“Salita del Monte Carmelo” -...

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S. Giovanni della Croce [Salita del Monte Carmelo, Libro primo] [La] “Salita del Monte Carmelo” , composta dal P. Fr. Giovanni della Croce, Carmelitano Scalzo, tratta del modo in cui un'anima potrà disporsi per giungere in breve all’unione con Dio. In essa, tanto ai principianti quanto ai proficienti 1 , si danno avvisi e una dottrina [insegnamenti], molto utile affinché principianti e proficienti sappiano sciogliersi da tutto ciò che è temporale e non impigliarsi in ciò che è spirituale, restando nella completa nudità e libertà di spirito, quale si richiede per l’unione con Dio. ARGOMENTO Tutta la dottrina che intendo trattare in questa Salita del Monte Carmelo è inclusa nelle seguenti strofe nelle quali è contenuto il modo di salire fino alla cima del Monte, cioè l'alto stato di perfezione che qui chiamiamo unione dell'anima con Dio. E poiché intendo procedere fondando su di esse ciò che dirò, ho voluto porle qui insieme, affinché ci si possa fare un’idea generale [di tutta la sostanza] di ciò che devo scrivere. Tuttavia nel corso della spiegazione converrà ripetere separatamente ciascuna strofa e ugualmente i versi di ciascuna di esse, secondo che lo richiederà la materia e lo esiga la spiegazione. Si dice dunque così: STROFE nelle quali l'anima canta la felice ventura che le toccò, di passare, attraverso la notte oscura della fede, nella sua nudità e purgazione, all'unione con l'Amato. In una notte oscura d'amorose ansie infiammata o felice ventura! uscii, né fui notata stando già la mia casa addormentata; allo scuro e sicura per la scala segreta, travestita, o felice ventura! allo scuro e celata, stando già la mia casa addormentata. Nella felice notte in segreto, nessuno mi vedeva né alcunché io miravo, senz'altra luce e guida fuori di quella che nel cuore ardeva. E questa mi guidava più certa della luce meridiana là dove mi aspettava chi ben io conoscevo in luogo ove nessuno si mostrava. O notte che guidasti! O notte amabile più dell'aurora! 1 Coloro che hanno oltrepassato il livello spirituale del principiante.

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S. Giovanni della Croce[Salita del Monte Carmelo, Libro primo]

[La] “Salita del Monte Carmelo” ,

composta dal P. Fr. Giovanni della Croce, Carmelitano Scalzo, tratta del modo in cui un'anima potrà disporsi per giungere in breve all’unione con Dio. In essa, tanto ai principianti quanto ai proficienti 1, si danno avvisi e una dottrina [insegnamenti], molto utile affinché principianti e proficienti sappiano sciogliersi da tutto ciò che è temporale e non impigliarsi in ciò che è spirituale, restando nella completa nudità e libertà di spirito, quale si richiede per l’unione con Dio.

ARGOMENTO

Tutta la dottrina che intendo trattare in questa Salita del Monte Carmelo è inclusa nelle seguenti strofe nelle quali è contenuto il modo di salire fino alla cima del Monte, cioè l'alto stato di perfezione che qui chiamiamo unione dell'anima con Dio. E poiché intendo procedere fondando su di esse ciò che dirò, ho voluto porle qui insieme, affinché ci si possa fare un’idea generale [di tutta la sostanza] di ciò che devo scrivere. Tuttavia nel corso della spiegazione converrà ripetere separatamente ciascuna strofa e ugualmente i versi di ciascuna di esse, secondo che lo richiederà la materia e lo esiga la spiegazione. Si dice dunque così:

STROFE

nelle quali l'anima canta la felice ventura che le toccò, di passare, attraverso la notte oscura della fede, nella sua nudità e purgazione, all'unione con l'Amato.

In una notte oscurad'amorose ansie infiammatao felice ventura!uscii, né fui notatastando già la mia casa addormentata;

allo scuro e sicuraper la scala segreta, travestita,o felice ventura!allo scuro e celata,stando già la mia casa addormentata.

Nella felice nottein segreto, nessuno mi vedevané alcunché io miravo,senz'altra luce e guidafuori di quella che nel cuore ardeva.

E questa mi guidavapiù certa della luce meridianalà dove mi aspettavachi ben io conoscevoin luogo ove nessuno si mostrava.

O notte che guidasti!O notte amabile più dell'aurora!

1 Coloro che hanno oltrepassato il l ivel lo spirituale del principiante.

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O notte che hai unitol'Amato con l'amata,l'amata nell'Amato trasformata!

Sul mio petto fiorito,che per lui solo intatto si serbava,lì rimase dormienteed io l'accarezzavoe il ventaglio di cedri l'arieggiava.

E l'aura dei bastionimentre quei suoi capelli discioglievocon la mano serenanel collo mi ferivae tutti i miei sensi sospendeva.

Dimentica, acquietata,il volto reclinai sull'Amato,tutto cessò e rimasi,lasciando ogni mia cura,circondata da gigli, obliata.

PROLOGO

1. Per poter spiegare e far ben comprendere questa notte oscura per la quale l’anima deve passare per giungere, per quanto è possibile in questa vita, alla divina luce della perfetta unione di amore con Dio, sarebbe necessario un lume di scienza e di esperienza maggiore del mio: poiché sono tante e così profonde le tenebre e i travagli sia spirituali che temporali per le quali le anime fortunate ordinariamente sogliono passare per poter giungere a quello stato di perfezione, che non basta la scienza umana a intenderlo, né l’esperienza a esprimerlo, poiché soltanto colui che l’attraversa saprà sentirlo, ma non ridirlo.

2. Pertanto, per dire qualcosa di questa notte oscura, non mi affiderò né dell'esperienza né della scienza, poiché l'una e l'altra possono venir meno e ingannare; ma, non tralasciando d’aiutarmi per quanto posso con entrambe, mi servirò per tutto ciò che, con il favore divino, dovrò dire, - almeno per ciò che è più importante ed oscuro ad intendersi - della divina Scrittura, lasciandoci guidare da essa non potremo sbagliare, poiché in essa è lo Spirito Santo che parla. Se poi incorrerò in qualche errore, non comprendendo bene ciò che la Scrittura dice o ciò che senza di essa verrò dicendo, non è mia intenzione discostarmi dal senso e dalla dottrina della santa madre la Chiesa cattolica, poiché, in tal caso, mi sottometto e mi rimetto interamente non solo al suo comando, ma anche a chiunque ne giudicasse con migliori ragioni [delle mie].

3. Il motivo che mi ha mosso non è la possibilità che vedo in me per cosa tanto ardua, bensì la fiducia che ho nel Signor che mi aiuti a dire qualcosa, per la grande necessità che ne hanno molte anime. Esse infatti, iniziando il cammino della virtù, e volendo nostro Signore porle in questa notte oscura affinché attraverso di essa passino alla divina unione, non progrediscono; a volte non volendo entrare in essa o non lasciandovisi condurre; a volte perché non comprendono se stesse e perché mancano loro guide idonee ed esperte che le guidino fino alla cima. Così è penoso vedere molte anime alle quali Dio dà capacità e favori per progredire e che, se volessero farsi coraggio, giungerebbero a quest'alto stato, rimangono invece in un basso modo di rapporto con Dio, perché non vogliono o non sanno slegarsi da quegli inizi, o non si indirizzano né si insegna loro a sciogliersene. E ,infine, anche se nostro Signore le favorisca tanto da farle procedere senza questi o altri modi, vi giungeranno molto più tardi, con maggior travaglio e con minor merito, non essendosi sottomesse a Dio lasciandosi porre liberamente nel puro e sicuro cammino dell'unione.

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Poiché, sebbene sia vero che Dio le conduce - e può condurle senza esse -, tuttavia non si lasciano condurre; così progrediscono meno resistendo a chi le conduce, e non meritano tanto, perché non applicano la volontà e con ciò stesso soffrono di più. Poiché vi sono anime che, invece di affidarsi a Dio e aiutarsi, piuttosto l'impediscono con il loro indiscreto operare o riluttare, divenendo simili ai bambini che pestano i piedi e piangono quando le loro madri vogliono portarli sulle braccia, ostinandosi a camminare con le proprie gambe, e così non possono muoversi o, se procedono, lo fanno solo al passo di bambino.

4. Affinché, dunque, sia i principianti che i proficienti sappiano lasciarsi condurre da Dio, quando egli voglia farli progredire, con il suo aiuto daremo dottrina ed avvisi, affinché sappiano capire o, almeno, lasciarsi condurre da Dio.

Infatti alcuni padri spirituali, non avendo conoscenza né esperienza di queste vie, sono soliti più intralciare e danneggiare tali anime che non aiutarle nel cammino, divenendo simili ai costruttori di Babilonia, che, avendo da usare un materiale adatto, ne davano e usavano altri molto diversi, non conoscendo la lingua, cosicché non si costruiva nulla (Gn 11 ,7 -9 ) . È perciò cosa dura e penosa in tali situazioni che un'anima non si comprenda né trovi chi la comprenda; potrà infatti accadere che Dio giunga ad un'anima attraverso un altissimo cammino di oscura contemplazione e aridità e che ad essa paia di perdersi e che, stando così, piena di oscurità e travagli, angustie e tentazioni, incappi in chi le dica, come i consolatori di Giobbe (2,11-I3), che si tratta di melanconia, o sconforto, o carattere, o che potrà trattarsi di qualche sua occulta malizia, per la quale Dio l’ha abbandonata; e così sono soliti giudicare che quell'anima dev’essere stata molto cattiva se le accadono tali cose.

5. E vi sarà anche chi le dirà che sta tornando indietro, in quanto non trova come prima gusto né consolazione nelle cose di Dio. E così costoro raddoppiano il travaglio della anima; accadrà infatti che la pena maggiore che essa prova sia quella della conoscenza delle proprie miserie, sembrandole di veder chiaro più della luce del giorno di star piena di mali e di peccati, poiché Dio le dà quella luce di conoscenza in quella notte di contemplazione, come poi diremo; e quando incontri qualcuno conforme al suo parere, che le dica che ciò che le accade è per sua colpa, la pena e l'angustia di quest'anima crescono senza limite fino a giungere per lo più ad uno stato peggiore della morte. E non contenti di ciò, siccome questi confessori ritengono che questo stato sia conseguenza di peccati, inducono queste anime a rivangare le loro vite ed a far molte confessioni generali ed a crocifiggerle di nuovo; non intendendo che forse quello non è tempo né di questo né di altro, ma solo di lasciarle nella purificazione nella quale Dio le tiene, consolandole ed incoraggiandole a volere ciò finché Dio lo voglia; poiché fino ad allora, per quanto esse facciano o dicano, non c'è nessun rimedio.

6. Di ciò, con il favore divino, dovremo trattare in seguito, e diremo come l'anima deve comportarsi, e come il confessore debba trattarla; e da quali indizi potrà riconoscere se quella è la purificazione dell'anima e, qualora lo sia, se si tratta della purificazione del senso o dello spirito, il che è la notte oscura di cui parliamo, e come si potrà riconoscere se si tratta di melanconia o d'altra imperfezione riguardante il senso o lo spirito. Perché potranno trovarsi alcune anime che pensano (loro o i loro confessori) che Dio le conduca per questo cammino della notte oscura della purificazione spirituale mentre non è così, ma si tratterà forse di qualcuna delle accennate imperfezioni; e vi sono pure molte anime che pensano di non avere orazione mentre ne hanno molta, ed altre che pensano di avere molta orazione mentre ne hanno poco più che niente.

7. Ve ne sono poi altre che lavorano e faticano così tanto da far compassione, e non fanno altro che tornare indietro perché fanno consistere il frutto del progredire in ciò che non fa progredire, bensì ostacola, mentre invece altre, con riposo e quiete, vanno progredendo molto.

Altre ancora, con i medesimi doni e grazie che Dio dà loro affinché progrediscano, s'impacciano ed ostacolano e non vanno avanti. E molte altre cose accadono in questo cammino a coloro che lo seguono, e godimenti e pene e speranze e dolori; di queste cose alcune procedono dallo spirito di perfezione, altre da quello di imperfezione.

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Di tutto questo, con il favore divino cercheremo di dire qualcosa, affinché ciascun’anima che legga possa, in qualche modo vedere per quale strada sta camminando e quella che le conviene seguire se intende giungere alla cima di questo Monte.

8. E siccome questa dottrina tratta della notte oscura attraverso la quale l'anima deve andare a Dio, il lettore non si meravigli se le parrà un poco oscura. Questo penso gli accadrà all'inizio della lettura; ma, andando avanti, verrà capendo meglio ciò che ha letto prima, poiché con un punto si viene chiarendo l'altro. E se poi leggerà una seconda volta, comprendendo il tutto gli apparirà più chiaro e la dottrina migliore. E se alcune persone non si troveranno bene con questa dottrina, dipenderà dal mio poco sapere e dal mio stile scadente, poiché la materia di per sé è buona e molto necessaria. Mi sembra però che, quand’anche scrivessi più compiutamente e perfettamente di ciò di cui tratto, non ne trarrebbero vantaggio se non pochi, perché qui non si scriveranno cose gustose e gradite per quegli spirituali che si dilettano d'andare a Dio attraverso cose dolci e saporose, bensì una dottrina sostanziale e solida, buona per chiunque voglia giungere alla nudità di spirito di cui qui si scrive.

9. Del resto il mio intento principale non è di parlare a tutti, ma ad alcune persone del nostro santo Ordine che seguono la regola primitiva del Monte Carmelo, sia frati che monache, i quali me l'hanno chiesto ed ai quali Dio faccia il dono di porli sul sentiero di questo Monte; costoro, essendo già ben spogli delle cose temporali di questo mondo, intenderanno meglio la dottrina della nudità di spirito.

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1S Capitolo 1

PRIMA STROFA - DUE DIFFERENTI NOTTI PER LE QUALI PASSANO GLI SPIRITUALI SECONDO LE DUE PARTI DELL’UOMO: INFERIORE E SUPERIORE - SPIEGAZIONE DELLA STROFA

STROFA 1

In una notte oscura,Con ansie, d'amor tutta infiammata,O felice ventura!Uscii né fui notata,Stando già la mia casa addormentata.

1 - In questa prima strofa, l 'anima canta l'avventurata e felice sorte che ebbe di uscire libera da tutte le cose, dagli appetiti e dalle imperfezioni che sono nella parte sensitiva dell'uomo, per il disordinato contrasto che questa ha con la ragione. Per bene intendere ciò, conviene sapere che, per giungere allo stato di perfezione, ordinariamente l'anima deve prima passare per due sorta di notti, che gli spirituali chiamano purgazioni o purificazioni dell'anima: noi qui le chiamiamo notti, perché l'anima, sì nell'una che nell'altra, cammina come di notte, nelle tenebre.

2 - La prima notte o purificazione è quella della parte sensitiva dell'anima: ad essa allude la presente strofa, e di essa si parlerà nella prima parte di questo libro. La seconda notte è della parte spirituale dell’anima , e di essa parla la strofa seguente: ne tratteremo nella seconda e terza parte sotto l'aspetto attivo; ché in quanto a quello passivo ce ne occuperemo nella quarta parte.

3 - La prima notte appartiene ai principianti, nel tempo che Iddio comincia a porli nello stato di contemplazione: di essa è partecipe anche lo spirito, secondo quello che a suo luogo diremo. La seconda notte o purificazione appartiene ai già provetti, allorché Dio vuol cominciare a porli nello stato di unione con Lui: questa, come vedremo in seguito, è una purgazione più oscura e terribile.

Dichiarazione della strofa

4 - L'anima, dunque, in questa strofa vuol dire che uscì, traendola Dio, solo per amor di Lui, infiammata del suo amore, in una notte oscura, che è la privazione e purgazione da tutti i suoi appetiti sensitivi circa le cose esteriori del mondo e quelle che erano dilettevoli alla sua carne, ed anche dai gusti della sua volontà. In ciò consiste la purgazione del senso; e perciò dice che uscì mentre la sua casa, la parte sensitiva, era già addormentata, cioè essendo tranquilli, ed assopiti in lei tutti i suoi appetiti ed ella addormentata rispetto a loro. Poiché non si esce dalle pene, strettoie e soffocamento degli appetiti finché non siano assopiti e mortificati; e per questo appunto l'anima chiama felice sorte uscire senza esser notata, furtivamente, cioè senza che alcun appetito della carne né di altra cosa glielo potesse impedire. Inoltre uscì di notte, e cioè privandola Dio di tutti essi [appetiti], la qual cosa, l'essere priva del gusto di ogni cosa era per lei veramente notte.

5 - Fu felice sorte essere collocata da Dio in questa notte, donde le provenne un sì gran bene, e nella quale non sarebbe riuscita ad entrare, perché nessuno da sé solo è capace di liberarsi da tutti gli appetiti per andare a Dio.

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6 - Questa, in sostanza, è la dichiarazione della strofa. Ora passiamo a svilupparla, commentando ciascun verso e spiegando ciò che fa al nostro proposito. Per le altre strofe seguirò lo stesso metodo, ponendo cioè, come dissi nel proemio, prima ciascuna strofa con la relativa dichiarazione, e facendo poi altrettanto per i singoli versi.

1S Capitolo 2

Si dichiara qual notte oscura sia questa, per la quale l'anima dice di essere passata [per arrivare] alla divina unione - si assegnano le ragioni per cui si chiama notte un tale passaggio

In una notte oscura

1 - Il passaggio che fa l’anima per giungere alla divina unione, possiamo chiamarlo notte per tre ragioni.

La prima, da parte del termine donde l’anima si muove, poiché deve andare priva del gusto di tutte le cose mandane che possedeva, rinunziando ad esse: questa rinunzia e privazione è come una notte per gli appetiti e i sensi dell’uomo.

La seconda, da parte del mezzo o della via che l’anima deve percorrere, ossia la via della fede, la quale è anch’essa oscura al par della notte, alla nostra intelligenza.

La terza, da parte del termine di arrivo, che è Dio, il quale essendo incomprensibile e infinitamente superiore ad ogni umano intendimento, [D io ] può dirsi oscura notte per l'anima nella presente vita. Queste tre notti devono passare per l 'anima, o, per meglio dire, l'anima deve passare per esse per giungere alla divina unione con Dio.

2 - Abbiamo una figura di queste tre notti nel libro di Tobia, dove leggiamo che l’Angelo comandò al giovane Tobia che lasciasse passare tre notti prima di unirsi alla sua sposa.Nella prima notte gli comandò di bruciare nel fuoco il cuore del pesce, simbolo del cuore affezionato e attaccato ai beni mondani il quale, per intraprendere il cammino che lo conduce a Dio, si deve bruciare e purificare da tutto ciò che è creatura, mediante il fuoco dell’amor divino. In questa purificazione si scaccia il demonio, che ha potere sull'anima per l'affetto che ella porta ai gusti delle cose di quaggiù.

3 - L’Angelo disse [inoltre a Tobia che] nella seconda notte sarebbe stato ammesso alla compagnia dei santi Patriarchi, che sono i Padri della fede. Poiché, dopo essere passato per la prima notte, che è privarsi di tutti gli oggetti del senso, l 'anima entra subito nella seconda notte, restandosene sola nella fede, in quella fede che è cosa che non cade sotto i sensi. (Non che escluda la carità, ma le altre conoscenze dell’intelletto - come diremo più avanti).

4 - Nella terza notte l 'Angelo promise a Tobia che avrebbe conseguito la benedizione, cioè Dio stesso, il quale, mediante la seconda notte che è la fede, va comunicandosi all'anima in modo tanto segreto e intimo, che per l’anima, mentre si fa facendo detta comunicazione che è molto più oscura delle altre, è un’altra notte, come diremo adesso. E passata questa terza notte, ossia finita tal sorta di comunicazione di Dio nello spirito, il che avviene ordinariamente in mezzo a fitte tenebre dell’anima, subito segue l'unione con la sposa, che è la Sapienza di Dio: come appunto disse l'Angelo a Tobia che, passata la terza notte, si sarebbe unito con la sua sposa nel [santo] timore del Signore, il quale timore di Dio, quando è perfetto, va congiunto anche al perfetto amore divino 2 che consiste nella trasformazione per amore dell'anima in Dio.

2 Cf Cantico Spirituale, Strofa 26, n. 3: « Possiamo dire che questi gradi di amore o celle sono sette , e che l 'anima li possiede tut ti al lorché perfettamente possiede i sette doni dello Spiri to Santo, secondo la sua capacità di riceverli . Perciò, quando l 'anima giunge ad avere con perfezione lo spirito di t imore, ha conseguito già il perfetto spir ito d'amore; in quanto che quel timore che è l 'ultimo dei sette doni, è un timore fi liale, e il t imore perfet to di f iglio nasce dall 'amore perfetto verso i l padre. Ond'è che, quando la divina Scrittura vuole chiamare qualcuno perfetto in carità, lo chiama t imorato di Dio».

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5 - Queste tre parti della notte, in realtà sono un’unica notte che, come la notte, si compone di tre fasi. Poiché la prima, che è quella del senso, si paragona alla prima [fase della] notte, di quando si cessa di vedere i contorni delle cose. La seconda, che è la fede, si paragona alla notte fonda [mezzanotte] che è totalmente oscura. E la terza, che è Dio, è come [la fase della notte che volge] alla fine ed è vicinissima alla luce del giorno. E per meglio intenderlo, tratteremo di ciascuna di queste cause [notti] separatamente [“de por sì”].

1S Capitolo 3[Perché si chiama notte?]

Parla della prima causa di questa notte, che è la privazione dell’appetito in tutte le cose, e dice il motivo per cui si chiama notte.

1. Chiamiamo qui notte la privazione del gusto nell’appetito di tutte le cose, perché come la notte non è altro che privazione della luce e, per conseguenza, di tutti gli oggetti che mediante la luce si possono veder, onde la potenza visiva rimane allo scuro e senza nulla, così anche la mortificazione dell’appetito si può dire notte per l'anima, poiché privandosi essa del gusto dell'appetito in tutte le cose, rimane come allo scuro e senza nulla. Infatti, come la potenza visiva per mezzo della luce si ciba e si pasce degli oggetti che si possono vedere e che spenta la luce più non si vedono, così l'anima mediante l'appetito si nutre e pasce di tutte le cose che secondo le sue potenze si possono gustare; e quando l’appetito sia spento o, per meglio dire, mortificato, l'anima cessa di pascersi nel gusto di tutte le cose e così, quanto all’appetito, rimane allo scura e senza nulla.

2 - Portiamo un esempio per le singole potenze dell'anima. Se questa si priva del suo appetito nel gusto di tutto ciò che può dilettare il senso dell'udito, secondo questa potenza l’anima resta al buio e senza nulla, Se rinunzia al gusto di tutto ciò che aggrada alla vista, anche secondo questa potenza rimane l’anima all'oscuro e senza nulla. Allorché rimuove sé il piacere prodotto dalla soavità degli odori che col senso dell'olfatto può gustare, certo è che anche secondo questa potenza rimane allo scuro e senza nulla. Così pure quando nega a se stessa il gusto di tutti i cibi che possono soddisfare il palato, anche allora secondo questa potenza resta allo scuro e senza nulla. Finalmente, se l 'anima si mortifica in tutti i diletti e soddisfazioni che può ricevere dal senso del tatto, allo stesso modo resta secondo questa potenza allo scuro e senza nulla. Per conseguenza, qualora un'anima abbia rinunziato e allontanato da sé il gusto di tutte le cose, mortificando in esse il suo appetito, ben possiamo dire che si trova in una notte di dense tenebre, il che non è altro che un vuoto in lei di tutte le cose.

3 - La causa di questo vuoto è perché, come dicono i filosofi, l'anima quando viene infusa da Dio nel corpo è come una tavola rasa e liscia in cui non v'è dipinto niente. Quello che poi l'anima va conoscendo, non lo apprende se non, per mezzo dei sensi: da nessun’altra parte, per via naturale, le viene comunicata alcuna cosa. Pertanto, finché sta nel corpo, è simile ad una persona rinchiusa in tetro carcere, la quale nulla sa all'infuori di quel poco che riesce a vedere per la piccola finestra del carcere: tolto questo mezzo, il carcerato nulla vede. Similmente, se l 'anima non conoscesse le cose esteriori per mezzo dei sensi, che sono le finestre del suo carcere, per altre vie niente potrebbe sapere naturalmente.

4 - Ond’è che se disprezza e rifiuta ciò che può ricevere per mezzo dei sensi, ne segue che ella rimane nell’oscurità e nel vuoto; poiché, ripeto, in lei non può entrare la luce da altre finestre che dai sensi. È ben vero che non possiamo fare a meno di vedere, udire, sentire, toccare e gustare; tuttavia, se l 'anima disprezza queste sensazioni, non ne resta affatto, imbarazzata, come se proprio non vedesse, udisse, ecc.: si può paragonare a colui che, pur avendo ottima vista, se chiude gli occhi, nulla vede, simile al cieco che non vede per mancanza di facoltà visiva. Credo che a questo proposito parlasse Davide, quando disse: «Pauper sum ego et in laboribus a juventute mea»: 3 Sono povero e tra le fatiche sin dalla

3 Sal 87,16.

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mia giovinezza. Mentre, senza dubbio, era ricco, pure si chiama, povero, perché non portava affetto alle ricchezze, e quindi, con tutta, verità, poteva reputarsi povero; che se all'opposto fosse stato povero realmente, ma non in quanto alla volontà, non sarebbe stato veramente povero, essendo l'anima ricca e piena nell'appetito. Soltanto questa nudità e povertà di spirito noi chiamiamo notte per l’anima, giacché qui non intendiamo parlare della semplice privazione delle cose, che non spoglia affatto l'anima se questa conserva l'appetito verso di esse; 4 ma parliamo della nudità dell'appetito e gusto delle cose, la quale rende l'anima libera e vuota, quantunque le possieda. Non le cose di questo mondo occupano o danneggiano l'anima, poiché ella non entra in loro, bensì [la danneggiano] il desiderio e l'appetito di esse, i quali dimorano in lei. 5

5 - Questa prima specie di notte, come poi diremo, appartiene all'anima secondo la parte sensitiva, ed è una delle due notti che, come abbiamo detto, l 'anima deve attraversare.

6 - Ora passiamo a vedere quanto convenga all'anima uscire dalla propria casa nella notte oscura del senso, per conseguire l'unione con Dio.

1S CAPITOLO 4

Si dimostra quanto sia necessario all'anima passare davvero per la notte oscura del senso, ossia perla della mortificazione dell'appetito, a fine di giungere all’unione con Dio - Si prova con paragoni e con figure tolte dalla sacra scrittura

1 - Per arrivare alla divina unione di Dio è necessario all'anima passare per la notte oscura di mortificazione degli appetiti e di privazione dei gusti in tutte le cose perché tutti gli affetti che nutre verso le creature sono davanti a Dio pure tenebre: avvolta in queste, l 'anima non è capace di essere illuminata e posseduta dalla semplice e pura luce di Dio, se prima non le scaccia da sé, perché la luce non può andare unita alle tenebre, secondo il detto dell'Apostolo S. Giovanni: «Tenebrae eam non comprehenderunt». 6 Le tenebre non poterono ricevere la luce.

2 - La ragione è evidente: due cose contrarie, come ci insegna la filosofia, non possono coesistere in un medesimo soggetto; e quindi le tenebre, ossia gli affetti alle creature, e la luce che è Dio, essendo contrarie non possono in alcun modo conciliarsi fra loro. Onde ben giustamente S. Paolo, scrivendo ai Corinzi, dice: «Quae societas lucis ad tenebras?» (2C or 6 , 14 ): Qual convenienza può darsi tra la luce e le tenebre? L'anima dunque non può accogliere la luce della divina unione se prima non scaccia da sé gli affetti verso le creature.

3 - A meglio comprovare il già detto, è da osservarsi che per l'affetto e attacco alle creature l'anima si mette alla pari con loro, e quanto maggiore è l 'affetto, tanto più ad esse si conforma e rende simile, perché l'amore produce somiglianza tra l'amante e l’oggetto amato. E perciò Davide, parlando di quei che riponevano il loro affetto negli idoli, disse: «Similes illis fiant qui faciunt ea et omnes qui confidunt in eis» (Sa l 113 ,8 ): Siano simili agli idoli coloro che li fanno e portano amore ad essi. Colui che ama una creatura, scende al basso livello di essa, e, in qualche modo, più in basso ancora; perché l'amore uguaglia non solo, ma anche assoggetta l’amante a ciò che ama: perciò l'anima che ama qualche cosa, si rende incapace della pura unione con Dio e della propria trasformazione in Lui. La bassezza della creatura è incapace dell'altezza del Creatore, molto più di quello che le tenebre non lo siano della luce. Invero tutte le cose della terra e del Cielo, paragonate a Dio, sono niente, secondo il detto di Geremia: «Aspexi terram, et ecce vacua erat, et nihil; et caelos, et non erat lux in eis» (Ge r 4 ,23 ): Guardai la terra e la trovai vuota, e un nulla; contemplai i cieli e non vi scorsi alcuna luce. Dicendo di aver veduto la terra vuota, vuol fare intendere che tutte le creature di essa erano un niente, e la terra stessa un niente; dicendo poi che mirò i cieli e non vi scorse alcuna luce, è come se dicesse che tutte le luci

4 Cf 3S 18,1.5 Cf Mc 7,18-19.6 Gv 1,5.

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del cielo, paragonate a Dio, sono pure tenebre. Se, dunque, tutte le creature sotto questo aspetto [d i pa rago ne con Di o] sono un niente, possiamo affermare che l'affetto verso di esse è meno che niente, perché impedisce e priva della trasformazione in Dio, come appunto le tenebre sono nulla e meno di nulla, perché sono la privazione della luce. E come quegli che è nelle tenebre non può aver idea della luce, così l 'anima che porta amore alle creature non potrà intendere Dio: e fino a che non si purghi di tale affetto, non potrà possedere Dio, né quaggiù per pura trasformazione d'amore, né in cielo per chiara visione. Per maggior chiarezza parleremo più in particolare.

4 - Tutti gli esseri creati, a paragone dell'infinito essere di Dio, sono niente: e perciò anche l'anima che in essi ripone il suo affetto, è niente davanti a Dio, anzi è meno di niente: perché, come dissi, l'amore non solo produce parità e somiglianza, ma anche pone l'amante più in basso della cosa amata. Per conseguenza, quest'anima non potrà mai in alcun modo unirsi con l'essere infinito di Dio, perché ciò che non è, non può convenire con quello che è. E per scendere a qualche esempio, ogni bellezza delle creature, paragonata all 'infinita bellezza di Dio, è somma deformità, come dice Salomone nei Proverbi: «Fallax gratia, et vana est pulchritudo» (P r 31 ,3 0 ): Ingannevole è la grazia e vana la bellezza. L'anima, quindi, affezionato alla bellezza di qualsiasi creatura, è sommamente brutta davanti a Dio; e perciò ella non potrà trasformarsi nella bellezza che è Dio, poiché la bruttezza non può andar congiunta alla bellezza. Ogni grazia e gentilezza delle creature, in confronto della divina, è somma rozzezza; e quindi l’anima allettata dalle grazie e pregi delle creature è sommamente sgraziata innanzi a Dio, e incapace dell'infinita grazia di Lui, perché ciò che è sgraziato dista al sommo da ciò che è infinitamente grazioso. Tutta la bontà delle creature del mondo, messa a confronto dell'infinita bontà di Dio, si può chiamare malizia, poiché, niente è buono se non Dio Solo (L c 18 ,19 ) . Pertanto, l 'anima che pone il suo cuore nei beni della terra è assai colpevole dinanzi a Dio; e come la malizia non accoglie la bontà, così tale anima non potrà unirsi a Dio, che è somma bontà. Ogni umana abilità, tutta la sapienza del mondo, paragonata con la sapienza di Dio, è pura e somma ignoranza, secondo che dice San Paolo ai Corinzi: «Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum» ( 1C or 3 , 19 ): La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio.

5 - Un'anima, adunque, che facesse conto di tutto il suo sapere e della sua abilità per unirsi con la sapienza di Dio, sarebbe immensamente ignorante dinanzi a Lui, e rimarrebbe ben lungi dalla sapienza divina; perché l'ignoranza non sa che cosa sia la sapienza, dicendo S. Paolo che questa sapienza sembra a Dio stoltezza. Davanti a Dio, quei che si ritengono per sapienti sono assai ignoranti, come dice lo stesso Apostolo: «Dicentes enim se esse sapientes, stulti facti sunt» (R m 1 , 22 ): Stimandosi sapienti, divennero stolti. Vanno acquistando la sapienza di Dio soltanto coloro che quasi bambini ignoranti, deponendo il proprio sapere avanzano con amore nel di Lui servizio. Questa è la sapienza cui S. Paolo allude ove dice: «Si quis videtur inter vos sapiens esse in hoc saeculo, stultus fiat ut sit sapiens. Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum» (1C or 3 , 18 -19): Se alcuno tra di voi crede di essere sapiente, si faccia stolto per divenire sapiente; poiché 1a sapienza di questo mondo è follia al cospetto di Dio. L'anima quindi, per giungere all'unione con la sapienza di Dio, deve camminare piuttosto non sapendo che sapendo. Ogni signoria e libertà del mondo, a confronto della signoria e libertà dello spirito di Dio, è grande soggezione, strettezza e schiavitù.

6 - E perciò l'anima che aspira alle cariche, alle preminenze e alla libertà dei suoi appetiti viene riguardata e trattata da Dio non come figlio libero, ma come vile schiavo; perché non ha abbracciato la di Lui santa dottrina, la quale insegna che chi brama di essere maggiore, si renda minore, e chi vorrà esser minore, sarà il maggiore. Un’anima schiava dei suoi appetiti non potrà mai pervenire a quella vera libertà di spirito che si acquista nell'unione divina: la schiavitù non può affatto aver parte con la libertà, la quale non può albergare in un cuore soggetto ai propri desideri, in un cuore schiavo, ma soltanto in un cuore libero, in un cuore di figlio. Questa è la ragione per cui Sara, scongiurando Abramo suo marito di scacciare da casa la schiava e suo figlio, disse che non doveva il figlio della schiava essere erede insieme al figlio della libera (Gn 21 ,10 ) .

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7 - Tutti i diletti e gusti della volontà nelle cose create, paragonati all 'insieme di tutti i diletti, cioè a Dio, non sono altro che profonda amarezza, pena e tormento: chi nei primi ripone il suo affetto è da Dio giudicato degno di somma pena, tormento e amarezza, e perciò non potrà giungere ai diletti dell'abbraccio dell'unione divina, essendo egli degno di pena e di amarezza. Le ricchezze e la gloria di tutto il mondo, in confronto della vera ricchezza che è Dio, sono, estrema povertà e miseria: l 'anima che ama e possiede il mondo è sommamente povera e miserabile davanti a Dio, e perciò non potrà arrivare alla ricchezza e alla gloria, cioè allo stato della trasformazione in Lui: ciò che è, sommamente misero e povero, dista oltre ogni dire da ciò che è sommamente ricco e glorioso.

8 - Pertanto, la divina sapienza, dolendosi di questi tali che si rendono deformi, vili e miseri a cagione dell'amore verso ciò che, secondo essi, è bello e ricco nel mondo, indirizza loro nei Proverbi queste parole: «O viri, ad vos clamito, et vox mea ad filios hominum. Intelligite, parvuli, astutiam, et, insipientes, animadvertite. Audite quoniam de rebus magnis locutura sum ... Mecum sunt divitiae, et gloria, opes superbae et iustitia. Melior est enim fructus eius auro, et lapide pregtioso et genimina mea argento electo. In viis iustitiae ambulo, in medio semitarum judicii, ut ditem diligentes me, et thesauros eorum repleam» (P r 8 ,4 - 6 .18 -2 1) : A voi grido, uomini, e la mia parola rivolgo ai figlioli degli uomini. Intendete, o fanciulli , la prudenza e la sagacità; e voi, ignoranti, prestate attenzione. Ascoltatemi, poiché di grandi cose io debbo parlarvi. Sono con me le ricchezze e la gloria, i grandi beni e la giustizi. Il frutto che in me troverete, è migliore dell'oro e delle pietre preziose: le mie generazioni, ossia ciò che da me sarà generato nelle vostre anime, è migliore dell'argento più puro. Cammino per le vie della giustizia, in mezzo ai sentieri del giudizio, per arricchire quei che mi amano, e riempire i loro tesori. Con queste parole la. Divina Sapienza volge il discorso a coloro che ripongono gli affetti del cuore in qualsivoglia cosa del mondo. Li chiama fanciulli, perché si fanno piccoli come le cose che amano; e perciò li esorta a essere prudenti ed accorti, e a ben considerare che ella tratta di cose grandi e sublimi, non di piccole come essi fanno. Dice ancora che le ricchezze e la gloria che amano, sono con lei ed in lei, e non dove essi pensano; che in lei sola risiede l'abbondanza dei beni e la giustizia, poiché, per quanto le cose di questo mondo loro sembrino ricche e preziose, pure le sue sono di gran lunga migliori. Il frutto che in lei troveranno sarà migliore dell'oro più puro e delle pietre preziose; quello che essa genera nelle anime sarà migliore dell'argento che amano: nel che s'intende ogni sorta affetti che possono aversi in questa vita.

1S CAPITOLO 5

Prosegue lo stesso argomento e si dimostra con figure e testi della sacra scrittura quanto sia necessario all’anima di andare a Dio per questa notte oscura della mortificazione

degli appetiti

1 - Dal fin qui detto, già si può giudicare in qualche modo quale distanza corre tra ciò che sono le creature in se stesse e ciò che è Dio; e come ad uguale distanza sono lontane da Dio le persone che nelle creature ripongono il loro affetto, poiché l'amore produce parità e somiglianza. S. Agostino nei suoi Soliloqui, vedendo bene questa distanza, sfoga il suo cuore con Dio in questi termini: Povero me! quando potrà la mia miseria e imperfezione convenire con la tua rettitudine? Tu sei buono veramente, e io cattivo; tu pio, io empio; tu santo, io peccatore; tu giusto, io ingiusto; tu luce, io cieco; tu sei la vita, io la morte; tu la medicina, io l 'infermo; tu somma verità, io tutto vanità. 7 Fin qui il Santo.

2 - Massima è l'ignoranza di un'anima che pensa di poter pervenire all’alto stato di unione con Dio, senza prima esser vuota dell'appetito di tutte le cose naturali ed anche soprannaturali che le possono essere d'impedimento, secondo che in seguito spiegheremo; perché è immensa la distanza che passa tra queste cose e l'inestimabile dono che si riceve nello stato di unione, dono che consiste nella pura trasformazione in Dio. Quindi è che N. S. Gesù Cristo, per insegnarci il cammino, nel Vangelo di S. Luca ci dice: « Qui non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus» (L c 14 ,33 ): Colui che

7 Pseudo-Agostino, Soliloquium, c. II, ML 40, 866.

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non rinunzia a tutto ciò che possiede con la volontà , non può essere mio discepolo. E ciò è chiaro, poiché la dottrina che il Figlio di Dio venne ad insegnarci fu il disprezzo di tutte le cose, per poter accogliere in noi il dono dello spirito di Dio: fintantoché l'anima non si distacca dai beni di quaggiù, è assolutamente incapace di ricevere lo spirito di Dio in pura trasformazione.

3 - Una figura di ciò che andiamo dicendo possiamo incontrarla nel libro dell' Esodo, dove si legge che Dio non, diede il cibo del Cielo, cioè la manna, ai figlioli d'Israele, fino a che loro bastò la farina che si erano portata dall'Egitto. Con questo ci fa intendere che bisogna prima rinunziare a tutte le cose, poiché il pane degli Angeli non conviene al palato che vuol gustare il sapore di quello degli uomini. L'anima che si intrattiene in gusti e diletti estranei a Dio, non solamente si rende incapace dello spirito divino, ma anche muove a sdegno la Divina Maestà, perché mentre pretende il nutrimento dello spirito, non si appaga di Dio solo, ma cerca frammischiarvi l 'appetito e l 'affetto di altre cose. Anche questo sconveniente modo di comportarsi con Dio è riferito nella Sacra Scrittura, dove si dice che Israeliti, non contenti della manna, cibo sì semplice, bramarono e domandarono cibi di carne (Nm 11 ,4 ): volevano mescolare un cibo ordinario e grossolano con un alimento semplice e prelibato che aveva in sé la sostanza e il sapore di tutti i cibi. Il Signore ne fu grandemente sdegnato, e perciò mentre quelli avevano ancora il boccone tra i denti, l 'ira di Dio, come dice Davide, discese sopra di loro, cioè piovve il fuoco dal Cielo e ne divorò parecchie migliaia: «Ira Dei descendit super eos» (Sa l 77 ,31 ) . Il Signore stimò, cosa indegna che quelli appetissero altri cibi, mentre Egli ne andava loro somministrando uno celeste.

4 - Oh, se le persone spirituali capissero quanto bene e quanta abbondanza di spirito perdono, perché non sanno risolversi a togliere l'appetito dalle puerilità, e quanto facilmente troverebbero il gusto di tutte le cose nel semplice alimento dello spirito, solo che ad esse volessero rinunziare! Ma perché ciò non fanno, restano prive di tanto bene. La causa, infatti, per cui gli Israeliti non percepivano più nella manna il sapore di tutti i cibi, era perché non raccoglievano il desiderio unicamente in essa; e quindi cessavano di ritrovarvi tutto il sapore e la sostanza che bramavano, non perché la manna ne difettasse ma perché cercavano ben altro. Colui che vuole amare altra cosa insieme con Dio, senza dubbio fa poco conto di Dio, perché mette in una stessa bilancia Dio e quello che dista infinitamente da Dio.

5 - Sappiamo bene per esperienza che quando la volontà si affeziona con ardore ad una cosa, l'ha in maggior pregio di qualsiasi altra che, quantunque molto migliore della prima, non le sia altrettanto gradita. Se poi vuol gustare e dell'una e dell'altra, ciò non avverrà se non a scapito della principale, per l 'ingiusta eguaglianza che si stabilisce fra loro. Perciò, non potendo esservi cosa al mondo che possa uguagliare Dio, l 'anima che ama altra cosa insieme con Lui, o aderisce ad essa con l'affetto, gli fa torto non lieve. E se così è, che sarebbe poi se amasse la cosa più che il suo Dio?

6 - Quanto sia vero l'anzidetto, ce lo volle Dio stesso dare a conoscere, quando comandò a Mosè di salire sul Sinai, e gl'ingiunse non soltanto che salisse lui solo, lasciando i figli d'Israele nella pianura, ma altresì che neppure le bestie pascolassero, in vista del monte ( Es

34 , 3 ). Ciò significa che L’anima la quale desidera di ascendere il monte della perfezione per comunicare con Dio, non solamente deve rinunziare a tutte le cose e lasciarle in basso, ma anche non deve permettere alle bestie, ossia agli appetiti, di pascersi in vista del monte, cioè in altre cose che non sono puramente Dio, nel quale ogni appetito si sazia e quieta: il che avviene nello stato di perfezione. È necessario, quindi, che il cammino e la salita verso Dio sia un assiduo studio di rintuzzare e mortificare gli appetiti; e tanto più presto l'anima toccherà la meta, quanto più in detto studio sarà sollecita e premurosa. Ma finché gli appetiti non saranno cessati, l'anima non arriverà al termine, per quante virtù eserciti, perché le manca di acquistarle in perfezione, la quale consiste nel tenere l’anima vuota, nuda, purificata da ogni appetito. Di ciò abbiamo una figura molto espressiva nella Genesi, ove leggiamo che, volendo il patriarca Giacobbe salire sul monte Betel ad edificarvi tiri altare per, offrire un sacrificio al Signore, comandò a tutta la sua gente tre cose: la prima, che gettassero via da sé gli idoli degli dèi stranieri; la seconda, che si purificassero; la terza, che cambiassero le loro vestimenta (Gn 35 ,2 ) .

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7 - Queste tre cose ci fanno intendere che ogni anima che vuole ascendere a questo monte, per fare di se stessa un altare su cui possa offrire a Dio un sacrificio di puro amore, di lode ed ossequio, prima di guadagnare la cima deve già avere adempite. le tre surriferite condizioni. La prima, che rigetti da sé tutti gli dèi stranieri, cioè tutti gli affetti e desideri estranei a Dio; la seconda, che dalle tracce da essi lasciate in lei si purifichi mediante la notte oscura del senso di cui parliamo, rinnegandoli e pentendosi continuamente; la terza, che muti le vestimenta, il che avverrà compita che sia l'opera delle due prime condizioni. Allora il Signore stesso la vestirà a nuovo, ossia le infonderà un nuovo modo d'intendere e di amare Dio in Dio, facendola distaccare dal primiero modo, proprio dell’uomo vecchio. Per tal divino favore l’anima avrà alfine la volontà spoglia degli antichi gusti e desideri dell'uomo carnale e terreno, accoglierà in sé una nuova cognizione di Dio e sarà immersa in un oceano di diletti. Avendo ormai lasciate da parte tutte le altre notizie e antiche idee o immagini, e facendo cessare tutto ciò che è dell'uomo vecchio, ossia l 'abilità dell'essere naturale, l 'anima viene rivestita di nuova abilità soprannaturale, secondo tutte le sue potenze; di modo che il suo operare, da umano che era, sia trasformato in divino: il che si consegue nello stato d'unione, nel quale l'anima non ad altro è destinata che a servire di altare, dov'è Dio solo e dove soltanto Lui è adorato con lode ed amore. Ecco perché un tempo il Signore comandò che l'altare ove si offrivano i sacrifici fosse vuoto di dentro ( Es

27 , 8 ), affinché appunto l'anima intenda quanto Dio la desideri vuota di ogni cosa, perché sia degno altare, dove possa risiedere la Divina Maestà. Inoltre il Signore non permetteva che in quell'altare ardesse fuoco estraneo e profano, né venisse mai a mancarvi il proprio; tanto che, avendo Nadab e Abiud, figli del sommo sacerdote Aronne, offerto fuoco comune, il Signore, sdegnato, li incenerì dinanzi all'altare stesso (L v 10 , 1 -2 ). Da ciò possiamo intendere che l'anima deve sempre nutrire in sé il sacro fuoco dell'amor di Dio, per essere degno altare, senza mescolarvi altro amore estraneo.

8 - Il Signore non permette che alcun'altra cosa stia insieme con Lui in una stessa dimora. Si legge, infatti, nel primo libro dei Re, che avendo i Filistei collocata l’Arca del Testamento nel tempio del loro idolo, ogni mattina questo lo si vedeva rovesciato al suolo, e da ultimo lo si trovò ridotto in frantumi. Il solo affetto che il Signore consente e vuole nell'anima è quello in cui Egli si trova, cioè il desiderio di osservare perfettamente la divina legge e di portare sulle proprie spalle la croce di Cristo. E perciò la Sacra Scrittura dice che Iddio comandò di riporre nell'Arca, dove si conservava la manna, nient'altro che il libro della legge (D t 31 ,26 ) , e la verga di Mosè (Nm 17 ,1 ) , la quale è simbolo della croce. Se, dunque, un'anima osserva fedelmente la 1egge del Signore e abbraccia la croce di Cristo, sarà l'arca vera che conserva la vera manna che è Dio, purché abbia nel suo cuore questa legge e questa verga perfettamente, senza alcun'altra cosa.

1S CAPITOLO 6

Si dice che gli appetiti causano due gravissimi danni: l’uno privativo, l 'altro positivo.

1 - Per meglio approfondire ciò che si è detto, credo opportuno dichiarare come gli appetiti producono nell'anima due danni. L'uno che la privano dello spirito di Dio; l 'altro è che stancano, tormentano, oscurano, imbrattano e indeboliscono l'anima in cui vivono, secondo le parole di Geremia: «Duo enim mala fecit populus meus: me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas, cisternas dissipatas, quae contenere non valent aquas» (Ger 2 , 13 ): Due mali ha commesso il mio popolo: hanno abbandonato me che sono la fonte di acqua viva e si sono scavate cisterne guaste, incapaci di tenere acqua. Tutti e due questi mali vengono causati in un medesimo atto disordinato dell'appetito. E primieramente, parlando del male privativo, per il fatto stesso che l'anima si affeziona ad una cosa che cade sotto il nome di creatura, quanto più intenso è l 'appetito nell’anima, tanto meno ella è capace di Dio: amore di Dio e amore di creatura sono contrari, e due contrari, secondo i filosofi e come abbiamo detto nel capitolo quarto, non possono aver luogo in uno stesso soggetto. Affetto verso Dio e affetto verso la creatura sono contrari, e quindi non possono coesistere in una stessa volontà. Infatti che cosa a che vedere la creatura col Creatore, il sensibile con lo spirituale, il visibile con l’invisibile, il

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temporale con l’eterno, il cibo celeste semplice e spirituale col cibo del senso puramente sensibile, la nudità di Cristo con l’attaccamento a qualche cosa?

2 - Pertanto, come nell'ordine naturale non si può generare una nuova forma, senza che prima sia distrutta nel soggetto la precedente forma contraria, che è d’impedimento all’altra per l’opposizione che esiste fra di loro; così fintantoché l’anima è soggetta allo spirito sensibile, non può entrare in essa lo spirito puro e spirituale. E per questo il nostro Divin Salvatore dice in Matteo: «Non est bonum sumere panem filiorum, et mittere canibus» (M t 15 , 26 ): Non è conveniente prendere il pane dei figli e darlo ai cani. E in altro luogo: «Nolite dare sanctum canibus» (M t 7 ,6 ): Non vogliate dare ciò ch’è santo ai cani. in queste parole Nostro Signore chiama figli di Dio coloro che, rinunciando a tutti gli appetiti delle creature, si dispongono a riceve lo spirito di Dio; al contrario, paragona ai cani coloro che bramano saziare il loro appetito nelle creature. Ai figli è concesso di mangiar col padre loro ad una stessa mensa e del suo piatto, cioè satollandosi del suo spirito, ma ai cani tocca contentarsi delle briciole che cadono dalla mensa.

3 - Tutte le creature, sono, per così dire, briciole che caddero dalla mensa di Dio: perciò ben a ragione, sono chiamati cani quei che si pascono delle creature. Ad essi è negato il pane dei figli, perché non vogliono sollevarsi dalle briciole alla mensa dello spirito increato del Padre loro: e quindi giustamente, vanno dattorno sempre famelici come cani, perché le briciole, non che soddisfare la fame, servono piuttosto a risvegliare l’appetito. Parlando di questi tali, Davide così dice: «Famem patientur ut canes, et circuibunt civitatem. Si vero non fuerint saturati et murmurabunt » (S a l 58 ,15- 16): Essi patiranno fame come cani e gireranno per la città; se poi non si sentiranno sazi, mormoreranno. Poiché è proprio di colui che nutre appetiti l 'essere sempre scontento ed inquieto, come un affamato. Ed invero, come mai possono andare d'accordo la fame che mettono le creature, e la meravigliosa sazietà prodotta dallo spirito di Dio? Per la legge dei contrari già ricordata, non può entrare nell'anima la sazietà increata, se prima non ne venga discacciata la fame creata degli appetiti.

4 - Dalle cose dette si vedrà quanto fa di più Dio nel purificare l'anima da queste contrarietà, che non nel crearla dal nulla; poiché gli affetti e gli appetiti contrari gli oppongono più resistenza che il nulla: questo, infatti, non resiste alla Divina Maestà. E ciò basti circa il primo danno principale cagionato all'anima dagli appetiti, che è quello di resistere allo spirito di Dio, poiché ne abbiamo parlato più che a sufficienza.

5 - Ora passiamo a dire del secondo effetto [= privativo], il quale può essere di varie specie, in quanto che gli appetiti stancano l'anima, la tormentano, oscurano, imbrattano e indeboliscono. Di questi cinque effetti parleremo distintamente.

6 - E primieramente, gli appetiti stancano e affaticano l 'anima. Essi sono come quei figlioletti irrequieti e petulanti che stanno sempre intorno alla madre, domandando or questo or quello, e non si contentano mai. E come si affatica chi senza posa scava il terreno per cupidigia di un tesoro, così l 'anima invano si affatica per conseguire quel che desidera; quand'anche poi ottenga il suo scopo, sempre si stanca, perché non resta soddisfatta: alla fin fine quelle che scava sono cisterne guaste, che non valgono a contenere acqua, e perciò non potrà mai dissetarsi. Dice Isaia: «Lassus adhuc sitit, et anima eius vacua est» ( I s 29 ,8 ) , cioè il suo appetito è vuoto. L'anima che ha appetiti è come il febbricitante, a cui ad ogni tratto va crescendo la sete, finché la febbre non lo lasci: e ciò secondo quel che leggiamo nel libro di Giobbe: «Cum satiatus fuerit, arctabitur, aestuabit, et omnis dolor irruet super eum» (G b 2 0,2 2) . Il che vuol dire: Quando il suo appetito sarà soddisfatto, egli rimarrà più oppresso e gravato; crescerà sempre più in lui il calore dell'appetito, ed ogni dolore si riverserà sul suo capo. L'anima è oppressa e spossata dai suoi appetiti, perché ne resta ferita e, come l'acqua dai venti, commossa e turbata: in nessun luogo, in nessuna cosa le lasciano trovare pace e riposo. Di tali anime molto bene Isaia dice: «Cor impii autem quasi mare fervens» ( I s 57 ,20 ): Il cuore dell'iniquo e quasi mare in tempesta. Ed iniquo è, senza dubbio, colui che non vince i suoi appetiti. Chi desidera soddisfarli, si stanca ed affatica, poiché è simile a quegli che, avendo fame, aprisse la bocca per riempirsi di vento: invece di saziarsi ne avrebbe soltanto la bocca

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inaridita, ché non è quello il suo cibo. A questo proposito Geremia disse: «In desiderio animae suae attraxit ventum amoris sui» (Ger 2 , 24 ): Nell'appetito della sua volontà attrasse il vento del suo affetto. E per far intendere l'aridità in cui l 'anima resta, lo stesso Profeta subito soggiunge: «Prohibe pedem tuum a nuditate, et guttur tuum a siti» (Ger 2 , 25 ): Allontana il tuo piede, cioè il tuo pensiero, dalla nudità, e le tue fauci dalla sete, ossia distogli la tua volontà dal soddisfare l'appetito che cagiona aridità sempre maggiore. Come l’uomo innamorato resta abbattuto per la speranza perduta, allorché riuscirono a vuoto i suoi disegni: così l 'anima si estenua nella soddisfazione dei suoi appetiti, perché tutti le cagionano fame maggiore. L’appetito è come il fuoco, il quale a misura che gli si aggiungono legna cresce e divampa, e quando le ha consumate, di necessità si spegne.

7 - Ma, sotto questo aspetto, l 'appetito è peggiore del fuoco stesso, perché questo a mano a mano che le legna vengono a mancare, si estingue; laddove l’appetito non decresce in ciò che lo fece aumentare quando si pose in opera, benché venga a mancare la materia che lo alimentò: ma piuttosto, invece di decrescere come il fuoco al mancare della sua materia, l 'appetito rimane sfinito dalla fatica per la fame cresciuta e per il cibo diminuito. Di ciò parla Isaia, dicendo: «Declinabit ad dexteram, et esuriet; et comedet ad sinistram, et non saturabitur» ( I s 9 ,2 0 ): Si volgerà a destra e avrà fame; mangerà a sinistra, e non si satollerà. A coloro che non mortificano i loro appetiti accade che, quando si indirizzano nella via di Dio, cioè a destra, giustamente patiscono la fame, perché non meritano la sazietà del dolce spirito; e quando si volgono a sinistra, quando cioè soddisfano il loro appetito in una creatura, non si satollano, perché lasciando ciò che solo può saziare appieno, si pascono di quel che causa maggior fame. È manifesto, dunque, che gli appetiti stancano e affaticano l'anima.

1S CAPITOLO 7

Si prova con paragoni e con testi scritturali che gli appetiti tormentano l'anima

1 - Il secondo modo col quale l'anima riceve danno positivo dagli appetiti consiste nell'essere da loro tormentata e afflitta, a guisa di colui che soffre la pena di trovarsi stretto fortemente da funi, e che quindi non trova riposo finché non ne venga liberato. Di questi tali Davide dice: «Funes Peccatorum circumplexi sunt me» (Sa l 18 ,61 ): Le funi dei miei peccati, ossia dei miei appetiti, mi hanno stretto all' intorno. Inoltre, alla maniera stessa che sarebbe tormentato chi si coricasse nudo sopra spine o punte, così dicasi dell'anima che vuol adagiarsi sui suoi appetiti, i quali quasi altrettante spine la feriscono e lacerano lasciando dolore. E perciò altrove il Salmista dice: «Circumdederunt me sicut apes, et exarserunt sicut ignis in spinis» (Sa l 117 ,12): Mi hanno circondato come api, punzecchiandomi con i loro pungiglioni, e accendendosi contro di me come il fuoco nelle spine; certamente negli appetiti, che sono le spine, cresce il fuoco dell'angustia e del tormento. Di più, come l'agricoltore stimola il bue sotto l'aratro, per la cupida speranza di una messe copiosa, così la concupiscenza affligge l'anima sotto il giogo dell'appetito, per conseguire ciò che brama. Il che ben si può vedere nell'ardente desiderio che Dalila aveva di scoprire in che fosse riposta la forza straordinaria di Sansone. Dice la Scrittura che questo desiderio la affaticava e tormentava tanto che la fece venir meno, fin quasi a morirne: «Defecit anima eius, et ad mortem usque tassata est» (Gdc 16 , 16 ).

2 - L'appetito, tanto più è di tormento all'anima, quanto più è intenso, perché tanto è il tormento, quanto è l'appetito; onde tante più pene ella soffre, quanti più appetiti la tengono schiava. Si verifica nell'anima, anche in questa vita, ciò che di Babilonia è detto nell'Apocalisse: «Quantum glorificavit se, et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum» (A p 18 , 7 ): Quanto volle esaltarsi e soddisfare i suoi appetiti, altrettanto si abbia di pene ed affanni. E come è straziato chi cade in mano dei suoi nemici, così l'anima che si lascia trascinare e signoreggiare dai suoi appetiti. Di ciò possiamo vedere una figura nel libro dei Giudici, ove si legge che Sansone, il quale prima era dotato di forza sovrumana e, non che libero, era anzi giudice di Israele, caduto appena in potere dei nemici fu privato della sua forza, accecato, legato a macinare in un mulino, e quivi assai crudelmente tormentato. Lo stesso accade all'anima, quando in lei i nemici appetiti sono

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ancor vivi e la dominano. La prima cosa che essi fanno è infiacchirla e accecarla, come vedremo; di poi subito l'affliggono e tormentano, stringendola alla mola della concupiscenza, ed essi stessi sono le funi che la stringono.

3 - Per la qualcosa il Signore, avendo compassione di quelli che, con tanta loro fatica e a sì caro prezzo, cercano di soddisfare la fame e la sete dei loro desideri verso le creature, dice loro per mezzo di Isaia: «Omnes sitientes, venite ad aquas, et qui non habetis argentum, properate, emite, et comedite: venite, emite absque argento, et absque ulla commutatione vinum et lac. Quare appenditis argentum non in panibus, et laborem vestrum non in saturitate? Audite, audientes me, et comedite bonum, et delectabitur in crassitudine anima vestra» ( I s 55, 1- 2 ):O voi tutti che soffrite la sete degli appetiti, venite alla sorgente delle acque, e voi che avete l'argento della propria volontà, affrettatevi, comprate da me e mangiate: venite a comprare del mio vino e del mio latte (che è la pace e la dolcezza spirituale), senza l'argento della propria volontà, e senza darmene alcun interesse o prezzo di fatica, che invece spendete, per i vostri appetiti. Perché date l'argento della vostra volontà per ciò che non è pane (ossia non è il pane dello spirito divino), e spendete le forze dei vostri appetiti in quello che non vi può saziare? Venite, ascoltatemi, e vi satollerete del bene che bramate, e l 'anima vostra s'impinguerà nella abbondanza del diletto.

4 - Questo impinguarsi dell'anima consiste nel rifuggire da tutti i gusti di creature, perché queste tormentano, mentre lo spirito di Dio ricrea. Similmente, in S. Matteo, il Signore a sé ci chiama col dire: «Venite ad me, omnes qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos, et invenietis requiem animabus vestris» (M t 11 28 - 29): Voi tutti che siete affaticati afflitti e aggravati dal peso delle vostre sollecitudini e appetiti, deponetelo, e venite a me, e io vi ristorerò, e troverete per le vostre anime quel refrigerio che gli appetiti vi rapiscono: essi sono invero un pesante carico, secondo quello che Davide ne dice: « Sicut onus grave gravatae sunt super me» (Sa l 37 ,5 ) .

1S CAPITOLO 8

Gli appetiti oscurano e accecano l'anima

1 - Il terzo danno positivo che gli appetiti apportano all'anima è che l'accecano ed oscurano. Poiché, come i vapori oscurano l'aria e non lasciano passare la luce del sole; come lo specchio appannato non può riflettere nettamente il nostro volto; come l'acqua torbida e fangosa non lascia veder bene l'immagine di chi vi si mira; così l 'anima schiava degli appetiti è ottenebrata secondo l'intelletto, e non può essere chiaramente illuminata né dal sole della ragione naturale, né da quello della sapienza soprannaturale di Dio. Parlando il Real Profeta a questo proposito, dice: «Comprehenderunt me iniquitates meae, et non potui, ut viderem» (Sa l 39 ,13 ): Le mie iniquità mi hanno avviluppato, e non m’è dato di vedere.

2 - Nel tempo stesso poi che l'anima si oscura secondo l'intelletto, resta anche intorpidita secondo la volontà, indurita secondo la memoria, e disordinata secondo il debito modo di operare. Infatti, essendo che le potenze dipendono dall'intelletto nelle loro operazioni, è evidente che, impedito quello, devono anch'esse rimanere sconvolte e turbate. E perciò dice Davide: «Anima mea turbata est valde» (S a l 6 , 4): L'anima mia è assai turbata, cioè disordinata, nelle sue potenze. Perocché, come abbiamo detto, né l'intelletto ha capacità di ricevere la luce della sapienza di Dio, alla stessa guisa che l’aere tenebroso non l'ha per ricevere quella del sole; né la volontà è idonea ad abbracciare Dio in puro amore, come lo specchio appannato non è adatto a riflettere chiaramente il volto di chi vi si mira; né la memoria offuscata dalle tenebre dell'appetito è capace di essere informata serenamente dall'immagine di Dio, come l'acqua limacciosa non può mostrare chiaramente l'immagine di colui che vi si specchia.

3 - Inoltre l 'appetito oscura e acceca l'anima, perché l'appetito, in quanto tale, è cieco: da parte sua non ha intendimento alcuno, e la ragione deve sempre servirgli di guida. Donde

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ne segue che ogni volta che l'anima si lascia condurre dal suo appetito, si acceca: poiché, quando chi ha buona vista si fa guidare da un cieco, è come se fossero ciechi tutt'e due. verificandosi appunto ciò che dice N. Signore in S. Matteo: «Caecus autem si caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadunt» ( Mt 15 ,14 ): Se un cieco guida un altro cieco, cadono ambedue nella fossa. Poco giova alla farfalletta avere gli occhi, quando l'appetito della bellezza della luce l'attrae, abbagliata, alla fiamma della candela. Così pure, chi si nutre di appetiti, è simile ad un pesce abbagliato, a cui la luce serve piuttosto di tenebra, perché non gli permette di accorgersi delle insidie che i pescatori gli tendono. Onde disse bene Davide, parlando di costoro «Supercecidit ignis et non viderunt solem» ( Sa l 57 ,9 ): Piovve su di essi il fuoco che riscalda col suo calore e abbaglia con la sua luce. Precisamente così fa l 'appetito: accende la concupiscenza e offusca l'intelletto in modo che questo non possa vedere la sua luce. La causa di tale abbagliamento va riposta in ciò che, frapponendo una nuova luce tra chi vede e la luce di prima, la potenza visiva si ferma su quella frapposta e non più sull'altra. Ora frapponendosi l 'appetito tanto vicino da stare nell'anima stessa, ella s'imbatte in questa prima luce e se ne pasce, e così non può discernere la sua luce di chiaro intelletto, né potrà vederla finché non sia tolto di mezzo l'abbagliamento dell'appetito.

4 - È assai da compiangersi l 'ignoranza di certuni, i quali si caricano di penitenze straordinarie e di molti altri esercizi di proprio arbitrio, pensando che solo questo, senza la mortificazione dei propri appetiti, sia sufficiente per tendere all'unione con la Sapienza Divina. Ciò, al contrario, non avverrà mai, se non si studiano di rinnegare i loro desideri con ogni diligenza: se in questo studio impiegassero almeno la metà della sollecitudine e della fatica che sprecano negli esercizi di loro genio, profitterebbero più in un mese, che con tutte le loro penitenze in molti anni. Come è necessario che la terra, affinché renda frutto, venga dissodata, ché altrimenti non produce se non male erbe, così è indispensabile la mortificazione degli appetiti, acciocché l'anima faccia profitto. Anzi oserei dire che chi intendesse progredire nella perfezione e nella notizia di Dio e di se stesso, senza la detta mortificazione, non ricaverebbe mai frutto maggiore di quel che si possa sperare dal seme sparso in un terreno non dissodato. Finché, dunque, gli appetiti non siano mortificati, l 'anima sarà rozza immersa nelle tenebre. Gli appetiti sono come le cateratte che talvolta vengono agli occhi, o come i bruscoli che vi entrano, i quali se non si estraggono, sono di molestia e di ostacolo alla vista.

5 - Considerando il Real Profeta la cecità di coloro che a cagione degli appetiti impediscono all'anima lo splendore della verità, e quanto Dio ne resti adirato, disse: «Priusquam intelligerent spinae vestrae rhamnum: sicut viventes sic in ira absorbet eos» (Sa l 57 ,10 ): Prima che le vostre spine, cioè i vostri appetiti, intendano, Dio li assorbirà, come i viventi, nell'ira sua. Perocché gli appetiti viventi nell'anima, prima che possano intendere Dio, saranno assorbiti, o in questa vita da Dio, ovvero nell'altra dal castigo, per mezzo delle fiamme purgatrici. Dice che li assorbirà nell'ira, perché ciò che si soffre nella mortificazione degli appetiti è in pena del guasto che nell'anima hanno prodotto.

6 - Oh! se gli uomini sapessero di quanto bene di luce divina li priva la cecità causata dai loro affetti e desideri, e in quanti mali e danni incorrono ogni giorno, perché non praticano una costante e vera mortificazione! Non debbono far troppo conto, né di robusto intelletto, né di altri doni ricevuti da Dio: se nutrono affezioni e appetiti, finiranno col rimanere oscurati, accecati, e col cadere a poco a poco di male in peggio. Chi avrebbe mai detto che un uomo dotato di tanta sapienza e sì ricolmo di celesti doni qual era Salomone, sarebbe giunto a tal segno di cecità e di stoltezza da innalzare altari a tanti idoli e adorarli lui stesso, essendo già vecchio? ( 3R e 11 , 4 ). Per giungere a tanto, solo bastò l'affetto che portava alle donne, e il non aver avuto cura di rinnegare gli appetiti e desideri del suo cuore. Difatti egli stesso, parlando di sé nell'Ecclesiaste, dice di non aver mai negato al suo cuore ciò che gli aveva chiesto (Qo 2 ,10 ) . E tanto egli si abbandonò ai suoi appetiti che quantunque in principio avesse un certo ritegno, tuttavia, non avendoli mortificati, n’ebbe oscurato e accecato l'intelletto; e finita di estinguersi in lui quella gran luce di sapienza che il Signore gli aveva dato, in vecchiaia voltò le spalle al suo Dio.

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7 - Se, dunque, gli appetiti immortificati tanto poterono sull'animo di chi aveva un'immensa cognizione della distanza che corre tra il bene e il male, e cosa non faranno contro la nostra ignoranza? In verità, come disse il Signore al Profeta Giona parlando dei Niniviti, non sappiamo qual differenza vi sia la destra e la sinistra (Gn 4 ,11 ): poiché ad ogni passo stimiamo il male per bene, e il bene per male, secondo nostro corto e debole criterio. Che avverrà poi, se alle naturali nostre tenebre si aggiungono gli appetiti disordinati? Avverrà ciò che dice Isaia: «Palpavimus sicut caeci, parietem, et quasi absque oculis attrectavimus: impegimus meridie, quasi in tenebris» ( I s 5 9,1 0) . In questo luogo Isaia introduce a parlare coloro che amano assecondare i propri appetiti, e loro fa dire: Abbiamo palpato la parete, come se fossimo ciechi, e andammo brancolando come se non avessimo occhi, e la nostra cecità giunse a tanto, che in pieno giorno abbiamo inciampato negli ostacoli, quasi che ci trovassimo in mezzo a fitte tenebre. Così precisamente accade a chi è accecato dalle cupidigie: pur trovandosi in mezzo a splendori del. vero, non gli è concesso di vedere più di quel che se camminasse nelle tenebre.

1S CAPITOLO 9

Gli appetiti imbrattano l'anima - Si prova, come sopra, con paragoni e testi della sacra scrittura

1 - Il quarto danno positivo che gli appetiti cagionano nell'anima è che l'imbrattano e macchiano, secondo il detto dell'Ecclesiastico : «Qui tetigerit picem, inquinabitur ab ea». (S i r 13 ,1) Chi toccherà la pece, ne resterà insudiciato: e l 'uomo tocca la pece, quando appaga l'appetito della propria volontà in qualche creatura. In questo passo scritturale è da rilevarsi che il Savio assomiglia le creature alla pece, perché tra l'eccellenza, la nobiltà dell'anima e tutto ciò che v'è di meglio in esse, corre differenza maggiore di quella che passa tra lo splendido diamante o l'oro puro e la pece. A quella guisa che l'oro o il diamante, se si ponessero infocati sulla pece, ne resterebbero tanto più unti e imbrattati, quanto più forte fosse il loro calore; così l'anima che arde dal desiderio di qualche creatura, contrae macchia e sozzura dal calore stesso del suo appetito. Inoltre, tra l 'anima e le creature materiali esiste maggior differenza che non tra un limpidissimo liquore e il sudiciume del fango: e come tal liquore diverrebbe torbido e nauseante, mescolato che fosse col fango; così l 'anima che s'unisce per affetto ad una creatura, s'insudicia, perché si rende simile a lei. Ancora: come un bel volto imbrattato di segni di carbone, perderebbe ogni sua bellezza, così l 'anima, che è in sé una bellissima e perfetta immagine di Dio, viene deturpata dagli appetiti disordinati.

2 - E perciò il Profeta Geremia, deplorando il guasto che i detti appetiti apportano all'anima, mette a contrasto la di lei primitiva beltà con la susseguente bruttezza, col dire: Candidiores Nazaraei ejus nive nitidiores lacte, rubicundiores ebore antiquo, sapphiro pulchriores. Denigrata est super carbones facies eorum, et non sunt cogniti in plateis» (Trean i 4 , 7 -8 ): I suoi capelli cioè dell'anima, sono più candidi della neve, più bianchi del latte, più vermigli dell'avorio antico, più bel dello zaffiro. La loro faccia si è annerita più del carbone, e non si riconoscono più nelle piazze. Per capelli qui s'intendono gli affetti e i pensieri dell'anima, quali, ordinati al fine inteso da Dio, cioè a Dio stesso, sono più candidi della neve, più bianchi del latte, più rubicondi dell'avorio e più belli dello zaffiro. Per queste quattro qualità, s'intende qualsivoglia specie di bellezza e di eccellenza di creatura corporea; sulle qual però, sovrasta immensamente l'anima colle sue operazioni, che sono i Nazarei o capelli anzidetti. Ma se questi sono disordinati e volti ad un fine a cui Dio non li ordinò, cioè alle creature, la faccia dell'anima, dice Geremia, diventa più nera del carbone.

3 - Tutto questo male, e molto più ancora, è causato all'anima dagli appetiti disordinati delle cose di questo secolo, tanto che, se dovessimo parlare di proposito della brutta e sozza impronta che gli appetiti stampano nell'anima, non troveremmo cosa che possa darne una giusta idea. Né un luogo pieno di ragnatele e di rettili o vermi schifosi, né il putridume di corpo corrotto, né di qualsiasi altra cosa, per quanto immonda e ributtante si possa trovare o immaginare, reggerebbe al confronto. È vero, sì, che anche l'anima

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disordinata, in quanto all'essere naturale rimane perfetta come Dio l'ha creata, ma in quanto all'essere di ragione è deforme, abominevole, sudicia e tenebrosa con tutta la sequela di mali che andiamo enumerando e molti altri ancora. Un solo appetito disordinato, come vedremo, quand'anche non sia in materia di peccato mortale, basta a rendere I' anima così soggetta, sudicia e brutta, che non può affatto convenire con Dio in nessuna unione, finché quell'appetito non si purifichi. Quale, dunque, non sarà la deformità di quella che si trova del tutto disordinata nelle sue passioni e data in preda ai suoi appetiti, e quanto mai lontana non sarà da Dio e dalla sua purezza?

4 - Non si può spiegare a parole, né capire con l'intelletto la varietà d'immondezze prodotte nell'anima secondo la varietà degli appetiti stessi. Se si potesse dire e farlo comprendere, desterebbe incredibile stupore e profonda commiserazione il vedere come ciascun appetito, a seconda della sua qualità e quantità, imprime il suo segno o macchia di speciale immondezza e bruttura nell'anima; e come in un solo disordine di ragione gli appetiti possono avere in sé innumerevoli differenze di maggiori o minori lordure, ciascuna alla sua maniera. Poiché, come l'anima del giusto, in una sola perfezione, cioè nella rettitudine dell'anima, possiede doni ricchissimi senza numero e molte bellissime virtù, ciascuna delle quali differente dalle altre e con la sua particolare bellezza, secondo la moltitudine e la differenza degli affetti d'amore che l'anima ha avuto verso Dio; così l 'anima disordinata, secondo la varietà dei suoi appetiti verso le creature, è ricoperta da una varietà miserabile di macchie e brutture, che gli affetti disordinati le lasciarono impresse.

5 - Abbiamo una figura di questa varietà di appetiti in Ezechiele, dove si legge che il Signore gli mostrò dipinte all'intorno delle pareti del tempio tutte le immagini dei rettili e tutta l’abominazione degli animali immondi (E z 8 ,10 ) . E il Signore gli disse: Figlio dell’uomo, non hai forse visto le nefandezze che gli uomini commettono, ciascuno nel segreto della sua stanza. E Iddio comandò al Profeta d'internarsi di più nel tempio, ché avrebbe visto abominazioni maggiori. Il Profeta, difatti, di e di veduto delle donne che, sedute, piangevano Adone, dio degli amori (E z 24 ). Avendogli Dio comandato d'inoltrarsi ancor più, poiché avrebbe visto abominazioni sempre maggiori, dice di aver veduto venticinque vegliardi che volgevano le spalle contro il tempio (E z 16 ).

6 - Le varie specie di rettili e di animali immondi, che erano dipinti nel primo ingresso del tempio, sono le idee che l'intelletto concepisce delle cose terrene e caduche, le quali rimangono, per così dire, dipinte n tempio dell'anima, quando questa ne ingombra il suo intelletto, che è, la sua prima stanza. Le donne sedute nella seconda stanza del tempio che piangevano il dio Adone, simboleggiano gli appetiti che dimorano ne la seconda potenza dell'anima che è la volontà: essi piangono quasi, in quanto che grandemente desiderano quelle cose cui la volontà è affezionata, cioè i rettili già dipinti nell'intelletto. Gli uomini, infine, della terza stana sono le immaginazioni o fantasmi delle creature, che la memoria, terza potenza dell'anima, in sé conserva svolge. Si dice che dette immagini hanno le spalle volte contro il tempio, perché quando l'anima secondo le sue potenze ha ormai abbracciato completamente qualche cosa terrena, ben si può dire che abbia voltate le spalle contro il tempio di Dio, ossia contro la retta ragione, la quale in sé non ammette alcuna cosa creature.

7 - Basti per ora ciò che abbiamo detto per intendere alquanto il brutto disordine dell'anima nei suoi appetiti: ché, se volessimo trattare in particolare e della bruttezza più piccola cagionata dalle imperfezioni e di quella maggiore derivata dai peccati veniali, e di quella totale prodotta dagli appetiti di peccato mortale e se ci intrattenessimo sulle molteplici varietà di queste tre specie di bruttezza, non la finiremmo più, né intelletto angelico varrebbe a comprendere tutto questo. Ciò che, però, ripetiamo e che fa al nostro proposito è che qualsiasi appetito, benché della più piccola imperfezione, macchia ed imbratta l 'anima.

1S CAPITOLO 10

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Si dimostra che gli appetiti intiepidiscono e indeboliscono ‘'anima nella pratica della virtù

1 - Il quinto danno positivo che gli appetiti arrecano all'anima consiste nell'intiepidirla e indebolirla, tanto da non aver forza per seguire la virtù e perseverare in essa. Poiché, per il fatto stesso, che la forza dell'appetito viene divisa, esso resta meno forte che se fosse applicato intero ad una sola; e quanto maggiore è il numero delle cose a cui si volge, tanto minore intensità conserva per ciascuna; e perciò i filosofi dicono che la forza unita ha più vigore di quando è divisa. È chiaro, quindi, che se l'appetito della volontà si diffonde in altri oggetti diversi dalla virtù, resta necessariamente più fiacco rispetto ad essa. L'anima che ha la volontà divisa in tante frivolezza e bagattelle, è come l'acqua che si disperde da un recipiente forato in più parti, senza mai riempirlo. Onde il Patriarca Giacobbe paragonò il suo figlio Ruben all'acqua dispersa, perché in un certo peccato aveva sciolto il freno ai suoi appetiti, e perciò giustamente gli disse: Sei diffuso come acqua, non crescerai. Quasi dicesse: Poiché sei diffuso e sparso come acqua secondo gli appetiti, non crescerai in virtù (Gn 49 ,4 ) . Come l'acqua bollente facilmente perde il calore, se non è ben coperta, e come le droghe aromatiche non ben tappate vanno perdendo la fragranza e la forza del loro odore; così l 'anima non raccolta nel solo desiderio di Dio perde il calore e il vigore nella virtù. Ciò Davide ben comprese allorché, sollevando il cuore a Dio, disse: Io custodirò la mia forza per te (S al 58 ,1 0 ); raccogliendo, cioè, la forza dei miei appetiti in te solo.

2 - Inoltre gli appetiti infiacchiscono la virtù dell'anima come i nuovi virgulti che pullulano intorno al tronco dì un albero e, snervandone il vigore, gli impediscono di produrre maggiore copia di frutti. Di tali anime dice il Signore: « Vae autem praegnantibus, et nutrientibus in illis diebus» (M t 24 , 19 ): Guai a quelle che in quei giorni saranno gravide, e guai ai loro parti. Questa gravidanza e parto s'intende in quanto agli appetiti, i quali se non si raffrenano. andranno sempre più togliendo energia all’anima e cresceranno a suo discapito, come fanno i nuovi germogli rispetto all'albero. Per questo il Signore ci esorta a tenere cinti i nostri reni, ossia i nostri appetiti (Lc 12 , 35 ) . Questi si possono paragonare anche alle sanguisughe, che sempre succhiano il sangue dalle vene: paragone usato dal Savio che dice: Sono sanguisughe le figlie cioè gli appetiti; ché sempre dicono: Dammi, dammi (P r 30 , 15 ).

3 - È chiaro, quindi, che gli appetiti, non che apportare alcun giovamento all'anima, le rubano piuttosto il bene che ha; e se non vengono mortificati, non si calmano, sino a fare in essa quello che, a detta di alcuni, i nati della vipera fanno alla madre loro; i quali, a mano a mano che crescono nel suo seno, la vanno consumando fino ad ucciderla, restando vivi essi a prezzo della sua vita. Noli diversamente gli appetiti immortificati giungono al punto di far morire l 'anima a Dio; e allora ciò che vive in lei sono essi soltanto, perché non fu la prima ad uccidere loro. Perciò leggia mo nell'Ecclesiastico: «Aufer a me, Domine, ventris concupiscentias» (S i r 23 ,6 ).

4 - È poi da osservarsi che, quand'anche gli appetiti non arrivassero a questo estremo, stringe il cuore il pensare in quali condizioni essi mettono l'anima. Quanto sgarbata diventa con sé medesima! quanto fredda e scortese verso il prossimo! quanto negligente e pigra nelle cose di Dio! Non v'è malattia, per quanto grave, che renda l'infermo sì tardo e restio a camminare, o sì nauseato del cibo, quanto l'appetito delle creature rende l'anima triste e lenta a seguire la virtù. La causa, dunque, per la quale ordinariamente molte anime non hanno diligenza e voglia di acquistare la virtù, è perché nutrono desideri e affetti non puri in Dio.

1S CAPITOLO 11

Si prova quanto sia necessario, per giungere alla divina unione, che l'anima sia libera da qualsiasi appetito, quantunque minimo

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1 - Mi sembra che il lettore già da tempo abbia gran voglia di domandarmi se per giungere ad un alto grado di perfezione sia necessario che preceda una totale mortificazione di tutti gli appetiti, piccoli e grandi; se non basti mortificarne alcuni e lasciarne sussistere altri, almeno quelli che paiono di poco momento. Sembra, infatti, cosa ben ardua e di grande difficoltà che l'anima possa toccare tal grado di purezza e nudità da non portare affetto a cosa alcuna.

2 - Rispondendo alla domanda, primieramente dico: È ben vero che non tutti gli appetiti sono nocivi allo stesso grado, né impacciano l'anima in uguale maniera quando non sono acconsentiti [ s i par l a d i appe t i t i vo lonta r i ], poiché quelli naturali poco o niente impediscono all’anima l'unione con Dio, purché non siano seguiti dal nostro consenso, il né passino i limiti di moti primi. Chiamo naturali e di moto primo tutti quelli in cui la volontà razionale non ebbe parte, né prima né dopo: spogliarsi di questi e mortificarli del tutto è certamente impossibile in questa vita. Essi, ripeto, non impediscono di conseguire la divina unione, ancorché non siano interamente mortificati; perché la natura può averli, pur rimanendone l'anima molto libera secondo lo spirito razionale. Difatti, a volte potrà accadere che l'anima si trovi in alta unione di orazione di quiete nella volontà, e che attualmente gli appetiti dimorino nella parte sensitiva dell'uomo, senza che vi partecipi la parte superiore che sta in orazione. Ma tutti gli altri appetiti volontari, o che siano di peccati mortali e perciò più gravi, o siano di peccati veniali e quindi meno gravi, o siano solamente d'imperfezioni che sono i più lievi, tutti si devono eliminare: da tutti, per minimi che siano, l 'anima dev'essere affatto immune, per giungere all'unione perfetta con Dio. La ragione di ciò che or ora abbiamo detto è che lo stato dell'unione divina consiste precisamente nel tenere l'anima secondo la volontà [così trasformata nella volontà di Dio che non vi sia in lei alcuna cosa] del tutto trasformata in quella di Dio, in modo che non vi sia in lei alcuna cosa contraria alla volontà divina, ma bensì i suoi moti siano in tutto e per tutto solamente volontà di Dio.

3 - Perciò diciamo che, nello stato di unione, le due volontà diventano una sola, la quale è volontà di Dio, e questa volontà di Dio è anche volontà dell'anima. Ora, se l 'anima desiderasse qualche imperfezione, che Dio senza dubbio non può volere, non si formerebbe un'unica volontà divina, perché l'anima vorrebbe ciò che Dio non vuole. Evidentemente, quindi, affinché l'anima venga ad unirsi perfettamente con Dio per volontà e amore, occorre soprattutto che si vuoti di ogni appetito di volontà, per piccolo che sia, cioè si richiede che non consenta con cognizione e avvertenza ad alcuna imperfezione, e che abbia anche il potere e la libertà di non consentirvi mentre l'avverte. Dico così, perché, senza avvertenza e cognizione e senza libertà, l 'anima potrà di certo cadere in imperfezioni e peccati veniali e negli accennati appetiti naturali, essendo che di tali peccati non tanto volontari sta scritto che il giusto vi cadrà sette volte al giorno, e se ne rialzerà (P r 24 , 16 ). Ma, in quanto agli appetiti volontari, che sono peccati veniali avvertiti, benché di minime cose, basta un solo appetito immortificato per impedire l'anima. Per appetito immortificato, però, qui intendo il tale abito, perché alcuni atti sporadici di appetiti differenti non sono di tanto impedimento quando gli abiti sono mortificati: quantunque, diciamo, anche di questi atti l 'anima deve alfine giungere a non commetterne, perché sempre procedono da abito d'imperfezione. Alcuni abiti di imperfezioni volontarie, se non si finisce col vincerli, non soltanto impediscono l'unione divina, ma anche il progresso nella perfezione.

4 - Tali imperfezioni abituali sono, per esempio, l 'abitudine di parlare spesso, l 'attaccamento a piccole cose a cui l'anima mai si decide di rinunciare completamente, come sarebbe l'affetto ad una persona, ad un vestito, a una stanza, a quel tal genere di cibi, di relazioni, a quelle piccole soddisfazioni, alla mania di udire novità, e simili. Se l'anima porta affetto abituale a qualsivoglia di queste imperfezioni, incontra maggiore ostacolo a crescere in virtù, che se cadesse ogni giorno in molte altre imperfezioni e peccati veniali saltuari, i quali non procedessero da mala consuetudine. Finché duri uno degli accennati abiti, è impossibile che l'anima progredisca nella perfezione, benché l’imperfezione sia piccolissima. Difatti, che importa se un uccellino è attaccato ad un filo sottile piuttosto che a uno grosso? Per quanto il filo sia sottile, è sempre vero che l'uccellino è attaccato, e sino a che non lo spezzi, non potrà volare. Senza dubbio, il filo

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più tenue è, più facile da rompersi, ma pur deve rompersi, ché altrimenti l'uccello non si potrà liberare. Così avviene all'anima unita con l'affetto a qualche cosa: benché fornita di molte virtù, non giungerà alla libertà dell’unione divina. L'appetito, l 'affetto dell'anima ha la proprietà che, come direbbero alcuni, ha la remora, la quale, pur essendo un pesce molto piccolo, se le capita di appigliarsi ad una nave, la tiene immobile e non la lascia navigare e giungere al porto. È un peccato vedere alcune anime che, mentre a guisa di navi cariche di ricche mercanzie sono ricolme di tesori di opere ed esercizi spirituali, di virtù e doni celesti, nondimeno, perché non hanno il coraggio di finirla con qualche piccolo gusto o attacco o affetto (il che è tutt'uno), non vanno mai innanzi, e non arrivano al porto della perfezione. Eppure il porto sarebbe tanto vicino! Basterebbe non più che spiccare un buon volo, rompere quel filo di affetto, staccarsi da quella remora di appetito.

5 - Cosa veramente lacrimevole! Il Signore ha loro concesso di spezzare ben altre funi più grosse di affetti a peccati e vanità; ed esse poi, non volendo staccarsi da un'inezia che Dio chiede loro di vincere per amor suo, non volendo, dico, recidere quel filo, quel capello, trascurano di arrivare a un tanto bene! E il peggio è che, non solamente non vanno innanzi, ma bensì a cagione di quell'affetto tornano indietro, perdendo così il vantaggio del cammino che con tanto tempo e fatica avevano percorso. Poiché si sa bene che, in questo cammino, il non andare avanti è un tornare indietro; il non guadagnare é perdere. Ciò appunto il Signore volle significare quando disse: Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde (M t 12 ,30 ). Colui che non si cura di riparare la fenditura di un vaso, benché sottilissima, vedrà trapelare a poco a poco tutto il liquido in esso contenuto. Giustamente l'Ecclesiastico ci ammonisce dicendo: Chi disprezza le cose piccole, a poco a poco andrà cadendo (S i r 19 , 1 ). E altrove il medesimo ci rammenta che da una sola scintilla si sviluppa un incendio (S i r 11 , 34 ). Una sola imperfezione basta a trarne con sé un'altra, e tutte e due altre ancora: di modo che quasi mai si vedrà un'anima negligente nel reprimere un appetito, che non ne abbia insieme molti altri, i quali scaturiscono dalla stessa imperfezione e fiacchezza che l’anima mostra nel vincere il primo, e così va sempre degradando [peggiorando]. Noi stessi abbiamo già visto molte persone, a cui Dio faceva grazia di condurli molto innanzi con grande distacco e libertà di spirito. Ebbene, avendo esse cominciato ad invischiarsi in qualche piccolo affetto, sotto colore di bene, di conversazione e amicizia, si sono andate affievolendo nello spirito e nel gusto di Dio e della santa solitudine; e decaddero così dalla primitiva devozione e diligenza negli esercizi spirituali. Ed infine, per non essersi arrestate in tempo, sono arrivate al punto di perdere tutto quel bene che avevano; e ciò, perché non troncarono quel principio di piacere e di appetito sensitivo, e non seppero custodirsi in solitudine per il Signore.

6 - In questa via, per arrivare, si deve camminare sempre, cioè andare di continuo rintuzzando i desideri senza mai fomentarli; se non si viene a capo di reprimerli tutti, inutilmente si spera di arrivare al termine. Come il legno non si trasforma in fuoco, se manchi un solo grado del calore che si richiede all'accensione, così l 'anima non si trasformerà perfettamente in Dio per una sola imperfezione che abbia, quantunque questa sia minore di un appetito volontario. Poiché, come appresso si dirà nella notte della fede, l'anima non ha che una sola volontà, e questa, se s'impigli nell'affetto di qualche cosa, non resta libera, sola e pura, come è necessario per la divina trasformazione.

7 - Di quanto ora si è detto, abbiamo una figura nel libro dei Giudici, dove si narra che l'angelo del Signore andò ad annunziare ai figli di Israele che, non avendo essi sterminata la gente nemica, secondo il divino comando, ma avendo anzi fatto alleanza con essa, ben giustamente i nemici avrebbero dimorato come tali in mezzo al popolo eletto, affinché gli fossero d'inciampo e di perdizione ( Gdc 2 , 3 ). Lo stesso avviene ad alcune anime: Dio le sottrasse dai pericoli del mondo; diede loro grazia di abbattere i giganti, ossia i loro peccati; le liberò dalla moltitudine dei nemici, cioè dalle pericolose occasioni del secolo, appunto perché con più libertà entrassero nella terra promessa dell'unione divina. Ma esse invece, stringendo alleanza ed amicizia col popolo minuto delle imperfezioni, non finiscono di mortificarle, e perciò Nostro Signore, sdegnato, permette che cadano di male in peggio nei loro appetiti.

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8 - Anche nel libro di Giosuè troviamo un'altra espressiva figura adatta al nostro proposito. Mentre il popolo eletto stava per prendere possesso della terra promessa, Iddio comandò che distruggessero nella città di Gerico tutto ciò che vi era, uomini e donne, vecchi e bambini, e tutti gli animali, in modo che non vi restasse alcun essere vivente, e che niente prendessero o desiderassero delle spoglie nemiche (Gs 6 ,2 1 ). Da ciò dobbiamo intendere che, per entrare nell'unione divina, devono morire tutti gli affetti che vivono nell'anima, pochi o molti, piccoli o grandi che siano, e che l'anima deve esserne distaccata come se ella non fosse per loro, né essi per lei. Il che S. Paolo c'insegna, così scrivendo ai Corinzi: Questo vi dico, o fratelli, che il tempo è breve; quel che conviene e resta da fare è che coloro che hanno moglie, siano come se non l'avessero e quelli che piangono per le cose di questo mondo, come se non piangessero; e coloro che godono, come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; e quelli che usano di questo mondo, come se non ne usassero (1C or 7 ,29 - 31). Tutto questo I'Apostolo dice per insegnarci quanto l'anima debba essere distaccata da tutte le cose, per andare a Dio.

1S CAPITOLO 12

Si risponde ad un'altra domanda, e si dichiara quali siano gli appetiti che bastano a causare nell’anima i danni sopra ricordati

1 - Potremmo molto diffonderci in questa materia della notte del senso, enumerando i danni che gli appetiti producono, non solo nei modi sopra descritti ma in molti altri ancora. Però al nostro scopo è sufficiente quanto abbiamo detto: poiché mi sembra di aver fatto ben, comprendere al lettore con quanta ragione la mortificazione degli appetiti venga chiamata notte, e quanto sia necessario entrare in questa, per unirsi a Dio. Ma, prima di trattare del modo di entrarvi, la sola cosa che si offre da aggiungere, tanto per concludere esaurientemente questa parte, è qualche legittimo dubbio che potrebbe sorgere nella mente del lettore circa la dottrina suesposta.

2 -- Il primo dubbio è, se basti qualsiasi appetito per produrre e causare nell'anima i detti due mali, cioè quello privativo che consiste nel privare l'anima della grazia di Dio, e il positivo che consiste nell'apportarle i cinque principali danni di cui abbiamo parlato. Il secondo dubbio è, se basti qualsiasi appetito, per minimo che sia e di qualunque specie, a produrre simultaneamente tutti questi cinque danni; ovvero, se alcuni appetiti producano solamente un danno, altri un altro p. es., se alcuni cagionano tormento, altri stanchezza altri tenebre, e così via.

3 - Rispondo al primo dubbio. dicendo che in quanto al danno privativo, che è privare l'anima della grazia di Dio, soltanto gli appetiti volontari in materia peccato mortale possono far questo, e lo fanno in realtà e totalmente, perché essi spogliano l'anima della grazia divina in questa vita, e nell'altra la privano della gloria, la quale è riposta nel possesso di Dio. Al secondo dubbio rispondo che, oltre quelli in materia di peccato mortale, anche gli appetiti volontari circa le venialità e le imperfezioni sono bastevoli ciascuno a produrre nell'anima tutti e cinque insieme i danni positivi; i quali, del resto, possono dirsi anch'essi, in certo senso, privativi. Qui li chiamiamo positivi, perché corrispondono alla conversione dell'anima alle creature, come il danno privativo corrisponde all'avversione o allontanamento da Dio. Però vi è questa differenza, che gli appetiti di peccato mortale causano totale cecità, tormento, bruttura e fiacchezza; mentre gli appetiti di peccato veniale o d'imperfezione non producono i detti mali in quel grado sommo e completo, perché non privano della grazia. Dalla privazione di questa, infatti, dipende il possesso di quei gravissimi danni, poiché la morte dell'anima è la loro vita. Tuttavia anche gli appetiti venialmente colpevoli apportano, sebbene in modo rimesso, i medesimi danni, secondo la diminuzione della grazia che detti appetiti causano nell'anima; di modo che quell'appetito che maggiormente diminuisce la grazia, cagionerà tormento, cecità e impurità maggiore.

4 - È da notarsi però che, sebbene ogni appetito generi ad un tempo tutti quei mali positivi, nondimeno ciascuno ne produrrà uno in modo principale e diretto, e gli altri in

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via secondaria e indiretta. E per scendere al particolare, ben è vero che un appetito sensuale causa tutti quei mali, però principalmente e propriamente macchia e l'anima e il corpo. Un appetito di avarizia li produce tutti, ma il suo effetto principale e diretto è l 'afflizione; un appetito di vanagloria né più né meno li genera tutti, però in modo speciale ottenebra l'anima, l 'acceca; lo stesso dicasi di un appetito di gola, il quale peraltro ha la proprietà particolare d'intiepidire l 'anima nella pratica della virtù; e così via dicendo.

5 - La ragione per la quale qualunque atto di appetito volontario produce nell'anima tutti i ricordati effetti uniti insieme, è perché esso si oppone direttamente agli atti di virtù, i quali producono nell'anima effetti contrari al suo. Poiché, come un atto di virtù crea nell'anima in pari tempo soavità, pace, consolazione, luce, chiarezza e forza, così un appetito disordinato apporta tormento, fatica, stanchezza, cecità e debolezza: e come tutte le virtù si aumentano e rafforzano nell'esercizio di una, così col crescere di un vizio crescono tutti, con le loro funeste conseguenze. Quantunque poi tutti questi mali non si scorgano nel momento che l'appetito viene soddisfatto, stante che il gusto di questo non permette che si avvertano, nondimeno o prima o dopo ben si sperimentano i suoi tristi effetti. Suole accadere non altrimenti da quel che leg giamo nell'Apocalisse ove si narra che l'angelo comandò a S. Giovanni di divorare il libro, che l'Evangelista trovò dolce e gradito al palato, ma amarissimo al ventre ( Ap 10 ,9 - 10). L'appetito, quando si soddisfa, è dolce e sembra buono, ma dopo se ne sperimenta il suo amaro effetto. Il che potrà molto ben giudicare colui che si lasciò trascinare da esso: quantunque non ignoro esservi alcuni già divenuti tanto ciechi e insensibili, che non percepiscono più l'amaro degli appetiti, perché non tendono a Dio, è perciò neanche vedono ciò che li impedisce di andare a Lui.

6 - Non è mia intenzione trattare degli altri appetiti naturali che non sono volontari né dei pensieri che non passano i limiti moti primi, né di altre tentazioni a cui non si presta il consenso, perché tutto ciò non arreca all'anima alcuno dei detti mali. Sebbene alla persona che patisce queste cose sembra che la passione e il turbamento che ne derivano, in qualche modo la imbrattino ed accechino, pure non è così: anzi le cagionano effetti contrari, perché fintantoché vittoriosamente resiste, guadagna forza, purezza, luce, conforto e molti altri beni, secondo quello che Cristo N. Signore disse a S. Paolo: la virtù si perfeziona nella debolezza (2C or 12 ,9 ) . Ma gli appetiti volontari producono tutti i surriferiti mali ed altri ancora. Quindi è che la principale cura che i maestri di spirito si prendono, è di mortificare senza indugio i loro discepoli in qualsivoglia appetito, facendoli rimanere vuoti di ciò che prima desideravano, a fine di liberarli da tanta miseria.

1S CAPITOLO 13

Modo che l'anima deve usare per entrare nella notte oscura del senso

1 - Ora mi resta di dare alcuni avvisi, affinché l'anima sappia entrare nella Notte del senso. Ordinariamente si entra in questa in due modi: l 'uno attivo, l'altro passivo. L'attivo consiste in quello che l'anima può operare e realmente opera da parte sua, e di esso tratterò ora nei seguenti avvisi. Il modo passivo è quello in cui l 'anima non fa niente di propria industria, ma Dio agisce in lei rimanendo essa come paziente: e di questo modo si parlerà nel quarto libro [Il quarto libro della Sali ta non fu mai scritto dal Santo. In suo luogo scrisse

la Notte Oscura, Libro I] dove tratteremo dei principianti. Dato che ivi, con l'aiuto di Dio, dovrò dare parecchi avvisi ai medesimi, relativamente alle molte imperfezioni in cui sogliono cadere nel cammino spirituale, non mi dilungherò qui di soverchio, anche perché non è questo il luogo più adatto, essendo stato mio scopo sin qui discorrere soltanto delle cause per cui detto cammino si chiama notte, e spiegare in che questa consiste ed in quante parti si distingue. Pur tuttavia, affinché questo libro non presenti quasi una lacuna, e per non ritardare il maggior profitto del lettore, ho voluto subito suggerirgli in modo brevissimo qualche consiglio perché possa esercitarsi in questa notte degli

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appetiti. Lo stesso farò alla fine di ciascuna delle altre due parti o cause di questa notte [ i nvece non lo fa rà] , delle quali col divino favore mi propongo di trattare.

2 - Sono del parere che i seguenti avvisi, che indicano il modo di vincere gli appetiti, quantunque pochi e brevi, siano tanto profittevoli ed efficaci quanto compendiosi: onde colui che davvero vorrà metterli in pratica, non ne avrà bisogno di altri, ché in essi troverà la sostanza di tutto ciò che gli giova all'intento.

3 - Primieramente, bisogna che l'anima nutra un continuo e vivo desiderio di imitare Cristo in ogni cosa, conformandosi alla di lui vita, la quale si deve ben considerare per poterla imitare, e comportarsi in ogni incontro né più né meno come Egli si comporterebbe.

4 - Per riuscire in questo, deve, in secondo luogo, rinunziare a qualsiasi gusto sensibile che non fosse puramente a gloria e onore di Dio; e rimanere vuoto di esso per amore di Gesù Cristo, il quale in questa vita non ebbe e non cercò altra soddisfazione che adempire la volontà del Padre, da lui chiamata suo cibo. Porto qualche esempio. Quando le si offrisse il piacere, di udire cose che niente importano al servizio e alla gloria del Signore, rinunzi a tal gusto, e non si curi di udirle. Se le si porgesse il diletto di veder cose che non innalzano di più il cuore a Dio, reprima il nascente desiderio e si astenga dal vederle. E nello stesso modo si regoli riguardo agli altri sensi, al conversare e ad altre cose, per quanto sarà possibile. Certamente, se per ragioni di necessità o convenienza non potrà fare a meno e di vedere e di udire, ecc., procuri, e ciò sarà sufficiente, di non assaporare il diletto di quelle percezioni sensibili, ma quanto prima lo mortifichi, e ne vuoti i sensi, lasciando questi, per così dire, all 'oscuro di tutto; con questa diligente cautela [astuzia] ricaverà in breve molto profitto.

5 - Per mortificare e stabilire in perfetta calma le quattro passioni naturali, cioè il gaudio, la speranza, il timore, il dolore, dalla cui pace e tranquillità nascono innumerevoli beni, il rimedio totale è il seguente, che è fonte di merito immenso e di grandi virtù.

6 - L'anima dev'essere propensa:non al più facile, ma al più difficile;non al più saporito, ma al più insipido;non al più dilettevole, ma al più disgustoso:non al riposo, ma alla fatica;non a ciò che consola, ma a ciò che sconforta;non al più, ma al meno;non alle cose più nobili e preziose, ma alle più vili e spregevoli:non a voler alcuna cosa, ma a non voler niente.L'anima non cerchi il meglio delle cose temporali , ma il peggio; e desideri, per

amore di Cristo, di essere povera, nuda e vuota di tutto ciò che esiste in questo mondo.

7 - Occorre che ella abbracci di cuore siffatto esercizio di negazione e di opere virtuose, addestrando in esso la volontà con ordine e discrezione: così operando, vi troverà gran profitto, soavità e dolcezza di spirito.

8 - Ciò che ora abbiamo detto, messo in pratica veramente, basterebbe per entrare nella notte sensitiva: ma vogliamo sovrabbondare, aggiungendo un'altra maniera di esercizio che insegna a mortificare la concupiscenza della carne, quella degli occhi e la superbia della vita: le tre cose che, al dire di S. Giovanni, dominano il mondo (1Gv 2 ,16 ) , e dalle quali traggono origine tutti gli altri appetiti.

9 - Primieramente, l'uomo spirituale cercherà di fare azioni che ridondino a suo disprezzo, desiderando che altri facciano lo stesso a suo riguardo. Secondariamente, non si lascerà sfuggire le occasioni di parlare di sé con disistima, e procurerà che gli altri, parlando di lui, facciano altrettanto. In terzo luogo, procurerà di pensare bassamente di sé, con desiderio che gli altri facciano nessun conto. di lui.

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10 - A conclusione di questi avvisi e regole, crediamo conveniente riportare i versi che si leggono sotto la figura del Monte, posta al principio di questo libro, i quali contengono la dottrina per ascendere ad esso, cioè al vertice dell'unione. Che sebbene essi parlino sotto l'aspetto spirituale ed interiore, nondimeno trattano anche dello spirito d'imperfezione sotto l'aspetto sensitivo ed esteriore, come si può vedere nelle due strade che stanno ai lati del sentiero di perfezione. E secondo quest'ultimo senso noi qui li prendiamo; successivamente nella seconda parte di questa Notte, si spiegheranno nel loro senso spirituale.

11 - Dicono dunque così:1° Per assaporare tutto, non aver gusto in cosa alcuna.2° Per possedere tutto, non possedere nulla di nulla.3° Per essere tutto, sii nulla di nulla.4° Per sapere tutto, non voler saper niente di niente.5° Per giungere a ciò che non godi, devi passare per dove non ti aggrada.6° Per apprendere ciò che non sai, cammina per quello che ignori.7° Per ottenere ciò che non possiedi, è necessario che passi per quel che non hai.8° Per diventare quello che non sei, devi andare per dove non sei.

MODO DI NON IMPEDIRE IL TUTTO

12 - 1° Quando ti fermi in qualche cosa, lasci di slanciarti al tutto.2° Poiché per giungere intieramente al tutto, devi totalmente rinnegarti in tutto.3° E quando tu giunga ad avere tutto, hai da possederlo senza voler niente.4° Poiché se vuoi avere qualche cosa nel tutto, non hai solamente in Dio il tuo

tesoro.

13 - In questa nudità lo spirito trova la sua quiete e il suo riposo: poiché, nulla desiderando, nessuna cosa lo sospinge in alto, né lo deprime in basso; e così viene a trovarsi nel centro della sua umiltà. Al contrario, quando brama qualche cosa, in ciò stesso si affatica.

1S CAPITOLO 14

Si dichiara il secondo verso della prima strofaCon ansie, d'amor tutta infiammata

1 - Abbiamo dichiarato il primo verso della strofa, il quale tratta della Notte sensitiva, spiegando che cosa sia questa notte e perché così si chiami; abbiamo anche indicato il modo che si deve tenere per entrarvi attivamente. L'ordine della materia ora richiede che passiamo a trattare delle proprietà e degli effetti ammirabili di essa, contenuti nei versi seguenti della detta strofa, i quali io toccherò di volo, tanto per dichiararli brevemente, come promisi nel proemio, per quindi passare subito al secondo libro, che tratta dell'altra parte della Notte oscura, cioè di quella spirituale.

2 - L'anima, adunque, dice che: Con ansie, d'amor tutta infiammata, dovette uscire e passare per questa notte oscura del senso all'unione del suo Amato. Poiché per vincere tutti gli appetiti e rinunziare ai gusti di tutte le cose, con l'amore e l 'affetto delle quali la volontà suole infiammarsi per goderne, le era necessaria un’altra fiamma più viva di miglior amore, quale è appunto quello del suo Sposo, affinché, riponendo in esso il proprio gusto e la propria forza, si rivestisse di coraggio e costanza per facilmente sprezzare8 ogni altro amore. Per vincere la forza degli appetiti sensitivi, non le bastava semplicemente un qualunque amore verso il suo Sposo, ma doveva anche essere infiammata di amore e con ansie. Infatti, spesso accade che la parte sensitiva dell'uomo è mossa e spinta verso le cose sensibili con tale trasporto che, se la parte spirituale non è

8 In S. Giovanni della Croce (1S 11,5) “Disprezzare” vuol dire preferire il Signore a.. . Cf l’odiare del Vangelo.

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infiammata da più ardenti brame verso le cose spirituali, non potrà vincere il giogo naturale ed entrare nella notte del senso, né avrà il coraggio di starsene all'oscuro di tutte le cose, privandosi del desiderio di esse.

3 - Chi saprà ridire di qual tempra e di quante maniere siano le ansie amorose che le anime hanno al principio del sentiero dell'unione? Chi potrà enumerare le diligenze che usano o gli espedienti a cui ricorrono a fine di uscire dalla loro casa, cioè dalla propria volontà, ed entrare nella notte della mortificazione dei sensi? Queste ansie sono tali da far sembrare facili, anzi dolci e gustose tutte le fatiche e i pericoli di questa notte. Ma non è qui il luogo, né è possibile descrivere queste cose: farne esperienza e considerarle è meglio che esprimerle. Passerò, quindi, a dichiarare gli altri versi nel seguente capitolo.

1S CAPITOLO 15

Si dichiarano gli altri versi della prima strofa

Oh felice ventura!Uscii né fui notata,Stando già la mia casa addormentata.

1 - L'anima prende per metafora il misero stato di prigionia, dal quale chi riesce a liberarsi, senza che alcuno dei carcerieri valga ad impedirlo, reputa essergli toccata una sorte felicissima. Infatti, dopo il peccato originale, I ' anima si trova veramente a guisa di prigioniera in questo corpo mortale, soggetta com'è alle passioni ed ai naturali appetiti; e perciò stima grandissima fortuna l'averne scosso l'opprimente giogo, sottraendosi al loro dominio. Aggiunge di essere uscita senza esser notata, vale a dire senza essere impedita o trattenuta da alcuno di loro.

2 - Onde le giovò immensamente l'uscire nella Notte oscura, ossia nella privazione di ogni diletto e nella mortificazione di tutti gli appetiti. Il che dice di aver potuto fare: Stando già la mia casa addormentata. Allude qui alla parte sensitiva, che è la casa di tutti gli appetiti, già addormentata per la vittoria riportata su di essi, e per la loro conseguente calma. Finché gli appetiti non si addormentino per mezzo della mortificazione della parte sensitiva, e finché questa non sia addormentata rispetto ad essi, tanto da non muovere più guerra allo spirito, l 'anima non esce in vera libertà a godere dell'unione del suo Amato.

FINE DEL LIBRO PRIMOdella Salita del Monte Carmelo

____________________________________________________________

LIBRO SECONDO

TRATTA DEL MEZZO PROSSIMO PER GIUNGERE ALL'UNIONECON DIO, CIOÈ DELLA FEDE - TRATTA ANCHE DELLA

SECONDA PARTE DELLA NOTTE OSCURA, OSSIA DELLANOTTE DELLO SPIRITO, CUI SI ALLUDE NELLA

SECONDA STROFA

_____________________________________________________(Aggiunta non di S. Giovanni)

Scopo del primo libro della Salita

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- «Essendo stato mio scopo sin qui discorrere soltanto delle cause per cui detto cammino si chiama notte, e spiegare in che questa consiste ed in quante parti si distingue» (1S 13,1).

- «Abbiamo dichiarato il primo verso della strofa, il quale tratta della Notte sensitiva, spiegando che cosa sia questa notte e perché così si chiami; abbiamo anche indicato il modo che si deve tenere per entrarvi attivamente» (1S 14,1) .