SCIENTIA CRUCIS
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SCIENTIA CRUCIS
TERESA BENEDETTA DELLA CROCE EDITH STEIN (1891-1942)
monaca, Carmelitana Scalza, martire
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" Ci inchiniamo profondamente di fronte alla testimonianza della vita e della morte
di Edith Stein, illustre figlia di Israele e allo stesso tempo figlia del Carmelo.
Suor Teresa Benedetta della Croce, una personalità che porta nella sua intensa vita
una sintesi drammatica del nostro secolo,
una sintesi ricca di ferite profonde che ancora sanguinano;
nello stesso tempo la sintesi di una verità piena al di sopra dell'uomo,
in un cuore che rimase così a lungo inquieto e inappagato,
"fino a quando finalmente trovò pace in Dio"1
LA VITA DI EDITH STEIN
Chi fu questa donna?
Quando il 12 ottobre 1891 Edith Stein nacque a Breslavia, quale ultima di 11
figli, la famiglia festeggiava lo Yom Kippur, la maggior festività ebraica, il
giorno dell'espiazione. "Più di ogni altra cosa ciò ha contribuito a rendere
particolarmente cara alla madre la sua figlia più giovane". Proprio questa data
della nascita fu per la carmelitana quasi un vaticinio.
Il padre, commerciante in legname, venne a mancare quando Edith non aveva
ancora compiuto il secondo anno d'età. La madre, una donna molto religiosa,
solerte e volitiva, veramente un'ammirevole persona, rimasta sola dovette sia
accudire alla famiglia sia condurre la grande azienda; non riuscì però a
mantenere nei figli una fede vitale. Edith perse la fede in Dio. "In piena
coscienza e di libera scelta smisi di pregare".
Consegui brillantemente la maturità nel 1911 ed iniziò a studiare germanistica
e storia all'Università di Breslavia, più per conseguire una base di futuro
sostentamento che per passione. Il suo vero interesse era invece la filosofia.
S'interessava molto anche di questioni riguardanti le donne. Entrò a far parte
dell'organizzazione "Associazione Prussiana per il Diritto Femminile al Voto".
1 Queste parole furono pronunciate dal Papa Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione di Edith Stein a
Colonia, il 1° maggio del 1987.
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Più tardi scrisse: "Quale ginnasiale e giovane studente fui una radicale femminista. Persi
poi l'interesse a tutta la questione. Ora sono alla ricerca di soluzioni puramente obiettive".
Nel 1913 la studentessa Edith Stein si recò a Gottinga per frequentare le lezioni
universitarie di Edmund Husserl, divenne sua discepola e assistente ed anche
conseguì con lui la sua laurea. A quel tempo Edmund Husserl affascinava il
pubblico con un nuovo concetto della verità: il mondo percepito esisteva non
solamente in maniera kantiana della percezione soggettiva. I suoi discepoli
comprendevano la sua filosofia quale svolta verso il concreto. "Ritorno
all'oggettivismo". La fenomenologia condusse, senza che lui ne avesse
l'intenzione, non pochi dei suoi studenti e studentesse alla fede cristiana. A
Gottinga Edith Stein incontrò anche il filosofo Max Scheler.
Quest'incontro richiamò la sua attenzione sul cattolicesimo. Però non
dimenticò quello studio che le doveva procurare il pane futuro. Nel gennaio
del 1915 superò con lode l'esame di stato. Non iniziò però il periodo di
formazione professionale.
Allo scoppiare della prima guerra mondiale scrisse: "Ora non ho più una mia
propria vita". Frequentò un corso d'infermiera e prestò servizio in un ospedale
militare austriaco. Per lei furono tempi duri. Accudisce i degenti del reparto
malati di tifo, presta servizio in sala operatoria, vede morire uomini nel fior
della gioventù. Alla chiusura dell'ospedale militare, nel 1916, seguì Husserl a
Friburgo nella Brisgovia, ivi conseguì nel 1917 la laurea "summa cum laude"
con una tesi "Sul problema dell'empatia".
A quel tempo accadde che osservò come una popolana, con la cesta della spesa,
entrò nel Duomo di Francoforte e si soffermò per una breve preghiera. "Ciò fu
per me qualcosa di completamente nuovo. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti, che ho
frequentato, i credenti si recano alle funzioni. Qui però entrò una persona nella chiesa deserta,
come se si recasse ad un intimo colloquio. Non ho mai potuto dimenticare l'accaduto". Nelle
ultime pagine della sua tesi di laurea scrisse: "Ci sono stati degli individui che in
seguito ad un'improvvisa mutazione della loro personalità hanno creduto di incontrare la
misericordia divina". Come arrivò a questa asserzione?
Edith Stein era legata da rapporti di profonda amicizia con l'assistente di
Husserl a Gottinga, Adolf Reinach e la sua consorte. Adolf Reinach muore in
Fiandra nel novembre del 1917. Edith si reca a Gottinga. I Reinach si erano
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convertiti alla fede evangelica. Edith aveva una certa ritrosia rispetto
all'incontro con la giovane vedova. Con molto stupore incontrò una credente.
"Questo è stato il mio primo incontro con la croce e con la forza divina che trasmette ai suoi
portatori ... Fu il momento in cui la mia irreligiosità crollò e Cristo rifulse ". Più tardi
scriverà: "Ciò che non era nei miei piani era nei piani di Dio. In me prende vita la profonda
convinzione che-visto dal lato di Dio - non esiste il caso; tutta la mia vita, fino ai minimi
particolari, è già tracciata nei piani della provvidenza divina e davanti agli occhi
assolutamente veggenti di Dio presenta una correlazione perfettamente compiuta".
Nell'autunno del 1918 Edith Stein cessò l'attività di assistente presso Edmund
Husserl. Questo poiché desiderava di lavorare indipendentemente. Per la prima
volta dopo la sua conversione Edith Stein visitò Husserl nel 1930. Ebbe con
lui una discussione sulla sua nuova fede nella quale lo avrebbe volentieri voluto
partecipe. Poi scrisse la sorprendente frase: "Dopo ogni incontro che mi fa sentire
l'impossibilità di influenzare direttamente, s'acuisce in me l'impellenza di un mio proprio
olocausto".
Edith Stein desiderava ottenere l'abilitazione alla libera docenza. A quel tempo
ciò era cosa irraggiungibile per una donna. Husserl si pronunciò in una perizia:
"Se la carriera universitaria venisse resa accessibile per le donne, potrei allora caldamente
raccomandarla più di qualsiasi altra persona per l'ammissione all'esame di abilitazione".
Più tardi le venne negata l'abilitazione a causa della sua origine giudaica.
Edith Stein ritorna a Breslavia. Scrive articoli a giustificazione della psicologia
e discipline umanistiche. Legge però anche il Nuovo Testamento, Kierkegaard
e il libriccino d'esercizi di Ignazio di Loyola. Percepisce che un tale scritto non
si può semplicemente leggere, bisogna metterlo in pratica.
Nell'estate del 1921 si recò per alcune settimane a Bergzabern (Palatinato), nella
tenuta della Signora Hedwig Conrad-Martius, una discepola di Husserl. Questa
Signora si era convertita, assieme al proprio coniuge, alla fede evangelica. Una
sera Edith trovò nella libreria l'autobiografia di Teresa d'Avila. La lesse per tutta
la notte. "Quando rinchiusi il libro mi dissi: questa è la verità". Considerando
retrospettivamente la sua vita scrisse più tardi: "Il mio anelito per la verità era
un'unica preghiera".
Il l° gennaio del 1922 Edith Stein si fece battezzare. Era il giorno della
Circoncisione di Gesù, l'accoglienza di Gesù nella stirpe di Abramo. Edith
Stein stava eretta davanti alla fonte battesimale, vestita con il bianco manto
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nuziale di Hedwig Conrad-Martius che funse da madrina. "Avevo cessato di
praticare la mia religione ebraica e mi sentivo nuovamente ebrea solo dopo il mio ritorno a
Dio". Ora sarà sempre cosciente, non solo intellettualmente ma anche
tangibilmente, di appartenere alla stirpe di Cristo. Alla festa della Candelora,
anche questo un giorno la cui origine risale al Vecchio Testamento, venne
cresimata dal Vescovo di Spira nella sua cappella privata.
Dopo la conversione, per prima cosa si recò a Breslavia. "Mamma, sono cattolica".
Ambedue piansero. Hedwig Cornrad Martius scrisse: "Vedi, due israelite e nessuna
è insincera" (confr. Giovanni 1, 47).
Subito dopo la sua conversione Edith Stein aspira al Carmelo ma i suoi
interlocutori spirituali, il Vicario generale di Spira e il Padre Erich Przywara SJ,
le impediscono questo passo. Fino alla Pasqua del 1931 assume allora un
impiego d'insegnante di tedesco e storia presso il liceo e seminario per
insegnanti del convento domenicano della Maddalena di Spira. Su insistenza
dell'Arciabate Raphael Walzer del Convento di Beuron intraprende lunghi
viaggi per indire conferenze, soprattutto su temi femminili. "Durante il periodo
immediatamente prima e anche per molto tempo dopo la mia conversione ... credevo che
condurre una vita religiosa significasse rinunciare a tutte le cose terrene e vivere solo nel
pensiero di Dio. Gradualmente però mi sono resa conto che questo mondo richiede ben altro
da noi ... io credo persino: più uno si sente attirato da Dio e più deve "uscire da se stesso",
nel senso di rivolgersi al mondo per portare ivi una divina ragione di vivere". Enorme è il
suo programma di lavoro. Traduce le lettere e i diari del periodo pre-cattolico
di Newmann e l'opera "Questiones disputatae de veritate" di Tommaso d'Aquino e
ciò in una versione molto libera, per amore del dialogo con la moderna
filosofia. Il Padre Erich Przywara SJ la spronò a scrivere anche proprie opere
filosofiche. Imparò che è possibile "praticare la scienza al servizio di Dio ... solo per
tale ragione ho potuto decidermi ad iniziare serie opere scientifiche". Per la sua vita e per
il suo lavoro ritrova sempre le necessarie forze nel convento dei Benedettini di
Beuron dove si reca a trascorrere le maggiori festività dell'anno ecclesiastico.
Nel 1931 termina la sua attività a Spira. Tenta nuovamente di ottenere
l'abilitazione alla libera docenza a Breslavia e Friburgo. Invano. Dà allora forma
ad un'opera sui principali concetti di Tommaso d'Aquino: "Potenza ed azione".
Più tardi farà di questo saggio la sua opera maggiore elaborandolo sotto il titolo
"Endliches un ewiges Sein" (Essere finito ed Essere eterno) e ciò nel convento
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delle Carmelitane di Colonia. Una stampa dell'opera non fu possibile durante
la sua vita.
Nel 1932 le venne assegnata una cattedra presso una istituzione cattolica,
l'Istituto di Pedagogia Scientifica di Münster, dove ha la possibilità di sviluppare
la propria antropologia. Qui ha il modo di unire scienza e fede e di portare alla
comprensione d'altri quest'unione. In tutta la sua vita vuole solo essere
"strumento di Dio". "Chi viene da me desidero condurlo a Lui".
Nel 1931 la notte scende sulla Germania. "Avevo già sentito prima delle severe misure
contro gli ebrei. Ma ora cominciai improvvisamente a capire che Dio aveva posto ancora una
volta pesantemente la Sua mano sul Suo popolo e che il destino di questo popolo era anche il
mio destino". L'articolo di legge sulla stirpe ariana dei nazisti rese impossibile la
continuazione dell'attività d'insegnante. "Se qui non posso continuare, in Germania
non ci sono più possibilità per me". "Ero divenuta una straniera nel mondo".
L'Arciabate Walzer di Beuron non le impedì più di entrare in un convento delle
Carmelitane. Già al tempo in cui si trovava a Spira aveva fatto il voto di povertà,
di castità e d'ubbidienza. Nel 1933 si presenta alla Madre Priora del Monastero
delle Carmelitane di Colonia. "Non l'attività umana ci può aiutare ma solamente la
passione di Cristo. Il mio desiderio è quello di parteciparvi ".
Ancora una volta Edith Stein si reca a Breslavia per prendere commiato dalla
madre e dalla sua famiglia. L'ultimo giorno che trascorse a casa sua fu il 12
ottobre, il giorno del suo compleanno e contemporaneamente la festività
ebraica dei tabernacoli. Edith accompagna la madre nella sinagoga. Per le due
donne non fu una giornata facile. "Perché l'hai conosciuta (la fede cristiana)? Non
voglio dire nulla contro di Lui. Sarà anche stato un uomo buono. Ma perché s'è fatto Dio?".
La madre piange. Il mattino dopo Edith prende il treno per Colonia. "Non
poteva subentrare una gioia impetuosa. Quello che lasciavo dietro di me era troppo terribile.
Ma io ero calmissima - nel porto della volontà di Dio". Ogni settimana scriverà poi
una lettera alla madre. Non riceverà risposte. La sorella Rosa le manderà notizie
da casa.
Il 14 ottobre Edith Stein entra nel monastero delle Carmelitane di Colonia. Nel
1934, il 14 aprile, la cerimonia della sua vestizione. L'Arciabate di Beuron
celebrò la messa. Da quel momento Edith Stein porterà il nome di Suor Teresa
Benedetta della Croce. Nel 1938 scrive: "Sotto la Croce capii il destino del popolo di
Dio che allora (1933) cominciava ad annunciarsi. Pensavo che capissero che si trattava della
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Croce di Cristo, che dovevano accettarla a nome di tutti gli altri. Certo, oggi comprendo di
più su queste cose, che cosa significa essere sposa del Signore sotto il segno della Croce. Certo,
non sarà mai possibile di comprendere tutto questo, poiché è un segreto". Il 21 aprile del
1935 fece i voti temporali. Il 14 settembre del 1936, al tempo del rinnovo dei
voti, muore la madre a Breslavia. "Fino all'ultimo momento mia madre è rimasta fedele
alla sua religione. Ma poiché la sua fede e la sua ferma fiducia nel suo Dio ... fu l'ultima
cosa che rimase viva nella sua agonia, ho fiducia che ha trovato un giudice molto clemente e
che ora è la mia più fedele assistente, in modo che anch'io possa arrivare alla meta".
Sull'immagine devozionale della sua professione perpetua dei voti, il 21 aprile
del 1938, fa stampare le parole di San Giovanni della Croce al quale lei
dedicherà la sua ultima opera: "La mia unica professione sarà d'ora in poi l'amore".
L'entrata di Edith Stein nel convento delle Carmelitane non è stata una fuga.
"Chi entra nel Carmelo non è perduto per i suoi, ma in effetti ancora più vicino; questo poiché
è la nostra professione di rendere conto a Dio per tutti". Soprattutto rese conto a Dio
per il suo popolo. "Devo continuamente pensare alla regina Ester che venne sottratta al
suo popolo per renderne conto davanti al re. Io sono una piccola e debole Ester ma il Re che
mi ha eletto è infinitamente grande e misericordioso. Questa è una grande consolazione" (31-
10-1938).
Il giorno 9 novembre 1938 l'odio portato dai nazisti verso gli ebrei viene
palesato a tutto il mondo. Le sinagoghe bruciano. Il terrore viene sparso fra la
gente ebrea. Madre Priora delle Carmelitane di Colonia fa tutto il possibile per
portare Suor Teresa Benedetta della Croce all'estero. Nella notte di capodanno
del 1938 attraversa il confine dei Paesi Bassi e viene portata nel monastero delle
Carmelitane di Echt, in Olanda. In quel luogo stila il 9 giugno 1939 il suo
testamento: "Già ora accetto con gioia, in completa sottomissione e secondo la Sua
santissima volontà, la morte che Iddio mi ha destinato. Io prego il Signore che accetti la mia
vita e la mia morte ... in modo che il Signore venga riconosciuto dai Suoi e che il Suo regno
venga in tutta la sua magnificenza per la salvezza della Germania e la pace del mondo... ".
Già nel monastero delle Carmelitane di Colonia a Edith Stein era stato
concesso il permesso di dedicarsi alle opere scientifiche. Fra l'altro scrisse in
quel luogo "Dalla vita di una famiglia ebrea". "Desidero semplicemente raccontare che
cosa ho sperimentato ad essere ebrea". Nei confronti "della gioventù che oggi viene educata
già dall'età più tenera ad odiare gli ebrei ... noi, che siamo stati educati nella comunità ebraica,
abbiamo il dovere di rendere testimonianza ".
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In tutta fretta Edith Stein scriverà ad Echt il suo saggio su "Giovanni della Croce,
il mistico Dottore della Chiesa, in occasione del quattrocentesimo anniversario della sua
nascita, 1542-1942 ". Nel 1941 scrisse ad una religiosa con cui aveva rapporti
d'amicizia: "Una scientia crucis (la scienza della croce) può essere appresa solo se si sente
tutto il peso della croce. Dì ciò ero convinta già dal primo attimo e di tutto cuore ho
pronunciato: Ave, Crux, Spes unica (ti saluto, Croce, nostra unica speranza) ". Il suo
saggio su San Giovanni della Croce porta la didascalia: "La scienza della Croce".
Il 2 agosto del 1942 arriva la Gestapo. Edith Stein si trova nella cappella,
assieme alla altre Sorelle. Nel giro di 5 minuti deve presentarsi, assieme a sua
sorella Rosa che si era battezzata nella Chiesa cattolica e prestava servizio
presso le Carmelitane di Echt. Le ultime parole di Edith Stein che ad Echt
s'odono, sono rivolte a Rosa: "Vieni, andiamo per il nostro popolo".
Assieme a molti altri ebrei convertiti al cristianesimo le due donne vengono
portate al campo di raccolta di Westerbork. Si trattava di una vendetta contro
la comunicazione di protesta dei vescovi cattolici dei Paesi Bassi contro i
pogrom e le deportazioni degli ebrei. "Che gli esseri umani potessero arrivare ad essere
così, non l'ho mai saputo e che le mie sorelle e i miei fratelli dovessero soffrire così, anche
questo non l'ho veramente saputo ... in ogni ora prego per loro. Che oda Dio la mia preghiera?
Con certezza però ode i loro lamenti ". Il prof. Jan Nota, a lei legato, scriverà più
tardi. "Per me lei è, in un mondo di negazione di Dio, una testimone
della presenza di Dio ".
All'alba del 7 agosto parte un carico di 987 ebrei in direzione Auschwitz. Fu il
giorno 9 agosto nel quale Suor Teresa Benedetta della Croce, assieme a sua
sorella Rosa ed a molti altri del suo popolo, morì nelle camere a gas di
Auschwitz.
Con la sua beatificazione nel Duomo di Colonia, il 1° maggio del 1987, la
Chiesa onorò, per esprimerlo con le parole del Pontefice Giovanni Paolo II,
"una figlia d'Israele, che durante le persecuzioni dei nazisti è rimasta unita con fede ed amore
al Signore Crocifisso, Gesù Cristo, quale cattolica ed al suo popolo quale ebrea".
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IL PENSIERO DI EDITH STEIN
A cura di Diego Fusaro2
“Ebrea, filosofa, carmelitana, martire, Edith Stein (1891-1942), "che porta nella sua
intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo’ (Giovanni Paolo II, 1 maggio 1985),
e che la Chiesa annovera fra i suoi santi (dall’11 ottobre 1998) apre cammini di rapporto e
di comunione in ambiti e a livelli diversi, ma in punti nodali dell’esperienza umana, cristiana,
ecclesiale, interreligiosa”.
Di questa figura femminile così ricca e poliedrica altri esperti hanno scritto e
scriveranno per lumeggiare il contributo di pensiero e di azione nei diversi
ambiti. Per esempio, nell’ambito culturale sociale: Edith si adoperò, con scritti,
lezioni e conferenze, a promuovere il ruolo della donna nella società e nella
Chiesa. Con ricerche sulla nozione dello Stato ne chiarì il rapporto con la
nazione, con il popolo e la società, e anche il suo precario equilibrio con la sfera
religiosa. Lei che all’inizio era fortemente nazionalista e “prussiana”, dopo la
grande guerra parteggiò per la repubblica di Weimar, e s’impegnò fortemente
a contrastare i primi successi del partito nazionalsocialista.
Soprattutto nell’ambito filosofico, Edith ha lasciato segni incancellabili di
originalità: lei che era l’allieva e assistente prediletta di Husserl, a Friburgo, e
avrebbe meritato di succedergli nella cattedra, (la prese invece Heidegger, che
si mostrò acquiescente col nazismo!) superando il maestro, tentò di gettare un
2 Diego Fusaro – filosofo opinionista. Diplomato al Liceo classico statale Vittorio Alfieri di Torino (100/100 con
menzione), Fusaro ha conseguito la laurea in Filosofia della storia (110 e lode) e successivamente la laurea magistrale
con una tesi in Storia della filosofia moderna su Karl Marx presso l'Università degli Studi di Torino. Dopo aver conseguito
un dottorato di ricerca presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano in Filosofia della storia, è stato ricercatore
a tempo determinato di tipo A in Storia della filosofia presso la stessa università dal 2011 al 2016. Nel febbraio del 2016,
ha tenuto un seminario sulla figura di Antonio Gramsci presso l'Università di Harvard. È attualmente docente presso
l'Istituto alti studi strategici e politici di Milano.
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ponte tra la filosofia contemporanea, sintetizzata nella fenomenologia
husserliana e la tradizione medievale, espressa dalla filosofia di S.Tommaso,
scavalcando la neo-scolastica.
Il suo capolavoro resta Essere finito ed Essere eterno, quasi una nuova
ontologia, sintesi di filosofia e mistica. Se avesse potuto continuare le sue
ricerche e creare un movimento di pensiero, com’era nella sua indole, forse
l’avremmo salutata come la più grande filosofa del secolo!
Infine, nell’ambito religioso mistico, attraversando la spiritualità domenicana,
benedettina e approdando alla mistica di S.Teresa d’Avila e di S.Giovanni della
Croce, portò a compimento il suo progetto di vita: pensiero ed esperienza della
Croce con Cristo crocifisso, come sacrificio-donazione per la salvezza del suo
popolo.
Il suo ultimo scritto, “La scienza della croce” (Scientia Crucis), rimase
incompiuto, proprio perché lo avrebbe concluso in una camera a gas nel campo
di Auschwitz!
In tutti questi ambiti, sia col pensiero sia con l’azione, il filo rosso della
continuità è stato la “intersoggettività”, (einfulung, “empatia”, intuizione
empatica), la “comunione”. Quel che ora mi propongo è di mostrare il
cammino di rapporto e di comunione che si è realizzato, nella vita di Edith, tra
l’essere ebrea e l’essere santa-martire cattolica. Edith nasce a Breslavia (ora
territorio polacco) il 12 ottobre 1891, in una famiglia ebrea molto praticante.
Nasce, ultima di sette figli, proprio in una festa religiosa ebraica, nel giorno del
Kippur, cioè dell’Espiazione. Per la madre, Augusta, questo era il presagio di
un particolare destino della figlia.
Ecco come ricorda la tradizione religiosa nella famiglia materna: “I ragazzi
studiarono religione sotto la guida di un professore ebreo; impararono anche un po’ di
ebraico… Appresero i comandamenti, lessero brani tratti dalle scritture e impararono a
memoria alcuni salmi (in tedesco). Fu sempre insegnato loro il rispetto nei confronti di
qualsiasi religione, e di non parlarne mai male. Il nonno insegnò ai suoi figli le preghiere
prescritte. Il sabato pomeriggio entrambi i genitori chiamavano a raccolta i figli che erano in
casa, per pregare insieme con loro le preghiere vespertine e serali e spiegarle. Lo studio
giornaliero delle Scritture e del Talmud – considerato un obbligo dell’uomo ebreo nei secoli
precedenti e tuttora in uso presso gli ebrei orientali – non veniva più praticato a casa dei miei
nonni; ciò nonostante tutti i precetti della Legge venivano osservati col massimo rigore”.
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In seguito Edith racconta la pratica religiosa vissuta nella famiglia in occasione
delle feste principali. Ma qualche annotazione ci apre alla comprensione del
tipo di educazione assimilata. Per esempio, in occasione della liturgia del Seder
(la Pasqua), annota: “la solennità della festa soffriva del fatto che soltanto mia madre e i
bambini più piccoli vi partecipavano con devozione. I fratelli che dovevano dire le preghiere al
posto di nostro padre, che era morto, lo facevano in modo poco dignitoso. Quando il maggiore
mancava e il minore assumeva le funzioni di padrone di casa, faceva chiaramente notare
quanto si prendesse intimamente gioco di tutto questo”.
E in occasione della festa dell’Espiazione (Kippur): “Quella sera non solo mia
madre andava al tempio, ma era accompagnata dalle sorelle più grandi, e anche i fratelli
consideravano un loro dovere morale il non mancare… Nessuno di noi si dispensava dal
digiuno, anche quando non condividevamo più la fede di mia madre e non ci attenevamo più
alle prescrizioni rituali al di fuori di casa nostra”.
Quello dunque che di questo ambiente ha messo forti radici in Edith non è la
fede nel Dio d’Israele, ma un forte rigore morale, derivante dalla Legge.
“La mamma ci insegnava l’orrore del male. Quando diceva: “è peccato”, quel termine
esprimeva il colmo della bruttezza e della cattiveria, e ci lasciava sconvolti”.
Cosi altrove Edith ricorda gli anni dell’infanzia. Lei stessa, ormai sul punto di
trasferirsi da Breslavia all’Università di Gottinga (1911), si confessa “non credente,
dotata di forte idealismo etico”. Conserverà grande stima e ammirazione per la pietà
religiosa della madre, e la accompagnerà sempre, quando è in famiglia, alla
funzione della sinagoga, anche dopo il battesimo, anche alla vigilia dell’ingresso
nel Carmelo.
Qualche tratto della sua limpidezza morale: quando attraverso la lettura di un
testo romanzato le si rappresentò la vita studentesca con tratti ripugnanti,
dissolutezza, alcolismo, ecc., ne rimase nauseata a tal punto che non poté, per
settimane intere, ristabilirsi nella propria allegria. Eppure Edith, sebbene
esteriormente riservata e dedita con abnegazione al lavoro, portava nel cuore
“la speranza di un grande amore e di un matrimonio felice”, e annota: “Senza avere alcuna
conoscenza della dogmatica e della morale cattolica, ero tuttavia impregnata dell’ideale
matrimoniale cattolico”. Al rigore morale in Edith corrisponde, nella sua vivace e
profonda intelligenza, la ricerca e la sete della verità. Non poteva sentirsi
soddisfatta della corrente psicologista di tipo positivistico, prevalente
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nell’Università di Breslavia, e perciò si orientò, appena ne venne a conoscenza,
verso la “Fenomenologia” di Edmund Husserl, cattedratico a Gottinga.
Ecco come, dopo anni di esperienza, descrive il metodo di Husserl: “Il suo modo
di guidare lo sguardo sulle cose stesse e di educare a coglierle intellettualmente con assoluto
rigore, a descriverle in maniera sobria, fedele e coscienziosa, ha liberato i suoi allievi da ogni
arbitrio e da ogni fatuità nella conoscenza, portandoli a un atteggiamento cognitivo semplice,
sottomesso all’oggetto e perciò umile. Nello stesso tempo ha insegnato a liberarsi dai pregiudizi
e a togliere tutti gli ostacoli che potrebbero distruggere la sensibilità verso intuizioni nuove.
Questo atteggiamento, a cui ci ha responsabilmente educati, ha liberato molti di noi,
rendendoci disponibili nei confronti della verità cattolica”.
Ma già a partire dai primi anni di Gottinga (1911-1914) annota: “Avevo un
profondo rispetto per le questioni di fede e avevo conosciuto persone credenti; a volte andavo
addirittura in una chiesa – protestante – con le mie amiche… ma non avevo ancora ritrovato
la via verso Dio”. È un fatto storico notevole: nel gruppo di allievi e collaboratori
di Husserl ci sono state parecchie conversioni religiose. Lo stesso Husseri e la
moglie erano passati dal giudaismo al protestantesimo, alla Chiesa Riformata
luterana di Vienna, dove ricevettero il battesimo (Husserl aveva 27 anni). I figli
erano stati istruiti nella religione protestante.
Sebbene nel suo lavoro filosofico non si ponga esplicitamente il problema
religioso e affermi di non essere un filosofo cristiano, pure, in una
conversazione privata con l’allieva e amica di Edith, Aldegonda, esclama: “Ve
l’ho detto tante volte: la mia filosofia, la fenomenologia, non vuole essere altro che una via, un
metodo che permetta a coloro che si sono allontanati dal cristianesimo e dalla Chiesa di
ritornare verso Dio”. Nel gruppo husserliano spicca il prof.Adolf Reinach che,
insieme alla moglie Anna si converte dal giudaismo alla fede evangelica. E
questa, dopo la morte in guerra del marito, passa alla Chiesa cattolica. Lo stesso
avverrà della moglie del prof.Husserl e del prof. Alessandro Koyré, anche lui
convertito.
La prof.ssa Hedwig Conrad-Martius, convertitasi alla fede evangelica con il
marito, saranno grandi amici di Edith, ed è nella loro casa che Edith avrà la
grande folgorazione, dopo la lettura – tutta d’un fiato – dell’Autobiografia di
S.Teresa d’Avila: “Questa è la verità!” E sarà l’amica Hedwig, protestante, a fare
da madrina al battesimo cattolico di Edith.
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Ma fu soprattutto Max Scheler, aggiuntosi più tardi al gruppo e spesso in
polemica con Husserl, a esercitare influenza su Edith: “la maniera che aveva… di
diffondere sollecitazioni geniali, senza approfondirle sistematicamente, aveva qualcosa di
brillante e seducente”. I suoi scritti riguardanti i valori e l’empatia avevano per
Edith un’importanza particolare. Proprio allora cominciò ad occuparsi del
problema della Einfulung (empatia, intuizione empatica) 3 che fu l’argomento
della sua tesi di laurea.
3 Edith Stein, seguendo il seminario di Husserl del semestre estivo del 1913 sulla natura e lo spirito, rimane colpita dalla
tesi di Husserl riguardante il problema della conoscenza oggettiva del mondo esterno. Questi ritiene che tale conoscenza
sia conseguibile solo in maniera intersoggettiva, cioè da un numero di individui che si trovano fra loro in uno scambio
reciproco di conoscenze. Husserl, rifacendosi al lavoro di Theodor Lipps, chiama empatia (Einfühlung) l’intuizione che
ha come oggetto gli altri individui. La Stein, nella sua tesi di laurea, decide perciò di studiare approfonditamente l’atto di
empatia. Lo spiega come quell’atto attraverso il quale si coglie un vissuto estraneo in modo non-originario. Per illustrare
l’empatia, fa l’esempio seguente: «Un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello e io mi rendo conto del
suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto?» (Il problema dell’empatia, pp. 71-72). Nell’esempio l’empatia consiste nel
cogliere il dolore dell’amico, come il suo dolore, cioè appunto come un dolore non originario rispetto al proprio vissuto.
Gradi dell’empatia
L’autrice distingue tre gradi di attuazione dell’empatia:
1) l’emersione del vissuto;
2) la sua esplicitazione riempiente;
3) l’oggettivizzazione comprensiva del vissuto esplicitato.
Il primo grado consiste nella lettura di un’espressione emotiva sul volto di qualcuno; il secondo consiste nel dirigersi
intenzionale dell’attenzione verso lo stato d’animo dell’altro. L’oggetto del vissuto non è più l’espressione emotiva,
quanto piuttosto lo stato d’animo dell’altro, con il quale ci si immedesima. Il terzo grado pone attenzione al dolore
dell’altro, colto, a questo livello, come oggetto, come vissuto altrui. Se il secondo grado era un «essere presso» il vissuto
altrui, questo grado comporta una riguadagnata distanza, arricchita però dalla consapevolezza conseguita nel grado
precedente. Va, in ogni caso, tenuto presente che l’empatia non consiste necessariamente nel raggiungimento del livello
più alto ma, anzi, spesso si limita all’attuarsi del livello più basso.
Empatia, co-sentire e unipatia
Una caratteristica importante del vissuto empatico consiste nel suo non essere originario quanto al contenuto. Il contenuto
non sgorga dall’Io che empatizza, ma si origina in un altro. Se l’esperienza empatica è originaria in quanto avviene nel
soggetto che la vive, il suo contenuto non è originario perché si origina nell’Io altrui. Si tratta di una specificazione non
scontata. Sarebbe, infatti, possibile un sentimento non empatico di gioia in occasione della gioia di un altro: entrambi i
vissuti sarebbero allora altrettanto originari. Si immagini, ad esempio, che qualcuno concordi con un amico di compiere
un viaggio con lui, dopo che questi abbia superato un esame. Quando egli lo supera, entrambi gli amici gioiscono, e lo
fanno per lo stesso motivo, ma non si tratta di empatia, piuttosto di un con-gioire (genericamente cosentire), un vissuto
egualmente originario in entrambi i soggetti. I tre gradi dell’empatia sopra riportati consentono di evitare un grave errore
e la confusione dell’empatia con l’unipatia. Quanto all’errore, esso è presente nella teoria di Lipps, secondo cui
nell’empatia un io si fonde con l’altro. Ma, obietta Stein, la teoria di Lipps dimentica l’esperienza della connessione
psicofisica, secondo cui la connessione con il corpo che dico mio non è né casuale, né contingente. L’Io dunque non si
unisce a un altro io, ma rimane sempre se stesso. Quanto all’unipatia, in essa l’Io scopre nell’altro lo stesso sentimento
che egli sperimenta. La Stein fa l’esempio secondo cui alcuni concittadini gioiscono alla notizia che una fortezza nemica
è capitolata. Ciascuno di loro si accorge che anche gli altri provano la stessa gioia. Nell’unipatia si forma, tra l’Io e il Tu,
un Noi. È proprio questa forma di unità superiore che manca al co-sentire.
Tre considerazioni conclusive
La teoria della Stein si comprende meglio alla luce di tre considerazioni. In primo luogo, va detto che trarre delle
conclusioni a partire dalla conoscenza empatica dell’altro può condurre all’errore. La Stein sottolinea però che il metodo
per accorgersi dell’errore è proprio l’apertura empatica all’altro: attraverso un più profondo atto di empatia è possibile
comprendere qualcosa che prima, magari a motivo di un’inconsapevole proiezione sull’altro di attese o preconcetti, era
sfuggito. In secondo luogo, l’empatia non implica necessariamente l’insorgere originario nel soggetto di sentimenti
corrispondenti a quelli empatizzati. L’empatia non va cioè confusa col contagio emotivo. Il soggetto che empatizza può
non rispondere al messaggio emotivo che riceve, ma ciò non toglie che comprenda pienamente lo stato emotivo
comunicato dall’altro. Infine, l’empatia non avviene necessariamente a prescindere dalla comunicazione verbale; al
contrario, dice la Stein, è difficile che dalla sola osservazione dell’atteggiamento corporeo sia possibile comprendere
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Ma l’influenza di Scheler acquistò importanza anche al di là dell’ambito
filosofico. Egli infatti era passato dal giudaismo alla Chiesa cattolica, ma poi,
per motivi di vita privata, se n’era allontanato e infine vi era rientrato. Scheler
“aveva molte idee cattoliche e sapeva divulgarle facendo uso della sua brillante intelligenza e
abilità linguistica. Fu così che venni per la prima volta in contatto con un mondo che fino ad
allora mi era stato completamente sconosciuto. Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia
mi dischiuse un campo di “fenomeni” dinanzi ai quali non potevo più essere cieca… I limiti
dei pregiudizi razionalistici nei quali ero cresciuta senza saperlo, caddero, e il mondo della
fede comparve improvvisamente dinanzi a me. Persone con le quali avevo rapporti quotidiani
e alle quali guardavo con ammirazione, vivevano in quel mondo. Doveva perciò valere la pena
almeno di riflettervi seriamente. Per il momento non mi occupai metodicamente di questioni
religiose; ero troppo occupata in molte altre cose. Mi accontentai di accogliere in me, senza
opporre resistenza, gli stimoli che mi venivano dall’ambiente che frequentavo, e quasi senza
accorgermene ne fui pian piano trasformata”.
In realtà in questi anni di Gottinga la “sete della verità” che Edith diceva essere
la sua unica preghiera, inconsciamente si trasformava in “sete di Dio”. Quando,
per esempio nel 1916, alla vigilia della discussione della tesi, a Friburgo, ha una
lunga conversazione con Hans Lipps, uno del gruppo che ironizza sul fervore
di due amici, Dietrich von Hildebrand e Siegfried Hamburger, convertiti al
cattolicesimo, Edith annota: “No, io non ero tra quelli. Avrei quasi detto: “Purtroppo
no”. L’amico afferma di non capirci niente, e lei: “Io capivo un poco. Ma non potevo dire
molto in proposito”.
Nel 1915 scoppia la Prima Guerra mondiale. Edith, appena superato l’esame
di Stato in Filosofia, fece domanda alla Croce Rossa per entrare nel servizio
sanitario. E così si trovò a prestare servizio come “ausiliaria”, per vari mesi,
presso un grande ospedale militare per malattie infettive a Weisskirchen, in
territorio austriaco. Alle rimostranze della madre per tale decisione oppone: “Se
la gente era costretta a soffrire giù nelle trincee, perché io dovevo stare meglio di loro?”. Per
parte sua, vorrebbe ancora continuare questo servizio, pensando a tanti suoi
colleghi che stanno al fronte (e qualcuno non ne ritornerà vivo). Ma non ottiene
il rinnovo. Certamente questa esperienza è stata per Edith occasione di crescita
spirituale, come distacco da sé e dai propri progetti scientifici, maggiore
apertura agli altri e incontro reale con la sofferenza e la morte. Per la serietà e
l’emozione che l’ha diretto.
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la dedizione al lavoro infermieristico, alla fine della guerra le viene assegnata la
“medaglia del coraggio” della Croce Rossa.
Nella vita della giovane Edith in questi anni (1915-1919), non mancano prove,
come delusioni affettive, problemi familiari, crisi intellettuali, alle prese con gli
sviluppi del cammino “fenomenologico” del maestro Husserl, di cui è diventata
assistente. Edith non condivide questi sviluppi, e sente il peso troppo forte di
questa collaborazione. Lei che ha tanto desiderato un posto d’insegnamento
all’Università – e lo stesso Husserl appoggia la sua domanda – vede fallire ogni
tentativo in proposito (ottobre 1919).
Ma nel novembre 1917 riceve la notizia della morte di Adolf Reinach, ucciso
sul fronte delle Ardenne. Per Edith è un trauma, perché, oltre che maestro,
Adolf Reinach è per lei amico e confidente. Ora, stando accanto alla vedova
Anna Reinach, e collaborando con lei per classificare le carte del marito in vista
della pubblicazione, fa un’esperienza di vita in chiave di fede, tutta positiva.
I coniugi Reinach si erano appena da un anno convertiti al protestantesimo.
Ma già il marito si sentiva vicino al cattolicesimo, come appariva dai suoi
Appunti su una filosofia della religione. Era stata la moglie a voler presto il
battesimo: “non pregiudichiamo il futuro; quando saremo in comunione con Cristo, ci
porterà dove vorrà. Entriamo nella sua Chiesa, non posso aspettare di più!”.
E proprio in questa prova suprema, la morte del marito, Anna attinge nella
“comunione con Cristo” tanta forza e tanta pace che è lei non a ricevere da
altri, ma a dispensare consolazione a quelli che la circondano. Per Edith è
un’esperienza della Croce di Cristo, determinante, come in seguito confiderà al
P.Hirschmann, gesuita. Edith arriva al battesimo il I° gennaio 1922. Aveva
lasciato il suo lavoro di assistente di Husserl (1919) e si era ritirata a Breslavia,
concentrandosi nella ricerca personale filosofica e religiosa, e anche elaborando
nuove forme di insegnamento. Passa lunghi periodi ospite degli amici Conrad-
Martius, a Bergzabem nel Palatinato, anche lavorando duramente nei campi,
con dedizione inesauribile… molto silenziosa e segreta… sembrava sempre
concentrata, come assorbita in una meditazione ininterrotta…
La domenica accompagnava Hedwig alla chiesa protestante, per la funzione.
Un giorno osservò: “Per i protestanti il cielo è chiuso, per i cattolici invece è aperto”.
Anche prima della conversione, Edith aveva profondo rispetto per l’Eucaristia,
presagendovi un mistero ineffabile. Uno squarcio autobiografico sul dramma
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interiore che sta vivendo lo possiamo leggere in un testo scritto da Edith sulla
“Causalità psichica”, pubblicato proprio nel 1922 negli Annali di Husserl:
Faccio progetti per l’avvenire e organizzo di conseguenza la mia vita presente. Ma nel
profondo sono convinta che si produrrà un qualche avvenimento che butterà a mare tutti i
miei progetti. È la fede viva, la fede autentica alla quale ancora rifiuto di consentire, è a
questa fede che io impedisco di divenire attiva dentro di me”.
Il testo, molto bello, continua descrivendo la trasformazione che avviene in
questo stato di “riposo in Dio”, a partire dal silenzio della morte e sfociante in
un afflusso di vita nuova, per la presenza di una “Forza che non è mia e che senza
fare violenza alcuna alla mia attività, diventa attiva in me”.
Possiamo allora cogliere il senso del grido: “Questa è la verità!”, che Edith sente
risuonare nel suo spirito, al termine della lettura dell’Autobiografia di S.Teresa
d’Avila, con queste parole: “Realizzo pienamente la verità nel donarmi,
nell’abbandonarmi totalmente all’Amore” (cf. Giov. 3,21; Ef 4,15). La “fede” in
Cristo non era solo la conclusione della sua lunga ricerca intellettuale, ma la
sintesi di una “nuova vita” operata dalla grazia.
La conversione è un punto molto importante per capire quanto sia “profetica”
la vicenda di Edith. Si pensi a quel che avviene, più o meno negli stessi anni, in
un altro gruppo di amici ebrei passati al cristianesimo evangelico: Eugen
Rosenstock, Hans e Viktor Eherenberg, gravitanti intorno all’università di
Lipsia.
Uno di loro, Franz Rosenzweig (1886-1929), in un primo momento stava per
decidersi per il battesimo, ma poi ha un sussulto di orgoglio della propria radice
ebraica, e polemicamente, in un confronto durato a lungo con l’amico
Rosenstock, nega che possa esserci una base comune tra l’ebreo come tale e il
cristiano di ascendenza ebraica. “Non c’è più alcun substrato ebraico vivo entro al
cristiano militante e tanto meno, a parere di Rosenzweig, vi è liceità alcuna per l’ibrido giudeo-
cristiano. Divenendo cristiani non si è più ebrei, si è cessato completamente di esserlo. Anzi…
in verità non lo si è mai stati, altrimenti la viva appartenenza alla comunità sinagogale non
avrebbe reso possibile il passaggio al cristianesimo”.
Questa era la mentalità dominante. La madre di Edith, per esempio, non poté
mai capire e accettare che la figlia, che pur continuava a frequentare con lei la
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sinagoga, si fosse rivolta a Cristo: era un tradimento, una separazione radicale
dai beni più cari: il proprio popolo, la propria religione! Lo stesso grande
filosofo ebreo Henry Bergson, che era approdato, nel suo lungo percorso, al
Cristo dei vangeli, negli ultimi anni di vita (1859-1941) esitava a farsi battezzare
nella Chiesa cattolica, per timore che il gesto fosse interpretato come un
distacco dal suo popolo proprio nel momento più duro della persecuzione
nazista.
Ora è indubitabile che la conversione a Cristo di Edith – avvenuta col
battesimo del I° gennaio 1922 – non solo non segnò il distacco e tanto meno
il tradimento del suo essere Ebrea, ma, paradossalmente, segnò una nuova
riscoperta della propria ebraicità.
Disse un giorno Husserl, parlando della conversione di Edith Stein: “In lei tutto
è autentico… Ma, in fin dei conti, c’è, in fondo a ogni ebreo, un assolutismo e un amore del
martirio”.
Proprio cosi, da “vera ebrea” attirata da Dio, Edith vive solo per lui, con lo
sguardo fisso sul suo Signore crocifisso, Gesù nazareno, Re dei giudei, e il
desiderio di immolarsi per Cristo è tutt’uno col desiderio di immolarsi per il
suo popolo.
Su questo argomento, oltre alle fonti citate, ho trovato in Internet un ottimo
studio del P.Jean Sleiman, Definitore Generale dell’Ordine dei Carmelitani
Scalzi, letto nel Simposio Internazionale su Edith Stein, tenutosi al Teresianum
di Roma nell’ottobre 1998, in occasione della canonizzazione.
La mentalità dominante nell’ambiente familiare viene espressa – a distanza di
tempo – da una nipote di Edith, Susanne Batzdorff-Biberstein: “Diventando
cattolica nostra zia aveva abbandonato il suo popolo; il suo ingresso in convento manifestava
di fronte al mondo esterno una volontà di separarsi dal popolo ebreo”.
Al contrario, nell’omelia per la beatificazione (1987), Giovanni Paolo II, con
cognizione di causa, affermava: “Ricevere il battesimo non significò in alcun modo per
Edith Stein rompere con il mondo ebraico. Al contrario ella afferma: “Quando ero ragazza
di quattordici anni smisi di praticare la religione ebraica e per prima cosa, dopo il mio ritorno
a Dio, mi sono sentita ebrea”.
Edith si considera “figlia di Israele” e ne rimarrà fiera tutta la vita, perché sente
che è il popolo di Cristo stesso: “Non si può neanche immaginare quanto sia importante
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per me, ogni mattina quando mi reco in cappella, ripetermi, alzando lo sguardo al Crocifisso
e all’effigie della Madonna: erano del mio stesso sangue!”.
Al padre gesuita Hirschmann scrisse: “Non può immaginare che cosa significhi per me
essere figlia del popolo eletto, significa appartenere a Cristo non solo con lo spirito, ma con il
sangue”. Come “ebrea”, Edith non fa questione di “razza”. Immersa nel mistero
d’Israele, contempla nel Cristo Crocifisso, “re dei giudei” la piena realizzazione
delle promesse, delle attese dell’alleanza divina col suo popolo. Perciò tutti gli
ebrei sono di Cristo!
Ricordiamoci la data di nascita di Edith: 12 ottobre 1891, in cui ricorreva la
festa ebraica del Kippur, giorno del perdono e della riconciliazione. Ora Edith,
divenuta cattolica e prossima ad entrare nel Carmelo, contempla il legame
profetico tra il giorno dei Kippur e il giorno del Venerdì Santo: “Il giorno della
Riconciliazione dell’Antico Testamento è la figura del Venerdì Santo: l’agnello immolato per
i peccati del mondo rappresenta l’Agnello immacolato”. Il Cristo, “accettando di morire
vittima, è l’eterno Sacerdote”.
Cristo, dunque, appartiene al popolo ebreo, ma anche la Chiesa – dice
esultando Edith nel “Dialogo notturno”: “La Chiesa vidi nascere dal seno del mio
popolo. Dal suo Cuore spuntare vidi poi, come tenero tralcio allor fiorito, l’Immacolata, la
tutta Pura, di David discendente”. E “nel cuore della Vergine”, figlia d’Israele, “dal
Cuore di Gesù vidi fluire la pienezza di grazia”. Il rapporto stretto con la madre
Augusta, fedele osservante della fede ebraica, ci aiuta ancora a comprendere la
convinzione di Edith circa la non incompatibilità tra le due fedi, ebraica e
cristiana. È l’ultima volta che Edith accompagna la madre alla sinagoga, per la
festa dei Tabernacoli (sta per entrare nel Carmelo), e nel ritornare a casa la
mamma le chiede: “Non era bella la predica?” – “Sì”. “Anche nella fede ebraica si può
essere religiosi, non ti pare?” – “Certamente, quando non si è conosciuto altro”. Allora la
madre replica, desolata: “E tu, perché l’hai conosciuto? Non voglio dir niente contro di lui,
sarà stato certamente un uomo molto buono, ma perché si è fatto Dio?”. Madre e figlia
soffrono terribilmente, al punto che Edith scrive: “Ho dovuto compiere il passo da
sola e totalmente immersa nella notte della fede. Spesso, nel corso di quelle settimane così dure,
mi sono chiesta quale di noi due, mamma o io, ci avrebbe rimesso la salute. Ma siamo rimaste
ferme sulle nostre posizioni fino all’ultimo giorno”. Eppure Edith conserva
ammirazione per la fede della mamma, non per puro istinto di affetto filiale,
ma per la radicata convinzione che Dio opera anche oltre i confini della Chiesa,
opera anche nelle altre religioni.
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Alcune lettere scritte nel 1936, nel 1938 e nel 1939, ricordano la morte della
mamma: “Dio l’ha presa con lui rapidamente”; “Oggi [la mamma] celebra il suo 87°
anniversario con la cara nostra Santa Teresa”. Teresa di Lisieux: era infatti il 3 ottobre
1936, giorno – a quel tempo – della sua festa. Come si vede, pone sua madre
in cielo in compagnia di una santa canonizzata, nessuna reticenza circa il
destino dei suoi parenti giudei!
Questo suo sentire va insieme alla chiara affermazione: “Mia madre è rimasta fino
all’ultimo fedele alla sua fede. Ma dato che questa sua fede e il completo abbandono nel suo
Dio l’hanno accompagnata dall’infanzia fino all’87° anno di età, e sono rimasti accesi in lei
fino all’ultimo, anche mentre lottava con la morte, sono convinta che abbia trovato un giudice
molto generoso ed ora aiuterà anche me ad arrivare alla meta”. Edith arriva ad attribuire
dei poteri di intercessione alla madre: commentando la visita fattale dal fratello
in partenza per l’America, scrive all’amica Hedwig Dulberg: “Il giorno dei morti
ricorderemo entrambe le nostre mamme. Questo pensiero mi è di grande consolazione. Credo
fermamente che mia madre abbia il potere di aiutare i suoi figli in pericolo” (4 ottobre
1938).
Anche per il suo “caro Maestro”, il Prof.Edmund Husserl, che era in fin di vita
(1938), Edith si esprime con grande apertura di spirito: “Non sono affatto
preoccupata per il mio caro Maestro. È stato sempre lontano da me il pensare che la
misericordia di Dio si permetta di essere circoscritta ai limiti visibili della Chiesa. Dio è la
verità. Chi cerca la verità, cerca Dio, che ne sia cosciente o no”. Come non ammirare
queste anticipazioni profetiche delle posizioni prese dalla Chiesa, dal Concilio
Vaticano II in poi, circa i rapporti ecumenici, e particolarmente con gli ebrei?
Agli inizi degli anni ’30 la Germania versava in piena crisi economica e grave
instabilità politica, mentre lentamente ma inesorabilmente saliva il partito
nazionalsocialista di Hitler. Edith in quegli anni si trovava come insegnante
presso le Domenicane di Spira (1922-1931), e in seguito presso l’Istituto di
Pedagogia scientifica di Munster (1932-1933). Contemporaneamente, però, era
impegnata in conferenze pubbliche molto richieste e apprezzate su problemi
dell’educazione e del ruolo della donna.
Attenta da sempre alla storia del mondo, e come cristiana educata a interpretare
gli eventi alla luce del vangelo, intuì presto il carattere totalitario e anticristiano
del movimento nazista: “Oggi non c’è nulla che ci manchi così tanto come il battesimo
nello spirito e nel fuoco… Nella grande battaglia che, più che mai, è in corso tra Cristo e
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Lucifero, vi sono quelle che sono chiamate per vocazione a formare gli uomini che devono
andare al fronte. Armarci per la lotta e rimanere armate in permanenza: questo è il nostro
dovere più pressante”. Così Edith si rivolgeva alle sue ascoltatrici. Intanto rifletteva
quale fosse il suo posto al fronte.
Edith non stenta a capire subito il futuro: il nazismo, incarnazione del Maligno,
nemico della Croce, combatte Dio stesso e il suo piano salvifico, perciò non
può non cominciare dal voler distruggere il giudaismo, come fondamento della
stessa religione cristiana, eliminare la “peste giudeo-cristìana” per instaurare il
regno della razza ariana.
Nel 1931, al momento di accomiatarsi dalle allieve di Spira, una le dice: “Ma
signorina, lei è sconvolta!”. “Non posso fare a meno di essere triste e di agitarmi, quando so
che Hitler arresterà molto presto i miei parenti e anche me. Cosa fare?”.
Siamo al primo venerdì d’aprile 1933: Edith, non ancora carmelitana, proprio
nella cappella del Carmelo di Colonia ha una profonda esperienza spirituale:
“Mi rivolgevo interiormente al Signore, dicendogli che sapevo che era proprio la sua Croce che
veniva imposta al nostro popolo. La maggior parte degli ebrei non riconosceva il Signore, ma
quelli che capivano non avrebbero potuto fare a meno di portare la Croce. È ciò che desideravo
fare. Gli chiesi soltanto di mostrarmi come”.
Sentendosi seriamente coinvolta nella sorte del suo popolo, continua a
interrogarsi se potesse fare qualcosa per il problema degli ebrei. “Infine avevo
deciso di recarmi a Roma e di chiedere al Santo Padre [Pio XI] una Enciclica, in una
udienza privata”. Risultato impraticabile questo progetto (a giudizio del suo
direttore spirituale, l’Abate di Beuron, Don Walzer), Edith ripiega a scrivere
una lettera al Santo Padre, nella quale non si limitava a parlare degli ebrei, ma
anche del futuro della Chiesa in Germania. “So che la mia lettera gli è stata consegnata
direttamente e ancora chiusa… mi sono spesso domandata se il tenore del mio messaggio
abbia in qualche modo destato l’attenzione del Sommo Pontefice. Le previsioni che vi facevo,
riguardanti il destino dei cattolici in Germania, si sono puntualmente realizzate”. A
giudizio del P.Jan H. Nota, gesuita olandese, che fu amico di Edith e ha poi
approfondito il suo pensiero, questo passo compiuto da Edith potrebbe aver
influito sulle posizioni assunte da Pio XI contro il razzismo e l’antisemitismo.
Sul piano dell’azione a favore del suo popolo Edith ha fatto quanto le era
umanamente possibile. Ma il Signore le apre nuove vie di amore eroico per i
fratelli ebrei.
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Nella stessa quaresima del 1933, ospite casuale di un collega dell’Istituto di
Munster, Edith, che non era conosciuta da questi come ebrea, riceve molte
informazioni dai giornali americani sulle atrocità commesse contro gli ebrei
tedeschi. “Avevo già saputo delle persecuzioni… ma in quel momento… vidi con
chiarezza… che il destino di quel popolo diveniva tutt’uno col mio”.
Se Edith deve partecipare al destino del suo popolo, e se questo destino è
portare la Croce di Cristo che gli viene imposta… si comprende come queste
esperienze spirituali la preparino al passo definitivo. Così si esprimeva poco
dopo: “Non è l’attività umana che ci può salvare, ma soltanto la passione di Cristo. Esserne
partecipe, questa è la mia aspirazione”.
Tenendo presente che una caratteristica della personalità di Edith è la piena
integrazione tra il pensiero e il vissuto, tra le analisi, le elaborazioni
filosofico-teologiche e l’esperienza mistica, comprendiamo come la vita di
carmelitana rappresenti, per lei, la piena realizzazione della sua vocazione come
donna: “L’unione nuziale dell’anima con Dio è lo scopo per il quale è stata creata: redenta
dalla Croce e trovando il suo compimento nella Croce, l’anima è segnata per l’eternità
dal sigillo della Croce”.
Nel suo scritto di anni prima (1931) sulla “Vocazione della donna”, Edith aveva
esposto il modo d’intendere la “sposa del Cristo”:
Ella sta in piedi al suo fianco, come la Chiesa e come la Madre di Dio… Là ella sta, per
aiutare l’opera della redenzione. Il dono totale del suo essere e della sua vita la fa entrare
nella vita e nelle fatiche di Cristo, permettendole di compatire e di morire con lui, di quella
terribile morte che fu per l’umanità la sorgente della vita. La sposa di Dio conosce così una
maternità soprannaturale che abbraccia l’umanità intera, sia che prenda parte attiva alla
conversione delle anime sia che ottenga con la sua immolazione i frutti della grazia per coloro
che non incontrerà mai sul piano umano”.
Questo è stato il progetto divino pienamente realizzatosi nella vita di Edith: il
14 ottobre 1933 entra nel Carmelo di Colonia: il 15 aprile 1934 prende l’abito
del Carmelo e il nome di Teresa Benedetta della Croce, come Lei aveva chiesto;
domenica di Pasqua 1935 è chiamata alla professione semplice; il 10 maggio
1938 emette la professione solenne che la unisce definitivamente a Cristo.
Con l’esperienza della Croce era cominciato il cammino della conversione. Nel
giorno del battesimo si era fortemente sentita attratta verso la vita
carmelitana, il cui tratto fondamentale – come lei stessa descrive – “consiste nel
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soffrire con Cristo… unite al Signore… Cristo continua a soffrire in loro… a intercedere
per i peccatori attraverso una sofferenza liberamente accettata e gioiosa, partecipando così alla
redenzione dell’umanità”. Nel Carmelo, vivendo intensamente questa vocazione,
potrà dire: “Ora so molto di più che cosa significa essere la sposa del Signore sotto il segno
della Croce. E’ chiaro che non si può facilmente capire perché è un mistero… È ai piedi della
Croce che ho capito il destino del Popolo di Dio che già si stava delineando. Ho pensato che
chi lo comprende deve prendere su di sé la Croce di Cristo per tutti”.
Quando nella famosa Notte dei cristalli (8-9 novembre 1938) si scatenò il
fanatismo nazista contro negozi, case, e contro le stesse persone ebree, le suore
rimangono esterrefatte, e Suor Benedetta (Edith) esclama: “E’ l’ombra della Croce
che si abbatte sul mio Popolo! Oh, se adesso potesse capire!”.
“È qui il fondamento della teologia steiniana del giudaismo… Edith Stein ama sempre il
suo Popolo, ma lo percepisce con gli occhi e il cuore di Cristo. Si rivolge a Lui e vede che la
sua propria Croce è stata messa sulle spalle dei Popolo giudeo. In altri termini… la sorte di
Cristo con il nazionalsocialismo è pure quella degli ebrei. La missione di ambedue è identica”.
Edith non separa mai il Messia dal suo Popolo messianico… L’Anticristo (il
nazismo) odia in questo Popolo la sua messianità, e quindi il legame profondo,
vitale, connaturale con Cristo… È alla luce dell’approfondimento del mistero
di Israele sotto la Croce, al di là del contesto storico, che bisogna capire il suo
amore, la sua compassione e anche le sue critiche: “Il grande peccato degli Ebrei,
per Edith, se si deve parlare di peccato, è di trascurare la loro missione e quindi di tradire la
propria identità: popolo messianico, popolo del Messia, ma anche Popolo Messia”.
Il 30 gennaio 1939 Hitler decreta e annuncia l’annientamento della “razza
ebraica”. I segni dell’imminenza del conflitto sono evidenti. Il 31 dicembre
Edith si rifugia nel Carmelo di Echt in Olanda, dove nell’agosto del ’40 la
raggiungerà la sorella Rosa. In questa situazione drammatica Suor Benedetta si
stringe sempre più al Cuore di Gesù “per diventare la tua vera sposa. Ti prometto
solennemente: ogni volta che dovrò fare una scelta prenderò ciò che ti rallegrerà di più”. Fa,
cioè, il voto del “più perfetto”.
Qualche settimana dopo, chiede alla priora di Colonia (che è rimasta la sua
superiora) l’autorizzazione a “offrirmi al Cuore di Gesù come vittima espiatoria per la
vera pace, augurandomi che il regno dell’Anticristo crolli, se è possibile, senza una nuova
guerra mondiale, e che venga rinnovato l’ordine dei mondo”.
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Infine scrive un Testamento spirituale: “Fin da adesso accetto la morte che Dio mi ha
destinato e con una totale sottomissione alla sua santissima volontà. Prego il Signore di voler
accettare la mia vita e la mia morte per la sua gloria, per le intenzioni dei SS.Cuori di Gesù
e di Maria, per quelle della Chiesa. In particolare… in espiazione per il rifiuto della fede da
parte del popolo ebreo, affinché il Signore sia accolto dai suoi e venga il suo regno nella gloria;
per la salvezza della Germania e, per la pace nel mondo”.
Suor Benedetta non affronta temerariamente il martirio. Memore delle parole
di Gesù (Mt 10, 23): “Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra”, in
accordo e per suggerimento degli stessi superiori, aveva cercato di farsi
accogliere in un Carmelo della Svizzera, e le pratiche erano a buon punto. Ma
in seguito alla convocazione ad Amsterdam da parte della Gestapo, si rende
conto che non avrebbero avuto esito positivo. Si rivolge anche alla Spagna.
Intanto Suor Benedetta è tutta immersa nello studio e nella contemplazione
degli scritti di S.Giovanni della Croce (per incarico della superiora, in vista di
una pubblicazione per il 4° Centenario della nascita dei Santo, 1942). “Nella
conclusione della sua analisi del Cantico spirituale... si può leggere tutto il suo destino,
discernere la luce della Croce dalla quale sarà illuminata la notte misteriosa della sua fine:
… “Il matrimonio spirituale dell’anima con Dìo, scopo per il quale l’anima è stata creata,
viene comprato dalla Croce, consumato sulla Croce e per tutta l’eternìtà suggellato con il sigillo
della Croce””.
Ecco, in sintesi, la parte finale del dramma: l’anno 1942 segna l’inizio delle
deportazioni in massa degli ebrei verso l’Est: campi di lavoro, miniere di sale,
camere a gas. Di fronte a questi eventi di incredibile ferocia, i Vescovi della
Chiesa di Olanda, in accordo con la Chiesa Riformata, inviano al Commissario
del Reich un lungo telegramma di protesta (11 luglio 1942).
In seguito a questo passo, il Capo nazista si dice disposto a non toccare quei
cristiani di origine ebraica che possono dimostrare la loro appartenenza a una
comunità cristiana prima del gennaio 1941. I Vescovi ritengono del tutto
insufficiente questa risposta, perché non tocca la questione di fondo, le
deportazioni in massa, e – d’accordo con la maggioranza dei ministri
protestanti – fanno leggere in tutte le chiese del paese (domenica 26 luglio) una
lettera pastorale, nella quale veniva riportata la protesta e il pressante appello
del telegramma. Inoltre si faceva menzione dello scambio di idee intercorso
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con il Commissario del Reich, e si concludeva con un ardente Appello alla
preghiera per la giusta pace e per il popolo ebreo tanto duramente provato.
Conclusione? La mattina del 2 agosto, il commissario del Reich ordina che tutti
i religiosi e le religiose non ariani presenti nei conventi olandesi vengano portati
via. E nel pomeriggio dello stesso 2 agosto 1942, la Gestapo viene ad arrestare
le sorelle Stein. In pochi minuti le due sorelle devono lasciare il convento.
Inutile ogni protesta della superiora.
L’ultima parola di Suor Benedetta nel lasciare il Carmelo è indirizzata alla
sorella: “Vieni, – le dice prendendola per mano – andiamo per il nostro
popolo”.
La sera stessa, il Commissario aggiunto Schmidt rilascia una dichiarazione
ufficiale secondo la quale, avendo l’episcopato cattolico rifiutato di rispettare il
segreto dei negoziati, le autorità tedesche si vedono costrette a “perseguire i
cattolici ebrei, come i loro peggiori nemici, assicurandone il più presto possibile la deportazione
verso l’Est”.
Edith fu condotta per alcuni giorni nel campo olandese di Westerbork, e poi,
il 7 agosto, fu avviata con gli altri ebrei, su un treno piombato, ad Auschwitz.
Questi elementi ci danno la certezza che Edith Stein è stata arrestata e deportata
perché cattolica ebrea, e non semplicemente come ebrea, per rappresaglia
contro la Chiesa cattolica d’Olanda.
Per gli ebrei cattolici deportati ci fu un trattamento – se possibile – ancora più
duro che per gli altri. Ad Auschwitz-Birkenau, all’arrivo del convoglio, il 9
agosto 1942, le sorelle Stein vengono fatte entrare – con le altre deportate –
nella camera a gas.
Nell’ultima lettera che, da deportata, era riuscita a far pervenire al Carmelo di
Echt, aveva scritto: “Si può acquistare una “Scienza della Croce” [era il titolo
dell’ultimo suo libro, rimasto incompiuto], solo se si comincia a soffrire veramente del
peso della Croce. Ne ho avuto l’intima convinzione fin dal primo istante, e dal profondo del
cuore ho detto: “Salve, o Croce, unica speranza””.
Nel tunnel della morte, il cuore di Edith palpita: “La Croce è tutta luce: il legno della
Croce è divenuto luce del Cristo”.
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SCIENTIA CRUCIS
“Croce” e “sacrificio” nell’esperienza mistica
Edith Stein interprete di san Giovanni della Croce
A cura di Angela Ales Bello4
I termini “croce”, “sacrificio”, “esperienza mistica” si rimandano reciprocamente. Quest’affermazione non è immediatamente perspicua, necessita, perciò, di essere esplicitata per essere compresa. Mentre per i primi due il legame sembrerebbe più diretto e facile da intuire, se ci si pone nella prospettiva cristiana – si potrebbe pensare, infatti, al sacrificio di Cristo sulla croce, ma si vedrà che questo è l’archetipo di ciò che concerne più direttamente l’essere umano -, il connetterli all’esperienza mistica richiede di spingerci in una dimensione esperienziale molto peculiare. Nel testo che segue cercherò di stabilire una relazione fra i tre momenti, seguendo in modo ravvicinato il percorso proposto da Edith Stein. Il significato della “croce” Il tema della croce è trattato espressamente da Edith Stein nell’opera Scientia Crucis5 che ella scrive, poco prima della sua morte, mentre si trova nel Carmelo di Echt, in Olanda. Il libro, che si presenta come un lungo commento all’opera di san Giovanni della Croce, risente indubbiamente di una certa disomogeneità a causa della mancanza di una revisione globale; infatti, l’Autrice non ebbe il tempo di rielaborarlo in vista della pubblicazione, e, prima di essere costretta a seguire i suoi persecutori, il 2 agosto 1942 lo affidò alla Madre superiora del Carmelo di Echt, quasi come suo testamento spirituale. La disomogeneità, che
4 Angela Ales Bello dopo la laurea e la specializzazione in filosofia alla Sapienza di Roma, si è dedicata soprattutto ad
approfondire la fenomenologia di Husserl, studiando anche altri autori della scuola fenomenologica, in particolare quelli
tedeschi. In tale ambito ha analizzato il pensiero delle donne filosofe che si sono formate all'interno del cosiddetto Circolo
di Gottinga, tra cui Edith Stein, di cui Ales Bello è una delle più importanti specialiste, e Hedwig Conrad-Martius. Ales
Bello cura l'edizione integrale per Città Nuova Editrice delle opere di Edith Stein in italiano. Ha pubblicato saggi e articoli
specialistici sul pensiero fenomenologico. Già professoressa ordinaria di Storia della filosofia contemporanea presso la
Pontificia Università Lateranense a Roma, ora insegna "Fenomenologia dell'esperienza religiosa" nella facoltà di Filosofia
della quale è stata decana fino al 2002; è visiting professor in alcune università straniere. 5 E. Stein, Kreuzeswissenschaft Studie über Johannes vom Kreuz, neue bearbeitet und eingeleitet von U. Dobhan OCD,
Edith Sten Gesamtausgabe, Bd. 18, Herder, Freiburg 2003. Le due traduzioni italiane esistenti sono state condotte sulla
prima edizione tedesca pubblicata nella serie Edith Stein Werke, Nauwaelarts, Louvain, 1950 a cura di P. Edoardo di
Santa Teresa, edito dalla Postulazione generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1982 e da Cristiana Dobner, Edizioni OCD,
Morena Roma 2002. Trarrò le mie citazioni da quest’ultima edizione, tranne esplicito riferimento alla prima.
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sembrerebbe una carenza, è, al contempo, la vera ricchezza di questo testo straordinario, che mantiene la vivezza delle impressioni e riflessioni suscitate da un approccio diretto alle opere di san Giovanni e si presenta eccezionalmente profondo per la capacità di penetrare in esse, mostrata dalla Stein. Volendo introdurci nel tema della croce alla luce delle sue riflessioni è necessario procedere ad una lettura, che rintracci direttamente nel testo i punti fondamentali del percorso compiuto dall’Autrice. L’occasione, che aveva determinato la scrittura del testo, era stata offerta a Suor Teresa Benedetta dai suoi superiori per ricordare il IV centenario della nascita di san Giovanni della Croce. La Stein ripercorre tutte le opere del santo Padre, che vanno da La salita del Monte Carmelo alla Notte Oscura, al Cantico spirituale e alla Fiamma d’amore viva, elaborando una sintesi competa che segue il filo conduttore, rappresentato, appunto, dalla croce. Prima di tutto, quindi, per capire il messaggio di san Giovanni, dovremo interrogarci su che cosa sia la croce. Edith Stein ci introduce alla riflessione su questo argomento mediante la biografia intellettuale e spirituale del Santo, per proporci, poi, i differenti sensi attraverso i quali il tema della croce è sviluppato. D’altra parte, l’importanza di questo tema per il Santo e per la sua commentatrice, santa Teresa Benedetta, è testimoniata dal fatto che essi hanno aggiunto al nome, assunto all’interno dell’Ordine carmelitano, la specificazione “della Croce”; la loro scelta dipendeva certamente da una comprensione profonda del significato della croce, pertanto, nessuno meglio di loro poteva riflettere sul senso di questa realtà. Edith Stein sottolinea, innanzitutto, che la croce è simbolo ed emblema, 6 ovvero, simbolo non arbitrario, che rimanda al sacrificio di Cristo. 7 La croce riguarda il sacrificio della messa, 8 ma è anche oggetto delle visioni di san Giovanni, 9 dei suoi patimenti 10 e, soprattutto, della personale crocifissione e del sacrificio del sé. 11 Il tema della croce è trattato, quindi, attraverso una molteplicità di approcci; certamente, il più interessante, dal punto di vista della nostra analisi, è quello
6 Scientia Crucis, tr. it. di P. Edoardo di santa Teresa, cit., p. 62.
7 Ivi, p. 65
8 Ivi, p. 40-41ss
9 Ivi, p. 42-45
10 Ivi, p. 71 e ss
11 Si veda il capitolo I.3.c La Notte oscura dei sensi in Scientia Crucis, pp. 72-77.
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che mette in relazione il senso della croce e il sacrificio. Prima di affrontare questo argomento, è opportuno sottolineare il giudizio che la Stein dà dell’opera di san Giovanni della Croce. Ella così si esprime: «In essi [questi scritti] l’esperienza viene tradotta dal linguaggio del poeta in quella del pensatore, competente filosoficamente e teologicamente, ma con un uso molto moderato di espressioni scolastiche tecniche ed un ricco impiego di immagini assunte dalla vita. […] L’esperire personale viene integrato con quanto è conosciuto dal maestro nella guida delle anime, con uno sguardo profondo nella vita interiore di altre persone. E questo lo protegge dalla unilateralità e dalle false generalizzazioni». 12 Nell’interpretazione di san Giovanni della Croce, ella introduce immediatamente l’esame della specificità dell’esperienza mistica in rapporto alla fede, argomento particolarmente importante sul quale si tornerà in seguito. E scrive: «Si diceva che la fede attira le potenze spirituali e le rivolge ad occuparsi di Dio e delle cose divine. Così facendo siamo ben lontani dall’aver raggiunto il distacco dal mondo creato. Anche persone che si sono decise seriamente per una vita spirituale e perciò si sforzano di perseverarvi, dedicano solo una parte, piccola o grande, del giorno alla preghiera e alla meditazione. Per il resto stanno con tutt’e due i piedi sul terreno del mondo creato. Si preoccupano di penetrare questo mondo con la loro conoscenza e di sottometterlo al loro dominio, di acquisire beni temporali e di goderli. Soffrono ancora della malìa affascinante dei beni naturali e non sono insensibili a quanto fa godere i sensi anche se, forse, sotto l’influsso della loro vita di preghiera, in questa direzione, si sono già posti delle grandi limitazioni». 13 Da qui si evince che per la Stein non basta la fede, anche profonda, o l’impegno di una persona religiosa, spiritualmente molto attenta, per raggiungere quella situazione peculiare che è data proprio dall’intervento di Dio, attraverso una grazia straordinaria. Infatti, continua: «Questo avviene, pero, non solo attraverso il messaggio della fede ma, anche, con comunicazioni straordinarie, adatte a far superare l’attrazione del mondo naturale e a renderla efficace. Vengono presentate, ai sensi e all’immaginazione, immagini che superano ogni cosa terrena. L’intelletto viene innalzato con illuminazioni soprannaturali a penetrazioni che non avrebbe mai potuto creare con la sua stessa elaborazione conoscitiva».14
12 Scientia Crucis, tr. it. di Cristiana Dobner, cit., p.36.
13 Ivi, p. 134.
14 Ivi, p. 135.
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È chiaro che alla base di quest’osservazione, oltre a considerazioni di natura teologica e mistica, si trova una riflessione di carattere antropologico, che ci rimanda alle sue analisi filosofiche, prevalentemente centrate su tale argomento. Ricordiamo che ella era stata attratta dalla lettura dell’opera di santa Teresa d’Avila proprio mentre procedeva nelle sue indagini fenomenologiche sulla struttura e la costituzione dell’essere umano. Ella aveva notato che i mistici carmelitani - quindi, nel suo percorso personale di ricerca, prima, santa Teresa d’Avila e, in seguito, san Giovanni della Croce -, con il loro linguaggio, con le loro descrizioni, attraverso le loro esperienze, davano un’interpretazione dell’essere umano corrispondente, in maniera straordinaria, a quella rintracciabile sul piano più strettamente filosofico. Attraverso l’analisi che Edith Stein aveva appreso alla scuola di Husserl, ella era giunta ad individuare nell’essere umano tre dimensioni: corpo, psiche e spirito. Esse - ed è questa la novità dell’indagine fenomenologica - sono poste in evidenza non attraverso un’osservazione esteriore, ma, attraverso gli atti vissuti, che consentono di cogliere la complessità della sua struttura. Stabilendo una distinzione qualitativa fra i vissuti, è possibile rintracciare, infatti, quelli che ci rimandano alla corporeità, alla psiche, e alla sfera intellettuale e spirituale15. L’analisi fenomenologica della struttura essenziale dell’essere umano preliminarmente prescinde dall’accettazione acritica di tripartizioni, pur autorevoli, tratte dalla tradizione, non perché queste siano false, ma, semplicemente perché è proprio del metodo fenomenologico sgombrare il terreno da concezioni che presuppongono come dato ciò di cui, invece, si cerca di stabilire nuovamente la presenza e il senso. Si procede, pertanto, all’epochè, cioè all’operazione di messa tra parentesi della tripartizione, che risale addirittura a san Paolo e che passa attraverso Agostino. Lo svolgimento delle analisi condotte da Husserl e dalla Stein conferma, tuttavia, la costituzione tripartita dell’essere umano attraverso l’esplorazione della soggettività, presa nella sua universalità e nella sua particolarità. Si scopre, in tal modo, il significato della presenza delle potenze dell’anima umana, quelle dell’immaginazione, della volontà, dell’intelletto, che dai mistici vengono mostrate in actu, non perché il loro intento sia di delineare un’antropologia, ma perché, durante peculiare esperienza da loro vissuta, queste facoltà sono attivate, coinvolte e portate a consapevolezza. Tuttavia, essi sperimentano, anche, grazie straordinarie, che permettono di superare l’attrazione del mondo naturale. Allora che cosa accade concretamente rispetto
15 Per la trattazione del tema antropologico in Husserl e in Edith Stein rimando al mio libro L’universo nella coscienza –
Introduzione alla fenomenologia di Edmund Husserl, Edith Stein, Hedwig Conrad-Martius, ETS, Pisa, 2003, ristampa
2007.
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alle capacità dell’essere umano? «L’intelletto viene innalzato con illuminazioni soprannaturali a penetrazioni che non avrebbe mai potuto creare con la sua stessa elaborazione conoscitiva. Il cuore viene colmato di celeste consolazione al cui confronto impallidiscono tutte le gioie e i godimenti del mondo. In questo modo, l’anima viene preparata a staccarsi con tutte le sue forze da ogni bene terreno per volgersi ai beni celesti. »16 Con questo siamo, però, solo a metà del lavoro. Non si giungerebbe mai alla meta, se ci si arrestasse a queste comunicazioni sovrannaturali. Pur essendo già cose straordinarie, esse non possono essere scambiate con la meta, che è indicata come “l’unione con Dio”. Quest’ultima è una condizione che supera senz’altro la dimensione della fede così come la intendiamo comunemente, perché è qualitativamente diversa. Talmente diversa che, per parlare della contemplazione mistica, si devono usare immagini quali il raggio di tenebra (con un riferimento a Dionigi l’Aeropagita)17, sapienza misteriosissima, conoscenza oscura e generale; solo in tal modo si giunge all’incomprensibile Dio che acceca l’intelletto e appare ad esso come “tenebra”.18 Certamente ciò non vuol dire che l’intelletto non serva, ma in questa unione particolare l’intelletto non è attivato: infatti, le potenze umane sono presenti, ma non guidano il processo conoscitivo. E, allora, in questo senso, si può dire che la contemplazione mistica è il raggio di tenebra. È una conoscenza oscura. Ciò sembrerebbe contraddittorio, ma essa è tale, perché non è determinata dalle nostre capacità conoscitive, piuttosto, è data direttamente; pertanto, è oscura in quanto ne è oscura l‘origine, la provenienza. È un dato, senza essere risultato di un processo conoscitivo. «Noi non possiamo ora decidere se questo conoscere oscuro, amoroso, in cui l’anima viene toccata nella sua più profonda interiorità da Dio - “bocca a bocca”, sostanza-sostanza - possa ancora essere ascritto alla fede. È l’abbandono dell’anima attraverso la volontà (sua bocca) all’amoroso venire del Dio ancora sempre nascosto: amore che non è sentimento, ma è operare, è essere pronti al sacrificio, porre la propria volontà in quella divina , per essere diretti solo da Lui.» 19 Ecco apparire il tema del sacrificio «… porre la propria volontà in quella divina per essere diretti solo a Lui». Questo atteggiamento amoroso, non è un atteggiamento sentimentale qualsiasi, ma è una disponibilità interiore
16 E. Stein, Scientia Crucis, p. 135. 17 Dionigi l’Areopagita, Mystica Theologica, I,1. 18 E. Stein, Scientia Crucis, p. 137. 19 Ibid.
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fortissima che implica l’esser pronti al sacrificio. Comprendiamo, allora, tutto il cammino di purificazione di san Giovanni della Croce, proprio perché in noi ci sono forti resistenze a sospendere l’attività del nostro intelletto, ad essere disponibili a non agire più in prima persona. 20 Il sacrificio di sé Il tema del sacrificio di sé si trova sia nelle opere di santa Teresa sia in quelle di san Giovanni, ma quest’ultimo sembra incontrare maggiori difficoltà a cedere il dominio delle proprie capacità, delle proprie potenzialità. Ecco perché il suo cammino è così tormentato. È la notte oscura, in cui si sacrifica qualcosa di sé. Ci possiamo chiedere come avvenga questo sacrificio. Esso avviene attraverso l’eliminazione proprio di ciò che di per sé noi consideriamo come positivo. L’annullamento di sé è ciò che di maggiormente negativo possa essere sperimentato dall’essere umano. Il fatto è che l’anima, proprio in questa spoliazione, scopre la sua povertà e la sua sofferenza. È questa una rivelazione terribile, perché va contro quello che la natura umana, invece, normalmente considera valido. Quello che possiamo ottenere attraverso l’uso delle nostre potenze intellettuali e spirituali, è, infatti, ciò che massimamente ci gratifica. Qui si tratta, al contrario, di disporsi in modo tale da annullarsi. Non si tratta, però, di un annullamento ontologico. È l’annullarsi per dare spazio a qualcosa che, benché purifichi l’anima, la costringe a scoprire la sua profonda povertà. La scoperta della povertà dell’anima, la scoperta del sacrificio necessario per arrivare ad una meta più alta, è una grande sofferenza. È un cammino di estrema sofferenza, ma anche un cammino di purificazione. In ciò consiste la sua positività. Vediamo come Edith Stein affronta l’analisi di questo tema, riportando le parole di san Giovanni della Croce: «Per l’elevatezza e la grandezza dell’oscura contemplazione l’anima giunge alla consapevolezza della sua povertà e della sua estrema miseria. Ella sente un profondo vuoto e la povertà nei beni temporali, naturali e spirituali. Si vede immersa in mali contrari, “nella
20 Si può vedere una diversità fondamentale nell’atteggiamento di fronte al sacrificio di sé tra santa Teresa e
san Giovanni della Croce. La prima sembrerebbe molto più disponibile a cedere. E questo rientrerebbe nel
discorso delle caratteristiche peculiari del maschile / femminile, messe in evidenza proprio da Edith Stein
nelle sue conferenze raccolte sotto il titolo La donna. Il suo compito secondo la natura e la grazia, tr. it. di
Ornella Nobile Ventura, Città Nuova, Roma 1999.
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miseria della sua imperfezione, nell’aridità, nell’assoluta impotenza delle sue potenze dell’anima, in un tenebroso abbandono dello spirito. Si sente come se fosse impiccata e venisse sospesa in aria senza poter respirare”.» 21 E scrive ancora: «“Dio, però, purifica anche annientando tutte le sue inclinazioni e imperfezioni abituali, le elimina e le distrugge come il fuoco con la ruggine, l’ossido con il metallo. Poiché sono profondamente radicate nella sostanza dell’anima, ella, oltre la povertà naturale, spirituale e allo spoliamento, deve soffrire anche una grande pesantezza, annientamento e tormento interiori”. » 22 “Cedere” le proprie capacità, non esserne più padrone, nell’esperienza di san Giovanni della Croce - ma anche in quella della Stein - implica una grande sofferenza, benché si sia consapevoli che ciò avviene in vista di una meta più alta. Si tratta proprio di lottare con se stessi e in ciò si compie il grande sacrificio di sé. Edith Stein commenta: «Per togliere la ruggine dalle sue inclinazioni ed eliminarle, l’anima deve […] annientarsi e dissolversi perché queste passioni e imperfezioni sono diventate per lei quasi una seconda natura. Ella sente “questa potente distruzione nella sua stessa sostanza … come se morisse per inedia”. “Qui Dio umilia l’anima in sommo grado per innalzarla ancora più in alto certamente”.»23 La finalità è del tutto positiva. Però, c’è un momento negativo attraverso il quale è necessario passare. E, anzi, “… quanta più sofferenza c’è, tanto meglio è” osserva la Stein, che prosegue: «Questo dura più a lungo o meno a lungo secondo il grado della contemplazione. Quanto più puramente e limpidamente la luce divina cade nell’anima, tanto più per lei c’è oscurità, vuoto e annientamento. “Quando l’anima è così vuota e nell’oscurità, la purifica e la illumina il raggio divino” di luce della contemplazione, senza che l’avverta qualche cosa della luce divina. »24
21 E. Stein, Scientia Crucis, p. 141
22 Ivi, p. 141-142.
23 Ivi, p. 142.
24 Ivi, p. 145
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Ecco il travaglio della notte oscura. Ella ha colto, qui, un punto veramente importante per comprendere il significato del cammino interiore che san Giovanni della Croce ci descrive. E continua, citando ancora un suo testo: «Rimane piuttosto nell’oscurità come il raggio di sole “quando è puro e non trova alcun ostacolo su cui infrangersi, rimane invisibile anche se getta la sua luce in mezzo alla stanza”.»25 Il percorso della contemplazione Il cammino della sofferenza, tuttavia, è anche un cammino sicuro. E come è possibile se non si sa dove si è condotti? Qual è il percorso che bisogna seguire? Due sono le immagini significative e potenti, tipiche della mistica carmelitana: il “castello interiore” di santa Teresa e la “scala segreta” di san Giovanni della Croce. È interessante, a questo proposito, analizzare le immagini usate dai due Santi per il raggiungimento della medesima meta, l’unione con Dio, ma anche per comprendere se v’è diversità d’approccio fra i due percorsi. In primo luogo, il castello - che viene attraversato movendo da una cinta esterna verso il suo interno - è l’immagine di una regressione nell’interiorità. Santa Teresa corrobora questo atteggiamento usando anche un’altra immagine molto interessante che trae dal paesaggio della sua Spagna. Ella dice che bisogna arrivare al “cuore del palmizio andaluso”. E’ opportuno riflettere sulla scelta di questo simbolo. Ella intende riferirsi alla parte interna della palma: il palmito è la parte più tenera e più profonda della palma, è il midollo che, se estratto, determina la morte della pianta. Ecco, allora, che santa Teresa, usando le due immagini, indica che l’unione con Dio avviene attraverso una regressione ad un punto profondo, un punto interiore che può essere paragonato alla parte più interna del castello, la settima dimora, oppure al cuore del palmito andaluso. In entrambi i casi la regressione conduce ad una condizione tale che ciò che si viveva prima non è né potrà essere più lo stesso. Si tratta di una sorta di morte di sé, che consente di aprirsi ad una nuova vita proveniente da un’altra fonte. San Giovanni della Croce, invece, usa l’immagine della scala, cioè dell’ascesa, quasi fosse un cammino verso l’alto: «La scala segreta è la contemplazione oscura: segreta come la sapienza mistica di Dio che viene infusa in modo misterioso attraverso l’amore: come avvenga non “lo sa né la stessa anima né qualcun altro. Neppure il cattivo nemico né è a conoscenza: infatti, il maestro che glielo insegna è per essenza nell’anima, dove né il cattivo nemico né le potenze naturali sensibili
25 Ivi,p. 145
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e neppure la ragione possono penetrare”. »26 Osserviamo che l’amore, qui, è la disponibilità a fare la volontà di Dio. Ecco la profonda e straordinaria apertura, che implica il grande sacrificio della rinuncia di sé, resa possibile in modo misterioso attraverso l’amore. Ciò che accade è talmente intimo ed ineffabile che neppure “il cattivo nemico” ne è a conoscenza. In san Giovanni della Croce è drammaticamente descritta la lotta che egli deve sostenere con qualche cosa di negativo - il problema della potenza diabolica è molto presente, meno esplicito è in santa Teresa d’Avila -. Egli lo chiama, appunto, “il cattivo nemico”. Altrettanto negativo, però, è anche l’atteggiamento verso “le potenze naturali sensibili” e verso “la ragione”, quando queste pretendono di penetrare il mistero. Ciò si capisce soltanto in relazione alla visione dell’essere umano che è al fondo di questa interpretazione e che corrisponde, come si è già osservato, all’antropologia descritta dall’indagine fenomenologica della Stein e della scuola fenomenologica. Ma ritorniamo al testo, in esso si legge che: «Come avvenga non lo sa né la stessa anima né qualcun altro. Neppure il cattivo nemico né è a conoscenza. Infatti, il maestro che glielo insegna è per essenza nell’anima …» Si può notare una straordinaria assonanza con la posizione agostiniana: è la scoperta del maestro interiore, che si trova “… dove, né il cattivo nemico, né le potenze naturali sensibili e neppure la ragione possono penetrare”, cioè, in un nucleo talmente profondo e diverso che tutto il resto è “fuori”. Nel commento della Stein, a questo punto, ci saremmo aspettati un riferimento esplicito all’analisi del “nucleo”, che ella ha condotto in altre opere.27 Da queste, sappiamo che il nucleo è il momento identitario che ci accompagna sempre, che non ammette sviluppo in quanto è semplice, ma che ha bisogno di esplicitarsi attraverso le potenze che ci caratterizzano: quelle corporee, psichiche e spirituali. Il nucleo, per dare veramente la sua impronta, proprio perché non si sviluppa, ha bisogno, per manifestarsi, di tutto ciò che l’essere umano possiede. Se l’essere umano utilizza le sue potenze, validamente, con equilibrio, allora riesce veramente a mostrare la presenza del nucleo, che ci è dato fin dalla nascita. Alla luce di questa scoperta, Edith Stein scrive in Potenza
26 p. 158 e ss.
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e Atto di comprendere il testo evangelico “se non tornerete come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli”:28 si tratta della conservazione del nucleo nella sua originaria purezza, che consente di ritornare consapevolmente all’elemento identitario fondamentale. Ma c’è qualcosa di più. Nel nucleo, nel momento identitario, c’è la presenza di Dio o, per lo meno la traccia della sua presenza. Si comprende allora, il senso del riferimento ad Agostino: “Infatti, il maestro che glielo insegna è per essenza nell’anima …”. Agostino aveva detto in modo imprecisato in interiore hominis, cioè all’interno dell’essere umano. Qui, invece, l’interiorità è analizzata fino in fondo. Tutta la stratificazione delle potenze umane è attraversata fino ad arrivare ad un punto identitario profondo: il Kern, il nucleo. La constatazione della presenza del nucleo è confermata dall’esperienza dei due Santi, benché si tratti di una conferma che si basa su qualcosa di “sentito”, non scoperto attraverso un processo intellettuale e filosofico. Infatti, dice san Giovanni: «Misteriosa o nascosta è questa sapienza anche nei suoi effetti, nelle tenebre e nelle afflizioni della purificazione come della successiva illuminazione. L’anima “non può né riconoscerle né chiarirle. Neppure darle un nome”. Ella non ha “neppure alcun desiderio di darle un nome… e non trova alcun mezzo per esprimere in modo adeguato una conoscenza così elevata ed un sentire spirituale così delicato” …» 29 Il paradosso è che tanto più questa esperienza è indicibile tanto più l’essere umano tende ad esprimerla. Sembra quasi che si sia costretti a farlo. «… “poiché quella sapienza interiore è così semplice, generale e spirituale da non poter essere - ma questo è san Giovanni della Croce… è lui che parla - contenuta in nessun concetto. Né mai entrata espressa quale immagine dei sensi e dell’intelletto. Proprio quando uno vede una cosa mai vista e di cui non ha mai visto neppure nulla di simile. Non potrebbe malgrado tutti gli sforzi darle un nome; neppure dire che cosa sia, anche se è stato percepito dai sensi. Allora, non potrebbe esprimere meno ancora quanto non ha percepito con i sensi?”» 30 Alcune volte, pur percependo, non comprendiamo. Tanto più ciò accade nel caso di questa peculiare esperienza percettiva, indicibile o, perlomeno, dicibile attraverso le limitate possibilità umane. «Allora, Dio parla proprio nell’interiore - è il commento della Stein - e, solo spiritualmente, nell’anima, come avviene al di sopra di tutte le capacità, dei sensi esterni ed
28 E. Stein, Potenza e Atto – Studi per una filosofia dell’essere, tr. it. di Anselmo Caputo, Città Nuova, Roma 2003, p.222. 29 E. Stein, Scientia Crucis, p.158.
30 Ibid.
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interni e li ammutolisce.»31 La sapienza mistica è, quindi, questa conoscenza profonda di sé, è la forte consapevolezza della propria interiorità, dove avviene effettivamente l’incontro mistico o unione mistica. E come se l’unione mistica portasse alla luce la presenza del nucleo, lo facesse venir fuori nella sua verità. E quindi, «La sapienza mistica viene detta anche misteriosa “perché possiede la particolarità di nascondere l’anima a se stessa. Talvolta si impadronisce dell’anima e la trascina, in un certo modo, nel suo abisso nascosto da vedere chiaramente quanto sia lontana da ogni creatura. Le pare, allora, di essere stata immersa in una solitudine profonda e vasta dove nessun essere umano possa giungere in un deserto sterminato, senza confini da nessun lato. E questo le è tanto più gradito, benefico ed amoroso quanto più profondo, ampio e solitario.” » 32 La regressione nell’interiorità non deve intendersi come una chiusura nei confronti degli altri. Basti pensare, ad esempio, ai forti legami dei due Santi con la loro comunità e alla loro opera rivolta anche a coloro che erano al di fuori di essa. Come avviene, allora, il raggiungimento di questa meta? Com’è possibile far sì che ciò che è nel profondo appaia veramente, si manifesti veramente grazie all’unione con Dio? Perché ciò accade proprio grazie all’unione con Dio. Ci sono, tuttavia, ostacoli, momenti di difficoltà: «Su questo camino l’anima è soggetta ad incessanti alternanze. Ad una prosperità segue sempre qualche tempesta ed afflizione. Cosicché ogni prosperità sembra essere solo una preparazione e un rafforzamento per la miseria incombente.» 33 Vediamo che la scala si percorre nei due sensi della salita e della discesa, perché, fintanto che non sia raggiunta l’umiltà perfetta, il cammino non è mai del tutto progressivo. Perché si chiama “scala della contemplazione” ? «…la scala viene detta contemplazione perché “essa è scienza dell’amore, un’amorosa conoscenza infusa, che insieme illumina l’anima e l’accende d’amore finché, di grado in grado, non sale al suo Creatore. Poiché egli solo è l’amore che unifica l’anima e la unisce con Dio”.»34
31 Ivi, p. 159
32 Ivi, p. 159
33 Ivi, p. 160
34 Ivi, p. 161 e seguenti
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San Giovanni descrive con grande precisione i gradini della scala: «Il primo gradino fa ammalare l’anima, ma per la sua salute. Questa malattia non è la morte, ma è per la gloria di Dio. Infatti in essa l’anima muore al peccato e a tutto quanto non è Dio per Dio stesso». Si tratta del tema del sacrificio, al quale si è accennato prima. «Il secondo gradino fa sì che l’anima cerchi Dio incessantemente. Su questo gradino l’anima procede con così grande sollecitudine da cercare il suo amato in tutte le cose e in tutte le creature che la sollecitano, trattano e le parlano dell’amato». «Il terzo gradino della scala dell’amore spinge l’anima all’azione e la risveglia al caldo amore perché non si stanchi. Su questo gradino l’anima ritiene insignificanti le opere eroiche che compie per amore dell’amato, le numerose, poche, il lungo tempo in cui si serve Dio, breve, per l’incendio che la arde. Nel suo grande amore per Dio ritiene piccole le grandi afflizioni, i dolori sopportati per amore di Dio. E sarebbe, se potesse, unica consolazione, l’annientarsi mille volte in Lui.» Quarto gradino: sofferenza continua e diuturna per l’amato. Qui si sperimenta una tensione perché si vuole raggiungere qualcosa e nello stesso tempo per raggiungerla bisogna sacrificare se stessi completamente, le proprie capacità. «L’amore le fa sembrare, tutte le cose grandi, difficili, pesanti come nulla… lo spirito acquista una forza tale da assoggettare completamente la carne e da considerarla tanto poco quanto l’albero con una sua sola foglia.» La “carne” è da intendersi certamente come la dimensione sensibile dell’essere umano, però, indica anche, per estensione, tutte le capacità naturali dell’essere umano. «Il quinto gradino suscita nell’anima un anelito e un desiderio intollerabili per Dio». Per cui il quinto gradino sollecita un “desiderio intollerabile”, tanto grande che, semmai fosse frustrato, farebbe cadere l’anima in una situazione terribile di sofferenza. «In questo gradino, la nostalgia dell’anima amante per il possesso dell’amato e per l’unione con lui è così veemente che ogni dilazione, anche piccola, la ritiene pesante, grande e dura e vive solo nel pensiero di come poter trovare l’amato.»
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Questa è un’esperienza descritta anche da santa Teresa, che ne mette in risalto tutta la drammaticità paragonando le violente bufere interiori alle pene dei dannati che solo Dio può alleviare35. «Il sesto gradino fa sì che l’anima corra rapidamente incontro a Dio e percepisca, spesso sensibilmente, la sua vicinanza, senza stancarsi.» Anche l’avverbio “sensibilmente” è estremamente interessante, perché è chiaro che tutte le potenze sono annullate. L’annullamento, però, è da intendersi come un processo di purificazione, perché, in verità, il momento sensibile, come quello intellettuale e quello psichico, permangono. Sono messi da parte, ma non annullati. Altrimenti, non si comprenderebbe il fenomeno dell’estasi, che è un coinvolgimento di tutto l’essere umano. «Così si giunge al settimo gradino. Qui l’anima diventa straordinariamente audace. In questo gradino non si lascia più convincere dall’intelletto ad attendere. Non accetta neppure il consiglio di retrocedere né si lascia trattenere dalla vergogna… Tali anime ottengono da Dio quanto gli chiedono nella gioia del loro cuore…» «Dall’arditezza e dalla libertà che Dio ha concesso all’anima sul settimo gradino per incontrarsi con Dio, con la forza dell’amore, senza timore segue l‘ottavo che concede all‘anima il possesso dell‘amato e l‘unione…: “Ho trovato colui che la mia anima ama: lo tengo stretto e non lo lascerò più” (dal Cantico dei Cantici 4, 3). Su questo gradino dell’unione viene acquietata la nostalgia dell’anima, ma con intermittenza. Alcune anime giungono all’unione per breve tempo, ma subito se ne ritraggono; infatti… se potessero… rimanervi più a lungo, sarebbero già giunte ad un certo modi di gloria”.» Ciò significa che non si tratta di una situazione continua, che questa è un’esperienza limitata nel tempo, dunque, intermittente.36 Siamo di fronte, infatti, ad una prefigurazione della situazione di gloria, della visione beatifica, ma concessa da Dio in vita solo in modo saltuario. «Il nono gradino è il grado dei perfetti che sono uniti a Dio. I tesori della grazia e della ricchezza di Dio al cui godimento l’anima si vede elevata, non si possono esprimere a parole. Anche se si scrivessero molti libri, il più resterebbe ancora da dire.» «Il decimo e ultimo gradino della scala segreta dell’amore non appartiene più a questa vita. Esso rende “l’anima perfettamente simile a Dio, in forza della chiara visione di Dio, al cui possesso giunge non appena abbandona il corpo, dopo che in questa vita è giunta al nono
35 E. Stein, Il castello interiore, tr. it. di Anna Maria Pezzella, in Natura Persona Mistica, cit. p.131. 36 Sappiamo da santa Teresa che addirittura ella misura il tempo delle estasi.
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gradino”.» Ora, escludendo il decimo gradino perché, come abbiamo visto, non è di questa vita, fermiamo la nostra riflessione sul nono gradino. Esso consente di entrare nel regno dello spirito che la Stein contrappone al regno diabolico, al quale, in una certa misura, l’essere umano appartiene. 37 «Perciò, quanto è spirito può essere compreso correttamente solo da Dio. Cioè, è un mistero che ci attira costantemente perché è mistero del nostro stesso essere. Vi abbiamo, perciò, un accesso perché il nostro stesso essere è essere spirituale. Vi abbiamo anche accessi da tutti gli esseri, perché tutti gli esseri in quanto sensibili e spirituali, hanno qualcosa di comprensibile dell’essere spirituale. Si svela, però, sempre più profondamente, a misura della nostra conoscenza di Dio, senza mai svelarsi del tutto, cioè senza cessare di essere un mistero. Questo è il regno dello spirito.»38 Lo spirito è descritto in tutta la sua ampiezza dalla Stein soprattutto in Potenza e Atto, che contiene nell’ultima parte il commento ai Dialoghi metafisici di Hedwig Conrad-Martius. Sia la Stein sia la Conrad-Martius erano affascinate dal tema dello spirito. Lo spirito è proprio dell’essere umano e di Dio, certamente, ma è anche qualcosa che si trasfonde in altro, in ciò che immediatamente spirituale non è. La Stein scrive: «Dio è puro spirito ed archetipo di tutti gli esseri spirituali. Perciò, quanto è spirito può essere compreso correttamente solo da Dio, cioè è un mistero che ci attira costantemente, perché è il mistero del nostro stesso essere. Vi abbiamo perciò un certo accesso perché il nostro stesso essere è essere spirituale. Vi abbiamo anche accessi da tutti gli esseri, perché tutti gli esseri in quanto sensibili e spirituali, hanno qualcosa di comprensibile dell’essere spirituale.»39 L’estensione dello spirito è molto ampia e, per comprenderla, è opportuno ricordare alcune riflessioni che la Stein espone nella Struttura della persona umana, attraverso le quali si ricava che tutta la realtà ha un’impronta di spiritualità, anche quella fisica. A questo proposito è paradigmatica l’analisi
37 Da quando la Stein ha elaborato la sua antropologia anche in relazione alla lettura di santa Teresa d’Avila,
ha indicato due regni di appartenenza dell’essere umano: quello diabolico e quello dello spirito. Tutto ciò
è esemplarmente descritto, secondo l’autrice, nel Faust di Goethe, che ella commenta con grand’acutezza
nel suo saggio Natura e soprannatura nel Faust di Goethe (tr. it. di Teresa Franzosi, in E. Stein, Natura
Persona Mistica – per una ricerca cristiana della verità, a cura di Angela Ales Bello, Città Nuova, Roma
1997).
38 E. Stein, Scientia Crucis, tr. it. di C. Dobner, cit., p.173.
39 Ibid.
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fenomenologica relativa alla modalità attraverso la quale cogliamo il senso di una cosa materiale come un blocco di granito. Esso non è semplicemente qualcosa di materiale, ma ha un senso che è quello di essere forte, stabile, per questo ci dà “sicurezza”. E l’esperienza della sicurezza non è puramente fisica, comporta una reazione psichica che apre la via ad un messaggio spirituale40. Certamente, Dio è puro spirito e, attraverso la scala della contemplazione, noi entriamo effettivamente nel regno dello spirito. Ma proprio l’uscita da sé dello Spirito consente che ci siano gradi della sua manifestazione nel creato. «Lo spirito di Dio è perfettamente trasparente a se stesso. Può disporre di se stesso perfettamente e liberamente. In questa illimitatezza che racchiude l’essere per se stesso, esce completamente libero da sé. Eppure rimane in se stesso.»41 La lettura dei testi di san Giovanni conduce Edith Stein a riflettere personalmente su argomenti di carattere filosofico e teologico e, quindi, a domandarsi che cosa sia Dio, qual sia il rapporto dell’anima con Dio e con gli spiriti creati. Ella è particolarmente interessata alla sorte dell’anima, infatti ribadisce: «Quanto più in alto sale a Dio, tanto più profondamente ella sale in se stessa. L’unione si completa nel più profondo interiore dell’anima.»42 Possiamo dire, appunto, nel nucleo: «Nel sedimento profondissimo dell’anima Dio è nel più profondo interiore dell’anima e nulla di quanto è in lei gli è nascosto.»43 Ella combina, in tal modo, i due movimenti di ascesa e discesa, preparando filosoficamente il terreno per la comprensione dell’unione con Dio: filosofia e spiritualità si confermano reciprocamente, dimostrando di aver bisogno l’una dell’altra.
40 E. Stein, La struttura della persona umana, tr. it. di Michele D’Ambra, Città Nuova, Roma, 2007 ristampa.
Ho trattato il tema dello spirito nel mio saggio Edith Stein: i gradi dello spirito, in Etica contemporanea e santità,
Edizioni Rosminiane, Stresa, Edizioni Ares Milazzo, Stresa 2006. 41 E. Stein, Scientia Crucis, p. 173.
42 Ivi, p.175. 43 Ibid.
40
L’anima, l’io, la libertà Il sacrificio di sé, compiuto da san Giovanni della Croce, implica la disponibilità interiore, quindi, la libertà. Se è vero che l’unione non avviene per volere umano, è chiaro, però, che la volontà debba aprirsi ad essa. L’unione con Dio si ha nella profondità interiore, ma questa unione è un’unione che mette in risalto fortemente l’elemento della libertà. Ciò giustifica anche l’esistenza stessa del Carmelo. Esso è un luogo privilegiato, è il luogo della disponibilità, libera, non condizionata da alcunché. È la disponibilità al sacrificio, e, in questo senso, si comprende anche perché la Stein lo abbia scelto. Si è visto come il sacrificio delle proprie capacità intellettuali naturali sia vissuto da san Giovanni della Croce come una lotta; egli, però, la “vuole” condurre. È qui si mostra l’importanza della libertà, che porta ad aprirsi a qualche cosa che supera la limitazione dell’essere umano. Per comprendere le modalità dell’aprirsi libero e disponibile, è utile riprendere le considerazioni antropologiche della Stein, a cui abbiamo accennato, riproposte in una parte della Scientia Crucis, che è dedicata proprio all’anima, l’io e la libertà. «La possibilità di muoversi su se stessi si articola sulla possibilità di formazione dell’io dell’anima. È l’io dell’anima dove ella possiede se stessa e quanto in lei si muove come nel suo proprio spazio. Il punto più profondo e insieme il luogo della sua libertà. Il luogo in cui abbraccia tutto il suo essere e decidere. Libere decisioni di portata minore possono essere prese anche da un dato punto verso l’esterno. Sono, però, decisioni superficiali. È un caso quando la decisione risulta realmente adeguata. Solo nel punto più profondo, infatti, si ha la possibilità di misurare tutto secondo l’ultimo metro. E non è neppure l’ultima libera decisione. Quando una persona non si possiede del tutto, non può, infatti, disporre liberamente ma si lascia appunto determinare. La persona è perciò, chiamata a vivere nel suo più profondo interiore è [capace di] prendere se stessa nelle sue mani. Solo da qui in poi è possibile, solo da qui in avanti è possibile anche un corretto confronto con il mondo. Solo sa qui può trovare il posto assegnatole nel mondo. In tutto questo, ella non scandaglia del tutto il suo più profondo interiore. È un mistero di Dio che Egli solo può svelare.» 44 In questo brano è presente la distinzione sottile tra io e anima. L’io è l’aspetto della consapevolezza, quella che ci consente adesso di comprendere. Noi, tuttavia, abbiamo altre potenzialità che non si riducono semplicemente all’io. L’io non è il nucleo, perché il nucleo è un principio identitario profondo. Ad
44 Ivi, p. 181
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esempio, riguardo ad un neonato si potrebbe sostenere che l‘io non è formato o, almeno non totalmente, però, ha certamente il nucleo identitario, - “anima dell’anima”, secondo la definizione della Stein - che non coincide con le potenze intellettuali, psicologiche, ma che rappresenta l’elemento identitario in senso ontologico. 45 Nonostante ciò, non conosceremo mai veramente fino in fondo questo nostro momento interiore. Una simile riflessione si trova anche in Husserl, quando cita, nel paragrafo 49 della Crisi delle scienze europee, il frammento 45 di Eraclito, quello in cui si sostiene che l’anima non può arrivare a conoscere se stessa fino infondo perché è un abisso. Quanto più si va al fondo tanto più non si riuscirà a coglierla definitivamente. 46 La peculiarità dell’esperienza mistica Come si è accennato, la lettura dei testi di san Giovanni sono lo spunto per riprendere le analisi fenomenologiche sull’essere umano, Edith Stein è consapevole di superare, in tal modo, le intenzioni del Santo, ma crede che ciò sia utile anche per penetrare meglio nel significato della mistica e perché l’esperienza mistica possa, a sua volta, essere una prova della validità dei risultati dell’indagine. «Quanto detto da ultimo sulla costruzione dell’essenza dell’anima, particolarmente sul suo rapporto con la libertà con il suo più profondo interiore non proviene dai commenti del Santo Padre Giovanni; si deve, perciò, provare se sia in consonanza con la sua dottrina, anzi, se sia adatto ad esprimere ancora più chiaramente questa dottrina… Di primo acchito, molto di quanto detto appare inconciliabile con certe esposizioni del Santo. Ciascuna persona è libera quotidianamente ad ogni ora e si trova dinnanzi a delle decisioni. Il più profondo dell’anima però è il luogo in cui Dio dimora del tutto solo finché l’anima non giunta all’unione perfetta e la Santa Madre Teresa lo chiama la Santa dimora che si schiude
45 Da qui si possono evincere conseguenze di carattere etico riguardo al rispetto della dignità e dell’integrità
della persona umana anche in condizioni di parziale o totale perdita delle potenzialità intellettuali,
psicologiche e spirituali.
46 “I confini dell’anima vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le strade:: così profondo è il Discorso che
essa comporta” DK B 45, tr. it. di Carlo Diano, in Eraclito, Frammenti e testimonianze, a cura di Carlo
Diano e Giuseppe Serra, Fondazione Lorenzo valla, Arnoldo Mondadori, Rocca di San Casciano (FO) 2001.
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all’anima solo nel matrimonio spirituale.» 47 Qui si apre un interessante confronto tra santa Teresa e san Giovanni della Croce da parte della Stein, la quale confessa che molte riflessioni sull’essere umano le sono state sollecitate più dall’una che dall’altro. Questo non significa, però, che le cose dette da san Giovanni della Croce non confermino quello che santa Teresa affermava. I due testi dovrebbero essere letti in modo complementare per comprendere effettivamente due argomenti fondamentali: 1. la struttura dell’essere umano dal punto di vista antropologico - questione che supera significato della mistica; 2. l’esperienza mistica e, in particolare, l’unione mistica, che, d’altra parte, è comprensibile solo alla luce di una descrizione antropologica ben condotta . V’è, pertanto, un chiaro rapporto di reciprocità; infatti, l’approccio antropologico è funzionale alla comprensione dell’esperienza mistica e, viceversa, comprendendo l’esperienza mistica si fa luce sulla struttura essenziale dell’essere umano. Questa è l’utilizzazione filosofica dell’esperienza mistica da parte della Stein. E da questo punto di vista è molto interessante il fatto che si sottolinea la specificità di quest’esperienza, la quale non può essere confusa con alcun’altra. In secondo luogo, proprio per tale ragione, si può distinguere l’atteggiamento religioso in generale e l’atteggiamento di fede del cristiano da quello specifico dell’esperienza mistica. In terzo luogo, si conferma che l’esperienza mistica non è irrazionale, incomprensibile, frutto di immaginazione e, perciò, oggetto di derisione, se non di persecuzione. Nell’analisi della Stein si trova un importante tentativo di sottoporre l’esperienza mistica, nella sua specificità e nella sua caratteristica, ad una riflessione razionale, che possa dare ad essa una collocazione e che, in ultima analisi, possa farla considerare non come qualche cosa di strano, di folle, di irrazionale, ma come qualcosa di com-possibile con la descrizione dell’essere umano condotta in profondità. A riprova di ciò, esiste una lunga lettera che Husserl scrisse a Gerda Walter,48 sua discepola e discepola della Stein, l’unica ad aver condotto in ambito fenomenologico, una vera e propria fenomenologia della mistica. La Walter pubblica nel 1923 la sua Fenomenologia della mistica, in cui allarga la sua indagine
47 E. Stein. Scientia Crucis, p. 183.
48 E. Husserl, Entwurf eines Briefes als Antwort gedacht an Frl. Walther, Ms. trans. A V 21, p. 7.
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a tutte le esperienze mistiche, soprattutto quelle presenti in Oriente49. Successivamente manda il suo libro a Husserl, il quale risponde con sette pagine interessantissime50. L’inizio è molto scettico: “Non so se questa che Lei descrive sia una conoscenza valida”. Poi attenua il suo giudizio negativo, tramutandolo in un giudizio di possibilità. È l’esperienza mistica è possibile perché Husserl ammette che lo scavo interiore possa condurre alla “profonda profondità” attraverso un movimento di discesa. Dalla profondità più profonda si può risalire e testimoniare la sua presenza; pertanto, se si riesce a trovare il luogo in cui questa esperienza si può manifestare, allora, essa è ragionevolmente accettabile. È proprio lo scavo del fenomenologo nella profondità interiore che consente a Husserl di non respingere la possibilità dell’esperienza mistica e alla Stein di indagarla nella sua consistenza ed ammettere la sua realizzazione. Alla stratificazione e complessità dell’essere umano corrispondono, allora, diverse qualità di vita: «L’uomo sensuale, edonista è per la maggioranza immerso nel suo piacere sensibile e con questo occupato a crearsi un altro gusto. Il suo luogo di dimora è molto lontano dal suo più profondo interiore.» 51 Questa descrizione ci ricorda l’uomo estetico di Kierkegaard, filosofo che Edith Stein bene conosceva e al quale spesso si riferisce, anche se non sempre esplicitamente. Nei termini di santa Teresa d’Avila è colui che sta alle mura del castello e non entra. Sta fuori e non riesce a fare quel passo necessario per entrare. Diversa è la condizione di chi ricerca: «Il cercatore della verità vive soprattutto nel punto-cuore della sua ricerca intellettiva. Se realmente ha a che vedere con la verità e non solo con una mera raccolta di singole conoscenze, allora, forse, è più vicino a Dio che è la verità, e quindi al più profondo interiore di quanto egli stesso sappia. »52 Ciò vuol dire che chi in buona fede cerca la verità è vicino al suo profondo interiore. Esiste, però anche un terzo atteggiamento, è quello di colui il quale costituisce nel proprio io il suo centro. Per nessun altro tipo il cammino che conduce alla profondità è così sbarrato come per costui. Si tratta dell’intellettuale egocentrato, non del cercatore della verità. A questi è precluso l’accesso al profondo interiore. Ognuno di noi ha la tentazione di essere egocentrato, osserva Edith Stein, soprattutto chi si pone a livello intellettuale e questo livello non è una garanzia
49 G. Walther, Phänomenologie der Mystik, Halle a.S., 1923. 50 Ho commentato questo testo di Husserl nel mio libro Edmund Husserl – Pensare Dio Credere in Dio, Edizioni del
Messaggero di Padova, Padova, 2005. 51 E. Stein. Scientia Crucis, p. 185
52 Ibid.
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rispetto a quello sensuale: «Ciascuna persona racchiude in sé qualcosa di simile finché non abbia sofferto la notte oscura fino in fondo». 53 Nessuna condizione è, tuttavia, priva della possibilità di riscatto. Si può sempre attivare la libera decisione e tentare di raggiungere la profondità interiore. E, infatti, addirittura, la Stein sembra contraddire la sua prima affermazione sull’uomo edonista, dicendo che se è vero che «Quando ad una persona sensuale che si è data ad un piacere viene presentata la possibilità di procurarsene uno più grande forse, senza indugi, senza riflessione ed opzione, passerà dal godimento all’atto. Avviene un movimento, ma senza nessuna libera decisione, neppure un’irruzione ad una profondità più grande perché gli stimoli si trovano sullo stesso piano.»54 E’ anche vero, però, che «Può però presentarsi che all’uomo sensuale qualcosa, appartenente ad un territorio di valori del tutto diverso“ - nessun tipo è esclusivamente legato ad un territorio, talvolta uno avrà il sopravvento sull’altro. Per esempio, l’uomo sensuale può essere sollecitato a rinunciare ad un piacere per aiutare un’altra persona.» 55 Nessuno, quindi, è condannato radicalmente. L’essere umano ha potenzialità straordinarie che gli sono offerte. Nondimeno, l’uomo sensuale non arriverà così spontaneamente ad una rinuncia, ma ci dovrà essere uno “scarto”. Si potrebbe paragonarlo a quello che per Kierkegaard è il “salto”. È possibile, certamente, passare dalla dimensione estetica a quella dimensione etica, ma questo passaggio è arduo se non è sorretto da una esperienza religiosa. Edith Stein conclude affermando che solo una postura religiosa può sostenere una vita etica, ma l’accettare di essere guidati da Dio dipende dalla decisione umana e non si tratta di qualcosa che accade senza la propria volontà. Nella somma decisione di lasciarsi guidare da Dio sono racchiuse tutte le decisioni future e si ha la consapevolezza di agire rettamente. Si tratta, indubbiamente, di un’unione con Dio, ma ci sono gradi diversi di questa unione.
53 Ivi, p. 185.
54 Ivi, p. 185-186.
55 Ivi, p. 186.
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Modalità dell’unione con Dio San Giovanni ha distinto tre modalità di unione con Dio. «…per la prima, Dio dimora essenzialmente in tutte le cose create e così le conserva nell’essere.»56 Si tratta di una visione, secondo la quale Dio dimora in tutte le cose create, anche negli esseri umani che lo rifiutano. «Con la seconda si deve intendere inabitazione per grazia nell’anima…» e questa sarebbe la fede, che implica l’accettazione libera. La terza è « l’unione trasformante divinizzante attraverso l’amore perfetto.» 57 Qui si coglie la differenza fra grazia e contemplazione, quindi, fra fede ed esperienza mistica. Nel Cantico spirituale, ad esempio, il Santo ribadisce la stessa triplice divisione senza parlare della differenza di grado fra la presenza di grazia e quella d’amore. Sottolinea, piuttosto, che la vera esperienza del sommo bene è presente nell’unione di amore ed il suo agire è il desiderio incandescente per la visione beatifica, cioè per la scoperta di Dio. Tutti sono atteggiamenti o situazioni com-possibili. D’altra parte, è chiaro che l’inabitazione mediante la grazia è possibile solo per esseri personali e spirituali. È vero che Dio è presente in tutto, anche nelle cose materiali, nella natura e che l’attività dello spirito è presente in tutto, ma la presenza per Grazia è solo negli esseri personali spirituali. Si consideri, ad esempio, il battesimo dei bambini. Nel battesimo dei bambini la libera accettazione viene compiuta con la rappresentanza degli adulti e, successivamente, personalmente assunta con tutta vita di fede del battezzato ed espressa verbalmente nella rinnovazione delle promesse battesimali. Vi è implicito il fatto che Dio, in questo secondo modo, può dimorare anche nell’anima peccatrice, lontana da Dio solo a patto che la grazia santificante cancelli il peccato. Edith Stein affronta, a questo punto, questioni di carattere teologico. La grazia santificante trae la sua denominazione proprio dal fatto che serve per cancellare il peccato. Solo quando ciò è accaduto, si può ricostituire la situazione di vicinanza con Dio, però, nel momento in cui c’è l’allontanamento, non c’è l’inabitazione. Rispetto alla terza modalità, quella della mistica sponsale vi sono differenze e punti di contatto tra san Giovanni della Croce e santa Teresa. Ma qui ciò che più interessa è che le espressioni, attraverso le quali ci si descrive l’esperienza, rappresentano soltanto un tentativo umano analogico di cogliere l’unità. Si usa
56 Ivi, p. 189. 57 Ibid.
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l’analogia in funzione pedagogica, poiché è chiaro che non c’è nessuna realtà umana che possa far comprendere quello che accade veramente. Edith Stein nota un atteggiamento più sfumato, meno esplicito in san Giovanni della Croce rispetto a santa Teresa per ciò che concerne l’unione mistica e il momento estatico. Ella lo giustifica in tal modo: «Le grandi lotte religiose del suo tempo, gli errori dottrinali che sempre si accavallavano l’uno all’altro, i pericoli di un misticismo insano hanno condotto ad una rigida sorveglianza degli scritti religiosi. Chiunque avesse scritto sui problemi della vita interiore doveva tener conto che l’Inquisizione avesse messo le mani su di lui e sulle sue opere.» «Si può supporre che Giovanni fosse stato molto cauto nel distinguere nettamente la sua dottrina da quella degli illuminati (come appare chiaramente in alcuni passi). E nel portare il cammino mistico quanto più possibile in stretta connessione con il normale camino della Grazia. »58 Certamente san Giovanni della Croce sostiene che c’è una differenza fra esperienza di fede ed esperienza mistica, ma non la chiarisce fino in fondo, come fa santa Teresa. Edith Stein continua commentando la ragione di tale reticenza: «E che nell’edizione dei suoi scritti una tale ottica sia prevalente lo dimostra l’esame dell’edizioni antiche alla luce dei manoscritti ed il loro confronto reciproco. Fiamma d’amore viva e il Cantico spirituale ci restano in una duplice redazione manoscritta.» 59 C’è forse anche un’auto-censura in san Giovanni della Croce, che gli impedisce di mostrare la distinzione tra la vita di fede e vita mistica. D’altra parte, che fra loro ci fosse un’intesa è cosa chiara ed evidente: «Il Castello, come gli altri scritti del santo padre Giovanni, sono stati composti dopo che entrambi hanno vissuto ad Avila in familiare scambio di pensieri»60 e, quindi, questo sarebbe secondo Edith Stein una conferma del fatto che i loro pensieri fossero gli stessi, pur essendo espressi in modo diverso, con accenti e intensità differenti. La mistica nel cristianesimo e nelle altre religioni Fermiamo ora la nostra attenzione sull’ultimo argomento che riguarda la mistica cristiana e carmelitana, in particolare, e la possibilità di avere una esperienza mistica indipendentemente dalla fede e dalla grazia. Nella mistica sponsale, quella carmelitana, e nella mistica cristiana in generale appare una
58 Ivi, p. 198
59 Ibid.
60 Ivi, p. 199
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gradualità nell’unione con Dio, nel senso che la fede e la grazia sono sempre presupposte dall’unione mistica. Ma chi non ha la grazia, può raggiungere l’esperienza mistica? A questo proposito Edith Stein scrive poche parole, ma importanti e dense di conseguenze. «C’è però ancora qualcosa d’altro da rilevare. Il semplice contatto operantesi nell’intimo non presuppone affatto come necessaria l’inabitazione per via di grazia. Può anche venire concessa ad un incredulo come richiamo alla fede come atto preparatorio al conseguimento della grazia santificante».61 Si può supporre che dietro quest’osservazione v’è l‘esperienza della conversione della Stein.62 Quindi, può avvenire un contatto «come atto preparatorio al conseguimento della grazia santificante ovvero, come mezzo per rendere idoneo un infedele a fungere da strumento per raggiungere un determinato scopo».63 Queste due eventualità sono valide nei confronti delle illuminazioni particolari. «L‘unione vera e propria invece, essendo un dono vicendevole, non si può avere senza la fede e la carità, ossia senza la grazia santificante».64 È come se Dio potesse dare dei richiami particolari, delle illuminazioni particolari per preparare alla grazia santificante. Questo confermerebbe che è possibile l’esperienza di un contatto con la divinità in contesti religiosi diversi da quello cristiano. Leggendo, ad esempio le poesie di di Al-Hallag, mistico sufi del III sec. riguardo le estasi divine, si scorgono molte analogie con le descrizioni dei Santi carmelitani. Le estasi divine! È Dio che le suscita tutte! La sapienza dei maestri è impotente. L’estasi è prima di tutto un intuito, poi uno sguardo che infiamma l’intimo dei cuori. Quando Dio viene ad abitare
61 Ivi, p. 201 (citato dalla traduzione di Padre Edoardo)
62 In realtà ci sono tanti motivi che hanno determinato la scelta del cattolicesimo da parte di Edith Stein, ma
uno determinante è stato da lei stessa indicato: si tratta della lettura dell’autobiografia di santa Teresa
d’Avila. Una notte, presso la Conrad- Martius, mentre leggeva quell’opera, improvvisamente, accettò la
fede. Ci possiamo chiedere se abbia avuto un’esperienza mistica. O per lo meno un’illuminazione
particolare.
63 E. Stein, Scientia Crucis, p. 201. 64 Ibid.
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nell’intimo nell’anima, questa si espande in tre stati, per coloro che ne hanno esperienza. Uno stato esclude la coscienza del segreto dell’estasi. Uno lo fa presente ad essa nel più grande stupore. In un terzo il sommo dell’anima è unificato (in Dio) ed essa è rivolta verso una visione che la rapisce da ogni altra percezione.65 Come si evince dal testo, il camino sembra identico. Il tormento e la gioia del contatto con Dio sono espressi anche in quest’altro testo: Tu sei tu che mi fai estasiare, non il mio ricordare Te. Lontano da me il restare attaccato alla pratica del ricordo di Te. Il ricordo è come una perla di mezzo: può derubarti ai miei occhi, se il mio pensiero
65 Giuseppe Scattolin, Esperienze mistiche nell’Islam, EMI, Bologna 1994, p. 122-123.
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lo prende come suo ornamento. 66 E ancora un’invocazione, una preghiera: Tu dimori nel mio cuore; là si trovano dei segreti che provengono da Te. Benvenuto a Te, per la dimora! Benvenuto a Te, per il vicino! Nessuno vi dimora se non Tu stesso: supremo segreto che appena intravedo! Guarda Tu stesso e vedi: c’è forse in questa casa un intruso? O, notte di abbandono, che passi ora lenta ora veloce; che importa? Lui, l’Amico, è la speranza del mio vegliare e del mio ricordo! Eccomi disposto ad accettare, se Tu lo vuoi la mia morte, o mio Uccisore! E tutto ciò che a Te è gradito a me pure è gradito! 67
66 Ivi, p. 122
67 Ivi, p. 123-124
50
Qui il riferimento alla “mia morte” sembra richiamare il tema del sacrificio. E ancora, un’altra composizione che propone un’unione che assai simile a quella mistica: Ho visto il mio Signore con l’occhio del mio cuore. Gli chiesi: ‘Chi sei Tu?’. Rispose: ‘Sono Te’. Per Te il dove non esiste più, Il dove non trova posto in Te: non c’è più dove, dove sei Tu. L’immaginazione non riesce a produrre un’immagine di Te per sapere dove sei Tu. Tu riempi ogni dove, tanto che non esiste più ‘dove’; dimmi, quindi: ‘dove sei Tu?’ 68 Questi testi sono rivelatori di uno straordinario cammino interiore. Probabilmente Edith Stein direbbe che sono illuminazioni che potrebbero portare alla disponibilità di accettare la grazia santificante per poter, poi, raggiungere l’unione. È interessante, inoltre, che da più parti si indichi la possibilità di stabilire un dialogo interreligioso proprio sulla base dell’esperienza mistica, la quale, evidentemente, mostra aspetti straordinariamente coincidenti nelle diverse tradizioni religiose. E non solo con le tradizionali religioni monoteistiche, ma anche con religioni e credenze culturalmente lontane.
68 Ivi, p. 119-120.
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Il che significa che c’è un terreno comune, un luogo profondo interiore, un elemento identitario presente in tutti gli esseri umani. E lì c’è Dio, lì Egli si manifesta. Quali tipi di riempimento vi siano, questo dipende dalla differenza tra le varie religioni. Importante è l’aver mostrato, attraverso l’analisi fenomenologica, la dignità conoscitiva della rivelazione mistica che, utilizzando anche - ma non solo - le potenzialità essenziali dell’essere umano, è capace di far emergere quella Presenza, profonda ed inesauribile, da sempre viva in ognuno di noi.
PREGHIERA A SANTA TERESA BENEDETTA DELLA CROCE
Non accettate nulla come verità che sia privo di Amore. E non accettate nulla come amore che sia privo di Verità!
L'uno senza l'altra diventa una menzogna distruttiva.
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O Santa Teresa Benedetta della Croce, che facesti della tua sete di verità
una preghiera continua intuendo che chi cerca la verità cerca Dio,
ottienici di cercare sempre la Verità.
Tu che incontrasti la Verità nella Croce di Cristo fa' che siamo illuminati anche noi dalla luce
che si sprigiona dal mistero della Croce. Facci il dono di saper abbracciare la Croce
come l'hai abbracciata tu.
Tu che scopristi la Verità che cercavi semplicemente leggendo la vita di Santa Teresa nostra madre,
ottienici di scoprire nella semplicità quotidiana la grandezza della presenza di Dio.
Tu che ti donasti pienamente all’Amore che hai incontrato, fa’ che tanti giovani possano donarsi al Signore che chiama
senza la paura di perdere, ma con la gioia di dare.
Tu che nel campo della morte ti prodigasti con dolcezza e premura verso il tuo popolo
infondendo conforto e coraggio, ottienici in tutte le occasioni
di vivere la carità verso il prossimo.
Tu che nell’ora della morte, prima di entrare nella camera a gas, facesti tua la preghiera di Gesù:
"Se non può passare questo calice, sia fatta la tua Volontà",
ottienici di poter chinare il capo serenamente negli ultimi momenti della nostra vita,
abbandonati all'Amore di Dio che è fedele sempre.
Santa Teresa Benedetta della Croce, prega per noi!