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PIAZZA FONTANA: UNA STRAGE SENZA COLPEVOLI

CON UN’INTERVISTA A GUIDO SALVINI

elèuthera

BOMBE E SEGRETILUCIANO LANZA

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nuova edizione rivista e aggiornata

© 1997, 2005 Luciano Lanzaed Elèuthera editrice

il nostro sito è www.eleuthera.ite-mail: [email protected]

AVVERTENZA

Nelle pagine web di Elèuthera, alla sezione «materiali»della «scheda libro», è possibile scaricare liberamente

una cronologia essenziale degli eventi trattati in questo volume.

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INDICE

Prefazione 7I. Anno zero 9

II. Una giornata esplosiva 17III. Aprite, è la polizia 20IV. In questura con il motorino 25V. È lui! È lui! 29

VI. Non l’abbiamo ucciso noi 38VII. È morto un cane 43

VIII. La furia della bestia umana 47IX. Quelli della Ghisolfa 55X. Tutto comincia in aprile 60

XI. Nazisti in maschera 66XII. Il pericolo comunista 74

XIII. Faremo ordine, ma nuovo 81XIV. Qui ci vuole il morto 88

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XV. Dàgli all’anarchico 93XVI. Sulle tracce dei fascisti 99

XVII. Il «commissario finestra» 106XVIII. L’importante è depistare 113

XIX. Sentenza di Carnevale 121XX. La strage? Di Stato 127

Quella verità da non dimenticare 137(intervista a Guido Salvini)

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PREFAZIONE

La strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, segna unpunto fondamentale della storia italiana del dopoguerra.Quel giorno si materializza la criminalità di una classe poli-tica che, per conservare il potere di fronte all’avanzata del«comunismo», è pronta a tutto. Anche a lasciare morti sulsuo percorso pur di non veder messa in discussione la sualeadership. Quella strage non è una pagina oscura, non è la«notte della repubblica», è un capitolo chiaro, preciso: me-glio i morti che un cambiamento. E di morti, negli anni suc-cessivi, ce ne sono stati molti. Per mano soprattutto della de-stra, ma anche della sinistra. Un gioco perverso: la destraaveva attaccato, la sinistra doveva rispondere. Anzi, dovevainnalzare il «livello di scontro».

Una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le pro-poste di cambiamento radicale della società italiana. In que-sta ottica la bomba di piazza Fontana ha segnato e scritto lastoria. Che è anche una storia infinita. Dagli anarchici «pazzicriminali» si passa ai nazisti e fascisti colpevoli. Accomu-nati sul banco degli imputati, verranno assolti tutti. E i col-pevoli? Non esistono. Poi rispuntano responsabilità dei nazi-fascisti quando i principali colpevoli non possono essere piùcondannati. Infine altri tre processi che ancora una voltamandano tutti assolti. Una vera commedia all’italiana, se nonfosse una tragedia.

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Una tragedia che vede negli attentati del dicembre 1969 ilmomento centrale di una strategia che doveva portare, nelleintenzioni degli esecutori, a un regime autoritario, ma che èstata gestita dai più alti organi dello Stato per mettere fuorigioco gli avversari politici e per creare un clima di paura cheperpetuasse la centralità della Democrazia cristiana e dei suoialleati. In questo senso la bomba di piazza Fontana è l’ana-lizzatore della società italiana: mette a nudo il ruolo di mini-stri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di poli-zia. Tutti coinvolti in un progetto criminale. È l’unicadefinizione possibile.

Ricostruire quell’avvenimento, che vede le sue premessenelle bombe del 25 aprile e del 9 agosto 1969, significa dun-que individuare l’essenza nascosta dello Stato italiano. Per-ché non si è di fronte a organismi deviati dai loro compiti.Questa è una grande favola che i mezzi d’informazionehanno cercato di raccontare quando le responsabilità dei«servitori dello Stato» non erano più occultabili. La realtà,infatti, è molto più semplice e sconcertante: «La presenza disettori degli apparati dello Stato, nello sviluppo del terrori-smo di destra, non può essere considerata ‘deviazione’, manormale esercizio di una funzione istituzionale», scrive ilgiudice Guido Salvini, titolare dell’ultima indagine su piazzaFontana. Allora si comprende come il termine «strage diStato» assuma una valenza che va al di là dello slogan poli-tico, perché individua invece una verità inconfutabile, nono-stante le sentenze di assoluzione.

Infine una precisazione. Questo libro è di parte, ma nonpartigiano. Nel senso che io, l’autore, ho vissuto molte diquelle vicende come anarchico del Circolo Ponte della Ghi-solfa. Ho condiviso la mia attività politica (fino al 15 di-cembre 1969, giorno della sua morte) con Giuseppe Pinelli eho partecipato attivamente alla campagna per la liberazionedi Pietro Valpreda. Sono quindi coinvolto, anche sul pianoemozionale. Ma ho cercato, grazie anche ai quasi quattro de-cenni trascorsi, di pormi un traguardo: raggiungere il mas-simo di obiettività possibile.

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ANNO ZERO

Roma, 3 maggio 2005. Nel Palazzaccio di piazzale Clodioil presidente della seconda sezione penale della Cassazione,Francesco Morelli, legge con voce monotona una sentenzastorica: respinge i ricorsi contro la sentenza della Corte d’ap-pello per la strage di piazza Fontana. Tutti assolti titolano te-levisioni e giornali. La Cassazione, infatti, ha confermato lasentenza che scagiona Carlo Maria Maggi, Giancarlo Ro-gnoni e Delfo Zorzi. Gli ultimi tre personaggi (all’epocaesponenti dell’organizzazione neonazista Ordine nuovo) diuna storia infinita iniziata il pomeriggio del 12 dicembre1969. Sentenza storica in due sensi: perché si tratta di unastrage commessa trentasei anni prima e perché chiude unavicenda che ha scritto (modificandola) la storia d’Italia conil sangue di sedici morti (cui se ne aggiungerà un altro dece-duto anni dopo per le ferite riportate) e di quasi un centinaio

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di feriti (ottantasei ufficialmente registrati e un’altra decinache preferì allontanarsi dalla Banca nazionale dell’agricol-tura e curarsi in modo privato).

La «strage di Stato» è arrivata al capolinea. Nessun magi-strato si azzarderà più ad addentrarsi in questo ginepraio. Ascoperchiare quel «mistero di Stato», ci aveva riprovato nel1989 il giudice istruttore di Milano Guido Salvini. Inquell’anno eredita un’inchiesta molto sommaria sull’ever-sione di destra. Indaga. Interroga. Ascolta. Ordina ispezioninegli archivi della polizia, dei centri studi, delle amministra-zioni statali. Individua personaggi fino a quel momento nem-meno sfiorati dalle indagini per la strage del 12 dicembre1969. Prende forma un panorama inedito e, allo stessotempo, antico.

Un gruppo di Ordine nuovo di Venezia-Mestre, con a capoZorzi e in qualità di «armiere» Carlo Digilio (sotto la regia diMaggi), è riconducibile all’attività di un altro gruppo neonazi-sta padovano, quello di Franco Freda e Giovanni Ventura.Colpo grosso! Sì, perché Freda e Ventura sono stati assolti, nel1985 e poi nel 1987, per piazza Fontana ma condannati a quin-dici anni per i due attentati «propedeutici» (25 aprile a Milanoe bombe sui treni del 9 agosto) a quello del 12 dicembre.

Assolti in quelle due sentenze, ma il 23 febbraio 1979Freda e Ventura, insieme all’informatore del SID Guido Gian-nettini, erano stati condannati dalla Corte d’assise di Catan-zaro all’ergastolo proprio per la strage di piazza Fontana.Colpo grosso, allora. I conti tornano. L’inchiesta di un magi-strato di Treviso, Giancarlo Stiz, aveva individuato già agliinizi degli anni Settanta i veri responsabili della strage. Met-tendo alla berlina le accuse di due magistrati romani, VittorioOccorsio ed Ernesto Cudillo, decisamente «convinti» chequell’attentato fosse stato compiuto da Pietro Valpreda. Anar-chico e per di più ballerino. Un colpevole perfetto.

A questo punto, sulla base dell’inchiesta Salvini, bastavaandare al processo e con la mole di prove raccolte con le con-fessioni ottenute non si poteva che arrivare alla condanna deineonazisti, e finalmente scrivere anche nelle aule giudiziarieciò che molti, tanti, sapevano già.

Il 30 giugno 2001, infatti, la Corte d’assise di Milano, pre-

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sieduta da Luigi Martino, condanna all’ergastolo Maggi, Ro-gnoni e Zorzi e a tre anni di reclusione Stefano Tringali perfavoreggiamento nei confronti di Zorzi.

Ma c’è un ma. I giudici di primo grado li condannano no-nostante i pubblici ministeri Grazia Pradella e Massimo Me-roni. Detta in parole povere, i due hanno scarsa competenzain processi di tale spessore: dopo, non se ne sentirà più par-lare, ritorneranno nel limbo da cui erano stati prelevati. Pra-della e Meroni sembrano essere stati scelti per azzopparel’inchiesta di Salvini. E ci riescono.

Il 12 marzo 2004 la Corte d’appello di Milano assolve in-fatti Maggi, Rognoni e Zorzi. Con una nota curiosa: riduce datre a un anno la pena di Tringali, ritenuto colpevole di favo-reggiamento nei confronti di Zorzi. Particolare che solo qual-che «raffinato» leguleio può spiegare, mentre logica vorrebbeche se non c’è reato non ci può essere favoreggiamento.

In sostanza, i giudici di Milano affermano che il pentitoCarlo Digilio (prescritto il reato per la sua attività di armieredel gruppo di Ordine nuovo di Venezia-Mestre, grazie al suoruolo di pentito) è inattendibile perché si è più volte con-traddetto, ha commesso errori. Certo, li ha commessi dopoaver subìto un ictus che lo ha un po’ menomato (anche serelazioni mediche, non prese in considerazione, sostenevanola sua piena capacità mentale). L’altro pentito, Martino Sici-liano, è invece attendibile, ma fornisce testimonianze di «se-conda mano», quindi inutilizzabili ai fini processuali. Non èbastato che Zorzi (ricchissimo industriale della moda, dive-nuto cittadino giapponese, difeso in un primo tempo da Gae-tano Pecorella, deputato di Forza Italia e difensore anche diSilvio Berlusconi) abbia a più riprese minacciato e allettatocon pacchi di soldi Siciliano perché ritrattasse. E in effettiSiciliano è stato un pentito «ondeggiante», ma che alla fine,in aula, ha confermato tutte le accuse. Non è bastato. L’as-soluzione dei tre ricalca la vecchia formula, oggi abolita for-malmente, dell’insufficienza di prove.

I giudici milanesi aggiungono poi una vera «perla» nellemotivazioni della loro sentenza di assoluzione. Ricostruendola sequenza degli attentati del 1969 riconoscono che Gio-vanni Ventura e Franco Freda sono i responsabili di piazza

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Fontana e non solo degli attentati a Milano del 25 aprile e aitreni del 9 agosto: «L’assoluzione di Freda e Ventura è unerrore frutto di una conoscenza dei fatti superata dagli ele-menti raccolti in questo processo».

Insomma, a Milano si compie l’ultima beffa. I due colpe-voli individuati da Stiz (si veda il capitolo XVI, Sulle traccedei fascisti) sarebbero i responsabili della strage, ma nonsono sufficientemente provati i loro rapporti con gli ordino-visti di Venezia-Mestre e Milano. Partita chiusa anche perStefano Delle Chiaie, l’allora capo di Avanguardia nazionalea Roma, cioè il gruppo che diede un appoggio logistico (enon solo) per gli attentati, sempre del 12 dicembre 1969, almonumento al Milite ignoto (quattro feriti) e alla Banca na-zionale del lavoro di via Veneto (quattordici feriti). DelleChiaie, dopo una latitanza durata anni, rientrato in Italia èstato assolto in via definitiva nel 1991.

E poi dal processo sono definitivamente usciti (da anni) ivertici dello Stato italiano, quei democristiani e socialdemo-cratici che hanno fattivamente operato in sintonia con i ser-vizi segreti italiani e americani (e con la manovalanza degliestremisti di destra) per mantenere lo statu quo in Italiaanche con le bombe e le stragi.

Dimenticare o confondere è quello che vogliono sia la de-stra sia (pur con intendimenti diversi) la sinistra. Con unastrategia messa in campo a colpi di relazioni nella Commis-sione stragi sul finire dell’anno 2000. Prima arriva la rela-zione dei parlamentari DS. Una lettura (o rilettura) degli annidelle bombe, degli attentati e dei tentativi di golpe. I DSfanno una ricostruzione a prima vista sufficientemente suf-fragata da fatti, da sentenze, da accertamenti. Il risultato è lamessa in evidenza del ruolo delle organizzazioni neonazistee neofasciste, delle coperture di cui hanno goduto negli ap-parati dello Stato, della magistratura, dei servizi segreti, edel ruolo rilevante che hanno avuto la CIA e i servizi segretidella NATO. L’aspetto originale è rappresentato dall’imma-gine immacolata che assume il PCI degli anni Sessanta e Set-tanta: il partito di Luigi Longo e di Enrico Berlinguer sa-rebbe stato il grande bastione a difesa della democrazia inItalia. Un’autoesaltazione, insomma.

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Dopo arriva la risposta dei parlamentari Alfredo Manticae Vincenzo Fragalà di Alleanza nazionale. Con due brevi,ma fantasiose, relazioni riportano l’attenzione sugli anar-chici: «Nell’inchiesta su piazza Fontana è avvenuto di più edi peggio: ogni notizia che potesse dare impulso alla pistaanarchica è stata semplicemente ignorata». Secondo Man-tica e Fragalà, infatti, Pietro Valpreda sarebbe il vero colpe-vole dell’attentato del 12 dicembre a Milano. Giuseppe Pi-nelli, coinvolto in quella storia (forse anche confidente dellapolizia), messo alle strette si sarebbe suicidato. Per di più glianarchici milanesi in fatto di bombe avrebbero, a loro av-viso, una storia che inizia fin dai primi anni Sessanta. Lo-gico, quindi, che tra loro andassero cercati i responsabilidella strategia della tensione. Il tutto sotto la regia del servi-zio segreto sovietico: il KGB.

Una manovra maldestra, neppure documentata seria-mente, piena di illazioni senza riscontri, ma che ha un pre-ciso scopo politico: la storia di quegli anni può essere letta inmodi diametralmente opposti. E se nessuno ha torto, nes-suno ha ragione. Quindi meglio lasciar perdere e applicare laregola tutta italiana del colpo di spugna.

L’intento è chiaro: annullare dopo le elezioni del 2001 (vintedal centrodestra) la Commissione stragi. Quindi riconoscereche gli anni Sessanta e Settanta sono stati luttuosi. Ma ora bi-sogna uscirne e mandare tutti a casa e tutti non colpevoli.

Quel passato scotta per entrambe le formazioni politiche.La destra vi è coinvolta in prima persona, tanto che ha rinun-ciato all’alleanza elettorale con Pino Rauti e il suo MSI-Fiamma tricolore. Sarebbe stato un alleato troppo scomodoperché pesantemente coinvolto nella stagione degli attentati:Ordine nuovo, di cui allora era capo Rauti, è stato in moltis-simi casi il braccio armato di quella strategia. Per non diredelle connivenze del Movimento sociale di Giorgio Almi-rante con i terroristi neri. E Gianfranco Fini, allora giovane fe-delissimo di Almirante, vuole far dimenticare quel passato.Alleanza nazionale, infatti, ha assunto la forma di «destra de-mocratica». Quindi bisogna lasciarsi alle spalle le posizioni«estremiste». Da qui la necessità per il centrodestra di sep-pellire un passato scomodo e decisamente poco presentabile.

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Discorso in un certo senso analogo per il centrosinistra,soprattutto per la sua componente maggioritaria, i DS. Il pro-genitore, il PCI, ha utilizzato (per dirla in modo schematico)la verità sulle stragi di Stato (che conosceva) per favorire lasua ascesa al potere. In pratica ha commercializzato il suosilenzio. Come? Mettendo alle strette la Democrazia cri-stiana, grande calderone politico in cui vivevano gomito agomito tendenze filogolpiste con personaggi «democratica-mente più presentabili». La famosa tattica del «io so, ma nonparlo se ci mettiamo d’accordo». Una tattica che ha dato isuoi frutti anche perché la DC aveva un alleato compromessonella copertura del ruolo dei servizi segreti americani: il PSDI.Il partito americano operante nell’Italia degli anni Sessanta eSettanta (non a caso nato nel 1947 con un sostanzioso finan-ziamento della CIA tramite il sindacato AFL-CIO).

Sempre nello stesso anno, il 2000, sulla stessa lunghezzad’onda ci sono anche altri magistrati. Libero Mancuso, pub-blico ministero a Bologna, è a suo modo profetico: sostieneinfatti che occuparsi di piazza Fontana è fare «archeologiagiudiziaria» perché non si potrà mai arrivare a nulla.

E non è un caso che il giudice Salvini si debba difendereda accuse lanciategli da altri magistrati, in particolar mododal collega veneziano Felice Casson con l’ausilio del gior-nalista Giorgio Cecchetti di «La nuova Venezia» e «la Re-pubblica», autore di diversi scoop su notizie ancora riser-vate. Alla fine Salvini viene assolto sia dal Consigliosuperiore della magistratura sia dalla Cassazione. Era accu-sato di «incompatibilità ambientale» (cioè non avrebbe do-vuto lavorare al tribunale di Milano) e di violazione degliobblighi di magistrato (aveva utilizzato agenti del SISMI peracquisire notizie su Martino Siciliano). La vicenda è co-munque rivelatrice di una questione non irrilevante: chi in-daga su piazza Fontana mettendo in discussione la «veritàufficiale» dà fastidio.

Nel 2000, per la precisione in settembre, il senatore a vitaPaolo Emilio Taviani fa nuove importanti dichiarazioni dopoquelle rilasciate nel 1997 alla Commissione stragi. Nel mag-gio 1974, quando era ministro dell’Interno, era stato proprioTaviani a sciogliere l’ufficio affari riservati di Federico Um-

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berto D’Amato. Un passo significativo, perché D’Amato èstato uno dei personaggi di punta nell’opera di depistaggiosull’eversione di destra e sulla strage del 12 dicembre (manon solo, era anche regista di manovre). Il senatore a vita rac-conta a membri del ROS dei carabinieri di aver appreso nel1974 che la bomba collocata a Milano non avrebbe dovutoprovocare vittime e che un agente del SID, l’avvocato romanoMatteo Fusco di Ravello, il 12 dicembre 1969 stava per par-tire da Fiumicino per Milano con l’incarico di impedire gliattentati. Quando sta per imbarcarsi viene a sapere che labomba è già scoppiata. Anna, figlia di Fusco, morto nel 1985,conferma che il padre aveva lavorato a lungo per il SIFAR epoi per il SID e in varie occasioni le aveva parlato del suo fal-lito tentativo di impedire la strage di piazza Fontana. Questofatto è un altro tassello che prova come i più importanti ap-parati dello Stato fossero a conoscenza della preparazionedegli attentati e avessero cercato solo all’ultimo momento diridurne gli effetti. In questo senso Fusco, indicato dalla figliacome molto vicino a Rauti, è uno dei punti di contatto a piùalto livello fra il mondo militare e dei servizi segreti e Ordinenuovo. Ma Taviani non si ferma qui. Dice che fra i soggettiistituzionali attivi nel depistare le responsabilità verso la si-nistra, c’è un ufficiale di Padova: Manlio Del Gaudio. Chi èquesto signore? Il tenente colonnello Del Gaudio, coman-dante, all’epoca, dei carabinieri di Padova, sarebbe il militarecui il generale del SID Gianadelio Maletti nel 1975 affida l’in-carico di «chiudere la fonte Turco», cioè la fonte Gianni Ca-salini, esponente di Ordine nuovo e informatore del SID cheintendeva «scaricarsi la coscienza» e rivelare quanto sapevasulle responsabilità del gruppo negli attentati ai treni tra l’8 eil 9 agosto 1969. Ma la Corte d’assise di Milano non vuoleascoltare, nell’aprile 2001, Taviani (che muore il 17 giugno)e la Fusco di Ravello. Il motivo? Le prove sono emersequando il dibattimento è ormai prossimo alla conclusione, ecomunque non vengono reputate «assolutamente necessarie».Uno dei tanti episodi rivelatore della matrice statale di quellastrage e dei tanti attentati che hanno costellato gli anni Ses-santa e Settanta. E se ne potrebbero elencare molti altri. Tuttidello stesso segno.

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Adesso il clima è il più adatto per lasciar cadere nel di-menticatoio una questione così scomoda come piazza Fon-tana. Pietro Valpreda è morto il 7 luglio 2002. Tanti altri pro-tagonisti sono morti, così come hanno lasciato la scena tantecomparse. E la sentenza della Cassazione sancisce una si-tuazione di fatto: per quella strage non ci devono essere col-pevoli.

Come comincia questa intricata storia che parte daglianarchici per arrivare ai nazifascisti, ai servizi segreti italianie americani e si conclude con «tutti assolti»? Ovvio, biso-gna tornare a quel tristemente famoso 12 dicembre 1969.

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II

UNA GIORNATA ESPLOSIVA

Quel signore di mezza età dal vestito elegante, salito allafermata di piazza Missori sul tram 23, non dava certo l’im-pressione di un personaggio un po’ stralunato che parla dasolo o arringa la folla con frasi sconnesse. Eppure, subitodopo avere pagato le 70 lire del biglietto, guardando fisso da-vanti a sé, esclamò: «Che cosa sarà stato? Una caldaia esplosao una bomba?». Alcuni dei passeggeri del tram che correvaverso Porta Romana continuarono a leggere il giornale o achiacchierare tra loro, ma quelli più vicini al signore di mezzaetà lo guardarono tra lo stupito e l’interessato. Allora l’im-provvisato oratore riprese: «Arrivo da piazza Fontana, è uninferno... ci sono ambulanze, poliziotti, carabinieri... c’è stataun’esplosione alla Banca dell’agricoltura». Su quel tram, chenel frattempo si allontanava dal centro di Milano, nessuno sa-peva ancora nulla. Erano da poco passate le cinque del po-

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meriggio di un venerdì come tanti con in più una certa ariaprenatalizia, ma non era un giorno qualunque. Era il 12 di-cembre 1969 e neanche mezz’ora prima, alle 16,37, unabomba aveva ucciso quattordici persone (altre due morirannoin ospedale e un’altra anni dopo) e provocato circa cento fe-riti. Una strage, come diranno subito i primi soccorritori.

Quella di piazza Fontana non è una bomba isolata. Un’altraviene ritrovata a poca distanza nella sede della Banca com-merciale italiana di piazza della Scala. Sono le 16,25 quandoun commesso della Commerciale, Rodolfo Borroni, vede unaborsa nera abbandonata vicino all’entrata di un ascensore. Laraccoglie pensando a un cliente distratto. La borsa è moltopesante. Insieme ad altri colleghi Borroni la apre. C’è unacassetta metallica, una bustina rettangolare di plastica e undischetto nero, graduato da 0 a 60. Nient’altro. Qualcuno ipo-tizza che possa trattarsi di una bomba. La borsa viene presadal brigadiere Vincenzo Ferrettino, trasportata nel cortiledella banca e sotterrata. È una prova importante, ma TeonestoCerri, ingegnere e perito balistico, alle nove di sera, cioè quat-tro ore dopo, la farà saltare con una carica di tritolo applicataalla serratura. Guido Bizzarri, maresciallo dell’esercito e ar-tificiere con oltre quarant’anni di esperienza, dichiarerà poi aigiornalisti: «L’avrei disinnescata io, ma nessuno me lo hachiesto. È stato più pericoloso farla brillare che aprirla».

È uno dei primi misteri di quel 12 dicembre a cui se neaggiungerà un altro. Il 7 febbraio 1970 si verrà a sapere chenella borsa in cui era contenuta la bomba c’era anche un ve-trino colorato che la questura di Milano aveva subito inviatoalla Criminalpol di Roma per esami. Risultato dell’analisi:vetrino colorato utilizzato per fabbricare lampade liberty si-mile a quelli usati nel laboratorio artigianale di Roma da Pie-tro Valpreda. Un anarchico milanese che da poco tempo si ètrasferito nella capitale.

Ed è proprio a Roma che si conclude la sequenza di scoppidi una giornata incandescente. Tra le 16,40 e le 16,55 in uncorridoio sotterraneo della Banca nazionale del lavoro in viaVeneto c’è un’esplosione che causa quattordici feriti tra gliimpiegati dell’istituto. Poi, nell’arco di dieci minuti dopo le17,20, altri due ordigni di minore potenza dei precedenti

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scoppiano all’Altare della patria in piazza Venezia. Soltantoquattro feriti: un carabiniere e tre passanti.

Si chiude così la giornata della strage. Radio e televisionemandano in onda i primi servizi, mentre nelle redazioni deiquotidiani si preparano i titoli a caratteri cubitali per l’edi-zione del 13 dicembre.

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III

APRITE, È LA POLIZIA

Orrenda strage a Milano, titola il «Corriere della Sera»del 13 dicembre. Infame provocazione, mette in prima pagina«Il Giorno». Strage a Milano. Un piano terroristico in Ita-lia?, «La Stampa». Un orrendo attentato provoca una terri-bile strage a Milano. Nel quadro di provocazioni fasciste emanovre reazionarie, «l’Unità». Ma se i maggiori quotidianisi limitano a riportare i fatti, almeno in prima pagina, e nonfanno ancora ipotesi, con l’eccezione del giornale del PCI, suesecutori e mandanti della strage del giorno prima, c’è già chiha le idee chiare. Nella stessa sera del 12 dicembre il prefettodi Milano, Libero Mazza, invia al presidente del consiglio, ildemocristiano Mariano Rumor, un fonogramma chiaramenteorientato: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizzaindagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estre-miste. Est già iniziata, previe intese autorità giudiziaria, vi-

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gorosa azione rivolta at identificazione et arresto responsa-bili». L’indicazione è chiara. E non coglie certo impreparati ipoliziotti che stanno seguendo il caso. Luigi Calabresi, fun-zionario dell’ufficio politico della questura di Milano, ha giàuna pista: l’estremismo di sinistra. Il motivo? Gli obiettivi,banche e Altare della patria, sono per lui indizi chiarissimi. Ein queste sue certezze supera di slancio anche il suo diretto su-periore Antonino Allegra. La regia dell’inchiesta sembra se-guire un copione già scritto. E infatti verranno fermati so-prattutto anarchici, extraparlamentari di sinistra, e soltantopochissimi attivisti di estrema destra.

Quel 12 dicembre Paolo Finzi è a letto con la febbre. Unaleggera influenza. Ha appena compiuto 18 anni e studia alliceo Giosuè Carducci di Milano. È attivo nel gruppo anar-chico della sua scuola. Un gruppo nel quale milita ancheFabio Treves, che qualche anno dopo diverrà famoso comemusicista e consigliere comunale. Poco prima di mezzanottesuonano alla porta della casa dei Finzi, vicino a piazza dellaRepubblica. È la polizia. Agli allibiti genitori, Matilde eUlisse, gli agenti di pubblica sicurezza dicono senza tantipreamboli: «Dobbiamo portare in questura vostro figlio per-ché è uno dei maggiori indiziati per la strage di piazza Fon-tana». Matilde Bassani Finzi non è una donna che si lasciafacilmente impressionare. Ha 51 anni ed è stata una militanteantifascista dalla fine degli anni Trenta, partecipando al Soc-corso rosso di Ferrara, la sua città natale. Poi dal 1943 è attivanella resistenza a Roma collaborando con i gruppi Bandierarossa. Un passato che l’ha temprata. Però quella notte Ma-tilde Bassani è angosciata per Paolo, il più piccolo dei suoi trefigli. Paolo Finzi viene portato al quarto piano di via Fatebe-nefratelli. Gli uffici della polizia politica. Nello stanzone visono decine di persone, tutte di sinistra, e solo quattro fasci-sti che fraternizzano e conversano con i poliziotti presenti. LìFinzi vede Giuseppe Pinelli, per lui uno dei vecchi del cir-colo anarchico milanese Ponte della Ghisolfa. Ma c’è ancheun altro anarchico più vecchio di Pinelli, che Finzi conosceperché amico dei suoi genitori: Virgilio Galassi. Galassi eranel movimento libertario dall’immediato dopoguerra, ma nel1969 non è più un militante attivo. Però è anche lui tra i so-

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spettati. Perché? Il motivo è semplice quanto ridicolo: è fun-zionario dell’ufficio studi della Banca commerciale italiana.L’istituto dove è stata trovata la bomba inesplosa. Ma non re-sterà per molto tempo ospite della questura. Il presidente dellabanca, Raffaele Mattioli, interverrà in suo favore.

Passano le ore. Poi uno alla volta i fermati vengono chia-mati in un’altra stanza dove si svolgono gli interrogatori. So-lita routine. Verifica dell’alibi, richiesta di valutazioni sui fattie un’ultima domanda: «Chi pensi sia stato?». Ma è una do-manda superflua, i poliziotti danno per scontato che gli autoridell’attentato siano anarchici.

Finiti gli accertamenti, i fermati vengono trasferiti nelle ca-mere di sicurezza della questura. Tutto si conclude nel tardo po-meriggio del 13 dicembre quando quasi tutti vengono rilasciati.

Ma la polizia continua le indagini. O meglio il fermo dimilitanti dell’estrema sinistra. Fausto Lupetti non è un ragaz-zino come Finzi: ha 26 anni. Ma è sospettabile: milita nel Par-tito marxista-leninista italiano che qualche anno prima si èscisso in due tronconi, linea nera e linea rossa. Lupetti, oggieditore, fa parte della seconda corrente. E per di più è un «ci-nese» anomalo perché vive in una comune: un grande appar-tamento in via Mosso, dalle parti di via Padova, a Milano.Alle sei della mattina del 13 dicembre i membri di quella co-mune vengono bruscamente svegliati. È sempre la polizia.Tutti in questura. Interrogatorio di rito. Anche Lupetti notaPinelli, forse l’anarchico milanese allora più conosciutonell’ambito della sinistra milanese. «Mi colpì il fatto che ilpavimento davanti a lui fosse cosparso di cenere di sigarette»,ricorda Lupetti che verso sera verrà trasferito al carcere diSan Vittore, dove resterà fino al 29 dicembre in compagnia diPasquale Valitutti, detto Lello, un giovane anarchico, e An-drea Valcarenghi, animatore del gruppo Onda verde e dal1971 responsabile del mensile «Re Nudo».

Il 15 dicembre il «Corriere della Sera» titola in prima pa-gina: Ventisette estremisti trattenuti a San Vittore. Apparten-gono in maggioranza ai gruppi neo-anarchici collegati conorganizzazioni internazionali. L’attacco dell’articolo, firmatoda Arnaldo Giuliani, spiega molto bene il clima che si stacreando: «Al termine delle prime quarantott’ore di indagini,

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l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana può così sintetizzarsi:1) sono state fermate finora oltre centocinquanta persone so-spette, appartenenti agli opposti estremismi; 2) alle venti di ierisera restavano in stato di fermo a San Vittore ventisette giovaniappartenenti in maggioranza a gruppi anarcoidi che si sospet-tano in collegamento con movimenti anarchici internazionali».E nelle pagine interne viene approfondita la pista anarchica.Titolo della quinta pagina: Anche i vecchi anarchici del Dianasetacciati nei covi degli estremisti. L’autore dell’articolo, EnzoPassanisi, traccia una radiografia del movimento anarchico mi-lanese, quasi a voler far conoscere meglio l’ambiente in cuipuò essere maturato l’attentato: «Gli anarchici italiani sonoriuniti in una federazione, la FAI. [...] Ma quelli milanesi, chesono sui duemila fra membri attivi e simpatizzanti, seguonoin maggioranza una linea autonoma. Sono divisi in circoli egruppi: uno solo di questi ultimi, che prende il nome da Saccoe Vanzetti e che è composto principalmente da anziani mili-tanti, è affiliato alla FAI. Gli altri gruppi, in numero di una doz-zina, sono divisi a seconda delle rispettive branche di attività:c’è per esempio la Lega anarchica milanese che opera nelleuniversità e in otto istituti superiori e c’è il sindacato anarchicofra i lavoratori. Vale la pena di ricordare come la linea politicaseguita dal movimento [...] predichi il sovvertimento della so-cietà e la presa del potere della massa retta direttamente da as-semblee del popolo e da comuni di lavoro, senza governo, néparlamento sull’esempio della Repubblica Ucraina formatasidurante la lotta fra bolscevichi e russi bianchi». Dopo la de-scrizione, la bomba. Non quella di piazza Fontana, ma al tea-tro Diana il 23 marzo 1921. Il precedente storico. Il giornalistaPassanisi pone la domanda ad alcuni anarchici del CircoloPonte della Ghisolfa. Ecco la risposta: «Un errore. Si volevanocolpire i magistrati che stavano nell’albergo vicino al teatro: igiudici che tenevano in carcere, senza processo, Malatesta.Agenti provocatori della polizia riuscirono a fare cambiare ilbersaglio all’ultimo momento e fu il massacro. Un massacroche abbiamo sempre deplorato». E il giornalista può così com-mentare: «Già, fra l’attentato accettabile dalla linea anarchicae quello da respingere c’è sempre la possibilità dell’errore. Nonpotrebbe esserci stato un errore anche venerdì?».

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Ma c’è già chi la stessa sera del 12 dicembre fa un acco-stamento tra la bomba alla banca e quella del Diana. È Al-berto Grisolia del «Corriere della Sera», quotidiano diretto daGiovanni Spadolini, più storico che giornalista. «È come peril Diana», dice Grisolia (e il 14 dicembre lo scriverà sul «Cor-riere»: «La gravità dell’attentato, che a Milano ha soltanto ilprecedente del teatro Diana [...]») a Giulio Polotti, classe1924, all’epoca segretario della UIL milanese e deputato so-cialista. Polotti ricorda perfettamente quel venerdì pomerig-gio: «C’era una riunione delle tre confederazioni nella sededella CISL in via Tadino per discutere il piano degli scioperiper i rinnovi contrattuali. Verso le 17 arriva la notizia delloscoppio, come deputato vado subito in piazza Fontana per ve-dere che cosa è successo. Entro nell’atrio della banca e, orrore,inciampo nel braccio di una vittima. Poi salgo al primo pianoe lì arrivano anche il sindaco Aldo Aniasi, il prefetto LiberoMazza, il questore Marcello Guida e il cardinale GiovanniColombo. A quel punto è chiaro: è stata una bomba. Vado atelefonare per informare Antonio Giolitti a Roma e lui mi diceche anche nella capitale ci sono state delle esplosioni. Dopo latelefonata incontro Grisolia che mi parla dell’attentato alDiana come precedente storico di questa bomba».

Stesso clima a Roma. Il «Corriere d’informazione» del po-meriggio del 14 dicembre scrive: «Non hanno dormito sta-notte, gli estremisti d’ogni colore, sonni tranquilli. La poliziaha effettuato, in tutta la città, una vasta retata di estremisti diogni tendenza, di individui compromessi con movimenti chenon hanno mai fatto mistero delle loro intenzioni sovverti-trici». E più avanti Fabrizio De Santis, autore dell’articolo,aggiusta il tiro: «Sono evidentemente individui decisi a tutto.Volevano non soltanto spaventare la popolazione, dimostrarela loro esistenza come elementi rivoluzionari e contestatori.Volevano uccidere».

Il clima psicologico e sociale è pronto. Manca soltanto il«mostro» da sbattere in prima pagina.

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IV

IN QUESTURA CON IL MOTORINO

Quel 12 dicembre era rientrato alle sei di mattina. Abitavanelle case popolari di via Preneste 2, a Milano. Nel quartieresan Siro, strana mescolanza di palazzoni, villette con giardinoe piscina, condomini piccolo-borghesi. Giuseppe Pinelliaveva fatto il turno di notte. Manovratore allo scalo della sta-zione di Porta Garibaldi. Un’ora dopo la moglie Licia svegliale figlie, Silvia e Claudia. Prepara la colazione e le accompa-gna a scuola. Dopo si ferma a fare la spesa, torna a casa. Versole 11 arriva uno che a lei piace poco: Nino Sottosanti. Licia stalavando i pavimenti. «Vai di là che lo svegli», dice Licia aSottosanti. Poi va a riprendere le bambine. Quando arriva acasa, Pinelli e Sottosanti stanno parlando di Tito Pulsinelli checon altri giovani anarchici è in prigione per gli attentati del25 aprile alla stazione Centrale di Milano e alla Fiera cam-pionaria. Ma Pulsinelli è accusato anche di essere l’autore

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dell’attentato alla caserma di pubblica sicurezza Garibaldi del19 gennaio 1969. E Sottosanti può fornire un alibi a Pulsinelliper quella notte. Perché? Sottosanti si è infatuato del giovanePulsinelli e la notte dell’attentato l’hanno passata insieme. Pi-nelli, membro della Croce nera anarchica (organismo di difesacostituito nell’aprile 1969, sull’esempio dell’inglese Anar-chist Black Cross, inizialmente per aiutare la lotta degli anar-chici spagnoli contro il franchismo, ma poi sempre più impe-gnato nel difendere gli anarchici italiani colpiti dalle misurerepressive di polizia e magistratura), deve quindi tenere con-tatti con questo personaggio ambiguo: amico di estremisti didestra, ex volontario nella Legione straniera, ammiratore diBenito Mussolini, in precedenza custode della sede di NuovaRepubblica. Nei capannelli che di tanto in tanto si formanoin piazza Duomo è conosciuto come Nino il fascista o Nino ilmussoliniano.

Alle due del pomeriggio Pinelli e Sottosanti escono. De-vono cambiare un assegno di 15 mila lire per Sottosanti. Unrimborso per le spese di viaggio. Il conto corrente è quello deifondi della Croce nera, agenzia 11 della Banca del Monte diMilano. Prima bevono un caffè al bar di via Morgantini. Invia Pisanello, sede della banca, i due si lasciano e Sottosanti vaa Pero dove abitano i parenti di Pulsinelli. Arriverà alle 16,30,secondo la deposizione di Lucio Pulsinelli, fratello di Tito.

Pinelli invece, dopo aver riscosso la busta paga con la tre-dicesima alla stazione di Porta Garibaldi, spedisce una letteraa Paolo Faccioli, un altro anarchico arrestato per i fatti del 25aprile. È una lettera semplice, ma rivelatrice dell’indole di Pi-nelli. Eccola: «Caro Paolo, rispondo con ritardo alla tua, pur-troppo tempo a disposizione per scrivere come vorrei ne hopoco: ma da come ti avrà spiegato tua madre ci vediamomolto spesso e ci teniamo al corrente di tutto. Spero che orala situazione degli avvocati sia chiarita. Vorrei che tu conti-nuassi a lavorare, non per il privilegio che si ottiene, ma peroccupare la mente nelle interminabili ore; le ore di studio nonti sono certamente sufficienti per riempire la giornata. Ho in-vitato i compagni di Trento a tenersi in contatto con quelli diBolzano per evitare eventuali ripetizioni dei fatti. L’anarchi-smo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo nem-

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meno subirla: esso è ragionamento e responsabilità e questolo ammette anche la stampa borghese, ora speriamo lo com-prenda anche la magistratura. Nessuno riesce a comprendereil comportamento dei magistrati nei vostri confronti. Siccometua madre non vuole che ti invii soldi, vorrei inviarti libri,libri non politici (che me li renderebbero) così sono a chie-derti se hai letto Spoon River, è uno dei classici della poesiaamericana; per altri libri dovresti dirmi tu i titoli. Qua fuoricerchiamo di fare del nostro meglio. Tutti ti salutano e ti ab-bracciano, un abbraccio particolare da me e un presto vederci.Tuo Pino».

A questo punto la ricostruzione del pomeriggio di Pinelli sicomplica. Alcuni avventori del bar di via Preneste, MarioMagni, Mario Pozzi, Luigi Palombino e Mario Stracchi so-stengono che Pinelli giocò a carte con loro dalle 15-15,30fino alle 17-17,30, confermando così l’alibi fornito da Pinellial brigadiere Carlo Mainardi che lo aveva interrogato. Ma ilgiudice istruttore Gerardo D’Ambrosio nella sua sentenza del27 ottobre 1975 (quella che mandò tutti assolti per la morte diPinelli, inventando un caso nuovo nella medicina mondiale:«il malore attivo») sostiene che quei testimoni si confondonocon il giorno precedente e ricorda che il titolare del bar, Pie-tro Gaviorno, smentisce questa circostanza sostenendo chePinelli bevve un caffè con uno sconosciuto e poi si allontanò.D’Ambrosio trova discordanze o incompatibilità temporalinegli spostamenti di Pinelli, soprattutto grazie alla circostanza«che l’appuntato di pubblica sicurezza Carmine Di Giorgioabbia insistito nell’affermare di essere quasi certo che quelgiorno egli non aveva giocato». Di Giorgio era un altro av-ventore in quel bar e la sua «quasi certezza» vale molto dipiù della certezza degli altri. Così D’Ambrosio può sostenereche questi ultimi si confondono: «Del resto non è senza si-gnificato, ai fini dell’errore sul giorno della partita, che Pozzi,Palombino e Stracchi fossero presenti allorché il Magni fuintervistato dai giornalisti. La suggestione che ne potette de-rivare è evidente».

Comunque sia andata, Pinelli, dopo aver giocato o non gio-cato a carte, va al Circolo Ponte della Ghisolfa. In piazzaleLugano 31. Lì incontra Ivan Guarnieri, anche lui membro

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della Croce nera, e un altro giovane anarchico, Paolo Erda.L’orario? Tra le 17 e le 18. Come al solito gira con il suo mo-torino. Un po’ malandato, ma Pino ne è orgoglioso. Ed è acavallo del suo Benelli che poco prima delle 19 arriva al Cir-colo di via Scaldasole. Una sede anarchica aperta da pocotempo, in un seminterrato di un antico caseggiato fatiscente,a due passi da Porta Ticinese. Ci sono molti lavori di restauroda fare e Pinelli vuole chiudere la giornata dando una mano aun anarchico da poco arrivato dalla Sardegna, Sergio Ardau,che sapeva essere già là. Prima di arrivare al circolo Pinelli siferma a comprare delle sigarette. È un accanito fumatore. Edè dal tabaccaio che per la prima volta sente notizia di quantoè successo alla Banca dell’agricoltura. Arrivato in via Scal-dasole, Pinelli trova Ardau. Ma non è solo. Ci sono anche trepoliziotti. Li guida il commissario della squadra politica,Luigi Calabresi.

«Ah, bene, sei qui anche tu», dice Calabresi a Pinelli, «vieniin questura, puoi seguirci con il tuo motorino». Ardau vienefatto salire sulla macchina della polizia. Durante il percorsoCalabresi dice ad Ardau: «C’è una sicura matrice anarchicanegli attentati». Poi chiede notizie di «quel pazzo criminale diValpreda». E aggiunge: «Voi due siete due bravi ragazzi, madovete riconoscere che tipi loschi come quel pazzo di Valpredacon il suo codazzo di ragazzini, con la loro esaltazione crimi-nale ci costringono a prendere seri provvedimenti che si ritor-cono anche contro di voi, perché ora non possiamo più tolle-rare ciò che in passato abbiamo fin troppo tollerato. Doveterendervi conto che ci sono stati quattordici morti e non veni-temi a raccontare, tu o altri, che sono stati i fascisti. Questa èroba da anarchici, non c’è ombra di dubbio. E voi dovete aiu-tarci a trovarli e fermarli prima che possano uccidere ancora».Questo è quanto Ardau ricorda di quel colloquio. Intanto Pi-nelli li segue. È il suo penultimo viaggio. Quello definitivosarà da una finestra del quarto piano della questura di Milanoin via Fatebenefratelli.

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È LUI! È LUI!

Piazza Duomo è piena di gente. Anche i sindacati hannodeciso la mobilitazione. Migliaia di milanesi sono assiepatisul sagrato. Il Duomo è stracolmo. Lì si svolgono i funeralidelle quattordici vittime. Officiante l’arcivescovo di Milano,cardinale Giovanni Colombo. In rappresentanza dello Statoc’è il presidente del consiglio, Mariano Rumor, per la città ilsindaco, Aldo Aniasi. Ma la mattina del 15 dicembre nonc’è in piazza del Duomo una persona importante in questa vi-cenda. Non solo importante, ma essenziale: l’involontarioprotagonista, Pietro Valpreda.

Valpreda è un anarchico di 36 anni, milanese, che da gio-vane abitava in via Civitale, quartiere San Siro, a poche cen-tinaia di metri dalla casa dove Pinelli va a vivere dopo essersisposato con Licia Rognini. Una vita da ragazzo di periferia,quella di Valpreda. Con un paio di precedenti penali: nel

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1956 viene condannato a quattro anni di carcere dalla Corted’assise di Milano per rapina a mano armata commessa con-tro una coppia in macchina. La seconda condanna è del 1958per contrabbando. Poi comincia ad appassionarsi di questionipolitiche e sociali. E mentre studia danza moderna si dedicaalla lettura dei classici del pensiero anarchico: Michail Baku-nin, Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta. Balla per alcune com-pagnie di rivista, ha qualche ingaggio alla televisione. Giral’Italia al seguito dei corpi di danza nei quali è scritturato.Nei primi anni Sessanta è stato operato per disturbi di circo-lazione: porta ancora sulle gambe i segni dell’intervento chelo ha guarito. La sua militanza nei gruppi milanesi è forzata-mente saltuaria. Ma quando è a Milano va quasi sempre atrovare gli anarchici del Circolo Sacco e Vanzetti, in vialeMurillo 1, vicino a piazzale Brescia, e poi, dal maggio 1968,del Circolo Ponte della Ghisolfa, la nuova sede degli anar-chici milanesi. Valpreda è un tipo dalla statura media, agile,dalla battuta ironica sempre pronta lanciata con accento tipi-camente milanese e con la erre un po’ arrotata. Nei primimesi del 1969 si trasferisce a Roma. Comincia a frequentareil Circolo Bakunin, formato da gruppi aderenti alla FAI (Fe-derazione anarchica italiana). Poi, in disaccordo, se ne staccae con altri (Mario Merlino, Roberto Mander, Emilio Bor-ghese, Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola) fonda il Circolo22 marzo in via del Governo vecchio 22. E visto che le scrit-ture teatrali si sono molto diradate (è praticamente disoccu-pato) apre con Ivo Della Savia (a cui subentra Giorgio Spanòquando Della Savia, a metà ottobre, va all’estero) un negozioartigiano in via del Boschetto, dove fabbrica lampade liberty,gioielli e collanine. Tra i materiali utilizzati vi sono anchemolti vetrini colorati. Uno simile a questi comparirà poi, inmodo strano, nella borsa che conteneva la bomba alla Bancacommerciale.

Valpreda è a Milano dalle sette del 12 dicembre. È partitola sera prima da Roma, perché convocato dal giudice Anto-nio Amati. Il 15 dicembre Valpreda, accompagnato dallanonna Olimpia Torri, alle otto va in via San Barnaba 39 dovec’è lo studio di Luigi Mariani, il suo avvocato. Deve presen-tarsi ad Amati, il giudice istruttore che si occupa degli atten-

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tati del 25 aprile alla Fiera campionaria e alla stazione Cen-trale di Milano. Amati si considera un esperto di anarchici edi attentati: poco dopo l’esplosione di piazza Fontana sa giàche è una bomba e che a metterla non possono essere statiche degli anarchici. È quanto dice al telefono parlando con iresponsabili della questura milanese.

Valpreda, con Mariani e Luca Boneschi, altro suo avvo-cato, va dunque al Palazzo di giustizia. Lì i due avvocati siseparano da Valpreda. Appuntamento a dopo l’interrogato-rio. Valpreda lascia la nonna ad aspettarlo e bussa alla portadello studio di Amati. Sono le 10,35. Entra e viene accoltodal giudice con un’esclamazione: «Ah, è qua lei?». «Sì, nonsono potuto venire prima perché ero a Roma, sa, io sono unballerino-attore e mi sposto per motivi di lavoro», rispondeValpreda. Ma il giudice Amati lo interrompe con una serie didomande: «Ma chi siete voi anarchici? Cosa volete? Perchéamate tanto il sangue?». Questo dialogo (reale o inventato?)si svolge nello studio del giudice, ma c’è qualcuno che losente e che lo riporterà sul «Corriere della Sera» del giornosuccessivo.

È Giorgio Zicari, un giornalista molto particolare. Nel1969 è un informatore dei servizi segreti, ma più che infor-matore è uno che viene informato e a cui i servizi fanno arri-vare notizie o, meglio, veline riservate. Il suo ruolo verrà poidefinitivamente reso pubblico il 20 giugno 1974 da GiulioAndreotti, all’epoca ministro della Difesa, in un’intervista aMassimo Caprara, giornalista ed ex segretario del leader delPCI Palmiro Togliatti, pubblicata sul settimanale «il Mondo».Andreotti rivela che Zicari «era un informatore gratuito delSID» e che poi «è passato alle dipendenze della direzione af-fari riservati della pubblica sicurezza». Una carriera, quella diZicari, che anni dopo lo rivedrà giornalista nel gruppo Monticome direttore responsabile del «Corriere di Pordenone».

Zicari è dunque al posto giusto nel momento giusto. E losarà per molte volte ancora, sollevando le proteste dei gior-nalisti delle altre testate: soltanto lui ha accesso alle notizieriservate di questura e tribunale.

Dal suo osservatorio privilegiato Zicari vede uscire Val-preda, alle 11,30, finito l’interrogatorio con Amati. Vede che

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due poliziotti lo prelevano a forza prendendolo sotto le ascellee dopo averlo ammanettato, in una saletta del tribunale, lo ac-compagnano in questura. La nonna Olimpia non riesce nep-pure a comprendere che cosa stia succedendo. Chiama il «suoPietro», ma i poliziotti si allontanano rapidamente. In via Fa-tebenefratelli, Valpreda, dopo un breve interrogatorio, vienelasciato ad attendere in una stanza. Poi, colpo di scena: tra-sferimento a Roma alla questura di via San Vitale. Tre poli-ziotti, l’autista e Valpreda partono per la capitale. Ad atten-derli ci sono Umberto Improta, commissario della squadrapolitica che anni dopo diventerà questore di Milano, AlfonsoNoce, altro funzionario della politica, e i brigadieri di poliziaRemo Marcelli e Vincenzo Santilli. Alle 3,30 del mattino del16 dicembre viene redatto il primo verbale ufficiale. Primaperò, tra le due e le tre, Valpreda deve accompagnare i poli-ziotti in un campo di fianco alla via Tiburtina. Per cercare,senza risultato, un deposito di esplosivi. Ecco che cosa vienemesso a verbale. Valpreda: «Ricordo che Ivo Della Savia,prima di partire da Roma l’ultima volta, passando per la viaTiburtina all’altezza della Siderurgica romana e della dittaDecama, a circa due o trecento metri dal Silver cine, mi in-dicò [...] un tratto di boscaglia, dicendomi: ‘Non molto lon-tano dalla strada, ai piedi di una pianta non molto alta, tengodella roba conservata’». E aggiunge: «Non mi precisò di checosa si trattasse. Comunque con la parola roba, noialtri in-tendiamo far riferimento a esplosivi, detonatori e micce».

Perché Valpreda fa questa ammissione? Semplice: Mer-lino è stato il primo del gruppo 22 marzo a venire interrogatodalla polizia romana. Non perché sospettato, ma come testi-mone. È il 13 dicembre, ore 13,45, Merlino fa verbalizzare:«In merito agli attentati [...] sono in grado di riferire che imiei amici Emilio Borghese, Roberto Mander e GiorgioSpanò, in occasione di incontri che hanno avuto separata-mente con me, mi hanno parlato dell’esistenza in Roma di unloro deposito di armi e materiale esplodente. [...] Spanò,circa un mese e mezzo fa, nella sede del Circolo Bakunin divia Baccina, parlando di attentati in genere, mi disse di essereal corrente di alcuni fatti e particolari riguardanti gli attentativerificatisi a Roma».

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Merlino, che solo più tardi verrà incriminato con Valpredae gli altri anarchici del Circolo 22 marzo, quando viene in-terrogato, sempre come testimone, rilascia altre dichiarazioniche devono incastrare i suoi compagni. E fa verbalizzare:«Roberto Mander, il 28 novembre, in occasione del radunonazionale dei metalmeccanici, in piazza Santa Maria Mag-giore, verso le ore dieci, mentre era in atto il concentramentodegli studenti che poi parteciparono al corteo degli operai, midisse che aveva bisogno di esplosivo perché la situazionepolitica stava precipitando e quindi era necessario agire.Inoltre il 10 o l’11 corrente, in via Cavour, verso le 20, Ro-berto, avendogli io riferito alcune cose che mi erano statedette da Emilio Borghese, mi disse che loro effettivamentetenevano un deposito sulla via Casilina». Un deposito itine-rante, dunque, che si sposta dalla Tiburtina alla Casilina.Frutto forse più di millanteria esaltata che di attività dinami-tarda. Continua Merlino: «Emilio Borghese una o due sereprima dell’incontro con Mander [...] nella sede del Circoloanarchico 22 marzo, mi disse che sulla via Casilina avevaun deposito di esplosivo, detonatori e armi: al riguardo miprecisò di avere [...] un forte quantitativo di detonatori eminor quantità di esplosivo [...] ricordo che soggiunse puredi essere andato al deposito qualche giorno prima in compa-gnia di Roberto Mander e Pietro Valpreda. Di essere andatocon la macchina di Valpreda e di aver prelevato o di averdepositato [...] un certo quantitativo di esplosivo».

Prima contraddizione: se Mander aveva libero accesso alfamoso deposito, perché aveva bisogno di esplosivo? E per-ché si rivolgeva a Merlino? Mistero. Un mistero che lo stessoMander, studente liceale di 17 anni, figlio di un direttored’orchestra sinfonica, provvede a dissipare in un interroga-torio del 15 dicembre con la polizia: «Il giorno dello scioperodei metalmeccanici, il 28 novembre, con Merlino esaminail’opportunità che scoppiasse un ordigno esplosivo per creareincidenti; cioè discutemmo se ai metalmeccanici poteva farecomodo che si verificassero scontri con la polizia. La setti-mana successiva il Merlino mi chiese se era vero che io eValpreda tenevamo un deposito di esplosivo sulla via Casi-lina. Pregai il Merlino di informarsi bene da dove proveni-

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vano quelle voci. Nell’occasione gli chiesi se aveva la pos-sibilità di procurare dell’esplosivo al fine di compiere qual-che atto dimostrativo. Nei giorni scorsi ho fatto analoga ri-chiesta di esplosivo a Borghese, il quale mi aveva detto chenon aveva niente per le mani». Dichiara ancora Mander:«Debbo precisare che quando mi recai sulla Tiburtina ovemi venne indicato il deposito di materiale, mi sembra miccee detonatori, mi trovavo in compagnia di Ivo Della Savia».Quindi niente esplosivo.

Mander aggiunge un’altra dichiarazione: «Ritengo che Val-preda sia più esperto di me nell’uso dell’esplosivo per il fattoche ha militato per molti anni nelle associazioni anarchiche eanche perché è rimasto implicato negli attentati alla Fiera diMilano e credo anche in altri attentati». I militanti del Circolo22 marzo cominciano ad accusarsi reciprocamente e Merlinoinsiste: «Posso aggiungere che, oggi in questura, avendo dettoche il commissario mi aveva contestato l’esistenza di esplo-sivo degli anarchici sulla via Casilina, il Mander mi ha ri-sposto: ‘Sanno pure questo?’. [...] Il Borghese mi disse ancheche aveva modo di rimediare altro esplosivo ma non capiidove lo teneva».

Chi invece non si lascia coinvolgere nel gioco che sta or-chestrando la polizia è Roberto Gargamelli, 20 anni, figlio diun funzionario della Banca nazionale del lavoro, che alle cin-que del mattino del 15 dicembre fa mettere a verbale: «Du-rante gli incontri con il Valpreda, sia da solo sia in compa-gnia degli altri compagni, non ho mai sentito parlare diesplosivi, intendo dire che non ho mai sentito che da partedel Valpreda, del Mander o del Borghese sia stata fatta ri-chiesta di procurare materiale esplosivo, né ho sentito maiparlare dell’esistenza di un deposito o di un magazzino postosulla via Casilina o sulla via Tiburtina, nel quale il Mander oil Borghese tenessero depositato detto materiale».

Ma chi è Merlino, che con tanta determinazione vuole get-tare sospetti sui suoi compagni? Laureato in filosofia, 25anni, figlio di un funzionario del Vaticano, ramo Congrega-zione per l’evangelizzazione dei popoli, Merlino nel 1962,quando ha 18 anni, inizia la sua militanza nei gruppi diestrema destra, soprattutto in Avanguardia nazionale guidata

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da Stefano Delle Chiaie. Stringe rapporti anche con PinoRauti (il fondatore di Ordine nuovo, poi leader del Movi-mento sociale-Fiamma tricolore, «defenestrato» dal partitonel 2004) e con il deputato missino Giulio Caradonna.Quest’ultimo, esponente dell’ala dura del fascismo italiano,guida gli attivisti della Giovane Italia, circa duecento e traquesti Merlino, negli scontri del 17 marzo 1968 contro glistudenti dell’estrema sinistra che occupano la facoltà di let-tere dell’università La Sapienza di Roma.

Nell’aprile dello stesso anno Merlino partecipa al viaggioin Grecia promosso dall’ESESI, la lega degli studenti grecifascisti in Italia, e organizzato da Rauti e Delle Chiaie. Rien-trato in Italia, Merlino ha una conversione politica. Comin-cia a vestirsi secondo gli schemi della sinistra più radicale, silascia crescere barba e baffi, inizia a frequentare gruppi dellasinistra extraparlamentare, fonda il Circolo XXII marzo, pro-genitore, in un certo senso, del futuro Circolo 22 marzo.Diffonde volantini che inneggiano alla rivolta studentesca diParigi, partecipa con una bandiera nera su cui campeggia lascritta «XXII marzo» a una manifestazione davanti all’am-basciata francese. Nel settembre 1969 approda al CircoloBakunin di via Baccina. Qui non fa mistero del suo passatoe dichiara di essere ormai un ex camerata e di nutrire simpa-tie per l’anarchia. All’interno del Circolo Bakunin si lega aimilitanti più insofferenti verso la linea politica del circolo econ questi, alla fine di ottobre, dà vita al Circolo 22 marzo.

Merlino resta ancora oggi una figura difficilmente defini-bile. Valpreda, anche dopo il loro arresto e la carcerazione,continuerà a difenderlo sostenendo che anche un fascista puòcambiare idea e che il clima creatosi con la contestazioneaveva rotto molte certezze anche fra i militanti della destraestrema. Resta il fatto però che i collegamenti con i cameratie soprattutto con Delle Chiaie non si interrompono con lasua dichiarata conversione all’anarchia. Anzi, quando verràmesso alle strette dalla polizia, cioè quando la sua posizionepasserà da quella di testimone-informatore a quella di inqui-sito, Merlino come alibi per il pomeriggio del 12 dicembrepuò contare soltanto su una persona: Stefano Delle Chiaie.Che verrà perfino incriminato per falsa testimonianza. Tanto

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che Merlino nel gennaio 1981 in un’intervista al settimanale«L’Europeo» riconosce questo suo debito di gratitudine versoDelle Chiaie: «Ha detto la verità e continua a dirla ancheadesso a distanza di undici anni. [...] Ma le ragioni della miastima non sono tutte qui. A proposito della strage di Bolo-gna, per esempio, è stato l’unico ad avere il coraggio di direcerte cose, a prendersi le proprie responsabilità di fronte alterrorismo, rosso o nero che sia. A differenza di certi perso-naggi, come Rauti e Almirante, che si sono lanciati in cento-mila distinguo, quando non sono corsi in questura a conse-gnare gli elenchi degli aderenti a Terza posizione».

Se Valpreda nei confronti di Merlino tiene un atteggia-mento di solidarietà, nutre però molti sospetti su qualcunoche non riesce a identificare: «Tra noi c’era una spia. [...] Lapolizia sapeva tutto dei nostri spostamenti, dei discorsi che sifacevano al circolo», aveva scritto il 27 novembre 1969 alsuo avvocato, Boneschi. La sensazione è esatta, ma Valpredanon sa ancora chi è la spia che diligentemente informa la po-lizia di tutto quanto facevano i giovani anarchici del Circolo22 marzo.

Chi è questo personaggio? È il «compagno Andrea», conquesto nome lo conoscono gli anarchici di via Governo vec-chio, ma in realtà si chiama Salvatore Ippolito, ed è l’agentedi pubblica sicurezza incaricato di infiltrarsi tra gli anarchiciromani. Due persone, Merlino e Ippolito, controllavanoquindi quel piccolo gruppo. Il primo informava Delle Chiaie,il secondo il suo superiore della questura, il commissario Do-menico Spinella. C’era poi un terzo, Stefano Serpieri, fre-quentatore saltuario del circolo e informatore del SID.

Ma la carta vincente per la polizia non è tra questi perso-naggi. C’è il «superteste» Cornelio Rolandi, tassista a Milano.Rolandi si è presentato ai carabinieri e poi alla polizia per fareun’importante dichiarazione: ha trasportato l’uomo che hamesso la bomba in piazza Fontana. Viene trasferito a Roma,dove arriva alle ore 17 del 16 dicembre. Si organizza un con-fronto. Valpreda è tra quattro poliziotti (Vincenzo Graziano,Marcello Pucci, Antonino Serrao e Giuseppe Rizzitello). Sonopresenti anche il pubblico ministero romano Vittorio Occorsio(il 10 luglio 1976 verrà ucciso da un commando di Ordine

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nuovo composto da Pierluigi Concutelli e Gianfranco Ferro)e Guido Calvi, avvocato difensore di Valpreda. Prima del con-fronto Rolandi dichiara: «L’uomo di cui ho parlato è alto metri1,70-1,75, età circa 40 anni, corporatura regolare, capelliscuri, occhi scuri, senza baffi e senza barba. Mi è stata mo-strata dai carabinieri di Milano una fotografia che mi si è dettodoveva essere la persona che io dovevo riconoscere. Mi sonostate mostrate anche altre foto di altre persone. Non sono maistato chiamato allo stesso esperimento». Poi Rolandi indicaValpreda. Questi gli chiede di guardarlo meglio, ma Rolandireplica: «È lui. E se non è lui qui non c’è».

Con questa testimonianza, che verrà poi smontata nellasua assurdità, viene creato il «mostro». I giornali possonocantare vittoria: «La macchina del terrore è ormai saltata».

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VI

NON L’ABBIAMO UCCISO NOI

L’interrogatorio è arrivato a una fase cruciale oppure sisvolge secondo la consueta routine? È concitato o disteso?L’alibi del fermato è caduto oppure regge? C’è calma inquella stanza o c’è violenza? La finestra è chiusa, socchiusao spalancata? A queste domande non è possibile dare rispo-ste certe, perché i testimoni si sono contraddetti più volte.Tra loro e con se stessi. Le ultime ore di vita di Giuseppe Pi-nelli sono infatti racchiuse nei racconti dei poliziotti che lointerrogavano. Di coloro che gran parte dell’opinione pub-blica ha indicato come i responsabili della sua morte. La ve-rità è sepolta con Pinelli nel cimitero di Musocco a Milano epoi dal 1981 in quello di Carrara.

Il commissario Luigi Calabresi e i suoi poliziotti Vito Pa-nessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli eil tenente dei carabinieri Savino Lograno quella notte al

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quarto piano della questura interrogavano Pinelli. Poi il fer-roviere anarchico è volato dalla finestra.

È la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell’«Unità»,Aldo Palumbo, ha lasciato la sala stampa della questura. Ènel cortile quando sente un tonfo seguito da altri due. Qual-cosa che sbatte contro i cornicioni dei vari piani. Accorre,vede un uomo per terra nell’aiuola. Corre a chiamare agentie colleghi. È mezzanotte? Manca ancora qualche minuto? Ègià iniziato il 16 dicembre? Altro quesito irrisolto. L’oraesatta della caduta di Pinelli diventerà un altro tormentone inquesta storia tormentata. Dalla questura è partita una richie-sta di ambulanza prima che Pinelli cadesse o dopo? Mistero.Che pretende di risolvere Gerardo D’Ambrosio con la suafamosa sentenza del «malore attivo», che manda tutti assolti,ma riabilita pienamente Pinelli. Scrive D’ambrosio: «Pinelliaccende la sigaretta che gli offre Mainardi. L’aria dellastanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicinaalla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, una im-provvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, ilcorpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». Tutto qui.

D’Ambrosio non tiene in considerazione le enormi con-traddizioni in cui sono caduti i poliziotti. Secondo loro Pi-nelli si è gettato dalla finestra gridando: «È la fine dell’anar-chia». I poliziotti accorrono per fermarlo, scossi dal suogrido. Panessa afferma di essere riuscito ad afferrare Pinelli,rimanendo con una scarpa in mano. Ma i giornalisti accorsivicino al moribondo lo vedono con tutte e due le scarpe aipiedi. E poi c’è il fatto che Pinelli non presenti ferite sullemani e sulle braccia: in caso di caduta vengono istintiva-mente portate a difesa della testa. Mancano lesioni (perdite disangue dal naso, dalla bocca) che si registrano in questi casi.Tutte contraddizioni che per il giudice D’Ambrosio nonhanno rilevanza.

Inoltre D’Ambrosio stigmatizza solo a parole il compor-tamento degli inquirenti. Ecco un riepilogo dei fatti. Pinelliviene fermato al Circolo Scaldasole con Sergio Ardau alle 19del 12 dicembre. Segue i poliziotti in questura con il suo mo-torino. A mezzanotte viene interrogato per la prima volta.Gli chiedono notizie su quel «pazzo di Valpreda». Sabato 13

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Ardau viene trasferito nel carcere di San Vittore, mentre Pi-nelli resta all’ufficio politico. La mattina di domenica 14 unagente telefona alla moglie di Pinelli: «Signora, dica alle fer-rovie che suo marito è malato e non andrà a lavorare». Il tonoè amichevole: inutile creare complicazioni sul lavoro. Alle9,30 di lunedì 15 l’anarchico riceve la visita della madre,Rosa Malacarne, che lo trova tranquillo, sorridente e sereno.Verso le 14,30 la moglie Licia riceve una telefonata dall’uf-ficio politico: «Signora telefoni alle ferrovie e dica che suomarito è fermato in attesa di accertamenti. Ha capito? Devedire che è fermato». Niente più fair play: Pinelli deve capireche rischia il posto di lavoro. Alle 22 un’altra telefonata, que-sta volta è lo stesso Calabresi: «Signora cerchi il libretto chi-lometrico di suo marito». Cioè il documento personale diogni ferroviere dove vengono annotati i viaggi. Dopo dieciminuti Licia Pinelli telefona in questura: ha trovato il libretto.Alle 23 arriva un agente a ritirarlo. Calabresi sta giocandoun’altra carta contro Pinelli: gli fa nuovamente balenare lapossibilità di coinvolgerlo come uno dei responsabili degliattentati sui treni nella notte tra l’8 e il 9 agosto (aveva cer-cato di farlo tempo addietro anche Allegra). L’ultimo inter-rogatorio di Pinelli si svolge nella stanza di Calabresi, chesostiene di essere uscito poco prima di mezzanotte per infor-mare dell’andamento dei colloqui i suoi superiori. Pinellivola dalla finestra. Poco dopo l’una del 16 dicembre alcunigiornalisti bussano alla porta di casa dei Pinelli, la moglieviene informata che suo marito è caduto dalla finestra. Lei te-lefona a Calabresi: «Perché non mi avete avvertito?». Ri-sposta del commissario: «Non avevamo il tempo, abbiamomolte altre cose da fare...».

Nel frattempo Pinelli è stato trasportato al pronto soccorsodell’ospedale Fatebenefratelli. Lì è arrivata la giornalista Ca-milla Cederna con i colleghi Corrado Stajano e GiampaoloPansa. Cederna riesce a parlare con il medico di turno, Naz-zareno Fiorenzano: «Niente più attività cardiaca apprezza-bile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie ditagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente dafare, durerà poco». Fiorenzano verrà interrogato dal sosti-tuto procuratore Giuseppe Caizzi soltanto quattro mesi dopo:

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il 7 aprile 1970. Caizzi chiuderà l’inchiesta sulla morte diPinelli il 21 maggio 1970. Risultato? Nessun responsabile,Pinelli è morto per «un fatto del tutto accidentale». Trasmetteil fascicolo al capo dei giudici istruttori, Antonio Amati, chedeposita il decreto di archiviazione il 3 luglio. Poi il 17 lu-glio, a tribunale praticamente chiuso per ferie, Caizzi depo-sita un’altra richiesta di archiviazione: quella relativa alladenuncia della moglie e della madre di Pinelli contro il que-store Marcello Guida.

Perché questa denuncia? Bisogna tornare alla famosanotte tra il 15 e il 16 dicembre. Ufficio del questore Guida(nel 1942 era direttore del confino di Ventotene), con lui cisono Allegra, Calabresi e Lograno. Sono le prime ore del 16dicembre. Vengono fatti entrare i giornalisti e Guida di-chiara: «Era fortemente indiziato di concorso in strage... eraun anarchico individualista... il suo alibi era crollato... nonposso dire altro... si è visto perduto... è stato un gesto dispe-rato... una specie di autoaccusa, insomma». «Il suo era unfermo prorogato dall’autorità». Queste le frasi che Cedernaregistra sul suo taccuino. La parola passa ad Allegra: negliultimi tempi il suo giudizio su Pinelli era cambiato, perchécerte notizie avevano messo l’anarchico in una luce diversa,poteva essere implicato in una storia come quella di piazzaFontana, annota Renata Bottarelli cronista di «l’Unità».Sempre Bottarelli registra l’intervento di Calabresi: «Innanzitutto ci disse che al momento della caduta lui era da un’altraparte; era appena uscito per andare nell’ufficio di Allegra perinformarlo del decisivo passo avanti fatto, a suo parere, du-rante le contestazioni. Gli aveva, infatti, contestato i suoi rap-porti con una terza persona, che non poteva ovviamente no-minare, lasciandogli credere di sapere molto di più di quantonon sapesse; aveva visto Pinelli trasalire, turbarsi. Aveva so-speso l’interrogatorio, che però non era un vero e proprio in-terrogatorio, per riferire ad Allegra questo trasalimento».

Calabresi cambierà poi versione dei fatti. Guida invece lastessa mattina del 16 dicembre farà una dichiarazione a dirpoco sconcertante: «Vi giuro che non l’abbiamo ucciso noi!Quel poveretto ha agito coerentemente con le proprie idee.Quando si è accorto che lo Stato, che lui combatte, lo stava

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per incastrare ha agito come avrei agito io stesso se fossi unanarchico». Ma va ricordato che l’alibi di Pinelli non era af-fatto caduto: Mario Pozzi, interrogato, aveva confermato chequel pomeriggio del 12 dicembre Pinelli aveva giocato acarte con lui. E Pinelli sorridendo lo aveva ringraziato.

Calabresi quasi un mese dopo, l’8 gennaio 1970, dichiaraai giornalisti: «Fummo sorpresi del gesto, proprio perché nonritenevamo che la sua posizione fosse grave. Pinelli per noicontinuava a essere una brava persona, probabilmente ilgiorno dopo sarebbe tornato a casa [...] posso dire anche cheper noi non era un teste chiave, ma soltanto una persona daascoltare». Una persona da ascoltare che però veniva tratte-nuta illegalmente: il fermo di polizia era scaduto dalla seradel 14 dicembre e il magistrato incaricato delle indagini, ilsostituto procuratore Ugo Paolillo, non sapeva nulla di que-sto fermato. Così come non sapeva niente del trasferimentoa Roma di Valpreda. Paolillo infatti era già stato espropriatodella sua inchiesta. Tutto veniva ormai deciso nella questuradi Milano e nel tribunale di Roma.

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VII

È MORTO UN CANE

«Hanno buttato Pinelli da una finestra della questura. Ve-diamoci tutti in via Fatebenefratelli. Facciamoci arrestare. De-vono buttarci tutti dalla finestra per farci tacere», dice con tonoaddolorato e al tempo stesso concitato Amedeo Bertolo te-lefonandomi (cioè all’autore di questo libro). Sono da pocopassate le sette del 16 dicembre. Scatta la catena telefonica.Tutti sono avvisati. Sono scosso, ma mi vesto rapidamente edesco dopo pochi minuti da casa. Mi avvio a piedi verso la que-stura. Abito nella zona di porta Venezia, così attraverso i Giar-dini pubblici, arrivo in piazza Cavour e a passi svelti raggiungovia Fatebenefratelli. Davanti alla questura non c’è ancora alcunanarchico. Aspetto. I minuti passano lentamente. Nessuno. Poimi accorgo che alcune persone, quasi sicuramente poliziotti inborghese, cominciano a osservarmi con insistenza. Cerco didarmi un’aria tranquilla, anche se non è facile. Aspetto.

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Dopo quasi mezz’ora, ma mi sono sembrate ore, vedo ar-rivare Enrico Maltini, anche lui del Circolo Ponte della Ghi-solfa. Continuiamo ad aspettare gli altri per entrare tutti in-sieme e consegnarci ai poliziotti: l’obiettivo è creare un casopolitico. Ma non arriva proprio nessuno. Cominciamo a sen-tirci a disagio. I poliziotti ci hanno praticamente circondati.«Andiamo a telefonare», dice Maltini. Chiama Bertolo, ri-sponde sua moglie, Antonella, che quasi grida: «Lo hannoarrestato sulle scale di casa». Inizia un giro di telefonate aglialtri. Il risultato è sempre lo stesso: arrestati. A quel puntoMaltini e io ci rendiamo conto di essere praticamente gliunici del Ponte della Ghisolfa ancora in libertà. Breve con-sultazione sul da farsi. Maltini, che è anche membro dellaCroce nera anarchica, propone: «Andiamo da Boneschi».

Quando arriviamo nello studio di Luca Boneschi, uno deidifensori degli anarchici, troviamo l’avvocato seduto alla suascrivania. È uno studio moderno con mobili laccati di bianco,ma il volto di Boneschi è ancora più bianco. Solo gli occhicerchiati di nero danno segni di vita. Ci vede e non riesce atrattenere un moto di stupore: «Ma come... siete ancora li-beri? Scappate subito... qui vi ammazzano tutti».

L’avvocato però si sbaglia. Nelle prime ore del pomerig-gio quasi tutti i fermati vengono rilasciati. Mentre era tratte-nuto al commissariato San Siro, quello del suo quartiere,Bertolo sente un graduato di polizia gridare allegramente:«È morto un cane. Un cane di meno», riferendosi a Pinelli.Anche per gli altri fermati il trattamento non è dei migliori:controllo degli alibi, minacce e intimidazioni. Ma alla finetutti fuori. Così scatta un altro tam tam telefonico e gli anar-chici si ritrovano in Conca del Naviglio, vicino al Circolo divia Scaldasole. Decidono che come prima mossa devono al-meno fare un comunicato stampa. Bertolo si siede su unapanchina, scrive un breve testo che termina con una sfida:«Per ogni anarchico che cade, dieci prenderanno il suo posto.No pasaran» (è lo slogan degli antifascisti spagnoli durantela guerra civile contro i generali golpisti). In quel momentoarriva un altro anarchico: «Gli studenti sono in assembleaalla Statale per decidere quale risposta dare all’uccisione diPinelli». Mentre uno si incarica di portare il comunicato

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all’ANSA (verrà ignorato da tutta la stampa), gli altri deci-dono di andare alla Statale. Ma arrivati all’università c’è unasorpresa: gli studenti sono sì in assemblea, ma per discuterei piani di studio. Altro che repressione o morte di Pinelli.Agli sbalorditi anarchici uno dei leader del Movimento stu-dentesco, Andrea Banfi, spiega che l’assemblea sta per fi-nire e quindi, se vogliono, poi potranno intervenire.

Così dopo quasi un’ora prendo la parola. Leggo il comu-nicato e insisto sulla gravità del momento: si vuole dare unasterzata reazionaria per stroncare il movimento sindacale piùradicale e la sinistra rivoluzionaria. Subito Banfi, SalvatoreToscano, Popi Saracino, tre capi del Movimento studente-sco, intervengono per minimizzare una situazione oggetti-vamente drammatica. Qualche tempo dopo rivendicherannodi essere stati i primi ad accorgersi del «pericolo fascista».

Il giorno dopo, 17 dicembre, gli anarchici del Ponte dellaGhisolfa tengono nella loro sede una conferenza stampa. Ar-rivano pochi giornalisti, tra questi Enzo Passanisi del «Cor-riere della Sera» e Pier Maria Paoletti del «Giorno». Gli anar-chici si difendono attaccando: «Pinelli è stato ucciso,Valpreda è innocente, la strage è di Stato». È proprio durantequella conferenza stampa che viene coniata la locuzione«strage di Stato» che accompagnerà manifestazioni, l’operadi controinformazione e darà il titolo a un libro famoso suifatti di piazza Fontana. Il giorno dopo il «Corriere della Sera»titolerà: Farneticante conferenza-stampa al Circolo Pontedella Ghisolfa. Nessuna recriminazione fra gli anarchici.

L’articolo di Passanisi esemplifica il modo con cui quasitutta la stampa italiana si è occupata della strage di piazzaFontana subito dopo la morte di Pinelli. Scrive Passanisi:«Spaventosa macchinazione poliziesca per salvare il sistema,è la parola d’ordine. Si colpiscono gli anarchici per coprire ifascisti. Valpreda? Non ha mai fatto del male a nessuno,tranne un piccolo peccato di gioventù, rapina a mano armata,roba da ridere». «Pinelli? Dato che non aveva alcun motivoper uccidersi, ad ucciderlo non possono essere stati che i po-liziotti. Direttamente o indirettamente, materialmente o psi-cologicamente. Una macchinazione diabolica, appunto, allaquale i giovani, quantomeno impulsivi estremisti, di piaz-

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zale Lugano oppongono una loro verità, sostenuta con fidei-stica convinzione dalla quale non sono disposti a scostarsidi un’unghia». «La strage e gli attentati contemporanei, fal-liti o no? Un giro grosso, un giro internazionale, fascista ov-viamente». «I ragazzi del circolo, sotto lo choc subìto in que-sti giorni, non si accorgono di spingersi un poco troppo inquesto gioco di controaccuse». «Nesso fra gli attentati del25 aprile, dell’agosto e di venerdì scorso: una continuità lo-gica che ha come rovescio la montatura governativa e poli-ziesca contro gli anarchici. I morti di piazza Fontana sonoda addebitare al ‘fine intuito’ della polizia che incarcera gliinnocenti e lascia in pace i colpevoli, agendo ‘fuori dallalegge’. Colpevoli che sono coperti dal ministero dell’Interno,sul quale sarebbe bene indagare». Passanisi conclude ironiz-zando: «Ma dormiamo sonni tranquilli. Ci sono loro, i gio-vani anarchici, che pensano a salvare l’Italia dal fascismo».

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VIII

LA FURIA DELLA BESTIA UMANA

«La macchina del terrore è saltata, ormai si tratta soltantodi raccoglierne le schegge. La bestia umana che ha fatto iquattordici morti di piazza Fontana e forse anche il morto, ilsuicida di via Fatebenefratelli, è stata presa, è inchiodata: lasua faccia è qui, su questa pagina di giornale, non la dimen-ticheremo mai, la bestia ci ha fatto piangere, ci ha fatto sen-tire fino in fondo l’amarissimo sapore del dolore e della rab-bia. Ora si comincia a respirare, si comincia a tirare lasomma della diabolica avventura. Il massacratore si chiamaPietro Valpreda, ha 37 anni, mai combinato niente nella vita;rottura con la famiglia; soltanto una vecchia zia, che stira ca-micie e spazzola cappotti, gli dà una mano; viene dal giroforsennato del be bop, del rock, un giro dove gli uomini sonoquello che sono e le ragazze pure. S’è dimenato sulle pistedelle balere fuori porta o sotto le strade del centro. È appro-

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dato anche al palcoscenico della rivista musicale, faceva ilboy, uno di quei tipi con le sopracciglia limate e ritoccate amatita grossa che fanno ala, in pantaloni attillatissimi, allasoubrette che scende o precipita da una scala crepitante diluci al neon: che mestiere corto, infelice, di pochi soldi aparte tutto. Di più, questo refoulé si ammala, il sangue nongli circola più normale nelle arterie delle gambe, è il morbodi Burger, una feroce morsa che blocca e che alla lunga puòdare l’embolo e la morte. Un passo dietro l’altro, Pietro Val-preda s’avvia a diventare la bestia». Così comincia l’arti-colo, intitolato La furia della bestia umana, in prima paginadel «Corriere d’informazione» di mercoledì 17 dicembre,firmato da Vittorio Notarnicola, direttore responsabile Gio-vanni Spadolini, che assomma questa carica a quella di nu-mero uno del «Corriere della Sera». Sopra l’articolo cam-peggiano due grandi foto: quelle del tassista CornelioRolandi e di Pietro Valpreda. In alto un titolo a caratteri cu-bitali: Valpreda è perduto.

Formalmente più asettici i giornali del mattino di quellostesso giorno, pur con alcune sfumature, ma ovviamente lalinea è chiara: accettazione senza riserve della colpevolezza diValpreda. «Corriere della Sera»: L’anarchico Valpreda arre-stato per concorso nella strage di Milano. «La Stampa»:Anarchico arrestato per concorso in strage. Inchiesta sul sui-cidio alla questura di Milano. «Il Giorno»: Incolpato distrage. «l’Unità»: Un arresto per la strage. «Avanti!»: Arre-stato per concorso in strage. «Il Resto del Carlino»: Un anar-chico arrestato per la strage. «Il Messaggero»: Arrestati icriminali. «Il Tempo»: L’assassino arrestato: è l’anarchicoPietro Valpreda. «Paese sera»: Denunciato per concorso instrage l’uomo riconosciuto dal tassista. «Il Popolo»: Arre-stato un anarchico per la strage di Milano. «L’Avvenire»:Nella rete i dinamitardi. «Il Secolo d’Italia»: Arrestato un co-munista per la strage di Milano. «Il Mattino»: Catturato ilterrorista che ha compiuto la strage. «Roma»: Il mostro è uncomunista anarchico ballerino di Canzonissima: arrestato.La televisione non è da meno. Al telegiornale della sera del 16dicembre, il giornalista Bruno Vespa, in diretta dalla questuradi Roma, afferma: «Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei

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responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma».Non ci devono essere dubbi.

La partita sembra quindi chiusa: la polizia ha scovato intempi da record i responsabili. Ma la testimonianza del tas-sista Cornelio Rolandi è l’unico puntello su cui si fonda l’ac-cusa. Per di più è al limite del credibile.

Alle ore 16 del 12 dicembre Rolandi è in piazza Beccariacon la sua Seicento multipla. Sale un cliente che gli chiede diaccompagnarlo all’incrocio con via Santa Tecla. Lì gli dicedi aspettarlo. Scende con una borsa nera. Dopo pochi minutiritorna e si fa lasciare in via Albricci. Per chi conosce il cen-tro di Milano la cosa appare pazzesca. Il parcheggio di piazzaBeccaria dista 135 metri dall’ingresso della Banca nazionaledell’agricoltura. Da via Santa Tecla alla banca ci sono 117metri. Quindi Valpreda, per risparmiarsi 135 metri, neavrebbe compiuti tra andata e ritorno al tassì 234. Con in piùil rischio di farsi riconoscere da un tassista insospettito dachi gli chiede una corsa talmente breve. Così Rolandi ha rie-vocato quel pomeriggio: «In piazza Beccaria sul mio tassìsalì quel tipo con la borsetta, che aveva in mano una borsanera. Lo guardai attraverso lo specchietto retrovisore e notaisubito che aveva delle lunghe basette come si usano oggi.Mi disse di accompagnarlo in via Albricci passando per viaSanta Tecla. Era un percorso piuttosto breve, ma in via Al-bricci ci sono molte compagnie aeree e pensai che fosse unviaggiatore in partenza. In via Santa Tecla, come mi avevaordinato il cliente, mi fermai. Gli feci presente che la via Al-bricci non era molto distante, che avrebbe potuto andare apiedi. Mi disse di aspettarlo, che aveva fretta. Scese con laborsa. Ritornò poco dopo: la borsa nera non l’aveva più. Loaccompagnai in via Albricci: lui pagò l’importo della corsa,600 lire, e quindi se ne andò» (Franco Damerini, Intervista aMilano con il teste-chiave, «Corriere d’informazione» del17 dicembre).

A parte il fatto che secondo le tariffe dell’epoca quel viag-gio con la sosta doveva costare poco più della metà di quantodichiarato da Rolandi, c’è una testimonianza che getta ombresu quella ricostruzione. È di Liliano Paolucci, direttore delpatronato scolastico di Milano. Paolucci con la figlia Patrizia

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prende il tassì 3444, quello di Rolandi, la mattina del 15 di-cembre, si accorge che il tassista è strano, sbaglia continua-mente le strade, poi, dopo che la figlia è scesa per andare ascuola, Rolandi si confida con Paolucci. E Paolucci ha regi-strato una sua memoria al magnetofono domenica 21 di-cembre affinché restasse traccia certa di quel suo strano in-contro: «Ecco il racconto, il più fedele possibile, che iltassista mi ha fatto: erano circa le 16 di venerdì 12 dicembre.Mi trovavo in piazza Beccaria quando, dalla galleria delCorso, vidi venire, verso piazza Beccaria, un uomo dall’ap-parente età di quarant’anni. Si avvicinò a me e mi disse:‘Alla Banca dell’agricoltura di piazza Fontana’. Parlava unitaliano perfetto senza inflessioni dialettali. Io gli dissi: ‘Masignore, la Banca dell’agricoltura è qui a due passi, a 50metri. Fa prima a piedi. Egli non disse niente. Aprì lo spor-tello e si introdusse nel tassì, lo vidi bene: portava una vali-gia, una grossa borsa che mi sembrò molto pesante. Par-timmo e arrivammo davanti alla Banca dell’agricoltura,cinque-sei minuti dopo. Egli scese dal tassì, entrò frettolosa-mente nella Banca dell’agricoltura, e uscì ancora frettolosa-mente. Saranno passati 40-50 secondi, un minuto. Entrò dinuovo nel tassì e mi disse...». A questo punto Paolucci in-terviene nel discorso e gli domanda perché quell’uomo ve-niva dalla galleria del Corso. La risposta di Rolandi è esem-plare: «Ma lei non sa che alla galleria del Corso c’è unfamoso covo?». Affermazione che ripete per tre volte.

Ma, fatto ancora più misterioso, Rolandi negherà di avertrasportato Paolucci e di aver parlato con lui. E soprattuttopolizia e magistratura non metteranno mai a confronto Ro-landi e Paolucci per verificare le diverse versioni dei fatti.Ma questa non è l’unica stranezza, come fa rilevare lo stessoPaolucci al giornalista Enzo Magrì che lo intervista per ilsettimanale «L’Europeo» del 9 marzo 1972: «Lunedì mat-tina alle 9,15 io, un cittadino, denuncio un fatto grave. [...]Racconto i fatti per filo e per segno. Ebbene la polizia comereagisce? Non mobilita due gazzelle, non viene subito da me,non mi tiene al telefono. Bisogna ricordare che Cornelio Ro-landi non è ancora andato dai carabinieri di via Moscova,dove si recherà alle 11,35 di quel giorno. Quindi questo Ro-

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landi può essere un pazzo, ma può anche dire la verità. E sedice la verità bisogna cercarlo prima che qualcuno lo possaeliminare. [...] Ebbene a me che in quel momento sonol’unico a conoscere una verità sconvolgente, il telefonistadella questura, mezz’ora dopo la mia chiamata, dice: ‘Sonoil poliziotto che ha preso la sua chiamata. Senta lei, per caso,non ha chiesto al tassista com’era vestito l’uomo che è statoaccompagnato davanti alla Banca nazionale dell’agricol-tura?’».

Ma non ci sono soltanto le contraddizioni rilevate da Pao-lucci. C’è anche un altro testimone. Molto importante. Per-ché sostiene che Valpreda il 12 dicembre era a letto amma-lato. Chi è? La prozia di Valpreda, Rachele Torri, che abita aMilano in via Vincenzo Orsini. La prozia così ricorda quelpomeriggio: «Pietro era a letto con la febbre. Bisognava an-dare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani perandare in ordine dal giudice Amati. Bene ci andai io. Sa-ranno state le 19-19,30 e ricordo che salendo sull’autobus Ein piazza Giovanni dalle Bande nere una signora ha aperto‘La Notte’ e ho visto a grossi caratteri qualcosa di morti; lechiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che eranostate le bombe. Sono scesa in piazza del Duomo e passandoin via Dogana per prendere il tram 13 per andare in piazzaCorvetto dai genitori di Pietro, mi sono fermata all’edicola eho comprato ‘La Notte’. Arrivata da mia nipote le ho dettoche Pietro era arrivato, che stava male, che perciò ero andataio a prendere il cappotto. La sorella di Pietro, la Nena, mi haraccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e lescarpe. Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Pietroche sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho datoil giornale» (intervista a Rachele Torri pubblicata su «A-ri-vista anarchica» del febbraio 1971).

Il giorno dopo, cioè il 13, Valpreda incontra l’avvocatoLuigi Mariani, con lui va dal giudice Amati. Non lo trova,lascia un biglietto per informarlo che sarebbe tornato lunedì15. Poi raggiunge la casa dei nonni, Olimpia Torri in Lo-vati e Paolo Lovati, in viale Molise. E vi resta fino alla mat-tina del famoso 15 dicembre. Lo vanno a trovare la sorellaMaddalena e un’amica d’infanzia, Elena Segre, 33 anni, im-

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piegata come traduttrice, che vive in un palazzotto di vialeLucania, lo stesso dove abitano i genitori di Valpreda. Segrepassa a salutare l’amico Pietro la domenica 14 verso le ore 18.

In un’intervista a Giampaolo Pansa sulla «Stampa» del 18febbraio 1970, afferma: «Pietro era qui dai nonni. Ho suo-nato il campanello e mi hanno aperto. Quel ragazzo era lì, suldivano messo contro la parete di sinistra, indossava un pi-giama forse azzurro, si è alzato dal sofà per venirmi incon-tro...». Pansa la interrompe per ricordarle che è già stata sen-tita da Ernesto Cudillo, giudice istruttore, e Vittorio Occorsio,pubblico ministero, e quindi se mente la possono arrestare.Segre risponde: «Senta, domenica quel ragazzo era qui! Checosa posso farci se l’ho visto? Mi ha salutato, era da moltotempo che non ci vedevamo. Si è seduto sul divano-letto,anch’io mi sono seduta, lui era alla mia destra, di frontec’erano i due nonni. Abbiamo cominciato a parlare [...]». Val-preda ha dunque un alibi per i giorni che vanno dal 12 al 15dicembre. Alibi che contraddicono la sua presenza in piazzaFontana e il suo incredibile tragitto in tassì.

A questo punto la colpevolezza di Valpreda è difficilmentesostenibile. Ma poliziotti e magistrati non si danno certo pervinti. E così dopo poco più di un mese, ai primi del febbraio1970, spuntano alcuni testimoni romani per i quali Valpredaera nella capitale nei giorni 13 e 14 dicembre. Se i familiaridi Valpreda mentono per quei due giorni, allora hanno dettoil falso anche per il 12 dicembre e così si salverebbe la testi-monianza del tassista Rolandi.

Chi sono questi testimoni? Ermanna Ughetto, in arte Er-manna River, Enrico Natali, Gianni Sampieri, ArmandoCaggegi e sua moglie, Benito Bianchi, tutti personaggidell’ambiente dell’avanspettacolo che spesso si esibisconoal teatro Ambra-Jovinelli di Roma. Ma nei confronti giudi-ziari che Valpreda ha poi con alcuni di questi, il 6 marzo, siassiste alla contrapposizione di due ricostruzioni dei fatti. Itesti romani affermano di aver incontrato il 13 o il 14 Val-preda a Roma. Valpreda sostiene che quegli incontri si sonosvolti circa dieci giorni prima. E cioè poco tempo dopo cheValpreda è uscito, il 25 novembre, dal carcere di ReginaCoeli. Valpreda è stato infatti arrestato il 19 dopo una rissa

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con alcuni fascisti nel quartiere Trastevere. Altro particolare:alla visita medica, prima di entrare in carcere, Valpreda pre-senta un’ecchimosi all’occhio sinistro. Livido che non ha piùquando viene fermato il 15 dicembre. Alcuni testimoni ri-cordano quel livido quando sostengono di aver incontratoValpreda dopo la strage di piazza Fontana. È un’altra con-traddizione che non crea dubbi in Cudillo e Occorsio che in-criminano per falsa testimonianza i parenti di Valpreda. Mainspiegabilmente non prendono alcun provvedimento con-tro Segre che sostiene le stesse cose.

E per aumentare i capi d’accusa Beniamino Zagari, dellaquestura di Milano, il 7 febbraio dichiara che nella borsa incui c’era la bomba inesplosa alla Banca commerciale ita-liana, è stato trovato anche un vetrino colorato simile a quelliche Valpreda usava per fabbricare lampade liberty. Un’im-perdonabile distrazione dell’anarchico attentatore. La sco-perta di quella incredibile prova risale, secondo la polizia,alle ore 14 del 14 dicembre. Però fino a febbraio nessuno havisto quel vetrino. Così il difensore di Valpreda, Guido Calvi,può con facilità mettere in dubbio quel «provvidenziale» ri-trovamento.

Per i giudici, Valpreda è arrivato a Milano il 12 dicembrecon la sua Cinquecento. Alle 16 ha preso un tassì per andarea depositare la bomba in piazza Fontana. La mattina del 13va con l’avvocato Mariani dal giudice Amati. Non lo trova elascia un biglietto per informarlo che tornerà il 15 dicembre.Poi parte, sempre con la sua scassatissima Cinquecento, perRoma. Incontra in serata la ballerina Ughetto e va a cena conlei. Domenica 14 gira ancora per i bar vicino all’Ambra-Jo-vinelli, si fa vedere da altri che potranno smentire il suo alibi.Alle ore 21 è ancora a Roma. Alle otto del mattino succes-sivo è già dal suo avvocato milanese. Tecnicamente, forsecon un’altra macchina, è possibile. Ma non si capisce perchéValpreda fornisca un alibi così fasullo, che molti possonosmentire. Neppure si capisce perché i parenti di Valpreda el’amica Segre, con i quali non ha parlato dal momento delsuo arresto, confermino quanto Valpreda ha dichiarato. PerCudillo e Occorsio la verità è un’altra: Valpreda è colpevole.Mente. E mentono i suoi parenti. Soprattutto dice la verità

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Rolandi che così potrà incassare la taglia di 50 milioni delministero dell’Interno. Una verità che il 2 luglio 1970 Cu-dillo e Occorsio provvederanno a registrare in un interroga-torio «a futura memoria», forse prevedendo che Rolandi mo-rirà il 16 luglio 1971.

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IX

QUELLI DELLA GHISOLFA

La morte di Giuseppe Pinelli segna la prima profonda frat-tura nella disorientata opinione pubblica. Il castello di ac-cuse contro Pietro Valpreda e gli altri anarchici del Circolo22 marzo regge ancora. Ma quel volo dal quarto piano dellaquestura di Pinelli, persona conosciuta e stimata nella sinistramilanese, provoca molte perplessità. Le contraddizioni deipoliziotti, le false dichiarazioni del questore Marcello Guida,il fermo illegale non passano inosservati. E quando il 27 di-cembre 1969 la vedova e la madre di Pinelli denunciano equerelano Guida, diversi giornali cominciano a fare marciaindietro su Pinelli colpevole e suicida. «La querela è per dif-famazione continuata e aggravata. La denuncia è per viola-zione del segreto d’ufficio. Il questore Guida avrebbe com-piuto entrambi questi reati subito dopo il suicidio delferroviere, rilasciando ai giornali dichiarazioni ‘che non do-

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veva rilasciare’ e addentrandosi in ‘valutazioni, interpreta-zioni e giudizi’ che le due Pinelli hanno ritenuto diffamatoridella figura del loro parente scomparso», scrive GiampaoloPansa su «La Stampa» del 28 dicembre. E così prosegue:«Parlano i tre giovani penalisti che assistono le due donnenella vicenda: Domenico Contestabile, Marcello Gentili eRenato Palmieri. Le accuse degli avvocati sono articolate intre punti. Intanto, subito dopo la morte del Pinelli, il que-store ha dichiarato ‘in più conferenze stampa’ che tutti glialibi del ferroviere erano caduti. Secondo i tre penalisti sitratta di affermazioni ‘gravi e infondate’ che tuttavia Guidaavrebbe ripetuto più volte. [...] Seconda ‘colpa’ del questore:aver messo subito in relazione le contestazioni mosse a Pi-nelli e ‘l’asserito suicidio’ dicendo a tutti: Pinelli si è uccisoperché era inchiodato dalle domande dei funzionari dell’uf-ficio politico. [...] Terza ‘colpa’ del questore (e la più gravea giudizio dei tre penalisti): aver indicato il Pinelli come col-pevole degli attentati dinamitardi».

Insomma, si domandano in molti: se Pinelli era innocenteperché si è suicidato? Perché tremila persone, nonostante ilclima di intimidazioni poliziesche, hanno seguito i funeralidell’anarchico il 20 dicembre? Domande che incrinano leverità ufficiali di poliziotti e magistrati. Che hanno mentitosu questo uomo nato a Milano nel 1928 nel popolare quar-tiere di Porta Ticinese.

Corporatura robusta, statura media, baffi e pizzetto neri,Pinelli finite le scuole elementari deve andare a lavorare,prima come garzone, poi come magazziniere. Ma l’abban-dono della scuola non lo allontana dai libri: ne leggerà cen-tinaia e centinaia. È un appassionato autodidatta. Nel 1944 ètra le fila della resistenza a Milano. Staffetta della BrigataFranco collabora con un gruppo di partigiani anarchici. Èl’incontro che segna la sua vita: comincia in quegli anni lasua militanza anarchica.

Nel 1954 vince un concorso ed entra nelle ferrovie comemanovratore. L’anno dopo si sposa: avrà due figlie, Silvia eClaudia.

Arriva il 1963, aria nuova, alcuni giovani creano il gruppoGioventù libertaria. Pinelli è con loro anche se ha già 35 anni

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mentre gli altri sono poco più che ventenni. È il naturalepunto di contatto tra i nuovi arrivati all’anarchismo e i vec-chi militanti scampati al fascismo.

Poi il salto di qualità: nel 1965 è tra i fondatori del CircoloSacco e Vanzetti, di viale Murillo. Da dieci anni gli anarchicimilanesi non avevano una loro sede. Ma nel 1968 arriva losfratto, gli anarchici trovano un’altra sede in piazzale Lu-gano, la chiamano Circolo Ponte della Ghisolfa: a pochimetri c’è l’omonima sopraelevata che sovrasta innumerevolie piccolissimi orti.

Il vento del maggio francese soffia in tutta Europa. E Pi-nelli vive la frenesia di quei giorni. Gli studenti contestanol’autorità, gli operai danno segni di insofferenza verso i sin-dacati tradizionali. È una grande occasione per uno come Pi-nelli che sta cercando di ridare vita all’USI (Unione sinda-cale italiana), il sindacato libertario che negli anni Venti,guidato dall’anarchico Armando Borghi, vedeva tra le suefila anche un giovane che diverrà famoso come segretariodella CGIL, Giuseppe Di Vittorio.

Nascono i primi CUB (Comitati unitari di base), strutturesindacali autonome dalle tre centrali CGIL, CISL e UIL. Il piùcombattivo dei CUB è quello dell’ATM, l’azienda tramviariamilanese. Lo anima un cinquantenne che ha militato nel mo-vimento anarchico nell’immediato dopoguerra. Le affinitàfra il tramviere e il ferroviere Pinelli sono tante. I CUB tro-vano nel Circolo Ponte della Ghisolfa il luogo più adattodove riunirsi (poi il clima creato dalle bombe del 12 dicem-bre e la campagna contro gli anarchici consigliano i militantidei CUB di trovarsi un’altra sede). Pinelli sembra instanca-bile nel creare occasioni di confronto, prendendo contatti congli insofferenti del sindacalismo ufficiale. Viene aperto unaltro circolo, quello di via Scaldasole, dove si riuniscono pre-valentemente gli studenti galvanizzati dalle rivolte pariginedel maggio 1968. La situazione è decisamente effervescente,anche un po’ caotica, ma, contrariamente a quello che scri-veranno poi i giornali, gli anarchici milanesi (e non soloquelli) hanno strutture organizzative precise, fondate su pic-coli gruppi di militanti che si conoscono bene.

A Milano la Gioventù libertaria ha cambiato denomina-

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zione: Bandiera nera. Nel gruppo oltre a Pinelli c’è un altrooperaio: Cesare Vurchio, nato a Canosa di Puglia nel 1931.Con lui Pinelli ha un rapporto più intenso: sono quasi coeta-nei e hanno una famiglia da mandare avanti. Gli altri sonotutti giovani, alcuni ancora studenti.

Ma uno, Amedeo Bertolo, nonostante abbia soltanto 28anni, ha già un’esperienza che nel 1962 lo ha visto protago-nista di un fatto clamoroso: il rapimento del viceconsole spa-gnolo a Milano, Isu Elias. Il primo rapimento politico deldopoguerra.

Perché questo sequestro? Ai primi di settembre del 1962un giovane anarchico spagnolo, Jorge Conill Valls, vienecondannato a morte dal tribunale militare di Barcellona perattività antifranchista. Non c’è tempo da perdere. Bertolo,che aveva conosciuto personalmente Conill un mese prima(durante una «missione» organizzata dalla clandestina Fe-derazione iberica della gioventù libertaria), mette rapida-mente in atto il sequestro, il 29 settembre, con una mezzadozzina di anarchici e socialisti «irrequieti».

Il rapimento riempie le prime pagine dei giornali e innescauna campagna di solidarietà antifranchista e di pressioni sulregime di Francisco Franco a vari livelli (dalle manifesta-zioni di piazza all’intervento «umanitario» del cardinale Gio-vanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI dal 1963 al1978). Dopo tre giorni, quasi contemporaneamente, la con-danna a morte di Conill viene commutata in trent’anni di car-cere e Isu Elias viene liberato. I rapitori vengono ben prestoidentificati e (chi prima, chi dopo) incarcerati. Ultimo Ber-tolo, fuggito in Francia, che si presenta spontaneamente erocambolescamente in tribunale all’apertura del processo.

Il processo, seguito da gran parte della stampa più comeun processo al regime fascista spagnolo che ai giovani anti-franchisti italiani, si tiene a Varese.

Il 21 novembre vengono tutti condannati, ma a pene moltomiti. Per Bertolo (che nell’aprile 1969 sarà tra i fondatoridella Croce nera anarchica, sciolta nel 1973 dopo la libera-zione di Valpreda) la pena è di sei mesi di carcere per il se-questro e venti giorni per il porto abusivo di armi. Nella sen-tenza i giudici, presieduti da Eugenio Zumin, riconoscono

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che gli imputati hanno «agito per motivi di particolare valoremorale e sociale». Sono tutti incensurati e quindi beneficianodella libertà condizionale.

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TUTTO COMINCIA IN APRILE

Festa della liberazione, 25 aprile 1969. Nel padiglionedella FIAT alla Fiera campionaria di Milano scoppia unabomba. Sono quasi le 19. Restano ferite, ma non grave-mente, venti persone. Poco prima delle 21 alla stazione Cen-trale (ufficio cambi della Banca nazionale delle comunica-zioni) c’è un’altra esplosione, pochissimi feriti lievi. Questavolta non ci sono stati morti, ma è soltanto un caso fortu-nato. Le due bombe sono state azionate da un congegno aorologeria. I dati ufficiali del ministero dell’Interno diconoche quelle azioni terroristiche sono state precedute da altri 32attentati. A fine anno le esplosioni o gli incendi saranno 53,sempre secondo il ministero. Ma altre fonti arrivano a con-tarne oltre 140. Perché questa differenza? I dati del ministerosi riferiscono unicamente ad attentati per cui qualcuno è statodenunciato o arrestato. Mancano quelli di autori ignoti.

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Per le bombe del 25 aprile (ricorrenza partigiana, maobiettivi di «sinistra»: il simbolo del capitalismo italiano, laFIAT, e quello della finanza, una banca) c’è in azione un trioche nel corso dell’anno diverrà famoso: il commissario LuigiCalabresi, il suo capo Antonino Allegra e il giudice Anto-nio Amati. I tre imboccano subito la pista anarchica. Fer-mano una quindicina di libertari e ne trattengono quattro:Paolo Braschi, Paolo Faccioli, Giovanni Corradini e sua mo-glie Eliane Vincileone. Mentre i primi due sono giovanis-simi e praticamente sconosciuti nella sinistra milanese, Cor-radini e Vincileone sono personaggi che godono di unadiscreta notorietà, lui è architetto, hanno ampie frequenta-zioni, per di più sono buoni amici dell’editore GiangiacomoFeltrinelli e della sua quarta moglie, Sibilla Melega. Risul-tato: Corradini e Vincileone sono le menti organizzative, imandanti degli attentati. Corradini viene considerato dallapolizia anche un teorico dell’anarchia perché nel 1963 è statodirettore responsabile del mensile «Materialismo e libertà».Un giornale considerato innovativo negli ambienti anarchici,ma che ha vita brevissima: soltanto tre numeri. Ai quattro siaggiungeranno Angelo Piero Della Savia, estradato dallaSvizzera, e Tito Pulsinelli, arrestato a Riccione il 22 agosto.Pulsinelli viene preso con Enrico Rovelli che però è quasisubito rilasciato. Esce dalla scena delle indagini, ma entranella parte di confidente del commissario Calabresi. Il suoruolo verrà definitivamente alla luce durante le indaginisull’attentato compiuto, il 17 maggio 1973, da GianfrancoBertoli davanti alla questura di Milano. Quell’inchiesta, con-dotta da Antonio Lombardi, giudice istruttore di Milano, ap-pura, per stessa ammissione di Rovelli, che questi fornivainformazioni al commissario Calabresi. E dell’ufficio affaririservati con il nome in codice di Anna Bolena. Anni dopo siritrova Rovelli, sempre sulla piazza milanese, come orga-nizzatore di grandi concerti rock e gestore di locali famosicome il Rolling Stones prima e l’Alcatraz poi.

Gli anarchici vengono accusati sia delle bombe del 25aprile (tre giorni dopo il parlamento dovrebbe discutere unaproposta di legge per il disarmo della polizia che ovviamente,dato il clima creatosi, non verrà più presa in considerazione)

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sia di altri 18 attentati minori. Per alcuni di questi ultimi gli ar-restati ammettono la paternità, ma respingono sempre con de-cisione le accuse per gli attentati del 25 aprile. In sede pro-cessuale ritrattano quelle ammissioni dichiarando che sonostate estorte dal commissario Calabresi. Corradini e Vinci-leone il 7 dicembre 1969 vengono scarcerati per mancanzadi indizi. Il loro alibi è stato confermato proprio da Feltrinellie Melega che però vengono incriminati per falsa testimo-nianza. Un’accusa che cadrà solo durante il processo. Questosi apre quasi due anni dopo gli arresti, il 22 aprile 1971. Il 28maggio gli imputati vengono assolti per gli attentati alla Fieracampionaria e alla stazione Centrale, ma condannati per seiattentati minori. Ecco le condanne: Della Savia otto anni, Bra-schi sei anni e dieci mesi, Faccioli tre anni e sei mesi. Penepoi ridotte dalla Corte d’appello nell’aprile 1976. Pulsinelli èinvece assolto con formula piena.

Il processo si risolve con una sostanziale sconfessionedelle indagini del commissario Calabresi e dell’inchiesta delgiudice Amati, che avevano fondato le accuse agli anarchicisostanzialmente su due testi: Rosemma Zublena e, altronome ricorrente, l’esperto balistico Teonesto Cerri.

Zublena, ex amante di Braschi e più vecchia di lui di circavent’anni, risulta completamente inattendibile durante gli in-terrogatori in aula. Accusava i giovani anarchici degli atten-tati sostenendo che Braschi, ma anche gli altri, le avevanoconfidato le loro imprese. Incalzata dagli avvocati difensori,che ne mettono in luce le dichiarazioni contraddittorie, cercasenza risultato di indicare in Giuseppe Pinelli la fonte dellesue informazioni. Infine, messa ancor più alle strette, se neesce con una frase rivelatrice: «Io non ho fatto che ripeterequello che sapeva Calabresi». E così il pubblico ministero,Antonio Scopelliti, nella sua requisitoria finale arriva a dire:«La Corte non deve tenere conto di questa testimone, che haincrinato diverse pagine di questa istruttoria con la sua pre-senza massiccia e ingombrante. [...] Alla Zublena il ruolo ditestimone non si addice e le pagine processuali hanno chiara-mente messo in mostra la sua fragilità accusatoria».

Cerri sostiene invece le sue accuse ipotizzando un furto diesplosivi alla cava di Grone. Un furto non denunciato e che

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i responsabili della cava negano anche durante il processo.Ma contro ogni logica la giuria conferma il furto nella cava.Perché? Per giustificare la condanna per i sei attentati mi-nori e indirettamente giustificare il possesso di esplosivi daparte di Pietro Valpreda.

Ma, fatto ancora più grave, il presidente del tribunale,Paolo Curatolo, non tiene in alcun conto un documento pub-blicato all’inizio di dicembre 1969 dai quotidiani inglesi «TheObserver» e «The Guardian». E giudicato attendibile daesperti internazionali. Di cosa si tratta? È un documento se-greto inviato al ministro degli Esteri di Atene in cui si informail primo ministro Georgios Papadopoulos sui risultati dellacampagna di provocazione che il governo greco sta attuandoda tempo in Italia, con la collaborazione di gruppi fascisti e di«alcuni rappresentanti dell’esercito e dei carabinieri». Nelrapporto si ipotizza la possibilità di un colpo di Stato di destramediante l’incentivazione di gruppi di azione già da tempooperanti. In quel dossier (composto di tre pagine) si apprezzal’opera in questo senso svolta da Luigi Turchi, deputato delMovimento sociale, e di un certo signor P. Nel documento silegge anche: «Le azioni che era stato previsto fossero realiz-zate prima non è stato possibile realizzarle che il 25 aprile. Lamodifica dei nostri piani ci fu imposta dal fatto che era diffi-cile penetrare nel padiglione FIAT. Entrambi i fatti hanno pro-dotto effetti considerevoli». L’altro fatto era la bomba esplosaalla stazione Centrale.

C’è un elemento, ancora più clamoroso, che getta nuovaluce su questo processo. Il 13 aprile 1971, quindi pochigiorni prima che iniziasse il dibattimento a Milano, il giu-dice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz, emette un mandatodi cattura contro Giovanni Ventura, 27 anni, editore e libraiodi Castelfranco Veneto, Franco Freda, 35 anni, procuratorelegale a Padova, e Aldo Trinco, studente di 28 anni. Il giu-dice Stiz li accusa di associazione sovversiva e «procaccia-mento di armi da guerra», ma soprattutto della preparazionedi attentati dinamitardi a Torino nell’aprile 1969 e sui trenidelle Ferrovie dello Stato nell’agosto 1969. Freda e Venturaverranno poi condannati definitivamente a quindici anni nel1987 per questi attentati e per quelli del 25 aprile a Milano.

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Particolare sconcertante. Per quest’ultima operazione GianniCasalini, del gruppo nazista di Padova e informatore del SID,nome in codice Turco, aveva comunicato ai servizi segreti diaver accompagnato in macchina a Milano Ivano Toniolo,uomo di fiducia di Freda, che portava una borsa contenenteesplosivo. Ma ci penserà Gianadelio Maletti, direttore del re-parto D del SID, a insabbiare le informazioni.

Che cosa era successo nell’agosto 1969? Dieci treni vengono presi di mira sulle linee del Nord e

del Centro-sud Italia. Otto bombe esplodono tra la una e letre del 9 agosto, due, inesplose, vengono scoperte per un di-fetto nel congegno di accensione. Risultato: dodici feriti traviaggiatori e ferrovieri. Il rapporto costi-benefici per gli at-tentatori non è certo favorevole. È stata messa in campo unanotevole organizzazione logistica (per la bomba sul treno Pe-scara-Roma interviene direttamente Freda aiutato da IvanBiondo, anche lui del gruppo nazista di Padova) che perònon ha prodotto tutti gli effetti desiderati. Si è creato un climadi allarme, ma non c’è stato il morto.

Allegra e Calabresi anche in questo caso imboccano su-bito la pista anarchica. Allegra contesta questa accusa a Giu-seppe Pinelli che, stando ai verbali d’interrogatorio, ride infaccia al capo dell’ufficio politico. Anche in questo caso,siamo nell’agosto 1969, i giornali si accodano alle direttivedella questura. Il 13 agosto «La Stampa» pubblica un arti-colo siglato G. M. dal titolo Scomparsi gli anarchici per evi-tare gli interrogatori. «Dopo gli attentati sui treni», scrive ilcorrispondente del quotidiano torinese, «gli anarchici mila-nesi sono spariti dalla circolazione. Un po’ per le vacanze, unpo’ per evitare gli interrogatori della polizia hanno cambiatoaria. Nell’aprile scorso alcuni vennero arrestati sotto l’ac-cusa di una serie di attentati tra cui quello alla Fiera campio-naria di Milano. Nonostante le prove raccolte dalla polizia gliarrestati hanno sempre respinto ogni addebito; forse soltantoal processo si potrà stabilire la verità. Gli anarchici milanesisi sono resi ‘uccelli di bosco’. Le sedi de La Comune di viaLanzone 39 e del gruppo Ponte della Ghisolfa sono chiuse.Dopo l’attentato alla Campionaria, era sembrato che l’orga-nizzazione dei giovani anarchici fosse stata distrutta: in realtà

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la loro bandiera nera non è mai stata ammainata; le file sonostate riorganizzate seguendo nuovi criteri per rendere più dif-ficile l’identificazione dei nuovi accoliti». L’articolo sichiude con accuse fantasiose, ma a effetto: «Fino a qualchetempo fa gli anarchici a Milano erano pochi, privi di mezzi,per nulla organizzati. Ora qualcuno ha pensato di sfruttarele loro utopie. Così gli anarchici sono stati corteggiati e fi-nanziati dalla destra totalitaria e dall’estremismo di sinistra».

Nonostante l’appoggio dei giornali, le polizie delle variecittà non riescono ad arrestare e accusare nessuno, però ilclima è favorevole per interventi contro gli estremisti. Cosìall’alba del 19 agosto, 150 fra poliziotti e carabinieri di Mi-lano sgomberano l’ex albergo Commercio, ribattezzato Casadello studente e del lavoratore. L’immobile, destinato allademolizione, è in piazza Fontana proprio di fronte alla sededella Banca nazionale dell’agricoltura. Occupato il 28 no-vembre 1968, dopo un’assemblea di studenti, lo stabile di-venta subito un luogo di incontro dell’estrema sinistra; i gior-nali lo definiscono «una centrale della contestazione maoistae anarchica». Gli agenti sorprendono nel sonno cinquantottopersone che vengono fermate per l’identificazione. Tre ver-ranno arrestate e rimesse in libertà il 22 agosto. Subito dopolo sgombero entra in azione una squadra di demolitori e inpoche ore dell’immobile restano soltanto macerie.

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XI

NAZISTI IN MASCHERA

Mestre, giugno 1968. Durante la notte, ai primi del mese,vengono affissi numerosi manifesti inneggianti a Mao TseTung. Poi numerose auto vengono ritrovate dai proprietariimbrattate da scritte sempre inneggianti al presidente cinese.Una bravata di maoisti veneziani? No, gli autori sono tre gio-vani militanti del gruppo neonazista Ordine nuovo di quellacittà: Delfo Zorzi, Paolo Molin e Martino Siciliano. Èquest’ultimo a confessare l’azione, il 6 ottobre 1995, al giu-dice istruttore di Milano, Guido Salvini, che dal 1989 al 1997ha indagato sulla strage di piazza Fontana: «Facemmo que-ste scritte sulle macchine parcheggiate nella zona per infa-stidire i residenti e sviluppare al massimo questa iniziativa diprovocazione».

Palermo, 15 maggio 1969. Vengono arrestati sette fascisti.Appartengono alla Giovane Italia. Dal mese di aprile fino al

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giorno precedente hanno compiuto attentati contro la chiesaRegina Pacis, le stazioni dei carabinieri di Castellammare edi Pretoria, la caserma del centro addestramento reclute e ilcarcere dell’Ucciardone.

Legnano, 15 settembre 1969. Ettore Alzati, 26 anni, ven-ditore ambulante, ed Ermanno Carensuola, 19 anni, impie-gato in un’azienda di trasporti, vengono arrestati. Sono re-sponsabili, e lo confessano, di aver lanciato una bottigliamolotov contro l’ingresso di un circolo dove era in corso unfestival dell’«Avanti!». Ma fanno fiasco: la bottiglia si rompesenza esplodere. Allora cercano di dare fuoco allo striscionepropagandistico. Stesso risultato deludente. Prima di andar-sene, armati ormai soltanto di vernice, tracciano sul murouna grande A cerchiata.

Vanno davanti al Club Turati e scrivono sui muri «VivaMao». Alzati e Carensuola sono estremisti di destra iscrittialla sezione di Legnano del Movimento sociale.

Tre esempi,e altri ancora se ne potrebbero citare, che ge-nerano un’immediata domanda: che cosa sta succedendo? Ilmaggio francese del 1968 ha contagiato anche fascisti e na-zisti? Come mai nascono strani gruppi che si definiscononazi-maoisti? Perché estremisti di destra fanno attentati cer-cando di farli ricadere sugli anarchici? Sono soltanto attiestemporanei o fanno parte di un piano? I responsabili dellaCroce nera anarchica di Milano, tra questi c’è anche Giu-seppe Pinelli, propendono per la seconda ipotesi. Sul numerouno del loro bollettino, pubblicato nel giugno 1969, scrivonoa proposito dei fatti di Palermo: «Per quanto emozional-mente squilibrati siano i neofascisti, non siamo tanto ingenuida credere all’improvvisa contemporanea follia di sette diloro. Evidentemente le loro azioni facevano parte di unpiano». I redattori del bollettino approfondiscono questa ipo-tesi: «Che dei fascisti colpiscano degli obiettivi ‘anarchici’ sipuò spiegare solo con l’intento di: 1) suscitare la psicosidell’attentato sovversivo per giustificare la repressione poli-ziesca e l’involuzione autoritaria; 2) gettare discredito suglianarchici (e, per estensione, sulle forze di sinistra). Essen-ziale per ottenere il secondo risultato e utile anche per ilprimo è fare qualche ferito innocente o meglio ancora (ma

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più pericoloso) qualche morto». L’articolo si chiude con unaprevisione: «Quanto è successo a Palermo conferma quelloche dicevamo subito dopo gli odiosi attentati del 25 aprile aMilano (Fiera e stazione): gli attentatori non sono tra noi. El’insistenza della polizia ad arrestare e a fermare gli anar-chici ci fa sospettare cose gravi».

Dopo gli attentati ai treni del 9 agosto, sempre sul bollet-tino della Croce nera (numero due, agosto 1969), si legge:«Dove vige un regime autoritario, alla vigilia della venutadi qualche importante uomo di Stato vengono effettuati deicontrolli particolari, teste calde, sediziosi e anarchici ven-gono trattenuti dalla polizia, chi per accertamenti, chi perpretesi crimini: tutti per precauzione. Ci si domanda allora, inquesto terribile 1969, chi diavolo sta arrivando in Italia?».A questo interrogativo risponderanno le bombe del 12 di-cembre.

I redattori del bollettino della Croce nera intuivano chequalcosa era in preparazione, ma ovviamente non dispone-vano ancora di una conoscenza completa dei fatti. Per esem-pio non sapevano che l’operazione «manifesti cinesi» e lealtre azioni terroristiche fatte da fascisti, ma con firma anar-chica o maoista, costituivano il prologo della «strategia dellatensione». Non sapevano che a ideare, far stampare manifestiin decine di migliaia di copie e distribuirli per l’affissione agruppi nazifascisti era Federico Umberto D’Amato, capodell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno. Unastrategia precisa e teorizzata anche nel documento La nostraazione politica, sequestrato nel 1974 nella sede dell’AginterPresse a Lisbona.

Questa organizzazione terroristica di destra, guidata daRalph Guerin Serac (pseudonimo di Yves Felix Marie Guil-lou, nato in Francia nel 1926), è uno degli snodi dell’azioneeversiva nera. Nel documento sequestrato si legge, tra l’altro,che oltre all’infiltrazione nei gruppi filocinesi, dovevano es-sere attuate azioni di propaganda apparentemente opera degliavversari politici, tali da aumentare il clima di instabilità ecreare una situazione di caos. Quelli della Croce nera non sa-pevano ancora che le operazioni di provocazione, prima, edi depistaggio, poi, erano guidate da D’Amato, tessera 1643

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della loggia massonica P2, come risulta da numerosi riscon-tri e dalle dichiarazioni al giudice Salvini di Vincenzo Vinci-guerra, autore, con Carlo Cicuttini, dell’attentato di Peteano(tre carabinieri uccisi e uno ferito il 31 maggio 1972) e mili-tante di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Vinciguerra,che si definisce nazista rivoluzionario, si è dissociato dai suoicamerati perché li ritiene teleguidati dai servizi segreti.

La tattica di fare attentati o azioni dimostrative spaccian-dosi per anarchici o estremisti di sinistra, i fascisti non l’ab-bandonano con i fatti del 1969. La pratica continuerà peranni.

Un altro esempio. La notte del 15 ottobre 1971 scoppiauna bomba davanti all’università Cattolica di Milano, inlargo Gemelli. Produce solo danni alla recinzione esternadell’edificio. Chi è stato? Ecco la ricostruzione che Sicilianoha fatto a Salvini il 18 ottobre 1994: «L’episodio fu estem-poraneo e nacque dopo una cena a Milano a casa di MarcoFoscari, in via Piceno 19. Erano presenti Foscari e la mo-glie, Gianluigi Radice e la moglie, Giambattista Cannata,detto Tanino, e io». Siciliano è arrivato da Mestre con unabomba da mortaio senza spoletta. Finito di mangiare, ilgruppo decide di fare un attentato da attribuire all’estrema si-nistra. Nella casa ci sono un detonatore, polvere da sparo euna miccia. Siciliano prepara la bomba: riempie la cavitàdove avrebbe dovuto esserci la spoletta con polvere da sparo.Poi vi inserisce il detonatore e la miccia. Terminata la fasetecnica, il gruppo discute su quale obiettivo scegliere. Si de-cide per la Cattolica, perché i camerati di Milano hanno latessera di uno studente di sinistra proprio dell’università dipiazza Gemelli: gliela hanno presa durante un pestaggio.Cannata accompagna, con la sua Cinquecento, Siciliano. Glialtri rimangono con le mogli. L’idea è di lasciare il docu-mento dello studente vicino a dove esploderà la bomba. Malo dimenticano a casa. Lasciato l’ordigno, dopo aver accesola miccia, vicino alla cancellata (pensavano di scavalcarla,ma era troppo alta), i due ritornano velocemente alla mac-china e fuggono. Ma senza il documento dello studente disinistra non ottengono l’effetto sperato. Per di più quasi allastessa ora c’è un altro attentato a una sede del Partito comu-

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nista. Come lamenterà tempo dopo Angelo Angeli in unalettera a Giancarlo Esposti, entrambi neonazisti, i due fattivengono sostanzialmente collegati nelle ricostruzioni gior-nalistiche.

Ma i gruppi neonazisti non fanno soltanto operazioni ma-scherate di sinistra. Già da anni, ben prima quindi del 1969,si preparano alla guerra insurrezionale. Assalti alle sedi deipartiti di sinistra e ai suoi militanti, campi di addestramentoparamilitare (in uno di questi, a Pian del Rascino, morirà nel1974 Esposti), reperimento di armi e di esplosivi sono ilcomplemento operativo dell’indottrinamento ideologico.

Primi mesi del 1965. Siciliano, Piercarlo Montagner eZorzi sono sulla macchina di Carlo Maria Maggi, capo diOrdine nuovo nel Triveneto. Alla guida c’è Siciliano che dapochi mesi ha preso la patente. Vanno a una cava di marmovicino ad Arzignano del Chiampo, in provincia di Vicenza.Zorzi conosce bene la zona perché vi è nato. Sfondano laporta del deposito degli esplosivi e rubano quasi 40 chili diammonal, detonatori e numerose micce detonanti e a lentacombustione. Un bottino ricchissimo, ma non ci sta tutto inmacchina. Allora ne nascondono una parte poco lontanodalla cava. Tornano a Mestre e Zorzi si occupa di nascon-dere la refurtiva. Qualche giorno dopo tornano ad Arzignano.Questa volta in treno fino a Vicenza e poi in pullman fino adArzignano. Si infilano sotto i soprabiti esplosivo e micce.Tornano a Venezia.

Nel 1969 l’azione dei militanti veneziani di Ordine nuovoha un’impennata. Si addestrano, ma all’inizio con scarsi ri-sultati, a preparare attentati con un esplosivo particolare: lagelignite. La bomba che scoppierà il 12 dicembre a Milanosarà composta da un chilo e mezzo di gelignite. Zorzi si èprocurato questo esplosivo, in candelotti color rosso mat-tone, grazie a Carlo Digilio. A venderglielo è stato RobertoRotelli, un contrabbandiere veneziano, specializzato nel re-cupero di beni preziosi da navi affondate. «Rotelli mi disseche intendeva vendere questo esplosivo che gli era costatocirca 5 milioni investendo proventi del contrabbando di si-garette. Rotelli mi fece il nome di Zorzi come possibile ac-quirente e io gli risposi che la persona poteva andare bene»,

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dichiara, il 13 gennaio 1996, Digilio al giudice Salvini. E ag-giunge: «Zorzi era molto preoccupato che si mantenesse lasegretezza di questo acquisto e io lo tranquillizzai che nes-suno di noi aveva l’interesse a parlare».

Trieste, 3-4 ottobre 1969. Di lì a qualche giorno il presi-dente della repubblica, Giuseppe Saragat, deve far visita alpresidente iugoslavo Tito. Zorzi, Siciliano e Giancarlo Via-nello si ritrovano a Venezia in piazzale Roma. Nel grandegarage ritirano la macchina di Maggi. Nel baule ci sono duecontenitori metallici riempiti di gelignite con timer già pre-disposti. Manca soltanto il collegamento con la batteria. Iltutto è stato preparato da Digilio, che i tre chiamano anchezio Otto, ex legionario esperto di armi ed esplosivi. Però Di-gilio ha anche un altro soprannome che i giovani ordinovistinon conoscono: Erodoto. È il nome in codice come agentedella CIA nel Veneto. Nome che ha ereditato nel 1967 allamorte del padre Michelangelo, anch’egli uomo legato ai ser-vizi segreti americani. Il gruppo guidato da Zorzi parte perTrieste. Il primo obiettivo è la Scuola slovena nel rione SanGiovanni. Depongono la prima bomba, dopo aver collegatola batteria, su una finestra, lasciano anche volantini antislavie partono alla volta di Gorizia, il secondo obiettivo. Ma dopouna quarantina di minuti non sentono alcun boato. La periziaaccerterà che la batteria era completamente scarica. «Evi-dentemente qualcuno aveva programmato l’azione in mododiverso, perché mi sembra impossibile che possa avvenireun errore del genere», commenta Siciliano con il giudice Sal-vini il 18 ottobre 1994.

Quando arrivano a Gorizia è già giorno. Aspettano il buio,poi depositano bomba e volantini al cippo di confine difronte alla vecchia stazione ferroviaria. E via verso Venezia.Ma il risultato non cambia: la bomba verrà ritrovata ine-splosa.

Ci penserà, indirettamente, Giancarlo Rognoni, capo delgruppo ordinovista di Milano, La Fenice, a vendicare l’onoredei camerati veneti. Il 27 aprile 1974 due militanti della Fe-nice fanno saltare la Scuola slovena.

Fascisti e neonazisti, infatti, continueranno per anni acompiere attentati, praticamente fino agli anni Ottanta. Al-

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cuni sono rimasti impressi nella memoria collettiva: piazzadella Loggia a Brescia e treno Italicus nel 1974, stazione diBologna nel 1980. Tanto per citare i più noti. Ma ce ne sonoaltri che non hanno superato la soglia della cronaca, anche seimportanti.

Gioia Tauro, 22 luglio 1970. Una carica di tritolo fa saltareun tratto di binario poco prima della città calabra. Muoionosei passeggeri e altri cinquantaquattro rimangono feriti. Ini-zialmente gli investigatori denunciano quattro ferrovieri peromicidio colposo. Ma non è un incidente dovuto a incuria onegligenza, è un attentato a cui ne seguiranno altri, semprecontro treni in Calabria. E gli esecutori, secondo testimo-nianze raccolte nel 1993, sarebbero Vito Silverini e VincenzoCaracciolo (morti rispettivamente nel 1987 e nel 1990) chehanno agito dietro compenso dei responsabili del Comitatod’azione per Reggio capoluogo, organismo formato da fa-scisti calabresi.

Su quell’attentato Angelo Casile e Giovanni Aricò, dueanarchici calabresi, avevano condotto attività di controinfor-mazione. Casile e Aricò muoiono nella notte tra il 26 e il 27settembre 1970, con altri tre anarchici, schiantandosi sullastrada da Reggio a Roma contro un camion che aveva fre-nato bruscamente. Sulla dinamica di quell’incidente venneroscritte anche alcune sciocchezze da parte della controinfor-mazione di sinistra. Tra queste si portò come prova che non diincidente si trattava, ma di omicidio organizzato dalla destra,il fatto che lo scontro avvenne in un tratto di strada (a circa 60chilometri da Roma) che costeggiava alcune tenute del prin-cipe Junio Valerio Borghese.

Però il 26 marzo 1994 si è presentato al giudice Salvini ilcugino di Aricò, Antonio Perna. Questi ha riferito che, ilgiorno prima di partire per Roma, Aricò gli aveva confidatoche avrebbe portato a Veraldo Rossi (chiamato da tutti Aldo),esponente della FAI romana e redattore del settimanale anar-chico «Umanità nova», molta documentazione importantesull’attentato di Gioia Tauro. Perna afferma anche che al mo-mento della partenza Aricò aveva con sé quella documenta-zione, che non venne però ritrovata sul luogo dell’incidente,così come non vennero riconsegnate ai familiari le agende

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delle cinque vittime. Inoltre Casile, uno dei ragazzi morti,durante l’estate era stato interrogato dal giudice Vittorio Oc-corsio (indagine sulle bombe del 12 dicembre) e aveva di-chiarato di aver visto a Roma, dopo l’attentato all’Altaredella patria, Giuseppe Schirinzi, militante di Avanguardianazionale a Reggio Calabria, e di averlo accusato, nella con-citazione di quelle ore, di essere l’autore dell’azione.

Schirinzi è stato condannato con Aldo Pardo per l’atten-tato contro la questura di Reggio Calabria del 7 dicembre1969, pochi giorni prima dell’incontro a Roma con Casile.Ma Schirinzi non è un manovale delle bombe, è un perso-naggio di spicco in Avanguardia nazionale: nell’aprile 1968partecipa con Mario Merlino (fondatore con Valpreda delcircolo romano 22 marzo) al viaggio nella Grecia dei colon-nelli e nell’estate del 1969 cerca di infiltrarsi nel circolo deglianarchici di Reggio Calabria che, ironia della sorte, sichiama 22 marzo.

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XII

IL PERICOLO COMUNISTA

Che già dalla metà degli anni Sessanta fascisti e nazisti in-tensifichino l’attività per procurarsi armi ed esplosivi non av-viene per puro caso. C’è chi sta teorizzando la strategia dellatensione. E per di più lo fa pubblicamente. A Roma dal 3 al 5aprile 1965 molti noti esponenti della destra si riunisconoall’hotel Parco dei principi. L’occasione è il convegno sulla«Guerra rivoluzionaria», organizzato dall’Istituto di storia mi-litare Alberto Pollio. Tra i nomi di spicco figurano Pino Rauti,fondatore di Ordine nuovo, Guido Giannettini, giornalista eagente del SID, Edgardo Beltrametti ed Enrico De Boccard,due giornalisti che daranno vita ai Nuclei di difesa dello Stato.Assiste ai lavori anche un gruppo di circa 20 studenti, invitatoper apprendere le nuove teorie. Tra questi ci sono due nomi ri-correnti nella storia di quegli anni: Stefano Delle Chiaie, capodi Avanguardia nazionale, e il suo pupillo, Mario Merlino.

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Se gli interventi di Rauti e Giannettini riscuotono applausi,chi magnetizza la sala è Pio Filippani Ronconi, docente uni-versitario, traduttore di lingue orientali, crittografo alle di-pendenze del ministero della Difesa e del SID. Le relazioni diquel convegno compaiono nel volume La guerra rivoluzio-naria, pubblicato nello stesso anno dall’editore GioacchinoVolpe. Il libro circolerà soprattutto con una «diffusione mili-tante» nei vari gruppi dell’estrema destra. È, per esempio,Paolo Molin a portarlo da Roma ai membri del gruppo di Or-dine nuovo di Venezia. Quello guidato da Delfo Zorzi.

Tema del convegno è la strategia da adottare in tempi brevicontro l’avanzata del comunismo e quindi mantenere l’Italianel campo occidentale. Nella sua relazione, Ipotesi per unacontrorivoluzione, Filippani Ronconi propone uno schema disicurezza articolato su più livelli, operativi e gerarchici. Labase sarà costituita da professionisti, docenti e piccoli indu-striali. Individui capaci di compiere soltanto un’azione pura-mente passiva e non rischiosa, ma in grado anche di boicot-tare le iniziative promosse dal campo comunista.

Il secondo livello sarà formato da persone capaci di eser-citare «azioni di pressione» con manifestazioni che si svol-gano nell’ambito della legalità e che, anzi, si muovano in di-fesa dello Stato e della legge.

«A un terzo livello», sostiene Filippani Ronconi, «moltopiù qualificato e professionalmente specializzato, dovreb-bero costituirsi (in pieno anonimato sin da adesso) nucleiscelti di pochissime unità, addestrati a compiti di controter-rore e di ‘rotture’ eventuali dei punti di precario equilibrio, inmodo da determinare una diversa costellazione di forze alpotere. Questi nuclei, possibilmente l’un l’altro ignoti, maben coordinati da un comitato direttivo, potrebbero esserecomposti in parte da quei giovani che attualmente esauri-scono sterilmente le loro energie in nobili imprese dimostra-tive». Ed ecco il vertice dell’organizzazione: «Di là di questilivelli dovrebbe costituirsi con funzioni ‘verticali’, un Con-siglio che coordini le attività in funzione di una guerra to-tale contro l’apparato sovversivo comunista e dei suoi al-leati, che rappresenta l’incubo che sovrasta il mondomoderno e ne impedisce il naturale sviluppo».

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Testi sul pericolo comunista non sono certo una novità,ma qui si è di fronte a qualcosa di qualitativamente diverso.Non è soltanto un’esercitazione teorica: l’organizzazioneprospettata da Filippani Ronconi è già in fase di costituzionee diventerà operativa molto presto.

Nel 1966 ben duemila ufficiali dell’esercito ricevono, inbusta chiusa, un volantino firmato, appunto, Nuclei di difesadello Stato. Testo destinato, nelle intenzioni degli autori, arisvegliare l’orgoglio dei militari: «Ufficiali! La pericolosasituazione della politica italiana esige il vostro intervento de-cisivo. Spetta alle Forze armate il compito di stroncare l’in-fezione prima che essa divenga mortale. Nessun rinvio è pos-sibile: ogni attesa, ogni inerzia significa vigliaccheria. Subirela banda di volgari canaglie che pretendono di governarci,significa obbedire alla sovversione e tradire lo Stato. Mili-tari di grande prestigio e di autentica fedeltà hanno già costi-tuito in seno alle Forze Armate i Nuclei di difesa dello Stato.Voi dovete aderire ai NDS. O voi aderite alla lotta vittoriosacontro la sovversione, oppure anche per voi la sovversionealzerà le sue forche. E sarà, in questo caso, la meritata ricom-pensa per i traditori». Autori e diffusori del volantino sonoFranco Freda e Giovanni Ventura, due protagonisti della sta-gione delle stragi. In quell’occasione compare un altro perso-naggio di rilievo in questa storia: Guido Lorenzon. All’epocaè ufficiale di complemento alla base di Aviano, anche lui ri-ceve il volantino e durante una licenza ne parla con l’amicoVentura. Sorpresa: Ventura gli rivela di essere uno degli autoridi quel documento. Verrà poi definitivamente condannato perapologia di reato con Freda, nel 1987.

Accanto all’opera di divulgazione che fanno Freda e Ven-tura, c’è chi sta lavorando per creare la rete dei Nuclei di di-fesa dello Stato. Una rete parallela all’altra più famosa, maforse meno pericolosa, organizzazione segreta: Gladio. Ilmaggiore Amos Spiazzi (oggi generale), responsabile dell’uf-ficio I (informazioni) dell’esercito a Verona, dopo un corso diaggiornamento al terzo corpo d’armata di Milano, nell’au-tunno-inverno tra il 1966 e il 1967, viene incaricato dai suoisuperiori, «singolarmente e oralmente», di sviluppare nellasua città un’attività parallela a quella di Gladio. «Mi fu detto

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comunque che era necessario, regione per regione e capillar-mente provincia per provincia, reclutare personale con ana-loghe caratteristiche, compartimentato al massimo e da ad-destrare in nuclei di tre persone [...] avvalendosi di istruttoridei locali reparti. [...] Questi Nuclei presero il nome di Le-gioni. [...] Formai così con 50 elementi selezionati la QuintaLegione», dichiara al giudice Guido Salvini, il 2 giugno 1994,Spiazzi, salito alla ribalta della cronaca nel 1974 per il suocoinvolgimento nell’organizzazione eversiva Rosa dei venti.E prosegue: «Nelle riunioni [...] fu sollecitata una collabora-zione sempre più stretta con le associazioni d’Arma, con as-sociazioni politiche esistenti quali gli Amici delle Forze ar-mate, l’Istituto Pollio, il Combattentismo attivo, per unificarele forze in una attiva opera di difesa, di sostegno e di propa-ganda in favore delle Forze armate e dei valori da esse rap-presentati». L’attività di Spiazzi non si ferma all’addestra-mento: organizza conferenze e dibattiti, collabora al giornaledel Movimento di opinione pubblica del generale FrancescoNardella (iscritto alla P2 di Licio Gelli), prende contatto conAdamo Degli Occhi, avvocato milanese, leader delle mani-festazioni della cosiddetta Maggioranza silenziosa, e con ilFronte nazionale di Junio Valerio Borghese, comandante du-rante la guerra della Decima Mas e nel 1943 passato alla re-pubblica di Salò. Precisa Spiazzi: «Ogni mia attività esercitatafuori servizio in seno a tale organizzazione era nota ai supe-riori Uffici I».

Dal Veneto alla Lombardia e, per la precisione, in Valtel-lina. Qui c’è un personaggio che rappresenta un autenticomito per i suoi uomini: Carlo Fumagalli. Comandante durantela resistenza, aveva guidato una formazione autonoma, I Gufi,composta da partigiani «bianchi». Il gruppo operava in strettocontatto con i servizi segreti americani dell’OSS (Office ofStrategic Services). Da questi, alla fine della guerra, riceve lamedaglia Bronze Star. Rimane legato ai servizi americani ealla fine degli anni Sessanta è pronto per dare una mano allatrasformazione dell’assetto politico italiano in senso presi-denzialista e con un ancor più marcato accento filoatlantico.Fumagalli fonda il MAR (Movimento di azione rivoluziona-ria) e, come copertura per le sue attività illegali, gestisce

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un’officina meccanica specializzata in fuoristrada. Segue lastrategia della provocazione con attentati da attribuire alla si-nistra, ma il colpo di Stato da lui desiderato non ha le conno-tazioni filonaziste dei suoi «alleati». Questo, però, non gli im-pedisce di mettere a segno operazioni clamorose.

Milano, 7 gennaio 1971. Viene appiccato un incendio aldeposito di copertoni della Pirelli-Bicocca in viale Sarca. Lefiamme vengono spente solo dopo dieci ore. Con un danno dioltre un miliardo, ai valori dell’epoca. Durante le operazionidi soccorso muore un operaio di 30 anni, Gianfranco Car-minati. «L’attentato nelle intenzioni del gruppo MAR dovevaessere attribuito alle Brigate rosse che allora stavano sor-gendo», dichiara, anni dopo, Gaetano Orlando, consideratol’ideologo del MAR. «Ricordo benissimo gli attentati che av-vennero alla Pirelli all’inizio del 1971 e posso confermareche la nostra organizzazione era estranea al grosso incendioche fu appiccato a un deposito di copertoni della Pirelli-Bi-cocca», sostiene, il 23 luglio 1991, Roberto Franceschini,all’epoca dei fatti dirigente delle BR a Milano e oggi disso-ciato dal terrorismo.

Esattamente un mese prima, il 7 dicembre 1970, alcunecolonne armate entrano in Roma. Le guida il principe Bor-ghese del Fronte nazionale. Tra i maggiori finanziatoridell’operazione ci sono Remo Orlandini, costruttore romano,braccio destro di Borghese, e Attilio Lercari, genovese, am-ministratore delegato della Piaggio. L’obiettivo è occupare lesedi politiche più importanti, la RAI e l’aeroporto, mentre gliuomini di Stefano Delle Chiaie (i militanti di Avanguardianazionale) devono impadronirsi della centrale operativa delministero dell’Interno. Per poi passare la mano ai carabinierie dedicarsi al rastrellamento degli avversari politici da inter-nare nell’arcipelago delle Eolie. Alcune navi, fornite dagliarmatori genovesi Cameli, sarebbero pronte per il trasporto.Il classico colpo di Stato. Ma qualcosa non funziona, oppurequalcuno fa marcia indietro. C’è un fitto giro di telefonate:alla fine i golpisti lasciano Roma. Così anche Roberto Pa-lotto e Saverio Ghiacci, che con altri militanti di Avanguar-dia nazionale sono riusciti a penetrare nel ministero dell’In-terno (grazie alla collaborazione di Salvatore Drago, medico

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in servizio a quel dicastero, iscritto alla P2), devono lasciarevelocemente il palazzo. Ma il golpe non è circoscritto soloalla capitale.

«Il maggiore ci disse di tenerci pronti in camerata, con gliabiti borghesi», ricorda Enzo Ferro che in quel dicembre1970 prestava servizio militare alla caserma Montorio di Ve-rona e quindi sottoposto al maggiore Spiazzi, «e che poiavremmo dovuto essere portati nella zona di Porta Bra a Ve-rona, nella sede dell’Associazione mutilati e invalidi diguerra, dove si stampava il giornaletto del Movimento diopinione pubblica. [...] Ci fu detto chiaramente che dove-vamo intervenire e che non potevamo tirarci indietro e che,giunti al punto di raccolta, saremmo stati armati e portatinella zona dove dovevamo operare come supporto al colpodi Stato. Tutte le cellule di civili e militari avrebbero dovutointervenire. Tuttavia nella notte ci fu il contrordine, era versol’una e trenta e ce lo comunicò direttamente il maggioreSpiazzi, dicendoci che il contrordine veniva direttamente daMilano».

«Anche a Venezia [...] per la notte del 7 dicembre era con-cordato il concentramento in punti determinati. Il concentra-mento effettivamente ci fu, ma poco dopo giunse il contror-dine, con vivo disappunto di tutti i presenti. [...] Il punto diconcentramento era l’Arsenale, cioè lo spiazzo dinanzi al co-mando della Marina militare. Anche di queste iniziative io ri-ferii regolarmente a Verona (al comando FTASE) che quindimisi al corrente dei vari sviluppi», dichiara Carlo Digilio, le-gato al gruppo di Ordine nuovo di Venezia e informatoredella CIA dal 1967. L’agente a cui Digilio riferisce si chiamaSergio Minetto, capo della rete CIA per il Triveneto. Minetto,ovviamente, nega di avere mai ricoperto quel ruolo. Il FTASEindicato da Digilio è il comando generale delle Forze dell’al-leanza atlantica per il Sud Europa. «A Reggio Calabria», ri-corda Carmine Dominici, esponente fino al 1976 di Avan-guardia nazionale, diretta, in quella città, dal marchese FeliceGenoese Zerbi, «eravamo in piedi tutti pronti a dare il nostrocontributo. Zerbi disse che aveva ricevuto delle divise daicarabinieri e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro,anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici

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che facevano parte di certe liste che erano state preparate.Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi cidissero di andare tutti a casa».

Altre testimonianze, sempre raccolte dal giudice Salvini,rivelano che anche in molte località italiane, militari, civili ecarabinieri erano pronti a intervenire per sostenere il colpo diStato a Roma. Chi fermò il golpe fu Licio Gelli, cioè l’ispi-ratore e, sul piano operativo, l’uomo che doveva guidare ilsequestro di Giuseppe Saragat, presidente della repubblica.Gelli utilizzerà poi il coinvolgimento nel golpe di alti uffi-ciali per i suoi giochi fatti di ricatti e manovre a largo raggio.Ma le sentenze del novembre 1978, novembre 1984 e infinela Cassazione nel marzo 1986 hanno mandato assolti tutti icongiurati. E per quanto riguarda Gelli e l’attività di cospi-razione attuata per anni dalla loggia massonica P2, la sen-tenza definitiva della Cassazione ha stabilito, il 21 novembre1996, che Gelli andava condannato a otto anni (ma da nonscontare) soltanto per il reato di procacciamento di notizie ri-servate (mentre l’anno prima era stato condannato a diecianni per calunnia e depistaggio sulla strage alla stazione diBologna). Si chiude così un altro capitolo di una storia giu-diziaria iniziata nel 1981, quando la Guardia di finanza sco-prì nell’abitazione di Gelli, villa Wanda a Castiglion Fiboc-chi, l’elenco di 962 nominativi di affiliati alla loggia P2.Quell’inchiesta venne tolta ai magistrati milanesi GherardoColombo e Giuliano Turone e trasferita a Roma. E la pro-cura della capitale fece il suo dovere: bloccò le indagini.

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XIII

FAREMO ORDINE, MA NUOVO

Ecco altri due attori di questa storia: Ordine nuovo eAvanguardia nazionale. Attori importanti, protagonisti. Per-ché? Militanti di queste organizzazioni hanno eseguito gliattentati a Milano e a Roma il 12 dicembre 1969. Non sitratta però di semplici manovali del terrore. Il rapporto traesecutori e ideatori è più complesso. Non il banale schema«prendi la bomba e vai a far saltare tutto». C’è una ragnateladi complicità, sollecitazioni, aiuti, reciproci ricatti che trac-cia alcune delle pagine più velenose della storia italiana. Unastoria che vede come regista della strategia della tensioneproprio il ministero dell’Interno nelle persone del responsa-bile del dicastero, Franco Restivo, e di molti suoi successori,e soprattutto di Federico Umberto D’Amato, capo dell’uffi-cio affari riservati (sciolto nel 1978). D’Amato, deceduto l’1agosto 1996, è tornato alla ribalta poco dopo la sua morte

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con il ritrovamento in una palazzina sulla via Appia, alla pe-riferia di Roma, di circa 150 mila fascicoli non catalogati (eforse in parte già depurati dei documenti più compromet-tenti). Ma non solo documenti: per esempio c’è anche il qua-drante di un timer utilizzato per l’attentato del 9 agosto 1969sul treno Pescara-Roma (quello attuato personalmente daFranco Freda). Quei documenti, ritrovati il 17 agosto 1996da Aldo Giannuli, esperto nominato dal giudice Salvini, co-stituiscono una sorta di archivio parallelo del Viminale nelquale sono racchiuse moltissime delle storie legate all’atti-vità di spionaggio interno. Un archivio segreto che non èstato distrutto, ma depositato alla rinfusa in una sorta di ma-gazzino. Forse per tenerlo comunque disponibile in caso dieventuali future utilizzazioni oppure fatto trovare dopol’uscita di scena di D’Amato.

A questo punto occorre tornare indietro di oltre qua-rant’anni. È il 1956, Giuseppe Rauti, che tutti chiamanoPino, dà segni d’insofferenza sempre più evidenti verso lalinea politica «piccolo borghese e legalitaria» del segretariodel suo partito, il Movimento sociale italiano. Arturo Mi-chelini, eletto alla massima carica dei neofascisti italiani nel1954, viene considerato troppo ossequiente nei confrontidella destra democristiana dai «duri» della corrente di Gior-gio Almirante. Rauti è uno dei più duri. Si stacca dal MSI efonda (con Clemente Graziani, Paolo Signorelli, Stefano Ser-pieri e Stefano Delle Chiaie) il Centro studi Ordine nuovo.Nell’autunno 1969, quando diventa segretario del MSI Gior-gio Almirante, Rauti rientra nel partito e scioglie il Centrostudi. È un atto solo formale perché i gruppi e l’organizza-zione di Ordine nuovo continueranno a operare ancora peranni.

Nel 1958 Delle Chiaie inizia un processo di autonomiz-zazione da Rauti che lo porta il 25 aprile 1960 a fondareAvanguardia nazionale. Organizzazione che formalmente siscioglie nel 1966 per permettere il reingresso di molti mili-tanti nel MSI. Ma nel 1968 Delle Chiaie ricostituisce, sempreformalmente, la mai disciolta organizzazione.

Ordine nuovo e Avanguardia nazionale hanno un’impo-stazione ideologica sostanzialmente simile. Il principale re-

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ferente teorico è il filosofo Julius Evola, che Rauti ha cono-sciuto alla fine degli anni Quaranta. Il programma si fondasulla lotta al comunismo e al capitalismo, per uno Stato dellecorporazioni, sull’esempio del programma nazional-rivolu-zionario del 28 agosto 1919 dei Fasci di combattimento co-stituiti in piazza San Sepolcro a Milano il 23 marzo 1919.Programma perfezionato (almeno nelle enunciazioni) dallarepubblica di Salò (che vede tra i suoi combattenti il volon-tario Rauti di appena 17 anni). E inoltre lotta contro il si-stema parlamentare e ogni forma di democrazia, per arrivarea uno Stato aristocratico e organico, riprendendo molte delleconcezioni della Germania hitleriana. L’obiettivo finale è ilNuovo ordine europeo.

Le due organizzazioni in pratica si spartiscono il territorioitaliano: Ordine nuovo colleziona gruppi soprattutto nelNord, mentre Avanguardia nazionale ha le sue basi principalia Roma e nel Sud.

Nella primavera del 1969 è ormai giunto il momento dioperare insieme. I dirigenti veneti di Ordine nuovo incon-trano quelli romani di Avanguardia nazionale il 18 aprile. Lariunione si tiene a Padova nella casa di Ivano Toniolo, un fe-delissimo di Franco Freda. Con l’approvazione, è ovvio, diCarlo Maria Maggi, responsabile di Ordine nuovo nel Tri-veneto, e dei suoi referenti a livello nazionale, Signorelli eRauti. D’ora in poi le due organizzazioni agiranno in modoconcordato, almeno per le operazioni in grande stile. Il 25aprile scoppiano le bombe di Milano (Fiera campionaria estazione Centrale).

Si è creato un asse operativo che parte da Venezia, arriva aPadova, prosegue per Milano, punta sulla capitale e si estendefino a Reggio Calabria. I nomi? Per Venezia, Delfo Zorzi,Martino Siciliano, Giancarlo Vianello (che, infiltratosi nel1970 in Lotta continua, si innamorerà di una militante delgruppo di estrema sinistra e finirà per abbandonare i came-rati), Paolo Molin, Piercarlo Montagner. Con l’appoggio «tec-nico» fornito da Carlo Digilio. A Padova, sotto la direzione diFreda, si muovono Giovanni Ventura, Massimiliano Fachinie Marco Pozzan. Giancarlo Rognoni è il capo riconosciutodel gruppo La Fenice di Milano. Delle Chiaie guida Avan-

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guardia nazionale a Roma, mentre a Reggio Calabria il suouomo di fiducia è il marchese Felice Genoese Zerbi. Questipuò contare su un buon gruppo di militanti decisi come Car-mine Dominici, Giuseppe Schirinzi e Aldo Pardo.

Tutti personaggi dalla vita avventurosa. Freda e Venturasaranno definitivamente condannati per 17 attentati compiutitra il 15 aprile e il 9 agosto 1969 (quindi anche per quelli diMilano del 25 aprile e ai treni del 9 agosto). Rognoni evi-terà ventitré anni di carcere dandosi latitante, soprattutto inSpagna. È stato infatti condannato in contumacia per un at-tentato compiuto dal suo luogotenente, Nico Azzi.

Treno Torino-Roma. È il 7 aprile 1973. Scoppia unabomba in un gabinetto. Ma l’attentatore, Azzi, non se n’è an-dato. L’ordigno gli è esploso tra le mani. O meglio, tra legambe. Ferito, viene arrestato. E poi condannato a 20 anni.Con lui finiscono in carcere altri due membri della Fenice:Mauro Marzorati e Francesco De Min. Quell’attentato, de-ciso alla presenza dell’ideologo di Ordine nuovo, Paolo Si-gnorelli, doveva servire, almeno nelle intenzioni, a depistarele indagini condotte dai giudici di Milano sulla strage dipiazza Fontana, ed essere sfruttato politicamente nella ma-nifestazione della Maggioranza silenziosa già fissata per il 12aprile a Milano. Dopo l’attentato, infatti, doveva essere fattauna rivendicazione, per telefono, a nome di un’organizza-zione di sinistra.

Carattere forte, duro, capace di passare subito alle mani, ilsuo viso è spesso segnato da ferite, non lo impressiona lavista del sangue, si occupa personalmente di infliggere pu-nizioni ai camerati che sgarrano, ma anche introverso e affa-scinato dal buddhismo e dal pensiero di Evola, questo il pro-filo che traccia Siciliano del suo capo Zorzi. Cioè l’uomoche confesserà almeno in due occasioni di aver partecipatoall’attentato di Milano del 12 dicembre.

È il 31 dicembre 1969. Zorzi, Siciliano e Vianello festeg-giano l’ultimo giorno dell’anno andando prima a puttane incorso del Popolo a Mestre. «Abitudine cameratesca legataalla concezione fascista della virilità», commenta Siciliano.Poi vanno a casa di Vianello a mangiare, brindare e sentireinni nazisti. Il discorso cade sulle bombe di pochi giorni

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prima. Ecco che cosa dichiara Siciliano, l’8 giugno 1996, algiudice Salvini: «Zorzi ci ricordò che, secondo i nostri granditeorici, anche il sangue poteva essere motore di una rivolu-zione nazionale che, partendo dall’Italia, avrebbe salvatol’Europa difendendola dal comunismo. Riprese i discorsi chegià erano stati fatti a Padova e che cioè la gente comune, col-pita e non in grado di difendersi da sé, avrebbe chiesto essastessa lo Stato forte, soprattutto in quanto la strategia preve-deva che episodi così gravi dovessero essere attribuitiall’estrema sinistra». E Zorzi così conclude, secondo Sici-liano: «Ci fece chiaramente intendere che gli anarchici nonc’entravano nulla e che erano stati presi come capro espiato-rio per i loro precedenti bombaroli, un’accusa di quel generenei loro confronti era credibile, e che in realtà gli attentati diMilano e Roma erano stati pensati e commissionati ad alto li-vello e materialmente eseguiti da Ordine nuovo del Trive-neto».

Nel gennaio 1996 Digilio racconta al giudice Salvini checosa gli ha detto Zorzi a Mestre nel 1973: «Guarda che ioho partecipato direttamente all’operazione di collocazionedella bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura». E precisaDigilio: «Queste furono testualmente le sue parole, che ri-cordo ancora bene, anche per la loro gravità. Zorzi non parlòné di morti né di strage, ma usò il termine ‘operazione’,come se si fosse trattato di un’operazione di guerra». A que-sto punto Zorzi spiega a Digilio: «Me ne sono occupato per-sonalmente e non è stata una cosa facile, mi ha aiutato il fi-glio di un direttore di banca».

Oggi Zorzi vive in Giappone, dove si è trasferito dopo chei giudici Giancarlo Stiz a Treviso, Pietro Calogero a Padova,Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini a Milanohanno cominciato a indagare sulla pista fascista per la stragedi piazza Fontana.

A Tokyo, Zorzi mette in piedi una società di import-ex-port. In pochi anni diventa miliardario tanto che nel 1993può prestare 30 miliardi a Maurizio Gucci. Una fortuna chequalcuno sospetta sia stata accumulata grazie alla protezionedella Yakuza, la potente mafia nipponica, e dei servizi se-greti italiani e statunitensi. Zorzi nel frattempo si è sposato

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con una giapponese, dalla quale ha avuto una figlia, ha ancheuna rete di società e di negozi in Italia, ed è difeso in Italiadall’avvocato Gaetano Pecorella che nega qualsiasi coinvol-gimento del suo cliente con la strage di piazza Fontana. Pe-corella, conosciuto negli anni Settanta soprattutto per la di-fesa di militanti di sinistra, negli anni Novanta affiancaclienti come Zorzi a Ovidio Bompressi, ex Lotta continua,condannato a ventidue anni per l’omicidio del commissarioLuigi Calabresi. «Ero a Napoli dove frequentavo l’univer-sità orientale, alla quale mi ero iscritto nel 1968», ha dichia-rato Zorzi, riferendosi al 12 dicembre 1969, in un’intervistapubblicata il 14 novembre 1995 sul «Giornale». Un alibi chenon è stato confermato.

Altro personaggio, altra fuga. Digilio, mentre viene inter-rogato da Salvini, ha già subìto una condanna in contumaciaa dieci anni. Nel 1982, segretario del poligono di tiro di Ve-nezia, Digilio viene arrestato la prima volta per detenzione il-legale di munizioni. Rilasciato dopo pochi giorni, capisceche forse possono contestargli altri reati più gravi. Si rifugiain una casa isolata a Villa d’Adda, in provincia di Bergamo.Poi alla fine del 1985 fugge a Santo Domingo con documentifalsi. Ma nell’autunno 1992 viene arrestato dall’Interpol eriportato in Italia a scontare la sua condanna per ricostitu-zione di Ordine nuovo, detenzione di detonatori, cessione diarmi, detenzione di macchinari per la riparazione e trasfor-mazione di armi e per la falsificazione di documenti.

Ed ecco il più famoso latitante dell’eversione fascista:Delle Chiaie. Che prima di essere ribattezzato «primulanera», a Roma era conosciuto come «er caccola». Durante uninterrogatorio al Palazzo di giustizia di Roma, chiede di an-dare al gabinetto. Scompare. È il 9 luglio 1970. La polizianon riuscirà a rintracciarlo nonostante venga visto nella ca-pitale ancora per diversi mesi.

Fallito il golpe Borghese, Delle Chiaie si trasferisce a Ma-drid dove può godere della protezione di esponenti del fran-chismo, ma nel febbraio 1977, ormai tramontato il regimedi Francisco Franco, Delle Chiaie approda nella più sicuraAmerica Latina. Di tornare in Italia non se ne parla, ancheperché Giorgio Pisanò, direttore del settimanale fascista «Il

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Candido», gli ha mandato, attraverso le colonne del suo gior-nale, un messaggio chiaro. In una lettera aperta, pubblicata il9 gennaio 1975, Pisanò ha scritto: «Resta dove sei e stattizitto. Perché se torni dovrai raccontarci tante cose: tanti traf-fici d’armi, per esempio, con relativa scomparsa di fondi cheti erano stati affidati, o i tuoi intrallazzi con Mario Merlino.Oppure i tuoi rapporti con l’ufficio affari riservati del mini-stero dell’Interno». Argentina, Bolivia, Paraguay e Cile sonole tappe dei continui spostamenti di Delle Chiaie. Che hapreso intanto una nuova identità, si chiama Alfredo Di Ste-fano. Ma nel 1987 viene fermato a Caracas. Finisce così lasua latitanza durata 17 anni. Contro di lui è stato spiccato unmandato di arresto internazionale. Le accuse? Strage dell’Ita-licus, associazione sovversiva, rapina, concorso nella stragedi piazza Fontana, banda armata. Viene processato in Italianell’ottobre 1987, con Massimiliano Fachini, dalla Corted’assise di Catanzaro (l’ultimo atto dei processi per piazzaFontana). Il 20 febbraio 1989, i due vengono assolti con for-mula piena dopo 90 udienze. Sentenza confermata in appelloil 5 luglio 1991.

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XIV

QUI CI VUOLE IL MORTO

Torniamo a bomba, cioè al 1969. Gli attentati del 25 aprilea Milano fanno solo pochi feriti. Stesso risultato per quelli aitreni del 9 agosto. Questi ultimi ordigni sono innescati da uncomune orologio: marca Ruhla. Orologi che uno strano si-gnore acquista a tre-quattro per volta al magazzino Standa diTreviso. Ma il primo esperimento non riesce. Il 24 luglio labomba piazzata al Palazzo di giustizia di Milano nonesplode. Ci vuole un esperto. Franco Freda si fa allora spie-gare dall’elettricista Tullio Fabris (che nel 1968 gli ha mon-tato i lampadari nel suo studio in via San Biagio a Padova)come collegare un orologio a sveglia con una resistenza cheincendi poi dei fiammiferi antivento. E Fabris dà le infor-mazioni tecniche a Freda. Sui treni l’esperimento è positivo:su dieci bombe, otto esplodono. Per le due che fanno cileccasi scopre che sono azionate da orologi Ruhla.

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Il passo successivo è l’utilizzo di timer. Freda, tramite Fa-bris, ordina 50 timer da 60 minuti alla ditta Elettrocontrolli diBologna. Il 19 settembre Freda va nel capoluogo emilianocon Fabris e ritira quei timer (fabbricati dalla Junghans-Diehldi Venezia). Nuovo strumento, nuove lezioni. Prima lezione:Fabris insegna a Freda (anche se i timer non sono ancorastati acquistati) come collegare batteria, filo al nichelcromo,fiammifero antivento a un timer. Visti i risultati, Freda facomprare a Fabris una discreta quantità di quei fili. Secondalezione: l’elettricista, dopo l’acquisto dei timer, fornisce aFreda e a Ventura nozioni generali sui congegni a tempo e sulloro utilizzo. Freda prende diligentemente appunti. Terza le-zione: Freda e Ventura, sotto la supervisione di Fabris, pre-dispongono per due volte il congegno. L’esperimento riescealla perfezione. Tutto è pronto per il grande botto. E infattinella borsa che conteneva la bomba inesplosa alla Bancacommerciale italiana di piazza della Scala a Milano viene ri-trovato il dischetto orario staccatosi da un timer della Jun-ghans-Diehl. Quella borsa fa parte di uno stock importato inItalia e prodotto dalla ditta tedesca Mosbach-Gruber. Leborse utilizzate per gli attentati sono di due tipi: City 2131 dicolore marrone e Peraso 2131 di colore nero. E soltanto trenegozi in Italia vendono entrambi i tipi: Biagini di Milano,Protto di Cuneo e Al Duomo di Padova. Quando Fausto Giu-riati, proprietario della valigeria Al Duomo, vede la fotodella borsa pubblicata sui giornali e trasmessa in televisionetelefona in questura. Devono passare alcuni giorni prima chequalcuno della polizia si presenti alla valigeria Al Duomo.La commessa Loretta Galeazzo riferirà di aver venduto quat-tro borse di quel tipo la sera del 10 dicembre a un giovaneben vestito. I poliziotti padovani mandano il loro rapportoalla questura di Milano e all’ufficio affari riservati del mini-stero dell’Interno, ma dovranno passare tre anni prima chequalcuno si ripresenti nel negozio del centro di Padova. Enon su indicazione di Milano o di Roma. Chi va a infor-marsi? È il maresciallo Alvise Munari che indaga per contodel giudice istruttore di Treviso Giancarlo Stiz.

Restiamo a Padova. È la vigilia delle bombe. Ecco una ri-costruzione logica degli avvenimenti sulla base di quanto è

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stato appurato, ma non sufficientemente provato, per quantoriguarda Zorzi, in appello nel 2004 e in Cassazione nel 2005.Freda, ormai esperto grazie alle lezioni di Fabris, prepara gliesplosivi con la gelignite che si è procurato (come sostieneCarlo Digilio) Delfo Zorzi. Li collega ai timer Junghans-Diehl. Li mette nelle borse acquistate alla valigeria Al Duomodi Padova e in un’altra simile comprata prima. E li consegnaagli incaricati del trasporto. Zorzi parte per Milano. Lì lo at-tendono i militanti del gruppo La Fenice di Giancarlo Ro-gnoni (anche lui, però, assolto definitivamente), che gli for-niscono la base operativa, un appartamento vicino a piazzaFontana. Ventura va invece a Roma e consegna il suo caricoai camerati di Avanguardia nazionale, che dipendono da Ste-fano Delle Chiaie.

Il pomeriggio del 12 dicembre due borse contenenti al-trettante bombe di gelignite collegate a timer Junghans-Diehlvengono deposte alla Banca nazionale dell’agricoltura dipiazza Fontana e alla Banca commerciale italiana di piazzadella Scala. Un’altra bomba viene lasciata a Roma nel sotto-passaggio della Banca nazionale del lavoro, due al monu-mento al Milite ignoto di piazza Venezia. I militanti di Or-dine nuovo e di Avanguardia nazionale hanno compiutoquasi alla perfezione il loro lavoro. C’è solo il mancato fun-zionamento dell’ordigno lasciato alla Banca commerciale diMilano, ma ci penserà, come si è visto, il perito TeonestoCerri a eliminare quella prova compromettente. Non com-pletamente però: nella confusione dimentica di fare esplo-dere anche il quadrante del timer rimasto nella borsa.

E sono proprio i timer che tradiranno il gruppo di Freda e isuoi partner. Ne sono stati utilizzati solo cinque. Gli altri ven-gono consegnati a Cristiano De Eccher perché li nasconda. DeEccher, discendente di una nobile famiglia del Sacro romanoimpero, possiede un castello a Calavino, vicino a Trento. Nel1969 ha solo 19 anni, ma è già un esponente di Avanguardianazionale di Trento, iscritto all’università di Padova e in strettocontatto con Freda. Uno dei pochi a cui l’aristocratico Freda,forse per le nobili e antiche origini, si rivolge dandogli del tu.Un elemento di contatto, quindi, tra i due gruppi nazisti. DeEccher provvede a murarli. Ma è più fedele a Delle Chiaie

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che a Freda: non restituirà più quei timer. Tanto da suscitarel’ira profonda del procuratore legale padovano che si lamen-terà con un suo camerata, Sergio Calore, «sulla decadenza diun barone del Sacro romano impero».

Poiché Freda non può negare di aver comprato quei timer,dichiarerà che li ha ceduti a un certo capitano Hamid, dei ser-vizi segreti algerini. L’algerino glieli avrebbe chiesti per or-ganizzare attentati contro obiettivi sionisti. E, clamoroso, igiudici gli credono, per nulla scossi dal fatto che il Mossad, ilservizio segreto israeliano, dichiari che il capitano Hamid nonesiste. I giudici sembrano credere del tutto plausibile che unagente algerino debba rivolgersi a un legale di Padova perprocurarsi dei timer. Mentre l’elettricista Fabris al processo fasoltanto parziali ammissioni. Perché? È stato minacciato pertre volte affinché taccia. Due volte da Massimiliano Fachini,un’altra volta da Fachini in compagnia di Pino Rauti, così so-stiene la moglie di Fabris che avrebbe riconosciuto Rauti ve-dendolo, successivamente, in televisione.

I timer non prendono affatto la via dell’Algeria. Rimastisotto il controllo di De Eccher, protetto dal colonnello dei ca-rabinieri Michele Santoro, finiscono in parte al gruppo La Fe-nice di Milano e in parte ad Avanguardia nazionale di Roma,che ne utilizza qualcuno per gli attentati ai treni diretti a Reg-gio Calabria nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 1972.

I militanti del gruppo La Fenice nel 1973 preparano unpiano per collocare alcuni di questi timer in una casa di Gian-giacomo Feltrinelli (morto nel marzo 1972 a Segrate). Lacasa, in realtà un castello a Villadeati nel Monferrato, è diproprietà della famiglia Feltrinelli, ma quasi mai utilizzata.Alcuni militanti del gruppo di Rognoni dovrebbero intro-dursi con destrezza nel castello e nascondervi i timer, poi sa-rebbero stati avvisati i carabinieri. Questa iniziativa hal’obiettivo di riportare le indagini su piazza Fontana versola «pista rossa» proprio mentre Gerardo D’Ambrosio indagasui fascisti. Il progetto però viene abbandonato perché Ro-gnoni lo ritiene troppo fantasioso.

Di Feltrinelli, due anni prima, si occupano Martino Sici-liano e Marco Foscari del gruppo Ordine nuovo di Venezia.Foscari ha un castello di famiglia a Paternion, in Carinzia.

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Non lontano c’è uno chalet di proprietà di Sibilla Melega.Feltrinelli, all’epoca latitante, spesso si rifugia in quello cha-let. Ai due ordinovisti viene allora l’idea di rapirlo, portarloin Italia e farlo trovare alle forze di polizia. Così, armati confucili da caccia, alla guida di un fuoristrada e accompagnatidal guardacaccia di Foscari, un ex Waffen-SS, vanno a pre-levare Feltrinelli. Muniti anche di etere per stordire l’editore,corde per legarlo e un baule da utilizzare per il trasporto oltreconfine. Ma è un piano improvvisato e sono sfortunati: «In-dividuammo senza difficoltà la proprietà dove c’era uno cha-let, ma non riuscimmo a vedere Feltrinelli e anzi lo chaletsembrava chiuso. Abbandonammo quindi il progetto cosìcome era nato», ricorda Siciliano.

Dai timer alla gelignite. Questo esplosivo non esauriscecerto la sua funzione con le bombe del 12 dicembre 1969.Viene usato altre volte dal gruppo ordinovista di Venezia.

Mestre, 27 ottobre 1970. Siciliano prepara un congegno aorologeria, ma poiché non è sicuro di averlo innescato bene,consiglia di affidarsi a una comune miccia collegata alla geli-gnite. Piero Andreatta si occupa di collocare l’ordigno, cheesplode davanti al magazzino Coin in piazza Barche. Ma lagelignite è utilizzata anche in attentati più importanti e mor-tali. Delfo Zorzi, Ordine nuovo di Venezia, consegna a Mar-cello Soffiati, militante del gruppo di Verona, una bomba pre-parata con quell’esplosivo. Soffiati la porta a Milano. Laconsegna a militanti delle SAM (Squadre d’azione Mussolini)milanesi, che si occupano di trasferirla a Brescia. Il 28 maggio1974 in piazza della Loggia c’è una manifestazione indettadal Comitato unitario antifascista bresciano e dai sindacati.Alle 10,20, mentre sta parlando il segretario provinciale dellaFIM-CISL, Franco Castrezzati, la bomba alla gelignite esplode.Risultato: otto morti e circa cento feriti. Questo episodio segnaanche una rottura all’interno di Ordine nuovo: i rapporti traZorzi e Soffiati si guastano, diventeranno quasi nemici. Sof-fiati non perdona al camerata di Venezia di averlo coinvolto inun’azione così importante e che soprattutto si discosta dallastrategia finora seguita: mettere bombe che possano essere at-tribuite alla sinistra.

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XV

DÀGLI ALL’ANARCHICO

I fascisti mettono le bombe. La polizia arresta gli anar-chici. Schema classico di questa storia. Le direttive vengonodall’alto. Si deve colpire a sinistra. E il commissario LuigiCalabresi a Milano, come il suo collega della squadra poli-tica di Roma, Umberto Improta, eseguono con la massimasolerzia. Calabresi, lo stesso pomeriggio in cui scoppiano lebombe del 12 dicembre, punta subito su «quel pazzo crimi-nale di Valpreda». Dopotutto il gioco gli è già riuscito il 25aprile quando ha messo in carcere gli anarchici per gli atten-tati alla Fiera campionaria e alla stazione Centrale di Milano.E non ha gradito che proprio pochi giorni prima, il 7 dicem-bre, il capo dell’ufficio istruzione di Milano, Antonio Amati,sia stato costretto a rilasciarne due, Giovanni Corradini edEliane Vincileone, per mancanza di indizi. Ma adesso, difronte a una strage come quella di piazza Fontana, Calabresi

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non si può accontentare di ragazzi come Paolo Braschi ecompagni. Ha bisogno di un uomo e Valpreda ha l’età giusta,36 anni. Ha bisogno di un personaggio che faccia, come Val-preda, discorsi esagitati. E Valpreda, negli ultimi tempi, haperso quella ironia e autoironia che lo caratterizzavano. Fre-quentando i bar di Brera (un tempo la zona degli artisti diMilano) si lancia in lunghe e accalorate discussioni che sicolorano sempre più di una sorta di «tremendismo verbale».Per di più Brera pullula di confidenti della polizia. E il valoredi un informatore dipende dalla «qualità» delle notizie chepuò passare agli uomini della questura. Così, in un gioco per-verso di rilanci, i discorsi di Valpreda vengono ingigantiti.Valpreda è favorevole agli scontri durante le manifestazioni?Vuole la guerriglia urbana. Parla di «azioni esemplari» fatteda poche persone, ma capaci di galvanizzare le masse? Vuolefare attentati.

Valpreda si fa prendere la mano con affermazioni semprepiù «tremendiste». E quando con due giovani anarchici, Leo-nardo Claps, detto Steve, e Aniello D’Errico, dà vita al bol-lettino ciclostilato «Terra e libertà», organo del Gruppo degliIconoclasti, cioè loro tre, scrive sul numero uno del marzo1969 (l’unico uscito) un articolo dal titolo Ravachol è risorto,che verrà utilizzato dai poliziotti per avvalorare la tesi di Val-preda bombarolo. Ravachol, infatti, è lo pseudonimo di unanarchico francese (François-Claudius Koeningstein) ghi-gliottinato nel 1892 e divenuto famoso nella Parigi di fine se-colo per i suoi attentati dinamitardi. Lo stereotipo dell’anar-chico sedimentato nell’immaginario collettivo. Ebbene, inquesto articolo, dopo aver elencato una serie di piccoli atten-tati (fatti quasi tutti con qualcosa che ricorda più bombecarta,cioè grossi petardi, che veri ordigni esplosivi), Valpreda cosìconclude il suo articolo: «Centinaia di giovani sono pronti aorganizzarsi per riprendere il posto di nemici dello Stato egridare né Dio né padrone, con la dinamite di Ravachol, colpugnale di Caserio, con la pistola di Bresci, col mitra di Bon-not, le bombe di Filippi e di Henry. Tremate borghesi! Rava-chol è risorto!».

Se la polizia gongola per questa prosa allucinante, Giu-seppe Pinelli è furente. «Ho buttato fuori dal Ponte quel pirla

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di Valpreda», riferisce ai suoi compagni del gruppo Bandieranera. Da quel momento, è l’inizio del 1969, i rapporti tra Pi-nelli e Valpreda si raffreddano completamente. E quando, il2 novembre, Pinelli partecipa a Empoli al convegno dei GIA(Gruppi di iniziativa anarchica, una delle tre componenti delmovimento anarchico organizzato, con la FAI, Federazioneanarchica italiana, e i GAF, Gruppi anarchici federati; aquest’ultima aderisce il gruppo Bandiera nera di cui fa partePinelli) lo scontro con Valpreda diventa plateale. Dopo ilconvegno gli anarchici si riuniscono in una trattoria. Val-preda saluta Pinelli, ma lui non gli risponde, anzi prendel’occasione per dirgli che non lo considera un amico, quindinon c’è alcun motivo per salutarlo. Valpreda, offeso davantia tutti i presenti, ha uno scatto d’ira e getta contro Pinelli unasaliera. È l’ultima volta che i due si vedono.

A Roma, Valpreda entra in dissidio con gli anarchici delCircolo Bakunin. Troppo seduti, capaci solo di fare discorsi,mentre è arrivato il momento di agire perché studenti e ope-rai stanno scalzando il vecchio regime, dice in più occasioniValpreda. E così con un gruppo di giovani (Roberto Man-der, Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola, Emilio Borghese)dà vita al Circolo 22 marzo. A questo gruppo si unisconoMario Merlino, formalmente ex di Avanguardia nazionale, eil «compagno Andrea», cioè Salvatore Ippolito, agente dipubblica sicurezza. Questi due infiltrati saranno affiancati,ma in modo molto saltuario e più esterno, da Stefano Ser-pieri, uno dei fondatori, con Pino Rauti, di Ordine nuovo edalla metà degli anni Sessanta stabile informatore del SID. Ilruolo di Serpieri è marginale, ma penserà lui stesso a in-grandirlo presso i suoi superiori. Dopotutto deve pur sem-pre giustificare i compensi che il SID gli passa.

Sottoposti a questi controlli, gli aderenti al Circolo 22marzo iniziano a fare «politica», che per loro significa parte-cipare a manifestazioni con scontri finali, fare azioni dimo-strative (il 7 ottobre, guidati da Merlino, lanciano una botti-glia molotov contro il portone della sede del Movimentosociale a Colle Oppio). Insomma si mettono in mostra.

Valpreda è il più anziano, può vantare una buona cono-scenza del pensiero anarchico, è quindi naturale che divenga

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l’elemento di spicco del 22 marzo. E la polizia, ovviamente,lo sa. Dopo le bombe del 9 agosto Valpreda viene fermatouna dozzina di volte. La polizia cerca anche di corromperlocon promesse di soldi (800 mila lire) e facendogli balenare lapossibilità di avere un contratto con la RAI. Ma Valpreda nonci sta e manda i poliziotti a quel paese. Così si intensificanoi controlli su quel gruppo, anche se non fa niente di più diquanto stanno facendo molti altri gruppi dell’estrema sini-stra. Perché allora tanta attenzione? La risposta è semplice:Valpreda è stato prescelto. Se la situazione politica dovesserichiederlo può essere un comodo capro espiatorio. Non im-porta che non stia facendo nulla di particolarmente grave: èanarchico, fa parte di un gruppo che, in pratica, si è autoiso-lato dagli altri anarchici romani, fa discorsi arroventati, lan-cia (o forse ne parla soltanto) qualche molotov. La sua im-magine risponde al copione che gli si potrebbe affidare. Nonimporta se innocente.

Solo ragionando secondo questa logica si può compren-dere come mai Calabresi subito dopo le bombe chieda a tuttigli anarchici fermati, con insistenza, notizie di «quel pazzocriminale di Valpreda». Calabresi sa che c’è della rugginetra Valpreda e Pinelli, così come sa che l’anarchico romanoAldo Rossi non vede di buon occhio «quel milanese che fasolo casini». Forse è anche convinto che buttando quell’ac-cusa di strage contro Valpreda, gli altri anarchici non reagi-scano. Accusino il colpo che li coinvolge come immagine,ma che dopotutto si circoscrive solo a Valpreda e a qualcunodel 22 marzo. Ma il commissario si sbaglia. Anche perché ciscappa il morto: Pinelli.

Avviene un fatto imprevisto: un piccolo movimento checonta poche migliaia di aderenti in tutta Italia, con una pron-tezza e una determinazione che ha quasi dell’incredibile, simobilita. Inizia una campagna di controinformazione che,se all’inizio vede gli anarchici praticamente soli, nel giro dipoche settimane coinvolge settori sempre più ampi della si-nistra, fino a contagiare anche persone poco politicizzate.Alla fine del gennaio 1970, decine di migliaia di milanesiscendono in piazza per manifestare contro la repressione se-guita alla strage di piazza Fontana. Ma il termine «strage di

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Stato» non è ancora entrato nel vocabolario della sinistra. In-fatti, il 24 marzo 1970, gli anarchici milanesi sono ancorasoli quando manifestano all’insegna di quello slogan. Perònei mesi successivi, altre manifestazioni, comizi, dibattitipubblici, prese di posizione di intellettuali e di uomini di cul-tura, segnano un cambiamento profondo nell’atteggiamentodi molti. Valpreda da colpevole diventa innocente, la «morteaccidentale di un anarchico» diventa una farsa di Dario Foche gira per l’Italia e all’estero mettendo in ridicolo le ver-sioni della polizia, la quasi totalità dei registi italiani firma undocumentario sulle varie ipotesi che possono avere causatola morte di Pinelli. Un film che suona come un atto di ac-cusa contro la polizia e soprattutto contro Calabresi. In-somma quella strage comincia a pesare su poliziotti, magi-strati e servizi segreti.

Dopo tre anni il parlamento arriva a votare, il 15 dicembre1972, una legge (la numero 773) che permette di scarcerareValpreda e che prende proprio il nome di «legge Valpreda».L’articolo 2 prevede la possibilità di concedere «la libertàprovvisoria all’imputato che si trova nello stato di custodiapreventiva [...] anche nei casi di emissione obbligatoria delmandato di cattura». È esattamente la condizione in cui sitrovano gli anarchici del Circolo 22 marzo. Il 30 dicembre,con Valpreda, riacquistano la libertà Borghese, Gargamelli eovviamente anche Merlino. Mentre Mander è già stato libe-rato da diversi mesi e Di Cola ha da tempo raggiunto la Sve-zia, dove viene accolto come rifugiato politico.

Il mensile «A-rivista anarchica» (all’epoca vende oltre 10mila copie), nel gennaio 1973 esce con un editoriale dal titoloUna vittoria nostra: «Valpreda, Gargamelli, Borghese sonoliberi! [...] Il governo s’è mosso sotto la pressione di ‘autore-voli’ settori di opinione pubblica democratica. Sarebbe sto-lido trionfalismo ritenere d’averlo mosso noi, gli anarchici, irivoluzionari. Eppure siamo convinti, senza vanagloria, chesi tratti di una vittoria nostra, non dei democratici. In primoluogo perché noi abbiamo smosso questa opinione pubblicademocratica dal suo abituale torpore, noi l’abbiamo costrettaa scandalizzarsi, a indignarsi. In secondo luogo perché, no-nostante tutto, le strutture repressive dello Stato ‘democra-

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tico’ escono malconce dalla faccenda, nell’immagine pub-blica, anziché ridipinte a nuovo di democraticità. Vittoria no-stra, ripetiamo, e non accettiamo il disfattistico pessimismo dichi, nella scarcerazione, vede solo una manovra astuta delpotere. C’è anche questo, certo [...] ma la scarcerazione diValpreda, Gargamelli e Borghese resta sostanzialmente unasconfitta per lo Stato e una vittoria per noi».

L’andamento dei processi sulla strage di piazza Fontana,che si concluderanno nel 1991 e poi nel 2005, dimostreràperò che chi aveva gestito all’interno dello Stato la strategiadella tensione non si era certo dato per vinto.

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XVI

SULLE TRACCE DEI FASCISTI

Pasquale Iuliano ci ha provato, ma gli è andata male. Ilcapo della squadra mobile di Padova, Juliano, nella prima-vera del 1969 comincia a interessarsi dell’attività di ungruppo neonazista che opera in quella città. Alcuni suoi con-fidenti, Niccolò Pezzato e Francesco Tomasoni, gli hannodetto che i responsabili degli attentati alla casa del questore,Francesco Allitto Bonanno, il 30 aprile 1968, e allo studiodel rettore dell’università, Enrico Opocher (15 aprile 1969),sono opera di un gruppo che fa capo a Franco Freda. Julianoallora predispone appostamenti sotto la casa di MassimilianoFachini, convinto che sia lui il custode di armi ed esplosividel gruppo. E lì, una sera di metà giugno, Juliano sorprende,grazie anche ai soliti informatori, Giancarlo Patrese (anchelui del gruppo di Freda) con una bomba e una rivoltella. Faarrestare Patrese, Fachini e anche Gustavo Bocchini, nipote

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di Arturo, ex capo della polizia durante il fascismo. Julianocrede di avere iniziato lo smantellamento del gruppo dina-mitardo, ma invece si trova coinvolto in un «affaire» piùgrande di lui. Patrese dichiara che armi ed esplosivo gli sonostati dati proprio dal confidente di Juliano, Pezzato, che eraentrato con lui a casa di Fachini. Questa versione viene smen-tita dal portiere dello stabile, Alberto Muraro, ex carabiniere:Patrese è entrato e uscito da solo. Ma quella testimonianzanon basta e Juliano viene accusato di aver organizzato unaprovocazione contro i tre fascisti. Con tempestività intervieneil direttore dell’ufficio affari riservati del ministero dell’In-terno, Elvio Catenacci (cioè lo stesso funzionario che dopo lamorte di Pinelli compie un’indagine alla questura di Milano).Catenacci ordina la sospensione di Juliano dall’attività e dallostipendio. Juliano dopo due anni verrà reintegrato e trasfe-rito a Ruvo di Puglia.

Inizia l’opera di dissuasione. I confidenti Pezzato e To-masoni vengono incarcerati nella stessa cella con Patrese,che li convincerà a ritrattare. Mentre Muraro, il 13 settembre,viene trovato morto in fondo alla tromba delle scale. Morteaccidentale, concluderanno gli investigatori, senza neppurefar sottoporre il cadavere ad autopsia, come previsto in que-sti casi. «Un giorno o l’altro verrai qui in cerca di me e mitroverai con una legnata in testa in cantina oppure nella bucadell’ascensore», aveva confidato Muraro, poco prima di mo-rire, all’amico Italo Zaninello.

Il 15 settembre Muraro doveva presentarsi al magistratoche indagava su Juliano. Quest’ultimo verrà poi definitiva-mente assolto nel 1979, mentre presta servizio a Matera.

L’ufficio affari riservati è un’altra volta intervenuto conefficienza: Freda non deve essere ostacolato.

Nonostante le protezioni di cui gode, Freda si trova difronte un’altra persona che indaga su di lui. È il maresciallodei carabinieri Alvise Munari. Tradizioni contadine, la suafamiglia lavora da generazioni i campi che circondano Bas-sano del Grappa, Munari è stato incaricato dal giudice istrut-tore di Treviso, Giancarlo Stiz, di approfondire una pista cheparte dalle rivelazioni di un professore di francese di Mase-rada, Guido Lorenzon, iscritto alla Democrazia cristiana.

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Vittorio Veneto, 15 dicembre 1969. Lorenzon si presentaad Alberto Steccanella, avvocato di quella città. Gli fa unlungo e contorto discorso su un suo amico, Giovanni Ven-tura, editore e libraio a Castelfranco Veneto. Ventura, diceLorenzon, gli ha parlato nel pomeriggio del 13 dicembre,dopo essere rientrato da Milano o da Roma, degli attentatidel 12 dicembre. E ha mostrato tali conoscenze della dina-mica dei fatti e dei luoghi da lasciarlo impressionato.

L’avvocato Steccanella intuisce che il racconto di Loren-zon può portare a rivelazioni importanti, così gli chiede dipreparare un memoriale. Tre giorni dopo Lorenzon conse-gna a Steccanella i suoi appunti. Il 26 dicembre, resosi contodella gravità dei fatti riferiti da Lorenzon, l’avvocato va dalprocuratore di Treviso. Gli riferisce quanto appreso dal suocliente: nel Veneto c’è un’organizzazione eversiva, forse im-plicata nella strage, sostenuta dal conte Piero Loredan di Vol-pato del Montello.

Il 31 dicembre Lorenzon si presenta al pubblico ministerodi Treviso, Pietro Calogero, e gli riferisce le confidenze diVentura. L’editore in maggio ha deposto una bomba, poi ine-splosa, in un ufficio pubblico di Milano. Ha finanziato gliattentati ai treni in agosto. Conosce perfettamente il sotto-passaggio della Banca nazionale del lavoro dove è esplosauna bomba il 12 dicembre e non capisce come mai non siaesplosa quella alla Banca commerciale di Milano. In set-tembre Ventura gli ha mostrato un timer alimentato da unabatteria. Inoltre sta preparando un nuovo ordigno da utiliz-zare contro il presidente USA, Richard Nixon, durante il suoprossimo viaggio in Italia.

Sono rivelazioni importanti. Così, il 12 febbraio 1970, ilgiudice istruttore di Roma, Ernesto Cudillo, deve sentirequesto teste veneto. Ma non ne rimane impressionato. Tut-tavia non può ignorare completamente quell’incontro: il po-meriggio dello stesso giorno, alla fine di un interrogatorio aPietro Valpreda, chiede all’anarchico se conosce alcune per-sone che rispondono al nome di Giovanni Ventura e GuidoLorenzon. «Non ho conosciuto gente che si chiamasse così.Gli unici due Ventura che ho incontrato e che conosco sonoentrambi ballerini», risponde Valpreda.

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Il 4 gennaio 1970, inoltre, Lorenzon è preso dai rimorsiper aver tradito l’amico Ventura. Gli confida di essere an-dato dai magistrati. Ventura e Freda allora iniziano a eserci-tare forti pressioni sul professore di francese. Ci sarà un’al-talena di dichiarazioni e ritrattazioni. Ma ritrattazionianomale, come chiarirà più tardi ai giudici lo stesso Loren-zon: «Pensai di ritrattare una cosa che non avevo mai affer-mato. Io riferivo di cose che avevo udito, di cose che nonavevo visto, ma mai avevo detto per esempio che il Venturafosse andato a piazza Fontana e che il Ventura avesse messole bombe sui treni, ma sempre che lui mi aveva detto quelloche successivamente riferivo. Nella ritrattazione invece di-chiarai che secondo me il Ventura era estraneo a qualsiasifatto, quindi ritrattai una cosa che non avevo affermato conla segreta speranza che questa dichiarazione potesse esseregiudicata per come era, cioè falsa. Fu soltanto un mezzo perguadagnare tempo, perché in quei giorni il magistrato era as-sente e io avevo tutti i giorni a che fare con Ventura».

Alla fine gli inquirenti muniscono Lorenzon di un regi-stratore da utilizzare in segreto durante i colloqui con Ven-tura. Le bobine vengono poi inviate a Roma, a Cudillo e alsuo collega Vittorio Occorsio, pubblico ministero. Che perònon vi trovano nulla di interessante. Occorsio arriva ad af-fermare: «Le accuse di Lorenzon sono destituite da qualsiasifondamento. Nei lunghi discorsi registrati si nota soltantoche il Ventura non fa confidenze di sorta e anzi parla in ter-mini che chiaramente dimostrano la sua estraneità ai fatti.Non esiste neppure un elemento che possa far pensare che ilVentura, anche marginalmente, sia stato complice negli at-tentati del 12 dicembre 1969». Per Cudillo e Occorsio, Ven-tura è «una brava persona» e Freda «un galantuomo». In-somma, due onesti cittadini ingiustamente calunniati daLorenzon.

Giudizi non condivisi dai magistrati di Treviso. Quando,alla fine del 1970, le bobine tornano a Stiz, la musica cambia.Il giudice, dopo aver attentamente ascoltato le registrazionidei colloqui, convoca subito Lorenzon, che gli riconfermatutto. Stiz prosegue nelle indagini, legge con attenzione il li-bretto La giustizia è come un timone: dove la si gira va,

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scritto da Freda per attaccare l’inchiesta di Juliano, ascoltaaltri testimoni e, il 13 aprile 1971, incrimina Freda, Venturae Aldo Trinco per associazione sovversiva e soprattutto pergli attentati del 25 aprile a Milano e del 9 agosto sui treni. Mai difensori dei tre chiedono che siano i giudici di Padova aoccuparsene per competenza territoriale. Gli indiziati ven-gono rilasciati.

Nuovo colpo di scena. Il 5 novembre a Castelfranco Ve-neto (Treviso) nella casa di Giancarlo Marchesin, esponentesocialista della città, i muratori, durante lavori di ristruttura-zione, trovano dietro un muro una cassetta piena di armi. In-terrogato da Stiz, Marchesin ammette che quella cassetta gliè stata consegnata da Franco Comacchio per conto di Gio-vanni Ventura. In quella cassetta (che Comacchio riceve daRuggero Pan, commesso nella libreria di Ventura e all’epocain servizio militare), inizialmente c’era anche esplosivo.Questo, però, Comacchio lo ha nascosto nella campagna vi-cino a Crespano. Il 7 novembre Comacchio accompagna icarabinieri di Treviso a recuperare l’esplosivo. Ma i militi,senza avvertire Stiz, fanno subito brillare i 35 candelotti.Composti da che cosa? Considerato il caratteristico odore dimandorle amare che si avverte dopo l’esplosione dovrebbetrattarsi dell’ormai famosa gelignite. Si scoprirà poi, dalledichiarazioni di Carlo Digilio al giudice Guido Salvini, chea partire dal 1967 i gruppi ordinovisti di Padova e Veneziadisponevano di un casolare in località Paese (vicino a Tre-viso) in cui avevano concentrato una grande quantità diesplosivi e armi che lo stesso Digilio insegnava a usare. E siscoprirà che quelle poche armi rinvenute a casa di Marche-sin, altro non erano che una piccolissima parte dell’arsenaledei due gruppi, disperso dopo la strage di piazza Fontana.

Pan, interrogato dai giudici, comincia a parlare: armi edesplosivi gli sono stati consegnati da Ventura. Perché? Pandal 1968 lavora nella libreria di Ventura, poi, il 10 marzo1969, viene assunto, grazie all’interessamento di Freda,come assistente nell’Istituto per ciechi Configliaschi. Il cu-stode è Marco Pozzan, uno dei fedelissimi di Freda. Fredacerca di arruolare nel suo gruppo il giovane Pan e gli faanche diverse confidenze sugli attentati che stanno facendo

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a Padova e in altre città. Tutte queste informazioni finisconoin un memoriale che Pan scrive in carcere, con pesanti ac-cuse, soprattutto per gli attentati ai treni, a Ventura e Freda.

A questo punto delle indagini salta fuori anche il nome diPino Rauti, fondatore di Ordine nuovo, giornalista del quo-tidiano «Il Tempo» e autore con un altro giornalista, GuidoGiannettini (personaggio importante di cui si parlerà ancorain questa storia), del libro Le mani rosse sulle Forze armatefirmato con lo pseudonimo Flavio Messalla. Rauti risultacoinvolto nell’attività eversiva di Freda e Ventura. Ad accu-sarlo è Pozzan: sostiene che ha partecipato a una riunionedel gruppo tenuta a Padova il 18 aprile (in cui sarebbero statidecisi gli attentati a Milano del 25 aprile). Stiz e Calogero in-viano a Roma il maresciallo Munari che arresta Rauti per ilreato di strage. È il 4 marzo 1972. Poi il 22 marzo Freda eVentura vengono indiziati per la strage di piazza Fontana.

L’individuazione di questo reato impone ai magistrati tre-vigiani di passare la mano ai colleghi milanesi. Da quel mo-mento se ne occupa il giudice istruttore Gerardo D’Ambro-sio. Rauti nega ogni addebito. Pozzan ritratta (rimesso inlibertà verrà fatto espatriare in Spagna con l’aiuto del SID). Ildirettore del «Tempo», Renato Angiolillo, e alcuni redattorisostengono che Rauti quel 18 aprile era al lavoro in reda-zione; così, un mese dopo, il 24 aprile, D’Ambrosio rimettein libertà Rauti per insufficienza d’indizi. Il 7 maggio ci sonole elezioni politiche: Rauti viene eletto deputato nelle listedel Movimento sociale. Probabilmente Pozzan ha tirato inballo Rauti, dietro indicazione di Freda, per coinvolgere unpersonaggio che mobiliti il MSI nella difesa di Rauti e quindianche di Freda.

D’Ambrosio ha però maggior fortuna con Ventura.Quest’ultimo ammette di essere corresponsabile di alcuni at-tentati: maggio 1969 a Torino, luglio a Milano. E soprattuttoinizia a coinvolgere l’amico Freda nel giro degli attentati: èil legale padovano che gli consegna le bombe. È sempreFreda che preannuncia gli attentati dell’agosto. Viene cosìriconfermato, punto per punto, quanto aveva già confessatoLorenzon alla fine del 1969. Sono passati, però, quasi quat-tro anni.

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Ma dagli interrogatori dei giudici di Treviso e Milanoemerge un altro fatto, ben più grave per Ventura: era sicura-mente a Roma nel pomeriggio del 12 dicembre 1969. Ven-tura, alla fine, ammette la circostanza, ma accampa un alibimolto fragile che verrà demolito: il suo viaggio nella capitaleè avvenuto perché il giorno prima gli è stato comunicato cheil fratello Luigi, alloggiato in un pensionato cattolico, haavuto una crisi epilettica. La crisi è vera, ma è falsa la data.Luigi Ventura ha avuto la crisi il 14 dicembre alle ore 12,30(cioè domenica e non venerdì), dichiara don Pietro Sartorio,economo del pensionato. Avvisato da altri ragazzi, don Sar-torio chiama subito un’ambulanza della Croce rossa. Conquesta arriva anche un medico, ricorda don Sartorio, che vi-sita il ragazzo e non ritiene necessario il ricovero: la crisi èormai passata. A quel punto l’economo avvisa la famigliaVentura della crisi avuta dal figlio e lamenta di non esserestato informato delle condizioni di salute del ragazzo. Ven-tura è smentito, ma c’è dell’altro. Ventura afferma che quelpomeriggio, dopo aver telefonato al pensionato e saputo cheil fratello Luigi sta meglio, va a trovare un amico di famiglia,Diego Giannolla, nel suo studio di avvocato. Poi va nellasede della casa editrice Lerici per incontrare il suo socio Ri-naldo Tomba. Circostanze che i due smentiscono. Infinepassa la sera del 12 dicembre in casa del suo amico AntonioMassari che lo ospita per la notte. Ma Ventura non ha dor-mito soltanto quella notte a Roma: secondo le schede dell’al-bergo Locarno, ha soggiornato nella capitale tra il 5 e l’8 di-cembre, e la notte tra il 10 e l’11 sempre di dicembre. E il 13dicembre Ventura è finalmente a casa. Incontra nel pome-riggio l’amico Lorenzon. Galvanizzato da quanto è successoa Roma e a Milano, comincia a fare quelle confidenze che,riferite da Lorenzon prima all’avvocato Steccanella e poi aimagistrati di Treviso, coinvolgeranno Ventura e Freda negliattentati.

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XVII

IL «COMMISSARIO FINESTRA»

Un colpo di pistola. Un altro. Risuonano in via Luigi Che-rubini, quasi all’angolo con via Mario Pagano, a Milano. Unuomo si allontana rapidamente. Sale su una macchina.Scompare. Sul marciapiede è rimasto il commissario LuigiCalabresi. Morto. È il 17 maggio 1972. Finisce così la vitadel funzionario di polizia che gran parte della sinistra indicacome il responsabile della morte di Giuseppe Pinelli. Mentremolti giornali della sinistra extraparlamentare, soprattutto ilsettimanale «Lotta continua», accusano apertamente il com-missario, nei cortei gli slogan più ripetuti sono: «Calabresiassassino», «Pinelli sarai vendicato». E i muri di molte cittàsono tappezzati di manifesti che ritraggono Calabresi con lemani insanguinate. Per una parte consistente dell’opinionepubblica il commissario, nato a Roma nel 1937, non è piùsoltanto un funzionario brillante, laureato, sempre elegante

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con maglioni dolcevita e che si presenta come un «liberal»che vota per i socialdemocratici. È diventato un protagonistadella strategia della tensione.

La campagna stampa di «Lotta continua» diventa ancorapiù accesa quando i giornalisti incaricati di seguire le vicendedel Palazzo di giustizia si rendono conto che l’inchiesta sullamorte di Pinelli verrà archiviata senza responsabilità per lapolizia. E infatti il sostituto procuratore Giovanni Caizzichiude in questo senso l’inchiesta il 21 maggio 1970. Il di-segno dei redattori di «Lotta continua» è chiaro: provocareCalabresi, ribattezzato «commissario finestra», perché que-reli il giornale e si possa così riaprire, anche nei tribunali, il«caso Pinelli». Il 15 aprile Calabresi querela Pio Baldelli, di-rettore responsabile di «Lotta continua», per «diffamazionecontinuata e aggravata dall’attribuzione di un fatto determi-nato», cioè la responsabilità della morte di Pinelli. Ma il pro-curatore generale di Milano, Enrico De Peppo, aspetta piùdi un mese per assegnare questa causa a un magistrato e in-tanto sollecita Caizzi perché completi l’istruttoria. Il pro-cesso deve iniziare dopo che Caizzi abbia stabilito come ac-cidentale la morte di Pinelli.

Il 9 ottobre 1970 parte il confronto-scontro in tribunaletra Calabresi e Baldelli. È un processo carico di aspettative,preceduto in settembre da un appello, pubblicato sul setti-manale «L’Espresso», firmato da intellettuali, docenti uni-versitari e uomini politici italiani (tra questi Elvio Fachinelli,Lucio Gambi, Giulio Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci,Carlo Salinari e Mario Spinella). La lettera aperta inizia conuna constatazione: «Pino Pinelli, ferroviere, è morto nellanotte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, precipitando da una fi-nestra della questura di Milano. Non sappiamo come. Sap-piamo soltanto che era innocente». I firmatari, dopo aver cri-ticato l’archiviazione dell’indagine su quella morte e larichiesta di non dare seguito alla denuncia fatta dai familiaridi Pinelli contro il questore Marcello Guida, che ha diffa-mato l’anarchico, concludono: «Dobbiamo rispetto al magi-strato, ma non possiamo non attribuirgli la stessa responsa-bilità di chi ha ucciso un’altra volta Giuseppe Pinelliinchiodandone il ricordo a colpe che non aveva commesso,

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e la responsabilità, abbastanza grave, di chi uccide in noi lafiducia in una giustizia che non è più tale quando non può ri-conoscersi in essa la coscienza dei cittadini». Ma c’è ancheun film che sta ottenendo un grande successo. Si intitola In-dagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. RegistaElio Petri, è interpretato da Gian Maria Volonté. La colonnasonora è di Ennio Morricone. E per gli spettatori l’accosta-mento tra il commissario Volonté e il commissario Calabresiè immediato.

Al processo, Calabresi è difeso da Michele Lener. Mentregli avvocati di Baldelli sono Marcello Gentili e Bianca Gui-detti Serra. Il giudice è Carlo Biotti, pubblico ministero Emi-lio Guicciardi. Fuori, attorno al Palazzo di giustizia, c’è unoschieramento imponente di poliziotti e carabinieri.

La prima udienza vede l’aula del tribunale stracolma,gente che grida subito «assassino» quando entra Calabresiper deporre. Il commissario parla di Pinelli come di unabrava persona con cui aveva scambi di vedute. All’anarchicoaveva regalato anche un libro (Enrico Emanuelli, Un milionedi uomini) e Pinelli aveva contraccambiato con Antologia diSpoon River, di Edgar Lee Masters. Gli interrogatori a Pi-nelli li faceva perché comandato e le indagini venivano fattein tutte le direzioni. Insomma con Pinelli quel 15 dicembre ilclima era disteso, solo una volta aveva usato una frase a ef-fetto: «Valpreda ha parlato». Ma tutto era finito lì. E al mo-mento del volo di Pinelli, Calabresi era nell’ufficio del suocapo, Antonino Allegra. Calabresi ovviamente tace le mi-nacce che da mesi faceva all’anarchico quando, accortosi dinon poter affatto contare sulla collaborazione di Pinelli, loaveva preso di mira. «In settembre, durante un picchettaggioa San Vittore fatto per chiedere la liberazione degli anarchiciarrestati per le bombe del 25 aprile, Calabresi si avvicinò aPinelli e dopo uno scambio di battute gli disse con tono irato:‘Te la faremo pagare’», ricorda Cesare Vurchio, del CircoloPonte della Ghisolfa, presente a quel colloquio.

Nelle udienze successive si assiste alla sfilata degli altripoliziotti. Il copione è sempre lo stesso, perfino con identicheparole («sereno e disteso», «sbiancò in volto», «recepii lanotizia»). Si diffonde l’impressione che tutti stiano ripetendo

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una lezione imparata a memoria. Con vistose differenze,però, rispetto a quanto hanno precedentemente dichiarato algiudice Caizzi. Gli orari vengono spostati: la fine dell’inter-rogatorio non è più mezzanotte, ma le 23,30. La finestra nonviene spalancata, ma un’anta resta chiusa. Savino Lograno,da poco promosso capitano dei carabinieri, ha sempre tenutod’occhio Pinelli e lo vede volare giù dalla finestra, ma in tri-bunale non l’ha più visto: guarda la finestra spalancata men-tre due agenti, rimasti imprigionati dietro le ante, non rie-scono a bloccare l’anarchico.

Ma il momento di maggiore assurdità arriva con la depo-sizione del brigadiere Vito Panessa. Si contraddice, parla aruota libera, ammette e subito smentisce. Fino a quando faanche una negazione che suona come involontaria ammis-sione: «Ho detto che non sono in grado di fare delle precisa-zioni; però, grosso modo, si tenga presente che non è che c’èstata una versione concordata e quindi c’è stata una verificadi quello... Ognuno di noi è andato dal signor giudice Caizzie ha dato quella versione che...». Il giudice Biotti tempesti-vamente lo interrompe: «Signor Panessa lei parla troppo!». Epoi chiede a Panessa: «Cos’è questa storia della versioneconcordata?». Risposta di Panessa: «Non è che c’è stato unoscambio di idee fra noi che eravamo presenti: ognuno ilgiorno successivo è venuto dal giudice e ha raccontato quelloche ricordava».

Il processo continua per cinque mesi con toni simili, maalla fine i difensori di Baldelli ottengono una prima vittoria:il corpo di Pinelli verrà riesumato e sottoposto a nuova peri-zia medico-legale. A che cosa puntano Gentili e GuidettiSerra? Vogliono far verificare se sul corpo di Pinelli ci possaessere anche traccia di un colpo di karate sferrato durante gliinterrogatori. Colpo che avrebbe provocato un malore forseirreversibile di Pinelli. Con successiva defenestrazione. Ed èproprio quello che Lener non vuole assolutamente. Colpo discena. Lener chiede la ricusazione del giudice Biotti: nondeve più presiedere quel processo. Il 7 giugno 1971 la Corted’appello rimuove Biotti dall’incarico. Perché? Il giudice,come riferito da Lener, ha chiesto un colloquio con il difen-sore di Calabresi il 21 novembre 1970. Gli avrebbe parlato

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delle pressioni ricevute dall’alto perché il processo si con-cluda con l’assoluzione di Baldelli e gli avrebbe detto che«tanto lui che gli altri due giudici erano convinti che il fa-moso colpo di karate fosse stato inferto a Pinelli e gli avesseleso il bulbo spinale».

La ricusazione di Biotti è la carta vincente che gioca il di-fensore di Calabresi quando forse è ancora possibile stabilire(anche se è passato un anno e mezzo) come è morto Pinelli.Il processo si arena. Parte un’altra inchiesta su denuncia dellavedova di Pinelli, Licia, affidata al giudice istruttore GerardoD’Ambrosio, che il 4 ottobre del 1971 emette un avviso peromicidio volontario contro Calabresi, Lograno, Panessa,Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi e Pietro Mucilli, cioè ipoliziotti che interrogavano Pinelli. D’Ambrosio fa riesu-mare il corpo dell’anarchico. È il 21 ottobre. Ma, come so-stengono molti scienziati e medici, ormai è difficile scoprirequalcosa, visto l’avanzato stato di decomposizione. La vi-cenda si avvia verso la sentenza del 27 ottobre 1975. Cala-bresi, commissario non più aggiunto, ma capo, è morto da treanni. Quella sentenza individua nel famoso «malore attivo»la causa della morte di Pinelli. D’Ambrosio proscioglie tuttigli imputati perché «la mancanza assoluta di prove che unfatto è avvenuto equivale nel nostro sistema processuale,come in quello degli altri Stati più progrediti, alla prova cheun fatto non è avvenuto».

Però il «caso Calabresi» non si chiude. Il 17 maggio 1973viene inaugurato un monumento al commissario nel cortiledella questura di Milano, in occasione del primo anniversariodella sua morte. Partecipa il ministro dell’Interno, MarianoRumor. Gianfranco Bertoli, rientrato in Italia da Israele, lan-cia una bomba contro l’entrata della questura. Il suo intento,dichiara dopo l’arresto, è colpire le autorità che commemo-rano Calabresi. Ma un poliziotto con un calcio devia la bombache finisce tra la folla. Una strage: quattro morti e quasi qua-ranta feriti. Bertoli afferma di essere un anarchico individua-lista. Ma subito parte una campagna stampa su quasi tutti igiornali che lo definiscono un fascista, portando come proveuna serie di fatti (assalti a sedi di partiti di sinistra e altro) cheperò cadranno durante il dibattimento. Nato a Venezia nel

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1933, Bertoli, che fino al 1952 è iscritto alla Federazione gio-vanile del PCI, ha un passato di piccolo delinquente. Per annientra ed esce di galera. Dopo la strage viene condannatoall’ergastolo l’1 marzo 1975. Sentenza confermata in appelloil 9 marzo 1976. Il 28 novembre 2000 muore Gianfranco Ber-toli. Ma il suo caso non è chiuso. Già l’11 marzo di quell’annola Corte d’assise di Milano ha condannato all’ergastolo perl’attentato alla questura di Milano i soliti noti: Carlo MariaMaggi, Francesco Neami, Giorgio Boffelli e Amos Spiazzi.L’ex SID Gianadelio Maletti si prende quindici anni per oc-cultamento di documenti. Ma il 27 settembre 2002 la Corted’appello assolve tutti. Poi l’11 luglio 2003 la Cassazione an-nulla le assoluzioni a Maggi, Neami e Boffelli, mentre ritienedefinitive quelle di Spiazzi e Maletti. L’1 dicembre 2004 laCorte d’assise d’appello conferma le assoluzioni degli ultimitre imputati. Stesso copione in Cassazione il 13 ottobre 2005.

E chi ha ucciso Calabresi? Tutto tace fino al 2 luglio 1988.Quel giorno Leonardo Marino, ex operaio alla FIAT ed ex mi-litante di Lotta continua si presenta ai carabinieri di La Spezia(lì vicino, a Bocca di Magra, ha un chiosco dove vende crê-pes). Vuole confessare la responsabilità sua e dei suoi com-pagni per l’assassinio di Calabresi. Ma passeranno diciassettegiorni prima che venga firmato un verbale. Perché? Mistero.Portato a Milano, trascorrono altri sette giorni perché facciauna completa confessione. Altro mistero. Il 28 luglio, oltre aMarino, vengono arrestati Adriano Sofri, Ovidio Bompressi eGiorgio Pietrostefani. Sofri è stato il leader indiscusso di Lottacontinua e Pietrostefani il capo del movimento a Milano.

Inizia un lungo iter processuale. L’accusa si basa quasiesclusivamente sulla confessione di Marino: lui alla guidadell’auto, Bompressi l’esecutore materiale dell’omicidio,Sofri e Pietrostefani i mandanti. La prima sentenza è del lu-glio 1991. Tutti condannati: mandanti ed esecutore a venti-due anni di carcere, Marino a undici. La Cassazione, il 23ottobre 1992, annulla la sentenza per insufficiente motiva-zione. Così il 21 dicembre 1993 la Corte d’assise d’appelloassolve tutti. Nuovo annullamento della sentenza il 27 otto-bre 1994. Poi una terza Corte d’appello condanna ancoraSofri, Bompressi e Pietrostefani a 22 anni, mentre Marino,

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grazie alle attenuanti, vede il suo reato prescritto. Atti finali:il 22 gennaio la Cassazione conferma le condanne. E il 5 ot-tobre 2000 la Cassazione respinge la richiesta di revisionedel processo. La condanna è definitiva.

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XVIII

L’IMPORTANTE È DEPISTARE

Quando il 17 dicembre 1969 gli anarchici milanesi delPonte della Ghisolfa accusano, durante una conferenzastampa, il ministero dell’Interno di coprire i colpevoli dellastrage di piazza Fontana, sollevano l’incredulità e l’ironiadei giornalisti presenti. Che scrivono di «ragazzi sotto lochoc subìto in questi giorni». I fatti hanno dimostrato chequell’accusa non era campata in aria.

Bisogna infatti guardare da vicino che cosa fa negli anniSessanta e Settanta l’ufficio affari riservati del ministerodell’Interno. Alla guida di quel centro di spionaggio e di po-tere c’è Federico Umberto D’Amato, nato a Marsiglia nel1919, da padre piemontese e madre napoletana. D’Amato simette in luce fin da giovane, quando, nel 1945, gestisce icontatti con i servizi d’informazione della repubblica di Salò.L’obiettivo è recuperare gli archivi dell’OVRA, la polizia se-

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greta di Benito Mussolini. Nel 1957 entra al Viminale comesemplice funzionario e all’ufficio affari riservati sale fino almassimo grado la scala gerarchica. Ma dopo la strage di Bre-scia, il 30 maggio 1974 D’Amato viene sostituito. Resta peròal Viminale e di fatto controlla ancora quell’ufficio, cosìcome lo controllava anche quando i direttori erano Elvio Ca-tenacci e Ariberto Vigevano, suoi superiori solo formal-mente. Alla metà degli anni Ottanta deve andare in pensione;allora D’Amato trasferisce all’estero molti fascicoli impor-tanti, frutto di decenni di indagini tenute segrete. Il segnotangibile del potere che ha potuto esercitare su moltissimiuomini politici, imprenditori, manager, intellettuali italiani.D’Amato, però, non è solo una superspia, è uomo che sa ap-prezzare i piaceri della tavola. In questa veste lo si ritrovacome curatore della rubrica gastronomica La tavola del set-timanale «L’Espresso» e di molte edizioni della Guida aglialberghi e ai ristoranti d’Italia sempre dell’«Espresso». Unapassione, quella per cibi e vini, che gli procura una cirrosiepatica. Muore l’1 agosto 1996.

Quando nascono i primi partitini maoisti nel 1965,D’Amato che ama definirsi «uno sbirro», ma è invece un raf-finato organizzatore di doppi e tripli giochi, non si lasciasfuggire l’occasione. In quel momento non lo preoccupano«gli studentelli che giocano alla rivoluzione», il suo obiettivoè, come sempre, il Partito comunista. Allora ha un’ideaastuta: fa scrivere e stampare migliaia e migliaia di manife-sti filocinesi. Li affida a Stefano Delle Chiaie perché li di-stribuisca ai militanti di Avanguardia nazionale e di Ordinenuovo. E questi li affiggono sui muri di quasi tutte le cittàd’Italia. Dando una mano ai contestatori da sinistra del PCI,D’Amato vuole creare problemi al maggiore partito comu-nista occidentale.

Ma l’attività di D’Amato non si esaurisce certo in questetrovate. Grazie al suo rapporto con Delle Chiaie e con moltialtri esponenti del nazifascismo, è in grado di gestire l’atti-vità dei gruppi dell’estrema destra. In pratica, Delle Chiaie,leader di Avanguardia nazionale, è teleguidato da D’Amato.

Al tempo stesso l’uomo del Viminale rappresenta l’Italianell’ufficio sicurezza del Patto atlantico, lo spionaggio della

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NATO. E così può controllare anche l’attività di uomini comeCarlo Digilio, armiere del gruppo Ordine nuovo di Venezia,ma anche informatore della CIA e dei servizi di sicurezzadella NATO. Ed è Digilio che fa arrivare a Delfo Zorzi il po-tente esplosivo, la gelignite, che verrà utilizzato anche pergli attentati del 12 dicembre 1969. Digilio è un uomo dili-gente: informa, come è suo dovere, i superiori.

D’Amato è, quindi, costantemente informato sull’attivitàdi Zorzi e dei suoi alleati, Franco Freda e Giovanni Ventura.Anzi ne è il silenzioso promotore. È dunque responsabile, inultima istanza, della strage di piazza Fontana? E se controllaDelle Chiaie, è pensabile che non sia a conoscenza del suoruolo negli attentati a Roma il 12 dicembre 1969? L’ipotesidi un coinvolgimento di D’Amato è tutt’altro che fantastica.Anzi, da come l’ufficio affari riservati si muove per proteg-gere l’attività del gruppo di Freda e Ventura, una risposta af-fermativa risulta convincente. È infatti Catenacci che allon-tana da Padova il capo della squadra mobile, PasqualeJuliano, quando sta per mettere le mani su Freda, prima chequest’ultimo abbia completato la sua opera. È sempre Cate-nacci (promosso nel 1971 vicecapo della polizia) che, subitodopo la morte di Giuseppe Pinelli, svolge un’indagine, ov-viamente riservata, negli uffici della questura milanese, ri-cevendo le confessioni dei poliziotti presenti al «volo» di Pi-nelli. Poi, scagionandoli, prepara le condizioni favorevoliall’assoluzione dei poliziotti da parte del giudice GiovanniCaizzi. Ed è infine D’Amato il protettore che permette aDelle Chiaie di restare per diciassette anni latitante.

D’Amato è stato uno degli uomini più potenti d’Italia eforse non è un caso che i famosi 150 mila fascicoli ritrovatiil 17 agosto 1996 siano stati scoperti sedici giorni dopo lasua morte.

Nella strategia del depistaggio politico e della creazione diprove false o nell’attuare provocazioni, l’ufficio affari riser-vati ha un valido alleato. Un alleato, come vogliono le re-gole tra spie, con cui ha anche forti contrasti. Questo partnersta a Palazzo Baracchini, sede del SID.

Il 18 ottobre 1970 si siede sulla poltrona di numero unodel SID il generale Vito Miceli. Prende il posto dell’ammira-

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glio Eugenio Henke, che diverrà capo di stato maggioredell’esercito. Nel giugno 1971 all’ufficio D del SID (il re-parto più delicato) a sostituire il colonnello Federico GascaQueirazza arriva il generale Gianadelio Maletti. Che per leoperazioni più segrete apre una base in via Sicilia 235, unatraversa della famosa via Veneto, sotto il nome di Turris ci-nematografica. Qui opera un suo uomo: Antonio Labruna,capo del NOD, la struttura operativa del SID.

Con questi nuovi capi i servizi segreti accentuano il lororuolo nei depistaggi e nelle provocazioni. Così quandol’emergere della pista fascista nella strage di piazza Fontanacomincia a diventare sempre meno occultabile, prima pro-ducono numerosi documenti falsi che fanno arrivare, con ilcontagocce, ai giudici; poi imbastiscono un’operazione allagrande: i carabinieri di Camerino, sotto la regia di Maletti,trovano vicino alla città marchigiana un enorme deposito diarmi. È il 10 novembre 1972.

Le armi sono suddivisibili in tre grandi gruppi. Il primo ècostituito da materiale bellico dell’ultima guerra mondiale. Ilsecondo deve fornire la firma di estrema sinistra al deposito:fionde, biglie di vetro, bombolette spray, ma anche bottiglie,tappi di sughero, benzina e acido solforico. Cioè la dotazioneper fabbricare bottiglie molotov. L’ultimo gruppo è formatoda 25 bombe a mano MK2 tipo ananas di fabbricazione ame-ricana, tritolo, esplosivo ad alto potenziale (pentrite), unamina anticarro e infine detonatori, micce e timer di fabbri-cazione tedesca. Il tutto accompagnato da oltre 600 carted’identità in bianco e uno schedario cifrato.

Il giorno dopo il ritrovamento compare un articolo sulquotidiano «Il Resto del Carlino», a firma di Guido Paglia,passato da poco dalla militanza in Avanguardia nazionale algiornalismo. In quell’articolo (pubblicato su un giornale delgruppo di Attilio Monti) si annuncia che lo schedario cifratotrovato nel casolare dimostra «inoppugnabilmente l’attivitàeversiva e paramilitare di taluni gruppi di estremisti di sini-stra». Ma Paglia non si ferma qui. Nonostante i documenticifrati non siano nemmeno stati consultati e quindi decrit-tati, il giornalista sa già che l’arsenale appartiene a estremi-sti di sinistra di Roma, Perugia, Trento, Bolzano e Macerata.

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Il 3 gennaio 1973 verranno incriminati quattro militanti disinistra di quelle località, manca solo il terrorista di Roma.

Come arrivano i carabinieri a queste quattro persone?Semplice, quanto sconcertante: i fogli cifrati (ma che por-tano in testa a ogni foglio la chiave per interpretarli) conten-gono l’elenco di 31 attivisti della sinistra extraparlamentare.Ma Paglia, preso dalla frenesia di fare lo scoop giornalisticoe la contemporanea opera di provocazione, ha acceleratotroppo i tempi. È a conoscenza di cose che nemmeno i cara-binieri sono in grado di rivelargli. Per di più il proprietariodel casolare pochi giorni prima del ritrovamento è stato sulposto: non c’era nessuna arma.

Insomma la tipica montatura che si sgonfierà già durantel’istruttoria. Questa però si conclude dopo tre anni, il 28aprile 1976. Con un’appendice alla Corte d’assise di Mace-rata. La procura generale di Ancona ha impugnato quel pro-scioglimento. Il 7 dicembre 1977 si chiude, con l’assolu-zione, la storia processuale degli imputati.

Nel frattempo sono emerse le responsabilità di Labruna esoprattutto del capitano Giancarlo D’Ovidio, comandante deicarabinieri di Camerino, che poi passerà all’ufficio D del SID.Ad accusarli è il colonnello dei servizi segreti Antonio Viez-zer, iscritto alla P2, sotto processo per aver fornito materialesegreto a Licio Gelli. Anche la pista Labruna-D’Ovidio cadrànel nulla: i giudici istruttori li proscioglieranno con argo-mentazioni giuridiche definite completamente illogiche damolti altri giuristi. Nel 1993 si scopriranno altre importantiprove sulla responsabilità di D’Ovidio come organizzatoredi quella provocazione e di Guelfo Osmani, un «manovale»del SID.

L’episodio di Camerino, se non è riuscito a produrre l’ef-fetto sperato dai servizi segreti, ha almeno creato forti con-trasti e divisioni all’interno dei gruppi dell’estrema sinistra.I filocinesi italiani si sono accusati a vicenda di «avventuri-smo». A margine della nota informativa su Camerino il ge-nerale Maletti può finalmente aggiungere di suo pugno: «Belrisultato».

Di lì a poco per gli uomini di Maletti si presentano com-piti ancora più impegnativi, perché sta per venire alla luce il

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loro coinvolgimento negli attentati del 12 dicembre e inmolte altre attività terroristiche.

Gennaio 1973. Il fedelissimo di Freda, Marco Pozzan, èsfuggito al mandato di cattura emesso dai giudici di Treviso.Massimiliano Fachini, regista di tante operazioni del suo ca-merata Freda, contatta gli uomini dell’ufficio D. Lui è benconosciuto e si fa garante per Pozzan. Accompagna il lati-tante Pozzan a Roma, alla Turris cinematografica. Ad acco-glierli ci sono Labruna e Guido Giannettini. Labruna prendein consegna Pozzan, fa preparare un passaporto falso inte-stato a Mario Zanella (questo nome compare tra gli iscrittialla loggia massonica P2) e il 15 gennaio accompagna Poz-zan all’aeroporto di Fiumicino. Lo affida al marescialloMario Esposito. I due vanno a Madrid. Nella capitale spa-gnola Esposito si fa rendere il passaporto falso e torna daisuoi capi.

Marzo 1973. Giovanni Ventura è detenuto nel carcere diMonza. Viene sottoposto a diversi interrogatori dai giudicimilanesi Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini. Perdi più comincia a fare le prime ammissioni. Ci vuole una so-luzione. Quale? Farlo evadere. Maletti incarica della que-stione Giannettini. Interviene anche Delfo Zorzi che invitaCarlo Digilio a collaborare con Giannettini per far evadereVentura. Zorzi dice a Digilio (così sostiene quest’ultimo):«Fatelo scappare altrimenti Ventura parla».

L’agente Zeta (questo è il nome in codice di Giannettini)contatta la sorella di Ventura, Mariangela, e la fidanzata, Pie-rangela Baretto. Le convince sull’affidabilità del piano difuga e consegna alle due donne una chiave che (come poiverrà anche accertato in giudizio) apre le porte del carcere. Inpiù consegna due bombolette spray (acquistate dal repartoD nel 1972 da una ditta di Berna) per addormentare i secon-dini. Una volta fuori dal carcere verrebbe espatriato in Spa-gna. Ma Ventura non si fida, forse teme che la vera destina-zione non sia Madrid, ma la sua definitiva liquidazionedurante l’evasione. Non ci sta. Scapperà poi, il 16 gennaio1979, durante il soggiorno obbligato a Catanzaro, ma orga-nizzandosi meglio.

Aprile 1973. È arrivato il turno di Giannettini. L’agente

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Zeta, che dal 1966 è in servizio per il SID (il suo secondo la-voro è quello di giornalista), è nel mirino del giudice D’Am-brosio che continua, senza successo, a chiedere informazionial SID su questo personaggio. Giannettini, punto di contattotra i servizi segreti e il gruppo di Freda e Ventura, non puòpermettersi il lusso di dover affrontare contestazioni che met-tano a nudo il suo ruolo. Così preferisce prendere il volo.Può contare sul collaudato «ufficio spedizioni» del SID.Dorme nell’appartamento intestato alla Turris cinematogra-fica. Il giorno dopo viene accompagnato all’estero dal solitomaresciallo Esposito. Ma con una variante: i due sbarcano aParigi. È il 9 aprile. Poi Giannettini volerà a Madrid e da lì aBuenos Aires. Partenza tempestiva: in maggio i giudici mi-lanesi fanno perquisire l’abitazione romana di Giannettini.Nel gennaio 1974 viene spiccato un mandato di cattura con-tro l’agente Zeta.

Prima di lasciare la Francia, Giannettini si fa intervistare,nella primavera 1974, dal giornalista Mario Scialoja del set-timanale «L’Espresso» per far sapere ai suoi capi (che forsepotrebbero lasciarlo al suo destino) quanto lui sia fedele. Di-chiara infatti: «L’indicazione che io sono un agente del SIDha uno scopo, quello di compromettere gli ambienti militari,e in primo luogo il SID, col caso Freda. E io non mi presto aquesta manovra». Ma la situazione precipita. Giulio An-dreotti, in un’intervista pubblicata il 20 giugno sul settima-nale «il Mondo», dichiara al giornalista Massimo Caprarache Giannettini è un agente del SID, mentre il giornalista del«Corriere della Sera» Giorgio Zicari è uno stabile informa-tore.

È un segnale preciso: Giannettini non è più sicuro nem-meno a Buenos Aires. L’8 agosto si costituisce all’amba-sciatore italiano in Argentina, Giuseppe Derege Thesauro. Ildiplomatico al processo di Catanzaro dichiarerà: «Giannet-tini non fece mistero con alcuno nell’ambasciata di essereimpaurito e dell’esigenza di essere protetto».

Riportato in Italia, Giannettini si attiene alla tattica fin quiseguita: non parla. Fa solo allusioni lanciando messaggi aisuoi superiori: resto muto se non mi abbandonate. Così si as-siste a deposizioni di capi del SID e di ministri che cercano in

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tutti i modi di minimizzare l’opera dell’agente Zeta, cioè dicolui che li ha sempre informati sull’attività terroristica a cuipartecipava con Freda e Ventura.

Il gioco funziona: i registi delle stragi forniscono scappa-toie a Giannettini purché non parli. E lui si attiene alla con-segna del silenzio. Un comportamento che alla fine vienepremiato. La Corte di Cassazione lo catapulta definitiva-mente fuori dai processi. Ma l’agente Zeta ha dovuto atten-dere per anni quel benservito: la sentenza è del 1982. Perònon viene lasciato senza lavoro. Lo assume il finanziere ededitore di destra Giuseppe Ciarrapico.

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XIX

SENTENZA DI CARNEVALE

Sono da pochi giorni cominciate le udienze e tutto siferma. La scena si svolge alla Corte d’assise di Roma. Il 23febbraio 1972 parte il processo agli anarchici del gruppo 22marzo, ai familiari di Pietro Valpreda e anche al nazifascistaStefano Delle Chiaie (latitante) per falsa testimonianza a fa-vore di Mario Merlino. Ma i giudici si accorgono che tuttaquella storia non è di loro competenza. O meglio, sotto l’in-calzare di alcuni difensori degli anarchici (Francesco Pi-scopo, Giuliano Spazzali, Placido La Torre, Rocco Ventre),il presidente Orlando Falco sceglie di liberarsi di un processodivenuto difficilmente gestibile. Perfino lo stesso pubblicoministero Vittorio Occorsio cerca di scaricare sul collega Er-nesto Cudillo, giudice istruttore, le carenze e la parzialitàdell’inchiesta. Quasi volesse far dimenticare che è stato pro-prio lui a iniziare le indagini. È lui che ha gestito il ricono-

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scimento fatto dal tassista Cornelio Rolandi. È sempre luiche nella requisitoria di rinvio a giudizio, pur di salvarel’unica prova su cui ha costruito la sua accusa, arriva a ne-gare l’evidenza. Scrive Occorsio: «Quanto affermato dal Ro-landi nella parte preliminare dell’atto di riconoscimento: ‘Miè stata mostrata dai carabinieri di Milano una fotografia chemi si è detto doveva essere la persona che io dovevo ricono-scere’, deve essere inteso nel senso che, quando in questuravenne mostrata al Rolandi la fotografia del Valpreda, il tas-sista fu invitato a riconoscere, ovviamente in senso afferma-tivo o negativo, la persona trasportata con il tassì. Ogni illa-zione al riguardo circa pretese e implicite sollecitazioni a unriconoscimento positivo è del tutto gratuita». E per ribadirela forzatura, conclude: «Infatti se è stato usato il verbo do-vere, l’obbligo contenuto nel termine stesso si riferisceall’onere giuridico dell’atto di ricognizione e non ai risultatidel riconoscimento».

Di fronte a queste posizioni praticamente insostenibili, il6 marzo la Corte di Roma spedisce tutto a Milano. Il pro-cesso è tornato, come vuole anche la logica giudiziaria, nellacittà dove è avvenuta la strage. Ma il procuratore generaledel capoluogo lombardo, Enrico De Peppo, non ci sta. Se-condo lui Milano è una città che non offre la necessaria se-renità per un dibattimento così delicato. Per di più la piazza,sempre secondo De Peppo, è praticamente in mano agli ex-traparlamentari di sinistra che vogliono fare azioni «dirette adimostrare, al di fuori del processo, la pretesa innocenza diValpreda e degli altri coimputati». Azioni che potrebbero in-nescare la reazione dei militanti dell’estrema destra. Si ri-volge alla Cassazione per un nuovo trasferimento. Il 13 ot-tobre il processo passa sotto la competenza della Corted’assise di Catanzaro.

Ma non comincia subito. Bisogna aspettare il 27 gennaio1975 perché partano le udienze. Che vedranno sullo stessobanco degli imputati gli anarchici (Pietro Valpreda, EmilioBagnoli, Emilio Borghese, Roberto Gargamelli, Ivo DellaSavia, Enrico Di Cola), i familiari di Valpreda (MaddalenaValpreda, Ele Lovati, Rachele Torri e Olimpia Torri), l’in-definibile Mario Merlino, i nazifascisti (Franco Freda, Gio-

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vanni Ventura, Stefano Delle Chiaie, Marco Pozzan, PieroLoredan di Volpato del Montello), fascisti che operano per iservizi segreti (Guido Giannettini e Stefano Serpieri) e uffi-ciali del SID (Gianadelio Maletti, Antonio Labruna e Gae-tano Tanzilli).

Perché questa strana mescolanza? La Corte di Catanzaroha riunito due procedimenti che portano a risultati inconci-liabili: l’inchiesta di Occorsio e Cudillo e quella, succes-siva, dei magistrati milanesi Gerardo D’Ambrosio ed Emi-lio Alessandrini. Quest’ultima si fonda anche su indaginicondotte da magistrati di Treviso, Padova e altre città. In-dagini che hanno messo in luce il ruolo di fascisti e servizisegreti nella strategia degli attentati.

Il 23 febbraio 1979, dopo quasi dieci anni dagli attentati,arriva la prima sentenza. Tre ergastoli per strage e attentati(Freda, Ventura e Giannettini). Ma Giannettini è l’unico aessere arrestato in aula, Freda è latitante in Costa Rica, Ven-tura in Argentina. Maletti è condannato a quattro anni perfavoreggiamento e falsa testimonianza, Labruna e Tanzilli adue. Valpreda e Gargamelli vengono assolti per insuffi-cienza di prove per il reato di strage, ma condannati per as-sociazione a delinquere: quattro anni e sei mesi a Valpreda,un anno e sei mesi a Gargamelli. A Bagnoli viene sospesa lacondanna di due anni per associazione a delinquere. AncheMerlino viene assolto per insufficienza di prove per lastrage, prende quattro anni e sei mesi per associazione a de-linquere. Ambigua poi la formula adottata per i parenti diValpreda che avevano sostenuto l’alibi dell’anarchico: ilreato di falsa testimonianza è prescritto. Stessa formulaviene adottata per Delle Chiaie. E l’amica di Valpreda,Elena Segre, altro testimone che conferma l’alibi dell’anar-chico? È sparita dalle carte processuali. Un altro mistero.

Quella di Catanzaro è una sentenza contraddittoria per-ché riconosce la colpevolezza di Freda, Ventura e Giannet-tini, ma rimane in parte ancorata all’istruttoria dei giudiciOccorsio e Cudillo. Da lì l’assoluzione per insufficienza diprove degli anarchici. Ma c’è un altro fatto che getta unaluce ambigua sulla sentenza. I giudici di Catanzaro, difronte alle reticenze di alcuni testimoni eccellenti, preferi-

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scono non prendere posizione. Rinviano a Milano gli attiche riguardano gli ex presidenti del consiglio Giulio An-dreotti e Mariano Rumor e gli ex ministri Mario Tanassi,Difesa, e Mario Zagari, Giustizia. I giudici hanno però unmoto d’orgoglio di fronte alle contraddizioni in cui cade ilgenerale Saverio Malizia, consulente giuridico di Tanassi.Lo arrestano in aula. Processo immediato: Malizia è con-dannato a un anno. Ma viene rimesso subito in libertà.Scatta il consueto copione: la Cassazione annulla il pro-cesso e affida la causa alla Corte d’assise di Potenza. Il 30luglio 1980 Malizia viene assolto con formula piena.

In soccorso dei politici arriva il giudice di Milano LuigiFenizio (a lui passa l’indagine quando Alessandrini vieneucciso, il 29 gennaio 1979, da militanti dell’organizzazioneclandestina Prima linea), che invia un’ordinanza innocenti-sta alla Commissione inquirente del parlamento. Il 24 ago-sto 1981 la Commissione decide di archiviare le accuse con-tro Andreotti, Rumor, Tanassi e Zagari. I quattro uominipolitici escono dall’inchiesta.

Ma è al processo d’appello che si assiste a un vero colpodi scena. Il 20 marzo 1981, la Corte di Catanzaro assolve fa-scisti e anarchici per il reato di strage. Non ci sono più col-pevoli per piazza Fontana. Freda e Ventura vengono con-dannati a quindici anni per associazione sovversiva e pergli attentati del 25 aprile e del 9 agosto 1969. In pratica igiudici spezzano quella continuità logica (suffragata daprove) che lega i tre principali attentati del 1969. Assolvonoper insufficienza di prove anche Giannettini. Riducono lepene a Maletti e Labruna.

Ci pensa poi la Cassazione, il 10 giugno 1982, quandoaffida un secondo appello a Bari, a togliere definitivamentedai processi Giannettini, che può dichiarare: «Il mio stessocoinvolgimento è avvenuto per motivi politici. Attraversome si è voluto colpire il SID».

Stesso rituale alla Corte d’appello della città pugliese.Ma con una variante di rilievo: il pubblico ministero, Um-berto Toscani, chiede l’assoluzione per Valpreda. I giudiciperò preferiscono attenersi alla tradizione: il dubbio devevalere per i fascisti come per gli anarchici. E intanto si ri-

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ducono ulteriormente le pene a Maletti, latitante in Suda-frica, (un anno) e Labruna (dieci mesi). Con questa sentenzadell’1 agosto 1985 sta per calare il sipario su piazza Fon-tana. L’ultimo atto si tiene alla Corte di Cassazione di Romache respinge tutti i ricorsi per un nuovo processo. Ed è pro-prio la Cassazione il perno centrale di questa commedia giu-diziaria. Sono i giudici del più alto grado che sottraggono leprime indagini da Milano per trasferirle a Roma. Sempreloro stabiliscono che Milano è una città ingovernabile equindi il processo si deve tenere a Catanzaro, unificando iprocedimenti contro anarchici e fascisti.

Il 27 gennaio 1987, la prima sezione della Cassazionemette la parola fine su un processo che si è dilatato neltempo e nello spazio. E chi presiede quella sezione? Cor-rado Carnevale. Che più tardi diventerà famoso come il«giudice ammazzasentenze». Dal 1985 Carnevale dirige lasezione più importante della Cassazione e subito si distin-gue per essere il «re del cavillo» che manda liberi mafiosi,terroristi e bancarottieri. Alcuni esempi. Il 16 dicembre1987 Carnevale annulla il processo per la strage dell’Italicusche ha come principali imputati i neofascisti Mario Tuti eLuciano Franci. Poco prima aveva annullato la condannaall’ergastolo dei fratelli Greco, ritenuti i mandanti dell’omi-cidio del giudice Rocco Chinnici. Il 25 giugno 1990 Car-nevale annulla una sentenza all’ergastolo per Raffaele Cu-tolo, capo della Nuova camorra organizzata. Sempre nel1990, il 15 ottobre, assolve Licio Gelli dall’accusa di sov-versione e banda armata. Il 5 marzo 1991 ordina un nuovoprocesso per l’attentato del 24 dicembre 1984 al rapido Na-poli-Milano (sedici morti e centinaia di feriti). Risultato?Annullamento dell’ergastolo al boss mafioso Pippo Calò.Tanta frenetica attività non passa inosservata e nel 1995 legesta del giudice Carnevale vengono racchiuse in un libro:La giustizia è cosa nostra. Carnevale ha azzerato 134 erga-stoli (ben 19 riguardano il mafioso Mommo Piromalli), 700anni di carcere per 96 imputati responsabili di associazionemafiosa, traffico di droga e omicidi.

Insomma il giudice giusto anche per la strage di piazzaFontana. Strage che torna nuovamente in scena nei tribunali

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dopo l’arresto di Delle Chiaie. Il 26 ottobre 1987 si apre il set-timo processo (non contando due interventi della Cassazione)per quella strage. Con Delle Chiaie c’è sul banco degli impu-tati Massimiliano Fachini. Dopo 90 udienze, il 20 febbraio1989, i due vengono assolti per non aver commesso il fatto.Sentenza che la Corte d’appello conferma il 5 luglio 1991.

Finale di partita come da copione. Nel nuovo, ennesimo,processo per piazza Fontana la Corte d’assise di Milano con-danna, il 30 giugno 2001, all’ergastolo i neonazisti CarloMaria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi. Tre anni siprende Stefano Tringali per favoreggiamento a favore diZorzi. Ma il 12 marzo 2004 la Corte d’appello di Milano as-solve i tre e riduce la pena a un anno per Tringali.

Infine, il 3 maggio 2005 la Cassazione conferma la sen-tenza della Corte d’appello. Fine dei processi.

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XX

LA STRAGE? DI STATO

Mariano Rumor non perde tempo. Il giorno dopo lebombe del 12 dicembre 1969, il presidente del consiglio con-voca i segretari di Democrazia cristiana, Partito socialista,Partito socialista unificato (denominazione dei socialdemo-cratici dopo la scissione socialista del 2 luglio 1969) e Partitorepubblicano. L’obiettivo dichiarato è ricostituire un governoquadripartito. Ci vorranno più di tre mesi per varare la nuovaformula governativa. L’impressione generale è che, mentrela situazione politico-sociale è drammatica, nei palazzi ro-mani si perpetuino le solite alchimie per definire cariche mi-nisteriali in grado di accontentare le varie correnti politiche.Invece, sotto questa liturgia consueta si sta consumando unoscontro durissimo. Mauro Ferri e Mario Tanassi, i due leaderdel nuovo partito socialdemocratico, sono i fautori di un go-verno forte che, sull’onda emozionale creata dalle bombe,

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imponga una svolta neoautoritaria al Paese. Danno cioè vocea quel «partito americano» che si oppone con determina-zione e accanimento al progressivo scivolamento a sinistradell’Italia. Il vero obiettivo di Rumor è infatti costituire ungoverno di centro (DC, PSU) che sancisca a livello politico lastrategia che ha portato alla strage di piazza Fontana. Ma lamobilitazione di sindacati e forze di sinistra ai funerali diMilano gli fa cambiare idea. Quel 15 dicembre 1969 piazzadel Duomo è gremita dalle sinistre e non dai fascisti comeera stato programmato.

La situazione che si è creata a partire dal 1968 preoccupalarghe fasce di imprenditori e ceti medi. La contestazionestudentesca prima e le agitazioni operaie poi hanno aumen-tato la psicosi del «pericolo rosso». I sindacati tradizionali damolti mesi non riescono a mantenere nell’ambito del con-sueto rivendicazionismo le lotte dei loro iscritti. Tanto che il3 luglio 1969 lo sciopero generale per chiedere il bloccodegli affitti vede gli operai della FIAT Mirafiori di Torinoscandire uno slogan ironico, ma che suona minaccioso per laclasse dirigente: «Che cosa vogliamo? Tutto». E quello slo-gan ha una fortuna immediata. Presto nei cortei operai ri-suonerà con sempre maggiore insistenza. E infatti il 1969conta 300 mila ore di sciopero contro una media, in queglianni, di 116 mila. Il costo del lavoro cresce del 15,8%(19,8% nell’industria), per cui la quota dei salari sul prodottointerno lordo sale dal 56,7% al 59%. È iniziata una sensibileredistribuzione dei redditi. Una minaccia per le classi socialiprivilegiate e per quelle che solo pochi anni prima sono statebeneficiate dal «miracolo economico».

Insomma una situazione apparentemente pre-rivoluziona-ria. Anche se la rivoluzione sperata e sognata dalla maggio-ranza degli studenti e da una frangia di operai non solo è lon-tana: è praticamente impossibile. Ma che importa? Molticredono sinceramente che sia alle porte, e molti, molti di più,temono che sia vero.

Anche se i portatori di un progetto di trasformazione ra-dicale della società sono un’infima minoranza rispetto allapopolazione complessiva, l’asse politico del Paese si sta spo-stando a sinistra. Il Partito comunista, pur criticato aspra-

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mente dalle frange estremiste, si prepara a conquistare nuovispazi. Colti impreparati dalle manifestazioni studenteschedell’inizio 1968, i dirigenti di via Botteghe oscure cercanorapidamente di recuperare il terreno perduto. Soprattutto nelluogo della politica istituzionale: il parlamento. Tanto che il28 aprile 1969 dovrebbe iniziare la discussione per il di-sarmo della polizia. L’agente italiano come un «bobby» in-glese. Ci pensano le bombe a Milano del 25 aprile a mandarenella soffitta delle utopie quel progetto.

È cominciata la strategia della tensione. Questa fase è il perfezionamento e la sintesi di quanto

dalla metà degli anni Sessanta andavano teorizzando e prati-cando gli esponenti dell’estrema destra collegati a larghi set-tori delle forze armate. Nazisti e fascisti italiani voglionoestirpare alla radice il «morbo comunista», assecondati, se-guiti e, in definitiva, diretti dai servizi segreti italiani e ame-ricani.

In Italia la CIA (Central Intelligence Agency) opera consuccesso dal dopoguerra. Nel 1947 ha finanziato (tramite lacentrale sindacale AFL-CIO) la scissione socialista capeggiatada Giuseppe Saragat e aiutata da un gruppo di rivoluzionariantistalinisti, Iniziativa socialista, guidato da Mario Zagari.Al di là delle motivazioni ideologiche di Saragat e Zagari, idollari della CIA riescono a indebolire il Fronte popolare e afacilitare la grande vittoria della Democrazia cristiana il 18aprile 1948, quando raggiunge il 48,5% dei voti conquistandola maggioranza assoluta alla Camera dei deputati.

Una vittoria quasi scontata. Il 20 marzo George Marshall,segretario di Stato USA, aveva ammonito gli italiani: in casodi vittoria dei comunisti tutti gli aiuti americani all’Italia sa-rebbero cessati. Nel 1969 la CIA si trova facilitata nella suaazione: alla presidenza della repubblica c’è un uomo che ledeve riconoscenza, Saragat.

La CIA ha un grande nemico: il comunismo. Così come ilKGB combatte con ogni mezzo il capitalismo. Ma se nelTerzo mondo i due organismi si combattono quasi ad armipari, con prevalenza del KGB, nell’area occidentale la CIAnon tollera intrusioni. Tanto che nel 1967 risolve brillante-mente la crisi in Grecia installando al potere, con un colpo di

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Stato, un suo uomo: Georgios Papadopoulos. E da quel mo-mento il «partito del golpe» anche in Europa è egemoneall’Agency. E lo sarà fino alla metà degli anni Settanta.

Dopo la Grecia, è la volta dell’Italia. E nel SID, ameri-cano-dipendente, ovviamente prevale il partito golpista. Dal1966 (cioè dall’anno dell’entrata in funzione) alla guida delSID c’è l’ammiraglio Eugenio Henke, mentre l’ufficio Dviene diretto da quel Federico Gasca Queirazza che, nel1969, riceve le informative dell’agente Guido Giannettini suquanto stanno preparando i nazisti veneti Franco Freda, Gio-vanni Ventura e Delfo Zorzi. Gasca Queirazza comunicaquanto sa al suo superiore Henke, che riferisce al ministrodell’Interno, Franco Restivo. E Restivo non dice nulla al suocompagno di partito e presidente del consiglio, MarianoRumor? Difficile crederlo. Anche perché le continue e in-credibili amnesie di cui soffrirà Rumor al primo processo diCatanzaro suscitano ilarità, nonostante il contesto sia dram-matico.

Quando nel 1970 Vito Miceli prende il posto di Henke, ilpartito golpista non è più solo coordinatore degli attentatifatti dall’estrema destra; scende in campo come diretto or-ganizzatore. Il tentativo di Junio Valerio Borghese si inseri-sce in questa nuova dinamica. Miceli verrà anche processatoper questo, ma come al solito senza alcun risultato.

Quando agiscono durante la notte del 7 dicembre, gli uo-mini di Borghese non sono pensionati nostalgici. Hanno co-perture e aiuti consistenti. Il ministro della Difesa, Tanassi,viene informato direttamente da Miceli di quanto sta acca-dendo. Stessa procedura con il capo di stato maggiore EnzoMarchesi. E Restivo sa tutto ancora prima che i congiuratioccupino per alcune ore una parte del suo ministero. Restivo,interrogato in parlamento il 18 marzo 1971, cioè quando lanotizia è ormai trapelata, nega tutto. Ovvio.

La storia del golpe in Italia è una storia infinita. Comequella di piazza Fontana. Una storia che si ripete nell’apriledel 1973 con la Rosa dei venti. Che vede il coinvolgimentodi personaggi ancora più seri e preparati di Borghese: cioègente come il colonnello Amos Spiazzi (peraltro già presenteanche il 7 dicembre 1970). Anche lui assolto.

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Chi sovrintende a questo moltiplicarsi di attentati e di pre-parativi di golpe è un distinto ingegnere, Hung Fendwich,che ha la sua base a Roma in via Tiburtina. Ma non è unluogo segreto come molti potrebbero pensare. No, è l’ufficiodove lavora, cioè la Selenia, società del gruppo STET (IRI).

Fendwich, che lascia l’Italia dopo il golpe Borghese, è latipica eminenza grigia: studia, perfeziona piani, elabora ana-lisi sulle situazioni socio-economico-politiche. Il lavoro ope-rativo, quello che in gergo si chiama «lavoro sporco», locompiono personaggi di levatura più modesta. Agenti distanza alla base FTASE (il comando NATO di Verona dal 1969al 1974). Oppure il capitano Theodore Richard della base diVicenza. Sono questi gli uomini a cui fa capo Sergio Mi-netto, capostruttura degli informatori italiani della CIA. Cioèl’uomo a cui risponde Carlo Digilio, infiltrato nel gruppo diOrdine nuovo di Venezia. Un infiltrato operativo: prepara gliesplosivi e addestra Delfo Zorzi e Giovanni Ventura. Dove?Nella santabarbara del gruppo: il casolare in località Paese,vicino a Treviso.

Gli attentati che costellano l’Italia dal 1969 fino alla metàdegli anni Settanta (ma continueranno ancora) sono consi-derati propedeutici al colpo di Stato. E se questo non vieneattuato, ma sempre ventilato, ha comunque una funzione pre-cisa: mandare segnali forti, minacciosi alle forze di opposi-zione, cioè al Partito comunista. Un segnale che viene rece-pito. Non è un caso che, dopo il golpe in Cile nel settembre1973 (che porta a 47 i regimi militari nel mondo), il segreta-rio del PCI, Enrico Berlinguer, lanci dalle colonne della rivi-sta «Rinascita» la proposta del «compromesso storico», cioèun accordo governativo tra DC, PCI e PSI. Ma ci vorrannoventitré anni prima che il PDS, erede del PCI, vada al governocon una coalizione di centrosinistra.

Le bombe quindi cristallizzano la situazione politica isti-tuzionale, ma come reazione a sinistra generano il fenomenodella lotta armata. Sono i continui attentati e il pericolo delgolpe che, tra l’altro, fanno scendere in clandestinità moltimilitanti extraparlamentari, ma anche personaggi come l’edi-tore Giangiacomo Feltrinelli. Tutto creerà un circuito per-verso che, in una certa misura, giustificherà, a posteriori, la

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teoria degli «opposti estremismi», da cui ci si può salvaresolo dando fiducia a chi detiene in quel momento il potere.Cioè gli uomini che avallano e coprono quanto stanno fa-cendo l’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e ilSID, sotto la direzione della CIA.

I ministri danno le direttive. I servizi segreti eseguono. E cimettono in più un po’ di loro iniziativa. Quindi non è un casoche nel 1974, quando gli uomini del SID portano a Giulio An-dreotti, ministro della Difesa (nel quinto governo Rumor), leregistrazioni fatte dal capitano Antonio Labruna con l’indu-striale Remo Orlandini, coinvolto nel golpe Borghese, An-dreotti consigli di «sfrondare il malloppo». Traduzione: de-purare i nastri dai nomi più importanti, cioè i vertici delleforze armate inseriti a vario titolo nel mancato golpe.

È un comportamento analogo a quello tenuto dal suo pre-decessore Mario Tanassi (alla Difesa nel quarto governoRumor). Nell’estate 1974 il giudice Giovanni Tamburinochiede informazioni al SID sull’attività filogolpista del gene-rale Ugo Ricci: lo ritiene uno dei responsabili della Rosa deiventi. Il SID, che sa perfettamente cosa fa Ricci, risponde: ilgenerale è uomo di sicura fede democratica. Ma prima dimandare questa lettera, il capo del SID invia la richiesta delgiudice a Tanassi che la restituisce con l’annotazione: «Diresempre il meno possibile».

La pratica del silenzio e della menzogna si tramanda neglianni. È il 13 ottobre 1985 quando il settimanale «Panorama»pubblica stralci di un documento di Bettino Craxi, presidentedel consiglio, che invita gli uomini dei servizi segreti a«mantenere una linea di mancata collaborazione» con i giu-dici che li interrogano. Craxi non negherà mai l’autenticitàdel rapporto. E come potrebbe? Ma farà pressioni sui giu-dici affinché lo ignorino. Dunque i politici sapevano tuttodelle trame dei servizi segreti. Spesso ne erano gli ispiratori.Sapevano che venivano utilizzati i fascisti per creare la stra-tegia della tensione. Erano corresponsabili o direttamentepromotori come Restivo.

Un affare di Stato sta, dunque, dietro le bombe del 12 di-cembre. Un affare di personaggi che scelgono il terrorismoper perpetuarsi nella gestione del potere.

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«Il 12 dicembre 1969 segna una frattura, nella storia dellarepubblica [...] perché effettivamente, allora, insieme a se-dici persone comuni, morì un pezzo significativo della primarepubblica: una parte consistente dell’apparato statale passòconsapevolmente nell’illegalità. Si pose come potere crimi-nale continuando a occupare istituzioni vitali ed essendonetollerato (sono migliaia i ‘servitori dello Stato’, poliziotti,giudici, agenti segreti, politici, cancellieri, ministri, passa-carte e uomini di mano che hanno cooperato per realizzare epoi coprire, depistare, insabbiare, rendere impunibile queldelitto). È da allora che l’Italia ha cessato di essere una de-mocrazia costituzionale in senso pieno», scrive il politologoMarco Revelli nel suo libro Le due destre.

L’analisi politica è confortata e documentata dalle inda-gini del giudice Guido Salvini: «La protezione dei compo-nenti della cellula veneta [...] era un’attività assolutamentenecessaria in quanto il cedimento anche di uno solo degliimputati avrebbe portato gli inquirenti, livello dopo livello, arisalire fino alle più alte responsabilità che avevano reso pos-sibile l’operazione del 12 dicembre e le ripercussioni che nesarebbero derivate sarebbero state forse addirittura incom-patibili con il mantenimento dello statu quo politico delPaese».

Un coinvolgimento così esteso alimenta anche un dubbio.Quanto sapeva della strage di piazza Fontana il principalepartito d’opposizione: il PCI, oggi DS? Molto, certamente.Ma quanto? E fino a che punto la paura delle bombe e delcolpo di Stato hanno ammorbidito le posizioni del PCI? Finoa che punto questa paura ha portato a proporre il compro-messo storico e ad accettare poi il consociativismo? La ri-sposta è solo negli archivi dell’ex PCI, impenetrabili comequelli del Vaticano.

Una risposta è però possibile. Una risposta che, viste leresponsabilità a tutti i più alti livelli, può essere una sola:piazza Fontana è una strage di Stato. Di più: la madre di tuttele stragi.

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INTERVISTA A GUIDO SALVINI

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I testi in corsivo sono di Luciano Lanzaquelli in tondo di Guido Salvini

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QUELLA VERITÀ DA NON DIMENTICARE

Guido Salvini, 52 anni, è stato giudice istruttore dal 1989al 1997 di un’inchiesta sull’eversione di destra e su piazzaFontana. E in questa veste ha ricostruito l’attività di Ordinenuovo nel Veneto e di Avanguardia nazionale a Roma e nelSud. Così ha messo in luce trame, alleanze, coperture politi-che e militari che hanno portato alla strage del 12 dicembre1969. Quella ormai definita «la madre di tutte le stragi».Salvini, oggi giudice per le indagini preliminari, si è occu-pato recentemente del caso Parmalat e di terrorismo inter-nazionale. All’attività professionale affianca un impegnostorico e culturale sui temi della giustizia, della «memoria».In questa veste tiene lezioni e dibattiti in scuole, università eassociazioni culturali e giovanili. Dal 2003 è consulentedella Commissione parlamentare d’inchiesta sull’occulta-mento dei fascicoli sulle stragi nazifasciste del 1943-1945.

Con la sentenza della Cassazione del 3 maggio 2005 sichiude l’infinita storia giudiziaria legata alla strage dipiazza Fontana del 12 dicembre 1969. Una storia com-plessa, contraddittoria, piena di reticenze, di «misteri». Ep-pure in primo grado, il 30 giugno 2001, erano stati condan-nati all’ergastolo tre neonazisti (Carlo Maria Maggi, DelfoZorzi e Giancarlo Rognoni) e un altro (Stefano Tringali) atre anni per favoreggiamento. Poi il 12 marzo 2004 la Corte

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d’appello assolve i tre e riduce a un anno la pena a Tringali.La Cassazione ha confermato quella sentenza. Per quali ra-gioni si passa da una condanna a un’assoluzione?

A questo bilancio apparentemente solo negativo vorrei ag-giungere subito la circostanza spesso dimenticata dagli or-gani di informazione che, comunque, alla fine di queste in-dagini, per la strage di piazza Fontana un colpevole c’è ed èCarlo Digilio. Lui per più di dieci anni, prima di fuggire aSanto Domingo, aveva svolto per il gruppo veneto di Ordinenuovo, non solo mestrini ma anche padovani, il ruolo di «tec-nico» in materia di armi e di esplosivi.

La Corte d’assise di appello e la Cassazione, pur assol-vendo gli altri imputati per incompletezza delle prove rac-colte, non hanno infatti toccato la sentenza di primo gradoche aveva ritenuto Digilio colpevole quale partecipe alla faseorganizzativa degli attentati, dichiarando in suo favore, comevuole la legge, la prescrizione (che in quel caso scattava au-tomaticamente) grazie alle attenuanti dovute per la sua colla-borazione. Digilio era il «quadro coperto» di Ordine nuovo: sioccupava della logistica, e non era certo un anarchico né unseguace di Giangiacomo Feltrinelli o un agente del KGB. Eciò significa, lo si legge nella stessa sentenza di appello, comela strage e tutti gli attentati collegati abbiano una paternitàcerta sul piano storico-politico: sono stati ideati e commessidai gruppi neonazisti, cioè quelli già al centro della prima in-dagine dei giudici Giancarlo Stiz e Pietro Calogero.

Sul piano tecnico in sostanza le dichiarazioni di Digilio, diMartino Siciliano (che aveva partecipato solo ad alcuni atten-tati «preparatori») e degli altri testimoni sono state ritenute suf-ficienti per quanto concerne le loro responsabilità ma, in sededi appello, non sufficienti, e incomplete, per affermare la re-sponsabilità delle persone da loro indicate come complici.

Tutto questo nella grande maggioranza dei commenti èsfuggito. Così si è dimenticato come le indagini milanesi neglianni Novanta abbiano definitivamente collocato la strage nellacasella politica già intuita da coloro che, pochi mesi dopo il 12dicembre1969, avevano pubblicato il modello di ogni lavorodi «controinformazione»: il libro La strage di Stato. Ma oggi

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i principali imputati sono stati assolti tagliando, se non la pa-ternità dell’operazione, buona parte di quel «film della strage»descritto nei verbali istruttori. Perché poi si passi da una con-danna a un’assoluzione è evidentemente un problema di valu-tazione delle prove raccolte. Prove che è stato difficile portarein dibattimento anche perché a distanza di trent’anni molti ri-cordi sfumano, molti testimoni non sono quasi più in grado ditestimoniare in un’aula anche per ragioni di salute e molti sonomorti o comunque scomparsi.

Io, nella mia veste professionale, rispetto ovviamente tuttele sentenze e non ho timore di dire che sia la sentenza di con-danna sia la sentenza di assoluzione erano serie e motivate.Ma mi sento anche di dire che nelle sentenze di Appello edella Cassazione si è tornati un po’ alla discutibile logica,presente anche nei primi processi per piazza Fontana e neglialtri processi per strage, della «frammentazione» degli in-dizi. Tale logica porta invariabilmente all’assoluzione per-ché ciascun indizio valutato singolarmente come insuffi-ciente non viene aggiunto e concatenato a quelli successivima quasi «buttato via», e la somma finale resta sempre zero.

Se qualcuno esalta le stragi, possiede i timer, commettegli attentati preparatori e magari il 12 dicembre 1969 era aMilano e non a casa sua, è vero che ciascun indizio preso dasolo non prova in sé la responsabilità per la strage di piazzaFontana, ma l’interpretazione complessiva e non frammen-taria di questi stessi indizi può dare un risultato diverso. So-prattutto mi sembra sia stata un po’ tralasciata nelle sentenzel’analisi del movente di un fatto simile, in quel particolarecontesto storico-politico, a sua volta in grado di illuminaregli indizi e i personaggi.

Una strage non è un reato a fini di lucro, ma ha un mo-vente politico che va sempre cercato per capire se è in con-sonanza con i moventi ad agire degli imputati. E questa ri-cerca è quasi del tutto assente nelle motivazioni anche se loscenario fornito dai documenti, tra cui quelli acquisiti da al-cuni archivi, è assai ricco. E mi sento di dire che il movente,se preso in esame, sarebbe stato giudicato in sintonia conl’ideologia e la strategia dell’ambiente degli imputati.

Non dimentichiamo: Ordine nuovo ha compiuto molti at-

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tentati prima e dopo il 12 dicembre 1969, era l’unica orga-nizzazione terroristica che non si poneva il problemadell’eventuale verificarsi di vittime civili e, nei documenti cuisi ispirava, era teorizzata la necessità di contrastare subito econ ogni mezzo, compreso il caos, l’avanzata del comuni-smo, favorita da un sistema parlamentare borghese ritenutoimbelle e putrescente in cui si salvavano, forse, solo i militari.

C’è però un elemento importante: in tutte quelle tre sen-tenze viene confermata la responsabilità di due protagonisti:Franco Freda e Giovanni Ventura. Quegli stessi personaggiindividuati dal giudice di Treviso Stiz come responsabili degliattentati del 25 aprile 1969 a Milano, degli attentati sui trenitra l’8 e il 9 agosto e infine delle bombe del 12 dicembre.Senza dimenticare Guido Giannettini, informatore del SID, ilservizio segreto italiano dell’epoca, uscito però dall’iter pro-cessuale nel 1982. Insomma, i giudici riconoscono chec’erano dei colpevoli, che erano dei neonazisti, ma non sonocondannabili perché ormai definitivamente assolti. Allora lamatrice di quegli attentati e della strage è indiscutibile o no?

Certamente, la matrice della strage è ormai indiscutibile,la sua firma è la croce celtica di Ordine nuovo. Come lei hadetto, anche le ultime sentenze di assoluzione hanno una«virtù segreta», e cioè scrivono esplicitamente cose chiare:dopo le nuove indagini, è da ritenersi raggiunta la «provapostuma» della colpevolezza di Freda e Ventura, non piùprocessabili perché assolti per insufficienza di prove per lastrage di piazza Fontana, anche se già condannati per gli at-tentati precedenti. In Italia, come in tutti gli altri Paesi civili,le sentenze di assoluzione tecnicamente non sono soggette arevisione. Si può scoprire anche vent’anni dopo che un’as-soluzione è stata pronunziata per sbaglio ma ormai è così,solo le sentenze di condanna possono essere riviste.

L’elemento nuovo e storicamente determinante nei con-fronti dei padovani sono state le sofferte testimonianze del1995 di Tullio Fabris, l’elettricista che attaccava i lampadarinello studio legale di Freda. Una persona ignara ed estraneaal gruppo. Ma Freda, con una certa imprudenza e impudenza,

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l’ha coinvolto nell’acquisto dei timer. Nel 1995 Fabris(aveva già raccontato sin dall’inizio di aver accompagnatoFreda ad acquistare i timer) ha spiegato di non aver mai ri-velato la parte più consistente di quella storia perché piùvolte minacciato nel suo negozio dagli ordinovisti padovanidopo aver saputo che lui aveva rilasciato la sua prima depo-sizione. Fabris ha raccontato, con molti particolari tecnici,come qualche giorno dopo l’acquisto, nello studio di Freda,mentre Ventura prendeva appunti, fosse stato costretto a te-nere loro delle lezioni sul meccanismo di innesco, con tantodi batterie e fiammiferi antivento, e aveva fatto con loro dellevere e proprie prove di apertura e chiusura del circuito. Dopola strage ovviamente aveva capito subito, essendo un esperto,che proprio quei congegni erano serviti a innescare le esplo-sioni, ma non era riuscito a vincere la propria paura e avevaraccontato ai giudici solo una piccola parte della storia.

Come mai un teste così importante non viene interrogato«a fondo»?

Se c’è una critica da muovere agli inquirenti milanesidella prima indagine è proprio quella di non essersi accortidella centralità della possibile testimonianza di Fabris, diaverlo sentito solo una volta e in modo non molto approfon-dito dopo la prima testimonianza ai giudici di Treviso e dinon aver intuito che, se fosse stato adeguatamente protetto ese si fosse già da allora acquisita la sua fiducia, la sorte deiprimi processi per la strage di piazza Fontana sarebbe stataprobabilmente diversa, con un effetto a catena su tutto il fe-nomeno della strategia della tensione.

Fra l’altro Fabris nel 1995 ci ha raccontato un fatto impor-tante: le «lezioni» a Ventura e a Freda erano avvenute in unperiodo successivo, circa la fine di novembre, a quello in cuiquest’ultimo aveva collocato la cessione dei timer al fanto-matico capitano Hamid dei servizi segreti algerini. Anchequesto tentativo di Freda, per quanto puerile, di sostenere diessersi disfatto di tutti i timer prima del 12 dicembre, sarebbegià allora caduto dimostrando falso quell’alibi. Con conse-guenze immaginabili per le Corti giudicanti. Quanto a Gian-

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nettini e agli uomini del SID, le nuove indagini hanno arric-chito, con molti episodi mai smentiti dalle sentenze, il qua-dro dei rapporti tra i servizi segreti e Ordine nuovo. Rapportinon occasionali ma organici in un reciproco scambio di fa-vori contro il «nemico comune», compresa soprattutto la tu-tela del segreto su quanto avvenuto. Ricordo, tra i tanti esempipossibili, il ritrovamento di un documento non solo autografoma addirittura interamente manoscritto dal generale Giana-delio Maletti, del 1975, e riguardante la fonte «Turco», cioèun ordinovista di Padova, tale Gianni Casalini. Il vicecapo delSID scriveva, con evidente preoccupazione, che Turco «vo-leva scaricarsi la coscienza» e riferire quanto sapeva delle at-tività del gruppo padovano, comprese le bombe sui treni. Con-seguenza: «bisogna chiudere la fonte», incarico subito affidatoda Maletti a un ufficiale piduista.

Abbiamo chiamato Casalini vent’anni dopo e ci ha con-fermato che era tutto vero. Sapeva molte cose sulla cellulapadovana di cui aveva fatto parte, ma a un certo punto nes-suno si era più occupato di lui e di coltivare le notizie che po-teva fornire. Ha confessato tra l’altro in questi tardivi ver-bali di aver partecipato materialmente con il gruppo agliattentati ai treni dell’agosto 1969 e, particolare non indiffe-rente, che il gruppo padovano si riforniva di armi da quelloveneziano. Ma quanto aveva detto allora non era mai giuntoalla magistratura. Era rimasto nei cassetti del SID. Casaliniquindi aveva sbagliato porta...

Comunque, siamo sempre nell’ambito degli esecutori, deimanovali o al massimo dei quadri intermedi, ma restano,come al solito, fuori i nomi dei personaggi di spicco. Tantoper farne qualcuno famoso: Giulio Andreotti, Giuseppe Sa-ragat, Mariano Rumor, Mario Tanassi, Franco Restivo...

Tutti questi nomi, a eccezione del senatore Andreotti,sono di politici già morti quando abbiamo riaperto le inda-gini e su questo versante non c’era quasi più nessuno da sen-tire. Solo il senatore Paolo Emilio Taviani poco prima di mo-rire, mentre stava scrivendo la sua autobiografia uscitapostuma con il titolo Politica a memoria d’uomo, ha voluto

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lasciare qualcosa di quanto sapeva. Anche il generale Ma-letti, uno dei capi del vecchio SID e uno degli uomini piùascoltati dagli ambienti politici del tempo, si è reso per tuttala durata delle indagini irraggiungibile, restando latitante inSudafrica e ha fatto una fuggevole comparsa solo nel dibat-timento di primo grado.

Sul campo erano rimasti ormai solo i personaggi minoricome il capitano Antonio Labruna, un vecchio spione quasisimpatico, un subalterno che aveva pagato per tutti. Nel 1993ci ha portato la copia dei nastri relativi al golpe Borghese (aogni buon conto se l’era tenuta per venti anni) consentendocosì di provare al di là di ogni dubbio che la copia conse-gnata allora alla magistratura era stata dai suoi superiori al-leggerita dei nomi più importanti, militari e civili (Licio Gellicompreso), coinvolti a vario titolo in quel progetto di golpenon proprio da operetta come si è voluto far credere poi.

Sul fronte delle aspettative e delle reazioni politiche a li-vello più alto insite nei progetti degli autori materiali e deiquadri intermedi della strage non si è potuto quindi lavoraremolto, se non per acquisire la conoscenza del fatto, riferitoda vari testimoni ma stranamente del tutto assente nelle sen-tenze, che dopo il 12 dicembre gli autori del progetto si aspet-tavano non solo l’arresto di Pietro Valpreda o di qualcunocome lui ma una dichiarazione di stato di emergenza comeprimo passo di una stabile svolta autoritaria. Ciò è del resto insintonia con la strategia di aree radicali come Ordine nuovo.Queste non potevano certo prendere il potere da sole, ma piut-tosto fungere da detonatore: agire affinché altri, soprattutto imilitari, si muovessero a loro volta. Del resto, «strategia dellatensione» ha significato, non solo in Italia, un’azione combi-nata per creare tramite il terrore le condizioni per l’accetta-zione da parte dell’opinione pubblica di una stretta autoritaria.

Complessivamente, la mia personale opinione è che co-munque ben difficilmente a livello politico potesse essereconcepita o accettata l’idea di una strage con la sua caricacriminale, ma al di sotto di tali atteggiamenti vi sono livellidi collusione più sottili che comprendono la possibilità di ac-cettare di divenire «beneficiari occasionali» di una strategiacapace di utilizzare le bombe. Bombe e attentati potevano

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essere una manna per l’area moderata, e non dimentichiamoche dopo il 12 dicembre 1969 i contratti con i sindacati sichiusero più in fretta e più facilmente. Del resto EdgardoSogno, nel suo Testamento di un anticomunista, raccontò,poco prima di morire, come nell’area democristiana torinesepiù conservatrice si caldeggiasse in quegli anni la fase dei«piccoli botti», aiutando economicamente anche chi pro-metteva di commetterli, perché spaventare l’opinione pub-blica serviva a mantenere lo statu quo.

Una campagna di bombe dimostrative, come quelle de-poste prima del 12 dicembre 1969, probabilmente era inqualche modo accettata in alto, ma forse l’eccidio di piazzaFontana è stato un’accelerazione o un mutamento di pro-gramma voluto dai suoi autori materiali.

E veniamo alla nuova inchiesta che la vede giudice istrut-tore. Per quale ragione lei nel 1989 inizia un’altra indaginesulla cosiddetta strategia della tensione, sull’attività degliestremisti di destra? Quali nuove piste individua? Quali sce-nari inediti si aprono?

L’indagine è ripartita quasi per caso dopo che per moltianni a Milano l’impegno a indagare sulla vecchia destra ever-siva era stato quasi abbandonato. Una destra molto attiva econ molte collusioni. Accadde un fatto imprevedibile a mar-gine dell’inchiesta sull’omicidio dello studente missino Ser-gio Ramelli. Una persona in cerca di un tetto sfondò la portadi un abbaino e vi trovò, in stato di abbandono, il vecchio ar-chivio di Avanguardia operaia, il gruppo di cui alcuni com-ponenti erano proprio in quei giorni accusati dell’omicidio.

Oltre alle solite e ormai inutili schede sui «fascisti», viera un documento anonimo ma riferibile al gruppo milanesedi Ordine nuovo. Quel documento conteneva notizie ineditesui legami appunto tra la cellula milanese e le cellule ve-nete ai tempi della strage e sul fatto che alcuni dei timer ri-masti dopo il 12 dicembre erano stati consegnati dopo lastrage alla cellula milanese. Questa avrebbe dovuto collo-carli in una villa di Feltrinelli non per farla saltare in ariama per indirizzare le indagini nei suoi confronti.

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Era un episodio misterioso, ma alcuni testimoni ci diederoconferma dell’esistenza di questo progetto e ripartimmoquindi proprio dagli spunti offerti da quel documento.

Nel giro di poco tempo circostanze e notizie nuove co-minciarono a depositarsi nell’indagine, come i frammenti diun puzzle, inizialmente disordinati ma poi sempre più leggi-bili. Quasi in successione Carlo Digilio, latitante da più didieci anni, fu espulso da Santo Domingo e portato in Italia.Un vecchio «pentito» della destra milanese, passato in se-guito alla malavita comune, Gianluigi Radice, ci indicò Mar-tino Siciliano, sino a quel momento personaggio quasi sco-nosciuto, come una persona molto informata sulla strage diMilano avendo fatto per molti anni la spola tra la cellula diMestre, in cui militava, e il capoluogo lombardo. VincenzoVinciguerra accettò di ricostruire i rapporti tra il vecchiomondo di Ordine nuovo e gli apparati dello Stato, e questoavvenne quando si rese conto che io, a differenza della pro-cura di Venezia, non gli affibbiavo l’etichetta di «gladiatore»,non lo accusavo, ipotesi questa tanto propagandata quantopriva di fondamento, di aver commesso l’attentato di Pe-teano con l’esplosivo di Gladio, e gli riconoscevo invece lasua identità, cioè quella di «fascista rivoluzionario» puro cheaveva sempre rifiutato le collusioni con pezzi dello Stato econ la logica delle stragi contro i civili.

A un certo punto si presentò anche il capitano Labruna(degradato e rimasto in Italia senza una lira a pagare anche lecolpe dei suoi superiori) e ci portò la copia originale e im-polverata dei nastri del golpe Borghese, quella non «alleg-gerita» dei nomi più importanti. L’arrivo in Italia di Digiliofu decisivo, perché solo allora, grazie a una serie di testimo-nianze incrociate, riuscimmo a provare definitivamente cheproprio lui era lo «zio Otto», il personaggio misterioso com-parso sullo sfondo delle indagini fatte a Catanzaro e indicatoda Sergio Calore e da altri testimoni con il soprannome, pursenza conoscerlo, come il «quadro coperto» di Ordine nuovoin Veneto, incaricato di occuparsi dell’esplosivo utilizzatoanche per piazza Fontana.

Digilio, una volta in carcere in Italia e perso l’anonimatoe le protezioni di cui aveva goduto, cominciò, seppur fatico-

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samente e centellinando le sue dichiarazioni, a collaborare.Riuscimmo anche a raggiungere Siciliano in Francia. Alleprime avvisaglie delle nuove indagini era incerto se acco-gliere l’invito dei suoi ex camerati a raggiungerli in Russia,dove avevano impiantato una serie di attività commerciali, oa stabilirsi in Colombia, dove c’era la sua nuova famiglia.Comunque sarebbe sparito per sempre se, ironia della sto-ria, non si fosse mosso proprio il SISMI per rintracciarlo econvincerlo a collaborare. Sembra un paradosso, uno deimolti di questo processo, ma fu proprio qualche funzionariodel SISMI, con una mentalità nuova e con l’obiettivo di ri-scattare in questa vicenda il passato dei servizi segreti ita-liani, a compiere il lavoro migliore, mentre molti colleghimagistrati guardavano con indifferenza, per non dire fastidio,alle nuove indagini su piazza Fontana.

Intanto anche gli archivi dei servizi segreti, civili e mili-tari, cominciavano ad aprirsi. Fu possibile acquisire nuovidocumenti e certamente l’indagine, pur rimanendo non fa-cile, fu almeno resa possibile da alcuni fenomeni politiciquali la rivelazione di Gladio e la caduta del Muro di Berlinocon la fine di fatto della guerra fredda.

Coloro che, direttamente o indirettamente, avevano lavo-rato come «forze irregolari» a fianco dei servizi segreti occi-dentali, alleati o «prigionieri» delle loro strategie, erano orapiù liberi di parlare perché, in un certo modo, la «guerra» eravinta, o comunque terminata ed era possibile alzare il veloanche sui suoi risvolti più tragici. In molti testimoni c’era or-goglio e insieme rammarico, perché erano consapevoli di es-sere stati usati, e se anche il nemico sovietico non si era im-padronito dell’Italia, il futuro politico era di compromesso enon certo quello fatto di tradizione, gerarchia e fanatismo mi-litare da loro auspicato.

Un altro vantaggio fu, all’inizio della nostra indagine,poter lavorare in silenzio perché Mani pulite e il crollo dellaprima repubblica monopolizzavano l’interesse dei massmedia e nessuno si era accorto di noi, almeno sino a quandoqualche collega, forse indispettito dal fatto che la semplici-stica equazione «Gladio uguale stragi» stesse venendo meno,non cominciò a porre un ostacolo dopo l’altro alla nostra in-

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chiesta, diventando quasi il «salvatore» dell’ambiente su cuiaveva indagato fino a poco tempo prima.

Come è proseguita l’indagine?

La dinamica è stata molto particolare, in pratica un per-corso a cerchi concentrici che portava però progressivamenteal centro della strategia del terrore. Inizialmente abbiamofatto luce su avvenimenti più esterni, anche avvenuti in luo-ghi diversi da Milano e qualche tempo prima o dopo il 12dicembre, ma sempre ricollegabili a quella strategia certa-mente unica, almeno sino alla metà degli anni Settanta con ilcolpo di coda della destra estrema e golpista costituito dallastrage di Brescia. Queste sono anche le conclusioni cui ègiunta la Commissione stragi.

Vennero alla luce tanti episodi sotto questo profilo collegatitra loro. Ne ricordo solo alcuni: l’arsenale in un casolare diCamerino «scoperto» dai carabinieri e attribuito a giovani disinistra della zona, in realtà allestito, prima della «scoperta»,dagli stessi carabinieri e dal SID; le esercitazioni e gli attentatidel MAR di Carlo Fumagalli in Valtellina, con armi e divisefornite dall’esercito e tanto di avviso alla più vicina stazionedei carabinieri quando c’era da spostare una macchina caricadi armi; la strage dell’estate 1970 sul treno Freccia del Sudprima della stazione di Gioia Tauro, attribuita a un errore delmacchinista ma in realtà, come scoprimmo, causata da un or-digno deposto sui binari da avanguardisti di Reggio Calabria;l’attentato alla caserma dei carabinieri di Este commissionatodal SID a uomini di Ordine nuovo del posto per creare ten-sione; le bombe a mano SRCM riconsegnate dal gruppo deimilanesi ai romani del gruppo di Paolo Signorelli dopo es-sere state usate nell’aprile 1973 nella manifestazione in cui fuucciso l’agente Antonio Marino. E ancora i Nuclei di difesadello Stato (quello sì, molto più di Gladio, un caso più politicoche penale), una struttura pericolosa e con fini eversivi in cuiordinovisti e militari si addestravano insieme, all’inizio deglianni Settanta, in vista dell’imminente presa del potere.

Ma fu solo quando Digilio e Siciliano, e anche GiancarloVianello, cominciarono a parlare degli esplosivi di tutti i tipi

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a disposizione del gruppo mestrino, dei contatti con Milano,che avevano portato Siciliano a commettere un attentatoqualche tempo dopo (nel 1971, all’università Cattolica diMilano), e ancor di più quando emerse l’attentato alla Scuolaslovena di Trieste del 3 ottobre 1969, davanti alla quale ilgruppo al gran completo aveva deposto una cassetta metal-lica con chili di gelignite, che vi fu la sensazione di avvici-narsi al cuore della strategia: la strage di piazza Fontana.

Ricordo altri due episodi che portavano in quella dire-zione: le riunioni nella libreria Ezzelino di Freda, quella dicui si è molto parlato anche nella prima indagine, dove Sici-liano ci raccontò di essere stato presente nel 1969 e dove nonsi parlava solo del misticismo pagano e dei falsi «manifesticinesi», attacchinati a Padova dai mestrini dopo averli ritiratidagli stessi padovani. Libreria e «mascheramento» da estre-misti di sinistra erano esattamente la continuazione dei con-testi, con voci questa volta dall’interno, in cui si era mossaanche la prima indagine. Davanti a questi episodi faccio fa-tica a spiegarmi come mai le sentenze abbiano respinto l’ideache tra gli amici di Freda e quelli di Maggi vi fosse una sin-tonia ben finalizzata.

Con quali strumenti ha portato avanti per diversi anniquesta inchiesta?

Lavoravamo in modo quasi artigianale io e il mio collabo-ratore, l’insostituibile maresciallo Antonio Russo della Guar-dia di finanza, tra pile di fascicoli. Dieci o dodici anni sem-brano pochi, ma sono un secolo in tema di sviluppo delletecniche di indagine. Allora avevamo veramente pochi mezzi.Inoltre occupandoci di fatti molto lontani non potevamo certousufruire di strumenti efficaci come l’esame dei tabulati te-lefonici e di certe indagini scientifiche molto avanzate rea-lizzate oggi sul luogo del delitto. Le stesse perizie fatteall’epoca sui resti dei vari ordigni erano incomplete, quasi di-sastrose, e ci rendevano praticamente impossibile fare dellecomparazioni con i nuovi risultati acquisiti tramite le testi-monianze. Anche la solidarietà all’interno del tribunale è statascarsissima, sentivamo intorno a noi quasi un atteggiamento

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di ironia perché ci occupavamo di quella che veniva chiamata«archeologia giudiziaria».

Per fortuna a partire da un certo momento ci hanno aiutatomolto alcuni carabinieri e alcuni poliziotti: hanno svolto leindagini a loro delegate senza guardare in faccia nessuno,anche se i risultati potevano toccare i vecchi ufficiali e i vec-chi funzionari magari responsabili in passato dei depistaggidi quelle stesse indagini. Ci ha anche molto aiutato il peritoche avevamo nominato: lo storico e specialista in archivi-stica Aldo Giannuli. Si è dimostrato un vero segugio nel tro-vare documenti utili tra armadi pieni di faldoni che per laprima volta era possibile visionare negli archivi.

Dalla lettura delle sentenze di Appello e della Cassazionesembrerebbe che tutta la sua inchiesta si basi sulle confes-sioni dei pentiti Digilio e Siciliano.

Non è così. I riscontri obiettivi e gli apporti di altri testi-moni sono stati molti nonostante lavorassimo su episodi lon-tani nel tempo, anche sugli attentati precedenti da noi definiti«preparatori» alla strage di piazza Fontana.

Quando scoprimmo la responsabilità per gli attentati incontemporanea del 3 ottobre 1969 alla Scuola slovena di Trie-ste e a un cippo di confine a Gorizia del gruppo di Delfo Zorzi,attentati per i quali fra l’altro furono utilizzati almeno sei chilidi gelignite, riuscimmo a trovare, grazie a un vecchio gior-nale dell’epoca, addirittura il titolo del film in programma-zione quella sera in un cinemino di Gorizia che Siciliano ciaveva raccontato di aver visto insieme agli altri mentre atten-devano l’ora propizia per andare a deporre l’ordigno. Ricordoancora il titolo di quel vecchio film, La realtà romanzesca,un titolo quasi allusivo. Poi per caso, nel 1996, durante un ac-cesso alla questura di Firenze dove non immaginavamo si po-tesse trovare del materiale sul gruppo sotto indagine, tro-vammo un pacco di lettere e di fax scambiati fra Tringali eZorzi. Da questi documenti, nonostante qualche tentativo di«criptarne» il significato, si capiva chiaramente come giàvent’anni or sono la maggiore preoccupazione del gruppo eraSiciliano. Considerato evidentemente un debole, temevano

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«crollasse» psicologicamente e raccontasse la storia delgruppo mestrino, inclusi i segreti «scottanti» (così definiti inuna lettera) di cui anche Tringali era depositario. Un bel ri-scontro anticipato quindi, risalente a tempi non sospetti, delvalore complessivo di quanto Siciliano ci avrebbe poi detto.

In quelle lettere si faceva anche riferimento al terrore che gliinquirenti potessero scoprire l’«anello di congiunzione»,all’epoca, tra il gruppo mestrino e l’«amico Fritz», cioè certa-mente Freda o Fachini del gruppo di Padova. Era un elementoimportante perché la sentenza di appello, in alcuni passaggiper la verità un po’ discutibili, ha indicato come elemento didebolezza dell’accusa il fatto che non fossero sufficientementeprovati i rapporti operativi tra il gruppo mestrino e quello diPadova, tralasciando tra l’altro di rilevare, sul piano storico egeografico, l’ovvia circostanza che Mestre era in pratica la pe-riferia di Padova perché in tale città quasi tutti i mestrini, or-dinovisti e non, andavano a frequentare l’università.

Comunque quelle lettere (una prova documentale impor-tantissima) non sono state nemmeno fotocopiate dalla procurae portate nell’aula della Corte d’assise, e questo non è l’unicocaso di atti importanti che avrebbero dovuto essere usati e, conuna certa disattenzione, sono stati invece dimenticati.

Vi sono state poi altre testimonianze in grado di illumi-nare la fase preparatoria degli attentati del 12 dicembre 1969,come quella, confermata anche in dibattimento, di EnnioPeres, da giovanissimo vicino ad Avanguardia nazionale,amico personale di Mario Merlino e in seguito allontanatosirapidamente da tale mondo. Attualmente, fra l’altro, cura unabrillante rubrica di enigmistica sulla rivista «Linus».

Ecco cosa ci raccontò Peres: poche settimane prima del12 dicembre 1969 Merlino gli aveva chiesto di «darsi da fareper la causa» e di deporre una borsa all’Altare della patria diRoma senza preoccuparsi più di tanto perché «la colpa sa-rebbe ricaduta su altri». Peres non accettò e, una volta avve-nuti gli attentati, capì subito quale avrebbe dovuto essere ilsuo ruolo, anche se non ha avuto il coraggio di raccontarlo senon dopo tanti anni. Una testimonianza apparentemente mi-nore la sua, ma importante se si ricorda che gli attentati diMilano e di Roma furono un tutt’uno e, come hanno poi spie-

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gato Vinciguerra e altri testimoni, Ordine nuovo e Avan-guardia nazionale si erano in pratica divisi i compiti, e Avan-guardia si era ritagliata il suo ruolo a Roma ove da sempreera più forte e radicata.

Non dimentichiamo poi le intercettazioni, poco valoriz-zate nelle sentenze di assoluzione, come quelle in cui, nel1986, si sentono in diretta i tentativi del gruppo mestrino diindurre a ritrattare una testimone che aveva confermato ilracconto di Siciliano in merito a un attentato commesso damembri del gruppo nel marzo 1970 a danno del grande ma-gazzino Coin di Mestre. Un attentato modesto e sul pianopenale ormai prescritto, ma sul quale fare piena luce eramolto pericoloso per il gruppo in quanto l’esplosivo usato,forse imprudentemente, poteva riportare all’intera dotazionedel gruppo stesso e ai ben più gravi attentati precedenti.

Tornando a Siciliano, sempre combattuto tra la scelta diaffidarsi allo Stato e le lusinghe dei suoi ex camerati, bisognaanche sottolineare come dopo il 1995 sia stato fatto tutto ilpossibile per scoraggiarne la collaborazione. Le iniziativesingolari della procura di Venezia, subito riversate sullastampa locale, hanno reso la sua collaborazione di pubblicodominio delegittimandola proprio nel momento crucialedell’indagine. In seguito le strutture addette alla sua prote-zione lo hanno lasciato in uno stato pressoché di isolamento,costretto a condurre una vita stentata e a pagarsi anche le te-lefonate ai suoi familiari in Colombia. Alla fine Siciliano hatestimoniato e confermato tutto il suo racconto nel processodi appello, ma forse era ormai troppo tardi.

Gli ostacoli e gli atteggiamenti di gelosia e di insofferenzache avevano contrassegnato l’indagine negli anni precedenti,ne avevano irrimediabilmente segnato l’esito. È stata laprima volta, nelle indagini sulle stragi, in cui i boicottagginon sono venuti dai servizi segreti o da altre «forze oscure»ma dall’interno stesso della magistratura.

Risulta, quindi, chiaro che Ordine nuovo, ma anche Avan-guardia nazionale, sono i soggetti politici più attivi nellastrategia della tensione. Dalla sua inchiesta è arrivato a evi-denziare cosa realmente si proponevano?

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Ordine nuovo (ON) e Avanguardia nazionale (AN) entra-vano e uscivano dal vecchio Movimento sociale italiano, necondividevano quantomeno l’ambiente umano e soprattuttoerano entrambi componenti del Fronte nazionale del prin-cipe Junio Valerio Borghese, un’organizzazione seria e ra-mificata di cui si è sempre parlato troppo poco.

Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chiaie era un mo-vimento molto rozzo, quasi privo di un’elaborazione poli-tica, vi militavano molti sottoproletari utilizzati per gli scon-tri di piazza, ma fu il primo a intuire le possibilità offertedall’infiltrazione nei gruppi studenteschi grazie al motto delnazimaoismo.

Vinciguerra ci ha del resto raccontato come erano proprioi militanti di AN ad attacchinare i finti manifesti filocinesi,stampati, secondo il suo racconto, con i soldi del ministerodell’Interno. Manifesti pensati sia per spargere confusionenel PCI e nella sinistra sia per spaventare i benpensanti.

In realtà erano gruppi inventati dagli avanguardisti. ANebbe anche un ruolo decisivo nell’alimentare la rivolta diReggio Calabria, riuscendo a incanalare un moto spontaneodi protesta e a renderlo funzionale agli interessi dei notabilireazionari e dei gruppi mafiosi del luogo. A Reggio CalabriaAN aveva anche l’intento di addestrare i propri uomini sullapiazza in vista del sostegno a una possibile azione golpista.

Ordine nuovo di Pino Rauti aveva invece un maggiorespessore teorico, un’ideologia di stampo prettamente nazi-sta con venature iniziatiche ed esoteriche: i suoi militanti sidefinivano appartenenti a un «ordine di combattenti e di cre-denti». Privilegiavano, rispetto agli scontri di piazza, lo stu-dio dei teorici della «tradizione» come Julius Evola e la co-stituzione di cellule formate da pochi militanti moltoselezionati e ispirate al modello dell’OAS, i cui reduci ave-vano spesso svolto per loro il ruolo di istruttori.

Ordine nuovo aveva chiaro, come l’OAS, che non si potevaprendere o mantenere il potere tramite gli attentati, ma con-tava (come insegnavano i principi della «guerra rivoluzio-naria» elaborati in Algeria) su una catena di attentati per in-durre altri, in pratica i militari, a muoversi. Del restol’esperienza di ON coincide in buona parte con quella dei Nu-

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clei di difesa dello Stato, l’organizzazione «segreta» di cuifacevano parte anche Freda, Ventura e probabilmente Maggi.Quest’ultima, suddivisa in legioni territoriali, si era incari-cata di inviare agli ufficiali nelle varie caserme volantini perincitarli a sollevarsi contro la «sovversione rossa», e in qual-che caso era riuscita a organizzare esercitazioni miste tra ci-vili e militari.

Piuttosto, come ho accennato, si è sempre parlato moltopoco del Fronte nazionale, di cui sia ON sia AN erano tra icomponenti, una realtà certo non trascurabile di cui facevanoparte militari, imprenditori, elementi della nobiltà nera edelementi massoni, in grado di attrarre anche politici appa-rentemente non di estrema destra.

Molto probabilmente già nell’autunno del 1969 il Frontenazionale aveva quasi messo a punto il suo programma digolpe e solo alcuni ritardi ed esitazioni dinanzi all’ampiezzadella risposta popolare dopo gli attentati del 12 dicembre1969 hanno indotto i suoi dirigenti a spostare in avanti il pro-getto di un anno, e cioè al dicembre 1970, perdendo tuttaviaparte della spinta iniziale. Del resto, alla fine del settembre1969 il principe Prospero Colonna, un esponente della no-biltà romana vicino al Fronte nazionale, rivelò a un ufficialedel SID come il piano per il golpe fosse quasi pronto e comeil principe Borghese intendesse favorirlo con una serie digrossi attentati dinamitardi capaci di rendere inevitabile l’in-tervento dei militari al suo fianco.

Quindi piazza Fontana era in qualche modo una strage an-nunciata. Purtroppo la confidenza del principe Colonna nonè mai stata approfondita né allora né in seguito e la morte diBorghese in Spagna ha contribuito a porre una pietra sull’in-tera vicenda.

Qual è il ruolo dell’Aginter Presse e chi è Ralph GuerinSerac, pseudonimo di Yves Felix Marie Guillou?

L’Aginter Presse, fondata dal bretone Guerin Serac, già mi-litare in Corea e in Indocina e disertore dell’esercito francesein Algeria avendo aderito alla rivolta dell’OAS, era un serviziosegreto «privato» specializzato in azioni clandestine soprat-

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tutto, ma non solo, nei paesi del Terzo mondo, ovunque gli in-teressi dell’Occidente dovessero essere difesi dall’«avanzatacomunista». Poiché ufficialmente non faceva parte di nessungoverno, la sua esistenza evitava ai governi beneficiari dellesue azioni di sporcarsi le mani quando si trattava di eliminareun avversario o di preparare una sollevazione militare o di-fendere gli interessi occidentali in un paese coloniale o semi-coloniale. L’Aginter Presse è stata in un certo senso il proto-tipo di quegli «eserciti privati» proliferati negli ultimi anni.Aveva sede inizialmente a Lisbona e in seguito, dopo la cadutadel regime di Marcelo Caetano, si è spostata a Madrid sotto laprotezione del generale Francisco Franco.

Vinciguerra (così come Delle Chiaie e molti altri militantifrancesi, portoghesi e anche americani) ha vissuto a lungo inuna delle sue basi a Madrid e quindi, grazie al suo racconto ealle nuove indagini, ora sappiamo molto di più della storia diAginter Presse, comprese le azioni, ancora sino alla secondametà degli anni Settanta, in Algeria, in Honduras, in Angolae addirittura nelle Azzorre, ove era stata incaricata di creareun finto movimento di liberazione per proteggere le basi ame-ricane dalle rivendicazioni dei militari progressisti andati alpotere in Portogallo con la Rivoluzione dei garofani.

Aginter Presse aveva stretti rapporti con le organizzazionidell’estrema destra italiana, soprattutto con ON, e forniva una«istruzione base» sull’infiltrazione, le tecniche di sabotaggio,l’uso degli esplosivi, la «guerra psicologica» contro il ne-mico. Come è noto, un lungo appunto del SID redatto già il 15dicembre 1969 indica l’Aginter Presse come ispiratrice degliattentati del 12 dicembre, pur avendo l’accortezza di etichet-tare Guerin Serac come anarchico e indicare in Delle Chiaiee in Merlino i suoi principali referenti in Italia.

Questo mischiare il falso al vero e al verosimile è una veraastuzia in quanto doveva costituire per il SID una sorta di alibipreventivo. Infatti, una volta consegnato l’appunto nel 1973alla magistratura tramite i carabinieri di Roma (non si di-mentichi: nei primi giorni dopo gli attentati avevano indagatoproprio su Delle Chiaie e Merlino), nessuno poteva più direche il SID non avesse fatto in qualche modo il suo dovere,anche se la pista offerta era assolutamente confusa e si risol-

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veva il problema invitando i magistrati a indagare in Porto-gallo, cosa allora del tutto impraticabile.

Personalmente sono convinto che gli autori materiali degliattentati del 12 dicembre siano stati italiani e non militantivenuti da fuori. Tutta la vicenda, per quanto tragica, ha un sa-pore decisamente «casereccio», ma nel contempo ritengoplausibile il messaggio generale dell’appunto del SID. L’Agin-ter Presse, infatti, si occupava di indicare la strategia generale,il «protocollo di intervento», spiegava cosa era opportunofare pur senza indicare il singolo obiettivo, individuazione dipertinenza dei militanti locali già istruiti nei «corsi» dellaAginter Presse. Del resto i documenti trovati nella vecchiasede dell’Aginter Presse a Lisbona sono del tutto in sintoniacon la pratica, anche nei paesi occidentali, di attentati miste-riosi, non rivendicati e tali da creare un clima generale di in-sicurezza, utili soprattutto quando i governi locali si dimo-strassero esitanti nel contrapporsi ai progressi dei«comunisti» di quel Paese.

Le racconterò comunque un particolare capace di illumi-nare questa possibile fase di istruzione e di ispirazione rico-perta dall’Aginter Presse. Vinciguerra ha raccontato che, du-rante uno dei corsi di «istruzione» a Madrid, Guerin Seracaveva insegnato a nascondere un ordigno esplosivo in un og-getto apparentemente innocuo come un libro scavando unanicchia al suo interno. Proprio un ordigno fatto in quel modo,un grosso libro semisvuotato all’interno per nascondervil’esplosivo, fu trovato inesploso nel rettorato di Padovapochi giorni prima dell’attentato più noto e riuscito per ilquale fu in seguito condannato Freda. Un aggeggio del ge-nere non si era mai visto. Solo una coincidenza? Dopol’esperienza spagnola, buona parte del vecchio gruppodell’Aginter Presse si è trasferito in Sud America, in Cile e inArgentina, a fare lo stesso lavoro, e l’ultima segnalazione suSerac lo indica negli anni Ottanta in Bolivia quale consu-lente del dittatore locale.

Durante le nostre indagini abbiamo pensato di chiederealle autorità francesi qualcosa del suo fascicolo, almeno permettere a fuoco i suoi passati rapporti con l’Italia ma, primaancora che partisse la nostra richiesta formale, un ufficiale di

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collegamento francese ci ha cortesemente avvertito di lasciarperdere: tanto non ci sarebbe mai stato dato o detto nulla.Non ho dubbi: così sarebbe stato.

C’è poi un personaggio nei fatti del 1969 che oggi occupaancora un posto di rilievo nel panorama politico: Pino Rauti,fondatore di Ordine nuovo poi rientrato nel Movimento so-ciale e poi promotore del Movimento sociale-Fiamma trico-lore. Rauti viene indagato, messo in galera su richiesta deimagistrati Stiz e Calogero, ma rimesso in libertà da GerardoD’Ambrosio il 24 aprile 1972. Nella sua inchiesta Rauti ri-compare. In quale veste?

Il nome di Rauti è ricomparso qua e là nelle testimonianzeraccolte nelle nuove indagini sia in dettagli di «ambiente»sia invece in situazioni un po’ più compromettenti, anche senon è mai stato indagato. Tullio Fabris ha raccontato cheanche Rauti era presente nel 1972 nel suo negozio di elettri-cista quando Massimiliano Fachini lo minacciò pesante-mente per dissuaderlo dal raccontare tutta la vicenda deitimer e dei favori chiesti da Freda. Era una testimonianzaplausibile: quando venne fatto un controllo nella casa di Ven-tura fu trovato un biglietto in cui era scritto: «Mi hanno per-quisito. Informare Maggi e Rauti». Questo significa, e nonpuò essere diversamente in un gruppo come Ordine nuovocon ben definiti rapporti gerarchici, che il rapporto tra questivari personaggi era assai stretto. Tale avvertimento tra l’altrosmentisce una delle tesi su cui si basa la sentenza di assolu-zione, e cioè che non vi è prova sicura di legami significativitra il gruppo padovano e il gruppo mestrino-veneziano.

Un ordinovista veronese poi, Giampaolo Stimamiglio, haricordato al processo di piazza Fontana che Rauti e altri diri-genti di Ordine nuovo già nei primi anni Cinquanta eranostati convocati dagli alti comandi americani di Trieste persondare la possibilità di una strategia comune. Rauti era statotra coloro che non avevano rifiutato tale proposta di colla-borazione in nome della comune lotta contro il comunismo,circostanza questa non insignificante se si pensa ai rapportitra Ordine nuovo e le basi americane emersi proprio nelle

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nuove indagini. Inoltre Rauti nell’intervista pubblicata nellibro di Michele Brambilla, Interrogatorio alle Destre, in-calzato dal giornalista sui fatti di piazza Fontana proprio nelperiodo in cui si stava cominciando a parlare delle nuove in-dagini e per la prima volta era corsa voce della collabora-zione di ex militanti di Ordine nuovo, ha risposto in modo unpo’ sibillino: la responsabilità di piazza Fontana era dei ser-vizi segreti, ma «i servizi utilizzarono come pedine ragazzi didestra che giocavano con il tritolo, con le ipotesi di golpe,con il clandestinismo», benché in buona parte inconsapevolidi essere al servizio di una strategia altrui. Detto da Rauti(all’epoca punto di riferimento per tutta l’area giovanile delladestra radicale e in rapporti con pressoché tutti i militanti,peraltro non molti) non sembra certo un sentito dire ma piut-tosto, se rapportato al momento dell’intervista, l’inizio del1995, un «mettere le mani avanti» rispetto agli sviluppi dellanuova indagine non del tutto immaginabili in quel momento.Certo un concetto come quello espresso da Rauti, a lungodeputato e quindi un «rappresentante del popolo italiano»colpito dalla strage, dovrebbe comportare il dovere di unaspiegazione.

Nell’attività dei gruppi di estrema destra in che misura econ quale funzione intervengono i servizi segreti americani?

La presenza e la funzione dei servizi segreti americanisono rimaste, soprattutto nei dibattimenti, un po’ sullosfondo, di loro si è parlato poco. Non credo del tutto a Digi-lio (sicuramente un informatore delle basi americane in Ve-neto come molti altri militanti di ON) quando sostiene chegli ufficiali americani avrebbero direttamente ispirato e coor-dinato gli attentati. Questa versione poteva servire a Digilioper attenuare un po’ le sue responsabilità, presentarsi piùcome osservatore dei fatti che come responsabile della lorodecisione ed esecuzione. Credo però nel contempo che loscambio di informazioni reciproco tra le basi americane e lestrutture di ON fosse continuo e ben accettato da entrambe leparti in quanto i militanti di ON erano visti come «cobellige-ranti» nella guerra contro il comunismo. Quindi i servizi se-

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greti americani erano a conoscenza della campagna di atten-tati, dei loro autori, della loro progressione e hanno assuntoun atteggiamento di «osservatore benevolo» non facendomancare qualche aiuto logistico al gruppo come, per esem-pio, la fornitura di armi alla cellula ordinovista di Verona.Ovviamente in questo «controllo senza repressione» si guar-davano bene dall’informare le autorità italiane perché quantostava accadendo poteva risultare funzionale al mantenimentodel quadro politico e delle alleanze per cui lavoravano leforze del Patto atlantico. Inoltre, da documenti recentementedeclassificati degli archivi di sicurezza statunitensi e resipubblici è emerso come gli Stati Uniti fossero perfettamenteal corrente anche degli sviluppi del golpe Borghese. E il ge-nerale Maletti nella sua fugace e prudente deposizione al di-battimento di primo grado, nel 2001, ha tenuto a sottolinearecome i servizi segreti italiani, in cui aveva ricoperto ruoli dialto livello, all’epoca dipendevano in tutto e per tutto daquelli americani.

Il meccanismo direi non solo politico ma anche quasi psi-cologico che ha permesso sino alla metà degli anni Settantal’esecuzione di stragi e attentati in una condizione di impu-nità e di sicurezza quasi garantita per i loro autori è quindi inun certo senso a gradini: c’è chi li commette, i gruppi terro-ristici di estrema destra; c’è chi appronta o ha già approntatofalse piste o si incarica di far fuggire chi sia stato inopinata-mente individuato come Marco Pozzan, e mi riferisco ai ser-vizi segreti italiani; c’è chi è soddisfatto di quanto avviene ecerto non lo contrasta, e mi riferisco ai servizi stranieri al-leati; e c’è infine chi, una parte del mondo politico, è con-vinto, magari a torto, di essere un potenziale beneficiario o dipoter trarre comunque vantaggio da tutto questo. Quest’ul-tima aspettativa tuttavia, salvo qualche risultato immediato,a lungo termine non si realizza perché gli attentati impunitisuscitano alla fine una risposta democratica contro le ambi-guità del potere contribuendo a portare verso nuovi equilibrianche all’interno della stessa Democrazia cristiana. Piuttosto,conseguenza probabilmente non prevista, piazza Fontana e lealtre stragi con il loro fondo di irrazionalità sono certo non lacausa ma almeno una forte concausa del passaggio delle or-

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ganizzazioni armate di sinistra da azioni dimostrative al ter-rorismo perché, dinanzi alle stragi impunite, salta psicologi-camente in molti giovani ogni remora a usare la violenzaestrema. È come se si pensasse: se lo Stato protegge gli au-tori delle stragi allora la mia violenza cessa di essere moral-mente illegittima. In realtà questa onda lunga e non calcola-bile da chi il pomeriggio del 12 dicembre ha deposto lavaligetta sotto il tavolo nell’atrio della Banca nazionaledell’agricoltura, finisce per lambire, sul piano delle conse-guenze a lungo termine, l’unico crimine politico italiano cheeffettivamente ha avuto conseguenze dirette e in parte pre-viste anche dai suoi autori e cioè l’omicidio di Aldo Moro.Dopo quell’omicidio, infatti, il disegno del compromessostorico e della solidarietà nazionale è entrato subito in crisi esono comparsi come attori soggetti politici prima compri-mari sulla scena.

Torniamo alla funzione degli americani.

Le dichiarazioni di Digilio sul loro ruolo non devono es-sere poi più di tanto svalutate. Digilio, il cui padre, ufficialedella Guardia di finanza, era già durante la guerra un agentealleato con il nome in codice «Erodoto», ha parlato, peresempio, di un ex ufficiale italoamericano, Joseph Pagnotta,che con frequenti visite faceva da «supervisore» del lorogruppo ordinovista. Ebbene, a casa di questo Pagnotta (avevapartecipato allo sbarco in Sicilia e, prima di morire, si erastabilito per lungo tempo in Veneto) abbiamo trovato leagende di lavoro da cui risulta, con tanto di conteggi e indi-cazione di elicotteri e di carri armati, che egli faceva il lavororiservato di vendita di mezzi dell’esercito USA a Israele neglianni Cinquanta-Sessanta in violazione dei divieti stabilitidagli accordi internazionali dell’epoca. «Triangolazioni» diquesto genere le fa solo un agente ad alto livello come ci in-segna la vicenda Irangate e altre più recenti.

Nel 1995 scoprimmo poi un’altra cosa molto interessante:mentre noi indagavamo sul possibile intervento dei serviziamericani, un uomo della CIA a Milano stava acquisendoinformazioni sulla nostra indagine contattando alcuni nostri

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testimoni e preparando anche una scheda su di me e sui mieiinvestigatori. Quest’uomo si chiamava Carlo Rocchi, non untipo qualsiasi perché già dal dopoguerra aveva lavorato per ilreclutamento nei ranghi americani di ex ufficiali nazisti comeOtto Skorzeny o il colonnello Eugen Dollmann, e più recen-temente era stato mandato in missione nel Salvador. Quandogli domandammo perché lo facesse rispose tranquillamenteperché riteneva scontato che gli alleati americani «avesseroil diritto di sapere» cosa si faceva in Italia, indagini com-prese. Non credo valga anche il contrario.

Ricordiamo poi, tanto per attualizzare la storia delle in-terferenze sulla sovranità dell’Italia, che le basi americanein Veneto di cui parla Digilio e a cui molti ordinovisti avreb-bero avuto libero accesso, sono più o meno quelle in cui, se-condo gli esiti delle recenti indagini della procura di Milano,una squadra di agenti americani avrebbe trasferito e interro-gato l’imam Abu Omar, rapito a Milano sotto casa sua nelfebbraio 2003, prima di imbarcarlo su un aereo militare allavolta dell’Egitto. Quindi queste «presenze» non sono solofantasie o forzature propagandistiche.

In conclusione, la Commissione stragi è chiusa, i processisono finiti, ma forse nei prossimi anni dagli atti degli archiviamericani progressivamente declassificati per iniziativa digruppi di studiosi verranno sorprese interessanti, come è giàsuccesso per quelli sul colpo di Stato in Cile e le complicitàstatunitensi.

Un politico democristiano di lungo corso come PaoloEmilio Taviani, uno dei «padri» della repubblica, cosa hasostenuto esattamente poco prima di morire?

Il senatore Paolo Emilio Taviani, uno dei pochi esponentipolitici ancora viventi negli anni Novanta fra quelli con in-carichi di rilievo negli anni della strategia della tensione, solonel 2000 ha rivelato, in una serie di testimonianze resenell’ambito delle nuove indagini, di aver appreso nel 1974che la bomba collocata a Milano non avrebbe dovuto pro-vocare vittime e che un agente del SID, l’avvocato romanoMatteo Fusco, proveniente da una famiglia di militari, il po-

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meriggio del 12 dicembre 1969 stava per partire da Fiumi-cino per Milano, tardivamente incaricato di impedire gli at-tentati perché avrebbero avuto conseguenze più gravi diquelle previste. È una testimonianza assai attendibile inquanto la figlia di quest’uomo, Anna Fusco, ha confermatoche il padre aveva lavorato per lungo tempo per il SIFAR e poiper il SID con incarichi di rilievo, tanto da occuparsi di «ri-pulire» nel 1968 l’ufficio del colonnello del SIFAR RenzoRocca dopo il suo misterioso suicidio. Fusco in varie occa-sioni aveva confidato alla figlia il cruccio della sua vita: ilfallimento del suo tentativo di impedire la strage di piazzaFontana. Fusco non era un semplice procuratore legale diprovincia come Freda, ma un agente importante del SID econtemporaneamente un convinto aderente alla linea poli-tica di Ordine nuovo di Rauti, quindi è uno degli elementi diintersezione a più alto livello sinora individuati tra il mondomilitare e dei servizi segreti e la struttura politico-operativadi Ordine nuovo. Se un uomo come Fusco è stato inviatoall’ultimo momento per impedire che una strategia, forsesolo «dimostrativa», sfuggisse di mano, significa chiara-mente un fatto: a Roma almeno una parte degli apparati isti-tuzionali doveva essere bene a conoscenza della prepara-zione degli attentati, cercando solo all’ultimo momento diridurne gli effetti. Taviani ha fornito quindi uno squarciodelle consapevolezze e delle collusioni degli apparatidell’epoca, anche se è inquietante il fatto che abbia sentito ildovere di questa timida apertura solo nel 2000, dopo esserestato sentito tante volte dai magistrati e dalla Commissionestragi.

Appare chiaro: l’attività politica in Italia e quella dei go-verni, ma in una certa misura anche dei partiti d’opposi-zione, era fortemente condizionata dall’attività del SID edell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno guidatoda Federico Umberto D’Amato. Un uomo diventato perso-naggio noto praticamente dopo la sua morte nel 1996. Infattipassano solo sedici giorni dalla morte di D’Amato e ven-gono ritrovati dal suo consulente, Aldo Giannuli, ben cento-cinquantamila fascicoli del ministero dell’Interno non cata-

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logati nel deposito della via Appia. Chi era D’Amato equanta parte ha avuto nella strategia della tensione?

Sin dalle prime indagini funzionari del ministero dell’In-terno vicinissimi a D’Amato furono coinvolti nel sottrarreall’attenzione della magistratura reperti importantissimi tra cuila cordicella della borsa in cui era nascosto l’ordigno trovatoalla Banca commerciale e si impegnarono nel non fare le in-dagini con le quali si sarebbe potuto facilmente risalire agliacquirenti a Padova delle cinque borse utilizzate il 12 dicem-bre 1969. Del resto fu proprio il ministero dell’Interno (men-tre i carabinieri a Roma seguivano inizialmente la pista diDelle Chiaie) ad accompagnare immediatamente la magistra-tura sulla falsa pista anarchica. Non vi è da stupirsi. Dai docu-menti rinvenuti da Giannuli proprio nel deposito di via Appia,quelli contenenti i verbali del Club di Berna (gli incontri infor-mali degli anni Sessanta tra i rappresentanti dei vari servizisegreti europei di cui D’Amato era fra gli animatori), si leggeche la sinistra e l’estrema sinistra, viste come l’unico pericolo,dovevano essere oggetto di operazioni di infiltrazione da partedi agenti ben addestrati anche «all’uso delle armi e degli esplo-sivi», come se loro compito fosse non solo prevenire attentatima anche crearne le condizioni o ispirarli. In proposito nonmi sembra sia stato mai abbastanza approfondito per quale ra-gione il ministero dell’Interno abbia avvertito la necessità diinfiltrare a tempo pieno in un gruppetto insignificante come ilCircolo 22 marzo di Roma, in cui Avanguardia nazionaleaveva già inserito Merlino con compiti di provocazione, ilfinto anarchico Andrea, e cioè l’agente Salvatore Ippolito.C’erano forze ben più agguerrite nella nascente sinistra extra-parlamentare in cui sarebbe stato più utile, tenendo conto deinon molti uomini di cui il ministero disponeva, infiltrare permesi un agente segreto. L’unica spiegazione ragionevole? Damolto tempo doveva essere già in atto il progetto di creare unapista anarchica, studiando i movimenti di alcuni di loro, versocui indirizzare la responsabilità di alcuni attentati. Tornando avia Appia, in quel deposito dimenticato, oltre a tante informa-tive mai fatte pervenire alla magistratura, sono stati trovati nel1996 addirittura «pezzi di bomba», cioè alcuni reperti, tra cui

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una sveglia bruciacchiata, dell’ordigno deposto alla stazione diPescara, l’8 agosto 1969, giorno in cui furono collocate altrenove bombe in altrettante strutture ferroviarie. Se quel repertofosse giunto in tempo alla magistratura inquirente, avrebbepotuto essere utilizzato per utili comparazioni, ma così non èstato. Mi viene in mente la confidenza fatta da Freda a FilippoBarreca, un esponente della ’ndrangheta calabrese che loaveva aiutato e nascosto durante la prima fase della sua fugada Catanzaro. Freda, come ha riferito poi Barreca divenutocollaboratore di giustizia, disse: «Se le cose vanno male tirogiù l’Italia, dirò quello che è successo, che la strage l’ha orga-nizzata un prefetto». Una frase su cui meditare. Può spiegarecome una parte delle istituzioni, coprendo e favorendo certiimputati, abbia fatto anche un’opera di autotutela.

Servizi segreti, ufficio affari riservati, esponenti delleforze dell’ordine erano dunque impegnati a depistare e oc-cultare. Riguardando quegli anni si vede una sorta di lungofilo nero di manomissione della verità, se non peggio.

L’intera storia dell’Italia, sin dal primo dopoguerra, è at-traversata, come da un fiume carsico, da manovre e opera-zioni sotterranee fatte per condizionare gli equilibri politici eistituzionali. Solo negli ultimi anni, anche grazie alle ricer-che di un valente storico come Giuseppe Casarrubea, sta ve-nendo alla luce la presenza di uomini del principe Borghese edi esponenti americani negli avvenimenti che hanno portatola banda di Salvatore Giuliano a compiere una delle primestragi politiche, quella di Portella della Ginestra. Solo oggi,grazie al lavoro solitario del collega Vincenzo Calia della pro-cura di Pavia, è possibile affermare con certezza che la mortedel presidente dell’ENI Enrico Mattei nel 1962 a Bescapè nonfu dovuta a un temporale capace di far precipitare l’aereo sucui viaggiava ma a una piccola carica esplosiva sapiente-mente collocata nel vano del carrello dell’aereo alla partenzadalla Sicilia.

Solo nel 1994 è stato scoperto in uno stanzino di un pa-lazzo della magistratura militare a Roma l’«armadio dellavergogna» con 695 fascicoli relativi a eccidi nazifascisti com-

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messi in Italia contro la popolazione civile tra il 1943 e il1945, insabbiati negli anni Sessanta con un provvedimentodi «archiviazione provvisoria», quando ancora la maggiorparte dei responsabili tedeschi e italiani era viva e raggiungi-bile. Sulle responsabilità, in ipotesi anche politiche, di tale«confisca di giustizia», una Commissione parlamentare di in-chiesta sta ancora lavorando.

Il fenomeno dei depistaggi e dell’occultamento riguardaquindi anche il nostro passato meno recente ed è sempreespressione, pur con forme diverse, della stessa strategia. Lastrage di piazza Fontana quindi non è un’eccezione. Comeha scritto il senatore Giovanni Pellegrino, l’attività storica egiudiziaria di questi anni, nonostante tutto, ha ristretto ilcampo dell’«indicibilità» aggiungendo costantemente fram-menti di verità che si sommano alle acquisizioni precedentirendendo progressivamente visibile l’invisibile. Pellegrino,citando Thomas Mann, ha ricordato: «Senza fondo è il pozzodel passato. Dovremmo per questo dirlo insondabile?». Ladomanda è retorica. No, il passato va continuamente sondatoe non cessa mai di sorprenderci.

In questa luce assumono un’altra dimensione le accuse alei rivolte dal suo collega veneziano Felice Casson e i pro-cedimenti a cui l’ha sottoposta il Consiglio superiore dellamagistratura. O forse pecco di dietrologia?

La procura di Venezia di allora, e non solo una singolapersona, ha la responsabilità storica di aver obiettivamentelanciato una ciambella di salvataggio ai membri del gruppoordinovista di Mestre-Venezia, già in forte difficoltà nel 1994perché temevano nuovi cedimenti collaborativi al suo in-terno. In concreto ha coltivato per oltre tre anni un esposto diCarlo Maria Maggi chiaramente infondato e strumentale.Maggi sosteneva di aver subìto durante «colloqui investiga-tivi», peraltro liberamente accettati, presunte pressioni daparte degli investigatori. Si è giunti al punto di incriminareper «abuso di ufficio» non solo l’ufficiale dei carabinieri piùimpegnato nelle indagini sulle stragi (la vicenda ricorda ama-ramente cosa avvenne al commissario di Padova Pasquale

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Iuliano), ma addirittura di incriminare il sottoscritto nem-meno presente ai colloqui con Maggi. La nostra indagine èrimasta così semiparalizzata e delegittimata dinanzi ai pos-sibili testimoni e collaboratori, ma anche dinanzi all’opi-nione pubblica, per un lungo periodo, passato il quale il«momento magico» era ormai svanito.

Come si è letto poi nelle intercettazioni svolte in quei mesidalla procura di Milano, gli ex ordinovisti esultavano peraver trovato qualcuno disposto a coltivare un esposto cosìsfacciatamente pretestuoso, e ogni iniziativa contro di noidella procura di Venezia veniva prontamente riferita dallastampa locale grazie ai soliti «giornalisti amici». La cosa piùinquietante? Proprio in numerosi passaggi di quelle stesseintercettazioni gli interlocutori raccontavano come l’espostofosse stato un trucco strumentale ispirato e pagato dal Giap-pone, un imbroglio ideato per bloccare le indagini andato aldi là delle più rosee aspettative. Ma quelle intercettazioni(che avrebbero comportato l’immediata archiviazione del fa-scicolo aperto contro di me e il capitano Massimo Giraudo)sono state accuratamente tenute fuori dal fascicolo stesso,benché il suo titolare disponesse di tutte le trascrizioni. Soloquando sono riuscito ad averle in mano, tre anni dopo, l’ar-chiviazione è finalmente arrivata, ma ormai il danno erafatto. Il giudice per le indagini preliminari di Venezia, LuigiNunziante (che tra l’altro, molti anni prima, aveva lavoratocon il collega Giovanni Tamburino nella prima inchiesta sulgolpe Borghese e sulla Rosa dei venti), scrisse che il caratterestrumentale e di inquinamento di quell’esposto risultava pertabulas dalle intercettazioni tenute appunto in un cassettodall’inquirente. Quanto avvenuto è stata insofferenza, gelo-sia o un semplice abbaglio? Difficile rispondere.

Dopo la procura di Venezia cominciò a muoversi la pro-cura generale della Cassazione, facendo fioccare contro dime decine di incolpazioni disciplinari redatte perlopiù inmodo sgangherato. Quindi chi le scriveva aveva solo unavaga idea delle indagini, addirittura mi accusavano di attivitàmai fatte. Così il Consiglio superiore della magistratura aprìil famoso procedimento di «incompatibilità ambientale» perfarmi trasferire da Milano, dove lavoravo da quindici anni, e

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togliermi le indagini. L’incompatibilità ambientale è un pro-cedimento odioso in cui, a dispetto del «giusto processo», ac-cusa e giudici sono rappresentati dalle stesse persone, la pos-sibilità di difendersi è ridottissima, anzi più ti difendi piùdimostri di essere «incompatibile», come nelle giustizie di«partito». Può durare un tempo indefinito e infatti il mio èdurato sette anni. Caratteristica singolare: puoi essere trasfe-rito anche «senza colpa», quindi puoi perdere il posto ancheperché o soprattutto perché la tua presenza dà fastidio a qual-cuno che è più potente di te. E questo nonostante i giudici, se-condo la Costituzione, dovrebbero godere della tutela della«inamovibilità». Purtroppo il CSM, dove pesano le correnti egruppi di influenza di fatto stratificatisi nel tempo, fa fatica dasempre a trattare i suoi «governati» come se avessero ugualidiritti, è sempre stato geloso del suo privilegio di dividere tra«buoni» e «cattivi» e, soprattutto all’epoca, per ragioni poli-tico-giudiziarie, dava più credito e pendeva a favore dellevarie procure. Non si saprà mai dove sarebbe stato possibilearrivare se questi ostacoli non fossero stati posti. Quandosono stato assolto da tutte le accuse la mia indagine era finitada un pezzo: è stato come consentire a qualcuno di entrarenello stadio quando l’arbitro ha già fischiato il fine partita e igiocatori sono ormai negli spogliatoi.

Perdipiù mi trovavo accanto una procura abbastanza de-motivata che inizialmente aveva pensato di mandare dinuovo tutti gli atti a Catanzaro, poi ha avuto i suoi uomini piùesperti occupati in altre indagini, infine, dopo una breve fasedi ripresa di interesse, si è adagiata in tutto e per tutto sullalinea della procura di Venezia, rifiutandosi completamentedi collaborare con me. Il pubblico ministero delegato alle in-dagini, in questa confusione, oltre a vedere progetti di atten-tato dappertutto contro la sua persona e a incriminare per«depistaggi», rivelatisi del tutto inesistenti, anche gli uffi-ciali di polizia giudiziaria che lavoravano al suo fianco, si ètrovato a condurre un’indagine rapidamente arenatasi. Ulte-riore paradosso. L’indagine della procura continuava a vi-vere solo degli atti utili che provenivano dalla mia inchiestaanche se al CSM era stato sollecitato, in ogni modo possibile,con audizioni ed esposti, di farmi scomparire.

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L’errore più catastrofico per il possibile sviluppo dell’in-dagine è stato l’arresto, richiesto dalla procura nella prima-vera 1996, senza nemmeno informarmi, di quattro «favoreg-giatori» di Zorzi e Maggi che, a Mestre, nelle intercettazioniambientali stavano parlando a ruota libera, fornendo incon-sapevolmente moltissime indicazioni interessanti. Ovvia-mente dopo il loro arresto, seguito ben presto dalla scarcera-zione per decorrenza dei termini (il favoreggiamento è unreato abbastanza lieve), quel canale si è chiuso e non è statapiù acquisita alcuna informazione. Qualsiasi investigatore,secondo me, non avrebbe tolto dalla scena, sino alla richiestadi arresto, avvenuta nel 1997, di Maggi e Zorzi, e forse nem-meno dopo, le pedine che commentavano quotidianamente ifatti oggetto delle indagini e il loro sviluppo. Probabilmentegli arrestati sono stati i primi a esserne stupiti. In bene o inmale, in termini di colpevolezza o di innocenza, non si chiudeil rubinetto di notizie che scorre spontaneamente dall’am-biente degli indagati. E qui mi fermo perché solo su come leindagini si sono bendate e «autodepistate» da sole ci sarebbeda scrivere un libro.

Alla fine di questo processo cosa si può dire di Pietro Val-preda, il «mostro» della prima ora recentemente scomparso?

Personalmente penso al calvario di Valpreda come dete-nuto e come persona la cui vita è stata comunque definitiva-mente segnata da quell’accusa. Il primo processo terminòcon un’assoluzione per insufficienza di prove contro cui si èbattuto lo stesso procuratore generale di Bari sollecitandoalla Cassazione un’assoluzione piena, mai accolta. Di fronteagli esiti delle nuove indagini che, nonostante le assoluzionidei singoli imputati, hanno confermato in base alle parolestesse della Corte d’assise d’appello come la strage sia statadi inequivocabile matrice ordinovista, io però vorrei dire chequesta insufficienza di prove non è più compatibile conquanto è emerso ed è storicamente superata dai fatti. L’in-sieme delle indagini condotte a Milano è del tutto incompa-tibile con il permanere di qualsiasi sospetto di colpevolezzanei confronti di Valpreda e ha invece il valore di un suo com-

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pleto scagionamento, suonando come condanna storica emorale di altre persone, quali Freda e Ventura assolti in pas-sato e non più processabili.

Qual è stato l’atteggiamento delle forze politiche di sini-stra negli anni in cui stava conducendo la sua indagine?

Ondivago, a tratti indifferente. Il quotidiano «l’Unità»trattava nei suoi articoli quasi con sufficienza le nuove inda-gini ripartite a Milano o addirittura in modo quasi ostile nellafase tra il 1994 e il 1996. Quello stesso quotidiano diede in-vece ampio e del tutto acritico risalto all’azione della pro-cura di Venezia contro di me e fu proprio un esponente DS,Giovanni Fiandaca, componente del CSM scelto da tale par-tito e presidente della prima commissione, a firmare l’attodi accusa per l’incompatibilità ambientale, cioè quel proce-dimento che non esito a definire una pagina nera della storiadello stesso CSM con il quale si cercò di farmi trasferire conla forza lontano da Milano, con il risultato obiettivo di affos-sare definitivamente le indagini su piazza Fontana.

Per non parlare del ministro della Giustizia del governo disinistra, Oliviero Diliberto. Nel 1999, quando fui assolto datutte le incolpazioni del procedimento disciplinare aperto pa-rallelamente a quello di «incompatibilità ambientale», Dili-berto fece personalmente qualcosa che non accade quasimai: impugnò l’assoluzione pronunziata nei miei confrontidinanzi alla Cassazione, la quale l’anno successivo gli diedesonoramente torto. Ma intanto un altro ostacolo era statoposto sulla strada già impervia delle indagini.

Tornando all’«incompatibilità ambientale», cioè il tenta-tivo di mandarmi via da Milano, il presidente della Com-missione stragi, Pellegrino (una persona indipendente e chemi fu molto vicino perché aveva sin da subito compresol’importanza dei nuovi elementi raccolti e da raccogliere)disse che quel tentativo del CSM, se fosse riuscito, avrebbefatto impallidire le conseguenze causate dalla sentenza dellaCassazione quando negli anni Settanta aveva disposto il tra-sferimento del processo a Catanzaro. In quel momento unapossibile verità sulla strage di piazza Fontana non era più

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politicamente spendibile. Intorno al 1996 l’ex PCI, infatti, eraentrato per la prima volta nel governo e non aveva interessea rimestare il passato e soprattutto a confrontarsi con un’in-dagine nella quale si cominciavano a scoprire i rapporti esi-stiti tra Ordine nuovo e gli alleati statunitensi, cioè il sog-getto dinanzi al quale l’ex PCI si stava legittimando comecredibile forza di governo in Italia. Insomma, la mia indaginenon aveva un «fatturato» politico. Solo più tardi, intorno al2000, il gruppo DS nella Commissione stragi, con una lungarelazione, condivise e fece propri i risultati e gli scenari dellemie indagini, ma è stato un recupero tardivo dettato dal fattoche, paventando la sconfitta alle vicine elezioni politiche, dinuovo piazza Fontana poteva servire in chiave di polemicapolitica.

Prima era bastata la verità parziale di Gladio. Quella an-dava bene a tutti, a quella larga parte del mondo politico,della magistratura e dell’informazione che aveva diffusocome verità indimostrabile ma sufficiente la responsabilitàgenerica delle stragi di Gladio. Come dire tutto e nulla.

Ma si poteva fare di più? La magistratura, così attivanegli anni Novanta nell’affrontare la corruzione politica ealtri fenomeni criminali, cosa ha fatto per gettare luce supiazza Fontana e le altre stragi?

La magistratura per altre inchieste come Mani pulite eanche per l’indagine sull’omicidio del commissario LuigiCalabresi, ha messo in campo, in termini di indagini, i suoiuomini di punta e più preparati, ma non ha avuto altrettantacura quando si è trattato di completare il lavoro su piazzaFontana da me iniziato e percorso per un bel tratto come giu-dice istruttore.

Non giudico le intenzioni o la buona volontà ma un fattoobiettivo. Chi doveva finire di percorrere la strada tracciataera completamente digiuno di indagini sul terrorismo e nonera certo propenso a «un gioco di squadra». Mentre il giocodi squadra, come si sente nelle stesse intercettazioni degliindagati, è in questi casi invece decisivo. L’ambiente degli exordinovisti ha favorito la divisione tra gli inquirenti, ne ha

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tratto poi il massimo vantaggio possibile e ha continuato afare quel «gioco di squadra» mancato invece fra magistrati.

Del resto, dalla fine del 1997, quando, scaduta l’ultimaproroga si è conclusa la mia parte di lavoro, piazza Fontanaè stata quasi la storia di un abbandono. Digilio non è statoquasi più interrogato da quando io ho terminato il mio la-voro: eppure, ne sono convinto, aveva ancora molte cose dadire. Infatti, quando io lo sentii per l’ultima volta proprio neldicembre 1997, aggiunse ancora nuovi particolari, il suo nonera ancora un discorso concluso. Ma da allora ben raramenteha visto nella stanza dell’ospedale dove si trovava qualcheinquirente e nessuno ha avuto voglia di tener viva la sua at-tenzione e la sua motivazione anche in vista delle deposi-zioni in aula nel 2001, un impegno enorme per lui anziano esemiparalizzato. Questo lungo distacco, percepito quasicome una indifferenza degli inquirenti, dopo tanti anni in cuiinvece io lo avevo sentito con regolarità, certo ha contribuitomolto alle sue difficoltà in aula, sotto il fuoco di fila delledomande dei difensori.

Invece c’era ancora molto da fare. Nessuno è andato a cer-care Giampietro Mariga (militante del gruppo mestrino, in-dicato da Digilio come l’autista della vettura che portava nelbagagliaio le bombe del 12 dicembre 1969) e individuato daicarabinieri in Francia con la nuova identità assunta dopo averlasciato la Legione straniera. Questo possibile uomo chiavedi quegli eventi si è ucciso a casa sua poco prima del pro-cesso di primo grado. Sembra soffrisse di una forte depres-sione: forse portava dentro di sé qualcosa. E avrebbe potutoraccontarla. Nessuno è nemmeno andato a cercare SalvatoreIppolito, l’agente Andrea infiltrato dal ministero dell’Internonel gruppo di Pietro Valpreda qualche mese prima dellebombe del 12 dicembre, e Ippolito abitava e abita ancora piùvicino, dopo essersi dimesso dalla polizia: vive a Genova e fal’assicuratore. Anche lui, non più alle dipendenze di qual-cuno, avrebbe potuto fornire delle spiegazioni.

Nessuno soprattutto, quando il tempo per la mia indagineera ormai scaduto, si è soffermato a effettuare certi riscontri,come l’individuazione del furto presso una cava del vicen-tino grazie al quale, secondo il racconto di Siciliano e anche

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di un altro giovane presente, Piercarlo Montagner, il grupposi era approvvigionato della sua prima dotazione di esplo-sivi. Individuare l’episodio e sapere con precisione di qualeesplosivo si trattasse avrebbe fornito informazioni utilissimeper verificare l’attendibilità complessiva di quanto raccolto,perché in un’accusa di strage nulla è più importantedell’esplosivo. Tale verifica, con esiti molto interessanti, èstata avviata invece solo dalla procura di Brescia alla finedel 2004, ma ormai il processo di piazza Fontana si era con-cluso. Sempre sullo stesso tema, l’accusa non si è premuratadi affidare a un perito uno studio comparativo tra gli esplo-sivi descritti negli interrogatori di Digilio e di Siciliano e leconclusioni delle confuse e artigianali perizie svolte nel 1969subito dopo la strage. Così, in questo vuoto, la difesa haavuto buon gioco, e non so darle torto, a nominare (essa sola)un suo consulente le cui conclusioni hanno pesato moltonell’orientare la sentenza d’appello verso l’assoluzione.

Leggendo la sentenza d’appello (in mancanza di altroaveva fatto proprie queste conclusioni di parte) mi sono ac-corto, spulciando qualche manuale e consultando alcuniesperti, come tali conclusioni siano molto discutibili. Inrealtà, studiando bene la composizione di tutti gli esplosivi inquel periodo sul mercato, e non solo di alcuni di essi, vi erala compatibilità, negata nella sentenza, tra il racconto dei col-laboratori su certi tipi di esplosivo da cava che avevanoavuto in mano e le incerte tracce di esplosivo raccolte nellabanca. Anche la parte civile e la procura generale se ne ac-corsero e portarono questi dati in Cassazione, ma ormai eratardi. Non era più quella la sede per discutere del merito deifatti e introdurre nuovi argomenti.

Il disinteresse sin dall’inizio dell’accusa nel nominare suoiperiti ha quindi contribuito, non poco, all’esito del processo,e questo lascia l’amaro in bocca visto che gli uffici inqui-renti portano in aula fior di specialisti spesso per processiassai meno importanti.

Infine, e mi è sembrata la circostanza più inspiegabile,non sono state portate in aula nemmeno tutte le relazioni me-diche che, dopo visite collegiali e accurate, testimoniavano lapiena capacità di Digilio di raccontare spontaneamente e lu-

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cidamente i fatti anche dopo l’ictus del 1995. La Corte d’as-sise d’appello, senza nemmeno disporre delle registrazioni ditutti gli interrogatori sostenuti da Digilio con me negli anni1995-1997, è giunta infatti alla conclusione, ancora una voltaofferta solo dalla difesa, che la voce stanca e rallentata del te-stimone era quella di un uomo non più in grado di rievocareil passato, ma al massimo di ripetere quanto sentito dai cara-binieri o da qualcun altro. L’assoluzione si è basata moltoanche su questa sensazione; la Corte si è accontentata di unamera impressione su un uomo mai visto prima.

Mi chiedo allora perché la procura milanese non abbia por-tato in aula la perizia fatta fare un paio di anni prima, nomi-nando un collegio di eminenti docenti, dalla procura di Bre-scia, avendo anch’essa Digilio come indagato. Gli espertiavevano ascoltato tutte quelle stesse cassette registrate e ave-vano parlato a lungo con Digilio. Quella perizia giungeva aconclusioni del tutto opposte rispetto alle impressioni dellaCorte, spiegando in termini scientifici e neutrali come Digiliofosse perfettamente in grado di ricordare e di esporre auto-nomamente il suo pensiero. «Coscienza lucida, conservazionedella memoria, efficienza critica» c’era scritto, lo ricordo an-cora, nella perizia dei tre medici. I colleghi di Brescia ave-vano inviato quella importante perizia a Milano, dove però èfinita in un cassetto dell’accusa e non nel fascicolo della Corted’assise. No, c’era veramente molto da fare o almeno si po-teva non dimenticarsi di quanto era già stato fatto.

Adesso con tutti gli imputati usciti di scena cosa restadella sua inchiesta?

Bisogna rifiutare il luogo comune di stampo qualunqui-sta e un po’ alla Indro Montanelli secondo cui la storia d’Ita-lia sarebbe solo una storia di misteri insoluti e le indaginicondotte non sarebbero servite a nulla. Invece gli anni No-vanta, che avrebbero potuto essere gli anni dell’oblio pertanti episodi, sono stati gli anni della memoria e della rico-struzione di tanti episodi di cui non si può far finta di nonsapere nulla.

Alcune indagini, e mi riferisco non solo a quelle su piazza

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Fontana ma anche a quelle su Portella della Ginestra, sull’as-sassinio di Enrico Mattei, sul golpe Borghese, su Gladio,sulla strage di Brescia e altre meno conosciute come quellasull’attentato alla stazione di Gioia Tauro, hanno fatto ir-rompere la storia nel presente, hanno fatto luce, anche al di làdelle responsabilità dei singoli, su periodi oscuri della storiacontemporanea ricostruendo un filo di operazioni segrete e didepistaggi che ha accompagnato la storia d’Italia sin dal pri-missimo dopoguerra. E la verità non è mai inutile sino aquando sono vivi i parenti delle vittime e sino a quando al-meno una parte della società rifiuta di dimenticare.

Un’ultima domanda. Un’indagine di questo genere, du-rata anni, si sovrappone anche alla vita personale di chi laconduce. Quale impronta le ha lasciato?

Facendo le indagini su piazza Fontana non mi aspettavopromozioni e ricompense ma nemmeno di essere «persegui-tato legalmente», per usare un eufemismo, dall’organo di go-verno della magistratura per ben sette anni. È stata una vi-cenda incredibile, di cui tutti sanno ma di cui in pubblico sipreferisce tacere perché non fa onore alla storia della magi-stratura italiana. Per quanto riguarda la mia vita personale, iosono sempre stato laico anche nei confronti del mondo dellamagistratura cui appartengo (certo non un mondo perfetto,ma fatto di uomini con le loro gelosie e con i loro rapporti diforza) e laico nei confronti della società. Sono rimasto talecome cittadino, ma ogni esperienza, buona o cattiva, portaoltre, così ho dovuto cercare dentro di me la forza moraleper «avere pazienza». Soprattutto per allontanare le emo-zioni negative come il rancore.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2005presso Grafiche Speed, Peschiera Borromeo, su carta Bollani,

per conto di Elèuthera, via Rovetta 27, Milano

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