Riassunto Diritto Del Lavoro E. Ghera 2010

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DIRITTO DEL LAVORO Edoardo Ghera 2011 CAP. 1°: FONTI E PRINCIPI DEL DIRITTO DEL LAVORO 1. Il concetto e le classificazioni del diritto del lavoro Il diritto del lavoro può essere in generale definito come l'insieme delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro, ossia la relazione giuridica intercorrente tra il prestatore ed il datore di lavoro. Tale relazione rappresenta un rapporto giuridico complesso, avente ad oggetto: tanto l'obbligo del lavoratore di prestare la propria attività e l'obbligo del datore di corrispondere la retribuzione, quanto una molteplicità di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, facenti capo alle due parti del rapporto. La disciplina del rapporto di lavoro subordinato richiede poi, al legislatore, una tutela piuttosto forte e incisiva, vista la disparità di posizioni tra datore di lavoro e lavoratore, sia economica che sociale che tecnica. Il lavoratore, nell’ambito del contratto di lavoro, è infatti tra i due il contraente più debole. Il sistema delle fonti di tale ramo del diritto è piuttosto articolato in quanto confluiscono norme di diversa natura, capaci di incidere, anche se con efficacia e forza giuridica diversa, sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro; a tal proposito confluiscono: norme di diritto privato , che tutelano interessi privati ed individuali; norme di diritto pubblico , che impongono obblighi a carico delle parti del rapporto; norme di diritto processuale , che prevedono, per la tutela dei diritti dei lavoratori, una speciale procedura; norme di diritto sindacale , relative all'attività ed all'organizzazione delle associazioni sindacali; norme di diritto comunitario; ecc. E’ opportuno distinguere poi tra: diritto del lavoro in senso stretto, comprendente le norme dirette alla disciplina dei rapporti individuali di lavoro subordinato, nonché di altri rapporti di lavoro, diversi dal lavoro subordinato, ma ritenuti parimenti meritevoli di tutela giuridica; diritto sindacale, regola l’azione e l'organizzazione delle associazioni sindacali e ne tutela gli interessi; diritto della previdenza sociale, che tutela il lavoratore in presenza di specifiche situazioni di bisogno (conseguenti alla perdita o al danneggiamento della sua capacità lavorativa per infortuni, malattie, 1

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DIRITTO DEL LAVOROEdoardo Ghera 2011

CAP. 1°: FONTI E PRINCIPI DEL DIRITTO DEL LAVORO

1. Il concetto e le classificazioni del diritto del lavoroIl diritto del lavoro può essere in generale definito come l'insieme delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro, ossia la relazione giuridica intercorrente tra il prestatore ed il datore di lavoro. Tale relazione rappresenta un rapporto giuridico complesso, avente ad oggetto:

tanto l'obbligo del lavoratore di prestare la propria attività e l'obbligo del datore di corrispondere la retribuzione,

quanto una molteplicità di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, facenti capo alle due parti del rapporto.

La disciplina del rapporto di lavoro subordinato richiede poi, al legislatore, una tutela piuttosto forte e incisiva, vista la disparità di posizioni tra datore di lavoro e lavoratore, sia economica che sociale che tecnica. Il lavoratore, nell’ambito del contratto di lavoro, è infatti tra i due il contraente più debole.Il sistema delle fonti di tale ramo del diritto è piuttosto articolato in quanto confluiscono norme di diversa natura, capaci di incidere, anche se con efficacia e forza giuridica diversa, sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro; a tal proposito confluiscono:

norme di diritto privato , che tutelano interessi privati ed individuali; norme di diritto pubblico , che impongono obblighi a carico delle parti del rapporto; norme di diritto processuale , che prevedono, per la tutela dei diritti dei lavoratori, una

speciale procedura; norme di diritto sindacale , relative all'attività ed all'organizzazione delle associazioni

sindacali; norme di diritto comunitario; ecc.

E’ opportuno distinguere poi tra: diritto del lavoro in senso stretto, comprendente le norme dirette alla disciplina dei

rapporti individuali di lavoro subordinato, nonché di altri rapporti di lavoro, diversi dal lavoro subordinato, ma ritenuti parimenti meritevoli di tutela giuridica;

diritto sindacale, regola l’azione e l'organizzazione delle associazioni sindacali e ne tutela gli interessi;

diritto della previdenza sociale, che tutela il lavoratore in presenza di specifiche situazioni di bisogno (conseguenti alla perdita o al danneggiamento della sua capacità lavorativa per infortuni, malattie, ecc.) riconoscendogli un reddito sostitutivo od integrativo di quello di lavoro.

Il diritto del lavoro è una disciplina giuridica che si sviluppa a partire dai primi anni dell’800, come risposta alla questione sociale, dunque in seguito alla necessità di mediare le esigenze della tutela dei lavoratori con quelle della produzione. Sono comunque 3 le fasi storiche principali del diritto del lavoro:

legislazione sociale, dove le leggi in materia di diritto del lavoro si pongono come norme eccezionali rispetto al diritto privato comune. Il codice civile del 1865 non prevedeva infatti, alcuna disciplina del rapporto di lavoro ed è solo nel corso del 19° secolo che inizia a prendere forma un sistema di legislazione protettiva per i lavoratori quali contraenti più deboli. In Italia si afferma così una tutela del lavoro delle donne e del fanciulli, la legge sul riposo settimanale, un’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, ecc.;

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incorporazione, si realizza con l’ascesa del regime fascista e con l’inserimento delle norme del diritto del lavoro nel sistema del diritto privato, ovvero nel codice civile;

costituzionalizzazione, si realizza con la caduta del regime fascista e con la tutela dei principi fondamentali da parte della legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico, ovvero la nostra Costituzione. In merito a tale fase si sono poi distinte ed evolute due diverse linee di tendenza: nella prima , si prevedeva solo un’integrazione della disciplina codicistica, volta

alla tutela c.d. minimale del lavoratore come contraente debole; nella successiva invece si prevedeva una tutela più ampia del lavoratore, non

più solo come contraente debole del rapporto di scambio, ma anche nella sua duplice veste: di soggetto inserito in un rapporto di produzione e di soggetto appartenente ad una classe socialmente sottoprotetta. In tal modo, la tutela non è più limitata alle condizioni del rapporto di lavoro fine a se stesso, ma si estende alla dignità sociale e quindi alla persona del lavoratore. Un primo intervento concreto si è avuto con: la disciplina dei licenziamenti individuali (per giustificato motivo come limite al

potere di recesso dell’imprenditore) e la nullità dei licenziamenti per motivi politici e sindacali;

la legge n°300 del 1970, meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori, con lo scopo di riequilibrare i rapporti di potere, a favore dei lavoratori, attraverso lo strumento della legislazione promozionale, così chiamato poiché promuove l’attività sindacale e la contrattazione collettiva, mirando ad attribuire efficacia immediata ai principi costituzionali ed a garantire il libero svolgimento dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro.

2. Le fonti del diritto del lavoroIl sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro, come abbiamo detto, è particolarmente complesso in ragione del concorso di una molteplicità di norme che se pur dotate di un diverso grado di efficacia, hanno tutte la forza giuridica di incidere sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro e di determinarla. Le fonti che concorrono alla produzione del diritto del lavoro possono essere suddivise nel seguente modo:

fonti sovranazionali , sia comunitarie che internazionali; fonti legislative ; fonti contrattuali ; usi .

3. Le fonti sovranazionali o legislative esterneRicordato che l’art. 35, comma 3°, cost., sancisce che: “la Repubblica promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro” , occorre precisare che tra le fonti sovranazionali o internazionali possiamo distinguere due livelli di produzione normativa:

quello relativo alla partecipazione dello Stato italiano alla Comunità Internazionale degli Stati. In tale livello di produzione normativa rientrano, oltre che i vari trattati internazionali stipulati anche dall'Italia, gli atti emanati dall'O.I.L., quale organizzazione internazionale del lavoro, istituzionalmente deputata a favorire il progresso delle classi lavoratrici nel mondo, come: le convenzioni, strutturate in articoli, aventi natura di veri e propri atti normativi,

che assumono valore di norme interne se sono rese esecutive con legge dello Stato,

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le raccomandazioni, prive di valore impegnativo, con cui si auspica che gli Stati destinatari si attivino per la risoluzione di un determinato problema;

quello relativo alla partecipazione dello Stato italiano alle Comunità Economiche Europee. Innanzitutto l’Italia aderisce alla CE sin dalla sua creazione, avvenuta nel marzo del 1957 con il Trattato di Roma (l’UE nasce invece dal Trattato di Maastricht del 1992 e comprende nella sua struttura la CE insieme agli altri pilastri della Politica Estera, della Sicurezza Comune e della Cooperazione in materia di Giustizia e Affari Interni) e importanti in tale livello di produzione normativa sono: il Trattato sull’Unione Europea o TUE, meglio noto come Trattato di Maastricht del

1992, il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea o TFUE, nel quale confluiscono le

norme che rendono attuabili le norme contenute nel TUE.I citati Trattati, detti anche fonti primarie, attribuiscono alle istituzioni europee il potere di emanare atti giuridici, che ad essi debbono essere compatibili e che vanno ad incidere sulla disciplina nazionale del diritto del lavoro in ciascuno Stato membro, detti anche fonti secondarie, come: i regolamenti, atti di portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi e

direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. I giudici nazionali li applicano direttamente eventualmente anche al posto delle disposizioni interne incompatibili;

direttive, atti che impongono allo Stato membro la realizzazione di un determinato obiettivo, vincolandolo nel risultato da raggiungere ma lasciandolo libero nella scelta della forma e dei mezzi;

decisioni, atti obbligatori in tutti i loro elementi per i destinatari da essi indicati. Non hanno portata generale ma servono a disciplinare fatti concreti e sono rivolte perciò a destinatari specificatamente individuati;

raccomandazioni e pareri, atti non vincolanti, hanno valenza di indirizzo ma non fanno sorgere nei destinatari diritti ed obblighi.

Importante, a proposito di questi ultimi atti, è la questione della loro applicabilità all’interno degli ordinamenti giuridici nazionali, per cui:

- se le norme sono dotate di applicabilità diretta, il giudice nazionale deve disapplicare la norma interna incompatibile;

- se la norma comunitaria non è dotata di applicabilità diretta, il giudice nazionale dovrà tentare di interpretare il proprio diritto nazionale secondo la lettera e lo scopo della norma comunitaria, in modo da raggiungere cmq il risultato desiderato.

Si è affermato il c.d. primato del diritto comunitario sul diritto interno e a questo principio si è adeguata anche la Corte costituzionale italiana sulla base degli art.11 cost. (“l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo) e l’art.117 cost. (la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, concorrente o esclusiva).Detto ciò, possiamo ben intuire come l'Unione Europea abbia assunto un'importanza sempre più determinante anche in tema di mercato del lavoro e di rapporti di lavoro, all'interno dei singoli Stati. Le originarie previsioni fissate dal Trattato di Roma sono state ampiamente modificate dai successivi Trattati, a partire soprattutto dall’Atto Unico Europeo del 1986, poi dal Trattato di Maastricht del 1992, dal Trattato di Amsterdam del 1997, dal Trattato di Nizza del 2001 e dal Trattato di Lisbona del 2007. L’UE, quindi, riconosce al dialogo sociale (quale insieme degli incontri fra i rappresentanti dell’imprenditoria e i rappresentanti dei lavoratori, detti parti sociali, a livello europeo) e alla

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contrattazione collettiva di livello europeo, la natura di vera e propria fonte formale in materia sociale.Inoltre per meglio garantire il principio di sussidiarietà (che impone che l’Unione debba intervenire nei settori di propria competenza solo qualora possa garantire un intervento qualitativo migliore rispetto a quello degli Stati membri), sono stati introdotti interventi meno autoritativi e maggiormente cooperativi, che costituiscono il c.d. soft law, il quale individua degli obiettivi da raggiungere in determinati settori, per i quali gli Stati devono ricercare degli elementi di coordinamento. Ed importanti sono poi due clausole inerenti all’applicazione del diritto comunitario:

- la clausola del favor, la quale prevede che in caso di applicazione di una normativa comunitaria, uno Stato membro che intenda applicare una disciplina diversa che attui un maggior livello di protezione, può liberamente farlo;

- la clausola di non regresso, la quale prevede che l'attuazione di una direttiva comunitaria non possa in alcun modo costringere uno Stato membro all'attuazione, qualora lo stesso possegga già una disciplina che garantisce un uguale o maggiore livello di protezione.

Va anche segnalato che inizialmente molte materie inerenti il diritto del lavoro non erano incluse nelle competenze dell'Unione, come le retribuzioni, il diritto di associazione, il diritto di sciopero, di serrata, ecc. e che sono state solo successivamente inserite grazie alla firma della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea nel 2001. Il Trattato di Lisbona del 2007, ha poi attribuito alla Carta lo stesso valore giuridico dei trattati un’importanza speciale, in quanto disciplina:

- la libertà di associazione sindacale;- il diritto dei lavoratori all’informazione ed alla consultazione nell’ambito dell’impresa;- il diritto dei lavoratori e dei datori “di negoziare e concludere contratti collettivi” anche

per la difesa dei loro interessi;- il diritto alla tutela contro i licenziamenti ingiustificati;- il divieto del lavoro minorile, stabilendo l’età minima e l’obbligo di concludere

l’istruzione obbligatoria.Va inoltre ricordato che il nostro Paese segue una particolare procedura legislativa per adeguare il proprio ordinamento ai principi europei e stiamo parlando della c.d. legge La Pergola, che ha istituito un meccanismo che il Parlamento italiano deve seguire per approvare una legge comunitaria, contenente provvedimenti diretti a conformare l'ordinamento italiano agli obblighi comunitari, quindi regolamenti, direttive, decisioni e raccomandazioni, ma anche agli obblighi derivati dalle sentenze della Corte di giustizia europea. Sono previsti tre metodi per attuare il meccanismo in questione:

- attuazione diretta, è la stessa legge comunitaria che abroga o modifica le disposizioni contrastanti con il diritto comunitario. È il procedimento più macchinoso e lento in quanto richiede la deliberazione delle camere;

- attuazione con delega, molte volte la disciplina viene delegata con decreto legislativo all'iniziativa del Governo;

- attuazione in via regolamentare, è lo strumento più diffuso di attuazione. Con tale soluzione, si snellisce e facilita il procedimento e allo stesso tempo si favorisce quel necessario processo di delegificazione tanto auspicato dal mondo politico e giuridico. I regolamenti chiamati in causa, avendo delega di legge, hanno anche la capacità di abrogare norme di rango superiore.

Infine non possiamo non menzionare la c.d. Strategia europea per l’occupazione (Seo), in merito alla quale il Diritto europeo del lavoro è l’insieme degli atti e delle azioni che l’UE pone in essere insieme agli Sati membri per meglio disciplinare settori quali:

la politica per l’occupazione,

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la formazione professionale, la politica sociale (ha ad oggetto il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei

lavoratori, la parificazione dei lavoratori, il dialogo sociale, la lotta contro l’emarginazione/esclusione e discriminazione, ecc.. per perseguire questi obiettivi gli Sati e l’UE fanno riferimento alla: Carta sociale europea, che assicura ai lavoratori diritti sindacali e assistenziali, come

la previdenza sociale; Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori, che assicura la libera circolazione,

un’equa retribuzione, adeguate tutele, ecc.)al fine di promuovere un’economia di mercato fortemente competitiva che miri al raggiungimento di una maggiore occupazione ed un maggiore progresso sociale.La Strategia europea per l’occupazione (SEO) è stata avviata nel 1997, per coordinare le politiche nazionali sull’occupazione e per mettere in atto quanto disposto dal Trattato di Amsterdam in materia di lavoro, ovvero porre gli interventi per il miglioramento e l’incremento del lavoro tra le principali priorità dell’azione comunitaria. La SEO impegna l’Unione europea ed i Paesi membri a definire e realizzare un insieme di politiche, che inizialmente sono state articolate in quattro obiettivi fondamentali, i cosiddetti pilastri SEO, ovvero:

occupabilità, accrescere le capacità di trovare lavoro; imprenditorialità, sviluppare lo spirito imprenditoriale; adattabilità, favorire l’adeguamento ai mutamenti del mercato del lavoro ; pari opportunità, rafforzare le politiche di uguaglianza delle opportunità per tutti.

Tali linee strategiche, approvate nel 1997, sono poi confluite nella Strategia di Lisbona del 2000 i cui obiettivi erano quelli di aumentare entro il 2010 il tasso di occupazione dell’UE fino al 70% e quello femminile fino al 60%; cosa che però non è avvenuta complice anche la grave crisi economica del 2008. Da lì la SEO è stata più volte modificata per essere meglio adattata alle situazioni del tempo, rilanciando gli obiettivi prefissati e introducendo nuovi orientamenti che si sono da ultimo concretizzati nella Strategia Europea 2020, e che prevede importanti obiettivi in materia di occupazione, innovazione, istruzione e integrazione sociale. Ogni Stato membro ha adottato per ciascuno di questi settori i propri obiettivi nazionali.

4. Le fonti legislative interneIn materia di diritto del lavoro, le fonti legislative sono le seguenti:

la Costituzione, che si pone all’apice della gerarchia delle fonti; le leggi ordinarie e gli altri atti aventi forza di legge, collocati in posizione

subordinata rispetto alla Costituzione; i regolamenti di attuazione o di esecuzione degli atti summenzionati, emanati dal

Governo nella forma del decreto del Presidente della Repubblica, o dai ministri con proprio decreto, o da altre autorità ove ciò sia previsto. Tali regolamenti non possono modificare le leggi e gli altri atti aventi forza di legge, né derogare ad essi;

le leggi , gli statuti e i regolamenti regionali, che sono divenuti particolarmente importanti in seguito alla riforma del 2001, che ha attribuito alle Regioni una potestà legislativa concorrente ed esclusiva in alcuni settori del diritto del lavoro;

usi e consuetudini.

5. La CostituzioneLa nostra Carta costituzionale considera il rapporto di lavoro come il più importante rapporto interprivato e prova ne è l’ampio spazio che rivestono le garanzie relative al rapporto di lavoro, tra garanzie costituzionali attinenti ai rapporti tra privati.

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Il rilievo dato dalla Costituzione al lavoro si evince, innanzitutto, dall’art. 1, comma 1°, che stabilisce: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” .Nel contesto di tale disposizione, il termine lavoro assume un significato ampio, tale da comprendere non solo il lavoro salariato, ma ogni altra attività, anche imprenditoriale.Ma vediamo quali sono gli altri importanti principi costituzionali che permettono di attuare quello sancito all’art. 1 cost. Innanzitutto è necessario distinguere, le norme della Costituzione sociale dalle norme della Costituzione economica. Infatti, come osserva Ghera, “la tutela del soggetto-contraente debole rappresenta indubbiamente la finalità delle norme dettate dalla Costituzione in materia di lavoro, ma non si tratta più di una finalità esclusiva, perché si aggiunge, ad essa, la finalità ulteriore e più ampia della garanzia dei diritti sociali. Al tradizionale obiettivo della tutela della posizione contrattuale debole si affianca perciò l'obiettivo della tutela della libertà e dignità sociale del lavoratore”. Gli articoli della Costituzione sociale che vengono in rilievo sono:

l’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia come componente di una comunità sociale nella quale vive e lavora;

l’art. 3, sancisce il principio dell’eguaglianza giuridica e dunque il divieto, per il legislatore, di discriminazione di trattamento fra lavoratori in pari condizioni (prevedendo trattamenti differenziati solo in presenza di situazioni diverse);

l’art. 4, dopo avere sancito che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, quale diritto sociale finalizzato all’eliminazione delle disuguaglianze sostanziali, sancisce anche “il dovere di svolgere un'attività o una funzione che contribuiscano al progresso materiale o spirituale delle società”. Il dovere in questione non costituisce un obbligo coercitivo, e dunque non sanzionabile penalmente, ma un vincolo morale che lega il cittadino allo sviluppo della collettività di cui è parte;

Gli articoli della Costituzione economica relativi alla materia del lavoro sono: l’art. 35, dispone che la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme, non

solo quindi quello subordinato, che è il modello normativo tipo, ma qualsiasi altra attività lavorativa, sia imprenditoriale che non;

l’art. 36, riconosce il diritto del lavoratore a ricevere una retribuzione proporzionata e sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, nonché il diritto irrinunciabile al riposo settimanale ed alle ferie, ponendo altresì il principio che la durata massima della giornata lavorativa deve essere stabilita con legge;

l’art. 37, relativo al lavoro femminile ed al lavoro minorile, stabilisce che alla donna lavoratrice spettano, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni dei lavoratori maschi e una speciale e adeguata protezione nei momenti della maternità e della cura dell’infanzia. Quest’articolo inoltre fissa il limite minimo di età per svolgere attività lavorative;

l’art. 38, prevede l'intervento assistenziale e previdenziale a favore dei lavoratori subordinati “in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”;

l’art. 39, riconosce la libertà sindacale e disciplina il contratto collettivo di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria cui il contratto si riferisce;

l’art. 40, garantisce il diritto di sciopero da esercitarsi nell’ambito delle leggi che lo regolano.

6. I codici

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Tra le leggi ordinarie, una posizione importante, come fonte del diritto del lavoro, spetta anche al Codice Civile ed in particolare al libro V che reca l’intestazione “Del lavoro”.Per quanto attiene al rapporto individuale di lavoro, il Codice vigente ne riafferma la natura contrattuale e la sostanza giuridica ed economica tradizionale, caratterizzata dallo scambio tra retribuzione e prestazione, intellettuale o manuale. Nello stesso libro V sono collocate, accanto alle norme relativa al lavoro nelle imprese, quelle riguardanti i rapporti di lavoro che si svolgono al di fuori dell’impresa (lavoro autonomo o domestico). Tuttavia, il lavoro organizzato nell’impresa viene considerato come modello normativo tipico del rapporto di lavoro.

7. Gli altri atti aventi forza di leggePer legge deve intendersi anche ogni altro atto avente forza di legge, e quindi:

i decreti legislativi, emanati dal Governo in seguito ad una delega, conferitagli con legge formale dal Parlamento. Essi hanno trovato ampia applicazione in materia di lavoro, soprattutto in virtù della legge delega n°741 del 1959, che autorizzò il Governo a recepire, appunto con decreto legislativo, in via transitoria, i contratti collettivi fino a quel momento stipulati, al fine di conferire loro efficacia generale;

i decreti-legge, emanati dal Governo in casi di necessità ed urgenza con efficacia provvisoria, perché per entrare in vigore devono essere convertiti in legge dalle Camere entro 60 giorni, altrimenti decadono con effetto ex tunc/irretroattivo.

La potestà legislativa del Governo non è dunque autonoma, visto che la Costituzione ha comunque previsto in entrambi i casi l’intervento del Parlamento come garanzia del potere governativo. Infine entrambi gli atti sono emanati dal Presidente della Repubblica ed hanno la stessa forza formale delle leggi ordinarie.

8. Le leggi specialiNumerosissime sono le c.d. leggi speciali volte a tutelare il lavoratore, non solo perché contraente debole, ma anche perché soggetto che impegna la propria persona nel rapporto di lavoro, in cambio di un reddito che costituisce, nella maggior parte dei casi, la sua unica fonte di sostentamento. Nella più recente legislazione si registra la tendenza a tutelare, oltre all'integrità fisica del lavoratore, anche l'integrità morale dello stesso. Si citano qui soltanto alcune delle più importanti leggi speciali, e cioè:

la legge sui licenziamenti individuali; la legge n°300 del 1970, meglio nota come “Statuto dei Lavoratori”; la legge n°533 del 1973, meglio nota come “Riforma del processo del lavoro”; la legge sul diritto di sciopero, nei servizi pubblici essenziali; la legge sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro; la legge sulla promozione dell’occupazione; la legge sulla tutela e il sostegno della maternità e paternità; la legge n°30 del 2003, meglio conosciuta come “Legge Biagi”, in materia di

occupazione e mercato del lavoro.A proposito della Riforma Biagi, attuata con decreto legislativo n°276 del 2003, si è fondamentalmente ed incisivamente modificata la struttura del mercato del lavoro italiano e la disciplina delle diverse tipologie contrattuali applicabili. Il principio ispiratore di tale riforma è il convincimento che solo un mercato del lavoro flessibile sia in grado di far diminuire il tasso di disoccupazione (è disoccupato chi aveva il lavoro e l’ha perso) e l’inoccupazione (è inoccupato chi non ha mai lavorato e si accinge al mondo del lavoro). A tale scopo sii è provveduto:

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alla riorganizzazione del sistema dei mediatori tra domanda ed offerta di lavoro, così da superare il monopolio statale del collocamento;

all’introduzione delle Agenzie per il lavoro, quali soggetti privati autorizzati a fornire una o più tipologie di servizi previsti da tale legge, come la somministrazione di lavoro, l’intermediazione, la ricerca e la selezione, ecc.;

alla modifica di alcune tipologie di rapporti di lavoro e l’introduzione di nuove forme contrattuali flessibili, come l’apprendistato, il lavoro intermittente, la somministrazione, il lavoro a progetto, ecc.;

all’introduzione della certificazione dei contatti di lavoro; all’istituzione della Borsa Continua Nazionale del lavoro.

9. Le fonti regionali e la riforma costituzionale del 2001Le leggi regionali sono emanate dalle Regioni, nell'esercizio della potestà legislativa riconosciuta loro dalla Costituzione (art. 117 cost.) e soggette alla Costituzione ed ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Per l’individuazione delle materie di competenza regionale bisogna tener conto del nuovo testo dell'art. 117 cost., riformato con la legge costituzionale n°3 del 2001, il quale individua:

- le materie di competenza esclusiva della legge dello Stato, come l’ordinamento civile (ovvero le norme del codice civile riferite al libro V del diritto del

lavoro, la previdenza sociale, ecc.;

le materie di competenza concorrente fra Stato e Regioni, come l’istruzione e la formazione professionale, la tutela e la sicurezza del lavoro, la previdenza integrativa e complementare.La riforma ha suscitato dubbi sull’ambigua espressione “tutela e sicurezza del lavoro”, che, secondo una certa dottrina, lascerebbe alle Regioni l’intera regolamentazione del rapporto di lavoro; secondo una teoria più condivisa, invece, sarebbero loro affidate solo la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro;

le materie di competenza esclusiva delle Regioni, non espressamente riservate alla legislazione dello Stato (art. 117, comma 4°, cost.), sulle quali il testo non legifera alcunché, anche se è pacifico ritenere che vi rientra la disciplina dell’istruzione professionale

10. Le fonti contrattualiNon tutta la disciplina relativa alla materia del lavoro è contenuta nel codice o nelle leggi ordinarie o, ancora, nei decreti-legge e nei decreti legislativi emanati dal Governo. Dunque il diritto del lavoro non deriva solo dalla volontà del legislatore, ma anche dall’autonomia collettiva che è il potere d’auto-regolamento delle categorie professionali, capace di influenzare la fonte di produzione legislativa.Altra regolamentazione, che si aggiunge a quella generale, è quindi rinvenuta nel:

contratto collettivo, che la migliore dottrina definisce come il contratto stipulato tra il sindacato dei lavoratori e l'associazione sindacale degli imprenditori, a livello interconfederale, o di categoria, o aziendale, al fine di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro a cui dovranno uniformarsi i singoli contratti individuali;

contratto individuale, consistente nell'accordo raggiunto direttamente dal singolo lavoratore e dal singolo datore.

Il contratto collettivo può essere stipulato a più livelli:

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livello confederale : quando il contratto viene stipulato tra le confederazioni (ovvero associazioni o unioni sindacali ) nazionali che rappresentano interi rami delle attività economiche, e permette la regolamentazione dei vari aspetti del rapporto di lavoro con efficacia generale;

livello nazionale di categoria : quando il contratto viene stipulato tra le organizzazioni sindacali di categoria (ovvero determinate categorie professionali o di lavoro), e disciplina le condizioni minime di trattamento economico e normativo della forza-lavoro;

livello aziendale : quando il contratto viene stipulato direttamente dal datore di lavoro e dal sindacato aziendale che rappresenta il lavoratore, e disciplina le condizioni di trattamento dei dipendenti all'interno dell'azienda.

Nelle ipotesi in cui i contratti di diverso livello predispongano discipline in contrasto fra loro, il criterio risolutore del conflitto deve essere individuato, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, nel criterio della specialità, ossia nella preferenza accordata alla disciplina speciale rispetto a quella generale. Per quanto concerne invece i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale, essi vanno regolati seguendo il principio dell'inderogabilità in peius di natura reale; è invece possibile che il contratto individuale si discosti dal contratto collettivo derogandolo in melius.Tuttavia, in tema di fonti del diritto del lavoro, l'argomento di maggior interesse è quello del rapporto tra la legge e contrattazione collettiva. Tra tali fonti possono stabilirsi tre forme di relazione funzionale:

una funzione ordinaria del contratto collettivo, consistente nell’applicazione e specificazione dei principi posti dalla legge;

una funzione di disciplina del contratto collettivo, per regolare alcuni aspetti del rapporto, ma solo con espressa previsione legislativa;

una funzione derogatoria del contratto collettivo, per dettare una disciplina difforme da quella posta dalla legge, ma solo se abilitata da specifica previsione legislativa.

11. Usi o consuetudiniL’uso o consuetudine è la tipica fonte non scritta che consta di due elementi necessari:

l’elemento materiale o oggettivo , ovvero il comportamento assunto da una pluralità di persone, ripetuto nel tempo senza interruzioni e pubblicamente (non segretamente);

l’elemento psicologico o soggettivo , ovvero la convinzione che ripetere tale comportamento sia giuridicamente dovuto; qualora questa convinzione non vi fosse saremmo di fronte ad una mera prassi, derogabile in qualsiasi momento.

Le consuetudini per essere valide devono essere secundum legem, ossia conformi alle norme giuridiche poste da fonti atto, mentre sono vietate e perciò invalide le consuetudine contram legem, ossia in contrasto con le fonti atto/norme giuridiche. Esse/i devono perciò essere sempre dispositivi ovvero applicabili, di regola, solo in mancanza di disposizioni di legge o di contratto collettivo e non possono derogare la disciplina del contratto collettivo né prevalere su quella del contratto individuale. Ma l’art. 2078 c.c. rappresenta tuttavia una deroga alla regola generale sancita dall'art. 8, preleggi, in quanto esse/i, solo se più favorevoli al prestatore, prevalgono sulle norme dispositive di legge.Da tale categoria di usi - i c.d. usi normativi - va tenuta distinta quella degli usi aziendali, che esplicano la loro efficacia nell'ambito di una singola unità produttiva, come quella di una azienda appunto, e non hanno infatti valore di norma inderogabile, potendo essere esclusi dalle parti al momento della stipulazione del contratto individuale.

CAP. 2°: IL LAVORO SUBORDINATO

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1. La collocazione del rapporto di lavoro nel libro V del Codice civile dedicato all’impresa.Il rapporto di lavoro è regolato dagli artt. 2094 e ss. c.c. oltre che dalle leggi speciali. Il c.c. non richiamando espressamente il contratto di lavoro, dal quale il relativo rapporto (di lavoro) ne trae origine (art. 1173 c.c.: il contratto come fonte di obbligazione ) ne disciplina le relative obbligazioni nel Titolo II - Capo I - Libro V - intitolato “Del Lavoro” e dedicato alla disciplina d’impresa.Questo collegamento fra l’ordinamento del rapporto di lavoro subordinato e quello dell’impresa, segue dell’obiettivo che si era posto il legislatore del Codice civile, di realizzare l’unificazione del diritto civile col diritto commerciale, unendone gli istituti ed evitando che uno stesso negozio giuridico venga disciplinato diversamente a seconda che venga posto in essere o meno nell’esercizio di un’attività commerciale: la c.d. commercializzazione del diritto civile.Riguardo al rapporto individuale di lavoro, il Codice civile attuale, pur avendone introdotto una disciplina del tutto nuova rispetto al codice precedente, ne riafferma la natura contrattuale e la sostanza giuridico ed economica, caratterizzata dallo scambio tra la retribuzione e la prestazione lavorativa, intellettuale o manuale. Dunque, la ragione dell’anzidetta sistemazione della disciplina del rapporto di lavoro all’interno del c.c. attiene alla considerazione del lavoro organizzato nell’impresa come modello sociale maggiormente rilevante nonché modello normativo tipico di rapporto di lavoro, intorno al quale ruotano i c.d. rapporti di lavoro speciali.

2. Il Codice civile del 1865: la “locazione delle opere”La normativa del c.c. 1942 costituisce la prima disciplina organica del rapporto di lavoro. In passato, il lavoro subordinato non era riuscito a trovare una specifica regolamentazione né nel Codice di commercio del 1882, né nel Codice civile del 1865. Quest’ultimo, in particolare, disciplinava una generale “locazione delle opere”, nella quale erano ricompresi il lavoro subordinato: locatio operarum sia il lavoro autonomo: locatio operis .L’art. 1570 definiva la “locazione delle opere come il contratto per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede (salario, stipendio)”;l’art. 1627 precisava invece che vi erano tre principali specie di locazione di opere e d’industria:

1. quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio, 2. quella de’ vetturini sì per terra come per acqua, che s’incaricando del trasporto delle

persone o delle cose,3. quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo.

Dalle norme riportate, è evidente che non emergevano chiaramente i connotati giuridici attuali del lavoro subordinato, che veniva infatti definito con la generale espressione usata al punto 1° dell’art. 1627 come “ locazione della propria opera all’altrui servizio ” ; il punto 2° del medesimo articolo era riferito, invece, al lavoro autonomo, mentre il 3° punto era riferito alle altre specie di locazione di opere.Da ciò si evince che la disciplina del contratto di locazione delle opere si occupava, quasi esclusivamente, del lavoro autonomo o locatio operis, e che l’unica norma espressamente riferibile al lavoro subordinato era l’art. 1628, il quale disponeva che “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa”, vietando, quindi, la perpetuità/continuità del contratto e l’eventuale rischio al ritorno della schiavitù. Dall’evidente carenza normativa si sostiene che prima dell’entrata in vigore dell’attuale c.c. e dunque dell’attuale normativa la disciplina del rapporto di lavoro subordinato o locatio operarum fosse ampiamente attribuita all’autonomia dei privati.

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3. Il rischio dell’utilità del lavoro e quello dell’impossibilità del lavoroLa distinzione fra locatio operis e locatio operarum, ricavata dalle fonti romane, era importante per stabilire la diversa attribuzione e ripartizione tra le parti dei rischi relativi alla realizzazione della prestazione lavorativa.A tal proposito era possibile distinguere:

il c.d. rischio del lavoro che incide sull’utilità prodotta dalla prestazione di lavoro, ovvero il rischio, l’incertezza ce incide sul risultato produttivo ottenuto o quanto meno ottenibile con l’impiego delle energie e risorse lavorative, e che dipende quindi dalla difficoltà tecnico-economica del risultato produttivo stesso. Esempi sono i fattori ostativi/impeditivi della produttività del lavoro che possono influenzare il rendimento della prestazione, quali i fattori naturali, come il fulmine che distrugge il prodotto finito del lavoratore, o i fattori di natura tecnico-economica, come i difetti del materiale da lavorare. Tale rischio della difficoltà della prestazione o dell’organizzazione del lavoro è poi ripartito tra i contraenti in modo diverso a seconda se si tratta di locatio operis/lavoro autonomo o di locatio operarum/lavoro subordinato: nella locatio operis è interamente a carico del lavoratore autonomo, il quale si

obbliga a prestare l’opera finita qualunque sia il costo sopportato, nella locatio operarum è invece a carico dell’imprenditore, poiché il lavoratore

subordinato si obbliga a prestare le proprie energie di lavoro limitandosi solo a sopportare il rischio della mancanza di lavoro;

il rischio dell’ impossibilità (o mancanza) del lavoro sopravvenuta per caso fortuito o forza maggiore quali fattori ostativi dell’esecuzione della prestazione, ovvero il rischio, l’incertezza che incide sulla perdita totale o parziale del corrispettivo da parte del lavoratore, che è sì esonerato dall’obbligo di eseguire la prestazione divenuta ormai impossibile ma ne perde il diritto alla controprestazione (art. 1463 c.c.). Dunque il rischio, sia che si tratti di locatio operis/lavoro autonomo o di locatio operarum/lavoro subordinato è sempre sopportato dal lavoratore. Esempi di rischio dell’impossibilità del lavoro, sono riscontrabili in tutte le ipotesi di fortuito impedimento del lavoratore a prestare le proprie energie, sia per cause soggettive (gravidanza, malattia, infortunio, invalidità) che per cause oggettive (casi di interruzione dell’attività produttiva per eventi artificiali o naturali).

4. La distinzione tra attività e risultato del lavoro e l’emersione della subordinazione contrattuale.La distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo emerge dalla conseguente distinzione tra:

l’attività di lavoro, quale oggetto della locatio operarum/lavoro subordinato, il risultato del lavoro quale oggetto della locatio operis/lavoro autonomo.

Tuttavia, la distinzione tra attività e risultato del lavoro resta molto ambigua sia sotto il profilo funzionale che oggettivo, infatti:

se da un lato c’è un’identità dell’oggetto della prestazione, inteso come bene economico della forza-lavoro, dovuta dal lavoratore in entrambi i due tipi di contratto;

dall’altro c’è una differenziazione della natura delle due obbligazioni, per la diversa imputazione del rischio (dell’utilità o produttività) del lavoro.

E così, si spiega il ricorso al criterio della subordinazione o dipendenza nei confronti dell’imprenditore, quale carattere tipico della locatio operarum/lavoro subordinato. Attraverso l’utilizzazione della categoria della locazione delle opere, quindi, si arriva al graduale distacco del contratto di lavoro subordinato rispetto ai differenti tipi di contratto di lavoro autonomo.

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5. La subordinazione come sottoposizione del lavoratore alla direzione e al controllo del datore di lavoro nell’impresa industriale (paragrafo superfluo)Il legislatore tende a far coincidere la figura del contratto di lavoro con la nozione di lavoro manuale salariato o dipendente per eccellenza. In passato la subordinazione veniva individuata sulla base del collegamento tra la prestazione e l’azienda industriale, essendo fondamentalmente assente una definizione della subordinazione. In questi termini, la subordinazione tendeva ad identificarsi con il comportamento dovuto dal lavoratore in attuazione della propria obbligazione, avendo diritto al salario per tutto il tempo in cui è rimasto a disposizione dell’imprenditore.

6. La legge sull’impiego privato del 1924 e il Codice civile del 1942: la collaborazione come connotato specifico della subordinazioneCome sopra detto, fin dalle origini, la nozione di subordinazione ha sempre evidenziato una certa dipendenza dall’organizzazione del lavoro. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la legge sul contratto di impiego privato con cui si è individuato nell’attività professionale e nell’esercizio di mansioni di collaborazione il carattere specifico della subordinazione dell’impiegato. Nel c.c. il legislatore, partendo dall’inserimento del lavoratore nell’impresa, ha utilizzato il concetto di collaborazione per chiarire quello della subordinazione e nello specifico con l’art. 2094 c.c. ha identificato la collaborazione con il risultato tecnico-funzionale della prestazione di lavoro alle dipendenze dell’imprenditore, resa dal lavoratore in cambio della retribuzione. Dunque l’elemento della collaborazione si può ritenere indicativo dell’istituzionalizzazione del vincolo sussistente tra datore e prestatore di lavoro.

7. La distinzione tra il contratto di lavoro subordinato e quello di lavoro autonomo (artt. 2094 e 2222 c.c.)Il concetto di subordinazione, richiamato in dottrina ai fini della qualificazione del contratto di lavoro subordinato, è ricavabile:

in senso positivo dall’art. 2094 c.c. che definisce il prestatore di lavoro subordinato come “colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Subordinazione intesa come dipendenza del prestatore dalla direzione del datore nell’esecuzione dell’attività di lavoro e definita subordinazione tecnico-funzionale;

in senso negativo dall’art. 2222 c.c. che definendo il contratto d’opera, mette in risalto l’assenza del vincolo di subordinazione nel rapporto di lavoro autonomo derivante.

Rimanendo però il concetto di subordinazione piuttosto ambiguo, per eliminare qualsiasi dubbio sul concetto di subordinazione si è deciso di precisare il ruolo e la rilevanza della subordinazione del prestatore nel rapporto di lavoro identificando la subordinazione con la dipendenza o sottoposizione del debitore al potere del creditore del lavoro. Infatti, a norma dell’art. 2104 c.c. “il prestatore di lavoro deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore” quale titolare del potere direttivo e autoritativo. In questo modo però, la subordinazione coincide con la situazione soggettiva del lavoratore subordinato di fronte all’autorità dell’imprenditore il che significa che la struttura dell’obbligazione che sorge in capo al primo non sembra diversificarsi dalla struttura dell’obbligazione che sorge in capo al lavoratore autonomo, e ciò perché in entrambi i casi l’oggetto dell’obbligazione è il lavoro come prestazione di facere (attività personale economicamente utile). L’elemento distintivo è dato allora dall’assenza del vincolo della subordinazione e dunque dall’oggetto della prestazione e non dell’obbligazione. La prestazione infatti:

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nel contratto d’opera o lavoro autonomo consiste in un facere finalizzato al compimento di un’opera, con attività prevalentemente personale del lavoratore;

nel lavoro subordinato consiste in un facere finalizzato alla collaborazione, ovvero che il lavoratore è obbligato a mettere le proprie energie a disposizione del datore e della sua organizzazione.

Per comprendere meglio la differenza tra lavoro autonomo e lavoro subordinato facciamo un es. e pensiamo ad un sarto artigiano al quale venga commissionato un abito:

il sarto sarà un lavoratore autonomo se è obbligato alla confezione dell’abito per un prezzo da corrispondersi al compimento dell’opera, indipendentemente dalle energie lavorative e dal tempo impiegato;

il sarto sarà un lavoratore subordinato se è obbligato a lavorare non per un cliente ma per una sartoria, in cambio di una retribuzione, salario, stipendio,questa volta misurata sulla base delle energie lavorative e al tempo impiegato.

8. I contratti di lavoro autonomo; il contratto d’operaLa realizzazione, il compimento dell’opera finita costituisce l’aspetto tipico che caratterizza la categoria dei contratti di lavoro autonomo. Nel nostro c.c. tale categoria comprende oltre al contratto d’opera disciplinato dall’art. 2222 c.c., quattro figure fondamentali:

l’appalto, disciplinato dall’art. 1655 e ss. c.c., la cui causa consiste nello scambio di un’opera e/o servizio da eseguire con un’organizzazione propria dell’appaltatore, a fronte di un corrispettivo;

il trasporto, disciplinato dall’art. 1678 e ss. c.c., che ha la funzione di trasferire persone o cose da un luogo all’altro;

il deposito generico, disciplinato dall’art. 1776 e ss. c.c., che ha la funzione di custodia di beni;

il mandato, disciplinato dall’art. 1703 e ss. c.c. e le sue sottospecie quali la commissione, la spedizione e l’agenzia, che hanno la funzione di gestire gli affari nell’altrui interesse, mediante la conclusione di contratti.

Dobbiamo, inoltre, aggiungere che un vincolo, simile alla subordinazione, di sottoposizione del debitore/prestatore alla direzione del creditore/committente nell’esecuzione della prestazione si può avere anche nei contratti di lavoro autonomo, ovvero quando il committente stabilisce, nel contratto, le condizioni per l’esecuzione dell’opera pattuita, fissando unilateralmente il termine del contratto cui il prestatore è tenuto a conformarsi, pena il recesso per giusta causa ed il diritto del committente al risarcimento del danno (artt. 2224, 1661, 1662, 1665, 1711 c.c.).Si può, quindi, affermare che, diversamente dal lavoratore subordinato che è obbligato ad una mera attività alle dipendenze del datore, il lavoratore autonomo può essere vincolato alla direzione ma non può essere alle dipendenze del committente.

9. La causa del contratto: la collaborazione e la sua relazione di scambio con la retribuzioneIn generale la causa è l’elemento del contratto, richiesto a pena di nullità, che ne individua la funzione economica e quindi l’interesse meritevole di tutela perseguito dalla volontà delle parti. Nel contratto di lavoro subordinato la causa consiste nello scambio tra le obbligazioni del prestatore e del datore di lavoro, e quindi nello scambio tra la collaborazione e la retribuzione. La subordinazione è invece l’effetto giuridico essenziale del contratto che s’identifica con la prestazione di lavoro alle dipendenze dell’imprenditore e, allo stesso tempo,

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si presenta come il contenuto del vincolo necessario alla realizzazione del risultato della prestazione.Nella struttura dell’obbligazione di lavoro, l’elemento oggettivo è dunque rappresentato non dalla subordinazione ma dalla collaborazione, che sottolinea l’importanza dell’aspettativa del creditore/datore al risultato della prestazione eseguita dal debitore/lavoratore, inteso non come risultato finale dell’organizzazione produttiva nel suo complesso ma nel risultato dell’attività prestata dal lavoratore nell’adempimento della sua obbligazione. In questo senso, la collaborazione serve da parametro di valutazione del comportamento che il prestatore e il datore di lavoro devono tenere in osservanza del dovere di correttezza, che vincola entrambi nell’attuazione di ogni rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.).

10. La continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro come aspetto essenziale della collaborazioneLa subordinazione si può identificare con l’inserimento del prestatore di lavoro nell’organizzazione dell’impresa e quindi con la continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro verso il datore. Tale continuità può allora essere definita come:

l’essenza del vincolo di subordinazione che caratterizza l’attività in capo al lavoratore, relativamente allo scambio tra retribuzione e disponibilità della prestazione nel tempo;

la disponibilità al coordinamento della prestazione nello spazio e nel tempo che caratterizza la subordinazione come dipendenza dal controllo dell’imprenditore.

La durata infatti attiene alla struttura della prestazione ed incide sul modo di esecuzione e sulla determinazione quantitativa e qualitativa della stessa, ed è per questo che si deve intendere come dipendenza o disponibilità funzionale del prestatore all’impresa altrui.Tale disponibilità s’identifica così con la permanenza nel tempo dell’obbligo primario di prestazione e degli obblighi secondari in capo al prestatore di lavoro, rimanendo obbligato anche durante le pause interruttive dell’esecuzione (riposi, ferie, ecc.), pur non essendo tenuto alla stessa.A tale dipendenza infine, va ricondotta anche la responsabilità (art. 2049 c.c.) che grava sul datore di lavoro, relativa ai danni prodotti a terzi come conseguenza del fatto illecito commesso dal lavoratore nell’esecuzione della prestazione; questa responsabilità, ha natura oggettiva (cioè senza colpa).

11. Collaborazione e subordinazione nella giurisprudenzaLa giurisprudenza indica come elementi costitutivi della fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato, 4 requisiti, quello della:

onerosità, intesa come incidenza del rischio dell’attività lavorativa prestata sull’organizzazione sul datore;

collaborazione, intesa come inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa;

continuità, intesa come durata nel tempo del vincolo di disponibilità funzionale del lavoratore all’impresa;

subordinazione, intesa come l’attività del lavoratore messa a disposizione del creditore/datore;

e ne precisa anche il contenuto, stabilendo che: l’oggetto della prestazione, inteso non come il risultato prodotto dal lavoratore ma

come l’applicazione delle sue energie lavorative messe a disposizione del creditore/datore di lavoro;

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la collaborazione, intesa come inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa;

la continuità, come durata nel tempo del vincolo di disponibilità funzionale del lavoratore all’impresa;

l’incidenza del rischio dell’attività lavorativa sul datore di lavoro.L’applicazione di tali criteri viene poi integrata dalla giurisprudenza con l’utilizzo di una molteplicità di criteri o c.d. indici empirici per meglio distinguere tra la fattispecie di lavoro autonomo e quella di lavoro subordinato. In particolare, per tale distinzione risulta fondamentale l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro; da tale assoggettamento deriva conseguentemente una limitazione dell’autonomia del lavoratore ed il suo conseguente inserimento nell’organizzazione aziendale (vedi a riguardo Cass. 6/7/2001, n. 9167).

12. La tesi della subordinazione come situazione di soggezione socio-economica: criticaDa quanto detto, la subordinazione va intesa come situazione soggettiva tipica del contratto di lavoro individuale. La dottrina prevalente intende, invece, la subordinazione come presupposto economico-sociale del rapporto, discendente dalla situazione di debolezza contrattuale del lavoratore, “costretto” dalle proprie esigenze di vita ad offrire la propria forza-lavoro.In realtà, se da un lato si può ammettere che la posizione di inferiorità economica del lavoratore condiziona la sua autonomia contrattuale e ne caratterizza la posizione sociale, è altrettanto vero che tale effetto non è sempre e nella stessa misura generatore di disuguaglianza effettiva.

13. La collaborazione continuativa e coordinata all’impresa dei prestatori di lavoro autonomo come connotato di atipicità rispetto al contratto d’opera (la c.d. parasubordinazione)Per qualificare il rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo, bisogna verificare se sussiste o meno il requisito della continuità, come situazione di dipendenza funzionale alla collaborazione nell’impresa.Inoltre, se si può affermare che l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale sia un sicuro indicatore della sussistenza della collaborazione, così come l’osservanza dell’orario di lavoro e l’obbedienza alle direttive impartite dall’imprenditore sono sicuri indicatori della subordinazione, non si può certo dire che collaborazione e subordinazione siano la necessaria conseguenza dell’inserimento nell’azienda e del vincolo all’orario di lavoro; altrimenti, ogni prestazione di lavoro, resa ad un’impresa, sarebbe necessariamente subordinata, irrigidendo, di fatto, il mercato del lavoro.Ecco che, infatti, l’inserimento del prestatore nell’organizzazione aziendale, si può concretizzare sotto forma di collaborazione coordinata e continuativa anche nel lavoro autonomo. In questo senso, l’art. 409 c.p.c. ha previsto l’equiparazione dei rapporti di lavoro autonomo al rapporto di lavoro subordinato, limitatamente alla disciplina processuale e alla composizione anche stragiudiziale della controversie di lavoro, quando la prestazione d’opera si presenta caratterizzata da un’attività prevalentemente personale, continuativa e coordinata, ma non subordinata, di collaborazione ad un’impresa. In questo modo il legislatore ha confermato che l’inserimento del lavoratore nell’impresa è un connotato tipico ma non esclusivo del lavoro subordinato. Per cui nel contratto di lavoro coordinato ma non subordinato, c.d. parasubordinato, viene soddisfatto un interesse dell’imprenditore, definibile come continuativo in relazione alla reiterazione nel tempo delle singole prestazioni ma non alla disponibilità del lavoratore: infatti, nella prestazione d’opera

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coordinata e continuativa, il lavoratore non è obbligato a stare a disposizione del committente, nonostante la sua attività sia inserita nell’azienda.

14. L’utilità e l’attuale significato della distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo: gli effetti diretti e indiretti del rapporto di lavoro subordinatoCome inizialmente detto, in merito alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato, il legislatore ha previsto una tutela più forte e incisiva per il lavoratore, quale contraente debole nel rapporto con il datore di lavoro, vista la disparità economica, sociale, tecnica di posizioni. Grazie, infatti, all’intervento della politica e dei sindacati, si è rivolta l’attenzione sul bisogno di sicurezza e di libertà dei lavoratori subordinati, si è di volta in volta instaurata una sempre più vasta e complessa disciplina protettiva della classe lavoratrice che ha portato all’identificazione di un vero e proprio statuto protettivo del lavoratore subordinato, cui presupposto per la sua applicazione è il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, dalla cui domanda discende tutta una serie di effetti:

effetti diretti, destinati ad incidere sul contenuto del rapporto e, perciò, sul regolamento contrattuale (es. le condizioni della prestazione e della remunerazione del lavoro);

effetti indiretti, destinati ad incidere sui presupposti e sulle conseguenze della costituzione del rapporto di lavoro (es. la sicurezza del lavoro).

Ciò spiega come la connotazione della natura del rapporto rivesta un ruolo importante ai fini della tutela del lavoratore.

15. Il rapporto di previdenza sociale. L’attuale sistema previdenzialeTra gli effetti indiretti più importanti, derivanti dalla costituzione del rapporto di lavoro subordinato, vi è la costituzione obbligatoria del c.d. rapporto di previdenza sociale, intercorrente tra i due soggetti del rapporto di lavoro e gli enti previdenziali.In riferimento a ciò, la dottrina aveva inizialmente elaborato una teoria in base alla quale il rischio degli infortuni sul lavoro doveva gravare necessariamente sull’imprenditore a titolo di responsabilità oggettiva.Successivamente, con il ricorso all’istituto dell’assicurazione obbligatoria, si è traslato il rischio professionale dall’imprenditore in capo ad un istituto assicurativo, cosicché l’imprenditore viene esonerato dalla responsabilità civile, in cambio però del versamento di un premio assicurativo, aggiuntivo alla retribuzione, c.d. salario previdenziale.Tale sistema assicurativo è stato poi utilizzato per far fronte ad altre situazioni di bisogno collegabili alla posizione di sottoprotezione del lavoratore nella società e riconducibili a quello che viene detto rischio sociale, con contribuzione normalmente posta sia a carico dei datori che dei lavoratori (art. 2115 c.c.), seppur in misura minore, anche se ormai il versamento di tali contributi è attribuito in misura prevalente se non esclusiva al datore di lavoro. La disciplina delle assicurazioni sociali è comunque demandata dall’art. 2114 c.c. (Previdenza ed assistenza obbligatorie: “le leggi speciali e le norme corporative determinano i casi e le forme di previdenza e di assistenza obbligatorie e le contribuzioni e prestazioni relativealle) alle leggi speciali e nonostante in tale sistema di previdenza sociale sia utilizzato lo schema assicurativo, esso evidenzia degli scostamenti rispetto allo schema assicurativo di carattere privatistico. Innanzitutto vige il principio dell’automaticità delle prestazioni (art. 2116 c.c.), in virtù del quale le prestazioni sono dovute dall’istituto assicuratore in tutti i casi in cui l’evento assicurato si verifichi, indipendentemente dal concreto versamento dei contributi da parte dell’imprenditore; fatta eccezione per le pensioni di vecchiaia, per le quali in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, il lavoratore non può conseguire il diritto al trattamento previdenziale o ottenere un

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trattamento inferiore, ma ha solo il diritto al risarcimento del danno da parte del datore di lavoro.Attualmente, le assicurazioni sociali intervengono a garanzia del reddito del lavoratore tutte le volte che la sua capacità di lavoro e quindi di guadagno sia menomata in conseguenza di eventi collegati non solo agli infortuni sul lavoro ed alle malattie professionali, ma anche alla malattia comune, alla maternità, all’invalidità, alla vecchiaia e alla morte, alla tubercolosi, alla disoccupazione involontaria e a quella parziale o temporanea. Alla base dell’intervento assicurativo c’è dunque la valutazione della situazione di bisogno del lavoratore o della sua famiglia e la conseguente erogazione di prestazioni economiche al fine di indennizzarlo/risarcirlo della perdita della retribuzione nei periodi d’involontaria e temporanea inattività, o di sostituire la retribuzione stessa (tramite pensioni di invalidità e vecchiaia), qualora l’inattività assuma carattere definitivo

16. Le pensioni di anzianità e vecchiaia. La c.d. tendenza espansiva del diritto del lavoroLa pensione è quella rendita vitalizia corrisposta al lavoratore (dipendente, autonomo o libero professionista) nel momento in cui cessa l’attività lavorativa ed è possibile distinguerla in

pensione di vecchiaia , corrisposta quando l’attività lavorativa cessa al raggiungimento dell’età pensionabile fissata per legge;

pensione di anzianità , corrisposta quando si raggiunge l’anzianità contributiva che negli anni si è maturata;

negli altri casi pensione d’invalidità , corrisposta per le precarie condizioni di salute e in seguito ad

impossibilità di svolgere un lavoro; pensione di reversibilità , corrisposta al parente più prossimo (moglie o marito, figli)

dell’assicurato o pensionato defunto.A proposito delle pensioni di anzianità, l’intero sistema è stato sottoposto a riforma con la legge n. 335 del 1995, con la quale è stato introdotto il sistema a ripartizione, con cui l’importo dei contributi o delle tasse versati/e dai contribuenti ad un dato momento, viene immediatamente utilizzato per finanziare le prestazioni dei pensionati in quello stesso momento; dunque rappresenta la copertura finanziaria per l’erogazione delle pensioni, assicurata dai contributi dei lavoratori in servizio.Il sistema a ripartizione può essere:

retributivo, qui le pensioni erogate sono collegate alla retribuzione percepita dal lavoratore durante la sua attività lavorativa e sono calcolate come percentuale della retribuzione media percepita negli di ultimi anni lavorativi. Si è interamente applicato a tutti i lavoratori che fino al 31 dicembre 1995 hanno potuto far valere un’anzianità contributiva di almeno 18 anni;

contributivo, ossia le pensioni sono collegate all’ammontare dei contributi versati durante il periodo lavorativo. E’ stato introdotto dalla legge n. 335 del ’95, c.d. Riforma Dini e si applica a tutti i lavoratori che inizieranno a maturare un’anzianità contributiva (quindi a versare i contributi) dal 1° gennaio 1996 in poi.

Ed è proprio il sistema contributivo il nostro sistema pensionistico.Attualmente però vige anche il sistema misto, strettamente ancorato alle regole del sistema retributivo (fatte salve le modalità del calcolo della pensione che sono in pro rata), che prevede sia l’applicazione del sistema retributivo per i contributi versati entro il 31 dicembre 1995 che del sistema contributivo per i contributi dal 31 dicembre in poi.Precisiamo per capire meglio.

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a) Per i lavoratori che al 31 dicembre 1995 hanno maturato un’anzianità contributiva di almeno 18 anni, la pensione sarà calcolata con il precedente sistema retributivo.

b) Per i lavoratori che inizieranno a maturare un’anzianità contributiva dal 1° gennaio 1996 in poi, la pensione sarà calcolata con il sistema contributivo.

c) Per i lavoratori che al 31 dicembre 1995 hanno maturato un’anzianità contributiva inferiore ai 18 anni, la pensione sarà calcolata in parte con il sistema retributivo ed in parte secondo il sistema contributivo. Quindi, ipotizzando che un lavoratore abbia maturato (al 31 dicembre 1995) un’anzianità contributiva di 13 anni, la sua pensione sarà data dalla somma di due quote:- quella calcolata secondo il sistema retributivo, relativa all’anzianità contributiva maturata al 31 dicembre 1995 (nel caso ipotizzato, 13 anni);- quella calcolata secondo il sistema contributivo, relativa all’anzianità contributiva maturata dopo il 31 dicembre 1995. È bene ricordare che questo tipo di operazione verrà a scomparire mano a mano che i lavoratori iscritti al vecchio sistema retributivo andranno in pensione e verranno sostituiti da coloro che risultano iscritti al nuovo sistema contributivo.

L’ordinamento pensionistico italiano è strutturato in un regime previdenziale generale, costituito dall’ AGO: Assicurazione Generale Obbligatoria, ed in altre forme pensionistiche, anch’esse obbligatorie per legge, che si sostituiscono al regime generale e che fanno capo a diversi enti. L’AGO è gestita dall’INPS: Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, al quale è iscritta la maggior parte dei lavoratori italiani, dipendenti ed autonomi (circa il 70%). Dall’obbligo di iscrizione all’INPS sono tuttavia escluse alcune categorie di lavoratori, perché obbligatoriamente iscritte ad altre forme di previdenza:

esclusive, per tutti i dipendenti del settore pubblico in generale; esonerative, per tutti i dipendenti di enti creditizi; sostitutive, per alcune categorie di lavoratori dipendenti e le categorie dei liberi

professionisti).Il nostro sistema ispirato dalla solidarietà sociale attribuisce quindi un trattamento previdenziale oltre che ai lavoratori dipendenti, anche a lavoratori autonomi ed ai piccoli imprenditori (cioè ai non subordinati), anche se soltanto nel lavoro subordinato si ha l’effettiva traslazione del rischio sociale dal prestatore al datore ed il rapporto previdenziale si configura quale effetto diretto del contratto (vedi paragrafo precedente). Infine il sistema pensionistico italiano assolve a delle importanti funzioni, quali:

• funzione assicurativa, l’individuo rinuncia ad una parte delle sue risorse durante l’intero arco della sua attività lavorativa, per vedersi riconosciuto un certo livello di reddito (e consumo) durante l’anzianità;

• funzione previdenziale, il sistema garantisce all'individuo il mantenimento di un tenore di vita simile a quello raggiunto nella fase finale della vita lavorativa (purché abbia adeguatamente contribuito al finanziamento del sistema);

• funzione assistenziale, la collettività assicura a tutti i cittadini un reddito adeguato ad una esistenza dignitosa.

AGGIORNAMENTO – RIFORMA MONTI 2012:Con l’attuale riforma “Monti” contenuta nel c.d. “Decreto Salva Italia” (che prevede interventi significativi in diversi campi: casa, pensioni, iva, Irap, lusso, evasione, liberalizzazioni, ecc.) si prevede anzitutto l’accelerazione del passaggio dal sistema retributivo (per i casi ancora esistenti) a quello contributivo pro rata (cioè cioè in proporzione agli anni che formano l’intera vita lavorativa), ma ben più importante l’abbandono delle pensioni di anzianità, scompare cioè il sistema delle quote. Fin’ora c’era stata la possibilità di andare in pensione prima dell’età prevista, se si godeva di 40 anni di contributi (e in questo caso si poteva andare in pensione a qualsiasi età, anche a 55 anni se si iniziava a lavorare a 15 anni),

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o se si godeva di un minimo di anni di contributi + un minimo di anni di età anagrafica, tali da raggiungere una prestabilita quota. Con il governo Berlusconi la quota prevista e in vigore fino alla fine dell’anno 2011 era di 96 (es. 60 anni di età + 36 anni di contributi oppure 61 anni di età + 35 anni di contributi, ecc.). Ebbene, a partire dal 2012, questo sistema non esiste più e l’unico modo per andare in pensione, in anticipo rispetto all’età prevista, sarà di avere almeno 41 anni e un mese di contributi per le donne e 42 anni e un mese per gli uomini, anche se questi requisiti saranno innalzati negli anni, sulla base della durata media della vita. Comunque sia sono previsti anche disincentivi per quanti andassero in pensione, prima dei 62 anni di età, ovvero una penalizzazione dell’1% all’anno sulla pensione, per i primi due anni e del 2% all’anno, per gli anni successivi al secondo. Per le donne infine l’età minima per andare in pensione passerà dai 60 anni, di oggi, ai 62 anni (63 anni e 6 mesi per le lavoratrici autonome), aumentando di anno in anno per arrivare a 66 anni nel 2018 (come per gli uomini). In generale si potrà andare in pensione dai 66 anni ai 70 anni.

17. Il lavoro gratuito ed il volontariatoCome fin’ora analizzato, la struttura del rapporto di lavoro è incentrata sulle due obbligazioni fondamentali:

prestazione dell’attività lavorativa, pagamento della retribuzione

reciprocamente connesse, meglio definibili “sinallagmatiche”.Questa corrispettività attribuisce al contratto di lavoro il carattere dell’onerosità.La giurisprudenza ha, però, sottolineato che nonostante la causa di scambio nel contratto di lavoro sia onerosa, una prestazione di lavoro (relativa ad un determinato contratto di lavoro) può essere eseguita con il solo intento di obbligarsi gratuitamente purché tale intento sia finalizzato sempre e comunque ad un interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. Per questo si dice che il contratto di lavoro gratuito è lecito ma innominato: perché non rientra nel modello tipico disciplinato dall’art. 2094 c.c. e perché si tratta di un contratto con causa diversa (es. i sindacati che si avvalgono di prestazioni gratuite). Bisogna però sottolineare che la prestazione gratuita può dar luogo a forti sospetti di frode alla legge, ma ciò non basta a far ritenere che il contratto di lavoro gratuito non possa essere tutelato giuridicamente. Infatti, le prestazioni gratuite possono essere rese in adempimento a doveri morali o sociali, come quelle prestate verso un parente per ragioni di affetto, oltre che quelle prestate dalle organizzazioni a scopo benefico o solidaristico, oppure ideologico e di tendenza (es. i partiti, i giornali, i sindacati, ecc.).Al lavoro gratuito può essere avvicinato il c.d. volontariato disciplinato dalla legge-quadro sul volontariato, L. n°266/1991, con la quale il legislatore non solo ha riconosciuto il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato, considerato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ma ha anche inteso promuoverne lo sviluppo, prevedendo agevolazioni fiscali ed incentivi di cui possono fruire tutte le organizzazioni di volontariato regolarmente iscritte nei registri regionali.Per conseguire i loro obiettivi, tali organizzazioni devono avvalersi prevalentemente di prestazioni volontarie e gratuite degli associati o aderenti, la cui attività è incompatibile con qualsiasi rapporto di lavoro subordinato o autonomo con le organizzazioni. Queste possono assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo, ma solo nei limiti necessari al loro regolare funzionamento oppure nel caso in cui la presenza di costoro sia necessaria per qualificare o specializzare l’attività da esse svolte (pensiamo ad es. allo psicologo in una comunità per minori a rischio).AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:

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In considerazione dell’importanza assunta dal settore no profit nella nostra realtà economica e sociale, il legislatore è intervenuto a disciplinare l’impresa sociale con il D.lgs. n°155/2006, stabilendo che possono assumere tale qualifica tutte le organizzazioni private (quindi associazioni e fondazioni, comitati, società e cooperative) che esercitano in via stabile e principale un’attività economica, organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, e che abbiano i requisiti essenziali indicati dalla legge: utilità sociale, assenza di scopo di lucro, assenza di controllo, assenza di soggezione da parte di imprese. Lo scopo di interesse generale che deve essere dall’impresa sociale perseguito, deve riguardare settori predeterminati dalla legge e tra i vantaggi che le riconosce, al fine di raggiungere una maggiore diffusione , vi è quello di potere avvalersi di volontari e di un regime di responsabilità patrimoniale derogatorio rispetto a quello previsto dalla disciplina generale.(Integrazione di diritto commerciale: le imprese sociali, in quanto imprese, ex art. 2082, sono soggette a regole speciali per quanto riguarda lo statuto dell’imprenditore commerciale, nel senso che sono soggette ad esso sia che l’attività abbia natura agricola sia commerciale dovendo:

iscriversi in un’apposita sezione del registro delle imprese; redigere le scritture contabili; in caso di insolvenza, essere assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa,

invece che a fallimento, come gli enti pubblici economici.Devono inoltre costituirsi per atto pubblico, dovendo l’atto costitutivo contenere:

1 l’oggetto sociale;2 l’assenza dello scopo di lucro;3 la denominazione dell’ente, integrata dalla locuzione impresa sociale;4 i requisiti e le regole per la nomina dei componenti delle cariche sociali;5 i requisiti di ammissione ed esclusione dei soci;6 una forma di controllo contabile affidato ad uno o più revisori contabili;7 una forma di controllo di legalità della gestione e del rispetto dei principi di

corretta amministrazione, riservato ad uno o più sindaci cui è riconosciuto il potere di ispezione, di controllo e di chiedere notizie agli amministratori.

Le imprese sociali sono poi sottoposte a controlli esterni da parte del Ministero del Lavoro, che può procedere ad ispezioni e disporre la perdita della qualifica di impresa sociale nel caso in cui dovesse rilevare l’assenza delle condizioni per il riconoscimento di impresa sociale (natura di ente privato, attività in settori di utilità sociale, assenza dello scopo di lucro, indipendenza da enti pubblici o imprese lucrative) o la violazione della disciplina relativa se l’impresa non rimedia entro un congruo termine. Ne consegue la cancellazione dell’impresa dal registro e l’obbligo di devolvere il patrimonio ad altri enti non lucrativiInfine, un’ipotesi tipica di lavoro gratuito è quella prevista dall’art 74 del D. Lgs. n. 276/2003 nell’ambito delle attività agricole, in cui rientrano le prestazioni svolte da parenti e affini fino al quarto grado a titolo di aiuto per brevi periodi).

18. Il lavoro familiare e l’impresa familiare prevista dall’art. 230 bis c.c.Ipotesi a sé è quella del lavoro familiare in cui la prestazione di lavoro, essendo resa spontaneamente nell’adempimento di un dovere familiare, è assimilabile ad una prestazione gratuita.Tuttavia, l’art. 230 bis c.c. (inserito nella legge di riforma del diritto di famiglia n. 151/75), sembra considerare il lavoro prestato in modo continuativo nell’ambito della famiglia o

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dell’impresa familiare come un rapporto di tipo associativo, salvo che sia configurabile un diverso rapporto. All’attività di lavoro svolta dal familiare corrisponde:

il diritto al mantenimento; il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione alla quantità e qualità

del lavoro prestato; l’equivalenza del lavoro svolto dall’uomo e dalla donna; il diritto di partecipare alle decisioni inerenti l’impresa; il diritto di percepire una liquidazione in denaro al momento della cessazione della

prestazione del lavoro; il diritto di prelazione in caso di alienazione dell’azienda.

Con queste posizioni si è in parte superata la tradizionale presunzione di gratuità del lavoro familiare, poiché la legge riconosce il diritto ad un compenso per il lavoro svolto.

19. I c.d. rapporti associativi. La prestazione di lavoro nei contratti di società; l’associazione in partecipazione; gli amministratori di societàOltre che con il modello del lavoro subordinato e del lavoro autonomo, la prestazione lavorativa può essere impiegata ed offerta utilizzando altri modelli contrattuali, non solo innominati come il lavoro gratuito e lavoro volontario o volontariato, ma anche nominati. Tra i modelli nominati, meritano una particolare considerazione le ipotesi in cui un’ obbligazione di facere, finalizzata alla collaborazione nell’impresa, venga inserita nello schema tipico dei contratti associativi . Questo tipo di rapporto di lavoro c.d. associativo, non è riconducibile alla tipicità del contratto di lavoro subordinato, in quanto non è presente l’elemento causale dello scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione, anche se dal punto di vista economico evidenziano una situazione di sottoprotezione sociale del prestatore di lavoro associato, simile a quella del lavoratore subordinato. Questi rapporti associativi, la cui causa è: “l’esercizio in comune di un’attività economica e perciò la comune assunzione del rischio d’impresa e il comune scopo di lucro (divisione degli utili, art.2247 c.c.)”, sono infatti caratterizzati dall’obiettivo di cointeressare il lavoratore ai risultati dell’impresa.Obiettivo perseguibile attraverso l’utilizzo:

di contratti di società di persone nei diversi tipi legali, e quindi attraverso il conferimento in società di una prestazione di opera. In cambio di quest’ultima, la parte spettante al socio d’opera (art. 2263, comma 2°, c.c.) nella ripartizione dei guadagni e delle perdite viene stabilita dal giudice secondo equità, qualora non sia prevista dal contratto sociale. Nella società di capitali, invece, è escluso il conferimento di prestazioni d’opera, anche se l’atto costitutivo può tuttavia stabilire l’obbligo dei soci di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in denaro;

dello schema dell’associazione in partecipazione, secondo cui l’associante (cui spetta la gestione dell’impresa) attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa, in cambio di un determinato apporto che può anche consistere in un’attività lavorativa prestata senza vincolo di subordinazione.

Nel quadro della distinzione tra rapporto di lavoro e contratto di società si colloca infine la fattispecie del lavoro degli amministratori di società, che possono o meno essere soci, ma che sono comunque titolari di un rapporto organico con la società e la cui posizione può coesistere con un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della stessa società. Ciò che quindi risulta decisivo non è il nomen dichiarato, bensì il contenuto e lo svolgimento effettivo del rapporto.

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20. Le cooperative di produzione e lavoro: il socio lavoratore. Le cooperative sociali. Proseguendo con l’analisi dei rapporti di lavoro associato o associativo, importante è il lavoro svolto dai soci delle cooperative di produzione e lavoro, la cui prestazione viene eseguita nell’ambito di società cooperative costituite per svolgere un’attività economica organizzata per il mercato, mediante l’uso del lavoro dei soci, i quali, oltre ad essere titolari del diritto alle prestazioni mutualistiche e alla ripartizione degli utili, sono obbligati alla prestazione in adempimento del patto sociale.Nell’intento di assicurare ai soci delle cooperative di lavoro un trattamento simile a quello dei lavoratori subordinati, estendendone le relative posizioni contrattuali, la L. n°142 del 2001 definisce la figura del socio lavoratore quale titolare di due rapporti:

un rapporto associativo, con diritto di partecipazione alla gestione e al rischio d’impresa;

un rapporto di lavoro con la stessa cooperativa, in forma o subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, con il quale mette a disposizione la propria capacità professionale e dal quale derivano i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale, nonché ogni altro effetto previsto dalla legge.

Inoltre, sempre in analogia col principio di retribuzione sufficiente, applicabile ai lavoratori subordinati, le cooperative devono corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine (infatti ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato, si applicano i diritti sindacali di cui al Titolo III della L. n°300/1970), o non inferiore ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo.In merito invece alle controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica, vengono sottratte alla competenza del giudice del lavoro ed affidate a quella del tribunale ordinario.Sulla scia della legge quadro sul volontariato, la legge prevede poi le cooperative sociali, quale categoria speciale di cooperative il cui obiettivo principale è quello di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini (es. tossici, invalidi, ecc.), attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di altre attività diverse, come quelle agricole, industriali, commerciali o di servizi, finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Infine, meritano un cenno i rapporti associativi in agricoltura, che presentano ormai un valore quasi esclusivamente storico, in quanto sono stati sostituiti nella pratica, e nella legislazione stessa, dall’affitto di fondi rustici.

CAP. 3°: AUTONOMIA PRIVATA E RAPPORTO DI LAVORO. LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO

1. Contratto e rapporto di lavoroSi è già osservato che nella disciplina dettata da c.c., il profilo del rapporto prevale sul profilo del contratto di lavoro subordinato. Sulla base di ciò, l’esecuzione del contratto di lavoro e la concreta attuazione delle obbligazioni che ne scaturiscono, non è solitamente demandata all’autonomia negoziale dei contraenti, poiché è la legge che, direttamente o indirettamente, una serie di precise limitazioni al contenuto del contratto e ai comportamenti delle parti, nell’esecuzione dello stesso, attraverso il rinvio alle norme dei contratti collettivi.In tal senso la legge e la contrattazione collettiva intervengono per prestabilire parte delle disposizioni o clausole negoziali relative al rapporto tra datore e lavoratore: ad es. la

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determinazione dell’orario di lavoro, delle mansioni e qualifiche, della retribuzione. A proposito di retribuzione bisogna però precisare che determinazione è rimessa all’autonomia contrattuale soltanto entro i limiti fissati dai contratti collettivi e dalle altre fonti eteronome per i minimi di trattamento economico del lavoratore.In altre parole, la legge disciplina il rapporto nel suo svolgimento effettuale, mentre l’accordo delle parti viene compromesso da una serie di limiti sia legali che convenzionali (quest’ultimi provenienti dall’autonomia collettiva).

2. La fonte contrattuale del rapporto di lavoroPremesso ciò, partendo dalla definizione di contratto, contenuta nell’art. 1321 c.c.: “il contratto è l’accordo tra due o più parti per mezzo del quale si costituisce, regola o estingue un rapporto giuridico patrimoniale, se ne disciplina la struttura e se ne regolano gli effetti”, potrebbero sorgere dei dubbi circa la natura contrattuale del rapporto di lavoro, il cui contenuto o regolamento contrattuale, è sostanzialmente determinato in misura prevalente dalla legge e dai contratti collettivi, quindi da fonti estranee e sovraordinate all’autonomia contrattuale delle parti. Ciò indurrebbe a pensare alla c.d. acontrattualità del rapporto di lavoro , ma così non è perché se è vero che la disciplina del rapporto di lavoro è una disciplina inderogabile è, però, altrettanto vero che non ha una natura strettamente/totalmente imperativa, potendo essere in ogni momento derogata dall’autonomia privata, anche se soltanto con disposizioni di favore per il lavoratore.

3. L’inderogabilità del regolamento contrattuale imposto dalla leggeI limiti imposti all’autonomia negoziale, circa il rapporto di lavoro subordinato, sono finalizzati alla cosiddetta inderogabilità del regolamento contrattuale, in virtù del quale le clausole volute dai contraenti difformi dai precetti di legge sono dagli stessi sostituite di diritto; si tratta del meccanismo della sostituzione legale automatica (art.1419 c.c.), cui va accomunato anche il meccanismo dell’inserzione automatica nel contratto dei precetti legali.Tutto ciò avviene in considerazione della tutela inderogabile degli interessi del lavoratore disposta dalle norme, che devono essere osservate malgrado ogni patto contrario. Come sappiamo, infatti, nel rapporto di lavoro l’autonomia contrattuale è disuguale, ripartita cioè in modo diversa a causa della posizione contrattuale debole del lavoratore, a correzione della quale viene finalizzato l’intervento del sindacato e la limitazione dell’autonomia privata. Tale disciplina imperativa è poi caratterizzata dall’unilateralità o flessibilità verso l’alto, cioè dalla validità dei patti più favorevoli al prestatore (inderogabilità in peius). Merita un cenno anche la Convenzione di Roma del 1980 la quale prevede che, in mancanza di scelta delle particontraenti il contratto sia regolato:

dalla legge del paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro anche se è inviato temporaneamente in altro paese;

dalla del paese in cui si trova la sede che ha proceduto all’assunzione del lavoratore, qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso paese.

Tutto ciò avviene a meno che non risulti dall’insieme delle circostanze, che il contratto di lavoro presenti un collegamento più stretto con un altro paese, e nel qual caso si applicherà la legge di quest’ultimo. Le parti, peraltro, sono libere di decidere diversamente la legge regolatrice del contratto, ma solo a condizione che tale scelta non valga “a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme imperative della legge” che avrebbe regolato il contratto nel caso di mancata scelta.

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4. Autonomia privata e tipo contrattualeAnche il problema relativo all’interpretazione del contratto e alla qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato o autonomo viene a collocarsi nell’ambito dell’autonomia contrattuale e dei limiti cui questa va incontro. Innanzitutto, per qualificare un rapporto di occorre prima interpretare il contratto che lo ha instaurato e poi accertare se dalla volontà di entrambi i contraenti, risulta o meno l’intenzione di stabilire un rapporto di lavoro subordinato oppure autonomo. Tuttavia, è noto che nella pratica si perviene all’interpretazione del contratto di lavoro muovendo soprattutto dal comportamento tenuto dai contraenti, anche dopo la conclusione del contratto e dell’effettività della subordinazione.Ciò implica che la qualificazione attribuita dall’accordo delle parti non ha valore determinante rispetto al contenuto effettivo del rapporto. In questo modo, la sottoposizione del lavoratore al potere organizzativo e di controllo viene in rilievo non solo come comportamento esecutivo del vincolo obbligatorio, ma anche come comportamento dotato di valore presuntivo sul piano negoziale ai fini dell’individuazione della causa e cioè dell’interesse concretamente perseguito dalle parti nel contratto e del contenuto della collaborazione. La prevalenza del momento attuativo su quello dichiarativo dell’accordo non è solo un’operazione per l’accertamento presuntivo della volontà delle parti: tale prevalenza implica innanzitutto la compressione dell’autonomia individuale. Di qui la disciplina imperativa dello statuto protettivo del lavoratore come contraente debole. In questo modo il contratto di lavoro sembra distaccarsi dal modello civilistico dei contratto come regolamento di interessi dominato dalla libertà contrattuale e quindi dalla volontà delle parti. Ed invero, in quel modello la volontà comune si manifesta attraverso l’accordo e può determinare liberamente il contenuto del contratto, scegliendo gli elementi del concreto regolamento di interessi indipendentemente dallo schema in cui tale operazione dovrà essere inquadrata dal giudice. In generale, l’autonomia privata può determinare la concreta qualificazione del contratto nell’uno o nell’altro dei tipi dominati oppure in nessuno dei tipi previsti dalla legge. Viceversa, nel contratto di lavoro, alla volontà delle parti è vietato separare la subordinazione dallo statuto protettivo. Proprio perché essa non può essere separata dal tipo legale del contratto di lavoro subordinato, si parla d’indisponibilità del tipo legale.

5. Il principio del favorAlla luce di ciò, possiamo ben intuire che la compressione dell’autonomia negoziale serve alla correzione del contenuto contrattuale piuttosto che alla sua riduzione. Il principio dell’inderogabilità del regolamento contrattuale si combina col principio della prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore (c.d. favor ) , lasciando all’autonomia privata individuale la sola possibilità di stabilire patti o clausole migliorativi dei trattamenti normativi ed economici fissati dal contratto collettivo applicabile. È questo il caso degli usi aziendali. Un limite a questo principio di tutela della debolezza contrattuale si può ravvisare in determinate ipotesi normative introdotte dalla c.d. legislazione della flessibilità, nelle quali all’autonomia collettiva è riconosciuto il potere d’introdurre modifiche sfavorevoli in via regolamentare oppure di controllo, in funzione delle esigenze dell’occupazione e dell’impresa; ne consegue:

un’attuazione dell’inderogabilità della disciplina legale, un’eccezione alla regola del favor, quindi un’espansione della disciplina posta dai contratti collettivi.

In definitiva, l’efficacia inderogabile della disciplina del contratto di lavoro opera attraverso il meccanismo della sostituzione legale della clausole difformi e trae fondamento dal principio dell’effettività della tutela degli interessi del lavoratore. Per cui la violazione delle norme imperative, in generale per tutti i contratti e non solo per quelli di lavoro, viene

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sanzionata a pena di nullità; ma, diversamente dagli altri contratti, in quello di lavoro subordinato la nullità è finalizzata all’effettività della tutela dell’interesse del prestatore di lavoro al trattamento economico e normativo determinato dalle norme legislative o collettive applicabili, quindi sancita in funzione dell’inderogabilità del regolamento contrattuale.

6. L’art. 2126 c.c. e la c.d. inefficacia dell’invalidità del contrattoL’invalidità del contratto di lavoro si manifesta nella forma della nullità, quale effetto conseguente all’inosservanza dei limiti legali imposti all’autonomia negoziale dei privati, nella determinazione del contenuto del contratto. Nel caso specifico del contratto di lavoro, la disciplina del codice civile prevista per la generalità dei contratti all’art. 1418 (Cause di nullità del contratto: “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”), viene integrata dall’art. 2126 c.c. - Prestazioni di fatto con violazione di legge: “la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”.La norma in esame, disponendo quindi che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetti per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, sancisce l’irripetibilità delle prestazioni già eseguite (cioè che non possono essere considerate come non eseguite) e di conseguenza l’irretroattività delle vicende tendenti all’eliminazione del negozio invalido (cioè non si possono considerare come non esistenti né si possono eliminare gli effetti prodotti), comportando con ciò l’efficacia, la validità degli interessi determinati dal contratto invalido, limitatamente al periodo di esecuzione del rapporto. La norma, insomma, tende a salvaguardare la posizione del lavoratore che, nonostante l’invalidità del contratto, ha prestato la propria attività al servizio dell’imprenditore senza esserne fondamentalmente obbligato; N. B. in conclusione dall’esecuzione del contratto invalido: c.d. prestazione di fatto deriva non la costituzione del rapporto di lavoro, ma soltanto la conservazione degli effetti.Viceversa, non appare riconducibile all’art. 2126 c.c. l’ipotesi della prestazione di fatto di natura extracontrattuale, ossia l’ipotesi in cui la prestazione viene eseguita dal lavoratore invito domino = senza il consenso o prohibente domino = contro la volontà del proprietario della controparte (es. l’occupazione di fondi rustici o di aziende industriali per esercitarci un’attività lavorativa); e il motivo di tale inapplicabilità è che in tal caso il contratto di lavoro non è invalido ma proprio inesistente. La giurisprudenza ha, allora, riconosciuto al lavoratore la sola azione di ingiustificato arricchimento, ove ne ricorrano gli estremi.Ma ancora, l’art. 2126, comma 1°, c. c. esclude la conservazione degli effetti del contratto invalido in presenza di nullità derivante da illiceità dell’oggetto o della causa. Al di fuori di questi casi, in tutte le altre ipotesi di annullamento e di nullità previste dall’art. 1418 c.c., si parlerà della c.d. inefficacia dell’invalidità, ovvero che l’invalidità sarà temporaneamente inefficace e dal rapporto sorgeranno valide obbligazioni. Questa regola è poi rafforzata dal 2° comma dello stesso articolo, secondo cui, quando l’invalidità deriva dalla violazione di norme protettive del lavoratore, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione, che resta sempre e comunque garantita, in virtù del predetto principio dell’irripetibilità delle prestazioni eseguite.Si tratta allora non di una sanatoria del contratto invalido ma della “conservazione di una serie di effetti negoziali” che garantisce al lavoratore la titolarità dei diritti nascenti dal contratto invalido, e che altrimenti accertata l’invalidità del contratto potrebbe solo chiedere

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un’indennità equivalente all’indebita prestazione di lavoro (cioè non retribuita). Dunque la conservazione degli effetti si pone come:

alternativa all’azione di nullità o annullamento con conseguente indennità; garanzia del trattamento economico e normativo disposto dalle norme imperative,

relativamente al periodo in cui la prestazione viene effettivamente eseguita; forma di tutela non dissimile a quella che si concretizza con “l’inderogabilità del

regolamento contrattuale e con la sostituzione legale del relativo contenuto”; adeguamento agli standars legali d di protezione del lavoratore.

7. La capacità del prestatore di lavoroFra i presupposti del contratto di lavoro particolarmente importante è la considerazione della capacità dei soggetti stipulanti, ai fini della valida costituzione del rapporto.A tal proposito è importante ricordare 2 nozioni fondamentali, basilari:

la capacità giuridica, è l’idoneità del soggetto ad essere titolare di diritti e doveri. Per le persone fisiche essa si acquista normalmente al momento della nascita ed una sottospecie è la c.d. capacità giuridica speciale, cioè l’idoneità del soggetto ad essere titolare di una particolare situazione soggettiva;

la capacità di agire, è in generale l’idoneità del soggetto a porre in essere autonomamente atti negoziali vincolanti, con effetti nella propria sfera giuridica e patrimoniale; nel caso specifico è la capacità del soggetto di stipulare validamente un contratto di lavoro e di esercitare i diritti e le azioni che ne discendono.

Premesso ciò, la capacità di prestare lavoro dipende dall’attitudine fisiologica della persona all’esecuzione della prestazione e soltanto le persone fisiche sono capaci di prestare il proprio lavoro e di agire, ponendo in essere i relativi negozi. Quindi alla capacità giuridica e alla capacità di agire in materia di lavoro si applicano tutte le regole generalmente dettate per la capacità delle persone fisiche.L’art. 2 c.c. detta infatti una disciplina speciale sia sulla capacità di legittimazione soggettiva che sulla capacità di agire, ovvero:

la maggiore età si raggiunge al compimento del 18esimo anno e con essa si acquista la capacità d’agire, cioè di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilità un’età diversa;

fatte salve le leggi speciali che prevedono in determinati casi un’età inferiore (rispetto a quella fissata per la capacità d’agire in generale) in materia di capacità di prestare lavoro, l’ età minima di ammissione al lavoro è fissata dalla legge, la quale stabilisce che per poter esercitare un’attività lavorativa occorre aver concluso il periodo d'istruzione scolastica obbligatoria e aver compiuto, almeno, il 15° anno di età.

Questa disposizione va coordinata con la norma che impone un periodo di studi obbligatorio per almeno dieci anni e sancisce che l’età per l’accesso al lavoro è elevata da quindici a sedici anni. Inoltre, il minore, previa autorizzazione della Direzione Provinciale del Lavoro e col consenso di chi esercita la potestà, può essere impiegato anche in età inferiore in attività culturali, artistiche, sportive, pubblicitarie e di spettacolo, fatto salvo l’obbligo scolastico. In conclusione, data la coincidenza tra capacità giuridica e capacità d’agire, non vi è spazio per l’intervento del genitore o di altro rappresentante legale nella stipulazione del contratto, salvo nei casi indicati dalla legge.

8. La c.d. spersonalizzazione dell’imprenditore ed il principio della continuità dell’impresa. L’infungibilità della prestazione di lavoroIn merito alla figura soggettiva del datore di lavoro non sono previsti particolari o speciali requisiti soggettivi, in quanto rilevante è la distinzione tra gli imprenditori e gli altri datori di lavoro titolari di attività non lucrative, visto che solo ai primi si impongono

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determinati obblighi e limiti, previsti da una complessa e articolata normativa per la tutela individuale e collettiva del lavoro subordinato alle dipendenze dell’impresa, soprattutto media o grande.In particolare la “qualità di imprenditore” assunta dal datore di lavoro è irrilevante circa la capacità negoziale, mentre è rilevante circa la c.d. spersonalizzazione dell’imprenditore o irrilevanza della persona dell’imprenditore (cioè che non è fondamentale la persona, la figura dell’imprenditore per i seguenti effetti o momenti), per i seguenti effetti:

formazione del contratto , per la quale vige anche l’art. 1330 c.c. - Morte o incapacità dell’imprenditore: “la proposta o l’accettazione, quando è fatta dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa, non perde efficacia se l’imprenditore muore o diviene incapace prima della conclusione del contratto, salvo che si tratti di piccoli imprenditori o che diversamente risulti dalla natura dell’affare o da altre circostanze”;

conclusione del contratto , per la quale vige il principio della continuità dell’impresa, secondo il quale e secondo l’art. 2112, comma 1°, c.c. si stabilisce che “in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario (il nuovo titolare dell’impresa) e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”;

successione nel contratto , per la quale vige il principio della continuità dell’impresa per quanto riguarda la posizione del datore-imprenditore (in quanto sia che il passaggio d’impresa dal datore al cessionario avvenga con atti inter vivos che con atti mortis causa si tende sempre e comunque a garantire la continuità dell’attività e conseguentemente la continuità dei diritti dei lavoratori), mentre vige il principio della infungibilità soggettiva della prestazione per quanto riguarda la posizione del lavoratore e quindi la c.d. personalizzazione del prestatore di lavoro o considerazione della persona del prestatore (in quanto egli non può, nè con atti mortis causa né con atti inter vivos, trasferire l’obbligo alla prestazione di lavoro, nei confronti del datore, ad un altro soggetto/sostituto, perché appunto infungibile ed eseguibile solo ed esclusivamente da chi ha originariamente concluso il contratto di lavoro). Non è una questione di mancanza di fiducia nei confronti del lavoratore sostituito e sostituto, quanto la necessità dell’identificazione del contraente obbligato, salvo le specifiche ipotesi di “novazione soggettiva”.

9. Il procedimento di formazione del contratto. Il problema della forma. Riguardo al procedimento di formazione del contratto di lavoro non vi è alcuna particolarità rispetto a quello previsto per tutti i contratti, occorre infatti l’accordo tra le parti che si realizza nel momento in cui vi è l’incontro tra la proposta e l’accettazione. Il problema è stabilire quando si verifica l’esatta corrispondenza tra esse: se per la generalità dei contratti di adesione è previsto che la parte contrattualmente forte determini le condizione e la controparte le accetti, per il contratto di lavoro le condizioni generali sono predisposte bilateralmente dall’autonomia collettiva, alla quale l’autonomia individuale può sostituirsi solo per includere condizioni maggiormente favorevoli al lavoratore (principio del favor). Per cui il momento, in cui può considerarsi intervenuto l’incontro delle volontà idoneo a perfezionarne la conclusione, si ritiene avvenire con l’adesione del lavoratore alla proposta del datore di lavoro.Non sono poi previste particolari modalità di manifestazione del consenso né della forma, vige infatti il principio della libertà della forma, fatte salve alcune eccezioni:

i contratti di arruolamento marittimo devono essere conclusi con atto pubblico;

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i contratti di lavoro a tempo parziale, di lavoro intermittente, di lavoro ripartito, devono essere conclusi con la forma scritta ad probationem, quindi ai fini processuali e di prova dell’atto);

i contratti di inserimento, che devono essere invece conclusi con la forma scritta ad substantiam, cioè con pena di nullità qualora la forma predetta non sia rispettata;

i contratti di apprendistato e di formazione e lavoro (ormai per le sole pubbliche amministrazioni), devono infine essere conclusi anche con la forma scritta ad substanziam.

Va comunque evidenziata la tendenza ad imporre la forma scritta ad substantiam per particolari patti o elementi accidentali del contratto di lavoro che potrebbero risultare lesivi di un interesse del lavoratore, ed inoltre le esigenze di tutela del lavoratore sotto il profilo della trasparenza delle condizioni di lavoro hanno suggerito l’adozione della Direttiva 14 ottobre 1991, n. 91/533, con la quale si è imposto al datore di lavoro l’obbligo di comunicare per iscritto al lavoratore le principali condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro (es. identità delle parti, orario di lavoro, luogo di lavoro, data d’inizio lavoro, qualifica ed inquadramento, trattamento economico e normativo, e..). Tale obbligo può essere adempiuto nella lettera d’assunzione o in un altro documento comprovante la sottoscrizione del contratto, da consegnare al lavoratore entro 30 gg. dall’assunzione; un analogo obbligo vige poi in caso di modificazione delle predette condizioni.Altro aspetto da sottolineare riguarda la manifestazione del consenso, ovvero il momento attuativo dell’esecuzione del contratto che va innanzitutto tenuto distinto dal momento della formazione e che è poi di gran lunga più rilevante, non solo perché serve a qualificare il lavoro come autonomo o subordinato, ma soprattutto perché funge da comportamento concludente che manifesta e dà prova dell’esistenza del contratto e della volontà reale delle parti.

AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010: 9 bis. Gli adempimenti formali del datore di lavoroDal procedimento di formazione del contratto devono essere tenute distinte le formalità che precedono l’assunzione del lavoratore. Al riguardo fondamentale è stata l’emanazione della Direttiva n°91/553 del 1991, attuata con il D.lgs. n°152 del 1997, con cui si è imposto al datore di lavoro l’obbligo, entro 30 giorni dall’assunzione, di comunicare al prestatore di lavoro le principali condizioni applicabili al contratto (identità delle parti, luogo di lavoro, qualifica del lavoratore, ecc.), all’interno della lettera d’assunzione o in altro documento separato. Quest’obbligo di informazione non costituisce una deroga al principio della libertà della forma, ma è un obbligo autonomo di informazione che può essere adempiuto nella lettera d’assunzione o in un altro documento comprovante la sottoscrizione del contratto, da consegnare al lavoratore entro 30 gg. dall’assunzione, come prima detto.Inoltre all’atto dell’assunzione e prima dell’inizio dell’attività di lavoro, i datori di lavoro privati (ad esclusione soltanto di quelli domestici) devono consegnare copia della comunicazione di instaurazione del rapporto fatta all’ufficio competente. Per quanto riguarda invece il datore di lavoro pubblico, invece, la consegna deve avvenire entro in ventesimo giorno successivo alla data di assunzione. Tutto ciò per garantire la trasparenza e la certezza della gestione del personale. Infine, mentre prima il datore era obbligato a tenere una serie di documenti tra cui il libro paga e il libro matricola, contenenti tutti i dati personali dei dipendenti, adesso sono stati eliminati e sostituiti con il Libro Unico del Lavoro.

10. Il patto di provaTra gli elementi accidentali del contratto acquista rilevanza il patto di prova, per la cui validità sono previsti alcuni requisiti formali. L’art. 2096, comma 1°, c.c. prevede al

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riguardo che: “salvo diversa disposizione delle norme corporative, l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare per atto scritto”, e la giurisprudenza ha infatti considerato elemento essenziale e necessario del patto di prova la forma scritta ab sustantiam, in mancanza della quale il patto deve considerarsi nullo e l’assunzione del lavoratore va considerata definitiva. La prova serve poi al datore per verificare, attraverso l’esecuzione della prestazione, le attitudini fisiche e professionali del lavoratore, e al lavoratore per misurare la convenienza all’occupazione del posto di lavoro. Ciascuna delle parti, durante il decorso del periodo di prova, può comunque risolvere/concludere il rapporto utilizzando il diritto di recesso senza l’obbligo del preavviso o dell’indennità sostitutiva. Per questa ragione il legislatore è intervenuto a limitare a 6 mesi la durata massima del periodo di prova, di regola fissata dai contratti collettivi. La posizione del lavoratore in prova, è infine equiparata a quella che assume con l’assunzione definitiva, quindi alla fine della prova al lavoratore spettano il TFR e le ferie retribuite, e qualora assunto, il periodo di prova prestato è valido per gli scatti di anzianità di servizio.

11. I vizi della volontà nella conclusione del contratto di lavoro. L’attitudine professionale del lavoratorePer quel che concerne i vizi della volontà esistenti durante la formazione del consenso, quali:

l’errore motivo , ossia la falsa rappresentazione della realtà che induce un soggetto a concludere un contatto e quindi a dichiarare una volontà che altrimenti non avrebbe dichiarato;

il dolo, ossia un artificio/raggiro che vizia la volontà contrattuale, potendo il soggetto leso rimediare una volta accortosi dell’inganno subito nello stesso periodo di prova;

la violenza , ossia la minaccia di un male ingiusto e notevole tale da costringere il contraente a stipulare un contratto che altrimenti non avrebbe stipulato;

producono l’effetto dell’annullamento del contratto a norma dell’art.1427 c.c. - Errore, violenza, e dolo: “il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo, può chiedere l’annullamento del contratto secondo le disposizioni seguenti”. Dunque la disciplina del contratto di lavoro, in tal senso, è identica alla disciplina generale dei contratti. Tra i 3 hanno minore importanza le ipotesi di violenza morale e del dolo, in quanto a differenza dell’errore influenzano la formazione della volontà dei contraenti non sul piano dei motivi ma sul piano delle divergenze tra la volontà ipotetica/voluta e la volontà dichiarata. In questi casi di divergenza della manifestazione di volontà dall’intenzione dei contraenti, il contratto di lavoro non presenta particolarità rilevanti.L’unico vizio della volontà meritevole di attenzione è probabilmente rappresentato dall’ipotesi di errore essenziale sull’oggetto o sul contenuto del contratto di lavoro, la cui rilevanza è strettamente connessa alla considerazione soggettiva della persona - intuitus personae – del prestatore obbligato, in relazione alle caratteristiche della prestazione dovuta. Una situazione simile è ipotizzabile quando le attitudini professionali o personali del lavoratore abbiano specifico rilievo ai fini della prestazione e quindi dell’assunzione al lavoro e il datore abbia il potere di valutarle ai fini della conclusione del contratto (si pensi al lavoro giornalistico o a quello di vigilanza o custodia). Più raro se non eccezionale è il caso in cui sia decisiva la considerazione soggettiva della persona del datore di lavoro (si pensi ad un lavoro artistico).Infine è possibile affermare che la “considerazione soggettiva della persona del lavoratore” sia un elemento essenziale del contratto, ma che sia, nella pratica, la sua esecuzione ad essere motivo di impugnativa.

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12. Il divieto di indagine su fatti non rilevanti ai fini dell’attitudine professionaleL’art. 8 della L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) vieta al datore di lavoro di assumere informazioni non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore: c.d. indagini personali, non soltanto ai fini dell’assunzione, ma anche durante lo svolgimento del rapporto. La norma ha l’evidente obiettivo di tutelare la riservatezza del lavoratore in conformità con l’obiettivo di tutela della libertà e dignità del lavoratore, cui è dedicato l’intero Titolo I dello statuto dei lavoratori. Implicitamente questo articolo prevede inoltre che il datore possa indagare sulle capacità professionali del soggetto, ma deve farlo senza violarne la riservatezza ed infatti i l divieto posto a carico del datore è sanzionato penalmente dall’art. 38 St. lav. La medesima sanzione è prevista poi per l’ulteriore divieto di indagini volte ad accertare l’esistenza di uno stato di sieropositività all’infezione da HIV nel lavoratore dipendente o nel lavoratore da assumere, sebbene la Corte abbia ammesso indagini sanitarie allo scopo di prevenire rischi per la salute dei terzi.

13. Il trattamento dei dati personaliIl diritto alla riservatezza (anche) del lavoratore è stato definitivamente assicurato dal D.lgs. n°196/2003, che ha introdotto il c.d. Codice in materia di protezione dei dati personali, e ha previsto un sistema volto a garantire che il trattamento dei dati personali si svolga “nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali”.Accanto all’istituzione di un’apposita autorità indipendente: Garante per la protezione dei dati personali, sono stati riconosciuti a tutte le persone interessate i c.d. diritti informatici, che consistono, in primo luogo, nel diritto di avere conoscenza preventiva mediante la c.d. preventiva , cioè una comunicazione circa l’esistenza, la natura e le finalità della raccolta dei propri dati personali (più precisamente chi detiene i propri dati personali, come li ha ottenuti e per quali scopi li utilizza), ed in secondo luogo nel diritto di accesso: in ogni momento l’interessato ha il diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno dei dati personali che lo riguardano. Ruolo marginale è invece assegnato al consenso dell’interessato, che è richiesto solo in talune ipotesi, tra cui quella relativa al trattamento dei c.d. dati sensibili, ossia i dati idonei a rivelare informazioni strettamente personali come le opinioni politiche, le origini etniche, l’orientamento sessuale, ecc., e che possono essere oggetto di trattamento da parte di soggetti privati solo previo consenso dell’interessato e sulla base della preventiva autorizzazione del Garante.La normativa in materia, inoltre, ha ribadito l’importanza degli artt. 4 e 8 della L. 300/1970 (statuto dei lavoratori), ribadendo il divieto posto a carico del datore di lavoro di ricercare informazioni personali non attinenti all’attiva lavorativa svolta dal prestatore (opinioni religiose, politiche, sindacali, ecc.). Normativa che va quindi a confermare quanto precedentemente imposto dallo statuto dei lavoratori, costituendo per le persone fisiche e giuridiche in generale la consacrazione di un diritto.

14. La simulazione nel contratto di lavoroCome sappiamo sia nel caso dell’errore che degli altri vizi della volontà si pone si pone il problema della divergenza tra intenzione e volontà concretamente manifestata dalla partesi. Il diverso problema della divergenza tra volontà e dichiarazione si presenta invece a proposito della simulazione, disciplinata dall’art. 1414 c.c. - Effetti della simulazione tra le parti:

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“il contratto simulato non produce effetto tra le parti. Se le parti hanno voluto concludere un contratto diverso da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma. Le precedenti disposizioni si applicano anche agli atti unilaterali destinati a una persona determinata, che siano simulati per accordo tra il dichiarante e il destinatario. In tal caso la volontà dichiarata verso l’esterno si contrappone alla volontà dichiarata verso l’interno, dagli stessi contraenti c.d. controdichiarazione, e si cela dietro un determinato accordo, o dietro un accordo totalmente diverso, il c.d. contratto dissimulato, o addirittura dietro nessun contratto. Proprio la controdichiarazione è l’unica manifestazione di volontà efficace tra le parti in virtù dell’accordo simulatorio che le vincola, qualora sussistano i requisiti di forma e di sostanza prescritti per la validità stessa del negozio giuridico effettivamente voluto. In tal modo, se ad essere simulato è il contratto di lavoro subordinato tra i contraenti fittizi non produrrà alcun effetto, in quanto a produrli sarà il diverso contratto di lavoro autonomo effettivamente voluto dai contraenti (es. appalto, mandato, deposito, agenzia, ecc.). Al contrario se ad essere simulato è il contratto di lavoro autonomo a produrre gli effetti sarà il contratto di lavoro subordinato.Tuttavia, la prevalenza del contratto effettivo dissimulato/nascosto su quello apparente simulato/fittizio può operare soltanto entro i limiti posti dall’ordinamento all’autonomia privata sia:

in generale a tutela della meritevolezza dell’interesse perseguito in concreto dalle parti, sia

in particolare dalla disciplina imperativa del rapporto di lavoro, per la quale si applicherà la regola della nullità del contratto in frode alla legge ogni volta che un intento fraudolento sia rinvenibile all’origine del contratto dissimulato.

Nel caso in cui, invece, il contratto di lavoro dissimulato sia direttamente illecito quanto all’oggetto o alla causa, esso deve reputarsi illecito, e quindi nullo, e l’eventuale prestazione di lavoro eseguita di fatto.E’ infatti ovvio che vanno rispettate tutte le previsioni codicistiche inerenti sia la forma del contratto simulato, che deve rispettare la stessa forma del contratto voluto, sia la liceità della causa del contratto dissimulato. Nonostante la simulazione non sia identificabile necessariamente con la frode alla legge, si è soliti ritenere che spesso è finalizzata al mascheramento di un contratto illecito e quindi ad un intento fraudolento, dove appunto la simulazione gioca da strumento per la realizzazione dello stesso. Qualora un contratto simulato sia posto in essere per non rispettare tutte le norme imperative e le garanzie apposte dalla legge a favore dei lavoratori subordinati, sia il contratto simulato che quello dissimulato saranno infatti invalidi (es. viene posto in essere un contratto di lavoro autonomo, il quale cela il un contratto di lavoro subordinato per aggirare le garanzie offerte da quest’ultimo) e la disciplina sarà sostituita automaticamente con quella prevista dalla legge. Se invece ad essere illecita è proprio la causa del contratto dissimulato, a quel punto il contratto sarà nullo definitivamente.

CAP. 4°: LA PRESTAZIONE DI LAVORO

1. Il contenuto della subordinazione: la diligenzaAbbiamo visto in precedenza come la collaborazione intesa come disponibilità funzionale della prestazione lavorativa all’organizzazione dell’impresa, sia uno dei connotati fondamentali del rapporto di lavoro subordinato, al di là dello scambio tra la prestazione lavorativa e la retribuzione. Abbiamo poi parlato di subordinazione, specificando che il lavoratore subordinato differisce da quello autonomo per un rapporto di dipendenza nel tempo dal

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proprio datore di lavoro, che lo vincola a sottoporsi alle direttive del datore, titolare del potere direttivo sulla sua esecuzione. L’art. 2104 c.c. - La diligenza del prestatore di lavoro fissa i due requisiti caratteristici della prestazione (e quindi della subordinazione), quali:

la diligenza, l’obbedienza,

e dispone che: “il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta”, rinviando al principio generale, espresso dall’art. 1176 c.c. secondo cui “nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. Ciò sta a significare che esiste, semplicemente, un obbligo inerente l’esecuzione della prestazione di lavoro, tramite la subordinazione.Nell’obbligazione di lavoro (in cui risulta decisivo il comportamento del debitore ai fini del risultato della prestazione) il rinvio dell’art. 1176 c.c. al criterio della “natura della prestazione dovuta” impone un riferimento anche alle mansioni (art. 2103 c.c.), che a loro volta caratterizzano qualitativamente l’oggetto della prestazione di lavoro: ciò è confermato dal 1°comma dell’art. 2104 c.c., dove dispone che la diligenza possa differenziarsi in relazione al tipo di lavoro e, quindi, delle mansioni, c.d. diligenza professionale. Tuttavia per “natura della prestazione dovuta”, non deve solo intendersi la differenziazione tra le mansioni, in quanto è ovvio che ad un dirigente sarà richiesta una diversa diligenza rispetto a quella del suo sottoposto, ed è altrettanto ovvio che anche in riferimento ad una stessa mansione, andrà prestata una maggiore attenzione nell’esecuzione di una prestazione rispetto ad un’altra (ad es. il libero del muratore che oggi adopera un materiale di scarsa qualità e domani un materiale pregiato, dovrà mostrare nel secondo caso una maggiore diligenza).Ma l’art. 2104, oltre alla “natura della prestazione dovuta”, prevede altri due criteri per la valutazione della diligenza dovuta dal prestatore: a) l’interesse superiore della produzione nazionale, che richiama l’ideologia corporativa dello statalismo economico, secondo cui tutte le attività economico-professionali dovevano essere rivolte all’interesse superiore della nazione; b) l’interesse dell’impresa, secondo cui il prestatore di lavoro, al pari di ogni altro debitore, è tenuto ad adempiere la propria obbligazione eseguendo la prestazione con la dovuta diligenza, volta all’interesse del creditore, e quindi dell’impresa. Tale interesse va ricollegato al 2° comma dell’art. 1176 c.c., da cui si evince che la “natura della prestazione dovuta” è riconducibile alla “natura dell’attività esercitata” dal lavoratore; ed inoltre per quel che concerne il rapporto tra la diligenza richiesta al prestatore di lavoro e l’interesse dell’impresa, non si può ingenuamente credere che ci si riferisca all’interesse dell’impresa come istituzione, e dato che l’attività del lavoratore viene organizzata dal datore di lavoro, si può concludere che la diligenza andrà commisurata all’attività organizzatrice dell’imprenditore: in pratica, l’interesse dell’impresa è individuato in riferimento all’imprenditore.

2. L’obbedienza e il potere direttivo del datore di lavoroIl 2° requisito caratteristico dell’obbligazione di lavoro è quello dell’obbedienza, sancito dal secondo comma dell’art. 2104 c.c., ossia l’osservanza delle disposizioni impartite per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro, in cui si estrinseca il potere direttivo del datore di lavoro.Il dovere di obbedienza, inoltre, si ricollega non solo alle disposizioni impartite dall’imprenditore, ma anche dai collaboratori di questo, dai quali il lavoratore gerarchicamente dipende. Più precisamente, il potere direttivo si configura come la manifestazione di un’autorità di tipo gerarchico che dall’imprenditore, inteso come capo dell’impresa (art. 2086 c.c.), si ramifica ai collaboratori di grado inferiore.

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Riguardo il potere direttivo, i comportamenti o comandi dell’imprenditore possono essere di due tipi:

attinenti all’organizzazione del lavoro e all’esecuzione del lavoro, cioè al modo di rendere utilizzabile la prestazione resa dal lavoratore;

attinenti alla disciplina del lavoro, cioè alla regolamentazione della convivenza della comunità formata da coloro che collaborano all’impresa.

3. L’obbligo di fedeltà. Il divieto di concorrenza e le invenzioni del lavoratore. Il divieto di utilizzazione o divulgazione di segreti aziendaliDall’art. 2105 c.c., scaturisce a carico del prestatore di lavoro un obbligo accessorio rispetto all’interesse primario del datore di lavoro (a ricevere la prestazione), ovvero l’ulteriore obbligo di fedeltà.Esso, in corrispondenza con il dovere di buona fede generale nell’adempimento dell’obbligazione, rientra tra i c.d. obblighi di protezione a tutela del creditore e consiste nel divieto, da parte del prestatore di lavoro e durante il periodo lavorativo contrattualmente previsto, di svolgere attività in concorrenza con l’impresa e di divulgare o quanto meno utilizzare notizie inerenti organizzazione e metodi dell’impresa stessa, tale da poter arrecarle pregiudizio inteso come forma di protezione dell’interesse dell’imprenditore alla competitività dell’impresa. Tale divieto di concorrenza nulla ha a che vedere con il divieto di concorrenza sleale sancito dall’art. 2598 c.c. (Atti di concorrenza sleale: “ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”) in quanto in quest’ultima ipotesi non vi è alcun rapporto contrattuale tra danneggiante e danneggiato e la concorrenza slealmente posta in essere si verifica solo nei casi previsti dall’articolo stesso. Nonostante ciò, il divieto di concorrenza, poiché deriva dal contratto di lavoro, vige solo in permanenza dello stesso, anche se l’art. 2125 c.c. ha disposto la possibilità di stipulare un patto di non concorrenza, anche per un periodo successivo alla cessazione del rapporto (per un periodo di tempo pari a tre anni, cinque per i dirigenti), purché in presenza di forma scritta ad substantiam. Non costituisce, invece, concorrenza l’attività inventiva del lavoratore. Al riguardo, il Codice della proprietà industriale emanato con D.lgs. n°30/2005 ha previsto che qualora l’invenzione venga fatta dal lavoratore nell’esecuzione del contratto, c.d. invenzione di servizio, i diritti derivanti dall’invenzione eventualmente fatta dal lavoratore nell’adempimento del contratto spettano al datore, salvo il diritto di autore del lavoratore. Qualora, invece, si tratti della c.d. invenzione aziendale, ossia fatta nell’adempimento del rapporto di lavoro, ma non oggetto del contratto di lavoro stesso, i diritti derivanti dall’invenzione spettano al datore di lavoro che, qualora si veda riconosciuto il brevetto, dovrà al lavoratore un equo premio. Ulteriormente diversa è poi la c.d. invenzione occasionale, fatta dal lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro, ma rientrante nel campo di attività dell’impresa, e in tal caso i diritti spettano al lavoratore, ma il datore ha diritto d’opzione per l’uso o per l’acquisto del brevetto (che deve esercitare entro 3 mesi). Infine diverso dall’obbligo di

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concorrenza è l’obbligo di fedeltà: tale obbligo consiste nel divieto di divulgare o di utilizzare i c.d. segreti aziendali, attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione della stessa, con conseguente pericolo di pregiudizi per l’impresa. Infatti, il segreto aziendale è tutelato anche in sede penale.

4. Il potere disciplinareSecondo l’art. 2106 c.c., l’eventuale inosservanza degli ordini impartiti dall’imprenditore, dunque l’inadempimento della responsabilità contrattuale del lavoratore (la disobbedienza, l’infedeltà o la non diligenza) può essere sanzionata, in proporzione alla gravità dell’infrazione e in conformità delle norme dei contratti collettivi, mediante le seguenti sanzioni disciplinari:

rimprovero , verbale o scritto; multa ; sospensione dal lavoro e della retribuzione; licenziamento , come la massima sanzione.

L’imprenditore esprime la propria autorità gerarchica non solo tramite il potere direttivo, di cui abbiamo già parlato, ma anche tramite il potere disciplinare, il cui fondamento nasce nella responsabilità contrattuale del prestatore, e si ricollega all’art. 2104 c.c. (diligenza del prestatore di lavoro) e all’art.2105 c.c. (obbligo di fedeltà), visto che il suo esercizio rappresenta la reazione all’inadempimento dell’obbligo di prestazione del lavoro, sia in relazione alla diligenza, che in relazione all’obbedienza del prestatore. In merito a ciò i due aspetti della diligenza e dell’obbedienza non posso identificarsi reciprocamente, in quanto un lavoratore diligente può, al tempo stesso, essere anche disobbediente (ad es. un lavoratore che fa di più e meglio di quanto non gli abbia ordinato il datore, finisce per trasgredire alle disposizioni rendendosi inadempiente). Ma l’anzidetta proporzionalità tra infrazione e punizione stabilita dall’art. 2106 c.c., si caratterizza semplicemente come un limite generico al potere disciplinare, cosicché hanno assunto un’importanza sempre più decisiva gli ulteriori limiti sostanziali e procedurali, introdotti in materia dallo Statuto dei lavoratori, al fine di tutelare in maniera più dettagliata la libertà e la dignità del lavoratore.

5. Limiti sostanziali e procedurali al potere disciplinare (art. 7 stat. lav.)Riprendendo il discorso del precedente paragrafo e avendo fin’ora analizzato i poteri dell’imprenditore nei confronti del prestatore di lavoro sotto il profilo codici stico, passiamo ad esaminare le norme contenute negli artt. 1-13 del titolo I dello Statuto dei lavoratori (legge n°300 del 1970), le quali perseguendo l’obiettivo di tutelare la libertà e la dignità del lavoratore, hanno introdotto dei limiti un po’ più penetranti all’esercizio dei poteri disciplinare e direttivo.In particolare, questi limiti introdotti dallo Statuto hanno investito tutta l’area della vigilanza e dei controlli sull’attività lavorativa, anche se l’innovazione più importante è rappresentata dall’introduzione di limiti imposti al potere disciplinare previsti dall’art. 7 dello statuto , il quale stabilisce che: “all’interno dell’impresa, in un luogo pubblico, quindi accessibile a tutti di modo che tutti possano prenderne visione, deve essere esposto/affisso un regolamento disciplinare, c.d. codice disciplinare contenente le possibili infrazioni, le sanzioni e le procedure di contestazione” (ciò in analogia col principio nulla poena sine lege). Stabilisce inoltre che nessun provvedimento può essere adottato nei confronti di un lavoratore senza che gli sia preventivamente contestato l’addebito dell’infrazione , nel rispetto del principio di immediatezza, e senza che gli venga data la possibilità di difesa anche a mezzo di rappresentanti sindacali. La contestazione del comportamento comporta comunque l’ immutabilità della stessa, cosicché è precluso al datore di lavoro di far valere a sostegno dei

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suoi provvedimenti disciplinari, circostanze nuove ed eventualmente aggravanti della fattispecie concreta preesistente.Ma ancora, riguardo i limiti sostanziali, le norme dello Statuto dei lavoratori hanno escluso che le suddette sanzioni disciplinari possano comportare mutamenti definitivi del rapporto di lavoro, ad eccezione del licenziamento, lasciando fuori retrocessioni o trasferimenti punitivi (anche se in verità i trasferimenti per incompatibilità ambientale sono talvolta previsti); e hanno poi previsto dei livelli massimi cui l’entità delle sanzioni irrogabili possono arrivare, stabilendo precisamente che:

la sospensione disciplinare dal lavoro e della retribuzione non può durare per più di 10 giorni (può essere disposta anche la sospensione cautelare per eventuali accertamenti sull’infrazione, la quale può essere con o senza retribuzione);

la multa irrogabile dall’impresa può essere pari all’ammontare di 4 ore della retribuzione base;

tutti i provvedimenti più gravi del rimprovero verbale, ad esclusione dello stesso, possono essere applicati solo dopo 5 giorni dalla contestazione scritta del fatto causale, e il lavoratore cui sia stata comminata la sanzione, ha, poi, la possibilità di impugnare il provvedimento disciplinare entro i successivi 20 giorni davanti ad un collegio di conciliazione ed arbitrato. In questo modo, il provvedimento sanzionatorio perde di efficacia fino alla definizione del giudizio.

Infine, un importante limite sostanziale riguarda la c.d. recidiva, che si ha quando un soggetto ricade nello stesso comportamento proibito, assunto già in precedenza e per il quale era stato sanzionato a livello disciplinare. La norma inerente prevede però che non si può tener conto di una sanzione disciplinare una volta trascorsi 2 anni dalla sua applicazione; se ne può, però, tener conto se occorre un’analisi completa del soggetto e della sua carriera lavorativa nell’impresa, oppure se la precedente sanzione va ad incidere su un aspetto importante dell’esercizio del potere disciplinare divenendo fondamentale per l’applicazione, a carico del lavoratore, di provvedimenti più gravi, fino a quello definitivo del licenziamento.

6. Limiti al potere di controllo: I controlli per la salvaguardia del patrimonio aziendale (art. 2 stat. lav.)Nel precedente paragrafo abbiamo analizzato uno dei limiti imposti ai poteri del datore di lavoro dallo statuto dei lavoratori, ovvero il limite sul potere disciplinare sancito dall’art.7 dello stesso. Vediamo adesso i limiti imposti sul potere di controllo e vigilanza del datore di lavoro, previsti dall’art. 2 stat. lav., il quale dispone che: “l’imprenditore possa avvalersi di guardie giurate solo per salvaguardare il patrimonio aziendale, ma esse non possono in alcun modo interferire con l’attività lavorativa dei prestatori, neanche qualora questi ultimi pongano in essere azioni penalmente rilevanti”. Le guardie giurate, durante l’orario di lavoro, non possono avere accesso neanche ai locali in cui si svolge l’attività lavorativa, a meno che non sia presente un patrimonio aziendale da salvaguardare. Con questa norma, il legislatore cerca di impedire che l’imprenditore possa abusare del suo ruolo preminente all’interno dell’azienda, mediante l’utilizzo di una specie di polizia privata alle proprie dipendenze.Tuttavia, la giurisprudenza non esclude la possibilità per il datore di lavoro di avvalersi di propri dipendenti (non guardie giurate e anche privi della licenza di guardia giurata) per vigilare sull’operato degli altri lavoratori (anche in modo occulto). Per meglio tutelare il patrimonio aziendale possono poi essere previste visite personali di controllo all’uscita dei luoghi di lavoro (art. 6 stat. lav.) a patto che siano rispettate la dignità e la riservatezza del lavoratore, che siano utilizzati sistemi di selezione imparziale dei lavoratori da controllare, e che siano concordati con le rappresentanze sindacali. Nel caso invece non vi sia accordo con esse, il datore di lavoro potrà rivolgersi alla Direzione provinciale del Lavoro, che provvederà

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alle visite suddette (la decisione è comunque impugnabile entro 30 giorni dinanzi al Ministro del lavoro).

7. I controlli sull’attività lavorativa (artt. 3 - 4 stat. lav.)I controlli previsti dallo stat. lav., oltre che riguardare la salvaguardia del patrimonio aziendale, possono riguardare anche l’attività lavorativa. L’art. 3 sta. lav. prevede a proposito che vengano resi noti i nominativi e le mansioni del personale addetto alla vigilanza sull’attività lavorativa (sono esclusi i dirigenti e i capi, che per loro definizione esercitano un potere di controllo) e che siano quindi, preventivamente, comunicati ai lavoratori interessati. L’art. 4 sta. lav. regola invece i c.d. controlli a distanza, vietando l’utilizzo di “impianti audiovisivi e di altre apparecchiature” dirette, esclusivamente, alla vigilanza a distanza sull’attività lavorativa e tollerandolo solo nei casi di comprovate esigenze produttive e di sicurezza del lavoro, previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali. Tuttavia, qualora siano installati per garantire la sicurezza degli stessi, possono risultare idonei anche al controllo dell’operato dei lavoratori (quindi la norma si aggira facilmente). Analogamente a quanto previsto per le visite personali, l’installazione di tali apparecchiature deve essere concordata con i sindacati o decisa dalla Direzione provinciale del lavoro (l’atto è impugnabile dinanzi al Ministro del lavoro). In questo discorso, si collocano anche i problemi relativi all’introduzione nelle aziende delle nuove tecnologie (es. classico è il PC) che permettono oggi al lavoratore di ricevere le direttive lavorative tramite i terminali informatici: ciò fa si che anche il controllo possa essere attuato tramite i terminali in questione. Purtroppo lo statuto non copre (e quindi non vieta) tale tipo di controllo.

8. Gli accertamenti sanitari (art. 5 sta. lav.)L’art. 5 sta. lav. si occupa degli accertamenti sanitari diretti a controllare se è effettivamente giustificata l’assenza del lavoratore, dal luogo di lavoro, in caso di infermità. La normativa precedente prevedeva che ad inviare il medico per il controllo dello stato di salute del lavoratore dovesse essere il datore di lavoro, con il quale verificare lo stato di malattia ed esporre il lavoratore a sanzioni disciplinari nel caso in cui la sua assenza non fosse stata realmente giustificata e dunque realmente inabile al lavoro. Ciò al fine di conciliare il diritto costituzionale alla salute del lavoratore, garantito dall’art. 32 Cost., con quello del datore di lavoro alla prestazione dovuta.L’attuale normativa, contenuta appunto nell’art. 5 stat. lav., prevede invece che ad inviare il medico per l’accertamento dello stato di salute deve essere l’Istituto previdenziale tenuto all’erogazione dell’indennizzo in luogo della prestazione lavorativa, su richiesta del datore.Ma andiamo per ordine. Il lavoratore che diviene temporaneamente inabile al lavoro, deve recarsi dal proprio medico curante per compilare il certificato medico e consegnarlo poi al datore di lavoro; tale certificato medico deve infatti recare la firma del medico e attestare che il paziente/lavoratore non è in grado temporaneamente di esercitare l’attività lavorativa, indicando l’inizio e la presunta fine della malattia, ed essere poi inviato telematicamente all’ente previdenziale.Il datore di lavoro di fronte a tutto ciò potrà, qualora lo ritenga opportuno, sollecitare l’ente previdenziale ad inviare un medico convenzionato alla residenza del lavoratore, per accertarne lo stato di salute, e tale visita dovrà avvenire nello stesso giorno della richiesta da parte del datore di lavoro, in orari stabiliti: c.d. reperibilità. Il lavoratore assente al momento della visita senza giustificato motivo, perderà il diritto all’intero trattamento economico per i primi dieci giorni ed avrà diritto alla metà dello stesso per i successivi.

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Il 3° comma dell’art. 5 stat. lav. prevede inoltre la facoltà di “far controllare l’idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico”. Nonostante ciò, l’intera materia dei controlli sull’idoneità fisica del lavoratore va, attualmente, riconsiderata alla luce del D.lgs. n°626/94, che obbliga il datore di lavoro a nominare un medico competente (professionista privato, dipendente del datore, medico convenzionato) per il controllo sanitario dei lavoratori addetti a mansioni considerate rischiose e per l’accertamento preventivo e periodico dell’idoneità del lavoratore ad una specifica mansione.Ovviamente contro l’accertamento d’inidoneità parziale da parte del medico suddetto sarà ammesso ricorso all’organo di vigilanza territorialmente competente.

9. La procedimentalizzazione dei poteri di lavoroSulla base di quanto detto, si può ben constatare che le norme dello stat. lav. del 1970:

da una parte hanno lasciato immutate le finalità dell’impresa per il perseguimento delle quali è giustificata l’autorità dell’imprenditore;

dall’altra hanno invece ridefinito la situazione soggettiva del lavoratore subordinato, con l’obiettivo di realizzare un equilibrio (difficile) tra le esigenze produttive e quelle della libertà e personalità del lavoratore.

Per cui lo stat. lav. ha cercato di impedire che la subordinazione del lavoratore diventasse subordinazione della persona ed a questo scopo ha introdotto alcuni elementi di procedimentalizzazione del potere imprenditoriale, per i quali l’esercizio del potere direttivo e disciplinare è stato sottoposto all’adempimento di determinate regole e vincoli, la cui osservanza si configura come requisito di validità dell’atto del datore di lavoro.Tale procedimentalizzazione, prevede la tendenza della giurisprudenza ad un’applicazione estensiva degli obblighi generali di correttezza e buona fede quali limiti esterni all’esercizio dei poteri organizzativi dell’imprenditore. Nella stessa prospettiva, non va trascurato l’art. 1 dello Statuto sulla libertà di espressione delle opinioni del lavoratore nei luoghi di lavoro: al diritto del lavoratore di manifestar liberamente il proprio pensiero politico, religioso, e sindacale corrisponde un limite esterno all’esercizio del potere imprenditoriale e tale limite è sanzionato dalla nullità degli atti o patti diretti a discriminare il lavoratore nel rapporto di lavoro prevista dall’art. 15 stat. lav. (come vedremo nella parte sindcale). La libertà di espressione, tuttavia, non si potrà svolgere in contrasto con il diritto del datore di ricevere la prestazione.

10. Mansioni e qualificaLa prestazione di lavoro consiste nello svolgimento di un’attività (facere) alle dipendenze dell’imprenditore. Per individuare concretamente tale attività e soddisfare quindi il requisito della determinazione dell’oggetto del contratto (art. 1346 c.c. – Requisiti: “l’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile”), si fa riferimento alle mansioni, ossia l’insieme di compiti che il datore di lavoro pretende e che il lavoratore è dunque chiamato a svolgere e per i quali è stato assunto.Le mansioni insomma identificano la posizione di lavoro del lavoratore, rappresentano il criterio di determinazione qualitativa della prestazione e possono essere individuate per mezzo di una qualifica riferita al lavoratore addetto a quella mansione. In sostanza, le mansioni e la qualifica costituiscono termini per indicare lo stesso oggetto, ovvero la prestazione lavorativa dedotta in contratto. C’è, poi, da aggiungere che la moderna organizzazione produttiva si basa sulla divisione del lavoro (e quindi sulla divisone delle mansioni) tra gli addetti alla produzione; le mansioni, infatti, possono essere di vario tipo e non consistono, necessariamente, in compiti materiali di produzione o in compiti di manutenzione degli impianti, in quanto, a causa dell’evoluzione dei processi produttivi mediante l’applicazione delle tecnologie informatiche, sono diventati

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sempre più importanti i compiti di controllo del lavoratore su corretto funzionamento del ciclo produttivo automatizzato.Sempre in relazione a questa innovazione tecnologica dei sistemi produttivi, si sono modificati anche i contenuti delle mansioni, cosicchè si è optato, via via, per un più profondo coinvolgimento nei processi produttivi dei lavoratori, ai quali viene richiesto un importante impegno nell’esercizio di una competenza dinamica, in relazione a questi nuovi sviluppi produttivi (la formazione continua dei lavoratori).

11. La differenziazione retributiva in relazione alle mansioni.Un altro aspetto della divisione del lavoro è la differenziazione delle retribuzioni in relazione alle mansioni che originano appunto diverse prestazioni di lavoro con diverso grado di complessità. Ogni mansione è infatti diversa da un’altra, può avere un rilievo superiore o inferiore, richiedere capacità più specifiche o generiche, ecc., per questo sorge l’esigenza di differenziare le condizioni della prestazione e conseguentemente della retribuzione del lavoro, in relazione appunti alla valutazione del contenuto professionale delle mansioni. Un’attività specializzata che nel mercato pochi soggetti conoscono e sono in grado di esercitare, non può in alcun modo essere posta sullo stesso livello di un’attività che chiunque potrebbe svolgere, in quanto i diversi compiti (mansioni) che un soggetto è chiamato a svolgere possono richiedere diverse abilità, una diversa preparazione e quant’altro. La valutazione delle mansioni, nella generalità dei casi, è affidata alla contrattazione collettiva, la quale opera una classificazione su una scala c.d. ventaglio, per far corrispondere ad ogni livello un trattamento economico e normativo adeguato.

12. L’inquadramento del prestatore di lavoro. Le categorie contrattualiAl momento dell’assunzione, l’imprenditore deve fare conoscere al lavoratore, la categoria e le qualifiche assegnategli in relazione alle mansioni per cui è stato assunto. L’assegnazione delle mansioni costituisce il presupposto per il c.d. inquadramento individuale del prestatore di lavoro nel sistema di classificazione professionale. Tale sistema è individuato dall’art. 2095 c.c. che al 1° comma individua le categorie:

operai, impiegati, quadri, dirigenti,

mentre al 2° comma rinvia alla contrattazione collettiva.Facciamo quindi una distinzione tra qualifica e categoria, specificando che ognuno di questi termini ha una doppia accezione:

per qualifica, si intende sia l’attività che un soggetto svolge nell’organizzazione produttiva, sia l’insieme di mansioni che individuano una figura professionale (es. il tornitore, colui che torce il ferro o i metalli, piuttosto che il carpentiere);

per categoria, s’intende il livello di appartenenza all’interno dell’organizzazione produttiva di un determinato soggetto, e possiamo ulteriormente distinguere tra: categorie legali, individuate dall’art. 2095 c.c., il quale attua la differenza tra operai,

impiegati, quadri e dirigenti, e categorie contrattuali, viste in passato dalla contrattazione collettiva come

sottocategorie di quelle legali per poter attuare delle differenziazioni tra gradi intermedi, come ad esempio l’individuazione della figura del funzionario, a metà strada tra il quadro ed il dirigente. Con l’introduzione dell’inquadramento unico, il termine categoria viene ormai riferito non più alle sottoarticolazioni delle categorie legali, ma ai c.d. livelli di inquadramento.

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13. Le categorie legaliIl sistema di classificazione dei lavoratori è quindi un sistema misto in cui si incontrano le categorie contrattuali e quelle legali. Le categorie legali sono determinate dal legislatore, collegano la classificazione professionale del lavoratore alla struttura gerarchica nell’impresa e specificano trattamenti diversi. Infatti, essere, per esempio, impiegato o quadro può comportare il diritto a determinati trattamenti legali (es. diritto all’intera retribuzione in caso di malattia), così come essere dirigenti può comportare (a differenza degli altri lavoratori subordinati) il diritto ad un’assunzione libera con contratto a termine di durata non superiore a cinque anni, ma anche lo svantaggio di non poter godere della tutela contro i licenziamenti.Al fine di individuare nel concreto la distinzione tra le categorie di cui all’art. 2095 c.c., la stessa norma, al 2° comma, prevede che siano le leggi speciali o i contratti collettivi a determinare i requisiti di appartenenza alle varie categorie (c.d. inquadramento collettivo), in relazione alla struttura particolare dell’impresa. Ad es. per il settore impiegatizio, tali requisiti sono fissati dalla legge sull’impiego privato, ma in via sussidiaria della contrattazione collettiva, che può costruire e definire proprie categorie sia all’interno delle categorie legali (ad es. i funzionari), sia tramite l’accorpamento di qualifiche appartenenti a diverse categorie legali (ad es. inquadramento unico).Il sistema di classificazione dei lavoratori si è col tempo modificato notevolmente, prediligendo una distinzione tra categorie contrattuali, piuttosto che tra categorie legali.

14. La distinzione tra operai ed impiegatiLa distinzione tra operai ed impiegati, individuata inizialmente grazie alla legge sull’impiego privato: R.D.L. (Regio decreto legge) n°24 del 1825, è mutata notevolmente col passare del tempo e con l’evolversi della società. L’art. 1 della suddetta legge definiva l’impiegato come “colui che professionalmente presta la propria attività alle dipendenze di un imprenditore privato, con la funzione di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, esclusa ogni prestazione che sia semplicemente di mano d'opera”, e riconduceva la distinzione principale tra operai e impiegati a quella fra lavoro prevalentemente manuale, proprio della categoria degli operai, e lavoro prevalentemente intellettuale, proprio della categoria degli impiegati. Con l’evolversi della società e conseguentemente con il diffondersi di operai che operano a livello intellettuale e con la meccanicizzazione del lavoro degli impiegati, tale distinzione è divenuta fragile e la dottrina, rifacendosi al disposto dell’art. 2094 c.c. ha individuato una nuova distinzione tra le due categorie, precisando che:

l’operaio è colui che collabora NELL’impresa, in quanto svolge un’attività produttiva; l’impiegato è colui che collabora ALL’impresa, in quanto organizzando ma non

svolgendo l’attività produttiva contribuisce all’organizzazione dell’attività produttiva.Ma anche tale distinzione, considerando che in diversi settori (come quello terziario) una stessa attività potrebbe essere presa in considerazione come operaia o impiegatizia, è venuta in un certo senso a mancare. In passato il criterio di distinzione era fondamentalmente il ceto sociale di appartenenza: impiegato era colui che sapeva scrivere, leggere, contare, differente dall’operaio che poteva prestare solo un lavoro manuale, essendo analfabeta; proprio perché ormai obsoleta, il nuovo sistema di classificazione professionale ha superato tale distinzione attraverso l’instaurazione di un nuovo sistema di classificazione professionale, il c.d. inquadramento unico.

15. L’inquadramento unico

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Il sistema di classificazione professionale più diffuso nella contrattazione collettiva è l’inquadramento unico, che si basa su una classificazione unica e non più articolata su categorie contrattuali all’interno delle categorie legali e che ha creato una nuova scala di categorie contrattuali, in cui al medesimo livello possono trovarsi tanto impiegati quanto operai. I livelli, infatti, sono definiti valutando la generica professionalità, e raggruppano un insieme, più o meno ampio, di specifici profili professionali determinati in base a delle caratteristiche come abilità, conoscenza, esperienza, ecc. della prestazione. Non si attua più, in sostanza, un modello gerarchico articolato su categorie legali, bensì una classificazione in 7/8 categorie che comportano livelli retributivi diversi, l’appartenenza ai quali viene determinata dalle definizioni c.d. declaratorie delle caratteristiche dell’attività prestata, e dall’elencazione di profili professionali specifici c.d. esemplificazioni.

16. I dirigentiInizialmente i dirigenti venivano considerati solamente come degli impiegati con funzione direttive, come una sorta di impiegati superiori insomma. La nascita della categoria risale all’ordinamento corporativo, che attribuì a tale categoria un’organizzazione separata da quella degli impiegati.Attualmente, il sindacalismo dei dirigenti resta separato dagli altri e la contrattazione collettiva, secondo quanto disposto dall’art. 2095, co. 2° c.c., ha il compito di stabilire i criteri di appartenenza a tale categoria e qualifica come dirigenti: “ quei lavoratori che ricoprono nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa”.C’è anche da dire che, dall’appartenenza alla categoria dei dirigenti deriva anche un regime previdenziale particolare ed, inoltre, la contrattazione collettiva ha scelto di subordinare l’attribuzione della qualifica dirigenziale alla c.d. nomina da parte dell’imprenditore. La giurisprudenza, tuttavia, non riconosce un’efficacia vincolante a questo riconoscimento, continuando a sostenere che la caratteristica fondamentale del rapporto di dirigenza è il vincolo fiduciario con l’imprenditore.Vi sono poi casi in cui il dirigente non ha alcun potere direttivo, essendogli riconosciuta l’appartenenza a tale categoria in forza soltanto di una particolare preparazione e/o esperienza, per la quale si è voluto riconoscere un trattamento economico più vantaggioso. Il dirigente, comunque, non può essere oggi considerato, contrariamente da ciò che si credeva in passato, come l’alter ego dell’imprenditore, se non ai massimi livelli dell’organizzazione produttiva (es. top management).

17. I quadri intermediL’attuale formulazione dell’art. 2095, 1° comma, c.c. inerente l’individuazione delle categorie legali di organizzazione produttiva, risente della novella posta dalla L. n° 190 del 1985 sul riconoscimento giuridico dei quadri intermedi. Infatti, fino all’emanazione di questa legge, la norma codicistica distingueva i lavoratori, esclusivamente, in:

dirigenti amministrativi tecnici, impiegati ed operai.

Negli anni ’70 emersero, però, figure professionali con un ruolo ben distinto rispetto agli impiegati, che non godevano di rilevanza dirigenziale, che si ponevano a metà strada tra quella di impiegato e quella di dirigente, e che meritavano di essere retribuite diversamente rispetto agli uni e agli altri.

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La L. n°190 del 1985 novellò infatti l’art.2095 c.c. introducendo la figura dei quadri intermedi, fornendone una definizione ma demandando alla contrattazione collettiva nazionale (inquadramento collettivo) la determinazione dei requisiti di appartenenza alla nuova categoria, alla quale sarebbero poi state applicate le norme di tutela del lavoratore inerenti gli impiegati. Riguardo la disciplina del rapporto, la suddetta legge estende alla ai quadri intermedi le norme applicabili agli impiegati (art. 2, 3° comma), escludendo di fatto l’operatività delle norme applicabili alla categoria dirigenziale. Tuttavia, la definizione della categoria dei quadri intermedi ha in comune con quella dei dirigenti la rilevanza attribuita alle funzioni (e non alle mansioni) svolte dal prestatore: infatti, sono da considerarsi quadri, secondo il disposto dell’art. 2, 1° comma, i lavoratori che “svolgono funzioni a carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”.Nell’ipotesi in cui sia assente la contrattazione collettiva, è, comunque, sempre possibile rifarsi al principi dell’adeguatezza e della proporzionalità sanciti dall’art. 36 della Costituzione.

18. Mutamento di mansioni e dequalificazione. Il divieto di adibizione a mansioni inferioriAbbiamo detto che con il termine mansione intendiamo l’insieme dei compiti che il lavoratore è chiamato a svolgere, quindi l’oggetto dell’obbligazione contrattuale del rapporto di lavoro. Ciò premesso possiamo affermare che il contratto di lavoro è, rispetto alla generalità dei contratti, l’unico contratto il cui contenuto presenta dei caratteri dinamici, che possono incidere sulla prestazione inizialmente convenuta e che la rendono suscettibile di modifiche unilaterali da parte del datore di lavoro, in ragione di scelte organizzative e produttive e di conseguenza in ragione del potere direttivo che vanta sull’attività del prestatore. Questo potere di modificare unilateralmente la prestazione di lavoro, c.d. ius variandi, differenzia appunto il contratto di lavoro dalla generalità dei contratti, per i quali occorre invece il mutuo consenso delle parti. Tutto ciò è previsto dall’art. 2103 c.c., il quale, nella sua versione originale, stabiliva che:

il lavoratore dovesse essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto, pur riconoscendo che, se non fosse stato convenuto diversamente, il datore di lavoro avrebbe potuto adibire unilateralmente il lavoratore a mansioni differenti da quelle di assunzione (per esigenze d’impresa), purché ciò non comportasse un mutamento sostanziale della sua posizione o una diminuzione della retribuzione; e ancora

non precludeva il potere dell’autonomia contrattuale di stabilire consensualmente il mutamento di mansioni; con la conseguenza che di fatto

prevaleva la volontà del contraente più forte, quindi del datore/imprenditore. La stessa giurisprudenza individuava tale “consensualità del mutamento” nella c.d. acquiescenza del lavoratore, nel caso avesse svolto anche mansioni inferiori successivamente assegnategli per timore di essere licenziato o di altre conseguenze negative.

Per tutta questa serie di motivi, l’art. 2103 c.c. è stato novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, che ha dettato una disciplina innovativa delle mansioni e dell’inquadramento dei lavoratori, disponendo che: “i l prestatore di lavo lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi ”.

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L’art. 2103 c.c. ha insomma eliminato la precedente diversità di disciplina tra mutamento unilaterale e mutamento consensuale delle mansioni, e riconosce, in linea generale, la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle originariamente convenute, essendo riconosciuta una certa mobilità (temporanea o definitiva) del lavoratore. Tale mobilità può, però, svilupparsi solo in senso orizzontale (mansioni equivalenti) o in senso verticale (mansioni superiori), essendo impossibile una mobilità verso il basso e quindi una dequalificazione del lavoratore. La mobilità verso il basso può essere attuata solo nei casi tassativamente previsti:

per esigenze straordinarie sopravvenute, per lavoratrici madri per assicurare loro mansioni non pregiudizievoli alla salute, per sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni, per un accordo sindacale che, in seguito ad una procedura di licenziamento, prevede il

riassorbimento di lavoratori esuberanti.In tutti questi casi, tranne l’ultimo, deve essere mantenuta la retribuzione precedente alla variazione verso il basso della mansione, ed “ogni patto contrario è nullo” (art. 2103 c.c.). In questo senso si è voluto sancire espressamente l’inderogabilità della nuova disciplina, escludendo la validità di patti , anche collettivi, volti ad ampliare l’area della mobilità legittima. La nullità comporta infatti l’inefficacia di ogni modificazione in peius. Nello specifico, in caso di illegittimo spostamento a mansioni inferiori (o dequalificazione) la giurisprudenza ha riconosciuto ai lavoratori il diritto al risarcimento del danno sia patrimoniale (ad es. il mancato sviluppo di carriera) sia non patrimoniale e conseguente al pregiudizio arrecato alla dignità e capacità professionale, all’integrità fisica, alla vita di relazione, nonché alla dignità sociale (art. 3 Cost.). La quantificazione del risarcimento è soggetta ad una valutazione equitativa (art. 1226 c.c.) con riferimento ai livelli retributivi del lavoratore.

19. La mobilità orizzontaleCome detto, l’art. 2103 c.c. permette la c.d. mobilità orizzontale, nel momento in cui il lavoratore viene assegnato a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Questo specifico richiamo alle mansioni “ultime effettivamente svolte” evidenzia l’intenzione del legislatore di stabilire come termine di raffronto per valutare l’equivalenza, esclusivamente, le mansioni “definitive ed effettive” che il lavoratore abbia svolto per ultime. Un problema che si pone rispetto al concetto di equivalenza riguarda la c.d. garanzia retributiva, prevista dall’art.2103 c.c., secondo il quale tale concetto di equivalenza richiamato non coincide necessariamente con la parità di trattamento economico e pertanto non è sufficiente che due posizioni di lavoro siano retribuite in misura uguale (equivalenza retributiva), per poter affermare che le relative mansioni siano equivalenti. Quindi per equivalenza si deve intendere un’ affinità di professionalità tra le vecchie e le nuove mansioni . In conclusione, il nuovo sistema di inquadramento per aree professionali prevede che in una stessa area o categoria vi siano posizioni o livelli organizzative/i differentemente retribuiti, motivo per cui l’attribuzione di una nuova mansione che prevede un trattamento economico superiore, dovrà portare il lavoratore ad ottenere il trattamento ad egli più favorevole.

20. La mobilità verso l’altoSecondo l’art. 2103 c.c., si ha mobilità verso l’alto nel momento in cui il lavoratore viene assegnato a mansioni superiori: in tal caso egli avrà diritto al trattamento economico corrispondente e l’assegnazione diverrà definitiva dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, solitamente non superiore a 3 mesi, salvo il caso in cui si stia sostituendo momentaneamente un lavoratore assente che ha diritto alla conservazione del posto (in caso di malattia, infortunio, gravidanza, servizio militare). Se in questo caso il periodo massimo è di 3 mesi per l’assegnazione definitiva ad una mansione superiore, nel caso in cui si tratti di

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mansioni di quadro intermedio o dirigente, il periodo minimo di svolgimento è di 3 mesi, ma può essere stabilito un periodo superiore dai contratti collettivi. Quindi al lavoratore viene riconosciuto il diritto alla promozione, ossia il riconoscimento della qualifica superiore per le mansioni effettivamente svolte, che non va confuso con la promozione automatica prevista nei contratti collettivi, la quale riconosce che dopo un periodo di permanenza nella mansioni di livello più basso, il lavoratore abbia diritto ad acquisire una qualifica di livello superiore.

21. Il trasferimento del lavoratoreIn mancanza di eventuali patti stipulati al momento dell’assunzione o successivamente, la determinazione del luogo o di altra modalità della prestazione appartiene all’esercizio del potere direttivo del datore.L’art. 2103 c.c., così come novellato dallo stat. lav. disciplina anche il trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva, che può essere disposto dal datore di lavoro in via definitiva (ed in ciò si differenzia dalla trasferta) nel caso in cui vi siano comprovate ragioni tecniche o organizzative, che l’imprenditore non ha solo l’onere di provare, ma anche di comunicare al lavoratore in caso di richiesta di quest’ultimo (non contestualmente al provvedimento di trasferimento). Qualora non siano rispettati i presupposti legali, il lavoratore potrà far accertare in giudizio la nullità del provvedimento e rifiutarsi di ottemperare allo stesso.Vi è la necessità del nulla-osta delle associazioni sindacali di appartenenza qualora il trasferimento riguardi i dirigenti delle r.s.a.; mentre per i funzionari pubblici è richiesto il loro consenso espresso.E’, inoltre, ovvio precisare che il trasferimento non può aver ad oggetto motivi discriminatori di qualsivoglia tipo. Non è altrettanto scontato dire che in caso di lavoratore che assiste con continuità un parente o affine entro il terzo grado portare di handicap o in caso di amministratori locali eletti ad esercitare funzioni pubbliche, occorra il consenso degli interessati al trasferimento.

22. La tutela della persona del lavoratore nell’organizzazione del lavoro. L’inserimento del prestatore nell’ambiente di lavoroLe c.d. condizioni di lavoro fanno riferimento non soltanto alle mansioni svolte dal lavoratore ma anche all’organizzazione e all’ambiente lavorativo in cui esso opera, ma anche nell’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro. Dall’esigenza di limitare tale potere e tutelare i lavoratori, che è alla base dell’intervento della contrattazione collettiva e della legge, sono state fissate norme volte a tutelare le condizioni ambientali (igiene, sicurezza, ecc.) e la durata della prestazione lavorativa (orario di lavoro). Nello svolgimento della prestazione di lavoro, il lavoratore viene infatti inserito in un’organizzazione produttiva, meglio definita ambiente di lavoro, all’interno del quale si crea il problema di tutelare la sua persona fisica e la sua personalità morale. Per tal motivo nel tempo si è delineato un sistema di assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in base al quale tutti i lavoratori addetti a mansioni considerate potenzialmente pericolose/nocive, hanno il diritto di essere assicurati contro eventuali eventi lesivi della loro capacità psico-fisica al lavoro, indipendenti dalla colpa dell’imprenditore o dello stesso lavoratore.Il fondamento di questo istituto, come detto precedentemente, è il principio del rischio professionale, che in sostituzione a quello precedentemente previsto della colpa dell’imprenditore, esonera il datore di lavoro da qualsivoglia responsabilità civile in caso di eventi dannosi assicurati: sarà infatti l’ente assicuratore ad indennizzare il lavoratore per la sospensione momentanea dell’attività lavorativo o addirittura ad assicurargli un rendita qualora la sospensione non abbia carattere temporaneo. Da punto di vista della prevenzione

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sul posto di lavoro significative sono poi le norme attinenti all’organizzazione e all’ambiente di lavoro sancite dall’art.2087 c.c., l’art.9 stat. lav. e il D.lgs. n°626/1994.

23. Disciplina dell’art. 2087 c.c. Il danno biologico. Il mobbing. L’art. 9 dello Statuto. Proprio l’art. 2087 c.c. nello stabilire che “l’imprenditore è tenuto ad adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, pone a carico del datore uno speciale obbligo di protezione della persona del lavoratore. Il datore di lavoro deve, quindi, attuare tutte le misure idonee affinché il lavoratore, nell’eseguire la prestazione lavorativa, non incorra in alcun pericolo per la propria integrità psico-fisica, e più precisamente secondo l’art. 2087 c.c. l’imprenditore deve svolgere una vera e propria attività generale di prevenzione dei rischi; una sorta di limite al potere direttivo imprenditoriale in merito all’organizzazione del lavoro dei dipendenti. Nella generalità dei contratti, invece, un simile dovere di rispetto della persona dell’altro contraente si rinviene implicitamente nel principio di buona fede (art. 1375 c.c.) che entrambe le parti sono tenute a rispettare nell’esecuzione delle proprie obbligazioni e si configura quindi come un obbligo secondario rispetto all’obbligo primario di prestazione. Nel caso del rapporto di lavoro, invece, tale obbligo non risulta secondario/accessorio, bensì primario al pari dell’obbligo di prestazione. D’altronde, la salute è riconosciuta dall’art. 32 Cost. come bene di interesse collettivo e, al contempo, come diritto assoluto della persona, anche se l’art. 2087 c.c. non ha avuto grande rilievo nella sua funzione di prevenzione, ed è stato, per lo più, invocato ex post, in funzione di risarcimento di eventuali eventi dannosi verificatisi. Va, inoltre, segnalato che la Corte costituzionale ha evidenziato una certa rilevanza, anche nel rapporto di lavoro, del c.d. danno biologico, ovverosia della menomazione dell’integrità psico-fisica della persona/lavoratore che va oltre la riduzione della capacità lavorativa e per la quale, inizialmente, il datore di lavoro veniva ritenuto responsabile non essendo coperto da alcuna assicurazione. La successiva normativa ha invece previsto che anche il danno biologico sia coperto da assicurazione qualora sia derivante da infortunio o malattia professionale, esonerando il datore di lavoro da qualsiasi responsabilità civile a riguardo, responsabilità che ovviamente permane al di fuori dei casi coperti dall’assicurazione.La giurisprudenza ha poi riconosciuto il cosiddetto danno esistenziale e la conseguente risarcibilità, prodotto dal comportamento illegittimo del datore di lavoro e causante danni alla vita di relazione del lavoratore. Di recente si è inoltre parlato spesso del c.d. mobbing, ovvero un fenomeno che si attua nel momento in cui il soggetto (non solo il lavoratore) viene posto in una situazione di inferiorità tale da lederne la dignità, tramite il comportamento di altri soggetti (datore o colleghi): in tal caso non si ha infatti alcun danno psico-fisico, ma appunto un danno morale che lede la dignità del soggetto. Si tratta in sostanza di comportamenti di per sé leciti, ma che la giurisprudenza ha inteso giudicare illeciti in quanto, per le modalità con cui sono posti dal datore di lavoro o dalla gerarchia aziendale, si concretizzano in una persecuzione della persona del lavoratore.Le pronunce giudiziali in tema di lavoro sono ancora scarse, ma la giurisprudenza sembra aver ben recepito la situazione di disagio in cui si può trovare il lavoratore. Attenzione infine merita anche l’art. 9 stat. lav., il quale permette ai lavoratori, tramite le proprie rappresentanze, di poter controllare l’applicazione delle norme anti-infortunistiche e di poter suggerire miglioramenti e nuove misure per salvaguardare le condizioni di lavoro.

24. La tutela della salute nel D.lgs. n°81 del 2008 (Comprensivo dell’AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010)

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In tema di sicurezza del lavoro e tutela della salute dei lavoratori la normativa più importante emanata all’interno del nostro ordinamento è stata rappresentata dal D.lgs. n°626/1994, emanato in attuazione della Direttiva n°391/1989 della CEE, avente un campo di applicazione molto ampio comprendente tutti i settori di attività, sia pubblici che privati.Il decreto introduceva infatti importanti novità quali:

i rischi devono essere valutati e ridotti al minimo dal datore di lavoro e deve essere attuata una prevenzione continua che miri ad informare i lavoratori dei rischi della propria attività, c.d. diritto all’informazione sancito dall’art. 9 stat. lav., obbligando il datore alla nomina di uno o più rappresentanti per la sicurezza, a seconda delle dimensioni dell’impresa, che conoscano l’ambiente di lavoro e contribuiscano alla riduzione degli stessi;

il datore di lavoro, oltre a valutare i rischi, deve elaborare un piano di sicurezza ambientale, in cui vengano individuate le misure di prevenzione e l’attuazione delle stesse, conservato presso l’unità produttiva;

deve essere garantita una sorveglianza sanitaria da parte di un medico competente per i lavoratori esposti a fattori che alzino il livello di rischio lavorativo. L’attività del medico è piuttosto ampia, comprendente sia le visite mediche prima dell’assunzione che i controlli sull’idoneità del lavoratore alla mansione da svolgere;

i lavoratori stessi devono prendersi cura della propria salute e sicurezza, sottoponendosi ai programmi di formazione ed addestramento organizzati dall’imprenditore e provvedendo all’osservanza di tutte le norme necessarie per la riduzione dei rischi (adozione di tutte le misure protettive, rispetto dei protocolli previsti per l’uso di determinati macchinari, ecc.).

Esso tendeva, in altre parole, a spostare l’attenzione della disciplina sul momento della prevenzione, valutazione ed eliminazione (o, quantomeno, la riduzione al minimo) dei rischi ribadendo il nesso tra obblighi di sicurezza ed acquisizioni tecnologiche , già risultanti dall’art. 2087 c.c.Successivamente, la riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001, riscrivendo l’art. 117 cost., ha modificato la ripartizione, in tale materia di sicurezza del lavoro, delle competenze tra Stato e Regioni attribuendo ad essi una competenza concorrente, e il D.lgs. n°626/1994 in esame è stato sostituito dal TU in materia di sicurezza del lavoro (una sorta di contenitore dei principi fondamentali dettati dallo Stato in funzione della competenza concorrente con le Regioni), emanato con il D.lgs. n°81/2008, le cui disposizioni si applicano non solo ai lavoratori subordinati ma anche a quelli autonomi.Il TU ha assunto il compito di unificare l’intera disciplina in materia di sicurezza del lavoro e di adeguarla al nuovo riparto delle competenze legislative/concorrenti nazionali e regionali. Esso contiene poi:

una disciplina generale, inerente i principi comuni in materia, i quali delineano le finalità, il campo di applicazione, le istituzioni coinvolte ed il sistema di gestione della sicurezza;

una disciplina speciale dei singoli settori, che integra e completa quella generale, contenente disposizioni in merito ad uso di attrezzature, cantieri mobili, uso dei videoterminali, esposizione ad agenti fisici, chimici e biologici.

Ma il TU s’ispira inoltre a 2 principi fondamentali: il principio di universalità, che impone che la normativa in materia si applichi a tutte le

tipologie di lavoro. Per questo motivo è stato previsto che la disciplina del TU si applichi anche ai lavoratori autonomi (dapprima esclusi dalla normativa del D.lgs. n°626 del 1994) sebbene limitatamente ad alcuni aspetti, ai componenti di imprese familiari ed ai piccoli imprenditori.

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Ai lavoratori autonomi si estendono poi gli obblighi previsti per i contratti d’appalto, per i contratti d’opera e di somministrazione, per ciò che concerne soprattutto i c.d. processi di esternalizzazione: cioè quei casi che portano all’affidamento a terzi di determinate fasi lavorative e che coinvolgono sul posto di lavoro soggetti legati da diversi rapporti negoziali, ma la cui responsabilità degli stessi si tende a far pendere su un unico centro d’imputazione. Ecco perché sono posti a carico del datore di lavoro obblighi di coordinamento e cooperazione, risultanti da un apposito documento unico di valutazione dei rischi, che indichi le misure di sicurezza adottate. Ad es. nel contratto di appalto la mancata indicazione dei costi di sicurezza rappresenta una causa di nullità dello stesso. Inoltre la disciplina del TU è estesa a tutti quei casi in cui vi è dissociazione tra la figura del datore di lavoro e quella dell’utilizzatore della prestazione, è stata distinta l’imputazione degli obblighi di prevenzione da quella degli obblighi di protezione, stabilendo ad es. nel caso di somministrazione o distacco che gli obblighi di formazione e informazione siano imputati/ a carico del datore di lavoro mentre tutti i restanti obblighi siano imputati all’utilizzatore della prestazione. Così come è stata estesa ai casi in cui un’attività di collaborazione autonoma venga svolta presso un committente, pensiamo ad es. la collaborazione a progetto o le collaborazioni coordinate e continuative; ai casi di lavoro occasionale o accessorio; alle forme di lavoro de-localizzato, come il telelavoro; alle forma di lavoro non subordinato come tirocini, volontariato, ecc.;

il principio di effettività, riguarda invece la “delega delle funzioni” riconosciuta al datore di lavoro, il quale può delegare ai dirigenti e ai preposti (il preposto è colui che rappresenta il datore di lavoro in sua assenza, assumendo la titolarità dei poteri direttivi e di controllo, ma anche gli obblighi in materia di sicurezza del lavoro) i propri compiti in materia, salvo disposizione contraria, e purché siano soddisfatti i seguenti requisiti: la forma scritta ad substantiam, risultante da atto scritto con data certa e

conseguente accettazione in forma scritta; idoneità professionale del delegato a svolgere compiti di organizzazione, gestione,

controllo, spesa, ecc.; pubblicizzazione della nomina.Solo con il rispetto di tutte queste condizioni il datore di lavoro è esonerato da qualsivoglia responsabilità, anche se potrebbe rispondere della mancata vigilanza sull’operato del responsabile per la sicurezza sul lavoro.

Il TU si è occupato, infine, delle sanzioni in caso di violazione delle norme in esso contenute, prevedendo in alcuni casi addirittura la pena detentiva. Qualora vengano violate le disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro dettate dal TU e in conseguenza di tale violazione, viene a configurarsi il reato di omicidio colposo o lesioni gravi colpose, vi è una responsabilità penale delle persone giuridiche che avevano il compito di far rispettare la normativa. Al riguardo sono previste sia sanzioni pecuniarie, che sanzioni amministrative di tipo interdittivo, che sanzioni sospensive nel caso di utilizzo di lavoratori irregolari, proprio al fine di contrastare il lavoro sommerso o lavoro nero: solo la regolarizzazione degli stessi può attenuare le sanzioni.

25. Divieti di discriminazioneUna serie d’interventi legislativi, nel corso del tempo, hanno assicurato la dignità e la libertà morale del lavoratore nei confronti di discriminazioni di qualsiasi genere, ovvero trattamenti differenziati attuati in danno del lavoratore.

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I primi divieti di discriminazione hanno riguardato la discriminazione politica, religiosa e sindacale:

l’art. 5 stat. lav. , vieta la discriminazione nell’assunzione e nello svolgimento del rapporto di lavoro;

l’art. 1 L. n°903 del 1977 , sancisce la parità uomo-donna e vieta le discriminazioni in base alla razza, alla lingua e al sesso.

Successivamente, il D.lgs. n°1998/286, riguardante le norme sulla condizione dello straniero, ha vietato oltre che ogni forma di discriminazione per motivi di nazionalità, religione, razza o etnia, qualunque trattamento lesivo del lavoratore in ragione dell’appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o ad una confessione religiosa piuttosto che un’altra/o (art. 43). E in generale, il divieto di ogni discriminazione che non venga, ragionevolmente, giustificata, è poi implicitamente sancito nel principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). Un importante contributo ad una maggiore tutela contro le discriminazioni è giunto anche dal diritto dell’UE:

la Direttiva CE n°43 del 2000, vieta le discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica ed ha un ambito di incidenza che va oltre i rapporti di lavoro. Una volta recepita nel nostro ordinamento le relative disposizioni vietano qualsiasi trattamento lesivo della persona, in riferimento alla razza o all’origine etnica, comprese le molestie: comportamenti che hanno lo scopo di violare la dignità di una persona o di creare un clima ostile, intimidatorio, umiliante e offensivo;

la Direttiva CE n°78 del 2000, vieta le discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali, sugli handicaps, sull’età o sulle tendenze personali. Anche’essa una volta recepita nel nostro ordinamento usa come parimenti di riferimento i comportamenti discriminatori summenzionate molestie, anche se in determinate situazioni ammette numerose ipotesi di diversità di trattamento, qualora però le differenze fondate su religione, convinzioni personali, handicap, età ed orientamento sessuale, rappresentino requisiti essenziali per lo svolgimento di specifiche attività lavorative;

la Direttiva CE n°73 del 2002, ha sancito la parità di trattamento tra uomini e donne.In conclusione, il divieto di discriminazione, riconducibile al principio di uguaglianza, non impone un obbligo generale di parità di trattamento, bensì solamente il divieto delle differenze, che siano riconducibili agli specifici motivi di discriminazione, indicati dalle norme.

26. La durata della prestazione. Orario di lavoro e determinazione della prestazione. La tutela della salute e l’art. 36, 2° e 3° comma, cost.La persona del lavoratore non va tutelata solo in merito all’ambiente di lavoro ed ai rischi ad esso connessi, ma anche in base all’organizzazione del lavoro e della durata dello stesso. La dimensione temporale lavorativa acquisisce infatti importanza sotto 2 profili, quello:

della determinazione quantitativa della prestazione lavorativa e della retribuzione, ossia quanto il prestatore deve lavorare in virtù del contratto di lavoro: c.d. orario normale contrattuale di lavoro, e a quale retribuzione ha diritto in base alle ore lavorative svolte, c.d. retribuzione normale minima;

del limite massimo di esigibilità della prestazione lavorativa, ossia quanto il lavoratore può continuare a lavorare prima che esaurisca le proprie forze e perda lucidità e professionalità a danno di se stesso e del proprio operato. Ecco che l’art.36, 2° comma, cost. stabilisce che la durata massima dell’attività lavorativa debba essere stabilita per legge, mentre al 3° comma prevede che il lavoratore abbia diritto al riposo settimanale ed alle ferie annuali retribuite, senza potervi rinunciare.

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27. La disciplina legale dell’orario di lavoroLa disciplina dell’orario di lavoro, per lungo tempo contenuta all’interno di diverse leggi speciali e principalmente nei seguenti articoli:

art.2107 c.c. , inerente l’orario di lavoro effettivo, art.2108 c.c. , inerente il lavoro straordinario e notturno, art.2109 c.c. , inerente i periodi di riposo settimanale e feriale,

è stata poi modificata e in parte abrogata dal D.lgs. 66 del 2003, in attuazione della direttiva europea, che ha provveduto a ordinare, unificare e innovare l’intera normativa in materia (appunto sparsa in varie fonti legislative) e riferendosi non solo all’orario di lavoro ma anche agli istituti del c.d. tempo di non lavoro (pause, riposi giornaliero/settimanale, ferie, ecc.), ha poi disposto che dal momento della sua entrata in vigore sono abrogate tutte le disposizioni legislative e regolamentari nella materia disciplinata dal decreto legislativo medesimo, salve le disposizioni espressamente richiamate.Il decreto, salvo poche eccezioni, si applica inoltre a tutti i settori di attività pubblica e privata e definisce anzitutto l’orario di lavoro: “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio della propria attività o delle proprie funzioni”. Viene ribadita anche la differenza tra:

orario normale di lavoro, contrattualmente previsto e fissato nel limite di 40 ore settimanali con la possibilità dei contratti collettivi di prevedere una durata inferiore e considerare tale limite come valore medio sull’arco di un periodo non superiore all’ anno (si tratta del c.d. orario multiperiodale, che permette ai datori di lavoro di superare le 40 ore senza andare incontro allo straordinario);

orario straordinario di lavoro, che consiste nelle ore di lavoro eccedenti l’orario normale, e il decreto lo fissa nel limite di 250 ore annuali e retribuite diversamente e maggiormente (da unirsi o sostituirsi a recuperi/riposi extra) rispetto alle ore normali di attività lavorativa. Le ore di lavoro straordinario, tra l’altro, devono essere regolamentate dai contratti collettivi o, in difetto, concordate tra datore e lavoratore.

Il D.lgs. 66 non prevede poi espliciti limiti giornalieri all’orario normale di lavoro, anche se fissa un limite settimanale onnicomprensivo, pari a 48 ore su sette giorni (non per forza coincidenti con la settimana calendariale) da intendersi, a sua volta, non come valore assoluto ma come valore medio calcolato su un arco di tempo di 4 mesi; salvo la possibilità dei contratti collettivi di potere introdurre ulteriori margini di flessibilità innalzando, eventualmente, l’arco di tempo fino a 6 mesi, sempre nei casi tassativamente elencati dallo stesso decreto, come per i servizi ospedalieri, postali, televisivi, ecc.Qualora il datore di lavoro ecceda la previsione delle 48 ore settimanali, o su 7 giorni, deve comunicarlo per iscritto, insieme alla motivazione, entro 30 giorni alla Direzione provinciale del lavoro. In generale, la caratteristica principale della nuova normativa sull’orario di lavoro riguarda i più ampi margini di flessibilità temporale consentiti alle imprese nell’impiego dei lavoratori, anche se in alcuni casi il legislatore ha inteso, al contrario, irrigidirli per innalzare il livello di tutela del lavoratore rispetto al passato; in tal senso ad es. è stato innalzato a 4 settimane di astensione dal lavoro il diritto alle ferie.stato, inoltre, innalzato a 4 settimane di astensione dal lavoro il diritto alle ferie.Per quanto riguarda poi alcune deroghe previste in tema di orario di lavoro, si stabilisce che:

sono esclusi dalla disciplina dell’orario normale, MA NON da limite delle 48 ore settimanali, i lavoratori la cui occupazione richiede un lavoro discontinuo o di semplice attesa e custodia;

sono esclusi tanto dalla disciplina dell’orario normale quanto da quella delle 48 ore/7 giorni tutti i lavoratori la cui durata della prestazione non è determinata o può essere

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determinata dai lavoratori stessi (dirigenti o persone con potere di decisione autonomo).

AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:Il D.lgs. n°66/2003 inerente l’orario di lavoro ed il c.d. tempo di non lavoro, è stato recentemente modificato dalla L. n°244/2007 e dal D. legge n°112/2008, il quale:

non si applica ai servizi di vigilanza privata; esclude dall’applicazione del limite settimanale medio di 48 ore il personale dirigente

degli Enti e Aziende del Servizio Sanitario Nazionale, per garantire maggiormente tale servizio, salvo lasciare ai contratti collettivi la previsione di come vadano recuperate le energie psico-fisiche;

ha soppresso l’obbligo di informazione dell’avvenuto superamento delle 48 ore settimanali a causa di ricorso al lavoro straordinario;

ha concesso che il riposo giornaliero consecutivo, di 11 ore ogni 24, non solo a coloro che esercitano attività frazionate durante la giornata, ma anche a coloro che sono soggetti a regimi di reperibilità, esclusi i dirigenti e il personale Servizio sanitario nazionale;

ha previsto che la contrattazione collettiva nazionale possa attuare un regime derogatorio rispetto alle previsioni legislative, per quanto riguarda la materia del riposo giornaliero, delle pause e della durata/organizzazione del lavoro notturno. Stessa cosa può fare la contrattazione collettiva territoriale nel settore privato, senza conformità con quella nazionale;

ha previsto che il diritto al riposo settimanale consecutivo, di 24 ore ogni 7 giorni, che esso vada calcolato come media in un periodo di 14 giorni, facendo di fatto slittare il riposo. Piccole modifiche sono state previste anche per la nozione di lavoro notturno, lasciando immutata la definizione originale, ma prevedendo che lavoratore notturno sia anche colui che svolga una parte del suo lavoro durante il periodo notturno secondo le modalità previste dai contratti collettivi o svolga lavoro notturno per un minimo di 80 giorni l’anno per almeno 3 ore.

28. Il lavoro notturnoSempre il D.lgs. n°66 del 2003 ha modificato anche la materia del lavoro notturno, anzitutto fornendo una definizione di periodo notturno: “periodo di almeno 7 ore comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le 5 del mattino”, e di lavoratore notturno: “qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale”. Il decreto, inoltre, prevede che l’orario di lavoro dei lavoratori notturni non possa superare le 8 ore di media nell’arco delle 24 ore, mentre ai contratti collettivi è affidata l’eventuale riduzione dell’orario di lavoro e l’individuazione dei trattamenti retributivi spettanti ai lavoratori notturni, nonché la determinazione dei requisiti che consentono l’esclusione dall’obbligo di effettuare il lavoro notturno.Sono stati previsti, inoltre, particolari controlli e garanzie per la sicurezza de lavoratori notturni, e qualora sopraggiungano condizioni di salute che comportino l’inidoneità alla prestazione di lavoro notturno, accertata dal medico competente o dalle strutture sanitarie pubbliche, il lavoratore verrà assegnato al lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, se esistenti e disponibili, ad es. non può esercitare lavoro notturno la donna in gravidanza o subito dopo il parto, fino al compimento di un anno di età del bambino, mentre è facoltativo il suddetto per:

la donna madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o per il lavoratore padre convivente con la stessa;

il lavoratore o lavoratrice genitore unico affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12 anni;

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il lavoratore o lavoratrice con a carico un soggetto disabile.

29. La pause giornaliere, il riposo settimanale, le festività infrasettimanali, le ferie annualiInfine, il D.lgs. in esame dedica una serie di disposizioni alle pause, ai riposi giornalieri e settimanali, ed alle ferie annuali.1. Per quanto riguarda la pausa si intende l’intervallo di tempo (stabilito dai contratti collettivi o in assenza la pausa non può comunque durare meno di 10 minuti) consentito a chi esercita un’attività lavorativa di durata superiore alle 6 ore, durante il quale viene sospesa l’esecuzione della prestazione lavorativa, viene assicurata la reintegrazione delle energie psico-fisiche del lavoratore, e consentita l’eventuale consumazione del pasto.2. Per quanto riguarda invece il riposo giornaliero, il decreto stabilisce che il lavoratore ha diritto ad 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore, salvo i casi di attività lavorative frazionate durante la giornata, nel qual caso si può giungere a lavorare per ben 13 ore complessive tra orario di lavoro normale e straordinario. Va sottolineato che la normativa su pause e riposi giornalieri non si applica ai lavoratori la cui durata della prestazione non può essere predeterminata o è scelta dal lavoratore. In materia intervengono solitamente i contratti collettivi, in mancanza potrà essere applicato un decreto ministeriale. 3. per quanto riguarda poi il riposo settimanale, si tratta di un diritto irrinunciabile espressamente garantito dall’art. 36 cost., che riconosce al lavoratore un periodo di riposo di 24 ore (1 giorno) continuativo ogni settimana (di solito coincidenti con la domenica) da cumulare con i riposi giornalieri, ad eccezione dei lavori a turni, dei lavori frazionati durante la giornata e del settore dei trasporti ferroviari ecc. 4. per quanto riguarda infine il riposo annuale o semplicemente le ferie, si tratta anche in questo caso di un diritto costituzionalmente garantito dall’art.36 cost., e prevede che il lavoratore abbia diritto a 4 settimana di riposo, 2 delle quali devono essere godute consecutivamente, mentre le restanti 2 settimane nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. La retribuzione rimane identica al periodo di lavoro e le ferie si sospendono in caso di malattia durante il periodo di riposo annuale.All’imprenditore, comunque, viene riconosciuto il potere di fissare il tempo di fruizione delle ferie, con l’obbligo di darne tempestiva comunicazione agli interessati, tenendo in conto le esigenze dell’impresa e gli interessi del lavoratore.

CAP. 5°: L RETRIBUZIONE

1. L’obbligazione retributiva. La retribuzione minima sufficiente. La busta pagaL’art. 2094 c.c. nel definire il prestatore di lavoro subordinato individua nella retribuzione l’oggetto dell’obbligazione corrispettiva o sinallagmatica del datore di lavoro; la disciplina specifica dell’obbligazione retributiva è invece contenuta nell’art. 2099 c.c., che regola i modi di determinazione della retribuzione e stabilisce che: “la retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a cottimo e deve essere corrisposta (nella misura determinata dalle norme corporative), con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito. In mancanza di norme corporative o di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali. Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura. La retribuzione è quindi una tipica obbligazione corrispettiva da ricomprendere tra le obbligazioni pecuniarie (art. 1277 c.c. e ss.) aventi ad oggetto una somma di denaro.

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Nella corresponsione/pagamento della retribuzione il datore di lavoro deve usare la diligenza del buon padre di famiglia e può essere obbligato al risarcimento del danno in caso di ritardo o inadempimento ad egli imputabile. Più specificatamente l’art.2099 c.c. stabilisce che i termini e le modalità del pagamento devono essere quelli in uso nel luogo ove il lavoro viene eseguito. Il principio osservato è quello della post-numerazione, ossia quello di eseguire prima la prestazione lavorativa e poi di essere retribuiti. La retribuzione corrisponde ad un pagamento pecuniario (anche in natura secondo quanto prevede l’art.2099 c.c.) da effettuarsi presso la sede di lavoro e non nella sede dell’impresa (in deroga al principio generale secondo cui deve essere adempiuta al domicilio del creditore) e deve essere accompagnato da un prospetto paga analitico che riassume le voci che compongono la retribuzione.Il termine per la corresponsione della retribuzione, inoltre, è quello stabilito dai contratti collettivi; tuttavia, solitamente, essa viene pagata a settimana o a mese (o comunque dopo l’esecuzione del lavoro), secondo la regola c.d. della post-numerazione.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:L’obbligo di consegna del prospetto paga può essere assolto anche con la consegna di una copia delle scritturazioni effettuate nel libro unico del lavoro.

2. L’orario di lavoro come criterio di commisurazione della retribuzioneL’ammontare della retribuzione viene stabilito in base al quantum della prestazione lavorativa, ovvero misurando il tempo lavorato. Nella generalità dei contratti, mentre il principio della post-numerazione è modalità accidentale demandata all’accordo delle parti, nel contratto di lavoro è invece un effetto naturale del contratto. Infatti, secondo l’art. 2099, 1° comma, c.c. la retribuzione va commisurata alla quantità della prestazione di lavoro e a sua volta tale quantità si determina:

direttamente, sulla base del tempo impiegato per l’erogazione della forza-lavoro offerta dal lavoratore;

indirettamente, sulla base del risultato produttivo ottenuto tramite l’erogazione della stessa forza lavoro (cottimo).

In entrambi i casi, la quantificazione del tempo lavorato, c.d. orario di lavoro, funge da base per la determinazione della forza lavoro prestata e da base per la commisurazione della controprestazione retributiva. In generale, il tempo è un elemento del programma negoziale, ovverosia del contenuto del contratto di lavoro, e la relativa durata è rilevante, tra l’altro, sotto l’aspetto della continuità del vincolo ad effettuare una prestazione lavorativa, idonea a soddisfare l’interesse del creditore (contratto di durata). Dunque la determinazione dell’orario normale di lavoro funzionale alla retribuzione normale minima è di competenza dell’autonomia privata collettiva o individuale.

3. Retribuzione minima, contratti collettivi e art. 36 Cost.L’art. 2099, 2°comma, c.c. attribuisce in via primaria ai contratti collettivi la funzione di stabilire la misura della prestazione dovuta dal datore di lavoro, demandando all’autonomia collettiva i criteri per la determinazione della retribuzione. La funzione fondamentale del contratto collettivo è infatti quella tariffaria, ovvero la fissazione di regole comuni relative alla determinazione della retribuzione corrispondente ad un interesse che non è solamente quello individuale del singolo prestatore di lavoro, ma riflette quello collettivo di tutto il gruppo o categoria professionale. Tale interesse collettivo è realizzato attraverso la fissazione dei minimi, mentre i c.d. superminimi sono lasciati all’autonomia contrattuale individuale. Il documento più importante in cui possiamo ritrovare una traccia per stabilire l’ammontare delle retribuzioni è la Costituzione, con particolare riguardo all’art. 36, il quale prevede che la retribuzione sia anzitutto “proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto”, ossia

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vi deve essere equivalenza tra la prestazione retributiva e quella lavorativa, ed in ogni caso “sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, ossia la misura minima della retribuzione deve andare oltre il minimo di sussistenza, ossia deve essere adeguata alle necessità sociali. In caso di lavoro plurimo (dipendenza da più datori di lavoro e coesistenza di più rapporti lavorativi), va poi osservato il requisito della sufficienza, in quanto la retribuzione deve essere mezzo di sostentamento per il lavoratore e non un semplice corrispettivo per il lavoro svolto; la retribuzione ha insomma anche una funzione sociale.Dunque tale disposizione costituzionale adotta una formulazione generica indicando nei criteri della proporzionalità e della sufficienza i requisiti essenziali per la determinazione della retribuzione. In realtà, si tratta di una norma-principio e non semplicemente di una clausola generale da completare ad opera del legislatore, perché il riferimento agli anzidetti requisiti non è né indeterminato, né soggetto all’apprezzamento discrezionale del giudice; il costituente ha infatti voluto indicare direttamente in quei requisiti, i parametri ai quali il giudice deve conformarsi per valutare oggettivamente l’adeguatezza dello scambio tra prestazione e retribuzione del lavoro.Nello specifico, in base al requisito della proporzionalità, la retribuzione deve essere determinata secondo il criterio oggettivo della durata e dell’intensità del lavoro, ma anche del tipo di mansioni svolte e delle loro caratteristiche. Per questo viene riconosciuto il principio della differenziazione salariale, relativo alle mansioni svolte e alla classificazione professionale assegnata al lavoratore.L’altro requisito della sufficienza, sempre formulato nell’art. 36 Cost., risulta però essere più importante, perché in base ad esso la misura minima della retribuzione deve andare oltre il minimo di sussistenza, in quanto essa deve garantire un’esistenza libera e dignitosa non solo per il singolo lavoratore, ma anche per la sua famiglia; solo in questo modo è possibile realizzare la garanzia di una retribuzione commisurata alle esigenze sociali, oltre che ai bisogni primari del lavoratore.La retribuzione minima sufficiente, costituisce quindi un connotato essenziale del diritto di credito del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro.

4. Applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.L’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 cost. è stata fondamentale all’interno del nostro ordinamento per la fissazione dei salari minimi. Essendo, infatti, tale norma costituzionale vincolante per il potere legislativo (tanto da averla prima definita norma-direttiva o norma –principio) nell’attuazione del principio della retribuzione minima sufficiente, ma non essendoci, tuttavia, una legislazione specifica e determinatrice dei minimi salariali, è stata la giurisprudenza a formare una vera e propria area di diritto vivente giurisprudenziale, come nel caso della retribuzione equivalente a quella prevista dai contratti collettivi applicabili alla categoria professionale cui appartiene il lavoratore.Ma andiamo per ordine. Come sappiamo i sindacati che non rispettano pienamente l’art. 39 cost. perché non registrati, non avrebbero il potere di stipulare contratti collettivi validi per tutte le categorie professionali, ivi inclusi i non iscritti; e allora la giurisprudenza ha previsto che le retribuzioni minime stabilite da accordi dell’autonomia privata si applichino anche a lavoratori di quel settore non iscritti ai sindacati stipulanti l’accordo. Ciò perché mancando nel nostro Paese, come prima detto, una disciplina legislativa che fissi dei minimi salariali, è dovuta necessariamente intervenire la giurisprudenza per garantire la corretta applicazione dell’art. 36 cost., che seppur norma costituzionale possiede comunque una funziona precettiva e perciò direttamente vincolante, non essendo un mero principio generale (ma appunto una norma-principio).

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Il giudice nella determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente ha il potere di discostarsi dai minimi salariali stabiliti dalla contrattazione collettiva, riconoscendo al lavoratore una retribuzione anche inferiore, purché fornisca adeguata motivazione. Questo ha consentito un sostanziale adeguamento dell’ordinamento italiano alle previsioni contenute nella Convenzione OIL sulla politica sociale del 1962 (incoraggiare la fissazione di minimi salariali attraverso la contrattazione collettiva e assicurare un’adeguata tutela giudiziaria ai fini del rispetto dei minimi).

5. La struttura della retribuzione. I sistemi di retribuzioneL’art. 2099 c.c. prevede due diversi sistemi di retribuzione:

quello a tempo, in cui il lavoratore viene retribuito in base al periodo di tempo in cui ha prestato la propria attività lavorativa (ore, settimane, giorni);

quello a cottimo, in cui il lavoratore viene retribuito in base al risultato del lavoro prodotto.

Vi sono poi sistemi di retribuzione alternativi contemplati sempre dallo stesso articolo: la partecipazione agli utili, dove il lavoratore riceve una parte dei profitti netti

dell’impresa che si possono evincere dal bilancio; la partecipazione ai prodotti dell’impresa, in cui il lavoratore, in cambio della

propria attività, riceve una parte dei risultati materiali dell’attività imprenditoriale (pensiamo al settore agricoltura o pesca).

Queste due ultime forme di retribuzione potrebbero però violare, indirettamente, il requisito di sufficienza previsto dall’art. 36 cost. e porre il lavoratore in una posizione di svantaggio laddove ad esempio l’attività imprenditoriale non sia andata bene e non sia in grado di garantire utili o prodotti al lavoratore, a causa di elementi non prevedibili, valutabili dal lavoratore stesso. In tal caso è previsto comunque che il lavoratore ottenga una retribuzione sufficiente. Il lavoratore, inoltre, può essere anche retribuito con prestazioni in natura, ossia ricevendo dei beni, anche se ciò avviene in casi limitati (es. portierato, dove il portiere riceve, oltre ad una somma in denaro, anche vitto e alloggio). Ultima ipotesi è quella della retribuzione a provvigione, ne qual caso il lavoratore è tenuto (ed è questo proprio l’oggetto della sua prestazione) alla conclusione di affari e contratti nell’interesse dell’imprenditore e qualora egli riesca nel proprio operato, avrà diritto o ad una percentuale sull’affare o comunque ad una retribuzione proporzionata allo stesso. Tale tipo di retribuzione può essere integrativa di una retribuzione in denaro od anche esclusiva.

6. La retribuzione a tempoNell’ambito della retribuzione a tempo possiamo attuare una distinzione tra:

la retribuzione oraria o “salario”, che è calcolata sulla somma delle ore effettivamente lavorate nel mese, ed il rischio dell’inattività o mancanza di lavoro è posto a carico esclusivo del lavoratore; e

la retribuzione mensile o “stipendio”, per la quale il datore di lavoro si assume il rischio della mancata prestazione di lavoro o inattività.

originariamente e tradizionalmente corrispondenti alla distinzione tra operai ed impiegati. In entrambi i casi non rileva il termine entro il quale pagare la retribuzione, che può essere alla fine del mese od ogni 15 giorni in entrambi i casi; mentre in entrambi i casi per ciò che riguarda la retribuzione normale (inerente l’orario normale di lavoro) si calcolano le maggiorazioni per il lavoro straordinario, il cui ammontare viene stabilito dai contratti collettivi in cui possono essere previsti anche dei riposi compensativi, per il lavoro notturno, ma ora spetta ai contratti collettivi stabilire i trattamenti economici indennitari, e per le festività, compensate con un’ulteriore retribuzione che si aggiunge a quella normale,

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stabilita sempre dai contratti collettivi. Per le ferie, inoltre, il lavoratore deve usufruire obbligatoriamente delle 4 settimane, non essendo possibile indennizzarlo in denaro per ferie non godute, salvo il caso di cessazione del rapporto di lavoro.

7. Gli elementi accessori della retribuzione e la sua struttura complessaLa retribuzione globale di un lavoratore è composta:

dalla retribuzione minima prevista dai contratti collettivi o individuali per l’orario normale di lavoro, c.d. paga base, e

dagli elementi accessori della retribuzione, integrazioni di natura obbligatoria, corrisposte in maniera saltuaria o continuativa, in aggiunta alla retribuzione normale minima stabilita dalla contrattazione collettiva per l’orario normale di lavoro, tenuto conto delle diverse categorie e qualifiche. Essi comprendono non solo le maggiorazioni per lavoro straordinario, notturno o festivo, ma anche i cosiddetti scatti di anzianità, previsti con frequenza biennale e stabiliti in

numero massimo nei contratti collettivi, ai quali si ha diritto per il semplice permanere all’interno di una stessa qualifica per un periodo di tempo protratto;

i cosiddetti superminimi (assegni ad personam o aumenti di merito) che superano i minimi tariffari previsti dai contratti collettivi;

la 13esima mensilità o gratifica natalizia; le indennità, previste dalla contrattazione collettiva per compensare l’effettuazione

di lavori disagiati, gravosi, o cmq considerati penosi rispetto allo standard normale della prestazione. Un cenno merita anche l’indennità di mensa, corrisposta al lavoratore per sostituire il relativo servizio;

i premi collettivi di produzione, istituiti mediante contratti collettivi aziendali nell’intento di far partecipare il lavoratore ai benefici della produttività aziendale, instaurata attraverso indicatori sia tecnici che economici.

i premi di presenza, sempre più frequenti e rivolti a disincentivare l’assenteismo; le gratifiche e i premi individuali, con la funzione di assicurare un’integrazione

personale della retribuzione normale.Dall’aggiunta delle suddette integrazioni e delle maggiorazioni per lavoro straordinario, festivo e notturno, si arriva alla retribuzione complessivamente corrisposta al lavoratore, c.d. retribuzione globale.La ratio di questa struttura complessa della retribuzione, risiede nella volontà di aziende e contrattazione collettiva di differenziare la retribuzione, strutturandola in maniera da adattarla ai caratteri delle singole prestazioni, alle condizioni del lavoro ed al comportamento del lavoratore.

8. La retribuzione a cottimoNell’ambito della retribuzione a cottimo, prevista sempre dall’art. 2099 c.c., per la determinazione del corrispettivo, si tiene conto non solo del tempo impiegato, ma anche del risultato/rendimento fornito dal lavoratore nell’orario di lavoro in quel periodo di tempo.Come possiamo notare, quindi, la retribuzione a cottimo non esula dall’orario lavorativo (come magari avviene per quella a provvigione), bensì tiene conto di un secondo fattore, il risultato produttivo. Inizialmente questo tipo di retribuzione era prevista solo per i lavoratori autonomi come corrispettivo della locazione d’opera, in seguito è stata estesa anche al lavoro subordinato, ma non per determinare il contenuto della prestazione quanto per misurare la retribuzione in proporzione ad un risultato prestabilito: quindi il cottimo a pezzo o a misura veniva sostituito dal cottimo a tempo (cioè si viene pagati per quanto si riesce a produrre e a lavorare nell’arco di un tot di ore).

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(Per conoscenza, la retribuzione a cottimo puro o integrale è in realtà limitata al lavoro a domicilio, mentre nei contratti collettivi viene sempre utilizzato il cottimo misto, il quale prevede un minimo di paga base determinato a tempo, ed un a maggiorazione calcolato sul lavoro eseguito, c.d. utile di cottimo).Ma ancora nella retribuzione a cottimo il rischio di mancato o insufficiente lavoro grava sempre sul datore per ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro e quindi il risultato della prestazione, mentre grava sul prestatore solo per ciò che concerne la quantità di retribuzione in relazione alle singole unità di cottimo (non può infatti essere imputabile al lavoratore il difetto o lo scarto della produzione). Dunque nel sistema a cottimo, la retribuzione è commisurata sulla base della quantità della prestazione, a sua volta determinata sulla base dell’intensità del lavoro nell’unità di tempo, e non sulla base della sua durata. Il cottimo si configura allora come una maggiorazione integrativa della retribuzione fissa, calcolata a tempo: questa combinazione tra retribuzione a tempo (legata all’orario di lavoro) e retribuzione a cottimo (compensativa del rendimento) è la regola del sistema di cottimo misto, dominante nell’attuale prassi e contrattazione collettiva. Secondo l’art. 2100 c.c., il lavoratore deve essere retribuito a cottimo ogni volta che “in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è vincolato all’ osservanza di un determinato ritmo produttivo (è il caso della catena di montaggio), o quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione”. Il 2° comma invece stabilisce che l’imprenditore deve aumentare la retribuzione qualora vengano aumentati i ritmi di lavoro.Secondo, invece, l’art. 2101 c.c. i sindacati possono decidere che le tariffe di cottimo non divengano da subito effettive ma ci sia un periodo di prova: c.d. fase sindacale , cui segue un periodo definito: c.d. fase aziendale , in cui le tariffe iniziano ad operare regolarmente, e demandata all’imprenditore, che deve rendere note le tariffe (ossia lavorazioni da eseguire e relativo compenso unitario) tramite la bolla di cottimo, di modo che il lavoratore possa controllare i criteri di calcolo della propria retribuzione.La retribuzione a cottimo funge, quindi, da incentivo del rendimento, ma nei casi in cui il rendimento per unità di tempo dipenda da macchinari con tempi prefissati, serve solo a controllare che il lavoratore mantenga sempre uno stesso standard lavorativo. Questo vale non solo per il cottimo individuale, ma anche per quello collettivo, nel quale la retribuzione viene commisurata al risultato del lavoro e perciò al rendimento dell’intero gruppo.

9. La nozione di retribuzioneA questo punto è necessario precisare che non tutto ciò che il datore di lavoro eroga ai lavoratori fa parte della retribuzione in senso stretto. L’obbligatorietà dell’attribuzione, come sappiamo, è un requisito essenziale, che non può mancare, della retribuzione, mentre la predeterminatezza dell’ammontare e la continuità della corresponsione fungono da indici presuntivi di tale obbligatorietà. Perché si abbia retribuzione occorre quindi che la prestazione sia dovuta al lavoratore in via necessaria e non eventuale, come compenso di una specifica attività di lavoro ordinario o straordinario, oppure di un periodo di inattività (es. riposo) ricompreso nella durata convenzionale e non solo effettiva della prestazione. Mentre sono da escludere dall’area della retribuzione tutte le attribuzioni patrimoniali prive di un collegamento anche indiretto con lo svolgimento della prestazione lavorativa e perciò di natura eventuale e non necessaria. Anche le prestazioni assistenziali, che il datore può anche essere obbligato a fornire, eventualmente previste dai contratti collettivi, non sono prestazioni retributive, bensì erogazioni a scopo assistenziale. Questa definizione c.d. onnicomprensiva della retribuzione si rinviene anche negli artt. 2120 e 2121 c.c. che fanno riferimento a “tutte le somme corrisposte in dipendenza del

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rapporto di lavoro a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”.Peraltro, lo stesso art. 2120 c.c., nel disporre “salvo diversa previsione dei contratti collettivi…”, esprime una sorta di derogabilità della regola di onnicomprensività da parte dei contratti collettivi, sottolineando quindi la prevalenza dell’autonomia collettiva nella determinazione della composizione e del livello della retribuzione.

10. La nozione di reddito da lavoro dipendente a fini contributiviLa retribuzione, oltre a rappresentare l’obbligazione corrispettiva rispetto all’obbligazione dell’attività lavorativa e quindi come elemento del contratto di lavoro, è considerata dalla legge come base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali e come reddito imponibile ai fini fiscali. La precedente L. n°153/1969 stabiliva che la retribuzione ai fini previdenziali dovesse comprendere tutto ciò che veniva corrisposto dal datore di lavoro al lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro stesso. Il successivo D.lgs. n°317/1997 ha riformulato tale legge prevedendo invece che il reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali comprende tutti i redditi che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri. Quindi per reddito da lavoro dipendente non s’intendono più le sole somme previste come corrispettivo dell’attività lavorativa, ma anche quelle percepite dal prestatore a qualsiasi titolo da parte del datore di lavoro. Inoltre il decreto in questione rinvia la determinazione della base imponibile all’art. 48 del Testo Unico, secondo il quale il reddito è costituito da tutte le somme e i valori in genere a qualunque titolo percepiti, anche sotto forma di erogazioni liberali. Sono invece escluse dalla tassazione fiscale e dai fini previdenziali, le somme erogate a titolo di Trattamento di fine rapporto (TFR) e quelle erogate per incentivare l’allontanamento di un lavoratore, al lordo di qualsiasi contributo o trattenuta. La legge infine riconosce all’autonomia collettiva un ruolo determinante anche a fini previdenziali, in quanto rinvia ad essa la determinazione della nozione di retribuzione contributiva minima.

11. Il trattamento retributivo nelle ipotesi di sospensione del rapporto. Contratto di lavoro e rimedi sinallagmaticiL’obbligazione retributiva qualifica il contratto di lavoro come contratto a prestazioni corrispettive o sinallagmatico. A questa categoria di contratti si applicano le norme generali sui c.d. rimedi sinallagmatici, con cui viene tutelato l’interesse di entrambi i contraenti al reciproco adempimento delle rispettive prestazioni. Tra tali norme vi sono:

le norme sulla risoluzione per inadempimento (art. 1453 c.c. e ss.), le norme per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c. e ss.), le norme per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c. e ss.).

Tuttavia l’eccezione di inadempimento prevista dall’art. 1460 c.c. rappresenta l’espressione più influente e precisa del principio della corrispettività delle prestazioni, per effetto del quale si ha uno scambio non soltanto economico ma anche giuridico: si dice infatti che “un’obbligazione è causa dell’altra”. Ecco quindi che, essendo la funzione tipica del contratto lo scambio tra lavoro e retribuzione, tra le obbligazioni delle parti vi è un nesso, c.d. sinallagma, d’interdipendenza non solo genetica (attinente alla conclusione del contratto), ma altresì funzionale (attinente all’esecuzione del contratto).

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Ne consegue che nel contratto di lavoro non è mai assente il sinallagma genetico, perché essendo il rischio dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, per cause relative alla persona del lavoratore, a carico del datore di lavoro, dalla mancata prestazione, deriva comunque la conservazione sia dell’obbligazione retributiva che del posto di lavoro; di contro, nel contratto di lavoro non sussiste, necessariamente, il sinallagma funzionale. Sulla base di ciò, si potrà, allora, giungere alla sospensione delle rispettive obbligazioni solo quando, il lavoratore o il datore di lavoro, temendo che la controprestazione non sarà adempiuta, invocheranno l’eccezione di inadempimento, interrompendo automaticamente l’esecuzione del contratto e mettendosi al riparo dalle conseguenze dell’inadempimento del proprio debitore.Questo vale non solo nell’ipotesi di inadempimento imputabile (cioè per responsabilità di una delle parti), ma anche nell’ipotesi di impossibilità oggettiva sopravvenuta (cioè per forza maggiore o caso fortuito), in quella di eccessiva onerosità sopravvenuta (cioè per eventi straordinari ed imprevedibili), in quella di impedimento del prestatore (ad es. arresto del lavoratore) e nell’ipotesi di impedimento del datore (ad es. distruzione o inagibilità dell’azienda).In realtà, nel rapporto di lavoro può succedere che si verificano dei normali impedimenti temporanei, tali da sospendere e non estinguere l’obbligazione (art. 1256 c.c.). Nonostante ciò, l’impossibilità di recuperare la prestazione impedita e la conseguente impossibilità dell’adempimento tardivo (in relazione alla natura dell’oggetto), comportano il fatto che l’impossibilità sopravvenuta sia da considerare definitiva e totale. Perciò, alla conseguente risoluzione del contratto si accompagna la liberazione di entrambe le parti dalle rispettive obbligazioni, con l’obbligo di restituzione di quanto già ricevuto a titolo di corrispettivo (art. 1463 c.c.); nel caso del lavoro subordinato sarà possibile solo la restituzione della retribuzione eventualmente corrisposta in anticipo o la corresponsione per ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.). In conclusione,  i  casi  di  impossibilità  sopravvenuta  solo marginalmente  danno luogo alle normali conseguenze della risoluzione del contratto. Questa, infatti, è operativa soltanto per il futuro, in ragione dell’irripetibilità delle prestazioni rese e viene sostituita dalle vicende previste dalla legge o dall’autonomia contrattuale della sospensione del rapporto (artt. 2110, 2111 c.c.) oppure del recesso unilaterale (artt. 2118, 2119 c.c.).

12. La sospensione del rapportoNel nostro ordinamento si è affermato progressivamente il principio della c.d. traslazione sul datore del rischio dell’inattività del prestatore nei casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause fortuite o di forza maggiore attinenti alla persona del lavoratore. In un normale rapporto contrattuale, l’impossibilità sopravvenuta di non poter eseguire la prestazione non imputabile al debitore darebbe luogo alla risoluzione del contratto ed al venir meno delle rispettive obbligazioni delle parti. Nel rapporto di lavoro il discorso è invece diverso proprio in forza della traslazione del rischio, il quale trova espressione negli artt. 2110 e 2111 c.c., che dispongono la sospensione del rapporto di lavoro nelle ipotesi di impossibilità temporanea relative a:

Infortunio Malattia Gravidanza Servizio militare obbligatorio Puerperio Adempimento dei doveri costituzionali relativi alle pubbliche funzioni elettive Cariche sindacali, nazionali e provinciali Operazioni elettorali

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Stato di tossicodipendenza Permessi per la formazione

Se l’impossibilità sopravvenuta non attribuibile al prestatore è solo temporanea, l’art. 1463 c.c. dispone:

da un lato, la conservazione della retribuzione, oppure l’attribuzione di un’indennità, stabilita dai contratti collettivi;

dall’altro, la sospensione della prestazione e la conservazione del posto di lavoro, col conseguente divieto di licenziamento per il periodo stabilito dalle fonti.

Si tratta del cosiddetto periodo di irrecedibilità. Il licenziamento intimato durante tale periodo viene ritenuto non nullo ma temporaneamente inefficace. Alla fine di tale periodo e solo alla fine di esso, il datore potrà decidere se conservare il posto di lavoro o far cessare il rapporto di lavoro optando per il recesso unilaterale.

13. Malattia, infortunio, gravidanza e puerperioI casi più frequenti di impossibilità e sospensione dell’attività lavorativa, collegate alla persona del lavoratore, si hanno in caso di malattia, infortunio, gravidanza e puerperio (post parto), riconducibili alla tutela costituzionale della salute (art. 32 cost.) e della maternità (art. 37 cost.) Questi casi sono contemplati dall’art. 2110 c.c. e sono giustificativi dell’assenza del lavoratore: il datore di lavoro, inoltre, è tenuto a corrispondere ugualmente la prestazione retributiva o comunque un’indennità, salvo il caso in cui siano previste forme privatistiche di previdenza ed assistenza. Ma andiamo per ordine.a) In merito alle malattie, l’assicurazione contro di esse è, nel nostro ordinamento, obbligatoria ed è posta a carico del datore di lavoro e minimamente del prestatore. L’assistenza medica grava sul Servizio Sanitario Nazionale, mentre l’indennità è corrisposta dall’INPS. In tutto questo discorso, assume grande importanza l’accertamento dell’esistenza effettiva della malattia in (in qualsivoglia momento o su istanza del datore di lavoro, il quale potrà innescare la visita medica al domicilio del lavoratore, o dallo stesso ente previdenziale) che impedisce l’esecuzione della prestazione di lavoro, in virtù di un evidente conflitto di interessi:

quello del datore, a ricevere la prestazione lavorativa temporaneamente impedita, quello del prestatore, a tutelare la propria salute.

Il bilanciamento tra questi interessi, caratterizza la ratio dell’art. 5 stat. lav, che ha vietato gli accertamenti sanitari da parte di medici fiduciari del datore, per doppi fini.Questo interesse al controllo dell’infermità del lavoratore, coinvolge anche l’ente previdenziale, che si sostituisce al datore di lavoro nell’obbligazione retributiva, pagando al lavoratore un’indennità, che vale solo per gli operai. Tra l’altro gli operai sono esclusi dall’indennità per malattia per i primi 3 giorni lavorativi, al contrario degli impiegati che percepiscono tale indennità sin dal primo giorno. b) Discorso viene fatto per gli infortuni sul lavoro, salvo tener conto che l’assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie professionali non copre tutti i lavoratori, ma solo quelli addetti a determinate attività individuate dalla legge.c) Diversi, invece, sono i trattamenti economici e normativi connessi a maternità e paternità nonché il trattamento economico e normativo previsto nei casi di aspettativa dal lavoro per la cura di figli con handicap grave (lo vedremo meglio nel cap. 6°).

14. Altre ipotesi di sospensione del rapportoTra le altre cause di sospensione della prestazione per impossibilità temporanea del lavoratore, vanno ricordate quelle previste dall’art. 51, 3° comma, cost. in virtù del quale “chi è chiamato a ricoprire funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al

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loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”. L’articolo in esame tutela quindi tutti i soggetti chiamati a ricoprire cariche pubbliche elettive. Nello specifico, i membri del Parlamento europeo e nazionale, nonché i membri delle assemblee regionali, hanno diritto di aspettativa (conservazione del posto di lavoro) e la sospensione del rapporto di lavoro senza corresponsione della retribuzione. Lo stesso vale per gli amministratori di enti locali, i quali possono optare per lo stesso trattamento oppure decidere di assentarsi giustificatamente dal posto di lavoro per l’intera giornata in cui vi è la riunione del consiglio di appartenenza. Anche chi ricopre cariche sindacali nazionali o provinciali ha il diritto di aspettativa. Speciali permessi sono poi previsti/concessi per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, così come per i lavoratori coinvolti in operazioni elettorali, che hanno diritto a maggiorazioni retributive o a riposi compensativi per i giorni festivi impegnati nello svolgimento delle operazioni. Per ciò che concerne invece il servizio militare, dobbiamo attuare una distinzione tra:

la chiamata alle armi è prevista la sospensione del rapporto di lavoro senza diritto alla retribuzione, ma con conservazione dell’anzianità di servizio maturata; e

il richiamo alle armi, per cui vi è la sospensione del rapporto con diritto alla retribuzione.

Al servizio militare di leva sono equiparati il volontariato civile in Paesi in via di sviluppo ed il servizio civile degli obiettori di coscienza. Particolare è inoltre il caso di tossicodipendenza del lavoratore, il quale qualora voglia accedere a strutture di riabilitazione, ha diritto all’aspettativa, con sospensione del rapporto ed il venir meno della retribuzione, per tutto il periodo del trattamento e comunque non superiore a 3 anni. Inoltre non matura, in tal periodo, alcuna anzianità di servizio. Ai lavoratori, infine, sono riconosciuti 3 giorni l’anno per problemi di natura familiare, come morte o infermità grave del coniuge o del convivente, nonché di un parente entro il 2° grado; così come è riconosciuto loro il diritto a permessi per la percorsi formativi, in relazione ai quali la legge demanda alla contrattazione collettiva la definizione delle modalità di orario e di retribuzione dei lavoratori.

15. La mora credendi del datore di lavoroL’obbligazione retributiva, essendo di regola pecuniaria, è sempre possibile, tuttavia si può verificare l’ipotesi della mora del creditore di lavoro. L’art. 1217 c.c. - Mora credendi nelle obbligazioni di fare dispone che: “il creditore è costituito in mora mediante l’intimazione (ossia l’invito che un pubblico ufficiale rivolge al creditore per assolvere il suo obbligo) di ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla possibile. Il creditore viene quindi costituito in mora (essendo quella lavorativa un’obbligazione di facere) con la sola intimazione da parte del debitore di ricevere la prestazione o di “cooperare” per riceverla. Nel rapporto di lavoro, tale cooperazione prende il nome di substrato reale della prestazione lavorativa, e consiste nella predisposizione dei mezzi necessari alla sua esecuzione; si comprende perciò come la mancata predisposizione di tale substrato da parte del datore, identificandosi con il rifiuto di ricevere la prestazione e di corrispondere la retribuzione, si configuri come una ipotesi di mora del creditore-datore di lavoro. Ovviamente per essere costituito in mora, il creditore non deve avere un legittimo motivo che lo spinge alla mancata cooperazione, perché altrimenti la mora è esclusa e la prestazione diviene impossibile, facendo perdere al prestatore il diritto alla retribuzione, che viceversa conserva in caso di illegittimo motivo e quindi di mora credendi. L’art. 1207 c.c. precisa poi gli effetti della mora, ponendo a carico del datore di lavoro:

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il risarcimento del danno, in aggiunta alla retribuzione, il rischio di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause di forza maggiore.

Va precisato, infine, che la mora credendi, caratterizzata dal mancato adempimento dell’obbligazione di lavoro, si estingue nell’ipotesi in cui il datore tenga il prestatore a disposizione senza utilizzarne l’attività, ma corrispondendo regolarmente la retribuzione, perché l’imprenditore starà semplicemente esercitando il proprio potere direttivo.

16. L’impossibilità oggettiva temporanea della prestazione di lavoroOltre l’ipotesi di mora (cioè della volontà dell’imprenditore a non cooperare per l’esecuzione della prestazione lavorativa e quindi a non corrispondere la relativa retribuzione), la sospensione dell’attività aziendale può dipendere anche da fatti direttamente o indirettamente riconducibili all’organizzazione produttiva dell’impresa, ma non imputabili all’imprenditore (es. cause di natura tecnico-funzionale, mancanza di energia, interruzione del funzionamento di macchinari ecc). L’impossibilità temporanea della prestazione determina la sospensione del rapporto senza diritto del prestatore alla retribuzione. Questa regola è però parzialmente derogata, prevedendosi che, in caso di sospensione di lavoro per fatto dipendente dal principale, l’impiegato ha diritto alla retribuzione normale; tuttavia, si tratta di una deroga più apparente che reale, in quanto la conservazione della retribuzione è subordinata alla volontà dell’imprenditore, il quale può benissimo liberarsi da tale obbligo, optando per la risoluzione anziché per la sospensione del rapporto. In ogni caso la materia trova una più ampia regolamentazione nei contratti collettivi, i quali disciplinano gli effetti della sospensione dell’attività produttiva da parte dell’azienda, ponendo a carico del datore le sospensioni di breve durata (o soste), che quest’ultimo è obbligato a retribuire entro il limite massimo di due ore giornaliere. Oltre tale limite, il datore è libero di “mettere in libertà” i lavoratori senza essere più obbligato al pagamento della retribuzione.Un rimedio a questa conseguenza negativa per i lavoratori, a cui viene negata la retribuzione, può essere costituito dal ricorso, per quelle imprese cui si applica il relativo trattamento, alla Cassa Integrazione Guadagni (che vedremo meglio nel cap.12°).

17. Sinallagma genetico e sinallagma funzionaleIn questo paragrafo vi è semplicemente un riassunto di quanto trattato nel capitolo in merito al sinallagma, ossia un nesso di reciprocità tra l’obbligazione del datore di lavoro e l’obbligazione del lavoratore, esistente anche nel momento in cui la retribuzione viene ugualmente offerta dal datore di lavoro, ma manca la prestazione lavorativa corrispondente per svariati motivi (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, esercizio di diritti sindacali, ecc.).

CAP. 6°: IL LAVORO DELLE DONNE E DEI MINORI

1. La tutela differenziata ed il principio costituzionale della parità di trattamentoAl tema della tutela e del riequilibrio della posizione contrattuale debole del lavoratore, va ricondotta anche la tutela differenziata del lavoro della donna e dei minori (art. 37 cost.), inerente alla loro specifica condizione d’inferiorità socio-economica, nonché all’esigenza di una particolare attenzione all’integrità psico-fisico dei minori ed a particolari occasioni della vita delle donne. L’art 37 Cost. ha introdotto, oltre i tradizionali obiettivi protettivi, il principio della tutela paritaria, rivolta a garantire ai minori e alle donne la parità di trattamento rispetto ai lavoratori adulti di sesso maschile. Più specificatamente:

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la tutela differenziata del lavoro femminile e minorile persegue l’obiettivo di regolare e controllare le condizioni di lavoro e va ricondotta alla tutela dell’integrità fisica morale del lavoratore. La legge infatti interviene per assicurare che l’esecuzione della prestazione non pregiudichi la capacità di lavoro e la salute;

la tutela paritaria persegue, invece, l’obbiettivo della parità di trattamento tra lavoratori, lavoratrici, maggiorenni, minorenni, e va ricondotta, sia pure indirettamente, al principio d’uguaglianza (art. 3 cost.) del quale, l’art. 37 cost. costituisce una specificazione riferita appunto al rapporto di lavoro e, come tale, limitativa dell’autonomia contrattuale.

Ecco che allora l’art.37 della Costituzione, norma dotata di efficacia precettiva immediata, prevede una tutela assoluta delle due categorie in questione, sancendo non solo la parità di trattamento e la fissazione della soglia di età lavorativa, ma salvaguardando le qualità personali di questi lavoratori. Ciò comporta che il datore di lavoro potrà di certo applicare trattamenti differenziati per minori e donne, ma solo a loro vantaggio, essendo impossibile discriminare negativamente le categorie.Alla donna devono essere infatti garantite le condizioni di lavoro idonee all’adempimento della sua funzione familiare e alla protezione della maternità, oltre che gli stessi diritti rispetto ai lavoratori maschi adulti, in particolare il diritto ad un’uguale retribuzione a parità di lavoro. Stesso discorso per i lavoratori minorenni.Evidentemente, questa tutela differenziata persegue l’obiettivo di controllare le condizioni di lavoro, in funzione della temporanea riduzione della capacità lavorativa di questi soggetti e/o della loro debolezza contrattuale, rifacendosi in questo senso alla tutela delle condizioni di lavoro, sancita dall’art. 2087 c.c.

2. Il lavoro minorileL’obiettivo della tutela della salute e della capacità lavorativa, intesa come attitudine fisiologica della persona alla prestazione di lavoro, è alla base della normativa che tutela il lavoro dei minori e che ha lo scopo di:

assicurare un’età minima adeguata di ammissione al lavoro; proibire l’occupazione di giovani di età inferiore ai 18 anni in attività lavorative che

risultino particolarmente gravose.L’obiettivo quindi di scongiurare lo sfruttamento giovanile e tutelare la salute dei giovani è stato riconosciuto non solo dall’OIL e dall’ONU, ma anche dall’UE. Nel nostro ordinamento, secondo quanto disposto dalla L. n°977/67, poi modificata dal D.lgs. n°345/1999, bisogna distinguere nell’ambito dei minori di 18 anni tra:

bambini, ossia coloro che non hanno ancora compiuto il 15 anno di età, ai quali è fatto espresso divieto di esercitare un’attività lavorativa, se non per fini culturali, artistici, sportivi, pubblicitari e tutelando comunque la propria integrità psico-fisica; e

adolescenti, ossia coloro compresi tra 15 e 18 anni di età, ai quali è, invece, permesso l’accesso al lavoro, in quanto ultraquindicenni, ma a patto che terminino il periodo di istruzione obbligatoria.

Tra l’altro questo numero ristretto di lavoratori non può in alcun modo esercitare attività lavorative particolarmente pericolose, faticose o insalubri e comunque sarà sottoposto ad una visita medica volta ad accertarne la capacità psico-fisica di svolgere un lavoro. Inoltre gli adolescenti non possono in alcun modo eccedere un determinato orario lavorativo o svolgere lavoro notturno. Il contratto posto in essere dalle parti, in violazione delle norme imperative di legge, è nullo, in quanto l’oggetto risulta illecito e pertanto sarà inefficace, con l’applicazione dell’art.2126 c.c., il quale prevede la retribuzione per la prestazione indebitamente offerta dal minore.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:

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La L. n°296 del 2006 ha elevato l’età minima di ammissione al lavoro dai 15 ai 16 anni, mentre è rimasto invariato l’obbligo formativo fino ai 18 anni.

3. La tutela paritaria della donna: la legge n°903 del 1977 In tema di tutela paritaria della posizione della donna lavoratrice nel mercato del lavoro, la norma fondamentale è quella sancita dall’art. 37 cost. ma anche le norme internazionali, relative all’argomento, hanno contribuito a rafforzare il divieto delle discriminazioni di natura prevalentemente retributiva nei confronti della donna lavoratrice, alla quale viene anche riconosciuta la parità dei diritti rispetto ai lavoratori maschi.Un decisivo rafforzamento di questa tutela paritaria si è avuta col passare del tempo ed il susseguirsi di diversi interventi legislativi, che hanno portato alla completa parificazione tra i sessi in ambito lavorativo, ed in particolare dagli anni ’70 in poi, dove dietro la spinta di movimenti femminili, venne messo in rilievo il problema generale della “condizione femminile” con riferimento all’occupazione e alle norme di protezione della donna, che si risolvevano particolarmente svantaggiose per essa, comportando solo un aumento dei costi di manodopera femminile per l’impresa e di conseguenza un diminuzione del suo impiego. In questa direzione, la normativa determinante è stata rappresentata dalla L. n°903/1977, che ha sostituito la tradizionale tutela differenziata con la parità di trattamento ed ha vietato qualsiasi discriminazione nell’occupazione o nella formazione, salvo i casi tassativamente previsti di:

mansioni particolarmente pesanti individuate dalla contrattazione collettiva, attività di moda, arte e spettacolo in cui il sesso femminile è essenziale per la

prestazione. La donna è inoltre tutelata anche sotto il punto di vista:

retributivo , dove per l’esecuzione di uno stesso lavoro devono essere usati parametri uguali, riferiti alle prestazioni richieste e non a quelle eseguite; e

dell’inquadramento professionale , potendo la donna far carriera ed acquisire qualifiche superiori al pari dell’uomo.

La legge in questione ha poi modificato anche l’art.15 stat. lav. che ha esteso il divieto di discriminazione e le relative sanzioni di nullità per motivi di sesso, razza e lingua. Una parità di trattamento è stata, poi, prevista anche ai fini previdenziali, per ciò che riguarda gli assegni familiari e le pensioni di reversibilità. A questo riguardo va detto che la legge in esame ha esteso la tutela contro i licenziamenti anche nei confronti delle donne fino alla stessa età prevista per il pensionamento degli uomini, sebbene le soglie di pensionamento delle donne siano sempre state inferiori di quelle degli uomini. Per ovviare a questa differenza, la L. n. 903/1977 ha inizialmente attribuito loro la facoltà di “optare” (quindi di scegliere) per il pensionamento alla stessa età fissata per l’uomo, prevedendo per le lavoratrici in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia il diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino ai limiti di età previsti per gli uomini e prolungando quindi la tutela contro i licenziamenti illegittimi. Ma la formula così impostata fu ritenuta incostituzionale dalla Corte perché violante il principio d’uguaglianza (art. 3 cost.) e disponendo che la tutela contro i licenziamenti dovesse estendeva fino alla stessa età prevista per il pensionamento dell’uomo, senza che la donna dovesse manifestare alcuna volontà (“optare”) in tal senso. Successivamente, il legislatore è intervenuto nuovamente stabilendo il principio generale secondo cui la tutela contro i licenziamenti non si applica ai lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici che non hanno esercitato il diritto d’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, prevista dalle leggi in materia, parificando così uomini e donne.Infine la L. 903/1977, riconoscendo alcuni diritti al padre lavoratore, ha in un certo senso alleggerito il costo del lavoro femminile, data l’eventuale gravidanza della donna, in quanto

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solo alla stessa inizialmente venivano riconosciuti diritti legati alla prole, il che comportava un sacrificio notevole per il datore di lavoro.4. La tutela differenziata delle donne: le lavoratrici madriIn merito alla tutela differenziata della capacità lavorativa, vanno segnalate anche le norme relative alla tutela fisica ed economica della lavoratrici madri, contenute in diversi documenti legislativi che si sono succeduti nel tempo, da ultimo il D.lgs. n°151/2001.Anzitutto è sancito il divieto di licenziamento della lavoratrice (sanzionato a pena di nullità) dal momento d’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, salvo taluni casi:

giusta causa dovuta a colpa grave della lavoratrice, cessazione dell’attività aziendale, risoluzione del rapporto di lavoro, per cui la lavoratrice era stata assunta, per scadenza

del termine contrattuale, esito negativo della prova.

La legge in questione prevede poi che la donna non può svolgere l’attività lavorativa nei 2 mesi precedenti la data presunta del parto e nei 3 mesi successivi ad esso. Si può comunque optare per lo spostamento di tale periodo, da un mese prima del parto sino a 4 mesi dopo lo stesso (periodo protetto). Ha comunque sempre diritto alla retribuzione, pagata nella misura del 80%, ma dall’INPS e non dal datore. Questo periodo di sospensione lavorativa viene definito come congedo di maternità e viene computato ai fini dell’anzianità di servizio. La donna non può comunque svolgere lavori faticosi, dannosi alla salute e pericolosi per se stessa e per il bambino, e qualora già li svolgesse avrà diritto ad un cambio momentaneo di mansione per tutta la gravidanza e fino a 7 mesi dopo il parto, salvaguardando in ogni caso il precedente trattamento retributivo.

5. La disciplina paritaria dei congediRecenti interventi legislativi hanno introdotto una nuova forma di parificazione sociale dei sessi, prevedendo una serie di diritti, legati alla figura di genitori, anche a favore dei padri – lavoratori al fine di occuparsi dei doveri familiare. Si assiste, insomma, ad un profondo mutamento culturale e giuridico, che riconosce l’importanza delle esigenze affettive e sociali di genitori e di figli, in quanto situazioni meritevoli di tutela. Il legislatore, oltre alle anzidette norme a tutela della donna lavoratrice, ha infatti previsto un’ampia disciplina che favorisce l’utilizzo di un ulteriore periodo “facoltativo” di astensione dal lavoro, con particolare riguardo alle condizioni personali della lavoratrice o lavoratore ed alle esigenze dei figli.La L. n°2000/53, ormai inclusa nel Testo Unico, ha riconosciuto:

al padre lavoratore il diritto di astenersi dal lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio nel caso di: morte o grave infermità della madre, abbandono da parte di quest’ultima, affidamento esclusivo, c.d. congedo di paternità;in questi casi, si applicano al padre lavoratore le norme che prevedono la corresponsione di un’indennità pari all’80% della retribuzione, il computo del periodo di astensione nell’anzianità di servizio e la tutela contro il licenziamento fino al compimento di 1 anno di età del bambino.

ad entrambi i genitori il diritto ad un’astensione facoltativa, c.d. congedi parentali, che può essere goduto nei primi 8 anni di età del bambino e può riguardare un periodo di astensione (continuativo o frazionato) di 6 mesi per la madre e 7 per il padre (10 mesi se vi è un unico genitore), con il limite massimo complessivo di 10 mesi, elevato ad 11 se il padre ha fruito di almeno 3 mesi.

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al genitore il diritto al 30% della retribuzione fino al 3°anno di età del bambino e per un periodo complessivo di non oltre 6 mesi, dai 3 mesi all’8° anno di età si ha diritto a tale retribuzione solo se il reddito individuale è inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione.

Il datore di lavoro, tra l’altro, per fronteggiare i congedi parentali può assumere con contratto a termine o tramite somministrazione un lavoratore in sostituzione, avendo diritto a degli sgravi contributivi. Per quanto riguarda poi le assenze dei genitori per malattie del bambino: entrambi i genitori hanno il diritto di astenersi alternativamente dal lavoro durante le malattie del bambino d’età inferiore ad otto anni, dietro presentazione di un certificato medico. I lavoratori che usufruiscono di tutte queste astensioni hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per i periodi previsti, nonché a rientrare nelle mansioni precedenti a tali periodi. E’ previsto, in aggiunta, un periodo di 3 giorni l’anno per morte o infermità grave del coniuge o del convivente, o di un parente entro il 2° grado (come prima visto a proposito delle ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro - paragrafo 14 del cap. 5°). Può essere richiesto anche un congedo non retribuito per un periodo di addirittura 2 anni, in cui non si matura alcuna anzianità di servizio e previdenziale, ma si ha diritto alla conservazione del posto. Infine, la lavoratrice o il lavoratore conviventi con un figlio affetto da un grave handicap hanno diritto ad un periodo biennale di congedo, durante cui spetta loro un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione.

6. Parità tra i sessi e speciali occasioni di tutela delle donneIn conclusione, si può affermare che per ciò che attiene ai figli, l’attuale disciplina ha posto sullo stesso piano il padre e la madre. Il genitore di sesso maschile, infatti, non è più visto come accessorio nella cura della prole, ma come soggetto che si occupa dei figli al pari della madre. Le recenti discipline di matrice comunitaria e internazionale hanno, inoltre, rafforzato la tutela della madre in relazione ai lavori pericolosi, che possono esporla a fattori chimici, fisici, altamente nocivi per la sua salute, stabilendo che può legittimamente rifiutarli; in relazione alle delicate condizioni in cui si trova una donna lavoratrice gestante, puerpere o in periodo di allattamento; in relazione all’orario di lavoro per il quale hanno vietato l’attribuzione alle donne del lavoro notturno (che va dalle 24:00 alle 6:00) dal momento dell’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di 1 anno di età del bambino, e hanno sancito la non obbligatorietà al lavoro notturno per la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a 3 anni, o per la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio di età inferiore a 12 anni.

7. Le azioni positive e le pari opportunità tra i sessiUn particolare rafforzamento della tutela paritaria della donna nel lavoro si ebbe con la L. n°125/1991, intervenuta ad integrare la L. n°903/1977, soprattutto sotto il profilo delle pari opportunità di accesso al mercato del lavoro. La legge del 1977 prevedeva, infatti, una tutela anti-discriminatoria prettamente repressiva che imponeva di fatto il divieto di determinati comportamenti di sfavore, ma che appariva sufficientemente inadeguata a rimuovere gli ostacoli che di fatto il mercato e l’organizzazione del lavoro ponevano al raggiungimento della concreta uguaglianza tra lavoratore e lavoratrici. In particolare gli ostacoli di cui si parla emergono dalla constatazione che le donne dalla c.d. sottorappresentazione delle donne, cioè che in un ambiente lavorativo la percentuale di “donne al lavoro” (effettivamente assunta) non corrisponde alla percentuale di “donne presenti nel mercato del lavoro” (da dover assumere) che abbiano quei requisiti professionali richiesti.

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Il legislatore è allora intervenuto promuovendo l’attuazione di misure apposite, note come azioni positive, rivolte, appunto, a rimuovere i suddetti ostacoli e indirizzati a:

favorire, tramite anche modifiche dell’organizzazione e del tempo di lavoro, il riequilibrio delle responsabilità familiari e professionali tra i due sessi;

rafforzare la presenza femminile nel mercato del lavoro nelle posizioni di elevata professionalità ed in generale nei settori in cui essere risultino essere sottorappresentate (ovverosia meno presenti di quanto dovrebbero essere se si considerasse la proporzione uomini/donne), attraverso azioni positive come ad es. la previsione in un concorso di una certa quota di posti riservata alle donne.

Dobbiamo però sottolineare che tali azioni positive non possono essere pretese dalle donne nei luoghi di lavoro, essendo una facoltà incentivata dal datore di lavoro e non un obbligo. E’ stato infine istituito presso il Ministero del Lavoro, il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, al quale sono attribuiti poteri di promozione delle azioni positive e di gestioni di fondi per il finanziamento delle stesse, oltre che di controllo e di garanzia della corretta applicazione della normativa antidiscriminatoria.La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, tra l’altro, ha chiarito come tutte queste normative a favore della donna non debbano finire con la discriminazione dell’uomo nell’accesso dei posti di lavoro, ossia devono attuare una discriminazione pur di favorire a tutti i costi la donna.

8. Il rafforzamento della tutela antidiscriminatoria(Comprensivo dell’AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010 )La disciplina antidiscriminatoria contenuta nella L. n°903/1977 ha subito diverse variazioni per un maggior perfezionamento, tra le quali quella derivante dal D.lgs. n°145 del 2005.Da tali cambiamenti è innanzitutto derivata, a) la distinzione tra:

discriminazione diretta, ovvero “qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque attuando il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un altro lavoratore in situazione analoga”;

discriminazione indiretta, ovvero “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, patto o comportamento apparentemente neutri, mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso; salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, o che l’obbiettivo sia legittimo e che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati”.

b) Sono state colmate delle gravi lacune, lasciate dai precedenti provvedimenti, in tema di molestie: comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse al sesso, con il solo scopo di violare la dignità della persona (lavoratore o lavoratrice) e di creare un clima intimidatorio; e in tema di molestie sessuali: comportamenti a sfondo sessuale, espressi in forma fisica, verbale e non verbale, subiti da una lavoratrice o lavoratore per il fatto di avere rifiutato l’autore degli stessi. A consolidamento di ciò si prevede poi la nullità degli atti adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti costituenti molestia.c) In tema di tutela giudiziaria ed in particolare in tema di prova del trattamento discriminatorio subito, il relativo onere è attenuato ma non eliminato; più precisamente se il lavoratore o lavoratrice fornice elementi certi idonei a fondare la presunzione della discriminazione subita per sesso, l’onere della prova definitiva si sposta sul convenuto (che può essere il datore di lavoro, un/una collega, ecc.).

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d) Anche in ambito processuale sono stati apportati dei miglioramenti piuttosto efficaci in materia di discriminazioni che hanno portato alla previsione di un procedimento d’urgenza, simile a quella previsto per la repressione delle condotte antisindacali, con l’attribuzione dell’azione di tutela contro il comportamento discriminatorio, non al sindacato ma al lavoratore o lavoratrice, assistiti dai Consiglieri di parità, istituiti presso le varie sedi delle “Commissioni per le politiche del lavoro”. Tali consiglieri possono anche sostituire il lavoratore o la lavoratrice, dietro loro delega, ed intervenire nei giudizi promossi dagli stessi; in alcuni casi di particolare urgenza è poi possibile che i consiglieri ricorrano in proprio, senza cioè alcuna delega, come nell’ipotesi di discriminazione collettiva dove individuare in maniera immediata e certa i lavoratori direttamente lesi non è facile. Al termine della procedura giudiziale, se viene accertata l’esistenza della discriminazione, il giudice ordina al datore di lavoro di rimuoverla; se il datore non rispetta l’ordine incorre in sanzioni penali (ancora una volta in analogia con quanto previsto in tema di condotta antisindacale).Infine l’accertamento di comportamenti discriminatori può causare la revoca dei benefici finanziari di cui gode l’imprenditore o la risoluzioni di contratti di appalto con enti pubblici.AGGIORNAMENTO – RIFORMA MONTI 2012Al fine di promuovere una maggiore inclusione delle donne in contesti in cui la partecipazione delle stesse è limitata rispetto agli uomini, sono previsti numerosi interventi aventi l’obiettivo di diminuire il divario tra i due generi, favorire l’ingresso nel mercato del lavoro per migliaia di donne, garantire maggiori servizi e una organizzazione del lavoro tali da consentire ai genitori una migliore assistenza dei propri figli, rafforzando contestualmente la tutela della genitorialità.Si introduce, a favore di tutti i lavoratori, per quanto il fenomeno riguardi prevalentemente le lavoratrici, la disposizione volta a contrastare la pratica delle cosiddette “dimissioni in bianco”, con modalità semplificate rispetto a quelle g i à previste, e senza oneri per il datore di lavoro e il lavoratore. Inoltre, viene rafforzato il regime della convalida delle dimissioni rese dalle lavoratrici madri. In particolare:

- la prima sezione della norma estende la convalida anche all’ipotesi della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, che precedentemente veniva utilizzata per aggirare la disciplina delle dimissioni. Si estende da uno a tre anni di vita del bambino (con corrispondenti adeguamenti per l’ipotesi di adozione o affidamento, anche internazionale) il periodo entro il quale le dimissioni della lavoratrice o del lavoratore devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro per poter acquisire efficacia. Rimane inalterato, invece, il periodo coperto dal divieto di licenziamento, nonché il periodo, che è sempre di un anno dalla nascita del bambino, previsto dal D.lgs. n. 151/2001, entro il quale le dimissioni, se rese dalla lavoratrice o dal lavoratore che fruisca del congedo di paternità, danno luogo alla spettanza delle indennità previste per il caso di licenziamento, cioè in pratica all’indennità sostitutiva del preavviso, come se si tratti di dimissioni rese per giusta causa;

- la seconda parte della disposizione comporta, ai fini dell’efficacia delle dimissioni e della risoluzione consensuale, che la volontà risolutoria venga espressa attraverso modalità comunque volte ad accertare l’autentica genuinità e contestualità della manifestazione di volontà del lavoratore di risolvere il rapporto di lavoro. Ciò avverrà tramite modalità alternative tra loro, o che le parti possano rivolgersi al servizio ispettivo del Ministero del Lavoro per la convalida o con la sottoscrizione di un’apposita dichiarazione in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro che il datore è già tenuto ad inviare al Centro per l’impiego; con la precisazione che, effettuandosi tale comunicazione in forma telematica, lo scarico della ricevuta di trasmissione non comporta tempi di ulteriore

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attesa. Altre modalità, sempre funzionali alla semplificazione, potranno essere individuate con decreto ministeriale anche in funzione dell’evoluzione dei mezzi tecnologici e informatici.

In ogni caso è prevista una sanzione amministrativa qualora risulti l’abuso del foglio firmato in bianco, fermo restando l’eventuale applicazione della sanzione penale, ove possano riscontrare gli estremi di reato. Qualora emerga evidenza di dimissioni in bianco, le dimissioni sono da considerarsi licenziamento discriminatorio con tutte le conseguenze che questo comporta.Per una maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’intero della coppia, si sono poi previste alcune modifiche al T.U. sulla maternità e l’introduzione del congedo di paternità obbligatorio, in linea con quanto previsto in altri paesi europei. In particolare, il congedo di paternità obbligatorio è riconosciuto al padre lavoratore entro 5 mesi dalla nascita del figlio e per un periodo pari a tre giorni continuativi. Infine per promuovere la partecipazione femminile al mercato del lavoro, si intende disporre l’introduzione di voucher per la prestazione di servizi di baby-sitting. Le neo mamme avranno diritto di chiedere la corresponsione di detti voucher dalla fine della maternità obbligatoria per gli11 mesi successivi in alternativa all’utilizzo del periodo di congedo facoltativo per maternità. Il voucher èerogato dall’INPS. Tale cifra sarà modulata in base ai parametri ISEE della famiglia. Le risorse a sostegno di questo intervento saranno reperite nell’ambito del già citato fondo per il finanziamento di interventi a favore dell’incremento dell’occupazione giovanile e delle donne.

CAP. 7°: L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

1. Modalità di estinzione. L’impossibilità sopravvenuta della prestazioneIl rapporto di lavoro, come ogni vicenda umana, ha un inizio ed anche una fine. L’effetto estintivo può essere riconducibile:

ad un solo contraente, e allora si ha recesso unilaterale (art. 1373 c.c.), dimissioni o licenziamento;

alla volontà di entrambi, e allora si ha risoluzione consensuale (artt. 1321 – 1372 c.c.).

Ma i rapporti obbligatori possono anche risolversi per effetto di una impossibilità sopravvenuta della prestazione, che abbia carattere definitivo o temporaneo, ma talmente prolungata da poter essere assimilata all’effetto estintivo. Tale disciplina riguarda tanto il rapporto obbligatorio in linea generale, quanto il rapporto di lavoro nello specifico, seppur con notevoli accorgimenti in quanto parlare di impossibilità in senso è rigido comporta qualche difficoltà. Ma andiamo per ordine. Anzitutto dal contesto contrattuale, come sappiamo, emergono due tipologie di obbligazioni:

la prestazione retributiva del datore di lavoro, è molto improbabile che divenga impossibile poiché di natura pecuniaria;

la prestazione lavorativa del lavoratore, è più probabile che divenga impossibile, poiché elastica e con un contenuto in parte da determinare.

Ma i casi in cui possa verificarsi una risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa del lavoratore, non sono però assoluti, vanno analizzati nel dettaglio:

non è detto che un’inidoneità fisica permanente del lavoratore porti ad una estinzione definitiva del rapporto di lavoro e quindi alla risoluzione, essendo possibile un cambio di mansioni più adeguate alle nuove esigenze del lavoratore;

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non è detto che il perimento di uno stabilimento porti una estinzione definitiva del rapporto di lavoro e quindi alla risoluzione, essendo possibile l’assegnazione ad altro stabilimento.

Questi esempi ci aiutano a comprendere che nulla va dato per scontato, neanche in caso di vis maior=forza maggiore o factum principis=provvedimento delle Autorità, in quanto in tal caso dobbiamo distinguere tra:

eventi concernenti l’impresa e NON la persona dell’imprenditore, es. distruzione dei locali aziendali, sequestro dell’azienda, ecc.;

eventi concernenti la persona del lavoratore, es. detenzione definitiva, assoluta incapacità permanente, morte del prestatore, ecc.

2. La risoluzione consensuale. La risoluzione giudiziale per inadempimentoUno degli gli strumenti giuridici di risoluzione del rapporto di lavoro, riconducibile alla volontà e all’autonomia negoziale dei contraenti, è la risoluzione consensuale, con la quale il datore e il lavoratore pervengono, di comune accordo (artt. 1321 e 1372 c.c.), all’estinzione del rapporto.Infatti così come le parti si sono obbligate reciprocamente, così possono decidere di dismettere/sciogliere il proprio rapporto di lavoro e liberarsi dalle relative obbligazioni. Per evitare, però, che tale strumento divenisse uno strumento idoneo ad aggirare i limiti legali piuttosto rigidi previsti dalla disciplina dei licenziamenti, divenuta nel tempo sempre più restrittiva, e quindi apparisse come un negozio illegale in frode alla legge (art. 1344 c.c.), la giurisprudenza ha deciso di valutare, secondo criteri molto rigorosi, la manifestazione della volontà delle parti, in relazione alla risoluzione consensuale, prevedendo la nullità del negozio (apparentemente di mutuo consenso ma di fatto di licenziamento), per il solo fine di allontanare il lavoratore. Inoltre, avendo il c.c. previsto il recesso unilaterale, che può essere esercitato anche dal contraente adempiente nei confronti di quello inadempiente, non è ipotizzabile pensare che sia ammissibile il ricorso alla “risoluzione giudiziale per inadempimento”, in quanto quest’ultima tutela, in maniera più macchinosa, lo stesso interesse del recesso e pertanto risulterebbe inutile.3. Il recesso nel rapporto di lavoro: i reali interessi in giocoIl recesso è un negozio giuridico:

unilaterale , è posto in essere da una sola parte contrattuale; recettizio , è diretto a produrre effetti nella sfera giuridica dell’altra parte, e la sua

validità occorre la comunicazione all’altra parte contrattuale e l’effettiva conoscenza da parte di quest’ultima.

Il recesso volontario ha quindi la funzione: di delimitare nel tempo l’efficacia del contratto, attraverso la fissazione del contraente

diun termine allo scadere del quale il rapporto cesserà di esistere, la c.d. disdetta, e di perseguire l’interesse alla risoluzione unilaterale.

L’ordinamento affida, quindi, ad ognuno dei contraenti il potere di determinare la durata del rapporto, insieme alla facoltà di recedere dal contratto con preavviso, c.d. recesso ad nutum, anche contro la volontà dell’altro contraente. Tutto questo per quanto riguarda il “recesso ordinario” (con preavviso), il quale differisce dal “recesso straordinario” (senza preavviso), che si configura in presenza di anomalie funzionali del rapporto obbligatorio ed ha effetto immediato. Ma ancora nel rapporto di lavoro il recesso può provenire tanto:

dal lavoratore, e allora parleremo di dimissioni, quanto dal datore di lavoro, e allora parleremo di licenziamento.

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Da questa distinzione e quindi dalla distinzione dei diversi interessi in gioco, è facile comprendere come l’esigenza di tutelare il lavoratore in quanto contraente debole e cittadino socialmente sottoprotetto, abbia indotto il legislatore a sottoporre il recesso del datore a limiti formali e sostanziali.

4. Il recesso ad nutum e l’obbligo del preavvisoIl codice civile ha confermato il principio generale della libera recedibilità o recesso ad nutum (cioè una decisione presa in modo assolutamente libero da parte della persona che l'ha adottata) di entrambe le parti dal contratto di lavoro, prevedendo, però, per la parte recedente l’obbligo di dare preavviso ma senza doverlo giustificare, secondo quanto previsto dai contratti collettivi, o in mancanza secondo quanto previsto dagli usi (art. 2118 c.c.). La ratio del preavviso sta nel fatto che la cessazione del rapporto causa alla parte avversa danni di vario genere, infatti sempre secondo l’art. 2118 c.c., qualora il recedente ometta di dare preavviso, dovrà pagare l’indennità di mancato preavviso, corrispondente alle retribuzioni che sarebbero spettate per il periodo di preavviso. Tale indennità è quindi risarcitoria e non sostitutiva del preavviso. Una questione incontra opinioni discordanti in dottrina è quella della natura reale oppure obbligatoria del preavviso. Appare più coerente con la ratio della norma (la tutela della prosecuzione del rapporto di lavoro) l’adempimento specifico dell’obbligo del preavviso (natura obbligatoria quindi) piuttosto che il pagamento dell’indennità (natura reale).

5. Il recesso per giusta causaIl recesso, inoltre, può essere esercitato da un contraente anche senza preavviso (c.d. recesso straordinario) e con effetto immediato, a norma dell’art. 2119 c.c. nel momento in cui sussista una giusta causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. La giusta causa si configura quindi come un semplice presupposto che esonera dal preavviso, e deve ovviamente essere reale e non fittizia, altrimenti dovrà essere ugualmente corrisposta l’indennità di mancato preavviso. Inoltre, sempre secondo l’art. 2119 c.c., va notato che in caso di dimissioni per giusta causa (es. un fatto dipendente dal datore), al lavoratore con contratto a tempo indeterminato spetta comunque l’indennità di mancato preavviso.6. Il licenziamento individuale: la disciplina limitativa dei licenziamentiLa disciplina codicistica sin qui descritta riguarda le vicende relative le dimissioni del lavoratore, il cui potere unilaterale di recedere dal rapporto di lavoro conosce il solo limite del preavviso. Per quanto riguarda, invece, il datore di lavoro, in attuazione degli artt. 3, 4, 41 cost. che individuavano nei lavoratori una categoria socialmente sottoprotetta, vi sono stati diversi interventi legislativi volti ad eliminare il recesso volontario, c.d. ad nutum, dell’imprenditore (praticamente il licenziamento) ed a favorire il prestatore tramite l’introduzione del c.d. recesso vincolato.Il recesso vincolato pone a carico del datore di lavoro un generale obbligo di giustificazione del recesso e predispone in favore del lavoratore, una tutela:

reale, che impone al datore la reintegrazione obbligatoria nel posto di lavoro “+” il risarcimento del danno subito,

obbligatoria, che impone al datore la scelta tra la riassunzione del lavoratore “o” il risarcimento del danno subito (indennità o penale a titolo risarcitorio).

Il primo degli anzidetti interventi legislativi, scaturito da accordi interconfederali, è costituito dalla L. n°604/1966 sui licenziamenti individuali, in forza della quale il potere di recesso del datore era sottoposto a vincoli formali (come ad es. la comunicazione scritta) e al limite sostanziale del giustificato motivo o della giusta causa; in caso di licenziamento ingiustificato, il datore era infatti obbligato alla riassunzione, oppure al pagamento di una penale a titolo

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risarcitorio del danno (c.d. tutela obbligatoria, appena prima vista). Tuttavia, tali norme, oltre ad essere vincolanti solo per i lavoratori iscritti alle associazioni sindacali (stipulanti tali accordi interconfederali), potevano essere applicate solo ai datori di lavoro con più di 35 dipendenti. E allora l’art. 18 della L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) ha del tutto stravolto tale materia, grazie al quale si è effettivamente realizzata una tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo, c.d. tutela reale, mediante la previsione della sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro (praticamente il lavoratore, qualora venga licenziato senza giusta causa, non solo ha diritto al reintegro, ma anche ad un risarcimento del danno). L’art. 35 stat. lav. limitava però l’applicazione dell’art. 18 stat. lav. alle sole imprese con almeno 15 dipendenti, restando prive della tutela statutaria ampie fasce di lavoratori dipendenti dalle piccole imprese; ma l’esigenza di garantire anche a questi lavoratori una tutela contro i licenziamenti ingiustificati, ha portato all’emanazione della L.108/1990 la quale ha ridefinito il campo di applicazione della tutela reale e di quella obbligatoria e ha sancito il generale principio della giustificazione del licenziamento (c.d. recesso vincolato), che ormai vale per tutti i lavoratori, salve specifiche eccezioni.

7. Il licenziamento ad nutum (volontario): da regola ad eccezioneDopo la L. n°108/90, il licenziamento volontario o recesso ad nutum esercitato dal datore di lavoro (art. 2118 c.c.) da regola è divenuto eccezione, in quanto si applica ormai solo a casi specifici. Infatti le categorie professionali, alle quali è tuttora applicabile tale regime codicistico riguardano:

i lavoratori domestici e gli sportivi professionisti, i quali non ricevono né tutela reale (reintegro + risarcimento/indennità), né tutela obbligatoria (reintegro o risarcimento/indennità);

i lavoratori in prova, per i quali non c’è neanche bisogno del preavviso, a meno che non sia stabilito un periodo minimo di prova e allora il recesso non può essere esercitato prima della scadenza di tale periodo. Tuttavia il periodo di prova può giungere sino a 6 mesi, dopo i quali il prestatore in prova è soggetto alla tutela contro i licenziamenti, in quanto considerato come definitivo;

i lavoratori anziani che abbiano compiuto il 65esimo anno di età ed abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia (NON di anzianità), così come per le donne, nonostante il requisito inferiore di età previsto dalla legge per la pensione di vecchiaia (60 anni), che in materia di licenziamenti devono essere equiparate agli uomini;

i dirigenti apicali, ossia per coloro ai vertici dell’impresa, in forza di un rapporto fiduciario diretto con l’imprenditore. Ad essi però il preavviso va dato per iscritto ed opera la tutela contro il licenziamento discriminatorio. Tuttavia i contratti collettivi dei dirigenti hanno previsto un obbligo di giustificazione da parte dell’imprenditore ed il pagamento di un’indennità supplementare all’indennità di mancato preavviso, qualora si accerti dinanzi ad un collegio arbitrale che il licenziamento fosse ingiustificato.

8. Le ipotesi di limitazione temporale del licenziamentoIl Codice civile ha, inoltre, previsto dei periodi di limitazione temporale della facoltà di recesso da parte del datore di lavoro, durante i quali non è consentito il licenziamento “ad nutum o volontario”, ma solo il licenziamento per “giusta causa”. Infatti, l’art. 2110 c.c. limita la facoltà di licenziamento del datore nei casi in cui il lavoratore si viene a trovare in una condizione di bisogno e di impossibilità ad effettuare la prestazione per:

infortunio, malattia, gravidanza o puerperio,

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servizio militare, esecuzione di funzioni pubbliche.

Il potere di licenziamento, quindi, è limitato solo per il periodo c.d. di comporto determinato dalla legge o dai contratti collettivi.In tutti questi casi essendo ammesso solo il licenziamento per giusta causa, il lavoratore conserva il proprio posto di lavoro ma può essere comunque licenziato solo in presenza di una giusta causa, mentre il licenziamento ad nutum non diviene invalido, ma temporaneamente inefficace: ciò vuol dire che trascorso il periodo di comporto, il licenziamento sarà operativo ed il datore riacquista il potere di licenziare secondo la disciplina di cui all’art. 2110 c.c. (ad eccezione delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che godono dei congedi per la cura e la formazione dei figli, per i quali tale licenziamento non è inefficace, ma del tutto nullo).

9. I limiti sostanziali (causali) al potere di licenziareIl più importante limite al potere di recesso del datore di lavoro è di carattere sostanziale o c.d. causale: l’art. 1 della L. n°604/1966 stabilisce che, affinché il licenziamento sia legittimo, occorre obbligatoriamente una giusta causa o un giustificato motivo, che legittimano il recesso del datore di lavoro. In questo modo il potere di recedere non è libero ma condizionato, il che garantisce una maggiore stabilità del rapporto di lavoro per il lavoratore. Sparisce, quindi, per il solo recesso voluto dal datore di lavoro, la distinzione tra recesso ordinario e recesso straordinario, perché in base a quanto detto fin’ora il recesso ordinario prevedeva il preavviso, mentre per quello straordinario necessitava di un’anomalia funzionale del rapporto, ossia una giusta causa; adesso invece è sempre necessaria la giusta causa, per cui il recesso ordinario e quello straordinario si trovano a coincidere. Il preavviso, invece, è necessario solo per il licenziamento per giustificato motivo. Infine, le conseguenze che la legge lega all’illegittimità del negozio di licenziamento, per mancanza ditali requisiti causali (cioè assenza di giusta causa o giustificato motivo), non sono sempre le stesse, ed occorre distinguere:

tutela reale , prevista dall’art. 18 stat. lav., per la quale il licenziamento illegittimo è esplicitamente definito annullabile;

tutela obbligatoria , prevista dall’art. 8 della L. n°604/1966, per la quale il licenziamento non è annullabile ma soltanto illecito, il datore viene esposto a conseguenze sanzionatorie, non impedisce che si produca l’effetto estintivo del rapporto di lavoro.

10. Giustificato motivo soggettivo ed oggettivoLe nozioni di giustificato motivo e di giusta causa sono contenute all’interno di documenti legislativi diversi:

la nozione di giusta causa la ritroviamo all’interno dell’art. 2119 c.c. (es. un cassiere in banca che ruba dentro la sua filiale);

la nozione di giustificato motivo la troviamo all’interno dell’art. 3 della L. n°604/1966 e riguarda la corretta esecuzione del contratto di lavoro (es. se il contratto di lavoro prevede che l’orario di inizio attività è fissato alle 8.30, qualora il lavoratore arrivi tutti i giorni alle 10 è inadempiente e pertanto passibile di licenziamento).

Partendo proprio dalla L.n°604/1966 dobbiamo anzitutto distinguere tra: giustificato motivo subiettivo o soggettivo, si realizza quando il lavoratore incorre in un

notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (per “notevole” si intende un inadempimento di rilevante importanza). Sono comunque i contratti collettivi a chiarire e ad individuare con maggiore o minore precisione le ipotesi in cui può ricorrere il giustificato motivo soggettivo e quindi avere luogo il licenziamento; ipotesi che al di là tutto non vincolano il giudice nella propria decisione. Inoltre, in base a quanto già detto in materia di lavoro, essendo possibile il recesso della parte adempiente per

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inottemperanza ai propri doveri della controparte, non risulta operativa la risoluzione per inadempimento, anche se è ad essa che possiamo rifarci per comprendere che l’inadempimento e la sua gravità devono essere valutati nell’interesse del creditore. La giurisprudenza ha poi affermato che il licenziamento deve essere notificato entro un termine congruo al fine di soddisfare i requisiti dell’immediatezza e della tempestività e tale regola giurisprudenziale vale anche per il giustificato motivo oggettivo;

giustificato motivo obiettivo o oggettivo, si realizza quando vi siano ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, senza perciò configurarsi alcun inadempimento del lavoratore, ma prevalendo l’interesse primario dell’impresa (NON dell’imprenditore) e le relative esigenze tecnico-economiche dell’organizzazione produttiva, sull’interesse del lavoratore alla conservazione del proprio posto. A tal proposito, in dottrina s’è presentato un contrasto tra:

l’opinione minoritaria, che richiede al giudice un controllo di merito sull’effettiva necessità di licenziare e sulla razionalità delle scelte organizzative e produttive adottate dall’imprenditore, e

l’opinione dominante, che richiede invece al giudice di limitarsi a verificare la sola sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore valutando l’esistenza o meno del nesso causale tra le scelte organizzative dell’imprenditore ed il provvedimento di licenziamento.

La giurisprudenza consolidata ritiene comunque che il giustificato motivo oggettivo può essere ravvisato solo quando il datore di lavoro non abbia alternative che quella di licenziare e quindi, ripercorrendo l’opinione dominante della dottrina, il giudice dovrà verificare la sola sussistenza del giustificato motivo addotto dall’imprenditore, senza svolgere alcun controllo di merito, e verificare che il licenziamento costituisce l’extrema ratio, ossia che il datore di lavoro non avendo alternative per impiegare diversamente l’attività del prestatore, neanche ricorrendo a mansioni diverse, non ha altra scelta che licenziarlo.

Il giustificato motivo, inoltre, ricorre anche quando vi è un periodo di comporto a lungo protratto nel tempo: è vero che il lavoratore conserva il proprio posto di lavoro e che il rapporto risulta solo sospeso, ma è altrettanto vero che l’impossibilità temporanea non deve assumere carattere definitivo. In tal caso il licenziamento potrà essere comminato per tal motivo. La giurisprudenza, però, ha chiarito che l’ipotesi del superamento del periodo di conservazione del posto in caso di malattia, in virtù dell’art. 2110 c.c., legittima il licenziamento del lavoratore a causa del perdurare dell’impossibilità temporanea ad effettuare la prestazione.AGGIORNAMENTO – appendice 2010:Nel caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni svolte (cioè che il lavoratore diviene inabile a svolgere le proprie mansioni a causa di infortunio, malattia, ecc.), la novità introdotta dal nuovo Testo unico in materia di sicurezza del lavoro, stabilisce che il datore di lavoro ha l’obbligo di non licenziare e quindi adibire il lavoratore ad altre mansioni equivalenti o inferiori o anche superiori (in deroga all’art. 2103 c.c. - Mansioni del lavoratore: “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad

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un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”). In sostanza per essere giustificabile il licenziamento deve essere impossibile il reimpiego in altre mansioni del lavoratore.

11. La giusta causaL’art. 2119 c.c. definisce la nozione di giusta causa, ovvero “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, ed aggiunge che “non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’ imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’ azienda”. Con quest’ultima previsione il legislatore ha inteso salvaguardare il diritto del lavoratore a ricevere il preavviso.Prima della L. n°604/1966, la dottrina prevalente sosteneva che la giusta causa fosse da ravvisare in ogni fatto capace di giustificare la risoluzione senza preavviso del contratto, e che, quindi, consistesse in ogni accadimento che fosse idoneo (anche fuori dalla colpa del lavoratore) a privare il rapporto della fiducia personale, quale connotato essenziale del rapporto di lavoro.Con l’introduzione del giustificato motivo soggettivo (inerente l’inadempimento del lavoratore) le cose sono però cambiate, e la dottrina prevalente ha ritenuto che anche la giusta causa è riconducibile ad un inadempimento del lavoratore, ma si deve trattare di un inadempimento ben più grave rispetto a quello del giustificato motivo soggettivo, non solo in termini qualitativi (facendo riferimento alla nozione di fiducia, ovvero che il datore deve poter concedere altri compiti al lavoratore senza temere che possa essere inadempiente o inaffidabile), ma anche in termini quantitativi (cioè di gravità). La contrattazione collettiva ha, inoltre, individuato o meglio tipizzato dei casi in cui si configura una giusta causa, e di conseguenza un licenziamento senza preavviso (es. furto, rissa sul posto di lavoro, danneggiamento volontario dei macchinari ecc.), che tuttavia non sono vincolanti per il giudice, rimanendo quindi libero di potere ravvisare una giusta causa di licenziamento in inadempienze non esplicitamente previste dal contratto collettivo. Infine il licenziamento per giusta causa e senza preavviso, per essere legittimo deve essere tempestivo ed immediato (deve rispettare i termini dell’immediatezza e della tempestività), senza far trascorrere troppo tempo dalla sua adozione .

12.Le ipotesi di nullità del licenziamentoMa ancora la legge dispone la nullità del licenziamento adottato per motivi discriminatori, nonché il licenziamento per causa di matrimonio e il licenziamento delle lavoratrici madri.a) Secondo l’art. 4 della L. n°604/1966, è nullo il licenziamento discriminatorio nel momento in cui il recesso unilaterale del datore di lavoro sia dovuto a “ragioni politiche, religiose e sindacali”, indipendentemente dalla motivazione adottata. L’art. 15 stat. lav. contempla anche le ragioni di “sesso, razza, handicap e lingua”. L’art. 3 della L. n°108/1990 stabilisce poi che, nei casi di discriminazione, è sempre applicabile la tutela reale (reintegro + risarcimento), e che a tali casi è equiparato il c.d. licenziamento per ritorsione, ossia il licenziamento inflitto in seguito a comportamenti legittimi del lavoratore ma sgraditi al datore; nello specifico tale licenziamento costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro tale da configurarsi come una vera e propria ingiustificata vendetta.b) Anche il licenziamento per matrimonio è nullo (essendo già inapplicabili ad un contratto lavorativo clausole di nubilato) se intimato dal giorno delle pubblicazioni del matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione dello stesso.c) Completa la tutela contro tali licenziamenti, la nullità delle dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo di gestazione o puerperio, se non confermate entro un mese alla

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Direzione provinciale del lavoro; sono, infine, nulli i licenziamenti delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che abbiano ad oggetto proprio la condizione di genitore.

13. La forma del negozio di licenziamentoUlteriore requisito del licenziamento, oltre alla giusta causa o al giustificato motivo e fatta eccezione per le ipotesi di nullità sopra descritte, è quello della forma del negozio. L’art. 2 della L. n°604/1966 (aggiornato dalla L.n°108/1990) prevede che il licenziamento venga comunicato per iscritto, ma non prevede altrettanto per quanto riguarda i motivi del licenziamento, anche in ragione del fatto che il lavoratore potrebbe giudicare non opportuno la loro pubblicazione. Tuttavia, la comunicazione dei motivi del licenziamento è importante per due motivi:

il lavoratore deve avere una certa cognizione dei motivi del licenziamento, al fine di valutare l’opportunità di impugnare il provvedimento. Il lavoratore ha infatti 15 giorni di tempo, dalla comunicazione del recesso, per richiederne i motivi che il datore deve obbligatoriamente dare, perché è proprio nelle motivazioni che possiamo rinvenire l’effettività del licenziamento;

per determinare, definitivamente, il thema decidendum del’eventuale controversia, di modo che l’imprenditore non possa addurre motivi diversi o ulteriori rispetto a quelli originariamente dichiarati, c.d. principio di immodificabilità della motivazione.

Qualora non vengano osservati gli adempimenti formali, il licenziamento è inefficace, inefficacia che non si traduce nell’inopponibilità degli effetti negoziali, bensì in nullità dello stesso. Il datore di lavoro potrà comunque riformulare il licenziamento o meglio sanarne il vizio della forma, con effetti irretroattivi e solo futuri (efficacia ex nunc).

14. L’impugnazione del licenziamento e il termine di decadenza. L’onere della provaL’art. 5 della L. n°604/1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova inerente l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo. Quindi, mentre il datore deve provare i fatti che giustificano l’esercizio del proprio diritto di recesso, il lavoratore licenziato è tenuto a provare i fatti costitutivi del proprio diritto alla stabilità del rapporto e quindi alla tutele reale o obbligatoria. L’art. 6 della L. 604 disciplina poi impugnazione del licenziamento illegittimo da parte del lavoratore, la quale può avvenire tramite:

il ricorso giudiziale, una comunicazione scritta al datore di lavoro, l’intervento dei sindacati, la procedura di conciliazione obbligatoria,

il tutto entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi. Il termine si applica anche in caso di licenziamento ritorsivo o discriminatorio, ma non negli altri casi di nullità (matrimonio, mancanza di forma scritta, caso dei lavoratori-genitori). All’impugnazione stragiudiziale deve seguire, a pena di inefficacia della stessa, entro il termine di 270 giorni (con la nuova riforma 2012 del mercato del lavoro i giorni sono 180, ma tale modifica vale ovviamente per i licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore della stessa) il deposito del ricorso alla cancelleria del giudice del lavoro, ovvero la comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato.

15. L’art. 18 dello Statuto: la tutela reale del posto di lavoroI rimedi contro il licenziamento illegittimo, al di là di quale sia la causa, tengono conto delle dimensioni aziendali. L’art. 18 stat. lav. prevede, infatti, che:

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la tutela reale, si applica ai datori di lavoro che hanno più di 15 lavoratori dipendenti nell’unità produttiva nella quale è occupato il lavoratore licenziato o comunque nell’ambito dello stesso comune e, in ogni caso, ai datori di lavoro che hanno globalmente o a livello nazionale più di 60 lavoratori dipendenti, al di là del frazionamento organizzativo in unità produttive;

Nel computo dei dipendenti utili per raggiungere i limiti sopra citati, rientrano :

tutti i lavoratori occupati, compresi i dirigenti, i lavoratori con contratto di formazione e lavoro, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato parziale;

sono invece esclusi : i lavoratori assunti con contratto di reinserimento, i lavoratori assunti con contratto di somministrazione, con contratto di

apprendistato o di inserimento, il coniuge ed i parenti entro il secondo grado del datore di lavoro.

Entro questi limiti, il licenziamento nullo (discriminatorio o altrimenti vietato), quello annullabile (per mancanza di giusta causa o giustificato motivo) e quello inefficace (per mancata osservanza dei requisiti di forma), il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno subito dal lavoratore. Il diritto alla reintegrazione ed al risarcimento si prescrive in 10 anni (diversamente dalle singole azioni di nullità e annullamento in linee generali, l’una imprescrittibile, l’altra quinquennale).Al contrario, come prima detto, con la tutela obbligatoria il datore di lavoro può scegliere tra la riassunzione ed il pagamento di una penale.AGGIORNAMENTO – RIFORMA MONTI 2012:Un aspetto significativo della riforma del “mercato del lavoro” (Fornero - Monti) riguarda la disciplina dei licenziamenti individuali ed in particolare il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, previsto dall’art. 18 stat. lav.Va innanzitutto precisato che di tale regime rimane immutato il campo di applicazione, ovvero che viene applicato ai datori di lavoro: i m prenditori e non imprenditori , aventi più di 15 dipendenti nell’ambito produttivo o comunale, o più di 60 dipendenti nell’ambito nazionale, rimanendo invece esclusi l’intero comparto statale, le aziende private che occupano meno di 15 dipendenti e le organizzazioni come i partiti, sindacati, associazioni, fondazioni. In particolare per le piccole imprese il regime applicabile ai licenziamenti illegittimi continua ad essere fissato dall’art. 8 della L. n°604/1966 (a parte l’ipotesi dei licenziamenti discriminatori).Ciò premesso, il nuovo testo dell’art. 18 stat. lav. prevede tre diversi regimi sanzionatori del licenziamento individuale illegittimo, a seconda che del licenziamento venga accertata dal giudice:

la natura discriminatoria o il motivo illecito determinante; l’inesistenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore

di lavoro (cioè licenziamenti cd. soggettivi o disciplinari); l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro (cioè i

licenziamenti cd. oggettivi o economici).Poiché la motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro diviene, nel nuovo contesto normativo, molto importante, è prevista una correzione della regola attualmente posta dall’art. 2 della L. n°604/1966, nel senso di rendere obbligatoria l’indicazione, nella lettera di licenziamento, dei motivi del medesimo.Ma ancora dal nuovo testo dell’art.18 stat. lav. emergono 3 diverse tipologie di licenziamenti:

i licenziamenti discriminatori (quando viola l' art. 3 della Costituzione, quindi in basa

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alla razza, religione, credo politico, sesso, ecc.), per i quali le conseguenze rimangono quelle del testo attuale dell’art. 18, ovvero la condanna del datore di lavoro (imprenditore o non imprenditore), qualunque sia il numero dei dipendenti occupati, a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a risarcire al medesimo i danni retributivi patiti (con un minimo di 5 mensilità di retribuzione), nonché a versare i contributi previdenziali e assistenziali in misura piena. Inoltre, il dipendente mantiene la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, il pagamento di un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro e la non contribuzione ai fini previdenziali e assistenziali. Il medesimo regime si applica per i licenziamenti disposti nel periodo di maternità, in concomitanza del matrimonio, nonché disposti per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 del codice civile. La tutela nei confronti del licenziamento discriminatorio rimane, pertanto, piena ed assoluta, comportando esso la lesione di beni fondamentali del lavoratore, di rilievo costituzionale;

i licenziamenti soggettivi o disciplinari (quando il lavoratore viola un suo obbligo), per i quali nel momento in cui si accerta la non giustificazione del licenziamento per l’inesistenza del fatto contestato al lavoratore o la riconducibilità del licenziamento alle tipizzazioni di giustificato motivo soggettivo e di giusta causa previste dai contratti collettivi applicabili (situazioni che denotano un uso arbitrario del potere di licenziamento), il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente e al risarcimento dei danni retributivi patiti, dedotto quanto percepito o percepibile dal lavoratore. Vi è altresì condanna al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali. In questa ipotesi, il lavoratore mantiene, anche la facoltà di scegliere in alternativa alla reintegrazione, il pagamento di un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità di retribuzione.Tale re g i m e di rei n te g r azione si applica, inoltre, anche ai licenziamenti intimati prima della scadenza del periodo c.d. di comporto, a causa della malattia nella quale versa il lavoratore, ed ai licenziamenti motivati dall’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ma trovati illegittimi dal giudice. Nelle altre ipotesi di accertata illegittimità del licenziamento soggettivo o disciplinare, non v’è condanna alla reintegrazione bensì al pagamento di un’indennità risarcitoria che può essere modulata dal giudice tra 15 e 27 mensilità di retribuzione, tenuto conto di vari parametri.Tale re g i m e di ind e nnità ris a rcitoria si applica, invece, anche per le ipotesi di licenziamento viziato nella forma o sotto il profilo della procedura disciplinare. Tuttavia, in questi casi, se l’accertamento del giudice si limita alla rilevazione del vizio di forma o di procedura, esso comporta l’attribuzione al dipendente di un’indennità compresa fra 7 e 14 mensilità di retribuzione; a meno che il giudice accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento e allora applica le tutele di cui sopra.

i licenziamenti oggettivi o economici (quando l' azienda è in difficoltà economica), per i quali nel momento in cui si accerta l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro disponendo il pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità risarcitoria che può essere modulata dal giudice tra 15 e 27 mensilità di retribuzione, tenuto conto di vari criteri.

Di fronte alla presenza di uno di questi tipi di licenziamenti è riconosciuta quindi al lavoratore la facoltà di provare che il licenziamento è stato determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari o economiche e ottenere così da giudice la relativa tutela; ma è altresì riconosciuta la possibilità di avviare una rapida procedura di conciliazione innanzi alle Direzioni territoriali del lavoro, non appesantita da particolari formalità, nell’ambito della quale il lavoratore potrà essere assistito anche da rappresentanti sindacali, e potrà essere favorita la conciliazione tra le parti. Va inoltre sottolineato che la predeterminazione dei

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possibili importi del risarcimento, pretesi dal lavoratore illegittimamente licenziato, è rivolta a rendere il risarcimento indipendente dalla durata del processo e ad incoraggiare la soluzione consensuale delle liti piuttosto che quella contenziosa. Il regime fin qui descritto, va coordinato, altresì, con quello dei li c enzia m enti coll e ttivi, nei limiti in cui per essi vale l’art. 18 stat. lav., con l’applicazione, per i vizi di tali licenziamenti, del regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti economici.

16. L’incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: la prosecuzione del vinculum iurisLa sentenza di condanna alla reintegrazione obbliga il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore e a ripristinare il rapporto di lavoro, facendogli pervenire un preciso invito a riprendere il servizio.Con tale invito il datore adempie al suo obbligo di reintegrazione e qualora non lo faccia verserà in una situazione di mora credendi (art.1205 ss. c.c.), dovendo come conseguenza corrispondere la retribuzione al lavoratore. Quest’ultimo dal canto suo, dovrà riprendere l’attività lavorativa entro 30 giorni, altrimenti il rapporto verrà considerato risolto per dimissioni. La reintegrazione, quindi, configura un obbligo di fare infungibile (può farlo solo il datore di lavoro) ed incoercibile (non può essere disatteso), perché la riammissione in servizio e l’assegnazione di compiti e di mansioni fanno riferimento ai poteri organizzativi che solo l’imprenditore può esercitare (art. 2086 c.c.).Qualora per volontà del datore non sia possibile l’esecuzione della prestazione e quindi la prosecuzione materiale del rapporto, deve essere comunque garantita la prosecuzione come vinculum iuri, perciò l’art. 18, 4° comma, stat. lav. dispone che il datore è obbligato alla reintegrazione ed al pagamento di un’indennità commisurata alla retribuzione globale (e comunque non inferiore a 5 mensilità) a titolo risarcitorio del danno subito dal lavoratore, per il periodo che va dal licenziamento sino all’effettiva reintegrazione. In questo modo, l’indennità sanzionatrice sia del licenziamento ingiustificato: c.d. illecito primario, sia dell’inottemperanza all’ordine di reintegrazione: c.d. illecito secondario, ha natura:

risarcitoria del danno subìto dal lavoratore, per il periodo intercorso dal licenziamento alla sentenza (c.d. medio tempore);

comminatoria (cioè che prevede una sanzione) dell’inadempimento dell’obbligazione reintegratoria, per il periodo successivo.

Inoltre, la legge impone al datore di versare oltre all’indennità anche i contributi assistenziali e previdenziali relativi al periodo intercorrente tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione (da ciò si può dunque desumere la continuità del rapporto, pur in assenza della prestazione), nonché un’ulteriore indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione, pari a 15 mensilità di retribuzione globale. Più precisamente per il lavoratore reintegrato si viene a configurare un diritto potestativo che gli permette di scegliere, entro 30 giorni dal deposito della sentenza di reintegrazione in alternativa alla stessa, il pagamento di un’indennità (pari a 15 mensilità di retribuzione globale) da parte del datore e la conseguente risoluzione del rapporto.

17. Reintegrazione nel posto di lavoro e procedure d’urgenza: art. 700 c.p.c. ed art. 28 dello StatutoIn merito agli strumenti processuali per la tutela contro il licenziamento illegittimo, al fine di accelerare i tempi della decisione, una diffusa prassi giudiziaria tende a combinare, sotto il profilo processuale, la disciplina specifica di cui all’art. 18 stat. lav. con l’art. 700 c.p.c. (Procedimento cautelare d’urgenza: “chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti

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d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”) secondo il quale il lavoratore ha l’onere di dimostrare l’illegittimità del licenziamento e più precisamente:

il fumus bon iuris, ovvero la non manifesta infondatezza del diritto vantato; e il periculum in mora, ovvero l’esistenza di un pregiudizio irreparabile ed imminente per

sé ed i familiari.Per i casi di licenziamento discriminatorio antisindacale esiste poi un apposito strumento previsto dall’art. 28 stat. lav. di repressione della condotta antisindacale, in base al quale il giudice del tribunale può decidere da subito per un reintegro del soggetto e qualora il datore di lavoro non ottemperi, va incontro alle conseguenze previste dall’art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità: “chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206,00 euro”). Mentre l’art. 18 stat. lav. predispone una tutela rafforzata per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, che si realizza su due piani:

la sentenza di condanna alla reintegrazione può essere anticipata con un’ordinanza emessa solo su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato e nel momento in cui le prove addotte dal datore siano insufficienti a giustificare il licenziamento;

viene reso più oneroso l’inadempimento per inottemperanza dell’ordine di reintegrazione, in quanto oltre alle retribuzioni al lavoratore, il datore dovrà versare una somma al Fondo pensione dei lavoratori dipendenti e quindi all’INPS.

18. La tutela obbligatoria e l’alternativa tra riassunzione e pagamento di una penaleRiguardo alla c.d. tutela obbligatoria, prevista dall’art. 8 della L. n°604/1966, il suo campo di applicazione coincide con l’area esclusa dalla tutela reale, e si riferisce quindi alle sole ipotesi di illegittimità del licenziamento derivanti dalla sua mancata giustificazione. Infatti tale legge dispone che, in assenza di giustificazione, il datore ha dinanzi a sé due alternative:

reintegrare entro 3 giorni il lavoratore; o corrispondergli un’indennità, che viene determinata dal giudice tra un minimo ed un

massimo prestabiliti dalla legge, tenuto conto del numero dei dipendenti, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, e del comportamento e delle condizioni delle parti. più precisamente si va da un minimo di 2,5 mensilità di retribuzione fino a 14 mensilità in caso di lavoratore con almeno 20 anni di anzianità di servizio.

Infine, a differenza di ciò che accade nell’area coperta dalla tutela reale, nella quale il licenziamento privo di giustificazione viene definito annullabile dall’art. 18 stat. lav., nell’area di applicazione della tutela obbligatoria il licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, sebbene sia illegittimo, non è annullabile ma solo illecito, e perciò sanzionato tramite obbligazione risarcitoria).

19. Il licenziamento disciplinare e l’applicabilità dell’ art. 7 dello Statuto dei lavoratoriPer quel che riguarda il potere di “licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa”, il licenziamento intimato per motivi disciplinari deve conformarsi all’art. 7 stat. lav., il quale, come abbiamo avuto modo di dire nel 6° cap. sottopone il potere disciplinare a vincoli procedurali (affissione del codice disciplinare, contestazione degli addebiti, ecc.), e prevede che, “fermo restando quanto disposto dalla L. n°604/1966, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto

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di lavoro”. Sulla base di una pronuncia della Corte Costituzionale, la Cassazione è pervenuta ad applicare i vincoli posti dall’art. 7 a tutti i licenziamenti disciplinari che, essendo motivati da un comportamento inadempiente del lavoratore, hanno natura disciplinare. Prima della L. n°108/1990, la Corte Cost. aveva affrontato anche il problema della applicabilità dell’art. 7 stat. lav. ai licenziamenti disciplinari nelle piccole imprese (nelle quali vigeva il principio della libera recedibilità) dichiarando che ad esse l’art. 7 stat. lav. non doveva applicarsi. Successivamente, sia la Cassazione che la Corte costituzionale hanno confermato che i limiti procedimentali, di cui all’art. 7 stat. lav., sono applicabili anche al licenziamento disciplinare delle piccole imprese, aggiungendo anzi che nei casi di inosservanza dello stesso articolo, non si configura un’ipotesi di nullità(perché non va contro ai principi fondamentali) bensì licenziamento illegittimo (perché privo di giusta causa o giustificato motivo). Infine, per quanto riguarda i dirigenti, essendo sottoposti al regime della libera re cedibilità le garanzie procedurali previste dall’art. 7 sono applicabili solo qualora il datore intenda avvalersi del licenziamento per giusta causa per non corrispondere l’indennità di mancato preavviso.

20. La tutela del lavoratore nelle altre ipotesi di invalidità del licenziamentoAbbiamo visto che per i casi contemplati dall’art. 18 stat. lav., vale la regola della reintegrazione del lavoratore e del risarcimento del danno sia in caso di licenziamento:

inefficace per ragioni formali, annullabile per difetto di giusta causa o giustificato motivo, nullo per motivi discriminatori.

La Corte costituzionale ha, poi, ribadito che tale applicazione va estesa anche ai casi di licenziamento non contemplati dalla L. n°604/1966. Tuttavia abbiamo avuto modo di precisare che l’art. 18 stat. lav. incontra dei limiti dovuti alle dimensione dell’impresa per ciò che concerne la tutela reale, mentre l’alternativa tutela obbligatoria può applicarsi, in forza dell’art.8 della L. 604/1966, solo nei casi di licenziamento in cui difetta il giustificato motivo o la giusta causa. Ma che succede quando il licenziamento è invalido per ragioni diverse dal difetto di giustificazione o quando si concretizza in rapporti soggetti al regime di libera recedibilità?

nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, si configura sempre la reintegrazione (art. 3 della L. n°108/1990);

nelle ipotesi di 1) nullità del licenziamento della lavoratrice madre o del lavoratore padre, 2) del licenziamento per la richiesta di fruizione dei congedi per motivi di cura familiare e 3) del licenziamento per causa di matrimonio, si deve ritenere che, tanto in caso di tutela obbligatoria quanto di libera recedibilità, si configurano i comuni effetti civilistici, ossia una volta accertata l’illegittimità del licenziamento e quindi la sua nullità, si avrà la continuazione giuridica del rapporto ex tunc e si potrà configurare una situazione di mora credendi del datore di lavoro (artt. 1206 ss c.c.);

nelle ipotesi di licenziamento adottato senza il rispetto delle formalità, non ci sarà alcun effetto civilistico ed è da considerarsi come se non esistesse, anche se è rinnovabile per il futuro (ex nunc) secondo le forme previste;

nelle ipotesi di licenziamento disciplinare illegittimo per violazione delle garanzie procedurali di cui all’art. 7 stat. lav., essendo parificate al licenziamento ingiustificato, nell’area della tutela obbligatoria andrà applicato l’art. 8 della L. n°604/1966, mentre nell’area della libera recedibilità sarà dovuta esclusivamente l’indennità di mancato preavviso.

21. Le c.d. organizzazioni di tendenza

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Per organizzazioni di tendenza s’intendono quelle organizzazioni che perseguono fini ideologici e non di lucro e svolgono attività di natura politica, culturale, sindacale, di istruzione, di religione o di culto.Tali organizzazioni, in forza dell’art. 4 della L. 108/1990, sfuggono all’applicazione dell’art. 18 stat. lav. anche in caso di rispetto dei requisiti dimensionali, perciò se ne deduce che ad esse vada applicata la tutela obbligatoria, salvo i casi di dirigenti, lavoratori in prova o anziani in età pensionabile, soggetti tutti alla libera recedibilità. Ovviamente l’organizzazione non deve svolgere attività d’impresa, altrimenti sarà soggetta all’applicazione dell’art. 18 dello statuto. Invece, la disposizione in esame ha lasciato irrisolte le questioni relative al licenziamento nelle organizzazioni non di tendenza ma semplicemente senza fini di lucro, ed in particolare quelle relative alla giustificazione del licenziamento.

22. Il tentativo obbligatorio di conciliazionePrima dell’emanazione della L. n°108/1990, il legislatore aveva previsto l’esperimento di un tentativo di conciliazione, sia nell’area della tutela obbligatoria che in quella della tutela reale, solo facoltativamente.Con l’art. 5 della stessa L. n°108/1990, invece, è stato introdotto, nell’area della tutela obbligatoria, il tentativo obbligatorio di conciliazione, come condizione necessaria per dare corso alla richiesta giudiziale di accertamento dell’illegittimità del licenziamento; infatti in mancanza di tale presupposto, il giudice, nella prima udienza, rileva, anche d’ufficio, l’improcedibilità della domanda, sospende il giudizio e fissa un termine non superiore a 60 giorni per la proposizione della richiesta del tentativo di conciliazione. Il processo deve essere riassunto da una delle parti entro il termine perentorio di 180 giorni dalla conclusione della procedura conciliativa.L’introduzione di questo presupposto processuale limitatamente all’area della tutela obbligatoria, era stata giustificata con l’esigenza di semplificare la risoluzione delle controversie di natura economica.Tuttavia, la questione va oggi riconsiderata alla luce del D.lgs. n°80/1998, che ha introdotto un tentativo obbligatorio di conciliazione, come condizione di procedibilità della richiesta per tutte le controversie di lavoro.

23. Il trattamento di fine rapporto. Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapportoAbbiamo più volte sottolineato che la retribuzione altro non è che il corrispettivo dell’attività lavorativa di un soggetto. Per ciò che concerne gli effetti patrimoniali al momento della cessazione del rapporto di lavoro, la L. n°297/1982 ha sancito la sostituzione della c.d. indennità di anzianità, prevista dal testo originario (oggi modificato) dell’art. 2120 c.c., con il Trattamento di fine rapporto o TFR: consistente in un somma di denaro da corrispondere al lavoratore da parte del datore di lavoro, al momento della conclusione del rapporto contrattuale. L’obbligazione, quindi, nasce al momento della cessazione. Già la precedente “indennità di anzianità” aveva subito notevoli modifiche col passare del tempo, dovute ad una variazione della sua funzione da riparatoria - previdenziale (in quanto vista come un’indennità per il lavoro prestato) a retributiva - previdenziale, da corrispondere in qualsiasi caso di cessazione del rapporto lavorativo, al fine di assicurarne l’effettivo godimento da parte del lavoratore anche in caso di inadempienza o di insolvenza del datore, e ciò grazie all’istituzione presso l’INPS di un apposito fondo di garanzia, che il legislatore ha appositamente previsto proprio per meglio tutelare il lavoratore, in qualità di contraente debole. La differenza tra la precedente indennità di anzianità e il nuovo TFR riguarda essenzialmente il sistema di calcolo, ovvero:

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l’indennità di anzianità veniva calcolata tramite il prodotto di una quota dell’ultima retribuzione x il numero di anni di servizio,

il t.f.r. viene invece determinato dalla somma delle quote di retribuzione accantonate annualmente.

24. Disciplina del T.F.R. e maturazione del diritto al T.F.R.La disciplina del TFR è contenuta nel novellato art. 2120 c.c., il quale riconosce al lavoratore il diritto ad un trattamento economico di fine rapporto, in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, indipendentemente dalla causa della stessa, e calcolato in base agli anni di servizio. Più precisamente il meccanismo di calcolo si basa sulla somma di quote (una quota è pari all’importo della retribuzione annua diviso 13,5) di retribuzione accantonate annualmente. Tale coefficiente è stabilito come misura media rispetto al numero (13 o 14) delle mensilità di retribuzione di solito corrisposte ai lavoratori sulla base dei diversi contratti collettivi. La misura così determinata del TFR rappresenta un minimo e, al contempo, un massimo inderogabile dall’autonomia negoziale sia individuale che collettiva.Inoltre anche se la legge non prevede alcun obbligo di un vero e proprio accantonamento annuale del TFR (salvo che per le Spa), una quota annua viene ugualmente vincolata nell’interesse del lavoratore, formando un sorta di conto individuale. Il lavoratore, dal canto suo, nonostante ne diviene il titolare non può goderne fino alla cessazione del rapporto di lavoro, ma può aver interesse a farne accertare, anche giudizialmente, l’importo.

25. Base di calcolo, frazionabilità intro-annuale ed indicizzazione del t.f.r.Per ciò che riguarda la base di calcolo del TFR, l’art. 2120 c.c. precisa, anche, che per determinare la retribuzione annua vanno prese in considerazione tutte le somme che il datore di lavoro ha corrisposto al prestatore in virtù del rapporto di lavoro, escluse le erogazioni di carattere occasionale, quelle per rimborsi spese e in generale tutte quelle di carattere meramente eccezionale; sono invece incluse le prestazioni in natura, di cui si computa l’equivalente in denaro. Tuttavia l’inderogabilità del principio dell’onnicomprensività della retribuzione (secondo cui la retribuzione include tutto ciò che di predeterminato deve essere corrisposto dal datore di lavoro) può essere derogato solo dai contratti collettivi. Importanti è inoltre:

la regola della “frazionabilità intro-annuale” del TFR, la regola in base alla quale, ai fini del calcolo della quota annuale del TFR, devono

essere considerati anche i periodi di assenza per malattia, infortunio e maternità; e a questo riguardo il legislatore ha disposto che in caso di sospensione totale o parziale, per la quale sia prevista l’integrazione salariale, debba essere computato nella retribuzione annua l’equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro.

nonché i periodi di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale.

La quota annua va poi incrementata, alla scadenza dell’anno stesso, dell’1,5% più il 75% dell’aumento dell’indice ISTAT dei prezzi di consumo.

26. Diritto all’anticipazione del t.f.r.L’art. 2120 c.c. prevede, inoltre, la possibilità per i lavoratori con almeno 8 anni di servizio a chiedere un’anticipazione del TFR di importo non superiore al 70% del TFR fino a quel momento maturato. L’anticipazione può essere richiesta una sola volta durante tutto il rapporto di lavoro e deve essere giustificata da comprovati motivi di necessità di cure

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mediche o per l’acquisto della prima casa, nonché per le spese da sostenere da parte del genitore lavoratore nei primi 8 anni di vita del bambino. Il datore di lavoro non è comunque obbligato a corrispondere l’anticipazione, e in suo favore sono infatti previsti dei limiti soggettivi ed oggettivi (legati al diritto all’anticipazione) posti, appunto, a tutela dell’interesse aziendale dell’impresa; più precisamente:

sul piano soggettivo, legittimati all’anticipazione sono solo il 10% degli aventi titolo (per raggiungimento degli 8 anni di servizio) e comunque non più del 4% dei dipendenti di un’impresa;

sul piano oggettivo, l’anticipazione può essere erogata solo per fini di previdenza, come prima detto (cioè per comprovate necessità di cure mediche o per l’acquisto della prima casa, o per le spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei congedi).

Oltre a tali limiti, il diritto all’anticipazione è condizionato anche dalla disponibilità dei mezzi finanziari dell’impresa, ed infatti se quest’ultima versa in una condizione di crisi e non può fronteggiare il pagamento anticipato del TFR, ne è esonerata. Infine è fatta salva la possibilità per i contratti collettivi, ma anche per quelli individuali, di prevedere condizioni più favorevoli per quanto concerne i limiti soggettivi ed oggettivi imposti all’erogazione dell’anticipazione.

27. Indennità per causa di morteL’art. 2122, 1° comma, c.c. prevede che in caso di morte del lavoratore, le somme spettanti a titolo di TFR, sino ad allora maturate, debbano essere corrisposte ai beneficiari superstiti del lavoratore, espressamente indicati dalla legge (coniuge, figli e, se viventi a suo carico, parenti entro il 3° grado ed affini entro il 2°), secondo l’accordo dagli stessi preso o secondo il bisogno di ciascuno. Ne consegue che i beneficiari dovranno comunicare al datore di lavoro le quote di ripartizione delle somme tra di loro concordate; in caso di controversia o di mancato accordo, sarà indispensabile il ricorso all’autorità giudiziaria. Insieme alle somme del TFR va corrisposta anche una somma pari all’indennità di mancato preavviso. Tale criterio dettato dall’art. 2122 cod. civ. non vale però per la ripartizione delle somme spettanti iure successionis, in quanto le stesse soggiacciono alle ordinarie regole di devoluzione dell’eredità (testamentaria o legittima, secondo quanto disposto dal codice civile per le successioni per causa di morte). La regola è infatti quella iure proprio (gli eredi iure proprio sono quei soggetti titolari di un diritto indipendentemente dalla qualifica di erede).

28. Campo di applicazione della nuova disciplina. Efficacia assolutamente inderogabileLa disciplina del TFR fin’ora analizzata, al di là del tradizionale rapporto di lavoro subordinato privato (cui si riferiva la precedente disciplina dell’indennità di anzianità) si applica a tutti i rapporti di lavoro subordinato, ivi compresi quelli del personale navigante: aereo e marittimo, nonché a tutti i rapporti di lavoro subordinato per i quali siano previste forme di indennità di TFR variamente denominate (anzianità, buonuscita, ecc.) e disciplinate da qualsiasi fonte legislativa o contrattuale, ed anche al settore del pubblico impiego, che in precedenza restava escluso, ma che in seguito la privatizzazione dello stesso, la disciplina in questione si è estesa anche ai lavoratori pubblici. Un aspetto importante da sottolineare, in materia di TFR, riguarda l’efficacia della relativa disciplina, assolutamente inderogabile sia in melius che in peius, non solo dall’autonomia individuale, ma anche da quella collettiva. Infatti, tutte le clausole dei contratti collettivi regolatrici della materia delle indennità di fine rapporto comunque denominate, sono considerate nulle e sostituite di diritto.

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Si tratta, perciò, di una normativa che non lascia spazio al principio del favor, e quindi a trattamenti più favorevoli per il lavoratore, e che si basa sull’assoluta inderogabilità delle condizioni sia minime che massime del TFR, al fine di tutelare l’interesse pubblico e contenere il costo del lavoro.

29. Forme volontarie e complementari di previdenza (Comprensivo dell’AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010)Accanto alle forme obbligatorie di previdenza previste dalla legge, sono previste forme volontarie di previdenza che l’imprenditore può realizzare tramite l’ausilio e la partecipazione dei propri dipendenti, al fine di erogare prestazioni economiche in caso di eventi e bisogni del lavoratore: sono vere e proprie forme di retribuzione differita in funzione previdenziale. L’art. 2123 c.c. - Forme di previdenza: “salvo patto contrario, l’imprenditore che ha compiuto volontariamente atti di previdenza può dedurre dalle somme da lui dovute quanto il prestatore di lavoro ha diritto di percepire per effetto degli atti medesimi. Se esistono fondi di previdenza formati con il contributo dei prestatori di lavoro, questi hanno diritto alla liquidazione della propria quota, qualunque sia la causa della cessazione del contratto”- consente, in effetti, al datore di lavoro di provvedere volontariamente, accanto al TFR, all’erogazione di prestazioni sostitutive o integrative in caso di sospensione dell’attività lavorativa per impossibilità del lavoratore (malattie, infortuni, gravidanza, servizio militare, ecc.). In particolare, il 1° comma di tale articolo autorizza il datore a dedurre/ricavare quanto corrisposto al prestatore, a titolo di accantonamento del TFR e delle indennità previdenziali solitamente dovute; ed inoltre, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, riconosce al lavoratore il diritto alla liquidazione della propria quota (c.d. conto individuale), in aggiunta al TFR, qualora abbia contribuito alla formazione di fondi aziendali di previdenzaNel corso degli anni ’90, e soprattutto con il ridimensionamento del sistema previdenziale pubblico per far fronte alla spesa pubblica, sono sorti dei fondi pensionistici complementari del sistema di assicurazione obbligatoria che hanno creato un collegamento diretto tra il diritto del lavoratore a questa forma di retribuzione differita e la finalità di assicurare più alti livelli di copertura previdenziale (propria degli anzidetti fondi pensionistici complementari), perseguita dal legislatore quale risposta al ridimensionamento delle prestazioni pensionistiche del sistema previdenziale pubblico, attuato per contenere la spesa pubblica. Essi possono essere istituiti da contratti collettivi anche aziendali, ovvero, in mancanza di questi ultimi, da accordi fra lavoratori, promossi comunque da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro; inoltre, essi possono essere istituiti da apposito regolamento aziendale, nonché dagli enti che gestiscono la previdenza obbligatoria dei liberi professionisti. L’accesso alle forme pensionistiche complementari può essere realizzato, inoltre, mediante l’adesione a fondi aperti in virtù di previsioni di base contrattuale collettiva. L’onere del finanziamento dei fondi pensione grava sui destinatari e, nel caso in cui essi siano lavoratori subordinati o parasubordinati, anche sul datore di lavoro o committente. Al finanziamento della forma pensionistica complementare si provvede altresì mediante conferimento del t.f.r. Dal 1° gennaio 2008 tutti i lavoratori, nel termine di 6 mesi dall’assunzione, hanno avuto e avranno la possibilità di decidere di destinare il TFR a fondi pensioni complementari, istituiti dalle stesse imprese o da altre imprese private, o di trattenere il TFR in azienda godendo dello stesso alla cessazione del rapporto di lavoro e senza destinarlo a fondi pensionistici complementari, ma partecipando tramite il proprio apporto individuale a fondi pensionistici alternativi per avere poi oltre che la propria pensione anche una pensione integrativa. Il conferimento del TFR potrà allora avvenire secondo: modalità esplicite , entro 6 mesi, appunto, dalla data di prima assunzione;

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modalità tacite , qualora il lavoratore non esprima formalmente la propria volontà contraria entro tale periodo di tempo, e allora il TFR sarà trasferito alla forma pensionistica collettiva, prevista dai contratti collettivi, o a quella a cui l’azienda ha aderito con il maggior numero di lavoratori, o ancora in mancanza di accordo tra le parti e di una forma pensionistica collettiva, ad una forma pensionistica complementare presso l’INPS.

La L. n°296/2006 (finanziaria 2007) ha previsto che il lavoratore debba scegliere se destinare il TFR ad una forma di previdenza complementare o lasciarlo presso il datore di lavoro entro 6 mesi dall’assunzione. Qualora non effettui alcuna scelta, esso convoglierà inevitabilmente presso la forma pensionistica collettiva. Tra l’altro, qualora l’azienda abbia più di 50 dipendenti, il datore di lavoro dovrà trasferire il TFR maturando lasciatogli dal lavoratore ad un fondo apposito dell’INPS.

CAP. 8°: GARANZIE DEI DIRITTI DEI LAVORATORI

1. Il sistema delle garanzie dei diritti del prestatore di lavoroIn generale, per “garanzia”, sia essa costituzionale, giurisdizionale (es. esecuzione di una sentenza) o patrimoniale (es. retribuzione), intendiamo il rafforzamento della tutela di un interesse giuridicamente protetto. Nel caso specifico, della materia del diritto del lavoro, per garanzia intendiamo il rafforzamento della tutela dei diritti del lavoratore, già protetto dal nostro ordinamento, in quanto contraente debole nel rapporto con il datore di lavoro. Attorno ai diritti dei lavoratori ruotano, infatti, tutta una serie di norme poste a garanzia e che godono di inderogabilità, non potendo l’autonomia privata, in alcun modo, discostarsene o modificarle.2. Le garanzie del credito e dei diritti del lavoratore. Garanzia generale patrimoniale e cause legittime di prelazione; azione di rivalsa; privilegio generale sui mobiliNell’analizzare le garanzie poste a tutela dei lavoratori, partiamo dalle garanzie inerenti il diritto di credito che il lavoratore vanta nei confronti del datore di lavoro. Tali garanzie sono strutturalmente e funzionalmente uguali a quelle previste per il rafforzamento della comune responsabilità patrimoniale, prevista a garanzia della generalità dei creditori, ed a maggior ragione al lavoratore, vista la sua posizione di preferenza. L’art. 2740 c.c., in tema di responsabilità, prevede infatti che il datore debitore debba rispondere dell’adempimento dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri, mentre al 2° comma, dispone che sono cause legittime di prelazione:

il privilegio, il pegno, l’ipoteca,

per le quali alcuni creditori hanno la precedenza rispetto ad altri, e possono rifarsi sul debitore prima di altri. Il lavoratore può quindi vantare, nei confronti del datore di lavoro, un privilegio in considerazione della causa del credito: in particolare si tratta di un privilegio generale sui mobili del debitore/datore di lavoro, in funzione delle:

retribuzioni dovute ai lavoratori subordinati, delle indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto lavorativo, dei danni conseguenti alla mancata corresponsione di contributi previdenziali ed

assicurativi, del risarcimento del danno subito per effetto di licenziamento inefficace, nullo o

annullabile”. Ancora l’art. 2776 c.c. prevede che qualora i beni mobili siano insufficienti per soddisfare i relativi crediti privilegiati esistenti, ci si potrà rifare sui beni immobili del datore di lavoro, seguendo un certo ordine di precedenza:

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i crediti relativi al TFR ed all’indennità di mancato preavviso, i crediti di lavoro, i crediti dello Stato e dei creditori chirografari (cioè quelli che non godono di

prelazione). Infine, secondo quanto prescritto per l’azione diretta di rivalsa nel contratto di appalto, il prestatore di lavoro dipendente dall’appaltatore può rivalersi, per i propri crediti, anche nei confronti del committente nei limiti di quanto dovuto dallo stesso all’appaltatore. Tale tutela è stata rafforzata dall’introduzione della responsabilità solidale dell’appaltante con dell’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, per la totalità dei debiti retributivi e previdenziali, dovuti dal secondo ai propri dipendenti e agli altri istituti previdenziali.

3. Garanzia del TFR e degli altri crediti nelle procedure concorsualiLe norme suddette sui privilegi si applicano anche in caso di fallimento e di altre procedure concorsuali. E’ previsto che in caso di esercizio provvisorio dell’attività d’impresa, i crediti maturati dai lavoratori siano considerati crediti di massa e pertanto vadano collocati al primo posto nella distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo (c.d. pre-deduzione). Tuttavia, tale tutela è inefficace quando dalla liquidazione, il residuo patrimonio dell’imprenditore fallito non è sufficiente a soddisfare i crediti dei lavoratori. Per questo motivo, il Consiglio dell’UE (allora CE) ha emanato 2 direttive che hanno previsto l’applicazione della la tutela dei crediti di lavoro a tutte le ipotesi d’insolvenza del datore di lavoro che comportino l’apertura di una procedura concorsuale.a) L’attuazione di una delle 2 Direttive, quella n°287/1980 è avvenuta in due tempi:

con il primo intervento legislativo italiano, avvenuto nel 1982, è stato istituito presso l’Inps un Fondo di garanzia, alimentato attraverso un contributo versato dalle aziende che si sostituisce al datore non solo in caso di insolvenza, ma anche in caso di mera inadempienza nel pagamento del TFR. (N.B. L’insolvenza è la situazione in cui un soggetto economico, solitamente un imprenditore commerciale ed in questo caso il datore di lavoro, non è in grado di onorare regolarmente e con mezzi normali di pagamento, tutte le obbligazioni assunte alle scadenze pattuite; per cui, a differenza del semplice inadempimento (quando l’obbligazione assunta non viene eseguita, in questo caso il pagamento del TFR), si riferisce, non ad una singola obbligazione, bensì a tutta la situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, risolvendosi in una situazione di impotenza economica e funzionale, non transitoria ed irreversibile). Al riguardo, il legislatore ha distinto:

il caso dell’insolvenza del datore accertata in sede di procedura concorsuale, dove il lavoratore e i suoi aventi causa hanno il diritto di presentare la domanda per il pagamento del TFR da parte del Fondo, decorsi 15 giorni dal deposito dello stato passivo o della sentenza di omologazione del concordato preventivo;

il caso dell’inadempienza del datore non assoggettabile alle procedure concorsuali, dove il lavoratore è tenuto prima ad esperire l’esecuzione forzata sul patrimonio del datore e solo nel caso in cui essa risulti insufficiente per l’erogazione del TFR, può presentare la domanda per il pagamento del TFR da parte del Fondo.

In entrambi i casi, il Fondo è tenuto al pagamento del trattamento insoluto entro 60 gg. dalla richiesta, surrogando il lavoratore nella posizione di creditore privilegiato nei confronti del datore.

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con il secondo intervento legislativo italiano, avvenuto 10 anni dopo con D.lgs. n°80/1992, è stata data completa attuazione della Direttiva n°287/1980, e sono stati addossati al Fondo di garanzia del TFR gli ulteriori rischi connessi all’insolvenza del datore sia sul versante retributivo che su quello previdenziale, ma entro certi limiti. Il Fondo copre, infatti, solo i crediti relativi agli ultimi 3 mesi del rapporto di lavoro e, comunque, entro un massimale predeterminato; per essi il lavoratore può chiedere l’intervento del Fondo in tutti i casi di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria. Qualora il datore non sia soggetto a tali procedure, occorrerà, come abbiamo visto per il TFR, che il risultato dell’esecuzione forzata sul patrimonio del datore sia insoddisfacente per potere il lavoratore rivolgersi al Fondo di garanzia. Quest’ultimo deve quindi pagare i crediti diversi dal TFR, ma solo quelli relativi agli ultimi 3 mesi del rapporto di lavoro rientranti nell’anno che vanno calcolati o dalla data del provvedimento di apertura della procedura concorsuale, o dalla data d’inizio dell’esecuzione forzata, o dalla data di cessazione del rapporto lavorativo, o dalla data di cessazione dell’esercizio provvisorio o di messa in liquidazione dell’impresa. La garanzia si prescrive entro 1 anno ed il relativo pagamento non è cumulabile con il trattamento straordinario di CIG fruito nei 12 mesi precedenti la procedura concorsuale, né è cumulabile con l’indennità di mobilità corrisposta nei 3 mesi successivi alla risoluzione del rapporto di lavoro.

b) L’altra Direttiva emanata dal Consiglio Europeo, quella n°75/2002, ha, invece, previsto una tutela dei crediti a favore di lavoratori dipendenti di un’impresa, la cui attività sia presente/svolta in almeno 2 Stati membri differenti.

4. I vincoli alla destinazione del creditoIl credito che il lavoratore vanta, in forza dell’attività lavorativa prestata, non è tutelato dalla legge solo nei confronti del datore-debitore, per cui abbiamo visto le cause di prelazione, ma anche nei confronti dei creditori del lavoratore, cioè gravano sul credito da lavoro subordinato dei vincoli alla destinazione. Nello specifico, la legge stabilisce l’assoluta indisponibilità degli assegni familiari che hanno carattere previdenziale e non retributivo, perché viceversa le somme dovute al lavoratore a titolo di retribuzione o altre indennità con carattere retributivo, derivanti dal rapporto di lavoro, possono essere pignorate, sequestrate e soggette a compensazione o cessione di credito nella misura di un quinto (molto spesso si sente parlare della cessione del quinto dello stipendio, ed è proprio a questa misura che si fa riferimento quando il lavoratore vincola un quinto, appunto, della sua retribuzione per usufruire di prodotti finanziari). Anche i fondi speciali di previdenza, predisposti dall’imprenditore-datore a favore dei lavoratori anche senza una loro contribuzione, sono vincolati nella loro destinazione, costituendo patrimonio separato sul quale i creditori non possono rifarsi.

5. Tutela dei crediti nel trasferimento d’aziendaUn’ulteriore forma di garanzia dei crediti, accanto ai vincoli alla destinazione ed alle cause di prelazione, è quella offerta dall’art. 2112 c.c. (Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda: “in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi

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applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello. Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’articolo 2119, primo comma. Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento. Nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all’articolo 1676”) che disciplina gli effetti del trasferimento d’azienda (che ricadono) sui rapporti di lavoro, tutelando l’interesse dei lavoratori non solo per i diritti di credito, ma anche per il diritto alla conservazione del posto di lavoro.

6. Nozione di trasferimento d’azienda. Concetto di entità economica organizzataPer comprendere meglio gli effetti della disciplina legale sul trasferimento d’azienda, che ricadono sui rapporti di lavoro, dobbiamo innanzitutto capire che cosa si intende per trasferimento d’azienda, la cui definizione è contenuta all’interno dell’art. 2112, 5° comma, c.c., ovvero “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o a fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata (con o senza scopo di lucro) preesistente al trasferimento, e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto d’azienda”. Rientrano, quindi, in tale definizione tutti i mutamenti della persona dell’imprenditore, purché persista un’attività economica organizzata. Il 5° comma prevede, poi, che la disciplina in materia di trasferimento d’azienda si applichi anche al “trasferimento di parte dell’azienda”, ossia il trasferimento di un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento. Quest’ultima formulazione si contrappone alla precedente, in base alla quale l’articolazione funzionalmente autonoma da trasferire doveva essere preesistente al trasferimento e conservare in esso la propria identità; la nuova previsione mira invece ad agevolare le operazioni di esternalizzazione di fasi o parti dell’attività, favorendo anche la cessione di parti dell’azienda prive di un’autonomia funzionale al momento del trasferimento. La Corte di giustizia dell’Unione Europea, ha poi considerato “trasferimento d’azienda” anche il semplice mutamento di soggetti nello svolgimento di un’attività (es. successione di2 operatori economici nell’esecuzione di opere o servizi di appalto), senza che sia necessario il trasferimento di elementi patrimoniali materiali o immateriali, ma piuttosto occorrendo una valutazione di tutte le circostanze che caratterizzano l’operazione economica. Sulla base di questo orientamento, il legislatore comunitario ha stabilito che è considerato “trasferimento quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria. Proprio

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alla luce di questa evoluzione normativa e giurisprudenziale, uno degli interventi legislativi italiani in materia: il D.lgs. n°276/2003, appare ambiguo e solleva delle perplessità, per avere previsto che l’acquisizione di personale già impiegato in un appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non sia da considerarsi come trasferimento d’azienda o di parte di essa; il che sembrerebbe entrare in contrasto con l’interpretazione della Corte di Giustizia, a meno che non si interpreti in senso limitativo il disposto del legislatore italiano, ossia nel senso che il mero trasferimento di personale non possa essere considerato come integrante la fattispecie del trasferimento di un’attività economica organizzata.

7. Principio della continuità del rapporto di lavoro e cessione di parti o fasi dell’attività produttivaUno degli interessi principali del lavoratore in caso di trasferimento d’azienda è la tutela delle posizioni individuali, senza mutamenti nelle proprie condizioni lavorative. L’aspetto più rilevante di tale tutela è costituito dal principio dell’automatica continuazione dei rapporti di lavoro con il cessionario e della conservazione dei diritti maturati dal lavoratore (art. 2112 c.c.). Tale principio trova conferma e rafforzamento nel 4° comma, secondo cui il “trasferimento non costituisce di per sé valido motivo di licenziamento”; anche se la stessa norma riconosce tanto al cedente che al cessionario la facoltà di procedere ad eventuali licenziamenti nel rispetto della disciplina legale e collettiva in materia. Confrontando questa disciplina con quella generale dettata dall’art. 2558 c.c.: successione nei contratti in caso di cessione d’azienda, va osservato che:

- l’art. 2558 c.c. prevede il subentro dell’acquirente in tutti i contratti dell’alienante, salvo patto contrario con lo stesso alienante. Quindi la successione è sì automatica se non viene pattuito diversamente, ma derogabile;

- l’art. 2112 c.c. prevede invece che la successione (subentro dell’acquirente in tutti i contratti dell’alienante) nel contratto di lavoro sia un effetto necessario ed inderogabile, seppur rimane la possibilità il recesso giustificato del cedente. Ciò in rispetto alla finalità della tutela riconosciuta al lavoratore di vedere continuare il suo rapporto di lavoro non solo nei confronti del singolo datore X, ma nei confronti proprio dell’impresa, intesa come attività economica organizzata.

Ma ancora, dall’art. 2112, 1° comma, c.c. si deduce che per l’automatico trasferimento dei contratti di lavoro al cessionario, non è richiesto il consenso del lavoratore e che egli non ha la facoltà di opporsi al trasferimento del proprio contratto, salvo che non si dimetta con preavviso, ai sensi dell’art. 2118, 1° comma, c.c. Diversamente, se il lavoratore, nei 3 mesi successivi al trasferimento, subisca una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, “può rassegnare le proprie dimissioni” per giusta causa, avendo così diritto all’indennità di mancato preavviso. La tutela apprestata dall’art. 2112 c.c. è però vantaggiosa solo nel caso di trasferimento totale dell’azienda, mentre in caso di trasferimento di parti autonome o meno funzionali, i lavoratori potrebbero trovarsi dinanzi a contratti collettivi meno favorevoli o alla mancata attuazione dell’art. 18 stat. lav. per evidenti limiti dimensionali e quindi trovarsi davanti alla mancanza di applicazione della tutela reale.

8. Tutela individuale e collettiva del lavoratore nel trasferimento. Trasferimento d’azienda in caso di procedure concorsuali e crisi aziendaliAltro principio posto a tutela del lavoratore è quello dal 2° comma dell’art. 2112 c.c., il quale prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento, indipendentemente della loro conoscenza o conoscibilità del cessionario.

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Il cedente, quindi, rimane obbligato insieme al cessionario, solidalmente appunto, per il pagamento dei crediti vantati dal lavoratore, salvo liberazione del cedente tramite procedure conciliative. In aggiunta, va segnalata l’ulteriore garanzia a favore del lavoratore ceduto nei casi in cui, a seguito del trasferimento di un ramo d’azienda, tra cedente e cessionario sia concluso un contratto di appalto, con utilizzazione dell’entità trasferita: in tal caso si applica la regola della responsabilità solidale dell’appaltante/committente con l’appaltatore per quanto riguarda i trattamenti retributivi e contributivi previdenziali dovuti da quest’ultimo ai propri dipendenti, entro il limite di non più di 1 anno dalla cessazione dell’appalto, ma di 2 ( AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010).Diversa è poi la garanzia della conservazione dei trattamenti economici e normativi previsti da contratti collettivi nazionali, aziendali e territoriali goduti al momento del trasferimento, fino alla scadenza del contratto, salvo esso sia sostituito da altro contratto collettivo dello stesso livello applicabile all’impresa del cessionario. Per quanto riguarda infine la consultazione sindacale, che tutela collettivamente i lavoratori, l’art. 47 della L. n°428/1990 prevede che, se l’azienda di cui si vuole perfezionare il trasferimento ha più di 15 dipendenti, tanto il cedente che il cessionario devono preventivamente comunicare in forma scritta la volontà di giungere ad una cessione alle RSU o RSA (istituite presso le rispettive unità produttive interessate dal trasferimento) o ai sindacati di categoria (che hanno stipulato il contratto collettivo in esse applicato) almeno 25 giorni prima della conclusione dell’atto di trasferimento, inserendo tutte le informazioni inerenti i motivi del trasferimento e le conseguenze economiche, giuridiche e sociali per i lavoratori. Entro 7 giorni le rappresentanze sindacali possono far richiesta di un “esame congiunto della situazione” ed il cedente ed il cessionario dovranno provvedervi entro 7 giorni dalla richiesta. L’accordo dovrà essere raggiunto entro 10 giorni, altrimenti l’esame congiunto si riterrà esaurito. La violazione degli obblighi fin qui previsti viene considerata e quindi disciplinata come condotta antisindacale.

AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:8 bis. Il trasferimento d’azienda nei casi di procedure concorsuali e di crisi aziendaliQualora l’imprenditore cedente versi in una situazione di crisi economica sottoposta a procedure concorsuali (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, ecc.), impossibilitata nella continuazione dell’esercizio di un’attività economica organizzata non ancora cessata, la legge favorisce il trasferimento d’azienda, anche qualora questo porti ad una conservazione parziale dell’occupazione.

Ai lavoratori non licenziati, che passano alle dipendenze dell’acquirente/cessionario non sarà applicabile l’art. 2112 c.c. (ossia il diritto al mantenimento dei diritti precedenti al trasferimento d’azienda) inapplicabilità/deroga che non è però automatica ma necessita di un accordo sindacale.

Tale accordo sindacale può anche prevedere che i lavoratori licenziati (il personale eccedente) rimangano alle dipendenze

dell’alienante/cedente, ed al riguardo viene assicurato il diritto di precedenza nelle assunzioni che l’acquirente/cessionario dell’azienda effettuerà entro un anno dalla data del trasferimento, dichiarandosi anche per essi inapplicabile l’art. 2112 c.c. (ossia il diritto al mantenimento dei diritti precedenti al trasferimento d’azienda).

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9. Le rinunzie e le transazioni. La certificazione. Compressione della facoltà di disposizione dei diritti del prestatore di lavoroFin’ora abbiamo trattato delle norme inderogabili, contenute in diverse leggi o in contratti collettivi, che riconoscono e attribuiscano diritti e relative tutele al lavoratore. È allora possibile che nonostante ciò la relativa facoltà di disposizione del lavoratore venga meno per via di una compressione, o addirittura per via di una soppressione? La risposta è si.La compressione o soppressione, di tale facoltà di disposizione dei propri diritti soggettivi, può essere resa necessaria dall’esigenza di tutelare:

1. o un interesse pubblico contrastante con l’interesse del titolare del diritto soggettivo (lavoratore),

2. o un interesse privato del titolare stesso, la cui volontà può apparire inidonea alla valutazione o insufficiente alla realizzazione dell’interesse stesso.

La seconda delle due ipotesi si manifesta nel rapporto di lavoro: considerata la tipica posizione di contraente debole, i suoi atti di disposizione dei diritti riconosciutigli dall’ordinamento possono rappresentare un fenomeno di reazione, tendente:

- ad eludere/sviare/evitare i limiti imposti all’autonomia negoziale - a violare le corrispondenti norme imperative.

Di qui la disciplina dettata dall’art. 2113 c.c., novellato dalla L. n°533/1973, sulla riforma del processo di lavoro, il quale prevede l’invalidità delle rinunzie e delle transazioni del lavoratore in tali casi.

10. Origini della limitazione della facoltà di disposizione, l’originario 2113 c.c. e la riforma del 1973La tutela del lavoratore, per ciò che riguarda la limitazione della propria facoltà di disposizione degli atti ad esso riconosciuti dall’ordinamento, in origine partiva dal fatto che la volontà del lavoratore, nel porre in essere una rinunzia od una transazione, fosse viziata da un timore verso il datore, assimilabile ad una violenza morale. Ciò portò ad una distinzione tra i negozi di disposizione antecedenti e negozi di disposizione susseguenti alla cessazione del rapporto di lavoro, ritenendo invalidi i primi e validi i secondi. Il codice civile accolse però tale distinzione solo parzialmente all’interno dell’art.2113, in quanto sì equiparò i negozi di disposizione antecedenti e successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, ma fissò un termine di tre mesi (dal negozio o dalla cessazione) entro il quale proporre la domanda giudiziale di annullamento del negozio di disposizione, con la conseguenza che trascorsi i tre mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, i negozi successivi sarebbero risultati invalidi, mentre quelli precedenti sarebbero rimasti validi. Il nuovo testo dell’art. 2113 c.c., come novellato dalla L. n°533/1973 meglio nota come Riforma del processo di lavoro, ha semplicemente prolungato il termine per l’impugnazione da 3 a 6 mesi, rendendo così la stessa stragiudiziale e non giudiziale. La norma è stata, inoltre, estesa ai lavoratori autonomi la cui opera prevalentemente personale abbia carattere continuativo e coordinato all’impresa del datore di lavoro.

11. Invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratorePrima di analizzare la disciplina normativa delle rinunzie e delle transazioni contenuta nell’art. 2113 c.c. (Rinunzie e transazioni: “le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art.409 c.p.c., non sono valide. L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del

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lavoratore idoneo a renderne nota la volontà. Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta per controversie individuali”), vediamo in generale cosa si intende con tali termini:

- la rinunzia è un negozio unilaterale (dispositivo) recettizio (cioè destinato ad una determinata persona) con il quale il lavoratore rinuncia ad un suo diritto soggettivo;

- la transazione è un negozio bilaterale (dispositivo), a titolo oneroso, mediante il quale lavoratore e il datore di lavoro facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che potrebbe insorgere (N.B. come il compromesso, la transazione si configura come uno strumento di composizione di liti, ma si differenzia dallo stesso, perché con esso le parti si impegnano a far decidere una lite tra loro già insorta a degli arbitri privati. Con il compromesso, quindi, non si evita la lite, ma si deroga solo alla giurisdizione ordinaria).

L’art. 2113, 1° comma, c.c. in merito a ciò dispone che siano invalide le rinunzie e le transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore derivanti da norme inderogabili di legge o da contratti/accordi collettivi e concernenti rapporti di lavoro subordinato o autonomo ed associato, sottoposti alla competenza del giudice del lavoro; sono, invece, esclusi i lavoratori autonomi titolari d’impresa o che abbiano con l’impresa un rapporto discontinuo. L’invalidità può essere fatta valere tramite atto d’impugnazione (che può anche essere stragiudiziale), e trattandosi di negozio unilaterale recettizio, la comunicazione della volontà di non dare effetto alla rinunzia o alla transazione che deve pervenire al datore di lavoro:

- deve essere messa per iscritto, pena l’inefficacia (es. lettera raccomandata); - non richiede necessariamente un’azione in giudizio, tipica degli atti di impugnazione,

ma necessita comunque di una sentenza costitutiva del giudice che accerti l’invalidità, in quanto quest’ultima si configura nell’annullabilità e non nella nullità. L’azione in questione si prescrive in 5 anni dalla data d’impugnazione, termine che tutela tanto il lavoratore quanto il datore di lavoro;

- deve essere presentata entro il termine di 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro se la rinunzia o la transazione siano avvenute nel corso del rapporto di lavoro, oppure entro 6 mesi dalla data del negozio dispositivo di rinunzia o transizione, se esse siano intervenute dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

Effetto dell’impugnazione è la contestazione della validità del negozio di rinunzia o transazione e dunque l’instaurazione, nei confronti del datore di lavoro, della controversia finalizzata all’accertamento dell’invalidità del negozio dispositivo, ed al soddisfacimento delle pretese derivanti dai diritti oggetto della disposizione; in questo modo oggetto dell’impugnazione sarà la restituzione o riparazione dei diritti lesi in conseguenza del negozio invalido. Così, oggetto dell’impugnazione e della successiva azione di annullamento è la restituzione o la riparazione dei diritti lesi in conseguenza del negozio invalido.

12. Inderogabilità delle norme di legge e dei contratti collettivi e limiti all’autonomia dispositiva del lavoratoreLa ratio dell’art. 2113 c.c. non è da ricercare nella volontà del legislatore di privare totalmente il lavoratore del potere di disposizione dei propri diritti, bensì nella volontà di aiutare una categoria socialmente sottoprotetta come lo è quella dei prestatori di lavoro. L’art. 2113 c.c. fondamentalmente riprende il principio dell’inderogabilità dei contratti collettivi, secondo il quale il lavoratore non potendo rinunciare ai propri diritti, vede rafforzato un suo interesse, rappresentato da un minimo inderogabile di trattamento economico e normativo. Si tratta quindi di una limitazione solo parziale della facoltà di disposizione dei propri diritti, determinata dalla disciplina inderogabile della legge e della contrattazione collettiva.Sono invece valide, secondo l’art. 2113, 4° comma, c.c. le rinunzie e le transazioni avvenute in sede di conciliazione delle controversie individuali, dove la disposizione

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dei diritti avviene con l’assistenza dell’organo conciliatore. Ad esse sono poi equiparate le sedi di certificazione competenti a certificare le rinunzie e transazioni di cui all’art. 2113 del c.c. a conferma della volontà abdicativa o transattiva (smettere di usare, rinunciare) delle parti stesse”, così equiparando gli organi di certificazione a quelli preposti alla conciliazione stragiudiziale. Tutto ciò dimostra come non ci sia una carenza del potere di disposizione del lavoratore inerente i propri diritti, bensì una limitazione di tale potere nel suo stesso interesse. Non potendo rinunciare a propri diritti, il lavoratore vede rafforzato un suo interesse, rappresentato da un minimo inderogabile di trattamento. Per ciò che concerne, infine, le transazioni collettive poste in essere dai sindacati, esse necessitano della ratifica dei lavoratori coinvolti, in quanto devono essere manifestate dalla volontà del lavoratore.

13. Le quietanze a saldo e la rinuncia tacitaSulla base di quanto detto, analizziamo le ulteriori caratteristiche di questi 2 istituti.La transazione, in realtà, può ben celare una rinunzia: è per tal motivo che l’art. 2113 c.c. accomuna i due casi. In una lite già esistente o nella prevenzione di una lite non ancora esistente, il peso, la concessione del lavoratore è di gran lunga inferiore rispetto a quello/a del datore di lavoro, il che potrebbe portare quest’ultimo a ricevere del datore di lavoro, piuttosto che a concessioni reciproche, tipiche della transazione. Particolare è il caso delle quietanze a saldo o quietanze liberatorie, ossia dichiarazioni rilasciate dal lavoratore con cui egli afferma, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, di aver ricevuto qualcosa e di rinunciare ad ogni eventuale futura pretesa. Esse comunque sono semplici dichiarazioni di scienza, non idonee a dar luogo ad un negozio giuridico e quindi a fare nascere obbligazioni, quanto a constatare una certa realtà di fatto. Delicati problemi, meritevoli di attenzione, dà la c.d. rinunzia tacita, cioè la possibilità di ravvisare nel comportamento del lavoratore una manifestazione indiretta della volontà negoziale di rinunciare ad un proprio diritto. Per i negozi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, una simile ipotesi è impossibile, in quanto il termine di decadenza decorre dalla data del negozio, e quindi implicitamente è richiesta la forma scritta; mentre per le transazioni, addirittura, è lo stesso art. 1965 c.c. a richiedere ad probationem la forma scritta. Per i rapporti in corso, invece, è ritenuta insufficiente la tolleranza del lavoratore per manifestare la dismissione di un proprio diritto, per cui sarà necessaria un’indagine rigorosa e solo in presenza di una consapevolezza dell’esistenza del diritto e di una univoca volontà abdicativa, potrà essere valida la rinunzia tacita; analogo orientamento investe tutte le ipotesi di acquiescenza/approvazione/accettazione del lavoratore ad eventuali decisioni del datore volti ad introdurre, durante lo svolgimento del rapporto, modificazioni sfavorevoli del contratto di lavoro.

14. CertificazioneIl D.lgs. n°276/2003 ha introdotto l’istituto della certificazione dei contratti di lavoro, che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe rappresentare uno strumento a disposizione delle parti per ridurre il contenzioso in materia di lavoro. La certificazione, inoltre, è quello strumento finalizzato:

- all’identificazione degli effetti del contratto,- alla qualificazione del contratto, sulla base tipologie di rapporto previste,

le parti hanno infatti l’onere di indicare sull’istanza quali effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali intendono far accertare. Gli effetti della certificazione permangono non solo tra le parti, ma anche verso terzi (istituti previdenziali, autorità pubbliche in genere, ecc.), mentre gli organi competenti alla certificazione dei contratti di lavoro sono:

- le Commissioni istituite presso Direzioni provinciali del lavoro, - le Università,

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- le Province, - la Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro del Ministero del lavoro e

delle politiche sociali, - gli Enti bilaterali (organismi costituiti grazie ad una o più associazioni dei lavoratori,

soggetti quindi creati dall’autonomia collettiva).Le Commissioni di certificazione svolgono, poi, un ruolo di consulenza ed assistenza delle parti, sia in fase di attuazione del rapporto di lavoro, sia in fase di stipulazione, per la determinazione di obblighi e diritti futuri tra le parti. Il Ministro del lavoro ha, inoltre, il compito di stabilire con proprio decreto “codici di buone pratiche” per individuare quali siano le clausole indisponibili inerenti trattamenti economici e normativi da accertare in fase di certificazione. Non dobbiamo comunque dimenticare il carattere volontario della procedura, per il quale le parti possono sottrarsi alle clausole indisponibili evitando il ricorso alla certificazione.In conclusione:

in sede di certificazione le parti sono libere di determinare il contenuto del contratto e di modificarlo anche successivamente all’atto amministrativo. La commissione non è vincolata al nomen iuris indicato dai contraenti, ma deve certificare la qualificazione in conformità al tipo o modello legale adeguato al rapporto effettivamente voluto dalle parti;

il ricorso al giudice del lavoro è l’unico strumento per contestare la certificazione e le regole sono quelle ordinarie dell’azione e del processo, con l’unica eccezione che il tentativo obbligatorio di conciliazione dovrà essere effettuato davanti alla commissione che ha emesso l’atto di certificazione. L’atto di certificazione può, inoltre, essere impugnato per violazione procedurale o per eccesso di potere dei soggetti legittimati al ricorso ordinario.

15. Prescrizione e decadenza. La prescrizione dei diritti dei lavoratoriIn linee generali, i diritti del lavoratore (crediti retributivi) sono di regola sottratti alla prescrizione ordinaria decennale e soggetti alla prescrizione breve quinquennale disposta dall’art. 2948 c.c. e riguardante tutto ciò va pagato periodicamente (ad anno o in termini più brevi, come ad es. le rendite vitalizie, gli interessi, ecc.); alla prescrizione ordinaria decennale vanno invece ricondotti tutti quei diritti diversi dalla retribuzione (come ad es. il diritto alla qualifica superiore, al risarcimento del danno contrattuale, al risarcimento per mancato versamento dei contributi assicurativi, ecc.). La prescrizione, è il caso di ricordarlo, non può riguardare diritti indisponibili della persona, e quindi anche del lavoratore, quali quello all’integrità fisica ed alla sicurezza del lavoro. Diversa dalla prescrizione estintiva di diritti, appena esaminata, è la prescrizione presuntiva, la quale ammette, solo tramite confessione giudiziale o giuramento decisorio, prova contraria fornita dalla controparte del pagamento del debito; essa può essere di:

- 1 anno per il diritto dei prestatori a ricevere le retribuzioni corrisposte per periodi non superiori ad un mese,

- 3 anni per il diritto dei prestatori a ricevere le retribuzioni corrisposte per periodi superiori ad un mese.

In entrambi i casi, condizione necessaria per il decorso del periodo di prescrizione è l’ inerzia del titolare del diritto per il tempo previsto dalla legge. Il regime della prescrizione è inderogabile, oltre che irrinunciabile: da ciò si desume che il tempo previsto per legge sia condizione necessaria e sufficiente perché il debitore acquisisca il diritto del creditore. L’effetto estintivo della prescrizione è in qualche modo accomunabile all’effetto dismissivo della rinunzia e della transazione di cui all’art. 2113 c.c.

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16. La decadenza. Le clausole di decadenza dei contratti collettiviLa decadenza, disciplinata dall’art. 2964 c.c., prende anch’essa, al pari della prescrizione, in considerazione il decorso del tempo ed in tal caso l’esercizio di un diritto viene sottoposto ad un termine perentorio (che non ammette proroga). Diversamente dalla prescrizione, però, essa non produce la perdita del diritto a favore di un diverso titolare, ma semplicemente la preclusione dall’esercizio del diritto. Essa può essere tanto legale, apposta cioè dalla legge, quanto contrattuale, apposta cioè dall’autonomia delle parti, con il solo limite per cui le parti non possono rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto. E’, infatti, molto diffusa nei contratti collettivi, specie in tema di instaurazione delle controversie di lavoro.(N.B. Per comprendere meglio e rinfrescarci la memoria, vediamo quali sono le differenze tra prescrizione e decadenza:

- la prescrizione è la perdita di un diritto per il suo mancato esercizio per periodo di tempo prescritto dalla legge, è sempre correlata a un diritto soggettivo ed ha riguardo alle condizioni soggettive del titolare del diritto. Il tempo è considerato come durata (per un certo periodo);

- la decadenza è la perdita della possibilità di esercitare un diritto per il mancato compimento di un atto nel termine perentorio prescritto dalla legge, può essere correlata anche a diritti potestativi ed ha riguardo solo al fatto obiettivo del trascorrere del tempo. Il tempo è considerato infatti come distanza (entro un certo periodo).

Al di là di ciò, uno stesso diritto può comunque essere soggetto sia a decadenza che a prescrizione, come ad es. nel caso della garanzia ex art. 1495 c.c. - Termini e condizioni per l’azione: “il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta (2), salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge. La denunzia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del vizio o l’ha occultato. L’azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna; ma il compratore, che sia convenuto per l’esecuzione del contratto, può sempre far valere la garanzia, purché il vizio della cosa sia stato denunziato entro otto giorni dalla scoperta e prima del decorso dell’anno dalla consegna”- che prevede un termine di 8 giorni per la denuncia del vizio dalla scoperta dello stesso a pena di decadenza, e il termine di 1 anno dalla denuncia per il diritto al risarcimento, a pena di prescrizione).

17. L’intervento della Corte costituzionale in materia di prescrizionePrescrizione e decadenza, secondo quanto abbiamo detto, producendo la perdita o la preclusione dell’esercizio del diritto, di fatto realizzano quanto previsto dalla rinunzia o dalla transazione: il lavoratore perde una situazione di vantaggio, un vero e proprio diritto soggettivo. Questo avrebbe dovuto portare, secondo una parte della dottrina, a decretare l’imprescrittibilità e l’indisponibilità dei diritti del prestatore di lavoro, ma la giurisprudenza della Corte Costituzionale si è assunta il compito di trasferire queste opinioni sul piano del diritto positivo, rendendo esplicito il principio della disponibilità limitata dei diritti del lavoratore. Su questa linea, la Corte costituzionale, con la sentenza n°63/1966, è intervenuta in materia dichiarando l’illegittimità di alcuni articoli del codice nella parte in cui prevedono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra in pendenza del rapporto di lavoro; ciò perché il diritto alla retribuzione è un diritto costituzionalmente garantito, al pari della situazione soggettiva di sottoprotezione sociale del lavoratore, il quale, nel timore di un eventuale licenziamento, si troverebbe in una situazione di soggezione tale da impedirgli l’esercizio pieno dei propri diritti (come il diritto alla retribuzione). A fondamento della pronuncia, la Corte costituzionale ha richiamato l’art. 36 Cost. in materia di retribuzione, che deve essere proporzionata e sufficiente, ha enunciato il principio dell’irrinunciabilità del diritto di credito alla retribuzione durante il rapporto di lavoro, ed ha, inoltre, previsto il

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differimento del termine per la prescrizione alla fine del rapporto, in quanto è solo da quel momento che acquista rilievo l’inerzia del prestatore. Stessa cosa vale per la decadenza, tanto legale quanto contrattuale. Si tratta di un vero e proprio esempio di giurisprudenza creativa ed innovativa, configurandosi la suddetta sentenza come “manipolativa di illegittimità parziale”.

18. Giurisprudenza costituzionale in tema di prescrizione dopo il 1966Nelle pronunce successive a quella del 1966, la Corte costituzionale è tornata sui suoi passi, sostenendo che con l’art. 18 stat. lav. la resistenza al licenziamento è divenuta più forte, rendendo così inutile il mancato decorso della prescrizione in pendenza del rapporto di lavoro, proprio in ragione del timore di licenziamento del lavoratore. La Corte è stata però criticata ampiamente dalla dottrina, per non aver tenuto conto che il datore di lavoro può manifestare la propria posizione di strapotere nei confronti del lavoratore anche tramite vie diverse dal licenziamento, ma la Corte è comunque rimasta ferma al pensiero che la prescrizione possa decorrere anche durante il rapporto di lavoro “stabile”, ridando vita così ad una norma dapprima ritenuta estranea all’ordinamento: prevede la reintegrazione come rimedio al licenziamento ingiustificato. La prescrizione, quindi, non decorre durante il rapporto di lavoro solo nei casi di libera recedibilità o nei rapporti tutelati da stabilità obbligatoria.

19. La composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro: La conciliazione e l’arbitrato.Passando alle garanzie di tipo strumentale, cioè quelle concernenti l’attuazione dei diritti del prestatore di lavoro, va detto che la composizione delle controversie individuali di lavoro è prevista dalla legge tanto in forma giudiziale quanto stragiudiziale; ed inoltre che la materia delle conciliazione e dell’arbitrato, sia rituale che irrituale, è strettamente collegata a quella delle rinunzie e transizioni.

a) Per quanto riguarda la conciliazione, è possibile distinguerla in: giudiziale , è esperibile in ogni momento del processo su iniziativa del giudice, il quale

deve tentarla sin dall’inizio. Qualora venga raggiunta va redatto il processo verbale, che è considerato titolo esecutivo;

stragiudiziale , è esperibile sia in sede sindacale, prevista dagli accordi collettivi, che in sede amministrativa, sempre per mezzo dei sindacati, dinanzi ad apposite commissione della Direzione provinciale del lavoro.

Inizialmente non era prevista, escludendo che potesse costituire un presupposto processuale per l’ammissibilità in giudizio della domanda volta alla rivendicazione della tutela dei diritti controversi. Solo in materia di licenziamenti individuali, la L. n°108/1990 aveva introdotto tale obbligatorietà, imponendo il tentativo di conciliazione come presupposto necessario per l’ammissibilità in giudizio della domanda volta alla riassunzione del lavoratore ingiustamente licenziato. La successiva privatizzazione del pubblico impiego portò poi all’applicazione della suddetta obbligatorietà anche nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazione.Nel 1998, l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, venne infine prevista per tutte le controversie di lavoro, sia pubbliche che private, quale condizione necessaria di procedibilità della domanda giudiziale. Una previsione speciale è stata invece introdotta dal D.lgs. n°276/2003, il quale ha previsto che in caso di ricorso contro la certificazione, deve essere esperito il tentativo di conciliazione obbligatorio dinanzi alla commissione che ha emesso l’atto di certificazione.

b) Per quanto riguarda l’arbitrato, altro strumento di tutela giurisdizionale del lavoratore tramite il quale le parti deferiscono/attribuiscono la decisione di una controversia ad un terzo; deferimento che può essere contenuto tanto in un compromesso, vero e proprio

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negozio di deferimento del potere decisorio, tanto in una clausola compromissoria appositamente apposta al contratto.Possiamo comunque, anche in questo caso, distinguerlo in:

arbitrato rituale, la cui disciplina contenuta nel c.p.c. è stata modificata nel 2006, ha i medesimi effetti di una decisione giurisdizionale, perché si svolge come un vero e proprio giudizio, secondo norme procedurali stabilite dalle parti stesse nel compromesso o nella clausola compromissoria o in altro atto, con l’unica differenza che non può, però, riguardare diritti indisponibili. In materia di controversie di lavoro, è poi stabilito che il ricorso all’arbitrato rituale è consentito solo qualora sia previsto dalla legge o dai contratti collettivi, quindi anche il compromesso o la clausola compromissoria che lo prevedano devono essere inclini alle previsioni normative.In generale nell’arbitrato rituale la decisione degli arbitri può avvenire secondo diritto oppure secondo equità se le parti hanno previsto quest’ultima ipotesi, anche se in materia di lavoro è prevista la sola pronuncia secondo diritto. La decisione presa è incorporata nel “lodo”: atto negoziale che acquista autorità di sentenza mediante un decreto di omologazione del giudice, il quale ne accerta la regolarità formale. L’impugnazione del lodo è ammessa dinanzi alla Corte d’Appello sia per nullità, che per revocazione che per opposizione di un terzo; invece è sempre ammessa per ciò che concerne le controversie di lavoro, l’impugnazione per violazione delle regole di diritto e per falsa applicazione dei contratti collettivi;

arbitrato irrituale o libero, ricorre quando le parti, sempre per mezzo di compromesso o clausola compromissoria, prevedono che un terzo (l’arbitro) si pronunci sulla controversia in via negoziale e non giurisdizionale, ossia per accertare le situazioni soggettive contrapposte che hanno generato la lite. Ecco perché l’atto dell’arbitro, chiamato sempre lodo, ha natura ed effetti contrattuali. Il lodo è impugnabile dinanzi al giudice del lavoro, la cui decisione non sarà a sua volta impugnabile se non in Cassazione. Trascorsi 30 giorni dall’emanazione del lodo o se il ricorso è stato respinto dal giudice del lavoro, il lodo viene depositato presso la cancelleria del Tribunale e viene dichiarato esecutivo con decreto. Va detto che dell’arbitrato irrituale è a sua volta possibile distinguere il c.d. arbitrato irrituale legalmente nominato, in cui l’attribuzione della controversia agli arbitri è consentita solo in caso di previsione legislativa o dei contratti collettivi, che devono, però, prevedere anche le norme procedurali per giungere al lodo.

La sostanziale differenza tra arbitrato rituale ed irrituale la ritroviamo nel fatto che quello rituale può essere alternativo alla giurisdizione secondo una previsione vincolante e preventiva delle parti; mentre quello irrituale non può essere reso vincolante in via preventiva dalle parti, perché semplicemente facoltativo e non alternativo alla giurisdizione.

20. La tutela giurisdizionale differenziata del lavoratore. La disciplina processuale delle controversie di lavoroPassando dalle garanzie di tipo strumentale, cioè quelle concernenti l’attuazione dei diritti del prestatore di lavoro, alle garanzie sostanziali dei diritti del prestatore di lavoro, esse trovano il loro completamento nella speciale disciplina delle controversie individuali di lavoro, che è stata progressivamente elaborata dal legislatore in funzione dell’inderogabilità tipica del regolamento del rapporto di lavoro. Questo spiega la specialità che caratterizza il processo del lavoro e che trova riscontro nella tutela giurisdizionale differenziata dei diritti soggettivi del lavoratore, quale contraente debole non solo nel rapporto con il datore ma anche nelle eventuali controversie con lo stesso. Gli aspetti sostanziali di tale tutela possono essere elencati come segue:

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- innanzitutto la tutela giurisdizionale differenziata dei lavoratori subordinati è stata estesa sia ai lavoratori associati nei contratti agrari, che a quelli autonomi che svolgano un lavoro prettamente personale però coordinato e continuato nei confronti di un’impresa (la c.d. parasubordinazione). Tale ampliamento non si configura però come una vera e propria parificazione dei lavoratori subordinati e di quelli autonomi, ma semplicemente di un’eguale tutela dei lavoratori autonomi in posizione di subordinazione, la c.d. parasubordinazione appunto;

- in secondo luogo, le controversie di lavoro vengono decise da un giudice monocratico del Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, il quale, essendo necessaria l’osservazione dei principi dell’immediatezza (tempi più brevi del processo), della concentrazione (difese precise ed indicazione dei mezzi di prova sin dall’inizio del processo) e dell’oralità (interrogatorio delle parti e discussione orale), risolve la controversia all’interno di un’unica udienza, pronunciando la sentenza al termine della stessa e leggendone il dispositivo. Solo nel caso in cui sia necessaria la risoluzione di una questione inerente l’efficacia, la validità o l’interpretazione di clausole apposte in un contratto collettivo, il giudice deve sospendere l’udienza e decidere con sentenza su tale questione, contro la quale si può ricorrere in Cassazione nel termine di 60 giorni, attendendo in tal caso la pronuncia della Corte;

- non meno interessanti sono le peculiarità della speciale disciplina delle controversie di lavoro per ciò che concerne le garanzie attinenti all’attuazione concreta dei diritti del lavoratore. Al riguardo 3 sono le garanzie che accompagnano la tutela dei diritti e, in particolare, del credito di retribuzione: l’art. 432 c.p.c. relativa alla valutazione equitativa dell’ammontare della

prestazione dovuta, dove il giudice deve disporre la liquidazione quanto sia certo il diritto da cui essa nasce;

l’art. 431, 1° comma, c.p.c. dispone che la sentenza di condanna per i crediti di lavoro sia munita della clausola di provvisoria esecuzione, inoltre l’esecuzione forzata in favore del lavoratore può essere iniziata in forza del solo dispositivo della sentenza e può essere sospesa, su istanza di parte, qualora superi 258,23 euro se ciò apportasse un gravissimo danno alla parte soccombente;

l’art 429, 3° comma, c.p.c. prevede, oltre al normale credito per gli interessi legali di mora in conseguenza del ritardato pagamento, il risarcimento del maggiore danno derivante dalla svalutazione monetaria dei crediti di lavoro. Per effetto di tale cumulo si rafforza non solo la tutela del credito di lavoro, ma scatta anche una sanzione pecuniaria a carico dello stesso datore soccombente per il ritardato pagamento e per le conseguenze pregiudizievoli ricadute sul lavoratore.

21. Depenalizzazione delle sanzioni previste per violazione di norme di lavoro. Vigilanza ed ispezioniNegli anni ‘90 si è assistito ad un processo di depenalizzazione delle sanzioni per illeciti in materia di diritto del lavoro. La L. n°449/1993 ha conferito al Governo la delega ad emanare norme di riforma dell’apparato sanzionatorio in materia di lavoro, al fine di trasformare alcuni illeciti penali ritenuti non particolarmente gravi in illeciti amministrativi. La L. n°449/1993 ha quindi individuato le materie rispetto alle quali doveva operare la delega (assunzione dei lavoratori, sicurezza ed igiene del lavoro, tutela del lavoro minorile, delle donne, ecc.); ed il governo, con una serie di decreti legislativi, ha provveduto a darvi attuazione. Questo significa che l’ordinamento ha dato valutazione differente rispetto al passato dell’inosservanza delle norme in materia di lavoro, che viene ormai configurata come un illecito di tipo amministrativo lesivo di interessi pubblici, la cui tutela è affidata all’amministrazione, anche attraverso l’esercizio del relativo potere sanzionatorio.

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Nonostante ciò, si è conservata la sanzione penale per la repressione di quei comportamenti del datore di lavoro ritenuti particolarmente gravi e pericolosi per la salute del lavoratore, quali l’assegnazione dei bambini e degli adolescenti a lavori pericolosi o insalubri; l’assegnazione al lavoro delle gestanti e delle puerpere a lavori considerati nocivi, ecc. Sono quindi state sottratte alla depenalizzazione tutte quelle condotte che possono pregiudicare l’integrità psico-fisica del lavoratore. Il D.lgs. n°124/2004 ha, poi, innovato la disciplina legislativa in materia di servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, garantendo:

- una maggiore efficienza degli stessi, tramite una riorganizzazione territoriale e un migliore coordinamento interno; ed

- una maggiore efficacia dell’azione di vigilanza, tramite una revisione degli strumenti giuridici conferiti agli ispettori, quali: la prescrizione obbligatoria, il cui ambito di applicazione riguarda tutti i casi in cui

l’ispettore abbia rilevato violazioni di carattere penale, punibili con l’arresto o l’ammenda, ma non sanabili,

la diffida, il cui ambito di applicazione riguarda tutti i casi in cui l’ispettore, benché abbia rilevato delle violazioni, le ritenga sanabili.

Particolare attenzione merita infine la procedura di conciliazione monocratica presso le Direzioni provinciali del lavoro collegata all’attività ispettiva. Con essa si giunge ad una soluzione conciliativa della controversia.

CAP. 9°: I RAPPORTI SPECIALI DI LAVORO

1. Introduzione. La specialità come strumento di differenziazione della disciplina del rapporto per una specifica tutela del prestatore di lavoroLa previsione dei rapporti speciali di lavoro, diversi da quello tipico o subordinato, nasce dall’esigenza di differenziare la disciplina del rapporto di lavoro in relazione:

- alle caratteristiche specifiche dell’attività lavorativa,- alle articolazioni in cui si snoda la situazione di sottoprotezione, sociale e tipica, del

lavoratore subordinato. In effetti, l’obiettivo di tutelare la posizione del lavoratore, quale contraente debole, richiede un adattamento/adeguamento del modello tipico di tutela, sulla base:

- dei diversi interessi soddisfatti dal contratto,- delle modalità concrete di scambio,- delle modalità concrete di uso della prestazione di lavoro.

La realtà del lavoro subordinato non si presenta dunque come un universo omogeneo, ma differenziato a seconda dei gruppi professionali e delle categorie sociali. In linea generale questa esigenza di adattamento viene avvertita e soddisfatta dalla contrattazione collettiva, in quanto è proprio al contratto collettivo che compete la funzione di fissare il regolamento normativo-tipo del rapporto contenente tutte le condizioni di impiego del lavoro. Tuttavia nei rapporti speciali di lavoro l’intervento del legislatore resta fondamentale, sia per ovviare ad un’eventuale insufficienza o inadeguatezza della contrattazione collettiva sia per favorire la formazione professionale e l’occupazione. Ecco perché possiamo affermare che la specialità del rapporto di lavoro si atteggia come uno strumento di tecnica

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legislativa funzionale alla tutela del lavoratore , adattando tali esigenze di con altri interessi pubblici o collettivi ritenuti dal legislatore particolarmente rilevanti. 2. I rapporti speciali caratterizzati dalla tipicità degli interessi pubblici coinvolti: Il rapporto di lavoro dei marittimi e della gente dell’ariaUno dei rapporti di lavoro speciale è quello inerente il personale addetto alla navigazione marittima e il personale dell’aria. Tale rapporto è disciplinato all’interno del Codice della navigazione, l’unica fonte che disciplina l’intera materia nautica e quindi anche i rapporti di lavoro. La ratio di tale disciplina speciale, dedicata a questa categoria di lavoratori, trova fondamento in ragioni di interesse pubblico quali la sicurezza e la regolarità della navigazione, nonché la conservazione del patrimonio navigante.

- Per il personale marittimo, l’assunzione necessita di stipulazione formale (atto pubblico e forma scritta) dinanzi all’autorità marittima ed è subordinata all’iscrizione in appositi albi o registri.

- Per il personale di volo, l’assunzione necessita solo della forma scritta del contratto di lavoro, ed anche’essa è subordinata all’iscrizione in appositi albi e registri, dai quali si evince la propria idoneità al servizio o abilitazione professionale.

Ma ancora, in merito alla tutela del lavoratore nautico, sono previste garanzie rafforzatrici della tutela dei suoi diritti patrimoniali, le quali dispongono che esso:

- ha diritto alla retribuzione in ogni caso di sospensione del servizio per malattia o lesione;

- ha diritto al mantenimento a bordo della nave, con la prosecuzione della stessa retribuzione, fino all’integrale soddisfazione, se il credito per le retribuzioni maturate sia rimasto insoddisfatto;

- ha diritto a che i suoi crediti siano assistiti da privilegio speciale sulla nave o sull’aeromobile, e la relativa prescrizione non decorra in costanza del rapporto di lavoro.

E’ prevista, inoltre, per queste due categorie speciali di lavoratori, una deroga all’applicabilità della L. n°300/1970 (stat. lav.), perché pur essendo prevista un’applicazione generale dello statuto, per tali rapporti speciali lo stesso rinvia alla contrattazione collettiva. Ciò ovviamente è apparso alquanto infelice visto che, pur tutelando la posizione del lavoratore all’interno dell’impresa (nautica o aerea), tale tutela in parte rimaneva scoperta/disapplicata. Ecco che, allora, la Corte Costituzionale con una serie di sentenze è intervenuta per ridurre il rilievo del predetto rinvio alla contrattazione collettiva, escludendone l’operatività in materia di licenziamento e di sanzioni disciplinari. Per quanti riguarda infine le controversie di lavoro della gente di mare, queste sono devolute alla competenza esclusiva del giudice del lavoro.

3. Il pubblico impiego. Le sue origini storicheUn’altra tipologia di rapporti di lavoro speciali riguarda quelli che intercorrono tra le amministrazione pubbliche (Stato ed enti territoriali) ed un prestatore di lavoro, definiti fino agli anni ‘90 “rapporto di pubblico impiego”. Inizialmente, essendo limitate le funzioni dello Stato, i pubblici dipendenti erano inquadrati nella veste di “funzionari”, i quali rappresentavano l’amministrazione pubblica e dipendevano dal potere politico. Più specificatamente, l’impiegato pubblico intratteneva con l’amministrazione un duplice rapporto:

un rapporto organico o d’ufficio, in base al quale egli era legittimato ad esercitare i poteri connessi al proprio ufficio;

un rapporto di servizio, dal quale dipendevano diritti ed obblighi tanto dell’amministrazione, quanto del lavoratore.

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Il rapporto organico, tuttavia, prevaleva notevolmente su quello di servizio, il che aveva determinato da un lato la sistemazione del pubblico impiego nell’ambito del diritto pubblico e, dall’altro, aveva impresso al rapporto una supremazia ed un carattere autoritario da cui scaturivano diverse conseguenze (poi superate in seguito alla riforma):

il rapporto   non   si   costituiva   con   il   contratto , ma nasceva da un atto unilaterale dell’amministrazione pubblica, c.d. provvedimento di nomina, e proprio attribuiva sin dall’origine al rapporto un carattere autoritario;

il rapporto era interamente disciplinato   da   leggi   e   regolamenti ed era gestito mediante l’emanazione di atti amministrativi sia per l’assunzione, sia per ogni altra vicenda modificativa, che per l’estinzione;

la subordinazione era gerarchica, cioè non strumentale all’adempimento dell’obbligazione di lavoro, ma connessa con la struttura gerarchica degli uffici nei quali si articola l’organizzazione degli apparati amministrativi;

il giudice competente a conoscere e risolvere le relative controversie era quello amministrativo.

Tale configurazione del rapporto di pubblico impiego, col tempo, però, finì per riguardare, sempre più, dipendenti statali non investiti di una pubblica funzione (come invece avveniva per i funzionari) ed applicarsi anche ai dipendenti di “enti pubblici economici”, ossia enti che svolgevano un’attività d’impresa in settori in seguito privatizzati (poste, banche, energia, ecc.). Solo negli anni ‘70 la situazione mutò, grazie anche all’operato dei sindacati ed attribuendo rilevanza all’autonomia collettiva. Particolare rilevanza ha rivestito poi la L. n°93/1983, meglio nota come Legge quadro sul pubblico impiego, la quale ha stravolto la materia, distinguendo nettamente il pubblico impiego dal lavoro privato, ma avvicinando notevolmente le due categorie; essa ha infatti:

- favorite l’omogeneizzazione (rendere omogeneo, essere dello stesso genere) delle posizione giuridiche;

- favorito la perequazione (eguagliare, pareggiare) e la trasparenza dei trattamenti economici;

- favorito l’efficienza amministrativa del personale pubblico, - avvicinato nei contenuti la normativa dei rapporti di impiego pubblico a quella del

lavoro privato.In particolare aveva previsto l’inserimento sistematico dell’accordo sindacale.4. Le due fasi della riforme del pubblico impiego e la contrattualizzazione del rapportoFase 1:La tendenza a superare la divisione tra lavoro pubblico e lavoro privato, attraverso un’assimilazione del primo al secondo, accompagnata dalla necessità di razionalizzare il settore pubblico per migliorarne l’efficacia, l’efficienza e la produttività, è all’origine della riforma attuata con la delega conferita al Governo dall’art. 2 della L. n°421/1992, per l’emanazione di disposizioni volte a ricondurre sotto la disciplina del diritto civile i rapporti di lavoro pubblico, ad eccezione di quelli relativi ad alcune  categorie  dello  Stato (magistrati, avvocati e procuratori, personale militare, dirigenti generali, ecc.).  

- Una delle innovazioni fondamentali, prevista dalla legge delega, è stata l’abolizione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e l’attribuzione al giudice ordinario della competenza relativa alle controversie di lavoro dei pubblici dipendenti; ciò in stretta connessione con la c.d. “contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego” che adesso vedremo. (N.B. in generale per contrattualizzazione del pubblico impiego si intende la riconduzione della disciplina dello stesso alla

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contrattazione collettiva, quindi la privatizzazione del lavoro pubblico e sottoposizione dello stesso alle norme di diritto privato o c.c.).

- Altre novità introdotte con l’attuazione della legge delega, hanno portato a degli interventi di tipo “correttivo”, per armonizzare, omogeneizzare, coordinare la nuova disciplina del rapporto di lavoro pubblico (più vicina e affine a quella privata) con i canoni e vincoli propri del lavoro pubblico. Essi hanno, praticamente, attuato il principio della contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico (appena sopra mezionata), cioè hanno sottoposto alle norme del c.c. e alle disposizioni della contrattazione collettiva, la disciplina del pubblico impiego, creando così una disciplina eteronoma (non autonoma, quindi dipendente da altre fonti) dell’organizzazione amministrativa, in relazione a determinati interessi coinvolti.

Fase 2:Nell’arco di pochi anni, sia l’esperienza maturata nella prima fase di tale riforma sia l’esigenza di procedere ad un recupero di efficienza e ad una riduzione degli sprechi gestionali nell’ambito della pubblica amministrazione, hanno indotto il legislatore ad avviare una seconda fase della riforma. Così, con la L. n°59/1997, sono stati emanati ulteriori decreti delegati correttivi, contenenti nuove disposizioni per una parziale riforma riguardante:

- la contrattazione collettiva;- la rappresentatività sindacale nell’area del lavoro pubblico;- la completa integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro

privato;- l’estensione del regime privatistico del rapporto di lavoro anche ai dirigenti pubblici

generali, prima esclusi;- la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative al rapporto di lavoro.

Inoltre, l’esigenza di dare ordine alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico, in seguito a tutti questi interventi legislativi, ha indotto il legislatore ad intervenire delegando il governo ad emanare un testo unico che ne riordinasse le norme, anche apportando modifiche, necessarie per un migliore coordinamento delle stesse.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:Sempre in merito alla seconda fase di tale riforma, va ancora sottolineato che, al fine di introdurre anche nella pubblica amministrazione dei modelli organizzativi per obiettivi (cioè misurati sul raggiungimento di standards di efficacia, efficienza ed economicità), si è cercato di rendere più flessibile l’attività delle strutture. A tal fine, il legislatore ha distinto tra la:

- c.d. macro-organizzazione, comprendente gli atti generali di organizzazione (riguardanti nello specifico l’organizzazione degli uffici, l’individuazione degli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi) alla cui regolazione si deve provvedere con i principi generali fissati da disposizioni di legge;

- c.d. micro-organizzazione , comprendente le misure inerenti l’organizzazione degli uffici, le quali come le “misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro”, devono essere assunte dagli organi preposti alla gestione degli uffici, titolari della capacità e dei poteri tipici del privato datore di lavoro.

Negli anni successivi si sono avuti numerosi altri interventi legislativi, volti a regolamentare alcuni aspetti della disciplina introdotta nel corso di queste due fasi della riforma, che hanno in particolare riguardato le procedure di negoziazione collettiva. Inoltre prendendo atto della necessità di rendere più trasparente possibile l’operato delle amministrazioni al fine di:

- promuovere, da un lato, una maggiore integrità tra politici, dirigenti e lavoratori pubblici nel perseguimento dell’interesse pubblico, e

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- attribuire, dall’altro, una maggior controllo ai cittadini sui comportamenti degli amministratori,

il legislatore, nel 2009, ha avviato una nuova fase di riforma del lavoro pubblico, modificando in più parti la precedente normativa. Il nuovo intervento legislativo, ancora una volta attuato mediante una legge delega: la L. n°15/2009, seguita dal D.lgs. n°150/2009, appare finalizzato a correggere ed integrare la normativa precedente con norme volte ad ottenere una maggiore efficienza dell’attività delle pubbliche amministrazioni:

- incidendo, da un lato, sulla disciplina che regola i poteri dirigenziali di organizzazione delle strutture e del personale, e

- prevedendo, dall’altro, l’introduzione di modelli gestionali (tratti dal settore privato e adattati a quello pubblico) fondati sulla autonomia e responsabilità del dirigente manager e sulla valutazione delle performances/rendimento/prestazioni date dalle strutture, dai dirigenti e dal personale, con la conseguente possibilità di differenziare i trattamenti retributivi sulla base del merito.

5. Alcuni fondamentali profili di specialità del rapporto di lavoro pubblicoLa riforma del lavoro pubblico, nel precedente paragrafo esposta, pur avendo assoggettato il rapporto di lavoro pubblico all’autonomia (o contrattazione) privata individuale e collettiva, non ha eliminato i profili di specialità che lo caratterizzano e che emergono in riferimento alla prevalenza di un interesse pubblico. A) Tale specialità è anzitutto evidenziata dalle norme concernenti il sistema delle fonti, in base alle quali:

1. sono ripartite le competenze tra la legge e la contrattazione collettiva, 2. è regolata l’eventuale invasione di ciascuna fonte nell’ambito riservato all’altra. A

questo proposito il legislatore riconosce alla contrattazione collettiva una forza di resistenza che le consente di non essere continuamente derogata/modificata e stravolta da successivi interventi legislativi; mentre le norme di legge e di regolamento o gli atti amministrativi, che prevedono incrementi retributivi che incidono sui trattamenti economici e normativi fissati dai contratti collettivi, cessano automaticamente di essere efficaci a partire dal successivo contratto collettivo. Quindi la disciplina giuridica del lavoro pubblico sotto il profilo retributivo è derogabile dall’autonomia privata, ma nel rispetto di quanto previsto dai minimi retributivi imposti dalla contrattazione collettiva.

Ma ritornando al punto 1. e 2. dobbiamo precisare alcuni aspetti:1. sulla ripartizione delle competenze tra legge e contrattazione collettiva, il legislatore ha

distinto tra: gli atti di macro-organizzazione, riservati alla fonte unilaterale pubblicistica (legge o

atti di normazione secondaria); le determinazioni di micro-organizzazione o organizzazione degli uffici, nonché le

misure per la gestione dei rapporti di lavoro, alle quali si applica il regime privatistico.

Il D.lgs. n°165/2001 stabilisce, poi, che: ai rapporti di lavoro pubblico si applicano le norme del c.c. e le norme delle leggi sul

rapporto di lavoro privato, salve disposizioni particolari contenute nel presente decreto che delimitano gli elementi di specialità del rapporto di lavoro pubblico agli istituti espressamente disciplinati da questo decreto;

i rapporti di lavoro pubblico sono regolati contrattualmente (intendendo con tale espressione tanto i contratti collettivi quanto i contratti individuali), precisando che la contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al

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rapporto di lavoro, determina le materie relative alle relazioni sindacali, ed ha una riserva specifica in materia di trattamento economico fondamentale e accessorio;

i contratti individuali, cui spetta una competenza regolativa residuale, devono comunque rispettare il principio di parità di trattamento e non possono prevedere trattamenti inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi (due vincoli, questi, che sembrano configurare limiti esterni imposti – a tutela di un interesse pubblico – all’autonomia della pubblica amministrazione come pri-vato datore di lavoro. Infine, questo quadro va integrato con alcune previsioni contenute nel D.lgs. n. 165, le quali, in deroga alla generale competenza della contrattazione collettiva in materia di rapporto di lavoro – di cui si è appena detto – prevedono, da un lato, la competenza della legge, e l’esclusione della contrattazione collettiva, nella materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali e, dall’altro, che «nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge» (una disposizione quest’ultima, che specifica.

2. Sull’eventuale invasione di ciascuna fonte (legge) nell’ambito dell’altra (contrattazione collettiva), il legislatore si era, in passato, preoccupato di difendere sia:

gli ambiti di competenza della contrattazione collettiva (appunto in materia di disciplina del rapporto di lavoro pubblico) dalle possibili invasioni da parte della legge, prevedendo uno speciale meccanismo di salvaguardia della contrattazione collettiva. Aveva, infatti, stabilito che le norme di legge o di regolamento o di statuto, tranne quelle applicabili alla generalità dei lavoratori sia pubblici che privati, intervenute dopo la stipula di un contratto collettivo potevano essere derogate da successivi contratti collettivi e, per la parte derogata, diventavano inapplicabili, salvo che la legge stessa non avesse disposto espressamente il contrario. In occasione della riforma del 2009, il legislatore ha però ritenuto opportuno modificare radicalmente la propria posizione in materia, fissando in maniera esplicita, nell’ambito del D.lgs. n. 165, la regolamentazione imperativa di numerosi istituti del rapporto lavorativo;

gli ambiti di competenza della legge dalle possibili invasioni da parte della contrattazione collettiva,prevedendo la nullità delle disposizioni contrattuali collettive in violazione delle norme imperative di legge, con applicazione degli artt. 1339 e 1419, comma 2°, c.c. (cioè mantenere salvo il contratto sostituendo solo le clausole nulle).

B) Un’altra forma di specialità si evince nella definizione della qualifica dirigenziale e nella definizione delle relative responsabilità del dirigente. Egli ha sia una responsabilità di indirizzo politico, dovendo attenersi alle linee guida imposte dal potere politico, sia una responsabilità di direzione amministrativa, dovendo garantire l’efficienza della P.A. anche per quanto riguarda i rapporti di lavoro. L’organizzazione dell’apparato a cui è preposto il dirigente e la gestione dei rapporti di lavoro dello stesso, sono di competenza del dirigente in questione: egli, oltre ad essere responsabile per l’attuazione dei programmi politici, deve far in modo che la macchina organizzativa funzioni e sia quanto più efficiente ed efficace. Il ruolo dirigenziale si presenta oggi articolato in due fasce: il passaggio dalla seconda alla prima fascia costituisce un premio ed un’incentivazione al lavoro svolto dal dirigente, in quanto egli, per potersi attuare il passaggio, deve aver ricoperto per almeno 3 anni un incarico di direzione di uffici generali, senza essere incorso in alcuna responsabilità dirigenziale. L’attribuzione di tali incarichi non può avere durata inferiore a 3 anni e superiore a 5. Benché il rapporto di lavoro dei dirigenti sia stato contrattualizzato, esso non individua le funzioni dirigenziali, le quali sono previste in un provvedimento di conferimento di

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incarico, che vada a specificare oggetto dell’incarico, obiettivi e durata. Gli altri dirigenti, invece, svolgono un ruolo di ricerca, consulenza e studio, nonché funzioni ispettive od altre funzioni previste dall’ordinamento. Per evitare l’avvicendarsi continuo di dirigenti in base ai cambiamenti al governo di schieramenti politici, è previsto il sistema dello “spoilsystem”, secondo cui possono variare solo i vertici decorsi 90 giorni dalla fiducia data al nuovo Governo: cessa l’incarico, non il rapporto di lavoro, dei dirigenti uscenti.C) Un’altra connotazione speciale del lavoro pubblico la possiamo ritrovare nell’intervento del legislatore in merito ad alcuni istituti di particolare rilievo inerenti il rapporto di lavoro in questione. Se è vero, infatti, che lo Statuto dei lavoratori si applica anche alle pubbliche amministrazioni indipendentemente dal numero di dipendenti e che il rapporto di lavoro pubblico è oggi disciplinato dalle disposizioni codicistiche e dai contratti collettivi, non di meno bisogna sottolineare come il legislatore sia intervenuto in svariati casi:

- l’assunzione nei posti di lavoro pubblico avviene tramite concorso, come costituzionalmente previsto, ma in due modi diversi: se per il posto di lavoro è richiesta la sola scuola dell’obbligo, il reclutamento

avverrà tramite i Centri per l’impiego; se, invece, sono richiesti particolari requisiti, il reclutamento si svolgerà in una

vera e propria prova di verifica della professionalità (concorsi), adeguata ai criteri di pubblicità ed imparzialità, nonché a meccanismi oggettivi di valutazione e rispetto delle pari opportunità;

- l’istituto del part-time può essere realizzato solo su richiesta del lavoratore e concesso dall’amministrazione per cui lavora, che può comunque respingere la richiesta di trasformazione formulata dal lavoratore, non più (come in passato) solo qualora quest’ultimo intenda svolgere un’attività lavorativa in conflitto di interessi con la propria specifica attività di servizio, ma anche quando il passaggio al parttime comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio alla funzionalità dell’am-ministrazione stessa. In tal modo l’amministrazione riacquisisce un’ampia discrezionalità in materia, anche se il mancato accoglimento della domanda non può essere arbitrario ma deve essere sorretto da motivazioni di carattere organizzativo;

- anche le amministrazioni pubbliche possono avvalersi di tipologie contrattuali di lavoro flessibile la cui disciplina è affidata alla contrattazione collettiva. Essendo, però, state escluse dall’applicazione del D.lgs. n. 276/2003 (Riforma del mercato del lavoro), possono utilizzare solamente solo alcuni dei contratti subordinati di natura privata, quali il contratto di lavoro a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, somministrazione a tempo determinato e contratti di collaborazione continuativa e coordinata, e tra l’altro solo per esigenze temporanee ed eccezionali. Non possono invece utilizzare contratti di lavoro a progetto. Va poi ricordato che le pubbliche amministrazioni possono ricorrere a contratti di lavoro autonomo, pure di natura coordinata e continuativa, ai quali non è applicabile la disciplina sul lavoro a progetto e la legge stabilisce quindi che possono essere stipulati solo in presenza dei seguenti presupposti di legittimità: a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente. b) L’amministrazione deve avere accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno. c) La prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata. d) Devono essere preventivamente determinati la durata, il luogo, l’oggetto e il compenso della collaborazione. Infine, va sottolineato un aspetto peculiare della disciplina sanzionatoria, dettata per

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l’esigenza di rispettare l’art. 97, comma 3°, Cost., ovvero rispettare la tutela dell’imparzialità e qualità della selezione, e dunque garantire che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. A questo riguardo il legislatore ha stabilito che l’eventuale violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione sicché il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Si tratta di una previsione che differenzia profondamente il settore pubblico da quello privato e che, con riferimento specifico al contratto di lavoro a tempo determinato, è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale, proprio in ragione dell’esistenza dell’art. 97 Cost. Un’altra peculiarità, connessa, questa volta con i poteri gestionali attribuiti al dirigente consiste, da un lato, nell’obbligo, per le amministrazioni, di recuperare le somme pagate a titolo di risarcimento nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave; e dall’altro nel fatto che la violazione da parte degli stessi dirigenti della normativa predetta incide sulla responsabilità dirigenziale, posto che di tale violazione si terrà conto in sede di valutazione del loro operato;

- anche la disciplina delle mansioni presenta notevoli particolarità rispetto a quella fissata per il lavoro privato dall’art. 2103 c.c. Il D.lgs. n. 165 del 2001, infatti, specifica che il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito della dell’area di inquadramento o a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive. Tuttavia non è chiaro se l’equivalenza tra le mansioni definiti dai contratti collettivi sia presupposta, o se invece vada accertata caso per caso. Anche l’assegnazione temporanea a mansioni superiori è soggetta ad una disciplina speciale: essa può essere disposta per periodi non eccedenti i 6 mesi nelle ipotesi di carenze di organico, prorogabili a 12 nel caso siano state avviate le procedure per la copertura del posto vacante, oppure per la sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto per tutto il periodo dell’assenza. L’assegnazione a mansioni superiori, anche se illegittima (in quest’ultimo caso con responsabilità del dirigente che abbia agito con dolo o colpa grave), attribuisce al dipendente il diritto al maggior trattamento retributivo per il periodo di effettiva prestazione, ma, in espressa deroga all’art. 2103 c.c., non costituisce mai il presupposto del diritto alla promozione;

- una novità di rilievo riguarda poi la materia della valutazione, del merito e dei premi. Quanto al tema della valutazione, il legislatore ha inteso introdurre obbligatoriamente in tutte le amministrazioni un articolato sistema di valutazione circa il funzionamento e le perfomance delle strutture, dei dirigenti e dei dipendenti. Il sistema prevede l’istituzione al vertice della piramide di una Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, che opera in posizio-ne di indipendenza ed autonomia di giudizio rispetto al Governo, cui è affidato, tra i tanti, soprattutto il compito di promuovere l’adozione di sistemi finalizzati al miglioramento della performance delle amministrazioni;

- in merito alla responsabilità disciplinare e all’esercizio del potere disciplinare, il legislatore aveva originariamente previsto una disciplina analoga a quella stabilita per il settore privato dall’art. 2106 c.c. e dall’art. 7 dello stat. lav., ed in particolare aveva previsto una sorta di patteggiamento, in virtù del quale e in presenza del

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consenso di entrambe le parti, il lavoratore veniva sanzionato in misura ridotta, ma rinunciava all’eventuale impugnazione della sanzione medesima. Proprio la materia delle sanzioni disciplinari è stata oggetto di una profonda revisione in occasione della riforma del 2009, avendo il legislatore deciso di rinforzare il sistema sanzionatorio al fine di ottenere comportamenti meno assenteisti e più produttivi dei dipendenti pubblici; e tutte le nuove disposizioni sono state esplicitamente dichiarate ‘norme imperative’. Confermato il richiamo generico dell’art. 2106 c.c. (quanto al rispetto del principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione), il legislatore ha invece dettato uno speciale procedimento disciplinare, eliminando l’istituto del patteggiamento, e riconoscendo direttamente in capo al dirigente il potere/dovere di esercitare il potere disciplinare nel caso di infrazioni meno gravi (negli altri casi, non appena avuta cognizione dell’infrazione, egli deve comunque trasmettere gli atti all’ufficio disciplinare istituito ad hoc presso ogni amministrazione). Il dirigente è in particolare tenuto a prevenire e contrastare, nell’interesse della funzionalità dell’ufficio, le condotte assenteistiche dei suoi diretti dipendenti, nonché a vigilare «sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione». Numerose sono, poi, le sanzioni introdotte dalla legge per colpire specifici comportamenti del lavoratore, compresi quelli che cagionano un grave danno al normale funzionamento dell’ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale, accertate dall’amministrazione ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale;

- pure per le eccedenze di personale è stata dettata una disciplina speciale, simile a quella del settore privato, dalla quale tuttavia rimane sensibilmente diversa. I lavoratori in eccedenza, infatti, vengono collocati in “disponibilità” per un periodo massimo di 24 mesi con retribuzione a carico della stessa amministrazione e pari all’80% della retribuzione base, ma a differenza di ciò che avviene per la mobilità, la disponibilità non risolve il rapporto di lavoro, in quanto nella maggior parte dei casi il lavoratore verrà riutilizzato diversamente con il consenso dello stesso.

D) Ultimo profilo di specialità è rinvenibile nella disciplina delle controversie relative al rapporto di lavoro pubblico. Abbiamo già precisato che tali controversie devono essere, oggi, risolte dal giudice ordinario ed è stato reso necessario anche il tentativo di conciliazione. Rimangono di competenza del giudice amministrativo le sole controversie inerenti le assunzioni in seguito a concorso pubblico (quelle senza concorso sono competenza del giudice ordinario) e quelle relative ai rapporti non contrattualizzati.

6. Contrattualizzazione del lavoro pubblico ed interessi generali.Le disposizioni della riforma del lavoro pubblico non sembrano aver cancellato il collegamento funzionale tra il rapporto e l’interesse istituzionale della pubblica amministrazione all’organizzazione dei propri uffici e servizi. In particolare viene sancito il collegamento funzionale tra gli atti organizzativi a contenuto generale attraverso i quali si estrinseca il suddetto potere di organizzazione, e le determinazioni organizzative di contenuto puntuale e specifico che, al pari degli atti inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, vengono a collocarsi nell’area dell’organizzazione del lavoro e in un ambito esclusivamente contrattuale.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2009:Il Governo Berlusconi entrato in carica nel 2008 ha deciso di riformare nuovamente la disciplina del lavoro pubblico, per rendere la macchina pubblica italiana maggiormente efficiente tramite un’opera di risanamento e ristrutturazione. Un primo intervento è stato attuato dal D.L.112/2008, con cui si opera una riduzione della spesa pubblica attuando uno

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specifico piano in tema di reclutamento, di alcuni istituti del rapporto di lavoro e di relazioni sindacali. Anzitutto è stato arrestato il turn-over inerente le assunzioni, in quanto le pubbliche amministrazioni devono adeguare l’organico di cui dispongono alle proprie funzioni. Per far fronte all’assenteismo, inoltre, è stato previsto un nuovo regime di giustificazioni in caso di assenze per malattia, oltre all’intensificazione dei controlli ed alla previsione che nei primi 10 giorni di malattia venga corrisposto il solo trattamento economico fondamentale. Altro istituto ad essere toccato dalla riforma è stato quello del lavoro part-time pubblico: non è più diritto del lavoratore chiedere la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, ma si tratta di una concessione dell’amministrazione. Inoltre l’accesso all’assunzione part-time è ora più agevole per la PA: sebbene per le esigenze ordinarie essa sia tenuta ad assumere a tempo indeterminato, per le esigenze secondarie a carattere temporaneo essa può, al pari delle imprese private, far ricorso all’istituto del lavoro part-time, nonché ad altre forme contrattuali di lavoro flessibile, utilizzando il medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali, sebbene per un limitato periodo di tempo (3 anni in un quinquennio). Anche la materia della cessazione del rapporto di lavoro è stata profondamente innovata:

E’ stato introdotto l’esonero dal servizio, il quale può essere richiesto dai lavoratori a cui manchino 5 anni al raggiungimento del 40esimo anno di contribuzione: l’amministrazione può concedere, a sua discrezione, tale esonero, retribuendo per 5 anni il lavoratore al 50% della sua retribuzione economica e garantendogli il 100% di quella contributiva, in modo tale che il lavoratore accederà alla pensione come se avesse lavorato normalmente in quei 5 anni.

Sono state apportate modifiche per il trattenimento in servizio: il lavoratore può farne richiesta un anno prima del compimento dell’età massima prevista dal proprio ordinamento; l’amministrazione ha la facoltà di negare o concedere il trattenimento, salvo il caso di soggetti che non siano ancora in possesso dei requisiti pensionistici.

Indipendentemente dall’età anagrafica, inoltre, la P.A. può risolvere il contratto qualora il lavoratore abbia raggiunto i 40 anni di servizio, dando un preavviso di almeno 6 mesi. Si è ribadita, inoltre, la responsabilità dei dirigenti per violazione di norme imperative nella costituzione di rapporti di lavoro (che non danno mai vita, nella P.A., alla costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma che danno diritto al risarcimento del danno per il lavoratore). La L. 15/2009, poi, al fine di migliorare la produttività del lavoro pubblico e l’efficienza, oltre che la trasparenza, delle pubbliche amministrazioni, ha concesso una delega al Governo per intervenire su alcuni aspetti del lavoro pubblico, quali: il sistema delle fonti in materia di lavoro pubblico, per cui è stato previsto che la

deroga concessa ai contratti collettivi in materia può operare solo per espressa previsione di legge;

la disciplina della dirigenza: il dirigente deve essere indipendente del tutto dalla politica e dai sindacati; deve avere una responsabilità maggiore, rispondendo anche economicamente del proprio operato; deve accedere alla prima fascia dirigenziale tramite concorso. E’ limitato, inoltre, il ricorso a dirigenti esterni;

il miglioramento del sistema di valutazione delle pp. amm, dei loro dirigenti e dipendenti, con l’introduzione di un’Autorità indipendente che garantisca trasparenza dei sistemi di valutazione, affidata alla Corte dei conti ed agli stessi cittadini/utenti;

il sistema disciplinare, il quale deve mirare al miglioramento dell’efficienza dei vari uffici, potenziandone la produttività e combattendo l’assenteismo. Sono state precisate, infatti, alcune tipologie di infrazioni suscettibili di licenziamento.

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7. I rapporti speciali di lavoro caratterizzati dalla tipicità della posizione del datore e/o del prestatore di lavoro. Cenni generaliSi procede con l’analisi di tutti quei rapporti di lavoro qualificati come “speciali” non in forza di un interesse pubblico, bensì della posizione del datore e/o del prestatore di lavoro. Tuttavia non è la semplice diversità normativa a caratterizzare il rapporto di lavoro speciale, in quanto occorre che tale diversità incida su elementi del rapporto di lavoro subordinato tipico (collaborazione, subordinazione, retribuzione) indicato dall’art. 2094 c.c., come avviene per il lavoro subordinato a domicilio, per il lavoro sportivo e per diversi altri.8. Il lavoro subordinato a domicilio: definizione e caratteristicheLa nozione di lavoratore subordinato a domicilio la ritroviamo all’interno dell’art. 1 della L. 877/1973, dove è previsto che si per lavoratore a domicilio si intenda “chiunque, con vincolo di subordinazione, nel proprio domicilio o in locale di cui abbia la disponibilità, anche con l’aiuto di membri familiari conviventi e a carico, ma esclusi apprendisti o manodopera salariata, eserciti un lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime ed attrezzature proprie o dello stesso imprenditore”. Quindi, anzitutto vediamo come il legislatore abbia voluto evitare la condotta, in passato molto spesso posta in essere, di quegli imprenditori che, per sfruttare il lavoro a domicilio, utilizzavano la prestazione di manodopera esterna all’azienda, regolando il rapporto come lavoro autonomo o come appalto. Il comma 2 del suddetto articolo precisa, poi, la distinzione tra lavoratore subordinato a domicilio e lavoratore autonomo, prevedendo e sottolineando il vincolo di subordinazione esistente nel primo caso, il quale obbliga il lavoratore ad attenersi alle direttive dell’imprenditore nell’esecuzione della prestazione. Si tratta, è appena il caso di dirlo, di una subordinazione tecnico-funzionale per cui è sufficiente attenersi al potere direttivo dell’imprenditore, senza esserne alle dirette dipendenze. Ovviamente è necessario che il committente, nel caso di cui stiamo trattando, sia un imprenditore, altrimenti si tratta di lavoro autonomo, così come è necessario che l’attività venga svolta in locali direttamente riconducibili al prestatore di lavoro. Nel lavoro subordinato a domicilio si realizza un vero e proprio decentramento dell’attività di impresa, collocando all’esterno una parte di essa, sebbene il prestatore, in tal caso, goda di un determinato potere di gestione. Al decentramento produttivo va ricondotto anche il fenomeno del lavoro a distanza (c.d. telelavoro) caratterizzato dalla collocazione logistica del prestatore di lavoro all’esterno dell’impresa. La prestazione del lavoratore a distanza potrà essere ricondotta ad un contratto di lavoro subordinato, autonomo o anche parasubordinato.

9. La disciplina del lavoro subordinato a domicilioNell’ambito dell’art. 1, la stessa L. n. 877 ha dettato le norme sulla disciplina del rapporto e sulla prestazione e la retribuzione del lavoro a domicilio. Per ciò che concerne la prestazione, la legge esclude l’ammissibilità dell’esecuzione “di lavoro a domicilio che comportino sostanze nocivi o pericolosi”; è inoltre vietato affidare lavoro a domicilio per la durata di un anno a tutte quelle aziende che abbiano disposto licenziamenti oppure sospensioni del lavoro. Non essendo possibile la determinazione dell’orario di lavoro, l’unica forma idonea di retribuzione è il cottimo che fa riferimento esclusivo alla quantità prodotta. Se l’imprenditore committente affida una quantità di lavoro corrispondente all’orario normale di lavoro, il lavoratore a domicilio è obbligato ad astenersi. La legge ha stabilito che l’impiego dei lavoratori a domicilio avvenga previo inoltre ai Centri per l’impiego di un’apposita richiesta. Il contratto di lavoro a domicilio è uno dei rari contratti di lavoro in cui ha rilievo una forma scritta, ad probationem. Infatti, l’imprenditore committente deve tenere un registro nel quale vanno trascritti nominativi e domicilio dei lavoratori, tipo e quantità di lavoro, la misura della retribuzione; il lavoratore a domicilio deve essere munito di un speciale libretto di controllo.

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AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:l’imprenditore committente è obbligato a trascrivere il nominativo ed il relativo domicilio dei lavoratori esterni alla unità produttiva, nonché la misura della retribuzione nel libro unico del lavoro e, per ciascun lavoratore a domicilio, il libro unico del lavoro deve contenere anche le date e le ore di consegna e riconsegna del lavoro, la descrizione del lavoro eseguito, la specificazione della quantità e della qualità di esso.

10. Il lavoro domesticoIl lavoro domestico è caratterizzato da una prestazione eseguita nell’abitazione del datore di lavoro o, per meglio dire, in convivenza con lo stesso. La disciplina è contenuta all’interno degli artt. 2240 al 2246 c.c. ed all’interno della L. 339/1958, che non ha sostituito gli articoli codicistici, in quanto ha ad oggetto solo prestazioni continuative e di almeno 4 ore giornaliere. La contrattazione collettiva in materia si è avuta solo recentemente, in quanto l’art.2068 comma 2 c.c., oggi abrogato, non permetteva alla stessa di disciplinare il lavoro domestico. Contenuto ed oggetto del lavoro domestico sono i medesimi del lavoro subordinato in genere; sua caratteristica è invece la destinazione dell’attività lavorativa a vantaggio dell’organizzazione familiare e non di un’impresa o di un esercente un’attività professionale, sia pure non imprenditoriale. Va aggiunto che nel calcolo della retribuzione sono inclusi il vitto e l’alloggio del prestatore, in quanto convivente con il datore di lavoro, che deve provvedere, in caso di malattia del prestatore, alle cure ed all’assistenza medica dello stesso. E’ esclusa, dato l’ambito familiare in cui si attua questo tipo di lavoro, la tutela obbligatoria tanto quanto quella reale contro i licenziamenti. L’inserzione della prestazione lavorativa nell’ambito della comunità familiare spiega come il legislatore si sia preoccupato del riposo settimanale e dei riposi giornalieri e notturni, ma anche della salute e della personalità del lavoratore. La stessa legge, ai fini della durata del periodo di prova, distingue i lavoratori domestici con mansioni impiegatizie e prestatori d’opera manuale specializzata o generica. Passando ad esaminare i contenuti della contrattazione collettiva, gli aspetti più rilevanti riguardano la fissazione dei minimi salariali, dell’orario di lavoro, delle ferie, della conservazione del posto in caso di malattia. A tale proposito si può ricordare che la contrattazione collettiva prevede il divieto di licenziamento durante il periodo di gravidanza.

11. Il lavoro sportivoIl lavoro sportivo configura un altro rapporto speciale di lavoro subordinato, regolato dalla L. 23 marzo 1981, n. 91, all’interno del quale figurano come datore di lavoro una società sportiva e come prestatore uno sportivo professionista, intendendosi con tale definizione gli “atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso per un periodo di tempo continuativo nell’ambito di discipline regolate dal CONI ed avendo conseguito tale qualificazione dalle federazioni sportive nazionali con l’osservanza di direttive stabilite dal CONI per la differenziazione tra attività dilettantistica e professionistica”.La subordinazione, nel caso di lavoro sportivo, ricorre solo se l’attività sportiva è esercitata continuativamente ed il rispetto di uno dei tre requisiti che andiamo adesso ad elencare, presuppone l’assenza della subordinazione stessa, configurando il lavoratore come autonomo. I requisiti sono i seguenti: svolgimento dell’attività nell’ambito di una sola manifestazione o di poche manifestazioni in un breve periodo di tempo; mancanza del vincolo contrattuale di osservanza di sedute di preparazione e allenamento; prestazione continuativa sportiva che non superi le 8 ore settimanali, i 5 giorni mensili o i 30 giorni annuali. A parte la norma secondo cui l’assunzione dello sportivo professionista con contratto di lavoro può avvenire in modo diretto, il legislatore ha previsto che il contratto debba essere stipulato in forma scritta, a pena di nullità, secondo i l con t ra t to – t i po predisposto dalle

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federazioni sportive nazionali; ogni clausola del contratto individuale contenente deroghe peggiorative viene sostituita di diritto da quella del contratto – tipo.I contratti individuali devono essere depositati dalla società stipulante presso la federazione sportiva nazionale per essere convalidati. Esso deve contenere una clausola che stabilisca “l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici”. Al contrario, non può contenere clausole di non concorrenza o limitative, per il periodo successivo alla cessazione del contratto stesso.Al rapporto di lavoro sportivo subordinato non si applicano la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali ed alcune norme del Titolo I della L. n. 300. Si applicano, in quanto compatibili, le altre disposizioni non escluse dalla normativa speciale. Il contratto può avere una durata determinata, non superiore a 5 anni. E’ consentita, in questi casi, la cessione del contratto da una società sportiva ad un’altra prima della sua scadenza, purché lo sportivo contraente ceduto vi acconsenta. E’ stato, inoltre, abolito il vincolo sportivo, consentendo allo sportivo professionista di recedere unilateralmente dal contratto. Unico vincolo si ha per gli atleti il cui addestramento e la cui formazione tecnica sono stati assicurati da una società sportiva, che ha il diritto di stipulare con lo stesso il primo contratto professionistico. Un cenno conclusivo merita il “premio di addestramento e formazione tecnica”, che deve essere stabilito dalle Federazioni sportive nazionali in favore della società o associazione sportiva presso la quale l’atleta ha svolto la sua ultima attività dilettantistica o giovanile. Esso ha sostituito l’indennità di preparazione e promozione, ciò al fine di adeguare la normativa interna al principio della libera circolazione dei lavoratori sportivi in ambito comunitario.

12. I contratti di lavoro con finalità formativa: Le origini del contratto di apprendistato (o tirocinio)Il contratto di apprendistato, dal Codice definito come tirocinio e disciplinato negli artt.2130 al 2134 c.c., risale agli statuti corporativi del Medioevo: già all’epoca, infatti, esisteva l’apprendista, colui che, tramite un tirocinio d’arte o una professione inquadrata nella corporazione, mirava a diventare maestro o socio dell’artigiano, per poter esercitare il mestiere. Quindi l’apprendistato, per propria definizione, fa in modo che un soggetto impari un mestiere ed acquisisca delle competenze professionali utili nell’esercizio della propria attività e questo è ciò che per lungo tempo è avvenuto, anche in epoca moderna. Infatti giovani bisognosi, col passare del tempo ed attraverso un tirocinio, hanno acquisito una qualifica professionale che gli ha assicurato un posto di lavoro. Con l’evolversi della società e l’alternarsi dell’organizzazione taylorista e fordista all’industria tecnologica, l’apprendistato ha conosciuto un netto periodo di crisi, in quanto la maggior parte delle mansioni sono risultate per diverso tempo troppo elementari e per altrettanto tempo troppo complicate. Oggi non è sufficiente un semplice addestramento o tirocinio, ma occorre una formazione professionale adeguata, ecco perché il contratto di apprendistato è stato notevolmente rivisto, dopo essere stato utilizzato solo e solamente nell’artigianato, mentre la medio grande impresa prediligeva il contratto di formazione e lavoro. Il D. Lgs. 276/2003 ha previsto un nuovo apprendistato, distinto in tre diverse specie; inoltre, ha congelato in parte la normativa del c.f.l., impedendo la stipula di ulteriori contratti di formazione e lavoro nel settore privato, e lasciando l’istituto a disposizione delle pubbliche amministrazioni. In sostituzione del c.f.l. è stato introdotto il contratto di inserimento, la cui finalità formativa risulta marginale rispetto a quella di agevolare, tramite addestramento sul posto di lavoro, l’occupazione di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli del mercato del lavoro.

13. Le tre specie di contratto di apprendistato

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Abbiamo detto che esistono tre tipologie di apprendistato:1. qualificante: serve ad espletare il diritto-dovere di istruzione e formazione, ossia

a conseguire una qualifica professionale da parte di soggetti che abbiano compiuto il 15esimo anno di età e può durare al massimo 3 anni;

2. professionalizzante: serve ad acquisire una qualificazione attraverso la formazione sul lavoro, ed è destinato ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Può durare da un minimo di 2 anni ad un massimo di 6, anche se la durata è stabilita dai contratti collettivi;

3. specializzante: serve per l’acquisizione di titoli di studio secondari ed universitari, nonché di alta formazione o di specializzazione tecnica superiore. E’ rivolto ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Durata e regolamentazione sono rimesse alle Regioni per quanto concernente la formazione. Fino all’emanazione delle leggi regionali, tale disciplina è rimessa alla contrattazione collettiva.

14. Profilo causale. Fonti di regolazione del nuovo apprendistatoIl vecchio contratto di apprendistato disciplinato all’interno del Codice civile prevedeva che il datore di lavoro si avvalesse della prestazione lavorativa dell’apprendista, impartendogli l’insegnamento necessario per diventare un lavoratore qualificato e corrispondendogli una retribuzione per il lavoro svolto. La situazione, con il nuovo apprendistato diviso in tre tipologie, non è mutata. Si mira sempre alla formazione dell’apprendista ed alla sua retribuzione, sebbene la prima funga da obbligazione primaria del datore di lavoro. Il problema è nella disciplina, in quanto il D.lgs. n°276/2003 non ha regolamentato, se non sotto i profili essenziali, la materia. Bisogna quindi stabilire quale disciplina si applichi agli aspetti non regolati: si ritiene che debba applicarsi la disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

15. Disciplina contrattuale e del rapporto di lavoro nelle tre specie di apprendistatoIl D.lgs. n°276/2003 detta una serie di previsioni generali valevoli per le tre tipologie di apprendistato. Anzitutto il numero massimo di apprendisti alle dipendenze di un datore di lavoro non può superare il 100% dei lavoratori qualificati già dipendenti. Se il datore non ha lavoratori o ne ha meno di tre, potrà assumere 3 apprendisti. Inoltre gli apprendisti non possono avere una categoria di inquadramento di oltre 2 livelli inferiore rispetto ai lavoratori addetti a mansioni che richiedono le qualificazioni che l’apprendista raggiungerà al termine della formazione. Sono inoltre previsti degli incentivi di carattere normativo ed economico a favore di imprese che accoglieranno apprendisti al proprio interno, che si aggiungono agli incentivi di carattere contributivo-prevideziale. Il decreto in questione, inoltra, fissa dei principi comuni per ciò che riguarda l’apprendistato qualificante e quello professionalizzante, lasciando escluso e privo di disciplina il terzo tipo, quello specializzante. Infatti, per i primi due è previsto che il contratto rispetti la forma scritta ad substantiam e che contenga la prestazione lavorativa oggetto dello stesso contratto ed un piano di formazione individuale per il soggetto con individuazione della relativa qualifica. L’apprendista, inoltre, deve essere retribuito a tempo e non a cottimo. Il datore di lavoro, al termine dell’apprendistato può liberamente recedere dal contratto, dandone preavviso, mentre in costanza del rapporto non può recedere se non per giusta causa o giustificato motivo. Infine, i periodi di apprendistato del primo tipo possono sommarsi a quelli del secondo tipo per il raggiungimento dell’obiettivo formativo del secondo, ossia per il riconoscimento di una qualifica professionale.

16. Formazione professionale nelle 3 forme di apprendistatoSpetta alle leggi regionali stabilire la disciplina relativa ai tre tipi di apprendistato. Se, però, per quanto concerne il terzo tipo non vi è alcun vincolo previsto dal decreto 276, per il primo

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e secondo tipo di apprendistato sono previsti dei criteri direttivi, che limitano l’operato delle Regioni. Uno di questi limiti è costituito da un tetto di ore monte di ore di formazione esterna o interna all’azienda, congruo al raggiungimento della qualifica (per l’apprendistato del secondo tipo deve essere di almeno 120 ore annue). Per entrambe le forme di apprendistato, inoltre, l’apprendista ha diritto a conseguire la qualifica professionale inerente al percorso di formazione interna o esterna all’impresa, la quale deve essere registrata su un libretto formativo. L’apprendista deve essere affidato ad un tutor aziendale che abbia competenze adeguate. La materia, comunque, resta di competenza concorrente tra Stato e Regioni, sulla base dell’art. 117 Cost.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:La L. n°133/2008 ha modificato la materia dell’apprendistato del secondo (professionalizzante) e del terzo tipo (specializzante), lasciando inutillizabile il primo. Per l’apprendistato professionalizzante è stato prevista la soppressione della durata minima di 2 anni, lasciando inalterata la durata massima di 6 e rimettendo alla contrattazione collettiva la decisione circa la durata dello stesso. Sotto il profilo della formazione è stato introdotto un canale parallelo di formazione interamente previsto dalla contrattazione collettiva, con l’esclusione della competenza regionale. Per l’apprendistato specializzante è stato previsto che esso possa essere utilizzato per conseguire il titolo di dottore di ricerca in ambito universitario. Tale tipologia di apprendistato, inoltre, tramite una convenzione tra Università e datore di lavoro, può operare anche in assenza di regolamentazioni regionali, in base ad una convenzione stipulata direttamente dal datore di lavoro con le Università e le altre istituzioni formative. Infine è stata estesa anche all’apprendistato specializzante la disciplina di quello professionalizzante per ciò che concerne gli incentivi ed i principi disciplinanti (forma scritta, compenso NON a cottimo ecc). Inoltre la nuova disciplina ha abrogato, a grandi linee, gran parte della vecchia inerente l’apprendistato (visita sanitaria preassuntiva degli apprendisti, informativa semestrale alla famiglia, comunicazione alla Regione degli apprendisti e dei relativi tutori aziendali per la formazione esterna).AGGIORNAMENTO - RIFORMA MONTI 2012:Nell’intento di individuare nell’apprendistato il canale privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro, la riforma propone alcuni interventi volti ad migliorare i contenuti dell’istituto, e stabilisce una durata minima di 6 mesi del periodo di apprendistato, ferma restando la possibilità di durate inferiori per attività stagionali e fatte salve le eccezioni previste nel T.U. Inoltre sino a quando non sarà operativo il libretto formativo, la registrazione della formazione è sostituita (come di fatto già accade, ma con incertezze degli operatori) da apposita dichiarazione del datore di lavoro. In tal senso potrà essere previsto uno schema, da definirsi in via amministrativa, per orientare il datore di lavoro.

17. Contratto d’inserimento. Progetto individuale d’inserimentoIl D.lgs. n°276 2003 disciplina il contratto di inserimento, un nuovo tipo di contratto che, tramite l’adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, mira a favorire l’inserimento di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli del mercato. Anche qui si ha una finalità formativa, su cui però è preponderante l’inserimento del lavoratore. Per quanto riguarda i lavoratori, possono accedere alla stipulazione di un contratto d’inserimento:

Giovani di età compresa tra i 18 ed i 29 anni; Disoccupati di lunga durata di età compresa tra i 29 ed i 32 anni; Lavoratori con più di 50 anni di età privi di posto di lavoro; Donne di qualsiasi età appartenenti ad aree geografiche il cui tasso di occupazione

femminile sia inferiore del 20% rispetto a quello maschile, o il cui tasso di disoccupazione femminile sia superiore del 10% rispetto a quello maschile;

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Lavoratori che vogliono riprendere l’attività lavorativa e che non lavorino da almeno 2 anni;

Soggetti affetti da grave handicap fisico, psichico o mentale.Per ciò che concerne i datori di lavoro, invece, possono stipulare il contratto d’inserimento:

Enti pubblici economici; Imprese e consorzi; Gruppi di imprese; Associazioni professionali, sportive e socio-culturali; Fondazioni; Enti di ricerca pubblici e privati; Organizzazioni ed associazioni di categoria.

Sono esclusi i datori di lavoro che non abbiano mantenuto in servizio almeno il 60% dei lavoratori il cui contratto di inserimento sia scaduto nei 18 mesi precedenti, salvo che si tratti di un solo contratto scaduto. Per la validità del contratto il datore di lavoro deve aver predisposto, d’accordo con il lavoratore, un progetto di inserimento individuale. I piani individuali possono scaturire, anche, da contratti collettivi nazionali o territoriali. La formazione eventualmente maturata deve essere registrata sul libretto formativo.

18. Disciplina del contratto d’inserimento e del rapporto di lavoro. Incentivi economiciPer il contratto d’inserimento è prevista la forma scritta ad substantiam, oltre alla previsione del piano individuale d’inserimento: in mancanza dell’osservanza di queste regole, il lavoratore si considera assunto a tempo indeterminato. Il contratto stesso non può avere durata inferiore ai 9 mesi, né superiore ai 18 (36 per portatori di handicap). Il rinnovo del contratto è vietato, ma è concessa la proroga entro il limite massimo di altri 18 mesi (36 per i portatori di handicap). Si applica la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato così come prevista dal D.lgs. n°368/2001, salvo che i contratti collettivi non stabiliscano diversamente. Analogamente a quanto previsto per l’apprendistato, il lavoratore, durante il rapporto, non può avere una categoria d’inquadramento inferiore di più di due livelli a quella dei lavoratori regolarmente assunti le cui mansioni corrispondano alla qualifica che il lavoratore vuole conseguire. I lavoratori assunti con contratto d’inserimento non possono essere computati nei limiti numerici previsti da leggi o contratti collettivi per l’applicazione di determinate normative. Inoltre i datori di lavoro hanno diritto ad incentivi economici per la stipulazione di contratti d’inserimento, che perdono in caso di gravi inadempienze nella realizzazione del progetto individuale di inserimento.AGGIORNAMENTO - RIFORMA MONTI 2012:Nell’ambito della forma contrattuale del contratto di inserimento (che è, come è noto, un contratto a tempo determinato), vengono previste delle agevolazioni fiscali consistenti nella riduzione del 50% dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di 12 mesi nel caso di contratto di lavoro a tempo determinato (e ulteriori 6 mesi nel caso di successiva stabilizzazione, da fruirsi al termine del periodo di prova ove previsto) e di 18 mesi se il lavoratore è assunto a tempo indeterminato.

19. Il contratto di formazione e lavoro (c.f.l.) nelle pubbliche amministrazioniIl contratto di formazione e lavoro è stato totalmente vietato, all’interno del settore privato, dalla riforma del mercato del lavoro del 2003. Tuttavia, essendo ancora possibile stipularlo da parte delle pubbliche amministrazioni, è doverosa una trattazione dell’argomento, ricordando che la riforma suddetta non ha riguardato il settore pubblico. Con il c.f.l. possono essere assunti lavoratori tra i 16 ed i 32 anni ed esistono due tipologie di c.f.l.:

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una destinata all’acquisizione di professionalità intermedie o elevate, nella quale prevale una finalità formativa,

l’altra volta ad agevolare l’inserimento professionale del giovane dopo un adeguamento delle proprie capacità professionali, in cui prevale appunto l’inserimento occupazionale.

Come possiamo notare, la prima tipologia di c.f.l. assomiglia all’apprendistato, mentre la seconda è quasi identica al contratto di inserimento. Il c.f.l. di primo tipo può avere durata massima di 24 mesi, mentre quello di secondo tipo può durare 12 mesi. Inoltre le amministrazioni interessate devono predisporre dei c.d. progetti formativi (un po’ come avviene per l’inserimento), da sottoporsi all’approvazione preventiva di competenti organi individuati dalle regioni, salvo che il progetto non sia conforme a quanto previsto dall’autonomia collettiva. Anche in caso di c.f.l. vi sono, poi, dei tetti orari di formazione teorica oltre all’attività lavorativa: 20 ore per la seconda tipologia ed 80 e 130 per la prima. Il contratto di formazione e lavoro deve essere stipulato in forma scritta ad substantiam e copia del contratto deve essere consegnata al lavoratore. La disciplina contrattuale è quella del rapporto di lavoro subordinato in generale, almeno per le parti non derogate da leggi speciali. Alle amministrazioni pubbliche che stipulano questo tipo di contratti vengono garantiti incentivi economici, consistenti in una ridotta contribuzione previdenziale, che la Commissione Europea ha ritenuto, in alcuni casi, configurare l’ipotesi di aiuti di Stato alle imprese, pertanto vietati. Ecco perché il c.f.l. è stato vietato per quanto concerne il settore privato.

CAP 10°: LA TUTELA DEL LAVORATORE NEL MERCATO DEL LAVORO

1. La tutela del lavoratore nel mercato del lavoro: il diritto al lavoro.Il diritto al lavoro sancito dal 1° comma dell’art. 4 della Costituzione è una situazione soggettiva della quale sono titolari i cittadini e quindi soprattutto i lavoratori, cui la norma mira a garantire non soltanto la libertà di lavoro, intesa come offerta della forza-lavoro, ma altresì l’interesse all’occupazione dal lato della domanda di forza-lavoro. Si tratta di un diritto soggettivo individuale, ma la cui attuazione è prevalentemente collettiva. Significa che, come bisogno generalizzato di occupazione, il diritto al lavoro non può svilupparsi altro che sul terreno della tutela dell’interesse collettivo e quindi anzitutto dell’attività sindacale. Particolare rilievo ha inoltre l’attività dei pubblici poteri tendente alla promozione dell’occupazione. La tutela del diritto al lavoro viene in contatto con l’esercizio della libertà di iniziativa economica privata garantita dall’art. 41, comma 1°, Cost., peraltro entro i limiti costituiti non solo dal rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità della persona, ma altresì dai fini di utilità sociale (comma 2°). Se, da un lato, il lavoro non è una merce, ma implica necessariamente la persona del lavoratore, dall’altro lato l’inserzione del lavoro nell’attività produttiva dipende da una decisione economica. Nell’uno e nell’altro caso, peraltro, si ha una relazione di scambio tra l’offerta di forza lavoro e l’utilizzazione della stessa nelle organizzazioni private e pubbliche: su tale premessa la disciplina del mercato del lavoro ha lo scopo di proteggere i lavoratori dal rischio della disoccupazione e di garantire ai datori di lavoro la possibilità di una razionale utilizzazione dei lavoratori. La disciplina del mercato del lavoro trae fondamento dai principi costituzionali e nella situazione di sottoprotezione sociale del prestatore di lavoro. Il lavoratore vede rafforzata la sua posizione nel mercato del lavoro dal lato dell’offerta, nonché, dal lato della domanda di lavoro da parte delle imprese. Negli anni più recenti l’intervento pubblico è stato inteso come rivolto a sostenere e promuovere lo sviluppo della domanda di forza lavoro da parte delle imprese. Sotto altro profilo, la legge interviene anche delimitando i poteri dell’imprenditore in relazione alla cessazione del contratto di lavoro ovvero alla gestione delle eccedenze di personale. La

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disciplina del mercato del lavoro ha una funzione di tutela contro il rischio sociale della disoccupazione e quindi di sicurezza sociale. La tutela del diritto al lavoro è intesa come strumento di cittadinanza sociale ma anche come interesse protetto all’occupazione. Questa è divenuta una finalità non solo di rilievo nazionale, ma anche comunitario: a partire dal Trattato di Amsterdam, infatti, la tutela e promozione del livello dell’occupazione è stata assunta come obiettivo specifico della CE, la quale si è mossa soprattutto nella direzione di promuovere lo sviluppo anche attraverso la predisposizione di adeguati strumenti formativi per cercare di garantire, tramite l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri, un sistema europeo in grado di accogliere i lavoratori di qualsiasi cittadinanza. Infine, va detto che oltre agli interventi normativi sopra ricordati, vanno annoverati quelli di tipo indennitario relativi allo stato di disoccupazione (assicurazione contro la disoccupazione).

2. I servizi all’impiego. Le origini dell’istituto del collocamentoDi fronte al fenomeno della disoccupazione sia strutturale che frizionale l’intervento più antico e diffuso è stato rappresentato dall’istituto del collocamento. Per mezzo di esso il legislatore ha mirato a regolamentare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Alla sua origine il collocamento è stato concepito come una funzione pubblica e gratuita di mediazione. Per molti decenni l’obiettivo del controllo pubblico è stato quello di un’equa ripartizione dei posti disponibili, ovvero della regolamentazione della concorrenza soprattutto tra i lavoratori meno qualificati. A questo fine nel periodo pre-corporativo, nacque il c.d. collocamento di classe o sindacale, mediante il quale i sindacati si proponevano di tutelare i lavoratori nella ricerca dell’occupazione e di rafforzare il loro potere contrattuale mediante la contrattazione delle assunzioni. Durante il periodo corporativo, invece, il collocamento assunse le vesti di funzione pubblica: caratteristica fondamentale introdotta fu il principio del monopolio pubblico del collocamento. Va sottolineato che il passaggio ad un sistema pubblico di collocamento non significò la scomparsa dell’intervento sindacale. Dopo la caduta dell’ordinamento corporativo, il primo intervento in materia fu rappresentato dalla L. 29 aprile 1949, n. 264 che confermava la funzione pubblica del collocamento e ribadiva il principio del monopolio statale, attraverso il divieto della mediazione privata tra domanda ed offerta di lavoro attraverso la regola dell’assunzione mediante la c.d. richiesta numerica. Sul versante sindacale tale legge segnava il passaggio ad un sistema fondata sulla partecipazione sindacale alla funzione pubblica di collocamento.AGGIORNAMENTO - RIFORMA MONTI 2012:Una ulteriore area di intervento riguarda le politiche attive e i servizi per l’impiego. In questa area, che prevede un forte concerto tra Stato e Regioni, ci si propone di rinnovare le politiche attive, adattandole alle mutate condizioni del contesto economico e assegnando loro il ruolo effettivo di accrescimento dell’occupabilità dei soggetti e del tasso di occupazione del sistema mediante:

l’attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso o soprattutto beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione;

la qualificazione professionale dei giovani che entrano nel mercato del lavoro; la formazione nel continuo dei lavoratori; la riqualificazione di coloro che sono espulsi, per un loro efficace e tempestivo

ricollocamento; il collocamento di soggetti in difficile condizione rispetto alla loro occupabilità.

Occorre altresì creare, attraverso le politiche attive, canali di convergenza tra l’offerta di lavoro (ricerca del posto di lavoro) e la domanda (valutazione dei fabbisogni delle imprese e coerenza dei percorsi formativi dei lavoratori e delle professionalità disponibili), in un’ottica di facilitazione del punto di incontro tra chi offre lavoro e chi lo domanda. Gli interventi di

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attivazione devono sottendere un patto di mutua responsabilità/obbligazione tra enti che offrono servizi per il lavoro, lavoratori, datori di lavoro. La presenza di un sistema di sussidi alla disoccupazione rafforza la necessità di tener conto d’una finalità particolare dell’intervento pubblico: al generico “aiuto” ai soggetti deboli ed a rischio di emarginazione si aggiunge infatti l’esigenza di contrastare abusi e disincentivi connessi con l’operare dei sussidi. Questa esigenza implica che in molti casi non ci si limiterà a “mettere a disposizione” servizi (che altrimenti la logica di mercato potrebbe non fornire o non fornire a tutti a condizioni adeguate), ma si arriverà a voler “imporre” determinati interventi concreti, in una logica tutoria e di prevenzione, rispetto a possibili abusi e derive di emarginazione.Inoltre, ferme restando le competenze concorrenti, occorre concretizzare un accordo per fascia di mercato, finalità e tempi e nel rispetto dei ruoli tra Stato, Regioni, Parti Sociali in ordine a meccanismi, anche di riforma istituzionale, che permettano una gestione più efficace delle politiche di attivazione, formazione e di sostegno del reddito, sulla base di una comune identificazione delle platee di beneficiari. Un intervento fondamentale in questo quadro riguarda il rinnovamento del ruolo dei servizi per l’impiego e la riorganizzazione delle strutture che li offrono. Occorre definire una governance del sistema, attraverso, in primis, standard nazionali di riferimento. Per i centri per l’impiego, è necessario individuare L i velli E ssenziali d i Servi z io omogenei. I centri possono erogare direttamente o esternalizzare ad agenzie private i servizi in parola. Vanno definite premi e sanzioni per incentivare l’efficienza dei servizi per il lavoro e per spingere a comportamenti virtuosi sia i soggetti che erogano i servizi, sia le persone/lavoratori che beneficiano dei servizi e dei sussidi.Occorre prevedere un accordo fra Stato e Regioni (con la condivisione delle Parti Sociali) per la piena realizzazione di una dorsale informativa unica e l’utilizzo dei flussi congiunti, per testa, provenienti non solo dalla banca dati percettori, ma soprattutto dai sistemi informativi lavoro delle Regioni. Il sistema informativo unico, caratterizzato da codifiche uniformi e da standard statistici condivisi, è condizione essenziale per il corretto ed efficace utilizzo dei flussi e, di conseguenza, per realizzare la convergenza tra politiche passive e attive. Un primo passo deve consistere nell’accelerazione del processo di informatizzazione dei servizi per il lavoro (rilascio delle certificazioni, istituzione del fascicolo personale web). Per rafforzare la governance del sistema e garantirne la effettività ed efficacia dei servizi, si intendono approfondire alcune ipotesi di intervento emerse in sede di confronto con le Regioni. In particolare, si tratterà di valutare la creazione di una sede unica, localmente insediata, per accedere a politiche passive e attive. Da questo punto di vista, l’attuale quadro istituzionale prevede che le politiche attive siano assegnate alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni (rientrano nella nozione di “tutela e sicurezza del lavoro”), mentre quelle passive (rientrando nella nozione di “previdenza sociale”), sono di competenza esclusiva dello Stato.

3. Dal controllo pubblico sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro alle politiche attive per l’occupazioneGià nel corso degli anni ’50 e ’60, durante il periodo del boom economico italiano, il collocamento pubblico si è rivelato incapace a soddisfare le esigenze di un’offerta di lavoro più sofisticata e meno indifferenziata. Correlativamente, la disciplina legislativa si è dimostrata inefficace ed ineffettiva. Si è così posta l’esigenza di una revisione sostanziale della disciplina dei servizi per l’impiego, intesi come attività e non solo come struttura amministrativa. Nella prima fase di questa trasformazione, si è avuta la soppressione dell’obbligo della richiesta numerica ed il passaggio dapprima ad un sistema fondato sulla richiesta nominativa e successivamente a quello basato sull’assunzione diretta e sulla mera comunicazione successiva all’ufficio di collocamento dell’avvenuta

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assunzione. In questo modo, si è introdotta una normativa intesa a sviluppare forme di politica attiva della manodopera finalizzate a promuovere l’occupazione. Nella stessa prospettiva uno specifico rilievo è stato riconosciuto alle politiche di sviluppo dei sistemi formativi, ai quali è affidato il compito di assicurare l’adattamento quanto più efficace tra domanda ed offerta di lavoro.

4. La riforma del mercato del lavoro. Decentramento amministrativo e federalismo. Le politiche sociali comunitarieLa normativa in materia di servizi per l’impiego è stata ampiamente modificata in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001. Prima di essa, tuttavia, nel 1997 si era attuato un sistema decentrato, con l’attribuzione alle Regioni di un notevole numero di competenze, in sostituzione di un sistema centralizzato non più in grado di rispondere alle esigenze ed all’evoluzione del mercato del lavoro. Ed infatti, il Governo ha emanato il D.lgs. n°23 dicembre 1997, n. 469, con il quale sono state conferite alle Regioni e agli enti locali le funzioni ed i compiti di governo del mercato del lavoro. In particolare, sono state decentrate a livello regionale le funzioni e i compiti relativi al collocamento e tutte le iniziative dirette ad incrementare l’occupazione ed a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Il D.lgs. n°469 ha indicato gli organismi che devono essere istituiti e le Commissioni paritetiche del collocamento; alcune di queste disposizioni sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale essendo in contrasto con il principio costituzionale dell’autonomia delle Regioni. Il D.lgs. n°469 ha inoltre stabilito l’attribuzione alle Province, sempre con legge regionale, delle funzioni e dei compiti relativi alle varie forme di collocamento nonché l’attivazione di Centri per l’impiego che si sono sostituiti a tutte le precedenti strutture amministrative decentrate di gestione del collocamento. Per quanto attiene alle Commissioni paritetiche va detto che i suoi compiti sono stati trasferiti alla Conferenza Stato-Regioni. Il D.lgs. n. 469 del 1997 aveva poi previsto le Commissioni regionali per le politiche del lavoro tripartite e permanenti, concepite dal legislatore come “sede concertativa di proposta, valutazione e verifica rispetto alle linee programmatiche e alle politiche regionali del lavoro” con assegnati i compiti in precedenza assegnati alle Commissioni regionali per l’impiego. Si è prevista l’istituzione da parte delle Province di una Commissione provinciale per le politiche del lavoro,anch’essa tripartita e permanente. Da quanto precede emerge come le modificazioni strutturali dell’istituto del collocamento si accompagnino profonde trasformazioni funzionali del medesimo. Esso era nato come istituto che si era sviluppato ed organizzato come funzione pubblica. Un aspetto di particolare interesse della riforma del 1997 è l’istituzione di un Servizio Informativo Lavoro (SIL): si è prevista la creazione e gestione con mezzi informatici di un elenco analogico in cui iscrivere tutti i lavoratori in cerca di occupazione o desiderosi di cambiare lavoro. I dati raccolti potranno essere messi a disposizione senza che sia necessario il consenso dell’interessato. Da tutto ciò emerge come alle modificazioni strutturali dell’istituto del collocamento abbiano fatto riscontro profonde trasformazioni funzionali del medesimo. Esso era nato come istituto fondato sul monopolio statale della mediazione tra domanda ed offerta di lavoro e si era sviluppato ed organizzato come funzione pubblica e come apparato dell’amministrazione finalizzato ad un’equa ripartizione tra i lavoratori disoccupati delle occasioni di lavoro disponibili, in ragione dello stato di bisogno. L’inadeguatezza di tale sistema rispondere alle esigenze di un sistema economico e produttivo in costante evoluzione ha indotto il legislatore a riformarlo radicalmente, abilitando le strutture pubbliche ad intervenire attivamente nel mercato del lavoro, non più esplicando una semplice funzione di mediazione, a operando come sistema di servizi per l’impiego in grado di rilevare gli andamenti del mercato del lavoro e di intervenire sull’offerta di lavoro anche attraverso un indirizzo dei percorsi formativi che consentano un più facile accesso

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all’occupazione. E ciò è avvenuto soprattutto puntando sul riconoscimento alle Regioni di un ruolo centrale nella disciplina del mercato del lavoro.

5. La riforma costituzionaleLa L. Cost. n°3/2001, la quale ha riformato il Titolo V della seconda parte della Costituzione, ha continuato nell’opera di decentramento attuata in precedenza, facendo rientrare la materia di “tutela e sicurezza del lavoro”, e quindi anche la disciplina dei servizi all’impiego, nella competenza concorrente tra Stato e Regioni, laddove è previsto che lo Stato fissi i principi fondamentali e la Regione, attenendosi ad essi, disciplini la materia nel dettaglio. Inoltre il legislatore è intervenuto ad adeguare la disciplina dettata dal D.lgs. n. 181/2000 alle novità derivanti dalla riforma del Tiolo V Cost.,ed a mettere ordine nella frammentaria disciplina in materia di collocamento e servizi per l’impiego. Il D.lgs. n.297/2002, infatti, non solo ha corretto alcuni contenuti del precedente decreto, ma ne ha trasformato l’intera disciplina in disposizioni di principio cui le Regioni devono attenersi. L’ultimo intervento legislativo è stato attuato in occasione della riforma del mercato del lavoro di cui al D.lgs. n.276/2003 con il quale si è dettata una nuova disciplina sull’esercizio dell’attività di mediazione da parte dei soggetti privati e sulla c.d. Borsa continua nazionale del lavoro, nella prospettiva di fissare i principi fondamentali in materia di disciplina dei servizi per l’impiego, con particolare riferimento al sistema del collocamento. Infine, la normativa statuale in materia di servizi per l’impiego non può limitarsi a fissare i principi fondamentali entro cui deve esplicarsi l’intervento legislativo regionale, ma deve individuare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

6. Disciplina dei servizi per l’impiego. Le politiche sociali comunitarieLe discipline normative contenute nel provvedimento di decentramento amministrativo e di riforma costituzionale, hanno portato all’abrogazione delle norme contenute nella Legge n.264 del 1949 sul collocamento, oggi non più visto come struttura di regolazione dell’incontro tra domanda e offerta, ma come servizio per l’impiego. L’unico operatore monopolistico del collocamento, è stato sostituito dalle agenzie per il lavoro, operatori privati che si occupano di gestire il mercato del lavoro, iscritti in appositi albi ed a cui è imposto il divieto di percepire compensi dal lavoratore che vanno ad aiutare, salvo specifici casi (lavoratori altamente professionalizzati e specifici servizi). Il D.lgs. n°276 ha previsto 5 tipi di Agenzie per il lavoro:

agenzie di somministrazione del lavoro, adibite a svolgere i compiti previsti dall’art. 20; Agenzie di somministrazione a tempo indeterminato, adibite a svolgere una sola

funzione prevista dall’art. 20; Agenzie di intermediazione; Agenzie di ricerca e selezione del personale; Agenzie di supporto alla ricollocazione del personale.

Le agenzie di somministrazione del lavoro possono svolgere anche attività di intermediazione, di ricerca e selezione del personale e di supporto alla ricollocazione dello stesso. Le agenzie di intermediazione possono svolgere anche attività di ricerca e selezione, nonché di ricollocazione del personale. Le agenzie che percepiscano compensi dai lavoratori, in cambio dei propri servizi, sono soggette a sanzione penale ed a cancellazione dall’albo. Anche altri soggetti pubblici e privati possono affiancarsi alle agenzie: università pubbliche e private, associazioni di datori di lavoro e lavoratori più rappresentative che stipulino contratti collettivi, associazioni nazionali di tutela ed assistenza degli imprenditori, del lavoro e della disabilità, così come le camere di commercio, i comuni, le scuole medie superiori, fondazioni volte a tal scopo. Le competenze provinciali sono rimaste intatte così come previsto dal D.lgs.

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n°469/1997, ritenute dalla Corte costituzionale legittime purché operanti in continuità con le regioni. E’ stata istituita, inoltre, la Borsa continua nazionale del lavoro, un sistema aperto di incontro tra domanda ed offerta di lavoro, a cui possono accedere tanto imprenditori quanto lavoratori in cerca di occupazione o di un cambio di occupazione. Esso è stato affiancato al SIL e la diffusione dei dati immessi deve essere autorizzata dai soggetti che vi accedono. Inoltre, è stato ribadito dal D.lgs. n°276/2003 il principio di non discriminazione nell’effettuare indagini, trattamento di dati o preselezione di lavorato: queste operazioni, infatti, non possono essere svolte sulla base di discriminazioni di qualsivoglia genere, se non nel caso di attività lavorativa per cui sia necessaria una determinata situazione (religiosa, culturale o di altro tipo). In conclusione, si può dire che l’unica funzione che resta attribuita in via esclusiva ai Centri per l’impiego, istituiti presso le Province, è l’accertamento dello stato di occupazione/disoccupazione, utile per l’erogazione di sussidi. Quindi, nell’ottica delle modificazioni apportate dai vari interventi legislativi, il disoccupato deve assumere un atteggiamento attivo nella ricerca di un lavoro, onde evitare di permanere nel suo stato di inattività. Lo stato di disoccupazione viene meno nel momento in cui il soggetto inizia a lavorare o non si presenti, senza giustificato motivo, ad una convocazione del Centro per l’impiego oppure rifiuti una congrua offerta di lavoro nell’ambito del bacino territoriale di appartenenza. Sui datori di lavoro grava, poi, l’obbligo di comunicazione ai Centri per l’impiego in caso di modificazione delle originarie condizioni di assunzione di un lavoratore, per sopravvenute modifiche contrattuali. Il servizio offerto dalle amministrazioni locali, quindi, si configura come un servizio pubblico a sostegno dell’occupazione, in concorrenza con quello offerto dai privati ed in base alle discipline regionali che si vanno moltiplicando in materia. Infine, va osservato che il problema dell’arresto della crescita occupazionale riguarda tutta l’Unione Europea, il che ha giustificato l’inserimento, da parte del Trattato di Amsterdam, del raggiungimento di un elevato livello occupazionale e di protezione sociale da parte, all’interno degli obiettivi dell’UE previsti nell’art. 2 TUE. AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:Già all’interno del testo, al di là dell’appendice, si è avuto modo di precisare che il datore di lavoro è obbligato, nella maggior parte dei rapporti lavorativi (subordinati o autonomi in forma coordinata e continuativa, anche a progetto o nel caso di socio lavoratore di cooperativa e di associato in partecipazione con apporto lavorativo), a dare comunicazione dell’instaurazione di un rapporto lavorativo un giorno prima della stessa al Servizio per l’impiego competente a livello territoriale. Inoltre ogni datore di lavoro era obbligato a tenere il libro paga ed il libro matricola, unificati dal D. L. 112/2008 (convertito con L. 133/2008) all’interno del LIBRO UNICO, il quale deve contenere informazioni retributive, previdenziali, fiscali ed assicurative di tutti i lavoratori. Sono obbligati ad averlo tutti i datori di lavoro privati, ad eccezione di quelli domestici, ed all’interno dello stesso vanno iscritti tutti i lavoratori subordinati, anche a domicilio, i collaboratori continuativi e coordinati, anche quelli a progetto, nonché gli associati in partecipazione con apporto di lavoro, anche misto. Solo collaboratori di imprese familiari, coadiuvanti di imprese commerciali e soci lavoratori di attività commerciale e di imprese in forma societaria sono esclusi. Il libro può essere conservato presso la sede legale dell’impresa, presso lo studio del consulente del lavoro o presso le associazioni di categorie delle imprese artigiane e delle piccole imprese. Va precisato che i rapporti di lavoro devono rientrare nell’ambito della legalità ed il legislatore, infatti, si è scagliato contro il lavoro in nero, ossia contro il lavoro esercitato da quei soggetti che non risultano da alcuna scrittura o da altra documentazione obbligatoria. Per i datori di lavoro che si avvalgono del lavoro in nero è prevista una sanzione amministrativa per ciascun lavoratore, maggiorata per ogni giornata di lavoro effettivo e comminata dalla Direzione provinciale del lavoro. E’ prevista, inoltre, la sospensione dell’attività d’impresa in caso di reiterate violazioni o nel caso in cui si riscontri che il 20% almeno del totale dei lavoratori sia “a nero”. Inoltre gli obblighi di comunicazione 

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ai Centri per l’impiego sono stati estesi anche ai casi di trasferimento del lavoratore; distacco del lavoratore; modifica della ragione sociale del datore di lavoro; trasferimento d’azienda o di ramo di essa. Questi obblighi di comunicazione riguardano non solo l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ma anche di lavoro autonomo in forma coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di socio lavoratore di cooperativa e di associato in partecipazione con apporto lavorativo. In tutti i casi il datore di lavoro o il committente è tenuto a darne comunicazione, entro il giorno antecedente a quello di instaura-zione dei relativi rapporti, al Servizio per l’impiego competente nell’ambito territoriale in cui è ubicata la sede di lavoro, mediante documentazione avente data certa di trasmissione. Oltre a questa comunicazione il datore di lavoro deve effettuarne altre in occasione delle modificazioni delle originarie condizioni di assunzione. Le suddette comunicazioni sono importanti in quanto assicurano la trasparenza e la correttezza della gestione del personale. Tali comunicazioni d’altro canto devono trovare corrispondenza nelle annotazioni contenute nel Libro Unico istituito di recente con il decreto legge n°112 del 2008.

7. Il collocamento in agricoltura. Gli altri collocamenti speciali. Lavoratori italiani disponibili a lavorare in Paesi extra-comunitari. Lavoratori extra-comunitariLa riforma del mercato del lavoro ha riguardato, oltre al collocamento ordinario, anche il collocamento in agricoltura, nonché i collocamenti speciali dapprima previsti. In tema di agricoltura, infatti, il collocamento concepito come incontro tra la domanda e l’offerta, aveva fallito nel proprio compito, specie con riferimento alle regioni meridionali, dove gli squilibri del mercato agricolo consentono la sopravvivenza di deprecabili forme di mediazione privata prive di ogni controllo (cosiddette caporalato). Sono stati, pertanto, soppressi gli uffici del Ministero del lavoro per il collocamento in agricoltura, le cui competenze sono passate ai Centri per l’impiego e la cui disciplina deve essere emanata dalle Regioni. Anche gli altri sistemi di collocamento speciale sono venuti meno o comunque sono stati ricondotti alla disciplina delle Regioni: lavoratori dello spettacolo, per i quali la legislazione nazionale si limita a prevedere che le Regioni esercitino la le loro funzioni sulla base di una lista nazionale e lavoratori a domicilio, con l’istituzione di appositi registri per i datori di lavoro che intendono commettere lavoro a domicilio e per i lavoratori che ne facciano richiesta o che risultino prestare di fatto lavoro a domicilio. Presso le regioni, tuttavia, vi sono delle speciali liste per ciò che concerne i lavoratori italiani disposti a svolgere la propria attività all’estero in Paesi extra-comunitari, a cui continua ad applicarsi una disciplina speciale. Per ciò che riguarda, al contrario, i lavoratori extra-comunitari nel nostro Paese, è previsto un controllo dei flussi migratori tramite la previsione annuale del Governo delle quote massime di stranieri che possono lavorare nel nostro Paese, tenuto conto delle quote-flussi, misure di protezione temporanea volte ad occupare più lavoratori italiani. Inoltre il cittadino extra-comunitario che voglia lavorare all’interno dello Stato italiano necessita di un contratto di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, o per lavoro stagionale: in tale contratto è previsto che il datore di lavoro si faccia garante della disponibilità di un alloggio, che deve rispettare determinati standard, per il lavoratore, nonché delle spese per il ritorno del lavoratore nel Paese d’origine. Un’integrazione socio-economica è, invece, prevista per i lavoratori regolarmente immigrati, nei confronti dei quali non si deve applicare alcuna discriminazione.

AGGIORNAMENTO RIFORMA MONTI 2012:

Per evitare che la crisi economica determini l’irregolarità dei lavoratori stranieri che abbiano perso il posto di lavoro, occorre adottare misure che ne facilitino il reinserimento nel mercato, favorendo l’offerta che provenga dal bacino di immigrati già all’interno del paese piuttosto che ricorrendo a nuovi flussi dall'estero. Pertanto, la perdita del posto di lavoro non

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può comportare la revoca del permesso di soggiorno deL lavoratore extracomunitario e dei suoi familiare, ma occorre prolungare il periodo in cui lavoratore può essere iscritto nelle liste di collocamento, estendendolo anche a tutto il periodo in cui sia ammesso a una prestazione per disoccupazione. In tal senso, si intende intervenire nel concerto con il Ministero dell’Interno.

8. Il collocamento dei disabili. Dal collocamento obbligatorio al collocamento mirato dei disabiliLa disciplina del collocamento originaria, benché agevolasse l’incontro tra domanda ed offerta, non vincolava, per la generalità dei lavoratori, l’autonomi privata dei datori di lavoro in alcun modo. In virtù di tale sistema, originariamente introdotto a tutela degli invalidi di guerra, ed in seguito per un numero sempre crescente di categorie di disabili, il legislatore si propone di tutelare il diritto al lavoro dei disabili, in quanto soggetti caratterizzati da una particolare e più intensa situazione di debolezza contrattuale. Era posto a carico di datori di lavoro l’obbligo a contrarre nei confronti di queste categorie in cambio di agevolazioni di vario tipo: il datore di lavoro che non avesse ottemperato a tale obbligo sarebbe andato incontro a sanzioni amministrative e per la PA anche penali in caso di inosservanza delle disposizioni della legge. La disciplina in materia è contenuta nella L.68/1999, la quale prevede un sistema di sostegno e collocamento mirato dei disabili coordinato con il sistema dei servizi all’impiego: sono le Regioni a doversi occupare dell’intera disciplina in materia, prevedendo anche dei nuovi servizi per l’impiego che vadano a sostituire le vecchie commissioni provinciali per il collocamento obbligatorio.

9. L’inserimento al lavoro dei disabiliRientrano nella disciplina della L.68/1999 le persone disabili, una volta accertata la propria situazione di disabilità, secondo criteri stabiliti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale deve stabilire anche come effettuare il controllo di permanenza di tale stato invalidante. I datori di lavoro pubblici e privati che abbiano alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti, devono impiegare anche un numero variabile di disabili: 1 disabile se occupano dai 15 ai 35 dipendenti, 2 disabili se occupano dai 36 ai 50 dipendenti, il 7% dei lavoratori impiegati se occupano più di 50 dipendenti. In queste quote, definite come quote di riserva, non rientrano i lavoratori già dipendenti divenuti inabili con una riduzione della capacità lavorativa di almeno il 60% qualora tale inabilità sia dovuta a malattia o infortunio o, comunque, quando l’inabilità sia dovuta all’inottemperanza delle regole di sicurezza sul lavoro da parte dell’imprenditore. Non sono, inoltre, computabili nelle quote di riserva i lavoratori a tempo determinato assunti per un periodo inferiore a 9 mesi, i disabili già occupati dal datore di lavoro ed i dirigenti, nonché gli apprendisti e coloro assunti con contratto d’inserimento o di formazione e lavoro nel caso di P.A. Tra l’altro sono esclusi dall’assumere disabili le agenzie di somministrazione ed alcuni soggetti (partiti politici e sindacati) per cui l’obbligo non è eliminato, ma temperato. E’ sospeso, ovviamente, tale obbligo per le imprese per cui è in corso la Cassa integrazione guadagni o una procedura di mobilità. Sulla base di un’apposita richiesta, i datori di lavoro possono ripartire i lavoratori disabili tra più unità produttive, oppure chiedere l’esonero parziale in quanto impossibilitati ad assumere, pagando un piccolo contributo per ogni disabile non occupato. Presso i Centri per l’impiego si trovano appositi elenchi di disoccupati disabili da poter impiegare ed il Ministero del lavoro pretende, entro determinati periodi, che i datori di lavoro presentino dei prospetti dai quali si evinca quanti lavoratori disabili sono occupati, nonché i posti di lavoro disponibili per gli stessi. Se la quota d’obbligo di un’impresa risulti scoperta, entro 60 giorni il datore di lavoro deve presentare, al Centro per l’impiego di riferimento, una richiesta di avviamento del disabile, tramite richiesta nominativa e numerica per i privati, solo numerica per la P.A. Le imprese, anche

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qualora non siano vincolate ed obbligate, possono stipulare delle convenzioni per l’inserimento dei lavoratori disabili, con le quali, in cambio di agevolazioni di vario genere, il datore di lavoro si impegna ad assumere un determinato numero di soggetti protetti. Un’altra tipologia di convenzione si basa sull’affidamento di commesse di lavoro a soggetti terzi da parte del datore di lavoro obbligato,presso le quali vengano avviate al lavoro le persone con disabilità. La terza tipologia di convenzioni, conferisce ai datori di lavoro la facoltà di adempiere agli obblighi di copertura della quota di riserva senza assumere i lavoratori disabili, ma attraverso una commessa di lavoro a favore di una cooperativa sociale.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:La disciplina relativa all’inserimento dei disabili nell’ambito del lavoro ha subito alcune modificazione che meritano di essere evidenziate. La L. n°247/1997 ha previsto che per le convenzioni di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formativa, si instauri un rapporto trilaterale tra imprenditore obbligato all’assunzione, soggetti ospitanti o imprese sociali e disabile. Diverso è il caso delle convenzioni di inserimento lavorativo definitivo, all’interno delle quali sussiste sempre il rapporto trilaterale, ma il disabile viene assunto dai destinatari, non dagli imprenditori obbligati.Il legislatore ha introdotto un’ulteriore tipologia di convenzioni che consentono di adempiere agli obblighi di copertura della quota di riserva sulla base dell’affidamento di commesse di lavoro a soggetti terzi da parte del datore di lavoro obbli-gato, presso i quali vengono avviate al lavoro le persone con disabilità. Le convenzioni ascrivibili a questa tipologia di avviamento al lavoro sono disciplinate da norme diverse, che nel tempo sono state oggetto di riforma da parte del legislatore.

10. La tutela del disabile nel rapporto di lavoroNei confronti del lavoratore disabile assunto obbligatoriamente non devono essere poste in essere condotte discriminatorie, in quanto egli ha diritto al trattamento retributivo e normativo disposto dalle leggi e dai contratti collettivi, oltre a non poter essere impiegato in modo incompatibile con la propria disabilità. Qualora le condizioni di salute si aggravino, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persiste. Tuttavia se l’aggravamento, ovviamente accertato da apposite commissioni, si presenta come definito, il datore di lavoro può ottenere la risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta, tramite esercizio del diritto di recesso, ossia per mezzo di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il disabile, inoltre, può essere licenziato anche per giusta causa o giustificato motivo al pari di ogni altro lavoratore che non attenga alla sua condizione personale di inabilità, o anche per riduzione del personale, sempre che non si leda la quota di riserva, in quanto in tal caso il licenziamento è annullabile. Comunque il datore di lavoro dovrà sostituirlo con altro disabile.La Corte costituzionale, tra l’altro, prima dell’emanazione della L. 68/1999 aveva previsto che l’assunzione obbligatoria prevista a favore dei disabili non è anticostituzionale, in quanto garantisce l’osservanza dell’art.38 comma 3 della Costituzione, secondo cui gli “inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale”. L’orientamento giurisprudenziale e dottrinale aveva riconosciuto, al lavoratore avviato, un diritto soggettivo all’assunzione. Secondo questo orientamento, pertanto, il lavoratore avrebbe diritto solo al risarcimento del danno per la mancata assunzione.AGGIORNAMENTO – RIFORMA MONTI 2012:

Al fine di favorire l’inserimento e l’integrazione nel mondo del lavoro di categorie svantaggiate quali i disabili, sono previsti interventi che incidono sulla vigente normativa estendendone il campo di applicazione. In particolare, si intende includere nel numero di lavoratori, utilizzato come base per il calcolo della quota di riserva per

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l’assunzione dei disabili, tutti i lavoratori assunti con vincolo di subordinazione, con l’esclusione di alcune tipologie (i disabili già in forza, i dirigenti, i soci delle cooperative, i contratti di reinserimento, i lavoratori assunti per attività da svolgersi all'estero, i lavoratori a domicilio, ecc.).E’ inoltre necessario contrastare l’abuso dell’istituto degli esoneri, totale o parziale, che nella normativa vigente permette ad alcuni datori di lavoro che operano in particolari settori, per le speciali condizioni della loro attività e per determinate mansioni, l'esclusione dall'obbligo di assunzione di persone con disabilità. Conseguentemente, il rispetto della previsione di un numero garantito di posti di lavoro per disabili richiede maggiori e più incisivi controlli da parte dell'Ispettorato del ministero del lavoro, finalizzati a verificare la correttezza dei prospetti informativi delle quote di riserva cui sono tenute le aziende pubbliche e private.

11. Formazione professionale. Formazione professionale e trasformazioni economiche. L’alternanza scuola-lavoroLa misura di politica attiva del lavoro sicuramente più idonea a garantire l’incremento dell’occupabilità e quindi un crescente numero della forza lavoro qualificata è offerta dalla “formazione professionale”, intesa come l’insieme di interventi finalizzati ad agevolare l’ingresso, il reingresso e la permanenza nel mercato del lavoro, in quanto la sempre maggiore evoluzione tecnologica e la conoscenza di essa non permette solo ai disoccupati di accedere a nuove attività lavorative, ma anche ai già occupati di mantenere il proprio posto di lavoro senza che l’imprenditore necessiti di nuovo personale maggiormente qualificato. Inoltre la crisi del contratto di lavoro a tempo indeterminato e l’agevolazione, consecutiva, di forme di lavoro subordinato flessibili (o atipiche) ha permesso il moltiplicarsi di offerte di lavoro diversificate, in cui è richiesta, volta per volta, una formazione professionale diversa. La materia della formazione professionale è, in forza dell’art.117 della Costituzione dopo la riforma del 2001, di competenza esclusiva delle regioni in materia di formazione professionale: ciò significa che solo a tali enti territoriali, e non più al sistema centralizzato dello Stato, è permesso intervenire in materia, salvo casi eccezionali di mancanze da parte delle Regioni. In particolare la legge dichiarava che la formazione professionale costituisce uno strumento di politica attiva del lavoro idoneo a favorire la crescita della personalità dei lavoratori e a promuovere “l’occupazione, la produzione e l’evoluzione dell’organizzazione dei lavoro, in armonia con il progresso scientifico e tecnologico” (art. 1). La consapevolezza delle nuove esigenze del mercato del lavoro ha reso, necessario un nuovo intervento in materia, attuato in occasione ed in collegamento con la riforma sul decentriamo amministrativo, con l’obiettivo di migliorare le opportunità formative. In occasione della riforma sul decentramento amministrativo, la legge ha riservato allo Stato funzioni di indirizzo e di coordinamento degli interventi regionali.Tra l’altro la stessa Unione Europea ha posto la formazione professionale tra i propri obiettivi per garantire un livello crescente di occupazione, all’interno di un sistema in cui il mercato del lavoro sembra in crisi continua. Tra l’altro la formazione professionale deve sposarsi anche con l’istruzione obbligatoria prevista dalla legge, innalzata di recente al compimento del diciottesimo anno di età. Tuttavia può essere prevista una forma di alternanza tra istruzione e formazione professionale, dettata da un’organizzazione del sistema: le scuole medie superiori possono prevedere l’avvicendarsi di orari scolastici e periodi di apprendimento in situazioni lavorative per diverse ragioni:

- attuare modalità di apprendimento flessibili che colleghino la formazioni aula con l’esperienza pratica;

- arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro;

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- favorire l’orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali;

- realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile, correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico.

12. L’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: gli stages in azienda.Il legislatore ha previsto la possibilità, per garantire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, di poter realizzare un’alternanza tra tirocini formativi e studio scolastico all’interno delle scuole superiori. Oltre a questo, però, è stata prevista la possibilità, anche per coloro che abbiano già assolto l’obbligo scolastico, di poter effettuare degli stages di orientamento e preparazione all’interno di aziende, affiancati da un tutor preparato e competente: questo strumento permetterebbe ai giovani non solo di entrare in contatto col vero mondo del lavoro, ma anche di avere una maggiore conoscenza delle scelte professionali alle quali potrebbero andare incontro. Il rinnovato interesse del legislatore e delle parto sociali si è manifestato anche sullo specifico versante dell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Va segnalata la recente emanazione di una nuova e più organica disciplina dei tirocini formativi. L’art. 18, L. n. 196 del 1997 ha delegato il Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro della Pubblica istruzione, ad emanare un nuovo regolamento in materia di tirocinio pratico e di stages. Fermo restando l’obiettivo di tirocini e stages “di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro” si è prevista l’attribuzione a soggetti qualificati del compito di promuovere iniziative formative in azienda rivolte a giovani che abbiano già assolto l’obbligo scolastico. E’ stata prevista la presenza obbligatoria di un tutor e la concessione di particolari agevolazioni per le imprese non operanti nelle regioni meridionali. Infine, è da segnalare la possibilità di istituzioni scolastiche di includere Stage e tirocinio nei rispettivi piani di studio.AGGIORNAMENTO - RIFORMA MONTI 2012:Si individuano misure rivolte a delineare un quadro più razionale ed efficiente dei tirocini formativi e di orientamento, al fine di valorizzarne le potenzialità in termini di occupabilità dei giovani e prevenire gli abusi, nonché l’utilizzo distorto dell’istituto, in concorrenza con il contratto di apprendistato. Ciò tramite la previsione di linee guida per la definizione di standard minimi di uniformità della disciplina sul territorio nazionale. Potranno in ogni caso essere previste misure, riconducibili alla esclusiva competenza dello Stato, volte a disciplinare i periodi di attività ed evitare un uso strumentale e distorto delle attività esclusivamente lavorative svolte nel tirocinio.

CAP. 11°: LA DISCIPLINA DELLA DOMANDA DEL LAVORO C.D. FLESSIBILE

AGGIORNAMENTO– RIFORMA MONTI 2012:La riforma si propone di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, ripristinando al contempo la coerenza tra flessibilità del lavoro e istituti assicurativi.Gli interventi prefigurati si propongono di:

1. ridistribuire più equamente le tutele dell’impiego;2. rendere più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali

e delle politiche attive a contorno;3. rendere gratificante l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili;4. contrastare usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali

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esistenti.L’efficacia della loro attuazione richiederà un impegno per accrescere l’efficacia e l’efficienza di tutte le strutture oggi preposte, a livello regionale e nazionale, a questi profili del mercato del lavoro. Questo è l’auspicio che il Governo pone nel presentare la riforma nell’interesse complessivo del Paese, per il funzionamento del mercato del lavoro, lo sviluppo e la competitività delle imprese, la tutela dell’occupazione e dell’occupabilità dei suoi cittadini. Per monitorare lo stato di attuazione della riforma e per valutare gli effetti delle sue singole componenti sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’occupabilità dei cittadini, sulle modalità di uscita e di entrata, sarà previsto l’immediato avvio di un adeguato sistema di monitoraggio e valutazione.Una prima area di intervento riguarda gli istituti contrattuali esistenti. L’azione mira ad abbattere il costo del lavoro aggirando gli obblighi previsti per i rapporti di lavoro subordinato e individua un percorso privilegiato che vede nell’apprendistato – inteso nelle sue varie formulazioni e platee – il punto di partenza verso la progressiva instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Pur mirando a favorire la costituzione di rapporti di lavoro stabili, la riforma intende preservare la flessibilità d’uso del lavoro necessaria a fronteggiare in modo efficiente sia le normali fluttuazioni economiche, sia i processi di riorganizzazione. A questo fine sono previsti:

interventi che limitino l’uso improprio di alcuni istituti contrattuali e, quindi, la precarietà che ne deriva;

una più equa distribuzione delle tutele, con interventi sulla flessibilità rivolti a reprimere pratiche scorrette (ad esempio, le cosiddette dimissioni “in bianco”), a rafforzare le tutele per licenziamenti discriminatori, ad adeguare al mutato contesto economico la disciplina dei licenziamenti individuali, in particolare quelli per motivi economici.

1. Introduzione: dalla cosiddetta legislazione antifraudolenta alla flessibilità controllataNel quadro della tutela del prestatore nel mercato del lavoro va ricondotta la domanda c.d. flessibile della forza-lavoro, delimitandone la tipologia e restringendone l’impiego nelle imprese. Di fronte alla domanda di prestazioni di lavoro temporaneo o discontinuo, l’intervento protettivo del legislatore ha l’obiettivo di tutelare l’interesse del lavoratore alla continuità e alla stabilità dell’occupazione,dettando  una  disciplina  volta  a  restringere  l’autonomia negoziale  delle  parti nella  formazione e nell’esecuzione del contratto (c.d. legislazione antifraudolenta). Tale processo può dirsi giunto a conclusione nel 2001 con l’emanazione di una disciplina legislativa che ammette la possibilità di assunzioni a tempo determinato per ragioni oggettive. Ma di esso un altro aspetto di rilievo è rappresentato dall’emanazione, nel 1997, di una disciplina legislativa del lavoro temporaneo o lavoro interinale. Anche in questo caso il legislatore ha perseguito l’obiettivo di introdurre forme di flessibilità controllata e negoziata mediante l’intervento della contrattazione collettiva. Le considerazioni che precedono spiegano altresì l’apertura legislativa verso altri tipi di occupazione. Tra queste forme di impiego flessibile (rapporti di lavoro c.d. atipici) vanno annoverati il contratto di formazione e il lavoro a tempo parziale.

2. Il contratto di lavoro a tempo determinato. L’evoluzione della disciplina legislativa Il contratto di lavoro a tempo determinato è caratterizzato dall’apposizione di un termine finale alla durata del rapporto di lavoro, fissato dalle parti nel momento della costituzione del rapporto, il quale si conclude in quel momento senza necessità di alcuna dichiarazione. Il

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codice civile, all’interno dell’art.2097 c.c., guardava con sfavore a tale tipo di contratto, vedendolo in sostanza come negozio potenzialmente fraudolento e teso ad eludere le norme in materia di contratto a tempo indeterminato. Per tale motivo, l’art aveva stabilito che “il contratto di lavoro si deve reputare a tempo indeterminato se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”, sancendo l’inefficacia dell’apposizione del termine in forma scritta quando la stessa fosse intervenuta “per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato”, e disponendo che “se la prestazione di lavoro continua dopo la scadenza del termine e non risulta una contraria volontà delle parti, il contratto si considera a tempo indeterminato”. Ovviamente l’onere di dimostrazione gravava in capo al lavoratore, per il quale sarebbe stato abbastanza difficile dimostrare una tale volontà da parte del datore di lavoro. Per questo motivo il legislatore ha emanato la L. n°230/1962, con la quale non solo ha abrogato l’art. 2097 c.c., ma ha riformato l’intera materia, guardando al contratto di lavoro a tempo determinato come un’ipotesi di eccezionalità nei casi espressamente previsti dalla legge o nel caso di dirigenti, e prevedendo un forte sistema sanzionatorio. La normativa è stata sostituita dal D.lgs. nà368/2001, che ha attuato, anche in forza di previsioni di matrice europea, una liberalizzazione controllata della materia, mutando il proprio indirizzo politico originario.3. La Direttiva europea sul rapporto di lavoro a tempo determinato, la disciplina introdotta dal D.lgs. n. 368 del 2001. I requisiti per l’apposizione del termine: le ragioni oggettive; forma e onere di prova (Comprensivo dell’AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010)In attuazione della Direttiva comunitaria ‘99/70, contenente l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso tra le organizzazioni sindacali a livello comunitario, il Governo italiano ha emanato il D.lgs. n°368/2001, che ha riformato la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, abrogando totalmente la L. n°230/1962 e le norme ad essa collegate, fatta eccezione per le ipotesi di assunzione a termine dei lavoratori in mobilità e per quelli assunti in sostituzione di lavoratori in congedo parentale, di maternità e paternità. In linea con la precedente L. n°230, anche il decreto suddetto prevede che il contratto di lavoro a tempo determinato debba recare delle causali, ma sancisce l’abbandono del principio di tassatività nella definizione delle fattispecie giustificatrici dell’apposizione di un termine alla durata del contratto. Inoltre, stabilisce che l’apposizione del termine è consentita per rispondere a “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”. Vengono, quindi, rimossi i limiti all’eccezionalità del rapporto di lavoro a tempo determinato, consentendo all’autonomia contrattuale di prevedere una moltitudine di casi in cui è permesso stipulare questo tipo di contratto. Ovviamente la causa giustificatrice deve realmente esistere ed anche nella nuova disciplina è previsto che il contratto sia stipulato per iscritto ad substantiam, anche se il carattere di norma aperta permette al datore di lavoro di trovare una qualsivoglia giustificazione alla conclusione di un contratto a tempo determinato in luogo di uno a tempo indeterminato. Il contratto deve specificare la causa e la scadenza del termine ed essere consegnato entro 5 giorni lavorativi dall’inizio della prestazione al lavoratore, altrimenti perderà di efficacia e verrà considerato come contratto a tempo indeterminato. Il giudice, tra l’altro, che si dovesse ritrovare dinanzi all’impugnazione di un siffatto contratto, potrà, senza entrare nel merito, verificare la sussistenza obiettiva di una causa giustificatrice della temporaneità del rapporto. Va notato che l’assenza o incompletezza dell’atto scritto importa l’inefficacia della clausola oppositiva del termine e non la nullità che, pertanto, si considera a tempo indeterminato. Stessa conclusione per l’ipotesi di insussistenza, o non corrispondenza rispetto allo schema legale: anche in questo la nullità non si comunica al contratto medesimo. Si può aggiungere che, avendo la norma dell’art. 1, comma 1°, la sua violazione importa la nullità e la cosiddetta conversione in

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contratto a tempo indeterminato. Consegue che il lavoratore potrà agire in giudizio senza limiti di tempo essendo non solo non soggetta a decadenza ma altresì imprescrittibile.

4. Divieti; esclusioni; discipline speciali.L’apposizione del termine è vietata in taluni casi tassativamente previsti dalla legge nei queli perciò il contratto si considera sempre a tempo indeterminato:

sostituzione di lavoratore in sciopero; unità produttive dove sono stati licenziati collettivamente lavoratori adibiti alle

medesime funzioni, salvo che si tratti di sostituzione di lavoratori assenti, assunzione di lavoratori in mobilità o di contratti di durata inferiore a tre mesi;

unità produttive interessate da riduzione di orario o sospensioni di lavoro con diritto all’integrazione salariale per lavoratori adibiti alle medesime funzioni di quelli da assumere;

imprese inadempienti agli obblighi di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori sul posto di lavoro L’interesse dell’imprenditore, in questi casi, non merita la tutela del legislatore, dato il contrapporsi d’interessi con alto valore sociale.

Sono esclusi, inoltre, dall’applicazione della disciplina del D.lgs. n°368/2001 il contratto di formazione e lavoro, il contratto di apprendistato, il contratto di lavoro temporaneo (poi reintegrato nella disciplina ad opera del D.lgs. n°276/2003 che ha previsto la somministrazione di lavoro in luogo del lavoro temporaneo), il rapporto di lavoro degli operai a tempo determinato nell’agricoltura, nonché i rapporti a termine instaurati con aziende di esportazione, importazione ed commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, ed i c.d. rapporti a giornata di durata inferiore a 3 giorni. Discipline speciali sono poi dedicate a determinate categorie di lavoratori. Per i dirigenti è previsto che il contratto non superi la durata di 5 anni, che non debba prevedere obbligatoriamente la forma scritta, che dia la facoltà al dirigente di recedere dopo un triennio, sebbene con preavviso, e che l’apposizione del termine è libera. Tutto ciò in ragione della maggiore facilità con cui il dirigente può spostarsi nel mercato del lavoro. Altra disciplina speciale è quella inerente il settore del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali, per cui è libera l’apposizione del termine.

5. La proroga del termine e la continuazione del rapporto oltre la scadenzaIn tema di proroga l’art. 4, comma 1°, dispone che il termine originariamente prefissato possa essere (senza necessità della forma scritta) prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni e che la proroga sia ammessa una sola volta, quando “sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa”. Infine viene posto un limite massimo di tre anni alla durata complessiva del rapporto a termine in conseguenza della proroga.L’art. 4, comma 2°, addossa al datore l’onere della prova dell’obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano la proroga del termine. Pertanto l’effetto sanzionatorio della cosiddetta conversione opera ex nunc, cioè dal momento successivo alla scadenza pattuita dalle parti. Distinta dalla proroga è l’ipotesi, prevista dall’art. 5, comma 1°, della continuazione del rapporto oltre la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato. Non è in sé illecita ma obbliga il datore di lavoro ad una maggiorazione della retribuzione del 20% e poi del 40%. In questo modo la validità del contratto viene conservata per un tempo predeterminato (c.d. periodo di tolleranza). La maggiorazione retributiva funziona come una sorta di penale rivolta a disincentivare la prosecuzione del rapporto. Se il rapporto continua trova applicazione il meccanismo sanzionatorio della cosiddetta conversione o trasformazione del contratto, a far data dalla scadenza dei termini di tolleranza.

AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:

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5 bis. La successione di più assunzioni a tempo determinatoDiversa ancora è la reiterazione o successione di più assunzioni a termine del medesimo lavoratore. Essa non è vietata, ma tra la scadenza di un contratto a tempo determinato e la stipulazione del successivo devono decorrere alcuni periodi di tempo: 10 giorni se il contratto aveva durata inferiore a 6 mesi e 20 giorni se aveva durata superiore a 6 mesi. Se tali periodi di tempo non vengono rispettati, il contratto diventa a tempo indeterminato. Lo stesso art. 5, comma 3° e 4°, prevede la successione (o c.d. reiterazione) di più assunzioni a termine del medesimo lavoratore. La norma stabilisce che il datore di lavoro può stipulare un nuovo contratto a termine con lo stesso lavoratore, purché dalla data di scadenza siano trascorsi almeno dieci giorni se il contratto iniziale ha una durata fino a sei mesi, venti giorni nel caso di contratto superiore a sei mesi. Il mancato rispetto di questi intervalli comporta l’invalidità e quindi la conversione a tempo indeterminato solo del secondo contratto (e cioè ex nunc). La norma dell’art. 5, comma 4°, considera la più grave ipotesi di una successione di più assunzioni a termine consecutive: in questo caso “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto” (e cioè ex tunc). In conclusione, la reiterazione di contratti a tempo determinato è da ritenere legittima purché avvenga nel rispetto degli intervalli temporali e la stipulazione dei singoli contratti sia giustificata dalle ragioni oggettive indicate dall’art. 1.Tuttavia la disciplina legislativa in materia non si esaurisce qui: nel 2007, il legislatore è intervenuto con obiettivo di fissare un limite massimo alla successione di contratti a termine tra lavoratore e lo stesso datore di lavoro. Ciò non solo per motivi di politica occupazionale, ma anche al fine adeguare la normativa interna a quella comunitaria. È stata quindi prevista una nuova disciplina con la quale si è innanzitutto fissata, nel caso di successione di contratti a termine fra un lavoratore ed uno stesso datore di lavoro relativi allo “svolgimento di mansioni equivalenti”, una durata massima complessiva di 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi idi interruzione tra un contratto e un altro. Anche in casi di superamento di questo termine massimo il legislatore ha previsto un periodo di tolleranza: la sanzione del rapporto si applica solo dopo il ventesimo giorno dalla scadenza di quel termine. Il legislatore ha cmq inteso riconoscere la possibilità di stipulare un ulteriore contratto a termine anche oltre il limite dei 36 mesi, attraverso l’adozione di una procedura fondata sul consolidato meccanismo dell’assistenza sindacale al lavoratore in sede negoziale.

6. La disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinatoPer la disciplina del rapporto trovano applicazione le norme per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato in quanto compatibili. L’art. 6 del D.lgs. n. 368 enuncia la regola dell’uniformità di trattamento economico e normativo precisando che ai lavoratori assunti a tempo determinato sono dovute “le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili”; questi sono definiti come “quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva”. In virtù di questo principio, i trattamenti indicati sono dovuti “in proporzione al periodo lavorativo prestato” o pro  rata  temporis. L’inosservanza di questi obblighi espone il datore all’applicazione  delle sanzioni  amministrative pecuniarie previste dall’art. 12, D.lgs. n. 368. All’equiparazione tra prestatore di lavoro a tempo determinato e indeterminato si può ricondurre la norma dell’art. 8, in virtù della quale i lavoratori a termine sono computabili ove il contratto abbia durata superiore a nove mesi. La legge ha inoltre predisposto tutele del diritto alla salute e dell’interesse ad una occupazione stabile dei lavoratori a tempo determinato. Il diritto ad una formazione professionale sufficiente ed adeguata alle mansioni espletate “al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro”.

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Ancora ai contratti collettivi nazionali è affidato il compito di definire le modalità e i contenuti delle informazioni circa il ricorso ai contratti a termine nelle aziende; nonché le modalità affinché ai lavoratori a tempo determinato siano rese le informazioni circa i posti vacanti disponibili nell’impresa. Nessuna disposizione è contenuta nel D.lgs. n. 368 in merito alla disciplina cui deve ritenersi assoggettato un eventuale scioglimento del contratto ante tempus. infatti, fatta eccezione per l’ipotesi della sussistenza di una giusta causa, la legge assicura alle parti una stabilità contrattuale, il quale dovrà proseguire fino alla scadenza concordata.AGGIORNAMENTO - RIFORMA MONTI 2012:I rapporti di lavoro regolati da questo istituto presentano una maggiore propensione, rispetto al contratto di lavoro a tempo indeterminato, all’attivazione di strumenti assicurativi. Il contrasto ad un’eccessiva r e it e razio n e di rapporti a termine, tra le stesse parti, è perseguito tramite l’ampliamento dell’intervallo tra un contratto e l’altro a 60 giorni nel caso di un contratto di durata inferiore a 6 mesi, e a 90 giorni nel caso di un contratto di durata superiore (attualmente 10 e 20 giorni). Nel contempo, tenuto conto delle possibili esigenze organizzative delle imprese con riguardo al completamento delle attività per le quali il contratto a termine è stato stipulato, si prevede un prolungamento del periodo durante il quale il rapporto a termine può proseguire oltre la scadenza per soddisfare esigenze organizzative, da 20 a 30 giorni per contratti di durata inferiore ai 6 mesi e da 30 a 50 giorni per quelli di durata superiore. Nella logica di contrastare non l’utilizzo del contratto a tempo determinato in sé, ma l’uso ripetuto e reiterato per assolvere ad esigenze a cui dovrebbe rispondere il contratto a tempo indeterminato, viene previsto che il primo contratto a termine (intendendosi per tale quello stipulato tra un certo lavoratore e una certa impresa per qualunque tipo di mansione) non debba più essere giustificato da ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, fermi restando i limiti di durata massima previsti per l’istituto. Si stabilisce, inoltre, che ai fini della determinazione del periodo massimo di 36 mesi (comprensivo di proroghe e rinnovi) previsto per la stipulazione di contratti a termine con un medesimo dipendente vengano computati anche eventuali periodi di lavoro somministrato intercorsi tra il lavoratore e il datore/utilizzatore. Nel caso in cui il contratto a termine sia dichiarato illegittimo da un giudice, il regime continuerà ad essere basato sul doppio binario della “conversione” del predetto contratto e del riconoscimento al lavoratore di un importo risarcitorio.Sono peraltro prefigurati, in merito a tale regime, due tipi di interventi:

- da un lato, per scoraggiare il contenzioso sull’argomento, si ribadisce che l’indennità di cui sopra, in quanto prevista dalla legge come “onnicomprensiva”, copre tutte le conseguenze retributive e contributive derivanti dall’illegittimità del contratto a termine;

- dall’altro lato, si propone di adeguare, tenuto conto dei nuovi termini previsti per il rinnovo il periodo per l’impugnazione stragiudiziale del contratto a termine dalla cessazione dello stesso (da 60 a 120 giorni), fermo restando il termine per l’impugnazione giudiziale.

7. Limitazioni quantitative all’apposizione del termine; esenzioni; il diritto di precedenza (Comprensivo dell’AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010)L’apertura all’autonomia individuale in merito alle causali giustificatrici è riequilibrata dalle disposizioni all’autonomia collettiva, utilizzando la cosiddetta delega normativa, un’importante funzione di controllo e disciplina del contratto a tempo determinato. In particolare, l’art. 10, comma 7°, D.lgs. n. 368, affida ai contratti nazionali di lavoro stipulati da sindacati l’individuazione di limitazioni quantitative alle assunzioni a tempo determinato.

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La ratio della norma è chiara: attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva, il legislatore si è proposto l’obiettivo di disciplinare la domanda di lavoro temporaneo nel suo complesso. Dette  limitazioni  quantitative  (o  c.d. clausole  di contingentamento) possono essere stabilite anche in misura non uniforme ma differenziata. La stipulazione del contratto a tempo determinato deve avvenire nel rispetto dei requisiti previsti dall’art. 1: sia quello cosiddetto causale; sia quelle di forma. Di qui deriva la possibilità che l’autonomia collettiva delimiti le cause giustificatrici dell’apposizione del termine. La legge ha escluso dal meccanismo negoziale delle limitazioni quantitative elencate nei comma 7° e 8° dello stesso art. 10. Le fattispecie esenti ai sensi del comma 7° sono:

la fase di avvio di nuove attività; le ragioni di carattere sostitutivo e le attività stagionali in genere; l’intensificazione dell’attività in determinati periodi dell’anno; specifici spettacoli radiofonici e televisivi; l’esecuzione di un’opera o servizio definiti.

Il legislatore ha stabilito l’esclusione anche dei contratti giustificati da causale cosiddetta soggettiva, in particolare dei contratti stipulati a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage nonché dei contratti stipulati con lavoratori di età superiore a 55 anni. Ancora, il successivo comma 8° ha escluso anche i contratti a tempo determinato i quali, non rientrando nelle causali cosiddetti oggettive e soggettive del comma 7°, siano di durata non superiore ai sette mesi.L’esenzione non si applica quando i contratti siano stipulati “per lo svolgimento di prestazioni di lavoro identiche a quelle che hanno formato oggetto di altro contratto a termine avente le medesime caratteristiche e scaduto da meno di sei mesi”. Infine l’art. 10, comma 9°, affida ai contratti collettivi nazionali stipulati con i sindacati l’individuazione di un diritto di precedenza nell’assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, esclusivamente a favore dei lavoratori”. Il diritto di precedenza non è riconosciuto in via automatica dalla legge ma potrà essere attribuito dalla contrattazione collettiva. Inoltre i lavoratori assunti in forza del diritto di precedenza non concorrono a determinare la quota di riserva sulle assunzioni prevista in favore delle cosiddette fasce deboli di disoccupati. Ai sensi del comma 10° dell’art. 7, “in ogni caso il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro”; ai fini del diritto di precedenza, il lavoratore è tenuto a manifestare la propria volontà al datore di lavoro entro il termine di tre mesi dalla cessazione del rapporto.8. La somministrazione di lavoro. La disciplina degli appalti e del comando o distacco. L’intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro. Decentramento produttivo ed esternalizzazioniIl fenomeno dell’interposizione ed intermediazione nel rapporto di lavoro, configurabile per mezzo di diverse forme giuridiche (somministrazione, appalto ecc), prevede la presenza di un soggetto terzo, intermediario tra i prestatori di lavoro e l’imprenditore. In sostanza un’impresa, senza la necessità di assumere personale, si rivolge ad un intermediario, che gli procurerà la manodopera necessario per l’esercizio dell’attività lavorativa e che si accollerà il rischio economico e giuridico della gestione della forza lavoro, tutto ciò per ricavare, dalla differenza tra il monte-salari ed il costo sopportato dall’impresa, un proprio guadagno. Ovviamente ciò comporta una minore tutela del lavoratore: un qualsivoglia evento potrebbe condurre alla decisione dell’impresa di non necessitare più della forza-lavoro, il che lascerebbe i lavoratori tutelati inferiormente rispetto a quanto lo sarebbero se fossero stati assunti dall’impresa stessa. Per tal motivo il legislatore del 1960 guardava con sfavore a questa tipo di rapporto lavorativo, ponendo un divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro. Diversamente dalla mediazione, che agevola la formazione e la conclusione di un contratto, l’intermediazione nei rapporti di lavoro è

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finalizzata al soddisfacimento dell’interesse delle imprese. Al di là della semplice intermediazione, inoltre, ritroviamo altre fattispecie interpositorie che attuano un decentramento produttivo, il quale prevede una dislocazione all’esterno dell’azienda principale di segmenti del complessivo processo produttivo (esternalizzazione o outsourcing). Il fenomeno in questione utilizza diversi tipi contratti sia sotto il profilo commerciale (appalto, franchising ecc), sia lavorativo (lavoro autonomo, subordinato, parasubordinato) idonee a soddisfare il fabbisogno produttivo e di forza lavoro dell’impresa.

9. Il divieto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro. Il lavoro temporaneoLa L. n°1369/1960 aveva introdotto un divieto assoluto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro, vietando in sostanza tanto la fornitura di manodopera reclutata dall’assuntore interposto e messa al servizio dell’imprenditore interponente (somministrazione di lavoro altrui), quanto l’appalto di manodopera utilizzata dall’interponente sotto la direzione dello stesso appaltatore interposto (pseudo-appalto, differente dall’appalto in quanto si fornisce solo una prestazione di lavoro, senza organizzazione dello stesso e gestione d’impresa a proprio rischio). In caso di violazione delle norme previste dalla L. n°1369 erano previste sanzioni penali, a carico dell’imprenditore e dell’intermediario, e sanzioni civili, in quanto i prestatori di lavoro venivano considerati come dipendente dell’imprenditore. La L. n°1369, inoltre, dettava una nuova disciplina propria degli appalti leciti, distinguendo tra appalti interni, inerenti il normale ciclo produttivo dell’impresa committente, ed appalti esterni, estranei al normale ciclo produttivo della stessa. Era prevista un’uniformità di trattamento normativo e retributivo, nel caso di appalto interno, tra i dipendenti dell’appaltante e quelli dell’appaltatore. La Legge n°1369, impedendo la somministrazione di manodopera, lasciava l’Italia fuori da un quadro normativo pressoché unico dei Paesi industrializzati, europei e non. Così, la Legge n°196/1997 aveva ala fine introdotto anche in Italia il lavoro interinale (o fornitura di lavoro temporaneo), il quale configurava un rapporto trilaterale in forza del quale un’agenzia intermediatrice (o impresa fornitrice) inviava temporaneamente la forza lavoro, da essa assunta, presso un terzo (utilizzatore) per effettuare una prestazione lavorativa a favore di quest’ultimo. Venivano alla luce, quindi, due rapporti distinti: quello di fornitura, intercorrente tra l’intermediario fornitore e l’imprenditore-utilizzatore, e quello di lavoro, stipulato tra l’agenzia fornitrice ed i prestatori di lavoro. Va sottolineato come i lavoratori, pur essendo dipendenti del fornitore, obbedivano al potere direttivo e di controllo dell’utilizzatore. La disciplina, però, appariva molto rigida: solo le agenzie autorizzate dal Ministero del lavoro, in quanto società di capitali o cooperative con unico scopo sociale la fornitura, potevano ricorrere al lavoro interinale ed esercitare attività di fornitura. Inoltre l’utilizzatore doveva avvalersi del lavoro interinale solo per esigenze temporanee, individuate tassativamente dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi. La Legge n°1369/1960, tra l’altro, non risultava abrogata dalla legge 196/1997 e continuava ad operare per il pseudo appalto.

10. Somministrazione di lavoro: ipotesi di ricorso alla somministrazione (Comprensivo dell’AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010)Il D.lgs. n°276/2003, in attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla L. n°30/2003 (Legge Biagi), ha abrogato definitivamente la L. n°1369/1960 inerente il divieto di intermediazione ed interposizione, nonché gli artt. 1 a 11 della L. n°196/1997 in tema di lavoro interinale, introducendo una nuova disciplina normativa in tema di somministrazione del lavoro.

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Essa permette ad agenzie per il lavoro, autorizzate dal Ministero del Lavoro in base a requisiti di professionalità ed affidabilità e distinte tra agenzie abilitate alla somministrazione a tempo determinato ed agenzie abilitate alla somministrazione a tempo indeterminato, di esercitare l’attività di somministrazione. La somministrazione a tempo determinato, unica ipotesi possibile in caso di pubbliche amministrazioni, è consentita “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore” (art. 20, comma 4°). Limiti quantitativi a questo tipo di somministrazione possono essere previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi. La somministrazione a tempo indeterminato (art. 20, comma 3°) è consentita nei casi tassativamente elencati dalla legge, in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo:

- Per servizi di consulenza/assistenza nel settore informatico;- Per servizi di custodia, portineria e pulizia;- Per servizi di trasporto persone, merci e macchine da e per lo stabilimento;- Per la gestione di parchi, biblioteche, musei, archivi, magazzini;- Per attività di consulenza direzionale, ricerca e selezione del personale, gestione dello

stesso, programmazione delle risorse;- Per attività di marketing, analisi del mercato;- Per la gestione di call-center;- Per l’avvio di iniziative imprenditoriali previste dall’Unione Europea in zone ad alta

disoccupazione;- Per costruzioni edilizie in stabilimenti, per installazioni/smontaggio di macchinari ed

impianti, per particolari attività produttive legate all’edilizia e cantieristica navale;- Altre ipotesi contemplate da contratti collettivi stipulati dai sindacati più

rappresentativi.

La somministrazione, sia essa a tempo determinato o indeterminato, è vietata per la sostituzione di lavoratori in sciopero, per imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi, per lavoratori adibiti ad unità produttive interessate da licenziamenti collettivi o da intervento della CIG.

11. Disciplina del contratto di somministrazioneIl contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta e contenere una serie di elementi fondamentali, che l’agenzia di somministrazione deve comunicare per iscritto al lavoratore, al momento della stipulazione del contratto o al momento dell’invio presso l’utilizzatore, e sono:

gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore; gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore; il numero dei lavoratori da somministrare; le ragioni che giustificano la somministrazione; i rischi per la salute del lavoratore; data di inizio e durata del contratto; mansioni alle quali adibire il lavoratore; luogo, orario e trattamento economico/normativo delle prestazioni lavorative; assunzione da parte del somministratore dell’obbligazione del pagamento del

trattamento economico e degli onere previdenziali al lavoratore; assunzione da parte dell’utilizzatore dell’obbligo di rimborsare al somministratore le

somme di cui sopra; assunzione dell’utilizzatore dell’obbligo del pagamento diretto al lavoratore, qualora il

somministratore sia inadempiente, salvo il diritto di rivalsa.

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AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:La L. n°247/2007 ha abolito il contratto di somministrazione a tempo indeterminato e quindi tutte le norme in materia contenute nel D.lgs. n°276/2003 (e quindi tutta la trattazione del libro di testo). E’ stata modificata anche la disciplina della somministrazione a tempo determinato, prevedendo che si applichi la disciplina del contratto a tempo determinato, laddove compatibile, con l’esclusione però dell’ apparato sanzionatorio previsto per la violazione delle norme in materia di riassunzioni a termine, della disciplina in tema di successione di contratti a termine (che ha fissato un limite temporale massimo di 36 mesi) e del diritto di precedenza del lavoratore sia nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro nei successivi dodici mesi, sia con riferimento alle nuove assunzioni a termine nei lavori stagionali. Inoltre il nuovo Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro ha disposto che tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico dell’utilizzatore. Va sottolineato, infine, che i lavoratori somministrati devono essere iscritti sia nel Libro unico dell’agenzia di somministrazione, sia in quello dell’utilizzatore (solo dati identificativi).

12. Disciplina del contratto e del rapporto di lavoro dei prestatori destinati alla somministrazione Anzitutto dobbiamo specificare che il D.lgs. n°276/2003 non disciplina in modo specifico il contratto di lavoro dei prestatori soggetti a somministrazione, ma gli elementi principali sono rinvenibili all’interno del decreto. E’ previsto, infatti, che la somministrazione possa essere tanto a tempo determinato, ed in tal caso andrà applicata la disciplina del D.lgs. n°368/2001 sul lavoro a tempo determinato, quanto a tempo indeterminato, applicando in questo caso la disciplina generale dei rapporti di lavoro. Ovviamente le discipline legislative si applicano laddove siano compatibili. In caso di somministrazione a tempo determinato, per esempio, non si applicano le norme contenenti il divieto di riassunzione del lavoratore laddove non siano trascorsi 10 o 20 giorni: per il lavoratore assunto ai fini della somministrazione, infatti, è previsto che il contratto possa essere prorogato con il consenso del prestatore e per iscritto, nei casi stabiliti dai contratti collettivi. Un altro esempio di disciplina speciale per la somministrazione lo ritroviamo nel caso di assunzione a tempo indeterminato: qualora i prestatori di lavoro non stiano esercitando la propria attività presso alcun utilizzatore, essi dovranno percepire un’indennità mensile di disponibilità salvo che, per giustificato motivo o giusta causa, non operi una risoluzione del contratto. Inoltre nel caso di fine dei lavori relativi alla somministrazione, non si applicano le norme in materia di procedura di mobilità, ma quelle previste nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Per ciò che concerne, poi, il rapporto di lavoro è previsto che i prestatori di lavoro nel caso di somministrazione, benché dipendano da un’agenzia, operano sotto la direzione ed il controllo dell’utilizzatore, ma non sotto il suo potere disciplinare, anche se quest’ultimo potrà esercitarlo indirettamente, rivolgendosi all’agenzia di fornitura. I prestatori, comunque, hanno diritto allo stesso trattamento retributivo e normativo dei dipendenti dell’utilizzatore, nonché a svolgere le mansioni per cui sono stati assunti, in quanto qualora vengano assegnati a mansioni superiori, dovranno ricevere, loro così come l’agenzia di somministrazione, una comunicazione da parte dell’utilizzatore, che altrimenti risponderà in via esclusiva per le differenze di retribuzione e per l’eventuale risarcimento del danno. Ovviamente il prestatore di lavoro in caso di somministrazione gode anch’egli dei diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori, che potrà esercitare presso l’utilizzatore. R.S.A. ed R.S.U., inoltre, devono essere informate del numero dei lavoratori somministrati di cui si avvale l’utilizzatore, nonché delle motivazioni per cui se ne avvale, così come ogni 12 mesi devono essere informate degli eventuali contratti di somministrazione conclusi.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:

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In base alla nuova disciplina in materia di libro unico del lavoro, i lavoratori somministrati devono essere iscritti sia nel libro unico del somministratore che li assume, sia nel libro unico dell’utilizzatore. Per questi lavoratori, l’utilizzatore dovrà limitarsi ad annotare i dati identificativi del lavoratore (nome, cognome, codice fiscale, qualifica, livello di inquadramento contrattuale, agenzia di somministrazione) mentre il somministratore dovrà procedere alle annota-zioni integrali anche con riferimento al calendario delle presenze e ai dati retributivi.

13. L’apparato sanzionatorioQualora il contratto di somministrazione non rispetti la forma scritta è nullo e si ritiene che il prestatore sia a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore. Inoltre, la violazione degli altri requisiti formali da luogo a sanzioni amministrativo-pecuniarie, cui vanno incontro tanto l’utilizzatore, quanto l’agenzia di somministrazione. A carico di questi ultimi, infine, sono previste sanzioni penali nel caso di attività di somministrazione illegittima, in quanto non autorizzata, con aggravio se vi è sfruttamento minorile.

14. Disciplina degli appaltiDopo l’emanazione del D.lgs. n°276/2003, venendo meno la L. n°1369/1960, anche la disciplina dell’appalto è mutata. Il D.lgs. è entrato nel cuore della disciplina dell’appalto stabilendo che “il contratto d’appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione del mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa. Sulla base di questa distinzione, sono da ritenere lecite quelle fattispecie in cui, in relazione alla particolare natura e modalità dell’opera o servizio oggetto dell’appalto, l’organizzazione dei mezzi da parte dell’appaltatore, richiesta dall’art.1655 c.c., si risolva nella semplice organizzazione delle prestazioni dei lavoratori utilizzati. Vietato, al contrario, rimane lo pseudo-appalto, vera ipotesi di interposizione illecita, che si configura nel momento in cui la natura e la modalità dell’opera o servizio oggetto dell’appalto non giustifichino una tale semplificazione dell’organizzazione della sola manodopera. Nel caso in cui si configuri una tale situazione, il lavoratore potrà richiedere giudizialmente l’instaurazione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la sua prestazione, al quale andrà notificato il ricorso giudiziale a norma dell’art. 414 c.p.c.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:Al fine di favorire la piena occupazione e di garantire l’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori impiegati da imprese che svolgono attività di servizi in appalto, il legislatore ha di recente stabilito che, pur in presenza dei requisiti numerici, dimensionali e temporali previsti dalla legge, ai licenziamenti derivanti da una cessazione dell’appalto non si applica la procedura prevista per i licenziamenti collettivi, a condizione che il datore di lavoro subentrante garantisca ‘l’acquisizione’ (da intendersi come riassunzione) dei lavoratori occupati nel medesimo appalto ed applichi ad essi condizioni economico e normative corrispondenti a quelle previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, o da accordi collettivi stipulati con le orga-nizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.

AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:

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14. bis La responsabilità dell’appaltante nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore e del subappaltatore, nonché degli enti previdenzialiVenuto meno il principio di uniformità di trattamento, e la conseguente previsione di una responsabilità solidale tra appaltante ed appaltatore nei confronti dei lavoratori dipendente da quest’ultimo, il legislatore ha inteso rafforzare la responsabilità degli imprenditori o datori di lavoro appaltanti nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore. Al riguardo è importante la c.d. azione di rivalsa (art. 1676 c.c.), in base alla quale i dipendenti dell’appaltatore “possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.Inoltre, a maggiore tutela, il legislatore ha previsto che in caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti.

15. Il comando o distacco. Le società collegate (Comprensivo dell’AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010)Tra le ipotesi nelle quali le parti, nell’esercizio dell’autonomia negoziale, prevedono condizioni e modalità flessibili di impiego della forza-lavoro troviamo il comando o distacco del lavoratore da un’azienda all’altra: il dipendente viene comandato dal datore di lavoro a prestare servizio, per un certo periodo di tempo, presso un terzo. Quest’ultimo soggetto diviene così il beneficiario della prestazione di lavoro e può essere legittimato ad esercitare taluni poteri disciplinari e di controllo sul prestatore nonché ad adempiere taluni obblighi nei suoi confronti. Il rapporto di lavoro resta nella titolarità del datore assuntore, nonostante l’inserimento del lavoratore nell’azienda del beneficiario. L’istituto del comando (o distacco) del lavoratore da un’azienda ad un’altra è stato per lungo tempo disciplinato solo dalla giurisprudenza, la quale prevedeva che qualora un datore di lavoro decidesse di far beneficiare un altro soggetto della prestazione lavorativa di un proprio dipendente, egli avrebbe dovuto avere un interesse al distacco, in mancanza del quale lo stesso sarebbe stato considerato come ipotesi di interposizione vietata dalla L. n°1369/1960. Il D.lgs. n°276/2003 introduce per la prima volta una definizione di distacco: il distacco “si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa”. L’art. 30 del D.lgs. n°276/2003 passa poi a dettare una scarna disciplina del distacco stabilendo che “il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore” e poi che esso “deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato” ove comporti un mutamento di mansioni. Inoltre, è stabilito che il distacco che comporti il trasferimento ad unità produttiva distante più di 50 km da quella a cui è adibito il lavoratore, “solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive”. Strettamente connesso al comando o distacco di personale è la prestazione di lavoro alle dipendenze di più società collegate. Secondo l’art. 2359 c.c., si considerano controllate:

le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;

le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di vincoli contrattuali.

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Invece sono considerate collegate anche le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole, che si presume esistente quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti, ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.In conclusione, merita di essere segnalato che la disciplina della prestazione di lavoro in regime di distacco è stata recentemente integrata dalle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro e tenuta del libro unico. Si è previsto che gli obblighi di prevenzione e protezione gravino sul distaccatario, mentre sono a carico del distaccante gli obblighi di informazione e formazione del lavoratore sui rischi connessi all’attività che andrà a svolgere. Nel Libro Unico del distaccante devono risultare a tutti gli effetti i lavoratori comandati, mentre in quello del distaccatario devono risultare solo a fini indicativi.

16. Distacco di lavoratori in una prestazione di servizi transnazionaleLa crescente diffusione di processi d’integrazioni tra imprese e società collegate a livello multinazionale ha suggerito l’emanazione della Direttiva comunitaria 16/12/1996, n. 96 / 71.E’ stata attuata nell’ordinamento italiano con il D.lgs. n. 72/2000, che è volto a tutelare i lavoratori distaccati temporaneamente in territorio italiano da imprese con sede in altro Stato sulla base di un contratto di appalto o di fornitura di servizi. In favore di tali lavoratori è sancito un principio di uniformità di trattamento con i lavoratori comparabili operanti nel luogo del distacco e, nel caso di appalto, con i lavoratori dipendenti dall’impresa appaltante. In conclusione la disciplina appena descritta presenta le caratteristiche di una normativa antifraudolenta,volta ad evitare che attraverso l’istituto del distacco del lavoratore le imprese possano perseguire l’obiettivo di ridurre le tutele economiche e normative per ottenere una riduzione del costo del lavoro. Con la disciplina antifraudolenta nella L. n°1369 del 1960 il legislatore si è fondato sulla consolidata tecnica protettiva della parità di trattamento e della responsabilità solidale.

17. La Direttiva comunitaria n.97/81 e il D.lgs. n. 61/2000. Le modifiche introdotte dal D.lgs. n. 276/2003Il rapporto di lavoro a tempo parziale (part-time) è il tipico esempio di strumento di flessibilità dell’impiego con riferimento al tempo: esso è caratterizzato da un orario di lavoro ridotto rispetto a quello normalmente previsto, al fine di incentivare l’occupazione e fornire una migliore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Della materia si è occupata l’UE con l’emanazione della Direttiva ‘97/81, alla quale l’Italia ha dato attuazione con il D.lgs. n°61/2000, dettando una nuova normativa in tema di lavoro part-time, tesa ad incentivare la diffusione dello stesso. In materia è poi intervenuto anche il D.lgs. n°276/2003, per garantire la diffusione all’interno del nostro ordinamento dello strumento del part-time, il quale però si applica solo ai privati e non alle pubbliche amministrazione, alle quali continua ad applicarsi il D.lgs. n°61/2000.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:Tra gli strumenti di flessibilità per l’impiego della manodopera, con riferimento al tempo, è da annoverare il rapporto di lavoro a tempo parziale (c.d. part-time), la cui caratteristica è data dalla prestazione di lavoro con un orario ridotto rispetto a quello normale. Il contratto di lavoro a tempo parziale è uno strumento attraverso il quale è possibile attuare forme di redistribuzione del lavoro e soprattutto una migliore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro per quanti, come in primo luogo le donne, devono affiancare ad un rapporto di lavoro subordinato altri impegni (compiti di cura familiare, studio, etc.). Perciò ad esso è stato dedicato uno specifico intervento regolativo a livello comunitario, attuato nel quadro delle procedure

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previste dal Protocollo sociale allegato al Trattato di Maastricht. Infatti, il Consiglio dell’Unione Europea ha dato attuazione all’accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale concluso tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori a livello comunitario nel 1997, con l’obiettivo di definire principi generali e prescrizioni minime finalizzati all’eliminazione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale ed alla promozione di questa forma di occupazione.L’Italia ha poi recepito ed attuato tale normativa dettando una nuova disciplina del rapporto di lavoro part-time, e successivamente, in occasione della riforma del mercato del lavoro attuata con il D.lgs. n. 276 del 2003, il legislatore è intervenuto nuovamente in materia al fine di incentivare il ricorso al part-time, sul presupposto che nel nostro Paese questa tipologia contrattuale è scarsamente diffusa.Tuttavia, in occasione della riforma del 2007, il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia e, pur senza eliminare integralmente le modificazioni apportate dal D.lgs. n. 276, ha reintrodotto alcune garanzie in favore dei lavoratori, riducendo, di conseguenza, gli spazi di flessibilità gestionale per i datori di lavoro. Va poi ricordato quanto già accennato in precedenza, e cioè che il D.lgs. n. 276 non si applica alle pubbliche amministrazioni. Stesso discorso di non applicazione al settore pubblico va fatto per la nuova disciplina, introdotta dalla L. n. 247 del 2007, che seppur nel silenzio del legislatore, ragioni di ordine logico e sistematico inducono ad optare per questa interpretazione. In conclusione, la complessiva disciplina dell’istituto presenta un duplice profilo:

- il testo originario continua ad essere applicabile alle amministrazioni pubbliche,- il testo successivo, derivante dalle modifiche introdotte nel 2003 e nel 2007, si applica

al lavoro privato. In questa sede si deve quindi avvertire che la disciplina descritta di seguito sarà solo quella dettata da quest’ultima.

18. Disciplina del rapporto di lavoro a tempo parzialeIl D.lgs. n°61/2000 sancisce che “nel rapporto di lavoro subordinato l’assunzione può avvenire tanto a tempo pieno quanto a tempo parziale”. Individuiamo, quindi, le rispettive nozioni. Per “tempo pieno” si intende l’orario normale di lavoro previsto dalla legge o dagli specifici contratti collettivi; per “tempo parziale” (part-time) si intende l’orario fissato dal contratto individuale di lavoro, ridotto rispetto all’orario normale. All’interno della categoria del tempo parziale, ritroviamo poi altre definizioni: per part-time orizzontale s’intende una riduzione del tempo di lavoro, rispetto all’orario normale, su scala giornaliera, mentre per part-time verticale s’intende una riduzione del tempo di lavoro su scala settimanale, mensile o annuale, essendo previsto, all’interno della giornata, un orario normale di lavoro; per part-time misto, infine, s’intende una riduzione dell’orario di lavoro data dalla combinazione tra il part-time orizzontale e quello verticale. Inoltre i contratti collettivi, o addirittura le r.s.a o r.s.u. aziendali, possono prevedere riduzioni dell’orario lavorativo del tutto assestanti. Il contratto part-time deve rispettare la forma scritta ad probationem, ossia per poter essere provato in giudizio, e deve contenere l’indicazione della durata dell’attività lavorativa e delle relativa ripartizione dell’orario di lavoro. Annualmente, tra l’altro, l’impresa deve rendere noto l’andamento delle assunzioni part-time ai rispettivi sindacati. Sia la normativa comunitaria, quanto quella italiana, prevedono che sia adottato, nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, il principio di non discriminazione (o uniformità di trattamento) secondo cui alcuna diversità di trattamento, rispetto ai lavoratori a tempo pieno della stessa categoria e con le stesse mansioni, deve essere posta in essere nei confronti dei lavoratori part-time, se non quella inerente la diversa retribuzione e proporzione dei diritti (es.ferie). Il lavoratore, inoltre, può optare per il lavoro a tempo parziale, qualora in quel momento lavori a tempo pieno, o addirittura fare il contrario in alcune ipotesi. In alcun modo, però, il rifiuto del

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lavoratore di cambiare da part-time a pieno o viceversa, potrà costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Potrà, però, figurare come giustificato motivo oggettivo in caso di importanti esigenze produttive e organizzative dell’impresa. Qualora un lavoratore accetti di passare dal tempo pieno a quello parziale, egli dovrà convalidare la sua scelta presso la Direzione provinciale del lavoro ed avrà un diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni, per ciò che concerne il ritorno al tempo pieno.AGGIORNAMENTO – RIFORMA MONTI 2012:Al fine di incentivare l’impiego corretto dell’istituto, ostacolandone l’uso come copertura di utilizzi irregolari di lavoratori, si propone di istituire, nei soli casi d i pa r t - ti m e verti c ale o m isto , un obbligo di comunicazione amministrativa secondo modalità snelle e non onerose (sms, fax o PEC), e contestuale al già previsto preavviso di 5 giorni da dare al lavoratore in occasione di variazioni di orario attuate in applicazione delle clausole elastiche o flessibili. Si intende inoltre prevedere, in caso di rilevanti motivi personali precisati dalla legge e in altre eventuali ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, la facoltà del lavoratore di esprimere un “ripensamento” nel caso di part-time flessibile o elastico.

19. La disciplina del tempo di lavoro; clausole elastiche, lavoro supplementare e straordinarioAbbiamo già detto che il D.lgs. n°276/2003 ha modificato la disciplina del lavoro part-time (almeno per i privati) rispetto al D.lgs. n°61/2000. Una delle modificazioni ha riguardato il lavoro supplementare e straordinario e le c.d. clausole elastiche. Per lavoro supplementare s’intende il lavoro svolto oltre l’orario di lavoro concordato ed entro il limite del tempo pieno ed esso è applicabile solo e solamente al part-time orizzontale (es. lavoro giornalmente per 4 ore: il lavoro supplementare sarà costituito da un numero di ore superiore a 4 e fino ad 8, che di solito configurano il tempo pieno). Ai contratti collettivi, in caso di lavoro supplementare, è rimesso il compito di stabilire un numero massimo di ore di lavoro supplementare e l’obbligo di corresponsione di una maggiorazione retributiva. In presenza di un contratto collettivo, non occorre il consenso del lavoratore, che però potrà legittimamente rifiutarsi, non costituendo ciò giustificato motivo di licenziamento. Per lavoro straordinario, invece, s’intende il lavoro svolto oltre il normale orario di lavoro giornaliero, in caso però di part-time verticale o misto, dove abbiamo visto che durante l’arco della giornata si lavoro lo stesso numero di ore dei lavoratori a tempo pieno, mentre la riduzione dell’orario avviene su scala settimanale, mensile o annuale. Inoltre nei contratti di lavoro a tempo parziale, dopo le modifiche apportate dal decreto 276, è possibile apporre specifiche clausole flessibili, che comportino la modificazione unilaterale della collocazione temporale dell’attività lavorativa (es. lavoravi la mattina, lavorerai la sera), così come è possibile apporre clausole elastiche, che comportino un aumento della durata della prestazione lavorativa nel suo insieme a seguito di una scelta da parte del datore di lavoro, che deve comunicarlo ai prestatori almeno due giorni prima. L’accordo tra le parti sull’inserzione di clausole flessibili e di clausole elastiche deve essere contemplato in un atto scritto, ed il rifiuto di stipulare il patto non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

20. Normativa incentivante ed apparato sanzionatorioLa normativa in materia di lavoro part-time ha sempre avuto, come obiettivo primario, la promozione dell’occupazione, per realizzare la quale il legislatore ha previsto delle incentivazioni di carattere economico a favore dei datori di lavoro che vedremo più avanti. Altra forma d’incentivazione all’assunzione part-time da parte delle imprese la ritroviamo prendendo in considerazione la consistenza dell’organico delle stesse: i lavoratori part-time vengono computati nel numero complessivo dei dipendenti in relazione all’orario svolto rapportato al tempo pieno e l’arrotondamento opera per le frazioni di orario eccedenti la

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somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno. Sotto il profilo previdenziale, inoltre, è previsto il riproporzionamento tra tempo lavorato e contribuzione previdenziale. Oltre ad un apparato incentivante, inoltre, è previsto un sistema sanzionatorio per tutelare il rapporto di lavoro part-time. Anzitutto abbiamo detto che la forma scritta del contratto è richiesta solo ad probationem, quindi ai fini della prova giudiziale dell’esistenza dello stesso: il legislatore ha sancito che la prova per testimoni è ammessa solo in caso di perdita senza colpa dell’atto scritto (art. 2725 c.c.), aggiungendo che, in difetto di tale prova, il lavoratore potrà chiedere che venga accertata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dal momento in cui il giudice ha accertato che manchi la prova scritta. Se manca, poi, l’indicazione della durata all’interno del contratto, il giudice potrà dichiarare l’esistenza di un rapporto a tempo pieno a partire dalla sentenza. Qualora manchi, invece, l’indicazione della collocazione temporale della prestazione, questa sarà determinata dal giudice, secondo i contratti collettivi o secondo equità. Inoltre nel caso di violazione del diritto di precedenza del lavoratore part-time nell’ipotesi di nuove assunzioni a tempo pieno, egli avrà diritto al risarcimento del danno, calcolato tramite la differenza tra la propria retribuzione e quella che avrebbe conseguito se fosse passato a tempo pieno, moltiplicata per sei mesi (tale diritto non opera automaticamente, dopo il D.lgs. n°276 deve essere inserito nel contratto individuale).

21. Specialità del rapporto di lavoro a tempo parziale e ruolo della contrattazione collettivaIl rapporto di lavoro part-time si configura come un rapporto speciale, volto a rispondere all’esigenza di flessibilità dei datori di lavoro con la forza-lavoro disponibile a lavorare ad orario ridotto. Si tratta, quindi, di un rapporto che garantisce la crescita occupazionale. In precedenza un ruolo di riferimento era detenuto dalla contrattazione collettiva, che avrebbe dovuto, nell’interesse generale, derogare ed integrare la normativa in materia. Il decreto n°276/2003 sembra non avere riconosciuto un tal ruolo all’autonomia collettiva, ponendo in risalto l’autonomia individuale.

22. Il lavoro intermittenteUna forma particolare di contratto a tempo parziale si ha con il lavoro intermittente (o a chiamata), che può essere considerato come una particolare declinazione dello schema generale del lavoro a tempo parziale (si tratta di una combinazione tra part-time e lavoro a tempo determinato. Esso è stato disciplinato ed introdotto dal D.lgs. n°276/2003. Con il contratto di lavoro intermittente il lavoratore mette le proprie energie a disposizione del datore di lavoro, il quale, qualora ne necessiti, contatta il prestatore per usufruirne, retribuendolo per il periodo effettivamente lavorato e riconoscendogli un’indennità di disponibilità per il periodo di attesa. Lo svolgimento delle prestazioni è quindi discontinuo ed è la disciplina collettiva ad individuare per quali attività sia consentito il lavoro a chiamata (in assenza si osserva il R.D. n°2657/1923, contenente l’elenco delle occupazioni che richiedono lavoro discontinuo). Possono concludere il contratto di lavoro a chiamata solo giovani sotto i 25 anni di età o lavoratori con più di 45 anni, anche pensionati. E’ vietato il ricorso al lavoro intermittente per sostituire lavoratori in sciopero, o lavoratori licenziati collettivamente o posti in CIG. Per tale contratto è richiesta la forma scritta ad probationem, la quale deve provare una serie di elementi inerenti il rapporto di lavoro a chiamata, ossia la durata, il luogo, le modalità di disponibilità del lavoratore e la consecutiva indennità, le modalità di preavviso del prestatore (il quale deve avvenire almeno un giorno prima), tempi e modalità di pagamento, nonché tutte le indicazioni previste dalla contrattazione collettiva. Il prestatore di lavoro intermittente viene computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro svolto nell’arco di 6 mesi. Abbiamo visto come il lavoratore soggetto ad un tal tipo di

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rapporto debba prestare la propria disponibilità, affinché il datore di lavoro, qualora ne necessiti, possa avvalersi della sua prestazione. Legittimo motivo di rifiuto della chiamata è la malattia o un evento che renda impossibile la prestazione, ma in ogni caso si perde l’indennità di disponibilità. Qualsiasi altra giustificazione addotta dal lavoratore può rappresentare un motivo di risoluzione del contratto. Nessuna discriminazione deve essere posta in essere nei confronti del lavoratore a chiamata, né indiretta né diretta, né tanto meno dovuta al particolare contratto di lavoro, in quanto nei periodi di attività lavorativa, il prestatore a chiamata ha diritto ad una retribuzione e ad un trattamento normativo pari a coloro che svolgono le medesime mansioni a tempo pieno. Ovviamente è intuibile che il lavoratore avrà diritto ad trattamento retributivo, previdenziale e normativo proporzionati alla quantità del proprio lavoro, ma sarà ugualmente tutelato in caso di malattia, infortunio sul lavoro, maternità, malattia professionale. Quindi notiamo come una gran parte del contratto a chiamata sia stabilita non dalle parti, ma dal solo datore di lavoro, il che potrebbe condurre la Corte costituzionale a pronunciarsi contro la legittimità di una tale previsione legislativa.AGGIORNAMENTO APPENDICE 2010:La disciplina del lavoro intermittente è stata abrogata all’interno della L. 247/2007, per poi essere ripresa ripristinata del tutto dal D. L. 112/2008. La disciplina rimane, pertanto, immutata.AGGIORNAMENTO – RIFORMA MONTI 2012:Al fine di contenere il rischio che lo strumento del contratto di lavoro intermittente, o “a chiamata”, possa essere utilizzato come copertura nei riguardi di forme di impiego irregolare del lavoro, si prevede l’obbligo di effettuare una comunicazione amministrativa preventiva, con modalità snelle (sms, fax o PEC), in occasione di ogni chiamata del lavoratore.Si intende abrogare, per ripristinare la funzione originaria dello strumento, l’art. 34, comma 2°, del D.lgs. n°276/2003, secondo cui “Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età ovvero da lavoratori con più di quarantacinque anni di età, anche pensionati”.Si intende abrogare inoltre l’art. 37 del D.lgs. n°276/2003, a norma del quale “Nel caso di lavoro intermittente per prestazioni da rendersi il fine settimana, nonché nei periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali l'indennità di disponibilità di cui all'articolo 36 è corrisposta al prestatore di lavoro solo in caso di effettiva chiamata da parte del datore di lavoro. Ulteriori periodi predeterminati possono esser previsti dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale”.

23. Il lavoro ripartitoUn altro tipo di contratto a lavoro parziale è costituito dal contratto di lavoro ripartito, introdotto dall’art. 41 del D.lgs. n°276, in forza del quale due lavoratori assumono solidalmente l’adempimento dell’obbligazione di lavoro nei confronti del datore. Entrambi rispondono per l’intera obbligazione, concordando autonomamente la ripartizione del lavoro, ma l’impossibilità di uno dei due ricade anche sull’altro e la risoluzione del rapporto causata da uno, si ripercuote anche sull’altro lavoratore, almeno che il datore di lavoro non chieda al prestatore non colpevole di assumere su di se l’intera obbligazione. Il contratto deve rispettare la forma scritta per provare una serie di elementi, quali la misura e la collocazione temporale della prestazione di ogni lavoratore, nonché il trattamento economico e normativo spettante ad ognuno.

24. I contratti parasubordinati. Il lavoro a progetto

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A partire dagli anni 80 si è assistito ad un continuo proliferare delle collaborazioni coordinate e continuative. Il D.lgs. n°276/2003 ha ridisegnato la fattispecie, al fine di differenziare i rapporti di collaborazione autonoma da quelli che mascherano un lavoro subordinato, ha introdotto una nuova disciplina inerente il lavoro autonomo coordinato e continuativo “a progetto”. Per alcune attività lavorative, tuttavia, rimane in vigore la figura tradizionale della collaborazione continuativa e coordinata:

rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale; professioni intellettuali per le quali è richiesta l’iscrizione in appositi albi o elenchi; collaborazioni rese da amministratori, sindaci di società, soggetti che percepiscono la

pensione di vecchiaia; settore della PA, escluso palesemente dall’applicazione dell’intero decreto.

Il contratto di lavoro a progetto sembra configurare un sottotipo del contratto d’opera previsto dall’art. 2222 c.c. Tale contratto, infatti, deve OBBLIGATORIAMENTE prevedere un “progetto specifico, un programma di lavoro o una fase dello stesso”, ma mentre per il progetto specifico potremmo pensare che occorra una particolare professionalità e competenza, il concetto di programma di lavoro o fase di lavoro potremmo ricondurlo ad una qualsiasi attività, anche elementare, per cui non è richiesta alcuna particolare preparazione. Il progetto o programma, comunque, definisce l’oggetto della prestazione lavorativa, nonché il limite di durata del contratto: eseguito lo stesso, infatti, il contratto può ritenersi risolto. Il contratto deve rispettare la forma scritta ad probationem, proprio per poter provare alcuni degli elementi fondamentali del rapporto, quali la durata determinata o quanto meno determinabile dettata dalla realizzazione del progetto o programma. Si tratta comunque di un rapporto parasubordinato, in quanto benché permanga un autonomia del prestatore nel compimento del programma/progetto/fase di lavoro, egli rimane pur sempre dipendente dalla necessità del committente, suo datore di lavoro. E’ tutelata comunque l’attività inventiva del collaboratore (art. 65), al quale viene riconosciuta la proprietà intellettuale delle invenzioni realizzate in costanza del rapporto. In caso di impossibilità temporanea della prestazione (art. 66), il prestatore ha diritto ad una sospensione non retribuita del rapporto in caso di gravidanza, malattia ed infortunio, ma solo in gravidanza tale sospensione è garantita per un periodo di 180 giorni, mentre per malattia o infortunio non si ha proroga del termine contrattuale, della durata contrattuale, cosicché il contratto si estingue alla scadenza, ed anzi il committente prima della scadenza del termine se la sospensione si protrae per oltre 30 giorni o oltre 1/6 della durata contrattuale. Il contratto, comunque, come abbiamo già detto, si estingue al momento della realizzazione del progetto o programma (art.67), anche se è consentito il recesso ante tempus per giusta causa o con preavviso nei casi stabiliti dalla contrattazione collettiva o dalle parti. Il contratto a progetto è un contratto a causa rigida (art.69), in quanto la mancata previsione di uno specifico progetto o programma o fase di lavoro, da luogo alla conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche se la conversione non opera automaticamente, ma può essere decisa solo e solamente dal giudice, che potrà optare anche per altre soluzioni e tipologie contrattuali.AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:La diffusione delle collaborazioni coordinate e continuative è uno degli aspetti più notevoli dell’evoluzione del nostro mercato del lavoro dagli anni ’80 in poi. Come si è detto nel contratto di collaborazione coordinata e continuativa viene soddisfatto un interesse del committente che si può dire continuativo sul piano dell’adempimento della singola prestazione o della reiterazione nel tempo delle singole prestazioni di risultato ma non sul piano della programmazione o del coordinamento nello dell’attività, la quale viene gestita dal collaboratore nella sua autonomia di prestatore di opera senza vincolo di subordinazione. Il D.lgs. n. 276/2003, nell’intento di differenziare i rapporti di collaborazione autonoma da quelli che mascherano un rapporto di lavoro subordinato, ha introdotto una disciplina specifica del

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lavoro autonomo coordinato e continuativo a progetto nell’ambito dei rapporti individuali di lavoro, mentre la figura tradizionale della collaborazione coordinata e continuativa, resta invariata per alcune importanti attività e settori espressamente esclusi, come:

- i rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale;- le professioni intellettuali per le quali sia necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi

professionali;- i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prestati nel settore sportivo non

professionistico;- le collaborazioni rese in qualità di amministratore, o sindaco di società, di membri di

commissioni o collegi;- i soggetti percettori della pensione di vecchiaia;- tutto il settore delle pubbliche amministrazioni, escluse proprio dal campo di

applicazione dell’intero D.lgs. n. 276. Per tutte le collaborazioni coordinate e continuative alle quali si applica il decreto sono poi fissati alcuni requisiti essenziali che configurano a quanto sembra un sottotipo del contratto d’opera previsto dall’art. 2222 c.c., e nello specifico necessita che:

- le prestazioni devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore. La nozione di progetto specifico allude ad un livello elevato di competenza o capacità professionale del collaboratore e, comunque, può essere collegata ad una vera e propria prestazione d’opera, mentre più ampia e generica è la nozione di programma o fase di lavoro. Qui l’attività programmata e il risultato promesso dal collaboratore possono senza difficoltà tradursi in qualsiasi tipo di lavoro, mentre può essere difficile ravvisare in concreto un’autonomia di gestione nella prestazione. In realtà la nozione di progetto o programma di lavoro si presenta assai elastica e tale, in sostanza, da identificarsi con qualunque attività lavorativa per la cui esecuzione il lavoratore si accolli il rischio dell’utilità ella prestazione, secondo il modello tipico del lavoro a cottimo puro. Da questo punto di vista il progetto o programma è da considerare, da un lato come la specificazione dell’oggetto della prestazione di risultato o di opera del collaboratore e, dall’altro, come il limite alla durata del rapporto di collaborazione. Infatti la natura temporanea del progetto o programma o comunque la limitazione temporale dell’attività necessaria per realizzarlo, si configura quale necessaria giustificazione causale e quindi requisito legale per la sua validità. Da questo punto di vista, è evidente la somiglianza con il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, a cominciare dai requisiti di forma e di contenuto previsti per la conclusione del contratto di collaborazione;

- per quel che riguarda la disciplina del rapporto è imposta la stipulazione in forma scritta mediante un atto che indichi ai fini della prova la determinazione della durata determinata o determinabile del rapporto, oltre che del corrispettivo, delle forme di coordinamento dell’attività e delle eventuali misure a tutela della salute e della sicurezza del collaboratore.

- il compenso deve essere proporzionato alla qualità e quantità del lavoro e deve tenere conto dei compensi corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto: una norma che, oggi, va letta alla luce della previsione, contenuta nella legge finanziaria per il 2007, secondo la quale, al netto della contribuzione, i compensi corrisposti ai lavoratori a progetto devono, oltre che essere proporzionati alla quantità e qualità del lavoro eseguito, tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per prestazioni di analoga professionalità, anche sulla base dei contratti collettivi nazionali di riferimento;

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- circa la tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro, oltre ad essere richiamate alcune normative generali di tutela del lavoro subordinato e stabile che la prestazione si svolga nei luoghi di lavoro del committente, l’intero corpus delle disposizioni sulla sicurezza e l’igiene del lavoro prevede un’ulteriore tutela del lavoratore per il caso d’impossibilità temporanea della prestazione dovuta a malattia o infortunio. Viene, infatti, riconosciuto al collaboratore il diritto alla sospensione non retribuita del rapporto, pur stabilendosi che detta sospensione non comporta, salvo diversa previsione del contratto individuale, una proroga della durata del contratto, che si estingue alla scadenza, e che al committente compete il diritto di recesso ante tempus quando la sospensione si protrae per un periodo superiore ai 30 giorni o ad un sesto della durata stabilita nel contratto. È da sottolineare che la legge finanziaria per il 2007 ha introdotto per i collaboratori una speciale indennità di malattia, ha inoltre previsto una sospensione senza retribuzione del rapporto di lavoro delle collaboratrici in caso di gravidanza, stabilendo, peraltro che in questo caso la durata del rapporto sia prorogata solo per un periodo di 180 giorni, salvo disposizione più favorevole del contratto individuale. A tali lavoratrici è stato riconosciuto anche il diritto a godere di una indennità per il periodo di sospensione del rapporto, subordinatamente al possesso di requisiti contributivi e di anzianità di iscrizione alla gestione separata;

- il contratto si estingue “al momento della realizzazione del progetto o programma” che ne costituisce l’oggetto, anche se resta salva la facoltà del recesso ante tempus per giusta causa oppure con preavviso secondo le diverse causali o modalità che potranno essere stabilite dalle parti.

Questi ultimi aspetti segnano la differenza con il pur simile contratto di lavoro a tempo determinato. Da un punto di vista più generale va ricordato che il legislatore ha configurato la collaborazione a progetto come contratto a causa c.d. rigida o tipo contrattuale vincolato, il che comporta che i rapporti di collaborazione coordinata continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o parte di esso sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di effettuazione del rapporto. Questo effetto di trasformazione (o c.d. conversione) legale del rapporto da autonomo in subordinato è, naturalmente, inderogabile ma è relativo solo all’ipotesi in cui, come si è detto, il rapporto sia stato instaurato senza il progetto, il programma, o parte di esso. Nel caso, invece, in cui il rapporto sia stato instaurato ai sensi nel rispetto della normativa prevista, ma «sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato», il giudice, e soltanto a lui, può accertare la tipologia negoziale effettivamente realizzata tra le parti, potendosi concretizzare o un rapporto di lavoro subordinato (a tempo determinato, indeterminato, ripartito) o un rapporto di lavoro autonomo (vi è infatti la possibilità che si sia instaurato un contratto di lavoro autonomo continuativo ma non coordinato e perciò valido anche senza l’individuazione di un progetto o programma). È da segnalare che la c.d. conversione in contratto di lavoro subordinato consegue dalla nullità del fittizio contratto di collaborazione, per cui la relativa azione di accertamento è senza limite di tempo essendo imprescrittibile.AGGIORNAMENTO - RIFORMA MONTI 2012:Gli interventi proposti sul regime delle collaborazioni a progetto mirano ad evitarne utilizzi impropri in sostituzione di contratti di lavoro subordinato. Tale obiettivo è perseguito prevedendo disincentivi tanto normativi quali:

- una definizione più stringente del “progetto”, che non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale dell’impresa committente;

- l’introduzione di una presunzione relativa in merito al carattere subordinato della collaborazione quando l’attività del collaboratore a progetto sia analoga a quella

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svolta, nell’ambito dell’impresa committente, da lavoratori dipendenti fatte salve le prestazioni di elevata professionalità; l’eliminazione della facoltà di introdurre nel contratto clausole individuali che consentono il recesso del committente, anteriormente alla scadenza del termine e/o al completamento del progetto (resterebbe ferma la possibilità di recedere per giusta causa, per incapacità professionale del collaboratore che renda impossibile l’attuazione del progetto, e per cessazione dell’attività cui il progetto è inerente);

- l’abolizione del concetto di “programma”. - una norma sul regime sanzionatorio, che chiarisce, d’accordo con la giurisprudenza

di gran lunga prevalente, che in caso di mancanza di un progetto specifico il contratto a progetto si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

quanto contributivi, come l’ incremento dell’aliquota contributiva IVS degli iscritti alla Gestione separata INPS, così da proseguire il percorso di avvicinamento alle aliquote previste per il lavoro dipendente, nei termini che seguono.

25. Il lavoro occasionaleSono escluse dalla tipologia del contratto a progetto le prestazioni di lavoro occasionali, ossia “i rapporti di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell’anno solare, o non superiore a 240 ore salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5.000 euro”. In tali casi, la legge lascia libertà di forma per il contratto e consente che esso sia concluso per qualsiasi genere di attività; il corrispettivo versato dal committente resta escluso da contribuzione previdenziale; mentre nell’ipotesi di un eventuale superamento dei limiti fissati (30 giorni o 5.000€), si applicano le disposizioni sul lavoro a progetto, anche se il rapporto ha natura meramente autonoma. In conclusione si può affermare che il lavoro occasionale costituisce una importante innovazione perché introduce una “soglia” quantitativa come demarcazione tra il lavoro protetto e il lavoro meno protetto o per niente protetto.

CAP. 12°: LE ECCEDENZE DI PERSONALE E LA TUTELA DELL’OCCUPAZIONE

1. Introduzione: le eccedenze di personale ed i processi di riaggiustamento industrialeIl fenomeno dell’eccedenza e della riduzione di personale è collegata alla tutela del diritto di lavoro. Nell’ambito della disciplina dei rapporti di lavoro e della tutela dell’occupazione dobbiamo prendere in considerazione due interessi coesistenti e talvolta confliggenti all’interno del mercato e della società: quello all’occupazione ed al mantenimento del posto di lavoro e quello alla continuazione dell’esecuzione dell’attività economica da parte degli imprenditori. Nel caso delle eccedenze di personale viene in rilievo la contraddizione tra la disoccupazione come fenomeno di massa e l’esigenza di garantire il miglioramento dei livelli di reddito e di occupazione. L’andamento ciclico dell’economia, la concorrenza con Paesi in cui la manodopera ha un costo nettamente inferiore e la necessità dei processi di ammodernamento della produzione, delle tecnologie e dei sistemi organizzativi, spesso conducono ad un eccedenza del personale all’interno delle imprese e ad una conseguente riduzione dello stesso. La disciplina delle eccedenze di manodopera è dunque una materia cruciale nella quale si confrontano gli interessi configgenti all’occupazione e l’esercizio dell’attività economica: si tratta di interessi entrambi costituzionalmente rilevanti. Da osservare che il ruolo centrale è svolto dall’autonomia collettiva nel governo delle eccedenze personale. Ma occorre altresì sottolineare che gli interessi generali coinvolti hanno richiesto interventi legislativi.

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2. L’evoluzione storica della disciplina delle eccedenze di personaleGli interventi legislativi, cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente, ha subito un’evoluzione storica all’interno della quale distinguiamo 3 fasi.

La prima fase inizia con la soppressione del blocco dei licenziamenti e l’istituzione (1945) della Cassa integrazione guadagni (CIG) e colloca la previsione dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale nell’ambito esclusivamente contrattuale della disciplina interconfederale accanto a quella dei licenziamenti individuali. In questa fase la CIG assolve alla funzione di evitare che di fronte ad eventi transitori ed eccezionali il datore di lavoro sia costretto a licenziare e di garantire che i lavoratori possano conservare sia il posto di lavoro che il reddito.

Nella seconda fase, successiva alla L. n°604/1966, sui licenziamenti individuali, si pone il problema della delimitazione dell’ambito di applicazione della disciplina contrattuale dei licenziamenti collettivi. Nel 1968 la gestione straordinaria della CIG si sviluppa come strumento di intervento di lunga durata a sostegno del reddito dei lavoratori. Parallelamente viene elaborata una complessa disciplina a sostegno dell’occupazione.

La terza fase è quella aperta dalla L. n°223/1991, nella quale si assiste ad una risistemazione della normativa sull’intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni. Inoltre si procede ad una legificazione della materia dei licenziamenti collettivi e in questo ambito viene introdotto l’istituto della mobilità collettiva per l’avviamento dei lavoratori eccedenti ad una rioccupazione.

Il passaggio dalla seconda alla terza fase si giustifica con l’intento del legislatore di segnare uno spartiacque rispetto al ventennio precedente, durante il quale fu indotto un potenziamento degli interventi dello stato sociale. Occorre sottolineare che proprio il rilievo centrale che la materia in esame acquisisce sul piano del conflitto sociale non ha consentito una stabilità dell’assetto normativo introdotto con la L. n. 223 del 1991, a fronte della perdurante instabilità del quadro economico. Altro aspetto da sottolineare è che il legislatore è intervenuto per promuovere la sperimentazione di nuove specie di ammortizzatori sociali regolate e gestite dalla contrattazione collettiva. Già la L. n°662/1996 ha previsto che con decreto del Ministro del lavoro di concerto con il Ministro del tesoro vengano definite misure sperimentali per il perseguimento di politiche di sostegno del reddito e dell’occupazione. In nuovi settori di intervento, si tende al superamento delle tradizionali forme di garanzia del reddito di tipo esclusivamente pubblicistico e ad un maggior coinvolgimento delle parti sociali attraverso la previsione di forme di previdenza volontaria. Queste esperienze potrebbero rappresentare una nuova fase.

AGGIORNAMENTO – APPENDICE 2010:2 bis. Gli ammortizzatori sociali ‘in deroga’ Nel corso degli ultimi anni il tema dei c.d. ammortizzatori sociali, cioè degli strumenti di sostegno del reddito dei lavoratori nei periodi d’inattività, ha acquistato un ruolo sempre più importante nella legislazione del lavoro, in connessione con le varie fasi di trasformazione del nostro sistema economico. Il problema è poi esploso soprattutto in occasione della grave crisi economica ancora in atto, che ha fatto emergere con ancora maggiore evidenza l’ormai inaccettabile disparità di tutela tra i lavoratori subordinati dipendenti dalle imprese rientranti nell’area d’intervento straordinario della Cassa integrazione e della mobilità, nonché nel campo di applicazione del sistema assicurativo dell’indennità di disoccupazione, rispetto a quelli degli altri settori ed ai

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lavoratori occupati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa. A questo riguardo, il legislatore ha dovuto fronteggiare ricorrenti situazioni di crisi di mercato, di settore, di grandi imprese, o anche territoriali, che producevano effetti negativi sui livelli occupazionali e sul reddito dei lavoratori coinvolti; così, si è intervenuti con normative transitorie e/o derogatorie sulla durata dei trattamenti o anche sulle stesse condizioni di accesso (rispetto a quanto previsto dalla normativa ‘a regime’ della CIGS); inoltre, si è cominciato a estendere, in modo molto occasionale e frammentario, i trattamenti di integrazione guadagni straordinaria e di mobilità a lavoratori dipendenti da imprese in crisi non rientranti nell’area della Cassa integrazione. In occasione delle crisi strutturali di alcuni settori (ad es. quello del credito) sono stati anche sperimentate e poi generalizzate, alcune forme di ammortizzatori sociali, regolate e gestite dalla contrattazione collettiva con il sostegno dello Stato. Infine, sempre al fine di fronteggiare la crisi di settori non coperti dalla CIG, si è concessa l’indennità di disoccupazione ordinaria a lavoratori sospesi per effetto di situazioni aziendali dovute ad eventi transitori o determinate da situazioni temporanee di mercato; in tal modo si è riconosciuto che l’intervento della Cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione anche ordinaria svolgono analoga funzione di sostegno del reddito dei lavoratori nei periodi di inattività non voluta. Vanno, poi, segnalati quei provvedimenti che hanno prolungata, il periodo di percezione del relativo trattamento. Tutte queste forme di integrazione del reddito dei lavoratori sono ormai comunemente chiamate “ammortizzatori sociali in deroga”, proprio perché derogatori del regime generale e spesso concessi con riferimento a imprese che non hanno mai contribuito finanziariamente a questo sistema previdenziale. L’occasionalità e straordinarietà di questi interventi, oltre alla scarsa equità del sistema complessivo avevano condotto alla delega legislativa al Governo per una riforma complessiva del sistema di ammortizzatori sociali, ma tale delega non è stata esercitata. Ciò che più rileva al momento, è che gli effetti occupazionali della crisi economica mondiale hanno imposto d’intervenire nuovamente in modo massiccio con nuovi ammortizzatori in deroga. Tra queste novità va annoverata in particolare la facoltà riconosciuta per l’anno 2009 al Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, di concedere e prorogare, in deroga alla normativa generale, anche senza soluzione di continuità, trattamenti di cassa integrazione guadagni, di mobilità e di disoccupazione speciale, anche con riferimento a settori produttivi e ad aree regionali, sulla base di specifici accordi governativi e per periodi non superiori a 12 mesi. Inoltre, ai lavoratori dipendenti da aziende non rientranti nell’ambito di applicazione della CIGS, sospesi dal lavoro per crisi aziendale o occupazionale, è stata riconosciuta l’indennità di disoccupazione ordinaria, con requisiti normali o ridotti, a condizione che almeno il 20% di tale indennità sia corrisposto dagli enti bilaterali istituiti dalla contrattazione collettiva e fino alla concorrenza delle risorse disponibili di questi enti. In relazione a quest’ultimo tipo di ammortizzatori, ne è stata estesa l’applicabilità anche agli apprendisti ed ai lavoratori somministrati. Infine, in via sperimentale per il biennio 2009 – 2011, anche ai lavoratori coordinati e continuativi che lavorino in regime di mono-committenza (e che soddisfino una serie di requisiti contributivi) è stata riconosciuta una ‘indennità’ pari al 10% del reddito percepito nell’anno precedente, per il solo caso di fine lavoro. Per questi lavoratori autonomi si tratta di un primo riconoscimento del diritto ad un’indennità di disoccupazione straordinaria, sia pure di entità quasi irrisoria. Si sottolinea, in ultimo, che la concessione degli ammortizzatori in deroga, come di ogni istituto di sostengo al reddito, è stata condizionata alla sottoscrizione da parte del lavoratore di una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro o ad un percorso di riqualificazione professionale

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3. La Cassa integrazione guadagni. L’intervento ordinario della Cassa integrazione guadagni (CIGO)Per sostenere le imprese del settore industriale, in brevi periodi di contrazione dell’attività produttiva è previsto l’intervento ordinario della CIG, ossia di sospensioni del lavoro o riduzioni dell’orario lavorativo dovute ad eventi transitori non imputabili al datore o ai prestatori, o a determinate situazioni temporanee del mercato (cause integrabili), per sostenere il reddito dei lavoratori coinvolti. L’intervento è finanziato da:

- contributi statali;- contributi di tutte le imprese;- contributi dell’impresa coinvolta.

L’ammontare del trattamento corrisponde, per i primi sei mesi, all’80% della retribuzione, ma dopo il primo semestre non può superare un tetto massimo, che comunque viene incrementato annualmente nella misura dell’80% dell’aumento dei prezzi di consumo secondo l’ISTAT. La procedura per giungere alla CIG prevede la consultazione dei sindacati da parte dell’imprenditore, nel caso in cui si renda necessaria una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario lavorativo: egli deve comunicare alle R.s.a. o, in mancanza, agli organismi provinciali, la durata prevedibile della contrazione/sospensione del lavoro ed il numero di prestatori coinvolti.Successivamente all’informazione e consultazione sindacale, vi è la fase del procedimento amministrativo di concessione dell’integrazione salariale: l’impresa deve fare richiesta di CIG alla sede provinciale dell’INPS, laddove se non lo facesse sarebbe obbligato a corrispondere egli stesso la somma pari all’importo di integrazione non percepita. La durata massima dell’integrazione ordinaria è di 3 mesi continuativi, tuttavia prorogabile in casi eccezionali sino ad un anno. Qualora si tratti di un’integrazione discontinua, non può comunque superare il periodo di 12 mesi in un biennio. L’intervento della CIG è stato esteso anche ai settori dell’edilizia e dell’agricoltura, in cui fronteggia la discontinuità dell’occupazione e non le difficoltà dell’impresa.

4. L’intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni (CIGS). Le fattispecie causali; le procedure per la concessione del trattamento; la durata dell’integrazione ed i meccanismi di rotazione tra i lavoratoriL’intervento straordinario della CIG, valevole per il settore industriale, assicura la continuità del reddito e dell’occupazione dei lavoratori, attraverso la sospensione dei rapporti di lavoro che consente di non ricorrere ai licenziamenti collettivi. Se, però, l’intervento ordinario mira a far fronte a situazioni di tipo congiunturale, quello straordinario tende a fronteggiare situazioni di tipo strutturale, cioè di durevole eccedenza di personale. L’intervento straordinario della CIG è finanziato nella medesima maniera dell’intervento ordinario e la disciplina è contenuta all’interno della L. n°164/1975, nonché all’interno della L. n°223/1991 che l’ha ridisegnata, aprendo la terza fase di cui si è parlato in precedenza. Sono cause integrabili in presenza della quali può essere concessa l’integrazione straordinaria:

- ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale;- crisi aziendale di particolare rilevanza sociale in merito alla situazione produttiva del

settore a quella occupazione locale;- ipotesi di procedura concorsuale;- ipotesi di contratto di solidarietà interna.

Nelle prime 2 ipotesi l’obiettivo della CIGS è quello di permettere all’impresa in difficoltà di continuare ad operare sul mercato senza ricorrere a licenziamenti.

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Nella terza ipotesi la CIGS ha il compito di evitare che gli organi incaricati dell’amministrazione ricorrano ai licenziamenti. Della quarta ipotesi si parlerà in seguito. L’integrazione salariale straordinaria spetta ad operai, impiegati e quadri intermedi con un’anzianità di almeno 90 giorni, ed a quelle imprese che nei 6 mesi precedenti la richiesta di CIGS abbiano occupato mediamente almeno 15 dipendenti, inclusi apprendisti ed ipotesi di contratto di formazione e lavoro. Per quanto riguarda la procedura per la concessione del trattamento d’integrazione straorinaria, l’impresa è tenuta ad esperire in via preventiva la procedura di consultazione sindacale con le RSA, già descritta per l’intervento ordinario della CIG, nelle prime 2 ipotesi di cause integrabili sopra descritte (ristrutturazione e crisi). La richiesta di ammissione all’intervento in cui si attesti l’avvenuta consultazione sindacale e programma di risanamento vanno, poi, consegnati al Ministro (nelle ipotesi di crisi aziendale) o alla Direzione provinciale del lavoro (nelle altre ipotesi). La presentazione tardiva da luogo alla responsabilità dell’imprenditore, che dovrà corrispondere egli stesso l’integrazione. Il programma, tra l’altro, va approvato dal Ministro del lavoro, previa istruttoria di un apposito comitato tecnico sulla base di criteri generali fissati dal Comitato Interministeriale di Programmazione Economica (CIPE) e tocca al Ministro concedere, con decreto, l’intervento straordinario di integrazione salariale. L’intervento può durare, in caso di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale, al massimo 2 anni, salvo che l’impresa, previo confronto con le R.S.A. o comunque con le organizzazione sindacali, non ne chieda una modificazione: il Ministro potrà autorizzare massimo 2 proroghe, del periodo di 12 mesi l’una, qualora il programma di risanamento presenti delle difficoltà di attuazione. In caso, invece, di crisi aziendale, l’intervento ha una durata massima di 12 mesi, non prorogabile ed una nuova concessione, per la medesima causa integrabile, può essere stabilita solo dopo un periodo pari ai 2/3 di quello relativo alla prima concessione. Abbiamo accennato a come la CIGS, nella seconda fase, fosse divenuta un surrogato dell’indennità di disoccupazione, potendosi prolungare per periodo indefiniti. La L. n°223/1991, rispristinando la funzione originaria della CIGS, ha previsto un periodo massimo di trattamento straordinario pari a 36 mesi in un quinquennio per ogni unità produttiva, al di là della causa di concessione e salvo proroghe o casi in cui la CIG sia stata concessa in forza di un contratto di solidarietà interna, secondo le condizioni stabilite dal Ministro. Tra l’altro dopo il primo trimestre, l’erogazione del trattamento avviene per periodi semestrali, qualora sia stata verificata la regolare attuazione del programma da parte dell’impresa, che tra l’altro non potrà chiedere l’intervento straordinario per le unità produttive per cui ha richiesto quello ordinario. In forza del generale divieto di discriminazione diretta o indiretta dei lavoratori, per quanto concerne l’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS non deve essere attuata alcuna discriminazione o distinzione per sesso o per altro motivo. L’impresa, tra l’altro, per continuare ad operare nel mercato, potrebbe non adottare meccanismi di rotazione tra i lavoratori, così di fatto sfavorendo quelli collocati in CIGS e favorendo quelli rimasti a lavoro: essa deve indicarne i motivi all’interno del programma di risanamento, ma il Ministro del lavoro è competente a verificarne la fondatezza e qualora egli ritenga che il meccanismo di rotazione debba operare ugualmente, può tentare per 3 mesi di promuovere un accordo tra le parti; in mancanza di un accordo, stabilisce egli stesso il meccanismo di rotazione da attuare, ed in caso d’inottemperanza dell’impresa, è previsto un inasprimento del contributo addizionale per disincentivare il comportamento sfavorito. I lavoratori collocati in CIGS, inoltre, non possono rifiutarsi di partecipare e frequentare a corsi di formazione o riqualificazione, in quanto decadrebbero dal trattamento d’integrazione, almeno che la propria residenza non disti più di 50km dal luogo del corso o che non sia raggiungibile lo stesso con mezzi pubblici in 80 minuti.

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5. L’intervento della CIG nelle ipotesi di procedure concorsualiAbbiamo detto che anche le imprese sottoposte a procedure concorsuali possono far richiesta di CIGS nel caso in cui vi sia stata dichiarazione di fallimento, provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, sottoposizione alla procedura di amministrazione straordinaria, ammissione a concordato preventivo con cessione di beni ed ammesso che NON SIA STATA DISPOSTA O SIA CESSATA LA CONTINUAZIONE DELL’ATTIVITA’ PRODUTTIVA. Se, infatti, l’attività continua il curatore, il liquidatore o il commissario possono ugualmente far richiesta di CIGS, ma per “cause integrabili diverse” ed avendo diritto ad un periodo di trattamento integrativo superiore rispetto ai 12 mesi previsti in caso di procedure concorsuali (aumentabili a 18 se sussistano prospettive di continuazione o ripresa dell’attività, tramite anche una cessione a qualsiasi titolo).

6. I contratti di solidarietà interna: nozione e disciplina legislativaIl legislatore nel 1984 ha introdotto nel nostro ordinamento il contratto di solidarietà interna, e ne ha promosso la diffusione attraverso la concessione di un sostegno economico finalizzato a contenere il sacrificio dei lavoratori derivante dalla riduzione dell’orario di lavoro. L’area dell’intervento riguarda i lavoratori dipendenti dalle imprese industriali, da quelle appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione, dalle imprese editoriali. La legge prevede che, qualora l’imprenditore abbia stipulato un contratto collettivo aziendale che stabilisca una riduzione dell’orario di lavoro con corrispondente diminuzione della retribuzione, il Ministero disponga la concessione di un trattamento di integrazione salariale posto a carico della contabilità dei trattamenti straordinari della CIG. L’integrazione, pari al 60% della retribuzione perduta, può essere corrisposta per un periodo non superiore a24 mesi, prorogabili fino a 24 mesi. Per i meridionali la proroga è di 36 mesi; ai datori di lavoro un biennio. La retribuzione perduta va determinata non tenendo conto di aumenti nei 6 mesi antecedenti la stipulazione del contratto. Al contrario rimane inalterato in caso di aumenti. Il contratto di solidarietà prevede la possibilità di modificare in aumento l’orario ridotto ed in questo caso è stabilita una riduzione del trattamento di integrazione salariale.

7. L’estensione progressiva dell’ambito di applicazione dell’intervento straordinario della CIGNel settore agricolo l’intervento della CIG, inizialmente previsto per le sospensioni dovute ad intemperie stagionali o ad altre cause non imputabili al lavoratore o al datore, è stato poi esteso ad impiegati, operai e quadri occupati con contratto a tempo indeterminato.Il trattamento straordinario d’integrazione salariale è stato inizialmente concepito per le sole imprese industriali, mentre in seguito è stato esteso a:

- imprese industriali destinate alla commercializzazione dei prodotti delle stesse imprese;

- imprese appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione;- imprese appaltatrici dei servizi di pulizia;- imprese commerciali con più di 100 addetti;- imprese artigiane con più di 15 addetti.

Inoltre, l’integrazione salariale straordinaria è stata estesa anche ai soci di cooperative di produzione e lavoro nonché ai lavoratori dipendenti da imprese operanti nel settore dell’informazione e dell’editoria. La riforma della L. n°223 del 1991 è volta ad utilizzare, in via temporanea ed eccezionale, l’intervento straordinario in ambiti all’origine esclusi dal suo ordinario campo di applicazione al fine di garantire la stabilità del reddito dei lavoratori.

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8. CIG e sospensione del rapporto di lavoro: disciplina speciale e principi generali di diritto civileAbbiamo avuto modo di precisare, nel corso dei precedenti capitoli, che il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive, in quanto alla prestazione lavorativa di una parte corrisponde quella retributiva dell’altra. Abbiamo anche sottolineato come, al di fuori dei casi di oggettiva impossibilità sopravvenuta della prestazione, l’imprenditore che rifiuti la prestazione lavorativa, sospendendo di fatto il lavoro, è da considerarsi in mora credendi. E’ quindi ipotizzabile che, se dovessimo attenerci alle regole generali, dovremmo osservare che in molti casi in cui può essere richiesta la CIG, sia ordinaria che straordinaria, non sussista realmente un’impossibilità sopravvenuta della prestazione retributiva, ma semplicemente una maggiore difficoltà nell’eseguirla, che non attribuisce all’imprenditore il potere di sospendere il rapporto unilateralmente. La distinzione tra le ipotesi di intervento ordinario e straordinario della Cassa non coincide con quella tra sospensioni dell’attività lavorativa dovute ad impossibilità sopravvenuta e sospensioni dipendenti da fatti organizzativi legati ad una scelta imprenditoriale. Mentre le sospensioni collegate all’intervento straordinario non sono riconducibili ad una causa di impossibilità  sopravvenuta  della  prestazione,  nell’ambito  delle  sospensioni  per le  quali  è  previsto l’intervento ordinario, sono invece ricomprese, accanto alle ipotesi di impossibilità, anche quelle dovute alla mera difficultas a ricevere la prestazione lavorativa. Pertanto, all’opinione che collega alla semplice sussistenza dei fatti costituenti le cause integrabili il potere unilaterale di sospensione del rapporto da parte dell’imprenditore, pare preferibile quella che pone a fondamento della sospensione del rapporto di lavoro un accordo, sia pure implicito, tra imprenditore e lavoratori in grado, anche alla stregua dei principi generali, di produrre un simile effetto. Si deve sottolineare come la dottrina e la giurisprudenza si siano orientate nel senso di collegare la liberazione  dell’imprenditore dall’obbligo  retributivo  all’atto  amministrativo  di  ammissione  al trattamento di integrazione salariale. E’ da tale atto che deriverebbe la deroga ai principi generali. Con l’ulteriore conseguenza che l’imprenditore resterebbe obbligato al pagamento delle retribuzioni.

9. I licenziamenti collettivi. I licenziamenti collettivi per riduzione di personale. La disciplina collettiva e l’elaborazione giurisprudenzialeNell’accordo del 1947 la disciplina sostanziale dei licenziamenti individuali si fondava sul vincolo di giustificare il licenziamento. A fronte di tale obbligo, la nozione di licenziamento collettivo veniva identificata da esigenze di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. Tale caratteristica è stata mantenuta anche nei successivi accordi del 21 aprile 1950 e del 5 maggio 1965 che imponevano l’obbligo di consultare i sindacati e di esperire un tentativo di conciliazione. La ragione della differenziazione così introdotta va ravvisata nella considerazione che anche l’autonomia collettiva riconosceva il diritto alla libertà di iniziativa economica tanto da farlo prevalere sull’interesse dei singoli alla conservazione del posto di lavoro. Il quadro era destinato a mutare per effetto della L. n°604 del 1966, con la quale venivano introdotti limiti al potere di recesso del datore di lavoro. Infatti, il legislatore del 1966 aveva escluso la materia dei licenziamenti collettivi dalla disciplina di quelli individuali. Di conseguenza non era corrisposto un accrescimento della tutela dell’interesse collettivo alla conservazione dei livelli occupazionali. Per lungo tempo, l’assenza di una specifica disciplina legislativa in materia di licenziamenti collettivi ha così attribuito alla giurisprudenza il compito di precisare la nozione del licenziamento collettivo e le forme di tutela al singolo lavoratore. La giurisprudenza era giunta ad alcune conclusioni, soprattutto affermando il principio secondo cui il giudice non può valutare il merito delle scelte tecniche addotte dall’imprenditore a

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giustificazione della riduzione del personale, giacché esse rientrano nella libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41, comma 1°, Cost.

10. La funzione suppletiva della giurisprudenza e le sue contraddizioni. La disciplina comunitariaLa Corte di cassazione, dopo una lunga elaborazione giurisprudenziale, era giunta ad affermare che l’osservanza delle procedure di consultazione sindacale c-costituivano essenziale requisito formale del licenziamento collettivo, in mancanza si trasformava in una somma di licenziamenti individuali (c.d. licenziamenti individuali plurimi). Analoghe conseguenze dalla mancata sussistenza del requisito della riduzione o trasformazione di attività o lavoro ovvero nel caso in cui mancasse il nesso di causalità tra la scelta di riduzione e il licenziamento stesso. Viceversa, nel caso in cui non fossero stati rispettati i criteri di scelta fissati dagli accordi interconfederali, il lavoratore avrebbe avuto diritto solo ad una tutela risarcitoria per il danno subito. Più specificamente, la Corte di cassazione aveva affermato che l’elemento fondamentale andava ravvisato “nel motivo, consistente nel ridimensionamento dell’azienda” (nozione ontologica del licenziamento collettivo) inteso come ridimensionamento strutturale dell’impresa. A fronte dei cosiddetti licenziamenti tecnologici (indotti dall’introduzione di tecnologie labour saving) la Corte ha riconosciuto la configurabilità del licenziamento collettivo. Essa aveva invece escluso la ricorrenza di un licenziamento collettivo nel caso di licenziamento di tutti i dipendenti per cessazione totale dell’attività produttiva. Nel 1991 è stata emanata (nell’ambito della L. n°23 luglio 1991, n. 223) una disciplina legale dei licenziamenti collettivi che ha inteso dare attuazione alla Direttiva del 1975 che non era stata attuata dallo Stato italiano. Tuttavia la direttiva comunitaria è stata modificata altre 2 volte da altre due direttive, quella n°92/56 e quella n°98/59, di cui lo Stato italiano non ha tenuto conto, in quanto la disciplina interna è stata ritenuta sufficiente ad integrare le due direttive successive. La Corte di Giustizia, comunque, ha richiamato all’attenzione dello Stato italiano che la L. n°223/1991 non contempla il caso dei datori di lavoro non imprenditori, inclusi invece nella disciplina comunitaria, alche il legislatore italiano è dovuto nuovamente intervenire.

11. La disciplina delle riduzioni di personale introdotta dalla L. n. 223 del 1991La tanto auspicata disciplina sui licenziamenti collettivi è arrivata con la L. n. 223/1991, comprensiva di tutte le situazioni di eccedenza di personale sia di carattere temporaneo che definitivo. Essa, oltre a regolare la fattispecie dell’eccedenza temporanea di personale, tramite la previsione della CIG, ha regolato anche l’ipotesi di eccedenza definitiva di personale, distinguendo tra:

- collocamento in mobilità, nel caso in cui l’eccedenza si manifesti nel corso di un processo di ristrutturazione o di crisi aziendale per cui sia stato concesso l’intervento della CIGS,

- licenziamento collettivo per riduzione del personale , quando la decisione dell’imprenditore prescinde dall’intervento o meno della CIGS.

Va detto innanzitutto che la disciplina sul licenziamento collettivo per riduzione del personale ha una portata generale e riguarda anche le imprese che non rientrano nel campo di applicazione della CIGS ma che effettuino licenziamenti collettivi.; inoltre, dopo la modifica del 2004, essa si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori. Inoltre, poiché il collocamento di mobilità può essere attuato da imprese che hanno in corso la CIGS, è implicito il limite di 15 dipendenti ai fini dell’applicabilità dell’istituto. Infine, a dire la verità la disciplina in materia si può ritenere unitaria, al di là della differenza terminologica tra le due ipotesi, in quanto il legislatore, nella normativa inerente il licenziamento collettivo per riduzione del personale,

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molto spesso rinvia al caso di collocamento in mobilità. Esiste quindi una regolamentazione unitaria delle riduzioni di personale.

12. La procedura di collocamento in mobilitàAbbiamo visto come, in tema di CIGS, sia necessario che il datore di lavoro proponga un piano di risanamento dell’impresa per poter avere accesso al trattamento integrativo e per evitare il licenziamento dei lavoratori. Qualora, nel corso dell’attuazione di tale piano, l’imprenditore si renda conto di non poter evitare in alcun modo il licenziamento di tutto o di parte del personale, egli deve avviare una procedura di collocamento in mobilità. Nello specifico la procedura di mobilità prevede che:

- l’imprenditore ha l’obbligo di informare e comunicare immediatamente ed analiticamente alle r.s.a. ed i rispettivi sindacati di categoria della situazione di difficoltà, indicando i motivi che determinano l’eccedenza ed impediscono il ricorso a soluzioni alternative, specificando il numero di lavoratori interessati e le relative mansioni;

- copia della comunicazione deve essere inviata alla pubblica autorità, in particolare ai relativi uffici competenti regionali;

- le r.s.a. e le associazioni di categoria, entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione, possono richiedere un esame congiunto della situazione per cercare, insieme all’impresa, una soluzione che eviti il licenziamento (procedura di consultazione);

- se entro 45 giorni dalla consultazione non si trovano soluzioni reali al problema, il responsabile dell’Ufficio regionale competente, ricevuta comunicazione dell’esito dell’incontro, tenta una mediazione tra le parti (sindacati ed impresa) che deve esaurirsi entro 30 giorni (se i lavoratori interessati sono meno di 10, i termini diventano rispettivamente di 23 e di 15 giorni).

Va specificato che il legislatore, pur di impedire il licenziamento dei lavoratori, permette alle parti di concordare anche cambiamenti di mansioni, in deroga all’art. 2103 c.c., così come distacchi di più lavoratori presso altre imprese, seppur momentanei. In conclusione, in attuazione degli obblighi comunitari imposti dalla Direttiva n°92/56 del 26 giugno 1992, il legislatore italiano è dovuto intervenire ad integrare la normativa del 1991, stabilendo la possibilità di ricorrere a veri e propri piani sociali rivolti a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori eccedenti. In conclusione, si deve sottolineare come l’obbligo di consultazione sindacale sia indicativo del rilievo collettivo degli interessi coinvolti nelle eccedenze di personale e come il legislatore abbia ritenuto che solo promuovendo il confronto tra impresa e soggetti collettivi, possano essere salvaguardati al meglio gli interessi dei singoli lavoratori. Inoltre, anche in sede di CIGS è previsto questo obbligo si consultazione preventiva. Siamo, in entrambi i casi, di fronte ad ipotesi di procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore, ovvero il potere del datore di licenziare è limitato ad alcuni vincoli.

13. Il collocamento in mobilità dei lavoratori eccedenti. Gli aspetti formali del recesso. Le sanzioni per il licenziamento illegittimoEsaurita la procedura di mobilità, anche in assenza di accordo con i sindacati l’imprenditore può procedere al collocamento in mobilità, cioè alla risoluzione del rapporto di lavoro dei lavoratori eccedenti. Ovviamente il legislatore ha previsto che dei criteri di scelta siano fissati in concerto con i sindacati più rappresentativi, ma in assenza di un accordo di tal genere, l’imprenditore dovrà osservare altri criteri: dovrà tener conto dei carichi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative dell’impresa. In ogni caso la percentuale di disabili da licenziare dovrà equivalere alla percentuale dei disabili in caso di assunzione; inoltre dovrà essere mantenuto il rapporto percentuale tra manodopera

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femminile e maschile, tenendo presente sempre le esigenze dell’impresa. Alcuna discriminazione, diretta o indiretta, potrà essere posta in essere nel collocamento in mobilità. La comunicazione del licenziamento dovrà essere individuale e rispettare la forma scritta, altrimenti sarà inefficace, non producendo alcun effetto. Dovrà, inoltre, essere rispettato l’obbligo di preavviso ed una comunicazione con l’elenco dei soggetti da licenziare dovrà pervenire agli Uffici regionali competenti, con l’indicazione dei criteri di scelta. La violazione dei criteri di scelta, tra l’altro, comporterà l’annullabilità del licenziamento. In entrambi i casi (inefficacia e annullabilità) la conseguenza è la reintegrazione, a norma dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, nel posto di lavoro. Il licenziamento sarà impugnabile entro il termine di 60 giorni, anche in forma stragiudiziale, a pena di decadenza dal diritto all’impugnazione. Se uno o più licenziamenti vengono annullati per violazione dei criteri di scelta, l’imprenditore, nel rispetto degli stessi, potrà licenziare un numero pari di lavoratori, comunicandolo semplicemente alle r.s.a.

14. Il cosiddetto statuto dei lavoratori in mobilità- I lavoratori collocati in mobilità qualora possano vantare un periodo di anzianità

aziendale di almeno 12 mesi di cui almeno 6 effettivi di lavoro (inclusi i periodi di infortunio, ferie e festività), hanno diritto all’indennità di mobilità per un periodo di 12 mesi pari al trattamento d’integrazione salariale goduto prima del licenziamento, elevabile a 24 qualora il prestatore abbia compiuto 40 anni ed a 36 qualora ne abbia già compiuti 50. Nei mesi successivi ai primi 12, comunque, l’indennità diviene pari all’80% di quella precedentemente goduta, tuttavia aumentata in base alla rivalutazione annuale dell’ISTAT. L’indennità, comunque, non può essere corrisposta per un periodo superiore a quello di anzianità aziendale (se per esempio il lavoratore ha un’anzianità aziendale di 18 mesi ed ha compiuto i 40 anni, non potrà ricevere l’indennità per 24 mesi, ma solo per 18).

Tra l’altro se un soggetto ha maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia non ha diritto alla corresponsione dell’indennità di mobilità; stessa cosa nel caso in cui percepisca una pensione di invalidità, incompatibile con la mobilità, al pari del sussidio di disoccupazione. I periodi di corresponsione dell’indennità di mobilità vengono computati anche ai fini pensionistici. Un soggetto, tra l’altro, può chiedere la corresponsione in un’unica soluzione, qualora egli abbia dei fini imprenditoriali. Dovrà, però, restituire le somme percepite qualora, nel termine di 24 mesi, venga assunto e riprenda l’attività lavorativa.

- I lavoratori collocati in mobilità, ai quali spetta l’indennità di mobilità, inoltre, vengono iscritti in una lista di mobilità, la quale attribuisce loro il diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni effettuate dalla stessa azienda nel termine di 6 mesi dal licenziamento.

La legge, inoltre, assicura alle altre imprese degli incentivi economici e contributivi qualora assumano a tempo indeterminato un lavoratore in mobilità. Medesimi diritti hanno anche coloro che non percepiscono l’indennità di mobilità per mancanza dei requisiti di anzianità aziendale: essi, di fatto, sono esclusi solo dagli interventi previdenziali a tutela del reddito.

- La cancellazione dalle liste di mobilità: avviene alla scadenza dei periodi massimi per i quali è prevista la corresponsione

dell’indennità di mobilità, anche per coloro che non ne hanno diritto; segue anche alla cessazione dello stato di disoccupazione, qualora il soggetto

venga assunto da qualsivoglia impresa; può avere anche un fine sanzionatorio, qualora il soggetto si sia rifiutato di

prendere parte ad un corso di formazione o abbia rifiutato un’offerta lavorativa professionalmente equivalente e che dai contratti collettivi risulti inquadrarlo in un

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livello retributivo solo del 20% inferiore rispetto a quello delle mansioni di provenienza. Il soggetto può legittimamente rifiutarsi, senza incorrere nella cancellazione dalla lista di mobilità, qualora il corso di formazione o l’offerta lavorativa propinatagli si svolgano in un luogo lontano più di 50 km dalla propria residenza o non raggiungibile, tramite mezzi pubblici, in 80 minuti.

15. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale: l’estensione delle norme sulla procedura, sull’indennità e sull’iscrizione nelle liste di mobilitàPrima di trattare il licenziamento collettivo per riduzione di personale, dobbiamo ricordarci che l’imprenditore che rientri nel campo di applicazione della CIGS e per cui ricorra una delle cause che potrebbero dar luogo all’intervento straordinario della CIGS, non obbligatoriamente deve ricorrere alla stessa, potendo da subito optare per una riduzione del personale, qualora la stessa risulti definitiva da subito. Dobbiamo, infatti, tener conto della necessità di un programma di risanamento per poter accedere alla CIGS, che l’imprenditore non potrebbe mai porre in essere qualora sia convinto che la riduzione debba essere definitiva, anche se l’evenienza che egli opti per la riduzione del personale può verificarsi anche in costanza della CIGS. In attuazione, quindi, della normativa comunitaria, il legislatore italiano, all’interno dell’art.24 della L. 223/1991, ha disciplinato il licenziamento collettivo per riduzione di personale, stabilendo che:

- si applichi alle imprese con almeno 15 dipendenti;- si applichi in conseguenza di una “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”;- si applichi ad almeno 5 dipendenti nell’arco di 120 giorni in un’unica unità produttiva;- si applichi a licenziamenti riconducibili tutti alla medesima “riduzione o

trasformazione”;- si applichi in caso di cessazione totale e definitiva dell’attività.

L’art. 24, L. n. 223 prevede che si applichino tutte le disposizioni procedurali dettate per il collocamento in mobilità dei lavoratori. L’imprenditore è dunque tenuto al rispetto delle procedure e degli adempimenti amministrativi previsti dall’art. 4, oltre che al rispetto dei criteri di scelta, del preavviso e dei vincoli formali. Comune alle due ipotesi è anche il regime dell’inefficacia e dell’annullabilità del licenziamento intimato senza l’osservanza dei requisiti procedurali e formali con applicazione dell’art. 18, L. n. 300, nonché l’applicazione del termine di impugnazione. Il licenziamento ex art. 24 deve avvenire entro 120 giorni dalla conclusione della procedura di mobilità. La legge, tuttavia, nulla prevede in caso di mancanza del nesso di causalità tra licenziamento collettivo e scelta imprenditoriale di riduzione o trasformazione:

- c’è chi pensa che il licenziamento collettivo sia soggetto a differente disciplina, in quanto considerato come somma dei licenziamenti individuali;

- c’è chi crede che sia invalido per vizio procedurale e che quindi sia invalido e vada applicato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Va detto, comunque, che il licenziamento in tal caso presenta un’anomalia, anche se non sono chiare le conseguenze della stessa. Il giudice, comunque, che ravvisi che dei licenziamenti individuali fondati su una riduzione o trasformazione di attività o lavoro possano rientrare nell’applicazione dell’art. 24, può statuire che essi siano inefficaci per inosservanza dei vincoli procedurali, dando così la possibilità di operare all’art. 18 dello Statuto. Qualora, tra l’altro, il licenziamento collettivo per riduzione di personale riguardi imprese che avrebbero potuto beneficiare dell’intervento straordinario della CIG, è previsto che i lavoratori licenziati abbiano diritto all’indennità di mobilità ed all’iscrizione nelle liste di mobilità (senza indennità per coloro che manchino del requisito di anzianità di 12 mesi). Il diritto all’iscrizione nelle liste di mobilità è stato previsto anche per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori,

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così come per quelli che abbiano subito un licenziamento collettivo ai sensi dell’art.24 da imprese non soggette alla disciplina della CIGS.

16. Gli oneri economici posti a carico delle impreseIl datore di lavoro che opti per una riduzione del personale e che sia soggetto alla disciplina della CIGS va incontro ad oneri economici sostanziosi, (c.d. contributo di mobilità). Per ogni lavoratore licenziato secondo la procedura descritta dall’art. 4 L. n°223/1991 (collocamento in mobilità), l’impresa deve corrispondere all’INPS, in 30 rate mensili, un contributo pari a 6 volte il trattamento mensile iniziale di mobilità; deve corrispondere, invece, un contributo pari a 9 volte qualora abbia eseguito i licenziamenti secondo l’art. 24 della L. n°223 (licenziamento collettivo per riduzione di personale). Quindi, come possiamo notare, viene incentivato il ricorso alla CIGS, proprio per una maggior tutela dei lavoratori. Nel caso in cui ci sia stato un accordo sindacale, gli oneri sono ridotti ad una somma pari a 3 volte il trattamento di mobilità; l’imprenditore ha diritto ad una riduzione degli oneri anche qualora si sia attivato per cercare occasioni di lavoro per i lavoratori licenziati. Dalla somma complessiva da versare all’INPS, inoltre, l’imprenditore può detrarre l’anticipazione (una mensilità del trattamento massimo di CIGS per ogni lavoratore) versata prima della comunicazione dell’attivazione della procedura di mobilità, che recupererà, tra l’altro, qualora rinunci alla mobilità o licenzi meno persone. L’art. 5, comma 6°, L. n. 223 del 1991 ha previsto un aggravio qualora il collocamento in mobilità avvenga tra la fine del 12° mese dalla concessione della CIG e la fine del 12° mese successivo al completamento del programma di risanamento. La ratio della norma è di evitare che il costo dell’intervento straordinario si cumuli con quello dell’indennità di mobilità, inducendo le imprese a rendere le eccedenze definitive.

17. Procedure concorsuali, collocamento in mobilità e licenziamento per riduzione di personaleNel caso in cui sia stata avviata una procedura concorsuale, gli organi della procedura (curatore, liquidatore o commissario) possono optare per diverse scelte, a seconda che sia stata o meno disposta la cessazione dell’attività. Se la continuazione dell’attività non è possibile, l’art. 3 della L. n°223/1991 prevede che essi possano scegliere di ricorrere al licenziamento collettivo, oppure possono richiedere, laddove sia possibile, l’intervento straordinario della CIG per procedura concorsuale, nel cui ambito attivare il collocamento in mobilita. Qualora, invece, l’esercizio dell’attività continui, essi, operando come un qualunque imprenditore, possono scegliere la procedura di licenziamento per riduzione del personale in forza dell’art. 24 L. n°223, oppure richiedere l’intervento straordinario della CIG, stavolta utilizzando come causa integratrice la ristrutturazione, riorganizzazione e conversione dell’impresa o la crisi aziendale, optando per il collocamento in mobilità. Il legislatore, riconoscendo la particolare situazione di imprese soggette a procedura concorsuale, esonera le stesse dal contributo di mobilità, oltre a prevedere tempi più brevi per la consultazione sindacale. Dobbiamo sottolineare che, laddove sia attuato un trasferimento d’azienda o di parte di essa, il trasferimento in se stesso non costituisce giustificato motivo di licenziamento, fermo restando il diritto dell’alienante, o anche dell’acquirente dopo la cessione, di attuare licenziamenti secondo la disciplina generale.

18. Licenziamento collettivo in caso di datori di lavoro privati non imprenditoriSi è già accennato al fatto che l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia per mancato ottemperamento alle direttive comunitaria, in quanto con la L. n°223/1991 non aveva incluso nella disciplina i datori di lavoro NON imprenditori. Ovviamente il legislatore italiano si è conformato alla scelta della Corte nel 2004, integrando la L. n°223. Oggi, quindi, la disciplina

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contenuta nell’art. 24, inerente il licenziamento collettivo per riduzione del personale, si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori, fermo restando che essi non debbano corrispondere il contributo di mobilità (e quindi neanche l’anticipo in sede durante l’avvio della procedura) e che i propri lavoratori licenziati non abbiano diritto all’indennità di mobilità (in quanto non rientranti nel campo della CIGS), ma solo all’iscrizione nelle liste di mobilità con i diritti che ne conseguono. Le sanzioni per licenziamento illegittimo sono le medesime previste per gli imprenditori, ossia inefficacia in taluni casi ed annullabilità in altri, con conseguente tutela reale a favore dei lavoratori prevista dall’art. 18 dello Statuto. Una sola eccezione è prevista per le organizzazioni di tendenza (datori di lavoro non imprenditori che svolgono attività di natura politica, culturale, sindacale, d’istruzione o religione, senza fini di lucro): in caso di inefficacia o annullabilità del licenziamento opera solo e soltanto una tutela obbligatoria e non reale.

19. La residua area di operatività della disciplina interconfederale del 1965Gli accordi interconfederali applicabili alle imprese con più di 10 dipendenti, sembrano assicurare una tutela di tipo procedurale nei casi di licenziamenti derivanti da “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”, collettivi sul piano sindacali ma individuali dal punto di vista legale e non configurabili come collocamento in mobilità ai sensi dell’art. 4.  Sui licenziamenti individuali, spetta alla giurisprudenza determinare le conseguenze da connettere al mancato rispetto delle procedure di consultazione sindacale con ricorrenza di una ipotesi d’inefficacia del licenziamento.

20. Gli interventi di carattere transitorio ed eccezionale in materia di mobilità. I prepensionamenti e la c.d. mobilità lungaCosì come per la CIGS, anche in materia di mobilità il legislatore è spesso intervenuto a favore deilavoratori, attuando una disciplina non presente nella normativa a riguardo. Per esempio, molto spesso, si è concessa la cosiddetta mobilità lunga a favore di quei lavoratori anziani di difficile ricollocazione all’interno del mercato del lavoro: a loro favore veniva prevista l’indennità di mobilità, per un periodo protratto di tempo, che li accompagnasse fino al compimento dell’età pensionabile. Tra questi provvedimenti va sottolineata la mobilità lunga, la quale ha svolto in realtà la funzione di surrogato dei c.d. prepensionamenti. Altrettanto spesso, inoltre, si è assistito all’estensione, da parte del legislatore, del regime di mobilità nei confronti di lavoratori licenziati da imprese con meno di 15 dipendenti.

21. Sostegno ed incentivazione dell’occupazione. I contratti di solidarietà esterna ed altre misure aventi caratteristiche e funzioni analogheIl continuo processo di terziarizzazione e le profonde modificazioni del sistema economico ed industriale, hanno fatto in modo, col passare del tempo, che si creasse una vera e propria crisi occupazionale, sia per i lavoratori già occupati, sia per i giovani non ancora occupati.Il problema occupazionale è stato affrontato nella duplice prospettiva della riallocazione della forza-lavoro e della produzione di una nuova occupazione operando sulla riduzione dell’orario di lavoro e sulla diffusione del part-time.

a) Il legislatore, nel 1984, ha previsto ed incentivato, oltre al c.d. contratto di solidarietà interna, il contratto collettivo aziendale di solidarietà c.d. esterna.

Questo contratto collettivo è stipulato per promuovere l’occupazione, attraverso la creazione di posti di lavoro. Si tratta di un contratto aziendale che prevede una riduzione dell’orario di lavoro e l’assunzione di lavoratori a tempo indeterminato, preferibilmente giovani. In questa ipotesi il legislatore prevede un incentivo finanziario

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alle imprese per la disoccupazione involontaria. Particolari incentivi previdenziali sono previsti in favore dei dipendenti anziani occupati a tempo pieno che optino per il tempo parziale, qualora il contratto preveda un incremento dell’occupazione in azienda.

b) Il contratto di solidarietà esterna è stato affiancato, nel 1991, da un’ulteriore ipotesi di contratto aziendale finalizzato anche ad evitare i licenziamenti collettivi. Si è al riguardo stabilito che tra un’impresa beneficiaria da più di 24 mesi dell’intervento straordinario della CIG ed i sindacati possa essere stipulato un contratto collettivo aziendale, il quale, consenta ai lavoratori di età inferiore di non più di 60 mesi a quella prevista per la pensione di vecchiaia e che possano far valere 15 anni di contribuzione, di chiedere la trasformazione del loro contratto di lavoro da tempo pieno in part-time, con orario di lavoro non inferiore a 18 ore settimanali.

c) Nel 1994 il legislatore ha, poi, previsto la concessione d’incentivi per le imprese che stipulano contratti di lavoro a tempo parziale e per quelle che sottoscrivano contratti di solidarietà esterna anche con forme di orario di lavoro multiperiodale.

d) Connessi al ricorso a forme di orario ridotto e flessibile ed al part-time, è stata sviluppata la L. n°196/1997 che non ha tuttavia avuto seguito anche in conseguenza di una nuova legge attuativa della Direttiva n. 93/104 del 1993.

e) Un altro istituto che per molti anni ha avuto un ruolo importante è quello dei lavori socialmente utili, ovvero “attività che hanno ad oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva”. La legge aveva stabilito il principio secondo cui l’impiego nei lavori socialmente utili non determinava l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato e non comportava la sospensione o la cancellazione dalle liste di collocamento o di mobilità. L’esperienza concreta non ha soddisfatto le aspettative originarie: si sono manifestate forme di conflitto tendenti ad ottenere assunzioni in massa dei lavoratori impegnati in lavori socialmente utili da parte delle amministrazioni pubbliche. Il legislatore è intervenuto nel quadro della riforma del mercato del lavoro introdotta con il D.lgs. n. 469/1997 con il quale sono state conferite alle Regioni ed agli enti locali le funzioni e i compiti relativi a questa complessa materia. L’art. 45 della L. n. 144/1999 ha conferito al Governo una delega ad apportare, entro il 28 febbraio 2000, le necessarie modifiche alla predetta normativa. La delega è stata attuata con il D.lgs. n. 81/2000 il quale ha dettato una graduale abolizione dell’istituto: è stata soppressa buona parte delle tipologie di lavori socialmente utili previste dal D.lgs. n°468 ed è stata congelata la posizione dei lavoratori già impegnati in lavori socialmente utili.

22. La promozione delle cooperative di produzione e lavoro a fini di promozione e tutela dell’occupazione. L’inserimento e il reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoroSempre nell’ottica di promuovere l’occupazione, il legislatore ha previsto, con la L. n°49/1985, l’introduzione delle cooperative di produzione e lavoro, attraverso le quali si attua una mutualità imprenditoriale tra i lavoratori, molto spesso provenienti da aziende in crisi. L’obiettivo è quello di attenuare le conseguenze negative della crisi occupazionale promuovendo l’iniziativa imprenditoriale di lavoratori che si trovino in stato o in pericolo di disoccupazione, ed il trasferimento dell’azienda in crisi agli stessi. Il problema del reinserimento dei lavoratori allontanati dal mondo produttivo o comunque da lungo tempo disoccupati, è stato oggetto anche di alcuni interventi legislativi diretti a promuovere l’occupazione mediante vere e proprie riserve di posti. Altri interventi hanno riguardato incentivi economici per le imprese che assumono lavoratori disoccupati o collocati in CIGS: gli incentivi consistono in aiuti economici, in sgravi fiscali o contributivi, o in erogazioni una tantum. Anche il D.lgs.n°276/2003 che ha riformato il mercato del lavoro è intervenuto in

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materia, prevedendo che le agenzie di somministrazione possano prevedere piani individuali d’inserimento o reinserimento di lavoratori svantaggiati nel mercato del lavoro, e che venga meno, in tali casi, il principio di parità di trattamento tra lavoratori somministrati e lavoratori dipendenti dall’utilizzatore, potendo quest’ultimo attuare una diversa disciplina retributiva. Il soggetto che gode di un’indennità di disoccupazione, decade da tale diritto qualora rifiuti un’offerta in tal senso.

23. Forme negoziali di sostegno al lavoro: contratto di reinserimento; lavoro occasionale di tipo accessorio; contratto di inserimentoPer favorire ulteriormente l’occupazione, il legislatore del 1991 e del 2003 ha previsto altri tipi di rapporto di lavoro:

- contratto di reinserimento, introdotto dalla L. n°223/1991 e destinato a lavoratori che fruiscano da almeno 12 mesi del trattamento speciale di disoccupazione (poi venuto meno) o del trattamento straordinario di integrazione salariale (CIGS). Questi lavoratori possono essere assunti con tale contratto da imprese che nell’anno precedente non abbiano dato luogo a licenziamenti e che non abbiano, al momento dell’assunzione, dato corso all’intervento straordinario della CIG. Il contratto deve rispettare la forma scritta ed essere inviato, in copia, all’INPS ed alla Direzione provinciale del lavoro. Infine, i datori di lavoro che danno luogo a tale rapporto ricevono delle agevolazione contributive;

- lavoro accessorio, introdotto dal D.lgs. n°276/2003, destinato a categorie di soggetti a rischio di esclusione sociale o non ancora entrati nel mondo del lavoro o in procinto di uscirne, come dice la stessa disciplina. Si tratta di casalinghe, disoccupati da oltre un anno (che non perdono tale status), studenti, pensionati, disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari che abbiano perso il lavoro da almeno 6 mesi. Il lavoratore può svolgere le attività in questione anche in favore di più beneficiari purché i compensi percepiti da ciascun singolo committente non risultino superiori a 5.000 nell’anno solare (10.000 nel caso di lavoro prestato presso le imprese familiari). Il lavoratore è pagato mediante buoni lavoro il cui valore nominale è fissato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali con proprio decreto. È anche in considerazione di questa occasionalità, che il rapporto di lavoro tra i lavoratori e coloro che ne utilizzano la prestazione pare da ricondurre nell’area del lavoro autonomo. Questa affermazione, tuttavia, deve essere valutata anche alla luce della nuova disciplina della materia che ha modificato più volte la disciplina del lavoro accessorio, al fine di renderlo utilizzabile da chiunque e in una serie più ampia di attività. Da ultimo il lavoro accessorio è stato ulteriormente modificato e ampliato dalla legge finanziaria per il 2010. Sulla base delle modifiche apportate, possono adesso essere oggetto di lavoro accessorio le prestazioni di natura occasionale rese nell’ambito: di lavori domestici; di lavori di giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici, strade, parchi e

monumenti, anche nel caso in cui il committente sia un ente locale (es. Provincia, Regione, Comune, Comunità montana, ecc);

dell’insegnamento privato supplementare; di manifestazioni sportive, culturali, fieristiche o caritatevoli e di lavori di emergenza

o di solidarietà anche in caso di committente pubblico; di qualsiasi settore produttivo, compresi gli enti locali, le scuole e le università, il

sabato e la domenica e durante i periodi di vacanza da parte di giovani con meno di venticinque anni di età (il limite è sempre 5000 euro per anno solare) se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, o in qualunque periodo

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dell’anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università (questa ultima novità consente agli studenti universitari di operare durante tutto l’anno e in tutti i settori produttivi entrando così in concorrenza con il lavoro intermittente dei giovani sotto i venticinque anni di età;

di attività agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati, da casalinghe e da giovani di cui alla lettera e);

della consegna porta a porta e della vendita ambulante di stampa quotidiana e periodica;

L’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio. E’ da segnalare che con specifico riguardo alle attività agricole non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o subordinato le prestazioni svolte, da parenti e affini sino al quarto grado, in modo meramente occasionale o ricorrente di breve periodo, a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale senza corresponsione di compensi, salvo le spese di mantenimento e di esecuzione dei lavori. Concludendo, va precisato come l’applicazione di questo istituto sia ancora in fase sperimentale perché la sua diffusione dipende in buona parte dalla costituzione di una rete informativa tra i diversi soggetti coinvolti nella gestione del sistema. In ogni caso è utile distinguere tra il lavoro accessorio reso nei confronti delle famiglie e quello reso nei confronti delle imprese. Quest’ultimo, infatti, presenta maggiori rischi di utilizzazione fraudolenta ed a tal fine sono stati individuati particolari limiti procedurali in sede di applicazione della normativa. Per tutti coloro che vogliano utilizzare il lavoro accessorio è necessaria la registrazione anagrafica presso l’INPS, ma solo per i lavori in agricoltura e nei settori del commercio, turismo e servizi sono necessarie alcune comunicazioni: le indicazioni anagrafiche relative al lavoratore e al periodo di svolgimento dell’attività occasionale, sono immesse telematicamente ed è necessaria la comunicazione preventiva all’INAIL.

- Contratto di inserimento, anch’esso introdotto dal D.lgs. n°276/2003, con finalità formative, di cui abbiamo già parlato.

AGGIORNAMENTO - RIFORMA MONTI 2012:Lavoro accessorioSono previste misure di correzione finalizzate a restringere il campo di operatività dell’istituto e a regolare il regime dei buoni (voucher). Si intende inoltre consentire che i voucher siano computati ai fini del reddito necessario per il permesso di soggiorno.

24. Gli incentivi all’occupazione. Il sostegno all’autoimprenditorialità ed all’autoimpiego.Gli strumenti fin qui esaminati sono collegati a sostenere il reinserimento nel mondo del lavoro dei soggetti espulsi dai processi produttivi. Su un piano diverso si muovono gli interventi diretti a fronteggiare la disoccupazione attraverso la promozione dell’iniziativa imprenditoriale e dell’autoimpiego dei lavoratori. La L. n°215/1992 promuove l’eguaglianza sostanziale e le pari opportunità tra i sessi nell’attività economica e imprenditoriale. A tal fine la legge ha istituito un fondo nazionale per lo sviluppo dell’imprenditoria femminile. Sembra, dunque, che si debba riconfermare la possibilità di un controllo giudiziario sull’effettiva sussistenza di questo requisito ed il controllo del giudice deve ritenersi estendibile al nesso di causalità tra la scelta imprenditoriale ed il singolo licenziamento, anche in considerazione dell’esplicita previsione secondo la quale i licenziamenti devono essere tutti “riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione”. AGGIORNAMENTO – RIFORMA MONTI 2012:Gli interventi previsti mirano:

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- a ripristinare la coerenza tra flessibilità e coperture assicurative, - ad ampliare e rendere più eque le tutele fornite dal sistema, - a limitare le numerose distorsioni e spazi per usi impropri insiti in alcuni degli

strumenti attualmente esistenti. A questo scopo si riordinano e migliorano le tutele in caso di perdita involontaria della propria occupazione; si estendono le tutele in costanza di rapporto di lavoro ai settori oggi non coperti dalla Cassa integrazione e straordinaria; si prevedono strumenti che agevolino la gestione delle crisi aziendali per i lavoratori vicini al pensionamento. La proposta di riforma si articola su tre pilastri:

Assicurazione sociale per l’Impiego (ASpI), a carattere universale; Tutele in costanza di rapporto di lavoro (Cigo, Cigs, fondi di solidarietà); Strumenti di gestione degli esuberi strutturali.

Un sistema siffatto è ritenuto essenziale per garantire una copertura adeguata dal rischio di disoccupazione (totale o parziale), eliminando pertanto la necessità di intervenire con provvedimenti ad hoc, caratterizzati da ampia discrezionalità (deroghe). La riforma si caratterizza, rispetto all’attuale sistema di assicurazione contro la disoccupazione involontaria, per un incremento dell’ambito soggettivo di copertura. Dal punto di vista degli importi e delle durate vi è una convergenza rispetto agli attuali trattamenti di disoccupazione ordinaria e di mobilità. La nuova Assicurazione sociale per l’impiego è destinata a sostituire i seguenti istituti oggi vigenti:

- indennità di mobilità;- indennità di disoccupazione non agricola ordinaria;- indennità di disoccupazione con requisiti ridotti;- indennità di disoccupazione speciale edile (nelle tre diverse varianti)

L’ambito di applicazione viene esteso, tra i lavoratori dipendenti, agli apprendisti e agli artisti, oggi esclusi dall’applicazione di ogni strumento di sostegno del reddito.Restano coperti dalla nuova assicurazione tutti i lavoratori dipendenti del settore privato ed i lavoratori delle Amministrazioni pubbliche (art. 1, comma 2°, D.lgs. n°165/2011) con contratto di lavoro dipendente non a tempo indeterminato (es. tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, ecc.). Con riferimento ai collaboratori coordinati e continuativi, pur esclusi dall’ambito di applicazione dell’ASpI, si rafforzerà e porterà a regime il meccanismo una tantum oggi previsto.I requisiti di accesso sono analoghi a quelli che oggi consentono l’accesso all’indennità di disoccupazione non agricola ordinaria, ovvero 2 anni di anzianità assicurativa ed almeno 52 settimane nell’ultimo biennio.La nuova ASpI concede trattamenti iniziali pressoché analoghi all’indennità di mobilità per le retribuzioni fino a 1.200 euro mensili (comprensivi dei ratei di mensilità aggiuntive), e decisamente più elevati per quelle superiori a tale livello. In confronto con l’indennità di disoccupazione non agricola ordinaria è sempre più favorevole, fatta eccezione per le retribuzioni comprese tra 2.050 e 2.200 € mensili.Si prevede che i periodi di lavoro inferiori a 6 mesi sospendano il trattamento, con ripresa alla fine del periodo di lavoro (ai fini dell’applicazione del decalage). I periodi di lavoro superiori a 6 mesi fanno ripartire il trattamento (in presenza dei requisiti contributivi).Assicurazione sociale per l’Impiego – trattamenti brevi (MiniASpI)Viene del tutto modificato l’impianto dell’attuale indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, condizionandola alla presenza e permanenza dello stato di disoccupazione. L’indennità viene pagata nel momento dell’occorrenza del periodo di disoccupazione e non l’anno successivo.Il requisito di accesso è la presenza di almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi (mobili). L’indennità verrà calcolata in maniera analoga a quella prevista per l’ASpI.

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La durata massima è posta pari alla metà delle settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo. Sarà tuttavia prevista la sospensione dell’erogazione del beneficio per periodi di lavoro inferiori a 5 giorni.ContribuzioneLa contribuzione sarà ovviamente estesa a tutti i lavoratori che rientrino nell’ambito di applicazione della nuova indennità. L’aliquota aggiuntiva non si applicherà ai lavoratori assunti in sostituzione di altri lavoratori. Saranno inoltre esclusi dall’applicazione della contribuzione addizionale i lavoratori stagionali. L’aliquota aggiuntiva non si applicherà inoltre agli apprendisti (in quanto contratti di lavoro a tempo indeterminato). Con riferimento ai lavoratori in somministrazione a tempo determinato l’aliquota aggiuntiva sarà compensata da una riduzione di pari importo dell’aliquota di cui all’art. 12, comma 1°, del D.lgs. n°276/2003. In caso di trasformazione del contratto in contratto a tempo indeterminato si avrà una restituzione pari all’aliquota aggiuntiva versata, con un massimo di 6 mensilità; la restituzione avviene al superamento del periodo di prova, ove previsto. Sarà inoltre previsto un contrib u to di licenziamento da versare all’Inps all’atto del licenziamento (solo per rapporti a tempo indeterminato), pari a 0,5 mensilità di indennità per ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni (compresi i periodi di lavoro a termine); si applica anche agli apprendisti nei casi diversi da dimissioni (si applica anche nel caso di recesso alla fine del periodo di apprendistato).Cassa Integrazione StraordinariaLa necessità di eliminare, a decorrere dal 2014, i casi in cui la CIGS copre esigenze non connesse alla conservazione del posto di lavoro induce a ritenere necessaria l’eliminazione della causale per procedura concorsuale con cessazione di attività (art. 3, L. 223/1991).

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