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GRANDI OPERE

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GRANDI OPERE

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CUEC

La colonna sonora della mia Anima … ain’t nothin’ but the Blues

Salvatore Amara

UN SALTO NEL BLUES

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Salvatore AmaraUn salto nel BluesLa colonna sonora della mia Anima… ain’t nothin’ but the Blues

ISBN: 978-88-8467-960-4

© CUEC Editrice 2015prima edizione dicembre 2015

Realizzazione editorialeCUEC Editriceby Sardegna Novamedia Soc. Coop. via Basilicata 57/5909127 Cagliari

[email protected]@tiscali.it

Questo libro è realizzato in coproduzioneCUEC Editrice/Salvatore Amara

Senza il permesso scritto dell’Editore è vietata la riproduzione anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico

Realizzazione grafica Antonello De Cicco

Stampa e legatura Arti Grafiche CDC Srl Città di Castello (PG)

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“Tutto il pensare che fate prima di iniziare un lavoro abbrevia il tempo che dovete spendere per eseguirlo”

R.C. SMITH

Dedico questo libro a Barbara Derosas, moglie, amica e amante, il Sole che illumina il mio mondo e riscalda il mio Cuore.

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Che occhi avrà

Che occhi avrà, il futuro, ora?Che occhi avrà, ora, la storia?Avrà quegli occhi che aveva il vento,quel vento caldo che dall’Africa salivanel canto degli schiavi, nel gospel, nel bluesche dalle navi volava alle stellecoprendo l’urlo feroce della frusta,che dalla bocca dei negrieri schioccavamentre solcava il mare oscuro dell’esilioall’abbagliare di sole che sorgeva tra velesquarciate ancora da raffiche di mortementre suonava il mantra della diaspora.Che occhi avrà, ora, il soffio del destino,mentre riecheggia il ritmo dei tamburiche da savane approdano a altri lidi?Avrà quegli occhi ardenti di quell’uraganoche dal profondo sguardo di anime violate,da volti riaccesi dal vorticare delle ore che segneranno il tempo al finir di tirannie,arriverà a quel giorno che placherà la sete,la fame di giustizia, di campi a seminaredi suoni di rivolta di folle tumultuose,che in batter d’occhi al tempo da veniresoffocherà i singhiozzi di quelle mille labbrache adesso vanno ancora concordia a ricercarecon quelle vecchie barche cariche di dolore,con quelle vecchie barche dolore ad annegare.

Gianni Mascia

Railgac Blues

“Le mie viscere sono marce. Viaggio in un treno verso il fiume.Nessuno sa gli accordi della mia chitarra. Anch’io li ho dimenticati nel viaggio. Sparsi nelle rotaie della città di Railgac.Percorsi Quel Che Restava Delle Strade.Avevo Un Vecchio Furgone Con Il Motore Stanco.Nel Suo Cassone Un Cane Sdentato, Pochi Stracci La Mia Vita.”

Alberto LeccaEstratto da “L’immaginario del Blues”

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“Io nacqui di proprietà di Benjamin Turner, ma di costui ri-cordo ben poco. Dopo la sua morte improvvisa, quando io avevo otto o nove anni, passai per eredità a suo fratello, Sa-muel Turner, nella cui proprietà rimasi dieci o undici anni. … In seguito, le fortune di Samuel Turner declinarono, e sorse-ro altri problemi; comunque, non fu più in grado di continua-re a gestire la segheria che aveva ereditata da suo fratello, e, per la prima volta, fui venduto al signor Thomas Moore e questa vendita, ironia della sorte, ebbe luogo proprio nel momento in cui raggiungevo la maggiore età, nel mio ven-tunesimo anno di vita. …Dopo la morte del signor Moore di-venni proprietà di suo figlio Putnam, che aveva allora quin-dici anni. …anche se legalmente appartenevo a Putnam, ap-partenevo anche a Travis, che esercitava ogni diritto di pro-prietà su di me finché Putnam non avesse raggiunto la mag-giore età. Pertanto, quando miss Sarah sposò Joseph Travis e andò a vivere sotto il suo tetto, io divenni oggetto di una duplice proprietà, cosa non particolarmente insolita, ma ul-teriormente spiacevole per uno già abbastanza infelice d’es-sere proprietà di uno solo.”

William StyronThe confessions of Nat Turner, 1967, traduz. italiana Le confessioni di Nat Turner, Mondadori 1996

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1. Piacere, sono il Blues!

Da quel giorno la mia vita cambiò: avevo avuto consapevo-lezza di me stesso!! Ero entrato in contatto profondo e diretto con la mia ani-ma ed avevo tracciato una linea di demarcazione, che an-cora oggi è rimasta inalterata, tra cosa fosse per me il be-ne ed il male.Capiamoci, come ho già detto non è che abbia avuto un’in-fanzia difficile né, tantomeno, un’adolescenza più complica-ta rispetto a quella di tanti altri, ma per la prima volta riuscii ad avere un dialogo sincero con me stesso ed a sfogare tut-ta la rabbia che avevo represso dentro di me per tutto ciò che consideravo ingiusto. La rabbia folle di chi si sente impotente davanti ai soprusi e davanti a qualunque forma di limitazione della libertà, pro-pria ed altrui. Ricordo come fosse ora che sentivo il fortissimo desiderio di tornare indietro nel tempo, in veste di invincibile supere-roe, per soccorrere il povero Kunta Kinte, braccato, cattu-rato, legato, frustato e buttato dentro un barcone, ivi acca-tastato come un sacco, in compagnia di tanti altri come lui, tutti strappati alle loro famiglie ed alla loro terra, privati del-la loro dignità di esseri umani e trasportati in un posto sco-nosciuto e lontano, dove avrebbero patito indicibili pene e sofferenze.Insomma, il peggiore degli incubi che si concretizza.

KUNTA KINTE – ROOTS (“RADICI”)Kunta Kinte è il protagonista del romanzo Roots (“Radici”) di Alex Haley, dal quale è stata tratta l’omonima miniserie televisiva rea-lizzata negli U.S.A. nel 1977 e trasmessa per la prima volta in Ita-lia su Rai 2 in otto puntate, ogni venerdì dalle ore 20:40, a par-tire dal giorno 8 settembre 1978. Secondo il racconto di Haley, Kunta Kinte nacque in Gambia nel 1750 nel villaggio mandinka di Juffure. Divenuto guerriero, dopo una rigida di-sciplina formativa culminata con l’iniziazione e la circonci-sione, a 17 anni venne aggre-dito, catturato e fatto prigio-niero dai mercanti di schiavi. Dopo esser stato marchiato a fuoco, venne stipato in una nave, incatenato con più di cento altri africani e traspor-tato in America. Sbarcato ad Annapolis, in Maryland, dopo tre mesi di viaggio, durante il qua-le morì un terzo dei prigionieri, fu venduto ad un proprietario ter-riero della contea di Spotsylvania, in Virginia, che gli cambiò il no-me in Toby. Orgoglioso e audace, pagò a caro prezzo, con severe punizioni e con la mutilazione di una parte del piede, i suoi ripetuti tentativi di fuga, ma la volontà di ritornare libero non l’abbandonò mai. I personaggi e le loro vicissitudini sono presentati come real-mente esistiti, ed in effetti la ricostruzione dell’autore è supporta-ta dalle sue ricerche e dall’esame dei documenti rinvenuti in varie biblioteche ed archivi storici, anche se si ritiene che molte circo-stanze siano state romanzate per esigenze letterarie, prima, e ci-nematografiche, poi.

Ormai stavano finendo le vacanze estive del 1978, an-cora qualche mese ed avrei compiuto dodici anni.Ricordo bene che fu proprio allora, durante quel set-

tembre, che per la prima volta provai quella strana quanto sgradevole sensazione.Un dolore sordo che mi rimbombava dentro il petto e pian piano dava corpo ad una rabbia senza fine, apparentemen-te ingiustificata, che mi faceva quasi esplodere la testa, co-lorando di rosso il mio volto.Dall’intensità sembrava proprio che quella sensazione di di-sagio non potesse appartenere soltanto a me.Era una sofferenza che, come detto, in un primo momen-to giudicai incomprensibile, del resto ero un ragazzino feli-ce, mi trovavo comodamente sdraiato sul divano ed ero pu-re in vacanza dalla scuola ... e che diamine … non aveva pro-prio alcun senso!! Pertanto, non riuscivo a capire il perché di un tormento così profondo e così antico, tale da sfociare in un pianto solitario e strozzato, silenzioso e per tale motivo ancora più doloro-so, perché inevitabilmente soffocarne il rumore comporta-va la contrazione di tutti i muscoli facciali, pettorali e addo-minali, tanto che il dolore, alla fine del suo percorso, rincu-lava dentro la mia testa, squassandola. Questo perché in realtà mi vergognavo di me stesso, per quella scena che ritenevo assolutamente infantile, certo non degna di quell’uomo che all’epoca volevo diventare, “l’uomo che non deve chiedere mai”. Insomma, alla fine non trattenni più le lacrime e piansi a di-rotto, e più piangevo più la rabbia si trasformava in felicità, come se finalmente avessi avuto la forza di rompere gli ar-gini dell’adolescenza, di lasciarmi andare per la prima volta alle mie emozioni, finalmente sentivo di essere onesto con me stesso e di prendere contatto con la mia vera persona-lità, di sfogare tutte le frustrazioni, più o meno grandi e più o meno comuni a tutti gli adolescenti, che fino ad allora mi avevano tormentato e che avevo in ogni modo cercato di controllare, negandole.

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Quando iniziai a guardarlo in TV, pensavo che Radici fosse la storia di un giovane ragazzo nero con il lieto fine, come quelle che fino ad allora avevo visto, ma la sceneggiatura di quel teleromanzo a puntate non somigliava affatto a quello trasmesso qualche anno prima, che raccontava le gesta fan-tastiche della Tigre della Malesia.A soccorso di Kunta, infatti, non arrivava mai nessuno, tan-tomeno Sandokan, Yanez o i Tigrotti della Malesia, nessu-no lo aiutava a combattere quel maledetto crudelissimo in-vasore.Il miserabile Kunta era stato abbandonato da tutti al suo terribile destino … non ci potevo credere, ma era proprio così, e non potevo farci niente!Nonostante tutto quel dolore e nonostante l’inevitabi-le conseguente sensazione di enorme frustrazione e soffe-renza che mi provocava, non riuscivo a staccare gli occhi da quel teleschermo in bianco e nero e da quella storia terrifi-cante.Seguii per tutte le puntate e con molta apprensione le vi-cissitudini di quello schiavo negro e la lenta evoluzione del-la sua condizione e di quella dei suoi discendenti che, attra-verso disumani ed insopportabili tormenti, riuscirono, alla fine, a conquistare la libertà, che, seppur decisamente som-maria, rappresentava comunque un’incredibile conquista.Alla fine, in qualche modo o misura, avevo avuto il mio tan-to agognato lieto fine, ed anche se in realtà non lo vivevo come tale, mi sentivo felice ed orgoglioso di me stesso per avere avuto la forza d’animo di stare vicino a quel disgrazia-to, anche se soltanto attraverso un teleschermo.Se l’avessi abbandonato, non guardando più le sue disav-venture, così partecipando ai suoi tormenti, non me lo sa-rei mai potuto perdonare, mi sarei sentito il più vigliacco de-gli uomini!!Tuttavia non riuscivo ancora a spiegarmi il perché la storia di quel ragazzo nero mi avesse sconvolto così tanto profon-damente.Rimasi quasi ipnotizzato ed incantato durante tutto il pe-riodo di programmazione dello sceneggiato, non riuscivo a pensare ad altro se non a Kunta, mi immedesimavo in lui e mi auguravo di poter avere da grande quella forza d’animo

e quella speranza che, nonostante l’indicibile tragedia che l’aveva colpito, non lo abbandonava mai.Mi addormentavo e mi svegliavo con in testa la musica tri-ste della colonna sonora, che rappresentava il filo d’unione tra Kunta e me, ed ancora oggi la ricordo, nonostante siano passati quasi quarant’anni dall’ultima volta in cui l’ho sen-tita.L’aspetto più deleterio, che contribuì a rendere il tutto an-cora più traumatico, era stato l’apprendere che la storia di Kunta fosse vera!Ad una mia precisa domanda, infatti, i miei genitori mi dis-sero che quella tragedia si era veramente consumata ai dan-ni di tantissimi africani e non riuscivo a farmi una ragione del fatto che all’epoca nessuno, in tutto il mondo, avesse mosso un dito per evitarla o, almeno, per tentare di arginar-la in qualche modo.Quando chiedevo spiegazioni ai miei familiari ed agli al-tri “grandi”, nessuno riusciva a spiegarmi il perché di tan-ta atrocità, e poiché non mi reputavo un ragazzo partico-larmente sensibile, mi domandavo come mai persone ben più attente di me ai problemi sociali non avessero agito per arrestare immediatamente quell’ingiustificata crudeltà nei confronti di altri esseri umani.Doveva pur esserci una ragione ed io dovevo assolutamen-te scoprirlo.Dato che nessuno aveva la risposta alla mia domanda, do-vevo essere io stesso – come la vita mi ha sempre insegna-to – a trovare una spiegazione plausibile, che potesse placa-re la mia rabbia.Del resto avevo sempre avuto, già durante la visione del-le varie puntate, la sensazione che tutto quel male dovesse necessariamente avere un senso, e poiché sin da allora ero profondamente credente, ero sicuro che il Signore avesse un piano ben preciso, senza il quale non avrebbe mai per-messo lo scatenarsi di tanta atrocità.Quindi, quando terminò la miniserie, decisi che avrei sem-pre tenuto la mente e gli occhi ben aperti per individuare ogni segnale che potesse farmi comprendere la finalità di quel piano tanto oscuro, terribile e complesso.Il tempo passava, ma di spiegazioni valide neppure l’ombra.

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2. La mia amica chitarra

vissuto quella strana crisi esistenziale notai subito che il mio modo di approcciarmi allo strumento mutò: il rapporto con la mia chitarra era divenuto più convinto, più profondo e, se possibile, ancora più intimo.Adesso non pensate male! Non ho detto che ci andavo a letto, come spesso è capita-to ad altri musicisti, un nome a caso, che mi viene subito in mente, è giusto Jimi Hendrix.Ebbene si, qualche volta è successo di addormentarmi con la mia chitarra in mano … ma a quale chitarrista non è capi-tato almeno una volta? Intendevo semplicemente dire che ora riuscivo ad assapo-rare ogni singola nota, godendomi il suono che usciva dalla mia fedele amica, come fosse proprio la sua voce, e la cosa più interessante (anche se per certi versi più preoccupante) è che mi piaceva parlare con lei … ovviamente non ne face-vo menzione con nessuno, anche perché l’idea di indossare una camicia al contrario non mi allettava tanto, quindi cu-stodivo per me quel rapporto segreto, ed ogni giorno mi al-zavo entusiasmato dall’idea che da lì a breve avrei ripreso il discorso con la mia chitarra.Suonavo con più trasporto, con più emozione, cercando di comprendere anche i testi ed il messaggio che gli autori del-le mie canzoni preferite cercavano di trasmettere attraver-so i loro brani.È proprio durante questa pratica ossessiva che imparai una lezione che ritengo fondamentale per qualunque musicista, ossia che in realtà occorre allenare innanzitutto la propria anima ed il proprio cuore, ancor prima dell’orecchio e del-le dita. Fu così che mi avvicinai alla musica di alcuni cantautori na-poletani, in particolare Edoardo Bennato e Pino Daniele.

EDOARDO BENNATOEdoardo Bennato (Napoli, Italia 23 luglio 1949). Cantautore, chi-tarrista, armonicista e one-man-band, capace di suonare contem-poraneamente chitarra, armonica, tamburelli, kazoo e altre per-cussioni. Sin da piccolo si appassionò alla musica ed in particolare

al rock’n’roll, che agli esordi influenzò il suo stile e le sue scelte musicali. La sua mu-sica, specie quella dei primi albums, testi-monia la sua eviden-te ispirazione ai gran-di cantautori america-ni, tra tutti Bob Dylan, ed al blues, che culmi-nerà nel 1992 con la pubblicazione dell’al-bum È asciuto pazzo ‘o padrone, dove rie-laborò, sotto lo pseu-donimo di Joe Sarna-taro e l’ausilio del-la blues band parte-nopea Blue Stuff, bra-ni classici del blues sti-

Nell’attesa mi consolavo suonando la mia chitarra. In-fatti, già da qualche anno prima avevo iniziato a gio-carci.

Come tutti gli autodidatti dell’epoca, cercavo di fare tesoro di ogni insegnamento possibile.In un’era – perché così la si può ormai definire – in cui non esistevano neppure i DVD ed i manuali di chitarra erano merce rarissima … e costosissima, figuriamoci internet e le sue meraviglie, neppure nelle fantasie più sfrenate sarebbe stato possibile immaginare che da lì a qualche decennio con un solo click si sarebbe potuto visualizzare un insegnante di chitarra, pronto ad impartirti lezioni gratuite!Potevi già considerarti fortunato quando ti capitava di im-batterti in qualche rubrica o rivista periodica dove venivano indicati gli accordi base del mitico “giro di DO”.Io, nel mio piccolo, ero un privilegiato, dato che due miei zii, Mario e Luciano, suonavano la chitarra ed ogni tanto pote-vo ascoltarli mentre eseguivano qualche ballata italiana o americana, e guardare dove e come muovevano le dita sul-la tastiera.Insomma, a quei tempi si imparava a suonare la chitarra “sul campo”, prima imparando gli accordi base e le ritmi-che elementari nell’unico modo possibile, ossia suonando per ore e senza sosta, dopodiché, quando l’orecchio e le di-ta erano sufficientemente allenati e ti ritenevi pronto per il “grande salto”, si passava all’ascolto su musicassetta dei brani dei musicisti preferiti, cercando di riprodurli, sempre se avevi la fortuna di trovare i nastri e se chi li possedeva era così gentile da prestarteli, visto che spesso e volentieri man-cavano i soldi per comprarli.L’obiettivo era sempre il solito: imparare a suonare la can-zone desiderata prima che l’uso continuo e disperato dei ta-sti play e rewind smagnetizzasse definitivamente il nastro o provocasse addirittura la rottura della musicassetta e, in più d’una occasione, pure del mangiacassette di turno.Per farla breve, sin dall’età di nove anni la chitarra è stata la mia fedele amica e compagna di avventure, e dopo aver by

M. L

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le Chicago, con te-sti cantati in dialetto napoletano, ironiz-zando sui difetti, ma pure su alcuni pre-gi della sua città. La sua ricerca musica-le, tuttavia, non si è mai fossilizzata, tan-to da presentare, a fasi e fortune alter-ne, accenni di musica folk, rock, ska e reg-gae, il tutto sapien-temente arricchito da intermezzi di mu-sica lirica, da came-ra e persino di musi-ca elettronica, sem-pre ben miscelati al sapore della tradizio-ne popolare ed al gusto tipicamente mediterraneo e, in particola-re, partenopeo. Sin dal suo primo album Non farti cadere le brac-cia (1973) tutti i suoi lavori, specie quelli pubblicati nella seconda metà degli anni 70, come I buoni e i cattivi (1974), Io che non sono l’Imperatore (1975), La torre di Babele (1976) e Uffà! Uffà! (1980), sono stati caratterizzati da testi socialmente impegnati, giocosa-mente dissacranti e mai banali, anche utilizzando come riferimen-to e base di partenza le favole di Pinocchio, Burattino senza fili (1977), e di Peter Pan, Sono solo canzonette (1980). Da un lato ha apertamente criticato le classi dirigenti e la loro screanzata am-ministrazione del potere e della cosa pubblica, senza fare alcuna eccezione, neppure per il Papa (Affacciati Affacciati), schierando-si contro la guerra, contro l’ipocrisia delle persone “serie e rispet-tate”, contro l’arrivismo e l’arroganza dei “grandi e dei potenti”, contro la presunzione delle persone “colte ed istruite” ed il divi-smo dei privilegiati, e dall’altro lato non ha mai smesso di celebra-re la fantasia e la purezza dei “piccoli”, la sincerità e la semplicità dei deboli, senza secondi fini o interessi personali, il tutto con un tono ironico ed autoironico, sempre goliardico e mai gratuitamen-te offensivo, né volgare.

PINO DANIELEGiuseppe Daniele, noto Pino (Napoli, Italia 19 marzo 1955 – Roma, Italia 4 gennaio 2015). Cantautore, chitarrista e autore di colonne sonore. La sua musica e i testi delle sue canzoni evidenziano non solo il profondo legame con la tradizione mediterranea e napo-letana, presente in particolare nel primo album intitolato proprio Terra mia (1977), ma anche la sua passione per il blues, culminata con la sua partecipazione nel 2010 al Crossroads Festival organiz-zato a Chicago da Eric Clapton. La sua originale produzione artisti-ca, inizialmente ispirata dalla fattiva collaborazione di James Sene-se in occasione dei successivi tre albums, Pino Daniele (1979), Ne-ro a metà (1980) e Vai mò (1981), l’ha reso uno dei musicisti ita-liani più conosciuti al mondo, consentendogli pure di collaborare con i più grandi musicisti del panorama internazionale. Dopo aver aperto nel 1980 il concerto di Bob Marley a Milano, è indimentica-bile il suo concerto del 1981 in piazza del Plebiscito a Napoli, da-vanti a circa 200.000 persone, accompagnato da una formazione

tutta partenopea (Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Tony Esposito e James Senese), che segnò non solo un punto, for-se inarrivabile, di spessore tecnico raggiunto da una band italiana, ma testimoniò pure la sua continua innovazione artistica, ben ra-dicata nella tradizione campana, ma con forti richiami a rock, ja-zz, funk e, ovviamente, blues. La sera del 4 gennaio 2015, Pino Da-niele, da tempo afflitto da gravi problemi cardiaci, ha avuto un in-farto presso la sua casa di Orbetello, in Toscana. Giunto in condi-zioni critiche all’ospedale Sant’Eugenio di Roma, è morto dopo va-ni tentativi di rianimazione. A testimonianza del grande affetto nei suoi confronti, a Napoli una folla di circa 100.000 persone si è riu-nita in Piazza del Plebiscito per commemorarne la memoria, can-tando le sue canzoni.

Je So’ PazzoJe so’ pazzo, je so’ pazzo e vogl’essere chi vogl’io ascite fore d’a casa mia. Je so’ pazzo je so’ pazzo c’ho il popolo che mi aspetta e scusate vado di fretta, non mi date sempre ragione io lo so che sono un errore, nella vita voglio vivere almeno un giorno da leone e lo Stato questa volta non mi deve condannare pecché so’ pazzo, je so’ pazzo ed oggi voglio parlare.Je so’ pazzo, je so’ pazzo si se ‘ntosta ‘a nervatura metto tutti ‘nfaccia ‘o muro. Je so’ pazzo, je so’ pazzo ma chi dice che Masaniello poi negro non sia più bello? E non sono menomato, sono pure diplomato e la faccia nera l’ho dipinta per essere notato. Masaniello è crisciuto, Masaniello è turnato. Je so’ pazzo, je so’ pazzo nun nce scassate ‘o cazzo!(Pino Daniele)

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Lo spirito di aperta protesta e di fiera ribellione, nei con-fronti di un sistema politico e sociale sterile, viziato ed ipo-crita, che animava le loro canzoni, i cui testi, seppure ironici, erano decisamente rivolti contro il potere fine a sé stesso e contro coloro che lo detenevano, rappresentava per me un irresistibile polo di attrazione.Mi riconoscevo profondamente e mi specchiavo in quel sin-cero anticonformismo e, per la prima volta, non mi senti-vo solo! Da lì a qualche tempo iniziai ad ascoltare e riprodurre anche alcuni brani di artisti americani, in particolare Bob Dylan, gli Eagles e Cat Stevens, cantando in una lingua che tutto era tranne inglese ed immaginando il significato di quelle paro-le sconosciute basandomi sul mood musicale, dato che all’e-poca non si trovavano facilmente le traduzioni dei brani e la mia conoscenza dell’inglese era alquanto “spartana”.

BOB DYLANRobert Allen Zimmerman (nome in ebraico Zushe ben Avraham), in arte Bob Dylan (Duluth, Minnesota 24 maggio 1941). Ha spesso adottato diversi pseudonimi: Elston Gunnn, Blind Boy Grunt, Boo “Lucky” Wilbury, Elmer Johnson, Sergei Petrov, Jack Frost, Jack Fa-te, Willow Scarlet, Robert Milkwood Thomas, Tedham Porterhou-se. Cantautore, chitarrista, armonicista, pianista, compositore, po-eta, scrittore, attore, pittore, scultore e conduttore radiofonico. Uno degli artisti più importanti del secolo scorso, non solo in cam-po musicale ed artistico, ma per l’intera cultura popolare del no-stro pianeta. Benché le sue esibizioni, su disco e dal vivo, rappre-sentino l’aspetto più coinvolgente ed emotivo della sua carriera ar-tistica, sono i testi delle sue canzoni ad essere considerati il suo più grande contributo, grazie al forte impegno politico e sociale che ha sempre caratterizzato i suoi lavori, pregni, altresì, di suggestivi rife-rimenti letterari, poetici e filosofici. Negli anni 60 le sue canzoni

decisamente anticonvenzionali influenzarono le coscienze di milio-ni di giovani, diventando veri e propri inni dei movimenti pacifisti e per i diritti civili (fra tutte Blowin’ in the Wind e Master of War), fa-cendolo emergere come figura chiave dell’intero movimento di protesta americano. Bob Dylan è il cantautore per eccellenza, ma la sua evoluzione artistica non si è mai arrestata, sebbene talvolta ciò gli sia anche costato l’affetto del suo pubblico, interessandosi a quasi tutti i generi musicali, come country, blues, rock’n’roll, go-spel, jazz, western, rockabilly, swing e musica tradizionale popola-re. Le notazioni relative alla sua vita, anzi alle sue vite, ed alla sua arte richiederebbero un libro, o meglio, un’enciclopedia intera-mente dedicata a lui! Cercherò, quindi, di riassumerle nella manie-ra più breve, ma esaustiva possibile. I suoi nonni materni erano ebrei lituani, emigrati in America nel 1902, mentre quelli paterni, di origine turca, erano ucraini di Odessa, emigrati negli U.S.A. do-po i pogrom antisemiti del 1905, quando in seguito al fallimento della prima rivoluzione russa diverse centinaia di villaggi e città fu-rono saccheggiate e devastate e la popolazione ebraica ivi residen-te massacrata (sebbene si ritenga che tali spedizioni punitive fos-sero sommosse popolari spontanee contro gli usi e costumi, anche religiosi, ebraici, alcuni storici ritengono che furono appoggiate e sostenute dalle autorità governative, che ne sfruttarono comun-que la portata, indirizzando verso l’intolleranza religiosa e l’odio etnico la protesta dei contadini e dei lavoratori ad infimo reddito, esasperati dalle dure condizioni della loro vita). Cresciuto nella cit-tà mineraria di Hibbing, in Minnesota, dove i genitori apparteneva-no alla piccola comunità ebraica, Bob Dylan visse a Duluth fino a 7 anni, e quando suo padre si ammalò di poliomielite ritornò alla vi-cina Hibbing. Passava gran parte della sua giornata ascoltando al-la radio musica blues, country e, in seguito, rock’n’roll e alle scuole superiori formò alcune band con cui suonò covers di canzoni popo-lari e rock’n’roll ed imparò a suonare il pianoforte. Intorno al 1958, dopo aver ascoltato un disco di Odetta, il suo interesse per il rock’n’roll, in particolare per Little Richard, lasciò il posto a quel-lo per la musica folk tradizionale suonata con strumenti acustici, e così vendette chitarra elettrica ed amplificatore per acquistare una chitarra acustica. In seguito precisò che il ritmo trascinante e l’energia travolgente del rock’n’roll non gli bastavano più, in quan-to non riflettevano la vita reale, mentre la musica folk era “una co-sa molto più seria”, i testi erano “colmi di disperazione, di tristezza, di trionfo, di fede nel sovrannaturale, tutti sentimenti molto più profondi. C’è più vita reale in una sola frase di queste canzoni di quanta ce ne fosse in tutti i temi del rock’n’roll. Io avevo bisogno di quella musica”. E così entrò a far parte del circuito folk di Din-kytown e fece amicizia con altri appassionati del genere, da cui prese in prestito molti dei loro albums, dimenticandosi però di re-stituirli! Proprio a partire da quel momento iniziò a farsi chiamare Bob Dylan, lo stesso cognome del suo poeta preferito dell’epoca, Dylan Thomas, e scegliendo come nome Bob poiché la musica po-polare di allora era piena di Bobbies. Bob Dylan abbandonò presto il college, ma rimase a Minneapolis, dove suonò nel circuito folk, e viaggiò molto. Il 1960 fu per Dylan un anno decisivo, anche perché, come dichiarato da lui stesso, e confermato da alcuni suoi amici, concluse un patto con il diavolo in cambio del successo nel mondo della musica, come prima di lui avevano già fatto Tommy John-son e Robert Johnson, quest’ultimo un suo idolo. In un’intervista realizzata nel 2000 per il documentario No Direction Home: Bob Dylan, di Martin Scorsese, Bob Dylan disse di essersi recato una notte presso un crocicchio e di aver incontrato il diavolo. Sempre

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in occasione di un’intervista contenuta nel documentario di Scor-sese, Tony Glover, cantautore amico di Dylan, raccontò il suo stu-pore quando ad una festa vide Bob Dylan cantare e suonare la chi-tarra in maniera incredibile, mentre soltanto due mesi prima il ri-sultato era appena mediocre, e suonare l’armonica con disinvoltu-ra, nonostante fosse la prima volta che suonava quello strumento in pubblico. Nel 2004, in occasione di un’altra intervista concessa a Ed Bradley, conduttore del programma CBS 60 Minutes, Bob Dylan ritornò sull’argomento, affermando di voler ritardare la fine di quel patto. Agli inizi del 1961 si trasferì a New York per suonare e per far visita al suo idolo Woody Guthrie, ricoverato al New Jersey Hospital. L’influenza di Woody Guthrie, in occasione delle sue pri-me composizioni, fu tale che Bob Dylan a proposito dell’opera di Guthrie disse che “potevi sentire le sue canzoni e allo stesso tempo imparare a vivere”. Durante una delle visite a Guthrie, Bob Dylan conobbe un vecchio amico del musicista folk, Ramblin’ Jack Elliott. I due divennero amici e suonarono pure insieme nei clubs del Gre-enwich Village, periodo in cui Bob Dylan si appassionò pure al gio-co del poker. Fu una positiva recensione di Robert Shelton per il New York Times, dopo un’esibizione al Gerde’s Folk City nel set-tembre del 1961, ad attirare l’interesse del pubblico su Bob Dylan, e proprio nello stesso mese John Hammond, talent scout della Co-lumbia Records, notò il talento di Dylan in occasione della sua par-tecipazione come armonicista in un album della cantante folk Ca-rolyn Hester, di cui Hammond era produttore, e lo scritturò per re-gistrare il suo primo album, Bob Dylan (1962), nel quale vennero inclusi brani della tradizione folk, blues e gospel. Nonostante la Co-lumbia Records non fosse soddisfatta delle vendite, Hammond di-fese Bob Dylan, anche grazie al sostegno di Johnny Cash. Nel 1962 Bob Dylan andò alla Corte Suprema di New York e cambiò il suo nome in Robert Dylan ed assunse Albert Grossman come ma-nager. Nel successivo album The Freewheelin’ Bob Dylan (1963) comparvero le prime canzoni di protesta, ispirate da Guthrie e in-fluenzate dalla sua passione per il racconto e l’analisi dei fatti d’at-tualità, oltre a romantiche canzoni d’amore, introspettive, ma an-che giocose ed ironiche. La combinazione voce, chitarra acustica e armonica ne fecero la figura dominante del movimento folk con base nel Greenwich Village. La sua voce, non proprio canonica, era incisiva e graffiante, perfetta per interpretare le sue canzoni. La sua reputazione crebbe anche presso i musicisti già famosi, come i Beatles e Joan Baez, e quest’ultima lo invitò a duettare sul palco ed a registrare con lei alcune delle sue prime canzoni, contribuen-do al successo nazionale ed internazionale di Dylan. Nel 1963 Bob Dylan e Joan Baez, nel frattempo diventati amanti, divennero per-sonaggi di rilievo all’interno del movimento per i diritti civili e can-tarono insieme a comizi e raduni, anche in occasione della marcia su Washington, in cui Martin Luther King pronunciò il suo famoso discorso “I have a dream”. Le partecipazioni di Bob Dylan a spetta-coli televisivi furono sempre discusse e controverse, come quando nel 1963 se ne andò dall’Ed Sullivan Show perché gli autori del pro-gramma gli impedirono di suonare Talkin’ John Birch Paranoid Blues, in quanto poteva essere potenzialmente diffamatoria per l’associazione anticomunista John Birch Society. Negli albums pub-blicati nel 1964, The Times They Are a-Changin’ e Another Side of Bob Dylan, i testi delle sue canzoni divennero sempre più politica-mente e socialmente impegnati e scomodi. Intorno al 1965 la sua insofferenza nei confronti delle convenzioni sociali, dell’ipocrisia dei moralisti e dei media, con cui i rapporti erano sempre più tesi, si evidenziò anche nel suo nuovo look, dato che i vecchi jeans e le

camicie da lavoro lasciarono il posto ad un guardaroba ricercato, e nel suo nuovo stile musicale, dato che chitarra acustica e armoni-ca furono sostituite da chitarra e band elettriche. Il 25 luglio 1965 Bob Dylan si presentò al Newport Folk Festival con chitarra elettri-ca a tracolla ed una band elettrica di supporto, formata in preva-lenza da musicisti provenienti dalla Paul Butterfield Blues Band, tra i quali Mike Bloomfield alla chitarra, Sam Lay alla batteria e Al Ko-oper all’organo, e fece il suo storico primo concerto elettrico dai

giorni della scuola. Il pubblico, che nei due anni precedenti l’aveva osannato come alfiere del folk, non solo disapprovò la sua scelta artistica, ma reagì malissimo, fischiandolo, tanto che Dylan lasciò il palco dopo sole tre canzoni, per poi farvi ritorno e suonare due canzoni in acustico, che stavolta furono ben accolte. Dylan, ad ogni modo, si risentì molto dell’accoglienza riservatagli dagli ap-partenenti al movimento folk, rivendicando la sua libertà di espres-sione artistica, e gli strumenti elettrici divennero parte fondamen-tale della sua musica, ingaggiando Robbie Robertson e la band The Hawks. La sua musica, come testimoniato dalla trilogia Bringing It All Back Home (1965), Highway 61 Revisited (1965) e Blonde on Blonde (1966), era ormai divenuta una miscela originale ed elettri-ca di folk, blues, country, R’N’R, R’N’B, gospel, beat, poesia, surre-alismo e cronaca sociale, ma non abbandonò mai chitarra acustica ed armonica. Al culmine dei suoi innumerevoli impegni, il 29 luglio 1966 Bob Dylan ebbe un incidente mentre guidava la sua moto, a pochi chilometri di distanza da Bearsville, vicino a Woodstock, nel-lo Stato di New York. I contorni dell’incidente sono ancora oggi av-volti nel mistero, e sebbene Bob Dylan dichiarò di aver semplice-mente perso il controllo della sua moto, furono ipotizzate diverse cause: guasto meccanico, guida in stato di ebbrezza, per aver as-

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sunto alcool o droga, colpo di sonno e persino tentato suicidio, e di conseguenza nacquero altrettante leggende, anche perché nessu-no poté verificare l’entità delle ferite occorse. A tal proposito Dylan dichiarò di essersi rotto alcune vertebre del collo, ma non era stata chiamata nessuna ambulanza sulla scena dell’incidente e Bob Dylan non era stato ricoverato in alcun ospedale. Secondo al-tri, invece, Dylan era addirittura morto ed era stato rimpiazzato da un sosia. L’unica certezza è che l’incidente fornì a Bob Dylan l’oc-casione di sfuggire alle pressioni e di trascorrere un periodo di iso-lamento e di pace, che proseguì anche nel 1967, quando decise di registrare con gli Hawks a casa sua e nello scantinato della vicina casa degli Hawks, chiamata Big Pink, in un’atmosfera calda e rilas-sante. Alla fine del 1967 gli Hawks cambiarono il nome in The Band. Nei successivi albums, John Wesley Harding (1967) e Nash-ville Skyline (1969), Bob Dylan presentò canzoni decisamente di-verse dalle precedenti, i cui testi, introspettivi e contemplativi, ispirati alle Sacre Scritture, e la cui musica, con pochi essenziali strumenti, si scontravano decisamente con lo stile psichedelico al-lora in voga. Il 3 ottobre 1967 morì Woody Guthrie e il 20 genna-io 1968 Bob Dylan, dopo quasi due anni di assenza dalle scene, suonò dal vivo alla Carnegie Hall di New York in memoria del suo idolo ed amico. Dopo aver declinato l’invito a suonare al festival di Woodstock, perché si trovava troppo vicino a casa sua, nel 1969 partecipò al festival dell’isola di Wight e, dopo aver pubblicato nel 1970 Self Portrait e New Morning, nel 1971 prese parte al concer-to per il Bangladesh, organizzato dall’amico George Harrison. Du-rante lo stesso anno registrò alcune canzoni, mai pubblicate, col poeta Allen Ginsberg, alla Record Plant di New York, in cui Gin-sberg figurava come cantante principale, mentre Dylan lo accom-pagnava con chitarra, armonica e voce. Nel 1972 Dylan scrisse l’o-monima colonna sonora e recitò una parte nel film Pat Garrett & Billy the Kid e dopo la pubblicazione dell’album Dylan (1973), agli inizi del 1974 partì con The Band per il Bob Dylan and The Band Tour of North America, organizzato da Bill Graham, dopodiché si ri-tirò dalle scene. Continuò però a registrare e pubblicare dischi, co-me Planet Waves (1974), Blood on the Tracks (1975) e The Base-ment Tapes (1975). Nel 1975, dopo aver incontrato in carcere il pu-gile Rubin “Hurricane” Carter, imprigionato per omicidio a Pater-son, in New Jersey, Bob Dylan, sostenendo la sua innocenza, scris-se Hurricane, la prima canzone di protesta ad avere successo com-merciale, inserita nell’album Desire (1976). Per il suo successivo tour, Rolling Thunder Revue, Dylan coinvolse numerosi artisti pro-venienti dal circuito folk del Greenwich Village, tra cui il poeta Al-len Ginsberg, Ramblin’ Jack Elliott, Joan Baez, con la quale si ritro-vò a suonare dopo più di dieci anni, e Joni Mitchell. Nel 1976 Dylan partecipò al concerto d’addio di The Band accanto ad altre stelle della musica, come Joni Mitchell, Muddy Waters, Eric Clapton, Van Morrison e Neil Young, ripreso nel mitico film The Last Waltz (1978). Sempre nel 1978 Bob Dylan prese parte all’album No Rea-son To Cry di Eric Clapton, con il quale duettò nella canzone Sign Language, scritta dallo stesso Dylan. Nello stesso anno uscirono anche il suo film Renaldo and Clara, mai amato dalla critica, ed il suo nuovo album Street Legal (1978). Alla fine del 1978 Dylan eb-be una “visione e sensazione”, durante la quale si mosse la stanza, “c’era una presenza nella stanza e non poteva essere nessun altro che Gesù Cristo”, e così si convertì divenendo un “cristiano rinato”, seguì lezioni di biblistica in California e pubblicò gli albums di mu-sica gospel cristiana, Slow Train Coming (1979), con la collabora-zione di Mark Knopfler, e Saved (1980). La sua “rinascita cristiana”

non fu ben accolta da molti fans ed amici musicisti, ma il grande pubblico e la critica reagirono positivamente ai suoi nuovi lavori. Negli albums successivi, Shot of Love (1981) e Infidels (1983), quest’ultimo con la rinnovata collaborazione anche in qualità di produttore di Mark Knopfler, ricomparvero alcuni testi laici, me-scolati a canzoni chiaramente cristiane. Nel 1985, dopo aver colla-borato al singolo We Are the World, i cui proventi andarono in be-neficenza per la carestia in Etiopia, prese parte al Live Aid tenutosi al JFK Stadium, accompagnato da Keith Richards e Ron Wood, se-guito in mondovisione da oltre un miliardo di persone. Nel 1986 partì in tournée con Tom Petty and The Heartbreakers e nel 1987 partì in tour con i Grateful Dead. Nel 1988 iniziò il Never En-ding Tour, suonando per decenni senza interruzione in tutto il mondo con una piccola band in continuo cambiamento. Ciò nono-stante non smise mai di collaborare e di suonare insieme ai più grandi musicisti del pianeta, come Carlos Santana, con il quale nel 1992 partecipò ad un breve tour. Nel 1994 Bob Dylan partecipò all’evento commemorativo di Woodstock 94, ma nel 1997 dovet-te interrompere il tour europeo e subire un urgente ricovero in ospedale a causa di una grave infezione al cuore (pericardite cau-sata da istoplasma). Per fortuna uscì presto dall’ospedale dopo aver temuto il peggio, tanto da affermare “ho veramente pensato che presto avrei visto Elvis”. Nell’estate del 1997 ritornò in tour in Europa e a Bologna si esibì davanti a Papa Giovanni Paolo II, il qua-le tenne un’omelia basata sul testo di Blowin’ in the Wind. Nel 1999 partì in tournée con Paul Simon e nel 2004 pubblicò il primo volume della trilogia della sua autobiografia Chronicles. Non si contano le onorificenze ed i riconoscimenti a lui tributati, né i pre-mi vinti da questo gigante, tra cui, nel 2008, il Premio Pulitzer alla carriera. Così come non si conta il numero di artisti internazionali coi quali ha collaborato durante la sua incredibilmente prolifica carriera, la maggior parte dei quali sono stati da lui stesso ispirati, né i libri, i documentari, i films ed i siti internet a lui dedicati. La sua versatilità di artista non ha mai cessato di innovarsi, tanto da esor-dire nel 2013 come scultore, esibendo una mostra di opere ottenu-te saldando utensili in ferro, come pinze, chiavi inglesi, ferri di ca-vallo, vecchi ingranaggi e vari materiali di recupero. Insomma, in una sola parola, IMMENSO!

Blowin’ in the Wind How many roads must a man walk down before you call him a man? How many seas must a white dove sail before she sleeps in the sand? How many times must the cannon balls fly before they’re forever banned? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, the answer is blowin’ in the wind. (Bob Dylan)

Soffia nel VentoQuante strade deve percorrere un uomo prima che lo si possa definire tale?Quanti mari deve sorvolare una colomba biancaprima che possa dormire sulla sabbia? Quante palle di cannone devono ancora volareprima che siano bandite per sempre?La risposta, amico mio, soffia nel vento,la risposta soffia nel vento.

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EAGLES The Eagles sono un gruppo musicale rock californiano formatosi a Los Angeles nel 1971. Grazie al loro origina-le stile musicale, melo-dico ed avvolgente, in-fluenzato da vari gene-ri, specialmente coun-try e rock, diventarono il punto di riferimento della musica della West Coast, vendendo milio-

ni di dischi, tra cui il celeberrimo album Hotel California (1976), e sono ancora oggi considerati uno dei gruppi rock più influenti di sempre.

CAT STEVENSYusuf Islam, già Steven Demetre Georgiou, in arte Cat Stevens (Londra, Inghilterra 21 luglio 1948). Cantautore, chitarrista e pitto-re. Dopo aver iniziato la pro-pria carriera come cantante pop commerciale, in seguito ad una grave malattia (tuber-colosi) riesaminò la sua inte-ra vita, anche artistica, e virò decisamente rotta, cambian-do non solo casa discografi-ca, ma anche il proprio stile di vita. Con barba e capelli lun-ghi diventò un’icona del mo-vimento hippy e, dopo aver trascorso un periodo lonta-no dalle scene, coi suoi albu-ms successivi pubblicati tra il 1970 e il 1971, Mona Bone Jakon, Tea for the Tillerman e Teaser and the Firecat, carat-terizzati da uno stile musicale originale, morbido ed elegante, con chitarra acustica, pianoforte e sonorità calde ed avvolgenti, spo-polò in tutto il mondo. Nel 1976 il fratello, di ritorno da un viag-gio a Gerusalemme, gli regalò il Corano e l’anno successivo, dopo aver rischiato di morire annegato, Cat Stevens si convertì all’Islam, adottando il suo attuale nome Yusuf Islam. Da lì a breve diventò membro della comunità musulmana di Londra e scomparve dalle scene, facendovi ritorno solo nei primi anni del 2000.

In particolare, fui letteralmente stordito dall’immensità del-la produzione di Bob Dylan, che ritengo essere stato il mio primo grande inconsapevole Maestro, e seguirla mi con-dusse attraverso un lungo viaggio nella musica, all’interno del quale la ballata acustica rappresentava soltanto il pri-mo gradino.Ascoltavo Dylan in continuazione, anche mentre studiavo, ma del resto non era una novità, dato che la musica ha sem-pre svolto un ruolo predominante nella mia vita.I miei primi ricordi musicali risalgono all’età di 4 anni, quan-do un altro mio zio, Gino, mi fece ascoltare alcuni brani di

Little Richard, ossia Tutti Frutti, Long Tall Sally e, ovviamen-te, Lucille, che cantavo a squarciagola, sotto lo sguardo di-vertito ed amorevole di mia nonna Antonietta, saltando sul tavolo con la mia chitarra giocattolo.

LITTLE RICHARDRichard Wayne Penniman, in arte Little Richard (Macon, Georgia 5 dicembre 1932). Cantante, autore, pianista e sassofonista. Auto-celebratosi “il vero Re del rock’n’roll”, influenzò fortemente la mu-sica e la cultura popolare del secolo scorso. Little Richard nacque in una famiglia profondamente religiosa dove la musica svolgeva un ruolo fondamentale, tanto che si esibivano come gruppo cano-ro nelle chiese locali con il nome The Penniman Singers. Visse in un quartiere nero dove subì la violenza della segregazione razziale ed imparò a suonare il sassofono e il pianoforte. Negli anni 50 iniziò la sua carriera discografica e con i suoi brani più celebrati, tra tutti Lucille, Long Tall Sally e Slippin’ and Slidin’, propose uno stile mu-sicale rivoluzionario, che contribuirà alla diffusione della sua fama di pioniere del rock’n’roll, caratterizzato da un ritmo veloce e inar-restabile, dalla presenza incalzante e trascinante delle percussioni, da una miscela di blues, rhythm’n’blues, funk e boogie-woogie e da uno stile di canto con evidenti influenze gospel, arricchito da gri-da acute e laceranti e da gemiti provocanti, tanto che la sua voce potente e squillante gli procurò il soprannome di War Hawk. Men-tre in America vigevano severe leggi razziali, che prescrivevano che nei luoghi pubblici, inclusi i locali in cui si tenevano concerti, dove-vano esserci zone separate riservate ai bianchi ed ai neri, accadeva frequentemente che durante le sue esibizioni il pubblico, che all’i-nizio del concerto si trovava diviso in zone separate, nel corso della serata piano piano si mescolasse e le persone di colore si mischias-sero ai bianchi. Ciò scandalizzò le associazioni razziste del sud degli Stati Uniti, che protestarono vivacemente mettendo in guardia la popolazione dal rock’n’roll, che, secondo il loro dire, era uno stru-mento immorale, pieno di riferimenti sessuali, facente parte di un complotto comunista per danneggiare i valori morali della gioven-tù americana. Ciò nonostante, il successo di Little Richard fu ta-le che persino negli Stati del sud, dove si sentiva maggiormente il peso della segregazione razziale, i pregiudizi verso gli artisti di co-lore che si esibivano nei locali per bianchi diminuirono progres-sivamente. Oltre alla sua musica ed al colore della sua pelle, an-che il suo look spregiudicato e trasgressivo, con abiti sgargianti, colorati ed esagerati, la sua celebre pettinatu-ra ricca di brillantina e il trucco, assolutamente inedito per i musicisti dell’epoca, scandaliz-zò i benpensanti dell’e-poca, ma rivoluzionò gli anni 50, contribuendo a far decollare la popola-rità del rock’n’roll. Nel 1957, all’apice del suc-cesso, dopo aver rin-novato per sempre il rhythm’n’blues, il soul e il funk, improvvisamen-te Little Richard lasciò le scene, entrò in una

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Università cristiana nell’Alabama e diventò predicatore. Nei primi anni 60 incise alcuni brani gospel e nel 1962 tornò sulla scena con un tour in Inghilterra, con il supporto dei suoi primi ammiratori, i Rolling Stones e i Beatles. Nel 1964, come nuovo chitarrista della sua band, reclutò il giovane Jimi Hendrix, che ne riprese il look. A metà anni 60 registrò musica soul per la Okeh Records, con la col-laborazione di Larry Williams come produttore e di Johnny Guitar Watson alla chitarra. Purtroppo, con il ritrovato successo Little Ri-chard riprese anche lo stile di vita precedente alla sua conversio-ne, a base di sesso, alcool e droghe. Alla fine degli anni 60, in pieno movimento Black Power, rifiutò di esibirsi per un pubblico di soli afroamericani, non volendo vietare a nessuno la possibilità di assi-stere a un suo spettacolo. Nel 1977, dopo la morte di due suoi cari amici, del fratello e di un caro nipote, e dopo che lui stesso rischiò di essere ucciso dal suo vecchio amico Larry William, che mentre era in crisi d’astinenza gli puntò contro una pistola minacciando di ucciderlo se non gli avesse dato del denaro per la droga, capì che era giunto il momento di cambiare definitivamente stile di vita e tornò all’evangelismo cristiano, lasciando anche le scene e dichia-rando che non era possibile conciliare la carriera della rockstar con la volontà di servire il Signore. Iniziò a predicare l’uguaglianza tra le razze e la redenzione dell’anima dai peccati grazie all’amore del Signore, prendendo sé stesso come esempio, che nonostante un passato da alcolizzato, drogato e omosessuale era alla fine riusci-to a ritrovare il Signore. Infine, riprese pure ad esibirsi dal vivo, di-chiarando che era comunque possibile servire Dio anche attraver-so la musica. Secondo James Brown, il suo idolo Little Richard negli anni 50 fu il primo a mischiare funk e rock’n’roll e per Otis Redding contribuì in maniera decisiva allo sviluppo della musica soul. Ray Charles e Bo Diddley lo ritenevano uno degli artisti più influenti per le future generazioni di musicisti. Anche per Paul McCartney e Mi-ck Jagger era un idolo e un esempio da seguire. Pure Bob Dylan e Jimi Hendrix spesero parole di ammirazione nei confronti della sua musica e della sua abilità vocale, che ispirò cantanti come John Fo-gerty, David Bowie, Bon Scott, Freddie Mercury e Rod Stewart. An-cora oggi la sua musica ci rende felici. Alleluia!

Lucille Lucille, you won’t do your sister’s will? Oh, Lucille, you won’t do your sister’s will? You ran off and married, but I love you still. Lucille, please, come back where you belong Lucille, please, come back where you belong I been good to you, baby, please, don’t leave me alone. I woke up this morning Lucille was not in sight. I asked my friends about her, but all their lips were tight. Lucille, please, come back where you belong I been good to you, baby, please, don’t leave me alone. (Richard Penniman/Albert Collins)

LucilleLucille, non farai ciò che vuole tua sorella?Oh, Lucille, non farai ciò che vuole tua sorella?Sei scappata e ti sei sposata,

ma io ti amo ancora.Lucille, per favore, ritorna al tuo postoLucille, per favore, ritorna al tuo postomi sono comportato bene con te, bambina,per favore, non lasciarmi solo.Mi sono svegliato stamattinadi Lucille non c’era traccia.Ho chiesto di lei ai miei amici,ma le loro labbra erano cucite.Lucille, per favore, ritorna al posto cui appartienimi sono comportato bene con te, bambina,per favore, non lasciarmi solo.

Se fossi un educatore somministrerei abbondanti dosi di rock’n’roll a tutti i bambini per alimentare il loro entusia-smo nei confronti della vita e favorirne, così, una crescita sana e genuina.Nonostante ami la musica, ho sempre avuto gusti molto se-lettivi e non ho mai capito coloro che alla domanda “che musica ti piace” rispondono “un po’ tutta”.Diciamo pure che la maggior parte della musica che ascolta-vo alla radio non incontrava il mio favore, anzi, a dirla tutta, mi irritava proprio, tanto che i miei impianti HI-FI non hanno mai registrato la presenza di un sintonizzatore.Questo solo per spiegare per quale motivo riesca a ricorda-re con esattezza i musicisti nei quali, di volta in volta, mi so-no imbattuto e che hanno arricchito le mie giornate.Il passo successivo mi ha condotto al primo grande chitarri-sta che ho ascoltato ed apprezzato: Mark Knopfler, ancora oggi ogni volta che lo ascolto resto incantato dalla sua clas-se e dalla sua smisurata eleganza.

MARK KNOPFLER – DIRE STRAITSMark Freuder Knopfler (Glasgow, Scozia 12 agosto 1949). Chitar-rista, cantante autore, compositore di colonne sonore e produtto-re artistico. Il padre si era rifugiato in Scozia, all’inizio della secon-da guerra mondiale, dopo essere stato espulso dall’Ungheria, suo paese natale, a causa della sua attività di oppositore al regime filo-nazista. Nel 1957 Mark Knopfler si trasferì con la famiglia da Gla-sgow a Blyth, dove cominciò ad interessarsi alla musica, studian-do il violino grazie allo zio materno, valente pianista boogie-woo-gie. A 14 anni Mark chiese in regalo al padre una chitarra elettri-ca Fender Stratocaster rossa, come quella del suo idolo Hank Mar-vin, degli Shadows, ma si dovette accontentare di una chitarra più economica, di cui fu comunque entusiasta. Imparò rapidamente a suonarla da autodidatta, cercando di riprodurre i brani dei suoi chitarristi preferiti, tra cui Django Reinhardt, B.B. King, Scotty Mo-ore, Chet Atkins, Jimi Hendrix, James Burton e Bob Dylan. Nel 1967, terminata la scuola, frequentò un corso di giornalismo e trovò la-voro a Leeds come cronista di un quotidiano locale, ma dopo 2 anni decise di riprendere gli studi. Così abbandonò l’impiego e si iscris-se al corso di lingua e letteratura inglese della Università di Leeds, lavorando in un’azienda agricola per pagarsi la retta. In quegli anni sposò Kathy White e formò un duo blues chiamato The Duolian String

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Pickers col chitarrista Steve Phillips. Nel 1973, dopo essersi laurea-to e separato dalla moglie, Knopfler si trasferì a Londra col fratello minore David, dove, oltre a suonare nei locali con varie bands, pre-valentemente musica blues, rock e rockabilly, impartì lezioni di in-glese e di chitarra, ed iniziò a scrivere canzoni. Nel 1977 il fratello David gli presentò John Illsley, un amico che studiava sociologia e lavorava in un negozio di dischi, per sostituire il bassista della band con cui suonavano, che si era ammalato. Dopo quell’incontro, John e i fratelli Knopfler decisero di formare una nuova band, presero un appartamento a Deptford e ingaggiarono il batterista Pick Wi-thers, che aveva già suonato con Knopfler. La band era al completo e venne chiamata Dire Straits (“Terribili Ristrettezze”), richiaman-do ironicamente le condizioni economiche precarie in cui si trova-vano i quattro musicisti. Knopfler, che oltre ad essere chitarrista e cantante era pure autore ed arrangiatore di tutti i brani, propone-va uno stile musicale originale, una sorta di rock ispirato al blues, al country e al rock’n’roll dei primi anni 50, in completa contro-ten-denza rispetto al genere musicale in auge all’epoca, ossia new wa-ve, soft rock, disco music e punk, e in effetti le loro prime esibizioni non catturarono l’interesse del pubblico. Nel 1977 il quartetto en-trò in studio di registrazione e il risultato venne inviato al musico-logo e disc jockey londinese Charlie Gillett, che conduceva una tra-smissione radiofonica sulle frequenze locali della BBC, il quale ri-mase così colpito da quell’innovativo stile musicale che inserì uno dei loro brani, Sultans of Swing, nella scaletta del suo programma. Il virtuosismo chitarristico di Knopfler ed il ritmo trascinante del brano fecero il resto: gli ascoltatori radiofonici reagirono entusia-sti e i Dire Straits ebbero il loro primo contratto discografico. L’al-bum d’esordio omonimo uscì nel 1978, ma nonostante la critica positiva della stampa specializzata, non vendette molto nel Regno Unito, ma ottenne un grande successo nel resto d’Europa, negli U.S.A. e in Australia. Il successivo album Communiqué permise alla band di confermare il successo raggiunto, tanto che Bob Dylan in-vitò Knopfler a partecipare alla registrazione del suo nuovo album Slow Train Coming. Nel 1980 Knopfler si trasferì a New York, ma durante la registrazione del nuovo lavoro, Making Movies, il fratel-lo David, in disaccordo artistico con il resto del gruppo, abbandonò la band per intraprendere la carriera solista, e fu sostituito da Hal Lindes e dal tastierista Alan Clark. La continua ricerca di innovazio-ne sonora caratterizzò anche il lavoro successivo, Love over Gold (1982), con passaggi strumentali insolitamente lunghi ed eviden-ti influenze jazz e rock progressive. Negli anni successivi Knopfler compose alcune colonne sonore, come Local Hero (1983), Music from “Cal”(1984) e Comfort and Joy (1984), e collaborò fattiva-mente, come autore e chitarrista, alla produzione dell’album Pri-vate Dancer (1984) di Tina Turner. Nel frattempo Terry Williams di-ventò il nuovo batterista della band e sempre nel 1984 uscì il dop-pio album Alchemy, un capolavoro che immortalava la band dal vi-vo, pubblicato senza alcuna sovraincisione né ritocchi in studio, salvaguardando così la genuinità e l’altissima qualità dei musici-sti. Mark Knopfler si dedicò, quindi, a comporre colonne sonore di films e lungometraggi e collaborò, come produttore artistico, con numerosi musicisti, ed anche Bob Dylan chiese il suo ausilio come produttore e chitarrista per l’album Infidels. Dopo essersi sposato con Lourdes Salomone, Knopfler rientrò in studio di registrazione con i Dire Straits e Brothers in Arms (1985) sancì la definitiva con-sacrazione della band, divenendo uno dei dischi più venduti di tut-ti i tempi. Dopo 2 anni di tour, Knopfler decise di abbandonare la band e alla fine degli anni 80, insieme agli amici di gioventù Ste-

ve Phillips e Brendan Croker, formò il gruppo The Notting Hillbil-lies, cui si unì anche Guy Fletcher, alimentato da una forte passio-ne per la musica folk americana ed il country e, in particolare, pro-prio per la musica hillbilly, come certificato dall’album Missing...Presumed Having a Good Time (1990). Knopfler riprese a compor-re colonne sonore, Last Exit to Brooklyn (1989), e a collaborare al-le produzioni di grandi musicisti, come Willy DeVille, Ben E. King, Randy Newman, Joan Armatrading, Buddy Guy, Tina Turner e Bob Dylan. Con sua grande gioia fu pure chiamato a collaborare con lui dal chitarrista country Chet Atkins, suo punto di riferimento giova-nile, con il quale nel 1990 incise Neck and Neck, e fece parte della band che accompagnò Eric Clapton in una tournée mondiale. Seb-bene l’attività dei Dire Straits non sia mai del tutto cessata, come testimoniato anche dall’album On Every Street (1991), Knopfler continuò a coltivare la sua carriera solista, dedicandosi prevalen-temente alle sue passioni e alla sua famiglia piuttosto che alla car-riera di rockstar con i Dire Straits, divenuta a suo dire “una strut-tura gigantesca” ed altrettanto opprimente. Dopo essersi separa-to dalla seconda moglie, oggi vive a Londra, collabora con innume-revoli musicisti ad altrettanti progetti musicali e ha pubblicato vari albums da solista, tra i quali Golden Heart (1996), Sailing to Phila-delphia (2000), The Ragpicker’s Dream (2002), Shangri-La (2004) e Get Lucky (2009), sempre permeati dal suo originale ed inconfon-dibile stile chitarristico, caratterizzato da una particolare tecnica fingerpicking (ossia l’uso delle sole dita, senza il plettro, con il mi-gnolo e l’anulare poggiati alla chitarra), e dalla sua grande dime-stichezza e passione per un’infinità di generi musicali, dalle ballate anglosassoni e celtiche al folk, dal blues al jazz, dal bluegrass al ra-gtime, dal rockabilly al rock’n’roll, dal boogie-woogie al rock, hard & progressive, dal country all’hillbilly, facendone un punto di riferi-mento per schiere di chitarristi.

Sebbene ascoltassi musica quotidianamente, non ero anco-ra entrato nel tunnel, nel senso che talvolta potevo anche a farne a meno … finché arrivò Lui!Il mio primo vero e proprio amore musicale arrivò all’im-provviso ed irruppe nella mia vita in maniera furiosa e deva-stante, come tutti i veri amori.Non solo la sua musica era, è e sarà per sempre unica e me-ravigliosa, capace di provocare un uragano di emozioni, ma la lettura dei suoi testi, che finalmente potevo apprezzare grazie ai primi libri di traduzioni disponibili sul mercato, mi fece capire immediatamente che ero al cospetto di una per-sona illuminata e benedetta, un Profeta, il Profeta del reg-gae, Bob Marley.

BOB MARLEY Robert Nesta Marley, noto Bob Marley (Nine Mile, St. Ann’s Bay, Giamaica 6 febbraio 1945 – Miami, Florida 11 maggio 1981). Can-tante, autore e chitarrista. Non è pensabile descrivere in poche ri-ghe la reale portata di questo incredibile personaggio, le cui poe-sie in musica hanno reso il reggae noto in tutto il mondo, messag-gero di pace e di fratellanza universale che solo un Premio Nobel avrebbe potuto degnamente onorare, quindi mi limiterò a trac-ciare un breve percorso della vita artistica del Profeta del reggae. Bob Marley nacque il 6 febbraio 1945, anche se la data è incerta, nel villaggio di Rhoden Hall, ai piedi della collina di Nine Miles, nella regione di St. Ann’s Bay, nella Giamaica settentrionale. La re-lazione tra suo padre, giamaicano bianco di famiglia inglese, capi-

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tano di marina e sovrintendente di piantagioni, e sua madre, gia-maicana nera, provocò uno scandalo e la famiglia Marley disere-dò il padre di Bob. Mentre all’inizio il padre, nonostante fosse sempre in viaggio, si preoccupò del sostentamento della madre, nel 1944, proprio mentre attendeva Bob, lasciò la Giamaica e l’ab-bandonò, ritornando solo in occasione della nascita del figlio. Per tale motivo Bob per tutta la vita nutrì un senso di rifiuto verso il padre. A causa delle sue origini razziali miste, Marley da giovane fu vittima di atti di bullismo e di pregiudizi razziali e fu costretto ad imparare presto a difendersi, e grazie alla sua forza fisica si guada-gnò la reputazione e il soprannome di Tuff Gong. Nel 1957 Bob si trasferì con sua madre a Trenchtown, un sobborgo di Kingston, con la speranza di una vita migliore, ma in quel ghetto trovarono solo degrado e disperazione, che alimentavano il dissenso contro il sistema e l’ordine prestabilito da parte dei giovani afrocaraibici che vivevano ai margini della società, i c.d. rude boys, che in segno di rivolta si rifiutavano di lavorare, vivendo di espedienti, bravate e crimini. Marley, ancora adolescente, lasciò la scuola e iniziò a la-vorare come elettricista e saldatore, stringendo una grande amici-zia con il suo vicino di casa Neville O’Riley Livingston, detto Bunny, il quale gli fece conoscere la musica, facendogli ascoltare le can-zoni in voga all’epoca attraverso un vecchio apparecchio radiofo-nico che riceveva un’emittente americana che trasmetteva musi-ca rhythm’n’blues e rock’n’roll da New Orleans. Bob si appassionò così al canto, partecipando a canti religiosi, e Bunny gli insegnò i rudimenti della chitarra, ricavando la cassa di risonanza da una scatola di sardine vuota, la tastiera da un manico di bambù e uti-lizzando come corde dei fili elettrici. Quando potevano, Marley e Bunny suonavano con Joe Higgs, un cantante locale rasta, e du-rante una jam session Marley incontrò Peter McIntosh, ossia Pe-ter Tosh, con il quale nel 1964, insieme a Bunny Livingstone, Ju-nior Braithwaite, Beverley Kelso e Cherry Smith, fondò un grup-po ska e rocksteady chiamato inizialmente The Teenagers, in se-guito The Wailing Rudeboys, quindi The Wailing Wailers, ed infi-ne, dopo che nel 1966 Braithwaite, Kelso e Smith lasciarono la band, The Wailers, diventando il miglior gruppo musicale giamai-cano. Nel 1966 Marley sposò Alpharita Costancia Anderson, che diventò Rita Marley, e con lei raggiunse la madre a Wilmington,

in Delaware, dove lavorò come operaio presso la fabbrica Chry-sler. Nel 1967 Marley rientrò in Giamaica e si convertì dal cristia-nesimo al rastafarianesimo, religione che sebbene si ponesse in antitesi con il sistema prestabilito non aveva connotazioni violen-te, come celebrato da Marley nei testi di alcune sue canzoni. Do-po aver firmato per la Island Records del produttore Chris Blackwell, nel 1973, con la pubblicazione di Catch a Fire e di Bur-nin’, Marley raggiunse l’immediato successo con The Wailers. La sua popolarità iniziò ad espandersi in tutto il mondo, aiutata an-che da musicisti del calibro di Eric Clapton, che registrò una cover di I Shot the Sheriff, contribuendo ad elevarne il profilo interna-zionale. Nel 1974 anche Peter Tosh e Bunny “Wailer” Livingston lasciarono la band, per motivi ancora ignoti, presumibilmente do-vuti ad un dissenso con Marley, ma più probabilmente solo per in-traprendere carriere da solisti. Causa dello scioglimento del nu-cleo primigenio degli Wailers fu anche il fatto che sia Peter che Bunny non sopportavano i tours interminabili, faticosi e mal paga-ti, viaggiando su furgoni freddi e dormendo in alberghi scalcinati, che il presidente della Island riteneva indispensabili per far acqui-sire alla band il più ampio consenso di pubblico. Al contrario, Mar-ley, seguendo l’esempio di uno dei suoi idoli giovanili, James Brown, divenne il più grande lavoratore del reggae, pretendendo, al contempo, dai suoi musicisti la massima dedizione ed altrettan-to duro lavoro. Marley, quindi, non era solo un gran consumatore di marijuana ed un donnaiolo, come lo dipinse parte dei media, ma anche un infaticabile e metodico musicista, e fu proprio la sua disciplina professionale a consentirgli di diventare la prima rock-star proveniente da un ghetto del terzo mondo, ed un vero e pro-prio sciamano per il popolo degli spiriti liberi, formatosi sulla scia del movimento hippy. E fu così che Marley, reclutati Carlton “Car-ly” Barrett alla batteria, Aston “Family Man” Barrett al basso, Al Anderson e Junior Marvin alle chitarre, Tyrone Downie e Earl “Wya” Lindo alle tastiere, Alvin “Seeco” Patterson alle percussioni e le coriste I Threes, ossia Judy Mowatt, Marcia Griffiths e la mo-glie Rita, continuò il suo percorso artistico sotto il nome di Bob Marley and The Wailers, di cui divenne leader, cantante, chitarri-sta ed autore della maggior parte dei testi. I successivi lavori di-scografici, Natty Dread (1974), che conteneva il monito profetico Them Belly Full e la hit No Woman No Cry, e Rastaman Vibration (1976), confermarono il meritato successo di Marley. Nel dicem-bre 1976, tre giorni prima di Smile Jamaica, concerto organizzato dal Primo Ministro giamaicano Micheal Manley, per alleggerire le tensioni tra i due gruppi politici in lite, Marley, sua moglie Rita e il suo manager Don Taylor furono aggrediti da un gruppo armato a casa di Marley. Furono tutti feriti, e Marley fu colpito al petto e al braccio. Si ritenne che l’attacco avvenne per motivi politici, aven-do considerato l’adesione di Marley al concerto un modo di sup-portare il Primo Ministro, ma ciò nonostante il concerto si tenne ugualmente, e Marley tenne a precisare “le persone che cercano di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un gior-no libero, perché dovrei farlo io?”. Dopo quell’episodio, però, Marley si trasferì a Londra, dove fu arrestato per possesso di can-nabis, e nel 1976 registrò gli album Exodus e Kaya. Nel 1977 notò una ferita nell’alluce destro che peggiorò progressivamente fino a quando gli fu diagnosticato un melanoma maligno. Marley si ri-fiutò di amputarsi l’alluce, anche perché amava giocare a calcio. Nel 1978 Marley organizzò un nuovo concerto in Giamaica, One Love Peace Concert, con la finalità di placare le ostilità tra i due partiti politici, e su espressa richiesta di Marley i due leaders riva-

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li, Michael Manley ed Edward Seaga, si strinsero la mano sul pal-co. Nel 1979 uscì Survival, album ricco di significati politici che ri-velavano l’attenzione di Marley per le sofferenze dei popoli afri-cani, e nel 1980 uscì Uprising, disco pregno di significato religioso. La sua musica e i suoi messaggi di lotta contro l’oppressione poli-tica e razziale, di unificazione dei popoli di colore, quale unico mo-do per raggiungere libertà ed uguaglianza, e di attenzione verso la sofferenza dei popoli africani si diffusero in tutto il mondo, facen-do di Marley un leader politico, spirituale e religioso, tanto che nel 1978 gli fu conferita la Medaglia della Pace dalle Nazioni Uni-te e nel 1980 fu invitato alla celebrazione per l’indipendenza del-lo Zimbabwe. In quel periodo Marley si convertì al cristianesimo ortodosso. Nel frattempo, però, il tumore progrediva, diffonden-dosi in tutto il corpo, e dopo una trionfale tournée in Europa, mentre si trovava a New York, durante il tour negli U.S.A., Marley ebbe un collasso mentre faceva jogging al Central Park. Il 23 set-tembre 1980 tenne il suo ultimo concerto a Pittsburgh, dopodiché si recò a Monaco di Baviera per un consulto presso il dottor Josef Issels, specializzato nel trattamento di malattie in fase terminale, ma il tumore ormai era in stadio avanzato e non si poteva più cu-rare. Anche i suoi mitici dreadlocks, segno della sua appartenenza alla religione rasta, divennero sempre più deboli ed ormai troppo pesanti, tanto che decise di tagliarseli mentre leggeva alcuni pas-si della Bibbia. La situazione peggiorò durante il volo di ritor-no verso la Giamaica, tanto che fu dirottato a Miami, in Florida, dove Marley venne ricoverato e morì la mattina del giorno 11 maggio 1981. Prima di morire decise di parlare con tutti i suoi figli e le sue ultime parole, rivolte al figlio Ziggy, furono “money can’t buy life” (“i soldi non possono comprare la vita”). Nel 1983 venne pubblicato l’album postumo Confrontation. Marley fu onorato in Giamaica con i funerali di stato e fu sepolto in una cappella eretta accanto alla sua casa natale a Nine Mile, insieme alla sua Gibson Les Paul, al suo pallone da calcio, ad una pianta di marijuana con i suoi semi, ad un anello che indossava ogni giorno, donatogli dal Principe etiope, e da una Bibbia. A Marley furono conferite innu-merevoli onorificenze e nel 2006 la città di New York nominò una parte di Church Avenue, a Brooklyn, Bob Marley Boulevard. Mar-ley è ancora oggi considerato dal suo Popolo una guida spirituale ed ogni anno, il 6 febbraio, in Giamaica si celebra una festa nazio-nale in suo onore.“Il denaro non è la mia ricchezza. La mia ricchezza è camminare a piedi nudi sulla terra” (Bob Marley).

I shot the Sheriff Sheriff John Brown always hated me for what, I don’t know. Every time I plant a seed, he said kill it before it grow. He said kill them before they grow. I shot the sheriff, Oh, Lord! But I swear it was in self-defence. I say: I shot the sheriff and they say it is a capital offence. Freedom came my way one day and I started out of town, yeah! All of a sudden I saw sheriff John Brown aiming to shoot me down, so I shot – I shot him down and I say: If I am guilty I will pay.

I shot the sheriff, but I didn’t shoot no deputy, oh no! I shot the sheriff Lord, I didn’t shot the deputy. (Bob Marley)

Ho sparato allo SceriffoLo sceriffo John Brown mi ha sempre odiatoil motivo non lo conosco.Ogni volta che piantavo un seme,lui diceva distruggilo prima che cresca.Lui diceva distruggili prima che crescano.Ho sparato allo sceriffo, Oh, Signore!Ma giuro che era per legittima difesa.Io dico: ho sparato allo sceriffoe loro dicono che è un reato capitale.La libertà un giorno mi è venuta incontroe così sono uscito dalla città, ebbene si!All’improvviso ho visto lo sceriffo John Brownche prendeva la mira per spararmi,così ho sparato – gli ho sparato e dico:Se sono colpevole pagherò.Ho sparato allo sceriffo,ma non ho sparato al vice-sceriffo, oh no!Ho sparato allo sceriffoSignore, non ho sparato al vice-sceriffo.

Them Belly Full Them belly full but we hungry A hungry mob is a angry mob A rain a fall but the dirt it tough A pot a cook but the food no ‘nough You’re gonna dance to Jah music, dance We’re gonna dance to Jah music, dance Forget your troubles and dance Forget your sorrows and dance Forget your sickness and dance Forget your weakness and dance Cost of livin’ gets so high Rich and poor they start to cry Now the weak must get strong They say oh, what a tribulation (Bob Marley)

Loro con la Pancia PienaLoro sono sazi, ma noi affamatiUna massa affamata è una massa arrabbiataScende la pioggia, ma non cancella lo sporcoLa pentola sul fuoco, ma il cibo è scarsoDanzerete alla musica di Jah, danzereteDanzeremo alla musica di Jah, danzeremoDimenticate i vostri problemi e danzateDimenticate i vostri dolori e danzateDimenticate i vostri malanni e danzateDimenticate le vostre miserie e danzateIl costo della vita diventa sempre più altoRicchi e poveri cominciano a piangereOra il debole deve essere forteDicono oh, quanta tribolazione

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In più, Marley era NERO … come Kunta.Primo indizio.Parlava di schiavitù e di emarginazione, di protesta e di fe-de, di armonia e di pace, enunciati che trovavano nei suoi testi una collocazione sistematica, logica e chiara.Il Gandhi del reggae si era manifestato per diffondere in tutto il mondo un messaggio cristallino: il Popolo nero ave-va sopportato troppo dolore e per troppo tempo, era arri-vato il momento di unirsi, consapevoli delle proprie RADI-CI, per pretendere il giusto sollievo ed il meritato conforto.

GANDHIMohandas Karamchand Gandhi (Porbandar, India 2 ottobre 1869 – Nuova Delhi, India 30 gennaio 1948). Politico e filosofo, guida spi-rituale non solo per il suo Paese, ma anche per il mondo intero. Co-nosciuto anche come il Mahatma “Grande Anima” e come Bapu “Pa-dre”, professò la resistenza all’op-pressione tramite la disobbedienza civile e la non violenza, principi che portarono l’India all’indipendenza ed ispirarono i movimenti di difesa dei diritti civili promossi da Martin Luther King e da Nelson Mandela.

Finalmente avevo trovato qualcuno che riprendeva il di-scorso lasciato aperto da Alex Haley, che nel frattempo avevo scoperto essere l’autore dell’omonimo libro dal qua-le aveva preso spunto la sceneggiatura del teleromanzo RA-DICI, e grazie a Marley ho potuto conoscere ed apprezzare, oltre al reggae, anche la sua religione, il Rastafarianesimo.

ALEX HALEYAlex Haley (Ithaca, New York 11 agosto 1921 – Seattle, Washington 10 febbraio 1992). Giornalista e scrittore. Fu così impressionato dalla storia della sua famiglia, narratagli dal-la nonna, Cynthia Murray, che pubblicò il suo romanzo più famoso, Roots “Radici” (1977), dopo aver realizzato l’autobiografia di Mal-colm X (1965).

RASTAFARIANESIMO – DREADLOCKSIl rastafarianesimo è una fede religiosa, nata agli inizi degli an-ni 30, il cui nome deriva da Ras Tafari, espressione etiopica che descrive Tafari Makonnen, l’Im-peratore che salì al trono d’Etio-pia nel 1930 con il nome di Hailé Selassié I (1892 – 1975) e con i ti-toli di negus neghesti, Re dei Re, Eletto di Dio, Luce del mondo, Le-one conquistatore della tribù di Giuda. Dopo la sua incoronazio-ne, milioni di persone riconobbe-

ro in lui, quale diretto discendente della tribù di Giuda, Gesù Cristo nella sua “seconda venuta in maestà, gloria e potenza”, come pro-fetizzato dalle Sacre Scritture. Il rastafarianesimo si è ispirato alla predicazione del leader del movimento politico nazionalista Mar-cus Mosiah Garvey. A partire dagli anni 80, grazie a Bob Marley ed alla musica reggae, la cultura rasta ha esponenzialmente aumen-tato la propria diffusione nel mondo.

I dreadlocks o dreads sono i capelli intrecciati tra loro e si posso-no ottenere in diversi modi, per esempio non pettinandosi i ca-pelli per lungo tempo, tanto da consentire la formazione di nodi (locks) che, giorno dopo giorno, sarà sempre più difficile sciogliere. Nel rastafarianesimo, che grazie al reggae ha portato a conoscen-za di tutto il mondo questo tipo di capigliatura, i dreadlocks ricor-dano la criniera del leone, simbolo della tribù di Giuda da cui di-scende Ras Tafari. La parola inglese dread significa “paura” e “ti-more”, mentre lock significa “bloccare” e “intrecciare”, poiché i dredlocks sono delle vere e proprie trecce di capelli, il termine po-trebbe essere tradotto come “intrecciare con timore” (sottinteso “di Dio”, in quanto pratica religiosa). Oltre che nel rastafarianesi-mo, dove rappresentano un’adesione alla naturalità dell’uomo do-nata da Dio, un mantenimento della forza divina che si esprime at-traverso la lunghezza dei capelli (si pensi al Sansone biblico), uno degli elementi che costituiscono il voto di nazireato, nonché un ri-fiuto dell’ordine mondano e delle convenzioni appartenenti alla società corrotta (Babilonia), i dreadlocks sono presenti anche in altre religioni, quali l’induismo, i cui asceti erranti, definiti sadhu, portano dreadlocks estremamente lunghi come segno della rinun-cia al mondo e alla mondanità, in quanto la loro esistenza è rivol-ta esclusivamente a moksha, la fine del ciclo di nascite-morti-rina-scite (samsara).

MARCUS GARVEY Marcus Mosiah Garvey (Saint Ann’s Bay, Giamaica 17 ago-sto 1887 – Londra, Inghilter-ra 10 giugno 1940). Sindacali-sta, attivista e scrittore. Si im-pegnò duramente negli U.S.A. per migliorare le condizioni inumane in cui venivano fat-ti lavorare gli afroamerica-ni. Garvey fu il leader del ra-stafarianesimo, che predica-va il ritorno in Africa da par-te di tutti i neri del mondo, che non dovevano né sentir-si, né ritenersi cittadini dei Pa-esi stranieri in cui risiedevano, ma sempre e soltanto africani, e ce-lebrava una profezia contenuta nella Bibbia aramaica (ossia la tra-duzione aramaica dei testi ebraici della Bibbia) che narrava che in Africa sarebbe stato incoronato un Re nero che avrebbe cacciato il colonialismo, estirpato il male e preparato il continente africano al ritorno della sua gente. Istituì ad Harlem una sorta di governo in esilio della grande nazione africana e creò una compagnia di na-vigazione, la Black Star Steamship, col compito di trasportare pas-seggeri di colore all’interno dell’arcipelago delle Antille, in aperta opposizione con le altre compagnie segregazioniste. Fu il fondato-re dell’associazione Universal Negro Improvement Association and

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African Communities League e della rivista Negro World. La sua ideologia costituì il fondamento della dottrina nazionalista africa-na che culminò negli anni 70 con la fondazione del Black Power di Stokely Carmichael.

Marley era un uomo pacifico che non si limitò a celebra-re la fratellanza universale con le sue canzoni, ma si ado-però anche concretamente, facendo tutto quello che era in suo potere per conciliare le due fazioni politiche che allora si fronteggiavano in Giamaica, rappresentate dal Primo Mi-nistro Michael Manley (Peoples National Party) e dal leader dell’opposizione Edward Seaga (Labour Party).Ma non tutti la pensavano esattamente come Marley, certa-mente non il suo amico Peter Tosh.

PETER TOSH Winston Hubert McIn-tosh, in arte Peter To-sh (Grange Hill, Giamai-ca 19 ottobre 1944 – Kin-gston, Giamaica 11 set-tembre 1987). Cantan-te, autore e chitarri-sta. A 15 anni si trasferì a Trenchtown, il ghetto di Kingston, dove incon-trò il produttore Joe Hig-gs, che gli impartì lezioni di canto. Dopo aver co-nosciuto Robert Nesta Marley, noto Bob Marley, e Neville O’Riley Livingston, noto Bunny Wailer, decisero di fondare il gruppo che prenderà il nome di The Wailers. Nel 1966 lui e Bob Marley divennero rasta. Dopo le pri-me incisioni, le frizioni all’interno della band divennero insanabi-li, tanto che sia Bunny Livingston che Peter Tosh lasciarono il grup-po, che da quel momento si chiamò Bob Marley and the Wailers, per dedicarsi alla carriera solista. Peter Tosh si presentò imme-diatamente per quello che era, un uomo tosto che non conosce-va le mezze misure, scrivendo canzoni i cui temi erano decisamen-te scomodi, dalla legalizzazione della marijuana, Legalize It (1976), alla critica serrata contro il Governo giamaicano e contro la dise-guaglianza sociale, Equal Rights (1977). Nel 1978, in occasione del One Love Peace Concert, inveì duramente contro la classe politica dell’isola, causa di tutti i mali che affliggevano la popolazione ne-ra, ma invece di trovare il consenso della sua gente, sotto il palco trovò ad attenderlo la polizia locale, che con la scusa di arrestar-lo per possesso di marijuana lo trascinò in caserma dove, per qua-si due ore, fu picchiato selvaggiamente, come in seguito testimo-niarono le sue cicatrici. L’esibizione, però, fu vista anche da Mick Jagger che entusiasmato dal carisma e dalla potenza espressiva di Peter Tosh gli offrì un contratto con l’etichetta Rolling Stones Re-cords, con cui pubblicò Bush Doctor (1978), e collaborò con lui, fa-vorendo la crescita della sua popolarità. Anche nei successivi lavo-ri, Mystic Man (1979) e Wanted Dread and Alive (1981), Peter To-sh presentò testi duri e ribelli, pieni di rabbia contro il sistema po-litico instaurato in Giamaica dai bianchi, che continuavano ad op-primere la sua gente, specie le classi più disagiate, e contro la se-gregazione razziale. Dopo l’uscita di Mama Africa (1983) e del re-lativo tour, immortalato nell’album Captured Live, Tosh sparì dalle

scene, secondo alcune voci per recarsi presso stregoni africani, per ricomparire nel 1987, anno di pubblicazione di No Nuclear War, un album di protesta contro la violenza, contro l’apartheid e contro la società moderna. Il suo reggae era potente ed aggressivo come la sua vita e come, purtroppo, la sua morte, che lo sorprese nella sua casa di Kingston, dove alcuni rapinatori locali lo uccisero a colpi di arma da fuoco perché, come prevedibile per un uomo di tal fatta, si rifiutò di consegnare loro il denaro richiesto.

Get Up, Stand Up Preacherman, don’t tell me Heaven is under the earth, I know you don’t know what life is really worth, it’s not all that glitters is gold ‘alf the story has never been told, so now you see the light stand up for your rights. Come on! Get up, stand up: stand up for your rights! Get up, stand up: don’t give up the fight! Get up, stand up: stand up for your rights! Get up, stand up: don’t give up the fight! (Bob Marley, Peter Tosh)

Alzatevi in piedi, ribellateviPredicatore, non dirmiche il Paradiso è sottoterra,io so che tu non saiquanto veramente vale la vita,non è tutto oro quello che luccical’altra metà della storia non è mai stata raccontata,quindi, quando adesso vedete la lucealzatevi in piedi e combattete per i vostri diritti. Forza!Alzatevi in piedi, ribellatevi: combattete per i vostri diritti!Alzatevi in piedi, ribellatevi: non arrendetevi mai!Alzatevi in piedi, ribellatevi: combattete per i vostri diritti!Alzatevi in piedi, ribellatevi: non arrendetevi mai!

Insomma, Bob Marley stava a Martin Luther King come Pe-ter Tosh stava a Malcolm X.

MARTIN LUTHER KING Michael King, noto Mar-tin Luther King (Atlanta, Georgia 15 gennaio 1929 – Memphis, Tennesse 4 aprile 1968). Pastore protestante, politico e attivista. Leader del movimento pacifista, ri-propose lo spirito della resi-stenza non violenta profes-sata da Gandhi, battendosi per il riconoscimento dei di-ritti civili in favore degli afro-americani e delle classi più disagiate, contro ogni pre-giudizio e discriminazione razziale e sociale. Morì as-sassinato.

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MALCOLM X Malcolm Little, noto Malcolm X (North Omaha, Nebraska 19 maggio 1925 – New York, New York 21 febbraio 1965). Pasto-re, politico e attivista a favore dei diritti umani, e in partico-lare dei diritti degli afroameri-cani. Considerato uno dei più influenti e controversi leader afroamericani del XX secolo, era convinto che soltanto la re-ligione islamica, accompagna-ta da una forte e decisa reazio-ne, poteva abbattere la discri-minazione, specie quella raz-ziale. Morì assassinato per mano di membri della Nation of Islam, l’organizzazione di cui per lungo tempo era stato portavoce e so-stenitore.

I nomi di Martin Luther King e di Malcolm X erano ricorren-ti in tutti i testi, nei quali mi capitava di imbattermi, che trat-tavano della riduzione in schiavitù degli africani in territorio americano e della lotta intrapresa dagli afroamericani o ne-ri americani per i propri diritti civili.Più avanti negli anni ho, pertanto, ritenuto opportuno co-noscere la storia di questi due Signori e ricordo ancora la vi-va emozione che provai quando lessi che il coautore dell’au-tobiografia di Malcom X era stato proprio l’autore di Radi-ci, ossia Alex Haley.C’era un evidente legame, o meglio una vera e propria tela dentro la quale si muovevano tutti quei personaggi … avver-tivo chiaramente che stavo risalendo il filo di Arianna.Oggi, a posteriori, posso assicurare che pure tutti loro, seb-bene non fossero musicisti, mi hanno insegnato tanto a pro-posito del Blues e del suo significato più intrinseco, che va ben al di là dell’aspetto prettamente musicale.La loro vita ed il loro impegno in favore degli afroamerica-ni e dei diritti fondamentali di ogni essere umano mi hanno fatto comprendere quali fossero le problematiche esisten-ziali di un intero Popolo, e che la musica blues non era altro se non uno dei tanti veicoli attraverso i quali i discendenti di intere generazioni di schiavi cercarono di diffondere il pro-prio pensiero e la propria cultura.È così che ricordo i primi anni 80, ricchi di emozioni e di con-tinue scoperte, non solo in campo musicale.Nel contempo la mia passione per la chitarra cresceva in maniera esponenziale, tanto che decisi di mettermi a cac-cia di tutti i chitarristi di cui sentivo parlare, e fu proprio così che feci la conoscenza di Carlos Santana.

CARLOS SANTANACarlos Augusto Alves Santana (Autlán de Navarro, Jalisco, Messi-co 20 luglio 1947). Chitarrista e compositore. Carlos Santana nac-que da una famiglia di musicisti, il padre era un violinista maria-chi e il nonno suonava il corno francese, e si appassionò presto al-la musica, iniziando a suonare il violino a 5 anni. A 11 anni si tra-sferì con la famiglia a Tijuana, dove iniziò a suonare la chitarra da autodidatta, ispirandosi a famosi chitarristi come John Lee Hooker,

T-Bone Walker e B.B. King, che ascoltava dalle stazioni radio sta-tunitensi, e a guadagnarsi da vivere intrattenendo per strada e nei bars i turisti americani. Nel 1961 emigrò, sempre con la famiglia, a San Francisco, in California, dove acquisì la cittadinanza america-na. Mentre aiutava la famiglia lavorando come lavapiatti, appena possibile si recava di nascosto al Fillmore Auditorium del promoter Bill Graham per ascoltare i suoi musicisti preferiti, come Muddy Waters, The Paul Butterfield Blues Band, The Grateful Dead e molti artisti rock, blues e jazz che lì si esibivano. Alla fine del 1966 entrò a far parte di una rock band, fondata dal chitarrista Tom Frazier, chiamata Santana, ma sebbene la band portasse il suo cognome, Carlos non era il leader del gruppo. Proprio Bill Graham gli permi-se di esibirsi al Fillmore, mentre in sala di registrazione Carlos San-tana esordì nell’album The Live Adventures di Mike Bloomfield e Al Kooper. La band presentò subito una strana miscellanea di suoni rock e jazz, con all’interno sprazzi di musica latina e un sound reso ancora più intenso dall’uso delle percussioni. L’esibizione trionfa-le al festival di Woodstock, fortemente voluta da Bill Graham, au-mentò di colpo la popolarità del gruppo ed il primo album omoni-mo della band fu un successo. Negli anni 70 la band era ormai all’a-pice della popolarità, ma ciò comportò anche i primi contrasti tra i musicisti, dovuti ad insanabili divergenze artistiche. In particola-re, Carlos voleva abbandonare il suono hard rock degli esordi ed avventurarsi verso sonorità blues e jazz, dando corpo ad una mu-sica più intima e meditativa. In quel clima di tensione artistica non giovò di certo l’abuso di stupefacenti da parte degli stessi musici-sti. Ad ogni modo, i Santana continuarono ad incidere albums, co-me Abraxas (1970), Santana 3 (1971) e Caravanserai (1972), e ad esibirsi dal vivo, incrementando la loro fama internazionale, spe-cie tra gli amanti del jazz e la neonata musica fusion. Carlos Santa-na, nel frattempo, continuò anche il suo percorso introspettivo e

nel 1973 il chitarrista John McLaughlin, del cui gruppo, The Maha-vishnu Orchestra, Carlos era un grande ammiratore, messo al cor-rente dell’interesse di Carlos Santana per la meditazione, lo pre-sentò al guru Sri Chinmoy, che accettò Carlos come suo discepo-lo e lo chiamò Devadip (“Lanterna e Occhio di Dio”). La passione di Carlos Santana per il jazz e per la musica indiana venne consacrata

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sia dalla collaborazione con McLaughlin, nell’album Love Devotion Surrender (1973), sia da quella con Alice Coltrane, vedova di John Coltrane, nell’album Illuminations (1974), ma il pubblicò non gradì tali scelte artistiche, come del resto denunciò il forte calo di ven-dite dei nuovi dischi, Welcome (1973) e Borboletta (1974). Carlos Santana decise quindi di cambiare stile e da metà annni 70 ritorna-rono le sonorità funk, rock, salsa e latin, e con loro i primi posti in classifica degli albums Amigos (1976) e Moonflower (1977), fanta-stico doppio album contrassegnato dalla nutrita presenza di tracce incise dal vivo. Gli impegni dal vivo, le rinnovate pressioni dei me-dia e lo stile di vita frenetico si scontravano però con le regole di vi-ta spirituale imposte da Sri Chinmoy, e nel 1982 il rapporto tra Car-los e il guru venne meno. Dopo gli anni 80 e 90, contrassegnati dal successo altalenante di Marathon (1979), Zebop! (1981), Shangó (1982), Beyond Appearances (1985), Freedom (1987), Blues for Sal-vador (1987) e Milagro (1992), la carriera di Carlos Santana ha vis-suto una nuova giovinezza agli inizi del 2000, culminata con la pub-blicazione di Supernatural (1999) e Shaman (2002), nei quali Car-los collaborò anche con le nuove generazioni di musicisti interna-zionali di rock, funk, jazz, fusion e blues. Il ritrovato successo disco-grafico, oltre a portargli numerosi altri premi, ne ha rilanciato an-che l’attività live in tutto il mondo.

Ero affascinato, ed ancora lo sono, da quel suono tanto lun-go e melodioso che quel riccioluto messicano riusciva a far uscire dalla sua chitarra, dalla morbidezza del suo tocco e dalle atmosfere paesaggistiche e poetiche che richiamava alla mia mente.Ma ancora non avevo sentito nulla!Quel suono arrivò alle mie orecchie come una bomba ato-mica.Un meteorite che si schianta sulla terra avrebbe prodotto meno conseguenze di quanto accadde all’interno della mia testa e del mio animo quando sentii per la prima volta Foxy Lady.Inizialmente pensavo si fosse rovinata la puntina del mio giradischi o semplicemente che il disco regalatomi da mio

zio – e che ancora oggi custodisco gelosamente sotto teca – fosse graffiato.La realtà era un’altra ed aveva pure un nome: Jimi Hendrix.

JIMI HENDRIX Johnny Allen Hendrix, noto Jimi (Se-attle, Washington 27 novembre 1942 – Londra, Inghilterra 18 settembre 1970). Chitarrista, cantante, autore e compositore. Nacque da genitori afro-americani, entrambi ballerini, con la nonna paterna di origini cherokee, la quale da giovane era pure stata balle-rina in una compagnia itinerante di vaudeville. Durante i suoi primi 3 anni di vita si trasferì continua-mente, andando a vivere con diversi parenti e conoscenti, poiché la giovane madre, peraltro forte bevitrice di alcolici, lo abbandona-va a casa per uscire a divertirsi, finché la nonna materna lo affidò ad una famiglia borghese afroamericana californiana, i Champ, in-tenzionata ad adottarlo. Alla fine del 1945 però il padre fu conge-dato, riprese con sé il figlio e il giorno 11 settembre 1946 gli cam-biò il nome in James Marshall Hendrix. La famiglia si trasferì in un povero quartiere periferico di Seattle e nel 1951 i genitori di Hen-drix divorziarono. Mentre Hendrix fu affidato con il fratello Leon alla custodia del padre, l’altro fratello Joseph fu dato in adozione. Hendrix negli anni successivi continuò a vedere la madre, seppure in maniera discontinua, a causa della vita di lei, sempre più srego-lata, mentre la musica divenne una presenza costante nella sua vi-ta. La sua formazione artistica, musicale e culturale si basò sia sull’ascolto dei dischi del padre, sia sugli inni sacri imparati nella chiesa pentecostale cui apparteneva la sua famiglia. Date le diffi-coltà economiche familiari, non potendo comprarsi una vera chi-tarra, si dovette arrangiare in vari modi, inizialmente suonando una scopa a mò di chitarra, poi, secondo la migliore tradizione dei primi musicisti blues, sfilò il filo di metallo che teneva insieme i pezzi di paglia della scopa e lo fissò ben disteso sul muro, tenendo-lo sollevato alle due estremità con un oggetto rigido che ne aiutas-se la tensione, ottenendo così una rudimentale steel guitar, dopo-diché, mentre con una mano faceva scorrere sul filo teso un pezzo di metallo o una bottiglia, con l’altra mano pizzicava la corda pro-ducendo, finalmente, un suono. In seguito, sempre riprendendo l’esempio dei primi poveri chitarristi blues, si costruì una specie di chitarra usando come cassa acustica una scatola di sigari e come corde alcuni elastici tesi su di essa. Agli inizi del 1958, poco dopo la morte della madre, il padre gli regalò un vecchio ukulele con una sola corda superstite, trovato in un garage che aveva sgomberato, e con quello strumento Hendrix iniziò ad imparare i suoi primi bra-ni, tra quelli in voga all’epoca, fino a quando un amico del padre gli vendette la sua chitarra acustica per 5 dollari, somma che il padre gli prestò. Poiché la chitarra era per destrorsi, mentre lui era man-cino, Hendrix imparò a suonarla rovesciandola, e così fece anche in altre occasioni durante la sua carriera. I suoi progressi furono decisamente prodigiosi, anche grazie al fatto che, appena poteva, osservava attentamente suonare sia un vecchio bluesman vicino di casa, il chitarrista locale Guitar Shorty, sia le numerose esibizioni dei vari chitarristi che animavano l’iperattiva scena musicale di Se-attle, ricca di locali e clubs, almeno per la black music. Hendrix era completamente coinvolto dalla musica e dalla sua chitarra. Ad ispi-rarlo furono i chitarristi della scena blues di Chicago, da Elmore Ja-

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mes a Muddy Waters, da Buddy Guy ad Albert King, le leggende del Delta blues, come Robert Johnson e Lead Belly, e del rock’n’roll, come Chuck Berry e Bo Diddley, ed altri musicisti allora in voga, co-me B.B. King e John Lee Hooker, Bobby “Blue” Bland ed il pianista boogie Roscoe Gordon, i sassofonisti rhythm’n’blues, come Big Jay McNeely, ed ancora Jimmy Reed ed Elvis Presley, che nel 1957 vide esibirsi a Seattle. In particolare, Hendrix era molto intimorito da Muddy Waters, il primo chitarrista che aveva ascoltato quando era ragazzino, e che – come ricordava lo stesso Hendrix – lo “spaven-tava a morte”. Hendrix era estremamente cordiale e disponibile, sempre pronto a suonare con chiunque, ad insegnare agli altri quello che aveva appreso e ad imparare da tutti, anche da quelli meno abili di lui. Nel 1959 il padre gli regalò la prima chitarra elet-trica e non appena riuscì a procurarsi un amplificatore iniziò imme-diatamente a far parte di varie bands con le quali finalmente poté esibirsi dal vivo, anche suonando le parti di basso con la sua chitar-ra. Suonò tutto ciò che gli veniva data occasione di suonare, in par-ticolare rhythm’n’blues e rock’n’roll, e si appropriò progressiva-mente di tutta una serie di tecniche e di trucchi utili per tenere sempre viva l’attenzione del pubblico. Nel 1960 perse la sua prima chitarra elettrica, dimenticata sul palco alla fine di un concerto e mai più ritrovata, ma il padre gliene regalò subito un’altra. Lascia-ta anzitempo la scuola, Hendrix decise di lavorare con il padre co-me giardiniere, ma non durò a lungo. Dopo un arresto avvenuto nel 1961, perché trovato dalla polizia di Seattle alla guida di un’au-to rubata, ed alcuni giorni di detenzione, finì in tribunale e dovette scegliere tra un periodo di reclusione e l’arruolamento. La scelta fu semplice, Hendrix si arruolò e venne destinato alla 101° Divisione Aviotrasportata del corpo dei paracadutisti di stanza a Fort Camp-bell, nel Kentucky, fregiandosi della Screaming Eagle (“Aquila Ur-lante”), simbolo della divisione. Lì conobbe il bassista Billy Cox, col quale agli inizi del 1962 formò una band e si esibì in varie basi mili-tari della Carolina. Ma anche la sua avventura militare durò poco e frustrato dalla rigidità dell’ambiente e intenzionato a dedicarsi so-lo alla musica, Hendrix decise di abbandonare la divisa, facendosi visitare svariate volte dallo psicologo dell’esercito e dichiarando di essere omosessuale pur di andarsene. Nel 1962 ottenne il deside-rato congedo, che Hendrix dichiarò essere stato conseguente ai problemi alla schiena accusati in seguito ad un lancio col paracadu-te in cui aveva riportato anche la frattura di una caviglia, ed essen-do rimasto senza un soldo si trasferì a Clarksville, in Tennessee, in attesa che Cox lo raggiungesse al termine della sua ferma. Una vol-ta riunitisi, i due amici si spostarono a Nashville, dove suonarono rhythm’n’blues nei locali della zona. Durante un concerto conob-bero il chitarrista Larry Lee col quale collaborarono accompagnan-do svariati musicisti, tra i quali Curtis Mayfield. Durante quel perio-do Hendrix entrò per la prima volta in uno studio di registrazione, come turnista. Nel 1963 partì in tour attraverso gli U.S.A., nel giro del c.d. chitlin’ circuit, con diverse bands di soul e rhythm’n’blues, accompagnando, tra gli altri, Sam Cooke, Little Richard, Slim Har-po, Solomon Burke, le Supremes e Jackie Wilson. In tal modo arric-chì notevolmente non solo la sua esperienza di performer, ma so-prattutto il suo spessore tecnico e stilistico, consolidando, in parti-colare, la sua conoscenza della musica delle radici, il blues. Rite-nendosi pronto, alla fine di quell’estenuante apprendistato, ed an-che per allontanarsi definitivamente dal razzismo e dal degrado che aveva trovato nel sud degli U.S.A., Hendrix decise di trasferirsi a New York e agli inizi del 1964 si trasferì ad Harlem, dove fece amicizia con i gemelli Arthur ed Albert Allen e con la sua futura ra-

gazza, Lithofayne “Fayne” Pridgeon, che gli fu di grande aiuto per inserirsi nella scena locale, grazie alle sue conoscenze all’interno dell’ambiente musicale. Dopo aver vinto un concorso per artisti emergenti, tenutosi presso l’Apollo Theater, Hendrix attraversò un periodo di estrema precarietà professionale ed economica, tanto che per sopravvivere fu costretto a portare più volte la chitarra al banco dei pegni, fino a quando venne ingaggiato come chitarrista della Isley Brothers Band, con cui entrò in sala d’incisione tra il 1964 e il 1965, per poi ripartire in tour attraverso tutti gli Stati Uni-ti con svariate bands, fino anche in Canada, dove conobbe il batte-rista Buddy Miles. Al suo rientro a Memphis, in Tennessee, incon-trò Steve Cropper, celebre chitarrista, compositore e arrangiatore per la Stax, ed anche Albert King e B.B. King, prima di essere ingag-giato da Little Richard, il quale, però, non tollerava la teatralità sce-nica di Hendrix, che rischiava di oscurare la sua leadership. Dopo una breve sosta a Los Angeles, Hendrix seguì in tour Ike & Tina Tur-ner, ma dopo poche serate l’incontenibile virtuosismo chitarristico di Hendrix convinse Ike ad allontanarlo. Rientrato a New York, sul-la scorta delle recenti esperienze, Hendrix decise di puntare su una carriera da solista e stanco di Harlem, ambiente troppo chiuso ed ostile per una persona così anticonformista come lui, dopo es-sersi separato da Fayne, si trasferì al Village, seguendo le orme di uno dei suoi punti di riferimento, Bob Dylan. Si unì, così, alla band di Curtis Knight and the Squires, fino agli inizi del 1966, periodo in cui suonò anche con altri gruppi, come i Kingpins, gruppo d’accom-pagnamento del sassofonista R’n’B King Curtis. Con queste bands partecipò anche ad alcune sedute di incisione. In quel periodo co-nobbe pure Frank Zappa, che, secondo la leggenda, gli fece cono-scere un innovativo effetto per chitarra, il wah wah. Sempre nel 1966, grazie ad un regalo in danaro ricevuto dalla fidanzata dell’e-

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poca, una ragazza bianca di nome Carol “Kim” Shiroki, Hendrix ac-quistò la sua prima Fender Stratocaster e finalmente formò il suo primo gruppo come leader, Jimmy James and The Blue Flames, tra i quali militava Randy Wolfe, un ragazzo californiano andato via di casa e ribattezzato da Hendrix con il nome di Randy California, per distinguerlo da un altro Randy presente nel gruppo, che chiamò Randy Texas. In breve tempo Hendrix attirò l’attenzione del pub-blico di New York e durante una serata al Cheetah Club fece amici-zia con Linda Keith, all’epoca fidanzata di Keith Richards. Linda gli presentò il manager ed il produttore dei Rolling Stones, ma nessu-no dei due fu interessato a Hendrix, a dispetto di Chas Chandler, ancora bassista degli Animals. Il 5 luglio 1966 Chas assistette ad un concerto di Hendrix al Cafe Wha?, in MacDougal Street nel Gre-enwich Village, e capì immediatamente di aver trovato un’assolu-ta rarità. Chas in quel periodo stava per terminare il suo sodalizio con gli Animals ed era intenzionato a ripartire come produttore e manager, e Hendrix era perfetto allo scopo. E così Chas presentò Hendrix al supporto del manager uscente degli Animals, Michael Jeffery, il quale lo mise sotto contratto. Subito dopo partirono tut-ti alla volta di Londra, dove Hendrix atterrò con un bagaglio deci-samente limitato: una Stratocaster, un abito di ricambio e un va-

setto di crema. Superato il primo problema alla dogana, dove a Hendrix fu rilasciato un permesso di soggiorno valido una settima-na perché fu presentato come un famoso compositore americano venuto in Inghilterra per incassare i suoi diritti d’autore, Chandler si attivò subito per trovare i musicisti adatti per accompagnare Hendrix nella sua avventura, sullo schema del power trio che ave-va già riscosso successo con i Cream di Eric Clapton. Furono scelti due inglesi, il chitarrista Noel Redding, al basso, e il batterista Mi-tch Mitchell. Nel 1967 il sound innovativo e devastante della Jimi Hendrix Experience, inciso negli albums Are You Experienced e Axis: Bold as Love, non era più un segreto per nessuno, scatenan-do un passa parola senza precedenti tra gli artisti londinesi che ac-corsero in massa per vedere con i loro occhi quel chitarrista genia-le e selvaggio. I già affermati chitarristi Eric Clapton, Pete Town-shend e Jeff Beck rimasero letteralmente sgomenti. Sin dalle prime incisioni quell’originale miscela di blues, funk, R’n’B e rock psiche-delico folgorò pubblico e critica. Sbancata l’Europa, nel giugno 1967 la band arrivò in U.S.A., partecipando, grazie a Paul McCart-ney, al Monterey International Pop Festival, il primo evento di quella “lunga estate dell’amore”. Fu un trionfo, come immortalato nell’album Jimi Plays Monterey. Hendrix esibì tutto il suo reperto-

rio, tecnico e pirotecnico, mimando rapporti sessuali con la sua chitarra, suonandola con i denti, dietro la schiena, strofinandola sull’asta del microfono e sbattendola contro l’amplificazione, fino all’estremo sacrificio, quando al termine del set la incendiò, dopo averla cosparsa di gas liquido per accendini, ed in fiamme la scagliò sul palco e contro gli amplificatori fino a distruggerla, in un folle quanto lancinante rumore di feedbacks . Hendrix da quel momen-to divenne leggenda, come testimoniato dalle vendite record del successivo album e dalle richieste di esibizioni dal vivo. La folle cor-sa di Hendrix però portò con sé i suoi primi effetti collaterali, e la notte del 4 gennaio 1968 fu arrestato a Stoccolma per aver deva-stato, completamente ubriaco, una stanza d’albergo. Successiva-mente Chandler abbandonò Hendrix, sempre meno gestibile arti-sticamente. Jimi, infatti, non riusciva a concepire una durata pre-programmata dei brani, ritenendo insensato limitare la sua ve-na creativa entro uno spazio predefinito, dettato dalla finalità di poterli pubblicare su disco, che, al contrario, per Chandler era l’o-biettivo primario. Lo stesso valeva per le sedute di registrazione, che mentre per Chandler dovevano essere già preordinate, in mo-do da durare il meno possibile, sia per limitarne i costi sia per i suc-cessivi passaggi in radio, per Hendrix non erano altro che vere e proprie jam sessions creative, con lunghi momenti strumentali, in cui elaborare e modificare le sue idee di base, anche seguendo le suggestioni del momento, che scaturivano anche dagli altri musici-sti presenti, tra i quali, oltre a Redding e Mitchell, il tastierista Al Kooper, il batterista Buddy Miles, il bassista dei Jefferson Airplane, Jack Casady, e Steve Winwood dei Traffic, all’interno delle quali in-dividuare successivamente il materiale da pubblicare nell’album doppio Electric Ladyland (1968). Il tutto reso ancor più esasperan-te dalla mania di perfezionismo di Hendrix, capace di operare in-numerevoli sovraincisioni in ogni brano, oltre a pretendere da mu-sicisti e tecnici la registrazione di altrettanti takes di ogni pezzo, fi-no a raggiungere la perfezione. Tale atteggiamento esasperò Red-ding, che spesso lasciava lo studio di registrazione per trovare, al suo ritorno, la linea di basso incisa durante la sua assenza dallo stesso Hendrix. Nel 1969, dopo l’ennesima esibizione caratterizza-ta da scontri e violenze tra il pubblico e le forze dell’ordine, che do-vettero addirittura ricorrere ai gas lacrimogeni per calmare l’isteria dei fans, e dall’allontanamento della band dentro un camion del service, Redding, chitarrista mai comunque appagato dal ruolo di bassista, lasciò la band. Quello stesso anno Hendrix dovette af-frontare un processo penale in seguito al suo arresto presso l’aero-porto di Toronto per possesso di hashish ed eroina, dal quale uscì assolto dopo aver convinto i giudici di non essere a conoscenza del modo in cui gli stupefacenti fossero finiti nel suo bagaglio. La sua esibizione in chiusura dei tre giorni di pace, amore e musica del fe-stival di Woodstock, la sera del 18 agosto 1969, consacrò definiti-vamente Hendrix quale icona simbolo sia della musica dell’epoca, sia del movimento flower power e del pensiero pacifista, nono-stante alcuni problemi tecnici e logistici, tra cui la pioggia violenta che cadde a metà del secondo giorno, salì sul palco solo all’alba del giorno successivo, davanti ad una folla ridotta a meno della metà rispetto a quella dei giorni precedenti, pari ad oltre 500.000 spet-tatori. Jimi si presentò con una nuova formazione, introdotta co-me Jimi Hendrix Experience, ma ripresentata dallo stesso Hendrix come Gipsy Sun and Rainbows e suonò per circa due ore, e in quell’occasione rielaborò l’inno nazionale degli U.S.A., riproducen-do con la sua Stratocaster bianca i bombardamenti ed i mitraglia-menti sui villaggi del Vietnam, le sirene della contraerea e gli altri

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rumori sinistri della guerra. Da lì a breve Hendrix ricostituì lo sche-ma del power trio, ossia la Band of Gypsys, con Billy Cox al basso e Buddy Miles alla batteria. Con questa formazione la musica di Hen-drix divenne ancora più black, accattivandosi le simpatie della po-polazione afroamericana, come testimoniato dalle registrazioni dal vivo durante le esibizioni della band presso il Fillmore East di New York di Bill Graham, pubblicate nell’album omonimo Band of Gypsys (1970). Ma anche le sorti di questa nuova forma-zione erano segnate ed il 28 gennaio 1970, a causa di una serie di inconvenienti, alla band venne consentito di salire sul palco del Winter Festival of Peace, tenutosi al Madison Square Garden di New York, solo alle tre di notte circa, quando Hendrix era ormai in preda agli stupefacenti. Dopo aver litigato con alcuni fans, che gli chiedevano di suonare alcuni dei suoi pezzi più celebri, si rifiutò di proseguire l’esibizione e dopo il primo brano proseguì con gli insul-ti finché gli stessi roadies non lo portarono giù dal palco. Miles ac-cusò il manager, Michael Jeffery, di aver somministrato LSD ad Hendrix per provocare tali effetti e mandare così in fumo il nuovo progetto e poter ricomporre la Experience, e Jeffery in tutta rispo-sta sciolse la nuova band e convinse Noel Redding e Mitch Mi-tchell a ricostituire la prima formazione. Le tensioni tra Hendrix e

Redding erano però insanabili e solo dopo alcuni concerti Hendrix lo sostituì con Billy Cox. Il 1970 trascorse tra concerti a ritmo serra-to, anche per pagare l’alto costo di realizzazione del nuovo studio di registrazione voluto da Hendrix, l’Electric Lady Studios. Dopo la partecipazione al festival dell’Isola di Wight, Jimi partì in tour in Europa, ma le sue condizioni fisiche e psicologiche peggioravano progressivamente, tanto che il più delle volte si presentava sul pal-co notevolmente alterato e pure ostile nei confronti del pubblico, rifiutandosi di fare il juke-box delle sue hits o il funambolo con la chitarra. Il culmine fu raggiunto il 6 settembre 1970 al festival di Fehmarn, in Germania, quando fu accolto da fischi e contestazioni del pubblico. Hendrix, profondamente deluso e confuso, fece ri-torno a Londra, dove i suoi amici, tra cui Chandler ed Eric Burdon, gli suggerirono di abbandonare il manager Michael Jeffery. Ma la mattina del 18 settembre 1970, Jimi venne trovato morto nel suo appartamento al Samarkand Hotel. Ancora oggi non sono state del tutto chiarite le modalità della sua morte. La sua ragazza dell’epo-ca, la tedesca Monika Dannemann, presente quella notte nella stanza, raccontò che Hendrix soffocò a causa di un improvviso co-nato di vomito causato da un mix di vino e tranquillanti, ma la sua versione cambiò in occasione delle numerose interviste da lei rese.

Non è stato mai chiarito se Hendrix morì durante la notte, come asserito dalla polizia, o se fosse ancora vivo all’arrivo dell’ambu-lanza e sia morto durante il trasporto in ospedale a causa del so-praggiungere del vomito, in assenza di un supporto sotto la sua te-sta. Nel 1993 un’amica di Hendrix, Kathy Etckingham, mai rasse-gnatasi al referto del coroner (pubblico ufficiale incaricato di inda-gare nei casi di morti avvenute in circostanze poco chiare), che sebbene l’autopsia attribuisse la causa del decesso ad un’overdo-se di sonniferi ed alcool si pronunciò per un “verdetto aperto”, commissionò ad un’agenzia investigativa privata un’inchiesta che accertò, tra l’altro, che l’ambulanza venne chiamata con molto ri-tardo, e sulla scorta del dossier fornitole, che annoverava anche la dichiarazione di un nuovo testimone oculare ignoto, esercitò pres-sioni sul Ministero dell’Interno e sulla magistratura inglese, tanto che il caso Hendrix fu riaperto da Scotland Yard. Del resto lo stile di vita di Hendrix non era così sfrenato e ricco di eccessi come era stato dipinto, ad uso e consumo dei suo fans, ed infatti, come tutti i suoi più cari amici dichiararono, non era un consumatore abitua-le di droghe pesanti (eroina), né aveva mai dato alcun segno di an-sie suicide. Appena fu data la notizia della sua morte, l’apparta-mento di Hendrix fu saccheggiato da sciacalli a caccia di cimeli ed oggetti vari. Le spoglie di Jimi vennero riportate negli U.S.A. e se-polte a Seattle, nel Greenwood Memorial Park di Renton, Washin-gton. Sulla lapide vennero incisi il suo nome e la sagoma della sua Fender Stratocaster. I continui atti di sciacallaggio da parte di am-miratori e curiosi indussero il padre di Hendrix a collocare il fere-tro in un contesto separato. Un’altra statua di Hendrix è stata col-locata a Seattle e la sua città natale ha voluto rendergli omaggio anche intitolandogli un parco. Autore visionario, rappresenta an-cora oggi la figura del chitarrista per antonomasia. Rielaborò, inno-vò e stravolse completamente lo strumento ed il concetto stesso della chitarra elettrica, creando una musica originale, una miscela esplosiva di rock, blues, rhythm’n’blues, soul, funk, psichedelia e hard rock, frutto di una continua sperimentazione anche sonora, impreziosita dall’utilizzo dei primi pedali di distorsione, come il fuzz, e del wah wah, e dall’uso quasi melodico del feedback, fino a quel momento ritenuto soltanto un fastidioso rumore dovuto all’innesco dei pickups della chitarra, sempre alla ricerca di un sound più caldo, ricco ed intenso, seppure sempre fortemente an-corato alle sue fortissime radici blues. Nonostante il tentativo, non è possibile concentrare in poche righe il suo lascito che è andato ben oltre l’aspetto musicale. Anche lo stile e l’aspetto di Hendrix hanno fatto scalpore e tendenza sin dalle sue prime apparizioni sulle scene, rendendolo un’icona immortale. Il suo aspetto selvag-gio ed il suo rapporto furioso e carnale con la sua amata chitarra sono ancora oggi proverbiali, tanto che la sua influenza è presente in tutti i chitarristi elettrici moderni. Il suo power trio, insieme a gruppi come Who e Cream, inaugurò il genere hard rock degli anni 60 e fu proprio Jimi a partorire dalle corde della sua chitarra l’hea-vy metal, che si svilupperà dopo la sua morte. Il Re è morto, lunga vita al Re!

Hear My Train A Commin’ I Hear My Train A Commin’ I Hear My Train A Commin’ I Wait Around Train Station Waitin’ For That Train To Take Me Away Take Me The Hell Out A Here

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Take Me From This Lonesome Town Too Bad You Don’t Love Me No More Baby Too Bad Your People Put Me Down (Jimi Hendrix)

Sento che il mio treno sta arrivandoSento che il mio treno sta arrivandoSento che il mio treno sta arrivandoAspetto qui vicino alla stazioneSto aspettando quel trenoChe mi porterà viaPer l’inferno, mi porterà via da quiMi porterà via da questa città desolataÈ troppo doloroso il fatto che tu non mi ami più bambinaÈ troppo doloroso che la tua gente mi tratti così male

Credo siano molteplici gli effetti che provoca l’ascolto di Hendrix e sicuramente a tutti i chitarristi che l’hanno ascol-tato è balenata in mente almeno una volta l’idea di cambia-re strumento.Ho letto di tutto e di più a proposito di quel genio, ma la co-sa che più mi colpii fu quando un critico disse che, seppu-re a modo suo, Jimi Hendrix avesse suonato, rielaborando-lo, il blues.Prima di ascoltare Hendrix avevo già sentito parlare della musica blues, ma mai prima di allora mi aveva così incuriosi-

to, dato che proprio dal blues, artisticamente parlando, pa-re che Hendrix avesse mosso i suoi primi passi.Tuttavia, non mi interessai più di tanto al Blues, dato che ero troppo indaffarato ad ascoltare ripetutamente i dischi e le musicassette che trovavo di Jimi Hendrix ed a cercare di capire cosa facesse a quella chitarra per far uscire un suo-no così inspiegabile ed assurdo, ancora oggi difficile da eti-chettare.Il tempo passava e sebbene da una prima analisi tutti i mu-sicisti che ascoltavo avessero ben poco in comune, sentivo che c’era qualcosa che li univa, una sonorità di fondo, ser-peggiante e ben celata alle mie orecchie profane, ma igno-ravo cosa fosse.Insomma, erano già passati diversi anni dalla visione di Ra-dici ed avevo ancora tre enigmi da risolvere:1) Perché avessi provato una sensazione così forte e dolo-rosa nel seguire le vicissitudini di Kunta e perché la storia di questo africano sconosciuto mi avesse turbato così violen-temente.2) Perché il Signore avesse tollerato una simile tragedia umana.3) Quale fosse l’elemento musicale che univa Edoardo Ben-nato, Pino Daniele, Bob Dylan, gli Eagles, Cat Stevens, Litt-le Richard, Mark Knopfler e i Dire Straits, Bob Marley, Peter Tosh, Carlos Santana e, infine, Jimi Hendrix.

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3. Ho visto la luce!

MAXWELL STREET Maxwell Street è la strada di Chicago, in Illinois, del celebre Ma-xwell Street Market, dove si dice esser nato il Chicago blues.

JOHN LEE HOOKER John Lee Hooker (Clarksdale, Coahoma County, Mississippi 22 agosto 1917 – Los Altos, California 21 giugno 2001). Cantante, au-tore e chitarrista blues. Nacque in una famiglia di musicisti del Mis-sissippi, tra i quali suo cugino Earl Hooker. Il padre era un mezza-dro e un predicatore battista e gli permetteva di ascoltare solo i canti religiosi (spirituals) in chiesa. Nel 1922, un anno dopo il divor-zio dei genitori, la madre si risposò con William Moore, cantante blues cresciuto in Louisiana, che suonava con Charley Patton, Blind Lemon Jefferson e Blind Blake quando capitavano nei dintorni di Clarksdale, il quale gli insegnò i rudimenti della chitarra blues. Pro-prio dal patrigno Ho-oker apprese e perfe-zionò il suo stile uni-co ed inimitabile, ca-ratterizzato dall’uso di un solo accordo, ri-petuto ipnoticamen-te, e seguendone le orme iniziò a suonare in occasione delle fe-ste di paese. Intorno al 1923, dopo la mor-te del suo padre na-turale, a 14 anni Ho-oker andò via di casa e non rivide mai più né la madre, né il suo pa-trigno. Dopo aver can-

A metà degli anni 80 sentii per la prima volta parlare di un film che aveva la parola blues proprio nel titolo.Ecco che di nuovo mi si parava davanti il Blues.

Era da un po’ di tempo che non ne sentivo parlare e quella era un’ottima occasione per capirne qualcosa di più.Non avrei mai pensato che da lì a poco tutto sarebbe cam-biato.Fu proprio nel cuore del quartiere soul, il quartiere nero di Chicago rappresentato nel film The Blues Brothers, che tro-vai improvvisamente la risposta alle mie domande.

THE BLUES BROTHERS The Blues Brothers è una commedia musicale del 1980 diretta da John Lan-dis e interpretata da John Belushi e Dan Aykroyd, che nel film interpreta-no rispettivamente i fra-telli Jake “Joliet” Blues ed Elwood Blues. La storia si svolge a Chicago, in Illi-nois, e racconta della re-denzione dei due fratel-li Blues che nella loro inconfondibile tenuta, in abito nero ed oc-chiali da sole neri, partono “in missione per conto di Dio” per riu-nire la loro blues band e raccogliere i soldi necessari per evitare la chiusura dell’orfanotrofio cattolico dove entrambi erano cresciu-ti. Anche grazie all’incredibile ed insuperabile cast di musicisti pre-senti, il film ottenne un grande successo diventando un vero e pro-prio cult movie.

Era seduto in mezzo a Maxwell Street, indossava un cappel-lo e calzava dei mocassini disonesti che batteva a terra te-nendo il tempo, era nero ed aveva uno sguardo deciso, si-curo e fiero, il suo nome … una Leggenda: John Lee Hooker.

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tato in vari cori gospel a Cincinnati, negli anni 30 si trasferì a Mem-phis, in Tennessee, dove lavorò al New Daisy Theatre, a Beale Stre-et, e saltuariamente si esibì in house parties. Durante la seconda guerra mondiale lavorò in diverse fabbriche e nel 1943 si trasferì a Detroit, in Michigan, dove trovò lavoro in una fabbrica di auto-mobili, la Ford Motor Company, mentre la sera si esibiva nei locali e nei raduni di Hastings Street, epicentro della musica blues di De-troit. La sua popolarità crebbe immediatamente, anche perché, al-la ricerca di uno strumento che gli consentisse di suonare ad un vo-lume più alto, abbandonò la chitarra acustica e comprò la sua pri-ma chitarra elettrica, con relativo amplificatore, rivoluzionando il tipico sound country-blues. Nel 1948 incise il suo primo brano Bo-ogie Chillen, caratterizzato dal suo canto rurale e grezzo, nello sti-le Delta blues che Hooker adattò e rielaborò alla chitarra elettrica, e dal suo originale ed inconfondibile modo di cantare, quasi par-lando, cadenzato dal suo tipico ritmo boogie, martellante ed incal-zante, che aveva sviluppato prendendo spunto dallo stile dei pia-nisti boogie-woogie, reso ancora più suggestivo dal battere osti-nato della mano sulla cassa della chitarra e del piede su un’asse di legno. Il suo repertorio includeva sia brani tipici del down-ho-me blues che spirituals. I dischi registrati in seguito furono ugual-mente dei successi race record, e così Crawling King Snake (1949), Dimples (1956), Boom Boom (1962) e One Bourbon, One Scotch, One Beer (1966). Nonostante fosse analfabeta, Hooker compone-va da sé i suoi brani e poiché negli anni 50 gli studi di registrazio-ne pagavano i musicisti afroamericani una miseria, lui girava di stu-dio in studio proponendo sempre le stesse canzoni, che modifica-va leggermente ogni volta che si recava presso una nuova casa di-scografica, usando anche diversi pseudonimi, come John Lee Bo-oker alla Chess Records e alla Chance Records (1951-1952), John-ny Lee alla De Luxe Records (1953-1954), ed ancora John Lee, John Lee Cooker, Texas Slim, Delta John, Birmingham Sam and his Ma-gic Guitar, Johnny Williams o The Boogie Man. Il suo stile musica-le, nel rispetto della tradizione dei primi blues acustici dei musici-sti del Delta del Mississippi, era strutturalmente e ritmicamente li-bero ed improvvisato, dove i cambi di tempo erano la norma e di-pendevano sia dai suoi cambiamenti di umore, sia dalla narrazione dei testi, rendendo molto difficile il lavoro dei musicisti d’accom-pagnamento. Divenuto un’icona del movimento folk blues, dopo il suo trionfale tour inglese del 1963, la sua fama esplose presso il pubblico di tutto il mondo, anche grazie alle numerose covers dei suoi brani registrate dai principali musicisti rock e blues inglesi, fi-no alla consacrazione definitiva avvenuta con la sua partecipazio-ne al film The Blues Brothers (1980), nel quale registrò dal vivo e in presa diretta, improvvisando, secondo il suo stile, con la sua band

nel Chicago’s Maxwell Street Market, a dispetto dell’usuale tecni-ca del playback. Alla fine degli anni 80 Hooker fece il suo grande rientro nella scena discografica mondiale con l’album The Healer (1989), cui collaborarono tanti grandi musicisti, come Carlos San-tana e Bonnie Raitt. Dopo un’importante collaborazione con Van Morrison e Pete Townshend, nel dicembre dello stesso anno Ho-oker suonò anche con i Rolling Stones ed Eric Clapton ad Atlan-tic City, in occasione del tour Steel Wheels dei Rolling Stones. Do-po aver registrato oltre 100 dischi, Hooker si stabilì a Long Beach, in California, e nel 1997 aprì un night club a San Francisco, chia-mato John Lee Hooker’s Boom Boom Room. Nel 2001 durante un tour in Europa si ammalò e poco dopo, durante il sonno, non si ri-svegliò più, lasciando su questa terra 8 figli, numerosissimi premi e tanti musicisti cresciuti grazie alla sua musica, come Buddy Guy, Bob Dylan, Cream, AC/DC, ZZ Top, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Eric Clapton, The Yardbirds, The Animals, The Doors, George Thorogo-od, R. L. Burnside.

Il brano che suonava col suo tipico incedere boogie, Boom Boom, fece esplodere definitivamente la mia passione.

Boom Boom Boom boom, Boom boom I’m gonna shoot you right down Right offa your feetTake you home with me Put you in my house Boom boom boom boom A-haw haw haw haw (John Lee Hooker)

Boom BoomBoom boom, Boom boomSto proprio per spararti addosso e buttarti giùSto proprio per farti saltare in ariaTi porto a casa con meTi sistemo a casa miaBoom boom boom boomA-haw haw haw haw

Fu una folgorazione!!! Anche io finalmente avevo visto la LUCE!!!Da quel momento in poi nel mio cuore di musicista non ci sarebbe più stato posto per niente, tranne che per il Blues … ain’t nothing but the Blues!La musica di John Lee Hooker racchiudeva in sé tutti gli ele-menti che avevano catalizzato la mia attenzione fino a quel momento: il ritmo contagioso delle canzoni di Edoardo Ben-nato e di Little Richard, il climax e la profondità umana delle ballate di Pino Daniele e di Bob Dylan, le sonorità tranquil-le e consolanti di Cat Stevens e degli Eagles, l’atmosfera ele-gante del sound di Mark Knopfler e dei Dire Straits, la capa-cità di cullarti in un viaggio senza tempo di Carlos Santana, il potere ipnotico del reggae di Bob Marley e di Peter Tosh, la potenza sonora ed emozionale di Jimi Hendrix, tutto in una sola parola: BLUES!!! Alleluia!! La ricetta magica mi era stata servita su un vasso-io d’oro.

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Era quello l’ingrediente che univa tutti gli artisti che riusci-vano a far vibrare le corde della mia Anima.L’ultimo dei miei tre quesiti aveva ora una risposta. Da quel momento in poi è stata una ricerca spasmodica e senza tregua di ogni disco, musicassetta e videocassetta di musica BLUES, un viaggio contrassegnato da continue sco-perte e da gioie immense.Ma l’emozione più grande che io ricordi la provai quando fe-ci girare sul piatto un LP che avevo acquistato per due moti-vi: innanzitutto perché quel nome l’avevo già sentito nomi-nare più volte e mi aveva incuriosito soprattutto l’aver sapu-to che a Chicago gli avessero dedicato addirittura una stra-da, quindi era una garanzia assoluta che stavo spendendo bene i miei pochi soldi, ma soprattutto perché la mia atten-zione fu catturata dal suo viso di uomo nero di mezza età, e forse pure qualcosina in più, ritratto con due suggestive foto in bianco e nero, in particolare sulla copertina appariva solo la sua testa a grandezza naturale, mentre cantava in piena estasi con gli occhi chiusi, e sul retro la sua immagine a mez-za figura, mentre suonava la chitarra con il volto sorridente e giocoso, era assolutamente coinvolgente.Il nome dell’album Muddy “Mississippi” Waters live.

MUDDY WATERS

McKinley Morganfield (Rolling Fork, contea di Issaquena, Missis-sippi 4 aprile 1913 o 1915 – Westmont, Illinois 30 aprile 1983), in arte Muddy Waters (“Acque Fangose”), come l’aveva soprannomi-nato la nonna, perché da bambino gli piaceva giocare nelle rive fangose del Mississippi, e precisamente del vicino Deer Creek. Can-tante, autore e chitarrista blues. Nato esattamente a Jug’s Corner, nelle vicinanze della contea di Issaquena, anche se ancora si discu-te se nel 1913 o nel 1915, il cui padre, Ollie Morganfield, era un contadino e un musicista. Dopo la morte della madre, avvenuta quando Muddy Waters aveva 3 anni, andò a vivere con la nonna a Clarksdale, dove a 9 anni iniziò a suonare l’armonica e a 16 anni la chitarra. Lavorava come raccoglitore nei campi di cotone della Sto-vall Plantation e arrotondava suonando in occasione delle feste

paesane nei dintorni di Clarksdale, seguendo l’esempio di Son House e Robert Johnson. Nel 1932, a 17 anni (il che depone per il 1915 quale anno di nascita), Muddy Waters sposò Mabel Berry ed il chitarrista Robert Nighthawk suonò al loro matrimonio. Mabel lo lasciò dopo 3 anni, quando Muddy Waters ebbe il suo primo figlio da un’altra donna, Leola Spain. Nell’agosto del 1941 lo studioso di folklore afroamericano, Alan Lomax, si recò nella piantagione di Stovall, in Mississippi, su incarico della Library of Congress per re-gistrare vari musicisti di country blues, e registrò Muddy Waters proprio nella sua baracca, che ora si trova nel museo del blues di Clarksdale, in Mississippi. Nel luglio 1942 Lomax ritornò per regi-strare nuovamente Muddy Waters e le sessioni furono pubblicate la prima volta nell’album Down On Stovall’s Plantation dall’eti-chetta Testament. A quelle incisioni partecipò anche il violinista e chitarrista Son Slims, uno dei primi maestri di Muddy Waters. Ri-sentire la propria voce e la propria chitarra fu per Muddy Waters un’illuminazione e do-po aver gestito un juke joint, dove si giocava d’azzardo e si poteva ascoltare sia la musica di un juke-box che la sua, quando suonava dal vivo, Muddy Wa-ters nel 1943 emigrò a Chicago per diventare un musicista profes-sionista. Trovò lavoro di giorno come autista e come operaio in una fabbrica e di sera si esibiva nei bars e nei piccoli clubs di blues, dove incontrò Sonny Boy Williamson e Tampa Red, finché Big Bill Broonzy, uno dei principali artisti blues della scena di Chicago, lo aiutò ad entrare nel mondo della musica che contava, permetten-dogli di aprire i suoi concerti nei principali clubs. Nel 1945 lo zio Joe Grant comprò a Muddy Waters la sua prima chitarra elettrica per permettergli di far sentire la sua musica anche nei locali più rumo-rosi. Nel 1946 Muddy registrò alcuni brani per la Columbia, ma non furono pubblicati, e alla fine dello stesso anno fu contattato dai fratelli Leonard e Phil Chess che lo misero sotto contratto con la loro etichetta Aristocrat Records. Nel 1947 registrò alcuni brani al-la chitarra, con Sunnyland Slim al piano, e nel 1948 incise I Can’t Be

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Satisfied e I Feel Like Going Home che divennero delle hits, favoren-do la crescita della sua popolarità. Subito dopo la Aristocrat cambiò nome in Chess Records e nel 1950 Muddy Waters incise il suo gran-de successo Rollin’ Stone, che darà il nome sia all’omonimo gruppo inglese che alla celebre ri-vista musicale. Dopo aver vinto le resistenze della Chess, che non intendeva fargli utilizzare nelle ses-sioni di registrazione la band con cui si esibiva solitamente, nel set-tembre del 1953 Muddy Waters registrò per la prima volta con l’accompagnamento di quella che sarà ricordata come la sua prima band, ossia Little Walter Jacobs (armonica), Jimmy Rogers (chitar-ra), Elga Edmonds in arte Elgin Evans (batteria) e Otis Spann (pia-no). Negli anni 50 la band più celebrata della storia del blues regi-strò quasi la totalità dei classici del genere poi passati alla storia, composti prevalentemente dal cantautore e contrabbassista Willie Dixon, anch’egli come Chuck Berry sotto contratto con la Chess, tra cui Hoochie Coochie Man, I Just Want to Make Love to You, I’m Re-ady, Mannish Boy, Sugar Sweet, Trouble No More, Forty Days & Forty Nights. Muddy Waters, Little Walter Jacobs e Howlin’ Wolf dominarono la scena del Chicago blues degli anni 50 e suonare nel-la band di Muddy Waters divenne un punto d’arrivo per tutti i mi-gliori musicisti blues, tanto da favorirne anche le successive carrie-re come solisti, così valse per Little Walter, il cui singolo Juke diven-ne un successo, e per Rogers che dal 1955 si dedicò alla sua carrie-ra solista con una sua band. Nel 1958 Muddy Waters sbarcò in In-ghilterra ed il suo blues elettrico, potente e trascinante, conquistò maree di ragazzi bianchi che avendo fino ad allora ascoltato il Del-ta blues di Robert Johnson e di Big Bill Broonzy ed il country-blues di Sonny Terry & Brownie McGhee restarono letteralmente folgo-rati dal blues “urbano” amplificato della band di Muddy Waters, che sancì ufficialmente il passaggio dal blues acustico al rock’n’roll. Muddy Waters ottenne la sua definitiva consacrazione in occasio-ne del Jazz Festival di Newport del 1960, anche se proprio in quell’occasione constatò con disappunto che mentre la sua gente, gli afroamericani, giravano le spalle disinteressati al blues, il pub-blico di pelle bianca mostrava interesse e rispetto verso quel gene-re di musica. Nel 1967, con Bo Diddley, Little Walter e Howlin’ Wolf, incise The Super Blues e The Super Super Blues Band per la Chess. Nel 1972 ritornò in Inghilterra per registrare The London Muddy Waters Sessions con Rory Gallagher, Steve Winwood, Rick Grech e Mitch Mitchell, anche se in un’intervista rilasciata a Gural-nick, pur riconoscendo la professionalità di quei musicisti, si la-mentò del fatto che non erano in grado di suonare la sua musica, evidenziando che loro “si mettevano davanti il libro (lo spartito) e suonavano”, ma ciò non era quello che lui avrebbe voluto per ri-creare il suo sound, e concluse dicendo che “se cambi il mio sound stai cambiando la mia stessa persona”. Nel 1973 morì di cancro sua moglie Geneva e lui smise di fumare e si trasferì a Westmont, in Illinois, con i suoi numerosi figli. Da lì a breve andò a suonare in Florida e dopo un concerto conobbe la diciannovenne Marva Jean Brooks, che dopo qualche mese dello stesso anno sposò, con Clap-ton che gli fece da testimone. Il 25 novembre 1976 prese parte, con Paul Butterfield all’armonica, al concerto di commiato di The Band, al Winterland di San Francisco, pubblicato nel film The Last Waltz. Nel 1977 Johnny Winter convinse la sua etichetta Blue Sky a

mettere sotto contratto Muddy Waters e fu l’inizio di una fruttuo-sa collaborazione. Muddy Waters ci regalò, infatti, le sue ultime perle, riproponendo il suo tipico Chicago sound delle origini pub-blicando albums come Hard Again (1977), I’m Ready (1978), Mud-dy “Mississippi” Waters – Live (1979) e King Bee (1981), grazie alla sapiente produzione di Johnny Winter, che vi partecipò anche co-me chitarrista, ed alla presenza di artisti del calibro di James Cot-ton, Big Walter Horton e Jerry Portnoy all’armonica, “Pine Top” Perkins al piano, Sammy Lawhorn, Luther “Snake Boy” Johnson, Bob Margolin e Jimmy Rogers alla chi-tarra, Calvin “Fuzz” Jones e Charles Calmese al basso, Willie “Big Eyes” Smith alla batteria, tut-ti musicisti formatisi alla corte dell’Imperatore del blues. Nel 1981 Muddy Waters fu invitato ad esi-birsi al Chicago Festival e sul palco salì anche l’amico Johnny Winter, e proprio la città di Chicago, due anni dopo la sua morte, ne onorò il ricordo chiamando Honorary Muddy Waters Drive una parte della 43rd Street, dove aveva abitato, e ribattez-zando la parte di Cass Avenue di Westmont, sobborgo di Chicago, vicino alla sua ultima abitazione, Honorary Muddy Waters Way. Nel 1983 Muddy Waters si addormentò senza più svegliarsi, a cau-sa di un problema cardiaco, nella sua casa a Westmont. Al suo fu-nerale partecipò una moltitudine di bluesmen e di appassionati, che resero il meritato tributo al Maestro che influenzò profonda-mente diversi generi musicali, dal blues al rhythm’n’blues, dal folk al rock’n’roll, dal country al jazz, fino all’hard rock. Jimi Hendrix dis-se che Muddy Waters fu il primo chitarrista di cui venne a cono-scenza, e schiere di musicisti, dai Cream agli Yardbirds, da Eric Clapton a Jimmy Page, dai Canned Heat a Bob Dylan, dagli Allman Brothers a Jeff Beck, dai Rolling Stones agli Steppenwolf, da Paul Rodgers a Gary Moore, dai Led Zeppelin ad Angus Young furono ispirati da colui che viene considerato, a ragion veduta, il “Padre del Chicago blues”, uno dei più grandi bluesmen di tutti i tempi ed uno degli artisti più influenti del secolo scorso, punto di partenza del rock’n’roll e punto di riferimento per la rivoluzione musicale beat e per la british explosion degli anni 70.

Rollin’ Stone Well, I wish I was a catfish Swimmin in a oh, deep, blue sea I would have all you good lookin women Fishin, fishin after me Sure ‘nough, a-after me Sure ‘nough, a-after me Oh ‘nough, oh ‘nough, sure ‘nough Well, my mother told my father Just before hmmm, I was born “I got a boy child’s comin” “He’s gonna be, he’s gonna be a rollin stone” “Sure ‘nough, he’s a rollin stone,” “Sure ‘nough, he’s a rollin stone” Oh well he’s a, oh well he’s a, oh well he’s a (Muddy Waters)

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Spirito Libero e RibelleEbbene, vorrei essere un pesce-gattoChe nuota nel profondo mare bluVorrei che tutte voi belle donneVi diate da fare per pescarmiOvviamente, per pescarmiOvviamente, per pescarmiCertamente, certamenteEbbene, mia madre disse a mio padrePoco prima che nascessi“Sto per dare alla luce un bambino”“Sarà, sarà uno spirito libero e ribelle”“Sicuramente, è uno spirito libero e ribelle”“Sicuramente, è uno spirito libero e ribelle”Oh si lo è, oh si lo è, oh si lui lo è

Fu così che feci la conoscenza del “Padre del Chicago blues” e della sua tagliente chitarra slide, scoprendo l’ennesima Terra Promessa su cui adagiare le mie orecchie e far incet-ta di sonorità ed atmosfere uniche che mi riportavano in-dietro nel tempo, verso un futuro di continue quanto scon-finate emozioni.È sempre molto difficile riuscire a rendere in parole sensa-zioni così forti ed altrettanto difficile per me era starne lon-tano.Avevo ormai compreso che ad ogni nuovo album di blues corrispondeva una felicità incomparabile, analoga a quella che la vigilia di Natale fa saltare e gridare di gioia ogni bam-bino, pertanto ogniqualvolta riuscivo a trovare un nuovo LP di blues mi esaltavo e non vedevo l’ora di ritornare a casa per piazzarlo sul giradischi con il volume a palla per poi ri-produrne il suono con la mia chitarra, che nel frattempo da acustica era diventata elettrica.Più ascoltavo quella musica e più mi sembrava familiare, era quasi come se avessi perso la memoria ed improvvisamen-te l’avessi ritrovata.Era come se alla fine di un lungo viaggio fossi riuscito a ritro-vare la strada di casa, ora, finalmente, ero ritornato al punto d’inizio, mi sentivo a casa, avvertivo l’aria di casa.Pensate, quindi, al felice stupore che avvertii quando venni a sapere che il Blues altro non era se non che lo sviluppo del-la musica africana in terra nordamericana, ad opera proprio degli schiavi neri deportati e delle generazioni successive.In poche parole, era proprio la musica di Kunta Kinte, che scoprii essere legato a doppio filo con John Lee Hooker e Muddy Waters, che altri non erano se non che discendenti di Kunta o di un altro africano che si era trovato a vivere la sua stessa identica disperata esperienza di vita.Ma il Blues aveva in serbo per me un’altra sorpresa ed un’al-tra rivelazione, che coincise con l’avvento nella mia vita di un’altra figura eccezionale, che contribuì in maniera decisi-va a farmi capire, una volta per tutte, ciò che sarei voluto di-ventare da grande: un chitarrista di blues.Questo è l’effetto che B.B. King ebbe su di me.

B.B. KING Riley B. King, in arte B.B. King (Berclair, Leflore County, Mississip-pi 16 settembre 1925 – Las Vegas, Nevada 14 maggio 2015). Can-tante, autore e chitarrista blues. Nacque a circa 5 km ad ovest di It-

ta Bena. Nel 1930 suo padre lasciò la famiglia, sua madre sposò un altro uomo e lui fu allevato dalla nonna materna a Kilmichael, in Mississippi. Da giovane lavorò come bracciante in una piantagio-ne di cotone e la sua paga era di 35 centesimi per ogni 50 kg di co-tone che raccoglieva. Ascoltava il blues di T-Bone Walker e Lonnie Johnson e il jazz di Charlie Christian e Django Reinhardt, e canta-va musica gospel nella chiesa Elkhorn Baptist Church a Kilmichael, finché nel 1943 si trasferì a Indianola, in Mississippi, dove lavorò come trattorista ed iniziò a suonare nella vicina zona di Greenwo-od. Nel 1946 si trasferì a Memphis, in Tennessee, dove perfezionò la sua tecnica chitarristica, grazie all’aiuto del cugino di sua madre, il chitarrista country-blues Bukka White, ed allo studio di chitarri-sti come Blind Lemon Jefferson e T-Bone Walker. Dopo un po’ fece rientro in Mississippi, per poi dirigersi nel 1948 a West Memphis, in Arkansas, dove partecipò al programma radio di Sonny Boy Wil-liamson, sulla KWEM. Da lì a poco lavorò come disc jokey in una delle prime stazioni radio dell’epoca, che programmava esclusiva-mente musica nera, la radio di Memphis WDIA, dove suonò anche dal vivo. Suonava, inoltre, negli angoli di Beale Street, procuran-dosi il soprannome di The Blues Boy from Beale Street o The Bea-le Street Blues Boy (“Il Ragazzo del Blues di Beale Street”), più sem-plicemente Blues Boy, ed infine B.B. Nel 1949 cominciò a registra-re per la RPM Records di Los Angeles, prodotto da quel Sam Phil-lips che in seguito fondò la Sun Records. Dopo aver formato la sua prima band, iniziò a girare per tutti gli Stati Uniti suonando nelle principali città, come Washington, D.C., Chicago, Los Angeles, De-troit e St. Louis, e nei numerosi piccoli locali e juke joints del sud, che costituivano il chitlin’ circuit. Durante una serata a Twist, in Ar-kansas, nell’inverno del 1949, il locale prese fuoco a causa di un bidone di kerosene, all’epoca utilizzato per riscaldare l’ambiente,

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buttato giù durante una lite tra due persone. Durante l’evacuazio-ne B.B. King si dimenticò di prendere la sua chitarra e quando se ne accorse rientrò nell’edificio in fiamme per recuperarla. Quando venne a sapere che la ragione della lite era stata una donna chia-mata Lucille, chiamò così la sua chitarra, per ricordare a sé stes-so quanto era stato avventato il suo gesto. I brani di seguito incisi negli anni 50 furono tutti grandi successi, così 3 O’Clock Blues, You Know I Love You, Woke Up This Morning, Please Love Me, You Up-set Me Baby, Every Day I Have the Blues, Ten Long Years, Bad Luck, Sweet Little Angel e Please Accept My Love. La sua attività live au-mentò vertiginosamente, fino a totalizzare il numero impressio-nante di 342 concerti e tre sessioni di registrazione nel 1956, an-no in cui fondò la sua etichetta, Blues Boys Kingdom, con quartiere generale a Beale Street, a Memphis. Nel novembre del 1964 regi-strò al Regal Theater di Chicago un album pietra miliare del blues, Live at the Regal. Nella sua lunghissima e benedetta carriera si può dire che abbia suonato con tutti i più rinomati musicisti del piane-ta, partecipato a numerosi films, tra cui The Blues Brothers 2000, e programmi televisivi, ispirato un numero infinito di musicisti e ri-cevuto numerosi premi ed onorificenze, tra cui la Medaglia Presi-denziale delle Arti, conferitagli da George H.W. Bush nel 1990, e la Medaglia della Libertà, conferitagli da George W. Bush nel 2008. Riconosciuto come il “Re del blues” è stato uno dei più importan-ti esponenti del blues, e la sua musica, una perfetta ed unica mi-scela di blues, jazz, swing e boogie, era caratterizzata dai suoni cal-di, rotondi e suadenti di Lucille, la sua chitarra nera semi acustica Gibson Custom Shop ES-335, sempre accompagnati da un’impec-cabile orchestra, come testimoniato dai dischi registrati alla fine degli anni 60, come Lucille (1968), Live & Well (1969) Completely Well (1969), Indianola Mississippi Seeds (1970) e B.B. King in Lon-

don (1971). Nel 2012 B.B. King si è esibito alla Casa Bianca, ospite del Presidente Barack Obama, e nello stesso anno è stato pubbli-cato un documentario sulla sua vita artistica diretto da Jon Brewer, con la narrazione di Morgan Freeman. Nel 2013 è apparso al New Orleans Jazz Festival. Nel 2014, dopo che gli venne diagnosticato un esaurimento, date le sue precarie condizioni di salute, dovette interrompere le esibizioni dal vivo già programmate. Dopo due ri-coveri ospedalieri, a causa di complicazioni dovute alla pressione alta e al diabete, B.B. King si è spento all’età di 89 anni, nel sonno, nella sua casa di Las Vegas, dopo alcuni infarti causati dal diabete, di cui soffriva da anni, ed anche a causa di complicazioni del mor-bo di Alzheimer. La salma è stata trasportata a Memphis e condot-ta in processione da Beale Street, guidata da una brass band mar-ciante che suonava When the Saints Go Marching In, per essere poi condotta, seguita da migliaia di persone accorse per onorare il “Re del blues”, lungo la Route 61 fino alla sua città natale, Indiano-la, in Mississippi, dove si sono svolti i funerali, presso la Bell Grove Missionary Baptist Church. In quasi 70 anni di attività concertisti-ca si stima che B.B. King abbia tenuto una media di circa 250/300 concerti l’anno, totalizzato quasi 20.000 esibizioni.

Sweet Little Angel I’ve got a sweet little angel I love the way she spread her wings. Yes, I got a sweet little angel I love the way she spread her wings. Yes, when she spread her wings around me I get joy in everything. You know I asked my baby for a nickel and she gave me a twenty dollar bill. Oh, yes, I asked my baby for a nickel and she gave me a twenty dollar bill. You know I asked her for a little drink of liquor and she gave me a whiskey still’. Lord, if my baby should quit me I do believe I would die. Yeah, if my baby should quit me I do believe I would die. Yes, if you don’t love me little angel please, tell me the reason why. (B.B. King)

Dolce Piccolo AngeloHo un dolce piccolo angeloamo il modo in cui lei spiega le sue ali.Ebbene si, ho un dolce piccolo angeloamo il modo in cui lei spiega le sue ali.Si, quando mi avvolge con le sue ali

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Sprizzo gioia da tutti i pori.Devi sapere che ho chiesto alla mia bambina un nichelinoe lei mi ha dato una banconota da 20 dollari.Ebbene si, ho chiesto alla mia bambina un nichelinoe lei mi ha dato una banconota da 20 dollari.Devi sapere che le ho chiesto giusto un sorso di liquoree lei mi ha dato una bottiglia di whiskey.Signore, se la mia bambina mi dovesse lasciarecredo che morirei.Ebbene si, se la mia piccolina mi dovesse lasciarecredo che morirei.Si, se tu non mi ami piccolo angeloper favore, dimmi per quale motivo.

La sua voce potente, ma sempre pulita e melodiosa, il rit-mo sincopato dei suoi blues, inframezzato dall’utilizzo della sezione fiati stile R’n’B, e l’incontenibile gioia che scaturiva dalla sua musica mi fecero letteralmente saltare dalla sedia.Grazie a quel gigante nero avevo appena fatto la conoscen-za del boogie, il volto frizzante del blues, ed era una sensa-zione fantastica dalla quale non mi volevo più staccare.Per la prima volta ascoltare blues mi faceva sentire non solo felice, ma anche incredibilmente allegro e ottimista.La mia vita grazie al Blues era sempre più bella!Per la prima volta, in fondo al mio cuore, non provavo quel-lo strano senso di colpa che di tanto in tanto mi affliggeva al solo pensiero che stavo provando gioia nell’ascoltare una musica che, almeno agli inizi della sua esistenza, era stata il frutto di tanto dolore.Fu proprio la buon’anima di B.B. King a liberarmi da que-sto peso e non gli sarò mai grato abbastanza per avermi fat-to comprendere, grazie alla sua musica, che non solo si po-teva sorridere e ballare ascoltando il Blues, ma che era pro-prio la cosa giusta da fare, rappresentava il vero senso di quella musica, ossia creare un’oasi di pura gioia in un deser-to di dolore, dove gli afflitti potessero trovare un rifugio si-curo per poter quietamente riparare i danni che la durezza della vita infliggeva alle loro anime ed ai loro corpi stanchi.E pensare che qualcuno ha avuto anche il coraggio di criti-care questo immenso artista, lamentando che la sua musica si presentava sempre allo stesso modo, alternando un bra-no lento ad uno allegro, e cercando di fondere vari stili mu-sicali, come il jazz ed il country, al solo fine di conquistarsi i favori del grande pubblico.Ma questo qualcuno non ha tenuto conto che questi brani il buon B.B. King li suonava sin da quando si guadagnava la pagnotta agli angoli di Beale Street e che per oltre 70 anni, fino alla sua morte, non ha fatto altro che suonarli sui pal-chi di tutto il mondo, diventando il più grande Ambasciato-re della musica blues della storia.

BEALE STREETBeale Street è la strada di Memphis, in Tennessee, dove fiorì e si sviluppò il Memphis blues.

Proprio mentre pensavo che non vi è limite al malanimo e alla stupidità dell’essere umano, ad un tratto mi fu tut-to finalmente chiaro, ecco quale era stato il piano che ave-va da sempre avuto il Signore, ecco il perché di quella im-

mane tragedia umana: gettare le fondamenta affinché po-tesse prendere corpo una musica che racchiudesse in sé il significato più profondo dell’essere umano, la sua tragedia e la sua rinascita.Capii che il Blues era un dono del Signore, per elargire il qua-le aveva tollerato che il genere umano cui lo donava pagas-se il dovuto pegno di dolore e sofferenza.Un genere musicale rivoluzionario, intimo, sincero ed eter-no, che ci avrebbe sostenuto nei momenti più tragici, caval-cando il nostro dolore ed aiutandoci a tirare avanti con gio-ia, ridipingendo il sorriso sul nostro volto.Era la preghiera in musica, e grazie al Blues ebbi la sensa-zione di comprendere appieno il messaggio di S. Agostino, ossia che “chi canta prega due volte”, cercando addirittura di calcolare quante volte pregasse colui che oltre a cantare suonasse pure … magari un Blues!Avevo finalmente trovato la risposta alla seconda domanda.Ancora oggi mi chiedo quale sia la linea di congiunzione tra me e Kunta, tra la sua storia e la mia vita, tra il suo dolore e la mia pancia, tra la sua musica e la mia anima, insomma … tra me e il Blues.Secondo alcuni l’energia vitale infusa dentro di noi non muore mai e quindi alla nostra anima è concesso vivere non una sola vita, ma diverse esistenze.Ebbene, quando ascolto Blues e guardo le mie braccia con la pelle d’oca mi convinco che è proprio così.Del resto, se così non fosse, non mi sarei sentito così ma-le nel vedere soffrire Kunta, soffrendo con lui, non mi sarei sentito così soddisfatto ascoltando la prima volta Jonh Lee Hooker e non continuerei a sentirmi tanto bene ogni volta che sento suonare blues.

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Evidentemente prima di rinascere come Salvatore Amara ho vissuto la vita di Kunta Kinte o di qualche altro africano strappato alle sue radici, oppure la vita di John Lee Hooker o di qualche altro afroamericano trapiantato come lui.Il Blues è ed è sempre stato parte di me e continuerà ad es-serlo, per sempre.Da quando l’ho incontrato in questa vita la mia esistenza e la mia musica non sono più state le stesse di prima, ed è per questo motivo che mi sono deciso a scrivere questo libro, proprio per rendere omaggio a questa musica, unica e in-cantata, ed al Popolo del blues, che vi ha dato origine.Non ho alcuna intenzione di redigere un saggio di carattere storico-sociale sul blues, anche perché non ho alcuna com-petenza in merito, non essendo né uno storiografo né un musicologo, quindi mi limiterò a ripercorrere i passaggi che sono stati fondamentali nella mia esperienza e per la mia formazione di musicista e di uomo.Questo libro, pertanto, vuole essere un racconto sempli-ce, che possa prendere per mano ciascun lettore e portar-lo all’interno del mio microcosmo blues, alla scoperta, per alcuni, ed alla conferma, per altri, di quelle che sono le ca-ratteristiche fondamentali di questo fenomeno, il cui aspet-to musicale – continuo a ripetere – è solo secondario rispet-to al sentimento su cui poggia, la cui comprensione è indi-spensabile e propedeutica per potersi poi approcciare mu-sicalmente al blues.Il Blues rappresenta un passaggio inevitabile, consapevole o inconsapevole, nella vita di ogni essere umano, l’accetta-zione dei nostri vizi e delle nostre virtù, la consapevolezza di appartenere ad una comunione di anime e la certezza di do-ver sempre fare i conti con noi stessi, non solo con ciò che

di noi facciamo vedere, ma soprattutto con la nostra parte più intima e segreta. Quando ascolti blues senti di far parte di un grande comu-nità, senti che sei in compagnia di tanti altri che prima di te hanno provato quel sentimento, di tanti altri che prima di te l’hanno cantato e di tanti altri ancora che certamente lo proveranno e lo canteranno.Il cerchio emozionale e musicale che aveva caratterizzato la mia adolescenza e tracciato la mia vita fino a quel momen-to si era definitivamente chiuso.Finalmente conoscevo il nome che era stato dato per iden-tificare sia quel poderoso sentimento, sia la musica che l’a-veva celebrato, tutto era ormai chiaro ed aveva un solo no-me: BLUES.Iniziai sin da subito a realizzare un’altra verità, ossia che non ero stato io a scegliere il BLUES, ma era il BLUES ad aver scelto me.La deduzione era molto semplice, un piccolo essere umano non poteva avvertire una sensazione così potente e grade-vole senza l’intervento autorevole di un Potere Superiore.Come detto, in qualità di credente, sono convinto che il Blues sia un dono del Signore, e, come tale, soltanto Lui può decidere a chi riservarlo … semplice, no?!Mi sento un eletto, facente parte di una grande famiglia di anime, tutti coloro ai quali il Signore ha elargito questo pre-zioso dono: la possibilità di godere e trarre beneficio dalla musica blues.In quanto tale, sono debitore nei confronti del Blues e per pagare il mio tributo ho deciso di ripercorrere il mio intenso viaggio alla scoperta del Blues, testimoniando la mia espe-rienza.