto evidenzia la misericordia del Salvatore. Dio previene e visita senza richiesta, preghiera o fede, chi è totalmente perduto e non può più richiedere né pregare né credere. Gesù è qui chiamato da Luca per la prima volta: “Signore”. Ciò significa che questo brano lo rivela pienamente, anche a livello di redattore-lettore: è il Signore di misericordia, autore della vita, vincitore della morte. Il figlio della vedova è descritto in termini che alludono a Gesù stesso morto e risorto: è il “figlio unigenito” (cf. 3,22; 9,35; 20,13), “alla porta della città” (cf. 20,15), si “desta” (cf. 24,6) e, al suo destarsi, si parla di “un grande profeta destato fra noi”. Questo scambio di figura, questa sovraimpressione Gesù/figlio unico morto/destato sta a indicare la sua misericordia. Essa lo porterà a venire incontro alla nostra miseria, fino a identificarsi con noi e perdere sé per salvare noi.Il racconto vuole suscitare fede nella misericordia di Dio per i piccoli e per i piangenti, per ogni uomo, che è piccolo e piangente di fronte alla morte. Piccolo perché assolutamente indifeso; piangente perché

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irrimediabilmente offeso. Gesù viene a dare speranza là dove nessuno può averne. Perché l’uomo muore; e, quando vive, vive nel dolore della morte altrui e nell’attesa della propria. Gesù vince colui che dà morte alla vita e restituisce la vita alla vita: la madre ritrova il figlio morto.

2. Lettura del testo

v. 11: “e andavano con lui i suoi discepoli”. Gesù e il seguito dei suoi discepoli è in cammino. Sembra senza meta. In realtà arriva, inaspettato, dove c’è bisogno di lui. Alla sua misericordia fa da guida la nostra miseria, in modo che tutti possiamo incontrarlo. Giunge a Nain, che significa “delizie”. Il villaggio, non lontano da Suneri, dove già Eliseo aveva risuscitato un morto, è 10 km a sud-est di Nazaret, circa una buona giornata di cammino da Cafarnao, dove si trovava Gesù.

v. 12: “ecco che era accompagnato un morto, ecc.”. Dalla città, come da ogni luogo dove vive l’uomo, esce un corteo di morte. Una folla piangente accompagna un giovane morto. Il destino toccato a lui, toccherà poi a ciascuno. Tutti viviamo in attesa di venire a nostra volta accompagnati da un simile corteo. Ogni città produce sepolcri, e tutta finisce lì, nel lamento funebre. Ma Nain da sepolcreto tornerà a essere giardino di “delizie” nell’incontro con il suo Signore, vittorioso sulla morte. Alle porte i due cortei si incontrano, quello del Signore della vita e quello del signore della morte. Uno esce a flusso continuo, come fiume che travolge ogni vita. Ora trascina con sé sottoterra la speranza ormai spenta di una madre vedova. L’altro entra per la prima volta. È morto il figlio, sopravvive colei che genera la vita. Questa madre, che genera e sopravvive solo per la morte, è figura di ogni vita, che è per la morte. È una madre “vedova”, senza sposo, senza amore e senza difesa, povera e derelitta. Priva di diritti e di identità, neanche può acquistarli nel figlio, perché è morto! Questa vedova è immagine dell’umanità intera, ormai lontana dal suo sposo, che è Dio. Lui infatti è il vero partner dell’uomo, che egli ha fatto a sua immagine e somiglianza, per essere amato con tutto il cuore (cf. Dt 6,4ss). Senza di lui, l’uomo non può che generare per la morte.Ambrogio vede in questa donna anche la chiesa che piange i suoi figli peccatori, morti e perduti per il peccato. Con lei tutta la folla dei fedeli piange. Cristo restituisce il peccatore al seno della madre-chiesa afflitta e alla gioia dei fratelli.La molta gente che accompagna la donna indica la consistenza del corteo di ogni morte che coinvolge tutti, perché in essa si piange in anticipo la propria. Ogni morte è di tutti e di ciascuno. A questo corteo fa da contrappunto il corteo condotto da Gesù primogenito di tra i morti (Col 1,18), primo di una schiera di “molti fratelli” (Rm 8,29).

v. 13: “il Signore si commosse, ecc.”. È la prima volta che Luca chiama Gesù “il Signore”. Lo farà solo in situazioni particolarmente solenni, dando al termine tutto il significato veterotestamentario (cf. 10,40; 12,42; 13,15; 16,8). Che Gesù sia il Signore è la premessa di ciò che accade. Questo Signore ci viene presentato in modo molto concreto: ha piedi, occhi, cuore, mano e bocca, descritti mediante l’azione di camminare, farsi vicino, vedere, commuoversi, toccare e parlare. Non è come gli idoli, che non parlano, non toccano, non sentono, non vedono, non camminano (Sal 115,5ss). Dio è piedi per incontrare l’uomo, occhi per vederlo, cuore per amarlo, mano per toccarlo, parola per comunicargli la sua vita. Se mediante i suoi piedi lui si accosta a noi, attraverso il suo occhio noi gli entriamo nel cuore. Vedere infatti è lasciare entrare l’altro in sé. Perché l’occhio è l’organo del cuore e la sua azione è quella più profonda: “com-muove” alla “com-passione” verso l’altro, mette in moto la persona che vede e la muove verso l’altro e la porta a patire con lui il suo male. Vedere, come è termine di tutta l’azione di Gesù che è venuto a mostrare il volto del Padre perché l’uomo si converta (cf. 23,47s),

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è pure il principio di ogni azione che scaturisce dal cuore. Perché vedere è amare, e l’occhio posa solo dove muove il cuore. In questo senso vedere è la caratteristica di Dio, che crea, salva e ama l’uomo (cf. Gn 1,4.10.12.18.21.25.31; Es 2,25; 3,7; Sal 139).Gesù che “vede”, “si commuove” e “si fa avanti” richiama il samaritano (10,33s) e il Padre del figlio perduto (15,20). È la vera immagine del Dio misericordioso, preso da passione per l’uomo, suo figlio perduto. È la guarigione dall’immagine satanica di Dio, che ha indotto l’uomo a fuggire dalla sua presenza e a nascondersi (Gn 3,10)! Solo vedendo questo Dio in Gesù c’è il passaggio dalla paura alla fiducia, dalla morte alla vita, dalla Legge al vangelo.Il dono che segue non è né sperato, né chiesto, né atteso. È pura iniziativa del Signore. Scaturisce dalla sua “commozione”. Le sue viscere di misericordia lo portano alla “com-passione”, a “patire insieme con” noi la nostra stessa pena, a condividere con noi quel male dove ci sentiamo tutti ugualmente soli (cf. 23,40).

“Non piangere!”. Sono le uniche parole di Gesù alla donna. Una madre davanti alla morte del figlio, come non piangere?! La donna, esponente di tutta la schiera degli uomini piccoli e piangenti davanti alla morte, non può che piangere (cf. 8,52). Anche Gesù, davanti alla tomba di Lazzaro pianse (Gv 11,35)!Se Gesù dice così non è perché ignori la tragedia della morte; è perché intende dare la speranza della vittoria su di essa. Infatti lui stesso ha pianto sulla città dei morti (19,41) e sull’amico morto (Gv 11,35). Anche davanti alla propria morte (cf. Eb 5,7) fu sconvolto fino a sudare sangue (cf. 22,44). Ma le sue lacrime hanno asciugato il nostro pianto e contengono la sua promessa di vita. A questa speranza fa da velo proprio il pianto, segno della disperanza umana di fronte all’inevitabile. Il Signore della vita ci sta dinanzi. È solo la paura della morte, che si traduce in disperazione e pianto, che ci impedisce di vederlo, come la Maddalena (cf. Gv 20,11-18).

v. 14: “E, avanzato, toccò la bara”. Prosegue la descrizione dell’iniziativa del Signore all’opera per salvare dalla morte. Siccome “ha visto”, “si fa avanti”. Come è “commosso” e toccato dal male, si muove, “avanza” e “tocca la bara”. Dopo aver detto la parola di conforto, ordina con la parola di vita. Il suo vedere è un farsi avanti; il suo commuoversi un muoversi alla compassione, fino a toccare ed essere toccato dalla nostra morte. Sarà la sua morte! Quando lui tocca il legno della bara, “stettero” fermi i piedi di coloro che portano alla tomba. Quando lui, compatendo il nostro male, toccherà il legno della croce, sarà vinta la morte.

“Giovinetto, a te dico: destati!”. Non si può rivolgere parola più insensata e inefficace: parlare a un morto e ordinargli di vivere! Ma il Signore agisce proprio mediante la sua parola creatrice. Dal nulla ha suscitato tutte le cose, dalla morte suscita la vita. Questa è la potenza della fede, che opera la salvezza per ogni uomo.

v. 15: “E sedette sopra il morto”. Il morto, che prima giaceva, preda della morte, ora “siede sopra”, cioè sopra la bara, sopra la morte stessa, come il vittorioso sul vinto. La sua misericordia ha visitato coloro che sedevano nell’ombra della morte (1,79; lo stesso verbo in At 9,40). In Gesù che vince la morte, si compie la liberazione dalla schiavitù fondamentale, la paura della morte, propria di tutti gli uomini che, “per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15). Il Signore infatti ha toccato la nostra bara e ha ridotto all’impotenza “colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo” (Eb 2,14).

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“e cominciò a parlare”. Il giovane, “seduto sopra” la bara, comincia a parlare. Il parlare e comunicare è proprio dell’uomo, immagine di Dio. Dio infatti è amore e l’amore si realizza nella comunicazione e nella comunione. Solo dopo la vittoria sulla morte, l’uomo non è più soggetto a quella paura che lo rende individuo, solo, timoroso ed egoista, incapace di comunicare e di amare, perché tutto intento a salvare il proprio io dall’inevitabile. È libero e può “parlare”, realmente comunicare con gli altri e cantare all’altro la lode.

“lo diede a sua madre”. A colei che dà la vita per la morte - figura di Eva, madre dei viventi - Gesù ridona ora la vita nel figlio. La sorgente della vita è guarita dal veleno mortale: ora essa può generare non più per la morte, ma per la vita. La misericordia del Kýrios ha guarito la vita vincendo la morte: il figlio morto è reso vivo alla madre!

v. 16: “Ora spavento prese tutti, ecc.”. È lo sbalordimento dell’uomo davanti all’impossibile, davanti a Dio che si manifesta.Al timore segue il coro di lode degli astanti, al quale il lettore è invitato a unirsi (cf. 5,26; 13,13; 17,18). La lode è gioire di Dio e della sua bontà. La folla glorifica Dio, cercando di capirne l’opera. Ma è ancora a un livello imperfetto. Scambia Gesù per un profeta (cf. 9,7-9). In realtà lui è il Signore che ha visitato il suo popolo, per cui i ciechi vedono, i morti risorgono, ai poveri è annunciata la buona notizia (v. 22). È sorto il sole che rischiara quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte. È finita la notte, inizia il giorno: è la nuova creazione, la vittoria della luce sulle tenebre.Questo brano ci ha descritto come avviene la visita di Dio: il Signore “cammina”, “si avvicina” “alla porta della nostra città” e viene incontro a noi che ne usciamo per entrare nella gola della morte; “vede”, “si commuove”, con la sua parola fa cessare il “pianto” e iniziare la speranza; quindi “si fa avanti”, “tocca” la morte, ne “arresta i piedi” e impartisce l’ordine: “Destati!”. E tutto questo senza nessuna richiesta - richiesta per altro insensata per i vivi e impossibile per i morti! Lui è infatti la misericordia che colma la nostra miseria.Il racconto serve a suscitare nel lettore quella fede che ebbe il centurione. Così anche noi, che non possiamo incontrarlo di persona come quelli di Nain, possiamo incontrarlo nella potenza della sua parola e osiamo chiedere l’impossibile, che si può operare anche in sua assenza, come ci insegna il brano precedente.

v. 17: “E questa parola uscì, ecc.”. Questa “parola” (lógos) di vita si espande: è l’annuncio che, come giunse al centurione, giunge fino a noi. Il racconto che ascoltiamo infatti è un annuncio che suscita la fede e ci porta all’incontro con il “Signore” della vita. Così possiamo sperimentare la potenza della sua misericordia. Egli Muta “il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia” (Sal 30,12). Dove la sua visita non è riconosciuta e accolta, resta il pianto e la paura della morte che regna. Ma lui è ugualmente presente, per visitarci in questo pianto e in questa morte. È presente piangendo e morendo lui stesso come quando piange su Gerusalemme, verso cui cammina per morire, perché non ha riconosciuto il tempo in cui è stata visitata (19,41ss). Quando invece noi, attraverso la fede nell’annuncio, riconosciamo la sua visita, allora avviene anche per noi l’incontro con lui che ci fa passare dalla morte alla vita.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che entra in Nain coi discepoli e la folla, mentre ne esce il

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corteo funebre.c. Chiedo ciò che voglio: incontrare il Signore della vita.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- Gesù e i suoi alle porte della città- giovane morto, figlio, di madre vedova- Gesù si commuove- non piangere- destati- cominciò a parlare- la fama si diffonde.

4. Passi utili

Sal 30; 1Re 17,17-24; 2Re 4,32-37; Lc 8,40-56; At 9,36-42; 20,7-12.

37. SEI TU COLUI CHE VIENE, OPPURE ATTENDIAMO UN ALTRO?

(7,18-23)

18 E annunciarono a Giovanni i suoi discepoli circa tutte queste cose.E, convocati due dei suoi discepoli, Giovanni19 li inviò verso il Signoredicendo:Sei tu colui che viene,oppure attendiamo un altro?20 Ora, recatisi presso di lui,quegli uomini dissero:Giovanni il Battista ci mandò verso di te dicendo:Sei tu colui che viene,oppure attendiamo un altro?21 In quell’oracurò moltida malattiee flagellie spiriti cattivie a molti ciechi

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fece grazia di vedere.22 E rispondendo, disse loro:Andate!Annunciate a Giovanni quanto vedeste e udiste:ciechi vedono,zoppi camminano,lebbrosi sono mondati, anche sordi odono, morti sono destati, poveri sono evangelizzati. 23 E beato ècolui che non si scandalizzerà di me!

1. Messaggio nel contesto

Con la sua parola Gesù ha proclamato il Regno di misericordia (6,20-31) e con la sua azione l’ha realizzato (7,1-17); ora, su sollecitazione del Battista, può rivelarsi come “colui che viene”. Questa rivelazione è rivolta anche ai pagani, essi pure chiamati a inserirsi nella promessa e attesa di Israele. Nel brano si affrontano due problemi di storia della salvezza: l’uno riguardo al passato, l’altro riguardo al presente. Il primo è questo: se il messianismo povero e umile di Gesù risponde alla promessa di Dio, che ne è delle grandi attese di Israele? Il secondo è questo: come può Gesù essere il messia, il Salvatore, se la storia dopo di lui continua ancora né più né meno come prima? Luca unifica i due problemi, perché hanno una radice comune, quella dell’attesa dell’uomo che è diversa dalla promessa di Dio; e risponde mostrando come la storia di Gesù che “cura e fa grazia” (v. 21) ai disgraziati è la realizzazione della promessa. L’attesa di Israele e di ogni uomo va localizzata e corretta su di lui, che lascia continuare la storia come storia concreta di salvezza, luogo costante di male e di bene, di peccato e di grazia, di miseria e di misericordia.Il nocciolo della questione, sempre attuale, è il tipo di messianismo di Gesù, che contraddice il delirio di potenza e di gloria dell’uomo; il suo messianismo, povero e umile, come fece problema a Israele, fa problema anche all’uomo d’oggi. L’uomo infatti da sempre è malato di “millenarismo”: attende e sogna una storia diversa da quella reale, dove cessi la contraddizione e la croce sia totalmente assorbita nella risurrezione, dove ci siano solo i frutti senza più i costi e non esista più il male. Ma questo sarà solo alla fine; prima sarà sempre il tempo della semina e sono ineliminabili sia la contraddizione sia la croce, fino alla fine. I cortocircuiti illuminano all’istante, e fanno nascere vari “illuminismi”, tanto ottimistici quanto patetici, che in realtà bruciano i tenui fili che collegano e illuminano la realtà! Siamo chiamati alla sequela di Gesù povero e umile, che non ha liquidato la storia, ma l’ha vissuta dalla parte di colui che, non facendo il male, se ne fa carico e lo arresta nella propria croce, unica via alla risurrezione. Su questo argomento l’errore è costante. e riguarda ebrei e cristiani, Battista e discepoli, ieri e oggi, oggi e domani. Lo stesso errore lo fanno anche gli atei, ma a cuore più leggero. Il tragico è che passa inavvertito e muove tanto zelo sbagliato, in cerca di scorciatoie per giungere al Regno, che non fanno che ritardarlo!Israele, come noi, attendeva un messia che prendesse in mano il potere ed eliminasse ogni male. Ma che lui elimini il male... lasciandolo, anzi portandolo su di sé, prendendosene cura e facendone il luogo della salvezza questo risulta problematico a tutti. La speranza è che con il messia si risolvano le nostre angustie e cessi questa storia di pianto e inizi la danza di vittoria. Subito! Il Battista attendeva un

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messia “più forte”, giudice tremendo, che spazzasse l’aia del mondo per dare inizio magico a un mondo nuovo (3,16s). Noi stessi attendiamo un mondo redento, in cui il travaglio della storia si plachi in un’escatologia beata.Gesù invece è sì messia, ma viene in estrema debolezza e senza potere, vittima di ogni male. E proprio così, portandolo, lo vince! È salvatore; ma vuole bene a cattivi e buoni e la sua misericordia lo inserisce nella nostra miseria, senza liquidare il malvagio. Rispetta la libertà e lascia che la nostra azione continui nella sua realtà anche brutale, facendo però di ogni miseria oggetto di misericordia. Il suo amore per l’uomo che è cattivo, lo rende debole e gli fa portare il carico della sua cattiveria. Non arresta la storia di perdizione, cristallizzandola in un giudizio che la blocchi; invece la continua e la volge in storia di salvezza. È questa nostra storia concreta e non un’altra ipotetica migliore, che contiene la salvezza! Questa salvezza è la misericordia di uno che si fa carico del negativo e ne paga i costi, perché altri ne gustino i frutti. Siamo lontani da ogni fanatico escatologismo e da ogni settarismo di puri - i buoni salvati in un mondo perverso! - come anche da ogni forma di disimpegno. Il messianismo di Gesù è il suo attuale farsi carico del male del mondo, in un impegno che lo contamina di ogni impurità. Il suo messianismo continua nella storia della chiesa, che si apre al mondo. Il male stesso è il luogo di realizzazione della salvezza, mediante la misericordia.Questo slittamento in tono minore della figura del messia è motivo costante di scandalo. L’aquila dell’esodo (cf. Es 19,4; Dt 32,11) si trasforma in “gallina” (13,34); il re diventa servo (22,27); il salvatore viene condannato (23,35-37); il giusto si fa solidale con la nostra ingiustizia; Dio patisce la nostra morte (23,40s)! È un messianismo che esula dalle nostre attese, perché ci presenta un messia crocifisso, povero e umile, che si prende cura del male e fa grazia. La risposta al Battista corregge l’attesa di Israele e di ogni uomo. A partire da Gesù e dal suo stile si comprende in modo nuovo e profondo l’AT, Dio e la sua promessa. Questa nuova comprensione fa individuare in Gesù l’atteso. Diversamente si continua sempre ad attendere un messia “diverso” o una storia “diversa”. Mentre in realtà diversa deve essere la nostra attesa!È importante determinare l’attesa. L’uomo infatti diventa ciò che attende. È un animale “eccentrico”, con il proprio pondus in ciò che attende. Ora il cristiano non attende più nulla di diverso e guarda con occhio smagato e tenero la realtà: sa che in essa, proprio nella sua miseria, si realizza la verità di Dio che è misericordia. Partecipa della compassione di Dio per il male di un mondo senza Dio (Bonhoeffer). Tutta l’attività di Gesù è interpretata da lui stesso non tanto come azione di potenza, quanto come passione di misericordia. In questa ci visita un Dio che si fa vicino al lontano, giustifica l’empio e vivifica il morto. La salvezza è accogliere questa buona notizia, di cui i fatti sono la prova. In questo brano Luca elabora una interessante teologia della storia della salvezza, dando la chiave di lettura del Cristo salvatore attraverso lo stile, la parola e l’azione di Gesù. Rispondendo al Battista, risponde al problema sempre attuale del messianismo cristiano, sul quale si devono misurare tutte le teologie, della liberazione o meno. La sua risposta è l’unica, valida fino alla fine del mondo, quando il cammino ora aperto sarà compiuto.

2. Lettura del testo

v. 18: “E annunciarono a Giovanni, ecc.”. Giovanni si trova in carcere (3,19s) per aver denunciato l’adulterio del re, figura dell’adulterio del popolo che ha tradito Dio, suo sposo. Difatti non lo ama, secondo il comandamento, “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5).È informato dai suoi discepoli “circa tutte queste cose”, su ciò che Gesù dice e fa, sul suo stile e sulle reazioni che suscita. Tutto questo interroga e mette in questione il Battista. Se è giusta la sua attesa, bisogna attendere un messia “diverso”; se invece è lui il messia, bisogna che l’attesa sia “diversa”!

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La promessa dell’AT, per comprendersi pienamente, deve ricorrere a Gesù, che ne è il compimento. È lì che cessa ogni ambiguità. Per questo invia due discepoli “qualunque” a informarsi. I discepoli sono “due”, perché la testimonianza di due è autoritativa (cf. Dt 19,15), e sono due “qualunque” perché rappresentano ogni discepolo, il quale deve verificare con Gesù le sue attese.

v. 19: “Sei tu colui che viene, oppure attendiamo un altro?”. Per Luca Gesù, dopo 7,13 è “il Signore”. Lo chiama così per circa 20 volte. “Colui che viene”, per il Battista è la qualifica del messia (cf. Gn 49,10; Sal 118,26) e del giudice (cf. Dn 7,13; Ml 3,1ss), compimento della promessa e della speranza di Israele. Il dubbio di Giovanni è ben fondato. Lui ha annunciato un messia “forte”, un giudice severo; avrebbe operato il giudizio di Dio e inaugurato il giorno del Signore, tremendo come un fuoco. La storia si sarebbe arrestata nell’escatologia, i giusti sarebbero stati salvati e i peccatori bruciati (cf. 3,16s, con lo sfondo di Ml 3). Gesù invece si rivela come misericordia, inesorabilmente attratta dalla miseria: è perdono per il peccatore, giustificazione dell’ingiusto, assoluzione dell’empio. Inoltre ha uno stile di assoluta povertà, che rifugge da ogni presa di potere, anche a “fin di bene”! Il ventilabro, secondo Giovanni scosso dal Messia (3,17), è invece da questi lasciato al nemico (22,31). Egli non giudica nessuno, è compassionevole e salva tutti coloro che si riconoscono peccatori (cf. 5,31s). L’unica condanna è il nostro condannare, l’unica esclusione è il nostro non accogliere, l’unico suo giudizio è non giudicare, l’unica sua salvezza la misericordia!“Colui che viene” (cf. 3,16) è riferito da Gesù a se stesso in 13,35, dove si paragona alla chioccia che tenta di raccogliere i suoi figli sotto le ali; è detto di lui in 19,38, quando entra in Gerusalemme per subire la nostra condanna. Questi è colui che viene: ha la fisionomia della chioccia amorevole, il volto di chi si lascia condannare in silenzio piuttosto che accusare!L’attesa di “colui che viene” vale non solo per l’AT, ma anche per noi, che attendiamo la seconda venuta e invochiamo “Maràna thà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). Questa seconda venuta, che ci sarà nel futuro, non sarà altro che lo svelamento della sua venuta quotidiana, che siamo chiamati a riconoscere “oggi” con le caratteristiche della sua venuta di allora, appunto come “chioccia” e come servo, che ha come figura l’asino da lavoro (cf. 19,29ss). Infatti l’attesa ha le caratteristiche del compimento, come la domanda ha il tenore della risposta. L’attesa sta al compimento come il recipiente al contenuto: gli determina la forma e la quantità; può addirittura perderlo, come uno che attinge acqua con una cesta.Fondamentalmente le nostre attese di Dio vanno in due direzioni. Il giusto vuole un dio che dia ai buoni il premio e al cattivi la punizione. Il peccatore invece, lungi dal volere un dio simile, ne fugge; desidererebbe, ma non osa, un Dio misericordioso, che premia se stesso, perdonando ogni male. Il primo attende lo stipendio, il secondo il regalo.Comunque, tanto il giusto quanto il peccatore, attendono qualcosa in quanto mancano di qualcosa. Chi manca di nulla, attende nulla. Chi manca dell’essenziale, è essenzialmente in attesa. Così si capisce perché i ciechi, gli storpi, i lebbrosi, i sordi e i morti attendono: rappresentano situazioni estremamente povere di vita (la situazione più povera è quella del giusto, che costata di non riuscire a salvarsi!). Per questo la buona notizia è riservata a tutti i poveri - giusti o peccatori che siano - purché si sentano insoddisfatti e mancanti dell’essenziale. Gli altri invece si scandalizzano di Cristo: hanno già tutto e non attendono nulla. Se il luogo della rivelazione della buona notizia è l’attesa, il luogo di questa è la mancanza, la sofferenza dei piccoli che hanno bisogno di tutto e sono radicalmente insufficienti a se stessi. Solo a loro si rivela il Cristo, non ai sapienti o ai potenti. Quando gli intelligenti saranno in situazione di non vedere il senso della vita, i potenti incapaci di camminare sulla propria via, i ricchi disfatti nel grasso della loro carne, tutti inabili a camminare, immersi in una situazione di morte vissuta; quando questa povertà verrà riconosciuta, allora il Messia potrà rivelarsi a tutti come l’atteso. Perché sarà atteso! Allora tutti diremo: Ti attendo, Signore, come il cieco la vista, lo zoppo le gambe,

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il lebbroso il balsamo, il sordo la parola, il morto la vita. E tu verrai, perché tu sei colui che viene, Tu, innalzato, sei la luce che si spegne per illuminare la mia cecità. Tu, inchiodato, sei la paralisi che mi dà forza per alzarmi. Tu, disfatto nella carne, sei la medicina per sanarmi. Tu, morto per me, sei la vita che dà a me la vita. Perché tu sei colui che da ricco che eri ti sei fatto povero per arricchire me con la tua povertà (2Cor 8,9).Il dubbio del Battista circa l’identità di Gesù nasce anche dal fatto che, se Gesù è il Messia, dovrebbe finire la storia di male e iniziare l’escatologia, il tempo di Dio. È il dubbio stesso del cristiano attuale: come mai la venuta di Gesù non ha cambiato il mondo e la sua storia?Con Gesù tutto sembra come prima. Nessun cambiamento spettacolare. I potenti sono ancora al loro posto, le regole del gioco identiche, i poveri sempre più malmessi! Allora è chiaro: o Gesù non è “colui che viene” e quindi dobbiamo attendere un altro; oppure è “colui che viene”, e allora deve essere altra la nostra attesa!

v. 20: “Ora, recatisi presso di lui, quegli uomini dissero, ecc.”. La domanda del Battista è ripetuta, per sottolineare l’importanza. Solo l’attesa infatti rende possibile riconoscere la visita del Signore e accoglierlo! Il problema del Battista è quello fondamentale della salvezza: come conoscere e accogliere il Signore che viene. È la questione perenne del discernimento cristiano nella storia.

v. 21: “In quell’ora curò molti, ecc.”. Questo versetto, proprio di Luca, fa da sfondo alla risposta di Gesù. I messi dovranno annunciare a Giovanni ciò che qui “vedono” e “ascoltano” (cf. v. 22). Vedono innanzitutto Gesù che “in quell’ora” realizza il regno di Dio. E ascoltano poi le parole che spiegano come lo realizza. Gesù dirà in 17,21 che il Regno non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui, eccolo là”, poiché “il regno di Dio è in mezzo a voi”. Questo Regno in mezzo a noi, che vediamo, ascoltiamo e annunciamo come compimento dell’attesa dell’AT, è Gesù stesso che si prese cura di molti afflitti da “malattie e flagelli e spiriti cattivi” e “a molti ciechi fece grazia di vedere”. Il Regno è ciò che Gesù fece in “quell’ora”, l’ora alla quale si rende contemporaneo il credente che sa discernere e accettare la sua salvezza.Il suo messianismo non interrompe la storia e non stronca il malvagio, ma si prende cura di ogni male e dona la fede, la “grazia di vedere”. Mediante questa si conosce e si accetta la salvezza di Gesù che realizza la promessa di Dio. Diversamente restiamo ciechi e perduti nelle nostre vuote attese. Se Dio le compisse, non farebbe che fissare eternamente il male.

v. 22: “Andate! Annunciate a Giovanni quanto vedeste e udiste, ecc.”. Gesù interpreta la propria azione ricorrendo a Isaia (cf. Is 29,18; 35,5ss; 42,18; 26,19; 61,1): egli realizza la promessa escatologica. Così gli inviati del Battista sono in grado di dire ciò che hanno visto e di darne l’interpretazione autentica: la storia di Gesù, che “si prende cura e fa grazia” è il senso della storia stessa, l’opera del messia in una storia concreta di male.La sua azione non è il giudizio che separa i buoni dai cattivi, ma la misericordia, che si prende cura e fa grazia a tutti. Così si risponde anche al grande interrogativo del Battista e dei cristiani: perché anche dopo la venuta di “colui che deve venire” la storia continua ancora, con il suo spessore di male? Né stupidamente ottimista né catastroficamente apocalittica, la chiesa sa e conosce il male del mondo e, come Gesù, lo vince facendosene carico. Quest’azione storica di misericordia è già escatologia: è rivelazione definitiva di Dio e salvezza dell’uomo. Non dobbiamo attendere un mondo diverso o un modo diverso di intervento. Questo è il mondo, con la sua miseria. Il Signore è qui, in Gesù e questo è il suo modo definitivo di agire, secondo la sua misericordia infinita. Il mondo, spesso troppo stretto, è un vivaio da coltivare con cura: ogni pianta verrà trapiantata al suo posto nel giardino, purché sia buona e non faccia frutti marci.

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Questa è la novità profonda e scandalizzante della rivelazione di Gesù: il Regno si realizza attraverso la misericordia di un Dio che ci visita, si prende cura e fa grazia.L’affermazione “i poveri sono evangelizzati” è messa in posizione di spicco, con funzione conclusiva. La buona notizia è annunciata ai poveri che ascoltano Gesù e a tutti i poveri che ascolteranno con fede l’annuncio di un Dio di misericordia che si prende a cuore il male dell’uomo.

v. 23: “E beato è colui che non si scandalizzerà di me”. Il fatto che il regno escatologico si realizzi nella storia, e per di più in modo modesto, è occasione di scandalo. Se si propone così, si espone anche al rifiuto. Il “giudizio”, di cui il Battista parlava, deriva proprio dall’accettare o meno questa “via” e questo stile di Dio in Gesù: egli opera non nella potenza del giudizio, ma nell’umiltà della misericordia, non con la forza delle sue opere, ma con la debolezza dell’annuncio. È la scelta di questa debolezza che lo porterà ad essere il Messia crocifisso. La beatitudine del Regno dato ai poveri (6,20) è proprio per chi accetta questo scandalo, già profetato da Simeone (cf. 2,34s).Gesù quindi, con i fatti e la spiegazione che ne dà, si conferma il messia atteso. Ma mostra una forma inattesa e sempre inattuale di messianismo. La fede che dà salvezza è discernere con la mente e accettare con il cuore la visita di Dio in Gesù, il Messia e Signore crocifisso per misericordia.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo, immaginando i discepoli di Giovanni che dal carcere vanno a Gesù, che sta prendendosi cura dei mali dell’uomo.c. Chiedo ciò che voglio: capire ed accettare il messianismo povero di Gesù, capire che la salvezza definitiva è la misericordia di chi si prende cura dei nostri mali.d. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono. che fanno.

Da notare:- sei tu quello che viene- attendiamo un altro- in quell’ora Gesù curò- fece grazia di vedere- i poveri sono evangelizzati- beato chi non si scandalizza di questo Gesù.

4. Passi utili

Sal 146; 145; Is 29,1-24; 35,1-10; 42,1-25; 61,1-3.

38. MA FU GIUSTIFICATA LA SAPIENZA DA TUTTI I SUOI FIGLI

(7,24-35)

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24 Ora allontanatisi gli angeli di Giovanni cominciò a dire alle folle su Giovanni:Che usciste a guardare nel deserto? una canna scossa dal vento?25 Ma che usciste a vedere?un uomo avvolto in delicate vesti?Ecco: quelli in veste splendida e lusso stanno nelle regge!26 Ma che usciste a vedere?un profeta?Sì, dico a voi,anche più che un profeta!27 Costui è colui circa cui è scritto:Ecco: mando il mio angelo davanti al tuo volto che preparerà il tuo cammino dinanzi a te.28 Dico a voi:nessuno è più grande di Giovanni tra i nati da donna; ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui.29 E tutto il popolo che udì, anche i pubblicani,giustificarono Dio,perché battezzati del battesimo di Giovanni.30 I farisei invece e i legisti trasgredirono la volontà di Dio su di sé, perché non battezzati da lui.31 A chi dunque somiglierò gli uomini di questa generazione, e a chi sono simili?32 Sono simili a fanciulliin piazza seduti,e si rinfacciano l’un l’altro, e dicono:Suonammo il flauto per voie non danzaste,cantammo il lamentonon piangeste!33 È venuto infatti Giovanni il battezzatore,né mangiando panené bevendo vino,e dite:ha un demonio!34 È venuto il Figlio dell’uomo,

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mangiandoe bevendo,e dite:ecco un uomo vorace e ubriacone,amico di pubblicani e peccatori.35 Ma fu giustificata la sapienzada tutti i suoi figli!

1. Messaggio nel contesto

Dopo aver rivelato se stesso come “colui che viene”, Gesù spiega alla folla il ruolo del precursore nel disegno di Dio. Egli è più che un profeta: è il profeta ultimo annunciato da Ml 3,1ss. Egli conclude il tempo della promessa e sta sulla soglia del compimento. Accettare o rifiutare il suo messaggio di conversione, per tutti gli uomini di tutti i tempi, significa inserirsi o meno nell’atto ultimo della storia di fede nella promessa che inizia con Abramo e si conclude con il Battista. Con lui il tempo dell’attesa finisce e trova il suo compimento nella storia di Gesù.Nei vv. 24-28 con tre domande, due negative e una positiva, Gesù definisce il Battista come culmine e personificazione della speranza affidata ai giudei. Luca riserva grande importanza al Battista come figura della storia di Israele. Attraverso di lui anche il lettore di origine pagana può conoscerla e decidersi per essere tra coloro che accettano il disegno di salvezza di Dio (vv. 29-30).Nei vv. 31-35 Gesù si lamenta della propria generazione: non accetta il gioco di Dio. Gli stessi che rifiutano l’appello alla conversione del Battista perché si ritengono giusti, non accettano neanche l’invito al banchetto nuziale della sapienza imbandito da Gesù, perché si ritengono autosufficienti. Questi sono i farisei e i dottori della legge. Pubblicani e peccatori invece riconoscono il bisogno del perdono. Accettano quindi l’invito a convertirsi e diventano figli della sapienza e amici dello sposo: hanno fame e accettano l’invito al banchetto!Gesù si rivolge a chi è “uscito nel deserto”. Non si rivolge a chi è rimasto fermo a casa sua e non ha fatto nessuna piega, se non quella di arricciare il naso schifato. Chi accoglie il Battista - e sarà poi in grado di accogliere il Cristo - è colui che è uscito nel deserto, perché ha riconosciuto il proprio peccato, ha accettato l’invito alla conversione e, spogliatosi di ogni prestigio o pretesa, si trova nudo, insieme con gli altri, per farsi battezzare da lui (cf. 3,3). Costoro non hanno certo visto nel Battista “una canna scossa dal vento” (cf. 1Re 14,15), segno di debolezza e di indecisione - la fragilità e la perplessità oscillante dell’uomo, giunco pencolante nell’aria secondo il vento. Hanno invece visto in lui l’uomo forte e deciso, inflessibile e rigoroso, che è mosso solo da un vento: lo Spirito di Elia che gli fa attendere colui che viene, il più forte, che riempie il vuoto dell’attesa millenaria del popolo. Giovanni è nel deserto proprio per avviare l’esodo definitivo.

2. Lettura del testo

vv. 24s: “cominciò a dire alle folle su Giovanni”. Gesù vuol far prendere coscienza alle folle, in modo sempre più serrato, del ruolo del Battista. Parla per contrasto del suo vestito e della sua abitazione. Il suo vestito come sappiamo da Mc 1,6 (cf. Mt 3,4), è la ruvida tunica di cammello, divisa del profeta (2Re 1,8). La sua abitazione è ben diversa da quella che i potenti offrono ai loro servi. Passerà dal deserto al carcere, perché, servo di Dio, denuncia a nome suo il peccato dei potenti e del popolo.

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v. 26: “un profeta?”. Gesù insinua nella terza domanda quella che sarà la sua risposta: Giovanni è “un profeta”, anzi “più che un profeta”. Con lui, ultimo profeta dopo secoli di silenzio, finisce il profetismo stesso, che promise e preparò la venuta del Signore. Dopo lui tacerà per sempre la voce, perché è risuonata la Parola definitiva. Dopo di lui la promessa non sarà più “profezia” del Cristo e di Dio, ma “ricordo” di Gesù, Figlio di Dio, riconosciuto nello Spirito.

v. 27: “Costui è colui circa cui è scritto, ecc.”. Infatti è il “precursore” del Signore stesso. A differenza di 3,4ss, dove il Battista così si definisce, qui Gesù stesso lo indica come il profeta escatologico, l’ultimo che viene davanti al volto del Signore, per preparargli “un popolo ben disposto” (1,14ss). Gesù cita Ml 3,1 (con allusione a Es 23,20), in cui si parla del messaggero finale, prima della immediata visita di Dio al suo popolo: è l’appello definitivo alla conversione, per accogliere la salvezza. È in sintesi l’appello di tutto il profetismo: tutto convergeva qui come promessa e come premessa. La funzione di Giovanni è la stessa attribuita a Elia in Ml 3,23s (cf. 1,17): è il profeta dell’Altissimo, che andrà innanzi al Signore a preparargli la strada (1,76). Egli compie e corona la fatica di tutti i profeti, che è quella di dare “al popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati” (1,77; cf. 3,1-16).

v. 28: “Dico a voi: più grande... ma il più piccolo nel regno, ecc.”. In polemica con quanti non l’hanno accolto, il Battista è proclamato più grande di tutti i profeti. In polemica con quanti l’hanno accolto senza accogliere colui che egli ha annunciato, è dichiarato il più piccolo nel regno di Dio.Tra i nati di donna, nessuno è grande come lui. Egli è più grande anche del primo grande profeta, Mosè (cf. Dt 34,10). Infatti è l’ultimo gradino della scala, quindi il più alto. È l’unico profeta che vede la realizzazione di ogni profezia, la porta che introduce dalla promessa al compimento. Per questo vive in se stesso una rottura: in continuità con il passato e con il futuro, egli è in qualche modo fuori da ambedue. Si stacca dal passato, perché prelude già al futuro; ma si stacca anche dal futuro, perché questo è di una novità tale che il più piccolo nel Regno è più grande di lui. Attraverso Gesù si passa infatti dalla realtà umana, di figli nati da donna, alla realtà divina, di figli di Dio.In contraddizione con le attese del Battista, che annunciava un messia forte e grande, la piccolezza e la debolezza saranno le caratteristiche del Regno (cf. 9,48: 14,11; 22,26). In questa contrapposizione tra il grande Battista e il più piccolo nel Regno, che è più grande di lui, è da vedere il confronto tra l’economia della promessa e quella del compimento e l’eccellenza di questa su quella. Una candela illumina più della promessa del sole. Figurarsi il sole stesso! Il vero più piccolo nel Regno è Gesù stesso, che ha detto: “Chi è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande” (9,48).

v. 29: “anche i pubblicani giustificarono Dio”. Il popolo, inclusi i pubblicani e i peccatori (cf. v. 35) “giustificò Dio”: ha riconosciuto che Dio è il solo giusto e ha ragione, mentre tutti siamo ingiusti e nel torto. Per questo ne compie la volontà e accoglie l’appello alla conversione e al battesimo. Accettando la predicazione del Battista, il popolo umile si è reso docile al piano di salvezza di Dio e incontrerà il Salvatore che gli viene incontro sulla stessa riva del fiume.

v. 30: “I farisei invece e i legisti”. I farisei e i legisti invece, l’Israele ufficiale in opposizione al popolo, hanno vanificato il piano di Dio. Si sentono abbastanza buoni e intelligenti per non mettersi in fila con il popolo peccatore e ignorante che va a farsi battezzare! Rifiutando la conversione, non incontreranno il Salvatore, che va apposta al Giordano per incontrare ogni debolezza umana. L’unico modo di vanificare la salvezza è credersi giusti e rifiutare di convertirsi.

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v. 31: “A chi dunque somiglierò, ecc.”. Gli “uomini di questa generazione” sono quelli che non accettano il messaggio del Battista: è la gente dal cuore duro. “Questa generazione ha una connotazione negativa, in contrapposizione a “popolo”. “Questa generazione” è per definizione “adultera e peccatrice”: adultera perché non conosce Dio, suo sposo, peccatrice perché incapace di osservare il primo comandamento. Sua caratteristica è la sordità, la durezza di cuore e di collo: non ascolta la parola del Signore, non si apre ad accogliere il suo dono ed è altèra.

v. 32: “Sono simili a fanciulli, ecc.”. “Questa generazione” è specializzata a contrastare il disegno di Dio. Tra le due offerte che Dio successivamente fa - appositamente opposte, pur di fare accettare il suo gioco! - sceglie sempre l’altra, per puro dispetto, pur di non giocare al suo gioco. Dio li chiama alla giustizia e alla severità con Giovanni: non accettano, perché pazzesco e demoniaco.Allora chiama con Gesù alla gioia e alla danza: non accettano, perché vogliono un Dio severo! Questa generazione è paragonata non ai bambini in senso evangelico (cf. 18,15ss), ma ai bambini capricciosi e riottosi, che non accettano per principio di stare al gioco dei compagni. Il loro gioco è contrastare il gioco!

v. 33: “È venuto infatti Giovanni, ecc.”. Il messaggio di ascesi e di conversione di Giovanni è ritenuto follia. Il messaggio di gioia e di amore di Gesù è scambiato per dissolutezza. Il cuore duro dei farisei e dei legisti è la causa di questa mancanza radicale di discernimento. Si arriva all’inconvertibilità di chi non vuole convertirsi e resiste con dispetto a Dio. Tutto perché si sente sufficientemente buono e intelligente! In realtà, chi non accetta il lutto proposto dal Battista e non si riconosce peccatore, non partecipa alla danza dello sposo (vedi brano seguente!). Per accogliere Gesù e la gioia del suo banchetto nuziale, bisogna prima accettare il duro richiamo del Battista. Chi invece ritiene “indemoniato” il Battista, è pronto a bollare Gesù come “mangione e beone”. Gli attribuisce le caratteristiche del figlio “testardo e ribelle che non vuole obbedire” e che va lapidato (cf. Dt 21,18-21)!

v. 35: “Ma fu giustificata la sapienza, ecc.”. La sapienza in Mt 11,19 è Gesù stesso che imbandisce il banchetto nuziale. In Luca tale sapienza è invece il piano di salvezza di Dio che si identifica con la promessa (Giovanni) e il compimento (Gesù). I “figli della sapienza” (cf. Pr 8,32ss; Sir 4,11) sono quindi coloro che accettano il disegno di salvezza di Dio. Essi accolgono l’invito al lutto di Giovanni e l’invito alle nozze di Gesù: da figli del serpente (3,7), passano, attraverso la conversione del battesimo, alla gioia del banchetto del Figlio. Si ribadisce il v. 29: il popolo, peccatore e bisognoso di salvezza, accetta la conversione del Battista e la festa del perdono in Gesù. Per questo riconosce la giustizia di Dio, cioè la sua sapienza, e l’ascolta.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che parla alle folle che erano venute per essere curate da lui.c. Chiedo ciò che voglio: accettare sempre l’invito del Battista a convertirmi e a gioire del perdono di Gesù.d. Contemplo la descrizione che Gesù fa del Battista e comprendere la sua funzione di purificazione, per incontrare Gesù.

Da notare:

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- la dimora, il vestito e la parola del Battista- senso della profezia dell’AT- grandezza del più piccolo nel regno- Dio invita alla conversione prima e poi alla gioia- la nostra resistenza al suo gioco.

4. Passi utili

Sal 50; 51; Is 1,1-20; 61,10-62,12; Ml 3,1-24.

39. DUE DEBITORI AVEVA UN CREDITORE

(7,36-50)

36 Ora domandava a lui uno dei fariseiche mangiasse con lui.E, entrato nella casa del fariseo, si sdraiò.37 Ed ecco:una donna,che era nella città peccatrice, avendo saputoche è sdraiato nella casa del fariseo, recando un alabastro di profumo,38 e ponendosi dietropresso i suoi piedi,piangendo con lacrime, cominciò a irrorare i suoi piedi e coi capelli del suo capo asciugava e baciava i suoi piedie ungeva con profumo.39 Ora visto il fariseo,quello che l’aveva chiamato, disse fra sé dicendo:Costui, se fosse profeta, conoscerebbe chi e donde la donna la quale lo tocca, che peccatrice è.40 E, rispondendo, Gesù disse a lui:Simone, ho per te qualcosa da dire.Egli allora:Maestro, parla! - dice.

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41 Due debitori aveva un creditore: l’uno doveva cinquecento denari, l’altro invece cinquanta.42 Non avendo essi da rendere, graziò ambedue.Chi dunque di loro amerà di più? 43 Rispondendo Simone disse:Suppongo colui che graziò di più!Ora egli disse a lui:Rettamente giudicasti!44 E, voltosi verso la donna,a Simone disse:Vedi questa donna?Entrai nella tua casa,acqua a me sui piedi non versasti,costei invece con lacrimeirrorò i miei piedie con i suoi capelli asciugò!45 Bacio a me non desti,costei invece, da che entrai,non smisedi baciare i miei piedi.46 Con olio il mio capo non ungesti,costei invece con profumounse i miei piedi.47 In grazia di ciò dico a te:sono rimessi i suoi molti peccati,perché amò molto;a chi poco è rimessopoco ama!48 Ora disse a lei:Ti sono rimessi i peccati. 49 E cominciarono i commensali a dire tra sé:Chi è costui,che anche i peccati rimette? 50 Ora disse alla donna:La tua fede ti ha salvata: cammina verso la pace!

l. Messaggio nel contesto

Il racconto ha molti tratti comuni con l’unzione di Betania (Mc 14,3-9; Mt 26,6-13; Gv 12,1-8), che Luca omette. A prima vista presenta un’apparente contraddizione: l’amore sembra prima causato dal perdono (vv. 41-43) e poi causa di esso (v. 47). In realtà qui Luca esprime in modo preciso che cos’è la fede cristiana (cf. v. 50): è l’amore che questa donna ha per Gesù, da capire alla luce del primo

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comandamento (cf. 10,27; Dt 6,5). Tale amore è effetto e causa insieme del perdono: in quanto perdonata, ama come risposta al perdono; e, in quanto ama, è aperta ad accogliere il perdono che è la forma più grande dell’amore. Amore e perdono si alimentano a vicenda, in una circolarità continua. I gesti di questa donna sono l’espressione piena della fede nel perdono di Gesù, la risposta delicata ed esaltante dell’amore che accetta di essere amato. Questa donna accoglie la cháris di Dio: si lascia far grazia, ed esprime il suo grazie, l’amen della fede. Il fatto si svolge nella casa del giusto, in cui fa irruzione una peccatrice. Una dei “figli della sapienza” rende giustizia a Dio, riconoscendo il proprio peccato e la sua misericordia. Essa entra di forza nella casa di uno di quelli che, abitando nella presunzione della propria giustizia, rendono vano il piano di Dio. Mentre lei accetta il lutto e il pianto del Battista ed entra nella gioia del flauto e della danza di Gesù, lo sposo, gli altri stanno a guardare con disappunto. Nella casa della legge, dove era atteso e invitato, Gesù imbandisce il banchetto nuziale per il peccatore inopportuno e indesiderato.Da una parte la donna rannicchiata, che riceve l’abbondanza dell’amore di Gesù, se ne impregna e ne trabocca riversandolo su di lui. Dall’altra il fariseo autosufficiente e controllato, che conosce solo il merito, ignora il debito e l’amore che lo condona. Non può partecipare alla danza dell’amore, se prima non partecipa al pianto del suo peccato. Il racconto - come tutto il c. 15 - è per persuaderlo di peccato “di prostituzione”, perché vuol meritare l’amore di Dio. L’amore infatti è gratuito - lo capisce bene il peccatore nel perdono! - e “meritarlo” si chiama “meretricio”. Questo rapporto di prostituzione, che il giusto instaura con Dio, è l’unico peccato diretto contro colui che è amore. Per questo peccato non ci può essere perdono. Da esso ci si salva solo con la conversione. Infatti non può essere perdonato, fino a quando non è riconosciuto come peccato. La conversione più profonda è il semplice riconoscerci peccatori e bisognosi di perdono.Gesù qui conferma di essere quel Dio che ha rivelato: un Dio che ama e fa grazia a tutti, ai pagani-nemici (7,1-10), ai piccoli (7,11-17) e ai peccatori (7,36-50). Si conclude l’abbozzo del cammino di fede per ogni uomo che non ha visto Gesù. Chi crede alla potenza della sua parola (7,1-10), vince la morte (7,11-17) perché Dio ha visitato il suo popolo come aveva promesso a Israele. Questa promessa è aperta a tutti coloro che l’accolgono nell’invito alla conversione del Battista e nel dono di grazia che Gesù compie (7,18-35). Anzi, il banchetto nuziale nella casa della legge non è offerto ai giusti, ma solo a quanti hanno bisogno di perdono, cioè a tutti, perché tutti siamo trasgressori della legge. Questa donna è figura del vero popolo che si riconosce peccatore e bisognoso di perdono. Essa entra indesiderata nella casa del giusto, mentre questi resta estraneo a ciò che si svolge in casa propria: al banchetto offerto dalla legge si entra solo mediante l’amore del perdono. È interessante notare che è la legge che invita Gesù, ma è il peccatore che lo accoglie e lo ama, perché si sente accolto e perdonato.Questa donna è la prima che realizza ciò che si deve fare per ereditare la vita eterna (cf. 10,25-28): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente” (10,27; cf. Dt 6,5). Non è più peccatrice ed adultera, trasgreditrice della legge: entra e sta di casa in questa legge dell’amore che è Dio stesso, lo sposo, perché ne ha ricevuto la grazia e il perdono.Vedendo Gesù, sa chi è Dio e, invece di fuggire lontano da lui come i peccatori o nascondersi da lui sotto il manto della legge come i giusti, corre a lui, attirata dal suo amore. Questa donna è figura della sposa adultera e peccatrice, che ora è riscattata dall’amore dello sposo e gioisce “perché il mio diletto è per me e lo per lui” (Ct 2,16; 6,3). Nella distinzione donna/fariseo si opera il giudizio che Gesù è venuto a portare: la nostra condanna viene non tanto dalle nostre ingiustizie, quanto dalla nostra giustizia, non tanto dal male fatto, quanto dal bene rifiutato; Gesù apprezza non la “giustizia” che porta alla “prostituzione”, ma l’amore accolto che si tramuta nella tenerezza della sposa. Dio vuole essere amato così dall’uomo!

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Il racconto non serve per assolvere la peccatrice e condannare il giusto: smaschera al giusto il proprio peccato di prostituzione.L’amore è sempre e solo dono. Questo si rivela pienamente nel per-dono. Il fariseo è chiamato a riconoscersi nella peccatrice come nel c. 15 il fratello maggiore nel minore per partecipare alla festa d’amore di Dio, padre e sposo. La prostituta, ritenuta tale dal fariseo, gli fa da specchio nel suo peccato.Nella casa del fariseo - come facilmente la chiesa può diventare - la venuta a tavola della prostituta mostra al giusto il suo peccato profondo, quello di non saper amare. Identificandosi con lei, può sperimentare il perdono e come lei rispondere all’amore ricevuto. Donna-casa-mensa-lacrime-capelli-bacio-profumo: sono tutti termini che esprimono accoglienza e vita. Questa vita, accolta dal peccatore nel perdono, è offerta a tutti. Escluso resta solo il giusto, che non ama perché non si sente amato e non si sente amato perché, per paura, si chiude nella sua sufficienza a basso profilo. Ma anche il giusto vi può partecipare nella misura in cui si riconosce prostituta. Questa prostituta è la pietra di paragone del vangelo: realizza pienamente il dono che Dio ha promesso proprio a un popolo adultero e peccatore.La scena, delicatissima, impegna tutti i sensi: vista, udito, tatto, odorato e un sapore di lacrime e di carne baciata. Esprime un amore tenero e appassionato per il Signore Gesù, il Dio che si è fatto vicino per esprimerci il suo amore e farsi amare da noi. Si è fatto nostro fratello, per essere introdotto nella stanza della nostra madre (cf. Ct 8,1s). Quest’amore per Gesù è il cristianesimo, la fede che diventa vita. Quest’amore è proprio del peccatore perdonato. Il peccato non distrugge la salvezza. Al contrario, nel perdono, è causa di un amore più grande, di una salvezza maggiore. Chi si crede senza peccato, non ha bisogno della misericordia: è quindi fuori dalla grazia di Dio.Capirà Simone il suo peccato, ben più grande di quello della prostituta? Alla fine, come il fariseo Paolo, amerà di più? Il punto fondamentale non è chi è “più questo”, chi ha debiti minori con Dio. È invece chi “amerà di più”. Paradossalmente proprio chi ha debiti maggiori. Così il nostro peccato non ci esclude dal Regno, ma è il motivo per cui amiamo di più. Proprio il nostro male, non il nostro bene, ci fa partecipare più profondamente del mistero di Dio che è amore. Veramente divina questa prospettiva, che capovolge il male stesso in bene maggiore (cf. Rm 5,20).

2. Lettura del testo

v. 36: “Ora domandava a lui uno dei farisei, ecc.”. Gesù, vorace e ubriacone, amico di pubblicani e di peccatori (v. 34), non rifiuta la commensalità neanche con quel tipo di peccatori che sono i “giusti”. Il peccato del giusto - l’unico che va direttamente contro Dio che è amore - è quello di comperarsi il suo amore con la moneta sonante delle proprie opere buone. È l’insidia di tutte le religioni, che suppongono un Dio cattivo da imbonire. Può essere vinto solo dall’esperienza di un amore gratuito, non meritato, al quale si risponde con altrettanto amore. Questo peccato, contro il primo comandamento, denuncia l’impossibilità dell’uomo, anche buono, ad amare Dio, per la menzogna originaria.L’uomo, dall’albero di Gn 3, non conosce più il Signore. Lo conoscerà solo quando sarà innalzato sul legno della croce: “Allora saprete che Io sono” (Gv 8,2).Simone il fariseo è forse figura del cristiano “tiepido”, che osserva la legge, ma non ama. Non si rende conto del proprio peccato, che qui viene smascherato proprio nella prostituta, la quale, invece, riconosce l’amore che il Signore ha per lei. Gesù entra nella sua “casa”, nominata tre volte (v. 36 al maschile, vv. 37.44 al femminile). Forse è allusione alla chiesa, che accoglie Gesù con la fredda ospitalità della legge come il fariseo e ha bisogno dell’insegnamento sul perdono e sull’amore. Gesù, accettando l’invito del fariseo, mostra la sua bontà. Come ama la donna che peccò di prostituzione con

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gli uomini, così ama anche il fariseo, l’uomo che pecca di prostituzione nei confronti di Dio. Il confronto tra i due aiuterà il fariseo a riconoscere il proprio peccato e il suo amore gratuito, offerto anche ai giusti.La sollecitudine di aprire i giusti alla misericordia è tipica di Luca che si rivolge ai credenti, sempre insidiati da questo peccato che chiude agli altri.

v. 37: “Ed ecco: una donna, ecc.”. Durante il banchetto, la porta resta aperta agli estranei. Questi possono curiosare, andare, venire e apprezzare la munificenza del padrone, ed eventualmente approfittarne.Avviene ora un fatto scandaloso, sconcertante e sconveniente, introdotto da Luca con la formula di sorpresa: “Ed ecco”. Non dice il nome della persona che viene. La sua identità è quella di “una donna, la quale era nella città peccatrice”. Si tratta di una prostituta ben nota. Essa doveva già aver visto Gesù, o averne sentito parlare in modo tale da desiderare incontrarlo. L’attenzione è tutta concentrata su di lei. Meraviglia, stupore e sdegno da parte del fariseo; trepidazione, determinazione e tenerezza da parte sua; compiacenza, gioia e approvazione piena da parte di Gesù. Essa porta con cura un vaso di alabastro di profumo. Intende profumare Gesù. Per questo è venuta: donare a lui il profumo, segno di gioia, abbondanza, amore e consacrazione. Questa donna è l’unica finora che fa qualcosa per amore di Gesù, e dà a colui che finora ha sempre dato tutto a tutti. È la prima persona libera, capace di rispondere al suo amore.

v. 38: “e ponendosi dietro, ecc.”. Questa donna si arresta “ai piedi” di colui che per amore lavò i piedi di coloro che amò sino alla fine (Gv 13,1ss). Per sette volte nel racconto si parla dei piedi di Gesù - tre volte in questo versetto e quattro volte nei vv. 44-46. È un gesto insieme di umiltà e di grande audacia. Il suo amore irrompe in pianto e pioggia di lacrime sui piedi, che poi asciuga coi capelli sciolti; continua poi in un coprirli incessante di baci e in un rivestirli di profumo. Singhiozzo e pianto che irrora, capelli che asciugano, baci che scorrono e profumo che si effonde. Taluni pensano che il pianto sia rimorso per la vita trascorsa. Forse però, a differenza di quello di Pietro (22,62) che è “amaro”, pieno di confusione e di rabbia contro se stesso - dolore per la propria identità perduta - questo sembra un pianto dolcissimo, pieno di serenità e di gioia. È di chi finalmente trova la propria verità in colui che ama perché da lui amata. È pianto di amore per Gesù. I sentimenti di venerazione e rispetto, di indegnità e di gratitudine, sono il recipiente stesso che contiene l’amore, che sempre è grazia e non debito.La donna, né qui né altrove, dice niente; non apre bocca, come la sposa di Ez 16,63. E Gesù lascia fare, accetta, acconsente e approva quanto fa. Mentre a proposito del centurione Gesù parla di fede (v. 9), qui specifica tale fede come salvezza e pace (v. 50). L’espressione di amore di questa donna è una risposta all’amore che lui per primo ci ha rivelato. Come lei, anche lui ha pianto (19,41), ha lavato i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,1ss) stando in mezzo a loro come colui che serve (22,27), ha asciugato con la luce del suo volto ogni nostra lacrima, ci ha baciati e ha infuso in noi il suo Spirito di gioia e di vita.

v. 39: “Ora visto il fariseo, ecc.”. Il fariseo sceglie istintivamente di negare che Gesù sia profeta, per salvare la sua reputazione di uomo giusto: “Non è profeta, ma onesto! Se fosse profeta ...”. Non intuisce invece la profezia di un’altra giustizia, che lui neanche suppone e sulla quale il maestro cercherà di istruirlo. Ciò che al fariseo risulta particolarmente disdicevole è il contatto fisico di questa peccatrice con Gesù: lo “tocca”. E lui accetta questi segni di amore. Probabilmente, anzi certamente, ignora “chi” lo tocca, cioè una donna e “che tipo” di donna lo tocca, una peccatrice! Veramente il

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fariseo ce la mette tutta per giustificare Gesù. Lo scandalo non è che questa donna faccia così, ma che Gesù, che certamente è giusto, l’approvi!

v. 40: “E rispondendo, Gesù disse, ecc.”. Gesù invece risponde ai segreti ragionamenti del fariseo. Si mostra così profeta proprio nei confronti di colui che non lo ritiene profeta per scusarlo, in modo che non abbia scusanti per scusare! Gli viene così incontro per rivelargli “chi” e “che tipo” di uomo è lui stesso che l’ha invitato e del quale lui ha accolto l’invito! È a Simone che Gesù si rivolge, perché ha “qualcosa da dire” personalmente a lui, “Simone”. È la prima persona, nel racconto di Luca, che Gesù chiama per nome! Gli sta quindi molto a cuore (vedi anche Marta in 10,41; Zaccheo in 19,5 e Simon Pietro in 22,31). La risposta di Simone suona condiscendenza tollerante da gran signore, con una certa vena di soddisfazione: Gesù si spiegherà!

vv. 41-42: “Due debitori aveva un creditore, ecc.”. Gesù racconta una parabola molto schematica, che mette in gioco Simone e noi tutti con la donna, e capovolge i ruoli. È un richiamo forte per chi presume, e una consolazione per chiunque accetta di essere salvato (cf. 18,9-14).È una parabola di due debitori. Ogni uomo è debitore a Dio di tutto: siamo sue creature! Il vero peccato è quello di non accettare di restare debitori, necessariamente insolventi, perché insolvibili nei confronti di quanto ci ha dato. Ciò che lui ci ha dato non è da restituire sotto forma di prestazioni di vario tipo, in modo da pareggiare il nostro conto con lui. Questa è la “prostituzione” religiosa, frutto della non conoscenza di Dio, che germina tutti i peccati dei giusti e degli ingiusti. Il dono di Dio, al quale tutto dobbiamo, è un amore gratuito da accettare e a cui corrispondere con altro amore. Il succo della parabola è nei due verbi: “far grazia” da parte del creditore e “amare-di-più” da parte di colui che si sente graziato. Il più avvantaggiato in questo gioco è chi ha il debito maggiore, perché riconosce il dono maggiore. Il problema della vita infatti è quello di riconoscerla come un dono di amore e non un debito da estinguere. Chi conosce il dono maggiore, riconosce un amore più grande. È il vantaggio reale del peccatore sul giusto. Questi non accetta nessun dono come dono: istintivamente lo considera come un debito da pagare con le buone azioni. Per questo conduce sempre una vita fuori dalla gioia e dall’amore, tutto teso a ripagare e meritare! Anche Simon Pietro, che si dichiarerà disposto a dare la vita per Cristo, dovrà capire che sarà Cristo a dare la vita per lui e che la salvezza sarà accettare questo dono di amore!L’amore è proporzionale al dono ricevuto, o, meglio, siccome siamo tutti debitori insolventi di tutto, al condono. Chi ha il debito più grande, avendo ricevuto un perdono più grande, si sente più amato, e quindi ama di più. Strana ma vera questa maggior possibilità di scoprire Dio da parte del peccatore!

v. 43: “Rispondendo Simone disse, ecc.”. La risposta di Simone è scontata. Anche se forse detta con riluttanza. Si accorge di perdere l’appiglio sicuro di chi non ha debiti. Vede una mano invisibile che sta sciogliendo il nodo della sua imbarcazione già in porto e la trascina in acque infide. Gesù ha spostato il campo dalle acque morte della giustizia a quelle dell’amore, che scorrono come un fiume. La tentazione è quella di dire: “Ma stai cambiando il gioco! Invece di giustificarti sulla giustizia, mi accusi sull’amore”.Nella risposta di Simone si stabilisce che il perdono precede l’amore. Il creditore ci ha per primo condonato per amore e il nostro amore è risposta a questo dono. Così si capisce perché questa donna ama di più, rispetto al fariseo: si è sentita “più amata”.Ogni religione cerca, giustamente, di farci diventare più buoni e peccare di meno. Il cristianesimo sconvolge i criteri. La questione è chi ama di più. E la risposta, ovvia, è colui al quale è stato perdonato di più, che più peccò. È il paradosso della nuova giustizia.

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vv. 44-45: “E, voltosi verso la donna, a Simone disse, ecc.”. Non è un lungo elenco di inadempienze. Gesù non intende fare le pulci all’accoglienza meschina del fariseo. Vuol solo fargli capire il suo peccato di prostituzione, del quale lui lo perdona venendo addirittura a mangiare in casa sua. Simone in realtà non ha commesso nessuna scorrettezza. L’accoglienza cordiale e l’affetto non possono essere imposti da nessuna etichetta: possono solo nascere dall’amore. E questo nasce dall’essere amato. Non la giustizia propria, ma il perdono dell’altro ci dà la coscienza di essere amati. La giustizia ricercata è una corazza di difesa contro l’essere amato, e ci impedisce di amare. Gesù riprende e descrive con le parole tutto ciò che la donna gli ha fatto. Nulla gli è sfuggito: sa bene “chi e donde la donna la quale tocca lui” (v. 39). Tutto è significativo ed è interpretato come segno di amore grande per lui. La donna non dice nulla. Solo Gesù parla di lei al fariseo, traducendo le sue azioni in parole di salvezza da annunciare ai giusti. Si noti come tutti i gesti della donna sono concentrati sui “piedi” di Gesù, che tra poco andranno verso Gerusalemme (9,51). Nessuno è tanto piccolo e a terra da non raggiungere i piedi. Solo chi la difficoltà di piegarsi.Padri hanno visto in questa venerazione per i suoi piedi l’amore per i piccoli e gli ultimi in quel corpo del quale lui è il capo. Il capo si è espressamente identificato con questi (cf. 9,48). È certamente un grande segno d’amore, di cui si nota la gratuità, la sovrabbondanza, la sregolatezza, tipiche dell’amore. Questa prostituta è in realtà figura del popolo adultero e peccatore, che si converte al suo Signore, suo sposo, e lo ama finalmente con tutto se stesso, secondo il suo comando di Dt 6,5.

v. 47: “In grazia di ciò dico a te, ecc.”. In consonanza con i vv. 41-43 ci si aspetterebbe una conclusione che dica come l’amore sia conseguenza del perdono. Qui invece sembra che il perdono sia conseguenza dell’amore. A meno di tradurre: “Le sono stati perdonati i suoi peccati: per questo ha molto amato”. Lasciando il testo com’è, cerchiamo di comprenderlo. In realtà perdono e amore hanno una costante reciprocità di causa-effetto. Vanno sempre insieme.

v. 48: “Ti sono rimessi i peccati”. Gesù si rivolge alla donna, confermando quanto lei già sa. La parola è detta per il lettore, nella casa del fariseo, perché in essa si accolga tanto il peccatore che si sa graziato quanto il giusto che scopre la propria disgrazia. Lungi dal giudicare il peccatore, chi si ritiene giusto si identifichi con lui.

v. 49: “Chi è costui, che anche i peccati rimette?”. È il preludio alla professione di fede in Gesù, che è il potere stesso di Dio, potere di perdono e misericordia (cf. 5,21). Quest’uomo che perdona è realmente Figlio dell’Altissimo, la misericordia del Padre, colui che rivela all’uomo il volto di Dio (cf. 6,36).

v. 50: “La tua fede ti ha salvata”. Quanto la donna fa, è per Gesù la fede che salva. Il giusto non ha fede, se non in sé. Chi non ama come questa donna non ha salvezza. Perché la fede è accogliere la giustizia, cioè l’amore di Dio per noi; e la salvezza è amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza, con tutta la mente (10,27), come questa donna.La fede è accettare l’amore di Dio in Gesù e traboccare di questo amore verso lui, è esperienza di essere amati e di amare Gesù.Con questa fede che salva, la donna “cammina verso la pace”, verso la pienezza della luce del volto di Dio.

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il banchetto in casa di Simone il fariseo.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere il mio debito e il suo perdono, conoscere intimamente il suo amore per me e corrispondervi, come la donna.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, cosa fanno.

Da notare:- fariseo/peccatrice- tutti i gesti della peccatrice sui piedi di Gesù- chi amerà di più- la tua fede ti ha salvata.

4. Passi utili

Sal 45; Ez 16; Os 2,16-25; Cantico dei Cantici.

40. E I DODICI CON LUI E ALCUNE DONNE

(8,1-3)

81 E avvenne, in seguito: egli viaggiava per città e villaggi proclamando ed evangelizzando il regno di Dio, ed erano con lui i Dodici,2 e alcune donne,che erano state curateda spiriti cattivi e infermità:Maria, quella chiamata Maddalena, da cui sette demoni erano usciti,3 e Giovanna, moglie di Cusa, procuratore di Erode,e Susannae molte altre,le quali li servivanodai loro proventi.

l. Messaggio nel contesto

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Si tratta di un sommario sull’attività missionaria di Gesù, specchio di quella dei discepoli. Come in tutti i sommari, l’opera del redattore ha mano assai libera. Più che fatti specifici, raccoglie elementi tipici che servono da cornice interpretativa e da tessuto connettivo tra brani diversi. Nei sommari appare più palese l’intenzione teologica che ispira l’autore e la lettura di fede proposta al lettore. La cronaca lascia trasparire più chiaramente la storia della salvezza, l’episodio fa vedere la sua rilevanza per la fede.In questo breve sommario emergono tre temi, che serviranno a introdurre una riflessione critica sulla fede come accoglienza della Parola. Primo: la vita itinerante di Gesù, modello di quella della chiesa che ne continua l’annuncio. Secondo: i Dodici stanno “con lui”, sono qualificati dallo stare in compagnia di Gesù, associati al suo stesso tipo di vita e di attività. Questa loro familiarità con lui, frutto dell’ascolto (cf. v. 21), è la sorgente del loro annuncio, inteso ad aggregare tutti gli altri alla famiglia degli ascoltatori della Parola. Attraverso la loro testimonianza, Gesù giunge fino a noi e noi giungiamo a lui. Terzo: si sottolinea che le donne sono abilitate a seguirlo insieme ai Dodici. Con il loro servizio donano a questa piccola comunità peregrinante la possibilità di vivere, svolgendo la prima funzione necessaria, tipicamente materna.Viene così presentata la vera famiglia di Gesù, in parallelo ai vv. 19-21, e si mostra come l’ascolto che la Parola richiede - tema centrale del c. 8 - consista nello stare con Gesù e servire.

2. Lettura del testo

v. 1: “E avvenne, in seguito”. Si vuole sottolineare una nuova tappa nella vita di Gesù, successiva alla precedente e in continuità con essa. Ora egli non è più solo, ma accompagnato dai Dodici che hanno ascoltato la sua parola di grazia e dalle donne che ne hanno fatto esperienza.Inizia il nucleo della chiesa, formato da coloro che ascoltano Gesù e stanno con lui.

“Viaggiava per città e villaggi”. C’è anche un nuovo stile apostolico ormai esplicito: l’itineranza di uno che si aggira, passando di città in città e di villaggio in villaggio, attraversando tutti i sentieri percorsi dall’uomo per incontrarlo. Come la donna che spazza la casa per cercare la moneta, come il pastore che va errando in cerca della pecorella perduta (cf. 15,1ss), così Gesù fa una ricerca sistematica, setaccia tutto Israele “attraversando le sue vie” (è il senso esatto della parola greca tradotta con “viaggiava”). Il suo intento non è quello di fare proseliti e di accrescere il proprio potere mediante il loro numero. Egli va per centri grossi e piccoli paesi, senza trascurare nessuno. È una ricerca accurata e instancabile, che rivela la passione e la cura del suo amore che vuole incontrare l’uomo: è l’amore dello sposo che cerca la sposa amata (cf. Ct 7,11b; 3,2ss), alla quale vuol concedere i doni promessi. Infatti “passò beneficando e risanando tutti” (At 10,38). È il modello della vita missionaria dei discepoli.

“proclamando ed evangelizzando il regno di Dio”. Il suo scopo è dare la buona notizia del Regno. Il regno di Dio, secondo 7,21-23, è lui stesso che viene incontro all’uomo e si prende cura dei suoi mali. Accogliere il Regno è non scandalizzarsi di lui (7,23), riconoscerlo e accettarlo come dono di Dio.

“ed erano con lui i Dodici”. È il primo nucleo, associato allo stesso apostolato di Gesù, che fonda la chiesa (cf. 6,12-16). Essa è necessariamente missionaria, cioè “apostolica”. Spinta dallo stesso amore del Figlio, vuole annunciare a tutti l’amore liberante del Padre. Non cerca se stessa, ma l’Altro. Al suo centro sta il lontano, perché il suo Signore è andato molto lontano! La chiesa, in quanto “apostolica”, è necessariamente “cattolica”, rivolta a tutti, in particolare ai lontani. La sua apostolicità non è solo il suo aggancio al passato, mediante gli apostoli, ma anche un suo modo di essere sempre in

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avanti, protesa fuori di sé. In Marco Gesù sceglie i Dodici perché stiano “con lui e per mandarli a predicare” (3,14s). In Luca invece li troviamo già di fatto associati a lui nell’attività missionaria, nell’identico stile e nella comunanza di vita. Questo stare “con lui” è la qualifica più bella e più profonda del discepolo. Essa vale innanzitutto per i Dodici, che furono con lui nella vita terrena. Lo hanno visto, ascoltato, toccato e gustato. Tuttavia, come attesta Giovanni che ha coscienza di essere l’ultimo di questi, ogni fedele è chiamato ad entrare comunione con coloro, la cui “comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1-4). Questo “stare con lui” sottolinea l’aspetto personale di amore che lega il discepolo al suo Signore. Suo supremo desiderio è stargli in compagnia. Come l’amico con l’amico vuol condividere vita, ideali e fatiche, pur di stare insieme. Il resto è secondario e funzionale a questo. È il desiderio di chi ha scoperto la perla preziosa, di colui al quale è stata concessa la sublimità della conoscenza di Gesù (Fil 3,8). I suoi occhi non si stancano di contemplarlo e il suo cuore di amarlo. Per questo i suoi piedi lo seguono e le sue mani lo cercano. Il Vangelo è proprio stato scritto per noi, perché, pur non avendolo visto di persona, lo possiamo conoscere, amare, seguire e vedere nell’obbedienza alla sua parola, fino a stare per sempre con lui che è il senso di tutta la vita (1Ts 4,17). Per stare con lui, che “non ha dove posare il capo”, si è disposti a lasciare tutto, affetti e sicurezza (9,57ss); addirittura a “odiare padre, madre, moglie, figli”, ecc. e persino “la propria vita” (14,25ss). Egli è il Signore che si è rivelato a me e non ha potuto non sedurmi e conquistarmi, come già Geremia (20,7ss) e Paolo (Fil 3,12). È il tesoro nascosto nel campo, per avere il quale, con grande gioia, vendo tutto (Mt 13 44ss). Il mio bene supremo è stare con lui che è venuto a stare con me. Per questo Paolo desidera essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (Fil 1,23) e sa che la sua vita è ormai nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3): per me vivere è Cristo (Fil 1,21). Dio ci ha chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù, nostro Signore (1Cor 1,9): questa è la salvezza, punto di partenza e di arrivo di ogni missione.

vv. 2-3: “e alcune donne, ecc.”. Questa compagnia di Gesù è aperta alle donne. I rabbini non le ammettevano nella cerchia dei discepoli. Ne vediamo traccia in Gv 4,27, quando i discepoli si meravigliano che Gesù parli con una donna. Le donne infatti non avevano il dovere di osservare la legge, essendo fatta per soli uomini. Esse stanno a metà tra l’uomo, che deve e il bimbo che non può osservarla: un po’ deve e un po’ non può, un po’ può e un po’ non deve. Ora in Gesù non c’è più né maschio né femmina (Gal 3,28). Eventuali distinzioni culturali o naturali sono secondarie rispetto al privilegio di stare “con lui”, che è la vita stessa. Ogni distinzione è destinata a scomparire o ad assumere il suo significato positivo nella misura in cui si sta con lui.Le donne hanno avuto un grosso ruolo nella comunità primitiva (cf. Rm 16,1; At 1,14; 12,12; 16,13s; 17,4.12.34). Forse perché la donna, figura materna, è accoglienza (vedi la terra che accoglie il seme nel brano seguente), abitazione, luogo dove l’uomo può vivere e stare di casa. Maria stessa, tipo della chiesa e del credente, è presentata nei primi due capitoli come arca dell’alleanza e Santo dei Santi, in cui dimora l’altissimo. La figura donna-casa-terra-madre è strettamente collegata con la Parola che si accoglie e si custodisce nel cuore (cf. 2,19.51; 8,15) e si mette in pratica (cf. 8,21; 11,27s). Maria è figura del popolo di Dio, la figlia di Sion. Ascolta la Torah e diventa la sposa che genera a vita nuova. È la nuova Eva, la madre dei viventi.L’episodio precedente, che si svolge nella casa del fariseo - luogo tipico di prostituzione, dove si cerca di comprare l’amore di Dio con l’osservanza della legge - offre l’esempio del popolo che da sposa prostituta torna ad essere fedele: la casa inospitale e fredda diventa accoglienza calda e tenera dello sposo di cui ha conosciuto l’amore. La ex-peccatrice rappresenta l’Israele convertito e la chiesa, liberata dai “sette demoni”. Per questo la tradizione ha identificato la Maddalena che segue Gesù con la prostituta del racconto precedente.

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Il denominatore comune di queste donne, come quello di tutto il popolo (cf. 7,21), è l’esperienza della cura che il Signore Gesù si è preso di loro: hanno l’esperienza del dono e del perdono, quindi del “maggior amore”. Per questo amano di più, come anche più si sono sentite amate.

“li servivano dai loro proventi”. Quest’amore di risposta a chi le ha amate per primo è il motivo del loro stare con Gesù e del loro servizio. Come l’egoismo si mostra nel servirsi dell’altro asservendolo, così l’amore si mostra nel servire l’altro liberandolo dalle sue necessità. Quest’amore, più che di parole, è di fatti (vedi la donna di 7,36-50; 1Gv 3,18). Esso si estende anche a coloro che stanno con Gesù, ai piedi di quel corpo di cui egli è il capo. Così si espande il buon profumo di Cristo (2Cor 2,14). Questo servizio rende materialmente possibile la vita agli altri dando del proprio, in conformità all’immagine donna-madre, che rappresenta l’elemento necessario alla vita.Il loro servizio a Gesù le porterà ai piedi della croce e davanti al sepolcro (23,49.55ss), le farà entrare in esso (24,3) e si trasformerà in testimonianza del Risorto (24, 10), diventerà preghiera per il dono dello Spirito (At 1,14) e si prolungherà definitivamente nell’accoglienza dei fratelli, al formarsi della prima chiesa in Gerusalemme (At 12,12) e in Europa (At 16,15).Le donne sono strettamente associate ai Dodici, anche se distinte da loro. Stanno “con” Gesù, come i Dodici, e... per di più “servono” a loro spese, come Gesù (cf. 22,27b). Infatti sono già state curate da quei mali e da quegli spiriti cattivi che i discepoli ancora hanno e che impediscono loro di servire (cf. 22,24ss). Per questo, forse, a differenza di loro, stanno sul calvario e al sepolcro, presenti nella morte e nella vita. Capovolgendo il finale del vangelo apocrifo di S. Tommaso, possiamo dire che ogni maschio che non diventa donna non entra nel regno dei cieli.Con i Dodici e con “molte altre” costituiscono la prima comunità della chiesa itinerante, che si lascia alle spalle un passato di paura e va libera per l’annuncio. È il nucleo di quella che per Luca è la chiesa: un piccolo gregge, al quale il Padre si è compiaciuto di donare il suo regno (12,32), Gesù Cristo Signore. Questo nucleo porterà Gesù a incontrare tutte le genti, “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).Tutte le genti potranno trovarlo e riconoscerlo proprio in questo popolo piccolo e umile (Sof 3,12), dove regna lo Spirito di colui che ha detto: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (22,27b).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù e i suoi che vanno per città e villaggi annunciando il Regno.c. Chiedo ciò che voglio: prendere coscienza del mio impegno apostolico: ogni credente è con lui, inviato ai fratelli.d. Traendone frutto, contemplo la scena, fermandomi sulle singole parole.

4. Passi utili

Sal 16; 84; Mc 3,13-19; Mt 13,44ss; Lc: 8,19-21; 11,27-28.

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41. FECE FRUTTO CENTUPLO

(8,4-8)

4 Ora, convenuta una folla immensa, e accorrendo da ogni città verso lui, disse per parabola:5 Uscì il seminatoreper seminareil suo seme:e nel seminarlouna parte caddelungo la stradae fu calpestatoe gli uccelli del cielo lo divorarono;6 e un’altra cadde giùsopra la pietra,e, germinata, disseccòper mancanza d’umidità;7 e un altra caddein mezzo alle spinee, concresciute le spine, la soffocarono;8 e un altra caddedentro la terra, quella buona, e, germinata, fece frutto centuplo.Dicendo queste cose gridava:Chi ha orecchiper ascoltareascolti!

1. Messaggio nel contesto

Nel c.6 è rivelata la parola definitiva: Dio è misericordia. Nel c. 7 è accolta e fa frutti di salvezza mediante la fede. Il termine “fede” fa da cornice al c. 7 (7,9.50), rivolto ai pagani, che ignorano cosa sia. La fede è appunto ascolto di tale parola. Questa è un seme che germina, se accolto in un terreno sgombro. La parola che qui diventa seme, nel c. 9 fruttifica in pane di vita.In questo c. 8 c’è una pausa riflessiva di verifica sulla qualità della fede, ossia dell’ascolto della Parola. Data per sicura la bontà del seme, com’è il terreno (cuore) che lo accoglie? La parola “ascoltare-obbedire” è la chiave di tutto il capitolo: Gesù esige ascolto (vv. 8.10.12.13.14.15.18.21), come Dio che dice: “Ascolta, Israele” (Dt 6,4). A lui obbediscono il cielo e l’abisso (8,25), il male, la malattia, la morte (vv. 26-56). La potenza della sua parola introduce lentamente alla comprensione del suo

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mistero. La verità profonda di questa parola/seme sarà identificata solo nel pane di cui ci si nutre per camminare fino a Gerusalemme (cf. 9,20ss).Per ora ci si sofferma sull’ascolto: il discepolo saprà ascoltare e obbedire a colui al quale tutto obbedisce? che effetto avrà la sua parola potente su di lui? La parabola dell’ascolto (vv. 4-8) va letta insieme alla spiegazione della sua forma (vv. 9-10), del suo contenuto (vv. 11-15) e del come leggerla e trasmetterla (vv. 16-18). Il tutto è incorniciato da due scene che ci presentano i veri parenti di Gesù: sono quelli che stanno “con lui”, liberati dal male e capaci di servire (vv. 1-3), perché ascoltano e fanno la sua parola (v. 21). La vera parentela con Gesù è fondata sulla Parola, perché l’uomo diventa la parola che ascolta e perché Gesù è il Verbo del Padre. In questa parabola il lettore è invitato a verificare la qualità del proprio ascolto, per vedere se è vero discepolo e appartiene alla sua famiglia. La parabola dichiara da una parte l’efficacia della parola di Dio, feconda oltre ogni speranza; d’altra parte sottolinea le condizioni per accoglierla con frutto. Non è che la sua efficacia derivi dalle condizioni che pone l’uomo: essa di per sé è sempre efficace; ma lascia libero l’uomo. Egli può non rispondere ed essere causa dell’inefficacia: se non può renderla fruttuosa - lo è già di per sé! - può però renderla infruttuosa, perché non l’accoglie. Il terreno non rende produttivo il seme, può però impedirne la produttività. Se quindi la Parola non è feconda, siccome essa è come il seme che di sua natura fruttifica, vuol dire che ci sono degli impedimenti e resistenze da rimuovere.Il v. 18 “guardate dunque come ascoltate”, già preluso in 8b: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti”, dichiara bene il senso di tutto il discorso unitario di 8,4-21: si dice “come” ascoltare. È un discorso che parla della Parola stessa, il cui frutto è determinato dall’ascolto. Questo sta al fare come la radice ai frutti. C’è infatti una specie di circolarità tra ascoltare e fare: il primo è causa del secondo, e il secondo è inveramento del primo. È fuori questione la buona qualità del seme, certezza acquisita al c.7; il frutto dipenderà dal terreno che accoglie il seme.

2. Lettura del testo

v. 4: “Ora, convenuta una folla immensa”. L’annuncio di Gesù, che si accompagna ai suoi (vv. 1-3), è efficace e raduna una gran folla. Rappresenta la chiesa stessa di Luca, raccolta dall’annuncio, ora invitata a verificare la qualità del proprio ascolto, per essere tra coloro ai quali “è dato conoscere i misteri del regno di Dio” e non fra quelli che ascoltando non intendono (v. 10).La parabola è motivata dal fatto che “una folla immensa” si accalca attorno a Gesù. È necessaria una verifica, perché la fede non è mai un fatto di massa! Gesù non cerca successo distruggendo le persone e riducendole a massa. Vuole invece che la folla diventi popolo di Dio, nell’ascolto della sua parola. Il popolo suppone fra persona libera e aperta agli altri; la massa, contrario di popolo, nega la persona e suppone individui egoisti e chiusi in sé. Per avere persone responsabili che formano un popolo Gesù racconta questa parabola.

vv. 5-7: “Uscì il seminatore, ecc.”. Luca concentra l’attenzione del lettore sul “suo seme” che il seminatore semina. Questo seme è la “parola di Dio” (v. 11). Non è usuale nell’AT paragonare la parola di Dio al seme. Tale immagine è particolarmente utile al lettore di origine pagana, per fargli comprendere la forza, la potenza e l’efficacia vitale della parola di Dio, caratteristiche note al giudeo (cf. Is 55,10; Eb 4,12s). Il seme è infatti una potenza di vita capace di crescere di per sé; ha solo bisogno di essere accolto nella terra.Il seminatore è Gesù, che annuncia la parola di Dio, la sua semente che è lui stesso. La semina è l’annuncio. Di Gesù si dice che “uscì”. È ovvio che il seminatore esce di casa per seminare. Si allude

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forse a Gesù che esce dal Padre, o al missionario che anche lui esce per annunciare altrove? O forse si allude alla semina della parola missionaria che esce dal campo di Dio, che è Israele?Il terreno sono gli uditori dell’annuncio. Anche se preoccupato dell’accoglienza, Gesù non sceglie il terreno secondo criteri di opportunità: si rivolge a tutta la gente che viene a lui da ogni parte, per farne un popolo di ascoltatori. Si rivolge loro in forma piana e pedagogicamente efficace, perché verifichino la loro accoglienza dell’annuncio.Circa la sorte del seme c’è una specie di crescendo, in cui sembra che la speranza di un esito positivo venga sistematicamente stroncata: dalla “strada”, dove non attecchisce, alla “pietra”, dove attecchisce ma non cresce; se poi per caso cresce, viene soffocata dalle “spine”. Questo quadro negativo, abilmente costruito, serve a mettere in risalto per contrasto il finale positivo.Come già accennato, può darsi che in questo testo si prescinda dal risultato della semina nel campo (Israele) e si parli piuttosto della sorte fortunata che, al di là di ogni difficoltà, incontra il seme fuori dal campo (cf. 7,9 e 50). La parabola raccontata da Gesù per indicare la certezza della riuscita della sua missione al di là di ogni insuccesso, viene applicata da Luca alla sua chiesa, per indicare il successo della Parola presso i pagani.Sono questi gli uditori che Luca richiama a esaminare la qualità del proprio ascolto. La spiegazione che segue la parabola, dal punto di vista dell’autore, forma un’unità con la parabola stessa. Lì vedremo quindi la comprensione esatta della parabola, come Luca intende proporla.

v. 8a: “un'altra cadde dentro la terra, quella buona, ecc.”. È capovolta l’attesa negativa, che, per contrasto, non fa che sottolineare il successo insperato. La parabola afferma per prima cosa la certezza ottimistica di questo successo inatteso: è speranza contro ogni speranza. È da tenere presente che 7/1 è il raccolto medio, 10/1 quello buono, 15/1 quello ottimo: 100/1 è semplicemente incredibile e miracoloso, quello che ottiene Isacco perché “Dio lo aveva benedetto” (Gn 26,12)! Quest’abbondanza di frutti, prefigurata in Nm 13,23ss, è propria del regno di Dio, quando un acino d’uva darà una coppa di vino. Luca sottolinea l’efficacia e la fecondità della Parola: al di là di ogni difficoltà, il frutto è incredibilmente grande. Proprio con questa visione ottimistica termina l’opera lucana: At 28,30s ci presenta Paolo che, in prigione, annuncia il Regno e fa conoscere il Signore con “parrésía”, senza impedimenti, accogliendo tutti!Se il frutto è certo e certamente abbondante, eventuali fallimenti sono imputabili non al seme, ma al terreno. Per questo è importante verificare il proprio ascolto, l’accoglienza al seme. Resta comunque sullo sfondo la certezza che, al di là delle difficoltà, la Parola porta frutto.Proclamando questa speranza, si può richiedere pressantemente la disponibilità ad ascoltare, in modo da essere occhi che vedono, orecchi che intendono, terreno buono che accoglie.La Parola “cade”, in quattro situazioni diverse: “lungo la strada”, “sopra la pietra”, “in mezzo alle spine”, “dentro la terra, quella buona”. Sono già indicati i quattro tipi di ascolto che verranno spiegati (vv. 11-15).La terra buona, che accoglie ed è feconda e fruttifica, è da mettere in connessione con la donna e la casa (non del fariseo!), cioè con la fede di colei che, avendo accolto più amore, miete e dona in modo più abbondante (7,36-50; cf. anche 7,9).Il seme inoltre, tranne il primo caso in cui la Parola sfiora solo l’uditore, germina sempre. Ma nel secondo caso c’è sotto la “pietra”. Manca l’umore dell’acqua e quindi inaridisce. Sarà lo Spirito a toglierci il cuore di pietra e ad aspergerci di acqua pura (cf. Ez 36,25ss); Dio inoltre sa mutare le pietre in sorgenti di acqua (Sal 114,8) e suscitare figli di Abramo anche dalle pietre (3,8; cf. 13,28; 14,16-24)! Nel terzo caso invece ci sono le “spine”, che soffocano e impediscono il frutto. I triboli e le spine, prodotti dalla vigna infedele che non accoglie la Parola (cf. Is 5) sono i frutti della disobbedienza (cf. Gn 3,17ss) che Gesù riparerà con la sua obbedienza di servo. Solo nel quarto caso il seme produce

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frutto. Questo non significa che solo la quarta parte del seme è produttiva: si descrivono i tre insuccessi per rilevare per contrasto il successo finale.Il senso primo della parabola quindi è quello di non scoraggiarsi degli insuccessi: anche se solo una parte del seme attecchisce, il frutto è abbondante e remunerativo. Come nella creazione, così anche nella redenzione Dio è prodigo. Prodigo in tutto, fino allo spreco... solo perché non ha figli da sprecare e fa tutto per loro! Il risultato di cui parla Luca non è quello finale, quando la messe viene posta nei granai del cielo (cf. Mt 13,30); bensì quello storico, qui e ora, dell’accoglienza fruttuosa della Parola. Analogamente a 6,43ss, il frutto di cui si parla è la buona vita, abbondante di misericordia, di cui il credente è ricco. Qui si mostra la condizione prima di questo frutto, che è l’ascolto. Al v. 15 si specificherà che il terreno è il cuore bello e buono, la crescita è custodia della Parola e la maturazione è la perseveranza. Resta sullo sfondo senz’altro anche la mietitura, pur se non esplicitata.Questa parabola esprime l’ottimismo “teologico” di Luca, che fu già di Gesù, nell’efficacia dell’annuncio. In Luca questa parabola è un abbozzo di storia della missione, aperta ai confini del mondo, contrassegnata dalle tappe di crescita della comunità che Luca ama annotare (cf. At 2,41.48; 4,4; 5,14; 6,1.7; 9,31; 11,21.24; 13,48s; 16,5; 19,20). Non per trionfalismo, ma per un motivo teologico. La crescita è segno dell’autenticità del seme, che è la parola di Dio viva ed efficace, che non può non portare frutto (cf. Is 55; Eb 4,12s). Senza crescita e maturazione, la chiesa non sarebbe frutto di questo seme. Per questo la chiesa è necessariamente missionaria e, ovunque è annunciato il Regno, ognuno si sforza per entrarci (16,16), perché è salvezza per tutti.Se il senso primo della parabola è questa promessa di speranza, Luca, soprattutto nella spiegazione, sottolinea un secondo aspetto, che però non è secondario: la necessità di convertirsi per accogliere la Parola. Bisogna essere terreno buono per portare frutto!È quindi un incoraggiamento missionario per la chiesa: vada tranquilla ad annunciare, perché la Parola ha l’efficacia del seme e della benedizione di Dio che non viene meno. Il frutto è sicuro. Per questo ci si impegni, senza badare a costi e difficoltà. Tuttavia l’abbondanza dei frutti è legata a un impegno di conversione per accogliere la Parola. Il discorso kerigmatico si salda con un conseguente discorso etico. Diversamente il primo resterebbe sterile e deresponsabilizzante, mentre il secondo diventerebbe moralismo disperante.

v. 8b: “Dicendo queste cose gridava”. Gesù “gridava”: ha cominciato e non ancora finito di gridare l’invito ad ascoltare in modo da comprendere; e il suo grido di allora giunge fino a noi. Gli sta a cuore che i suoi uditori non abbiano un ascolto di striscio (strada), superficiale (pietra), o affogato da mille faccende (spine). Gesù grida poche volte. In questo capitolo griderà l’ordine del risveglio alla figlia morta di Giairo (v. 54); più innanzi griderà sulla croce la sua fiducia al Padre oltre la morte (23,46). Si grida per vincere un assordamento da altre voci. Il grido di Gesù è sempre in rapporto a momenti decisivi, in cui è questione di vita o di morte. Infatti l’ascolto della Parola, consegnata alla folla, è questione di vita e di morte (cf. Dt 30,15-20).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando le folle che accorrono per ascoltare Gesù.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere e vincere la mia resistenza interna ed esterna all’ascolto.d. Medito sulla parabola, considerando le difficoltà che il seme incontra e il frutto insperato che porta.

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Da notare:- folla immensa- seminatore- semina- seme- strada/calpestato, uccelli- pietre/dissecca- spine/soffocano- terra buona/frutto centuplo- chi ha orecchi per ascoltare ascolti.

4. Passi utili

Sal 65; 126; Is 55,1-11; 1Ts 2,15; 1Pt 1,22-25.

42. A VOI È STATO DATO DI CONOSCERE I MISTERI DEL REGNO DI DIO

(8,9-10)

9 Ora lo interrogavano i suoi discepoli che fosse questa parabola. 10 Ora egli disse:A voi è stato datoconoscere i misteridel regno di Dio.Agli altri invecein parabole,così che guardando non guardano e ascoltando non intendono.

1. Messaggio nel contesto

Dopo aver raccontato la parabola, Gesù spiega perché parla così. È un modo particolare di proporre la verità. Se è importante che sia detta, è altrettanto importante che sia comprensibile. Questo vale particolarmente quando si tratta di verità “rivelate”, che non possono essere scoperte da chi le ricerca senza che nessuno gliele dica. La Parola, che riunisce e forma i discepoli nell’ascolto, ha una duplice dimensione. Una è l’annuncio missionario che porta alla fede e rende discepolo; l’altra è l’istruzione successiva che nutre e fa crescere fino a portare frutti abbondanti e maturi. La stessa Parola che

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nell’annuncio fonda la chiesa, nell’istruzione successiva la mantiene viva e feconda. Oltre quindi la Parola all’interno, c’è sempre anche quella all’esterno, missionaria. Questa nasce dalla chiesa e fa nascere ovunque la chiesa, annunciando a tutti la salvezza. Mentre l’istruzione interna porta alla “gnosi” dei misteri del regno di Dio (v. 10), l’annuncio esterno ne suscita la curiosità. Questo è fatto in parabole, perché le parabole, dicendo in modo velato la verità, stuzzicano l’appetito di una “gnosi” più profonda. La parabola infatti presenta un racconto breve di esperienze note, caricate emotivamente di allusioni misteriose ad esperienze ignote. Parlando d’altro, parla dell’Altro, stimolando il desiderio di conoscerlo. Il linguaggio parabolico di per sé è tipico della comunicazione di esperienze religiose: dice non dicendo e fa vedere velando ciò che per sé non può essere direttamente ascoltato e visto. Da qui nasce la conoscenza contemplativa, che è direttamente ineffabile, perché oggetto diretto di esperienza. Può appunto essere detta solo indirettamente mediante parabole. Queste sono quindi un primo accostamento velato e confuso a quello che è l’ascolto e la visione distinta dei misteri. L’oscurità voluta e necessaria della parabola pone l’interrogativo e desta l’interesse per una conoscenza più profonda di tipo esperienziale.

2. Lettura del testo

v. 9: “Ora lo interrogavano i suoi discepoli”. I discepoli domandano. È importante, perché senza domanda non c’è risposta. Ed è importante domandare in modo corretto. La domanda infatti precontiene la risposta, che necessariamente risponde a quella domanda!Il senso della parabola è proprio suscitare la domanda desiderata. Essa, mostrando senza far vedere e dicendo senza far capire, è particolarmente adatta ad aprire al desiderio di vedere e di ascoltare. Solo a chi domanda e ascolta debitamente la risposta è concessa la conoscenza.Il passaggio dall’essere folla all’essere discepolo, dagli “altri” al “voi” del v. 10, è frutto di questa interrogazione. Discepolo è colui che, rispondendo all’interrogazione, interroga e interpella, in un dialogo sempre aperto: “Rispondimi e ti risponderò”. Il chiedere è la vera risposta dell’uomo, che si sente interrogato e non sa che rispondere, se non dichiarando la propria capacità ad ascoltare la rivelazione. Questo circolo ascolto-interrogazione-ascolto della Parola costituisce il discepolo, che resta sempre uditore interrogato e interrogante della Parola.

v. 10: “Ora egli disse, ecc.”. Gesù, prima di rispondere alla domanda dei discepoli (vv. 11-15), dice il motivo per cui parla in parabole. Prima pone una distinzione tra un “voi” ecclesiale e “gli altri” che non capiscono. Si sottolinea la necessità di entrare in questa dimensione interna comunitaria per capire ciò che si guarda e si ascolta. La parabola ha la funzione di stimolare l’uditore a questo, rispettandone la libertà.Questi “voi” sono quelli dei vv. 2.3.8.15.21: stanno con Gesù, sono buon terreno perché ascoltano con cuore bello e buono, custodiscono e fruttificano nella perseveranza, ascoltano e fanno la sua parola, sono cioè la sua vera famiglia.A questi “voi” è donato da Dio di “conoscere i misteri del regno di Dio”. Luca non dichiara qui cosa sono questi misteri. Li conosce solo chi interroga Gesù ed entra in dialogo con la sua parola. I discepoli hanno in dono una “gnosi” che gli “altri” non hanno. Questi altri vedono la vetrata come dal di fuori. Devono entrare e far parte di questo “voi” per vederla. La chiave per entrare in questa conoscenza era stata sequestrata dagli scribi che, senza entrarci, ne impedivano l’accesso (cf. 11,52). Gesù vi ha già introdotto i suoi discepoli. Gli altri, proprio perché guardano senza vedere e ascoltano senza capire, sono stimolati a entrare per comprendere e vedere.

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Le parabole in Luca non hanno quindi come in Marco la funzione di tener chiusa la verità a chi non la vuole (Mc 4,11s). Svolgono invece la funzione di un annuncio iniziale che apre alla verità, suscitando il desiderio di interrogare. La parabola infatti di per sé non è trasparente. Rappresenta un enigma, un indovinello che smuove l’uomo e lo mette in prospettiva di ricerca: porta naturalmente a chiedere e ad ascoltare. È l’inizio della conversione, fino a quando si fa parte di quel “voi”, al quale sono rivelati i misteri.Se Marco 4,11s con le parabole denuncia la cecità degli ascoltatori per portarli a conversione, Luca, con le medesime parabole, intende guarire tale cecità per lo stesso intento.Nella prospettiva di Luca la parabola può essere intesa come una prima luce nella notte: è un annuncio missionario, che invita il pellegrino a “entrare” nella casa, dove è luce piena!

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il luogo dove Gesù spiega ai discepoli le parabole.c. Chiedo ciò che voglio: essere tra quelli che si lasciano interrogare, interrogano e ascoltano la Parola, per entrare nel mistero di Gesù.

d. Punti su cui riflettere:- i discepoli interrogano- Gesù risponde- a voi è dato conoscere- il mistero del regno di Dio- agli altri in parabole- guardando non guardano- ascoltando non intendono.

4. Passi utili

Sal 32; 19; Is 6,9s; 29,9-12.

43. IL SEME È LA PAROLA DI DIO

(8,11-15)

11 Ora è questa la parabola:il seme è la parola di Dio.12 Or quelli lungo la stradasono quanti ascoltano,dopo giunge il diavoloe toglie la parola dal loro cuore,

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perché, credendo, non siano salvati.13 Or quelli sopra la pietrasono quanti, quando hanno ascoltato,con gioia accolgono la Parola,ma non hanno radiceperché per un momento credonoe nel momento della tentazione s’allontanano.14 Ora quello caduto nelle spine,sono quanti ascoltanoe sotto preoccupazionie ricchezzae piaceri della vitasono soffocati per via,e non portano a maturazione.15 Ora quello nella terra bella,sono quanti ascoltanoin un cuorebelloe buono,trattengono la Parolae fruttificano in perseveranza.

1. Messaggio nel contesto

Alla spiegazione del linguaggio in parabole, segue la spiegazione della parabola stessa. È riservata a coloro ai quali è “dato conoscere i misteri del regno di Dio” (v. 10). Questi si identificano con Gesù, la Parola di morte e risurrezione, il seme che conosce insieme fallimento e successo. La legge della croce come via alla gloria vale tanto per Gesù che per il discepolo che lo segue (cf. 9,23ss). Già nella prima persecuzione che subisce, la chiesa capisce la propria storia come una e identica con quella del suo Signore, al quale è associata (cf. At 4,27ss). Tale intelligenza dei misteri del Regno è la fonte del coraggio per continuare a credere e ad annunciare al di là di ogni difficoltà. Questi misteri vengono dichiarati velatamente, attraverso il destino che la Parola incontra, che è lo stesso del chicco di grano che se non muore non porta frutto (Gv 12,24).Questa interpretazione della parabola racconta “la storia teologica” dell’annuncio missionario e ha un duplice intento. Da un parte la comunità capisce i suoi insuccessi alla luce della morte/risurrezione, senza scoraggiarsi. D’altra parte, siccome la Parola è necessariamente efficace, la chiesa può verificare dai frutti la qualità del proprio ascolto. Infatti, se la Parola è il seme, l’uomo che ascolta è il terreno che accoglie. Allora il frutto, scontata la bontà del seme, sarà proporzionale alla docilità dell’ascolto.

2. Lettura del testo

v. 11: “Ora è questa la parabola, ecc.”. La spiegazione tralascia seminatore e semina. Concentra l’attenzione sul “seme suo” del v. 5, che è “la parola di Dio”. Si tratta della “parola di misericordia” di 6,27-38, che ci fa diventare “figli dell’Altissimo” (6,35s). Il destino di questo seme, certamente buono e fecondo perché è il “suo”, dipenderà dall’accoglienza che incontra: frutterà dove troverà buon

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terreno. Si può qui parlare di una scivolata “moralistica”, in cui si fa dipendere il risultato dall’ascolto dell’uomo più che dall’efficacia della Parola che opera nella fede? No certamente! Non si tratta di contrapporre uomo e Dio, Parola e accoglienza, bensì di combinarli: la fede è proprio la Parola accolta, l’uomo che accetta Dio. Luca è molto cattolico: in lui tutti gli “o” diventano “e”. Siccome certamente Dio e la sua parola sono buoni, il problema reale è quello dell’uomo: “che fare” (cf. 3,10) per accogliere nella fede quanto Dio ci dice? Come infatti il terreno può impedire lo sviluppo del seme, l’uomo può non rispondere alla Parola e renderla sterile con le sue resistenze. Se l’ascolto non porta frutto, ciò non si può certamente imputare alla sterilità della Parola, bensì alla cattiva accoglienza. Bisogna quindi verificare la qualità del nostro ascolto.

v. 12: “Or quelli lungo la strada, ecc.”. È interessante notare come il seme ora viene fatto coincidere non più con la Parola, ma con la persona stessa e il modo in cui lo accoglie. Quasi a suggerire che la verità di una persona è il suo grado di accoglienza della Parola. Infatti l’identità di uno è il frutto che porta in lui la parola di Dio, perché uno diventa la parola che ascolta. Luca prende davvero sul serio la capacità che ha l’uomo di prestare ascolto alla Parola: è un dono che Dio fa a chiunque oda l’annuncio. Diversamente l’annuncio non avrebbe senso e, invece che salvezza, sarebbe condanna! Nonostante tutte le difficoltà che vengono enumerate e coscienziosamente smascherate - sono le resistenze che il nemico pone nel cuore dell’uomo - è da supporre in tutti gli uomini la disponibilità a credere. Non solo il seme è buono, ma al di là di tutto, il frutto sarà insperatamente grandissimo, perché “di tutte le belle promesse che il Signore aveva fatte alla casa di Israele, non una andò a vuoto: tutto giunse a compimento” (Gs 21,45).“Quelli lungo la strada” sono coloro che vivono nella superficialità e banalità, nell’ovvietà del “si dice” e del “si fa”. È la via che tutti percorrono come strada maestra di vita. È il buon senso comune, che è tutt’altro che neutro nei confronti di Dio. Infatti: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). Su questa via vola di continuo il principe dell’aria (Ef 2,2), nelle cui mani è posto ogni potere (4,6) e che ha la sua “ora” proprio in quel momento di passione in cui si accoglie la parola di Dio per compierne la volontà (cf. 22,53). il diavolo può entrare nel cuore dell’uomo (22,3) e riempirlo (At 5,3). Non uccide la Parola ma può sottrarla a chi l’ha accolta e occupare il posto lasciato libero da essa con i suoi “dialoghismi” di incredulità. Per rubarla si serve del fiume sempre scrosciante e assordante delle parole dell’uomo, che scaturisce dalle sue certezze-paure. La vera funzione del diavolo in Luca è quella di distogliere dall’ascolto della fede. Ha tentato di farlo anche con Gesù nel deserto (4,1ss). Suo intento è togliere la Parola che porta alla fede e quindi alla salvezza (cf. 7,50). Qui si sottolinea solo l’azione del diavolo, paragonato agli uccelli. Si tace l’azione degli uomini che la “calpestano”, passando per via. Questo è infatti il modo più comune con il quale il nemico agisce, usando il pensiero dell’uomo, che di sua natura è mosso dall’interesse e dalla diffidenza. Tale diffidenza è già di per sé diabolica: distoglie dalla fede in Dio, centrando su di sé, per sfiducia, ogni fiducia. Questa prima categoria di uomini neanche accolgono la Parola, a differenza delle successive. Accogliere la Parola significa l’ingresso nella fede (cf. At 8,14; 11,1).

v. 13: “Or quelli sopra la pietra, ecc.”. Quelli che “hanno ascoltato”, “con gioia accolgono”, ma “non hanno radice”, sono quelli sulla “pietra”. Questa pietra è il nostro cuore. Solo lo Spirito lo può cambiare in cuore di carne, capace di vivere e rispondere alle pulsioni dello Spirito che è vita (cf. Ez 36,26s). Questo cuore di pietra - la chiusura dell’uomo nel suo egoismo - non è subito visibile: viene a nudo quando il torrente delle contrarietà lava via la piccola copertura di bontà. Per questo è possibile una fede a scadenza: “Per un momento credono e nel momento della tentazione si allontanano”. Non è che Luca esponga un’ipotesi teorica. Il rischio costante, cui è esposta la comunità, è quello di cadere nella prova. Per questo si dovrà chiedere lo Spirito santo (11,9-13) e pregare con insistenza (18,1ss).

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La sussistenza o meno della fede alla venuta del Figlio dell’uomo è proprio legata alla preghiera incessante, per ottenere il dono dello Spirito. La prova in Luca non è tanto la tribolazione finale, quanto la sua rateizzazione storica, la “croce quotidiana” di chi lo segue (9,23). Quel diavolo, che si scatenò con Gesù nel deserto e si ritirò fino al tempo della passione (4,13; 22,53), è sempre all’azione come tentatore nelle difficoltà del discepolo che ne segue il cammino di passione.

v. 14: “Ora quello caduto nelle spine, ecc.”. Il nemico vuole assolutamente che non si giunga alla fede che salva. Quando non gli riesce di impedirlo, intervenendo in modo duro nel tempo della prova, lo fa intervenendo in modo blando: strada facendo soffoca la Parola, servendosi dei suoi alleati che sono in noi. È un soffocamento progressivo del quale c’è quasi il pericolo di non accorgersi.Il suo primo alleato sono “le preoccupazioni” e l’affanno, l’ansia e l’inquietudine, anche per le cose buone! In 10,41 si contrappone Marta, che ha come principio d’azione le proprie “buone” preoccupazioni, a Maria, che ha come principio l’ascolto, la calma e la fiducia della fede. Le preoccupazioni cui obbediamo stanno all’origine delle nostre occupazioni. Sono sorgente dell’azione nostra e, in verità, altro non sono che le mille voci del serpente cui obbediamo invece di obbedire a Dio e aver fiducia in lui. L’affanno-paura è in tutta la Bibbia la spia della non-fede. Soffoca la vita, che è l’obbedienza a Dio (cf. Is 57,20s).Il secondo alleato è “la ricchezza”. In Luca è molto forte la tensione verso la povertà, volto concreto della fede e della carità, perché porta a fidarsi del Padre e condividere con i fratelli (cf. 11,41; 12,33s; 14,33; 16,13; At 2,44; 4,32.34 ... ).Il terzo alleato è costituito dai “piaceri della vita” (cf. 12,45; 14,15ss). Luca è particolarmente sensibile a ciò che è bello e piacevole, dal vestito alla mensa e agli onori. Per questo insiste assai sull’umiltà di Cristo.Questi sono i punti deboli dell’uomo, le nostre facili alleanze con il nemico (cf. le tre concupiscenze di 1Gv 2,16). Mentre nelle tentazioni Gesù va fino in fondo (4,13), noi corriamo il rischio di perderci per le nostre paure e per i nostri desideri, alleati del nemico.

v. 15: “Ora quello nella terra bella, ecc.”. Le condizioni per accogliere la Parola con frutto sono il cuore “bello e buono”. È propria di Luca questa traduzione evangelica dell’ideale greco, trasposto nel cuore dell’uomo. Il cuore è la capacità interna e vitale di accogliere la Parola: è “bello” perché si adorna di essa e la custodisce (cf. 1Pt 3,3s), è “buono” in quanto porta frutto mediante la perseveranza, soprattutto nei momenti di prova.Il centuplo del frutto è legato a questo “ascoltare, trattenere e perseverare” quotidiani a tutta prova. Esso è la gnosi dei “misteri del Regno” (v. 10a) e corrisponde alle 10 mine che tutti i servi ricevono (19,13). È il frutto dell’ascolto della parola del Signore, che porta il credente a riverberare sul proprio volto la luce del Padre di misericordia che Gesù ha rivelato in 6,27-38. Ci fa partecipare della sua stessa famiglia (v. 21) e ci inserisce nel dialogo misterioso di esultanza tra Figlio e Padre (10,21s).Concludendo: se questi frutti non ci sono, scagionata l’efficacia del seme, bisogna ricercare e individuare e smascherare le resistenze specifiche che poniamo all’accoglienza della Parola.Inoltre, nonostante difficoltà e insuccessi, ci si può impegnare con fiducia nell’annuncio della Parola, perché certamente produrrà frutto: è seme di Dio. Egli stesso ne garantisce la crescita (cf. 1Cor 3,7b).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che spiega la parabola ai discepoli.

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c. Chiedo ciò che voglio: un cuore bello e buono; le paure, le difficoltà, la presunzione e i desideri mondani non lo rendano impermeabile, incostante e distratto nell’ascolto.d. Considero ogni parola del brano, riferendola a me.

4. Passi utili

Sal 107; Gc 1,19-27; 1Gv 2-15s.

44. GUARDATE DUNQUE COME ASCOLTATE

(8,16-18)

16 Ora una lampada accesanessuno copre con un vaso,o pone sotto il letto,ma pone sopra il lucerniereperché quanti entranovedano la luce.17 Poiché non c’è cosa nascostache non diverrà manifestata,né occultache non sarà conosciutae venga allo scoperto.18 Guardate dunquecome ascoltate:poiché a chi avrà,sarà datoe a chi non avrà,anche quanto crede di averesarà tolto.

1. Messaggio nel contesto

Nei vv. 9-10 si spiega come le parabole siano un primo approccio di annuncio missionario; pongono l’interrogativo e sono uno stimolo per domandare ulteriormente e così conoscere i misteri del Regno. Nei vv. 11-15 si descrivono le difficoltà che la Parola incontra e che le impediscono di fruttificare. Ora si dice come l’asco1to della Parola sia una luce che accende il discepolo, perché faccia luce a chi è ancora nelle tenebre: lui stesso ha il compito di aiutare “gli altri” a compiere il passo di entrare nella cerchia del “voi” ecclesiale di cui Gesù parla al v. 10. È la coscienza missionaria della chiesa di Luca. Prima la Parola era un seme, forza vitale spontanea che richiama la necessità del buon terreno. Ora

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essa è “luce”, naturale necessità di illuminare gli altri. Chi ha realmente accolto la Parola, è acceso da essa e la trasmette agli altri.Queste parole sono rivolte ai discepoli perché, dalla loro effettiva testimonianza, possano verificare se hanno davvero accolto la Parola. La coscienza missionaria in Luca affiora di continuo, con una stretta connessione tra identità del credente e rilevanza della sua testimonianza: nella misura in cui uno accoglie la Parola ne è illuminato e fa luce agli altri. La missionarietà della chiesa è un fatto naturale come per la luce illuminare. Se non illumina, non è luce. In quanto luce è in grado di portare gli altri a entrare nei misteri. Cristo Gesù, luce del mondo (Gv 8,12), ha acceso il suo fuoco nei discepoli: divamperà fino agli estremi confini della terra.

2. Lettura del testo

v. 16: “Ora una lampada accesa, ecc.”. Gesù, luce da luce, è la luce del mondo (Gv 8,12). Il discepolo è la lampada accesa a tale luce. Egli è venuto a portare un fuoco, e desidera che sia acceso (12,49). Divamperà a pentecoste e sarà l’amore reciproco Padre/Figlio donato agli uomini che lo accettano (cf. 10,21s). Questo fuoco è strettamente connesso con l’acqua del battesimo, la morte in cui Gesù ci apre il mistero del suo amore. Il discepolo è la lucerna accesa a questa luce: mediante l’ascolto e l’obbedienza è giunto alla gnosi dei misteri. Egli è già stato “illuminato” per il battesimo. Anche se in un vaso di argilla, ha già questo tesoro, che non deve essere nascosto. La mia debolezza non sia un pretesto per occultarlo, bensì mezzo per manifestare che tale potenza viene da Dio (2Cor 4,7). Nulla mi esime dal donare ciò che mi è stato donato. Se non dono, neanche ho ricevuto - così come la lucerna che non illumina non è accesa. Per questo Paolo dice “Guai a me se non predicassi il vangelo” (1Cor 9,16). Se ho conosciuto il mistero di Dio, non posso non rivelarlo, come la luce non può non illuminare. “Ruggisce il leone, chi mai non trema? Il Signore Dio ha parlato, chi può non profetare?” (Am 3,8). La mia fragilità stessa non farà altro che evidenziare maggiormente la potenza del vangelo (cf. 1Cor 2,1-5): quando sono debole, allora sono forte (2Cor 12,10).Il dono non può neanche essere nascosto sotto “il letto”, chiuso nella mia intimità. Tanto meno va nascosto sotto il letto della mia pigrizia e del mio peccato che mi tiene bloccato. La luce, una volta accesa, non va occultata, ma deve illuminare tutti. Tra l’altro la lucerna non si preoccupa di illuminare: basta che bruci! Per questo la chiesa in Luca si autocomprende come necessariamente missionaria. Un buon commento a questo versetto, carico di tensione missionaria, è il libro stesso degli Atti: accesi all’inizio dal fuoco della pentecoste, i discepoli porteranno questa luce fino agli estremi confini della terra. Paolo, che pure si sente un vaso di argilla (cf. 2Cor 4,7; 1Cor 2,1ss), invece di nasconderla, è un “vaso di elezione” che porterà dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele il nome di Gesù, che gli mostrerà quanto dovrà soffrire per lui (At 9,15). Nel condividere la morte di Cristo (2Cor 6,4-10) e completare in sé ciò che ancora manca alla sua passione (Col 1,24), il discepolo manterrà acceso il fuoco. Così sarà, come il suo maestro, posto sul “lucerniere”, da cui farà luce a tutti gli uomini.L’esperienza bruciante dei misteri, che si fece urgenza per Gesù (12,49) e per Paolo (cf. 2Cor 5,14), si fa esigenza di annuncio per la chiesa. Questo non è qualcosa di aggiunto, anche se naturale, come la parola alla bocca. È essenziale, come la luce al fuoco. Se non c’è luce, manca il fuoco! Se la chiesa non si sente missionaria, il suo ascolto non è stato tale. Per questo bisognerà sempre guardare a come si ascolta. L’apostolicità e l’urgenza di testimonianza è una caratteristica di Luca. Egli è “cattolico”, universale, con la preoccupazione di non escludere nessuno. Proprio per questo, concede il privilegio all’escluso e al nemico. Dove non c’è questo spirito, non c’è luce né fuoco: non c’è ancora stato un ascolto fruttuoso.

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L’urgenza di testimoniare e l’effettivo far luce sono la spia attraverso cui vediamo come abbiamo ascoltato. Ulteriore prova di questo taglio missionario, tipico di Luca, è che, mentre Matteo parla di “far luce a quelli che sono nella casa”, Luca parla di “quanti entrano”: sono quei lontani che, attratti dalla luce, entrano nella chiesa e accoglieranno prima l’annuncio in parabole e poi la spiegazione dei misteri del Regno.

v. 17: “Poiché non c’è cosa nascosta, ecc.”. Ciò che è “nascosto” sono ovviamente i “misteri del Regno”, che, come ai discepoli (v. 10a), così devono essere rivelati anche agli altri (v. 10b). Questi ancora guardano ma non vedono, ascoltano ma non intendono, perché hanno solo il primo annuncio in parabole. L’enigma delle parabole e la luce che emana da chi è già entrato, li invita a entrare in un ascolto più profondo.Dentro la casa c’è luce e si vede l’amore mutuo del Padre e del Figlio, nel quale il discepolo è introdotto (cf. 10,21s). Questo è il grande segreto rivelato, anche se resta sempre misterioso! La comprensione di esso sarà frutto del lento cammino di ascolto della Parola. Paolo parla di un mistero nascosto, rivelato nell’annuncio del vangelo, che deve essere scandagliato in tutta la sua “ampiezza, lunghezza, altezza e profondità”, per “conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza” ed essere “ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,18). Dall’annuncio che svela il mistero, bisogna arrivare a una conoscenza sempre più profonda del mistero stesso. Luca sottolinea la progressività di questo cammino, dicendo che ciò che è nascosto “diverrà” manifesto e che ciò che è occulto “giunge” alla luce. In un “divenire” e “giungere” progressivi, tutti siamo introdotti in quella “gnosi” che ci rende familiari di Dio.

v. 18a: “Guardate dunque come ascoltate”. È il fulcro del brano. Per non guardare senza vedere e ascoltare senza capire, bisogna guardare a come si ascolta. Questa riflessione tematica sull’ascolto è necessitata anche dall’urgenza di illuminare gli altri che devono entrare. Da fuori essi devono poter vedere nella nostra vita la verità di ciò che ascoltano dalla nostra bocca. Solo così possono entrare! Sia per noi che per gli altri, dobbiamo verificare il nostro ascolto: la nostra lucerna è accesa, secondo il comando del Signore (12,35)? La testimonianza riporta all’autenticità. Ciò che sei fa da cassa di risonanza a ciò che dici. La vera rilevanza è la tua identità: questa può confondere, smorzare, imbruttire o falsare il tono del canto che Dio rivolge all’uomo. C’è stretta connessione tra annuncio e vita di chi annuncia: questi è sempre martire, testimone nella sua vita della Parola che porta. Per illuminare, devo essere acceso! Se non illumino, non sono acceso; e se non sono acceso, non illumino. C’è una circolarità tra autenticità di vita e annuncio efficace: se la mia fede è genuina, il mio annuncio fa luce; se il mio annuncio fa luce, la mia fede è genuina. Certamente è eretico affermare che l’efficacia della Parola è causata dalla fede di chi la proclama. Ma certamente è da ritenere, sulla parola e sull’esempio del Signore, che la testimonianza di vita del credente ha valore di sacramento di salvezza per gli altri. Guai a separare annuncio e testimonianza.Il problema unico dell’annuncio è quello della testimonianza (cf. 9,1ss; 10,1ss). Se la candela brucia, illumina. Non è che la nostra testimonianza abbia il potere di rendere credibile la Parola: essa è efficace per sé, perché è un seme. La nostra contro-testimonianza ha però il potere di renderla incredibile e di impedire l’efficacia del seme, rovinando il terreno. Per questo la chiesa missionaria di Luca è richiamata a “guardare come ascolta”.

v. 18b: “a chi avrà, ecc.”. Dice un proverbio popolare: “Chi è ricco, arricchisce, chi è povero impoverisce” oppure: “Piove sempre sul bagnato”. Più uno apre il cuore ad accogliere, più è colmato e più ne è sazio, più ne ha fame. Chi chiude il cuore alla Parola, non sa quel che perde: la rende infeconda e non la desidera, perché non ne ha mai sperimentato la dolcezza.

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Luca quindi, dopo aver richiamato l’attenzione sulla missione come testimonianza verso gli altri, richiama di nuovo l’attenzione sulla propria accoglienza alla Parola: l’accento torna da ciò che dici a ciò che sei. E sei nella misura in cui ascolti la Parola “con cuore bello e buono”. Per una circolarità, tipica dell’economia del dono che è un circuito che si autoalimenta, se è vero che a chi ha sarà dato, è anche vero che, a chi non ha, è tolto anche ciò che pensa di avere.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù attorniato dai discepoli, che sono invitati a verificare il loro ascolto.c. Chiedo ciò che voglio al Signore: fare della sua Parola il centro della mia vita.d. Medito sulla qualità del mio ascolto e della mia testimonianza agli altri.

Da notare:- lampada accesa- vaso/lucerniere- letto/lucerniere- quelli che entrano- nascosto/manifesto- occulto/conosciuto, scoperto- guarda come ascolti- a chi ha sarà dato- a chi non ha, ecc.

4. Passi utili

Sal 119: è tutto una testimonianza dell’amore per la Parola, che è Gesù Cristo.

45. MIA MADRE E MIEI FRATELLI

(8,19-21)

19 Ora si avvicinò a luila madre e i fratelli di lui, e non potevano incontrarloa causa della folla.20 Ora gli fu annunciato:Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori,e vogliono vederti.

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21 Ora egli rispondendo disse a loro:Mia madre e miei fratelli sono quelli i quali ascoltano e fanno la parola di Dio.

l. Messaggio nel contesto

Si conclude il discorso sull’ascolto della parola di misericordia, mostrandone il frutto: ci rende madre e fratelli di Gesù, generatori e consanguinei di colui che è la Parola stessa del Padre misericordioso. Entriamo nel numero dei discepoli (vv. 1-3), che conoscono i misteri (v. 10), siamo terreno fertile (v. 15). L’ascolto ci fa diventare madre e fratelli di Gesù: madre in quanto, accogliendo la Parola come Maria, lo Spirito ce la fa concepire; fratelli in quanto, facendola, siamo trasformati in lui, ascoltatore e figlio del Padre. L’ascolto operativo ci fa entrare in seno alla Trinità e partecipare con Gesù al mistero del suo rapporto con il Padre (cf. 10,21s). L’appartenenza alla famiglia di Gesù non si fonda su privilegi di sangue riservati a pochi: è aperta a tutti, perché fondata sull’accoglienza alla Parola. In Mc 3,20s e Gv 7,5 la famiglia terrena di Gesù è portata come modello della resistenza della carne allo Spirito. In Luca invece come modello di passaggio dalla carne allo Spirito, per diventare quel buon terreno che accoglie la Parola. Maria infatti è prototipo del vero discepolo e della chiesa. Essa è beata perché crede (1,45) e la sua vera maternità consiste nell’essere “ascoltatrice e fattrice” della Parola (11,27). Essa rappresenta il passaggio pasquale che Luca propone al lettore già battezzato: già appartiene a Cristo - è uno dei suoi per sempre! - e, come Maria, desidera avvicinarsi a lui per “vederlo”. L’importante non è essere tra coloro che mangiano e bevono al suo cospetto (13,26), bensì passare come lei da una parentela fisica a una fondata sull’ascolto e la pratica della Parola. “Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così”, bensì secondo lo Spirito (2Cor 5,16).Per tre volte, una volta per versetto, si nominano “madre e fratelli”, indicati come “i suoi” dal cronista (v. 19), “i tuoi” dagli interlocutori anonimi (v. 20), “i miei” da Gesù (v. 21). Chiaramente il problema è di questa maternità-fraternità, fondata sull’ascolto fecondo della Parola.Matteo si rivolge a una comunità di origine giudaica attenta all’ascolto ma poco alla pratica: per questo insiste di più sulla pratica. Luca invece insiste su ambedue; accentua però l’ascolto, perché ha davanti una comunità alla quale l’ascolto è meno familiare, per la sua origine pagana: è in esso che si capisce e concepisce chi parla nella sua Parola.

2. Lettura del testo

v. 19: “Ora si avvicinò a lui la madre, ecc.”. A differenza di Mc 3,21 la visita non ha un motivo negativo: prenderlo perché è pazzo! Dal testo si può dedurre che la visita ha un motivo positivo: il desiderio di “incontrarlo” per “vederlo”. Ora in Luca questo è il desiderio portante del discepolo.Marco, rivolgendosi al catecumeno, presenta il passaggio che tutti, compresi i suoi secondo la carne, devono compiere per giungere alla fede: uscire dalla mentalità carnale che considera stolto il pensiero di Dio, non sequestrare Gesù nel pensiero dell’uomo.

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Luca, rivolgendosi al battezzato, invita al passaggio da una fede imperfetta a una parentela sempre più autentica con Gesù, mossa dal desiderio di incontrarlo e di vederlo. Tale desiderio sarà soddisfatto in una comprensione sempre più profonda e operativa della sua parola di misericordia.

“non potevano incontrarlo”. I suoi parenti si avvicinano a lui. Ma per incontrarlo non basta essere dei suoi. Qui viene detto il motivo per cui non lo incontrano: tra lui e i suoi c’è di mezzo “la folla”. È la folla degli “estranei” rispetto ai “suoi”, i quali in realtà risultano essere i veri estranei, perché “stanno fuori” (v. 20). La folla invece, anche se Luca non lo dice espressamente a differenza di Mc 3,34, sta con lui per ascoltarlo e seguirlo. I parenti quindi (e Israele stesso), se vogliono incontrarlo, devono “entrare” (cf. v. 16) in questa folla di discepoli che per loro sono estranei, ma che in realtà sono i veri parenti, perché lo ascoltano e gli obbediscono. Si contrappone una parentela secondo lo Spirito a una secondo la carne.Questa è una buona notizia per tutti gli estranei, peccatori o lontani che siano, quali sono chiamati a essere di casa con Dio nella sua misericordia. Ma questa buona notizia, da Giona in poi (cf. Gio 4,1ss), è sempre stata uno scandalo per i suoi, giusti o vicini che siano! Forse perché accampano privilegi, forse perché ritengono sufficiente ciò che già hanno. Certamente perché sono più facile preda dell’autosufficienza, frutto della paura di Dio e seme di ogni peccato.

v. 20: “Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori”. A differenza del testo parallelo di Mc 3,20.31, non si parla di casa; si parla di un’estraneità dei suoi che stanno “fuori”. Probabilmente perché la “casa” di Gesù, quella fondata sulla roccia (cf. 6,46ss), è costituita proprio dalla “folla” del v. 19, che ascolta la parola con “cuore bello e buono”, la “trattiene” e “fruttifica in perseveranza” (v. 15). Da questa casa i suoi sono ancora fuori. In essa Luca vuol introdurre il lettore Teofilo, già cristiano.Tale folla è l’ampliamento naturale, attraverso l’accoglienza del seme che ha fruttificato, della cerchia dei Dodici e delle donne dei vv. 1-3. Questa è la sua prima famiglia, costituita da gente che sta “con lui” perché “curata dal male”, e in grado di “servire”.Questi “suoi” che stanno fuori e desiderano vederlo siamo noi, invitati a entrare più in profondità in questa parentela, attraverso l’ascolto obbediente.

v. 21: “Ora egli rispondendo disse a loro: “Mia madre, ecc.”. Gesù dichiara che madre e fratelli suoi sono quanti “ascoltano e fanno la parola di Dio”. Il fine della parola di Dio è quello di renderci madre e fratelli di Gesù. Il mezzo è l’ascoltare e il fare tale parola. Questa è un seme, forza che genera vita di sua natura. Ora, ogni seme bisogna che sia accolto. I vv. 5-18 sono una verifica per vedere come si ascolta la Parola. Ascolto, accoglienza, terra e casa hanno in comune una caratteristica “materna”, la capacità di ricevere Cristo, che è la Parola-seme. Pur essendo noi generati dalla Parola, in qualche modo la generiamo: diamo a lei una dimora, una tenda, un’arca dove abitare. Come il “fiat” di Maria accolse la Parola e la generò al mondo, così il nostro ascolto le dà in noi spazio per vivere, terra per crescere, casa dove abitare. Il credente, nei confronti del mondo, è investito della duplice responsabilità di Maria: accogliere e generare Cristo. Sia la maternità che la fraternità, non sono fondate sulla carne, ma sulla parola del Padre di misericordia. Gesù la ascolta e la fa pienamente, aprendone a noi l’ingresso: diventate dunque misericordiosi come il Padre vostro celeste (6,36).Ciascuno è chiamato a diventare “madre” (al singolare!). La maternità è quell’ascolto che precede ogni messa in pratica: è la fede, non delegabile ad altri, tutta e propria di ciascuno, che consiste nell’accogliere la parola di misericordia. Accogliendola accettiamo di essere accolti nella misericordia (viscere materne) di Dio. La nostra maternità è in realtà passiva: accogliendo siamo accolti, perché accettiamo la maternità di Dio e accogliamo di essere da lui accolti incondizionatamente. Questa

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maternità è singola per ciascuno e fonda, oltre la nostra capacità di generare la Parola al mondo, anche la fraternità stessa aperta a tutti.Come ciascuno è chiamato a diventare madre di Gesù nell’ascolto, così tutti siamo chiamati a essere suoi “fratelli” (al plurale). Se la maternità è l’ascolto, la fraternità ne è la conseguenza: il fare ciò che si è ascoltato. Nella misura in cui accetto di essere accettato da Dio, sono capace di apertura, accettazione e fraternità: infatti come sono accolto, amato e graziato, so accogliere, amare e graziare. In tutte le lettere del NT, dopo una prima parte dogmatica, in cui si tratta di argomenti di fede (ascolto), segue una seconda parte, pastorale, che esorta alla pratica. Il nocciolo di questa seconda parte, con infinite variazioni, è sempre il comandamento della misericordia. Il discernimento dell’ascolto attraverso le opere di misericordia, e delle opere mediante la fede, è il tema della prima lettera di Giovanni.Riassumendo: la maternità è singola, perché ognuno deve accogliere la Parola. Ci capita il paradosso di Maria: generiamo chi ci ha generato, accogliamo chi ci ha accolti. La fraternità invece è molteplice, perché l’ascolto dell’unica parola di misericordia ci rende tutti “figli dell’Altissimo” (6,35), fratelli del Figlio e tra di noi.La paternità non viene nominata, perché è unica (cf. Mt 23,9; Ef 3,15) ed è la maternità stessa di Dio: sono le sue viscere di misericordia, che ci accolgono nell’unico Figlio, sua Parola, che ci rende tutti fratelli. Attraverso Gesù, siamo introdotti nella conoscenza dei misteri del regno di Dio (v. 10), nell’amore mutuo del Padre e del Figlio, che il Figlio è venuto ad aprirci (cf. 10,21S).L’ascolto dell’amore “impossibile” del Padre (6,27-38) è la fonte dell’impossibile amore fraterno: accogliere quest’amore impossibile. È il ritornello di Luca: “Ascoltare” precede ogni “fare”. Quindi niente moralismo! D’altra parte: “fare” la Parola è la verifica e l’inveramento dell’“ascoltare” la Parola. Quindi niente spiritualismo!Dove manca il fare, si è rimandati all’ascoltare: “Guardate dunque come ascoltate!” (v. 18). C’è per Luca, pur così cattolico, una priorità necessaria dell’ascoltare sul fare. Il v. 18 è il perno di tutto il capitolo e riecheggia il grido continuo di Gesù nella storia: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti” (v. 8).Forse qui è utile ricordare Maria come modello che Luca offre al singolo e a tutta la chiesa per accogliere e rispondere alla Parola. In lei troviamo le varie tappe da percorrere:a) 1,38 “Ecco la serva del Signore: avvenga a me secondo il tuo detto”. Nell’eccomi ci si espone ad accogliere Dio e la sua parola: è la semina, l’accoglienza della fede.b) 1,45 “Beata colei che ha creduto”: è la beatitudine e l’esultanza che scaturisce come primo frutto della fede che accoglie la Parola.c) 2,19 “Conservava questi detti, comparandoli nel cuore suo”: è la custodia e il confronto continuo nel cuore, necessari per crescere in questa Parola.d) 2,51 “Conservava tutti i detti nel cuore suo”: è il cuore bello e buono che rumina la parola di Dio e si nutre di essa, offrendo il terreno buono perché crescano i frutti.L’accoglienza fruttuosa della Parola (cf. v. 15) accomuna il credente a Maria (cf. v. 21) e la sua beatitudine di madre nella fede (cf. 1,45) è estesa a chiunque ascolta e fa la Parola (cf. 11,27s). Si può quindi anche dire che Maria è immagine perfetta della Trinità e modello di ogni uomo. Il Padre l’ha come figlia, perché è obbediente come il Figlio alla sua volontà; dice infatti: “Avvenga a me secondo il tuo detto” (1,38). Lo Spirito del Padre l’ama come figlia e lo stesso Spirito del Figlio in lei ama il Padre (cf. 10,21s), perché nello Spirito è sorella di suo Figlio e sposa del Padre, che ama con tutto il cuore (cf. 10,27). Infatti si unisce a lei quando il suo Spirito la copre (cf. 1,35). Il Figlio infine l’ha come madre, perché accoglie e fa la Parola a similitudine del Padre. Infatti concepisce l’inconcepibile (cf. 1,31s). Così, Maria è figlia, sorella-sposa e madre di Dio, creatura a immagine perfetta del suo creatore, secondo il disegno primigenio di Gn 1,27.

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3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù in casa, attorniato dalla folla, e i suoi parenti fuori.c. Chiedo ciò che voglio: ascoltare e fare la sua parola.d. Considero attentamente ogni parola e gusto l’essere madre e fratello di Gesù.

4. Passi utili

Lc 1,26-38; 1,45; 2,19; 2,51.

46. CHI DUNQUE È COSTUI?

(8, 22-25)

22 Ora avvenne in uno dei giorni: egli entrò nella barca e anche i suoi discepoli, e disse loro:Traversiamoal di là del lago!E presero il largo.23 Ora, navigando essi,cadde dal sonno;e discese un turbinedi vento sul lagoe si riempironoed erano in pericolo.24 Ora, appressatisi,lo ridestaronodicendo:Maestro, maestro,ci perdiamo!Ora egli, ridestatosi,sgridò al ventoe al flutto dell’acqua,e cessaronoe fu bonaccia.25 Ora disse loro:Dove la vostra fede?

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Ora sbigottiti si meravigliarono,dicendo l’un l’altro:Chi dunque è costui,se anche ai venti ordina e all’acqua, e gli obbediscono?

1. Messaggio nel contesto

Viene ripresa la domanda già fatta con malignità in 5,21 e con sorpresa in 7,49: “Chi è dunque costui?”. Prima di dare la risposta diretta (9,20), se ne dà una indiretta attraverso ciò che Gesù fa: egli domina sul cielo e sul mare (vv. 22-25), sul male (vv. 26-39), sulla malattia e sulla morte (vv. 40-56), e poi invia i Dodici a convocare il popolo nel deserto (9,1-6), dove lo nutrirà con la vera manna, quella che non perisce (9,10-17). Luca prepara così la cornice adatta per riconoscere nel rivelatore e operatore di misericordia il volto stesso del Dio della creazione e dell’esodo.Prima di riprendere questa domanda, che è fondamentale nel Vangelo, Luca ha richiesto una verifica attenta sull’ascolto. I “misteri del Regno” (v. 10) sono costituiti da ciò che Gesù, Messia e Signore, compie a favore dell’uomo: le sue parole e i suoi atti di misericordia, che rivelano l’amore del Padre. Chi obbedisce a lui (8,1-21), che è l’obbediente e perciò figlio dell’Altissimo, entra nel suo mistero e trova risposta alla domanda: “Chi è dunque costui?”. Egli, l’ascoltatore perfetto, se ascoltato, risponde immettendoci nel mistero della sua famiglia, come lui è presso il Padre per la sua obbedienza (cf. 2,49). Il primo abbozzo di risposta è in 7,18-35, dove egli si mostra come l’atteso dell’AT. Ora Luca introduce a un livello di conoscenza più profondo: se a lui prestano ascolto cielo e mare, male, malattia e morte, se lui raduna il popolo nel deserto e lo nutre, la domanda circa la sua identità trova risposta sorprendente. Egli è il Figlio, l’ascoltatore perfetto che chiede ascolto e di cui il Padre dirà di ascoltarlo (9,35). In lui si rende visibile colui che nel primo esodo era solo la voce: la Parola si è fatta carne e la voce ha trovato volto!La sezione che qui si apre (8,22-9,17) è un’anticipazione escatologica. Lo scenario di questo racconto è il mare (vv. 22.26.37.40), carico di allusioni dalla Genesi all’Esodo, dalla vittoria sul male del non essere a quella sul male dell’essere fallito. Al centro c’è la persona di Gesù, con la sua parola e la sua mano. Egli si rivela attraverso il tenue velo di queste azioni misteriose, che aprono alla risposta chi ne fa esperienza. Chi è costui alla cui parola obbediscono cielo e abisso e la superficie del mare che li congiunge, se non il creatore stesso di cui si parla nella Genesi (vv. 22-25)? Chi è costui, che con la sua parola precipita in basso e sommerge colui che prima stava in alto e opprimeva, se non il liberatore dell’Esodo (vv. 26-39)? Chi è costui, al cui tocco sono vinte la malattia e la morte, se non la Parola creatrice e liberatrice, che si è fatta carne per essere toccata da noi e farci creature nuove, libere dal male e dalla morte (vv. 40-56)? Chi è costui, che raduna nel deserto e nutre per il cammino che porta alla terra promessa (9,1-17)?Il Gesù che, dopo aver rivelato la parola di misericordia del Padre, chiede ascolto, è in realtà già ascoltato dal cosmo intero: a lui è sottoposta ogni cosa.I misteri del Regno del v. 10, nei quali Luca ci introduce, altro non sono che una conoscenza più profonda di lui, in modo che giungiamo alla fede del centurione e della donna del c. 7. Anche noi che non l’abbiamo visto, possiamo sperimentare la potenza della sua parola in sua assenza (7,9) e amarlo con tutto il cuore (7,38ss). La fede che salva è proprio quanto il centurione “dice” di Gesù e quanto la donna “fa” per lui. Lo afferma Gesù stesso in 7,9.50. Qui invece rimprovera i discepoli di non avere tale fede (v. 25).

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I lettori di Luca sono invitati con i discepoli a fidarsi della Parola, anche se lui dorme o è assente e ad amarlo con tutto il cuore. Si può infatti amarlo anche senza averlo visto (1Pt 1,8), come si può sperimentare l’efficacia della sua parola anche solo avendone sentito parlare (7,3). Luca, vero iconografo, delinea in Gesù il volto dell’ascoltatore perfetto, in modo che noi possiamo ascoltarlo a nostra volta e vederne il volto riflesso sul nostro.Il racconto forma un’unità speculare con il seguente, delimitato da due salite in barca (vv. 22.37). Gesù che dorme e si risveglia - passa dalla morte alla vita - porta ordine nel cielo e nell’abisso e vince il disordine fino nelle parti più lontane, sull’altra sponda del lago, in zona pagana. Ma prima vince il male dei discepoli e placa l’angoscia e il senso di perdizione che riempie la barca, figura della chiesa. Il suo giungere all’altra riva opera la salvezza tra i pagani e suscita il desideri( di stare “con lui”, trasformato subito in missione di testimonianza (vv. 38s) .Il sonno di Gesù in mezzo al mare e lo smarrimento dei suoi è transitorio, come la sua assenza e l’angoscia dei genitori quando si fermò per la prima pasqua a Gerusalemme (2,48), come la sua dimora negli inferi e lo stordimento dei discepoli nei tre giorni dell’ultima pasqua. Il suo risveglio è la sua vittoria. Da qui la necessità del suo sonno, incomprensibile come il suo resistere a Gerusalemme, misterioso come il suo restare in balia del male e della morte. In realtà è la sua visita nascosta e vittoriosa negli abissi (1Pt 3,19). I discepoli ne vedono il risultato solo al risveglio, quando riemerge dalla profondità del sonno e riporta sulla superficie del lago e della terra la vittoria già ottenuta con la sua immersione negli inferi.La cornice del racconto è cosmica: cielo e abisso. Al centro i discepoli, sospesi nel vuoto. Sopra c’è il vento, che dall’alto li spinge verso il basso; sotto c’è il profondo, che apre la bocca per ingoiare la barca. E Gesù dorme, per il nostro peccato. L’alto è percepito come cattivo e demoniaco, come vento che sospinge verso il nemico del basso, la morte. Ma Gesù si risveglia e salva i discepoli, perché il cosmo gli obbedisce: uccide il potere di morte, dopo essersi abbandonato lui stesso nelle sue mani.

2. Lettura del testo

v. 22: “in uno dei giorni”. È un giorno determinato di quei determinati giorni in cui Gesù fu con noi. È uno dei suoi giorni, che diventa anche nostro quando lo ascoltiamo: è l’“oggi” della salvezza (4,21). Nello stesso giorno si compiono tre atti di potenza più uno, come nel giorno della risurrezione, quando si rivelerà assente dal sepolcro, compagno per via, presente nel cenacolo e in attesa di noi presso il Padre.

“entrò nella barca”. È lui che prende l’iniziativa. La casa della scena precedente è sostituita dalla barca, una casa fluttuante sul mare. La vecchia casa fu travolta dal diluvio, annegata nella disobbedienza (cf. 6,49). La nuova è la barca, prefigurata nell’arca di Noè. È una casa di obbedienza, salvata per misericordia dalle acque della disobbedienza. Noè, figura di Cristo, è il primo che vi entra. Gli altri che entrano dietro di lui trovano salvezza.Questa barca è di legno, come la croce, luogo del sonno di Cristo obbediente. Gesù chiede di passare al di là del lago, in zona pagana. Richiama cammino al di là del mare fino a Gerusalemme e insieme la missione della chiesa che consiste nell’andare fuori Gerusalemme, per portare all’esodo tutte le genti. Questa barca è la chiesa di Luca in cammino. Essa è colta da paure e incertezze nel condurre avanti la missione del suo Signore, che è quella di portare la salvezza a tutte le genti, fino agli estremi confini della terra. Lui, addormentato e risvegliato ci accompagna in modo misterioso. Questa barca in 5,2 era ormeggiata alla sponda. Gesù la fa staccare con la sua parola, da lì

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istruisce e poi le fa prendere il largo, associandola alla sua pesca di salvezza. Ora, dopo la verifica dell’ascolto, essa è in grado di giungere all’altra sponda.Il lago - in Mc 4,39 è chiamato mare! - è simbolo dell’abisso, il caos primordiale, che fu vinto in Gn 1, nella creazione. È anche il caos d’iniquità che ricoprì la terra con il suo potere di decreazione da Gn 3 a Gn 11 e dal quale Dio salvò Noè e si scelse Abramo. È pure il luogo attraverso cui JHWH salvò il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto. È quindi immagine del nulla, del male e della schiavitù, il luogo in cui Dio agisce creando, salvando e liberando.

“presero il largo”. Obbedendo alla parola di Gesù, i discepoli incontreranno le difficoltà tipiche di chi obbedisce: paura, smarrimento e sfiducia di riuscire. Ma sarà proprio qui che sperimenteranno la salvezza e la forza di colui che mantiene ogni promessa.

“Ora, navigando essi, cadde dal sonno”. Il navigare della barca coincide, tranne l’inizio e la fine, col tempo del sonno di Gesù e dell’angoscia dei discepoli. L’inizio infatti è la sua venuta che fa salpare la barca, la fine il suo ritorno, che la fa approdare. Nel mezzo c’è l’attesa di colui che è assente: il sonno di Gesù coincide totalmente con lo scatenarsi delle potenze cosmiche di male (cf. 22,53). In questa barca avviene qualcosa di analogo e contrapposto al battesimo di Gesù e alla pentecoste. Nel battesimo, Gesù riempì l’acqua della sua presenza, emerse, si aprì il cielo, scese lo Spirito santo ed egli ne fu pieno: qui invece il cielo è chiuso e nemico, scende da esso un vento che spinge verso l’abisso e riempie di morte i discepoli. Nella Pentecoste scenderanno un vento e un fuoco che assoceranno i discepoli al suo mistero di risurrezione e di emersione dalle acque; qui invece cade un turbine che li associa al suo mistero di immersione, li battezza e li sommerge nel suo stesso sonno.Il discepolo è associato all’angoscia della morte di Cristo. Questa scena ha un’analogia con quella del Getsemani, dove in realtà i discepoli dormono per la tristezza, mentre Gesù affronta la lotta, avvolto di angoscia mortale e rivestito di sangue (22,44ss).

v. 24 “Ora, appressatisi, lo ridestarono, ecc.”. I discepoli, in pericolo di sprofondare, si avvicinano a Gesù. Possono avvicinarsi perché il suo “sonno” ce lo ha reso vicino. Da ogni abisso possiamo accostarci a lui, perché lui si è accostato a noi in ogni abisso, compreso quello della morte da malfattore (cf. 23,40-43!). Il turbine che si abbatte sconvolge i discepoli che stanno sulla superficie del mare, sospesi sulla bocca dell’abisso. Gesù, caduto nel profondo del sonno, non ne è più toccato, perché ha già conosciuto ogni perdizione. Ha la calma sovrana del bimbo che riposa sul grembo che l’ha generato, la fiducia del Sal 131, che viene dopo il grido dall’abisso del Sal 130! Infatti Gesù può riposare, perché certamente il Padre lo risveglia dal sonno. Ma che ne è dei discepoli? Come la nostra miseria risveglia in noi il grido di fede, così risveglia in lui la misericordia che salva. Nella perdizione si armonizzano le voci della miseria e della misericordia.I discepoli usano un appellativo che è loro proprio in Luca, che abbiamo impropriamente tradotto: “maestro”. È una parola che indica uno “che sta sopra”: un termine che indica soggezione, dedizione, obbedienza e fiducia. L’invocazione è ripetuta. Indica bisogno urgente, paura e dubbio nella fede, necessità oggettiva e disperata di salvezza. “Svegliati, perché dormi, Signore?” (Sal 44,24). perché non intervieni nel nostro andare a fondo? Non vedi che vai a fondo anche tu: “Salva te stesso e anche noi” (23,39).Lui invece risponderà: “Dove la vostra fede?”. Non sapete che io sono intervenuto proprio nel mio sonno, nel mio essere perduto insieme con voi? I discepoli avvertono il battesimo nella realtà umana di angoscia come un andare a fondo: “Ci perdiamo!”. Ma sono con colui che per primo è andato a fondo; non sono perduti, ma stanno perdendosi con lui, il Figlio perduto e ritrovato.

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Gesù, come sarà destato dall’amore del Padre, così si desta per l’amore verso i fratelli: la sua misericordia e la nostra miseria hanno il potere di destarlo. E così, “ridestatosi sgridò il vento”. La parola “ridestarsi” indica nel kerygma primitivo il suo risveglio dalla morte. La parola “sgridò” è la stessa che si usa negli esorcismi, e indica la sua vittoria sul male che abita in alto, avvolge e domina fatalmente l’uomo, sconvolgendolo e precipitandolo verso l’abisso. Sono “le potenze dell’aria” (Ef 2,2), che spingono la barca nelle fauci dell’acqua. Insieme al vento è sgridato anche l’abisso delle acque.

“cessarono e fu bonaccia”. Gesù, risvegliato dal sonno, è il kyrios innalzato proprio per il suo sonno nell’abisso: per questo a lui si piega ogni ginocchio in cielo, sulla terra e sotto terra (Fil 2,6ss). I discepoli sperimentano l’intervento del Signore, creatore e salvatore dalla morte. Egli è colui che ascolta il nostro grido e ci salva (cf. Sal 107,27-29).

v. 25: “ Ora disse loro, ecc.”. In questa situazione di “battesimo”, Gesù li rimprovera: “Dove la fede vostra?”. Il “dove” della fede è la perdizione e l’andare a fondo. Questo è il luogo della fede in colui che non ci salva dalla morte, ma nella morte. Ci ha preceduto, per starci misteriosamente vicino anche lì. Questo è il luogo dove conosciamo chi è costui, il Salvatore morto e risorto. La fede si prova proprio nell’ora della tentazione (cf. 8,13). Essa consiste nel credere come il centurione alla potenza della parola di Gesù, che dona la vita oltre la morte (7,11-17).Luca provoca il discepolo a una fede totale in Gesù, riconosciuto come il Salvatore destato dal sonno, risorto perché morto: a lui obbediscono l’alto e il basso, il cielo e l’abisso.È importante rilevare come il luogo della fede è la nostra perdizione riconosciuta. Lì egli esercita la misericordia del Padre, e noi lo conosciamo come Signore e Salvatore.

“Chi dunque è costui?”. La domanda, già trovata in 5,21 e 7,49 quando perdona i peccati, ritorna qui sulla barca dei discepoli. Se ne intuisce la risposta: è il Kyrios, che, come perdona i peccati e vince il caos interno, così vince il caos cosmico e salva dalla morte. L’abisso non può nulla contro colui che “come in un otre raccoglie le acque del mare, chiude in riserve gli abissi” (Sal 33,7). Il male e la morte non possono vincerlo, anche se lui cade in essi: vi entra solo per incontrare noi e salvarci.Il Cristo impotente che perdona sulla croce (23,34) ha il potere di riscattarci (22,43), perché è lo stesso Dio potente della creazione e dell’esodo. Non gli è sfuggito di mano il mondo interno dell’uomo, soggetto al peccato, né quello esterno, soggetto alla morte. Anzi, nel suo sonno ha recuperato in suo potere tutti gli abissi e ha visitato con la sua luce tutte le tenebre.La fede che sa cogliere il significato di questo sonno si esprime con le parole del centurione e con i gesti della peccatrice. È la fede che salva (7,50).I discepoli hanno per la prima volta l’esperienza del battesimo come perdizione e salvezza. Questa esperienza verrà perfezionata nel c. 8. Così nel c. 9 potranno essere inviati come l’indemoniato di Gerasa ad annunciare, per portare anche gli altri a fare la stessa esperienza e mangiare di quel pane che abilita al cammino verso Gerusalemme.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la barca con i discepoli e Gesù che dorme durante la tempesta.c. Chiedo ciò che voglio: avere fede nelle difficoltà; lui è con me nel suo sonno.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

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Da notare:- barca- sonno di Gesù- tempesta- ci perdiamo!- dove la vostra fede?- chi è costui?

4. Passi utili

Sal 4; 107; 131; Es 14,15s; Is 30,15; Lc 2,41-52; 23-39-43.

47. E LO SCONGIURAVANO CHE NON IMPONESSE LORO DI ALLONTANARSI VERSO L’ABISSO

(8,26-39)

26 E approdarono nella regione dei Geraseni,la quale è dirimpetto alla Galilea.27 Ora, uscito sulla terra,gli venne incontro un uomo dalla città che aveva dei demoni,e da parecchio temponon aveva indossato vestito e non dimorava in casa, bensì nei sepolcri.28 Ora, visto Gesù,lanciato un grido,cadde davanti a luie con voce grande disse: Che c’è tra me e te, Gesù,Figlio di Dio l’altissimo?Ti pregodi non torturarmi!29 Comandava infatti allo spirito impurodi uscire dall’uomo.Molte volte infatti si era impossessato di lui e veniva legato con catenee custodito in ceppi,

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ma, rotti i legami,era spinto dal demonio verso i deserti.30 Ora gli domandò Gesù:Qual è il tuo nome?Ora egli disse:Legione!Poiché erano entrati molti demoni in lui.31 E lo scongiuravano che non imponesse loro di allontanarsi verso l’abisso.32 Ora c’era là un brancodi parecchi porci,che pascolavano sul monte;e lo scongiuravanoperché permettesse lorodi entrare in essi;e permise loro.33 Ora, usciti ì demoni dall’uomo,entrarono nei porci,e si lanciò il brancodal declivo nel lagoe fu soffocato.34 Ora, visto i pastori il fatto,fuggironoe annunziarono nella città e nei campi.35 Ora uscirono a vedere il fattoe vennero da Gesù;e trovarono seduto l’uomo,dal quale i demoni uscirono,vestitoe rinsavitoai piedi di Gesù,e temettero.36 Ora annunciarono loro quelli che viderocome fu salvato quello che fu indemoniato.37 E domandò a luitutta quanta la moltitudine dei dintorni dei Geraseni di allontanarsi da loro poiché erano presi da grande paura.Ora egli, entrato nella barca, ritornò.38 Ora implorava l’uomo,da cui erano usciti i demoni, di essere con lui.Ora lo congedò dicendo:

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39 Ritorna nella tua casae racconta quanto per te fece Dio.E s’allontanò per tutta la cittàproclamando quanto fece per lui Gesù.

1. Messaggio nel contesto

Nonostante gli impedimenti della potenza del male e della loro mancanza di fede, i discepoli approdano all’altra sponda, tra i pagani. Questo brano è strettamente legato al precedente. Dal punto di vista strutturale formano un’unità letteraria. “Delimitati da due salite sulla barca (vv. 22 e 37), essi contengono una serie di elementi simbolici, di cui cercheremo di riassumere il messaggio. Da un lato Gesù dorme, assopito nella barca: evocazione della sua morte e della sua sepoltura. Dall’altro si assiste a diverse situazioni di disordine: i porci, animali impuri, si trovano in zona elevata; Gesù, il Galieo, si trova a Gerasa sulla sponda opposta del lago, in terra pagana; un cittadino sta fuori dalla città e vive nei sepolcri e nei deserti; è posseduto, alienato, dotato di una forza cieca.La risposta a tutte queste anomalie viene da Gesù, che appare come mediatore. È lui che vince l’opposizione. Risvegliandosi dal sonno - passando dalla morte alla vita - egli salva (v. 36). Grazie a lui, l’ordine succede al disordine, quando comanda ai demoni di entrare nei porci, che subito si precipitano nel lago (luogo inferiore). Una volta che questo ritorno all’ordine viene avviato da Gesù, l’uomo che era stato posseduto dai demoni, liberato, pacificato, può lasciare i sepolcri e tornare in città, come messaggero di Dio.In breve, secondo questa simbolica concreta, Gesù, dopo essere passato egli stesso, figuratamente, dalla morte alla vita, conduce l’uomo perduto dalla morte (i sepolcri) alla vita (la casa). Il ciclo, cioè il ritorno all’ordine, si chiude col ritorno di Gesù in Galilea. Osserviamo ancora, a proposito del simbolismo dell’acqua, che il lago inghiotte definitivamente i demoni mentre per Gesù non è che un luogo di passaggio che egli domina. La sua morte - il suo sonno in mezzo al lago, nel luogo inferiore, dove dimorano le forze del male - è provvisoria” (J. Radermakers e Ph. Bossuyt).Nel brano precedente abbiamo visto che, nel suo sonno, “egli è divenuto partecipe della nostra morte”: ora vediamo che egli ha fatto questo “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14). Ora il vincitore dell’abisso, risvegliato dal sonno, si confronta con una legione di demoni. Essi lo proclamano “Figlio dell’Altissimo” (cf. At 16,16ss). Per questo lo ascoltano, si prostrano a lui e gli domandano umilmente di restare in quella regione e di non venire già precipitati nell’abisso.La venuta di Gesù, l’ascoltatore perfetto della Parola, ha rotto la disobbedienza di Adamo e ha vinto il nemico che l’ha usata come arma per uccidere l’uomo. Questo male però resiste ancora nelle zone infedeli e pagane, nelle zone di incredulità dentro - vedi brano precedente - e fuori di noi. Per questo i discepoli hanno difficoltà nella loro missione.Il viaggio apostolico della chiesa ha come scopo quello di aprire a tutti “gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio” (At 26,18). In questo viaggio, che è quello della parola di Dio, essa incontra difficoltà interne (cf. 8,12ss; At 5,3) ed esterne. La chiesa di Luca è cosciente di vivere nel periodo intermedio del già e del non-ancora: satana è già vinto da Gesù ed è ancora da vincere da parte nostra. La sua lotta diventa anche nostra, fino a quando verrà la fine.Il racconto mette in rilievo il potere di Gesù, ridestato dal sonno, sul demonio in terra pagana. I discepoli non temano di continuare la sua missione: lottano contro un nemico già in fuga, che il

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Signore ha già vinto e ha lasciato a noi da sgominare. Gli elementi narrativi di questo esorcismo, molto più coloriti in Marco, servono a dare fiducia nella vittoria definitiva.

2. Lettura del testo

v. 26: “E approdarono, ecc.”. I discepoli approdano là dove erano stati indirizzati da Gesù. Vi giungono perché dal suo sonno è stato vinto l’abisso. Così possono portare anche là, in terra pagana, la stessa vittoria.

v. 27: “Ora, uscito sulla terra, gli venne incontro un uomo, ecc.”. Come Gesù si avvicina, il male non può né aggredirlo, perché già lo ha vinto col suo sonno, né fuggire, perché già ha illuminato ogni ombra con il suo risveglio! Il male gli è totalmente soggetto. Non può che “venirgli incontro” e “scongiurarlo” umilmente (v. 31).L’uomo che si fa incontro a Gesù è un uomo “che aveva dei demoni”: per questo vive fuori dalla città, isolato dal consorzio umano, da tempo senza vestito e senz’altra dimora che il luogo della morte. Satana infatti ha tolto l’uomo dalla sua casa e l’ha trasferito nell’ombra di morte (1,79), spogliandolo di tutto. Infatti “la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo: e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap 2,24). Quest’uomo rappresenta ogni uomo!

v. 28: “Ora, visto Gesù, lanciato un grido, ecc.”. Il male “vede” Gesù. Se pure le tenebre impediscono la vista, in esse il minimo raggio di sole è massimamente visibile: le lacera! Lo vede e gli “cade davanti”: “osservavo satana cadere dal cielo come folgore” (10,18; cf. Is 14,12). Il male grida “con voce grande”: lo spirito, che con la sua menzogna allontanò l’uomo dalla casa del Padre, grida la propria sconfitta davanti a colui che pure “a gran voce” dirà la propria fiducia al Padre (23,46), vincendo la sua trama maligna.

“Che c’è tra me e te”. Il male dichiara la totale estraneità e separazione da Gesù, come l’impuro dal puro, la morte dalla vita, l’abisso dall’Altissimo, la menzogna dalla verità, il ribelle dal Figlio. Il male ha, in negativo, un’intuizione di Dio spesso più acuta del bene, talora così ottuso e stupido! Infatti, mentre il nostro bene è sempre limitato e insufficiente, il male che possiamo fare ha una certa infinità e sufficienza distruttiva. L’uomo, incapace di creare, è capace di distruggere; insufficiente a dare vita e a salvarsi, è sufficientissimo a dare la morte e a perdersi; impotente ad amare, è potentissimo a odiare!È da notare “la preghiera” del male, in Mc addirittura in nome di Dio (Mc 5,7). Il bene è avvertito come tortura. È pietra di paragone, che lo graffia tremendamente, mostrandone l’inautenticità; è luce, che squarcia e dissolve la tenebra. Sono grandi le reazioni e resistenze davanti al bene di chi è ancora schiavo del male. Ci sono preghiere che non sono “di Dio” (cf. 6,12), bensì del Maligno! La comparsa del Salvatore è tortura angosciante per chi deve essere salvato, perché si identifica col suo male. Il malato trova “nemico” il medico. In queste reazioni negative è da vedere l’azione di Dio intento a salvarci. È la prima regola del discernimento spirituale: chi è nel male, avverte Dio come scomodo e nemico, mentre è l’amico che ci salva! In realtà è il male che così parla in noi.

v. 29: “Comandava intatti, ecc.”. La reazione del v. 28 è nei confronti di un comando non menzionato di Cristo. È evidente che, anche senza parole, la presenza del Signore è già la sconfitta del male.Qui si descrive, ancora più dettagliatamente che nel v. 27, il potere devastatore del male, per sottolineare la potente salvezza del Signore. Là si dice che “aveva dei demoni”, qui si dice che era posseduto e tenuto in pugno dal male che aveva: non tanto aveva il male, quanto il male aveva lui.

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Questo male era indomabile da parte di qualunque forza umana, e lo trascinava nei deserti, a differenza di Cristo che era condotto nel deserto dallo Spirito (4,1).

v. 30: “Legione”. A Gesù che glielo chiede, rivela il suo nome: “Legione”! È un potere di male grande, massiccio, diviso e ben strutturato. La legione era di circa 6.000 uomini. La situazione dell’uomo soggetto al male è veramente disperata!

v. 31: “E lo scongiuravano, ecc.”. Qui il male parla al plurale, mentre nel v. 28 al singolare, identificandosi con l’uomo! È infatti un potere di divisione, che trova unità solo nel nuocere e nel dividere. Qui è un’invocazione rassegnata e accomodante: non essere precipitati nell’abisso, luogo definitivo di sconfitta (cf. Ap 20,1-3; 9,1s). Chiedono una proroga: sanno di essere stati vinti. Ma anche la chiesa di Luca sa che, pur se vinti, hanno un certo raggio d’azione, circoscritto alle zone interne ed esterne ancora infedeli (cf. 1Pt 5,8s).

v. 32: “Ora c’era là un branco di parecchi porci, ecc.”. La richiesta è ascoltata. Perché questa accondiscendenza di Dio anche verso il male, se non per un bene maggiore? Prima del tempo definitivo, in cui il male sarà precipitato nell’abisso - e non ci sarà più il mare (Ap 21,1)! - c’è un tempo in cui il male opera ancora nelle zone di incredulità (At 13,6-11; 16,16ss; 19,13ss; 1Ts 2,18). In queste il cristiano è chiamato a testimoniare il suo Signore, completando quello che manca alla passione di colui che già ha vinto (Col 1,24). Così è associato al suo mistero di obbedienza, al suo mistero filiale di morte e risurrezione. Infatti “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28)! Per questo la benignità del Signore concede ai demoni di restare ancora in quella regione pagana.Così ancora oggi “la nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male, che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).

v. 33: “e si lanciò il branco dal declivo nel lago”. Il male esce da chi ha incontrato il Signore. Dove giunge la sua presenza, il demonio se ne va. Si ritirerà definitivamente nell’abisso quando il suo Nome sarà annunciato a tutte le genti!Segno dell’uscita è il precipitare dei porci nell’acqua. Non è che gli spiriti affoghino; il mare è la loro abitazione! È invece alluso ciò che capiterà alla fine: precipiteranno nell’abisso come i porci. La fine, che i discepoli temevano sulla barca. è riservata al loro nemico.

vv. 34-35: “Ora, visto i pastori il fatto, fuggirono, ecc.”. C’è un’analogia tra questa scena e l’annuncio ai pastori il giorno di natale (2,8-20), con espressioni comuni: “andiamo” (v. 22; 2,15), “ciò che è avvenuto” (vv. 34-35; 2,15), “vennero e trovarono” (v. 35; 2,16), “salvato” (v. 36), “salvatore” (2,11), “ritornare” (vv. 37.39; 2,20), “un grande timore” (v. 37; 2,9) e altre ancora, come “vedere” e “annunciare”. I mandriani infatti, pur nella loro fuga, diventano, come i pastori, annunciatori di ciò che hanno visto. Come nel c. 2 si narra la nascita di Gesù in Israele, così qui si racconta la sua nascita in terra pagana, mediante l’annuncio di chi ha visto ciò che lui ha fatto. Al loro annuncio la gente esce per vedere il fatto: viene, trova e ha timore, perché vede l’uomo seduto, ai piedi di Gesù, nell’atteggiamento di Maria, tipo del discepolo (10,39). Colui che prima era spogliato (v. 27), come Gesù (23,11.34), ora è vestito e rinsavito. Veramente il suo sonno ha vinto il nostro sonno, la sua nudità ci ha rivestiti e la sua follia ci ha resi sani di mente!

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v. 36: “annunciarono loro quelli che videro corse, ecc.”. A coloro che, venuti sulla base del primo annuncio, vedono l’uomo salvato, i testi oculari spiegano come sia avvenuta la salvezza (cf. 1,24).

v. 37: “E domandò a lui, ecc.”. Gesù viene allontanato. Non è ancora giunto il momento della missione fra i pagani, riservata ai discepoli negli Atti! Essi continueranno l’opera che Gesù ha compiuto in Israele e già iniziata tra di loro. Per questo egli ritorna sul suo cammino verso Gerusalemme, che ancora non è compiuto, per aprirlo a ogni carne.

v. 38: “Ora implorava l’uomo, ecc.”. L’uomo liberato prega Gesù di stare “con lui”, come i Dodici di 8,1! Ma Gesù lo rimanda tra i suoi, come anticipo di quella che sarà la missione tra i pagani di cui saranno incaricati i discepoli dopo l’ascensione.

v. 39: “racconta quanto per te fece Dio”. La missione è racconto, testimonianza di salvezza. Quest’uomo è inviato perché già è stato liberato dal male, a differenza dei discepoli. L’annuncio è sempre di un’esperienza personale. Ciò che sei grida più forte di ciò che dici! Solo quando avrai fatto l’esperienza di ciò che Gesù ha fatto “per te” sarai in grado di rispondere alla domanda chi è lui per te!

“quanto fece per lui Gesù”. L’azione che Gesù attribuisce a Dio, ora è attribuita a lui. Il testo suggerisce la risposta vera alla domanda sull’identità di Gesù: egli è Dio. Tale identificazione è avviata da Gesù stesso che attribuisce a Dio la propria azione. L’uomo da solo non giungerebbe mai a tanto.Così Gesù stesso dà inizio alla missione tra i pagani. È promessa di quella messe abbondante che Luca ci mostrerà nel secondo libro.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il pendio del monte sul lago, dove pascolano i porci.c. Chiedo ciò che voglio: liberarmi dallo spirito di morte che è in me e si oppone a te; liberarmi dalla paura del bene e dalla resistenza ad affidare a te la mia vita e la mia morte.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- dimorava nei sepolcri- legato con catene e ceppi- legione- preghiera dei demoni- preghiera dei mandriani- preghiera dell’ex-indemoniato- essere con lui- essere inviato- annunciare la propria esperienza.

4. Passi utili

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Sal 130; Is 38,10-20; Eb 2,14; Mc 3,14.

48. CHI È COLUI CHE MI HA TOCCATO?

(8,40-56)

40 Ora, mentre Gesù ritornava, lo accolse la folla: erano infatti tutti in attesa di lui.41 Ed ecco: venne un uomo di nome Giairo,ed egli era capo della sinagoga, e, cadendo ai piedi di Gesù, lo implorava di entrare nella sua casa,42 poiché aveva una figlia unigenita, di circa dodici anni,ed essa moriva.E mentre lui se ne andava, le folle lo soffocavano.43 E una donna,che era in flusso di sangue da anni dodici,- una che, avendo sperperato con medici tutta la sua vita,non poté da nessuno essere curata -44 avanzatasi dietrotoccò la frangia del suo mantello, e subito si arrestòil flusso del suo sangue.45 E Gesù disse:Chi è colui che mi ha toccato?Ora, negando tutti, disse Pietro:Maestro,le folle ti comprimono e schiacciano! 46 Ora Gesù disse:Qualcuno mi toccò perché io avvertiiuna forza uscita da me.47 Ora, visto la donnache non era rimasta nascosta, tremante venne, e, cadendo innanzi a lui, annunciò davanti a tutto il popolo,

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per quale motivo lo toccò e come fu guarita all’istante.48 Ora disse a lei:Figlia,la tua fede ti ha salvata. Cammina verso la pace.49 Mentre egli ancora parlava,arriva un tale da presso l’arcisinagogo dicendo:È morta la tua figlia;non disturbare più il Maestro! 50 Ora, udito Gesù, gli rispose:Non temere,solo credi ancorae sarà salvata!51 Ora giunto nella casanon permise che entrasse nessuno con lui, se non Pietro Giovanni e Giacomo e il padre della fanciulla e la madre. 52 Ora piangevano tuttie si battevano per lei.Ora disse:Non piangete,poiché non è morta,ma dorme!53 E lo irridevano,sapendo che è morta.54 Ora egli, presa la sua mano,sgridò dicendo:O fanciulla,destati!55 E ritornò lo spirito su di lei,e s’alzò subito,e ordinò di darle da mangiare.56 Ed erano fuori di sé i suoi genitori. Ora egli comandò lorodi non dire a nessuno il fatto.

1. Messaggio nel contesto

È un racconto a sandwich, che continua la risposta alla domanda dei discepoli sulla barca: “Chi è dunque costui?” (v. 25). Egli è colui che, caduto nel sonno e ridestato, sa liberare dal male e risvegliare dal sonno tutti i morti. Per la sua morte e risurrezione, come ha potere sul cielo, sul mare e sul male, così ha anche potere sulla malattia e sulla morte.I due miracoli, quello dell’emorroissa e quello della figlia di Giairo, si illustrano a vicenda. Il primo indica che cosa sia la fede, il secondo come la fede vinca la morte. La fede consiste nel “toccare

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Gesù”. È un tocco che sprigiona da lui la dynamis dello Spirito e dà la vita. In 7,36-50, attraverso i gesti di amore riverente della peccatrice, si spiega meglio in che cosa consista questo “toccare” Gesù. L’uomo è morto se non incontra il proprio volto nel Signore, perché è fatto per lui, a sua immagine e somiglianza: senza di lui, non esiste e toccarlo significa incontrarlo, cioè amarlo e unirsi a lui che è la nostra vita. Il miracolo dell’emorroissa, incorniciato da una duplice menzione della morte (vv. 42.49), è incluso in quello della figlia di Giairo. Questo vuole illustrare come tale fede liberi dalla morte stessa, prima temuta e poi avvenuta. È il messaggio centrale della fede cristiana: il passaggio alla vita attraverso la morte, la certezza della risurrezione.Questo passaggio avviene nell’esperienza battesimale che è un “toccare” Gesù in modo tale da essere uniti e immedesimati in lui che ha dormito nella morte e si è svegliato nella risurrezione.Le due figure femminili, delle quali una soffre di malattia mortale da quando la più giovane è nata, possono essere figura dell’Israele antico e nuovo. La prima infatti è chiamata “figlia”. Ricorda l’appellativo: “Figlia di Sion” o “Figlia del mio popolo” (Ger 4,31; 6,2.23.26; 8,19.21.22.23...). La seconda è chiamata paîs (v. 54), che vuol dire figlio/a e servo/a. Richiama Gesù stesso, il servo morto e risorto (Cf. At 3,13.26; 4,27.30).Nell’incontrare e toccare Gesù, l’antico Israele è guarito dalla sua malattia mortale. Riceve la salvezza attesa, che nessun medico poteva dargli, se non il suo Dio, il suo sposo, perché è malato d’amore (Ct 5,8). La giovane fanciulla, di dodici anni, in età da marito, risvegliata (Cf. Ct 8,5b) è il nuovo Israele, la sposa che rivive e gioisce nell’unirsi al suo sposo e Signore (Is 62,5). C’è una progressiva sovraimpressione di figure, prodotta dal “toccare” della fede, che porta a unirsi e a identificarsi: sembra infatti che al tocco di Gesù la donna malata diventi la giovane sposa: e la giovane sposa, dormiente e risuscitata al tocco dell’amato, si unisce e si identifica a lui, il paîs morto e risorto.Questo racconto lascia trasparire totalmente il mistero pasquale di sonno-risveglio di Gesù al quale i discepoli sono associati mediante il battesimo. Esso infatti ci unisce a lui (Rm 6,3-11) e ci fa realmente “corpo di Cristo” (1Cor 12,12-27): entriamo a far parte della sua famiglia (v. 21), ci è data la conoscenza dei misteri del Regno (v. 10) ed entriamo nell’abisso di amore reciproco Padre/Figlio che il Figlio ci ha comunicato (Cf. 10,22).

2. Lettura del testo

v. 40: “Ora, mentre Gesù ritornava, ecc.”. La chiave di lettura del racconto sta nei due verbi “attendere” e “accogliere” Gesù che ritorna. La folla, che lo accoglie perché lo attende, richiama il popolo fedele che aspetta il suo Signore e lo accoglie di ritorno dalle nozze (12,35ss). I due verbi “attendere” e “accogliere” sono parenti stretti: l’attesa genera l’accoglienza e si accoglie solo chi si attende. La fede e il “toccare” di cui si parlerà dopo è proprio “accogliere”, lasciar spazio e abbracciare colui che si desidera e si spera.Israele è il popolo dell’attesa, sposato a una promessa di cui attende il compimento. Senza l’arrivo dello sposo, resta un’attesa vuota, quasi una vedovanza che porta a deperimento e morte chi aspetta. L’attesa messianica di Israele troverà la sua pienezza di vita nell’accogliere Gesù, lo sposo (cf. 5,33s).

vv. 41.42: “Ed ecco: venne un uomo di nome Giairo, ecc.”. “Giairo” significa “egli brillerà” o “egli susciterà”. È “capo della sinagoga”, “ha una figlia di circa dodici anni” cioè in età da marito, “unigenita” che “moriva” e “implora” Gesù di “entrare nella sua casa”. È la situazione di Israele: nella sua casa, invece della danza nuziale e dell’amore promesso, c’è pianto e morte, perché non è ancora giunto lo sposo. La sposa infatti è malata d’amore (Ct 2,5) e la sua malattia è mortale, perché la sua vita è amare lo sposo (Cf. Dt 6,5; 30,20). Questa situazione, di cui Israele è cosciente per la promessa,

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è di tutti. L’uomo, essendo immagine e somiglianza di Dio, solo in lui trova se stesso. Fatto per diventare ciò che ama, solo amando lui diventa se stesso e trova la propria vita. Da qui il primo comandamento, che lo costituisce come risposta all’amore di Dio per lui. Al di fuori di questo rimane insaziato e morto e vive una morte progressiva, come la donna.Mentre Marco dice che la fanciulla fu risuscitata “perché aveva 12 anni” (Mc 5,42) - sottolinea così che è giunto il tempo delle nozze, perché “tempo è compiuto” (Mc 1,15) - Luca annota che essa aveva “circa 12 anni”: essa vive cioè nell’anno dell’incontro con lo sposo che la fa vivere. Luca accentua il prolungarsi del tempo del compimento che diventa storia della salvezza.In questa fanciulla è visibile il dramma fondamentale di ogni uomo senza Dio: la sua vita è un’anticipazione della fine, una continua attesa della morte, incubo di tutta la vita: l’unica malattia mortale è la vita! Questo tipo di esperienza entrò nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24), mediante il peccato (Rm 5,12), di cui è stipendio (Rm 6,23).

v. 43: “E una donna, ecc.”. Questa donna già adulta, che Gesù chiama “figlia”, è figura della figlia di Sion: essa è impura e malata, in attesa di Dio, il suo medico che la cura (Cf. Sal 103,3s; Os 6,1; 7,1; Is 19,22; 30,26; 61,1; Ger 17,14; 30,17; 33,6), il suo sposo che la purifica (Cf. Ez 16; 36,25ss). L’impurità di Israele consiste nella contaminazione dell’idolatria, tipica di chi non conosce e non ama il Signore come dice il primo comandamento. Quest’impurità si manifesta come emorragia: è perdita di vita, di sangue. Infatti l’uomo che non ama Dio perde se stesso e versa a terra la propria vita, perché è fatto per unirsi a lui e per niente di meno: ha abbandonato la sorgente di acqua viva e si è scavato una cisterna, una cisterna screpolata che non contiene acqua, se non morta e che defluisce (Ger 2,13). Da sempre, cioè da 12 anni, Israele è impuro e infedele (Cf. Ez 16; Os 11,1ss); per questo soffre di emorragia mortale - come ogni uomo, di cui Israele è la luce e la coscienza. Nessuno è in grado di guarirla da questo male di vivere. Come gli adulteri con gli idoli l’hanno resa immonda, così solo l’incontro con lo sposo la purificherà. La sua impurità sanguinante sarà sanata da lui, vero medico. Tutti i palliativi non sono serviti a niente: le sono anzi costati la vita e sono risultati più dannosi che inutili. I vari tentativi dell’uomo di salvarsi senza Dio, sono necessariamente fallimentari! E non a caso: sono la causa stessa del fallimento! L’uomo infatti è bisogno assoluto di Dio. Questo lo distingue dall’animale e lo rende capace di libertà e di amore. Cercare altrove che in lui la soddisfazione di questo bisogno, è proprio quell’idolatria che gli fa perdere la vita e lo fa fallire nella libertà e nell’amore.

v. 44: “avanzatasi dietro toccò, ecc.”. Mentre è Gesù che “tocca” il lebbroso (5,13) e il figlio della vedova (7,14), qui, come in 7,39 - altra donna impura! - è la donna che “lo tocca”. In questi due casi Gesù parla di fede/salvezza/pace. La fede è infatti “toccare” colui che per primo ci ha “toccato”, quando eravamo ancora suoi nemici e morti per i nostri peccati (Rm 5,6-11). La fede è amare colui che per primo ci ha amati, accogliere colui che ci ha da sempre accolti, attendere e invocare colui che dall’eternità è proteso verso di noi e ci chiama (cf. Gn 3,9), perché la sua delizia è stare con i figli dell’uomo (Pr 8,31b). Questa donna non tocca lui e neanche il suo vestito, bensì solo la frangia di quello stesso mantello che Cristo ci lascerà in eredità ai piedi della croce, con tutto il resto (cf. 23,34). Così la nostra debolezza non è più rivestita di foglie di fico, ma dalla mano stessa di Dio, che si spoglia del proprio vestito per gettarlo sulla nostra nudità.Al “tocco” della veste si arresta l’impurità della donna, cessa la perdita di vita. Ha infatti trovato lo sposo di sangue, che la sana, la purifica e la fa sua, coprendola con il suo mantello (cf. Ez 16,8). Per Israele, come per ogni uomo, toccare la veste di Cristo che muore in croce è toccare la fedeltà stessa di Dio che guarisce da ogni idolatria e infedeltà, è congiungersi, attraverso la sua morte, allo sposo che fino a quel punto ci ha amati e ci è venuto incontro.

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v. 45: “Chi è colui che mi ha toccato?”. Toccare la sua veste è in realtà toccare Gesù stesso. Per noi che non l’abbiamo visto, la sua veste sta al suo corpo come la sua parola sta a lui (cf. 7,7). Tutti negano di averlo toccato. E giustamente! Perché, come dice Pietro, le folle lo “comprimono” e lo “schiacciano” come prima lo “soffocavano” (v. 42).

v. 46: “avvertii una forza uscita da me”. Qui Gesù spiega il perché della sua domanda: c’è un “toccare” che non è opprimere, schiacciare e soffocare, ma che è un’attesa e un bisogno di lui, un essere disposti ad accogliere la “dýnamis” di vita che esce da lui. Non è una specie di magia che fa scoccare la scintilla, ma è la necessità e il bisogno stesso, che si fanno mani per accogliere il dono e braccia per abbracciarlo. Solo la miseria riconosciuta attende e raccoglie la misericordia conosciuta: la strappa quasi e l’attira a sé, mentre essa vi accorre spontanea come l’acqua va nella buca. Questa potenza che si sprigiona al tocco della veste di Gesù è già accennata in 5,17 e 6,19: è Dio stesso a servizio della vita dell’uomo.

v. 47: “ Ora, visto la donna, ecc.”. La fede della donna e la salvezza che ne consegue non può restare nascosta. Tremante, esce alla luce; adorante ai piedi di Gesù, si fa confessante davanti a tutto il popolo. È la tensione missionaria di Luca, che vediamo anche al v. 39 (cf. 17,17). Essa annuncia la propria miseria e la sua misericordia, dice il motivo per cui l’ha toccato e il dono che ha ricevuto, annuncia il suo bisogno del medico e dello sposo e l’istantanea guarigione al tocco di Gesù. Cosa sia questo “tocco” lo si vede bene in 7,38.39.44-47. È un reale unirsi a lui: la causa è il bisogno, l’effetto è la salvezza e la pace.

v. 48: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Cammina verso la pace”. Questa donna è ora chiamata “figlia”: è la “figlia di Sion”, che ormai nessuno “chiamerà più abbandonata”, perché ha trovato il suo sposo. Inizia finalmente la gioia reciproca (cf. Is 61,10-62,5): lo tocca e si unisce a lui. Questa è la fede che salva (cf. anche 7,50; 17,19; 18,42). L’espressione: “cammina verso la pace” (cf. 7,50) indica che ha trovato quella luce, di cui parla Zaccaria, che dirige i nostri passi sulle vie della pace (1,79). È la pace che fu donata a tutti gli uomini con la nascita di Gesù (2,14) e che Gerusalemme non ha compreso (19,42). La donna ora non guarda più le sue ferite: è guarita perché gioisce della voce dello sposo.

v. 49: “È morta la tua figlia; non disturbare più il Maestro”. Davanti alla malattia si può avere la speranza. Ma davanti alla morte della sposa, che cosa può fare Dio? Di fronte ad essa si infrange ogni attesa, inutile “disturbare” il Maestro. Finché c’è vita, c’è speranza. Ma solo umana! Quella divina inizia quando cessa la vita e sperare diviene impossibile. Perché è nell’impossibile che Dio agisce. È qui che lo si riconosce tale: “Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri” (Ez 37,13). La fede è nel Signore che dà la vita e riguarda la salvezza non da un male qualunque, ma dal nemico estremo, la morte, che è vinta (cf. 1Cor 15,26). Diversamente vana è la nostra fede (1Cor 15,16-19). Chi non crede che Dio fa risorgere, è “in grave errore”, e non conosce “le Scritture e la dýnarnis di Dio” (Mc 12,24).

v. 50: “Non temere, solo credi ancora e sarà salvata”. Davanti alla morte Gesù dice: “Non temere”. È proprio lì che c’è da aver fiducia, non altrove, come i discepoli al v. 25: lì è il luogo in cui credere. “Solo credi”, perché lì c’è spazio ancora solo per la possibilità della fede, e per niente altro. Ma in chi c’è da “credere”? In Gesù, che dorme e si risveglia! E che cosa c’è da credere? Che il suo sonno ci salva! Ma non dalla morte, bensì nella morte. Il sonno è il luogo del risveglio. Per questo la fanciulla

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è morta e viene destata! Infatti, per il “tocco” della fede, siamo uniti a lui, nello stesso mistero di morte e risurrezione: siamo morti con lui, nella certezza del suo amore che è più forte degli inferi (Ct 8,6s).

v. 51: “Ora giunto nella casa, ecc.”. Con Gesù entrano i tre discepoli che vedranno la trasfigurazione sul Tabor (9,28) e la sfigurazione nel Getsernani (Mc 14,33), con il padre e la madre. Sono i testimoni, amici dello sposo, che presentano alla sposa lo sposo che la sveglia. Dormiva anche Adamo, quando non aveva la sposa (Gn 2,21), come dormirà il nuovo Adamo per risvegliare quella sposa che si era addormentata nell’infedeltà (cf. Gv 19,25ss). È da notare che ci sono sei persone, con la sposa che dorme, fino a quando non si accoglie l’atteso, Gesù, che è la settima persona.

v. 52: “Non piangete, poiché non è morta, ma dorme”. Davanti alla morte l’uomo non fa che piangere, espressione di ribellione impotente e di sconfitta amara. Gesù dà un imperativo assurdo: “Non piangete” (cf. 7,13), come disse al paralitico: “Cammina” (5,24), al lebbroso: “Sii purificato” (5,13) e a quello della mano inaridita: “Distendi la mano” (6,10). È il comando assurdo dell’obbedienza di fede in colui al quale nulla è impossibile (1,37)!Infatti la fanciulla “non è morta, ma dorme”. In verità la morte col risveglio non può chiamarsi più morte. È solo sonno e riposo! La nostra morte effettiva è la mancata unione con Dio, di cui siamo immagine e somiglianza. Ma in Gesù Dio è giunto e ci risveglia. Proprio mentre “dormiamo”, ci raggiunge colui che già prima è “caduto dal sonno” (v. 23) per noi; e lì, nell’abisso, ci accoglie e ci riporta a terra, sull’altra sponda. La morte, pur reale, è sdrammatizzata. Con la presenza dello sposo, il servo morto/risorto, essa ha perso il suo pungiglione che avvelenava tutta la vita (1Cor 15,56); non possiamo più sospettare che Dio non ci ami, non possiamo più cadere nella sfiducia che ci abbandoni nel nostro male.

v. 53: “E lo irridevano.”. L’uomo davanti alla morte, oltre che piangere, non può che irridere per disperazione colui che dichiara di vincerla (cf. At 17,32). Nessuno può aver fede e conoscere l’amore di Dio prima della sua morte in croce, prima del suo sonno e del suo risveglio!

v. 54: “Ora egli, presa la sua mano, ecc.”. Gesù prende la sua mano, quasi sposo che impalma la sposa (non la “tende” come in 5,13) e sveglia la dormiente. È giunto il momento del risveglio, è finito il sonno dell’attesa. È da notare che, incluso in questo racconto, c’è il racconto della donna che “tocca” e così “accoglie” colui che “aspetta”. Se la sposa che non va svegliata finché essa non lo voglia, cioè prima del tempo delle nozze (cf. Ct 2,7; 3,5; 5,2; 8,4), ora può essere ben svegliata, perché in questo “tocco” è presente ormai colui che desidera e può salire “dal deserto appoggiata al suo diletto” che sotto il melo l’ha svegliata, in casa di sua madre (Ct 8,5).La fanciulla è chiamata da Gesù país, che significa anche servo. Titolo di Israele nel Secondo-Isaia, è anche quello di Gesù, servo obbediente morto e risorto. A lei si applicano le stesse parole che indicano la sua morte e risurrezione. C’è una specie di sovraimpressione, quasi identificazione nell’unico destino di sonno e risveglio: è la comunione di amore, che fa dei due una carne sola. Per la fede battesimale, non diventiamo davvero corpo del Signore?

v. 55: “E ritornò lo spirito su di lei, ecc.”. È lo Spirito stesso di cui Gesù fu ripieno (cf. 3,22; 4,1) e che consegnò al Padre, riportandolo alla sorgente da cui scaturisce (cf. 23,46). Non si tratta di un semplice vivere di nuovo, ma di un vivere nuovo, in forza dello Spirito ricevuto e donato, che va oltre la morte alla fonte della vita.

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La risurrezione e la guarigione avvengono ambedue “subito” e in qualche modo si identificano per il tema comune: vita/morte è infatti uguale a sangue/ perdita di sangue.

“ordinò di darle da mangiare”. (cf. 9,13). Questo dettaglio indica non solo la realtà fisica della risurrezione - non è un fantasma (cf. 24,41ss) - ma anche il banchetto nuziale messianico, in cui Dio eliminerà per sempre la morte (Is 25,6-9). Questo banchetto si realizzerà, subito dopo la missione dei Dodici, nel dono del pane, simbolo dell’eucaristia (9,10ss). Dopo che, per la fede, nel battesimo siamo uniti a lui morto e risorto, viviamo per lui e di lui, che è il pane che ci apre gli occhi (cf. 24,31) e ci introduce nei misteri del Regno.I genitori probabilmente non comprendono, ma sono “fuori di sé”: se comprendessero sarebbero già dentro il mistero. Ora devono ancora tacere. Capiranno il mistero dopo il sonno/risveglio di Gesù, che realizzerà la risurrezione per tutti. Qui è solo un anticipo riservato alla fanciulla, figura di ciò che sarà.Capiranno anche - e questo sarà più duro - che è proprio attraverso il suo sonno che lui è vicino e opera il risveglio. Questo sarà quanto capisce uno dei due ladroni (23,39-43) e quanto il Gesù risorto spiegherà ai discepoli (24.25-27.44-46).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo osservando il luogo: sulla sponda ovest del lago, in cammino verso la casa di Giairo.c. Chiedo ciò che voglio: la fede che salva, toccare Gesù ed entrare in dialogo con lui, morto e risorto per me.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- la preghiera di Giairo per la figlia di dodici anni morente- le folle che soffocano- cosa fa la donna che da dodici anni perde sangue- la reazione di Gesù, la risposta di Pietro e quella della donna- le varie reazioni davanti alla morte della fanciulla- le parole e i gesti di Gesù.

4. Passi utili

Sap 1,13-15; 2,23s; Sal 45; 1Re 17,17-24; 2Re 4,8-37; Lc 7,11-17; 7,36-50; 18,35-43; Rm 6,3-11.

49. LI INVIÒ A PROCLAMARE IL REGNO DI DIO E A GUARIRE

(9,1-6)

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9 1 Ora, convocati i Dodici,diede loro potenza e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie.2 E li inviòa proclamare il regno di Dioe a guarire (gli infermi).3 E disse loro:Nulla prendete per il cammino:né bastone,né bisaccia,né pane,né denaro,né due tuniche abbiate!4 E in qualunque casa entrerete,là dimoratee da là uscite.5 E quando non vi accoglieranno,usciti da quella città,scuotete via la polvere dai vostri piedi in testimonianza su di loro.6 Ora, usciti,passavano per i villaggi,evangelizzando e guarendo in ogni luogo.

1. Messaggio nel contesto

La presente sezione, che va da 9,1 a 9,50, è tutta sottesa dalla domanda prelusa in 8,25: “Chi è dunque costui” che esige ascolto? Abbiamo visto che a lui obbediscono cielo e abisso, male, malattia e morte. Ora vediamo che invia i Dodici per radunare il popolo nel deserto e lì lo sazia (vv. 1-17). La risposta non può essere che ovvia: è il Kýrios della creazione e dell’esodo! La risposta viene a fuoco incrociato dai nemici (vv. 7-9), dal popolo (vv. 18-19), dai discepoli (v. 20), da Gesù stesso (vv. 22.26.44) e infine dal Padre (v. 35), che conferma la risposta del Figlio e il suo rimprovero ai discepoli del v. 21. La testimonianza di Gesù taglia netto con tutte le false attese messianiche, mentre la testimonianza del Padre porta il dibattito cristologico su un piano superiore e insospettato: il messia atteso è in realtà l’inatteso, perché ignorato, Figlio di Dio.Gesù istruisce i Dodici sui misteri del Regno, che solo dopo la fine del viaggio a Gerusalemme saranno in grado di comprendere. Questa sezione ha come cornice il servizio dei discepoli inviati e servi del pane (vv. 1-17) e le istruzioni di come debbano esercitare il loro servizio (vv. 46-50); al centro sta la rivelazione di Gesù nel suo mistero di sofferenza (vv. 18-22.43b-45) e di gloria (vv. 28-36), con le condizioni per i discepoli che vogliono essere associati a lui nella croce (vv. 23-27) e nella gloria (vv. 37-43a).Se nel c. 8 i discepoli ascoltano e vedono soltanto, ora, nel c. 9, dopo il battesimo sulla barca, sono direttamente coinvolti nel destino di Gesù, nella sua missione, nel servizio del pane, nella croce e nella

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gloria: il battesimo li ha associati a lui. È solo in questo coinvolgimento che si può capire a fondo chi è lui, entrare nel suo mistero ed essere trascinati con lui nel suo viaggio a Gerusalemme, che costituisce la seconda parte del Vangelo.Il tema dell’“ascolto”, che domina tutta la prima parte, ha il suo principio e il suo termine nel “lui ascoltate” del Padre (9,35), che fa “vedere” la gloria di colui che è da ascoltare. Chi lo ascolta e fa la sua parola, lo vede trasfigurato. Se l’ascolto ha come fine la sequela, la sequela ha come fine la visione. La parola, che entra dall’orecchio nel cuore, muove mani e piedi, perché gli occhi giungano a vedere colui di cui si è udita la voce.Questo brano segna l’inizio dell’opera dei discepoli chiamati da Gesù a continuare la sua stessa opera. Da lui e come lui, anch’essi sono inviati. Fine di questa e di ogni missione sarà l’eucaristia, il servizio del pane di Vita - come fine del servizio di Cristo fu il dono del suo corpo. In 10,21s si mostra come tale dono introduce nella vita stessa di Dio, l’amore Padre/Figlio. Da qui si coglie la centralità dell’eucaristia nella vita della chiesa: in essa noi ripresentiamo “oggi” al Padre il suo Figlio donato a noi; e in lui presentiamo al Padre noi stessi, che di questo dono mangiamo e viviamo. È il pane che Gesù, il medico/sposo, ha ordinato che sia dato alla fanciulla risuscitata (8,55).In 5,1-11.27s Gesù chiama i discepoli alla sequela. In 6,12-16 sceglie tra questi i Dodici e inizia una lunga formazione (fino a 8,56), che ha come capisaldi l’ascolto e lo stare con lui in una verifica costante. Ora i Dodici sono chiamati una terza volta, per essere effettivamente inviati a continuare la sua stessa missione che termina nell’eucaristia. Luca pone l’inizio del ministero dei Dodici nel tempo del Gesù terreno e vede in esso prefigurata e fondata la chiesa. Questa prolunga oggi nello spazio e nel tempo la sua opera, con lo stesso potere e la stessa autorità. In 10,1ss c’è un altro invio analogo, di altri 72 (70) discepoli. Luca intende le due missioni in una certa continuità, come quella tra fondazione ed edificio. In quella dei Dodici si compie la promessa a Israele e alle sue 12 tribù; in quella dei 72 (70) essa si apre a tutti i popoli della terra.Le consegne che Gesù dà ai Dodici servono da “breviario di viaggio” o “viatico” per la missione della chiesa. Contengono l’avvertimento unico che Gesù dà sulla missione. Esso consiste in un imperativo negativo: “non prendete” (seguito da cinque specificazioni: “né... né...) più l’ordine di “dimorare” o di “scuotere la polvere”. Il termine “uscire” ricorre ben tre volte e indica la realtà della missione. Le parole di Gesù non riguardano l’oggetto dell’annuncio. Esso è ovvio: è il regno di Dio, udito e visto in lui, è lui stesso! Ciò che non è ovvio e su cui Gesù insiste, è “come” deve vivere e presentarsi chi annuncia. Per noi l’importante non è cosa dire, che non dipende da noi, ma come essere, per non contraddire con la vita ciò che annunciamo con la bocca. Ciò che sei fa da cassa di risonanza a ciò che dici. Questo brano ci dà praticamente la carta d’identità degli inviati: devono riprodurre i lineamenti di chi li invia. Tant’è vero che è l’unico discorso sulla missione, ribadito totalmente in 10,1ss! Non tenerne conto come norma fondamentale per l’evangelizzatore è per lo meno temerario. Sarebbe disprezzare il Signore che così ha “ordinato” (Mc 6,8), sapendo che noi avremmo fatto diversamente! Non sono consigli, ma ordini. Non è che la fede di chi ascolta dipenda dalla credibilità di chi annuncia. La Parola è viva ed efficace di per sé. Chi annuncia però ha il tragico potere, per quanto sta in lui, di offuscare o annullare l’annuncio: se non ha il potere di renderlo credibile, è tuttavia in grado di renderlo incredibile. È la responsabilità dell’uomo, il quale, non essendo Dio, non può dare la vita; è però in grado di dare la morte a ciò che vive. Il discernimento apostolico (cf. le tentazioni!) non riguarda tanto le priorità apostoliche o le analisi accurate delle situazioni, anche se sono utili o necessarie, e non riguarda per sé neanche l’oggetto della missione, ma il “come” realizzarla.Questo “come” è la povertà, l’umiliazione e il fallimento che ne conseguono. È associazione al Cristo e alla sua stessa fiducia filiale nel Padre che solo riscatta dalla morte. Se non osservo questo “come” nell’evangelizzazione, direbbe s. Ignazio, non sto militando sotto il vessillo di Cristo, bensì sotto quello del nemico - al di là di ogni buona intenzione o protesta contraria! Il male, sempre fatto a fin di

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bene, deriva dal non aver usato gli strumenti adeguati. Per il discepolo, lo strumento adeguato è la croce del suo Signore, che ha salvato il mondo.Sullo sfondo di questo brano sta la figura del servo di Eliseo, Ghecazi (2Re 4,29; 5,20-27). Ai discepoli che non osservano la parola del Signore capita come a lui, il servo infedele, che si caricò della lebbra da cui il suo padrone aveva liberato il pagano. Quando, nel momento della prova, cambieranno i tempi (cf. 22,35-38), allora si comprenderanno meglio le esigenze di questo modo di andare in missione e la sua normatività.

2. Lettura del testo

v. 1: “Ora, convocati i Dodici”. Singolarmente (o a coppia) chiamati a seguirlo (5,1-11.27s) e scelti come apostoli (6,13), ora i Dodici sono “con-vocati”, chiamati insieme per essere “inviati” (apostoli). In questi Dodici è già la comunità, la chiesa stessa, che è inviata. Come vero Israele obbediente, che fa parte della famiglia di Dio (8,21), sono inviati in “potenza e autorità” a chiamare gli altri a far parte della stessa famiglia. Essendo stati convocati da Gesù, a loro volta convocano nel suo nome. Il fine di questa convocazione sarà il pasto che Gesù offrirà nel deserto. Mentre in Marco vengono mandati a due a due, in Luca si sottolinea di più la missione collegiale dei Dodici (cf. At 1,2.26; 2,37-42; 4,33.35-36; 5,2.12-40; 6,2; 8,1.14; 9,27; 11,1; 15,2-29; 16,4).

“diede loro potenza e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie, ecc.”. I verbi all’aoristo indicano la peculiarità di questa missione dei Dodici, operata durante il ministero stesso di Gesù.La “potenza” (dýnamis) che Gesù dona ai suoi discepoli (cf. 24,49) è la potenza dello Spirito di Dio che a lui è propria, con la quale vince il male e cura i malati (4,14.36; 5,17; 6,19; 8,46). L’“autorità” (exousía) che dona loro (cf. 10,19) è in contrapposizione a quella di satana (cf. 4,32.36), e porta la remissione dei peccati (5,24; cf. 24,47). Questa “potenza e autorità” è su “tutti i demoni”. Nessun male e nessuna specie di maligno è in grado di vincere il discepolo che ha fede davvero (cf. invece At 19,13ss). Questa potenza e autorità è in grado di “curare le malattie” dell’uomo (4,40; 6,18; 7,21).

v. 2: “li inviò a proclamare il regno di Dio e a guarire”. L’invio (missione o apostolato, rispettivamente dal latino o dal greco) è il fondamento della fede cristiana. Come il Figlio, che conosce l’amore del Padre, è inviato a comunicarlo ai fratelli, così ognuno di noi, in prima persona, nella misura in cui è figlio, è inviato ai fratelli. La testimonianza della fede e dell’amore non è riservato solo a qualche privilegiato. È propria di tutti e di ciascuno, ognuno secondo il proprio dono. Qualcuno poi è chiamato a vivere esplicitamente a tempo pieno il carisma apostolico. La missione è direttamente intesa a “proclamare il regno di Dio e a guarire”. È un annuncio efficace del Regno, di cui le guarigioni sono segno, come per Gesù (5,24; 7,21ss). Queste autenticano “il vero apostolo” e lo distinguono dagli altri, pur legittimi predicatori, ma non “veri apostoli” (cf. 2Cor 12,12; Mt 10,8; Mc 16,17)? Circa la connessione tra ascolto e guarigione vedi 6,18.

v. 3: “Nulla prendete”. Questo imperativo che ordina di “prendere nulla” è seguito da cinque “né”, che lo specificano. Questo “nulla” è il principio del discorso apostolico, che proprio così si apre. A chi non accetta questo inizio resta chiuso. È l’unico discorso di Gesù sulla missione, ribadito in 10,1ss. Ignorarlo o trascurarlo è ignorare e trascurare il Signore. Il motivo unico di questa povertà, richiesta ai discepoli e che i discepoli effettivamente vivono (cf. At 3,6), è che il Signore l’ha richiesta e l’ha vissuta per primo. È possibile viverla solo come suo dono, concesso a chi conosce “la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per

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mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Non c’è altro motivo. Per questo in Mc 6,8 Gesù “ordinò” questa povertà, sapendo che umanamente non siamo in grado di comprenderla né di attuarla: si ordinano infatti solo quelle cose che o non si capiscono o, anche se si capiscono, non si vogliono. È solo sulla sua parola che così crediamo e così facciamo. Possiamo, dalla vita di Gesù, soprattutto dal suo battesimo, dalle sue tentazioni e dalla sua morte, comprenderne la convenienza. Ma l’accettiamo e l’amiamo solo per amore suo, nel suo nome.La povertà infatti è necessaria per amare. Perché se hai cose, dai cose: solo quando hai nulla, dai te stesso, cioè ami.La povertà è segno di gratuità, principio di ogni vita e grazia, bontà e bellezza.La povertà è vittoria sull’idolo, il dio mammona che tutti cercano, facendo dei propri bisogni il proprio dio, invece che riconoscere in Dio il proprio bisogno.La povertà è fede in Dio, invece che nel dio di questo mondo (16,13).La povertà è necessaria per servire Dio (16,13).La povertà è libertà da sé e dalle cose, per essere discepolo (9,23; 14,33).La povertà costringe a servire gli altri: i poveri “devono” servire (17,10).La povertà porta umiliazione e umiltà e ci associa al vessillo di Cristo, la sua croce.La povertà è il vuoto, la condizione per accogliere l’azione di Dio: è sacramento di salvezza, per il quale egli riempie della sua grazia (1,48-53).Nei poveri Dio agisce: vedi il Magnificat e tutto il retroterra biblico, in particolare Es 3,11; 4,10s; Ger 1,6; Is 6,5; Gdc 7,2; 3,31; 1Sam 17,33-40. I discepoli eseguono alla lettera questa parola di Gesù nella loro missione dopo pentecoste (cf. At 3,1-10). Il motivo è che Dio non guarda a ciò che guarda l’uomo (1Sam 16,7) e che nessuna carne possa gloriarsi davanti a Dio (1Cor 1,28ss; Gdc 7,2; Dt 8,14.17).L’imperativo “nulla prendete per il cammino” non è negativo, ma positivo. Infatti il “nulla” che si deve “prendere” è qualcosa di preciso: questo “nulla” ci associa al suo corpo, del quale disse nell’ultima cena: “prendete” (Mc 14,22), - ci associa al corpo di Gesù, che fu “nientificato” (23,11; cf. 16,14), alla potenza della sua croce, somma di ogni nullità. Per altre cinque volte, quindi in totale per sei volte, Gesù esprime la negazione del “prendere”: 6 è il numero dell’uomo, come prendere è la sua caratteristica di fondo, perché non è, ma solo ha. Gesù nega tutte le affermazioni che l’uomo ritiene necessarie per il suo cammino. Egli cerca di “prendere” tutto perché ha perso tutto. È il cammino di Adamo, che fugge da Dio (Gerusalemme) per disobbedienza, in cerca di tutto perché di tutto bisognoso e spoglio. Invece il “cammino” del discepolo, che “nulla” prende, è quello che lo associa a Gesù che torna al Padre (Gerusalemme), obbediente alla Parola, che non ha bisogno di nulla, perché sa che il Signore è vicino a quanti lo temono e non lascia mancare nulla a chi lo cerca (12,31; 22,35; cf. Sal 34,10s). L’uomo, animal viator, necessita solo di questo nulla, che gli è bastone, tesoro, pane, denaro e vestito. È il suo viatico.

“né bastone”. Il bastone, strumento primordiale, è la sicurezza minima dell’uomo: è appoggio e difesa, ma in realtà si presta a infiniti usi di volta in volta. Può servire per ammazzare un fratello e per far da ponte a una formica su un ruscello! È negato al discepolo. L’unica sicurezza, strumento, appoggio e difesa degli apostoli è il legno della croce del Signore, prima e ultima specificazione del “nulla”: “Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (Sal 23,4b). Questo bastone, l’unico concesso al discepolo, è il suo scettro regale: una piccola cosa di legno, ma elevata a strumento supremo di dominio onnipotente sul male. Fu prefigurato nel bastone di Mosè, che aprì il Mar Rosso e fece scaturire acqua dalla roccia; fu prefigurato nel legno che addolcì le acque amare di Mara (Es 14,16; 17,5; 15,25); fu prefigurato anche nel bastone che Eliseo diede a Ghecazi: con esso, anche il

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servo può risuscitare i morti (2Re 4,29ss). Davvero la croce di Gesù è bastone, strumento, sicurezza e forza dei suoi inviati!

“né bisaccia”. La bisaccia è il deposito delle provviste per il viaggio, la riserva, il tesoro da cui attingere e dove riporre i doni che si ricevono. Ma l’inviato non può ricevere e depositare alcun dono (cf. Mt 10,8), perché ha ricevuto ben altro dono e ha un altro deposito da cui attingere: la riserva inesauribile della misericordia del suo Signore crocifisso. E può capitalizzare e aggiungere altro dono solo donando (cf. 6,35-38; 16,9). Questa è la bisaccia di cui avranno bisogno per sempre i suoi (22,36), che così si faranno un tesoro inesauribile (12,33).

“né pane”. Il pane è la vita - e l’uomo è ciò che mangia, ciò per cui e di cui vive. Il pane del discepolo non è solo quello materiale (4,4), che pure è dono del Padre (11,3), ma innanzitutto la Parola, per la quale e della quale vive. Obbedire ad essa è scegliere la vita (Dt 30,19s). Il discepolo vive di Gesù, pane che realizza ogni promessa di Dio all’uomo. L’eucaristia, cui è finalizzata la missione (vv. 10-17), è questo pane spezzato, di cui il discepolo vive e al quale chiama gli altri.

“né denaro”. Il denaro è mediatore di ogni bene. Per mezzo suo - è la più grande invenzione umana! - l’uomo disobbediente a Dio e bisognoso di tutto, ottiene tutto. Può sostituire Cristo, mediatore universale. Mentre il Figlio, in obbedienza al Padre, è mediatore universale di ogni bene e salvezza, il denaro, in disobbedienza al Padre, è mediatore universale di ogni male e perdizione. È l’alternativa al Signore: con lui, dono e misericordia, ha nulla da spartire mammona, mezzo di scambio e di appropriazione (cf. 16,13). Per questo gli apostoli, obbedendo alla parola del Signore, non hanno “argento e oro”: hanno invece “il nome di Gesù”, nel cui potere operano salvezza (At 3,6).

“né due tuniche”. Non bisogna avere due tuniche per non cadere nella condanna del Battista (3,11) e per non fare come l’infedele Ghecazi, che prende su di sé il male da cui Eliseo aveva guarito Naaman (2Re 5,20-27). Al discepolo basta una tunica. Ma quale? Quella “splendida” del suo Signore, che Erode gli mise addosso per “nientificarlo” (23,11) e che egli ci lascerà in eredità ai piedi della croce (23,34). È il suo stesso corpo dato per noi, è il suo sangue versato. Questa veste è quella prefigurata nell’Eden, quando Dio stesso rivestì la vergogna di Adamo ed Eva (Gn 3,21). Questa veste è il Figlio, del quale il battezzato “si riveste” (Gal 3,27), l’“uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,24), “che si rinnova a immagine del suo creatore” (Col 3,10).

v. 4 “E in qualunque casa entrerete, ecc.”. “Entrando” gli inviati fanno di “qualunque” luogo una “casa”. Infatti vi portano “la pace” (cf. 10,5), che ne fa uno spazio riconciliato e vivibile, in cui si può stare di casa e “dimorare”, senza più fuggire. Da cui però si “esce” per una nuova missione, per ampliare la casa fino agli estremi confini della terra, perché accolga tutti gli esuli e i fuggitivi. Questa casa - che per Gesù all’inizio altro non era che la mangiatoia per le bestie, non essendoci per lui altro posto (2,7) - è la stessa dove lui si dona come pane (22,11ss) e dove si svolgono gli ultimi capitoli del Vangelo e i primi degli Atti. È la chiesa, la vera famiglia di Gesù, dove si può “dimorare” perché si riceve il pane, si sperimenta il Risorto, si prega, si riceve il dono dello Spirito, si trovano il Padre e i fratelli e si riparte per la missione (cf. At 9,43; 16,15; 18,3... 28,30).

v. 5: “E quando non vi accoglieranno, ecc.”. A questa casa si contrappongono coloro che “non accolgono”. Solo dove si è accolti, si è di casa! La non accoglienza è rifiuto di Dio, giudizio di infedeltà. Per questo si scuote la polvere dai piedi, come in At 13,51 (cf. At 18,6). Scuotersi la polvere di dosso è il gesto del giudeo che lascia la terra infedele ed entra nella terra promessa, per non

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contaminarla. Questo rifiuto, pur essendo di valore definitivo, non è di fatto definitivo, perché può essere ritrattato. Provvidenzialmente c’è di mezzo questo tempo intermedio, tempo dell’annuncio e della pazienza di Dio, che egli, nella sua bontà, allunga a discrezione: “il Signore non ritarda nell’adempire la sua promessa (del ritorno), come certuni credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9). Questo è il motivo del prolungarsi della storia umana!

v. 6: “Ora, usciti, passavano per i villaggi, ecc.”. Il verbo “uscire” è usato tre volte nei vv. 4-6. In realtà i discepoli che ascoltano il comando di Gesù al v. 3 e lo osservano, sono di casa con lui! Sono anzi la sua casa, perché lo hanno accolto (cf. 8,21). Come lui stesso è la loro casa, perché si fa dimora di chi lo accoglie. Da questa casa i discepoli “escono” per la missione e “dis-corrono” portando la Parola in cui albergano ormai definitivamente. Così anche gli altri, accogliendola, possono essere da essa accolti. La loro missione si svolge come “evangelizzazione” e “terapia” “di villaggio in villaggio”, “ovunque”, segno della capillarità e della universalità (cf. 8,1).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che invia i Dodici.c. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore di essere mandato come lui a compiere la sua stessa missione.d. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare soprattutto come l’efficacia non è dai mezzi di efficienza, bensì dalla povertà:- potenza e autorità su tutti i demoni- curare le malattie- proclamare il regno di Dio e guarire gli infermi- nulla prendete: né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche.

4. Passi utili

Es 3,10-12; 4,10-17; 1Sam 17; Gdc 7; 2Cor 8,9; At 3,1-11.

50. CHI È COSTUI?

(9,7-9)

7 Ora ascoltò Erode il tetrarcatutto ciò che capitava,ed era perplessoperché si diceva

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da parte di alcuniche Giovanni era stato destato dai morti,8 e da alcuniche Elia era apparso,e da altriche un profeta,uno degli antichi, era risorto!9 Ora disse Erode:Giovanni, io decapitai!Ora chi è costui,di cui ascolto tali cose?E cercava di vederlo.

l. Messaggio nel contesto

Il problema dell’identità di Gesù si era aperto con la domanda del Battista (7,20). Egli è figura dell’AT, aperto alla promessa di Dio, che si interroga sul Cristo interrogando Gesù. Infatti, come il mistero di Gesù è comprensibile solo partendo dall’attesa dell’AT, così questa è comprensibile solo confrontandola con Gesù, sua realizzazione. Con Giovanni la questione riguardava più il tipo di messia da attendere: Gesù o uno diverso? Ora invece la questione è sull’identità di Gesù. Dopo aver corretto il tipo di attesa, ora bisogna riconoscere l’atteso. Là fu il Battista a domandare e Gesù a rispondere con i fatti e con le parole. Qui è il decapitatore del Battista che pretende insieme di domandare e di rispondere. Ma chi vuol rispondere alla propria domanda, non attende in realtà alcuna risposta. L’ha già decapitata! Ha solo un interesse da difendere e quindi non avrà mai la risposta vera. In Erode ci viene detto perché non siamo in grado di riconoscere il Signore e perché fallisce il nostro incontro con lui, pur avendolo “ascoltato” e desiderando “vederlo”. Chi è Gesù per Erode? Un concorrente da conoscere con curiosità, da manipolare e da uccidere! Erode ci viene presentato come maschera del male (cf. At 12,22). Egli pone se stesso al centro di tutto: ogni suo conoscere o attendere è strumentale al suo impadronirsi dell’altro. Per questo non può conoscere il Signore e farà una fine miseranda. Questo Erode è in ciascuno di noi e ci impedisce di accogliere e di riconoscere il Signore.La domanda con cui Erode chiude la ricerca (v. 9) ha lo stesso tenore della domanda con la quale i discepoli l’hanno aperta (8,25). Ma, mentre lui si interroga partendo da ciò che ha udito, curioso e pauroso, per difendersi e attaccare, i discepoli si interrogano partendo da ciò che hanno sperimentato, pieni di meraviglia e disposti ad accogliere.Questa ricerca abortita sull’identità di Gesù è un preludio alla dichiarazione di fede dei discepoli (v. 20). Mentre Erode chiede e risponde, nel caso del Battista lui domanda e Gesù risponde; nel caso dei discepoli invece Gesù domanda e questi rispondono. Con il Battista, c’è un primo movimento della fede, in cui Gesù risponde all’AT e ne chiarisce il senso. Con i discepoli c’è un secondo movimento della fede, in cui questi sono in grado di rispondere a Gesù che risponde alle Scritture. Con lui il cerchio promessa-compimento si chiude come attesa per aprirsi come pienezza di chi lo accoglie.Nel caso di Erode, come già detto, è lui stesso che si chiede e si risponde. La domanda resta quindi necessariamente inevasa. Erode - il re adultero che imprigiona e uccide il profeta (3,19s) - è figura del popolo adultero e infedele al suo Signore, che imprigiona e uccide chi lo richiama alla fedeltà. Tagliare la gola è il modo più sicuro di far tacere la parola. Per questo il suo tentativo di identificare l’atteso abortirà, anche se “ascolta tutto ciò che capita” e “cerca di vederlo”. Anzi, il suo ascolto si

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tradurrà in ricerca di lui per ucciderlo (13,31); il suo desiderio di vederlo in incontro mortale, in cui verrà “nientificato” e deriso (23,11). Questo brano è un anticipo, per contrappunto, della professione di fede dei discepoli (v. 20). Contemporaneamente è uno scorcio sul calvario, al quale Gesù giungerà proprio per l’infedeltà che impedisce di riconoscerlo.Questo brano è sommamente istruttivo per mostrare come ci rendiamo impossibile la conoscenza del Signore: pur ascoltandolo e vedendolo, non ne riconosciamo il mistero, perché non accettiamo il Battista che richiama alla conversione, anzi lo eliminiamo. Chi non è disposto a convertirsi e coinvolgersi, non comprende: solo prende la verità e la soffoca. I discepoli invece, che hanno seguito Gesù sulla barca e hanno sperimentato la sua salvezza, si sono volti a lui e stanno con lui. Lo riconosceranno allo spezzare del pane, luogo di pieno riconoscimento, dove si aprono gli occhi su di lui (cf. 24,30s).La domanda di Erode dopo la missione dei Dodici è la stessa che si porranno le varie autorità di fronte alla predicazione postpasquale dei discepoli. Se ne mostrano gli equivoci e le incomprensioni, che porteranno dall’udire e dal desiderio di vedere alla persecuzione. La vera risposta non può essere data da chi ha solo sentito parlare, senza partecipare al suo banchetto.

2. Lettura del testo

v. 7: “Ora ascoltò Erode, ecc.”. Il brano si apre con la parola “ascoltare” e termina con la parola “vedere”. Sono i due termini che contengono tutta l’esperienza di fede che Luca propone nelle due parti del suo Vangelo: attraverso l’ascolto - prima parte - si giunge a conoscere chi è Gesù per associarsi a lui, in modo da vederlo - seconda parte - nel suo viaggio a Gerusalemme, verso il Padre.In Erode si mostra come e perché c’è un ascoltare che non intende, un guardare che non vede (8,10).Il vedere si tradurrà addirittura in “nientificazione” e “disprezzo” (23,11)! Erode non è ancora re. Andrà più tardi a Roma a brigare per ricevere il titolo (l’anno 33 d.C.): è tetrarca, capo di una delle quattro parti in cui è stato diviso il territorio (cf. 3,1ss). È l’Erode di 3,19-20: biasimato dal Battista come adultero, lo fece mettere in prigione. Qui sappiamo che lo ha fatto anche decapitare. Nel Vangelo uscirà ancora in 13,31 e 23,8ss. La sua carriera di empio si concluderà in At 12,21ss. Come capo, impersona il popolo adultero di cui è figura: adultero, perché dovrebbe amare il Signore, suo sposo, con tutto il cuore (cf. Dt 6,5) e non lo fa; chiamato a conversione dal profeta, preferisce zittire la parola di Dio uccidendola, piuttosto che convertirsi. Questa è la radice dell’impossibilità a riconoscere l’identità di Cristo, l’atteso promesso da Dio: il suo cuore è chiuso a ogni intelligenza e rifiuta la medicina che lo farebbe rinsavire. Solo “chi ascolta il rimprovero acquista senno”, mentre “chi rifiuta la correzione, disprezza se stesso” (Pr 15,32). Infatti “cercherai il Signore Dio tuo, lo troverai” solo “se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 4,29). Diversamente non lo troverai. Se non si ascolta il richiamo alla conversione, è inutile ricercarlo e bramare di conoscerlo come uno “che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio” (Is 58,2). “Non ci si può prendere gioco di Dio” (Gal 6,7): l’uomo può realmente soffocare la verità nell’ingiustizia (Rm 1,18) e non trovarla più (cf. Am 8, 11s), a meno che smetta di giustificarsi e si converta.L’atteggiamento radicale sbagliato di accostarsi alla verità di Dio e alla sua parola è quello “apologetico”, che tenta a tutti i costi di giustificarsi, uccidendo la Parola stessa che accusa. Quello corretto consiste nel sentirsi peccatori, disposti a convertirsi (cf. 18,9-14). Infatti il vero peccato non è tanto il peccato stesso, quanto il non riconoscerlo e ancor più l’impedirsi di riconoscerlo. Gesù dice ai farisei: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato, ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). Tacitare la parola che lo denuncia, è spegnere la luce che lo fa vedere. Per questo

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l’uccisione del profeta è la consumazione del peccato: lo rende irreversibile, dal momento che, eliminando chi lo denuncia, toglie la possibilità di conversione.Il livello ultimo di male infatti è la “stupidità”, in cui non si distingue più il bene dal male (cf. Mc 7,22): è la cecità totale. Quando essa è cosciente, è peccato contro lo Spirito!Il rimprovero di Gesù a Gerusalemme è motivato proprio dall’uccisione dei profeti (13,34), e la causa del suo pianto, ossia della sua morte, è la conseguente incapacità a riconoscere la visita del Signore (19,41). Le donne al calvario sono chiamate a piangere su se stesse, per guarire da questa cecità (23,28ss).Erode ha quindi orecchi per udire, ma non vuole intendere; e, per garantirsi di non intendere, elimina la voce che gli fa udire. L’orecchio intende solo se la parola è in circolazione, diversamente resta vuoto. Questo Erode, abile nell’autogiustificarsi per non convertirsi, fino a far scomparire la Parola, imbavagliandola e uccidendola, è dentro ciascuno di noi, e soffoca la verità nell’ingiustizia (Rm 1,18). Chiaramente questo avviene perché abbiamo i nostri interessi e il nostro io da difendere a tutti i costi. Am 8,11-12 descrive la più grande maledizione biblica: aver fame e sete della parola di Dio, cercarla dappertutto e non trovarla! È la maledizione di chi vive nell’infedeltà e nell’ingiustizia e non vuol sentirselo dire. Se poi zittisce o uccide chi lo rimprovera, tale maledizione tende a conservarsi! L’unica risposta concessa a chi è in tale situazione è quella di cercare e non trovare, in modo che resti perplesso e con la domanda, senza indicazioni positive di cammino e di discernimento. È il silenzio davanti a Erode: ucciso il Battista, Gesù tace (23,9)! È il silenzio di Dio, che nella sua misericordia tace per non condannare: ma questo suo silenzio è la sua rivelazione più alta, l’ultimo stimolo a cercare i motivi di questa non risposta. Tale ricerca è l’unica possibilità che può aprire alla conversione, a un ascolto che porti alla verità. Ma Erode è maestro di durezza: pur di non cercare i motivi del suo non capire, vaglia tutte le possibili risposte correnti. Senza trovarle per altro soddisfacenti! La domanda resta e resterà sempre inevasa proprio perché ha fatto decapitare il Battista. Dovrebbe prima riconoscere questo errore e il male che l’ha portato a tanto!

“Giovanni era stato destato dai morti”. La prima risposta è quella di identificare Gesù con Giovanni risuscitato. Giovanni doveva aver impressionato assai il popolo. Egli, dopo un lungo silenzio della profezia, “con lo spirito e la forza di Elia” (1,17) aveva predicato la conversione e il giorno del Signore (3,1-18). Tale risposta, oltre che aprire il varco alla conversione, portando al rimorso chi soffocò la voce per non udire la Parola, ha un altro elemento valido: Giovanni, che incarna la promessa e l’attesa dell’AT, veramente risorge e trova la sua vita in Gesù. Promessa e attesa cessano nel Cristo, ma non per morire, bensì per trovare la loro pienezza.

v. 8: “Elia era apparso”. La seconda ipotesi su Gesù è che sia “Elia” apparso in terra. Elia, padre dei profeti, non morì, ma fu rapito in cielo su un carro di fuoco (2Re 2,1-18). Infatti la profezia/promessa di Dio non può morire, ma torna a Dio che l’ha mandata. Secondo Ml 3,23s (Sir 48,10; cf. Lc 1,17) sarebbe apparso alla fine dei tempi, per predicare il giorno del Signore; è il profeta escatologico, prima della visita di Dio al suo popolo. Apparirà nella trasfigurazione accanto a Gesù (v. 30). In Mc 9,12ss Gesù lo identifica col Battista e la sua funzione è quella di “ristabilire”, di “far nuove” tutte le cose; l’attesa della sua venuta è menzionata proprio sulla croce di Gesù (Mc 15,35; Mt 27,47).

“un profeta, uno degli antichi”. La terza ipotesi è che Gesù sia uno degli antichi profeti risorti. Tutte queste ipotesi contengono verità grandi per il lettore. L’uso dei vocaboli “morto”, “risorto” e “apparso” richiama il mistero più profondo dell’identità sua che sarà rivelata ai discepoli dopo Pasqua.Il fattore comune di tali risposte è che Gesù sia un profeta, risorto e apparso: è traccia di un primo filone d’interpretazione cristologica, che lo identifica con il profeta degli ultimi tempi, che il popolo

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attende come “colui che viene” (7,19), colui che “deve venire nel mondo” (Gv 6,14). L’equivoco fondamentale di tale fede è confondere l’atteso con la propria attesa, il nuovo con lo scontato, il presente con il passato e non accettare che Dio ha reso la sua “promessa più grande di ogni fama” (Sal 138,2) e che a suo tempo l’adempie (1,20). È la stoltezza di chi guarda la punta del dito invece della luna indicata, o di chi tenta di risuscitare profeti morti come alibi per uccidere quelli vivi.A questo equivoco si può rimediare solo ascoltando la parola del Battista. Invece che tagliargli la gola per giustificarci, dobbiamo sempre restare disponibili a condannarci e a convertirci. Il suo richiamo ci porta alla fedeltà dell’attesa (3,1-18). il suo dialogare con Gesù ad accogliere l’atteso (7,18ss). Solo a chi risponde all’interrogativo del Battista, Cristo risponde: rispondi e ti risponderò (cf. 20,1-8).

v. 9: “chi è costui...”. Erode non crede alla risurrezione. È un po’ come i lettori di Luca, che vengono dal paganesimo. Pensa che il potere di morte sia la parola definitiva su tutto, anche sulla parola di Dio. La sua mancanza di fede nella risurrezione, che gli impedisce di identificare Gesù con il Battista, gli serve positivamente a tenere aperta la domanda: “Chi è costui?”. Tale domanda troverà risposta solo dopo la risurrezione. Anche il liquidatore del Battista non può eliminare la domanda: ne trasmette integra l’eredità! E desidera “vederlo”, conclude il brano, richiamando l’inizio, dove si dice l’origine di questo desiderio, che è l’ascolto di “tutto ciò che capitava” (v. 7). In Erode il cammino stesso del discepolo, dall’ascolto alla visione, è tracciato come fallimentare, perché ha ucciso il Battista e zittito la parola di Dio. Non ha il “cuore bello e buono” per accoglierla (8,15). Quindi ascolta ma non intende, guarda ma senza vedere (8,10). Il suo ascolto lo porterà a cercare di ucciderlo (13,31ss) e il suo vederlo ne decreterà la morte (23,11). C’è una visione che finisce nella nientificazione e nello scherno. Comunque il luogo dove tutti, compresi i discepoli, sono chiamati a riconoscerlo, è proprio quello della croce, dove l’ha condotto il misconoscimento umano. Così farà uno dei due malfattori, ricevendo “oggi” il dono del Regno (23,42s); così faranno le donne, che “convenute a questa visione” (theoría) “vedendo gli avvenimenti” (ghinómena, come qui) “ritornano battendosi il petto”, cioè si convertono (23,48). Nello stesso ultimo frutto del male la misericordia di Dio offre la suprema medicina!

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il palazzo di Erode.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscere come soffoco in me la parola che mi fa conoscere Gesù.d. Mi identifico con Erode: il mio desiderio di ascoltare e vedere Gesù è per obbedire alla sua parola o per pura curiosità, autodifesa e controllo?

4. Passi utili

Am 8,4-12; Is 58; Rm 1,18; 2Cr 36,15ss; Eb 11,36ss.

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51. PRESI I CINQUE PANI, LI SPEZZÒ

(9,10-17)

10 E, tornati gli apostoli, raccontarono a lui quanto avevano fatto. E, presili,si ritirò in privato,in una città chiamata Betsaida.11 Ora le folle, saputolo,lo seguirono.E, accoltili,parlava foro del regno di Dio, e quanti avevano bisogno di cura li guariva.12 Ora il giorno cominciò a declinare.Ora, avanzatisi, i Dodici gli dissero: Sciogli la folla, perché andando intorno per i villaggi e per i campi si riposino,e trovino grano,perché qui siamo in luogo deserto.13 Ora disse loro:Date loro voi stessi da mangiare. Ora essi dissero:Non abbiamopiù di cinque pani e due pesci.A meno che, andando, non compriamo per tutto questo popolo da mangiare. 14 Erano infatti circa cinquemila uomini.Ora disse ai suoi discepoli: Fateli sdraiare a gruppi di circa cinquanta.15 E fecero così e fecero sdraiare tutti.16 Orapresii cinque pani e i due pesci, levati gli occhi al cielo,li benedissee spezzòe dava ai discepoliper distribuirli alla folla.17 E mangiarono

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e furono sazi tuttie fu levato ciò che sovrabbondò loro: dodici ceste di pezzi.

1. Messaggio nel contesto

Nell’ascolto la Parola si è fatta seme (c. 8). Il seme, morto e risorto centuplicato, ora si fa pane. Poi il pane si farà vita di un volto splendente e forza per il cammino verso Gerusalemme. Allo spezzare del pane gli occhi dei discepoli di Emmaus si aprirono, lo riconobbero e iniziarono il cammino verso Gerusalemme (24,30-33). Pure qui, dopo il dono del pane, i discepoli riconosceranno Gesù, ne vedranno fugacemente la gloria e inizieranno con lui il cammino verso Gerusalemme. Questo racconto del pane è incluso tra due scene di riconoscimento di Gesù: una fallita, prima (vv. 7-9) e una riuscita, dopo (18-22). Quasi a dire che solo chi mangia questo pane e ne vive, sa riconoscere il volto del Signore.Luca, come già la tradizione prima di lui, utilizza il miracolo della moltiplicazione dei pani per illustrare quel gesto, ben noto alla comunità, che lo associa al suo Signore nel suo cammino di morte/risurrezione nell’attesa del suo ritorno. L’esperienza quotidiana dell’eucaristia ci trasferisce nell’ottavo giorno, l’oggi della trasfigurazione - “quello stesso giorno” dei discepoli di Emmaus (24,13) - perché ci rende presenti al suo dono di amore eterno. Il suo pane è la nostra vita e ci abilita, come Elia, al lungo cammino di quaranta giorni, fino al monte della rivelazione di Dio (1Re 19,8). Il luogo in cui si riconosce Gesù non è la curiosità di Erode, che lo vuol controllare e tenere in mano, ma la fragranza del pane e la meraviglia stupefatta del discepolo che ne gusta.Il senso del racconto è dato dalla sua cornice, incluso com’è tra l’aborto di fede di Erode e la nascita alla fede, anche se imperfetta, dei discepoli. Lo spezzar del pane è rivelazione oggettiva del suo amore per me: lo ri-cordo, lo porto al mio cuore, al centro di me stesso e mi lascio interpellare da esso cercando di rispondere. La fede è questo dialogo che si fa vita comune, il suo amore che si fa mio pane e mi nutre.La lettura che Luca fa di questo banchetto, strettamente cristologica, segna il punto d’arrivo della missione: l’attività apostolica porta a conoscere il Signore Gesù e ha il suo “culmine” e coronamento nell’eucaristia, che ne è anche l’“origine”. Essa è fondamento e compimento insieme della chiesa, suo principio e suo fine!Il racconto ha come sottofondo l’attesa del banchetto messianico nel deserto, analogo a quello che Dio imbandì al suo popolo (cf. Is 25,6ss; Os 11,4; 13,4ss; Sal 23; 78,18-29; 105,40; 107,9; Ne 9,15; Sap 16,20ss; 19,11ss). Tale banchetto (cf. Nm 11,4ss. 21ss; Es 16; Dt 8,13) chiarisce molti dettagli di questo racconto, la cui struttura peraltro è simile alla moltiplicazione dei pani di 2Re 4,42-44.Il pane è dato a tutti. Solo i discepoli però si rendono conto di ciò che è accaduto. Non segue nessuna reazione. Per chi se ne rende conto, l’unica reazione possibile è la fede in Gesù come messia, nostra speranza. Questa speranza ci avvince e associa a lui, e si chiarisce progressivamente nel dialogo con lui. Alla fine egli si rivela completamente, ci fa entrare nel suo mistero di morte e di risurrezione e ci prende con sé nel suo viaggio a Gerusalemme.Il brano allude alla celebrazione eucaristica in tutto il suo valore storico-escatologico. Essa pone chi la celebra nel cuore del mistero di Dio, nella memoria della sua passione per noi, nell’anticipo della risurrezione e nell’attesa del suo ritorno. I Dodici (v. 12) - che diventano inavvertitamente i discepoli (v. 16) che ne continueranno l’azione - sono i servi di questo banchetto. Convocano, accolgono, ricevono e distribuiscono a tutti il pane spezzato e donato dal Signore. L’avanzo non viene riposto, come l’omer di manna (Es 16,32ss), ma è ciò che i discepoli hanno sempre in serbo per donare a tutti e

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per sempre. Inoltre questa si può e si deve conservare (Gv 6,12). A differenza della manna che perisce (Es 16,17-21), questo pane non perisce mai (Gv 6,27). Ha anzi il potere di preservare dalla morte chi ne mangia (Gv 6,32-36.48-51). In esso il Signore vuole e può finalmente rivelare il suo mistero di amore verso il Padre e verso di noi (10,21s). Questo pane ci pone al centro della Trinità, come figli nel Figlio e ci fa come lui ascoltatori della parola del Padre che trasfigura il volto (cf. v. 35).Il centro di questo brano è il v. 16, che ripete le parole dell’ultima cena. Ora la presenza del Dio che nell’Esodo sazia il suo popolo è sostituita dal Cristo che spezza il pane: è il Kýrios glorificato, che la comunità sperimenta nel deipnon kyriakón (coena Domini).Gesù non è presentato come il nuovo Mosè, ma come Dio stesso che salva e sazia. Il paragone con il miracolo di Eliseo serve a mostrare la sua superiorità nei confronti di colui che aveva ereditato la doppia parte dello spirito del padre dei profeti (2Re 2,9).I vv. 10-11, con il ritorno e l’assunzione in disparte degli apostoli (cf. v. 28), preparano la lettura del fatto nella chiave cristologica che essi, figura della chiesa, ne faranno.I vv. 12-15 introducono il nocciolo del brano, che è il “dare” da mangiare a tutti, compiuto dai discepoli su ordine del Signore. Riecheggia il “fate questo in memoria di me” (1Cor 11,24).Il v. 16 richiama il gesto ben noto dell’eucaristia.Il v. 17 nota come qui si realizza la beatitudine di 6,21a e come questa beatitudine della sazietà è aperta a tutti gli affamati che si ciberanno di questo pane sovrabbondante. È la beatitudine piena del Regno, concessa a chi mangia “il pane nel regno di Dio” (14,15).

2. Lettura del testo

v. 10: “E tornati gli apostoli, ecc.”. È il primo lasso di tempo che i discepoli passano “soli”, testimoniando il Signore assente: è figura e addestramento per il tempo successivo, quello della missione della chiesa, in attesa del suo ritorno (cf. At 1,8-11). Il loro partire ha un ritorno: gli apostoli tornano a colui dal quale sono stati mandati. Gesù è principio e termine della loro missione. Sono simili alla colomba di Noè, che, a differenza del corvo, tornerà sempre a lui, fino a quando non sarà vinta tutta la morte del mondo e lui sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). In realtà vanno in missione proprio perché stanno “con lui” (cf. 8,1s), per seminare ovunque la Parola, perché anche gli altri, mediante il loro annuncio, possano stare “con lui”, diventare suoi familiari e mangiare quel pane che assimila a lui.Gli apostoli “raccontano” dettagliatamente a Gesù tutto ciò che hanno fatto, quasi conducendolo, con il racconto, a ripercorrere passo passo il loro cammino (questo è il senso della parola greca).Questo confronto preciso e puntuale di ciò che si fa con il Signore è il fondamento della comunità credente, che si confronta sempre con la storia di Gesù (cf. Ef 4,20-21): vive della sua memoria e si nutre di lui. Questo ritrovarsi a discorrere e a confrontarsi al ritorno della missione, prima del pane, è ciò che facciamo prima dell’eucaristia, nel confronto con la Parola (cf. 24,25-30; At 2,42), ed è ciò che faranno i discepoli dopo l’ascensione, quando tornano dalla missione (cf. At 14,27; 15,14.12).Gesù “prende” con sé quelli che aveva inviati; quasi li rapisce, come nella trasfigurazione (v. 28), “in disparte” (“da soli” al v. 18). Preludio a una rivelazione segreta e profonda, crea una distanza, uno spazio lontano, una stanza segreta, in cui saranno svelati i misteri del Regno. Essi sono tutti velati e donati nel pane spezzato, scrigno di tutta la rivelazione di Dio che si fa vita dell’uomo. Mentre si dona e ci rende partecipi della propria vita come fratelli, Gesù rivela insieme il suo amore di Figlio verso il Padre e apre a noi l’amore del Padre suo verso di lui, il Figlio.Insieme con gli apostoli Gesù “si ritira”. Si sottrae, operando tra i suoi e gli altri una distinzione dentro/fuori non tanto spaziale, quanto interiore. Essa consiste nell’andare a lui, dialogare con lui ed

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essere presi da lui, sperimentando quell’intimità di vita con lui alla quale saranno da condurre tutti i fratelli.Questo ritiro è forse da connettere con il fatto dell’inchiesta di Erode sul suo conto, provocata dal successo della missione dei Dodici. Erode era preoccupato del rilievo che cominciava a prendere l’azione di Gesù. Un altro Battista cui tagliare la testa, o addirittura un possibile concorrente? Comunque uno che può dar noia e che bisogna tenere sott’occhio! È comprensibile come, d’ora in poi, l’attività di Gesù, per sfuggire a Erode che vuole ucciderlo, si svolga fuori dalla Galilea, territorio sotto il suo dominio. Si trasferisce prima sull’altra parte del lago, poi, attraverso la Samaria, in Giudea, fino a Gerusalemme. Perché lì si deve compiere la sua missione (13,31-33).

v. 11: “Ora le folle, saputolo, lo seguirono”. Le folle, al ritiro di Gesù con i Dodici, “sanno” e “seguono”. Questo ritiro è il motivo determinante per conoscere e seguire colui che, appena annunciato dai Dodici, verrà poi sperimentato. Il ritorno a lui, l’aderire a lui e l’essere con lui, rende fecondo il ministero del discepolo e fa accorrere le folle. L’annuncio stesso ad altro non serve che a portare tutti a questo esodo nel deserto. Principio e fine di ogni servizio apostolico è infatti conoscere e seguire il Signore - cosa che si consuma in questo stare con lui. La missione, come parte da questa comunione, così porta a questa comunione con lui.

“Raccoltili, parlava loro del regno di Dio, e quanti avevano bisogno di cura li guariva”. Gesù “accoglie” le folle: fa da anfitrione a coloro che invita al suo banchetto. La sua accoglienza, previa al banchetto, ha due aspetti: la “parola sul regno di Dio” e la “cura dei bisognosi”. La sua accoglienza consiste nella Parola che guarisce e abilita a mangiare insieme con lui (cf. 5,29-31). Essa ha il potere di risuscitare e di ammettere al banchetto della vita (8,55). Espressione perfetta della sua misericordia, si fa gioia, banchetto e danza nel c. 15 (cf. 15,1s. 6.9.22-25.32). È l’accoglienza previa alla celebrazione eucaristica (cf.1Cor 11,33 che conclude: “accoglietevi a vicenda”), quella che Paolo, maestro dell’agápé, fa a tutti nel finale degli Atti (28,30-31).Circa la connessione tra ascolto della parola e guarigione, vedi 6,18, prima delle beatitudini. Circa il “prendersi cura”, vedi 5,31, dove Gesù si rivela medico dei malati e dei bisognosi, proprio nel “grande ricevimento” di Levi il peccatore.Mentre Marco sottolinea la compassione di Gesù verso un gregge senza pastore, Luca mette in rilievo la sua cura di medico verso i bisognosi e gli esclusi, gli infelici nelle membra e nello spirito, i malati e i peccatori. Mentre Marco presenta Gesù come pastore messianico secondo il Sal 23, Luca presenta il medico, salvatore della pecorella smarrita e ferita, secondo Ez 34,11.16.22.

v. 12: “ Ora il giorno cominciò a declinare, ecc.”. È l’ora in cui Gesù fu invitato a “rimanere” dai discepoli di Emmaus (24,29). È la stessa della cena eucaristica, che, come quella pasquale, si celebra al tramontare del sole. L’eucaristia, banchetto escatologico, come segnò e ricorda la fine della giornata di Gesù tra noi, così segna e anticipa il giorno del Signore, fine di ogni giorno dell’uomo e della sua storia inquieta che in lui troverà pace. È la danza che, invece del lutto, conclude ormai la fatica umana.I Dodici, che in At 6,2 vediamo deputati al servizio delle mense, ora si rivolgono a Gesù. Insieme consigliano di dimettere, licenziare e “sciogliere” piuttosto che accogliere, prendere e riunire.Non sanno che il dono della sua parola farà fiorire il deserto, il suo seme germoglierà in pane per tutti.Nella prima tentazione Gesù fu allettato a scegliere il pane contro la Parola (4,3s). I discepoli, nella stessa falsa alternativa, sono tentati di scegliere la Parola contro il pane. Ignorano che la Parola si è fatta cibo in Gesù. Come il pane è frutto dell’obbedienza alla Parola (cf. Dt 30,1ss), così Gesù, obbediente al Padre, si fa pane dei figli, nella certezza che obbedire a Dio è l’unico necessario per

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vivere. Dio infatti saprà sfamare il suo popolo anche nel deserto (Es 16,1ss; Sal 78,19ss), se il suo popolo lo ascolta.

“Sciogli la folla, ecc.”. I discepoli vogliono “sciogliere” la folla perché trovi “riposo”. Questa parola richiama il katá1yma dove Gesù si offrì al mondo nella mangiatoia delle bestie (2,7) e dove Gesù si dona come pane e vino ai discepoli (22,11). Non altrove, ma proprio qui nel deserto la parola del Dio fedele si fa cibo, e l’uomo trova in lui il suo riposo. Perché lui solo ha “parole di vita eterna” (Gv 6,68). La folla, secondo i discepoli, oltre al trovare “riposo” deve essere dimessa per “provvedersi di grano”. I figli di Israele andarono in Egitto per provvedersi di grano. Vi trovarono Giuseppe, il fratello venduto che avevano voluto uccidere, che li sfamò (Gn 42). Il nuovo Israele troverà in Gesù, pane spezzato, venduto e tradito, la Parola fatta pane di vita. Nel deserto Dio diede a Israele la Parola e il cibo, necessari l’uno per il corpo e la vita animale, l’altra per il cuore e la vita umana. Ora Gesù dà se stesso, provvedendo al corpo e al cuore dell’uomo. Egli è la Parola obbediente al Padre che si è fatta sostanza di amore.

v. 13: “Date loro voi stessi da mangiare”. Gesù dà ai discepoli lo stesso ordine che diede Eliseo (2Re 4,42.43). I discepoli non capiscono che il “mangiare” (= vivere) è legato al “dare”. Solo il dono è possibilità di vita (cf. 6,30.38)! Il “comperare” e il corrispondente “vendere” fanno parte di un’economia che indebita con la morte. Il suo gesto di spezzare il pane e donarsi totalmente aprirà loro gli occhi su questa economia di vita. Nel memoriale del suo dono i discepoli troveranno una fonte da cui attingerla. Nel “ri-cordo” eucaristico “riporteranno al cuore”, cioè al centro della loro vita, il dono di Dio di cui si nutrono e vivono, che ricevono e donano.Per ora fanno i loro calcoli, sulle proprie possibilità. Non sanno ancora contare sul dono di Dio. I “cinque pani e due pesci” per Luca sono la provvista dei discepoli: è ciò che loro già hanno e di cui possono vivere. Ma ne avvertono l’insufficienza per tutti, non conoscendone la potenza. Marco invece si pone a un primo livello di catechesi: i discepoli ignorano che esista questo pane e Gesù richiama la loro attenzione sul fatto che c’è, e li invita ad andare a vedere (Mc 6,38). Vedranno che c’è e che, proprio in quanto spezzato e donato, colma ogni insufficienza e sazia la fame non solo loro, ma di tutti. L’obiezione dei discepoli, oltre che rilevare l’incoscienza che essi ancora hanno del dono di Dio, serve a far risaltare la grandezza del dono. I discepoli non hanno ancora capito che i cinque pani di cui sono provvisti, assommati ai due pesci, fanno il numero di sette: sembra poca cosa, invece contiene ogni completezza e trasferisce l’uomo (numero 6) nel riposo di Dio, il settimo giorno.

v. 14: “Erano infatti circa cinquemila uomini”. Il numero “cinquemila” richiama At 4,4, la comunità primitiva di Gerusalemme dopo pentecoste, in cui realmente si vive del dono di Gesù nel dono reciproco (cf. At 4,32-35; 2,42-48). Inoltre risponde al numero dei pani moltiplicato per mille. Il dono di Gesù è ben più grande di quello di Eliseo: là 20 pani per 100 persone (rapporto 1/5), qui 5 pani per 5.000 persone (rapporto 1/1.000)! Il dono di Gesù è due volte cento più grande di quello di Eliseo. Il suo pane è dieci volte più grande della promessa stessa del seme che dà il cento per uno (cf. 8,8). Questi numeri sono un modo popolare di fare teologia: esprimono la pienezza sovrabbondante del dono di Dio per chi ne ascolta la parola. I 5.000 sono divisi in gruppi di 50x100: richiama la disposizione di Israele ordinata da Mosè (Es 18,25). Per la parola di Gesù, la folla disordinata diventa popolo ordinato e ben compaginato.Il pasto è “sdraiato”, non più in piedi e in fretta come nel primo esodo (Es 12,11). Sono infatti ormai nel riposo della terra promessa. “Sdraiarsi”, parola cara a Luca (7,36; 9,14; 14,8; 24,30), è l’atto fondamentale del vivere, cioè il mangiare portato al suo apice: una vita fraterna e serena, sicura e

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adagiata nella festa della commensalità. È il banchetto sospirato. L’uomo pena e fatica nel desiderio di poter vivere pienamente, gustando in pace la convivialità.Questa del pane e del banchetto messianico è l’astuzia somma di Dio: per essere desiderato dall’uomo si è fatto cibo, suo bisogno primario. Chi ama infatti vuole essere desiderato. Ma non può imporlo. Allora Dio, dopo essersi fatto parola, bisogno dell’uomo spirituale, si è fatto anche cibo, bisogno dell’uomo animale. Per questo il suo primo luogo fu la “mangiatoia” degli animali. Così anche noi, animali più del bue e dell’asino che conoscono “la greppia del padrone” (Is 1,3), possiamo vivere la parola: “Ascolta: amerai il Signore” (Dt 6,4ss). Mediante il cibo ci assimiliamo a lui che diventa nostra vita. Questo pane è il vertice di tutto il creato in vista del quale Dio ha fatto ogni cosa (cf. Col 1,16): tutta la materia inanimata diventa Cristo, Parola del Padre, che si fa nutrimento dell’uomo.

v. 15: “E fecero così”. I discepoli obbediscono alla parola del Signore e fanno sdraiare la gente per questo banchetto che neanche sospettano.

v. 16: “ Ora presi i cinque pani, ecc.”. Rileviamo solo i termini eucaristici principali:“prendere”“pane”“levare gli occhi”“benedire”“spezzare”“dare” ai discepoli“distribuire”“mangiare”“tutti”.

Questo è il katályma, il riposo/ristoro promesso da Dio. Qui, non nei villaggi dell’Egitto, l’uomo riposa e trova frumento, sia per mangiare che per un’ulteriore semina (cf. vv. 1-6). Da notare che tutti i verbi sono all’aoristo. Esso indica una azione precisa, fatta una volta per tutte. Il “dare” invece è all’imperfetto: è iniziato allora e continua ancora e sempre nelle mani dei “discepoli”, succeduti ai Dodici, che distribuiscono sempre l’unico pane che sazia la fame di ogni vivente.Tutto il Vangelo è un commento a queste parole, una catechesi sull’eucaristia, arrivo e partenza della missione, culmine e sorgente della vita cristiana. Essa introduce ogni uomo nei misteri di Dio (8,10), facendolo familiare con lui (8,19-21) e rendendolo partecipe del dialogo Padre/Figlio (10,21s), fino a quando, per semina (annuncio) e raccolto (Eucaristia) successivi, Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28) e la sua gloria sarà testimoniata fino agli estremi confini della terra (At 1,8). Inoltre chi “distribuisce” non sono più gli apostoli, ma i “discepoli”, che costituiscono l’ampliamento della cerchia dei Dodici nello spazio e nel tempo.È comunque sempre Gesù stesso che “spezzò e dava”, come fece nell’ultima cena, lasciandoci in anticipo il memoriale del dono pasquale di se stesso per tutti (22,19ss). Il suo gesto, cominciato allora, continua oggi. Il pane spezzato - il corpo donato sulla croce - viene continuamente presentato, donato e offerto nel servizio dei discepoli di ogni tempo, che si riuniscono attorno a lui con i frutti della loro missione. Nell’eucaristia viviamo qui e ora, “oggi”, del suo amore eterno che ci è stato donato nell’“oggi” della croce. È il dono perfetto del Padre all’uomo e dell’uomo al Padre, l’unico “sì” totale e reciproco dell’uno all’altro. Dio fa festa perché trova il suo figlio morto e risorto e ogni figlio perduto e morto risorge ed è salvato.

v. 17: “E mangiarono e furono sazi tutti”. Chi mangia questo pane, si associa al corpo donato, entra nell’economia dell’amore e del dono e vive di questo. Tutti ne mangiano, - perché il dono non

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conosce privilegi - e sono sazi, perché solo il dono sazia. Il popolo entra nella beatitudine della sazietà del Regno, proclamata in 6,21. È finita la vita come fame, sempre insidiata dalla morte! Chi mangia di questo pane vivrà in eterno, perché, unito al corpo morto e risorto del Signore, vive del suo stesso amore, in obbedienza al Padre. Questa è la sazietà di vita di cui si parla. Le altre pienezze sono apparenti: aumenteranno nausea e fame (cf. 6,25). Il pane che sazia richiama Es 16,8.12.

“sovrabbondò loro”. La beatitudine-sazietà del Regno è legata all’economia del dono e della misericordia, data nel pane: “Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!” (14,15). La sovrabbondanza è la benedizione già promessa a chi apre la mano al povero (cf. Dt 15,11; 28,5). Il pane che abbonda e avanza richiama 2Re 4,42-44. Questo pane infine lo si può conservare, a differenza della manna che perisce, perché è il pane di vita (cf. Gv 6,12). Lo si conserva “dandolo” e lo si moltiplica dividendolo. E ne avanzano “12 ceste”, una per tribù e una per ogni tempo: da donare a tutti e per sempre!

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il luogo deserto, nei pressi di Betania.c. Chiedo ciò che voglio: capire e gustare il pane che il Signore offre.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone, chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- gli apostoli a confronto con Gesù- si ritirò con loro in disparte- le folle lo seguirono- il giorno declina- la proposta dei discepoli- date loro voi stessi da mangiare- le parole dell’eucaristia- furono sazi tutti- sovrabbondò loro dodici ceste.

4. Passi utili

2Re 4,42-44; Is 25,6ss; 55,1-3; Sal 23; 145; Lc 22,19-20; Gv 6.

52. IL CRISTO DI DIO... IL FIGLIO DELL’UOMO

(9,18-22)

18 E avvenne mentre egli era in preghiera,

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erano con lui i discepoli da soli, e li interrogò dicendo:Chi dicono le folle che io sia?19 Essi rispondendo dissero:Giovanni il Battista,e altri Elia,e altri che un profeta degli antichi si levò.20 Ora disse a loro:Ma voi,chi dite che io sia?Ora Pietro, rispondendo, disse:Il Cristo di Dio!21 Egli sgridandoliingiunse lorodi non dire a nessuno questo,22 dicendo:Bisogna che il Figlio dell’uomo soffra moltoe sia rigettato dagli anziani dai sommi sacerdoti e dagli scribi,e sia ucciso,e sia destato il terzo giorno.

l. Messaggio nel contesto

Degli autori pongono qui, invece che al v. 51, l’inizio della seconda parte del Vangelo di Luca, con l’avvio del grande viaggio a Gerusalemme. Certamente i vv. 18-51 fanno da cerniera. In essi Luca lascia risuonare in piena scioltezza tutti temi della prima parte del Vangelo e intona quelli della seconda, concludendo quanto è stato aperto e accennando quanto sarà svolto. Infatti si risponde alla domanda: “Chi è costui?” in modo definitivo e da tutti i punti di vista - gente, discepoli, Gesù, il Padre. Contemporaneamente si è introdotti nella conoscenza dell’enigma: “Qual è il suo Spirito?”, quello che lo porterà fino a Gerusalemme, ben diverso da quello che già ve lo portò per tentarlo in 4,9!Prima si andava a lui per “ascoltare e guarire” (6,18); ora, una volta guariti dal male e dalla disobbedienza, si è chiamati a “andare dietro di lui” (v. 23) e “vedere” il regno di Dio (vv. 27ss).La parola “andare” (venire) diventa il filo conduttore del racconto, con un termine preciso: Gerusalemme. È il lungo viaggio, per il quale ora abbiamo il pane (1Re 19,7). Nei cc. 9-13 si parlerà dello Spirito di Gesù che il discepolo deve seguire; nei cc. 14-16 esso si rivela come dono della misericordia di Dio in Gesù, che si esprime nella capacità del discepolo di essere a sua volta misericordioso. È una ripresa del grande tema di 6,20-38.Dal v. 17 al v. 18 Luca salta ben 75 versetti di Marco: è la “grande omissione”, dove lascia cadere doppioni o materiale non facilmente comprensibile ai suoi lettori. Così riallaccia direttamente al dono del pane la capacità di riconoscere il Signore e di compiere il viaggio (cf. 24,30-33). Nei vv. 18-50 condensa in 33 versetti i 53 di Mc 8,27-9,41. Mantiene o lascia cadere, secondo che serva o meno alla sua ottica teologica, che è quella di congiungere la preghiera con l’essere tolto dal mondo.

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L’interrogativo circa Gesù - abbozzato in 4,22.36; 5,9, formulato in 5,21, ripreso dal Battista in 7,18ss. e dai commensali in 7,49, suscitato nei discepoli in 8,25 e in Erode in 9,7-9 - trova ora risposta.La risposta è riservata ai discepoli che sono stati con lui e accettano di essere messi in questione da lui. Essa rimane incompleta e deve restare aperta all’ulteriore rivelazione che lui farà di sé. Chiudersi nella propria risposta è tentazione diabolica per eccellenza (cf. Mc 8,32s). In questo brano si opera il passaggio tra una conoscenza “religiosa” di Gesù secondo la carne e una conoscenza nella fede, secondo lo Spirito, concessa ai discepoli. Questi lo sanno riconoscere come novità assoluta, come “il Cristo di Dio”. A questo punto Gesù rivela il suo mistero più profondo: il mistero del pane spezzato, la sua morte e risurrezione. Così risponde pienamente alla domanda: “Chi è costui, che esige obbedienza?”. A questo punto il discepolo obbediente è associato a lui, fa parte della sua famiglia e mangia quel pane che è la forza nel santo viaggio (Sal 84,6).Il nodo centrale, evidenziato da Marco come scontro (cf. Mc 8,32s), è il passaggio dalla risposta di Pietro a quella di Cristo: si passa da un messianismo glorioso a quello del Servo che si consegna al Padre. È il mistero della croce, discriminante della fede in Gesù. È lo scandalo che esige conversione profonda e continua. La fede e la sequela del Signore si decidono su questa strettoia.

2. Lettura del testo

v. 18: “E avvenne mentre egli era in preghiera, ecc.”. Luca omette l’indicazione topografica: “Cesarea di Filippo”. L’unico luogo geografico che interessa da qui in poi è in riferimento a Gerusalemme. Aggiunge invece il luogo teologico da cui ha inizio il cammino, la sua sorgente: “l’essere in preghiera”. Come dopo il battesimo, prima di “battezzarsi” nella realtà umana (3,21; vedi anche 6,12), così anche qui lo vediamo in preghiera, prima di “battezzarsi” e immergersi nella volontà del Padre (cf. 12,50). In 3,21 la preghiera ci viene presentata come principio dell’azione di Gesù in favore degli uomini; in 6,12 come sorgente da cui scaturisce la chiesa; ora come fonte della sua stessa vita in ascolto del Padre. Questa sua comunione con il Padre è principio e fine di tutta la sua attività, ed è ciò che ci rivela e di cui ci rende partecipi (cf. 10,21s). Gesù ci viene presentato mentre prega e i discepoli “da soli erano con lui”. Dopo il dono del pane, essi sono tolti dal mondo, perché l’eucaristia li rapisce con lui nella solitudine unica del suo dialogo di Figlio con il Padre. La preghiera è il luogo solitario e intimo dell’amore di Gesù verso il Padre, quell’amore del quale è venuto a renderci partecipi. È il luogo dove incontra tutti i fratelli appunto perché presso il Padre. Questa preghiera nella solitudine con il Padre, alla quale il pane ci associa, è il luogo dove lui ci interpella e si rivela. Finora era l’uomo che si interrogava su Gesù e lo interrogava. Ora è lui stesso che prende l’iniziativa. Qui cessa la nostra domanda, per ascoltare la sua. Egli esige la nostra risposta. Solo se gli rispondiamo, inizia il dialogo e lui risponde (cf. 20,8; 22,67s; 23,9). Finalmente siamo noi messi in questione, non più lui, che nel pane ci ha già detto e dato tutto di sé. Gesù fa esplicitamente due domande, per avvertire i discepoli sull’ambiguità della risposta e sul pericolo costante di regredire alla risposta della folla.

v. 19 “ Giovanni il Battista, e altri Elia, e altri, ecc.”. La risposta della folla è la stessa riferita in 9,7-9. Con la differenza che Erode non riceverà mai risposta alcuna (cf. 23,9), perché ha ucciso il Battista. La folla invece, se risponde all’appello suo di convertirsi, può ricevere la rivelazione di Gesù (cf. 20,8; 7,29.35). Erode in Luca è figura del nemico, che lavora nei tre tempi della storia della salvezza: nel tempo di Israele imbavaglia la bocca e taglia la gola alla profezia (3,20; 9,9); nel tempo di Gesù indaga su di lui, ascolta e vuol vedere (9,7-9), lo cerca per ucciderlo (13,31) e lo incontra per “nientificarlo” e schernirlo (23,7-12); nel tempo della chiesa imprigiona Pietro e Giovanni (At 4,27), uccide Giacomo e arresta Pietro (At 12,1-14). Per questo la sua morte è visibilizzazione della morte che ha dentro. Nel

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momento in cui si gonfiò e poté pensare di essere grande “come Dio”, si “sgonfiò” o “disanimalò”, “roso dai vermi” (At 12,23).La risposta della gente è ripresa e sintetizzata: Gesù è “un profeta” “risorto”. Questa è un’allusione importante per il lettore. Introduce infatti al centro della rivelazione di Gesù, profeta morto e risorto. L’errore consiste nell’identificare Gesù con una figura del passato. L’aspetto positivo è che questo passato contiene la promessa di Dio e la sua parola di risurrezione. L’errore è quello di fermarsi al cartello indicatore senza seguirne l’indicazione. Per questo i discepoli saranno gli eredi spirituali della “promessa” di vita, mentre agli altri resterà solo la “lettera” che uccide (cf. 2Cor 3,6).

v. 20 “Ma voi, chi dite che io sia?”. La risposta non è scontata! Importante è notare che ora non è la gente a interrogarsi su Gesù, ma è Gesù stesso che interroga i discepoli. Il discepolo è costituito da questa interrogazione: non mette in questione Gesù e accetta di essere messo in questione da lui. Gesù domanda e il discepolo risponde! Fino a quando siamo noi a porre le nostre domande, non avremo mai risposte circa la sua novità: risponderemo secondo la nostra ovvietà. La domanda infatti precontiene la risposta. Deve al fine tacere la nostra domanda, per ascoltare la sua. Cessa così la nostra risposta e siamo in grado di accogliere la sua. All’interrogarsi e all’interrogare, succede il lasciarsi interrogare.I discepoli sono chiamati “voi”, in netta distinzione dalla folla. Il loro dire su Gesù non sarà risposta a una loro domanda, ma alla sua, diretta a loro comunitariamente. Il “voi” è ecclesiale: la risposta a questa domanda fa la chiesa.

“Il Cristo di Dio”. Pietro risponde, esprimendo la fede della chiesa. In Luca la funzione petrina è assai evidenziata. Per questo forse si tralascia il diverbio di Mc 8,32s e si menziona più avanti il suo incarico di confermare nella fede i fratelli (22,31s). La sua risposta riconosce in Gesù il Cristo, il messia atteso, colui che deve venire secondo la promessa di Dio (cf. 23,35)! Anche se dice “di Dio”, la sua attesa in realtà è ancora più secondo i desideri dell’uomo che secondo la promessa di Dio. Ma Dio esaudisce le sue promesse, non i nostri desideri! Per questo Gesù, come Cristo “di Dio”, deluderà le attese messianiche dell’uomo (cf. 23,35-39; 24,21).Egli infatti non è l’atteso dall’uomo. È il “ma” di Dio a ogni sua attesa, che non può che essere falsa e negativa, perché dettata dalla paura. È il Cristo che viene da Dio e torna a Dio e porta con sé noi a lui. Per questo la sua opera è salvezza, e compie ciò che noi non osavamo sperare in un modo che non sapevamo pensare.

v. 21 “Egli sgridandoli, ecc.”. Sembra strano che Gesù “sgridi” i discepoli dopo la risposta di Pietro. Ritiene giusta o meno la fede in lui come messia? Non è corretto porsi il problema in questo modo. “Sgridando” i discepoli come i demoni che rivelano la sua identità, egli esorcizza ogni messianismo, anche giusto, perché parzialmente sempre sbagliato: il “di Dio” scivola sempre verso il basso e cade immancabilmente nella trappola satanica del pensiero “dell’uomo”. Solo con questo esorcismo la fede si tiene aperta alla rivelazione del mistero della croce. Diversamente cade nel laccio del tentatore, che ci muove con la paura della morte e ci suggerisce, come regola suprema dell’agire, la tentazione: “salva te stesso” (23,35.37.39). Luca sintetizza in questo “sgridare” l’esorcismo di Gesù alla fede del discepolo che non accetta il messia sofferente (cf. il rimprovero ai discepoli di Emmaus: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti”, 24,25). Il difficile non è credere che un profeta sia risorto, bensì credere alla sua parola (cf. 16,31).I discepoli non possono svelare la messianicità senza la correzione che lui vi apporta con la sua morte e risurrezione. Il mistero della croce come via alla vita è lo specifico della sua messianicità, il “pensiero di Dio” contrapposto al “pensiero dell’uomo” (cf. Mc 8,33). I discepoli lo capiranno lentamente, e solo dopo pasqua! Le tentazioni, che Gesù ha già affrontato per sé nel deserto e vincerà sulla croce,

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ora sono nel cuore dei discepoli e della chiesa, nel tempo che va dal battesimo alla gloria. Per questo la parola della croce deve sempre esorcizzare la chiesa da ogni falso messianismo.

v. 22 “Bisogna che il Figlio dell’uomo, ecc.”. Gesù qui rivela il mistero del pensiero di Dio che l’uomo non può pensare né accettare. Il problema non è ormai più “che” Gesù sia il Cristo di Dio, ma “come” lo sia. Egli è “di Dio” proprio perché non salva se stesso, ma perde e dona se stesso per noi (cf. le tre tentazioni sulla croce 23,35.37.39 in connessione con 9,24). Questa è la via della gloria, l’esperienza di Gesù che la chiesa ha nel pane spezzato.Egli non è il Cristo scontato dell’attesa umana, ma il maestoso ed enigmatico “Figlio dell’uomo” che affronta il cammino del Servo di JHWH: è la prima autorivelazione piena di Gesù, il nocciolo della fede cristiana, il suo mistero di morte e di risurrezione redentrice.Il “bisogna” (cf. 2,49) indica il compimento della volontà di Dio, rivelata nella Scrittura. Tale volontà non è un arbitrio capriccioso: deve morire in croce per noi, perché ci ama e noi siamo sulla croce! La sofferenza del Servo, che ama il Padre e i fratelli, è il mistero di Gesù. La croce è il nostro male che lui si addossa perché ci vuol bene: è il suo perdersi per salvarci. La sua sofferenza è prodotta da tutte quelle forme di male che noi, nella nostra paura, abbiamo escogitato per salvarci (!).Gli “anziani”, i “sommi sacerdoti” e gli “scribi” rappresentano rispettivamente l’avere, il potere e il sapere. Ricchezza, vanagloria e superbia, strette parenti delle tre concupiscenza di 1Gv 2,16, sono le tre maschere del nemico e le tre apparenze del frutto di Gn 3,6: buono, bello e desiderabile. Esprimono il distillato del pensiero dell’uomo, nel tentativo di salvarsi dalla sua nudità non più accettata. Questa paura del limite è l’origine di ogni perdizione, perché lo porta a “impadronirsi” delle cose, delle persone e di Dio stesso. Per riempire il suo vuoto, allunga la mano su tutto: tutto prende, mangia, uccide e travolge nella sua morte. Gesù è il contrario del vecchio Adamo, l’“arpagone” (cf. Fil 2,5-11) e ci rivela il volto di un Dio che tutto dona per amore all’uomo sua creatura. Per questo il potere lo “rigetta” e poi “lo uccide”. Ma l’ultima parola non spetta alla morte, bensì a colui che ha detto la prima, che fu creatrice. Così la vita sarà il dono di Dio al suo Servo fedele, sua risposta all’uccisione del Figlio che noi, infelici, facciamo.L’enigma della morte di Gesù fu l’oggetto principale delle spiegazioni di Gesù risorto. Si può notare una crescita nell’intelligenza di fede di questo mistero:a) È un fallimento della speranza umana (“speravamo!” 24,21);b) È un tragico incidente sul lavoro, al quale Dio mirabilmente rimedia: gli uomini cattivi l’hanno ucciso, ma Dio lo ha risuscitato, “la pietra scartata è diventata testata d’angolo” (20,17; At 2,23s);c) È un passaggio obbligato alla gloria: “bisognava che, ecc.” (24,26);d) È il luogo dell’obbedienza al Padre, dell’amore a lui nell’amore dei fratelli inguaiati, in atteggiamento contrario a quello di Adamo (Fil 2,5-11);e) È il dono del Regno (23,40-43), segno massimo del suo amore (Rm 5,6-11), riscatto dei peccati (1Cor 15,33), rivelazione stessa di Dio che è amore (1Gv 4,9s). Lì conosciamo chi è lui: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che io Sono” (Gv 8,28).Il punto d) è particolarmente sviluppato nella figura del Servo, il giusto sofferente, che fa da filigrana al racconto della passione (cf. 23,47). Il punto e), particolarmente sviluppato da Giovanni, fa da sottofondo al perché Gesù è morto. Egli non “salva se stesso” (23,34-39), ma si perde per solidarietà con noi perduti: è il Dio amore, solidale con il nostro male, che ci dona il suo regno (23,40-43).Questo volto di Gesù, il Figlio obbediente di cui qui sono tracciati i lineamenti netti e duri, sarà oggetto di ogni cura da parte dell’iconografo Luca in tutta la seconda parte del Vangelo. Egli intende proprio portarci a “vedere” quel volto che è la nostra salvezza.

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3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù in preghiera, da solo coi suoi.c. Chiedo ciò che voglio: chi è Gesù per me? Mi lascio interrogare da lui? Accolgo la sua domanda e la sua risposta? Ne faccio l’attaccapanni dei miei desideri o ascolto la sua parola?d. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- la domanda di Gesù circa l’opinione delle folle- la sua domanda diretta ai discepoli- la loro risposta: Gesù è il Cristo- la sua rivelazione: è il Figlio dell’uomo, il Servo sofferente.

4. Passi utili

Sal 2; 89; 110; 2Sam 7,8-16; Sal 22; Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12; 1Cor 1,18-31.

53. SE QUALCUNO VUOLE VENIRE DIETRO ME...

(9,23-27)

23 Ora diceva a tutti:Se qualcuno vuole venire dietro me, rinneghi se stesso e sollevi la sua croce ogni giorno e segua me.24 Chi infatti vorrà salvare la sua vita la perderà;chi invece perderà la sua vita a causa di me,costui la salverà.25 Che giova infatti a un uomoaver guadagnato il mondo interoe aver perso o rovinato se stesso?26 Chi infatti si vergognerà di me e delle mie parole, di lui il Figlio dell’uomo si vergognerà, quando verrà nella gloria sua e del Padre e dei santi angeli.

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27 Ora dico a voi in verità:ci sono alcuni, di quelli che stanno qui,i quali non gusteranno affatto la mortefino a che non abbiano visto il regno di Dio.

1. Messaggio nel contesto

Lo spezzar del pane rivela al discepolo, insieme a quello di Cristo, il suo stesso volto. Ne è la riproduzione fedele, il ritratto vivente. Prendere questo pane infatti significa vivere di lui e come lui, nell’identico cammino di passione e risurrezione. La via del Regno è quella della croce, tanto per il Maestro quanto per il discepolo.Questo discorso è rivolto a “tutti”, anche a quelli che in futuro mangeranno delle dodici ceste avanzate di quest’unico pane spezzato. Queste parole del Signore costituiscono l’apice del cammino di ascolto e portano l’ascoltatore sulla soglia della visione (v. 27). Il brano è profezia circa il discepolo: egli vive nella propria carne la stessa passione del suo Signore appena predetta. La trasfigurazione che segue è l’anticipo della risurrezione, come gloria proposta per affrontare la croce, secondo il dinamismo di Fil 3,10s (cf. Eb 12,2).Questi cinque detti di Gesù sono un compendio di vita cristiana, lo specchio della Parola cui il discepolo deve conformare il proprio volto (cf. Gc 1,22-25). La nostra vita presente e futura porta impressi i lineamenti di Gesù, il Figlio morto e risorto. Quanti saranno segnati con la croce sulla fronte, saranno salvati: è il sigillo di appartenenza a Dio in Gesù (cf. Ap 7,2ss; Ez 9,4).Il discepolo, incorporato per il battesimo al corpo di Cristo di cui nell’eucaristia vive, incontra la stessa lotta e le stesse tentazioni del deserto e della croce di colui che segue (v. 23): salvare la propria vita (v. 24), guadagnare il mondo (v. 25), giungere alla gloria senza passare attraverso la croce (v. 26). Chi mangia e vive del pane spezzato è, come Gesù, martire dell’amore del Padre. Però, nella misura in cui è associato allo scandalo della croce, lo è anche alla visione beata del suo regno (v. 27). Luca, come cala nel quotidiano l’eucaristia, così parla di “croce quotidiana”. Il martirio della croce si proietta indietro su tutta la vita, che è appunto testimonianza (=martirio). È più difficile vivere per Cristo e come Cristo che pretendere di morire per lui o come lui! La salvezza è legata al presente in obbedienza alla sua parola.Negli Atti vediamo come i discepoli continuano nella propria vita quella di Gesù, testimoniandolo con “parresía”. Si può dire che il libro degli Atti è un grande commento a questi detti che terminano con la promessa di vedere il Regno, seguita subito dalla trasfigurazione. Il tutto è già contenuto nella beatitudine di 6,22s. I discepoli la sperimentano l’ottavo giorno: è il giorno del Signore, in cui li trasferisce il pane spezzato, memoria della sua morte e anticipo della gloria futura.L’escatologia si fa storia e svolge la sua funzione, che è quella di esserne il motore, e non evasione! D’altronde ogni storia è tale in quanto ha un fine e ha la qualità di questo fine.

2. Lettura del testo

v. 23: “Ora diceva a tutti”. Gesù si rivolge non solo alla folla e ai discepoli presenti, ma a tutti, nessuno escluso, fino agli estremi confini della terra (At 1,8). Dopo averci rivelato il suo volto, rivela a noi il nostro. È lo stesso unico volto, perché “noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,18).

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“Se”. Il fine è andare dietro a lui che è il Cristo di Dio, nel suo cammino verso la gloria. Ora Gesù pone le condizioni, che non sono facoltative: il passaggio attraverso la croce è una “necessità” per lui (24,26.44-46) e per i discepoli, poiché “bisogna attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22).

“qualcuno vuole”. Andare dietro a lui, per essere “per sempre con il Signore” (1Ts 4,17): è l’atto supremo di volontà e di libertà dell’uomo, che scaturisce dal dono dell’eucaristia.

“venire dietro me”. È la persona di Gesù (“me”) che il discepolo cerca. Per questo lo seguo ovunque, perché la mia vita è Cristo (Fil 1,21): “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20), la mia vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3).L’amore per lui che per primo ha amato me (1Gv 4,10.19; cf. Gal 2,20) spinge me verso di lui, perché l’amore ha la propria vita nell’amato. Il cristianesimo si qualifica per questo amore a Gesù, più forte di ogni altro: più di quello del padre, della madre, della moglie, dei figli e della propria vita stessa (14,26). Nell’AT si seguiva Dio e la sua parola: ora si segue Gesù, perché la sua carne è la Parola stessa di Dio fattasi ascolto.Mentre il pazzo ama le idee, il feticista ama le cose e l’egoista se stesso - ponendo rispettivamente come assoluto le idee, le cose e se stesso - l’uomo libero è colui che sa amare una persona. Amare vuol dire seguire, uscire dal proprio io, decentrarsi, smettere di pensare a sé e stare nell’amato.L’uomo ha necessariamente un pastore, perché è guidato dal suo amore. Il suo pastore, sposo e guida, che amerà con tutto il cuore, è Dio (Dt 6,5; Sal 23), che lo ama di amore eterno (Ger 31,3). Se non ama Dio, il suo pastore è la morte (Sal 49,14). Gesù non dice di “camminare” come lui, bensì di “venire dietro me”. Si esclude la pretesa di chi cammina. Si sottolinea invece l’invito di chi fa camminare. Si tratta di una chiamata, cui liberamente si risponde. Non è un atto cieco di volontà di potenza. Suppone la “sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore” (Fil 3,8). Ciò che muove non è la pretesa di amarlo, ma la conoscenza del suo amore, che mi chiama a seguirlo. “Venire dietro me” è il fine a cui ci invita. Ora si pongono tre condizioni:1) “rinneghi se stesso”. Tutto ciò che l’uomo fa è per affermare se stesso. Perché sa di non valere e vuol valere prevalendo, affermandosi appunto. Pone se stesso al centro, avanti tutto e soprattutto e si mette al posto di Dio. Ma non perché si creda Dio! Solo perché ha paura e vuole salvarsi. Limitato e mortale, è sicuro di perdersi e fugge inevitabilmente e inutilmente dalla sua morte. Questo è il risultato del peccato, la menzogna satanica, cui l’uomo ha dato ascolto.Il “negare se stesso” che Gesù propone non è un uccidersi, ma un uccidere la morte che noi scambiamo per vita. È affermare la nostra vera vita come libertà e amore, a immagine e somiglianza di chi ci ama. È la libertà di uscire da sé per amare. L’amore infatti è “estatico”, pone chi ama fuori dal proprio io e lo realizza pienamente come relazione.2) “sollevi la sua croce ogni giorno” (cf. 14,27). È l’atto di prendersi sulle spalle il patibulum, il braccio traverso della croce, per fare il viaggio fino al luogo dove già è infisso il palo. È ciò che deve fare il condannato (cf. 23,26). La “propria” croce è quella che non si vuole, ma che non si può fare a meno di portare, perché nostra, che ci siamo fatti noi. Libertà non è tanto fare ciò che si vuole, quanto volere ciò che si fa ed è necessario. Sollevare la croce è farci carico del nostro male, che giustamente ci siamo guadagnati, come dice uno dei due malfattori. Così siamo vicini alla croce di chi si è fatto vicino fino a quel punto per offrirci il suo regno. Lui già ci ha preceduto, impalato per primo; la mia traversa di croce è solidale col suo legno già fisso, che la porta e la condivide per amore. Posso quindi sollevarla e portarla fino a quel palo dove è vinto il male e cala sulla terra il Regno. Il malfattore che vuol essere sollevato dalla croce e non si accorge che lì vicino c’è il Signore, è infelice: non solo non

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capisce il proprio male, ma neppure conosce il Signore e la sua promessa. Il “malfattore” invece che si accorge che lì c’è il suo Signore, anche se malfattore né più né meno dell’altro - tutti facciamo il male! - è associato al mistero del Salvatore sofferente con lui per renderlo con lui glorioso.La croce, da evento finale, in Luca diventa quotidiana, di “ogni giorno”. È cessata la persecuzione di Nerone; ma il discepolo, contemplando il mistero della croce nella quotidianità dell’eucaristia, capisce che c’è un martirio quotidiano. Esso conosce lo scorrere delle ore, dei giorni e degli anni: è il martirio della storia della salvezza che si misura nel tempo con l’avversario, vivendo del pane eucaristico di cui si nutre. In questa quotidianità il morire per Cristo diventa vivere per lui, credere diventa perseverare in quella fede che vince il mondo (1Gv 5,4).3) “segua me”. Non è semplicemente un andare dietro di lui che prima di noi ha fatto lo stesso cammino al calvario. Non è che bisogni portare la croce a imitazione di Gesù che prima ci ha dato l’esempio. Seguire indica la presenza costante di chi si segue, senza perderlo di vista. Non si seguono le sue tracce, ma lui stesso, che realmente si accompagna a noi e ci unisce al suo cammino, facendo il nostro stesso passo (24,15). Siamo in cordata con lui, che non solo ha aperto la via, ma la sta ripetendo con noi, e ci fa sicurezza con buoni chiodi, capaci di tenere il peso del mondo e di Dio insieme, in un unico corpo. Non seguiamo la croce, ma lui, il Crocifisso per amore nostro.

v. 24: “Chi infatti vorrà salvare la sua vita, ecc.”. Rinnegare sé e seguire lui non è qualcosa di facoltativo: è “salvare o perdere la vita”. L’uomo, consciamente o meno, mosso dalla paura della morte e guidato dall’ansia di vita, fa di tutto per salvarsi. E per questo si intrica sempre di più nella perdizione, come l’uccello che si dibatte nella rete. In realtà la salvezza è rinunciare a sollevarsi dall’acqua tirandosi su per i capelli e accettare che la mandi Dio che mi ama e pensa a me. La salvezza è la fede nella parola di lui che mi salva, come la perdizione è la diffidenza causata in me dalla menzogna.L’uomo si realizza amando, cioè perdendosi e diventa ciò che ama e per cui si perde. Ma, per amare, bisogna essere amati. Il cristiano può amare Gesù e perdersi per lui, perché lui per primo “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Mi affido a lui, nella vita e nella morte, perché lui è morto ed è risorto per me, vincendo tutte le barriere del mio male e della mia paura. Questa esperienza, data nel battesimo, diventa cibo quotidiano nell’eucaristia, pane spezzato che dà forza per camminare e libertà per amare. Il paradosso: volersi salvare è perdersi, perdersi per Cristo è salvarsi, riferisce l’esperienza battesimale che ci associa al mistero di morte e risurrezione di Gesù.Queste considerazioni, per una vita salvata nell’amore o perduta nell’egoismo, valgono per il presente e per il futuro: ciò che semini, raccogli! Il martirio e la quotidianità della croce non perdono di vista la prospettiva definitiva, il destino ultimo dell’uomo.

v. 25: “Che giova infatti, ecc.”. Il primo e fondamentale tentativo di autosalvezza dell’uomo è accumulare. Insidiato dal limite che gli richiama la propria radicale insufficienza, l’uomo si garantisce cibo e vita, guadagnando, accumulando e divorando tutto. È la sicurezza dei beni (cf. 12,15-21; Sal 49), falsa perché ciò che uno ha non riempie il vuoto di ciò che non è. È il meccanismo che scatta nelle tre concupiscenze di cui parla 1Gv 2,16, che porta a prendere tutto ciò che è buono, bello e desiderabile (cf. Gn 3,6), a fagocitare cose, persone e Dio stesso. Il discepolo non solo ricorda l’ammonimento del suo Signore: “Vedete, custoditevi da ogni avere di più, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non è dalle cose che ha” (12,15), ma anche le altre parole: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (14,33). Il cristiano che vuol guadagnare tutto, si perde prima come discepolo e poi come uomo. L’insaziabilità di beni, figlia della sfiducia e madre dell’ingiustizia, è via alla perdizione. Il vero accumulo è donare, facendosi “borse che non invecchiano” (12,33; cf. 16,9). Gli unici beni che passano alla dogana del Regno sono quelli

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dati per misericordia; nulla di ciò che abbiamo tenuto passa. Il “rovinare se stesso”, che sembra meno di “perdere se stesso”, forse allude alle tribolazioni inutili e dannose, alla salvezza come “attraverso il fuoco” di cui parla 1Cor 3,15.

v. 26: “ Chi infatti si vergognerà di me, ecc.”. La presa di posizione nei confronti di Gesù, per chi l’ha incontrato e nei confronti della “sua parola”, per chi lo incontrerà nell’annuncio, è decisiva per il futuro. Dio non giudica nessuno: salva tutti mediante suo Figlio. Un giudizio però c’è. Ma non è lui a farlo: lo facciamo noi qui ed ora sul suo Figlio. Accettarlo o meno, vivere o meno la sua parola nel presente, è ricevere o meno la sua gloria nel futuro. L’escatologia si gioca nella storia: il futuro si gioca tutto nel presente, in fedeltà al passato, a Gesù e alla sua parola. Il giudizio futuro lo facciamo noi nella storia presente. Dio ci ha rivelato il metro valido, per sempre: la parola del Figlio.Il pericolo per il cristiano di Luca è quello di smorzare l’attesa del Signore e del suo giudizio, come il pericolo della generazione precedente fu quella di affrettarlo, dimenticando il valore del presente. Come prima c’era stato il pericolo dell’illusione, dopo ci fu quello della delusione. Per questo Luca, come pure gli altri evangelisti, riporta il futuro del giudizio nel presente della storia. Questa ha qualifica escatologica. Come la meta qualifica il cammino, così nel cammino è contenuta la meta: il risultato della partita è dato solo alla fine, ma viene giocato tutto prima, in ognuno dei 90 minuti, dei quali nessuno è insignificante. Tutto il futuro si gioca qui ed ora. La coscienza del presente come definitivo è determinante per non vivere nel futuro che ancora non c’è, o nel passato che non c’è più, nel desiderio o nel rimpianto, comunque nel vuoto. Se il presente è definitivo, lo vivo ora in tutta la sua pienezza, aperta al passato e al futuro. Il presente è dove posso cambiare il passato dando un nuovo senso, e dove posso modificare il futuro, dando una nuova direzione.È importante questo richiamo al giudizio di Dio nella storia, da vivere ora: è il dono dell’eucaristia, memoria di Cristo e pegno del futuro, che si vive al presente. Questo presente, per quanto banale, è legato alla gloria del Figlio dell’uomo e “del Padre e dei santi angeli”.

v. 27: “non gusteranno affatto la morte fino a che non abbiano visto il regno di Dio”. Questi detti di Gesù terminano con un’affermazione incredibile, particolarmente solenne e cara a Luca: chi ascolta questa parola “vede la basileía di Dio”. Luca toglie “venuto con potenza” di Mc 9,1, per sottolineare che con Gesù il Regno è già venuto in modo da non attirare l’attenzione (17,21), e viene in modo misterioso nell’eucaristia che celebriamo in attesa della sua venuta (cf. 24,31). Questa sarà alla fine della vita personale e del mondo (23,43; At 1,6s), quando verrà definitivamente e noi saremo per sempre con lui. Questa visione è riservata a chi ascolta e comprende i misteri (8,10), a colui al quale è rivelata la conoscenza mutua Padre/Figlio (10,21s) donata nel pane. La visione è il punto di arrivo dell’ascolto e la conferma della sua validità (v. 35). Queste parole sono subito dopo l’annuncio della croce e prima della trasfigurazione, in cui si compiono. Si tratta di un anticipo di gloria, donato come viatico e forza per il lungo viaggio fino a Gerusalemme, dove la visione della gloria sarà nella pienezza. Essa è riservata solo ad “alcuni”, a coloro tra i “tutti” del v. 23 che prendono sul serio ciò che è appena stato detto come condizione per vedere la gloria.In concreto questi alcuni per ora sono i tre discepoli presi e rapiti da Gesù nella trasfigurazione. Tale esperienza è concessa in modo stabile al malfattore che accetta la propria croce vicino a Gesù (23,42s) - In forza di questa visione il discepolo affronta la vita e la morte. Non viene esonerato da alcuna croce o difficoltà! È come Stefano, che “pieno di Spirito santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra” (At 7,55) e il suo volto stesso ne è trasfigurato, come quello di un angelo (cf. At 6,15). Per questo fa una morte identica a quella di Gesù (23,46 = At 7,59; 23,34 = At 7,60). Il martirio di Stefano è la realizzazione visiva che Luca offre come commento a queste parole di Gesù. Il regno di Dio è visibile dai discepoli, oltre che nella trasfigurazione e

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nell’opera di Gesù (7,22; 10,23s; 17,20s), nella sua risurrezione, nella pentecoste e nel diffondersi della chiesa. Esso si rende manifesto a tutti nello spezzare del pane (cf. 24,30): nell’eucaristia la comunità apre gli occhi sull’opera di Gesù, sulla sua morte e risurrezione, ed è rapita e associata con lui in un anticipo della gloria futura. Tale anticipo è indispensabile per affrontare la croce (cf. Fil 3,10s), come la conoscenza della meta per muoversi nel cammino.Il brano si apriva con “tutti”, che sono i destinatari della parola di Gesù, e si chiude con “alcuni”, che vedranno la sua promessa: questa riduzione di numero tra invito e banchetto, tra ascolto e visione, tra vita e Regno è dovuta alla strettoia della croce. Non molti, ma tutti sono chiamati. Non pochi, ma solo alcuni eletti. E questi sono tutti coloro che accoglieranno l’invito a seguirlo, sollevando la croce e perdendo la vita per lui. Questa riduzione serve a indicare la necessità e la difficoltà di questo passaggio che introduce nella visione del Regno: è duro, ma non c’è altra via. Però ciò che qui è detto di alcuni, è aperto ora realmente a tutti.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù da solo coi suoi discepoli.c. Chiedo ciò che voglio: rinnegare me stesso, portare la mia croce ogni giorno e seguirlo, disposto a perdere la vita per lui e per la sua parola. Gli chiedo di capire come il senso della mia vita - salvezza o perdizione - dipende dal vivere o meno ora la sua parola.d. Medito su ogni singola espressione che Gesù rivolge a me.

4. Passi utili

Sal 49; 16; 23; At 7,55-60; Fil 3; Eb 12,1-13; 1Pt 4,12-19; Gal 2,19s.

54. QUESTI È IL FIGLIO MIO: ASCOLTATELO

(9,28-36)

28 Ora avvenne circa otto giorni dopo queste parole, avendo assunto Pietro e Giovanni e Giacomo, salì sul monte a pregare.29 E, mentre pregava, divennel’aspetto del suo volto altroe la sua veste bianco sfolgorante.30 Ed ecco: due uomini conferivano con lui,ed erano Mosè ed Elia,31 che, visti in gloria,parlavano del suo esodo,che stava per compiere in Gerusalemme.

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32 Ora Pietro e quelli con luierano gravati dal sonno;ma, rimasti svegli,videro la sua gloriae i due uomini, che stavano con lui.33 E avvenne, nel separarsi essi da lui,che disse Pietro a Gesù:Maestro, è bello che noi siamo qui!e faremo tre tende:una per te, una per Mosè e una per Elia!- Non sapeva ciò che diceva -34 Ora, mentre egli diceva questo,venne una nubee li coprì d’ombra.Ora essi temettero nell’entrare nella nube.35 E una voce venne dalla nube, dicendo:Questi è il Figlio mio, l’Eletto.Lui ascoltate!36 E mentre c’era la voce,fu trovato Gesù solo.Ed essi tacqueroe non annunciarono a nessuno in quei giorni nulla di quanto avevano visto.

1. Messaggio nel contesto

Si svela il cuore del mistero di Gesù. Ai discepoli è concesso di entrare nella conoscenza Padre/Figlio. L’obbedienza al “Gesù solo”, che il Padre ordina - “Lui ascoltate!” - è l’apice del racconto. L’ascolto è confermato come via alla visione e forza del cammino verso Gerusalemme. Ora, dopo la trasfigurazione, sappiamo pienamente chi è lui e perché lo dobbiamo ascoltare. All’eco in terra della proclamazione di Erode, della gente e dei discepoli, corrisponde dal cielo la voce del Padre, che conferma la parola del Figlio. L’ordine di ascoltarlo riguarda particolarmente il brano precedente, dove rivela la necessità della croce per giungere alla gloria. Per questo, mentre risuona la voce, i discepoli trovano il “Gesù solo” che va a Gerusalemme. Il Padre, dal santo monte, dà il sigillo definitivo alla rivelazione di Gesù e mostra il suo volto. L’ascolto di lui porta a vedere ciò di cui Mosè ed Elia hanno parlato: la pienezza del dono di Dio. La voce del Padre e il volto del Figlio sono soprattutto una conferma a ciò che i discepoli stentano a capire anche dopo pasqua (cf. 24,25ss), cioè la necessità della croce.Gesù, come Mosè, si mette a capo del popolo per il nuovo esodo, verso la Gerusalemme definitiva; come Elia, verrà “assunto” in cielo per ricomparire alla fine dei tempi (2Re 2,11ss). Come la sua andata, così sarà il suo ritorno! (At 1,11).Si scioglie la tensione suscitata dal problema sull’identità di Gesù nella prima parte del Vangelo. Ora che lo si conosce ci si può affidare a lui.Nel nuovo esodo che ci propone c’è una nuova manna, il pane spezzato e una nuova legge, il volto del Figlio obbediente. Sappiamo che, ascoltando lui, ascoltiamo il Padre e, vedendo lui, vediamo il Padre

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(Gv 14,9). Ci ha rivelato la sua gloria di Figlio proprio nel suo cammino di umiliazione fino a Gerusalemme. Di questo ha appena parlato ai discepoli e di questo conferisce con Mosè ed Elia.La parola del Padre completa e corregge quella dei discepoli, i quali non hanno del “Cristo di Dio” la stessa comprensione che ne ha Dio stesso. Il Padre comanda ai discepoli di accettare il Cristo che passa attraverso lo scandalo della croce. Lui è il suo Figlio e nessun altro; lui solo è da ascoltare.Dal Tabor c’è uno squarcio di luce che lascia vedere la meta, Gerusalemme, perché i discepoli possano incamminarvisi. Hanno una visione anticipata della gloria per affrontare il passaggio obbligato della croce, appena annunciata (v. 22) e subito ribadita (v. 44): mentre le Scritture discorrono con lui sulla necessità della passione, ne contemplano la gloria. La definitività e l’importanza di questa rivelazione è richiamata da 2Pt 1,16-19.Per il lettore di Luca, questo racconto serve a fargli sperimentare, attraverso il mistero del pane, la gloriosa presenza del Signore che lo trasfigura nel volto e lo rapisce nell’esodo verso Gerusalemme: con la forza di quel cibo può, come Elia, camminare per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio (1Re 19,7s).Il primo martire mostrerà nel suo esodo il fulgore riflesso della stessa gloria (At 6,15), che gli permetterà di testimoniare fino alla fine.

2. Lettura del testo

v. 28: “dopo queste parole”. Luca lega la trasfigurazione direttamente ai vv. 22ss, in cui Gesù rivela il cammino della croce sua e dei discepoli verso la gloria. Essa è il compimento puntuale del v. 27.

“circa otto giorni”. È l’ottavo giorno, quello in cui si aprono gli occhi dei discepoli allo spezzare del pane (24,13). È il giorno della risurrezione, del suo mangiare con i discepoli, del suo spiegare le Scritture, della sua missione e della sua esecuzione: è il “giorno del Signore”, il primo dopo l’ultimo dei sette sabati che Luca riporta nel suo racconto. È l’ottavo giorno, la domenica, l’oggi eterno del cielo aperto sull’oggi terreno del presepio e del battesimo, di Cafarnao e del calvario; è il Regno spalancato all’uomo dalla vita di Gesù, che inizia sul legno della mangiatoia e finisce sul legno della croce (cf. 2,11; 3,22; 4,21; 5,26; 12,32; 19,5.9; 22,34.61; 23,43). Quest’oggi di Dio fu già prefigurato nell’anno del Signore, che è il primo dopo sette settimane di anni (Lv 25). È il giorno definitivo in cui viviamo nell’ascolto e nello spezzare il pane, mangiando e vivendo del mistero di Dio. L’ottavo giorno non è solo il punto di arrivo dell’uomo e della sua storia: è già il suo presente, sperimentato da chi ha occhi per vedere fin d’ora, come in uno specchio, ciò che poi vedremo “faccia a faccia” (1Cor 13,12). È il giorno del Signore, la dies dominica in cui banchettiamo con lui nella coena Domini. Esso è insieme fine e inizio, con un dinamismo continuo che cresce all’infinito, trasfigurandoci di gloria in gloria (2Cor 3,18): è l’epéktasis, di cui parla Gregorio Nisseno. Già ora siamo ciò che poi apparirà (1Gv 3,2): figli di Dio! Tutta la creazione partecipa alla generazione di questo uomo nuovo (Rm 8,19-22). Il destino del creato non è la sfigurazione e la morte, ma la trasfigurazione e la gloria di Dio. Anche se ancora in esilio, siamo figli del Re, che stanno tornando alla casa del Padre.È importante notare come questo ottavo giorno è strettamente legato alle parole sulla passione e ci fa vedere il senso profondo della croce come mistero dell’amore di Dio per l’uomo. La trasfigurazione infatti non mostra un’altra realtà, ma la verità profonda di questa realtà: la “gloria” del Gesù “solo” che va verso il compimento del suo esodo.

“avendo assunto Pietro, ecc.”. Come prima di spezzare il pane prese con sé gli apostoli (v. 10), così ora prende con sé Pietro, Giovanni e Giacomo. Gesù li unisce a sé per sua iniziativa; li prende e li

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traspone in una situazione particolare di rivelazione: li porta con sé nello spazio segreto della sua comunione con il Padre - lo stesso spazio da cui è scaturito lo spezzare il pane per la comunione dei fratelli.Questi tre sono gli stessi testimoni della risurrezione di 8,51. Non compaiono nell’agonia secondo Luca: là dormono come gli altri, mentre qui si svegliano o restano svegli.

“sul monte”: non è un monte qualsiasi, bensì “il” monte, ben determinato, perché noto ai discepoli. È il monte per eccellenza (cf. 6,12), il monte della preghiera e dell’elezione, il monte della rivelazione, che richiama il “monte degli ulivi”, che sarà il monte del compimento nella prostrazione e nell’elevazione (19,29; 21,37; 22,39; At 1,12).

“a pregare”. La preghiera, che Luca nomina spesso, è il respiro della vita cristiana, comunione filiale con il Padre. È il luogo della trasfigurazione, dove si vede la gloria di chi va in croce. Anche se non è detto, si tratta di una preghiera notturna. come in 6,12 e 22,39ss. Infatti i discepoli sono gravati dal sonno e la discesa del monte avviene “Il giorno dopo” (v. 37). Il sonno e la notte possono essere illuminati solo dalla comunione con il Padre. Questa è la forza di trasfigurazione e di risurrezione dalle tenebre, capace di rischiarare ogni notte e svegliare ogni sonno dell’uomo. E l’uomo conosce molte notti e molti anticipi del sonno! Qui la comunione con il Padre illumina il Figlio dell’uomo che ha predetto la passione sua e dei discepoli che ha preso con sé.

v. 29: “mentre pregava” (come in 3,21, dopo il battesimo!). Si ripete, per dare rilievo, il pregare di Gesù, e diventa un complemento di tempo e di luogo, quasi lo spazio che contiene la trasfigurazione, come rivelazione del Padre e gloria del Figlio. È il luogo in cui scopriamo Dio come Abbà, nostra sorgente, e veniamo generati nella gloria del Figlio. Vediamo la trasfigurazione solo se teniamo aperti gli occhi sulla preghiera di Gesù, cioè sul suo amore per il Padre che diventa il suo stesso amore per noi. Solo così la sua croce può essere capita come gloria del suo amore.

“l’aspetto del suo volto altro”. Luca, a differenza di Marco e di Matteo, non dice: “si trasfigurò”, per non richiamare ai suoi lettori le favole di “metamorfosi” (trasfigurazione in greco si dice “metamorfosi”). Si ferma a contemplare “il volto” (vedi la tematica biblica del volto di Dio!) e concentra l’attenzione sull’“aspetto” che è “altro” rispetto a quello di qualunque altro. Di questo volto sottolinea l’immagine visibile - l’aspetto appunto! - in quanto altra, diversa, santa! Luca è l’iconografo del volto di Gesù: ce lo descrive perché lo possiamo contemplare e riflettere sul nostro. Di questo volto ci dà il vero aspetto, invisibile e ora rivelato, attraverso un solo tratto: “la gloria”, Dio nel suo splendore di bellezza. La gloria di cui Mosè ed Elia sono rivestiti (v. 31) non è “loro” (come dice la traduzione CEI), bensì riverbero della “sua” (v. 32). Il volto “altro” è identico a questa gloria.La luce taborica, tipica delle icone - una luminosità che viene dal di dentro eliminando ogni ombra - fa vedere sul volto la realtà nascosta, dà visibilità all’invisibile. È una luminosità rovesciata: ha il suo centro all’interno, e il punto più lontano e profondo emerge in primo piano, capovolgendo la prospettiva. È la luce che non fa più ombra perché il sole è dentro. Nella preghiera si rivela pienamente la gloria di Dio, perché è il luogo dove Dio acquista il suo vero peso (= kábód, cioè “gloria”).

“e la sua veste bianco sfolgorante”. Del volto non ha potuto dire altro se non che è “altro”, perché è la “gloria”. Di questa gloria ora descrive il vestito: esso è bianco ed emana folgori. Se così è il vestito, che cosa sarà il corpo? Ma il corpo stesso è il vestito della persona e l’umanità di Gesù, a sua volta, è vestito della sua persona divina, da cui emana appieno la dýnamis della gloria di Dio. La folgore,

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espressione di Dio, è l’attributo della veste! Cosa sarà il suo volto di gloria? I discepoli vedono faccia a faccia, direttamente, quella gloria che Mosè desiderò e ottenne di vedere solo di spalle (Es 33,18.23). In lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), perché è “irradiazione della sua gloria” (Eb 1,3a), addirittura “scultura” della sua ipostasi (Eb 1,3b): tutto l’universo è tenuto insieme da lui, che è questa potenza (Eb 1,3c). Gesù, nella trasfigurazione, si rivela come il centro di tutto, di Dio e dell’uomo uniti in un’unica storia, incredibile se non fosse testimoniata da Mosè ed Elia. Proprio perché unica dei due, questa storia è di passione e di risurrezione: è l’incontro dell’uomo peccatore con il Dio che lo ama.

v. 30: “Mosè ed Elia”. Svolgono nell’AT la stessa funzione degli angeli (cf. 24,4) e degli apostoli del NT: parlano del mistero di Cristo morto e risorto, annunciano la promessa e il compimento della parola di Dio. Mosè, la legge ed Elia, padre dei profeti sono in dialogo con Gesù. Lui risponde loro perché è colui che la legge e la profezia hanno promesso e atteso. Essi spiegano in anticipo il suo “esodo”, di cui sono appunto la promessa.

v. 31: “visti in gloria”. Mosè ed Elia, solo accanto a Gesù sono visti “in gloria”. Diversamente o non sono visti, o non nella gloria. Infatti la gloria della legge e della profezia è il Figlio obbediente, la Parola stessa, uditore perfetto del Padre. La loro “gloria” è quella di Gesù, il quale, d’altra parte, solo in mezzo a loro appare nella “sua gloria”. È la gloria del Dio della legge e della profezia, che adempie la promessa e colma l’attesa.

“parlavano del suo esodo”. La Scrittura parla della morte di Gesù e del suo significato, che è appunto quello dell’“adempimento a Gerusalemme”. Tutte le Scritture spiegano il deî (cf. 24,26.44.46), cioè perché è necessario, per Dio, finire in croce per l’uomo! Parlano infatti della sua “passione folle” (Cabasilas) per lui, della sua faticosa ricerca dell’Adamo fuggitivo. La croce, grande mistero del suo amore, è punto d’arrivo della sua ricerca e salvezza nostra.Il termine “esodo” è scelto appositamente per evocare la salvezza di Israele dall’Egitto e caricare la morte di Gesù di tutto il significato della pasqua.

“Gerusalemme”. Dopo l’infanzia e le tentazioni (2,22.25.38.41.45; 4,9) appare qui. È il termine del cammino e della prova di Gesù, meta dell’esodo al quale sono associati i discepoli stessi. È il luogo del compimento perché “non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (13,33).

v. 32: “Ora Pietro e quelli con lui, ecc.”. Si sottolinea il ruolo di Pietro staccandolo dagli altri. Comunque, come tutti gli altri, è “gravato dal sonno”. Nell’orto dormiranno tutti e non si sveglieranno se non alla fine (22,45s). Qui invece stanno a occhi aperti, perché rimasti svegli o svegliatisi completamente. Così “videro la gloria sua”. La trasfigurazione è quell’esperienza anticipata della risurrezione che dura quanto l’apertura d’occhio del discepolo sulla comunione di Gesù col Padre, quanto il suo stare sveglio con Gesù che prega. Lì contempla il mistero di Dio aperto all’uomo e capisce Gesù nel suo mistero: la croce. È quanto gli basta per affrontare lo stesso cammino. Per questo nell’orto sono chiamati a vegliare e pregare (22,40-46) mentre lui prega. Diversamente, invece dell’esodo, c’è la fuga che Marco sottolinea (Mc 14,50). In questo aprire gli occhi e il cuore sulla sua unione con il Padre, vediamo la “sua” gloria, la “gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,14).Ciò che nessun occhio mai vide (1Cor 2,9) né Mosè (cf. Es 33,20) né Elia (cf. 1Re 19,13) e tutti desiderano vedere (cf. Sal 27,8-9), il volto di Dio stesso, ai discepoli è concesso vederlo faccia a faccia.

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Il discepolo può contemplare svelatamente il volto di colui di cui Mosè vide solo le spalle; e dovette velarsi il volto perché il popolo non poteva sostenere la luce che di riflesso ne riverberava (2Cor 3,13; Es 34,29ss). “Vedere il volto di Dio” è la salvezza dell’uomo che solo lì raggiunge se stesso, perché è immagine e somiglianza di quel volto (Gn 1,26). “Guardate a lui e sarete raggianti” (Sal 34,6). Sperimentiamo la trasfigurazione nel contemplare l’uomo Gesù in comunione con il Padre: guardarlo mentre prega, è vedere il suo volto glorioso.

“e i due uomini, che stavano con lui”. Si ribadisce la presenza stabile (“stavano”) di Mosè e di Elia con la gloria di Gesù: di essa hanno parlato e in lui finalmente la raggiungono “e stanno con lui”. Anche noi ne vediamo la gloria all’interno della promessa di Dio, tra Mosè ed Elia: nell’oscurità dobbiamo guardare alla loro luce, finché non spunti il giorno e la stella del mattino non sia levata nei nostri cuori (2Pt 1,19). Mosè ed Elia stanno con Gesù come di notte la luce della luna sta col sole per illuminarci.

v. 3,3: “nel separarsi essi da lui”. La proposta di Pietro avviene nel “separarsi” del mondo celeste da Gesù. I discepoli desiderano arrestare la gloria visibile del Signore. Saranno sempre tentati di trattenerlo invece di seguirlo e testimoniarlo fino agli estremi confini della terra (cf. At 1,6-11).

“Maestro, è bello”. L’esperienza fatta da Pietro e compagni è quella della “bellezza”. La bellezza originaria del volto del Figlio ha alzato un lembo del velo che la ricopre. Lui stesso ha mostrato il suo volto di sposo alla sposa, perché anch’essa gli mostri il suo (cf Ct 2,14). “È bello che noi siamo qui”, davanti a questo volto, che è l’unico luogo dove possiamo vivere e sostare. Qui stiamo di casa. Altrove siamo sempre fuori posto.

“faremo tre tende”. La tenda (il greco skéné richiama l’ebraico shekinah) è simbolo della presenza di Dio, come pure la nube del v. 34. Due furono le “tende” o dimore di Dio nell’AT: la legge e la profezia, il passato da ricordare e il futuro da aspettare. Ora questa presenza è “presente” in Gesù. Ma non più come passato o futuro, bensì come realizzazione piena di ogni passato e pienezza di ogni futuro. L’ottavo giorno, nella luce del suo fulgore, squarcia il sonno e la notte dei discepoli.

“Non sapeva ciò che diceva, ecc.”. Ormai le tende non sono tre, ma una sola. La tenda definitiva di Dio è il “Gesù solo” che va verso Gerusalemme per compiere l’esodo iniziato da Mosè. È “una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo” (Eb 9,11): è il “corpo” di Gesù, il Figlio che entrò nel mondo per ascoltare la parola del Padre (Eb 10,5-7). Questa tenda è gloriosissima: è la “gloria” stessa tra gli uomini, in cui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Non può essere oggetto di possesso e non può essere trattenuta: è concessa a chi lo ascolta e lo segue in questo esodo.

v. 34: “una nube, ecc.”. La nube è segno della gloria di Dio. La rivelazione di Dio si svela velandosi e svelandosi si vela. La nube è rivelazione luminosa dell’oscurità della croce. Richiama Es 24,15-18; 40,34s. Questa stessa nube sottrarrà Gesù agli occhi dei suoi discepoli (At 1,9). Per ora li avvolge con la sua ombra, come Maria, figura del discepolo, che ascoltò e concepì la Parola (1,35). È la potenza stessa di Dio, nella quale “entrano” con l’obbedienza alla parola del Padre, che dice: “Lui ascoltate!”. Per questo Pietro stesso guarirà con la propria ombra (At 5,15). I discepoli “temettero”, perché è il luogo della rivelazione di Dio. Comunque entrano in essa. Il versetto seguente indica cosa significa “entrare” nella nube, cioè nella potenza di Dio che avvolge: è obbedire alla voce che “esce”, perché questa voce è Gesù stesso, Parola eterna di Dio, suo Figlio obbediente che va ascoltato.

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v. 35: “Questi è il Figlio mio, l’Eletto. Lui ascoltate!”. È il centro della trasfigurazione, dove si lega la visione all’ascolto. L’obbedienza a Gesù che si rivolge “a tutti” (v. 23) indica il cammino attraverso il quale tutti possiamo essere tra quei tre che giungono alla visione del mistero del Figlio. Veramente “beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (10,21.23).Nell’ascolto di Gesù, ascoltatore perfetto del Padre, diventiamo come lui. Il grande desiderio dell’uomo: “Mostrami il tuo volto” è soddisfatto, ed è soddisfatto insieme il grande desiderio di Dio verso l’uomo: “Mostrami il tuo volto” (Ct 2,14). Il suo volto è ormai il mio stesso, che rispecchia nell’ascolto quello del Figlio.

“una voce”. Quel Dio che non ha volto, ha voce; voce che cerca un volto. L’obbedienza ad essa costruisce i lineamenti del volto. Si diventa infatti ciò che si ascolta.Il volto è come la grafia del cuore, la sua espressione. La voce di Dio indica ora il suo volto e si riconosce in esso perfettamente: è il Figlio, immagine del Padre, sua Parola perfettamente eseguita. Non è la bat-qól, l’eco della voce di Dio: è Dio stesso che dice la sua Parola: il Figlio. Siamo infatti negli ultimi giorni. Questa voce si fa parola che si autorivela come Padre nel Figlio, combinando insieme Is 42,1 (il Servo), con il Sal 2,7 (il Messia), e Dt 18,15 (il Profeta). Il “diletto” di Mc 9,6 è sostituito con “eletto” che richiama di più Is 42,1 e apre la prospettiva sulla croce (23,35), dove si rivela il mistero del ritorno del Figlio obbediente al Padre.

“Lui ascoltate!”. È la nuova legge. La carne di Gesù è la Parola definitiva, il nuovo Mosè: “A lui darete ascolto” (Dt 18,15). È il volto perfetto del Padre, Figlio obbediente, Parola compiuta piena d’amore.

v. 36: “E mentre c’era la voce, fu trovato Gesù solo”. “Lui ascoltate!” si riferisce al “Gesù solo”. La parola definitiva che va ascoltata è questo Gesù solo che va in croce. Il trasfigurato sul monte è lo sfigurato sul Calvario, e solo lui! Per questo Paolo dice di non conoscere altro se non Gesù Cristo e questi crocifisso, e di aver visto ciò che occhio umano mai non vide (1Cor 2,2.9). La “parola della croce” è infatti sapienza e potenza di Dio salvatore (1Cor 1,18). La verità di Dio si è rivelata nell’uomo Gesù e solamente in lui (Ef 4,21): “Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio” (1Gv 4,2). La sua carne va conosciuta e riconosciuta ormai spiritualmente (cf. 2Cor 5,16). Dobbiamo ascoltare lui, mentre ci dice di seguire il suo cammino. La voce del Padre serve soprattutto a confermare l’incredibile cammino della croce di Gesù e dei discepoli dei vv. 22-26. Solo così la fede dei discepoli è veramente quella del “Cristo di Dio” e non quella satanica dell’uomo (cf. Mc 8,33).

“Ed essi tacquero”. Si spegne la voce, cessa la gloria di Gesù e tacciono i discepoli. Essi non raccontano a nessuno ciò che hanno visto. Parleranno dopo il dono dello Spirito, per portare tutti all’obbedienza di Gesù. L’ascolto di lui è la tenda che contiene la gloria: chi ascolta, vede il volto del Padre nel Figlio ormai rispecchiato nel proprio.L’ascolto porta alla visione, l’obbedienza alla figliolanza. Dall’ascolto alla visione, dalla parola al pane, dal battesimo all’eucaristia, il discepolo, associato al suo Signore, si trasfigura e cresce nel suo cammino verso Gerusalemme, come lui, il Pellegrino (cf. Sal 84,8).

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il monte della trasfigurazione.c. Chiedo ciò che voglio: ascoltare il “Gesù solo”. Chiedo al Padre di amarlo, conoscerlo e seguirlo nel suo cammino di Figlio.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- Gesù che prega- l’alterità del suo volto- di cosa parlano Mosè ed Elia- i discepoli rimangono svegli- è bello stare qui- la nube e la voce- questo è il Figlio mio. Lui ascoltate!- il Gesù solo.

4. Passi utili

Sal 67; Dt 34,29-35; 18,15; 2Pt 1; Rm 8,18-30; 2Cor 3; Fil 3,20s.

55. PREGAI I TUOI DISCEPOLI E NON POTERONO

(9,37-43a)

37 Ora avvenne il giorno seguente,essendo essi scesi dal monte, gli venne incontro molta folla.38 Ed ecco: un uomo dalla folla gridava dicendo:Maestro,ti pregoche guardi giù su mio figlio, perché è il mio unigenito!39 Ed ecco: uno spirito lo prendee all’improvviso gridae lo scuote con schiumae a fatica si ritira da lui sbattendolo. E pregai i tuoi discepoli40 perché io scacciassero e non poterono!41 Ora rispondendo Gesù disse:O generazione senza fede e pervertita, fino a quando sarò presso voi e vi sopporterò?

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Porta qui tuo figlio!42 Ora, mentre ancora egli avanzava,lo spezzò il demonioe lo stracciò.Ora Gesù sgridò io spirito impuro e guarì il bimbo (= figlio/servo) e lo restituì a suo padre.43 Ora furono colpiti tuttidalla grandezza di Dio.

1. Messaggio nel contesto

Luca salta il dialogo e la discesa dal monte (Mc 9,11-13 Mt 17,10-13). In questo modo l’esorcismo è più strettamente legato alla trasfigurazione. Dopo aver intravisto sul monte la gloria dell’ottavo giorno, termine dell’esodo, ora i discepoli restano con il “Gesù solo” (v. 36), che va verso la croce. È il Figlio dell’uomo che porta su di sé il male di tutti i figli degli uomini, per restituirli salvati al Padre. Come ora restituisce a suo padre il figlio unico, così alla fine consegnerà se stesso e tutti al Padre che l’ha appena chiamato “Figlio”. Si consegnerà come il “servo” che porta il male del mondo (23,46). Dopo l’esperienza “entusiasmante” (= divinizzante), ora scendono al basso, nella vita quotidiana. Qui si deve compiere il cammino dell’esodo, in mezzo agli uomini ancora abbandonati in balia della forza del male e dell’incredulità. Il racconto riferisce l’esperienza della chiesa post-pasquale. In assenza del suo Signore che si è separato da lei, non deve nostalgicamente guardare in alto. È invece chiamata a portare avanti la sua lotta contro il male e a testimoniare la sua risurrezione. Il “pane” le ha aperto gli occhi sul suo Signore, facendole comprendere la sua croce e la sua gloria. Senza “fare tende”, in forza di questa “visione” - che è il dono dello Spirito che apre gli occhi ai ciechi, e suscita la fede illuminando il cuore - la voce del Padre porta ad “ascoltare” (v. 35) il Figlio e a seguire il suo cammino.Il rapporto tra trasfigurazione sul monte e lotta in basso è lo stesso che la comunità cristiana sperimenta quando finisce la celebrazione eucaristica. Dopo che le si sono aperti gli occhi e ha visto la gloria del Signore risorto, passa dalla festa alla vita di ogni giorno, in cui c’è da portare la “croce quotidiana” (v. 23) col “Gesù solo” (v. 36). Al piano, nella quotidianità della vita, i discepoli dimostrano di non avere un ascolto sufficiente per vincere il male. La “visione” della gloria è data per confermare l’“ascolto” del Gesù solo che va verso la passione: dà la fede per seguirlo ogni giorno, nella lotta quotidiana contro il maligno. I discepoli “non poterono” vincerlo, perché fanno ancora parte di “questa generazione senza fede e pervertita” (v. 41).Il rimprovero è rivolto solo ai discepoli che non hanno visto la trasfigurazione. I tre sarebbero stati in grado di vincere il male. Come questi discepoli impotenti sono quanti, nella chiesa, celebrano l’eucaristia “dormendo” e non aprono gli occhi sulla gloria in modo tale da affrontare la lotta fino alla croce. Come dopo la prima salita sul monte (6,12), in comunione con il Padre, Gesù scelse i Dodici e scese al piano ad annunciare il Regno (6,17-49), così ora, dopo la sua salita definitiva presso il Padre (cf. 23,46), prefigurata nella trasfigurazione, scende tra i suoi a realizzare il Regno mediante la fede dei discepoli. Il suo essere assente è un suo nuovo modo di presenza. Infatti il motivo dell’incapacità dei discepoli a liberare dal male non è l’assenza del Signore, sempre presente e glorioso, ma l’assenza nel discepolo di quella fede che lo rende presente con la sua forza. Il tema di questo brano è la possibilità della salvezza in assenza di Gesù. Essa è data dalla fede. L’impotenza del discepolo a operare la salvezza è collegata da Gesù alla mancanza di fede. L’efficacia o meno nella lotta contro il male

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dipende dalla fede e non da altro. Il Signore è onnipotente e misericordioso; ma può agire solo dove è accettata la sua azione, dove c’è fede. Colui che è assente perché morto e risorto - e che “vediamo” presente e glorioso nel pane - è efficace nella vita quotidiana nella misura del nostro “ascolto” della voce del Padre, che ci dice di obbedirgli nel suo cammino della croce.Per questo i discepoli devono “piantarsi nelle orecchie” la parola, cioè che “il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini” (v. 44). Devono comprendere bene questo, che è il significato glorioso della sua passione. Diversamente restano nell’oscurità e nelle tenebre, in balia di una forza demoniaca. E non sono in grado di vincerla, perché la sua vera forza viene dalla loro apistía (= l’incredulità).Questo è l’esorcismo più duro di Gesù, anche se Luca ne smorza le tinte rispetto a Marco. È la vittoria sullo spirito più difficile da vincere, che Marco chiama “sordo e muto” (Mc 9,25). Esso impedisce l’ascolto della fede e ha a che fare con la sordità e la mutezza dei discepoli davanti alla parola della croce (cf. v. 45). Il racconto è anche un preludio al momento in cui il “Figlio unico” sarà dato in balia delle forze “delle tenebre”, nell’ora che è loro propria, quella della croce (cf. 22,53). Il racconto presenta analogie anche con la risurrezione di Nain (“figlio unico” v. 38 = 7,12; “Io consegnò a suo padre” v. 42 richiama “lo diede a sua madre” 7,15). Questo fanciullo, chiamato “figlio unico/servo”, consegnato al padre, richiama Gesù, il Figlio unico del Padre e servo dei fratelli, che si consegna al Padre nella sua morte (23,46). Nella trasfigurazione la voce del Padre lo chiama “Figlio” che va ascoltato. Qui il Figlio obbediente consegna al padre il figlio dato in balia al male, anticipo della consegna sua e di tutti al Padre. Questo brano rappresenta per la comunità la traduzione “storica” e attualizzata della vittoria escatologica che Gesù già ha riportato. Essa è resa odierna a noi nell’oggi della fede, quando celebriamo l’eucaristia. Questo ci dà la gloria capace di metterci sul cammino della croce, in modo da giungere alla risurrezione (Fil 3,10-11).La fede che qui si richiede riguarda la parola che i discepoli sono restii ad “ascoltare”, ossia il v. 22 che annuncia la croce di Gesù e il v. 23 che la applica al discepolo (cf. vv. 44-45). Essi non avevano certo difficoltà a restare nella gloria della trasfigurazione. Anzi volevano trattenerla! C’è una fede impotente e una potente. La fede potente è solo quella che accetta l’impotenza della croce. L’altra che non conosce la potenza della croce (cf. 23,35-39), è impotente a salvare. È incredulità e perversione!

2. Lettura del testo

v. 37: “Il giorno seguente”. È il giorno seguente l’ottavo (v. 28), quello feriale dopo la festa. È il giorno della vita quotidiana, in cui bisogna “ascoltare” il “Gesù solo” che va a Gerusalemme, in obbedienza alla voce del Padre. In questo brano si tratta del problema del “giorno dopo”: come vivere la festa della trasfigurazione e la gloria del monte nella bassezza della vita sconvolta e agitata dal male. Come riportare nell’“oggi quotidiano” la vittoria sul male già ottenuta da Cristo, che celebriamo nell’eucaristia? Come vivere la domenica di lunedì? È il problema della fede. La trasfigurazione, luce che vince la tenebra, è avvenuta di notte (vedi l’agonia nell’orto!), come pure la celebrazione eucaristica. Anche il giorno seguente Gesù è ancora tra i suoi, ma non più come il Signore della gloria, bensì come il “Gesù solo” che va verso la croce. Gesù, definitivamente salito in alto, è ancora presente tra i suoi mediante la sua potenza salvifica di Risorto per continuare la lotta contro il male. Non si è eclissato. Anzi, discende, ricco dei suoi doni celesti, perché ascendendo in cielo, imprigionò la prigionia, rese schiava la schiavitù e diede doni agli uomini (Sal 68,19 = Ef 4,8; cf. At 2,33). Ma in un modo nuovo: mediante la fede. È quanto questo racconto ci vuole insegnare.

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“gli venne incontro molta folla”. Nella sua condiscendenza verso di noi, egli ci dà lo Spirito e la salvezza. Per questo accorriamo a lui. La sua discesa unisce i due mondi: quello in alto, sul monte della luce presso il Padre e quello in basso, nelle convulsioni demoniache in cui si agita l’uomo che siede nelle tenebre e nell’ombra di morte (1,79). Alla sua condiscendenza risponde la possibilità del nostro andargli incontro.

v. 38: “Ed ecco: un uomo, ecc.”. L’attenzione si sposta dalla folla e viene concentrata su un “grido”. Quasi la folla stessa fosse una bocca che esprime a Gesù la sua supplica. L’invocazione è che lui “guardi giù”. Nel NT troviamo questa parola (epiblépó) solo qui, in 1,48 e in Gc 2,3. L’espressione invece è frequente nell’AT, come invocazione a Dio perché intervenga dall’alto e salvi, soprattutto nei salmi (cf. Sal 13,4; 25,16, ecc.).Lo sguardo di Dio è chiamato dal padre a posarsi sul “figlio mio”, in balia del male. Causa del grido è la speranza prigioniera dell’uomo, il suo futuro fatalmente compromesso. È un’allusione allo sguardo che il Padre non potrà non avere verso il suo Figlio unigenito, quando griderà a lui dall’alto della croce, abbandonato alle tenebre, consegnato nelle mani degli uomini, sballottato dal potere del male.

“perché è il mio unigenito”. Questo è il motivo dell’invocazione. Il motivo per cui il Padre guarda verso l’uomo - ogni uomo! - è che egli è “unigenito”, perché lo vede ormai nel suo Figlio Gesù, l’eletto. Ognuno di noi è amato dal Padre come unico, con lo stesso amore singolare e irripetibile con cui ama Gesù. Dice infatti Gesù al Padre: “Li hai amati, come hai amato me” (Gv 17,23) e “come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15,9): l’amore del Padre verso Gesù, “l’unigenito”, è aperto a ognuno di noi, perché l’amore unico che il Padre ha verso di lui lo ha spinto ad amare noi allo stesso modo. La situazione è la medesima del “figlio unico” della madre (7,12) e della “figlia unica” del padre (8,42) che vengono risuscitati.

v. 39: “Ed ecco: uno spirito lo prende, ecc.”. Il figlio è preda dello spirito del male che lo prende e lo sballotta - come Gesù, quando si darà nelle mani degli uomini, in balia dell’impero delle tenebre (22,53)!L’uomo è sempre posseduto da qualche spirito. Ma quale? Spirito di morte o di vita, spirito impuro o Spirito santo? L’uomo non è pastore di se stesso: ha sempre una guida. O gli è pastore il Signore della vita (Sal 23), oppure la morte (Sal 49,15). La libertà dell’uomo è accettare di avere Gesù come Signore e lasciarsi guidare da lui che è l’agnello immolato: l’unico agnello che può essere pastore perché dà la vita. Tutti gli altri pastori ci tolgono la vita e ci rendono schiavi. Con lui la nostra libertà è liberata e posta nello Spirito di vita. Diversamente restiamo nello spirito di morte.Nel caso del fanciullo, che rappresenta tutti e ciascuno di noi, il vero protagonista è lo spirito del male che lo “prende”. Questi diventa semplicemente sua voce (“grida”) e sua maschera (“schiuma”), quasi suo vestito, marionetta che la sua mano manovra dal di dentro, “scuotendolo qua e là, spezzandolo e stracciandolo” (v. 42) e lasciandolo a terra come un cencio per riprenderselo poi. Questa drammatica e dettagliata descrizione del figlio unico è un anticipo del destino del Figlio, nell’ora della croce.

v. 40: “non poterono”. I discepoli non possono vincere questo male. Marco, con una certa ironia, per ben cinque volte descrive il male: è un’analisi accurata, che mette in risalto come la “discussione” dei discepoli con gli avversari approda ad analisi sempre più corrette, ma inefficaci. Luca sottolinea in modo più blando l’impotenza dei discepoli, secondo il suo stile più discreto. Il motivo verrà detto nei vv. 44-45: la loro non comprensione del Figlio dell’uomo consegnato nelle mani degli uomini. Marco sottolinea ancora più duramente il fatto, identificando il demonio “muto”, anzi, “sordo e muto” (Mc 9,17.25) con lo spirito stesso che chiude i discepoli nella sordità e nella mutezza (Mc 9,32-34). Essi

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non possono vincere il demonio sordo e muto, perché loro stessi sono sordi e muti. Sono impotenti a liberare dal male, perché ne sono preda. Questo male impedisce di accogliere quanto Gesù ha detto circa la croce propria e del discepolo nei vv. 22-23 e quanto il Padre ha detto di ascoltare al v. 35. Se “nulla è impossibile presso Dio” (1,37), i discepoli non sono ancora presso Dio, perché non ascoltano la sua parola di verità. Sono presso il nemico, di cui ascoltano la parola di menzogna. Il nocciolo della fede è proprio questo: accettare o meno la parola della croce. Comunque l’impotenza riconosciuta dell’uomo è atrio della fede. Questo è evidenziato da Mc 9,24, dove il padre crede che Gesù può venire in aiuto alla sua incredulità e lo prega. La preghiera perfetta è quella per ottenere la fede, che è vittoria sul mondo e sul maligno (1Gv 5,4; 1Gv 2,13).Dio “strumentalizza” sapientemente la nostra impotenza, il nostro peccato e la nostra infedeltà come luogo del nostro incontro con lui, potente salvatore fedele.

v. 41: “generazione senza fede e pervertita”. Gesù collega immediatamente l’impossibilità all’incredulità, appunto perché “tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23). Eppure i discepoli avevano ricevuto “potere e autorità su tutti i demoni” (9,1)! Gesù si lamenta con i suoi con le stesse parole di JHWH (cf. Nm 14,27; Dt 32,5; Is 65,2). L’incredulità e la perversione non sono un fenomeno sporadico e casuale: sono un fatto di “nascita”, collettivo, che tende a perpetuarsi. Per questo Gesù dice: “o generazione incredula e pervertita”. La forza del maligno, che è la sua menzogna, perverte l’uomo da Dio, in modo che non si converta a lui: è una parola “deviante”, ormai entrata dalle orecchie nel cuore dell’uomo. L’uomo le obbedisce, disobbedendo al Padre. Questa “incredulità”, causa dell’impotenza dei discepoli, anche da Luca è collegata alla sordità dei discepoli nei confronti del mistero della croce (cf. vv. 44-45).

“fino a quando sarò presso di voi?”. Gesù allude alla sua fine, quando non sarà più con noi e sarà finita la sua sopportazione. Non perché sarà finita la sua pazienza con noi, ma la nostra con lui, perché noi lo avremo tolto di mezzo! Tuttavia allude anche al tempo successivo, dopo l’ascensione, in cui non sarà con noi fisicamente e ci sosterrà con la forza della fede.

“Porta qui tuo figlio” In genere i malati vengono condotti da Gesù o lui è invitato verso di loro. Qui invece lui stesso chiede che gli venga condotto il figlio. Gesù domanda al discepolo quella fede che in concreto porta a lui, che sulla croce ha vinto il male: essa conta non su ciò che è possibile a noi, ma su ciò che è possibile a lui, il “Figlio unico”, consegnato al Padre, del quale abbiamo intravisto e celebrato la gloria della trasfigurazione.

v. 42: “lo spezzò il demonio e lo stracciò”. Come in tutti gli esorcismi, c’è l’autodifesa del male, che consiste in sentimenti, agitazioni e convulsioni.

“Ora Gesù sgridò”. Gesù vince il male con calma. Lo sgrida come un bimbo sbugiardato. Basta l’autorità della sua parola, senza che impegni la sua forza - in realtà si è impegnato fino a fondo per vincerlo, consegnandosi lui stesso nelle sue mani. Così il demonio si è scottato per bene e ora si guarda bene da lui. Per altro basta il potere della parola di verità per vincere il padre della menzogna.

“lo restituì a suo padre” È importante notare come il “figlio/servo” (in greco “país” significa ambedue) sia consegnato al padre, sano e salvo dopo lo spasimo mortale. Richiama Gesù, il Figlio/Servo, l’unigenito che si consegna al Padre sulla croce (23,46). Oltre che alla croce, allude anche alla vittoria escatologica, quando “sarà la fine”, perché il Figlio consegnerà il Regno a Dio

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Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato, potestà e potenza (1Cor 15,24). È la vittoria finale, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).

v. 43: “Ora furono colpiti tutti dalla grandezza di Dio”. Essa è visibile e suscita stupore in quest’azione del Signore, trasfigurato sul monte e vittorioso nel piano. È l’esperienza del Signore glorioso nell’eucaristia che ci dà la fede e ci fa portare la croce quotidiana fino a Gerusalemme; è lo stupore per l’efficacia storica della fede nel Signore trasfigurato, consegnato contemporaneamente al Padre e nelle mani degli uomini.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi ai piedi del monte della trasfigurazione.c. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore che mi guarisca dalla mia incredulità, mi dia fede piena, in lui morto e risorto per me, perché possa vivere nella quotidianità la sua sequela.d. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- la discesa dal monte al piano il giorno dopo- il grido del padre- la situazione del figlio- l’impotenza dei discepoli e l’incredulità.

4. Passi utili

Ger 2,13; Eb 11; Lc 8,22-25; 8,40-56.

56. METTETE DENTRO GLI ORECCHI QUESTE PAROLE

(9,43b-45)

43b Ora, stupendosi tuttisu tutto quanto faceva,disse ai suoi discepoli:44 Mettete voi dentro i vostri orecchi queste parole:il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini. 45 Ora essi ignoravano

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questa parola, ed era loro velata perché non la sentissero, e temevano di domandargli su questa parola.

1. Messaggio nel contesto

Dopo il pane Gesù rivela l’identità propria (v. 22) e quella del discepolo (v. 23). Il Padre conferma questa rivelazione: è il cammino del Figlio, che implica la strettoia della croce. “Lui ascoltate!”, dice, poiché è il “Figlio mio, l’Eletto” (v. 35), proprio in quanto Figlio dell’uomo sofferente. La fede è accettare questa rivelazione. I discepoli in sua assenza - cioè la chiesa di Luca e nostra! - non sono in grado di vincere il demonio, pur avendone ricevuto il potere (v. 1). Infatti non hanno questa fede che vince il male.Essa riguarda proprio la necessità (deî) della croce del maestro (v. 22) e del discepolo (v. 23). Ora Gesù ribadisce questo che è il centro della fede, che i discepoli non devono dimenticare. Solo così possono vincere il male e riportare al piano la gloria del monte. In realtà i vv. 22 e 44 fanno da inclusione alla rivelazione del Figlio di Dio. II Risorto stesso non farà altro che ripetere questa lezione ai discepoli ancora scioccati dalla sua passione (cf. 24,26.44-46). La Parola seminata che fruttifica e si fa pane di vita è quella della croce: al discepolo, che mangia e vive di essa, si aprono gli occhi sul Signore risorto.Pur essendo il secondo annuncio esplicito della morte di Gesù, i discepoli non comprendono ciò che dice. Hanno anzi una reazione di chiusura, dura e cosciente: non capiscono, non vogliono capire e si guardano bene dal chiedere, in modo da continuare a non capire. È un’incomprensione non solo inevitabile, ma anche voluta. Si chiudono nella sordità e nel mutismo. Questa incomprensione non vanifica il piano di Dio. Anzi lo realizza! Infatti ci fa sentire della stessa stoffa del peccato del mondo e identifica noi discepoli con gli anziani, sommi sacerdoti e scribi, con tutti gli uomini increduli e perversi nelle cui mani il Figlio dell’uomo si consegna. Questa incomprensione, opera diabolica per eccellenza, chiude tutti nel peccato radicale, nella disobbedienza dell’incredulità che è insieme il luogo dove Dio trova tutti “per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32).Mentre Marco scandisce la seconda parte del suo Vangelo su tre predizioni della morte/risurrezione, Luca riprende di continuo il tema, lasciandolo risuonare sempre in modo variato e diverso (9,22.31.43b45; 12,49ss; 13,31ss; 17,25; 18,31ss; cf. anche dopo la risurrezione: 24,7.20.26.44-46).L’episodio precedente presentava la potenza del Figlio dell’uomo in ciò che egli fa per l’uomo. Qui si presenta la sua impotenza, in ciò che egli si fa per l’uomo. Là si diceva ciò che ha fatto lui per noi, qui cosa facciamo noi a lui nella sua consegna definitiva a noi. Se la sua azione ha suscitato ammirazione, la sua passione suscita incomprensione. La consegna del figlio unico al padre (v. 42) che suscita stupore per la “grandezza di Dio” (v. 43), mostra veramente qual è la grandezza di Dio e l’origine della salvezza per il mondo ancora posto nell’incredulità.Davanti alla nostra incredulità, Gesù ripropone la parola della fede. Davanti alla nostra infedeltà, egli rinnova la sua fedeltà. Davanti alla nostra sordità, egli ripete la sua parola. C’è una corrispondenza biunivoca tra il nostro peccato, sordità al suo amore e la sua parola, dichiarazione totale di amore.Il centro del brano è la “Parola”: il Figlio dell’uomo consegnato nelle mani degli uomini. Tutti gli altri termini sono imparentati direttamente con il termine “parola”: “discepoli”, “orecchio”, “ignorare”, “detto”, “velato”, “percepire”, “domandare”. Questo indica chiaramente come tale consegna sia il contenuto della parola di rivelazione alla quale siamo sordi.

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2. Lettura del testo

v. 43b: “Ora, stupendosi tutti su tutto quanto faceva, ecc.”. Tutti, folla e discepoli, sono stupiti di tutte le cose che fa Gesù. L’oggetto di stupore è l’azione potente del Figlio dell’uomo a favore dell’uomo. Ma solo ai “discepoli” Gesù rivela la sua “passione”, che sta all’origine di tale azione e che lo porterà all’impotenza della croce. Davanti a questa bisogna uscire dall’ambiguità. O si diventa discepoli credenti, accettando la vera “grandezza di Dio”, che è la sua umiltà e piccolezza nella sua consegna a noi, o ci si chiude alla fede, nell’incomprensione di “questa” che è la “Parola”, restando pur aperti a tutte le “altre” parole in cui non c’è salvezza. Per tre volte si parlerà nei vv. 44.45 di “questa” parola o detto!

v. 44: “Mettete voi dentro i vostri orecchi, ecc.”. Richiama la semina della Parola del c. 8. La Parola entra, come un seme, attraverso l’orecchio nel cuore e porta il frutto della “gnosi dei misteri del Regno” (8,10). È quell’ascolto che porta a fare la Parola e ci fa entrare nella famiglia di Gesù (8,21), nel suo stesso mistero di amore reciproco con il Padre (10,21s).L’imperativo “mettete”, rafforzato con l’aggiunta dei “voi”, diventa un superimperativo. L’imperativo aoristo positivo indica in greco la necessità di dare inizio a un’azione nuova. I discepoli sono perentoriamente chiamati a fare ciò che ancora non hanno fatto.La parola “mettere dentro” - conficcare, piantare - denota la fatica di chi pianta e la resistenza del terreno che riceve (cf. la semina sulla strada e sulla pietra di 8,5s). Qui il discepolo è chiamato a un’operazione nuova e faticosa che, vincendo ogni resistenza, porterà a quella fede la cui mancanza ha impedito di portare “al giorno seguente” la gloria dell’“ottavo giorno” (vv. 37.28).

“dentro i vostri orecchi”. L’orecchio è l’organo dell’udito, depositario della parola. Anche se comune a tutti gli animali, l’orecchio ha nell’uomo una funzione tipica: accoglie la parola. Questa ha un potere incredibile, perché l’uomo diventa la parola che ascolta, è generato dalla parola che ode. Ciò che è deposto nell’orecchio, entra nel cuore e lo plasma dandogli forma. L’orecchio per l’uomo è come la terra per il frutto: lo genera, secondo il seme che vi è deposto. L’uomo non è natura, ma storia; è un divenire secondo la parola che esegue. Marco aveva descritto il demonio del brano precedente come “spirito muto e sordo” (Mc 9.25), muto perché sordo. Rende l’uomo incapace di rispondere perché l’ha reso incapace di ascoltare.Si tratta di vincere il Maligno nella sua manifestazione più radicale: egli è il padre della menzogna, omicida fin dal principio (Gv 8,44), perché impedisce a noi di “ascoltare” l’amore unico dell’unico Dio per noi. Solo questo ci fa vivere, perché ci permette di rispondere amando il Signore (cf. 10,25-28). La sordità, che ci impedisce di conoscerlo (cf. v. 45), ci rende impossibile amarlo e causa la nostra morte.

“queste parole”. Si sottolinea che “queste” e non altre, sono “le parole” da piantarsi nell’orecchio. Esse non riguardano tanto ciò che Gesù ha fatto quanto ciò che si è fatto, non la sua azione, ma la sua passione per l’uomo. È qui che si rivela Dio nella sua grandezza di amore infinito, che si fa infinitamente piccolo per consegnarsi nelle nostre mani.Solo queste parole ci guariscono dalla sordità che ci uccide. Lasciarle entrare negli orecchi è la condizione per poter “ascoltare” e “amare” secondo il comando di Dt 6,4s. È la fede che vince lo spirito del male, l’incredulità e la perversione, la disobbedienza a Dio e la fuga da lui. Finché siamo in

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tale sordità non siamo in grado di vincere il male. Anzi, lo operiamo e siamo come una fonte di acqua infetta che non può che avvelenare.Senza questa parola, quanto Gesù ha fatto per noi è ambiguo. Le sue azioni di potenza non ci salvano, fino a quando non si capisce l’impotenza della sua consegna a noi.Ciò che salva l’uomo è il sentirsi amato da Dio. Solo così può riconoscersi sua creatura e accettare senza drammi il proprio limite naturale e la morte stessa, come incontro con lui. Due cose sono proprie all’uomo: la morte e il rifiuto di essa. Deve vincere questo e accettare quella, diversamente vivrà sempre ogni limite, per quanto grande, come privazione e la morte, pure inevitabile, come perdizione. Uno si sente amato non se riceve tanti doni dall’altro. I doni sono segni ambigui. L’ambiguità cessa solo quando, non avendo più doni da fare, il donatore dona se stesso. Amare infatti è donare se stesso. Ma il dono di sé pone nell’impotenza e nella povertà assoluta e avviene quando non c’è più nulla da dare. Per questo conosciamo “la grazia del Signore nostro Gesù Cristo”, perché da ricco che era si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (2Cor 8,9).Una sorella, in un ospedale del Mozambico, non poteva più fare niente per i suoi malati che amava e tra i quali lavorava da 25 anni. Diventata povera lei stessa pensò: “È inutile che resti. Non posso dare più nulla. Me ne andrò!”. E lo disse a un anziano malato. Questi rispose: “Come, ci lasci?! Una mamma non abbandona il figlio quando non ha più nulla da dargli!”.L’amore si rivela tale solo nel restare volontariamente inchiodato e vicino all’amato, compatendone il male. Ciò che fai è segno di amore solo se nasce da questa compassione che patisce il male con l’altro. Diversamente è segno di potere. Ecco perché sono necessarie la povertà e l’umiltà, l’impotenza e la consegna di Dio. Proprio perché è Dio, amore.

“Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini”. Per questo il Figlio dell’uomo, glorioso e potente, giudice supremo (v. 26), “Figlio eletto” del Padre (v. 35), diventa il Figlio dell’uomo impotente e ignominioso, giudicato e nientificato, scambiato con Barabba, figlio di nessuno.La fede è cogliere questo. Chi ha questa fede vince il maligno, che, con la diffidenza, ha iniziato ogni male. Così la gloria dell’ottavo giorno raggiunge il giorno seguente; la festa della trasfigurazione si vive nel quotidiano.

“sta per”. Traduce il verbo greco méllein e indica un futuro già presente e iniziato. È il futuro immediato che ogni presente porta attaccato a sé, come suo secondo fondo. In ogni presente è velata la rivelazione del dono di Dio: il Figlio dell’uomo che si consegna.

“essere consegnato”. Lo stesso verbo indica l’azione del Padre che ci consegna il Figlio, l’azione del Figlio che si consegna a noi e l’azione dell’uomo, rappresentato da Giuda, che consegna Gesù ai nemici (22,6.21.22.48). Un unico verbo e un’unica azione costituisce il sommo male dell’uomo, che tradisce il Figlio di Dio, e il sommo bene di Dio che, in questa consegna di se stesso all’uomo, “tradisce” la sua passione segreta, il suo amore folle per lui!Il mistero più “mirabile” di Dio nel mondo è la sua opera di salvezza, mediante cui riesce a volgere il male in bene. La trasfigurazione è questa capacità di vedere in profondità: per la croce di Gesù, suo Figlio, nella stessa unica realtà di male è presente la potente salvezza di Dio, il suo amore per noi.L’astuzia di Dio, che sorprende e beffa la pur grande intelligenza e forza del male, è quella di partire dal male stesso e da posizione di debolezza per vincerlo. L’azione di Dio è come uno sviluppo fotografico: il negativo diventa positivo, per la luce della sua misericordia.

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Dio lascia il male nel mondo non perché lo voglia - Dio non vuole il male! - e non perché non può vincerlo (cf. Sal 33,7). Lo lascia perché vuol bene a noi che lo facciamo, e lo utilizza per un maggior bene. I buchi e i vuoti della nostra umanità deficitaria, li riempie con perle preziose e gemme, con la sua divinità stessa che è amore di misericordia (cf. Rm 5,20, ma anche gli ammonimenti di 6,1; 7,7).

“nelle mani degli uomini”. Questi uomini sono i “peccatori” di 24,7. In seno al nostro peccato, concepiamo la sua misericordia. Dio si rende presente a noi all’interno della nostra situazione reale, che è quella di peccato. La stessa parola “concepire” (syllabein) si usa per Maria che concepisce Gesù per dargli la vita (1,31) e per il potere delle tenebre che, nella sua ora, tende le mani per stritolarlo e dargli la morte (22,54). Il bene non si nega al male; si concede per amore e lo ingravida, perché partorisca l’inconcepibile: Dio stesso nella sua misericordia!Così si adempiono le Scritture e il maligno involontariamente porta a compimento il grande disegno di Dio (cf. Mc 14,49b; At 4,27s). C’è davvero da stupirsi della sua grandezza (v. 43a)! In questa sua consegna nelle mani degli uomini, Gesù realizza pienamente la rivelazione del Dio misericordioso, usabile per i disgraziati e per i cattivi (6,35) e si rivela “Figlio dell’Altissimo”, “misericordioso come il Padre” (6,36). Nella sua passione ama, benefica, benedice e prega per noi che siamo suoi nemici, odiatori, maleditori e maltrattatori. Così ci fa dono dell’amore assoluto del Padre e ci salva.Ormai, in tutte le nostre azioni negative, che si riassumono nel consegnare (= tradire) il Figlio dell’uomo, è intervenuto il positivo: Dio si tradisce nel suo amore, consegnandosi a noi in Gesù.

v. 45: “essi ignoravano questa parola”. Quest’ignorare, all’imperfetto, indica un’azione antica che dura al presente. È il peccato fondamentale: la non conoscenza dell’amore che Dio ha per noi. Quest’ignoranza, peccato comune a tutti, discepoli compresi, porterà alla croce. Ma proprio questa sarà il luogo in cui avverrà la conoscenza dei misteri del Regno. Il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, che è l’illuminazione della fede, è frutto del “piantarsi nelle orecchie” il v. 44, che ci presenta la sua passione per noi.Per ora tale fede è impossibile anche ai discepoli. Bisogna prima che Gesù muoia e risorga e spieghi loro il significato della croce. Ora la “parola” è solo predetta, non ancora realizzata. Gesù l’annuncia in anticipo, perché si creda alla promessa. Questo annuncio, così chiaro e pur così misterioso, non è superfluo per i discepoli anche se non sono ancora in grado di capirlo. Serve a rivelare il peccato loro che è lo stesso del mondo: la non conoscenza dell’amore del Padre, causa della croce del Figlio. Così si trovano tra quelli nelle cui mani si consegna il Figlio dell’uomo. La fede infatti è capire che Cristo è morto “per me” (Gal 2,20), per me che sono il primo tra i peccatori (1Tm 1,15).

“ed era velata”. Il velo originario della menzogna di satana è tolto nella consegna del Figlio dell’uomo, in cui si “svela” la verità di Dio che è amore e dell’uomo che è amato. Ma questo svelarsi avviene nel supremo velamento di Dio, che si ricopre in Gesù di tutto il male dell’amato, per salvarlo. Per ora questo mistero rimane nascosto all’uomo, che vive nell’incredulità e nell’avversione a Dio, si nasconde e fugge da lui per ignoranza e paura, come Adamo. Ogni uomo fa parte della generazione senza fede e pervertita (v. 41), convertita in tutte le direzioni fuorché quella giusta, perché non conosce e non accetta l’amore di Dio. La rivelazione di Gesù in croce ci salva, perché ci porta a riconoscere e credere all’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16).Se la Parola è “velata”, chi l’ha velata? Satana, l’uomo o Dio? È come nella “consegna” di Gesù, dove l’azione del nemico, che l’uomo compie, è tradotta in azione di Dio. Il velo di satana e del male dell’uomo assumerà uno spessore cosmico nelle tenebre della croce: ma Gesù lo assumerà su di sé, rivelando lo splendore di Dio che è misericordia.

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“perché non la sentissero”. È sempre l’azione del demonio sordo che, come ha velato, così impedisce di percepire la sua parola di amore, in modo che non possiamo vivere secondo la nostra verità. Ma l’azione di Dio, nella risurrezione, farà ricordare il nostro peccato come luogo della sua grazia (cf. 24,6-8).

“e temevano di domandargli”. Questo timore ha la sua radice in quello di Adamo, dovuto al sospetto e all’ignoranza su Dio (Gn 3,10). Ora però è cresciuto ed è divenuto una resistenza esplicita e precisa: non si vuole una risposta che si teme e per questo si teme di fare la domanda. Qui vediamo che c’è nel discepolo il rifiuto della risposta e la volontà di chiudersi nella propria tenebra, amata più della luce! È la consumazione del peccato, comune a ogni uomo!Questo timore sarà vinto solamente dal dialogo col Gesù risorto, che stimola e conforta il discepolo a interrogarsi sul perché della passione.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo, immaginandomi ancora ai piedi del monte della trasfigurazione.c. Chiedo ciò che voglio: mettermi negli orecchi la Parola della croce, la passione di Dio per me.d. Ascolto e contemplo ogni parola di Gesù e mi immedesimo coi discepoli.

4. Passi utili

Sal 22; Lamentazioni; Sap 2,12-20; Lc 17,11-19; 18,35-43.

57. ENTRÒ IN LORO UNA DISCUSSIONE

(9,46-48)

46 Ora entrò in lorouna discussionechi di loro fosse il più grande.47 Ora Gesù sapendola discussione del loro cuore, preso un bambino lo collocò accanto a sé, e disse loro:48 Chi avrà accolto questo bambino nel mio nomeaccoglie me;e chi avrà accolto me,accoglie chi mi ha mandato;

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infatti il più piccolo tra tutti voi, questi è grande.

1. Messaggio nel contesto

L’ignoranza della Parola, il velo che impedisce di percepirla e la resistenza nel non volerla conoscere (v. 45), sono radice e frutto dell’autoaffermazione. Dio è amore, quindi umile. L’umiltà è via alla sua conoscenza, la superbia ne sbarra l’accesso. Impedisce di conoscerlo proprio perché ha la sua origine nell’ignoranza di Dio. Lui è amore per l’uomo: chi lo ignora, deve trovare in sé la propria salvezza. Da qui l’autoaffermazione che allontana dalla salvezza. Per questo il superbo non conosce Dio e, mentre cerca di salvarsi, si perde e lo conosce sempre meno.Dopo la prima predizione della passione, Gesù aveva dichiarato il rapporto “io-se stesso”: l’io si salva perdendosi per lui e si perde nel volersi salvare da lui (vv. 23-24). Ora, dopo la seconda predizione, dichiara il rapporto “io-altri” (vv. 46-48) e subito dopo quello “noi-estranei” (vv. 49-50). Come cerchiamo di possedere il mondo intero (v. 25), così cerchiamo di distinguerci dagli altri, di essere primi, emergere e dominare, sia come singoli (vv. 46-48) che come collettività (vv. 49-50). La paura, che porta a cercare di salvarsi, rende egoisti e avidi di cose (ricchezza), di persone (potere e vanagloria) e di Dio stesso (autosufficienza).La fiducia in Dio, invece, per chi conosce che è amore, porta a perdersi in lui e rende capaci di amare in povertà e umiltà.I discepoli resistono al cammino di umiltà di Dio perché hanno in sé il peccato di protagonismo. È quello di Adamo, che volle addirittura occupare il posto di Dio. È il peccato che ci porta sempre e comunque a occupare il “primo” posto: è l’autoaffermazione, primo e ultimo frutto dell’egoismo. È il “peccato originale”, che sta cioè all’origine di tutti i mali, sia di quelli del singolo, che non si accetta come creatura di Dio, sia quelli della comunità, che diventa campo di lotta per la supremazia.Solo la conoscenza di Dio può rendere umili e solo l’umiltà porta alla sua conoscenza, perché l’amore è umile! Per questo l’umiltà è porta alla salvezza e l’autoaffermazione è porta alla perdizione.In questa scena Gesù rivela il mistero della vera grandezza: è quello del Figlio dell’Altissimo che si è fatto più piccolo di tutti. Questo è il segno per riconoscerlo fin dalla nascita: “troverete un bambino” (2,12). Ancora più avanti riprenderà la lezione, indicando nel bambino la condizione di creaturalità necessaria per entrare nel Regno (18,15-17).In questo brano Gesù spiega la vera gerarchia all’interno della comunità dei discepoli: il più grande è il più piccolo. Perché il più piccolo fra tutti è lui. Chi accoglie il più piccolo, accoglie lui e accoglie Dio stesso, che tale si è fatto per accogliere tutti.Contro ogni ambizione stoltissima di carriera e di arrivismo nella chiesa, Gesù dichiara che la scala di valori trova in testa l’ultimo, perché il Figlio dell’uomo si è fatto servo di tutti. Questo tema è ripreso nell’ultima cena, dopo l’annuncio del tradimento (22,24ss).Il racconto inizia con la parola “più grande” e termina con la parola “grande”. Riguarda chiaramente la grandezza, da cui si misura la realizzazione dell’uomo.I discepoli fanno consistere la grandezza nel “più” che induce a ingrandire il proprio io a spese altrui. È un “più” di troppo. Per Gesù, “grande”, senza alcun “più” di concorrenza o invidia, è colui che più di tutti si è rimpicciolito per fare posto all’altro. Per questo la parola fondamentale è “accogliere”. Accogliere è caratteristica di Dio, amore che accoglie tutti. Per questo si è fatto il più piccolo di tutti! La “minorità” o umiltà, caratteristica dell’amore più grande, è criterio di realizzazione dell’uomo secondo l’immagine di Dio. La “minorità” è poi principio di fraternità: una minorità universale diventa fraternità universale, comunione con il Padre, tutto in tutti.

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La fede o l’incredulità è comprendere o meno il mistero della piccolezza e dell’umiltà di Gesù, nostro Signore e Dio, nato in una stalla e morto sulla croce per amore. S. Ignazio pone come discriminante tra il vessillo di Cristo e quello di satana l’opposizione: povertà/ricchezza, umiliazione/vanagloria, umiltà/superbia.La smania di grandezza, frutto di egoismo e di paura, è l’ostacolo alla Parola: è lo spirito sordo e muto, che impedisce la fede. Questo è il motivo dell’impotenza dei discepoli nella lotta contro il male (cf. vv. 37-43). Non potranno mai vincerlo, fino a quando marceranno sotto il suo striscione. Si narra nella vita di s. Antonio il grande che una volta vide tutto il mondo pieno di lacci e tutte le persone del mondo irretite in essi e trascinate dai diavoli nell’abisso. Allora, gemendo, disse: “Chi scamperà da tanti e tali lacci?”. E udì la risposta: “L’umile!”.

2. Lettura del testo

v. 46: “entrò, ecc.”. Il parallelo di Mc 9,33s dice il luogo e il tempo in cui avvenne il fatto. Luca lo sospende quasi nel vuoto, fuori dallo spazio e dal tempo, perché avviene in ogni spazio e in ogni tempo, dappertutto e sempre. È la manifestazione del peccato, che fa porre l’io al posto di Dio. Come satana “entrò” in Giuda (22,3), come la “morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 2,24), così la sua invidia, principio di divisione e di morte, “entra” in noi e provoca divisione dagli altri e morte.Ciò che entra e si trova nei discepoli, non è tanto una discussione aperta, quanto un “dialoghismo”, un ragionamento traverso: è quella macchinazione e calcolo che sta all’origine di ogni discussione e divisione.Si dice che “entrò” in “loro”: il verbo indica l’entrare dall’esterno, mentre la particella “in” (greco en + dativo di stato in luogo) indica il permanere in loro. “In loro” significa che è “dentro ciascuno di loro” o “tra loro”? Certamente questo calcolo si trova tra di loro, come causa della competitività. Ma in realtà è tra di loro perché è già in ciascuno di loro come a casa propria.

“chi di loro fosse il più grande”. Ogni uomo desidera realizzarsi. Per chi conosce Dio, il realizzarsi è essere come lui, povero e umile. Per chi non lo conosce, realizzarsi è essere “più grande” degli altri. Questa volontà di primeggiare è il primo frutto del peccato. L’uomo, che non si conosce più nella propria verità come amato da Dio, perde la propria identità: è niente e ha paura del vuoto e della morte. Cerca quindi di “salvarsi”. Questo è il fine fondamentale di ogni suo sapere e agire a tutti i livelli. Per questo, e non per cattiveria, diventa egoista e tenta di possedere un titolo di distinzione dagli altri, che lo faccia essere e-gregio, fuori dal gregge dei comuni mortali, che appunto sono mortali. La brama di possedere cose, persone e Dio stesso, è il tentativo di colmare il vuoto infinito lasciato dalla non-conoscenza di Dio. Ma è un riempirsi di vuoto, un allevare la morte che si teme. È da notare che il vero peccato, quello del fariseo (18,9ss) e del fratello maggiore (15,25ss), è ancora questo protagonismo, che stravolge in male ogni bene. Si utilizza tutto, anche il bene e Dio stesso, per essere primi! Questo peccato insidia sempre anche il discepolo già convertito. Ma in modo più sottile, perché si esercita non più su cose perverse, ma su cose buone: chi è il “più” bravo nel seguire il Signore, nella fedeltà, nel servizio, nell’amore... nell’umiltà e nella povertà! Le divisioni all’interno della comunità hanno sempre come radice la volontà, manifesta o nascosta, vilissimamente o nobilissimamente motivata, per ragioni errate o giustissime, di essere il “più” bravo! La linea “più” corretta non è altro che il paravento più scorretto al volersi salvare prevalendo, emergendo e dominando sull’altro. Con il risultato di perdersi e di dividersi in nome della verità! Per questo niente

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è più malefico che il voler aver ragione, soprattutto quando si ha ragione! Di quanto male è causa la “giustizia”!

v. 47: “Gesù, sapendo, ecc.”. Come il desiderio di autoaffermazione dei discepoli fa da velo alla parola del Signore, così questa svela la superbia dei discepoli. La sua umiltà e il suo amore manifestano come la via che l’uomo ha intrapreso è quella della perdizione. È così che Dio disperde “i superbi nei pensieri del loro cuore” (1,51).Il “bambino” che Gesù prende rappresenta il punto zero della realizzazione: ciò da cui partiamo e che neghiamo per diventare adulti. Il bambino è la negazione dell’uomo. Nella cultura ebraica d’allora rappresentava un’appendice della donna, che a sua volta era un’appendice del maschio. Non conta, è dipendenza assoluta: il suo essere è “essere di ...”. Non può nulla da sé, è ciò che gli altri ne fanno. Rappresenta in modo radicale la situazione di creaturalità, che Adamo ha rifiutato per sospetto e per paura. Il bambino è oggettivamente l’ultimo, anche in campo religioso, perché non merita e non può meritare nulla, se non la compassione gratuita di Dio: vive solo di misericordia dell’altro! Il bimbo, impossibilitato a osservare la legge, è il parente più povero del peccatore, al quale per sé sarebbe possibile osservare la legge.Mentre l’adulto crede che la possibilità di vivere sia il primeggiare, servendosi di tutto e di tutti per essere e avere di tutto, il piccolo ha la possibilità di vivere solo in quanto servito e accolto, perché è niente e bisognoso di tutto: è puro bisogno e vive di accoglienza. In una lezione successiva Gesù dirà che per entrare nel Regno, bisogna accoglierlo come un bambino (18,15-17). Infatti il riconoscersi creatura di Dio è condizione necessaria per esser battezzato. I discepoli, se vogliono capire il mistero della croce, sono chiamati a capovolgere il loro modo di pensare. Il vero criterio di realizzazione non è il dominare, bensì l’accogliere l’altro. Chi accoglie il piccolo, accoglie il suo Signore, che per accogliere tutti si è fatto “il più piccolo fra tutti”: il suo amore si è necessariamente velato nell’umiltà del Figlio dell’uomo consegnato agli uomini, fattosi piccolo per poter stare nelle loro mani.

“lo collocò accanto a sé”. Il bambino è posto da Gesù in modo fisso presso di sé: è il suo altro io. Non solo gli fa da specchio, ma si identifica con lui in modo misterioso, come lui si identifica con colui che lo ha inviato.

v. 48: “e disse loro: Chi avrà accolto, ecc.”. Il verbo “accogliere”, ripetuto quattro volte in questo versetto, è il medio termine che capovolge il criterio della grandezza e fa del più piccolo fra tutti “il grande” per eccellenza. “Accogliere” è dare ospitalità e fare spazio in sé, restringere il proprio io e fare di sé la casa dell’altro. Il bimbo vive dello spazio che gli si lascia, dell’amore con cui lo si ama. In questo senso ogni uomo è sempre bimbo, perché la sua vita dipende dall’altro.Mentre l’egoismo porta a servirsi dell’altro per primeggiare, l’amore concretamente porta a servire l’altro. E il servizio fondamentale che posso fare a uno, è quello di accoglierlo, perché viva in me. Per questo chi ama rinnega il proprio io e si fa piccolo.L’accoglienza è la qualità fondamentale di Dio, che ama e lascia spazio e vita a tutti nel suo cuore. Per questo la “grandezza” vera e propria di Dio consiste nella piccolezza, nell’umiltà e nella povertà - nella “minorità” sprovveduta di uno che ama tutto e tutti e si pone a servizio di tutto e di tutti. Per questo Dio, l’altissimo, è il più piccolo di tutti: “il più piccolo tra tutti voi, questi è grande”. Dio si identifica con il bambino, che vive di accoglienza. Lui, che è amore e accoglienza, può vivere solo se accolto. Già fin dall’eternità egli vive come accoglienza mutua Padre/Figlio nell’unico amore reciproco. L’amore dell’uno verso l’altro è il rispettivo ritrarsi di ognuno dei due per l’espandersi dell’uno nell’altro, fino alla perfetta unità. Per questo Dio, il grande, apparso sulla terra in Gesù, si è fatto

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ultimo e servo di tutti per accogliere tutti. Fattosi bisognoso di accoglienza, muore dove non è accolto e vive dove è accolto.Chi “accoglie” diventa veramente “grande” in assoluto, non il “più” grande, che è relativo e in concorrenza. Si realizza pienamente perché diventa come “il più piccolo fra tutti”: si identifica con Cristo, che ci ha rivelato la verità di Dio come amore che si è fatto piccolo.Il mistero della “grandezza di Dio” (v. 43) è questa piccolezza di Cristo, che il discepolo deve ficcarsi nelle orecchie (v. 44). L’opera di Luca si conclude con la presentazione di Paolo, maestro dell’agápé. “II più piccolo” tra gli apostoli, quasi un “aborto” (1Cor 15,8), è totalmente trasfigurato in icona perfetta di Cristo, che “accoglie tutti”. Così annunzia il regno di Dio e insegna il Signore Gesù Cristo con limpidità e senza ostacolo (At 28,30ss).

“nel mio nome”. Come il “mio io” è principio di egoismo, divisione e schiavitù, così il nome di Gesù è principio di amore, unione e servizio. Io posso accogliere uno nel “mio nome”. Allora lo strumentalizzo e lo servo servendomene per sentirmi giusto e bravo! Posso accogliere uno nel “suo proprio nome”, e allora mi realizzo e lo realizzo nell’ordine naturale, che è il piano terra dell’uomo. Allora ho la massima ricompensa umana: sono un bravo fariseo, un uomo giusto e bravo, pagato dalla virtù che fa da premio a se stessa. Posso accoglierlo nel “nome di Gesù”, che è il vero nome del più piccolo e di Dio stesso. Allora mi realizzo pienamente e coscientemente nella mia dimensione umana più alta, come immagine e somiglianza di Dio. Mentre il primo amore è cattivo, il secondo pare naturalmente buono - è una forma più sottile del primo? -, il terzo è soprannaturalmente buono e dona all’uomo la salvezza. Questa consiste nell’essere come Dio, mediante lo Spirito di Gesù. Amare “in nome di Gesù” una persona non le toglie nulla della sua dignità. Permette di amarla nella sua verità e di scoprire la sua vera dignità: l’amore stesso di Dio che la fa vivere. La persona così amata, diventa, invece che idolo deforme, vera icona vivente di Dio, e aiuta chi ama ad amare Dio e identificarsi a lui. Unicamente il bene fatto in nome di Cristo ci procura la grazia dello Spirito santo, la cui acquisizione è il fine della vita (Serafino di Sarov).“Molti (... ) ignorano completamente la differenza che esiste tra le tre volontà che agiscono nell’uomo. La prima è la volontà di Dio, perfetta e salvifica; la seconda è la volontà umana, che di per sé non è né nefasta né salvifica; la terza invece, quella diabolica, è assolutamente dannosa. È questa terza volontà nemica dell’uomo che lo obbliga a non praticare per nulla la virtù, oppure a praticarla per vanità, o unicamente in vista del “bene” e non per Cristo. La seconda, la nostra propria volontà, ci incita a soddisfare i nostri istinti malvagi, oppure, come quella del nemico, ci insegna a fare il bene in nome del bene, senza preoccuparci della grazia che si potrebbe acquisire. Quanto alla prima volontà, quella di Dio, salvifica, consiste nell’impegnarci a fare il bene unicamente allo scopo di acquisire lo Spirito santo, tesoro eterno, inesauribile, che nulla al mondo è degno di eguagliare” (Serafino di Sarov).Dio, come benedice l’ingrato lavoro della terra col dono di fiori e frutti, così benedice le nostre fatiche nel nome di Gesù col dono del suo Spirito: come sta la zappa al fiore e al frutto, così l’azione nel suo nome al dono di gioia e amore del suo Spirito. Non lasciamoci ingannare dal nemico, il quale desidera che peniamo soltanto e mangiamo la zappa, senza gioire dei fiori e gustare dei frutti. La stupidità di questo peccato è oggi diffusissima anche sotto etichette teologiche. In pratica è escludere Dio dalla propria vita e ignorare che tutto è da lui e per lui, considerandolo antagonista dell’uomo e del suo progresso: è il peccato della non conoscenza di Dio e del suo dono.La motivazione o intenzione dell’accogliere non è indifferente all’accogliere stesso, perché lo indirizza in direzioni opposte: verso la rovina o verso l’acquisizione dello Spirito santo. Il fine, in quanto punto di arrivo, è l’ultimo che si vede all’esterno, ma è il primo che si concepisce nel cuore. Muove l’azione in un senso o nel suo contrario. L’intenzione non è un colore aggiunto all’azione, ma la sua anima stessa.

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Il centro di questo v. 48 è l’identificazione bambino = Gesù = Dio mediante l’accoglienza. Accogliendoci tutti, Gesù si è fatto “il più piccolo di tutti”. In questa piccolezza ci ha rivelato di essere Dio, amore e accoglienza massima. Accogliendo il bambino ci facciamo più piccoli e diventiamo come lui.Le persone possono entrare in comunione di amore tra loro, invece che in lotta di egoismo, solo accogliendosi nel suo nome. Come l’autoaffermazione è principio di disgregazione dell’io e di divisione dagli altri, il farsi piccolo è principio di unificazione con la propria verità profonda e di unione con gli altri. Cessa la lite e la concorrenza, nasce l’intesa, l’amore e il servizio.

“chi avrà accolto me, ecc.”. Come Cristo introduce nel Padre (“chi avrà accolto me, accoglie chi mi ha inviato”), così il piccolo, accolto, mi introduce in Cristo: “chi avrà accolto questo bambino nel mio nome, accoglie me”.L’accoglienza ci fa “piccoli” e ci introduce nella conoscenza (accoglienza) mutua Figlio/Padre. Essa è aperta solo agli infanti, che vi sono introdotti mediante l’unico Amore che tutti accoglie (10,21s).

“il più piccolo tra tutti voi, questi è grande”. I discepoli sono chiamati a smettere di guardarsi con invidia tra di loro per vedere chi è il “più grande”, e a guardare un bimbo, estraneo, che Gesù ha posto accanto a sé: devono prenderlo come modello, specchio di lui, che si è fatto “il più piccolo di tutti”.Il credente, che conosce Gesù, si apre ad accogliere nel suo nome ogni piccolezza, scarto e rifiuto che è nel mondo, perché è la “grandezza di Dio”, che si è fatto il più piccolo di tutti. Vede nell’ultimo il volto del suo Signore che lo salva (cf. Mt 25,31-46).L’accoglienza del piccolo è la via attraverso la quale Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15,28). La piccolezza ci salva e ci realizza a immagine di Gesù, volto stesso dei Padre, Figlio dell’Altissimo (1,32) che si è fatto bambino (2,12).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che prende un bambino, circondato dai discepoli.c. Chiedo ciò che voglio: capire la sua gloria, che è l’umiltà e la piccolezza di chi ama.d. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- chi è il più grande- un bambino- chi avrà accolto questo bambino- nel mio nome- accoglie me- il più piccolo tra voi, questi è grande.

4. Passi utili

Sal 8; 131; 1Sam 2,1-11; Mt 25,31-46; Lc 18,15-17; 22,24-27; 1Pt 2,2.1.

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58. CHI NON È CONTRO VOI È PER VOI

(9,49-50)

49 Ora, rispondendo, Giovanni disse:Maestro,vedemmo un talescacciar demoninel tuo nome,e lo impedivamo,perché non segue con noi.50 Ora disse a lui Gesù:Non impedite,poiché chi non è contro voi, è per voi!

l. Messaggio nel contesto

Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini (v. 44). il mistero di povertà, umiliazione e umiltà del servo, che il discepolo deve ben piantarsi nelle orecchie. Ma, come resta incomprensibile al singolo, così resta velato anche alla comunità in quanto tale. Al mistero dell’amore di Dio che si svuota e si mette al di sotto di tutti, si contrappone il per nulla misterioso egoismo dell’uomo che si gonfia e mette il proprio io o il proprio noi al di sopra di tutti. Mentre lui si pone come il più piccolo, principio di comunione fra tutti e con il Padre, l’io o il noi dell’uomo si pone al centro di tutto e diventa principio di divisione tra noi e dal Padre.Ciò che vale per il singolo discepolo - rinnegare il proprio io (9,23) e rimpicciolirsi per accogliere il più piccolo (vv. 46-48) - vale anche per la chiesa come tale Essa deve rinnegare il proprio “noi” e farsi piccola, per essere al servizio del suo Signore. Il peccato originale si manifesta a livello personale nell’io che si pone al posto di Dio; e a livello comunitario nel “noi” che si pone al posto del Signore, cercando la propria grandezza e il proprio potere. Oltre il peccato di superbia personale, c’è quello collettivo, molto più grave. È il peccato di “ecclesiolatria”, tanto meno visibile quanto più è grande. L’orgoglio collettivo infatti suppone l’umiltà del singolo. Per questo è così sottile da restare invisibile a chi non ha occhi puliti.Esso tende a distruggere la chiesa, perché il “noi” che esclude qualcuno in forza propria, esclude noi dal Signore.La comunità dei discepoli corre sempre il pericolo di diventare un “noi” centrato su di sé, invece che sul Signore da seguire. Lui, l’agnello pastore, come si è identificato con il più piccolo, così ora si identifica con l’anonimo emarginato dalla comunità. Dopo aver smascherato il delirio di grandezza del singolo, intende ora smascherare quello comunitario. Lui infatti è il Signore unico di tutti. Disponibile verso tutti (6,35), non si lascia sequestrare da nessuno!Questo brano esclude il “noi” come fondamento della chiesa. “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11). In 11,23 si determina che il discriminante per essere chiesa è l’essere “con me” riferito a Gesù, non l’essere “con noi” riferito alla

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chiesa! Questa non preesiste a lui e neanche lo sostituisce: Gesù è l’alfa e l’omega, il principio e il fine. Ogni qualvolta è ridotto a strumento o funzione del “noi” ecclesiale, si perverte il rapporto di fede e si divide il corpo del Signore! Tra l’altro la comunità non può mai identificarsi con Gesù, anche se Gesù si identifica con essa (cf. At 9,4). Il Signore trascende sempre la sua chiesa e si identifica sempre con il piccolo e l’escluso, in modo da tenerla sempre aperta e in tensione per abbracciare così tutti gli uomini che sono suoi fratelli. Gesù ci ha già preceduto fino agli estremi confini della terra e lì ci attende, per unirsi a noi. Solo allora sarà finito il cammino stesso della chiesa, perché avrà realizzato il disegno di Dio: sarà la sposa perfetta che si unisce al suo Signore e Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).Per questo ogni riflessione sulla chiesa deve sempre partire da chi è Gesù: ogni ecclesiologia si misura sulla cristologia! La parola del Signore, come la chiama così la richiama, come la forma così la riforma, come la fonda così la rifonda, in un moto di apertura e di conversione continua. Il centro della chiesa sarà sempre fuori di lei: il suo Signore che già l’ha preceduta nel piccolo, nell’escluso, nell’emarginato, nel peccatore.Esiste sempre il pericolo di ridurre il Signore a pezza di rattoppo del corto vestito che ci ricopre, o di farne l’attaccapanni dei nostri paludati desideri. L’idolatria dell’io, il peccato di superbia, è origine di tutti i mali. Dello stesso legno, ma ben più grosso, è l’idolatria del “noi”: la superbia collettiva è origine di tutti quei mali per i quali la stupidità e la cattiveria del singolo non basterebbe! E nessuno si sente personalmente chiamato a conversione! Teniamo presente che è sempre a fin di bene che si fa tutto il male!L’unità della chiesa non è fondata su un’identità del noi, bensì sull’unico Signore che si è rivelato a noi nell’umiltà della consegna del Figlio dell’uomo, piccolo ed escluso. L’unità della chiesa, direbbe s. Ignazio di Loyola, al di là delle buone intenzioni, è data dalla sequela del vessillo di Gesù in povertà, umiliazione e umiltà. È tragico! ma si può stare nella chiesa e giocare per la squadra avversaria, sotto il vessillo di Lucifero. Questo è contrassegnato dalla ricerca di ricchezze, potere e superbia. Per questo c’è chi fa parte della chiesa visibile ma non di quella invisibile, come c’è pure chi fa parte di quella invisibile e non di quella visibile. Il Signore infatti si è fatto piccolo ed escluso, per accogliere e includere tutti; anzi, si è fatto per noi maledizione e peccato (Sal 3,13; 2Cor 5,21).Quest’unità della chiesa è veramente cattolica, universale, non esclude nessuno; e rispetta la libertà di ogni singolo, che non è plagiato da nessuno, neanche dalla comunità. Ogni diversità non solo è tollerata, ma positiva (cf. 1Cor 12), perché la nostra unità non è un modello socio-culturale-politico o una spartizione di potere, ma il nome di Gesù, escluso da ogni potere.Da ciò non consegue che la chiesa, intesa come “noi”, sia un fatto accessorio e superfluo, o un derivato necessario - quasi un male inevitabile, un sottoprodotto, come se Gesù avesse voluto il Regno e ne fosse nata la chiesa! È esattamente intenzione di Dio, che ha dato il primo comandamento (Dt 6,5), fare dell’umanità tutta la sua sposa fedele, un popolo di fratelli che seguono Gesù, il Figlio obbediente al Padre, il nuovo Adamo. Questa sposa è voluta e amata, fin dal principio, ed è necessariamente una, come uno è Cristo (cf. 1Cor 12,12s), ma anche universale (= cattolica), libera e diversificata nelle sue membra, col proprio centro fuori di sé, cioè lo Sposo! Questa chiesa non pretende che gli altri la seguano (cf. “non segue noi!”, v. 49), ma che tutti seguano il Signore. La sua solidarietà, il suo vero “noi”, non è una solidarietà aggressiva, di paura, nella difesa del proprio nome, che si forma per esclusione degli altri. Non ha nulla a che fare con il monolitismo di una setta che cerca il “noi” sopra ogni cosa: essa cerca il suo Signore, si fonda sul suo nome e sul suo amore verso “tutti gli uomini” (Tt 2,11; 3,4). Escludere un fratello significa non avere ancora conosciuto il Padre, che è Padre di tutti; è non riconoscere il Signore Gesù, che è fratello di tutti; è non avere il suo Spirito, che ama tutti.Non bisogna per altro scandalizzarsi che questo peccato ci sia nella comunità dei discepoli. Quando non ci sarà più, saremo alla fine. Ora c’è, ma è importante riconoscerlo come male, per chiederne

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perdono. Diversamente si rischia di farlo, addirittura credendo di rendere culto a Dio (Gv 16,1s). Anche Paolo era per zelo persecutore della chiesa di Dio (Fil 3,6)!Il rapporto “io-altri” si risolve nel nome di Gesù: si rinnega il proprio io che vuol primeggiare, per lasciare posto al più piccolo che è lui. Così si opera il passaggio dall’egoismo all’amore che fa nascere la comunità.Il rapporto “noi-diversi” si risolve ancora in base al suo nome: si rinnega il proprio noi che esclude, per accogliere il diverso, che è lui. Così si opera il passaggio dalla comunità psichica, che è una setta pericolosa, alla chiesa pneumatica, una e cattolica, perché fondata sull’unico Signore di tutti.“Se qualcuno non ama il Signore sia anatema” (1Cor 16,22), scrive Paolo di proprio pugno per porre fine a ogni divisione. Egli infatti è l’unico fondamento in grado di reggere tutto l’edificio, portando ogni tensione di libertà e differenza. Principio di settarismo nelle chiese, origine di ogni divisione, è il “noi” ecclesiale che si pone al posto dell’io di Gesù.

2. Lettura del testo

v. 49: “Ora, rispondendo, Giovanni disse”. Le parole di Giovanni sono una “risposta” a quanto Gesù ha appena detto sull’accoglienza del più piccolo nel suo nome (v. 48). Tale risposta è sulla linea dell’incomprensione del v. 45 ed esprime un atteggiamento diametralmente opposto a quello del Signore. È Giovanni a suscitare il problema. È l’unico luogo del Vangelo in cui appare da solo. Forse perché fu lui, per il suo carattere focoso e zelante (cf. v. 54), a fare la domanda. Forse perché fu lui a suscitare il problema all’interno dei discepoli: “il discepolo che Gesù amava” avrebbe presentato nella chiesa primitiva quell’aspetto carismatico di libertà e diversità che con difficoltà si integrava con l’aspetto istituzionale, più preoccupato del “noi”, rappresentato da Pietro.

“scacciar demoni”. La vittoria sul male è il fine della missione, come di Gesù, così del discepolo. È in forza del suo nome che i discepoli vincono il male, non in forza del proprio (cf. gli esorcisti di Efeso: At 19,15).

“nel tuo nome”. Vedi il v. 48: è nel suo nome che si può accogliere anche l’ultima diversità dell’uomo, ponendosi a servizio del più piccolo.

“e lo impedivamo”. È un imperfetto di “conato”: indica un tentativo ripetuto e non riuscito. Invano la comunità vuole impedire l’azione di salvezza di questo discepolo anonimo ed escluso. E cerca l’avallo di Gesù. Ai discepoli non sta a cuore tanto la salvezza dei fratelli, quanto l’affermazione di se stessi e l’esclusiva dell’appoggio del Signore! Non interessa loro tanto la liberazione dal male, quanto, paradossalmente, la sua affermazione. Infatti è annidato e nascosto anche in loro.

“non segue con noi”. Ciò che sta a cuore ai discepoli non è seguire Gesù ed essere con lui, termine di confronto di ogni sequela (cf. v. 23). Gesù non è neppure nominato col pronome, pur essendo spontaneo dire: “non ti segue con noi!”. Ciò che conta è il “noi”, che deve essere grande e potente, ed avere l’esclusiva. L’importante quindi non è “seguire te”, bensì seguire “con noi”. L’espressione rivela una forma di orgoglio collettivo, ben più nociva e disastrosa di quello individuale. È naturale, umano, fin troppo umano, anzi satanico! Tale orgoglio cerca, invece che il nome del Signore e il bene dei fratelli, l’affermazione del “noi” mediante l’esclusione degli altri! È un peccato religioso simile a quello della torre di Babele: al Signore si è sostituito il “noi” umano che cerca di autoesaltare se stesso. È l’abominio della desolazione! Questo “con noi” arriva anche all’aberrazione del Gott mit uns,

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servendosi di Dio per esaltare sé. E ci arriva inavvertitamente - e a fin di bene! - ogni qualvolta la comunità cristiana pone al proprio centro se stessa invece di lui, povero, piccolo, diverso ed escluso! È il capovolgimento radicale della fede, quasi che non noi dovessimo seguire lui, ma lui seguire noi e farsi garante dei nostri interessi di parte (cf. 1Sam 4,1-11).Questo “noi”, ben definito e visibile, suppone una situazione post-pasquale, con una comunità già formata. È la chiesa, che non si dimentica mai, per grazia di Dio, di misurare il suo “noi” con quanto Gesù ha detto e fatto. Solo così non perde il punto di riferimento e può correggersi dal male che sempre la insidia.La soluzione del problema qui è semplice, perché nella domanda è confessato in modo chiaro il peccato. Spesso a noi non è così chiaro.Comunque è chiaro che, ovunque impediamo del bene o escludiamo qualcuno, cadiamo in questo peccato: non vogliamo seguire Gesù, bensì essere seguiti “noi”! Inoltre, per avere la risposta, bisogna confrontare il nostro modo di agire con il suo. Il Gesù terreno, venuto nella carne, è misura della nostra fede e della nostra azione (cf. 1Gv 4,2s; 2Gv 7; Ef 4,20s).

v. 50: “Non impedite”. Questo atteggiamento del “noi” è un impedimento a vincere il maligno. È anzi un’alleanza con lui, per di più segreta, ignara e a fin di bene, come quella di Pietro in Mc 8,32s!Se Gesù si è fatto piccolo ed escluso per accogliere e includere tutti, anche noi dobbiamo lasciare ogni ricerca di potere e di grandezza personale e comunitaria per non escludere nessuno. Bisogna bandire ogni autoesaltazione tanto personale quanto collettiva, bisogna superare ogni forma di associazionismo, di ghetto, di partitismo e di tribalismo che ha come centro di aggregazione il “noi”, e si cementa solo in quanto riconosce negli altri dei nemici e concorrenti. È una solidarietà negativa, che, per essere “con” qualcuno, ha bisogno di mettersi “contro” gli altri.

“chi non è contro voi, è per voi”. Gesù prende le distanze da questo “noi” e si allontana da tale comunità: non tollera di essere chiamato “noi” e non si include con loro. Infatti li chiama: “voi”, perché lui in realtà è già stato escluso da questo atteggiamento. Egli non può accettare lo spirito di parte dei discepoli. È il Signore di tutti e non può identificarsi con chi esclude qualcuno! È morto per salvare ogni carne, è venuto apposta per gli esclusi (cf. 19,10).Questa sentenza non indica semplicemente una tolleranza illuminata. Lascia intravedere la vera cattolicità della chiesa, che è chiamata ad allargare la cerchia di coloro che seguono Gesù fino agli estremi confini della terra, abbracciando tutti gli uomini. Solo allora Gesù, potrà dire “noi”, perché si sentirà incluso anche lui, l’ultimo di tutti. Allora saranno giunte le nozze dell’Agnello: la sposa sarà pronta (Ap 19,7), “tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata (Ef 5,27). Allora sarà il regno di Dio, che Cristo consegnerà al Padre, perché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,24.28). Allora il Signore stesso sarà uno (Zc 14,9).Questa cattolicità è fondata sull’unico Padre dell’unico Signore di tutti, “che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,6). Solo lui è in grado di fondare un’unità che non sia di parte, ma universale. Per questo è un’unità che rispetta la libertà: “Dove c’è lo spirito del Signore c’è la libertà” (2Cor 3,17). Non si tenta di imporre nessun giogo a nessuno e siamo in grado di formare un unico corpo con tutte le sue differenziazioni, nell’accettazione e nel rispetto reciproco. Dove il rispetto sarà inversamente proporzionale al prestigio (1Cor 12,12-27)!L’affermazione: “chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde” (11,23) aiuta a capire questo testo e lo completa.Il termine di paragone dell’unità non è il “noi” dei discepoli, ma l’“io” dell’unico Signore: è lui che bisogna seguire, è “con lui” che bisogna stare. Diversamente, invece di raccogliere nei granai la messe già abbondante (cf. 10,2), si manda in perdizione il fratello per il quale il Signore è morto (1Cor 8,11):

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si distrugge l’opera di Dio (Rm 14,20), il corpo di Cristo, il tempio dello Spirito. Ma, “se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui” (1Cor 3,17).Quindi, sia all’interno che all’esterno della comunità, le difficoltà sono originate dalla ricerca dell’io (vv. 46-48) e del noi (vv. 49-50). Si risolvono ponendo al centro il suo “nome”. La tolleranza cristiana non è una virtù borghese, per altro mai abbastanza lodata contro i facili fanatismi religiosi! Non è neppure semplice diplomazia. È invece conoscenza e fede nell’unico Signore, che fonda l’unità e l’eguaglianza di tutti e l’unicità di ciascuno. Il rapporto unità-libertà non è dialettico: la libertà sta nel vincolo all’unico Signore, ed è tanto più ampia quanto più stretto è il legame con lui.Seguire lui e stare con lui è fattore di unità del “noi” e definisce l’appartenenza alla chiesa, non viceversa. La chiesa, in quanto sta con Gesù, è aperta a tutti e lo media a tutti, senza escludere nessuno.Per questo si adatta a ogni epoca e cultura, mettendone in crisi i (dis)valori e salvando così ogni epoca e ogni cultura. In questo modo è universale e una, nella libertà e nella diversità.L’appartenenza al “noi” visibile non è dato dal “seguire con noi”, ma dal seguire lui, stare con lui e operare nel suo nome vincendo il male. Non la chiesa fa il Cristo, ma il Cristo fa la chiesa. Questa deve sempre misurarsi con lui e correggere sempre il proprio cammino sul suo, che è quello dell’impotenza e della stupidità del Figlio dell’uomo consegnato nelle mani degli uomini (v. 44). Il “noi” autentico non si fa mai per esclusione degli altri. Esso si autentica proprio nella tensione di includere il piccolo e l’escluso, con il quale si è identificato colui che ha detto: “Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde” (11,23).La chiesa forma un “noi” definibile e visibile, voluto dal Signore come sempre aperto e centrifugo. La sua essenza è fuori di lei: è Gesù che va seguito, nel suo cammino che va molto lontano, fino a farsi vicino a ogni lontananza.La tensione tra libertà e istituzione è inevitabile ed è un bene, perché il “noi” resti proteso ad accogliere il diverso e si mantenga insieme uno e differenziato, corpo del Signore che abbraccia l’universo. Quest’unità nell’amore esige e sopporta tanta diversità e pluralismo quanto è stretto il vincolo di amore all’unico Signore, morto per tutti, che ci spinge verso tutti (2Cor 5,14). La diversità, invece che oggetto di dominio o strumento di potere, diventa disponibilità e ricchezza di servizi. In questo modo il corpo di Cristo è uno, armonico e bello, la sua chiesa una, santa e cattolica! Amen.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginandomi ancora ai piedi della trasfigurazione.c. Chiedo ciò che voglio: la liberazione dall’invidia personale e collettiva. Godere di tutto il bene che Dio opera in tutti, anche quelli che non sono dei “nostri”.d. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- nel tuo nome- non segue con noi- lo impedivamo- chi non è contro voi, è per voi.

4. Passi utili

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Sal 87; 117; Nm 11,25-29; 1Cor 21,1-17; Is 60; At 19,13-20; 2Cor 5,14.

59. INDURÌ IL VOLTO PER ANDARE A GERUSALEMME

(9,51-56)

51 Ora avvenne:mentre stavano per compiersi i giorni de suo essere levato,allora egli indurìil voltoper camminareverso Gerusalemme.52 E inviò angelidavanti al suo volto. E, camminando, entrarono in un villaggio di samaritani per preparare per lui.53 E non lo accolsero,perché il suo voltoera in camminoverso Gerusalemme.54 Ora, visto, i discepoliGiacomo e Giovanni dissero:Signore,vuoi che diciamoche un fuoco scenda dal cielo e li distrugga?55 Ora, voltatosi, li sgridò:Non sapete di che spirito siete: il Figlio dell’uomo non venne a perdere le vite degli uomini, ma a salvarle.56 E camminarono verso un altro villaggio.

1. Messaggio nel contesto

Il Battista mandò a interrogare Gesù per sapere se il messia atteso fosse lui oppure un altro (7,19). La risposta fu che doveva modificare la sua attesa, perché il messia di Dio è diverso da quello che l’uomo si attende. Infatti il suo volto si è rivelato nella trasfigurazione come totalmente altro (v. 29). Di lui la voce ha detto: “Ascoltatelo” (v. 35). È il Figlio obbediente, Parola del Padre fatta carne.

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Il suo profilo ci viene tratteggiato entro la grande cornice del suo viaggio a Gerusalemme. Iniziato qui con determinazione, si protrae fino al c. 18 e si completa nei cc. 19-23. Alla fine il Pellegrino rimane solo, per essere nelle cose del Padre suo (2,43-49). Il c. 24 lascia intravedere la luce della dimora definitiva di chi, arrivato alla meta, si accompagna ai fratelli per condurli con sé a casa. Il suo “viaggio” è la consegna al Padre, il ritorno del Figlio unico. In lui l’uomo torna davanti a colui del quale è immagine e somiglianza.Il v. 51 segna la svolta decisiva nel Vangelo di Luca, già annunciata nella trasfigurazione: il volto bello, di una bellezza unica e altra da ogni altra, gloria stessa del Padre, è quello del Gesù “solo” (v. 36) che va a Gerusalemme.Con il volto trasfigurato termina la “catechesi dell’ascolto”. Con questo volto in cammino inizia la “catechesi della visione”. Il volto si forma secondo la parola che ascolta, ed esprime la persona in relazione all’altro. Gesù, perfetto ascoltatore del Padre e tutto rivolto ai fratelli, ci rivela il vero volto dell’uomo: è lo stesso di Dio. È il nuovo Adamo, che può dire: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9).D’ora in poi il Vangelo non è solo parola da ascoltare, ma anche e soprattutto via da seguire per giungere alla contemplazione del Figlio uguale al Padre. Essa culmina nella theoria (= contemplazione) della croce (23,46-48).Gesù è la tenda definitiva di Dio tra gli uomini (v. 33), proprio nella solitudine del suo cammino (v. 36); è la Parola da ascoltare (v. 35), proprio in quanto Figlio dell’uomo che si consegna (v. 44); è la bellezza da contemplare (vv. 29-33), proprio in quanto volto indurito nella misericordia (v. 51).Ora Luca chiama noi, suoi lettori, a contemplarlo “a viso scoperto”, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore. Così “veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,18).Egli cammina in mezzo a noi e ci apre il ritorno al Padre. Seguendolo, torniamo ad essere ciò che siamo: suoi figli.Ma, come nessuno ha ascoltato la parola del Padre, nessuno ora accoglie il volto del Figlio. Non trova ospitalità, perché è il più piccolo di tutti e l’escluso da tutti. Rifiutato dai lontani, i samaritani, non è compreso dai vicini, i discepoli. È escluso dagli esclusi e non accolto dai piccoli! Infatti è indurito nella parola del Padre, che è amore e tenerezza (6,36). Il volto del samaritano è diverso da quello di ogni Adamo, in discesa da Gerusalemme a Gerico. Egli, icona visibile del Dio invisibile, si è fatto pellegrino per tutte le strade del mondo, per restituire ai fratelli il loro volto di figli.Questo cammino ha due movimenti contrari. Il primo è un moto con cui si allontana da noi e, lasciandoci soli, suscita in noi la nostalgia di raggiungerlo. È il suo “essere tolto” (v. 51), che indica insieme la sua uccisione e la sua glorificazione, il suo essere rifiutato dagli uomini e accolto dal Padre, il suo essere innalzato sulla croce e il suo essere assunto in cielo (At 1,11). Il secondo è un moto con cui si avvicina a noi e, accompagnandosi al nostro cammino, accondiscende al desiderio di rimanere con noi a condividere via e vita, parola e pane. È la sua “venuta” tra noi, preparata dai suoi inviati (v. 52). Essa realizza la salvezza nella nostra storia ed è anticipazione del suo ritorno finale. Accogliendo l’annuncio, lasciamo entrare nella nostra vita colui che, partito da Gerusalemme, ritorna allo stesso modo in cui l’abbiamo visto andare (At 1,11). Il suo viaggio verso il Padre e la sua venuta tra gli uomini coincidono in un’unica missione storica, compimento del disegno di salvezza.Rifiutato dai fratelli per la loro disobbedienza, egli si consegna loro per obbedienza al Padre, e li salva attraverso la misericordia e la croce. Qui si manifesta la diversità tra lo spirito dell’uomo e quello di Dio.Davanti al suo volto siamo chiamati a “discernere” di che spirito siamo: siamo induriti come lui nell’amore, oppure siamo chiusi nella durezza del nostro cuore? Siamo veramente battezzati nel suo

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Spirito, o in quello opposto? Discepolo è colui che riconosce questo volto povero, umiliato e umile, e opera secondo il suo Spirito di misericordia.Gesù iniziò il suo ministero col battesimo, sua scelta di fondo, che lo rivela pieno dello spirito del Figlio proprio perché si fa fratello dei peccatori. Ora, associati al suo stesso cammino, gli apostoli devono “battezzarsi”, immergersi in questo volto che preparano ad accogliere. Sono “induriti” nel suo stesso spirito di solidarietà e misericordia, di macrothymía (larghezza d’animo) e sympátheia (sim-patia com-passione) verso tutti i fratelli lontani.

2. Lettura del testo

v. 51: “stavano per compiersi”. Il verbo indica il compiersi del disegno di Dio. Usato per la pentecoste (At 2,1), compimento della salvezza nel dono dello Spirito, si usa pure per il cammino di Gesù a Gerusalemme. È il suo battesimo nello Spirito (12,50): si immerge nell’amore del Padre fino all’obbedienza della croce.

“i giorni”. Tale compimento ha una storia: è composto di più giorni, con i limiti dello spazio e del tempo.

“levato”. Come “esodo” (v. 31) indica insieme la sua morte e la liberazione che ne consegue, così “levato” indica insieme il suo essere “levato” di mezzo ed “elevato” fino a Dio. La stessa parola esprime le due facce opposte di un’unica realtà, vista come azione rispettivamente dell’uomo e di Dio. Se il primo compie il sommo male, togliendo di mezzo il Figlio dell’uomo, il secondo ne fa il sommo bene, innalzando a sé il Figlio. Il verbo “levare” o “sollevare” può indicare anche il gesto con il quale il padre riconosce il figlio. Gesù, il Figlio perduto per cercare i fratelli dispersi, sulla croce li leva tutti con sé. E il Padre, in lui, li riconosce tutti come suoi figli.

“il volto”. La seconda parte del Vangelo di Luca è una catechesi della visione, che segue quella dell’ascolto. Si sviluppa lungo il cammino a Gerusalemme, e termina nella theoria del Crocifisso (23,48): ci mostra progressivamente il volto di colui che è la via per ricondurci al Padre.

“indurì”. Il verbo significa: rendere saldo, stabilire in modo fermo e irrevocabile (cf. 16,26; 22,32; At 18,23). Indica la decisione ferma di Gesù, la direzione precisa del suo cammino. È l’atteggiamento del profeta e del servo, che percorre la via dell’obbedienza e si indurisce in essa (cf. Ez 3,8; Is 50,7; Ger 44,11). È il contrario di quello di Adamo che prese la via della disobbedienza e si indurì nella fuga da Gerusalemme, lontano da Dio. Il volto, diverso da qualunque altro, ora diviene duro. La sua alterità è nell’obbedienza all’amore del Padre, la sua diversità nella determinazione della sua mansuetudine, la sua durezza nella tenerezza senza condizioni, che lo porta a consegnarsi ai fratelli. Questo indurimento di Gesù è l’esatto contrapposto della nostra durezza di cuore.

“per camminare verso Gerusalemme”. Gerusalemme è il fine della vita di Gesù, Egli è il pellegrino che, da ogni angolo di perdizione dove ha raggiunto i fratelli, torna alla casa del Padre. Questo suo cammino, che parte dalla Samaria, è la sua missione di “samaritano”, la sua venuta tra noi per salvarci. Tutti gli incontri che farà coi fratelli riveleranno progressivamente il suo volto di Figlio del Padre misericordioso (cf. 6,36). Già fin d’ora però è dato il tratto fondamentale: l’obbedienza d’amore in contrappunto alla disobbedienza paurosa di Adamo.

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v. 52: “inviò angeli davanti al suo volto”. Richiama Ml 3,1ss dove si parla dell’angelo inviato a preparare il giorno del Signore: il giorno ultimo del giudizio e della salvezza. I discepoli, come il Battista (1,76), sono inviati davanti al suo volto per preparargli l’accoglienza. È il fine di ogni apostolato: “Colui che deve venire” viene ovunque è accolta la Parola che lo annuncia e ci si pone nel suo stesso cammino.

“entrarono in un villaggio di samaritani, per preparare per lui”. Gli apostoli “entrano” in un villaggio della Samaria, che rappresenta l’infedeltà nel cuore di Israele. Sarà la prima tappa dei discepoli dopo l’ascensione (At 1,8), e il primo luogo in cui fruttifica la Parola (At 8,4). Il cammino di Gesù a Gerusalemme parte da qui, perché è lui il samaritano! (cf. Gv 8,48). Facendo il percorso inverso a tutti quelli che “scendono” da Gerusalemme a Gerico, può incontrarli e prendersi cura di loro (10,29-37). In Samaria i discepoli devono preparare perché venga accolto colui che ormai sappiamo essere il Figlio dell’uomo che si consegna (v. 44), e quindi il più piccolo (v. 48) e l’escluso (v. 49).

v. 53: “E non lo accolsero”. Anche i samaritani, gli esclusi, escludono l’escluso! Gesù è l’inviato del Padre che accoglie tutti: per questo è il più piccolo di tutti . Ma i samaritani, come già i discepoli (vv. 45-50), e poi i giudei (19,41s), non lo accolgono proprio per questo.

“perché il suo volto era in cammino verso Gerusalemme”. Non è accolto perché ha il volto del messia umiliato, come Davide in 2Sam 16. È povero e piccolo perché in cammino dalla Samaria a Gerusalemme per farsi carico del male dei fratelli. Il peccato comune a tutti è non accogliere la piccolezza di Dio in Gesù, sua vera grandezza.

v. 54: “visto”. Ci si aspetterebbe: “udito”! Ma ormai, dopo aver parlato dell’ascolto, rimasto inascoltato! (cf. vv. 36 e 45), Luca passa alla visione di quel volto che è l’unico che ha ascoltato il Padre.

“Giacomo e Giovanni”. Sono i due che in Mc 10,35ss (Mt 20,20s) vogliono i primi posti. Non possono quindi capire il mistero del messia rifiutato. Hanno più lo spirito di Elia pauroso che si difende (2Re 1,10-15), che non quello soave che gli si manifestò sull’Oreb (1Re 19,12s).

“vuoi che diciamo”. Si sentono associati a Cristo. Ma ignorano che l’unico suo potere è l’impotenza di uno che si consegna per amore. Egli non porta il fuoco che brucia i nemici, ma l’amore che perdona (6,27ss). Lo zelo senza discernimento, principio di tutti i roghi di tutti i tempi, è contrario allo Spirito di Cristo, e distrugge la sua opera.

“un fuoco scenda dal cielo”. La potenza di Dio era ritenuta come una folgore divorante che distrugge. Ma in realtà la fiamma che le “grandi acque” non possono estinguere, neanche la morte (Ct 8,6s), è il suo amore per noi. I discepoli devono convertirsi dal fuoco di Elia che brucia i nemici a quello che brucerà Elia stesso, portandolo in cielo (2Re 2,11). Giovanni, più tardi (At 8,15-17), tornerà in Samaria con Pietro, e invocherà sugli stessi samaritani l’amore del Padre e del Figlio. È il fuoco dello Spirito, l’unico che Dio conosce e che il discepolo deve invocare sui nemici.

v. 55: “voltatosi, li sgridò”. Gesù si volge verso di noi che non siamo ancora rivolti verso di lui. Il suo rivolgersi a noi è un esorcismo: ci sgrida come i demoni e ci libera. Lui infatti è la luce che scaccia la tenebra, la misericordia che vince il male. Qui suona bene l’aggiunta della Vulgata: “Voi

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non sapete di che spirito siete. Poiché il Figlio dell’uomo non è venuto per perdere le anime degli uomini, ma per salvarle”.Il problema del discernimento degli spiriti si pone solo davanti al volto di Gesù che si consegna (v. 44). Egli è disprezzato e ucciso dall’avere, dal potere e dall’apparire (v. 22): povero, umiliato e umile, è piccolo ed escluso (vv.46-50), rifiutato dai piccoli e dagli esclusi!Rivela un Dio di compassione e di tenerezza, ignoto sia ai vicini che ai lontani.Il volto di Gesù in cammino verso l’umiliazione di Gerusalemme è lo specchio della verità: la nostra reazione davanti ad esso ci fa capire di che spirito siamo, se di Cristo o di Satana (cf. Mc 8,31ss).Questo volto mite e umile - impotenza di un Dio che ama - è la sua potenza che salva, anche se a lunga scadenza.Egli vince mediante la misericordia tenace di un amore che vuol essere liberamente amato. Ignora la prepotenza e la forza di chi vuole imporsi. Per questo è sempre povero e umile, disposto a portare su di sé il fuoco che dovrebbe distruggere chi non lo accoglie (vedi anche Mosè e Paolo: Es 32,32; Rm 9,3).L’apostolo è un contemplativo di questo volto, battezzato e immerso in esso, imbevuto del suo stesso spirito di longanimità e di simpatia verso tutti, pronto ad essere solidale col loro male senza maledire.

v. 56: “verso un altro villaggio”. Il rifiuto non blocca la missione del Samaritano. La evidenzia come misericordia e la diffonde ovunque, in attesa che sia accolta da tutti. Perché “la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo” (20,17 Sal 118,22).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il cammino dalla Galilea a Gerusalemme, attraverso la Samaria.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere lo Spirito di Gesù, il Figlio che si fa solidale con tutti i fratelli perduti.d. Traendone frutto, vedo, ascolto, osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- indurì il volto- camminare verso Gerusalemme- angeli davanti al volto- non lo accolsero perché era in cammino verso Gerusalemme- fuoco dal cielo- di che spirito siete- il Figlio dell’uomo non venne a perdere le vite degli uomini, ma a salvarle.

4. Passi utili

Sal 67;103; Es 32,30-32; 2Cor 5,14; Rm 9,3; At 8,15-17.

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60. BEN MESSO PER IL REGNO DI DIO

(9,57-62)

57 E camminando essi nel viaggio un tale disse a lui:Seguirò te,ovunque ti allontani!58 E gli disse Gesù:Le volpi hanno tanee gli uccelli del cielo nidi: ma il Figlio dell’uomonon ha dove posare il capo!59 Ora disse a un altro:Segui me!Ora quegli disse:(Signore,)permetti a meche prima mi allontani per seppellire mio padre. 60 Ora gli disse:Lascia i mortiseppellire i loro morti.Tu, invece, allontanandoti,annuncia intornoil regno di Dio!61 Ora disse un altro:Seguirò te, Signore;prima però permetti a medi congedarmi da quelli di casa mia.62 Ora disse (a lui) Gesù:Nessuno che ha gettatola mano sull’aratroe guarda ciò che è dietroè ben messoper il regno di Dio.

1. Messaggio nel contesto

La parola dei cc. 6-7 si è fatta seme nel c. 8. Nel c. 9 il seme si è fatto pane, e il pane bellezza e forza di un volto in esodo verso Gerusalemme. Davanti a lui siamo chiamati a discernere la differenza tra il suo e il nostro spirito.Egli si battezza e si immerge nella povertà, nell’umiliazione e nell’umiltà; noi facciamo tutto per emergere mediante l’avere, il potere e l’apparire.

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Il volto di Gesù verso Gerusalemme ci fa vedere che la nostra intelligenza è disturbata. Ignorando la parola del Figlio dell’uomo (v. 45), manchiamo di discernimento e militiamo sotto la bandiera del nemico, ovviamente a fin di bene (vv. 46-56)!In questo brano vediamo perché la nostra intelligenza è ottusa: semplicemente perché la nostra volontà ha i suoi desideri e le sue priorità che si oppongono alla sequela di Gesù. È una volontà divisa tra il desiderio di seguire lui e quello di tenere le proprie sicurezze materiali, affettive e personali.Dopo il battesimo, in cui operò la scelta fondamentale nello Spirito, Gesù affrontò e vinse in se stesso le tentazioni. Anche il discepolo, dopo il battesimo nello stesso Spirito, è chiamato a decidersi e superare le ambiguità interne alla sua volontà. Il brano precedente smaschera i tranelli dell’intelligenza, questo le trappole della volontà.Il discepolo, come non conosce, così neanche vuole il cammino del Figlio dell’uomo. Per questo, oltre che nell’intelligenza, deve essere guarito anche nella volontà. Essa in realtà non vuole: vorrebbe il fine, senza però mettere in atto i mezzi.In questo brano emergono le resistenze che il discepolo oppone al suo Signore. Sono le stesse che egli per primo ha incontrato. Riguardano i mezzi adeguati al fine.È necessaria una decisione che rompa con l’immagine della madre (il mondo dei bisogni e delle sicurezze materiali), con quella del padre (il mondo degli affetti, dei doveri e dei rapporti) e con i condizionamenti dell’io (sicurezza del solco e della propria identità da conservare): sono la povertà, la castità e l’obbedienza necessarie alla sequela, il superamento della tentazione dell’avere, del potere e dell’apparire.Solo a questo prezzo si è “ben messi” per accogliere la novità del Regno. I tre doni che Gesù fa al discepolo sono la libertà dalle cose, dalle persone e dall’io, per amare lui con tutto il cuore.

2. Lettura del testo

v. 57: “E camminando essi”. Gesù non è più solo nel suo cammino. Con lui sono i suoi discepoli, anche se non capiscono (vv. 44ss). Ora sapranno anche di non volere.

“nel viaggio”. È l’esodo (vv. 31.51), il “santo viaggio” (Sal 84,6), che ha come termine Gerusalemme. È il cammino intrapreso nel battesimo, che gli fa portare sulle spalle tutte le 76 generazioni dei figli di Adamo, per riportarli a essere figli di Dio (3,22.38).

“un tale”. È una persona indeterminata, che rappresenta chiunque vuol seguirlo. Desidera essere discepolo, ma ne accetterà le condizioni?

“Seguirò te”. Ha capito il senso della vita: seguire Gesù, il Signore.

“ovunque ti allontani”. Sa anche che va lontano. È il cammino lungo dalla schiavitù alla libertà! Per questo si va sempre più allontanando da ogni comprensione e volontà di carne. È il Figlio dell’uomo che si consegna e si dona, diverso da ogni Adamo che prende e rapina: si dona a chi se ne impadronisce e si consegna a chi lo tradisce.Questo discepolo sembra uno che, come Pietro (22,33), ha capito e desidera. Ma seguire Gesù non è pretesa e iniziativa umana.

v. 58: “E gli disse Gesù”. Come con Pietro, Gesù oppone al desiderio la realtà, all’illusione facile la dura previsione. Solo così la pretesa può sgonfiarsi e diventare umile attesa.

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“Volpi/tane, uccelli/nidi”. Le volpi sono animali astuti, come i serpenti; gli uccelli, animali ingenui, come le colombe (cf. Mt 10, 16). L’uomo del mondo pone la sua sicurezza nei beni materiali necessari per vivere e, se possibile, vivere bene. È come Erode, la volpe (13,32), che ha il suo palazzo (7,25). Egli cerca la propria sicura dimora nella terra: scava in essa la propria tana e vi abita con tutta fiducia.L’uomo religioso invece pone la propria sicurezza in Dio. Fa dipendere da lui la sua sussistenza e sospende il suo nido nel cielo come le rondini (Sal 84,4).L’uomo, insufficiente a sé, necessariamente pone la propria fiducia sopra di sé o sotto di sé, in cielo o sotto terra. Ha bisogno delle cose da mangiare come della madre per vivere! Ma al credente non basta, come l’uccello, avere il proprio tesoro presso Dio. Egli ha Dio come tesoro. La povertà va amata come madre, perché ci fa confidare in lui solo: ci genera suoi figli, facendoci riconoscere che lui è Padre.

“il Figlio dell’uomo non ha”. Tutto ciò che ha, lo consegna; anche se stesso. Perché è dono, trasparenza dell’amore del Padre. Per questo è povero, piccolo, bisognoso di accoglienza, senza tana e senza nido, puro amore che vuole essere amato in nudità e povertà.Chi desidera seguire Gesù ma non vuole la povertà, vuole il fine ma non il mezzo necessario.È una tentazione analoga alla prima di Gesù nel deserto: far consistere la propria sicurezza nel pane. Egli invece fece della parola del Padre la propria madre, dell’obbedienza a lui il proprio pane.

“dove posare il capo”. All’inizio, nato in una stalla, non essendoci per lui altro posto, fu adagiato sul legno di una mangiatoia di bestie. Al termine finirà in pasto ai peccatori sul legno della croce, dove reclinerà il capo (Gv 19,30). Contro il desiderio della carne, mossa dal bisogno di proteggere la propria fragilità, Gesù vive in povertà assoluta (2Cor 8,9!). Non è solo la condizione del pellegrino in cammino. È anche il mezzo con cui realizza la propria consegna al Padre e agli uomini. Per questo la vera dimora dell’apostolo è la peregrinazione, che fa del mondo intero la sua casa (cf. Nadal, V, 365).

v. 59: “disse a un altro”. Prima l’iniziativa era del discepolo. Ora di Gesù. È così evitato il pericolo di presunzione, insito nel primo caso. A lui spetta la proposta, a noi la risposta. Siamo noi a seguire lui, non lui a seguire noi.

“Segui me”. La chiamata è chiara e precisa. È la stessa che Gesù rivolge a tutti (9,23), anche ai peccatori (5,27): andare dietro a lui nel suo stesso cammino.

“quegli disse”. Quando l’iniziativa è nostra, obietta Gesù; quando è sua, obiettiamo noi! Ciò significa che, al di là di ogni buona volontà, c’è qualcosa che non va. Evidentemente le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri (Is 55,8)!

“permetti a me”. Non mette in questione la chiamata, né il fine, né i mezzi: seguire lui nel suo cammino senza tana e senza nidi.

“prima”. Non chiede una deroga, ma solo una proroga di tempo! Prima di seguire il Signore desidera fare un’altra cosa. Esattamente compiere i suoi doveri, rispettare i suoi affetti! Questa priorità di tempo in realtà nasconde una priorità d’intenti. L’uomo infatti vive nel tempo e fa “prima” ciò che più gli sta a cuore: questo diventa il suo pastore, la sua guida, il suo dio, ciò che teme di perdere e che pone sopra ogni cosa. Per questo si dice: “Cercate prima il regno di Dio” (Mt 6,33).

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Diversamente c’è sempre qualcos’altro prima del Signore e il Signore non è più il Signore. Egli può essere trascurato; ma non può essere secondo a nessuno.

“mi allontani”. Invece di seguirlo, proprio per questa priorità mal posta, si allontana da lui.

“per seppellire mio padre”. È un dovere di pietà filiale (Es 20,12; Lv 19,3). Ma anche un dovere, posto come prioritario, allontana dal Regno. È il dramma della fede di Abramo: prima l’amore per il figlio promesso da Dio o l’amore per il Dio che ha promesso? Ogni affetto, per quanto sublime, è secondario e derivato, figura del rapporto con Dio. Anche Gesù, pur sottomesso a Giuseppe e Maria che angosciati lo cercano, antepone loro la necessità di occuparsi delle cose del Padre (2,48s). La scelta è difficile e dura. La nostra volontà, a causa del peccato, non è indifferente e non ha la priorità giusta. Vorremmo che Dio seguisse la nostra.

v. 60: “Ora gli disse”. Gesù con la sua vita, ancora prima che con le sue parole, risponde alla domanda della priorità. All’inizio (2,49) e alla fine (23,46) mostra qual è il Padre di cui si deve compiere la volontà (22,42).

“Lascia i morti, ecc.”. La realtà umana, anche la più grande, non va assolutizzata. riflessa, come la luce della luna che scompare quando appare il sole.Il peccato ci ha fatto perdere il volto di cui siamo immagine e idolatrare l’immagine rispecchiata. Ma ogni idolatria è peccato e principio di morte. Ciò vale anche per il padre, figura dell’unico Padre (Mt 23,9; Ef 4,6), da cui ogni paternità (Ef 3,15). Ciò vale per lo sposo, perché lo Sposo di ogni uomo è lui, dal cui fianco squarciato è tratta la nuova Eva. Ogni bene ha in lui il suo principio e il suo riposo (Gn 1): fatto da lui e per lui, solo in lui trova se stesso.Porre la creatura prima del creatore, quasi fossero in concorrenza, è invertire il rapporto vitale uomo-Dio. Invece di fare noi ciò che lui vuole - “sia fatta la tua volontà!” - pretendiamo che lui faccia ciò che noi vogliamo. Tiriamo Dio dalla nostra e in pratica rifiutiamo l’obbedienza a lui. Vorremmo il fine, che è seguire Gesù, ma rimandiamo i mezzi necessari, perché abbiamo le nostre priorità!È una tentazione analoga alla seconda di Gesù nel deserto: realizzare il Regno usando i mezzi e le priorità umane che il nemico offre. Nel primo caso la tentazione è seguire o meno il Signore. Qui la tentazione è più sottile: farsi seguire o meno dal Signore, in nome di un presunto dovere. In realtà l’unico dovere è l’obbedienza al Padre, anche se sembra, come ad Abramo, di compromettere la promessa di Dio che ha già il volto concreto dell’amato figlio Isacco. Questi va sacrificato, perché sia veramente se stesso, cioè dono di Dio. La chiamata al Regno suppone che nessun affetto sia mai prioritario e sia mai assolutizzato. È la cosiddetta “indifferenza” di s. Ignazio: vede in ogni dono il donatore, e ama, attraverso il dono, chi dona. È la “castità” dell’uomo: sposa di Dio, deve amare solo lui in modo assoluto. Il resto lo ama in lui e per lui. Ogni affetto prima o fuori di lui, è adulterio.Se non abbandoni il padre, non diventi adulto e non ti sposi. Se non abbandoni ogni affetto prioritario rispetto a Dio e non ordinato a lui, non sei libero e fallisci il senso della vita. Vivi nel regno della morte, governato dalle tue priorità che sono i tuoi idoli che ti schiavizzano. Ciò che occupa il primo posto nel tuo tempogramma è l’oggetto primo del tuo cuore. È il tuo dio!

“Tu, invece, allontanandoti,”. Anche se ti aderisce talmente alla carne da sentirti lacerare nel separartene, bisogna che ti allontani da ciò che ti allontana da lui, per seguire lui (cf. 14,26-33!). Gesù è la spada dell’obbedienza al Padre (2,35). È venuto a portare divisione (12,51). Divisione di sangue, che penetrerà anche nell’intimo della sua volontà (cf. 22,42-44).

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Egli dà zelo a colui a cui ha dato discernimento. Il nemico invece dà zelo allo stolto o stoltezza a chi è zelante. Se non ci riesce, lo rende fiacco e timoroso.

“annuncia intorno il regno di Dio”. Chi ha posto la priorità nel Regno comincia ad annunciarlo. Esso parte da un cuore libero, per diffondersi fino agli estremi confini della terra.

v. 61: “Ora disse un altro: Seguirò te, Signore; prima però ecc.”. Questa terza figura di discepolo assomma le difficoltà dei primi due. È lui che si propone ed è lui che pone la priorità!

“Seguirò te”. La sequela è sua pretesa, ed è al futuro (come nel v. 57, mentre Gesù al v. 59 dice: “Segui me”, al presente!).D’altra parte la priorità che pone è ragionevole: è religiosamente giustificabile, Bibbia alla mano, come usa fare il nemico (cf. 4,941).

“congedarmi da quelli di casa mia”. Più che il motivo del rimando, analogo al precedente, interessa la sua formulazione. Richiama la vocazione di Eliseo da parte di Elia, padre dei profeti, che concesse al discepolo di congedarsi dal suoi (1Re 19,19ss). Ma ora c’è qui ben più che Elia (cf. 11,31.32): c’è il Figlio che va ascoltato (v. 35)! La sua presenza esige obbedienza immediata. Non c’è più da aspettare, perché è ormai il giorno del Signore (Ml 3,1ss). Elia, che doveva precedere il suo volto, è già venuto (1,16.76): la scure è posta alle radici (3,9), e bisogna decidere subito, tagliando con il passato, anche con le proprie radici. Il giudizio di Dio mette in crisi tutto. È il momento dell’obbedienza e dell’abbandono istantaneo della propria storia, per porre in lui ogni sicurezza, come Abramo quando udì: “Alzati e va’. ecc.” (Gn 12,1).

v. 62: “Nessuno che ha gettato la mano sull’aratro”. La risposta parte ancora da un’immagine suggerita dalla vocazione di Eliseo. Chiamato mentre stava arando con dodici paia di buoi (1Re 19,19ss), dovrà bruciare il suo aratro e sacrificare i suoi buoi per un’altra semina: quella della parola di Dio, da annunciare come erede di Elia profeta.Però la dilazione concessa al discepolo del profeta non è più concessa al discepolo di Gesù. Questo è il momento dell’incontro con l’Atteso. Non c’è tempo da perdere! Tale urgenza escatologica non brucerà solo l’aratro; ma anche il cuore di chi ara e semina (cf. 12,49; 2Cor 5,14s).

“guarda ciò che è dietro”. Anche la moglie di Lot, in fuga da Sodoma in fiamme, si voltò indietro e rimase di sale (Gn 19,26). Non è possibile nessun indugio: è il momento in cui si decide della vita o della morte.Chi ara non guarda indietro se vuol andare diritto. “L’indifferenza” non è solo verso cose (povertà) o persone (castità), ma anche verso se stessi: bisogna non guardare ciò che è dietro, il proprio io e la sua storia, ma ciò che sta davanti, Dio e la sua parola. Non devo cercare garanzie in me, non importa chi sono io e qual è il mio passato. È una cattiva premessa, da cui non posso dedurre la promessa di Dio. L’unica garanzia è da cercare nell’obbedienza a lui e al suo futuro.Corrisponde alla terza tentazione di Gesù. In essa cadde Israele a Meriba (Es 17,7) quando pretese da Dio garanzie diverse dalla propria obbedienza a lui. Il discepolo ha come unica sicurezza la rinuncia a tutto quanto ha (14,33). Egli è come Abramo che lascia paese, terra, casa, padre (Gn 12,1s); è come Paolo che, dimentico del passato e proteso verso il futuro, si sforza di correre per conquistare il Signore Gesù, perché è stato da lui conquistato (Fil 3,12s).

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“ben messo per il regno di Dio”. Chi è attaccato a cose, persone o al proprio io, e cerca altre sicurezze che l’obbedienza, è decisamente mal messo per il Regno. È sale senza sapore (14,35).Chi supera queste tre tentazioni, è associato al cammino di Gesù; verrà inviato (10,1ss), vincerà Satana (10,17ss), sarà depositario della sua rivelazione di Figlio, ed entrerà nel suo stesso rapporto di amore col Padre (10,21ss).La radice comune di tutte le tentazioni è l’attaccamento al proprio io. Chi supera questa tentazione, ha superato le prime due. Per questo Gesù dice: “Se qualcuno vuol venire dietro me rinneghi se stesso” (9,23). Chi, nonostante ogni tendenza e resistenza contraria, si mette in questa posizione, è “ben messo” per il Regno. Vuole il fine e i mezzi, e non rimanda l’esecuzione. Intende obbedire a Dio, mosso unicamente dal desiderio di servirlo.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù e i suoi in cammino verso Gerusalemme.c. Chiedo ciò che voglio: la libertà dalle cose, dalle persone, dal mio io, il dono della povertà, della castità e dell’obbedienza.d. Traendone frutto, mi identifico con i tre candidati discepoli e considero attentamente ciò che Gesù dice loro.

4. Passi utili

Sal 84; 1Sam 17,32-54; 1Re 19,19-21; Gn 19,26; Lc 4,1-13.

61. ECCO IO INVIO VOI

(10,1-16)

10 1 Ora, dopo queste cose,designò il Signorealtri settanta (due)e li inviò due a duedavanti al suo voltoin ogni città e luogodove stava lui stesso per venire.2 Ora diceva loro:La messe è molta, ma gli operai pochi!Supplicate dunque il Signore della messe che stani operai per la sua messe.3 Fatevi sotto! Ecco:

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lo invio voi come agnelli in mezzo a lupi.4 Non portate borsa,né bisacciané sandalie nessuno salutate lungo il viaggio.5 Ora, in qualunque casa entrate, prima dite:Pace a questa casa!6 E se là c’è un figlio della pace, riposerà su lui la vostra pace; se invece no,su di voi ritornerà.7 Nella stessa casa dimorate mangiando e bevendo ciò che da loro (viene):degno infatti l’operaio della propria mercede.Non trasferitevi di casa in casa.8 E in quella città in cui entratee vi accolgono9 mangiate ciò che vi è posto davanti,prendete cura degli infermi in essae dite loro:È giunto su di voi il regno di Dio!10 E in ogni città in cui sarete entrati e non vi accoglieranno, usciti nelle sue piazze dite:Anche la polvereche dalla vostra cittàsi è attaccata ai nostri piedi,noi ve la scuotiamo!Tuttavia sappiate questo:è giuntoil regno di Dio!12 Vi dico che per Sodoma in quel giornosarà più sopportabile che per quella città.13 Ahimè per te, Corazin!Ahimè per te, Betsaida!Perché se a Tiro e Sidonefossero avvenuti i prodigiavvenuti fra voi,da tempo, seduti in sacco e cenere,si sarebbero convertiti.14 Tuttavia per Tiro e Sidone

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sarà più sopportabile nel giudizio che per voi!15 E tu, Cafarnao,forse che fino al cielo sarai innalzata?fino all’Ade discenderai!16 Chi ascolta voiascolta me;e chi trasgredisce voitrasgredisce me.Ora, chi trasgredisce me,trasgredisce chi mi inviò.

1. Messaggio nel contesto

Il brano inizia con Gesù che invia (v. 1), e termina con lui inviato (v. 16): manda i discepoli come il Padre ha mandato lui. Sorgente della missione è sempre il Padre, nella sua misericordia per tutti i suoi figli. Il Figlio è il primo inviato perché lo conosce. Dopo di lui, sono da lui e come lui inviati quelli che l’hanno riconosciuto come fratello.Luca evita con cura i doppioni e ciò che ne ha l’apparenza. Qui invece appositamente - e lui solo! - ne fa uno, riprendendo e ampliando il discorso di 9,1-6. Così evidenzia l’importanza di tale testo per la sua chiesa.Essa si sente apostolica (= missionaria), perché chiamata a continuare l’opera di Gesù che, con quella dei Dodici a Israele e dei settantadue a tutti i popoli, costituisce un’unica missione. Luca ne narra due, perché “due” è il principio di molti:l’uno che si ripete nel tempo. Attraverso questa missione identica e molteplice dell’unico Signore, il Signore diventa “uno” su tutta la terra (Zc 14,9) e il suo nome è santificato tra tutte le genti (Ez 36,23). Unità e totalità sono le preoccupazioni di fondo del “cattolico” Luca.La missione nasce dall’amore del Padre per tutti i suoi figli e termina nell’amore dei figli per il Padre e tra di loro. Essa si allarga in un orizzonte sempre più ampio, fino ad abbracciare gli estremi confini della terra: è il cerchio delle braccia del Padre, che si apre a stringere tutti i figli senza perderne alcuno, perché non ha figli da sprecare.Le condizioni della missione dei Settantadue, come quella dei Dodici (9,1-6), sono le medesime di Gesù. La differenza sta nel fatto che lui è il Figlio che ha lasciato il Padre ed è “venuto” a cercare i fratelli (5,32; 19,10). Invece i Dodici sono “chiamati” (9,1) e i Settantadue “designati” a collaborare alla sua opera.Questa missione, come da Israele va fino ai confini dello spazio, così da Gesù si estende fino alla fine del tempo. Poi giungerà il Signore. “Ma è prima necessario che il Vangelo sia annunciato a tutte le genti” (Mc 13,10). Fine della missione è non solo la vittoria sul male (v. 17s), e il ritorno allo stato originario di Adamo, re del creato (v. 19); ma soprattutto il fatto che il nome dei discepoli, nel nome di Gesù, è scritto nei cieli (v. 20), cioè in Dio. Gesù è venuto per darci la gioia di entrare nella sua comunione di Figlio col Padre (v. 21s).Questo lungo discorso ha un esordio: “la messe è molta” (v. 2), cioè tutta l’umanità; chi conosce il cuore del Padre è sollecito di tutti i fratelli. Ha un’immagine iniziale, che dà il “colore” alla missione: “agnelli in mezzo ai lupi” (v. 3), sotto il vessillo del pastore che si è fatto agnello immolato. Seguono quattro proibizioni che descrivono la missione in povertà (v. 4), e le precisazioni circa l’annuncio del Regno: “dite”, “dimorate”, “mangiate”, “prendete cura”, “dite” (vv. 5-9). Tale annuncio, urgente e

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necessario, avviene nella contraddizione e nel rifiuto (vv. 10-15). Il tutto si conclude affermando che la missione dei discepoli è la stessa di Gesù, inviato dal Padre (v. 16).Tutta l’umanità è messe matura per accogliere la salvezza. Dove c’è rifiuto, c’è un “ahimè” analogo a 6,24-26. Non è minaccia, ma forma estrema di annuncio. L’annunciatore rifiutato dice: “ahimè per te!”. Denunciando il male, ne porta su di sé la ferita. Così realizza l’offerta estrema della salvezza, che è fatta a tutti senza condizioni, anche a chi rifiuta. È ciò che fece il Signore in croce, rifiutato da tutti.La perdizione di chi rifiuta si riversa su chi è rifiutato. Il dramma dell’amore non amato, che non rinuncia mai a offrirsi, è l’orizzonte stesso della salvezza, negata a nessuno e donata a tutti. Si vede così la serietà del dono e la gratuità dell’amore di Dio, che sa perdersi per ogni perduto.Queste parole di Gesù ai suoi inviati suppongono ciò che s. Ignazio chiama: “terzo grado di amore” (Esercizi spirituali 167): il desiderio di scegliere la povertà, la stoltezza e la follia della croce, per somigliare al Signore che si ama. Questa somiglianza è già missione. È quella lampada accesa che illumina (8,16; 11,33), quello stare “con lui” (Mc 3,14; cf. 8,2!) che si fa trasparenza davanti ai fratelli, quell’essere associati alla sua croce che salva il mondo (cf. 2Cor 4,7-12; 6,10; Col 1,24). Ogni discernimento apostolico deve tener conto di queste parole di Gesù, ed è possibile solo a chi desidera somigliargli nella sua missione in povertà (cf. 2Cor 8,9; Fil 2,5-11). Questo desiderio è un amore che purifica da ogni paura. È il cuore puro vede Dio e discerne il suo volere, perché lo ama.

2. Lettura del testo

v. 1: “dopo queste cose”. Sono le esigenze sulla sequela esposte nel brano precedente. Implicano l’essere battezzato nello Spirito del Figlio e la vittoria sulle tentazioni, come ha fatto Gesù nel deserto (4,1ss). La missione viene “dopo queste cose”, quando c’è la disponibilità a seguirlo, usando i suoi stessi mezzi, per amore verso di lui. Prima di “queste cose” non c’è missione. C’è solo presunzione e volontà di potenza; si è sotto il vessillo nemico, anche se si crede di militare per il Signore. È l’unica volta che Luca inizia così un brano. Ciò indica l’importanza, per la missione del discepolo, di seguire il cammino del maestro. Diversamente non è abilitato ad annunciare il Regno. Lo impedisce!

“designò il Signore”. Lo stesso termine è usato nella sostituzione di Giuda con Mattia. Sarà apostolo a pieno titolo, ma non per chiamata diretta di Gesù, bensì per designazione attraverso gli altri (At 1,21-25). Così anche questi Settantadue sono inviati (= apostoli) a pieno titolo, anche se non sono dei Dodici. La loro “designazione” è fatta dal “Signore” stesso, il Gesù glorificato nella chiesa. Questa missione, che si perpetua nel suo nome attraverso gli apostoli, è fatta risalire al Gesù terreno, e gode della stessa sua autorità (v. 16).

“altri”. Sono “altri” rispetto ai Dodici. La differenza non è nell’origine e nel fine. È come quella che c’è tra le fondazioni e la costruzione dello stesso edificio. I Dodici, stando all’inizio, costituiscono l’aggancio al Gesù storico, pietra fondante, e continuano la sua missione verso le dodici tribù d’Israele, erede della promessa. I Settantadue la prolungano nello spazio e nel tempo, rivolgendosi a tutte le famiglie della terra che in lui sono benedette (cf. Gn 12,3).

“Settanta(due)” (Settanta). Settanta sono in Israele gli anziani (Es 24,1; Nm 11,16-24), i membri del sinedrio, i traduttori della Bibbia e i popoli della terra (cf. Gn 10). Tuttavia nella traduzione dei LXX, le nazioni di Gn 10 diventano settantadue; e gli anziani di Es 24 e Nm 11 diventano settantadue se si aggiungono Mosè e Aronne. Al di là della questione se sono settanta o settantadue, il significato è

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chiaro: la Parola data a Israele deve raggiungere tutti i figli di Dio, tutti i popoli. Settantadue più dodici fanno sette volte dodici: la totalità (sette) degli uomini è popolo di Dio (dodici)!

“li inviò”. Anche se per designazione e non per chiamata diretta, sono inviati, né più né meno, come i Dodici e Gesù stesso (v. 16). Inviato, missionario e apostolo sono la stessa parola, rispettivamente con radice italiana, latina e greca.

“due a due”. A differenza dei Dodici, sono mandati in coppia. Sia per ragioni di reciproco aiuto, sia a motivo della testimonianza - per la sua validità - si richiede la concordanza di due. Inoltre due che stanno insieme testimoniano la presenza del nome che li tiene uniti (cf. Mt 18,20!). Due infine è principio di molti, seme della comunità.

“davanti al suo volto”. È il volto di 9,51, diverso da ogni altro. È quello che viene per il giudizio (Ml 3,1ss), ma di salvezza.

“ogni città e luogo”. Città, in relazione a “casa”, indica il pubblico in opposizione al privato; in relazione a “luogo”, indica dove l’uomo abita. Il suo volto arriva in ogni luogo: è il Signore dell’universo. Mentre la sua venuta è ovunque, la sua accoglienza è riservata all’uomo, come singolo o come comunità.

“dove stava lui stesso per venire”. La sua venuta, imminente da sempre, è legata all’invio di chi va davanti al suo volto (1,17.76; 3,4; cf. Ml 3,1ss). Dove è accolto, è anche seguito nel suo viaggio di samaritano che va a Gerusalemme.Colui che sempre “sta per venire”, di fatto viene ogni qualvolta ci convertiamo a lui e facciamo nostro il suo cammino. Egli sta alla porta e bussa: se uno gli apre, inizia il banchetto (Ap 3,20). La sua venuta sarà compiuta quando tutti l’avranno accolto. Ciò che dobbiamo sapere è solo che “ora” gli dobbiamo aprire la porta.

v. 2: “diceva”. L’imperfetto indica un’azione non finita, che continua. L’eco della voce di Gesù risuona ancora nella chiesa.

“la messe è molta, ma gli operai pochi”. È la coscienza del piccolo gregge, depositario del Regno (12,32), destinato a tutto il mondo. La responsabilità del fratello, per il quale il Signore è morto, è l’origine della missione: “L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti” (2Cor 5,14). Per questo Gesù domanda all’ex lebbroso che ritorna: “Dove sono gli altri nove?” (17,17).La missionarietà della chiesa non è fanatismo o proselitismo, ma conoscenza dell’amore del Padre per “tutti” e “singoli” i suoi figli. L’immagine della messe richiama la venuta decisiva (Gl 4,13; Ap 14,15-16; cf. Gv 4,35ss) per il giudizio di salvezza. Ogni uomo è infatti ormai frumento maturo per diventare corpo del Signore, unendosi a lui nel suo cammino verso il Padre. È interessante notare che l’invio dei Settantadue è insieme la semina della Parola e la mietitura. Questo è il momento in cui chi semina incontra chi miete e ambedue godono dell’abbondanza dei frutti (Am 9,13; cf. Gv 4,36). Infatti l’accoglienza dell’annuncio, che è la semina, è già salvezza, cioè mietitura.

“Supplicate dunque”. Come Gesù pregò per chiamare i Dodici (6,12), così questi pregano perché il Signore designi Mattia (At 1,24). La preghiera, comunione col Padre, è la sorgente della missione, perché ne è anche il fine! Siccome c’è la messe, “dunque” bisogna, per prima cosa, non fare o mietere, bensì “pregare”. L’unione con Dio è il primo e più efficace mezzo apostolico.

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“il Signore della messe”. Tutti gli uomini sono sua messe: gli stanno a cuore, come la messe al contadino.

“operai”. La responsabilità della salvezza - che viene dalla fede, che viene dall’annuncio (Rm 10,14-15)! - come fu del Signore, seminatore della Parola, ora è dei discepoli. Sono “operai” che “collaborano” alla sua stessa fatica (2Cor 5,14-6,2).

“stani (= getti fuori)”. Devono essere stanati da tutte le paure e false sicurezze di cui al brano precedente. Questo coraggio non è pretesa umana. È dono fatto a chi lo chiede nella preghiera con insistenza, anche se sente resistenze contrarie.

v. 3: “come agnelli in mezzo ai lupi”. È la modalità dell’invio: una missione in povertà e sprovvedutezza, che espone e rende indifesi come lui, l’agnello, il Figlio dell’uomo consegnato nelle mani degli uomini (9,44). L’agnello è mite e mansueto. Utile da vivo perché dà lana e latte, cibo e vestito, lo è ben più da morto, quando dà pelle e carne, se stesso come cibo e vestito. Richiama l’agnello pasquale (Es 12,3ss) e il servo sofferente che porta il peccato del mondo (Is 53,7.12; Gv 1,29). L’agnello resta sempre tale, anche se è con tanti altri. Molti agnelli non fanno mai un branco di lupi. La differenza agnello/lupo è la stessa che c’è tra Gesù/mondo, amore/egoismo, povertà-umiliazione-umiltà/ricchezza-potere-orgoglio. Il mondo si comporterà con i discepoli sempre come il lupo con l’agnello (Gv 15,18s). Solo alla fine dei tempi pascoleranno insieme (Is 11,6). In questa storia nostra, il lupo mangerà sempre l’agnello. Ma questo vincerà e riceverà il potere proprio in quanto sgozzato (Ap 5,12).

v. 4: “non portate borsa, né bisaccia”. La borsa è la sicurezza del ricco: contiene i suoi soldi. La bisaccia è la sicurezza del povero e del predicatore ambulante: vi raccoglie le sue cose e le offerte. Ma l’unica sicurezza del discepolo è lasciare tutto (14,33) e confidare nella parola del Signore. Questa è la borsa che non invecchia, la borsa e la bisaccia necessarie nel momento della tribolazione (22,36). Per questo deve vendere tutto, anche il mantello, ultima sua sicurezza. Solo così possiede quella spada che Gesù richiede nella lotta definitiva (cf. 22,36).

“né sandali”. Lo schiavo non porta sandali. L’apostolo è servo del vangelo (Col 1,23), del quale è debitore a tutti (Rm 1,14). Inoltre in questa povertà si vede quanto sono belli i piedi di coloro che recano il lieto annuncio di pace (Rm 10,15; Is 52,7). Questi piedi hanno la bellezza della sua sposa, tutta bella perché simile a lui, lo Sposo che la contempla (Ct 7,2).

“lungo il viaggio”. Il viaggio del discepolo è lo stesso del Maestro: in povertà, castità e obbedienza, con l’abbandono di ogni legame e la rinuncia a ogni possesso, per vivere del dono del Regno. Questa povertà è la carta d’identità della chiesa, che porta i lineamenti di chi l’ha inviata. Efficienza umana ed efficacia evangelica sono tra loro inversamente proporzionali. La prima deriva dalla ricchezza, la seconda dalla povertà. Questa, frutto dell’amore per il Signore e condizione per seguirlo (12,33; 14,33), è di chi ha scoperto il tesoro (Mt 13,44ss).Ciò che hai, ti divide dall’altro; ciò che dai, ti unisce a lui. Quando hai cose, dai cose; quando non hai più nulla, dai te stesso. Solo allora ami veramente. Perché l’uomo è ciò che dà. Chi ha nulla, dà se stesso: sa amare e vive per l’altro, perché l’altro viva per mezzo suo. Questa è la via alla salvezza che dall’eternità ha pensato colui che da ricco che era si fece povero, per arricchire noi mediante la sua povertà (2Cor 8,9).

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La povertà è il duro banco di prova su cui suona l’autenticità dell’annuncio: è moneta vera o falsa?Non è certo causa, però è condizione dell’efficacia della Parola. La “missione in povertà” rende “ben messo” per il Regno (9,62), perché mette il discepolo col suo Signore, e fa esercitare all’altro l’esperienza divina dell’accoglienza che gli si annuncia. Essa rispecchia l’essenza del Figlio, che riceve dal Padre quanto è, e dà ai fratelli quanto riceve.La povertà e l’umiltà inoltre sono caratteristiche divine: all’interno della Trinità ogni persona è se stessa in quanto dell’altra e per l’altra - quando non anche dall’altra - in assoluto amore reciproco: ogni persona tutto dà e tutto riceve.

“nessuno salutate lungo il viaggio”. Non si perda tempo in salamelecchi, perché l’annuncio è questione di vita o di morte. Il discepolo fa come Ghecazi, servo di Eliseo, che non deve salutare nessuno per strada mentre va a risuscitare il figlio della vedova col bastone del suo maestro (2Re 4,29).Qui finiscono le proibizioni, che caratterizzano la missione in povertà, e ne rappresentano il costo. Ora seguono gli imperativi, che ne rappresentano il frutto: la pace messianica.

v. 5: “casa”. La Parola coglie l’uomo innanzi tutto in casa. Essa è la “tana”, in cui egli abita e soddisfa i suoi bisogni di cibo e di amore. Oggetto primo di ogni preoccupazione (cf. 9,58), va lasciata per prima (18,29). Essa è anche lo spazio segreto dell’uomo in cui Cristo entra e diventa Signore, portando i suoi doni di pace, di perdono, di salvezza, per celebrare il banchetto messianico (cf. 4,38; 5,29; 6,48-49; 7,6.37.44; 8,27.51; 9,4; 10,5.7.38; 15,8.25; 17,31; 18,29; 19,5.9; 20,47; 22,10. 11.54).

“entrate”. La Parola entra nell’uomo perché “è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio: essa penetra (... ) e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). E l’apostolo entra con essa, che già è entrata in lui e l’ha trasformato in sé. È quindi estraneo e bisognoso di essere accolto, come la stessa parola che porta. Questo entrare rispettoso da ospite e non da padrone è il principio dell’inculturazione.

“prima dite”. La cosa prioritaria in assoluto per la casa dell’uomo è l’annuncio del Regno. Il resto sarà dato in aggiunta (12,31). L’unico potere del discepolo è la debolezza della parola annunciata, forza di Dio per chi crede (Rm 1,16). La sua impotenza è la potenza stessa di colui al quale è piaciuto salvare con la stoltezza dell’annuncio (1Cor 1,21). Essa va accolta quale parola di Dio, come è veramente, che opera in chi crede (1Ts 2,13). Ogni missione è per ottenere obbedienza di fede a questa parola (Rm 1,5). L’importanza e l’urgenza di tale annuncio è capita solo da chi ha intuito il mistero dell’amore di Dio per l’uomo (cf. Rm 10,14ss). Se nei vv. 3-4 si sottolinea il “fare” del discepolo, che è un “non fare” come i lupi; qui si sottolinea il “dire”. Il “fare” e il “dire” sono le due caratteristiche dell’uomo. Attenzione a non decurtare la missione di una delle due dimensioni.

“Pace”. È l’annuncio degli angeli alla nascita di Gesù (2,14). Quello dei discepoli porta il natale nell’anima: Cristo nasce nell’uomo che lo accoglie.“Pace” nella Bibbia è sinonimo di ogni benedizione di Dio. Lo shálóm, saluto e augurio, desiderio e attesa dell’uomo, è frutto dello Spirito di Gesù (cf. Gal 5,22; Ef 4,20ss, ecc.).

v. 6: “figlio della pace”. È il contrario di “figlio dell’ira” (Ef 2,3): una persona disposta ad accettare la pace e a lasciarsi generare da essa.

“riposerà”. È detto dello Spirito che scende dall’alto e trova riposo (cf. Nm 11,25.26). La pace non trova pace fino a quando non è accolta. Il riposo di Dio, che è amore, è essere accolto dall’uomo.

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“ritornerà”. La Parola è come una freccia: se incontra un cuore duro, non entra. Deviata e respinta, ferisce chi l’ha scagliata. Ma solo dalla ferita del cuore di chi ama nasce l’amato!

“su di voi”. Continua così nei discepoli la passione di Gesù per il mondo (Col 1,24; 2Cor 4,10ss). La parola di Dio “irrevocabile” (Is 45,23), non torna indietro senza effetto (Is 55,11). Se è accolta, porta Dio all’uomo e il suo riposo in lui. Se è respinta, ricade su chi l’ha pronunciata.

v. 7: “dimorate”. La casa diventa una “dimora” dove trovano accoglienza e la Parola e il fratello che l’annuncia.

“mangiando e bevendo”. Questo dimorare insieme è alimentato da un cibo e rallegrato da una bevanda, che è già anticipo di quella del Regno (22,14ss): è l’eucaristia. Nasce la comunità cristiana, la fraternità che vive del dono del Figlio.

“ciò che da loro (viene)”. Dove l’amore è accolto, nasce la capacità di donare. Come Cristo ha dato se stesso e i discepoli hanno dato tutto (vv. 3-4) per annunciarlo (vv. 5-6), così chi accoglie l’annuncio corrisponde a sua volta dando del suo: entra nella cerchia dei discepoli, di chi dona tutto (14,33) e dona se stesso (cf. 9,24).

“degno infatti l’operaio”. La vera mercede per l’operaio è suscitare questa capacità di donare. La ricompensa di chi evangelizza è la gioia stessa del Padre nell’essere riamato dai figli: è associato all’esultanza di Gesù, il Figlio (vv. 21s). Egli predica gratuitamente l’Evangelo (1Cor 9,18) per partecipare alla gratuità dell’amore del Padre (cf. 6,32-36; Mt 10,10).

“Non trasferitevi”. Il senso letterale è quello di non andare in cerca di altri alloggi, anche per evitare di moltiplicare i saluti con relativo dispendio di tempo. Il senso profondo è che ogni casa, che accoglie la Parola, diventa abitazione stabile di Dio, arca dell’Altissimo, come Maria e la chiesa. La molteplicità delle accoglienze non moltiplica, ma amplia l’unica casa di Dio nell’aumento dei fratelli. La pace di Dio non trasmigra e non si fraziona: cresce col crescere dei figli che l’accettano.

v. 8: “città”. La casa è il privato e il personale; la città il pubblico e il sociale. Anche qui entra la Parola. L’identità cristiana ha certamente una rilevanza di tipo politico. Attenti però agli integrismi. Il cristianesimo non mira al potere di nessun tipo. La “pace” entra e converte innanzitutto il cuore dell’uomo all’umiltà del suo Signore. Nella misura in cui è convertito, è capace di rapporti nuovi di stampo millenaristico. Bisogna guardarsi dall’ipotizzare una civitas christiana di stampa millenaristico. Luca la esclude non certo per mancanza di fantasia, ma perché contraria al principio dell’incarnazione. Dio ama questo mondo di peccato. Gesù non ne fa uno più pulito e non se ne ritaglia una fetta; ma lo salva, testimoniando l’amore del Padre proprio per questo mondo che resta ancora nelle mani del Maligno (4,6s; At 2,40). Il Regno è sempre qualcosa di trascurabile agli occhi mondani (17,21). È piccolo gregge (12,32) e pugno di lievito nascosto nella farina (13,20); è sale che dà sapore (14,34) e luce che illumina (8,16). Non si vuol fare del mondo un’immensa “saliera”, né un enorme lampione! Ogni pretesa di “città cristiana” sta sempre sotto il giudizio della croce di colui che fu crocifisso fuori le mura (Eb 13,12ss), respinto dal potere politico, religioso, economico e culturale. Più che fornire ricette su come gestirlo, egli ne ha smascherata l’impotenza salvifica. Il cristiano è “nel” mondo, ma non “del” mondo (Gv 17,11.16). Ogni civitas christiana invece è sempre buffamente

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fuori dal mondo e stupidamente del mondo. Ogni serio impegno nel mondo è testimonianza di non essere del mondo.

“vi accolgono”. La “città” che accoglie vive rapporti nuovi. È la chiesa, la comunità in cui esiste la reciprocità di accoglienza, testimonianza del mondo nuovo nel mondo vecchio, luogo dove tutti gli uomini possono celebrare la salvezza.

“mangiate ciò che vi è posto davanti”. Mangiare significa vivere. Il discepolo vive di tutto ciò che gli si presenta, senza preclusioni. L’angelo dice a Pietro: “Mangia! Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano” (At 10,15ss). L’evangelizzatore non ha preclusioni ideologiche, culturali, politiche, sociali e religiose. Ogni uomo è amato e purificato dal sangue di Cristo, riscattato a caro prezzo (1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,18). Ogni cosa in sé è buona perché da Dio; basta usarla correttamente e con rendimento di grazie (1Cor 10,31). L’unico limite alla libertà è la coscienza del fratello più debole (1Cor 10,28ss; 8,1ss). La chiesa ha capacità di mangiare e assimilare tutto: è cattolica e può farsi tutta a tutti, come Paolo, per guadagnare tuttia Cristo (1Cor 9,22), perché lui è il Signore di tutti. Infatti “per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui” (1Cor 8,6). “Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22s). Questo problema è sempre stato grosso nella chiesa, e ne tocca l’essenza. La chiesa è tanto libera di inculturarsi, quanto è legata al suo Signore e a lui solo!

v. 9: “prendete cura”. Con questo atteggiamento libero si può prendere cura di tutti gli uomini di tutte le città, malati di un’unica malattia che porta al sepolcro (cf. 7,11-17). Gesù non dice di “guarirli”, bensì di “prendersi cura”. È meno pretenzioso, ma più profondo. Curarsi dell’altro è la vera guarigione.

“è giunto il regno di Dio”. Il regno di Dio, molto modesto, è questo accogliere la pace e chi la porta, è questo prendersi cura dei mali. È un cuore nuovo che vive sotto il segno dell’accoglienza e del dono.

v. 10: “non vi accoglieranno”. L’eventualità del rifiuto è trattata più ampiamente (vv. 10-16) di quella dell’accoglienza. Tutte e due le ipotesi si verificheranno (At 17,32; 18,10s).L’annuncio è sempre fatto in debolezza, per lasciare la libertà di accogliere. Il rifiuto associa i discepoli al mistero della croce del loro Signore. Saulo, che si sente dire: “perché mi perseguiti?” (At 9,4), dirà a sua volta: “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la chiesa” (Col 1,24), “di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita” (2Cor 4,12). Il rifiuto, lungi dal vanificarlo, realizza il piano di salvezza. Gesù, proprio attraverso la croce, ricevette il Nome (Fil 2,9) e portò la salvezza. Egli “fu crocifisso per la sua debolezza” (2Cor 13,4). Così anche noi, che “siamo deboli in lui” (ivi), possiamo dire: “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10), forte della forza di Dio.

“usciti nelle sue piazze dite”. Il rifiuto pubblico è occasione di annuncio più solenne, che ne evidenzia la gravità. Tanto più che spesso è consumato in sordina.Che il rifiuto sia normale, è chiaro sia per Gesù che per i discepoli. L’accoglienza viene solo dopo, come la risurrezione dopo la croce (cf. 9,51ss e At 8,1ss; cf. inoltre At 2,36-37). Il nemico gioca nel rifiuto l’ultima carta della sua resistenza. In esso anche il Signore gioca la sua ultima carta: si espone, offrendo all’uomo il suo amore in tutta la sua nuda evidenza. Il rifiuto è la soglia tra la vittoria e la

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sconfitta del male, tra la “pace” e l’“ahimè”. Il male è vinto quando vince, perché l’amore vince perdendo.

v. 11: “anche la polvere... attaccata noi ve la scuotiamo”. È il gesto di chi entra nella terra promessa da una terra infedele. Lascia fuori ogni impurità. Qui è un atto di denuncia: non c’è nulla in comune con chi ha rifiutato la pace, neanche la polvere casualmente attaccata ai piedi. Ma è anche un gesto di annuncio, atto a risvegliare la coscienza sopita di chi non accoglie. Questo rifiuto è la ferita mortale di Dio: gli trafigge il cuore, lo penetra e lo fissa sulla croce. È pure la ferita della chiesa e del discepolo che ne continua la missione e la passione. Il termine “attaccata”, detto della polvere, come pure il verbo “scuotere”, hanno in greco un senso tecnico: indicano rispettivamente il rimarginarsi e l’asciugarsi di una ferita aperta e sanguinante. La ferita aperta e sanguinante del rifiuto si asciuga e si rimargina solo nell’annuncio estremo dell’amore crocifisso, possibilità stessa della salvezza. “Dalle sue piaghe siamo stati guariti” (Is 53,5). Le sue ferite sanguinano ancora nei discepoli: “Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo”, dice Paolo (Gal 6,17). Il discepolo quindi nel rifiuto non si ritrae: realizza ciò che annuncia, offrendo un amore senza condizioni. Non c’è altra guarigione alla sua ferita, che questo annuncio stesso. Diversamente manca alla sua missione. Questo gesto quindi non è di condanna o di rifiuto del destinatario, verso il quale l’evangelizzatore si sente sempre in debito dell’Evangelo (cf. Rm 1,14)

“Tuttavia”. La salvezza è e resta offerta e annunciata, riofferta e riannunciata anche a chi rifiuta. “Guai a me se non evangelizzo” (1Cor 9,16)! Non posso non amare il fratello che è costato al Padre il sangue del Figlio.

“sappiate”. Il rifiuto non fa ritrarre la mano che dona. È annuncio a oltranza. Non per fanatismo o per proselitismo, ma perché si conosce il cuore del Padre.

v. 12: “Sodoma”. Chi rifiuta è paragonato a Sodoma, che maltrattò gli angeli venuti per salvare la famiglia di Lot (Gn 19). Sinonimo di perversione, significa probabilmente “luogo triste”: è il luogo di chi rifiuta la pace.

“in quel giorno”. È il giorno per eccellenza, quello della venuta del Signore e del suo giudizio. È il giorno del quale tutti sono in attesa, e che dà senso a tutti i nostri giorni. Per Luca è l’“oggi”, in cui la Parola entra nell’orecchio e nel cuore di chi ascolta. Avviene quando l’annuncio è accolto, e l’obbedienza della fede ci attualizza al Signore. “Quel giorno” non farà che rivelare il significato pieno della salvezza annunciata e accolta “oggi”.

v. 13: “Ahimè per te”. Non è una minaccia (“guai!”) ma un compianto e un lamento (cf. 6,24ss). È il dolore di Dio per il male dell’uomo, il dolore dell’amore non riamato. La pena del giudizio non è: “guai a te”, bensì: “guai a me per te! “. Diventa infatti la croce di Cristo, che è l’“ahimè!” di Dio per i guai dell’uomo. Per sé il rifiuto, come ogni male, non è contro Dio. È contro chi rifiuta, che così si fa male. Ma come il male dell’amato tocca direttamente l’amante, così il male dell’uomo tocca direttamente e in modo infinito il cuore di Dio, perché egli lo ama in modo infinito. Per questo il nostro peccato provoca il suo lamento e la sua sofferenza reale. La croce indica insieme la serietà del suo amore e la gravità del nostro male. L’amore non amato non minaccia. Non può che lamentarsi e morire di passione. E la passione di Dio è infinita come il suo amore.Da qui si capisce la libertà, ma anche la tremenda responsabilità di rifiutare. Ma il giudizio del rifiuto, e il male che ne consegue, non ricade su di noi, bensì su di lui che continua ad amare e a offrirsi.

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Infatti “il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui” (Is 53,5), e “colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2Cor 5,21): “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione”, “divenendo lui stesso maledizione per noi” (Gal 3,13).Questo “ahimè” di Dio è il più forte annuncio di salvezza.

“Tiro e Sidone”. Sono le città degli affari e dello sfruttamento dei poveri (Is 23,1-11; Ez 26-28), simbolo dell’ingiustizia che impedisce di accogliere la Parola di cui tutti hanno fame e sete (Am 8,14-12). Il loro nome è sinonimo di inconvertibilità. Non si condannano Corazin e Betsaida; si intende mostrare la grandezza del dono di amore che hanno ricevuto, sufficiente a convertire anche chi non può convertirsi!

“da tempo, seduti in sacco e cenere”. Richiama Ninive di Gio 3,8. Oltre che inconvertibile e corrotta, è la nemica di Israele. Il profeta fu inviato ad essa con frutto!

“convertiti”. Il fine di ogni parola di Dio all’uomo è la conversione.

v. 14: “giudizio”. È la prima volta che esce questo termine in Luca (cf. 11,31.32 in contesto analogo!). In 11,42 è messo sullo stesso piano dell’amore di Dio, che viene trascurato. Il giudizio infatti è trascurare quest’amore, che però resta irrevocabile e fisso in croce, passione eterna di Dio per l’uomo.

v. 15: “Cafarnao”. È il luogo d’inizio del ministero di Gesù, prima ancora di Nazaret (4,23). Da lì vengono i primi cinque discepoli. È la città che voleva “trattenerlo” (4,42). Lì ipotizza il rifiuto più duro! Viene apostrofata con le parole che Is 14,15 rivolge a Babilonia, la città superba e dal lusso sfrenato.Sodoma, Tiro, Sidone, Ninive, Babilonia!... Tutto ciò che Israele considera il peggio, è niente di fronte al male del rifiuto della visita del Signore (19,41s). La sua sofferenza è proporzionale al suo amore infinito! Tuttavia, se Cafarnao sarà precipitata fino agli inferi, anche là Gesù scenderà a visitarla. Perché l’ama, tanto che i suoi di Nazaret lo vogliono precipitare proprio per ciò che ha compiuto a suo favore (4,29).

v. 16: “Chi ascolta”. Ascoltare è accogliere la Parola in un cuore bello e buono, custodirla e produrre frutto con perseveranza (8,15).

“Voi/me”. A differenza di 9,49ss, dove Gesù ci tiene a distinguersi dal “noi” dei discepoli, qui si identifica con loro in quanto esclusi e rifiutati. Nel rifiuto si dà l’identificazione con lui, il più piccolo, l’escluso, la pietra scartata.

“chi trasgredisce”. Il termine significa: non fare, trasgredire una legge. La non accoglienza dei discepoli di Gesù è trasgressione dell’unica legge di quel Dio che è amore.

“Voi/me/chi mi inviò”. L’invio è unico, unica la missione. Il suo principio è l’amore del Padre. Egli vuole che tutti siano salvati (1Tm 2,4), e dà suo Figlio per la salvezza del mondo (Gv 3,16). I discepoli ne mediano l’accoglienza attraverso lo spazio e il tempo con l’annuncio. Così tutti gli uomini che l’ascoltano possono entrare nell’“oggi” della salvezza.Come Gesù è l’apostolo del Padre, così i Settantadue sono apostoli suoi, designati a continuare la sua stessa missione, alla pari dei Dodici, che già prima aveva chiamato.

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L’annuncio è la forma più alta di sequela, che associa alla passione di Gesù: ci mette con il Figlio, esposti insieme con lui, inviato a testimoniare l’amore del Padre.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che designa e invia altri settantadue discepoli.c. Chiedo ciò che voglio: secondo le mie condizioni e possibilità, essere cosciente della mia responsabilità nell’annuncio del vangelo a tutti i fratelli. E, se il Signore mi chiama a questo servizio a tempo pieno, non essere sordo alla sua voce.d. Traendone frutto, ascolto le parole di Gesù.

Da notare:- la messe è molta/gli operai pochi- supplicate il Signore che stani operai- agnelli in mezzo ai lupi- né borsa, né bisaccia, né sandali- non salutate- entrate/dite- mangiate/bevete- ahimè.

4. Passi utili

Lc 9,1-6; Mt 10,1-42; 28,18-20.

62. GIOITE INVECE CHE I VOSTRI NOMI SONO SCRITTI NEI CIELI

(10,17-20)

17 Ora ritornarono i settantaduecon gioia dicendo:Signore,anche i demonisono sottomessi a noi nel tuo nome!18 Ora disse loro:Contemplavo il Satanacadere dal cielo come folgore.

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19 Ecco:ho dato a voi la potestàdi calpestare su serpenti e scorpioni e su tutta la potenza del nemico,e niente affatto vi nuocerà.20 Tuttavia non gioite in questo,che gli spiriti vi si sottomettono. Gioite inveceché i vostri nomi sono scritti nei cieli.

1. Messaggio nel contesto

Al ritorno della missione, Gesù ne rivela il senso ultimo. Il cammino è chiaro solo quando è già percorso tutto! Il colore del rientro è la gioia, dono definitivo degli operai. Se “la messe è molta” (v. 2), ora, nelle valli ammantate di grano, “tutto canta e grida di gioia” (Sal 65,14). La gioia dei discepoli (vv. 17-20), si fa esultanza di Gesù, perché la sua conoscenza di Figlio è rivelata ai piccoli (v. 21s). Questa sua esultanza rimbalza poi in beatitudine per i discepoli, perché i loro occhi vedono ciò che i loro orecchi odono: il compimento di ogni promessa e profezia (vv. 23s).Per tre volte si parla di gioia, e per tre motivi.In primo luogo (v. 17) i discepoli gioiscono per la vittoria su Satana che si compie oggi, nella loro missione. La storia presente è sdemonizzata. La lotta escatologica tra Michele e il drago (Ap 12,7-12; cf. Dn 12,1-3) avviene già ora nell’opera di Gesù che i discepoli continuano nel suo nome e sotto il suo sguardo. Questo ritorno gioioso dei discepoli, che riferiscono sul risultato del ministero apostolico, richiama la consuetudine della prima comunità (cf. At 8,6-8; 11,17s; 14,27; 15,3).In secondo luogo Gesù specifica che la missione non è solo vittoria su Satana che precipita dalla sua posizione di dominio (v. 18). È anche ritorno alla condizione originaria del paradiso, in cui l’uomo riprende il suo ruolo di signore del creato. Nessun male e nessun veleno, neanche la morte, può danneggiarlo e avvelenargli la vita (v. 19; cf. Sap 1,14; 2,24).In terzo luogo si dice il vero motivo di gioia: la missione non solo è vittoria sul male e ritorno al giardino perduto. È soprattutto “iscrizione” nel libro della vita, che contiene la registrazione del popolo di Dio (v. 20; cf. Es 32,32ss; Sal 69,29; Is 4,3; Fil 4,3; Eb 12,23; Ap 3,5; 13,8; 17,8; 20,12; 21,27). È l’elenco di quelli che fan parte della sua famiglia. I nomi di coloro che sono inviati nel suo nome e hanno adempiuto la missione, sono a pieno titolo iscritti nei cieli, ossia in Dio, come Gesù stesso, il primo inviato. Sono associati a lui: i loro nomi, nel suo nome, sono nel Nome. Partecipano, come si dirà subito dopo, del rapporto ineffabile Padre/Figlio. Non sono più “stranieri né ospiti”, ma “concittadini dei santi e familiari di Dio”, per essere tempio santo del Signore, “per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,19.22). Non solo siamo chiamati, ma siamo in realtà figli di Dio (1Gv 3,1). Maria ricevette il saluto “gioisci” (1,28), perché concepì il Figlio dell’Altissimo (1,47). Gesù dice ora ai discepoli: “gioite”, perché sono entrati con lui in seno al Padre, e possono dire con verità: “Abbà”. Fine ultimo della missione è renderci a perfetta somiglianza del Figlio. Beneficiario dell’invio è l’inviato, che diventa pienamente figlio. Per questo, ciascuno secondo la sua chiamata, siamo tutti inviati a testimoniare l’amore del Padre ai fratelli.

2. Lettura del testo

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v. 17: “ritornarono i Settantadue”. Come il Padre per Gesù, così Gesù per il discepolo è principio e termine della missione. La partenza fu sotto il segno della croce, in povertà e umiltà, come agnelli in mezzo ai lupi. Il ritorno è sotto il segno della risurrezione e del trionfo sul male: l’agnello sgozzato è il Pastore grande della vita.Il contadino “nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare. Ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni” (Sal 126,6). Questo ritorno dei Settantadue è figura del rientro di ogni missione, alla fine dei tempi: “quando tutto gli sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28).Il frutto della prima missione fu il pane che ci associa al Cristo morto e risorto. Il frutto della seconda è la vita che conferisce questo pane: la partecipazione piena all’esultanza del Figlio, l’ingresso nella stessa vita trinitaria. Sono i due aspetti dell’unico risultato della missione.

“con gioia”. La gioia, preannunciata nel Battista (1,14), cantata a Betlem (2,10), propria di chi accoglie la Parola (8,13), che si celebra in cielo per il ritorno del peccatore (15,7.10), che nella risurrezione risulta incredibile (24,41) e che dopo l’ascensione riporta i discepoli a Gerusalemme (24,52), trova la sua pienezza alla fine della missione universale, nel ritorno dei Settantadue.È la gioia del ritorno al Signore, per stare con lui, il Figlio, e partecipare alla sua esultanza (cf. vv. 21s; 1,28.47). Tale gioia non è ostacolata dalle tribolazioni: trova anzi in esse la propria conferma (6,23; At 5,41).L’uomo è fatto per la gioia, perché è fatto per Dio. Diversamente è triste fino a detestare la vita.

“i demoni sono sottomessi”. Fine primo della missione è la sottomissione del demonio. La nostra lotta “infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue”. Non è contro gli uomini, ma contro il male che li tiene schiavi: “contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12). Essi abitano in alto, e dominano l’uomo fin nel più intimo. Lo schiacciano, e gli fanno da diaframma perché non possa vedere la gloria di Dio. Ora il male non è liquidato. È solo sottomesso nel suo nome. Bisogna però prestare attenzione ai colpi di coda del drago ferito e vinto, altrimenti la nostra condizione diventa peggiore di prima (11,26). Prima eravamo schiavi. Una volta liberi, dobbiamo lottare per non tornare in schiavitù. Per certi aspetti, è più faticoso dominare il male che esserne dominati! Il cristianesimo, a differenza di ogni illuminismo e umanesimo ateo o meno, non fa come lo struzzo. Riconosce il male. Era in noi come padrone. Il Signore ce ne ha liberato. Rimane in noi come possibilità e tentazione naturale, ma che non porta necessariamente alla caduta. Sappiamo di non essere più schiavi di colui che ha tutto in suo potere (4,6; 22,53). Dio infatti “ci ha liberato dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto” (Col 1,13): ci ha “liberati dalle mani dei nemici”, per “servirlo senza timore in santità e giustizia” (1,75). La fede nella parola di misericordia del Padre ci sottrae al potere della menzogna. L’annuncio evangelico è un esorcismo che defatalizza la storia di male e ci rende liberi e responsabili.

“a noi nel tuo nome”. Ora i demoni si sottomettono ai discepoli come prima a Gesù. Nel suo nome, però, non nel loro nome! In nome proprio i discepoli ricadono in preda al male: litigano per il prestigio proprio (9,46ss; 22,24ss) o collettivo (9,49s) e invocano fuoco dal cielo su coloro ai quali sono inviati (9,54)! Nel nome di Gesù invece si accolgono reciprocamente, accolgono l’escluso e faranno scendere lo Spirito anche sui samaritani (At 8,15-17).

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v. 18: “Contemplavo” (al passato continuo). Dall’eternità il Figlio contemplava la sua missione di Figlio dell’uomo: vincere il male dei fratelli, “scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati” (Ef 1,4). Ma anche alla fine delle tentazioni Gesù ha già contemplato la caduta di Satana, che si allontanò da lui per tornare (4,13); ma cadde sconfitto con fragore quando credette d’aver vinto perché aveva in suo potere il Figlio dell’uomo (22,53). Non si era accorto - cecità del male! - che le tenebre non possono chiudere la luce. Ne sono irrimediabilmente sconfitte. Questa contemplazione di Gesù può anche riferirsi alla sua assistenza continua ai discepoli. Mentre essi “operavano nel suo nome”, lui era con loro. Anche tornato presso il Padre, dalla sua destra guarda e assiste sempre il discepolo che lo testimonia (At 7,55ss).

“il Satana cadere dal cielo”. Richiama la caduta di Babilonia, la superba, che precipita come Lucifero, figlio dell’aurora (Is 14,12). C’è un’identificazione di Satana con Babilonia e Lucifero per via della superbia, radice e consumazione di ogni peccato. Egli è “il grande drago, il serpente antico, colui che chiamano diavolo e Satana, e che seduce tutta la terra” (Ap 12,9). Non c’è più posto per lui in cielo (Ap 12,8.9). Il suo cadere dall’alto significa che non ha più un potere superiore all’uomo. Cessa la nostra sudditanza. Inizia però la lotta, che possiamo vincere solo nel nome di chi già l’ha fatto cadere dal suo trono. Non ci tiene più schiavi come padrone, ma resta sulla terra e ci insidia al calcagno (Ap 12,13ss; Gn 3,15). Il drago detronizzato cerca di vendere cara la pelle. Per questo, prima della sua sconfitta finale, ci sarà una recrudescenza del male: sarà segno non di forza, ma di debolezza estrema. La vita del discepolo è, come quella di Gesù, inclusa tra le tentazioni e la croce. Inizia con la vittoria battesimale che ci sottrae al potere delle tenebre, e continua in una lotta che si conclude solo alla fine. “Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita” (21,19).

“come folgore”. La folgore cade dal cielo con impeto e collisione, con fragore e tuono. È una forza elevata, ma concentrata e contenuta; di grande potere devastante, ma solo là dove può colpire. Così Satana è caduto dal cielo. Questa sua caduta dall’alto implica la sdemonizzazione della figura di Dio: è vinto il Maligno, che si era frapposto tra noi e lui, dandoci di lui la sua propria immagine. Tale menzogna sta all’origine di ogni peccato. Nella missione Dio torna a essere Dio.

v. 19: “la potestà”. I discepoli inviati hanno la stessa potenza di chi invia. Il greco exousía traduce l’aramaico shaltan, da cui “sultano”. È un attributo divino. Passa da Gesù ai discepoli.

“calpestare su serpenti e scorpioni”. È il seguito delle parole che il diavolo rivolge a Gesù nell’ultima tentazione (4,10s; cf. Sal 91,13). Il serpente, astuto e nascosto, veloce e mortale, che ingannò fin dal principio, non ha più potere su chi ascolta e obbedisce alla parola del Signore: è da lui calpestato. Si realizza la promessa di Gn 3,15. La sua vicinanza, anche inavvertita, non può più nuocere; il suo veleno resta inefficace (cf. At 28,3-5). Per questo l’uomo torna all’Eden, al suo stato originario di signore del creato. Schiacciata la testa dalla cui bocca è uscita la menzogna, la sua vita non è più avvelenata dalla morte, che sta alla fine. Per questo è calpestato anche lo scorpione, che ha il pungiglione nella coda. Se il serpente è figura di Satana, lo scorpione è figura della morte, sulla quale egli ha il potere. Calpestare lo scorpione significa superare la paura della fine, che ammorba mortalmente tutta la vita (cf. Eb 2,14s; 1Cor 15,56). La vittoria su Satana restituisce allo stato primitivo, quando non c’era la sua menzogna e la sua morte (cf. Sap 2,23s). L’uomo ritorna a essere l’Adamo a immagine e somiglianza di Dio, secondo la propria specie. Si realizza il sogno messianico di Isaia: il lattante si trastulla sulla buca dell’aspide e il bambino mette la mano nel covo di serpenti velenosi (Is 11,1-10; cf. 65,13-25).

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“niente affatto vi nuocerà”. La forza del nemico rimane, ma non reca danno a chi non gli presta orecchio. La sua forza è quella di intimorire e uccidere con la paura: “Ma non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono fare più nulla” (12,4). In verità “nemmeno un capello del vostro capo perirà” (21,18). Infatti “noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28). Il male, anche se c’è, non può danneggiare il discepolo. Al massimo può ucciderlo. Ma in tale caso lo rende simile al suo Signore, suo testimone, associato alla sua morte e risurrezione. Il suo veleno non ha più potere su di lui, né la menzogna che fa ignorare l’origine, né la paura che fa temere la fine. Il male, che pure continua nel mondo posto nell’incredulità, diventa il luogo della salvezza: ci fa esercitare la misericordia, che ci rende simili a Dio.Come il potere del discepolo è sopra il potere del male, così la forza del suo amore è sopra ogni miseria e sopra la morte stessa: è una fiamma del Signore, inestinguibile (Ct 8,6). Il nemico non è più forte di Dio! Lui dal cielo lo irride (Sal 2,4), e gli fa eseguire il suo disegno (At 4,28)! L’Altissimo sta costruendo un tappeto meraviglioso. Lavora dall’alto, dirigendo i fili secondo il suo disegno. Il nemico lavora dal basso facendo continuamente dei nodi. Sembra tutto insensato quaggiù! Invece tutto esegue il suo piano prestabilito. Egli è l’Onnipotente: “ha misurato con il cavo della mano le acque del mare” (Is 40,12), e le “raccoglie come in un otre” (Sal 33,7)! Il male c’è, ma non gli è sfuggito di mano! Se non lo vuole, lo lascia perché rispetta la nostra libertà e, con uno stratagemma che gli costa caro, ne sa trarre un bene maggiore.

v. 20: “non gioite in questo”. Gesù non vieta di gioire per i motivi precedenti. Rivela ai discepoli una gioia più profonda, che sarà l’esultanza stessa del Figlio (v. 21).

“i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Questo è il vero motivo di gioia. Nel nome (= persona) di Gesù è venuto sulla terra il Nome stesso. In lui e con lui, il Figlio, entriamo in seno al Padre. Il nostro nome non è solo nel libro della vita, è addirittura nel cielo (= Dio). Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio. Siamo realmente figli nel Figlio, redenti dal suo sangue e in lui eredi (Rm 8,16s; 1,4ss). A questo il suo amore ci aveva destinato fin dal principio. Vedete “quale grande amore ci ha dato il Padre, per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1Gv 3,1). La vostra vita è ormai “lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio”, “nascosto con Cristo in Dio” (Col 3,13).Il fine della missione non è solo la liberazione dal male e la restituzione alla condizione di Adamo. È l’elevazione all’intimità e alla pienezza di vita di Dio.Oltre il ritorno al giardino dell’infanzia, c’è il ritorno al Padre della luce, nella comunione di vita con lui. La nostra gioia è perfetta per il nostro dimorare in lui e per il suo dimorare in noi (Gv 14,15-24; 15,1-11): è l’unità d’amore, per cui fin da principio ci ha fatti. Amandolo con tutto il cuore (v. 27; cf. Dt 6,5), diventiamo con lui un’unica carne. Siamo sua sposa. Motivo di gioia non sono tanto i frutti immediati della missione - spesso aleatori e contrastati! - quanto il fatto che essa ci rende figli nel Figlio, unendoci a lui in un unico destino d’amore per la morte e per la vita.Il primo frutto della missione è per chi è inviato: diventa come Cristo, il Figlio, che ama il Padre e i fratelli. Da qui si capisce come la missionarietà è di tutta la chiesa, se vuol raggiungere il fine di essere come il Figlio.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando i discepoli che tornano da Gesù dopo la loro missione.c. Chiedo ciò che voglio: capire il triplice significato della missione: vincere il male, tornare alla

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libertà dei figli e partecipare alla vita di Dio.d. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- ritorno nella gioia- sottomissione dei demoni- potere di calpestare serpenti e scorpioni- i vostri nomi sono scritti nei cieli.

4. Passi utili

Sal 126; Ap 12,7-12; Is 11,1-10; Eb 2,14s; 1Gv 3,1; Ap 2,17.

63. SÌ, PADRE

(10,21-22)

21 In quell’oraesultò nello Spirito santoe disse:Esalto te, Padre,Signore del cielo e della terra: perché velasti queste cose per sapienti e prudenti e rivelasti proprio queste a infanti.Sì, Padre!Perché così compiacenzafu davanti a te.22 Tutto a me fu consegnatodal Padre mio,e nessuno conoscechi è il Figliose non il Padre,e chi è il Padrese non il Figlio,e colui al quale il Figliovorrà rivelare.

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1. Messaggio nel contesto

Il brano, che parla cinque volte del Padre, tre del Figlio, una dello Spirito, è una danza di gioia del Figlio per il dono che il Padre in lui concede agli “infanti”.È una meteorite caduta dal cielo giovanneo, un masso erratico abbandonato da un ghiacciaio ritiratosi su vette inaccessibili. Gesù rivolge queste parole al Padre in “quell’ora” in cui rientra la missione dei Settantadue. Rivela loro il vero motivo di gioia (v. 20), che fa esultare lui stesso: la loro partecipazione alla sua comunione di conoscenza e amore col Padre. Questo è il fine della missione, compimento del mistero della salvezza. Ciò che Dio è per natura, l’uomo lo diventa per grazia. Già fin d’ora, anche se ancora non è manifestato (1Gv 3,1s)!La missione dei Settantadue ha portato il Regno fino agli estremi confini della terra. Gesù gioisce. Tutto è compiuto! L’amore del Padre è amato e la bellezza del Figlio è rispecchiata in tutti i fratelli.L’uomo ha veramente un nome nuovo, che nessuno conosce. È scritto nel cielo, dentro il rapporto intimo Padre/Figlio.Il nostro destino è più sublime di ogni immaginazione e ci dà una dignità infinita. Siamo preziosi agli occhi di Dio e degni di stima, perché ci ama (Is 43,4). Il Padre ci ama di amore unico e totale, come il Figlio (Gv 17,23); anzi, paradossalmente, più di lui che non ha risparmiato per noi (Rm 8,32). Infatti “ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). E questi ci ama con lo stesso amore del Padre (15,9.13). Dio ci ha creati perché, vedendo in sé la nostra immagine, se ne è innamorato (s. Caterina). Ci ama di amore eterno (Ger 31,3), e desidera che lo possiamo amare con lo stesso amore e unirci a lui. L’uomo è assetato e infelice fino a quando non raggiunge la sorgente da cui è scaturito. Per questo Agostino dice: “Ci hai fatti per te, Signore; ed è inquieto il nostro cuore, fin che non riposa in te”.Nel Figlio siamo figli, ai quali il Padre ha dato tutto. Quando conosceremo come siamo da lui conosciuti - ciò che ora avviene solo imperfettamente in specchio e per enigma (1Cor 13,12) - lo vedremo faccia a faccia, e il nostro volto risplenderà della sua luce. Allora “io vedrò te nella tua bellezza e io mi vedrò in te nella tua bellezza. Che io sembri te nella tua bellezza e tu sembri me nella tua bellezza e la mia bellezza sia la tua e la tua sia la mia, così io sarò te nella tua bellezza e tu sarai me nella tua bellezza, poiché la tua stessa bellezza sarà la mia” (s. Giovanni della Croce).In Luca Gesù rivolge altre tre preghiere “personali” al Padre (22,42; 23,34; 23,46). Questa è la più lunga. Le altre tre indicano la via che porta all’esultanza: il compimento della sua volontà (22,42), il perdono dei fratelli (23,34) e l’abbandono della vita nelle sue mani (23,46). Questa invece lascia intravedere il termine del cammino: la festa dell’amore corrisposto, fine della missione.Nel “Padre nostro” (11,24) ci insegna a chiedere di percorrere la sua stessa via per giungere alla sua stessa esultanza.

2. Lettura del testo

v. 21: “In quell’ora”. Tutta la storia e i suoi giorni, con le sue ore positive e negative, riportano a un’unica ora senza fine: quella dell’esultanza del Figlio e del Padre nello Spirito. Da questa danza eterna scaturisce il tempo della salvezza, il tempo di Gesù, oggi eterno di Dio che nell’annuncio e nell’ascolto si rende presente a ogni uomo.

“esultò”. L’esultanza, preannunciata a Zaccaria (1,14) e realizzata nell’incontro di Elisabetta con Maria (1,44.47), ha la sua origine nella gioia che Gesù ha come Figlio del Padre. L’esultanza è una gioia interiore che trabocca dal cuore e si manifesta all’esterno in canto e danza.

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“nello Spirito santo”. Questa danza avviene in un luogo preciso: lo Spirito santo. Lo Spirito (= vita) santo (= di Dio) è Dio stesso come amore. Soffio di vita che il Figlio ha in comune col Padre, è l’amore mutuo tra i due, che li unisce nella distinzione. Respiro unico di ambedue e bacio eterno dell’uno all’altro, è l’estasi reciproca dell’uno nell’altro che fa di Dio una tri-unità d’amore. Mosè aveva intuito e desiderava questo bacio, vita intima di Dio, sua gloria e vittoria sulla morte. Ogni esultanza e ogni preghiera, ogni respiro e ogni amore è un raggio dello Spirito santo, conoscenza e amore tra Padre e Figlio.Sulla croce Gesù lo donerà anche a noi. Il battesimo, incorporandoci in lui, ci immerge e affoga in questa vita di Dio. Ciò che egli è per natura, noi lo diventiamo per grazia. Il suo principio vitale diventa anche nostro. Il peccato, tagliandoci fuori da questo, ci uccide per asfissia. Sarà la tragica morte del Crocifisso, che prende su di sé la nostra pena di vivere nell’affanno di morte.Lo Spirito santo è il mistero profondo della vita cristiana: ci unisce a Dio, donandoci la sua vita. Per questo Gesù esorta i discepoli a gioire (v. 20).

“Esalto te”. La preghiera, come è esultanza del Figlio, così è esaltazione del Padre. Egli è il “tu”, riconosciuto e amato come sorgente dell’“io”. Ogni preghiera è lode del Padre, e nasce dalla gioia del Figlio per lui, che è la stessa che lui ha per il Figlio. Nella lode anche noi ne partecipiamo.

“Padre”. Le prime e le ultime parole del Verbo nominano il “Padre” (2,49; 23,46): la sua paternità è un’inclusione, quasi un arco che le racchiude tutte.La missione del Figlio è condurre i fratelli a occuparsi delle cose del Padre (2,49), per diventare come lui (6,36), e affidargli la vita (23,46).Padre traduce “Abbà”, termine familiare usato dai bambini. È posto sulla bocca di Gesù nell’ora decisiva di lotta per compiere la sua volontà (Mc 14,36), ed è usato dalla chiesa primitiva per esprimere la vita nuova dei figli (Gal 4,6; Rm 8,15). In Luca Gesù si rivolge direttamente al Padre nominandolo 8 volte (di cui 5 volte qui: le altre tre sono in 22,42; 23,34.46). Inoltre chiama Dio col nome di Padre altre 10 volte (2,49; 6,36; 9,26; 11,2.11.13; 12,30.32; 22,29; 24,49) e per ben 12 volte esce la parola “padre” nella parabola del figlio perduto e ritrovato per cui si fa festa. Dio, Padre di Gesù, lo è anche dei discepoli. E, come lo è del figlio perduto, vuol esserlo anche del fratello maggiore.Egli non cessa mai di esserci Padre; diversamente non esistiamo. Siamo figli, anche se non lo riconosciamo. La sua paternità, come è origine della nostra fraternità, è anche principio e fine della creazione. Essa geme nelle doglie del parto, in attesa di “entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19ss). Accettare la paternità di Dio è trovare la sorgente della vita, vivere la verità di figli. È il dono che ci è fatto in Cristo. È in te, o Padre, la fonte della vita: nella tua luce, che è Cristo, vediamo la luce (Sal 36,10)! La menzogna del serpente ci fece mettere in dubbio, stravolgere, temere, dimenticare la tua paternità. Per questo abbiamo cominciato a vedere la vita sospesa nel vuoto, senza capo né coda, insensata e angosciata, perennemente insufficiente nel tentativo di assicurarsi sufficienza.Padre significa radice e frutto, presente e futuro, memoria di amore e progetto di festa del Figlio insieme ai fratelli. Qui, per la prima volta, Gesù chiama direttamente Dio col nome di Padre. Infatti il rientro della missione dei Settantadue prefigura l’ora in cui la paternità di Dio sarà santificata in tutti i fratelli.In questa paternità diventiamo ciò che siamo. La nostra creaturalità non è più nudità fragile, ma rapporto col Creatore, distanza necessaria per vivere. Lo stesso limite assoluto, la morte, non è più

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avvertito come minaccia, ma come contatto con colui dal quale siamo ciò che siamo. È comunione con lui, guarigione di ogni differenza, medicina d’ogni insufficienza.In sintesi, tutto il mistero del Regno, che Gesù rivela ai suoi discepoli (8,10), è la conoscenza della paternità di Dio. Questa è la liberazione dal male originario, il ritorno nell’utero del Padre insieme col Figlio unigenito che ce l’ha dischiuso (Gv 1,18).Il sorriso della paternità di Dio è la luce che rende possibile la vita. “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (Sal 27,10). Ogni paternità e maternità umana è transitoria, segno fugace e sacramento di colui dal quale scende ogni paternità (Ef 3,14s), e le cui viscere di misericordia durano in eterno (Sal 117). Egli mi è più madre di mia madre: è lui che mi ha tessuto nel suo grembo (Sal 139,13). E mi genera di continuo: come la sorgente non dà mai la stessa acqua, così la mia esistenza scaturisce sempre nuova da lui.Di ogni vivente si dice che è creato “secondo la sua specie” (Gn 1). Dell’uomo no. Creato a immagine e somiglianza del Creatore, è della specie di Dio, figlio nel Figlio! Questa è la sua essenza vera, di cui tutta la sua vita è ricerca. Ne è segno il bisogno di una paternità-maternità assoluta, impossibile sulla terra, perché implica insieme libertà e necessità.Questa esigenza contraddittoria lo fa uomo, punto di congiunzione tra creato e Creatore, sempre insoddisfatto di ogni creatura.Il desiderio profondo di unirsi al proprio principio, giustamente proibito tra gli uomini, è soddisfatto con colui che solo è padre e madre, principio e fine, partenza e approdo. Assolutizzare un’immagine terrena di padre e madre è impedirsi di crescere.L’israelita a 13 anni diventa bar miswah, “figlio del Comandamento”, alla quale obbedisce. È adulto e affrancato dal padre. Prima si lasciò generare dalla sua parola come suo figlio, ora è in grado di lasciarsi generare dalla parola di Dio come figlio di Dio. Perché l’uomo è generato dalla parola che ascolta. Il Verbo, Parola eterna di Dio, è venuto a renderci la nostra condizione perduta: l’ascolto di lui ci dona il suo stesso volto glorioso di Figlio.

“Signore del cielo e della terra”. Questo Padre, così vicino da essere in noi e noi in lui (cf. Gv 14,20ss), non è un Dio addomesticato. È l’altissimo, il potente e il despota (1,32.49; 2,29). Ma è l’altissimo che si è abbassato e si è fatto piccolissimo (9,48), il potente che si è ridotto all’impotenza e si è consegnato a noi (9,44; 22,53), il despota che si è fatto nostro servo (22,27). La sua piccolezza, impotenza e tapinità rivelano la grandezza, la forza e l’altezza del suo amore, che riempie il cielo, la terra e gli abissi. Se la parola “Padre” è carica di affetto e di tenerezza, questa espressione è carica di forza e di rispetto. Il Padre è principio e fine dell’increato e del creato, Signore non solo in terra, ma anche in cielo! Questa vicinanza/lontananza, tipica dell’amore, impedisce di ridurre Dio a un idolo. Dove cessa il rispetto e il timore, non c’è amore, tanto meno di Dio.

“perché velasti” (alla lettera: “nascondesti” o “sotterrasti”). Ma come può sottrarsi e nascondersi colui che dice: “Eccomi, eccomi!” anche a chi non lo cerca (Is 65,1)?Dio si nasconde per farsi prendere. Il peccatore, che ha paura di lui, si camuffa sotto tante foglie di fico. Allora anche lui si nasconde perché cessi la sua paura. Si concede a lui come piccolo e debole, perché ne approfitti. Così, non conoscendolo, l’uomo prende nelle sue mani il Figlio dell’uomo che si è consegnato per amore.Dio ha l’iniziativa nel bene, ma non la perde neanche nel male. Qui vince perdendo. Si dona a Maria che dice: “Sì”, e lo “concepisce”. Ma si dona anche a chi gli dice: “No” e lo afferra. La stessa parola “concepire” è usata sia per l’incarnazione di Nazaret (1,31) che per la cattura nell’orto (22,54). Colui che è benevolo verso tutti (6,35), ha coi perversi un’astuzia (Sal 187,27), che mette in pieno risalto la sua benevolenza. Infatti sono suoi figli e non può lasciarli. Se l’uomo si è nascosto da lui (Gn 3,8),

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Dio, velandosi, se ne addossa la colpa (cf. Is 54,7s). Il suo nascondimento sulla croce è giustificazione per tutti, che giustificatamente lo ignorano (23,34; cf. 1Cor 2,8). Insieme è anche un invito a cercarlo. Dio ha con noi la tattica che si usa per accostare un animale impaurito, che fugge e sta precipitando in un burrone.

“queste cose”. È quanto ha fatto e detto Gesù per rivelare l’amore di Dio. Egli, il primo e l’altissimo, si fa l’ultimo e il più piccolo per essere vicino e unito a tutti; lui, cibo di vita, si fa fame; lui, acqua viva, si fa sete; lui, da cui e per cui tutto, si fa alieno, estraneo e forestiero; lui, gloria di luce, si fa nudo; lui, vita, si fa malato; lui, libertà, si fa carcerato. Tutto questo per essere trovato, visitato, vestito, ospitato, dissetato e sfamato da noi. Perché l’amore è “bisogno” di essere accolto dall’amato!Egli è realmente innamorato dell’uomo, sua sposa. La Bibbia è tutta un canto d’amore di Dio per colui che ama di amore eterno nel Figlio. La sposa può dire con verità: “Io sono per il mio diletto, e la sua brama è verso di me” (Ct 7,11). L’azione di Dio mira a una cosa inaudita: “II Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l’uomo!” (Ger 31,22) - che significa: l’uomo abbraccerà Dio, la sposa riamerà lo Sposo e si ritroverà con lui, che da sempre l’ha amata e cercata.

“sapienti e prudenti”. Sapiente è chi sa come stanno le cose; prudente chi le sa dirigere per il verso giusto. La sapienza riguarda la teoria, la prudenza la pratica. Sono come l’occhio e la mano. Hillel diceva: “Un ignorante non evita il peccato e un analfabeta non può essere pio”. Il Talmud recita: “Non vi è altro povero se non chi è povero di sapere”. Ancora Hillel: “Molta Legge, molta vita; molta sapienza, molti discepoli; molto consiglio, molta intelligenza”. Israele è la religione della parola e dell’ascolto, della sapienza per capire e della prudenza per eseguire. In Israele adulto e libero è solo l’uomo maschio che conosce la Legge ed è in grado di osservarla. La donna invece conta poco, perché non è tenuta o non può osservarla. Il piccolo, a sua volta, non conta nulla, perché è addirittura impossibilitato a comprenderla.Per questo la conoscenza Padre/Figlio, nuova legge e verità dell’uomo, è riservata agli infanti.Perché la sapienza di Dio, dettata dall’amore, è stupidità e debolezza di uno che ama fino alla croce (cf. 1Cor 1-2). È ben diversa da quella umana, dettata dall’egoismo, che cerca di salvarsi a tutti i costi dalla morte. Le due si contrappongono come menzogna e verità, paura e fiducia, egoismo e amore, possesso e dono, morte e vita. Per questo Dio, nel suo sapiente disegno (1Cor 1,21), distrugge la sapienza dei sapienti e annulla l’intelligenza degli intelligenti (1Cor 1,19; cf. Is 29,14).

“rivelasti”. È un’azione già avvenuta, perfettamente compiuta. Infatti non c’è più altro da rivelare, oltre il volto del “Gesù solo”, il Figlio dell’uomo che va a Gerusalemme per il suo esodo. In lui il Padre ha mostrato la sua gloria, e ha detto: “Ascoltate lui” (9,35s). Sulla croce di Gesù Dio toglie il suo velo e si espone nella nudità del suo amore. Non ha più nulla da dire o da dare, dentro o fuori di sé, perché, dando tutto se stesso, ha rivelato se stesso come dono assoluto. È la sua parola definitiva, la sua rivelazione piena come amore. Se questo si misura dalla distanza che ricopre, lì lo vediamo dilatato all’infinito. La croce è l’éxtasis di Dio, lo star fuori di sé dell’amore che porta l’amante nell’amato. Le sue braccia avvolgono ogni lontananza, anche il male estremo, l’uccisione del Figlio.

“infanti”. Sono i piccoli non ancora in grado di parlare. In Israele la conoscenza della Parola è via alla salvezza e la sua ignoranza è peccato. Ora la parola eterna di Dio è il Figlio, uguale al Padre, che dice: “Abbà”. È il primo suono che gli infanti balbettano con insistenza. Per questo a loro è riservata la Parola che salva. “Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli” (Sal 8,3).

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Il bimbo è nulla da sé e tutto dall’altro. La sua vita è bisogno, e lui stesso è ciò che gli altri ne fanno. Rappresenta la verità dell’uomo come creatura: egli non si appartiene, è costitutivamente “figlio di”. Il suo limite naturale è il suo bisogno del Padre, in cui incontra colui da cui e per cui è.Il bimbo è uno che riceve: “apri la tua bocca: la voglio riempire” (Sal 81,11). Gesù dice che bisogna “diventare” bambini, per entrare nel Regno (Mt 18,4). Dobbiamo diventare ciò che siamo, e che abbiamo dimenticato di essere: “Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (Is 64,7). Il piccolo, dicendo “Abbà”, esprime la propria verità davanti a Dio e la verità di Dio nei suoi confronti. Per questo anche il vecchio può e deve tornare piccolo e “rinascere dall’alto” (Gv 3,4).Il bambino non è buono o migliore dell’adulto. Sa però che il male è il luogo dove la mamma lo bacia. Pur essendo più egocentrico del peggior egoista, ma il suo “egoismo” è semplice fiducia e abbandono a chi gli dà, invocazione a chi apre la sua mano e sazia la fame di ogni vivente (Sal 145,16). Il male dell’uomo non è ciò che gli manca, e neanche ciò che fa per soddisfarlo: è la diffidenza, la paura, l’autodifesa e la conseguente aggressione.L’uomo fa giustamente di tutto per diventare adulto. Ma non deve dimenticare che la sua vera autonomia è un rapporto filiale con il Padre. La sua maturità è conoscere il proprio limite, senza illusioni, delusioni o depressioni. Si sa amato per ciò che è, non per ciò che non è e vuole o deve essere! Accoglie sé come dono del Padre, e si ama come suo figlio amato in modo assoluto e gratuito. Diversamente è impossibile vivere.L’uomo che dice: “Sì, Abbà!”, è libero, capace di vivere e di morire. Diversamente passa tutta la vita schiavo della paura della morte (Eb 2,14s). Cercando di salvarsi a tutti i costi, diventa sapiente e prudente secondo la carne, operando la morte. Essa diventa suo pastore (Sal 49,15); e lui diventa come uno che si siede sul ramo che sta tagliando con tanta furia, e, finito il lavoro, si aggrappa alla sega che lo ha tagliato!Per questo la rivelazione del Figlio - cioè la paternità di Dio - è la salvezza dell’uomo: la vita è conoscere che Dio è Padre, conoscendo il Figlio suo Gesù (cf. Gv 17,3). È un mistero che supera ogni conoscenza esprimibile a parole, e si rivela ai piccoli, perché il simile è conosciuto dal suo simile.La parola “infante”, non-parlante, esprime l’ineffabilità di ciò che nessun discorso sapiente e prudente può vanificare.

“Sì”. Gesù è il “sì” pieno che non conosce “no” (2Cor 1,19s). Ma, prima che il reciproco “sì” tra Dio e uomo, è il “sì” eterno del Figlio al Padre. In questo “sì” lui è Figlio e il Padre è Padre: l’uno esiste per l’altro, in un moto reciproco d’amore, che è lo Spirito santo. Il Figlio si è incarnato, perché in lui ogni uomo diventasse “sì” al Padre. Ora il nostro “sì” è facile: è accogliere il “sì” del Figlio per noi, che ci offre senza condizioni l’amore del Padre. L’unico nostro “sì” è accettare che siamo “no”, e che in Gesù il Padre rimane sempre “sì” per tutti noi (cf. Rm 8,32ss).

“compiacenza”. La compiacenza del Padre è la sua rivelazione ai piccoli, motivo dell’esultanza stessa del Figlio. Inebriante è la dignità dell’uomo, se è il punto d’arrivo della compiacenza del Padre e dell’esultanza del Figlio. Siamo la gioia stessa di Dio.

v. 22: “Tutto a me”. In Gesù abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). Chi vede lui, vede il Padre (Gv 14,9). La sua vita è racconto e icona dei Dio invisibile (Gv 1,18). Dalla sua pienezza noi tutti attingiamo grazia su grazia (Gv 1,16).

“fu consegnato dal Padre mio”. Il tutto che il Padre dona al Figlio è il suo essergli Padre, che lo genera Figlio.

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Le lettere di Paolo iniziano nel nome del Padre di Gesù, nostro Signore. Tutto fluisce da lui al Figlio, nel quale, dal quale e per il quale tutto è stato fatto. Gesù non è inferiore al Padre. È tutto ciò che è lui, ma in quanto Figlio, che per il suo “sì” riceve tutto. La sua obbedienza filiale non è subordinazione, bensì unità perfetta d’intelligenza e di volontà, identità nell’unico amore.La parola “consegnare” esprime l’essenza di Dio come dono. Infatti il Padre è il tutto che si dona, il Figlio è il tutto donato, lo Spirito è il dono reciproco di amore tra donante e donato. Ma a sua volta il Figlio è il tutto che si dona al Padre, che nel suo “sì” filiale vive la propria paternità. Questo è il mistero della vita di Dio, la sua danza di amore eterno, aperto ora a tutti gli infanti che dicono “Abbà”.“Consegnare” qui indica la generazione stessa del Figlio da parte del Padre. Altrove la stessa parola (greco: paradídómi; latino: tradere = consegnare, donare, tradire) indica il dono che il Figlio fa di sé agli uomini (9,44), come pure il tradimento dell’uomo che non conosce il dono (22,22.48). Per noi la parola “tradire” ha conservato solo il carattere negativo.

“nessuno”. L’oblio della paternità di Dio, origine di ogni male, è comune a tutti. Nessuno ha mai visto Dio (Gv 1,18). Gesù, il Figlio, è l’unico che lo conosce come è da lui conosciuto. L’infelicità dell’uomo è non conoscere il proprio nome di figlio, detto con tenerezza dal Padre nel Figlio.

“conosce”. La conoscenza di cui si parla è esperienza di amore, dono di sé all’altro. “Tutto mi è stato donato” dice Gesù, e, dicendo “sì” al Padre, gli si dona tutto. Questa conoscenza è collegata da Giovanni con il dono della vita. Conoscere è amare e dare la propria vita per l’altro che è la propria vita (cf. Gv 10,15; 1Gv 4,8-10).

“chi è il Figlio se non il Padre”. Come il mistero del Figlio è nel Padre, così il mistero dell’uomo è nascosto con Cristo in Dio (Col 3,3). Per questo il Padre ci attira a Gesù (Gv 6,44): ci vuole mettere con lui, perché siamo nella nostra verità di figli. Siamo infatti a sua immagine e somiglianza. Se vuoi conoscere il tuo vero volto, rispecchiati in Gesù, Parola del Padre fatta carne. Lì conosci il tuo io, che è l’amore di Dio per te. Egli è più te di quanto lo sia tu stesso. Solo il Padre ti conosce, ti ama e ti chiama per nome, come figlio nel suo unico Figlio prediletto. E solo questi ti rivela il tuo nome e il tuo volto di suo fratello. Conoscendo lui, in lui conosci te. Perché egli è a te più intimo di te a te stesso (s. Agostino).

“Chi è il Padre se non il Figlio”. Il mistero del Padre è nel Figlio che dice: “Sì, Abbà!”. Egli è conosciuto solo da lui e da chi consente a essere suo fratello. Il Padre trasale di compiacenza ascoltando nel suo “sì” anche il nostro “Abbà”. La paternità di Dio, anche se eternamente appagata nel Figlio, è senza pace in terra da quando Adamo l’ha misconosciuta. Il Padre sarà santificato sulla terra come in cielo solo quando il più perduto tra i figli lo avrà riconosciuto.

“colui al quale il Figlio vorrà rivelare”. Questa danza di amore amante e amato, uno e trino, è dischiusa agli infanti. Gesù, il Figlio, la Parola che rende parlante il Padre, si è fatto il più piccolo e più perduto di tutti, per estendere a tutti la sua paternità. Con la sua venuta è vinta la menzogna che ci ha fatto fuggire. È scacciato ogni timore antico (1Gv 4,18), e davanti a lui rassicuriamo il nostro cuore, nonostante ogni incubo della trascorsa paura (1Gv 3,19). Egli ci rivela chi è Dio per noi e chi siamo noi per lui. Ci dona la sua stessa conoscenza del Padre, perché lo amiamo con il suo stesso amore. Amen.

3. Preghiera del testo

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a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che danza di gioia davanti ai suoi discepoli che tornano dalla missione.c. Chiedo ciò che voglio: partecipare alla gioia e all’amore del Figlio verso il Padre e del Padre verso il Figlio.d. Contemplo e adoro il mistero che si cela in ogni parola.

4. Passi utili

Sal 8; Gv 1,1-18; 1Gv3,1; Rm 8,14-17; Gal 4,4-7; Ef 1,3-14; Col 1,15-20.

64. BEATI QUEGLI OCCHI CHE GUARDANO CIÒ CHE VOI GUARDATE!

(10,23-24)

23 E, voltosi verso i discepoli,in privato disse:Beati quegli occhi,che guardanociò che voi guardate.24 Dico infatti a voi chemolti re e profetivollero vedereciò che voi guardate, e non videro,e udireciò che voi udite, e non udirono!

1. Messaggio nel contesto

Sei volte si parla di occhi-guardare-vedere, tre volte di udire e tre volte di “ciò che” è visto e ascoltato, e che Gesù ha appena rivelato, cioè la sua comunione col Padre aperta ai piccoli. Questa beatitudine, più che ai discepoli, è rivolta agli occhi che guardano ciò che essi guardano. È per noi lettori, che, attraverso le parole dei testimoni oculari (1,2; cf. 1Gv 1,1-4), possiamo contemplare ciò che re e profeti desiderarono vedere. È una beatitudine modulata sulla visione, che implica l’ascolto. Lo sguardo del Figlio scende ora dal Padre sui fratelli. Ma è puntato ancora molto lontano, in avanti e indietro: nel futuro a quanti crederanno in lui; nel passato a quanti l’hanno atteso. Colui che i discepoli

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hanno davanti, è il centro del passato e del futuro, il senso di tutta la storia come desiderio e beatitudine, promessa e compimento. Il volto di colui che guardano rivela il mistero di Dio: l’amore mutuo Padre/Figlio, nel cui abisso sono custoditi tutti i piccoli.Questa beatitudine, posta tra la rivelazione di tale mistero (vv. 21s) e il comandamento che ne scaturisce (vv. 25-28), è di chi vede in lui la piena realizzazione dell’amore di Dio e dell’amore dell’uomo, descritta nella parabola del samaritano.Il discepolo è colui che “guarda” Gesù e “ascolta” la sua parola che spiega ciò che vede. Non basta guardare. La verità, invisibile, è tuttavia comprensibile. Per questo, chi vede il fatto, ne deve ascoltare la spiegazione. Solo così capisce il senso di ciò che guarda e ha la “visione” della verità comunicata dalla Parola. Per questo l’ascolto resterà sempre, fino a quando vedremo il Verbo e parleremo faccia a faccia col Volto! Visione-ascolto e ascolto-visione sono le due vie di accesso al mistero di Gesù. Prima il Verbo si è fatto carne per farsi vedere; poi la carne è tornata Verbo per farsi ascoltare. I suoi contemporanei prima lo guardarono, ma poi la dovettero ascoltare per vederlo. Noi prima lo dobbiamo ascoltare, e poi lo vediamo. La prima fu la situazione dei testi oculari, che divennero servi della Parola (1,2); la seconda la nostra, che, come Teofilo, ne siamo istruiti, perché obbedendo ad essa, veniamo come loro trasformati nel Figlio, e vediamo rispecchiato nel nostro il suo stesso volto.Il discepolo, presente e futuro, sia cosciente del grande privilegio: i suoi occhi guardano e i suoi orecchi odono il compimento di tutta la promessa di Dio. Mentre vede Gesù, ascolta la Parola che gli porta l’amore del Padre; e, mentre ne ascolta la Parola, è introdotto a vederlo nella fede.

2. Lettura del testo

v. 23: “E, voltosi verso i discepoli”. Prima era rivolto verso il cielo, ora verso i discepoli. Egli sta contemporaneamente rivolto al Padre e ai fratelli, in un unico e identico amore. È il pontefice, ponte tra Dio e gli uomini: in lui Dio è totalmente per l’uomo e l’uomo per Dio. In Gesù avviene l’admirabile commercium: noi tocchiamo e gustiamo la profondità dell’amore del Padre, e il Padre raggiunge tutti i suoi figli.Il suo essere rivolto al Padre, che lo costituisce Figlio, lo fa rivolgere a noi, suoi fratelli. La sua missione al mondo scaturisce dal suo essere verso il Padre: il suo essere Figlio lo rende fratello sollecito di tutti.

“in privato”. Non indica esclusione, bensì intimità, in un luogo inaccessibile: è l’abisso dell’amore Padre/Figlio. Tale espressione da Luca è usata qui e in 9,10, rispettivamente al ritorno della missione dei Dodici e dei Settantadue. Il fine della missione infatti è introdurre in questa vita di Dio. Dopo 9,10 segue il fatto dei pani: il corpo del Figlio dato per la vita del mondo. Qui è appena stato imbandito il banchetto della conoscenza del Figlio, da cui scaturisce il pane e al quale il pane introduce.

“Beati”. Gesù si congratula e si rallegra. La beatitudine fondamentale in Luca è quella della fede (1,45; 11,28), che dà il pane del Regno (14,15) e fa passare dall’ascolto alla visione di Gesù. Alla luce di questa beatitudine si capiscono le altre di 6,20ss.

“quegli occhi che guardano”. L’occhio, organo del cuore, si posa dove il cuore riposa. Vedere è amare. L’occhio di Dio, che vede bello il mondo, è il suo stesso amore, che lo crea tale. Esistere è essere visti, ossia amati: “Quanto uno è ai tuoi occhi, tanto egli è, e nulla più” (s. Francesco d’Assisi). In realtà “esse est videri”: “essere è essere visto”. In Gesù, il Figlio, noi scrutiamo la profondità di

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Dio, e vediamo come siamo visti dal Padre: ci vede come figli nel Figlio. “Alla tua luce vediamo la luce” (Sal 36,10): in questa luce, che è il Figlio, vediamo la luce che è il Padre, da cui scaturiamo. Solo in questa visione viviamo. Se l’uomo vivente è gloria di Dio, la visione di Dio è vita dell’uomo (Ireneo). Per questo bisogna che ogni occhio che guarda e non vede, veda per avere la vita.Qui Gesù non proclama beati quelli che guardano lui, bensì gli occhi che guardano ciò che i discepoli guardano. Sono gli occhi di tutti i discepoli di tutti i tempi, che, attraverso la testimonianza dei testimoni oculari, giungono alla comunione con il Padre nel Figlio. Dio ha dato gli occhi agli uomini perché possano leggere la Scrittura, e gli orecchi per ascoltare la sua parola. Tutto il resto non sazia il cuore dell’uomo, fatto per amare Dio e unirsi a lui.

“ciò che voi guardate”. Il motivo della beatitudine non è il guardare, ma “ciò che” è guardato: Gesù stesso, nella cui carne è rivelato e donato ai piccoli l’amore eterno del Padre per il Figlio (v. 21).

v. 24: “molti re e profeti”. Egli è il compimento delle promesse di Dio, il desiderio di tutto l’AT. I profeti parlarono di lui e i re lo prefigurarono. Ora i discepoli lo vedono! Ciò che i discepoli vivono sta all’AT come la beatitudine dell’appagamento sta al vuoto del desiderio. Per questo il più piccolo nel Regno è più grande del profeta più grande tra i nati di donna (7,28).

“vollero vedere”. Gesù è “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), corpo di Dio (cf. Col 2,9), “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3). È il volto della gloria che Luca, dopo averlo descritto in 9,29ss nel suo fulgore esterno, ci ha appena presentato nella sua luce intima di Figlio del Padre. Tutto l’AT è desiderio di vedere quel volto che i discepoli contemplano tra Mosè e Elia (9,30). L’uomo è ricerca del “volto di Dio” (Sal 27,8). Quando Dio “nasconde il suo volto”, egli è tutto sconvolto, come uno che scende nella fossa (Sal 30,8); si dissolve nel nulla come l’immagine quando scompare la realtà che riflette. L’uomo è se stesso quando Dio fa splendere su di lui la luce del suo volto (Sal 67,2): anela a vederlo (Sal 42,2s), perché è la salvezza del suo stesso volto (Sal 42,6.12; 43,5). Se Dio mostra il suo volto, siamo salvi (Sal 80,4.8.20). Per questo Mosè sospira di vedere la “gloria”, il volto di Dio (Es 33,18-23). L’uomo è costituito dal “desiderio naturale di vedere Dio”. Per i medioevali è l’apice delle sue facoltà, ciò che lo fa uomo e lo apre al suo fine. Il “natale dell’anima” (Eckart) avviene nell’occhio, che ci fa vedere come siamo da lui visti. Questo occhio è Gesù stesso, il Figlio in cui e per cui siamo fatti. In lui siamo visti dal Padre ed esistiamo, in lui vediamo il Padre e viviamo. Diversamente esistiamo senza vivere: viviamo la morte e la negazione del nostro volto. L’uomo è se stesso solo davanti a Dio, quando riflette in sé colui di cui è immagine e somiglianza. Lontano da lui, rispecchia il nulla di sé e resta spoglio della propria realtà. Il desiderio dell’uomo di vedere Dio è un riflesso del desiderio che ha Dio di vedere l’uomo, suo figlio amato e perduto. Fin dalla prima sera passeggiava per l’Eden, chiedendo ad Adamo: “Dove sei?” (Gn 3,9), e la sua preghiera è: “Mostrami il tuo volto!” (Ct 2,14). Nei discepoli Gesù vuol risvegliare tutto questo desiderio dell’AT, perché abbiano coscienza della bellezza del Volto che contemplano.

“e udire ciò che voi udite”. La visione non toglie l’ascolto. Esso resterà sempre la forma più alta di comunicazione: ora spiega la visione, poi sarà silenziosa partecipazione al dialogo d’amore del Verbo col Padre. Anche i primi discepoli, pur guardando, furono chiamati dal Padre ad ascoltare (9,35). L’ascolto del “Gesù solo” è la via alla gloria del Figlio, intravista nella trasfigurazione. Il volto diventa la parola che l’orecchio ascolta.Il vedere ha più del compimento desiderato, l’ascolto dell’obbedienza comandata. C’è sempre una tensione tra i due, fino a quando “conoscerò perfettamente come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12).

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Gesù proclama beati quelli che crederanno senza aver visto (Gv 20,29). Ma anche chi ha visto, è beato solo se crede (cf. 11,28; 1,45), fidandosi della Parola.Il mistero del Figlio, che Dio aveva predisposto già prima della fondazione del mondo (Ef 1,4ss), fu rivelato a frammenti per mezzo dei profeti; ora ci è dato tutto in Gesù (Eb 1,1ss). In noi, che guardiamo e ascoltiamo, esulta l’AT, i suoi giusti e i suoi profeti: “Tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa: Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi” (Eb 11,39s).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che si volge in privato ai suoi apostoli.c. Chiedo ciò che voglio: capire il dono sublime che mi tocca quando leggo il Vangelo di Gesù: vedo e ascolto la parola e il volto stesso di Dio che mi trasforma in figlio.d. Considero con attenzione ogni parola di Gesù.

4. Passi utili

Sal 63; 1Gv 1-4; Eb 1,1-14. Contemplare il Sal 119, tenendo presente che “Parola” (e sinonimi) corrisponde a Gesù, Verbo fatto carne.

65. AMERAI

(10,25-28)

25 Ed ecco:un legista si alzò,tentandolo dicendo:Maestro,facendo che cosaerediterò la vita eterna?26 Ora egli gli disse:Nella leggecosa è scritto?come leggi?27 Ora egli, rispondendo, disse:Ameraiil Signore Dio tuodall’intero cuore tuo, con l’intera vita tua, con l’intera forza tua,

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con l’intera mente tua, e il vicino tuo come te stesso. 28 Ora disse a lui Gesù:Rettamente rispondesti!Questo fa’e vivrai!

l. Messaggio nel contesto

Alla fine della missione dei Settantadue c’è la rivelazione del rapporto Padre/Figlio aperto ai discepoli (vv. 21-24). Ora, a questo amore che dal cielo scende sulla terra, risponde dalla terra l’amore di figli e di fratelli che si alza fino al cielo. Inizia il regno del Padre, l’eredità della vita sulla terra, che vediamo e ascoltiamo nel Figlio (vv. 23s). Egli è contemporaneamente il “sì” di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio. La carne di Gesù, oltre che racconto della sua passione per noi, è anche nostra risposta perfetta d’amore per lui.Il comandamento dell’amore è il cardine dell’Antico e del Nuovo Testamento. Definisce la verità dell’uomo, nella sua relazione con Dio, con gli altri e con se stesso (Dt 6,4ss e Lv 19,18). La morte, prodotta dal peccato, è l’incapacità di amare. Gesù ci ha riaperto il Regno lavandoci i piedi e dandoci il potere di lavarci i piedi gli uni gli altri nel suo nome. L’uomo, come è fatto per amore, così è fatto per amare; se non ama, è fallito.La novità del “suo” comandamento sta nel fatto che non è più una legge, impossibile da osservare, che denuncia il peccato, ma è vangelo, annuncio del dono di un Padre che ama l’uomo con tutto il cuore, e di un Figlio d’uomo che ama Dio con tutto il cuore e i fratelli come se stesso.Tutto il mondo non vale un atto di amore, come tutte le brocche d’acqua non valgono la sorgente da cui sono state attinte. Chi ama, raggiunge il fine. Per questo “è più prezioso al cospetto del Signore e dell’anima e di maggior profitto per la chiesa un briciolo di amore puro che tutte le altre opere insieme, quantunque sembri che l’anima non faccia niente” (s. Giovanni della Croce).Il problema di tutto il brano è nominato all’inizio (v. 25) e alla fine (v. 28): che fare per ereditare la vita, ossia per vivere la vita stessa del Padre?Ciò sarà chiaro dopo la parabola “autobiografica” del samaritano, quando Gesù potrà dire: “va’ e fa’ anche tu lo stesso” (v. 37).

2. Lettura del testo

v. 25: “un legista”. La domanda riguarda il problema fondamentale della Legge: “che fare” per ereditare la vita. La Legge è la via alla vita.

“tentandolo”. Nel deserto, dopo la scelta di solidarietà con i fratelli, Gesù fu tentato di seguire altre vie da quella dell’amore. Istintivamente l’uomo religioso cerca la vita nella “irreprensibilità della giustizia che deriva dall’osservanza della Legge” (Fil 3,6). Ma essa viene solo dalla “sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore” (Fil 3,8), perché è appunto la rivelazione dell’amore del Padre nel Figlio (vv. 21s). Anche Dio fu tentato nel deserto da Israele, quando il popolo dubitò del suo amore (Es 17,7). Qui la tentazione è non riconoscere l’amore del Padre nel Figlio e chiedere altri segni (11,29).

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“maestro”. Gesù è il maestro della Legge: è il Figlio che rivela il Padre agli infanti. Verbo eterno di Dio, si è fatto carne per raccontare nel tempo l’amore infinito del Padre.

“facendo che cosa” (cf. 18,18). La Legge promette la vita a chi fa ciò che essa ordina. L’obbedienza alla Parola è la condizione per vivere (Lv 18,5; Dt 4,1; 8,1; 11,1-32). Questo vale anche per Luca: il “che fare” fa da inclusione a tutta la catechesi di Gesù in viaggio a Gerusalemme (v. 23; 18,18; cf. anche v. 37; 3,10-14; 6,46; 8,21; 16,4; At 2,37; 16,30). La terra promessa, pure restando un dono, è sempre legata a un “fare”, come risposta di amore al donatore.

“Vita eterna”. È una vita piena, senza limiti di qualità, di spazio e di tempo: è la comunione con Dio fin oltre la morte (Dn 12,2; 2Mac 7,9). Lui infatti è la vita di chi vive la sua parola (Dt 30,20) e ne fa il suo pane (Dt 8,3b).

“erediterò”. L’eredità non è conquista: spetta al figlio dall’amore del Padre. Il levita, che non ha parte nella terra promessa, ricorda a tutti la vera eredità: “il Signore è mia parte di eredità”, e continua: “è magnifica la mia eredità” (Sal 16,5.6).

v. 26: “cosa è scritto?”. La Scrittura richiama cosa fare per restare nell’eredità: la memoria del dono e il rendimento di grazie (cf. Dt 6-9; 11; 29; 30). L’oblio è via al l’esilio, il ricordo via del ritorno. Fondamento della Legge è la preghiera quotidiana di Israele: “Ascolta, Israele, amerai ecc.” (Dt 6,4ss). Il ricordo di quanto Dio ha fatto rende possibile amare lui come Padre e gli altri come fratelli.

“come leggi?”. Ma il popolo non riconosce (= legge) questo amore. Basta vedere l’appassionata requisitoria di Ez 16, l’infelice amore di Osea e il difficile incontro del Cantico. Fin dall’inizio Adamo non ascoltò Dio, bensì il diavolo. Il peccato originale è la sordità che ci impedisce di “ascoltare” il suo amore di Padre. Di conseguenza siamo muti, incapaci di dire la parola del Figlio: “Abbà”. Tutta la Scrittura ci narra l’amore folle di Dio per noi (Cabasilas). Ma è una parola che nessuno ascolta. Solo in Gesù si compie. Lui infatti “apre” il libro chiuso e “riconosce” cosa è scritto, e dice: “oggi si è riempita questa Scrittura negli orecchi vostri” (4,21; cf. 15ss). Senza di lui la Parola resta “assurda”, come udita da un sordo. Con lui invece l’amore del Padre trova udienza, e si fa per noi non solo esegesi, ma anche visione (cf. Gv 1,18.14). Così anche i sordi possono “riconoscere” in lui il compimento di ciò che è scritto. Egli è insieme l’uomo che ama totalmente Dio e Dio che ama l’uomo come se stesso. In lui la Legge, lettera morta, diventa vangelo di vita.

v. 27: “Amerai”. La prima parte è citazione dello Shema’ Israel (Dt 6,4ss). Luca sopprime la parola iniziale: “Ascolta”. Ne ha fatto il tema della prima parte del Vangelo. Come ha appena detto, la beatitudine promessa a re e a profeti è quella di vedere e ascoltare Gesù. La bellezza del suo volto è il compimento dello “Shema”, ascolto perfetto del Padre.Il futuro “amerai”, forma del linguaggio giuridico, è un imperativo. L’amore di Dio è un ordine! Se non ce lo avesse ordinato, non solo lo riterremmo impossibile, ma addirittura sconveniente. Tutta la Scrittura racconta ciò che per l’uomo ha fatto e si è fatto quel Dio che dice: “Ascolta! Amami, poiché io ti amo!”. L’amore altro non ama che essere riamato da chi ama. Chi vede questo amore, vede il Regno - anche là dove non può e non deve stare, come sulla croce (cf. 23,40-43)! Dio non può non amare l’uomo. Se con un gesto libero lo ha creato, con amore necessario lo ama in modo infinito, più di se stesso.

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L’essenza dell’uomo è l’amore che il Padre ha per lui nel Figlio. Per questo deve amarlo, per realizzare se stesso. È chiamato a nulla di meno. Guai se punta più in basso! Gli ideali a basso profilo in questo campo producono infelicità, perché lo frustrano nel suo desiderio più profondo e vero. L’amore porta allo scambio e all’unità tra amante e amato. Per questo in Gesù Dio è realmente uomo, in una sola carne, e l’uomo realmente Dio, in un unico Spirito. In lui, il Figlio, “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), e tutta l’umanità è rapita in seno alla Trinità. Lui infatti, il Samaritano, è Dio stesso, sceso dalla sua gloria per farsi carico di noi (vv. 33s e 23,40).Di sua natura l’uomo dovrebbe amare Dio, perché è la sua realtà - è a sua immagine e somiglianza. A maggior ragione possiamo e dobbiamo amarlo da quando, avendo noi rifiutato di andare a lui, è venuto lui verso di noi.

“dall’intero cuore tuo”. Dio va amato con interezza, con cuore indiviso (cf. 1Cor 7,32-34). Per quattro volte, quante sono le dimensioni del creato, si parla dell’esigenza totalizzante dell’amore per lui. Infatti è amabile senza misura, perché amore smisurato. D’altra parte l’amore non conosce altra misura che la totalità. Per questo lo amerò ogni giorno di più, e oggi con tutto l’amore che mi è possibile.Non posso comprendere Dio, perché sono limitato. Solo il suo Verbo, Figlio eterno e perfetto, lo abbraccia totalmente. Posso però buttarmi in lui ed essere compreso da lui, abbandonandomi al suo amore totale. L’uomo è stato creato, dotato di vita e di intelligenza per amarlo con tutto se stesso. Troppo grande per bastare a se stesso (Pascal), niente è più grande di lui, che ha il suo centro nell’infinito per cui è fatto. Solo lui va amato “dall’intero cuore”, che è la sorgente dell’amore; “con l’intera vita”, dando tutto per lui; “con l’intera forza”, facendo tutto per lui; e “con l’intera mente”, cercando di conoscerlo. Poiché lui per primo mi ha amato, ha dato se stesso per me, ha fatto tutto per me e mi conosce fino in fondo. Per questo il mio amore per lui è intimo e assoluto, e si esprime in una vita appassionata e laboriosa, che in tutto cerca di amarlo e conoscerlo. Amare non significa fare una cosa invece che un’altra, ma il modo di fare: qualunque realtà, anche la più piccola, è vissuta come dono e segno del suo amore, nella gioia e nella gratitudine.

“il vicino tuo”. In genere si traduce come “prossimo”, superlativo di “vicino”. Il vicino è facile da amare, perché “nessuno ha mai preso in odio la propria carne” (Ef 5,29). Ma è anche facile da detestare. Per questo bisogna amare i nemici (6,27). È più facile amare il lontano che non vedi che il “vicino” che vedi, e che forse ti è così vicino da toglierti il tuo spazio. D’altra parte amare uno è farglisi vicino, essergli prossimo. Perché l’amore a distanza non esiste.Nella parabola del samaritano si chiarirà chi è il vicino (vv. 29-36).

“come te stesso”. Devo amare il “vicino” non in modo assoluto, ma come me stesso (Lv 19,18). E io amo me quando amo Dio da tutto il cuore. L’amore per l’altro deve quindi aiutarlo a raggiungere il suo fine, che è quello di amare Dio in modo assoluto. Solo così è se stesso e si realizza. Amarlo di amore assoluto e immediato, cioè in sé e per me, è idolatria ed egoismo, che distrugge me e lui. È éros che fagocita tutto, è thánatos (morte) che divora la vita. “Io per lui e lui per me”, detto tra uomini, è solo immagine e somiglianza dell’amore tra Dio e uomo. Posso e devo amare l’uomo di amore totale, ma solo in modo mediato, cioè per amore di Dio, che lo ama di amore infinito. Solo così lo amo in se stesso, per ciò che è. Diversamente lo amo per me e per ciò che non è. Amare un fratello per Dio non è sottrargli qualcosa: è accettare la sua verità e libertà di figlio, che sempre rimane.Questo medesimo comando è espresso in 6,31: “Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. La definizione, più operativa, è sulla linea della parabola successiva che la illustra.

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L’egoismo fa porre il proprio io al centro di tutto; la conoscenza di Dio fa spostare il proprio centro dall’io all’altro. È la conversione all’amore, che ci restituisce a noi stessi, facendoci simili a lui.L’uomo è un abisso infinito. Se è riempito dell’amore di Dio, è come il sole che manda fuori i suoi raggi. Se si sente vuoto, è un buco nero che assorbe e distrugge tutto nel nulla.“Amare come se stesso” può anche significare che uno è in grado di amare l’altro solo se ama se stesso. E ama se stesso solo se si sente amato in modo diretto e assoluto, in sé e senza condizioni. Questo è l’amore che ha Dio per noi in Gesù, il samaritano. Grande virtù è volersi bene nel nome di Dio, e amare noi stessi come e perché lui ci ama.Inoltre “amare come se stesso” può significare che un giusto amore per sé fa conoscere cosa giova all’altro. È la discreta caritas, l’amore di un cuore illuminato dal discernimento. Inoltre nessuno è più cattivo di chi è cattivo con se stesso: chi ama se stesso, ama tutti (Antonio il Grande).

v. 28: “Rettamente rispondesti”. L’amore infatti è la sintesi di tutta la legge come rapporto con Dio (Dt 6,4s) e con l’uomo (Lv 19,18). In Mc 12,34 Gesù risponde: “Non sei lontano dal Regno”. Siccome nessuno osa più interrogarlo, lui stesso provoca a riconoscere nello Spirito chi è il Signore (Mc 12,34s). Chi “aspetta il Regno” deve “osare” e “chiedere” a Gesù fino in fondo sull’amore (cf. Mc 12,34 con 15,43). Solo così ottiene, come Giuseppe, il suo corpo, in cui si manifesta pienamente chi è il Signore: colui che per primo mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Questo dono introduce nel Regno. Luca mostra nel brano seguente chi è il Signore da amare con tutto il cuore: il samaritano che mi ama.

“Questo fa’ e vivrai” (cf. v. 37). La vita è legata al fare la parola che Gesù ha detto e per primo ha realizzato in sé. Fare la sua parola è vivere da figlio, “ereditare” la vita di Dio che è amore (v. 25).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la scena, che è legata strettamente alla precedente.c. Chiedo ciò che voglio: amare Dio con tutto il cuore, amare me stesso come amato da Dio e chiamato ad amarlo, amare il prossimo come me stesso.d. Traendone frutto, considero attentamente ogni parola di Gesù.

4. Passi utili

Sal 16; Dt 6,4ss; Gal 5,13-6,2; Rm 8,31-39; 13,8-10; 1Cor 13.

66. E A ME CHI È VICINO?

(10,29-37)

29 Ora egli, volendo giustificare se stesso,

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disse a Gesù:E a me chi è vicino?30 Rispondendo, Gesù disse:Un uomo discendevada Gerusalemme a Gericoe incappò nei briganti,che, spogliatoloe riempito di colpi,si allontanarono,lasciandolo semimorto.31 Ora, per combinazione,un sacerdote discendevain quella stessa via,e, vistolo,deviò oltre.32 Ora, similmente,anche un levita,venuto sul luogoe vistolo,deviò oltre.33 Ora un samaritanoviaggiando,venne presso di luie, visto,si commosse,34 e, avvicinatosi,fasciò le sue ferite,versando sopraolio e vino,e, caricatolosu ciò che si era acquistato,lo condusse nel tutti-accogliee si prese cura di lui.35 E l’indomani,tirati fuori, diede due denaria chi tutti-accogliee disse:Prenditi cura di lui; quanto spenderai di più, io, al mio sopraggiungere, renderò a te.36 Chi di questi tresembra a tesi è fatto vicinoa chi incappò nei briganti?37 Ora egli disse:Chi fece misericordia con lui!

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Ora gli disse Gesù:Va’,e anche tu fa’ lo stesso!

1. Messaggio nel contesto

La parabola del samaritano è una miniatura di quel volto di Dio rivelato nell’AT che Gesù riflette pienamente nel suo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). È rivolta al legista, perché veda l’amore Padre/Figlio aperto ai piccoli. Egli è uno che, tutto teso nello sforzo di amare Dio e il prossimo, giustamente si chiede: “Ma a me chi vuol bene?”. Per l’uomo, infatti, prima dell’amare, viene l’essere amato: di amore si muore, di essere amato si vive! Se l’amore di Dio e del prossimo è il cammino della vita (v. 27s), l’uomo non lo percorre se non in senso inverso, proprio perché non si sente amato. La legge dell’amore, buona in sé, non fa che evidenziare il suo fallimento. La via alla salvezza diventa per lui condanna a morte!Ordinando: “Va, e anche tu fa’ lo stesso” (v. 37), Gesù non ribadisce una legge impossibile. Sarebbe una beffa, non una risposta alla domanda: “che fare per ereditare la vita?” (v. 25). Fa invece un annuncio evangelico: in lui, il samaritano. Dio si è preso cura di me e mi ha amato; perché anch’io, guarito dal mio male, possa amare lui con tutto il cuore e i fratelli come me stesso.Il legista, che ha risposto esattamente su ciò che “è scritto”, è ora chiamato a “leggere” (v. 26) che quanto è scritto si va compiendo sotto i suoi occhi e nei suoi orecchi mentre ascolta Gesù (cf. 4,21). C’è uno bollato come samaritano (Gv 8,48). perché, accogliendo i peccatori, trasgredisce tutta la Legge. Costui, che va oltre ogni limite per farsi vicino all’uomo, rivela in realtà l’amore del Padre.Io scendo da Gerusalemme a Gerico e mi nascondo lontano da Dio; lui mi “vede” da lontano (cf. 15,20), fossi anche all’estremità della terra (cf. Sal 139,1-12)! Io fuggo da lui; lui mi viene incontro in ogni abbandono, fino a dire: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Io sono incappato nei briganti; lui finì per me tra i malfattori (23,33.39-43). Io sono stato spogliato della sua immagine; la sua nudità mi ha rivestito (cf. 23,34b). Io sono stato coperto di percosse; dalle sue piaghe sono stato guarito (1Pt 2,25). Io sono stato abbandonato mezzo morto; il suo abbandono totale alla morte mi ha dato la vita (23,40). Io ho lasciato il Padre, perdendo la vita; lui me l’ha ridonata, consegnandosi al Padre (23,46). Egli è sceso, ha visto (cf. Es 3,7s), si è commosso, mi si è fatto vicino e ha fasciato le ferite del mio cuore (cf. Sal 147,3), perché è grazia e misericordia (cf. Es 33,19). È il mio Dio, che mi ama di amore eterno (Ger 31,3)!Ora anch’io posso riamarlo di tutto cuore, unirmi a lui e diventare una sola cosa con lui. E perché nessuna briciola d’amore venisse sottratta all’uomo che egli ama, si è identificato con chi è nel bisogno estremo; così che, amando l’ultimo, abbraccio insieme lui e ogni uomo: “ogni volta che avrete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli minimi, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Posso quindi amare con cuore indiviso lui e il vicino. Da quando lui mi si è fatto vicino e fratello, posso amare Dio e l’uomo con lo stesso e identico amore con cui il Figlio e il Padre si amano.Per questo tu, pane di vita, ti sei fatto fame per nutrirci nel cammino; tu, acqua viva, ti sei fatto sete per dissetarci nel deserto; tu, accoglienza, ti sei fatto esule per ospitarci nella fuga; tu, gloria, ti sei fatto nudità per rivestirci nella vergogna; tu, forza, ti sei fatto debolezza per visitarci nella malattia; tu, Figlio, ti sei fatto schiavo per liberarci dalle catene; tu, giusto, ti sei fatto condannare per inchiodare il chirografo della nostra condanna e vincere in te ogni inimicizia.Sulla croce, albero della verità, hai voluto farti tutto ciò che noi siamo e non vogliamo essere, per darci il tuo regno che avevamo rifiutato sull’albero della menzogna. Hai chiuso così nelle tue braccia aperte

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ogni lontananza e hai compiuto la tua missione di Figlio: offrire a tutti i fratelli la misericordia del Padre.Ora il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo non è più legge impossibile, ma buona notizia, dono per tutti: coloro dei quali il samaritano si è preso cura sono abilitati a percorrere ormai il suo stesso cammino.Luca non dice che i due comandamenti sono simili (Mt 22,39) o uno solo (Rm 13,9; Gal 5,14). Fa invece un ribaltamento: ci porta a vedere e accogliere quell’amore di Dio per noi che ci permette di amare gli altri. Per questo sono beati gli occhi che vedono il samaritano (cf. v. 23)Nel racconto c’è un dissolversi di un personaggio nell’altro, quasi una sovrimpressione progressiva: l’uno si fa l’altro fino a diventare tutti un’unica persona. Il legista - insieme al sacerdote e al levita - è chiamato a identificarsi coll’uomo mezzo morto, di cui si fa carico il samaritano che scompare all’orizzonte verso Gerusalemme, dove porterà su di sé il suo male. Nel frattempo quest’uomo guarisce, grazie a uno che “tutti-accoglie”, perché già prima accolto e guarito. Il nuovo guarito, a sua volta, potrà anche lui accogliere, e prendersi cura di tutti i mezzi morti: diventerà come colui che tutti accoglie, come il samaritano stesso, nell’attesa dei suo ritorno.Questa unificazione di tutti in una sola persona è il prodigio dell’amore: amante e amato formano un’unica carne. Dio ti si è fatto vicino ed è diventato il percosso e ferito che tu eri, in modo che tu, guarito, diventi il samaritano nei confronti di lui, che, nel frattempo, si è fatto bisognoso di te. A questo punto lui è te e tu sei lui. E tu, amando l’ultimo, ami direttamente lui, il primo, che si è fatto ultimo di tutti per servire tutti e così aver bisogno di ciascuno.Questa parabola mostra il messianismo di Gesù, che Luca propone alla sua chiesa. Non ha nulla a che fare con un sogno millenaristico, in cui tutti marceranno uniti verso Gerusalemme o Roma, con un successo socio-politico-religioso di qualunque stampo, di sinistra, di destra o di centro. Si tratta piuttosto del cammino di chi si prende cura del male del mondo, che ci sarà sino alla fine, e trova rifugio in un pandocheîon (= tutti accoglie). Questa è una fragile casa, sospesa tra Gerico e Gerusalemme, che nasce ovunque uno è disposto ad accogliere tutti. È l’anticipo della Gerusalemme celeste, che al suo ritorno accoglierà chi ha accolto.Il messianesimo di Gesù non liquida la storia con la sua lotta tra bene e male, dove il bene perde e il male vince - appunto perché il male “vuole” vincere e il bene è “disposto” a perdere per amore (cf. 6,27-35)! Nella storia rimane sempre la croce. Ma è la vittoria dell’amore, gloria e salvezza di Dio.Quando sarà il Regno? È l’ultima domanda ansiosa dei discepoli a Gesù (cf. At 1,6). Non è questione di tempi o di segni particolari: è in mezzo a noi (17,21) in modo non appariscente.Il Figlio dell’uomo torna allo stesso modo in cui l’abbiamo visto nel suo camminare terreno fino al cielo (At 1,11): egli è il Samaritano che, ormai con i piedi di tanti fratelli, va di continuo per le strade del mondo e porta tutti alla casa che tutti accoglie. In questa sua missione sono associati a lui quanti già sono stati accolti. Il Regno, affidato al “piccolo gregge” (12,32), è questa testimonianza di chi ripercorre il suo stesso umile cammino.L’opera lucana termina con la figura di Paolo che, in una casa non sua, accoglie tutti a sue spese (At 28,30). È il maestro dell’agápè, divenuto ormai come il suo Signore. Anche lui prima era un legista, zelante e irreprensibile nell’osservanza della Legge (Fil 3,6). Ma mentre scendeva da Gerusalemme, gli si fa incontro Gesù, il samaritano già carico del suo male (At 9,4ss!). Si scopre cieco, atterrato e morto. È quindi guarito e subito conquistato da lui che lo fa un “vaso di elezione” (At 9,15).Il senso della parabola è ovvio: Gesù si mostra con le stesse caratteristiche di quel Dio che ha salvato Israele; la sua missione prosegue nel discepolo che ha già sperimentato in prima persona la sua misericordia. Una lettura della parabola, che escluda elementi allegorici, sembra inadeguata. Infatti c’è una pluralità di significati concentrici, che rimandano a un unico punto ineffabile: il volto di Dio in Gesù! Ogni minimo dettaglio, con risonanze anticotestamentarie, lo abbellisce di colori e sfumature.

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Già il Maldonado, commentando questo passo, accenna a un interessante metodo di lettura: stabilito il senso unico della parabola, cerca di distinguere, tra i vari particolari, quelli illustrativi (allegorici) da quelli di semplice contorno.

2. Lettura del testo

v. 29: “volendo giustificare se stesso”. La Legge è giusta e vuole render giusti. Per questo non giustifica, ma accusa chi la conosce. Pone nell’alternativa di volersi giustificare o di essere giustificati da Dio.Il legista sceglie la prima soluzione. Gesù cercherà di farlo passare alla seconda, raccontando per lui, mezzo morto, questa parabola.

“a me chi è vicino?”. Sembra che si possa tradurre meglio così la sua domanda. La risposta di Gesù la volge comunque in tal senso. Il problema del legista non è quello di individuare chi è da amare: tutti sono da amare, vicini e lontani (cf. 6,27-38). La questione non è “chi devo amare” (quis diligendus), bensì di “chi mi ama” (quis diligens). Infatti nessuno può amare né sé né l’altro né Dio se prima non ha sperimentato la vicinanza di chi lo ama.È da notare che lo sposo e la sposa del Cantico si chiamano reciprocamente col nome di “vicino”, tradotto in italiano con la parola “amico/a” (1,9.15; 2,2. 10.13; 4,1.7; 5,2.16; 6,3s). Si potrebbe anche tradurre: “Chi è il mio amico, colui che mi ama e che amerò con tutto il cuore?”. Gesù ci presenta se stesso come il samaritano: “Questo è il mio diletto, il mio amico” (Ct 5,16).

v. 30: “ Un uomo discendeva da Gerusalemme”. È il cammino di Adamo che va lontano e si nasconde da Dio. Se l’uomo è fuggiasco, il Figlio dell’uomo è pellegrino. Egli percorre la stessa strada, in senso inverso; è l’esule che torna in patria, perché ama e brama gli atri del Signore (Sal 84,3).

“incappò nei briganti”. In questa fuga, l’uomo cade nelle mani del nemico, il menzognero e omicida fin dal principio, per la cui invidia entrò la morte nel mondo (Sap 2,24). La sua menzogna ci fa fuggire da Dio e quindi cadere nella morte.

“spogliatolo”. Chi ha una cattiva opinione di Dio, non si accetta più come una sua creatura. Si sente quindi fragile e indifeso; avverte il proprio limite non più avvolto dal suo amore, ma aggredito da lui e insidiato dal bisogno. L’uomo non solo “ha” dei bisogni; “è” bisogno dell’Altro per essere se stesso: senza di lui, è spoglio di sé.

“riempito di colpi”. La nudità non accettata è vulnerabilità. Il nostro limite diventa mancanza di vita e prodromo di morte, che di continuo ci colpisce in attesa del colpo finale.

“si allontanarono”. Il nemico, una volta colpito, se ne va. Ha raggiunto il suo fine, che è semplicemente quello di nuocere, per invidia (Sap 2,24).

“lasciandolo semimorto”. L’uomo, che non accetta di essere creatura di Dio, vive il vuoto di se stesso, l’angoscia e la paura della morte (cf. Eb 2,14ss). Conduce una vita mezza morta, che poi sarà morte piena.

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v. 31: “un sacerdote discendeva in quella stessa via”. Il sacerdote è il custode della Legge. Qualunque religione ne presenta una, come via per raggiungere Dio e così guarire dal male di vivere. Ma nessuna legge è in grado di fare ciò! Infatti se è sbagliata, accresce il male e ce lo fa pagare; se è giusta, lo denuncia e ce ne fa soffrire! Per questo anche il sacerdote “discende” da Gerusalemme, si allontana da Dio, seguendo la “stessa via” di ogni uomo.

“vistolo”. La Legge evidenze la caduta dell’uomo, “vede” il male nella sua malizia. Senza Legge infatti il peccato resta occulto. “Ma, sopraggiunto il comandamento, il peccato ha preso vita, e io sono morto; la Legge che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte” (Rm 7,9s).

“deviò oltre”. La Legge vede, ma non provvede. Anzi denuncia e segrega il male, descrivendo un cerchio di isolamento attorno al malato. Dicendo che bisogna andare oltre, lo uccide sanzionandone la morte!

v. 32: “similmente, anche un levita”. Il levita è l’addetto al culto. Si ribadisce che nessuna legge e nessun culto, per quanto giusti, sono in grado di salvare l’uomo. Giungono sul luogo del male, toccano il problema, fanno la diagnosi precisa e lo lasciano com’era, per di più con la cattiva coscienza! D’altronde questa è la loro funzione, per altro positiva e necessaria, di distinguere il bene dal male, il puro dall’impuro. Se si fermassero per solidarizzare e aiutare cesserebbero di essere ciò che sono: dichiarazione del male e dell’impuro. E sarebbe peggio, perché dominerebbe la stupidità di chi non distingue la destra dalla sinistra: la semplice animalità, mossa dal bisogno e dal piacere immediato, diventerebbe legge, senza più il minimo di ragionevolezza.La denuncia del male è pedagogo a Cristo (Gal 3,24).

v. 33: “un samaritano”. È una persona non gradita ai custodi della Legge e del tempio. Rappresenta l’empietà pagana nel cuore di Israele. È Gesù, che dalla Samaria ha indurito il volto verso Gerusalemme (9,51). Egli è “mangione e beone”, trasgredisce la Legge dei padri (7,34; cf. Dt 21,20), bestemmia (5,21), mangia e beve con i peccatori e i pubblicani (5,30; 15,ls), tocca il lebbroso e si lascia toccare dalla peccatrice (5,13; 7,36ss), ha cambiato la legge di santità e la perfezione di Dio in misericordia per tutti i miseri (6,36)! A buona ragione lo chiamano: “samaritano” (Gv 8,48). Non conosce la spada dei cherubini che gli vietano l’accesso al volto di Dio (Gn 3,24)?

“viaggiando”. Egli sta andando in direzione opposta all’uomo che scende da Gerusalemme: compie il viaggio dalla Samaria a Gerusalemme, nel quale si svolge la seconda parte del Vangelo. E chi è costui che ascende, se non “il Figlio dell’uomo che è disceso” (Gv 3,13)? Egli infatti è disceso in tutte le zone di perdizione, le Samarie dell’uomo, per condurre gli esuli in patria, portando a tutti l’amore del Padre. In lui, che si fa carico di noi, entriamo come figli nel Padre. La sua danza per la compiacenza del Padre di avere a casa tutti i figli (10,21s), passa attraverso la sua passione di Figlio perduto e ritrovato, morto e tornato in vita! Il suo viaggio a Gerusalemme è l’esodo di cui parlano con lui Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione (9,30s).

“venne presso di lui”. La carne di Gesù è la venuta di Dio a visitare il suo popolo. Viene a noi, perché noi non possiamo andare a lui. In lui vediamo, ascoltiamo e tocchiamo l’amore del Padre per il Figlio rivolto a noi, suoi fratelli perduti.

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“Visto”. È la stessa azione del sacerdote e del levita. Ma là fu inefficace: solo constatò e sanzionò il male. Qui invece è come l’occhio del Dio dell’esodo: “vide” la miseria del suo popolo, “conobbe” i suoi dolori e “scese” per liberarlo (Es 3,7ss).

“si commosse”. È la caratteristica fondamentale di Dio: le sue viscere materne si muovono di commozione alla vista del male dell’uomo, suo figlio, che non può non amare. Il viaggio del samaritano - la missione di Gesù - è la compassione stessa di Dio per i suoi figli. Questa espressione, oltre che a Gesù quando “vede” la vedova madre del figlio morto (7,13), è applicata al padre del figlio perduto, quando lo vede tornare da lontano (15,20). L’occhio e il cuore del Padre è lo stesso del samaritano, il Figlio che si perde per amore dei fratelli.

v. 34: “avvicinatosi” (alla lettera: “fattosi avanti”). Dio si fa avanti: si candida nostro prossimo, vuol restarci vicino nel nostro male. Fa il contrario del sacerdote e del levita. Se il figlio cade nel burrone, il padre scende a cercarlo. Se cade nel pozzo e l’acqua gli arriva sopra la testa, si mette sotto di lui. Il farsi vicino è una decisione del cuore buono. L’occhio cattivo vede e devia; l’occhio buono vede e si avvicina.

“fasciò le sue ferite”. Attraverso le ferite si perde il sangue, la vita, come l’emorroissa. La vicinanza e il tocco della sua carne rimarginano la ferita mortale dell’uomo.

“versando sopra olio e vino”. Gesù ci cura con l’olio, che fa splendere il volto (Sal 104,15). È la sua parola, il cui ascolto fa risplendere sul nostro il suo volto. Luca pone in stretta connessione ascolto della Parola e guarigione (6,18). Come il male viene dall’ascolto della menzogna, così la salvezza dall’ascolto della verità. Se la disobbedienza produsse la morte, Gesù, Parola fatta carne e obbedienza al Padre fatto uomo, ci ridona la vita. Quest’olio è anche l’unzione della sua umanità che guarisce la nostra disumanità. Il vino è il dono del suo Spirito, l’ebbrezza della nuova vita di figli.

“caricatolo su ciò che si era acquistato”. La parola greca, più che “giumento” (cf. At 23,24), indica “proprietà, bene acquistato”. E cos’è che si è acquistato a caro prezzo (1Cor 6,20; 7,23), se non il proprio corpo? Infatti gli costò tutto ciò che era, lo “svuotamento” e la rinuncia alla forma di Dio per prendersi quella del servo (Fil 2,6ss): da ricco che era si è fatto povero, per acquistare un corpo su cui caricare il peso della nostra miseria e arricchirci con la sua povertà (2Cor 8,9). Questo “giumento” è l’umanità di Gesù, la sua miseria di piccolissimo e di servo (9,48; 22,27), l’asinello su cui il “Signore” fece l’ingresso nel suo regno (19,38 = 2,14!). Infatti egli “portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce”, perché noi vivessimo (1Pt 2,24). Veramente la sua umanità, nuda e ferita a morte, si è caricata di ogni nostra spoliazione e percossa. La croce di Gesù è il luogo in cui Dio si fa prossimo a noi, nella nostra stessa maledizione. Noi la meritiamo e non la vogliamo; lui non la merita, ma la vuole per starci vicino. Luca ci presenta un messia crocifisso, giusto giustiziato (cf. 23,50): è l’Emmanuele, che vuol subire la nostra stessa condanna per stare con noi, perché ci vuol bene. Così ci è aperto il Regno (23,40ss).

“lo condusse nel tutti-accoglie”. L’albergo che “accoglie-tutti” è figura di Gesù che, nel suo cammino a Gerusalemme, raccoglie e ospita tutti gli esclusi dalla Legge e dalla vita. Dopo la sua dipartita e nell’attesa del suo ritorno, è anche figura della comunità di coloro che fanno come lui. È la casa di Maria (10,38ss) posta tra Gerico e Gerusalemme, dove è accolto lui stesso, povero e pellegrino. Lì i fratelli si raccolgono nel Figlio, lo ascoltano e imparano a dire: “Abbà” (cf. 11,1ss).

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In questa casa chiunque è nel bisogno trova ospitalità, pagata in anticipo dal samaritano. In essa, accogliendo il fratello nel bisogno, si accoglie colui che si è fatto piccolissimo, schiacciato da tutta la debolezza del mondo. Nel fratello bisognoso si accoglie il proprio Signore generoso. Nessun male escluderà mai dall’accoglienza. Nella croce del Figlio ha già trovato rifugio tutto il male del mondo. Ogni miseria sarà solo misura della misericordia.

“e si prese cura”. Il verbo esprime, nella sua forma greca (aoristo), la cura che Gesù si è accollato nel tempo determinato della sua vita terrena. Dopo di lui, e come lui, faranno nel suo nome quelli che da lui sono stati curati: diventeranno “albergatori”, ossia “tutti-accoglienti” (vedi Paolo in At 28,30s).

v. 35: “l’indomani”. Il soggiorno del Samaritano con noi fu breve. “Oggi domani e dopodomani bisogna che io vada per il mio cammino” dice Gesù, “il terzo giorno avrò finito” (13,33.32). Il primo giorno è quello della preparazione e della realizzazione della sua venuta: si estende dalla creazione alla sua ascensione, che la conclude. Il secondo giorno è tutto il tempo che segue: il tempo della chiesa che ascolta e vive nella storia il suo oggi. Il terzo sarà il giorno senza fine della gloria, quando sopraggiungerà. In questi tre giorni, che abbracciano tutto il tempo, egli è sempre in cammino. Nell’eucaristia ci è donato di riviverli: proclamando la sua morte, viviamo nel secondo il primo giorno; annunciando la sua risurrezione, nell’attesa della sua venuta, anticipiamo con trepidazione la festa del terzo.

“due denari”. Prima di andarsene, il Samaritano ci ha lasciato ciò con cui vivere, oggi e domani: la capacità di amare. Dopo che lui ci ha amati per primo, anche noi ora possiamo amare Dio e il prossimo, e così ereditare la vita (vv. 28.25). I due denari, oltre che i due comandamenti, possono rappresentare anche le promesse e il compimento, la legge e l’evangelo. Certamente Gesù ha pagato di persona tutto il prezzo dell’amore dei Padre e dei fratelli. È quanto basta per vivere fino al suo ritorno.

“Prenditi cura”. Questi due denari li spendiamo prendendoci cura del prossimo, amandoci come e perché lui ci ha amati. Questo “prendersi cura” è la missione della chiesa che continua quella del samaritano ormai assente. È l’ordine di Gesù (vv. 28.37).

“quanto spenderai di più”. Il sovrappiù verrà abbondantemente ripagato al suo ritorno. L’amore deve moltiplicarsi e produrre frutto come il denaro investito. Chi non l’investe perde tutto (cf. la parabola delle mine: 19,11ss). Infatti chi accetta di essere amato e perdonato, a sua volta ama e perdona (11,4). Se siamo generosi nel dispensare quanto ci è stato dato, siamo accolti nelle dimore eterne (16,1-11). Donando, ci viene data la nostra vera ricchezza (16,12): diventiamo come lui, misericordiosi come il Padre (6,36). Questo è il frutto centuplo della Parola (8,8.15).

“al mio sopraggiungere”. Il suo sopraggiungere non sarà quello del ladro indesiderato, ma del Signore atteso, che viene a servirci nel banchetto del Regno (12,35-48; cf. 17,7ss; 22,27). “Sopraggiungere” in Luca è usato solo qui e in 19,15. Indica il ritorno del Messia, investito della sua autorità regale. Ritornerà all’improvviso per dare il premio ai suoi servi fedeli che hanno fatto fruttare le mine ricevute. È la sua seconda venuta, nella gloria.

“renderò a te”. Questa restituzione è insieme un dono e un debito di giustizia (2Tm 4,8): è il premio che la sua promessa ha stabilito per chi vince. Il premio è un debito, perché è dovuto secondo la promessa a chi l’ha meritato; ma è anche un dono, perché sorpassa ogni merito. Infatti la sua promessa

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è più grande di ogni fama (Sal 138,2). Questo dono è Dio stesso che si offre come premio a chi lo accoglie. È la grande “mercede”, la “misura” sovrabbondante data a chi dona per amore (6,35.38).

v. 36: “Chi... vicino?”. Il vicino nel v. 27 è colui che bisogna amare come se stesso. Qui il vicino è colui che mi ama più di se stesso: è il Signore.Se lui mi è così vicino, e mi ha amato e ha dato se stesso per me, anch’io posso amarlo con tutto il cuore e vivere per lui, che è morto per me (Gal 2,20).Vedere in Gesù l’amore del Padre per me è il vangelo, passaggio dalla lettera che uccide allo Spirito che dà vita (2Cor 3,6). Gesù è il Dio che si è fatto prossimo all’uomo, per amarlo ed essere riamato. Beati quindi gli occhi che vedono il Samaritano, e ascoltano in lui la tenerezza di Dio!

v. 37: “Chi fece misericordia”. “Far misericordia”, sintesi di tutta l’azione storica di Dio verso l’uomo (cf. Sal 136), è il senso della missione di Gesù. Egli infatti “passò benedicendo e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10,38). Con lui è scesa sulla terra la misericordia stessa del Padre. Vicino a ogni uomo che scende da Gerusalemme c’è ormai uno che vede e fa misericordia. Ora anche il legista, vedendolo e sentendolo, è in grado non solo di sapere cosa “è scritto”, ma anche di “riconoscerlo” realizzato (cf. vv. 26; 4,16-21). La Legge si fa vangelo sotto i suoi occhi.

“Va’, e anche tu fà’ lo stesso”. Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16). Questo ci fa uomini nuovi, capaci di metterci in cammino (“va’”) e compiere la sua stessa missione (“fa’ lo stesso”). Durerà fino alla fine del tempo, quando tutti i fratelli saranno portati nel pandocheîon. Allora sarà il ritorno in gloria del Figlio, ancora perduto e da ritrovare tra gli ultimi fratelli perduti. Egli infatti è il primo che si è fatto ultimo di tutti, l’unico che non volle restare solo, per essere il primogenito tra numerosi fratelli (Rm 8,29).Ora anche il legista, che ha chiesto: “a me chi è vicino?”, sa la risposta. Vicino a lui, mezzo morto sulla strada che scende da Gerusalemme, c’è uno. Come Paolo, può vedere in lui la compassione di Dio che lo porta al pandocheîon. Da lì può partire e fare altrettanto, dando ciò che lui stesso ha ricevuto. I vari personaggi del racconto. anche i più disparati, alla fine sono le mille sfaccettature di un unico volto bellissimo e misterioso: quello del Figlio che è lo stesso del Padre. Dio è realmente tutto in tutti attraverso la misericordia.Il rapporto chiesa-mondo è definito da queste parole di Gesù, che invia la chiesa a continuare la sua stessa missione di Samaritano: “Va’, e anche tu fa’ lo stesso”.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la strada che va da Gerusalemme a Gerico, passando attraverso il deserto di Giuda.c. Chiedo ciò che voglio: sperimentare la cura del samaritano per tutte le mie ferite.d. Traendone frutto, immedesimandomi con 1’uomo incappato nei briganti, vedere e sentire tutto ciò che il samaritano fa per me. Da notare ogni sua singola azione e considerazione, come se fosse per me.

4. Passi utili

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Sal 18; Dt 30,10-14; Sal 147; 103; Es 3,7-12; Is 53.

67. SEDUTA, ASCOLTAVA LA SUA PAROLA

(10,38-42)

38 Ora, nel loro viaggiare,egli entrò in un villaggio.Ora una donna, di nome Marta,lo accolse in casa.39 E costei aveva una sorella, chiamata Maria,la quale, addirittura seduta accanto, presso i piedi del Signore, ascoltava la sua parola.40 Ora Marta era distratta in gironel molteplice servizio.Ora, fattasi sopra, disse:Signore,non ti curi che mia sorella sola mi abbandonò a servire?Di’ dunque a leiche mi venga ad aiutare.41 Ora, rispondendo, disse il Signore:Marta, Marta!Ti affanni e ti turbi per molte cose.42 Ora di una sola cosac’è necessità.Maria infatti prescelse la parte buona che non le sarà tolta.

1. Messaggio nel contesto

Gesù è ricevuto due volte in casa di farisei (7,36ss; 14,1ss), e due volte in casa di peccatori (5,27ss; 19,1ss); da questi con gioia, da quelli con critiche. Qualcosa di simile accade con Marta. Essa lo ospita, ma la vera accoglienza è offerta da sua sorella Maria, che essa biasima e che Gesù difende (cf. 7,36ss)!Il samaritano ora può fermarsi nel suo cammino verso Gerusalemme: c’è una casa che lo accoglie. Ma ci sono due modi di accoglierlo: Marta e Maria. La maggiore probabilmente è figura di un certo Israele: tutta occupata nel fare molte cose per colui che per tre volte è chiamato il Signore, osserva i 613 precetti per prepararsi all’incontro con lui. Ma non si è accorta che è giunto. Maria, la minore, è l’Israele che conosce la visita del suo Signore. Come Maria di Nazaret, dice “eccomi” e ne accoglie la

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Parola. Per questo blocca tutti gli altri servizi e gioisce della presenza dello Sposo, la cui gioia è che la sposa gioisca. Si siede ai suoi piedi e ne ascolta la voce. È una dei figli del talamo. Sono giunte le nozze (5,34): da discepola della Legge, diventa discepola del Signore.La casa di Marta - in quanto casa di Maria! - è quel pandocheîon sospeso tra Gerico e Gerusalemme dove il samaritano si ferma col suo peso e si riposa. Accolto, è lui stesso che accoglie e insegna il mistero dell’accoglienza del Padre nei fratelli. Qui egli rivela il mistero del Padre e del Figlio a chi lo ascolta: lo guarisce con il balsamo della sua presenza, lo inebria con il vino della sua parola, perché possa seguirlo nel suo cammino.Questa Maria, sorella di Marta e di Lazzaro, è la stessa che in Gv 12,3 compie l’unzione di Betania narrata dagli altri due sinottici (Mc 14,3-9; Mt 26,6-13). Potrebbe essere quella di 7,36ss: irrora di lacrime e asciuga coi capelli, profuma e bacia i piedi di colui che ha tanto camminato per farsi vicino a lei. Ora, riconciliata, ha una casa dove accoglierlo (cf. 5,24.25.29): lei stessa, i cui occhi si beano del suo volto e i cui orecchi ne accolgono la parola. Con libertà sovrana gode del suo amore, senza badare al disappunto della brava Marta, come prima non badò a quello di Simone, fariseo o lebbroso che sia. E Gesù l’approva senza riserve!La sua presenza è gioia per Maria, e fatica per sua sorella Marta. Le due non sono in semplice opposizione: sono sorelle! La contrapposizione è vista solo da una che vuole richiamare l’altra al suo dovere. Gesù invece richiamerà Marta a trasformarsi in Maria. L’attesa si apra al suo compimento e in esso si plachi!Non è esatto contrapporre Marta e Maria come azione e contemplazione. Luca vuole semplicemente purificare l’azione nella contemplazione. Sorgente dell’azione di Maria è l’ascolto e la gioia dello Sposo. Riconoscendo e stando vicina a colui che le si è fatto vicino, è in grado di fare quanto lui dice: “Va’, e fa’ lo stesso” (v. 37). La sua azione scaturirà dalla contemplazione, e non se ne staccherà mai: resterà sempre “contemplativa anche nell’azione”. In lei si vede il capovolgimento operato dal vangelo; può finalmente amare e accogliere, perché lui per primo l’ha amata e accolta (1Gv 4,10). Il silenzio assoluto di Maria, che non fa e non dice niente, è il perfetto “rinnegare” il proprio io (9,23) che si affanna ad affermarsi, col bene o col male poco importa, pur di essere protagonista. Dimentica di sé, si realizza nella forma più alta di vita: è per l’altro e dall’altro, tutta intenta in colui che ascolta, tutta accolta nell’altro che accoglie.In Maria che “ascolta” e “vede” il Samaritano, c’è la consumazione della beatitudine del discepolo: vedere e ascoltare il Signore (vv. 23s).Il brano ci richiama il fondamento del nostro discepolato. Non consiste nelle cose che si fanno - pure necessarie e importantissime! - ma nell’ascoltare Gesù.La sua parola è la prima opera di misericordia del Padre verso tutti i suoi figli. Per questo i discepoli dicono: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense” (At 6,2). Infatti “non di solo pane vive l’uomo” (4,4 = Dt 8,3), “ma di ogni parola che esce dalla bocca dei Signore” (Dt 8,3), poiché lui è la sua vita (Dt 30,20).Questa parola è un seme che, accolto, fruttifica nel pane che ci dà la vita del Figlio. Partecipiamo così alla sua compassione e agiamo come lui, che fa ciò che vede fare dal Padre (Gv 5,19).

2. Lettura del testo

v. 38: “nel loro viaggiare”. È il camminare del samaritano verso Gerusalemme. Ora non è più solo. Luca parla del “loro” viaggiare. Stanno con lui coloro ai quali già si è fatto vicino.

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“una donna, di nome Marta, lo accolse in casa”. Era sconveniente per un uomo essere ospitato da una donna. L’effetto è voluto, tanto più che sappiamo che essa è sorella di Lazzaro (Gv l1,1s; 12,1ss). Nel cammino, anzi nell’esodo di Gesù (9,3), tutta Gerusalemme è chiamata a riconoscere la visita del Signore (13,34s; 19,41ss). Per ora è accolto solo da questa donna, o meglio, come vedremo, da sua sorella! Più oltre sarà accolto dal pubblicano Zaccheo (19,1ss)! Gesù, stranamente, è accolto dai più lontani - da chi non può accoglierlo o non può volerlo (cf. 18,23.24.25!). Anche lui sta facendo un cammino strano per un samaritano: andare a Gerusalemme! Immediatamente dopo la scena, per certi aspetti analoga, di 7,36ss, c’è una sezione sulla verifica dell’ascolto. In essa da una parte c’è una costellazione di termini che indicano accoglienza (donna, terra, ascolto, madre, fare) e dall’altra la Parola è paragonata al seme, bisognoso di essere accolto come dalla donna che ascolta, lo custodisce e diventa terra feconda (8,1-21). È proprio della donna accogliere e generare, diventando come Maria, arca dell’alleanza, casa di Dio (cf. 1,38.45; 2,19. 51; 8,21; 11,27s)! L’uomo infatti è la sposa di Dio. Lui è lo Sposo da accogliere nel suo amore e da riamare con tutto il cuore (cf. v. 27).

v. 39: “Maria”. Probabilmente è la sorella minore, dato che l’incombenza dell’ospitalità è lasciata a Marta. È quella che in Gv 12,3 profuma Gesù per l’ultima tappa del suo viaggio. Lo profuma per i tre giorni, in cui resisterà là da solo (cf. 2,43). Tale unzione non è ricordata da Luca, perché ha già narrato l’identico fatto, arricchito di dettagli, in 7,36ss. Se questa Maria è la stessa donna di 7,36ss, si capisce meglio il suo atteggiamento. Raccolta per strada, difesa nella casa di Simone il fariseo (7,36.40), che in realtà è il lebbroso immondo (cf. Mc 14,3), associate al suo viaggio (Maria di Magdala di 8,2?), ritorna a “casa sua” (cf. 5,24.25), a Betania, dove fa la vera accoglienza al Samaritano. Questa casa, alle soglie di Gerusalemme, sorge ovunque il Signore è accolto e accoglie. È il pandocheîon del v. 34!

“addirittura seduta accanto”. Interrompe tutto e sta seduta, nell’atteggiamento del discepolo. La sua unica attività è ascoltare il maestro. Si sottolinea questo sia perché era vietato alle donne essere discepole, sia per contrapporlo all’atteggiamento di Marta. Trasgredisce ogni formalità. Addirittura, invece di servire e compiacere al Signore, semplicemente si compiace di stargli vicina e udirne la voce. Essa non è più la serva, ma la Sposa. Questo susciterà in Marta disappunto misto a invidia.

“presso i piedi del Signore”. Sono i piedi del Pellegrino della Samaria (9,51ss), i piedi del Samaritano che va a Gerusalemme, sulla via della pace (cf. 1,79; 7,50; 8,48), quei piedi che, da tutti gli angoli di perdizione dei mondo, camminano verso il Padre. Questi piedi sono ben noti, sette volte noti alla peccatrice in casa di Simone (cf. 7,38.44-46!). Sono i piedi di colui che dà amore e perdono, sui quali si riversano le sue lacrime e i suoi capelli, i suoi baci e i suoi profumi. Veramente sono i piedi “del Signore”, colui che è da amare con tutto il cuore (v. 27)! Gesù in questo racconto è chiamato “Signore” per tre volte, di cui due volte dal redattore. Per Maria Gesù è a pieno titolo il suo Signore.

“ascoltava la sua parola”. Maria è la prima che obbedisce alla voce che disse del Gesù solo che va verso Gerusalemme: “Questo è il mio Figlio, l’eletto; ascoltate lui!” (9,35).Si mette negli orecchi la “parola”: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato in mano degli uomini (9,44). È ciò che i discepoli ignorano e non percepiscono (9,45), ma che il Padre e il Figlio si compiacciono di rivelare ai piccoli (vv. 21s): è l’amore del Padre verso il Figlio, e in lui per tutti.Marta, figura del popolo sotto la legge, fa molti servizi in attesa dello Sposo; Maria, figura della chiesa, accetta ciò che lui fa per lei, l’olio e il vino della sua vicinanza. Al tentativo impossibile di piacere al Signore, sostituisce il piacere di stargli vicino, perché le si è fatto “prossimo”.La contemplazione e l’ascolto ai piedi del Signore è l’azione somma dell’uomo: lo genera figlio di Dio e lo associa alla missione di Gesù. Ogni missione parte dai suoi piedi, perché ad essi porta.

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È utile osservare una cosa, forse ovvia per noi, ma non altrettanto per gli antichi: anche la donna è chiamata ad essere discepola a pieno titolo. Discepolo è chiunque ascolta e accoglie il Signore. A ciò è subordinata ogni altra funzione nella chiesa, compresa quella gerarchica.

v. 40: “Marta era distratta in giro nel molteplice servizio”. Marta è presa, agitata e smembrata da tutte le cose che “si devono fare”, secondo la Legge e la convenienza. Conosce il suo dovere! Sua sorella seduta, e lei tutta indaffarata! Quando capirà che la vera accoglienza è l’ascolto? Ciò che Dio ama è il compiacersi di lui, non il tentativo di soffocarlo per piacergli. La contrapposizione Marta e Maria, schematica e calcata, c’è, ma non è definitiva. Marta è espressamente invitata a diventare come Maria. Questa, a sua volta, assumerà in modo nuovo il servizio di Marta, perché ascolta la parola che dice: “Va’, e fa’ lo stesso” (v. 37). La tensione Legge/evangelo si risolve proprio perché evangelo solo permette di compiere la Legge. Infatti può amare solo chi è amato.

“fattasi sopra”. Maria e Gesù sono seduti. Marta, in piedi, incombe, in posizione di superiorità e di giudizio.

“Signore, non ti curi”. Più che dell’aiuto di Maria, Marta è invidiosa dell’approvazione che il Signore dà alla sorella. Desidera che il Signore la rimproveri, e così approvi lei, che sa cosa fare e fa ciò che sa. Questo riconoscimento della sua bravura sarebbe gratifica sufficiente per lei. È il rimprovero che Israele, sotto il peso della Legge, muove ai discepoli, il cui giogo è soave (cf. Mt 11,30). È il rimprovero del figlio maggiore al minore e al Padre stesso. Forse è anche adombrata una certa tensione costante che si crea nella comunità tra azione e preghiera e che va superata ponendo in questa il principio e il fine di quella. Diversamente, come Marta, oltre il danno si ha la beffa di faticare e sentirsi disapprovati! Non conta fare tanti servizi per lui! Giova di più farsi lavare i piedi che sforzarsi di essere tutti lindi. Chi ha orecchi, capisca! Marta deve capire che bisogna diventare Maria. È quanto capisce Paolo in Fil 3,1-11.

“mi venga ad aiutare”. In greco c’è l’aoristo, non il presente. Significa che non pretende - cosa impossibile! - che la sorella l’aiuti sempre. Ma almeno una volta, questa volta! È chiaro che a Marta interessa l’approvazione implicita di quanto fa lei nella disapprovazione esplicita di sua sorella.

v. 41: “Marta, Marta”. È chiamata due volte, come Mosè (Es 3,4) e come Samuele l’ultima volta (1Sam 3,10). È chiamata e richiamata, in modo solenne. È segno di una grande vocazione; è quella di Israele e del legista, chiamati a “riconoscere/leggere” nel samaritano il compimento di ciò che “è scritto nella Legge” (v. 26). Gesù non rimprovera Marta; la esorta a diventare come Maria. In lei chiama il legista e Israele stesso ad ascoltare la voce dello Sposo. Nel suo cammino si è fatto vicino e fratello, per poter essere baciato e accolto in casa. Lì insegna ciò che nessuno ha mai udito: l’arte dell’amore che solo Dio conosce (cf. Ct 8,1s).La chiamata di Marta è analoga a quella del fariseo Saulo: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9,4). Egli passerà dalla “irreprensibilità della Legge” alla “sublimità della conoscenza di Cristo Gesù”, suo Signore; conquistato da lui, correrà sul suo stesso cammino, per giungere dove lui è arrivato (Fil 3,6.8.12).

“Ti affanni e ti turbi per molte cose”. Principio del servizio di Marta, fino a quando non diventa come Maria, è il proprio io. L’io religioso è il più duro a convertirsi, perché non ne sente il bisogno. Si ritiene infatti a posto perché cerca di piacere e sacrificarsi a Dio.

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I molti servizi nascono da una sorgente inquinata, e sono segnati da turbamento e affanno. Si può arrivare anche a eroismi supremi, fino a morire per l’altro (cf. 22,33), per affermare il proprio io. Ma la salvezza dell’uomo non è morire per Dio, bensì Dio che muore per lui. La prima è superbia diabolica, di chi pretende di porsi alla pari con Dio. Inoltre è segno di ignoranza: si immagina un Dio cattivo che esiga la vita! La seconda invece è il vangelo: l’annuncio indubitabile dell’amore di Dio per l’uomo!Si può osservare la legge dell’amore solo perché lui per primo “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Diversamente la Legge resta una pretesa umana, che condanna il fratello e non conosce Dio: serve solo a essere “più bravo” dell’altro e “a posto” con Dio. “Gli empi sono come un mare agitato che non può calmarsi e le cui acque portano su melma e fango. Non c’è pace per gli empi” (Is 57,20s). La peggiore empietà è quella del giusto che agisce per compiacersi di sé, cercando anche l’approvazione di Dio (cf. 18,9-14).

v. 42: “di una sola cosa c’è necessità”. L’unica cosa necessaria all’uomo per vivere è l’essere amato senza condizioni. Chi ascolta il Samaritano, se ne accorge. Scopre, come nell’Eden, che tutto il creato è dono del Creatore alla sua creatura. Tutto è per l’uomo, e l’uomo è per Dio che è tutto per lui in tutte le sue creature. Chi ascolta la menzogna del serpente, è preso da paure; comincia ad agitarsi, intorbidendo sempre di più la propria vita e comprendendo sempre di meno. La stessa legge religiosa diviene un mezzo per affermarsi, per difendersi da Dio e comperare il suo amore. Contro tutti gli affanni, “nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza” (Is 30,15; cf. Es 14,13). Convertirsi è abbandonarsi al suo amore per noi, che “vediamo” e “ascoltiamo” stando ai piedi di Gesù. Egli ci rivela la tenerezza dei Padre: l’unica cosa necessaria.È venuto e ha bussato alla porta. Maria ha aperto. Messa da parte l’affannosa ricerca, dice con la sposa: “Trovai l’amato del mio cuore. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò” (Ct 3,4). È veramente stolto attendere a fare tutti i preparativi per lo sposo e non riconoscerlo quando arriva!

“Maria”. Come la donna di 7,36ss, è il centro del racconto. Là fu il fariseo a criticare, nell’unzione di Betania, i discepoli, qui la sorella. Essa tace. Gesù ne prende le difese. Solo lui capisce lei, che sola lo ha capito. Ma non dice neanche una parola. Gesù è la sua parola. Essa è puro silenzio: il silenzio assoluto che, come la verginità di Maria, solo può concepire la Parola.Essa l’accoglie con cuore bello e buono, si fa sua casa. È sua madre sulla terra (cf. 8,15.21; 11,27s), come il Padre lo è nel cielo. La generazione eterna del Verbo in seno al Padre (v. 21s), avviene nel tempo in casa di Maria che lo ascolta in silenzio. Questo silenzio è la spoliazione assoluta, oblio del proprio io: è l’estasi dell’amore di chi contempla ed è tutto in colui che, accolto, accoglie.

“la parte buona”. Parte significa eredità. Fra le due parti, Maria ha scelto quella buona. Anzi quella ottima. Essa può dire: “Il Signore è mia parte di eredità”, “per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, è magnifica la mia eredità” (Sal 16,5.6). Sono espressioni del salmo del levita: senza terra promessa, ricorda a tutti che la vera promessa è colui che promette. Il dono è segno di chi si dona! Lei ha capito, e può dire: “Tu sei con me”, per questo “non manco di nulla” (Sal 23,4.1). Vera eredità della terra promessa è il Signore stesso, riposo dell’uomo, suo settimo giorno.

“non le sarà tolta”. Agostino fa dire da Gesù a Marta: “Tu navighi, essa è in porto”. Siamo fatti per amare Dio con tutto il cuore. Il resto è tutto e solo a questo fine, e siamo inquieti fino a quando non riposiamo in lui. Di fronte a lui tutte le altre cose promesse e donate sono un semplice pegno, come l’anello di fidanzamento nei confronti dello sposo. Egli è la nostra eredità che dura sempre: è “un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma” (12,33). Il cuore di

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Maria è già dove è il suo tesoro (12,34). Essa ha scelto il Signore, principio e fine di tutto. Ha preferito la sorgente d’acqua alle cisterne screpolate, costruite con tanto affanno, che perdono acqua (Ger 2,13). Qui attinge e vive. Accoglie Gesù come si sente accolta, e ascolta la parola che la unisce al suo cammino: “Va’, e fa’ anche tu lo stesso” (v. 37). Maria è una Marta “convertita” alla compassione del Signore: diventa la casa che accoglie tutti nel Samaritano che tutti accoglie. Questa casa prelude ciò che sarà alla fine, quando tutti, insieme accolti e accoglienti, riceveranno e daranno amore. Allora sarà finita la fatica del Samaritano. Non resterà che la parte di Maria, l’ottima, perché è Dio stesso accolto dall’uomo. Seduta ai suoi piedi, già ora si nutre della parola di vita. Il seme germina e si fa pane per il lungo cammino che ancora resta. Ma la dolcezza della voce dello sposo già l’accompagna. Maria ha l’anticipo di ciò che Dio vuol donare a tutti. Per questo non le verrà mai tolto. Il suo “bene è stare vicino a Dio” (Sal 73,28).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando di essere nella casa di Lazzaro a Betania.c. Chiedo ciò che voglio: capire e scegliere la parte buona, che non sarà tolta.d. Traendone frutto, vedo, ascolto, osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- accogliere in casa- Maria, seduta ai piedi di Gesù, ascolta la parola- Marta distratta in giro dal molteplice servizio- le parole di Marta a Gesù- le parole di Gesù a Marta- il silenzio di Maria.

4. Passi utili

Sal 14; Gn 18,1-10; Fil 3,1-11; Is 57,20s; 30,15; Es 14,13; Cantico dei Cantici.

68. PADRE

(11,1-4)

11 1 E avvenne,mentre egli stava pregandoin un certo luogo,quando ebbe cessato,disse uno dei suoi discepoli a lui:Signore,

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ammaestraci a pregare, come anche Giovanniammaestrò i suoi discepoli.2 Ora disse loro:Quando pregate, dite: Padre,sia santificato il tuo nome,3 venga il tuo regno,il pane nostro di domani da’ a noi ogni giorno, e rimetti a noi i nostri peccati4 perché anche noi stessi rimettiamoa ogni nostro debitore.E non indurci in tentazione.

1. Messaggio nel contesto

La missione del samaritano sarà compiuta solo quando tutti gli uomini diranno “Abbà”. Questa è la parola che ci genera nella nostra verità di figli. Gesù è venuto a insegnarcela, se lo ascoltiamo come Maria. Dopo averci svelato il suo mistero di Figlio e di fratello, con questa preghiera ci fa entrare nella paternità di Dio: in essa desideriamo quanto ci occorre per viverla. È quanto lui stesso ci dona nell’eucaristia, in cui offre se stesso come nostro cibo.Solo alla fine cesserà la preghiera di richiesta del pane (vv. 3.5-8) e dello Spirito (vv. 9-13) perché avremo la sua pienezza di vita. Allora esulteremo con lui nello Spirito. Questa danza di amore è il fine di tutta la creazione, delle sue sofferenze e delle sue doglie (Rm 8,19-23). È il suo fine perché è la sorgente da cui è scaturita.Questa preghiera è un dialogo diretto tra un “tu”, che è il Padre, e un “noi”, che è il vero io, in quanto in comunione con il Figlio e con i fratelli. In Gesù posso riprendere a rispondere “tu” al Padre che nel suo infinito amore da sempre mi ha rivolto la sua parola. In questo “tu” che rivolgo al Padre, nella solidarietà con me del suo Figlio, ritrovo anche il “noi” dei fratelli. La scoperta della paternità fonda e costruisce la fraternità.Senza il “tu” non c’è preghiera. E non c’è neanche l’uomo, che è o fuga da sé o risposta al “tu” che Dio gli rivolge.Ma anche senza il “noi” non c’è preghiera, perché non si può stare davanti al Padre separati dal Figlio e dai fratelli. Sarebbe negare la sua paternità, proprio mentre lo chiamiamo: “Padre”. Per questo, se non amo e perdono i fratelli, non amo il Padre: non ho accettato il suo amore e il suo perdono nel Figlio.Pregare in spirito di verità questa preghiera, è già l’esaudimento stesso di ogni preghiera. Infatti, chiamando Dio col nome di Padre, ne accettiamo la paternità e gli chiediamo quel pane che è sempre necessario ogni giorno: il suo amore e il suo perdono, per amare e perdonare i fratelli.Ciò che chiediamo nel Padre nostro è già tutto realizzato e donato a noi nel Figlio: la santificazione del Nome, il regno, il pane, il perdono e la forza della fiducia. Chiedendolo, apriamo la mano per riceverlo. È la miglior preghiera che possiamo fare sia per noi che per i fratelli; chiediamo quei doni che il Padre vuol fare a tutti nel Figlio.

2. Lettura del testo

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v. 1: “mentre egli stava pregando in un certo luogo”. La preghiera è comunione con Dio. Quella di Gesù si svolge in un luogo e tempo indeterminato, perché è in ogni luogo e in ogni tempo. Lui è l’oggi eterno di Dio, luogo stesso della preghiera del discepolo, sempre fatta nel suo “nome” (Gv 14,13). Il suo “nome”, in quanto persona umana-divina, è la preghiera sempre ascoltata, è la perfetta comunione tra uomo e Dio, unità d’amore Padre/Figlio. Ora, grazie a lui, la preghiera di Abramo per Sodoma e Gomorra può aggiungere la settima richiesta di “un solo giusto” che risparmia tutti (Gn 18). Abramo si dovette fermare alla sesta, perché non c’era ancora il giusto a lui promesso come sua discendenza, nel quale sarebbero state “benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 12,3). Pregare è entrare in Gesù, intercessione eterna per noi che in lui siamo creati e salvati.Pregare è ascoltare il suo “sì” eterno alla compiacenza del Padre, partecipare alla sua filialità, gioire del suo stesso amore del Padre. La novità che egli è venuto a portare sulla terra è il suo rapporto col Padre (10,21). Qui ci viene donato di chiederlo, perché lo possiamo desiderare e ottenere come dono.Ogni creatura ha in sé la propria natura. L’uomo invece no, perché la sua natura specifica è quella di essere a immagine e somiglianza di quel Dio che è amore. E l’amore ha il suo centro fuori di sé: è eccentrico, mosso dal desiderio dell’altro, la stella che gli manca. Per questo l’uomo diventa ciò davanti a cui si sta, secondo l’oggetto del suo desiderio. Questo diventa il suo fine, verso cui tende e in cui si realizza. Nella preghiera cristiana ci mettiamo davanti a Dio e accettiamo di essere amati da lui come Padre e di amarlo come tale nei fratelli. Così realizziamo la nostra natura di suoi figli.

“disse uno dei suoi discepoli a lui: Signore, ammaestraci a pregare”. Un discepolo indeterminato, cioè ogni discepolo, rivolge a lui la domanda e impara da lui a dire “Abbà”. Lui è il Figlio che conosce e rivela il Padre (10,21). È quindi il solo maestro interiore di preghiera. Questa è l’unica cosa che il discepolo chiede al Signore di insegnargli. E non gli chiede poco. La preghiera cristiana è entrare nel dialogo di Gesù con il Padre. Egli è l’unico che ne conosce il linguaggio, perché ne è il Verbo eterno. Pregare è desiderare, ascoltare, credere e sentire lo Spirito del Figlio che geme in noi e in tutto il creato. La vita di Gesù, Verbo di Dio, è il suo colloquio di amore con il Padre, dal quale tutto riceve e al quale tutto dà. Così anche noi, figli nel Figlio, abbiamo nella preghiera la nostra sorgente di vita. Per questo, chi ha imparato a pregare, ha imparato a vivere (s. Agostino). Si impara a pregare pregando Gesù di insegnarcelo. La preghiera è dono suo, non conquista nostra.

“come anche Giovanni, ecc.”. Il tipo di preghiera qualifica il tipo di vita. Come preghi, così vivi. Il tuo rapporto con Dio viene rispecchiato nel rapporto che hai con te stesso e con gli altri.

v. 2: “Quando pregate, dite”. La preghiera cristiana è dire, in obbedienza a Gesù, ciò che lui ci insegna: invochiamo il dono di conoscere e accettare la paternità e la conseguente fraternità. Questo è il compimento della sua volontà di amore, per la quale ci dà come pane suo Figlio, forza di riconciliazione con lui e con i fratelli, così che non cadiamo preda del male. Questa preghiera contiene ogni preghiera. Una preghiera diversa e non riconducibile a questa ignorerebbe il dono di Gesù e del Padre, e sarebbe frutto di altro spirito.

“Padre”. Questa parola è riferita da Gesù a Dio circa 180 volte nei Vangeli, mentre nell’AT in riferimento a Dio è usata solo 15 volte. Poter dire a Dio “Abbà” è il grande dono di Gesù. Possiamo farlo perché davvero ci è Padre nel Figlio, e ha riversato su di noi il suo Spirito. Con questa preghiera diciamo “eccomi” alla nostra verità di figli, e riconosciamo la nostra identità nascosta: il suo amore per noi come di Padre verso il Figlio. Questo è il fondo del nostro essere, ciò che siamo e ciò al cui servizio è tutto il creato.

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“Abbà” è la prima parola che l’infante balbetta, suo primo cenno di comunicazione, gioiosa sorpresa di chi l’ascolta con amore. Dio è il padre delle misericordie (2Cor 1,3), che ci è propizio e ama noi più di sé (cf. Rm 8,32-39). Il colore della vita cristiana è il suo sorriso paterno, la sua tenerezza verso di noi e la nostra fiducia in lui. Eravamo smarriti. Il fratello “maggiore” si è perduto per incontrarci e riportarci a casa. Come il fine della missione dei Settantadue è la rivelazione del rapporto Padre/Figlio (10,1-22), così il fine della missione del samaritano, come di ogni missione (10,37), è portare l’uomo, con l’azione e la parola, al pandocheîon, dove è accolto e impara a conoscere il Padre.L’olio e il vino che ci guariscono dalle nostre ferite mortali, è l’amore di Dio che si riversa su di noi, il dono dello Spirito del Figlio che ci fa gridare: “Abbà”.Da quando il Figlio si è fatto per noi maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21; Rm 5,6-8), questa invocazione può farla anche il peccatore (15,18.21), ancora più facilmente del giusto. Il Padre non cessa mai di essergli Padre. Lo cerca perché è da ritrovare e, quando lo ha trovato, fa festa. Dio infatti non può rinnegare se stesso, e resta fedele anche se noi manchiamo di fede (2Tm 2,13). In Gesù Dio ci ama perdutamente, con l’amore totale del Padre verso il Figlio (Gv 17,23b). La nostra lontananza, la nostra piccolezza e non-amabilità, sono l’unica misura del suo amore, che, essendo infinito, non ne conosce altra che il bisogno dell’amato. Infatti “quale è la sua grandezza, tale è anche la sua misericordia” (Sir 2,18). Essa è in qualche modo per noi misurabile solo dalla nostra miseria.L’uomo non viene dal nulla e non va verso il nulla, in una vita “breve e triste” (Sap 2,1). Veniamo da Dio e a lui torniamo. Siamo figli del grande re, in esilio per un malinteso. Veniamo dallo splendore del suo amore, e siamo in cammino per tornarci. La nostra vita è desiderio e ricerca di colui che si lascia desiderare e cercare solo perché superiamo l’inganno che ci ha fatto fuggire da lui. In lui troviamo la nostra sorgente che ci disseta di delizie.“Abbà” è la parola ineffabile di Dio, che il Verbo dice nell’amore verso il Padre di cui è appunto la parola d’amore. È l’estasi del Figlio nel Padre: come l’uno è uscito da sé per darsi all’altro, così l’altro ritorna all’uno come parola piena: “Abbà”. Essa contiene tutta la realtà del Figlio mentre dice quella del Padre.Dio sarà sempre nostro Padre, perché il Figlio si è fatto definitivamente nostro fratello. Per questo chiamare Dio “Abbà” è conoscere e proclamare l’amore per me di Gesù, mio Signore. È essere in comunione con lui che si è fatto carico di me. È riconoscere il dono che mi è partecipato in lui il Figlio (10,22), in cui esisto e sono ciò che sono. Fuori di lui non sono ciò che sono e sono ciò che non sono. La realtà di questa nostra figliolanza è lo Spirito di Dio, riversato nei nostri cuori, che in noi geme con gemiti ineffabili (Rm 5,5; 8,26).La liturgia celeste, la danza eterna dell’amore Padre/Figlio, è riportata sulla terra nel cuore di chi dice: “Abbà”. È il momento in cui Dio è attratto nell’uomo e l’uomo, rapito in Dio, entra nella gioia del Figlio che dice “Sì” all’amore del Padre che si compiace di lui.Gridare “Abbà” è fede nel Figlio che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (Gal 2,20); è speranza certa di un mondo nuovo in cui il Signore è Signore e noi siamo tutti fratelli. È amore come risposta al Padre e a tutti i suoi figli: è letizia del ritorno a casa; è ricchezza di ogni benedizione; è sazietà di ogni desiderio e desiderio di ogni sazietà; è partecipare al banchetto con il vestito più bello, con l’anello e i sandali, mangiando il vitello sacrificato; è la festa con sinfonia e danze che il Padre ha preparato per il Figlio suo perduto. Colui che sempre nei cieli è Padre del Verbo, lui che è l’altissimo e sta sopra ogni cosa, ora è “mio” Padre! Il samaritano, che prima era sceso per incontrarmi, ora è risalito per riportarmi a lui.Questa parola “Abbà” è il cuore della vita cristiana e contiene tutto l’affetto del figlio verso il papà. Dio mi è padre, non solo come chi una volta mi ha generato. Mi è sempre padre, perché mi genera sempre: ogni istante della mia vita scaturisce da lui.Se un istante cessasse il suo amore e ricordo di me, cesserebbe il mio stesso esistere e cadrei nel nulla.

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“sia santificato il tuo nome”. Santificare il nome di Dio significa glorificarlo, dandogli nella vita il peso che si merita. Che la sua paternità sia nota, amata, tenuta in conto da me e da tutti i figli! Come in cielo da sempre è conosciuto e amato dal Figlio come Padre, così lo sia in terra. Gesù, amando lui e tutti i fratelli, ha santificato il suo nome: gli ha dato nel tempo la gloria e il peso che ha nell’eternità. Egli dice: “Padre, ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi ed io in loro” (Gv 17,26), così che “il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17.23). Il nome di Dio è santificato quando conosciamo il suo amore per noi, ci arrendiamo ad esso, acconsentiamo alla sua paternità e accettiamo di essere sue creature, senza paura del nostro limite e della nostra morte. È santificato quando, dalla sua paternità, accogliamo noi stessi e tutto come suo dono, in tutto amando lui stesso sopra tutto.Il suo nome di Padre sarà santificato quando sul volto di tutti gli uomini splenderà la bellezza del Figlio.Chi misconosce la paternità di Dio, cerca di fare da padre a se stesso, santificando il proprio nome. Da questa ignoranza, radice del peccato, nasce l’orgoglio e l’ansia di vita, la paura che ci allontana da lui e ci divide da noi, la voracità che ci separa dai fratelli e distrugge il creato. Tutti gli uomini, che cercano la propria gloria, non possono più capire nulla del creato: sono come un gancio che cerca di agganciarsi a sé. Inoltre non possono credere in Gesù, il Figlio: “Come potete credere, voi che prendete la gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,44).Il Figlio gioisce quando è riconosciuto e amato il Padre, e sa che riconoscere il Padre è amare tutti i suoi figli come fratelli. Soffre quando la paternità e la fraternità sono misconosciute. La missione del Figlio è quella di far conoscere la paternità nella fraternità.Che il nome del Padre non sia bestemmiato per causa nostra! È il fallimento di ogni missione cristiana! (cf. Rm 2,24; Is 52,5).Quando il suo Spirito ci avrà purificato da ogni sozzura e da ogni idolo, allora sarà santificato il suo nome che noi credenti abbiamo disonorato davanti ai non credenti (Ez 36,22s).

v. 3: “venga il tuo regno”. È la grande promessa di Dio, termine sicuro di tutta la storia umana, quando il Figlio “consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza”, e Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,24.28). Il “regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito santo” (Rm 14,17). È la sovranità di Dio che libera l’uomo da ogni schiavitù e ingiustizia, e lo guarisce da ogni inquietudine e tristezza per l’esilio in cui si è cacciato. È la casa promessa a Davide, dove può finalmente stare di casa (2Sam 7,8-16). È incrollabile e sicuro, nonostante tutte le insidie e le incertezze. Il regno di Dio non è un’utopia: “è venuto” “oggi” nel Signore Gesù, “viene” ogni volta che “entriamo” con la conversione nel suo oggi, e “verrà” nella sua pienezza quando tutti i fratelli saranno figli del Padre. È già affidato al “piccolo gregge” (12,32), ed è in mezzo a noi sotto parvenze modeste (17,21), sotto il segno del più piccolo (9,48; cf. 2,12!). È il seme gettato e nascosto che cresce in albero (13,18s). È Gesù, morto, risorto e asceso, che torna allo stesso modo nel quale l’abbiamo visto camminare tra noi (At 1,6-11): torna in chi si fa giumento per portare su di sé il peso della debolezza dei mondo. È il dono che il Crocifisso fa al malfattore con la sua vicinanza (23,40ss). È il “paradiso”, il giardino dal quale ci scacciò la non conoscenza dell’amore del Padre. È il luogo che Dio ha fatto apposta per l’uomo, e al quale ci riporta con la sua vicinanza a noi che ci siamo allontanati da lui.Il regno di Dio si realizza in “quella stessa ora” in cui il samaritano, e tutti i samaritani, si prenderanno cura dei fratelli: è questo il regno di Dio che viene e giunge al suo compimento a Gerusalemme (19,38; cf. 2,14!). Non dobbiamo attenderne un altro (7,18-23). Contro tutte le false attese messianiche, nostre e del mondo (cf. tentazioni e croce: 4,1-11; 23,35-39), qui sulla terra esso resta sempre sotto il

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segno della croce, nella povertà, umiliazione e umiltà di un amore che dona tutto e alla fine se stesso. Queste sono le armi del trionfo dell’amore che libera l’uomo. Sognare diversamente è umano, fin troppo umano, anzi... diabolico (cf. 4,1-11; Mc 8,33). Comunque non è cristiano, anche se molti cristiani lo fanno!Inoltre il regno di Dio è “di” Dio, nel senso soggettivo e oggettivo: riguarda lui ed è suo. Lui solo dice cos’è e lui solo lo fa, perché è lui stesso, che si fa nostro prossimo. A noi spetta chiederlo e cercarlo per accoglierlo ed entrarci (18,17). L’invocazione ne affretta la venuta più di ogni altra opera dell’uomo, che diversamente lo allontana. È un dono che attende solo di essere accettato nella conversione alla Parola. La suprema attività è la passività di dire: “Sì”, come Maria di Nazaret, di ascoltarlo come Maria di Betania.Chi accoglie il Regno, è coinvolto nella stessa missione del samaritano. Il regno di Dio avanza ogni qualvolta noi ci arrendiamo alla compassione di Dio per noi suoi figli e concepiamo la stessa passione per i fratelli. Il regno del Padre è poter dire in Spirito e verità: “Abbà”, nella filialità dei fratelli e nella fraternità dei figli.

“il pane”. Il pane è la vita. Come la vita biologica serve per quella eterna, così il pane materiale serve per quello spirituale, che è l’eucaristia. Ambedue sono dono e li chiediamo al Padre. Non sono in alternativa, ma in continuità, rispettivamente come bisogno primo dell’animale, e bisogno primo dell’uomo. Dietro ogni pane c’è la mano del Padre che lo porge come segno del suo amore, e c’è il volto del Figlio, nostra vera vita.Per il pane materiale non c’è da affannarsi, perché il Padre sa che ne abbiamo bisogno (12,22-30): “Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta” (12,31). Chi ha il pane spirituale, non ne manca, perché lavora, riceve come dono e condivide.Ogni pane, per quanto condito di sale a causa del peccato, è sempre donato. Solo di dono l’uomo vive. Perché è creatura e vive di ciò che riceve per amore. Chiedere il pane non significa forzare la mano di Dio, quasi fosse restio a concederlo; è semplicemente riconoscere come principio della propria vita lui invece della paura della morte.

“nostro”. Non è “mio”. Dono del Padre ai figli, va condiviso tra i fratelli. Se non è “nostro” diventa principio di morte. Chi ne defrauda l’altro, priva l’altro della propria fraternità e se stesso della paternità di Dio. Dopo il peccato esso va guadagnato con il sudore della fronte (Gn 3,19; cf. 2Ts 3,6-13). Diversamente è rubato. Cesserà la pena della fatica quando il pane non sarà più rubato e non sarà solo ricevuto o donato, ma insieme ricevuto e donato.

“di domani”. La manna non si poteva conservare; periva il giorno dopo (Es 16,16-21). La vera manna è invece cibo di vita eterna: è “oggi” il cibo di domani. Per questo, come lo si conserva (Cf. 9,17; Gv 6,12), lo si chiede per domani. “Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio” (14,15). Il pane di domani è quello che il Padre già “oggi” ci offre in Gesù; lo stesso che chiediamo all’amico che dorme e si sveglia, per darlo a ogni amico che ancora viaggia nella notte (cf. vv. 5-8). È il pane necessario per essere figli e chiamarlo Padre. Nulla può mancare a chi lo riceve: è la vita del Figlio, donata a noi come nostra vita, perché ne doniamo agli altri. Ci associa a lui, e ci fa figli nel dono del suo Spirito. Questo pane è il cibo eucaristico, che ci unisce a lui (cf. Gv 6,56s), donandoci la forza di camminare fino al monte di Dio (1Re 19,8). È il pane che si spezza nella fraternità cristiana (At 2,42), in sua memoria, nell’attesa del suo ritorno (1Cor 11,23ss). È insieme quotidiano e di domani, sovrasostanziale e pieno.

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v. 4: “rimetti a noi i nostri peccati”. Il pane di cui l’uomo vive è l’amore di Dio. È concesso per grazia a ogni figlio, anche ribelle e perverso, proprio secondo la misura del suo peccato! Egli mi accetta anche là dove io non mi accetto. Come mi crea per dono del suo amore, così mi ricrea col per-dono della sua misericordia, dono ancora più grande di amore.Il cristiano non è uno che è o si crede giusto. Giusto è solo Cristo, e tale si crede solo il fariseo. Ma mentre questi si giustifica e condanna gli altri, quegli è giusto e li perdona.

“perché anche noi stessi rimettiamo”. Luca, scriba mansuetudinis Christi, ha centrato tutto il suo Vangelo sulla misericordia del Padre che si specchia sul volto del Figlio. Ha fatto di questo tema la dominante di tutte le azioni e parole di Gesù. È ormai sicuro che il credente perdona, perché in lui ha conosciuto la “grazia” di Dio (6,27-36). Si può peccare, anzi è scontato che si pecca. Per questo si chiede perdono. Però, come siamo perdonati - e il Padre non può non perdonarci - così perdoniamo, e non possiamo non perdonare. Diversamente non conosciamo né il Figlio né il Padre.L’unico peccato imperdonabile è quello di chi non perdona e non ritiene di dover essere perdonato per questo. La cecità di chi si ritiene giusto (Gv 9,41) e non conosce il perdono da dare e da ricevere è il peccato contro lo Spirito. Infatti “la conoscenza della salvezza” è “nella remissione dei peccati” (1,77). Il Signore si conosce solo nel perdono, dove si rivela nella sua essenza di amore gratuito (cf. Ger 31,34). Il nome di “Dio con noi” è Gesù: egli infatti “salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). Il cristiano non è giusto, ma giustificato; non è perfetto, ma misericordioso; non è santo, ma accogliente; non è forte contro il male, ma compassionevole verso chi è caduto. Per questo non condanna, ma perdona. La giustificazione del peccatore mediante la propria croce è l’unica vera condanna del peccato che Dio conosca. La sola condizione per il dono del Padre è il perdono al fratello (Cf. Mt 6,14-15; Mc 11,25).

“non indurci in tentazione”. È un’espressione sintetica, tradotta dall’aramaico. Non chiedo a Dio che non mi tenti, ma che mi protegga, perché non soccomba nella prova. Infatti “nessuno, quando è tentato, dica: sono tentato da Dio, perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quando è consumato, produce la morte” (Gc 1,13-15). La tentazione viene dalla mia debolezza, e il nemico agisce in me attraverso la paura del bisogno e trova il suo alleato nel mio egoismo. Tuttavia “Dio è fedele, e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione, vi darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13). Per questo preghiamo con fiducia. Diversamente soccombiamo.Qui non chiediamo a Dio di essere preservati dalla prova, ma di non cadere in essa. Il pericolo è quello di cedere per scoraggiamento e timore nella lotta. Ma il Signore ci ha preparati ad essa, dicendoci: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno” (9,23). Sappiamo che “nessuno può giungere al regno di Dio se non è passato attraverso la tentazione” (detto apocrifo di Gesù nell’orto), perché “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22). Ammonisce anche il Siracide: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione ... “ (Sir 2,1ss).

“tentazione”. È quella di perdere la fiducia nel Padre durante l’afflizione finale: è l’apostasia, scopo di ogni tentazione, che vuol strapparci dall’amore di Dio. Essa è già in atto e vince in coloro che non credono (2Ts 2,11). Anche il credente è sempre insidiato da questa incredulità nel Dio di misericordia. È forte il veleno del serpente. Ma “questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4).

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3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la grotta dove Gesù stava pregando.c. Chiedo ciò che voglio: pregare il Padre nostro nello Spirito di Gesù.d. Mi fermo su ogni parola gustandola.

4. Passi utili

Gv 17, 23b; 15,9.

69. PER LA SUA SFACCIATAGGINE DARÀ A LUI QUANTO ABBISOGNA

(11,5-8)

5 E disse loro:Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte e gli dice:6 Amico, abbisogno da te tre pani, poiché un mio amico giunse da un cammino e non ho cosa mettergli davanti.7 E quello, rispondendo, dice:Non darmi fastidi;già la porta è chiusa e i miei bambini sono con me nel letto. Non posso sorgere e darti.8 Dico a voi:Anche se non glieli darà, sorto,per l’essere suo amico, per la sua sfacciataggine, destatosi,darà a luiquanto abbisogna.

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1. Messaggio nel contesto

Questa parabola è un commento al v. 3: “Dacci oggi il nostro pane di domani”. Ci esorta a una preghiera sostenuta da una fede “sfacciata” nell’amico che dorme. L’inizio e la fine parlano di tre pani di cui abbiamo bisogno - dono dell’amico “sorto” e “destatosi” - da donare all’amico in cammino nella notte. Si tratta dell’eucaristia, che mette lui in comunione di vita con noi e noi con chi ancora viaggia nelle tenebre. Così circola in tutti i fratelli la stessa vita del Figlio, donata a noi dal Signore morto e risorto. Associati a lui che si prende cura di noi, anche noi possiamo prenderci cura degli altri, nei quali vediamo lui caricato dei nostri mali. Come nessuno ama se non è amato, così nessuno, se accetta di essere amato, non ama. L’amore vive in pienezza solo se è insieme accolto e corrisposto. Ricevendo da lui il pane, che è la sua vita data per noi, siamo in grado di amare come lui ci ha amati. E amiamo con un unico atto Dio, che per amore si è fatto nostro fratello nel bisogno, e il fratello nel bisogno, amando il quale veniamo fatti Dio (cf. 6,36). Veramente prodigioso questo pane: fa circolare nel mondo l’unica vita del Figlio e porta tutti all’unità!L’eucaristia realmente ci trasforma in lui. Essa è l’esaudimento pieno della preghiera al Padre: riceviamo quel pane che ci permette di gridare “Abbà”, e accogliamo ciò che lui da sempre desidera darci, suo Figlio come nostra vita.Ma il dono eucaristico esige una fede “sfacciata”, davanti alla porta chiusa, capace di varcare la soglia della casa del Padre ed entrare nel riposo dei figli. La sfacciataggine consiste nel credere che il sonno dell’amico è il luogo stesso in cui siamo esauditi: la sua morte è il dono della sua vita, fatta per noi pane di domani. Proprio quando sembra sottrarsi a noi, si dona tutto a noi (cf. il suo sonno sulla barca 8,22-25!), affinché noi possiamo diventare, come lui, pane per chiunque è in viaggio. Siccome noi abbiamo perso il nostro volto di figli, anche Dio ha perso il suo volto, che è il Figlio (cf. Col 1,15; Eb 1,3), per venirci a cercare. Questo suo amore è colto solo da una fede che non viene meno neanche davanti alla croce. Anzi, come uno dei due malfattori, ha l’audacia di riconoscerlo proprio in essa (23,40-43).L’eucaristia, celebrata con fede sicura nel sonno dell’amico che si risveglia, è la preghiera dove otteniamo quel pane che chiediamo al Padre per donarlo ai fratelli. Questo pane, sfacciataggine somma dell’amore di Dio per noi, trasfigura il nostro volto in quello del Figlio, che tutto riceve e tutto dà, e ama pienamente come pienamente è amato.Questa parabola risponde anche a un interrogativo che sorge comunemente in chi prega: se Dio ci vuol bene, e parliamo a lui come l’amico parla con l’amico (Es 33,11), perché ci sembra di trovarci davanti a un nemico, restio a dare? La preghiera è il luogo dove percepiamo per la prima volta la realtà del peccato: la nostra lontananza e ostilità nei confronti di Dio, che proiettiamo su di lui. Per scoprire il suo vero volto sarà necessario vederlo sfigurato per noi mentre porta su di sé la nostra inimicizia (cf. Is 53,4). Il suo silenzio sordo e ostile ha un significato profondo di salvezza: esige una fede senza limiti nel suo amore senza limiti, una fede sfacciata nel suo amore sfacciato che lo porta a fare del suo sonno il luogo in cui si dona a noi. Nel suo silenzio ci affidiamo a lui, senz’altra prova che la fiducia in lui che si è consegnato a noi. Proprio così vinciamo la menzogna antica che ci fece vedere in Dio un nemico, e ci abbandoniamo a colui che abbiamo abbandonato. Torniamo a essere figli!

2. Lettura del testo

v. 5: “Se uno di voi ha un amico”. Colui al quale chiediamo il pane è un amico (cf. Rm 5,6-11). Di questo siamo sicuri, anche se ci sembra che abbia difficoltà a risponderci. Di notte tutti dormono, e temiamo che lui non si svegli. Questo amico è Gesù, il Signore morto e risorto, che ci sembra ora in

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una lontananza inaccessibile. Ma nessun altro che lui può darci il pane che abbiamo chiesto al Padre (v. 3): è lui questo pane!

“e va da lui a mezzanotte”. Mezzanotte è l’ora in cui grande è il buio e lontana la luce: l’ora del bisogno più acuto e della somma improbabilità di esaudimento. È il punto più lontano dal sole, che se ne è andato e non è ancora tornato. È l’ora della chiesa, che si sente sempre più lontana dalla dipartita e dalla seconda venuta del suo Signore. Ma l’ora della necessità più impellente di pane è anche quella del grido che annuncia lo sposo (cf. 12,38).

“abbisogno da te”. Il pane è la vita. Solo lui può darmelo perché è lui la vita (Gv 1,4). Per questo “abbisogno” proprio da lui, che ha dormito per darmela. E ne ho bisogno per dare all’altro, e vivere così io stesso. Questo pane, unica cosa necessaria (cf. 10,42) che chiediamo al Padre (v. 3) e otteniamo dall’amico risvegliato dal sonno, è la vita stessa del Figlio; è la sua comunione con il Padre, il dono del suo Spirito (v. 13), che ci fa partecipare alla sua danza di gioia nella Trinità (cf. 10,21s).

“tre pani”. Il pane che chiediamo al Padre si moltiplica ora misteriosamente per tre, come il numero degli amici che esso rende uniti, facendo circolare in tutti e tre la stessa vita. Il primo amico che dorme e si sveglia e dà il pane è il samaritano che si è preso cura di te. Tu, dando ciò che hai ricevuto, diventi come lui. Il terzo, l’amico in viaggio, è ancora lui, cibo che si è fatto la fame che tu eri per permettere a te di essere per lui ciò che lui è stato per te.

v. 6: “un mio amico giunse da un cammino”. È il Samaritano stesso, ancora e sempre in cammino (10,33). Infatti, avendo dato tutto, è diventato uno che ha bisogno di tutto. Si è fatto carico dei nostri mali, guarendo noi perché noi potessimo a nostra volta, come lui, prenderci cura di lui negli altri.Il principio e il termine del pane è sempre lo stesso amico, anche se sembrano due. In quanto dorme, si sveglia e dà il cibo, è il samaritano che ha già viaggiato e ha già compiuto il suo “oggi”. In quanto giunge a mezzanotte ed è nel bisogno, è ancora lui, il povero Pellegrino in viaggio anche nel nostro tempo, perché noi possiamo diventare samaritani nei suoi confronti. Infatti “chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore” (Pr 19,17). Questo pane, da noi ricevuto da parte sua e a lui donato da parte nostra, ci associa alla sua stessa missione, e protrae nel tempo l’oggi del Figlio che vive la misericordia del Padre.

“mettergli davanti”. Questo pane da “mettere davanti” (termine eucaristico!) è quello della “proposizione” cui si alludeva in 6,4. Viene a me dall’amico, che nel suo sonno si è pro-posto mio pane, e lo pongo innanzi all’amico nel bisogno, amandolo come lui mi ha amato.

v. 7: “Non darmi fastidi”. Richiama la vedova ostinata che importuna il giudice iniquo (18,5; cf. 8,49). Egli si sveglia, si alza per la nostra insistenza. Ciò significa che la nostra fede desta e tenace ottiene tutto da colui che sappiamo essere nel riposo con i figli.La nostra necessità gli dà fastidio. Ma non come crediamo noi. Gli ha procurato addirittura fastidio mortale: ha dormito per liberarci da ogni nostra necessità, compresa quella del sonno della morte.

“la porta è chiusa”. L’amico sembra insensibile alla nostra preghiera. La sua porta è chiusa sulla nostra notte. Il suo sonno e il suo risveglio lo hanno posto in una distanza irraggiungibile. È l’esperienza dell’ascensione (At 1,9-11), il suo distacco da noi, quando sembrò richiudersi il cielo che nel battesimo si era aperto.

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“i miei bambini sono con me nel letto”. I bambini sono forse i figli del Regno, quelli che, diventati piccoli - piccolissimi come lui e caduti nel sonno - sono passati per la porta stretta (13,24; cf. 18,15ss). Il samaritano, finito il suo viaggio, è già arrivato al riposo con i figli di Abramo (cf. 16,19ss): è il Figlio in seno al Padre, che riposa in una pace sovrana insieme con tutti quelli che l’hanno raggiunto o lo raggiungeranno. Si disturberà per darci il pane? Fuori metafora: la celebrazione eucaristica è luminosa; ma la sua luce sembra troppo lontana dalla nostra vita concreta, che ci pare una notte in cui moriamo di fame, senza ricevere e senza dare nulla. Questo ricordo della gloria passata, e attesa della speranza futura, come può essere cibo per il nostro presente? La fede sa che proprio nel cuore di questa notte fonda ci è dato ciò di cui abbiamo bisogno.Nell’eucaristia tutta la gloria di Cristo e dei suoi santi si desta, si leva e ci viene incontro, per darci quel pane che trasforma noi stessi in pane da dare all’amico.

v. 8: “per la sua sfacciataggine”. “È necessario pregare sempre, senza incattivirsi” (18,1). Dio ritarda a esaudire innanzitutto perché la fede cresca, fino a credere al suo amore senz’altra prova che il suo amore stesso, testimoniato proprio dal suo sonno.Inoltre la dilazione dell’esaudimento dilata il desiderio, aumentando la capacità di accogliere il dono. Il gioco di Dio è il gioco di amore del Cantico dei cantici: si concede e sottrae nei suoi doni, perché desidera essere desiderato lui, che sta oltre ogni desiderio e cosa desiderata. Così può donare se stesso oltre ogni dono. Quando scompare nel sonno, è perché vuol farsi pane che sazia ogni nostra fame.La “sfacciataggine” della fede osa chiedere, cercare e bussare proprio davanti al suo silenzio, sicura di ottenere, trovare ed essere accolta. Sa che cos’è questo sonno dell’amico: è la sfacciataggine di Dio, che rivela all’uomo tutto il suo amore. Tale fede oltrepassa il muro stesso della morte, nell’invocazione dell’amico.

“destatosi, darà a lui quanto abbisogna”. Nel risvegliarsi della nostra fede e del nostro desiderio, si desta lui stesso in noi, come nostra vita: lui ci si dona come nostro pane del quale e per il quale viviamo. Così anche noi diventiamo, come lui, pane per chi è nel bisogno. E chi è più nel bisogno di essere amato che colui che ama? La parabola è tutta nel “bisogno” del pane dell’amico per l’amico.Questo è quanto avviene per la nostra fede nell’eucaristia. È la celebrazione della reciprocità d’amore tra Padre e Figlio e tra fratello e fratello: è il pane di domani, ricevuto e dato ogni giorno, che ci rapisce “oggi” nella vita di Dio. La notte del bisogno si illumina del dono dell’amico da dare all’amico. Così continua il viaggio del Pellegrino, che salva tutti i suoi amici: dà loro il pane che desidera ricevere, per farli diventare come lui, termine e principio di amore.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando lo stesso luogo dove Gesù ha insegnato a pregare.c. Chiedo ciò che voglio: una fede “sfacciata” nel suo amore, davanti al suo sonno.d. Medito attentamente la parabola, applicandola all’eucaristia e alla preghiera.

4. Passi utili

Sal 63; 27; 28; Lc 18,1-8.

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70. CHIEDETE: IL PADRE DAL CIELO DARÀ LO SPIRITO SANTO

(11,9-13)

9 E io vi dico:chiedetee vi sarà dato,cercatee troverete,bussatee vi sarà aperto.10 Perché:chiunque chiede,prende,e chi cerca,trova,e a chi bussa,sarà aperto.11 Ora quale padre tra voicui il figlio chiederà(un panegli darà una pietra?),un pesce,e invece del pescegli darà una serpe?12 Oppure chiederà un uovo,e gli darà uno scorpione?13 Se dunque voi,che siete cattivi,sapete dare doni buoniai vostri figli,quanto più il Padre dal cielodarà lo Spirito santoa quanti chiedono a lui.

1. Messaggio nel contesto

La presente parabola è caratterizzata da nove parole che indicano il desiderio (cinque volte “chiedere” più due volte ciascuno “cercare” e “bussare”) e da undici che indicano il dono (sei volte “dare”, più due volte ciascuna “trovare” ed “essere aperto”, più una volta “prendere”). Il desiderio rappresenta la creatura, in quanto bisogno; il dono Dio, in quanto creatore. Il desiderio di Dio è il più grande dono fatto all’uomo: lo costituisce tale, libero da tutto perché fatto per l’infinito. Solo Dio può colmare il suo cuore. Egli ci dà “molto di più di quanto possiamo domandare o pensare” (Ef 3,20): essendo

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amore infinito, desidera dare tutto se stesso; non si nega a nessuno e si comunica a ciascuno secondo il suo desiderio. Questa è l’unica misura del dono. E il suo dono è lo Spirito santo, Dio stesso come amore mutuo Padre/Figlio.Il pane notturno dei vv. 5-8 ci fa entrare col Figlio sempre più profondamente nell’amore del Padre e ce lo fa invocare con sempre maggior fiducia e abbandono. Il suo nome è la medicina che ci guarisce il cuore dallo spirito muto (v. 14): ogni volta che lo invochiamo, la nostra bocca ne sorbisce una goccia.Anche il Padre, come l’amico, sembra restio a dare. Pare che doni addirittura cose cattive: pietra, serpente, scorpione. Non ha forse dato il sonno della morte anche al Figlio? Ma questo è il mistero del pane, che è la sua vita per noi!Il tema dominante è la paternità di Dio, che si esprime nel “dare”. Ma per questo bisogna chiedere. Non perché lui ignori o trascuri il nostro bisogno, ma perché il dono può essere ricevuto solo da chi lo desidera. Se lui tarda nel dare, è solo perché il desiderio cresca; non esaudisce perché la dilazione lo dilati; non dà ciò che chiediamo, perché lo purifichiamo e chiediamo non più un dono, ma lui in dono. L’aridità nella preghiera serve a rendere puro il desiderio e a romperne ogni argine, perché diventi capace di ricevere, oltre ogni dono, il Donatore stesso che desidera donarsi.La pedagogia del Padre ci fa passare dai bisogni che abbiamo al bisogno che siamo. Se abbiamo bisogno dei suoi doni, siamo soprattutto bisognosi di lui. Dalla ricerca delle consolazioni del Padre, dobbiamo passare a cercare il Padre delle consolazioni. Quando non cercheremo più noi stessi in lui, troveremo lui stesso in noi. Saremo figli che amano e conoscono il Padre come da lui sono amati e conosciuti.Questo brano ci esorta ai grandi desideri, che ci fanno capaci del grande Dono. Bisogna avere ali di aquila ed eccedere ogni misura umana, fino a puntare su Dio stesso. Dobbiamo desiderare lui stesso, per essere ciò che siamo e non possiamo essere senza di lui. Oggi c’è una falsa umiltà, con modelli a basso profilo e costi non elevati, in modo da evitare illusioni e delusioni. Ma in realtà è superbia, che ci suggerisce di aspirare solo a ciò che è possibile a noi. L’umiltà vera si eleva fino a concepire l’inconcepibile, e accoglie il dono impossibile di Dio. Per questo la “tapinità” assoluta di Maria attrasse l’altissimo sulla terra e generò Dio stesso. Il desiderio è sempre di ciò che manca: è necessariamente dell’altro, e solo l’altro può soddisfarlo.Queste parole di Gesù ci esortano a chiedere, per ricevere ciò che lui già ci ha dato nel pane: lo Spirito santo. È il nuovo principio vitale, che ci fa entrare nel “sì” eterno del Figlio alla compiacenza del Padre. Ma su questa terra non deve mai cessare la nostra preghiera di richiesta, per partecipare in misura sempre maggiore alla gioia di Dio.

2. Lettura del testo

v. 9: “chiedete”. Bisogna chiedere. Però non come i pagani, che credono di essere esauditi a forza di parole (Mt 6,7). Questa è magia o sfiducia di ottenere; chiediamo invece con la libertà e la fiducia dei figli (Mc 11,24).Il Padre sembra restio a dare, perché non dà ciò che uno vuole, ma ciò che “ci vuole”: lo Spirito santo, per compiere la sua volontà (22,42). In genere chiediamo a Dio che diventi soddisfazione dei nostri bisogni. Chi invece lo conosce come Padre sa che, pur saziandoli in tempo opportuno (12,30), desidera piuttosto farci scoprire e colmare il nostro bisogno essenziale, che è l’essergli figli.Per questo la nostra richiesta, anche fiduciosa, resta a lungo non esaudita: ci nasconde i suoi doni, perché cerchiamo lui, fonte di ogni bene. Così passiamo dal ruscello alla sorgente. Ciò è bene per lui, perché l’amore altro non desidera che essere desiderato; ed è ottimo per noi, che diventiamo noi stessi cercando lui, salvezza del nostro volto e nostro Dio (Sal 42,12).

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Fine di ogni dono è mettere in comunione chi dà con chi riceve. Tutto il creato non è altro che l’anello di fidanzamento di Dio all’uomo, segno del suo amore, piccolo pegno del grande dono di sé. Per questo non bisogna mai appagarsi nei doni, ma cercare sempre il donatore. L’uomo è troppo grande per bastare a se stesso (Pascal): è immagine di Dio. Desideri più piccoli lo fanno una freccia scoccata da un arco allentato: fallisce il proprio fine. Perché l’uomo diventa ciò che desidera. La più grande ingiustizia che gli si può fare è quella di ridurlo ai bisogni che ha. A differenza dell’animale, egli è infelice anche e soprattutto quando li ha soddisfatti tutti. C’è in lui un inalienabile bisogno: il “desiderio naturale di vedere Dio”, che lo fa essere quello che è, trovando in lui il proprio volto. La nostra cultura, borghese o meno, comunque materialista e con obiettivi terra terra, castra l’uomo della sua essenza. Tutta la pedagogia di Dio è invece un gioco a nascondino: si scopre e si copre, si concede e si nega, per tener vivo all’infinito un desiderio che deve crescere all’infinito. Secondo Gregorio di Nissa, tale gioco d’amore non finirà neanche nella vita eterna: parla di epéktasis, come estensione di un desiderio sempre più grande. stimolato da un appagamento che lo alimenti senza fine.Amore e desiderio infatti si nutrono reciprocamente. L’amore è cibo che non nausea: saziando produce fame per la gioia della sazietà che porta; è acqua che delizia: dissetando, fa crescere il piacere di berla. La sorgente è infinita e ne attingiamo in proporzione alla sete. S. Teresa d’Avila detesta la falsa umiltà, che impedisce di “nutrire grandi desideri, voler imitare i santi e desiderare il martirio” (Vita. 13,4). L’uomo è un esule figlio di re. Solo se ne ha coscienza può tornare nella sua terra, dove è di casa. La “nostalgia” (= dolore del ritorno) è la forza del cammino.

“vi sarà dato”. Mentre il chiedere è al presente, l’esaudimento è al futuro. Il dono viene dopo il desiderio. Nel v. 10 invece l’esaudimento è in parte presente e in parte futuro. Qui inoltre il verbo è al passivo, per non fare il nome di Dio, nominato solo alla fine come il Padre del cielo che dà lo Spirito. Il verbo “dare” (con la sfumatura di “dare dall’alto” nei vv. 11.12) si aggancia al pane che “darà” l’amico che dorme e si risveglia (v. 8). Lo Spirito è lo stesso dono del Padre e del Figlio che ci si dà come pane e vita nostra. Dio, per definizione, è colui che dà gratuitamente (cf. 6,27-38), amore che si comunica attraverso i suoi doni, fino al dono totale di sé.

“cercate e troverete”. Il chiedere è di chi ha capito che solo il Padre può soddisfare il bisogno. Il cercare è di chi sa che il Padre ha già donato. Infatti si cerca ciò che c’è. Ma la ricerca non è soddisfatta fino a quando non si trova la sorgente del dono, che va cercata perché ci è ancora nascosta. Il Cantico dei Cantici è tutto una lettura della storia come ricerca di Dio: “Voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato ma non l’ho trovato” (Ct 3,1-3; 5,6; ecc.). Si desidera poter dire: “Trovai l’amato del mio cuore. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò” (Ct 3,4). A dir la verità, l’uomo, più che cercare Dio, si è nascosto da lui. È Dio che lo cerca. Tutta la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse, non parla che dell’amore folle di Dio che stuzzica l’uomo perché lo ami, lo cerchi e dica alfine: “vieni!” (Ap 22,17).La vita umana è comunque ricerca, perché bisogno e desiderio. Ciò che si trova, dipende da ciò che si cerca!

“bussate e vi sarà aperto”. La tensione chiedere/essere dato fa scoprire il vero bisogno: colui che dà! La tensione cercare/trovare conduce davanti alla porta dell’amico. Qui bisogna bussare, perché nel suo sonno e nel suo risveglio abbiamo il pane necessario per vivere. In realtà è lui che sta alla porta e bussa: “se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Non è l’amico che dorme, ma io. Egli sta fuori e dice: “aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia, perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce

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notturne” (Ct 5,2). Il cielo si è aperto su Gesù battezzato in preghiera per lasciar scendere lo Spirito (3,21s). Da allora è sempre aperto su ogni battezzato che prega.

v. 10: “Perché: chiunque chiede, prende”. Si dice che chi chiede, “prende” ciò che è “dato” (v. 9). Sono chiare allusioni all’eucaristia, il pane dell’amico risvegliato dal sonno. Il futuro: “sarà dato” e “troverete” nel v. 9 diventano, dopo la richiesta e la ricerca, un dono presente che si “prende” e si “trova” ora. Ma la porta “verrà aperta” solo alla fine. Per ora, misteriosamente, si apre solo per concederci il pane e lo Spirito che in esso si dona. Questo è quanto ora ci basta, per chiedere cercare e bussare a quella porta che solo allora resterà aperta, quando sarà compiuto il lungo cammino.

v. 11: “pane/pietra”. Vedi la prima prova di Gesù (4,3s), quando peregrinò nello Spirito per il deserto. È la stessa del battezzato: quella del bisogno e della fame. Ma Dio sembra che non ascolti, e dia pietra invece di pane. In realtà questa è la maschera della nostra durezza di cuore. Lui invece è la roccia della nostra salvezza. È il nostro Padre: espande la sua tenerezza su tutte le creature, provvede per ciascuna il cibo a suo tempo (Sal 145,9.15), e non lo nega neanche ai piccoli del corvo che gridano a lui (Cf. 12,24; Sal 147,9).Se sembra che non esaudisca e dia pietre, è per rafforzare la fede e il desiderio di lui (Dt 8,3). Non il suo cuore, bensì il nostro è di pietra. Il pane dell’amico morto e risorto ce ne darà uno di carne, colmo del suo Spirito di Figlio (Cf. Ez 36,26ss).

“pesce/serpe”. Il serpente è il nemico di Gn 3: nascosto, subdolo e dalla bocca mortifera, si mimetizza, cambia pelle e colpisce. Il pesce è l’amico, il Cristo che vive anche nelle acque profonde della morte. Il nemico proietta su Dio la propria maschera. Questa menzogna verrà vinta dal dono dell’amico che affronta l’abisso per nostro amore.Lentamente, nella preghiera che sembra non esaudita e pure continua con fiducia, si spurga il veleno dei nostri idoli - esattamente tutto ciò che il Padre non esaudisce! - e siamo nutriti del pane che ci conforma all’amico e ci associa al suo cammino.

v. 12: “uovo/scorpione”. L’uovo è il principio da cui germina la vita. Lo scorpione è come la vita stessa, che ha il veleno alla fine. Infatti la morte avvelena mortalmente la vita fin dal principio.Il pane dell’amico che si sveglia - la sua morte e il dono del suo Spirito di verità - ci libera la vita dalla paura della morte (Eb 2,14ss).

v. 13: “che siete cattivi”. Pur nella nostra cattiveria, portiamo l’immagine e il desiderio del Padre. La nostra paternità, per quanto scadente, è sempre un’ombra di quella di Dio (Ef 3,15).

“darà lo Spirito santo” (Mt 7,11: “cose buone”). È il dono, principio di ogni cosa buona, di cui fu ricolmo il Figlio nel battesimo. È lo Spirito d’amore che lo rende Figlio misericordioso come il Padre. Dopo essere andato incontro a tutti i fratelli, alla fine si consegna al Padre, carico di tutta l’umanità perduta e ritrovata, e le apre la porta del Regno: la paternità di Dio (23,43-46). Nel suo sonno ha dato per noi la vita per farci il dono della sua vita: lo Spirito santo, amore suo e del Padre. Esso segna l’inizio della missione di Gesù in obbedienza al Figlio, che lo invia a portare lo stesso pane fino agli estremi confini della terra.Lo Spirito e il pane, dono del Padre e dell’amico, ci rendono partecipi della loro vita di amore reciproco. È quanto Dio voleva darci fin dal principio. Ci aveva creati per unirsi a noi in un unico amore di Padre verso il Figlio. Ora, grazie al pane, fatti figli nel Figlio, per il dono dello Spirito,

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gridiamo: “Abbà”. È vinto il demonio muto (v. 14), che ci aveva tolto quella parola che esprime la verità di Dio come Padre e la nostra come suoi figli.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando il luogo dove Gesù ha insegnato a pregare.c. Chiedo ciò che voglio: chiedo di chiedere, cercare e bussare - sapendo davanti a chi sto quando chiedo, cerco e busso - per ottenere il dono dello Spirito.d. Medito su ogni singola parola di Gesù.

4. Passi utili

Sal 16; 145; 147; Lc 18,1-8.9-14; At 1,14; 2,1-11.

71. GIUNSE SU DI VOI IL REGNO DI DIO

(11,14-26)

14 E stava scacciando un demonio (ed egli era) muto.Ora avvenneuscito il demonio,parlò il mutoe si stupirono le folle.15 Ora alcuni di loro dissero:con Beelzebul, il capo dei demoni, scaccia i demoni.16 Ora altri, tentando,chiedevano da lui un segno dal cielo.17 Ora egli, conoscendo i loro pensamenti,disse loro:Ogni regno diviso contro se stessoè devastatoe cade casa su casa.18 Ora se anche il Satanafu diviso contro se stesso,come reggerà il suo regno?Poiché dite che con Beelzebulio scaccio i demoni!19 Ora se con Beelzebul

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io scaccio i demoni,i vostri figlicon chi scacciano?20 Per questo essi saranno vostri giudici! Ora se col dito di Dioio scaccio i demoni,allora giunse su di voiil regno di Dio!21 Quando il forte, armato,custodisce il suo palazzo,i suoi possessi sono in pace.22 Ora se uno più forte di lui, sopravvenuto, l’ha vinto,prende il suo armamentoin cui confidavae distribuisce le sue spoglie.23 Chi non è con meè contro di me;e chi non raccoglie con me,disperde.24 Quando lo spirito impuro è uscito dall’uomo, vaga per luoghi senz’acqua cercando riposo,e, non trovando, dice:Ritornerò nella mia casa, da dove uscii.25 E, venuto, la trovaspazzata e adorna.26 Allora va,prende con sé altri sette spiritipiù cattivi di lui,ed entrati, abitano lì;e diventa l’ultima condizione di quell’uomo peggiore della prima.

1. Messaggio nel contesto

Nella preghiera al Padre domandiamo quel pane di domani, dono dell’amico che già riposa, da dare all’amico ancora in viaggio (vv. 3.5-8): è l’eucaristia, amore ricevuto che ci abilita ad amare. In essa, preghiera infallibilmente esaudita, otteniamo lo Spirito santo (vv. 9-13), che ci libera dallo spirito muto (v. 14; cf. Mc 9,29!) e ci fa dire: “Padre”. Siamo così pienamente guariti dalla sordità a quella parola che costituisce la nostra verità di figli nel Figlio.Questa guarigione santifica il suo nome di Padre: finalmente lo riconosciamo e proclamiamo tale. Inizia così il suo Regno, che viene sulla terra quando la nostra lingua è in grado di sciogliersi nella lode

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del suo nome. Il pane, che fa circolare in noi la vita del Figlio, ci autorizza a dire questa parola che fa di noi il regno dei figli.Per il dono dell’eucaristia, al dominio dello spirito impuro succede quello dello Spirito di Dio. Essa apre l’amore del Padre e del Figlio a tutti i fratelli e libera in tutti i cuori la parola del Regno (vv. 15-22). È il compimento della missione di Gesù. Il suo passaggio tra noi è tutto un’opera del “dito di Dio” per salvare l’uomo e condurlo a questa comunione di vita con lui. Il Figlio è “il più forte”, che ci strappa dalle mani del nemico e ci restituisce al Padre. Per questo “essere con lui” è raccogliere i frutti della vita, “essere contro di lui” è perdersi (v. 23). Stare “con lui” è la decisione che ci salva perché ci rende figli: ci dà la nostra essenza.Finché viviamo nel tempo, tale decisione è sempre instabile e insidiata dal nemico (vv. 24-26). È vero che con il pane e lo Spirito è venuto in noi il Regno; però “chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor 10,12). L’ultima domanda che facciamo al Padre è che ci preservi dal cadere nella tentazione (v. 4b), e che continui a liberarci dal male e dal maligno (Mt 6,13). Le ostilità non sono ancora finite. La lotta che il Figlio condusse contro Satana nel deserto, ora continua nei figli che sono condotti dallo stesso Spirito (4,1; cf. Rm 8,14). La sua forza fu lo Spirito del Padre che lo chiamò: “Figlio mio prediletto” (3,22); la nostra forza è lo stesso Spirito del Figlio, ricevuto nel battesimo, che ci fa gridare: “Abbà” (Rm 8,14ss; Gal 4,4ss). E come lui alla fine del cammino si consegnò al Padre (23,46), così il fine della nostra vita è ricondurla tutta all’abbandono filiale in lui.Per questo il centro è il v. 23: essere con Gesù significa essere nel Regno, avere lo Spirito del Figlio; essere contro di lui significa esserne fuori, ancora schiavi dello spirito muto che ci impedisce la parola che ci fa liberi. Il seguito del Vangelo è un’opera di discernimento per distinguere i due spiriti, contro ogni tentativo di confusione.

2. Lettura del testo

v. 14: “uscito il demonio, parlò il muto”. A Pentecoste gli apostoli, che prima erano muti, cominciarono a parlare. L’eucaristia realizza lo stesso mistero. Il pane e lo Spirito ci permettono di dire la parola “Padre”, per la quale è fatta la bocca e il cuore dell’uomo. Nel dono dell’amico che dorme e si alza è vinta la nostra sordità che ci impedisce di parlare: riconosciamo l’amore sfacciato di Dio che ci dà il Figlio per darsi a noi come Padre.Lo spirito muto, da cui lo Spirito ci guarisce, è quello del serpente, che ci rubò dalla bocca la parola che ci fa essere ciò che siamo. Per la sua menzogna l’uomo non sentì più la paternità di Dio, e non seppe più esprimere la sua filialità nella fraternità. Si spense in lui la luce della vita: si sentì dal nulla e per il nulla, figlio e fratello di nessuno. Relegato nel potere delle tenebre e preda della morte, si fece cooperatore della sua paura! Gesù entrerà in questo abisso per incontrare tutti i suoi fratelli che vi erano caduti e ridonerà loro la parola che santifica il nome del Padre e porta nel regno dei figli.

v. 15: “con Beelzebul, il capo dei demoni, scaccia i demoni”. Da che spirito viene l’azione di Gesù? Non riconoscerlo e giudicarlo impuro è peccato contro lo Spirito santo, che è il suo (Mc 3,29; cf. Gv 8,38). I nemici gli prestano il loro spirito cattivo, presumendo per sé quello buono. Si può pensare che la bestemmia contro lo Spirito (cf. Mc 3,29) sia questa presunzione di avere quello buono e non essere disposti a convertirsi. È quanto fanno i farisei: sono dei ciechi che credono di vedere. Per questo non possono essere guariti (Gv 9,41). Peccato non è tanto il male che si fa, quanto il non ammetterlo per giustificarsi. Il vero peccato è difendersi giudicando cattivo l’altro, addirittura l’Altro! Fu già l’inganno del serpente che fece cadere Adamo, facendogli ritenere bene il male e male il bene. Tale confusione è il contrario dello spirito di Dio, che opera la vita, distinguendo con la Parola (Gn 1).

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v. 16: “tentando, chiedevano da lui un segno dal cielo”. Le tentazioni che Gesù subì nel deserto, prima di tornare tutte insieme nell’“ora” (4,13; 22,53; 23,35-39), escono alla spicciolata durante la sua vita. Il nemico usa la maschera dei vari nemici che, come lui, chiedono segni divini e di potere. Ma, pretendere che lui ascolti i nostri desideri invece di obbedire noi ai suoi, è il capovolgimento della fede, che irrita Dio (cf. Es 17,7). L’obbedienza alla sua parola vale più di tutti i segni: è la fede che ci genera figli. Se Dio ne dà, è solo in vista di questa (cf. v. 29). Essi non serviranno per il credente, ma ne accompagneranno l’azione per portare altri a credere. Chi pretende segni, non ottiene perché non ha fede. Chi invece si fida, come chiede e ottiene dal Padre ciò che è necessario per il Regno, così è in grado di dare ad altri quei segni che la sua provvidenza ritiene utili.Comunque il “segno dal cielo” che Dio dà, non è mai di potenza, ma di umiltà. È la croce (cf. v. 30). Non ne darà nessuno più grande perché non può. Lì infatti dona tutto se stesso, e ci si rivela come amore per noi. Le varie interpretazioni millenaristiche del Regno sono un “tentare” Gesù, come se dovesse darci qualcosa di più importante di quanto ci ha dato: la sua vita come amore per il Padre e per i fratelli. Questo e non altro è il Regno. Noi qui ne vediamo sempre e solo la semina, il Padre già vede il raccolto. Al segno dal cielo si contrappone quello di Giona (v. 30).

v. 17: “regno diviso/devastato”. La divisione è il principio della fine, sia nel bene che nel male. Essa porta alla devastazione, letteralmente alla “desertificazione”. Infatti l’Eden fu ridotto a deserto per colpa della menzogna che divise i figli dal Padre. La divisione nasce sempre da una “confusione”, che è il contrario della “distinzione”.

v. 18: “Satana fu diviso”. Il male ha un’unità interna più monolitica di quella del bene, perché non deve rispettare la verità e la libertà altrui. Inoltre conserva la sua coesione senza particolare difficoltà, perché possiede mezzi preventivi, repressivi ed esecutivi, quali la menzogna e la violenza, di cui il bene non può disporre, neanche contro il male!Se il Satana è diviso, significa che sta per finire il suo regno. Lo confermano, senza volerlo, gli stessi nemici di Gesù. Egli, prima di confutare l’interpretazione maligna, fa forza sulla constatazione del fatto che si impone anche a loro. Vincere lo spirito del male è il primo obiettivo della sua missione (10,18), per donare all’uomo il suo Spirito di Figlio.

v. 19: “i vostri figli con chi scacciano”. Ogni vittoria sullo spirito di menzogna e di egoismo non può essere che nella forza dello Spirito di verità e di vita (cf. 9,49s). In esso anche gli esorcisti giudei scacciano i demoni.

v. 20: “col dito di Dio”. (cf. Dt 9, 10; Es 31,18; Sal 8,4). Spirito, potenza e mano di Dio sono sinonimi: esprimono il suo amore che agisce per la salvezza dell’uomo. Mentre la mano indica la potenza, il “dito” indica la raffinatezza e la bellezza di ciò che opera: è l’azione accurata e amorevole dell’artigiano, preciso ed esperto nel suo lavoro. Con “il dito di Dio” Gesù ricostruisce nell’uomo il suo volto di figlio, più bello di com’era prima e diverso da qualunque altro: è la trasfigurazione (9,29; 2Cor 3,18s). Questa è l’opera dello Spirito santo - digitus paternae dexterae - che ci viene comunicato nel pane dell’amico.

“giunse su di voi il regno di Dio”. Il Regno è un dono che ci proviene dall’alto: ci viene dal Padre nel Figlio suo Gesù. Fino a quando non giunge lui, il “più forte”, restiamo sempre sotto il dominio del forte. La vittoria da lui compiuta su Satana, è lo stesso Regno che ci precede e ci viene offerto.

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La casa dell’uomo era occupata dal nemico a causa del peccato. Ora viene liberata da Gesù, e il peccatore può tornare a “casa sua” nel regno del Padre da cui era fuggito (cf. 5,24.25.29!).

v. 21: “Il forte, armato, custodisce il suo palazzo, i suoi possessi”. Satana ha vinto nel primo ogni uomo. Il suo veleno ha ucciso la parola “Abbà” nel suo cuore e ha relegato Adamo e tutti i suoi figli in esilio, lontano dal Padre. Egli è “il forte”, “armato” della sua arma vincente, la menzogna mortale. Con questa fa la guardia al suo “palazzo”, che altro non è che l’agglomerato delle abitazioni di tutti gli uomini che ha fatto fuggire dal luogo della loro verità. I suoi “possessi” sono estesi quanto l’effetto della sua parola: abbraccia tutti i regni della terra (4,6)! L’uomo ha abdicato in suo favore, dandogli il potere su tutto, che Dio gli aveva conferito (Gn 1,28). Non è pensabile nessuna insurrezione o tentativo di ribellione, perché lui è il principe delle tenebre. Dall’interno non può mai spuntare il giorno della libertà. Ma sorgerà il sole ed entrerà la luce “per rischiarare tutti quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte” (1,79).

v. 22: “uno più forte di lui, sopravvenuto, l’ha vinto”. Gesù il “più forte” preannunciato dal Battista (3,16), è il sole che viene dall’alto (1,78) per vincere il regno delle tenebre. La sua vittoria è automatica, come quella della luce sulla notte. Può sottrarsi solo chi chiude gli occhi nella cecità volontaria (Gv 9,41). Sul momento però chiunque viene dal buio avverte il sole come nemico. Il suo occhio si chiude e resiste ad aprirsi, addolorato e accecato dalla luce. Ma, presto o tardi, si aprirà, quando si accorgerà di non vederci per colpa propria. La vittoria di Cristo è certa. Ciò che chiediamo al Padre: “venga il tuo Regno”, è già venuto nel Figlio. Basta che lo accettiamo, desiderando e chiedendo, cercando e bussando.

“armamento”. Il “più forte” spoglia Satana di tutte le sue armi nella sua nudità in croce. Lì smaschera il nemico e fa vedere all’uomo il male della sua menzogna e il bene che Dio gli vuole.

“le sue spoglie”. Gesù spoglia il ladrone che aveva spogliato l’uomo che scendeva da Gerusalemme (10,30). Restituisce a questi ciò che gli fu tolto e gli dona di poter dire: “Abba”. Così riprende la sua vera veste, l’immagine del Figlio; e rientra nella sua casa, l’eredità del Padre.

v. 23: “Chi non è con me...”. Per entrare nel regno del Padre bisogna essere con il Figlio, avere il suo Spirito. Diversamente si resta nello spirito di morte, sotto il dominio di Satana. Lo stare “con” Gesù qualifica la vita presente (8,2; cf. Mc 3,14) e futura del discepolo (cf. 1Ts 4,17!). Chi non è con lui è ancora fuori di sé nelle mani del nemico. Essere “con lui” è il principio per discernere di che spirito siamo.

v. 24: “Ritornerò nella mia casa”. Satana, anche se è caduto dalla sua posizione di dominio, cerca di riprenderlo quel poco che può. La lotta continua nella nostra vita, come già in quella di Gesù. Verso la fine, ci sarà il terribile colpo di coda del drago morente. Per questo chi persevererà fino alla fine, sarà salvo (21,19).Gesù ci dice di stare attenti per non tornare dal Padre della luce al padre della menzogna. Il nemico, non rassegnato alla sconfitta che poi sa essere definitiva (cf. commento a 10,18), è furibondo. Anche se in gabbia, è un leone ruggente che cerca chi divorare. Bisogna resistergli nella “fede” (1Pt 5,8s), per non ricadere nella schiavitù di prima (cf. Gal 3,1; 5,1.13). Lo si vince semplicemente non avendone paura e tenendo salda la fiducia nel Padre.

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v. 25: “spazzata e adorna”. L’uomo, già dimora dello spirito immondo, è ora ripulito e abbellito. Ripulito dal lavacro del battesimo, abbellito dalla bellezza del Figlio mediante il pane e lo Spirito.

v. 26: “sette spiriti”. Colui che fin dal principio ebbe invidia di Adamo (cf. Sap 2,24!), a maggior ragione ha invidia di colui che è ancora più bello, come il nuovo Adamo. Per questo cerca di entrarci con maggior desiderio e maggior forza di menzogna. L’invidia, principio di morte (Sap 2,24), è il contrario della lode: ci fa contristare invece che gioire del bene altrui. Se uno invidia, fa del paradiso l’inferno; se uno loda, fa dell’inferno il paradiso.

“peggiore della prima”. Non accettare la salvezza di Gesù e imputarla al nemico è il peccato contro lo Spirito, per il quale non c’è perdono, se non ci si converte. Il ritorno alle tenebre dopo l’illuminazione è un peccato ancora più grande: è la caduta dalla fede (cf. Eb 6,4-6; 10,26ss). Tra i Dodici, Giuda è preso come esempio di questa situazione peggiore di prima (22,3; At 1,16-20). All’interno della prima comunità vedi l’esempio di Anania e Saffira (At 5,1-11). Che quest’ultima condizione non sia il rifiuto definitivo della luce!

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la scena di Gesù che scaccia lo spirito muto.c. Chiedo ciò che voglio: chiedo di essere libero dallo spirito muto, e di restare libero, stando sempre con Gesù.d. Traendone frutto, guardo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:- demonio muto- l’accusa contro Gesù- il segno dal cielo- il regno diviso- vittoria sul demonio come venuta del Regno- chi non è con me, è contro di me- ritorno del demonio.

4. Passi utili

Mc 3,22-30; 9,14-29; Eb 6,4-6; 10,26-40.

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72. BEATI QUANTI ASCOLTANO LA PAROLA DI DIO E CUSTODISCONO

(11,27-28)

27 Ora avvenne:mentre egli diceva questolevando la voceuna donna dalla follagli disse:Beatoil ventreche ti portòe le mammelleche succhiasti!28 Ora egli disse:Anzi, beatiquanti ascoltano la parola di Dio e custodiscono.

1. Messaggio nel contesto

Le folle erano piene di stupore per la parola restituita al muto (v. 14). Una donna è presa da stupore per chi ha generato colui che restituisce la parola, e proclama beata sua madre. Gesù estende tale beatitudine a chiunque lo ascolta.Come da seminatore divenne il seme (8,11), così ora Gesù che annuncia la Parola diviene la Parola che lo annuncia. Si passa dal tempo di Gesù a quello della chiesa. Essa, nell’ascolto e nella custodia della Parola, si fa contemporanea a lui, attuale all’oggi del Figlio che realizza il regno del Padre. È come Maria, figlia fedele di Sion, che genera nel tempo la parola eterna del Padre da cui è generata come figlia.Gesù è il centro del tempo. Come nel passato i profeti e i re desideravano lui che doveva venire, così nel futuro tutti i credenti desidereranno lui che è venuto. Egli è la realtà prima attesa e poi compiuta, la realizzazione della Parola che da profezia si è fatta ricordo e racconto.Gesù è il verbo eterno di Dio, promesso nell’Antico e trasmesso nel Nuovo Testamento. Tutto il passato sboccia in lui, germoglio del tronco antico; tutto il futuro matura in lui, suo frutto pieno. In lui il regno del Padre è aperto a tutti, perché egli fa fiorire sulla bocca di tutti la parola “Abbà”.Quanto i suoi contemporanei ebbero il privilegio di vedere e di udire, resta ancora a noi accessibile nella parola su di lui. Non siamo svantaggiati nei loro confronti. Infatti, “anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2Cor 5,16). La nuova e vera conoscenza di Gesù è l’ascolto della sua parola.In questo breve dialogo ci viene indicato il passaggio che la fede deve operare in ciascuno di noi. La donna, invece di invidiare Maria, è chiamata a imitarla: la sua vera realtà di madre di Dio è ascoltare e custodire la Parola (cf. “ascoltare” e “fare” di 8,21).

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La generazione del Figlio, che è dall’eternità nell’amore del Padre, avviene nel tempo nell’obbedienza di chi ne ascolta e custodisce la Parola. Questi, mentre genera il Figlio nel tempo, è generato all’eternità come figlio del Padre. L’uomo infatti è generato dalla parola che ascolta, fatto dalla Parola che fa.Il Verbo, fatto carne in Gesù, è tornato ad essere Parola per farsi carne in chi l’ascolta. Il pane e lo Spirito (vv. 5-13) ce ne danno la possibilità.

2. Lettura del testo

v. 27: “mentre diceva questo”. Gesù sta parlando del Regno che è venuto. Esso si realizza proprio nella sua parola che va ascoltata come parola di Dio, che opera in quanti credono (1Ts 2,13).

“una donna”. Questa donna, presa da ammirazione per la madre di Gesù, rappresenta la chiesa di Luca, che ha una santa invidia per quanti hanno conosciuto Gesù secondo la carne. Bisognerà invece passare dalla sua carne alla sua parola, perché s’incarni in noi.

“Beato”. Già Elisabetta aveva esaltato la maternità di Maria, dicendo: “Beata te che hai creduto” (1,45). Essa aveva compreso che la fede è la vera beatitudine della “madre del mio Signore” (1,43). Questa donna non ancora. Come i profeti e i re guardavano in avanti, così essa guarda indietro con desiderio. Rischia di fermarsi alla sterile nostalgia del temporibus illis. Ignora che la fede nella Parola compie l’impossibile: non solo ci rende contemporanei di Gesù, ma ci concede di incarnarlo oggi. Il suo sentimento, pure devoto, la distoglie dalla fatica storica di un’obbedienza, che genera e fa crescere nel tempo la Parola. Questa maternità non è onore riservato a qualcuno, bensì onere di ciascuno. Tutti infatti siamo chiamati ad ascoltare la Parola e darle corpo nella nostra carne.

“ventre/mammelle”. Della maternità fanno parte sia il generare del ventre che il far crescere delle mammelle. Il ventre, che accoglie il seme, è l’ascolto che fa concepire la Parola. Le mammelle, che nutrono ciò che fu concepito, sono l’attiva custodia, il ricordo di ciò che è ascoltato, perché cresca fino alla misura piena. È una distinzione analoga all’accogliere e al crescere della Parola di 8,15, all’ascoltare e al fare la Parola di 8,21.

v. 28: “Anzi, beati”. La vera beatitudine di Maria non consiste in quanto dice la donna come sua prerogativa unica, bensì nel fatto che essa anticipa in sé ciò che Dio dona a ogni credente. Gesù estende qui alla chiesa la beatitudine che Elisabetta disse di Maria: “Beata te che hai creduto” (1,45). Veramente feconda è la maternità di Maria, da riprodurre in tutti i credenti e in tutti i tempi.Perché la vera beatitudine è Gesù: egli, Verbo eterno del Padre e Parola fatta carne nell’obbedienza, è tornato Parola nell’annuncio per incarnarsi in quanti l’accolgono.

“quanti ascoltano”. Maria fu la prima che ascoltò e disse: “Eccomi” (1,38). La sua maternità, prima che nel ventre, fu nell’orecchio e nel cuore. Essa obbedì, e per questo fu madre. La sua stessa beatitudine è quindi di chiunque accoglie il seme della Parola.

“la parola di Dio”. Per l’ascolto di Maria il Verbo di Dio si è fatto sua carne. L’ascolto, come lo fu all’inizio, così resta per tutto il tempo successivo il principio dell’incarnazione.

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“custodiscono”. Come ascoltò e concepì, così conservò e fece crescere la Parola nel suo cuore (2,19.51!). Se la vera beatitudine del ventre è quella dell’orecchio che ascolta la Parola, la vera beatitudine delle mammelle è quella del cuore “bello e buono”, che custodisce questa Parola e produce frutto con perseveranza (8,15). L’orecchio è il principio dell’ascolto, il cuore è il principio della crescita: custodita nel ricordo costante, la Parola cresce, fino a trasformare in sé tutto l’uomo.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando la folla e il grido della donna che da essa si leva.c. Chiedo ciò che voglio: fare dell’ascolto e del ricordo del vangelo il principio della mia vita.d. Contemplo la scena, immedesimandomi nei sentimenti della donna e sentendo la risposta di Gesù.

4. Passi utili

Lc 1,26-38.39-45; 2,19.51; 8,19-21; 10,23s; 1Gv 1,1-4; 1Pt 1,23; 1Ts 2,13.

73. IL SEGNO DI GIONA

(11,29-32)

29 Ora, accalcandosi le folle,cominciò a dire:Questa generazioneè una generazione maligna:segno cercae segno non le sarà datose non il segno di Giona.30 Poiché come Giona fusegno per i niniviti,così sarà anche il Figlio dell’uomoper questa generazione.31 La regina di Notosi desterà nel giudiziocon gli uomini di questa generazionee li condannerà,perché venne dai confini della terraper ascoltare la sapienza di Salomone;ed ecco più di Salomone qui.32 Gli uomini di Ninive

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si leveranno nel giudiziocon questa generazionee la condanneranno,perché si convertironoall’annuncio di Giona;ed ecco più di Giona qui.

1. Messaggio nel contesto

Non dobbiamo avere invidia della generazione dei contemporanei di Gesù. Pur avendo visto, non ne hanno ascoltato la parola; invece di dare segno di obbedienza, hanno addirittura preteso che lui obbedisse loro, esibendosi con ulteriori segni. Egli rifiuta di darne, perché egli stesso è un segno come lo fu Giona: segno della misericordia di Dio per tutti, tanto efficace che perfino i niniviti si convertirono al suo annuncio.Quanto Gesù ha detto e fatto costituisce l’anno di grazia e la salvezza offerta a ogni carne (3,6). La sua parola pone chi l’ascolta davanti al Salvatore. Invece di chiedergli segni, bisogna convertirsi al kerygma, cioè all’annuncio della sua morte e risurrezione per noi. Nessun segno sostituisce la fede; tutti portano ad essa, e in essa, in qualche modo, finiscono. Quando ci fidiamo di Dio, non gli chiediamo più delle prove; cominciamo invece a dargli fiducia. Il vero segno della fede è quindi la nostra conversione alla sua parola. Quanto Gesù ha fatto è sufficiente per credere che con lui è finito il regno di Satana e iniziato quello di Dio. La Parola che lo annuncia nella potenza dello Spirito (At 1,8), è capace di aprire il cuore (At 16,14b) e riempirlo della nuova sapienza, quella del Figlio rivelata ai piccoli (10,21). Nel brano seguente (vv. 33-36) vedremo come essa è luce che illumina chi l’ascolta e lascia nelle tenebre chi la rifiuta. Dio concede come segno definitivo l’annuncio della sua misericordia. Così rispetta sia la libertà dell’uomo, che può aderire o meno alla proposta, sia la propria verità di amore, che non può non rispettarla. Altri segni di tipo spettacolare, che costringono all’assenso, sono rifiutati come tentazioni. L’amore esige, anzi crea libertà! Chi ama è sempre esposto al rifiuto: pur di non costringere l’altro, muore lui stesso di passione non corrisposta. Ma proprio così dà, oltre ogni segno, la realtà di un amore assoluto e senza condizioni. La Parola, che ci chiama alla conversione, è l’annuncio di questo amore rifiutato e crocifisso per noi.Dio non ci può dare nessun segno più grande di questo. Pretenderne altri, è non aver capito chi è lui e cos’è la fede. Dio è amore, e la fede è accettare questa sua prova di amore. La vera sapienza è convertirsi all’annuncio. Non ci sono altri segni di sapienza e di potenza (1Cor 1,17-25). Chiave del brano è la parola “segno”, che gioca un ruolo determinante nel rapporto con Dio, come in ogni comunicazione. L’importante è saperlo leggere e cogliere la realtà che significa.

2. Lettura del testo

v. 29: “Questa generazione”. L’espressione, di sapore negativo, sulla bocca di Gesù indica la generazione dei suoi contemporanei. Per Luca è ogni generazione successiva che si rende a lui contemporanea nell’annuncio. È costituita da tutte quelle persone religiose che cercano miracoli (1Cor 1,22).

“generazione maligna”. È ancora sotto lo spirito del maligno, perché maligna su Gesù (v. 15) e chiede segni (v. 16), invece di convertirsi all’annuncio.

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“segno cerca”. Il popolo malvagio e ribelle a Massa e Meriba chiede a Dio dei segni, perché non crede al suo amore e non si fida di lui: “il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7). Se la fede è obbedire a Dio, la sua perversione è pretendere che lui obbedisca a noi. Per quattro volte si parla di “segno”. Esso, di sua natura, è un rimando a un’altra realtà, come il fumo al fuoco o il cartello indicatore a ciò che è indicato. Giunti alla realtà indicata, di per sé cessa, perché finisce nella realtà che indica e finisce la sua funzione di indicare. Solo lo stolto, se gli indichi la luna, continua la guardarti la punta del dito.È giusto che ci siano segni per indicare qualcosa che va oltre il nostro orizzonte; però è sbagliato sia fermarsi ad essi invece che andare oltre, sia cercarne ancora quando si è giunti a ciò che indicano.Per questo Dio concede dei segni per farci giungere alla fede. Ma poi cessano. Chi ne cerca ancora, non solo non accetta la fede, ma se ne allontana, perché instaura con Dio un rapporto di ricatto invece che di fiducia. Quanta gente, anche oggi, è ansiosa di segni... e scarsa di fede... anche se con tanta devozione!Inoltre bisogna notare che Dio concede solo quei segni che rispettano la sua verità e la nostra libertà. Questi hanno le caratteristiche della povertà, dell’umiliazione e dell’umiltà (cf. 1Cor 1,17-25; 2Cor 8,9; Fil 2,5-11). Segno definitivo è la croce, la teoria (= contemplazione) di Dio (23,48) dove vediamo la verità del suo amore che ci fa liberi (Gv 8,32). Egli nega invece quei segni che tolgono la libertà e puzzano di egoismo e di morte: la ricchezza, il potere e la superbia (4,1-13; 11,16; 23,35-39). Nega anche quei segni che vengono “pretesi”, perché ogni pretesa allontana dal dono (cf. 4,23; cf. Mc 8,11s).

“il segno di Giona”. Tutti i segni che Dio concede in Gesù si riassumono nel segno di Giona che tutti li interpreta. Cercarne altri è una “tentazione” (v. 16).

v. 30: “Giona fu segno per i niniviti”. Giona fu segno di un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore, che si lascia impietosire (Gio 4,2). Ciò di cui egli suo malgrado fu segno, è la realtà stessa che Gesù è venuto a portare (5,31s; 6,27-36; 10,30-37; c. 15; 19,10; ecc.). Il Figlio dell’uomo, consegnato nelle mani degli uomini (9,44), è il dono totale della misericordia di Dio. Esso è offerto ai contemporanei di Gesù e a tutte le generazioni successive nell’annuncio della sua morte e risurrezione. Questa parola esterna è accompagnata da un segno interno: Dio stesso muove il nostro cuore ad aprirsi alla fiducia e alla speranza di quanto è annunciato, rimuovendo l’incredulità e la sfiducia che viene dalle nostre paure e dal nemico.

v. 31: “La regina di Noto”. 1Re 10,1-10 narra della regina di Saba, che venne dagli estremi confini del mondo, per conoscere la sapienza di Salomone. Anche questa pagana si può annoverare tra coloro che hanno desiderato vedere ciò che i contemporanei di Gesù hanno visto (10,24). E l’ha visto, di riflesso, come in uno specchio, nella sapienza di Salomone che costruì il tempio a Dio.

“ed ecco più di Salomone qui”. Mentre Salomone ebbe in dono la sapienza, Gesù è la sapienza stessa. Essa resta velata alla pretesa di chi cerca segni di potenza o di argomentazione. Si rivela nella debolezza e nella stoltezza del suo amore crocifisso. Come resta nascosta a giudei e greci, è invece manifestata ai piccoli che si convertono ad essa (10,21s; cf. 1Cor 1,17ss).

v. 32: “si leveranno nel giudizio”. Nel giorno del giudizio, si dice dei niniviti che si “leveranno”, come della regina di Saba che si “desterà”. “Destarsi” e “levarsi” sono le parole stesse che indicano la risurrezione del Signore, alla quale saranno associati quanti ricercarono la sapienza e si convertirono.

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“condanneranno”. La loro conversione suona accusa contro chi non ha accettato la venuta del Regno. La condanna non verrà dal Figlio dell’uomo, ma dal nostro rifiuto di convertirci.La salvezza dipende dalla nostra risposta all’annuncio di misericordia. Esso interpella la nostra libertà e ci fa responsabili, abilitati a rispondere.

“si convertirono all’annuncio”. La salvezza nel giudizio è la conversione all’annuncio (= kerygma: cf. At 2,38-40) di colui che è ben più di Salomone e di Giona.

“più di Giona qui”. Giona annunciò controvoglia la conversione; Gesù invece dice: “Per questo sono venuto” (5,32; 19,10; cf. Sal 40,8). Giona mediò a malincuore la misericordia; Gesù invece è questa stessa misericordia.

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù incalzato dalla folla in cerca di segni.c. Chiedo ciò che voglio: credere e affidarmi al suo amore crocifisso per me.d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù.

Da notare:- generazione maligna- cercar segni- segno di Giona- sapienza di Salomone- convertirsi all’annuncio di Giona.

4. Passi utili

Es 17,1-7; Ml 3,13-15; Gio 4,1-11; 1Re 10,1-10; Lc 2,12; 1Cor 1,17-25.

74. DISCERNI CHE LA TUA LUCE NON SIA TENEBRA

(11,33-36)

33 Nessuno una lampada accesa mette in un nascondiglio,(né sotto il moggio)ma sopra il lampadario, perché quanti entranovedano la luce.

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34 La lampada del tuo corpoè il tuo occhio:se il tuo occhioè sempliceanche l’intero tuo corpo è luminoso, se inveceè cattivo,anche il tuo corpo è tenebroso.35 Discerni dunqueche la luce,quella in te,non sia tenebra.36 Se dunque il tuo corpoè tutto luminoso,senza alcuna parte tenebrosa, sarà luminoso tutto, come quando la lampada col fulgore ti illumina.

1. Messaggio nel contesto

Gesù ha appena detto che l’unico segno concesso è quello di Giona ai niniviti: l’annuncio e la conversione alla misericordia di Dio. Ora parla per ben undici volte della luce, con termini diversi (lampada, lampadario, luce, luminoso, fulgore, illuminare). Chi si converte passa dalle tenebre alla luce; diviene lui stesso una lampada accesa, destinata a illuminare anche gli altri (v. 33; cf. 8,16; At 1,8). Ognuno però veda innanzitutto se è acceso o spento (v. 34), e poi discerna bene tra luce e luce - perché c’è anche una luce tenebrosa (v. 35)! - fino a quando tutto sarà trasfigurato in luce (v. 36). La luce in Israele è sia Dio che la sua parola come norma di vita. Ora è Gesù stesso, il Signore morto e risorto. L’uomo accende la sua lucerna convertendosi al suo annuncio.Gesù nega segni a chi li richiede (v. 29), ma ne dà uno nuovo a chi si converte: è l’illuminazione concessa a chi si riconosce cieco e bisognoso di essere guarito. In altre parole: l’unica bontà necessaria per convertirsi è la propria cattiveria ammessa con semplicità di cuore. Il fariseo, che si ritiene giusto e non sente il bisogno di conversione, si esclude dal banchetto (15,28) e resta nella notte del peccato (18,14; 7,29-35). Il peccatore, che riconosce la sua tenebra e chiede la misericordia, entra nella luce. Gesù infatti è venuto proprio per “chiamare i peccatori a conversione” (5,32; 19,10). Una caratteristica del Gesù di Luca è quella di voler persuadere i giusti a riconoscersi peccatori, in modo da poter essere salvati (vedi 15,25-32: il fratello maggiore; 18,9-14: il fariseo e il pubblicano).Le tematiche di questo brano sono due, strettamente connesse. La prima è missionaria (v. 33): il discepolo non dimentichi la responsabilità di illuminare anche gli altri che “entrano” nella casa del Padre. La seconda è esortativa (vv. 34-36): per illuminare bisogna essere illuminati. Si è quindi chiamati a discernere bene la luce dalle tenebre, in un processo di purificazione continua.Sembra che l’intento del brano sia analogo a quello di Gv 9,41: scoprirsi ciechi per invocare la guarigione, riconoscersi cattivi per convertirsi. Paradossalmente, per essere “luminosi” bisogna riconoscersi tenebrosi. Diversamente si rimane ciechi che credono di vedere e rifiutano la luce.

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Questa conversione al kerygma è il segno indubitabile che Gesù concede ai credenti: divenuti luminosi, sono in grado di vedere segni che prima non vedevano e di diventare segno per gli altri.

2. Lettura del testo

v. 33: “Nessuno una lampada accesa, ecc.” (cf. 8,16). Gesù è la luce del mondo (Gv 8,12), e il discepolo è la lampada accesa a tale luce mediante il battesimo (Ef 5,14). Essa è destinata a illuminare tutti gli uomini, “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8), perché tutti giungano alla “conoscenza” dei misteri del Regno (8,10) e possano, nella rivelazione del Figlio (10,21s), dire “Abbà”. Il discepolo badi bene a non occultare la luce e sottrarsi alla sua responsabilità davanti al mondo (“cristiano dell’assenza”). Questo non vuol dire che deve entrare in concorrenza con il mondo, facendo un altro mondo a sé e per sé, che è ancora... tutto mondano (“cristiano della presenza”). Deve invece essere in questo mondo testimone della luce del suo Signore, convertendosi a lui e portando gli altri a fare lo stesso (“cristiano della mediazione”).Per questo bisogna che si confronti di continuo con Gesù, per associarsi al suo mistero di povertà, umiliazione e umiltà.Solo così vince il male dell’egoismo, del potere e della superbia, e trasfigura la terra mediante l’amore del Padre. La chiesa è una lampada che illumina gli altri solo se è accesa alla luce del Cristo morto e risorto. Essa vive nel mondo come il suo Signore, perché vive di lui. Vi entra pienamente, ma con spirito non mondano. L’autenticità e la testimonianza, l’identità e la rilevanza della fede sono strettamente connesse. La priorità sta nell’autenticità e nell’identità che rende umili, poveri e mansueti come il Signore. Da qui scaturisce la testimonianza e la rilevanza agli occhi del mondo. Se la sorgente è inquinata da potere, superbia e arroganza, ogni sua attività è nociva. Infatti ciò che sei parla più forte di ciò che dici. La candela non si preoccupa di illuminare. Semplicemente brucia; e, bruciando, illumina.

v. 34: “lampada del tuo corpo è il tuo occhio”. Quello che è la lampada per la casa, è l’occhio per il corpo: la finestra, attraverso cui entra la luce. L’occhio del discepolo non è come quello di coloro che “guardando non guardano” (8,10). È invece come quegli occhi che Gesù chiama beati, perché vedono lui (10,23). Egli infatti è la luce (Gv 1,9) che entra dalla finestra e illumina il cuore. L’occhio è collegato al cuore: gli trasmette le cose da desiderare, e ne trasmette il desiderio, volgendosi alla ricerca di ciò che ama. È la porta attraverso cui il cuore riceve e dà.

“se il tuo occhio è semplice”. Semplice è l’occhio che riconosce il suo unico bisogno: la luce. Per quest’occhio sta scritto: “svegliati, o tu che dormi, destati dai morti, e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14). Si contrappone a “cattivo”. La cattiveria è la mancanza di semplicità propria di un cuore chiuso nei suoi idoli: si volge a cercare con ansia i suoi amori, e non riconosce il suo unico bisogno.L’occhio cattivo esprime un cuore cattivo, refrattario alla luce, che si nasconde e trincera in complicazioni e doppiezze per non riconoscersi tale e non convertirsi. È il cuore di Adamo, che si nasconde da Dio e si giustifica con varie ragioni “profonde”: paura, nudità, donna e... Dio stesso (Gn 3,10.12). La vera cattiveria non è tanto il male che si ha o si fa, quanto il giustificarsi per paura di un Dio ritenuto cattivo.

“l’intero tuo corpo è luminoso”. L’occhio semplice riconosce insieme il proprio male e l’amore di Dio. Questa è la conversione che rende luminoso il suo corpo e cambia la vita, trasfigurandola secondo il volto stesso del Signore. Chi si volge a lui, viene illuminato (Sal 34,6). L’economia della

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salvezza ha il suo apice nella trasfigurazione. Come il legno acceso diventa fuoco, così il corpo, materia opaca, diventa luce, e l’uomo stesso è fatto Dio. Il prodigio dell’incarnazione del Verbo si estende a tutti coloro che ne ascoltano la parola. Questa “informa” (= dà forma) l’uomo, diventando per lui nuovo principio di vita e di azione: “Alzati, sii di luce, poiché viene la tua luce” (Is 60,1)

“se invece è cattivo, anche il tuo corpo è tenebroso”. L’occhio cattivo, preferendo le tenebre alla luce (Gv 3,19), resta nella propria cecità: “guardando non guarda” (8,10), perché chiuso nel buio che vuol difendere. La sua cattiveria non è tanto la cecità: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato” (Gv 9,41a). L’occhio da solo, non vede: per essere se stesso, ha bisogno di luce. Così l’uomo, per essere se stesso, ha bisogno di Dio. Questa, lungi dall’essere una menomazione, è la sua dignità! Il vero male dell’uomo è quella menzogna che lo porta a voler vivere senza Dio: “siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41b). Il corpo tenebroso è l’esistenza di chi, intento a cercare il proprio io e a giustificarsi, non si converte alla luce di Dio.

v. 35: “Discerni dunque che la luce, quella in te, non sia tenebra”. Bisogna discernere bene, perché c’è una luce “tenebrosa”. È quella del fariseo, che si chiude nella trappola dell’io, e resta nella notte dell’autogiustificazione. È la falsa sicurezza di chi si ritiene giusto per non accettare il perdono, di chi copre la propria miseria per non accogliere la misericordia. L’esterno, bello lustro e ripulito, è apparenza che camuffa l’interno pieno di rapina e cattiveria (v. 39!). Questa luce oscura è il peccato radicale e la radice dei peccati: è il “fariseismo”, sempre presente in ciascuno di noi (vv 37-54!) È un misto di stupidità e di orgoglio, frutto della menzogna originaria che ci ha portato a credere di doverci difendere da Dio.Ultimo a morire, questo peccato insidia sempre anche il credente, in forma più sottile degli altri: “chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor 10,12). Il discernimento è indispensabile.Buon discernimento è quello che porta a riconoscere la propria cecità e chiama a conversione. Il fariseo Saulo, “irreprensibile” nella sua giustizia religiosa (Fil 3,6), scoprirà che la sua luce è tenebra. La luce del Risorto gli farà vedere la propria cecità, e ne farà “un vaso eletto” per testimoniarlo davanti a tutto il mondo (At 9,1-19).

v. 36: “Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza alcuna parte tenebrosa, ecc.”. Il discernimento e la vigilanza ci portano a una conversione continua. Questa dissolve progressivamente le tenebre che sono in noi, e “tutto” il nostro corpo diventa luminoso, a immagine di quello di Cristo. L’obbedienza alla Parola ci rende come lui, il Figlio eletto (9,35).L’esistenza cristiana, nata alla luce mediante il battesimo, è un crescere della luminosità del corpo. È una vita che rivela il volto del Padre, conformandosi a lui mediante la misericordia che ci rende suoi figli (6,35.36).La parola del Vangelo rimane per la chiesa un invito alla conversione continua per discernere la propria cecità e per chiedere la luce della misericordia. L’occhio si fa sempre più limpido e il cuore sempre più puro, fino a quando sarà dissolta ogni tenebra. Allora saremo immersi nel fuoco del Signore e capaci di illuminare.L’ultimo miracolo di Gesù è l’illuminazione del cieco di Gerico (18,35ss). Seguirà la guarigione dell’orecchio di Malco (22,51), così che anche i nemici abbiano modo di ascoltare ciò che ormai il discepolo vede e testimonia con la sua luce.La funzione dell’esame di coscienza e del discernimento è quella di scamparci dal giudizio (cf. 1Cor 11,28-32), facendoci riconoscere peccatori e bisognosi di misericordia fino alla fine.

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“col fulgore ti illumina”. Di mano in mano che “come folgore” cade il potere delle tenebre che tutto ha in mano (cf. 10,18), l’uomo si accende di luce e diventa sfolgorante: lascia trasparire la gloria di Dio, come la veste di Gesù nella trasfigurazione (9,29). Il fine del mondo è l’incontro con il Signore, che verrà repentino, potente e luminoso “come una folgore” (17,24). Questo finale splendido è anticipato in ogni discepolo che, avendo ammesso con semplicità la propria tenebra, si converte e accoglie con gioia la luce senza frapporre resistenza. Se in noi c’è ancora un velo di tenebre, “quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,16.18). Per questo facciamo bene a volgere l’attenzione alla parola dei profeti, che ci chiamano a conversione. È come una “lampada che brilla in luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2Pt 1,19).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando le folle che si accalcano attorno a Gesù.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscere la mia tenebra e convertirmi alla sua luce.d. Confronto le parole del Signore con la mia vita.

Da notare:- la lampada accesa- nascondiglio/lampadario- occhio semplice/occhio cattivo- luce tenebrosa- corpo tutto luminoso.

4. Passi utili

Gv 9,1-41; Mt 5,14-16; 6,22s; Lc 9,28-36.

75. AHIMÈ PER VOI! SARA CHIESTO CONTO A QUESTA GENERAZIONE

(11,37-54)

37 Ora, mentre parla,gli domanda un fariseo di pranzare presso di lui; ora, entrato, si sdraiò. 38 Ora, il fariseo,

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visto, si stupìche prima non si fosse lavato prima del pranzo!39 Ora il Signore disse a lui:Ora voi, i farisei,purificate l’esterno del calice e del piatto, e l’interno vostro è colmo di rapina e cattiveria.40 O stolti,colui che fece l’esterno non fece anche l’interno?41 Invecedate in elemosinaquanto è dentro,ed eccotutto è puro per voi.42 Ma ahimè per voi, i farisei,che pagate la decima sulla menta,sulla ruta e su ogni ortaggio,e trasgredite il giudizioe l’amore di Dio.Ora questo bisognava faree quello non trascurare.43 Ahimè per voi, i farisei,che amate il primo seggio nelle sinagoghee i saluti nelle piazze.44 Ahimè per voi,che siete come i sepolcri,quelli non manifesti,e gli uomini che camminano sopranon lo sanno.45 Ora, rispondendo,uno dei legisti gli dice:Maestro,dicendo questoinsulti anche noi.46 Ora egli disse:Anche per voi, i legisti,ahimè!perché caricate gli uominidi carichi insopportabilie voi stessi neanche con un vostro dito toccate i carichi.47 Ahimè per voi,perché costruite i sepolcri dei profeti:ora i vostri padri li uccisero.

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48 Quindi siete testimonie consentite con le opere dei vostri padri: perché essi li uccisero,e voi costruite.49 Per questo anche la sapienza di Dio disse:Invierò loro profeti e apostoli;ma li uccideranno e perseguiteranno.50 Sì che a questa generazionesia chiesto conto dei sangue di tutti i profeti, versato dalla fondazione del mondo,dal sangue di Abele51 fino al sangue di Zaccariaucciso fra l’altare e la casa.Sì, vi dico:Sarà chiesto conto a questa generazione.52 Ahimè per voi, i legisti,che avete levato la chiave della conoscenza: voi stessi non entrastee tratteneste quanti entravano.53 E, uscito di là,cominciarono gli scribi e i farisei a prendersela terribilmente e a provocarlo a parlare su più cose54 insidiandolo, alla caccia di qualcosa dalla sua bocca.

1. Messaggio nel contesto

Nei vv. 29-32, a chi domanda dei segni per credere in lui, Gesù dichiara che bisogna convertirsi all’annuncio di chi è ben più di Salomone e di Giona. Nei vv. 33-36, al discepolo che continua la sua missione annunciando ad altri la salvezza, ribadisce che innanzitutto deve essere lui stesso convertito dalla Parola. Nel v. 35 gli dice in particolare di saper ben discernere tra la luce luminosa e la luce tenebrosa. Mentre la luce luminosa viene dalla conversione alla parola del Signore, vera giustizia e vera sapienza, quella tenebrosa è la falsa giustizia del fariseo (vv. 37-44) e la falsa sapienza del legista (vv. 45-54). Il problema della giustizia della Legge in rapporto al vangelo di misericordia è presente nella chiesa fin dall’inizio, e si acutizza proprio nel momento della missione al mondo. Non a caso il brano inizia con “entrare” (v. 37) e termina con “uscire” (v. 53), le due parole che Gesù usa nel suo duplice discorso missionario per indicare il cammino degli apostoli e dei Settantadue (9,43; 10,8.10).I farisei e i legisti di sempre, credenti o atei (oggi ne esistono anche di atei!), identificano la salvezza con la propria giustizia e la propria legge. Questo problema è preso di mira in modo particolare da Paolo dopo la sua conversione. Vedi le lettere ai Galati, ai Romani e Fil 3,1ss. Negli Atti degli apostoli se ne tratta dal c. 9 fino al c. 15. Alla giustizia, impossibile da ottenere mediante la Legge, è subentrata la giustificazione mediante la misericordia di Dio nella croce di Gesù (Fil 3,9).Così, mentre i farisei e i legisti trasgrediscono la volontà salvifica di Dio su di loro, i pubblicani e i peccatori sono i figli della sapienza, perché riconoscono e accettano la misericordia di Dio.

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Il brano contiene sei “ahimè!”, tre per i farisei e tre per i legisti. Non c’è il settimo, perché i sei precedenti dovrebbero bastare per convertire tutti, in modo che, al suo posto, ci sia la beatitudine di colui al quale è perdonato il peccato (Sal 32,1ss), perché ha creduto alla Parola (1,45). È la beatitudine di Saulo, fariseo e legista: guarito dalla cecità, diventa maestro dell’agápé, e accoglie tutti come il suo Signore (At 28,30). Anche i giusti e i sapienti sono chiamati alla luce della verità comunicata agli infanti. Dio vuole salvare proprio tutti i suoi figli!Per i farisei ci vuole molta compassione, perché sono vittime della falsa sapienza. Dopo la menzogna del peccato originale, essa è diffusa quanto l’ignoranza di Dio: abita ogni uomo e sta all’origine di tutti i mali.Nella tradizione orientale la preghiera per ottenere l’illuminazione suona così: “Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Combinazione della richiesta del cieco con quella del pubblicano (18,13.38), è l’invocazione che illumina le tenebre, perché convince la giustizia di peccato e la sapienza di cecità.Luca ci tiene molto a smascherare il fariseo che si annida nel credente, perché non decada dalla grazia del battesimo. Si rivolge infatti a “Teofilo”, perché non dimentichi, anzi si consolidi nella dottrina del Salvatore.

2. Lettura del testo

v. 37: “un fariseo”. Fariseo significa “separato”. Questa separazione dal resto del mondo è da lui desiderata e fatta per potersi costruire un mondo a parte, in cui vivere con purezza secondo tutte le esigenze esplicite e implicite della Legge. Il fariseo in Luca ha due caratteristiche: “presume di essere giusto”, e “nientifica gli altri” (18,9). A questo ne aggiunge una terza, comune a tutti: ama il denaro (16,14), senza il quale nessuna presunzione è in grado di farsi valere! Egli si vanta davanti a Dio e agli uomini, rubando la gloria di Dio e disprezzando i fratelli. È uno che ha sostituito la misericordia di Dio con la propria impeccabilità. Invece di porre Dio e il suo amore al proprio centro, ha posto se stesso e l’amore della propria figura al centro di tutto. Anche Dio è funzionale alla sua bontà!Il fariseo è il “nemico” per eccellenza del Gesù di Luca, scriba mansuetudinis Christi. È quindi particolarmente amato, secondo il comando del Signore (6,27.35). Il Vangelo di Luca pare scritto apposta per convincere i giusti di peccato in modo da convertirli e salvarli insieme con i peccatori (vedi particolarmente il discorso centrale: 6,20-49; vedi inoltre: 5,27-32; 7,29-35.36-50; 10,25-37; 15,1ss; 16,1-9.19-31; 19,1-10). Questa conversione deve continuare sempre nella chiesa; diversamente si chiude al mondo verso il quale è inviata e a colui dal quale fu inviata. Il problema di sempre è passare dalla legge giusta che condanna, all’amore gratuito che giustifica. Il passaggio è tremendamente duro per il giusto presunto, che nega misericordia a sé e agli altri; è invece facile per chi, guarito dalla cecità, conosce la propria miseria.

“di pranzare presso di lui”. In tutti gli altri pasti, assieme ai farisei sono presenti anche i peccatori. Qui invece no. Per il fariseo il peccatore è Gesù che trasgredisce le abluzioni; per Gesù è il fariseo che non conosce il suo peccato. È lo scontro diretto e frontale tra miseria e misericordia, che in 7,36-50 è mediato dalla peccatrice. Il Signore accetta sempre l’invito a pranzo dei farisei, anche se finisce sempre per andare di traverso a lui e a loro. Il pasto di cui si parla è quello di mezzogiorno; quello della sera, che si protrae nella notte, è più intimo, riservato ai familiari e agli ospiti amici. Per questo si dice che i farisei invitano Gesù a “mangiare” (7,36) o a pranzo, ma non a cena (cf. Ap 3,20). Levi il peccatore invece fa addirittura “un gran ricevimento” per lui (5,29); Zaccheo, presso il quale Gesù si era autoinvitato per “rimanere”, lo “accoglie” e se ne fa carico come di un ospite (19,5.6).

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v. 38: “lavato prima del pranzo”. Qui si usa la parola greca baptízein, “battezzarsi”, cioè immergersi, per indicare il lavarsi. È un gesto di purificazione prima di ricevere degnamente il cibo, che è dono di Dio. Gesù non si lava con l’acqua, perché ben diverso è il suo “battesimo”, come ben diverso è il suo cibo. Infatti si immergerà nell’obbedienza alla parola di misericordia fino alla morte (12,50), e il suo cibo sarà bere il calice della volontà del Padre, ricolmo del suo sudore di sangue (22,42-44). Questo suo battesimo è la vera purificazione del discepolo e di ogni uomo che, riconoscendosi peccatore, accetta l’invito al banchetto che il Padre ha imbandito a tutti. Il fariseo è sempre contrariato dal fatto che Dio non discrimini e offra il suo dono anche agli immondi (cf. Gio 4,1ss). Altrove “borbotta” (5,30; 15,1) o “sragiona” (5,22); qui si meraviglia. È una sua reazione naturale contro tutto ciò che sa di condiscendenza verso l’impuro.

v. 39: “il Signore”. Gesù è solennemente chiamato così (cf. 7,13; 10,1), perché. con tutta la sua potenza divina, cerca di compiere l’opera più difficile di tutta la creazione: chiamare a conversione il giusto, convincendolo del suo peccato e della propria misericordia!

“esterno/interno”. Il comportamento esterno del fariseo è ineccepibile, se vuole gloriarsi davanti a Dio e davanti agli uomini. Ma la sua giustizia è solo presunta davanti a Dio. Infatti ciò che è la luce per l’occhio, è la misericordia di Dio per il cuore dell’uomo. La luce del fariseo, per quanto fulgida all’esterno, all’interno è tenebrosa. Rapina e cattiveria sono il veleno mortale che sta dentro i recipienti lustri della sua mensa: rapina nei confronti della gloria di Dio e cattiveria nel confronto degli altri uomini. Discerne bene solo chi riconosce questa sua tenebra, e accetta il segno di Giona (vv. 29.32), cioè la conversione. Questo discernimento è necessario nella missione, Perché la chiesa resti realmente la casa del Padre che Gesù ha aperto a tutti i fratelli. Essa ha come modello la casa dell’ex-fariseo Paolo: un luogo non proprio (è in affitto, probabilmente da un pagano!), aperto a tutti, dove si annunzia il Regno e si fa conoscere il Signore Gesù con parresia e senza impedimento. È la prospettiva con la quale Luca finisce tutta la sua opera indirizzata a “Teofilo” (At 28,30)!

v. 40: “O stolti”. La stoltezza è il contrario del discernimento. Confonde le tenebre con la luce e volge in male anche il bene, facendoci usare la Legge per autogiustificarci, invece che per invocare misericordia. Così pretendiamo di salvarci per opera del nostro peccato! La prima stoltezza dell’uomo fu credere all’inganno che gli fece pensare male di Dio e rifiutare di essere da lui e per lui. La seconda stoltezza fu nascondersi per paura di non essere perdonato. La terza e ultima stoltezza è pensare, per vanagloria, di non averne bisogno e di essere autosufficienti. Questa è la cecità del fariseo. Non è un peccato per l’occhio non vedere senza la luce, bensì voler vedere senza di essa. Il suo bisogno di luce è addirittura ciò che lo fa se stesso. Per questo il peccato, secondo Gv 9,41, non è la cecità, ma il credere di vederci.

“colui che fece l’esterno non fece anche l’interno?”. Significa che tutto è opera di Dio, e quindi buono (cf. At 10,15; Mc 7,19b). La distinzione tra bene e male passa attraverso il cuore dell’uomo. Se questo è nella rapina e nella cattiveria, tutto è immondo, come un sepolcro; se è nella misericordia e dà in elemosina tutto, allora tutto è mondo, perché resta nel circolo della vita.

v. 41: “date in elemosina quanto è dentro”. A una luminosità esteriore Gesù contrappone la luce del dono e della misericordia che viene dal di “dentro”. Paolo gettò via ogni suo tesoro come un’immondizia, di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo, suo Signore (Fil 3,8).

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L’elemosina è l’aspetto materiale della misericordia. Per essa, la “ricchezza ingiusta” diventa buona: da possesso, che ci divide dal Padre e dai fratelli, torna a essere dono, che riceviamo e doniamo. L’elemosina in Israele è dovere di giustizia - siamo in un’economia di sussistenza - perché siamo tutti fratelli. Essa “salva dalla morte” che è nel cuore dell’uomo “e purifica da ogni peccato” (Tb 12,9), perché ci rende misericordiosi come il Padre (6,36).

v. 42: “pagate la decima”. Pagare le decime è offrire una parte dei prodotti ai fratelli per indicare che tutto viene dal Padre (Dt 26,1-15). La legislazione di Israele codifica questa economia del dono, con le prescrizioni sulle decime, sui poveri e sull’anno sabbatico (Dt 14,22-15,18; 26,1-15).Il fariseo, almeno all’esterno, riconosce il dono di Dio anche nelle cose minime. In realtà, all’interno, egli rapina addirittura la gloria di Dio ed è cattivo con i fratelli.

“trasgredite il giudizio e l’amore di Dio”. La parola “giudizio” in Luca esce solo quattro volte: 10,14; 11,31.32.42. Qui il giudizio è associato all’amore. Infatti la norma del giudizio è la misericordia: il giudizio giusto consiste nel non giudicare, non condannare e nel dare (cf. 6,36ss). Esattamente il contrario di quanto fa il fariseo.

“questo bisognava fare e quello non trascurare”. Chi ama compie tutta la Legge (Rm 13,10), anche quella sulle decime, proprio perché riconosce che tutto è dono della misericordia di Dio e dà tutto ciò che ha.

v. 43: “amate...”. Invece di amare Dio e il prossimo, il fariseo ama se stesso con tutto il cuore, con tutto l’animo, ecc.: si mette al centro di tutto, facendo dell’io il suo Dio.

v. 44: “sepolcri... non manifesti”. I sepolcri venivano imbiancati per segnalarli, così che la gente non contraesse impurità camminandovi sopra. I farisei sono sepolcri non segnalati. Paradossalmente sono segnalati come sepolcri da quella luce di cui si ammantano nella pretesa di sembrare giusti: la loro bontà è imbiancatura di sepolcro, la loro vita è oscurità di morte.

v. 45: “uno dei legisti”. È uno dei teologi dei farisei. Sono detentori del potere culturale; definiscono e programmano quanto gli altri devono fare per essere salvi!

v. 46: “caricate gli uomini di carichi insopportabili”. I legisti aggravano il giogo della Legge attaccandovi a rimorchio un carro di prescrizioni supplementari: è il carico pesante di chi ha la pretesa di salvarsi. Il giogo di Gesù invece è dolce e il suo carico leggero (Mt 11,30). La sua misericordia ci alleggerisce sempre di più, svuotandoci di ogni rapina e iniquità.

“neanche con un vostro dito toccate i carichi”. Le infinite disposizioni che i legisti escogitano, tocca ai farisei portarle. Gesù critica nel legista soprattutto il potere culturale: dice e non fa, esercitando il dominio su chi fa quanto lui dice. Se il legista si sforzasse di compiere quanto dice, come Paolo (cf. Fil 3,6), potrebbe almeno avvertirne il peso.

v. 47: “costruite i sepolcri dei profeti, ecc.”. Mentre i profeti annunciano la parola di Dio, i legisti la vanificano, soffocandola in infinite prescrizioni. Se i loro padri hanno ucciso i profeti per non convertirsi, questi uccideranno la Parola stessa. La loro sapienza è di perdizione: invece di aprire all’invocazione della misericordia, chiude nell’autosufficienza della presunzione.

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v. 48: “siete testimoni, ecc.”. I legisti, invece di essere testimoni della sapienza di Dio, portano a consumazione il mistero di iniquità dei loro padri, come loro e come tutti “insensati e tardi di cuore a credere a quanto dissero i profeti” (24,25).

v. 49: “la sapienza di Dio disse, ecc.”. La sapienza di Dio da sempre sa di essere perseguitata e uccisa: è la sapienza della croce, del bene che vince il male portandolo. È ciò che sta scritto in tutte le Scritture, in Mosè, nei Profeti e nei Salmi (24,44.27).

vv. 50.51: “a questa generazione sia chiesto conto del sangue”. Quest’espressione sottolinea come alla generazione di Gesù, il profeta e il giusto (cf. 23,47; At 2,23; 3,14; 7,52), verrà chiesto conto del sangue di tutti i giusti e di tutti i profeti, dall’inizio del mondo. Infatti il mistero di iniquità si consuma nell’ora della sua passione (22,53). Ma qui si compie anche il mistero della bontà del nostro Dio. L’“ahimè” che Gesù rivolge ai legisti, è veramente un “Ahimè per voi!”. Questo “ahimè” è la sua stessa croce, dove porta su di sé tutta la maledizione della Legge e paga il conto di ogni delitto nostro. Se il sangue di Abele, il primo giusto ucciso, grida dalla terra a Dio (Gn 4,10), quello di suo Figlio la lava da ogni macchia. Se Zaccaria, l’ultimo profeta ucciso, muore dicendo: “Il Signore veda e ne chieda conto” (2Cron 24, 20ss), Gesù crocifisso dirà: “Padre, perdona loro” (23,34). Anche Stefano, il primo figlio della sapienza, mentre viene ucciso dirà: “Signore, non imputare loro questo peccato” (At 7,60). La giustizia della Legge infatti denuncia e fa vedere il peccato davanti a Dio; la sapienza del vangelo invece lo perdona e se ne fa carico.

v. 52: “avete levato la chiave della conoscenza”. La chiave della conoscenza richiama “la casa della conoscenza” (bet hammidrash) o casa dello studio, dove si impara la parola di Dio. I legisti ne hanno in mano la chiave. Ma ne stanno fuori, e defraudano i semplici della conoscenza dei misteri.La parola “levare” significa, oltre che “togliere”, anche “uccidere” e “innalzare”. La chiave della conoscenza di quel Dio che è misericordia è la croce di Gesù, innalzato e tolto di mezzo proprio a causa della Legge. I legisti “tolgono” la chiave della conoscenza di Dio, perché danno l’immagine di un Dio senza misericordia. Ma la sapienza di Dio userà la loro insipienza: la croce che essi leveranno, sarà la chiave stessa offerta a tutti per entrare nella conoscenza di Dio.

vv. 53.54: “Cominciarono gli scribi e i farisei a prendersela terribilmente” Comincia a realizzarsi quanto è appena stato predetto. Gesù porta su di sé la maledizione della giustizia e della sapienza della Legge. Gli “ahimè”, ricadendo su di lui, lo porteranno al calvario e alla croce. Lì sarà dato a noi di vedere la theoria di Dio (23,48), che confonde la sapienza dei sapienti (1Cor 1,19). Per questo il legista Paolo dirà di non conoscere altro “se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2).

3. Preghiera del testo

a. Entro in preghiera come al solito.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che va a pranzo da un fariseo, senza lavarsi le mani.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere la tenebra che è nel mio cuore, e chiedere di essere purificato.d. Medito sulle parole di Gesù.

Da notare:- purificare l’esterno

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- interno colmo di rapina e cattiveria- date in elemosina- e tutto sarà puro- pagare la decima/trasgredire il giudizio e l’amore di Dio- amare i primi seggi- sepolcri- carichi insopportabili- costruire sepolcri- Dio chiede conto di tutto il sangue a questa generazione- sequestrare le chiavi della conoscenza- la reazione degli scribi e farisei.

4. Passi utili

Mc 7,1-23; At 10,1-15; Fil 3,1-16- Lc 18 9-14