Sguardo Di Tocqueville

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Giampiero Brunelli Lo sguardo di Tocqueville sulle istituzioni politiche moderne Dispense didattiche per il modulo di Istituzioni politiche dell’età moderna (a.a. 2006-2007) Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Lettere e Filosofia

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Giampiero Brunelli

Lo sguardo di Tocqueville sulle istituzioni politiche moderne

Dispense didattiche per il modulo di Istituzioni politiche dell’età moderna (a.a. 2006-2007)

Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Lettere e Filosofia

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Lo sguardo di Tocqueville sulle istituzioni politiche moderne

Dispense didattiche per il modulo di Istituzioni

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Indice Premessa 7 Avvertenze 9 I. Gli esordi della storia delle istituzioni politiche

e il contributo di Tocqueville. 11

II. La maturazione degli interessi storico-istituzionali dalla prima Démocratie a L'Ancien régime et la Révolution.

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III. Il Medioevo di Tocqueville: l’«antica legge comune dell’Europa».

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IV. «Io farò un volume su questo soggetto»: l'analisi dei processi di concentrazione del potere politico.

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V. Tocqueville critico delle pratiche amministrative dell'antico regime.

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VI. Il protagonista dei processi di accentramento politico e amministrativo: l'intendente.

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VII. Gli spazi residui di autonomia politica: le istituzioni con «libertà irregolare e intermittente».

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VIII. «Too late»: Le ultime riforme dell'antico regime e le istituzioni politiche della Rivoluzione.

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Opere citate e segnalate 105

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Premessa Questo testo nasce come dispensa didattica per il modulo di Istituzioni politiche dell’età moderna (SPS-03) tenuto nell’anno accademico 2006-2007 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. In quell’occasione l’attenzione è stata rivolta a un classico della storiografia – L’antico regime e la Rivoluzione di Alexis de Tocqueville – riletto come primo esempio di una storia delle istituzioni politiche non ferma alla semplice storia dello Stato, ma attenta a tutte le connessioni tra le esperienze “costituzionali” e le concrete dinamiche della società. In questa prospettiva, quella che si propone non è una guida alla opera di Tocqueville, bensì un’analisi dei temi storico-istituzionali in essa affrontati. Alcuni di essi, come quello dell’accentramento amministrativo nella Francia dell’età moderna, sono stati di grande fortuna: di qui è nata l’esigenza di sondaggi nella storiografia successiva, per verificare la “tenuta” delle tesi di Tocqueville a distanza di un secolo e mezzo dalla prima pubblicazione dell’opera. Da questi controlli, costretti nella veste di suggestive esemplificazioni dalle enormi dimensioni della produzione storiografica sullo Stato dell'età moderna, sono scaturiti stimolanti risultati: qualora ce ne fosse ancora bisogno, ne è risultata rafforzata la convinzione di non abbandonare la lezione dei classici, neppure negli accelerati ritmi della didattica universitaria riformata.

“Classico” non si coniuga necessariamente con “antico”. In questo esercizio di lettura, così, si è deliberatamente fatto ampio ricorso alle risorse del Web, innanzi tutto al grande patrimonio bibliografico reso disponibile dalla Bibliothèque Nationale de France sul sito www.gallica.fr, all’interno del quale sono disponibili molte annate di periodici otto-novecenteschi e monografie che toccano da vicino argomenti strettamente correlati alle istituzioni politiche dell’età moderna. In onore allo sforzo di pubblicazione di questi materiali, si è scelto di usare l’edizione delle opere complete di Tocqueville del 1861-1866, digitalizzata e pubblicata on line (raccomandando di ricorrere, per ulteriori eventuali

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approfondimenti, alle Œuvres Complètes, Paris: Gallimard, 1951- ). Quanto ai manuali di storia delle istituzioni politiche francesi, a causa della scarsa presenza di opere tradotte in lingua italiana (un «incredibile paradosso»: Di Donato 1998, p. IX), si è fatto ricorso a sintesi purtroppo non recenti.

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Avvertenze

Nel testo non sono presenti note a pie’ pagina. Quando necessario, le citazioni sono state accompagnate da rimandi abbreviati, per sciogliere i quali si deve fare riferimento alla “Bibliografia delle opere citate in abbreviato”.

Le note in calce a L’Antico Regime e la Rivoluzione sono state numerate e, quando citate, il relativo numero è stato riportato fra parentesi quadre.

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I. Gli esordi della storia delle istituzioni politiche e il contributo di Tocqueville. Le istituzioni politiche sono per definizione i complessi normativi (leggi, regolamenti, consuetudini non scritte) che disciplinano l’organizzazione della vita pubblica di una popolazione insediata su un territorio. La nascita del ramo peculiare della storiografia denominato “storia delle istituzioni politiche”, che ha per oggetto lo sviluppo di ordinamenti e apparati preposti allo svolgimento di compiti attinenti all’interesse pubblico, è comunemente indicata nell’Ottocento francese. Una prima densa stagione di ricerche, innanzi tutto archivistiche, si ebbe durante il regno di Luigi Filippo, il re dei Francesi salito al trono dopo la rivoluzione del 1830 con l’appoggio dei liberali di François-Pierre Guizot. Nominato ministro della pubblica istruzione, Guizot era convinto che innanzi tutto al governo spettassero i compiti della ricognizione e pubblicazione dei materiali importanti ed ancora inediti sulla storia francese. Così, fece istituire nel 1834 e nel 1835 presso il suo ministero due comitati incaricati di ricercare e pubblicare tutti i più importanti manoscritti relativi alla storia di Francia. Ne scaturì una prestigiosa collana di edizioni di fonti, la Collection de Documents inedits sur l’histoire de France. Quindi, nuovo impulso fa dato da istituzioni culturali come l’École des Chartes e l’Accademia delle Scienze Morali e Politiche: l’École des Chartes, la cui pubblicazione ufficiale (il periodico “Bibliothèque de l’École des Chartes”) aveva salutato come il primo libro di storia dell’amministrazione francese l’opera di Leopold August Warnkönig, Französische Staats- und Rechtsgeschichte (Basel: Schweighauser, 1846), nel 1847 inaugurò un corso di “Istituzioni e geografia della Francia”; nello stesso anno, l’Académie des Sciences Morales et Politiques bandì un concorso per approfondire la conoscenza del processo di formazione delle istituzioni amministrative dal Medioevo sino a Luigi XIV. La competizione fra gli studiosi, nell’occasione, fu particolarmente feconda. Vinse il saggio di Antoine É. C. Dareste de La Chavanne (uscito poi con il titolo di Histoire de l’administration en France et des progrès du pouvoir royale, Paris: Guillaunin, 1848); ma si segnalò anche l’opera presentata da Adolphe Chéruel, pubblicata qualche anno dopo (Histoire de l’administration monarchique en France ... , Paris: Desobry, 1855). Le opere rappresentavano due indirizzi di studio ormai antitetici:

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Chéruel aveva adottato un metodo narrativo più tradizionale e la sua analisi si era fermata alla morte del Re Sole; Dareste invece aveva sì suddiviso il tema in “epoche”, ma poi, all’interno di ogni epoca, aveva seguito un metodo analitico, istituzione per istituzione. Chéruel fu però autore anche di un importante Dictionnaire historique des institutions, moeurs, et coutumes de la France (prima edizione nel 1855): avrebbe poi a lungo insegnato nella École Normale Supérieure, diventando il maestro di Numa Denis Fustel de Coulanges, la cui Histoire des institutions de l’ancienne France (1875-1889) ebbe una influenza enorme su interessi e metodi di molti studiosi di quell’età. Nella stessa seconda metà dell’Ottocento, nelle Università francesi si erano insediate cattedre specificamente dedicate alla storia delle istituzioni politiche: nel 1869 era stata inaugurata all’École des Chartes la cattedra denominata “Storia delle istituzioni politiche, amministrative e giudiziarie della Francia” e, dopo il 1880, la storia del diritto e delle istituzioni divenne insegnamento ordinario tanto nelle facoltà di Diritto, quanto in quelle di Lettere. In questo clima, un buon numero di studi si occupò di ricostruire anche minutamente le diverse articolazioni delle istituzioni politiche e amministrative; ne scaturirono alla fine del XIX secolo le prime grandi sintesi: gli otto volumi della Histoire du droit et des institutions de la France di Ernest D. Glasson (1887-1903) e la più sintetica Histoire des institutions politiques et administratives de la France di Paul Viollet (1890-1903). Erano esempi di una storiografia erudita, concentrata sulla presentazione e sul commento sia delle norme fondamentali (“costituzionali”), che dei regolamenti amministrativi nei principali campi di governo. Le ricerche sulla secolare evoluzione del diritto pubblico positivo avevano dunque preso un proprio, deciso cammino. Tuttavia, nella Francia di metà Ottocento gli interessi storico-istituzionali avevano conosciuto anche diverse declinazioni. In particolare, sul versante della scienza politica, le riflessioni di Alexis de Tocqueville (1805-1859) sulla storia delle istituzioni politiche francesi avevano rappresentato un precoce esempio di come fosse possibile trattare quei temi guardando al lungo periodo, comparando le diverse esperienze in Europa e in America, soprattutto non fermandosi alla dogmatica (cioè alla definizione degli assetti istituzionali data dalle norme), ma cercando sempre il tratto qualificante delle istituzioni nella loro esperienza concreta, nella loro

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vita pratica. Ancora nella seconda metà del Novecento si è discusso sui più proficui indirizzi della storia delle istituzioni politiche: nel 1973, introducendo la sua monografia sullo “spirito delle istituzioni” nella Francia moderna, Denis Richet rinnovava il monito a non fermarsi all’esame delle forme di regolamentazione della vita pubblica ed esortava ad unire la storia degli assetti istituzionali a quella della vita sociale dello Stato. E anche in Italia, dall’importante intervento di Antonio Marongiu in favore della creazione di cattedre universitarie di Storia delle Istituzioni (1953) sino alle ricerche sulle origini dello Stato moderno degli anni Novanta, si sono susseguiti stimoli a non studiare le istituzioni solo dal punto di vista giuridico, ma ad allargare lo sguardo per misurare di volta in volta la convergenza tra i progetti e le attività di governo e i movimenti più profondi della società. Ebbene, più di un secolo prima Tocqueville aveva dato esempi di ricerche di storia dello Stato non limitate ai testi normativi o alla dottrina giuspubblicistica, ma solidamente basate su indagini archivistiche: ricerche addirittura funzionali alla costruzione del giudizio sui coevi sistemi politici. Vale dunque la pena seguire lo sguardo di Tocqueville sulle istituzioni politiche moderne. Inutile attendersi una trattazione sistematica della “costituzione” e dell’ordinamento statuale del Regno di Francia, o una rassegna di apparati e norme preposti al governo di importanti settori dello Stato (come le finanze, l’esercito, l’amministrazione della giustizia). Tocqueville è stato innanzi tutto un filosofo della politica ed ha collocato le sue riflessioni storiche nel quadro di amplissime tematiche (cosa fosse una società libera; come si sia potuta raggiungere in Europa o in Nord America una generale uguaglianza delle condizioni sociali; come mai, dopo il 1789, soprattutto la Francia abbia conosciuto regimi autoritari). Tocqueville ha avuto nondimeno intuizioni storiografiche di grande impatto sulla storia delle istituzioni politiche moderne (e sulla storia dell’età moderna tout court): egli definì l’azione politica del potere monarchico in età moderna in termini di “accentramento”; enfatizzò il ruolo degli ufficiali dotati di poteri commissariali direttamente dipendenti dal potere sovrano (cioè, in Francia, gli “intendenti”); riconobbe i tratti originali dei poteri feudali nell’età moderna. Non ultimo, a Tocqueville si deve la fortuna della definizione dell’assetto politico-istituzionale dell’età moderna fino al 1789 come antico regime.

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Ce n’è abbastanza per raccogliere l’invito a verificare la solidità delle sue tesi e la lucidità delle sue intuizioni. La stessa biografia dell’Autore appare densa di legami con il mondo delle istituzioni politiche. Alexis Clérel de Tocqueville apparteneva ad una famiglia nobile della Normandia. Il padre Hervé aveva visto con favore la prima fase della Rivoluzione francese, era entrato nella Guardia costituzionale del re e dopo lo scioglimento di questa si era ritirato in un convento della Piccardia, dove era rimasto sino al 1793. Era stato nondimeno arrestato durante il Terrore, insieme alla moglie (nipote del noto magistrato Guillaume-Chrétien de Lamoignon de Malesherbes, che si era assunto la difesa di Luigi XVI): solo la caduta del regime giacobino, dopo dieci mesi di prigionia, scongiurò un’esecuzione ormai prossima. Sotto Napoleone, Hervé de Tocqueville entrò nella carriera prefettizia, che percorse sino a quando fu nominato pari di Francia nel 1828. Anche Alexis, l’ultimo di tre figli maschi, si formò per entrare nelle professioni giuridiche. Dal 1823 al 1826 seguì corsi di diritto a Parigi e nel 1827 fu nominato giudice uditore del tribunale di Versailles. I suoi interessi però si voltarono presto ai temi del dibattito storiografico contemporaneo. Dopo che, nello stesso 1826, era stato stimolato da un suo ex-professore del College Royal di Metz allo studio della storia e in particolare allo studio delle influenze esercitate o subite dal sistema politico francese «in ogni periodo in cui siano avvenuti cambiamenti nel sistema politico europeo» [cit. in Díez del Corral 1996, p. 46], tra il 1829 e il 1830 seguì alla Sorbona il corso di Guizot sull’Histoire de la civilisation en France. Forse seguì anche il corso propedeutico Histoire de la civilisation en Europe. Sicuramente ne fu entusiasta e già nel 1829 scrisse di aver letto pressoché tutte le sue opere. Tocqueville, che con Guizot riuscì ad entrare in corrispondenza, era particolarmente attratto dal suo richiamo a studiare la civiltà come sintesi di tutte le attività dell’uomo in società ed era convinto come Guizot della valenza politica del giudizio storiografico che definiva la storia della civiltà come il processo inevitabile della scomparsa del privilegio e dell’affermazione della libertà universale. Infine, ascoltando e annotando le lezioni di Guizot del 1829-30 entrò in contatto con la storia delle istituzioni politiche.

Guizot aveva già tenuto, nei corsi dal 1820 al 1822, lezioni sulla storia del governo rappresentativo e delle istituzioni politiche

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europee. Lo stesso contesto politico del primo Ottocento, lo ricordava nell’introduzione al corso (pubblicato nel 1855), a suo giudizio stimolava allo studio di quel campo, fino a quel momento stretto nella contrapposizione tra chi aveva considerato le istituzioni medievali soltanto come strumenti di oppressione e chi invece ne aveva fatto un culto idolatrico. Invece, la ricerca di forme di rappresentanza politica era sembrata a Guizot una costante della storia delle istituzioni politiche europee e si era disposto ad uno sguardo comparativo e di lungo periodo alla storia delle istituzioni in Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo, Germania, Svezia.

La storia delle istituzioni era presente, seppure in modo più sfumato, anche nelle lezioni seguite da Tocqueville alla Sorbona. Nella Histoire de la civilisation en Europe, dopo aver trattato nella prima parte del corso del ricco láscito della civiltà romana (ad esempio, il regime politico delle città, l’idea di impero, una legislazione civile comune e generale), Guizot espose i tratti peculiari del regime feudale, considerato come ostacolo allo sviluppo dell’ordine e mise in risalto il ruolo del potere monarchico, che più di ogni altra istituzione, nel processo di formazione dell’Europa moderna, aveva aggregato gli elementi sociali in due poli: governo, da una parte e popolo dall’altra. Quindi, nella Histoire de la civilisation en France, egli prese in esame la civiltà francese, che più fedelmente di ogni altra gli sembrava riprodurre la traiettoria della civiltà europea in età moderna. Anche in questo corso gli assetti istituzionali erano puntualmente descritti: in diverse lezioni spiegò le istituzioni romane in Gallia, quelle dei Germani invasori, la nascita del potere monarchico, l’organizzazione dello stato sotto i Franchi, le riforme di Carlo Magno (addirittura con una classificazione sistematica delle diverse iniziative legislative), le caratteristiche del regime feudale, le sue relazioni con il potere monarchico, le forme di governo municipali, dalla Gallia romana, sino all’avvento dei Comuni. Guizot nondimeno non si fermava alla rassegna degli ordinamenti pubblici e degli apparati di governo: di questi ultimi sempre reputava necessario poter almeno raggiungere “une idée de l’étendue de leur pouvoir et de la manière dont il s’exerçait” [Guizot 1876, I, p. 43]. Ne scaturivano giudizi non soltanto sulla efficacia ed efficienza delle istituzioni, ma anche giudizi morali sul loro carattere dispotico o progressista.

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Tocqueville non poté subito raccogliere i frutti del suo avvicinamento allo studio della storia. Nello stesso 1830, infatti, la Rivoluzione di Luglio doveva esercitare un’influenza decisiva sulla sua vita di studioso, indirizzandolo innanzi tutto verso la scienza della politica. Prestato giuramento senza entusiasmo come magistrato a Luigi Filippo e al nuovo regime, per sottrarsi ad un contesto politico ancora turbolento, egli iniziò a progettare un viaggio negli Stati Uniti d’America. Trovò l’occasione di una missione di studio del sistema penitenziario nord-americano, e nel maggio 1831 insieme al collega ed amico Gustave de Beaumont sbarcò a New York. Soggiornò negli Stati Uniti fino al febbraio 1832 analizzando con attenzione il sistema politico e la società americani. Da questa esperienza sarebbero scaturiti i due volumi della Démocratie en Amerique, usciti nel 1835 e 1840. L’opera ebbe grande successo e guadagnò al Tocqueville fama internazionale e l’accesso alla prestigiosa Académie des Sciences Morales et Politiques nel 1838 e all’Académie Française nel 1841.

Nel frattempo Tocqueville, presentate le dimissioni da magistrato poco dopo il rientro in Francia, aveva iniziato la carriera politica, che da sempre aveva considerato come lo sbocco naturale della sua formazione. Presentatosi alle elezioni della Camera per la prima volta nel 1837 senza successo, fu eletto nella successiva tornata del 1839; si collocò nel centro sinistra, dove prendeva posto l’opposizione guidata da Adolphe Thiers (non stimato da Tocqueville né come storico né come uomo politico). Tocqueville lavorò in diverse commissioni parlamentari, distinguendosi come relatore di quella incaricata di trattare dell’abolizione della schiavitù. Alla fine del 1840 prese sempre più decisamente posizioni contrarie al governo di Guizot. La partecipazione a una sottocommissione incaricata dei problemi nord-africani gli diede modo di compiere nel maggio-giugno 1841 un viaggio in Algeria. Confermato con grande successo nelle elezioni del 1842 e del 1846, immaginò, a sinistra, un’opposizione capace di denunciare il processo reazionario sempre più evidente, reclamando la restituzione delle libertà soppresse o indebolite a partire dalla metà degli anni Trenta.

Della Rivoluzione del febbraio 1848 che aveva provocato la caduta di Luigi Filippo e l’istituzione della Repubblica, Tocqueville non fu che spettatore. Eletto poi all’Assemblea costituente, entrò nella commissione dei 18 che doveva stendere un nuovo testo di

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Costituzione. Si occupò principalmente di diritto al lavoro, di bicameralismo, della forma dell’elezione del presidente della neonata Repubblica. Eletto a questa carica Luigi Napoleone Bonaparte, meditò di lasciare la vita pubblica. Si presentò invece alle elezioni del 1849 della nuova Assemblea Nazionale e fu eletto. Entrò addirittura nel governo presieduto da Odilon Barrot, con l’incarico di ministro degli Affari esteri, che tenne solo per cinque mesi. In questa veste, Tocqueville contribuì a scongiurare una guerra tra Austria, Russia e Turchia, protesse l’autonomia della Svizzera, si occupò anche della questione italiana, facendo pressioni sull’Austria per concludere la guerra con il Regno di Sardegna. Tentò addirittura di imporre a Pio IX istituzioni liberali nella Roma riconquistata dai Francesi. Si dimise il 30 ottobre 1849, subito prima che Luigi Napoleone sciogliesse il governo e ne formasse un altro senza passaggi parlamentari. Sempre più diffidente del clima politico, che vedeva scivolare in un disordine del quale avrebbe approfittato lo stesso Luigi Napoleone, cadde malato e si ritirò dall’agone politico. Cercando un clima più favorevole, dal dicembre 1850 si stabilì a Sorrento, dove compose i Souvenirs, dedicati al biennio 1848-49. Tornato in Francia, sedette ancora nell’Assemblea, collocandosi nell’opposizione alle crescenti pressioni di Luigi Napoleone per ottenere un riassetto politico-costituzionale in senso autocratico. In occasione del colpo di stato del 2 dicembre 1851, seguito al rifiuto dell’Assemblea di varare la revisione costituzionale chiesta dal Bonaparte, fu tra i deputati protestatari: arrestato, fu liberato solo due giorni dopo.

Il traumatico ritorno della Francia al cesarismo determinò la sua decisione a riprendere gli studi. Dal 1852 lavorò ad un opera sulla Rivoluzione francese e sull’Impero napoleonico, con lunghi soggiorni a Tours e a Parigi per compiere ricerche d’archivio. Nel giugno 1856 uscì L’Ancien Régime et la Revolution, primo volume dell’opera che aveva progettato. Negli anni successivi, continuò le ricerche d’archivio e stese parti del secondo volume. Ma le sue condizioni di salute si aggravarono. Trasferitosi nel novembre 1858 a Cannes per godere di un clima più temperato, vi trovò la morte il 16 aprile 1859.

La fortuna dell’opera di Tocqueville si consolidò presto. Come accennato, la prima parte de La Démocratie en Amerique, stampata in 500 forse 700 esemplari, andò letteralmente a ruba: due

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edizioni uscirono nello stesso 1835 (anno di pubblicazione della prima parte), altre due nel 1836, due ancora nel 1838 e 1839. L’opera suscitò molte recensioni (tra cui un lungo studio del filosofo John Stuart Mill) ed un caldo dibattito; Tocqueville ne ricavò le simpatie dei più attivi cenacoli politici del tempo. La seconda parte, giudicata dalla critica del Novecento un vero e proprio saggio di sociologia ante litteram, ebbe in Francia un successo molto limitato, ma fu accolta molto bene in Inghilterra. Con L’Ancien Régime et la Révolution Tocqueville tornò ad un successo clamoroso. La prima edizione, con tirature equivalenti a tre edizioni della Démocratie, fu venduta in due mesi. Il dibattito che ne seguì su importanti temi del libro (cioè innanzi tutto sulla portata periodizzante dell’evento Rivoluzione francese) contrappose i liberali entusiasti ai critici bonapartisti ed ebbe chiare valenze politiche. Riportò comunque l’attenzione sul Tocqueville come scrittore politico e storico di primo piano, che la morte colse nel pieno della notorietà. Per questo, già nei primi anni Sessanta dell’Ottecento, fu intrapresa l’operazione editoriale della pubblicazione delle sue opere complete. Uscirono nove volumi: i primi tre comprendevano La Démocratie en Amerique, il quarto L’ancien Régime et la Révolution, il quinto, che si apriva con una lunga biografia del Tocqueville ad opera dell’amico Gustave de Beaumont, pubblicava scritti inediti, tra cui due frammenti del volume che doveva seguire all’Ancien Régime et la Revolution. Seguivano due volumi di corrispondenza inedita (il sesto e il settimo), mentre l’ottavo conteneva di nuovo frammenti sulla Rivoluzione e sull’Impero, insieme con relazioni di viaggi del Tocqueville. Il nono volume raccoglieva discorsi parlamentari, orazioni accademiche, articoli su periodici. Questa edizione di scritti (disponibile liberamente on line sul sito www.gallica.fr) non poteva però essere quella definitiva. Presto si giudicarono troppo liberi gli interventi dell’amico Beaumont su parte non irrilevante del materiale pubblicato, soprattutto riguardo ai frammenti sulla Rivoluzione, sul Consolato e sull’Impero. Bisognò tuttavia attendere quasi un secolo per vedere avviata l’impresa dell’edizione definitiva degli scritti di Tocqueville: le pubblicazioni delle nuove Œuvres Complètes (presso l’editore Gallimard di Parigi) iniziarono nel 1951 e, al 1998, hanno compreso 18 tomi.

Questo ritardo deve essere posto in relazione con una lunga fase di sostanziale silenzio sull’Autore de L’Ancien Régime et la

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Révolution, iniziata con la scomparsa della generazione dei suoi contemporanei. Tocqueville tornò al centro degli interessi degli studiosi solo quando due studiosi riproposero con forza le sue tesi. Il filosofo e sociologo Raymond Aron (1905-1983), che definì Tocqueville «per eccellenza il sociologo del metodo comparativo» (Aron 1989, p. 214), vide ne L’Ancien Régime et la Révolution un brillante esempio di spiegazione sociologica degli avvenimenti storici: Tocqueville aveva messo in luce le cause profonde della crisi aperta con il 1789: il processo di progressiva uniformazione delle condizioni sociali ad opera delle politiche di accentramento amministrativo da una parte e dall’altra la progressiva separazione della società francese nel Settecento (una vera e propria disintegrazione sociale, nei termini del sociologo Émile Durkheim). Sarebbe stata la rigidità delle istituzioni politiche, incapaci di risposte, a determinare lo stallo della crisi e l’esito rivoluzionario. L’opera di Tocqueville è stata molto enfatizzata anche dallo storico François Furet, che ne ha messo in luce l’originalità interpretativa: come storico della Rivoluzione francese, il Tocqueville di Furet è apparso libero dalle contrapposizioni ideologiche di gran parte della storiografia otto-novecentesca sulla Rivoluzione e deciso ad inscrivere l’evento più traumatico dell’intera storia moderna in un processo plurisecolare, all’interno del quale si trovavano fuse innovazioni politico-amministrative, istanze sociali, tendenze culturali. Per la prima volta, una storia della Rivoluzione non era un racconto, ma «un’analisi di certi problemi selezionati, in base alla quale si costrui[va] una spiegazione e una interpretazione generale» [ Furet, 1987, p. 156].

Da ultimo, la critica ha parlato di un “Tocqueville ritrovato” e di un “rinnovamento tocquevilliano francese”: espressioni per indicare l’interesse crescente negli studiosi soprattutto di scienza politica e sociologia. Per questi aspetti di storia intellettuale, che esulano dagli interessi più strettamente storico-istituzionali, si rimanda ai lavori di Françoise Mélonio, Tocqueville et les Français, Paris, Aubier, 1993 e di Serge Audier, Tocqueville retrouvé: genèse et enjeux du renouveau tocquevillien français, Vrin-EHESS, 2004.

Un ultimo accenno alle risorse disponibili on line. Gli indici della “Revue Tocqueville”, periodico specificamente dedicato alla critica tocquevilliana (e ai temi della sua filosofia politica) sono sul Web: http://www.utpjournals.com/ttr/ttr_TOC.html. Anche il sito

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canadese http://faculty.law.lsu.edu/ccorcos/resume/tocquebib.htm, tenuto dalla Université du Quebec offre una rassegna ragionata, più alcune opere in modalità testo. E’ poi in linea il sito “ufficiale” inaugurato dal Ministero della Cultura francese in occasione delle celebrazioni del bicentenario della nascita (1805-2005): http://www.tocqueville.culture.fr.

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II. La maturazione degli interessi storico-istituzionali dalla prima Démocratie a L'Ancien régime et la Révolution. Lo sguardo di Tocqueville si era posato sulle istituzioni politiche dell’età moderna già in occasione della stesura del primo volume de La démocratie en Amerique. Tocqueville si era concentrato dapprima sulle strutture istituzionali degli Stati Uniti, poi sulle concrete manifestazioni del potere democratico americano (dal ruolo dei partiti politici e della libera stampa alla cosiddetta “tirannia della maggioranza”, fino ad una previsione sulla solidità delle stesse istituzioni in oggetto). La prima parte sulle istituzioni americane si avvicinava ad una vero e proprio trattato di diritto pubblico: Tocqueville vi aveva esposto la declinazione statunitense del principio di sovranità popolare, aveva passato in rassegna le istituzioni dei singoli Stati (rilevando il forte decentramento ovunque attuato), aveva notato le peculiarità del potere giudiziario americano; quindi, era approdato alla forma costituzionale dell’Unione, trattando del Presidente e della sua elezione, della Corte Suprema, del sistema federativo adottato. Riflessioni comparative sulle istituzioni di governo degli Stati Uniti, del resto, comparivano già in una lettera al padre del 5 giugno 1831, quando ancora Tocqueville si travava in America. Il padre gli spedì in risposta un suo scritto dal titolo Coup d’oeil sur l’administration française e Tocqueville vi trovò alimento per la sua inclinazione verso la comparazione dei sistemi politici: tenne quindi costantemente sullo sfondo, nella Démocratie en Amerique, le istituzioni di Francia, Inghilterra, Germania, Svizzera, Paesi Bassi, talvolta esplicitamente in prospettiva storica. Lo stesso punto di partenza dell’analisi trattava di storia delle istituzioni politiche. Tocqueville, infatti, aveva anteposto allo svolgimento dell’opera una breve descrizione geografica degli Stati Uniti e una più distesa narrazione del processo storico che aveva portato all’insediamento di immigrati provenienti dall’Inghilterra (come dal resto d’Europa) e alla formazione delle colonie nord-americane.

Tocqueville colse lucidamente la peculiarità del governo coloniale adottato dai regnanti Tudor e Stuart tra Cinque e Seicento: la Corona, nel Nord America, non solo aveva insediato governatori alle sue dirette dipendenze, ma aveva anche dato in concessione a

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singoli e a compagnie commerciali parti di territorio; talvolta, aveva addirittura lasciato gli immigrati presenti su di un territorio costituirsi in società politica e governarsi da soli (fermo restando il patronato e l’alta autorità della Corona). Ne era scaturita una messe di carte costituzionali, di “codici” civili e penali di grande interesse per Tocqueville, che si era molto interessato, ad esempio, all’opera di legislazione degli insediamenti dei puritani, dall’impronta nettamente teocratica. Soprattutto, guardando alle costituzioni delle colonie e alle attività concrete dei molto attivi poteri pubblici locali, Tocqueville era pervenuto al confronto con la realtà europea verso il 1650, dove «la monarchia assoluta trionfava dappertutto sulle rovine della libertà oligarchica e feudale del Medio Evo» [D.A., I-I-II, p. 60]. La divaricazione delle traiettorie delle istituzioni politiche in Europa e in America era così assai precocemente stabilita.

Altri spunti storico-istituzionali erano disseminati in tutta l’opera. Trattando del potere dei giudici americani di dare seguito agli esposti dei cittadini contro i pubblici funzionari, ad esempio, Tocqueville citava l’atto di nascita della giustizia amministrativa francese nella Costituzione dell’anno VIII (secondo la quale solo una decisione del Consiglio di Stato poteva far processare gli agenti del Governo dalla magistratura ordinaria) e addirittura si richiamava a ciò che succedeva «nell’antica monarchia», [D.A., I-I-VI, p. 130] cioè prima del 1789, quando un intervento del Re poteva annullare i procedimenti intentati dal Parlamento, la più alta magistratura francese, contro i pubblici funzionari. Quindi, esaminando la cosiddetta “tirannia della maggioranza” americana, Tocqueville si rifaceva per contrasto alle pratiche di controllo delle opinioni sotto l’assolutismo. Notava che «sotto il governo assoluto di uno solo, il dispotismo, per arrivare all’anima, colpiva grossolanamente il corpo», ma che «presso le nazioni più fiere del mondo antico sono state pubblicate opere destinate a dipingere fedelmente i vizi e le ridicolaggini dei contemporanei» [D.A., I-II-VII, p. 303]. La “tirannia della maggioranza” aveva invece costruito in America un sistema assai più sottile di controllo delle opinioni. Da questo punto di vista, il potere di governo dei singoli Stati americani appariva al Tocqueville altrettanto energico e accentrato, quanto quello delle monarchie assolute d’Europa.

Le conclusioni che Tocqueville diede nel nono capitolo della seconda parte costituirono il punto di maggiore avvicinamento alle

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problematiche storico-istituzionali che sarebbero state affrontate circa venti anni più tardi ne L’Ancien Régime et la Révolution. Trattando del conflitto che prevedeva imminente in Europa tra istituti democratici e rigurgiti di dispotismo, Tocqueville diede forma alla sua concezione del sistema politico dell’assolutismo dell’età moderna.

«Ci fu, in Europa, un tempo – scrisse – in cui tanto la legge quanto il consenso del popolo avevano investito i re di un potere quasi illimitato. Ma i re non se ne servirono quasi mai. Non parlerò delle prerogative della nobiltà, dell’autorità delle corti sovrane, del diritto delle corporazioni, dei privilegi delle province, che, attutendo i colpi dell’autorità mantenevano nella nazione uno spirito di resistenza. Indipendentemente da queste istituzioni politiche [...], le opinioni e i costumi elevavano attorno al potere reale delle barriere meno note, ma non meno potenti. La religione, l’amore dei sudditi, la bontà del principe, l’onore, lo spirito di famiglia, i pregiudizi di provincia, il costume e l’opinione pubblica, limitavano il potere del re e chiudevano in un cerchio invisibile la sua autorità. In quei tempi la costituzione dei popoli era dispotica, e i loro costumi liberi. I principi avevano il diritto, ma non la facoltà, né il desiderio di fare tutto» [D.A., I-II-IX, pp. 368-369].

Questa lettura molto articolata, quasi “sociologica”, del ruolo delle istituzioni politiche nell’Europa moderna trovò poco dopo una declinazione tutta francese. L’occasione fu data dalla collaborazione di Tocqueville alla “London and Westminster Review”, diretta da John Stuart Mill. Tocqueville era stato incaricato di scrivere una serie di articoli in forma di lettera sulle condizioni sociali e politiche della Francia: nondimeno, dimostrando ancora una volta la sua attenzione alla prospettiva diacronica, Tocqueville volle anzi tutto anteporre un saggio sul periodo precedente la Rivoluzione francese. Così, nel febbraio 1836, inviò il manoscritto de L’Etat social et politique de la France avant et après la Revolution, che venne tradotto in inglese e pubblicato sulla rivista il I aprile successivo.

Tenendo fede a quanto promesso dal titolo, l’analisi era innanzi tutto incentrata sulla stratificazione della società francese,

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considerata secondo la consolidata tripartizione clero-nobiltà-terzo stato. La chiesa, al tempo di Luigi XIV, gli appariva un’istituzione ad un tempo religiosa e politica; tuttavia, nel corso del Settecento essa aveva perso il carattere di guida spirituale ed era per lo più istituzione meramente politica, in possesso di cospicui beni e pienamente coinvolta negli affari di stato. Quanto alla nobiltà, la parabola discendente di questa casta (era la definizione letterale di Tocqueville) dal Medioevo in cui era ricchissima e potente al Settecento, quando aveva perduto la sua influenza sia sul re che sui sudditi, appariva manifesta. Ne erano discese conseguenze rovinose: la nobiltà, perduta familiarità con le faticose pratiche di governo del territorio, era diventata un gruppo sociale classe sostanzialmente inerte, sia al vertice (i grandi nobili attivi solo alla corte di Versailles), che alla base (i piccoli nobili rimasti in provincia). Tuttavia, essa godeva ancora di consistenti privilegi, immunità fiscali e giurisdizionali e continuava ad avvalersi dei diritti feudali, che davano scarsi introiti, ma erano molto odiati dal resto della società. Una classe nuova approfittava dell’indebolimento della nobiltà: il terzo stato, che si arricchiva con il commercio, l’industria, le professioni e che solo raramente riusciva a fondersi con la parte più alta della società. Più in generale, dell’impoverimento generale della nobiltà si era avvantaggiato il gruppo dei piccoli proprietari terrieri, portatori di interessi comuni e soprattutto, rappresentanti di un primo germe di livellamento sociale. L’ambito peculiare delle istituzioni politiche soccorreva Tocqueville nella spiegazione di come fosse riuscito a una moltitudine di soggetti sociali dotati solo limitatamente di rappresentanza di dare sbocco alla propria insofferenza nei confronti di uno stadio dell’articolazione sociale ormai esaurito. Era stato il sovrano a dare una prima forma alle istanze livellatrici (Tocqueville diceva semplicemente democratiche) attraverso secolari politiche di accentramento che già prima del 1789 avevano uniformato i particolarismi locali e abbassato le residue ambizioni della nobiltà feudale a mantenere il controllo della vita politica nelle periferie. Il terzo stato, il ceto dei giuristi erano diventati gli uomini dell’amministrazione ed avevano aiutato il potere monarchico a dare una legislazione omogenea alle diverse province di Francia, a scapito delle residue forme di governo locale. Da questo punto di vista, la Rivoluzione non era stata altro che un’accelerazione traumatica, ma non estrinseca del processo già in

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atto: se la Francia era il paese dove la progressiva parificazione delle condizioni sociali appariva più avanzata, la centralizzazione politico-amministrativa era più consolidata, e dove il dibattito culturale su una nuova filosofia politica si manifestava più intenso (Tocqueville pensava a Rousseau e in generale agli Illuministi), non poteva stupire che proprio là si fossero accese le scintille di una radicale trasformazione dell’assetto politico-sociale.

Tocqueville non inviò a Londra i successivi saggi previsti. Dai pochi appunti conservati è possibile verificare soltanto che egli riteneva necessario ricostruire quale parte dell’ordinamento statale precedente alla Rivoluzione fosse stato conservata dopo la Restaurazione. Tuttavia, in quella fase lo stimolavano più i fatti sociali e i suoi interessi storico-istituzionali erano ancora strettamente funzionali alla comprensione dei movimenti profondi della società francese dell’età moderna, che avrebbe voluto seguire sino agli esiti a lui coevi. Questo evidente primato dell’analisi ‘sociologica’ rispetto a quella politico-istituzionale, come accennato, fu del resto l’impronta evidente della seconda Démocratie en Amerique, uscita nel 1840.

Tocqueville vi passava in rassegna la cultura americana, i principi etici generalmente diffusi, le pratiche sociali più consolidate. Un’ultima sezione era dedicata all’influenza della democrazia sulla società politica americana: Tocqueville metteva in evidenza il rapporto tra uguaglianza formale e concentrazione del potere politico, rilevando come fosse proprio la democrazia a favorire il consolidarsi dello Stato come supremo artefice di una legislazione uniforme. In America, però, l’uguaglianza delle condizioni sociali si era coniugata alle pratiche di libero autogoverno tipiche della madrepatria Inghilterra. Nel resto d’Europa, invece, rilevava Tocqueville con una nuova analisi comparativa, l’uguaglianza delle condizioni, senza esercizio di forme di libertà politica, aveva portato tout court a una progressiva concentrazione del potere amministrativo nelle mani del sovrano.

Questo tema risaltava particolarmente nel capitolo V dell’ultima parte della seconda Démocratie, tutta concentrata sull’Europa. Tocqueville considerava il fenomeno nella sua veste apparentemente paradossale: i regimi politici tra Sette e Ottocento potevano apparire estremamente instabili, come dimostrava l’esempio francese, e tuttavia la concentrazione di potere era sempre

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aumentata. Uomini che non avevano esitato a rovesciare un trono e a calpestare i re apparivano pronti a piegarsi senza resistenza a ogni minimo cenno di un pubblico ufficiale. Per dare una spiegazione di questo fenomeno, occorreva risalire indietro, ai «secoli aristocratici» [D.A., II-IV-V, p. 798]: i regnanti, nel Medioevo, avevano sostanzialmente delegato importanti funzioni connesse all’esercizio della sovranità a un gran numero di soggetti (nobiltà, clero, corporazioni cittadine, persino singoli privati che appaltavano il sistema fiscale o che armavano contingenti militari). Gradatamente, il potere sovrano, nei diversi Stati d’Europa, aveva messo in atto il recupero di queste funzioni e attività: imponendo la loro amministrazione in modo uniforme a tutto il territorio governato, i monarchi avevano eliminato la concorrenza della rete capillare di poteri secondari, eredità dei secoli precedenti. Ed anche i numerosi moti rivoluzionari che avevano sconvolto l’Europa a partire dal 1789 non avevano fatto altro che potenziare l’accentramento politico e smembrare le residue forme di attività politica sul territorio. Lo Stato ormai si occupava di tutto: degli indigenti, dei malati, dei disoccupati, dei giovani da istruire; in più, esso aveva creato una speciale branca della giurisdizione, per conoscere le cause in cui esso stesso fosse parte. Infine, interveniva pesantememente in economia: quando predominava l’aristocrazia di tipo feudale (Tocqueville diceva «nelle epoche precedenti a quella in cui viviamo [...], in questi stessi secoli aristocratici, che costituiscono le fonti della nostra storia » [D.A., II-IV-V, p. 804]), la proprietà immobiliare godeva di speciali garanzie: l’aristocrazia possedeva il suolo ed era in grado di difenderlo. Con lo sviluppo dell’industria, invece, la presenza dello Stato, con la sua opera di minuta regolazione amministrativa, si era fatta sempre più evidente, facilitando la crescita del settore industriale a danno degli altri settori produttivi e delle altre forme di proprietà. Anzi, manifestamente lo Stato, come nel caso di arsenali e altri opifici (per lo più militari), era divenuto primo soggetto imprenditore sul territorio, contribuendo a creare una classe nuova, omogenea, che non riconosceva altra autorità politica che quella del sovrano e che era anche economicamente dipendente da lui. Riassumendo, Tocqueville tentava una conclusione: l’eguaglianza crescente delle condizioni sociali aveva reso insopportabile l’ineguaglianza e i privilegi tipici degli antichi regimi d’Europa. Le aspirazioni a una minore ineguaglianza sociale, però, avevano aiutato

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il cammino dei processi di accentramento politico, che stavano già da tempo livellando le condizioni dei singoli: così, parte non indifferente della libertà per cui si stava lottando sarebbe stata sottratta dalle stesse istituzioni politiche riformate. La libertà, anzi, appena entrata in scena, ne sarebbe subito uscita: l’appuntamento del 1789 era stato il punto di contatto fra la retta della crescente uguaglianza delle condizioni sociali e la retta del progressivo accentramento politico; evidentemente, non ne era derivata l’instaurazione di un sistema politico liberale: poco dopo aver portato il re e molti suoi nobili sulla ghigliottina, i rivoluzionari si erano consegnati, sotto Napoleone, alla più vistosa tirannia. Nel primo periodo di grande creatività (datato, grosso modo, 1835-1840), Tocqueville tenne sempre lo sguardo su entrambe le sponde dell’Atlantico. Infatti, i legami tra i capitoli finali della seconda Démocratie e l’analisi che egli veniva elaborando dello stato sociale e politico della Francia prima della Rivoluzione sono particolarmente evidenti. L’attenzione, però, a ben vedere, dai fatti sociali si stava spostando ai fatti politici, anzi più precisamente all’evoluzione storica delle istituzioni politiche; in particolare, stava mutando la risposta alla domanda: che cosa determinò in Francia e in Europa il tramonto dei «secoli aristocratici»? La formazione, negli strati medio-bassi della società, di gruppi sociali tendenzialmente omogenei? O non piuttosto lo sviluppo del potere monarchico, che articolava interventi sempre più intensi sul territorio, erodendo i preesistenti poteri locali? Tocqueville era attento, lo si è visto, all’evoluzione dell’economia e persino ai cambiamenti negli assetti proprietari e nella composizione della forza lavoro. Tuttavia, mentre concludeva la sua fatica sul Nuovo Mondo, volgendosi all’Europa trovò che la più forte spinta al cambiamento era stata di natura politica: il potenziamento degli strumenti di governo nelle mani dei sovrani era stato un processo veramente coerente e duraturo, e aveva influito profondamente sugli assetti della società. La seconda Démocratie ebbe un’accoglienza molto meno entusiastica della prima. La lunga esposizione di Tocqueville sugli influssi del sistema democratico sulla società americana poterono apparire arbitrari. La sua tesi secondo la quale l’eguaglianza delle condizioni sociali poteva portare a un sostanziale materialismo dei costumi, al disinteresse per la cosa pubblica, persino al remissivo abbandono a un potere dispotico, fu sostanzialmente rifiutata. Solo

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in Inghilterra una lunga recensione di John Stuart Mill rese ragione al suo sforzo di analisi ‘sociologica’ delle società democratiche (e in particolare di quella americana). Tocqueville meditò per questo addirittura l’abbandono degli studi. In realtà, fu la sua elezione, nel 1839, alla Camera dei deputati a distoglierlo per anni dalle sue ricerche in filosofia politica. Tornato all’attività di studioso nell’ultimo scorcio della Seconda Repubblica, Tocqueville cercò innanzi tutto di chiarire quale fosse lo sviluppo più urgente del suo pensiero. Un libro, come avrebbe rilevato più tardi al conte di Montalembert (O. C. [Bmt], VII, p. 389), gli ronzava in testa sin dall’uscita della seconda Démocratie. Da Sorrento, scrivendo nel dicembre 1850 all’amico Louis de Kergolay, cercò di dare forma al tema. Il soggetto del libro in gestazione avrebbe compreso una riflessione sul carattere generale dei tempi, un giudizio sulla società francese e una previsione del suo avvenire. La narrazione storiografica gli sembrava l’unico collante in grado di tenere unite le singole parti di un tema così impegnativo. Per questo, all’interno del grande arco cronologico 1789-1851 – che Tocqueville chiamava tutto insieme «la Rivoluzione francese» –, si sarebbe concentrato sui dieci anni dell’Impero di Napoleone, che gettavano una luce potente sul periodo precedente e sugli avvenimenti successivi. Come modello gli sembrava particolarmente efficace l’opera di Montesquieu Considérations sur les causes de la grandeur des romaines et de leur décadence (Amsterdam 1734) : il magistrato e filosofo illuminista vi aveva esposto la sua teoria della comprensione dei fatti storici poggiata su una dialettica tra cause profonde e cause accidentali. Così, per spiegare la potenza di Roma e il suo successivo declino Montesquieu aveva rivolto l’attenzione ai rapporti tra Senato e plebe, alla configurazione della proprietà terriera, all’ordinamento politico romano. Tocqueville, in questa prospettiva, non avrebbe rifatto un’esposizione degli avvenimenti del periodo napoleonico: si sarebbe invece sforzato di scoprire le cause profonde che avevano favorito la nascita dell’Impero nel cuore della società nata dalla Rivoluzione, gli strumenti usati da Napoleone per il consolidamento dell’Impero, le influenze più o meno durature dell’avventura napoleonica sui destini di Francia ed Europa. Tornato agli studi agli inizi del 1852, Tocqueville spostò rapidamemente l’attenzione sulla cesura del 1789. In giugno scriveva a Madame Phillimore che era duro pensare che la grande e terribile

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Rivoluzione francese (espressione sua: O. C. [Bmt], vol. VII, p. 283) potesse portare, dopo sessant’anni, al triste risultato del dispotismo di Luigi Napoleone. In luglio confessava all’amico Beaumont che era ancora alla ricerca di un vero soggetto e che con tutti gli sforzi profusi fino a quel momento non aveva che poco materiale pronto (O. C. [Bmt], vol. VII, p. 288). In effetti, nell’estate 1852 era stata completata l’elaborazione di due capitoli («Come la Repubblica era pronta a sottomettersi a un padrone» e «Come la nazione cessando di essere repubblicana è restata rivoluzionaria»). Le settimane a cavallo tra il 1852 e il 1853 portarono a riflessioni decisive: calato l’interesse per il periodo napoleonico, Tocqueville rivolse l’attenzione sempre più consapevolmente verso lo scoppio della Rivoluzione francese e, soprattutto, verso il precedente sistema di governo. Così, iniziò ricerche negli archivi delle istituzioni del Settecento: in particolare, in quello della Généralité dell’Île de France, circoscrizione territoriale finanziaria e, dal giugno 1853 all’aprile 1854, in quello dell’intendente della Touraine. A questo scopo, prese addirittura dimora a Saint-Cyr-Lès-Tours (poco distante da Tours). A lungo, la sua attività principale fu proprio lo studio di quei documenti, da cui ricavò 2.300 pagine di appunti, tuttora conservati nell’Archivio Tocqueville. La sua prospettiva cambiò radicalmente: dopo aver studiato così in dettaglio i documenti amministrativi del Settecento francese, crebbe di molto, nel libro che stava progettando, lo spazio dato all’organizzazione politico-istituzionale del Regno di Francia. Fedele al metodo comparativo, che contrariamente a quanto ritenne parte della critica (Matteucci 1990, p. 45) non pensò mai di abbandonare, ristudiò a fondo l’ordinamento inglese del Settecento e fece addirittura un viaggio a Bonn per documentarsi sulle istituzioni politiche dell’età moderna tedesca. Di questa stagione di ricerche fece un bilancio nella lettera del 7 marzo 1854 al fratello Edouard. Scrisse di aver dedicato quasi tutto l’anno trascorso a studiare l’ancien régime (questa l’espressione usata da Tocqueville), apprendendo quale fosse il funzionamento delle istituzioni politiche di allora («quels étaient les usages politiques, les règles etc. etc.»). Era così arrivato alla comprensione dei motivi per cui la Rivoluzione era scoppiata in Francia e delle cause di molti avvenimenti accaduti da quel tempo sino all’età a lui contemporanea. In particolare, gli era ormai chiaro che molti atteggiamenti e opinioni («habitudes, opinions et [...]

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penchants») che sembravano nuovi, avevano origine nel governo dell’antico regime (O. C. [Bmt], vol. VI, p. 251-52).

Raccolto un immenso materiale (anche sull’amminstrazione dei pays d’État, regioni francesi a larga autonomia), tra il novembre 1853 e il 1855, tra Parigi, Compiègne e il suo castello di famiglia in Normandia, Tocqueville affrontò la stesura del libro. Preso contatto con l’editore Michel Lévy nel febbraio 1856, il libro uscì in Francia in giugno. Il titolo non era più quello che aveva pensato Tocqueville all’inizio del lavoro (La Révolution), bensì L’Ancien Régime et la Révolution). «Antico regime» era un’espressione già comparsa nei cahiers de doléances del 1789 e poco dopo utilizzata dalla pubblicistica per denunciare un sistema di governo che ormai si considerava superato. Dopo il libro di Tocqueville, e fino agli studi odierni, «antico regime» è diventato il sintagma che definisce politica, società, cultura dei secoli XV-XVIII. Il libro si componeva di tre parti. Nella prima veniva spiegato il carattere inscindibilmente sociale e politico della Rivoluzione: essa si proponeva l’abolizione del sistema politico antico, in cui persistevano le istituzioni feudali e mancava divisione dei poteri, e la creazione di un nuovo ordine politico, basato sull’uguaglianza delle condizioni sociali. Quindi, coerentemente con l’antica scelta di seguire il modello del Montesquieu delle Considerations, Tocqueville dedicava la seconda parte alla definizione delle cause remote e generali della Rivoluzione e la terza a quella delle cause più particolari e vicine agli eventi del 1789. Lo studio delle cause remote della Rivoluzione, nella seconda parte, coincideva sostanzialmente con quello delle istituzioni politiche della prima età moderna: Tocqueville seguiva la traiettoria della feudalità nel Settecento, la storia dell’accentramento politico-amministrativo, la nascita della giustizia amministrativa, ricostruiva le concrete pratiche delle istituzioni di governo prima della Rivoluzione; infine, rilevava l’enorme peso politico della capitale, Parigi, seguíto al consolidamento delle istituzioni del potere centrale. Studiava quindi i tratti fondamentali della società francese dell’antico regime, verificandone il crescente livellamento e mettendo in evidenza il generalizzato isolamento dei ceti più eminenti, caratterizzato dal crescente disinteresse per la cosa pubblica e da una tendenziale reciproca ostilità degli attori sociali; tracciava altresì un quadro delle conseguenze della perdita delle antiche libertà politiche sul territorio

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e persino un bilancio sulle condizioni di vita dei contadini. Ma anche in questi capitoli dedicati allo studio della società, che hanno fatto parlare la critica di un Tocqueville “sociologo”, lo spazio delle istituzioni politiche della prima età moderna era tutt’altro che marginale: l’organizzazione fiscale, la burocrazia (imperniata sulla venalità delle cariche), la magistratura e persino la Chiesa trovavano ampio spazio. Più limitato, semmai, appariva l’interesse per le istituzioni politiche nella ricostruzione del moto accelerato che portò alla Rivoluzione (oggetto della terza parte): Tocqueville era più interessato al clima intellettuale (alla mentalità) del secondo Settecento. Nondimeno, anche in questa parte trovavano spazio importanti considerazioni storico-istituzionali: dall’esame delle concrete pratiche istituzionali sotto Luigi XVI alla critica della legislazione d’urgenza e delle riforme radicali dell’ultimo scorcio del XVIII secolo. Come accennato, L’Ancien Régime et la Revolution, fu un successo editoriale: al novembre 1858 ne erano stati venduti circa 9.000 esemplari in tre tirature. Sul fatto che le prime recensioni furono poco entusiastiche, invece, dovette pesare il controllo della stampa attuato dal governo di Luigi Napoleone. Il successo nuovamente raggiunto non si tramutò tuttavia in impulso per la continuazione dell’opera. Vicende familiari (la morte del padre ottuagenario) e persistenti problemi di salute rallentarono la ripresa del lavoro. Più di tutto, Tocqueville era ostacolato dalla mancanza di chiarezza sul metodo da usare entrando negli anni della Rivoluzione. Aveva deciso di occuparsi prevalentemente del «movimento dei sentimenti e delle idee che hanno successivamente prodotto la Rivoluzione» e di non narrare di nuovo i fatti; come fonti avrebbe utilizzato «giornali, pubblicazioni, lettere private, corrispondenze amministrative» (O.C. [Bmt], VII, p. 410). Così, iniziò nuove indagini. La biblioteca del British Museum gli fu di enorme aiuto in questa fase: per completare lo spoglio dei materiali, si recò nell’estate 1857 a Londra. La stesura dei primi capitoli del nuovo libro (che si occupavano dei fatti tra il 1787 e la convocazione degli Stati Generali del 1789) occuparono i mesi tra il 1857 e il 1858. Il volume in preparazione ebbe nel contempo una prima forma stabile: diviso in cinque libri, il primo avrebbe riguardato la pre-rivoluzione (1787-1789), il secondo gli anni 1789-1793, il terzo il Direttorio e la crisi della Repubblica, il quarto il Consolato e

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l’Impero di Napoleone Bonaparte, il quinto una serie di riflessioni generali sulla Rivoluzione francese. In una nuova fase di ricerche, Tocqueville cercò fonti per la parte dedicata agli Stati Generali e all’Assemblea Costituente e di nuovo, oltre ai documenti stampati, volle consultare fonti manoscritte dell’autorità municipale parigina e delle amministrazioni provinciali. Ma l’aggravamento delle condizioni di salute lo allontanarono dagli studi nel maggio 1858. La stesura del nuovo libro, del resto, stava incontrando molte difficoltà: Tocqueville aveva lasciato il terreno più peculiarmente storico-istituzionale e voleva addentrarsi nelle idee, nei modi di sentire che avevano provocato la Rivoluzione, tentando persino di definire una specifica antropologia dei protagonisti di quegli anni. Di fronte alla fatica di arrivare a una visione d’insieme senza scadere in una nuova narrazione degli eventi rivoluzionari, pensò addirittura di abbandonare i lavori. Quindi, si trasferì a Cannes cercando un clima mite per passare l’inverno 1858-59. La tubercolosi era però nella fase finale: la morte impedì a Tocqueville di terminare il lavoro, che rimase composto di sette capitoli sulle origini immediate della Rivoluzione francese e dei due già stesi sulla transizione al regime napoleonico. Alla morte di Tocqueville, il libro aveva molto circolato, anche fuori di Francia. Alcune delle prime interpretazioni avevano misero in luce le innovazioni sul piano storico-istituzionale. La “Bibliothèque de l’École des Chartes” (quatrième série, t. III, nov.-dec. 1856, pp. 178-180) recensendo il volume riconobbe che trattava per la maggior parte «de notre domaine» (“del nostro dominio”), cioè di storia delle istituzioni, prodotta con acume e sulla base di un profondo scavo archivistico. Jean-Jacques Ampère (che aveva recensito il libro per l’italiana “Rivista Contemporanea” del 25 luglio 1856) rilevò come il libro di Tocqueville sconfessasse la paternità “rivoluzionaria” di istituzioni e pratiche di governo in realtà nate in antico regime: l’accentramento politico-amministrativo, la nascita del diritto e della giustizia amministrativi, la moltiplicazione dei pubblici uffici, la coscrizione obbligatoria, persino la divisione territoriale del paese. In molte altre recensioni (ad esempio Frédéric Passy, in “Journal des économistes”, Jan.-Mar. 1857; Eugène Despois, in “Revue de Paris”, Oct. 1856), il ruolo dell’accentramento nella storia di Francia era segnalato come il tema “nuovo”, predominante e quasi ossessivo nel libro. Può sorprendere che

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l’opinione pubblica francese dovesse scoprire da Tocqueville lo sviluppo del potere monarchico e l’espansione degli apparati amministrativi sotto le dinastie dei Valois e dei Borbone. Ma era il clima politico del Secondo Impero a suscitare nei lettori tanta attenzione per il tema della centralizzazione amministrativa: essa infatti, nell’analisi di Tocqueville, si era accompagnata ad un indebolimento di quella libertà politica che era sembrata una delle conquiste della Rivoluzione. E molti, fuori e dentro lo schieramento dei liberali francesi, dopo il colpo di stato di Luigi Napoleone e il plebiscito a suo favore, erano stati costretti a chiedersi cosa in Francia fosse ancora vivo della Rivoluzione e cosa dell’antico regime.

Dal punto di vista della storia della storiografia, l’analisi delle istituzioni politiche moderne, con Tocqueville, era definitivamente svincolata dai consolidati canoni della narrazione storiografica. Ancora il ponderoso trattato di Jean Baptiste Joseph Pailliet (Droit publique français, ou Histoire des institutions politiques Paris: chez Kleffer, 1822) seguiva nei capitoli dedicati alla storia delle istituzioni uno stretto ordine cronologico e addirittura dinastico (Institutions françaises sous la branche directe des rois capétiens; Institutions françaises sous la branche collatérale des Valois e così via, dal Medioevo alla Restaurazione). Persino la già segnalata Histoire de l’admnistration monarchique en France ... di Adolphe Chéruel (stesa nel 1847 e pubblicata a nel 1855) era stata criticata per aver seguito troppo da vicino la serie cronologica dei re francesi. Con l’Ancien Régime et la Revolution di Tocqueville, invece, oggetto dell’indagine storiografica erano, sul lungo periodo, il sistema politico-amministrativo francese ed europeo dell’età moderna ed il suo concreto funzionamento; e la storia delle istituzioni politiche diventava una chiave d’accesso per spiegare non solo uno degli avvenimenti più tumultuosi della storia europea, la Rivoluzione francese, ma addirittura il processo involutivo che aveva portato la società francese dalle radicali innovazioni costituzionali del periodo 1789-1793 all’asservimento volontario al potere dispotico di Napoleone Bonaparte. Insomma, il pubblico e i recensori furono sorpresi non dall’apparizione di un nuovo tema (il rafforzamento dei poteri della monarchia, infatti, non era certo un nuovo tema): bensì, dall’apparizione di una nuova declinazione della nascente storia delle istituzioni, che dialogava con i temi più caldi del dibattito politico.

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La storiografia successiva, dopo il silenzio sceso su L’Ancien Régime et le Révolution successivamente al 1890 cui si è accennato, ha periodicamente messo in evidenza qualche “errore” commesso da Tocqueville nella sua analisi, soprattutto nel campo della storia sociale: ad esempio, egli avrebbe sopravvalutato il ruolo degli intellettuali nella Francia dei Lumi e sottovalutata la forza oppressiva del prelievo feudale, dopo la «reazione signorile» del Settecento; egli avrebbe poi attribuito in modo surrettizio alla decadenza del sistema feudale la formazione di nuove figure di imprenditori agricoli e piccoli proprietari terrieri; e non avrebbe invece còlto le drammatiche conseguenze della crisi finanziaria dell’ultimo quarto del XVIII secolo. Anche dal punto di vista storico-istituzionale sono emerse imprecisioni di non poca importanza: Tocqueville avrebbe esagerato la portata del processo di centralizzazione, ne avrebbe comunque intuito le tappe in maniera molto limitata (non comprendendo ad esempio il potenziamento della struttura dello Stato scaturito dagli impegni militari di Luigi XIV); avrebbe esagerato l’autonomia e il potere dei rappresentanti della monarchia sul territorio (gli intendenti), non avrebbe intuito il carattere strutturale, all’interno della macchina burocratica, del sistema della venalità delle cariche. Nondimeno, proprio nel terreno storico-istituzionale sono stati attribuiti a Tocqueville risultati molto positivi: egli – ha notato la critica – seppe scegliere le fonti per la storia amministrativa, mise a punto un metodo per verificare “sul campo” il concreto funzionamento del lavoro burocratico, ben consapevole che «chi volesse giudicare il governo di quel tempo dalla raccolta delle sue leggi, cadrebbe nei più ridicoli errori» [A.R., II-VI, p. 106, cit. da Furet 1987, p. 159]. Quest’ultima affermazione costituiva un’intuizione veramente profonda, molto più avanti dello stato degli studi della disciplina a metà Ottocento. Solo nella seconda metà del Novecento, infatti, sarebbero state definitivamente superate le impostazioni più dogmatiche della storia delle istituzioni, imperniate su un paradigma che può essere definito “pubblicistico”, perché metteva in primo piano esclusivamente lo sviluppo degli apparati di governo istituiti dal potere sovrano e la ricostruzione delle iniziative intraprese da questi uffici e magistrature. Solo negli anni Sessanta e Settanta la storia delle istituzioni si sarebbe stabilmente legata alla storia sociale e sarebbe emerso un nuovo metodo, pronto a cogliere tempi “forti”

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e tempi “deboli” della crescita delle istituzioni ed attento all’irriducibile ma creativo scarto tra norme giuridiche e fatti sociali: un metodo capace di decifrare il livello più “ufficioso” della vita delle istituzioni.

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III. Il Medioevo di Tocqueville: l’«antica legge comune dell’Europa». Ne L’Ancien Régime et la Révolution, dopo alcuni capitoli iniziali sul significato profondo della Rivoluzione francese, evento politico radicale che aveva avuto l’obiettivo di demolire tutto il sistema politico e sociale (anche fuori dai confini di Francia), Tocqueville si pose il problema di spiegare cosa avesse reso così veloce la propagazione in tutta Europa delle idee rivoluzionarie. Una prima, spontanea risposta rilevava che mutamenti dovevano già essere intervenuti «nelle condizioni [sociali], nelle abitudini, negli usi» dei popoli europei [A.R., I-III, p. 48]. Ma Tocqueville non seguì l’intuizione: non studiò le trasformazioni avvenute in Europa dal punto di vista di quella “sociologia” di cui aveva dato i primi saggi nella seconda Démocratie; ricorse invece, per approfondire il tema, alla storia politico-giuridica e, nel quarto capitolo della prima parte de L’Ancien Régime et la Révolution, si chiese come mai quasi tutta l’Europa avesse avuto le stesse istituzioni e come mai dappertutto esse fossero in rovina.

Le istituzioni politiche moderne, secondo Tocqueville, in Francia come in Europa affondavano le radici negli ultimi tempi dell’Impero romano. Anche Guizot, nel suo corso sulla storia della civiltà europea del 1828-1829 (che Tocqueville probabilmente seguì o di cui lesse le dispense), aveva preso le mosse dalla cesura del V secolo. Guizot, nella terza lezione, aveva evidenziato nei regni romano-barbarici un vero e proprio caos politico, riscontrando la compresenza conflittuale di tre diverse tipologie istituzionali: il potere monarchico; le istituzioni aristocratiche coincidenti con il patronage militare (che organizzava gerarchicamente i guerrieri dei diversi clan); le istituzioni libere di quei gruppi che – come facevano gli antichi capi-famiglia germanici – avevano scelto di deliberare in comune i provvedimenti necessari per i bisogni della convivenza. Dalla generalizzata instabilità politica dei secoli dal V al IX l’Europa sarebbe uscita grazie al recupero dell’eredità giuridica romana, all’influenza dell’istituzione ecclesiastica, già ben formata e dotata di un diritto peculiare, e all’operato di alcuni sovrani (i re goti, l’imperatore Carlo Magno), che seppero interpretare il bisogno di ordine e sicurezza diffuso nella società varando cospicue innovazioni normative. Quando poi anche l’Impero carolingio era

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entrato in crisi, dal IX-X secolo si era sviluppato il regime feudale: assetto politico adeguato a una società ancora molto frammentata, che l’aveva disposta sotto una grande quantità di governi locali.

Guizot era anche entrato nel dettaglio della storia feudale francese, in particolare nelle lezioni da trentunesima a quarantunesima della Histoire de la civilisation en France depuis la chute de l’empire romain jusqu’au 1789. Aveva rigettato la tesi di Henri de Boulainvilliers (1658-1722) – che nei Mémoires sur l’histoire du gouvernement de France (pubblicati postumi a Londra nel 1727) aveva ipotizzato una diretta discendenza tra regime feudale e istituzioni politiche germaniche –, ed aveva spiegato la formazione del sistema feudale attraverso l’eclissi dell’istituzione monarchica dopo Carlo Magno e lo stadio ancora primitivo, nei contesti urbani o rurali, delle istituzioni associative spontanee. Soprattutto, tanto nella Histoire de la civilisation en Europe quanto nella Histoire de la civilisation en France, Guizot aveva insistito sulle diverse matrici della storia istituzionale europea: contrapposto al regime feudale, nel Medioevo, il sistema politico dei Comuni aveva dato già nell’XI secolo precoci esempi di autodeterminazione politica, sancita e organizzata dalla formulazione di statuti e chartes; e il potere monarchico, superato un lungo periodo di stallo, a partire dal XII secolo aveva tentato di fondere gli elementi sociali particolari e far convivere i diversi ordinamenti giuridici. In questa fase, erano nati gli esperimenti di costituzione mista: nobiltà feudale, clero, comuni furono riuniti in assemblee (Stati generali di Francia, Cortes in Spagna e Portogallo, Parlamento in Inghilterra, Stände in Germania). Fra queste, il Parlamento inglese aveva avuto il maggior peso: già dal XIV secolo la Camera dei Lords era una sorta di consiglio del re e partecipava all’elaborazione politica, mentre la camera dei Comuni, dove sedevano insieme borghesi e piccola nobiltà, era tutta concentrata nella difesa dei diritti locali e degli interessi privati. Nel resto d’Europa, invece, per Guizot le assemblee non avevano avuto una reale funzione politica, riuscendo del tutto subordinate al potere monarchico.

Tocqueville, che pure aveva lodato la perspicacia di queste analisi di Guizot, al momento di tracciare uno schizzo dell’evoluzione istituzionale europea a partire dal V secolo, preferì porre l’accento sul carattere innovativo dell’organizzazione politica medievale. A questo scopo, ripercorse la nascita repentina e

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sorprendente di un nuovo ordine pubblico dalle rovine dell’Impero romano: le popolazioni barbariche, a suo giudizio, abbattuto il residuo ordine ancora garantito dalle ormai deboli istituzioni romane, erano vissute a lungo nell’insicurezza, disperse in un territorio immenso e frazionate in molti insediamenti di piccole dimensioni. In questa stessa massa incoerente, nondimeno, era improvvisamente apparso un sistema di leggi uniforme, che Montesquieu aveva già notato e definito «governo gotico». Invano, in queste leggi si sarebbero cercate tracce del diritto romano: si trattava di una legislazione originale, coesa e sistematica. Tocqueville si sottraeva al compito di spiegare come un simile fenomeno potesse essere accaduto. Si limitava a ricordare che, studiando le istituzioni politiche medievali di Francia, Inghilterra e Germania, non aveva potuto fare a meno di notare una «prodigiosa somiglianza» [A.R., I-IV, p. 50] tra i fondamenti delle leggi di popoli così diversi: infatti, ogni volta che aveva incontrato una regola di organizzazione politica degli antichi regni germanici, aveva poi riscontrato una forma simile e corrispondente nella legislazione di Francia e Inghilterra. E in particolare, nei tre diversi contesti, aveva scoperto assemblee politiche formate dagli stessi elementi sociali e munite di poteri simili, città dotate di statuti affini e governate attraverso il sistema delle corporazioni, feudi di grandi e piccole dimensioni capillarmente diffusi. Proprio il regime feudale gli era sembrato estendersi in modo omogeneo dalla Polonia alle isole britanniche: «la signoria – concludeva – , la corte del feudatario, il feudo, gli obblighi e le terre sottoposte a censo, i diritti feudali, le corporazioni, tutto si assomiglia[va]» [A. R., I-IV, p. 50]. Era questa l’«antica legge comune dell’ Europa» [A. R., I-V, p. 57] che Edmund Burke, uno dei pochi autori espressamente citati ne L’Ancien Régime et la Revolution, aveva indicato come “costituzione” originaria dei popoli europei e fonte, nel caso inglese, di un assetto politico-istituzionale equilibrato, foriero del più elevato grado di libertà politica visibile in Europa.

Il Medioevo politico-istituzionale immaginato da Tocqueville era dunque un’età dominata dalla compartecipazione a più livelli alla gestione della cosa pubblica: grandi feudatari governavano direttamente ampi porzioni di territorio, altri ordinamenti peculiari regolavano le autonomie cittadine, diffuse in parte non trascurabile dell’Europa, assemblee rappresentative di ceti (o “stati”) limitavano il potere dei sovrani, soprattutto nel punto

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cruciale delle imposizione fiscali. Tocqueville ricordava che «nel quattordicesimo secolo la massima: “non tassare chi non accetta” pareva stabilita saldamente in Francia come in Inghilterra» [A. R., II-X, p. 138]. Addirittura, nel Medioevo lo stesso governo interno dei feudi era diviso tra il feudatario e i suoi vassalli: costoro, talvolta riuniti in assemblea, «dovevano passare un certo tempo dell’anno alla sua corte, vale a dire aiutarlo a render giustizia e ad amministrare gli abitanti» [A. R., II-IX, p. 125]. Il Quattrocento era stato l’acme della koiné “costituzionale” europea, successivamente erosa e caduta in declino. Tocqueville rinunciava a tentare una spiegazione «di come quest’antica costituzione europea si [fosse] indebolita e poco a poco rovinata» [A. R., I-IV, p. 50]. Aveva però intuito che il diritto romano, rimasto estraneo agli sviluppi istituzionali dei popoli germanici, era stato usato a partire dal Cinquecento proprio per abbattere la legislazione medievale e sostituirla con le nuove legislazioni varate dai sovrani. Perciò, la prima delle 78 note di approfondimento non numerate in calce a L’Ancien Régime et la Revolution fu dedicata alla potenza del diritto romano in Germania e alla ricostruzione di come esso si sostituì al diritto germanico.

Tocqueville, che aveva studiato il Système de droit romain actuel di Friedrich Karl von Savigny (uscito in Francia nel 1840) senza convenire sulla continuità della tradizione giuridica romana in Occidente, sulla base dell’esempio della storia della legislazione nel Württenberg attribuì la responsabilità della nuova influenza del diritto romano, iniziata alla fine del Medioevo, ai giuristi tedeschi. Costoro avevano dato vita a una sistematica interpretazione delle leggi in una prospettiva romanistica: il Codex di Giustiniano, i consulti dei giuristi romani erano stati applicati ogni volta per analogia o per similitudine al posto delle norme della legislazione germanica. Ciò si doveva certamente alla rinascita del latino nel XV secolo, all’applicazione dei metodi filologici ai testi della legislazione imperiale romana, al ruolo guida delle facoltà italiane di giurisprudenza, dove i giurisperiti di tutta Europa studiavano: ma a Tocqueville appariva altrettanto sicuro che i sovrani tedeschi ne avevano approfittato per estendere e consolidare il loro potere. Lo stesso era accaduto in tutta Europa, probabilmente perché a partire dal Quattro-Cinquecento tutto il Continente aveva conosciuto analoghe spinte delle monarchie a limitare gli spazi di libertà ancora concessi dal preesistente assetto politico-istituzionale, eredità della

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“costituzione” dei popoli germanici. Perciò, con una puntata polemica, Tocqueville concludeva che alla fine del Medioevo un diritto molto evoluto, ma servile era stato sostituito a un diritto più rozzo, ma più libero.

Dunque l’«antica legge comune dell’Europa», a giudizio di Tocqueville, sarebbe stata progressivamente erosa sin dal XV-XVI secolo e nel XVIII sarebbe rimasta sostanzialmente priva di efficacia costituzionale. Nello stesso quarto capitolo della prima parte de L’Ancien Régime et la Révolution, riguardo a questa decadenza, a questo ripiegamento su se stesse delle istituzioni – l’espressione era dello stesso autore – venivano segnalati alcuni particolari: soprattutto nella parte occidentale del Continente (ma faceva eccezione l’Inghilterra, dove l’antica costituzione era stata gradualmente corretta ed era sopravvissuta), le istituzioni municipali nel Settecento non erano ormai che apparenze, al pari degli altri centri di potere di origini medievali (come le assemblee dei ceti – Cortes, Stati generali etc. – e le signorie territoriali). Uno di questi antichi poteri era invece molto trasformato. Il potere monarchico del Settecento non aveva più niente in comune con la regalità medievale: aveva accumulato altre prerogative, manifestava la sua presenza sul territorio per mezzo di un apparato amministrativo che si sostituiva a tutti i poteri locali (per primi ai nobili titolari di signorie feudali), si reggeva su una cultura giuridica e politica profondamente innovata. Era dunque l’istituzione monarchica ad essere responsabile del tramonto dell’«antica legge comune dell’Europa»: ma Tocqueville, nella fase di avvio della sua argomentazione proponeva tale nesso causale solo timidamente e quasi senza offrire esempi. In realtà, tutta L’Ancien Régime et la Revolution sarebbe stato un case study, uno studio esemplificativo della tesi che attribuiva al potere monarchico la volontà di superare le istituzioni politiche ereditate dal Medioevo.

Alcune delle intuizioni di Tocqueville sulla storia delle istituzioni europee del Medioevo hanno mantenuto una certa presa. La tesi sulla prevalenza di istituzioni germaniche negli assetti “costituzionali” alto-medievali europei, allo stato degli studi, appare molto semplificata, ma non del tutto erronea: la storiografia attuale (Caravale 1994), se riconosce ai sovrani dei regni romano-barbarici del V-VI secolo d.C. (visigoti, burgundi, ostrogoti) un ruolo decisivo nel favorire una sostanziale continuità della cultura giuridica romana

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in Occidente, attribuisce altresì ai protagonisti della seconda ondata di invasioni (Franchi in Gallia, Longobardi in Italia, Anglo-sassoni in Britannia) una più decisa propensione ad impiantare il diritto dei conquistatori. I Franchi, in particolare, con la Lex Salica e la Lex Ripuaria avevano varato una legislazione sostanzialmente estranea al diritto romano. Ed è accertato che gli usi giuridici di origine germanica (in particolare le diverse forme di giustizia privata come la faida e le composizioni extra-giudiziali) non fossero intaccati nemmeno sotto Carlo Magno: il fondatore del Sacrum romanum Imperium era pur sempre la principale autorità di un ordinamento giuridico germanico e la sua attività legislativa rientrava nella funzione attribuita ai sovrani di sollecitare il funzionamento della giustizia consuetudinaria. Tocqueville, però, tracciando una linea retta dai regni romano-barbarici all’età feudale non colse (come almeno in parte era riuscito a Guizot) la scansione delle importanti trasformazioni degli assetti politici dal IX all’XI secolo: la progressiva perdita di controllo del patrimonio da parte dei successori di Carlo Magno, la nascita di principati autonomi di grandi estensione territoriale e infine, con la crisi di questi grandi principati, la formazione di un nugolo di signorie locali dotate di consistenti diritti (e poteri) di comando. Tocqueville valutò più correttamente la portata continentale del fenomeno dello sviluppo delle signorie fondiarie: dal XII secolo esse si moltiplicarono in tutta l’Europa e in alcune zone, tra cui la Francia e i principati tedeschi, esse si disposero in una piramide di subordinazioni feudali.

Anche il ruolo delle assemblee degli ordini può apparire sopravvalutato nell’analisi tocquevilliana. Alla storiografia sono sembrati relativamente ampi i poteri nelle Cortes dei Regni iberici: qui i rappresentanti delle città erano convocati accanto ai grandi signori laici ed ecclesiastici sin dal XIII secolo; ed era loro attribuito il compito di sanare gli abusi commessi dagli agenti regi e in generale le violazioni del diritto commesse da poteri non competenti. In questa prospettiva, la necessità del loro consenso alle esazioni della fiscalità regia era riconosciuta sin dalla prima metà dello stesso XIII secolo. Ma in Francia, sin dall’inizio del XIV secolo erano stati i monarchi, soprattutto in occasione dell’imposizione di tributi straordinari, a radunare ripetutamente gli esponenti degli ordini (i nobili, il clero, i rappresentanti delle città o talvolta solo alcuni di essi). Tali assemblee, però, non avevano alcuna funzione

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deliberativa indipendente e il loro potere si limitava a quello di negare talvolta al sovrano la concessione del sussidio e a quello di chiedere il rimborso del denaro versato nel caso di cessazione dello stato di urgente necessità. Guizot era stato molto netto nel giudizio negativo: probabilmente proprio perché promosse dai sovrani, le assemblee degli ordini si erano a suo giudizio rivelate sempre estremamente deboli, insignificanti, talvolta apertamente servili. A Tocqueville non interessava un giudizio di merito: da una prospettiva strettamente comparativista, gli bastava riscontrare che assemblee simili alle Cortes o agli Stati generali erano presenti un po’ ovunque in Europa.

Allo stesso modo, Tocqueville non entrò a considerare l’eterogeneità delle soluzioni istituzionali originate dalle diffusissime istanze di autodeterminazione all’interno delle realtà urbane. Non gli interessava rilevare le differenze tra Comuni italiani, città della Francia meridionale, città del demanio regio francese, città della Lega Hanseatica, e così via. Per Tocqueville, le costituzioni cittadine e il sistema della corporazioni erano semplicemente un elemento del comune tessuto istituzionale europeo al pari della feudalità. Ebbene, di una «Europa delle città» ha parlato di recente la storiografia italiana (Berengo 1999): in quella sede, è stato possibile verificare che l’organizzazione corporativa del lavoro, l’autonomia giurisdizionale di arti, métiers, crafts, gremios, Zünfte, nelle città di gran parte del Continente, dal XIII al XVIII secolo, ha veramente rappresentanto il tratto di una comune esperienza costituzionale. Tocqueville si occupò altresì della traiettoria delle istituzioni politiche e civili feudali dal Medioevo all’età moderna, in particolare nel primo capitolo del secondo libro, dedicato all’odio concepito contro i diritti feudali nella Francia del Settecento. Il suo problema era quello di spiegare come mai la Rivoluzione che doveva radicalmente abbattere la feudalità fosse nata nel paese dove la feudalità faceva sentire solo limitatamente il suo peso. La comparazione tra Francia, Inghilterra e Germania era a questo proposito illuminante. Per la Francia, Tocqueville poteva contare sui suoi studi sulla condizione delle classi rurali in Normandia del luglio 1852. Cercando di verificare come si fosse trasformata la proprietà terriera prima e dopo la Rivoluzione e quanto il gruppo sociale dei piccoli proprietari avesse guadagnato dall’abolizione della feudalità, egli si era imbattuto nel problema di classificare i diritti

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feudali ancora esistenti nel Settecento, di valutare il loro peso finanziario, di chiarire le procedure per la loro imposizione. Si era quindi documentato sul Traité historique et pratique des droits seigneuriaux di Joseph Renauldon (Paris 1765), sul Dictionnaire de droit et de pratique di Claude-Joseph de Ferrière (Paris 1749), sul saggio manoscritto di Camille Dareste de la Chavanne Mémoire sur l’état des classes agricoles depuis le XIII siècle jusqu’à 1789 : si trattava del lavoro che aveva vinto il premio per la competizione del 1852 bandita dall’Académie des sciences morales et politiques sulla storia dei contadini francesi e che sarebbe poi uscito come volume dal titolo Histoire des classes agricoles en France depuis Saint Louis jusqu’à Louis XVI (Paris : Guillaumin, 1853). Da ultimo, era ricorso ai verbali delle sedute dell’Assemblea Costituente, dell’Assemblea Legislativa e della Convenzione che testimoniavano il lavoro dei deputati del 1789-1793 intorno al tema dell’abolizione dei diritti feudali. Per quanto riguardava i diritti feudali in Germania, Tocqueville aveva riunito un folto dossier sulla base delle conversazioni con i professori tedeschi Walter e Oelschner (a Bonn, fine giugno-luglio 1854). Per l’Inghilterra, si basò soprattutto sui Commentaries on the Law of England (1765-1770) del giurista William Blackstone.

Sulla base di questi studi, Tocqueville presentò innanzi tutto un quadro delle istituzioni feudali in Germania, con particolare riferimento alla condizioni giuridiche dei contadini: mise in evidenza la persistenza dell’istituto della servitù della gleba, il peso delle corvées (prestazioni di manodopera coatta), il ruolo ancora importante della nobiltà feudale nell’amministrazione locale (nonostante la sua subordinazione al potere monarchico). Un’analisi, nella sesta delle note in calce al volume, era specificamente dedicata al Codice di Federico II di Prussia, promulgato dal suo successore nel 1794. Tocqueville lo considerava «insieme un codice civile, un codice penale e una Carta» [A.R., nota (6), p. 266] e, a leggere in dettaglio le sue disposizioni, «il documento legislativo più autentico e più recente, che da[va] una base legale a quelle medesime ineguaglianze feudali che la rivoluzione stava per abolire in tutta Europa». [A.R., nota (6), p. 268]. Infatti, nonostante i principi “illuministici” proclamati nell’Introduzione (Einleitung), tra cui il richiamo alla libertà naturale di perseguire il proprio bene senza ledere il diritto altri o la preminenza degli interessi pubblici dello Stato su quelli dei singoli cittadini, molte norme del Landrecht prussiano sancivano

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validità ed efficacia dei privilegi dei proprietari terrieri, delle corporazioni, dei patriziati cittadini (Eximierte). Ed anche l’abolizione della servitù della gleba era più apparente che reale, essendo stata nella stessa occasione sostituita da una sudditanza ereditaria molto simile a una servitù (Erbunterthänigkeit). Insomma, come ha confermato la critica moderna (Tarello 1976), il Landrecht prussiano non eliminava il particolarismo giuridico, ma lo preservava e lo consacrava

Passando alla situazione francese, Tocqueville notò subito una stridente differenza: in Francia la servitù della gleba era scomparsa da secoli, nella Normandia oggetto dei suoi approfondimenti sin dal XIII secolo. Inoltre, in Francia i contadini erano diventato spesso piccoli proprietari. Il ruolo del signore (o del feudatario) nel governo locale, invece, era significativamente arretrato, dinanzi al potere crescente degli ufficiali del re. Guardando all’amministrazione del territorio in età moderna, il feudatario – a differenza di quanto accadeva ancora nella stessa Inghilterra – «non [era] più incaricato di applicarvi le leggi generali dello Stato, di raccogliervi le milizie, di imporre le tasse, di rendere noti gli ordini del principe, di distribuire i suoi soccorsi» [A.R., II-I, p. 65]. Faceva invece ancora amministrare la giustizia in suo nome, ma con lo sguardo rivolto più che altro alle entrate che ne poteva ricavare. E manteneva privilegi fiscali, immunità giurisdizionali, diritti feudali redditizi particolarmente odiosi alla popolazione. Tocqueville non mancò di entrare nel vivo, verificando la consistenza di questa realtà giuridica nel diciottesimo secolo. In particolare, se apparivano molto ridotte le corvées, e poco frequenti i diritti di pedaggio sulle strade, alcuni diritti erano ancora in vigore: il feudatario attuava un prelievo in occasione di fiere e mercati, imponeva il laudemio, tassa sulle transazioni proprietarie di terre entro i confini del feudo, pretendeva rendite di vario tipo (censi, canoni monetari o in natura) da tutti i proprietari di terre, obbligava ad usare i propri impianti per macinare i cereali o torchiare le uve. Di tutti questi diritti feudali esistenti ancora nella seconda metà del Settecento, Tocqueville diede addirittura una tavola nella penultima delle note poste in calce al volume [A.R., nota (77), pp. 309-315], sulla base delle opere del magistrato Edme de la Poix de Fréminville (1680-1773), che aveva trattato dei diritti feudali soprattutto ne La pratique universelle pour la rénovation des terriers et des droits seigneuriaux

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(Paris, 1746): si trattava di più di trenta istituti giuridici diversi. Tocqueville si soffermò anche sui feudatari ecclesiastici e in generale sulla decima. Concluse che la situazione francese non era diversa da quella di altri stati (e meno onerosa, se comparata all’Europa orientale): si dichiarò nondimeno convinto che l’esercizio del prelievo di natura feudale avesse esasperato gli animi proprio perché molti contadini erano ormai proprietari delle loro terre e perché il difetto di funzioni politiche della nobiltà feudale rendeva stridenti ed odiosi i privilegi di cui essa continuava a godere. Tocqueville traeva dall’analisi dei diritti signorili nel Settecento anche conclusioni sulla traiettoria dell’istituzione politica denominata “regime feudale”: a suo giudizio, da quando era giunto al punto più alto di pervasività e peso politico, il feudalesimo aveva sempre più invaso il territorio dei rapporti civili, trasformando molti negozi giuridici fra persone anche al di fuori del ceto nobiliare ed influenzando per intero l’universo dei rapporti economici. Poi, gradualmente, esso era diventato, da istituzione politica fondamentale dell’assetto “costituzionale” del regno di Francia, un mero sistema di rapporti civilistici asimettrici tra un grande proprietario terriero e gli abitanti delle sue terre. Perduta la fonte di legittimazione politica del suo ruolo di regolazione della realtà economica e sociale locale, il feudalesimo aveva a lungo languito; tuttavia, quando era stato abbattuto, la sua natura di istituzione politica primaria era riemersa e aveva trascinato nel collasso del feudalesimo l’intero ordinamento monarchico francese. Resta appunto da verificare la presa nella storiografia della tesi sul “languore” delle istituzioni medievali nel Sei e Settecento. Per quanto riguarda la feudalità, il dibattito fu avviato in età contemporanea dal breve paragrafo Sopravvivenze e reviviscenze de La società feudale di Marc Bloch (Paris: Michel, 1939). Anche Bloch, mentre rilevava la continuità del sistema economico signorile e dei diritti feudali, sul versante dell’organizzazione dei poteri con più ampia rilevanza esterna (i poteri per così dire “pubblici”) considerava ormai perduta la catena di istituzioni di comando caratteristica del Medioevo feudale. Citò come esempio soltanto gli arrière-ban, cioè i richiami alle armi dei feudatari con i loro vassalli, emanati da Luigi XIV, il sovrano francese assoluto per antonomasia. Successivamente, il dibattito si spostò sull’economia, cioè sui modi di produzione: il problema delle sopravvivenze delle istituzioni del

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regime feudale finì in ombra e divenne centrale la definizione del processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo. Degli aspetti sociali e politici della feudalità in età moderna si tornò a parlare solo in occasione di (e dopo) un importante convegno francese (L’abolition de la «féodalité» dans le mond occidental, Tolosa 1968): emerse in particolare che nel XVIII secolo esisteva ancora ciò che i feudisti chiamavano il complexum feudale, cioè un insieme di diritti e doveri tipici dell’organizzazione terriera signorile (a prescindere dalla persistenza o meno del sistema originario della concessione di feudi in quanto beneficia); e che, per questo, ancora nel Seicento, in molte zone della Francia, nell’Ovest e soprattutto nel Sud-Ovest, poteva accadere che i nobili si erigessero a protettori degli abitanti delle loro signorie addirittura contro la fiscalità regia. Inoltre, le forme giuridiche di carattere feudale furono particolarmente dinamiche nel’Europa centro-orientale, dove almeno fino al XVIII secolo (e in alcune zone ad Est dell’Elba anche dopo), una concezione paternalistica dell’autorità mantenne saldi nelle mani dei signori poteri e giurisdizioni. Per queste regioni europee si è parlato di «rifeudalizzazione» in senso proprio: la pressione dei signori nei confronti del mondo rurale, visibile anche in Europa occidentale (specie sotto forma di appropriazione di beni e usi collettivi delle comunità soggette), ad Est prese la forma di una massiccio ricorso alle corvées, allo scopo di accentuare il prelievo sul lavoro contadino. Si dové invece a François Furet una sintesi sui diritti signorili nella Francia del Settecento che ha sostanzialmente confermato le tesi di Tocqueville. Da studi locali della seconda metà del Novecento, l’incidenza di tali diritti sulla rendita fondiaria è apparsa a Furet molto bassa nel Sud della Francia, nella Sarthe, nell’Alvernia. Più onersi i diritti esatti in moneta o in natura nella Bretagna e nella Borgogna. Ad ogni modo, è apparso evidente che il peso dei diritti deve essere sempre valutato su fonti seriali e non sulla base delle proteste del mondo economico (e rurale in particolare) contro di essi: così, troverebbe conferma la tesi di Tocqueville di una origine tutta culturale (o ideologica) della discrasia tra il peso di particolari istituti giuridici avvertito dagli attori sociali e il peso da quelli realmente esercitato.

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IV. «Io farò un volume su questo soggetto»: l'analisi dei processi di concentrazione del potere politico. L’analisi di Tocqueville sull’evoluzione della feudalità dal Medioevo all’età moderna si chiudeva con la paradossale evidenza che essa, nel lungo periodo dal XIII al XVIII secolo, aveva sostanzialmente perso tutta la sua capacità sia di influenzare la monarchia nelle politiche di più ampio respiro, sia di organizzare e dirigere la collettività in ambito locale. Per spiegare il fenomeno, Tocqueville concentrò l’attenzione sulle politiche di «accentramento»: vale a dire sui processi messi in atto dalla monarchia sin dal XV secolo (e giunti a maturazione nel XVIII) per consolidare il proprio governo a danno dei poteri preesistenti sul territorio.

L’antitesi decentramento/accentramento costituiva un polo di attrazione delle analisi politologiche e sociologiche di Tocqueville, sin dalle sue prime riflessioni. Il tema era del resto al centro del dibattito politico nella Francia post-Restaurazione. Contro i guasti dell’accentramento politico, evidente soprattutto nell’attività dei prefetti istituiti da Napoleone, si erano schierati, fra gli altri, il filosofo liberale Benjamin Constant e il leader politico della sinistra liberale, Odilon Barrot (che nel 1837 avrebbe appoggiato la prima candidatura di Tocqueville e che nel 1848, come primo ministro, lo avrebbe accolto nel suo governo). Constant, pur non manifestando nostalgia per il pluralismo istituzionale dell’antico regime, riteneva l’accentramento napoleonico responsabile di un evidente isolamento degli individui di fronte al potere dello Stato: una rete di istituzioni locali avrebbe a suo giudizio costituito un efficace riparo degli interessi individuali senza ledere la possibilità di comporre gli stessi nell’ambito di un interesse generale. Barrot, nella sua attività parlamentare, diede espressione concreta ai principi cui si era ispirato Constant: furono infatti numerosi i suoi interventi contro la presenza asfissiante degli apparati dello Stato sul territorio e in favore di un decentramento amministrativo.

Una più diretta (ma più lontana) sollecitazione ad affrontare un esame di ampio respiro della centralizzazione nella storia francese giunse senza dubbio a Tocqueville dalle lezioni di Guizot del 1829-1830. Nelle lezioni quarantaduesima-quarantacinquesima del suo corso sulla Histoire de la civilisation en France depuis la chute de

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l’empire romain jusqu’au 1789, Guizot aveva concetrato l’attenzione sull’evoluzione del potere monarchico nella Francia medievale e protomoderna. La cesura periodizzante gli era parsa costituita dal regno di Filippo il Bello (1268-1314), che conteneva i germi del futuro potere assoluto: si manifestava già quella mania regolamentare che aveva giocato un ruolo così importante nell’amministrazione della Francia; e i giuristi erano sin d’allora impegnati nel sostegno al potere monarchico, rendendo possibili le sue ingerenze in una moltitudine di questioni e persino di affari particolari della vita.

Tocqueville fece propri questi temi. Una discussione sul concetto di accentramento compariva già nel capitolo V della prima parte della Démocratie en Amerique. Egli distinse innanzi tutto accentramento politico e accentramento amministrativo. L’accentramento politico portava alla massima concentrazione, nel sovrano e nel suo governo, del potere di dirigere gli affari comuni di uno Stato: l’accentramento amministrativo conduceva alla capillare presenza degli apparati dello Stato nella regolazione di ogni aspetto della vita sociale (e qui Guizot era ripreso quasi letteralmente). Le due forme di accentramento non erano esistite necessariamente insieme. Secondo Tocqueville, la Francia di Luigi XIV aveva raggiunto un livello di accentramento politico impressionante: il sovrano non solo emanava leggi e dettava la loro interpretazione, ma era direttamente protagonista di un’aggressiva politica estera, condotta in nome della grandezza della nazione. Eppure, l’accentramento amministrativo sotto il “Re Sole” non era che ai primi passi. L’Inghilterra del primo Ottocento, d’altro canto, sostanzialmente priva di qualsiasi forma di accentramento amministrativo, mostrava grande compattezza politica generale: «lo Stato sembra[va] muoversi come un solo uomo» [D. A., I-I-V, p. 110]. Del tutto opposta la sorte dell’Impero tedesco: l’aver rinunciato all’accentramento politico aveva determinato l’evidente debolezza di quella articolata compagine statuale.

Quando era nato l’accentramento? nel Medioevo, continuava Tocqueville nel capitolo V della prima parte della Démocratie en Amerique, l’eccessivo frazionamento del potere non solo politico ma anche amministrativo aveva provocato la rovina (e il superamento) del regime feudale. Sin da Filippo il Bello, come aveva anticipato Guizot, la monarchia aveva intrapreso un’opera di razionalizzazione dell’ordinamento giuridico, sostituendo la propria legislazione a

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quella emanata da una pletora di istituzioni politiche locali: «istituzioni incoerenti, disordinate, spesso assurde. Nelle mani dell’aristocrazia erano state, qualche volta, uno strumento d’oppressione» [D. A., I-I-V, p. 120]. Tale processo era continuato nei secoli successivi fino alla rivoluzione del 1789, che si era diretta tanto contro il potere monarchico quanto contro quello che rimaneva delle istituzioni politiche locali. L’accentramento non si era però arrestato, anzi negli anni della Rivoluzione era giunto in prossimità della sua vetta: il periodo napoleonico.

Tocqueville, dunque, nella prima Démocratie aveva già chiara la sostanziale continuità tra antico regime e Rivoluzione. Citando in nota Malesherbes, il suo avo materno, notava con lui che già nel secondo Settecento erano stati tolti agli originari poteri territoriali il diritto e i mezzi di amministrare i propri interessi: i rappresentanti del potere centrale, infatti, mantenevano saldamente il controllo della vita politica locale. Su questa base Tocqueville poteva già concludere che

«in Francia, da parecchi secoli, il potere centrale ha sempre fatto tutto ciò che ha potuto per estendere l’accentramento amministrativo; esso non ha mai avuto su questa via altri limiti che le sue forze. Il potere centrale, nato dalla Rivoluzione francese, è andato più avanti di tutti i suoi predecessori, perché è stato più forte e più sagace di tutti loro; Luigi XIV sottoponeva i particolari dell’esistenza comunale all’arbitrio di un intendente; Napoleone li ha sottoposti a quello del ministro. E’ sempre lo stesso principio, esteso a conseguenze più o meno remote». [D. A., nota (K), p. 851].

L’accostamento tra Napoleone e Luigi XIV, ha notato Le Roy Ladurie, non era una completa novità: Tocqueville lesse probabilmente l’Essai sur l’établissment monarchique de Louis XIV et sur les altérations qu’il éprouva pendant sa vie de Prince di Pierre Édouard Lemontey (Paris: Deterville 1818) e vi trovò ben espresso il pensiero «secondo il quale Luigi avrebbe “rivoluzionariamente” prefigurato la centralizzazione contemporanea» [Le Roy Ladurie 2000, I, p. 352].

Anche nello scritto del 1836 (L’État social et politique de la France avant et après la Revolution), l’accentramento veniva identificato

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con il processo di livellamento della società francese, attuato dal potere monarchico a scapito dei particolarismi locali e del potere della nobiltà feudale sul territorio. Il passo successivo fu quello di legare questo tema, come si è visto assai remoto nella riflessione di Tocqueville, con il giudizio più generale sulle vicende politico-costituzionali francesi tra il 1789 e il 1851. Come si espresse in una lettera al fratello Hubert del 15 febbraio 1854, quando ancora stava studiando gli archivi dell’intendenza di Tours, L’Ancien Régime et la Révolution doveva nascere proprio per dimostrare che l’organizzazione amministrativa edificata in Francia ne aveva influenzato pesantemente la storia politica e sociale:

«la centralizzazione amministrativa [...] è sicuramente una macchina solidamente costruita e si può ammirare se la si vuole considerare solo dal punto di vista della facilità che offre al governo di intervenire in ogni campo e di dirigere le vite dei singoli ed i loro affari. E’ una macchina di governo ben fatta, ma incapace di produrre la sicurezza, la libertà, le virtù pubbliche che fanno la prosperità e la grandezza degli imperi. E’ soprattutto alla centralizzazione amministrativa che noi dobbiamo le nostre incessanti rivoluzioni, i nostri costumi servili, l’impossibilità mai superata di fondare una libertà moderata e ragionevole ... Io farò un volume su questo soggetto » (O. C. [Bmt], VII, p. 316; corsivo nostro).

Nel volume effettivamente uscito nel 1856, i capitoli dal secondo al settimo della seconda parte costituivano un’omogenea unità argomentativa sul tema della centralizzazione. Oltre a descrivere il fenomeno (sulla base soprattutto delle ricerche d’archivio a Tours), Tocqueville introduceva riflessioni sulla nascita della giustizia amministrativa e sul consolidamento del ruolo politico della capitale Parigi, due fenomeni strettamente correlati con quello dell’accentramento. La tesi generale, ribattuta di frequente e talvolta proposta enfaticamente, coincideva con la scoperta che la centralizzazione non era un risultato del governo napoleonico, ma era stato un tratto dominante dell’antico regime, sopravvissuto al crollo nel 1789. Muovendo dal capitolo II della seconda parte, Tocqueville procedette con approccio sistematico. Escluse subito dalla sua sintesi le condizioni dei Pays d’État, cioè le parti del Regno

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che ancora godevano di consistenti autonomie locali: ad un Pays d’État, la Lingadoca, dedicò nondimeno una speciale trattazione in un’Appendice in fondo al volume. Il nome “paesi di Stato” discendeva dall’antica consuetudine che tali regioni fossero amministrate in nome del re dagli Stati, cioè dai rappresentanti di clero, nobiltà e Terzo stato. Nella Linguadoca, gli Stati erano convocati in assemblea una volta l’anno dal re e le sessioni di lavoro duravano quaranta giorni: argomento delle sedute erano gli interessi particolari della provincia e i provvedimenti da prendere nei diversi settori di governo. Inoltre, esisteva un’articolata distrettuazione amministrativa (comunità-diocesi-siniscalcati), in cui agivano altre assemblee rappresentative con delega ai compiti di governo: era un’organizzazione giudicata da Tocqueville efficiente, che riusciva a gestire il territorio mediante frequenti e cospicui lavori pubblici. Gli Stati della Linguadoca, d’altro canto, gestivano anche la riscossione delle tasse e in un modo assai più proficuo ed equilibrato che nel resto della Francia. Secondo Tocqueville, insomma, nel Pays d’État della Linguadoca si era conservato un assetto costituzionale “antico”, del tutto capace – quasi alla fine del Settecento – di tenere il passo con le trasformazioni delle condizioni economiche e sociali: eppure il potere centrale non aveva lesinato sforzi per tentare di ridurre queste autonomie. Quanto invece ai Pays d’élections (le province in cui non si riunivano Stati e mancavano forme consolidate di autogoverno), il processo politico di lunga durata denominato «centralisation» (centralizzazione o accentramento) era nel Settecento sostanzialmente concluso. Le antiche istituzioni non erano state abolite, ma gradualmente estromesse dall’attività di governo. Nel compito di dirigere la politica sul territorio si era specializzato un organismo, il Consiglio del Re. Esso mostrava a Tocqueville funzioni di corte di cassazione (avendo il potere di annullare sentenze e ordinanze di altri tribunali), di suprema corte giurisdizionale amministrativa, di vertice dell’organizzazione fiscale, persino di organo legislativo, occupandosi della proposta e della discussione dei provvedimenti normativi firmati dal re. Come è noto attraverso gli sviluppi della storia delle istituzioni (Ellul 1976; Richet 1998), tale Conseil du Roi, aveva origini medievali e nel Cinquecento si era definitamente consolidato nella forma di un unico corpo, diviso in sezioni specializzate: innanzi

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tutto il Conseil des Affaires, un consiglio segreto formato da un piccolo gruppo di consiglieri intimi del re, il Conseil d’État, che si occupava di istruire le iniziative legislative per il governo del territorio e per esaminare le petizioni degli enti locali, il Conseil des Parties, organo giurisdizionale espressione del Consiglio del re, la cui competenza si sovrapponeva inevitabilmente a quella delle magistrature ordinarie. Nel 1661 Luigi XIV varò una generale riorganizzazione dei consigli. Il Consiglio del re, denominato Grand Conseil, continuò ad essere un organo unico, anche giurisdizionale, con sedute diversificate nelle competenze: preparava le leggi e i preventivi di spesa per la loro applicazione, esaminava le richieste di grazia pervenute al sovrano, decideva se concedere privilegi fiscali o immunità, emanava regolamenti amministrativi con efficacia generale, soprattutto aveva competenza sui processi avocati dal re e sui conflitti di competenza tra organi giurisdizionali; il Consiglio degli affari si divise in due rami, il Conseil d’En Haut e il Conseil des Dépêches: il primo trattava della questioni di politica estera e degli affari militari; il secondo, emanando decreti di regolamento generale e sentenze, si occupava dell’amministrazione interna (sulla base delle corrispondenze con i governi municipali e con gli intendenti, cioè i rappresentanti del governo di Parigi sul territorio: di qui il nome). La politica finanziaria in tutte le sue specificazioni era invece nelle mani del Consiglio delle Finanze, che aveva anche competenza giurisdizionale. Questa organizzazione si mantenne sostanzialmente inalterata anche nel XVIII secolo, una volta superata la crisi per la Reggenza di Luigi XV: proseguì il processo di specializzazione del Consiglio e si crearono nuove sezioni denominate Consiglio delle Colonie, Consiglio del Commercio, Consiglio dell’Agricoltura; nel contempo, si differenziarono i tipi di seduta delle diverse sezioni: alcune riunioni erano per la preparazione dei provvedimenti normativi, altre per i lavori di commissioni di studio, altre ancora per l’attività giurisdizionale sul contenzioso. Il Conseil du Roi era un’istituzione complessa, nel quale erano attivi i principali ministri del Regno (“primo ministro”, cancelliere del regno, segreteri di Stato), insieme con i vertici tecnici dell’apparato burocratico (consiglieri di Stato e maîtres des requêtes). Le sue decisioni erano estese al territorio attraverso capillari ramificazioni. «Ogni cosa – scriveva Tocqueville – fini[va] col far capo ad esso, e da esso part[iva] il movimento che si comunica[va] a

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tutto» [A. R., II-II, p. 73]: ad esempio, l’organizzazione sul territorio degli ordinamenti militari di riservisti (le milizie), la pianificazione dei lavori pubblici, la regolamentazione dell’economia. Il decreto era lo strumento di questa intensa attività esecutiva: lo si può capire dall’immenso giacimento di fonti costituito dagli arrêts del Conseil du Roi, di cui nell’ultimo quarto del Novecento è stata intrapresa l’opera di pubblicazione (Arrêts du Conseil du Roi, Paris: Archives nationales, a partire dal 1976). Tocqueville, nella nota [25] in fondo al volume, citava due casi di argomento veramente specifico: il decreto del 29 aprile 1779, che stabiliva per i pastori l’obbligo di contrassegnare con un marchio il loro bestiame, e il decreto del 21 dicembre 1778, che proibiva a carrettieri e vetturini di mettere in deposito le merci da loro trasportate.

Un’intensa attività giurisdizionale proteggeva questa funzione esecutiva: talvolta espressamente, con un’apposita formula in calce, i decreti del Consiglio sottraevano alla competenza dei giudici ordinari le materie amministrative di volta in volta affrontate. Così, contestazioni e processi scaturiti da decreti e regolamenti del Consiglio del Re non potevano essere giudicati che dall’intendente e in seconda istanza dal Consiglio stesso. In altri casi, il Consiglio del Re, quando erano già iniziati processi della magistratura ordinaria che si riteneva coinvolgessero l’amministrazione, avocava i processi. Erano materie non secondarie: fra le altre, l’imposizione fiscale, la manutenzione di strade e vie fluviali, i regolamenti sulle attività produttive e commerciali. Inoltre, le avocazioni erano sistematiche quando la magistratura ordinaria citava in giudizio gli agenti dell’amministrazione statale. Con un decreto del consiglio ogni rappresentante del potere centrale, anche delle qualifiche più basse, era liberato dall’onere di presentarsi ai giudici e il suo processo veniva istruito presso un’apposita commissione nominata dal Consiglio. Tocqueville era severo nei confronti di questa riserva di giurisdizione: citava un caso in cui il processo già iniziato contro un agente dell’amministrazione – riconosciuto responsabile degli addebiti contestatigli dagli stessi rappresentanti del governo – era stato comunque avocato dal Consiglio per non avallare ingerenze della magistratura ordinaria.

Un unico organismo, dunque, guidava l’amministrazione della Francia moderna, gestendo un’immensa mole di lavoro. Allo stesso modo, dal 1743 anno di morte dell’ultimo “primo ministro”

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(il cardinale A. H. de Fleury), quasi tutto il maneggio degli affari interni era nelle mani di un’unica figura istituzionale, il controllore generale delle finanze. «Lo si v[i]de agire successivamente – puntualizzava Tocqueville – come ministro delle finanze, come ministro dell’interno, come ministro dei lavori pubblici e come ministro del commercio» [A. R., II-II, p. 73]. Egli si interessava delle più minute questioni dell’amministrazione (come ad esempio, la fondazione di un’istituto di carità in un centro di provincia), era in continuo contatto con i rappresentanti del governo sul territorio (gli intendenti), promuoveva indagini quantitative sull’assetto economico-sociale delle province: «sulla natura delle terre, la loro cultura, il genere e la quantità dei prodotti, il numero del bestiame, l’industria, i costumi degli abitanti» [A. R., II-VI, p. 102].

Le origini della carica risalivano al XVI secolo, quando vennero introdotte le due cariche di sovrintendente delle finanze (che impiantava il bilancio dello Stato e provvedeva agli ordini sui fondi erariali) e di controllore generale delle finanze, che doveva verificare i movimenti dei fondi, e in particolare la concordanza tra gli ordini di pagamento e le spese effettuate. Queste figure coesistevano con la sezione del Consiglio del Re che si occupava degli affari finanziari. Nel corso del XVII secolo, nondimeno, il peso del Consiglio delle Finanze gradualmente decrebbe, lasciando prevalere la figura del sovrintendente: suoi i compiti di ordinare il pagamento di tutte le spese e le operazioni di riscossione delle imposte, di verificare l’ammontare degli introiti, di allacciare rapporti con i finanzieri appaltatori delle imposte. Dal 1665 al 1789 (con la sola eccezione del periodo 1715-1720), invece, acquistò progressiamente importanza la figura del controllore generale delle finanze. Poiché pressoché tutta l’attività amministrativa prevedeva delle spese, il controllore generale si trovò a controllare tutta l’amministrazione: preparava il bilancio, gli ordini di pagamento poi firmati dal re, controllava i conti di tutte le amministrazioni, dirigeva le iniziative di politica economica prese sul territorio.

A corollario delle pagine sull’accentramento amministrativo francese, Tocqueville pose l’analisi di uno di suoi effetti più vistosi: la crescita della capitale Parigi e la sua assoluta preponderanza politica sul resto del paese. Nelle province, infatti, le libertà poliche locali erano depresse e la vita pubblica illanguidiva: «l’unico motore era ormai a Parigi». [A. R., II-VII, p. 112]. Qui si concentravano non

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solo tutti gli apparati del governo centrale, ma anche i notabili, gli uomini d’affari, gli intellettuali. Lo stesso potere centrale che nelle province pretendeva di regolare minuziosamente ogni aspetto della vita associata fallì completamente l’obiettivo di impedire o ritardare la crescita di Parigi. Tocqueville ricordava le ordinanze di Luigi XIV che vietavano l’edificazione di nuovi quartieri o relegavano le nuove costruzioni nelle zone più disagevoli. Il re che più di ogni altro volle rappresentare l’assolutezza del potere monarchico, «con la sua onnipotenza» [A. R., II-VII, p. 112], non riuscì minimamente a fermare l’espansione della città. Parigi, in realtà, «era padrona della Francia» [S. P., p. 977]: secondo quanto affermato nei lavori preparatori dell’opera che avrebbe dovuto uscire dopo L’Ancien Régime et la Revolution (in particolare nella scheda per il secondo capitolo del secondo libro), lo si sarebbe scoperto improvvisamente, il 14 luglio 1789. L’affermazione si spiega nel quadro della dialettica accentramento amministrativo/accentramento politico elaborata da Tocqueville nella prima parte della Démocratie en Amerique. Nella Francia dell’età moderna, l’accentramento amministrativo aveva fatto nascere una forma peculiare di accentramento politico: il potere di dirigere gli affari comuni dello Stato era stato concentrato non solo nel sovrano e nel suo governo, ma addirittura nella città sede del governo. Con la caduta della monarchia, nel 1789, Parigi avrebbe naturalmente ereditato la funzione di dirigere l’evoluzione politica dell’intera Francia.

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V. Tocqueville critico delle pratiche amministrative dell'antico regime. Nella Francia moderna, a giudizio di Tocqueville, l’accentramento amministrativo aveva profondamente influenzato l’evoluzione della società. Nel Settecento, l’incessante attività delle istituzioni centrali e dei rappresentanti sul territorio della monarchia aveva contribuito a creare una sostanziale uguaglianza di condizioni sociali fra i sudditi, tutti sottoposti, se non alle stesse regole (poiché comunque esistevano ancora categorie privilegiate), almeno alle stesse invadenti politiche del potere di Parigi, che penetravano pressoché in tutti i campi della vita associata. Il postulato di tale interpretazione era espresso chiaramente:

«A mano a mano che si scende[va] lungo il diciottesimo secolo, si vede[va] crescere il numero degli editti, dichiarazioni del re, decreti del consiglio, che applica[va]no le stesse leggi, negli stessi modi, in ogni parte del regno. E non [erano] soltanto i governanti, ma gli stessi governati a concepire l’idea di una legislazione generale e uniforme, eguale in ogni luogo e per tutti» [A. R., II-VIII, pp. 117-118].

Si era trattato però di un risultato contraddittorio: il governo centrale, come Tocqueville aveva già avuto modo di chiarire, pur nel quadro di una smisurata produzione di norme, non aveva avuto modo di varare riforme veramente incisive. «Le regole nuove si succe[deva]no con una rapidità tanto eccezionale che gli agenti, a forza di essere comandati stenta[va]no spesso a capire come dovevano obbedire. [...] Anche quando la legge non era cambiata, la maniera di applicarla variava tutti i giorni». Il governo, infatti, «quando non ordina[va], permette[va] continue eccezioni. Raramente infrange[va] la legge, ma la piega[va] dolcemente ogni giorno in tutti i sensi, secondo i casi particolari e per facilitare gli affari». [A. R., II-VI, p. 105]. Tocqueville entrava dunque nel cuore della pratiche amministrative, con esempi tratti da alcuni settori chiave. Per quanto riguardava la fiscalità, egli esprimeva un durissimo giudizio. A suo giudizio, le imposizioni fiscali ordinate dalla monarchia senza il consenso degli Stati generali dei tre ordini (cioè clero, nobiltà e

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Terzo stato) avevano indebolito il regime “costituzionale” della Francia medievale e proto-moderna fino a favorirne il crollo nel 1789. L’imposta più importante era la taglia (taille), nata alla fine della guerra dei Cento Anni per pagare il soldo dei militari arruolati e strutturata come un’imposta di ripartizione, solidale, personale o reale (cioè sulle persone o sui terreni), che gravava solo sui non nobili. Un folto gruppo di categorie ne era esentata: ad esempio, militari, membri della burocrazia, studenti universitari; erano quindi le popolazioni rurali a pagarne la maggior quota. La taglia era stata enormemente accresciuta di anno in anno, con il risultato che erano aumentate le distanze tra le classi rurali e le classi privilegiate (si noti che Tocqueville parlava sempre apertamente in termini di “classe”: «parlo di classi, soltanto queste devono interessare la storia» [A. R., II-XII, p. 160]); ed il peso maggiore del carico fiscale era finito sulle spalle dei soggetti economici di minor capacità contributiva. Il suo sistema di riscossione, secondo Tocqueville, dimostrava esplicitamente «quali leggi barbare possono essere istituite o mantenute durante i secoli civili, quando gli uomini più illuminati della nazione non hanno interesse personale a cambiarle» [A. R., II-XII, p. 163]. Le operazioni avvenivano sulla base dell’unità territoriale costituita dalla parrocchia. Ogni anno, senza dare pubblicità ai criteri adottati, era determinato il suo importo dal centro dell’amministrazione finanziaria. Quindi, all’interno della parrocchia era nominato un collettore, con il compito di dividere il peso della imposta fra gli abitanti. L’incarico di collettore, responsabile patrimonialmente e personalmente dell’esazione, era per quanto possibile fuggito. Egli poteva certamente nella ripartizione della taglia favorire amici e parenti: ma se non riusciva a versare all’erario la somma prevista pagava attraverso il suo proprio patrimonio e poteva essere persino arrestato. Sempre pronto a cogliere gli effetti delle pratiche amministrative sulla mentalità sociale, Tocqueville notava che un sistema simile obbligava i membri di una stessa comunità a nascondere le proprie ricchezze e a spiare quelle degli altri: «così si assuefacevano all’invidia, alla delazione e all’odio. Non si direbbe – concludeva dimostrando ancora una spiccata propensione per la comparazione dei sistemi politici e sociali – che queste cose accadano nelle terre di un rajah dell’Indostan?» [A. R., II-XII, p. 165].

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Diverse altre imposte - Tocqueville ne era consapevole – si riscuotevano sul modello della taglia. Quando il potere centrale volle sottoporre anche le classi privilegiate a un’imposizione (la capitazione, da caput: cioè tassa sul reddito “per testa”), non conseguì successi di rilievo. Alla capitazione erano sottoposte ventidue categorie sociali, dai membri della famiglia reale fino all’ultimo operaio. Tocqueville, studiando le fonti sulla sua applicazione non poté che mettere in risalto la capacità dei soggetti sociali più elevati di eludere l’imposta. Lo mostravano chiaramente alcuni documenti di A.-R.-J. Turgot, l’economista diventato prima intendente nel Limousin (1761-1774) e poi nel luglio-agosto 1774 controllore generale delle finanze e ministro di Stato. Tocqueville, che aveva studiato le Oeuvres di Turgot nell’edizione parigina del 1811, riportava questi documenti in alcune note in calce al libro ([32]-[36]). L’inefficacia impositiva del sistema fiscale dell’antico regime gli appariva chiaramente: ad esempio, gli importi della capitazione venivano fissati in modo arbitrario (Turgot diceva chiaramente «alla cieca» [A. R., nota (33) in calce, p. 287]); si permetteva a nobili e agli altri privilegiati di far supervisionare da un procuratore la determinazione del proprio imponibile; si lasciava che gli stessi soggetti ritardassero i pagamenti accumulando «arretrati vecchissimi e troppo forti» [A. R., nota (36) in calce, p. 288].

L’erario statale, poggiando su basi tanto deboli, si era trovato sempre più spesso in sofferenza e il potere centrale aveva moltiplicato espedienti di finanza cosiddetta ‘creativa’.

«Ad ogni passo negli annali – notava Tocqueville – si trovano beni regi venduti e poi recuperati come invendibili; contratti violati, diritti acquisiti misconosciuti; il creditore dello Stato sacrificato a ogni crisi; la fede pubblica continuamente ingannata. Privilegi accordati a perpetuità [erano] perpetuamente ritolti [...] Non temo di affermare che qualunque privato il quale avesse amministrato il proprio patrimonio come il gran re [Luigi XIV] nella sua gloria amministrava la fortuna pubblica, non sarebbe potuto sfuggire alla giustizia» [A. R., II-X, p. 141].

Al contrario, in Linguadoca (pays d’État), la taglia era imposta sulla proprietà fondiaria, secondo un catasto rinnovato periodicamente. Il contribuente conosceva quanto avrebbe pagato l’anno successivo (a

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differenza di quanto avveniva nel resto della Francia) ed era il solo responsabile di un eventuale mancato pagamento. In caso di aumento del gettito dell’imposta, lo mostravano le fonti citate nella nota [56] in calce al volume, si usavano come base di calcolo le proporzioni della ripartizione consolidata. Di nuovo, le regioni a larga autonomia (Provenza, Linguadoca, Navarra/Béarn, Borgogna, Bretagna, Artois) erano portate ad esempio di un’amministrazione moderata ed efficiente. Anzi, l’organizzazione tributaria dei Pays d’État dell’antico regime poteva per molti aspetti apparire legittimamente antesignana di quella della prima metà dell’Ottocento. Tocqueville tornava ad essere un severo giudice della pratiche amministrative anteriori al 1789 nell’analisi di un altro campo di vitale importanza per gli stati dei secoli XV-XVIII: l’insediamento di ordinamenti militari sul territorio. In Francia, tra Quattro e Cinquecento erano state costituite le compagnie dei francs archers e le compagnies d’ordonnances: si trattava di ordinamenti militari territoriali, pensati come bacino di arruolamento degli eserciti di professionisti. Dal 1688 al 1791 durò invece l’istituzione delle milizie. Esse erano arruolate – attraverso il sorteggio fra gli uomini abili di ogni parrocchia – soprattutto nelle campagne, e con enormi difficoltà. Le fonti riportavano continuamente casi di diserzione o di refrattarietà agli obblighi, del resto sostanzialmente limitati ad addestramento e rassegne periodici. Tocqueville, che si stupiva dello scarso successo di questa istituzione militare territoriale dell’antico regime (considerando la facilità con cui a metà Ottocento si procedeva a massicci reclutamenti coatti), ne attribuiva la responsabilità alle concrete pratiche di gestione messe in atto. I contadini che entravano nella milizia potevano essere chiamati in servizio fino all’età di quarant’anni, non potevano farsi sostituire, non avevano la prospettiva di progressioni di carriera, erano pienamente consapevoli che nessun altro segmento della società era coinvolto nell’istituzione. Infatti, le esenzioni favorivano tutti coloro che potessero contare su una minima protezione degli ecclesiastici, dei nobili, dei grandi borghesi. «L’agiatezza soltanto – commentava Tocqueville – [poteva] fare esentare» [A. R., II-XII, p. 167]. Se le milizie esaurivano le loro potenzialità in occasionali ed avversate prove di servizio effettivo, il controllo del territorio era invece affidato alla gendarmeria a cavallo «sparsa per tutto il regno e

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posta ovunque sotto il comando degli intendenti» [A. R., II-II, p. 77]. In Inghilterra, notava Tocqueville, non esisteva nulla di simile: il sistema politico inglese, che prevedeva più livelli di partecipazione alle responsabilità di governo, anche in ambito locale non poteva accettare la delega dei compiti di repressione e prevenzione della criminalità a una istituzione del potere centrale, diffusa capillarmente sul territorio. Nella Francia moderna, invece, l’istituzione della gendarmeria a cavallo godeva della massima considerazione fra le popolazioni; tuttavia, proprio il rispetto che essa incuteva era a giudizio di Tocqueville un sintomo della estrema polarizzazione dei rapporti tra potere centrale e società: sostanzialmente scomparsa ogni forma di collaborazione delle amministrazioni locali al mantenimento dell’ordine pubblico, «il popolo non [aveva] paura che della gendarmeria a cavallo, i proprietari non si fida[va]no che di essa» [A. R., II-VI, p. 108]. A sostegno di questa tesi, Tocqueville segnalava un memoriale dell’Assemblea provinciale dell’alta Guyenne che richiedeva la presenza sul territorio della gendarmeria sulla base della consapevolezza che «il nobile non si interessa[va] di niente, il borghese [era] in città e il Comune (cioè la comunità rurale: in francese «communauté»), rappresentato dal rozzo contadino, non [aveva] d’altronde nessun potere» [A. R., nota [26] in calce, p. 285].

Una vera e propria amministrazione locale autonoma, del resto, nel Settecento si poteva dire non esistere più. Nel 1692 era stato abolito il sistema elettivo delle cariche di governo municipali e queste erano diventate uffici venali. Tocqueville era estremamente severo nei confronti della pratica della venalità delle cariche: sapeva bene che non era fenomeno limitato alla Francia (e nella nota [42] in calce al volume segnalava la situazione tedesca). Tuttavia, in Francia il continuo bisogno di denaro per le casse dell’erario, insieme con la volontà politica della monarchia di non coinvolgere gli Stati generali, aveva causato un’enorme crescita del fenomeno. Gli impieghi acquistabili (remunerati con immunità, privilegi ed esenzioni fiscali) erano pressocché innumerevoli e non avevano nessun peso nella quotidiana conduzione delle materie di governo. Ne era scaturita «una macchina amministrativa così vasta, complessa, imbrogliata e improduttiva che fu necessario, in un certo senso, lasciarla andare a vuoto e costruire fuori di essa uno strumento di governo più semplice e maneggevole, mediante il quale fosse fatto veramente ciò

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che tutti quei funzionari facevano l’apparenza di fare» [A.R., II-X, p. 144]. Nel caso poi dell’amministrazione locale, sostituire cariche di governo municipale elettive con uffici venali voleva dire espressamente che «in ogni città il re vendeva ad alcuni abitanti il diritto di governare tutti gli altri» [A. R., II-III, p. 81]. Né, ovviamente, i risultati di questo governo potevano dirsi efficaci. Tocqueville aveva in mano le fonti relative a un’inchiesta del 1764 sui governi cittadini: ne pubblicò diversi stralci nella nota [19] in calce al volume.

Il governo delle città era di solito affidato a due assemblee. Una più ristretta, denominata corps de ville, era composta da un maire e da un certo numero di assessori e ufficiali: fungeva da giunta esecutiva e amministrava in modo collettivo; i compiti del maire non superavano quelli di un presidente di assemblea. Una seconda assemblea era denominata assemblée générale. Ancora nel XV secolo – notava Tocqueville – essa comprendeva una larga quota della popolazione maschile cittadina; ma nel XVIII essa era composta di notabili (ad Angers erano settantasette), presenti per diritto individuale o eletti da corporazioni per rappresentare con mandato imperativo i loro interessi all’interno dell’assemblea. Talvolta questa assemblea generale manteneva il compito di presentare al re una rosa di nomi per la nomina a tutti i posti del corps de ville. Il re avrebbe poi scelto tra questi nomi. Occupazione principale della giunta di governo era la ripartizione delle imposte. Le funzioni giurisdizionali, originariamente connesse a tutti gli uffici municipali, erano state progressivamente loro sottratte e passate alla competenza dei rappresentanti del potere centrale, gli intendenti. Lo stesso intendente doveva altresì autorizzare ogni tipo di spesa voluta dalla giunta di governo. Senza l’approvazione dell’intendente le amministrazioni municipali non potevano «né stabilire un dazio, né riscuotere un contributo, né ipotecare, né vendere, né stare in causa, né affittare i propri beni, né amministrarli, né usare l’eccedenza delle somme riscosse» [A.R., II-III, p. 85]. A fronte di un impegno così esiguo, gli incarichi di governo locale erano molto ricercati: ogni volta che il potere centrale li aveva aboliti, la città, attraverso imposte straordinarie, li aveva riacquistati. Tale attrattiva dei posti di governo locale derivava certamente dal fatto che tutti coloro che vi erano coinvolti a vario titolo – e si trattava talvolta di cariche vitalizie – godevano di privilegi ed esenzioni così grandi da

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costituire aggravio sensibile al bilancio cittadino. Guardando ai risvolti storico-sociali dello scadimento delle libertà politiche locali, Tocqueville rilevava che «la passione dei borghesi per questi impieghi era davvero senza precedenti. Appena uno di loro si trovava in possesso di un piccolo capitale, invece di impiegarlo nel commercio, se ne serviva per comprare un impiego» [A. R., II-IX, p. 132]. Egli aveva insomma compreso il bisogno di distinzione dei gruppi sociali preminenti nelle realtà urbane francesi e aveva intuito che le istituzioni potevano costituire un terreno privilegiato per le dinamiche di costruzione identitaria: fenomeni che sarebbero stati studiati a fondo dalla sociologia del XX secolo (da Émile Durkheim a Pierre Bourdieu).

Tocqueville si soffermava altresì sull’amministrazione dei borghi di campagna. L’unità amministrativa ereditata dal Medioevo era la parrocchia. Anche nell’età feudale essa aveva mantenuto una relativa autonomia, con una base di rappresentanza decisamente democratica, se comparata con le altre istituzioni politiche coeve. Tocqueville, dopo la continuità secolare, notava anche la somiglianza dell’istituzione in contesti estremamente differenti: tale forma di amministrazione dei villaggi di campagna esisteva nel XVIII secolo in Germania, in Francia e addirittura nelle colonie americane, poi divenute gli Stati Uniti d’America. In tutti i casi non si trattava di un vero e proprio corpo municipale (simile al corps de ville dei centri urbani): era tutta la piccola comunità riunita in assemblea a guidare i funzionari eletti di volta in volta per le diverse materie e a decidere insieme la soluzione delle materie più importanti. Nel corso del Settecento, però, in Francia questa modalità di amministrazione locale era stata svuotata: i funzionari erano diventati solo due (un collettore per dirigere la riscossione delle imposte e un sindaco, nel francese di metà Ottocento «syndic»), ancora elettivi, ma profondamente dipendenti dai rappresentanti del potere centrale, l’intendente e i suoi sottodelegati. Per Tocqueville questo era uno dei tanti segnali dell’avanzata del processo di centralizzazione.

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VI. Il protagonista dei processi di accentramento politico e amministrativo: l'intendente. L’intendente e i suoi sottodelegati ritornavano continuamente nell’analisi di Tocqueville sulle istituzioni amministrative della Francia moderna. Come notato, Tocqueville dové la sua approfondita conoscenza dell’istituto dell’intendance al suo soggiorno a Saint-Cyr-Lès-Tours del 1853-1854. In particolare, gli scavi archivistici più intensi e fruttuosi datano all’estate 1853, quando iniziò a concentrarsi in modo molto determinato sulle corrispondenze amministrative dell’intendenza di Tours. Tocqueville non vedeva questo tipo di documenti per la prima volta: nell’aprile dello stesso anno aveva consultato a Parigi i documenti dell’intendenza dell’Île de France; quindi, aveva già letto ed annotato con cura sei tomi delle opere di Turgot che comprendevano la sua corrispondenza come intendente del Limousin. Ma della documentazione di Parigi non era stato soddisfatto (era datata ad anni troppo vicini allo scoppio della rivoluzione) e le lettere di Turgot erano già state usate, ad esempio da Dareste. Solo nell’archivio di Tours Tocqueville avrebbe trovato l’amministrazione dell’antico regime nella sua forma più matura, quando essa non solo aveva imposto sul territorio le politiche elaborate a Parigi, ma aveva influenzato in modo tentacolare la società francese, in molti campi di attività. Da quest’immersione nei fondi documentari scaturirono circa 330 pagine di note di lettura, comprese in più di venti dossier. In massima parte si trattava di materiale concernente il Settecento. Tocqueville ricavò subito l’impressione che l’intendente agiva assolutamente come il prefetto della Francia di metà Ottocento ed osservò che il primo, al pari del secondo si poneva sul territorio come l’agente esclusivamente legittimato al disbrigo di tutti gli affari amministrativi di competenza statale. In un suo provvisorio bilancio delle ricerche effettuate, notò che leggendo i documenti del 1772-1774 si vedevano il governo centrale e il suo intendente come unica terminazione di tutte le necessità locali: nel governo del territorio, nell’economia, nell’assistenza sociale, come appunto sarebbe accaduto nell’Ottocento con i prefetti.

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A questo punto delle ricerche, Tocqueville tentò di decifrare in che modo l’amministrazione si fosse intrecciata con la vita quotidiana della popolazione. Cercò di capire come il governo si rivolgesse ai sudditi e come ne controllasse attività e comportamenti; quali fossero le conseguenze dei molteplici e multiformi interventi dell’amministrazione nella vita dei sudditi; quali fossero infine le aspettative dei sudditi nei confronti di un tale sistema di governo. A questo scopo, avviò un’indagine sistematica, caso per caso, delle istanze rivolte agli intendenti. Ne ricavò comunque l’impressione di un regime arbitrario, violento e debole allo stesso tempo, incapace di organizzare i suoi innumerevoli interventi. Battendo a tappeto i documenti degli anni 1750-1788, infine, si fece un’idea di come la macchina amministrativa si fosse perfezionata, acquistando una preminenza sempre più evidente nei quarant’anni precedenti la Rivoluzione (Tocqueville avrebbe poi inserito questa osservazione nel capitolo quinto del secondo libro de L’Ancien Régime et la Revolution). Verso la fine del periodo considerato le resistenze locali alle nuove tasse o ai lavori pubblici imposti dal governo di Parigi erano scomparse: il governo sembrava controllare persino le associazioni locali di promozione dell’agricoltura. Avere in mano questa massa di dati sul lavoro degli intendenti provocò il radicale mutamento del progetto editoriale tocquevilliano: fino all’estate 1853, Tocqueville pensava di dedicare alla centralizzazione amministrativa un capitolo di circa trenta pagine. Invece, alla fine di quella stessa stagione decise che un intero volume sarebbe stato dedicato al periodo precedente la Rivoluzione; ne iniziò la stesura all’inizio di dicembre del 1853, completata la rielaborazione degli appunti ricavati dalle indagini sugli intendenti di Tours. Sulla base di queste informazioni sugli studi preparatori di Tocqueville a Tours, non stupisce che menzione del lavoro degli intendenti si trovi pressocché in tutta la seconda parte de L’Ancien Régime et la Révolution. Nel primo capitolo del secondo libro l’intendente compariva come titolare del potere di nominare gli amministratori della parrocchia, unità amministrativa di governo dei borghi rurali: nel Settecento, Tocqueville lo vedeva sostituire il signore feudale in quella funzione. Era un’anteprima del vero ingresso in scena: nel successivo secondo capitolo del secondo libro, ove si tracciava un

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panorama dell’amministrazione francese dell’età moderna, l’intendente era definito il solo rappresentante del potere centrale nella provincia, che teneva in mano tutta la concreta attività di governo. Egli esercitava i suoi poteri per delega del Conseil du Roi, cioè come commissaire départi: non come detentore (o proprietario) di un ufficio, né tanto meno per nascita, o per elezione. Deteneva pressoché tutti i poteri dello stesso Conseil du Roi, era dunque ad un tempo amministratore e giudice. Tuttavia, poteva sempre essere revocato dall’incarico. Aveva ai suoi ordini una gerarchia di sottodelegati («subdélégué») in ognuna delle circoscrizioni amministrative della provincia assegnatagli: anch’essi, sotto la guida dell’intendente, rappresentavano il governo sul territorio; anch’essi erano revocabili. Di questo personale di governo, a giudizio di Tocqueville, si poteva tentare un profilo sociologico: l’intendente era «un uomo di nascita comune, sempre estraneo alla provincia, giovane e che [doveva] fare ancora fortuna» [A. R., II-II, p. 74]. Il lavoro nell’amministrazione era tratto qualificante della sua costruzione identitaria: «i funzionari amministrativi, – notava Tocqueville – quasi tutti borghesi, forma[va]no già una classe che [aveva] il suo spirito, le sue tradizioni, le sue virtù, un onore e un orgoglio propri» [A. R., II-VI, p. 103]. Citando il marchese René-Louis de Voyer d’Argenson (1694-1757) saggista e uomo politico che nelle Considerazioni sul governo passato e presente della Francia aveva concepito un coinvolgimento diretto delle popolazioni nell’amministrazione locale, Tocqueville si dichiarava convinto che l’intero governo di Francia era stato nelle mani di circa trenta di questi intendenti. Volle quindi dare una rassegna delle loro principali funzioni nello stesso secondo capitolo del secondo libro. L’amministrazione tributaria era il primo dei settori in cui operava l’intendente. Egli ripartiva imposte come la taglia, supervisionava le operazioni di riscossione, accordava esenzioni su richiesta. Il suo potere sulla riscossione di imposizioni istituite più di recente, come la ventesima, era ancora maggiore e più discrezionale. Quanto poi agli ordinamenti militari territoriali (le milizie), l’intendente ripartiva il numero degli arruolati fra le parrocchie e demandava ai suoi sottodelegati la quotidiana gestione dell’istituzione. L’intendente si riservava però il primo grado di giudizio d’appello (il secondo era del Conseil du Roi) per i

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provvedimenti emanati dal sottodelegato e impugnati dagli interessati. L’intendente guidava anche la realizzazione delle opere pubbliche, potendo contare sul corpo degli ispettori dei ponti e delle strade («des ponts et chaussées»), che supervisionavano tutti i lavori in corso; aveva altresì ai suoi ordini la gendarmeria («maréchaussée»). Egli era addirittura responsabile dell’assistenza sociale sul territorio: distribuiva le sovvenzioni stanziate per la provincia dal Conseil du Roi, verificava le richieste di assistenza che gli erano presentate, istituiva laboratori manifatturieri dove i più poveri potessero prestare opera retribuita. L’intendente era addirittura il referente delle politiche economiche di Parigi: sollecitava lo sviluppo dell’agricoltura, dava premi ai maggiori raccolti, sorvegliava l’applicazione dei regolamenti sull’artigianato che disponevano l’uso di certe tecniche e la produzione di certi manufatti. Tocqueville dava un esempio dei compiti di sorveglianza sulle manifatture nella nota [17] in calce al volume, che si apriva con la considerazione che «gli archivi dell’intendenza sono pieni di incartamenti che riguardano la disciplina dell’industria» [A.R., nota (17), p. 274]. Nel terzo capitolo del secondo libro, Tocqueville trattava dei poteri degli intendenti circa le amministrazioni municipali. Egli riportò una circolare di metà Settecento del controllore generale delle finanze a tutti gli intendenti, per sollecitarli a vigilare sull’attività delle assemblee municipali (uno dei due corpi cui era affidata l’amministrazione cittadina, il più generale) e a suggerire osservazioni su tutte le deliberazioni prese in quelle sedi, rimettendole al controllore generale delle finanze o al Conseil du Roi. Egli ricordò altresì l’inchiesta del 1764, in occasione della quale gli intendenti avevano compilato dei memoriali sulle forme di organizzazione del potere municipale nella provincia di loro giurisdizione. Ma l’attività di governo degli intendenti nelle città non si limitava a queste funzioni di coordinamento. Tocqueville si compiaceva nel citare esempi di minuta regolamentazione della vita cittadina: gli intendenti disciplinavano le feste pubbliche, decidevano quali palazzi cittadini illuminare in occasione di un importante festeggiamento, comminavano multe ai membri della guardia cittadina (corpo sostanzialmente onorario) se non comparivano a funzioni religiose. Con grande attenzione ai linguaggi della comunicazione politica, Tocqueville trascriveva esempi tratti dalla

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corposa corrispondenza indirizzata agli intendenti dai rappresentanti dei governi municipali, includendovi persino le formule di saluto: la deferenza eccessiva sempre dimostrata verso gli intendenti gli sembrava un fosco segnale dell’arrendevolezza al dispotismo più volte palesatasi in Francia tra Sette e Ottocento, in tutti gli strati sociali. Il controllo dell’intendente sull’amministrazione delle parrocchie rurali era poi completo. L’intendente o il sottodelegato sceglievano il sindaco che l’assemblea avrebbe poi eletto, talvolta nominavano direttamente sindaco e collettore (il responsabile, già incontrato, per la ripartizione e riscossione delle imposte); per la minima opposizione all’applicazione dei decreti del Conseil du Roi, l’intendente era pronto ad arrestarli e a multarli. Per quanto riguardava la nascita della giustizia amministrativa francese, nel capitolo quarto del secondo libro Tocqueville poneva l’accento sulla funzione giurisdizionale esercitata dagli intendenti: le controversie sulla riscossione delle imposte, sui lavori pubblici, sul trasporto pubblico, compresa la navigazione fluviale, erano di sua competenza; avverso le sue ordinanze e sentenze ci si poteva appellare solo al Conseil du Roi. Gli intendenti infine, sottolineava Tocqueville, non lesinavano sforzi per consolidare la giurisdizione speciale del contenzioso legato alle attività pubbliche e per sottrarre tutti gli agenti del governo alla giurisdizione del magistrato ordinario. In qualche caso, soprattutto per i reati contro l’ordine pubblico, l’intendente giudicava anche in materia penale, con condanne alla galera e talvolta persino alla morte. Oggetto della volontà disciplinatrice degli intendenti erano soprattutto le classi rurali: scorrendo la documentazione dell’intendenza di Tours si poteva trovare un solo caso di arresto di un borghese ordinato da un intendente. «Ma i contadini erano arrestati di continuo, per l’opera gratuita, per la milizia, per l’accattonaggio, per misura di polizia e per mille altri motivi» [A. R., II-XII, p. 170]. Tracciando un bilancio sulle pratiche dell’amministrazione francese del Settecento, nel sesto capitolo della seconda parte, Tocqueville finalmente esplicitava la sua opzione interpretativa: «chi legge un prefetto, legge un intendente» [A. R., II-VI, p. 102]. La corrispondenza dell’intendente con i superiori e i subordinati gli sembrava infatti molto simile a quella dell’amministrazione

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dell’Ottocento; la sua meticolosità nell’eseguire gli ordini arrivati da Parigi circa le prime indagini statistiche su popolazione ed economia del territorio ricordavano le inchieste dei sottoprefetti contemporanei a Tocqueville. Persino il controllo della stampa e la promozione di periodici più legati al governo erano compiti degli intendenti che prefiguravano pratiche ottocentesche. Era invece peculiare dell’intendente del XVIII secolo la sua capacità di applicazione discrezionale delle norme. Tocqueville riportava per esteso una lettera in cui un intendente, riguardo all’efficacia di una prescrizione in materia tributaria, ricordava che «queste disposizioni categoriche, come le pene che stabiliscono [...] non hanno mai impedito le eccezioni» [A. R., II-VI, p. 106].

Abituate a vedere nell’intendente l’onnipotente rappresentante del potere centrale, le popolazioni, dagli umili sino agli aristocratici di rango, gli indirizzavano una grande quantità di suppliche e memoriali. Tocqueville è stato probabilmente il primo autore di storia delle istituzioni e delle società dell’età moderna a comprendere le potenzialità euristiche di questo tipo di fonti, molto importanti soprattutto per la storia della cultura e della comunicazione politica. Definì le suppliche e i memoriali come «forse i soli luoghi [endroits] in cui si trovavano mescolate tutte le classi che formavano la società dell’antico regime» [A. R., II-VI, p. 109]. Lo dimostravano molti esempi: nobili, proprietari terrieri, imprenditori, capifamiglia in difficoltà economiche, tutti si rivolgevano all’intendente cercando di avere il suo sostegno. Come se egli – concludeva Tocqueville – rappresentasse non solo il governo, ma anche la divina provvidenza.

L’enfasi posta sulla figura dell’intendente da Tocqueville si cristallizzò presto in un paradigma storiografico di grande fortuna: dal saggio di Émile de Boyer de Sainte-Suzanne, L’administration sous l’ancien régime des intendants de la généralité d’Amiens..., (Paris: Dupont, 1865), a quello di Pierre Joseph Marchand Un intendant sous Louis XIV: étude sur l’administration de Lebret en Provence. 1687-1704 (Paris: Hachette, 1889), fino alla prima opera di sintesi di Charles Godard: Les pouvoirs des intendants sous Louis XIV particuliérement dans les pays d’élections, de 1661 à 1715, (Paris: Larose, 1901, disponibile sul sito http://gallica.bnf.fr), gli intendenti entravano prepotentemente nella storia delle istituzioni politiche moderne. Nel contempo, emergevano proposte di respiro europeo. Il tedesco Otto Hintze, in

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particolare, studiò il personale dotato di poteri commissariali in diverse realtà statuali del Vecchio Continente: i commissari si confermavano protagonisti delle politiche di governo più innovative, in particolare nell’amministrazione fiscale, nella cura degli ordinamenti militari, nel gestione del territorio.

Le sue intuizioni furono così importanti che nel 1958 Roland Mousnier inserì fra le «opere fondamentali» per lo studio degli intendenti il saggio pionieristico di Hintze del 1910 Il Commissario e la sua importanza nella storia generale dell’amministrazione: uno studio comparato (Hintze 1980). Mousnier, dal canto suo, affrontò la questione dell’origine dell’istituto dell’intendenza e, sulla base dei carteggi e degli atti normativi emanati, poté datare al 1642 una vera e propria «rivoluzione», che portava l’intendente al centro dell’amministrazione finanziaria francese: «l’intendente si sostituiva a tutti gli ufficiali finanziari e ai giudici ordinari [preesistenti] oppure se li subordinava direttamente». Si trattava di un mutamento epocale: si poteva concludere che «da quel momento, grazie al commissario, lo Stato francese [era] passato dall’amministrazione giudiziaria alla preponderanza dell’amministrazione esecutiva» (Mousnier 1974). In quegli anni, del resto, gli studi si moltiplicavano: Henri Fréville studiava l’intendenza nella Bretagna (Fréville 1953), Georges Livet studiava gli intendenti in Alsazia sotto Luigi XIV (Livet 1956). La Storia delle istituzioni di Jacques Ellul, opera di sintesi degli studi storico-istituzionali francesi del Novecento, poteva concludere in puro lessico tocquevilliano che gli intendenti erano «i migliori agenti di centralizzazione regia» (Ellul 1976, p. 104). Una successiva linea di ricerca, invece, dagli anni Ottanta del Novecento, ha posto in discussione l’immagine degli intendenti come rappresentanti del potere monarchico calati dall’alto sulle realtà locali, allo scopo di realizzare un rigoroso accentramento. Studiando il territorio, gli intendenti sono sembrati al centro di un universo di pratiche che solo forzatamente potevano essere definite espressione della razionalità burocratica: essi cercavano di assicurare legittimazione e consenso alla propria azione di governo coinvolgendo in primo luogo le élites locali e mantenevano una rete di rapporti informali (clientelari) all’interno della provincia. Operavano dunque non come meri esecutori delle direttive del potere centrale, ma come mediatori fra gli interessi del sovrano (primo fra tutti il prelievo fiscale) e gli interessi dei ceti dirigenti

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locali. François-Xaviér Emmanuelli e William Beik sono stati i rappresentanti principali di questa revisione del ruolo dell’intendente nella storia delle istituzioni politiche moderne. In particolare, Emmanuelli ha messo in luce, nel peculiare contesto della Provenza, che l’intendente si poneva nei confronti del potere centrale piuttosto come il rappresentante delle élite locali e delle comunità, senza mettere in atto nessuna strategia per eclissare il ruolo delle istituzioni provinciali preesistenti. La complessità dei contesti locali, è stata altresì ribadita dall’opera ancora recente di Colette Brossault, Les intendants de Franche-Comté 1674-1790 (Paris: Boutique de l’Histoire, 1999): sono emersi il carattere eterogeneo della pratica amministrativa dell’antico regime e soprattutto la persistente azione degli organismi del tessuto di governo locale, che filtravano sia le direttive del potere centrale, sia le multiformi istanze che arrivavano all’intendente “dal basso”. La lettura “revisionista” sul ruolo degli intendenti, inoltre, è stata alla radice di tesi storiografiche che hanno radicalmente messo in discussione la stessa categoria interpretativa dello “stato assoluto”. Nicolas Henshall, in particolare, ha criticato la tesi di un ruolo centrale degli intendenti nel processo di concentrazione del potere nei secoli XVII e XVIII ed ha sostenuto che la presenza di questo personale non garantiva alcuna particolare efficienza all’amministrazione del territorio (Henshall 2000). Si tratta di una tesi con una valenza polemica molto forte, che non si è radicata nel senso comune storiografico. All’inizio degli scorsi anni Novanta, infatti, la sintesi dalla storia di Francia ad opera di Emmanuel Le Roy Ladurie ha confermato la tesi (tocquevilliana) secondo la quale assolutismo e accentramento sarebbero progrediti insieme allo sviluppo dell’istituto dell’intendenza: di qui l’invito a non generalizzare conclusioni legittime solo per casi particolari, come quello provenzale studiato da Emmanuelli. In più, Le Roy Ladurie ha poi ribadito la periodizzazione del radicamento dell’istituzione: primi esempi dell’invio nelle province di agenti regi dotati di poteri commissariali si ebbero a metà Cinquecento, ma l’estensione generalizzata di questa pratica di governo fu opera del ministeriato del cardinale di Richelieu: a partire dagli anni Trenta del Seicento gli intendenti furono impegnati principalmente nell’esazione delle imposte (molto gravose in anni in cui si mantenevano arruolati

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eserciti di grandi dimensioni) e nella repressione di rivolte anti-fiscali. Quindi, essi assunsero poteri non solo di finanza e di giustizia, ma anche, più in generale, di amministrazione (poteri di polizia, secondo la terminologia del tempo). Dalla crescita dei compiti burocratici «derivò una certa tendenza alla “concettualizzazione” del potere, che divenne comunque più astratto che in passato». A giudizio di Le Roy Ladurie, «l’intendente [era] lo Stato presente in provincia». [Le Roy Ladurie 2000, I, p. 187]. Del resto, anche una sintesi italiana sulla storia del diritto amministrativo, trattando degli intendenti, ha ribadito come Tocqueville sia stato «il primo a segnalare il ruolo strategico di questa figura» e come «l’analisi tocquevilliana abbia còlto sostanzialmente nel segno» [Mannori-Sordi, 2001, pp. 107 e 112]. La storiografia contemporanea procede su livelli diversi. Da un lato, è molto avanzata l’indagine prosopografica sugli intendenti. Il prof. John A. Armstrong, della University of Wisconsin-Madison ha messo in rete una base dati elettronica dal titolo French Old Regime Bureaucrats: Intendants de Province, 1661-1790 (cui si ha accesso dal sito http://dpls.dacc.wisc.edu/Province/index.html). Vi si trovano i nomi degli intendenti, i periodi di servizio nelle diverse province, nel 20% dei casi addirittura data di nascita, data di morte, anno di ingresso nell’amministrazione. E’ un utile strumento per un primo approccio alle carriere di questo personale di governo. Un’altra direzione di studi procede sulla linea tocquevilliana del parallelo tra intendenti e prefetti. Lo studio di Anette Smedley Weill Les intendants de Louis XIV (Paris: Fayard, 1995) ha riproposto nei tratti essenziali la figura dell’intendente come il commissario regio incaricato non solo della gestione delle finanze, della giustizia, del mantenimento dell’ordine pubblico, della sorveglianza sui preesistenti poteri locali; ma anche come strumento di un vasto disegno di comunicazione politica e di propaganda, che intendeva costruire una precisa rappresentazione del potere monarchico sotto il Re Sole. Dall’analisi delle biografie di circa 60 intendenti sotto Luigi XIV è quindi emerso che gli intendenti non si mescolavano troppo con i contesti sociali nei quali operavano (del resto, erano proprio per questo frequentemente sostituiti), ma formavano un gruppo sociale peculiare, pronto addirittura ad alleanze matrimoniali. La ricerca collettiva Intendants et Préfets dans le Nord - Pas de Calais. XVIIIe-XXe siècle (Etudes réunies par A. Lottin, A.

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Crépin et J-M. Guislin, Arras: Artois Presses Université, 2002) ha mosso da premesse ancora più esplicite, in un contesto dominato dalle celebrazioni per il bicentenario della legge del 28 piovoso dell’anno VIII (17 feb. 1800) che riorganizzava l’amministrazione dipartimentale e istituiva i prefetti. Citando Tocqueville, il gruppo di ricerca si è infatti proposto di verificare, in un’area delimitata ma non ristretta (Fiandre, Artois, Hainaut), se gli intendenti furono effettivamente i precursori dei prefetti. I risultati avrebbero secondo gli autori non solo confermato i molti fronti di attività del personale di governo insediato nelle province, ma addirittura messo in evidenza la loro sollecitudine nel perseguire il bene pubblico degli amministrati loro sottoposti. Una lettura più complessa, per questa stessa area geografica, è stata offerta da Cédric Glineur (Genèse d’un droit administratif sous le règne de Louis XV. Les pratiques de l’intendant dans les provinces du Nord. 1726-1754 Orléans: Presses Universitaires d’Orléans, 2005). L’Autore si è posto il problema di verificare come sia stato possibile in una realtà politica dominata da una molteplicità di centri di potere, normalmente personalizzati e percepiti come “tradizionali”, implementare un nuovo “diritto amministrativo” tradotto in procedure più o meno standardizzate. Porre al centro dell’indagine la figura dell’intendente, in particolare nell’Hainaut e nelle Fiandre (annesse da Luigi XIV), è stata la conseguenza naturale di questa impostazione. Ne è risultata una varia gamma di pratiche, in relazione ai diversi contesti: talvolta l’intendente ha messo in atto vere e proprie strategie di concentrazione del potere decisionale, talvolta ha proceduto in cauto accordo con i poteri preesistenti, talaltra ha dovuto scontare da parte degli stessi una decisa opposizione. Pur in questa varietà di fenomeni, la nuova sfera del “diritto amministrativo” fra gli anni 1725-1754, a giudizio di Glineur riuscì a prendere piede: mentre il governo premeva per acquisire informazioni (anche “statistiche”) sul territorio, mentre si formavano gli archivi dell’ufficio, l’intendenza iniziava a seguire una routine. “Intendenza” e “intendente” diventavano termini interscambiabili per designare l’ufficio e l’azione ammistrativa iniziava ad essere giustificata per il bene pubblico e non solo per il servizio del sovrano. Una procedura articolata e un ampio ventaglio di atti amministrativi caratterizzavano il lavoro dell’intendente nelle sue funzioni esecutive o giurisdizionali: ordonnances, règlements,

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mandements, apostilles, lettres d’ordres, lettres circulaires, commissions, insieme ovviamente a vari tipi di arrêts, soprattutto quelli del Conseil d’État. Le ordonnances, avverso le quali si poteva fare appello solo presso il Conseil d’État, e gli arrêts dello stesso Consiglio erano entrambi un segno della progressiva penetrazione del “diritto amministrativo” della monarchia nella vita della provincia.

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VII. Gli spazi residui di autonomia politica: le istituzioni con «libertà irregolare e intermittente». Avendo dato molto spazio al processo di rafforzamento del potere monarchico, e in particolare all’evidente accelerazione che esso aveva avuto nel XVIII secolo, Tocqueville si trovò in obbligo di precisare che il quadro istituzionale così dipinto poteva risultare parziale e incompleto. Oltre al gruppo di governo che da Parigi o Versailles dirigeva la vita amministrativa francese, oltre agli intendenti che curavano l’esecuzione di quelle direttive nelle periferie, infatti, continuavano ad esistere antiche istituzioni del regno, che avevano mantenuto più o meno larghi spazi di autonomia e che soprattutto, dal punto di vista tocquevilliano della genesi della Rivoluzione francese, avevano favorito lo spirito di resistenza alle innovazioni politico-amministrative del potere centrale. La prima di queste istituzioni era la Chiesa. Essa formava, prima del 1789, «uno dei corpi più indipendenti della nazione, il solo di cui si era obbligati a rispettare le libertà particolari» [A. R., II-XI, p. 150]. La Chiesa gallicana, infatti, aveva un proprio ordinamento, fondato sul diritto canonico, aveva norme di garanzia per i procedimenti della sua giurisdizione, conservava forme assembleari per la consultazione delle sue articolazioni sul territorio. Nella nota [45] in fondo al volume, Tocqueville entrava nel dettaglio dell’amministrazione di un’arcidiocesi. L’arcivescovo era coadiuvato da due tribunali per la giustizia ecclesiastica (cioè per affari matrimoniali, per procedimenti amministrativi relativi ai chierici etc.) e due altre corti concentrate sulla fiscalità (competenti sulle cause per le decime o per altre entrate). La Chiesa era altresì coinvolta nel governo del regno: come ordine, a fianco della nobiltà e del Terzo stato, partecipava agli Stati generali, agli Stati provinciali (laddove ancora esistevano), alle assemblee provinciali introdotte nella seconda metà del Settecento. Tocqueville dichiarò espressamente le fonti utilizzate per le sue analisi sulla Chiesa: gli Stati provinciali della Linguadoca, le assemblee provinciali del 1779 e 1787, i cahiers de doleances del 1789. Da queste letture egli aveva ricavato la convinzione che gli ecclesiastici avevano partecipato in pieno alla vita amministrativa francese, ad esempio nei problemi

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legati alla gestione del territorio o nell’elaborazione di interventi di politica economica a sostegno dell’agricoltura o della nascente industria. Alla base di questa vera e propria cultura politica e istituzionale si trovava l’esperienza nell’amministrazione di vaste signorie fondiarie, di proprietà ecclesiastica sin dall’alto Medioevo.

Tale consapevolezza si era dimostrata profonda in occasione della consultazione del 1789: Tocqueville ne forniva alcuni esempi. Nei cahiers de doleances, che Tocqueville aveva letto attraverso la raccolta denominata Resumé général (edita da Louis-Marie Proudhomme, Paris: chèz l’éditeur, 1789), il clero aveva lamentato la scarsa garanzia dei diritti individuali, difeso l’indipendenza della magistratura, aveva chiesto l’abolizione dei tribunali speciali, la fine della pratica delle avocazioni, la riforma del servizio militare, dell’economia, dell’istruzione. Nella sfera del diritto “costituzionale” il clero si era schierato in modo ancor più deciso: aveva reclamato una periodica ed ordinata convocazione degli Stati generali, aveva rivendicato il loro ruolo nella ratifica delle imposizioni fiscali, aveva persino proposto che essi fossero convocati «per emanare leggi generali, alle quali non si po[tessero] opporre né usi, né privilegi particolari, per stabilire il bilancio e controllare persino la casa reale» [A. R., II-XI, p. 152]. Se la Chiesa aveva mantenuto un assetto istituzionale solido, difendendo la sue autonomia ordinamentale, nella Francia della prima età moderna anche l’amministrazione della giustizia, per molti aspetti, poteva essere considerata un’istituzione “libera”. «Eravamo divenuti – avvertiva Tocqueville – un paese dal governo assoluto per le nostre istituzioni politiche e amministrative, ma eravamo rimasti un popolo libero per le nostre istituzioni giudiziarie» [A. R., II-XI, p. 153]. Certo, era un sistema giudiziario molto articolato, con procedure tutt’altro che rapide e anche molto costose. Ma alcuni principi erano in esso ben radicati: l’inamovibilità del giudice, la pubblicità dei dibattimenti, l’appellabilità delle sentenze, la necessità della loro motivazione. Nemmeno l’organizzazione giudiziaria inglese, che Tocqueville riportò in sintesi alla nota [67] in calce al volume sulla base dei Commentaries on the Law of England (1765-1770) di William Blackstone (disponibili on-line sul sito http://www.lonang.com/exlibris/blackstone/), poteva essere considerata meglio ordinata: le leggi applicate erano diverse in Inghilterra, Scozia, Irlanda, nell’isola di Man, nelle colonie; i giudici

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decidevano sulla base non solo della legislazione del sovrano, ma anche del diritto comune (di origine romana), delle consuetudini locali ed anche autonomamente secondo il principio di equità; l’organizzazione sul territotorio, infine, era estremamente complicata: nella Gran Bretagna del Settecento sulla base della sintesi di Blackstone, Tocqueville poteva enumerare almeno ventiquattro specie di tribunali, molti dei quali con sezioni specializzate per materia. E tuttavia il sistema giudiziario inglese a suo giudizio funzionava: offriva cioè ai privati i mezzi più opportuni per la soluzione delle controversie e dava nei procedimenti penali solidi diritti di difesa agli imputati. Tocqueville non offriva un’analoga rassegna del sistema giudiziario francese, che nella Francia della prima età moderna era anch’esso piuttosto articolato. Senza entrare nel dettaglio della giustizia resa personalmente dal sovrano, sul territorio la giurisdizione ordinaria aveva tre livelli: prepositure (prévôtés), in età moderna, ridotte ad un’esistenza quasi solo formale; baliaggi (bailliages), tribunali d’appello per il diritto comune, e tribunali in prima istanza per i casi riservati; corti presidali (présidiaux), istituite nel 1552 per l’appello alle sentenze dei baliaggi. Accanto a questa organizzazione giudiziaria, esistevano molte giurisdizioni speciali (tribunale delle acque e foreste, tribunale dell’ammiragliato, dei consoli del commercio etc.). Al vertice di questa piramide di uffici, dalla fine del XIII secolo era ormai consolidata la posizione del Parlamento di Parigi. Riorganizzato a metà del XV secolo, esso era a sua volta così articolato: la Grand Chambre, corte principale con competenza civile e criminale; due Chambres des Enquêtes, che, occupandosi dell’istruttoria, preparavano le sentenze della Grand Chambre; la Chambre des Requêtes, composta da referendari (maîtres des réquestes) che si occupavano dei procedimenti relativi a persone privilegiate; la corte detta Tournelle, per la giustizia penale. Accanto al Parlamento di Parigi, tra il XV e il XVIII secolo erano sorti altri Parlamenti provinciali e in alcune province essi avevano preso la denominazione di Consiglio sovrano (Conseil Souverain: ad esempio in Alsazia, Artois, Rossiglione, Corsica). I Parlamenti delle province (dodici nel Settecento) avevano la stessa organizzazione e le stesse competenze del Parlamento di Parigi, che però da solo aveva giurisdizione territoriale su quasi un quarto della Francia. Il processo di accentramento descritto da Tocqueville aveva

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comportato la progressiva perdita di importanza della giurisdizione ordinaria, a vantaggio di giurisdizioni eccezionali con competenza su singole materie (soprattutto quelle in cui era coinvolta a vario titolo l’autorità pubblica): di questo processo, i poteri giurisdizionali delegati agli intendenti provinciali erano certamente l’esempio più vistoso. Ai Parlamenti restava però il potere di registrazione degli editti e delle ordinanze reali: esso consisteva nel controllo sulla veste formale (e non solo) degli atti normativi del re, con la possibilità di rifiutare la registrazione facendo atto di rimostranza e suggerendo le correzioni ritenute necessarie. In caso di resistenza reiterata, se la Corona persisteva nel richiedere la registrazione, essa avveniva in una seduta del Parlamento presieduta dal re (denominata lit de justice). La storiografia ha messo in evidenza che i rapporti tra sovrano e Parlamenti erano costitutivamente soggetti a tensioni (Olivier-Martin 1990; De Benedictis 2001). I Parlamenti si erano opposti sin dall’inizio del XV secolo alle iniziative della monarchia nel campo della politica religiosa e anche il concordato di Bologna del 1516 con la Santa Sede aveva dovuto essere registrato a forza. Quindi, all’inizio degli anni Sessanta del Cinquecento, il Parlamento di Parigi aveva apertamente avversato la politica di tolleranza confessionale sostenuta dalla monarchia. I contrasti tra re e Parlamento di Parigi si erano aggravati tra Cinque e Seicento: la corte sovrana, ormai costituita esclusivamente da uffici venali non revocabili, era solida e coesa (addirittura per alleanze matrimoniali fra i suoi membri); la sua genuina competenza giuridica, la precoce organizzazione dei suoi archivi rafforzavano la tenacia con cui erano opposti precedenti in diritto alle argomentazioni del re. Gli scontri con Enrico IV furono molto duri, particolarmente nel caso dell’editto di Nantes (1598). Quindi, nel 1610, il Parlamento riuscì a partecipare all’organizzazione della reggenza durante la minore età di Luigi XIII. Il passo successivo fu ancora più eclatante: nel marzo 1615, appena conclusi i lavori degli Stati generali convocati l’anno precedente (sarebbero stati gli ultimi, prima di quelli del 1789), il Parlamento di Parigi aveva emanato una convocazione dei principi e dei maggiori ufficiali del regno per discutere i problemi appena sollevati dagli Stati e per esaminare i cahiers de doleances redatti per l’occasione. Era così sembrato che il Parlamento avesse fra i suoi poteri quello di contribuire all’elaborazione della politica generale del regno, assistendo il sovrano alla stregua di un consiglio a lui

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tanto vicino da poter autonomamente convocare i più alti rappresentanti del governo monarchico: soprattutto, mettendo all’ordine del giorno dei suoi lavori il vaglio di quanto elaborato dai rappresentanti della nazione, il Parlamento si era arrogato una palese superiorità sugli Stati generali. La Corona aveva risposto duramente, proibendo che il Parlamento di Parigi tenesse riunioni: ed esso aveva obbedito. Un altro momento di crisi si era avuto negli anni Quaranta del Seicento, dopo la morte di Richelieu e la successione del cardinale Mazzarino alla carica di principale ministro del regno: tra il 1643 e il 1645 i Parlamenti di Tolosa e Parigi si erano impegnati in una lotta contro l’inasprimento della pressione fiscale e contro l’ormai consolidato sistema di governo delle province attraverso gli intendenti, ma non avevano ottenuto alcun risultato. Queste tensioni avevano preannunciato una fase di scontro aperto, la cosiddetta Fronda parlamentare: il Parlamento di Parigi nell’aprile 1648 si era riunito ad altre tre corti (la Chambre des comptes, la Cour des Aides, il Grand conseil) e, dichiaratosi tutore del regno, aveva apertamente denunciato il malgoverno dei ministri al potere e i continui abusi fiscali e finanziari nelle province. Nel contempo, era stato elaborato un vero e proprio programma di riforma “costituzionale” e amministrativa del regno. La reazione della Corona, dopo una prima, parziale adesione al progetto di riforma, fu molto dura: si susseguirono pressioni, arresti di parlamentari, la militarizzazione della capitale Parigi; infine, si arrivò a una vera e propria guerra civile, nei primi mesi del 1649. Con l’avvento al potere di Luigi XIV, il potere dei Parlamenti fu per la prima volta decisamente ridotto: nel 1653, in un lit de justice, il sovrano fece registrare una dichiarazione che proibiva al Parlamento di intromettersi negli affari di Stato e nella gestione delle finanze pubbliche; quindi, nell’Ordonnance civile del 1667 (importante esempio di codificazione del diritto) la procedura per indirizzare rimostranze al sovrano fu minuziosamente regolamentata; poi, nel 1673 il diritto di rimostranza fu abrogato per i provvedimenti normativi di iniziativa regia. Tuttavia, dopo la morte di Luigi XIV (1715), il Parlamento tornò ai suoi poteri originari. Anche sotto Luigi XV i rapporti tra il Parlamento di Parigi e i consiglieri del re rimasero molto tesi: nel 1752, il Parlamento protestò contro le continue avocazioni di processi da parte del Conseil du Roi ed ebbe come risposta una presa di posizione ufficiale del Conseil privé del sovrano che ribadiva di non

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poter sopportare limiti “costituzionali” alla propria giurisdizione. Ma, a sua volta, il Parlamento di Parigi a partire dal 1756 fece circolare la teoria che i diversi Parlamenti del regno non fossero che articolazioni di un unico e indivisibile Parlamento, distinto sul territorio solo per comodità del sovrano. L’esito di questa lotta ormai più che secolare tra Corona e Parlamenti furono i provvedimenti del 1770-71 del cancelliere di Francia e guardasigilli Maupeu, che riformavano l’organizzazione giudiziaria francese esautorando i Parlamenti: ma essi erano stati reintegrati nei loro poteri nel 1774 ed avevano subito ripreso la lotta contro i provvedimenti sostenuti dalla monarchia, soprattutto in campo fiscale. L’ultimo episodio di questo scontro secolare, nell’estate del 1788, fu la causa diretta della convocazione degli Stati generali del 1789. Tocqueville nell’analisi della dialettica sovrano-Parlamenti oscillò notevolmente. Rievocò gli esordi dell’istituzione in toni quasi epici nel terzo capitolo della prima parte del libro che doveva costituire la prosecuzione de L’Ancien Régime et la Révolution. A suo giudizio, il diritto di rimostranza dei Parlamenti era un’istituto nato spontaneamente, nel seno della cultura politica di magistrati e sovrani: l’editto regio presentato ai magistrati del Parlamento prima di entrare in vigore veniva discusso pubblicamente, con la «virilità» che caratterizzava le istituzioni medievali (aggiungeva compiaciuto Tocqueville); se necessario, al re veniva richiesto che esso fosse modificato o ritirato. Il re lasciava libere queste discussioni, ma se riteneva di dover mantenere intatto il provvedimento normativo, presentandosi al Parlamento ne imponeva la registrazione: i magistrati obbedivano, consapevoli di dover assistere e illuminare il sovrano, non comprimerne la potestà normativa. Anche il fatto che ciascuna delle tredici supreme corti avesse diritto di rimostranza sembrava a Tocqueville logico nella prospettiva dell’antico regime: prima che fossero avviati i processi di centralizzazione amministrativa, le diverse province della Francia erano molto diverse per legislazione e consuetidini giuridiche, e quindi del tutto coerentemente ciascuna di esse doveva vagliare l’adeguatezza della norma proposta al proprio ordinamento. Difficile situare nella storia dell’istituzione questa immagine idealizzata: da quando il Parlamento era stabilmente affidato alle competenze dei giuristi (cioè dal XV secolo) e non vi comparivano più membri dell’alta

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nobiltà e della gerarchia ecclesiastica, i contrasti – come si è avuto modo di notare – si erano susseguiti numerosi. La forzatura nasceva probabilmente dall’enfasi costante di Tocqueville sulle istituzioni della monarchia “gotica”. In età moderna, invece, Tocqueville indicò nella magistratura praticamente il solo potere ad essersi opposto al disegno centralizzatore della Corona, decisa ad occupare gli spazi di elaborazione politica e i ruoli di governo tenuti dalle preesistenti istituzioni. Tuttavia, a suo giudizio la secolare opposizione del Parlamento alla monarchia, senza affatto innescare una vitale dinamica istituzionale, si era sempre tradotta in uno sterile gioco delle parti:

«Il Parlamento si era abituato a fare molto rumore per ottenere poco. Le parole andavano dunque, di solito al di là delle sue idee e una specie di esagerazione di parola gli era permessa. I principi più assoluti gli avevano consentito questa licenza di linguaggio, proprio in ragione della sua impotenza; poiché si era sicuri di ridurlo all’obbedienza e di rinchiuderlo strettamente nei suoi limiti, gli si lasciava volentieri la consolazione di parlare liberamente. In mezzo a questa società ben stabilita era una specie di commedia grave che si recitava davanti al paese». [SP, 921]

Il più, il contrasto aveva presto travalicato il suo ambito specifico. Il Parlamento aveva protestato raramente per l’invadenza dell’amministrazione centrale, che aveva escluso la feudalità e i poteri municipali costituiti dal governo del territorio: Tocqueville citava solo un’accusa del Parlamento al Conseil du Roi di essere composto da «datori di pareri» [A. R., II-II, p. 73: c.vo dell’A.], privi di funzioni giurisdizionali, e un caso in cui il Parlamento aveva difeso un amministatore locale incarcerato dall’intendente (nota [49] in calce a L’Ancien Régime et la Revolution); segnalava nel contempo, assai significativamente, l’incapacità del Parlamento di decidere persino un minimo conflitto di precedenza, cioè se durante un rito religioso «l’acqua benedetta [dovesse essere] data al corpo dei giudici prima che al corpo della città» [A. R., II-IX, p. 134]. Il vertice della magistratura, piuttosto, appariva a Tocqueville «sempre meno amministratore, ogni giorno, e sempre più tribuno» [A. R., II-V, p. 99]: un tribuno abile soprattutto a difendere se stesso. L’oggetto

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principale dello scontro, infatti, era diventata la definizione dei limiti del potere legislativo della monarchia. Tocqueville considerava questo slittamento un drammatico equivoco. I magistrati del Parlamento, infatti, non si erano resi conto che la monarchia, per il loro tramite, aveva lasciato esistere solo qualche apparente barriera al suo potere assoluto, adatta a nasconderlo, non veramente a limitarlo. L’effetto, a ben vedere, era stato quello di «aggrovigli[are] il potere giudiziario nel governo, in un modo dannosissimo al buon ordine» [A. R., II-X, p. 145]. Nondimeno, con attenzione molto precoce allo “spirito delle istituzioni”, Tocqueville ebbe modo di apprezzare il profilo “morale” della contesa dei Parlamenti con il sovrano. I parlamentari, a suo giudizio, avevano dato ai francesi esempi di come si difendessero onore e indipendenza, particolarmente stimolando la resistenza alla riforma di Maupeu del 1770. Tocqueville, nell’opera lasciata interrotta alla sua morte, fu molto severo nel giudizio sull’ultima lotta dei Parlamenti contro Luigi XVI (1787-1788): ma l’episodio di qualche anno prima, quando il Parlamento di Parigi, la Cour des Aides, addirittura gli avvocati, tutti si erano opposti al provvedimento che destituiva l’antica corte, gli parve uno dei più grandi avvenimenti «nella storia dei popoli liberi» [A. R., II-XI, pp. 154-155]. Altra importante istituzione che controbilanciava il potere monarchico erano ovviamente gli Stati generali. Si è avuto modo di notare come, per Tocqueville, la presenza di questo tipo di assemblee un po’ in tutto il Vecchio Continente era il segno di un’antica “costituzione”, comune a tutto il Medioevo europeo. In Francia, effettivamente, la comparsa degli Stati generali datava almeno all’inizio del XIV secolo, ma assemblee non permanenti fondate sul dovere feudale di assistenza e consiglio al sovrano erano apparse addirittura in età carolingia. La novità era stata, alla fine del XII secolo, la convocazione in queste assemblee anche di membri della borghesia parigina e delle principali città del regno. Nel 1302 si ebbe la prima convocazione dei tre stati insieme, che si riunirono nella chiesa parigina di Notre Dame A questa data, la composizione degli Stati generali avveniva ancora per diretta convocazione da parte del re; poi, dalla seconda metà del Quattrocento, i membri dei tre ordini furono eletti da circoscrizioni corrispondenti ai bailliages. In occasione delle elezioni venivano redatti i cahiers de doleances che

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toccavano i problemi generali del governo. Gli Stati non ottennero mai ciò che chiedevano più di frequente in queste consultazioni, cioè una convocazione regolare; in più, poiché non era loro permesso di convocarsi autonomamente per discutere i problemi dello Stato, rimasero un organismo effimero, che ogni volta, alla chiusura delle sessioni, scompariva dalla vita pubblica. Tocqueville, nondimeno, enfatizzava molto l’immagine degli Stati generali di età “gotica”: «nobili e borghesi [aveva]no allora più interessi e più affari in comune, dimostra[va]no meno reciproca animosità gli uni verso gli altri» [A. R., II-VIII, p. 118]. Come appariva da documenti delle sessioni del XIV secolo, il Terzo stato aveva già una posizione politica rilevante, che però non usava contro gli altri ordini (nobiltà e clero): «nobiltà e Terzo Stato s’intend[eva]no allora per amministrare la cosa pubblica o per resistere in comune [al potere monarchico], molto meglio che non abbiano saputo fare in seguito» [A. R., II-IX, p. 126]. In particolare, gli Stati generali davano il loro consenso all’imposizione di tributi straordinari, pretendendo in cambio di poter indirizzare al sovrano doleances sulle condizioni generali del regno. Con la disgregazione del regime feudale, poi, gli Stati generali si fecero più rari o cessarono del tutto (non ve ne furono più dal 1614 al 1789): borghesi e nobili non ebbero più contatti istituzionalizzati con il maneggio della cosa pubblica e, dal punto di vista della storia sociale, formarono «due classi [...] non più soltanto rivali, ma nemiche» [A. R., II-IX, p. 127]. Tocqueville accusava il potere monarchico di aver consapevolmente operato in questa direzione, limitando il ricorso agli Stati generali: la venalità delle cariche e la moltiplicazione degli uffici erano istituzioni «precisamente create contro di loro, [che] nascevano dal desiderio di non radunarli» [A. R., II-X, p. 144]. Mentre infatti la vendita di uffici garantiva gettito alle casse dell’erario e contribuiva a formare una classe di governo alleata del potere centrale, l’assenza di controllo da parte degli Stati Generali permetteva alla Corona di attuare una politica fiscale sperequata e di conservare una gestione finanziaria artificiosa e irrazionale. La monarchia non aveva però potuto prevedere una conseguenza indiretta della mancata regolare convocazione degli Stati generali: Tocqueville dava una grande importanza, nella genesi della Rivoluzione francese, alla cultura illuministica; ebbene, a suo giudizio, «se i francesi avessero ancora preso parte al governo, come un tempo, negli Stati generali, e se

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avessero continuato ad occuparsi giornalmente del paese nelle assemblee delle loro province [gli Stati provinciali], si può esser certi che mai si sarebbero lasciati infiammare, come allora fecero, dalle idee degli scrittori. Sarebbe rimasta loro una certa pratica degli affari, che li avrebbe messi in guardia contro la teoria pura» [A. R., III-I, p. 180]. Invece, quando la crisi politica entrò nella fase più acuta e si diffusero richieste di ricorso all’istituzione rappresentativa, gli Stati generali furono investiti di forti aspettative riformatrici, poco ancorate alla concreta realtà delle istituzioni politiche del Settecento francese. Lo dimostravano i cahiers de dolences, che Tocqueville citava diffusamente nella nota [44] in calce al volume. Gli Stati generali immaginati dai cahiers non erano infatti quelli della storia “costituzionale” consolidata: si reclamava che fossero regolarmente convocati; che fossero riformate composizione e modalità di votazione; che fossero dotati di vero potere legislativo, che fosse rafforzato il loro potere di controllo sull’attività di governo; che potessero avere anche funzioni di tutela dell’attività giurisdizionale ordinaria (alla stregua di un consiglio superiore della magistratura). Insomma la convinzione diffusa era che tutte le riforme necessarie fossero a portata di mano: «se gli Stati generali saranno liberi – citava Tocqueville dai cahiers –, tutti gli abusi verranno facilmente soppressi». [A. R., I-I, p. 39] Per non aver convocato regolarmente gli Stati generali, per non aver condiviso con loro il potere legislativo, per non averli trasformati in un’assemblea rappresentativa come il Parlamento d’Inghilterra, per aver lasciato nel regno solo «una specie di libertà irregolare e intermittente» [A. R., I-XI, p. 157], la monarchia francese avrebbe insomma facilitato la propria caduta. Nel 1789, «il tentativo di ripetere gli antichi Stati generali produsse l’assemblea moderna più pericolosa [per la monarchia] che si possa immaginare» [S.P., p. 975].

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VIII. «Too late»: Le ultime riforme dell'antico regime e le istituzioni politiche della Rivoluzione. Alla conclusione della seconda parte de L’Ancien Régime et le Révolution Tocqueville riteneva di aver sufficientemente descritto «i fatti antichi e generali i quali [aveva]no preparato la grande rivoluzione» e di poter passare «ai fatti particolari e più recenti, i quali [aveva]no finito di determinarne il posto, la nascita e il carattere» [A.R., II-XII, p. 174]. Mise subito in evidenza il ruolo dei filosofi illuministi nella genesi delle diffuse aspettative di una radicale riforma politico-costituzionale: gli uomini di lettere erano diventati a giudizio di Tocqueville non solo esperti di scienza della politica, ma veri e propri capi politici immaginari (“virtuali”, si direbbe nel linguaggio corrente). Ragionando di affari di governo, essi non si erano posti il problema della riforma delle strutture istituzionali o delle innovazioni normative più adeguate al loro contesto: avevano invece presentato teorie astratte, talvolta con toni apertamente utopistici e se avevano affrontato il tema del necessario cambiamento lo avevano fatto con radicalità estrema, considerando superata ogni istituzione esistente. Non poteva essere altrimenti: come si è già avuto modo di notare, era stata la mancanza di istituzioni politiche nelle quali discutere l’operato del governo, a differenza di quanto avveniva ad esempio in Inghilterra, a relegare nella pura speculazione le riflessioni dei philosophes. Le istituzioni della Rivoluzione francese, anticipava Tocqueville, avrebbero mostrato lo stesso carattere di radicalità e astrattezza, assomigliando, più che a qualcuno dei modelli costituzionali e amministrativi esistenti, agli esempi offerti da uno dei numerosi trattati di filosofia politica del Sei e Settecento. Anche nel pensiero dei fisiocrati – gli economisti del Settecento di cui Tocqueville trattava nel capitolo terzo della terza parte (dopo un intermezzo sul processo di scristianizzazione della Francia moderna, a suo giudizio di decisiva influenza sugli esiti radicali della Rivoluzione) – si potevano trovare critiche molto aspre alle istituzioni che sarebbero state abolite dopo il 1789. Studiosi come Guillaume François Le Trosne, François Quesnay, lo stesso

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Robert Turgot erano considerati da Tocqueville il corrispondente degli intendenti nel campo della letteratura politica. Propugnavano la centralizzazione di marca assolutista a scapito delle forme di governo locale preesistenti, puntavano a costruire una solida macchina amministrativa, senza prendere minimamente in esame il problema dei ristretti spazi di libertà concessi dalle istituzioni politiche del Settecento francese. Le concrete riforme da essi disegnate erano, a suo giudizio, dello stesso spirito di quelle della Rivoluzione: l’obiettivo dell’uguaglianza di condizioni sociali (e formali) di sudditi forgiati su principi imposti dall’alto si coniugava, nei loro progetti di riforma, con la sottomissione di tutti a un pressoché onnipotente (e lontano) potere politico. Non trovarono esempi europei di politiche simili già pienamente realizzate: indicarono talvolta esempi dall’Asia, e in particolare dalla Cina.

A questo punto, l’argomentazione poteva passare all’analisi delle istituzioni politiche rivoluzionarie. Tocqueville vi accennò brevemente, accennando nella coda dello stesso terzo capitolo della terza parte, agli sforzi dei sessant’anni successivi al 1789 per immettere istituzioni di garanzia della libertà politica nella poderosa macchina amministrativa costruita dall’assolutismo e dalla Rivoluzione. Ma non seguì la traccia. Inaspettatamente, quasi non potesse ritenere concluso il punto, tornò alle condizioni generali del paese nell’ultimo quarto del Settecento. La Francia gli appariva in ripresa, dal punto di vista demografico ed economico; dal punto di vista della storia istituzionale, poi, mostrava indubbi segni di vitalità: gli intendenti provinciali erano molto attivi, si occupavano di infrastrutture, di promozione dell’agricoltura e delle manifatture, di regolamentazione del commercio. Addirittura le esazioni fiscali erano divenute più miti e più calibrate, mentre si era consolidato un sistema di assistenza pubblica. Il sistema di ripartizione della taille, sotto la guida dei commissari di governo, poteva apparire del tutto razionale: sotto la guida dei commissari, si riunivano le comunità parrocchiali (la parrocchia, si è avuto modo di notarlo, era l’unità territoriale di base del sistema fiscale); veniva accertato il valore dei beni di ciascuno in un pubblico contraddittorio; veniva infine ripartita la taglia da versare all’erario per comune accordo. Ma era il cuore di questa macchina amministrativa così attiva ad essere malato: l’accresciuto attivismo dello Stato in molti settori aveva ancor più aggravato le condizioni dell’erario; in più, ancora negli anni Ottanta

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del Settecento, «l’amministrazione delle finanze [...] era segreta e senza garanzia [e] vi si seguiva ancora qualcuna delle peggiori procedure in corso sotto Luigi XIV e Luigi XV» [A. R., III-IV, p. 214]. Lo Stato non era una controparte affidabile, mutava o estingueva i contratti, poteva sanare per legge i propri debiti. In questo debole sistema, a causa del buon andamento economico, era però ormai coinvolta una grande platea di investitori e di imprenditori, tutti appartenenti al Terzo stato: la crisi finanziaria di fine secolo appariva loro particolarmente acuta ed essi animarono proteste sempre più forti e diffuse. Quando il potere centrale tentò le riforme necessarie per risanare l’erario, sbagliò innanzi tutto le forme di presentazione all’opinione pubblica dei suoi provvedimenti. Tocqueville nel quinto capitolo della terza parte de L’Ancien Régime et la Revolution trattò diffusamente della comunicazione politica del regno di Luigi XVI, concentrandosi soprattutto sul linguaggio utilizzato nei testi di legge, nei carteggi degli uomini di governo, nei verbali delle assemblee provinciali (istituzioni rappresentative varate nel 1787). In questi testi le ingiustizie sociali erano decisamente denunciate, al pari dei più evidenti difetti delle istituzioni fiscali o giudiziarie; e le responsabilità erano palesemente indicate nello stesso governo. Erano dunque state le istituzioni, a diversi livelli, a completare (secondo l’espressione di Tocqueville) l’educazione rivoluzionaria dei francesi.

Le riforme istituzionali della monarchia assolutista, da Luigi XIV sino a Luigi XVI, attraverso cambiamenti troppo bruschi avevano preparato il terreno alla completa eversione del regime costituito: questo era l’argomento dei capitoli sesto e settimo della terza parte. Usi molto antichi e diritti acquisiti e consolidati erano stati improvvisamente sradicati. Fra le innovazioni introdotte, poi, ve n’erano state di molto pericolose. Tocqueville faceva gli esempi dello scarso rispetto per la proprietà privata mostrato dall’amministrazione nel settore dei lavori pubblici, della regolazione forzata del commercio (attraverso requisizioni, vendita obbligatoria di derrate alimentari, calmiere dei prezzi praticati), della giustizia penale sommaria introdotta nei reati relativi all’ordine pubblico. Soprattutto, gli sembravano veramente eversive la riforma della pubblica amministrazione del giugno 1787 e quella dell’ordinamento giudiziario del maggio 1788. Quest’ultima, proposta dal guardasigilli Lamoignon, aveva non solo creato nuove corti d’appello (i grands

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bailliages) per le cause civili spogliando le relative competenze dei parlamenti, ma aveva anche privato gli stessi parlamenti del diritto di rimostranza costituendo, per la registrazione degli editti, una Cour plénière, assemblea più direttamente dipendente dal sovrano (composta da membri degli ordini e da magistrati). Quanto alla riforma dell’amministrazione, varata da Étienne-Charles Loménie de la Brienne, ma elaborata anche dal precedente ministro Charles-Alexandre de Calonne, essa fu importante soprattutto per l’istituzione – nelle généralité, non nei pays d’état – di una piramide di assemblee rappresentative preposte al governo del territorio (assemblee parrocchiali, assemblee distrettuali che raggruppavano trenta parrocchie e al vertice le già menzionate assemblee provinciali). Esse mantenevano la tripartizione sulla base dei tre Ordini (clero, nobiltà e Terzo stato con quota raddoppiata), istituivano il voto pro capite e mantenevano la presidenza ad un rappresentante degli ordini privilegiati. Tali assemblee rilevavano un gran numero di competenze che erano state dell’intendente, dalla ripartizione e riscossione delle imposte, alla gestione del territorio (compresi i lavori pubblici), alla gestione dei bilanci locali, potendo autorizzare spese di media entità; avevano altresì funzione giurisdizionale per il contenzioso amministrativo in prima istanza. La figura dell’indendente non era stata soppressa: secondo il legislatore, avrebbe dovuto assistere le assemblee provinciali nella fase di transizione dal vecchio al nuovo ordinamento e comunque avrebbe mantenuto competenze nella supervisione dei conti e nell’autorizzazione delle spese di maggiore importo. Tocqueville prese spunto da questa riforma – che ebbe in realtà scarsa applicazione (solo in 17 généralité su 26) e vita breve, essendo stata sospesa già nell’ottobre 1788 e soppressa con déclaration del 23 giugno 1789 – per una lunga riflessione sulla natura stessa delle istituzioni politiche. A suo giudizio infatti i provvedimenti del 1787-88 erano stati disastrosi: tutti gli usi e le consuetudini amministrative erano stati divelti senza preparare le popolazioni e gli amministratori; e la coesistenza tra assemblee e intendenti, secondo quanto gli appariva dai carteggi che aveva consultato, era stata sempre conflittuale. In più, la presenza nelle assemblee di membri del clero e della nobiltà aveva portato ad un nuovo, apparente protagonismo delle classi privilegiate (soprattutto della nobiltà), che si scontrava con il sempre più netto ruolo politico dei membri del Terzo stato: ne era derivata

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in qualche caso la vera e propria paralisi del nuovo assetto istituzionale. Insomma, erano stati provvedimenti radicali e irrispettosi degli usi politico-amministrativi delle province francesi. Tocqueville aveva elaborato una concezione organicista delle istituzioni, secondo la quale in esse esisteva «un forza centrale e invisibile», una «fiamma vivificante» [A. R., II-VIII, p. 118], che permetteva loro di durare nel tempo; in esse, quando erano in pieno vigore, si poteva riconoscere un’«azione lenta e incessante» [A. R., II-XII, p. 161], che incideva profondamente il tessuto sociale. Per questo, «ogni istituzione che a[vesse] dominato a lungo dopo essersi affermata nella sua sfera naturale, la varca[va] e fini[va] con l’esercitare un grande influsso anche su quella parte di legislazione dove non regna[va]» [A. R., nota (14) in calce al volume, p. 273]. Le istituzioni politiche, amministrative e giudiziarie, così, erano capaci di pervadere tutto l’insieme dei rapporti privati e di formare negli attori sociali un vero e proprio habitus, un principio generatore di pratiche (secondo la terminologia del sociologo Pierre Bourdieu): facevano cioè muovere i sudditi in uno spazio ben determinato, con conseguenze evidenti innanzi tutto nella sfera economica. Nello stesso tempo, le istituzioni politiche erano altresì soggette a invecchiamento: con il passare del tempo, se perdevano la loro forza intrinseca, diventavano vuote forme, simili a un culto religioso con partecipazione popolare scarsa e fredda. In ogni caso, non risultava conveniente alterare artificiosamente gli equilibri che le istituzioni raggiungevano nel contesto sociale in cui erano calate: per Tocqueville bastava applicare puntigliosamente la normativa relativa a un’istituzione per distruggerla completamente; anche riformarla era pericoloso, se metteva in crisi abitudini consolidate atte a garantire il suo funzionamento. Questo era stato il caso della riforma del 1787. Essa aveva istituito un gran numero di poteri collettivi non responsabili, in cui era confluito personale non esperto di amministrazione, chiamato a gestire settori di attività molto ampi. Il mantenimento di una parvenza di articolazione per ordini aveva creato punti di attrito: soprattutto nelle campagne, i nobili e il clero erano stati accolti con ostilità nelle assemblee e non di rado non erano stati ammessi a votare in materie come quelle fiscali, che – in quanto privilegiati – non li toccavano. I nobili erano insomma tornati agli oneri dell’amministrazione troppo tardi: too late, aveva segnato in inglese

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Tocqueville in una delle schede di lettura tratte nell’aprile 1853 dalle carte d’archivio dell’Hôtel de Ville parigino, base documentaria delle sue riflessioni in questa materia. Così, la riforma del 1787-88 – un «rinnovamento improvviso e vasto di tutte le regole, di tutte le abitudini amministrative» [A. R., III-VII, p. 238] – non aveva, a suo giudizio, guadagnato legittimazione all’azione di governo della monarchia, ma solo esacerbato gli animi. Anzi, con il provvedimento del giugno 1787, la monarchia era sembrata uscire spontaneamente dall’ancien régime. Tocqueville avrebbe potuto aggiungere questo provvedimento normativo al vasto dossier sull’accentramento amministrativo che aveva occupato i capitoli dal secondo al settimo della seconda parte: se infatti la riforma di Loménie de la Brienne era stata capace di porre fine con un editto a una secolare declinazione dell’amministrazione locale, se ne poteva ricavare un nuovo esempio della forza del potere centrale nella Francia dell’età moderna. Per Tocqueville, invece, quell’episodio non era stato una prova di forza, ma un vero e proprio atto rivoluzionario. Nemmeno la rivoluzione inglese del Seicento, che pure aveva alterato l’intera “costituzione” politica e condannato a morte il sovrano, aveva completamente ridisegnato l’ordinamento amministrativo e giudiziario, le «leggi secondarie» [A. R., III-VII, p. 238], come le chiamava lo stesso Tocqueville. Il governo francese dell’ultimo scorcio del Settecento, invece, sconvolgendo l’amministrazione, cioè l’istituzione pubblica di maggior peso sulla vita quotidiana delle popolazioni, le aveva gettate nella zona grigia tra la fine traumatica di un assetto istituzionale consolidato e gli stentati inizi dell’ordinamento che lo doveva sostituire. In questo spazio vuoto era stata agitata la miscela esplosiva dell’evento rivoluzionario del 1789: i rivoluzionari avrebbero avuto buon gioco nel portare a termine l’operato dei ministri di Luigi XVI, sovvertendo tutte le regole del governo del territorio.

Il tessuto argomentativo de L’Ancien Régime et la Révolution aveva dunque portato Tocqueville sulla soglia delle profonde riforme delle istituzioni politiche varate durante la Rivoluzione francese. Tali innovazioni possono essere distinte in almeno quattro fasi.

La prima fase era quella della formazione del nuovo potere costituito e dell’abbattimento delle istituzioni politiche preesistenti. Gli Stati generali diventarono per iniziativa del Terzo Stato

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Assemblea nazionale (riconosciuta dalla monarchia il 7 luglio 1789) ed essa si pose subito come assemblea costituente, incaricandosi di redigere una vera e propria carta costituzionale. L’Assemblea deteneva altresì il potere legislativo, esercitava un controllo sul potere esecutivo del re (del resto completamente esautorato fra il giugno e il settembre 1791), decideva infine le linee di politica estera. Aveva insomma un rilievo politico-costituzionale eccezionale, legittimato da fonti extra-giuridiche (i rapporti di forza creatisi dopo il 14 luglio 1789). Tra i provvedimenti votati dalla Costituente, si segnalava l’abolizione del regime feudale (4 agosto 1789), delle corporazioni e di ogni forma di organizzazione della manifattura privilegiata (2 marzo 1791) e soprattutto la cosiddetta costituzione civile del clero (12 luglio-24 agosto 1790), che regolava con atto unilaterale le condizioni giuridiche del clero (non più qualificato come ordine del regno). Due importanti riforme si occuparono dell’amministrazione locale e dell’organizzazione giudiziaria. L’amministrazione fu riorganizzata: il territorio fu diviso con una nuova distrettuazione (dipartimenti, distretti, cantoni, comuni, gerarchicamente ordinati) e gli intendenti provinciali furono aboliti (i loro stipendi non furono più pagati a partire dal I luglio 1790); furono insediati al loro posto amministatori eletti. Ne scaturì una netta deconcentrazione e i consigli amministrativi locali parvero subito molto attivi, sebbene non troppo efficienti (soprattutto nelle funzioni delegate, come i lavori pubblici e la riscossione delle imposte). L’organizzazione giudiziaria, parimenti, fu profondamente rivista. I Parlamenti furono sciolti il 3 novembre 1789. La giustizia civile ebbe una nuova articolazione: per la giurisdizione volontaria e i livelli più bassi di quella contenziosa erano in funzione giudici di pace e varie forme di corti arbitrali; il contenzioso in materia commerciale era deciso da tribunali speciali del commercio. Come corti d’appello di questo primo grado esistevano i tribunali di distretto, composti da un procuratore nominato dal re e da giudici eletti. Un ulteriore appello alle decisioni di questa corte poteva essere richiesto da una delle parti in causa ad un tribunale distrettuale limitrofo. Anche la giustizia penale fu riformata: furono istituiti, per le infrazioni amministrative, tribunali di polizia municipale in ogni comune; per i delitti meno importanti (definiti correzionali dalla riformata codificazione penale del 1791), un tribunale penale composto dal giudice di pace e due altri membri;

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per i delitti più gravi un tribunale criminale nel capoluogo di dipartimento, con quattro magistrati e una giuria popolare. Al vertice del sistema era stata insediata una corte di cassazione, che nell’esame delle sentenze appellate poteva valutare soltanto la correttezza formale dei procedimenti e il rispetto di tutte le norme procedurali.

Mentre erano state ideate e varate queste riforme, il dibattito sulla costituzione era proceduto intenso: il 14 settembre 1791 il nuovo testo era stato firmato. La nuova carta costituzionale si occupava esclusivamente del funzionamento dei pubblici poteri, nettamente separati (potere legislativo all’Assemblea nazionale, potere esecutivo al re, ai suoi ministri e a un corpo di amministratori eletti, potere giudiziario a procuratori di nomina regia e a giudici eletti). Subito iniziarono violenti conflitti tra il potere legislativo e quello esecutivo, che sfociarono nella soppressione del potere esecutivo (agosto-settembre 1792). Le riforme costituzionali rese necessarie dalla caduta della monarchia furono affrontate da una Convenzione nazionale, nuova assemblea eletta a base più larga. La Convenzione votò due nuove carte costituzionali (una il 2 giugno, una il 24 giugno 1793), ma il nuovo regime politico non prese le forme di una democrazia rappresentativa: in un contesto generale di emergenza, con guerra alle frontiere e rivolte interne, fu insediato un Comitato di salute pubblica, cioè un esecutivo al di fuori delle garanzie costituzionali.

Il “governo rivoluzionario” rappresentò la seconda fase della storia delle istituzioni politiche della Rivoluzione francese, che durò sino al 9 termidoro (17 luglio) 1794. Si trattò di una dittatura d’emergenza, l’articolazione della quale venne sancita dal decreto del 14 frimaio (4 dicembre) 1793. La Convenzione (composta da 767 deputati ed operante attraverso un gran numero di commissioni) diventò il centro del sistema politico; il Comitato di salute pubblica, che ne era diretta emanazione (senza costituire un potere separato), fu investito di poteri molto ampi, sostituendosi gradualmente al Consiglio dei ministri stabilito come potere esecutivo dalla carta costituzionale del 1791: il Comitato di salute pubblica interpretava le norme, ne regolava l’applicazione, dirigeva i funzionari e tutti i corpi dello Stato (compresi esercito e diplomazia); nell’amministrazione locale, furono introdotte nuove figure: comitati rivoluzionari, deputati della Convenzione inviati in missione nei dipartimenti ed

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“agenti nazionali”, cioè rappresentanti del potere centrale scelti sul territorio. Le autonomie dei governi municipali e dipartimentali furono drasticamente ridimensionate. Accanto al Comitato di salute pubblica si trovava il Comitato di sicurezza generale, che si occupava del mantenimento dell’ordine pubblico; i procedimenti istruiti nel suo seno venivano inviati al Tribunale rivoluzionario, ma soprattutto in periferia erano attive anche commissioni giudiziarie incaricate di guidare la repressione dei movimenti d’opposizione. La direzione dell’economia era invece affidata alla Commissione delle sussistenze. Questa riorganizzazione generale delle istituzioni politiche portò ad un grande aumento del personale impiegato nell’amministrazione (più di cinquemila unità nel 1794). Ne scaturì una nuova stagione di accesa centralizzazione politico-amministrativa: lo Stato assorbì anche il settore dell’istruzione, quello della pubblica assistenza, impose un credo “religioso” di stato e fece continua opera di propaganda per consolidare il controllo delle coscienze dei singoli. Furono altresì soppresse le libere elezioni, la libertà di stampa, i diritti di difesa degli imputati di reati politici, la suddivisione dei gradi di giudizio nei procedimenti penali.

La caduta del regime giacobino non portò immediatamente a una trasformazione delle istituzioni politiche. Rimase in essere la Convenzione, che attraverso sedici comitati riprese il controllo del potere esecutivo, esercitato attraverso commissioni. Il Comitato di salute pubblica fu fortemente ridimensionato e gli fu affiancato un Comitato legislativo, incaricato di dirigere l’organizzazione giudiziaria e l’amministrazione del territorio. Quindi, gradatamente, si aprì una terza fase della storia delle istituzioni politiche della Rivoluzione francese, con il varo di significative riforme. Nell’amministrazione locale, furono destituiti gli “agenti nazionali” e una certa autonomia politica fu restituita alle amministrazioni dei dipartimenti. Un commissario del potere centrale, però, tornò presto ad affiancare ogni giunta amministrativa locale. Nella giustizia, il tribunale rivoluzionario, competente per i reati contro lo Stato, fu sottoposto a determinate norme procedurali. Soprattutto, fu elaborata una nuova costituzione, approvata il 22 agosto 1795. Il potere legislativo era affidato a due Camere (un Consiglio dei Cinquecento e un Consiglio degli anziani), il potere esecutivo era delegato a un Direttorio di cinque membri, che nominava autonomamente i ministri del governo e i commissari inviati a

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supervisionare le amministrazioni locali. Esso era responsabile di fronte alla maggioranza nelle Camere, ma alla prima crisi importante con le Camere, nel 1797, fece ricorso all’esercito. Il potere giudiziario fu organizzato in modo simile a quanto previsto dalla costituzione del 1791: nella giustizia civile operavano giudici di pace, tribunali civili, più la corte di cassazione per i ricorsi sulla forma dei procedimenti; nella giustizia penale funzionavano tre gradi di giudizio (giudice di pace, tribunali correzionali, tribunali dipartimentali). In più, furono aggiunte alcune giurisdizioni straordinarie: commissioni giudicanti militari, una distinta corte suprema per i reati di natura politica.

Il colpo di stato del 18 brumaio 1799 chiuse l’esperienza del Direttorio ed aprì una quarta fase nella storia delle istituzioni politiche della Rivoluzione francese. Con una costituzione provvisoria, l’esecutivo fu affidato a tre consoli (di cui il più importante era il Primo console), incaricati di formare un nuovo testo costituzionale, con l’aiuto di due commissioni ristrette scelte dalle due Camere. La successiva costituzione dell’anno VIII attribuiva il potere esecutivo a tre consoli coadiuvati da ministri e dal Consiglio di Stato. I membri di quest’ultimo erano nominati e revocati dal Primo console: si occupavano dell’elaborazione dei progetti di legge di iniziativa governativa ed avevano funzione di suprema giurisdizione amministrativa. Un Senato, composto da 80 membri (che vi entravano per cooptazione, presentati dal Primo Console o dai corpi legislativi), aveva la funzione di organismo di controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi. Il potere legislativo era diviso tra il Corpo legislativo e il Tribunato, non direttamente eletti, ma formati da deputati scelti dal Senato all’interno di “liste di fiducia” create sul territorio, in ogni dipartimento. L’amministrazione, nettamente centralizzata, fu riorganizzata in tre corpi territoriali (dipartimenti, circoscrizioni, comuni). Soprattutto la legge del 28 piovoso anno VIII affidò l’amministrazione locale a prefetti e sotto-prefetti, personale alle dirette dipendenze del potere centrale, con forti poteri nella direzione del governo locale.

La costituzione dell’anno X, che nell’agosto 1802 diede il consolato a vita a Napoleone Bonaparte, portò a un ulteriore rafforzamento dell’esecutivo. La costituzione dell’anno XII, infine, nominò lo stesso Bonaparte imperatore dei Francesi. La struttura

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delle istituzioni politiche rimase sostanzialmente invariata (ma il Tribunato, che aveva poteri di critica dell’operato del Primo console, fu progressivamente esautorato). Le maggiori novità – esaurita, dopo un’intensa stagione, l’esperienza costituzionale – furono la formazione dei codici civile, penale, commerciale, di procedura civile e di procedura penale (fra il 1804 e il 1810).

Di fronte a questa realtà estremamente articolata, Tocqueville procedette a fatica, ma con una tesi ben definita, quella della lunga durata dell’ordinamento politico-amministrativo francese in età moderna. L’Ancien Régime et la Révolution si chiudeva con un capitolo che riassumeva quanto esposto nei libri secondo e terzo, aggiungendo alcuni cenni sulle istituzioni politiche varate durante la Rivoluzione francese. La palma di migliore stagione di riforme, a giudizio di Tocqueville, andava al 1789. All’inizio della rivoluzione, i diritti individuali erano stati definitivamente sanzionati, le norme che concedevano privilegi a molti soggetti sociali erano state abolite e la potente amministrazione centralizzata era stata spazzata via in un colpo. Si era trattato di un risultato epocale nella storia delle istituzioni francesi, che Tocqueville ricordava con enfasi. Tuttavia, era bastato che la pratica politico-amministrativa si fosse illanguidita e scoraggiata (di nuovo Tocqueville pensava alle istituzioni come ad organismi viventi), erano bastati alcuni anni di dittatura popolare – di “governo rivoluzionario” – perché il potere assoluto avesse la forza di rinascere, insieme con la centralizzazione dell’antico regime: l’allusione era scopertamente a Napoleone Bonaparte e alla sua potente amministrazione, che si sarebbe consolidata anche dopo la caduta dell’imperatore rimanendo una costante del sistema politico francese durante i turbolenti decenni tra il 1815 e il 1851.

Se la storia delle istituzioni politiche francesi dal punto di vista dell’ancien régime faceva vedere le riforme della Rivoluzione solo come una parentesi, un breve intermezzo nella storia dell’accentramento, dal punto di vista della ricostruzione degli eventi politici dalla Rivoluzione all’Impero napoleonico i numerosi mutamenti istituzionali messi in evidenza dovevano avere ben altro peso. Tocqueville iniziò a raccogliere materiali e riflessioni per l’opera che avrebbe dovuto costituire il seguito de L’Ancien Régime et la Révolution: se ne può formare un piccolo repertorio a partire dagli appunti lasciati dall’Autore alla sua morte.

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Dedicato un primo libro ancora alle rivolte parlamentari del 1787-88, all’assemblea di notabili del 1787, agli Stati generali convocati l’8 agosto 1788 e aperti nel maggio 1789, Tocqueville nel secondo libro doveva analizzare le innovazioni istituzionali della Rivoluzione. La convocazione regolare della Costituente, stimata come una delle migliori realizzazioni della Rivoluzione, era per Tocqueville un punto di non ritorno, il segno che ormai si era compiuta una definitiva frattura con l’antico regime. Egli aveva pianificato di esaminarne tutti i provvedimenti normativi. Per questo, anche se ancora non sapeva in quali archivi dovessero essere condotte le necessarie ricerche, aveva intenzione di accumulare «ogni specie di particolari amministrativi» [S.P., p. 977]. Si proponeva altresì un «esame di tutto il complesso di leggi della Costituzione» [ibidem], nella convinzione che essa avesse sancito importanti principi generali (sovranità della nazione, uguaglianza formale di tutti i cittadini, omogeneità del sistema politico-istituzionale su tutto il territorio). Quanto alla pratica dell’amministrazione, però, la sua analisi nasceva da un punto di vista decisamente critico: vedeva infatti le province in preda dell’anarchia, «l’antico regime [...] quasi sradicato, resistendo solo qualche brandello, il nuovo non ancora stabilito» [S.P., p. 982]. Quindi, le istituzioni del periodo giacobino erano scarsamente indagate: Tocqueville postulava soltanto una diretta filiazione tra la centralizzazione amministrativa voluta dai giacobini e il Terrore, attribuendo però al regime di Robespierre il merito di aver tenuto insieme una macchina di governo ancora incerta. Quanto alle istituzioni politiche del Direttorio, Tocqueville ne aveva parlato nel capitolo scritto nell’estate 1852 («Come la repubblica era pronta a sottomettersi a un padrone»). Di nuovo era ricorso alla metafora organicista: il sistema politico-istituzionale che aveva scalzato il governo rivoluzionario giacobino sembrò soffrire «di consuzione senile che non si sarebbe potuta definire altrimenti, se non come la difficoltà di esistere» [S.P., p. 992]. La sua legislazione, divenuta tra il 1797 e il 1799 crudele e illiberale più di quella giacobina, non fu mai completamente applicata proprio per la disorganizzazione dei suoi apparati. Il 1799, dopo che con un colpo di stato dei corpi legislativi, il Direttorio era caduto, era sembrato l’acme di questa anarchia: Tocqueville, leggendo i rapporti dei funzionari del governo, aveva riscontrato che la coscrizione militare era sistematicamente elusa, che le imposte non davano gettito, che

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l’ordine pubblico non era mantenuto, che la giustizia civile non funzionava più. Era «la situazione di una Francia che si rifiutava al suo governo» [S. P., p. 996].

Per uscire da questa crisi, un semplice ritorno all’antico regime era ipotesi non praticabile: troppi gruppi sociali si erano avvantaggiati dalla sua caduta, troppo odiate erano le sue istituzioni politiche e civili, ancora ben vive nel ricordo delle popolazioni. Fu l’istituzione militare ad offrire la risposta. Tocqueville seguì distintamente l’evoluzione del ruolo dell’esercito nella Rivoluzione francese: dapprima esso appariva quasi estraneo alla vita politica; poi, quando era ormai molto ben organizzato ed aveva ottenuto molte vittorie sul campo, partecipò attivamente al governo: il 13 vendemmiale (5 ottobre) 1795 aveva difeso la Convenzione da una sedizione filo-monarchica, il 18 fruttidoro 1797 aveva aiutato il Direttorio ad affermarsi contro il potere legislativo, il 30 pratile 1799 rifiutandosi di sostenerlo ne aveva accelerato la caduta. L’ascesa del Bonaparte, così, per Tocqueville si trovava inserita nel contesto di una determinata dinamica politico-istituzionale, cioè appunto il crescente ruolo politico degli stati maggiori dell’esercito nella direzione dello Stato. Ma il colpo di stato del 18 brumaio aveva anche concluso una vicenda individuale eccezionale: Tocqueville, che nel 1850 aveva ripreso gli studi pensando di concentrarsi sulla figura di Napoleone, si preparava a mettere in risalto le sue doti e la sua capacità di approfittare del grave momento di crisi. Analizzò molte fonti relative al colpo di stato, giudicandolo maldestro e improvvisato: ebbe successo soltanto, a suo giudizio, «per l’onnipotenza delle cause» che lo avevano prodotto. [S.P., p. 1025]. L’opinione pubblica voleva infatti che la Rivoluzione avesse termine e che il governo fosse consolidato. Napoleone diede risposte proprio a queste domande: suo obiettivo fu la ricostruzione sistematica della macchina amministrativa, nella convinzione che un sistema ben ordinato di uffici desse non solo ordine al governo, ma anche canali di distinzione sociale ai cittadini. Egli proponeva qualcosa di simile al sistema della venalità degli uffici nell’antico regime. Ma, osservava Tocqueville, la politica di Napoleone era più efficace: non creava uffici solo onorifici (come la maggior parte di quelli dell’antico regime), inamovibili e senza vero contatto con il potere centrale, istituiva invece una gerarchia di posti cui si accedeva gratuitamente, ma che erano «inseriti nel gran sistema della centralizzazione» [S.P.,

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p. 1029]. Il risultato era stato veramente eccellente: la macchina amministrativa costruita da Napoleone negli anni del consolato appariva così perfetta da poter funzionare «quasi senza motore» [S.P., p. 1030]. Anche il sistema politico inaugurato con l’Impero appariva a Tocqueville una ben riuscita forma di dispotismo, illimitato ma giustificato dal diritto e addirittura da una parvenza di legittimità democratica (il plebiscito che aveva confermato la proclamazione del Bonaparte imperatore dei Francesi). A questo riguardo poteva essere utile una comparazione con l’Impero romano, definita «monarchia democratica». Tocqueville trovava nelle due realtà politiche grandi analogie: «la comune servitù che sostitui[va] la comune libertà, l’invidia soddisfatta che prende[va] il posto del possesso della libertà. L’uguaglianza davanti al padrone, più cara alle anime basse e volgari che l’uguaglianza davanti alla legge» [S. P., p. 1034]. Non sembrò però interessato ai particolari costituzionali del nuovo regime. Negli appunti rimasti si possono invece trovare analisi di singole istituzioni amministrative: la coscrizione militare nel 1809 e il sistema penitenziario nel 1811-1812 (del resto, Tocqueville si era occupato del problema delle carceri sin dai tempi del suo viaggio in America).

Erano solo i primi passi di quell’analisi delle istituzioni politiche dal 1789 al 1815 che Tocqueville riteneva di dover affrontare. Ma il suo compito era troppo vasto: come scrisse in una lettera a Louis de Kergolay il 16 maggio 1858, il suo obiettivo era tratteggiare il movimento delle idee e della mentalità («mouvement des idées et des séntiments»), i mutamenti successivi intervenuti alle condizioni sociali, alle istituzioni e ai costumi dei francesi, man mano che la Rivoluzione procedeva innanzi («les changements successifs qui se font dans l’état social, dans les institutions, dans l’esprit et dans les moeurs des Français à mesure que la Révolution marche») [in O. C. [Bmt], V, pp. 401-402]. A questo scopo, intendeva rivivere gli avvenimenti con gli occhi dei contemporanei, calarsi nell’immensa produzione di scritti di quei decenni. La lentezza dei lavori lo faceva dubitare del risultato: in più, Tocqueville scriveva nella stessa lettera a Kergolay di aver impressione che in questa malattia della Rivoluzione francese fosse comparso un virus che si era impadronito dei protagonisti e li aveva spinti a una condotta radicale, estrema, audace quasi al punto della follia.

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Quest’ultimo ricorso alla metafora organicista (la «maladie de la révolution française», il «virus d’une espèce nouvelle et inconnue») prefigurava la fine dei suoi sforzi di portare a compimento il volume.

In questa improvvisa apparizione dell’irrazionale non c’era più spazio per la storia delle istituzioni.

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Opere citate e segnalate opere di Tocqueville:

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