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Gaetano del Rosso L’istruzione primaria dall’epoca unitaria al primo Novecento: appunti per la storia dell’insegnamento della religione La scuola italiana, intesa nell’accezione moderna di base primaria di cultura per i fanciulli di ogni classe sociale, organizzata e controllata dallo Stato, ebbe le sue origini e il suo sviluppo a partire dal 1830. La Restaurazione del 1814, posta in atto dagli Stati europei con il Congresso di Vienna, incrinò le basi che l’impero napoleonico aveva dato all’istruzione sicché il giovane istituto della scuola conobbe una fase di regresso. Le innovazioni avviate nei decenni precedenti, tuttavia, non furono del tutto accantonate e, dopo un periodo iniziale di stasi totale, limitato agli anni tra il 1814 e il 1830, conobbero un progressivo risveglio, alimentato dalla generale ripresa economica di alcuni stati italiani. Ciò accadde soprattutto in Piemonte, destinato, di lì a poco, ad assumere il ruolo di stato-guida nel difficile compito dell’unificazione nazionale. Il tema centrale della pedagogia risorgimentale fu quello della libertà ed esso dominò non soltanto la scena politica dell’epoca, ma anche la ricerca pedagogica, che si mosse assieme al dibattito politico, incentivando lo sforzo di trasformazione della società italiana in una direzione nazionale e liberale. Il concetto principale di questa pedagogia affermava che l’educazione deve seguire la maturazione e che per sviluppare la prima occorre, principalmente, seguire la seconda. In questa direzione si mossero gli studi compiuti da Antonio Rosmini, Gian Domenico Romagnosi e 1

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Gaetano del Rosso

L’istruzione primaria dall’epoca unitaria al primo Novecento: appunti per la storia dell’insegnamento della religione

La scuola italiana, intesa nell’accezione moderna di base primaria di cultura per i fanciulli di ogni classe sociale, organizzata e controllata dallo Stato, ebbe le sue origini e il suo sviluppo a partire dal 1830.

La Restaurazione del 1814, posta in atto dagli Stati europei con il Congresso di Vienna, incrinò le basi che l’impero napoleonico aveva dato all’istruzione sicché il giovane istituto della scuola conobbe una fase di regresso. Le innovazioni avviate nei decenni precedenti, tuttavia, non furono del tutto accantonate e, dopo un periodo iniziale di stasi totale, limitato agli anni tra il 1814 e il 1830, conobbero un progressivo risveglio, alimentato dalla generale ripresa economica di alcuni stati italiani. Ciò accadde soprattutto in Piemonte, destinato, di lì a poco, ad assumere il ruolo di stato-guida nel difficile compito dell’unificazione nazionale.

Il tema centrale della pedagogia risorgimentale fu quello della libertà ed esso dominò non soltanto la scena politica dell’epoca, ma anche la ricerca pedagogica, che si mosse assieme al dibattito politico, incentivando lo sforzo di trasformazione della società italiana in una direzione nazionale e liberale. Il concetto principale di questa pedagogia affermava che l’educazione deve seguire la maturazione e che per sviluppare la prima occorre, principalmente, seguire la seconda. In questa direzione si mossero gli studi compiuti da Antonio Rosmini, Gian Domenico Romagnosi e Raffaello Lambruschini che, seguendo la linea pedagogica tracciata nel Seicento e nel Settecento da John Locke e Jean-Jacques Rousseau, trovarono amplia esplicazione nel pensiero pedagogico di Johan Heinrich Pestalozzi e nel suo metodo educativo. Questi studi si porranno come termini di riferimento di tutta la pedagogia italiana dell’Ottocento.

Il Regno d’Italia, affermatosi come stato unitario con il dissolvimento degli antichi stati (1861 fine del Regno delle Due Sicilie e 1870 conquista dello Stato Pontificio), fu presto assillato non solo da problemi di natura economica, ma anche dalla presenza di un altissimo indice di analfabetismo. Del resto il

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processo unitario favorì le regioni del nord, soprattutto la Lombardia e il Piemonte, che diventarono il cuore industriale del nuovo stato.

Su questo sfondo si stagliano le numerose riforme di carattere pedagogico, dalle quali non può prescindere una riflessione concernente l’insegnamento della religione cattolica nel nostro Paese, un insegnamento la cui storia va tracciata tenendo presente l’incidenza avuta dalla Chiesa nel periodo della formazione dell’Unità d’Italia1.

Nascita e sviluppo della scuola in Italia

1 Il Regno d’Italia aveva bisogno soprattutto di realizzare apparati capaci di garantire sia l’unità del territorio sia l’unità culturale della popolazione e per raggiungere questa finalità la scuola si rivelò uno degli strumenti più efficaci. A questo proposito si rinvia a studi significativi tra i quali: D. BERTONI JOVINE, La scuola italiana dal 1870 ai nostri giorni, Roma 1958; ID., Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari 1965; G. NATALE – F. P. COLUCCI – A. NATOLI, La scuola in Italia. Dal 1859 ai decreti delegati, Milano 1975; R. FORNACA, Analisi critica dei nuovi programmi della scuola elementare, Torino 1986; F. V. LOMBARDI, I programmi per la scuola elementare dal 1860 al 1985, Brescia 1987; G. RICUPERATI, La scuola dell’Italia unita, «Storia d’Italia. I documenti», 5: L’Illuminismo e il Risorgimento, tomo II, Torino 1973, p. 1695-1736; G. CANESTRI – G. RECUPERATI, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Torino 1976; L. AMBROSOLI, La scuola italiana dal dopoguerra a oggi, Bologna 1982; M. BARBAGLI, Scuola, potere e ideologia, Bologna 1982; G. CANESTRI, Centovent’anni di storia della scuola 1861-1983, Torino 1983. Per quanto riguarda l’educazione nei Regni preunitari si rinvia agli studi relativi allo Stato della Chiesa pubblicato dalla Congregazione degli studi dal titolo La riforma dell’istruzione nello Stato pontificio (1816-1870), a cura di M. I. VENZO, Roma 2009. Uno sguardo alle scuole romane, anche se cronologicamente limitato alla seconda metà del Seicento, è dato da M. ROSA, Spiritualità mistica e insegnamento popolare. L’Oratorio e le Scuole Pie, «Storia dell’Italia religiosa», a cura di G. DE ROSA – T. GREGORY – A. VAUCHEZ, Bari 1994, vol. II: L’Età Moderna, p. 271-302, in particolare p. 293-302 e al contributo di G. LOPARCO, Le istituzioni religiose femminili a Roma nelle relazioni delle ispettrici governative, «Chiesa e Storia», 2012, n. 2, p. 179-230. Per Napoli e la Puglia si vedano E. BOSNA, Per una Storia della Scuola in Terra di Bari, Bari 1974 e V. BOSNA, L’istruzione femminile in Terra di Bari nell’inchiesta murattiana del 1810, «Quaderni del Dipartimento di Scienze Pedagogiche e Didattiche», X (2006-2007), n. 6, p. 41-64; R. BASSO, La pietà secolarizzata. Pauperismo e beneficenza pubblica nella cultura riformista salentina, Galatina 1993. Sull’organizzazione del sistema scolastico del Mezzogiorno preunitario si rinvia allo studio di A. ZOZO, Istruzione pubblica e privata nel napoletano (1767-1860), Città di Castello 1927; A. BOCCOLI, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia 1767-1860, Firenze 1968. Per quanto concerne l’insegnamento della religione significativi appaiono gli studi condotti da A. C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia. Dalla unificazione a Giovanni XXIII, Torino 1965; L. AMBROSOLI, Libertà e religione nella riforma Gentile, Firenze 1980; C. BETTI, Sapienza e timor di Dio. La religione a scuola nel nostro secolo, Scandicci 1992; G. DI GIOVANNI, L’insegnamento di religione in Italia nelle scuole di Stato: una prospettiva storica (1870-1990), «Rivista Lasalliana», LXX (2005), n. 2, p. 85-112. Oltre i testi citati, per uno studio sistematico, si rinvia ai lavori effettuati sia da Emilio Boturini, sia da Giuseppe Bertagna. Questi studi, però, partono dall’analisi della normativa della Riforma Gentile (1923) per giungere alla definizione dello status di docente di religione del 2003: E. BUTTURINI, La religione a scuola dall’Unità ad oggi, Brescia 1987; ID., Profilo storico dell’IRC in Italia, «Manuale dell’insegnante di religione», a cura di Z. TRENTI, Torino 2004, p. 13-28; G. BERTAGNA, Le stagioni dell’IRC nelle scuole statali italiane dalla legge Casati (1859) ai nostri giorni. Elementi per un quadro interpretativo, «L’insegnamento della religione cattolica per la persona», a cura di G. BERTAGNA – G. SANDRONE BOSCARINO, Milano 2009, p. 163-182.

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L’esigenza da parte dello Stato Sabaudo di implementare una precisa strategia morale ed educativa aveva già indotto la classe politica a sollecitare, nel territorio piemontese, la presenza di un numero crescente di congregazioni religiose, capaci di istituire strutture di formazione complesse, articolate ed idonee a fronteggiare i nuovi bisogni educativi, molto spesso trascurati.

Nella città di Torino, ad esempio, beneficiarono di unanime consenso le congregazioni come quelle dei Fratelli delle Scuole Cristiane, quelle delle Suore di S. Anna, nonché quelle, più famose, della Società Salesiana di don Bosco2 e quella di don Giuseppe Benedetto Cottolengo, tutte capaci e specializzate nell’istruzione della prima infanzia e nell’educazione dei giovani3. Questo nuovo spirito educativo-culturale, rivolto soprattutto verso le classi meno abbienti, contribuì non poco a formare una maggiore coscienza sociale, specie presso numerose famiglie aristocratiche e dell’alta borghesia, le quali non mancarono di elargire parte del loro patrimonio in opere di beneficenza oltreché educative, finalizzate all’alfabetizzazione e all’acculturazione popolare4. Lo stesso Cavour, negli anni tra il 1840 e 1850 fondò una Società per gli Asili che venne autorizzata da Carlo Alberto a patto che l’insegnamento fosse affidato alle religiose5.

La particolare attenzione dello Stato piemontese nei confronti di una politica scolastica vera ed efficiente si desume già dal Regolamento del 23 luglio 1822 che, sancendo severi controlli sugli allievi e sugli insegnanti, da parte dello Stato e della Chiesa, soprattutto per i contenuti e i metodi didattici, varò un progetto organico di riforme, nel quale l’istruzione assumeva valenza di stabilità e di ordine.

Intanto le continue annessioni di altri territori della penisola, delineando in maniera più netta la futura configurazione del nascente Regno d’Italia, ingigantirono le problematiche connesse all’educazione e all’istruzione popolare, facendone oggetto di dibattito. Dal 1839 al 1847, in varie città italiane, si tennero congressi scientifici in cui la discussione sui problemi

2 Per quanto riguarda il modello pedagogico salesiano in relazione agli sviluppi politico-sociali si vedano gli studi pubblicati in Salesiani di Don Bosco in Italia. 150 anni di educazione, a cura di F. MOTTO, Roma 2011; Le Figlie di Maria Ausiliatrice in Italia (1872-2010). Donne nell’educazione. Documentazione e saggi, a cura di G. LOPARCO – M. T. SPIGA, Roma 2011.

3 Si vedano i Dispacci 10 e 11 pubblicati da A. LUZIO, Carlo Alberto e il Cottolengo. Documenti inediti, «Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino», vol. LVII, Torino 1921-1922, p. 407-434.

4 CANESTRI, Centovent’anni, passim.5 T. TOMASI, L’idea laica dell’Italia contemporanea (1870-1970), Firenze 1971, p. 6.

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scolastici ebbe parte preminente. Fu proprio per merito di grandi pedagogisti, quali Ferrante Aporti e Raffaello Lambruschini, presenti a tali congressi, che l’esame del problema scolastico andò allargandosi fino a giungere ad una vera e propria riforma di tutta l’istruzione6.

Nel 1846 fu nominata una commissione permanente con l’incarico di studiare le condizioni dell’istruzione in Italia. Tale commissione condusse la prima, accurata indagine sulle condizioni della scuola in ogni parte della penisola. L’anno successivo, Carlo Alberto creò la Regia Segreteria di Stato per l’Istruzione Pubblica, a cui fu affidato il compito preciso di dare un indirizzo unitario agli studi e ai problemi organizzativi ad essi connessi. Il 4 ottobre 1848, sotto il ministro Boncompagni, Carlo Alberto emanò un decreto rimasto famoso con il nome di legge Boncompagni. Tale decreto stabiliva, fra l’altro, di affidare al Ministro di Stato per la Pubblica Istruzione il compito di promuovere il progresso del sapere e la diffusione dell’istruzione. Dipendevano dal Ministero le scuole di ogni tipo e grado e tutti gli insegnanti i quali, per poter esercitare la loro attività, dovevano sostenere un esame di abilitazione. Era peraltro ribadito l’obbligo per i Comuni di provvedere alle spese per l’istruzione elementare maschile e femminile, ed era riaffermata ancora una volta l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione elementare.

Nel delineare le nuove direttive per la scuola del nascente Regno d’Italia non si poteva evitare di rivolgere lo sguardo ai Paesi d’oltralpe come Francia e Germania, che procedevano, progressivamente, alla statalizzazione dell’istruzione scolastica, nonché all’Inghilterra, che decideva di organizzarla su basi volontarie, nonostante il vivace contrasto fra i progressisti che premevano affinché l’istruzione pubblica fosse indirizzata anche alle classi meno abbienti, e i conservatori, che paventavano l’alterazione del già precario equilibrio sociale. Ciononostante, nel 1870, l’istruzione elementare nel Regno Unito, divenne obbligatoria.

Per quanto riguardava l’Italia e i rapporti tra Stato e Chiesa, il Regno Sabaudo, con le sue scelte, si fece punto di riferimento politico non solo perché intorno ad esso si andava costruendo uno Stato unitario, ma anche perché sulla sua politica si fondavano le speranze per un’ampia democrazia sociale di matrice liberale e fortemente anticlericale. In questo clima con la Legge 4

6 F. DE VIVO, Linee di storia della scuola italiana, Brescia 1983, p. 79.4

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ottobre 1848 (legge Boncompagni) fu sancito il controllo delle scuole pubbliche da parte dello Stato, l’abolizione delle immunità ecclesiastiche e l’obbligo, per gli enti laici e religiosi, della preventiva autorizzazione governativa all’accettazione di eredità o donazioni. L’art. 1 della legge Boncompagni stabiliva che la pubblica istruzione doveva dipendere dalla direzione del Ministro Segretario di Stato. A lui spettava il compito di promuovere il progresso del sapere, la diffusione dell’istruzione, la conservazione delle sane dottrine e provvedere in ogni parte all’amministrazione degli Istituti e Stabilimenti appartenenti all’insegnamento e alla pubblica educazione. Nell’affermare l’autonomia della scuola dello Stato, l’art. 47 di quella legge precisava:

«Nelle scuole affidate a Corporazioni religiose, i Prefetti, i Professori ed i Maestri saranno proposti ad esse ed ammessi quando siano riconosciuti idonei dalle autorità preposte dalla Pubblica Istruzione; dovranno perciò sostenere gli esami e adempiere tutte le altre condizioni prescritte dalle leggi e dai regolamenti; la proposizione [degli insegnanti] fatta dalla Corporazione potrà, secondo il giudizio delle autorità cui spetta di ammetterli, esimerli dal certificato di buona condotta».

La Legge Boncompagni fu la prima a dare un preciso orientamento alla scuola in Italia, intendendola ed organizzandola come ufficio civile dello Stato e, pur richiamando per alcuni aspetti (come quello pedagogico) la preesistente legislazione del Lombardo-Veneto, restava comunque una legge deliberata autonomamente da uno Stato sovrano. L’istruzione fu divisa in tre gradi: universitario, classico – tecnico o speciale – primario e popolare, tutti indistintamente posti sotto la tutela pedagogica e amministrativa del Ministero della Pubblica Istruzione che la accentrava, di fatto, nelle mani dello Stato.

Per questa ragione la legge Boncompagni costituì il primo tentativo radicale di laicizzazione dell’ordinamento scolastico, con cui il governo intese estendere il controllo anche alle scuole private e a quelle di matrice ecclesiastica. Malgrado ciò, le innovazioni pedagogiche deliberate furono alquanto blande, confermando il primato dell’indirizzo umanistico e delle discipline classiche su quello di tipo scientifico e matematico, mentre l’insegnamento della religione rimase garantito dalla presenza nelle scuole di un direttore spirituale nominato direttamente dal vescovo del luogo7. Il

7 Si veda quanto scrive a tal proposito la voce curata da L. PAZZAGLIA, Movimento cattolico e questione scolastica, «Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia. 1860-1980» (=DSMC), a cura di F. TRANIELLO – G. CAMPANINI, vol. 1: I fatti e le idee, tomo 2, Casale Monferrato

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movimento ideologico che aveva ispirato la legge Boncompagni avrebbe voluto contrapporre, alla pedagogia dei gesuiti, una pedagogia di matrice militare, sul modello delle accademie, ma questo tentativo incontrò molteplici ostacoli e quel processo di laicizzazione, fortemente voluto, si mostrò nei fatti molto più lento di quanto non ci si aspettasse, così da far risultare del tutto inascoltate le innovazioni richieste dai liberali8.

Anche le differenze linguistiche che caratterizzavano le singole regioni, e i diversi dialetti nell’ambito della stessa regione erano accentuate e scarsa risultava la conoscenza della lingua nazionale, generalmente, conosciuta e parlata soltanto da letterati, funzionari di governo, avvocati, insomma da tutti coloro che avevano ricevuto una buona istruzione e da quanti conoscevano la lingua latina. Lo stesso Vincenzo Gioberti, sostenne che il popolo italiano non era «un popolo effettivo» e, nel 1844, con la pubblicazione del Primato morale e civile degli italiani, sottolineò che «il popolo italiano […] non sussiste»9.

Sollecitati da tali affermazioni, i legislatori pensarono di istituire una vigilanza sull’insegnamento della lingua italiana con la capillare diffusione dei provveditorati agli studi e preferendo, come modello fondamentale per la didattica, quello tedesco o prussiano sia per scelte di matrice politica, quali il centralismo e la forte burocrazia, sia per i contenuti e i metodi didattici ministeriali. L’impianto didattico prevedeva la divisione in classi per anno di corso, la priorità delle discipline letterarie e classiche anche negli indirizzi tecnici, la svalutazione della scuola di base a favore di quella secondaria classica ed universitaria, gli orari rigidi e l’eliminazione di ogni attività che non fosse espressamente prevista dai programmi ufficiali del ministero.

Negli anni successivi il problema della libertà scolastica ricevette un nuovo impulso. Molti sostenitori diedero vita ad ampi dibattiti e sollecitarono proposte o progetti di legge, come, ad esempio, quello del ministro Luigi Giovanni Antonio Cibrario, presentato a suo nome il 6 marzo 185410, o quello del ministro

1981, p. 72-84.8 Per quanto riguarda la normativa e l’orientamento pedagogico imposto all’educazione e

alla stessa istituzione scolastica si veda il Regio Decreto n. 818 del 4 ottobre 1848, «Raccolta degli atti del Governo di S.M. il Re di Sardegna», vol. 16, parte II, p. 939-942.

9 V. GIOBERTI, Del primato morale e civile degli italiani, Capolago 1846, vol. I, p. 117-118.10 ARCHIVIO STORICO CAMERA DEI DEPUTATI,(= ASCD) Disegni e proposte di legge e incarti delle

commissioni (1848-1943), Legislatura V, sessione I, n. 65, Ministro dell’istruzione pubblica Cibrario, Riordinamento dell’Amministrazione dell’istruzione pubblica, vol. X, Regio Decreto di presentazione del 6 marzo 1854, f.140, 142-165.

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Giovanni Lanza risalente al 22 giugno 185711. Colui che più di tutti seppe interpretare il nuovo spirito in materia d’istruzione e di insegnamento, fu il Ministro dell’Istruzione Gabrio Casati con la Legge n. 3725 del 13 novembre 1859, spalmata su 380 articoli. Casati ideò, per la scuola italiana, un sistema medio di libertà sorretta da cautele, lasciando ampio spazio alla libertà dei genitori. Quanto alle competenze proprie del Ministro, gli spettava il governo diretto dell’insegnamento pubblico in tutti i rami ed il compito di incrementarlo, mentre sull’insegnamento privato gli era affidato l’esclusivo compito di vigilare a tutela della morale, dell’igiene e dell’ordine pubblico. Gli studi secondari compiuti nelle scuole dipendenti dai Comuni e da Corpi o Enti morali potevano essere pareggiati, per il valore legale dei titoli, agli studi compiuti nelle scuole dello Stato qualora fossero state osservate le stesse norme.

Per comprendere il significato e i limiti del rinnovamento operato dalla Legge Casati riguardo all’organizzazione della Pubblica Istruzione, occorre tener conto, in primo luogo, della situazione scolastica creatasi nel Regno di Sardegna prima del 1859 e, in secondo luogo, della politica ecclesiastica dei governi piemontesi dopo il 1848. Su queste basi, è evidente che l’emanazione della Legge Casati fu il punto d’approdo di una serie di dibattiti e vicende legislative, al cui centro convergeva la duplice preoccupazione del Cavour: porre il Regno di Sardegna alla testa della riscossa nazionale e di istituire un regime di separazione tra lo Stato e la Chiesa12.

Il particolare clima politico del 1859 e dei mesi successivi, influenzò fortemente il riordinamento dell’istruzione pubblica e tale esigenza era chiaramente percepibile nella relazione con la quale il ministro Casati, nel mese di novembre, presentava al Re la legge da promulgare. In particolare, il ministro rilevava l’esigenza di rendere uniformi gli ordinamenti scolastici, secondo le sollecitazioni da più parti avanzate. Il ministro evidenziava la mancanza di una norma che riguardasse organicamente tutta la materia dell’istruzione pubblica, nonostante le importanti innovazioni introdotte già dal 1848, e ribadiva la necessità di coordinare l’amministrazione centrale e quella periferica, lasciando in vita ciò che di positivo era stato proposto negli ordinamenti precedenti, senza dimenticare l’elemento più importante: il

11 ASCD, Disegni e proposte di legge e incarti delle commissioni (1848 – 1943), Legislatura VI, sessione I, n. 22a, Ministro delle finanze Lanza, Spese nuove e maggiori spese al bilancio 1857, vol. XVI, Relazione del 31 marzo 1858, f. 432-446.

12 PAZZAGLIA, Movimento cattolico, p. 73-74.7

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riconoscimento della “libertà di insegnamento” e dell’autonomia degli ordini scolastici13.

La legge Casati e l’Unità d’Italia

L’Italia post-unitaria si trovò subito impegnata nella difficile impresa di rifiutare, sostituire o modificare istituzioni, ancora accettate di buon grado e forti di una secolare tradizione. Il contrasto con la Santa Sede assunse punte acute in ambito scolastico, perché il tradizionale monopolio ecclesiastico entrò in contrasto con le finalità dello Stato moderno in cui la formazione del cittadino sarebbe avvenuta attraverso un sistema scolastico dove l’insegnante laico, consapevole di esercitare una funzione civile, sostituiva quello ecclesiastico, convinto, invece, di dover svolgere una missione sacerdotale14. Con decreto legislativo del 13 novembre 1859 n. 3725, il ministro Casati volle dare un organico ordinamento alla pubblica istruzione, nella convinzione che soltanto mediante un buon funzionamento di tale servizio sarebbero state gettate le basi di una solida coscienza nazionale. La legge comprendeva 380 articoli e aveva come principi basilari l’obbligo scolastico, la libertà dell’insegnamento e la gratuità dell’istruzione15.

L’obbligatorietà era limitata ai due anni del corso elementare inferiore e soltanto i Comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti erano tenuti ad istituire corsi elementari superiori. Tutto il settore dell’istruzione primaria, e quindi l’onere di estendere l’alfabetizzazione, ricadde sulle amministrazioni comunali, che dovevano provvedervi «in proporzione alle loro facoltà e secondo i bisogni degli abitanti» (art. 317).

Questo fu forse il punto più critico della legge, perché metteva l’istruzione in connessione con i bilanci finanziari dei Comuni, spesso poverissimi di risorse strutturali ed economiche. Ne fu una prova il fatto che, dopo la sua emanazione, l’analfabetismo rimase molto più diffuso nei Comuni privi di entrate e con situazioni finanziarie precarie. Il problema si presentava più rilevante nelle province meridionali, dove essi dovevano affrontare

13 C. COVATO – A. M. SORGE, L’istruzione normale dalla legge Casati all’età giolittiana, Roma 1994, p. 17.

14 TOMASI, p. 2.15 Per il testo normativo si rinvia a B. AMANTE, Nuovo Codice Scolastico Vigente. Leggi,

Decreti, Regolamenti, Circolari e Programmi dal 1859 al 1901, Roma 1901. 8

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contemporaneamente questioni più pressanti come l’arretratezza dei mezzi di produzione, la mancanza di lavoro e le scarse condizioni igieniche. La legge, quindi, incontrò enormi difficoltà per la sua attuazione sia perché trovò, nella maggior parte delle province italiane, «eredità di trascuratezza», sia perché dovette adeguarsi alle particolari condizioni economico-sociali dei diversi Stati unificati16. Nonostante ciò, la legge Casati riuscì a ridurre sensibilmente l’analfabetismo, anche se non si poteva ancora definire “solida” una scuola che, in moltissimi luoghi, esisteva soltanto sulla carta ed era affidata alla responsabilità di amministrazioni comunali dissestate e retrograde17.

Era una legge che – in qualche modo – rifletteva le vicende delle regioni culturalmente più avanzate: Piemonte e Lombardia, e non è difficile trovarvi gli archetipi di tutto quel processo di formazione della scuola moderna, che partendo dal modello gesuitico della ratio studiorum e, passando dalle concezioni laicistiche sabaude e per le innovazioni napoleoniche, avevano portato alla stesura della legge Boncompagni del 184818. Pur registrando a suo vantaggio la manifesta volontà dell’accentramento statale e l’ampiezza dei poteri ministeriali, la legge si rivelava deficitaria per la mancanza di autonomia degli organismi collegiali sia a livello centrale (Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione) sia a livello locale (Consiglio Provinciale Scolastico).

L’istruzione come strumento di formazione di una coscienza nazionale

Compiuta l’unificazione territoriale, politica e amministrativa del paese, nella società italiana persistevano ancora gravi problemi da risolvere, non ultimo quello di creare un’unità nazionale nelle coscienze dei cittadini: un compito non facile e, perciò affidato anche alla scuola, benché la sua situazione fosse ancora molto precaria.

I vari ministri della Pubblica Istruzione che, dal 1859 al 1866, si successero al ministro Casati, concentrarono i loro sforzi nella diffusione sempre più capillare dell’istruzione primaria e nella lotta contro l’analfabetismo. La stessa legge, tesa ad applicare i principi cavouriani, senza provocare tuttavia una

16 D. BERTONI JOVINE, Storia della didattica, Roma 1976, p. 127.17 Si veda a tal proposito lo studio condotto da CANESTRI – RICUPERATI, La scuola, p. 21, 31 –

49 e passim.18 Un importante contributo è stato offerto da L. FRANCHI, Le fonti della Casati, Modena

1928.9

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frattura con la Chiesa, preferì mediare in merito alla libertà dell’insegnamento. Infatti, accanto alle scuole pubbliche furono ammesse scuole private che dovevano, però, sottostare a determinate condizioni. L’insegnamento religioso, in particolare, restò facoltativo nei gradi superiori di insegnamento, mentre fu reso obbligatorio nel grado primario19.

Il primo ministro della Pubblica Istruzione del neonato Regno d’Italia fu Francesco De Sanctis. Egli curò soprattutto l’istruzione elementare, magistrale e normale ed ebbe a cuore il problema della preparazione dei maestri che dovevano essere «capaci di un’azione educativa tendente a sollevare le plebi al rango di cittadini italiani»20. A Francesco De Sanctis successero, nell’ordine, i ministri Pasquale Stanislao Mancini, Carlo Matteucci, Michele Amari e Domenico Berti. Quest’ultimo, che resse il Ministero a partire dal 1865, si preoccupò di emanare alcuni provvedimenti speciali in materia di insegnamento elementare e di riforma delle scuole magistrali, convinto com’era che non si sarebbe ottenuto nessun beneficio nell’ambito dell’istruzione se non fossero migliorate le condizioni dell’insegnamento e degli insegnanti.

L’attività del ministro Berti cessò con la fine della IX legislatura, il 13 febbraio 1867. Nella ricostruzione del nuovo governo divenne ministro Cesare Correnti, che ben presto, con la X legislatura, iniziata il 22 marzo 1870, fu sostituito dal ministro Michele Coppino.

Il 16 dicembre del 1866 il ministro Coppino presentò alla Camera dei Deputati una proposta di legge sull’obbligatorietà dell’istruzione che, approvata il 15 luglio 1877 (il relativo Regolamento fu approvato con il Regio Decreto del 21 giugno 1883), estendeva l’obbligo scolastico fino all’età di nove anni, sanzionando gli inadempienti con ammonizioni, ammende e privazioni di benefici21. Si può senz’altro riconoscere a questo ministro il merito di aver contribuito, con la sua legge, a inferire un duro colpo all’analfabetismo, che gradualmente conobbe un decisivo decremento. La percentuale degli analfabeti in Italia, passò, infatti dal 75% del 1861 al 62% del 1881, fino ad

19 TOMASI, p. 7, 9.20 A. ARCOMANO, Istruzione e ministri, scuole e maestri nel I Decennio unitario, Napoli 1983,

p. 26.21 In questo modo gli analfabeti, che nel 1861 erano il 78%, diventarono meno del 50% nel

1910. Per ciò che concerne la lingua, le masse operaie e contadine nella vita quotidiana si serviva dei dialetti e parlavano poco la lingua nazionale (D. M. SMITH, Storia d’Italia, Bari 2008, p. 141; B. MIGLIORINI – I. BALDELLI, Breve storia della lingua italiana, Sancasciano Val di Pesa 1965, p. 283).

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arrivare al 40% del 1911. Tuttavia l’insegnamento della Religione veniva escluso dall’istruzione secondaria e fu abolita la figura del direttore spirituale. Nelle scuole elementari, invece, pur non essendo inteso come una concessione fatta alla Chiesa da parte dello Stato, esso fu comunque tollerato ritenendolo valido per la formazione morale dell’infanzia e per i fini di educazione civica22. Pertanto l’istruzione religiosa sarebbe stata impartita nelle scuole, soltanto su richiesta dei genitori degli alunni, contrariamente alla precedente normativa che prevedeva l’esenzione da quell’insegnamento23. Con l’entrata in vigore della legge Coppino l’insegnamento della religione veniva sostituito di fatto con “diritti e doveri”. È significativo, a tal proposito, quanto si legge nella Relazione di presentazione dei programmi 1888 per la scuola elementare circa l’insegnamento della religione. Dopo aver sottolineato l’utilità sociale di questo insegnamento, si faceva notare che esso non era compreso nei programmi, vista l’incompetenza dello Stato in materia. Questa posizione rifletteva la linea politica adottata negli anni precedenti con la soppressione delle Facoltà Teologiche (1873) e l’abolizione del direttore spirituale negli istituti secondari (1877)24.

Accanto alla legge Coppino, che rappresentò uno dei ragguardevoli tentativi di affrontare il problema dell’obbligo scolastico, iniziarono anche ad esserci significativi interventi in favore dei maestri. L’intento era quello di gratificarli non soltanto con miglioramenti economici, ma anche di sottrarli alle oppressioni comunali che, con le loro pastoie burocratiche, non permettevano di svolgere appieno il proprio lavoro di docenti25.

Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia la scuola rappresentò il terreno fertile sul quale le diverse ideologie furono chiamate a confrontarsi. Esse, ponendo l’attenzione agli aspetti pedagogici e didattici, all’interno del quadro dei movimenti sociali, furono sollecitate a dare una risposta ai problemi evidenziati tanto dalla dinamica struttura del mercato del lavoro, quanto dalla mobilità sociale. Queste tematiche influenzarono i

22 C. CARDIA, Stato e confessioni religiose. Il regime pattizio, Bologna 1988, p. 291-292.23 SMITH, p. 266. 24 G. OTTAVIANI, La Scuola del Risorgimento. Cinquant’anni della scuola italiana 1860-1910,

Roma 2009, p. 30. Un valido contributo allo studio dell’insegnamento della religione e alle implicazioni legislative è stato offerto da B. FERRARI, La soppressione delle facoltà di teologia nelle università di Stato in Italia, Brescia 1968, in modo particolare si vedano p. 95-96, 164-166.

25 G. CANDELORO, Lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio, 1871-1896, «Storia dell’Italia moderna», vol. VI, Milano 1970, p. 258.

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numerosi dibattiti sulla scuola, sull’educazione, sull’istruzione e sulla loro funzione in una società in continua trasformazione.

All’interno dell’istituzione scolastica si riversarono tutti i contrasti sociali e ideologici che i principali orientamenti culturali si portavano appresso dal momento in cui intesero sviluppare il nesso esistente tra l’evoluzione della società, con i suoi mutamenti politico-sociali, e la formazione dell’uomo e del cittadino, insistendo fortemente sul carattere nazionale26. In questo contesto nacque il movimento organizzativo degli insegnanti elementari e medi, che portò alla creazione di due associazioni nazionali: la Federazione Nazionale della Scuola Media, diretta da Giuseppe Kirner e l’Unione Magistrale Nazionale, diretta da Luigi Credaro. Quest’ultimo, in veste di responsabile della sua associazione, lanciò, al II Congresso dell’Unione Magistrale, l’idea della costituzione di un “partito della scuola” che unisse insegnanti ed amici in un movimento al di sopra e al di fuori di ogni partito politico. Ben presto, però, il progetto venne abbandonato e ci si limitò a sostenere le diverse posizioni politiche27.

Nella Federazione della Scuola Media, intanto, al Kirner si affiancava Gaetano Salvemini che a sua volta ebbe eccellenti collaboratori del calibro di Girolamo Vitelli, Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice, trade-union, quest’ultimo, con l’Unione Magistrale di Credaro28.

Gaetano Salvemini iniziò la sua collaborazione concentrandosi sulla necessità di una riforma della struttura, qual era quella scolastica, che forniva le basi culturali al popolo italiano. Egli, pertanto, rivolse l’attenzione ai “lavoratori della scuola” al fine di evitare il loro fossilizzarsi nel conservatorismo e nel qualunquismo e, a conclusione di una serie di ricerche svolte nel campo pedagogico e didattico, pervenne a considerare la necessità di imperniare l’attività scolastica su una base educativa prettamente umanistica29. In quest’ottica avvenne l’incontro con gli idealisti, i quali avevano combattuto un’aspra battaglia contro le impostazioni scolastiche del

26 Si veda il contributo allo studio della didattica dato da BERTONI JOVINE, La scuola italiana. Sull’evoluzione dei dibattiti politico-scolastici ed in particolare ai temi della libertà d’insegnamento e sull’insegnamento della religione cattolica si rinvia alla bibliografia riportata da PAZZAGLIA, Movimento cattolico, p. 82-83.

27 BERTONI JOVINE, La scuola italiana, p. 131.28 A. ASOR ROSA, La cultura, «Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi», 9: Letteratura e sviluppo

della nazione, Milano 2005, p. 1226.29 Ibidem, p. 1228. Sugli studi sull’associazionismo sviluppatosi tra insegnanti si rinvia alla

bibliografia riportata da PAZZAGLIA, Movimento cattolico, p. 83-84.12

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positivismo30. Dal canto suo, Benedetto Croce, nel precisare che, la filosofia da lui coltivata, avversava la pedagogia perché ricca di problematiche sia educative sia didattiche, affermò indirettamente l’alto ruolo svolto dall’ispiratore della riforma intellettuale degli italiani31. Con l’assunzione di tale posizione intellettuale, la penetrazione dell’idealismo all’interno della scuola venne lasciata tutta nelle mani di Gentile. Egli, autore del Sommario di pedagogia come scienza filosofica, pubblicato nel 1913, tentò di riassumere tutto il problema pedagogico nel rapporto tra maestro e discente o, in modo più specifico, sull’autorità morale e spirituale del primo nei confronti del secondo32. Di qui nacque il suo schierarsi, aspramente critico, in favore dell’insegnamento religioso cattolico nella scuola elementare, convinto com’era che «ogni educazione nella scuola è educazione religiosa»33.

Purtroppo, le visioni politico-pedagogiche di Gentile, così come quelle di Credaro, scaturite da una certa interpretazione del Risorgimento, che in qualche modo aveva dominato per i primi due decenni del Novecento, erano destinate a scontrarsi inesorabilmente con i profondi mutamenti e stravolgimenti che stavano interessando la società italiana. La loro teoria pedagogica, legata ad una visione tardo-ottocentesca dello stato sociale, oltre che all’impianto teorico-politico risorgimentale con tutte le successive sfaccettature, legami ed evoluzioni, entrò in crisi allorquando, nell’immediato primo dopoguerra, emerse e si rafforzò lo stretto legame tra le problematiche pedagogiche e quelle politiche. Esse si orientavano nell’ottica dell’esigenza di un rinnovamento radicale della realtà italiana che mostrava, però, due componenti essenziali e contrapposte, la prima delle quali premeva per un rinnovamento nella tradizione, la seconda per un rinnovamento contro la tradizione34.

L’influenza di Credaro, benché spesso non riconosciuta, si nota ancora oggi nella promozione di un ruolo autonomo per il sapere tecnico-scientifico

30 G. SALVEMINI, La politica degli insegnanti al Congresso di Firenze, «Scritti sulla Scuola», a cura di L. BORGHI – B. FINOCCHIARO, Milano 1966, p. 72.

31 ASOR ROSA, La cultura, p. 1231.32 BERTONI JOVINE, La scuola italiana, p. 125.33 Si veda la teoria gentiliana sull’insegnamento della religione esposta in G. GENTILE, Il

modernismo e l’enciclica «Pascendi» (1908), «Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia», Firenze 1962, in particolare le p. 42, 44, 48, 66, 75.

34 G. TOGNON, Benedetto Croce alla Minerva, Brescia 1990, p. 11-13 ed in particolare p. 24. L’opera di Tognon rimane sicuramente uno strumento di ausilio indispensabile per la ricostruzione delle vicende e del dibattito, non solo educativo, dei primi decenni del Novecento, sia per la pertinenza delle osservazioni sia per la ricchezza dei dati bio-bibliografici.

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negli ordinamenti scolastici. Pur essendo divisi dall’orientamento filosofico (idealista di Gentile e positivista di Credaro), i due concordavano sulla necessità di non disgiungere la riflessione filosofica dalla prassi pedagogica, cosicché in molti aspetti il loro itinerario venne a convergere. Un caso emblematico è costituito dal tema dell’«educazione nazionale»: sia pur con accentuazioni diverse, entrambi la propugnarono, assumendosi del resto tutte le difficoltà di un ideale che si rifaceva a suggestioni risorgimentali ormai sempre più lontane.

L’azione del gruppo gentiliano, così come quello di Credaro, doveva scontrarsi – e si scontrò – con una nuova realtà sociale e politica e, quindi, pedagogica che la Grande Guerra aveva, in modo determinante, contribuito a creare. Dopo il 1915, infatti, i contenuti risorgimentali «non fornivano più materia ideale sufficiente alla costruzione del vivere civile perché ne era stata messa in discussione l’origine di classe. Lo Stato di diritto liberale non poteva più esimersi dal confronto con l’esigenza, insita nelle democrazie di massa, di una forte azione di governo per supplire alla continua erosione operata dalla domanda sociale sui tradizionali principi morali ed economici di ordine»35. È da questo punto di vista che il pensiero di Gentile e quello di Credaro, legati ancora nella loro intima costituzione da categorie come quella di Risorgimento, di Patria o di Liberalismo, non risultarono più capaci di amalgamarsi con la nuova realtà. Il concetto di Nazione o di Patria che fosse, si nutriva in entrambi i pensatori di quell’humus idealizzante che inevitabilmente gettava le proprie radici nella cultura idealistica e romantica vedendo prevalere l’elemento sentimentale su quello politico, lo spirito sulla materia36.

Questa “contraddizione” irrisolta consente di evidenziare brevemente un ultimo punto: l’esigenza di una educazione che fosse strumento di formazione di una “coscienza nazionale” e che, attraverso i temi del Nazionalismo e della Patria, si intrecciava inesorabilmente con quelli più specificatamente

35 Ibidem, p. 191.36 Sulla base dell’equazione stabilita fra Patria e spirito religioso, per la quale il buon

cattolico si identifica nel miglior cittadino, e quindi nel miglior interprete del patriottismo, si pone l’accento sullo spiccato senso del dovere manifestato dai fedeli anche in caso di conflitti bellici, mirando a ottenere il riconoscimento dell’importanza dalla religione nel cementare l’organismo nazionale. Si veda a tal proposito M. PAIANO, Religione e Patria negli opuscoli cattolici per l’esercito italiano. Il cristianesimo come scuola di sacrificio per i soldati (1861-1914), «Rivista di storia del cristianesimo», VIII (2011), n. 1, p. 7-26

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pedagogici di un’educazione laica fondata su un insegnamento libero da qualsiasi imposizione che non fosse quella strettamente didattica.

L’insegnamento della storia d’Italia

All’indomani della promulgazione della legge Casati, con il Regolamento del 15 settembre 1860, venivano varati dal Ministro della Pubblica Istruzione, il conte Terenzio Mamiani della Rovere, i nuovi programmi per la scuola elementare che con l’unificazione territoriale della penisola dovevano essere estesi a tutte le scuole del Regno37. In quei programmi veniva introdotta anche la possibilità dell’esonero dalla frequenza e dagli esami di religione. Nell’ottobre del 1867, Michele Coppino, nuovo Ministro della Pubblica Istruzione, procedeva alla revisione dei programmi didattici per licei e ginnasi, scuole tecniche e normali. Tale provvedimento giungeva in una fase nuova della politica italiana, dal momento che l’organizzazione del nuovo Stato risultava completata e la politica si era sostanzialmente delineata nell’apparato amministrativo del Regno38. Il provvedimento, mentre da un lato rifletteva una sostanziale continuità con le scelte attuate precedentemente – specie nel ruolo assegnato alla scuola per il superamento delle profonde divisioni linguistiche e culturali del Paese, al fine di tendere ad una unica identità nazionale – dall’altro faceva propri gli orientamenti didattici derivanti dalla cultura pedagogica di impostazione positivistica39.

L’obbligo scolastico sanzionato dalla legge Coppino, restava però, di fatto, largamente disatteso e, dove le scuole erano operanti sul territorio, vi insegnavano docenti perlopiù impreparati, maestri usciti dalle caserme, dai seminari, conventi e via dicendo, completamente sprovvisti di una qualsiasi abilitazione all’insegnamento40.

Negli “Avvertimenti Generali” annessi all’Istruzione ai maestri delle Scuole primarie sul metodo di svolgere i programmi approvati con R. D. 15 settembre 1860, redatta dall’ispettore generale Angelo Fava, si affermava in modo esplicito che «bisogna sempre stimolare negli alunni i valori morali e ispirare il

37 A. ASCENZI, Tra educazione etico-civile e costituzione dell’unità nazionale. L’insegnamento della storia nelle scuole italiane dell’Ottocento, Milano 2004, p. 23.

38 Ibidem, p. 136.39 Relazione fatta dal ministro dell’istruzione pubblica a s.m. in udienza del 10 ottobre

1867, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 24 ottobre 1867, p. 291.40 TOMASI, p. 26.

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sentimento dell’amore verso la Patria». Ciò attesta l’importanza attribuita, fin dalla costituzione dello Stato unitario, all’insegnamento della storia patria nelle scuole elementari, ai fini della formazione civile e della promozione del sentimento nazionale delle nuove generazioni, il cui dovere sociale doveva consistere nell’amare e servire la patria «alla quale ora ci accomuna un’unica lingua e un’unica legge»41.

Non a caso, quindi, l’allora ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Lanza nella Istruzione ai Maestri delle Scuole elementari, additò agli insegnanti l’utilità degli esempi tratti dalla storia nazionale e dalle biografie degli italiani illustri affinché gli animi degli alunni fossero ispirati dai «saldi principi di amor patrio e di affetto alle istituzioni liberali che ci reggono»42. Nei programmi restavano però ancora da delineare i termini entro cui doveva inquadrarsi l’indagine storiografica e l’insegnamento della storia43.

Nei secoli precedenti ciascuno stato e regione della penisola aveva avuto una sua propria storia, distinta dalle altre e tutte insieme, in modi e tempi diversi, erano confluite in una più generale, a carattere nazionale. Il Risorgimento aveva determinato il destino di un popolo e di una nazione. Per questo, l’insegnamento della storia previsto per l’istruzione primaria non poteva non rimarcare il periodo risorgimentale, imponendosi il compito di elevare il popolo all’«autoconsapevolezza della propria storicità» e rivestirsi, attraverso l’«esegesi delle motivazioni che, nella precarietà di un’epoca, lo hanno indotto all’autodeterminazione in un modo piuttosto che in un altro»44, di un senso «più spiccatamente nazionale nella plurisecolare storia d’Italia»45. Già Ludovico Antonio Muratori, negli Annali d’Italia, aveva indicato, nell’anno 1749 a conclusione della guerra di successione austriaca (formalmente siglata nel

41 A. ASCENZI, Da plebe a popolo: l’insegnamento della storia nazionale nella scuola elementare dalla Legge Casati alla fine del secolo XIX, «Maestri e istruzione popolare in Italia tra Otto e Novecento. Interpretazioni, prospettive di ricerca esperienze in Sardegna», a cura di R. SANI – A. TEDDE, Milano 2003, p. 121.

42 Istruzione ai Maestri del Scuole elementari circa il Modo di svolgere i Programmi approvati col Regio Decreto 29 ottobre 1856, «Raccolta di Leggi, Decreti, Circolari ed altre provvidenze de’ magistrati ed uffizi», vol. XX, Torino 1856, p. 1040-1043.

43 In generale, sui Programmi di insegnamento della storia nella scuola italiana, si vedano: G. RICUPERATI, Clio e il centauro Chirone. Interventi sull’insegnamento della storia, Milano 1989, p. 11-35; G. DI PIETRO, Da strumento ideologico a disciplina formativa. I programmi di storia nell’Italia contemporanea, Milano 1991.

44 F. VALERIO, Il “Risorgimento” tra analisi storiografica e interpretazione transpolitica, «Profilo sociale e religioso dell’Ottocento pugliese. Atti della XI Primavera di Santa Chiara 1991», a cura di S. SPERA, Roma 1992, p. 87-103, in particolare p. 89.

45 S. J. WOOLF, Il Risorgimento italiano, II: Dalla Restaurazione all’Unità, Torino 1981, p. 3, 19.

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1748 con la pace di Aquisgrana), il momento da cui partire per cominciare a delineare la storia d’Italia: «dopo Aquisgrana l’Italia fu concepita non più come un mosaico di Stati separati, ma come un sol pezzo sulla scacchiera della diplomazia europea»46.

Occorre però anche sottolineare che larga parte dell’opinione pubblica vedeva, nel nuovo stato, più una unificazione puramente territoriale politico-statale che una realtà nata dall’autocoscienza di un popolo e perciò da intendersi come affermazione di una autonomia nazionale ed individuale47.

Dalla Nazione alla Patria

Immediatamente dopo l’applicazione della Legge Casati, le numerose e gravi difficoltà logistico-culturali incontrate nell’istruzione primaria e popolare nelle regioni centro-meridionali e insulari consigliarono ai legislatori di semplificare notevolmente i programmi previsti nel piano di studi della scuola elementare, puntando maggiormente sull’apprendimento delle nozioni basilari e quindi al saper leggere, scrivere e far di conto, al fine di garantire un minimo di istruzione a tutta la popolazione. Ad esacerbare tali difficoltà, si aggiungeva l’atteggiamento critico dei maestri elementari che, reclutati prevalentemente tra ecclesiastici e religiosi, manifestavano un atteggiamento di scarso interesse, se non apertamente ostile, verso il nuovo sistema politico avviato nel 1861 ed in particolare verso la storia civile della Nazione48.

Con l’avvento al potere della Sinistra di Depretis la classe dirigente liberale avviò una serie di riforme tese a modificare questo atteggiamento. I principali sforzi furono orientati a fornire, ai futuri maestri, una solida cultura storica riguardo la nazione italiana. In tal senso ci fu in riordino dei programmi di storia, avviato nel 1867 e 1883 con i ministri Coppino, De Sanctis e Baccelli49.

46 Ibidem, p. 22.47 L. SALVATORELLI, Pensiero e azione del Risorgimento, Torino 1963, p. 14-16. Nel delineare

il nuovo territorio unitario e l’identità nazionale oltre ai programmi di storia un ruolo particolare spetta anche all’insegnamento della geografia. Specifiche ricerche in questa direzione sono state compiute da P. SAVIO, L’insegnamento della Geografia e la costituzione dell’identità nazionale nel libro per la scuola elementare tra Otto e Novecento, «Rivista lasalliana», LXXVII (2010), n. 4, p. 575-618.

48 Su 45.731 maestri delle scuole elementari pubbliche censiti nell’anno scolastico 1873-1874, i sacerdoti diocesani e regolari erano 9.064 cioè pari al 19% del corpo docente (ASCENZI, Da plebe, p. 128).

49 Ibidem, p. 132.17

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Il progetto didattico che nacque trovò il suo baricentro in un quadro di rilevanze ben definite, mirate a togliere all’insegnamento della storia quegli elementi di erudizione archeologica e di retorica che facevano perdere di vista l’obiettivo principale, consistente nel fornire ai giovani una griglia di valori che li avrebbe resi elementi costitutivi della futura «opinione pubblica nazionale che regge poi gli uomini di Stato e di governo»50. In quest’ottica, quindi, non soltanto acquisiva rilevanza la storia contemporanea, ma tutto l’insegnamento della storia diventava “storia contemporanea” nel senso crociano dell’espressione, se organizzata in un corpus definito di conoscenze del passato, da tramandare alle generazioni, saldamente ancorato al presente e rispondente ad esigenze civili e “politiche” delle nuove élites.

Al Croce, faceva eco Gentile affermando che la storia, come ogni pensiero, è coscienza di sé e perciò la storia può dirsi contemporanea perché si rinnova continuamente attraverso la narrazione degli eventi e le passioni dello storico, che le studia e le vive51. Il concetto lo si rinviene già negli anni Cinquanta dell’Ottocento quando Cesare Balbo, pubblicando una nuova edizione del Sommario della Storia d’Italia con l’aggiornamento degli anni tra il 1814 e il 1849, nel delineare la “biografia della nazione” poneva, al centro dello svolgimento degli avvenimenti, il periodo risorgimentale come esito necessario di un processo cominciato dall’antica Roma.

Dopo l’Unità, condizionato dalla Legge Casati per molti aspetti, questo modello cominciò a delineare la struttura di numerose circolari ministeriali che indicavano con quale periodizzazione la storia dovesse essere impartita. Dai programmi doveva emergere l’importanza assunta da Roma nei tempi antichi, per poi affrontare (nell’ambito medievale) la storia dei Comuni d’Italia e, passando per le rivoluzioni politiche del Settecento, giungere all’analisi delle cause che avevano determinato il Risorgimento e l’Unità d’Italia, nonché la “missione” alla quale era stata chiamata la Casa Savoia nell’ottica dell’unificazione nazionale, procedendo di volta in volta a porre in cattiva luce tutti gli altri governi e le case regnanti degli stati pre-unitari, in modo particolare i Borbone52. Nei testi scolastici, sovente si menziona un «patto»,

50 C. BALBO, Pensieri sulla storia d’Italia. Studi, Firenze 1858, p. 49.51 G. GENTILE, Concetti fondamentali dell’attualismo, «Opere», a cura di E. GARIN, Milano

1991, p. 769.52 G. DI PIETRO, Per una storia dell’insegnamento della storia d’Italia, «Storia e processi di

conoscenza», Torino 1983, p. 26-27. Si veda a tal proposito lo studio condotto da A. DE 18

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ossia un giuramento tra coloro che avevano lottato per il riscatto della patria (vedi Manzoni in Marzo 1821). Non si tratta però di un accordo o “patto” mirato a fondare e dar vita alla nazione, perché la nazione italiana esisteva già come opportunamente spiegava il Manzoni quando illustrava che essa era caratterizzata dall’unità di lingua, di religione, di ricordi storici e di sangue, elementi che contraddistinguevano gli abitanti della penisola53.

BERNARDI, Il “canone” della storia contemporanea nei manuali dall’Unità alla Repubblica, «La storia contemporanea tra scuola e università. Manuali, programmi, docenti», a cura di G. BOSCO – C. MONTOVENI, Soveria Mannelli 2004, p. 19-37. I testi scolastici, al fine di denigrare la monarchia borbonica, riportavano notizie di uno Stato all’interno del quale la popolazione conduceva una misera esistenza. Al contrario, nei diari di numerosi viaggiatori illustri, che venivano a visitare il Sud, si leggono descrizioni molto confortanti, si sottolinea proprio la abbondanza di cibo, il suo basso costo, la dignitosa esistenza delle classi più basse in confronto ai pari grado dei loro paesi. La situazione cambiò rapidamente dopo l’unificazione della penisola. Le riserve auree delle floride casse del Regno vennero depredate e l’asse economico del Paese fu spostato al Nord. La reazione a questa situazione fu il dilagare del brigantaggio. La consistenza monetaria del Banco di Napoli al momento dell’unificazione nazionale era di 443.200 milioni di lire-oro. Francesco Saverio Nitti fornisce il computo della ricchezza per gli ex Stati della Penisola ammontante complessivamente a 148 milioni di lire-oro ripartiti rispettivamente in Lombardia: 8,1; Ducato di Modena: 0,4; Stato Pontificio (Romagna, Marche e Umbria): 55,3; Roma: 35,3; Ducato di Parma e Piacenza: 1,2; Regno di Sardegna-Piemonte: 27,0; Granducato di Toscana: 84,2; Repubblica Veneta: 12,7. La pressione fiscale esercitata dai Borbone, grazie al ministro Bernardino Tanucci, era quasi la metà rispetto a quella esercitata dai Savoia sui Piemontesi. Per approfondimenti sulla tematica si rinvia ai dati riportati nella prefazione al volume di Lord Acton in H. ACTON, Gli ultimi Borboni di Napoli (1825-1861), Milano 1962, p. 2.

53 Il ruolo di Manzoni fu determinante anche nella politica di espansione del Regno di Sardegna attuata dai Savoia e dalle società massoniche. Con I Promessi Sposi gli Italiani di media cultura furono condizionati psicologicamente nella lettura della realtà quotidiana. Alessandro Manzoni, infatti, sosteneva le idee politiche anti-spagnole finalizzate a concorrere alla creazione della leyenda negra. Si trattava della leggenda nera di una Spagna, patria della tirannia, del fanatismo, della durezza amministrativa, dell’insipienza politica e della boria arrogante. Per i protestanti (gli anglicani soprattutto) fu determinante sorreggere con la guerriglia psicologica la lotta ingaggiata contro il Grande Progetto degli Asburgo di Spagna. Con la presentazione di personaggi quali la monaca di Monza, don Abbondio o la descrizione dell’apparato amministrativo spagnolo, Manzoni “inventava” una realtà senza mai aver condotto indagini archivistiche. Si scopriva così come il Vicario di Provvisione, che lavorava per conto del Viceré spagnolo nella carestia del 1629, il quale nei I Promessi Sposi era rappresentato sotto le sembianze di un «cialtrone impaurito», nella realtà era il milanese Lodovico Melzi, trentenne, uomo colto ed energico, che si prodigò quanto più possibile per assicurare pane alla città. Lo stesso dicasi per il Capitano di Giustizia che si trovò ad affrontare i tumulti di san Martino: in realtà era il milanese Giambattista Visconti, magistrato, temuto e stimato per coraggio, rigore ed equità. Anche illustri storici liberali, come Fausto Nicolini, discepolo di Benedetto Croce, all’inizio del Novecento espressero giudizi sostanzialmente positivi sul sistema socio-politico impiantato dagli Spagnoli in Italia, mentre in realtà, Manzoni non si limitò a demonizzare la precedente civiltà cattolica ibero-americana, nella cui orbita gravitava l’Italia, ma contribuì fattivamente alla distruzione dei suoi ultimi epigoni. Si vedano gli studi condotti da A. SOCCI, La società dell’allegria. Il partito piemontese contro la Chiesa di don Bosco, Milano 1989. Ricordando gli scritti del Manzoni a difesa della fede e della morale, e primo fra tutti le sue Osservazioni sulla morale cattolica, è importante notare la lucidità del Manzoni nell’opporsi alla tesi filosofica filo-protestante di attuare scelte politiche inequivocabili (chiusura dei conventi, soppressione degli ordini religiosi, laicizzazione della scuola, spoliazione della Chiesa e soprattutto del successore di Pietro di tutti gli strumenti necessari alla guida della Chiesa di Cristo) che gli «aggredivano al cuore». Per la particolare revisione storica si

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La comunità nazionale era da intendersi come un fatto sia naturale (addirittura voluto da Dio, secondo Mazzini) sia culturale, dove confluivano le relazioni umane (è il luogo che già apparteneva «ai padri») e quelle che si intrecciavano con il territorio e il paesaggio (ossia il luogo fisico che con i suoi confini naturali e nettamente delineati è la culla indubitabile della nazione). Per queste due connotazioni l’Italia simbolicamente fu raffigurata come una donna e più esattamente come una madre, ritratta a volte col seno scoperto (per sottolineare la funzione di nutrice dei suoi figli, che perciò vengono istintivamente presentati come “fratelli”: si pensi per esempio al testo di Mameli, poi diventato inno nazionale), altre volte in catene (per evidenziare il suo stato di oppressione). Sono anche gli anni in cui l’Italia nelle vesti di donna con una corona turrita in testa – simbolo dell’indipendenza dei Comuni – veste i colori della bandiera italiana: un’immagine che ricalca fedelmente i versi danteschi con i quali, il sommo poeta – parlando di Beatrice – la descrive: «Sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva»54.

Imperativo era, dunque, enfatizzare l’insegnamento della storia per irrobustire la nuova compagine nazionale, affinché i cittadini prendessero coscienza del loro essere sociale, maturassero sentimenti di fratellanza civile, conoscessero le norme poste alla base del consorzio politico, e fossero incitati ad emulare coloro che erano celebrati per virtù ed energia55. Inoltre poiché le scuole elementari, in forza del loro vasto bacino d’utenza, giocavano un ruolo fondamentale nell’organizzazione del consenso politico delle classi popolari, era indispensabile che tale chiave di lettura caratterizzasse anche la formazione di coloro che erano preposti «al delicato ufficio di educatori del popolo»56.

I libri scolastici

rinvia agli studi condotti da D. THOMPSON, The Sulphur War (1840): A Confrontation between Great Britain and the kingdom of the Two Sicilies in the Mediterranean, Michigan State 1989; A. SPAGNOLETTI, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna 1997; A. PELLICCIARI, Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la chiesa, Milano 1998. Si veda anche lo studio condotto da A. BRIGANTE, Programmi e libri di testo per il ciclo elementare dall’Unità alla Riforma Gentile (1859-1922), «Cultura e Scuola», XXVII (1988), n. 5, p. 219-229.

54 Purgatorio, XXX, 31-33.55 DI PIETRO, Da strumento, p. 284.56 Cf Programmi per le scuole normali, R.D. n. 5666 del 30 novembre 1880.

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I primi programmi elementari del 1860, in applicazione della legge Casati del 1859, consistevano in poche essenziali pagine che indicavano quali dovessero essere le direttive concrete per gli insegnanti. Queste direttive trovavano la loro unità nel ruolo fondamentale riconosciuto all’insegnamento della religione, quale perno del processo educativo attorno a cui far ruotare sia la complessa architettura delle nozioni da far apprendere, sia quella delle discipline educative da impartire. L’insegnamento della religione, in particolare, consisteva in un insieme di contenuti catechistici arricchiti di nozioni di storia sacra, mentre i libri di testo contenevano, con pieno riferimento alla morale evangelica, una serie di argomenti miranti all’edificazione morale e civile del bambino57. Il modello educativo restava ancorato all’idea espressa da Cesare Cantù nel suo libro Il giovinetto drizzato alla bontà, al sapere, all’industria58, con evidente riferimento al meccanismo dell’emulazione, così come scrive Franceso Berlan ne Il libro dell’emulazione59. In questa prima fase l’elemento innovativo era costituito dalla edificazione di una struttura nazionale e, quindi, omogenea ed unitaria, per l’istruzione pubblica. Non si approfondivano i contenuti dell’istruzione, né si fornivano indicazioni circa gli strumenti utili alla didattica o sussidi bibliografici specifici. In quest’ambito, una funzione egemone era svolta dagli intellettuali cattolici che si erano attivati per la costruzione di veri e propri strumenti didattici60. Nei Programmi di Francesco Orestano del 1905, redatti sotto il ministro Vittorio Emanuele Orlando, si afferma: «Il Risorgimento nazionale […] costituisce il principio e la fine del corso di Storia»61, mentre il substrato ideologico della scuola italiana lo si può cogliere e verificare soprattutto nei libri di testo. Le forme individuate per tracciare le direttive di un’azione educativa, ispirata ad una ideologia popolare e confessionale, si concentravano sull’editoria scolastica. Essa si caratterizzava per una continuità con il libro di uso pedagogico-educativo, che nei primi decenni del secolo Ventesimo assumeva la denominazione di “sussidiario”, il

57 BRIGANTE, p. 221.58 Il libro fu pubblicato a Milano nel 1837.59 Il modello educativo resta identificabile nell’idea di emulazione, proposto agli alunni,

separati per sesso, con illustri esempi storici da imitare. Un chiaro esempio è offerto da F. BERLAN, Il libro dell’emulazione. I fanciulli celebri italiani antichi e moderni e gli illustri italiani nella loro infanzia e vita, Milano 1863 e nel volume postumo ID., Le fanciulle celebri e la fanciullezza delle donne illustri d’Italia antiche e moderne, Milano 1865.

60 BRIGANTE, p. 220.61 I. ZAMBALDI, Storia della scuola elementare in Italia. Ordinamenti, pedagogia, didattica,

Roma 1975, p. 672.21

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cui compito precipuo era quello di informare. Al sussidiario si affiancò un “libro di lettura” che raccoglieva testi di vario genere con letture educative al fine di formare il bambino sotto il profilo etico e civile. L’insegnamento religioso era posto a cardine di tutta la didattica.

Un primo elemento che emerge dall’analisi dei libri scolastici è la lunga durata dei testi, spesso ristampati per oltre cinquant’anni. La resistenza alle innovazioni, tipica di ogni istituzione scolastica, appare particolarmente forte in un Paese non ancora stimolato dallo sviluppo industriale. Soprattutto per i testi elementari persistevano ancora tutti i modelli delle società agricolo-artigiane, con i loro comportamenti e i loro ritmi, ormai anacronistici. I libri di testo erano infarciti di letture esemplari che corrispondevano grosso modo e in misura meno creativa ai personaggi che comparivano nel libro Cuore di Edmondo De Amicis. Fanciulli con le mani nere, con il cuore d’oro, piccoli fabbri, «folla anonima di vittime sublimate dal lavoro», in una società non ancora permeata dal modello capitalistico che predicava i valori della penuria, dell’autolimitazione, del risparmio, del rispetto dei potenti, delle istituzioni e della religione come unica salvezza reale dalle ingiustizie terrene62.

Nell’epoca pre-unitaria, ad eccezione delle fiabe e delle favole di tradizione orale, non esiste una vera e propria letteratura per l’infanzia. Un documento storico, da questo punto di vista, è Lo Cunto de li Cunti ovvero lo trattenimento de’ Peccerelli del 1634 di Gianbattista Basile. L’opera di Basile fu fonte di ispirazione per altri autori di fiabe e favole del calibro di Charles Perrault e i fratelli Jacob Ludwig Karl e Wilhelm Karl Grimm. In particolare, nell’Ottocento, cominciò a prendere forma il romanzo per ragazzi che univa avventura, valori etici e patriottismo, secondo l’ideale pedagogico dell’epoca. Fra tutti emergevano i pionieri della letteratura per l’infanzia come Walter Scott, con Ivanhoe del 1832, Charles Dickens con il nuovo romanzo sociale Oliver Twist del 1837, Alexandre Dumas con Il Conte di Montecristo del 1845 e Edmondo de Amicis con Cuore del 1886. Ad essi seguirono nel 1837 il Giannetto, di Luigi Alessandro Pallavicino, adottato come libro di testo nella

62 La tematica è stata messa in luce da Giuseppe Ricuperati, studioso della didattica che ha indagato sul ruolo svolto dalla componente ideologica nel processo di definizione dei programmi scolastici. G. RICUPERATI, La scuola nell’Italia unita, «Storia d’Italia. I documenti», 18: Istituzione e società civile, Torino 1973, p. 1706. Importanti contribuiti per lo studio della storia della didattica, sono stati offerti da A. FAETI, Guardare le figure. Gli illustratori italiani di libri per l’infanzia, Torino 1972; G. GENOVESI, La stampa periodica per ragazzi da «Cuore» a C. Brown, Torino 1972.

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scuola primaria, essendo intriso di valori etici, tipici della mentalità ottocentesca: Dio, Patria, Famiglia. Il testo mirava a formare una coscienza nazionale basilare per l’unità d’Italia. Con Collodi, alias Carlo Lorenzini, grazie a Le avventure di un burattino, poi cambiato in Le avventure di Pinocchio, nasceva, nel 1883, la letteratura per l’infanzia. L’opera che, invece, prendeva le distanze dai temi tradizionali e moralmente accettati è Il Giornalino di Gian Burrasca, un romanzo pubblicato in 55 puntate su il “Giornalino della Domenica” tra il 1907 e il 1912. Curatore e autore ne fu Vamba, alias Luigi Bertelli, che volle “schierarsi” dalla parte dei bambini. Il Gian Burrasca è umoristico, intriso di marachelle, scherzi e pervaso di un carattere giocherellone. In questo romanzo il protagonista si divertiva a raccontare le sue birichinate fatte agli adulti.

Intanto, la convergenza tra gli ambienti idealisti e quelli cattolici si concentrava esclusivamente su alcuni aspetti della riforma Gentile, in particolar modo sull’introduzione dell’esame di stato, dell’insegnamento religioso e di alcuni «aspetti liberisti e garantisti che sembravano aprire maggiori spazi per le suole non statali»63. I migliori risultati furono raccolti nel settore dei testi per l’insegnamento religioso, della geografia e nelle nuove categorie degli almanacchi regionali oltre ai libri per gli esercizi di traduzione dal dialetto, campo in cui la casa editrice salesiana SEI, sorta negli anni Venti del Novecento, figurò tra le poche ditte che riuscirono a presentare le proprie opere all’esame della commissione ministeriale per l’educazione presieduta da Lombardo Radice64.

Ovviamente, con questi presupposti, rimasero inascoltate e del tutto minoritarie le voci di quanti, e tra questi un posto di sicuro rilievo occupò Gaetano Salvemini, ritenevano che altri dovessero essere i fini dell’insegnamento. In quello che forse resta il più importante scritto sulla scuola, La riforma della scuola media, elaborato con Alfredo Galletti nel 1908, lo storico molfettese proponeva una ridefinizione complessiva degli obiettivi

63 A. GAUDIO, Scuola, Chiesa e fascismo. La scuola cattolica in Italia durante il fascismo (1922-1943), Brescia 1955, p. 156.

64 Occorre sottolineare come l’interesse da parte dei Salesiani per la manualistica della scuola elementare era sostanzialmente recente, dal momento che un intervento deciso in questo settore si verificò soltanto all’inizio del Novecento, in seguito all’emanazione dei programmi Orestano. Si veda anche R. SANI, L’editoria socio-scolastica cattolica tra le due guerre. Itinerari e proposte, «Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre», a cura di L. PAZZAGLIA, Brescia 2003, p. 276.

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formativi dell’insegnamento delle scuole, incentrati su alcuni punti qualificanti quali: la comprensione dei fatti, l’esercizio delle capacità di ragionamento, il riconoscimento della complessità delle società, il nesso tra continuità e discontinuità del processo storico65. Purtroppo, nei Programmi del 1923, redatti da Giuseppe Lombardo Radice con il ministro Giovanni Gentile, le finalità dell’insegnamento storico restarono sostanzialmente invariate, tanto che in terza elementare si incominciava subito con l’insegnamento del risorgimento italiano dal 1848 al 191866, per «svegliare l’amore e l’interesse» alla storia Patria67 e l’aggiornamento ai Programmi del 1934 (ministro Francesco Ercole) non fece altro che accentuare il carattere fascista dell’insegnamento elementare68. In premessa, spiccavano le parole di Mussolini: «la scuola educhi la gioventù italiana […] a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione fascista»69.

65 A. GALLETTI – G. SALVEMINI, La riforma della scuola media. Notizie, osservazioni, proposte, Milano-Napoli 1909, p. 533. In riferimento ai programmi didattici del 1867 si veda p. 37.

66 Ibidem, p. 697.67 L. GUASCO, Programmi particolareggiati (secondo la riforma Gentile) per le cinque classi

elementari, Torino s.d., p. 53.68 I migliori risultati furono raccolti nel settore dei testi per l’insegnamento religioso, della

geografia e nelle nuove categorie degli almanacchi regionali e dei libri-eserciziari per la traduzione del dialetto. L’aspetto più pregnante della raccolta furono, senza ombra di dubbio, i toni lirici che animavano le pagine della raccolta attuata dalla Commissione per l’esame dei libri di testo. Si veda a tal proposito il volume Il libro per la scuola tra idealismo e fascismo. L’opera della Commissione Centrale per l’esame dei libri di testo da Giuseppe Lombardo Radice ad Alessandro Melchiori (1923-1928), a cura di A. ASCENZI – R. SANI , Milano 2005, p. 459, 483 e passim.

69 ZAMBALDI, p. 711. Particolarmente curata e situata nell’ottica fascista fu anche la formazione dei futuri maestri; si veda il manuale “per le tre classi degli Istituti Magistrali Superiori secondo i programmi del 1936” redatto dall’intellettuale cattolico trevigiano L. STEFANINI, Storia della filosofia e dell’educazione, con note integrative sulla dottrina del fascismo e il testo dei programmi delle scuole elementari, Torino 1943, che contiene anche il testo di Benito Mussolini, Dottrina del Fascismo (p. 521-575), in cui si legge: «la storia, sia per il fanciullo che per l’adulto, è sempre la loro storia: non quella che senza una cernita e senza un criterio di scelta accumula fatti su fatti e notizie su notizie, ma quella che rivela nel passato la nostra grandezza, il nostro ideale: in una parola, quella che c’insegna ad essere uomini ed italiani» (p. 558). Sullo sfondo culturale dell’uomo nuovo fascista si veda a tal proposito V. MERLETTI, Civiltà fascista. Per le scuole complementari e di avviamento al lavoro, per i maestri e per il popolo (1929), Venezia 1941, p. 42; C. BETTI, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, Firenze 1984, p. XVI-XVII. Con la guerra d’Etiopia, e poi nel 1938 con la promulgazione delle leggi razziali contro gli ebrei, il fascismo mise in campo le teorie che proclamavano la superiorità della razza ariana nei confronti, in particolare, delle popolazioni dell’Africa Orientale e degli ebrei, a cui, dal 1938, fu vietato l’accesso a tutte le scuole. La paziente, quotidiana, intensa opera di propaganda nelle scuole e nella vita pubblica diede i suoi frutti. I ragazzi espressero i loro sentimenti di adesione nei compiti in classe, nei temi, nei diari. In particolare, dall’analisi del Testo unico di Stato risulta che fin dalla prima pagina, dedicata all’inizio della scuola, erano subito evidenti i temi ricorrenti del libro di testo: la religione, il Re Imperatore, il Duce; quest’ultimo con il suo sguardo “magnetico” era paragonato ad «un’aquila che apre le ali e sale nello spazio [...] è una fiamma che cerca il vostro cuore per accendere di fuoco vermiglio». Gli argomenti erano improntati alla retorica di regime ed erano resi con un linguaggio magniloquente ed artificioso, tipico dello stile di comunicazione fascista.

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La beatificazione di don Giovanni Bosco avvenuta nel 1929 e più tardi, la canonizzazione nel 1934, rappresentarono il momento culminante ed emblematico dell’«incontro tra mondo cattolico, fascismo al potere e capitalismo industriale»70. Erano trascorsi alcuni anni dalla morte di quel lungimirante “prete da oratorio”, giunto a Torino dalla provincia piemontese nel 1841. Fin dal suo arrivo nel capoluogo piemontese, don Bosco si era trovato a percorrere le vie di una città che non era più soltanto la capitale del Regno di Sardegna, culla del patriottismo risorgimentale, ma presentava i tratti di una metropoli che assurgeva sempre più al ruolo di capitale dell’industria italiana. Fabbriche e cantieri richiamavano dalla campagna numerosi immigrati in cerca di occupazione. Il loro lavoro si svolgeva per quattordici ore al giorno in ambienti chiusi e spesso malsani, mentre le strade si riempivano di bambini e ragazzi, orfani o abbandonati, oltre che di madri in cerca di una disperata assistenza, di un lavoro o, almeno, di qualcuno che si occupasse di loro. Una statistica del tempo parla di ben 7.184 bambini sotto i 10 anni impiegati nelle fabbriche71.

Don Bosco fu il primo prete che si rese conto di questa nuova realtà, e cercò di affrontarla, fino a farsi vero e proprio missionario. Deciso a prendersi cura di questi ragazzi senza futuro, nel 1846 aprì il suo primo oratorio, un luogo dove i bambini potevano trovare vitto e alloggio, studiare e imparare il catechismo. Don Giovanni Bosco mirava ad una formazione globale del ragazzo per dar vita all’uomo e al cittadino. Egli rivolse altresì la sua attenzione agli accattoni. L’accattonaggio, proibito per legge, nella Torino sabauda divenne ben presto un fenomeno dilagante, tanto che un medico, Lorenzo Valerio, sindaco e benefattore della città di Torino, descriveva quella scelta di vita con toni duri e amari, mettendone in luce le malattie, le morti precoci, oltre a rimarcare la questione del lavoro più umile e faticoso svolto dai bambini nei numerosi setifici della città. A questi bambini don Bosco si rivolgeva per farli diventare «buoni ed onesti cittadini»72. Devoto a San Francesco di Sales, don

70 P. STELLA, La canonizzazione di don Bosco tra fascismo e universalismo, «Don Bosco nella storia della cultura popolare», a cura F. TRANIELLO, Torino 1987, p. 359-382, in particolare p. 379; ID., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. III: La canonizzazione (1888-1934), Roma 1988, p. 258-268.

71 Per quanto riguarda le statistiche del tempo e il disagio sociale della Torino della prima metà dell’Ottocento si rinvia a T. BOSCO, Don Bosco: Storia di un prete, Rivoli 1988, p. 38.

72 Per quanto riguarda l’operato di Lorenzo Valerio si veda F. CUGNASSO, Storia di Torino, Firenze 2002, p. 509. Per la pedagogia di don Bosco si veda P. RUFFINATTO, Educare “buoni cristiani e onesti cittadini” nello stile del Sistema preventivo. Il contributo delle Figlie di Maria

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Giovanni Bosco decise di mettere i suoi ragazzi sotto la protezione di colui che aveva scelto come modello di fede. Fondò, così, la congregazione dei Salesiani. Don Bosco, canonizzato da Pio XII il 1° aprile 1934 rappresentava, dunque, il santo della “modernità”, perché capace di leggere il segno dei tempi e indicare alla Chiesa la nuova via da percorrere73.

Il problema linguistico

Strettamente legato all’insegnamento religioso e a quello della storia-patria, il ruolo principale fu affidato, nella didattica postunitaria, all’insegnamento della Lingua, basato sull’acquisizione da parte del fanciullo, di una tecnica di scrittura di base mediante un tipo tradizionale di repertori74.

L’arretratezza del Sud costituiva un parametro di paragone delle difficoltà, insorte con l’unificazione della penisola, utilizzato per applicare leggi uniformi in tutto il Regno. L’intera popolazione agricola era analfabeta ed era praticamente impossibile applicare ad essa la legge piemontese del 1859 con i suoi due anni di istruzione obbligatoria, in quanto i fanciulli non avrebbero avuto la collaborazione dei genitori75. L’intoppo era ancora dato dalla mancanza di una lingua comune che fosse intellegibile alla maggioranza della popolazione o che fosse parlata da un italiano su venti, così come anche nella stessa mentalità piemontese non si era ancora entrati nell’ottica di aver incominciato a tessere, a partire dal 1861, una nuova entità politica. I giuristi, dal loro punto di vista, confermavano che il Regno d’Italia non era uno stato nuovo, ma soltanto un ingrandimento del Regno di Sardegna-Piemonte dal momento che la Carta costituzionale era la stessa concessa al Piemonte nel 1848; il parlamento, nella terminologia ufficiale, non era il primo, bensì l’ottavo,

Ausiliatrice, «Le Figlie di Maria Ausiliatrice», p. 47-65, in particolare p. 49-51.73 Il rapporto tra la condizione giovanile, il disagio sociale e la miseria con la possibilità di

fornire una educazione emerge dallo studio condotto da G. BOSCO, Cenni storici intorno all’Oratorio di San Francesco di Sales, «Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze», a cura di P. BRAIDO, Roma 1992, in particolare p. 148.

74 Si veda a tal proposito L. RODINÒ, Repertorio della lingua italiana di voci non buone e male adoprate compilato sopra le opere de’ migliori filologi, Napoli 1866; oppure il Vocabolario domestico a cura di G. CARENA, Napoli 1859.

75 Di fatto, in aperta inosservanza della legge, un quarto dei bambini italiani non andava a scuola. Stessa cosa poteva dirsi dell’istruzione politica. Il giornalista Maxime du Champ udì, a Napoli nel 1860, gente che gridava per le strade “Viva l’Italia”. Chiedendo al vicino chi fosse Italia, si sentì rispondere che forse si trattava della moglie del re (SMITH, p. 70).

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infine il Re continuava a chiamarsi Vittorio Emanuele II76. Del resto non era mai accaduto che dalle Alpi alla Sicilia il territorio italiano fosse unico per cui, all’atto di unificazione nel 1860-1861, si è calcolato che soltanto il 2,5% della popolazione parlava l’italiano mentre il restante popolo si esprimeva in lingue locali e, talvolta, esclusivamente in dialetto77. Lo stesso Cavour non negava ai savoiardi di usare la loro lingua, il francese, ed egli stesso parlava stentatamente l’italiano. Insisteva però, che vi fosse un’unica lingua ufficiale e

76 In realtà la normativa prevedeva il mutamento del titolo del sovrano nel momento in cui si veniva a costituire una nuova entità politica o territoriale. Era già accaduto con Alfonso di Trastámara, detto il Magnanimo (1394-1458), principe della casa reale di Castiglia, che aveva mutato il proprio nome diverse volte. Divenne re Alfonso V di Aragona, Alfonso III di Valencia, Alfonso II di Sardegna, Alfonso I di Maiorca e Sicilia, Corsica, Gerusalemme e Ungheria, Alfonso IV di Barcellona, e delle contee catalane del Rossiglione e Cerdagna dal 1416 al 1458, duca titolare di Atene e Neopatria, mentre come Alfonso I di Napoli dal 1442 al 1458. Ugualmente Giacomo VI di Scozia aveva mutato il proprio nome in Giacomo I d’Inghilterra ed Enrico III di Navarra che era divenuto Enrico IV di Francia o Ferdinando di Borbone che come Re di Napoli fu Ferdinando IV, come Re di Sicilia fu Ferdinando III e come Re delle Due Sicilie fu Ferdinando I (SMITH, Storia d’Italia, p. 70; S. DE MAJO, Ferdinando IV di Borbone, sessantacinque anni tra trasformismo, rivoluzione e restaurazione, Roma 1996, p. 7; M. KISHLANSKY, L’età degli Stuart. L’Inghilterra dal 1603 al 1714, Bologna 1999, p. 56 e passim; G. DEL ROSSO, Gli statuti dell’Arciconfraternita del SS. Sacramento e della Confraternita del Monte di Pietà, «Le Confraternite del Santissimo Sacramento e del Monte di Pietà a Molfetta», a cura di L. M. DE PALMA, Molfetta 2004, p. 184, in particolare nota 146).

77 La questione della lingua nazionale è stata oggetto di studio da parte di Tullio De Mauro che ha analizzato un arco di tempo compreso tra il Risorgimento e la conclusione del primo conflitto mondiale. Nel clima romantico l’affermazione dell’idea di nazione trovava nella lingua comune un fattore importante di unità. La lingua era tenuta in alta considerazione dai patrioti, dai letterati e dai politici al fine di creare una salda coscienza nazionale. Tuttavia, in Italia, questo amore per la lingua non sconfinò mai in smodata passione nazionalistica, come accadde, ad esempio, in Germania. Gli intellettuali più importanti (Manzoni e Leopardi) ammiravano anche le produzioni letterarie in altre lingue. Il fatto che l’italiano non fosse parlato dal popolo ha portato anche alla grave carenza di termini che si riferivano alla vita quotidiana, all’artigianato, e così via. La lingua nazionale, dunque, era definita dagli intellettuali “arida” e fuori dall’ambito popolare. Per questo i dialetti prosperavano e avevano un alto status sociale, dato che erano usati indifferentemente dal popolo e dai ceti alti, dai letterati e dalla Chiesa; pure Vittorio Emanuele usava il dialetto interloquendo con i ministri. Alle soglie dell’Unità il dialetto stava per soppiantare l’italiano anche nell’uso scritto, grazie alla nascita di tradizioni letterarie effettuate ad opera di intellettuali illustri. Nello studio dell’istituzione scolastica, al momento dell’unificazione quasi l’80% della popolazione era analfabeta e, come documenta De Mauro, al momento dell’Unità la percentuale della popolazione in grado di affrancarsi dall’uso del dialetto era pari al 2,5%. In ogni caso, il restante 20% non conosceva perfettamente l’italiano (con l’eccezione di Roma e Firenze). Per abbozzare delle percentuali prima dell’unità ci si può basare sull’efficienza delle strutture scolastiche e sull’inchiesta Corradini. Molti maestri erano abituati a tenere le lezioni in dialetto e la loro conoscenza dell’italiano era scarsa. L’inchiesta Matteucci, invece, fornisce notizie esplicite sulla deficienza delle strutture scolastiche postunitarie. L’insegnamento dell’italiano, soprattutto nelle provincie, era molto difficoltoso; soltanto in Toscana, a causa della sua somiglianza con il dialetto, la lingua nazionale era adoperata normalmente. La situazione linguistica italiana dell’unità era dunque il riflesso delle fratture tra le regioni e tra le classi sociali. La scuola, nelle intenzioni dei manzoniani, avrebbe dovuto sradicare il dialetto e imporre il fiorentino. Invece De Sanctis proponeva di salvaguardare il dialetto e di confrontarlo con la lingua italiana. Entrambi questi progetti presupponevano che gli insegnanti avessero un buon corredo storico-linguistico e dialettologico. Dall’Unità alla Prima Guerra Mondiale, l’azione della scuola era difforme tra regione e regione e questo portò al raggiungimento della conoscenza della lingua in date molto diverse. Tuttavia tale conoscenza non implicava il suo effettivo uso, che sarà incentivato da

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che fosse il solo veicolo di istruzione, in questo caso l’italiano standard, comune a tutte le regioni e in tutti gli ex stati della penisola italiana. Non stupisce, quindi, se Massimo D’Azeglio, nel 1860, poté esclamare che, fatta l’Italia, restava da fare gli italiani78.

Problema non facile e per molti versi complesso, tanto da spingere lo storico Pasquale Villari a compiere una profonda riflessione sull’operato della Destra nei suoi primi anni di governo. Nel saggio pubblicato sul Politecnico di Carlo Cattaneo nel 186679, il Villari pose il problema di rafforzare l’unità della Nazione allargando le basi del consenso anche alle classi sociali che fino a quel momento non avevano risentito dei benefici, come, ad esempio, i contadini meridionali che avevano dimostrato di non nutrire fiducia né nel nuovo stato unitario, né nei confronti della monarchia sabauda. Il Villari fu particolarmente

fenomeni come le emigrazioni e l’industrializzazione. Comunque, le regioni settentrionali già nel 1921 avevano un alto grado di alfabetizzazione, mentre in quelle meridionali l’analfabetismo rimase diffuso e concentrato fino al decennio 1951-1961. Da ciò si deduce che l’italiano standard, «livellata in modo artificiale in seguito a contatti con altre varietà [linguistiche] e all’azione normalizzatrice imposta dal potere politico» si pone come modello di riferimento per l’insegnamento scolastico basandosi sul “fiorentino emendato”, cioè privo di caratteristiche linguistiche locali. Occorre però segnalare che a partire dagli anni Ottanta del Novecento è iniziato il processo di neostandardizzazione dove la lingua scritta ha assunto caratteri linguistici settentrionali, mentre quello popolaresco e parlato ha assunto tinte meridionali, coloriture prima censurate con l’italiano standard (T. DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari 1963, passim). Sull’argomento si veda anche lo studio condotto da P. TRIFONE, Storia linguistica dell’Italia disunita, Bologna 2010, mentre per quanto concerne la standardizzazione e la neostandardizzazione si vedano: M. DARDANO, Nuovo manualetto di linguistica italiana, Bologna 2005, p. 195-196; G. ANTONELLI, L’Italiano nella società della comunicazione, Bologna 2007, p. 39-58; I. BONOMI – A. MASINI – S. MORGANA – M. PIOTTI, Elementi di linguistica italiana, Roma 2010, p. 71-73.

78 E. J. HOBSBAWN, Il trionfo della borghesia, 1848-1875, Bari 2006, p. 107, 109. Gli istituti religiosi dediti alle opere assistenziali e educative del XIX secolo furono una risposta all’emergente bisogno di far fronte ai problemi sociali. L’educazione dei giovani diviene centrale poiché concepita quale forma di prevenzione delle problematiche sociali. Per i fautori della pedagogia preventiva (Pierre-Antoine Poullet, Pierre-Sébastiene Laurentie, Lodovico Pavoni, Marcelino Champagnat, Ferrante Aporti, Antonio Rosmini, Félix Dupanloup, don Giovanni Bosco) la prevenzione sociale concorreva al cambiamento della società. Essi avevano la convinzione d’azegliana che prima di “fare l’Italia” occorreva “fare gli italiani”, ovvero restaurando la visione cristiana della vita, la società potrà assicurare ai cittadini, ordine, giustizia e pace. Per esprimere l’incidenza sociale di tale azione nell’Ottocento si utilizza l’espressione stereotipata «buoni cristiani e onesti cittadini» che circolava tra i fautori della pedagogia preventiva. La formula, secondo Pietro Braido, ha radici lontane. Sin dal I secolo nella Lettera a Diogneto si evidenzia il singolare rapporto che caratterizza il cristiano il quale «dimora nella terra, ma è cittadino del cielo», obbedisce alle leggi, ma le supera con le sue virtù. Il rapporto tra dimensione cristiana e civile si esprime nel corso della storia con una varietà di espressioni sempre orientate ad attuare l’educazione cristiana e le dimensioni sociali e politiche (P. BRAIDO, Buon cristiano e onesto cittadino. Una formula dell’«umanesimo educativo» di don Bosco, «Ricerche storiche Salesiane», 13 (1994), p. 188). Si veda anche il contributo offerto da M. MAROCCHI, Indirizzi di spiritualità ed esigenze educative nella società post-rivoluzionaria dell’Italia settentrionale, «Chiesa e prospettive educative in Italia tra Risorgimento e Unificazione», a cura di L. PAZZAGLIA, Brescia 1994, p. 83-122.

79 La ristampa dello studio è in P. VILLARI, I mali dell’Italia. Scritti su mafia, camorra e brigantaggio, Firenze 1995, p. 143-195.

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sensibile al problema di far varare da parte della Destra un programma di riforme che allargasse il consenso anche alle classi contadine inserendole nel processo di costruzione della nazione. Fu, infatti, tra i primi ad occuparsi della “questione sociale” identificandola prima di tutto con il delicato problema dell’istruzione scolastica. Riteneva sbagliato limitarsi a sostenere che “a fare gli italiani” bastassero le scuole, essendo convinto, che la rigenerazione di un popolo, su basi sociali, morali e intellettuali, si compiva procedendo anche con l’eliminazione della miseria che creava grossi ostacoli alla fruizione delle stesse strutture scolastiche80. Questo era un concetto che investiva più la “politica sociale” del Paese che l’istruzione dei cittadini in senso stretto. I programmi, quindi, e soprattutto le circolari esplicative, continuarono ad interessarsi del compito fondamentale della scuola elementare e cioè fornire agli scolari le abilità strumentali di base — leggere, scrivere e far di conto — e soprattutto far di loro “buoni sudditi”81.

Prioritario, dunque, diventava l’insegnamento della lingua affinché i cittadini potessero intendersi fra loro e recepire gli ordini e i messaggi del governo centrale, e poiché:

«Una lingua comune parlata non esisteva nel Regno quindi andava inventata: nello stesso tempo andavano inventati i moduli didattici, per insegnarla a tutti i piccoli italiani. Nei primi anni dopo la legge Casati in realtà ben pochi sapevano parlare correttamente l’italiano: i maestri stessi in grado di esprimersi in lingua erano molto pochi»82.

Un ruolo particolare, infine, fu affidato all’insegnamento della Religione, «che partiva dalle lezioni di catechismo sui misteri principali della fede, nelle prime classi, per passare poi ai racconti del Vecchio e del Nuovo Testamento

80 Per uno studio approfondito sulla realtà meridionale e sul disagio sociale si vedano gli studi condotti da VILLARI, I mali, in particolare p. 200-201; C. PETRACCONE, Le “due Italie”. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Bari 2005.

81 Sul piano metodologico si può intravvedere il chiaro indirizzo positivistico che emerge dall’analisi dei testi scolastici tra il 1867 e il 1887, mentre il nucleo dell’insegnamento resta l’educazione morale. Si veda in particolare su questo argomento E. CONTARI, Donne illustri italiane proposte ad esempio alle giovinette, Torino 1872, ma anche letture esplicite fondate sull’eroismo e la virtù come nel caso di F. PERA, Affetti e virtù. Letture per le famiglie e le scuole, Firenze 1880 oppure di I. CANTÙ, Il libro d’oro delle illustri giovanette italiane, Milano 1884 o di F. FERRUCCI, Una buona madre. Letture morali per le giovanette, Firenze 1884. Si rinviene anche un connubio tra positivismo e spiritualità. Un esempio è dato da C. M. VIANI VISCONTI, Libro di letture graduali per la prima classe, Milano 1887. Sono queste le basi per un lento processo di laicizzazione della componente educativa che finalizzata all’acquisizione della «bontà, del sapere e dell’industria» allude all’idea moderna dello Stato liberale e del cittadino. Si veda in particolare F. DENTI, Il giovinotto e i suoi primi doveri di futuro buon cittadino, buon operaio, buon padre di famiglia, Milano 1883.

82 A. SANTONI RUGIU, Orientamenti culturali, strumenti didattici, insegnanti e insegnamenti, « Storia della scuola e storia d’Italia dall’unità ad oggi», Bari 1982, p.16.

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nelle classi successive, costituendo occasione di insegnamento morale e civico»83. In tal modo, la nuova scuola primaria, affidata ai comuni, veniva a sostituire la precedente, organizzata in modo privatistico sulle scuole di “dottrina” e di “catechismo” e con una gestione ecclesiale/parrocchiale. Si dovrà giungere però al 1923, con la Riforma Gentile, per veder riconosciuta, nella pratica concreta dell’istruzione, regolata dai Programmi scolastici di Lombardo-Radice, l’insegnamento della religione come vera e propria disciplina dichiarata «fondamento e coronamento dell’istruzione»84.

Agli albori del Novecento

Con l’aumento della popolazione scolastica, per tutto il secolo, di molto superiore alle capacità di assorbimento delle scuole, la funzionalità della legge Casati incominciò ad incrinarsi. A dieci anni dall’unificazione nazionale le regioni che avevano goduto di un notevole vantaggio culturale provocarono una enorme disparità tra il Nord e il Sud del Paese. La stessa legge Coppino favorì la scolarizzazione e l’alfabetizzazione nelle zone più arretrate del Nord, mentre lasciò sostanzialmente invariata la realtà del Centro, del Sud e delle Isole. Questo stato di cose fu evidenziato oltre che da eminenti meridionalisti come Francesco Saverio Nitti e Gaetano Salvemini85, anche dalla stessa inchiesta Corradini86 secondo cui tutte le leggi concepite per alleviare le spese dei Comuni nei settori dell’istruzione elementare, favorivano inevitabilmente le regioni più avanzate, come Piemonte e Lombardia, le quali avevano maggiore possibilità di richiedere ed utilizzare i finanziamenti parziali dello Stato.

Si deve giungere al secondo governo Giolitti (1903) per vedere impegnato lo Stato in favore dell’istruzione primaria e dell’inquadramento economico dei maestri elementari con un finanziamento di otto milioni all’anno, oltre che in

83 F. V. LOMBARDI, I programmi per la scuola elementare dal 1860 al 1985, Brescia, 1987, p. 11.

84 La citazione è in BRIGANTE, p. 228. Si veda anche A. SANTONI RUGIU, Nodi storici dei programmi elementari, «Scuola elementare e nuovi programmi», a cura di B. VENTRECCHI, Firenze 1982, p. 1-14.

85 Su Salvemini e la scuola si rinvia a S. MANDURINO, Questione del Mezzogiorno e problema della scuola nel pensiero di G. Salvemini, Roma 1970; G. RICUPERATI, Il problema della scuola da Salvemini a Gramsci, «Rivista Storica Italiana», 1986, p. 964-1001.

86 Per quanto riguarda l’esito dell’inchiesta del Ministro Camillo Corradini si vedano i dati pubblicati dettagliatamente in MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, L’istruzione primaria e popolare in Italia con speciale riguardo all’anno 1907-1909. Relazione presentata a S. E. il Ministro P.I. dal direttore generale Camillo Corradini, 4 vol., Roma 1910-1912.

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vista di un radicale rinnovamento delle Opere Pie di sanità pubblica87. Nel cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia la nazione visse una generale euforia patriottica, con solenni manifestazioni e con l’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II. Toccò a Giolitti pronunciare, sull’Altare della Patria, l’orazione ufficiale. Il Presidente del Consiglio evocò la grandezza romana e l’epopea risorgimentale, elogiò la magnificenza del monumento che avrebbe ricordato in seguito a tutti gli italiani il difficile cammino percorso per giungere all’Unità per poi, con discreta allusione al suo programma di governo, tracciare il percorso attuato in materia di miglioramento economico, con l’innalzamento del tenore di vita dovuto all’ampliamento dell’educazione e alla durevole pace sociale88.

Non mancarono però voci discordi rispetto a quanto affermato dal Giolitti. Il senso di malessere avvertito nei confronti del sistema burocratico creato dallo statista incominciò a farsi sentire anche fra le categorie tradizionalmente estranee alla vita politica e, fra queste, anche quella degli insegnanti. Gli stessi osservatori dell’epoca videro con sorpresa e con vivo interesse le mobilitazione degli insegnanti, i quali incominciavano a far sentire la propria voce, assumendo posizioni anche di carattere politico. Sull’esempio offerto dal proletariato, sorsero numerose associazioni fra impiegati pubblici e insegnanti, associazioni, queste ultime, che divennero sempre più attive fino ad apparire, nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica, come un fattore disgregante dello Stato. Ma, come obiettava Lombardo Radice, le associazioni di insegnanti erano anch’esse “opinione pubblica” e quindi “campo aperto” per le discussioni che interessavano la loro organizzazione, le loro funzioni, il loro essere all’interno della società civile. Lo stesso apolicismo che, sempre e da più parti, era stato contestato alla categoria degli insegnanti non aveva più motivo di esistere89.

Con l’età giolittiana la società italiana subì un notevole processo di trasformazione. Senza dubbio lo sviluppo capitalistico del primo Novecento pose non pochi problemi ad una scuola ancora inquadrata nella legge Casati, ormai antiquata perché pensata per una società agricola. Sono gli anni in cui il

87 E. GENTILE, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Bari 2003, p. 48.88 Ibidem, p. 163.89 Sulle critiche al sistema giolittiano si veda: L. AMBROSOLI, La Federazione Nazionale degli

Insegnanti Scuola Media dalle origini al 1925, Firenze 1967; G. CHIOSSO, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia 1983.

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processo di urbanizzazione registrava un’accelerazione e i fenomeni sociali e di massa, correlati all’industrializzazione, generavano conseguenze che incidevano profondamente sulla realtà della scuola, dato che masse illetterate, coinvolte in flussi migratori che transitavano da Sud a Nord, ma anche dalla campagna verso la città, iniziavano a vedere di buon grado l’istruzione, e finalmente ad avvertirla come una esigenza90.

Il reclutamento degli insegnanti in Italia e in Terra di Bari

Strutture e strumenti formativi per i maestri erano stati caldeggiati, sin dai primi anni dell’Ottocento, nei più disparati stati italiani pre-unitari. Nel Lombardo-Veneto i maestri seguivano corsi di tre o sei mesi, a seconda del grado scolastico in cui avrebbero dovuto insegnare e già nel 1836 esistevano, soltanto Veneto, 36 corsi di metodica che prevedevano tre ore settimanali di metodica a carattere generale e due di metodica dell’istruzione religiosa. Ugualmente avveniva nello Stato piemontese dove erano in funzione le “scuole di metodo”, brevi corsi finalizzati a dare qualche nozione di didattica e di metodo a quanti avessero voluto intraprendere la carriera magistrale. La prima scuola di metodo fu tenuta da Ferrante Aporti a Torino nel 1844. Nonostante tali scuole riscuotessero molto successo, furono viste sempre con sospetto dai governi, in quanto ritenute a rischio di inquinamento ideologico e politico e comunque rappresentanti un’aperta contestazione del monopolio gesuitico. Nello Stato Pontificio non furono mai ufficialmente vietate, ma opposero resistenza i vescovi, ritenendo che il compito di formare maestri fosse di pertinenza degli ordini religiosi. La legge Lanza del 20 giugno 1858 istituì la Scuola normale, che fu successivamente riconfermata nel 1859 dalla legge Casati91.

90 Sulla legislazione scolastica nel primo decennio del XX secolo si rinvia a E. DE FORT, La legislazione sull’obbligo scolastico nell’Italia giolittiana e i problemi della sua applicazione amministrativa, «Jahrbuch für europäische Verwaltungsgeschichte», 5 (1993), p. 233-268.

91 Sull’argomento si rinvia agli studi di G. RICUPERATI, La scuola, p. 1693-1736; S. ULIVIERI, I maestri, «L’istruzione di base nella politica scolastica dall’unità ai giorni nostri (1859-1977)», a cura di T. TOMASI, Firenze 1978, p.165-184; E. CATARSI, L’Educazione del popolo. Momenti e figure dell’istruzione popolare nell’Italia liberale, Bergamo 1985; F. DE VIVO, La formazione del maestro dalla legge Casati ad oggi, Brescia 1986; E. FARDA, Appunti sulla condizione del maestro dall’Unità alla fine dell’Ottocento, «I Problemi della Pedagogia», XL (1994), n. 3, p. 213-223; V. MICELI, Per una storia della formazione magistrale nell’Italia meridionale. Origini e sviluppo della Scuola Normale Maschile in Molise (1872-1898), «History of Education & Children’s Literature», VI (2011), p. 215-252; A. BARAUSSE – V. MICELI, Le origini e i primi sviluppi dell'istruzione normale femminile in Molise (1861-1898), «L’altra metà della scuola. Educazione

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Gli insegnanti conseguivano la patente per l’insegnamento dopo aver frequentato le scuole Normali. Il bisogno urgente di diffondere la cultura e la consapevolezza di disporre di strumenti inadeguati, aveva indotto il Parlamento di Torino ad istituire Scuole Normali per la preparazione degli insegnanti con la legge del 13 novembre 1859. Fin dal 1865 sono documentate le numerose sollecitazioni della Presidenza del Consiglio Scolastico Provinciale di Bari ai Sindaci e ai Delegati Scolastici perché «studino d’indurre alunni e alunne di IV classe elementare pubbliche e private a frequentare le Scuole Normali»92. A questa prima legislazione frammentaria e saltuaria fece seguito quella del 12 luglio 1896 ad opera del ministro Emanuele Gianturco e del prof. Francesco Torraca93. Per essere ammessi alla I classe Normale occorreva essere in possesso della licenza di scuola tecnica ed aver superato gli esami di ammissione. Questi comprendevano prove scritte di italiano, francese, disegno e calligrafia, oltre a prove orali di italiano, francese, storia, geografia, matematica, scienze, lavori e ginnastica. La scuola aveva la durata di tre anni: a ciascuna scuola Normale femminile erano unite una scuola complementare, un giardino d’infanzia e l’intero corso complementare per le esercitazioni di tirocinio, che avevano la durata di due anni, come prescritto dall’articolo 194 del Regolamento del 14 settembre 1889. A ciascuna delle scuole Normali maschili era unito un corso elementare completo. Conclusi i tre anni gli allievi sostenevano gli esami e, superandoli, venivano dichiarati idonei a sostenere concorsi oppure a ricevere incarichi di insegnamento. L’età minima per accedere alla Scuola Normale era 15 anni per le femmine, 16 per i maschi, mentre per l’insegnamento l’età non poteva essere inferiore a 17 anni per le giovinette, 18 per i giovani94. L’art. 2 del Regio Decreto del 23 luglio 1892 stabiliva, però, che la patente si poteva conseguire anche senza esami, presentando i seguenti documenti: attestato di nascita, fedina criminale, attestato di buona condotta (rilasciata dal sindaco del luogo dove si era dimorato nell’ultimo anno), attestato di sana costituzione fisica e documenti che attestassero di aver insegnato lodevolmente nelle scuole elementari per almeno cinque anni in quelle pubbliche e per otto in quelle private.e lavoro delle donne tra Otto e Novecento», a cura di S. POLENGHI – C. GHIZZONI, Torino 2008, p. 135-158.

92 ARCHIVIO STORICO COMUNE DI MOLFETTA (=ACM), cat. 2, vol. 17, fasc. 2, lettera del 26 agosto 1868.

93 AMANTE, p. 963.94 Ibidem, p. 965-966.

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Sovente la preparazione dei maestri risultava alquanto carente, pertanto furono istituite Conferenze Magistrali che, rivolte a quanti desideravano intraprendere la carriera di docente, offrivano lezioni a carattere pedagogico-didattico, finalizzate ad ampliare le competenze in vista del conseguimento dell’idoneità all’insegnamento95. Tali Conferenze si svolsero dal 15 settembre al 31 ottobre 1865 e successivamente si arricchirono di corsi di lavoro manuale, educativo e di igiene aventi effetti legali. Furono aperti a maestre e maestri di scuola elementare, a quelle di asili d’infanzia, a giovani licenziati, a direttori didattici e a ispettori. Al fine di agevolare la frequenza alle lezioni, per i maestri che abitavano nei Comuni lontani da Bari, la direzione dei corsi concordò gli orari di lezione con gli orari delle strade ferrate e delle diligenze. Di solito i frequentanti si fermavano presso il Regio Convitto Nazionale di Bari, che metteva a loro disposizione, per il pranzo, un camerone per tutto il mese di agosto e una sala per tre ore di riposo. Inoltre il Regolamento del 6 febbraio 1908, n. 150, consentiva di rivestire il ruolo di Direttore Didattico ai maestri elementari che superavano l’esame di abilitazione alla direzione didattica96. Dal 1° novembre 1914 le nomine, i licenziamenti, i congedi, le aspettative e tutti gli altri provvedimenti riguardanti lo stato giuridico ed economico dei maestri e del personale delle scuole in genere, vennero deliberati dagli Organi dell’Amministrazione Scolastica Provinciale dietro pagamento di un contributo annuo da parte del Comune alla Tesoreria dello Stato, a norma dell’art. 17 della legge n. 487 del 1911. Per l’art. 93 della stessa legge detto contributo veniva stabilito con un accordo tra il Consiglio Scolastico Provinciale e il Comune, previa approvazione del Ministero97.

95 A questo proposito il Provveditore agli Studi, Giuseppe Laudisi, lamentando l’esito infelice degli esami di patente nella sessione ordinaria, invia una lettera ai Comuni, datata 16 agosto 1865 nella quale precisa che «a supplire come meglio si può al grave difetto di educazione pedagogica in chi si dedica all’insegnamento, ho disposto che si aprano Conferenze Magistrali maschili e femminili in questa città per gli insegnanti dei circondari di Bari e Barletta e maschili in Altamura per il circondario sotto la presidenza dei rispettivi Ispettori scolastici. Nelle Conferenze oltre alle materie dei programmi di I e II elementare sono previste nozioni di agraria, intorno ai prodotti propri della Provincia, nozioni di ginnastica applicata all’infanzia e all’adolescenza dei due sessi, brevi e facili norme di canto popolare. Non venendo alle Conferenze saranno tosto e irrevocabilmente proibiti di fare scuola pubblica o privata» (ACM, cat. 10, vol. 17, fasc. 1).

96 Ibidem, sottof. 2.97 ASCD, Disegni e proposte di legge e incarti delle commissioni (1848-1943), Legislatura

XXIV, Ministro della pubblica istruzione, Credaro, Ministro del tesoro, Tedesco, Modificazioni alla legge 4 giugno 1911 n. 487 concernenti gli ispettori ed i vice ispettori scolastici, vol. 933, f. 233-272; R. D. n. 549 del 6 aprile 1913 e n. 929 del 1° agosto 1913.

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Statistica sull’istruzione pubblica all’epoca post-unitaria

L’incidenza delle riforme e degli interventi che negli Stati pre-unitari, prima e nel Regno d’Italia dopo, accompagnarono lo sviluppo e il diffondersi dell’istruzione popolare, risultò molto condizionato dalla qualità delle rilevazioni statistiche concernenti la frequenza scolastica, estremamente varie da Stato a Stato, oltre che legate sia al grado di sviluppo dell’ordinamento amministrativo competente sia a quello degli stessi uffici di statistica incaricati delle rilevazioni.

Nel Regno di Sardegna fu elaborate una prima statistica riguardante le scuole elementari nel 1852. A questa fece seguito un serie di Notizie statistiche dell’istruzione elementare del regno di Sardegna per gli anni scolastici 1854-1856 e nel 1858, nonché varie rilevazioni sull’istruzione secondaria e universitaria tra il 1851 e 1857. Allo stesso modo, nella Lombardia sotto il governo austriaco e nella Toscana granducale furono condotte ampie indagini negli anni Quaranta dell’Ottocento e limitatamente alla sola Toscana, esse furono affiancate dall’Annuario Statistico del 1858. Le documentazioni, purtroppo, risultano carenti di informazioni circa l’incidenza dell’istruzione pubblica nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie. Diversa fu la situazione che si registrò dopo l’Unità d’Italia tramite le statistiche amministrative, compiute per l’anno scolastico 1860-1861 e pubblicate nell’Annuario della Pubblica Istruzione, edito a cura del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio98.

Nei primi anni post-unitari furono elaborati alcuni studi statistici sull’istruzione pubblica e privata della nazione. Dopo l’inchiesta parlamentare sullo stato della scuola in Italia, promossa dal ministro Michele Amari il 22 marzo 1863, il secondo documento a cui bisogna far riferimento è la relazione generale sullo stato dell’istruzione che il ministro Giuseppe Natoli aveva richiesto al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione il 14 novembre 1864. L’inchiesta fu condotta con celerità grazie alle indagini di tre commissioni incaricate dal Consiglio Superiore. I risultati furono pubblicati nel 1865 nell’importante Relazione sulle condizioni della Pubblica Istruzione in Italia, la

98 R. GRAGLIA – G. RICUPERATI, Analfabetismo e secolarizzazione, «Storia d’Italia. Atlante», a cura di R. ROMANO – C. VIVANTI, 20: Immagini e numeri d’Italia, Milano 2005, p. 761-762.

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prima redatta dopo l’Unità e fonte significativa per tutta la storia dell’istruzione in Italia99.

Il ministro Natoli avvertiva fortemente la necessità di una relazione dettagliata e realistica sulle condizioni dell’istruzione, tale da consentire interventi appropriati. Egli, infatti, il 3 aprile 1865, nel presentare il primo volume degli studi statistici sull’istruzione pubblica e privata del Regno, scriveva: «qual pur siasi la verità giova conoscerla e farla conoscere. A tal fine non si deve tralasciare alcun utile documento nella polvere degli archivi, ma trarre in luce tutti i fatti che possano soccorrerci a giudicare tanto i mali che ereditammo dal passato, quanto i bisogni presenti e i pericoli dell’avvenire»100.

La situazione dell’istruzione primaria in Italia, così come appariva dai dati statistici, era molto grave, specie se messa a confronto con quella di altre nazioni straniere. Le condizioni erano diverse da regione a regione, come già avevano dimostrato i dati del Censimento del 1861 in cui si mettevano in rilievo gli estremi della scala: il Piemonte con 573 analfabeti ogni 1000 abitanti e la Basilicata con 912. In tutto il paese si avevano 14 scuole ogni 10 mila abitanti. I Comuni privi di scuole elementari, sia pubbliche che private, erano 209. In ben 1.807 Comuni mancavano le scuole femminili e in 253 quelle maschili. Di tutta la popolazione scolare fra i 5 e i 12 anni, gli alunni iscritti rappresentavano il 38% per i maschi e il 30% per le femmine.

Per quanto riguardava invece la condizione degli insegnanti, i laici erano 22.329, di cui 10.314 maestri e 12.015 maestre, mentre i religiosi erano 9.092, di cui 7.290 maestri e 1.802 maestre. Nell’anno scolastico 1862-63 molti insegnanti furono ammoniti, alcuni sospesi ed altri addirittura destituiti. Erano ancora molti, peraltro, quelli che possedevano soltanto la patente provvisoria.

A incidere sul mancato assolvimento dell’obbligo scolastico fu sicuramente la situazione del lavoro infantile e minorile, insieme alla condizione di vita e di lavoro dei lavoratori. L’uso e l’abuso del lavoro minorile, pesante e deleterio per la salute e sotto-retribuito, era largamente esteso nelle zone industriali e in particolare nel settore tessile; ma triste e terribile era anche la condizione dei

99 ARCOMANO, Istruzione e ministri, p. 34.100 Il barone Giuseppe Natoli era pienamente cosciente delle condizioni in cui versava la

scuola italiana al momento dell’unificazione della Penisola. Egli, infatti, divenne ministro della Pubblica Istruzione con l’interim agli Interni nel primo Governo La Marmora (1864-1865) e i dati e le condizioni della scuola primaria sono ampiamente documentate nella Statistica del Regno d’Italia, istruzione pubblica e privata, anno scolastico 1862-63, Parte I: Istruzione primaria, Torino 1865.

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fanciulli lavoratori del sud, utilizzati quasi come schiavi nei lavori agricoli e ancor più nell’industria estrattiva. La giornata durava in media 12 ore, dalle 4 del mattino alle 16, per sei giorni consecutivi, durante i quali i lavoratori trascorrevano anche le ore di riposo, compreso quello notturno, sul luogo di lavoro. Il vitto era pane e cipolla. In questa situazione la scuola rimaneva un miraggio molto lontano101. Tuttavia la situazione di profondo disagio e miseria in cui versavano i minori nel meridione alla fine dell’Ottocento (una condizione abbastanza comune all’Europa) era simile anche ad alcune zone del Nord sviluppato. Luigi Credaro, assessore alla pubblica istruzione del comune di Pavia e futuro ministro della Pubblica Istruzione, il 16 marzo 1893, calcolò che il 50% degli iscritti alle scuole elementari di Pavia (2.692 alunni) era malnutrito o, comunque, sotto alimentato.

La scuola diventava, quindi, un prezioso osservatorio della drammatica condizione sociale dei minori in Italia e assurgeva ad un ruolo molto importante, perché, secondo il pedagogista Aristide Gabelli, la scuola primaria e popolare rivestiva sostanzialmente una funzione ideologica e formativa. Egli affermava:

«L’utilità o il valore pratico delle scuole non consiste tanto nell’insegnare a leggere e scrivere, quanto nello spargere nelle nostre popolazioni certe idee e nel far nascere certe abitudini [...]. Le scuole hanno per ufficio il compito di ringiovanire il nostro paese, seminando nelle crescente generazione, non già i grandi esempi dell'eroismo romano, ma quello delle modeste e casalinghe virtù, che tutti hanno bisogno di adoperare ogni giorno [...]. L’obbedienza, l’assiduità, la costanza, la pazienza, l’amor dell'ordine e del lavoro, l’abitudine del risparmio, la fiducia in sé, il sentimento della propria dignità, il rispetto del dovere, ecco quello che devono praticamente insegnare le scuole»102.

Conclusione

In questo scenario si inquadrano le vicende riguardanti l’insegnamento della religione nella scuola pubblica italiana, scandite dalla storia delle relazioni tra Stato e Chiesa nell’Italia contemporanea. Un ruolo centrale ebbe la vicenda della conquista di Roma, avvenuta nel 1870 e il conseguente raffreddamento

101 «Vivono in case per lo più di una sola stanza e mangiano pane tanto secco che, almeno in Calabria, per mangiarlo, devono raschiarlo col coltello nel cavo della mano e versarselo in bocca a bricioli, e minestra di erbe colte nei prati e cotte nell'acqua con un po’ d’olio e sale quando ne hanno» (L. FRANCHETTI, Condizioni economiche delle province napoletane, Firenze 1875, p. 96).

102 A. GABELLI, L’istruzione elementare in Italia secondo gli ultimi documenti pubblicati dal ministero, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», 1870, p. 184-200.

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delle relazioni tra il nuovo Stato nazionale italiano e la Chiesa Cattolica. Negli anni successivi al Risorgimento cambiarono gli strumenti e le modalità in base a cui Stato e Chiesa si confrontarono sui temi fondamentali della laicità e della difesa dei valori culturali e religiosi legati alla tradizione cattolica. Atteggiamenti e metodi mutarono dalla presa di Roma, evento che segnò la conclusione di una fase storica. I problemi, oggetto di scontro, persero le loro connotazioni frammentarie e locali ed assunsero un interesse generalizzato tanto che sia lo Stato sia la Chiesa, individuarono le direttrici precise del proprio operare sulle quali procedettero parallelamente.

Se i programmi del 1860, varati con la legge Casati, non risentivano ancora di un clima di rottura tra la nascente borghesia italiana e il potere temporale dei Papi, davano, però, un’importanza particolare all’insegnamento della religione cattolica, inteso come strumento privilegiato di dominio politico e ideologico della borghesia sulle classi sociali subalterne. Esso veniva posto a fondamento dell’insegnamento morale e civico, mentre la situazione era destinata a cambiare radicalmente con l’evolvere della situazione politica. La religione, come spiegavano bene le Istruzioni relative ai Programmi del 15 settembre 1860, aveva il compito di inculcare nei fanciulli l’idea dell’importanza dell’obbedienza verso le potestà costituite, Dio Padre e lo Stato Sovrano. È da notare, quindi, che già nei Programmi Casati, vi era una concezione laica dell’insegnamento religioso secondo quanto già previsto dalla legge Boncompagni. Con la sua promulgazione, la Boncompagni aveva già attuato una vera e propria breccia nella struttura monolitica della scuola confessionale e, nonostante le oscillazioni e le incertezze che la caratterizzarono, era prova della ferma volontà di operare una profonda riforma, in senso laico, dell’insegnamento della religione nelle scuole. Pur attuando la piena laicizzazione dell’ordinamento scolastico, infatti, l’insegnamento della religione veniva garantito, mentre con la legge Casati, veniva considerato mero strumento di potere e di condizionamento delle coscienze da parte della borghesia103. Prima delle leggi Lanza (1857) e Casati

103 La riforma attuata dalle legge Boncompagni, in realtà, incontrò varie difficoltà di ordine pratico e problemi di natura innanzitutto finanziaria, ma ancor più gravi erano quelli dovuti alle carenze delle scuole, del corpo docente e alla resistenza delle gerarchie ecclesiastiche. Ciò giustificava i ritardi e le svariate deroghe nell’applicazione della riforma. Ad esacerbare maggiormente la situazione contribuirono le problematiche di natura ideologica e politica: la fermezza mostrata dal legislatore sabaudo aveva causato l’altrettanta forte reazione dell’episcopato piemontese. La situazione divenne incandescente con l’espulsione dei Gesuiti.

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(1859) furono compiuti vari progetti di riforma. La ribadita menzione dell’obbligatorietà dell’insegnamento religioso dovette contribuire a far cadere le resistenze confessionali alla legge.

Nei Programmi Coppino del 1867, pur non cambiando la matrice ideologica di fondo dell’insegnamento religioso, il legislatore si pose il problema di una semplificazione delle tematiche teologiche e dogmatiche le quali, per quanto importanti fossero, diventarono, in quel contesto storico, secondarie, tanto che, contrariamente alla precedente normativa, l’insegnamento religioso diventò facoltativo. La borghesia e la monarchia sabauda, infatti, per aumentare il loro potere miravano all’unificazione culturale e linguistica del Paese. Le spinte centrifughe verso la disgregazione del nuovo Stato nazionale italiano erano ancora molto forti a causa della permanenza, tra le varie regioni, di economie radicalmente diverse e con sistemi di rapporti sociali di produzione fortemente differenziati. In quel contesto di permanenza di lingue e culture locali, estremamente differenti, l’esistenza stessa della borghesia era messa in discussione.

L’insegnamento della religione passava, quindi, in secondo piano rispetto all’insegnamento di materie come la lingua italiana e l’aritmetica. Erano gli anni della Circolare del ministro Correnti (29 settembre 1870), con cui si introduceva l’obbligo di un’esplicita domanda di partecipazione all’insegnamento della religione nelle scuole elementari da parte dei genitori, e della legge di soppressione delle Facoltà Teologiche di Stato (26 gennaio 1873), tenacemente voluta dallo stesso Ministro (anche se non realizzata da lui), e particolarmente gradita da ampi settori ecclesiastici, come i Gesuiti de La Civiltà Cattolica, i quali «non sapevano dolersi» dell’approvazione di quella legge dal momento che lo Stato era incompetente in materia di religione104. Non mancarono “laici” come Aristide Gabelli, che si chiedevano

L’intervento energico di Pio IX contro la “funesta legge” non fu ignorato dalle autorità governative. Infatti da un esame globale della legislazione scolastica emanata contestualmente alla legge Boncompagni si nota come il legislatore avesse affiancato alla legge generale una serie di provvedimenti attuativi, che ribadivano la rilevanza del fattore religioso assunto nella forma cattolica. Tra gli studi relativi al primo codice scolastico dello Stato subalpino si veda in modo particolare lo studio di V. SINISTRERO, La legge Boncompagni del 4 ottobre 1848 e la libertà della scuola, «Salesianum», X (1948), n. 3, p. 369-423.

104 Si veda quanto riportato da FERRARI, p. 95-96, 164-166. Si veda anche quanto scrive, a proposito dell’insegnamento della religione cattolica La Civiltà Cattolica, XXIII (1872), vol. 7, serie VIII, p. 5-18, in particolare p. 13, 16. La prima Università che soppresse la Facoltà di Teologia fu la Federico II di Napoli in seguito alla legge Imbriani del 16 febbraio 1861. Con legge del 26 gennaio 1873 la soppressione fu estesa a tutte le Università nazionali.

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insistentemente perché non si potesse continuare a insegnare, specie ai futuri maestri, almeno la storia sacra e quella cultura religiosa che è «necessaria per intendere i poeti nostri o pittori scultori, ecc.». Anche Pasquale Villari notava che «discutere la propria fede sembra a noi Italiani una contraddizione ne’ termini; ammettere che ci sia un senso religioso, anche indipendentemente da ogni religione positiva, pare un assurdo»105. Nell’età di Giolitti e della “crisi modernista” emersero, poi, le posizioni dei cattolici vicini alla Lega Nazionale Democratica106, come Antonio Fogazzaro e il suo biografo Tommaso Gallarati Scotti, che, rivendicando la libertà della Chiesa come diritto, non come privilegio, sostenevano una nuova presenza culturale, sociale e politica dei cattolici, come persone e come gruppi, poiché «niente è più fatale alla religione che il farne monopolio di un partito politico»107. Veniva, in particolare, espressa

105 P. VILLARI, La scuola e la questione sociale, «Nuova Antologia», novembre 1872, p. 486-487.

106 La Lega Democratica Nazionale, nata nel 1905, fu un movimento di ispirazione cattolica fondato da Romolo Murri, uomo politico ed ecclesiastico italiano dalle posizioni riformiste. Organo ufficiale del movimento fu la rivista Azione democratica.

107 L’atteggiamento di fronte al modernismo degli ultimi vescovi conciliatoristi – Giovan Battista Scalabrini, Geremia Bonomelli, Alfonso Capecelatro ed altri – fu di lucida prudenza e, quasi, di benevola attesa, ma sostanzialmente lontano dalla problematica modernista. Per Scalabrini si rinvia allo studio condotto da R. I. ZANINI, Della stessa forza di Dio. Scalabrini, un vescovo negli anni difficili dell’Ottocento, Cinisello Balsamo 2011, e agli atti del convegno di studi tenutosi presso l’Università Urbaniana dal titolo L’ecclesiologia di Scalabrini. Atti del 2º Convegno storico internazionale (Piacenza, 9-12 novembre 2005), a cura di G. PAROLIN – A . LOVATIN, Roma 2007; inoltre si veda la voce dell’Enciclopedia Biografica Universale (=EBU), vol. 17, Roma 2007, p. 298 e la voce curata da F. MOLINARI, G. B. Scalabrini, DSMC, vol. 2: I protagonisti, p. 582-585. Per Bonomelli e rapporti con Margherita di Savoia e Fogazzaro, che lo resero popolare come “prelato patriota” si veda la voce curata da G. GALLINA, Geremia Bonomelli, DSMC, vol. 2, p. 47-52; per Capecelatro e l’amicizia con Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo, Gino Capponi, Antonio Fogazzaro, Federico Sclopis, Cesare Guasti, e uomini di cultura come mons. Félix Dupanloup, il conte Charles Forbes René de Montalembert, il card. Desiré-Félicien-François-Joseph Mercier, il card. John Enry Newman e lo stesso primo ministro inglese William Ewart Gladstone si veda M. L. TREBILIANI, Alfonso Capecelatro, Ibidem, p. 83-86. Capecelatro fu particolarmente legato al gruppo dei conciliatoristi napoletani come Enrico Cenni, Vito Fornari, il p. Ludovico da Casoria, a tal proposito si veda V. RICCIO, Saggi biografici, Milano 1924, in particolare p. 62; si veda anche la voce Alfonso Capecelatro, EBU, vol. 4, p. 201 e F. MALGERI, Alfonso Capecelatro, «Dizionario Biografico degli Italiani (=DBI)», vol. 18, Roma 1975, p. 435-439). Ben diversa la posizione di quel gruppo di giovani e colti cattolici dell’aristocrazia lombarda (Antonio Aiace Alfieri, Teresa Casati, Tommaso Gallarati Scotti, Stefano Jacini) che nel 1907 diede vita alla rivista di cultura Rinnovamento. La rivista milanese, che si definiva «rivista laica, non confessionale», programmaticamente impegnata a «lavorare ad una generale innovazione della vita nel Cristianesimo», fu cosa seria ed ebbe la collaborazione degli esponenti più noti del movimento riformatore e dei nomi più significativi della cultura italiana del primo ‘900. Con il Rinnovamento il movimento culturale cattolico si arricchì del collegamento con le aspirazioni e i maestri del cattolicesimo risorgimentale – Capponi, Lambruschini, Rosmini, Gioberti – e si inserì con autorevolezza e senso di misura nel dibattito culturale. Per approfondimenti e per affrontare in maniera sistematica lo studio della storia religiosa dell’Italia contemporanea si rinvia alle voci Geremia Bonomelli, in EBU, vol. 3, p. 369-370; F. MALGERI, Geremia Bonomelli, DBI, Roma 1970, vol. 13, p. 298-303. Per Tommaso Fulco Gallarati Scotti, N. RAPONI, T. Fulco Gallarati Scotti, DBI, vol. 48, Roma 1998, p. 519-526; IB., Gallarati Scotti T., DSMC, vol. 2, p. 215-222; EBU, vol. 7, p. 625. Per le relazioni con Fogazzaro si veda la voce curata da A. STRAPPINI, A. Fogazzaro, DBI, vol. 48, Roma 1997, p. 420-

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l’esigenza di una netta distinzione fra “catechesi” e “cultura religiosa”, escludendo la prima dalla scuola e ribadendo l’importanza civile e politica della seconda. Opinione, questa, sostenuta da Fogazzaro in una lettera aperta a Filippo Crispolti de l’Avvenire d’Italia (1 ottobre 1904), dopo essersi ripetutamente battuto, in Senato e sulla stampa, per ribadire l’improrogabile necessità di una soluzione che, in sede legislativa, potesse essere data al problema dell’insegnamento della religione nelle scuole di ogni ordine e grado108.

Con Aristide Gabelli, segretario di una apposita Commissione presieduta da Pasquale Villari incaricata dal Ministro Boselli di redigere i nuovi programmi per la scuola elementare ed estensore della Premessa e della Relazione di accompagnamento al Ministro, si ebbe una decisa presa di posizione circa l’esclusione, dai programmi del 1888, dell’insegnamento della religione cattolica, ritenendo che in nome della laicità lo Stato non dovesse professare alcuna fede109. Il legislatore infatti, pur consapevole dell’azione socialmente svolta dall’educazione religiosa nella formazione di una salda moralità della personalità dell’individuo, considerava l’insegnamento religioso come uno “spazio politico” che aveva reso la Chiesa Cattolica un potere antagonista al Risorgimento italiano.

La religione, dunque, quale materia d’insegnamento, nella scuola elementare, anche se non formalmente, di fatto veniva eliminata. In questa fase, la borghesia auspicava una scuola funzionale allo sviluppo dei rapporti sociali di produzione capitalistica, anche in campo pedagogico, piuttosto che il

429; la voce A. Fogazzaro curata da A. AGNOLETTO e la relativa bibliografia a cura di A. ZAMBARBIERI, DSMC, vol. 2, p. 205-209 e in EBU, vol. 7, p. 335-336.

108 Per quanto riguarda gli interventi al Senato si veda A. FOGAZZARO, Parole pronunciate nel Senato del Regno il 2 luglio 1904 discutendosi i provvedimenti per le scuole elementari , «Discorsi», Milano 1942, p. 370-371. Un esauriente studio critico sulla presa di posizione di Fogazzaro è dato in L. PAZZAGLIA, L’intervento di Fogazzaro al Senato nella discussione sul progetto di legge Orlando (2 luglio 1904), «Studi di Letteratura e di Storia in memoria di A. Di Pietro», Milano 1977, p. 332-369. Per approfondimenti sulla lettera di Fogazzaro al marchese Crispolti si veda A. FOGAZZARO, Lettera al marchese F. Crispolti, «L’Avvenire d’Italia», 1° ottobre 1904, pubblicata in «Discorsi», p. 372-374. Inoltre si veda anche lo studio condotto da P. A. GAROZZI, L’introduzione della storia delle religioni nell’insegnamento universitario italiano. Il contributo di Umberto Pestalozza e di Tommaso Gallarati Scotti, «Rinnovamento religioso e impegno civile in Tommaso Gallarati Scotti», a cura di F. DE GIORGI – N. RAPONI, Milano 1994, p. 239-270, in particolare p. 258.

109 Per le istruzioni generali descritte, si veda la Relazione a S. M. sulla Riforma dei programmi per la scuola elementare riportata in LOMBARDI, p. 67, 77. Per il testo completo si veda E. CATARSI, Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1985), Firenze 1990, p. 205-219.

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mantenimento di un insegnamento, come quello della religione cattolica, teso a trasmettere teorie ideologico-religioso di derivazione feudale.

Con i Programmi Baccelli del 1894 si confermò l’impostazione del Gabelli nei confronti dell’insegnamento religioso anche se poi lo Stato assunse un atteggiamento più moderato verso il sentimento religioso della persona umana, considerato come canale privilegiato di trasmissione dei valori della famiglia tradizionale e della ideologia di cui essa era portatrice110.

All’indomani dell’Unità, le vicende dell’insegnamento religioso nella scuola italiana si fecero metro di valutazione dei difficili rapporti tra Stato Italiano e Chiesa Cattolica. Significative aperture si ebbero con i programmi del 1905111. Questi, redatti dal filosofo Francesco Orestano, “chiusero” sia con la religione di matrice clericale sia con il sentimento religioso della famiglia borghese. La borghesia, in pieno Positivismo, dimostrando di poter fare a meno dei valori trasmessi dalla tradizione, cessò di essere semplicemente la classe sociale dominante per diventare una classe sociale totalitaria. In breve tempo, e in campo pedagogico, si passò quindi da una educazione sociale di tipo autoritario ad una di tipo totalitario. Il totalitarismo pedagogico di Orestano, al contrario del totalitarismo pedagogico di Gentile, non si basava su una concezione positiva della realtà proposta ai fanciulli, ma era un totalitarismo pedagogico naturalmente negativo poiché tendeva a distruggere il mondo di valori della società tradizionale. Nei programmi ministeriali, pertanto, fu dato ampio spazio all’educazione morale che rispecchiava quella visione pedagogica positivista nella quale si fondevano lo storicismo positivista, il naturalismo educativo e i richiami al cristianesimo112.

Intanto il clima e il quadro politico italiano cambiavano e al potere ideologico dei partiti “tradizionali” si sostituiva quello del Partito Nazionale Fascista. Questo cambiamento, tramite veri e propri canali di trasmissione del potere e della ideologia sociale, consentì, per la prima volta nella sua storia, di aprire le fila a persone provenienti dalle diverse classi sociali e di ascoltare le loro esigenze, rendendo possibile la “ripoliticizzazione” dell’insegnamento religioso e il suo inserimento esplicito nei Programmi. Con decreto reale del 1°

110 Per approfondimenti sui programmi del ministro Guido Baccelli si veda ASCENZI, Tra educazione etico-civile, p. 104; LOMBARDI, p. 115-346.

111 Occorre ricordare che la legge Coppino del 1877 attribuiva ai Comuni la facoltà di attivare l’insegnamento religioso nella scuola elementare su richiesta dei genitori.

112 Sulla componente positivistica e le implicazioni pedagogiche si rinvia all’antologia panoramica offerta da Positivismo pedagogico, a cura di R. TISATO, Torino 1976.

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ottobre 1923, n. 2185, il ministro fascista Gentile reintroduceva l’insegnamento della religione nella scuola elementare. Nonostante il linguaggio notevolmente più raffinato, i motivi che Gentile poneva per riabilitare l’insegnamento della religione erano gli stessi previsti nei Programmi Casati. Il reinserimento dell’insegnamento della religione nella scuola elementare pubblica permetteva anche alla burocrazia politica fascista di aprire un dialogo con l’apparato clericale, fondamentale per la stabilizzazione del proprio potere in quanto nuova classe sociale dominante. L’insegnamento di stampo fascista tornò ad essere confessionale, non con l’introduzione dell’insegnamento della religione, ma con la lezione di catechismo. Questa, prevista nella scuola primaria, consisteva nella lettura di storie tratte dalla Sacra Scrittura al fine di edificare gli alunni sia moralmente, sia civilmente. In quel periodo storico, l’insegnamento religioso venne reso obbligatorio nei primi gradi dell’istruzione e posto a coronamento di tutta l’educazione113.

113 La riforma scolastica di Gentile fu promulgata con R.D. n. 2185 nell’ottobre 1923. In esso veniva posto «a fondamento e coronamento dell’istruzione elementare l’insegnamento della Dottrina Cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica, impartito da insegnanti reputati idonei dall’autorità ecclesiastica» («Gazzetta Ufficiale», n. 250 del 24 ottobre 1923).

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