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RIFLESSIONI SU… INVECCHIAMENTO E DISABILITA’ – IL TESTAMENTO BIOLOGICO Volpiano (TO), Domenica 27 Ottobre 2013 Dr. Sandy Furlini, Medico di Medicina Generale ASLTO4 Volpiano (TO) Responsabile scientifico dell’evento INVECCHIAMENTO E DISABILITA’ La tendenza dell’uomo è in generale vivere la propria esperienza di vita ponendosi obiettivi e ricercando risorse per perseguirli, progettando percorsi e cercando di risolvere il maggior desiderio che gli è proprio: la soddisfazione personale, quella di coppia e, talvolta quella del gruppo cui appartiene. Per portare a compimento questo che può essere considerato uno schema di massima per tutti gli esseri umani, fa i conti con le proprie abilità e forze mettendo sui piatti della bilancia i desideri da un lato e i successi dall’altro cercando il buon vecchio e saggio equilibrio. Ciò di cui spesso non tiene conto è la variabile temporale ovvero la perdita costante ed inesorabile delle potenzialità acquisite alla nascita giorno per giorno. Un meccanismo di autoprotezione genera però una sorta di cecità psichica riguardo alla consapevolezza di tale costante perdita. Infatti perdere la capacità fisica di compiere determinate azioni non è percepita come disagio consapevole e il nostro cervello, grazie alle sue capacità di adattamento plastico, ci aiuta a “mascherare” il percorso involutivo attraverso l’adattamento. Ma tutto questo non vale per ogni persona allo stesso modo, configurandosi quelle straordinarie sfumature che caratterizzano l’unicità del singolo uomo. Cosa significa dunque perdere la capacità di compiere azioni? quali implicazioni ha il nuovo status di disabile, ovvero di non più abile rispetto ad una condizione precedentemente percepita come soddisfacente? Da sempre l’uomo ha percepito l’avanzare dell’età come un problema e ha riflettuto molto sulla vecchiaia talvolta interpretandola come frutto di un castigo divino. L’uomo contrappone la propria caducità e limitatatezza temporale alla perfezione e immortalità che attribuisce alla sfera del divino. Nascono quindi le tensioni filosofiche verso il trascendente e la ricerca della strada per raggiungerne le aree di influenza onde acquisirne le caratteristiche. Oggi si assiste ad un fenomeno particolarmente allarmante dal punto di vista sociale: la negazione della vecchiaia con la conseguente e delirante pretesa dell’immortalità. Sempre di più gli operatori sanitari si trovano a dover soddisfare richieste al limite dell’accanimento terapeutico a causa della negazione da parte dei parenti dell’anziano che invecchiare è una condizione fisiologica, normale; non tutti i sintomi dell’invecchiamento sono pertanto riconducibili a stati morbosi e perciò risolvibili… Come ultimo elemento del nostro ragionamento va tenuta in seria considerazione la condizione economica in cui versa il sistema sanitario attuale: da una situazione passata in cui si è cercato di dare tutto a tutti si vuole approdare a quella più corretta in cui dare il giusto a tutti. Il passaggio viene però percepito come espropriazione di una fetta di salute e come percorso di rischio verso una perdita di assistenza. Come trasferire dunque l’informazione ai cittadini che l’errore avveniva prima, quando anche l’inutile/poco utile, veniva erogato gratuitamente diventando spreco? Come risolvere infine il dilemma del costante invecchiamento della nostra società? Grazie ai tanto criticati sistemi sanitari che negli anni si sono susseguiti, l’Italia vanta il primato della Nazione seconda al mondo come longevità. La vita media degli Italiani è infatti di 79 anni !!! Nel 2030 la popolazione anziana sfiorerà il 30% : più si sta meglio e maggiormente si invecchia confermando l’elevato potenziale della sanità Italiana rispetto alle altre Nazioni. Ma quanto è pronta la società del 2013 ad affrontare il peso della propria vecchiaia/benessere? Quali sono le possibilità di assistenza per un anziano non autosufficiente? Senza dubbio il miglior setting di cura è il proprio domicilio e lo evidenziano gli studi scientifici ormai da anni ed in tutto il Mondo civilizzato. Quando è il momento di ricorrere alla struttura di assistenza per acuti, ovvero il Pronto Soccorso?? Dove risiede la sottile linea di demarcazione fra accanimento terapeutico e appropriatezza delle cure?

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RIFLESSIONI SU… INVECCHIAMENTO E DISABILITA’ –

IL TESTAMENTO BIOLOGICO

Volpiano (TO), Domenica 27 Ottobre 2013

Dr. Sandy Furlini, Medico di Medicina Generale ASLTO4 – Volpiano (TO)

Responsabile scientifico dell’evento

INVECCHIAMENTO E DISABILITA’

La tendenza dell’uomo è in generale vivere la propria esperienza di vita ponendosi obiettivi e

ricercando risorse per perseguirli, progettando percorsi e cercando di risolvere il maggior desiderio

che gli è proprio: la soddisfazione personale, quella di coppia e, talvolta quella del gruppo cui

appartiene. Per portare a compimento questo che può essere considerato uno schema di massima per

tutti gli esseri umani, fa i conti con le proprie abilità e forze mettendo sui piatti della bilancia i

desideri da un lato e i successi dall’altro cercando il buon vecchio e saggio equilibrio. Ciò di cui

spesso non tiene conto è la variabile temporale ovvero la perdita costante ed inesorabile delle

potenzialità acquisite alla nascita giorno per giorno. Un meccanismo di autoprotezione genera però

una sorta di cecità psichica riguardo alla consapevolezza di tale costante perdita. Infatti perdere la

capacità fisica di compiere determinate azioni non è percepita come disagio consapevole e il nostro

cervello, grazie alle sue capacità di adattamento plastico, ci aiuta a “mascherare” il percorso

involutivo attraverso l’adattamento. Ma tutto questo non vale per ogni persona allo stesso modo,

configurandosi quelle straordinarie sfumature che caratterizzano l’unicità del singolo uomo. Cosa

significa dunque perdere la capacità di compiere azioni? quali implicazioni ha il nuovo status di

disabile, ovvero di non più abile rispetto ad una condizione precedentemente percepita come

soddisfacente?

Da sempre l’uomo ha percepito l’avanzare dell’età come un problema e ha riflettuto molto sulla

vecchiaia talvolta interpretandola come frutto di un castigo divino. L’uomo contrappone la propria

caducità e limitatatezza temporale alla perfezione e immortalità che attribuisce alla sfera del divino.

Nascono quindi le tensioni filosofiche verso il trascendente e la ricerca della strada per

raggiungerne le aree di influenza onde acquisirne le caratteristiche. Oggi si assiste ad un fenomeno

particolarmente allarmante dal punto di vista sociale: la negazione della vecchiaia con la

conseguente e delirante pretesa dell’immortalità. Sempre di più gli operatori sanitari si trovano a

dover soddisfare richieste al limite dell’accanimento terapeutico a causa della negazione da parte

dei parenti dell’anziano che invecchiare è una condizione fisiologica, normale; non tutti i sintomi

dell’invecchiamento sono pertanto riconducibili a stati morbosi e perciò risolvibili…

Come ultimo elemento del nostro ragionamento va tenuta in seria considerazione la condizione

economica in cui versa il sistema sanitario attuale: da una situazione passata in cui si è cercato di

dare tutto a tutti si vuole approdare a quella più corretta in cui dare il giusto a tutti. Il passaggio

viene però percepito come espropriazione di una fetta di salute e come percorso di rischio verso una

perdita di assistenza. Come trasferire dunque l’informazione ai cittadini che l’errore avveniva

prima, quando anche l’inutile/poco utile, veniva erogato gratuitamente diventando spreco?

Come risolvere infine il dilemma del costante invecchiamento della nostra società? Grazie ai tanto

criticati sistemi sanitari che negli anni si sono susseguiti, l’Italia vanta il primato della Nazione

seconda al mondo come longevità. La vita media degli Italiani è infatti di 79 anni !!! Nel 2030 la

popolazione anziana sfiorerà il 30% : più si sta meglio e maggiormente si invecchia confermando

l’elevato potenziale della sanità Italiana rispetto alle altre Nazioni.

Ma quanto è pronta la società del 2013 ad affrontare il peso della propria vecchiaia/benessere?

Quali sono le possibilità di assistenza per un anziano non autosufficiente? Senza dubbio il miglior

setting di cura è il proprio domicilio e lo evidenziano gli studi scientifici ormai da anni ed in tutto il

Mondo civilizzato. Quando è il momento di ricorrere alla struttura di assistenza per acuti, ovvero il

Pronto Soccorso?? Dove risiede la sottile linea di demarcazione fra accanimento terapeutico e

appropriatezza delle cure?

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Una proposta del nostro sistema sanitario è la struttura residenziale, la buona e vecchia casa di

riposo “aggiornata” secondo i criteri più moderni di assistenza. Residenze Sanitarie Assistenziali:

ecco la via ottimale per tante situazioni di crisi in cui la famiglia non riesce a supportare le disabilità

del proprio congiunto. Ma fino a che punto il sistema riesce ad accogliere le richieste?

Questi sono i temi principali che verranno affrontati nella prima sessione del convegno in un

percorso che prende il via da considerazioni filosofico-storico-antropologiche, transitando per i

concetti di vecchiaia-invecchiamento secondo criteri clinico assistenziali e sociali per arrivare a

presentare le varie possibilità offerte dal sistema sanitario per gestire la vecchiaia in modo

professionale e nel contempo umano.

Obiettivi:

1) Riflettere sulla perdita di capacità come meccanismo naturale dell’invecchiamento umano

2) Mettere a conoscenza dell’esistenza di varie possibilità offerte dal sistema sanitario per

assistere l’anziano non autosufficiente

3) Ragionare sulla distribuzione delle risorse e focalizzare l’attenzione sul principio “il giusto a

tutti”

4) Evidenziare i criteri per un invio al Pronto Soccorso delle persone anziane rispettando i

principi di non accanimento terapeutico ed appropriatezza delle cure

Seconda sessione: IL TESTAMENTO BIOLOGICO

Il Testamento Biologico o meglio le Direttive Anticipate che ogni uomo può dettare quando ancora

in grado di intendere e volere, rappresentano il massimo grado di libertà ed autonomia per l’uomo

del XXI secolo. Infatti con queste viene ampliato e completato il consenso informato, pratica alla

base del rapporto medico paziente, poiché viene presa in considerazione l’eventualità legata alla

non capacità di intendere e volere. Questa condizione, associata più comunemente agli stati

vegetativi permanenti (ovvero quelle situazioni di particolare disabilità in cui il cervello ha perso

definitivamente la capacità di mettere la persona in relazione col mondo esterno) si verifica con

grandissima probabilità man mano che le persone invecchiano poiché il cervello, invecchiando con

loro, perde il contatto consapevole con la realtà ed isola la persona in un vero e proprio mondo

senza relazione. Sono oggi moltissimi i nostri anziani confinati in una realtà arelazionale in cui

permangono ancora attive le funzioni vitali ma senza la possibilità di dialogo o interazione. Per

queste persone non è più possibile la scelta di fronte alle varie possibilità di trattamenti sanitari che

si prospettano nel prosieguo della loro malattia degenerativa ed involutiva pertanto si impone il

quesito circa la necessità di esprimere in anticipo i propri desideri, ovvero nel momento in cui la

mente si presenti ancora lucida ed in grado di operare delle scelte libere ed incondizionate.

Afferma Maurizio Mori, Presidente della Consulta Laica di Bioetica “Molti dicono che la vita è

sacra, ma non pensano che l’evoluzione della medicina ha scardinato questo principio in ogni fase

della nostra vita, dal momento del concepimento a quello della morte. Il controllo che la scienza

medica può oggi operare sulla vita delle persone ha rimesso in discussione tutto, compreso i due

principi di autoconservazione della specie e di autoconservazione dell’individuo. Per evitare che

questa rivoluzione scientifica travalichi ogni limite, noi non possiamo che ripartire dalla persona,

dalla difesa dei suoi diritti di scelta e di determinazione”

Ospite particolare della sessione dedicata al testamento biologico è il Sig Beppino Englaro, padre di

Eluana, la ragazza che dopo 16 anni di vita congelata in uno stato vegetativo permanente ha

ottenuto che venissero interrotti i trattamenti di mantenimento delle funzioni vitali. Questo caso ha

aperto un grande riflettore sul tema del fine vita e della scelta personale che ogni individuo deve

poter fare in merito ai trattamenti sanitari cui desidera o non desidera essere sottoposto.

Parteciperanno alla tavola rotonda esponenti delle maggiori confessioni religiose presenti in Italia:

la Chiesa Cattolica, la Chiesa Valdese, la Chiesa Evangelica, la Chiesa di Gesù Cristo, la Comunità

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Ebraica e quella Islamica. Hanno rifiutato l’invito gli esponenti della Congregazione Cristiana dei

Testimoni di Geova.

Le tavole rotonde proposte dal Circolo Culturale Tavola di Smeraldo da anni, vogliono essere tavoli

di NON confronto: non si tratta di raggiungere una uniformità di idee, non si vogliono cercare

accordi fra posizioni opposte ma anzi, gli ospiti esporranno la loro posizione e risponderanno alle

domande del pubblico avendo la possibilità di portare ai cittadini presenti la propria idea e

posizione. Il rispetto della scelta anche religiosa è alla base di questo incontro che vuole essere un

arricchimento per tutti in un’ottica di pluralismo etico, filosofico e religioso che diventi motivo di

crescita per la nostra società in cerca di nuovi valori. L’accordo viene trovato così nel rispetto

reciproco.

Obiettivi

1) Descrivere il Testamento Biologico

2) Evidenziarne l’utilità in situazioni limite attraverso l’esperienza Englaro

3) Sensibilizzare il pubblico sulla necessità di assumere una posizione in merito al testamento

biologico

4) Esporre varie posizioni religiose sul tema sottolineando l’importanza del pluralismo

religioso come sintomo di società viva.

5) Sensibilizzare il pubblico sul rispetto delle opinioni altrui creando un dibattito che non vuole

giungere ad uniformare ma bensì valorizzare le varie posizioni.

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INVECCHIARE È SEMPRE STATO UN PROBLEMA? Federico Bottigliengo

Centodieci anni con lucidità. Per far quadrare il cerchio.

Il traguardo che gli antichi Egizi auspicavano di raggiungere era certamente molto ambizioso. Forse

troppo, stando alla speranza media di vita dell’epoca: dagli studi degli ultimi decenni effettuati sui

numerosi resti antropologici rinvenuti nel suolo egiziano, è stato possibile collocare l’età media del

decesso intorno ai trentacinque anni, a prescindere dalla mortalità infantile – il cui tasso non è

stimabile con precisione, ma senza dubbio molto elevato.

La cifra così alta aveva un significato strettamente legato alla saggezza, che si raggiunge dopo un

buon numero di anni di esperienza “sul campo”, e all’essere privilegiati al cospetto degli dèi – cento

anni, il massimo raggiungibile, la perfezione, più dieci anni di “bonus” per volontà divina.

Spesso tale traguardo è inserito tra gli auguri di prosperità e salute indirizzati a un anziano molto

stimato, così com’è successo al saggio Amenemope: «Che l’Occidente ti sia concesso, senza che tu

abbia risentito della vecchiaia e senza che ti sia ammalato; possa tu compiere 110 anni sulla terra;

che le tue membra restino vigorose, come si confà a un privilegiato come te, quando il suo dio lo

ricompensa»1.

Solo l’istruzione XVI del Papiro Insinger2 è più realistica, proponendo sessant’anni quale meta di

vita auspicabile: «Chi ha vissuto sessanta anni, ha vissuto tutto ciò che gli spettava; se il suo cuore

desidera del vino, non può bere fino all’ebbrezza; se desidera cibi, non può mangiare secondo la

sua abitudine, se il suo cuore desidera una donna, il suo tempo non arriva».

Secondo numerose fonti archeologiche o letterarie, sembra che alcuni Egiziani siano riusciti a

raggiungere, o ad avvicinarsi ai centodieci anni.

Andando in ordine cronologico, il primo personaggio che incontriamo è Djedi, un mago, citato solo

in un racconto del Papiro Westcar3, ambientato alla corte del faraone Cheope (IV dinastia, anni di

regno 2600-2550 a.C. ca.); il passo che lo riguarda recita: «C’è un borghese di nome Djedi, che

abita in Djedesnefru. È un borghese di centodieci anni, che mangia cinquecento pani e, come

carne, mezzo bove, e che beve cento brocche di birra ancora oggi. Egli sa riattaccare una testa

tagliata, sa far camminare dietro di sé un leone, il cui laccio si trascina per terra. Conosce il

numero delle stanze segrete del santuario di Thot». Djedi, tuttavia, non è che una figura letteraria,

di cui non si ha attestazione archeologica.

Al contrario, Pepi II Neferirkara (VI dinastia, XXIII secolo a.C.), faraone della V dinastia, regnò,

secondo il Papiro dei Re4 di Torino, per ben novantaquattro anni, giungendo certamente almeno ai

cento di età: siamo dinanzi al sovrano più longevo non soltanto dell’Egitto, ma di tutta la storia

umana.

Il molto più famoso Ramesse II (XIX dinastia, anni di regno 1279-1213 a.C.), la cui mummia è

conservata al Museo Egizio del Cairo, visse fin verso i novant’anni.

Un ultimo esempio più recente, infine, è quello del dignitario Nebnetjeru, che raggiunse il

dignitosissimo traguardo di ottantasei anni; su una sua statua5, dopo essere stati indicati i suoi anni

di vita, l’iscrizione recita: «Ho trascorso la mia vita nella gioia, senza preoccupazioni, senza

malattie…e così io ho superato gli anni di vita di tutti i miei contemporanei. Fate in modo che

succeda anche a voi».

Per l’uomo egiziano essere vecchio, iAw, non è certo buona cosa: la vecchiaia

altro non è che la manifestazione dell’approssimarsi, lento ma inesorabile, della morte, poiché

l’anziano avverte su di sé, pur essendo vivi, i sintomi della decomposizione corporea.

1 Papiro Anastasi III, XIX dinastia (1292-1187 a.C.), Londra (British Museum).

2 Papiro Insinger, I sec. d.C., Leida (Rijksmuseum van Oudheden).

3 Papiro Westcar, XIII dinastia (1800-1650 a.C. ca.), Berlino (Neues Museum).

4 Papiro dei Re, XIX dinastia, regno di Merenptah, (1213-1203 a.C.), Torino (Museo delle Antichità Egizie).

5 Statua di Nebnetjeru, granito grigio, XXII dinastia, regno di Osorkon II (872-837 a.C.), Cairo (Museo Egizio).

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La più importante e famosa descrizione della vecchiaia, che ci mostra in maniera inconfutabile il

pensiero dominante dell’epoca riguardo a tale fenomeno, di gran lunga ben lontano rispetto alla

serenità del De senectute di Cicerone, è senza dubbio quella fornita dal saggio Ptahhotep, visir del

faraone Djedkara Isesi (V dinastia, anni di regno 1414-2375 a.C. ca.), nel prologo del suo

insegnamento6: «La vecchiaia si è prodotta, la senilità è calata, il deperimento è venuto, la

debolezza si è rinnovata: sta coricato ogni giorno colui che è rimbambito; gli occhi sono deboli, le

orecchie sono sorde, la forza deperisce, essendo stanco il cuore, la bocca è silenziosa e non parla,

il cuore è assente e non ricorda lo ieri, le ossa dolgono per la lunghezza dell’età. Ciò che era

buono è divenuto cattivo, ogni gusto se n’è andato. Quel che fa la vecchiaia agli uomini è cattivo in

ogni senso: il naso è tappato e non respira per la debolezza, alzati o seduti che si sia».

Un’altra importante descrizione è contenuta nelle Avventure di Sinuhe7, il testo più conosciuto e

meglio studiato di tutta la letteratura egiziana antica, sebbene questa sembra essere stata tratta da

quella di Ptahhotep: «Oh, se tornasse giovane il mio corpo! Poiché la vecchiaia è calata e la

debolezza mi ha invaso: sono pesanti i miei occhi, deboli le mie braccia, le mie gambe rifiutano di

servire, il mio cuore è stanco. Si avvicina a me la partenza, quando mi porteranno nella dimora

dell’eternità»8.

Così come noi moderni, anche gli antichi Egizi cercavano di contrastare la vecchiaia attraverso una

serie di rimedi riscontrati in alcuni papiri. Questi avevano lo scopo di operare su più livelli,

descrivendo semplici trattamenti estetici oppure farmaci, ricette e formule per sintomi ben più gravi

di qualche ruga.

Il Papiro Ebers9 è senza dubbio il manoscritto medico più completo della letteratura egiziana;

ebbene, le formule dalla 705 alla 738 sono consacrate alla cura delle affezioni della pelle. Le

formule hanno un incipit che spiega sinteticamente il rimedio: «ricetta per trasformare la pelle»;

«ricetta per cacciare le rughe dal viso»; «ricetta per nascondere le macchie del viso»; «ricetta per

rendere perfetto l’incarnato superficiale»; «ricetta per far sì che il viso sia disteso», ecc…

Per fare qualche esempio dettagliato, di seguito alcune formule:

«Ricetta per trasformare la pelle: miele1, natron rosso 1, sale marino 1; macinare in una massa

omogenea e spalmare sulla pelle» (formula 714);

«Ricetta per rendere perfetto l’incarnato superficiale: polvere di alabastro 1, polvere di natron 1,

sale marino 1, miele 1; mescolare fino a ottenere una pasta omogenea con il miele e spalmare sulla

pelle» (formula 715);

«Altra ricetta per cacciare le rughe dal viso: resina di terebinto 1, cera 1, olio di moringa fresco 1,

papiro commestibile 1; triturare finemente e mettere in mucillagine, applicare al viso ogni giorno:

fallo e vedrai!» (formula 716).

Oltre alla pelle, si è cercato di intervenire sui capelli: «La capigliatura di una donna diverrà più

folta grazie ai semi di ricino. Frantumare, amalgamare e trasformare in olio. Allora la donna se ne

ungerà la testa» (Formula 251);

Le formule dalla 451 alla 463 concernono rimedi per «cacciare la sostanza che devasta i capelli e

curarli (o per evitare che si sviluppi)» e contengono una rilevante componente magica, proponendo

l’uso di sangue di vitello o toro nero, sangue di tartaruga, placenta di gatta, grasso di serpente nero,

corno di gazzella in polvere, ecc…, da mettere in olio o grasso e spalmare.

Dalla formula 464 alla 476, il manoscritto offre la possibilità di «fortificare i capelli» oppure di «far

crescere i capelli a un calvo», come ad esempio la formula 465: «altra ricetta per far crescere i

capelli a un calvo: grasso di leone 1, grasso di ippopotamo 1, grasso di coccodrillo 1, grasso di

gatto 1, grasso di serpente 1, grasso di stambecco 1; preparare fino a ottenere una massa

omogenea e spalmare in testa».

6 Papiro Prisse, XII dinastia (1900 a.C. ca.), Bibliothèque Nationale de France, Paris.

7 XII dinastia, (1900 a.C. ca.).

8 Il faraone Sesostri I, uno dei protagonisti del testo, per spingerlo a ritornare nella terra d’Egitto, insiste sulla sua età

avanzata: «Oggi hai cominciato a invecchiare, hai già perduto la potenza virile. Ricorda il giorno della sepoltura, il passaggio alla condizione d‘imakhu (= beato, n.d.a.) […] è troppo tardi per correre il mondo: pensa alle malattie e vieni!». 9 Papiro Ebers, 1520 a.C. ca., Lipsia (Biblioteca dell’Università).

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Nel prezioso documento sono presenti non solo rimedi per migliorare l’estetica del corpo, ma anche

ricette o proposte per curare problemi ben più gravi.

Per la cataratta, definita Ax.t n.t mw m ir.ty ‘la salita dell’acqua negli occhi’, il Papiro

Ebers propone tre rimedi (formule 378-380)10

; eccone uno: «Altro rimedio per cacciare la salita

dell’acqua negli occhi: asa phoetida 1, malachite 1, nafta 1. Frantumare e amalgamare, poi si

spalmeranno gli occhi per mezzo di questo» (formula 380).

Anche la demenza senile, quale conseguenza dell’invecchiamento è riportata sul manoscritto,

precisamente quando è citata la perdita delle funzioni superiori sotto l’effetto distruttivo di un soffio

morboso, esteso nell’interno (formula 855u): «Quanto al fatto che l’interno deperisca e quanto alla

perdita della memoria, si tratta di un soffio proprio del campo di attività del sacerdote-lettore11

,

che lo combatte. Quando esso entra nella trachea e nel polmone più volte, l’interno può subire

delle lesioni».

Anche il progressivo logoramento corporeo è citato nel documento, ma purtroppo non è segnalato

alcun rimedio; la formula 855m recita infatti: «quanto al logoramento fisico della vecchiaia, la

causa è nell’azione degli ukhedu12

sul cuore dell’uomo».

Il tremore alle mani, che alcuni medici odierni hanno ritenuto di identificare nel morbo di Parkinson

in fase iniziale, è combattuto in questo modo: «Rimedio per scacciare le sostanze che causano il

tremore e che si trovano nelle dita: grani di pianta-tjun; grasso di toro 1, seseka 1; latte 1, sale

marino 1, sicomoro 1. Sarà cotto e preparato in una massa omogenea; spalmare con questo»

(formula 623).

Infine, sotto i colpi impietosi del decadimento s’indeboliscono addirittura gli dèi. Del resto la

vecchiaia non è che l’araldo della morte e quest’ultima, per gli Egiziani, è solo uno dei tanti

fenomeni naturali: quale parte costitutiva dell’ordine cosmico, è un momento dell’esistenza e

pertanto si trova nella lista di quegli elementi che costituiscono l’universo creato; essendo, pertanto,

indicata nell’elenco di tutte le componenti del cosmo assenti prima della creazione, soltanto l’ente

creatore, Atum, sfugge al giorno della propria morte, e così pure il sovrano, egualmente nato nel

tempo anteriore alla storia13

. Persino sugli dèi, in quanto anch’essi creati, lo sguardo della morte si

posa, così come sugli uomini e sulle bestie14

.

A dimostrazione di ciò, un’efficace descrizione di vecchiaia divina, alquanto spietata, si può trovare

in un papiro torinese15

che descrive il dio sole Ra divenuto vecchio: «Il dio era invecchiato, la

bocca gli gocciolava, la saliva gli colava verso la terra e ciò che sbavava cadeva sul suolo».

E dunque, quando ogni cosa sarà invecchiata e perita, quando le bestie del cielo, della terra e del

mare, gli uomini e gli dèi saranno anch’essi invecchiati e periti, cosa succederà?

È il Creatore a rispondere al quesito16

: «Io distruggerò tutto ciò che ho creato. La terra apparirà di

nuovo come Nun, come oceano, come nel principio. Io sono quello che resterà, insieme a Osiri,

dopo che mi sarò trasformato di nuovo in un serpente, che nessun uomo conosce, che nessun dio

vede».

10

Il filosofo Crisippo (III sec. a.C.) testimonia in Egitto un intervento chirurgico alla cataratta tramite l’utilizzo della tecnica dell’abbassamento, che consiste nello spostare il cristallino in basso con un ago fino al recupero della vista e sostiene che questo trattamento fosse comunemente praticato. 11

Colui al quale attengono le formule rituali e magiche. La demenza senile, pertanto, non può essere combattuta dalla medicina tradizionale, ma solamente dalla magia. 12

Specifici agenti patogeni animati da un soffio, che circolano nei corpi attraverso i vari condotti e che consumano progressivamente le persone. 13 Ogni sovrano egizio, poiché ipostasi della medesima divinità, travalica i comuni limiti temporali: «Questo (re) è nato dal padre Atum, (quando ancora) non era venuto in essere il cielo, (quando ancora) non era venuta in essere la terra, (quando ancora) non erano venuti in essere gli uomini, (quando ancora) non erano nati gli dèi, (quando ancora) non era venuta in essere la morte» (Testi delle Piramidi, formula 1466 b-d). 14 «[…] Io non andrò in putrefazione, come hai fatto a ogni dio e a ogni dea, ogni bestia e ogni serpente che marcirà […]” (Libro dei Morti, capitolo CLIV). 15

Papiro magico, Cat. 1993, XX dinastia (1186-1070 a.C.), Torino (Museo delle Antichità Egizie). 16

Libro dei Morti, capitolo CLXXV.

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Vietato invecchiare. Dal mito alla scienza

Massimo Centini, Antropologo

“Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato”… Così il dottor Victor Frankenstein

esterna la sua delusione davanti ala “creatura” frutto di un lavoro che l’aveva indotto a far proprio il

diritto divino di creare la vita.

Attraverso lo stordimento prodotto dal presagio che trasforma l’alchimia in chimica e il linguaggio

esoterico in fisiologia, lo scienziato aveva provato a sostituirsi a Dio, cercando nel sottoscala della

ragione risposte che sembra non ci siano in nessun luogo frequentato dagli uomini.

Quando il progetto di creare la vita, passando da un piano cosmico a uno antropologico, dimostra

tutto l’orrore del suo volto più autentico, il dottore si arrende perché “la bellezza del sogno (è)

svanita” e tutto diventa incubo. E così i mostri adesso sono tra gli uomini a reclamare una loro

autonomia, ma soprattutto un’anima…

Quanto ieri ci pareva fantascienza oggi è diventato una realtà: siamo profondamente disorientati,

impauriti, forse più consapevoli della fugacità della nostra esistenza, densa di emozioni sintetiche e

sballottata tra i luoghi comuni.

Nella neo-dimensione dominata dalla certezza che l’uomo possa tutto, sostituendosi alla natura, la

scienza ha acquisito un ruolo salvifico e la tecnica una posizione centrale nella definizione

dell’immagine della realtà. Fondamentale l’influenza di René Descartes (1596-1650) che non ha

percepito l’uomo come un essere unico, ma caratterizzato dalla forte dicotomia anima/corpo. In tal

senso il secondo risulta una parte “bassa”, sulla quale è possibile intervenite in ragione di esigenze

eminentemente materiali.

Dal XVIII secolo il corpo umano cominciò a essere paragonato dalla macchina, poi nel XIX secolo,

con l’affermarsi del modello industriale, il congiungimento tra naturale e artificiale fu effettuato

attraverso la metafora fisiologica: sezioni anatomiche o vascolari assomigliavano perfettamente agli

schemi dei congegni meccanici. Aveva così inizio quel passaggio che condurrà ad avvicinare

sempre più biologia e tecnologia, dando sostanza a una nuova dimensione antropologica che

definiamo postumana, entro la quale l’uomo si allontanava sempre più dai limiti della sua specie,

perseguendo una perfezione antropologica in cui la tecnica risulta dominante.

Le tecnologie “di miglioramento” possono essere di tipo cibernetico che consentano di

implementare il corpo umano potenziandone le funzioni biologiche. A queste se ne aggiungono

altre più moderne, costituite dalle molteplici possibilità prospettate dalle biotecnologie, che però

spesso stridono con il lento e naturale percorso evolutivo che accomuna le creature viventi.

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Dr. Piero Secreto, Geriatra

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Perdita dell’autonomia: implicazioni psicologiche e sociali

Daniele Debernardi, Psicologo

L’approccio globale per la cura del paziente anziano è essenziale. Questo è caratterizzato da una

gestione che preveda una collaborazione di più figure professionali, ognuna con le proprie

competenze, con l’obiettivo di creare una rete di supporto ed ottenere una migliore cura.

La creazione di questa rete porta ad una maggior conoscenza del paziente e l'intervento delle figure

giuste nel momento opportuno, portando ad un più efficace utilizzo delle risorse disponibili.

Curare il paziente anziano nella sua fragilità vuol dire innanzi tutto capire che paziente abbiamo

davanti, un paziente con una storia, con una famiglia…

L'obiettivo non diventa quindi la guarigione della malattia, ma un miglioramento del qualità di vita,

che non vuol dire necessariamente un allungamento.

Partiamo dalla considerazione che l’anzianità non è una malattia, ma una condizione.

E' necessario che le figure professionali chiamate in causa (medici, psicologi, assistenti sociali, ecc)

decidano insieme gli obiettivi da raggiungere, valutando le risorse disponibili (la famiglia, la rete

sociale, il potenziale inserimento in RSA), così da impostare il giusto percorso, la dove si renda

necessario, per essere efficaci e migliorare la qualità degli interventi.

La sintomatologia aspecifica tipica del paziente anziano, ovvero la sua caratteristica di essere

fragile, deve portare chi se ne prende cura a non fermarsi al primo sintomo presentato dal paziente

stesso, ma analizzare il contesto per poter comprendere innanzitutto le reali problematiche, quindi le

cause, ed intervenire con efficacia.

Nel parlare di pazienti anziani, il curare è da intendere sempre come prendersi cura.

La relazione con il paziente e con i suoi familiari deve essere di fiducia reciproca; importanti sono

quindi il dialogo, il supporto, la condivisione degli obiettivi, in una relazione dove ognuno può e

deve portare il proprio contributo.

I cambiamenti che avvengono nella terza età non sono solo fisici e gli aspetti intrapsichici coinvolti

sono molti. A volte l’errata lettura del disagio nasce dalla non accoglienza della persona nella sua

completezza, soprattutto nella considerazione dell’interazione tra Sé e l’Altro, in un gioco in cui

esistono più attori coinvolti.

Partendo dalla persona che vive questo passaggio di vita, non sempre i cambiamenti vengono

integrati con ciò che il corpo dice e questo porta con il tempo ad una vera dispercezione, che spesso

si traduce in un vero e proprio scompenso. Non a caso si parla sempre più di scompenso borderline

che sopraggiunge quando il divario tra realtà interna percepita e situazione di vita sono distanti. Nei

casi più gravi si traduce in vere e proprie somatizzazioni, dove elementi depressivi sospesi si

traducono in vere e proprie malattie. Il ri-piegamento narcisistico trova nell’anziano un terreno

fragile, una condizione de-strutturante non supportata e se esistono delle crepe identitarie queste si

rendono manifeste.

A tutto questo va aggiunto il rapporto dell’anziano con i famigliari e la rete amicale.

Anche chi è vicino alla persona anziana si trova a dover modificare la propria rappresentazione

interna, in quanto deve far fronte alle trasformazioni che i processi fisico-degenerativi del proprio

caro gli impongono.

Non sempre questa trasformazione ha un decorso lineare, poiché subentrano delle resistenze al

cambiamento.

Tutto ciò è accentuato e reso palese attraverso crepe relazionali disfunzionali alla situazione in atto.

Per esempio spesso si manifestano attraverso un aumento dell’aggressività, della intolleranza, dei

sensi di colpa…

L’invecchiamento diventa amplificatore dei processi relazionali e se sono presenti difficoltà

pregresse queste vengono slatentizzate.

La condizione dell’anziano è molto simile per intensità ai processi che ad inizio vita coinvolgono il

bambino; mentre nel processo di crescita del il bambino la dinamica di fondo è supportata da una

dimensione vitale, nell’anziano entrano in gioco aspetti più mortiferi.

Chi si trova ad operare nell’ambito dell’anzianità deve essere consapevole di tutte queste

complessità, rendendosi disponibile ad accogliere la Persona nella sua interezza.

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Anziani a domicilio

Drssa Gabriella Leone, Medico di Medicina Generale

Il divenire anziani e il tema delle cure necessarie in presenza di problemi di salute più o meno

gravi è oggi un argomento ampiamente dibattuto sul quale ci si interroga frequentemente

soprattutto per quanto riguarda l’aspetto dell’assistenza domiciliare.

Il desiderio di molte persone anziane è , infatti, quello poter continuare a vivere a casa propria

anche in condizioni di disabilità, con o senza la presenza di familiari.

La frase “ voglio morire a casa mia” è abbastanza ricorrente nell’ esperienza dei medici di famiglia.

Per queste persone l’istituzionalizzazione viene vista non come una risorsa ma come un definitivo

allontanamento dai propri affetti e dai propri ricordi.

Molti studi hanno individuato la casa come luogo preferito per le cure sia sotto l’aspetto economico,

sia per la possibilità di rispondere ai desideri degli anziani stessi (Samaroo B, Porter E.J.). La casa

rappresenta “ il luogo dove la maggior parte delle persone sente di essere spontanea, sincera, al

centro della propria esistenza, padrona dei più intimi rapporti e partecipe delle più profonde

emozioni” (Ruddick W.), e ad essa viene riconosciuta una funzione attiva nel consentire al soggetto

anziano e/o malato di recuperare le proprie capacità residue o mantenere la salute e l’autonomia

relativa.

Pertanto l’obiettivo primario delle disposizioni socio sanitarie deve essere il mantenere le persone

nel proprio ambito di relazioni, all’interno del proprio tessuto sociale favorendo, quando possibile,

la permanenza nella propria abitazione. Le scelte politiche ed economiche, in ambito socio

sanitario, non possono prescindere dal rispetto dei diritti assistenziali della persona e delle loro

famiglie.

La collaborazione tra le ISTITUZIONI (Comune, Provincia, Regione), il DISTRETTO

SANITARIO e le FIGURE PROFESSIONALI ( Medico di Medicina Generale, l’Infermiere

Professionale, il personale del Servizio Socio Assistenziale) è indispensabile per far si che

l’anziano sia seguito sotto diversi aspetti pur permettendogli di continuare serenamente a vivere

nella propria casa. A ciò si aggiunga il valore del ruolo fondamentale delle famiglie (ove presenti) e

della collaborazione delle associazioni di volontariato sul territorio, che costituiscono una risorsa

quanto mai preziosa .

La tutela dell’anziano “fragile” rischia di assumere sempre più i toni di un’emergenza sociale a

causa di implicazioni di tipo: - DEMOGRAFICO: aumento dell’età media della popolazione

- SANITARIO: aumento delle cronicità collegate all’invecchiamento della popolazione

- ECONOMICO: aumento della spesa pubblica sanitaria e assistenziale

- SOCIALE: aumento della povertà

ACCENNI DEMOGRAFICI

Alcuni accenni demografici posso mettere in evidenza le criticità legate all’invecchiamento della

popolazione.

In base ai dati dell’ISTAT la percentuale dei over 65 anni è passata dal 18,7% del 2001 al 20,8%

del 2011 e i grandi vecchi over 85 anni sono passati dal 2,2% al 2,8% del 2011. Questo pur

tenendo conto degli immigrati stranieri che “ringiovaniscono” la popolazione.

Le previsioni proiettate fino al 2051 danno per certo un incremento progressivo e inarrestabile dei

over 65 e over 85 che si ipotizza preverranno rispettivamente al 33% e 7,8% del totale popolazione

residente in Italia.

Più di 2milioni di persone tra i 65 e 87 anni riferiscono di non essere completamente autonome in

almeno una delle attività essenziali della vita quotidiana come lavarsi, vestirsi, mangiare, muoversi,

nell’accesso agli edifici e nella comunicazione. Il diritto alla mobilità è essenziale per un’adeguata

inclusione sociale e dovrebbe essere garantito a tutti, anche a persone che hanno problemi di salute

e disabilità.

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In base alle previsioni fatte dall’ISTAT il numero di persone disabili nei prossimi 20 anni

aumenterà del 65-75%, vale a dire che la prevalenza delle persone non autosufficienti passerà dai

circa 2 milioni attuali ai 3,5 milioni nel 2030.

Questo cambiamento demografico, con allungamento della vita media e delle cronicità, implica la

necessità di un ripensamento a livello logistico e strutturale delle prestazioni erogabili.

Quale approccio è auspicabile, allora, per la cura della persona anziana? Quali sono le pratiche

migliori, le più rispettose dell’anziano nella sua dignità di persona?

Ciò richiede un passaggio fondamentale DALLA CURA DELLA MALATTIA al FARSI

CARICO DELLA PERSONA NELLA SUA INTEREZZA, tenendo conto dei seguenti aspetti: - LO STATO FISICO (PREVENZIONE PRIMARIA DELLE MALATTIE CRONICO

DEGENERATIVE per favorire un invecchiamento attivo; CURA; RIABILITAZIONE)

- LO STATO COGNITIVO

- IL TONO UMORE

- LE CONDIZIONI SOCIO-SANITARIE

Quanto sopra potrebbe sembrare banale ma occorre tenere sempre presente che il soggetto anziano

fragile ha bisogno di relazioni , di contatti. La medicina moderna ha preso in considerazione,

separatamente, corpo e mente (cognitiva ed emozionale). La iper-specializzazione, l’uso stesso di

tecnologie “fredde” ( tac, risonanza ...) ha aumentato la distanza tra operatori e pazienti. Oggi, forse,

si assiste in controtendenza ad una rivalutazione globale della persona.

Altro fattore su cui riflettere è il GIOVANILISMO PERPETUO di cui è permeata la nostra società

e che tende ad allontanare l’anziano, malato cronico.

Secondo l’ OMS la politica di prevenzione delle invalidità fisiche e mentali si attua in tre livelli: 1) Controllo dei rischi e promozione della salute : valutazione delle capacità funzionali dell’anziano

nella sua casa, alimentazione adeguata, controlli dentali, igiene e cura della persona , promozione

della comunicazione, riduzione delle cause fisiche di isolamento e adozione di nuovi ruoli sociali,

scelte strategiche relative alle abitazioni, ai trasporti, aiuti familiari

2) Individuazione precoce delle invalidità e inabilità e loro trattamento

3) Riabilitazione e continua assistenza

Per il BENESSERE DELL’ANZIANO A DOMICILIO vanno prese in considerazione attività

anche non strettamente di carattere sanitario, ma che contribuiscono al mantenimento della

salute della persona quali: 1) ADEGUATEZZA DELL’ABITAZIONE : pulizia, illuminazione, aerazione, appoggi, ausili vari

ecc.

2) IGIENE E CURA DELLA PERSONA

3) ALIMENTAZIONE E DIETA EQUILIBRATA

4) MOBILITA’ attraverso l’esercizio quotidiano

5) BENESSERE PSICO-SOCIALE e STIMOLI MENTALI: relazioni sociali, iniziative ludico-

ricreative culturali, hobbies. In assenza di stimoli relazionali si favorisce il rimuginare sul

passato e il distacco dal presente.

Spesso accade però che l’anziano, specie se solo e con poche risorse economiche, non sia in grado

di provvedervi autonomamente.

Secondo i dati dell’ ISTAT del 2011, considerando congiuntamente l’assistenza sanitaria

domiciliare e gli aiuti per la vita quotidiana, emerge che il 17% delle persone con limitazioni

funzionali non riceve alcun sostegno dallo stato

LE FIGURE DI RIFERIMENTO

In un ottica di tutela della persona anziana possiamo quindi identificare alcune figure fondamentali

di riferimento : 1) LA FAMIGLIA: in Italia, più che in altri paesi, la famiglia rappresenta un attore basilare nella cura

a lungo termine delle persone anziane , sopperendo alle carenze del welfare. Il sistema è però a

rischio di implosione sia per l’aumento dei soggetti da accudire che per la diminuzione dei soggetti

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che accudiscono (diminuita natalità, diminuzione delle famiglie con figli e aumento delle famiglie

monoparentali)

2) MEDICO DI MEDICINA GENERALE, MEDICO DI CONTINUITA’ ASSISTENZIALE e

SPECIALISTI: il ruolo del medico di famiglia è fondamentale per la presenza costante e per il

rapporto di fiducia che si instaura con il paziente e il nucleo parentale, permettendo così una visione

generale sui bisogni.

3) INFERMIERE PROFESSINALE del Distretto, ASSISTENTI SOCIALI e altre figure come le

ASSISTENTI DOMICILIARI che collaborano attivamente nelle cure domiciliari e affiancano

Medico di Medicina Generale e famiglia .

4) ASSOCIAZIONI DI VOLONTARIATO: il volontariato è un caposaldo dell’assistenza , più o meno

specializzata,dell’anziano. Il volontariato è indubbiamente un valido sostituto/supporto negli ambiti

in cui il welfare vacilla.

5) Le “BADANTI”, il cui numero è in crescita: si stima che il 6.6% degli over 65 utilizzi la figura di

una” badante” (10% al nord) (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali). Sicuramente il dato è

sotto stimato considerato anche il numero di persone che svolgono un lavoro in nero, regolarizzate.

IN EUROPA

In tutta Europa l’andamento demografico è simile, e presenta il medesimo quadro di

“invecchiamento” della popolazione (EUROSTAT 2010).

In tutti i paesi europei la cura degli anziani oscilla tra il polo della FORMAL CARE (cioè del

servizio pubblico) e la INFORMAL CARE (famiglia, amici, volontari).

Nel Nord Europa la copertura del Sistema pubblico è decisamente maggiore rispetto all’Italia. In

Italia esistono rilevanti differenze tra le diverse regioni, tra nord e sud: Veneto, Friuli, Emilia

Romagna e Lombardia, ad esempio, prendono in carico a diverso titolo circa il triplo degli anziani

non autosufficienti rispetto a Campania, Calabria e Puglia (IRS 2010).

Nei Paesi Nordici quasi 1/3 della spesa del welfare è destinata al finanziamento dei servizi, negli

altri Paesi prevalgono le prestazioni in denaro.

Le diverse modalità di gestione hanno ripercussioni importanti a livello sociale. Le politiche

nazionali dovrebbero porsi in maniera critica nei confronti delle modalità di supporto alle famiglie

nella mansione di gestione e cura dell’anziano fragile, sostenendo forme di cure intergenerazionali

, senza creare o perpetuare disuguaglianze di genere e di classe.

Il settore del Long-term care è infatti spesso fortemente dipendente dalla famiglia e principalmente

dal ruolo di caregiver della donna. L’erogazione monetaria, al posto dei servizi, implica che la

famiglia possa decidere se utilizzare tali contributi per acquistare servizi o per contribuire al budget

famigliare occupandosi direttamente delle cure; questo presuppone che un membro della famiglia

rinunci al lavoro per la cura della persona. Più spesso questo ruolo viene svolto dalla donna con

conseguenti possibili ripercussioni negative sia in termini di partecipazione al mercato del lavoro e

di prospettive future per il proprio invecchiamento, sia dal punto di vista sociale conflittuale, di

isolamento e di burn out psicologico

In tutti i paesi europei sono presenti diverse tipologie di intervento a favore degli anziani e delle

famiglie che, fondamentalmente, si sovrappongono ma hanno una distribuzione diversa a seconda

dei paesi . Ne possiamo elencare alcune: a) SERVIZI DI CURA DOMICILIARI: misure che non prevedono lo spostamento dell’anziano dal

proprio domicilio. Implicano assistenza sociale e sanitaria integrate e quindi un progetto unitario,

limitato o continuativo nel tempo. Spaziano da soluzioni che definiamo “leggere” come supporto

domestico, la cura della persona, l’assistenza medico-infermieristica fino a interventi di maggiore

intensità di cura come l’ospedalizzazione domiciliare attraverso la medicalizzazione dell’ambiente

domestico. Questo modello assistenziale, nato in Francia negli anni ’60 (Rossi G., Bramanti D.,

Medda S.2007), si è diffuso negli altri paesi ed è una forma alternativa al ricovero ospedaliero, con lo

scopo di ridurre i costi e migliorare la qualità di vita del paziente. Nei paesi nordici la percentuale di

over 65aa che beneficiano di servizi domiciliari è del 20%, percentuale che scende al 10-12% in

Francia e in Austria e al 2-5% nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo (Bramanti D., Carrà E.

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2011). I servizi domiciliari necessitano del supporto di una rete familiare di aiuto che comporta però

un forte carico di lavoro e di stress e per questo motivo ,a sostegno delle famiglie, si possono attuare

forme di aiuto come gruppi di sostegno per sollievo e interruzione nei compiti di accudimento

domestico permettendo ai care giver familiari di “tirare il fiato” ; oppure, analogamente nei casi in cui

l’anziano sia solo è possibile attivare modalità vicarie delle figure familiari (come affidamento

diurno). In Germania, per esempio, il ruolo del caregiver è perfino previsto dalla legge e altri Paesi

hanno introdotto sistemi assicurativi per i caregiver. Da questo si evince che nei paesi del nord Europa

si è disposti a pagare per questo servizio.

b) DAY CARE (CENTRI DIURNI), RICOVERI DI SOLLIEVO TEMPORANEI cioè forme

intermedie che hanno come obiettivo l’alleggerimento del carico di lavoro della famiglia.

c) ALLOGGI PROTETTI che rappresentano tentativi di creare ambienti domestici sostitutivi .

d) RICOVERI IN STRUTTURE ASSISTENZIALI.

LE FORME DI ASSISTENZA A DOMICILIO si possono esplicare come segue: 1) SUPPORTO PER LE ATTIVITA’ QUOTIDIANE (SERVIZI SOCIO-ASSISTENZIALI). Igiene

ambientale, igiene personale, preparazione pasti, consegna della spesa, consegna dei pasti a

domicilio, accompagnamenti vari, interventi di tipo relazionale, disbrigo di pratiche es. invalidità

civile, piccole manutenzioni e adattamenti dell’abitazione.

2) TELESOCCORSO

3) INTERVENTO ECONOMICO A SOSTEGNO DELLA PERMANENZA A DOMICILIO:

ASSEGNO DI CURA ossia un contributo economico per sostenere persone anziane e familiari, atto

ad evitare inserimento in struttura, attuato in base ad un progetto e finalizzato all’ assunzione di una

“badante” oppure per il pagamento di ore di assistenza effettuata da parte di gruppi o associazioni.

Questa soluzione ha ripercussioni positive sul mondo del lavoro.

4) CONTRIBUTI E CONSULENZE PER L’ADATTAMENTO DELLA CASA al fine di eliminare

barriere architettoniche, introdurre automazioni, arredi e ausili domestici

5) AGEVOLAZIONI E ASSISTENZA FISCALE per anziani non autosufficienti

6) SOLIDARIETA’ DI BUON VICINATO : un servizio di affido diurno degli anziani e/o disabili

adulti che prevede supporto quotidiano di un “vicino” per l’anziano solo o dove la rete familiare è

debole (con riconoscimento del lavoro di cura)

7) ASSISTENZA INFERMIERISTICA DOMICILIARE

8) ASSISTENZA DOMICILIARE PROGRAMMATA (ADP) per persone che non possono accedere

agli ambulatori

9) ASSISTENZA DOMICILIARE INTEGRATA (ADI) per i pazienti gravi con intervento di più di

una figura professionale dal MMG, IP, SPECIALISTI, ASS. DOMICILIARI

10) CURE DOMICILIARI DI LUNGO DEGENZA finalizzate al recupero di capacità e autonomia in

patologie croniche , che prevede contribuzione condivisa tra ASL e pazienti (o serv. Sociali)

11) CURE PALLIATIVE: si occupano in maniera attiva e totale dei pazienti colpiti da una malattia che

non risponde più a trattamenti specifici e con prognosi infausta

12) CUSTODE SOCIALE: figura “professionale” del welfare a sostegno della domiciliarità, socialità e

della sicurezza. E’ un valido esempio di partnerschip tra amministrazione pubblica e terzo settore.

Agisce tessendo una rete di sostegno, riattivando relazioni tra famiglia, vicini e comunità; visita gli

anziani a domicilio, registra le richieste e i bisogni degli anziani e dei familiari e si attiva per la

risoluzione con azioni di informazione, accompagnamento, orientamento.

La diverse modalità di fronteggiare i bisogni degli anziani rappresentano una sfida alle scarse

risorse delle famiglie sia della disponibilità di caregiver che delle risorse economiche necessarie a

rispondere adeguatamente alle esigenze.

Il Long term care è da sempre un settore sotto finanziato in Italia rispetto al resto dell’Europa e alle

reali esigenze della popolazione, nonostante i bisogni siano in aumento.

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In generale l’impegno delle limitate risorse economiche è indirizzato ad offrire servizi per anziani

senza famiglia, manca invece il sostegno effettivo dei carichi familiari. Prevalgono offerte di tipo

sostitutivo e residenziale mentre minore attenzione è riservata a interventi che assumono un’ottica

esplicitamente familiare. Qualche cambiamento è stato attuato ma un significativo orientamento

delle prassi consolidate non è ancora avvenuto.

Anziani,famiglie e R.S.A - snodi al crocevia di una scelta in tempo di crisi.

Maria Nicotra

Con questo scritto intendo evidenziare alcune questioni cruciali che riguardano tre tempi il

momento della scelta familiare dell’inserimento in una residenza sanitaria assistenziale del proprio

familiare anziano i cambiamenti importanti che si producono nella vita dell’anziano il ruolo che si

svolge nell’accoglienza in una R.S.A

Le questioni cruciali riguardano invece sul ciò che possibile e ciò che è l’impossibile.

Impossibile da trattare, non da diniegare.

Può l’istituzione mette in atto un’organizzazione che favorisca il trattamento e l’accoglienza anche

della complessità che si intreccia intorno ad un cambiamento così radicale nella vita dell’anziano in

un modo che non cancelli l’identità dell’anziano, la sua storia, le sue abitudini?

La relazione cercherà di mettere in evidenza alcuni snodi che riguardano questi punti alla luce

anche dell’attuale scenario socio - culturale e sanitario in Italia.

Il ricovero in ospedale dell’anziano: quando e perché

Piergiorgio Bertucci, Medico Pronto Soccorso Chivasso (TO)

Negli ultimi anni si è assistito ad un aumento della durata della vita, almeno nei Paesi cosiddetti

Sviluppati (come l’Italia), grazie sia ad un sempre crescente miglioramento delle condizioni

igieniche che della alimentazione sia ad un miglioramento delle possibilità di cure sanitarie.

Molti ascrivono tale aumento alla migliore alimentazione, alcuni – appunto – alle migliorate

condizioni igienico-sanitarie, altri ad una più attenta gestione delle patologie che affliggono l’età

“avanzata”, altri ancora a tutto questo più le vaccinazioni, che da sempre sono, assieme all’Igiene,

uno dei principali baluardi contro le malattie.

Purtroppo non sempre la lunghezza della vita corrisponde ad un vero e proprio miglioramento delle

condizioni psico-organiche vere e proprie.

Cosa vuol dire, infatti “allungare la vita”?

Un famoso giornalista scrittore, una volta (e mi scusasse se lo cito) scrisse. “non bisognerebbe

allungare la vita, bisognerebbe allargarla”.

Egli intendeva esprimere il pensiero di molti (ma – ahimé – non di tutti), e cioè che bisognerebbe

vivere una vita meritevole di essere vissuta, e non un mero sopravvivere-vegetare-respirare-

alimentarsi-evacuare, come spesso vediamo in alcune categorie di persone.

La vita non è sopravvivere, infatti. E’ vivere. Cioè partecipare al mondo che ci sta attorno.

Vi sono alcune circostanze in cui questo assioma non è rispettato.

A volte a causa della nostra etica legata ad un passato religioso difficile da eradicare.

A volte a causa di un ben comprensibile egoismo di chi non vuole vedere “andar via” la persona

amata.

Senza nulla togliere all’importanza della religione, che impone il rispetto assoluto, nunc et semper,

della vita (quasi tutte le religioni sono d’accordo su questa visione), si sarebbe tentati di celiare,

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affermando che se si è in pace col proprio Dio, la morte non dovrebbe far paura, e quindi la fine di

essa, la dignitosa conclusione di un ben vissuto vivere, non dovrebbe essere affatto in contrasto con

gli ideali religiosi, anzi, al contrario, la fine della vecchiaia dovrebbe essere vista, da chi più legato

alla sua religione, a un momento di gioia, e non di paura.

E sempre senza nulla voler togliere al ben comprensibile amore per i propri cari, lasciare che una

persona finisca dignitosamente la sua esistenza dovrebbe essere un atto d’amore, uno dei più grandi

atti d’amore. Uno dei più bei atti d’amore.

A volte il doloroso compito di lasciar andare via un nostro caro riguarda purtroppo persone che si

sono affacciate alla vita da poco, che il Destino impietoso ci toglie prematuramente.

A volte, invece, il ciclo della vita si compie naturalmente, e le persone si “spengono” pian piano,

come una candela che, dopo aver ben svolto il suo compito di illuminare attorno a sé, si renda conto

che il suo compito è finito.

Ma tornando al discorso principale di questo lavoro, quando è che si diventa anziani?

E quando è dignitoso perseverare nella cura del corpo e quando, invece, sarebbe imperativo

accompagnare la persona anziana al compimento della sua vita?

Molto spesso questo confine è indefinibile, le persone che prima soccombevano naturalmente alle

“malattie della vecchiaia” (tra cui le malattie infettive e quelle cardiovascolari – come l’infarto, per

esempio, facevano la parte del leone) ora sopravvivono, grazie alle cure oggi disponibili e alle

strutture sanitarie, spesso immeritatamente denigrate.

Ma la persona “anziana” avrebbe diritto di essere curata primariamente tra le sue mura domestiche,

quelle mura entro le quali ha vissuto la gran parte della sua vita e fuori dalle quali potrebbe – a

ragione – sentirsi spaesato, o addirittura straniero in terra straniera.

Purtroppo non sempre questo avviene, per una serie di motivi, di seguito sommariamente elencati

(sommariamente, poiché l’escussione completa di tali argomenti occuperebbe ben più spazio di

quanto consentito.

In pratica, a causa di varie circostanze - alcune ben definite, altre più ineffabili – la persona anziana,

direttamente per proprio conto o attraverso, per così dire, l’intermediazione di parenti o altre

persone “vicine”, o addirittura del proprio Medico “di Famiglia” (il Medico di Medicina Generale)

può abbisognare, quando malata, di una valutazione sanitaria che, per complessità, non sempre può

essere svolta che in ambiente ospedaliero.

Sarebbe senz’altro auspicabile una maggiore attività della cosiddetta “Medicina del Territorio”, ma

per ora questa “branca” è essenzialmente rivolta alla terapia, ma non alla diagnostica, per cui

l’Ospedale rappresenta una vera e propria ancora di salvezza per gli attori di questi eventi.

A differenza di altri Paesi anche europei, in Italia l’accesso alla valutazione ospedaliera e quindi

all’eventuale ricovero, passa praticamente sempre per il Pronto Soccorso Ospedaliero (P.S.

propriamente detto ovvero DEA di I o II Livello).

Le condizioni per cui viene richiesto il ricovero di una persona anziana sono essenzialmente tre:

- Patologia obiettivamente non gestibile al domicilio

- Difficoltà psicologica dei parenti alla gestione domiciliare

- Paziente che viva solo, anche se affetto da patologia non grave e/o invalidante

Per queste tre condizioni, è spesso impossibile non ricoverare il paziente stesso

Assieme a queste ve ne sono altre:

- Mancanza di interazione ottimale MMG (Medicina di Territorio)/Medicina Ospedaliera

- Mancanza di adeguato “aiuto” socio.sanitario-assistenziale

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Il ricovero ospedaliero viene spesso vissuto come un momento in cui il paziente è in “buone mani”

(come tutti ci auspichiamo), ma anche – e, a volte, soprattutto un momento di “de-

responsabilizzazione”, in cui viene, per così dire, “passato il testimone”. Non per questo si parla di

“abbandono” (anche se alcuni casi sconfinano proprio in questo) o di “scaricabarile”.

Purtroppo troppe volte il paziente, i suoi parenti o “amici” o addirittura i Medici di Fiducia non si

rendono conto che il ricovero ospedaliero può destabilizzare l’anziano in vari modi:

- Organico: le Infezioni Correlate all’Assistenza sono una realtà riducibile, ma non evitabile,

purtroppo: capita che un ricovero prolungato porti ad infezioni che insorgono in ambiente

ospedaliero e che, addirittura, possano provocare gravissimo nocumento al paziente anziano.

- Psichico: esiste la “Sindrome da Area critica”, che colpisce i ricoverati in ambienti di

Terapia Intensiva, ma pochi hanno coscienza della “Sindrome da Ospedalizzazione”, in cui

una persona perde, per forza di cose, un minimo di dignità personale, viene estraniato dal

suo ambiente personale, domestico e familiare, facendo collassare la sua sfera psicologica e

psichica.

Possono esistere vari modi per intervenire a favore del paziente anziano, limitando i casi di ricovero

a quelli veramente indispensabili.

Tra questi, potenziare l’Assistenza Sociale è uno dei primi, certamente, ma il miglioramento della

interazione e della collaborazione tra Medici di Medicina Generale / Medici di Territorio e Medici e

Operatori Sanitari Ospedalieri è, alla luce delle nostre realtà, un mezzo indispensabile e ormai non

procrastinabile.

Attraverso la collaborazione tra Operatori di diversi settori si può arrivare a definire quando sia

veramente indispensabile il ricovero e quando, invece, si possa seguire e curare il paziente tra le sue

mura domestiche, nel rispetto della sua persona.

Perché, che noi si sia Operatori di Territorio oppure Operatori ospedalieri, lavoriamo per il bene dei

nostri pazienti e non dobbiamo dimenticarcene mai.

IL TESTAMENTO BIOLOGICO

Introduzione Sandy Furlini

Presidente Circolo Culturale Tavola di Smeraldo

Il Testamento Biologico o meglio le Direttive Anticipate che ogni uomo può dettare quando ancora

in grado di intendere e volere, rappresentano il massimo grado di libertà ed autonomia per l’uomo

del XXI secolo. Infatti con queste viene ampliato e completato il consenso informato, pratica alla

base del rapporto medico paziente, poiché viene presa in considerazione l’eventualità legata alla

non capacità di intendere e volere. Questa condizione, associata più comunemente agli stati

vegetativi permanenti (ovvero quelle situazioni di particolare disabilità in cui il cervello ha perso

definitivamente la capacità di mettere la persona in relazione col mondo esterno) si verifica con

grandissima probabilità man mano che le persone invecchiano poiché il cervello, invecchiando con

loro, perde il contatto consapevole con la realtà ed isola la persona in un vero e proprio mondo

senza relazione. Sono oggi moltissimi i nostri anziani confinati in una realtà arelazionale in cui

permangono ancora attive le funzioni vitali ma senza la possibilità di dialogo o interazione. Per

queste persone non è più possibile la scelta di fronte alle varie possibilità di trattamenti sanitari che

si prospettano nel prosieguo della loro malattia degenerativa ed involutiva pertanto si impone il

quesito circa la necessità di esprimere in anticipo i propri desideri, ovvero nel momento in cui la

mente si presenti ancora lucida ed in grado di operare delle scelte libere ed incondizionate.

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Afferma Maurizio Mori, Presidente della Consulta Laica di Bioetica “Molti dicono che la vita è

sacra, ma non pensano che l’evoluzione della medicina ha scardinato questo principio in ogni fase

della nostra vita, dal momento del concepimento a quello della morte. Il controllo che la scienza

medica può oggi operare sulla vita delle persone ha rimesso in discussione tutto, compreso i due

principi di autoconservazione della specie e di autoconservazione dell’individuo. Per evitare che

questa rivoluzione scientifica travalichi ogni limite, noi non possiamo che ripartire dalla persona,

dalla difesa dei suoi diritti di scelta e di determinazione”

Ospite particolare della sessione dedicata al testamento biologico è il Sig Beppino Englaro, padre di

Eluana, la ragazza che dopo 16 anni di vita congelata in uno stato vegetativo permanente ha

ottenuto che venissero interrotti i trattamenti di mantenimento delle funzioni vitali. Questo caso ha

aperto un grande riflettore sul tema del fine vita e della scelta personale che ogni individuo deve

poter fare in merito ai trattamenti sanitari cui desidera o non desidera essere sottoposto.

Parteciperanno alla tavola rotonda esponenti delle maggiori confessioni religiose presenti in Italia:

la Chiesa Cattolica, la Chiesa Valdese, la Chiesa Evangelica, la Chiesa di Gesù Cristo, la Comunità

Ebraica e quella Islamica. Hanno rifiutato l’invito gli esponenti della Congregazione Cristiana dei

Testimoni di Geova.

Le tavole rotonde proposte dal Circolo Culturale Tavola di Smeraldo da anni, vogliono essere tavoli

di NON confronto: non si tratta di raggiungere una uniformità di idee, non si vogliono cercare

accordi fra posizioni opposte ma anzi, gli ospiti esporranno la loro posizione e risponderanno alle

domande del pubblico avendo la possibilità di portare ai cittadini presenti la propria idea e

posizione. Il rispetto della scelta anche religiosa è alla base di questo incontro che vuole essere un

arricchimento per tutti in un’ottica di pluralismo etico, filosofico e religioso che diventi motivo di

crescita per la nostra società in cerca di nuovi valori. L’accordo viene trovato così nel rispetto

reciproco.

Obiettivi

1) Descrivere il Testamento Biologico

2) Evidenziarne l’utilità in situazioni limite attraverso l’esperienza Englaro

3) Sensibilizzare il pubblico sulla necessità di assumere una posizione in merito al testamento

biologico

4) Esporre varie posizioni religiose sul tema sottolineando l’importanza del pluralismo religioso

come sintomo di società viva.

5) Sensibilizzare il pubblico sul rispetto delle opinioni altrui creando un dibattito che non vuole

giungere ad uniformare ma bensì valorizzare le varie posizioni.

Maurizio Mori

NOTE sul testamento biologico

Bioeticista

Il testamento biologico è un documento scritto in cui le persone stabiliscono due cose: a) lasciano

alcune disposizioni circa ciò che vorrebbero fosse fatto in eventuali possibili fattispecie in cui essi

potrebbero trovarsi, e b) nominano un fiduciario che conosce il loro modo di sentire e pensare per

stabilire il da farsi in altri casi incerti e non prevedibili. Queste sono le due caratteristiche

fondamentali del cosiddetto testamento biologico.

Dei due aspetti sopra ricordati il primo è più facilmente risolvibile, perché è ormai un dato acquisito

il rispetto del consenso informato lasciato da una persona cosciente e capace. Il secondo aspetto,

invece, è quello che in effetti dal punto di vista giuridico richiede una qualificazione in più, perché

comporta il passaggio di titolarità a una terza persona. In ogni caso, comunque, è importante

sottolineare che il punto fondamentale posto alla base del testamento biologico consiste

nell’allargamento del consenso informato a una situazione futura. Il problema è il seguente:

assodato che una persona cosciente e capace, come per esempio Piergiorgio Welby ha la facoltà

morale e giuridica di decidere sulla propria vita, se è cosciente e in grado di farlo al momento in cui

si richiede la scelta, si tratta di sapere come mai la stessa persona non possa decidere “ora per

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allora”, cioè non possa decidere adesso per situazioni future in cui avrà perso la consapevolezza e la

capacità di scegliere. Chi difende il testamento biologico sostiene tale possibilità e afferma che il

testamento biologico è lo strumento grazie al quale si può estendere il consenso informato anche al

tempo futuro. La giustificazione di questo passo sta nel fatto che le volontà non evaporano né si

dissolvono nel momento in cui l’interessato perde la capacità. Sembra sensato presumere che le

volontà si mantengono fintanto che non le cambiamo. Questo è il punto fondamentale che sostiene

l’allargamento del consenso informato anche nelle situazioni “ora per allora”.

Chiarita la ratio che fonda il testamento biologico, ci si può chiedere come mai esso incontri

un’opposizione così tenace. La risposta può essere data leggendo il titolo della proposta di legge (il

ddl Calabrò) che è stata discussa nella scorsa legislatura in Parlamento: “disposizioni in materia di

alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento”. Ciascuna parola

è di grande importanza, come l’ordine di presentazione che indica la direzione impressa

all’impostazione generale del disegno di legge. La sequenza dei concetti indicati, infatti, indica che

il fulcro dell’impianto risiede nell’alleanza terapeutica, ossia il patto istaurato tra medico e paziente

per lottare contro la malattia. Il consenso informato va visto e vale all’interno dell’alleanza

terapeutica, e non indipendentemente da essa. Ciò significa che il rapporto medico-paziente viene

scandito in primis dall’alleanza terapeutica, cioè dalla lotta contro la malattia, e non dal consenso

informato come atto di sovranità del paziente sulla propria vita. Al contrario, il consenso viene

richiesto e dato come conferma che il paziente stesso accetta l’alleanza terapeutica e collabora per

rafforzarla, ossia vuole lottare contro la malattia. In questo senso, il disegno di legge non parla

affatto né di “testamento biologico” né di “direttiva anticipata”, bensì di “Dat” ossia “dichiarazioni

anticipate di trattamento”. Si osservi bene il cambiamento terminologico introdotto: nella letteratura

internazionale si parla di direttive anticipate, dove il termine “direttiva” indica una disposizione che

è vincolante per chi la riceve. Al contrario il disegno di legge parla di “dichiarazione” che è una

mera enunciazione di desiderata incapace di vincolare chi la riceve. In altre parole, le “Dat” non

consentono al cittadino di autodeterminarsi perché un’eventuale enunciazione non ha forza

vincolante e può benissimo rimanere inascoltata.

Ci si può chiedere a questo punto come mai in Italia non si accettino le “direttive anticipate” che

stanno alla base del testamento biologico. La ragione sta nella soverchia influenza esercitata dai

cattolici romani, i quali cercano di riaffermare la legge naturale che presumono essere valida per

tutti. Questo perché ritengono che, inscritte nella realtà delle cose, ci siano delle regole universali e

assolute conoscibili da chiunque avesse la pazienza e l’attenzione di cercarle. In particolare, esse

sono inscritte nei processi biologici umani e devono essere rispettate dall’arte medica.

Diversamente da quanto capita in Italia, in altre parti d’Europa in cui il pluralismo religioso è più

radicato, l’idea della legge naturale è meno condivisa anche perché molte altre confessioni cristiane

non sostengono o anche esplicitamente rifiutano la prospettiva della legge naturale. Per questo, in

tali versioni di cristianesimo, l’alleanza terapeutica instaurata tra medico e paziente viene intesa in

modo diverso e la dottrina del consenso informato assume una valenza completamente diversa da

quella proposta dal disegno di legge Calabrò. Ci sono, ovviamente, interpretazioni diverse che

stanno alla base del dibattito interno al cristianesimo e distingue tra le varie chiese: gli ortodossi si

pongono in modo diverso rispetto ai valdesi, e questi rispetto agli avventisti (per esempio), ma tutte

queste posizioni sono accomunate dal rifiuto della legge naturale. Questo punto cambia il quadro e

l’impostazione stessa del problema e rende il discorso sul testamento biologico più fluido.

Come mai, invece, in Italia si teme tanto il testamento biologico? C’è un senso in cui oggi le

proposte di legge sul testamento biologico non prevedono affatto la cosiddetta “eutanasia”, e quindi

tali proposte non dovrebbero suscitare troppi problemi. Come mai quindi? Alcuni osservano come

ci sia su questo punto un’incongruenza rispetto alla situazione tedesca. Al riguardo mi permetto di

dire che la questione di quello che capita in Germania è complicata, spesso legato alla parola

“sterbe hilfe” non è di facile tradizione: se come “aiuto a morire” o “eutanasia”. Si può solo rilevare

che nel 1999, quando è stato approvato il primo documento, le tesi dei cattolici romani erano molto

simili a quelle dei riformati, ma poi nel 2003 – in occasione di una seconda edizione – si è verificato

un cambiamento da parte cattolica, con l’introduzione di clausole specifiche. Pertanto, io sarei più

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cauto di certi commentatori italiani che sul tema hanno subito sottolineato una presunta grave

discrepanza di posizione tra Germania e Italia, discrepanza che a me pare difficile da dimostrare.

La ragione per cui in Italia i cattolici romani si oppongono tanto duramente al testamento biologico

è che se passa questo istituto si afferma in modo definitivo e ufficiale l’idea del consenso informato

come atto di sovranità dell’individuo sulla propria vita. Per ora questa sovranità si limita al rifiuto di

terapie sproporzionate, come è capitato nel caso di Piergiorgio Welby e sicuramente anche in quello

Englaro (la nutrizione e l’idratazione artificiali è una terapia medica che in certe circostanze può

diventare sproporzionata), ma la grande preoccupazione è la seguente: nel momento in cui si

ammette che l’individuo ha la sovranità sulla propria vita nel caso del rifiuto di terapie

sproporzionate, questa sovranità potrà poi essere esercitata anche in situazioni diverse. Oggi la si

limita al rifiuto del cosiddetto “accanimento terapeutico”, e domani la si estenderà anche ad altre

condizioni fino ad includere anche la richiesta di un positivo aiuto a morire.

Quindi la preoccupazione di carattere politico e culturale è quella che, una volta accettato il

testamento biologico, si consolidi quell’idea di consenso informato come atto di sovranità e

allargamento delle libertà pubbliche e sulla propria vita. Fatto questo passo, poi diventerà facile fare

il successivo che comporta la liceità dell’eutanasia. A me pare che quello esposto sia un

ragionamento perfettamente legittimo dato che non mi sembra ci sia niente di male se le persone,

arrivate a certe circostanze, decidano moralmente di porre fine alla propria vita. Anzi, credo che

questa sia la direzione a cui noi siamo destinati ad andare a finire e lo dico per una ragione molto

semplice: negli ultimi 130 anni l’aspettativa di vita in Italia è raddoppiata. Era 45 anni a fine

Ottocento, e è diventata 90 circa ora. Le previsioni sono che nei prossimi 50 anni, se non ci saranno

cambiamenti drammatici di circostanze, crisi economiche permettendo, potrebbe avvenire un

ulteriore raddoppio nell’aspettativa di vita. Dobbiamo quindi pensare che i nostri figli e nipoti

avranno un’attesa di vita di 150-200 anni, e forse anche oltre. Già oggi uno dei grandi problemi

sanitari è la gestione degli ultracentenari, che sono in straordinaria crescita. Tutto questo comporterà

problemi complicati. In questo senso non dobbiamo avere paura di dire che l’eutanasia è una

legittima richiesta dell’individuo, una scelta perfettamente morale quando richiesta

volontariamente.

Un’ultima osservazione per capire come mai stia cambiando l’atteggiamento nei confronti del

morire. Nella tradizione occidentale, infatti, fino a qualche secolo fa, era prevalente e pervasiva

l’idea che la vita umana qua sulla terra fosse una prova per l’aldilà: si viveva in attesa di passare “a

miglior vita”, cioè per un passaggio all’al di là. La vita terrena non aveva uno scopo in sé, era un

passaggio a un’altra vita ben più importante perché eterna. Qualche giorno fa sono rimasto colpito

nel leggere che Tommaso Moro, già condannato e in attesa dell’esecuzione, consolava chi andava a

fargli visita in forza della ferma convinzione che di lì a poco ci si sarebbe tutti ritrovati “per la

nostra salvezza eterna”. Si potrà replicare che Tommaso Moro era un uomo eccezionale, e che non è

da tutti mantenere un simile stile. Ma il punto su cui intendo richiamare l’attenzione non è né la

magnanimità, né l’autocontrollo, bensì la convinzione certa nell’aldilà e il fatto che tutta l’esistenza

terrena è orientata alla “nostra salvezza eterna” (for our everlasting salvation): questo aspetto

cambia radicalmente la prospettiva dell’esistenza terrena, perché la certezza che ci sia un al di là

proietta luce diversa sul presente. Può ancora avere una certa importanza il “vivere bene” quaggiù,

cioè avere agi e comodità, ma ancora più importante diventa il “morire bene” ossia il morire in

grazia di Dio, perché questo è decisivo per la nostra salvezza eterna. Pertanto, l’intera esistenza

terrena va messa in asse in previsione di questo.

Oggi è intervenuto questo cambiamento di fondo, per cui l’esistenza terrena da “valore strumentale”

(buona come mezzo per il passaggio e da spendere bene in vista della vita eterna) è diventata

“valore intrinseco”, cioè qualcosa che è preziosa in sé: buona per i contenuti buoni che offre o che

può offrire. Bisogna tenere presente questo nuovo quadro concettuale per capire il nuovo

atteggiamento nei confronti della fine della vita, ossia del morire: come arriviamo alla fine della vita

diventa parte essenziale del nostro progetto di vita. Prima era in un senso un momento di

importanza straordinaria (davvero eccezionale), perché da esso dipendeva la sorte per l’eternità, ma

in un altro senso era in sé irrilevante proprio perché era vista in funzione dell’eterno: sulle fasi finali

della vita umana era come se si proiettasse l’ombra dell’eternità, che faceva sparire le altre

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considerazioni circa l’eventuale sofferenza o le scelte personali. Ora, invece, cambia tutto, perché

l’eterno di dissolve e quindi viene meno l’ombra proiettata sulle fasi del morire, che si illuminano di

luce nuova e diventano importanti in sé, perché diventano il coronamento di ciò che la persona è

stata nel corso della vita. Ecco perché il consenso informato e il testamento biologico diventano

aspetti decisivi che aiutano la persona a realizzare il proprio progetto di vita. È all’interno di questo

più generale cambiamento epocale di prospettiva che va vista la questione del testamento biologico.

TAVOLA ROTONDA

Testamento Biologico (Living Will)

Dott. Ft. Francesco Bergamaschi

Come membri Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, soprannominati anche Mormoni,

riconosciamo Gesù Cristo come creatore della Terra e dei nostri corpi.

Tutta la nostra fede è imperniata sul Salvatore.

Il Suo Sacrificio Espiatorio ha permesso ad ognuno di noi di avere il libero arbitrio. Ecco perché, la

Prima Presidenza della Chiesa lascia ad ognuno di noi la facoltà di decidere cosa fare in materia di

trattamento medico (somministrazione di farmaci, sostentamento vitale, rianimazione, etc.) anche

quando non si è in grado di comunicarla.

Esistono tuttavia le seguenti linee guida e viene lasciata la decisione all’ispirazione personale ed

alla maturità spirituale del singolo individuo.

PROLUNGAMENTO DELLA VITA. “Quando sono colpiti da una malattia grave, i membri della

Chiesa devono esercitare la fede nel Signore e cercare l’assistenza di medici competenti. Tuttavia,

quando la morte è inevitabile, dovrà essere considerata una benedizione e una parte dell’esistenza

eterna con un suo preciso scopo. I membri non devono sentirsi obbligati a prolungare questa vita

mediante il ricorso a mezzi irragionevoli. Queste decisioni possono essere prese al meglio dai

famigliari dopo aver ricevuto consigli da medici saggi e competenti e dopo aver chiesto la guida

divina mediante il digiuno e la preghiera.

I dirigenti (della Chiesa)dedicano particolare cura e offrono benedizioni a coloro che stanno

decidendo se continuare o meno a sostenere artificialmente la vita di un famigliare.”

EUTANASIA. “E’ definito eutanasia l’atto di mettere deliberatamente a morte una persona che

soffre di una condizione o malattia incurabile. La persona che partecipa a un’eutanasia, compreso il

cosiddetto suicidio assistito, viola i comandamenti di Dio.”

È da notare la differenza che c'è tra il decidere di interrompere l'utilizzo di mezzi che post pongono

una morte altrimenti inevitabile e l'utilizzo di altri mezzi per accorciare prematuramente la vita

(eutanasia)

La Chiesa è favorevole trasfusioni di sangue e donazione di organi.

DONAZIONE E TRAPIANTI DI ORGANI E TESSUTI. “La donazione di organi e tessuti è un

atto altruistico che spesso porta grande beneficio a persone affette da problemi di salute. La

decisione di lasciare o donare i propri organi o tessuti per gli scopi medici o la decisione di

autorizzare il trapianto di organi e tessuti di un famigliare defunto, viene lasciata all’individuo

stesso o alla famiglia del membro defunto.

La decisione di ricevere un organo donato deve essere presa dietro competente parere medico e

dopo aver ricevuto conferma tramite la preghiera”.

La Chiesa suggerisce di lasciare istruzioni scritte su cosa fare nel caso in cui sia impossibile per il

soggetto interessato comunicare la propria volontà riguardo alla donazione di organi o riguardo alla

interruzione dei mezzi che impediscono un corso di morte naturale.

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Per capire queste affermazioni e la posizione della Chiesa di Gesù Cristo riguardo a questo tema

così profondo e delicato, bisogna conoscere il contesto.

La cosa più importante per noi da sapere è che tutti noi siamo letteralmente figli e figlie di Dio.

Facciamo parte della sua famiglia ed egli ci ama immensamente e prima di venire sulla terra

eravamo con lui ed egli ci conosceva uno ad uno come dice la bibbia in Geremia 1:5 “prima che io

ti avessi formato nel seno di tua madre, io ti ho conosciuto; e prima che tu uscissi dal suo seno, io ti

ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni”.

Il nostro padre celeste, il nostro Dio, desidera aiutarci a sviluppare quelle caratteristiche che ci

permetteranno di essere felici e di guadagnare un peso di onore e gloria e intelligenza superiori a

quelli che avevamo quando stavamo con lui.

Per questo scopo ha creato questa terra e ci ha permesso di venire qui per prendere corpi di carne ed

ossa per fare esperienza, e per sviluppare sufficiente fede in lui da obbedirgli.

Questa esperienza sulla terra che noi viviamo ora, non è mai stata pensata per essere eterna,

esattamente come se fosse una scuola; prima o poi terminerà e allora ci sarà il giudizio o l'esame

finale.

Per aiutarci in questa prova, il nostro Dio ha mandato Gesù Cristo sulla terra per aiutarci a superare

gli ostacoli della morte e della disobbedienza alle leggi eterne. Grazie alla resurrezione di Gesù

anche noi risorgeremo e saremo ricondotti alla presenza di quel Padre Eterno che ci diede la vita.

Oltre a questo, il nostro amorevole Padre Eterno ci ha dato un grandissimo strumento per aiutarci a

fare le scelte giuste mentre siamo lontani da lui: la preghiera, la possibilità di dialogare con lui, di

chiedere e di ricevere risposta.

Possiamo rivolgere le nostre domande e i nostri problemi a Dio in qualsiasi circostanza.

Nella bibbia Giacomo ci da un consiglio e una promessa in giacomo 1:5 " che se alcuno di voi

manca di sapienza, la chiegga a Dio, che dona a tutti liberalmente, senza rinfacciare, e gli sarà

donata".

Per questo la posizione della Chiesa di Gesù Cristo sul testamento biologico può sembrare vaga. Il

nostro profeta attuale e i dodici apostoli che vivono ora ci hanno fornito queste linee guida che vi ho

esposto, ma visto che ogni persona è diversa, ogni caso è particolare, è responsabilità di ognuno di

noi andare a chiedere direttamente alla fonte di ogni saggezza e di ogni giustizia, il nostro Eterno

Padre, quale sia la decisione migliore per le nostre circostanze.

So per esperienza personale, in tante piccole cose, che Dio ascolta le nostre domande e risponde con

la sua saggezza, esattamente come fa un buon genitore qui sulla terra alle domande e ai problemi di

un figlio che ama.

Concludo il mio intervento, e lo faccio nel nome di Gesù Cristo, Amen

Ho concluso.

Giuseppe Zeppegno Dottore di ricerca in Morale e Bioetica

Docente di Teologia Morale Sociale e Bioetica presso l'ISSR e il Ciclo di Specializzazione

della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale – Sezione di Torino

Direttore scientifico del Master Universitario in Bioetica della medesima Facoltà

La scienza e la tecnica hanno fatto negli ultimi decenni immensi progressi. Le nuove scoperte hanno

cambiato il volto della medicina consentendo di mantenere a lungo in vita anche pazienti con gravissime

patologie e importanti lesioni. Non sempre, però, le nuove potenzialità promuovono una buona qualità di

vita. Supporti tecnici, farmacologici e chirurgici sproporzionati, infatti, possono sortire il solo effetto di

prolungare le sofferenze psicologiche e fisiche. Per evitare queste derive anche in Italia si è arrivati a

proporre il testamento biologico anche definito dichiarazioni o disposizioni anticipate di trattamento. Le tre

espressioni hanno significati alquanto diversi. La prima traduce l’inglese living will ed è preferita da chi

ritiene possibile gestire il “bene vita” come tutti gli altri beni avuti in proprietà. Mentre però le indicazioni

date sulla ripartizione del patrimonio hanno valore solo dopo la morte, i fautori del testamento biologico

ipotizzano la possibilità del testatore di determinare i tempi e i modi del proprio morire. La seconda è la

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traduzione dell’inglese advance health care directives. Prevede il dovere dei sanitari di rispettare le

indicazioni date dai pazienti sui trattamenti da fornire o non fornire, anche se tale scelta può anticipare la

morte. La terza, indicata dal Comitato Nazionale per la Bioetica in un parere del 2003, ipotizza la possibilità

di proporre le preferenze non vincolanti dei pazienti circa gli interventi da attuare nel caso venga a mancare

la capacità di interloquire con i sanitari.

Si cominciò a parlare di living will negli Stati Uniti negli anni Sessanta dello scorso secolo. Si deve

l’idea a Louis Kutner, membro del Euthanasia Educational Council. Sostenne il diritto

all’autodeterminazione del paziente. Un’ulteriore spinta si ebbe negli anni successivi come risposta

a presunti casi di accanimento terapeutico. La Corte Suprema del New Jersey (USA) chiese nel

1976 l’intervento di un comitato di esperti per valutare l’opportunità di staccare le apparecchiature a

Karen Ann Quinlan. Nel 1990 la Corte federale autorizzò la sospensione dell’idratazione e

dell’alimentazione a Nancy Cruzan. Entrambe le donne da anni erano prive di coscienza. Altri casi

simili furono affrontati negli anni successivi manifestando la determinazione a deciderei tempi del

vivere e del morire. In Italia si è condotta una lotta accanita sulla questione negli anni in cui furono

portati alla ribalta dell'opinione pubblica due vissuti complessi e problematici come quelli di

Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Come spiegò il prof. C. A. Defanti, «si tratta di due pazienti

affetti da malattie del sistema nervoso centrale […] compatibili con una lunga o lunghissima

sopravvivenza qualora si facciano intervenire mezzi artificiali di sostegno vitale». Allo stesso tempo

«differiscono profondamente fra loro: essi si trovano agli estremi di uno spettro che va dal malato

completamente paralizzato e pienamente cosciente (il primo) al malato completamente incosciente

(la seconda)»17

. Il nodo della questione fu chiaramente proposto nel reclamo presentato il 19

gennaio 1999 all'autorità giudiziaria da Beppino Englaro, padre di Eluana. Egli notò che «lo stato di

incapacità non può privare il soggetto del diritto di rifiutare i trattamenti medici, diritto riconosciuto

a tutti». Se questo avviene «Significherebbe ammettere che l’ordinamento consente ad una persona

capace di rifiutare, magari anche per capriccio, terapie che la porterebbero alla totale guarigione,

mentre negherebbe a un incapace il diritto di rifiutare trattamenti che non sono terapie e che sono

inutili e lesivi della sua dignità»18

.

La questione principale non mi pare essere data dalla possibilità di dare indicazioni previe da

utilizzare nel caso di incapacità, ma sull'estensione di queste indicazioni alla possibilità di

interrompere la vita e sulla conseguente interpretazione autoreferenziale dell' un'autonomia

svincolata da ogni obbligo e vincolo sociale. Sembra assurdo credere che la massima espressione

della moralità possa coincidere con l’autodistruzione dell’agente morale. Chi, provato dalla

malattia, arriva a queste conclusioni non compie un atto di libertà, ma manifesta un grave stato

depressivo determinato dalla difficile contingenza vissuta. Giovanni Paolo II nell'enciclica Veritatis

splendor precisò che è deleteria la tendenza di certa cultura contemporanea a non riconoscere

l’assolutezza di alcun valore morale. Invitò a riconoscere che la libertà non può avere «il suo punto

di partenza incondizionato in se stessa, ma nell’esistenza dentro cui si trova»19

. Si esercita

autenticamente solo se posta in un rapporto adeguato con la realtà. Mette allora in gioco tutta la

persona e si misura con la consapevolezza che, pur avendo di fronte infinite possibilità, non tutte

corrispondono al bene. Per autodeterminarsi verso il bene, l'individuo deve educare il desiderio,

motivare responsabilmente le ragioni del suo agire, compiere atti di volontà liberi e consapevoli, in

linea con i valori di riferimento della sua intima natura.

Chi non condivide queste affermazioni denuncia la Chiesa cattolica di "vitalismo" come se

sostenesse la vita ad ogni costo e oltre ogni ragionevole attesa. Questo modo di pensare non è

rispondente al vero. Per comprendere adeguatamente il pensiero ecclesiale è opportuno ricordare

che la Chiesa ha sempre riconosciuto il valore sommo della vita umana, bene primario, condizione

di possibilità per la realizzazione di tutti gli altri beni della persona ma non le ha mai dato un valore

17

Le considerazioni del Prof. Defanti sono riportate in Milano G., Riccio M., Storia di una morte opportuna. Il diario

del medico che ha fatto la volontà di Welby, Sirono, Milano 2008, 260-261. 18

Beppino Englaro, «Istanza di autorizzazione ex art. 732 CPC del 19 gennaio 1999», in Bioetica. Rivista

interdisciplinare, 1(2000), 81. 19

Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993): AAS 85(1993), 1133-1228, par. 86.

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assoluto20

. Durante le persecuzioni che subì nei primi secoli della sua storia sviluppò infatti la

teologia del martirio riconoscendo che la vita offerta come suprema testimonianza di fede raggiunge

pienamente lo scopo per il quale è stata donata. È altrettanto meritorio accettare la sofferenza fisica

come partecipazione ai patimenti di Cristo. Queste scelte eroiche però non sono necessariamente

dovute. Intervenendo a proposito dell'omicidio, Sant’Agostino precisò inoltre che non è mai lecito

uccidere qualcuno neanche se, gravato dalla sofferenza, ne fa esplicita richiesta21

. Numerosi furono

i pronunciamenti successivi anche sul suicidio22

. Prendendo spunto dalla trattazione agostiniana,

Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae ne asserì l’illiceità per tre motivi: si oppone alla

naturale tendenza all’autoconservazione ed è contrario alla carità che si deve a se stessi, è

ingiustizia nei confronti della società perché la priva di un suo membro, è un implicito rifiuto di Dio

perché contraddice la sua signoria sulla vita umana e interrompe unilateralmente il dialogo con

lui23

. In un’opera minore, Super Epistolas S. Pauli, ampliò la riflessione soffermandosi anche sulla

doverosità di sostenere il proprio corpo e di offrirgli il necessario per vivere24

.

I teologi posteriori, sulla base delle indicazioni tomiste, svilupparono un’interessantissima

riflessione morale sul doppio filone dell’inopportunità del suicidio e sul dovere di cura. Il

domenicano Francisco De Vitoria (1483-1546) nel Comentarios Secunda Secundae de Santo

Tomas25

osservò che è illecito anche mettere a repentaglio la propria vita nutrendosi in modo scarso

e inadeguato. Più ampiamente si espresse sull’argomento nell’opera Relectiones Theologicae26

pubblicata postuma. Al paragrafo primo, spiegando la virtù della temperanza, precisò che l’uomo ha

l’obbligo morale di non distruggere la propria vita. Tale obbligo, motivato dall’inclinazione naturale

all’autoconservazione e dal dovere di carità verso se stessi, non costringe però a utilizzare i mezzi

più gravosi per prolungarla. Può essere sospesa, senza incorrere in peccato mortale, anche

l’assunzione di cibo e di liquidi quando l’alimentazione e l’idratazione diventano soggettivamente

così gravose da sembrare una tortura (non nisi per summum laborem et quasi cruciatum quendam

aegrotus possit sumere cibum). Allo stesso modo al paragrafo 9 sostenne che non sussiste il dovere

di assumere tutti i farmaci ordinati al ristabilimento della salute. Si possono evitare quelli troppo

onerosi e sproporzionati alle effettive possibilità finanziarie della famiglia (nec puto, si aeger non

posset habere pharmacum nisi daret totam substantiam suam, quod teneretur facere). Questa

convinzione la espresse anche nella parte delle Relectiones dedicata all’omicidio. Al paragrafo 12

precisò che non sussiste l’obbligo morale d’impiegare tutto il patrimonio per conservare la vita. È

sufficiente servirsi dei rimedi più comuni e più facilmente accessibili.

La sua riflessione divenne punto di riferimento ineludibile per i moralisti che affrontarono

successivamente la questione del suicidio e del dovere di cura27

. In tempi a noi vicini risulta

particolarmente illuminante l'apporto dei numerosi discorsi agli operatori sanitari di Pio XII. In uno

pronunciato il 24 febbraio 1957 definì illecita la pretesa di disporre della vita provocando o

affrettando la morte perché l’uomo non è signore e proprietario, ma solo usufruttuario del suo corpo

e della sua esistenza. Dimostrò però la piena disponibilità a somministrare narcotici ad una persona

gravemente malata e dolente anche se ci fosse il fondato timore che il farmaco abbrevi la vita. Tale

prestazione non deve essere messa in relazione con l’eutanasia, ma si configura per la specifica

20

Id., Lett. Enc. Evangelium vita (25 marzo 1995): AAS 87(195), 401-522, par. 2. 21

Agostino d'Ippona, Epistola 204.5, in Migne, PL 33,940. 22

Cfr. Sinodo di Arles (452), Concilio di Orleans (533), Sinodo di Braga (561), XVI Concilio di Toledo (623), Sinodo

di Nîmes (1096) 23

Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1985, II-II, q. 64, art. 5. 24

Id., Commento al Corpus Paulinum. Expositio et lectura super epistolas Pauli Apostoli, voll. 6, Edizioni Studio

Domenicano, Bologna 2005-2008, II,11,77. 25

Francisco De Vitoria, Comentarios a la Secunda Secundae de Santo Tomas, a cura di V. Beltran De Heredia, 6 voll.,

Salamanca, 1932-1952. 26

Id., Relectiones Theologicae tredicim partibus per varias sections in duos libros divisae, Lyon 1586. 27

Per un approfondimento cfr. Giuseppe Zeppegno, La vita e i suoi limiti. Questioni bioetiche, Camilliane, Torino 2011, pp. 152-159. Il presente lavoro è in buona parte debitore delle riflessioni presentate in questo mio precedente studio.

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intenzione di evitare al paziente dolori insopportabili che renderebbero gli ultimi tempi

dell’esistenza terrena troppo gravosi28

.

Alcuni anni dopo, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et

spes sintetizzò il pensiero magisteriale precedente affermando che le violazioni dell'integrità e alla

dignità della persona «sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, inquinano

coloro che così si comportano più che quelli che le subiscono; e ledono grandemente l’onore del

Creatore»29

.

Durante il pontificato di Giovanni Paolo II, la Congregazione della Dottrina della Fede pubblicò la

Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona30

. Rimarcò che nessuno può autorizzare l’uccisione di un

essere umano innocente né può chiedere per sé o per un altro affidato alla propria responsabilità, un

gesto omicida. La pubblica autorità non deve permetterlo, né tantomeno imporlo, perché viola la

legge divina e offende la dignità delle persone rappresentando un crimine contro la vita e un

attentato contro l’umanità. Qualora la richiesta eutanasica fosse motivata dall’incapacità di

sopportare un dolore acuto e prolungato, la responsabilità soggettiva è diminuita, ma permane la

gravità dell’atto che resta sempre ingiustificabile. I malati che invocano la morte, molte volte non

esprimono un’autentica volontà di morire, ma chiedono cure mediche adeguate a lenire le loro

sofferenze, affetto, condivisione umana e spirituale. Le medesime considerazioni trovarono spazio

nell'Evangelium vitae, prima enciclica dedicata interamente alle questioni di natura bioetica31

.

Risulta così evidente che la Chiesa cattolica non abbandona il malato ma invita ad accompagnarlo

con la necessaria palliazione e con cure proporzionate alla sua reale situazione medica. La quarta

parte della citata Dichiarazione Iura et bona, precisa che la valutazione dei mezzi da usare deve

scaturire dalla ponderazione tra il tipo di terapia, il grado di difficoltà e l’ammontare dei rischi. Le

possibilità di applicazione inoltre non devono essere decise secondo valutazioni di tipo meramente

economico. Il rifiuto dei mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata e ancora

sperimentali, non deve essere necessariamente letto come una determinazione ad anticipare la

morte. Può più semplicemente indicare la volontà di non mettere in opera terapie troppo gravose. È

altresì lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi quando i risultati deludono le speranze in essi

riposti. In questi casi è bene che ci sia un previo consulto tra l’ammalato, i familiari e i medici

competenti che potranno offrire un’adeguata ponderazione di benefici e disagi. È legittimo

sospendere i trattamenti anche quando si ravvisa l’approssimarsi imminente della morte e si

riconosce che i mezzi usati procurano un prolungamento precario e penoso della vita. La stessa

attenzione è manifestata dal Catechismo della Chiesa Cattolica all’articolo 2278.

Il bioeticista Maurizio Calipari, in una relazione tenuta alla XIV Assemblea Generale della

Pontificia Accademia per la vita, offrì un’interessante lettura dell’adeguatezza dei mezzi di

conservazione della vita. Osservò che ciò che conta non è tanto l’obbligatorietà oggettivamente

valutata di un determinato mezzo, ma la stima di quanto quel mezzo possa aiutare il paziente a

promuovere il suo bene integrale. La scelta allora deve essere condotta attraverso un processo

graduale che porta a considerare numerosi elementi in un clima di costante dialogo tra i sanitari e il

paziente, o suoi rappresentanti, se incapace. In questo modo si eviteranno due contrapposti rischi. I

medici saranno aiutati a non considerare il malato come un minore da gestire senza remore. Il

paziente e i suoi familiari comprenderanno che il medico non è uno strumento da piegare alle

proprie autonome deliberazioni. La sua competenza scientifica e la sua coscienza morale e

professionale devono poter entrare liberamente in gioco. Per giungere a questo scopo, propose di

integrare tra loro i criteri di ordinario/straordinario, proporzionato/sproporzionato. Ne derivò un

quadro finale equilibrato e convincente che, attraverso un percorso valutativo distinto in tre fasi,

permette di giungere a una deliberazione terapeutica adeguata. La prima è quella che tende a

28

Pio XII, Allocutio Summus Pontifex, coram praeclaris medicis, chirurgis atque studiosis, quaesitis respondit de

catholica doctrina quoad anaesthesiam, a Societate Italica de anaesthesiologia proposit (24 febbraio 1957), AAS

49(1957), 129-147: p. 146. 29

Concilium oecumenicum Vaticanum II, Constitutio pastoralis de Ecclesia in mundo huius temporis Gaudium et spes, Sessio IX, d. 7 dec. 1965: AAS 58(1966), 1025-1115, par. 27. 30

Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei, Declaratio de euthanasia (5 maggio 1980): AAS 72(1980), 542-553. 31

Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae … , parr. 64-67.

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valutare la “proporzionalità/sproporzionalità oggettiva” di un trattamento. Tale valutazione avrà

come protagonista il medico che dovrà bilanciare il preciso obiettivo sanitario che crede doveroso

raggiungere utilizzando un mezzo di conservazione della vita (efficacia medica), con gli effetti

salutari che la sua competenza sanitaria prevede per quel determinato paziente (efficacia globale).

Dovrà allora considerare la disponibilità e reperibilità del mezzo, l’usabilità dal punto di vista

tecnico, le aspettative di efficacia, gli effetti collaterali dannosi, i rischi per la salute e la vita del

paziente, la possibilità di ricorrere a alternative terapeutiche di uguale o maggiore efficacia, la

quantificazione delle risorse sanitarie. Nell’ambito della proporzionalità oggettiva si potrà dire

adeguato l’intervento medico che permette nella data situazione clinica, il raggiungimento di un

prestabilito e opportuno obiettivo sanitario. La seconda fase invece prevede il raggiungimento di

una valutazione di “ordinarietà/straordinarietà” attenta alla soggettività del paziente. Per giungere a

questo tipo di giudizio M. Calipari propose la tradizionale riflessione morale in materia. Evidenziò

che è da valutarsi straordinario il mezzo il cui impiego è avvertito fisicamente o moralmente

gravoso perché propone uno sforzo eccessivo per il reperimento o per l’uso, provoca un dolore

insopportabile, produce una tremenda paura o una forte ripugnanza, impedisce l’adempimento di

doveri morali indifferibili, determina gravi rischi per la vita e la salute. È globalmente percepito

inidoneo per l’ottenimento dei benefici ragionevolmente attesi dal paziente in riferimento alla sua

scala assiologia. La terza fase offre un quadro sintetico delle prime due indicando una nuova

classificazione dei mezzi di conservazione della vita. Mette insieme le valutazioni del medico

(proporzionalità/sproporzionalità) con quelle del paziente (ordinarietà/straordinarietà). M. Calipari

li indicò nel seguente modo: proporzionati-ordinari, proporzionati-straordinari, sproporzionati-

ordinari, sproporzionati-straordinari. Sono da considerarsi sempre leciti i mezzi proporzionati

perché adeguati a raggiungere un determinato fine buono. Sono da considerarsi obbligatori e il

medico è tenuto ad applicarli, dopo aver ottenuto il consenso, quando soggettivamente il paziente

non li reputa troppo gravosi (proporzionati-ordinari). Sono invece da considerarsi facoltativi

quando sono proporzionati, ma straordinari. Il paziente è tenuto a sottoporsi a tali trattamenti solo

quando riconosce di dover adempiere obblighi urgenti di carità e giustizia. In quest’ultimo caso il

medico deve rispettare le scelte del paziente interrompendo eventualmente l’alleanza terapeutica se

si trova in disaccordo. Il ricorso a un mezzo sproporzionato (intervento nocivo, o incapace di

procurare alcun beneficio, o atto a produrre un beneficio inferiore agli effetti collaterali negativi), è

da considerarsi illecito anche quando dovesse essere ordinario per il paziente. Il medico non deve

ricorrervi neanche in seguito a esplicita richiesta del paziente. Può però essere comprensibilmente

messo in opera qualora questo rappresenti l’unica possibilità per permettere al malato di assolvere i

suoi doveri morali urgenti, a condizione che l’applicazione non violi il principio di giustizia

distributiva sottraendo risorse indispensabili ad altri32

.

Questo modo di procedere può essere utilizzato anche per le dichiarazioni anticipate che hanno il

limite della mancanza di attualità, visto che nessuna persona nel pieno possesso delle facoltà

mentali può prevedere quali saranno i progressi terapeutici e non può neppure immaginare con

certezza cosa si desidera quando si è colpiti da una malattia incurabile. Ha però anche il vantaggio

di continuare una seppur minima interazione tra il paziente e il medico. Quest'ultimo, pur lasciando

doverosamente da parte l’ambizione di essere l’unico conoscitore di ciò che rappresenta il vero bene

del paziente come avveniva fino a qualche decennio or sono secondo il modello paternalistico, non

può essere costretto da chicchessia a divenire mero esecutore delle prestazioni richieste dal malato

o, se incapace, dal suo fiduciario. Una eventuale normativa che dia valore giuridico alle

dichiarazioni anticipate aiuterebbe il medico a operare secondo i valori e i livelli di

ordinarietà/straordinarietà precedentemente indicati e garantirebbe il malato dal rischio di essere

privato di terapie che dimostrano ancora efficacia specifica o, al contrario, di essere costretto

all’accanimento realizzato da operatori sanitari che, temendo di essere accusati di non fare a

32

Maurizio Calipari, «Il principio di adeguatezza etica nell’uso dei mezzi di conservazione della vita: tra eccesso

terapeutico e abbandono del paziente», in Pontificia Academia pro Vita, Accanto al malato inguaribile e al morente:

Orientamenti etici ed operativi. Atti della Quattordicesima Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita

(Città del Vaticano, 25-27 febbraio 2008), a cura di E. Sgreccia e J. Lafitte, Libreria Editrice Vaticana, Città del

Vaticano 2009. 154-172.

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sufficienza, propongono arbitrariamente terapie sproporzionate alla effettiva situazione clinica. In

mancanza delle disposizioni scritte esaustive, sarà doveroso il confronto con i familiari

autenticamente relazionati.

La Chiesa cattolica italiana ha manifestato già da tempo la sua apertura alla promulgazione di una

legge che riconosca valore legale alle dichiarazioni anticipate. Il cardinale Angelo Bagnasco,

presidente della CEI, ha più volte però messo in guardia dal rischio derivato da una eventuale legge

che proponga forme anche solo mascherate di eutanasia e ha auspicato che il ruolo del medico sia

dovutamente considerato33

.

Il decreto legge approvato dal Senato il 26 marzo 2009, il cosiddetto Decreto Calabrò, sull’onda

emotiva suscitata dal caso Englaro, si è concentrato sulla questione degli stati vegetativi e ha

prestato minore attenzione alle diversissime situazioni dei malati con disabilità cronica o in fase

terminale. Ha avuto però il merito di affermare che la vita umana è inviolabile. Facendo forza su

quest’asserto fondamentale, ha sostenuto la necessità di evitare ogni apertura all’eutanasia nella

convinzione che la tutela della libertà individuale non deve pregiudicare il bene sommo della vita.

La scelta di perderla non è espressione di libertà, anzi è esattamente l’opposto perché la libertà si

esprime solo attraverso la vita. Ha inoltre suggerito l’importanza di evitare l’accanimento perché

l’esistenza non va prolungata a costo d’inutili sofferenze. Ha anche rigettato la deresponsabilizzante

idea che l’abbandono terapeutico possa trovare una sorta di legittimità. In pieno ossequio alla

Convenzione di Oviedo, ha notato che le dichiarazioni devono essere prese in considerazione ma

non sono vincolanti perché il medico non può accettare indicazioni «in contrasto con le norme

giuridiche o la deontologia medica». Per adeguarle sempre più agli sviluppi della medicina, ha

anche precisato che devono essere rinnovate ogni cinque anni fin quando il redattore è capace di

intendere e volere. Il testo, passato alla Camera, è stato rivisto dalla Commissione Di Virgilio, ma si

è rimandata per mesi la discussione in aula. Ripreso il dibattimento il 6 luglio 2011, è stato

approvato il 12 luglio con un’ampia maggioranza trasversale (278 favorevoli, 205 contrari e 7 sette

astenuti). Il nuovo testo ha mantenuto l’impianto generale del Decreto Calabrò, ma, al tempo

stesso, ha precisato alcuni aspetti prima carenti. È composto da otto articoli, uno in meno del

precedente. Particolarmente degna di nota è la riformulazione del terzo. Precisa che il documento

deve essere preso in considerazione quando si verifichi una qualsiasi situazione clinica che provoca

la permanente «assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale». Questa espressione

non si riferisce solo agli stati vegetativi, ma ingloba anche altre situazioni non considerate dal

precedente decreto. Estende pertanto saggiamente l’attenzione a tutti i casi in cui è definitivamente

compromessa la capacità di interagire efficacemente con l’ambiente circostante. È doveroso

precisare che la formulazione utilizzata è ritenuta da molti equivoca. Il Ministro Fazio ha dichiarato

che si sarebbe impegnato a chiarirla ricorrendo eventualmente al Consiglio Superiore di Sanità. È

comunque priva di fondamento e volutamente tendenziosa l’identificazione di questo stato clinico

con l’assenza totale dell’attività cerebrale (morte cerebrale). È assurdo ritenere, o far credere di

ritenere, che i due rami del Parlamento hanno speso tempo ed energie per sottoscrivere un

documento atto a consentire la sospensione dei trattamenti a quanti sono morti. Il medesimo articolo

precisa che, anche se alimentazione e idratazione artificiale non devono costituire oggetto di

dichiarazioni anticipate, possono essere sospese quando in fase terminale non sono più efficaci. È

stato inoltre abolito l’ottavo articolo che proponeva il ricorso al giudice tutelare quando, in assenza

di fiduciario, «i soggetti parimenti legittimati a esprimere il consenso al trattamento sanitario»

manifestano un insanabile contrasto sulle strategie da attuare. Allo stesso modo è stato cancellato il

terzo comma dell’articolo sette che prevedeva l’intervento di un collegio medico nel caso fosse

sorta una controversia tra fiduciario e curante. Queste ultime due limitazioni alimentano non poche

perplessità. È plausibile temere che, se non saranno corrette, provocheranno nei casi di contenzioso

infiniti ricorsi alla Magistratura. Come vuole la prassi, appena approvate le modifiche, il

33

Cfr. ad esempio la Prolusione al Consiglio permanente della CEI del 22-25 settembre 2008 in

http://www.chiesacattolica.it /documenti/2008/09/00013943_prolusione_del_card_angelo_bagnasco_al_co.html

[31.12.2013].

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provvedimento è nuovamente passato al Senato per la definitiva ratifica. Ancora una volta il testo si

è a lungo arenato. Dopo 15 mesi, il 2 ottobre 2012, la Commissione Sanità del Senato ha finalmente

ripreso in esame il disegno di legge. Il sen. Maurizio Sacconi il giorno successivo ha iniziato a

raccogliere firme per favorire la pronta discussione. Di fatto però dopo oltre un anno non si è ancora

arrivati ad una conclusione. Sembra che molti rifiutino la possibilità di deliberare definitivamente

nella convinzione che sia utile proporre una legge completamente nuova e più permissiva. Sono

animati dalla convinzione che abbia valore solo la vita “biografica”, quella cioè che mantiene le

piene potenzialità (attività corticali integre, autocoscienza, soddisfacente capacità relazionale e

vissuto sereno). Quanti assecondano questa teoria sono convinti che chi ha perso o non ha mai

avuto le facoltà umane superiori vive una vita senza valore, indegna di essere tutelata. Una

problematica concezione dell’autonomia del paziente fa poi dire a molti che ogni persona ha il

diritto di stabilire i tempi e i modi del proprio morire anche se non versa in una fase terminale della

vita. Giustificano quest’asserto sostenendo che l’art. 32 della Costituzione e legittima il rifiuto delle

cure. Dimenticano che durante i lavori preparatori dell’Assemblea costituente, l’on. Merighi

propose un emendamento aggiuntivo all’articolo 32. Era sua intenzione chiarire che sussisteva il

dovere dell’individuo di tutelare la propria salute anche per rispetto della collettività. Gli si oppose

l’on. Tupini che ritenne superflua l’aggiunta giacché la tutela della salute da parte dell’individuo era

principio da ritenersi scontato. Sembra pertanto paradossale asserire il diritto alla morte usando una

norma che è stata scritta per assicurare senza riserve l’impegno sociale per la vita. Non a caso

l’attuale ordinamento giuridico italiano condanna ogni attentato alla vita. Chi provoca la morte di

un malato terminale è condannato, infatti, salvo possibili attenuanti, a una pena detentiva non

inferiore ad anni 21, secondo la più rigorosa disciplina dell’omicidio volontario comune indicata

dall’articolo 575 del c.p.

In diversi comuni nell’attesa che l’empasse parlamentare sia superata, si stanno istituendo i registri

comunali per raccogliere le dichiarazioni anticipate. Questa tendenza è motivata essenzialmente

dalla volontà di dare un segnale di carattere politico e ideologico. Le dichiarazioni rilasciate sono

però di fatto illegittime perché l’anagrafe non è autorizzata ad assolvere questo compito, solo lo

Stato può attribuire tale funzione (art. 117 della Costituzione). Non a caso, secondo una circolare

ministeriale emanata nel 2010, i Comuni che danno corso a iniziative del genere possono essere

ritenuti responsabili di una cattiva gestione delle risorse affidate. Particolarmente problematica è

inoltre la tutela dei documenti raccolti. I comuni e le associazioni che li accettano, incuranti

dell’assenza di una previa autorevole autorizzazione, non possono infatti garantire una adeguata

privacy. Il medico poi, anche se fosse a conoscenza delle disposizioni depositate da un suo paziente

incapace, non potrebbe tenerle in considerazione se richiedessero atti eutanasici o sospensioni di

trattamenti ritenuti proporzionati. Le norme in vigore, infatti, non offrono alcuna giustificazione

all’eliminazione di vite umane. È invece riconosciuta la facoltà di non favorire la distanasia, cioè la

morte difficile e travagliata di chi è costretto a trattamenti destinati unicamente a prolungare il

processo di morte. L’eventuale decisione di astenersi dal praticarli non può diventare una forma di

abbandono, ma deve essere posta in atto qualora si ravvisi l’esistenza di un limite invalicabile. Nella

fase della terminalità, quando ogni rimedio per arginare l’evolversi della malattia è inutile, è

peraltro riconosciuto il valore della desistenza terapeutica che non abbandona il malato, ma,

attraverso le cure palliative, l’avvolge di tutte le attenzioni necessarie affinché, controllati i sintomi,

possa vivere l’ultimo tratto della sua esistenza il più serenamente possibile. Non dovrà mai

mancare, infine, un’autentica alleanza terapeutica capace di instaurare un dialogo frequente con i

sanitari e con persone significativamente correlate e autorizzate a prendere decisioni.

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Testamento biologico: riflessioni nella prospettiva islamica Ahmad ‘Abd al Quddus Panetta (Comitato Etico Comunità Religiosa Islamica Italiana)

Ringrazio il Dott. Sandy Furlini per l’opportunità che ci ha offerto di dibattere su temi così delicati

e importanti; che si sia infatti religiosi o laici, favorevoli o contrari all’introduzione di norme ardite

per regolamentare la vita e la morte dei cittadini, dal nostro punto di vista il rischio è però sempre

quello di farsi distrarre da questioni ideologiche e politiche, se non decisamente demagogiche.

La prassi medica odierna relega infatti il contributo dei medici religiosi alla sola dimensione della

pietas verso i malati e a qualche minima scelta «illuminata», ma di fatto tale prassi è da tempo

improntata al più grossolano materialismo scientista. Le religioni devono dunque ritornare a poter

offrire il proprio contributo a iniziare dalla visione stessa della scienza, e il lavoro di riflessione sui

principi proposto da questa tavola rotonda diviene in tal senso fondamentale, soprattutto per chi si

rende conto della grande profondità degli antichi e delle scienze tradizionali, profondità che non

può essere in alcun modo resa antiquata dagli sviluppi di una medicina tecnologica.

La riflessione sui principi non può dunque rimanere astratta e avulsa dalla materia su cui si deve di

volta in volta applicare, ma deve influenzare profondamente questa pratica in ogni suo aspetto e non

solamente in situazioni estreme e casi limite. Se oggi i casi limite sembrano mandare in crisi molte

persone è solo perché queste non hanno l’abitudine a cogliere e ad anticipare certe possibilità

negative nel corso della prassi ordinaria. Così, le contraddizioni già insite in questa prassi ordinaria

finiscono infine per condurre alle prevedibili conseguenze estreme e ai casi limite che sembrano

oggi moltiplicarsi.

Si trova scritto nel Huangdi Neijing SuWen, l’antico «Canone di medicina dell’Imperatore giallo»:

«i Saggi non aspettano che il male sia manifesto per trattarlo, ma se ne occupano prima che si

manifesti; non attendono che il disordine si sia intromesso negli affari, ma se ne occupano prima

che si sia insediato. Attendere che il male si sia dichiarato per rimediarvi, che il disordine si sia

insediato per occuparsene, è come attendere di avere sete per scavare un pozzo, attendere la

battaglia per forgiare le armi».34

È inutile nasconderci il fatto che oggi gran parte delle sofferenze e dei problemi «etici» che ci

vengono posti dai malati terminali sono spesso la conseguenza di anni di cattiva medicina, dovuta

all’applicazione meccanica di protocolli sintomatici cui la maggior parte dei medici deve riferirsi

più per ragioni legali e per mancanza di fondi svincolati da tali protocolli stessi, che per

convinzione scientifica e sensibilità medica.

Poche righe prima, lo stesso testo cinese citato affermava a proposito della necessità di assecondare

il ritmo dello Yin-Yang, che chi vi si «oppone provoca il disordine. Opporsi alla corrente naturale

provocherà controcorrenti che si chiamano ostruzione interna».

Questa «ostruzione interna», questo blocco di un organismo la cui forza vitale è stata ripetutamente

offesa e che non osa neppure più reagire in modo schietto e centrifugo alla malattia, è causa di

grandi malesseri e sofferenze. Difficilmente, al di fuori dell’applicazione rigida degli attuali

protocolli soppressivi si potrebbe giungere alle sofferenze insopportabili cui assistiamo spesso oggi.

Occorre quindi ripensare anche la prassi medica alla luce dei principi tradizionali e spirituali

ortodossi, così come occorrerebbe ripensare alla luce di questi anche ogni altro ambito dell’attività

umana, dalla politica all’educazione.

La scienza moderna, infatti, non lo si può negare, è nata in opposizione alla Tradizione, o per lo

meno a ciò che di questa ancora restava, come affermazione prevaricante dell’individuo sulla

consapevolezza del Sé trascendente, di Dio. Da ciò gli interessi eminentemente “pratici” di questa

scienza a discapito della ricerca di una conoscenza realmente profonda e non convenzionale. Come

ha giustamente scritto Guénon, la scienza moderna non è che «industria», con tutte le conseguenze

che ben conosciamo.

Il pregiudizio materialista e riduzionista, legato al cosiddetto «realismo ingenuo», ha condotto a

subordinare sempre più la medicina alle scienze fisicaliste e biologiche, fino a dimenticare che essa

possa avere delle proprie leggi costitutive autonome e indipendenti. Si tratta di un grande passo

34

Huangdi Neijing SuWen, p. 70.

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indietro rispetto alla concezione aristotelica dell’autonomia delle scienze, oggi molto poco

compresa, e che meriterebbe di essere approfondita. Questa autonomia ha anche un’importanza

fondamentale dal punto di vista etico, perché il medico deve rendere innanzitutto conto del

benessere del paziente e non essere asservito alla dittatura di altre scienze\industrie.

Il mondo moderno è caratterizzato dalla convenzione e dall’illusione. Cosa significa ciò?

Significa che posto di fronte al grande Libro del mondo e del Mistero divino, l’uomo moderno non

sa più leggerlo, né è più interessato a farlo! Non si lascia agire dalla forza trasformante

dell’Assoluto, ma è lui che pretende di trasformare il mondo, di dominarlo e di manipolarlo secondo

le proprie oscure intenzioni.

Egli non comprende più il significato complessivo del mondo, né può abbracciarlo con le proprie

facoltà limitate, allora crea delle convenzioni per servirsene secondo un punto di vista limitato e

secondo delle finalità esclusivamente mondane.

Nascono così il Protestantesimo e il suo corrispettivo «conoscitivo», la scienza moderna, che è solo

tecnologia e industria.

Di fronte al mistero della Natura, inspiegabile nel suo insieme da qualsivoglia teoria convenzionale,

l’uomo decide arbitrariamente e, appunto, convenzionalmente di descrivere solo alcuni particolari

delle cose e solo in vista di alcuni scopi pratici. Né queste descrizioni potranno mai essere smentite

dai «fatti», i quali le avevano già smentite fin dal principio, ma potranno essere invece modificate

solo dall’intervento di nuove e differenti intenzioni, orientate a manipolare la realtà in altre

direzioni e secondo altre finalità.

Così opera l’ego dell’uomo moderno, o meglio, così viene manipolato dall’Avversario l’ego

dell’uomo moderno, il quale, una volta che sia riuscito a fargli dimenticare l’importanza del

discernimento e della vigilanza spirituali, può costantemente modificarne l’orientamento, lasciando

apparentemente inalterato il piano delle apparenze.

Ciò si pone esattamente all’opposto della trasformazione spirituale di cui beneficia costantemente

l’uomo sincero inserito in un contesto tradizionale. In mancanza di tale sincerità, tuttavia, anche

qualora dovesse trovarsi inserito all’interno di un quadro tradizionale, finché non cesserà questa

attitudine, l’uomo moderno continuerà sempre a dibattersi nella tensione fra il vero Centro divino e

il preteso centro rappresentato dall’individuo, che cercherà in ogni modo di continuare a voler

identificare oggetti e valori secondo tali convenzioni più o meno consapevolmente reiterate.

E non è sufficiente tutta la buona volontà per superare tali tendenze, ma occorre una presa di

coscienza del Centro da cui procede la vera lettura dei valori e delle cose.

Nel caos del mondo d’oggi, occorre dunque comprendere che i risultati delle ricerche sperimentali,

condotte in base alle visioni del mondo di chi le svolge, ma soprattutto dei finanziamenti di chi le

sostiene, non possono modificare se non l’aspetto più superficiale delle convinzioni e della visione

del mondo da cui hanno avuto origine, e questa è anche la ragione del perché al giorno d’oggi

continuino a diffondersi prassi assurde a dispetto di ogni logica e di ogni evidenza.

Occorre quindi che la ragione illuminata dalla fede possa tornare a farsi sentire con maggiore forza

operativa anche nell’agone della ricerca, e non solo ponendo qualche “picchetto etico”.

È per queste ragioni che la pandemia iatrogena del giorno d’oggi è potuta giungere fino al punto di

modificare profondamente nell’immaginario collettivo della popolazione la stessa idea di

invecchiamento, facendole accettare passivamente condizioni del tutto innaturali, come immagino

sia stato detto stamattina parlando di “invecchiamento naturale e patologico”. È quindi del tutto

fuorviante l’idea di voler associare alla vecchiaia lunghi anni da trascorrere in condizioni penose,

assolutamente non necessarie. Il modello orientale, in principio sempre valido, è invece quello che

paragona la vita di una persona al lento e costante bruciare dell’olio in una lampada protetta dagli

agenti esteriori, sicché la morte dovrebbe sopravvenire senza drammatici preamboli e senza lunghi

periodi di perdita dell’autosufficienza (con tutti i costi sociali che ciò comporta), al momento

dell’esaurimento della forza vitale.

In merito all’accanimento terapeutico, mi limiterei a ricordare che dal punto di vista religioso, il

prolungamento della vita ha senso solo nella misura in cui questo può essere per il malato occasione

di un tempo maggiore a disposizione per ricercare la Conoscenza della Verità e una maggiore

conformità spirituale, o per riparare a proprie mancanze, chiedere perdono e pregare. Bisogna

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quindi che le terapie volte a prolungare la vita dei malati più gravi siano svolte nella tutela della

dignità spirituale dei pazienti, informandoli della propria situazione (con una giusta considerazione

anche delle terapie esistenti al di là dell’universo protocollare), in modo che possano prepararsi al

passaggio dell’anima nell’Altro mondo, come insegnò il Profeta Muhammad: «Invitate quelli di voi

che sono in punto di morte a dire “Non vi è dio se non Iddio (Allah, l’Assoluto)”», poiché «colui le

cui ultime parole sono “Non vi è dio se non Iddio” entrerà in Paradiso».

Queste premesse erano necessarie per affrontare la questione del Testamento biologico, altrimenti ci

si perde solo in una miriade di problemi mal posti.

Innanzitutto, il Testamento biologico sembra presentare molti lati poco chiari. In particolare, esso fa

troppo leva sull’immaginazione e la sensibilità di una persona per lo più quando questa è molto

distante dalla concretezza di una situazione reale, che riguardi se stessa o altri. Chi ha parlato con

malati in condizioni anche apparentemente drammatiche sa bene che in determinate circostanze la

visione delle cose può anche mutare radicalmente, proprio perché il mistero della vita e della morte

va ben al di là del pensiero convenzionale. Per esempio, mi è capitato di sentire da parenti stretti di

malati di SLA, totalmente paralizzati e che potevano battere solo le ciglia, che queste persone,

nonostante si trovassero in tale estrema condizione non avrebbero voluto abbreviare la propria vita

di un solo istante, e questo non per paura della morte. Un’ammonizione del Profeta Muhammad

dice: «Nessuno di voi si auguri la morte: se è uno che agisce secondo giustizia, può darsi che

accresca i propri meriti; se invece si tratta di uno che compie azioni malvagie, può darsi che ritorni

al bene».

Entriamo qui nel dialogo profondo fra l’anima e il proprio Signore. In fondo certe malattie è come

se prolungassero e anticipassero la condizione che tutti noi dobbiamo attraversare al momento della

morte: quello in cui tutte le facoltà esteriori di sensazione e di percezione si ritirano al centro

dell’essere prima che questo passi in una nuova condizione. La morte fisica segna infatti il

passaggio dal mondo della responsabilità, nel quale si può ancora determinare il proprio destino

postumo, a quello dello Spirito, in cui si beneficia di quanto si è seminato. I sacerdoti potrebbero

ricordarci qui il brano evangelico delle vergini savie e delle vergini stolte. Le prime illuminate

dall’olio delle lampade che rappresentano i riti tradizionali compiuti in vita, le altre all’oscuro

perché non hanno praticato la ritualità, né compiuto altre azioni conformi a intenzioni sacralizzanti

ed elevate.

Poiché dunque in una prospettiva tradizionale il Testamento biologico non può in alcun modo

contenere indicazioni contrarie ai principi metafisici, ma solo esprimere preferenze in merito ad

aspetti secondari della terapia, esso perderebbe di significato una volta che la medicina si fosse

rinnovata secondo le auspicabili direttive che abbiamo poc’anzi tracciato. Per contro l’insistenza su

questi temi, soprattutto su quello dell’eutanasia, dimostrano solo la poca volontà di attuare tali

urgenti riforme.

In Olanda siamo giunti ormai al punto che una grandissima percentuale di malati viene sottoposta a

eutanasia senza neppure esserne informata. Non è forse questo il termine estremo di un tunnel che

vede l’uomo quale semplice oggetto di sfruttamento da parte di un Sistema Medicina malato e

contaminato dagli automatismi dell’industria (ma sarebbe meglio dire dal «male», in quanto le sole

categorie economiche non possono certo spiegare da sole le attuali aberrazioni), che dopo essersene

servita per parassitare il Sistema Sanitario Nazionale, lo elimina infine come un inutile rifiuto, per

convogliare su altri individui in forma più redditizia le risorse a disposizione?

Concluderei con una parola sull’etica. Qualche tempo fa una giornalista mi ha chiesto: «ma allora se

l’etica è universale le tre religioni monoteistiche trovano qui un terreno d’incontro d’elezione?».

Certamente, le dissi, in quanto l’universalità dell’etica discende dall’universalità della metafisica,

mentre è del tutto assurda la pretesa dei laicisti di voler fondare un’etica universale sulla natura,

intesa in senso “naturalistico”. A questo livello, infatti, gli usi e costumi contingenti sono realmente

molteplici e inconciliabili fra loro. Pretendere il contrario sarebbe come pretendere che le religioni

non dovessero avere quelle differenze dogmatiche e teologiche, che invece devono esserci,

trattandosi di rivelazioni differenti, mentre solo la metafisica e la Dottrina dell’Unità le unisce

profondamente.

Così accade spesso oggi che quando si parla di etica si confondano questioni contingenti con

Page 34: RIFLESSIONI SU… INVECCHIAMENTO E DISABILITA’ …...della nostra vita, dal momento del concepimento a quello della morte. Il controllo che la scienza medica può oggi operare sulla

questioni universali. Fa parte dell’ignoranza dei nostri tempi. Vi sono oggi persino molti musulmani

che ritengono che il divieto di consumare carne di maiale e alcolici abbia un valore universale,

quasi si trattasse di una verità di fatto di stampo positivistico.

Si è perduta la tridimensionalità del simbolo, viviamo in un appiattimento totale, non sappiamo più

distinguere fra principi e contingenze.

La Tradizione islamica autentica si fonda invece sul fatto che «le azioni valgono per le intenzioni»

(hadith del Profeta). Questo è molto importante, perché, ancor prima di addentrarsi in

problematiche quali il Testamento biologico, l’accanimento terapeutico o l’eutanasia, bisogna

evitare di stabilire leggi o norme schematiche da applicare meccanicamente a prescindere

dall’intenzione che le qualifica di volta in volta. La tentazione più grande per il legislatore in fatto

di eutanasia risiede propriamente nel pretendere di istituire delle norme formali che nascondono

l’intenzione luciferina di volersi sostituire a Dio quali arbitri della vita e della morte. Una volta

esorcizzato questo pericolo, sarà sempre possibile trovare la giusta misura nell’applicazione delle

leggi, ma se dovessero prevalere delle leggi sottilmente tiranniche, non laiche, ma improntate al

peggior laicismo, si aprirebbero porte che non sappiamo dove potrebbero condurci, come dimostra

il già citato caso olandese.

Religiosamente, la cosa grave è dunque volersi sostituire a Dio nella sua prerogativa di Unico

arbitro delle leggi che governano la vita. Questo è un pericolo purtroppo oggi diffuso. È allora

necessario ripartire dalle intenzioni e dai principi universali, senza farsi distrarre dai casi singoli e

paradossali che il mondo d’oggi, non a caso, non cessa di presentare per confondere la gente;

altrimenti si rischia, come si è detto, di dibattersi in problemi semplicemente mal posti. Le aporie

sono infatti prodotte dalla ragione, ed è possibile trovare le soluzioni ai problemi contingenti solo se

ci si riferisce a un’intelligenza spirituale, aprendosi a una dimensione realmente trascendente e

rimettendosi attivamente a Dio. Questo è lo sforzo incessante che la tradizione islamica richiede al

credente sincero, che non può mai arrestarsi pigramente nelle «sacche» del formalismo, ma che è

ogni giorno chiamato a uno sforzo responsabile e intelligente di applicazione e penetrazione dei

principi spirituali negli eventi della vita.

Chi crede di poter disporre della propria vita come di una «proprietà privata» sulla quale è arbitro

assoluto, riflette l’errore di chi vorrebbe, nella teoria o nella pratica, consapevolmente o

inconsapevolmente, sostituire l’uomo a Dio. Il musulmano è chiamato a riconoscere una visione

unitaria della Realtà, ordinata provvidenzialmente da Dio, in cui ogni cosa, nella Creazione come

nella propria vita, non è che un segno e una prova, e non un possesso di cui poter disporre

arbitrariamente. Questo atteggiamento oggi largamente diffuso sembra essere il frutto di una

«mentalità dell’avere», che si è sostituita a una «consapevolezza dell’essere», dove il senso della

vita è ridotto al possesso piuttosto che alla partecipazione ontologica e conoscitiva agli svelamenti

dei segni immanenti di Dio nel mondo.

Parliamo di «consapevolezza dell’essere» per riferirci non al nostro essere individuale, ma

all’essere di Dio, il Quale solo È, laddove noi invece non siamo se non in quanto partecipiamo alla

Sua Realtà tramite il Suo Spirito. Dall’essere all’avere, e di qui fino a vedere nell’«apparire» l’unico

criterio di verità e di realtà il passo è breve. Quale può essere dunque il grado intellettuale di una

civiltà che stabilisce i propri falsi valori sulla base esteriore e quantitativa del possesso e

dell’apparenza, finendo per valutare, senza accorgersene, con questi criteri anche questioni centrali

come la vita e la morte? Il valore delle cose, il senso delle priorità, l’orizzonte conoscitivo e

l’apertura del cuore dell’uomo e della donna non possono ridursi all’idea di «mio» o «non mio»,

dove tutto è sempre e comunque parametrato soltanto sull’io, su un individuo che si fa assoluto, che

si «divinizza» e idolatra.

Questo errore si aggiunge a un altro, quello di attribuire alla vita in questo mondo una portata

sproporzionata rispetto a ciò che essa realmente è: «Gli occidentali hanno l’abitudine di chiamare

“morte” soltanto la fine dell’esistenza terrena, e del resto non riescono quasi a concepire gli altri

cambiamenti analoghi: sembra infatti che questo mondo sia per essi la metà dell’universo, mentre

per gli orientali ne rappresenta solo una porzione infinitesimale» (René Guénon, Errore dello

Spiritismo, capitolo III «Immortalità e sopravvivenza» Luni Editrice, Milano 1998).

L’errore di associare alla vita in questo mondo una finalità diversa da quella di una semplice

Page 35: RIFLESSIONI SU… INVECCHIAMENTO E DISABILITA’ …...della nostra vita, dal momento del concepimento a quello della morte. Il controllo che la scienza medica può oggi operare sulla

preparazione all’altro mondo crea delle pericolose scissioni nell’uomo e nella donna di oggi. Al

contrario, l’unità che la dottrina islamica ribadisce incessantemente è anche l’unità costitutiva

dell’uomo fatto di spirito, anima e corpo. Se si trascura una sola di queste componenti dell’essere si

rischia di condurre una vita squilibrata e disarmonica che ci allontana ineluttabilmente da Dio. La

distinzione senza confusione tra anima e spirito rappresenta uno tra gli sforzi maggiori richiesti

all’umanità contemporanea; infatti, è lo spirito a non morire, mentre la nostra tendenza a

identificarci con l’anima è la principale causa di sofferenza.

Se la prerogativa dell’uomo è questa conoscenza sintetica o intellettuale nel senso vero del termine,

d’altro canto c’è una parola divina, trasmessa sempre per bocca del Profeta Muhammad, che

afferma: «Ero un tesoro nascosto, ho voluto essere conosciuto e ho creato il mondo» (Kuntu kanzan

makhfiyyan fa-ahabtu ‘an yu‘rafu fa-khalaqtu-l-khalqa). L’intelletto non è dunque orientato

soltanto alla conoscenza cosmologica relativa alla Creazione, ma soprattutto alla Conoscenza sacra

per eccellenza, la Conoscenza di Dio stesso che, attraverso la creazione dei mondi, vuole essere

conosciuto. Tramite l’intelletto che è in lui e lo trascende, l’uomo può superare se stesso e

riconoscere Colui a immagine del quale è stato creato. La finalità conoscitiva dell’uomo si

configura dunque secondo due dimensioni: orizzontale nella sua funzione di Vicario della

Creazione e verticale nella sua aspirazione verso il Creatore, dove la prima è naturalmente

subordinata alla seconda. I Cieli e la Terra e ciò che è tra essi, espressione ricorrente nel Sacro

Corano, rappresentano la Rivelazione di Dio in un orizzonte di segni chiari che manifestano la Sua

Gloria e la Sua Sapienza.

Come si traduce questo nella vita di ogni uomo, sottoposto alla prova di dover leggere i segni che vi

si manifestano? Secondo un grande teologo musulmano vissuto nell’XI secolo, Al-Ghazali, la

Verità appare al credente durante la sua vita solo in senso metaforico a causa della tendenza

dell’uomo a concentrarsi sui propri sensi e sull’immaginazione. Questa tendenza dell’anima porta

l’uomo a rimanere indifferente allo Spirito, che tuttavia egli custodisce, finendo per trascurare se

stesso e badare solo all’esteriorità (Al Ghazali, Le perle del Corano, Bur, Milano 2000).

Se la Creazione, come insegnano i Maestri spirituali dell’Islam, «si rinnova a ogni istante» o «a

ogni respiro», fino al termine della vita è sempre possibile realizzare i fini più elevati per cui l’uomo

è stato creato. L’ultimo istante della vita è anzi il più importante, quello ricapitolativo che segna il

passaggio dal mondo della responsabilità a quello in cui si raccolgono i frutti dei propri sforzi

conoscitivi e delle proprie azioni conformi. È al momento del trapasso che si raccolgono i frutti di

un’intera vita, tanto che tutti gli istanti che precedono ne costituiscono solo una preparazione.

Siamo dunque veramente distanti dal disprezzo odierno per l’ultima parte della vita!

Tra l’altro, un noto insegnamento del Profeta Muhammad afferma: «agisci in questo mondo come

se dovessi vivere in eterno e agisci per l’altro mondo come se dovessi morire domani». Queste sono

le corrette coordinate che dovrebbero orientare sempre la vita di coloro che ricercano «virtute e

conoscenza».

La possibilità dell’uomo di riconoscere l’azione di Dio nel mondo è uno dei presupposti della fede

che si esplicita nella pratica quotidiana degli atti di culto. Questi atti di culto diventerebbero vani

senza un anelito di gratitudine e lode a Dio per questa vita che viene concessa all’uomo per provarlo

e istruirlo su quella futura. L’uomo viene invitato più volte nel Corano a cogliere nella ricchezza

della Creazione una benedizione divina costante, a godere dei piaceri della vita sapendo che «la vita

del mondo, di fronte all’Oltre, non è che un godere di poco» (Corano, XIII, 26). L’uomo può

pregustare la dolcezza della vita eterna già in questo mondo attraverso dei piaceri fugaci, senza

sopprimere le proprie inclinazioni, bensì incanalandole verso l’adorazione di Dio e la

contemplazione. Si tratta di un punto fondamentale della dottrina islamica sulla vita, che insegna

agli uomini e alle donne come sacralizzare tutti gli istanti vivendoli in Suo Nome.

«Quel che vi è dato è solo gioia di vita terrena, mentre quel che si trova presso Dio è migliore e più

eterno, preparato per coloro che credono e si affidano al loro Signore, che evitano le colpe gravi e il

peccato, e quando si adirano, perdonano» (Corano XLII, 36-37).

Chi saprà beneficiare dei doni della Creazione senza volerli possedere saprà agire con distacco in

questo mondo ricordando «che tutto appartiene a Dio e a lui facciamo ritorno». Invece, coloro che si

attaccano ai beni materiali e ai piaceri della vita avranno mancato la prova divina e, nonostante la

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loro vita materialista, si allontaneranno sempre di più dalla vera felicità. Questo insegnamento è

importante perché l’Islam, prima ancora di richiamare i propri fedeli ad agire su di un piano morale,

li richiama a onorare la loro natura ontologica, quella fatta a immagine di Dio, «secondo la forma

del Misericordioso».

Di fronte alla sofferenza occorre una carità sincera e una comprensione profonda e non la

demagogia sentimentalistica su cui speculano i mass media. Il Sacro Corano afferma che «a nessun

anima Dio darà un peso maggiore di quello che può sopportare» (II, 286). Si tratta di una legge

ontologica, fondata sull’unità del Reale, come quella per cui se c’è l’Alto c’è il basso, non di

un’affermazione opinabile!

Non è peraltro questa la sede per approfondire la dottrina tradizionale metafisica circa l’essenza del

dolore, ma certo è che il dolore in una visione non materialista è una possibilità che in ultima analisi

ha a che vedere con le credenze e i giudizi più radicati nella persona. In altri termini, il dolore è, in

senso biblico, una conseguenza della Caduta dell’uomo, e non qualcosa di connaturato alla sua

natura primordiale e originaria. È come dire la materializzazione dell’ignoranza, della schizofrenia

costitutiva dell’uomo decaduto.

Come considerare allora la malattia? La sapienza della tradizione islamica insegna a vedere tanto la

malattia come la morte, al pari di ogni altro evento della vita, grande o piccolo, positivo o negativo,

come “segni di Dio”, e dunque come possibilità di beneficiare di una particolare grazia che Dio

voglia elargire.

La malattia è un segnale, una possibilità costitutiva di questo “basso mondo”, che dovrebbe prima

di tutto sensibilizzare l’uomo, inducendolo ad abbandonare l’errore per riorientare la propria vita

nella grazia di Dio. Finché vi è la sofferenza significa che non siamo ancora giunti a destinazione.

La malattia è dunque anche un richiamo al timore di Dio. Il malato va quindi aiutato ad affrontarla

in questa prospettiva di conoscenza. Secondo una tradizione il Profeta Muhammad aveva

l’abitudine di dire, visitando un malato: «Non ti preoccupare, è una purificazione se Dio vuole».

La storia sacra e la vita dei fedeli musulmani è ricca di episodi nei quali, proprio durante la

guarigione da una malattia, si ritrova la luce della fede e della sintonia spirituale e ci si apre al

riconoscimento della mano di Dio che «mi cura quando mi ammalo» (Corano). Si tratta spesso di

una guarigione dalla ribellione, dall’orgoglio e dall’ignoranza. Per i credenti è sempre e soltanto la

Volontà di Dio a determinare il successo della diagnosi, della terapia, dei rimedi e del medico

stesso, e non sono mai questi strumenti ad agire autonomamente.

Non esistono malattie «demonizzate» dall’Islam. Riporta Aisha che il Profeta, quando qualcuno dei

suoi era malato, andava a trovarlo e lo toccava con la mano destra, dicendo: «Mio Signore, Signore

degli uomini, togli da loro il male, guarisci, Tu che sei il Guaritore; non c'è altra guarigione che

quella che viene da Te, una guarigione che non lascia indietro alcuna malattia».

In conclusione, le implicazioni pratiche di questo discorso dovrebbero essere l’allargamento della

concezione intellettuale della medicina e il superamento di concezioni limitative e inibenti le reali

capacità cliniche intuitive e curative del medico, condannando al tempo stesso però l’altra faccia

dell’intuizionismo e dello sperimentalismo occidentale, quello che si apre in forma indiscriminata

sui fenomeni, così tipica della New Age o del neospiritualismo contemporaneo in generale; la

ricerca di una visione unificante fra le varie scuole, così come l’individuazione chiara di ciò che

dovrebbe essere rigettato da ogni autentica pratica curativa; lo smascheramento di una demagogia

medica improntata sulla paura, verso una più libera autodeterminazione in fatto di salute da parte

dei cittadini, soprattutto ora che il modello assistenzialista dello Stato è destinato a scomparire.