Shining Star

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Shining Star, Esmeralda Verona - Sentimentale - 0111edizioni

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Esmeralda Verona

SHINING STAR

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SHINING STAR Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Esmeralda Verona ISBN: 978-88-6307-301-1

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Luglio 2010 da Digital Print

Segrate – Milano I personaggi, i singoli eventi narrati, i nomi e i dialoghi sono frutto

dell’immaginazione e della libera espressione artistica dell’autrice. Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali, deve ritenersi casuale e dipendente unicamente da finalità narrative.

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A mia madre, il punto di riferimento della mia vita

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Bisogna avere un caos dentro di sé per generare una stella danzante.

Friedrich Nietzsche

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Capitolo 1 Fissavo il lampadario di Swarovski che troneggiava al centro della sontuosa sala da pranzo. Sembrava l’unico oggetto dotato di movimento vitale all’interno della stanza, perché i cristalli ondeggiavano un poco nell’aria, creando piccoli giochi di luci e colori. I riflessi arcobaleno mi avevano incantata. Trovavo in essi uno spiraglio di luce in una serata buia e silenziosa. Mio papà mangiava con aria depressa e stanca. Mia mamma masticava nervosamente, con movimenti solenni, apparentemente rapita da pensieri importanti. Ma comunque in un silenzio sacrale. Interrotto a tratti solo dai piccoli rumori provenienti dalla cucina, dove la cameriera stava spentolando. Ecco come passavo l’unica sera a casa dei miei, una volta a settimana. In una noia mortale. Non tanto per il mutismo, che non regnava tutto il tempo. Durante la prima portata mia mamma mi seppelliva sotto ad una carrellata di resoconti e informazioni su argomenti sociali, come le feste del Country Club o gli incontri di beneficenza organizzati con il Rotary. La seconda portata, invece, era dedicata alla sistematica sequenza di domande sulle mie novità scolastiche: gli esami e la mia vita universitaria. Ne sparava una dietro l’altra, quasi non fosse tanto interessata a ricevere una risposta, ma semplicemente a porre la domanda. Non avevo mai voglia di risponderle, ma fingevo comunque un tono gentile ed educato, come mi era sempre stato insegnato. Certo, magari parlavo a monosillabi, ma perlomeno la facevo contenta. Non sopportavo la sua maniacale fissazione per le mie cose di scuola. Doveva sapere tutto ed essere sempre informata su ogni dettaglio della mia vita, per non farsi trovare impreparata se qualcuna delle sue conoscenze, tra parenti e amici, le avesse domandato come stesse sua figlia. Ma quel silenzio, tra un monologo e l’altro di mia madre, mi uccideva. Era opprimente.

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Avevo già perso la fame. Una tristezza pesante come un mal di testa mi aveva invasa e fissarsi su qualcosa di dinamico come i movimenti dei colori sui cristalli del lampadario mi sembrava la cosa più attiva che potessi fare durante quella cena. «Come sta Elizabeth?» mi risvegliò mia mamma, facendomi sentire quasi in colpa per essermi assentata col pensiero per qualche minuto. Dunque, diceva… Elizabeth… Beth (io l’avevo sempre chiamata così) è la mia migliore amica di sempre ed i suoi genitori, Charlie e Linette Williams, sono amici dei miei. O meglio, Linette è molto amica di mia mamma. Charlie è sempre in viaggio per lavoro, quindi lui e mio papà non è che si conoscano molto bene. «Bene. Vi saluta, come sempre», risposi svogliata. «Che cara. Ricambiamo con tanto affetto. E’ una ragazza davvero gentile e premurosa, non è vero, Peter?» «Certo», borbottò distrattamente mio padre, mentre alzava il calice di vino rosso e lo portava alle labbra. «Papà, il solito loquace…» pensai. Sembrava sempre assente, con la mente da un’altra parte. Tutte le volte la conversazione era in mano a mia madre. Che parlava con un tono volutamente raffinato, alla ricerca di vocaboli forbiti, come se si stesse esibendo in una conversazione ultra formale. Credo sia un difetto del cosiddetto “borghese arricchito”, che si sente sempre alla prova in quanto a buone maniere, bon ton ed eleganza, perché non è stato educato in famiglie d’alta classe, ma ha raggiunto il ceto d’elite grazie ad una scalata sociale, solitamente sporca di corruzione e slealtà. Ma non nel caso di mia mamma. Samantha Jean McLeod, figlia di un fattore texano, dal sorriso genuino e le mani sporche di terra. Sua madre, nonna Darlene, faceva la casalinga e si dava da fare nel ranch di famiglia, nel quale aveva dovuto lavorare anche mamma Samantha, insieme a suo fratello Warren, più grande di lei. Prima che lui partisse per New York e per la Columbia University, per studiare Economia, e diventare così un accreditato commercialista di uno studio della città. Zio Warren era sempre stato il genio della famiglia McLeod: ottimi voti a scuola grazie ad un innato talento nella matematica e nella statistica. Poi era un maschio: era più naturale che avesse la possibilità di studiare, al contrario di mia mamma, che invece quest’opportunità se l’era dovuta sudare.

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Ma, da quando suo fratello era partito, mia mamma aveva cominciato a nutrire il sogno di lasciare il Texas e la campagna per sbarcare nella Grande Mela, che immaginava piena di opportunità e stimoli. Arrivata all’agognato diploma, la bella Sam (come l’hanno sempre chiamata il nonno e zio Warren) era fuggita a gambe levate dalla campagna di Brady, per la dinamica e frenetica New York. Dopo lunghe fatiche, era stata accettata anche lei alla Columbia. Si era impegnata tanto: il nonno diceva che passava le notti intere a studiare, perché durante il giorno doveva lavorare nel ranch. Niente corruzione quindi, solo tanta dedizione. Tanta da aver vissuto il liceo solo in funzione di quella borsa di studio per la Columbia: «la chiave per la libertà», secondo la mamma. A New York, fresca di laurea in Giornalismo, giovane donna in carriera senza peli sulla lingua, aveva conosciuto Peter Stanford… Papà. Che a quei tempi lavorava in Borsa, a Wall Street, come tutti gli altri uomini della sua famiglia, prima di lui. Quando papà parlava della giovane Samantha, aveva una luce negli occhi e un sorriso sognante. Diceva di essere rimasto colpito dalla sua aria sveglia, dalle sue idee chiare su come il mondo andasse… e su come avrebbe dovuto andare! «Era bella, intelligente, spigliata… Un’idealista piena di nobili valori e virtù ambiziose! Di stoffa ne aveva da vendere…» raccontava papà. La mamma era ancora bella, ma di una bellezza più costruita e falsa rispetto a quella testimoniata dalle vecchie foto, della laurea e del matrimonio, quando aveva i capelli lunghi, sciolti, ed un sorriso spensierato sempre stampato in volto. Adesso i capelli li portava in un casto caschetto, un po’ gonfio, che fa sempre chic addosso ad una signora. E il sorriso non è più spensierato, ma forzato e, talvolta, ipocrita. Un anno dopo il matrimonio lei convinse papà a trasferirsi in Connecticut, come avevano fatto tutte le sue amiche che avevano sposato uomini dell’alta società newyorkese. Forse avevano tutte cominciato a sentire il bisogno di “sistemarsi”… Papà rinunciò così alla città che più amava, al lavoro che adorava fare, ed a molto altro. Solo per la mamma. Lei diceva che New York non era adatta a metter su famiglia, che lavorare in Borsa era un mestiere troppo rischioso, che da un momento all’altro poteva farli finire sul lastrico. E con un figlio sarebbe stato assolutamente intollerabile. Magari semplicemente non le piaceva l’appartamento che i nonni Stanford

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avevano regalato loro come dono di nozze: un trilocale appena fuori Manhattan. Niente a confronto con il loro attico in Park Avenue… E mia mamma non poteva più accontentarsi, dopo aver sposato un rampollo di cognome Stanford. In ogni caso, la scusa fu che il Connecticut era l’ideale per vivere una vita tranquilla e dignitosa. Fu contentissima quando papà trovò lavoro in una società di assicurazioni di Hartford: mestiere ben pagato e più che stabile. Abbandonarono la City e con esso il carattere sbarazzino, esuberante e spensierato della mamma, che papà adorava. Ed arrivarono nella periferia di Hartford, cittadina di provincia rispetto alla grande metropoli, nel lontano 1988, due anni prima della mia nascita. E da allora da qui non se ne andarono più. Mia mamma piantò delle radici ben profonde e, tra il circolo di bridge con le mogli dei colleghi di papà e le attività col Rotary, non riprese mai più la carriera di giornalista. Comprarono una bella villa un po’ fuori città e mio padre si dimenticò le passeggiate in Central Park, i vecchi amici di New York, e il lavoro in Borsa che lo faceva sentire realizzato. Quando poi, dopo una decina d’anni di gavetta in una grande società di assicurazioni, si era messo in proprio, i guadagni si erano di molto alzati. Aveva aperto una sua attività di consulenza nelle assicurazioni e, grazie alla sua esperienza e alle sue indiscutibili capacità, il suo business aveva avuto un gran successo. La mamma lo aveva persino iscritto al Country Club. E il golf è l’unico suo passatempo, adesso. Ma non era certo questa la sua grande passione. Mio padre è sempre stato un uomo di cultura, amante dell’arte, della letteratura e della musica lirica. Non credo che mio padre odiasse vivere in Connecticut, né che non gli piacesse la casa dove tuttora vivono ad Hartford, molto più grande di qualsiasi altra avrebbero potuto avere a New York City. Amava la natura. «Central Park è un respiro fresco e rilassante nella frenesia newyorkese, che spesso ti fa dimenticare persino di respirare», diceva lui. Ma amava anche gli stimoli e sapevo, dai suoi racconti, quanta nostalgia avesse del dinamismo metropolitano, «dove il lavoro è considerato il ritmo vivo e attivo della giornata; dove esci per strada e trovi sempre gente». Ad Hartford devi uscire in macchina e raggiungere qualche punto di interesse specifico per incontrare le persone. Perché se esci di casa vedi solo boschi e marmotte. Probabilmente gli scocciava doversi essere ridotto a vivere nel cliché del ricco uomo d’affari di

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provincia: semplicemente quel vestito non gli calzava. Ma aveva trattenuto il fiato e chiuso non senza difficoltà i bottoni di uno stretto panciotto sulla sua prominente pancia da uomo di mezza età, facendosi andare bene tutte quelle cose, per far contenta la sua Samantha. Ma lei si rendeva conto che quello non era il suo mondo? Si rendeva conto che papà non era felice? Per me, quella benedetta domenica sera, a casa loro, era sempre una tortura. Mi sentivo rigida e sotto esame. Ma un giorno di visita alla settimana è d’obbligo, se frequenti Yale e i tuoi vivono ad Hartford. Non che mi piacesse sentirmi costretta, ma ritenevo più facile costringermi a non fare ciò che avrei voluto, piuttosto che farlo e dover così discutere o litigare con le persone, deluderle o comunque sorprenderle spiacevolmente. In poche parole, preferivo sobbarcare su me stessa le sofferenze, piuttosto che scaricarle agli altri. Ma questo lo capii solo più tardi. «E tu invece? Quando sarà il prossimo esame?» mi chiese ancora in quel tono odiosamente formale. «Venerdì ne ho uno di storia. Domani c’è il test del prof. Blanc», risposi con un’indolenza certamente molto educata. «Il professor Robert Blanc? Oh, che gran personalità!» esclamò fin troppo esultante la mamma. «Ho sentito parlare tanto bene di lui! Astrid, sai che tuo padre è stato allievo di suo nonno, il professor Maxwell Blanc? Non è vero, Peter, caro?» «Oh, sì… Anche suo nonno insegnava a Yale. Seguivo le sue lezioni di Scienze Politiche», mormorò papà, senza troppo interesse, come se si fosse appena sintonizzato sul discorso. «Suo nipote tiene lo stesso corso! Magari si tramandano la cattedra di generazione in generazione!» aggiunsi. Guardai papà cercando di captare la sua attenzione, sperando che le mie parole lo avessero coinvolto almeno un po’, ma dovetti disilludermi. «Cara, porta i saluti di tuo padre al prof. Blanc. Gli farà sicuramente piacere riceverli», disse la mamma posando sul tavolo il tovagliolo che aveva sulle gambe. La mamma era tutta un “portare saluti” qua e là. «D’accordo». Mary, la cameriera, arrivò svelta col mio cappotto, mentre papà e mamma mi stavano accompagnando alla porta. «Grazie, Mary», le feci un sorriso. Doveva averne bisogno, lavorando a tempo pieno al servizio del sergente mamma.

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«Prego signorina», ricambiò lei, dimessamente. «Buonanotte, papà», lo baciai sulla guancia. «Buonanotte, tesoro. Ci vediamo domenica prossima», recitò lui. «Certo, papà. ‘Notte, mamma. Ti chiamo domani, dopo il test». «Ti chiamo io», decretò lei. «Dobbiamo ultimare alcuni preparativi per la serata di giovedì…» Giovedì… il party di beneficenza, giusto! Me lo stavo quasi dimenticando. Dopo tutto il lavoro che avevo fatto per aiutare la mamma ad organizzarlo! Lo stavamo pianificando da mesi, e con la grande fortuna che mi ritrovavo, il professor Grimaldi aveva piazzato il giorno dopo il test di Storia, la materia più ostica che ci potesse essere. «Ok, buonanotte», ripetei. «Buonanotte anche a te, Astrid», e chiuse la porta. «Astrid»… Odiavo il modo in cui pronunciava il mio nome, così a denti stretti, rendendolo più spigoloso di quanto già fosse. Sospirai e mi incamminai svogliatamente alla macchina. Perché mi sentivo sempre così apatica, come chiusa in un bozzolo ovattato che non mi faceva sentire distintamente gli stimoli esterni? Perennemente stanca e depressa. Si può vivere un’intera vita passivamente? Stavo forse facendo la fine di papà? Con la spina staccata dalla presa del mondo, mi stavo forse muovendo inerziale, con delle batterie che non danno le stesse prestazioni dell’elettricità pura? E quando ti muovi per inerzia, sai dove vai? Non sapevo se quei pensieri avessero fondamento o no. Ma sapevo che mio padre non era sempre stato così. Prima di chiudersi in se stesso e diventare una persona anonima e depressa, papà partecipava alle conversazioni a tavola, animandole con battute scherzose che facevano inalberare la mamma. La prendeva in giro quando usava un termine troppo pomposo o sbagliava la pronuncia di un altro parolone. Rideva quando gli raccontavo degli aneddoti su Beth che, quando eravamo alle elementari, era davvero una peste. Non che fosse cambiata molto, comunque… «Astrid, smettila, ti prego! Mi farai morire dal ridere!» mi supplicava. Mi piaceva osservarlo ridere a crepapelle dei miei racconti, così, finché di storie ne avevo, continuavo a raccontare. E lui rideva, e rideva… E poi diventava tutto rosso, tenendosi la pancia dalle troppe risate. «Peter, non essere così sguaiato!» lo rimproverava la mamma.

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Da un po’ di tempo non mi chiedeva più di accompagnarlo al Country Club per passeggiare nei campi da golf con lui, chiacchierando di musica ed arte. Mio padre amava l’opera, e mi raccontava le storie e le leggende sui grandi compositori, come Mozart, Beethoven e Wagner. Inoltre era un pittore. Nella mia camera al Davenport di Yale, il mio college, c’è appeso un quadro dipinto da lui. Un quadro davvero suggestivo. Raffigura Times Square ed una gran folla in movimento, un ammasso di corpi indistinti, al centro del quale appare la sagoma appena definita di una persona immobile. Una sola persona completamente immobile in mezzo a quel gran viavai di gente. Sapevo cosa significava quell’immagine. Papà aveva sempre detto che gli abitanti di New York vivono una vita convulsa, con la giornata programmata secondo per secondo. Diceva che non hanno mai il tempo di fermarsi un attimo ad osservare le meraviglie del mondo che li circonda. Ed era per questo che lui, una volta al giorno, si prendeva un’ora di tempo per passeggiare in Central Park. Per fermarsi un attimo e riflettere. Peter Stanford non era un semplice matematico, un mero calcolatore, un opportunista come un qualsiasi business man: aveva l’anima dell’artista ed il cuore del sognatore. Perché, allora, si era lentamente spento? Perché non vedevo più brillare in lui la voglia di viaggiare, di farmi da guida in giro per musei a New York, di dipingere, di cantare “Libiam ne’ lieti calici” a pieni polmoni, mentre lavorava in mezzo a miriadi di scartoffie nel suo studio in noce scuro?

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Capitolo 2 «Signorina Stanford, ha fatto davvero un buon lavoro con il paper. Il caso Paulson vs Arkansas è un esempio ben centrato. Credo che dovrebbe preparare una relazione su questo argomento, da esporre alla classe: sarebbe un approfondimento utile per il corso», si complimentò il professor Blanc. «Sì, secondo me dovrebbe fare una ricerca sui casi simili di adozioni internazionali nel mondo, per aggiungere un giudizio comparativo», proseguiva fantasticando. Il professor Robert Blanc era un uomo maturo, di bell’aspetto: capelli brizzolati, occhi castani e barba un po’ incolta. Probabilmente non aveva nemmeno cinquant’anni, o almeno non li dimostrava. Era famoso, a scuola, per essere l’insegnante più attraente di tutta Yale. Mi guardò, nella sua mise elegante: gilet a rombi blu e gialli, cravatta ocra e camicia bianca. «Che ne dice, signorina Stanford? Mi sembra una buona opportunità per lei…» “Lavoro in più”, pensai pigramente, “come se non avessi già abbastanza da studiare!” Ovviamente tenni quei pensieri per me: sarà stato anche un professore giovanile, ma dovevo comunque trattarlo con riguardo. Io non mancavo mai di rispetto a nessuno. «Per quando dovrei prepararlo?» chiesi un po’ intimorita. «Pensavo per il mese prossimo. Pensa di avere tempo sufficiente? Forse dovrebbe prima svolgere qualche ricerca… Le mando del materiale questo pomeriggio. Entro la fine della settimana mi faccia sapere quanto tempo prevede di impiegare. D’accordo?» Sospirai. Ormai aveva deliberato. La sua era solo una domanda retorica. «Certo, professore». Non dovevo aver reagito in maniera troppo entusiasta alla sua proposta, come lui forse si aspettava. «Ah, signorina Stanford! Ovviamente questo lavoro aggiuntivo sarà considerato nel voto finale, e, se sarà svolto con eccellenza, potrà enumerarlo nelle sue pubblicazioni», precisò il prof. Blanc, con un sorriso fiero.

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“Ci mancherebbe altro”, pensai ancora scocciata. Invece di essere contenta per aver ricevuto un encomio, per essere entrata nelle grazie dello stimato prof. Blanc, per avere un’interessante opportunità di approfondire uno degli argomenti che mi era sembrato meno noioso tra quelli della sfilza di corsi che avevo dovuto seguire, mi lamentavo perché lo consideravo uno sforzo in più. Non dovuto. «Va bene. Arrivederci». Mi diressi verso l’uscita dell’edificio strascicando i piedi, uggiosa, e nel cortile, intorno al venditore ambulante di bevande, trovai il mio gruppetto di amici mentre faceva una pausa tra una lezione e l’altra, chiacchierando e sorseggiando il caffè che spesso li teneva in piedi durante la lunga giornata di spiegazioni e studio. «Ti ho preso un the alla mela!» mi venne incontro Beth. La mia Beth… La mia migliore amica dai tempi delle elementari. Fu la prima a scorgermi: i suoi occhi si accesero del loro castano caldo. Mi notò, nonostante stessi arrivando nella forma più discreta e silenziosa possibile. Beth era davvero bella. Sbarazzina. Aveva lunghi capelli castani, mossi e ben acconciati, che le incorniciavano il suo viso rotondo e roseo. Portava un vestito blu scuro, coperto da un pellicciotto delicato decisamente troppo elegante per andare a lezione. La sua mise era impreziosita da un paio di costosissime scarpe col tacco di Armani. Aveva buon gusto, c’era da dirlo, e poteva anche permettersi di averlo. Suo padre lavorava in politica. Era uno dei senatori dello stato del Connecticut, e passava lunghi periodi a Washington, alla sede del Congresso. I soldi non gli mancavano e stravedeva per le sue bambine, Beth e la piccola Lucy, che cercava di accontentare in ogni loro capriccio. E Beth ne aveva tanti. Anche a me piaceva vestirmi bene, con abiti di buona fattura, ma stavo più attenta alla sobrietà che alla moda, come invece faceva Beth. «Grazie, Beth. Mi ci voleva proprio!» la salutai con un sorriso appena accennato. Mi prese a braccetto. «Cosa voleva il prof. Blanc?» chiese con un tono e un’espressività che volevano ammiccare all’indiscutibile fascino del prof. «Siete rimasti in aula da soli, a parlare…» Si morse un labbro e alzò un sopracciglio, poi riprese a sorseggiare la sua bevanda, guardandomi con interesse.

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«Piantala, Beth. Cosa pensi potesse volere? Parlare del paper e chiedermi di fare una ricerca approfondita su un argomento… per poi esporla in classe…» dissi a denti stretti, e guardandola con disappunto, per sottolineare la mia contrarietà all’idea di Blanc. Il suo sguardo birichino e sospettoso mutò in un’espressione un po’ schifata: «Oh cavolo. Che pizza!» «E’ perché sei una brutta secchiona!» si intromise Grace, prendendomi in giro. Grace aveva i capelli rossicci, corti e pieni di piccoli ricci. Un look meno raffinato rispetto a quello mio o di Beth. Non le erano mai interessati i vestiti, per non parlare della moda, ma il suo stile casual era comunque armonioso e aggraziato. Non era mai stata attratta da tutte le cose per cui le figlie di papà come noi (perché in altro modo non potevo definirci) ammattivano, come il ballo delle debuttanti, gli abiti firmati e le feste di compleanno sfarzose. Era un tipo intellettuale; non era certamente bella come Beth, ma sapeva rendersi affascinante col suo carattere e la sua intelligenza. Almeno così doveva pensarla Kiran, il suo ragazzo, che diceva sempre di essersi innamorato della sua testa. Studiavano entrambi medicina. Kiran proveniva da una famiglia di origine indiana, molto facoltosa: i suoi erano dei ricchi impresari nel settore petrolifero e si erano trasferiti in America quando lui aveva sedici anni. Era stato costretto ad iniziare le superiori dal primo anno, nonostante fosse già in età per passare al terzo, perciò era più grande di noi. Ma era molto intelligente, uno dei migliori della sua facoltà. Lui e Grace erano molto impegnati anche a livello sociale: impiegavano la loro intelligenza aperta e anticonformista in attività filantropiche, pacifiste e pro ambiente. «Non sono una secchiona!» mi lamentai. «E poi… da che pulpito!» ammiccai a Grace. «Sei una delle migliori in tutti i corsi che frequenti!» Kiran sfregò la chioma di Grace con affetto: «Il mio genietto!» disse sorridendo. «Uffa! Come siete mielosi! E poi smettiamo di parlare di scuola, per favore!» sbuffò Beth. «Piuttosto, che dite, ci andiamo alla festa del Pierson?» Il Pierson è un vecchio college di Yale, dove era stato programmato un party per il venerdì sera successivo. Una di quelle feste universitarie devastanti, dove tutti si ubriacano e c’è sempre uno che la mattina dopo si sveglia nudo sulla rampa di scale del convitto femminile…

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«Io e Grace dobbiamo andare in città, ad un convegno sulla vivisezione sabato mattina, dobbiamo svegliarci presto», disse Kiran. «Ergo, non siamo dei vostri», completò Grace, scusandosi con un sorriso. Beth fece una smorfia: «Un convegno di sabato? Ragazzi!!!! Ma non potete essere così seriosi!» «Sono solo due tipi impegnati, Beth», la redarguì amorevolmente Miles, che fino ad allora non aveva ancora parlato. Miles studiava Ingegneria; aveva la stessa età mia e di Beth. Ed era stracotto di lei. La conobbe alla prima festa delle matricole del primo anno e da allora non si è staccato più da noi due. E’ sempre stato così evidente ciò che provasse per lei… Ma Beth non era adatta alle storie serie. Lo aveva sempre sostenuto. E lui si era sempre accontentato di un’amicizia. I primi mesi del primo anno eravamo inseparabili, noi tre. Poi Kiran si trasferì in camera con Miles, e lui e Grace si unirono alla combriccola. Emily arrivò più tardi. Beth sbuffò e si rivolse a Emily: «E tu cosa pensi di fare, Emily? Hai anche tu faccende barbose in programma per questo weekend?» Miles mi guardò sconsolato, scuotendo la testa. Io feci spallucce e, sorridendo, gli sussurrai: «E’ fatta così!» Beth mi sentì e mi fece una linguaccia. Tipico di lei. Chissà, forse appariva un po’ superficiale e frivola a chi non la conosceva. Per fortuna che noi la conoscevamo bene. Almeno io, che ero stata sua compagna di banco dalle elementari al liceo. Io le volevo bene anche quando si comportava in modo così impulsivo, schietto e spudorato. Io sono sempre stata una tipa introversa e riservata: lei era il mio esatto contrario e mi compensava. Ma Miles sembrava soffrire quel suo carattere un po’ mondano e puerile. «Se tu ci vai, penso di venire anch’io», disse finalmente Emily. Si aggregava sempre alle iniziative di Beth, anche se non con l’entusiasmo che Beth avrebbe desiderato: Emily era timida, introversa. Parlava raramente di se stessa. Anzi, diciamo pure che parlava raramente e basta. Era entrata a far parte del nostro gruppo per ultima: forse per questo sembrava considerarsi non completamente integrata nella compagnia. Sempre insicura di dire la cosa sbagliata, sempre esitante e impacciata. Però non diceva mai di no: sembrava tenere molto all’esser parte della nostra comitiva.

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«Brava Emily!» esclamò Beth battendo le mani. «A te, Star, non lo chiedo nemmeno! Ti trascinerò con me anche contro la tua volontà!» Beth se ne era uscita con quel nomignolo ai tempi delle elementari. Diceva che “Star” era un soprannome molto più simpatico del mio nome di battesimo. «Beth, devo iniziare la ricerca del prof. Blanc! Altrimenti quando mi ci metto?» Tentai di tagliarmi fuori dai suoi soliti programmi mondani. «E poi, lo sai, giovedì c’è il party di beneficenza che organizza mia madre, e in questi giorni devo aiutarla con i preparativi. In più venerdì c’è il test di storia! Ho ancora un libro da 200 pagine da studiare!» «Ma è venerdì sera! Non si studia il venerdì sera…» «Chi l’ha fatta questa regola?» si intromise Miles. Beth gli rispose fulminandolo con lo sguardo, poi tornò a rivolgersi a me: «Dai, Star, non fare la guastafeste! Me l’avevi promesso! Ricordi? Devi presentarmi il tuo compagno di corso! Quello carino!» Guardai l’orologio. «Ne parliamo dopo, Beth. Adesso ho una lezione. Ci vediamo in camera. Io torno per le cinque». «La mia ultima lezione finisce alle sei e mezza, quindi ci vediamo verso le sette. Ciao!» «Ciao a tutti!» mi congedai. Mi diressi verso il dipartimento di Diritto Pubblico, mentre gli altri mi salutavano con la mano. Dovevo trovare il modo di scaricare Beth, a quella dannata festa, alla quale non avevo assolutamente voglia di andare. Capirai: un gruppo di damerini infighettati che si ubriacano e tentano disperatamente di rimorchiare.

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Capitolo 3 «Pronto?» Risposi toccando un tasto dell’auricolare bluetooth che avevo all’orecchio. «Sì, ciao mamma. Sì, sono in autostrada, sto arrivando. Certo che ho con me il book con i tavoli assegnati!» le dissi un po’ seccata. «Ho diciannove anni ormai, vado al college e studio per diventare avvocato; vivo da sola da un anno e mezzo e mia madre deve ancora accertarsi delle mie capacità di far fronte a delle stupide responsabilità, come ricordarmi di portare la lista degli invitati e dei posti?» pensavo irritata. «Sì, dai riattacco che tanto sono quasi arrivata. Sì, ho portato l’abito blu, come avevi detto tu». La sentii esultare al telefono. Era un vestito in seta blu, di Yves Saint-Laurent. Bellissimo, ma insipido. Io, veramente, avrei voluto indossare un abito giallo, non griffato, che avevo trovato in un negozietto anonimo, a New Haven. Ma figuriamoci se a mia mamma andava bene: lei pensava che sfigurassi con quel vestito. «Il blu ti dona, Astrid. Mi piace l’effetto che fa sulla tua pelle rosea e suoi tuoi capelli biondi. E mette in risalto l’azzurro dei tuoi occhi!» mi aveva detto. «Quell’abitino giallognolo e insignificante non dice niente a nessuno! Cara, devo dirtelo: si capisce che non è di una casa di alta moda!» aveva dichiarato un po’ disgustata. «Non sia mai che tu ti vesta con un abito meno caro ed appariscente di quello di Bridget McCrae!» avrebbe voluto aggiungere. Bridget è la figlia di Vivian, un’amica e compagna di bridge di mia mamma, e dello stimatissimo avvocato George McCrae. La mamma si dimostrava davvero superficiale quando parlava in quel modo. E io provavo vergogna per lei e per quelle sue manie perbeniste. Ma, del resto, non era lei. Era tutto quel mondo in cui viveva ad essere così gretto e pregiudizioso. Quelle vecchie matrone pettegole che erano

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le sue amiche, mogli di ricchi affaristi e miliardari, erano attente solo agli abiti, ai gioielli ed allo status sociale di una persona. Ecco il modo in cui giudicavano tutti quanti. Venali e squallide. Una volta al mese, all’incirca, si trascinavano i mariti ad una festa di beneficenza nei dintorni di Hartford, il cui ricavato veniva devoluto per la ricerca contro qualche malattia o per la costruzione di qualche scuola od ospedale in Africa. Nessuno sapeva mai bene a chi andassero i soldi che donavano. Quel che contava era andare, dimostrare di darsi da fare con le opere di carità e fare la propria comparsa in società, magari impacchettati in qualche abito costosissimo e pure un po’ ricercato, per fare la propria porca figura con le amiche borghesi. E poi, a quelle feste, si mangiava bene e si poteva chiacchierare a tutto spiano degli scandali di tutti i membri del circolo degli snob. Uno spasso… Stavolta l’organizzazione del party era stata assegnata a mia mamma, che per l’occasione aveva noleggiato un locale in un edificio storico del centro di Hartford: signorile ed un po’ gentilizio. I guadagni sarebbero andati alla ricerca medica sulla leucodistrofia, una malattia rara. A me era toccato aiutarla nella scelta delle tovaglie, dei bicchieri e dei centrotavola che proponeva la ditta di catering. Poi mi ero messa a tavolino con lei a studiare la disposizione degli invitati, perché nessuno si trovasse al tavolo con qualcuno che non poteva sopportare. Una cosa che avrebbe mandato in completo fallimento la festa e avrebbe fatto sì che mia mamma e le sue capacità organizzative diventassero argomento di accesa critica per qualche settimana in tutti i salotti delle sue amiche. Inammissibile. «Ok, mamma, allora a tra poco. Ciao». Cliccai di nuovo il bottone del mio auricolare e poi alzai il volume dell’autoradio. Prima di rispondere alla telefonata ansiogena di mia madre, avevo messo un cd comprato il giorno prima, quando avevo accompagnato Beth in un negozio di dischi. Doveva comprarsi l’ultimo album di Lindsay Reed, una cantante pop lanciata da poco sul mercato da una delle case discografiche più famose: era una biondina svampita che faceva musica commerciale vuota e puerile. Lindsay Reed era una macchinetta da hit: qualsiasi sciocca canzoncina cantasse, era un successo. Un successo di massa. A Beth piaceva quel tipo di musica lì, non ne ho mai compreso il perché. Io forse ero un tipo un po’ pedante,

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però ero convinta che la musica non fosse uno strumento di marketing, pensato da un team di esperti che mischia sapientemente il corpo seducente di una bambola qualsiasi e una musichina orecchiabile abbastanza da essere canticchiata da tutti per qualche mese. Mi sembrava riduttivo. Ad ogni modo, mentre la mia amica si intratteneva col commesso del negozio, civettando come suo solito, io curiosavo tra gli scaffali. Fui attratta dall’immagine della copertina di un cd, che raffigurava metà sole e metà luna, che insieme formavano un unico grande cerchio. Una stella a due facce. Sea Sunset era il nome della band, e l’album si intitolava “Half of my life”. Non sapevo perché quell’immagine e quel titolo avessero richiamato la mia attenzione, ma volevo scoprirlo. Dalla prima canzone, realizzai che il genere musicale era un punk/rock di ultima generazione, sicuramente molto alla moda tra i giovani, nell’ultimo periodo. Non ero per niente usuale a quel tipo di musica. Avevo sempre avuto poco tempo da dedicare a quelle cose. La musica, la creatività e la passione per l’arte che mi aveva tramandato mio padre le avevo sempre lasciate in disparte, preferendo ad esse lo studio e gli obiettivi scolastici. Conoscevo un po’ di lirica, ed ero stata a teatro con papà a vedere qualche opera. Ed erano state, per me, esperienze bellissime. L’opera mi emozionava. Poi avevo un ampio repertorio di inni cristiani, avendo fatto parte del coro della chiesa fin dall’età di otto anni. Era una delle cose per le quali mia mamma aveva sempre insistito e alla quale io avevo ceduto, non con troppo rammarico. Sul mio lettore mp3 c’era anche qualche canzone della tradizione country, come ad esempio Alan Jackson, John Denver e Jimmy Buffett. Mia madre, da buona texana, aveva una collezione di cd country , nella soffitta di casa nostra, da cui avevo spesso attinto, di nascosto da lei, ovviamente. Si era sempre vergognata delle sue origini semplici e forse la musica che ascoltava quando era una giovane ragazza di campagna le ricordava gli anni in cui non era la ricca moglie di un economista newyorkese. Io, invece, mi divertivo ad ascoltare quelle melodie: erano spiritose e dinamiche. Come forse avrei voluto essere io… In ogni caso, il genere rock, per di più punk, non era mai stato presente nelle mie playlist. Ma le canzoni di quei Sea Sunset mi affascinarono, ed i suoni e le armonie delle tracce mi entrarono presto nella testa.

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Aprii il finestrino: il colore del cielo prometteva bene quel giorno. Misi una mano fuori e lasciai che il vento accarezzasse lievemente la mia pelle chiara alla luce del sole. Non andavo tanto veloce, perciò l’aria non schiacciava con violenza il mio braccio, e potevo muovere le dita e percepire il soffio effervescente e rivitalizzante. Era fresco e anche profumato, perché l’autostrada che percorrevo era costeggiata da grandi boschi alti e fitti. Il Connecticut è una regione molto verdeggiante, piena di foreste incontaminate. Ed io mi divertivo ad allungare le dita, immaginando di sfiorare i rami di quei grandi alberi che, imponenti, si affacciavano sulla strada. Alzai ancora il volume ed aprii di più il finestrino, fin tanto che l’aria raggiunse il mio volto, accendendolo di freschezza. Il vento mi scompigliava i capelli. I miei lunghi capelli lisci e ordinati si contorcevano pazzi nell’aria. Era una sensazione piacevole ed avvolgente. Catartica. Arrivata ad Hartford, posteggiai nel retro dell’edificio dove avrebbe avuto luogo la festa. Mi inserii in un parcheggio a pettine ad una velocità di 30 miglia orarie e dovetti inchiodare per non andare a sbattere contro il muretto. Volevo godere di quella dolce brezza fino all’ultimo istante. Ma, una volta spento il motore, era scomparsa. Chiusi il finestrino e uscii dalla macchina, canticchiando distrattamente una canzone che avevo appena ascoltato. Quando arrivai nella sala della festa, mi ritrovai in mezzo ad un viavai frenetico ed agitato di camerieri ed addetti ai lavori che sistemavano ovunque fiori, sedie e tovaglie. La signora Stanford trottava da una parte all’altra della sala impartendo ordini a destra ed a manca, rimproverando uno per come aveva sistemato un vaso ed un altro ancora per un alone su un bicchiere. Sergente mamma alla riscossa! «Astrid, tesoro!» esclamò quando mi scorse, palesando un viso esausto e seccato, probabilmente dalla «puntuale incompetenza delle ditte di catering», come diceva lei. Nessuna raggiungeva mai la perfezione che lei cercava. «Menomale che sei arrivata! Dobbiamo assolutamente collocare i segna-posto e dare la lista degli invitati con i loro rispettivi tavoli al maître! Oh, santo cielo!» «Mamma, calmati! È tutto sotto controllo!» Chissà perché quelle stupide e insulse feste la mettevano così in tensione! Probabilmente sentiva il peso dei giudizi puntigliosi e

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sussurrati che non tardavano mai ad arrivare: tanti occhietti maligni ma ben truccati pronti a scandalizzarsi per una tovaglia non perfettamente stirata o per un’orchestra eccessivamente chiassosa, eccetera eccetera. Mi misi all’opera: insieme ai camerieri, posizionai i segna-posto, consegnai al maître la lista degli invitati e gli diedi le direttive per far sì che questi fossero accompagnati ai loro tavoli. Poi mi assicurai che il quartetto di musicisti avesse la scaletta giusta e, infine, sistemai i gadget omaggio delle aziende che avevano sponsorizzato la serata. Sembrava tutto in ordine, e la festa pronta a cominciare. «Astrid, sono le sei e mezza. È meglio che tu vada a cambiarti», mi disse mia madre, dopo aver sgridato un cameriere per una macchia sulla sua divisa immacolata. «Sì, mamma». Entrai in una stanza di quel meraviglioso palazzo d’epoca: era arredata con uno stile un po’ rococò, piuttosto sfarzoso. Indossai il mio abito e le mie scarpe rigorosamente griffate e mi guardai nella specchiera dorata che era appesa al muro: ero elegante, ma inespressiva. Squallidamente formale. Guardai fisso la mia immagine riflessa, mentre nella mia mente mi dicevo: “sorridi!” Ma i muscoli del mio viso non riuscivano a muoversi, a contrarsi in una smorfia che assomigliasse almeno lontanamente ad un sorriso. “Sorridi!” Macché. Niente. Non riuscivo a trovare un motivo valido per farlo. Accarezzai la liscia seta blu del mio abito: “sono forse questi vestiti a tenermi intrappolata in questo bozzolo insonorizzato?” Mi sembrava di percepirmelo addosso, nella sua invisibile concretezza. Sentivo che ricopriva come una membrana la pelle di tutto il mio corpo. Come potevo fare per strapparmelo di dosso? Avrei voluto piangere della mia miserabile situazione, ma non ero capace neanche di quello. Strizzavo gli occhi, ma le lacrime non venivano. Penoso. Mi guardavo con disprezzo e delusione, quando qualcuno bussò alla porta. «Astrid?» Era una voce maschile. «Astrid, sei qui?» Mio padre. «La mamma mi ha mandato a dirti di venire, perché stanno arrivando gli ospiti». «Arrivo, papà!»

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Accarezzai lo specchio e l’immagine del mio volto serio e spento, e tirai un lungo sospiro, nel tentativo di farmi coraggio. Nel tentativo di smettere, almeno per un po’, di disprezzare quell’immagine squallida e insignificante che mi rappresentava. Aprii la porta, e salutai con un bacio mio padre, che mi riaccompagnò nel salone della festa. «Astrid! Ti fai sempre più bella!» si complimentò Vivian McCrae, nel suo tailleur rosa Chanel, quando la accolsi, al suo arrivo. «Grazie, signora McCrae» risposi col sorriso omologato. Mi voltavo in giro a stringere mani e fare piccoli inchini, domandare vaghi «come sta?» e «tutto bene suo figlio?» I musicisti erano già all’opera ed i camerieri stavano distribuendo aperitivi. Il brusio cominciava a salire in sala, e questo era un buon segno. Alcuni camerieri erano stati incaricati dal maître, su mio ordine, di accompagnare e mostrare il proprio tavolo ad ogni invitato, per creare meno confusione. In poco meno di mezzora erano tutti al proprio posto e la cena poteva avere inizio. Mia mamma prese il microfono e fece il canonico discorso di benvenuto e ringraziamento per la presenza. Passò poi parola a me, ed io diedi qualche notizia sul progetto umanitario che vedeva protagonisti i malati di leucodistrofia. Spiegai le caratteristiche di questo morbo e quali fossero le novità nel campo della ricerca medica. Presentai il dottor Xanther, un medico che si occupava di casi del genere, che avevo invitato a presenziare la serata. La gente annuiva favorevole, con espressioni serie, e tronfie del proprio merito nell’impegno sociale. Non che fossero persone insensibili alla sofferenza: erano semplicemente troppo concentrate sul loro profitto. Seguì un applauso, ed il quartetto riprese a suonare. I camerieri servirono diligentemente tutti i tavoli ed anche io e mia mamma potemmo sederci e goderci un po’ la cena. «Incredibile. Ed Montgomery… è qui con la moglie, Nina! Avete presente? La modella russa con la ‘passione’ per i centri di riabilitazione! Non so come Ed abbia potuto sposarsela: è molto più giovane di lui ed è completamente squilibrata!» sussurrò mia mamma a me e papà, che annuimmo all’unisono, senza troppo interesse. Lei ci ignorò e proseguì. «Dicono che sia appena uscita dalla clinica Ferguson, in Arizona, per disintossicarsi dall’alcool, per l’ennesima

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volta! Chissà se stasera è sobria o se ha già brindato, prima di venire qui…» ghignò malevola. Io sospirai. Ero infastidita da quel modo così subdolo e meschino di giudicare gli altri, le loro vite ed i loro errori. Nessuno di noi è perfetto, ma trovo spregevole ridere dei difetti degli altri alle loro spalle. Dovremmo aiutarci l’un l’altro, invece di farci lo sgambetto a vicenda. Papà, terminato il suo piatto, tirò fuori il New York Times e prese a leggerlo. «Peter! Ti sei portato il giornale?» chiese la mamma con disappunto. «Ma ti sembra il caso di metterti a leggere nel bel mezzo di un party?» «Perché no?» rispose papà. «Mi annoio». Mia mamma, per tutta risposta, contrasse la bocca in una smorfia ed incrociò le braccia, come un bambino che fa i capricci: faceva l’offesa. La scena era pressoché comica. «Va bene, lo metto via», si arrese papà. Come al solito. Dopo gli antipasti, decisi di fare un giro tra i tavoli, per accertarmi che tutti fossero contenti e soddisfatti. Io e la mamma ci dividemmo la sala in due zone, e li passammo tutti al setaccio. «Il paté di caprino era fantastico, cara! Siete sempre così originali tu e tua madre!», sviolinò la signora Harris, accarezzandomi un braccio con le sue mani rugose e ingioiellate. Il marito, il dottor Carlton Harris, mi fece un cenno di assenso, con la bocca ancora piena di tartine e caviale. «Va tutto bene, signor Dugray?» chiesi un po’ preoccupata. Straub Dugray era un uomo tutto d’un pezzo, dall’aria severa e sempre inquieta. Un uomo borioso, che sembrava guardare sempre tutti dall’alto in basso. Alto, grosso e imponente, il signor Dugray incuteva un po’ di timore. Forse era anche un tipo un po’ violento. Mi liquidò con un breve gesto condiscendente, che sembrava più un incitamento a togliermi dai piedi che un apprezzamento della prima portata. Ma quello era il massimo dell’entusiasmo che potevo aspettarmi da lui. E se qualcosa non gli fosse andato a genio, ero sicura che non ci avrebbe pensato su due volte prima di lamentarsi. Ed era proprio quello che io volevo. Io non desideravo altro che un po’ di sana, schietta sincerità. Ero più che stufa del modo di fare ipocrita di quella gente. «Astrid, come sei carina, stasera. Dimmi: come stai? Come va la scuola?» mi chiese amorevolmente e con voce flebile la signora

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Dugray, la moglie del tiranno. Mallory Dugray era un’amica e compagna di bridge di mia mamma. Un’altra. Straub, in realtà, non lo conoscevo bene, perché l’avevo visto raramente: era un avvocato, ed un gran stacanovista, perciò si faceva vedere poco sia in chiesa, che ai vari eventi. I miei avevano messo in progetto di farmi lavorare con lui per i primi tempi, subito dopo la Law School. Di certo, era il meglio del meglio. Ma non mi allettava molto l’idea di lavorare sotto il suo regime… «Tutto a posto, grazie, signora Dugray», le risposi con cortesia e con un sorriso quasi impietosito. Quando c’era suo marito, Mallory sembrava sempre intimorita e sommessa. E parlava a bassa voce, con toni pacati e amabili. Ma non era sempre così dolce e gentile, la cara signora Dugray. Ricordavo, quando ero piccola, di essere stata spesso severamente sgridata da lei, perché facevo troppo “chiasso”, durante le loro partite di bridge, il pomeriggio, a casa dei miei. Tutte le amiche della mamma portavano i loro figli ed io giocavo con loro sul tappeto del salotto. Ma noi bambini non dovevamo essere troppo rumorosi, per non disturbare il loro chiacchiericcio pettegolo. E se uno di noi rideva un po’ troppo sguaiatamente o alzava un po’ troppo la voce, lei era la prima a brontolarci, con tutt’altro che modi cortesi. In assenza di Straub, lei sembrava prenderne le veci. Forse lo faceva per sfogarsi. I Dugray non avevano figli, e sapevo (da mia madre) che era per causa di Mallory. Straub, probabilmente, non gliel’aveva mai perdonata. Lui cercava disperatamente un erede per la sua redditizia attività imprenditoriale. Magari lei si sentiva in colpa e, in sua assenza, aveva bisogno di scaricare tutta la rabbia per la sua sfortunata situazione. A parte la parentesi dei Dugray, sembrava andare tutto secondo i piani. La gente era compiaciuta e si divertiva. Certo, nessuno parlava della leucodistrofia, né si peritava di interessarsi al dottor Xanther, ma questo era del tutto normale. «È stato molto gentile a prendere parte alla festa, dottor Xanther. La ringrazio», dissi sedendomi al suo tavolo. «Non mi ringrazi, signorina. Dovrei essere io a farlo. Per me questa è un’occasione per raccogliere fondi per il nostro istituto di ricerca». «Lo so…» Lui mi guardò come se avesse capito quello che stavo pensando.

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«Non pensi che non mi accorga del modo in cui mi guardano queste persone. So che mi giudicano. So che mi considerano un fallito, perché, invece di fare carriera come medico, lavoro solo no profit, per le associazioni umanitarie. E so che per questo non si degnano di considerarmi. Ma non mi interessa. Quel che conta, per me, è raccogliere denaro per una buona causa». Parlò con una calma sconcertante, non con rancore, come ci si potrebbe aspettare. Sorrisi amaramente, provando pena per tutte le persone in quella sala. E ammirazione per quell’animo altruista, che trovava rappresentazione nel viso saggio e fiero di quell’uomo, le cui mani dalla pelle scura si adagiavano sulla bianca tovaglia perfettamente stirata. Dopo il dolce, ci fu persino qualche ballo, al centro della sala. Vedevo la mamma sorridere, fiera del suo successo. «Mamma, voi non ballate?» le domandai. «Chi? Noi?» Sembrò indispettita dalla mia richiesta, come se avessi detto qualcosa di scortese o inappropriato. «Sì, certo, tu e papà. Dai, ti meriti un po’ di divertimento», la incoraggiai. Ci tenevo a veder papà attivarsi in qualcosa che fosse diverso dal mangiare o dal leggere il giornale o dal giocare con le posate, apparentemente annoiato da tutto e da tutti. Quando le persone si avvicinavano a salutarlo, lui si voltava verso di loro con un movimento flemmatico e rispondeva ai loro ampollosi convenevoli con mezzi sorrisi, senza nemmeno sforzarsi di sembrare interessato alle loro parole. Papà alzò il capo verso la mamma, con un’espressione stupita almeno tanto quanto la sua. Si guardavano interrogativi, come se stessero tentando di comunicare telepaticamente per trovare la scusa per esentarsi. Almeno in questo erano complici. Ma non la trovarono. Li avevo presi in contropiede e non poterono ribellarsi. Perciò li spinsi verso la pista da ballo, cercando di tranquillizzarli ed incitarli con il mio sorriso. E loro presero a danzare. Erano timidi e impacciati, come ad un primo appuntamento, ma pian piano li vidi sciogliersi. Mio padre era sempre stato un gran ballerino e sembrava non essersi affatto dimenticato come si conduce. E la mamma si lasciava trasportare da lui, ridendo divertita.

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Quanto a me, mi accontentavo di osservarli da bordo sala, con gran compiacimento, mentre loro volteggiavano leggiadri al centro della pista. E, per qualche istante, mi sembrò di rivedere sul volto di mia madre quel sorriso spensierato e ingenuo che aveva in gioventù. «Adesso sì che la serata è un successo», pensai fra me e me.

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Capitolo 4 Che stanchezza! Una settimana intera di lezioni ininterrotte, intervallata dal sontuoso party della mamma, e culminata, quella mattina, nell’esame di storia. Disastroso. Cioè, ancora non sapevo come fosse andato, ma almeno era andato. Non presumevo un buon esito, anche se non ero mai stata bocciata ad un esame ed avevo una media piuttosto alta. Avevo studiato forsennatamente, sfruttando ogni momento libero dalle lezioni, tanto da non aver avuto tempo per nient’altro. Ma avevo fatto bene ad impegnarmi così tanto con Storia del Diritto Romano, perché il compito era davvero difficile! Ma a quel punto la settimana era finalmente terminata. Mi sentivo appesantita dalla spossatezza e da quel torpore costante, che sembrava non abbandonarmi mai. Erano le cinque e un quarto quando arrivai nel mio appartamento al campus. Quando entrai, notai un cumulo di scatole, borse e sacchetti dei negozi più in di New Haven. Immaginai che Beth avesse approfittato della mattinata libera per fare shopping (probabilmente in previsione della festa del Pierson). Beata lei… Io mi diressi dritta verso la mia camera, mi tolsi il cappotto e tutti i vestiti, e mi fiondai sotto la doccia calda. Mi lavai via un po’ di stanchezza ed un po’ di tensione accumulata per il test, che mi aveva davvero prosciugato le forze. Mentre mi strofinavo l’asciugamano sulla testa umida sentii il mio cellulare squillare. Uscii dal bagno e lo recuperai dai meandri profondi della mia borsa. Mia madre. «Ciao mamma» dissi col mio solito tono impassibile. «Astrid! Ti disturbo, cara?» rispose lei in un tono gentile che mi fece impazzire. «No, dimmi pure», le risposi tentando di nascondere la mia irritazione. Non avevo proprio voglia di parlare con lei, nel mio tanto prezioso momento di relax.

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«Volevo sapere com’è andato il test di stamattina». «Era molto difficile. Comunque credo che avrò i risultati nella prossima settimana». «Ah bene… Invece quello di lunedì? Nei giorni scorsi, nell’ansia e nel fermento della festa, mi sono dimenticata di chiedertelo…» «Credo sia andato bene. Sicuramente meglio di quello di oggi…» aggiunsi sconsolata. «E hai portato i saluti di tuo padre a Blanc?» mi chiese ignorando totalmente il mio tono rammaricato al pensiero dell’esame di Storia. «No, mamma, scusa, mi è passato di mente». «Astrid, come hai potuto dimenticarlo?» La sua voce si era acuita, come se fosse realmente risentita. Ma come cavolo le veniva in mente di riprendermi per quella dimenticanza quando lei si era completamente scordata del mio esame di lunedì?! «Mamma, non lo so. Ne avevo tante per la testa. Inoltre, lunedì, mi ha dato un compito in più…» «Di che parli?» «Beh, dopo l’esame Blanc ci ha tenuto a complimentarsi per il paper e…» «Davvero? Cosa ti ha detto?» «Mi ha detto che avevo fatto un buon lavoro e che forse avrei potuto approfondirlo…» Stavo già cominciando a pentirmi di aver introdotto quell’argomento. «In che senso?» Sospirai. «Vuole che prenda un argomento del paper e ci faccia una nuova ricerca sopra. Dovrei preparare una relazione da esporre alla classe, ancora non si sa quando», raccontai insoddisfatta. «E lo ha chiesto solo a te?» «Sì». «Ma è meraviglioso! Vuol dire che pensa che tu ne sia all’altezza! Tu hai accettato vero, cara?» «Non lo so, mamma. Ho molto da fare in questo periodo, non so se troverò il tempo…» «Astrid!» Pronunciò il mio nome con tono severo, come se fosse necessario rimproverarmi come faceva quando ero piccola. Che fastidio!!! «Mi sembra che sia una grande opportunità quella che ti offre il professor Blanc! Dovresti coglierla al volo! Sai che scrivere una

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pubblicazione controfirmata da un docente del suo livello non può che portarti buona pubblicità…» Bla bla bla. Pensava sempre alle solite cose. Non ne potevo già più, ma non mi andava di sfociare in un litigio. Non era proprio da me, che avevo sempre sopportato le sue lamentele cantilenate in un placido e rabbioso silenzio. «Hai ragione, mamma. Mi impegnerò per farcela. Adesso, scusami, ma devo andare. Ho bisogno di una doccia, dopo le lezioni, sai…» Mentii per cercare di liquidarla nel modo più gentile possibile. «Sì, certo, capisco. Comunque, pensa bene a quello che devi fare. Sai che è importante. Non ci deludere». Basta, non potevo più tollerare. «Ok, ciao mamma. Buona serata, salutami papà». Mi buttai esausta sul letto, con i capelli ancora umidi e l’accappatoio addosso. Continuavo a pensare con rabbia alla telefonata. Continuavo a spremermi le meningi per trovare una scusa da rifilare a Beth per quella sera ed a crogiolarmi nella svogliatezza per il compito di Blanc. Pensieri, pensieri, pensieri. La mente schiacciata ed inquieta. “Forse questa nebbia cerebrale che mi pervade sempre è solo la naturale sensazione che può produrre la mia vita monotona e ripetitiva”, meditavo. Mi sembrava che tutto scorresse lento, routinario ed inesorabile. Le statiche domeniche a casa dei miei, i party di beneficenza così falsi, le feste del college, in cui Beth che si ubriaca e finisce a strusciarsi con uno, Kiran e Grace ed i loro puntuali appuntamenti con i cortei pacifisti ed i meeting sull’ecologia, Miles ed il suo incurabile disperato amore per Beth, poi l’inconsistenza di Emily, che diceva sempre “sì”, senza mai esprimere un parere… “Che tristezza”, mi veniva da pensare. “O forse sono io che non sono capace di affrontare la realtà, in tutte le sue sfaccettature?” Era come se viaggiassi da sempre su un lungo binario rettilineo, senza la possibilità di mettere la freccia e svoltare a destra, nel caso in cui mi fosse venuto in mente di cambiare strada. Un binario unico ed esclusivo, ma pur sempre obbligato. Senza via d’uscita. Mi sentivo costretta ad andare a trovare i miei una volta alla settimana; mi sentivo costretta ad andare ai party dove mi invitava Beth, dove si ascoltava la peggior musica di tutti i tempi e si incontrava la peggior gente di tutti i tempi; mi sentivo costretta ad andare all’università, a seguire le lezioni, a frequentare il coro e la chiesa di Hartford. Ma piuttosto che deludere i

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miei genitori, Beth, o i miei amici, facevo tutte quelle cose. E tentavo pure di sforzarmi di farmele piacere. Ma mi piacevano davvero? E se non mi piacevano quelle, che cosa davvero mi piaceva nella vita? Era deprimente il pensiero che non ci potesse essere qualcosa che potesse rendermi felice. Infatti, se non ero capace di accontentarmi delle tante cose che avevo, delle amicizie, della famiglia, delle opportunità scolastiche, forse non ero capace di accontentarmi di niente. E il problema dunque era solo mio: totalmente incapace di essere felice. Spensierata. Spontanea. Presi il lettore mp3 dal cassetto e indossai le cuffie. Schiacciai play e mi avvolse la melodia di una canzone rock ad alto volume…

I have been stuck hooked on one model Print my face on whatever label This is not my room, these are not my clothes But, who’s to say? This is all just a game I want you, but all I have is this fame

Avevo trasferito “Half of my life” sul mio lettore, e ne avevo approfittato per scaricare da internet anche qualche altro album dei Sea Sunset. Poi avevo fatto l’upload dell’intero malloppo sull’mp3: quattro album, cinquanta canzoni, per un vero e proprio full immersion nel sound dei Sea Sunset. La musica mi piaceva, eppure non le avevo mai dato tanta importanza. Voglio dire, non sono mai stata una di quelle che si porta il lettore mp3 ovunque va e sta sempre con le cuffie nelle orecchie. Non ero mai stata patita per un genere musicale in particolare (come invece era Miles con il punk), tanto da conoscerne tutti gli artisti pionieri e contemporanei di quello stile. Non mi era mai importato granché di farmi una cultura musicale. Fatta eccezione per quella liturgica. Oddio, quanto sa di noioso questo termine! Eppure, sugli inni del coro della chiesa protestante di New Hope, ero molto preparata. Volente o nolente, era così. «Non c’è niente di più ammirevole e gratificante che vedere una brava ragazza che si dà da fare nella chiesa. Non se ne vedono più molte», mi aveva detto una volta il reverendo della mia comunità.

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Ma non ero sempre così irrimediabilmente e stucchevolmente tediosa. Ogni tanto ascoltavo anche un po’ di old style country, immaginando di essere nella campagna texana dove mia mamma era cresciuta, nel ranch di Brady dove ero stata un paio di volte. Sognavo quelle feste di paese in cui c’è un gran baccano tra musica, chiacchiere e risate, e la gente è vestita in modo semplice e trasandato. Le donne con i capelli in disordine e gli uomini con il cappello da cowboy in testa che, seduti ad un tavolo sotto ad un patio pieno di lucine colorate, battono i piedi a terra a tempo di musica. E poi si alzano e si mettono tutti a ballare la contra dance. Un modo semplice e spensierato di vivere la vita, che mi faceva una grande invidia. Come avrei voluto anch’io essere un po’ sguaiata ed inelegante, anche solo per una sera! Spogliarmi degli abitini perfetti che mi faceva mettere mia madre ed indossare una cosa qualsiasi, senza badar troppo all’apparenza. Pensando solo a divertirmi… Ma quel modo di vivere era distante anni luce dal mio ed ero certa che non mi sarebbe mai capitata l’occasione di comportarmi in quella maniera. E, anche se fosse capitato, non ne avrei avuto il coraggio e sarei comunque sembrata solo ridicola. Però la musica era un buon modo di fantasticare un’altra me che certamente non sarebbe mai esistita. Quel che importava era sognarlo, ogni tanto, e sarebbe stato come se accadesse davvero. Anche la musica dei Sea Sunset era sguaiata al punto giusto, tanto da farmi immaginare di vedermi ballare in modo indecentemente scomposto in mezzo ad una folla di gente ad un concerto… Una visione decisamente irreale. No, i Sea Sunset non erano decisamente nel mio stile, anche se non ne avevo mai avuto uno in particolare. Eppure mi abbandonai volontariamente e completamente all’ascolto delle loro canzoni. Alle note pestate, ai suoni alti ed ai rumori distorti delle chitarre e della batteria, alle grida intonate del cantante… in sostanza, alla musica. Finalmente io e lei da sole. Sentivo solo lei e nient’altro. Gli occhi chiusi e la stanza buia, illuminata solo dal lampione del giardino del campus. Niente mi distraeva dall’ascoltare. Mi sentii libera per qualche istante. Libera da cosa non lo sapevo. Almeno, non con precisione. Solo più leggera e vuota. In

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contrapposizione alla sensazione pesante e ovattata di poco prima, potevo dirmi sollevata. Rimasi così per qualche canzone. Sola e circondata dalla musica dei Sea Sunset. L’unica musica che era mai stata capace di farmi sentire così. L’unica musica rock che avessi mai ascoltato. Niente a che fare a “Jesus, Lover of my soul” o “Amazing Grace”, che cantavo la domenica in chiesa. Era una musica completamente diversa, un altro giro melodico, ritmi e modi di cantare differenti. Ma mi piaceva. Aprii il cassetto del comodino ed estrassi un block notes con le pagine bianche ed una matita. Presi a disegnare un paesaggio, in chiaroscuro, accompagnata dai suoni di “Hope Wish”, una canzone dell’album “Half of my life”.

This hope wish doesn’t fly She can’t dreams ‘cause she isn’t sleeping She wants to know why Drawing dreams is never the same thing

Incitata dal ritmo martellante e dai suoni ruvidi e d’impatto, scatenavo la matita nel mio pugno sul foglio bianco ed abbozzavo un laghetto desolato, circondato da un bosco scuro. Al centro dello specchio d’acqua, in mezzo alla selva, la luce riflessa della luna schiariva i toni torbidi e tenebrosi della notte. Una luna piena in un cielo buio, perfettamente tonda nel firmamento. Il talento artistico, o almeno la passione per il disegno e la pittura, erano qualcosa che avevo ereditato da mio padre. Non ero certo brava come lui, però avevo seguito qualche corso di Disegno alle superiori. La musica andava avanti ed io continuavo a scarabocchiare il chiaroscuro del mio schizzo, a perfezionare le linee e riempire gli spazi del grigio scuro della matita. Finché sentii le palpebre crollare lentamente… Cedetti ad uno strano dormiveglia, in cui a tratti riconoscevo le note di qualche canzone dei Sea Sunset, a tratti vedevo le immagini di alcuni sogni confusi, in cui ero nel bosco che avevo ritratto. Ero anch’io in bianco e nero, come gli oggetti del mio disegno. Correvo tra gli alberi alla ricerca della luce della luna, della quale, però, riuscivo solo ad intravedere qualche timido raggio filtrato dalla boscaglia. Sola nella foresta, vagavo senza meta, impaurita da rumori

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sinistri e sconosciuti. Inciampavo nelle grosse radici degli alberi, le cui fronde mi graffiavano il viso. Eppure continuavo vanamente a correre, per cercare una qualsiasi via d’uscita. Ricordo di aver gridato «Dove devo andare?!» come se stessi parlando con qualcuno – nonostante lo scenario fosse completamente desolato – e poi aver sentito una mano sul mio viso. Offuscata dal dormiveglia, mi sembrò di udire la voce di Beth, soave e affettuosa, sussurrarmi parole di conforto. «Calma, Star», diceva accarezzandomi la fronte. «E’ solo un sogno, stai tranquilla». Mi coprì con le coperte. Socchiusi a malapena gli occhi per notarla, nella penombra della mia stanza, poi sprofondai nuovamente nel sonno.

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Capitolo 5 Mi svegliai e guardai l’orologio: le undici. Me l’ero presa comoda… Tentai di alzarmi e notai che avevo ancora l’accappatoio. Ricordai gli avvenimenti della sera precedente: la musica dei Sea Sunset, gli incubi… Il mio disegno era per terra, vicino al comodino. Alla luce del sole del mattino, l’immagine di quel lago desolato in mezzo ad un’inquietante foresta scura non faceva più tanta paura, non quanta ne avevo avuta quando l’avevo sognato… Quella mattina dovevo assolutamente cominciare la ricerca di Blanc. Era già sabato, lunedì avrei avuto lezione con lui ed ancora non avevo combinato nulla! Per tutta la settimana non avevo avuto tempo, presa dalle lezioni, dal party e dallo studio per il test. E venerdì sera, quando avrei dovuto mettermi d’impegno e cominciare, mi ero addormentata senza neppure cenare, con le cuffie dell’mp3 nelle orecchie. Pensai di andare ad interrogare Beth sull’accaduto: avevo il ricordo indistinto di averla intravista, quando ancora ero in una sorta di dormiveglia. Così mi vestii ed uscii dalla stanza. Attraversai il salottino e bussai alla sua porta. Inutilmente. La mattina dopo un party devastante, quella ragazza è in coma. Entrai e decisi di svegliarla lo stesso: dovevo sentirmi particolarmente antipatica ed in vena di infastidire qualcuno, quella mattina. «Beth», sussurrai scuotendola con dolcezza. «Mmmmh», fu la risposta. «Beeeth!» alzai la voce. «Uffa!!!!!! Che ore sono?» chiese ancora con la faccia tuffata nel cuscino. «Le undici passate. Direi che è ora di svegliarsi», la esortai. «Mmmmh», si lamentò. Rincarai. «Dai svegliati. Voglio sapere cos’è successo ieri sera!» Girò di scatto la testa e spalancò gli occhi.

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«Ho conosciuto Tyler!» disse giuliva, mostrando un sorriso a trentadue denti. «Tyler chi?» «Il tuo compagno di corso. Quello del New Jersey!» «Ah, sì ho capito. Com’è, simpatico?» le domandai fingendo interesse. «Sì, abbiamo ballato tutta la sera e poi ci siamo baciati». «Questo è il tuo concetto di simpatia?» chiesi un po’ sbalordita dalla sua esuberanza. «Dai, non mi rompere. Mi sono divertita!» Tentai di riparare. «Sono contenta per te. Anzi, scusami, avrei dovuto accompagnarti io alla festa…» «In effetti, ieri sera sono entrata in camera tua con l’intenzione di trascinarti coattivamente, poi ti ho visto dormire così beatamente… Sembravi un angioletto! Mi hai fatto tenerezza», mi confessò con due occhioni compassionevoli e il labbro inferiore crucciato. «Ma come siamo caritatevoli…» la schernii. «Con chi sei andata poi?» «Con Emily e Miles. Dovevi vedere che uggia tra tutti e due!» «Ok, Emily è fatta così. Ma Miles… lo sai perché è triste! Specialmente quando ti vede in certi atteggiamenti…» «Cosa intendi?» disse mentre sgattaiolava fuori dalle coperte ed entrava in bagno, lasciando la porta socchiusa. «Beth!» la rimproverai. «Non fare la finta tonta! Tu sai che Miles ha una cotta per te!!! Da sempre». «Ma figurati! Tra noi c’è solo… amicizia!» sbraitò dal bagno. «Ma è possibile che tu voglia negare l’evidenza?» «Ma quale evidenza?» rispose stizzita facendo capolino dall’asciugamano in cui aveva affondato il viso. «Sei tu che non vedi i fatti come stanno e ti immagini le cose! Miles è il mio migliore amico. Mi vuole bene, ma non come insinui tu». «Quello che mi stupisce», continuai mentre aprivo la finestra per arieggiare la stanza», è che tu solitamente non sei una tipa ingenua. Sei sveglia, e ti accorgi se un ragazzo è attratto da te dal primo momento in cui ti guarda. Ma con Miles… hai i paraocchi!» «Anche se fosse come dici tu… Non lo so… Non riuscirei a vedere Miles in quel senso. Non sono mai uscita con dei ragazzi… come lui! E i ragazzi come lui non si sono mai interessati a me!» «Che intendi dire con ‘come lui’?»

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«Dai, Star! Tu hai visto i ragazzi con cui esco io di solito! I classici tipi belli e dannati. Strafottenti, presuntuosi… Ma anche terribilmente sexy!» disse mordendosi il labbro inferiore, come faceva quando parlava di cose che la eccitavano. «Quelli che non vogliono storie serie, ma solo divertirsi un po’! Se poi sono anche pazzi e irresponsabili io non so resistere!» aggiunse scuotendo la testa. Non sembrava andare fiera dei suoi gusti in fatto di ragazzi, ma presentava la sua situazione come un dato di fatto, innegabile. Irrinunciabile. «Miles è diverso», continuò, «è intelligente, posato… e non è dannatamente bello… Dai, mi ci vedi?» «Sinceramente sì. Se mi avessi chiesto ‘sei abituata a vedermi con un tipo così?’ ti avrei detto di no. Ma se mi chiedi se ti ci vedo, beh, sì. Perché questo è ciò che meriti secondo me. Un ragazzo che ti ami, che ti rispetti. Che non sia più innamorato di se stesso che di te, che non se ne freghi dei tuoi sentimenti». «Io non ho mai chiesto niente del genere, Star! Anche perché, dal canto mio, non ho mai voluto dare altrettanto. Finché entrambi ci divertiamo, cos’altro ci deve essere? Tutto il resto porta a complicazioni. Se rimani su di un livello superficiale, niente è in gioco e quindi niente può essere… perso». C’era un’intonazione decisamente amara nel suo parlare. Non sembrava triste, ma rassegnata. «Non c’è niente da perdere, Beth! Non continuare ad ingannarti in questo modo. Tu sei in grado di dare molto di più di un po’ di pazzo divertimento», dissi con serietà. «Non lo so, non so se voglio davvero qualcosa di più. Forse sarebbe troppo, non ce la farei a sostenerlo. E manderei tutto all’aria, col mio carattere lunatico e fuori controllo. Non so se sarei capace di farmi amare da qualcuno. Non lo so davvero! Ho paura, sai? Dell’abbandono…» La presi per le spalle e la guardai negli occhi: «Beth, tu pensi che i ragazzi possano abbandonarti come tuo padre ha fatto con te?» La conoscevo, la conoscevo troppo bene: anche se non lo aveva mai ammesso, sapevo che c’era un conto in sospeso col suo passato. E chi di noi non ce l’ha? Anche le persone dalle quali meno te lo aspetteresti hanno qualche trauma nei loro ricordi, qualche brutta cicatrice mai completamente rimarginata e che ancora brucia al tatto.

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Lei mi guardò con gli occhi sbarrati, come se le avessi dato una notizia sconvolgente, come se davvero non si attendesse che io lo sapessi. Avevo colto nel segno. Per una volta, sul suo viso non c’era il solito sorriso sfacciato, ma solo un’espressione triste e spaventata. Nessuno conosceva quella Beth, a parte me. «Mio papà era il mio compagno di giochi preferito, da piccola», confessò, continuando a fissarmi negli occhi. «Non mi divertivo con nessuno come con lui. Mia sorella non era così espansiva e preferiva giocare da sola, e mia mamma si stufava dopo aver giocato un’oretta con me. Papà invece poteva giocare e ridere con me per ore, senza mai annoiarsi. Quando il suo lavoro ha cominciato a portarlo lontano da casa, io non l’ho visto quasi più. Lui non mi ha mai dato spiegazioni per le sue nuove e lunghe assenze. Come se fosse tutto normale. Come se io non avessi bisogno di capire perché accidenti mi aveva abbandonato! Tornava con regali costosi e pensava di consolarmi così… Ma io volevo lui!» Lo disse con un tono un po’ bambinesco. Quante delle persone che pensavano di conoscerla bene si immaginavano il lato sensibile di quella ragazza? Come Grace, che la prendeva sempre in giro per la sfacciataggine che esibiva facendosi vedere con un ragazzo diverso ogni settimana. Non che Grace fosse cattiva, assolutamente! Solo che conosceva troppo poco Beth per poterla giudicare. Non sono mai andate granché d’accordo quelle due… Io continuavo a tenerla per le spalle, ad osservare il volto della bambina in cui si era trasformata per qualche istante, durante quel piccolo flashback. «Ti sei sentita abbandonata. E hai paura che possa accadere la stessa cosa se ti innamori di un ragazzo. Ma non è così», le dissi accarezzando con una mano i suoi morbidi capelli color castagna, con qualche sfumatura mogano. «Se hai paura che gli altri non ti prendano sul serio, se pensi che non riescano a vederti come una ragazza morale o coscienziosa, è solo perché non ti conoscono davvero e si fermano all’apparenza. Non lasciare che si fermino all’apparenza! Rischia…» «Non lo so, Star», sospirò dubbiosa. «Ho paura». «Ce la farai, Beth. So che ce la farai». Le sussurrai “ti voglio bene” all’orecchio e la abbracciai a lungo, stringendo il suo corpo forte tra le mie esili braccia.

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Era vero che le volevo bene, e quanto glie ne volevo! C’era sempre stata per me ed ora, per una volta, aveva bisogno che ci fossi io per lei. E non mi sarei certo tirata indietro. No! Avrei fatto le sue veci, tentando di tirarle su il morale, come lei aveva sempre fatto con me. Facendomi distrarre e cercando di farmi sorridere con qualche stupidaggine. In qualche modo, era sempre riuscita a strapparmi qualche piccolo sorriso, seppur tirato e amorfo. «Pranziamo insieme e poi mi accompagni alle prove del coro? Ti va?» le chiesi, senza sciogliermi dall’abbraccio. «Come no», rispose dolcemente. E sentii una sua lacrima bagnarmi il collo.

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Capitolo 6 «Ciao, Star!» mi venne incontro festoso Matt, quando varcai l’entrata di New Hope, la chiesa battista di Hartford che frequentavo da quando ero nata. «Ehi Matt! Come stai?» «Tutto bene. Tuo papà mi fa sgobbare!» mi fece l’occhiolino e rise. Matt Wyatt aveva ventidue anni e suonava il piano per il coro della chiesa di New Hope. Si era laureato ad Harvard, in Economia, e lavorava per mio padre. Era il partito perfetto, secondo mia madre. «E tu, che racconti?» mi domandò. «Niente di che… La vita a Yale scorre sempre uguale». «Come sta Beth?» «Bene. Mi ha chiesto se le dai qualche ripetizione di Finanza!» confessai in un risolino. «La aiuto volentieri, se ha bisogno». «D’accordo, glielo dirò». «Ragazzi, disponetevi in ordine per favore», ci interruppe il reverendo Wyatt, il padre di Matt, nonché il direttore del coro di New Hope. «Come state, tutto bene?» ci chiese mentre ci sistemavamo sui gradini del pulpito. Echeggiò qualche «sì» e «bene, grazie reverendo» qua e là. Lui sorrise amabile e disse: «Oggi proviamo “Change my heart, oh God”. Siete pronti?» Sfogliammo le pagine dei nostri innari ed il reverendo continuò: «Astrid, tu canterai la strofa due volte e nel ritornello vi unirete tutti. Ok?» Fece un cenno a Matt, il quale cominciò ad accarezzare i tasti del pianoforte. “Change my heart, oh God” è un inno che ho sempre amato. Era un piacere cantarlo. Mentre eseguivo le parti da solista, notavo lo sguardo di Matt che ogni tanto faceva capolino e mi sbirciava timido. Il reverendo era compiaciuto della mia voce e mi dirigeva ad occhi

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socchiusi, muovendo la testa a tempo di musica, con un sorriso sornione stampato in volto. Era un uomo sulla sessantina, dai capelli bianco candido. Un po’ conservatore, e forse anche un po’ fuori dal mondo, ma tutto sommato buono. Noi eravamo un coro di venti elementi. Io ero un soprano. Avevo cominciato a cantare a otto anni, e da allora i componenti erano rimasti più o meno gli stessi. Al reverendo non piacevano i cambiamenti. Per il periodo del college, Matt aveva ceduto il suo posto ad un pianista assunto dalla chiesa. Mentre cantavamo il ritornello dell’inno, riflettei se questa cosa del coro fosse un’altra di quelle cose che non mi ero scelta da sola. Se anche questa era frutto di un cliché, di un modus vivendi a cui avevo tacitamente aderito, o magari semplicemente effetto di decisioni a tavolino prese da mia madre e che io non ero stata capace di rifiutare. Ripetei la strofa ed udendo la mia voce da sola risuonare nella cappella, capii che non potevo non essere felice, mentre cantavo quella musica soave ed avvolgente. Probabilmente non avevo deciso di mia iniziativa di far parte del coro di New Hope, ma, col tempo, il canto era diventato la mia valvola di sfogo. La mia via di fuga da una vita che non volevo, che non avevo mai completamente accettato. Me ne resi conto in quel momento. E dovetti reagire con un sorriso a quell’idea, perché il reverendo disse: «Fate come Astrid! Mostrate un bel sorriso, mentre cantate!» Dopo aver ripetuto lo stesso pezzo due volte, il reverendo Wyatt si ritenne soddisfatto e si limitò a farci provare solo gli inni di dossologia, giusto per essere certo che non ce li fossimo dimenticati. Cosa possibile, dopo dieci anni che restavano immutati… «Complimenti, Astrid», mi abbracciò paternamente il reverendo, mentre tutti rompevano le righe dai loro posti sugli scalini del pulpito. «Sei sempre un esempio per gli altri coristi». «Grazie, reverendo». «Domani vedrò in chiesa anche i tuoi cari genitori, non è vero?» «Sicuramente», lo rassicurai. «Allora, a domani! Buona serata, Astrid cara». «Anche a lei, reverendo!» Mi incamminai verso l’uscita, sospirando. Guardai l’orologio: le sette e mezza. «Beth sarà sicuramente in ritardo», pensai. «Come mi è venuto in mente di farmi accompagnare da lei?»

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«Astrid!» mi chiamò Matt. Mi voltai e lo vidi correre nella mia direzione. Aveva un dolcevita nero, dei jeans e le Clarks nere. Il ritratto del bravo ragazzo. Con quei riccioli biondi e quegli occhi castani che sembravano non aver mai mentito a nessuno. «Te ne vai di già?» «Veramente dovrebbe esserci Beth fuori, ad aspettarmi. Le avevo detto alle sette e mezza, puntuale…» Lui si fece una risata. Matt conosceva Beth. Avevamo frequentato tutti lo stesso liceo, e passavamo spesso del tempo insieme quando abitavamo ancora tutti ad Hartford. «Beth, puntuale?» chiese scettico. Sbirciammo fuori dalla porta della chiesa ma non scorgemmo neanche l’ombra della macchina della mia amica. In fondo, anch’io me l’aspettavo. Doveva essersi fermata a parlare con qualche bel ragazzo nella caffetteria dell’università, perdendo completamente la cognizione del tempo. Guardai Matt arrendevolmente e lui mi disse: «Vado a mettere il cappotto. Ti accompagno a prendere un caffè. Ti va?» Socchiusi gli occhi, come se non fossi del tutto convinta. «Dimenticavo! Tu non bevi caffè!» esclamò teatrale. «Facciamo un the?» aggiunse con un occhiolino inconsuetamente un po’ marpione. «Vada per il the». «E magari ci prendiamo anche qualcosa da mangiare», aggiunse lui, rincarando con un’altra maliziosa dose di occhiolino, che mi apparve goffamente eccessiva. Mi portò al Patty Lou Café, nel centro di Hartford. Un locale tranquillo, un po’ vecchio stile: pavimento in legno e tendine a fiori. La proprietaria, la signora Patty Lou, era una donna dalla grande stazza, sempre allegra ed amichevole. La conoscevamo da parecchi anni, io e Matt, perché venivamo da lei a fare colazione o pranzo ai tempi del liceo. Lo consideravamo un posto dove poter passare ore a chiacchierare indisturbati. La signora Patty Lou non si lamentava mai delle nostre lunghe permanenze, anzi: passava spesso a riempirci le tazze del suo buonissimo the fatto in casa. E aveva sempre una battuta simpatica ed affettuosa, tutte le volte che veniva al nostro tavolo. La signora Patty Lou ci accolse calorosamente ed io e Matt ci sedemmo, ordinammo un paio di the caldi e due sandwich e

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prendemmo a chiacchierare del più e del meno. Mi raccontò qualche aneddoto buffo sulla vita d’ufficio nello studio di mio padre, e che stava cercando casa in centro ad Hartford, perché era stufo di vivere in periferia. Io gli raccontai qualche noiosa notizia scolastica, alle quali lui però si mostrava interessato. Il tempo passava con Matt, ed io neanche me ne rendevo conto. Ridevamo, parlavamo e dimenticavo tutto il resto. «Cosa pensi di fare dopo?» mi chiese ad un tratto. Lo guardai interrogativa. «Dopo la laurea intendo. Pensi di restare a New Haven? O magari di cercarti un lavoro ed una casa qui ad Hartford?» Mi colse alla sprovvista. «Io… non lo so», balbettai. Mi lanciò quello sguardo dolce e zuccherino che non ammetteva altro che la totale sincerità. Decisi di affrontare l’argomento. «Vuoi la versione logica e razionale o quella impulsiva e sconsiderata?» «Entrambe». Presi fiato. «Ok, la risposta logica e razionale è: cercherò un impiego a New Haven e tenterò di sistemarmi lì. In ogni caso, non credo che tornerei ad Hartford», scossi la testa con un certo rifiuto. «Tornare a stare vicino ai miei? Neanche per sogno! La risposta impulsiva e sconsiderata è: me ne andrò. Non so dove, come, con chi. Non so alla ricerca di cosa. Ma partirò e me ne andrò a girare l’America, o magari il mondo. A fare esperienze dappertutto, a vivere il mondo come un paese. A provare una strada diversa da quella in cui sono stata incanalata». «Di che parli?» «Della strada che uno prende scegliendo la mia università, provenendo da una famiglia come la mia, nella città sono nata. È tutto prestabilito, non lo vedi? Finirò a fare l’avvocato di provincia, con il mio piccolo studio in centro ad Hartford o New Haven, non ha importanza. Stipendio dignitosissimo ed un nome piuttosto rinomato nella contea. Questo e nient’altro. Non ci saranno colpi di scena. Questa sarà la mia vita, punto». «Pensi che non ci sia gloria in tutto ciò?» C’era un tono particolarmente critico, aspro nella sua domanda. Effettivamente, sembrava che stessi disprezzando il suo modo di vivere. «Non è questo. E’ che non so se è ciò che voglio».

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«Ma tu cosa vuoi, Astrid?» mi chiese quasi esasperato. Sospirai, un po’ oltraggiata dal suo modo di fare. Fondamentalmente, non capivo perché quelle mie idee lo infastidissero tanto. Non poteva prendersela solo perché io non mi entusiasmavo all’idea di vivere una vita simile alla sua. Solo perché io non volevo rassegnarmi a fare la scelta più prevedibile e scontata che ci si potesse aspettare. O comunque, solo perché mi ponevo delle domande, prima di prendere una qualsiasi strada. «È proprio questo il problema! Io vorrei capirlo. Non sono ancora decisa sul percorso che imboccherò. Ma ci sto riflettendo…» Rimasi sul vago. «Perciò potrebbe essere possibile che tu, entro qualche mese o magari anno, scompaia per sempre dalla mia vita?» aggiunse con un’espressione molto seria e quasi angosciata. «Non lo so…» risposi un po’ frastornata. «Non ci avevo pensato. Per sempre è una parola grossa! Io non lo so… Può essere», ammisi. Lui scosse la testa, come per disapprovare la mia risposta. O come se non ci credesse. O come se non avesse il coraggio di ribattere. «Non voglio aver lasciato passare tutto questo tempo inutilmente, per poi perderti in un solo istante, senza preavviso e magari senza neanche sapere dove andrai e se mai ti rivedrò…» Strinse la mano che avevo appoggiato sul tavolo e si avvicinò al mio viso. «Che vuoi dire?» Mi preoccupò, quell’approccio fisico, a cui non era per niente solito. Era sempre stato un tipo molto rispettoso e riservato, un po’ come me. E la cosa mi piaceva, mi metteva a mio agio. Quel nuovo Matt mi dava imbarazzo, e mi intimoriva. «Astrid… Star…» si corresse, «io sono innamorato di te, da quando eravamo bambini. Non ho mai smesso di esserlo, da allora. Certo, il sentimento è cambiato, si è evoluto, è maturato. Ma è sempre quello: amore. Quanto vorrei poterti chiamare così… Amore…» mi guardò ed arrossì per essersi sbilanciato tanto. Io ero a bocca aperta. In poche, semplici parole mi aveva detto quello che non era mai riuscito a dirmi in una vita intera. Mi resi conto di essere perfettamente consapevole di ciò che lui provava per me. Di esserlo sempre stata. In molti spesso me lo avevano fatto notare: dai membri di chiesa, ai miei genitori, e anche dai suoi

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atteggiamenti stessi l’avevo più volte intuito. In fondo, non poteva essere tanto criptico per me, che lo conoscevo da così tanto… Però non era mai stato così chiaro, schietto, diretto, lampante. In quel momento trovavo mille aggettivi per descrivere quel suo assurdo comportamento, all’improvviso autentico, inequivocabile, manifesto. Ma non trovavo parole per rispondergli. Non mi ero mai posta il problema di rispondere ad una sua dichiarazione, probabilmente perché mi ero sempre nascosta dietro all’ambiguità dei suoi comportamenti. Un po’ facevo finta di non credere a quelli che mi dicevano che lui era cotto di me, un po’ mi costringevo a pensare il contrario. Forse perché lui non mi era mai interessato in quel senso? O per il semplice fatto che io non lo avevo mai preso in considerazione, in quel senso? Mi stavo prendendo in giro da sola, come faceva Beth? No, aspetta, io sapevo che cosa avrei dovuto rispondere a Matt: lui era un mio amico, e nient’altro… «Cos’è?» «Il mio cellulare…» Allontanai con un movimento un po’ brusco la mia mano da quella di Matt, che non aveva ancora smesso di stringerla. «È questa ridicola suoneria che mi ha messo Beth!» risposi stizzita, mentre rovistavo in borsa, impaziente di zittire quella stupida musichina. «Pronto?» «Scusami scusami scusami scusami! Sai, è successo che, mentre ero in caffetteria con Emily, è arrivato Tyler e…» «Non importa. Sono qui ad Hartford, con Matt», risposi in tono inflessibile. «Ah, ok. Meno male. Scusami tanto». «Tranquilla». Il mio tono non cambiava, perciò non dovevo essere molto credibile. «Quando torni?» «Non lo so… Che ore sono?» «Le undici», rispose Beth. Come diavolo aveva fatto ad essersi ricordata solo a quell’ora che doveva venirmi a prendere alle sette e mezza?! Era meglio non pensarci. Beth era così: impulsiva e distratta. «Oh cavolo! Devo ancora cominciare il lavoro di Blanc! E domani avrò solo qualche ora nel pomeriggio! …Matt, mi riaccompagni?» mi rivolsi al mio amico, sconvolto e confuso.

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«Sì, certo», mormorò, scuotendosi da quello stato confusionale. Ebbi compassione di lui. I suoi occhi castani e sinceri erano adesso disorientati, e non cercavano più i miei, con l’ardente brama di poco prima. La sua fronte era corrugata e le sue mani stringevano nervose i braccioli della sua sedia. «Ci vediamo più tardi, Beth». «Ok, ciao». Il viaggio da Hartford a Yale fu silenzioso ed imbarazzante. Mi teneva il muso. Non ero abituata a vederlo arrabbiato, io non lo conoscevo così. Era sempre stato un tipo così solare, che stava bene in compagnia, perché amava scherzare. E aveva un sorriso di simpatia sempre pronto per tutti. In quel momento mi sembrò di non conoscerlo. Mi sentii come se fossimo due sedicenni al primo appuntamento. Se scappava un incrocio di sguardi, arrossivamo all’unisono. Patetico. Ma io non sapevo cosa dire. Non mi andava di ferirlo, e poi non ero nemmeno così certa dei miei sentimenti. Potevo lasciar passare del tempo, e rifletterci un po’ su. Magari sarei arrivata ad una conclusione più certa. Non volevo rischiare di rovinare la nostra amicizia, né con no né con un sì. Per il momento, era meglio lasciare le cose in sospeso. Una piccola litigata non avrebbe di certo incrinato il nostro rapporto… Non come un rifiuto, almeno. Comunque, a quel punto, dovevo concentrarmi solo su quella stupida ricerca… Sotto l’entrata del mio convitto scesi dall’auto e salutai Matt timidamente, affacciata al suo finestrino. «Grazie, Matt. Buonanotte». Lui annuì senza staccare lo sguardo dalla strada, e partì.

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Capitolo 7 Passare il sabato sera a studiare per un progetto scolastico facoltativo non è certo il massimo. Mi feci compagnia con la musica dei Sea Sunset, ormai immancabili nei miei momenti di solitudine. La mia migliore amica era uscita. Prevedibile: lei non passava mai il sabato sera in casa. Mi aveva lasciato un bigliettino: “Mi sono dimenticata di dirti che gli amici di Tyler hanno invitato me ed Emily ad un party in città. Torno tardi. A dopo!” Per fortuna che c’era Emily, ad assecondare Beth. A farle compagnia tutte quelle volte in cui io non avevo né la voglia né le forze di accompagnarla in giro per feste, appuntamenti, uscite varie. Era l’una circa, quando qualcuno bussò alla porta del nostro appartamento. Andai ad aprire. «Miles? Che ci fai qui a quest’ora?» chiesi sorpresa. «Io… Ehm… Cercavo Beth. Volevo parlarle…» rispose sconsolato. «Beth non c’è, è andata ad una festa con Emily, in città». «Già, dovevo aspettarmelo. Non so davvero cosa avessi in testa…» continuò con tono sempre più amareggiato. Sembrava aver bisogno di sfogarsi. «Dai, entra», dissi, facendolo accomodare nel salottino. «Che succede?» Si sedette sul divanetto e cominciò a parlare: «Ero in camera mia, stavo guardando delle vecchie foto, quelle di quando siamo andati un weekend a Tijuana, ricordi?» «Certo, durante il secondo semestre del primo anno». «Sì. Sono stato un’ora… capisci? un’ora intera! A fissare una foto di Beth e me… Quella in cui siamo in piscina e lei mi fa una linguaccia», rise amaramente. Beth faceva sempre le linguacce, soprattutto davanti agli obiettivi delle macchine fotografiche.

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«Miles…» sussurrai malinconicamente. Appoggiai una mano sulla sua spalla, in un tentativo di conforto. «Ti rendi conto che da quando l’ho conosciuta non riesco a pensare ad altro che a lei? È così. E neanche riesco a dirle che l’amo!» confessò sbattendo il pugno sul bracciolo del divano. Scosse la testa. «Ho l’impressione che non prenderebbe le mie parole sul serio, come io invece vorrei. Star, lei mi piace davvero», confessò guardandomi negli occhi. «Lo so. Lo so, Miles. È proprio per questo che so che sarai capace di aspettarla. Tu sai com’è fatta e la ami anche per il suo carattere irrefrenabile. Adesso non è pronta ad avere una storia seria, ma lo sarà. Fidati. Ne abbiamo parlato… Non posso dirti cosa ci siamo dette. Ma ti posso dire che deve ancora superare certi ostacoli, certi traumi del suo passato, che fino ad oggi ha solo evitato. Solo dopo averli superati sarà predisposta a prenderti sul serio. Se vuoi fidarti di me, aspetta. Se tentassi un approccio di questo tipo con lei, adesso, ti andrebbe anche bene magari, ma non otterresti niente di più che un’avventura… e non è questo ciò che vuoi». «E non è questo ciò che merita lei…» «Sì, Miles!» esclamai. «Che bello sapere che tu la pensi così!» Dunque non ero l’unica che era riuscita a capire che esisteva un’altra Beth, quella vera, che però si celava dietro ad una maschera, per proteggersi dal mondo. Lui mi guardò e sorrise. «So che tu sei la persona che fa per lei», gli confidai. Ero sicura di quel che dicevo. Beth meritava Miles. Aveva solo bisogno di tempo per capirlo. «Detto dalla sua migliore amica…» Sorrisi. «Già…» «Sarà meglio che vada a letto», sospirò. «E che io torni a studiare!» «Ti ho interrotto mentre studiavi? Oddio, scusami, non immaginavo! Ma perché studi ancora a quest’ora? Dovresti essere alla festa con Beth…» aggiunse con una smorfia di disapprovazione. «Lo sai che non mi piacciono tanto le feste di Beth! E poi Blanc, sai, il prof di Scienze Politiche, mi ha assegnato un compito extra…» «Ah, è vero … l’avevi accennato lunedì scorso».

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«Sì, e da allora non ho ancora avuto tempo di iniziare a farlo!» esclamai scocciata. «Allora scusami davvero. Adesso vado». «Non preoccuparti, Miles, ti capisco». Pensai a Matt ed alle sue parole di qualche ora prima e mi vennero i brividi. Miles era innamorato di Beth solo da un anno e già gli sembrava un’eternità. Ma questo era niente a confronto con i sentimenti di lunga data che Matt mi aveva dichiarato. Come aveva fatto a mantenerli nascosti per tutto quel tempo? Matt non era certo il tipo che non sapeva tenersi un segreto, però… «Buonanotte, Star. E… grazie». «Figurati, Miles. ‘Notte anche a te». Chiusi la porta e, fatto un sospiro profondo, tornai alla mia scrivania. Avevo avuto fin troppe distrazioni. Perciò ritrovare la concentrazione fu difficile. Pensai di svuotare la mia testa dai pensieri, riempiendola di musica. Schiacciai il tasto play del lettore mp3 e fui ancora una volta invasa dall’assolo di chitarra elettrica e dai rintocchi veloci della batteria. Tenevo il ritmo col movimento del piede, sotto il tavolo, mentre sottolineavo con l’evidenziatore le pagine che avevo stampato. Focalizzavo esclusivamente le parole scritte su quei fogli: la musica mi obbligava a tenere la mente libera da tutto il resto. Leggevo dell’istituto dell’adozione in America, dopo la guerra di secessione degli anni 1861–1865. «Ancora a studiare?» Alzai la testa e vidi Beth fare capolino dalla porta della mia camera. «Già… Accidenti a Blanc», dissi togliendomi le cuffie. «Com’è andata la festa?» «Normale, niente di che. Emily, stasera, era particolarmente passiva… Tu, invece, tutto bene? Prima, quando ci siamo sentite per telefono ed eri ancora ad Hartford con Matt, avevi una voce strana. E’ successo qualcosa alle prove del coro?» Si appoggiò alla mia scrivania. «Ma no, non è successo niente, Beth. Ero solo un po’ sconvolta e preoccupata dall’aver perso tanto tempo. Non voglio fare brutta figura lunedì, capisci?» «Immagino. Ma ce la farai, lo so». Le sorrisi. FINE ANTEPRIMACONTINUA...