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4 Israele e la coalizione araba del 1948 di Avi Shlaim “Una nazione - disse il filosofo francese Ernest Renan - è costituita da un gruppo di persone unite da una visione erronea del passato e dall’odio nei confronti dei propri vicini”. Attraverso i secoli, l’uso dei miti del passato è stato uno strumento molto potente per il processo di nation-building. Nel processo di formazione di una nazione, il movimento sionista non è stato l’unico a diffondere una versione semplificata e non proprio veritiera del passato; esso offre però un esempio straordinariamente efficace dell’uso di miti al duplice sco- po di promuovere l’unità interna e guadagnare simpatia e sostegno internazionali allo Stato di Israele. La versione tradizionale sionista del conflitto arabo-israeliano attribuisce tutta la responsabilità alla parte araba. Israele è dipinto come la vittima innocente dell’incessante ostilità e delle aggressioni arabe. A questo proposito i resoconti tradizionali sionisti sulla nascita di Israele rappresentano il naturale proseguimento della storia del popolo ebraico, con la sua enfasi sulla debolezza, vulnerabilità e inferiorità numerica degli ebrei rispetto ai loro avversari. Lo storico americano Salo Baron, di origine ebraica, si riferì una volta a tutto questo come alla lacrimosa versione della storia degli ebrei. Tale visione tende a presentare la storia ebraica come una lunga serie di sofferenze e tribolazioni che culminano nell’Olocausto. La guerra d’indipendenza ha rappresentato un glorioso contrasto a secoli di impotenza, persecuzioni e umiliazioni. Eppure, la tradizio- nale versione sionista degli eventi che hanno circondato la nascita di Israele era a quel tempo ancora costruita attorno all’idea degli ebrei come vittime. Tale narrativa presenta la guerra del 1948 come una

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Israele e la coalizione araba del 1948

di Avi Shlaim

“Una nazione - disse il filosofo francese Ernest Renan - è costituita da un gruppo di persone unite da una visione erronea del passato e dall’odio nei confronti dei propri vicini”. Attraverso i secoli, l’uso dei miti del passato è stato uno strumento molto potente per il processo di nation-building. Nel processo di formazione di una nazione, il movimento sionista non è stato l’unico a diffondere una versione semplificata e non proprio veritiera del passato; esso offre però un esempio straordinariamente efficace dell’uso di miti al duplice sco-po di promuovere l’unità interna e guadagnare simpatia e sostegno internazionali allo Stato di Israele.

La versione tradizionale sionista del conflitto arabo-israeliano attribuisce tutta la responsabilità alla parte araba. Israele è dipinto come la vittima innocente dell’incessante ostilità e delle aggressioni arabe. A questo proposito i resoconti tradizionali sionisti sulla nascita di Israele rappresentano il naturale proseguimento della storia del popolo ebraico, con la sua enfasi sulla debolezza, vulnerabilità e inferiorità numerica degli ebrei rispetto ai loro avversari. Lo storico americano Salo Baron, di origine ebraica, si riferì una volta a tutto questo come alla lacrimosa versione della storia degli ebrei. Tale visione tende a presentare la storia ebraica come una lunga serie di sofferenze e tribolazioni che culminano nell’Olocausto.

La guerra d’indipendenza ha rappresentato un glorioso contrasto a secoli di impotenza, persecuzioni e umiliazioni. Eppure, la tradizio-nale versione sionista degli eventi che hanno circondato la nascita di Israele era a quel tempo ancora costruita attorno all’idea degli ebrei come vittime. Tale narrativa presenta la guerra del 1948 come una

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semplice lotta bipolare, senza esclusione di colpi, fra un avversario arabo monolitico e malvagio e la piccola e pacifica comunità ebraica. L’immagine biblica di Davide e Golia è frequentemente evocata in questa narrativa. Il piccolo Israele è dipinto mentre, con le spalle al muro, combatte un imponente, ben armato e prepotente avversario arabo. La vittoria di Israele in questo conflitto è trattata quasi come un miracolo e come il risultato della determinazione e dell’eroismo dei combattenti ebrei, piuttosto che della mancanza di unità e della disorganizzazione degli arabi. Questa versione eroica della guerra d’indipendenza ha resistito per così tanto tempo alla revisione proprio perché corrisponde alla memoria collettiva della generazione del 1948. Essa costituisce anche la versione della storia che si insegna ai bambini nelle scuole. Vi sono quindi poche idee così profondamente radicate nella mente degli ebrei come quella riassunta dall’espressione ebraica: me’atim mul rabim - “i pochi contro i molti”.

Uno dei miti più persistenti che circondano la nascita dello Stato ebraico vuole che, nel 1948, il neonato Stato si trovasse ad affron-tare una monolitica e implacabilmente ostile coalizione araba. Si pensava che questa coalizione fosse unita da uno scopo principale: la distruzione del neonato Stato di Israele. Poiché non c’è un termine comunemente accettato per riferirsi all’eliminazione di uno Stato, Yehoshafat Harkabi, uno dei maggiori studiosi israeliani del conflitto arabo-israeliano, ha proposto di chiamarlo “politicidio” - assassinio della politeia, dell’entità politica. Lo scopo degli arabi, ha affermato Harkabi, era di natura politicida. Collegato a questo scopo, secondo Harkabi, ce n’era un altro: quello del genocidio - “gettare gli ebrei a mare”, come recita la famosa frase 1. La visione di Harkabi è solo un esempio di quella diffusa credenza secondo cui, nel 1948, l’Yishuv, la comunità ebraica pre-statale in Palestina, dovette affrontare non solo minacce verbali, ma anche un reale pericolo di annientamento da parte degli eserciti regolari degli Stati arabi confinanti. La vera storia del conflitto arabo-israeliano è in realtà molto più complessa, come hanno cercato di dimostrare i “nuovi storici” a partire dagli anni ottanta 2.

Ciò che si vuole dimostrare in questo capitolo, in poche parole, è che la coalizione araba che affrontò Israele nel 1947-49 era tutt’al-tro che monolitica; che all’interno di questa coalizione non vi era alcun accordo su uno scopo bellico; che l’incapacità degli arabi di coordinare le mosse diplomatiche e militari fu in parte la causa della

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loro sconfitta; che, durante il conflitto, Israele era militarmente in vantaggio sugli avversari arabi; e soprattutto che i leader israeliani erano ben consapevoli delle divisioni interne alla coalizione araba e le sfruttarono per muovere guerra ed estendere i confini del proprio Stato.

L’equilibrio militare

Per quanto riguarda l’equilibrio militare, si è sempre sostenuto che gli arabi godessero di un’eccezionale superiorità numerica. La guerra, perciò, è sempre stata dipinta come un conflitto di pochi contro molti, come una disperata, tenace ed eroica battaglia per sopravvivere a uno svantaggio terribilmente grave. La situazione disperata e l’eroismo dei combattenti ebrei non sono di certo in questione. Nè lo è il fatto che essi ebbero a disposizione meno armamenti, almeno fino alla prima tregua, quando l’illecito rifornimento di armi provenienti dalla Cecoslovacchia rovesciò decisamente la situazione a loro favore. A metà del maggio 1948, però, il totale delle truppe arabe regolari e irregolari che operavano in Palestina era inferiore a 25.000 unità, mentre l’Israel Defense Force (IDF) contava più di 35.000 soldati. Entro la metà di luglio, l’IDF mobilitò più di 65.000 uomini, ed entro dicembre il loro numero raggiunse il picco di 96.441. Anche gli Stati arabi rafforzarono i propri eserciti, ma non riuscirono a raggiungere quei livelli. Così, in ogni fase della guerra, l’IDF fu numericamente superiore a tutta le forze arabe schierate contro di esso e, dopo il primo round di combattimenti, le superò anche in armamenti. Il risultato finale della guerra, quindi, non fu il frutto di un miracolo, ma il fedele riflesso dell’equilibrio militare nel teatro palestinese. Come in quasi tutte le guerre, anche in questa prevalse la parte più forte 3.

Le forze arabe, sia regolari che irregolari, mobilitate per dare battaglia al nuovo Stato ebraico, non furono mai così potenti e unite come parvero essere nella propaganda araba ed ebraica. Durante la prima fase del conflitto - dalla risoluzione di partizione delle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, alla proclamazione dello Stato, il 14 maggio 1948 - l’Yishuv dovette difendersi dagli attacchi delle truppe irregolari palestinesi e dai volontari provenienti dagli Stati arabi. Dopo la proclamazione dello Stato di Israele, tuttavia, gli Stati arabi confinanti e l’Iraq impegnarono nella battaglia contro gli ebrei i loro eserciti regolari. Lo scontro con le forze regolari fu sicuramente uno

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shock per l’Haganah, l’organizzazione paramilitare dell’Yishuv, che era in procinto di essere trasformata nell’IDF. La propaganda ebraica, però, esagerò molto la dimensione e la qualità delle forze d’invasione. Quello che segue è un tipico resoconto della guerra d’indipendenza, scritto da un importante diplomatico israeliano: “Cinque eserciti arabi e contingenti da altri due [eserciti], provvisti di moderni carri armati, artiglieria e aerei da guerra… invasero Israele da nord, est e sud. Una guerra totale fu mossa all’Yishuv nelle condizioni più difficili” 4.

I cinque Stati arabi che presero parte all’invasione della Palestina furono Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq; i due contingenti provenivano invece dall’Arabia Saudita e dallo Yemen. Tutti questi Stati, comunque, inviarono in Palestina solo forze di spedizione, tenendo in patria la maggior parte dei propri eserciti. Le forze di spedizione furono ostacolate dalle lunghe vie di comunicazione, dall’assenza di informazioni affidabili sui loro nemici, da una leader-ship poco efficiente, dalla mancanza di coordinamento e di piani ben precisi riguardo alla campagna che dovevano affrontare. Gli irregolari palestinesi, conosciuti come Holy War Army (Esercito della Guerra Santa), erano guidati da Hasan Salama e ‘Abd al-Qadir al-Husayni. L’Esercito di Liberazione Arabo era formato da circa 4.000 volontari arabi per la Guerra Santa in Palestina. Essi furono finanziati dalla Lega Araba, addestrati nelle basi della Siria meridionale e guidati dal-l’avventuriero siriano Fawzi al-Qawuqji. I punti di forza di Qawuqji erano la politica e le pubbliche relazioni più che la leadership militare. I politici arabi che lo nominarono lo ritenevano un nemico molto noto - e quindi un potenziale contrappeso - del gran muftì Hajj Amin al-Husayni, piuttosto che uno dei più promettenti leader militari capaci di guidare la guerra contro gli ebrei. Il muftì certamente vide questa nomina come un tentativo dei suoi rivali nella Lega di indebolirne l’influenza sul futuro della Palestina 5.

La coalizione araba fu segnata al suo interno da profonde diffe-renze politiche. La Lega Araba, sin dal momento della sua fonda-zione nel 1945, rappresentò il forum più importante in cui discutere la politica panaraba in Palestina. Tuttavia, la Lega Araba era divisa fra un blocco hashemita composto da Transgiordania e Iraq e un blocco anti-hashemita guidato da Egitto e Arabia Saudita. Le rivalità dinastiche giocarono un ruolo fondamentale nel definire l’approccio arabo alla Palestina. Re ‘Abdullah di Transgiordania era guidato dalla vecchia ambizione di diventare il dominatore della Grande Siria,

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composta, oltre che dalla Transgiordania, da Siria, Libano e Palestina. Re Faruq considerava l’ambizione di ‘Abdullah una minaccia diretta alla supremazia dell’Egitto nel mondo arabo. I governanti di Siria e Libano vedevano in ‘Abdullah una minaccia all’indipendenza dei loro paesi e sospettavano anche che egli fosse in combutta con il nemico. Ogni Stato arabo era mosso dai propri interessi dinastici o nazionali. I governanti arabi erano interessati tanto a ostacolarsi l’un l’altro quanto a combattere il nemico comune. Data la situazione, era praticamente impossibile riuscire a raggiungere un accordo reale sui mezzi e sui fini dell’intervento arabo in Palestina. Di conseguenza, lungi dall’affrontare un unico nemico con uno scopo e un piano d’azione precisi, l’Yishuv si trovò di fronte a una coalizione non compatta formata dalla Lega Araba, da Stati arabi indipendenti, dalle forze irregolari palestinesi e da gruppi di volontari. La coalizione araba è stata una delle più divise, disorganizzate e instabili coalizioni della storia del warfare.

Dietro l’ipocrita affermazione di voler assicurare la Palestina ai palestinesi, si nascondevano in realtà interessi nazionali diversi e contrastanti. Il problema della Palestina rappresentò il primo e più importante test della Lega Araba, ed essa lo fallì miseramente. Le azioni della Lega furono usate dai palestinesi a sostegno della richiesta d’indipendenza per l’intera Palestina. La Lega, però, rimase strana-mente contraria al fatto che i palestinesi assumessero il controllo del proprio destino. Per ‘Abd al-Rahman ‘Azzam, il segretario generale della Lega Araba, il muftì era il “Menachem Begin degli arabi”. ‘Az-zam Pasha disse a un giornalista britannico - il quale poi lo riferì a un funzionario ebraico - che la politica della Lega Araba “intendeva schiacciare il muftì” 6.

Agli incontri della Lega Araba, il muftì si schierò contro l’interven-to degli eserciti regolari arabi in Palestina, ma i suoi appelli vennero ignorati 7. Tutto ciò che il muftì chiedeva erano aiuti finanziari e armi, che vennero promessi ma consegnati solo in quantità trascurabili. È fuorviante, perciò, affermare che tutte le risorse della Lega Araba furono messe a disposizione dei palestinesi. Al contrario, la Lega Araba abbandonò i palestinesi proprio nel momento del bisogno. Come ha affermato Yezid Sayigh, illustre storico della lotta armata palestinese: “La riluttanza a impegnare maggiori risorse nel conflitto e la diffidenza reciproca, provocarono continui contrasti sulla diplo-mazia e la strategia, portando a incessanti manovre dietro le quinte,

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a interventi militari tiepidi e mal organizzati e infine alla sconfitta sul campo di battaglia” 8.

L’intrigo hashemita

L’anello più debole nella catena degli Stati arabi ostili, che cir-condavano l’Yishuv da tutti i lati, era la Transgiordania. Sin dalla creazione dell’emirato di Transgiordania da parte dei britannici, nel 1921, l’Agenzia Ebraica si era sforzata di coltivare rapporti amichevoli con il suo governante hashemita ‘Abdullah ibn Husayn. Il conflitto inconciliabile fra il movimento nazionalista ebraico e arabo in Palestina fu lo scenario in cui nacque la special relation-ship fra i sionisti e ‘Abdullah, che divenne re nel 1946, quando la Transgiordania ottenne formalmente l’indipendenza. Il fallimento nel raggiungere un accordo con i vicini palestinesi spinse i leader sionisti a cercare un contrappeso alle ostilità locali stabilendo relazioni mi-gliori con gli Stati arabi confinanti. Il tentativo di aggirare gli arabi di Palestina e creare legami con i governanti degli Stati arabi diventò anzi uno dei punti fondamentali della diplomazia sionista negli anni trenta e quaranta.

L’amicizia fra il monarca hashemita e il movimento sionista fu cementata dalla presenza di un nemico comune, il gran muftì Hajj Amin al-Husayni, il leader del movimento nazionale palestinese. Egli, infatti, non solo aveva spinto le sue forze in rotta di collisione con gli ebrei, ma era anche il nemico numero uno di ‘Abdullah per il controllo sulla Palestina. Entrambe le parti percepivano il nazio-nalismo palestinese come una minaccia e avevano quindi interesse a reprimerlo 9. Dal punto di vista sionista ‘Abdullah era un alleato molto prezioso. Prima di tutto era l’unico governante arabo pronto ad accettare la partizione della Palestina e a vivere in pace con uno Stato ebraico dopo la fine del conflitto. In secondo luogo, il suo piccolo esercito, la Legione Araba, era quello meglio addestrato e più profes-sionale di tutti gli eserciti degli Stati arabi. In terzo luogo, ‘Abdullah e i suoi collaboratori e agenti erano una fonte d’informazione su tutti gli altri Stati arabi coinvolti nella questione palestinese. Infine, ma non meno importante, attraverso ‘Abdullah i sionisti potevano far nascere sospetti, fomentare rivalità e iniettare veleni che indebolissero la coalizione dei nemici arabi.

Nel 1947, mentre il conflitto per la Palestina entrava nella sua

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fase cruciale, i contatti fra gli ebrei e re ‘Abdullah si intensificarono. Golda Meir, dell’Agenzia Ebraica, tenne a Naharayim un incontro segreto con ‘Abdullah il 17 novembre del 1947. In questo incontro essi giunsero a un accordo preliminare per coordinare le loro strategie diplomatiche e militari, allo scopo di contrastare il muftì e tentare di evitare che gli altri Stati arabi intervenissero direttamente in Palestina 10. Dodici giorni dopo, il 29 novembre, le Nazioni Unite pronunciarono il loro verdetto a favore della divisione della zona sotto il mandato britannico in due Stati, uno ebraico e uno arabo. Questo rese possibile consolidare l’intesa provvisoria raggiunta a Naharayim. In cambio della promessa fatta da ‘Abdullah di non invadere l’area assegnata allo Stato ebraico dalle Nazioni Unite, l’Agenzia Ebraica acconsentì all’annessione della maggior parte della zona destinata alla nascita dello Stato arabo alla Transgiordania. Non furono stabiliti confini precisi e non si parlò di Gerusalemme, dato che in base al progetto dell’ONU essa doveva rimanere un corpus separatum sotto il con-trollo internazionale. Né l’accordo fu messo per iscritto. L’Agenzia Ebraica provò a vincolare ‘Abdullah con un accordo scritto, ma egli fu molto evasivo. Secondo Yaacov Shimoni, un alto funzionario del dipartimento politico dell’Agenzia Ebraica, nonostante l’evasività di ‘Abdullah, l’intesa fu comunque

del tutto chiara nel suo spirito generale. Noi avremmo consentito ad ‘Abdullah di conquistare la parte araba della Palestina. Non lo avremmo ostacolato. Non lo avremmo aiutato, non ci sarem-mo impadroniti di quei territori né li avremmo a lui consegnati. Avrebbe dovuto prenderseli con i propri mezzi e le proprie stra-tegie, ma noi non lo avremmo disturbato. Egli, da parte sua, non ci avrebbe impedito di istituire la Stato di Israele, di dividere il paese, di prenderci la nostra parte e di crearvi uno Stato. La sua vaghezza, la sua ambiguità, consistè nel rifiutarsi di mettere per iscritto qualunque cosa che avrebbe potuto vincolarlo. A questo non acconsentì. Fino alla fine, però, fino all’ultimo minuto, ripetè ancora e ancora: “forse deciderete per meno della completa indi-pendenza e sovranità, per la piena autonomia, o per un cantone ebraico sotto la protezione della corona hashemita”. Di tanto in tanto egli cercò di proporre questa idea, ma urtò sempre contro un muro. Gli dicemmo che si stava parlando di indipendenza piena e totale, e che non eravamo pronti a discutere di nient’altro. A que-sto punto sembrò rassegnarsi, ma non disse mai “Ok a uno Stato

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indipendente”. Non lo disse, non si impegnò, non fu esplicito. Ma tale era lo spirito dell’accordo e ciò fu assolutamente chiaro.

Fra l’altro l’accordo comprendeva una clausola secondo cui se ‘Abdullah fosse riuscito a conquistare la Siria e a realizzare il suo sogno di una Grande Siria - cosa che non pensavamo avesse il potere di fare - non lo avremmo ostacolato. Noi non credevamo neanche nella forza della sua fazione in Siria. L’accordo, però, includeva la clausola secondo cui, se fosse riuscito a portare a termine il suo progetto, noi non ci saremmo opposti. Tuttavia, per quanto riguardava la parte araba della Palestina, pensavamo seriamente che egli avesse tutte le possibilità per conquistarla, soprattutto dato che gli arabi di Palestina, con la loro leadership ufficiale, non avevano alcuna intenzione di istituire uno Stato. Questo significava che non stavamo interferendo con nessuno. Furono loro a rifiutare. Se avessero accettato uno Stato forse non avremmo fatto ricorso alla cospirazione. Non saprei. Ma il fatto è che rifiutarono, si creò così un totale vuoto di potere e noi accettammo che egli entrasse e conquistasse la parte araba - am-messo che acconsentisse alla creazione del nostro Stato e a una dichiarazione congiunta che, una volta che la situazione si fosse calmata, ci sarebbero stati rapporti di pace fra di noi. Questo era lo spirito dell’accordo. Non esisteva alcun testo 11.

La neutralizzazione dell’Esercito di Liberazione Arabo

Re ‘Abdullah rappresentava il mezzo principale, ma non il solo, per fomentare ulteriore tensione e antagonismo fra le fila della già divisa coalizione araba. Fawzi al-Qawuqji, il comandante dell’Eser-cito di Liberazione Arabo (ALA), era un altro anello debole nelle catene delle forze arabe nemiche. Le prime compagnie dell’ALA cominciarono a entrare in Palestina nel gennaio 1948, mentre lo stesso Qawuqji non arrivò che a marzo. L’orientamento politico anti-Husayni di Qawuqji offrì l’opportunità di un dialogo fra le linee di combatti-mento che stavano rapidamente prendendo forma in Palestina mentre il mandato britannico volgeva alla sua ingloriosa fine.

Yehoshua (“Josh”) Palmon era uno dei più abili agenti dell’in-telligence dell’Haganah e parlava un arabo perfetto. Da un’attenta osservazione delle politiche arabe delle varie fazioni, Palmon si rese conto dell’amaro risentimento di Qawuqji nei confronti del muftì. Nel 1947 Palmon scoprì documenti di guerra tedeschi che ne avrebbero

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potuto incrementare il risentimento e li fece pervenire a Qawuqji. I documenti confermavano il sospetto di quest’ultimo che fosse stato il muftì a provocare il suo arresto e la sua incarcerazione da parte delle autorità tedesche. Qawuqji espresse il desiderio di incontrare Palmon, ma poiché era stato nominato comandante dell’ALA, ab-bandonò l’idea. Dagli ufficiali che arrivarono in Palestina prima del loro comandante, però, Palmon venne a sapere che Qawuqji non era fermamente determinato a combattere contro gli ebrei. Sembrava avesse capito che non si sarebbe trattato di una guerra breve e facile, e si diceva fosse disposto a dialogare per cercare di evitarla 12.

David Ben Gurion, presidente dell’esecutivo dell’Agenzia Ebrai-ca, approvò il progetto Palmon di un incontro segreto per cercare di persuadere Qawuqji a restare fuori dal conflitto fra l’Haganah e le forze del muftì, a patto che non fosse fatta alcuna promessa per limi-tare la loro libertà d’azione nelle rappresaglie contro qualsiasi banda armata 13. Palmon incontrò Qawuqji il primo di aprile, nel quartier generale di quest’ultimo, nel villaggio di Nur al-Shams. Dopo lunghi giri di parole, Palmon arrivò al vero scopo dell’incontro, quello di rovesciare a proprio vantaggio le rivalità interne alla coalizione araba. Se non fosse stato per il muftì, disse Palmon, si sarebbe certamente potuto trovare una soluzione al problema della Palestina. Qawuqji si lanciò in una dura polemica contro le malvagie ambizioni del muftì, i suoi metodi violenti e i suoi luogotenenti egoisti. Quando Palmon fece il nome di ‘Abd al-Qadir al-Husayni, il cugino del muftì, e di Hasan Salama, Qawuqji disse che essi non avrebbero ricevuto alcun aiuto da parte sua, e che anzi sperava che gli ebrei avrebbero dato loro una bella lezione. Palmon allora suggerì che l’Haganah e l’ALA evitassero di attaccarsi a vicenda e negoziassero dopo la partenza dei britannici. Qawuqji acconsentì, ma spiegò francamente di aver bisogno almeno di una vittoria militare per rafforzare le sue credenziali. Palmon non potè promettere di servirgli una vittoria su un piatto d’argento. Se gli ebrei fossero stati attaccati, disse, essi avrebbero risposto. In ogni caso se ne andò con la chiara impressione che Qawuqji sarebbe rimasto neutrale nel caso di un attacco ebraico contro le forze del muftì in Palestina 14.

Il successo di Palmon nel neutralizzare l’ALA divenne evidente solo quando gli eventi cominciarono a dispiegarsi. Il 4 aprile, l’Ha-ganah lanciò l’Operazione Nahshon per aprire la strada da Tel Aviv a Gerusalemme, bloccata dagli irregolari palestinesi. Per prima cosa

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venne distrutto il quartier generale di Hasan Salama a Ramla. Seb-bene un contingente dell’ALA con armi pesanti fosse presente nelle vicinanze, esso non venne in soccorso. Qawuqji fu così buono (o così cattivo) da mantenere la parola data a Palmon. Seguì poi la battaglia di Qastal, un punto strategico che dominava dall’alto la via per Geru-salemme, la quale nel corso di aspri combattimenti era passata molte volte di mano in mano. ‘Abd al-Qadir al-Husayni chiamò Qawuqji per chiedere un urgente rifornimento di armi e munizioni allo scopo di respingere l’offensiva ebraica. Grazie alla Lega Araba, Qawuqji aveva grandi quantitativi di materiale bellico, ma secondo la postazio-ne d’intercettazione dell’Haganah, che monitorava la chiamata, egli rispose di non averne punto 15. Lo stesso ‘Abd al-Qadir al-Husayni fu ucciso nella battaglia per Qastal il 9 aprile. Egli era di gran lunga il più abile e carismatico dei comandanti militari del muftì e la sua morte segnò il crollo delle forze di Husayni in Palestina.

Verso la guerra

Il vento cominciava a soffiare decisamente a favore delle forze ebraiche. Le città miste di Tiberiade, Haifa, Safad e Jaffa caddero in mano agli ebrei in rapida successione ed ebbe luogo la prima ondata di rifugiati palestinesi. Con il crollo della resistenza palestinese, i governi arabi, e soprattutto quello della Transgiordania, subirono crescenti pressioni popolari affinché gli eserciti fossero mandati in Palestina per riuscire a controllare l’offensiva militare ebraica. Re ‘Abdullah non fu capace di resistere a questa pressione. Il flusso di rifugiati che raggiungeva la Transgoirdania costrinse la Legione Araba a una maggiore partecipazione alla questione palestinese. Il tacito accordo che ‘Abdullah raggiunse con l’Agenzia Ebraica gli consentì di atteggiarsi a protettore degli arabi in Palestina, pur tenendo il proprio esercito fuori dall’area che l’ONU aveva desti-nato allo Stato ebraico. Mantenere questo tipo di equilibrio divenne sempre più difficile. Sospettando ‘Abdullah di collaborazione con i sionisti, gli Stati anti-hashemiti della Lega Araba cominciarono a pensare di intervenire in Palestina con eserciti regolari, anche solo per frenare le ambizioni territoriali di ‘Abdullah e la sua ambizione egemonica nella regione. Il 30 aprile, il comitato politico della Lega Araba decise che tutti gli Stati arabi avrebbero dovuto cominciare a preparare i loro eserciti per invadere la Palestina il 15 maggio, il

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giorno dopo la scadenza del mandato britannico. Sotto la pressione di Transgiordania e Iraq, re ‘Abdullah fu nominato comandante in capo delle forze d’invasione 16.

Ai leader ebrei sembrò che ‘Abdullah fosse pronto a condividere la sua sorte con il resto del mondo arabo. Golda Meir fu quindi mandata il 10 maggio in missione segreta ad Amman per mettere in guardia il re sul pericolo di ciò che stava per fare. ‘Abdullah sembrò abbattuto e nervoso. Meir rifiutò decisamente la sua offerta d’autonomia per la parte ebraica sotto la sua corona e insistè perché si continuasse a restare fedeli al piano originale di uno Stato ebraico indipendente e dell’annessione alla Transgiordania della parte araba. ‘Abdullah non negò che questo fosse l’accordo, ma spiegò che la situazione in Palestina era completamente cambiata e che egli era adesso uno dei cinque: non aveva altra scelta che unirsi agli altri Stati arabi nell’invasione della Palestina. Meir fu ferma: se ‘Abdullah si fosse tirato indietro e avesse voluto la guerra, si sarebbero rivisti dopo il conflitto e dopo l’istituzione dello Stato ebraico. L’incontro terminò in tono gelido, ma le parole di congedo di ‘Abdullah a Ezra Danin, che accompagnava Golda Meir e traduceva per lei, furono una richiesta di non rompere i contatti, qualunque cosa fosse accaduta. Era quasi mezzanotte quando Golda Meir e la sua scorta cominciarono il peri-coloso viaggio di ritorno per riportare il fallimento della missione e l’inevitabilità di un’invasione 17.

Nella storiografia sionista, l’incontro del 10 maggio è di solito riportato come una prova dell’inaffidabilità dell’unico amico di Israe-le tra gli arabi e come la conferma che Israele si trovò solo contro la tenace offensiva di un mondo arabo unito. La stessa Golda Meir contribuì a diffondere l’opinione che re ‘Abdullah fosse venuto meno alla parola data, che l’incontro terminò con un disaccordo totale e che essi si lasciarono da nemici 18. La spiegazione data dal re dell’obbligo che lo costringeva a intervenire fu considerata come una prova del suo tradimento. In sintesi, i sionisti accusarono ‘Abdullah di aver revocato il suo impegno a non attaccare e di essersi unito al resto del mondo arabo proprio quando si avvicinava il momento della verità 19. Questa accusa contribuì ad alimentare la leggenda che crebbe intorno allo scoppio della guerra, considerata un piano d’invasione progettato molto accuratamente da tutti gli arabi per strangolare il nascente Stato ebraico.

La verità sul secondo incontro tra ‘Abdullah e Meir è in realtà più

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sfumata di quanto voglia farci credere questo resoconto filo-sionista. Un giudizio più equilibrato sulla posizione di ‘Abdullah fu presentato da Yaacov Shimoni all’incontro della sezione araba del dipartimento politico dell’Agenzia Ebraica, tenutosi il 13 maggio a Gerusalemme: “Sua Maestà non ha tradito completamente l’accordo, né gli è stato totalmente fedele, ma una via di mezzo” 20. Anche il rapporto sulla missione che Golda Meir fece ai colleghi del Consiglio di Stato provvisorio subito dopo il suo ritorno da Amman non fu così critico e poco lusinghiero come quello che avrebbe riportato anni dopo nelle sue memorie. Da questo rapporto emergono molti punti importanti e spesso trascurati. Per prima cosa ‘Abdullah non si rimangiò la parola: egli sottolineò solo che la situazione era cambiata. In secondo luogo ‘Abdullah non disse di volere la guerra: fu Golda Meir a minacciarlo di terribili conseguenze in caso di guerra. Terzo, essi non si lasciarono da nemici. Al contrario, ‘Abdullah sembrò desideroso di mantenere i contatti con la parte ebraica anche dopo lo scoppio delle ostilità. ‘Abdullah dovette mandare il suo esercito oltre il fiume Giordano per ottenere il controllo sulla parte araba della Palestina confinante con il suo regno. Egli non disse niente a proposito di un attacco alle forze ebraiche sul loro territorio. Questa era una distinzione molto sottile e Golda Meir non era famosa per la sua sottigliezza.

Parte del problema fu che ‘Abdullah dovette fingersi d’accordo con gli altri membri della Lega Araba, che avevano rifiutato una-nimamente il progetto di partizione delle Nazioni Unite e si oppo-nevano fermamente all’istituzione di uno Stato ebraico. Per di più, gli esperti militari della Lega Araba avevano progettato un piano d’azione unificato. Questo piano era molto pericoloso, perché era stato studiato sulle reali capacità degli eserciti regolari arabi e non sulla feroce retorica del “gettare a mare gli ebrei”. Le forze di cui allora disponevano gli Stati arabi per la campagna in Palestina erano però nettamente inferiori a quelle richieste dal comitato militare della Lega Araba. Inoltre re ‘Abdullah mandò a monte il piano di invasione operando alcuni cambiamenti dell’ultima ora. L’ordine che diede al suo esercito di attraversare il Giordano non aveva per obiettivo quello di impedire la creazione di uno Stato ebraico, ma quello di diventare il padrone della parte araba della Palestina. ‘Abdullah non desiderò mai l’intervento degli altri eserciti arabi in Palestina. Il loro piano era quello di evitare la partizione; il suo era quello di realizzarla. Il suo progetto presupponeva, e addirittura richiedeva, la presenza ebraica

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in Palestina, per quanto avrebbe certo preferito l’autonomia degli ebrei sotto la sua corona. Concentrando le proprie forze nella West Bank, ‘Abdullah intendeva eliminare una volta per tutte qualsiasi possibilità di uno Stato palestinese indipendente e presentare ai suoi colleghi arabi l’annessione come un fait accompli.

Mentre le truppe entravano in Palestina, i politici della Lega Araba continuavano le loro manovre segrete, i loro intrighi labirintici e i loro sordidi tentativi di pugnalarsi vicendevolmente alle spalle - tutto nel nome dei più alti ideali panarabi. La politica non finì quando co-minciò la guerra, ma si legò inestricabilmente a essa dal primo sparo al momento in cui il fuoco cessò definitivamente 21. Il 15 maggio, il giorno dell’invasione, accadde qualcosa che fece presagire quanto sarebbe avvenuto e mostrò fino a che punto i politici arabi fossero pronti a spingersi per superare in astuzia i loro colleghi. Il presidente siriano Shukri al-Quwwatli mandò a re ‘Abdullah un messaggio in cui sosteneva la necessità di fermare l’avanzata in Palestina e fornire ai palestinesi tutte le armi e i fondi possibili. ‘Abdullah sospettò che questa fosse una manovra per cercare di scoprire le sue vere inten-zioni. La sua risposta fu un secco rifiuto 22. Il suo esercito aveva già ricevuto l’ordine di marciare. Il dado era tratto.

Se i rapporti di re ‘Abdullah con gli altri leader arabi erano arrivati al punto più basso, quelli con l’Agenzia Ebraica erano stati troncati completamente. L’impeto generato dalla pressione popolare araba per la liberazione della Palestina era inarrestabile. Gli ebrei avevano lo stesso atteggiamento aspro e intransigente: avevano proclamato il loro Stato ed erano decisi a combattere a ogni costo. Quello che Golda Meir aveva portato a re ‘Abdullah era un ultimatum, non compren-sione o aiuto nell’affrontare i suoi problemi con gli arabi. L’accordo hashemita-sionista, che durava ormai da trent’anni, sembrava sul punto di rompersi fra aspre recriminazioni. Cinque eserciti arabi si stavano muovendo, infrangendo quella speranza in una partizione pacifica della Palestina che era alla base dell’accordo. Mentre la pa-rola passava alle armi su entrambi i fronti, le prospettive di riuscire a salvare qualcosa dell’accordo erano quantomeno incerte.

L’invasione

Il primo round di combattimenti, dal 15 maggio all’11 giugno, fu un periodo critico in cui il destino del neonato Stato ebraico rimase

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appeso a un filo. Durante questo periodo la comunità ebraica subì pesanti perdite, sia fra i civili che fra i militari; essa barcollò per lo shock provocato dallo scontro con gli eserciti regolari arabi; e patì sofferenze che lasciarono segni indelebili nella psiche nazionale. Per il popolo che visse queste sofferenze, il senso di essere me’atim mul rabim, i pochi contro i molti, non avrebbe potuto essere più reale. Durante quel periodo, l’IDF fu sfidato su tutti i fronti dai cinque eserciti invasori. Per quanto riguarda gli uomini arruolati, l’IDF era numericamente superiore a tutte le forze di spedizione arabe messe insieme, ma soffriva di una cronica inferiorità in armamenti, inferiorità a cui non si riuscì a trovare rimedio fino all’arrivo di illeciti riforni-menti d’armi dal blocco orientale durante la prima tregua. Il senso di isolamento e vulnerabilità era schiacciante. Fu proprio durante questo periodo, relativamente breve ma assai traumatico, che si formò la memoria collettiva israeliana sulla guerra del 1948 23.

I leader politici e militari di Israele, comunque, avevano un quadro molto più realistico delle intenzioni e delle capacità dei loro avversari. David Ben Gurion, che dopo la proclamazione dell’indipendenza di-venne primo ministro e ministro della difesa, si aspettava che, in base al tacito accordo raggiunto con Golda Meir nel novembre del 1947, ‘Abdullah assumesse il controllo della parte araba della Palestina. Per questo motivo non poteva essere del tutto sorpreso quando, nel maggio del 1948, venne a sapere da Golda Meir che ‘Abdullah inten-deva invadere la Palestina. Il vero punto in questione era sapere se il desiderio di ‘Abdullah di conquistare la Palestina araba lo avrebbe o meno coinvolto in uno scontro armato con gli israeliani.

Ben Gurion non dovette attendere a lungo per ricevere una rispo-sta. Non appena gli eserciti arabi entrarono in Palestina, la Legione Araba e l’IDF passarono alle vie di fatto. Alcune delle più accanite battaglie di tutta la guerra furono combattute fra questi due eserciti all’interno e nei dintorni di Gerusalemme. Anche prima della fine del mandato britannico si verificò un incidente che avrebbe gettato lunghe ombre sui rapporti fra l’Yishuv e la Transgiordania. Un distaccamento della Legione Araba lanciò un violento attacco con carri armati e artiglieria su Gush Etzion, un gruppo di quattro insediamenti ebraici lungo la via da Gerusalemme a Hebron. Dopo la resa dei difensori, alcuni di questi vennero massacrati dagli abitanti arabi dei villaggi nella zona di Hebron e gli altri furono fatti prigionieri dalla Legione Araba 24. Il blocco di Etzion era una enclave nel mezzo di una zona

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esclusivamente araba assegnata allo Stato arabo dalle Nazioni Unite. Non era possibile conciliare tanto facilmente questo feroce attacco con le precedenti dichiarazioni di amicizia di ‘Abdullah o con il suo manifesto desiderio di evitare le ostilità militari.

A Gerusalemme l’iniziativa fu presa dagli ebrei. Non appena i britannici evacuarono la città, venne lanciata una potente offensiva per conquistare i quartieri arabi e misti della città e formare così un’area uniforme fino alle mura della Città Vecchia. Glubb Pasha, il coman-dante britannico della Legione Araba, adottò una strategia difensiva tesa a evitare uno scontro frontale con le forze ebraiche. In base al suo resoconto, la Legione Araba attraversò il Giordano il 15 maggio per aiutare gli arabi a difendere le aree della Giudea e della Samaria che erano state loro assegnate. A essi fu severamente proibito di entrare a Gerusalemme o in qualsiasi area destinata allo Stato ebraico dal piano di partizione. Tuttavia, il 16 maggio le forze ebraiche tentarono di entrare nella Città Vecchia, provocando urgenti richieste d’aiuto da parte dei difensori arabi. Il 17 maggio, re ‘Abdullah ordinò a Glubb Pasha di spedire un contingente in difesa della Città Vecchia 25. Seguì un feroce combattimento. Bombardando la Città Nuova e il quartiere ebraico di Gerusalemme, i legionari provocarono gravi danni e numerose vittime fra i civili. Il 28 maggio, infine, il quartiere ebraico della Città Vecchia si arrese alla Legione Araba.

Dopo che l’offensiva ebraica a Gerusalemme fu arrestata, il centro della battaglia si spostò a Latrun, una collina fortificata che dominava la strada principale da Tel Aviv a Gerusalemme. Come Gush Etzion, anche Latrun era situato nell’area destinata dalle Nazioni Unite allo Stato arabo. Ma la posizione strategica di Latrun era talmente impor-tante che Ben Gurion era deciso più che mai a conquistarla. A dispetto dei consigli dei propri generali, egli ordinò tre attacchi frontali su Latrun - il 25 e il 30 maggio, il 9 giugno. La Legione Araba respinse tutti gli attacchi e inflisse perdite molto pesanti alle forze ebraiche improvvisate frettolosamente e male equipaggiate.

A seguito dei duri scontri a Gerusalemme e nei dintorni andò in fumo qualsiasi speranza che la Transgiordania si comportasse in modo diverso dagli altri Stati arabi. Yigael Yadin, capo delle operazioni dell’IDF, ha sempre negato fermamente che ci fosse mai stata una collusione fra l’Agenzia Ebraica e il monarca della Transgiordania, compreso il periodo della guerra del 1948:

Contrariamente a ciò che pensano molti storici, io non credo che

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sia mai esistito un accordo o una qualsiasi intesa tra Ben Gurion e ‘Abdullah. Egli forse ci sperava… ma fino al 15 maggio 1948 non ci contava e non riteneva che un accordo con ‘Abdullah potesse neutralizzare la Legione Araba. Al contrario, egli prevedeva che uno scontro con la Legione sarebbe stato inevitabile. Se anche Ben Gurion avesse avuto qualche intesa, o speranza, essa ando in fumo quando ‘Abdullah marciò su Gerusalemme. Prima ci fu l’attacco a Kfar Etzion, poi la cattura di posizioni a Latrun per dominare la via di Gerusalemme, e poi l’ingresso a Gerusalemme. Da queste mosse fu chiaro che ‘Abdullah intendeva conquistare Gerusalemme 26.

La testimonianza di Yadin non può facilmente esser messa da parte perché essa riflette la visione unanime dello Stato maggiore dell’IDF, secondo cui il legame con la Transgiordania non avrebbe influenza-to la condotta militare di Israele durante la guerra d’indipendenza. Come sostenne il generale di divisione Moshe Carmel, comandante del fronte settentrionale: “Ci sentivamo tutti à la guerre comme à la guerre e che avremmo dovuto agire contro tutte le forze arabe che avevano invaso il paese” 27. Ciò che può essere messo in discussione è l’affermazione dei leader militari israeliani che ‘Abdullah intendesse prendere Gerusalemme.

Uno dei tanti paradossi della guerra del 1948 fu che alla migliore delle intese - quella fra Israele e Transgiordania - fecero seguito, dopo lo scoppio della guerra, le più sanguinose battaglie. Una spiegazione del paradosso risiede nel fatto che, nel contesto del tacito accordo fra le due parti, c’era un ampio spazio per il malinteso. Gerusalemme era la zona più adatta per la nascita di tali malintesi, sia per la sua importanza simbolica e strategica sia perché, essendo una enclave separata sotto un regime internazionale, permise a entrambe le parti di tenere reciprocamente nascoste le proprie paure e le proprie spe-ranze. Nel primo round di combattimenti, che terminò l’11 giugno, quando divenne effettivo l’armistizio proclamato dalle Nazioni Unite, Transgiordania e Israele apparivano come i peggiori tra i nemici. Du-rante il resto della guerra, però, come recita la frase di uno scrittore israeliano, essi divennero “i migliori tra i nemici” 28.

Gli altri eserciti arabi non furono efficienti come la Legione Araba durante la prima serie di combattimenti. Fra gli eserciti invasori vi fu pochissimo coordinamento e praticamente nessuna cooperazione. Nonostante vi fosse un solo quartier generale per tutte le forze d’in-

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vasione, guidato dal generale iracheno Nur al-Din Mahmud, questo non ebbe alcun controllo effettivo sugli eserciti e le operazioni militari non si attennero al piano concordato. Dopo aver portato a termine il primo attacco sulla Palestina, ciascun esercito temette che il nemico potesse assalirlo alle spalle. Di conseguenza, uno dopo l’altro, gli eserciti arabi assunsero posizioni difensive. L’esercito egiziano inviò due colonne dalle basi più avanzate del Sinai. Una avanzò a nord, lungo la strada costiera in direzione di Tel Aviv. La sua avanzata fu rallentata dai tentativi, per lo più vani, di conquistare gli insediamenti ebraici sparsi nel Negev settentrionale. Essa proseguì oltre questi insediamenti, fino a quando, il 29 maggio, non venne fermata dalla brigata Negev ad Ashdod, a venti miglia da Tel Aviv. La seconda colonna, che comprendeva volontari provenienti dalle fila della Fratellanza Musulmana, procedette verso Gerusalemme attraverso Beersheba, Hebron e Betlemme. Fu fermata al Kibbutz Ramat Rahel, sul confine meridionale di Gerusalemme, il 24 maggio. Lì vicino si trovava un’unità della Legione Araba, ma essa non prestò alcun aiuto ai combattenti egiziani. L’avanzata egiziana fu quindi fermata dopo appena dieci giorni di combattimenti.

Nonostante considerevoli difficoltà logistiche, l’esercito iracheno riuscì a mettere insieme una forza di notevoli dimensioni, dotata di carri armati e artiglieria, per invadere la Palestina. Nei tre giorni successivi alla fine del mandato, l’esercito iracheno sferrò sugli insediamenti ebraici tre attacchi, che vennero tutti respinti. Dopo aver abbandonato qualsiasi tentativo di conquistare gli insediamenti ebraici, l’esercito iracheno indietreggiò, si riorganizzò e assunse posizioni difensive all’interno del “triangolo” formato dalle tre città arabe di Jenin, Nablus e Tulkarem. Quando venne attaccato dalle unità dell’IDF, a Jenin per esempio, riuscì a mantenere la propria posizione. Esso fece anche alcune incursioni in territorio ebraico, ma nessuna durò più di alcune ore. Sebbene il suo punto più occidentale si trovasse a meno di 10 miglia dal Mediterraneo, l’esercito iracheno non fece alcun tentativo per spingersi fino al mare e tagliare Israele in due. Una ragione della relativa passività dei leader militari iracheni era la paura di rimanere accerchiati dai nemici. Un altro motivo era la loro diffidenza nei confronti della Legione Araba o, più precisamente, del suo comandante straniero Glubb Pasha. Salih Sa’ib al-Jubury, il capo di Stato maggiore iracheno, affermò che ad aver esposto il suo esercito agli attacchi degli israeliani e ad avergli impedito di raggiungere i

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propri scopi, fu il fallimento della Legione Araba nel portare a termine la missione assegnatale dal piano d’invasione. Secondo al-Jubury, la Legione agì in modo indipendente sin dall’inizio, con conseguenze terribili per lo sforzo bellico arabo in generale 29.

A nord, i siriani entrarono in Israele pochi chilometri a sud del Mare di Galilea e conquistarono Zemah, Sha’ar ha-Golan e Massadah prima di essere fermati a Degania. Essi indietreggiarono, si riorga-nizzarono e una settimana dopo lanciarono un’altra offensiva a nord del Mare di Galilea. Questa volta conquistarono Mishmar Hayardem, creando un caposaldo sul lato israeliano del fiume Giordano da cui l’IDF non riuscì a cacciarli. Mentre i siriani combattevano nella valle del Giordano, le forze libanesi irruppero da est verso Israele e con-quistarono Malkiya e Kadesh. Le operazioni dell’IDF dietro le linee e contro i villaggi entro i confini del Libano riuscirono a fermare l’of-fensiva libanese. Entro la fine di maggio, l’IDF riconquistò Malkiya e Kadesh e costrinse l’esercito libanese a restare sulla difensiva.

Tutto sommato, l’invasione combinata e simultanea degli arabi risultò meno coordinata, determinata ed efficace di quello che teme-vano i leader israeliani. Il successo nel fronteggiare l’invasione araba aumentò molto la fiducia degli israeliani in se stessi. Ben Gurion era particolarmente ansioso di sfruttare i successi iniziale dell’IDF per procedere all’offensiva e andare oltre i confini stabiliti dalla partizione dell’ONU. Il 24 maggio, appena dieci giorni dopo la dichiarazione d’indipendenza, Ben Gurion chiese allo Stato maggiore di preparare un’offensiva per piegare Libano, Transgiordania e Siria. Nel suo diario annotò:

L’anello debole della coalizione araba è il Libano. L’autorità musulmana è artificiale e facile da minare. Andrebbe creato uno Stato cristiano il cui confine meridionale dovrebbe essere il fiume Litani. Dovremo siglare un trattato con quest’ultimo. Distruggendo il potere della Legione e bombardando Amman, sconfiggeremo anche la Transgiordania, e anche la Siria cadrà. Se l’Egitto dovesse osare ancora combattere, bombarderemo Port Said, Alessandria e il Cairo 30.

I suoi piani erano troppo ambiziosi. Alla fine della prima setti-mana di giugno si era formato un evidente stallo sul fronte centrale e una situazione ugualmente senza sbocco era prevalsa su tutti gli altri fronti. La tregua dell’ONU entrò in vigore l’11 giugno. Per gli

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israeliani arrivò come la manna dal cielo, disse il generale Moshe Carmel. Nonostante fossero riusciti a fermare l’invasione araba, le loro forze di combattimento erano al limite dello stremo e necessita-vano di una tregua per riprendersi, riorganizzarsi e addestrare nuove reclute. Le quattro settimane di tregua servirono agli israeliani per fare arrivare dall’estero i rifornimenti di armi, in violazione dell’embargo delle Nazioni Unite - carri armati, veicoli corazzati, artiglieria e aerei. Da parte araba non si approfittò della tregua. Nessuno degli eserciti arabi seguì una preparazione adeguata per riorganizzarsi e rifornirsi di armi, così da non farsi trovare impreparato nel caso fossero ri-prese le ostilità. L’embargo delle Nazioni Unite sugli armamenti si applicava in teoria a tutti i combattenti, ma in pratica danneggiava gli arabi e favoriva Israele, perché le potenze occidentali lo rispet-tavano mentre il blocco sovietico no 31. Di conseguenza, la prima tregua rappresentò una svolta decisiva nella storia della guerra. Essa segnò uno spostamento molto importante nell’equilibrio delle forze a favore di Israele.

Il secondo round di combattimenti

Durante la tregua, le rivalità interne alla coalizione araba riemer-sero con nuovo vigore. Per quanto riguardava re ‘Abdullah, la guerra era finita. Egli cominciò a fare pressione sul mondo arabo affinché ciò che era rimasto della Palestina araba fosse incorporato nel suo regno. Non fece mistero della propria opinione secondo cui la ripresa della guerra sarebbe stata disastrosa per gli arabi. La soluzione da lui proposta, tuttavia, era inaccettabile per tutti gli altri membri della coalizione. Siria e Libano vedevano in ‘Abdullah un pericolo costante per la loro indipendenza, mentre re Faruq lo considerava una minaccia incombente sull’egemonia egiziana nel mondo arabo. Il conte Folke Bernadotte, il mediatore dell’ONU, non fece alcun riferimento al piano di partizione delle Nazioni Unite e propose la partizione della Palestina mandataria fra Israele e Transgiordania. ‘Abdullah non avrebbe potuto chiedere di meglio, ma dato che la Lega Araba e Israele rifiutarono le proposte di Bernadotte, egli non vide alcun vantaggio nell’isolarsi accettandole pubblicamente.

Non essendo riuscito a promuovere una soluzione al problema della Palestina, Bernadotte propose di posticipare la fine della tregua fissata per il 9 luglio. Ancora una volta la Transgiordania si trovò sola

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all’interno della Lega Araba. Tutti i leader militari arabi sottolinearono la gravità della loro situazione dal punto di vista dei rifornimenti di armi, ma i politici votarono per non prolungare la tregua. Per far fronte alla difficoltà di una ripresa delle ostilità con gli arsenali esauriti, i politici arabi decisero per una strategia difensiva tesa a mantenere le posizioni esistenti. ‘Abdullah sospettò che tale decisione fosse stata presa con la sinistra intenzione di far fallire la sua strategia diplomatica e coinvolgere il suo esercito in una guerra potenzialmente disastrosa contro gli israeliani. Egli convocò ad Amman il conte Bernadotte per esprimergli le sue preoccupazioni sulla prospettiva di una ripresa delle ostilità e spingerlo a usare tutto il potere delle Nazioni Unite per determinare un rovesciamento delle decisioni belliche della Lega Araba 32. Gli egiziani lo anticiparono attaccando l’8 luglio, ponendo fine alla tregua e impegnando inevitabilmente gli arabi in un secondo round di combattimenti.

Se ‘Abdullah era contrario a una seconda serie di combattimenti, Glubb Pasha lo era ancora di più, poiché il suo esercito aveva mu-nizioni sufficienti per appena quattro giorni e non era previsto alcun rifornimento. In effetti, durante la seconda fase di combattimenti, la Legione Araba reagì solo quando venne attaccata. Quando ripresero le ostilità, l’IDF prese velocemente l’iniziativa sul fronte centrale con l’Operazione Danny. La prima fase dell’operazione aveva l’obiettivo di conquistare Lydda e Ramla; la seconda di aprire un vasto corridoio per Gerusalemme grazie alla conquista di Latrun e Ramallah. Tutte queste città erano state assegnate allo Stato arabo e rientravano nel perimetro controllato dalla Legione Araba. Il 12 luglio le forze israeliane conquistarono Lydda e Ramla e costrinsero gli abitanti a fuggire verso est. Ma a Latrun l’offensiva israeliana venne respinta, come accadde anche con un tentativo dell’ultimo minuto di occupare la Città Vecchia di Gerusalemme.

L’Esercito di Liberazione Arabo (ALA) e gli eserciti egiziano, ira-cheno, siriano e libanese subirono diverse sconfitte durante il secondo round di combattimenti. L’offensiva dell’IDF a nord culminò con la conquista di Nazareth e con la liberazione di tutta la bassa Galilea dalle forze nemiche. Fallì invece il tentativo di espellere i siriani dal caposaldo di Mishmar Hayarden e la battaglia terminò in uno stallo. Nel complesso, in dieci giorni di combattimento la posizione di Israele migliorò considerevolmente. Israele prese l’iniziativa e la mantenne fino alla fine della guerra.

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La seconda tregua dell’ONU entrò in vigore a partire dal 18 luglio e, a differenza della prima, ebbe una durata imprecisata. Non appena i combattimenti cessarono, i politici arabi ripresero a farsi guerra a paro-le. I funzionari siriani, iracheni e ‘Azzam Pasha diffusero alacremente la voce che alla Legione Araba era stato impedito di usare contro gli ebrei tutta la forza di cui disponeva, sia per il tradimento degli uffi-ciali britannici che per i rifornimenti negati dal governo britannico. Gli ufficiali dell’esercito iracheno che operavano in Transgiordania erano particolarmente ostili agli inglesi che prestavano servizio nella Legione Araba 33. Il sospetto che Glubb stesse lavorando segretamente per imporre agli arabi la politica di partizione di Londra spiega la virtuale rottura dei rapporti fra i due eserciti hashemiti e la decisione irachena di custodire gelosamente la propria libertà d’azione 34.

Quiete nella tempesta

Durante la bonaccia che seguì, ‘Abdullah continuò a coltivare l’idea di trattative bilaterali con gli israeliani per sistemare definiti-vamente il problema della Palestina. Anche se non era andato come previsto, il conflitto gli era servito per raggiungere il suo scopo prin-cipale, quello di occupare le zone centrali della Palestina araba. Non solo non vi era più niente da guadagnare con una ulteriore chiamata alle armi, ma tale chiamata avrebbe potuto mettere in pericolo le sue conquiste territoriali, il suo esercito, la sopravvivenza del suo regime e la sua difesa contro gli avversari arabi. Egli spostò quindi la propria attenzione dall’arena militare a quella politica.

Gli israeliani avevano le loro buone ragioni per voler ristabilire contatti diretti con il loro vecchio amico. La mancanza di unità sul fronte arabo diede loro un considerevole spazio di manovra. Gli arabi erano entrati insieme in Palestina, ma trovandosi ad affrontare diverse sconfitte militari, ciascun paese prestò sempre più attenzione ai pro-pri bisogni. Ogni paese stava leccando le proprie ferite e non era in grado, o non aveva alcuna intenzione, di prestare aiuto agli altri o di subordinare i propri interessi alla causa comune. In circostanze del genere chiunque fosse andato in cerca di crepe nel muro dell’unità araba le avrebbe facilmente trovate. Israele, dove tutti avevano ancora impresso nella memoria il vivido ricordo delle vittorie militari, era in una buona posizione per mettere gli arabi gli uni contro gli altri 35. Questo fu lo sfondo in cui ripresero i contatti con gli emissari di re

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‘Abdullah nel settembre del 1948.Le voci secondo cui ‘Abdullah era nuovamente in contatto con i

leader israeliani, danneggiarono ulteriormente la sua posizione nel mondo arabo. I suoi numerosi oppositori sostenevano che egli fosse pronto a compromettere la rivendicazione araba sull’intera Palestina, se questo gli avesse permesso di ottenere per sé una parte della Pale-stina. “Ai politici arabi - riportò Glubb - le loro lotte interne stanno più a cuore della lotta contro gli ebrei. ‘Azzam Pasha, il muftì e il governo siriano preferirebbero vedere l’intera Palestina in mano agli ebrei piuttosto che re ‘Abdullah trarne benefici” 36.

Per ostacolare le ambizioni di ‘Abdullah, gli altri membri della Lega Araba, guidati dall’Egitto, decisero il 6 settembre, ad Alessan-dria, di approvare la creazione di un “Governo arabo per l’intera Palestina” con sede a Gaza. Ma era troppo poco e troppo tardi. Il desiderio di placare l’opinione pubblica, critica nei confronti dei governi arabi perché non erano riusciti a proteggere i palestinesi, era adesso la loro principale preoccupazione. La decisione di formare il governo dell’intera Palestina a Gaza, e il debole tentativo di creare forze armate poste sotto il suo controllo, fornirono ai membri della Lega Araba il pretesto per liberarsi della loro responsabilità diretta nella prosecuzione della guerra e nel ritiro dei propri eserciti dalla Palestina, tutelandosi contro le proteste popolari. Qualunque fosse il lontano futuro del governo arabo della Palestina, il suo scopo immediato, come era concepito dagli egiziani che lo avevano spon-sorizzato, era quello di fornire un punto di opposizione ad ‘Abdullah e un mezzo per frustrare la sua ambizione di confederare le regioni arabe con la Transgiordania.

Tuttavia, il dislivello fra le pretese del Governo per l’intera Pale-stina e le sue effettive capacità lo ridussero ben presto a una sorta di farsa. Esso proclamava la propria giurisdizione su tutta la Palestina, ma non aveva alcuna amministrazione, alcun servizio civile, non aveva né fondi né un vero esercito. Anche nella piccola enclave intorno alla città di Gaza il suo mandato reggeva solo grazie al be-nestare delle autorità egiziane. Approfittando del fatto che il nuovo governo dipendeva da loro per i fondi e la protezione, gli egiziani lo manipolarono per minare la pretesa di ‘Abdullah di rappresentare i palestinesi nella Lega Araba e nei forum internazionali. In apparenza l’embrione di uno Stato palestinese indipendente, il nuovo governo, sin dal momento della sua creazione fu quindi ridotto all’infelice

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ruolo di volano nella battaglia per il potere che si giocava fra il Cairo e Amman 37.

Israele era soddisfatto nel vedere che la spaccatura all’interno della Lega Araba si allargava, ma molto prudentemente si trattenne dall’esprimere in pubblico qualsiasi opinione, sia a favore che contro il Governo per l’intera Palestina. Davanti al Consiglio di Stato prov-visorio, il 23 settembre 1948, il ministro degli esteri Moshe Sharett descrisse ciò che rimaneva della Palestina araba come un’“espressione geografica” piuttosto che un’entità politica. Due erano i candidati al governo di questa parte di Palestina: il muftì e re ‘Abdullah. In teoria, disse Sharett, Israele avrebbe dovuto preferire un governo separato nella parte araba a una fusione con la Transgiordania; in pratica preferì la fusione con la Transgiordania, nonostante la sua posizione pubblica fosse di neutralità 38. In effetti, Israele approfittò anche dei nuovi contatti con ‘Abdullah per ostacolare la formazione di uno Stato palestinese ed espandere il territorio dello Stato ebraico. Come candidamente confessò Yaacov Shimoni, il vice capo del Middle East Department del Ministero degli esteri:

Sharett sapeva che ci eravamo accordati con ‘Abdullah perché egli conquistasse e annettesse la parte araba della Palestina, e non poteva sopportare questo ridicolo, vano e fallimentare tentativo fatto dagli egiziani contro ‘Abdullah. Questo tentativo non aveva niente a che fare con noi. Si trattava di una mossa tattica dei nemici di ‘Abdullah per interferire con l’annessione. In quel periodo non ci fu alcuna annessione. L’annessione formale avvenne soltanto nell’aprile del 1950. Tuttavia egli aveva già iniziato a parlarne e a prepararsi. Quindi i suoi nemici cominciarono, senza successo, a creare una forza d’opposizione.

Il secondo punto è che a quel tempo Sharett e i nostri uomini sapevano ciò che il potente Stato di Israele ha dimenticato negli ultimi anni. Egli comprendeva bene il significato della diplomazia e sapeva come portarla avanti. Sharett era ben consapevole che, pubblicamente, eravamo obbligati ad accettare lo Stato arabo palestinese e non potevamo proclamarci contrari alla sua nascita. Prima di tutto avevamo accettato la risoluzione delle Nazioni Unite, che prevedeva uno Stato arabo palestinese. In secondo luogo, era questo il giusto, desiderabile e decoroso corso degli eventi, ed eravamo costretti ad accettarlo. Il fatto che al di là delle apparenze, dietro le quinte, con grandi sforzi diplomatici,

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avessimo raggiunto un accordo con ‘Abdullah - un accordo che non era ancora stato svelato e che allora era tenuto segreto - era del tutto legittimo, ma non dovevamo parlarne. Sharett sapeva che ufficialmente dovevamo sostenere uno Stato palestinese qualora i palestinesi potessero crearlo. Non potevamo istituirlo noi per loro. Ma se avessero potuto farlo, certamente e con tutti i mezzi a disposizione lo avremmo accettato. Il fatto che egli avesse stretto un patto con ‘Abdullah per impedire la creazione di tale Stato è diplomazia e non c’è niente di male. Sharett si comportò secondo le regole della diplomazia e della politica accettate in tutto il mondo 39.

La guerra contro l’Egitto

Le rivalità tra gli Stati arabi che diedero vita al cosiddetto Go-verno per l’intera Palestina complicarono la diplomazia israeliana, ma ne resero più semplice la strategia. David Ben Gurion, l’uomo alla guida della grande strategia, era continuamente alla ricerca di divisioni e spaccature sul fronte nemico che avrebbero potuto essere usate per estendere le conquiste territoriali di Israele. La mancanza di unità all’interno del mondo arabo, offrì il vantaggio strategico di combattere una guerra su un solo fronte alla volta, e il fronte che Ben Gurion scelse per riprendere i combattimenti fu quello meridionale. All’inizio di ottobre egli chiese allo Stato maggiore di concentrare la maggior parte delle forze a sud e di preparare una grande offensiva per espellere l’esercito egiziano dal Negev. Visto il peggioramento dei rapporti fra l’Egitto e ‘Abdullah, gli sembrò improbabile un intervento della Legione Araba nel conflitto 40.

Il 15 ottobre, l’IDF ruppe la tregua e lanciò l’Operazione Yoav, che doveva cacciare le forze egiziane dal Negev. In una settimana di combattimenti, gli israeliani conquistarono Beersheba, Bayt Jibrin e circondarono a Faluja una brigata egiziana (in cui si trovava il maggiore Gamal ‘Abd al-Nasir). Come si aspettava Ben Gurion, la Transgiordania rimase neutrale nel conflitto fra Israele ed Egitto. La Legione Araba era in posizione per intervenire a soccorrere la brigata egiziana intrappolata nella sacca di Faluja, ma si diresse invece a conquistare Betlemme ed Hebron, precedentemente occupate dagli egiziani. ‘Abdullah e Glubb erano chiaramente soddisfatti nel vedere l’esercito egiziano sconfitto e umiliato.

La formazione del Governo per l’intera Palestina fece rivivere

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l’Esercito della Guerra Santa del muftì (Jaysh al-Jihad al-Muqaddas). Questo esercito irregolare mise in pericolo il controllo transgior-dano sulla Palestina araba. Il governo transgiordano decise quindi di stroncare sul nascere la sfida che questo esercito poneva alla sua autorità. Il 3 ottobre, il ministro della difesa dichiarò che tutti i corpi armati operativi nelle zone controllate dalla Legione Araba dovevano essere posti sotto i suoi ordini o disperse 41. Glubb eseguì l’ordine prontamente e con fermezza. Sospettando che gli ufficiali arabi potessero ostacolare la riuscita di un compito così impopolare, egli inviò degli ufficiali britannici a circondare e disperdere con la forza l’Esercito della Guerra Santa. L’operazione condusse gli arabi sull’orlo di una guerra, proprio quando teoricamente avrebbero dovuto cooperare contro il nemico comune. Essa, però, riuscì effettivamente a neutralizzare il potere militare dei rivali palestinesi di ‘Abdullah. In questo contesto, l’attacco degli israeliani all’esercito egiziano fu tutto sommato visto di buon occhio. In privato, Glubb manifestò la speranza che l’offensiva ebraica “potesse finalmente eliminare il go-verno di Gaza e dare una lezione a quegli imbroglioni [sic]!” In una lettera al colonnello Desmond Goldie, il comandante britannico della Prima Brigata, Glubb spiegò: “se gli ebrei intendono combattere una guerra privata con gli egiziani e il governo di Gaza, noi non vogliamo essere coinvolti. Gli imbroglioni e il governo di Gaza ci sono tanto ostili quanto gli ebrei” 42.

Gli israeliani fecero seguire alla loro “guerra privata” nel sud il lancio di un’importante offensiva a nord. I nemici di Israele dovevano ora essere sconfitti uno alla volta. Il 29 ottobre cominciò l’Opera-zione Hiram, che si concluse con la conquista della Galilea centrale e con il trasferimento di molti altri arabi. La “pulizia della Galilea” fu il risultato di una politica di alto livello piuttosto che un prodotto casuale della guerra. Nella Galilea centrale risiedevano un vasto nu-mero di arabi, fra cui rifugiati provenienti dalla Galilea occidentale e orientale. Il 26 settembre Ben Gurion aveva detto al Gabinetto che se fossero ricominciati i combattimenti al nord, la Galilea sarebbe stata “ripulita” e “svuotata” dagli arabi 43. In questo caso fu Israele a riprendere i combattimenti e l’IDF a portare avanti le espulsioni. Per l’Operazione Hiram furono concentrate quattro brigate a nord. In quattro giorni di battaglia, esse spinsero i siriani ancora più a est, sorpresero l’ALA di Qawuqji con un movimento a tenaglia e lo misero fuori combattimento, riuscendo a cacciare anche l’esercito

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libanese dalla Galilea. Inseguendo le forze che si stavano ritirando, la Brigata Carmeli entrò in Libano e conquistò quattordici villaggi che vennero poi riconsegnati alla firma dell’accordo di armistizio. Anche sul fronte settentrionale, quindi, il vento volse drammaticamente e minacciosamente contro gli arabi.

La terza tregua delle Nazioni Unite entrò in vigore il 31 ottobre. Il 22 dicembre Israele ruppe nuovamente la tregua lanciando una seconda offensiva a sud. L’obiettivo dell’Operazione Horev era quello di portare a termine la distruzione delle forze egiziane, di espellerle dalla Palestina e di costringere il governo egiziano a negoziare un armistizio. Il conflitto fra gli Stati arabi e la mancanza di coordina-mento fra i loro eserciti in Palestina, diedero a Israele la libertà di scegliere il tempo e il luogo in cui lanciare la seconda offensiva. L’Egitto chiese aiuto agli alleati arabi, ma i suoi appelli non furono ascoltati. Libano, Arabia Saudita e Yemen promisero tutti assistenza, ma nessuno tenne fede alla parola. Gli iracheni bombardarono alcuni villaggi israeliani vicino alle loro prime linee, in segno di solidarietà con il loro alleato circondato da truppe nemiche. Senza eccezioni, tutti gli Stati arabi ebbero timore di intervenire o non vollero farlo. Le truppe israeliane fecero un balzo in avanti, cacciarono gli egiziani dal fianco sud-occidentale del Negev e penetrarono nel Sinai dalla periferia di El-Arish. L’Operazione Horev costrinse l’Egitto, il più potente degli Stati arabi e quello con le migliori credenziali per gui-dare gli altri, ad aprire le trattative di armistizio con lo Stato di Israele e porre fine alla guerra. Il 7 gennaio 1949 entrò in vigore il cessate il fuoco proclamato dall’ONU, segnando formalmente la fine della prima guerra arabo-israeliana.

Conclusioni

Questa indagine sulla strategia e sulle tattiche utilizzate da Israele nell’affrontare la coalizione araba nel 1948, non intende sminuire la vittoria degli israeliani, ma piuttosto collocarla nel contesto politico e militare appropriato. Quando si esplora la politica del conflitto, e non solo le operazioni militari, il quadro che emerge non è quello a cui siamo abituati - un Israele solo contro la potenza del mondo arabo - ma quello di una notevole convergenza di interessi fra Israe-le e Transgiordania contro gli altri membri della coalizione araba e soprattutto contro i palestinesi.

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Il mio scopo non è dare un giudizio morale sulla condotta tenuta da Israele nel 1948, o delegittimare il sionismo, ma suggerire come la tradizionale versione sionista della nascita di Israele e del primo conflitto arabo-israeliano sia profondamente viziata. La narrazione sionista, come tutte le versioni nazionaliste della storia, è una curio-sa commistione di realtà e finzione. Alla nuova storiografia è stata rivolta l’accusa di essere stata guidata non dalla ricerca della verità sul passato, ma da un programma politico anti-israeliano. Nonostante queste critiche, esse stesse politicamente ispirate, la nuova storiografia è essenzialmente un sereno tentativo di utilizzare documenti ufficiali per mettere a nudo alcune finzioni che hanno finora circondato la nascita di Israele. Essa offre una prospettiva alternativa, un modo diverso di guardare ai terribili eventi del 1948. La storia è un processo di demistificazione e la nuova storiografia contribuisce a demistificare la nascita di Israele e a fornire un quadro più completo, sfumato e complesso di quella che è sicuramente una delle storie più celebri del ventesimo secolo. Non deve sorprendere che il dibattito fra gli storici tradizionalisti (filo-sionisti) e i “nuovi storici” sia così acceso. Se questo accade è perché il dibattito sul 1948 colpisce direttamente l’immagine che Israele ha di sé.

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Note 1 Yehoshafat Harkabi, Arab Attitudes to Israel, Jerusalem, 1972, pp. 37-38.2 Si veda Avi Shlaim, “The Debate about 1948”, in IJMES, 27, 1995, pp. 287-

304.3 Walid Khalidi, From Haven to Conquest: Readings in Zionism and the Pale-

stine Problem Until 1948, Beirut, 1971, pp. 858-71; Simha Flapan, The Birth of Israel: Myths and Realities, London, 1987, pp. 187-99; e Benny Morris, 1948 and After: Israel and the Palestinians, Oxford, 1994, pp. 13-16 [Milano, 2004].

4 Jacob Tsur, Zionism: The Saga of a National Liberation Movement, New York, 1977, pp. 88-89.

5 Zvi Elpeleg, The Grand Mufti: Hajj Amin al-Hussaini, Founder of the Pale-stinian National Movement, London, 1993, p. 86.

6 S. Flapan, The Birth of Israel, op. cit., p. 130 (citazione da un resoconto di Michael Comay a proposito di una conversazione con la giornalista britannica Claire Hollingworth).

7 Muhammad Amin al-Husayni, Haqa’iq ‘an qadiyyat filastin [Fatti sulla questione palestinese], il Cairo, 1956, p. 22.

8 Yezid Sayigh, Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993, Oxford, 1997, p. 14.

9 Sui rapporti fra ‘Abdullah e i sionisti, si vedano: Mary C. Wilson, King ‘Ab-dullah, Britain and the Making of Jordan, Cambridge, 1987; Joseph Nevo, King ‘Abdullah and Palestine: A Territorial Ambition, London, 1996; Yoav Gelber, Jewish-Transjordan Relations, 1921-1948, London, 1997; Avi Shlaim, Collusion across the Jordan: King ‘Abdullah, the Zionist Movement, and the Partition of Palestine, Oxford, 1988.

10 Ezra Danin, “Talk with ‘Abdullah”, 17 November 1947 (S25/4004); Elias Sasson a Moshe Shertok, 20 novembre 1947 (S25/1699), Central Zionist Archives (CZA), Gerusalemme. Si veda anche Shlaim, Collusion across the Jordan, op. cit., pp. 110-117.

11 Intervista a Yaacov Shimoni, 26 agosto 1982, Gerusalemme.12 Rapporto anonimo, 16 marzo 1948 (S25/3569), CZA.13 David Ben Gurion, Yoman Ha-milhama, 1948-1949 [Diario di guerra: la guerra

d’indipendenza, 1948-1949], a cura di Gershon Rivlin e Elhanan Orren, 3 voll., Tel Aviv, 1982 (vol. I, p. 330).

14 Intervista con Yehoshua Palmon, 31 maggio 1982, Gerusalemme. Si veda anche Dan Kurzman, Genesis 1948: The First Arab-Israeli War, London, 1972, pp. 67-69; Larry Collins e Dominique Lapierre, O Jerusalem, New York, 1972, pp. 269-270.

15 Kurzman, Genesis 1948, op. cit., p. 137.16 Governo dell’Iraq, Taqrir lajnat al-tahqiq al-niyabiyya fi qadiyyat filastin

[Rapporto della commissione d’inchiesta parlamentare sulla questione pale-stinese], Baghdad, 1949.

17 Rapporto di Golda Meir ai tredici membri del Consiglio di Stato provvisorio. Archivio di Stato Israeliano, Provisional State Council: Protocols, 18 April-13 May 1948, Jerusalem, 1978, pp. 40-44. Si veda anche Shlaim, Collusion

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across the Jordan, op. cit., pp. 205-14. 18 Golda Meir, My Life, London, 1975, pp. 176-80 [trad. it. Milano, 1976].19 Per una revisione completa della letteratura e del dibattito, si veda Avraham

Sela, “Transjodan, Israel and the 1948 War: Myth, Historiography and Reality”, in Middle Eastern Studies, 28, 1992, pp. 623-88.

20 Stato di Israele, Political and Diplomatic Documents, December 1947- May 1948, Jerusalem, 1979, pp. 789-91.

21 Fra le fonti arabe più rivelatrici del disaccordo e dei sotterfugi esistenti nella coalizione araba, si veda: Parlamento iracheno, Taqrir Lajnat al-Tahqiq, op. cit.; ‘Abdullah al-Tall, Karithat filastin [La catastrofe palestinese], il Cairo, 1959; Salih Sa’ib al-Jubury, Mihnat filastin wa-asraruha al-siyasiyya wa al-askariyya [Il disastro palestinese e i suoi segreti politici e militari], Beirut, 1970; Muhammad Hasanayn Haykal, Al-‘Urush wa’l-juyush: kadhalik infajara al-sira‘a fi filastin [Troni ed eserciti: così scoppiò la guerrra in Palestina], il Cairo, 1998. Per due eccellenti analisi delle fonti e della storiografia arabe sulla guerra del 1948, si veda Walid Khalidi, “The Arab Perspective”, in Wm. Roger Louis e Robert W. Stookey (eds.), The End of the Palestine Mandate, London, 1986, pp. 104-36; Avraham Sela, “Arab Hystoriography of the 1948 War: The Quest for Legitimacy” in Laurence J. Silberstein (ed.), New Perspectives on Israeli History: The Early Years of the State, New York, 1991, pp. 124-54.

22 Re ‘Abdullah di Giordania, My Memories Completed: “Al-Takmilah”, trad. dall’arabo di Harold W. Glidden, London, 1978, pp. 20-21.

23 Anita Shapira, “Politics and Collective Memory: The Debate over the ‘New Historians’ in Israel”, in History and Memory, 7, 1995, pp. 9-40.

24 Nelle sue memorie il maggiore ‘Abdullah al-Tall, che guidò l’attacco, rivela di aver indotto Glubb Pasha, con un inganno, a permettergli di inviare rinforzi a un’altra unità che falsamente si diceva fosse caduta in un’imboscata degli ebrei a Kfar Etzion. Si veda Tall, Karithat filastin, op. cit., pp. 31-34.

25 John Bagot Glubb, A Soldier with the Arabs, London, 1957, p. 110.26 Intervista con il generale di corpo d’armata Yigael Yadin, 19 agosto 1982,

Gerusalemme.27 Intervista con il generale di divisione Moshe Carmel, 1 settembre 1983, Tel

Aviv.28 Uri Bar-Joseph, The Best of Enemies: Israel and Transjordan in the War of

1948, London, 1987.29 Jubury, Mihnat filastin, op. cit., pp. 189-90.30 Ben Gurion, Yoman Ha-milhama, op. cit., vol. II, pp. 453-54.31 Amitzur Ilan, The Origins of the Arab-Israeli Arms Race: Arms, Embargo,

Military Power and Decision in the 1948 Palestine War, Basingstoke, 1996; Robert Danin, “The Rise and Fall of Arms Control in the Middle East, 1947-1955: Great Power Consultation, Coordination, and Competition”, tesi di dottorato, University of Oxford, 1999.

32 Folke Bernadotte, To Jerusalem, trad. di Joan Bulman, London, 1951, pp. 163-64; ‘Arif al-‘Arif, al-Nakba [La catastrofe], 6 voll., Beirut e Sidon, 1956-60 (vol. III, p. 593); PRO, C. M. Pirie-Gordon a B. A. B. Burrows, 25 luglio 1948 (FO 371/68822).

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33 PRO, Sir Alec Kirkbride al FO, 6 agosto 1948 (FO 371/68830).34 Muhammad Mahdi Kubba, Mudhakkirati [Le mie memorie], Beirut, 1965,

pp. 261-67.35 Intervista con Yehoshua Palmon, 31 maggio 1982, Gerusalemme.36 PRO, Glubb a Burrows (segreto e personale), 22 settembre 1948 (FO

371/68861).37 Avi Shlaim, “The Rise and Fall of the All-Palestine Government in Gaza”, in

Journal of Palestine Studies, 20/1, 1990, pp. 37-53.38 Moshe Sharett, Besha’ar Ha-umot, 1946-1949 [Alle porte delle nazioni, 1946-

1949], Tel Aviv, 1958, pp. 307-09.39 Intervista con Yaacov Shimoni, 26 agosto 1982, Gerusalemme.40 Ben Gurion, Yoman Ha-milhaman, op. cit., vol. III, p. 737 - annotazione del

7 ottobre 1948. 41 Glubb, Soldier with the Arabs, op. cit., p. 192.42 Glubb a Goldie, 16 ottobre 1948. Sono grato al colonnello Goldie per avermi

dato accesso a questa lettera.43 Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949,

Cambridge, 1987, p. 218.