Sfida Per Bencolin

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JOHN DICKSON CARR SFIDA PER BENCOLIN (Castle Skull, 1931) 1 D'Aunay cominciò a parlare di castelli, di magia e di morte. Eravamo in un angolo del discreto ristorante Laurent sui Campi Elisi. Le lampade dei tavoli mandavano la loro luce rosa verso le stelle e gli alberi; a quell'ora tarda, i clienti non erano numerosi. Un'orchestra, fra le palme, suonava il motivo che a quel tempo canticchiava tutta Parigi. Di fronte a noi, sedeva Jerome D'Aunay. Beveva solo acqua di Vichy e le sue dita armeggiavano intorno allo stelo del bicchiere a calice; quelle di- ta sarebbero state indaffarate comunque, perché D' Aunay non poteva mai starsene tranquillo. Doveva sempre giocherellare con qualcosa o scrivere lettere immaginarie, col cucchiaio, sulla tovaglia. La sua irrequietezza era ancora più strana, nella tranquillità di quella notte. Jerome D'Aunay. Uno degli uomini più ricchi del mondo. Piccolo, tozzo, coi freddi occhi azzurri che fissavano l'interlocutore con uno sguardo sconcertante, e fini capelli neri pettinati lisci. Rughe profonde gli circon- davano il naso massiccio e la bocca, che pareva avere acquistato una strana morbidezza per il troppo parlare. — Signor Bencolin — disse — vi farò una proposta che chiunque trove- rebbe strana. Ma vi conosco abbastanza, anche se per sentito dire, e sono certo che non la considererete tale, e nemmeno importuna. Ripensando a quel momento, mi chiedo quale impulso abbia spinto D'Aunay a trascinare Bencolin nel caso. Ora che tutto è finito, ricordo an- cora ogni cosa di lui: dal primo compitissimo invito a pranzo, all'ultima scena terrificante in cui vidi le sue scarpe immobili sotto uno scialle multi- colore. Ricordo ogni cosa, ma lui rimane ancora un enigma per me. Naturalmente non poté fare a meno di crollare quando vide la figura ghignante alla luce delle candele del Castello del Teschio, ma fu il suo cuore a cedere, non la sua sicurezza. Tutto questo, però, anticipa gli eventi. D'Aunay bevve un altro sorso d'acqua di Vichy e continuò: — Vengo al punto. Siete un investigatore parigino, signor Bencolin. Be- ne. Voglio assicurarmi i vostri servigi.

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JOHN DICKSON CARR SFIDA PER BENCOLIN

(Castle Skull, 1931)

1 D'Aunay cominciò a parlare di castelli, di magia e di morte. Eravamo in un angolo del discreto ristorante Laurent sui Campi Elisi. Le

lampade dei tavoli mandavano la loro luce rosa verso le stelle e gli alberi; a quell'ora tarda, i clienti non erano numerosi. Un'orchestra, fra le palme, suonava il motivo che a quel tempo canticchiava tutta Parigi.

Di fronte a noi, sedeva Jerome D'Aunay. Beveva solo acqua di Vichy e le sue dita armeggiavano intorno allo stelo del bicchiere a calice; quelle di-ta sarebbero state indaffarate comunque, perché D' Aunay non poteva mai starsene tranquillo. Doveva sempre giocherellare con qualcosa o scrivere lettere immaginarie, col cucchiaio, sulla tovaglia. La sua irrequietezza era ancora più strana, nella tranquillità di quella notte.

Jerome D'Aunay. Uno degli uomini più ricchi del mondo. Piccolo, tozzo, coi freddi occhi azzurri che fissavano l'interlocutore con uno sguardo sconcertante, e fini capelli neri pettinati lisci. Rughe profonde gli circon-davano il naso massiccio e la bocca, che pareva avere acquistato una strana morbidezza per il troppo parlare.

— Signor Bencolin — disse — vi farò una proposta che chiunque trove-rebbe strana. Ma vi conosco abbastanza, anche se per sentito dire, e sono certo che non la considererete tale, e nemmeno importuna.

Ripensando a quel momento, mi chiedo quale impulso abbia spinto D'Aunay a trascinare Bencolin nel caso. Ora che tutto è finito, ricordo an-cora ogni cosa di lui: dal primo compitissimo invito a pranzo, all'ultima scena terrificante in cui vidi le sue scarpe immobili sotto uno scialle multi-colore.

Ricordo ogni cosa, ma lui rimane ancora un enigma per me. Naturalmente non poté fare a meno di crollare quando vide la figura

ghignante alla luce delle candele del Castello del Teschio, ma fu il suo cuore a cedere, non la sua sicurezza.

Tutto questo, però, anticipa gli eventi. D'Aunay bevve un altro sorso d'acqua di Vichy e continuò: — Vengo al punto. Siete un investigatore parigino, signor Bencolin. Be-

ne. Voglio assicurarmi i vostri servigi.

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Bencolin gli lanciò una occhiata, continuando a studiare controluce il suo bicchiere di Cointreau. Ho descritto quest'uomo in molti altri casi, e se conoscete Parigi, conoscerete senz'altro anche il famoso "juge d'instruc-tion" della Senna, i suoi capelli neri divisi al centro della testa e arricciati ai lati della fronte come due corna, i grandi occhi impenetrabili dalle pal-pebre socchiuse, gli zigomi alti, il naso aquilino, il sorriso sornione fra i baffi e la barbetta a punta.

Bencolin rigirò lentamente il bicchiere fra le dita. — Assicurarvi i miei servigi... — fece eco. — Mi sono informato sul vostro conto — disse D'Aunay — come mi in-

formo sul conto di tutti. Siete il miglior funzionario di polizia d'Europa. Siete anche ricco e avete comprato la vostra presente posizione...

— Vi prego! — Oh! Niente giustificazioni — esclamò D'Aunay fregandosi le mani.

— Non vi condanno. Avete dimostrato di essere tagliato per questo genere di lavoro e avete tramutato, a suon di franchi, il vostro gioco preferito in una professione!

Un lampo apparve fra le palpebre di Bencolin, ma si spense immediata-mente. Man mano che D'Aunay continuava a parlare, i suoi occhi si face-vano sempre più attenti.

— Per il mio scopo, voglio quanto di meglio si possa trovare. Non vi in-sulterò chiedendovi qual è il vostro onorario. Siete in vacanza. Bene. Non vi darò nemmeno un soldo. Quando vi avrò raccontato la faccenda, sarete voi a voler lavorare per me, perché vi troverete fra le mani il più strano ca-so della vostra carriera.

Piegato in avanti, D'Aunay faceva crepitare le parole senza togliere gli occhi di dosso a Bencolin. Sentivo la tremenda forza dominatrice di quel-l'uomo. Afferrò gli angoli del tavolo e abbaiò:

— Be'? Bencolin rimase zitto per un poco. — Signor D'Aunay — mormorò alla fine — avete un modo affascinante

di trattare gli affari. Andate avanti. — I suoi occhi non lasciarono per un istante quelli di D'Aunay. — Se il vostro caso m'interessa, lo accetterò. Ma avete invitato anche Jeff a godere del vostro squisito pranzo. Come entre-rebbe lui nella combinazione?

Gli occhi di D'Aunay si posarono su di me. — Il signor Marle non è un investigatore — spiegò. — Inoltre, e vi pre-

go di scusarmi, non penso che la natura sia stata generosa con lui in fatto

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d'intelligenza. Ma voi avete bisogno di aiuto e non voglio che un grossola-no bestione di ispettore della Sûreté abbia a che fare con la gente che do-vrò presentarvi. Mi trovate poco diplomatico, vero? Inoltre ha lavorato per voi in altri casi... Vorrà dire che farà di tutto per cercar d'essere per lo me-no inoffensivo.

Guardando quell'uomo piccolo e tozzo mi sentii prudere le mani per la voglia di dargli una lezione. Era stato maledettamente sfrontato. Tuttavia, me ne resi conto subito, per fortuna, non aveva avuto alcuna intenzione di essere offensivo. Sapeva quel che voleva e cercava di ottenerlo senza scru-poli né formalismi.

Così feci quanto di meglio mi restasse da fare. Scoppiai in una risata. — Non c'è male, signor D'Aunay — esclamai. — Assumete un investi-

gatore promettendogli che non gli darete un soldo, e un altro dopo avergli assicurato che non lo ritenete abbastanza intelligente!

Seccato, D'Aunay spazzò via le mie parole con un gesto impaziente. — Non avete ancora risposto — esclamò. — Volete decidervi? — La mia risposta è sì, grazie quella vostra infernale maniera d'imporvi. — Ah! Bene! Adesso dovrò solo dimostrarvi che v'interesserà. Bencolin annuì brevemente. All'improvviso D'Aunay sparò una domanda: — Avete sentito parlare,

naturalmente, di Maleger, l'illusionista. Cominciava davvero a interessarmi. Maleger. Tutti conoscevano quel

nome, per la fama che aveva goduto prima della guerra. Fino alla sua mor-te una quantità di leggende erano state create attorno a lui.

Uno dei più vividi ricordi della mia infanzia si collega alla sera in cui mio padre mi condusse al vecchio teatro Polis di Washington, per assistere a uno spettacolo di Maleger, durante la sua "tournée" in America. Dopo, ebbi incubi per tutta la notte.

Maleger non era uno di quei sorridenti, geniali impostori che siamo abi-tuati ad ammirare. La sua personalità, la sua forza terribile e sinistra, por-tavano al di là della finzione del teatro. Eravamo in poltrone di prima fila. Ricordo lo sguardo penetrante dei suoi occhi scuri, la testa maestosa con lo scomposto ventaglio di capelli rossi. Stava in mezzo al palcoscenico, vesti-to completamente di nero, senza fronzoli, con la sua figura dinoccolata, gli strani vestiti fuori moda, le dita adunche aperte sul tavolo.

All'improvviso gettò un grido che pareva una risata stridula, alzando le braccia in alto, e la sua testa si staccò dal busto e volò sulla platea ghi-gnando. Era un po' troppo per un ragazzino di nove anni, e anche per molte

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persone adulte. Mi resi conto che D'Aunay stava ancora parlando. — ... e questa è la ragione per cui voglio dirvi qualcosa di lui. Lo cono-

scevo bene, forse meglio di chiunque altro. Vi sorprende? Be', è cosi, co-munque. Non so ancora se era un impostore o...

D'Aunay giocherellava ora con una pallina di mollica. — Era una celebrità. Di dove fosse, non lo so. Parlava tutte le lingue e

non avreste potuto dire qual era la sua. Sapete, vero, che era immensamen-te ricco?

— L'ho sentito dire — rispose Bencolin. — Diamanti — continuò D'Aunay. — E la sua età? Non ho mai potuto

saperla. So che era a Kimberley nel novantuno e che era già anziano. Lo incontrai più tardi, quando lavorava per il governo belga.

— Lavorava in teatro per passione, allora. — Proprio come voi per i misteri — sogghignò D'Aunay, fregandosi le

mani. — Dovreste capirlo. Bene, la sua vita pubblica cominciò più tardi, comunque. Un uomo così affascinante non avrebbe potuto rimanere nel-l'ombra. Ricordate, vero, i suoi abiti strani, le lunghe automobili nere dalle tendine perennemente abbassate, le sigarette oppiate, la collezione di co-stose cianfrusaglie senza senso? Tutto ciò che lo circondava era strano.

"Vengo al punto. Nel millenovecentododici, o giù di lì, volle comprarsi una casa. Così acquistò il famoso 'Schloss Schadel', il Castello del Te-schio, sul Reno, a poche miglia da Coblenza. Non avrebbe potuto sceglier-si un posto più appropriato. E quindi abitò sopra le rocce e i pini, dove il Reno è più stretto e impetuoso... Conoscete la zona?"

Bencolin scosse il capo. — Lo conoscerete — affermò D'Aunay — perché ci andremo. Ci mise

un anno intero per trasformare quelle rovine in un posto da incubo. Non conosco tutti i segreti del castello e ne sono felice. Non che io creda... Ma vedete, ogni volta che si dimostrava ingenuo, stava lavorando a qualche trucco che accrescesse il suo potere sugli uomini.

"Sapete, naturalmente, che aveva pochi amici. Io sono l'ultimo di questi. L'altro era Myron Alison, l'attore inglese. Lo avrete sentito nominare."

Le palpebre socchiuse sugli occhi di Bencolin lasciavano intravedere le pupille leggermente dilatate. Aveva dimenticato persino il liquore: era tut-to orecchi, ora.

L'orchestra lasciava cadere attorno a noi, dal suo nascondiglio di foglie, una cascata di note a tempo di valzer.

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— Conosco Myron Alison, naturalmente — disse Bencolin. — Ma per-ché avete detto "era"?

— Questo è il punto — mormorò D'Aunay. — Alison è stato assassina-to. Il suo corpo in fiamme è stato visto correre intorno ai bastioni del Ca-stello del Teschio.

— Be'... — fece Bencolin — mi sembra un po'... — È vero. La vitalità di quell'uomo era apparentemente prodigiosa. Feri-

to tre volte al petto da colpi d'arma da fuoco, era ancora vivo quando l'as-sassino l'ha cosparso di petrolio e gli ha dato fuoco.

Vi fu un lungo silenzio. Per un attimo D'Aunay lasciò trasparire il suo nervosismo fino allora represso. Un altro sorso d'acqua di Vichy, poi con-tinuò:

— Ma sto andando fuori dei binari. Vi dicevo che Alison e io eravamo gli amici di Maleger. Da molti anni, Alison possedeva una casa sulle rive del Reno, proprio di fronte al Castello del Teschio, sull'altra sponda. Io stesso, signori, sono diventato noto solo dopo aver conosciuto loro.

"Ricorderete certamente come e quando Maleger mori. Stava viaggiando solo in treno, da Mainz a Coblenza. Nessun altro viaggiatore era con lui nello scompartimento di prima classe; non scese a Coblenza, dove la sua macchina lo aspettava per portarlo al castello. Molti giorni più tardi, il suo corpo fu ripescato dal Reno."

Dopo un attimo di silenzio, D'Aunay alzò il capo e guardò il poliziotto negli occhi. Rabbrividì.

— I vagoni corrono per molti chilometri proprio sulla sponda del fiume — continuò. — Se un uomo cade dal finestrino può finire nell'acqua per lo spostamento d'aria. Era notte e la caduta di Maleger non sarebbe stata no-tata da nessuno né si sarebbero potute udire le sue grida. Non credo che sapesse nuotare. Ma è strano, comunque. — D'Aunay sospirò profonda-mente. — Molto strano — mormorò. — Sembra una cosa impossibile che quell'uomo non abbia potuto trovare il modo di salvarsi. Lo spazio fra i vagoni e l'acqua... la vegetazione... a meno che non si sia trattato di suici-dio. Ma è accettabile un suicidio così incolore, dopo una vita spettacolare come la sua? No, no, signori! E posso assicurarvi anche che non si è tratta-to di una messa in scena. Era l'ultimo vagone del treno, l'ultimo scompar-timento, anzi, e l'agente di polizia ferroviaria giura che nessuno vi era sali-to durante il viaggio. L'agente ci ha fatto caso, perché sapeva chi era Ma-leger. Ho un'idea, naturalmente... Ma è meglio che continui...

"Gli eredi di Maleger, e anche questo vi sorprenderà, siamo Alison e io.

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Oltre al resto ci ha lasciato anche il Castello del Teschio, con la clausola che non l'avremmo dovuto vendere. Ha perfino pensato allo stanziamento di un fondo per le tasse e le manutenzioni. Ci sono state anche altre dispo-sizioni sul lascito di suoi effetti, ma non ve ne parlerò adesso. In ogni ca-so..."

— State cercando di dirci che la morte di Maleger ha avuto un'influenza diretta sull'assassinio di Alison? — lo interruppe Bencolin.

— Sono costretto a pensarlo. Ma aspettate il seguito. Il dottore mi aveva detto che avevo un forte esaurimento nervoso. Bah! Non sono mai stato nervoso in vita mia, ma a volte si è costretti a credere ai dottori! — Il no-stro ospite si fregò le mani, col gesto che gli era abituale. — Mi disse che avevo assoluto bisogno di riposo. In fondo era una cosa che potevo fare: il mercato era fermo e potevo fidarmi del mio agente per un paio di settima-ne. Così il mio amico Alison m'invitò sul Reno.

"Riposo! Altro che riposo! Che razza di casa! È diretta dalla sorella di Alison, che tutti chiamano duchessa, e questo senza alcuna ragione al mondo, perché non ha alcun titolo. Una donna grossolana che fuma sigari, bestemmia e gioca a poker tutta la notte. Una bella compagnia, per mia moglie! In ogni modo, nessuno degli ospiti ha passato là delle ore riposan-ti. Però è una casa piacevole, con una immensa veranda che guarda sul Re-no, dove eravamo abituati a sederci al sorgere della luna. A destra, al di là del fiume, sopra la sommità dei pini, potevamo vedere il Castello del Te-schio, che pareva guardarci.

"Amici miei, è proprio così. Il nome non è una fantasia: la parte centrale è costruita in modo da sembrare un'enorme testa di morto, con occhi, naso e mascelle quadrate. Ci sono perfino due torri, ai lati della costruzione, che sembrano delle grandi orecchie, tanto che quel mefistofelico teschio ghi-gnante sembra ascoltare le vostre parole. È situato su una rupe, con la fac-cia rivolta verso i pini neri, a strapiombo sul fiume. È accaduto all'imbru-nire. Otto giorni fa..."

— Aspettate! — lo interruppe Bencolin. D'Aunay era così preso dal suo racconto che parve stupito di ritrovarsi

nella calma del ristorante Laurent. — Non voglio sentire più niente ora — esclamò Bencolin. — Sì, sì, mi

occuperò del caso, ma voi non potreste che confondermi le idee. Mi pare di aver capito che tutta quella gente è ancora nella villa di Alison.

— Proprio così. — E il mio compito sarebbe di scoprire l'assassino di Alison, vero?

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— Sì. — Vedo... Bene, allora, preferisco aspettare di essere sul posto, prima di

sentire ancora una parola. Altrimenti sarei solo confuso. Chi si incarica uf-ficialmente della faccenda?

— La polizia di Coblenza. Ho sentito dire, però, che avevano l'intenzio-ne di chiamare un funzionario da Berlino. Forse lo hanno già fatto.

Bencolin appoggiò un gomito al tavolo, tamburellandosi le tempie con le dita. Aveva gli occhi fissi sul fondo del bicchiere, e le mascelle erano con-tratte sotto la barba nera. Non parlò.

— Allora è deciso — esclamò D'Aunay seccamente. — Non capisco perché non vogliate ascoltare com'è andata, ma d'altra parte non sono affari miei. Allora, potete partire domani mattina?

— Come dite? — chiese Bencolin sobbalzando. — Ah, si... certamente. — E ricadde nel suo sogno a occhi aperti.

— E voi, signor Marle? Sfortunatamente io non potevo e glielo dissi. Dovevo finire la revisione

d'un libro per il giorno successivo. D'Aunay ne fu puerilmente irritato, ma gli promisi che li avrei raggiunti senz'altro due giorni dopo, telegrafando l'ora del mio arrivo.

Solo mentre ci salutavamo, Bencolin si decise a parlare. — C'è qualcosa che mi piacerebbe sapere — disse a D'Aunay. — Non

sull'omicidio di Alison, ma per quanto riguarda la morte di Maleger. Uno strano interesse carico di tensione apparve negli occhi dell'altro. — Avete visto il corpo, quando fu ripescato dal fiume? — chiese il poli-

ziotto. — Siete sicuro che fosse quello di Maleger? D'Aunay si fregò compiaciuto le mani. — Ah! Venite verso la mia tesi, vedo — mormorò. — Be', se devo esse-

re sincero, non ne sono affatto certo. Era troppo decomposto, per un rico-noscimento vero e proprio. Non ci giurerei, insomma. Gli furono trovati addosso il suo orologio, le chiavi e un piccolo amuleto che lui portava sempre con sé. Inoltre trovarono al suo anulare anche un anello che era come un feticcio per lui; non lo lasciava mai perché diceva che gli portava fortuna, Ma...

— Capisco — mormorò Bencolin. Lasciammo il ristorante, i motivi di valzer e le

lampade velate di rosa. D'Aunay ci strinse la mano, vicino alla sua auto fuori serie.

Bencolin rimase immobile con gli occhi fissi sui fari della grossa mac-

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china che sparivano fra gli alberi dei Campi Elisi. — Non avrei potuto rifiutare questo caso, Jeff — esclamò alla fine. — È

una brutta faccenda, peggio di quanto si possa immaginare... Avete sentito cos'ha detto del corpo di Maleger? Cosa vi suggerisce?

— Ci può essere la teoria più ovvia — risposi — e cioè che fu una mes-sa in scena architettata dallo stesso Maleger.

— Sì... — mormorò lui con gli occhi ancora fissi sul punto in cui era sparita la macchina. — Vorrei che fosse cosi semplice, ma credo proprio che sia peggio di così, Jeff, e molto più diabolico.

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Il vaporetto scivolava sul Reno sotto un cielo blu scuro, denso di grosse

nuvole. Ho sempre preferito viaggiare sui battelli, quando è stato possibile; hanno qualcosa di primitivo che mi affascina. Quando a Bingen il Reno la-scia la sua ampiezza spumeggiante per diventare più stretto, tutto si incupi-sce; il verde sfuma quasi nel nero, e, sulle colline che chiudono il fiume, le rocce grigie sostituiscono le viti. Pare un mondo immobile di fantasmi.

Sedevo a un tavolo vicino al parapetto e bevevo birra in uno di quegli enormi boccali che usano laggiù; una brezza leggera e umida mi soffiava sul viso. C'era poca gente, sul ponte; per lo più solidi montanari gioviali dalle guance rosse e dai lunghi baffi unti. La grigia immobilità del castello Reinheim scivolò via come in un quadro alla nostra sinistra.

Tutti i passeggeri erano al parapetto per osservare il meraviglioso spetta-colo.

Seduto sul ponte, con quel misterioso vento umido nella faccia, mi pare-va di vivere in un mondo diverso. Alla stazione di Mainz, avevo comprato un libro in lingua inglese, di un certo Brian Gallivan, intitolato "Leggende del Reno". Lo sfogliai distrattamente, ma a poco a poco mi immersi nella lettura: vi lessi di Drachenfelds e Carlomagno; di Rolando e della Catte-drale di Colonia, dove, come sempre nelle leggende popolari, persino il diavolo è un gentiluomo.

— Vi piace? — mi chiese una voce in inglese. Alzai la testa di scatto: un uomo stava in piedi vicino al mio tavolo. In-

dossava un impermeabile gualcito e aveva un cappello calato obliquamente su un occhio; da un angolo della bocca larga, ironica, pendeva una sigaret-ta spenta.

Aveva la faccia lunga e il naso a becco. Pensai che somigliava a Pulci-

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nella. I suoi occhi grigi mi sorrisero giovialmente. — Mi rincresce d'intromettermi a questo modo — esclamò sedendo al

mio stesso tavolo — ma ho voglia di chiacchierare con qualcuno. Vi ho vi-sto leggere quel libro. Sapete, l'ho scritto io. È semplicemente orribile! Mi chiamo Gallivan... Brian Gallivan.

Ci stringemmo la mano e gli chiesi se volesse bere della birra. Accettò subito con entusiasmo.

— Americano? — gli chiesi. — Sì, ma lavoro per l'"Evening Standard" di Londra. — Spinse indietro

il cappello e accese finalmente la sigaretta, gettando un'altra occhiata al li-bro che avevo in mano. — Accidenti! Deve essere la prima copia che ven-dono, quest'anno. È tipico, comunque; un sacco di roba caratteristica me-scolata insieme.

— È questo il vostro stile? — chiesi ridendo. Storse il naso. — Già — confermò poi, come se si vergognasse. — Questo è il mio sti-

le. Sono stato mandato in tutti i castelli d'Europa per trarci fuori un libro sugli spettri. Lavoro strano, eh? Sulla mia biografia leggerete: "Brian Gal-livan, l'uomo dei fantasmi". Ma vi interesserà, comunque; giuro che vi in-teresserà.

Finalmente arrivò la birra. Lui rimase in silenzio per un po', lo sguardo fisso sulle colline in riva al fiume e sul lento avvicinarsi del crepuscolo. Scosse la cenere della sigaretta al di là del parapetto e il vento la riportò di-rettamente nella mia birra.

— Sono appena stato a Francoforte per una faccenda strana — bofon-chiò. — Le cose si mettevano bene, laggiù, ma il capo mi ha telegrafato di piantare tutto. Avete mai sentito parlare del Castello del Teschio?

— Sì — mormorai, un po' imbarazzato. — È successa una cosa piuttosto divertente, da quelle parti. Non fanta-

smi, questa volta, ma un delitto e un mucchio di faccende che possono in-teressare i lettori dell'edizione domenicale. I ragazzi hanno già trattato del-l'omicidio, io devo solo cercare qualcosa di pittoresco. Ma non so neanche se riuscirò a entrare là dentro. Mi hanno detto che il posto è sorvegliatissi-mo.

— Capisco — mormorai. Stavamo costeggiando la riva sulla quale si erge la roccia di Lorelei. Sul-

la curva della riva, dove il Reno si allarga di nuovo, le nuvole si spaccaro-no in lampi rossastri, fendendo l'oscurità e illuminando la sommità dei pi-

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ni; l'acqua si copri di bagliori di fuoco e i lampi s'infransero contro la mas-siccia immobilità della roccia. I passeggeri divennero silenziosi, all'im-provviso. Udimmo l'acqua battere contro la chiglia del vapore e un lontano fischio di locomotiva. Dal tunnel che passa attraverso la collina della roc-cia di Lorelei sbucò un treno: pareva un giocattolo che corresse, lasciando una scia di vapore bianco. Poi la roccia inghiottì ancora il giocattolo.

I passeggeri del battello intonarono un coro di "Lorelei". Li ascoltai, stu-pito, mentre le luci del battello si accendevano.

— Tutte le volte è così — mi disse Gallivan, accennando ai viaggiatori — e, maledizione! tutte le volte mi commuove. Sentite come cantano...

Si alzò e si appoggiò al parapetto, con gli occhi fissi nell'oscurità, poi si rimise a sedere di colpo e si attaccò al boccale di birra.

— Accidenti! Pare che ci sia qualcosa di vero in quello che raccontano di quel posto — borbottò, accennando alla roccia di Lorelei. — Credete che io sia pazzo, vero? Be', lasciamo perdere... Di cosa stavamo parlando? Ah, sì... Del Castello del Teschio. Non ci sono fantasmi veramente attivi, ora, là, per quanto mi risulti. C'è una storia, comunque, su quel luogo. L'a-vete letta? Non l'avevo letta e glielo dissi.

— Ve la racconto io, allora. È stato costruito da un uomo che fu bruciato come stregone nel quindicesimo secolo. Ma fu Maleger a ridargli il fascino che aveva. Per questo, il capo mi ha spedito qui... Avete sentito parlare di Maleger, l'illusionista, no?

— Certo! Lo conoscevate? Gallivan bevve un altro sorso di birra. — Conoscerlo? — bofonchiò. — Sono stato suo agente pubblicitario

negli ultimi anni... prima che morisse. E non che avesse bisogno di me, badate. Cosa non ho saputo di lui, durante quel tempo! E conoscevo anche Myron Alison, quel tipo che è stato ucciso. Era una buona lana anche lui...

Lo scrittore si mordicchiò le labbra pensosamente. Per un po' di tempo rimase immerso nelle sue fantasie senza parlare, mentre io pensavo che forse quel nostro incontro avrebbe potuto risolversi in qualcosa di utile.

— Sentite un po' — gli dissi, alla fine — forse possiamo fare qualcosa insieme, noi due. Vedete, io sto andando a casa di Alison per aiutare... Be', per aiutare la polizia a scoprire l'assassino.

Gli dissi che sapevo pochissimo della faccenda. Non potevo promettergli che l'avrei fatto entrare al castello, perché ancora non conoscevo nessuno del posto, ma, se mi avesse lasciato il suo indirizzo, gli avrei telefonato su-bito dopo aver preso contatto con le autorità. Gli lasciai capire che qualcu-

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no non era soddisfatto della spiegazione data per la morte di Maleger. Lui mi guardò meravigliato mormorando: — Che bel caso! Ma quando parlai della morte di Maleger, quasi saltò in piedi per l'agita-

zione. — Lo sapevo! — gridò. — Dannazione! Signor Marle, è quello che ho

sempre sostenuto. Quel vecchio non sarebbe mai caduto come uno scemo dal finestrino del treno, non sarebbe rotolato giù fra alberi e sterpi fino al fiume in quel modo. È assurdo! Ma che cosa potevo fare?

— Suicidio? — Omicidio — disse Gallivan, secca — L'agente della polizia ferroviaria — insistei — giura che non c'era

nessuno, nel vagone. Inoltre assicura che nessuno si è mai avvicinato a Maleger durante il viaggio.

— Lo so — mormorò il mio interlocutore. — E la cosa più strana è che diceva la verità. Ho assistito alla testimonianza e abbiamo investigato sulla sua vita dall'a alla zeta. Sentite, era talmente eccitato dal fatto che sul suo treno si trovasse Maleger, che forò tutti i biglietti prima di quello dell'illu-sionista, in modo da potersene rimanere vicino al suo scompartimento e magari scambiare qualche parola con lui. Perciò restò nel corridoio dello scompartimento per tutto il viaggio. Mentre il treno entrava in Coblenza, si affacciò per chiedere se Maleger avesse bisogno di qualcosa: niente! Il suo posto era vuoto, non c'era più nessuno là dentro. Io gli credo.

— Be', mi sembra un po'... — Vi dico che è stato assassinato! — affermò Gallivan, continuando a

cercar sigarette in tutte le tasche. Gliene offrii una, che accese con dita tremanti. Alla luce del fiammifero vidi che era molto pallido.

— Non mi chiedete come e perché — continuò. — È come se una mano invisibile si sia abbattuta su di lui e l'abbia scaraventato fuori del vagone.

— Non ha senso! — Aspettate! Avete sentito dire che si è vista un'ombra sui bastioni del

castello, mentre Alison correva, gli abiti in fiamme, sotto il chiaro di luna? No? Accidenti, che poliziotto! Non conoscete gli elementi del vostro caso. Cominciavo a sentirmi a disagio.

— Amico mio! — esclamai infine. — Io sono solo un assistente e di po-co conto, per giunta. Non ho ancora letto gli incartamenti. Sto solo ese-guendo gli ordini del mio capo.

All'improvviso Gallivan posò le mani aperte sul tavolo e si chinò in a-vanti, con gli occhi fissi nell'oscurità.

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— Eccolo, signor Marle — sussurrò con voce appena percettibile. — Ecco il Castello del Teschio.

Seguii la direzione del suo sguardo: il castello era ancora lontano, ma il traghetto pareva procedere a velocità molto forte, ora. Sulle prime non fu che una macchia confusa con due grandi torri laterali, spettrale nella fo-schia scura, accovacciata su una roccia fra i pini. Il cielo dietro era striato di bianco, ma le nuvole e i lampi parevano voler cacciare anche quel poco chiarore. Dalla riva sinistra, delle luci gettavano bagliori radi sull'acqua scura.

Poi il Castello del Teschio divenne più netto, più visibile. Era costruito su un fianco della collina. Mi sporsi dal parapetto per vedere meglio: al centro delle sue mura, coi bastioni costruiti in modo che sembrassero la dentatura di una testa di morto, si ergeva il grosso teschio di pietra. La luce era troppo scarsa perché potessi scorgerne i particolari, ma vidi le enormi orbite e le due torri orribilmente simili a orecchie.

Né Gallivan né io parlammo finché il fiume non fece una curva e po-temmo scorgere finalmente le luci di Coblenza, sulla riva sinistra, dove il Reno si unisce alla Mosella.

Rientrammo per prendere i nostri bagagli. Gallivan mi diede il suo biglietto da visita. — Ecco qua — disse, scrivendoci sopra l'indirizzo. — Albergo Traube,

Rheinstrasse. È a pochi passi dall'imbarcadero. Non dimenticatevi di me, signor Marle, me ne starò a cuccia finché non avrò avuto vostre notizie.

Quando il battello si fermò al piccolo molo, vi fu uno scoppio improvvi-so di rumori: rintocchi di campane, tonfi di bagagli, un incrociarsi di voci eccitate nella luce pallida. Ai piedi della scaletta scorsi un giovane in abito di flanella bianca e berretto da marinaio, il quale scrutava i viaggiatori che scendevano. I suoi occhi si fermarono su di me.

— Il signor Marle? — chiese in un inglese eccellente. — La signorina Alison ha mandato il motoscafo a prendervi, signore. Volete seguirmi?

Disse poche parole al facchino che portava le mie valigie e mi fece stra-da fra la gente. Dietro di me, con le mani affondate nelle tasche, il cappello calato sull'occhio destro, Gallivan fissava attento un cartello pubblicitario alla scarsa luce di un lampione. Quando mi voltai, mi dedicò un sogghigno che lo fece somigliare ancora di più a Pulcinella.

Le luci erano accese, nelle case della Rheinstrasse. La gente passeggiava chiacchierando e un'orchestra da una terrazza ci fece giungere la sua voce allegra. Non lontano dal molo centrale, una fila di ripidi scalini portava al-

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l'acqua. Un motoscafo lungo e scintillante si dondolava sul fiume. Il brontolio del motore divenne a poco a poco un rombo regolare; schiz-

zammo via con un semicerchio e io ricaddi sui cuscini de! sedile. Quando ci lasciammo indietro le luci di Coblenza, la notte afosa si richiuse buia su di noi. Sopra il ronzio de! motore sentii il tuono; la visiera del pilota brillò un attimo alla luce di un lampo.

Rifacendo la strada che avevo già fatta, vidi sulla destra del fiume un'al-tra rampa di scalini ripidi. La villa di Alison era costruita in alto, in mezzo agli alberi, e una stretta scala di pietra conduceva direttamente alla sua ve-randa. Mi arrampicai su, mentre la guida mi seguiva coi bagagli. Il portico immenso, pavimentato di piastrelle rosse, correva lungo l'intera facciata ed era illuminato, cosa che mi parve grottesca, da lanterne cinesi dondolanti. Un chiarore diffuso proveniente dalle finestre si rifletteva sul portico attra-verso gli alberi giganteschi.

Con le gambe sui braccioli, una ragazza se ne stava sdraiata su una sedia a dondolo. Aveva i capelli neri e ricciuti, tagliati molto corti, e un faccino da diavoletto, ravvivato dal trucco. Un lungo bocchino le pendeva dalla bocca. Se lo tolse e mi guardò incuriosita.

— Accidenti! — esclamò alla fine. — Un altro poliziotto! Questo posto è infestato dai poliziotti.

Aspirò dal bocchino vuoto. Ci sorridemmo. Le chiesi da che parte do-vessi andare.

— Siete in ritardo per il pranzo — mi rispose. E poi, guardandomi me-glio: — Non fate il bruto! Vi conosco, siete Jeffrey Marle, non un poliziot-to. Ho letto uno dei vostri libri, tempo fa. Spero che vi piaccia parlare.

Il suo viso da folletto si rasserenò. Si abbracciò le ginocchia. — Questo posto è diventato orribile — aggiunse. — La duchessa non

vuole che ce ne andiamo. E My è morto da poco... Penso sia meglio che andiate dentro a conoscere gli altri. Mi chiamo Sally Reine. Dipingo. E vi assicuro che non ho ucciso Myron.

Mi voltai lentamente. — Perché, pensano che qualcuno di voi... — Ma certo! Chi era il misterioso individuo che portò My al di là del

fiume col motoscafo e tornò solo? Vedrete... In ogni modo io non ci capi-sco niente.

All'improvviso mi accorsi che quella ragazza tanto sicura di sé era sul punto di scoppiare in lacrime. Sarebbero state strane, quelle lacrime, fra le ciglia cariche di rimmel. Arricciò il naso e voltò la testa. Fra i pini che cir-condavano la casa, il vento aveva incominciato a sibilare impetuosamente;

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una foglia cadde da un albero e volteggiò fra le lanterne arancione. Lasciai Sally sulla veranda.

Il pilota del motoscafo stava parlando sulla porta con un cameriere cal-vo, vestito di nero, il viso da cherubino, che si rivolse a me in un inglese molto marcato, invitandomi a seguirlo. Poi aggiunse: — Se non vi dispia-ce, signore, il signor Bencolin vorrebbe vedervi subito nel salotto della si-gnorina Alison.

L'ampio ingresso era sfarzoso, silenzioso, ammobiliato con gusto quasi barbaro. C'erano pelli di tigre e d'orso sul pavimento e due lanterne di ferro battuto illuminavano la tappezzeria dorata. Sullo sfondo, vidi un grande quadro. Per la prima volta la morte mi guardò nella villa silenziosa: era un ritratto a grandezza naturale di Myron Alison nella parte di Amleto.

Un Amleto altezzoso, con le mani posate sull'elsa di una spada, esile nei vestiti neri, i grandi occhi grigi socchiusi, il profilo perfetto, i capelli neri e folti pettinati accuratamente.

Un Amleto vivo, terribile, con gli occhi fissi in basso, proprio su di me, un sorriso di tranquilla pazzia fisso sulle labbra sottili. Tuttavia Myron A-lison doveva avere almeno cinquantacinque anni, quando il ritratto era sta-to fatto.

Quegli occhi parvero seguirmi mentre salivo le scale. Dietro una porta nella parte centrale della casa, udii delle voci. O me-

glio, udii una voce dal tono stentoreo, deciso. Quella voce apparteneva a una donna, come scoprii quando la mia guida aprì la porta.

Sedeva davanti a un tavolo da gioco, in un'ampia poltrona di fronte alla finestra aperta. Una donna massiccia, un'enorme donna in pizzi bianchi, sogghignante dalla rupe dei suoi seni, si agitò sulla sedia, mettendosi gli occhiali legati al polso da un nastro di seta. Aveva i capelli grigi acconciati in una elaborata pettinatura e fumava un grosso sigaro scuro con voluttà. Ma non era brutta: c'erano scintillii d'ilarità nei suoi occhi e, nonostante la sua grassezza, somigliava molto a Myron Alison.

— Salve! — tuonò quando entrai. — Venite dentro, venite dentro! Ben-venuto. — Mi gettò uno sguardo quasi feroce, poi sorrise. Aspirò una boc-cata dal sigaro scuro, e aggiunse: — Sono Agatha Alison, ma chiamatemi duchessa. Tutti mi chiamano così. Prendete una sedia.

Appoggiato alla finestra, vidi Bencolin, che mi fece un cenno di saluto. — Salve, Jeff! — esclamò. — Siete stato fortunato a non venire con me

e D'Aunay. La macchina si è guastata in aperta campagna e abbiamo mes-so un giorno più del previsto per arrivare... No, nessun ferito... Signora A-

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lison, continuate. Gli occhiali a stringinaso di Agatha Alison scivolarono sul petto della ti-

tolare. — Maledizione! — esclamò, rimettendoli a posto. Dopo qualche rabbio-

sa boccata di fumo, continuò: — Sì, appena arrivati, questo pomeriggio, signor... Il vostro nome è Marle, vero? Jerome D'Aunay non si è ancora vi-sto. Forse perché si vergogna di aver scassato la macchina...

"Come vi stavo dicendo, la cosa accadde due giorni dopo l'arrivo di que-sta gente. Arrivarono D'Aunay e sua moglie, Lavasseur, il violinista, e Sally Reine. Il giovane Dunstan venne a farci visita lo stesso giorno, da Londra, e noi lo pregammo di fermarsi.

"Myron — continuò tranquillamente — recitò quasi una commedia inte-ra per Sally Reine. Che imbecille! In ogni modo, questo accadde dopo pranzo. Myron aveva detto qualcosa circa il suo desiderio di portare Sally al di là del fiume col motoscafo, per vedere il Castello del Teschio al chia-ro di luna; gli piaceva fare di queste sciocchezze. Sono quasi certa, però, che lei non ci andò. Oltre tutto è maledettamente faticoso camminare da quelle parti, quando è buio.

"Gli avevo fatto promettere di venire a giocare a poker con me e la mia cameriera, sul tardi. Era veramente un buon giocatore di poker... — ammi-se, dopo averci pensato. — Anche la mia cameriera gioca bene."

Prese un mazzo di carte dal tavolo, le contemplò un poco, poi le rimise a posto. Il vento giocava con le tendine di cintz; un lungo brontolio di tuoni si susseguì.

— Ricordo di aver udito il ronzio d'un motore di motoscafo, come anche gli altri vi diranno. La notte era molto calda e la luna chiara...

"Frieda, la mia cameriera, sedeva vicino a me, davanti alla finestra aper-ta, e stavamo cercando di giocare in due. Impossibile! Non so dove fossero gli altri... Ah, sì! Eccetto Lavasseur. Ricordo di aver sentito il suo dannato violino da basso per tutta la sera. Suona quasi tutto il giorno per tenersi in esercizio. Credo che Jerome fosse in camera sua e che gli altri non si fosse-ro allontanati dalla casa."

Il vento entrava impetuoso, ma nessuno si mosse per chiudere la fine-stra. Guardando fuori, potevo vedere il portico piastrellato di rosso e il maggiordomo calvo che staccava le lanterne cinesi dai ganci.

— È molto buio, ora — disse Agatha Alison — ma con la luna alta, da qui potreste vedere molto distintamente il castello. — Dopo un attimo di silenzio la donna continuò: — Ricordo l'ora: stavo guardando l'orologio e

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mandavo accidenti a Myron perché non si era ancora fatto vivo. Erano le dieci e dieci. Io e Frieda cercavamo di combinare qualcosa col nostro gio-co a due, e per tutto il tempo ho udito il violino di Lavasseur. Proprio in quel momento stava suonando qualcosa... un minuetto, o qualcosa del ge-nere, intitolato "Amaryllis".

Fischiò qualche battuta del motivo. — Qualcuno, dopo, ha detto di aver udito degli spari. Io non li ho uditi,

e nemmeno Frieda, ma ho sentito un grido raccapricciante provenire dal fiume. Mi sono affacciata alla finestra: la luna era alta, proprio sul teschio, e la sua sommità pareva brillare e così pure il naso e una parte del mento.

"All'improvviso qualcosa di luminoso corse fuori dal punto in cui do-vrebbero esserci i denti. Era molto piccolo, data la distanza, ma pareva proprio un uomo in preda alle fiamme, che urlava. Si potevano udire fin da qui, quelle grida... Cominciò a correre lungo i bastioni, davanti alla bocca del teschio... e, dannazione! Non potrò mai dimenticare che pareva ballas-se proprio sul ritmo di quell"Amaryllis'.

"Poi cadde e rimase lì a bruciare..." Gli occhi della donna erano ridiventati freddi. Cercò di scacciare l'orribi-

le ricordo. Prese le carte e cominciò a disporle sul tavolo; il sigaro si era spento, e all'improvviso lei sembrò molto vecchia.

Disse, con una specie di aggressiva giovialità: — Non lo sapevo, è naturale, ma quell'uomo era Myron!

3 Durante la recita. Bencolin si era seduto ed era rimasto con gli occhi fis-

si sul disegno del tappeto orientale ai suoi piedi. — E poi? — Poi corsi giù nell'atrio e mandai Frieda a cercare Hoffmann, il mag-

giordomo, e Fritz, il pilota del motoscafo. Dissi loro di attraversare il fiu-me e di andare a vedere cosa stava succedendo al castello.

L'investigatore si rilassò sulla spalliera della sedia. — Un momento — la interruppe con un gesto. — Il castello non è chiu-

so? D'Aunay mi ha detto che è tenuto sotto sorveglianza perché resti nelle condizioni in cui l'aveva lasciato il precedente proprietario...

La duchessa sbuffò, cercando i fiammiferi un po' dappertutto. — Ragaz-zi, non è possibile tenere un posto enorme come quello nelle condizioni in cui era tenuto allora! Non è possibile! Le camere sono chiuse. C'era un

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guardiano, anche, ma figlioli miei, non avrebbe potuto mai tener dietro a quell'innumerevole sfilza di saloni!

— Avete detto "era", signorina Alison? — Ho detto "era" perché è scomparso — rispose l'ospite riaccendendo il

sigaro. La faccia di Bencolin si oscurò. — Be'! Siete convinto di essere il migliore investigatore che esista, no?

— gli chiese la duchessa. — E allora risolvete questo caso, se ne siete ca-pace. Io vi dico solo una cosa: Myron non era buono, ma dopotutto era mio fratello. — Picchiò sul ripiano del tavolo con la palma della mano aperta. — E qualcuno la pagherà per avergli fatto questo, capito?

— Certo, signorina Alison — le rispose Bencolin, rialzando le palpebre sugli occhi interessati. — Qualcuno la pagherà. Volete continuare, ora?

— Vi stavo dicendo che ho mandato Hoffmann e Fritz a vedere cosa stava succedendo. Quando arrivarono al fiume videro che il motoscafo era sparito. Così presero una barca: arrivati dall'altra parte, trovarono il moto-scafo vuoto. Mentre si arrampicavano per la salita che porta al castello, sentirono un motore. Qualcuno tornava indietro.

Bencolin si raddrizzò di colpo. — Ma nessuno vide chi era — continuò la duchessa. — Vedete, c'è

sempre chi se ne va in giro in motoscafo, perciò, quando sentimmo il rom-bo del motore da questa parte del fiume, non ci preoccupammo di sapere chi potesse essere. Perché avremmo dovuto, d'altra parte? Ancora non sa-pevamo cosa fosse accaduto a Myron... Qualcuno riportò il motoscafo da questa parte del fiume e rientrò senza essere notato. Proprio così. Ma io stavo dicendovi di Hoffmann e Fritz. Quando arrivarono lassù...

— Aspettate! — la interruppe Bencolin. — Lo chiederò a loro. Non avevo mai visto Bencolin cosi nervoso, così fuori di sé, e non pote-

vo capirne la ragione. Un occhio che non fosse il mio non l'avrebbe mai notato, ma io lo conoscevo bene, ormai. Apparentemente era soave e im-perturbabile. Un sorriso educato gli aleggiava sulle labbra alla sommità della barbetta a punta, mentre gli occhi scorrevano distrattamente su ogni angolo della stanza. Tuttavia mi resi conto all'improvviso che aveva perso la sicurezza di poco prima. Nessuna domanda a tranello turbò il racconto della signorina Alison. Bencolin pareva stanco.

— Chi si incarica ufficialmente delle indagini? — si limitò a chiedere. — Bah! Konrad, un funzionario di Coblenza. Non si preoccupa altro che

dei cibi. Gli dissi di far fermare questa gente finché non avessimo chiarito

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tutta la faccenda. Mi rispose che era contro la legge. Quando gli dissi che mi sarebbe piaciuto poterlo fare sotto la protezione della legge, finché Je-rome non avesse portato qui il miglior detective disponibile, pareva voles-se schiattare dalla rabbia. E stamattina pare abbia mandato a chiamare un asso dell'investigazione a Berlino. Finché lo chiedevamo noi, era un pro-cedimento altamente irregolare! Pffh!

Bencolin si alzò e chiuse la finestra. — Sì — mormorò. — Sì... Ma voi, Jeff! — si voltò verso di me. — Ave-

te mangiato? La nostra ospite lanciò un grido, picchiandosi con forza la mano sul gi-

nocchio. Un'espressione contrita apparve sul suo volto grasso. — Ragazzi, scusatemi! — esclamò. — Sono stata così sconvolta da que-

sto affare che... Non avete ancora mangiato? E neanche voi, signor Benco-lin!

Si voltò verso di me per spiegarmi: — Abbiamo mangiato presto, oggi, e il vostro amico è arrivato solo un

paio d'ore fa. Non ho avuto nemmeno tempo di pensarci... — Cosi tardi? — chiesi a Bencolin. — A causa dell'incidente? Mi rispose la duchessa: — Sì. E Jerome, appena arrivato, ha preso le sue pillole e se n'è andato a

letto. Ma aspettate un momento, metterò tutto a posto. — Gridò: — Hof-fmann!

La sua voce era scoppiata fuori così all'improvviso che balzai in piedi. Quasi subito la grossa faccia rossa del maggiordomo apparve sulla porta. Bencolin disse che avremmo gradito una cena fredda e la signorina Alison raccomandò affettuosamente di servirci la birra migliore.

Nel corridoio, Bencolin rimase immobile finché il maggiordomo non scese le scale. C'era solo una lampada a far luce e il folto tappeto smorzava il suono dei passi.

Mi disse sottovoce: — Jeff, la rottura della macchina non è stata accidentale. D'Aunay ha

cercato di ucciderci tutti e due. Mi prese ancora quella sensazione di pericolo incombente e ossessionan-

te. Scese lentamente sulla casa, coprendola tutta, come l'afosa tempesta di fuori. Mi ritornarono alla mente i freddi occhi azzurri di D'Aunay e le sue mani irrequiete.

— Ma l'autista... — balbettai. — Guidava D'Aunay; l'autista sedeva dietro. Per questo, ho pensato su-

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bito che era strano... C'era l'autista e invece guidava D'Aunay. All'improv-viso una fossa si è presentata sulla strada davanti alla macchina, proprio vicino allo strapiombo del fiume. Ho visto i suoi occhi nello specchietto retrovisore e vi assicuro che non erano normali. Ha girato il volante di scatto e ha aperto lo sportello alla sua sinistra... Forse aveva pensato di sal-tar fuori... Gli ho preso il volante di mano e quasi gli ho spezzato un brac-cio. La macchina ha slittato e vi assicuro che ho passato un brutto momen-to quando le ruote hanno girato a vuoto proprio sull'orlo del burrone. Sono riuscito a spostare l'auto verso la montagna...

Bencolin apriva e chiudeva le dita della mano destra, fissandole con oc-chi distratti. Poi ebbe un bagliore strano nello sguardo:

— Eh, sì! Molto divertente! — esclamò ghignando. — Poi siamo andati in una fattoria lì vicino. Ha bevuto del latte bollente e mi ha pregato di non dire che aveva guidato. È soggetto ad attacchi di nervi, mi ha detto, è per questo che il dottore gli ha ordinato un periodo di riposo. Mi ha detto an-che che a volte perde il controllo dei movimenti e che perciò non dovrebbe mai guidare. Non vuole far sapere a sua moglie che ha preso il volante in mano...

— Accidenti! — E ha un modo così insidioso di persuadere... Forse è realmente sog-

getto a simili attacchi. In ogni modo ci siamo messi d'accordo e abbiamo detto che è stata colpa dell'autista.

— Ma certamente avrà capito che voi sospettate di lui, ora, no? — gli chiesi.

— La presunzione, Jeff — disse Bencolin scuotendo la testa — è il cin-quanta per cento di quella forza indistruttibile, solida, che lo ha fatto quello che è. Se la perde, il suo universo rovina e i suoi occhi diventano gli occhi che ho visto nello specchietto retrovisore. Penso che in quel momento a-vesse perso la sicurezza nella sua invincibilità, perché...

— Perché? — io incitai. Le rughe profonde attorno ai baffi e alla barbetta a punta divennero co-

me solchi. Bencolin sembrava enorme, quadrato, nell'oscurità del corri-doio.

— Mentre eravamo al ristorante Laurent, qualcosa che ha detto mi ha messo un dubbio e allora, quasi subito, una porta si è aperta nel mio cer-vello. — Fece un ampio gesto. — Non avevo alcuna prova, ma io vidi i contorni di questa complessa faccenda. Pensai di aver trovato la verità sul-la morte di Maleger. Forse è stata solo presunzione, da parte mia, ma può

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darsi che lui abbia capito ciò che passava nella mia mente. — Indovinelli! — mormorai. Stavo pensando al vapore sul Reno, a

Brian Gallivan, che nel crepuscolo mi aveva parlato di una mano invisibile che pareva aver spinto Maleger fuori dal finestrino. Ma non ne parlai a Bencolin. Mentre ci avviavamo alle scale, l'enorme scoppio di un tuono si abbatté sulla casa e rotolò in mille echi nel cielo. Tutte le imposte sbatte-rono.

Non c'era nessuno nell'atrio, dove il ritratto illuminato pareva seguirci con gli occhi. Trovammo la sala da pranzo sul retro della casa: Hoffmann aveva appena finito di prepararci una cena fredda.

Mentre stavamo attraversando le stanze, mi parve di entrare in un mondo in cui mani invisibili possono veramente esistere.

La sala da pranzo era scura e pesante, arredata con mobili di stile fioren-tino. Gli angoli rimanevano in ombra e sette enormi candele spandevano la loro blanda luce da un piedistallo d'argento in mezzo alla tavola imbandita. C'era ogni tipo di cibo, su quel tavolo, dal caviale al roast-beef, e Hof-fmann aveva pensato anche alla birra, al porto e a una bottiglia di champa-gne nel secchiello del ghiaccio.

— Un momento, Hoffmann — disse Bencolin, attaccando un sandwich. Aveva cominciato a parlare in tedesco, ma sapendo che io non conosco questa lingua, continuò in inglese: — Un momento, Hoffmann... Ci sono alcune domande...

Il maggiordomo si inchinò. — Sì, signore. Rimase in piedi con l'aria quasi colpevole, il grosso corpo eretto, la testa

pelata leggermente piegata da un lato. Con i grandi occhi azzurri acquosi, il naso aquilino, la bocca rotonda, pareva una bambola di pezza.

A bassa voce ripeté: — Sì, signore. Devo stappare lo champagne? — Certo! Siete stato per lungo tempo al servizio del signor Alison, Hof-

fmann? — Tre anni, signore. Da quando ha lasciato il teatro — rispose il mag-

giordomo, dandosi da fare con la bottiglia dello champagne. — Capisco... Ma mi pare di aver sentito dire che possedeva questa casa

da molto prima, vero? — Credo sia così. Ce l'ha da molti anni. — Hoffmann faceva roteare il

tappo con dita esperte, guardandoci furtivamente. — Un buon padrone?

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— Oh! Molto, molto generoso, signore. — Facile da trattare, penso, no? — Ah! — ripeté Hoffmann, succhiandosi le labbra. Uno schiocco, un

getto frizzante e l'uomo versò il vino chiaro nei bicchieri a calice. — "So mein herren"! Il mio padrone era un artista e aveva un temperamento ef-fervescente! Potete capire... A volte aveva certe crisi di rabbia! Era sempre irritato perché non riceveva lettere da ammiratori come una volta. I suoi capelli... — Fece un gesto attorno alla sua testa pelata. — E stava diven-tando grasso, nonostante la ginnastica.

Amleto nel ritratto... — Andava spesso al castello al di là del fiume? — "Ach"! Sì, signore. Gli piaceva passeggiare sulle mura e recitare ver-

si. Ma non voleva che gli altri entrassero nel castello; non avrebbe dato il permesso a nessuno. Lo mostrava alla gente solo dall'esterno, capite?

Bencolin rimase col bicchiere a metà strada, vicino alle labbra, e rabbri-vidì. Poi lo rimise sul tavolo deliberatamente. Dopo un po' chiese:

— C'era un guardiano incaricato di badare al castello, no? — Sì, signore... povero Bauer! — mormorò il maggiordomo. — Era un

po' tocco, ma inoffensivo! Viveva là dentro e badava che tutto fosse in or-dine. Usciva solo raramente. Si poteva vedere la sua lanterna fare il giro delle mura tutte le notti. Tutte le notti, tranne quella.

— Vedo... — Bencolin lo fissò negli occhi. — Volete raccontarci cosa accadde quando faceste la macabra scoperta?

Hoffmann aveva appena aperto la bocca per parlare, ma la richiuse di colpo, con gli occhi fissi alle nostre spalle. Ci voltammo: era entrata una donna, che guardava Bencolin come se si aspettasse di udirlo ruggire da un momento all'altro. Era piccola e graziosa. Se fosse stata più colorita sareb-be stata quasi bella: aveva grandi occhi castani e portava i capelli biondo miele raccolti in un nodo sulla nuca, ma le sue labbra erano dello stesso colore del viso, ugualmente pallide, e profonde ombre le cerchiavano gli occhi. Indossava un abito azzurro, unica macchia vivida nel suo scialbore. Mentre si avvicinava a noi vidi quanto quell'abito vivace stonasse addosso a lei.

L'unica cosa che mi riuscì di pensare fu che era molto simile a una larva. — Vi chiedo scusa — disse con voce esile in un inglese molto accentato.

— Siete il poliziotto parigino? Parlate l'inglese? — Un po', signora... — rispose Bencolin, con una luce divertita nello

sguardo. — Ma non mi pare di avervi ancora conosciuta...

Page 22: Sfida Per Bencolin

— Sono Isobel D'Aunay... Stava tormentando l'anello matrimoniale, facendoselo rigirare intorno al-

l'anulare. La moglie di D'Aunay! L'avrei immaginata diversa: qualcosa di imponente, una tipica bellezza belga con gli occhi fissi sulle quotazioni di borsa e il sedere solidamente posato sui milioni del marito.

Mi sorpresi a pensare: "Gentile signora, non vi aspettano ore facili!" Lei, intanto, continuò: — Sono terribilmente dispiaciuta per l'incidente... Io... Io spero che non

ne abbiate risentito. — Affatto, signora, grazie. — Bencolin mi presentò e dopo lei parve esi-

tare. — Povero Jerome, anche lui è così dispiaciuto per l'incidente! Sta ripo-

sando, adesso. Ancora non riesco a capire come possa essere accaduto. Charles è così prudente, di solito!

Le sue parole erano banali, dette in tono quasi monotono, ma gli occhi scuri parevano porre delle domande.

— Penso che abbiate rimandato Charles in città, no? — chiese quasi ca-sualmente.

— L'autista? Oh, sì... Ha fatto il resto del viaggio in treno. Le domande rimasero senza risposta. L'espressione di Bencolin fece ca-

pire chiaramente che lui considerava la faccenda dell'autista di nessuna importanza. Prese un altro sandwich.

— Naturalmente — disse lei, cercando di apparire allegra, disinvolta. — Be'... io spero che vorrete interrogarci di nuovo, no?

A suo modo cercava di essere cordiale, quasi civettuola, ma il suo atteg-giamento contrastava stranamente con il suo viso pallido e con i febbrici-tanti occhi scuri.

— Temo che sarà necessario, signora D'Aunay. — Oh, ci siamo abituati, ormai. Quel terribile uomo di Coblenza ci ha

strapazzati come burattini — mormorò sorridendo. — La signorina Reine, Sir Marshall Dunstan e io saremo nella libreria, nel caso aveste bisogno di noi...

La voce sottile si spense; Bencolin si voltò verso Hoffmann, appena la donna fu uscita.

— Allora? Volete raccontarmi gli eventi della notte dell'omicidio? — Posso raccontarvi solamente quanto ho visto, signore — rispose l'al-

tro. — Avevo servito caffè e liquori nella biblioteca. Dopo sparecchiai e

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mi ritirai nella mia stanza: avevo dei conti da controllare. Rimasi lì; potevo sentire il violino del signor Lavasseur. Anche lui è un artista. E famoso, anche!

— Dov'era, il signor Lavasseur? — Nella sala della musica, signore. È nell'altra ala della casa, ma potevo

udirlo distintamente. Suonava dei pezzi meravigliosi; a volte si divertiva anche con pezzi leggeri, come l'"Amaryllis" che stava suonando, quando sentii la signorina Alison chiamarmi dal piano superiore e Frieda corse giù a cercarmi. Mi dissero di prendere Fritz e di andare. Fritz era in cucina.

— E quando arrivaste all'imbarcadero non trovaste il motoscafo, vero? Hoffmann annuì con forza. Stava eccitandosi e la faccia grossa diveniva

sempre più rossa. — No, signore! Noi prendemmo una barca. — Un momento! Quante imbarcazioni avete? — Due. Il motoscafo e la barca — rispose Hoffmann. — Dunque, io dis-

si a Fritz: "Corri come il diavolo, Fritz!". Potevo vedere qualcosa che bru-ciava sulle mura del castello. "Donnerwetter!" Come abbiamo corso attra-verso il fiume al lume della luna! E quando arrivammo... Che strano!

Rabbrividì. Bencolin lo incitò: — Ebbene? — Non l'ho notato subito, signore, ma più tardi mi è ritornato alla mente.

Il motoscafo era ancorato all'imbarcadero sull'altra sponda. Vedete, la cor-rente del fiume è molto impetuosa e noi ancoriamo sempre il motoscafo al palo dell'imbarcadero, in modo che la corrente non possa sbatterlo contro le pietre della riva. Ma allora era legato a una pietra e sbatteva contro le rocce.

"Saltammo sul molo e corremmo in su. Il terreno era umido e io ho sem-pre avuto paura a camminarci sopra. Non è ben battuto e il fango fa scivo-lare. Un giorno o l'altro il Reno lo inghiottirà e...

"Ma come vi stavo dicendo, a metà strada scivolai, stavo quasi per cade-re. Mi aggrappai a un cespuglio e guardai in su: vidi il grosso muro attra-verso gli alberi. Mi raddrizzai. Giù, verso il basso, era buio, ma lassù la lu-na brillava sugli alberi: potevo vedere le pietre dei bastioni. All'improvviso scorsi la mano di un uomo in preda alle fiamme, aggrappata al parapetto. Mi sentii male.

"E poi ancora qualcosa. Oltre a quello vidi ancora qualcosa, ma solo per un attimo: una cosa enorme come un'ombra. Come un'ombra contro il cie-lo illuminato dalla luna. La figura di un uomo con una torcia in mano che

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guardava in giù verso i bastioni. E mentre la guardavo è scomparsa."

4 Dopo una lunga pausa, il maggiordomo continuò: — Ci mettemmo a percorrere tutto il sentiero, fino alla cima. Ha avuto la

possibilità di scendere e di... di passarci vicino fra gli alberi, perché prima di arrivare in alto abbiamo sentito il rombo del motore.

— E poi? — lo assalì Bencolin, vedendo che l'altro cercava di guada-gnar tempo con un sorriso impaurito.

— Le porte di legno in cima al sentiero erano chiuse, ma non sprangate. Le aprimmo: mi chiesi dove potesse essere Bauer, che non rispondeva ai nostri richiami. Attraverso le mura passa un lungo corridoio di pietra, per tutta la loro lunghezza: fu li che trovammo la torcia ancora in fiamme, ab-bandonata per terra. Corremmo attraverso la corte, verso gli archi dei denti del teschio e trovammo...

Hoffmann rabbrividì ancora. — Fritz si tolse la giacca e si bruciò tutte le mani, ma riuscì a soffocare le fiamme. È coraggioso, Fritz! Fu inutile, pe-rò. La testa dell'uomo non era completamente bruciata e quando lo ada-giammo sulla schiena per terra vedemmo che si trattava del padrone.

"Mi sentii mancare, e Fritz, che è così coraggioso, si appoggiò al para-petto e vomitò. Dopo, al chiaro di luna, vidi che stava piangendo."

Amleto, sdraiato sui bastioni deserti, con i vestiti ancora fumanti e due servi tremanti inginocchiati vicino, al chiaro di luna. E il Reno in basso, adombrato dal grosso teschio di pietra.

Dietro le sette candele nel prezioso candelabro d'argento, vidi tremare le guance di Hoffmann.

— Capisco... — disse Bencolin sottovoce. — Avete cercato, intorno? — No, no, signore, ma avremmo potuto. Non ci siamo nemmeno ricor-

dati di appurare cosa poteva essere successo al vecchio guardiano. Pren-demmo il nostro padrone con molta cura e lo portammo giù per adagiarlo nella barca. Fritz volle remare, nonostante le mani bruciate e io mi misi a sedere dietro di lui. Vedevo...

— Ma la polizia! Cos'hanno trovato? — Non so, signore. Il signor Konrad non lo direbbe, comunque. Dice

sempre: "Un buon poliziotto non parla!". Provate a chiederlo a lui. — Maledizione! — Bencolin picchiò un pugno sul tavolo. — Se insiste-

rà con questo atteggiamento non concluderemo niente. Sapete se hanno

Page 25: Sfida Per Bencolin

trovato l'arma? Mi hanno detto che Alison è stato colpito, prima... — Non so signore, credo di no. Ma... — Il maggiordomo prese un tono

confidenziale — mi hanno detto che presto gli toglieranno l'incarico. Da Berlino manderanno uno che sa il fatto suo, il grande von Arnheim!

Guardò Bencolin quasi con sfida, il poliziotto fece schioccare le dita e una luce di compiaciuta sorpresa si accese nei suoi occhi.

— Avete sentito, Jeff? — esclamò ridendo. Avevo sentito. Sapevo chi era il barone Sigmund von Arnheim, ispettore

capo della polizia di Berlino, perché Bencolin mi aveva raccontato del pe-riodo in cui avevano fatto parte del controspionaggio e avevano girato in-sieme mezza Europa, muovendo pedine di morte dietro le siepi dei fucili.

— Speriamolo, Hoffmann — continuò il poliziotto. — Adesso potete andare... Più tardi, forse, vi farò ancora qualche domanda.

Quando Hoffmann se ne andò, mi accorsi che Bencolin era ritornato quello di sempre. Prese il bicchiere e se lo portò alla bocca, mettendo in mostra con un sorriso, i denti che spiccavano chiari fra i baffi e la barbetta a punta. La luce delle candele accentuava la forma dei suoi alti zigomi e le fosse delle guance.

Negli occhi mobili aveva una insolita gaiezza. — E così von Arnheim verrà qui! — esplose ridendo. — Beveteci sopra,

Jeff! È meglio di quanto sperassi. Sarà un incoraggiamento per me: non potrò far fiasco con quell'incentivo alle calcagna! Mangiate amico. Dopo c'è da lavorare.

Non riuscii a tirargli fuori altro. Bevve e mangiò come un lupo, poi an-dammo nell'atrio. Dalle finestre potevamo vedere i lampi che si sussegui-vano rapidi nel cielo, e dopo ogni lampo un rombo di tuono tanto violento da far tremare i vetri. All'improvviso scoppiò la tempesta; le gocce tam-burellarono sui vetri con un crepitio continuo, ossessionante.

Di dietro una porta chiusa ci giunse una voce eccitata: — Ti ripeto, Sally, è una porcheria! Piantala di far girare quell'arnese,

maledizione! Bencolin spinse i battenti, facendomi cenno di seguirlo. Ci trovammo in

una lunga biblioteca dal soffitto a cassettoni. Le lampade a muro facevano brillare il lucido pavimento scuro e le coste in pelle dei libri. Le pareti era-no tappezzate di ritratti dai colori sgargianti: tutti ritratti di Myron Alison. Alison in "Macbeth", Alison in "Cirano", Alison nel "Mercante di Vene-zia". Cominciava a sapere di cattivo gusto, la faccenda dei ritratti.

Vicino a un giradischi, Sally Reine ascoltava "Parata d'amore". In fondo

Page 26: Sfida Per Bencolin

alla biblioteca, un'arcata portava alla sala da biliardo, dove un giovane sta-va ingessando una stecca. Aveva i capelli biondi scomposti e gli occhi cupi di rabbia.

— Vuoi smetterla, sì o no? — stava dicendo. — Smettila con quel disco. Lo sai che non si può...

La ragazza urlò quasi: — Non voglio che questo posto rimanga ancora come una camera mortuaria! In ogni caso, non te ne importa niente. Tu...

"Tu sei il mio ideale, la mia parata d'amore" gracchiò il giradischi. La pioggia cadeva a rivoli sui vetri. Il ticchettio continuo delle gocce giocava coi nervi di tutti. La tensione era quasi palpabile.

— Accidenti! — urlò il giovane. Solo allora si accorse di noi e chiuse di colpo la bocca. Cominciò a giocherellare con la stecca.

Sally Reine staccò il giradischi e il silenzio improvviso parve quasi op-primente. Ora potevamo sentire solo il tumulto del temporale.

— Io... buonasera! — borbottò il giovane, guardando la stecca con ver-gogna, quasi a volerla nascondere.

La ragazza fu più disinvolta. — Salve! — urlò. Mi parve che se la godesse un mondo per la situazio-

ne. Si mise una sigaretta fra le labbra piene, molto truccate, e ci strizzò un

occhio. — Entrate e venite a onorare l'assemblea con le vostre rispettabili perso-

ne! Il signor Bencolin, il signor Marle... Sir Marshall Dunstan. Dunstan si inchinò, una ciocca di capelli gli cadde sulla fronte spaziosa.

Aveva un volto sensibile, ossuto, con il naso pronunciato e due irrequieti occhi grigi. Per qualche strana ragione era imbarazzato.

— Molto lieto — mormorò. Poi aggiunse con titubanza: — Non volete accomodarvi? Seguimmo l'invito del suo gesto e ci mettemmo a sedere. Bencolin prese

il comando della conversazione con eleganza: sapeva essere geniale, quan-do voleva.

Comodamente sdraiato sulla sedia, con un sigaro fra le dita, parlò con franchezza e con disinvoltura dell'intero affare. Menzionò l'assurdità di un poliziotto francese alle prese con un delitto tedesco, discusse della diver-tente possibilità di un incontro fra lui e il barone von Arnheim e narrò una delle più incongruenti missioni di spionaggio di tutta la guerra.

— Così, vedete... — concluse, guardando divertito la punta del sigaro — avrò certamente bisogno di aiuto. Dovremmo allearci.

Page 27: Sfida Per Bencolin

Dunstan aveva seguito la narrazione con intenso interesse, leggermente chinato in avanti sulla sedia e mormorando di tanto in tanto:

— Ma davvero? Sally Reine, col vestito di organza allargato sul divano nel quale stava

raggomitolata, aveva annuito entusiasticamente, sbuffando nell'aria piccoli cerchi di fumo. Infine ammiccò e applaudì in silenzio dietro le spalle di Dunstan.

— Vive la France! A bas la boche! — esclamò poi. — Bisogna saper perdere, Duns! Comincio già a sentirmi un po' meno colpevole.

— Siete uno strano poliziotto — borbottò Dunstan, arruffandosi i capel-li. — Sapete...

Sembrò cercare le parole. — La cosa più terribile del fatto di essere costretti a restare in quest'orri-

bile posto è la sensazione... la terribile sensazione... — Non diventare drammatico, Duns, ti prego... — lo interruppe Sally. Si voltò verso di lei di scatto, con le guance arrossate. — Non sto diventando drammatico, lo sai bene. Accidenti, sto solo cer-

cando di spiegare... Forse non sono molto abile... Quello che intendo dire è che qualcuno, qui, sotto questo tetto, ha ucciso Myron. Qualcuno col quale mangiamo, beviamo, chiacchieriamo... E ogni volta che si resta soli con una persona, ci si domanda se all'improvviso non ti salterà alla gola. Si è sempre sospettosi, ci si guarda alle spalle... ed è ancora più terribile perché si tratta di gente che si conosce da anni! Ti ricordi cosa sembrava Myron, con il corpo bruciato e il viso mezzo sfigurato?

— Piantala! Piantala, Duns, hai capito? — urlò la ragazza, schiacciando la sigaretta nel portacenere.

— Voi capite cosa intendo dire, vero? — chiese il giovane a Bencolin. — E poi c'è qualcosa che è ancora peggiore.

— Oh, certamente... — lo interruppe Sally, e per la seconda volta in quel giorno ebbi la netta sensazione che stesse per scoppiare in lacrime. C'era una specie di strana compassione nello sguardo quasi isterico che gli lan-ciò.

— Ho cercato di levarmelo dalla testa — continuò Dunstan, tormentan-dosi le guance nervosamente — ma ci penso sempre... Mi chiedo se posso essere stato io a ucciderlo. Oh, so di non essere stato io! Lo so, ma me lo chiedo lo stesso. È come quando si è ubriachi e ci sono delle lacune nella vostra memoria, che non potete colmare, e vi chiedete se non è possibile...

Page 28: Sfida Per Bencolin

"E allora — sussurrò — vi create ogni sorta di incubi, sperando che il tempo riesca a calmare la vostra pena... Non ero ubriaco, quella notte, ave-vo bevuto solo un paio di bicchieri, ma quando cercai di ricordare tutto, non ne sono stato capace..."

Sospirò profondamente. — Quanto sei scemo, Dunstan! — esclamò Sally Reine. Dunstan scosse la testa, come soprappensiero. — Oh, lo so... Non c'era alcuna ragione al mondo perché avessi dovuto

farlo. Una pausa. La paura era ora negli occhi di Marshall Dunstan; aveva par-

lato troppo e se ne rendeva conto, come ce ne rendevamo conto tutti noi. Con il viso impassibile Bencolin scrutò la cenere del sigaro.

— Supponiamo, signorina Reine — mormorò poi — che voi cerchiate di dirci cosa realmente accadde quella notte.

— Come dite? — balbettò sorpresa Sally. — Io?... Veramente io... Be', in fondo l'ho già ripetuto una decina di volte a quel bifolco di Konrad, sempre ricordando qualcosa di nuovo. Cosa volete sapere precisamente?

— Tutto, se non vi dispiace. Cominciate dalla cena. Il signor Alison vi sembrò turbato?

— Turbato? Oh, no! Era di umore eccellente, anzi, molto allegro. Era bello più del solito, anche se proprio quella sera avevo saputo che portava la panciera elastica per sembrare così snello... Raccontò barzellette per tut-to il tempo. Ci fu solo una cosa...

— Ebbene? — esclamò Bencolin, chinandosi in avanti. La ragazza fece un cenno vago, mordendosi le labbra. — In fondo posso anche dirvelo — mormorò. — Non l'ho detto a quella

vecchia anatra di Konrad, perché sapevo benissimo che non ne avrebbe cavato fuori niente... Penso che My avesse paura degli spettri.

— Spettri? — Proprio così. Eravamo venuti in questa stanza per bere il caffè. La-

vasseur... l'avete conosciuto? È un piccolo francese indaffarato, che pare tutto denti e ganasce; un magnifico violinista, comunque. Lavasseur, come dicevo, stava parlando del Castello del Teschio. Disse qualcosa come: "Si-gnor Alison, non ci avete ancora fatto visitare il castello all'interno. Dicono che ci siano delle strane stanze...". Myron era in piedi sotto quel quadro che lo raffigura nella parte di Romeo; gli piaceva posare sotto quel quadro, con una tazza di caffè in mano. Figuratevi che i suoi capelli erano più neri dei miei! Sorrise dicendo che era chiuso e quasi in rovina, non adatto a un

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giro turistico. Lavasseur scoppiò in una risata: "Tanto meglio, allora!" e-sclamò. "Perché non andiamo tutti lassù a passare la notte? Sono certo che incontreremo uno spettro!"

Il viso di folletto di Sally era pensieroso. La ragazza si passò una mano sulla fronte.

— Be'... L'idea piacque a tutti e lo pregammo di condurci là. La duches-sa si picchiò un pugno sul ginocchio urlando che era l'idea più maledetta-mente ben trovata del secolo. Io guardavo My, però: rabbrividì impalli-dendo come un morto. Rovesciò il caffè. All'improvviso mi resi conto di quanto fosse vecchio. Duns... — e indicò il giovane con un gesto — aveva bevuto un po' troppo. Si mise a ridere esclamando: "Non ditemi che avete paura dei morti, signor Alison!".

"Fu come se qualcuno all'improvviso avesse pronunciato una parola o-scena. Tutti ammutolirono, tanto che si udì persino l'impercettibile rumore che faceva Hoffmann versando i liquori. My era... bianco. Poi Jerome D'Aunay saltò su con quel suo strano inglese per dire: 'E piantatela, tutti quanti! Ha detto che avrebbe mostrato il castello al chiaro di luna a me so-lo. Non è vero, My?'. Mi resi conto che Alison gli fu grato di quelle parole, perché quando disse: 'Certo!' aveva cambiato già espressione. Riuscì per-sino a ridere... Hai una sigaretta, Duns?"

Il giovane le passò il portasigarette. Sally ne prese una e se la mise tra le labbra senza accenderla. Al piano di sopra il rumore di una porta sbattuta superò quello del temporale.

— Più tardi si scusò con me, nell'atrio. Mi chiese se desideravo vera-mente visitare il castello e io gli dissi che non ne avrei mai avuto il corag-gio. Cosi se ne andò di sopra a scrivere il suo libro; si tratta delle sue me-morie... Rimase in camera sua per un bel pezzo.

"Prima di salire rimase un po' con un piede sul primo gradino e gli occhi fissi sulla porta d'ingresso, poi se ne andò. Fu l'ultima volta che lo vidi..."

— Un momento — la interruppe Bencolin. — Che ora era? — Non so di preciso. Pochi minuti dopo le nove, penso. — In quel momento, allora, pareva non avere alcuna intenzione di anda-

re al castello? — Credo di no. In ogni modo io me ne andai sulla veranda, passeggiai

un poco, poi mi fermai sulla balaustra a pensare. Era una notte meraviglio-sa, vidi due motoscafi passare lungo il fiume, con le luci riflesse nell'ac-qua... — Emise un profondo sospiro. La bocca era dura, ora, quasi un ta-glio nel viso pallido. — Stavo lì a sognare, come un'imbecille! Quando

Page 30: Sfida Per Bencolin

rientrai... — Dopo quanto tempo? — Non so proprio — rispose, indecisa, accendendo finalmente la siga-

retta. — Quando rientrai, il gruppo si era sciolto. D'Aunay e la duchessa stavano salendo di sopra. Lui le parlava dei benefici effetti del latte bollen-te bevuto di sera e lei giocherellava con un mazzo di carte da poker. Le re-gole, in questa casa, non sono molto ortodosse, sapete, potete fare tutto il diavolo che vi salta in testa... Sentii che qualcuno stava stappando delle bottiglie in sala da pranzo.

— Ero io... — disse Marshall Dunstan con decisione. — Ma... Sì, non potevi essere che tu — ribatté Sally Reine. — Sentii an-

che Lavasseur che accordava il violino. — E la signora D'Aunay? — Non so... Doveva essere in giro da qualche parte, penso. Andai in bi-

blioteca, mi misi a sedere nell'angolo vicino alla sala dei biliardi e presi un libro. L'unica luce era quella dietro la mia poltrona, potevo udire il fischio del vento e lo stormire degli alberi. Mi venne sonno. Lavasseur aveva co-minciato a suonare qualcosa di triste sul violino e quella musica mi fece da ninna-nanna. Stavo per addormentarmi quando sentii dei passi nell'atrio.

Esitò un poco, prima di continuare. — Qualcuno stava andando di corsa verso l'ingresso. Naturalmente li per

lì non ci feci caso. — Passi di uomo o di donna? — Non so... Pareva fossero due persone che parlavano sottovoce. È im-

possibile dirlo. Naturalmente doveva trattarsi di Myron e... — L'assassino — intervenne Dunstan con voce sepolcrale. — Se lo dici tu... — La ragazza si strinse nelle spalle. — Questo è tutto

quello che so; poi, un po' prima delle dieci, mi sono addormentata. Sono stata svegliata da quelle orribili grida di fuori e dalle bestemmie della du-chessa di sopra. Mi alzai e corsi fuori per vedere cosa stava succedendo. Fritz e Hoffmann erano già usciti per raggiungere l'imbarcadero...

"Sapete com'è, quando ci si è svegliati da poco. Cercai di raccapezzarmi. Lavasseur stava ancora suonando. Penso che non avesse sentito niente e non volevo disturbarlo. Andai di sopra e chiesi alla duchessa cosa fosse successo; era preoccupata, ma mi disse che non doveva essere accaduto niente di grave. Così ridiscesi e andai nel portico. Di lì vidi delle figure muoversi sui bastioni del castello, penso fossero Fritz ed Hoffmann. Que-sto è tutto."

Page 31: Sfida Per Bencolin

— Eravate nel portico quando si è udito il motoscafo ritornare? La risposta della ragazza fu troppo pronta. — Dovevo esserci, ma temo di non averci fatto troppa attenzione. Ci so-

no sempre simili rumori nel fiume. — E non avete visto venire nessuno dalla parte dell'imbarcadero? — Nessuno. D'altronde quella persona potrebbe non essere venuta dalla

scala che parte dal fiume. C'è un altro sentiero più in basso che porta dietro la casa. Se avesse fatto quella strada non avrei potuto vederla...

Il suo sguardo era candido. La ragazza aveva ormai completamente per-duto i suoi modi aggressori, era diventata quasi infantile.

Bencolin, piegato in avanti con la testa appoggiata a una mano, pareva interessato solo al profondo mormorio della tempesta. Le sue palpebre si rialzarono, le dita martellarono un po' le tempie.

— Ho paura che non stiate dicendo la verità, signorina Reine — mormo-rò dolcemente.

5

Sally Reine non rispose. Rimase immobile a guardare il poliziotto, come

se fosse accaduta una cosa paurosa, ma mi resi conto che non aveva paura per se stessa...

Ci accorgemmo solo allora che qualcun altro era entrato nella stanza. Non so per quanto tempo l'uomo fosse rimasto lì ad ascoltarci, perché tutti noi guardavamo la ragazza. Era appoggiato negligentemente all'arcata del-la sala dei biliardi e ci guardava con disinvoltura; era piccolo, con sottili capelli neri ben pettinati e il viso affilato. Teneva una sigaretta fra le dita e una custodia di violino sotto un braccio.

— Chiedo scusa — mormorò. Il suo inglese era abbastanza buono, ma con un accento gutturale strano per un francese. — Non ho potuto fare a meno di ascoltare la testimonianza della signorina Reine...

Avanzò verso di noi, posando con cura la custodia sul piano del tavolo. I suoi gesti avevano una curiosa fluidità, come quelli di un direttore d'orche-stra. Uno smeraldo dello stesso colore dei suoi occhi pensosi gli brillava sulla cravatta.

— Permettete... — continuò. — Sono Emile Lavasseur... — Brutta fac-cenda, vero?

Con i suoi passi leggeri, silenziosi, si era intromesso fra Sally Reine e l'accusa che le era stata rivolta. Si sedette, assestandosi con cura la piega

Page 32: Sfida Per Bencolin

dei calzoni. — Ho il piacere — mormorò piegando la testa da un lato — di confer-

mare la prima parte della testimonianza della signorina. — E l'ultima parte? — chiese Bencolin. Non si era mosso, persino il suo

sguardo non si era spostato verso il nuovo venuto. — Mi dispiace, ma non posso dirvi niente riguardo alla seconda parte.

Dopo aver chiuso la porta della sala della musica, io entro in un altro mon-do. La musica è una barriera più impenetrabile di un muro a prova di suo-no. — I suoi denti bianchi scintillarono in un sorriso. — Non ho saputo niente finché non hanno bussato alla porta per dirmi...

— È vero... — si intromise Dunstan. — È stata la parte più terribile. Quando entrarono con il cadavere, il violino stava ancora suonando. Qual-cuno disse: "Ma quel dannato violino quando smetterà di miagolare?" e io andai a bussare alla porta.

Lavasseur disse pensosamente: — Amico caro, avete usato un termine sbagliato, penso... — Non vi sarete mica offeso! — ... ma anche perdonabile, date le circostanze — continuò l'altro, sor-

ridendo ancora. Non so perché, ma mi faceva venire in mente una scim-mia, con la sua faccia bruna, i movimenti nervosi e le belle mani incrocia-te. Da un momento all'altro pareva dover saltare verso il soffitto e mettersi a dondolare attaccato al lampadario.

— Vidi un quadro ben strano, vi assicuro... — mormorò Lavasseur — quando entrai nell'atrio. Un quadro che si potrebbe benissimo rappresenta-re con un bel pezzo di musica sinfonica. Il mio buon amico sir Marshall Dunstan stava appoggiato al muro mugolando: "Mio Dio! Mio Dio!", la signora era pallida come una morta e Hoffmann scuoteva la testa dicendo, senza alcun motivo, alla signorina Alison: "Scusate...". E il corpo bruciato sul pavimento, sotto il ritratto di Amleto, per l'ultima volta.

"Era molto bello! Ah! In musica sarebbe..." Si richiuse nei suoi pensieri. — Sì... — mormorò Bencolin, guardando Dunstan. — Eravate nell'atrio,

amico mio! Appena arrivato, suppongo. — Appena arrivato, sì. Era quanto stavo per dirvi, non posso raccontarvi

nessuna storia attendibile, purtroppo. Sono stato a vagare fra gli alberi in-torno alla casa per quasi un'ora. Avevo sentito dei rumori, ma la vegeta-zione è molto fitta e...

— E così non potete dirci niente.

Page 33: Sfida Per Bencolin

— Proprio niente — confermò il giovane. — Sentii dei rumori sospetti, ma accidenti! Come potevo immaginare cosa stava succedendo?

Vi fu un lungo silenzio. Nessuno ribatté alle affermazioni di Dunstan, come lui stesso pareva aspettarsi, e così lui rimase a fissare Bencolin e me con espressione timorosa. Lavasseur, distratto, spazzò via degli immagina-ri granelli di polvere dai calzoni impeccabili.

Poco dopo disse tranquillamente: — Signor Bencolin, posso parlare a voi e al vostro assistente in privato,

per alcuni minuti? — Certo che potete! — Sally Reine si alzò di scatto, facendo una risati-

na nervosa. — Stavo per essere fatta fuori, quando siete entrato. Bencolin le porse la mano: nel. suo sguardo brillava una luce sorpresa. — Niente affatto, signorina Reine — esclamò — non avevo alcuna in-

tenzione di "farvi fuori"! Stavo solo contenstandovi un fatto, e vi prometto che non lo farò più. In ogni modo vorrei darvi un avvertimento — sorrise enigmaticamente — da buon amico. Vi consiglio, se sarete onorata da una visita del barone Sigmund von Arnheim, di non cercare di propinargli la stessa storiella. Ho un enorme rispetto per l'intelligenza del barone. Sareb-be molto imbarazzante per... diciamo per molte persone. Ci siamo intesi?

Di nuovo, un lampo di paura apparve negli occhi di Sally. Rimase im-mobile per un attimo, con la sigaretta accesa fra le dita, poi mormorò a bassa voce, quasi in un sussurro:

— Comincio ad aver paura di voi. — Poi più forte: — Andiamo, Duns, andiamocene fuori di qui. Ho bisogno di una buona bevuta, abbondante e convenientemente alcoolica.

Lo prese per le spalle e il giovane si alzò in piedi esitando. Guardò Bencolin interrogativamente e l'investigatore scosse la testa. La

ragazza cercò di parlare con disinvoltura, uscendo, ma i suoi sforzi furono vani.

— Gioventù! — esclamò Lavasseur, seguendoli con lo sguardo. — Rin-grazio il cielo di non essere più giovane. È un periodo strano: la gioventù non può far niente, nemmeno la più innocente delle azioni, senza un senso di colpa. Invecchiando, impariamo solo che le nostre azioni non hanno poi conseguenze così gravi come avremmo temuto.

Era molto teatrale e sembrava divertirsi un mondo. — Forse qualcuno può pensare che quei due abbiano sparato e poi bru-

ciato un uomo — esclamò dopo una pausa. — Ridicolo! — Volevate, mi pare — lo interruppe Bencolin — dirmi qualcosa in pri-

Page 34: Sfida Per Bencolin

vato. — Sì. Si tratta di una faccenda della quale non ho parlato a quel cam-

mello presuntuoso di un Konrad. — Lavasseur si studiò le mani. — Sapete chi ha fatto in modo di farvi venire qui? Io! Proprio così. D'Aunay non vo-leva che voi veniste. L'ho convinto perché pensavo che l'influenza di... di-ciamo di una grande potenza finanziaria vi avrebbe convinto con più facili-tà.

— Ah! — si limitò a mugolare Bencolin. — Avevo ragione, no? — sorrise Lavasseur. — No, lui non voleva veni-

re a interpellarvi. Quando gli ho chiesto educatamente: "Avete forse qual-cosa da nascondere?" è balzato in piedi e "voilà!" è partito per Parigi. Ma c'è qualcos'altro...

"Come vi ho detto, stavo suonando il violino. Suono sempre al buio. I gemetti e i giganti di 'quello' — indicò il violino — paiono vivere solo nel-l'oscurità. Quando finii l'allegro del concerto di Ciaikovsky, alzai gli occhi; il chiaro di luna entrava nella stanza. Le finestre si riflettevano sul pavi-mento e lasciavano intravedere una scala di pietra che porta in qualche stanza, su, al primo piano. All'improvviso mi resi conto che c'era qualcuno fermo su quella scala, potevo vederne i contorni della figura. Fu un attimo e quel qualcuno corse di sopra. Mi chiesi se fosse una visione, un sogno uscito dalle mie fantasticherie o se veramente l'avessi visto. Poi decisi — scosse le spalle. — Non era stata un'illusione."

— Uomo o donna? — Non so. Vidi una figura indistinta, un'impressione, come quando ci si

è appena svegliati da un sonno profondo, ma vera. Se lo avessi raccontato al nostro buon Konrad, si sarebbe messo a urlare: "Uomo o donna?" fino ad avere la faccia congestionata e quando gli avessi ben bene assicurato che non lo sapevo si sarebbe convinto che stavo mentendo. Se fossi super-stizioso avrei avuto degli attimi più emozionanti. Avrei creduto in qualche spettro vagante, forse.

— Che ora poteva essere, quando avete visto quella persona? — Ma caro amico! — esclamò Lavasseur scandalizzato. — Come posso

saperlo? Ci sono dei grandi momenti nella vita di ogni uomo, ma non scanditi dall'orologio. Se qualcuno mi assicura che stavo suonando quel-l'"Amaryllis" al momento del delitto, allora posso definire il tempo. Un motivetto imbecille, ma buono per esercitare le dita. Dopo suonai il pezzo di Ciaikovsky. Dura molto...

— Allora avete visto quella figura dopo il delitto?

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— Per quanto posso saperne, direi di sì. — E in quale stanza conducono quelle scale? Lavasseur si appoggiò allo

schienale della sedia. — Nelle stanze occupate dai signori D'Aunay — rispose. Senza una parola, Bencolin si alzò, si avvicinò alla porta e suonò il cam-

panello. Dopo un attimo apparve Hoffmann, al quale il poliziotto dette un rapido ordine in tedesco. Lavasseur stava ancora esaminandosi le mani, ri-girandole da tutte le parti.

Nessuno parlò finché Hoffmann non ritornò nella stanza con Jerome D'Aunay e sua moglie. Nel frattempo Lavasseur se ne era stato con la testa piegata da un lato a sentire il ticchettio della pioggia sui vetri, come se l'immaginasse già scritto in musica.

— Ma non posso proprio dormire? — si lamentò D'Aunay. Aveva gli occhi stanchi e arrossati e i radi capelli scomposti sulla grossa testa. Indos-sava una variopinta vestaglia turca. — Buonasera, signor Marle, felice di vedervi fra noi.

Aveva parlato in francese e come per un tacito accordo continuammo la conversazione in quella lingua. Salutò anche gli altri, chiedendo cosa dia-mine stava succedendo ancora. Isobel D'Aunay era palesemente conscia della tensione che regnava nella stanza. I suoi capelli si erano allentati, ora, e per essere una donna graziosa appariva troppo scialba. Era evidentemen-te a letto, quando Hoffmann l'aveva chiamata, perché l'abito azzurro era gualcito e la sua espressione insonnolita.

D'Aunay avanzò nel centro della stanza, sfiorando Lavasseur con uno sguardo gelido.

— Be'? — domandò. — Ripetete la vostra storia — disse Bencolin a Lavasseur. Lavasseur ripeté, un po' imbarazzato, con lo sguardo fisso al di sopra del

milionario belga. Quest'ultimo rimase immobile, il mento in avanti, mas-siccio e imperscrutabile; ma negli occhi azzurri si poteva già scorgere la rabbia crescere a ogni parola dell'altro. La vestaglia variopinta fece un bal-zo in avanti.

— Siete un maledetto bugiardo! — urlò D'Aunay. Lavasseur balzò in piedi e calò violentemente il pugno sulla bocca del

milionario. Isobel D'Aunay urlò; io spinsi Lavasseur per le spalle facendo-lo ricadere violentemente a sedere.

Sentii la voce tranquilla di Bencolin, sul respiro affannoso di D'Aunay: — Signor D'Aunay — mormorò — oggi stavo per rompervi un braccio;

Page 36: Sfida Per Bencolin

non mi costringete a ripetere l'esperimento. State tranquillo, potrete pren-dervi le soddisfazioni personali che vorrete dopo che avremo sistemato af-fari ben più importanti. Nel frattempo, mettetevi a sedere.

D'Aunay rimase immobile, con le mani che si aprivano e chiudevano nervosamente ai lati della vestaglia colorata; aveva le labbra sporche di sangue. La collera titanica di quell'uomo era quasi tangibile nella stanza ri-tornata apparentemente tranquilla. Potevamo ancora sentire il suo respiro affannoso al di sopra del rumore dei tuoni.

— Se quel porco mi ha rovinato la mano — disse all'improvviso Lavas-seur esaminandosi attentamente le nocche — lo ucciderò. — Mi dedicò un sorriso sornione, poi aggiunse: — I miei più sinceri ringraziamenti, signor Marle. Forse avete evitato che mi rompessi la mano.

Piccolo galletto presuntuoso! All'infuori di Bencolin, era la persona più tranquilla della stanza; non si era scomposto neppure i capelli ben pettinati.

Isobel d'Aunay gridò: "Vi prego!" con quella sua vocetta futile e incerta. Tirò fuori un fazzoletto col quale cercò di ripulire le labbra di suo marito, ma quest'ultimo la spinse da parte con violenza.

— L'affare verrà sistemato con soddisfazione di tutti e due — disse freddamente D'Aunay.

— Ah! — esclamò Lavasseur con rassegnazione. — Spero che se ne in-carichino gli avvocati.

— Ma prima di ogni altra cosa voglio rispondere alle vostre accuse — continuò D'Aunay, ficcandosi le mani in tasca. — Non so se vi risulta che sono soggetto ad attacchi di nervi...

Lavasseur sogghignò. La faccenda parve un po' ridicola anche a me. A-veva l'aria di una giustificazione...

— Non posso dormire — si spiegò meglio D'Aunay. — Prendo tutte le notti del veronal, una dose sufficiente per dormire almeno otto ore senza svegliarmi. Quella notte... la notte del delitto, intendo, presi la solita dose poco dopo le nove. La cameriera della signorina Alison era in camera no-stra in quel momento e potrà confermare quanto dico. Andai a letto imme-diatamente e qualsiasi dottore potrebbe dirvi che non avrei potuto assolu-tamente lasciare la stanza; non sono stati capaci di svegliarmi nemmeno quando hanno cercato di farlo, dopo la scoperta del cadavere... Non è vero, mia cara? — domandò improvvisamente a sua moglie.

— Eh? Ma certo! — esclamò lei sorridendoci. — Certo che è così. Gli detti il veronal e andò a dormire.

— E voi, signora? — le chiese gentilmente Bencolin.

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— Io? — Non era certo sveglia quella donna. Le ci volle un bel po' pri-ma di assimilare la domanda, poi i suoi occhi si dilatarono e parvero diven-tare più scuri. Le labbra si schiusero, poi si serrarono di nuovo, come terro-rizzate.

— Oh! — articolò alla fine con gli occhi fissi sul violinista. — No, non ero io... Ero a letto. Jerome ha sempre voluto che andassi a letto quando ci va lui... per... per preservarmi la salute. — Ci guardò supplichevole, ancora più pallida del solito. Con voce balbettante concluse: — Fa... un... sacco... di bene, andare a letto presto.

Le ultime parole parvero dette da un'altra persona: dietro ai suoi occhi si poteva quasi vedere aprirsi una porta su una rivelazione improvvisa. Chis-sà perché mi venne in mente il sole sui laghi inglesi e l'immenso mausoleo, a Bruxelles, che mi era stato indicato come la casa di D'Aunay.

— Dormivate? — le chiese Bencolin, con aria distratta. — Dormivo, quando fui svegliata dai rumori. Indossai una vestaglia e

scesi da basso... Arrivai quando stavano entrando col cadavere — disse con voce ferma. Ora ci guardava negli occhi. — Penso che il signor Lavas-seur sia soddisfatto.

— Completamente, signora — disse il violinista, inchinandosi. — Parla-vo per vostro marito, prima.

D'Aunay si voltò di scatto verso sua moglie. — Io dormivo — esclamò — e posso provarlo, io. Ma tu... Pareva fuori di sé dalla rabbia. — Maledizione! Mi sto domandando come faccia a fidarmi di te, dopo

che mi hai dato il sonnifero, e perché ti permetto di darmi il veronal, con le tue mani!

Sorridendo, Lavasseur disse in tono salottiero: — Il signor D'Aunay è un bugiardo, un codardo e, devo insistere su que-

sto punto, il frutto illegittimo di una cagna. — Basta! — urlò Bencolin. — Signor D'Aunay, restate dove siete! Ami-

co Lavasseur, volete avere la bontà di conservare questi complimenti per un altro momento?

— Va bene, lo ammetto! — rispose Lavasseur tranquillamente. — For-se, nel trasporto della rabbia, posso essere stato più complimentoso di quanto non avrei dovuto, ma sono sempre stato generoso di carattere... È meglio che me ne vada, ora. — Si alzò e prese la custodia del violino. — Se avete bisogno di me, mi troverete sempre in casa...

Ci volle un po' di tempo prima che la rabbia di D'Aunay si placasse.

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Bencolin era quasi soave, nonostante io mi sentissi portato a stringere la mano di Lavasseur con affetto.

La donna non disse una parola: rimase li a guardare D'Aunay come se non l'avesse mai visto prima.

— Posso farvi presente che la persona che ha salito quelle scale non de-ve essere necessariamente uno di voi due? — disse Bencolin.

D'Aunay lo guardò sorpreso, annuendo subito dopo con forza. — E che se qualcuno avesse voluto entrare in casa — continuò il poli-

ziotto — sapendo che voi due eravate a letto, avrebbe potuto benissimo passare dalla vostra stanza?

D'Aunay disse qualcosa intorno al suo stato di salute, borbottò una frase alla moglie, ci salutò e scomparve oltre la porta facendo svolazzare la ve-staglia. Isobel D'Aunay rimase un attimo immobile, ci sorrise quasi gaia-mente, poi lo segui.

Bencolin si voltò giubilando verso di me, quando restammo soli. — Eccellente, Jeff! — esclamò, fregandosi le mani. — Di bene in me-

glio... Lavasseur mi ha suggerito una trappola che forse mi dirà ciò che voglio sapere. Suonate per Hoffmann, per piacere!

— Una trappola? Per il colpevole? — No — rise Bencolin — una trappola per l'innocente! Suonate, amico!

6 Mentre aspettavamo il maggiordomo, Bencolin passeggiò su e giù per la

stanza. Era in preda a quella sorta di buon umore carico di elettricità che era solito avere quando stava dirigendo le azioni degli altri all'insaputa de-gli stessi interessati.

Sedette all'improvviso allo scrittoio, tirò verso di sé penna e calamaio e scrisse poche frasi su un foglio, a caratteri grandi e chiari. Non gli chiesi niente. Se fossi intervenuto nei suoi tentativi di effetto drammatico, gli a-vrei tolto qualsiasi piacere; anzi, una volta che lo avevo fatto, avevo ri-schiato di compromettere la soluzione di un intero caso. Era stata un'espe-rienza amara ma salutare...

Potevo sentire il suono del violino di Lavasseur, continuo, ossessionante. Hoffmann entrò. Il poliziotto piegò accuratamente il foglio e se lo ficcò in tasca, poi guardò l'orologio.

— Sono le undici — mormorò. — A che ora, normalmente, andate a let-to, Hoffmann?

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— Con la confusione che c'è in giro — rispose il maggiordomo — non riesco mai a seguire un orario, signore. In genere faccio il giro per chiudere le porte, quando me lo ordinano.

— Bene, non vi costringerò in piedi ancora a lungo, ma voglio visitare le stanze del signor Alison... Ditemi un po', aveva un cameriere personale?

— No, signore. — Bene. Le scarpe e i vestiti che aveva indosso quando lo trovaste, era-

no completamente bruciati? — Sì, signore, gli abiti erano completamente distrutti, ma le scarpe solo

in parte. — Eccellente! Penso che le abbiate conservate... — Credo che qualcuno le abbia messe nel suo guardaroba, quando... — Capisco... Volete condurmi in camera sua, per piacere? Andammo di nuovo nell'atrio e poi di sopra. Dalla sala da pranzo si sentì

un tintinnio di bicchieri e la voce di Dunstan: — ... e senti, Sally, accidenti al momento in cui ho disegnato quegli sce-

nari. È stato per questo che ha voluto vedermi. Stava per ritornare sulle scene con il "Riccardo terzo". Be', io... Brinda con me, vecchia mia. Alla salute!

La voce si attenuò. Potevo immaginare Dunstan seduto comodamente davanti al tavolo, con un bicchiere in mano, mentre spiegava i suoi senti-menti, con quel suo modo di fare sempre maldestro. E potevo immaginare anche Sally Reine, con i gomiti sul tavolo, il viso da folletto fra le palme delle mani, i grandi occhi scuri fissi sul giovane.

Ora ci trovavamo nell'oscuro corridoio del primo piano. Bencolin si mi-se un dito sulle labbra, sussurrando piano:

— Che stanze ci sono qui, Hoffmann? Il maggiordomo indicò le due stanze alla nostra sinistra: — Il salotto e la camera da letto della signorina Alison. Ci siete stato.

Più a sinistra, le stanze dei signori D'Aunay, con stanza da bagno annessa; sono proprio sopra alla sala della musica. L'ala posteriore...

Indicò l'ala sinistra della casa, che correva lungo il corpo dell'edificio a formare una grande T.

— ... fa parte dell'appartamento del signor Alison: studio, stanza da letto e bagno. L'ala destra ha due stanze corrispondenti. La camera della signo-rina Reine è di fronte a quella della duchessa, le altre due sono state riser-vate per lor signori. In fondo, dirimpetto, a noi, ci sono le stanze del signor Dunstan e del signor Lavasseur, divise da un bagno in comune.

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— E la servitù? — Al piano superiore, signore. Abbiamo anche una scala di servizio sul

retro. — Vedo... In genere, quando tutti dormono, tenete accesa una luce qui

nel corridoio? — No, signore. Tutte le stanze hanno un bagno privato e... — Vedo che stasera c'è una lampada accesa, però. Anche se non è forte

ci basterà. Andiamo. In silenzio percorremmo il corridoio e da un grosso mazzo di chiavi

Hoffmann ne scelse una con cui aprì la porta davanti alla quale ci eravamo fermati. La tempesta, intanto, era cresciuta di intensità. Tutta la casa parve esserne scossa. Sopra tutto quel boato di tuoni e di pioggia, però, potevo ancora sentire il violino di Lavasseur.

Hoffmann accese la luce e Bencolin chiuse la porta. Dopo soli nove giorni di abbandono, il luogo sapeva di decadimento; le luci erano appan-nate, le finestre nascoste da tende scure, pesantemente ricamate in oro. Tutto intorno, le pareti erano a pannelli di quercia, e ornate da ritratti in cornice, che erano tutta la storia dei successi teatrali di Myron Alison. Una macchina per scrivere ancora scoperta era posata su un tavolino di legno e sulla spalliera della sedia davanti alla macchina c'era una giacca da camera abbandonata negligentemente. Tutto era ricoperto da un leggero strato di polvere.

Gli occhi di Bencolin si mossero senza tregua per ogni angolo, un ner-vosismo appena controllato si era impossessato di lui non appena entrato in quella stanza. Mi parve che non riuscisse a trovare ciò che cercava. Si avvicinò alle due finestre, studiandole.

— Lucchetto alla porta, pesanti cortine... — mormorò. — Paura di qualcosa? — chiesi. — Non mi disturbate, Jeff — disse distrattamente, mentre il suo sguardo

scrutava il pavimento, i muri, il soffitto. — In ogni modo, non ha impor-tanza: voglio vedere la stanza da letto. Deve essere nella stanza da letto.

Aveva parlato tra sé, in una specie di borbottio inintelligibile, ma all'im-provviso urlò:

— Ehi! Siete ancora qui, Hoffmann? Dovete fare una cosa per me. Tutte le sere il signor D'Aunay ha l'abitudine di prendere del veronal: voglio che entriate nella sua stanza, con qualche pretesto per vedere se lo prende an-che stasera. Dite che volete cambiare gli asciugamani nel bagno, o...

— Ma signore! — lo interruppe Hoffmann, scandalizzato — è la came-

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riera che... — Be', allora qualcos'altro. Bussate e chiedetegli se desidera del caffè.

Aspettate! Ditegli che la signorina Alison ha sentito che era turbato e che gli manda a chiedere se vuole un sonnifero. È molto arrabbiato e vi mande-rà a quel paese... Fatelo, comunque.

Col viso molto afflitto, Hoffmann ci lasciò soli. Bencolin stava già guar-dando un arco nascosto da una tenda, che apparentemente doveva portare in un'altra stanza. Alzò la tenda: la luce dello studio ci permise di vedere che era la camera da letto. Il poliziotto fissò un piccolo tappeto persiano un po' fuori posto e gualcito.

— Chiudete la porta, Jeff — disse quietamente. Quando tornai, era inginocchiato vicino al tappeto. Aveva acceso un

fiammifero e teneva la piccola fiamma rasente al pavimento. — Fango — mormorò. — Fango rappreso. Il tappeto lo copriva quasi

completamente. Spense il cerino e accese la luce, dopo avere imprecato perché non riu-

sciva a trovare l'interruttore. Era una stanza ampia, opulenta e triste, con un enorme letto di quercia scura con la coperta rossa stile rinascimento. La tappezzeria era grigio perla, e stonava con il tavolinetto giapponese laccato ricoperto di vasi dorati. Tutto era in uno strano contrasto con la semplicità dello studio. Sopra una toilette in stile fiorentino era appeso un grande specchio in cornice laccata. Sulla toilette, un insieme di lozioni astringenti, di acqua di rose, di creme per la faccia, di tonici per capelli. Un lampadario veneziano illuminava la scena con il pallore della sua luce.

— Un tipo che si curava... — mormorò Bencolin. — Ma io sto cercando un armadio, un guardaroba...

Lo trovò in un angolo vicino al letto. Conteneva una serie di vestiti ordi-natamente appesi uno vicino all'altro, scatole per cappelli messe in fila quasi con pedanteria, scarpe lucidissime con la punta rivolta verso di noi. Un solo tocco sinistro in tutta quell'accuratezza: un paio di scarpe di cuoio pesante erano state buttate in un angolo, una sull'altra. Bencolin le prese in mano per esaminarle: la pelle era annerita e bruciacchiata, ma si potevano scorgere ancora delle tracce scure emananti un odore acido, nauseabondo.

— Eccole! — esclamò Bencolin. — Ecco le scarpe che aveva ai piedi quando morì. Dannazione! Un "dandy" immacolato con un guardaroba come questo e un paio di grosse scarpe dozzinali! E la cosa più strana è che non c'è nemmeno un paio di pantofole... Un momento! Ecco delle altre scarpe da passeggio. Asciutte, ma con tracce dello stesso fango verde sotto

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la suola. — Le rigettò nell'armadio con un tonfo. — E questo... Anche questo è fuori posto nell'elegante guardaroba del nostro signore!

Mi mostrò un soprabito sdrucito e mal ridotto, coi gomiti consumati. Lo fece rigirare alla luce, ficcando una mano nelle tasche. Rimase immobile per un attimo.

— Cosa c'è? — chiesi. Cominciavo a essere troppo incuriosito per riu-scire a non fare domande.

Si avvicinò all'armadio e riappese con cura il vecchio soprabito. — È stato un bene che non vi abbia detto niente finora, Jeff — borbottò

alla fine. — Già per la seconda volta sono costretto a cambiare opinione su questa ingarbugliata faccenda. Mi chiedo se non dovrò cambiarla ancora. No... No. Chi poteva aver ragione di... Tuttavia ci deve essere un motivo che mi sfugge. Vi prego, amico mio, lasciatemi solo, ho bisogno di pensa-re. Andate a chiacchierare con qualcuno, io resto qui.

Lo lasciai in mezzo alla stanza medioevale, fermo davanti allo specchio. Nel corridoio mi ritornarono in mente le vecchie scarpe infangate che ave-vamo trovato nell'armadio di Alison. Mi sembrava impossibile che il sen-tiero del Castello del Teschio fosse in condizioni tanto disastrose da ridur-re così un paio di scarpe. E poi quell'odore nauseabondo...

No, quel fango suggeriva i sotterranei del castello, suggeriva mura spes-se e scale, con torce infisse nei muri. Torce...

Incontrai Hoffmann, che mi disse sottovoce: — Il signor D'Aunay ha preso il veronal. Lo stava prendendo proprio mentre sono entrato. Altro, signore?

— No, grazie, Hoffmann. Rimasi immobile a lungo, dopo che se ne fu andato, e all'improvviso mi

resi conto che c'era qualcosa che non andava. Mancava un rumore al quale ero ormai abituato, non il fischio del vento o il crepitio delle gocce, ma... il violino! Il violino si era fermato. Probabilmente Lavasseur se ne stava an-dando a letto. Seguendo un impulso, mi diressi verso il salotto della signo-rina Alison e bussai alla porta; la sua voce tonante mi invitò a entrare.

Era seduta al solito tavolo, con indosso una fluttuante vestaglia; stava bevendo della birra.

— Entrate, amico! — esclamò. — Bevete una bottiglia di birra scura. Io ne bevo sempre tre, prima di andare a letto.

Guardò il gioco di scacchi che aveva davanti. — Al diavolo! — brontolò. — Niente a che fare con il poker! Come va

il nostro poliziotto?

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— Dal mio punto di vista — ammisi, mettendomi a sedere — molto ma-le.

Socchiuse gli occhi dietro gli occhiali. Prese un'aria talmente materna che mi venne da ridere.

— Bene, bene — mi consolò. — Raccontate alla vecchia duchessa i vo-stri guai. Accidenti, quando tutti questi poliziotti si saranno levati dai pie-di, voglio farmi una vera partita a poker. Sentite un po', voi non siete un poliziotto, vero? Voglio dire, mi pare di aver sentito che siete un amatore di misteri o qualcosa del genere.

— Scrittore — dissi brevemente. — Davvero? Perbacco! — Mi scrutò a lungo, con le grasse guance gon-

fie e gli occhi attenti. — Non lo sembrate, però. Ne ho visti un sacco in gi-ro per la casa: hanno sempre l'aria astratta, i capelli lunghi e i discorsi pieni della loro arte. Secondo me ci vorrebbe qualcuno che li sveltisse con un pugno sul muso!... Scrittore! Scommetto che sapete anche giocare a rugby.

— Baseball — ammisi. — Sono americano. — Davvero? — esclamò ancora. — Sentite, amico, non pensate, solo

perché sono inglese, che non conosca le regole del gioco! Ho assistito ai campionati mondiali di baseball nel millenovecentonove, l'anno in cui Wild Bill giocava contro i Pirati. Ero giovane, allora e anche carina... — Rimase un po' in silenzio. — Non ci credereste, eh? Li avevo tutti intorno a me. Adesso non posso trovare nemmeno un cane che voglia giocare a poker... Volete un po' di birra?

Prese una bottiglia dal pavimento, vicino alla sedia, e un altro bicchiere. — Sempre buona per i giovanotti — annuì pensosamente. — Sapete? Ci

sono un sacco di cose strane in questa casa... Persino intrecci sentimentali! — Divenne filosofa. — Mi piace che i giovani si divertano. E anche i vec-chi.

Mormorai qualcosa intorno al fascino della giovinezza. Mi guardò di-sapprovando, con gli occhi grigi resi enormi dagli occhiali. Poi mi dette un forte colpo di pollice nel petto.

— State buono, amico — esclamò. — Non parlate come quel Lavasseur della malora! Non dire sciocchezze e bevete la birra. — Si aggiustò gli oc-chiali, prima di continuare. — Voglio darvi uno straccio di consiglio; qual-siasi cosa è meno importante nella vita, del saper diventar vecchi. Guardate me, sono contenta di giocare a poker e di risolvere, quando ne sono capa-ce, quei dannati cruciverba del "Times". E questo, ricordatevelo, nonostan-te fossi bella quando ero giovane. E se non ci credete vi mostrerò delle fo-

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tografie... Ma Myron non ha mai imparato a diventar vecchio, credeva di poter essere una specie di "Monsieur Beaucaire" fino alla morte. E così non era adatto per vivere a lungo.

— Spero che non mi giudichiate inopportuno — ebbi il coraggio di dirle — ma non mi pare che ve ne importi molto di lui.

— Dio mio, no! Perché essere ipocriti, ragazzo mio? Inoltre, sentite, vo-glio dirvi una cosa. Ho sempre sospettato... Avete sentito parlare di quel Maleger, che una volta era proprietario del Castello del Teschio?

— Sì. — Accadde diciassette anni fa — disse sottovoce — e non ho mai smes-

so di avere in mente l'idea... be', una mezza idea... che Myron fosse mi-schiato in qualche modo nella sua morte. Ho vissuto con Myron per un pezzo abbastanza bene... Ma non mi ha mai voluto dire dove incontrò Ma-leger. Forse nei campi di diamanti di Kimberley...

— Vostro fratello è stato in Africa? — Certo. Non lo sapete? Noi veniamo dall'Australia, anche se Myron

non lo ha mai voluto ammettere. Non aveva una cultura, ma devo ricono-scere che non lo dava a vedere... E neanche un soldo. Ha girato mezzo mondo prima di arrivare a Londra, e cominciò a recitare quasi per sbaglio, ma per merito di Maleger. In ogni modo, non so spiegarmi come morì quell'uomo su quel treno. Incidente o suicidio, secondo l'evidenza... Non c'era nessuno vicino a lui.

Lo stesso enigma. Dovunque andassi qualcuno ne parlava, e l'eco di quel vecchio scandalo risorgeva ogni momento. Maleger era vivo in ogni men-te, un morto ossessionante con il viso aggressivo nello scompigliato venta-glio dei capelli rossi. Non potevo parlare con nessuno senza che venisse fuori lo stesso suggerimento: "delitto".

Mi accorsi che la mano mi tremava tanto che fui costretto a rimettere il bicchiere sul tavolo. Fu come lo spiraglio di una porta che si aprisse nella mia mente, come se qualcosa premesse contro il mio cervello per uscirne. Poi udii il violino, che emise una voce quasi umana, un grido di dolore... Lo stormire della tempesta si unì a quel grido. Poi vi fu il rumore della porta d'ingresso sbattuta violentemente e la corsa di qualcuno per le scale. Agatha Alison mi guardò meravigliata mentre saltavo in piedi. Mormoran-do una scusa aprii la porta.

Un uomo tozzo con un impermeabile stillante di pioggia, era in cima alle scale e mi guardava di sotto il cappello bagnato, mentre Bencolin si avvi-cinava dall'altra estremità del corridoio. Il nuovo venuto abbaiò qualche

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frase in tedesco, col dito puntato verso di lui. Bencolin lo guardò attenta-mente senza rispondere. Non avevo capito quel che aveva detto, ma mi resi conto che non poteva essere che l'inviso Konrad; stava ordinando imperio-samente a Bencolin di scendere le scale, ora. I suoi baffi tremavano. Da basso si udì una voce querula:

— Ma cosa diamine succede? Il malevolo sguardo del nuovo venuto si posò su di me. — Scendete da basso. Mentre seguivo Bencolin, mi resi conto che la porta si era ancora aperta.

Il viso curioso di Dunstan si affacciò dalla sala da pranzo. Konrad si piazzò in mezzo alla biblioteca, dopo essersi levato l'imper-

meabile e aver sgocciolato pioggia dappertutto. Sporse in avanti la sua fac-cia rossa, truculenta. Bencolin lo guardò sorridendo, mentre Hoffmann correva a chiudere la porta e Dunstan si faceva avanti col bicchiere in ma-no. Konrad non la smise un momento di parlare, nella sua ridicola posizio-ne a petto in fuori.

— Da Parigi... per intralciare... la legge — riuscii a capire. Poi, con uno sguardo trionfante, si sporse attraverso il tavolo e sparò una

frase in faccia a Bencolin. Dunstan disse all'improvviso, traducendo: — Ha trovato il corpo del

guardiano. E Bencolin: — E io ho trovato l'arma. Trasse dalla tasca una pesante Mauser, che gettò sul tavolo con un tonfo.

Parve che quel tonfo avesse un'eco. La risata del violino seguì da lontano quel rumore, perdendosi nel rumore della tempesta. Konrad si avvicinò al-la pistola, lentamente, come se avesse paura di toccarla. Con la coda del-l'occhio vidi avvicinarsi Hoffmann, la grossa faccia compunta.

Arrivato in mezzo alla stanza si raddrizzò e annunciò con voce profonda: — Il signor barone Sigmund von Arnheim.

7

La voce di Hoffmann aveva qualcosa di grave: non era abituato ad an-

nunciare la gente in quella casa strana e senza formalismi, ma aveva capito cosa sarebbe piaciuto al nobile tedesco e allora aveva esagerato: era stato quasi drammatico. Guardai il suo viso rosso, il piccolo naso arricciato in modo ridicolo, la luce di trionfo negli occhi acquosi.

— Grazie — disse una voce divertita.

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Il nuovo venuto entrò nella stanza; aveva in mano un cappello floscio e indossava un impermeabile nero, che si tolse appena dentro. Era piccolo, il barone von Arnheim, piccolo e tozzo, con il passo saltellante e il cranio a forma d'uovo. Aveva la faccia pallida e impassibile e rughe profonde gli scendevano dagli angoli del naso alla bocca, a formare un triangolo.

Girò gli occhi verdi intorno, posandoli per un attimo su ognuno di noi. Quando vide Bencolin il suo volto si aprì in un sorriso.

— Che piacere vedervi qui, amico mio... — disse in francese. — Quel-l'animale vi ha intralciato in qualche modo?

Non indicò Konrad, dicendo questo, ma i suoi occhi verdi si posarono un attimo sul funzionario con una espressione inequivocabile. Mi accorsi solo allora che aveva un monocolo incastrato in un'orbita.

Avanzò verso il centro della stanza con quel suo passo saltellante che ri-cordava un po' quello di un'oca.

Si voltò all'improvviso verso Konrad ed ordinò con voce secca: — Fuori di qui. Aspettatemi nell'atrio. Marsch! Mentre l'altro obbediva senza batter ciglio, Bencolin fece un cenno col

capo a Dunstan. — Capito... — borbottò il giovane, seguendo Konrad. Von Arnheim si avvicinò a Bencolin con le mani tese: — Le maniere scortesi dei miei dipendenti mi umiliano moltissimo, vec-

chio mio — disse, scuotendo la testa. — Vi assicuro che gliela farò pagare cara. Puah! È disgustoso!

— Soffre di troppa energia — rispose Bencolin sorridendo. Ma vi prego, non prendete provvedimenti contro di lui. È a Konrad che debbo il piacere di avervi incontrato ancora e gliene sono grato.

L'atteggiamento dei due era talmente studiato e lezioso che rabbrividii. Sentii che avrei preferito l'aggressiva conversazione della duchessa. Quan-do Bencolin mi presentò, von Arnheim batté i tacchi e si inchinò profon-damente, prima di stringermi la mano. Il ciuffo di capelli biondi che gli scendeva sulla fronte ebbe un movimento meccanico, preciso, di andata e ritorno.

— Sono felicissimo di conoscere un amico del mio amico — mi assicu-rò. — E ora possiamo metterci a sedere? Siete appena arrivati? Bene! Vor-rei discutere con voi di questa faccenda...

Gettò l'impermeabile su una sedia, aggiustandosi poi l'attillata giacca da sera sui fianchi rotondi.

— Una sigaretta? — ci chiese offrendo il portasigarette aperto. — Sono

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tedesche e, mi dispiace doverlo riconoscere, terribilmente forti. La nostra tassa sul tabacco estero è altissima... In Francia sanno metterle a posto molto meglio di noi, queste faccende.

Stavo per dire: "Per l'amor di Dio, finitela!", ma tutti e due parevano tan-to felici di potersi comportare così, che mi sarebbe sembrato d'interrompe-re il gioco di due bimbi. Per la prima volta, da quando conoscevo Benco-lin, mi sentii un po' come un suo fratello maggiore.

Von Arnheim si sdraiò in una poltrona, fumando con voluttà la sua siga-retta troppo forte; Bencolin si mise a sedere proprio di fronte a lui. Comin-ciarono a formare anelli di fumo e a seguirli con occhi sognanti.

Finalmente von Arnheim ruppe il silenzio. — Sono arrivato a Coblenza questo pomeriggio. Konrad mi ha riassunto

brevemente il caso; avrei voluto fermarmi in albergo, vista la tempesta, ma Konrad non ha voluto. Moriva dalla voglia di farmi visitare il castello sta-sera stessa... Così sono venuto qui, prima.

— Non sapevate ancora, vero, che ero arrivato anch'io? — chiese Ben-colin.

Von Arnheim scosse la testa. — È stata una deliziosa sorpresa — esclamò compiaciuto. — Proprio

una deliziosa sorpresa. Fumarono ancora in silenzio. — Poco prima che arrivaste, Konrad ci stava dicendo di aver trovato il

corpo del guardiano del castello — mormorò Bencolin con noncuranza. Von Arnheim si tolse lentamente il monocolo. — Possibile? — chiese perplesso. — Ma se mi aveva detto di aver cer-

cato da tutte le parti! In ogni modo, sentiremo... Chiamò il funzionario, che apparve restando sulla porta come intimidito. — Un momento — esclamò Bencolin. — Parla inglese? O francese? Il

mio amico qui non capisce il tedesco. — Parla francese benissimo — ci assicurò von Arnheim. — Lo ha impa-

rato in un campo di prigionia o qualcosa del genere. — Posò i suoi gelidi occhi verdi su Konrad, mentre la smorfia sprezzante della bocca accentua-va il triangolo di rughe.

— Parlate, e siate breve — gli intimò. — Diteci cosa avete trovato. Le parole di von Arnheim parvero crepitare attorno alle orecchie di Kon-

rad, tanto da farle diventare rosse. — Sì, sì, signor barone... Naturalmente, immediatamente — sillabò. —

Io ho le chiavi del castello, come sapete. Questo pomeriggio ho pensato

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che sarebbe stato bene andarci a dare un'altra occhiata. — Mi avevate detto di aver cercato con cura dappertutto, se non mi sba-

glio! — l'interruppe von Arnheim. — È vero, signore, ma è un posto così enorme che... — Ah! — la voce di von Arnheim divenne soave. — Allora avete tra-

scurato qualcosa, durante la prima perquisizione. — Assolutamente no, signore! È questo il mistero. Intendo dire che il

posto in cui è stato trovato il corpo era già stato perquisito. È una cosa che non riesco a spiegarmi! Mi ricordo benissimo di essere andato in quella stanza, subito dopo il delitto di Alison e sono certo che allora non trovai niente. Ma oggi, appena entrato, ho visto il cadavere di Bauer attaccato al muro con pesanti catene. Qualcuno deve averlo messo là dopo...

— In nome di Dio! — sbottò il barone. — Non state mentendo, per ca-so?

— Ve lo giuro! I due poliziotti che mi hanno aiutato durante là prima perquisizione potranno testimoniare che è così.

— Da quanto è morto? — Non so, signore. Ero venuto qui appunto per telefonare al medico le-

gale... Da molti giorni, comunque. Non è uno spettacolo piacevole! — E la causa della morte? — Colpi d'arma da fuoco in faccia. — Dall'umiltà, Konrad stava passan-

do a una certa sicurezza. Rigirò il cappello fra le mani, quasi a suo agio. Il sudore non scorreva più sul suo viso congestionato.

— Se questa scoperta potesse riabilitarmi agli occhi del signor barone... — mormorò alla fine.

— State buono, amico mio. Dove si trova questa stanza? — In una delle torri del castello. Vi assicuro che non è proprio un bello

spettacolo, ma se volete visitare il luogo, posso condurvi là. — Andate a telefonare al medico legale, poi tornate qui. Il commissario usci. — Se quel Konrad sta cercando di mascherare la sua inefficienza... —

borbottò il barone, guardando l'orologio. Sorrise con quei suo fare sornio-ne, prima di chiedere:

— Vi incomoderebbe venire con me al Castello del Teschio, amici miei? È tardi, ma penso che questo non abbia peso per il signor Bencolin. Per lo meno, non ne aveva, ai vecchi tempi.

— E nemmeno ora — rispose Bencolin. — Aspettate un momento, però. Penso che abbiate già esaminato il rapporto del medico legale sulla morte

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di Alison. — Sì. Gli furono sparati tre colpi: uno all'inguine e due nel polmone si-

nistro. I proiettili dovevano essere di una Mauser. Bencolin annuì, studiandosi le mani. — E le ferite sarebbero state fatali, naturalmente, anche senza il fuoco?

— chiese. — Sarebbero state fatali, sì, ma fu il fuoco a ucciderlo. — Vedo... E il petrolio che gli fu versato addosso da dove proveniva? Von Arnheim cavò un'agenda dalla tasca e cominciò a sfogliarla. — Si suppone che provenisse dal rifornimento del guardiano — rispose

dopo qualche secondo. — Le stanze del guardiano sono illuminate, appun-to, con lumi a petrolio. Non si è trovato il recipiente che doveva presumi-bilmente contenerlo, tuttavia.

Finalmente avevano abbandonato il loro grottesco atteggiamento di raf-finata educazione e le voci erano diventate dure, professionali. Bencolin si chinò in avanti, con gli occhi fissi sul suo avversario.

— Ditemi un po', amico. Avete già una base, una teoria, vero? Von Arnheim sorrise ancora. — Ho un presentimento — mormorò. — Bene. E dato che sembra non abbiate alcuna intenzione di interrogare

i membri di questa famiglia occasionale, penso di potervi dire una cosa... Vecchio mio, avvicinatevi al tavolo e guardate quella pistola; la vostra teo-ria volerà in mille pezzi. È la Mauser con la quale sono stati uccisi Alison e Bauer. L'ho scoperta di sopra, nella tasca di un soprabito che si trova nel guardaroba di Alison.

Una pausa. Von Arnheim rimase impassibile, col monocolo in mano, gli occhi fissi sull'arma.

— Avevate immaginato — disse Bencolin in tono sognante — che l'as-sassino fosse l'illusionista Maleger; pensavate che non fosse veramente morto, ma che avesse architettato una finta morte. Eravate certo che fosse sceso sano e salvo dal treno, che avesse gettato nel fiume con la sua roba addosso, un cadavere preso, magari, in una camera mortuaria di qualche ospedale.

"A prima vista è un'ipotesi solida che rende onore al noto acume del ba-rone von Arnheim. Prima di lasciare Parigi, mi sono informato sul conto dei nostri amici: Maleger, Alison e D'Aunay erano insieme nelle miniere di diamanti di Kimberley, dove Maleger fece la sua fortuna. Non ho avuto al-tri dettagli, mentre voi, invece, certamente ne conoscete, ma penso di poter

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azzardare la tesi che Maleger li imbrogliò in qualche modo. Può darsi che col passare degli anni i due siano riusciti a raccogliere le prove che avreb-bero rovinato Maleger e allora l'illusionista pensò bene di sparire, di insce-nare una finta morte... Ah, no, nonostante tutto non può essere. Il mio caro amico von Arnheim se ne renderà conto senza bisogno di mie spiegazioni."

Il barone schiacciò il mozzicone della sigaretta nel portacenere. — La mia teoria — disse sottovoce — non è ancora ben definita. Questa

pistola a chi appartiene? — Ad Alison. Ci sono le sue iniziali sul calcio. — Avete pensato che ci possono essere delle impronte digitali? — Mio caro barone! Von Arnheim gettò indietro la testa, scoppiando in una risata divertita,

poi si raddrizzò, rimettendosi a posto il monocolo. — Scusatemi! E adesso vediamo. Prese la pistola e la studiò attentamente. — Ah, si... Accuratamente pulita e oliata. Ci sono dei pezzetti di tabacco

attaccati al calcio e al grilletto, però. Suppongo fossero nella tasca del so-prabito, no? Questa pistola ha l'aspetto di non essere stata usata per parec-chi mesi, prima dell'omicidio. Era in un armadio, eh?

— Hoffmann m'ha detto che Alison la teneva in un armadietto del suo studio — rispose Bencolin.

— Sicuro... L'olio ricopre la polvere e si può ancora sentire che odora di canfora — mormorò il barone. — Il mio monocolo, ora... È come una len-te... Be', in ogni modo, chiunque l'abbia usata portava i guanti. Con una lente appena più forte potrei dirvi persino che tipo di guanti. Sono stati sparati cinque colpi da questa pistola. Concorda.

Tolse il caricatore, poi tirò il grilletto un paio di volte. Il meccanismo pareva arrugginito.

— Chiunque abbia sparato con questa pistola, doveva avere delle dita molto forti...

— ... ma non era molto alto — completò Bencolin. — Ah, l'avete notato anche voi? Il segno lasciato dal guanto sul calcio si

ferma a metà, senza farne un giro completo. La persona che ha sparato do-veva appena riuscire a reggerla. Conclusione: una mano piccola ma con una forza terribile nelle dita. Provate a sparare con una pistola arrugginita, se le dita non riescono ad abbrancare bene il calcio! Chi può essere l'indi-viduo dalle mani piccole e forti?

— Quasi tutti — rispose Bencolin, scuotendo la testa. — Li avete cono-

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sciuti? — La loro testimonianza è tutta qui — il barone si toccò la fronte. —

Non li ho ancora incontrati, però. Possiamo andare al castello, ora? — Se ci permetteranno di usare il motoscafo... Dall'espressione dei vo-

stri occhi, barone, mi pare di capire che ce lo permetteranno senz'altro. Prima di andare, però, vi suggerirei di salire a porgere i vostri omaggi alla signorina Alison. Questa casa è tenuta in modo formale, ma...

— La cortesia del mio amico Bencolin non delude mai! Andrò subito. — Vorrei anche consigliarvi di chiedere alla signorina Alison il permes-

so di passare la notte qui. C'è una persona sulla quale, ne sono certo, vorre-te sempre tenere gli occhi aperti...

Gli occhi di von Arnheim ebbero un'espressione interrogativa. — Parlo di me! — E Bencolin rise. — Sapevo che sareste venuto oggi

stesso, perciò ho detto a Hoffmann di portare i miei bagagli nella stanza di Alison, così potete dormire nella camera che era stata assegnata a me. Vo-glio che stiate comodo!

Di nuovo la risatina salì dalla gola di von Arnheim. La sua faccia era de-liziata.

— Vedo che il cervello del mio amico non ha perduto neppure un po' della sua acutezza — gorgogliò. — Immagino che il trasferimento nelle stanze di Alison non sia del tutto disinteressato, vero?

— Sapete che sono sincero. È proprio così. — Sì, siete sincero — ammise l'altro. — In passato, lo ricordo bene,

avete fatto di tutto per imbrogliarmi, ma sempre con sincerità. Adesso va-do dalla signorina Alison. Volete occuparvi del motoscafo, nel frattempo? Penso che avremo bisogno anche di luci...

Con un piccolo inchino, ci lasciò. Lo sentimmo parlare con Hoffmann nell'atrio. Bencolin sogghignò, or-

mai ogni forma di nervosismo l'aveva abbandonato. — Un tipo stimolante, von Arnheim! — mugolò. — Ho sempre nutrito

dell'affetto per lui, persino mentre ci scambiavamo dei colpi di rivoltella nel corso di una missione a Costantinopoli. Mi dispiacque, naturalmente, quando mi accorsi che era stato messo del cianuro nel mio bicchiere duran-te una cena con uno dei suoi agenti, ma sono certo che il barone gli aveva ordinato solo di metterci un sonnifero. Gli feci notare il piccolo errore, in una lettera molto educata che gli indirizzai, e lui se ne scusò, prometten-domi che avrebbe punito severamente il suo subalterno. Sarebbe stata una cosa molto difficile, comunque, mi fece notare, perché il suo agente era

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sparito dalla circolazione, dopo il fatto... Fareste meglio a prendere l'im-permeabile, Jeff. Sarà un viaggetto piuttosto umido, temo.

8

Una cortina di pioggia cadeva sul piccolo imbarcadero. Le luci delle no-

stre torce elettriche gettavano riflessi chiari sul Reno melmoso. Sulle no-stre teste il telone impermeabile schioccava in continuazione, spostandosi a ogni nostra mossa e facendoci cadere negli occhi rivoli di pioggia. Senti-vo il movimento del motoscafo, tanto che dovetti afferrarmi al parapetto. Intorno a me vedevo solo i contorni di figure scure in impermeabile, appe-na illuminate dal cono di luce delle lampade tascabili.

Ci volle un po', prima che Fritz riuscisse a guidare l'imbarcazione nella piccola insenatura ai piedi del Castello del Teschio e ad assicurarla con le corde. Saltammo a terra, mentre Fritz ci contava, alla luce incerta di una lanterna, per assicurarsi che fossimo tutti presenti. Reggevamo ognuno una lampada tascabile.

Fritz si incamminò per primo, con Konrad alle calcagna. Subito dopo veniva von Arnheim, io ero dietro di lui. Bencolin chiudeva il corteo.

La luce della lanterna illuminò il piccolo imbarcadero di legno, poi il sentiero pavimentato che si arrampicava fra le rocce che portano al castel-lo. La pioggia insistente aveva sciolto la terra, che era scesa a ricoprire il sentiero con un manto scivoloso di fango.

Sopra le nostre teste, gli alberi stormivano e ululavano al vento. Cammi-nammo reggendoci in equilibrio sul fango, mezzi accecati dalla pioggia, col fiato grosso per la salita. Von Arnheim scivolò, provocando una caduta di pietre che passò fra i miei piedi rischiando di far cadere anche me.

Le nostre lampade si riflettevano sulla roccia e fra gli alberi, facendovi danzare cerchi di luce. Continuammo a salire e a salire, mentre mi pareva di aver perso il senso dell'orientamento.

Finalmente, malfermi sulle gambe, arrivammo alla sommità. La luce della lanterna di Fritz ci rivelò che eravamo vicino a un parapetto che chiudeva un fossato pieno d'acqua, davanti alle pesanti porte incastrate nel-la pietra.

Ci fermammo, ansanti. — Avete le chiavi? — chiese von Arnheim. Rimanemmo immobili davanti a quelle gigantesche porte di legno, sulle

quali degli arabeschi di ferro arrugginito mettevano una nota paurosa. Alla

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luce di quattro lampade, Konrad cercò di aprirle. Ci volle una spallata per spostarle, ma finalmente riuscimmo a entrare.

Ci trovammo in un passaggio di pietra, gelido e umido, dove potevamo sentire il boato della tempesta ridotto a un mormorio. Von Arnheim indi-rizzò il fascio della sua lampada tutto intorno. Bencolin accese una sigaret-ta; indossava un impermeabile sformato che non lo aveva difeso troppo dalla pioggia. Alla luce del cerino vidi che i suoi occhi erano fissi sul ba-rone. Fritz aspettò paziente, seguendo tutto con attenzione. Ai muri erano infissi dei bracci di ferro e alla nostra destra potevamo vedere una piccola porta, che presumibilmente doveva portare nelle stanze del guardiano. So-pra le porte vidi un enorme macchinario arrugginito, che pareva una gran-de tinozza con ruote e catene.

— Ecco una bizzarra invenzione dei nostri antenati — disse il barone, facendo cadere il fascio della sua lampada sullo strano arnese. — Così po-tevano buttare olio bollente sulla testa degli impertinenti. È qui che il maggiordomo e la nostra guida trovarono per terra la torcia, dopo il delit-to?

Scambiò qualche parola con Fritz, che indicò un punto in mezzo al pas-saggio. Proseguimmo il cammino. Dopo una ventina di metri il passaggio svoltava a destra ad angolo retto. Ci trovammo davanti a una fuga di gra-dini di pietra. Von Arnheim ci indicò, con la sua lampada, delle aperture nel muro.

— Per gli arcieri — ci spiegò. — Di qui facevano cadere una pioggia di frecce sui nemici. Una vera fortezza, questo luogo!

Ancora una ventina di metri, poi il passaggio girò per ritornare verso la prima direzione.

— Avete notato il soffitto? — mi chiese von Arnheim in inglese. — O-gni due metri un'apertura per coprire la ritirata. È il castello meglio fortifi-cato che io abbia mai visto. Chissà chi aveva bisogno di una difesa tanto elaborata!

— Questa... — disse la voce di Bencolin dal buio — dovrebbe essere la risposta che cerchiamo.

La sigaretta del poliziotto francese brillava nell'oscurità. Le ombre erano allungate, altissime, ogni sussurro veniva centuplicato dall'eco.

Finalmente uscimmo in un'ampia corte pavimentata da enormi lastre di pietra. Era impossibile vedere qualcosa, ma Fritz ci guidò con sicurezza. Affrontammo ancora la tempesta, seguendo i bastioni che si ergevano al-tissimi sullo strapiombo.

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Il teschio di pietra, da quanto potevo giudicare alla luce incerta delle no-stre lampade, era costruito interamente sulla parte centrale delle mura. Da vicino la rassomiglianza con una testa di morto era meno identificabile; appariva come una grandissima torre. Riuscii a distinguere una finestra triangolare che da lontano poteva essere scambiata per il naso. Il resto del-la costruzione si perdeva nell'oscurità e nella pioggia. I denti erano formati da appuntiti archi di pietra che aprivano una galleria dai bastioni. Mentre ce ne stavamo lì, appoggiati al parapetto a riprender fiato, il cielo fu attra-versato da una lunga serie di lampi.

Poi ridivenne nero, mentre i tuoni si susseguivano. Mi accorsi che ero aggrappato al parapetto, con lo stomaco sottosopra dalla paura.

— Non si vede traccia di sangue — stava dicendo la voce impersonale di von Arnheim. — Eppure due ferite a un polmone dovrebbero provocare una specie di emorragia. Saranno state lavate dalla pioggia.

Era sotto l'arcata della galleria e illuminava il pavimento con la sua lam-pada. Si rivolse a Konrad:

— Ehi, voi! Siete stato qui, prima che piovesse. Avete trovato tracce di sangue che indicassero dov'era stato ferito Alison?

I denti del commissario battevano tanto forte che potevo udirne il rumo-re. Fece uno sforzo enorme per parlare e quando ci riuscì, borbottò qualco-sa in tedesco, ma dopo un'occhiata di von Arnheim proseguì in francese: — Se volete seguirmi, vi mostrerò il luogo.

In fondo alla galleria c'era un'altra pesante porta di legno, che Konrad aprì dopo aver cercato in un mazzo di chiavi. Ci trovammo in un atrio dal soffitto alto, proprio nella testa del teschio. I muri erano imbiancati e di fronte a noi, dove la parete seguiva la curva della testa, si apriva una fine-stra dai vetri policromi. Lungo la parete scendeva una scala dalla ringhiera di legno di rosa e dai gradini scuri. Il pavimento della stanza era nero, lu-cido al punto da riflettere le nostre figure.

— Onice! — mormorò von Arnheim. — E ben tenuto, anche. È pazze-sco! Muri intonacati e pavimento d'onice. Si può illuminare, qui?

— Solo a candele, signor barone — rispose Konrad. — Accendetele, allora. Konrad avvicinò un cerino alle sei grosse candele rette da un braccio

d'ebano intagliato, infisso nel muro. — Vedete, signori? — disse il commissario, quando le ebbe accese tutte.

— Qui, ai piedi della scala, c'è ancora una macchia di sangue. Sul tappeto tre gocce, e più su un'altra... E qui sul muro ci sono delle impronte di dita

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insanguinate, dove la vittima cercò di reggersi. Vicino alla sommità della scala ce ne sono altre. Possiamo così stabilire che fu ferito in cima alla sca-la, perché più sopra non vi sono altre tracce di sangue. Quando gli hanno appiccato il fuoco, sfuggì alla presa dell'assassino e corse giù per i gradini, appoggiandosi al muro. Ho scritto tutto questo nelle note che vi ho dato...

Von Arnheim si avvicinò alle impronte sul muro, studiandole. — Non corse giù da solo — disse una voce tranquilla. — Fu trasportato. Bencolin era vicino a me, con le mani ficcate nelle tasche dell'imperme-

abile, negli occhi un guizzo divertito. Il cappello sciupato creava uno stra-no contrasto con la sua faccia satanica alla luce delle candele. Von Ar-nheim si voltò lentamente e per un attimo i suoi occhi si posarono sul poli-ziotto francese, prima di rivolgersi a Konrad.

— Proprio così, incredibile imbecille! — esclamò. — Non corse giù da solo. Avete esaminato queste impronte? Credo di no. Sono di una mano destra e l'individuo che avesse sceso questa scala avrebbe dovuto appog-giare la sinistra, al muro. Inoltre scendono obliquamente, come avreste no-tato se le aveste esaminate attentamente, e l'intonaco è stato graffiato dalle unghie della vittima. In altre parole, Alison è stato trasportato da basso sul-le spalle dell'assassino, sulla spalla destra, per essere precisi, con i piedi in avanti, verso il basso, e ha cercato di rallentare la discesa dell'omicida ag-grappandosi al muro.

Tacque. Il suo corpo atticciato si eresse. La luce delle candele danzò sui muscoli tesi delle mascelle contratte.

— Ma... — continuò, rivolto al poliziotto francese — come diavolo fate a saperlo, voi? Non vi siete avvicinato a queste impronte!

Bencolin sogghignò, prima di rispondere. — Siamo venuti qui, mi pare, per vedere il corpo del guardiano. Voi sa-

pete le regole che abbiamo sempre seguito, amico mio: meglio non dire niente finché non possiamo dire tutto.

— Guidateci, Konrad — disse il barone al subalterno, poi continuò: — È provato, comunque, che Alison non fu arso vivo prima di arrivare in fondo alla scala. Impossibile portare un uomo in fiamme sulle spalle.

Bencolin annuì, mentre si fermava a studiare le impronte sul muro con la sua lampada tascabile. Guardai anch'io al di sopra delle sue spalle e mi sembrò che avessero preteso troppo dal povero Konrad. A un occhio pro-fano — al mio occhio, in ogni modo — le macchie non erano altro che una confusa striscia di sangue proprio come avrebbe lasciato un uomo che a-vesse tentato di aggrapparsi al muro scendendo la scala. Certo erano un po'

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troppo in alto... Bencolin si voltò a sorridermi. — Ricordatevele, Jeff! — mi sussurrò. — Imprimetevele bene nella

mente. Sperai che Konrad facesse finalmente qualcosa di giusto. Era ad aspet-

tarci in cima alle scale, coi baffi che tremavano. Avrebbe ricordato quella notte per tutta la vita... Eravamo ora in una galleria con una balaustra di le-gno di rosa meravigliosamente intagliata. La parte alla nostra sinistra si perdeva nell'oscurità, ma a destra, proprio in cima alla scala, si apriva una porta. L'atrio era silenzioso; le mura di pietra avevano ridotto il rombo del-la tempesta a un mormorio; non eravamo ancora nemmeno a metà altezza del grosso teschio.

— A sinistra, barone — mormorò Konrad umilmente — la galleria porta alle stanze, tutte ammobiliate, occupate una volta dal signor Maleger. U-n'altra scala porta di sopra, perché ci sono due piani oltre a questo. Dob-biamo passare dalla porta di destra, comunque, per andare alla torre dove troveremo il corpo del guardiano...

Si interruppe per guardare Bencolin, che era immobile davanti alla fine-stra dai vetri policromi, come se la studiasse con curiosità. Il barone von Arnheim lo chiamò, e lui ci raggiunse di corsa, con una strana espressione negli occhi. Finalmente Konrad apri la porta alla nostra destra. Davanti a noi c'era un'altra scala e tanto lunga da non poterne distinguere la fine. An-cora scale!

La torre circolare era costruita di fianco al teschio di pietra; poteva avere sei metri di diametro. Le nostre luci ci permisero di intravedere dei tappeti persiani, candelabri d'argento e arazzi. La parete era completamente rive-stita in legno.

Al piano superiore tutto era in netto contrasto; le pareti erano imbianca-te, e il pavimento di pietra. Salimmo ancora fino ad arrivare al terzo piano. Fritz, che ci aveva preceduti, lanciò un grido di terrore.

La cima della torre era divisa in due parti. Eravamo in uno stretto corri-doio; davanti a noi potevamo scorgere un muro di pietra, nel quale si apri-va un arco. Quando la luce della lampada tascabile di Fritz si insinuò oltre quell'arco, sentii un senso d'orrore percorrermi le vene.

Il corpo del guardiano. Dapprima vedemmo solo il cranio di un uomo, abbassato, come se fosse

sul punto di correre in avanti a dar cornate, come un toro, coi grigi capelli scompigliati che ricadevano. Poi, guardando meglio, ci rendemmo conto

Page 57: Sfida Per Bencolin

che il corpo era attaccato al muro con pesanti catene che, passando sotto le ascelle, erano fissate a due anelli di ferro arrugginito. Le braccia ossute e le due grandi mani uscivano dalle maniche della giacca come se questa fosse diventata a un tratto troppo piccola. Doveva essere stato attaccato a quel muro per quasi una settimana. Il tanfo nauseabondo mi prese alla gola.

Il raggio della lanterna di Fritz ballava sul muro, perché lui non riusciva più a controllare il tremito delle mani. Balbettò qualche parola incompren-sibile, come se avesse avuto la bocca piena di piselli, poi si voltò di scatto, mise la lanterna in mano a von Arnheim e scappò via.

— Be'? — disse la voce del barone alle mie spalle. — Non bloccate l'en-trata, ragazzo mio. Entrate, da bravo.

— Mi dispiace... — sussurrai. — Spero che il mio stomaco non si rivol-ti, se resto qui. Non posso entrare, però.

Mi scostai da un lato per far passare lui e Bencolin. Sentivo in lontanan-za il sibilo del vento. Strinsi i denti per controllare il tremito che si era im-possessato anche di me, mentre il cuore mi balzava senza sosta contro le costole. Von Arnheim mi chiuse la porta in faccia.

9

Il ricordo più ossessionante di tutto il caso si collega a quella mia attesa

nel buio della torre male aerata, davanti alla porta chiusa sul cadavere. Dapprima vi fu un lungo silenzio, poi la voce di Bencolin.

— Due colpi di rivoltella in fronte. Morto... direi da otto giorni. Sentii un brontolio, come se qualcuno inginocchiato cercasse di rimet-

tersi in piedi. — Non fu ucciso in questa stanza. Vedete il segno dei tacchi sulla polve-

re del pavimento? Fu trascinato qui — esclamò von Arnheim. — Danna-zione! Guardate. Queste catene hanno delle manette. Manette perfettamen-te oliate, anche. L'assassino ha fatto tutto come si deve, non c'è che dire... Fortuna, che ha lasciato la chiave nella porta.

Ancora un silenzio e il rumore di passi nella stanza. — Né finestre né mobili — continuò von Arnheim. — Mi chiedo a che

uso fosse adibita questa stanza. Mi hanno detto che era il luogo in cui Ma-leger lavorava, dove perfezionava i suoi trucchi. Non voleva occhi indi-screti attorno a sé. Avete visto la porta?

Ancora una pausa. — To'! Un pannello mobile... — mormorò il tedesco. — Sembra uno

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spioncino dal quale vedere chi viene su dalle scale senza aprire. Catenac-cio alla serratura... Ma ecco la chiave.

— Certo! L'assassino voleva che la trovassimo. — Stanza da lavoro, eh? Ora, però, non c'è niente che lo confermi. Un

momento! Voltate la lampada da questa parte. — Cosa c'è? — chiese Bencolin. Passi svelti, ora, e una specie di fruscio, quindi lo schiocco di una mano

su un ginocchio, come se qualcuno volesse ripulirlo dalla polvere. — Giornali — disse von Arnheim. — Un fascio di vecchi giornali.. So-

no tutti inglesi... Ecco il "Times" del venticinque ottobre millenovecento-tredici e... li terrò io. Be', penso che sia tutto, per il momento. Sarà meglio lasciare il campo libero per il medico legale, prima di continuare...

La porta si aprì, poi von Arnheim la richiuse con la grossa chiave, dai di fuori. La sua ombra tozza si stagliò sul soffitto alla luce della lampada di Bencolin. Sotto il braccio reggeva un fascio di giornali ingialliti e polvero-si. Mi sorrise con ironia.

— Evidentemente — mi disse — signor Marle, non apprezzate la bel-lezza di... Ma dov'è il mio buon Konrad? Vedo delle luci da basso.

Quando fummo di nuovo nella stanza del primo piano, la trovammo il-luminata dalle candele che si riflettevano sui pannelli di legno delle pareti. Konrad le aveva accese tutte, in ogni candelabro d'argento infisso nei muri, e la loro luce era raddoppiata da piccoli specchi.

Distinsi gli arazzi verdi con scene di caccia, gli stessi che Konrad stava fissando, standosene seduto dietro il tavolo di marmo nel centro della stan-za. Appena von Arnheim entrò, però, balzò in piedi.

— Ciò che mi diverte — disse il barone, posando il fascio di giornali sul tavolo — è la singolare attività del nostro cadavere, del buon Bauer, inten-do dire... L'atrio, questa stanza, tutto, insomma, ciò che occupa una parte del castello, è ammobiliato e lucido. Guardate!

Passò un dito sul tavolo. — Neanche un granello di polvere — continuò. — L'argento è lucidato.

Il posto è abitabile in qualsiasi momento. Cosa ne pensate? Bencolin stava fissando una finestra in alto sulla parete della torre, di

fronte all'ingresso. — Mi interessa di più — mormorò — la direzione del vento. — La direzione del vento? — Proprio così. Sentite come batte e infuria contro questa finestra! Ba-

rone, lo trovo molto suggestivo...

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Von Arnheim picchiò pensosamente il pugno chiuso sul fascio dei gior-nali.

— Vi conosco troppo bene — esclamò — per pensare che state parlando a vanvera. Ebbene?

Bencolin si voltò. Scrutò con gli occhi socchiusi ogni angolo della stan-za, poi fermò la sua attenzione sulla porta che dava nell'atrio.

— Ricordate — disse alla fine — che mentre salivamo la scala che dal-l'atrio porta qui, mi sono fermato a studiare quella finestra dai vetri poli-cromi?

— Sì. Ma perché vi interessava? — Perché... — disse Bencolin gentilmente — sebbene la finestra fosse

sul lato più battuto dalla tempesta, non riuscivo a sentire il ticchettio delle gocce sui vetri.

Von Arnheim sospirò, mentre io mi ricordavo all'improvviso una cosa che mi aveva colpito in modo strano, sinistro, anche se non ero stato capa-ce di spiegarmela. Ricordai il silenzio profondo dell'atrio, dove avevo udi-to solo il sospiro della tempesta contro le pareti di pietra. Lentamente von Arnheim si tolse il cappello.

— Che imbecille! — esclamò alla fine. — Che emerito imbecille sono diventato! Ma per forza, Maleger doveva aver fatto un passaggio segreto...

Bencolin si avvicinò al muro che faceva angolo retto con la porta che conduceva nell'atrio. Alzò l'arazzo che ricopriva la parete a pannelli di le-gno. Ebbe solo da spingere, e la parete scivolò, aprendosi lentamente.

— Vedete? Segue la forma del teschio fino in basso — spiegò Bencolin. — Ma ci voleva la tempesta per farcelo capire. Avvicinatevi con le luci, dobbiamo ispezionare il posto.

— Restate qui, Konrad — ordinò von Arnheim. — Il medico e i poli-ziotti arriveranno da Coblenza da un momento all'altro. Accompagnateli di sopra.

Seguimmo Bencolin nell'apertura della parete. Era piccola e chiudeva una scala che scendeva verso il basso, i muri erano umidi e ricoperti di muffa.

— La testa del teschio è doppia, da questa parte — spiegò Bencolin. — E, naturalmente, da prima che il castello fosse acquistato da Maleger. Ve-dete? Questo è il vero muro esterno. E c'è una finestra proprio di fronte a quella cieca che abbiamo visto dall'atrio.

— E tutto questo spiega anche perché non abbiamo trovato tracce di sangue dopo l'ultimo gradino della scala — esclamò il tedesco — mentre

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invece devono essercene qui. Ehi, guardate qui... su questo gradino. Ecco-ne una! Se seguiamo queste tracce troveremo il posto dove Alison è stato ferito.

La sua voce risuonò bassa, tranquilla, mentre scendevamo per la ripida scala, facendo attenzione a non mettere i piedi su eventuali macchie di sangue. Respiravamo con difficoltà, nello stretto passaggio. Quel posto era peggio di un labirinto. Il corpo del guardiano era stato probabilmente na-scosto nel passaggio segreto per giorni e giorni, finché una specie di sadico umorismo non aveva spinto l'omicida ad appenderlo nella torre.

Le scale finirono davanti a una porta di legno chiusa. Bencolin l'apri: ci trovammo di fronte a un mucchio di abiti, secchi e scope.

— È un armadio a muro... — spiegò il poliziotto — l'altra porta è qui di fianco, ma è chiusa.

Si mise in tasca la lampadina, si piegò su se stesso e si lanciò. Dopo qualche spallata, la serratura saltò e la porta batté indietro contro il muro, rimbombando cupamente. Passammo fra i secchi e le scope, fra un odore di vernice per mobili. Bencolin urtò con i piedi contro qualcosa, e cercò, alla luce della torcia, cosa potesse essere. Un bidone di latta rotolò sul pa-vimento, spargendo delle gocce di liquido scuro oleoso.

— Ecco il bidone del petrolio — esclamò Bencolin. — Siamo nelle stanze del guardiano, credo. Dovremmo essere dietro l'entrata del castello, spostati un po' a destra.

Era una camera umile, maleodorante, dal soffitto basso. In un angolo c'e-ra un letto di ferro ricoperto da un drappo rattoppato. Scorsi una stufa a le-gna con appoggiata sopra una caffettiera, una pila di piatti sporchi nel pic-colo lavandino e una tuta appesa a un gancio. Al muro era attaccata una grande fotografia colorata, ritagliata da una rivista, che raffigurava Myron Alison nella parte di Romeo. La faccia era mezza cancellata.

— Il pavimento è stato scopato da poco — borbottò von Arnheim. Bencolin stava aprendo una piccola porta a sinistra. — Proprio i locali del guardiano — esclamò — e qui c'è il passaggio che

abbiamo percorso per entrare nel castello. Ritornò al centro della stanza, guardando l'orologio. — Be', amici miei — continuò — mi pare che abbiamo fatto anche trop-

pe scoperte, per oggi. E sono anche stanco, è quasi l'una. Possiamo passare le consegne a Konrad e tornare a casa. Ormai non è che questione di buro-crazia.

— Ritornare adesso? — chiese von Arnheim. — Ma se abbiamo appena

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cominciato! Ci sono ancora tutte le altre stanze... Tutti e due tenevano le lampade abbassate verso il pavimento. — A volte — aggiunse il tedesco in tono divertito — vorrei che il mio

amico Bencolin fosse capace di fare qualcosa senza un secondo fine... Vor-rei vedergli giocare una partita convinto di giocare solo una partita. Vorrei vederlo andare a teatro solo perché desiderava vedere una commedia. Vor-rei che fosse capace di respirare senza pensare di buttar fuori fiamme... Sono certo che c'è qualche ragione, dietro questo desiderio di rincasare.

La risata di Bencolin risuonò nella piccola stanza. — Potrei ammetterlo — rispose — ma ho invitato anche voi a tornare. — Ognuno di noi ha la sua teoria — sbottò von Arnheim. — E so che

sono diverse. Non userò mai il cervello di un altro... Le mie supposizioni mi trattengono qui, e perciò resto. Andate, se volete. Però vi dico... — get-tò il fascio di luce in faccia al francese — che vi batterò. Proprio così. Sta-te imboccando una strada sbagliata. E non dite che non vi ho avvertito.

— Proprio come ai vecchi tempi! — rise Bencolin. — Qua la mano, ba-rone! Su, andiamo, Jeff... Se Fritz ci accompagna a casa voglio discutere con voi di due o tre cosette lungo la strada...

Il barone gli posò la mano sul braccio. — Aspettate un momento! — esclamò. — Voglio chiedervi un parere... Una lampada a petrolio col vetro rotto era posata in mezzo al tavolo, nel

centro della stanza. Von Arnheim l'accese e una pallida luce giallastra il-luminò la stanza. Poi si mise a sedere, cominciando a sfogliare la sua a-genda.

— Il corso degli eventi... — mormorò. — Ho appunti su tutte le testi-monianze che voi stesso avete ascoltato.

"Cominciamo con lunedì venti marzo. La sera di questo giorno, Myron Alison fu visto vivo per l'ultima volta dalla signorina Sally Reine, prima che si ritirasse nella sua stanza verso le nove. Un po' più tardi, diciamo verso le nove e mezzo, nove e tre quarti, la signorina Reine sentì che due persone uscivano di casa. Queste due persone dovevano necessariamente essere Myron Alison e il suo assassino, dato che gli altri, uno dei quali na-turalmente ha mentito, hanno affermato di non avere abbandonato l'abita-zione. I due hanno preso il motoscafo, il cui motore è stato udito appunto verso quell'ora. Verso le dieci e un quarto il corpo correva, in preda alle fiamme, sui bastioni."

Con deliberata lentezza, von Arnheim trasse il portasigarette, prese una sigaretta e l'accese.

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— Da quanto abbiamo scoperto — continuò poi — possiamo ricostruire cosa avvenne in quell'intervallo di circa quarantacinque minuti. Possiamo anche stabilire che l'assassino convinse in qualche modo Alison ad accom-pagnarlo al castello. Alison era in camera sua, perciò dobbiamo supporre che l'omicida andò a incontrarlo là, e che uno dei due prese la rivoltella dall'armadio di Alison. Quale dei due non ha importanza, dato che Alison, se si fidava del visitatore, gliel'avrebbe senz'altro lasciata prendere. Forse l'assassino disse di aver paura di fare brutti incontri di notte al castello, in modo da avere il permesso di prendere la Mauser.

Von Arnheim fumò per un po' in silenzio, mentre Bencolin lo osservava con gli occhi socchiusi, appoggiato al muro, le braccia incrociate.

— Così — proseguì il tedesco — Alison guidò il motoscafo al di là del fiume. I due salirono al castello e il guardiano li fece entrare. Non possia-mo stabilire se vi fu un alterco o se il piano era già stato studiato delibera-tamente, ma è più facile immaginare che l'assassino venne qui già deciso a sopprimere Alison. Sparò qui, dunque, ma per portare a termine il piano doveva uccidere anche il guardiano.

"Il corpo di Bauer fu nascosto nella scala segreta. Alison stava già per morire per le ferite al polmone. Dopo aver preso il bidone di petrolio dal ripostiglio, l'assassino ne cosparse gli abiti dell'attore, poi lo trascinò qui. Dopo aver trovato le tracce di sangue, la polizia scopre la scala segreta."

— Un momento — lo interruppe Bencolin. — Perché l'assassino doveva tenerci tanto a nascondere la scala segreta?

— Perché allora, portò il corpo di Alison di là? — chiese il barone. — Non lo so. È una parte dell'enigma che non siamo ancora in grado di spie-gare ma quelle tracce di sangue sono una prova che l'assassino portò Ali-son su per la scala segreta, prima di scendere dall'altra. Lo spinse sui ba-stioni e appiccò il fuoco ai suoi abiti. Non so il perché. Da qualche parte c'è una mente diabolica, contorta, sadica, che agisce per ragioni che non possiamo ancora immaginare. Alison non era leggero, ma l'assassino lo portò su per un incomodo passaggio, su gradini ripidi, poi ridiscese un'altra scala per assistere al divertente spettacolo di un cadavere in fiamme dan-zante sui bastioni. Una cosa è certa: si tratta di un pazzo. Lo prova anche il fatto che a una settimana di distanza ritorna qui per incatenare il corpo del guardiano alle pareti della torre...

"Ma torniamo alla morte di Alison. Dopo avere appiccato il fuoco al corpo della vittima, l'assassino si assicura che niente possa tradirlo, tanto è vero che lascia il castello solo all'arrivo di Fritz e di Hoffmann, incontran-

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dosi quasi faccia a faccia con loro sul sentiero. Deve essere passato ancora una volta dalla scala segreta, in modo da non incontrare i due che stavano arrivando nel passaggio..."

— Piano, piano! — lo interruppe Bencolin. — Dimenticate che l'assas-sino aveva già lasciato il castello prima che Fritz e Hoffmann arrivassero all'entrata. Erano già quasi in casa quando udirono il motore del motosca-fo.

Von Arnheim rimase come sconcertato, ma solo per un attimo. — Ah, sì! Ma non ha importanza. Be', insomma, corse per la scala se-

greta fino ad arrivare in questa stanza, poi lasciò il castello e si avviò per il sentiero con la lampada tascabile in mano. Infatti i due che arrivavano hanno visto la luce fra gli alberi.

Il tedesco richiuse l'agenda. Si appoggiò allo schienale della sedia, guar-dando Bencolin con compiacenza. Il francese apri gli occhi.

— Abbastanza ragionevole — mormorò pensosamente. — La sola cosa importante è che voi non ci credete.

— Mah... E voi? — Seguo la vostra stessa, amabile tecnica — disse Bencolin — e mi ri-

fiuto di spiegare cosa penso... Ma quale possa essere la tesi, restano ancora dei fatti strani da spiegare. Primo: perché il corpo fu incendiato in quella maniera spettacolare? Secondo: perché il cadavere del guardiano è stato incatenato al muro dopo tanti giorni?

— Penso di poter spiegare questi fatti — borbottò von Arnheim. — Spe-cialmente dopo avere esaminato quel pacco di giornali.

— E io... — sorrise Bencolin — seguirò la traccia di un paio di scarpe infangate e di un biglietto infilato sotto una porta.

Von Arnheim balzò in piedi, tirando fuori ancora la sua agenda. — Ma non mi è stato detto, questo! Che biglietto? Chi ha lasciato un bi-

glietto sotto una porta? — Io! — rispose Bencolin. — Buonanotte, barone, e buona fortuna. Entrammo fra le eco e le ombre del passaggio. Von Arnheim rimase

immobile, con la luce giallastra che rendeva la sua faccia spettrale, il mo-nocolo incastrato nell'orbita, le dita che tormentavano la piccola agenda.

— Voglio fare una previsione, Jeff — mormorò Bencolin, dopo aver chiuso la porta. — Qualsiasi cosa abbia in mente, il buon barone sta cer-cando di giocarmi qualche tiro. Sta preparando una rappresentazione più spettacolare di tutte quelle di Alison ai suoi giorni migliori. Lo conosco. Per far cose sensazionali, quel flemmatico teutone è superiore a tutti. E

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io... Be', a me piacciono le buone rappresentazioni, ma non posso permet-tere che...

Tacque all'improvviso. Gli chiesi cosa significasse la faccenda del bi-glietto sotto la porta.

— Andiamo a vedere che effetto ha sortito, non siate impaziente, Jeff; l'assassino di Alison e di Bauer è al di là del fiume, nella casa di Alison, e dorme pacificamente nel suo letto. E più tranquillo dorme, meglio è per il mio piano... Andiamo a dire a Fritz di portarci dall'altra parte.

Uscimmo dal Castello del Teschio senza avere esplorato tutte le stanze cupe in cui Maleger aveva abitato al tempo delle sue magie.

La tempesta imperversava sempre sui bastioni e lungo il sentiero, dove ancora una volta la lanterna di Fritz ci fece da guida.

Mi voltai per un momento: una luce giallastra veniva dalla galleria sotto ai denti del teschio. Vidi von Arnheim fermo, con le braccia incrociate, che ci seguiva con gli occhi. La luce faceva brillare il suo impermeabile di gomma. Quindi scendemmo verso il mugghiare del Reno.

10

— Voglio che mi ascoltiate attentamente — mi disse Bencolin. Eravamo nell'atrio di casa Alison. Una delle lampade in ferro battuto era

stata lasciata accesa per guidare il nostro ritorno. Avevo le scarpe bagnate, mi sentivo stanco e depresso. Ricordavo anco-

ra con raccapriccio il nostro motoscafo, in balia del Reno come un guscio di noce. A bassa voce Bencolin continuò:

— Ho fatto trasportare il mio bagaglio nelle stanze di Alison. Voi siete dirimpetto, seconda porta a destra. Da una parte avete la signorina Reine, dall'altra von Arnheim. C'è una porta nella vostra camera che immette in quella della signorina Reine. Quando saremo di sopra, ci augureremo la buona notte ad alta voce. Entrate nella vostra stanza, e dopo dieci minuti bussate a quella della signorina Reine. Ditele che ho urgente bisogno di vederla e che faccia piano. Conducetela nella mia stanza e, vi raccomando, qualsiasi cosa accada, cercate di evitare il benché minimo rumore. Non voglio che vi vedano. Chiaro?

— Sì. Ma cos'avete in mente di fare? — Lo vedrete. Posso anche aver torto. Se ho sbagliato, avrò stuzzicato

un nido di vespe, ma è una faccenda che vale il rischio. Un particolare che quella ragazza potrebbe dirci, può costituire la chiave di volta dell'intero

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caso... Accidenti! Mi sto quasi pentendo di quello che ho fatto... Andiamo, comunque.

La casa era silenziosa. Salimmo facendo rumore, e ci salutammo ad alta voce in mezzo al corridoio, con qualche accenno alla complessità del caso e al bisogno di sonno. Aprii la mia porta.

Una debole luce era accesa sul comodino e il letto era preparato per la notte. Le mie valigie erano state disfatte e ogni cosa messa ordinatamente a posto. Le spazzole sulla toilette, gli accessori per la barba nella stanza da bagno e un pigiama steso sul letto.

Mi cambiai le scarpe bagnate e indossai la veste da camera, poi mi misi a sedere per fumare una sigaretta. Fissai tristemente i rivoli di pioggia sui vetri. Un orologio di bronzo sul cassettone fece lo sforzo di suonare l'una e mezzo, ricominciando poi a ticchettare in modo petulante. Il disegno della carta da parati, molto probabilmente suggerito da qualche giardiniere neu-rotico, mi annoiava. Stavo facendo una figura ben meschina, in quel caso... Qualche mese prima, a Londra, avevo dato prova di un po' di acume, ma qui sul Reno le idee si rifiutavano di venire. Mi alzai e bussai leggermente alla porta della camera di Sally Reine.

Non stava dormendo. Immediatamente la sua voce chiese: — Chi è? — E subito dopo sentii lo scricchiolìo di una sedia. — Jeff Marle — risposi. — Apritemi, per piacere, si tratta di una cosa

importante. La sentii armeggiare intorno al chiavistello, poi la porta si aprì sull'oscu-

rità della sua stanza. Il viso grazioso, con i capelli un poco spettinati, si spinse nell'apertura. I suoi occhi neri erano curiosi, interessati, e un so-pracciglio più alto dell'altro. Fischiettò piano, arrotondando le labbra rosse.

— Poco professionale comportamento di un investigatore — mi salutò. — Ehi, dico!

— Scusatemi — le sorrisi. — Si tratta di una faccenda ufficiale. Volete entrare e parlare a bassa voce? Voglio dire che... che non...

— Va benissimo per me! — mi assicurò Sally con un gesto. Indossava un originale pigiama rosso e nero, e calzava un paio di babbucce scarlatte. — Solo che avreste anche potuto chiudere la porta... Mi pare che non vi curiate abbastanza della mia reputazione!

Andò a sedersi su un angolo del tavolo, abbracciandosi un ginocchio. Mi guardò sorridendo.

— Tanto non dormivo... Ero seduta vicino alla finestra. Cosa volete? Le dissi ciò che mi aveva insegnato Bencolin. Cercò di non mostrarsi

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troppo incuriosita, ma mi accorsi che una subitanea tensione era apparsa nel lampo dei suoi occhi scuri.

— Il vostro amico ha un'inclinazione particolare per il melodramma — mormorò. — E perché vuol vedermi?

— Non lo so. — No? Io, invece, credo di immaginarlo. Sono certa che fra poco mi sot-

toporrà a un educatissimo terzo grado, e quel diavolo sorridente sa benis-simo come arrivare allo scopo, ne sono certa. Informazione carpita senza colpo ferire. Dev'essere come quando ci si fa estrarre un dente con l'ane-stesia locale. Avete paura del dolore, ma quello se ne viene fuori da sé, senza nemmeno che ve ne accorgiate. E quando state per congratularvi con voi stesso per il vostro comportamento, l'anestesia finisce e cominciate a sentire un male del diavolo. Ecco come mi sento dopo aver parlato con lui.

"Quel Bencolin potrebbe aver crocifisso un certo Uomo di nostra cono-scenza, senza riportarne altra impressione che una sorta di artistico orgo-glio... E supponiamo che io non voglia parlargli..."

Mi strinsi nelle spalle. — Siete voi che dovete decidere... Ma sentite un po', non volete che

questo dannato affare venga risolto? — No. Non voglio. In ogni modo verrò, perché desidero appurare cosa

sa. Mi incuriosisce. Quando parlate con lui, vi annuisce e sorride, e alla fi-ne siete convinto di aver detto un sacco di bugie.

Mi fissò con gli occhi socchiusi, poi sussurrò: — Vorrei che foste voi l'incaricato della faccenda, vecchio mio... Se solo

scoppiassi in lacrime, anche se colpevole, mi chiedereste scusa. Non siete il tipo dello sbirro, voi.

— Credo che abbiate ragione — fui costretto ad ammettere. — C'è qualcosa che non va in me... — mormorò. — Ma non dovete farci

caso, sono un po' sottosopra, ho i nervi a fior di pelle. Se qualcuno mi fa-cesse "Bau!" comincerei a strillare. Non posso più sopportare quest'atmo-sfera.

Io dissi impulsivamente: — Sentite, se c'è qualcosa che posso fare... Ac-cidenti agli investigatori! Intendo dire, se solo voleste dirmi...

Un sorriso triste le apparve sulle labbra. — Inutile parlare — disse. — Non c'è senso in niente. Andiamo! Sono

pronta per Torquemada. Spensi le luci e uscimmo in punta di piedi. Percorremmo il silenzioso

corridoio illuminato dalla lampada notturna, svoltammo l'angolo. Spinsi la

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porta di Bencolin. Aveva abbassato le tende nello studio, in modo che al-l'esterno non si potesse vedere la luce.

Era completamente vestito, seduto davanti al tavolo con la macchina da scrivere, sul quale era accesa una lampada. Quando entrammo, lui arrotolò un tappeto e lo mise davanti alla fessura della porta sul pavimento.

Sally cercò d'apparire disinvolta, divertita. — Sono venuta con la guardia del corpo — lo salutò. — Ma volete dir-

mi cosa sono queste cospirazioni nel mezzo della notte? — Ricerca della verità, signorina — esclamò Bencolin, spingendo una

sedia verso di lei. — E voi, siete una buona guardia del corpo per voi stes-sa?

— Non capisco certe sottigliezze! — Ora posso spiegarmi — mormorò il poliziotto. — Vi ho fatta venire

perché voglio che non vi preoccupiate più. Signorina Reine, state allar-mandovi senza ragione alcuna.

Era il simbolo della sincerità, col viso sporto in avanti, le palme delle mani verso di lei come a proteggerla, ma lei non aveva alcuna fiducia in quella sincerità, era evidente. — Voglio dimostrarvelo — continuò Benco-lin. — Voglio che ve ne rendiate conto personalmente.

Un'altra pausa. Tutti eravamo consci che qualcosa si nascondeva dietro i suoi modi cortesi. Non riusciva a celare un certo nervosismo. La ragazza si era seduta sul bracciolo di una poltrona e una delle pantofole rosse batteva ritmicamente per terra, mentre i suoi occhi scuri giravano irrequieti per ogni angolo della stanza.

— E va bene! — esclamò alla fine Sally, con impazienza. — Dite ciò che volete dire, non voglio restar qui tutta la notte.

Ci fu un altro rumore. Non avevo sentito niente, ma Bencolin aveva in-clinato la testa come per ascoltare meglio. Si alzò lentamente dalla sedia, prese Sally Reine per un braccio e la guidò cauto verso la porta. La ragazza lo guardò con espressione attonita. Stava per dire qualcosa, ma lui la invitò al silenzio stringendole le dita attorno al suo braccio.

— Jeff! — mi sussurrò Bencolin. — Andate vicino alla lampada. Appe-na ve lo dico, spegnetela. Per favore, signorina, abbiate la bontà di dare u-n'occhiata nel corridoio, quando apro la porta.

— Lasciatemi andare! — singhiozzò Sally terrorizzata. — Dovete esse-re...

Sentii il cuore balzarmi in petto, mentre me ne stavo lì, col dito sul pul-sante della lampada. Sally guardava Bencolin, che torreggiava su di lei,

Page 68: Sfida Per Bencolin

con gli occhi sbarrati: una ragazzina terrorizzata in rosso e nero col viso contorto in una smorfia.

— Ora, Jeff! Il sussurro carico di tensione mi raggiunse, il mio dito si mosse. La stan-

za piombò nell'oscurità. Non sentii quando aprirono la porta, ma a poco a poco distinsi le figure stagliate contro la scarsa luce del corridoio. Rimase-ro immobili per tanto tempo che pensai non dovesse più finire.

Che cosa stava succedendo là fuori? Cosa stavano guardando? A poco a poco le figure scomparvero alla mia vista. La porta si richiuse

con un rumore quasi impercettibile. Attorno a noi vi fu un silenzio irreale, pieno di eco, nel quale potevo percepire una specie di flusso magnetico. Come se un bisturi si fosse infilato in una piaga insensibile. Sentivo tutto, ogni movimento nel buio, senza riuscire a provare alcuna sensazione. L'o-rologio nella stanza suonò improvviso. Poi, ancora il silenzio. E dopo il si-lenzio una voce sottile, poco più che un sussurro.

— Diavolo! — alitò. — Siete un diavolo... Era una voce irreale, incredula, divertita e quasi sul punto di ridere. — Perché... — continuò — perché avete fatto questo? — Accendete, Jeff! — esclamò Bencolin. Eseguii. Strizzai gli occhi per riabituarmi alla luce. Vidi Sally Reine se-

duta su una sedia; era pallida, le labbra spiccavano sanguigne nel viso pal-lidissimo, ma era completamente tranquilla.

Guardò verso la finestra con gli occhi socchiusi. Perfino il suo respiro era diventato normale. Bencolin spinse nuovamente il tappeto verso la por-ta, poi si voltò lentamente.

— Signorina Reine — esclamò — la notte dell'uccisione di Alison ac-cadde una cosa che avete trascurato di dirci. Avete detto di esservi addor-mentata nella biblioteca poco prima delle dieci e che poi, svegliata dal ru-more fatto da Fritz e Hoffmann che correvano all'imbarcadero, siete andata nel portico. Sempre secondo le vostre affermazioni, vi fermaste là per un po', senza vedere nessuno. Io sono invece convinto che subito dopo essere uscita, avete visto qualcuno salire la scala che portava giù al fiume e che raggiungeva la casa di corsa, piuttosto agitato. Luì vi pregò di non dire che lo avevate visto, cosa che voi faceste... Siete pronta ad ammettere che que-sta persona era sir Dunstan Marshall?

Lei lo guardò con occhi spenti, poi rispose a bassa voce: — Non vi dirò un accidente! L'orologio continuava intanto a ticchettare...

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— Inoltre — continuò la ragazza in tono astratto — è stata la cosa più grottesca che io abbia mai visto. Cosa credete che sia Duns per me? Vi sembro una di quelle vostre gelose dame latine? Credete che, anche se ho mentito, io sia disposta ad ammetterlo ora?

Era come guardare in un paio di occhi di vetro, fissi, e senza espressione alcuna. La sua voce non perse quel tono impersonale, cattedratico.

— Lasciate che vi dica cos'ho visto nel corridoio. Ho visto Isobel D'Au-nay che andava nella stanza di sir Dunstan. Ebbene? Perché non sarebbe dovuto andarci?

— Siete una ragazzina — disse Bencolin, calmo. — Sto cercando di di-mostrarvi l'innocenza di Dunstan. Lo avete visto correre verso la casa subi-to dopo il delitto. Pensaste, logicamente, che vi fosse implicato, e lui lo ammise. Bene, menti. Menti perché era stato con Isobel D'Aunay e io ho voluto che vedeste la signora D'Aunay entrare nella sua camera stanotte, perché vi rendeste conto di cosa accadde quella sera. Ha preferito che lo consideraste un assassino piuttosto che...

Bencolin parlava anche lui con voce impersonale. — Signorina Reine, capite ora chi era la persona che Lavasseur vide sul-

la scala esterna che conduce nelle stanze dei D'Aunay? Era la signora, che tornava dall'appuntamento con Dunstan. Lei venne verso casa dal sentiero laterale e lui dai gradini del fiume. Avevano paura d'essere visti insieme, anche se D'Aunay era sprofondato in un sonno dal quale difficilmente po-teva essere svegliato... State sicura che il barone von Arnheim non sarebbe così comprensivo con voi. Volete impiccarvi con le vostre stesse mani e mettere la corda intorno al collo di Dunstan?

La guardò un po' pensieroso, facendo un gesto di sconforto. Il viso di Sally si era andato colorando, mentre lui parlava. Aprì la bocca

un paio di volte, fregandosi gli occhi. — Quella gatta! — sibilò con improvvisa foga. — Quella sudicia picco-

la gatta! Sì, oh, sì! Avevo veramente pensato che:.. Ma non condanno Duns, non condanno lui... Lei vagola e miagola per tutta la casa, ed è pro-prio quello che piace a Dunstan.

Le parole erano scaturite chiare, mentre sul suo viso si era andata for-mando un'espressione di fredda determinazione.

Le sue dita corsero alla gola a sganciare il primo bottone del pigiama. Vidi un anello da fidanzamento di platino pendere da una catenina al suo collo. Prese l'anello, girandoselo in mano.

— Vedete? Stavamo per annunciare... questo, quando Dunstan ha man-

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dato tutto a monte con una gentile comunicazione alla mia famiglia. — Aveva gli occhi fissi lontano, ora, e una rete di rughe le si era formata sulla fronte. — Ma voi... siete un essere umano? Come facevate a saperlo?

— Come facevo a sapere della tresca fra i due? — chiese Bencolin. — Non posso rispondervi per ora, perché è una faccenda strettamente connes-sa alla soluzione del caso. Il vostro amore per il giovane, però, traspariva da ogni vostro sguardo, da ogni gesto. Isobel D'Aunay...

— Piccola gatta... — Un po' di carità, signorina Reine, un po' di comprensione! È una don-

na incolore, tranquilla, ma penso che in fondo sappia essere passionale. Certo è scontenta. — Guardò un po' nel vuoto. — Ha appena scoperto che le piace essere audace e questo è stato un forte incentivo per lei. Non posso certo dimenticare la sua espressione, quando stanotte D'Aunay ha insinuato che potrebbe avvelenarlo con il veronal. È rimasta talmente scossa che de-ve aver perduto anche gli ultimi rimorsi. Lo sguardo che ci ha lanciato dal-la porta prima di uscire... anche se non avessi già saputo la verità, l'avrei capita in quel momento. Quello sguardo diceva: "È finita, ho un amante e ora vado da lui. Non me ne importa che lo sappiate anche voi". State sicu-ra, signorina Reine, so benissimo che quella donna non è eccessivamente intelligente e lo sapeva benissimo anche quando ho infilato il biglietto sot-to la sua porta: "Nella mia stanza. Alle due. Brucia questo biglietto". È an-data da Dunstan e io ho verificato la mia teoria.

Sally Reine lo guardò con curiosità, con una sorta di orrore. — Sì... — disse con voce piatta — avete verificato la vostra teoria. Siete

un diavolo, letteralmente un diavolo. Avete verificato la vostra teoria! Mio Dio! E che cosa succederà quando scoprirà che il biglietto non è stato scrit-to da lui?

Bencolin annui. — Proprio quello che voglio che succeda. Quando discuterò la cosa con

loro non potranno negare. — Sapete... — disse la ragazza, dopo un attimo di riflessione. — Penso

proprio che dovrei tornare all'asilo. Pensavo di essere dura, io! Che sempli-ciotta! Si, avete ragione, Duns venne su dal sentiero quella notte e mi ha lasciato credere di essere implicato nel delitto...

— Ah! — esclamò Bencolin, fregandosi le mani soddisfatto. — Final-mente sappiamo che è andata cosi.

Con evidente sforzo, la ragazza si alzò in piedi. — Sentite... vi dispiace se... Voglio andarmene! Voglio tornare in came-

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ra mia. Voglio... accucciarmi da qualche parte e morire. Voglio anche pen-sare a questa faccenda. Vi prego! Io...

Brancolò un po', come se fosse diventata cieca all'improvviso, poi strin-se le labbra e si raddrizzò. Spensi la luce e maledissi Bencolin con tutto il vigore che la faccenda richiedeva. Vidi la striscia di luce quando aprì la porta. Al buio raggiunsi Sally Reine e le strinsi forte la mano. Si alzò in punta di piedi e mi prese per le spalle.

— Grazie, amico! — mi sussurrò. E uscì. Rimasi immobile con gli occhi fissi sul vano vuoto della porta, poi mi

resi conto all'improvviso che quel vano non era vuoto. La luce scarsa del corridoio era interrotta da una testa massiccia con un ciuffo di capelli biondi. Immaginai il monocolo e la bocca sogghignante.

— E così — disse Bencolin dolcemente — il mio amico barone ha poi pensato bene di seguirmi, eh? Immagino che avrete sentito tutto.

Von Arnheim rimase immobile. — Fortunatamente — rispose — sono riuscito a salvarmi dal congestio-

natissimo traffico di questo corridoio. Ho sentito, sì — respirò profonda-mente. — Possiamo parlare domattina.

Un fiammifero raspò e si accese. Bencolin prese una sigaretta. — Duello all'ultimo sangue, signor Bencolin — mormorò il barone. — D'accordo, barone: all'ultimo sangue. La mano di von Arnheim rimase incerta sulla maniglia per un attimo,

poi l'uomo si inchinò battendo i tacchi militarmente. — Buonanotte, signor Bencolin, sogni dorati. — Buonanotte, barone, dormite bene. Ancora un inchino, poi von Arnheim si ritirò nella sua stanza.

11 Era tornato il sole, finalmente. Respirai a pieni polmoni, scendendo le

scale. La porta principale era aperta e i raggi del sole giocavano sulle pia-strelle rosse del portico, riflettendosi sul pavimento lucido dell'atrio. En-trava a fiotti una brezza che portava l'odore fragrante della terra dopo la pioggia. Passeggiai un po' nel portico, prima di fare colazione.

La casa era ancora addormentata, nella fresca trasparenza del mattino. Dietro la massa scura del Castello del Teschio, sull'altra sponda, piccole nuvole bianche erano immobili nel cielo azzurro.

Page 72: Sfida Per Bencolin

Era una mattinata meravigliosa, che cacciò via stanchezza e dolore di te-sta. Uno scoiattolo arrivò in mezzo al portico e si mise a mangiare qualco-sa, seduto comodamente sulle zampe posteriori. I suoi gesti erano svelti e delicati, tanto che sembrava beccasse. Ogni tanto mi lanciava uno sguardo preoccupato, fino a che pensò che non poteva fidarsi di me e sgattaiolò via.

Mi diressi pieno di baldanza verso la sala da pranzo, le cui finestre, ora, erano inondate dal sole. Von Arnheim sedeva da solo al tavolo della cola-zione e leggeva un giornale. Si alzò per inchinarsi, quando entrai, augu-randomi il buongiorno. Indossava una giacca azzurra di ottimo taglio ed era allegro come me. Hoffmann mi porse caffè, pane tostato e marmellata.

— Niente di nuovo? — chiesi, accennando al giornale. Von Arnheim parve pensarci su. — Niente di importante, per lo meno — mi rispose con quel suo inglese

accurato, perfetto. — C'è scritto che un certo arciduca Ferdinando è stato assassinato a Serajevo, ma il redattore di questo giornale dice che la cosa non ha poi molta importanza. È uno dei giornali che ho trovato nella torre stanotte, signor Marle... Accidenti! Questo pezzo di carta è stato capace di far sentire vecchio un uomo in una mattina come questa.

Per un po' rimase a fissare fuori della finestra, aprendo e chiudendo le mani meccanicamente.

— Ma c'è qualcosa di molto interessante nella pagina interna — conti-nuò. — — Una specie di esaltazione del nostro famoso amico Myron Ali-son, come attore, in un paio di lavori teatrali che non ho mai sentito nomi-nare. Tutti i giornali contengono qualcosa del genere, per un certo periodo di tempo. Non lo trovate suggestivo?

Mi strinsi nelle spalle. — Dite, signor Marle... Non mi avete ancora detto una sola parola intor-

no a questa faccenda. Cosa ne pensate? — Non ho detto niente — risposi — perché ero completamente attonito.

Finché... Annuì. — Ah! Allora avete un'idea! Posso chiedervi se coincide con le teorie

del nostro amico Bencolin? — Non si può mai sapere cosa pensa Bencolin — esclamai — special-

mente se ve ne parla. Una voce dalla porta disse: — Non è molto lusinghiero questo, Jeff! Bencolin entrò nella sala da pranzo con le braccia tese e un sorriso sulle

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labbra. Era vestito di chiaro e aveva un fiore all'occhiello. — Buongiorno, barone! Avete dormito bene? — E i vostri sogni — chiese von Arnheim — sono stati disturbati? — Ora che me ne parlate — disse Bencolin, come ricordandosi di qual-

cosa — mi rendo conto di non essere andato a letto. Ma un buon caffè e una doccia fanno sparire le fatiche di tutta una notte insonne. Quando ero giovane, barone, mi dicevano che avevo una bella voce di basso. In una mattinata come questa saprei ancora cantare! Ricordo ancora quando cor-revo per la Quinta Strada, con dei poliziotti amici miei della Squadra Omi-cidi, su una sbuffante macchina, e cantavamo a squarciagola la "Canzone dei menestrelli del re". Quando era la festa della polizia, mio caro barone, vi assicuro che non un cittadino riusciva a non udirci.

— Ho notato — sogghignò von Arnheim — che anche stanotte era la fe-sta della polizia...

— Alludete al mio piccolo spettacolo drammatico con la signorina Rei-ne?

— E altri... sir Dunstan, la signora D'Aunay... — Maledizione! Avete visto proprio tutto — esclamò Bencolin, impre-

cando. — Sono dolente, se la faccenda vi ha sorpreso, ma i giovani sono giovani, e...

Von Arnheim posò la tazza di caffè. — È stata un'idea intelligente! Adesso potremo interrogarli. Ma cosa

può provare? Non ho mai immaginato che la signora D'Aunay o il giovane sir Dunstan potessero avere a che fare con il delitto.

— Non è questo il punto, vecchio mio. Il tramestio di questa notte ha provato una cosa che non avete ancora vista, ma che sarebbe trasparente, davanti ai vostri occhi. Una delle faccende più importanti di tutto il caso.

— Bah! — esclamò il barone. — Semplicemente un appuntamento lun-go il fiume!

— Ci siete, amico mio! Questo è il punto. Ho detto alla signorina Reine che quei due non sono implicati nel delitto per tranquillizzarla... ma ne siamo poi cosi sicuri? Voi dite: "un appuntamento lungo il fiume". Ma il punto è: dove andarono? Stavano salendo dalla scaletta dell'imbarcadero. Laggiù non ci sono che rocce instabili e certo non avranno coronato il loro appuntamento d'amore tenendosi aggrappati agli alberi per paura di preci-pitare nel fiume.

— Il motoscafo! — disse sottovoce il barone. — Precisamente! Il motoscafo. Fu sentito solo due volte quella notte.

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Una volta quando andò al Castello del Teschio, verso le nove e mezzo, no-ve e tre quarti, e un'altra volta al ritorno, dopo che Fritz e Hoffmann ave-vano visto il misterioso individuo con la lampada in mano. Ritornò e sir Dunstan Marshall salì dai gradini dell'imbarcadero. Be', ricordate che an-che Alison dovette attraversare il fiume. La domanda è: Dunstan e la si-gnora D'Aunay andarono con lui?

Von Arnheim sbatté il tovagliolo sulla tavola, poi si avvicinò alla fine-stra e cominciò a picchiettare nervosamente con le dita contro i vetri. Dopo un po' si voltò. Bencolin stava imburrandosi un panino.

— Io non sono un imbecille — disse il barone. — Non sono un imbecil-le, e vi dico che state sbagliando. Dite delle cose molto geniali, è vero, ma non andate al nocciolo della questione. C'è qualche cosa su questi giornali che mi ha dato un indizio. Se solo potessi verificare un particolare avrei ri-solto il caso. La gente di questa casa non sa quasi niente del lavoro teatrale di Alison. Persino sua sorella non se ne interessò. Non so cosa darei per parlare con qualcuno che lo conoscesse bene e che avesse seguito le sue recite.

— Io conosco un tipo che può dirvi tutto di lui! — lo interruppi. Gli raccontai del mio incontro con lo scrittore Brian Gallivan, sul vapo-

retto. Von Arnheim picchiò un pugno sul tavolo. — Gallivan — ripeté. — Si, ricordo questo nome. Uno degli articoli su

quei vecchi giornali è firmato con questo nome. Agente pubblicitario di Maleger anche, eh? Bene! Molto bene! Per una volta almeno le stelle ci sono propizie. — Guardò l'orologio. — Le nove e un quarto e la casa anco-ra addormentata! Devo andare a Coblenza per sentire cos'hanno da dirmi sul corpo del guardiano. Rimandiamo ogni cosa a quando saranno alzati e facciamo un salto là... Potete telefonare a questo tipo, signor Marle?

Telefonai all'Hotel Traube. Dopo un po', sentii la voce assonnata di Gal-livan. Appena capì chi ero, si risvegliò di colpo.

Gli dissi che per il momento non doveva scrivere niente al suo giornale e fissai un appuntamento a Cob lenza. Bencolin e von Arnheim mi aspetta-vano nell'atrio con il cappello in mano.

Poi scendemmo all'imbarcadero, dove Fritz aveva già preparato il moto-scafo. Mentre schizzavamo in avanti sull'acqua limpida, mi voltai a guar-dare per la prima volta il Castello del Teschio in piena luce. Pareva quasi che una strana luminosità illuminasse il cranio del teschio di pietra. Lo feci notare agli altri.

— Perdonatemi — si intromise Fritz. — È il vetro. La sommità della co-

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struzione è occupata da un'enorme stanza dal soffitto di vetro, come un os-servatorio. Abbiamo sempre paura che qualche ragazzino venga preso dal-la curiosità di arrampicarsi lassù per spiare dentro. A volte anche dei turisti hanno cercato di farlo.

— Mi piacerebbe andare a vedere — mormorò von Arnheim, facendosi schermo con il palmo della mano e osservando il castello. — Sì, dobbiamo proprio vedere...

Non parlammo più, mentre il motoscafo continuava la sua corsa verso Coblenza. Quel mattino c'erano molte imbarcazioni sul fiume. Un canotto guidato da un esile uomo a torso nudo, sfiorò quasi il nostro motoscafo. Uno dei vapori del Reno ci torreggiò accanto in uno sbuffo di fumo nero. Quando il fiume svoltò, vedemmo alla nostra destra la grigia fortezza di Ehrenbreitstein accovacciata contro il cielo azzurro. Coblenza era alla no-stra sinistra, con le sue case bianche rallegrate dalle macchie arancione dei gerani.

Gallivan ci stava aspettando sul molo, impaziente figura in flanella gri-gia con il viso da Pulcinella sorridente. Era molto cortese, ma vidi una luce bellicosa nei suoi occhi, quando von Arnheim lo salutò tanto bruscamente da rasentare la scortesia.

Il barone ci disse che doveva andare alla stazione di polizia e che perciò avremmo dovuto aspettarlo da qualche parte.

— È una giornata calda — osservò Bencolin, succhiandosi il labbro in-feriore — sarebbe bene andare in quel caffè all'aperto in fondo alla pas-seggiata, a circa cinquanta metri da qui...

— Va bene — annuì von Arnheim — so dov'è. Vi raggiungerò fra bre-ve.

Ci allontanammo sul fresco viale alberato. Gallivan fischiettava, alzando polvere a ogni passo. Ci disse che era stato maledettamente cortese da par-te nostra l'averlo interpellato.

Nel giardino all'aperto, gli alti alberi ombreggiavano i tavoli dalle tova-glie rosse. Una balaustrata di pietra si sporgeva sul Reno. Un cameriere uscì da un piccolo "chalet" e si avvicinò.

— Tre birre — disse Gallivan — la mia con molta schiuma. — Fece un gesto nell'aria. — Hanno un modo di spillarla, che la schiuma trabocca dal bicchiere — ci spiegò. — La prima volta che venni qui restai estasiato. Il signor Marle mi ha detto che volevate vedermi, signor Bencolin...

— È il barone von Arnheim, veramente, che desidera chiedervi alcune cose — rispose il poliziotto. — Ma anch'io vorrei avere alcune informa-

Page 76: Sfida Per Bencolin

zioni. Naturalmente resta inteso che non manderete una sola riga al vostro giornale senza il nostro permesso.

— Ho paura che dovrò far cosi, ma se ne vale la pena... — Siete stato agente pubblicitario di Maleger, vero? — Tre anni. Dal dieci al tredici, l'anno in cui morì. — Un buon principale? Gallivan accettò una sigaretta, scuotendo la testa: — Era un ipocondriaco. Ma era il suo impresario che mi dirigeva, in ge-

nere, e che mi pagava. Non voleva interessarsi di certe questioni lui. No-nostante tutto, però, era un lavoro facile. Tutto quello che faceva quel vec-chio era un successo sicuro.

— Vedo. Lo conoscevate bene? — Abbastanza, sì. Seppe che mi interessavo al soprannaturale. Vi giuro

che sull'argomento queir uomo aveva la più ricca biblioteca che io abbia mai visto, soprattutto per quanto riguardava le scienze occulte e la demo-nologia. Aveva letto da qualche parte di un pezzo di magia particolarmente orrificante che aveva messo in scena un antico illusionista; lavorò per mesi a perfezionare lo spettacolo e vi assicuro che alla fine faceva rizzare i ca-pelli in testa. Siete mai stati al Castello del Teschio?

— Solo in qualche stanza, perché? — Brrr! — rabbrividì Gallivan. La birra era arrivata nel frattempo e lo

scrittore si divertì a soffiare sulla schiuma prima di continuare. — Voglio dire che io ho idee molto all'antica sull'ospitalità. Penso non sia educato trasformare gli ospiti in altrettanti candidati al manicomio. Era una specie di lugubre Peter Pan; con tutta la sua intelligenza, si comportava sempre come un bambino cui piace strizzarvi l'acqua negli occhi dal fiore che por-ta all'occhiello. Aveva uno speciale genio per creare effetti diabolici e gli piaceva soprattutto lavorare sugli alcoolizzati e i neurotici... Maleger! Sì, "Maleger" era proprio il nome più adatto che potesse scegliersi.

— Non era il suo vero nome? — Ma no! Non avete letto il "Faerie Queene" di Spencer? Maleger è uno

spettro che porta come elmo un teschio d'uomo e i cui cavalli si tramutano in tigri quando lui uccide qualcuno. Aveva anche le tigri, questo Maleger. Ricordo in particolare una rappresentazione in cui una gigantesca tigre del Bengala balzava fuori da una gabbia in fiamme, per andare a ricadere pro-prio sull'orlo del palcoscenico, a pochi metri dagli spettatori. Maleger tira-va fuori una pistola e quando sparava, lo crediate o no, la tigre spariva nel-l'aria. Andata! — Gallivan fece un gesto espressivo. — Ebbe delle grane,

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però, con degli isterici, rappresentanti della protezione degli animali e do-vette sospendere il numero. Sa il cielo come facesse. Forse nessuno riusci-rà mai a scoprirlo.

— Specchi? — suggerii. — Come per il trucco della testa parlante... — Specchi un cavolo! — disse Gallivan. — Non c'erano specchi la notte

che si degnò di eseguire la scena solo per me, al Castello del Teschio. Fin-ché si scherza si scherza, ma vi assicuro che se non avessi avuto il cuore più che saldo avrei esalato l'ultimo respiro quella notte. E glielo dissi, an-che. — Gallivan bevve lentamente un sorso di birra. — Immaginate un metro e novanta di muscoli tesi, un paio di occhi profondi ed enormi, che a volte parevano grigi e a volte neri, con delle palpebre scure e pesanti. Im-maginate una fronte altissima circondata da una criniera di capelli rossi che gli arrivavano fin sulle spalle, delle braccia lunghissime come tentacoli. Immaginate il suo sorriso sui denti gialli e la sigaretta perennemente acce-sa fra le dita. Questo era Maleger. Che possa bruciare in eterno ovunque sia!

Dopo aver posato con forza il bicchiere sul tavolo, Gallivan fissò gli oc-chi sugli alberi verdi al di là del fiume.

— Ma — chiese Bencolin dopo una pausa — cosa sapete della sua per-sonalità, del suo vero nome, delle sue origini, della sua nazionalità?

— Niente di niente! Venne dall'Africa con una fortuna nel millenove-centonove. Questo è tutto. Aveva viaggiato per il mondo e visto tutto, per-ciò niente da indovinare. Parlava dieci lingue alla perfezione e... Be', un uomo che legge Spencer Malory, i poemi di Beowulf e Giacomo I, non conosce l'inglese solo per sentito dire. Ma quando vi accorgete che, oltre a ciò, legge anche Vitoux, Delacroix, Baissac e Florian-Parmentier in fran-cese...

— Ma voi come fate a conoscere queste cose? — chiese Bencolin. — "I processi di stregoneria del diciassettesimo secolo", di Delacroix, sono così poco conosciuti che...

Lo strano giornalista si spinse il cappello indietro sulla nuca, poi soc-chiuse gli occhi verso il sole.

— Oxford — disse, come se si vergognasse. — Sono stato all'università tanti anni fa ed è perciò che sono venuto qui in Europa. Ero alla Sorbona. E credevo di essere uno scrittore, allora. Proprio così, scrivevo libercoli che solo le matrone dell'East Ham leggevano... Non me ne parlate! E non ci credereste, scommetto, se vi dicessi che all'epoca avevo quarantasei an-ni... Ma stavamo parlando di Maleger, no?

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— Sì, stavamo parlando di Maleger. Cos'altro sapete di lui? — Be'... Donne? Vi piacerebbe sapere qualcosa intorno alla sua vita pri-

vata? — Ve lo stavo proprio chiedendo. — Non posso dirvi, però, cosa appartenga alla leggenda e cosa alla real-

tà, dei fatti che so. Aveva una moglie e un'amica, ma non voleva che si parlasse di nessuna delle due. Ebbe, credo, un figlio dall'amica, quando ar-rivò a Londra. La cacciò e lei morì da qualche parte, lontano. Questo prima che lo conoscessi io. Non ero più molto giovane quando divenni il suo a-gente pubblicitario. In quanto alla moglie non so molto. Ho sentito dire che fu un matrimonio segreto, perché la famiglia di lei non era favorevole e non credo che siano mai vissuti insieme. Non fu molto prima della sua morte, comunque.

— Ebbe un figlio dall'amica — mormorò Bencolin. — E chi era questa donna?

— Non so il suo nome. Probabilmente, però, riuscirete a scoprirlo da qualche parte... Ma la vidi una volta, dopo molti anni che si erano lasciati. Eravamo nell'undici credo, a Parigi. Ero con un mio amico, un ragazzo che lavorava per l'edizione di Parigi dell'"Herald". Eravamo seduti in un locale pubblico, un caffè, mi pare, quando lui mi dette una gomitata dicendo: "Ecco l'amica del vostro Maleger". La donna beveva un liquore a un altro tavolo; doveva essere stata bella, anche se ormai era sciupata e incolore. Ai bei tempi era una bionda procace dai lunghi capelli platinati.

— E il bambino? — Non so... Ma aspettate un minuto! — Gallivan stava picchiettando

l'indice sul tavolo, il viso grottescamente raggrinzito nello sforzo di ricor-dare. — Mi sembra che... Non molto tempo fa stavo parlando con Dick Ansil, un giornalista di un settimanale scandalistico. Uno di quei tipi che conoscono tanti fatti privati di tutti, e che vi vien voglia di metterli a tacere con un buon cazzotto. Era un ricevimento per la stampa o qualcosa del ge-nere, ed eravamo tutti e due sbronzi. Mi disse: "Senti, ti ricordi di quel mi-sterioso figlio di Maleger del quale tutti si sono tanto inutilmente occupati tanti e tanti anni fa?". Era stata una faccenda leggendaria e misteriosa, sa-pete... Gli risposi: "Meno male che non eri vivo, allora, altrimenti nessuno avrebbe potuto permettersi di avere un figlio illegittimo in pace". Disse che aveva scoperto il suo nome e che la cosa avrebbe fatto molto scalpore. Gli consigliai di finirla, altrimenti gli avrei suonato una bottiglia in testa. Il nome era... Non me ne ricordo, è inutile. È molto importante?

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— Potrebbe esserlo, non ne sono certo... — Be', posso sempre telegrafare a Dick, se proprio vi interessa. —

Guardò alle nostre spalle verso il viale. — To', ecco finalmente il barone von Arnheim; ha la faccia soddisfatta del gatto che è riuscito finalmente a mangiare il canarino. Ma... cosa diavolo vuole da me?

12

Lanciandoci una breve occhiata, von Arnheim si mise a sedere e ordinò

della birra. Aveva ancora il fascio di vecchi giornali, che posò sulla sedia vicino alla sua. Appoggiò le mani sul tavolo e disse in modo insinuante:

— Signor Gallivan, siete il solo giornalista nelle vicinanze, ora? Gallivan trasalì alla parola "giornalista", ma annuì. — A meno che i giornali tedeschi non mandino qualche corrisponden-

te... Conosco tutti i giornalisti del continente e non ne ho visto ancora uno. Io dovrei fare solo del colore locale, ma se voi voleste tenermi al corrente degli sviluppi...

— Ci sono degli sviluppi — annuì von Arnheim — ma ancora non se ne può parlare. Se volete, posso riassumervi la faccenda in poche parole. Per ora, però, dovete dire solo che il barone von Arnheim di Berlino è stato in-caricato del caso e che sarà effettuato un arresto entro ventiquattro ore. Non ci sono né ma né se. Un arresto verrà effettuato entro questo periodo di tempo, e basta!

Vi fu un attimo di silenzio, mentre Bencolin accendeva una sigaretta, pensoso.

— Il vero colpo, signori — mormorò Gallivan — è la presenza di voi due in cooperazione.

— Se ottenete il permesso dal mio amico Bencolin — accondiscese von Arnheim — potete scrivere anche questo. — Sorrise in quel suo modo sor-nione. — In ogni modo, un arresto verrà effettuato stanotte. Ora agli affari! Il signor Marle mi ha detto che un tempo conoscevate bene Myron Alison. È vero?

— Oh, non molto bene. Lo conoscevo. — Tipo simpatico? — Era gentile con la stampa. Mi è sempre piaciuto. Intendo dire che ci

invitava sempre a pranzi a base di champagne, a ogni suo onomastico. Gli piaceva andar d'accordo coi giornalisti. Dicevano che fosse eccentrico ed egoista, ma è sempre stato gentile con me, perché io l'ho sempre montato,

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nei miei articoli. Sono convinto che non era un grande attore ma mi piace la prosa e...

— Era amico dell'illusionista Maleger, vero? — È quello che dicono, ma a me è sempre sembrata un'associazione di

mutua inimicizia. Questo è il punto: Alison era un bell'uomo, affascinante, aveva una bella voce ed era l'idolo delle donne. Era anche un grande mi-mo. In commedie con acrobazie di parole non aveva uguali, e soprattutto possedeva una raffinata sensibilità per il teatro. Ma voleva che lo credesse-ro un grande attore. E Maleger gli diceva che da un graffio voleva creare una ferita gloriosa...

Gli uccelli cinguettavano e si rincorrevano sui rami sopra le nostre teste. La sirena di un vapore risuonò lontano sul fiume scintillante. Il sole splen-deva tiepido e potevamo vederne il riflesso che infuocava le finestre delle bianche case tedesche al di là del Reno. Von Arnheim rigirava fra le mani il bicchiere di birra.

— Non potrò mai dimenticare — disse Gallivan. — La prima volta che vidi Maleger. Fu nel dieci, qualche mese prima che cominciassi a lavorare per lui. Era la sera del debutto di uno dei maggiori successi di Alison.

"La commedia era una di quelle rappresentazioni che mi facevano corre-re brividi per la spina dorsale. Sapete, le colline della Scozia durante i tempi del Principe erede al trono. La causa perduta, il rullare dei tamburi, e le voci dietro le scene che cantavano la 'Canzone del battello'. L'ultima ca-rica a Culloden. Ah! Alison impersonava il Principe Carlo.

"Ero rimasto molto entusiasta, tanto che Alison mi invitò nel suo came-rino dopo lo spettacolo. Vi era un'enorme folla di sparati, ma lo seguii u-gualmente. Sedette davanti a uno specchio ovale illuminato tutto intorno da lampadine elettriche e cominciò a togliersi il trucco. Indossava ancora giustacuore e spada e aveva una sigaretta fra le labbra. Il camerino era una selva di fiori e di telegrammi; tutto intorno si incrociavano le voci sull'odo-re di cipria che permeava l'atmosfera. Cominciò a gridare: 'Com'è andata? Com'è andata?' con l'ansia nervosa di una primadonna. Tutti gli assicura-rono che era stato magnifico. Allora, all'improvviso, tutti divennero muti.

"Qualcuno stava bussando alla porta aperta. Un uomo altissimo, con una tunica nera, una selva di capelli rossi e un mantello di foggia antica, se ne stava là, appoggiato a un bastone dal pomo d'oro. Aveva gli amuleti attac-cati alla catena dell'orologio. Alison si gettò indietro sulla sedia, sbuffando nuvole di fumo verso il soffitto e cercando di nascondere la sua esultanza. 'Salve, Maleger!' esclamò. 'Ti è piaciuto lo spettacolo?' L'altro lo guardò

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un poco prima di rispondere: 'Addirittura rivoltante. Non ho potuto nem-meno assistere al secondo atto. E tu sei stato orribile. È inutile, sei un guit-to e un guitto rimarrai per tutta la vita'."

Gallivan scosse la testa lentamente. Rise piano, ma era così preso dal suo racconto che mi chiesi se si ricordasse di noi.

— È stato ridicolo — continuò. — Ricordo che la mano di Alison andò all'elsa della spada al suo fianco, come se veramente stesse vivendo nel di-ciottesimo secolo. Le luci oscillarono, quando Maleger se ne andò sbatten-do la porta. Alison scoppiò a ridere, come se si fosse trattato di una cosa senza importanza, e la folla si strinse di nuovo attorno a lui. Ma era sempre così... Maleger continuava a ripetergli che come attore non valeva niente.

— Ma quando vi siete accorto — disse von Arnheim, con le sopracciglia aggrottate — che erano nemici?

— Be'... Una volta che... — Cosa avvenne? — A una rappresentazione privata per un branco di imbecilli, Alison

impersonò Maleger con un'imitazione perfetta... costume, trucco e tutto il resto. Era insuperabile. Ne venne fuori una macchietta talmente intelligen-te e umoristica che tutti morivano dal ridere. All'improvviso tutti videro Maleger che se ne stava a guardare immobile.

— E allora? — chiese von Arnheim, aggrappandosi al tavolo per spor-gersi in avanti. — Cosa è successo allora?

— Niente. Maleger prese un pizzico di tabacco e lo annusò, poi disse gentilmente: "Ti pentirai di tutto questo, amico mio". Per un attimo ebbi l'orribile sensazione che saremmo stati cambiati tutti in vermi e maiali, a un semplice schiocco delle sue dita. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii se n'era andato. Così!

Gallivan batté le mani. Il cameriere portò un altro vassoio carico di bic-chieri di birra.

— Lo strano è — continuò il giornalista — che le loro nature erano, in un certo senso, simili. Erano legati l'uno all'altro, come due fratelli gemelli che combattessero continuamente un duello, incrociando spade immagina-rie, e ognuno conosceva tanto bene la guardia e l'attacco dell'altro che non riusciva mai a colpirlo a fondo. Ma Maleger era il più grande come spirito, credo. Non ci capisco niente di tutte queste faccende moderne a base di a-tomi e di molecole, ma ho sempre pensato che fosse come una massa di forza vitale che vi scuotesse senza bisogno delle sue grandi mani. Anche dopo morto pareva doversi dissolvere nell'aria e ritornare indietro imme-

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diatamente, come le braccia e le gambe volanti dell'uomo nel "Re del Fiu-me d'oro". Se veramente aveva un figlio...

A poco a poco Gallivan aveva perso lo scanzonato modo di parlare che aveva sfoggiato con me sul battello. Aveva l'aria di uno che stia studiando attentamente qualcosa al microscopio.

— Non siamo qui per discutere di scienza o di metafisica — disse von Arnheim all'improvviso. — Ci sono dei fatti...

— Scusatemi! — trasali Gallivan, ritornando alla realtà. — Dite pure... — Ho qui una certa quantità di vecchi giornali — continuò il barone —

con degli articoli sulla passata attività teatrale di Myron Alison. Dicono che il sogno della sua vita è stato poter andare in scena con un certo lavo-ro...

— Sì... — La tragedia di uno scrittore tedesco, intitolata: "L'uccello di bronzo".

È una cosa talmente spettacolare da non poter essere rappresentata su un palcoscenico normale. Credo che non sia stata messa in scena proprio per questo. Richiede più di mille comparse ed è ambientata all'epoca di Nero-ne. L'ho letta...

— Sì... — esclamò Gallivan. — Ricordo che ne parlava spesso. Non ho letto la tragedia, ma so che non è mai riuscito a trovare un produttore di-sposto ad anticipare l'enorme somma di denaro necessaria. Ma ha sempre detto che ci sarebbe riuscito. Per lui era diventata una specie di ossessione.

Von Arnheim sfogliò i giornali. — Dice che voleva impersonare Lupo Cantanus — esclamò — un gio-

vane aristocratico romano capo dei cristiani e condannato a morte da Ne-rone. È corretto?

— Non ricordo, ma penso di sì... Oh, sì! Rammento che doveva esserci uno scenario ad anfiteatro, che avrebbe spaventato anche dei cineasti...

Von Arnheim non poté fare a meno di nascondere la sua soddisfazione. Ripiegò i giornali, mentre una luce di trionfo gli illuminò gli occhi.

— Molto bene! — esclamò. — Vi ringrazio molto per la vostra informa-zione, signor Gallivan. Vi ringrazio anche per il modo intelligente con cui avete messo in evidenza la personalità dei nostri soggetti. Ecco! — Strap-pò una pagina dalla sua agenda, ci scrisse sopra qualcosa e la passò a Gal-livan, al di là del tavolo. — Andate dal commissario Konrad con questo biglietto, vi darà tutti i particolari necessari al vostro articolo. Mi avete det-to che conoscete l'interno del Castello del Teschio, vero?

— Ci potrei camminare anche al buio, penso.

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— Bene! Signori, questa sera penso di dare un piccolo trattenimento. Posso promettervi che sarà il più interessante cui abbiate mai partecipato... Signor Gallivan, volete essere tanto gentile da presentarvi alla villa di Ali-son stasera dopo cena? Vi, consiglio di portare l'occorrente per la notte. Tutta la compagnia passerà la notte al Castello del Teschio. Per il momen-to non c'è altro.

Bencolin non aveva detto una sola parola, da quando era arrivato il ba-rone. Buttò la cicca della sigaretta al di là del parapetto e si riscosse dalle sue meditazioni. Guardò von Arnheim con gli occhi dilatati, poi si rivolse a me. La sua espressione pareva dire: "Ve l'avevo detto che sarebbe arriva-to a tanto!". All'improvviso disse a bassa voce:

— Forse questa è la strada migliore... — Cos'è la strada migliore? — chiese von Arnheim. — Parlavo a me stesso. Un errore. Scusatemi. — Avete seguito cosa volevo dire quando chiedevo della tragedia e del

resto? Bencolin non recitava, ora: era veramente perplesso e il tedesco se ne

accorse. — No, amico mio — disse Bencolin — veramente non vi ho seguito. Von Arnheim si alzò, abbottonandosi la giacca. Aveva il cappello grigio

sulle ventitré. — "Sic volvere parcas" — citò. — Non avete capito qual è il punto cru-

ciale. Bene, bene, è un po' che indulgo a una pietosa mistificazione nei confronti di me stesso. Ora. se siete pronti, possiamo tornare a casa per chiarire alcune cosette...

Si avviarono insieme, von Arnheim e Bencolin, per il viale alberato. Gallivan e io li seguimmo a breve distanza. Le spalle ossute del giornalista erano erette e le sue mani uscivano un po' troppo dalle maniche della giac-ca. Fischiettava compiaciuto e a poco a poco la melodia divenne più distin-ta. Si trattava di "Amaryllis".

— Che diavolo state fischiettando?... — gli chiesi. — Oh, ho letto i giornali — mi rispose, sogghignando. — Hanno detto

che qualcuno la stava suonando mentre veniva commesso il delitto. Un violinista, o qualcosa di simile, non riesco a ricordare il nome. Sentite, so-no stato zitto, ma... qual è la risposta?

— Fra quei due? — Proprio. Sarebbero capaci di togliersi il cuore pur di riuscire a supe-

rarsi l'un l'altro. Bene, dovrebbe essere un brillante spettacolo, al quale

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Brian Gallivan sarà presente per assistere alla vivisezione. Be', lo spero, almeno. Adesso torno in albergo, perché devo mandare un telegramma. Grazie e arrivederci.

Era strano, passeggiare per quel viale. Una parte era ombreggiata da un alto muro di pietra, sulla sommità del quale si vedevano delle viti. Costi-tuiva la parte posteriore di terrazze-giardino che erano nella proprietà una volta appartenuta ai re sassoni. A un certo punto il viale correva sotto u-n'alta galleria di pietra, all'ingresso della quale stava una lampada di ferro che doveva servire a illuminarla nelle ore notturne. Di notte Coblenza ri-suona di mille eco misteriose e bisogna aggrapparsi al ricordo delle ville chiare e dei gerani, per dimenticare l'oscurità tanto cupa da sembrare popo-lata di fantasmi. Quante campane avevano suonato e quanti uomini erano morti da quando Cesare aveva costruito il ponte sul Reno? Ora, però, c'era luce piena nel tunnel e io sentii distintamente che qualcuno mi stava cam-minando alle spalle. Gallivan aveva affrettato il passo e camminava davan-ti a me con le mani in tasca, continuando a fischiare "Amaryllis". La ghiaia scricchiolò ancora. Mi voltai. Doveva essere stata una specie di suggestio-ne, una risonanza di eco sotto la galleria umida. Non c'era nessuno dietro di me. Sentii ancora il fischiettare di Gallivan.

Persino quando non sentii più "Amaryllis" ed ero corso fuori dal tunnel nella Rheinstrasse, quell'impressione rimase in me. Ero certo di aver senti-to dei passi decisi, lunghi e tranquilli. Mi era persino parso, in uno spasimo di terrore, che camminassero sul ritmo della melodia fischiettata da Galli-van. Quando raggiunsi Bencolin e von Arnheim li pregai di aspettarmi ed entrai da un tabaccaio per comprare delle sigarette. Provai a fischiettare al-cune battute di "Amaryllis". Quando uscii, fui sollevato, perché non sentii passi alle mie spalle.

Il motoscafo ci riportò indietro. Sentii la voce di Bencolin. — ... supponiamo che Jeff interroghi Dunstan, ma non come interrogato-

rio ufficiale, intendiamoci. Una delle sue poche prerogative è proprio quel-la di far sì che la gente parli con lui liberamente, con fiducia. È per questo che mi è utile. Noi possiamo occuparci della signora D'Aunay. Penso che Dunstan abbia bisogno di sfogarsi con qualcuno, ma parlerà solo con chi ne ha voglia, ne sono certo... Perché così assorto, Jeff?

Dissi qualcosa. Fritz aveva tirato il tendone sul motoscafo per ripararci dal sole. Era piacevolmente riposante, starsene seduti e sentirsi trasportare sul fiume. Von Arnheim rimase silenzioso finché giungemmo in vista del-

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l'imbarcadero della villa di Alison, solo allora disse: — Non ci sono orecchie indiscrete, ora. Voglio dirvi una cosa. La sua voce era bassa, ma udibile al di sopra del rumore della risacca. — Vi dirò cosa vi è sfuggito — mormorò. — Abbiamo di fronte un ter-

ribile assassino, una specie di Wagner alla ricerca di effetti sensazionali. Ricordate cosa ho detto poco fa? Alison voleva impersonare il nobile ro-mano nell'"Uccello di bronzo".

Bencolin non rispose. Mi voltai per guardare meglio il barone, il cui monocolo brillava al sole.

Per superare il ronzìo del motore dovetti quasi urlare: — Sì. — E anche nella tragedia veniva poi condannato a morte? — Sì. — E come preferiva che morissero i suoi nemici, Nerone? — Be'... i leoni, mi sembra. Il monocolo divenne quasi un occhio di fuoco, mentre von Arnheim si

chinava a urlarmi in faccia. — Sì! E come ancora? — Be', a volte li ricopriva di pece e appiccava fuoco ai loro corpi in mo-

do da renderli simili a torce umane e... Mio Dio! — Respirai e cercai di al-zarmi in piedi.

Vi fu un silenzio, poi von Arnheim sussurrò: — Alison è stato accontentato. Il motoscafo si scrollò un poco, prima di fermarsi davanti all'imbarcade-

ro.

13 Il pranzo non fu molto allegro, quel giorno, Dunstan, Lavasseur e la du-

chessa scesero per prendervi parte, ma non si vide nessuno degli altri. Sen-za prestarvi molta attenzione, annuivano alla rombante voce della signori-na Alison, che cercava di tenere la conversazione nei binari della conven-zionalità. L'enorme signorina bevve un'altrettanto enorme quantità di vino che la rese ancora più cordiale del solito. Dunstan toccò appena il cibo e aveva la faccia più preoccupata che io avessi mai visto. A un certo mo-mento rovesciò persino l'acqua sul tavolo. Lavasseur mangiò con interesse prettamente francese, tutto preso dai vari piatti, dai quali alzava solo rara-mente il volto imbronciato. Gli occhi di von Arnheim si muovevano irre-

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quieti dall'uno all'altro, e questo servì ancora di più a innervosire Dunstan. Poi la duchessa raccontò una barzelletta piccante che gustai moltissimo. Mi divertii a osservare i diversi modi in cui era stata accolta.

Bencolin scoppiò in una risata. Lavasseur si permise un sorrisetto breve, continuando a ingozzarsi di arrosto con insalata. Von Arnheim parve non averla nemmeno sentita. Dunstan, invece, impallidì leggermente. Era scos-so e imbarazzato, ma aveva qualcosa di più... le sue mani tremanti regge-vano a malapena il tovagliolo. La barzelletta aveva per tema il marito che torna a casa all'improvviso.

Finalmente la duchessa si alzò, appoggiandosi al suo bastone. Sfidò Bencolin a uria partita a scacchi. Sapevo che si sarebbero ritirati più che altro per raccontarsi barzellette, di cui il poliziotto aveva una riserva ine-sauribile, e che perciò avrei fatto bene a non andargli fra i piedi. Lavasseur si allontanò, scusandosi. Von Arnheim accennò a Dunstan con il capo, poi se ne andò al piano superiore. Il giovane fece quello che avevo sperato: cominciò a salire qualche gradino, poi esitò, ridiscese e si diresse verso la biblioteca. Ne usci con un libro e si mise a sedere sulla veranda.

Sul portico era stato tirato un tendone a strisce bianche e rosse. Dunstan si era messo in un angolo, gli occhi fissi sul fiume. Ero stato incaricato di intervistarlo amichevolmente, mentre von Arnheim, di sopra, avrebbe in-terrogato la signora D'Aunay. Dunstan indossava una vecchia giacca da golf e aveva un fazzoletto di seta annodato intorno al collo; teneva le gam-be accavallate e quella di sopra dondolava ritmicamente, mentre il libro era rimasto vicino a lui senza che nemmeno l'avesse aperto. Aveva preso un orario ferroviario di Bradshaw, scambiandolo chissà per cos'altro, ma finsi di non essermene accorto.

— Non c'è un campo da tennis qui vicino? — gli chiesi. — Mi piacereb-be fare una partita.

— Magari ci fosse! — mugolò da dentro la sua sciarpa. — Mi piacereb-be e come!

A un tratto esclamò: — Ubriachiamoci. Era giovane, molto giovane, e io lo capivo bene. — Troppo presto per ubriacarsi — dissi amichevolmente. — Se ci si u-

briaca in un pomeriggio d'estate, la testa comincia a dolere e gli occhi a bruciare. È una cosa terribile.

— Per Giove! Forse avete ragione, non ci ho mai pensato, però. — La nuova idea lo distrasse. Se la rigirò in mente per un po' abbandonato co-modamente nella poltrona a sdraio. Poi la gamba ricominciò a dondolare.

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— Potremmo prendere il motoscafo e arrivare al castello Stolzenfeld. Se lo sapete guidare, però, perché io non ne sono capace.

— Oh, lo guido benissimo, ne ho uno a casa che è una bellezza. — Si rinchiuse in se stesso all'improvviso, fissandomi negli occhi. Io finsi di es-sere distratto a portai lo sguardo sull'orizzonte. — Ma non toccherò il mo-toscafo — scattò poi. — Capito? Non ne toccherò più uno in tutta la mia vita. Li odio.

Parlammo del gioco del biliardo e di altre cose senza importanza, final-mente io proposi una passeggiata nei boschi dietro la casa. Accettò la pro-posta. C'era un viottolo, mi disse, che dall'imbarcadero girava intorno alla casa e portava alla collina. Era come se non gli riuscisse di staccare la mente da quel sentiero che Isobel D'Aunay aveva percorso la notte dell'o-micidio per raggiungere la sua stanza.

Scendemmo i gradini finché trovammo il viottolo, e ci avviammo verso la collina. Vicino alla casa, il viottolo passava proprio davanti a una scala esterna che conduceva al secondo piano, poi si inoltrava sotto una fresca arcata formata dagli alberi, le cui radici erano ancora umide di pioggia. Sbucammo in un pianoro circondato da un muro di pietra, ma già da un pezzo mi ero convinto che Dunstan e Isobel D'Aunay non erano andati in quel posto la notte dell'omicidio. Il sentiero, anche ora che il fango non lo invischiava più, era quasi impraticabile per gli sterpi di cui era coperto e per le grosse pietre che lo sbarravano di tanto in tanto. Inoltre, a un certo punto, costeggiava proprio uno strapiombo che dava sul fiume. Era un dif-ficile percorso perfino per me, e alla luce del giorno per giunta. No, una donna come Isobel D'Aunay non avrebbe mai potuto camminarci, special-mente di notte.

Il pianoro si sporgeva un po' sul fiume ed era ombreggiato da fronde ca-riche di grandi foglie. Eravamo circondati da un'atmosfera di verde cre-puscolo, permeata dall'odore del fiume e della terra umida. Dunstan sedette sul basso muro di pietra, con un ginocchio fra le braccia e lo sguardo per-duto sull'orizzonte.

— Bel posto per portarci una donna — dissi — se non ci fosse quel dan-nato sentiero.

— Già — fece lui, voltando la testa dall'altra parte. Sicuramente dovette pensare che era un'idea oscena.

— Molto meglio andare al di là del fiume, invece — continuai in tono assorto. — Potendo disporre di un motoscafo, deve essere facile trovare un posticino tranquillo da quelle parti.

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Ebbi l'impressione che avesse trattenuto un attimo il respiro. Mi parve che perfino lo scoiattolo sull'albero si fosse fermato col suo raspare. Non lo guardai in faccia, ma vidi le sue lunghe mani aggrappate al muro con forza. Guardai l'orologio.

— Tardi! — mormorai. — Le due. — Nemmeno per sogno! — esclamò respirando più liberamente nella

speranza che avessi cambiato argomento. — Al mio orologio sono le... Si fermò. Non lo guardavo, ma la sua immagine era riflessa sul vetro del

mio orologio, il cui ticchettare mi parve incredibilmente lento. Aveva capi-to, e la sua reazione fu un gorgoglio strozzato. La rabbia lo assalì lenta-mente, oscurandogli i sensi. Si alzò in piedi.

— State buono — mormorai. — Potrei scaraventarvi al di là del muro senza neanche alzarmi, lo sapete.

— Brutto porco! — urlò. — Siete voi, allora, che avete scritto quel bi-glietto.

— No, non sono stato io. Se lo avessi scritto, sarei d'accordo con voi... — Chi è stato, allora? Non cercò di nascondere nulla. Era all'erta, le braccia conserte e le pupil-

le terribilmente dilatate. Le maniche del golf erano tese dai suoi muscoli contratti. Mi alzai a guardarlo negli occhi, e gli posai le mani sulle spalle.

— È stato uno scherzo poco simpatico — mormorai. — Chi è stato, non ha importanza, non vi pare? Abbiamo cercato di tirarvi fuori dai pasticci.

— Fuori dai pasticci? Questa sì che è buona! Ormai tutti sapranno la co-sa.

— Non la sa nessuno — mentii — all'infuori di Bencolin e di me. E... e per lui è questione riservata. Se dovesse dire tutto ciò che sa, molta gente in Francia non sarebbe più capace di chiudere occhio, di notte. Ma lui non parla. Svegliatevi, amico! Non siete il solo a trovarvi in una posizione del genere, non c'è niente di strano.

Mi guardò in modo curioso, perché gli avevo parlato come si fa con un bambino che abbia paura di essere arrestato dalla polizia perché ha rubato la marmellata. Con un breve sospiro si sedette nuovamente.

— Siete sicuro che nessuno lo sappia? — mi chiese. — Ho passato dei brutti momenti, da quando...

— Ne sono certo. — Cosa... Cosa intendevate — mi chiese esitando — quando avete detto

che non c'è niente di strano? Gli dissi cosa intendevo e prima mi parve perplesso, poi tanto rassicura-

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to da sembrare un altro. — Ma allora perché diavolo... — sbottò. Non fu facile convincerlo che quello che ci interessava era il delitto, non

la sua relazione con la moglie di un altro. Non riusciva a capire che è mol-to meglio essere sorpreso in flagrante adulterio piuttosto che essere arresta-to per omicidio.

Gli feci presente la faccenda del motoscafo, ma gli feci notare anche, che se fosse riuscito a dimostrare la sua innocenza, nessun'altra indiscre-zione sarebbe venuta fuori. Sapevo che prima o poi mi avrebbe raccontato la storia: doveva togliersela dalla coscienza...

— Sentite — dissi. — Voi e la signora D'Aunay eravate veramente fuori col motoscafo, no?

— Non mi importa di parlarne con voi — esclamò — ma non potrei mai accennarne con quel poliziotto. Vi giuro che non potrei. Non so perché.

— Va bene, ci penso io. Credo che non avrete nemmeno bisogno di ve-derlo.

Mi parve di averlo rassicurato. — Ci sono delle cose, però, che nemmeno voi potrete capire — mormo-

rò. — Il fatto è che sono pazzo di quella donna. Non posso troncare tutto così, né intendo farlo. Capite? — Picchiò il pugno sul muro, poi continuò: — Se sapeste quante ne ha passate con quel bruto!

La solita, dolce canzone. Quante volte è stata cantata da tutte le mogli del mondo! Mi preparavo ad ascoltarla ancora con solenne attenzione.

— Se si fosse limitato a picchiarla... Non so perché le mogli dei mariti crudeli preferiscano che i mariti le

picchino e si annoino se non lo fanno. In ogni modo ero pronto a essere so-lidale, perché Jerome D'Aunay, giudicato secondo i vecchi canoni, non era solo cattivo, ma persino volgare e meschino.

— L'ho incontrata un anno fa a Bruxelles — continuava intanto Dunstan. — Pensai che l'avrei scordata. Poi la scorsa settimana venni qui per discu-tere con Alison su certi scenari che avevo disegnato per un suo nuovo la-voro. Non sapevo che l'avrei trovata qui. Non so neppure bene come ac-cadde, so solo che quando mi offrì una tazza di tè e sfiorai la sua mano, di-venni rosso ed emozionato. Può sembrare imbecille, ma non è cosi.

Parlava in fretta, ora, in modo quasi incoerente. — E il peggio è che dovrei considerarmi fidanzato a una ragazza che è

qui anche lei. Non lo sapevate, eh? Si tratta di Sally... Sally Reine. Non mi condannate, vero? Non so perché ma non ho il coraggio di dirglielo. So

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che non potrà continuare a lungo così, ma non so prendere una decisione. Il bello è che ce l'ho a morte con lei. Non posso sopportare le donne che prendono sempre in giro. Non so mai se scherza o se fa sul serio.

"Be', la notte del delitto, il vecchio D'Aunay prese il sonnifero e lei si accorse che era profondamente addormentato. Scese da basso. Da principio avevamo intenzione di metterci a sedere nel portico e di chiacchierare. Poi... poi persi la testa. Le dissi: 'Perché non prendiamo il motoscafo per andare oltre il fiume?' C'è un sentiero che porta a una grotta ed è facilmen-te accessibile. Prendemmo il motoscafo..."

— Aspettate. Alison venne con voi? Strappato dal suo racconto, mi guardò meravigliato. — Alison? Ma neanche per sogno. Che diavolo vi prende? — Accidenti! Ho cercato per più di un'ora di mettervelo in testa e ora mi

chiedete che mi prende! Ma se proprio questo è il punto cruciale! È andato in qualche modo dall'altra parte del fiume, no? E il motoscafo è stato senti-to una sola volta.

— Oh!... Potrebbe aver preso la barca. — C'è una sola barca ed è stata usata da Fritz e Hoffmann. — E io vi dico che non è venuto con noi! — urlò. — Cosa credete, non

sono un imbecille! Vi pare che avrei portato... Si fermò per guardarmi negli occhi, perché dovevo sembrargli tanto rin-

tontito da vincere perfino la sua rabbia. Mi alzai lentamente dal muro e ca-pii.

Vidi in un lampo di luce come Alison aveva attraversato il fiume. Che cretino! Che imbecille ero stato a non averlo capito prima!

— Le scarpe... — mormorai. — Le scarpe... — Ma che scarpe? Non risposi, ma la spiegazione diveniva sempre più limpida. Il paio di

vecchie scarpe sporche di fango verdastro e limaccioso! Alison non se le era sporcate sul sentiero che conduceva al Castello del Teschio, perché le mie, pur con un tempo ben peggiore, avevano racimolato solo un po' di fanghiglia scura. Avevo già visto quella mota maleodorante in vita mia, in una galleria che dalla fattoria del mio nonno portava al di là del fiume... e passava sotto il letto del fiume.

Castelli del genere hanno quasi sempre dei sotterranei, dai quali il signo-rotto era pronto a scappare in caso d'assedio. E questo passaggio portava alla casa di Alison al di là del Reno. E le pantofole che non eravamo riu-sciti a trovare! Alison doveva essersele tolte appena entrato nel passaggio

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segreto, per calzare le scarpe pesanti, così da ritrovarle là al suo ritorno, dove avrebbe potuto cambiarsele senza sporcare il lucido pavimento della stanza. Meticolosamente ordinato, come sempre. Solo che non era ritorna-to indietro. Tutto concordava: il soprabito sdrucito nel suo guardaroba ele-gante, la porta chiusa a chiave per dare a intendere che stava lavorando...

Tutte queste cose mi passarono per la testa come un lampo, anche se la loro descrizione, ora, mi sembra tanto lunga. Altri dettagli andavano inol-tre prendendo forma: il misterioso uomo con la torcia che Hoffmann aveva visto sui bastioni del castello. Avevano fatto capire che era uscito dal por-tone del castello e che era corso giù dalla discesa per arrivare al motoscafo. Che sciocchezza! Non avrebbe potuto non incontrarli lungo il sentiero, e se anche avesse tentato, avrebbe suscitato tanto rumore fra la sterpaglia e i sassi che avrebbero per forza dovuto sentirlo. No, era ritornato dal passag-gio sotto il fiume.

Certe cose, che mi erano sembrate senza importanza, mi ritornarono alla mente completamente chiarite. Ricordai il fango verde sotto il tappeto gualcito in camera di Alison. Quelle tracce non potevano essere state la-sciate da Alison, perché lui non era ritornato; erano quindi quelle dell'as-sassino. Qualcuno aveva visto l'attore entrare nel passaggio, quella terribile notte, e quel qualcuno aveva preso la pistola e lo aveva seguito sotto il Re-no per consumare l'omicidio. Poi era ritornato tranquillamente indietro.

E Bencolin aveva intuito tutto questo sin dalla prima visita nella stanza di Alison. Era rimasto un po' disorientato, però, a causa del motoscafo che era stato sentito ritornare quella notte con a bordo Dunstan e la sua inna-morata.

— Cosa diavolo vi succede? — mi stava chiedendo il giovane. — Niente... — mormorai. — Continuate. — Ma che cosa volete sapere ancora? Ho ammesso quello che volevate.

Attraversammo il fiume e io attraccai il motoscafo a una rupe... Ma danna-zione! Cosa vi prende ancora?

Ora ricordavo anche quello: Hoffmann aveva affermato che il motoscafo era stato ancorato in modo insolito, non come gli abitanti della casa erano usi fare. Naturalmente Dunstan non doveva essere mai andato al Castello del Teschio sull'imbarcazione nemmeno come passeggero. Questo doveva essere stato il ragionamento che aveva fatto anche Bencolin.

— ... Dio sa chi fosse o da dove venisse — stava frattanto dicendo Dun-stan — ma quando vidi quell'uomo uscire dalla terra, io...

Mi voltai di scatto verso di lui.

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— Quando vedeste cosa? — L'uomo sorgere dalla terra. Vi assicuro che ho avuto una paura terri-

bile. Aveva un pacco, o forse un sacco, non so... Naturalmente non dev'es-sere uscito proprio dalla terra, ma...

— Raccontatemi come è andata, senza tralasciare nulla. Dunstan arrossì dalla rabbia, guardandomi con occhi scintillanti. — Che io sia dannato se farò una cosa del genere! — urlò. — Cosa dia-

volo può interessarvi? Mettetevelo in testa, non dirò niente. È... sacro per me. Non sono affari vostri.

— Capisco benissimo — gli dissi pazientemente. — Non voglio i parti-colari del vostro romanzo d'amore. Voglio che mi raccontiate dell'uomo sorto dalla terra.

— Oh! Va bene, allora — mormorò. — Eravamo in una piccola cavità, quasi ai piedi della collina. C'era una splendida luna piena e ce ne stavamo seduti vicino a un grosso albero, appoggiati a un masso. Io... ero molto turbato e scosso. Mi pareva che tutto mi girasse intorno. Capite? — Le mani gli tremavano e il suo sguardo era acceso. — Gli alberi, la notte e l'essere lontani da tutti. Poi, all'improvviso, la terribile sensazione di essere legato a quella donna come non ero stato a nessuna in vita mia. — Incrociò le braccia. — E mentre mi sentivo come se mi avessero aperto il cuore... mi sdraiai per terra, con la faccia nell'erba. Dopo un po', senza alcuna ra-gione, guardai in su.

"Fu orribile. A pochi metri di distanza, sotto un cespuglio, vidi un uomo che pareva proprio uscire dalla terra. Mi voltava le spalle ed era un po' chinato in avanti. Mi resi conto che trascinava qualcosa di pesante, mugo-lando fra sé una canzone.

"Poi sparì. Non so dirvi dove fosse andato, ma so che il cuore parve fer-marmisi in petto. Isobel aveva paura che fosse qualcuno venuto a spiarci e si mise quasi a piangere, continuando a balbettare: 'Torniamo indietro, tor-niamo indietro...'. Ma avevamo paura anche di far quello. Continuammo ad aspettare parlando di ogni sorta di terribili possibilità, quando sentimmo quelle grida.

"Questo finì di sconvolgerci. Ci alzammo in piedi e vedemmo quella co-sa correre in fiamme sui bastioni urlando in modo inumano. Isobel svenne quasi. Dovetti portarla in braccio fino al motoscafo. Facemmo un sacco di rumore perché, a ogni momento, rischiavo di inciampare negli sterpi. Quando fummo vicino all'imbarcadero, vidi la barca staccarsi dall'altra ri-va. Ci nascondemmo in mezzo ai cespugli, finché Fritz e Hoffmann non

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arrivarono vicino a noi. Avevo paura che ci avrebbero scoperto da un mo-mento all'altro, perché le loro lampade cercavano tutto intorno fra gli arbu-sti. Quando finalmente cominciarono ad arrampicarsi per il sentiero, sal-tammo sul motoscafo e ritornammo indietro. Isobel prese il viottolo latera-le e io salii per i gradini fino al portico. Grazie al cielo, riuscì a entrare senza svegliare suo marito."

Proprio in quel momento, io e Dunstan ci rendemmo conto di non essere soli. Dovevo aver sentito rotolare una pietra o muovere qualche arbusto, perché mi voltai all'improvviso. Un uomo era immobile sotto un albero e ci ascoltava in silenzio.

Era Jerome D'Aunay.

14 Non so cosa mi aspettavo che succedesse. Doveva aver sentito l'ultima

parte del discorso di Dunstan. Dopo la scossa che mi aveva dato la sua presenza, ricordo distintamente che guardai oltre il basso muro di pietra, verso lo strapiombo roccioso che portava al fiume. Un uomo si sarebbe certo spezzato il collo cadendo di là. Per un lungo tempo nessuno parlò. Una nuvola passò davanti al sole, oscurandolo, poi un raggio cadde a illu-minare una pozzanghera vicino ai piedi di D'Aunay. Lo scoiattolo stava ancora giocando fra le foglie.

Dunstan ruppe le quiete esclamando: — Be'? Se avete qualcosa da dire, sputate fuori! — Ah! Buongiorno, sir Marshall Dunstan — disse D'Aunay in inglese.

Aveva una cattiva pronuncia, ma non mancava di scioltezza. — Vi stavo cercando e Hoffmann mi ha detto che eravate venuti da questa parte. Mm... ho appena parlato con mia moglie.

Si avvicinò di qualche passo. Era vestito in modo quasi pacchiano, con uno sportivo abito azzurro e calze rosse e verdi. Mi chiesi cosa ci fosse dietro i suoi modi.

— Il signor von Arnheim — continuò — l'ha interrogata. Sono entrato nel bel mezzo del discorso e ho udito cose divertentissime.

Dunstan era molto pallido, ma sembrava deciso. — Tanto, prima o poi avrei dovuto dirvelo — mormorò. — Scusatemi... — disse D'Aunay alzando le mani in un gesto strana-

mente untuoso. — Vorrei chiedervi una cosa e penso di avere diritto a una risposta. Voi siete innamorato di mia moglie?

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— Sì! — esclamò Dunstan in tono melodrammatico. — Se fosse... libera, la sposereste? — Sì. — Ah! Molto bene. L'avrete. La voce si fece decisa come al solito, ogni segno di untuosità sparì dai

suoi gesti e dagli occhi gelidi. — Mi levate dalle spalle una grossa preoccupazione. È un pezzo che mi

rendo conto che non è la padrona adatta alla mia casa. È superficiale, le piacciono i vestiti di lusso, vuole viaggiare e accompagnarmi nei miei viaggi d'affari. E... devo essere sincero... non può avere figli. Insomma, una cattiva moglie. Ho sempre pensato a un accomodamento del genere, ma era troppo virtuosa, secondo me. — Sorrise con espressione tutt'altro che divertita. — L'avrei levata di mezzo se non avesse potuto danneggiare la mia reputazione.

Si esaminò pensieroso la punta delle scarpe. — Sono le tre meno un quarto — dissi a un tratto, guardando l'orologio.

— Non posso più fermarmi. Se volete scusarmi... — Grazie... — sorrise D'Aunay. — Ho bisogno di restar solo con il mio

amico inglese per discutere di certi particolari... Li lasciai vicino al muro. Dunstan irrigidito e D'Aunay pensieroso. Men-

tre scendevo per il sentiero, ebbi qualche dubbio sull'origine e la legittimità dei genitori di D'Aunay. Ma d'altra parte, pensai, perché irritarsi? Poteva essere un cinico, ma il suo modo di fare aveva salvato una brutta situazio-ne. Se avesse fatto il marito infelice, sarebbe stato insopportabile. Fino a pochi minuti prima potevano scoppiare delle scenate da un momento all'al-tro. Adesso, invece, tutti erano felici. Tutti, tranne una ragazza aggressiva dal viso di folletto che si chiamava Sally Reine...

Ma... e se D'Aunay avesse saputo già della tresca e fosse rimasto nel-l'ombra per farsene un paravento? Se non avesse preso il veronal, come aveva detto, e non fosse rimasto tutto il tempo a dormire in camera sua? Con la moglie fuori della stanza, chi avrebbe potuto testimoniare in suo favore?

La cosa più importante, per il momento, però, era che Bencolin venisse a conoscenza della faccenda dell'"uomo sorto dalla terra" sull'altra sponda del fiume.

Pareva non ci fosse nessuno in casa, quando entrai nell'atrio fresco. Salii al primo piano e sentii delle voci nel salotto della duchessa.

Quella di Bencolin stava dicendo:

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— Vedo... E quella della duchessa: — Avete vinto, vecchio sbirro dalla faccia di diavolo. Erano seduti al tavolo vicino alla finestra. Quando entrai Bencolin stava

raccogliendo le carte da gioco. Aveva davanti a sé un mucchio di gettoni azzurri. Lavasseur guardava le carte in modo cortese, ma distratto. La du-chessa finì coscienziosamente un grosso bicchiere di whisky, poi accese un sigaro facendo velati commenti sui bari e gli imbroglioni in generale, e in particolare su coloro che fanno un "full" tirando su due carte.

— Venite dentro, vecchio mio! — mi salutò. — Questo tipo dalla fortu-na sfacciata mi ha vinto tutto tranne la camicia che ho addosso. Accidenti! Non ho avuto un gioco in mano per tutto il pomeriggio. Sedetevi, amico. Apertura di cinque marchi. Prendete una sedia.

Tacque un attimo per porgere il bicchiere vuoto a una vecchia domestica dalla faccia legnosa che stava in piedi vicino alla sua sedia.

— Sentite! — urlò poi. — Credo che il ragazzo abbia fatto qualche sco-perta. Ehi, Frieda, preparami un altro whisky, ne ho proprio bisogno. Guardatelo, vi dico, è tutto eccitato! — Si voltò verso Lavasseur scoppian-do a ridere. — Lavasseur, vecchio assassino, vi ha scoperto! È meglio che confessiate tutto.

Lavasseur sorrise. — Vi prego, duchessa! Non penso che stia bene scherzare con certi ar-

gomenti... Penso sia ovvio... — Continuate, uomo! — esclamò la duchessa. — Stavo solo scherzan-

do! — Si rivolse a Bencolin. — Sapete, faccia di diavolo, non posso fare a meno di stuzzicarlo. Mi piacerebbe vederlo coi capelli scompigliati, una volta, o ubriaco per terra. Sembra sempre un manichino da vetrina. Aspet-tate, Lavasseur, non ve ne andate! Sentiamo se il ragazzo ha delle novità!

— Che novità? — chiesi. Bencolin smise un attimo di mischiare le carte. Ci guardò con la fronte

aggrottata. — Siamo stati invitati — disse — a un piccolo spettacolo sotto gli au-

spici del barone von Arnheim. Lo spettacolo avrà luogo al Castello del Te-schio, dove passeremo la notte. La signorina Alison ha suggerito anche una cena fredda da consumare nella sala da pranzo di Maleger.

— Così — disse la duchessa — se al nostro amico occhio-di-vetro piace essere drammatico, noi gli andremo dietro, procurando un po' di lavoro e-xtra alla servitù, che ne sarà felice. Sentite un po' — mi chiese poi — è sta-

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to invitato quel giornalista che avete visto a Coblenza? — Gallivan? — chiesi. — Sì, proprio lui — annuì. — Occhio-di-vetro deve essere terribilmente

inospitale. Sentite, vecchio mio, telefonategli e ditegli che venga anche lui a presenziare alla cena storica. Se non ha vestiti, imprestategliene uno voi, o ditegli di venire con quello che ha. Mi piacciono i giornalisti, mentre in-vece non mi piace occhio-di-vetro. È un altro che avrebbe bisogno di u-briacarsi di tanto in tanto... Adesso distribuite le carte, e, per l'amor di Dio, datemi un buon gioco.

A questo punto bussarono alla porta e von Arnheim entrò. Era molto ec-citato.

— Scusatemi — esclamò — ma ho bisogno di vedere il signor Bencolin e il signor Marle in privato. È molto importante. No, aspettate... — guardò la duchessa attentamente — voi potreste essere d'aiuto, signorina Alison.

— Certamente... — disse Lavasseur alzandosi e inchinandosi alla sua ospite. — Possiamo continuare il gioco più tardi... Adesso devo andare a fare un po' di esercizi col violino.

La duchessa disse alla domestica di andarsene, e quando fummo soli, e-sclamò:

— Cosa c'è? — I suoi modi erano impazienti. — Signorina Alison — disse von Arnheim — ho appena saputo della

possibilità, in questa casa, dell'esistenza di un passaggio segreto. Era fatta! Bencolin sorrise e applaudì silenziosamente. Per la prima volta

la duchessa era veramente sorpresa. — Un passaggio segreto? — chiese. Guardò von Arnheim con occhi a-

cidi. — Qualcuno ha cercato di prendervi in giro, occhio-di-vetro! Non ho mai sentito dire che qui esistesse un passaggio segreto. Forse al castello... Chi ve l'ha detto?

— Nessuno me l'ha detto, ma sono certo che c'è. Lei si strinse nelle spalle. — Sentite, sono vissuta in questa casa per diciotto anni e questa mi è

proprio nuova. Accidenti! Mi seccherebbe se ce ne fosse veramente uno, senza che io l'abbia mai saputo. Dove condurrebbe questo famoso passag-gio?

— Ho ragione di credere — le rispose il barone — che vi si acceda dalle stanze di vostro fratello e che porti al Castello del Teschio passando sotto il fiume. — Si voltò sogghignando verso Bencolin. — Ora capisco, amico mio, cosa intendevate dire con la faccenda delle "scarpe infangate". Mi so-

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no dato da fare anch'io. Agatha Alison fischiettò piano, aggrottando le sopracciglia. — Accidenti, potrebbe anche essere! — mormorò. — Certo che potreb-

be esserci un passaggio... E se c'è, l'ha fatto costruire Myron; gli piaceva fare cose del genere, tanto più che questa casa è stata costruita su suo pro-getto.

— Oserei dire che il passaggio sotto il fiume è più vecchio di qualche secolo — disse von Arnheim. — Il castello è stato costruito da un genti-luomo del quindicesimo secolo, che pare sia stato giustiziato per stregone-ria. Era ricercato, e i documenti dell'epoca dicono che tentò di scappare da un passaggio segreto... E adesso, caro Bencolin, capisco che le vostre af-fermazioni circa le difese dei castelli antichi volevano alludere proprio a questo.

— Sì — rispose Bencolin — vi ho accennato la scorsa notte. Mi sem-brava naturale che una fortezza con tanti aggeggi di guerra fosse provvista anche di un'uscita sotterranea. E il fatto che fosse stata costruita sotto il Reno è giustificato dal timore che ci fossero delle guardie in riva al fiume.

— Adesso capisco anche perché avete voluto passare la notte in quelle stanze — esclamò il tedesco, piccato. Per la prima volta sul suo viso ap-parve una certa animosità. — Non dobbiamo perdere tempo, comunque. Lo avete poi trovato? Con aria distratta Bencolin guardò le carte da gioco.

— Oh, so dov'è, naturalmente — mormorò poi — ma vi sfido a trovare il modo di aprirlo.

— Be', cosa aspettate? — urlò la duchessa. — Andiamo di là e vediamo cosa si può fare. Che io sia dannata! Un passaggio segreto in questa casa! Ma perché Myron non me ne ha mai parlato? È strano, io...

— Penso che il signor Alison avesse una buona ragione per non dirlo a nessuno — mormorò von Arnheim. — Indubbiamente una buona ragione, ne sono certo...

— E la nuova scoperta si adatta alle vostre teorie, barone? — chiese Bencolin, alzando gli occhi dal mazzo di carte.

— È la conferma che aspettavo! — esclamò l'altro. — Andiamo. Uscimmo nel corridoio in fila indiana; la duchessa batteva impaziente-

mente col bastone per terra, borbottando fra sé. Il corridoio era invaso dal-la luce del sole, ma non mi parve bello come al mattino. Una nota molto misteriosa era sopraggiunta a interrompere l'armonia. Da basso Lavasseur stava suonando la "Danza Ungherese n. 5" di Brahms. Le note trillanti del-la musica, le sfumature esotiche, parevano però suggerire una danza di

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morte. Mentre proseguivamo per il nostro cammino, udii distintamente una donna singhiozzare in una stanza. Non potevo capire da quale, ma quel pianto mi dette un brivido profondo. Il corridoio pieno di sole, il Reno che mormorava dolcemente e quei singhiozzi dolorosi...

— Ascoltate! — esclamò Bencolin. Eravamo all'angolo del corridoio. Ci fermammo tutti, quasi involonta-

riamente. — È il suonatore ambulante che ha ricominciato — disse la duchessa. —

A volte mi irrita talmente i nervi che... — No! — la interruppe Bencolin. — C'è qualcuno nella stanza di Ali-

son. Sentii il terrore della morte impossessarsi di me, lo stesso terrore che

quella notte si sarebbe come materializzato davanti ai miei occhi. La "Danza Ungherese" si alzò di tono con una nota brillante, selvaggia. Mi pare che fosse von Arnheim a correre per primo verso le stanze di Alison e ad aprire la porta di colpo.

Il sole che entrava dalle finestre a lame di luce, in cui danzava il pulvi-scolo, faceva brillare le parti nichelate della polverosa macchina da scrive-re di Alison. Ancora abbandonata sulla sedia, c'era la giacca da camera che Myron doveva essersi tolto quando era entrato nel passaggio segreto.

Von Arnheim fece un gesto di stizza. Lo vidi correre verso la camera da letto, aprire le porte e ritornare pestando pesantemente i piedi per terra.

— Nessuno! — scattò. — Non c'è nessuno, ora, ma c'era qualcuno pri-ma, ne sono certo.

Guardai come istupidito le tracce di polvere sul legno della finestra, se-guii gli arabeschi dorati delle tende. Era caldo, ma rabbrividii. Ancora il suono del violino. Scostando le tende che portavano alla stanza da letto, von Arnheim si mise a studiare attentamente i pannelli di legno.

— Deve essere qui — borbottò, battendo con le nocche — ma non si sente il vuoto. Pare come un muro di mattoni ricoperto. Se c'è un ingresso segreto qui, e accidenti! ci deve essere, è ben nascosto. Dobbiamo trovare il modo di aprirlo a ogni costo.

— Potreste chiamare un muratore — suggerì la duchessa — per fare ab-battere l'intera parete.

— È un muro maestro — disse Bencolin. — Abbattendolo si correrebbe il rischio di far cadere il soffitto. È meglio provare sistematicamente.

Cercammo per tre quarti d'ora di seguito; picchiammo, spingemmo, e pressammo senza alcun risultato. Palpeggiammo gli angoli, provammo a

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far slittare i pannelli, usammo ogni briciolo di intelligenza che ci rimane-va, ma ancora niente. Il muro rimase immobile. Alla fine la duchessa, ros-sa ed eccitata per l'insolita situazione, balzò in piedi e ritornò nel centro della stanza.

— Bah! — esclamò disgustata. — Penso che siate tutti rimbecilliti. Se volete, chiamo dei fabbri e dei muratori, ma non ne voglio più sapere di impolverarmi i vestiti.

— Dobbiamo cercare l'entrata dall'altra parte! — esclamò a un tratto von Arnheim. — Abbiamo un indizio. La torcia. La torcia lasciata nel passag-gio dei bastioni. Deve essere da quelle parti. O nelle stanze del guardiano, forse l'ultima.

— Aspettate! — esclamai eccitato. Raccontai loro la storia che avevo udito da Dunstan, senza naturalmente fare il nome di chi me l'aveva narra-ta. Descrissi con molta foga l'uomo sorto dal terreno e che pareva trascina-re un sacco. Von Arnheim si mise quasi a ballare dalla gioia.

— Ecco com'è! — esclamò, fregandosi le mani. — Ho interrogato la... la donna, come vi ho già detto, ma non mi ha parlato dell'uomo misterioso sorto dalla terra. Ah, sì! Ora tutto quadra. La fine di questo passaggio è dall'altra parte del fiume, poi ce ne deve essere un altro che dal fiume porta al castello. È difficile poter costruire un tunnel sotterraneo prima in discesa e poi in salita. Il peso della collina lo seppellirebbe... Andiamo dall'altra parte!

— Ehi! — protestò la duchessa, agitando il bastone. Gli occhiali le erano scesi quasi giù dal naso nella foga dei movimenti. — Accidenti, spiega-temi cos'è successo! Chi è saltato fuori dalla terra al di là del fiume? E chi era quello che ha visto? Voi sbirri mi farete morire di dolore...

L'assordammo con vaghe promesse e velate spiegazioni. Lei bestemmiò e urlò, alzando il bastone verso di me e dicendomi che ero un imbroglione che avrebbe dovuto essere squartato, imprecando anche all'indirizzo di una persona innominabile che aveva piantato una partita a poker per scoprire un passaggio segreto in un muro che forse non si era mai aperto.

Von Arnheim cercò di convincerci ad accompagnarlo oltre il fiume. Per una ragione che non riuscii a individuare, Bencolin declinò l'invito. Ma von Arnheim era di ottimo umore; sapeva che stava per far centro e la cosa lo predisponeva alla benevolenza verso di tutti. La compagnia si sciolse: von Arnheim corse a prendere il cappello, Agatha Alison andò in camera sua, come disse lei stessa, per rompere qualche sedia. Bencolin e io scen-demmo insieme verso il portico, dove ci mettemmo a sedere in due poltro-

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ne a sdraio. Bencolin tirò un sospirone. — Uffa! — si lamentò. — Prendete una sigaretta, Jeff. Quei due mi

hanno fatto passare un brutto momento. Una volta o due ho avuto proprio paura che stessero per trovare il passaggio...

Balzai su e lo guardai allibito. — Allora sapete dove... — gorgogliai. — Certo. Ci ho messo tutta la notte per trovarlo e l'ho esplorato anche... Feci qualche domanda. — È proprio dietro la porta della camera da letto. Si gira un interruttore

della luce e la porta si apre nello studio. Molto ingegnoso... Si sposta un intero masso di pietra che scorre su un meccanismo ben oliato e che può essere chiuso sia dall'esterno che dall'interno.

— Ma perché non ce l'avete detto? Picchiettò con le dita sul bracciolo della sedia.

— Perché — mormorò — non voglio che vedano cosa c'è là sotto. Se von Arnheim lo vedesse, forse interromperebbe lo spettacolo e non voglio che questo accada. È meglio che tutti continuino a credere nella soluzione del barone. Molto meglio.

— Non vi capisco — sbottai. — Forse non sono molto intelligente, non vi capisco.

— Mi capirete... Adesso devo andare di sopra a fare un piccolo lavoro. Non chiedetemi di cosa si tratta. Avrò bisogno solo di una scopa e di un paio di vecchie scarpe pesanti.

Mi lasciai cadere di nuovo nella sedia, mentre si allontanava sogghi-gnando.

Il lungo pomeriggio assolato sul Reno scorse lentamente; a poco a poco delle ombre azzurre scesero fra gli alberi, stendendo un sottile velo sullo sfavillio del sole, e raffreddando la brezza, che divenne quasi insopportabi-le. Quando suonò il gong dell'ora del tè, una specie di scossa passò per la mia mente in letargo.

15

Ripensando agli eventi di quella notte, c'è ancora una cosa che non rie-

sco a spiegare: la gaiezza da cui tutti sembrammo colti all'improvviso. Per tutta la serata, fino alla terrificante scena nella stanza dal soffitto di vetro, eravamo stati di un umore instancabilmente ciarliero, che in fondo ci ren-

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deva grotteschi. E non uno di noi era triste o preoccupato; riuscimmo a es-sere allegri anche nel corso di quel memorabile pranzo, durante il quale la Morte si mise a sedere in una sedia dalla spalliera alta.

Era una Morte soave, però, un po' come von Arnheim, con monocolo e abito da sera.

Bevemmo anche molto, seduti alla stessa tavola con l'assassino, aiutati dall'atmosfera magica che ci circondava. Era proprio il tipo di situazione che aveva sempre divertito Bencolin. La duchessa pareva sempre pronta a ogni sorta di schiamazzi. Von Arnheim, sapendo di aver partita vinta, era diventato comunicativo e geniale. Sembrava un grosso gatto all'erta, con gli occhi rotondi fissi sulla preda.

La filosofia della vita e della morte di Lavasseur fece sì che lui divorasse tranquillamente il suo pasto in mezzo alla tensione generale. D'Aunay, il freddo calcolatore, seguiva le mosse di tutti come affascinato. Dunstan era allarmato, ma loquace ed esultante, come dimostrava in ogni momento a Isobel D'Aunay. E la donna, sapendo di non dover vivere per molto tempo ancora accanto a D'Aunay, aveva subito una profonda metamorfosi: quella notte era una bella donna felice. La passione di Gallivan per la morte e gli spettri fu completamente soddisfatta da quel pranzo fatale. Ma la più ecci-tata di tutti era Sally Reine...

Tutto il pomeriggio era stato carico di confusione. Il motoscafo e la bar-ca erano andati avanti e indietro, portando Hoffmann, Fritz, Frieda, e altri due o tre camerieri che non avevo ancora visto. Le provviste furono fatte venire da Coblenza, fiori compresi, e Hoffmann trasportò tutto al castello, insieme alle tovaglie di lino, all'argenteria, alla frutta e al vino. Si vide per-sino un camino fumare.

Si stava preparando una bella notte. Fresca, un po' umida, allietata dal trillo dei grilli. Delle pennellate argentate, velate appena da qualche nuvola grigia, apparvero verso l'imbrunire. Mentre mi vestivo, potevo sentire un sommesso andirivieni per tutta la casa. Mi pettinai più accuratamente del solito, quella sera, feci più attenzione al nodo della cravatta e misi bene in mostra la spilla fermacravatte di diamanti, che non so perché avevo portato con me da Parigi. Secondo gli accordi, misi l'occorrente per la notte in una valigetta che posai ai piedi del letto, in modo che Hoffmann potesse tro-varla facilmente durante il suo giro. Avremmo cenato tardi. Erano già le nove suonate quando lasciai la mia stanza. Qualcosa dalle finestre dall'a-trio attirò la mia attenzione. Mi avvicinai per vedere meglio...

Era una stupenda veduta del Castello del Teschio completamente illumi-

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nato. I viaggiatori notturni dei battelli del Reno sarebbero certo rimasti molto meravigliati. La grossa testa di morto pareva sogghignare: gli occhi erano due enormi finestre ovali dai vetri viola, il naso triangolare e giallo, come gli archi della galleria che formavano i denti. Tutto pareva atteggiato a un riso sardonico e divertito, quasi diabolico.

A seconda del movimento interno delle luci, il teschio poteva cambiare espressione: ora pareva strizzare un occhio, ora ridere più apertamente, ora una grinta di crudeltà induriva la sua mortale rigidezza. Delle torce passa-vano sui bastioni; anche le feritoie delle torri erano illuminate, tanto che potevo distinguere le figure che si muovevano.

Non riuscii a spiegarmi lo scintillio dei cappelli delle persone che si agi-tavano intorno al castello, finché non capii che si trattava degli elmetti dei poliziotti. Tutto questo si stagliava contro il cielo, nel Castello del Teschio che diveniva quasi argentato al chiaro della luna nascente. Il castello guar-dava e aspettava.

Per secoli aveva ammirato il Reno in basso. Il barone von Arnheim aveva senza dubbio il senso dello spettacolare. Il

suo avversario francese avrebbe dovuto senz'altro approvare la messa in scena!

Dalla sala della musica potevo udire strimpellare il pianoforte. Dalla bi-blioteca, invece, qualcuno mi fece pervenire il consolante tintinnio dei bic-chieri.

Quando entrai nella stanza, ancora sorprese. Mi resi subito conto della febbrile agitazione che ci avrebbe eccitati per tutta la notte, una strana agi-tazione un po' simile al tintinnio dei bicchieri da cocktail, reazione tipica del nostro mondo moderno. Mi accorsi anche dell'improvvisa corrente di simpatia che pareva essersi diffusa fra noi e che rendeva gradita la compa-gnia degli altri. Eravamo passeggeri di un vascello fantasma e la prima co-sa che ci venne spontaneo cercare fu il bar. E quella che stava preparando i cocktails non sembrava neanche più Isobel D'Aunay! Eccitata, con gli oc-chi lucidi, la testa un po' rovesciata indietro, stava agitando lo "shaker" al-legramente.

Indossava una gonna scura tempestata di lustrini e mostrava orgoglio-samente la bellezza di un paio di spalle di seta. Una ciocca sbarazzina di capelli le ricadeva sulla fronte, come una pennellata di sole. Lo spettro era resuscitato!

— Venite dentro, signor Marle! — urlò. — Mettetevi a sedere e provate uno di questi cocktails. Si chiamano Golden Dawn e ho sempre desiderato

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prepararli da sola... Due parti di gin, una parte di succo d'arancia e una par-te di sciroppo di albicocca.

— Eccomi! — dissi. Poi vidi gli altri. Sally Reine, in abito verde scuro, agitò una mano verso di me, restando-

sene sprofondata in un'ampia poltrona. Teneva un sopracciglio più alto dell'altro e bilanciava un bicchiere sul palmo della mano.

— Mio adorato! — mi salutò. — Venite a sedervi vicino a me. Penso che siate un povero scrittore da poco, ma mi piace il taglio dei vostri capel-li. Oh... Conoscete il signor Gallivan, vero?

Anche Gallivan doveva rappresentare una sorpresa: l'abito da sera era perfetto e dava grazia anche alla sua figura dinoccolata. Era rasato e im-brillantinato, con un sorriso cortese fisso sul viso da Pulcinella. Inghiottì il cocktail d'un colpo, spalancando la bocca come un pescecane che stia per inghiottire un merluzzo. Mi chiesi per un attimo se non avesse inghiottito anche il bicchiere... Il sorriso riapparve ancora.

— Non scervellatevi, amico mio! — esclamò agitando un dito ammoni-tore verso di me. — Scommetto che vi state chiedendo dove sono andato a scovare questo vestito... Ve lo dico; l'ho preso in affitto da un rigattiere di Coblenza. I Gallivan sono sempre stati assai poetici... io...

— Sì! — urlò Sally Reine. — Ho capito. Dovete essere un tipo capace di fare le cose più sensazionali! Datemi da bere!

— Io possiedo tutte le virtù sociali — continuò Gallivan. — Le ho impa-rate leggendo la pubblicità sulla stampa, roba come... "lavoro mentre voi dormite"... Nonostante ciò, tuttavia, la scorsa settimana stavo per perdere la mia ragazza perché non conosco una sola parola di latino. Come ho fatto ridere tutti, quando mi sono offerto di recitare qualcosa! Ma le loro risate si mutarono in ghigni meravigliati, quando dissi quattro libri interi dell'E-neide, a memoria. Questo fa sì che i miei amici si sentano molto onorati quando metto piede in casa loro... So anche che non devo mai apparire in pubblico senza calzoni né ridere in faccia alla padrona di casa. So suonare il sassofono, prendere impronte digitali, o fare tutte le cose utili ai funzio-nari pubblici. Io...

— Oh, vi prego... Siate sensibile e chiudete la bocca — esclamò Isobel D'Aunay. — Tenete, bevete un cocktail. Non è divertente quello che dite.

— Voi leggete le riviste... — cominciai. — Anch'io — mi interruppe Sally. — Il mio vecchio genitore se ne fa

venire a fasci dall'America. Mi piacciono le storie poliziesche, anche se i personaggi non possono imprecare, ma solo esclamare di tanto in tanto

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"Santo cielo!". È bello vedere come un indurito ricattatore possa diventare un caso patologico sotto la penna di uno scrittore...

Si fermò a un tratto. Jerome D'Aunay era entrato nella stanza. Stavo per prendere un cocktail dalle mani di sua moglie, quando lui entrò, e potei sentire che tremavano leggermente. Gli occhi di Isobel si posarono sulle sue spalle nude, poi ancora su di me e parvero all'improvviso privati di o-gni vitalità, ma non intimiditi. Capii che ormai non aveva più paura di lui.

— Buonasera, mia cara — disse D'Aunay in francese. — Sei bella sta-notte...

Sorrise, il pericolo di una scenata che noi tutti ci eravamo aspettato, sva-nì. Lei rispose freddamente in inglese:

— Grazie. Vuoi qualcosa da bere? L'effetto delle parole parve piacerle, perché una leggera vampa di rosso-

re le salì alle gote. Si voltò a guardarsi in giro compiaciuta. D'Aunay si av-vicinò a lei per prendere il cocktail e Isobel gli dedicò un sorriso appena accennato. L'uomo si inchinò cortesemente. Pensai che non avevo mai vi-sto una donna tanto di classe e quel mio pensiero mi sorprese. Mi affrettai a presentare Gallivan. Vidi una luce strana apparire negli occhi del giorna-lista, quando il suo sguardo si posò su D'Aunay. I due uomini si scambia-rono inchini compitissimi. D'Aunay sembrava perplesso.

— Ci siamo già visti da qualche parte? — chiese aggrottando le soprac-ciglia.

— Credo di sì... ma non ne sono certo. — Mah! — borbottò il milionario. — Forse no. Mi ricordate qualcuno,

forse. Ma non riesco... — Cocktail? Cocktail? — urlò la voce della duchessa dalla porta. Balzò

nella stanza, stretta in una gonna di taffetà nero che la imbustava tutta, formando dei cuscinetti di grasso nei punti più impensati. Pareva che la collana di perle stesse per strozzarla da un momento all'altro. Si era petti-nati i capelli con una crocchia che pareva una torta matrimoniale.

Il suo ingresso portò un'altra folata di agitazione. Tutti si misero a chiac-chierare insieme e il posto ora pareva una bolgia. Il rumore dei bicchieri che tintinnavano urtandosi ritmava tutti i discorsi. Lo "shaker" era abba-stanza capace, ma bisognava riempirlo di continuo. I ritratti di Myron Ali-son ci guardavano gravemente dalle pareti.

Entrò Dunstan, un poco imbarazzato, non sapendo neppure dove mettere le mani. Il suo sguardo corse a Sally Reine, che era seduta sul bracciolo della mia poltrona, anche se pochi attimi prima era compostamente adagia-

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ta in una poltrona ben distante. Allora vidi D'Aunay avvicinarsi a Dunstan per salutarlo affettuosamente, sardonicamente, cosa che lo rese ancora più infelice e imbarazzato. Il giovane cercò di incontrare gli occhi di Isobel senza riuscirci. La signora D'Aunay stava ingollando un altro bicchiere di liquore.

Ricordo con chiarezza che pensai: "Questa compagnia, prima o poi, sarà completamente ubriaca. La signora D'Aunay dovrebbe stare attenta a quel-lo che fa!".

Ancora ebbi la visione di una nave fantasma che scivolava lentamente fra la nebbia e l'oscurità.

Sally Reine mi pizzicò un orecchio e si avvicinò ancora di più a me per bere un sorso dal mio bicchiere.

— Non mi prestate la minima attenzione! — cinguettò poi. — Eppure non avreste da pentirvene più tardi.

Bencolin e von Arnheim apparvero in quel momento sulla porta. Il tede-sco era inappuntabile, selvaggiamente felice, con gli impercettibili baffetti biondi tanto lisciati e arricciati da farlo sembrare un gatto sornione, attento e felice davanti alla buca di un topo. Bencolin, Mefistofele in sparato can-dido, offrì con un inchino una sigaretta al suo rivale. L'altro accettò sorri-dendo, mormorò qualcosa e Bencolin gli rispose annuendo.

Si avvicinarono al tavolo per prendere i cocktails. Parevano muoversi come delle marionette. La tensione si era impossessata anche di loro, fi-nalmente! Toccarono i bicchieri con solennità.

— Sentite, caro — esclamò Sally Reine. La sua voce era leggermente stridula, sotto il tono volutamente spensierato. — Stasera dovete occuparvi di me senza un attimo di distrazione! Non voglio sembrare una zitella...

La duchessa ci passò vicino in una scia di profumo penetrante. Vicino a lei, Gallivan stava raccontando una barzelletta sugli scozzesi.

Finalmente Dunstan era riuscito a sedersi vicino a Isobel D'Aunay. Par-lavano pianissimo fra loro, ma con evidente imbarazzo. Sarei stato pronto a giurare che si scambiavano opinioni sul tempo. Bencolin e von Arnheim riempirono di nuovo i bicchieri. Sperai sinceramente, per la gloria della polizia berlinese, che l'asso dei detectives non si sbronzasse prima del tempo. Una notte, in un bar di Londra, avevo visto una titanica gara fra Bencolin e un gentiluomo inglese dalla faccia rossa che si chiamava Bloo-gey, o almeno così diceva, perché quando lo riportammo a casa ci accor-gemmo che era Lord Qualcuno o il Primo Lord Qualcuno-di-Qualche-cosa. Era comunque noto in tutta l'Inghilterra come il più forte bevitore del

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regno. E Bencolin lo aveva battuto. La strana barca, col suo carico eterogeneo, stava per salpare. Mi parve

quasi di udirne la sirena, ma mi accorsi che era la voce della duchessa. — Sentite un po', branco di ubriaconi! — strillava la voce roboante della

mastodontica donzella. — Ho preparato una bottiglia di cocktail da bere durante la traversata. Cosa ne dite, ora, di andare?

— Ottima idea! — esclamò D'Aunay, che se n'era stato a osservare il gi-radischi portatile quasi come se il suo funzionamento fosse di vitale impor-tanza per lui. — Ho fame! Ci siamo tutti?

C'era qualcosa nella sua voce che destò l'attenzione generale. Le parole "Ci siamo tutti" erano abbastanza innocenti, ma il tono insi-

nuante gelò per un attimo la confusione della sala. Sally Reine aveva spor-to il corpo sottile sul bracciolo in modo da nascondermi la vista di D'Au-nay, ma il suo tono mi aveva fatto scorrere un brivido lungo la spina dorsa-le. Isobel e Dunstan erano seduti vicini e il tappeto persiano su cui stavano era tutto arruffato, a causa del movimento nervoso dei loro piedi. Bencolin era vicino al tavolino che reggeva i bicchieri al fianco di von Arnheim. Il barone rimase col bicchiere a mezz'aria, e Gallivan restò chino sul braccio-lo della sedia della duchessa, con in mano una copia del suo libro: "Leg-gende del Reno".

Silenzio. Qualcuno rispose: — Tutti, tranne Lavasseur. Come una risposta educata e tempestiva, ci giunse una lunga nota di vio-

lino. Trillò un poco, poi cominciò a suonare un motivo saltellante. Ogni nota batteva con il ritmo di un ballo sui tacchi, reso un po' enfatico dall'a-bile lavoro di dita del violinista. Stava suonando "Amaryllis".

Posando il bicchiere con violenza, Sally Reine lo ruppe. Per la prima volta nella serata ci rendemmo conto che stavamo trangugiando cocktails e parlando di cose futili per non pensare a cose ben più orribili. Anche von Arnheim posò il bicchiere con violenza, facendolo tintinnare sul piano di cristallo del tavolino.

Dunstan sbottò: — Ma dico! — Era una protesta incoerente, ma nessuno di noi ebbe il

coraggio di aprir bocca. Non posso ancora spiegarmi cosa spinse Lavas-seur a suonare quel pezzo proprio in quel momento.

Le porte scorrevoli della libreria si aprirono lentamente. Entrò Lavas-seur, freddo e impeccabile come sempre. Sorrise. Anche questo aumentò la mia tensione nervosa. Le luci si riflettevano sui suoi lucidi capelli neri, sul-

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l'anello di smeraldo, che brillò al suo gesto di scoramento. E il pezzo fatale stava ancora spandendo le sue note...

— È un disco di Heifetz — disse chiaramente — suonato su un Victrola ortofonico nella sala della musica. L'ho messo su io stesso, per dimostrare che non ho niente a che fare con il delitto.

Avanzò un poco, col viso bruno voltato verso D'Aunay. — C'è gente — continuò — che soffre di un senso troppo spiccato del

melodramma. Questo pomeriggio, il signor D'Aunay ha avuto l'impruden-za di dirmi che io ero provvisto di un alibi perché dietro una porta chiusa avevo azionato un grammofono mentre facevo... certe cose. — Fece un ge-sto sprezzante, poi rise. — Ma dato che sapevo quanto gli piacciono le fac-cende melodrammatiche, non ne rimasi sorpreso. Passo sopra all'ovvia im-becillità della cosa, passo sopra all'insulto che mi si fa credendomi capace, anche se per commettere un delitto, di ricorrere a un espediente tanto sciocco. Passo sopra persino al fatto che anche un Victrola non può conti-nuare da solo a suonare per ore e ore...

"Ma... — proseguì indicando la porta aperta — voglio anche dimostrarvi che chi può credere una cosa simile non ha la minima conoscenza della musica. Ascoltate e vi renderete conto della differenza. Sentirete il piano che accompagna il violino... E ora, qualcuno vuole essere tanto gentile da offrirmi un cocktail?"

Sorrise ancora a tutti i presenti. Non c'era bisogno di sforzarsi per sentire la differenza a cui Lavasseur

aveva accennato, ma ognuno di noi segui la musica con la massima atten-zione. Sono sicuro che un simile dubbio potesse essere stato nella mente di molti, in principio, e Lavasseur li aveva sconfitti tutti con una sola batta-glia.

Rimanemmo in silenzio. D'Aunay rimase immobile, senza espressione come una sfinge, ma le sue

dita erano tanto contratte da mostrare le nocche bianche. Isobel si alzò e offrì sorridendo un cocktail a Lavasseur.

Il violinista lo prese, facendo brillare di nuovo l'anello contro la luce e fissandoci tutti dalla sommità del calice, mentre beveva.

16

Ora la stranezza della cosa si era completamente impossessata di me. Rimasi immobile sui bastioni del Castello del Teschio, a testa nuda sotto

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la brezza fresca. In linea retta con la galleria, dagli archi che parevano den-ti, erano state aperte delle porte che non avevo notate durante la mia prima visita. Porte di ferro laccate di grigio, dello stesso colore delle pareti, che non avevamo potuto individuare alla luce delle torce. Porte che aprivano un nuovo mondo, come mi ero reso conto quando l'intera compagnia era arrivata al castello, pochi minuti prima...

Ripensai alla veloce traversata del fiume sul motoscafo, allo strano con-trasto della pellicola bianca di Sally Reine contro il mio cappotto, alle scarpette dorate di Isobel D'Aunay, alla luna alta che accarezzava l'acqua. E soprattutto la mia mente era occupata dalla visione del Castello del Te-schio, che pareva spiarci, dalla sua altezza, con gli occhi dalle luci purpu-ree.

Pazzia! Sopra al rombo del motore, avevo sentito la voce della duchessa cantare:

"... e per molti soffiò un vento selvaggio..." Un altro motoscafo aveva iniziato la sua misteriosa traversata. C'erano delle lampadine che si agitavano, dall'altra parte del fiume, sul-

l'imbarcadero. Qualcuno aveva nominato lo Stige e le donne avevano cal-zato le soprascarpe di gomma sui sandaletti leggeri da sera per potersi ar-rampicare con più facilità sul sentiero della collina.

C'era stato spreco di risate, di chiacchiere, di brividi, e di terrore... Attorno a me, sui bastioni, ora ardevano delle lanterne. Potevo vedere in

basso l'uniforme grigioverde e l'elmetto di un poliziotto. Mi voltai ed en-trai nell'atrio centrale, che avevo visto quando le porte grigie vennero aper-te. L'ingresso con la finestra dai vetri colorati e con la scalinata ricurva mi pareva ora solo una stanzetta, in confronto al resto.

Il nuovo atrio era enorme, ma severo. In fondo c'era un'ampia scala divi-sa in due rampe aggrappate al muro che culminavano in una loggia. Il pa-vimento e i gradini erano ricoperti da uno spesso tappeto scuro. Delle can-dele erano accese nei bracci a muro su nella galleria, ma da basso non c'e-rano luci. Alla sommità della scala, contro la parete, una serie di armature italiane del quindicesimo secolo, tutte intarsiate e dorate. La luce ondeg-giante delle candele traeva barbagli dalle visiere degli elmi.

Rabbrividii, salendo la scalinata. Notai che di giorno l'atrio doveva prender luce solo dalla finestra dai vetri gialli, che costituiva il naso del te-schio, davanti alla quale pendeva ora un enorme lampadario carico di can-dele appeso al soffitto mediante catene. Un posto troppo vasto, troppo mi-sterioso, che suggeriva l'immagine di uno spettro dai capelli rossi.

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Vicino a un'armatura, nel corridoio, qualcosa si mosse. Sobbalzai. — Vi stavo cercando — disse Sally Reine. — Sono tutti di sopra...

Stanno ubriacandosi, penso. Sembrava molto piccola, all'ombra della grossa armatura. La luce pallida

si rifletteva stranamente sulle sue labbra dipinte. Mi guardò con i grandi occhi cupi. Aveva in mano due bicchieri. Me ne porse uno. Ingollai il Gol-den Down, che mi riscaldò piacevolmente.

— È finita — mi sussurrò. — È ubriaco e me l'ha detto. Io... non credo che me ne importi molto, in fondo.

Posai il bicchiere sul piedistallo dell'armatura e presi il viso di Sally fra le mani:

— Va' piano — sussurrò. — Non voglio rimanere scottata un'altra volta. Mi sentii all'improvviso un mascalzone. Non potevo scherzare con quel-

la ragazza. Nonostante i suoi modi era maledettamente onesta. — Andiamo di sopra — mi limitai a dire. Ancora fughe di scale, una stanza che sembrava una sala da pranzo, poi

emergemmo nel locale che formava la parte superiore del teschio. Sen-timmo dei rumori. Rumori che dicevano tutta l'intensa falsità che ognuno si era imposto nell'attesa. Il soffitto era di vetro, a cupola, sorretto tutt'in-torno da esili colonne d'ebano. Il pavimento era nero, con cerchi di mosai-co dorato, al centro dei quali erano raffigurati i segni dello Zodiaco. Non potei distinguere bene quei segni, però, perché erano quasi interamente ri-coperti da pelli di animali che fungevano da tappeti, proprio come in came-ra di Alison. E ogni animale aveva la bocca spalancata e mostrava il palato rosa, con i denti affilati per un cibo che non sarebbe mai arrivato. Gli ospiti vi camminavano sopra, in ogni direzione. Quattro immensi lampadari cari-chi di candele e appesi al soffitto, facevano brillare le zone nere del pavi-mento, ma nonostante quelle candele accese, la stanza non era molto illu-minata.

Isobel D'Aunay e Lavasseur sedevano vicini su un divano alla turca al centro della stanza. Stavano versando del liquore da una grossa fiasca di vetro purpureo e Lavasseur, evidentemente molto più contento, la stava ri-coprendo di complimenti. La donna rideva, rossa ed eccitata, dicendogli di finirla. Nonostante tutto, era l'unica che pareva divertirsi veramente. Dun-stan, con un bicchiere in mano e un'espressione corrucciata, stava guar-dando in giro per la sala; pareva stesse cercando qualcosa, ma certo nean-che lui sapeva di cosa si trattasse.

Qualcuno cominciò a strimpellare un pianoforte nell'ombra. E in modo

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terribilmente maldestro, anche. Alcune voci si alzarono a cantare entusia-sticamente una canzone. Erano le voci di Bencolin, Gallivan e della du-chessa.

"Oh, il generale ha preso la croce di guerra, sissignor! "Il generale ha preso la croce di guerra, sissignor!" Non avevo mai visto Bencolin abbandonarsi con tanto entusiasmo a un

atteggiamento simile, specialmente in un momento come quello. Mi chie-devo quale disegno — c'era sempre uno scopo in quello che faceva — a-vesse in mente. Le voci spiegarono, con molto sentimento, cosa ne pensa-vano del generale e raccontarono alcune stranissime avventure biologiche di una tale gentildonna di Armentières.

Mi domandai a cosa avrebbe portato tutto quello, prima o poi, e decisi che avevo bisogno di un altro bicchiere di liquore. In un angolo, vicino a una candela posata su un tavolinetto, vidi von Arnheim starsene con le braccia incrociate, immobile.

Sally Reine usci in un gridolino deliziato e corse verso il gruppo che era attorno al piano.

Mi avvicinai a von Arnheim e ancora una volta rabbrividii. La sua e-spressione era fredda, aggressiva, vigile. I suoi occhi verdi giravano len-tamente per la stanza. Cosi immobile vicino alla candela, contro una parete ricoperta di seta, era miglia e miglia lontano da tutto quel rumore. Sentii lo stridente contrasto fra le voci rauche, attorno al piano e a quel vigile poli-ziotto teutone. Il suo assurdo ciuffo biondo era pettinato liscio sul cranio. Avevo quasi paura di lui.

All'improvviso, una curiosa, terribile idea, si impossessò di me. — Il vostro ricevimento, barone von Arnheim — gli dissi — pare avere

molto successo... Voltò la testa lentamente. — Ha già avuto molto successo nel poco tempo che siamo stati qui —

mormorò cortesemente — e ne avrà ancora di più prima che la serata abbia termine.

D'un tratto, silenzio. Dunstan ci passò vicino, reggendo il bicchiere con cura. Si fermò sulla testa di una tigre, la esaminò gravemente, poi continuò il suo cammino. Ancora un chiasso indiavolato mi assordò le orecchie; stavano cantando di nuovo. Dunstan tornò verso di noi. Si fermò e disse, molto distintamente:

— Il "Bel Danubio blu". Poi si riallontanò.

Page 111: Sfida Per Bencolin

Von Amheim, l'unico nella stanza, cominciava a darmi terribilmente ai nervi. Qualcuno aveva lasciato un bicchiere colmo di liquido verdastro su un tavolinetto. Lo assaggiai. Era Pernod. Lo bevvi. Von Arnheim continuò a studiare la stanza, con le braccia incrociate.

— Adesso vi dico una cosa! — Era la voce di Gallivan sul chiasso gene-rale. — Abbiamo cinque nazioni rappresentate qui, stasera. Belgio, Inghil-terra, Francia, Germania e Stati Uniti. Adesso canteremo gli inni nazionali! Signor Bencolin, siete l'unico con una buona voce, qui dentro. Siate genti-le, dateci il tono. Sul "Die Wacht am Rhein!".

Qualcuno applaudì. Vi fu un incerto accordo di pianoforte. Poi sentii Lavasseur urlare nell'orecchio di Isobel D'Aunay:

— Squisita! Incantevole! Poi un accordo più sicuro ridette dignità al pianoforte. Mi guardai intor-

no. — Be' — esclamai. — Se siamo già a questo punto prima di mangiare...

A proposito, non è l'ora? — A minuti Hoffmann verrà a dirci che è pronto — sorrise von Ar-

nheim. — Penso che siamo tutti affamati. — Guardai in giro per la sala e mi ac-

corsi che mancava qualcuno. — Ma... Dov'è il signor D'Aunay? Ancora i freddi occhi verdi si posarono su di me. Von Arnheim mi fissò

gravemente. — Il signor D'Aunay — disse — non prenderà parte alla cena. — Non prenderà parte alla cena? Una orribile sensazione mi strinse la gola, mentre il tedesco annuiva in

modo pensieroso e impersonale. — No — sillabò con voce tranquilla. — D'Aunay è morto. Faccio una pausa, perché allora ci fu veramente una pausa nei miei pen-

sieri, persino riguardo ai suoni e alla vista; un'impressione simile a quella che devono provare i condannati a morte quando la ghigliottina cade sul loro collo. Lo stomaco mi saltò in gola e la vista mi si offuscò. La prima cosa che vidi dopo, fu il ciuffo biondo di von Arnheim e sentii alcune voci rauche cantare in coro la "Brabançonne".

— Vi prego di mantenere il più assoluto riserbo — disse il barone. — Nessuno deve saperlo.

— Volete dire — mormorai, cercando di mantenere la voce ferma — che c'è stato un altro ass...

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— No. Colpa del cuore, che pare sia sempre stato debole. Ho fatto una piccola prova su di lui. Non mi aspettavo che potesse avere simili conse-guenze.

— Ma come... quando? — Abbassate la voce. Nessuno deve saperlo. Andremo avanti con la fac-

cenda e troverò una scusa per giustificare l'assenza di D'Aunay. Prima di prendere il caffè vi servirò l'assassino...

— Allora D'Aunay non era... Voglio dire, non era lui il colpevole? — Non della morte di Alison, no. Non dite niente, capito? Il corpo è in

un'altra stanza, coperto. Lo diremo loro più tardi. Se ne andò. L'idea non mi andava giù: stavamo per sederci a consumare

un pasto allegro, con un "coperto" in un'altra stanza. "Coperto"! Che tipo meticoloso, quel von Arnheim! Dopo che dal soffit-

to di vetro era volata un'anima, mentre il piano strimpellava e le voci tuo-navano, ancora i bicchieri tintinnavano e la voce di Lavasseur urlava "A-dorabile! Squisita!".

Il grande finanziere, l'uomo che teneva in pugno la Borsa, era divenuto silenzioso come un orologio troppo stanco.

Ma era "coperto". La dannata parola continuava a tornarmi alla mente. La Borsa di Bruxelles sarebbe impazzita, occhi iniettati di sangue avrebbe-ro seguito il ticchettare dei telegrafi, valanghe di azioni sarebbero state ri-versate sul mercato, ma per il momento il cadavere del grande finanziere non doveva interrompere la letizia del nostro pasto!

Sarebbe rimasto "coperto". Mi sentii quasi svenire. Mi avvicinai al tavolino carico di bottiglie. Cer-

cai quell'incomparabile elisir di vita che chiamano Pernod. Trovai la botti-glia, il bicchiere e il ghiaccio in cubetti. Guardai le etichette: Amourette, Amer Ricon, Dubonnet, Birra... C'era una bella scelta! Non saremmo mai morti di sete. All'improvviso restai a bocca aperta.

Appoggiato a una delle bottiglie c'era un ritratto. Maleger! La faccia pa-reva sogghignare al mio indirizzo. Lo riconobbi subito, anche se non l'ave-vo visto che una sola volta, da bambino, durante uno spettacolo teatrale. La fotografia incorniciata era là, con Maleger dai capelli rossi e una donna vicino. Ricordai cosa aveva raccontato Gallivan su un'amica del mago e un figlio che loro due avrebbero avuto. La sua amica... un bel viso aggressivo, con i capelli neri pettinati alti secondo la moda di quel tempo. Durante la giovinezza, dunque.

Trasalii. C'era qualcosa di familiare in quel viso di donna. Un bambino...

Page 113: Sfida Per Bencolin

un bambino... un bambino che somigliasse a sua madre... Quel viso mi ri-cordava qualcuno visto da poco. Il figlio di Maleger cresciuto. Ero certo che si trattasse di qualcuno nella stanza. Uomo o donna? La mia mano tremava, quando posai il bicchiere. Mi chiesi come mai la fotografia polve-rosa si trovasse là. Qualcuno l'aveva riportata alla luce...

Dunstan mi passò vicino. Mi fissò con occhi assorti, chiedendomi con voce impastata se fossi ubriaco. Lui era ubriaco e lo dimostrava chiara-mente.

Cercai di levarmelo dai piedi, ma non fu soddisfatto finché non mi ebbe visto tracannare un enorme bicchiere di cocktail, seguendo ogni mio gesto con sguardo critico. Finalmente annuì e si allontanò.

Ricominciai a pensare a quella fotografia, ma quel terribile Pernod aveva cominciato ad agire sul mio cervello. Ormai tutti erano intorno al piano, persino Lavasseur, e io ero solo davanti alla messe di bottiglie. Il viso di Maleger, con l'alone dei capelli rossi scomposti, mi fissava. Mi ritornarono alla mente la parole di un vecchio libro: "Sono Abadone, Signore delle Te-nebre. Anche se riusciranno a distruggermi, la mia immagine rivivrà in un altro, la cui mano sarà abile nel colpire e guiderà le fiamme e i tuoni verso le strade segrete che conducono alla Morte...".

— Ubriaco la scorsa notte — cantò una delle voci intorno al piano. — Ubriaco anche la notte precedente. Ubriachiamoci anche stanotte perché poi non mi ubriacherò più!

Ma non erano ubriachi. Me ne accorsi quando Hoffmann venne ad av-vertirci che il pranzo era servito. Tranne Isobel D'Aunay e Dunstan, tutti erano solo piacevolmente euforici. E carichi di eccitazione. Perfino la mo-glie di D'Aunay, con tutto quello che aveva ingurgitato, si comportava ab-bastanza bene. Stava mettendo in mostra talenti non immaginabili, quella notte. Era graziosa e sofisticata, e la sua bellezza pennellava di esotico o-gni discorso, anche futile.

E fra poco avrebbe saputo che suo marito era morto. — Sono molto spiacente — stava dicendo von Arnheim — ma il signor

D'Aunay non cenerà con noi. È stato improvvisamente chiamato al telefo-no da una città molto lontana...

Una scusa, pensò, che poteva sembrare abbastanza vera. Guardai il viso di von Arnheim, mentre spiegava soavemente la cosa e

vi assicuro che non era piacevole. Nessuno fece commenti. Dovevano pen-sarla tutti come me, sulle abitudini dei magnati dell'industria e la faccenda non li meravigliò troppo. Cercai di ricordarmi quando avevo visto D'Au-

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nay per l'ultima volta, quella sera. Mi parve che fosse stato, quando l'avevo guardato passeggiare nel corridoio delle armature, al fianco di von Ar-nheim, che gli stava dicendo qualcosa in modo gioviale, con un braccio in-torno alle spalle. La sala da pranzo era proprio quella che avevo intravista nel salire, al piano inferiore. Vi si accedeva per un breve corridoio tappez-zato di blu, pieno di dipinti di grande pregio. Vidi una "Venere dormiente" del Correggio, la perduta "Saffo" di Rubens e molti nudi classici dei mi-gliori pittori di tutte le epoche.

Poi, attraverso porte di ferro, entrammo nella sala da pranzo. Nera! Ma le finestre ovali dai vetri purpurei e i drappeggi di velluto color sabbia in-terrompevano il colore funereo delle pareti, che si inarcavano verso il sof-fitto. Dai lampadari di ceramica azzurra a forma di draghi, le candele span-devano la loro luce incerta sulla tovaglia candida, sull'argento, sulle por-cellane di Sèvres e sul vaso pieno di fiori scarlatti al centro della tavola. Alcuni bruciaprofumi ai quattro angoli della stanza facevano salire al sof-fitto volute di fumo odoroso di legno di sandalo.

Il tavolo era ovale, preparato per dieci persone, con i posti così distribui-ti:

Von Arnheim Io Bencolin Sally Reine Isobel D'Aunay Gallivan Dunstan Lavasseur D'Aunay La duchessa

Nel silenzio che in genere accompagna l'inizio di tutti i pranzi, comin-

ciammo a mangiare. Notai che il vaso di maiolica azzurra in mezzo al ta-volo conteneva, fra tutti i fiori, dei papaveri! Semplici papaveri!

La tavola era illuminata da un piacevole chiarore. Bencolin fissava il suo caviale con aria distratta, Isobel D'Aunay si guardava attorno con i grandi occhi umidi, e finiva per posarli sempre con aria timida su Dunstan. Ma Dunstan, con un ciuffo di capelli sulla fronte, contemplava con aria assorta il bicchiere del vino. Con una mossa da gladiatore, la duchessa sciolse il tovagliolo, guardando con occhi disgustati l'imperturbabilità di Lavasseur. Non potevo vedere la faccia di Gallivan, ma le sue mani che giocavano nervosamente con l'argenteria parlavano per lui.

— Guardate! — urlò Sally Reine, così all'improvviso che noi tutti sob-

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balzammo. — Guardate, vi dico! Mi pare un po' troppo! Stava indicando il centro del tavolo, vicino al vaso di papaveri. Per la

prima volta notai una grossa torta di zucchero candito con dei grotteschi arabeschi di non-ti-scordar-di-me. E al centro della torta, sempre in zuc-chero candito, una forca. Sì, era veramente un po' troppo! Mi resi conto del silenzio che era caduto sulla stanza. All'improvviso il colletto mi parve di-ventato troppo stretto. Il profumo di legno di sandalo aveva reso l'aria irre-spirabile. I miei occhi corsero dal sorriso sornione di von Arnheim alla se-dia vuota alla destra della duchessa, una sedia con lo schienale alto, rico-perta di cuoio spagnolo, dove avrebbe dovuto prendere posto Jerome D'Aunay.

Isobel D'Aunay scoppiò a un tratto in una risata. Appoggiò le braccia bianche sul tavolo e si guardò attorno divertita.

— Ma non capite, miei cari? — esclamò. — Io sono quella che cercano. Certo! Sono io la colpevole. Ho ucciso anche Jerome, ecco perché non è qui...

La tensione fu rotta. Non so se avesse parlato sotto l'influsso dei co-cktails o per distrarci, in ogni modo tutti risero e ricominciarono a chiac-chierare. Lavasseur, in un bagliore di denti bianchi, ci mostrò le lunghe mani affermando che con esse aveva commesso il delitto e aveva gettato Jerome D'Aunay giù dai bastioni, perché, ci assicurò, aveva avuto le sue buone ragioni. La duchessa disse che lo aveva sempre pensato e chiamò me come testimone.

La sedia di D'Aunay rimase vuota a guardarci. Tutti pensavano che fosse un bel gioco, riuscire a immaginare D'Aunay

morto. I grandi signori della Borsa non muoiono mai, come gli arcangeli... Arrivò il brodino di pollo. Delizioso, se fossi riuscito a mangiarlo, ma

con quella sedia vuota mi fu impossibile. Il vino servito con il primo piatto era Montrachet 1915. Il pranzo diventò un lungo andirivieni di sguardi cu-riosi fra il luccicare delle bottiglie che scintillavano in un panorama vario-pinto. Le portate si susseguirono, mischiando l'aroma degli intingoli a quello di legno di sandalo. Con lenta voluttà, come in un bagno caldo, i nostri spiriti affogarono nel cibo. Cominciai ad avere sempre meno timore che la sedia vuota potesse essere occupata da un momento all'altro da un fantasma.

D'Aunay sarebbe rimasto in qualche stanza di questo strano castello. "Coperto."

Il rumore dei piatti divenne più forte. Arrivò il pesce; sogliole con maio-

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nese. Sally Reine mi stava intrattenendo circa la possibilità di potersi in-namorare di un mollusco. Vivida, nel vestito verde, aveva gli occhi scintil-lanti.

Mi accorsi in quel momento che Dunstan parlava ad alta voce, l'indice puntato verso von Arnheim. Parlava della notte del delitto. — ... e ho visto qualcuno venir fuori dalla terra. Era un uomo, ma c'è una cosa di cui non mi sono ricordato prima. A forza di pensarci, poi...

Si picchiò due dita contro una tempia. — E ora — proseguì Dunstan — mi sono ricordato di qualcos'altro. Pos-

so dirvi una cosa: il delitto non è stato commesso da uno di noi. L'uomo che venne fuori dalla terra... non poteva essere uno di noi.

Nel silenzio irreale, Bencolin chiese: — Perché? — Perché — rispose il giovanotto in tono trionfante — quell'uomo ave-

va i capelli rossi!

17 Von Arnheim balzò in piedi. Persino quell'annuncio non gli fece dimen-

ticare che era lui che guidava il caso, che comandava la situazione. Piccola figura tozza sporta sul tavolo, con gli occhi verdi che uncinavano gli astan-ti.

— No — disse distintamente. — Il delitto non è stato commesso da uno di voi. È stato commesso da un uomo coi capelli rossi: dall'illusionista Ma-leger.

Qualcosa passò fra i presenti; non era né un gemito né un suono meravi-gliato, ma semplicemente una specie di collettivo sospiro di sollievo. La mano di Sally Reine, stretta attorno al bicchiere, tremava al punto da farlo tintinnare contro il piatto senza posa. Mi sporsi per guardare in viso Lavas-seur: era molto pallido. Aveva avuto tanta paura di essere accusato, che ora il sollievo lo aveva lasciato quasi insensibile. L'unica cosa immutata era il monocolo luccicante di von Arnheim. Rimase immobile, il barone, con le mani aperte sul tavolo. La sua voce ipnotica non ci avrebbe lasciati liberi nemmeno di voltare la testa.

— Che nessuno si muova — ordinò aspro — e non voglio che qualcuno mi interrompa, nemmeno con una sola parola, finché non avrò finito. Vi ho portati qui per mostrarvi qualcosa. Un mio amico francese, uomo molto in-telligente che tuttavia a volte può anche sbagliarsi, è, in fondo, la causa di questa riunione.

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"Io rispetto il signor Bencolin e so che anche lui mi rispetta. Ma una vol-ta eravamo ingaggiati in duelli ben più importanti di questo mistero da due soldi, e lui mi disse qualcosa che mi è sempre rimasta in mente..."

Guardò Bencolin. Il viso del francese era impassibile e i suoi occhi fis-savano la zona d'ombra alle mie spalle. Satana sotto accusa.

— Mi disse — continuò il barone von Arnheim — queste precise parole: "Amico mio, voi avete del talento, ma alla fine sbaglierete sempre perché vi manca la fantasia". Non l'ho mai dimenticato. E ve ne ho accennato per-ché la sua morale ha fatto si che riuscissi a risolvere questa faccenda piut-tosto ingarbugliata.

"Il corso di una vita — prosegui, picchiando il pugno sul tavolo — il corso del successo o della pazzia è determinato da qualche critica mossa a un nostro punto debole. Questa critica, questo apprezzamento, versano il loro veleno per molto tempo. A volte, anche dopo che chi l'ha espresso se ne è già dimenticato. I ragazzi di un'accademia militare derisero feroce-mente un goffo cadetto còrso, e così nacque l'aggressività di Bonaparte. Ridiamo dei balbuzienti, ma anche Demostene lo era, e questo non gli im-pedì di diventare ii più grande oratore del suo tempo. Gli uomini si difen-dono dalle derisioni perché temono che in fondo possano avere un fonda-mento di verità.

"Circa vent'anni fa, un illusionista di nome Maleger entrò nel camerino di Myron Alison, reduce da un nuovo trionfo, e disse all'attore che non sa-rebbe stato altro che un guitto per sempre. Era la loro consueta battaglia, quella, e Alison si creò una specie di incubo.

"Non ho bisogno di spiegarvi i dettagli — fece un piccolo gesto — ma Alison aveva già una buona ragione per odiare Maleger. Maleger invaria-bilmente vittorioso, che gli aveva rubato una fortuna in diamanti, come a-veva imbrogliato anche Jerome D'Aunay. Questo pomeriggio ho avuto l'in-tera storia da Berlino. Ma non voglio annoiarvi oltre con queste sottigliez-ze, ora. In ogni modo voglio chiarire che non fu certo la perdita del denaro a portare Alison alla pazzia, ma il continuo scherno di Maleger.

"D'Aunay era un tipo pratico: Maleger li aveva imbrogliati e loro non ne avevano le prove, 'ergo', dovevano cercare di riottenere i loro soldi. D'Au-nay era un freddo calcolatore, Alison un selvaggio squilibrato. Insieme de-cisero l'omicidio. E questo lo so, non l'ho intuito o inventato, perché non ho fantasia."

Non guardavo gli altri. La mia attenzione era troppo presa da von Ar-nheim, dal suo viso magnetico, tirato e pallido. Le grandi finestre purpuree

Page 118: Sfida Per Bencolin

erano alle sue spalle con la loro cornice di velluto color sabbia. Pareva eri-gersi come una torre.

— Studiarono uno schema di omicidio diabolico, perfetto. Una faccenda che si potrebbe definire geniale e che soddisfaceva sia la fredda logica di D'Aunay sia l'innato amore di Alison per il dramma. E dato che io non so-no dotato di fantasia, capii subito cosa doveva essere accaduto. Voi tutti conoscete i fatti. Maleger viaggiava solo in treno. E c'è un agente di polizia ferroviaria disposto a giurare che nessuno si avvicinò a luì. Scomparve e qualche giorno più tardi il suo corpo fu trovato nel fiume. Poteva trattarsi di incidente come di suicidio. Ma nessuno avrebbe mai pensato al delitto.

"Ma lo era. Molte notti prima che Maleger dovesse morire, lo rinchiuse-ro nel Castello del Teschio. Aveva sempre vissuto in modo strano; aveva sempre viaggiato in modo ancora più strano. Era sempre stato considerato tanto strano, che non uno dei suoi movimenti, delle sue assenze, delle sue pazzie, avevano mai meravigliato nessuno, neanche la sua servitù.

"Lo chiusero in uno dei tanti luoghi segreti e sconosciuti, che lui stesso aveva fatto costruire nel castello. Presero il suo orologio, i suoi anelli, gli amuleti, proprio quelli dai quali non si era mai separato. Lo stesso tenore di vita dell'uomo, il suo stesso genio, avevano permesso loro di farlo pri-gioniero del luogo dov'era vissuto.

"Capite ora chi era l'uomo che viaggiò su quel treno al posto di Maleger? Ricordate chi una volta aveva impersonato Maleger tanto bene da..."

— Mio Dio! — urlò Gallivan. — Alison! L'ho visto! Ho visto... — Alison — annuì von Arnheim. — Viaggiò solo e la finzione non do-

veva essere controllata da gente che conosceva l'illusionista, tanto più che solo Alison e D'Aunay potevano dire di conoscerlo bene, ma da una guar-dia di polizia ferroviaria e da una mezza dozzina di persone che lo avevano visto in teatro con trucco e cerone... Alison l'acrobata, che poteva facil-mente saltar fuori dal finestrino di un treno.

"Poi un corpo sottratto da una camera mortuaria o da una tomba appena scavata, già preparato con gli anelli e gli oggetti dell'illusionista, fu gettato nel Reno, quella stessa notte, da Alison e D'Aunay...

"E avevano fatto in modo che non si potesse pensare a un delitto. E il te-stamento di Maleger... Ricordate che gli eredi erano Jerome D'Aunay e Myron Alison? Vi rendete conto di come possano essere andate le cose? Bene! Se, dopo aver portato a termine il piano, avessero sepolto Maleger in modo da renderlo introvabile, sarebbero stati salvi.

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"Ma Alison non era soddisfatto. Sentiva di dover fare una cosa ben più grave, più diabolica, più pazzesca, per soddisfare quel suo senso di debo-lezza che lo portava a indossare sempre corsetto e spada sul palcoscenico. Quante volte si sarà sentito privato di qualcosa perché non poteva farlo an-che nella vita reale!"

Ancora nessuno si mosse o parlò. Persino Dunstan pareva aver riacqui-stato la sua sobrietà e guardava con gli occhi arrossati il piatto vuoto da-vanti a lui. Attraverso il tavolo, guardai Bencolin, e dalla sua espressione capii che il tedesco aveva detto la verità.

— La mia fantasia — proseguì von Arnheim — mi ha portato molto lon-tano, come vedete. Riesco anche a vedere una notte oscura sul Reno e delle figure, forse proprio in questa stanza.

"E dopo, il funerale del supposto Maleger. La bara è uscita portata da mani solenni; i cappelli di seta lasciano reverentemente scoperte le teste. Nell'aria è rimasto ancora acuto l'odore delle migliaia di fiori. E due amici addolorati hanno pagato i preti. Le tende sono state abbassate, nel castello. Ma Maleger è ancora vivo.

"I due amici aspettano. Non possono dormire finché l'ultimo inno non è stato cantato e l'ultima preghiera detta. Se qualcuno si fosse accorto di qualcosa — Maleger è ancora vivo — avrebbero detto di aver voluto fare uno scherzo a uno che di scherzi ne aveva fatti a bizzeffe, e sempre di dia-bolici. In fondo non gli era stato fatto alcun male, aveva ricevuto solo una buona lezione!

"Riesco a immaginare anche questa finestra dai vetri purpurei, gli orna-menti funerei, una sola immensa candela che illumina la scena. I servi e gli ospiti sono andati. Rimane solo l'odore dei fiori. È notte e sulle finestre ca-de la pioggia. Cosa ve ne pare della mia fantasia, ora, mio caro Bencolin? D'Aunay è seduto davanti a una bottiglia, vicino alla grossa candela. Ali-son si è offerto volontariamente di andare nel sottopassaggio a finire il la-voro.

"Così D'Aunay è seduto qui e non beve molto. Non ha bisogno di acqui-star coraggio: la sua mente calcolatrice ha già previsto tutto. Aspetta che Alison ritorni. Sente dei passi... Alison appare da quella porta e sorride. D'Aunay lo guarda interrogativamente. Alison, sempre attore, stringe le mani come attorno a un collo e mormora tranquillamente: È morto.

"Il castello è silenzioso. Si ode la pioggia sui vetri purpurei." All'improvviso, con un rumore che parve assordante, la duchessa spinse

via il piatto. Non disse niente, ma, in fondo, von Arnheim stava parlando

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di suo fratello... Vidi gli occhi affascinati di Lavasseur e la pallida faccia contratta di Isobel D'Aunay.

— Alison capisce che deve dire a D'Aunay che ha ucciso la loro vittima — proseguì von Arnheim — perché si rende conto che il banchiere vuole che Ja faccenda venga definita una volta per tutte. Ma l'idea pazzesca si è già impossessata di lui.

"È squilibrato. C'è bisogno che vi descriva come Maleger fu tenuto pri-gioniero per diciassette anni? Le visite di Alison di notte dal passaggio sot-to il Reno? La stanza nella torre, senza finestre, con un pannello scorrevole nella porta pesante? Le manette sempre bene oliate, attaccate al muro con catene di ferro? I vecchi giornali, tutti con un articolo sull'ultimo trionfo di Alison, che lo stesso Alison leggeva al prigioniero per aumentarne la tortu-ra? Il guardiano mezzo pazzo che portava da mangiare a Maleger e puliva la sua cella?

"La mia fantasia lavora ancora. Io so perché Alison lo tenne prigioniero qui per diciassette anni, perché la pazzia crebbe fino a corroderlo, invece di diminuire. Io so perché lui non finì il suo nemico con un pietoso colpo di rivoltella, sebbene certamente molte volte credo l'abbia desiderato, per liberarsi da quell'incubo. Io so perché lui rinunciò persino alla cittadinanza inglese per vivere qui durante la guerra.

"Perché non poteva finire lo spirito di Maleger! "Poteva tenere Maleger incatenato al muro come un cane, poteva rin-

chiuderlo in una cella senza luce, dargli da mangiare pane secco e rifiuti, piegare il suo corpo e rendere i suoi occhi quasi ciechi. Ma non poteva vincere la risata di scherno o il disprezzo che erano sempre la risata di scherno e il disprezzo del 'Signore della Luce'. Non poteva, neppure per un istante, trionfare su quella forza titanica.

"È notte. Delle lanterne si muovono su per le scale che conducono alla torre, formando cerchi di luce sulle mura umide. Il pannello mobile della porta è parzialmente aperto, perché attraverso la porta chiusa non si po-trebbe nemmeno udire uno che grida.

"Bauer, il guardiano, se ne sta tranquillamente appoggiato al muro e a-spetta. Alison si china attraverso il pannello aperto. Un giornale fruscia e Alison legge con le labbra pallide trionfanti alla luce delle lanterne: '... ci ha affascinato con la potenza e la regalità della sua figura... interpretazione perfetta... certamente il più grande attore dei nostri tempi'.

"Poi, da dentro la torre, un frusciare di paglia, un rumore di catene, una zaffata di puzzo insopportabile. Con una risata di scherno, Maleger sussur-

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ra: 'Ma va' all'inferno, piccolo guitto!'." Von Arnheim tacque, piegando la testa da un lato. Pareva commosso dal

suo stesso racconto e le nocche bianche sopportavano tutto il peso del suo corpo sulla tavola. Nella mia mente passò l'alta figura di Maleger, incon-quistabile...

— Kreuger! Lieber! — urlò a un tratto il barone. — Portatelo qui! Aveva steso le braccia verso un'altra porta della stanza. Tre figure stava-

no venendo verso di noi. Due di loro indossavano la divisa grigioverde e l'elmetto da poliziotto e fra loro era sorretto...

Non so cosa mi aspettassi di vedere. Per me c'era solo un'immagine: un uomo immenso con le braccia aperte,

i capelli rossi come una criniera, le mani a ventaglio, gli abiti neri... E ora che i poliziotti si avvicinavano alla luce delle candele... Involontariamente spinsi indietro la mia sedia e mi alzai. Lavasseur e Gallivan m'imitarono. Avevo una stretta alla bocca dello stomaco...

La cosa che i poliziotti sorreggevano fra loro era, penso, un uomo. Ave-vano cercato di ripulirlo e di dargli una certa rispettabilità. Indossava un abito grigio più grande di molte misure e un colletto troppo largo gli balla-va attorno al collo rinsecchito. Aveva anche un paio di scarpe nuove orribi-li. Molto nuove e molto gialle, brillanti, che ciabattarono mentre lui si av-vicinava a noi.

I capelli rossi, ora spruzzati di grigio, gli erano stati pettinati attorno alla testa e al collo ordinatamente. La faccia era giallastra, cadente, con le ma-scelle flosce e gli zigomi che parevano voler forare la pelle. Solo il naso rimaneva aggressivo, anche se un po' rilasciato e scarnito. Gli occhi erano talmente infossati che parevano fare uno sforzo per riemergere, come un insetto in uno stagno; ma non c'era più una scintilla di luce nel suo sguar-do. Continuavano ad aprirsi e chiudersi... I poliziotti lo reggevano per le ascelle, quasi con rispetto. Il suo cieco voltarsi di qua e di là, il tremolio delle sue spalle esili...

Le scarpe troppo gialle ciabattarono ancora sul lussuoso tappeto. L'uomo mugolava, voltando le guance cadenti e gli occhi spenti, da un poliziotto all'altro. Maleger l'indistruttibile, Maleger il deposto "Signore della Luce"!

Dunstan balzò in piedi con la faccia contratta e indicò la sua sedia. Iso-bel D'Aunay si scostò istintivamente. Un poliziotto avvicinò la sedia di Dunstan e l'altro vi fece accomodare gentilmente Maleger. Non protestò, ma la sua testa andò avanti e indietro, più volte, senza controllo. Lo spinse-ro accanto alla tavola imbandita, con le ricche porcellane di Sèvres, l'ar-

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genteria, il vaso di papaveri. Gli occhi opachi parevano sforzarsi di vedere quel che avevano davanti. Lentamente la sua bocca si aprì, come una fine-stra spinta dal vento. Non aveva più denti, per questo le guance erano tanto scavate, e ad ogni respiro emetteva un suono sibilante che interrompeva il silenzio della stanza.

— Non dovete aver paura di parlare — disse dolcemente von Arnheim. — La sua mente è andata e la vista anche, quasi completamente. Non sa neppure dove si trova. L'ultimo sforzo che ha fatto, quando ha trascinato Alison sui bastioni, l'ha distrutto. È stato un miracolo dell'odio se è riuscito a portare a termine la sua vendetta.

Una sorta di terrificante amabilità emanava dal viso distrutto di Maleger. Dal movimento della sua testa pareva assentire cortesemente alle parole di von Arnheim. Gli occhi spenti erano fissi sulla torta su cui c'era la bianca forca di zucchero.

Una piccola luce di interesse brillò in quegli occhi. Allungò una mano adunca con le unghie appena tagliate e le vene quasi blu nel chiarore mal-sano della pelle:

— Che bella! — gorgogliò. — Che bella! — Maleger! — disse piano von Arnheim. — Mi sentite? La testa dell'uomo si voltò lentamente verso la voce, ma lui parve chie-

dersi cosa fosse. — Che bella! — borbottò ancora, annuendo. Pareva compiaciuto. Nell'aria satura della stanza mi giunse un altro odore, un odore che non

avevo mai dimenticato, anche se lo avevo sentito una sola volta in un o-spedale di New York. Mi accorsi che il braccio di Sally Reine era attorno al mio collo, il suo viso nascosto sulla mia spalla. Stava singhiozzando, balbettando parole incoerenti. — Portatelo via! Oh, vi prego... Portatelo...

— Von Arnheim — chiesi a un tratto — ha un... — Sì — rispose il tedesco. — Ha un cancro. Non andrà mai né in pri-

gione né in manicomio. È troppo avanzato, ormai. Ancora il movimento di assenso di Maleger e lo sguardo compiaciuto. — Mio Dio! — urlò Isobel D'Aunay. — E lo lasciate sedere a questa ta-

vola? Era dietro la sedia di Bencolin, ora. Dunstan le si avvicinò e senza dire

una parola le passò un braccio intorno alla vita. Negli occhi del giovane c'era una strana luce di pietà...

— Lasciatelo solo, allora! — urlò all'improvviso la duchessa dal fondo della tavola. Aveva la bocca contratta e gli occhi fieri e aggressivi dietro

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gli occhiali. — Starà a questa tavola se io lo voglio! Hoffmann, porta del vino. Porta quanto c'è di meglio. Porta...

— È cancro allo stomaco, signorina Alison — disse gentilmente von Arnheim. — E voi non dovete aver paura di lui, signora D'Aunay. — Sor-rise. — In ogni modo, lo porteremo via fra pochi minuti.

— Molto interessante! — esclamò Lavasseur. — Voi lo vedete ora che la sua energia lo ha abbandonato completamen-

te, perché ha compiuto ciò che voleva — proseguì il barone. — Ma biso-gnerà pure che vi spieghi perché Maleger ha inscenato una vendetta tanto crudele e inumana. Alison voleva andare in scena con un lavoro teatrale che ha come personaggio centrale un condottiero cristiano bruciato dal-l'imperatore Nerone. Era la sua fissazione. Maleger lo sapeva e visse per poterlo accontentare...

Alla parola "Nerone" una luce improvvisa e satanica brillò negli occhi di Maleger. Un suono usci dalla sua gola contratta. Pareva felice.

— Maleger! — riuscì ad articolare. Lentamente gli occhi infossati fecero il giro della stanza. Pareva che nel

suo cervello si stesse svolgendo una conversazione impercettibile. Una mano corse a battergli il petto e il movimento inconsulto della testa diven-ne un annuire coerente, giustificato. Cercò di raddrizzare le spalle...

Prima che qualcuno potesse fermarlo, la sua mano scattò avanti e afferrò il bicchiere di Dunstan, pieno di Burgundy. Si rovesciò la maggior parte del liquido sul mento e sul vestito, ma riuscì a trangugiarne un po'. Adesso era in piedi, tremante, e cercava di ritrovare la sua altezza sullo scheletro instabile. Il suo sguardo era terribilmente intento, anche se il viso pareva dissolversi a poco a poco. Il colletto era storto attorno al collo. Le mani si mossero incerte...

Poi lo vide. La duchessa aveva lasciato la borsetta sul tavolo, vicino al piatto: era aperta e lasciava intravedere un mazzo di carte che lei portava sempre con sé, nella speranza di riuscire a combinare una partita a poker.

— Cosa vuol fare? — gridò Sally Reine, in modo isterico. — Fermatelo! Con uno sforzo infinito Maleger riuscì a girare intorno al tavolo. Gli oc-

chi erano fissi e il tremolio del suo corpo faceva tintinnare i bicchieri sulla tovaglia. Riuscì ad afferrare le carte...

— Maleger! — esclamò von Arnheim. Ancora un borbottio uscì dalla bocca sdentata. Si voltò, agitando un po-

co una mano. Un ventaglio di carte apparve fra le due dita e lo sguardo vuoto fu animato da una luce di trionfo. Ma solo per un istante. Le spalle

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tremanti, il ciondolio della testa, la sua presa instabile, fecero ricadere una pioggia di carte sulla tovaglia...

Le guardò, come se non capisse, per un lungo minuto, poi emise un ge-mito strozzato, come un singhiozzo. Due larghe lacrime scesero sulle guance incavate. Un collasso lo prese in quel momento. Per un attimo ri-mase in bilico, scosso da un tremito, poi scivolò lentamente attraverso la sedia di D'Aunay.

18

La duchessa, von Arnheim e io, sedevamo da soli nella sala dal soffitto

di vetro. Non so dove fossero gli altri, ma mi aspettavo di veder tornare Bencolin e Gallivan da un momento all'altro. La scena, dall'ingresso di Maleger al suo collasso, era impressa vividamente nella mia memoria. Era molto tardi. Gli orologi segnavano le due passate; qualche candela si era spenta su una massa informe di cera, e ora solo poche illuminavano la stanza con una giallastra luce incerta. Al di sopra delle ombre potevamo vedere le stelle attraverso il soffitto di vetro.

Von Arnheim se ne stava affondato fra i cuscini di un divano e fissava le stelle tra i bagliori azzurri delle colonne di ebano. Sul tavolino vicino al suo gomito aveva posato un bicchiere di cherry. Era affabile, quasi depre-cava ciò che era successo. Fumava con voluttà una sigaretta.

Con aria distratta, la duchessa mischiò il suo mazzo di carte. — Non so ancora — disse von Arnheim a un tratto — quale fosse l'idea

del mio amico Bencolin. Ma ho paura che non abbia saputo usare la fanta-sia... Da principio non ha fatto che negare la possibilità che Maleger fosse ancora vivo. Sono certo che ha cercato con tutti i mezzi di dirottarmi verso la direzione sbagliata...

Sbuffò un perfetto anello di fumo verso il soffitto, poi proseguì: — Ma qualunque cosa gli si possa contestare, è un buon sportivo. Si è

congratulato con me molto affettuosamente. "Le conclusioni non erano molto difficili. Il punto di partenza era l'uomo

che era stato visto sui bastioni con una torcia in mano; non avrebbe mai potuto correre giù dalla collina dopo il delitto, senza essere visto o udito dai due servi. Non era difficile, quindi, concludere che non doveva aver la-sciato il castello..."

Si strinse nelle spalle. — Persino la scoperta del passaggio segreto — proseguì — non ha fatto

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che rafforzare la convinzione nella mia mente. Chi, infatti, poteva sapere del passaggio meglio di Maleger, che conosceva ogni angolo, ogni spira-glio del castello? Anzi, mi forniva il pezzo mancante al mio mosaico: mi forniva il mezzo con cui era stata riportata la pistola nel soprabito che era nell'armadio di Alison. Vi ricordate che questo pomeriggio abbiamo senti-to muovere qualcuno in quella stanza, ma quando siamo entrati non c'era anima viva? Naturalmente doveva trattarsi di Maleger. Subito dopo attra-versai il fiume per trovare l'altro ingresso del passaggio e con l'aiuto di di-versi poliziotti ci riuscii senza troppe difficoltà.

"Si trova sotto un masso di pietra ben nascosto fra le fronde dall'altra parte del fiume. Ci sono dei gradini che scendono a un passaggio ad archi di pietra sotto il Reno, che in quel punto non è molto profondo. Ma quanto lavoro richiedevano quelle costruzioni nel quindicesimo secolo! Il pas-saggio era pieno di mota e fanghiglia. Quasi ai piedi della scala trovai Ma-leger svenuto. Era stremato e non ha detto due parole coerenti; il medico della polizia mi ha assicurato che non vivrà più di una settimana."

— In ogni modo — lo interruppe la duchessa — giacché vive, avrà le migliori cure. Mio fratello era... — intrecciò le mani e guardò le carte stringendo un labbro fra i denti. Fece un gesto come per scacciare degli i-nutili sentimentalismi. — Un momento! Siete arrivato fin da questa parte del passaggio? Avete scoperto perché questo pomeriggio non siamo riusci-ti a trovare la porta?

— Non ne ho avuto ancora il tempo, per sfortuna. Ero troppo preso dal-l'interrogatorio di Maleger. Inutile, purtroppo... Ma... — esitò.

— Be'? — chiesi. — C'è una cosa strana che ho notato sotto il passaggio. Il suolo, come

potete immaginare, è tanto fangoso che ci si affondano quasi i piedi. Ho trovato le impronte di Maleger, ma molto più in avanti, quasi vicino all'al-tra riva del fiume, ho visto una specie di torta di fango, come se Maleger si fosse sforzato di cancellare le sue orme con una scopa.

— Una scopa? — esclamai, allibito. Voltò la testa lentamente. — Perché, signor Marle? Una scopa, sì. Ci trovate qualcosa di strano,

voi, in una scopa? — No, oh, no! — mi affrettai a dire. — L'ho usata anch'io, qualche vol-

ta. Volete continuare? — Ho trovato anche tre bossoli di proiettili esplosi con la Mauser. Logi-

camente sono stati sparati nel passaggio sotto il fiume. La sequenza degli

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eventi è chiara, direi. In qualche modo Maleger è riuscito a trovare l'occa-sione propizia per scappare. Non sapremo mai come. Forse il guardiano ha rallentato la vigilanza per un po' di tempo o forse ha lasciato una porta a-perta... Il teschio del guardiano, come ricorderete, presentava segni di per-cosse, lasciate prima che i proiettili lo colpissero. È presumibile che Male-ger lo abbia assalito alle spalle, lasciandolo in stato di incoscienza.

"L'illusionista deve aver meditato a lungo quella fuga e la vendetta. De-ve aver sperato per lunghi anni che sarebbe arrivato il momento adatto. Così, appena libero, si inoltrò per il passaggio segreto che conduceva alla casa del suo nemico..."

— Un momento! — lo interruppi. — Ci sono due passaggi segreti, no? Uno che conduce dal castello ai piedi della collina e uno che dai piedi della collina passa sotto il fiume.

Von Arnheim annuì, sorseggiando il suo liquore. — Ricordate — mi chiese — il passaggio fra le pareti, quello con la fi-

nestra che Bencolin... che noi scoprimmo la notte in cui fu trovato il corpo del guardiano? L'entrata del passaggio che porta dal castello ai piedi della collina è nel ripostiglio della stanza del guardiano. Maleger scese per le scale fra le pareti, fu lì che trovò il bidone di petrolio, fino al ripostiglio nella camera di Bauer, poi si inoltrò nel passaggio fino ai piedi della colli-na e poi sotto il fiume. Non aveva bisogno nemmeno di luce perché era vissuto per tanti anni nell'oscurità che una luce, anche fievole, l'avrebbe accecato. La prigionia gli aveva fatto formulare una sua diabolica idea: sia che lui avesse già deciso di bruciare Alison, una volta libero, sia che l'idea gli fosse venuta solo quando inciampò nel bidone di petrolio, fatto sta che lo affascinò. In ogni modo, dicevo, entrò nel secondo passaggio.

Un'altra candela oscillò, tremò un poco, si spense. Le ombre cupe au-mentarono intorno a noi e le stelle parvero brillare più vivide nel misterio-so spazio azzurro al di sopra del soffitto di vetro.

Immaginai lo spettro dai capelli rossi che cercava di ritrovare disperata-mente la sua forza. Gli occhi freddi di von Arnheim parvero divenire più dolci.

— Vediamo il brutto passaggio fangoso sotto il fiume — mormorò. — Vediamo gli spessi muri ricoperti di muschio e di muffa e gli archi che per cinquecento anni hanno sopportato il peso del Reno. Li vediamo perché la lampada di Alison si sta avvicinando. Chissà perché proprio stanotte, su tante notti, gli è venuto il desiderio di visitare il prigioniero. Maleger sente il rumore dei passi che sdrucciolano sul fango. Cerca di fuggire, ma all'im-

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provviso la luce lo investe. "Che suono inumano può avere emesso la gola di Maleger in quell'atti-

mo? Che agonia di odio, di anni tristi e desiderio di sangue, di tortura e di morte, deve averlo afferrato in quel momento! E nella sua mente malata che senso di trionfo! E Alison... penso che il suo cuore abbia tremato, in quel momento, quando il fascio di luce ha investito quell'orrore dai capelli rossi che urlava in modo inumano alzando le lunghe braccia verso il cielo. Alison vede la morte in un umido tunnel sotto il Reno. Porta sempre una rivoltella in queste sue visite, ma fa appena in tempo a estrarla che Male-ger è già su di lui. Non penso neppure che i colpi fossero sparati delibera-tamente, devono essere partiti nella lotta..."

— Be'! — sbottò la duchessa. — Continuate pure la pittoresca descri-zione. Intendo dire, occhio-di-vetro, che Myron non era certo il mio cocco, ma in fondo era... — Fece un gesto di sconforto con la mano.

Vón Arnheim si riscosse. Fece un educato gesto di rincrescimento con la testa e mormorò:

— Scusate... — Intendo dire — mugolò la duchessa — che sembrate divertirvi molto

con questa faccenda, occhio-di-vetro. Ma non è molto piacevole, se vi toc-ca personalmente... Insomma, sappiamo che fu trasportato indietro e penso che Maleger abbia sparato anche sul guardiano per essere certo di non es-sere scoperto. Mhmmm... — Tolse una scatola di fiammiferi dalla borsa e ne accese uno. — C'è una cosa buffa, però — continuò la donna. — Perché Maleger riportò la rivoltella in casa per ficcarla nella tasca del soprabito di Myron?

— Non potremo mai sapere cosa passò per la mente di quel disgraziato, signorina Alison.

— Io invece mi chiedo — dissi — come mai Maleger non cercò di ven-dicarsi anche su D'Aunay.

Von Arnheim prese un tono compassionevole, spiegando: — Ma mio caro signor Marle! Come avrebbe potuto immaginare che

D'Aunay era là? Non era mica entrato in casa per conoscere gli ospiti! E non era onnisciente. Dopo il delitto, l'unica cosa che gli restava da fare, era nascondersi nel castello. E ha incatenato il corpo del guardiano proprio dove era stato incatenato lui per tanti anni...

Si fermò. La porta, una grossa porta di ferro, si stava aprendo lentamen-te. Nella scarsa luce, la figura di Bencolin prese forma a poco a poco.

— Volevate sapere — disse il barone — cos'è successo a D'Aunay? Ve-

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nite con me. Scendemmo due rampe di scale fino alla galleria che guardava l'atrio

centrale. Persino la duchessa camminò in punta di piedi. Vicino alla galle-ria ci fermammo. Le candele erano tutte molto consumate, anche se ancora non se n'era spenta nemmeno una. Delle masse di cera sostenevano ancora le fiammelle nel candeliere di ferro che stava davanti alla finestra gialla. La finestra gialla, il naso del teschio... La galleria formava tre lati di un quadrato, con la larga scala tappezzata di nero al centro. Le armature erano allineate vicino al muro senza più alcuno scintillìo sul loro metallo: la luce non arrivava più a sfiorarle. Nella scala che portava da basso vedemmo una lunga processione di gente.

Due poliziotti reggevano un paravento laccato che, piegato in due, servi-va da barella. C'era un corpo su quel paravento: potevo vedere scarpe im-mobili, ma solo quelle. Un grande scialle argentato e multicolore era getta-to su quel corpo per nasconderlo alla vista.

Isobel D'Aunay, con il viso grazioso ancora intontito, passò vicino al pa-ravento. Si premette un inutile fazzolettino sulla bocca, fissando con e-spressione vuota lo scialle. In cima alle scale, Dunstan esitò, poi le corse dietro. Mi accorsi che Gallivan si era unito al nostro gruppo immobile.

Von Arnheim disse sottovoce: — Ho tentato un esperimento per verifi-care la mia teoria. Come casualmente, condussi Jerome D'Aunay in un giro di ispezione per la casa. Lo portai molto amichevolmente in una stanza non illuminata. Stava accendendo una sigaretta, ricordo. Ordinai di portare le candele e un poliziotto entrò nella stanza con un grosso candeliere. Allo-ra D'Aunay vide Maleger seduto su una sedia che lo guardava... Il suo cuo-re, temo, non era forte come la sua volontà.

Io ero ancora chino sulla balaustrata a guardare. La duchessa appoggiò una delle sue pesanti mani sulla mia spalla. Von Arnheim si inchinò e cor-se giù per dare gli ordini per il trasporto della salma.

— Vogliamo salire? — suggerì Bencolin. — Signor Gallivan, vorrei ve-dervi un attimo da solo. Ci sono dei dettagli che non dovete pubblicare.

Come luccicarono le scarpe di D'Aunay, mentre il suo corpo passava per l'ultima volta dal portone centrale per inoltrarsi nel vento che spirava nella corte! Sarebbe stato piuttosto difficile portarlo giù dalla collina, pensai i-stintivamente.

Poi vidi Dunstan cercare la mano di Isobel, prima che uscissero a loro volta. Una candela guizzò e si spense. La serie delle armature rimase com-pletamente al buio.

Page 129: Sfida Per Bencolin

— Non mi è mai piaciuto quell'uomo — esclamò la duchessa, assorta — ma al diavolo! Ora è morto e io ho sonno. Abbiamo fatto una bella scor-pacciata di orrore e... C'è qualcuno che vuol fare una partita a poker?

Lei, Bencolin e io, entrammo nella stanza dal soffitto di vetro. Ormai so-lo cinque o sei candele erano ancora accese. La luna uscì da dietro una nu-vola e lasciò cadere un po' di luce pallida sulle pelli di animali che stavano sul pavimento. Mi parve quasi che le colonne d'ebano stessero muovendosi in una silenziosa processione.

Con uno sguardo stanco, la duchessa guardò il mazzo di carte, poi co-minciò a mescolarle.

C'era il silenzio più assoluto intorno a noi. Mi parve che stessimo flut-tuando nello spazio e che fossimo arrivati dove una nave fantasma aveva terminato il suo viaggio. Bencolin guardava la luna. D'un tratto fissò la fi-gura sformata della duchessa.

— Ditemi, signorina Alison — chiese dolcemente. — Perché avete ucci-so vostro fratello?

19

Il cielo azzurro cupo, le candele torturate e un paio di mani grasse che

mescolavano le carte. Ma non le mescolarono a lungo, però. Si fermarono. Le dita divennero nervose e tremanti. Le carte caddero ai piedi della du-chessa. Le rimase in mano solo un otto di picche.

Silenzio. Poi si riscosse e alzò la testa. La luna disegnava un alone attor-no ai suoi capelli grigi. Ammiccò da dietro l'occhialino, con curiosità.

— Sapete, faccia-di-diavolo — disse con un tono di pensieroso distacco. — Me l'aspettavo. Io sapevo che... Be', sapevo che eravate troppo intelli-gente per non accorgervene. Non ho potuto fare a meno di aver pietà di oc-chio-di-vetro, di là. Era così sicuro di sé! E così sicuro di sapere la verità. In fondo, però, una buona parte di ciò che ha detto rispondeva esattamente alla verità.

— Sì — disse Bencolin — una buona parte... — L'ho aspettato tutto il giorno — continuò lei con quel tono distaccato.

— E non me ne importa. Mmm... Al diavolo, sono vecchia! E poi non so-no neanche buona. E poi ho avuto un sacco di divertimenti, in vita mia. — Guardò la luna. — E non mi importa più niente nemmeno di Maleger. Non più... Pensavo che quando occhio-di-vetro andò nel passaggio, avesse tro-vato le orme dei miei piedi. Gli ho chiesto fin dove è arrivato, ma mi ha

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detto che ha fatto solo un tratto di strada, là sotto. Bencolin scosse il capo. In quel momento capii che era legato a quella

donna da una specie di strano affetto, un affetto come la sua natura gli permetteva, naturalmente. Satana al chiaro di luna.

— Non le avrebbe potute trovare, comunque — disse Bencolin. — Ho preso una scopa e un paio di scarponi e le ho cancellate prima della sua vi-sita al sottopassaggio.

— Eh? — fece lei. E non fu un'esclamazione, ma solo un sospiro pro-fondo. Lo guardò, attenta.

— La cosa non è seria, sapete... — borbottò Bencolin. — Posso mante-nere il vostro segreto e sono certo che anche Jeff lo farà. Dopo tutto, per-ché no? È stato Maleger a portare il corpo sui bastioni e a dargli fuoco. Non potrà mai soffrire perciò che ha fatto e aveva tante ragioni che nessu-no si sentirà di biasimarlo. C'è forse, allora, una buona ragione perché dobbiate soffrirne voi?

La fronte di Bencolin si aggrottò, alla domanda che per lui aveva una ri-sposta ovvia. Il poliziotto si mise a sedere. La rivelazione mi aveva scosso profondamente. Agatha Alison si era chinata ora a raccogliere le carte sen-za guardarle. Per un po' il suo respiro asmatico fu il solo rumore nella stanza. Alla fine si raddrizzò, facendosi paravento agli occhi con le mani.

Silenzio. La nave fantastica aveva ripreso il suo — Faccia-di-diavolo — mormorò la donna. — Dio sa se voglio essere

uccisa solo perché... perché gli ho piantato tre pallottole in corpo. No, non ne ho nessuna voglia. Se io fossi stata sensibile, come ho sempre predicato agli altri, non avrei permesso che gli eventi mi prendessero la mano a quel modo...

"Buffo, vero? — chiese all'improvviso, rivolta a me. — Solo ieri erava-mo seduti nella mia stanza e io insegnavo a voi come invecchiare in modo dignitoso e onesto. E io ero quella che non riusciva a dimenticare... No. ve-ramente non era proprio così; io avevo dimenticato. Ma quando la cosa mi ha preso di petto, quando mi sono accorta che Myron lo teneva prigionie-ro... Be', io..."

— Siete la moglie di Maleger, vero? — chiese Bencolin tranquillamente. — Non vi sfugge niente davvero, faccia-di-diavolo, eh? — chiese la du-

chessa agitandosi sulla sedia quasi allegramente. — Come l'avete scoper-to?

— Ho trovato una fotografia, nella vostra stanza. Cercavo qualcos'altro, veramente, ma quando quella foto mi capitò fra le mani, tutto divenne

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chiaro. Vedete, Gallivan ci aveva detto che Maleger era stato segretamente sposato con una donna e che la cosa non si era risaputa perché i parenti di lei non avrebbero mai dato il consenso. E neanche vostro fratello, no? Be', portai la vostra fotografia qui perché pensavo che fosse più al sicuro che nella vostra stanza... Credo che l'abbia presa Jeff.

Solo adesso capivo perché il viso di quella donna nella fotografia mi era così familiare. Era il ritratto di Agatha Alison nei giorni di maggior splen-dore. Ma mi ero fissato nel pensiero di trovare un figlio che potesse somi-gliare a sua madre.

— Allora — borbottai — non era la fotografia dell'amica... — Accidenti, Jeff! — sbottò Bencolin. — Non vi ricordate che Gallivan

ci ha detto che l'amica era bionda? I capelli della donna del ritratto, invece, sono molto neri, non ve ne siete accorto? E poi Gallivan parlò anche del matrimonio segreto...

La duchessa si soffiò il naso rumorosamente. — Ve l'ho detto — disse poi — che ero bella a quei tempi. Dopo la mor-

te di Maleger... quella che io credevo fosse tale, non mi importò più di niente. Io... Accidenti, faccia-di-diavolo, datemi un sigaro. E ditemi come avete fatto ad arrivare fino a me.

— Così va meglio — approvò Bencolin. — I miei sospetti, da principio, erano gli stessi di von Arnheim. Ho avuto anche... i suoi lampi di fantasia — sorrise in modo strano. — Specialmente per quanto riguardava l'imma-ginaria morte di Maleger. Il viaggio in treno, cosa insolita per lui... e com-pletamente senza servitù, cosa ancora più strana.

— Ma allora! — protestai — Quando diceste che la teoria di una messa in scena, di una finta morte, non poteva reggere...

— Oh, no, Jeff. Non dissi niente del genere. Ciò che dissi fu, e se cercate di ricordare mi darete ragione, che Maleger non aveva inscenato la sua morte. Dissi che non era così semplice, dissi che era molto più diabolico. Poi l'indubbia fantasia di von Arnheim lo portò a considerare Maleger col-pevole. Naturalmente Maleger era vivo. Maleger portò il corpo sui bastio-ni, trascinandolo dal sottopassaggio al castello, e poi vi appiccò il fuoco. Ma le dita di Maleger non avrebbero potuto premere il grilletto di quella Mauser.

La duchessa staccò coi denti la punta del sigaro. — Continuate, faccia-di-diavolo — lo esortò. — È una cosa che mi inte-

ressa. La donna mise in bocca il sigaro e Bencolin le porse un cerino acceso.

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La fiammella illuminò gli occhi divertiti del poliziotto. — Sono meravigliato — esclamò l'uomo — che il barone von Arnheim

abbia trascurato un punto che lui stesso ci fece notare in principio. La per-sona che aveva sparato con quella Mauser aveva i guanti. Maleger non si sarebbe mai preso una simile briga e poi, al tempo in cui fu fatto prigionie-ro, le impronte digitali non erano ancora in uso. E inoltre, ricordate cosa disse circa il dito tanto corto da non riuscire neppure a prendere saldamen-te in mano la pistola? Un uomo gigantesco come Maleger... — Si strinse nelle spalle.

— Quando vedemmo sul muro le tracce di sangue lasciate dalle dita di Alison mi ero già reso conto che nell'omicidio avevano avuto parte due persone. Una che uccise Alison e l'altra che si occupò del resto. Avevo an-che dei sospetti circa il sottopassaggio. L'altezza delle impronte insangui-nate, come vi feci presente, Jeff, indicava che era stato un uomo molto alto a portare Alison giù dalle scale. E se quel qualcuno era tanto alto da far sì che le impronte insanguinate fossero a quasi un metro e ottanta dal suolo non poteva avere le mani piccole al punto da non riuscire ad afferrare co-modamente una Mauser. E così la mia teoria delle due persone era confer-mata...

La duchessa si stava esaminando le dita grassocce, rigirandosele da tutte le parti. Il sigaro le pendeva da un angolo della bocca.

— Qualcuno di casa era colpevole. Lo capii quando trovai la rivoltella. Nessuna ragione umana, neppure la fertile fantasia di von Arnheim, po-trebbe dare una spiegazione al fatto che Maleger avesse messo la pistola nella tasca del soprabito di Alison.

— Gliel'ho chiesto, infatti — intervenni. — Ma non mi ha saputo dare una risposta.

— Inoltre — continuò Bencolin — c'era solo una piccola traccia di fan-go vicino all'ingresso del sottopassaggio nella stanza di Alison. Maleger non poteva avere ai piedi due paia di scarpe e non se le sarebbe certo cam-biate una volta arrivato dall'altra parte. Se fosse andato nella stanza di Ali-son per mettere la rivoltella nella tasca del soprabito, il posto sarebbe stato tutto sporco di fango. Persino il commissario Konrad se ne sarebbe accor-to.

"Ci pensai ancora. Se il colpevole era uno della casa, solo molto diffi-cilmente avrebbe potuto essere uno degli ospiti. Possiamo anche concedere che un ospite conoscesse il passaggio segreto e che Alison tenesse una ri-voltella nell'armadio, anche se era tutta gente che, da quanto ci ha detto

Page 133: Sfida Per Bencolin

d'Aunay, veniva in casa per la prima volta. Ricordatevi che c'erano solo da un giorno, quando è accaduta la tragedia, e tenete presente che quando Ali-son andava nel sottopassaggio, teneva sempre chiusa a chiave la porta del-la sua camera. E l'assassino doveva entrare in camera di Alison per rag-giungere il passaggio segreto. Certo sarebbe stato facile fare una chiave falsa, prendendo l'impronta della serratura con la cera, ma questo non po-teva essere fatto da qualcuno che viveva nella casa solo da un giorno.

"E poi, un'altra cosa estremamente importante, che pare essere sfuggita all'attenzione di tutti, persino all'ottimo barone. Quando Alison entrò nel passaggio doveva avere necessariamente chiuso la porta della sua stanza, come avrà sempre fatto. Ma quando il suo corpo fu riportato nella casa, la porta era aperta, altrimenti come avrebbe potuto Hoffmann prendere le scarpe bruciate e buttarle nell'armadio? Chi, allora, poteva averla aperta nel frattempo? La risposta può essere solo una: qualcuno che, dopo aver aperto la porta con una chiave falsa, avesse seguito Alison nel sottopassag-gio. Conclusione: l'assassino proveniva dalla casa e non era un ospite."

Un'altra candela si spense. Ormai solo quattro o cinque illuminavano l'immenso salone. La duchessa fissava Bencolin senza muoversi, come af-fascinata.

— Naturalmente — lo interruppi — tutte queste considerazioni vanno bene per chiunque tranne che per D'Aunay, che era un vecchio amico di famiglia e poteva sapere tutte queste cose. D'Aunay avrebbe potuto farsi fare una chiave falsa. D'Aunay aveva le dita corte, la moglie di D'Aunay era fuori della stanza e quindi lui non aveva alibi. D'Aunay cercò di ucci-dervi quando vi condusse alla villa con la sua macchina...

Bencolin annuì. — Sì, ci ho pensato anch'io, Jeff. Il mio primo impulso mi portò a so-

spettare di lui, ricordate? Ma feci le mie considerazioni: conoscendo ormai la storia, non potevo immaginare qualcosa di più improbabile di D'Aunay che lavorasse in cooperazione con Maleger. Non vi rendete conto che se si fossero incontrati in quel passaggio segreto o D'Aunay avrebbe ucciso Ma-leger o Maleger avrebbe ucciso D'Aunay? Qualcuno sarebbe morto di un colpo, comunque. Sono pronto a scommettere che l'incontro sarebbe stato tutt'altro che amichevole. D'Aunay pensava che Maleger fosse morto e cercò di uccidermi in macchina perché capì all'improvviso che io sapevo la verità circa la "morte" di Maleger. Qualcosa era scattata nel suo cervello, e solo per un istante ha perso il controllo di se stesso.

"Ma al diavolo! — Il poliziotto fece un gesto impaziente. — Stiamo qui

Page 134: Sfida Per Bencolin

a discutere come se si trattasse di un problema di scacchi. Anche se non avessi già sospettato di voi, signorina Alison, avrei cominciato a farlo quando scesi nel sottopassaggio. Le vostre scarpe sono piuttosto particola-ri, come forma, e poi c'era persino ben netta l'impronta del bastone che a-vete con voi. Ho trovato le scarpe infangate nell'armadio della vostra stan-za; ve le cambiaste con un paio di pantofole da camera quando tornaste, no? E mi sono preso la libertà di buttarle nel Reno. Così trovai anche la fo-tografia che mi fornì, come avevo detto a Jeff, il motivo che mi manca-va..."

La duchessa si tolse il sigaro dalla bocca. — È buffo — esclamò con gravità — star qui seduta ad ascoltare tutto

questo. Avevo il miglior alibi del mondo, fra le altre cose. Ero seduta con Frieda a giocare a poker, quando fu visto il corpo in fiamme. Vedete, sarò stata via sì e no quindici minuti. Non ho giocato a carte per tutta la sera. Buffo! Veramente buffo! Quando stanotte occhio-di-vetro è diventato poe-tico e ha cominciato a descrivere il modo in cui Maleger aveva ucciso Ali-son nel sottopassaggio, vi giuro, faccia-di-diavolo, che stavo per diventare isterica! Alla mia età! — Ammiccò verso di lui. — Scommetto, vecchio li-bertino, che sono il più strano assassino con cui abbiate mai avuto a che fa-re.

Si appoggiò allo schienale e sembrò un enorme Budda asmatico. La pun-ta rossa del suo sigaro buttava fumo verso le stelle. All'improvviso allungò una mano grassoccia verso di noi, piegando e allungando le dita.

— Guardate — esclamò — questa mano ha preso una pistola e ha ucciso mio fratello. Dovrei mettermi a gridare o a piangere o a fare comunque qualcosa di isterico, eppure vi giuro che è stato come sparare a un bersa-glio attaccato a un filo. Come... come se non ci fosse stata più vita in lui, ormai. Adesso so che era umano e mortale. Oh, non umano nel vero senso della parola... L'ho sempre considerato un grammofono ambulante. Lo po-tevate ferire, e lui recitava, potevate ucciderlo e recitava ancora. Pensate che io sia pazza? — ci chiese. — Quando venne indietro nel sottopassag-gio e ci piantammo in faccia a vicenda il fascio di luce, non appena vide la rivoltella in mano mia, saltò a pezzi come un bersaglio di vetro. Io... non mi sento colpevole; mi sento solo un po' stanca.

La bella testa con l'elaborata acconciatura di capelli grigi si piegò su una spalla.

— No... — mormorò. — Devo dirvi anche il resto. "Molto tempo fa ero innamorata pazza di Maleger. Penso di essere l'uni-

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ca persona che sia riuscita a conoscerlo veramente. Vi sembra buffo, vero, detto da me? — Si strofinò il naso con le mani. — Forse era cattivo, ma non ha importanza. Aveva un maledetto fuoco interiore che lo illuminava tutto. Sarebbe stato grande in qualsiasi impresa avesse tentato. Allora ave-vo trentacinque anni e a volte mi sentivo struggere d'amore per lui. Pensate un po'. Vi sembra strano a vedermi ora, eh? Ma adesso non è più così. Non è stato più così da venti anni a questa parte. Non ho sentito nulla neppure quando ho ucciso Myron. Capite, faccia-di-diavolo? — Si sporse in avanti per fissarlo negli occhi. — Era una cosa che dovevo fare.

"Scoprii il passaggio segreto per caso, circa due settimane fa. Myron non avrebbe dormito in casa quella notte e gli ospiti dovevano arrivare il gior-no successivo. Volevo mettere una collana che Myron teneva in una picco-la cassaforte. Ricordavo che la cassaforte era nella stanza da letto, dietro un pannello, ma non riuscivo a ricordare come si facesse a far scivolare il pannello. Continuai a girare per la stanza, a provare persino con gli inter-ruttori, quando sentii qualcosa che si apriva nello studio...

"Naturalmente, lì per lì, non sospettai di niente, ma poi, all'improvviso, mi ritornarono in mente tutte le cose strane che mi avevano colpito in Myron. Le scarpe pesanti e vecchie, le sue assenze. Tutto aveva qualcosa di inspiegabile...

"Faccia-di-diavolo! — urlò picchiandosi una mano con decisione sul gi-nocchio. — Tornai nella mia stanza, presi un paio di grosse scarpe e le mi-si all'ingresso del passaggio. Sapevo che Myron era solito tenere una rivol-tella in un armadio. La presi e presi anche una lampadina tascabile. Ancora non sapevo cosa avrei trovato. Scesi dunque sotto il fiume e sbucai fuori dall'altra parte, ai piedi della collina. Non fu difficile trovare l'altro ingres-so del sottopassaggio per risalire la collina da là sotto! Sa il cielo come ho fatto ad arrivarci. Non potrei rifarlo per nessuna ragione al mondo. Mi di-cevo che ero cretina, ma cominciai ad aver freddo e un'ansia strana si im-possessò di me...

"Be', per farla breve arrivai nel ripostiglio del guardiano, così stremata, che dovetti sorreggermi al muro. Ero tutta infangata e il fianco mi doleva terribilmente. Mi resi conto a poco a poco di dove mi trovavo. Poi sentii qualcuno parlare, o meglio, borbottare qualcosa. Pareva un grugnito privo di senso. Conoscete il passaggio attraverso le pareti, quello con la finestra dai vetri colorati? Potevo vedere le scale, da dove ero, e distinsi Bauer sali-re con una lanterna in mano. Era quasi sordo e canticchiava fra sé. Quando sentii le parole che diceva..."

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Strinse i pugni e tacque per un attimo. — Faccia-di-diavolo — mormorò con ira. — Bauer diceva: "Cibo per

Maleger, cibo per il cane!" e portava una tazza e un piattino di ferro. Stava canticchiando questo, capite, e la sua voce era orribile. Seguii la lanterna; sapevo che non avrebbe potuto sentirmi.

"Salimmo tutte quelle scale. Il fianco mi doleva da impazzire, ma conti-nuai. Quando arrivammo in cima alla torre, lui posò la lanterna per terra davanti a una grossa porta che aveva un battente socchiuso. Bauer lo aprì completamente e spinse dentro la testa cominciando a fischiare come si fa coi cani. Parlava, mostrando il piatto col cibo, poi prese un grosso mazzo di chiavi e aprì la porta. Entrò. Sentii rumore di catene. E, faccia-di-diavolo, capii. Non ebbi nemmeno bisogno di guardare per immaginare cosa stava facendo quando prese un bastone e cominciò a punzecchiare un mucchio di stracci che erano in un angolo..."

Com'era differente questo racconto dal racconto pittoresco e freddo di von Arnheim! Parlava a bassa voce e il sigaro era quasi spento, ma parlava a Bencolin come se l'unica cosa importante al mondo per lei fosse d'essere capita.

— Stavo per svenire. Sapete come quando si comincia ad avere freddo per tutto il corpo e a sudare. Ma all'improvviso ridivenni calma, tranquilla come quando gioco a poker. E volete sapere cosa stavo pensando in quel minuto? Pensavo a una notte lontana, a una notte di venti anni fa, quando andai a ballare con Maleger. Lui non ballò, naturalmente, stette lì solo a guardare. Ma io mi guardai allo specchio della toilette per signora, le don-ne intorno a me chiacchieravano e l'orchestra in sala stava suonando un valzer. Avevo un vestito color oro, con delle rose alla scollatura, ero ecci-tata e felice e sapevo di essere bella.

"In quel momento devo aver fatto rumore, perché Bauer si voltò. Vidi la sua faccia illuminata dalla lanterna. La mia mano era ferma. Gli sparai due volte fra gli occhi.

"Faccia-di-diavolo, dopo devo essere svenuta o qualcosa di simile, per-ché non ricordo altro che di essermi trovata in ginocchio vicino a Maleger con la sua testa in grembo. Era intontito e respirava male. Da prima pensai che dovevo tirarlo fuori di là e trasportarlo in casa. Ma mi resi conto al-l'improvviso che dietro tutto quello doveva esserci Myron e che dovevo ucciderlo. Capite?"

Il suo respiro affannoso riempì la stanza. — E poi, pensai una cosa strana. Che Maleger non doveva vedere come

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ero ridotta. Un'arpia, una donna sformata. Un rudere, come sono! Acciden-ti! Come posso spiegarvi? Ricordo che aprii le manette, feci rotolare il corpo di Bauer in un angolo e lasciai il mazzo delle chiavi vicino a lui. Poi scesi da basso, presi un sacco di roba prelibata e la portai vicino a Maleger perché mangiasse. Non pensai che potesse essere malato. Non riuscivo ad immaginarlo malato. E decisi tranquillamente che Myron doveva morire. Capite, faccia-di-diavolo?

"Cosi tornai indietro. Riuscii a malapena a superare l'ultima rampa di scale. È ripida, sapete, dal Reno sale fino alla nostra casa. Mi cambiai le scarpe e rimisi la rivoltella nell'armadio. La ripulii attentamente, anche. Rimasi sveglia tutta la notte.

"Chissà cosa pensò Maleger quando si svegliò! Capii perché Myron si chiudesse in camera quando lavorava... Dovevo stare attenta a quando si sarebbe chiuso dentro, perché volevo pescarlo nel sottopassaggio per di-mostrargli che sapevo. Non avrei potuto fare tutta la strada di nuovo.

"Sapete quando è successo, faccia-di-diavolo. Appena andò in camera sua, dopo le nove, salii con D'Aunay nella mia stanza. Avevo detto a Frie-da di venire un po' più tardi. L'unica cosa che mi faceva paura era che Myron guardasse la pistola e si accorgesse che mancavano due colpi. Ma, e qui occhio-di-vetro si è sbagliato, non la portava mai con sé. Misi ancora le scarpe, un soprabito, e presi la lampadina tascabile. Non c'era nessuno nel corridoio. Aprii la sua porta, presi la pistola e aspettai un po' per essere certa che fosse molto avanti prima di seguirlo.

"Camminò molto più svelto di quanto pensassi. Si era già abbastanza i-noltrato quando io, correndo e inciampando a ogni passo — bello, eh? — arrivai a un punto in cui potesse vedere la mia luce. Si voltò. Aveva l'abito da sera coi calzoni arrotolati in su e un paio di scarpe pesanti. Urlò: Aga-tha! Mi sentii tutta fredda, faccia-di-diavolo. La sua voce suonò come una cannonata. Gli dissi... — Chiuse gli occhi per un istante. — Gli dissi: 'Questo è per Maleger, bastardo!' e cominciai a sparare. Il rumore mi as-sordò e il fumo mi entrò negli occhi facendomeli lacrimare, ma riuscii a vederlo. Urlava come un ossesso e sputava sangue. Mio Dio, faccia-di-diavolo, come urlava! Si piegò in due e si appoggiò al muro. Proprio in quel momento sentii guazzare il fango e apparve Maleger con una lanter-na."

Rabbrividì. — Occhio-di-vetro non ha sbagliato quando ha descritto il viso di Male-

ger che sapeva di potersi finalmente vendicare. Cacciò anche l'urlo, alzan-

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do le braccia al cielo, proprio come occhio-di-vetro ha detto. Io non volevo vedere ciò che stava per accadere. Sentii rimbombare la voce di Maleger: "Nerone, eh? Vuoi fare Nerone?". Poi il rumore di un corpo trascinato nel fango.

La voce divenne un sussurro. — Be', ritornai sana e salva. Erano appena passate le nove e mezzo

quando entrai nella mia stanza. Ero ancora abbastanza padrona di me per ricordarmi che dovevo cambiarmi le scarpe. Ficcai la pistola nella tasca del soprabito, nel guardaroba, sperando che non sarebbe stata trovata. Era u-n'idea imbecille, ma ero abbastanza imbecille anch'io per poter pensare che sarebbe finita così. Nessuno mi vide tornare in camera, comunque. Mi cambiai il vestito e ficcai le scarpe infangate in fondo all'armadio. Quando arrivò Frieda, stavo facendo un solitario vicino alla finestra. Avevo bevuto almeno sei bicchieri di gin, nel frattempo, e le mie mani erano ritornate ferme. Alle dieci e dieci quella "cosa" al di là del fiume...

"Faccia-di-diavolo — sussurrò — non sapremo mai cosa gli abbia detto Maleger o cosa gli abbia fatto dalle nove e mezzo alle dieci e dieci. E pen-so che dobbiamo considerarci fortunati per il fatto che non lo sappiamo..."

Ancora una volta, una candela guizzò e si spense. L'odore di cera brucia-ta s'era diffuso in tutta la stanza. La duchessa stava seduta col mento gras-so fra le mani e il sigaro fra le dita. Io ero assorto in un mondo d'ombre: vedevo Maleger che trasportava il corpo del guardiano nella cella della tor-re.

Il respiro affannoso della duchessa si calmò. Il silenzio ritornò nella stanza, come dopo un pianto che ha consumato tutte le lacrime. Un'ancora scese nella profondità di acque misteriose e le colonne d'ebano parvero fermarsi nella loro processione: la nave fantasma era giunta finalmente in porto.

Ora non potevo più vedere il volto della duchessa, ma solo l'alone chiaro dei capelli grigi.

— Non dovete preoccuparvi, siete al sicuro — disse Bencolin, poi, con tono tagliente: — Sveglia, duchessa! Ritornate in voi, viene qualcuno.

Bencolin si alzò in piedi. Lo sentii muoversi rapidamente, accendendo un cerino dietro l'altro.

La luce ritornò nella stanza: Bencolin aveva trovato un candelabro pieno di candele nuove. Nel momento in cui qualcuno aprì la porta, la luce era già quasi normale e il candelabro era vicino al divano sul quale era seduta la duchessa.

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Sospirò profondamente, poi si morse il labbro inferiore voltandosi a guardarmi.

— Be', ragazzo! — tuonò all'improvviso. — Possibile che non mi riesca di trovare nessuno disposto a giocare a poker con me? Ehi, Sally, venite dentro! Volete giocare a poker?

Sally Reine entrò nella luce delle candele. Aveva il viso stanco e l'abito verde era gualcito.

— Se volete, possiamo fare una partita — disse. — Finalmente! — esclamò Agatha Alison. Guardò la ragazza con i suoi

occhi materni, poi chiese: — Qualcosa che non va, piccola? Forse l'amore? Raccontate tutto alla duchessa, da brava... Vedrete che una partitina a po-ker vi distrarrà.

— Non potreste capire — disse Sally con cocciutaggine. — Non impor-ta...

— Date da bere alla ragazza, presto! — ordinò la duchessa. — Ehi, ra-gazzo mio, versate quattro Pernod con un po' di seltz e limone. E ora ripu-lite il tavolo, voglio la rivincita su faccia-di-diavolo. Ma dove sono gli al-tri?

— Il barone von Arnheim — disse la ragazza — sta parlando ai giorna-listi. Il nostro amico Lavasseur ha trovato un violino, in una delle sale, ed è in estasi. Isobel e Dun... Be', sono occupati. Per l'amor di Dio! — La sua voce divenne stridula. — Datemi le carte, datemi da bere, datemi qualcosa! Accidenti a lui! Lavasseur ha ripreso a suonare!

S'alzò e corse a chiudere la porta, ma si poteva ancora sentire suonare da qualche parte da basso. La duchessa s'era spostata su una sedia davanti al tavolino con le candele, e stava mischiando le carte.

— Ho anche i gettoni — ci informò. — Li porto sempre con me, come le carte e i sigari. Non si sa mai, possono sempre servire. Mia cara, calma-tevi.

La guardò ancora con aria materna, mentre io mettevo sulla tavola i bic-chieri di Pernod. Sally si lasciò cadere su una sedia. Una melodia singhioz-zante aveva cominciato a salire dal piano inferiore, una triste, strana can-zone che penetrava in noi con insistenza ossessionante. Bencolin avvicinò la sedia al tavolo, quando la duchessa cominciò a distribuire le carte. Con un brivido, mi sedetti anch'io.

— Comincio io... — disse la duchessa. — Apertura al fante. — Cos'è questa musica? — chiese Sally. — Non ci pensate, mia cara — disse la duchessa, sorridendo. — Su, da

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brava, svegliatevi! Apertura al fante, avete capito? Ma... — È più facile per voi parlare... — scattò la ragazza. — Non potete capi-

re. Avrei voluto vivere nella vostra generazione. Piccole vite ordinate del-l'epoca vittoriana e piccole emozioni controllate... Accidenti, datemi una sigaretta!

— Apro — disse Bencolin spingendo un gettone bianco in mezzo al ta-volo. La luce delle candele accentuava gli zigomi alti e la barbetta del po-liziotto. Il violino continuò a cantare dolcemente...

— Questa musica — spiegai — si chiama "Umoresque". — Passo... — borbottò Sally, picchiando il piccolo pugno sul tavolo. —

Voi siete sempre tranquilla, duchessa, ma vorrei vedervi nella mia situa-zione... È un'altra generazione, questa, e gli uomini possono fare gli spor-chi comodi loro, non come quelli che vivevano sotto la buona regina Vitto-ria. Bah!

— Allora, non distraetevi — mormorò la duchessa, bevendo una lunga sorsata di Pernod. — Carte, signore e signori?

FINE