Shakespeare e La Filosofia Occulta Del Rinascimento

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1 Shakespeare e la filosofia occulta del Rinascimento L’estetica del colore nel Macbeth Caroline Pagani Ut (Occulta)Philosophia Poesis Il mistero che avvolge l’identità di William Shakespeare è noto ed è stato molto discusso. 1 Quel che è meno enigmatico è il fatto che egli sia stato immerso in quel clima storico-culturale di generale fermento e ‘rinascita’ che si suole denominare col termine ‘Rinascimento’. Nel XVI e XVII secolo, il proliferare di trattati 2 ad uso degli artisti e di libri di emblemi, tra cui la nota Iconologia del Ripa, costituisce uno dei fenomeni più rilevanti della cultura del Rinascimento, dovuto a quella sensibilità visuale, visiva, ‘pittorica’ che caratterizza l’epoca. E tale sensibilità, il pensiero ‘emblematico’, ha esercitato un’influenza notevole su Shakespeare. Un altro tratto distintivo dovuto al pensiero rinascimentale è l’idea delle ‘arti sorelle’, poesia e pittura, parola e sguardo, derivante dalla famosa similitudine oraziana, ‘ut pictura poesis’. 3 Il presupposto fondamentale su cui si basa la teoria umanistica della pittura tra XV e XVIII secolo è quello per il quale il poeta è simile al pittore. 4 Di conseguenza, la pittura sarebbe poesia muta e la poesia un quadro, una pittura parlante. La matrice di tale teoria affonda le proprie radici nell’antichità, in Aristotele e Orazio, e viene riscoperta, in epoca rinascimentale, nella tendenza radicata ad associare le due arti. La Rinascenza ‘scopre’ lo sguardo. E valorizza la parola. Un’altra caratteristica dovuta alla cultura rinascimentale è il pensiero esoterico. La componente esoterica 5 è più che mai evidente nella produzione artistica. I quadri tendono a parlare un linguaggio simbolico, ermetico. Questa fase nella storia dell’arte occidentale rientra nel capitolo del Manierismo e precede l’affermazione del Barocco. Tanto il Manierismo in 1 Numerose sono state le tesi ipotetiche che hanno sostenuto l’identità di Shakespeare con Francis Bacon, congettura che non è mai stata comprovata. Alla fine del XIX secolo, un libro di Wigston, Bacon, Shakespeare and the Rosicrucians vuole dimostrare che Shakespeare è Bacone e che Bacone è Rosa-Croce. Cfr., P. Arnold, Histoire des Rose Croix, Mercure de France, Paris 1955, tr. it., di G. Bonerba, pref. di U. Eco, Storia dei Rosa-Croce, Bompiani, Milano 2000. 2 I trattati sulla teoria della pittura sono raccolti in Paola Barocchi, Scritti d’arte del Cinquecento, Einaudi, Torino 1979. 3 (“così è la pittura, così la poesia” che i critici d’arte desideravano fosse intesa come “così com’è la poesia, così è la pittura”). 4 Si veda, a tale proposito, R. W. Lee, Ut pictura poesis, Sansoni, Firenze 1974. 5 L’etimolologia di ‘esoterismo’ chiarisce l’idea di un segreto suggerendo che si può accedere alla comprensione di un simbolo, di un mito o del reale, solo mediante uno sforzo di delucidazione progressiva e stratificata, a vari livelli

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Shakespeare e la filosofia occulta del Rinascimento

L’estetica del colore nel Macbeth

Caroline Pagani

Ut (Occulta)Philosophia Poesis

Il mistero che avvolge l’identità di William Shakespeare è noto ed è stato molto discusso.1 Quel che

è meno enigmatico è il fatto che egli sia stato immerso in quel clima storico-culturale di generale

fermento e ‘rinascita’ che si suole denominare col termine ‘Rinascimento’. Nel XVI e XVII secolo,

il proliferare di trattati2 ad uso degli artisti e di libri di emblemi, tra cui la nota Iconologia del Ripa,

costituisce uno dei fenomeni più rilevanti della cultura del Rinascimento, dovuto a quella sensibilità

visuale, visiva, ‘pittorica’ che caratterizza l’epoca. E tale sensibilità, il pensiero ‘emblematico’, ha

esercitato un’influenza notevole su Shakespeare. Un altro tratto distintivo dovuto al pensiero

rinascimentale è l’idea delle ‘arti sorelle’, poesia e pittura, parola e sguardo, derivante dalla famosa

similitudine oraziana, ‘ut pictura poesis’.3 Il presupposto fondamentale su cui si basa la teoria

umanistica della pittura tra XV e XVIII secolo è quello per il quale il poeta è simile al pittore.4 Di

conseguenza, la pittura sarebbe poesia muta e la poesia un quadro, una pittura parlante. La matrice

di tale teoria affonda le proprie radici nell’antichità, in Aristotele e Orazio, e viene riscoperta, in

epoca rinascimentale, nella tendenza radicata ad associare le due arti. La Rinascenza ‘scopre’ lo

sguardo. E valorizza la parola. Un’altra caratteristica dovuta alla cultura rinascimentale è il pensiero

esoterico. La componente esoterica5 è più che mai evidente nella produzione artistica. I quadri

tendono a parlare un linguaggio simbolico, ermetico. Questa fase nella storia dell’arte occidentale

rientra nel capitolo del Manierismo e precede l’affermazione del Barocco. Tanto il Manierismo in

1 Numerose sono state le tesi ipotetiche che hanno sostenuto l’identità di Shakespeare con Francis Bacon, congettura che non è mai stata comprovata. Alla fine del XIX secolo, un libro di Wigston, Bacon, Shakespeare and the Rosicrucians vuole dimostrare che Shakespeare è Bacone e che Bacone è Rosa-Croce. Cfr., P. Arnold, Histoire des Rose Croix, Mercure de France, Paris 1955, tr. it., di G. Bonerba, pref. di U. Eco, Storia dei Rosa-Croce, Bompiani, Milano 2000. 2 I trattati sulla teoria della pittura sono raccolti in Paola Barocchi, Scritti d’arte del Cinquecento, Einaudi, Torino 1979. 3 (“così è la pittura, così la poesia” che i critici d’arte desideravano fosse intesa come “così com’è la poesia, così è la pittura”). 4 Si veda, a tale proposito, R. W. Lee, Ut pictura poesis, Sansoni, Firenze 1974. 5 L’etimolologia di ‘esoterismo’ chiarisce l’idea di un segreto suggerendo che si può accedere alla comprensione di un simbolo, di un mito o del reale, solo mediante uno sforzo di delucidazione progressiva e stratificata, a vari livelli

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sede artistica, quanto il primo Barocco, esaltano quelli che Hauser chiama “i caratteri emotivi in una

teatralità grandiosa”.6 Così come avviene per le arti figurative, in questa epoca, anche la letteratura

intrattiene relazioni privilegiate con l’esoterismo. Manierismo e scienze occulte sono compagni di

letto. L’intero universo è considerato come un grande teatro di specchi, che può essere guardato da

prospettive differenti e anamorfiche,7 come un insieme di geroglifici da decifrare in cui, per usare le

parole di Fernando Pessoa “tutto è simbolo e allegoria”. Nell’Inghilterra elisabettiana sorsero

diverse correnti filosofiche ed esoteriche di cui si dice il nostro personaggio facesse parte. Che egli

appartenesse alla confraternita dei Rosacroce o meno, non si può ignorare che in alcuni dei suoi

drammi emerge una sapienza talmente estesa e profonda che sembra affondare le proprie radici

nell’ermetismo e nella Cabala.8 Il pensiero ermetico,- come rileva la storiografa Paola Zambelli,9 in

uno studio significativamente intitolato La natura ambigua della magia, - dice che il nostro

linguaggio è ambiguo, polivalente, e si avvale di simboli e metafore. In alcuni brani delle opere di

Shakespeare, (Amleto, Macbeth, Il sogno di una notte di mezza estate, La Tempesta, in particolare,

ma anche Il mercante di Venezia, e gli ultimi drammi romanzeschi: Pericle, Cimbelino, Il racconto

d’Inverno) è possibile individuare parole e concetti tratti da esoteristi quali Ermete Trismegisto,

Paracelso, Cornelio Agrippa, Francesco Giorgi, Marsilio Ficino, Giordano Bruno e dal gruppo

teologico tedesco conosciuto come Rosacroce,10 la cui dottrina si diffuse pienamente in Inghilterra

nel XVII secolo. Shakespeare, probabilmente, attinse da tutti questi insegnamenti e dottrine

esoteriche i temi che elaborò interiormente per creare le sue grandi opere. Soprattutto nelle ultime

realizzazioni si nota un linguaggio misterico che fece pensare all’autore come ad un grande iniziato

che operava sotto falso nome. Così, il cigno di Avon sembra muoversi in un’aura enigmatica, come

uno spirito libero, in possesso di concetti misterici ben definiti. Nonostante si combattesse molto

contro la magia e le sue derivazioni, è innegabile che nel Rinascimento essa fosse un fatto culturale,

successivi, ossia mediante una forma di ermeneutica. 6 Per “manierismo” in Shakespeare si intende indicare, come nella critica letteraria, “una modalità di espressione come categoria estetica, denominatore comune di tutte le tendenze letterarie che si oppongono al classicismo, rifiutandone il canone naturalistico-mimetico”. Hauser ne ha individuato le ragioni storiche e strutturali, collegandole all’angoscia e al turbamento che si producono ogniqualvolta entra in crisi un modello storico-sociale consolidato e si determina così una frattura fra realtà e letteratura, come avviene in Inghilterra nei primi decenni del Cinquecento. Inserita nel momento di trapasso dal rinascimento al barocco, la scrittura manierista si contraddistingue per una tendenza all’esasperazione, avvalendosi di artifici stilistici, arrivando a scompaginare l’architettura logica alla quale viene contrapposta una diversa visione del mondo. La visione di un mondo in cui sono crollate le certezze, in cui, come dice Argan, “l’uomo passa al dubbio metodico”, dovuta allo scardinamento della posizione dell’uomo all’interno del cosmo, dell’universo, in seguito alla rivoluzione copernicana. A tale proposito si veda G. R. Hocke, Il Manierismo nella letteratura, Il Saggiatore, Milano 1965. 7 Sul tema della prospettiva nel Seicento si veda E. Gilman, Literary and Pictorial Wit in the Seventeenth Century, Yale University Press, 1978. 8 La Cabala è una dottrina mistica legata alla teologia ebraica utilizzata per interpretare la Bibbia. Essa congiunge due aspetti: uno teoretico-dottrinale e uno pratico-magico. 9 Interessante per il dibattito storiografico sul mito attuale delle scienze occulte; P. Zambelli, L’ambigua natura della magia. Filosofi, streghe, riti nel Rinascimento, Marsilio, Venezia 1996. 10 Nel suo studio L’Illuminismo dei Rosa-Croce, Frances Yates sostiene che questo movimento attingeva nutrimento spirituale dall’alchimia di Paracelso e da altre influenze ermetiche.

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e la letteratura dell’epoca era densa di significati occulti. In uno studio approndito di Frances Yates,

Cabbala e Occultismo nell’età elisabettiana,11 si rileva come i drammi maggiori del più grande

drammaturgo del periodo siano avvolti in un’atmosfera particolare: quella dell’occulto, e soprattutto

come essa avesse una connessione profonda con la filosofia del periodo, la filosofia occulta

caratterizzata dalla magia, dall’intento di penetrare nelle sfere profonde della conoscenza. Il mondo

dell’epoca elisabettiana è caratterizzato da un particolare retroterra ideologico-culturale, dalla magia

rinascimentale e dall’interesse per il soprannaturale. Le grandi creazioni di Shakespeare – Amleto,

Lear, Macbeth, Prospero – sono considerate appartenenti alle fasi tarde della filosofia occulta

rinascimentale che fu la filosofia dell’età elisabettiana. Amleto è ossessionato dal fantasma,

Macbeth incontra le streghe. Il Macbeth, insieme alla Tempesta, è una delle opere più ‘esoteriche’

di Shakespeare, dove per ‘esoterismo’ si intende, come indica il significato etimologico del termine,

ciò che è interno, nascosto, segreto, dotato di un linguaggio che richiede e permette, attraverso un

lavoro di interpretazione, lo svelamento di un senso più profondo.

L’esoterismo si vede così conferire una funzione ermeneutica, in quanto esso è anche una sintesi dei

simboli, che stimola un’interpretazione del linguaggio simbolico e per immagini. Il retroterra

ideologico e filosofico delle opere shakespeariane è quindi di estrema importanza per comprendere

appieno i testi, anche nella loro ricezione estetica, nella loro simbologia, nelle loro immagini e nei

loro colori. Sono chiaramente reperibili in alcune di queste opere, e in particolare nel Macbeth,

influenze pneumatologiche e demonologiche che incontrarono un particolare favore nell’Inghilterra

elisabettiana e giacomiana. Anche il sovrano Giacomo I Stuart12 era cultore delle pseudo scienze del

sovrannaturale e dell’occulto. In Esotérisme de l’oeuvre shakespearienne uno studioso esoterico

osserva come Shakespeare e i suoi contemporanei che sono vissuti prima del cartesianesimo, non

ragionassero come noi.13 Di conseguenza, la magia, l’astrologia, l’alchimia e la filosofia erano

considerate come degli aspetti della scienza: la scienza occulta.

All’inizio del XVI secolo Giovanni Tritemio era considerato il mago più potente; Agrippa divulga il

suo insegnamento segreto nei quattro libri della sua De Occulta Philosophia.

11 F. Yates, The Occult Philosophy in the Elizabethan Age, Routhledge and Paul Kegan, London 1979; tr. it., Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana, Einaudi, Torino 1982. La Yates ha scritto numerosi studi sulla filosofia occulta nel Rinascimento: Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, Routhledge and Paul Kegan, London, 1964; tr. it., Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari 1992. (Lo studio più recente su Giordano Bruno è di Hilary Gatti, Giordano Bruno e la scienza del Rinascimento, Cortina, Milano 2001); The Art of Memory, Routhledge and Paul Kegan, London 1966; tr. it., L’arte della memoria, Einaudi, Torino 1972; Theatre of the World, Routhledge and Paul Kegan, London, 1969; The Rosicrucian Enlightment, Routhledge and Paul Kegan, London 1972; tr. it., L’Illuminismo dei Rosacroce, Einaudi, Torino 1976; Shakespeare’s Last Plays: A New Approach, Routhledge and Paul Kegan., London 1975; tr. it., Gli ultimi drammi di Shakespeare: un nuovo tentativo di approccio, Einaudi, Torino 1975. 12 Giacomo I Stuart aveva scritto la Demonologie (1597), tr. it., Demonologia, trattato che ha esercitato una notevole influenza sulla cultura del tempo. 13 P. Arnold, Clef pour Shakespeare. Esotérisme de l'oeuvre shakespearienne, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1977.

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Secondo l’opera di Agrippa, esistono delle corrispondenze analogiche tra il microcosmo del mondo

umano e il macrocosmo del mondo universale, basate sul principio che “ciò che è in alto è come ciò

che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto”.

“L’universo è ordinato secondo una gerarchia che distingue, partendo dall’alto verso il basso, gli spiriti sopracelesti,

celesti, sublunari e infernali. Tritemio, fedele alle categorie alchemiche, li raggruppa in spiriti del fuoco nelle regioni

superiori, in spiriti aerei, in spiriti terrestri precipitati dal cielo sulla terra, spiriti dell’acqua e spiriti sotterranei delle

grotte e degli antri e, infine, quelli che temono la luce ed errano nelle tenebre. Da una categoria all’altra vi sono scambi

costanti e un’ interazione di influenze”.14 Dominare il mondo di questi spiriti è quindi l’arte del mago. Ma

per comandare gli spiriti bisogna dominarli attraverso la virtù. È per questo che Agrippa distingue

magia bianca, cerimoniale e magia nera, negromantica.

Macbeth è stato definito da Agostino Lombardo il simbolo dell’arte drammatica e Harold Bloom15

vi ha ravvisato la celebrazione dell’immaginazione rinascimentale. Questa tragedia è infatti dotata

di una spiccata qualità rituale, nella forma e nei contenuti, in essa la dimensione sovrannaturale ha

grande rilievo, pur rimanendo un’opera moderna. Macbeth è forse il primo dramma che introduce

seriamente in scena i riti e le pratiche della stregoneria contemporanea. Con l’inserimento nel testo

e quindi in scena delle streghe, delle evocazioni ed invocazioni, Shakespeare ha anche introdotto

una dimensione marcatamente sovrannaturale all’intera azione. Il drammaturgo ha incluso, nei

discorsi delle streghe e in particolar modo negli incantesimi, una conoscenza della magia

negromantica ed esorcistica. Le evocazioni presenti nel testo sono vere e proprie evocazioni e

rivelano una consapevolezza del potere della parola che esplica qui la facoltà di stare per la cosa

nominata, proprio come scrive Agrippa nel De Occulta Philosophia: “le parole esprimono e

rappresentano le cose, le esplicano, ne costituiscono il veicolo”.16 Questo atteggiamento mentale

deriva dalla diffusa opinione, documentata in Inghilterra da John Dee, derivata da Pico della

Mirandola, che le parole, usate in certi modi dal mago, sono capaci di veicolare forze misteriose e

occulte.

Shakespeare probabilmente conosceva qualcosa dello gnosticismo attraverso la filosofia ermetica di

Giordano Bruno, come aveva già approfonditamente indagato la Yates,17 e negli studi più recenti di

Bloom questa influenza viene riconosciuta, anche se forse in modo indiretto.

14 Ibid., p. 45. "L'univers est un ordonnancement hiérarchisé strictement en esprits supracélestes, célestes, sublunaires et infernaux. Trithème, fidèle aux catégories alchimiques, les groupe en esprits du feu dans les régions supérieures, en esprits aériens, en esprits terrestres précipités du ciel sur la terre, en esprits des eaux, et esprits souterrains des grottes et des antres, en ceux enfin qui craignent la lumière et errant dans les ténèbres. D'une catégorie à l'autre, il y a de constants échanges et une intéraction d'influences". (tr. mia). 15 H. Bloom, Shakespeare. The Invention of The Human, Fourth Estate, London 1999, p. 516, tr. it. di R. Zuppet, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, Rizzoli, Milano 2001. 16 E. C. Agrippa, “Dei discorsi e del potere delle parole” in La filosofia occulta o la magia, libro I, “La magia naturale”, cap. LXIX, Mediterranee, Roma 1972. 17 Cfr. F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari 1992.

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È altresì riscontrabile un particolare interesse per la dimensione metafisica, e soprattutto per la

parola e l’immagine, l’immagine visiva. Quest’ultima si sviluppa attorno alla riscoperta

rinascimentale della filosofia platonica in un contesto che è però ancora legato alla tradizione

aristotelica. È stato messo in luce da vari critici come Shakespeare conoscesse molto bene i classici

e come egli avesse anche una conoscenza approfondita di Platone e Aristotele, grazie alla

circolazione e divulgazione ad opera di Marsilio Ficino e Giordano Bruno, di numerose traduzioni

di testi dei suddetti filosofi.

Dal Macbeth emerge dunque una sensibilità ai contenuti concettuali che alimentarono il

Rinascimento. Come rileva Claudia Corti in ‘Macbeth’: la parola e l’immagine, “Shakespeare

indaga sul fenomeno linguistico, anatomizzato nella sua capacità a denotare l’essenza del reale, e

interroga il fenomeno visivo nella sua presunta oggettività e facoltà di significare […] a cui si

accompagna la virtualità conoscitiva della visione fantasmatica”.18

Importante è nel testo il rapporto che intercorre fra parola e cosa, fra essere e dire.

Si può infatti affermare che, nella prospettiva occidentale, il linguaggio è stato sempre visto come

un’entità costitutiva dell’uomo. L’essere si realizza nel linguaggio, come direbbe Martin Heidegger.

Il linguaggio non è semplicemente un segno, la parola, il nome conferiscono un’identità, la parola è

dotata di un potere reificante, essa cioè non si limita ad indicare ma è, si identifica con ciò che

designa. Non si tratta di una mera analogia fra il nome e la cosa, ma di un vincolo sostanziale,

poiché, “l’essere non è altro dal suo darsi nel linguaggio”.

Esiste quindi un rapporto inalienabile fra uomo e linguaggio, a cui il mondo classico diede il nome

di lògos: termine che indica simultaneamente la manifestazione fonica di qualcosa e la sua essenza.

Di conseguenza, le parole sono le cose stesse, e le cose esistono in quanto parole.

Tale concezione classica dell’identità fra linguaggio ed entità umana affonda le proprie radici nella

classicità, e in particolar modo in un trattato di Aristotele: il De Interpretatione. In un capitolo

dedicato all’enunciazione egli afferma: “I suoni della voce sono dunque segni delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei

suoni della voce. […] quello poi di cui questi suoni e segni scritti sono in primo luogo segni sono le affezioni

dell’anima, che sono le medesime per tutti, e le cose, di cui queste costituiscono le immagini, sono del pari le stesse per

tutti”.

Il linguaggio, dunque, è espressione delle affezioni dell’anima (immagini, concetti, sentimenti).

Nella visione occidentale, infatti, come sottolinea Heidegger, “il linguaggio è la dimora

dell’essere”.19 Anzi, la Parola indica l’Essere. La Parola conferisce alle Cose la qualità istitutiva

dell’esistenza, manifestandone al tempo stesso la loro essenza. L’essere si dà nel linguaggio.

18 C. Corti, Macbeth: la parola e l'immagine, Pacini, Pisa 1983, p. 10. 19 Cfr. M. Heidegger, La dottrina di Platone sulla verità e Lettera sull'umanismo, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, Torino 1975.

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Questa concezione classica del parlare trapassa nel Rinascimento, periodo sensibile alla plasticità,

che non separa mai il senso della parola dalla sua espressione. Aristotele, nel De Enunciazione,

parla di ‘segni’,20 cioè di qualcosa che designa, ma anche di ‘simboli’ e ‘immagini’, ossia di

qualcosa che evoca e che raffigura fenomenicamente.

A partire dal XV secolo, la riscoperta della metafisica platonica che invade la cultura occidentale

porta i filosofi ad interrogarsi sul linguaggio.

Se la realtà del mondo non è quindi ontologica, se gli oggetti della Natura non sono che copie delle

Idee, allora la conoscenza è simbolica. La visione del linguaggio come suprema categoria

ontologica dell’Essere comincia ad incrinarsi, il pensiero trasferendosi da un ordine sentito come

reale ad un altro avvertito come simbolico, conferisce particolare importanza ai nomi e ai segni, di

conseguenza, il rapporto fra parole e realtà tende a diventare raffigurativo.

Ha così inizio “quel processo attraverso cui le cose si derealizzano, divenendo, nelle parole,

simulacri”.21 È in base a questa prospettiva generale che nel Rinascimento acquista particolare

importanza il segno linguistico. Come scrive Agrippa nel De Occulta Philosophia,

“le parole esprimono e rappresentano le cose”, anzi le esplicano, esse ne “costituiscono il

veicolo”.22La parola, quindi, rappresenta direttamente l’oggetto; il nome sta per la cosa. In epoca

rinascimentale si tende ad accordare al segno visivo un’importanza pari a quella assegnata al segno

linguistico. Da qui deriverà il noto interesse per i geroglifici e gli emblemi, - segni simultaneamente

visuali e verbali, documentato in Inghilterra dal filosofo emblematico dell’ epoca: John Dee.23 La

parola, quindi, “non rappresenta semplicemente la forma di un’entità, bensì può rappresentarne

l’essenza”.24

Questo aspetto è particolarmente evidente nel Macbeth ogniqualvolta vi sono delle invocazioni o

evocazioni, basti pensare a Lady Macbeth nella scena25 dell’invocazione agli spiriti infernali. Le

parole che pronuncia il personaggio hanno il tono e l’andamento esortativo di una formula magica,

sembrano tratte di peso da un manuale di magia nera. In un testo di Agrippa sulle evocazioni

magiche, intitolato Il libro segreto del comando, nelle “Invocazioni alle Divinità Infernali”,26

ricorrono spesso modi imperativi che attestano la fiducia nell’efficacia pragmatica della parola.

20 Sulla differenza tra segno e simbolo, si veda T. Todorov, Simbolismo e interpretazione, Guida, Napoli 1996. 21 M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1963, tr. it., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, nella terza ed. di Canguilhem, 1985. 22 Cfr. E. C. Agrippa, "Dei discorsi e del potere delle parole", in La filosofia occulta o la magia, (titolo originale De Occulta Philosophia (1533), Mediterranee, Roma 1972, Lib. I (La magia naturale), cap. LXIX, p. 126. 23 Per uno studio monografico –biografico su questo filosofo-matematico, si veda Peter French, John Dee, the World of an Elizabethan Magus, Routhledge, London 1972. 24 D. P. Walker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, London 1958, p. 78. 25 Si legga W. Shakespeare, Macbeth, (atto I, scena V). 26 Cfr. E. C. Agrippa, “Il Doppio Libro del Comando”, in Le Evocazioni Magiche, Melita, Genova 1987, p. 51.

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L’apporto della Cabala,27 in questo senso, ha svolto un ruolo determinante per il valore che essa

assegna sul piano conoscitivo alle lettere dell’alfabeto ebraico. Come è noto, per i cabalisti

l’onnipotenza divina era tutta racchiusa, contenuta, inscritta nelle lettere dei nomi di Dio. A tale

proposito Agrippa nella sua Filosofia Occulta afferma: “Ventidue lettere quindi costituiscono la base del mondo e di tutte le sue creature; tutto quanto è stato detto e creato

proviene da esse e tutto ritrae il nome e la virtù delle loro rivoluzioni. Per penetrarne gli arcani necessita esaminare così

a fondo le loro combinazioni, che ne scaturisca la voce della divinità e ne balzi il testo dalle sacre lettere”.28

È interessante osservare come in Inghilterra questa concezione naturalistico-magica del segno

linguistico diventi il bersaglio dell’opposizione religiosa contro l’occultismo. Contrapporre un

punto di vista ‘convenzionalistico’, che neghi cioè la possibilità di un rapporto diretto fra segno e

oggetto, equivaleva a cercare di togliere alla parola medesima ciò che essa aveva di pericoloso, di

misterioso, di ‘diabolico’ o ‘stregonesco’ che le aveva conferito l’ermetismo cabalistico.

All’interno di questo dibattito, è interessante osservare la posizione di Francis Bacon, il quale mette

in guardia contro l’idolatria che il Cinquecento aveva riservato al linguaggio.

Egli afferma nell’Advancement of Learning: “le parole sono immagini e innamorarsi di loro è come

innamorarsi di un quadro”.29

È appunto in tale retroterra culturale, in tale humus che si innesta il discorso di Shakespeare. Di tale

discorso shakespeariano Macbeth esemplifica un momento di particolare pregnanza concettuale e di

forte densità semantica. Un elemento semanticamente denso va colto nella presenza del modulo

ternario. Tre sono le streghe, tre le domande, tre i fenomeni naturali menzionati. Le streghe sono

figure provenienti dalla tradizione culturale demonologica ed occultistica. Nei trattati demonologici

del Cinquecento e del primo Seicento, il numero tre compare come matrice dell’illusione e

dell’essere. Ma le pseudo scienze rinascimentali del sovrannaturale assegnavano al numero tre

anche un’altra e diversa valenza. Quella del superamento di un contrasto.

Nell’esordio del Macbeth l’idea del contrasto trova un’eccellente esemplificazione nella dicotomia

e nell’opposizione espressa dalle fatidiche sorelle con “bello è il brutto e brutto è il bello”, che

illustra il connubio delle forze contrastanti Bene/Male, luce/tenebre, leitmotiv dell’intero dramma.

Uno dei principi strutturali su cui quest’opera poggia è infatti anche quello della conflittualità e

della contrapposizione di forze. Per questo motivo Agostino Lombardo ha definito il Macbeth il

‘simbolo dell’arte drammatica’, proprio perché il dramma mira alla “rappresentazione degli urti che

ci sono nella storia, nel mondo, nell’anima degli uomini”.30

C’è un legame tra il Macbeth e l’ultima opera di Shakespeare, la Tempesta, sono le più esoteriche.

27 Secondo la Cabala, ad ogni lettera dell’alfabeto si fa corrispondere un numero. 28 E. C. Agrippa, La filosofia Occulta, Lib. I, cap. LXXIV. 29 F. Bacone, Il progresso del sapere, tit. orig. The Advancement of Learning (1605), tr. it. e cura di P. Rossi. 30 A. Lombardo, Lettura del Macbeth, Neri-Pozza, Vicenza 1969, p. 17.

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Negli ultimi drammi di Shakespeare l’atmosfera magica si fa particolarmente intensa e appare ancor

più chiaramente connessa alle grandi tradizioni della magia rinascimentale: la magia intesa come

sistema intellettuale dell’universo, “presagio della scienza” (Yates), come strumento per unire fedi

religiose in contrasto all’interno di un generale movimento di riforma ermetica (aspetti presenti in

Giordano Bruno che predicò in Inghilterra negli anni di formazione del Bardo). Shakespeare sembra

quindi essere stato a conoscenza degli scopi religiosi più generali della magia rinascimentale sin dai

drammi precedenti, anche se negli ultimi l’influsso di questa sensibilità è ancora più palpabile. Nel

Pericle il drammaturgo introduce una grande figura di mago nel personaggio di Cerimone. Egli usa

la terapia musicale per guarire e per riportare alla vita. Egli è il mago in quanto medico piuttosto

che il mago in quanto cultore di scienze naturali incarnato dal Prospero della Tempesta. La Yates

scorge intorno a questa figura di mago un’aura rosacruciana e l’influsso dell’ideale di medico

diffusosi in Europa attraverso l’azione di Paracelso. Nel Racconto d’inverno viene ripreso il tema di

una donna apparentemente morta che ritorna in vita, nel caso di Paolina e della presunta statua di

Ermione. Paolina, con l’ausilio della musica, infonde la vita in un’immagine morta. In questa scena,

nell’atto di richiamare in vita la statua, si può scorgere il nucleo ermetico del dramma. Il

drammaturgo sembra alludere qui ad un particolare tipo di magia: quella ermetica di derivazione

egizia. Gli scritti attribuiti al presunto Ermete Trismegisto ebbero un immenso influsso nel

Rinascimento, ed erano collegati al Neoplatonismo, nucleo ermetico di quel movimento.

Nell’Asclepio, Ermete descrive la magia religiosa mediante la quale si supponeva che gli antichi

sacerdoti egizi infondessero la vita nelle statue delle loro divinità con vari riti e pratiche tra cui

l’accompagnamento musicale. La Yates31 ha dimostrato come Shakespeare, nella scena di Paolina e

la statua di Ermione, abbia alluso al famoso passo dell’Asclepio sull’atto creativo della divinità. Nel

Racconto d’Inverno torna quindi il leitmotiv della religione magica ermetica o egizia, nell’episodio

della magia di Paolina che alluderebbe alle statue magiche dell’Asclepio e la storica ravvisa nel

dramma una delle più importanti correnti della filosofia magica della natura del Rinascimento.

Anche il Cimbelino presenta aspetti misteriosi e significati ed esoterici nel simbolo centrale della

caverna che pare alludere al simbolismo rasacrociano.32 La massima espressione filosofica e magica

dell’ultima produzione shakespeariana è rappresentata dalla Tempesta. All’interno di questo

dramma romanzesco acquista grande rilievo il masque, genere di intrattenimento spettacolare misto,

di cui la Yates ha sottolineato le finalità magico-propiziatorie.33 Di che genere di magia si tratta

31 Cfr., F. Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare. Un nuovo tentativo di approccio, Einaudi, Torino 1979. 32 Il simbolo centrale del manifesto rosacrociano, la Fama, è una caverna in cui si ritrova una cosa da lungo tempo perduta, la tomba di Christian Rosencreutz, la cui apertura fu il segnale per la resurrezione dell’ordine. 33 “Sul masque Stuart ci fu un influsso della corte francese e delle sue idee, e il masque è un caso in cui trova espressione la connessione fra magia e meccanica, presente nella mente rinascimentale. In essi la meccanica fu adoperata a scopi magici, per foggiare un talismano onde invocare potenze divine all’assistenza del monarca”. Questa osservazione della Yates si trova citata in M. D’Amico, Dieci secoli di teatro inglese, Mondadori, Milano 1992, p. 167. Per un’approfondita panoramica sull’origine, la struttura e l’evoluzione del masque, si veda A. Anzi, Storia del Teatro

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nella Tempesta? Il mago Prospero agisce sulla falsariga del famoso manuale di magia del

Rinascimento, il De Occulta Philosophia del neoplatonico Agrippa. Frank Kermode per primo ha

indicato Agrippa come ispirazione per l’arte di Prospero il quale ha appreso proprio quell’ ‘occulta

philosophia’ da lui insegnata. La struttura o il sistema intellettuale entro cui funziona la magia di

Prospero si rifà alle definizioni di Agrippa. Secondo lo studioso l’universo è infatti suddiviso in tre

mondi: elementare, celeste, intellettuale. La magia naturale agisce nel mondo degli elementi; la

magia celeste agisce nel mondo degli astri e una più alta magia religiosa agisce in quello

sovraceleste. Nella Tempesta, Prospero sembrerebbe rifarsi alla magia evocatrice cabalistica,

cerimoniale, bianca, nel Pericle, Cerimone usa quella risanatrice e Il racconto d’inverno è pervaso

dalla filosofia naturalistica. Nella figura di Prospero è stato adombrato John Dee, il filosofo medico

elisabettiano che Shakespeare dovette conoscere. Dee segue la teoria dei tre mondi di Agrippa che

sono attraversati dal connettivo simbolico e cabalistico del numero. La scienza di Dee è di tipo

‘rosacrociano’. Con questo termine si designa uno stadio intermedio nella storia della tradizione

magico-scientifica tra il Rinascimento e il XVII secolo. La Tempesta presenta così una filosofia che

connette tutti questi influssi magico-religiosi e incarna una delle espressioni supreme di quella fase

tanto importante nella storia del pensiero europeo. L’interesse di Shakespeare per l’occulto non

deve essere interpretato nel senso di una derivazione dalla tradizione popolare e folcloristica, ma

piuttosto da profonde radici di affinità con la filosofia dell’epoca. La filosofia dominante dell’età

elisabettiana fu precisamente la filosofia occulta cabalistico-cristiana, caratterizzata da una

peculiare miscela rosacrociana di magia e scienza.34

Se il nucleo concettuale della Weltanshauung della Rinascenza (italiana e inglese) va individuato

nel prevalere della manifestazione verbale, è altresì vero che il centro della sensibilità del periodo

va rinvenuta in un radicato visualismo. L’immaginificità shakespeariana è intrinsecamente visuale.

Il Macbeth attesta tale tendenza rinascimentale a pensare per idee astratte, in termini di concrete

correlazioni visive. Il pensiero elisabettiano è dotato di una peculiare qualità emblematica che trova

terreno fertile di espressione nel teatro, dove spesso il dramma si configura come una sorta di

geroglifico in cui “la singola immagine visiva diventa funtivo di una immanente dimensione

iconica”.35 Il rapporto tra idea e immagine, la possibilità di rendere visiva e visibile l’Idea è una

delle postulazioni di base della teoria estetica cinquecentesca.

Inglese dalle origini al 1660, Einaudi, Torino 1997. 34 Sul rapporto tra magia e scienza nel Rinascimento, si veda J. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento, Il Saggiatore, Milano 1987. 35 C. Corti, op. cit., p. 33.

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Basti pensare ai ‘teatri della memoria’36 o di icone simboliche di Giulio Camillo e Giordano Bruno.

Il problema di unire il visibile e l’intelligibile perviene, nella Rinascenza, ad una momentanea

soluzione nell’idea bruniana che qualunque significato può essere espresso attraverso l’immagine

che vela mentre rivela.

Questi contenuti teorici si sono innestati, in Inghilterra, in una solida tradizione teatrale e

scenografica, che privilegia sia l’apporto teorico e illustrativo delle figure, sia il loro intento

simbolico e allegorico. I masques sono una clamorosa esemplificazione della qualità iconica ed

emblematica del teatro elisabettiano e testimonianza delle inalienabili relazioni gnoseologiche che

esistono fra pensiero e immagine.

La filosofia che informa il pensiero elisabettiano e quindi l’estetica shakespeariana deriva dalla

scuola neoplatonica fiorentina, ma anche dall’ermetismo e dalla filosofia dei Rosacroce che può

aver esercitato non pochi influssi sull’elaborazione delle sue creazioni poetiche. La letteratura

inglese, tra fine del XVI secolo e l’inizio del XVII secolo, è impregnata di influenze occultiste ed

esoteriche.37 I drammaturghi elisabettiani - (non solo Shakespeare, ma anche Christopher Marlowe

e Ben Jonson) - hanno prodotto opere che si colorano di un esoterismo in cui è possibile scorgere

l’uso di idee riprese da dottrine dei Rosacroce, idee anteriori al movimento stesso e che hanno

nutrito l’humus cui il grande drammaturgo ha attinto.

Per un’estetica del colore. I colori simbolici del Macbeth

Ut Imago Color Il colore è ovunque, ma ovunque esso sia, c’è già un simbolo38

Anche i colori costituiscono un linguaggio metafisico, ermetico, che va svelato, che richiede una

comprensione e interpretazione. “Lo studio della combinazione dei colori è un’introduzione alla

scienza ermeneutica delle corrispondenze”.39 Corrispondenze analogiche e simboliche tra

microcosmo e macrocosmo, tra l’uomo e l’universo nel Rinascimento. Ed è proprio sul principio

36 I ‘teatri della memoria’ erano trasfigurazioni di uno spazio mentale, luoghi in cui si costruivano immagini menmoniche simboliche con la finalità di raccogliere lo scibile umano in un unico teatro della memoria appunto. Come sottolinea la Yates in L’arte della memoria, in cui analizza l’Idea del Theatro di Camillo, si tratta dello stesso concetto che sarà alla base dell’enciclopedismo settecentesco. 37 Questo aspetto è stato ampiamente dimostrato da P. Arnold in “Occultisme Elisabéthain” in Les Cahiers du Sud, n. 308, 1951, p.88 e in “Occultisme et Shakespeare” in France-Asie, 1951, nonché nel già menzionato Esotérisme de Shakespeare, Mercure de France, Paris 1955, e senza i quali probabilmente la Yates non avrebbe potuto produrre i suoi originali studi. 38 Cfr. R. L. Rousseau, Les Couleurs, contribution à une philosophie naturelle fondée sur l’analogie, Flammarion, Paris 1959. 39 Cfr. M. Mirabail, Dizionario dell'esoterismo, Mondadori, Milano 1997.

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delle suddette corrispondenze che si basa la magia, ossia il sistema di analogie simboliche che

vigono e operano nell’universo. I colori non costituiscono quindi un linguaggio arbitrario, ma

rivelano delle affinità che è possibile svelare. Essi si configurano così come un ‘algoritmo del

mondo’. L’attribuzione di un valore simbolico ai diversi colori ha una tradizione molto antica,

affonda le proprie radici nella notte dei tempi preistorici. Manlio Brusatin e più recentemente Lia

Luzzatto hanno evidenziato le trasformazioni dell’interpretazione di alcuni colori attraverso i secoli,

dalle culture precristiane (egizia, greca, latina) fino all’epoca moderna. L’interesse per il colore e

per i suoi svariati, ambivalenti e multisfaccettati significati è particolarmente vivo nel XVI secolo.

In Inghilterra, come rilevato in precedenza, sono ampiamente diffusi alcuni trattati di autori

italiani40 da cui traggono ispirazione gli artisti (poeti, scrittori, drammaturghi, pittori) che hanno

utilizzato il colore non solo in funzione del suo valore estetico, ma anche come efficace veicolo

espressivo. Nell’epoca di Shakespeare anche Bacon nella New Atlantis ha utilizzato i colori

deliberatamente per enfatizzare alcuni concetti.41

In ogni epoca è possibile accostare la letteratura, dalla poesia, alla narrativa, alla drammaturgia, alla

pittura e all’iconografia del periodo, permettendoci di ravvisare delle corrispondenze, delle relazioni

che esistono fra le ‘arti sorelle’. Esiste infatti un vocabolario di motivi simbolici condiviso da tutte

le arti. Come sottolinea Anna Anzi in Shakespeare e le arti figurative, “È proprio alla luce di un

simbolismo comune che un raffronto tra un dipinto e un’opera letteraria serve ad illuminare

entrambi e ad arricchirli reciprocamente”.42

Il colore può essere indagato da un punto di vista qualitativo, al fine di individuare il potere e la

capacità di suscitare emozioni e immagini nell’occhio interiore del lettore-spettatore, come avviene

nella percezione dell’occhio di chi osserva i colori di un dipinto. Lo sguardo interiore possiede,

infatti, per il critico letterario - soprattutto tra Cinquecento e Seicento – una vista altrettanto acuta

dell’occhio esterno per il critico della pittura. La poesia è in grado, come la pittura, secondo l’antico

detto oraziano ut pictura poesis, di produrre nella mente umana delle immagini. In Shakespearian

Design, Mark Rose43 rileva come l’associazione tra le due arti fosse vicina, e lo statuto delle

corrispondenze tra l’uso del colore da parte del pittore e l’uso dei colori della retorica o il design da

parte del poeta. I versi dei drammi di Shakespeare tendono così a mostrarci quelle che Rose chiama

significativamente ‘speaking pictures’, ossia pitture parlanti.

40 G. De’ Rinaldi, Il Mostruosissimo mostro di G. De’ Rinaldi; L. Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del significato de’ colori; T. Campanella, Sopra i colori delle vesti; A. Calli, Discorso de’ colori. Cesare Ripa, Iconologia (1533). 41 Si veda F. Bacone, La Nuova Atlantide, tr. it e cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1954. 42 A. Anzi, Shakespeare e le arti figurative, Bulzoni, Roma 1998, p. 29. 43 Si veda M. Rose, Shakespearian Design, Cambridge University Press, 1972. “La sensibilità pittorica che Shakespeare condivide con la maggior parte dei suoi contemporanei è talmente basilare per il suo modo di pensare che contamina ogni aspetto della sua drammaturgia”. (tr. mia)

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L’opera letteraria si configura così più o meno densa di colore, in modo analogo a quanto avviene

sulla tela del pittore. Di conseguenza, si può applicare al testo un’analisi di qualità marcatamente

retinica, indagandone la dimensione pittorica nelle sue valenze luministico-coloristiche, il testo può

essere considerato come una tela su cui il drammaturgo ha impresso le sue tinte con una piuma

anziché con un pennello.

I colori del Macbeth Il colore parla e dunque noi dobbiamo comprendere ciò che esso dice44

La sensibilità visuale e visiva di Shakespeare ci può portare a scoprire il suo senso e il suo uso del

colore. I colori del testo sono legati ad una fitta trama di immagini metaforiche e simboliche che

formano la cosiddetta ‘imagery’ del Macbeth che è stata suddivisa da alcuni critici in ‘grappoli

iconici’. Già Caroline Spurgeon45 ha rilevato nel suo studio dedicato alla trama di immagini

allegorico-metaforiche nelle opere shakespeariane, che il drammaturgo è interessato al colore,

(anche se non si è addentrata in un’analisi dei suoi significati) soprattutto per la sua capacità di

suscitare nel lettore delle emozioni. Ciò che emerge riguardo alla sensibilità di Shakespeare nei

confronti del colore è il cambiamento di tono e il contrasto. Basti pensare, per esempio, alle

numerose descrizioni del cambiamento di colore nel viso dei suoi personaggi, ad indicare un

analogo mutamento nella sfera emotiva. A tale proposito, la Spurgeon rileva come l’interesse di

Shakespeare nei confronti del viso dell’ uomo non sia stato adeguatamente notato. Egli ci mostra,

nei suoi versi, tramite l’uso di immagini, le emozioni dei suoi personaggi sottolineando il

cambiamento di colore nei volti, e non solo. Per fare ciò egli si avvale dell’uso di metafore, che in

ogni caso portano con sé una particolare atmosfera emotiva, senza aver bisogno, nella maggior parte

dei casi, di menzionare esplicitamente, di denotare, nominare nel testo delle tinte vere e proprie. E

in questa analisi si vuole rendere manifesta questa presenza del colore, anche laddove Shakespeare

non è così esplicito. Come per esempio nel Macbeth nell’ immagine del protagonista che, dopo aver

commesso il regicidio, osserva attonito le sue mani talmente lorde di sangue da essere in grado di

cambiare il colore dello stesso mare: “Will all great Neptune’s Ocean wash this blood

Clean from my hand? No, this my hand will rather/The multitudinous seas incarnadine,/

Making the green one red.”46

44 G. Piana, Colori e suoni, Unicopli, Milano 1992. 45C. Spurgeon, Shakespeare's Imagery And What It Tells Us, Cambridge University Press, 1988. “He is interested in colour, not chiefly for its colour value, as in an artist, but rather as it appears in some definite object, and for the emotion which it thus arouses or conveys”. “What he notices about colour and what attract him supremely are change and contrast”. 46 W. Shakespeare, Macbeth (1606), atto II, scena II, (vv. 59 - 63), tr.it. e cura di A. Lombardo, Feltrinelli, Milano 1997.

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“Basterà tutto il grande oceano di Nettuno

a lavare/Questo sangue dalla mia mano? No, Questa mia mano, piuttosto imporporerà

Mari innumerevoli, facendo del verde/Un solo rosso”.

Questo è forse uno degli esempi più espliciti, pregnanti e drammatici dell’uso del colore, visto nel

suo stesso cambiamento, che il drammaturgo ci abbia offerto.

Un altro principale interesse coloristico dell’autore è dato dal contrasto dalle tinte: in particolar

modo di bianco e nero, rosso e bianco, e in Macbeth anche nero e rosso.

Questo senso del contrasto coloristico è spesso connesso ad una emozione o tema dominante che

percorre l’intera opera.

Una eclatante esemplificazione del contrasto bianco-nero, per esempio, è riscontrabile anche e

soprattutto nell’Othello, dove alla purezza e al candore sia esterno che interiore di Desdemona, si

oppone la nerezza del marito, nella pelle e nella mente, ottenebrata, accecata, ignorante, incapace di

vedere e comprendere la vera natura della moglie, al di là degli inganni e delle apparenze orditi dal

calunniatore Jago. E questo contrasto e questi colori percorrono tutta la tragedia. Le streghe, per

esempio, pronunciando “Fair is foul and foul is fair”, “Bello è il brutto e brutto è il bello”, fanno

sembrare bianco ciò che è nero. Così come Macbeth è una tragedia che si regge sul contrasto, sulla

conflittualità, sulla contrapposizione di forze, dall’inizio alla fine. Quindi, nel Macbeth, il nero si

contrappone al bianco, il rosso si contrappone al bianco e, oltre ad essere contrapposti anche rosso e

nero, talvolta sono molto vicini, come se si mescolassero e confondessero. Parlare dei colori di un testo letterario significa quindi individuare l’atmosfera fisica e morale

evocata nel dramma, l’ambiente, l’aria, il clima dell’opera, le sensazioni e le rappresentazioni

interne che esso è in grado di suscitare nel lettore-spettatore. I colori sono così legati ad un tessuto

di immagini e simboli che percorrono tutta la tragedia, e formano la cosiddetta ‘Imagery’o trama di

immagini metaforiche e simboliche. Si possono analizzare, quindi, oltre alle metafore e ai simboli,

la presenza dei numeri, delle immagini bestiali, infernali e demoniache. Emerge così che ‘colori’

non sono solo le tinte in senso stretto, ma anche le immagini simboliche ad esse correlate, come per

esempio, la Luna, che ha una sua valenza specifica all’interno di questo testo, la Natura, con i suoi

elementi, l’aria, la nebbia in cui volano le streghe, e gli animali - simbolo che popolano questo

mondo, quasi tutti neri e malefici. L’animale è infatti un referente simbolico, esso è pensato

simbolicamente. Le streghe contribuiscono notevolmente ad informare il tono e l’atmosfera di tutta

l’opera, al punto da poter affermare che la magia nera costituisce uno dei colori peculiari del

Macbeth. Simultaneamente, la tinta che la permea maggiormente è quella del sangue, con valori

simbolici che variano dall’inizio alla fine dell’opera.

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E quella che la avvolge costantemente è l’oscurità notturna che viene spesso invocata. Tuttavia, il

mondo del Macbeth non è dominato da un’oscurità totale, il “latte dell’umana bontà” contrapposto

al sangue delle guerre e degli omicidi, la luce dell’oro che emana dalla figura emblematica e sacrale

di Duncan, re dal ‘sangue dorato’,47 che diventa una tintura alchemica; il verde non più nella sua

accezione velenosa e mortifera, (quella dei rospi in cui Paracelso ravvisa un signum magicum), ma

la tinta della speranza della foresta di Birnam che avanza verso Dunsinane, segnano il trionfo di una

natura, prima sconvolta, malata, in preda alla febbre e sanguinante, che ha ritrovato il suo

baricentro, con il ristabilirsi della successione monarchica naturale e legittima. I colori del Macbeth

sono tinte ‘elementali’, simboliche, archetipiche, sono le tinte dei filosofi naturalisti occidentali

(Paracelso, Telesio, Cardano, Della Porta, Bruno) che si rifanno all’insegnamento classico dei

presocratici, ad Empedocle, che considerava i colori come le ‘radici’ del mondo esistente. Sono le

tinte dei simboli che, per dirla con Gaston Bachelard,48 si distribuiscono intorno ai quattro elementi

tradizionali.

Un problema di natura teorica sul quale non ci si può non interrogare, dopo aver sviscerato il ruolo

svolto dal colore, riguarda la sua natura comunicativa ed espressiva, al di là della specificità del

linguaggio di cui si teorizzano e si studiano le proprietà. La conclusione a cui si può giungere, è

che, al di là dei contesti storicamente determinati, secondo i quali per esempio si adotta il bianco per

simboleggiare la purezza, piuttosto che il lutto nelle culture e tradizioni orientali, o il nero per

indicare il mistero piuttosto che la tristezza in Occidente, sembra che il colore costituisca un

linguaggio sostanzialmente invariato nel suo significato primario, il colore ha un’essenza

primordiale, ma che subisce delle alterazioni in rapporto ai contesti storico-culturali nei quali viene

a trovarsi. Un colore non si può definire in assoluto, ma tenendo conto dell'insieme delle relazioni

che intrattiene con altre tinte. Mi sembra che si possa affermare, sulla scorta degli assunti della

teoria del colore goethiana, che l’esperienza del colore è fondamentalmente una, indipendentemente

dai contesti nei quali si realizza, la pittura piuttosto che la letteratura, ad esempio. In un’immagine

pittorica un oggetto è di un determinato colore in quanto si oppone ad un’altro. Una tinta, qui come

altrove, non è mai presa isolatamente e acquisisce senso e significato in rapporto alla costruzione e

alla sintassi dell'immagine globale. Ciò che si applica alle immagini si può applicare anche ai testi.

La capacità di un pittore o di un drammaturgo di dare vita ad un linguaggio cromatico dipende

comunque dall’originaria esperienza comune del colore.

47 Murray nel suo saggio Why was Duncan’s Blood Golden? (1966), rileva come Shakespeare sia stato influenzato dalle teorie magico-alchemiche di Paracelso, in particolare da uno scritto intitolato De Sanguine Ultra Mortem. 48 G. Bachelard distribuisce i simboli intorno ai quattro elementi della tradizione filosofica naturalista: acqua, aria, terra e fuoco. Sul ruolo rivestito dall’immagine in Bachelard, si veda, G. Sertoli, Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard, Firenze 1972 e G. Piana, “Il lavoro del poeta”, in La notte dei lampi, quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione, Milano 1988.

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Nella molteplicità dei fenomeni che accompagnano il colore, è quindi possibile ravvisare un unico e

identico nucleo, un unico nesso a tutti comune. Il colore si trova sempre accompagnato da certi

valori e non ha una nascita solo materiale, ma anche ‘cosmica’, in quanto figlio di due forze, o

entità cosmiche: Luci/Tenebre, come ha rilevato l’antroposofo Rudolph Steiner.49 Queste ultime

costituiscono l’antitesi fondamentale su cui è edificato l’intero dramma, da cui si dipanano le altre

tinte, che emergono spesso per contrasto. Macbeth, come qualunque altra opera letteraria, può

essere analizzato da un punto di vista cromatico e simbolico, poiché laddove c’è un colore, c’è

anche un simbolo.50

Il termine ‘simbolo’ non ha un significato filosofico unitario e monovalente, ma ambiguo,

polivalente, mutevole e stratificato, così il colore, che non si presta ad un’ unica lettura in cui si

esaurisce tutto il suo senso. Colori, simboli e immagini, sono suscettibili di interpretazioni mutevoli

che svelano e ri-velano e possono suggerire significati coerenti con l’economia generale di un testo

letterario. Ogni colore, come il simbolo, infatti, può sempre essere inteso nel suo duplice

significato; positivo e negativo, ‘divino o infernale’.51

Compito del lettore interprete è dunque quello di comprendere in quale ambito semantico e quale

valenza attribuire alla tinta che è in grado di cogliere.

Dall’analisi dell’opera shakespeariana emerge che il colore può essere un utile e interessante

strumento, quasi una cifra da decodificare e al tempo stesso una griglia ermeneutica che offre la

possibilità di addentrarsi e calarsi profondamente all’interno di un testo e del mondo culturale che

ha influito più o meno consapevolmente sulla mente dell’uomo che l’ha prodotta. Il parto di un

artista, che si tratti di un’opera figurativa, letteraria, poetica, teatrale non può essere aliena

dall’ambito storico, ideologico, culturale che ne ha permesso la gestazione. E il genitore-autore di

tale parto non può non essere stato, più o meno consapevolmente, influenzato da tale retroterra

culturale, dall’humus che lo ha nutrito e in cui è stato immerso.

Da questa analisi si può dedurre che i colori, i simboli e le immagini sono tra loro connessi, il colore

è un simbolo, ma è anche un’immagine poiché il simbolo in quanto idolomotore, ha per noi un

riferimento diretto all’immagine Sta poi al lettore rilevare la presenza del colore, la dimensione

cromatica, la sua densità e saturazione, individuare il suo significato simbolico nel contesto storico

49 R. Steiner Das Wesen der Farben (1929), ed. tedesca a cura di H. Raske e H. Wiesberger (tr. it. di I. Cattaneo Vigevani e D. Vigevano), L’Essenza dei colori, Ed. Antroposofica, Milano 1997. 50 Da Platone a Goethe e Cassirer, il significato di questa parola ha subito svariate oscillazioni. Il significato etimologico del termine risale al verbo greco “symballo” che significa riunificare, mettere insieme le due metà di un intero formato da due metà di un oggetto spezzato. 51 F. Portal, Des couleurs symboliques dans l’Antiquité, le Moyen age et le temps moderne (1837), tr. it. Di G. Caviglione, Sui colori simbolici nell’antichità, nel Medioevo e nell’età moderna, Luni, Trento 1997

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culturale in cui è inserito e associargli un’immagine. Perché tutte le tinte, come i simboli, sono

polisemiche e ambivalenti.

Nel Macbeth il senso del colore e del contrasto è molto forte, e tali tinte ma soprattutto i loro

contrasti, si riscontrano nelle maggiori tragedie shakespeariane: Amleto, Otello, Re Lear, Antonio e

Cleopatra.

In L’uomo e i suoi simboli Jung rileva come l’arte impieghi una modalità espressiva simbolica e

figurata, e come il linguaggio dell’uomo sia intriso di simboli e immagini, e nota “ciò che noi

chiamiamo simbolo è un termine, un nome, o anche una rappresentazione che può essere familiare

nella vita di tutti i giorni e che tuttavia possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e

convenzionale”.52 Nella dimensione del colore, come in quella del simbolo, è pertanto racchiuso

uno sfondo ‘metafisico’ che presuppone delle affinità tra il mondo visibile e l’invisibile. Difatti, il

simbolo, come osserva Paul Klee, è anche una categoria dell’invisibile. Secondo Klee, la

decifrazione dei simboli ci conduce verso quelle che chiama: “insondabili profondità del respiro

primordiale”, perché il simbolo collega all’immagine “visibile la parte dell’invisibile intuita

occultamente”.53

C’è allora qualcosa che non sia un simbolo? Che non alluda ad un oltre, ad un ‘al di là’

dell’immagine54 percepita ed evocata? Riconoscere la funzione simbolica, che cosa viene aggiunto

e che cosa è occultato, sembra essere un’esigenza ontologica primaria. Noi siamo invasi dal colore,

da simboli, segni, e ognuno di noi compie atti di conoscenza simbolica nel tentativo di andare al di

là dell’immagine, di intuire occultamente l’invisibile a partire dalla percezione sensibile. Nella vita,

come nella contemplazione di un’opera d’arte figurativa, nella lettura di un brano letterario, - sia

esso poetico, narrativo o drammaturgico,- nella fruizione di uno spettacolo di arti performative, si

percepisce, ma questa sensazione (nel senso etimologico del termine ‘aesthesis’), porta

inevitabilmente ad un rimando, a visualizzare, immaginare, evocare, a trovare la metà di

quell’oggetto spezzato che, riunita all’altra parte, riconduce alla interezza e alla completezza.

52 C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Cortina, Milano 1990, pp. 20 21. 53 Cfr. P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, (vol. I), Feltrinelli, Milano 1952. 54 Si veda a questo proposito, E. Franzini, Fenomenologia dell’invisibile. Al di là dell’immagine. Cortina, Milano 2001.

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